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Collana diretta da
Gian Pietro Brogiolo e Gloria Olcese
MANUALI PER
L’ARCHEOLOGIA 1
ARCHEOLOGIA DEI
MATERIALI
DA COSTRUZIONE
di
AURORA CAGNANA
con premessa di
TIZIANO MANNONI
Editrice S.A.P.
Società Archeologica Padana s.r.l.
“È l’abilità dell’uomo applicata ai prodotti della natura per bisogno, per lusso, per diver-
timento, o per curiosità, che ha fatto nascere le scienze e le arti (...). Esaminando i pro-
dotti delle arti ci siamo accorti che alcuni sono più opera dello spirito, mentre altri sono
più opera della mano. È questa, in parte, l’origine della superiorità che è stata attri-
buita ad alcune arti su altre e della distinzione che è stata fatta fra arti liberali e mec-
caniche. Tale distinzione, sebbene fondata, ha prodotto l’effetto dannoso di umiliare per-
sone assai utili e degne della più grande stima e ha fatto nascere in noi il pregiudizio
che (...) persino praticare lo studio delle arti meccaniche volesse dire abbassarsi a cose
delle quali la ricerca è faticosa, la meditazione poco nobile, l’esposizione difficile, il com-
mercio disonorevole, il numero infinito e il valore minimo (...). È per questo pregiudizio
che le città sono piene di tronfi disquisitori e di contemplatori inutili e le campagne di
piccoli tiranni ignoranti, oziosi e sprezzanti. Ma non è così che la pensano Bacone,
Colbert e gli uomini saggi di tutti tempi(...).
Mettete su un piatto della bilancia i vantaggi reali delle scienze più sublimi e delle arti
più onorate e sull’altro quelli offerti dalle arti meccaniche e vi accorgerete che sono stati
riveriti di più gli uomini occupati a farci credere di essere felici, che non quelli dediti a
renderci felici realmente. È davvero un bizzarro pregiudizio! Da un lato pretendiamo
che lavorino utilmente e al tempo stesso disprezziamo gli uomini utili.”
In copertina:
Una scena di abbattimento di tronchi tramite
grosse scuri, raffigurata sulla Colonna Traiana
Sul retro:
Il carico di un blocco di marmo su un’imbarcazione
INDICE
I. L A PIETRA
1. Genesi e classificazione delle rocce “ 17
2. Le pietre scelte per costruire: caratteri di lavorabilità
e di resistenza meccanica “ 24
3. La coltivazione delle cave col sistema della ‘tagliata a
mano’ “ 34
4. I trasporti via terra e via acqua “ 54
5. Le lavorazioni in cantiere: spaccatura, sbozzatura,
riquadratura “ 57
6. Modanature e sculture “ 63
7. Principali cause di degrado “ 70
8. Nota bibliografica “ 78
V. IL VETRO
1. I sistemi di approvvigionamento della silice “ 177
2. Il processo di cottura e le sostanze fondenti “ 179
3. Dalla pasta vitrea alla soffiatura “ 180
4. La produzione di lastre da finestra “ 184
5. Principali cause di degrado “ 190
6. Nota bibliografica “ 193
VI. I METALLI
VII. IL LEGNO
1. Elasticità e resistenza: le proprietà dei tessuti legnosi “ 215
2. Tecniche di abbattimento “ 219
3. Stagionatura e lavorazioni “ 221
4. Utilizzo del legno nell’architettura “ 222
5. Principali cause di degrado “ 230
6. Nota bibliografica “ 230
BIBLIOGRAFIA “ 233
7
PREMESSA
Ciò che colpisce di più delle costruzioni del passato è l’unità archi-
tettonica in esse realizzata: l’equilibrio e l’interazione tra materiali e
strutture, tra strutture e funzione, tra funzione e forma, tra forma e
stile, tra stile e materiali.
Qualsiasi prodotto della mente umana diventa oggettivo, ed auto-
nomo dal suo stesso “creatore”, quando sia realizzato in una materia
stabile, che nel caso più semplice potrebbe essere la scrittura su fogli
di carta raccolti in una biblioteca: il prodotto oggettivo e originale
sopravvive finché quei fogli potranno essere conservati. Nelle arti
figurative, ai materiali è affidata anche la resa e la conservazione
delle forme, del colore e di altre proprietà delle superfici. Le opere
architettoniche non sono state costruite, tranne in rari casi, soltanto
per oggettivare un pensiero, o una bellezza estetica, ma devono svol-
gere anche funzioni pratiche, come il difendere dagli agenti atmosfe-
rici uomini, azioni e cose. Proprio per questo non sono a loro volta pro-
tette; ciò nonostante devono resistere nel tempo.
In tutti i casi le scelte dei materiali presuppongono delle precise
conoscenze oltre a quelle sulle loro qualità visive: la loro lavorabilità,
e quindi le tecniche e gli strumenti adatti, e le loro resistenze agli
sforzi ed alle cause ambientali di degrado; conoscenze, queste ultime,
che richiedono, a loro volta, altre conoscenze sulle forze e sugli agenti
degradanti, di varia natura, che operano in un edificio. Sembra impos-
sibile che conoscenze complesse, che in certi casi sono ancor oggi
discusse con l’aiuto della scienza, facessero parte del “saper fare”
empirico; eppure l’archeologia dell’architettura, e la ricerca archeo-
10 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
non deve essere considerata una qualche riduzione della scienza dei
materiali, o delle diagnosi del degrado, ma neanche della storia della
tecnica. Spesso chi studia e chi restaura, o conserva l’architettura sto-
rica, non ha affrontato nessuna di tali discipline, e non può capire la
vera storia del monumento e del suo stato attuale, se non ha un’idea
di quali e quanti problemi fisici, chimici e culturali, siano contenuti
nei materiali con cui entra in contatto. Si tratta quindi di una guida
propedeutica, già sperimentata da un po’ di anni sotto la forma di
dispense, che rimanda per gli approfondimenti alle singole discipline.
Ha il vantaggio, rispetto ai trattati specialistici, di mettere a confron-
to, per ogni materiale storico, le caratteristiche naturali, la storia del
suo sfruttamento, delle tecniche di lavorazione e di messa in opera, le
principali cause di degrado alle quali è soggetto. È evidente che l’inte-
razione fra questi diversi aspetti è fondamentale sia per cercare di
capire globalmente il monumento così come ci è pervenuto, sia per far
sì che, in una visione globale, ciò che si pensa dei singoli aspetti non
sia troppo lontano dalla realtà, e inoltre per sapere quali conoscenze
sia necessario approfondire.
1. Delle scienze dei materiali ciò che più importa conoscere sono le
classificazioni genetiche di quelli storicamente più usati, in rapporto
alle loro caratteristiche fisiche e chimiche: lavorabilità ed effetti di
superficie; resistenze meccaniche ed al degrado, in modo particolare.
