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MANUALI PER L’ ARCHEOLOGIA

Collana diretta da
Gian Pietro Brogiolo e Gloria Olcese
MANUALI PER
L’ARCHEOLOGIA 1

ARCHEOLOGIA DEI
MATERIALI
DA COSTRUZIONE

di
AURORA CAGNANA

con premessa di
TIZIANO MANNONI

Editrice S.A.P.
Società Archeologica Padana s.r.l.
“È l’abilità dell’uomo applicata ai prodotti della natura per bisogno, per lusso, per diver-
timento, o per curiosità, che ha fatto nascere le scienze e le arti (...). Esaminando i pro-
dotti delle arti ci siamo accorti che alcuni sono più opera dello spirito, mentre altri sono
più opera della mano. È questa, in parte, l’origine della superiorità che è stata attri-
buita ad alcune arti su altre e della distinzione che è stata fatta fra arti liberali e mec-
caniche. Tale distinzione, sebbene fondata, ha prodotto l’effetto dannoso di umiliare per-
sone assai utili e degne della più grande stima e ha fatto nascere in noi il pregiudizio
che (...) persino praticare lo studio delle arti meccaniche volesse dire abbassarsi a cose
delle quali la ricerca è faticosa, la meditazione poco nobile, l’esposizione difficile, il com-
mercio disonorevole, il numero infinito e il valore minimo (...). È per questo pregiudizio
che le città sono piene di tronfi disquisitori e di contemplatori inutili e le campagne di
piccoli tiranni ignoranti, oziosi e sprezzanti. Ma non è così che la pensano Bacone,
Colbert e gli uomini saggi di tutti tempi(...).
Mettete su un piatto della bilancia i vantaggi reali delle scienze più sublimi e delle arti
più onorate e sull’altro quelli offerti dalle arti meccaniche e vi accorgerete che sono stati
riveriti di più gli uomini occupati a farci credere di essere felici, che non quelli dediti a
renderci felici realmente. È davvero un bizzarro pregiudizio! Da un lato pretendiamo
che lavorino utilmente e al tempo stesso disprezziamo gli uomini utili.”

(Dall’Encyclopédie di M. Diderot e M. D’Alembert, 1772)

2000, © Società Archeologica Padana s.r.l.


Via R. Ardigò, 7 - 46100 Mantova
Tel./Fax 0376-369611

In copertina:
Una scena di abbattimento di tronchi tramite
grosse scuri, raffigurata sulla Colonna Traiana
Sul retro:
Il carico di un blocco di marmo su un’imbarcazione
INDICE

Premessa (Tiziano Mannoni) Pag. 9

I. L A PIETRA
1. Genesi e classificazione delle rocce “ 17
2. Le pietre scelte per costruire: caratteri di lavorabilità
e di resistenza meccanica “ 24
3. La coltivazione delle cave col sistema della ‘tagliata a
mano’ “ 34
4. I trasporti via terra e via acqua “ 54
5. Le lavorazioni in cantiere: spaccatura, sbozzatura,
riquadratura “ 57
6. Modanature e sculture “ 63
7. Principali cause di degrado “ 70
8. Nota bibliografica “ 78

II. I MATERIALI CERAMICI

1. L’argilla: l’unica roccia plastica “ 81


2. Terre alluvionali e caolini “ 84
3. L’estrazione, la preparazione, la foggiatura “ 85
4. L’utilizzo dell’argilla cruda nelle costruzioni: il pisé e
l’adobe “ 89
5. La cottura “ 92
6. Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici “ 97
7. I materiali ceramici usati nell’architettura “ 103
8. Principali cause di degrado “ 119
9. Nota bibliografica “ 120

III. I LEGANTI , GLI INTONACI , GLI STUCCHI

1. Selenite, calcari e dolomie: le materie prime “ 123


2. I sistemi di estrazione “ 124
3. Il ciclo di lavorazione del gesso “ 125
4. La calce: cottura, spegnimento, impasto, presa “ 126
5. Far presa sott’acqua: le malte idrauliche “ 137
6. Gli intonaci “ 141
7. Gli stucchi “ 145
8. Pavimentazioni in ‘signino’ e ‘seminate’ “ 150
9. Principali cause di degrado “ 151
10. Nota bibliografica “ 152
IV. I COLORI Pag.
1. Natura fisica e valutazione oggettiva del colore “ 155
2. Colori minerali, terre, ocre: ricerca ed approvvigionamento “ 157
3. I pigmenti più usati nell’architettura “ 160
4. La tecnica dell’affresco “ 163
5. Il fresco secco e la pittura a calce “ 171
6. La pittura a tempera “ 172
7. Principali cause di degrado “ 173
8. Nota bibliografica “ 174

V. IL VETRO
1. I sistemi di approvvigionamento della silice “ 177
2. Il processo di cottura e le sostanze fondenti “ 179
3. Dalla pasta vitrea alla soffiatura “ 180
4. La produzione di lastre da finestra “ 184
5. Principali cause di degrado “ 190
6. Nota bibliografica “ 193

VI. I METALLI

1. Formazione e proprietà “ 195


2. Ricerca dei giacimenti e pratiche di estrazione “ 198
3. Il piombo e il bronzo “ 200
4. La metallurgia del ferro “ 201
5. L’uso del ferro nell’architettura “ 207
6. Principali cause di degrado “ 213
7. Nota bibliografica “ 213

VII. IL LEGNO
1. Elasticità e resistenza: le proprietà dei tessuti legnosi “ 215
2. Tecniche di abbattimento “ 219
3. Stagionatura e lavorazioni “ 221
4. Utilizzo del legno nell’architettura “ 222
5. Principali cause di degrado “ 230
6. Nota bibliografica “ 230

BIBLIOGRAFIA “ 233
7

INTRODUZIONE ALLA COLLANA

Il volume di Aurora Cagnana è il primo di una nuova collana di


manuali, dedicati alla ricerca archeologica e ai suoi metodi. Questa
collana, che comprenderà una serie di brevi monografie tematiche, si
propone come strumento di orientamento e di studio diretto a studenti
di archeologia, a studiosi, ma anche ad un pubblico di non specialisti.
Nel panorama dell’editoria italiana che si occupa di archeologia
non esistono molti esempi di agili manuali, mirati a dare le informa -
zioni essenziali su di un tema specifico, molto diffusi invece all'estero,
ad esempio nel mondo anglosassone. Il nostro intento è quello di col -
mare, almeno in parte, tale lacuna.

Nella selezione dei temi da trattare, particolare attenzione verrà


riservata alle metodologie della ricerca archeologica e agli aspetti
interdisciplinari che negli ultimi decenni hanno contribuito ad un
mutamento radicale delle prospettive a medio termine. Pur rimanendo
inalterato e strettissimo il rapporto con la storia, l’archeologia si avva -
le sempre più dei metodi di altre discipline, tra cui quelli delle scien -
ze esatte e naturalistiche giocheranno in futuro un ruolo fondamenta -
le. Il loro potenziale informativo andrà ad integrare quello dei metodi
tradizionalmente adottati in archeologia.
Il recente riordino dei settori scientifico-disciplinari dell’Università,
con il reinserimento del gruppo Metodologie della ricerca archeologica
nell’ambito di Lettere e Filosofia contribuisce a sottolineare – se mai ce
ne fosse bisogno - l’importanza di materie tecniche nell’ambito della
moderna ricerca archeologica e nella formazione dell’archeologo. In
8 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

seguito a questa scelta l’organizzazione della didattica archeologica


subirà necessariamente delle modifiche; saranno quindi necessari nuovi
strumenti di sintesi e di supporto alle lezioni universitarie. La nostra
collana vorrebbe almeno in parte rivestire anche questa funzione.
Ci proponiamo, poi, di lasciare spazio anche ai temi e ai problemi
istituzionali: la formazione, i concorsi, gli sbocchi di lavoro, lo stato di
salute della ricerca in Italia, in un momento in cui dibattiti e discus -
sioni sulla disciplina – molto vivaci in altre parti dell’Europa e del
mondo – sono nel nostro Paese quasi completamente sopiti.
Vorremmo, infine, avviare un confronto con le archeologie di altri
paesi europei, aprendo un dibattito sui contenuti, sulle finalità e sui
metodi della nostra disciplina, ospitando contributi di studiosi stranieri.

GIAN PIETRO B ROGIOLO, GLORIA OLCESE


Tiziano Mannoni 9

PREMESSA

Ciò che colpisce di più delle costruzioni del passato è l’unità archi-
tettonica in esse realizzata: l’equilibrio e l’interazione tra materiali e
strutture, tra strutture e funzione, tra funzione e forma, tra forma e
stile, tra stile e materiali.
Qualsiasi prodotto della mente umana diventa oggettivo, ed auto-
nomo dal suo stesso “creatore”, quando sia realizzato in una materia
stabile, che nel caso più semplice potrebbe essere la scrittura su fogli
di carta raccolti in una biblioteca: il prodotto oggettivo e originale
sopravvive finché quei fogli potranno essere conservati. Nelle arti
figurative, ai materiali è affidata anche la resa e la conservazione
delle forme, del colore e di altre proprietà delle superfici. Le opere
architettoniche non sono state costruite, tranne in rari casi, soltanto
per oggettivare un pensiero, o una bellezza estetica, ma devono svol-
gere anche funzioni pratiche, come il difendere dagli agenti atmosfe-
rici uomini, azioni e cose. Proprio per questo non sono a loro volta pro-
tette; ciò nonostante devono resistere nel tempo.
In tutti i casi le scelte dei materiali presuppongono delle precise
conoscenze oltre a quelle sulle loro qualità visive: la loro lavorabilità,
e quindi le tecniche e gli strumenti adatti, e le loro resistenze agli
sforzi ed alle cause ambientali di degrado; conoscenze, queste ultime,
che richiedono, a loro volta, altre conoscenze sulle forze e sugli agenti
degradanti, di varia natura, che operano in un edificio. Sembra impos-
sibile che conoscenze complesse, che in certi casi sono ancor oggi
discusse con l’aiuto della scienza, facessero parte del “saper fare”
empirico; eppure l’archeologia dell’architettura, e la ricerca archeo-
10 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

metrica condotta con strumenti scientifici, dimostrano le ottime scel-


te fatte fin dai tempi lontani per le costruzioni destinate alla lunga
durata.
Questa realtà non deve, d’altra parte, meravigliare se si tiene
conto di come funzioni il sistema evolutivo della cultura materiale, che
non vuol dire soltanto il saper fare dei poveri, o delle cosiddette arti
applicate, ma che è necessaria per qualunque prodotto oggettivo della
mente umana. Come il mondo vivente ha prodotto esseri quasi perfet-
ti, per eliminazione delle varianti dannose, il saper fare, per analogia,
registra come negativi tutti i tentativi mal riusciti, e ne trasmette la
conoscenza di generazione in generazione, con l’apprendimento che
avviene in ciascuna arte. Ciò spiega, per esempio, perché in culture di
continenti differenti, ed in epoche diverse, si sia arrivati a scegliere le
stesse materie prime, o le stesse lavorazioni e persino le stesse forme,
in analoghe situazioni ambientali e funzionali (un esempio tipico è
costituito dalle tecniche murarie).
La differenza sostanziale tra l’evoluzione culturale di tipo empiri-
co ed il progresso scientifico e tecnologico, come ha detto Francesco
Bacone, sta nel fatto che con il primo modo si conosce la scelta miglio-
re, ma non le sue spiegazioni, che solo il metodo scientifico può dare.
Ciò che per lo scienziato sono le leggi della natura, per l’empirico sono
le regole dell’arte. Questo spiega la lentezza dell’evoluzione della cul-
tura materiale: lentezza che ha tuttavia il vantaggio di verificare nei
tempi lunghi eventuali controindicazioni imprevedibili, incidente che
si verifica, ogni tanto, con le tecnologie basate sulle più veloci previ-
sioni scientifiche.
Proprio alla mancanza di spiegazioni scientifiche sul buon funzio-
namento delle scelte fatte, si deve però, in buona parte, il prevalente
carattere unitario dell’architettura preindustriale. In tale situazione,
infatti, non era possibile progettare le forme solo in base alle funzioni
ed ai valori estetici, demandando ai calcoli strutturali le scelte e gli
impieghi dei materiali. Il costruttore doveva pensare a volumi e forme
proporzionate ed armoniose, nelle quali le funzioni richieste venissero
soddisfatte da soluzioni strutturali prevedibili con le “regole dell’arte”
praticate, i cui materiali e la cui durata erano già ben noti.

Contenuti. Avendo insegnato negli ultimi trent’anni le risorse


naturali ai geologi, i caratteri costruttivi ed il degrado dei monumen-
ti agli architetti ed agli archeologi, ho constatato la necessità di una
guida snella alla conoscenza dei materiali storici da costruzione. Essa
Tiziano Mannoni 11

non deve essere considerata una qualche riduzione della scienza dei
materiali, o delle diagnosi del degrado, ma neanche della storia della
tecnica. Spesso chi studia e chi restaura, o conserva l’architettura sto-
rica, non ha affrontato nessuna di tali discipline, e non può capire la
vera storia del monumento e del suo stato attuale, se non ha un’idea
di quali e quanti problemi fisici, chimici e culturali, siano contenuti
nei materiali con cui entra in contatto. Si tratta quindi di una guida
propedeutica, già sperimentata da un po’ di anni sotto la forma di
dispense, che rimanda per gli approfondimenti alle singole discipline.
Ha il vantaggio, rispetto ai trattati specialistici, di mettere a confron-
to, per ogni materiale storico, le caratteristiche naturali, la storia del
suo sfruttamento, delle tecniche di lavorazione e di messa in opera, le
principali cause di degrado alle quali è soggetto. È evidente che l’inte-
razione fra questi diversi aspetti è fondamentale sia per cercare di
capire globalmente il monumento così come ci è pervenuto, sia per far
sì che, in una visione globale, ciò che si pensa dei singoli aspetti non
sia troppo lontano dalla realtà, e inoltre per sapere quali conoscenze
sia necessario approfondire.

1. Delle scienze dei materiali ciò che più importa conoscere sono le
classificazioni genetiche di quelli storicamente più usati, in rapporto
alle loro caratteristiche fisiche e chimiche: lavorabilità ed effetti di
superficie; resistenze meccaniche ed al degrado, in modo particolare.
È ciò che empiricamente dovevano conoscere anche i costruttori del
passato, per compiere scelte adatte ad edifici ben proporzionati, fun-
zionanti e di lunga durata. I meccanismi genetici e le spiegazioni di
tali caratteristiche sono spesso contenuti nei corsi delle scuole supe-
riori, quando siano ben condotti. Essi sono comunque più complessi di
quanto si possa sintetizzare in questa sede e si rimanda, pertanto, ad
una adeguata bibliografia. Anche per le caratteristiche tecniche si
mettono in evidenza le differenze, talora enormi, esistenti tra i vari
materiali tradizionali, ma per calcoli e progettazioni vere e proprie
bisogna ricorrere alle tabelle ufficiali di ogni singolo materiale.