È ciò che empiricamente dovevano conoscere anche i costruttori del
passato, per compiere scelte adatte ad edifici ben proporzionati, fun-
zionanti e di lunga durata. I meccanismi genetici e le spiegazioni di
tali caratteristiche sono spesso contenuti nei corsi delle scuole supe-
riori, quando siano ben condotti. Essi sono comunque più complessi di
quanto si possa sintetizzare in questa sede e si rimanda, pertanto, ad
una adeguata bibliografia. Anche per le caratteristiche tecniche si
mettono in evidenza le differenze, talora enormi, esistenti tra i vari
materiali tradizionali, ma per calcoli e progettazioni vere e proprie
bisogna ricorrere alle tabelle ufficiali di ogni singolo materiale.
come avviene per i tessuti degli esseri viventi. Quando si parla di vec-
chiaia o di malattie della pietra, o di altri materiali da costruzione, si
usano delle metafore di tipo antropocentrico; in realtà qualsiasi degra-
do, fisico o chimico, dipende esclusivamente da cause esterne al mate-
riale stesso: nessun materiale cambia nel tempo le sue caratteristiche
per cause sue proprie. La conoscenza degli agenti di degrado è quindi
sempre stata una componente essenziale del saper costruire. Essa era
inoltre alla base del saper fare la giusta manutenzione e conservazio-
ne delle parti che vengono esposte a cause inaspettate di degrado, o
che siano giunte alla fine di un quasi-equilibrio (per esempio: intona-
co esterno completamente consumato dopo secoli di esposizione).
Nelle ricerche che prendono nome di “archeologia del costruito” lo
studio dei materiali ricopre una parte importante, come in tutti i
metodi archeologici. Al fine di stabilire, per esempio, le diverse unità
stratigrafiche murarie di un edificio, i criteri si basano su cinque fat-
tori: natura del materiale, sue tecniche di lavorazione, forma del para-
mento, misure degli elementi costitutivi e continuità del paramento
stesso.
Nelle ricerche archeologiche che prendono il nome di “archeome-
tria” le informazioni vengono ricavate da un manufatto mediante ana-
lisi condotte con strumenti propri delle scienze naturali. Fra i dati
archeometrici rientrano quindi: la determinazione della natura di un
materiale, o della sua formula compositiva, se è costituito da un
aggregato artificiale; le sue caratteristiche fisiche, chimiche e tecnolo-
giche; il suo comportamento ai vari tipi di degrado. Certe analisi
archeometriche possono servire, per molti materiali, a stabilirne
anche la provenienza; da quale giacimento naturale cioè sono stati
estratti. Questa informazione è utile per la storia costruttiva, ma
anche per il restauro. Senza contare che alcuni materiali sono anche
suscettibili di datazioni mediante orologi naturali: radiocarbonio e
dendrocronologia per il legno, termoluminescenza ed archeomagneti-
smo per laterizi, terrecotte, forni e focolari.
Se queste informazioni vengono inserite al loro giusto posto nel-
l’indagine archeologica del costruito (sequenza stratigrafica, datazioni
archeologiche ed analisi delle fasi storiche), confrontando il tutto con
i valori estetici e le fonti socioeconomiche, è possibile ricostruire la sto-
ria fisica e culturale dell’edificio: passo indispensabile per qualunque
progetto di conservazione, o di restauro. Ma è anche possibile accede-
re a problemi storici più generali, che il ripetersi di certe risposte può
rendere meno oscuri. Quando, per esempio, è evidente che un mate-
Tiziano Mannoni 15
riale sia il migliore per essere usato in una certa parte dell’edificio, e
in un certo ambiente, ed esso sia stato sistematicamente usato in un
certo periodo, non si può pensare al caso, ma ad una sua precisa cono-
scenza. Certe conoscenze sono divenute addirittura simboliche: da
migliaia di anni si usano espressioni come “basato sulla pietra”, “eter-
no come il granito”, “limpido come il vetro”. Si tratta evidentemente di
metafore che fanno uso della cultura materiale: non a caso forse nel-
l’antico Egitto si sceglieva il granito, anche se non lavorabile nel det-
taglio come il calcare, per rappresentare le immagini indistruttibili
dei Faraoni.
Tiziano Mannoni
Aurora Cagnana 17
I. LA PIETRA
m a r m o r i z z a t e .
stono rocce molto dure, ma non tenaci, come la selce, composta inte-
ramente da silice, ma molto fragile e poco resistente agli urti.
In base a prove di laboratorio è stata elaborata una scala di tenacità
di alcune fra le rocce più comuni, che pone in alto quelle più resistenti:
B ASALTI
PORFIDI
PORFIRITI E ANDESITI
DIORITI E GABBRI
QUARZITI
GRANITI E S IENITI
ARENARIE A CEMENTO SILICEO
CALCARI, DOLOMIE E MARMI
SERPENTINI
ARENARIE A CEMENTO NON SILICEO
3- Operazione di estrazione dei blocchi con picco e cunei (da ADAM 1989
rielaborata)
38 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Nelle cave a gradoni due lati (quello frontale e quello del piano
orizzontale) erano già liberi; per separare gli altri tre lati verticali si
operava un solco di delimitazione, a monte e ai fianchi, della stessa
altezza del blocco da estrarre. Fino a una profondità di 50-60 centi-
metri il cavatore poteva lavorare dall’alto, inginocchiato o in piedi,
usando picchi a lunga immanicatura (cfr. oltre). Se invece il blocco era
di dimensioni maggiori, il solco doveva essere una vera e propria trin-
cea, tanto larga da consentire al cavatore di scendervi. Un esempio
eccezionale di quest’ultimo sistema è conservato nelle cave del cosid-
detto “tempio G” di Selinunte, in Sicilia, abbandonate in seguito all’in-
terruzione del grandioso cantiere, seguita alla distruzione della città
nel 409 a.C..
Anche l’omogeneità del materiale condizionava lo spessore dei bloc-
chi e quindi dei gradoni della cava: per marmi e graniti, caratterizzati
da rare spaccature, l’altezza poteva essere scelta con maggior libertà
rispetto alle rocce sedimentarie, costituite da formazioni stratificate.
esempio, si sono rinvenuti non più di venti oggetti); più facile è invece
analizzare le tracce di lavorazione ancora visibili, sia nei monumenti,
sia nelle cave. Tuttavia poiché l’arte della pietra è basata su una pro-
gressiva asportazione della materia, ovvero su una lavorazione ‘a leva-
re’, ogni strumento cancella inevitabilmente le tracce di quelli prece-
denti. Pertanto sono gli scarti di produzione, i pezzi non finiti, le cave
abbandonate prima di avere terminato lo sfruttamento, che consento-
no di trarre le informazioni maggiori.
In base a queste diverse fonti sono stati elaborati utili repertori che
descrivono i vari strumenti per la lavorazione della pietra e indicano,
per ciasscuno, il tipo di tracce che lasciano e la cronologia del loro uti-
lizzo; il più completo è quello curato da Bessac (cfr. I.8.), che abbrac-
cia tutta l’area mediterranea e che copre un arco cronologico compre-
so fra l’antico Egitto e l’età contemporanea.
A seconda del loro uso gli strumenti si possono suddividere in tre
principali categorie: quelli a percussione diretta (o lanciata), che scal-
fiscono direttamente la pietra, e cioè: il picco da cava, la picchetta, la
scure (o martellina liscia, molto in uso, ad esempio, in Italia centrale,
per la lavorazione dei tufi), la martellina dentata a taglio verticale (o
a zappa), (usata ancora di recente per l’ardesia ligure), e infine la boc-
ciarda (o martello a punte), che venne introdotta nel XVII secolo in
Francia e successivamente in Italia.
Gli strumenti a percussione indiretta, invece, sono costituiti da
punte, scalpelli, gradine; denti di cane e per essere usati devono esse-
re battuti da percussori; perciò il loro utilizzo impegna entrambe le
mani del lapicida.
Le punte possono essere a terminazione grande (se vengono usate
per sgrossatura) o fine (se servono alla spianatura delle superfici).
Gli scalpelli, oltre ad avere una ricca scala dimensionale, possono
essere a taglio curvo o diritto. Fra i primi si distinguono le ‘ugnole’,
(cioè unghie), usate per piccole asportazioni, dalle ‘sgorbie’, più gran-
di e utilizzate soprattutto per il legno.
Le gradine sono particolari scalpelli a 3 o più denti. Non vanno con-
fuse col ‘dente di cane’, caratterizzato da un ‘passo’ più grande e che
determina un taglio meno fine.
I percussori possono essere lignei, lapidei o acciaiosi. La mazzetta
in legno, ad esempio, da scultura, era già usata nell’antico Egitto per
modellare pietre tenere. I percussori litici, molto usati nella preisto-
ria, divengono sempre più rari dopo l’introduzione dei metalli, mente
quelli acciaiosi non compaiono prima del 1000 a.C.
44 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
15- Funzionamento del taglio tramite filo elicoidale (da L. T. MANNONI 1984)
16-Le tracce del filo elicoidale visibili in una cava di ‘pietra del Finale’
(Savona)
devano a soffocare le cave. Per tali ragioni l’uso degli eslposivi rima-
se un fatto molto limitato. Una radicale innovazione fu costituita
invece, alla fine del secolo scorso, dall’introduzione del taglio con filo
elicoidale. Presentato all’Esposizione Internazionale di Parigi del
1889 e di lì a poco introdotto in molte cave (a Carrara comparve nel
1895) esso era basato sull’utilizzo di tre fili di acciaio, avvolti a spi-
rale. Dovevano essere abbastanza lunghi (1 Km circa) da formare un
grande anello, tenuto in tensione da pulegge che lo facevano scorre-
re, mentre si abbassavano gradatamente sulla roccia. Il filo trasci-
nava una miscela di acqua e sabbia silicea che provocava una pro-
gressiva abrasione della pietra. Questo sistema non era adatto per
le rocce molto dure, oppure per l’ardesia, troppo fine, e perciò facile
a impastarsi.
Più recentemente è stato soppiantato dal filo diamantato, una lega
metallica che contiene granuli di diamante industriale.
54 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
17- La discesa dei blocchi da una cava tramite ‘lizzatura’(da DONATI 1990,
ridisegnato da Zanella 1999)
Aurora Cagnana 55
ai lati della quale si trovano ancora i fori usati per i pali dove veniva-
no avvolte e fatte scorrere le funi destinate a frenare le slitte. Nelle
cave di marmo di Carrara la ‘lizzatura’ è stata in uso fino a epoche
recenti.
In pianura il trasporto dei blocchi (o dei semilavorati) necessita-
va invece di sistemi di traino; nell’antico Egitto, essi erano effettua-
ti tramite slitte trasci-
nate dalla forza di cen-
tinaia di uomini, men-
tre nell’antichità classi-
ca e nelle epoche suc-
cessive veniva general-
mente impiegata ener-
gia animale.
Un mulo non può
trasportare più di kg.
150 di materiale (vale a
dire non più di due bloc-
chi di cm 20x25x50
circa), mentre un paio
di buoi è in grado di
trainare un carro con
un carico di circa 800
chilogrammi; il traspor-
to di pesi maggiori era
reso possibile moltipli-
cando gli animali aggio-
gati. Un tale sistema
era certamente in uso
presso gli antichi greci:
lo studio della nota epi- 18- Carri per il trasporto del marmo a
grafe che registra i conti Carrara, agli inizi del secolo
per la costruzione del
portico del telesterion di
Eleusi (I.G.II, 1673 datata al 333/332 a.C.), ad esempio, documenta
l’impiego di 27-40 coppie di buoi per ogni viaggio. Dalle testimonian-
ze iconografiche offerte da modellini in terracotta, è stato possibile
ricostruire l’aspetto dei carri per trasporti pesanti usati sia dai greci
che dai romani: erano formati da quattro ruote piene e dotati di un
piano orizzontale in legno; i carichi potevano esservi posti superior-
56 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
21- Muratura ‘da scalpellino’ for- 23- Muratura ‘da muratore’, for-
mata da conci regolari, con angoli mata da elementi non lavorati o,
di 90° al massimo, spaccati
mazzuolo: una mano percuote, l’altra aggiusta il tiro. I colpi non devo-
no essere perpendicolari, per non provocare onde di compressione che
non fuoriescono più dalla pietra, e ne rompono alcuni legami interni i
quali, col tempo, possono provocare nella roccia fratture parallele alla
superficie. È una lavorazione che procede gradualmente, con piccoli
colpi molto inclinati, tali da provocare fratture localizzate; ciascuno fa
partire una scheggia di pochi centimetri.
In cava il lavoro di sbozzatura poteva essere effettuato per regola-
rizzare i blocchi estratti (che comunque mantenevano superfici irre-
golari) ed eliminare spigoli troppo a rischio nei trasporti. Oppure pote-
va servire ad adeguare la geometria a quella del manufatto finale. In
cantiere venivano invece preparati tramite sbozzatura i blocchetti
lapidei da impiegare nelle murature a corsi orizzontali.
Rientrano in questa categoria i blocchetti costituenti le murature
che gli archeologi francesi definiscono petit e moyen appareil, a secon-
da delle dimensioni. Questo tipo di lavorazione era in uso sia in età
classica (opus reticulatum, e vittatum) sia in età medievale (cosiddet-
to ‘filaretto’).
In questo caso la lavorazione delle pietre doveva essere compito di
appositi ‘sbozzatori’ che dovevano disporre di materiale estratto da
cava, oppure di sistematiche raccolte di ciottoli, di grandezza ben sele-
zionata.
25- Una scena di cantiere, tratta da un manoscritto del XIII secolo, nella
quale sono raffigurati, alla base del muro in costruzione, alcuni scalpelli-
ni intenti a squadrare dei blocchi (da BINDING, NUSSBAUM 1978)
64 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Cicli produttivi e gerarchie delle varie figure artigianali dell’arte della pietra
(da MANNONI, 1993)
6. Modanature e sculture
Lavorazioni più complesse sono alla base degli elementi più elabo-
rati: architravi, stipiti, cornici modanate, capitelli, rilievi, oppure vere
e proprie sculture a tutto tondo.
Gli strumenti necessari per la realizzazione di tali pezzi non sono
molto diversi da quelli utilizzati per l’estrazione e per la squadratura
delle pietre: scalpelli, punte, gradine e relativi percussori; la differen-
za è però costituita dalla loro vasta gamma dimensionale, necessaria
per ottenere anche i dettagli più piccoli.
Altri strumenti utilizzati per la scultura sono il tornio (impiegato
per la pietra a partire dal XVII secolo) e il trapano. Quest’ultimo era
già in uso nella preistoria, per forare vaghi (o perline) da collana: era
costituito da affilate punte di selce, opportunamente fissate su un’a-
sticciola che veniva fatta girare velocemente fra le due mani.
Sfruttando questo principio in età classica vennero realizzati il tra-
pano ad arco (o violino) e il trapano a corda, leggermente diversi per
il sistema di trasmissione del movimento. Entrambi erano infatti
costituiti da una punta fissata su un’asta; nel primo caso però il movi-
mento veniva prodotto arrotolando la corda attorno all’asta e muo-
vendo l’arco avanti e indietro; nel secondo, invece, il trapano era tenu-
to da un artigiano, mentre i capi della corda erano retti da un aiutan-
te e mossi velocemente avanti e indietro; questo sistema richiedeva
66 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
Lo studio del degrado dei materiali lapidei può essere di due tipi:
uno semplicemente descrittivo, finalizzato soprattutto a interventi
pratici e uno più propriamente conoscitivo, volto a comprendere le
cause dei vari tipi di degrado e a classificarne i vari agenti.