2. Ogni materiale da costruzione, ha, ed ha sempre avuto, un suo


ciclo di produzione, prima di essere messo in opera. Ciò perché non
esistono in natura materiali da costruzione, ma soltanto risorse natu -
rali trasformabili in materiali, con processi semplici o complicati, ma
ben precisi, dai quali è sempre dipesa una buona parte della qualità
del costruito. Si chiama “risorsa naturale” una porzione dell’ambiente
12 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

che, per esperienza accumulata nel tempo, si è dimostrata in grado di


fornire materiali o energie utili. Solo per il legno la risorsa naturale
può essere rinnovata con la silvicoltura.
Ogni ciclo è composto di almeno due fasi, che sono tra loro quasi
sempre legate da una interfaccia costituita dal trasporto. La prima
fase consiste nella trasformazione della risorsa naturale in materia
prima mediante un processo estrattivo, chiamato nella tradizione “col-
tivazione”, come le produzioni primarie effettuate dall’uomo (agricol-
tura). Per “materia prima” si intendono porzioni di risorsa scelte e
prive di difetti, di dimensioni e forme adatte agli elementi costruttivi
da realizzare, compatibilmente con il loro possibile trasporto. I lavo-
ratori specializzati che operano la coltivazione (cavatori, minatori,
boscaioli, carbonai, eccetera) fanno le prime scelte (zona dove estrar-
re, e come operare), fondamentali per il buon esito di tutto il ciclo;
devono perciò conoscere le caratteristiche del materiale non meno
bene che i lavoratori della fase, o delle fasi successive.
La seconda fase consiste nel trasformare la materia prima nel
materiale da costruzione, pronto da mettere in opera. Tali trasforma-
zioni cambiano notevolmente da un materiale ad un altro: lavorazioni
semplici, o complicate, che trasformano solo la forma della materia
prima, ma non la sua composizione, come nelle pietre o nei marmi;
oppure sequenze di operazioni che comportano anche trasformazioni
nella composizione primaria, come nei laterizi e nelle malte. Ogni tra-
sformazione richiede, oltre alla materia prima, anche energia, che
viene fornita dal lavoratore quando si tratti di operazioni manuali;
dalla cattura di energie naturali (come quelle idrauliche ed eoliche)
quando la forza necessaria sia maggiore; oppure dalla coltivazione di
combustibili (legna e carbone di legna), quando occorrano trattamen-
ti termici (fornaci). Le energie derivano anch’esse, quindi, da risorse
naturali e, per ragioni economiche, era meglio che fossero disponibili
nello stesso territorio. Le scelte di certe risorse rispetto ad altre ugua-
li, dipendevano spesso, per questo motivo, dalla vicinanza di fonti
naturali di energia.
Un altro fattore variabile, ma sempre più o meno presente, è il tra-
sporto in cantiere di materie prime da lavorare, o di semilavorati, o di
materiali già pronti. Si tratta quasi sempre di quantità notevoli, con-
centrate in unità voluminose, e quindi pesanti, quando non sia possi-
bile lavorarle per aggiunta, come le malte e le argille, ma soltanto per
asportazione (pietre, marmi, legno). Perciò il trasporto ha sempre
costituito, prima delle ferrovie, un problema che andava calcolato, dal
Tiziano Mannoni 13

punto di vista tecnico ed economico, a priori. Un mulo non porta cari-


chi superiori a 150 chili (due pietre di cm 20x20x70); un paio di buoi
può tirare un carro con un carico di 800-1000 chili (un blocco di pietra
di cm 100x100x35) su strade con pendenze non superiori al 3%; limiti
pratici non ci sono invece per le navi ed i barconi da marmo. Ciò spie-
ga perché le vie d’acqua fossero preferite, e fossero comunque le uni-
che che permettessero trasporti di blocchi molto grandi, come quelli da
100 tonnellate (obelischi egiziani portati a Roma, cupola monolitica di
pietra d’Istria che copre il mausoleo di Teodorico a Ravenna).
Di ogni ciclo completo esiste una storia del suo funzionamento glo-
bale, degli strumenti e delle tecniche di lavorazione e di trasformazio-
ne, dei mezzi di trasporto e della qualità della vita dei lavoratori.
Come tutte le storie del “saper fare” vi sono fattori, come le caratteri-
stiche naturali, che non cambiano nel tempo e nello spazio, ed una
volta raggiunte le scelte migliori, per evoluzione della corrispondente
cultura materiale, gli unici cambiamenti possibili riguardano la sco-
perta di nuovi materiali per realizzare gli arnesi da lavoro, o di nuove
fonti di energia. Queste scoperte, che dipendono dall’evoluzione di
altre culture materiali (metallurgia e motoristica, nel nostro caso),
non possono in genere migliorare ulteriormente le qualità dei prodot-
ti, ma incidono sui tempi, sui costi e sulla vita dei lavoratori.
Nella coltivazione e lavorazione dei marmi, per esempio, gli Egizi
avevano già raggiunto la migliore qualità nel terzo millennio avanti
Cristo, con strumenti di pietra, di bronzo e di legno, e tale qualità non
è migliorata con l’introduzione dell’acciaio, della polvere da sparo, del
filo elicoidale, e del filo diamantato, anzi, si è dovuto stare attenti, per
ridurre i costi di produzione con i nuovi strumenti, a non perdere
anche qualche conoscenza antica che garantiva la qualità.

3. Nessun materiale, antico e moderno, presenta caratteristiche


tali che gli permettano di resistere senza limiti agli agenti meccanici,
o a quelli chimici e fisici propri dell’ambiente atmosferico (pioggia,
vento e sbalzi termici). Per i primi basta imparare ad usare materia-
le di dimensioni adeguate ai carichi ed alle spinte, ed esso non si dete-
riora mai. Per quanto riguarda gli agenti ambientali, invece, l’espe-
rienza accumulata nei secoli ha indicato quali materiali entrino in un
quasi-equilibrio con tali agenti, nel senso che si hanno perdite di
materiale molto deboli in tempi lunghi, e, soprattutto, tale degrado ha
un andamento lineare.
Tutti i materiali storici, il legno compreso, infatti, non invecchiano
14 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

come avviene per i tessuti degli esseri viventi. Quando si parla di vec-
chiaia o di malattie della pietra, o di altri materiali da costruzione, si
usano delle metafore di tipo antropocentrico; in realtà qualsiasi degra-
do, fisico o chimico, dipende esclusivamente da cause esterne al mate-
riale stesso: nessun materiale cambia nel tempo le sue caratteristiche
per cause sue proprie. La conoscenza degli agenti di degrado è quindi
sempre stata una componente essenziale del saper costruire. Essa era
inoltre alla base del saper fare la giusta manutenzione e conservazio-
ne delle parti che vengono esposte a cause inaspettate di degrado, o
che siano giunte alla fine di un quasi-equilibrio (per esempio: intona-
co esterno completamente consumato dopo secoli di esposizione).
Nelle ricerche che prendono nome di “archeologia del costruito” lo
studio dei materiali ricopre una parte importante, come in tutti i
metodi archeologici. Al fine di stabilire, per esempio, le diverse unità
stratigrafiche murarie di un edificio, i criteri si basano su cinque fat-
tori: natura del materiale, sue tecniche di lavorazione, forma del para-
mento, misure degli elementi costitutivi e continuità del paramento
stesso.
Nelle ricerche archeologiche che prendono il nome di “archeome-
tria” le informazioni vengono ricavate da un manufatto mediante ana-
lisi condotte con strumenti propri delle scienze naturali. Fra i dati
archeometrici rientrano quindi: la determinazione della natura di un
materiale, o della sua formula compositiva, se è costituito da un
aggregato artificiale; le sue caratteristiche fisiche, chimiche e tecnolo-
giche; il suo comportamento ai vari tipi di degrado. Certe analisi
archeometriche possono servire, per molti materiali, a stabilirne
anche la provenienza; da quale giacimento naturale cioè sono stati
estratti. Questa informazione è utile per la storia costruttiva, ma
anche per il restauro. Senza contare che alcuni materiali sono anche
suscettibili di datazioni mediante orologi naturali: radiocarbonio e
dendrocronologia per il legno, termoluminescenza ed archeomagneti-
smo per laterizi, terrecotte, forni e focolari.
Se queste informazioni vengono inserite al loro giusto posto nel-
l’indagine archeologica del costruito (sequenza stratigrafica, datazioni
archeologiche ed analisi delle fasi storiche), confrontando il tutto con
i valori estetici e le fonti socioeconomiche, è possibile ricostruire la sto-
ria fisica e culturale dell’edificio: passo indispensabile per qualunque
progetto di conservazione, o di restauro. Ma è anche possibile accede-
re a problemi storici più generali, che il ripetersi di certe risposte può
rendere meno oscuri. Quando, per esempio, è evidente che un mate-
Tiziano Mannoni 15

riale sia il migliore per essere usato in una certa parte dell’edificio, e
in un certo ambiente, ed esso sia stato sistematicamente usato in un
certo periodo, non si può pensare al caso, ma ad una sua precisa cono-
scenza. Certe conoscenze sono divenute addirittura simboliche: da
migliaia di anni si usano espressioni come “basato sulla pietra”, “eter-
no come il granito”, “limpido come il vetro”. Si tratta evidentemente di
metafore che fanno uso della cultura materiale: non a caso forse nel-
l’antico Egitto si sceglieva il granito, anche se non lavorabile nel det-
taglio come il calcare, per rappresentare le immagini indistruttibili
dei Faraoni.

Tiziano Mannoni
Aurora Cagnana 17

I. LA PIETRA

1. Genesi e classificazione delle rocce

Le rocce, componenti essenziali della litosfera, sono aggregati di


minerali. Quelle costituite da una specie prevalente vengono definite
monomineraliche; ne è un esempio il marmo, formato quasi intera-
mente (98-99%) da cristalli di calcite (CaCO3); oppure la quarzite,
costituita quasi unicamente da quarzo (SiO 2). Più frequenti sono però
le rocce polimineraliche, formate cioè da diverse specie di minerali.
Esistono vari criteri di classificazione, ma il più utile, al fine della
conoscenza dei materiali da costruzione, è quello basato sull’origine,
da cui dipendono molti caratteri di lavorabilità e di resistenza mecca-
nica; non meno importante è inoltre la classificazione delle rocce in
base alla composizione, ovvero alle specie minerali e alla struttura
aggregativa, dalla quale dipendono molte caratteristiche chimiche e
fisiche.
A seconda della loro formazione nella dinamica della crosta terre-
stre, le rocce si suddividono in tre grandi categorie: magmatiche, sedi-
mentarie, metamorfiche.

Le rocce magmatiche, dette anche ‘ignee’, derivano dal consolida-


mento, in seguito al raffreddamento, di masse rocciose allo stato fuso,
o liquido, provenienti da regioni profonde della crosta terrestre, o del
mantello sottostante, dove regnano forti pressioni e alte temperature.
Tale massa fluida, composta prevalentemente da silicio, ossigeno,
alluminio, calcio, magnesio, sodio, potassio e ferro, prende il nome di
18 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

magma, finché contiene anche gas disciolti; se invece raggiunge la


superficie terrestre liberando i gas viene detta lava.
A seconda delle condizioni di raffreddamento si distinguono tre
gruppi di rocce magmatiche:
-intrusive o plutoniche, cioè formate in seguito al consolidamento
lento del magma, risalito dalle zone più profonde della terra verso
quelle meno calde, ma poste sempre a una certa profondità;
-effusive o vulcaniche, che hanno origine per il raffreddamento
veloce di magmi o lave, saliti in superficie allo stato pastoso o liquido
attraverso i condotti vulcanici;
-filoniane, formate dal consolidamento di piccole intrusioni di
magma, senza fuoriuscita dalla crosta terrestre e a non grande profon-
dità, in condizioni di raffreddamento intermedie fra le prime due
descritte.
A seconda del tipo di consolidamento, uno stesso magma può dare
origine a rocce appartenenti a questi tre gruppi, distinguibili fra loro
dalla struttura e tessitura, vale a dire dal genere, forma, dimensioni e
tipo di aggregazione dei componenti minerali.
La struttura è visibile a occhio nudo solo nelle rocce costituite da
elementi grandi, altrimenti è osservabile al microscopio polarizzatore,
oppure al microscopio elettronico. Una prima distinzione della strut-
tura rocciosa dipende dalle dimensioni dei granuli dei minerali. Le
rocce originate per lento raffreddamento hanno generalmente una
struttura macrocristallina, sono cioè formate interamente da cristalli
grandi, visibili a occhio nudo. Se i minerali hanno dimensioni presso-
ché uguali la struttura si dice anche granulare o pavimentosa. Questo
tipo di struttura si trova nelle rocce magmatiche intrusive, come i gra -
niti; il lento raffreddamento del magma permette infatti una crescita
ordinata dei cristalli di ogni minerale, che possono raggiungere anche
dimensioni considerevoli.
Le rocce effusive, poiché si sono raffreddate rapidamente, sono
invece formate da minerali più piccoli; la loro struttura si dice perciò
microcristallina se i cristalli sono visibili con una lente e criptocrista -
lina se essi sono visibili solo al microscopio, come in molti basalti.
Un altro tipo di struttura è caratterizzata dalla presenza di pochi
cristalli grandi (detti fenocristalli) immersi in una pasta di fondo crip-
tocristallina o vetrosa, cioè amorfa. Questa struttura si dice porfirica
ed è tipica dei porfidi, (i quali possono essere sia di origine effusiva,
sia filoniana).
Alcune rocce effusive (spesso appartenenti al gruppo dei basalti)
Aurora Cagnana 19

hanno una particolare struttura detta intersertale (o ‘a feltro’), nella


quale piccoli cristalli allungati formano un fitto intreccio i cui vuoti
sono occupati da pasta criptocristallina o vetrosa.
Vi sono infine rocce effusive formate completamente da una massa
vetrosa, come le ossidiane, la cui struttura si dice anche ialina, oppu-
re come le pomici, che presentano una particolare struttura detta
pomicea, caratterizzata da un aspetto spugnoso, ricco di bolle; esse
derivano infatti dal raffreddamento veloce di magma, cioè di materia-
le contenente anche sostanze gassose.
Le rocce magmatiche, qualunque sia la loro struttura, non presen-
tano direzioni di isorientamento dei minerali, o piani di prevalente
sfaldabilità, ma soltanto fratture sferico-concentriche, o radiali, dovu-
te a ritiri differenziati della massa rocciosa durante il raffreddamento.