Per la descrizione degli effetti e della morfologia dei fenomeni di
degrado si utilizzano definizioni elaborate dal NORMAL, unicamente
allo scopo di unificare la termiologia e non per dare una spiegazione
delle cause dei vari tipi di degrado. Si consideri infatti che molti feno-
meni sono dovuti a un concorso di più cause, oppure che le stesse
cause sono all’origine di fenomeni diversi, pertanto è parso più utile
mettere a punto una classificazione basata sull’aspetto fenomenologi-
co del degrado, tale da aiutare gli operatori o gli studiosi a fornire una
descrizione universalmente riconosciuta.
Le definizioni Normal possono essere così suddivise:
1)Fenomeni che producono apporto di materiale estraneo, i quali
possono:
- non trasformare i materiali originali
- trasformare i materiali originali
2)Fenomeni che producono asporto di materiale originale
3) Fenomeni che non producono né asporto né apporto di materiale.
Nel degrado per apporto che causa anche alterazioni dei materiali
originali, rientrano invece i seguenti casi:
- formazione di patine biologiche (soprattutto in aree umide), costi-
tuite da colonie di batteri o da alghe monocellulari. La loro azione sul
materiale lapideo è molto lenta, mentre sono invece più dannose sui
legni;
- incrostazioni di licheni, funghi o muschi, che sono spesso causa di
aggressioni maggiori alle rocce, specialmente attraverso la soluzione
chimica di alcuni minerali, e in quanto trattengono le acque piovane;
- presenza di vegetazione costituita da piante superiori, dannosa
per la penetrazione delle radici nelle fratture;
- alterazione cromatica, che si verifica soprattutto su rocce carbo-
natiche e che è dovuta alla presenza di ferro non ossidato, che in
ambiente atmosferico si ossida e passa dalla colorazione grigia a quel-
la gialla-arancione-rossastra. È un fenomeno che interessa solo la
parte superficiale della pietra, per uno spessore di pochi millimetri;
- la solfatazione dei carbonati, è invece un pericoloso tipo di degra -
do chimico, riconoscibile dalla nota crosta nera, che si comporta come
una sorta di ‘spugna’ esterna la quale trattiene l’acqua e sintetizza
acido solforico, producendo solfato di calcio a spese del carbonato, con
grande velocità: si pensi che da un millimetro di carbonato si possono
formare anche 5 millimetri di solfato. Pertanto è ben diversa dalla
cosiddetta ‘patina del tempo’: è un vero e proprio laboratorio distrut-
tivo, che disgrega i materiali lapidei carbonatici. Il gesso (o solfato di
Aurora Cagnana 73
Più complesso è invece lo studio delle varie cause del degrado. Gli
agenti naturali possono provenire dall’ambiente atmosferico (come i
venti e le piogge) o dal sottosuolo (come le infiltrazioni d’acqua) e agi-
scono, rispettivamente, sulle coperture e sulle pareti, oppure sulle fon-
dazioni degli edifici.
Se si eccettuano gli agenti detti parossistici (frane, vulcani, terre-
moti, alluvioni, cicloni) che provocano distruzioni improvvise e che
possono essere contrastati soltanto da un’adeguata prevenzione, le
altre cause del degrado provengono, per lo più, da agenti che esercita-
no un’azione lenta, ma continua. Possono essere di tipo fisico, chimi-
co, biologico, e per comprendere come agiscono sui materiali lapidei è
necessario conoscere i caratteri delle varie rocce.
Esistono poi gli agenti antropici che possono essere lenti, come l’u-
sura, oppure avere un effetto violento, come gli incendi, le demolizio-
ni, i danni bellici di vario tipo.
viene dissipato con una velocità maggiore che altrove. Se ciò si ripete
per anni tali microfratture possono essere tali da favorire la penetra-
zione dell’acqua e quindi da provocare il distacco delle porzioni di pie-
tra corrispondenti alle zone più esposte alle differenze di temperatura.
Se agiscono su rocce costituite da minerali con un diverso indice di
dilatazione, nell’ambito dello stesso cristallo, gli sbalzi termici posso-
no provocare un degrado differenziato. Ciò accade, ad esempio, nei
marmi con venature grigie, dovute alla presenza di grafite (cfr. I.1);
una superficie di questo materiale può presentarsi disgregata nella
parte bianca, ma con le venature grigie in rilievo. Ciò è dovuto al fatto
che mentre i cristalli di calcite (che ha diversi indici di dilatazione)
possono venire staccati dagli sbalzi termici, la grafite (caratterizzata
invece da una dilatazione termica uguale in tutte e tre le direzioni
dello spazio) è in grado di resistere di più. L’aspetto assunto in segui-
to alla disgregazione per sbalzi termici viene definito dai cavatori di
Carrara ‘marmo cotto’.
I calcari a grana finissima resistono di più agli sbalzi termici a
causa della minore differenza di dilatazione dei singoli cristalli.
I fenomeni di gelo-disgelo sono all’origine di altri tipi di degrado
fisico, collegati all’azione dell’acqua. Poiché allo stato solido essa
aumenta leggermente di volume, se gela all’interno di una piccola
frattura, può provocare delle spinte che tendono ad aumentarne le
dimensioni. Talora la microporosità (sia essa naturale o dovuta alla
lavorazione o ad azioni di degrado) può generare fenomeni di gelività.
della crosta nera non avviene nelle zone sottoposte alla pioggia bat-
tente; infatti l’azione fisica dell’acqua (che ha un peso di un chilo a
litro) asporta il solfato e impedisce il ristagno, il quale consente le rea-
zioni chimiche di solfatazione.
8. Nota bibliografica
tori ceramici era invece utilizzato il tornio, lento oppure veloce, cioè
azionato da un pedale.
I mattoni, le mattonelle, le tegole e i coprigiunti (o ‘coppi’) e i mat-
toni sagomati venivano invece foggiati a stampo, utilizzando appositi
telai di legno, privi del fondo, in modo da agevolare l’estrazione del-
l’oggetto modellato. L’impasto di argilla veniva premuto a mano entro
lo stampo e la superficie superiore veniva poi spianata. Per la produ-
zione di tegole occorreva applicare due fasce di argilla lungo i lati lun-
ghi, premendole e modellandole poi a mano in modo da ottenere le
‘alette’ laterali rialzate. I ‘coppi’ erano invece ottenuti appoggiando le
lastre rettangolari di argilla su un pezzo di legno semicilindrico, dal
quale prendevano la forma.
I laterizi decorati erano ottenuti attraverso stampi o matrici in
ceramica, che recavano il disegno in negativo.
34- Vari tipi di cassette lignee, prive del fondo, usate per la foggiatura di
mattoni di diverse forme (da MENICALI 1992)
38- Resti di muratura in adobe, dagli scavi della città romana di Lepida
Celsa, presso Saragozza
5. La cottura
dola con un ulteriore strato di argilla fine, molto diluita. Queste ope-
razioni consentono di aumentare la resistenza all’acqua e di ridurre la
porosità esterna, dopo la cottura.
cm 44,4 X 44,4) e il bessale (col lato di due terzi di piede, cioè cm 19,7
X 19,7). La forma quadrata rendeva necessaria la posa in opera con
due mani (e talora richiedeva anche due operai) per ciascun mattone;
in compenso le grandi dimensioni consentivano di usare i laterizi
come elementi passanti da parte a parte nel muro e perciò tali da
“legare” le strutture troppo disomogenee, come quelle in blocchetti
lapidei, dove i lati esterni erano generalmente scollegati rispetto al
nucleo interno.
In età imperiale una vasta produzione di manufatti per l’edilizia in
ceramica colorata, porosa, priva di rivestimento, è ben attestata sia da
resti di edifici messi in luce dagli scavi, sia dall’architettura soprav-
vissuta. In tale epoca l’uso dei laterizi si estende ad altre parti degli
edifici, come le pavimentazioni e le tubature, in virtù delle proprietà
di tenuta idraulica e di resistenza termica dei materiali ceramici.
Assai frequenti sono i resti di tubature, definite fistulae, incassate
nelle pareti e destinate allo smaltimento delle acque. Per gli impianti
termali era invece in uso un sistema di intercapedini, poste sotto i
pavimenti, che servivano a far circolare l’aria calda e che erano soste-
nute da pilastrini realizzati in apposite mattonelle (quadrate o circo-
lari) dette suspensurae.
L’uso di imprimere iscrizioni sui laterizi, dopo la foggiatura e
prima della cottura, è attestato, con maggiore o minore intensità, dal
I secolo a.C. al VI sec. d.C. Lo studio delle migliaia di tipi di ‘bolli’noti,
avviato già dall’Ottocento, costituisce un campo d’indagine di notevo-
le importanza per comprendere l’organizzazione della produzione, che
era basata su officine (figlinae) gestite da officinatores (imprenditori,
per lo più di condizione libera) e da domini (proprietari delle cave di
argilla o, secondo alcuni studiosi, anche degli impianti). Molte figline
appartenevano al fisco imperiale o erano proprietà personale degli
imperatori, che sovente figurano come domini nei bolli.
44- Lapide con indicazione in scala 1:1 delle misure imposte ai produttori
di mattoni dal comune di Assisi (1349)
110 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
pietra che venivano apposti sui muri dei palazzi pubblici e che reca-
vano, in scala reale, le sagome e le misure che dovevano avere le cas-
sette per la foggiatura dei laterizi messi in commercio. La validità di
tali norme era limitata ai confini dei vari stati territoriali, e tale rima-
se fino alla fine dell’Antico Regime.
Tuttavia, se si esaminano le dimensioni dei mattoni di una mura-
tura omogenea, provenienti cioè da un’unica fornitura, si riscontra
un notevole divario di dimensioni (nello spessore, nella larghezza,
nella lunghezza) che possono presentare differenze anche superiori a
un centimetro. Ciò è dovuto a vari fattori, fra i quali il più importan-
te è il diverso ritiro dell’argilla, durante la cottura, che causa le dif-
ferenze visibili nei prodotti finiti, provenienti da un’unica infornata.
Tali differenze non potevano né essere previste né essere eliminate
dai fornaciai. La lettura dei testi legislativi dimostra come vi fosse
una precisa conoscenza di questo fenomeno: alcuni capitoli della cor-
porazione dei produttori di mattoni di Savona del 1598, ad esempio,
fanno riferimento alle frodi commesse ‘nella bontà’, ossia in buona
fede, e sembrano riferirsi proprio ai problemi del ritiro dell’argilla
durante la cottura.
È stato provato che se si dispongono su un grafico i valori delle
dimensioni dei mattoni di un’unica produzione, le differenze di misu-
re dei singoli pezzi tendono a formare una curva ‘a campana’, o ‘gaus-
siana’ che è appunto caratteristica delle variazioni che non dipendono
da interventi volonta-
ri, ma dal caso. Il ver-
tice della curva, corri-
spondente alla media,
è la misura cui tende-
vano i produttori,
quella imposta dalla
legge e alla quale il
fabbricante cercava di
attenersi, nonostante
le piccole variazioni,
indipendenti dalla sua
volontà.
Lo studio delle
46- La curva a campana, o ‘gaussiana’, che
rappresenta le piccole differenze di misure dimensioni dei mattoni
riscontrabili su mattoni coevi, dovute a ha inoltre provato che
variazioni casuali tali medie tendono a
112 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
za all’urto. È forse per questo che non compaiono mai nelle pavimen-
tazioni degli esterni, dove si usavano invece i mattoni e soprattutto
quelli più refrattari e duri, come si è visto.
Nei piani nobili si è notata una maggiore ricercatezza delle pavimen-
tazioni, ottenuta intervallando mattonelle ottagonali con laterizi più pic-
coli, quadrati, talvolta rivestiti di coperte colorate in smalto verde, blu, o
nero. L’impiego di materiale ceramico per i pavimenti era spesso prefe-
rito al marmo poiché offriva un maggiore isolamento termico.
Anche l’uso di tubature incassate nei muri riprende in piena età
medievale, quando, soprattutto nelle aree urbane, vengono prodotte
appositamente a questo scopo condutture in ceramica a corpo colora-
to, poroso, impermeabilizzate con una coperta costituita da vetrina
piombifera, stesa solo sulla superficie interna e di colore verde o
bruno. A Genova questo sistema rimane in uso anche in età moderna,
quando si moltiplica l’impiego delle tubature invetriate, definite trom -
bette nei documenti d’archivio e costituite da varie parti, incastrabili
fra loro, grazie alle misure decrescenti del diametro.
47- Piastrelle a forma di croce e stella (sec. XIII) rinvenute negli scavi del
monastero di San Fruttuoso di Camogli (Genova)
9. Nota bibliografica
bonatiche, ovvero calcari. Molto adatti erano quelli puri, cioè con alto
contenuto di carbonato di calcio, costituito per lo più dalla calcite
(CaCO3), che in alcune formazioni può anche trovarsi in quantità pari
al 95%.
In alcune circostanze vennero utilizzati anche i marmi, originati
dal metamorfismo dei calcari (cfr. I.1.), e nei quali il carbonato di cal-
cio può rappresentare il 98-99% della roccia; tuttavia essi sono poco
adatti alla produzione di calce, perché macrocristallini. Anche i calca-
ri meno puri, contenenti cioè piccole quantità di quarzo, ossidi di ferro,
o minerali argillosi, venivano utilizzati, in passato, per la produzione
di leganti.
Un altro litotipo calcareo molto usato era la dolomia, anch’essa
roccia sedimentaria di origine chimica, costituita da carbonato di cal-
cio e magnesio (CaMg (CO3)2). Non molto diversi sono i calcari dolo-
mitici, rocce ‘intermedie’ fra i calcari e le dolomie, nei quali, a diffe-
renza della dolomia, il rapporto calcio-magnesio non è sempre pari a
1:1, ma la quantità di calcio è maggiore; in pratica si tratta di litotipi
formati da calciti, dove il magnesio sostituisce una parte del calcio.
2. I sistemi di estrazione
Si tratta del cosiddetto gesso a presa rapida, utile solo per inter-
venti veloci. A questo stadio la trasformazione è reversibile, in quanto
il semiidrato, se impastato, può riprendere acqua e quindi tornare
rapidamente biidrato, ovvero a una forma abbastanza resistente.
Con una cottura a 160°-180° C si ottiene il gesso da stuccatori, che
impiega pochi minuti per fare presa.