Le rocce sedimentarie sono chiamate anche ‘esogene’o ‘secondarie’, in


quanto derivano dalle formazioni rocciose primarie, ovvero generate dal-
l’attività magmatica della terra. Le sedimentarie clastiche (o ‘detritiche’)
hanno origine dall’accumulo di frammenti provenienti dalla disgrega-
zione di altre rocce più antiche, oppure di resti di esseri viventi.
I fenomeni di erosione dipendono dall’atmosfera, e possono essere
dovuti a molte cause; quella di tipo meccanico è legata agli sbalzi ter-
mici o all’azione dell’acqua, che penetrando nelle spaccature delle
rocce ne provoca la frammentazione tramite fenomeni di gelo e disge-
lo (cfr. I.7.). L’erosione di tipo chimico agisce invece sulle rocce alte-
rando determinati minerali o separandone le componenti solubili in
acqua. Dopo il trasporto, che avviene in soluzione chimica o in sospen-
sione nel ruscellamento, il deposito può avere luogo per gravità degli
elementi litici distaccati dalla roccia madre, oppure per saturazione
delle soluzioni in bacini dove le acque rallentano il movimento (pia-
nure alluvionali, laghi, coste marine).
Le rocce sedimentarie clastiche possono corrispondere a sedimenti
sciolti, cioè non litificati, e in tal caso prendono il nome di rocce incoe -
renti; ne sono esempio un deposito morenico, una spiaggia marina, un
banco di argilla. Se tali sedimenti vengono ricompattati (o litificati) si
trasformano in formazioni rocciose coerenti. Tale processo, detto dia -
genesi, può avere luogo per costipamento, cioè in seguito alla com-
pressione esercitata dal peso di altre rocce soprastanti, oppure per
cementazione, vale a dire per il deposito di minerali (per lo più carbo-
nati, ma talora anche silicati) trasportati in soluzione dall’acqua e
ridepositati negli spazi fra i granuli sciolti.
20 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Sia i sedimenti incoerenti, sia le corrispettive rocce litificate ven-


gono classificati in base alle dimensioni dei clasti che le compongono.
Prendono così il nome di ruditi le rocce costituite da elementi di
dimensioni superiori ai 2 millimetri; esse si suddividono in brecce,
derivate dalla litificazione di clasti angolosi e in conglomerati, forma-
ti invece da ciottoli arrotondati. Le areniti (o arenarie) sono invece
costituite da clasti di dimensioni comprese fra i 2 millimetri e i 63
micron, e derivano dalla litificazione di sabbie. Le siltiti, originate per
diagenesi dei silts, o limi, sono costituite da clasti con dimensioni com-
prese fra i 63 e i 4 micron; mentre le argilliti, con clasti di dimensioni
inferiori ai 4 micron, sono prevalentemente costituite da minerali
argillosi.

roccia incoerente roccia derivata per diagenesi dimensioni clasti

ghiaie, detriti di falda brecce > 2 mm


spiagge conglomerati > 2 mm
sabbie arenarie 2 mm-63 m
silts siltiti 63 m - 4 m
argille argilliti <4m

-Classificazione delle rocce sedimentarie clastiche-

Le rocce sedimentarie piroclastiche, sono un particolare tipo di


rocce clastiche formatesi in seguito alla cementazione, dopo il deposi-
to, di detriti rocciosi prodotti da attività vulcaniche di tipo esplosivo.
A questo gruppo appartengono i tufi e le brecce vulcaniche.
Tutte queste rocce coerenti hanno una struttura clastica, caratte-
rizzata cioè dalla presenza di minerali e/o frammenti di rocce più anti-
che, più o meno selezionati per dimensioni (cioè “classati”) e da un
cemento che le unisce.

Le rocce sedimentarie di origine chimica si formano invece per pre-


cipitazione diretta da soluzioni sature derivate dall’alterazione di
rocce più antiche. Fra queste si distinguono quelle carbonatiche, for-
mate da carbonato di calcio (CaCO3), che è puro nei calcari, nei tra -
vertini, nell’alabastro calcareo, oppure combinato con magnesio nelle
dolomie e nei calcari dolomitici. Un altro tipo di rocce sedimentarie di
Aurora Cagnana 21

origine chimica sono le evaporiti, formate in seguito a precipitazione


di sali per evaporazione del solvente; oltre al salgemma, vanno ricor-
date anche l’anidrite e il gesso, di notevole importanza fra i materiali
da costruzione.
Le rocce sedimentarie organogene derivano invece dall’accumulo di
resti animali, quali gusci o scheletri, costituiti da carbonato di calcio
oppure da silice. Spesso è difficile distinguere, fra le rocce sedimenta-
rie, quelle di origine chimica da quelle organogene, perché talora le
due componenti si alternano, come nel caso assai noto delle dolomie.
In base alla composizione le rocce organogene si suddividono a loro
volta in carbonatiche (o calcaree), come i calcari conchiliferi, le madre -
pore, i coralli e in silicee, fra le quali vanno annoverate le radiolariti,
le diatomiti e i diaspri.
Le rocce sedimentarie presentano sempre, in conseguenza della
loro genesi, formazioni stratificate: ogni strato corrisponde infatti a un
deposito del ciclo sedimentario; molto spesso i granuli di forma appiat-
tita si presentano isorientati.

Le rocce metamorfiche derivano anch’esse da rocce preesistenti -di


tipo magmatico o sedimentario- che, in seguito a mutate condizioni di
temperatura e pressione, all’interno della crosta terrestre, hanno
subito trasformazioni tali da raggiungere una ricristallizzazione dei
minerali che le costituiscono. Tale processo può dare origine a mine-
rali nuovi, oppure a diverse forme e dimensioni di quelli già esistenti.
Il grado di metamorfismo può essere più o meno elevato, a seconda
delle condizioni di pressione e temperatura alle quali è avvenuto. Le
rocce metamorfiche sono molto diffuse negli zoccoli continentali e
nelle catene montuose, dove si sono verificate tali condizioni.
Il metamorfismo provoca anche una variazione nella struttura
delle rocce: molte assumono un aspetto scistoso, cioè caratterizzato da
un isorientamento dei minerali, soprattutto di quelli lamellari, come
le miche, che si dispongono perpendicolarmente alla pressione; da ciò
deriva la presenza di piani paralleli, che determinano una notevole
sfaldabilità.
Fra le più frequenti rocce metamorfichee di aspetto scistoso vi
sono: gli gneiss (a grana grossa), originati per metamorfismo dei gra-
niti o di rocce clastiche da essi derivate (come le arenarie) e caratte-
rizzati dalla stessa composizione mineralogica; i micascisti, (a grana
più fine) derivati da rocce argillose e composti essenzialmente di quar-
zo e miche; i calcesicti (anch’essi a grana fine) derivati dal metamorfi-
22 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

smo di sedimenti calcareo-argillosi e gli argilloscisti (a grana finissi-


ma) originati da basso metamorfismo di rocce argillose. Fra questi le
ardesie liguri, particolarmente importanti fra i materiali da costruzio-
ne, sono un tipo di argilloscisto calcareo con forte isorientamento dei
minerali. Un grado di metamorfismo più elevato presentano le filladi,
anch’esse a grana finissima, particolarmente utilizzate per produrre
lastre per le coperture. Piuttosto frequenti sono inoltre gli scisti verdi,
derivati dal metamorfismo di rocce a chimismo basico e le quarziti,
derivate da arenarie ricche di quarzo.
Fra le rocce metamorfiche di aspetto non scistoso vi sono le ser -
pentiniti, di colore verde, derivate da rocce intrusive molto basiche,
tipiche del mantello che si trova sotto la crosta terrestre.
Il marmo, dovuto al metamorfismo di calcari puri, presenta invece
una struttura pavimentosa, o granulare, simile a quella del granito,
anche se, a differenza di quest’ultimo, ha sempre un piano prevalente
di sfaldatura. La struttura del marmo viene detta anche ‘saccaroide’,
perché caratterizzata dalla presenza di calcite in grossi granuli; essi
sono il prodotto della ricristallizzazione completa dei piccolissimi
minerali che formavano i calcari originari: a forti pressioni e a tempe-
rature attorno ai quattrocento gradi il carbonato di calcio si riorga-
nizza dando origine a individui cristallini di dimensioni più grandi.
Nei marmi di Carrara i minerali di calcite sono in media della dimen-
sione di mm 0,2 e raggiungono talvolta i 2 millimetri.
I marmi puri, costituiti quasi interamente (98% circa) di calcite,
sono bianchi; quelli più lavorabili sono definiti ‘statuari’. Quelli colo-
rati, detti ‘venati’, ‘nuvolati’, ‘bardigli’, ‘arabescati’, ‘mischi’, eccetera,
a seconda di quanto e come è esteso il colore, derivano dal metamor-
fismo di calcari ‘impuri’; tali impurità possono essere costituite da
granuli di silice, da argille, da idrossidi di ferro, che conferiscono
colori dal giallo al rosa al verde, oppure da sostanze organiche, che
danno colori dal grigio al nero. In seguito al metamorfismo tali impu-
rità si trasformano in prodotti stabili: il carbonio delle sostanze orga-
niche, ad esempio, si riorganizza in lamelle nere di grafite; gli idros-
sidi di ferro in cristalli rossi di ematite; grafite ed ematite possono
anche migrare a formare zone di colore, dando luogo a marmi con
venature grigie, rosse, gialle. I ‘cipollini’, marmi a base bianca con
striature di colore, derivano invece da calcari ricchi in argille, tra-
sformate dal metamorfismo in miche, isorientate in piani paralleli,
con colorazioni verdi, grigie, dorate. I ‘mischi’, infine, sono conglome-
rati o brecce calcaree
Aurora Cagnana 23

m a r m o r i z z a t e .

-Classificazione chimica e genetica delle principali rocce -

Oltre all’origine, anche la composizione chimica delle rocce rive-


ste una notevole importanza, in quanto è alla base delle strutture
cristalline dei minerali costituenti, dalle quali dipendono molti
caratteri fisici.
A seconda della composizione le rocce possono essere suddivise
nelle seguenti categorie:
- le rocce solfatiche sono costituite in prevalenza da gesso, cioè da
solfato di calcio biidrato (CaSO4 2H20). Ne sono un esempio l’alaba -
stro gessoso di Volterra, facilmente lavorabile, ma poco resistente agli
agenti atmosferici e in particolare all’acqua e pertanto più utilizzato
per elementi scultorei e decorativi; la pietra da gesso, o selenite, uti -
lizzata, fin dall’epoca egiziana, per produrre leganti (cfr. III. 1.), ma
talora anche come materiale litico;
- le rocce carbonatiche sono costituite in prevalenza da carbonato di
calcio (CaCO3). Sono abbondanti in natura e molte sono quelle utilizza-
te nell’edilizia, sia come materiale da costruzione, sia per produrre
leganti: i calcari, le dolomie, i marmi, il travertino, l’alabastro calcareo.
Le molecole di carbonato di calcio sono tenute insieme da legami
ionici, pertanto le rocce carbonatiche sono attaccabili dagli acidi conte-
nuti nelle piogge, siano essi naturali, come l’anidride carbonica, oppure
dovuti all’inquinamento atmosferico, come l’anidride solforosa (cfr. I.7.);
24 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

- le rocce silicatiche sono costituite prevalentemente da silice e da


silicati. Le più importanti provengono da rocce magmatiche (graniti,
sieniti, porfidi, trachiti, basalti) ma vi sono anche molte rocce sedi-
mentarie (arenarie, tufi vulcanici, conglomerati, argille) e metamorfi-
che (gneiss, micascisti, filladi).
In base alla percentuale di silice che contengono si possono distin-
guere:
-rocce acide (SiO 2 > 65%)
-rocce intermedie (SiO 2 = 65- 52 %)
-rocce basiche (SiO 2 < 52%)
La diversa composizione mineralogica delle rocce eruttive dipende
dalla composizione chimica dei magmi originari, che si dicono ‘acidi’ se
sono più ricchi di silicio e alluminio e ‘basici’ se ne sono meno ricchi,
ma con notevoli tenori di ferro e magnesio. Le rocce basiche sono tipi-
che dei fondi oceanici e del sottostante mantello; quelle acide degli zoc-
coli continentali. Dalla diversa composizione chimica delle rocce mag-
matiche dipendono anche alcune caratteristiche macroscopiche quali
il colore; quelle più silicatiche (dette anche sialiche) sono infatti costi-
tuite da minerali bianchi o comunque chiari (grigio-rosa); al contrario
le rocce originate da magmi basici, ricchi di ferro e magnesio, dette
mafiche, sono formate in prevalenza da minerali con una colorazione
scura (verde-nero).
Le rocce magmatiche chimicamente intermedie (o ‘neutre’) sono
dovute a magmi basici, che risalendo si inquinano poiché fondono rocce
acide della crosta continentale; fra queste vi sono le sieniti e le dioriti
(di origine intrusiva) e le trachiti e andesiti ( di origine effusiva).
Le rocce silicee sono costituite in prevalenza da silicati, cioè da
minerali caratterizzati dalla presenza di tetraedri di atomi di ossige-
no con un atomo di silicio al centro (cfr. V.1.). Tali molecole sono unite
da legami covalenti, molto resistenti agli attacchi chimici e fisici, che
formano tra loro maglie, piani, catene e anelli solidissimi e che inglo-
bano con legami ionici altri elementi (cfr. II.1.). Altrettanto resistenti
sono gli ottaedri di allumina, presenti in alcune famiglie di silicati.

2. Le pietre scelte per costruire: caratteri di lavorabilità e di resi -


stenza meccanica

Attraverso lunghi processi di selezione empirica, e dopo ripetute


prove di resistenza nel tempo, alcune rocce sono state scelte dall’uomo
per essere utilizzate, con scopi diversi, nelle costruzioni. Nel corso dei
Aurora Cagnana 25

secoli si è compreso che non tutte le pietre possono essere lavorate


nello stesso modo e che non tutte possono essere destinate alla stesso
scopo, ma che le diverse rocce si possono estrarre e lavorare secondo
particolari direzioni di taglio e si prestano a essere impiegate con dif-
ferenti funzioni; alcune sono più adatte alle strutture portanti degli
edifici, altre agli elementi decorativi, altre ai rivestimenti, altre anco-
ra alle coperture.
Le possibilità di lavorazione delle rocce, la loro durezza, la resi-
stenza alla compressione o alla trazione, il particolare tipo di degrado
che possono subire dopo la messa in opera, dipendono strettamente
dai caratteri naturali, vale a dire dalla composizione chimica e mine-
ralogica (già viste prima), e dalle caratteristiche fisiche.

La durezza, ovvero la resistenza alla scalfittura, è una caratteristi-


ca fisica dei minerali che dipende dalla natura e dalla resistenza dei
loro legami chimici. Per misurarla si utilizza una scala empirica,
costruita da Mohs in modo tale che ciascuno dei dieci termini che la
compongono può scalfire il precedente ed essere scalfito dal successivo:
1. TALCO
2. GESSO
3. CALCITE
4. FLUORITE
5. APATITE
6. ORTOCLASIO
7. QUARZO
8. TOPAZIO
9. CORINDONE
10. DIAMANTE

-La scala di Mohs -

Per le rocce la proprietà della durezza è invece più difficile da defi-


nire e può comprendere diversi tipi di resistenza meccanica: all’inci-
sione, all’usura, alla segagione. Tali proprietà dipendono soprattutto
dalla durezza dei minerali costituenti; le rocce silicatiche, ad esempio,
sono generalmente più dure di quelle carbonatiche; è il caso dei gra-
niti, che pur avendo una struttura granoblastica simile a quella dei
marmi sono però molto più duri essendo formati da feldspati e da
quarzo (minerali con durezza 6-7) e non da calcite (durezza 3) come i
marmi.
26 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

La durezza delle rocce monomineraliche corrisponde generalmen-


te a quella dell’unico minerale costituente, ma piccole quantità di
minerali più duri o più teneri possono variare considerevolmente il
valore complessivo della roccia. Un calcare puro, ad esempio, intera-
mente costituito da calcite è generalmente più tenero di un’arenaria,
la quale, anche se presenta un cemento calcitico, è però comunque
costituita da molti granuli di quarzo.
Un’arenaria a cemento calcitico è comunque più tenera del grani-
to, perché il cemento abbassa notevolmente il valore complessivo di
durezza della roccia. Un granito è, a sua volta, meno duro dei cristal-
li puri di feldspato o di quarzo, sia perché contiene anche della mica,
sia, soprattutto, perché i giunti fra i vari cristalli hanno legami sem-
pre più deboli di quelli cristallini e pertanto riducono la durezza com-
plessiva della roccia.
La durezza di una roccia come materiale lavorabile viene conside-
rata corrispondente alla resistenza alla segatura, e in relazione a tale
proprietà, si utilizza la seguente classificazione empirica:

• -rocce tenere sono considerate quelle facilmente tagliabili con


seghe dentate d’acciaio (ad esempio gessi, tufi vulcanici e calcarei)
• -rocce semidure sono invece tagliabili con seghe d’acciaio
senza denti e con sabbia quarzosa all’80-95% (ad esempio calcari semi-
compatti, argillosi)
• -rocce dure, sono quelle tagliabili solo con seghe lisce cospar-
se di smeriglio (ad esempio calcari compatti, marmi, serpentiniti, ofi-
calci)
• -rocce durissime, infine, sono quelle tagliabili solo con seghe
lisce cosparse di diamante in polvere (ad esempio graniti, sieniti).