Se invece la selenite viene cotta a temperature di 400°C o superio-
ri ha luogo una completa disidratazione (gesso cotto) e si ottiene il sol-
fato di calcio anidro.
stato sistematico, dal XII secolo in poi, e non solo per le murature, ma
anche per i rivestimenti esterni e per le opere idrauliche. Il loro otti-
mo stato di conservazione, che contrasta con i giudizi negativi dei
manuali, ha fatto supporre che la scelta dei calcari dolomitici non sia
stata casuale, ma dettata da una precisa volontà. Si consideri, ad
esempio, che l’area tradizionale per la produzione delle calci, (descrit-
ta più sopra), è posta in corrispondenza dell’unico affioramento di cal-
cari magnesiaci esistente nei dintorni di Genova. Si può persino ipo-
tizzare che a introdurre l’uso della calce magnesiaca siano stati i
Magistri Antelami, (corporazione di costruttori lombardi attiva a
Genova fino alla caduta dell’Antico Regime) esplicitamente citati nel
più antico atto notarile relativo alla produzione di calce, redatto nel
XII secolo. Che i maestri lombardi prediligessero la dolomia è d’altra
parte emerso da un recente studio condotto sulle cave medievali della
zona dei laghi di Varese, dove, fra le varie formazioni calcaree presenti
136 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
51- Operazione di spegnimento della calce viva con acqua e formazione del
grassello (da una miniatura del XV secolo conservata a Vienna, Österrei-
chische Nationalbibliothek)
Aurora Cagnana 137
6. Gli intonaci
morino. Fra questi due materiali la calcite macinata era migliore, per-
ché, a differenza del marmo, è costituita da cristalli tabulari.
7. Gli stucchi
Molto dannosa è anche l’azione dell’acqua che, per cause varie, cir-
cola all’interno dei muri. Essa fuoriesce in superficie per capillarità e,
se negli stucchi o negli intonaci esterni si trovano piccolissime cavil-
lature (provocate dal ritiro del materiale), l’acqua li attraversa e ne
aumenta le dimensioni causandone, col tempo, il distacco. L’acqua che
risale per capillarità dalle fondazioni del muro crea distacchi ad altez-
ze precise, dove cioè fuoriesce ed evapora; la sua risalita raramente
supera i 4 metri di altezza.
Talvolta si osserva sulle superfici intonacate la presenza di frattu -
razioni, non dovute a crepature originali, provocate cioè dal ritiro del
materiale durante la presa, ma avvenute in un secondo tempo, e spes-
so dovute ai sali solubili, trasportati dalle acque circolanti nei muri e
depositati sotto l’intonaco, provocandone lentamente il rigonfiamento
e poi il distacco. Se i sali vengono depositati in superficie si verificano
soltanto efflorescenze bianche.
152 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
IV. I COLORI
frangenza, tipico della maggior parte dei corpi solidi cristallini, i quali,
se penetrati da un raggio di luce lo sdoppiano, secondo due diverse dire-
zioni; vale a dire che ad ogni angolo incidente corrispondono due angoli
rifratti. Il minerale con più alta birifrangenza è la calcite e tale pro-
prietà è la causa del fenomeno per cui se un oggetto viene osservato
attraverso un cristallo di calcite, se ne vedono due immagini.
4. La tecnica dell’affresco
Gli esempi più antichi di affresco risalgono alla seconda metà del
terzo millennio a.C. e sono attestati in Mesopotamia e nell’Egeo
(Cnosso, Thera). Le pitture, infatti, come dimostrato da opportune
analisi, sono state applicate su un intonaco di calce; le impronte di
impressioni eseguite a cordicella, o di linee incise con un oggetto a
punta per segnare le partizioni della decorazione, sono parsi chiari
indizi del fatto che il colore è stato steso sull’intonaco ancora plastico,
ovvero ‘fresco’, sfruttando il fenomeno della carbonatazione.
La tecnica dell’affresco dovette essere impiegata ampiamente nel-
l’antica Grecia e in particolare in età ellenistica, quando vennero spe-
rimentati diversi procedimenti (uso di più strati di intonaco, linee di
contorno dipinte) che si diffusero poi anche nel Sud Italia e in Etruria.
Le conoscenze maggiori sono però relative all’epoca romana e ci sono
note, soprattutto, attraverso lo studio delle città vesuviane.
È assai probabile che per eseguire una decorazione affrescata i pit-
tori romani seguissero le indicazioni di un disegno preparatorio, con-
cordato con il committente, nel quale dovevano essere indicate, in
scala ridotta, le partizioni della parete, la presenza di cornici, l’am-
piezza delle zone destinate alle figure, eccetera. Un chiaro indizio di
ciò è rappresentato dal celebre bassorilievo, rinvenuto a Sens
(Francia), che riporta una scena di decorazione parietale eseguita da
un gruppo di artigiani, fra i quali si scorge un personaggio intento a
osservare un rotolo svolto, posato sulle ginocchia.
La decorazione procedeva dall’alto verso il basso, per successive
fasce orizzontali, corrispondenti alle pontate, sulle quali venivano
stesi, a fresco, i diversi strati di intonaco; sull’ultimo, costituito dal-
l’intonachino ancora umido, veniva quindi inciso il disegno; con il filo
a piombo, posto in tensione e intriso di colore, si determinavano le par-
tizioni verticali dello spazio, mentre con righe e compassi si costrui-
vano le suddivisioni orizzontali. Il disegno veniva praticato utilizzan-
do una punta, oppure una cordicella impregnata di terra rossa; i segni
Aurora Cagnana 165
XXXV, 6), il quale ricorda come il nome prenda origine dalla città pon-
tica di Sìnop, celebre per le sue terre coloranti.
Ciascuna delle diverse figure artigianali menzionate nei testi anti-
chi doveva essere specializzata in una sola operazione: il dealbator,
era forse l’addetto alla stesura dell’intonaco; il pictor parietarius, rea-
lizzava probabilmente le cornici formate da motivi ripetitivi, mentre
l’imaginarius, doveva curare l’esecuzione delle scene figurate.
Nel corso dell’Altomedioevo la tecnica dell’affresco non venne
abbandonata, ma semplificata: gli strati preparatori, ad esempio, si
ridussero di numero, già a partire dalla tarda antichità. Dallo studio
delle decorazioni ad affresco conservate, soprattutto nei luoghi di culto,
sembra potersi desumere una sostanziale persistenza delle tecniche
168 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
6. La pittura a tempera
Come gli altri materiali a base carbonatica anche gli affreschi sono
soggetti alla solfatazione, con conseguente formazione della crosta
nera, per azione delle piogge acide.
Altre cause di degrado possono essere dovute a interventi moder-
ni, quali l’applicazione di silicati su pareti bagnate, o l’esfoliazione per
mancanza di traspirabilità dei colori polimerici.
8. Nota bibliografica
Per uno studio completo dei pigmenti usati nella pittura si veda il
volume AA. VV. 1986/a, che contiene un’analisi approfondita delle
sostanze coloranti utilizzate dall’Antichità al secolo scorso; di ciascu-
na di esse vengono descritti i caratteri naturali e viene ricostruita la
storia dell’utilizzo nel corso dei secoli.
Per lo studio sperimentale condotto nel genovesato sulle modalità
di approvvigionamento delle terre coloranti a base di ossidi di ferro
cfr. FANTONI, G ATTI 1994. L’analisi dei pigmenti rinvenuti nel labora-
torio del pittore egizio di Karnak si trova in ROUCHON ET ALII 1990. Un
quadro completo (anche se aggiornato solo ai primi anni ‘80) dello
stato delle conoscenze sui pigmenti utilizzati nella decorazione parie-
tale dell’architettura greca, etrusca, romana, si trova in FRIZOT 1982.