Occorre comunque tenere presente che la maggiore o minore


durezza dei minerali, da sola, non determina le possibilità di resi-
stenza generale delle rocce nelle costruzioni. Le mura medievali di
Bologna, ad esempio, ancora in buono stato di conservazione, sono
realizzate in gesso, il meno duro dei minerali secondo la scala di
Mohs.
La durezza è però particolarmente importante nelle zone più sot-
toposte all’usura, quali i selciati stradali, gli scalini o le angolate degli
edifici.

La tenacità è invece una proprietà fisica delle rocce che consiste


nella resistenza all’urto. Non va confusa con la durezza, dato che esi-
Aurora Cagnana 27

stono rocce molto dure, ma non tenaci, come la selce, composta inte-
ramente da silice, ma molto fragile e poco resistente agli urti.
In base a prove di laboratorio è stata elaborata una scala di tenacità
di alcune fra le rocce più comuni, che pone in alto quelle più resistenti:

B ASALTI
PORFIDI
PORFIRITI E ANDESITI
DIORITI E GABBRI
QUARZITI
GRANITI E S IENITI
ARENARIE A CEMENTO SILICEO
CALCARI, DOLOMIE E MARMI
SERPENTINI
ARENARIE A CEMENTO NON SILICEO

-Scala di tenacità di alcune rocce -

Oltre che dalla durezza dei minerali costituenti, la tenacità di una


roccia dipende essenzialmente dalla sua struttura e coesione: è evi-
dente dalla scala qui riportata che la tenacità è maggiore nella rocce
microcristalline e criptocristalline. Ciò è dovuto al fatto che, a parità
di volume, queste ultime hanno un numero maggiore di legami inter-
cristallini, rispetto a quelle formate da cristalli più grandi.
La tenacità è inoltre molto alta nelle rocce a tessitura intersertale,
che è infatti sempre presente nei primi quattro gruppi.

La resistenza alla compressione è quella che i corpi oppongono alle


forze che tendono a romperli per schiacciamento. Tale carattere dipen-
de sia dalla durezza dei singoli componenti (cioè dalla resistenza dei
legami interni ai minerali), sia dalla struttura delle rocce (cioè dal tipo
di contatti esistenti fra i vari cristalli). In genere resistono bene a com-
pressione le rocce formate da cristalli duri, ben impilati fra loro, anche
se tenuti insieme da legami deboli, come il granito.

La resistenza alla trazione è quella che i corpi oppongono alle forze


che tendono a smembrarli per stiramento. Ben di rado le rocce vengo-
no poste in opera in modo da lavorare a trazione; tuttavia la resisten-
za alla trazione è importante perché determina quella alla flessione,
che è invece piuttosto frequente negli elementi litici delle costruzioni.
28 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

È il caso di un architrave, appoggiato sulle estremità e gravato dal


proprio peso, oltre che da carichi addizionali; esso sarà soggetto a tra-
zione in prossimità della faccia inferiore. Questo tipo di resistenza
meccanica è, nelle rocce, generalmente bassa.

MATERIALE RESISTENZA RESISTENZA


A COMPRESSIONE A TRAZIONE

Basalto 3200 Kg/cm2 80 Kg/cm2


Porfido 1900 Kg/cm2 60 Kg/cm2
Granito 1800 Kg /cm2 40 Kg/cm2
Tufi vulc. 80 Kg /cm2 10 Kg /cm2

Gneiss 1300 Kg /cm2 120 Kg /cm2


Ardesia 1100 Kg /cm2 400 Kg /cm2
Marmo 1300 Kg /cm2 40 Kg /cm2

Calcare 1100 Kg /cm2 50 Kg /cm2


Arenaria 800 Kg /cm2 20 Kg /cm2
Travertino 450 Kg /cm2 30 Kg /cm2

Laterizi 175 Kg /cm2 70 Kg /cm2


Malta 50-400 Kg /cm2 10-40 Kg /cm2
Legno 500 Kg /cm2 850 Kg /cm2
Ghisa 8000 Kg /cm2 1400 Kg /cm2
Acciaio 2000 Kg /cm2 6000 Kg /cm2

-Valori di resistenza meccanica dei principali materiali da costruzione

Se si osserva la tabella dei valori qui riportata, si nota come la resi-


stenza a trazione è sempre molto inferiore rispetto a quella a com-
pressione e oscilla fra 1/10 e 1/50 di quest’ultima. Ciò è dovuto al fatto
che la resistenza a trazione dipende sostanzialmente dai legami inter-
cristallini, che sono sempre più deboli di quelli interni ai singoli mine-
rali. In genere sono più resistenti le rocce a grana fine o, in particola-
re, quelle microcristalline.
Sono le dimensioni dei minerali che determinano lo stato di coe-
sione della roccia: quest’ultimo è maggiore nelle rocce a grana fine
perché, a parità di volume, aumentano le superfici dei vari cristalli e
quindi i relativi legami, che sono la fonte principale della resistenza
alla trazione. Essa è pertanto maggiore in un basalto, piuttosto che in
un granito, in un calcare microcristallino, piuttosto che in un marmo
Aurora Cagnana 29

saccaroide. Inoltre è alta anche nelle tessiture intersertali e in quelle


con minerali allungati e isorientati, come gli gneiss e le ardesie.

La divisibilità è un requisito fondamentale in relazione alla possi-


bilità di estrarre e lavorare una roccia. Essa dipende dalla presenza di
microfratture oppure di piani in corrispondenza dei quali la coesione
e la resistenza delle rocce è minore o molto bassa. Le fasi di estrazio-
ne e di lavorazione hanno sempre sfruttato l’esistenza di queste super-
fici la cui presenza e frequenza può favorire o impedire determinati
impieghi del materiale lapideo. Una formazione rocciosa potrà fornire
blocchi grandi solo se i piani di divisibilità sono abbastanza distan-
ziati; la presenza di un sistema fitto di piani di divisibilità può infatti
impedire l’estrazione di grandi blocchi e favorire quella di lastre.
La presenza, la disposizione e la frequenza di tali piani, dipende
dalla tessitura stessa delle rocce. In quelle magmatiche i piani di divi-
sibilità sono molto rari, e corrispondono essenzialmente alle spaccatu-
re naturali createsi per il ritiro durante il raffreddamento. L’estrazione
e la lavorazione delle rocce magmatiche, pertanto, non può sfruttare
che raramente la presenza di superfici preferenziali di taglio; per con-
tro l’omogeneità della struttura consente una spaccatura precisa in
qualsiasi direzione e quindi anche l’estrazione di grandi blocchi unifor-
mi da usare come monoliti; è il caso dei grandi obelischi egizi, ottenuti
in blocchi unici di granito, della lunghezza di decine di metri.
Le rocce sedimentarie sono invece caratterizzate quasi sempre da
formazioni stratificate, nelle quali si nota chiaramente la presenza di
strati o di banchi separati fra loro da giunti dovuti a pause del pro-
cesso di sedimentazione. Queste superfici di giuntura sono caratteriz-
zate da una coesione bassissima o nulla della roccia, che lungo tali
piani può essere spaccata ed estratta con poco sforzo.
Se in corrispondenza dei giunti la divisibilità della roccia è massima,
essa è comunque buona anche nella direzione parallela a quella della
stratificazione, a causa dell’isorientamento frequente nei minerali.
Nelle rocce metamorfiche caratterizzate da piani di scistosità
(ardesie, gneiss, filladi) la maggiore divisibilità corrisponde invece ai
piani di scistosità; quando questi ultimi sono molto ravvicinati (nel-
l’ardesia o nelle filladi), le rocce sono più adatte alla produzione di
lastre che non di blocchi lapidei. Se invece i piani di scistosità sono
meno frequenti l’estrazione di pietra da ridurre in blocchi non è
impossibile, purché uno dei piani di lavorazione venga fatto coincide-
re con quello della scistosità.
30 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Le rocce metamorfiche carbonatiche, costituite per lo più dai


marmi, si presentano invece in grandi banchi omogenei ed è perciò più
difficile riconoscere i piani preferenziali di divisibilità, che pure esi-
stono e che sono dovuti al metamorfismo. Nei calcari debolmente
metamorfosati, se il piano di scistosità non coincide con quello di sedi-
mentazione, si formano facilmente scagliature a cuneo.

I sistemi tradizionali di estrazione e di lavorazione della pietra


hanno sempre sfruttato l’esistenza di tali piani, dei quali cavatori e
lapicidi avevano una profonda conoscenza.
Nel gergo degli scalpellini e dei cavatori, questo tipo di piano viene
tradizionalmente indicato come ‘verso’. Il piano separabile più difficil-
mente viene definito ‘contro’. Spesso esiste una terza direzione di
taglio, obliqua o sub-perpendicolare ai primi due, che viene definita
‘secondo’. Qui la divisibilità della roccia presenta valori intermedi fra
il verso e il contro.
Oltre al verso, o piano di divisibilità preferenziale, esistono nelle
rocce altre fessure naturali (o litoclasi), variamente inclinate rispetto
al verso. Nel gergo dei lapicidi vengono definite ancor oggi ‘peli’; alcu-
ne di queste, ricementate da minerali come calcite o quarzo, non com -
promettono la resistenza della roccia e non comportano per lo scalpel-
lino il rischio di far deviare il taglio rispetto alla direzione prestabili-
ta; in questo caso vengono indicate come ‘peli buoni’. Quando invece
tali fratture rimangono aperte o sono cementate da argilla e rischiano
di minacciare la resistenza della roccia, vengono definite ‘peli cattivi’.
L’esistenza di tali piani naturali di sfaldabilità, fattore fondamen-
tale per la lavorazione delle rocce, è non meno importante per la posa
in opera del materiale. La disposizione delle pietre con il “verso”
parallelo alla forza di gravità ne accelera infatti il processo di degra-
do, mentre la disposizione perpendicolare contribuisce alla buona
durata del materiale.

La lucidabilità è l’attitudine di alcune rocce ad assumere superfici


lisce fino a speculari per fregamento con abrasivi sempre più fini, in
maniera che ciascuno elimini le solcature lasciate da quello preceden-
te. Attraverso tale abrasione i cristalli costituenti le rocce vengono
tagliati su uno stesso piano, in modo da riflettere la luce nella stessa
direzione. Ciò dà quell’effetto di brillantezza che è all’origine del signi-
ficato etimologico del termine “marmo”, derivato appunto dal verbo
greco “marmàiro” = io brillo.
Aurora Cagnana 31

1- Microfotografie in sezione sottile di alcune delle rocce più usate come


materiali da costruzione: 1 calcare (strati di calcite microcristallina); 2
arenaria (clasti e cemento) 3 marmo (struttura granoblastica o pavimen-
tosa) 4) trachite (struttura porfirica) 5) basalto (struttura microcristallina
feltrosa) 6) gneiss (struttura scistosa)
32 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Non tutte le rocce si prestano ad essere lucidate; in generale sono


lucidabili le rocce più compatte, non lo sono quelle molto porose e poco
coerenti. Anche la durezza è un requisito favorevole alla lucidabilità,
ma è soprattutto importante l’omogeneità, cioè che non vi siano diffe-
renze eccessive di durezza fra i componenti, perché ciò impedisce una
spianatura perfetta; ad esempio sono lucidabili sia il granito sia i
marmi, anche se presentano, come si è visto, valori di durezza assai dif-
ferenti. Non lo sono, invece, le arenarie quarzose a cemento calcareo.
Le rocce lucidabili vengono genericamente chiamate “marmi”, nel
linguaggio commerciale, e pertanto sotto tale definizione si compren-
dono anche le serpentiniti, le oficalci, i graniti, e persino certi calcari
organogeni, come la cosiddetta “lumachella”. Occorre però ricordare
che tale esteso significato non corrisponde a quello della classificazio-
ne petrografica delle rocce, che nel gruppo dei marmi comprende solo
i calcari metamorfici.

Per peso specifico apparente (PV) si intende il peso (espresso in


g/cm3 oppure in Kg/m 3) di roccia allo stato naturale, mentre per peso
specifico assoluto (PS) si intende il peso della pietra ridotta in polve-
re, in modo tale cioè da eliminare le porosità naturali.

Il grado di compattezza di una roccia (C) è dato dal rapporto fra


peso specifico apparente e peso specifico assoluto. Il valore di questo
rapporto, sempre inferiore a 1, si avvicina tanto più all’unità quanto
meno porosa è la roccia, cioè quanto più è compatta.
Esiste anche un indice di porosità (Ip), che indica la percentuale
dei vuoti presenti in una roccia: è pari all’1-2% in quelle molto com-
patte (graniti, calcari), mentre sale al 10-20% nelle rocce porose (tufi).
ROCCIA POROSITÀ REALI
travertini 5-12%
argilloscisti 0,4-10%
calcari compatti 0,4-2%
gneiss 0,4-2%
graniti 0,4-1,5%
basalti compatti 0,2-0,9%
serpentini 0,1-0,6%

-Tabella con i valori di porosità di alcune delle principali rocce

A livello pratico, però, per capire il comportamento dei materiali


Aurora Cagnana 33

lapidei al degrado, è più importante conoscere il carattere della poro-


sità, poiché sono soprattutto la comunicabilità e le dimensioni dei pori
che determinano il tipo di permeabilità delle rocce. La porosità comu-
nicante o di tipo capillare comporta un’alta penetrabilità dell’acqua
nelle rocce (per imbibizione o per assorbimento). La porosità non
capillare, invece, alleggerisce il peso delle rocce ma non le rende capa-
ci di assorbire l’acqua.
Il granito, ad esempio, pur essendo molto compatto, per la sua
struttura pavimentosa presenta molti spazi intercristallini piccolissi-
mi e comunicanti fra loro, nei quali l’acqua penetra lentamente. La
pomice, invece, la roccia più leggera (l’unica che può galleggiare sul-
l’acqua) e più porosa di tutte, ha però una particolare porosità, costi-
tuita da bolle di gas non comunicanti fra loro, e immerse in una massa
vetrosa che la rende impermeabile.
Dal tipo di porosità e quindi dalle possibilità di penetrazione del-
l’acqua dipende anche la maggiore vulnerabilità delle rocce al gelo. La
gelività è infatti maggiore nelle rocce che presentano abbondanti pori
di piccole dimensioni, dove l’acqua, per capillarità, penetra in tutte le
direzioni, anche in salita (cfr. I.7.).
Fra le caratteristiche termiche è particolarmente importante il coef -
ficiente di dilatazione dei materiali in seguito al riscaldamento. La pre-
senza di calore crea un’agitazione termica negli atomi, in seguito alla
quale aumenta la loro distanza di legame, determinando una dilata-
zione di tutti i composti cristallini. Si tratta di variazioni piccole, non
percettibili, ma che, se esercitate con continuità sui giunti cristallini,
finiscono per disgregare la roccia, poiché le dilatazioni e i ritiri diffe-
renziati possono vincere i deboli legami di superficie. Questo fenomeno
è più forte nelle rocce polimineraliche, costituite da minerali con diver-
si indici di dilatazione; ma è notevole anche su rocce monomineraliche
formate da cristalli, come la calcite, caratterizzati da dilatazioni diffe-
renti a seconda degli assi cristallini (cfr. I.7.). I suoi effetti sono accen-
tuati, inoltre, nelle regioni in cui gli sbalzi termici sono veloci, e in certe
parti del costruito, come gli spigoli, dove la dispersione del calore (e
quindi il raffreddamento) è più veloce che in altri punti.

ROCCIA COEFFICIENTE DI DILATAZIONE


graniti 0,000008
basalti 0,000005
arenarie 0,000004

-Tabella con alcuni valori di coefficienti di dilatazione


34 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Anche la conducibilità termica è un carattere fisico importante. In


genere i materiali molto porosi (come la pomice) sono anche più iso-
lanti. Nelle rocce meno conduttrici le differenze di temperatura tra
zona e zona si equilibrano più lentamente, aumentando gli effetti dan-
nosi degli sbalzi termici.
La refrattarietà, ossia la resistenza alle alte temperature, è un
altro carattere fisico delle rocce, particolarmente importante per la
costruzione delle fornaci destinate alla produzione di materiale edili-
zio come calce, mattoni, ferro, vetro.

3. La coltivazione delle cave col sistema della ‘tagliata a mano’

In tutte le epoche i ‘cicli’ produttivi corrispondono a sequenze di


operazioni concatenate fra loro, attraverso le quali la materia diventa
manufatto. La prima fase di ogni ciclo è costituita dall’estrazione, che
consente di attuare il passaggio dalla risorsa naturale, o materia
potenziale, alla materia prima vera e propria. Essa diviene tale solo
nel momento in cui viene individuata, selezionata ed estratta per
essere sottoposta a processi più o meno complicati di lavorazione.
Per le rocce i luoghi dell’estrazione sono le cave, dove si organizza
la ‘coltivazione’, attraverso una lacerazione del sottosuolo che permet-
te il prelievo organizzato della materia.
La parte superficiale di ogni roccia si presenta alterata dagli agen-
ti atmosferici e dalla vegetazione, che vi si radica succhiando le
sostanze nutritive, e, al tempo stesso, rallentando l’erosione. Questo
strato, che va eliminato per raggiungere la formazione rocciosa sana,
prende il nome di ‘cappellaccio’. Esso è nascosto dal suolo (costituito
da sostanze organiche e da una parte della roccia alterata), la cui
profondità dipende sia dal tipo di roccia, sia dal clima, (nelle regioni
tropicali si trovano anche 200 metri di suolo e di roccia alterata prima
di raggiungere la formazione sana).
Anche in passato il lavoro di estrazione doveva necessariamente
essere preceduto da operazioni di ricerca e di ‘assaggio’ del terreno, al
fine di scoprire l’ubicazione dei giacimenti di pietra adatta a essere
lavorata. In questa prima fase di prospezione si dovevano anche veri-
ficare la consistenza del deposito, le sue caratteristiche di sfruttabilità
e l’andamento dei piani preferenziali di divisibilità (o versi), in base ai
quali veniva organizzato il taglio della pietra e stabilito l’orientamen-
to della cava.
Non è facile ricostruire quali fossero esattamente le operazioni
Aurora Cagnana 35

seguite per individuare un buon affioramento roccioso, ma è assai pro-


babile che i ‘prospettori’ fossero guidati dall’osservazione di crolli o di
franamenti d’erosione che mettevano occasionalmente a nudo porzio-
ni del sottosuolo. L’ubicazione di un giacimento poteva inoltre essere
riconosciuta anche in base alla presenza di ciottoli nei corsi d’acqua
che lo attraversavano, analogamente a quanto avveniva, ancora in
tempi recenti, per la ricerca dei giacimenti metalliferi (cfr.VI.2.).
Una volta individuato il deposito di materiale lapideo adatto alle
necessità, si provvedeva a organizzarne la coltivazione. Questa era
necessariamente condizionata dal tipo di formazione: le rocce sedi-
mentarie, infatti, sono sovente costituite da depositi stratificati più o
meno profondi e regolari, mentre quelle intrusive sono rappresentate
da ammassi la cui forma deriva dalle cavità naturali riempite dal
magma, sono perciò costituite, generalmente, da blocchi tentacolari
solidificatisi negli interstizi della crosta terrestre. Il giacimento roc-
cioso può inoltre costituire l’intera struttura di rilievi collinari o mon-
tani, modellati dall’erosione, oppure può formare il sottosuolo di aree
pianeggianti. Pertanto, a seconda del materiale e dei caratteri geo-
morfologici del deposito, venivano organizzati diversi tipi di coltiva-
zione.
Quando i giacimenti si trovavano a mezza costa sui rilievi, l’estra-
zione a cielo aperto determinava l’apertura di grandi cave a gradoni,
disposte ad anfiteatro lungo i fianchi della montagna. Esse erano
adatte allo sfruttamento di rocce caratterizzate da una certa omoge-
neità su un fronte sufficientemente ampio da permettere di fare avan-
zare la superficie lavorabile in modo uniforme e progressivo.
In genere l’altezza dei gradoni era orientata in base all’andamento
naturale della roccia, cioè, laddove possibile, con il piano di distacco
corrispondente al verso principale. Per fronte di cava si intende la
parete verticale verso monte, perpendicolare alla superficie di distac-
co; la sua altezza aumentava via via che procedeva la coltivazione e
che diminuiva il deposito disponibile. Pertanto, per evitare di esauri-
re la cava, la zona di coltivazione veniva estesa in senso orizzontale.
La base del gradone era in genere costituita da una piattaforma, o
‘piazzale di cava’, sulla quale si facevano ricadere i blocchi staccati,
predisponendo appositi cuscini di schegge, che permettessero di attu-
tire i colpi durante la caduta.
Nelle zone pianeggianti, le cave a cielo aperto potevano essere inve-
ce del tipo a fossa e cioè caratterizzate dall’abbassamento graduale della
superficie del suolo, operato con grandi trincee scavate in successione.
36 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

2- Organizzazione di una cava: fronte a gradoni e piazzale antistante (da


DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
Aurora Cagnana 37

La coltivazione in sotterraneo, tipica delle miniere, era invece


molto rara per le rocce ed era utilizzata solo allo scopo di sfruttare
affioramenti particolarmente pregiati, una volta esauriti in superfi-
cie. Assai noto è l’esempio delle cave romane di Aurisina (Trieste):
calcare parzialmente marmificato che veniva coltivato in galleria,
lasciando però intatti dei grandi pilastri rocciosi per il sostegno del
“tetto”. Anche il marmo dell’isola di Paros, simile a quello di
Carrara, ma a grana più grossa, bianchissimo, molto pregiato e
adatto alla scultura, era coltivato in galleria: ai tempi di Plinio veni-
va infatti chiamato lychnìtes, cioè estratto “alla luce delle lampade”
(Nat. Hist. XXXVI, 14).
L’ardesia ligure, fino ad epoche molto recenti, era coltivata con un
sistema di avanzamento nell’estrazione dei blocchi dall’alto al basso,
(denominato ‘da tetto a letto’), del quale esiste una straordinaria
documentazione iconografica risalente al 1838.

Il sistema tradizionale usato per il distacco ordinato dei blocchi,


senza il quale era impossibile la coltivazione sistematica della cava,
viene definito ‘tagliata a mano’. Esso consisteva nel separare, con
appositi strumenti, i sei lati che definivano il parallelepipedo.

3- Operazione di estrazione dei blocchi con picco e cunei (da ADAM 1989
rielaborata)
38 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Nelle cave a gradoni due lati (quello frontale e quello del piano
orizzontale) erano già liberi; per separare gli altri tre lati verticali si
operava un solco di delimitazione, a monte e ai fianchi, della stessa
altezza del blocco da estrarre. Fino a una profondità di 50-60 centi-
metri il cavatore poteva lavorare dall’alto, inginocchiato o in piedi,
usando picchi a lunga immanicatura (cfr. oltre). Se invece il blocco era
di dimensioni maggiori, il solco doveva essere una vera e propria trin-
cea, tanto larga da consentire al cavatore di scendervi. Un esempio
eccezionale di quest’ultimo sistema è conservato nelle cave del cosid-
detto “tempio G” di Selinunte, in Sicilia, abbandonate in seguito all’in-
terruzione del grandioso cantiere, seguita alla distruzione della città
nel 409 a.C..
Anche l’omogeneità del materiale condizionava lo spessore dei bloc-
chi e quindi dei gradoni della cava: per marmi e graniti, caratterizzati
da rare spaccature, l’altezza poteva essere scelta con maggior libertà
rispetto alle rocce sedimentarie, costituite da formazioni stratificate.

4- L’estrazione dei tamburi destinati al tempio G di Selinunte, rimasti


nella cava di Cusa (da ADAM 1989)
Aurora Cagnana 39

5- La coltivazione ‘a tetto’ dell’ardesia ligure in un disegno del 1838 (da


SAVIOLI 1988)
40 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

6- I principali strumenti usati per l’estrazione dei blocchi: picco, cunei,


mazza e leva

Per lo stacco definitivo, in corrispondenza della faccia di base, si


usava un altro sistema. La cava veniva scelta e organizzata in modo
che tale piano corrispondesse al ‘verso’, dove minore era la resistenza
della roccia alla trazione. Alla base del blocco si scavavano degli allog-
gi con sezione a ‘V’, (detti ‘formelle’ dai cavatori di Carrara), ottenuti
con punta e mazzuolo e posti a distanze regolari, ma tanto più ravvi-
cinati quanto più resistente era la roccia; in tali alloggi venivano con-
ficcati, a colpi di mazza, dei cunei; dovevano perciò essere abbastan-
za profondi da evitare che essi raggiungessero il fondo. Il loro scopo
era infatti quello di ripercuotere sui lati la forza proveniente dall’al-
to. Il principio è infatti lo stesso di una macchina semplice, costituita
da due piani inclinati contrapposti che trasformano una forza per-
pendicolare (colpi di mazza) in due forze parallele alla superficie e
opposte, tali da vincere la resistenza della roccia alla trazione. Tale
Aurora Cagnana 41

spinta, se esercitata lungo una fila orizzontale continua di cunei,


parallela al piano di sfaldatura, è infatti in grado di provocare una
somma di forze che porta il
blocco a staccarsi nettamen-
te. Per ottenere tale risulta-
to è necessario battere i
cunei con gradualità, fino a
portarli contemporanea-
mente alla stessa pressione,
ciò che invece non si può
ottenere spingendo un solo
cuneo fino in fondo. L’abilità
di questo lavoro era basata
anche sull’esercizio dell’udi-
to: conficcato nella formella,
il cuneo produce infatti un
suono che varia man mano
che aumentano la profon-
dità e la pressione; il cava-
tore si regolava perciò in
modo da far produrre a cia-
scuno lo stesso suono, sem-
pre più acuto. Quando tutti
i cunei erano “in tiro” il
lavoro si fermava, attenden-
do solo lo stacco della roccia.

Per ricostruire la storia


degli strumenti utilizzati
per l’estrazione (così come
per le successive fasi di lavo-
razione) esistono sia fonti
indirette, come quelle icono-
grafiche, sia fonti dirette, o
archeologiche, costituite cioè
da documenti materiali. Tra 7- Tracce di un’antica tagliata presso
questi il ritrovamento di Botro dei Marmi (Livorno). Si noti la
strumenti originali costitui- parte superiore costituita da roccia
sce un caso piuttosto raro alterata (cappellaccio) e la parte infe-
(nelle cave di Carrara, ad riore, con la formazione sana
42 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

8- Schema del meccanismo di spaccatura di un blocco lapideo tramite un cuneo

9- Tracce degli alloggi dei cunei visibili su un blocco del Capitolium di


Luni (La Spezia - I sec. a.C.)
Aurora Cagnana 43

esempio, si sono rinvenuti non più di venti oggetti); più facile è invece
analizzare le tracce di lavorazione ancora visibili, sia nei monumenti,
sia nelle cave. Tuttavia poiché l’arte della pietra è basata su una pro-
gressiva asportazione della materia, ovvero su una lavorazione ‘a leva-
re’, ogni strumento cancella inevitabilmente le tracce di quelli prece-
denti. Pertanto sono gli scarti di produzione, i pezzi non finiti, le cave
abbandonate prima di avere terminato lo sfruttamento, che consento-
no di trarre le informazioni maggiori.
In base a queste diverse fonti sono stati elaborati utili repertori che
descrivono i vari strumenti per la lavorazione della pietra e indicano,
per ciasscuno, il tipo di tracce che lasciano e la cronologia del loro uti-
lizzo; il più completo è quello curato da Bessac (cfr. I.8.), che abbrac-
cia tutta l’area mediterranea e che copre un arco cronologico compre-
so fra l’antico Egitto e l’età contemporanea.
A seconda del loro uso gli strumenti si possono suddividere in tre
principali categorie: quelli a percussione diretta (o lanciata), che scal-
fiscono direttamente la pietra, e cioè: il picco da cava, la picchetta, la
scure (o martellina liscia, molto in uso, ad esempio, in Italia centrale,
per la lavorazione dei tufi), la martellina dentata a taglio verticale (o
a zappa), (usata ancora di recente per l’ardesia ligure), e infine la boc-
ciarda (o martello a punte), che venne introdotta nel XVII secolo in
Francia e successivamente in Italia.
Gli strumenti a percussione indiretta, invece, sono costituiti da
punte, scalpelli, gradine; denti di cane e per essere usati devono esse-
re battuti da percussori; perciò il loro utilizzo impegna entrambe le
mani del lapicida.
Le punte possono essere a terminazione grande (se vengono usate
per sgrossatura) o fine (se servono alla spianatura delle superfici).
Gli scalpelli, oltre ad avere una ricca scala dimensionale, possono
essere a taglio curvo o diritto. Fra i primi si distinguono le ‘ugnole’,
(cioè unghie), usate per piccole asportazioni, dalle ‘sgorbie’, più gran-
di e utilizzate soprattutto per il legno.
Le gradine sono particolari scalpelli a 3 o più denti. Non vanno con-
fuse col ‘dente di cane’, caratterizzato da un ‘passo’ più grande e che
determina un taglio meno fine.
I percussori possono essere lignei, lapidei o acciaiosi. La mazzetta
in legno, ad esempio, da scultura, era già usata nell’antico Egitto per
modellare pietre tenere. I percussori litici, molto usati nella preisto-
ria, divengono sempre più rari dopo l’introduzione dei metalli, mente
quelli acciaiosi non compaiono prima del 1000 a.C.
44 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

10- Strumenti a percussione indiretta: la punta. Esempi di varie forme e


dimensioni, segno lasciato sulla pietra, tipo di percussore e inclinazione
con la quale va usata (da BESSAC 1986)
Aurora Cagnana 45

11- Strumenti a percussione diretta: la martellina. Esempi di varie forme


e dimensioni, segno lasciato sulla pietra, tipo di percussore e inclinazione
con la quale va usata (da BESSAC 1986)
46 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

12- Strumenti a percussione indiretta: la gradina. Esempi di varie forme


e dimensioni, segno lasciato sulla pietra, tipo di percussore e inclinazione
con la quale va usata (da BESSAC 1986)
Aurora Cagnana 47

13- Strumenti a percussione diretta: la bocciarda. Segno lasciato sulla pie-


tra e inclinazione con la quale va usata (da BESSAC 1986)
48 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Per il lavoro di estrazione, oltre ai cunei (lignei o acciaiosi), a


punte e mazzuoli, necessari per praticare le ‘formelle’, ai percussori,
costituiti da bocce litiche o da mazze acciaiose, erano usati strumen-
ti a percussione diretta con lunga immanicatura, necessari per l’inci-
sione dei solchi sui tre lati del blocco e, infine, leve per sollevare i
pezzi staccati.
Il materiale estratto veniva ribaltato sul piazzale di cava, in atte-
sa di essere trasferito sul cantiere o in laboratorio per essere finito e
posto in opera. Sul piazzale veniva spesso avviata già una prima lavo-
razione; se, ad esempio, erano richiesti blocchi piccoli, era bene prov-
vedere già in cava alla divisione. Inoltre gli elementi appena staccati
presentavano spesso forme irregolari, zone diffettose (o lesionate
durante il taglio o la caduta) che era bene scartare, anche per dimi-
nuire il carico da trasportare.
Le iniziali operazioni di preparazione del materiale, in cava, erano
compito di artigiani specializzati, che facevano uso di cunei anche per
la suddivisione dei blocchi, oppure di seghe a lame non dentate, azio-
nate in modo da penetrare gradualmente nella pietra per oscillazione,
con continuo impiego di acqua e sabbia. Un momento importante era
costituito dalla eliminazione delle zone difettose, che avrebbero com-
promesso la lavorazione finale. Le parti da scartare venivano tolte con
la mazza, quindi una prima riquadratura era operata con punte gros-
se e mazzuoli, con i quali si eliminavano le sporgenze e le irregolarità
maggiori. Tuttavia la lavorazione giungeva raramente a uno stadio
avanzato, dato che le difficoltà del trasporto potevano provocare danni
e scalfire il materiale, sul quale si preferiva perciò lasciare uno strato
di scarto che, in qualche modo, fungeva da protezione. Le rocce più
dure e tenaci, come il granito, rischiavano meno di essere danneggia-
te durante il trasporto.