Per un aggiornamento su alcune ricerche posteriori si consiglia la let-
Aurora Cagnana 175
V. IL VETRO
con i nomi, in greco, degli artigiani che le hanno fabbricate, seguiti dal
termine Seidónios (= di Sidone). Spesso i nomi sono ripetuti anche in
latino, allo scopo di essere compresi dalla clientela di Roma che, evi-
dentemente, riteneva il marchio sidonio una garanzia di buona qua-
lità. Secondo alcuni archeologi ciò proverebbe il trasferimento
dall’Oriente a Roma di specialisti del vetro ai quali si deve, con ogni
probabilità, l’introduzione della soffiatura; va comunque ricordato che
anche nel Mediterraneo orientale essa compare nello stesso periodo.
Questa innovazione tecnologica ha permesso al vetro di diventare un
prodotto ad amplissima diffusione e ha aperto molte possibilità nuove:
gli oggetti potevano essere allungati, modificati, soffiati entro stampi
e quindi rilavorati.
Moltiplicatesi velocemente in tutto l’Impero romano (comprese le
aree nordiche, come la Renania) le manifatture vetrarie divennero un
poco più rare nell’altomedioevo. La produzione aumentò nei secoli
seguenti, quando in Italia vennero aperte nuove fabbriche, basate
ancora sull’uso di fondente prevalentemente sodico, mentre nel resto
dell’Europa settentrionale si andava sviluppando quello potassico.
Un importante esempio di un impianto produttivo medievale è
stato fornito dallo scavo di una vetreria risalente alla seconda metà
del XIV secolo, posta a 830 metri s.l.m., su una montagna
dell’Appennino, nell’entroterra del porto di Genova. Con ogni probabi-
lità era gestita da vetrai provenienti da Altare, nel Savonese (zona
tradizionale di manifatture vetrarie) che fabbricavano soprattutto bic-
chieri e bottiglie, molte delle quali recavano un bollo con l’indicazione
della misura di capacità e la sigla del maestro.
La fornace aveva pianta a ‘8’, come quelle per ceramiche o per calce
(cfr. II.5.; III.4), ma in questo caso la strozzatura aveva la caratteri-
stica di essere regolabile attraverso la disposizione di pietre che,
all’occorrenza, potevano ridurne o aumentarne l’ampiezza. Il forno era
costituito da una suola rialzata rispetto al canale di tiraggio. Il suo
funzionamento è stato ricostruito in base ai resti rinvenuti e al con-
fronto con alcuni dati iconografici. Doveva essere a riverbero, cioè
costituito da una cupola che faceva convergere il calore dall’alto verso
il basso; un foro superiore doveva garantire il tiraggio. La silice era
estratta da vene quarzose ubicate poco lontano, come attestavano con-
sistenti tracce di coltivazione. Le analisi chimiche dei prodotti hanno
inoltre indicato l’uso di potassio, sodio, magnesio e calcio (estratti da
ceneri di piante), quali fondenti.
La silice veniva finemente frantumata e portata a fusione assieme
Aurora Cagnana 183
63- La soffiatura del vetro in una fonte iconografica del 1590, nella quale
si riconoscono chiaramente le varie fasi della lavorazione: preparazione
del combustibile, soffiatura, trasferimento dell’oggetto finito nella zona
‘della tempera’ (da MANNONI, GIANNICHEDDA 1996)
184 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
sigillato i resti nel sottosuolo. Gli scavi archeologici hanno così reso
possibile ritrovare, nei pressi della chiesa abbaziale di San Vincenzo
Maggiore, completata nell’808, una serie di impianti produttivi costi-
tuiti da fornaci per laterizi, per campane, per smalti e per vetri, tutti
destinati a rifornire i materiali per questo grandioso cantiere. Una
parte delle officine, a carattere provvisorio, venne installata in un’a-
rea antistante l’edificio di culto. Con il progressivo ampliamento della
chiesa gli impianti vennero spostati presso il fianco meridionale e
sistemati all’interno di strut-
ture edilizie permanenti,
costituite da cellette rettan-
golari affiancate. In una di
esse sono stati rinvenuti i
resti di due fornaci da vetro,
che producevano lastre vitree
colorate, delle quali si sono
rinvenuti circa 7000 fram-
menti (delle misure massime
di cm 12 x 15), destinate a
finestre di notevoli dimensio-
ni. Le analisi chimiche hanno
rilevato l’utilizzo di fondenti
alcalini (soprattutto sodio)
secondo la tradizione tecnolo-
gica romana. Di notevole
interesse il fatto che meno
dell’1% dei frammenti è
risultato eseguito col sistema
a corona, mentre oltre il 99%
è stato realizzato a cilindro.
Benché frammentarie, è
stato possibile individuare la
forma originaria delle lastre:
quelle della parte bassa
erano rettangolari, mentre
quelle poste in alto erano a
66- Ricostruzione di una finestra
altomedievale con lastre rettangola-
profilo curvilineo. Si è per-
ri, in base ai ritrovamenti archeolo- tanto ipotizzato che tali pan-
gici di San Vincenzo al Volturno (da nelli fossero inseriti su telai
DELL’ACQUA 1996) lignei simili a quelli rinvenu-
Aurora Cagnana 189
6. Nota bibliografica
VI. I METALLI
1. Formazione e proprietà
3. Il piombo e il bronzo
anche le porte di edifici monumentali; molto rari sono i resti di età classi-
ca o tardoantica ancora conservati, mentre un numero maggiore di esem-
pi è documentato per il periodo medievale. L’esatta quantità dei metalli
costituenti la lega può essere determinata solo tramite opportune analisi
chimiche. Quelle effettuate in occasione di restauri hanno evidenziato, in
diversi casi, alte percentuali di rame (70-80%), pochissimo stagno (1-7%),
significative quantità di zinco (9-18%) aggiunto verosimilmente allo scopo
di aumentare le proprietà plastiche della fusione, e presenza di piombo (3-
8%), forse da considerarsi come un’impurità dello stagno o del rame.
Assai rare sono le porte prodotte tramite un’unica fusione, come
quelle celebri di Hildesheim, dell’inizio dell’XI secolo, nelle quali ogni
anta è stata fusa in un unico pezzo. Più frequentemente esse sono
costituite da pannelli realizzati separatamente e successivamente sal-
dati fra loro utilizzando una lega metallica caratterizzata da una tem-
peratura di fusione più bassa.
Un esempio di studio piuttosto interessante è costituito dalla famo-
sa porta eseguita da Bonanno per il duomo di Pisa. L’analisi dettaglia-
ta ha rivelato una cura particolare nelle lavorazioni a freddo, posteriori
alla fusione, eseguite con scalpelli, oltre che con strumenti tipici degli
orafi, quali punzoni, bulini e ceselli, per i particolari più minuti.
Al 8,13% 659°C
Fe 5,00% 1540°C
Mn 0,10% 1250°C
Zn 0,08% 419°C
Cu 0,007% 1083°C
Sn 0,004% 232°C
Pb 0,0016% 340°C
Ag 0,00001% 960°C
Au 0,0000005% 1063°C
-Tabella che evidenzia la diffusione del ferro rispetto agli altri metalli
e le rispettive temperature di fusione
204 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
75- Un grande maglio per la battitura a caldo del ferro, azionato da ener-
gia idraulica (da DIDEROT, Planches)
7. Nota bibliografica
grafia e ci si limita perciò a segnalare alcune delle opere più recenti, come
HEALY 1993, sulle coltivazioni e sulla metallurgia di età greco-romana e
FRANCOVICH 1993, dove si trovano i risultati di molte recenti ricerche, con
particolare riguardo al periodo postclassico. Sugli scavi nel villaggio mine-
rario di San Silvestro cfr. FRANCOVICH 1991 e FRANCOVICH, WICKHAM 1994.