I sistemi di coltivazione della pietra fin qui descritti sono assai


antichi. Attività estrattive per procurarsi la selce, con la quale fab-
bricare utensili, sono documentate già dalla fine del Paleolitico,
quando pare venissero effettuate con picconi di osso, come attestano
precisi ritrovamenti in Inghilterra. Tuttavia occorre arrivare al 2800
a.C. circa per avere le prime testimonianze archeologiche di coltiva-
zioni sistematiche, destinate alla produzione di elementi per un’atti-
vità un’edilizia monumentale. Le più antiche cave all’aperto attual-
mente note si trovano nei deserti egiziani; molte risalgono al periodo
tolemaico o a quello romano, ma non mancano attestazioni databili
Aurora Cagnana 49

all’antico Egitto. Particolarmente famosi sono gli studi sull’obelisco


di Assuan, la cui estrazione dalla cava, rimasta incompiuta, ha offer-
to preziosi dati alla conoscenza delle più antiche tecniche estrattive.
Gli Egizi erano in grado di coltivare il granito, tramite il sistema
della tagliata a mano, molti secoli prima dell’introduzione degli stru-
menti in metallo acciaioso. Per tracciare i solchi si servivano di per-
cussori litici, costituiti da bocce di dolerite (roccia magmatica intru-
siva più tenace del granito), con le quali macinavano progressiva-
mente la pietra. L’utilizzo di questo sistema è dimostrato sia da prove
dirette, come la cava di Assuan, dove si sono rinvenuti i resti delle
bocce stesse e delle tracce lasciate dal loro uso, sia dall’iconografia,
che attesta l’impiego di simili utensili in vari stadi della lavorazione
della pietra.
Per il distacco definitivo è probabile che si utilizzassero cunei di
legno, molto secco, che dopo essere stati inseriti negli alloggi, (predi-
sposti con piccoli percussori o con scalpelli di bronzo) venivano bagna-
ti con acqua, per farli dilatare, in modo da provocare le spinte che cau-
savano il distacco del blocco dalla roccia madre. In questo modo si
poteva estrarre e tagliare anche il granito, che, come si è visto, ha una
resistenza alla trazione pari a 40 kg a cm2. Il sistema poteva non fun-
zionare se nella roccia erano presenti litoclasi (‘peli’) non visibili dal-
l’esterno, i quali provocavano una deviazione rispetto alla linea di rot-
tura stabilita. È appunto questa circostanza che deve avere determi-
nato l’abbandono dell’obelisco di Assuan, prima che ne fosse portata a
termine l’estrazione.
L’utilizzo di grandi blocchi lapidei, provenienti dalla coltivazione
di cave, è testimoniato inoltre presso le civiltà minoica e micenea, ma
è nei grandi cantieri dell’epoca greca arcaica che la tecnica della
tagliata a mano conobbe una diffusione notevole e un progressivo per-
fezionamento. È probabile che, come sostengono alcuni studiosi, i
Greci avessero appreso la litotecnica dalla civiltà ittita, piuttosto che
dall’Egitto, dove l’uso degli strumenti in ferro pare non sia stato intro-
dotto prima dell’età tolemaica. Al grande sviluppo della stereotomia
greca si deve probabilmente l’introduzione della gradina, apparsa
verso la fine del VI secolo a.C. e il cui impiego è forse da collegare alla
scultura in marmo. Con l’epoca ellenistica la tecnologia della pietra
conobbe un’espansione notevole, diffondendosi in tutto il bacino del
Mediterraneo e nell’Europa occidentale e adattandosi a svariati tipi
di rocce.
In epoca romana si generalizzò l’impiego del marmo, esteso anche
50 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

14- Schema cronologico dei principali strumenti per la lavorazione della


pietra e tipo di percussori con i quali vanno usati: + di pietra tenace; x di
rame o bronzo; O di legno; I di ferro acciaioso (da MANNONI 1993)

all’edilizia privata, tanto che in età imperiale esistevano molte cave,


in tutto il Mediterraneo, di marmi bianchi e colorati; le tecniche
estrattive erano ancora quelle messe a punto nell’Ellenismo, ma l’or-
ganizzazione del lavoro era divenuta più complessa e articolata.
Lo studio epigrafico delle sigle che compaiono sovente sui blocchi
di marmo, (sia nelle cave sia nei pezzi trasportati nei magazzini di
Ostia e Roma) ha permesso di conoscere molti aspetti organizzativi
delle cave, che generalmente erano di proprietà imperiale. Nei distret-
ti marmiferi più grandi, ogni area estrattiva era contraddistinta, come
unità di lavoro, col termine officina, oppure, come unità amministra-
tiva, veniva definita caesura; al suo interno poteva essere suddivisa in
più settori (bracchia), ciascuno con un suo responsabile. I vari procu -
ratores, posti a capo di una o più cave nelle singole provincie, doveva-
no far capo a un procurator marmorum, residente a Roma. Essi sor-
vegliavano anche le concessioni degli appalti, dati su singoli settori, ai
Aurora Cagnana 51

quali corrispondeva una fitta rete di squadre di lavoro. Queste ultime


avevano una struttura sociale composita: accanto a lavoratori di con-
dizione servile comprendevano uomini condannati ai lavori forzati,
ma anche artigiani liberi; il loro operato era generalmente sottoposto
alla sorveglianza di militari.
Con il tardoimpero le attività estrattive registrano una sensibile
diminuzione e diverse cave importanti, come quelle africane di
Simitthus (Chemtou) o quelle di Luni (Carrara), non presentano trac-
ce di coltivazioni posteriori al IV-V secolo d.C.
Recenti indagini archeologiche condotte nelle cave di calcare poste
nei pressi di Nîmes, hanno registrato l’esistenza di coltivazioni di età
tardoantica condotte ancora con sistemi di tradizione romana, ma
assai semplificati e ‘degenerati’; le cave sono infatti caratterizzate da
maggiore irregolarità nell’organizzazione, dalla mancanza di tracce di
estrazione di blocchi grandi, e inoltre dalla drastica riduzione della
gamma tipologica degli strumenti.
Nei secoli dell’Altomedioevo si verifica, in tutto il Mediterraneo,
una progressiva scomparsa delle attività di estrazione della pietra,
fatta eccezione per alcune regioni dell’impero bizantino, quali l’area
siro-palestinese e l’Armenia, dove l’antica tradizione della tagliata a
mano sembra sia sopravvissuta senza apparenti interruzioni.
Una generale ripresa delle attività estrattive interessa il
Mediterraneo occidentale a partire dal XII secolo in poi, anche se in
talune regioni se ne trova traccia già nei primi decenni dell’XI secolo.
Poiché la litotecnica riappare, dopo secoli di abbandono, in maniera
improvvisa e in forme tecnologicamente assai mature, è del tutto logi-
ca l’ipotesi che la reintroduzione dell’antica stereotomia classica sia
avvenuta tramite il contatto diretto con le regioni orientali del
Mediterraneo. Conoscere attraverso quali forme ciò avvenne, costitui-
sce attualmente uno dei temi più complessi, ma anche più suggestivi,
della storia della cultura materiale. Ciò che pare invece un dato sicu-
ro è il fatto che l’organizzazione delle cave di materiale lapideo, in età
medievale, riflette la nuova frammentazione politica, alla quale sono
evidentemente dovute le leggere differenze di strumentazioni e di tec-
niche riscontrabili da una regione all’altra.
Lo studio dei resti di alcune tagliate ancora visibili nei giacimenti
marmiferi di Carrara, ad esempio, ha permesso di distinguere le trac-
ce delle coltivazioni medievali da quelle di epoca romana; le prime
sono caratterizzate da maggiori irregolarità, dalla mancanza di un
procedimento a gradoni molto estesi, dalle dimensioni variabili (ma
52 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

15- Funzionamento del taglio tramite filo elicoidale (da L. T. MANNONI 1984)

comunque piccole) delle tagliate, da avanzamenti curvi, o molto incli-


nati. In generale però le cave di pietra dell’Europa medievale sono
molto più conosciute dallo studio delle fonti scritte che non da analisi
archeologiche.
Solo a partire dal XVIII secolo si registra un tentativo di innova-
zione nei sistemi estrattivi tradizionali, rappresentato dall’uso degli
esplosivi. La carica esplodente, per lo più ‘polvere nera’ (formata da
carbone, salnitro e zolfo) veniva inserita entro lunghi fori, ricavati
con stretti scalpelli, detti ‘fioretti’. Per ottenerli occorreva che un
cavatore tenesse retto lo scalpello sulla pietra, facendolo ruotare di
20-30°, mentre un altro lo batteva con la mazza. Anche se questo
sistema (definito ‘varata’ nelle cave di Carrara) consentiva un note-
vole risparmio di energia muscolare umana, comportava però svan-
taggi notevoli: la maggior parte del prodotto era infatti inutilizzabi-
le per le ridotte dimensioni o per le numerose incrinature; troppo era
lo spreco di materiale, e, non ultimo, enormi quantità di detriti ten-
Aurora Cagnana 53

16-Le tracce del filo elicoidale visibili in una cava di ‘pietra del Finale’
(Savona)

devano a soffocare le cave. Per tali ragioni l’uso degli eslposivi rima-
se un fatto molto limitato. Una radicale innovazione fu costituita
invece, alla fine del secolo scorso, dall’introduzione del taglio con filo
elicoidale. Presentato all’Esposizione Internazionale di Parigi del
1889 e di lì a poco introdotto in molte cave (a Carrara comparve nel
1895) esso era basato sull’utilizzo di tre fili di acciaio, avvolti a spi-
rale. Dovevano essere abbastanza lunghi (1 Km circa) da formare un
grande anello, tenuto in tensione da pulegge che lo facevano scorre-
re, mentre si abbassavano gradatamente sulla roccia. Il filo trasci-
nava una miscela di acqua e sabbia silicea che provocava una pro-
gressiva abrasione della pietra. Questo sistema non era adatto per
le rocce molto dure, oppure per l’ardesia, troppo fine, e perciò facile
a impastarsi.
Più recentemente è stato soppiantato dal filo diamantato, una lega
metallica che contiene granuli di diamante industriale.
54 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

4. I trasporti via terra e via acqua

In ogni epoca il costo del trasporto, in termini di fatica umana e di


tempo, era tra i più alti di tutte le operazioni del cantiere.
Nei casi in cui la zona di estrazione si trovava in aree montane, la
prima fase del trasporto era rappresentata dalla discesa dalla cava
verso il piano, tramite percorsi che generalmente si effettuavano su
forti pendenze, e lungo i quali i blocchi dovevano essere frenati. Un
sistema frequente era l’approntamento di piste costituite da piani
inclinati, lungo le quali venivano fatti scendere i blocchi, legati a slit-
te di legno (‘lizze’) che scorrevano su travicelli disposti trasversalmen-
te, frenate con funi agganciate ai bordi del percorso; il graduale allen-
tamento delle funi consentiva un lento avanzamento dei carichi.
Nelle cave greche del marmo pentelico si conservano straordinarie
testimonianze di tale sistema, costituito da una via in forte pendenza,

17- La discesa dei blocchi da una cava tramite ‘lizzatura’(da DONATI 1990,
ridisegnato da Zanella 1999)
Aurora Cagnana 55

ai lati della quale si trovano ancora i fori usati per i pali dove veniva-
no avvolte e fatte scorrere le funi destinate a frenare le slitte. Nelle
cave di marmo di Carrara la ‘lizzatura’ è stata in uso fino a epoche
recenti.
In pianura il trasporto dei blocchi (o dei semilavorati) necessita-
va invece di sistemi di traino; nell’antico Egitto, essi erano effettua-
ti tramite slitte trasci-
nate dalla forza di cen-
tinaia di uomini, men-
tre nell’antichità classi-
ca e nelle epoche suc-
cessive veniva general-
mente impiegata ener-
gia animale.
Un mulo non può
trasportare più di kg.
150 di materiale (vale a
dire non più di due bloc-
chi di cm 20x25x50
circa), mentre un paio
di buoi è in grado di
trainare un carro con
un carico di circa 800
chilogrammi; il traspor-
to di pesi maggiori era
reso possibile moltipli-
cando gli animali aggio-
gati. Un tale sistema
era certamente in uso
presso gli antichi greci:
lo studio della nota epi- 18- Carri per il trasporto del marmo a
grafe che registra i conti Carrara, agli inizi del secolo
per la costruzione del
portico del telesterion di
Eleusi (I.G.II, 1673 datata al 333/332 a.C.), ad esempio, documenta
l’impiego di 27-40 coppie di buoi per ogni viaggio. Dalle testimonian-
ze iconografiche offerte da modellini in terracotta, è stato possibile
ricostruire l’aspetto dei carri per trasporti pesanti usati sia dai greci
che dai romani: erano formati da quattro ruote piene e dotati di un
piano orizzontale in legno; i carichi potevano esservi posti superior-
56 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

mente, oppure venire sospesi al di sotto. Il traino di grandi blocchi,


effettuato aggiogando molte coppie di buoi, è attestato ancora all’ini-
zio di questo secolo, e solo da pochi decenni è stato completamente
sostituito dall’introduzione di speciali automezzi.

Il trasporto meno costoso era rappresentato, in ogni epoca, dalle


vie d’acqua; anzi, si può affermare che non di rado la fortuna com-
merciale di un materiale da costruzione era legata alla vicinanza di
vie marittime o fluviali. L’ampia diffusione dei graniti
egiziani in età romana è forse in parte legata alla
presenza del Nilo, così come quella dei marmi
di Luni alla relativa vicinanza
delle montagne marmife-
re alla costa.

19- Il carico di un blocco di marmo su un’imbarcazione (da DONATI 1990,


ridisegnato da Zanella 1999)
Aurora Cagnana 57

Per i trasporti pesanti erano necessarie imbarcazioni speciali


denominate naùs lithagogoì dai greci e naves lapidariae dai romani.
L’archeologia subacquea ha permesso di individuare numerosi relitti
affondati, con carichi di marmo del peso di 100-200 tonnellate.
Il ritrovamento, nei grandi porti fluviali di Ostia, di molte centi-
naia di blocchi di marmi e pietre pregiate provenienti dalla Sardegna,
dalla Grecia, dall’Africa, dall’Asia Minore, ecc., attesta l’entità del
traffico marittimo che convergeva su Roma. Dai magazzini posti pres-
so i bacini portuali, attraverso canali artificiali, i blocchi di cava o i
semilavorati risalivano il Tevere, probabilmente con apposite imbar-
cazioni fluviali.
Anche per l’età postclassica è attestato un notevole movimento di
pietre da costruzione tramite le vie d’acqua: nel periodo delle Crociate
circolavano carichi di marmi provenenti dalla depredazione di monu-
menti classici, mentre, nei secoli seguenti, le fonti scritte (contabilità
di cantieri, atti notarili, ecc.) informano dell’esistenza di apposite
imbarcazioni per il rifornimento dalle cave, come nel caso degli
approvvigionamenti per l’Opera del Duomo di Firenze (XIV secolo) o
di quello di Milano (XV secolo).
Lo sfruttamento dei calcari prealpini dell’area lombarda e veneta
era dovuto, in larga misura, alla presenza di vie fluviali e lacustri che
permettevano di rifornire i grandi cantieri delle città padane.
Assai significativa è inoltre, a questo proposito, la varietà lessica-
le utilizzata nei documenti notarili di Carrara (secc. XV-XVI) per indi-
care diversi tipi di barche con i relativi carichi: “leuti”, “saette”, “navi-
glioni” per il traffico costiero, oppure scafi a fondo piatto per risalire
l’Arno.

5. Le lavorazioni in cantiere: spaccatura, sbozzatura, riquadratura

Prima della posa in opera, gli elementi destinati alle strutture


murarie ricevevano, generalmente in cantiere, una preparazione fina-
le che poteva essere più o meno complessa.
Lo stadio più semplice era costituito dalla lavorazione detta a ‘a
spacco’, che consisteva nel fratturare la roccia con uno o più colpi, ese-
guiti a percussione diretta, con un martello tenuto leggermente incli-
nato.
Il colpo emette infatti onde elastiche a compressione e rilascia-
mento, parallele alla direzione di trasmissione; la parte della materia
58 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

20 (a/b)- La lavorazione a spacco, effettuata con strumenti a percussione


diretta, consente di ottenere con poco impegno due superfici piane
Aurora Cagnana 59

direttamente a contatto col percussore si comprime e si rilascia tra-


smettendo l’onda alla materia posta a fianco. Nelle rocce tenere un
solo passaggio può rompere subito tutti i legami, mentre in quelle
tenaci e poco sfaldabili una buona parte di essi resiste alla percussio-
ne. Di conseguenza quanto maggiore è la tenacità delle rocce, tanti più
colpi, ripetuti nello stesso punto, saranno necessari per spaccarla.
Poiché le rocce sedimentarie e quelle metamorfiche sono caratte-
rizzate dalla presenza di piani preferenziali di divisibilità (cfr. I.2.), la
lavorazione a spacco più conveniente è sempre quella parallela a tali
piani.
Le murature identificabili con l’opus incertum descritto da Vitruvio
(che, anche dopo l’età augustea, dovevano essere molto più diffuse di
quanto non si creda), erano formate da pietre lavorate a spacco, in cor-
rispondenza del ‘verso’ o di un ‘pelo’. Tale operazione non richiedeva
un lapicida specializzato, ma poteva essere svolta anche da un sem-
plice garzone; essenziale era invece l’abilità del muratore per il lavoro
di posa in opera, quello cioè che garantiva la statica del muro.
Le strutture in pietre lavorate a spacco tornarono ad essere assai
in uso in età postmedievale, anche perché erano solide, pur essendo
prive di qualità estetiche; l’aspetto ‘disordinato’ dei muri era general-
mente nascosto da rivestimenti intonacati e affrescati.
Oltre che per le pietre da muro la lavorazione a spacco era adatta
anche per la produzione di lastre; nell’ardesia ligure, ad esempio, un
solo colpo, provocato (nella direzione del verso) con una sbarretta di
ferro su una lama d’acciaio detta “scalpella”, era sufficiente a divide-
re la roccia in un blocco di cm 60 x 60. La citata immagine del 1838
che riproduce fedelmente le operazioni di estrazione dell’ardesia (cfr.
Fig. 5), mostra che, in questo caso, la lavorazione a spacco era effet-
tuata in cava, forse per ridurre il peso del trasporto.
Anche le tessere dei mosaici venivano ottenute spaccando con col-
petti decisi piccole lastre, precedentemente tagliate nella direzione del
verso.
Con una lavorazione a spacco si poteva anche frantumare la pietra
per ottenere pietrisco, da utilizzare per la produzione di calcestruzzo,
oppure come inerte nelle malte (cfr. III. 4).

La sbozzatura rappresenta uno stadio di lavorazione più comples-


so. Può essere effettuata con strumenti a percussione diretta, come
mazzuoli o picchi dal manico corto, usati al posto delle punte, oppure
da strumenti a percussione indiretta, per lo più punte, battute da
60 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

21- Muratura ‘da scalpellino’ for- 23- Muratura ‘da muratore’, for-
mata da conci regolari, con angoli mata da elementi non lavorati o,
di 90° al massimo, spaccati

22- Muratura ‘da sbozzatore’, costituita da elementi che tendono alla


regolarità, pur non essendo riquadrati
Aurora Cagnana 61

mazzuolo: una mano percuote, l’altra aggiusta il tiro. I colpi non devo-
no essere perpendicolari, per non provocare onde di compressione che
non fuoriescono più dalla pietra, e ne rompono alcuni legami interni i
quali, col tempo, possono provocare nella roccia fratture parallele alla
superficie. È una lavorazione che procede gradualmente, con piccoli
colpi molto inclinati, tali da provocare fratture localizzate; ciascuno fa
partire una scheggia di pochi centimetri.
In cava il lavoro di sbozzatura poteva essere effettuato per regola-
rizzare i blocchi estratti (che comunque mantenevano superfici irre-
golari) ed eliminare spigoli troppo a rischio nei trasporti. Oppure pote-
va servire ad adeguare la geometria a quella del manufatto finale. In
cantiere venivano invece preparati tramite sbozzatura i blocchetti
lapidei da impiegare nelle murature a corsi orizzontali.
Rientrano in questa categoria i blocchetti costituenti le murature
che gli archeologi francesi definiscono petit e moyen appareil, a secon-
da delle dimensioni. Questo tipo di lavorazione era in uso sia in età
classica (opus reticulatum, e vittatum) sia in età medievale (cosiddet-
to ‘filaretto’).
In questo caso la lavorazione delle pietre doveva essere compito di
appositi ‘sbozzatori’ che dovevano disporre di materiale estratto da
cava, oppure di sistematiche raccolte di ciottoli, di grandezza ben sele-
zionata.

La squadratura è invece un’operazione assai complessa, che richie-


de una specializzazione artigianale maggiore. Permette di ottenere
blocchi, anche di grandi dimensioni, della forma di regolari parallele-
pipedi; la loro realizzazione necessita di apposite forniture di cava e
pertanto, a differenza delle prime due, non può essere effettuata su
materiale raccolto, soprattutto quando si tratta di grandi quantità.
Per la squadratura si usano per lo più strumenti a percussione indi-
retta, che consentono di praticare una scheggiatura localizzata; con le
rocce tenere si possono usare però anche strumenti a percussione
diretta.
Per la riquadratura delle pietre sono necessarie delle righe, con le
quali si misurano e si individuano le superfici, e delle squadre, indi-
spensabili per produrre elementi con angoli di 90°. Ciò spiega perché
proprio questi oggetti sono sovente rappresentati nelle lapidi funera-
rie di scalpellini. Questi ultimi dovevano evidentemente conoscere,
oltre ai caratteri delle rocce e all’uso degli strumenti, anche alcune
regole empiriche di geometria.
62 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

24- Successione delle operazioni necessarie per la riquadratura di un bloc-


co: realizzazione del primo spigolo con scalpello e mazzetta; traguardo
(dopo aver individuato il secondo spigolo con la squadra da 90°) per l’indi-
viduazione del terzo e quarto spigolo; spianatura della faccia così delimi-
tata (con punta, o gradina, o martellina); ribaltamento del blocco e indivi-
duazione del secondo spigolo della seconda faccia con la squadra da 90°
(disegno di Zanella 1999)

È significativo constatare come, nella terminologia usata per indi-


care le murature in conci squadrati, venga appunto sottolineato, in
ogni epoca, l’aspetto della regolarità geometrica: saxum quadratum è
infatti la definizione data da Vitruvio (De Arch. I,V, 8) e quadrato lapi -
de è l’espressione che ricorre in età medievale.
La squadratura di ogni singolo concio è una lavorazione piuttosto
lunga, che nelle rocce semidure o dure può richiedere anche sei-otto
ore di tempo. La prima operazione consiste nel realizzare il bordo
della prima faccia, usando scalpello e mazzuolo, in modo da ottenere
Aurora Cagnana 63

25- Una scena di cantiere, tratta da un manoscritto del XIII secolo, nella
quale sono raffigurati, alla base del muro in costruzione, alcuni scalpelli-
ni intenti a squadrare dei blocchi (da BINDING, NUSSBAUM 1978)
64 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

il tipico ‘nastrino’ di contorno. Il secondo bordo viene quindi scolpito a


90° rispetto al primo, servendosi di una squadra. Il terzo spigolo, che
deve essere ortogonale e complanare agli altri, viene individuato con
esattezza ponendo un’asticella di legno in orizzontale sul bordo già
pronto e ‘traguardando’ poi la superficie, cioè osservandola in posizio-
ne leggermente scostata, in modo che l’asticella guidi l’occhio nell’in-
dividuazione del punto giusto. La superficie verrà poi spianata con
altri strumenti: punta, oppure gradina, e mazzuolo. Una volta finito il
primo piano il blocco viene ribaltato per ottenere la seconda faccia: un
primo lato viene individuato con la squadra a 90°, mentre il secondo
lato della seconda faccia, oltre a essere ortogonale al primo, dovrà
anche essere parallelo al lato del primo piano. Le operazioni di rifila-
tura degli altri bordi e di spianatura delle altre facce procederanno poi
nello stesso modo.
La lavorazione più facile è, ovviamente, quella della faccia corri-
spondente al verso, mentre in quella coincidente con il ‘contro’ la
disponibilità della roccia a rompersi è assai minore.
Generalmente gli scalpellini preparavano i conci a piede del muro,
come attesta la documentazione scritta e iconografica, anche per
meglio collegare il loro lavoro con quello dei ‘posatori’, cioè dei mura-
tori che ponevano in opera le pietre; tuttavia non mancano casi in cui
la squadratura dei conci veniva operata già in cava, o comunque lon-
tano dalla zona del cantiere. Un simile procedimento è stato utilizza-
to per la fornitura dei blocchi ai cantieri di alcune cattedrali gotiche
del Nord della Francia. Lo hanno dimostrato specifiche ricerche,
dalle quali sono emersi singolari fenomeni di standardizzazione nelle
misure dei conci utilizzati sia per le murature, sia per i pilastri, sia
per le volte. Tale procedimento rendeva indipendente il lavoro degli
scalpellini e dei muratori, (che per la posa in opera erano talora gui-
dati da piante o schemi di montaggio), e, soprattutto, consentiva ai
lapicidi di lavorare anche durante i mesi invernali, quando il cantie-
re era fermo.

In definitiva, da quanto fin qui esposto, si comprende come lo stu-


dio delle opere murarie non possa essere disgiunto da quello della lito-
tecnica; l’aspetto esteriore dei muri, infatti, dipende strettamente dal
grado di lavorazione delle pietre e quest’ultima non è che il prodotto
finale di un ciclo produttivo, più o meno complesso, nel quale entrano
in gioco diverse figure artigianali, come è schematizzato nella seguen-
te tabella.
Aurora Cagnana 65

Cicli produttivi e gerarchie delle varie figure artigianali dell’arte della pietra
(da MANNONI, 1993)

6. Modanature e sculture

Lavorazioni più complesse sono alla base degli elementi più elabo-
rati: architravi, stipiti, cornici modanate, capitelli, rilievi, oppure vere
e proprie sculture a tutto tondo.
Gli strumenti necessari per la realizzazione di tali pezzi non sono
molto diversi da quelli utilizzati per l’estrazione e per la squadratura
delle pietre: scalpelli, punte, gradine e relativi percussori; la differen-
za è però costituita dalla loro vasta gamma dimensionale, necessaria
per ottenere anche i dettagli più piccoli.
Altri strumenti utilizzati per la scultura sono il tornio (impiegato
per la pietra a partire dal XVII secolo) e il trapano. Quest’ultimo era
già in uso nella preistoria, per forare vaghi (o perline) da collana: era
costituito da affilate punte di selce, opportunamente fissate su un’a-
sticciola che veniva fatta girare velocemente fra le due mani.
Sfruttando questo principio in età classica vennero realizzati il tra-
pano ad arco (o violino) e il trapano a corda, leggermente diversi per
il sistema di trasmissione del movimento. Entrambi erano infatti
costituiti da una punta fissata su un’asta; nel primo caso però il movi-
mento veniva prodotto arrotolando la corda attorno all’asta e muo-
vendo l’arco avanti e indietro; nel secondo, invece, il trapano era tenu-
to da un artigiano, mentre i capi della corda erano retti da un aiutan-
te e mossi velocemente avanti e indietro; questo sistema richiedeva
66 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

26- Tracciamento di un capitello corinzio sul pavimento antistante il


Mausoleo di Augusto a Roma (da HASELBERG 1994)

l’impiego di due persone anziché di una, ma permetteva una maggio-


re libertà di movimento. In età medievale venne introdotto il trapano
ad asta, costituito ancora da uno scalpello inserito su un’asta di metal-
lo o legno, ma azionato con una traversa inserita orizzontalmente,
mossa dall’alto verso il basso. Più tardi venne introdotta la cosiddetta
‘trivella gallica’, costituita da una manovella ad angoli retti, tenuta
con due mani.
Per la levigatura delle superfici si usavano invece raspe e materiali
Aurora Cagnana 67

abrasivi, come le arenarie e la pietra pomice; mentre la lucidatura


finale era generalmente ottenuta con abrasivi più fini, come l’ematite
macinata, detta anche ‘rossetto’.
Le tracce degli strumenti si possono riconoscere sia in opere incom-
piute, sia in quelle che presentano zone non finite, magari sul retro o
comunque nelle parti destinate a non essere viste.
In generale, nei lavori di scultura, la prima fase era eseguita con
punta grossa, tramite la quale si operava una preliminare aggressio-
ne della materia, per arrivare a una sbozzatura del pezzo. In una
seconda fase si procedeva a una definizione maggiore della forma, uti-
lizzando strumenti più fini (scalpelli a taglio diritto e rotondo, gradi-
ne, trapano) che asportavano piccole porzioni di materia. In una terza
fase si usavano strumenti a taglio ancora più piccolo, per rendere la
modellatura dei particolari. Nella politura, infine, la pietra, che aveva
raggiunto ormai le forme definitive, interessava soltanto come super-
ficie, e veniva progressivamente lisciata e lucidata, cancellando i segni
degli strumenti usati in precedenza.
Come nelle operazioni estrattive e nelle altre lavorazioni, i carat-
teri della roccia e dei piani di divisibilità, erano il presupposto fonda-
mentale per ogni scultore; di conseguenza la direzione in cui la lavo-
razione era maggiore veniva fatta coincidere con quella del ‘verso’.
Nelle rocce dure, come quelle magmatiche, silicatiche, (cfr. I.1.)
non è possibile realizzare una lavorazione di dettaglio, che dia il senso
del movimento: tali pietre sono state scelte quando si volevano otte-
nere opere scultoree caratterizzate da una notevole rigidità, e tali da
dare il senso della durata nel tempo; è il caso, ad esempio, delle sta-
tue dei faraoni dell’Antico Egitto o di quelle degli imperatori dell’età
tetrarchica, realizzate in granito o in porfido. La scelta di tale mate-
riale ben si prestava alle raffigurazioni frontali, più adatte a esprime-
re la ieraticità e il distacco dal mondo terreno dei personaggi-simbolo
del potere; meno interessava, evidentemente, la resa realistica dei
tratti del volto, impossibile da ottenere con tali rocce, che impedisco-
no di realizzare un distacco netto dal piano di fondo. La conquista
della raffigurazione umana realistica, con la scultura di età greca e
romana e, più tardi, gotica e rinascimentale, è necessariamente lega-
ta a un notevole sfruttamento delle rocce calcaree e dei marmi carbo-
natici, caratterizzati da una minore durezza.