Per le ricerche nelle miniere medievali di area lombarda cfr. TIZZONI 1993.
Sull’uso dei metalli nell’architettura storica molti dati si trovano nel già
citato manuale di MENICALI 1992, pp. 218-253. Per l’utilizzo dei metalli
nell’architettura greca antica cfr. MARTIN 1965, pp. 155-162.
Per il Medioevo si consiglia la lettura dei vari saggi dedicati al tema
dell’impiego dei metalli nell’architettura raccolti in CHAPELOT, BENOIT
1985; per l’uso del piombo, in particolare, si veda lo studio di BILLOT 1985,
basato sull’esame delle fonti archivistiche. Fra le numerose pubblicazioni
di scavi archeologici di fornaci per la fusione di campane si segnalano
quelli di MARAZZI, FRANCIS 1996, su San Vincenzo al Volturno; BONORA
1975 su S. Andrea di Sarzana; WARD PERKINS ETALII 1978, e SPATOLA 1993
sulla torre civica di Pavia; GUERRA 1990 su San Daniele del Friuli. Sulla
tecnica di fusione delle porte bronzee di età bizantina cfr. MATTHIE 1971;
sulle porte bronzee dall’Antichità al Medioevo si veda SALOMI 1990; su
quelle medievali molti dati tecnologici si trovano in BANTI 1999; in parti-
colare sul portale di Hildesheim, citato nel testo, cfr. GALLISTL 1999 e sulla
porta di Bonanno a Pisa, MANNONI 1999/a.
Sulla metallurgia del ferro, in generale, si veda CIMA 1991; si consi-
glia inoltre la lettura di MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 95-98, dove si
trova un’essenziale descrizione del ciclo di lavorazione attraverso i meto-
di a bassofuoco e ad altoforno. Sull’impiego del ferro nell’architettura
medievale del nord Europa cfr. STROOMBANTS 1985; circa l’importanza dei
rinforzi in ferro acciaioso nell’architettura gotica francese cfr. ERLANDE
BRANDENBURG 1996, con molti dati sulla Sainte Chapelle di Parigi. Un
tentativo, piuttosto utile, di cronotipologia delle inferriate in ferro battu-
to di epoca medievale si trova in DELAINE 1972; interessante è inoltre l’e-
sempio di ferro con occhielli emerso dagli scavi medievali di Monte
Ingino (Gubbio), riportato in WHITEHOUSE 1976, p.266; n.84. Per lo stu-
dio delle inferriate e delle ringhiere postmedievali di ambito genovese
cfr. B OATO, M ANNONI 1997/98, pp. 78-81. Una ricchissima tipologia di
chiavi e serrature delle Alpi orientali, che abbraccia un arco cronologico
compreso fra l’età del bronzo e l’Ottocento è stata presentata in una
mostra allestita recentemente nel castello del Buonconsiglio di Trento.
Di grande interesse è il catalogo (RAFFAELLI 1996) che contiene contribu-
ti di carattere archeologico, storico artistico e letterario.
Aurora Cagnana 215
VII. IL LEGNO
2. Tecniche di abbattimento
Il periodo più adatto per il taglio degli alberi è compreso fra dicem-
bre e marzo; in tale momento, infatti, gran parte della linfa interna si è
perduta, e quindi l’albero è più asciutto e può resistere meglio agli attac-
chi dei funghi e delle muffe o alla cristallizzazione dei sali trasportati.
Anche Vitruvio raccomandava che gli alberi fossero tagliati tra
l’autunno e l’inizio della primavera (De Arch., II, 9) e tale norma sem-
bra essere stata osservata in molte regioni.
Una tecnica di abbattimento consisteva nel praticare un taglio a ‘V’
sul lato previsto per la caduta. Per questa operazione veniva adopera-
ta una scure lunga (del peso di kg 2,5) con una lama stretta, usata a
trancio in maniera tale da penetrare nel tronco per pochi centimetri,
e perpendicolarmente alle fibre, in modo da vincere la loro resistenza.
Questa tecnica risale con ogni probabilità al Neolitico, quando
veniva praticata tramite asce di pietra costruite con rocce tenacissime
(ad esempio eclogiti o basalti), successivamente sostituite da stru-
menti in ferro acciaioso; diverse fonti iconografiche attestano che l’uso
di questo strumento non è cambiato nel corso dei secoli: appare ad
esempio nella Colonna Traiana ed è raffigurato, con poche differenze,
nei cicli medievali dei mesi.
A questa operazione poteva far seguito la segagione, operata sul
lato opposto, con il segone, o sega a due manici, dalla dentatura molto
grande, tale da superare la resistenza delle fibre.
3. Stagionatura e lavorazioni
l’età del ferro, come sembrano indicare, da più direzioni, i dati archeo-
logici.
Due sono i principali sistemi costruttivi usati per la realizzazione
di pareti lignee portanti: il fachwerk e il blockbau. Il primo (dal tede-
sco = costruzione a scomparti) viene definito anche sistema ‘a ossatu-
ra’ o ‘a telaio’, ed è costituito da un’armatura di pali verticali, posti a
breve distanza fra loro, con gli spazi tamponati con rami, ciottoli,
oppure con mattoni o tavole (e in questo caso prende il nome di stan -
derbau), legate da argilla o malta. A seconda dei sistemi di chiusura
degli spazi fra i pali verticali, della disposizione di questi ultimi, della
presenza o meno di uno zoccolo in muratura, o di elementi lignei posti
in diagonale negli specchi di riempimento, si conoscono numerose
varianti, caratteristiche di particolari regioni o periodi storici. In area
mediterranea era ampiamente utilizzato in epoca romana, come pro-
vano numerosi esempi, perfettamente conservati, rinvenuti a
Ercolano e Pompei. In queste città le murature ad ossatura di pali
erano rinforzate da travi orizzontali, posti parallelamente fra loro, che
dividevano la parete in pannelli grosso modo quadrati. Strutture di
questo tipo (tamponate per lo più con murature di pietrame e calce)
86- Case medievali a più piani del centro storico di Rouen, con pareti por -
tanti in fachwerk
87- Una casa con murature portanti realizzate a blockbau (da DONATI
1990, ridisegnato da Zanella 1999)
Aurora Cagnana 227
Anche nelle coperture è sempre stato fatto un ampio uso del legno;
se per gli elementi che costituiscono l’orditura del tetto questo mate-
riale è praticamente insostituibile, nelle zone di alta montagna viene
utilizzato anche per le coperture, costituite da scandole prodotte a
spacco e messe in opera imbricate, analogamente alle tegole.
228 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE
6. Nota bibliografica
vano negli Atti del Convegno tenutosi nel 1993 a Monte Barro (Lecco)
e dedicato all’edilizia residenziale altomedievale, editi a cura di
BROGIOLO 1994. Sempre sull’uso del legno nelle costruzioni altomedie-
vali è utile consultare la ricchissima banca-dati pubblicata da FRONZA,
VALENTI 1996 e concernente l’edilizia abitativa altomedievale di tutta
l’Europa. Per lo studio degli edifici lignei altomedievali di Fidenza cfr.
CATARSI DELL’AGLIO 1994. Per l’edificio in blockbau rinvenuto in val di
Ledro cfr. BASSI, C AVADA 1994. Per la tradizione costruttiva in block-
bau della regione alpina si veda DEMATTEIS 1986.
Sulla produzione di scandole nell’Appennino ligure centro-orienta-
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