Sia nell’antichità che nel Medioevo, o nelle epoche successive, i


lavori di scultura potevano avvenire in cantiere, oppure in apposite
68 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

botteghe, anche se non


mancano testimonianze
(soprattutto per l’età
romana) di lavorazioni
portate a uno stadio
assai avanzato già in
cava.
Numerose fonti ico-
nografiche attestano la
presenza di modanatori
e scultori intenti a pro-
durre elementi architet-
tonici o capitelli nei
pressi di un edificio in
costruzione, all’aperto o
protetti sotto apposite
tettoie.
Esistono anche sug-
gestive prove archeolo-
giche del loro operato,
quali i ‘graffiti di cantie-
re’: disegni tracciati sul
pavimento, oppure sulle
pareti, che riproducono
timpani, archi, capitelli,
27- La sagoma di mezza finestra gotica trac- elementi di finestre,
ciata in scala 1:1 sul pavimento della terraz- generalmente in scala
za superiore della cattedrale di Clermont- 1:1. Questi tracciamenti
Ferrand (da CLAVAL 1988) erano in uso sia in età
classica, come attesta
quello assai famoso rela-
tivo al cantiere del Pantheon, realizzato a terra, sia in età medievale,
come provano quelli celebri rinvenuti a Reims, su una parete. A
Limoges, Narbonne, Clermot-Ferrand graffiti in scala reale relativi a
profili di finestre, portali, guglie, pinnacoli, ed ad altri elementi archi-
tettonici modanati, erano stati riprodotti, sul pavimento della terraz-
za superiore, negli spazi rimasti liberi fra gli archi rampanti. È assai
probabile, come sostengono alcuni studiosi, che essi rappresentassero
il disegno di base sul quale venivano costruite le sagome lignee utiliz-
zate dai lapicidi.
Aurora Cagnana 69

28- Esempi di trapani da scultura: ad arco, ad asta, a corda e ‘trivella gal-


lica’ (disegno di Zanella 1999).

L’uso di modelli in argilla o in gesso era indispensabile per la scul-


tura a tutto tondo; ripensamenti, ritocchi, trasformazioni, impossibili
da realizzarsi con la pietra, erano invece permessi con questo genere
di materiali. Solo quando il modello era pronto poteva essere trasferi-
to nella pietra, con le stesse dimensioni o in scala maggiore. Era que-
sto un lungo lavoro che si basava su sistemi di misurazione tridimen-
sionali, necessari a riportare le proporzioni e le fattezze del modello
con precisione. Leon Battista Alberti, ad esempio, descrive un sistema
complesso per ricopiare il prototipo di una figura a tuttotondo, basato
su una ruota graduata, da porre sopra la statua, per poi misurare tutti
gli angoli e le distanze fra i punti salienti.
70 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

29- Uno scultore in atto di effettuare le scanalature di un sarcofago stri-


gilato, usando un trapano a corda azionato dal garzone (da ADAM 1989)

Esistevano però anche sistemi più semplici, basati su rapportatori


costituiti da ‘sonde’, posizionate su tre punti fissi di riferimento, in
base ai quali si trasferivano misure e proporzioni dal modello alla pie-
tra.
Spesso questa parte più ripetitiva del lavoro veniva eseguita da
apprendisti e aiutanti, mentre i ‘maestri’, dopo avere eseguito il
modello, si limitavano a completare le rifiniture e a curare i dettagli
dell’opera terminata. Rari erano gli artisti che, come Michelangelo,
non usavano modelli, perché dotati di una straordinaria capacità di
realizzare il progetto direttamente nella pietra.

7. Principali cause di degrado

Finché una roccia non viene scelta e prelevata dall’uomo, continua


a far parte della litosfera e, in quanto tale, resta sottoposta alle lente
Aurora Cagnana 71

trasformazioni geologiche e agli equilibri che regnano nella crosta ter-


restre.
È solo dopo la sua estrazione e il suo impiego nell’architettura che
inizia ad essere eposta a modificazioni molto veloci, dovute a vari
agenti antropici o naturali. Ciò equivale a dire che l’impiego di una
roccia dà avvio alla storia del suo degrado, e che tale processo risulta
inscindibile dalla storia di ogni edificio.

Lo studio del degrado dei materiali lapidei può essere di due tipi:
uno semplicemente descrittivo, finalizzato soprattutto a interventi
pratici e uno più propriamente conoscitivo, volto a comprendere le
cause dei vari tipi di degrado e a classificarne i vari agenti.
Per la descrizione degli effetti e della morfologia dei fenomeni di
degrado si utilizzano definizioni elaborate dal NORMAL, unicamente
allo scopo di unificare la termiologia e non per dare una spiegazione
delle cause dei vari tipi di degrado. Si consideri infatti che molti feno-
meni sono dovuti a un concorso di più cause, oppure che le stesse
cause sono all’origine di fenomeni diversi, pertanto è parso più utile
mettere a punto una classificazione basata sull’aspetto fenomenologi-
co del degrado, tale da aiutare gli operatori o gli studiosi a fornire una
descrizione universalmente riconosciuta.
Le definizioni Normal possono essere così suddivise:
1)Fenomeni che producono apporto di materiale estraneo, i quali
possono:
- non trasformare i materiali originali
- trasformare i materiali originali
2)Fenomeni che producono asporto di materiale originale
3) Fenomeni che non producono né asporto né apporto di materiale.

Il degrado per apporto, senza alterazione dei materiali originali


avviene nei casi seguenti:
- deposito superficiale di polveri (particellato atmosferico);
- concrezioni, formate per azione dei carbonati trasportati in solu-
zione dall’acqua e ridepositati in superficie. In questi casi l’acqua eva-
pora e i carbonati cristallizzano all’esterno della muratura; si tratta
perciò di un degrado essenzialmente estetico;
- macchie, dovute soprattutto alla vicinanza di metalli. Esse sono
originate dal deposito, nei pori superficiali, di idrossidi di ferro, o car-
bonati di rame, trasportati in soluzione dall’acqua, ma che non alte-
rano la roccia;
72 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

- la scialbatura, effettuata in passato per proteggere il materiale e


in particolar modo il marmo, può causare la formazione di pellicole di
carbonato di calcio;
- anche le patine organiche, non portano alterazioni. Sono dovute
alla presenza di proteine o di grassi (oli dati in passato, ad esempio,
oppure derivati dal grasso delle mani). In alcuni casi possono essere
pulite con solventi chimici, ma poiché non alterano i materiali, posso-
no anche essere lasciate sui monumenti, dei quali manifestano lo
spessore degli anni. Gli ossalati, ad esempio, di colore marroncino,
sono dovuti alla reazione del carbonato di calcio con l’acido ossalico.
Quest’ultimo costituisce il tipo più semplice di acido organico, ed è
molto stabile. La sua formazione può essere legata a tre tipi diversi di
cause: presenza di composti organici (proteine od oli protettivi) degra-
dati in ambiente atmosferico, al contatto con i carbonati; degrado di
licheni; presenza di ossalati dati nel secolo scorso come protettivi.

Nel degrado per apporto che causa anche alterazioni dei materiali
originali, rientrano invece i seguenti casi:
- formazione di patine biologiche (soprattutto in aree umide), costi-
tuite da colonie di batteri o da alghe monocellulari. La loro azione sul
materiale lapideo è molto lenta, mentre sono invece più dannose sui
legni;
- incrostazioni di licheni, funghi o muschi, che sono spesso causa di
aggressioni maggiori alle rocce, specialmente attraverso la soluzione
chimica di alcuni minerali, e in quanto trattengono le acque piovane;
- presenza di vegetazione costituita da piante superiori, dannosa
per la penetrazione delle radici nelle fratture;
- alterazione cromatica, che si verifica soprattutto su rocce carbo-
natiche e che è dovuta alla presenza di ferro non ossidato, che in
ambiente atmosferico si ossida e passa dalla colorazione grigia a quel-
la gialla-arancione-rossastra. È un fenomeno che interessa solo la
parte superficiale della pietra, per uno spessore di pochi millimetri;
- la solfatazione dei carbonati, è invece un pericoloso tipo di degra -
do chimico, riconoscibile dalla nota crosta nera, che si comporta come
una sorta di ‘spugna’ esterna la quale trattiene l’acqua e sintetizza
acido solforico, producendo solfato di calcio a spese del carbonato, con
grande velocità: si pensi che da un millimetro di carbonato si possono
formare anche 5 millimetri di solfato. Pertanto è ben diversa dalla
cosiddetta ‘patina del tempo’: è un vero e proprio laboratorio distrut-
tivo, che disgrega i materiali lapidei carbonatici. Il gesso (o solfato di
Aurora Cagnana 73

calcio biidrato) che si forma è inoltre un sale solubile e può produrre


danni se trasportato dall’acqua all’interno del materiale, e se ricri-
stallizza poi nei pori;
- le efflorescenze sono depositi superficiali di sali solubili traspor-
tati dalle acque circolanti nei muri;

Il degrado per asporto di materiale originale ha luogo nei seguenti


casi:
- quando l’alterazione chimica della roccia crea composti solubili,
come il bicarbonato di calcio, o asportabili, come i minerali argillosi,
l’acqua piovana provoca una corrosione delle superfici;
- quando certi vegetali, come i licheni, scavano con il tallo le rocce
carbonatiche, si verifica una corrosione puntiforme, chiamata pitting;
- se le acque circolanti nei muri depositano sali solubili all’interno
della roccia, disgregandola, il vento e la pioggia battente possono
asportare le particelle separate creando una alveolizzazione, o una
polverizzazione;
- i sali solubili o il gelo possono invece agire nelle microfratture
prodotte da sbalzi termici o da lavorazioni, creando esfoliazioni e sca -
gliature. Anche azioni meccaniche dovute all’uomo producono, per urti
violenti, delle mancanze di parti di roccia, o, per attrito, l’usura delle
superfici;
- il vento può provocare un’abrasione del materiale lapideo, la cui
gravità dipende anche dal tipo di roccia, o meglio, dalla resistenza dei
minerali che la compongono e dal tipo di aggregazione esistente fra i
cristalli (cfr.I.2.);
- gli sbalzi termici, come si è visto, possono produrre in certe rocce
una disgregazione che interessa lo strato superficiale: caratteristica è
quella dei marmi carbonatici che dà luogo al cosiddetto “marmo cotto”;
- qualsiasi degrado chimico o fisico con asporto di materiale origi-
nale può avvenire in modo differenziato, se la roccia presenta zone con
resistenza maggiore di altre al degrado stesso.

Il degrado senza asporto né apporto di materiale avviene, infine,


nei seguenti casi:
- fratturazioni, che possono essere prodotte da agenti fisici natura-
li o dall’uomo, senza che nulla venga asportato;
- rigonfiamenti dello strato esterno possono essere prodotti da per-
cussioni perpendicolari alle superfici, che causano microfratture inter-
ne, che con il tempo possono dare luogo a distacchi;
74 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

- deformazioni possono verificarsi con il tempo nei materiali litici


tagliati in lastre sottili ed esposti agli agenti atmosferici.

Più complesso è invece lo studio delle varie cause del degrado. Gli
agenti naturali possono provenire dall’ambiente atmosferico (come i
venti e le piogge) o dal sottosuolo (come le infiltrazioni d’acqua) e agi-
scono, rispettivamente, sulle coperture e sulle pareti, oppure sulle fon-
dazioni degli edifici.
Se si eccettuano gli agenti detti parossistici (frane, vulcani, terre-
moti, alluvioni, cicloni) che provocano distruzioni improvvise e che
possono essere contrastati soltanto da un’adeguata prevenzione, le
altre cause del degrado provengono, per lo più, da agenti che esercita-
no un’azione lenta, ma continua. Possono essere di tipo fisico, chimi-
co, biologico, e per comprendere come agiscono sui materiali lapidei è
necessario conoscere i caratteri delle varie rocce.
Esistono poi gli agenti antropici che possono essere lenti, come l’u-
sura, oppure avere un effetto violento, come gli incendi, le demolizio-
ni, i danni bellici di vario tipo.

Tra quelli naturali gli agenti fisici, rivestono un’importanza mag-


giore di quanto non si creda comunemente; anzi, si potrebbe forse
affermare che in molti casi la loro azione apra la strada al degrado
chimico consentendogli di penetrare più profondamente.
Il vento, cioè aria compressa che viaggia a forte velocità, non è in
grado di asportare parti di una roccia sana, ma solo materiale già
disgregato; per contro può alzare o spostare parti delle coperture.
Poiché ha un movimento parallelo al suolo, può sollevare granuli
duri e trasportarli a velocità anche elevate. Si calcola che i venti che
viaggiano a 80/100 km/h siano in grado di portare minerali della gran-
dezza di due millimetri. Fra questi il quarzo, presente in quasi tutti i
suoli, è fra i minerali più duri; se trasportato a lungo da forti raffiche
può consumare per abrasione le superfici esterne.
Il vento può inoltre favorire l’evaporazione dell’acqua circolante
nei muri creando disgregazioni di materia dovute alla cristallizzazio-
ne, dentro i pori, dei sali trasportati dall’acqua stessa.
Gli sbalzi termici, soprattutto se si ripetono senza interruzioni per
un’intera stagione, possono provocare microfratturazioni di alcune
parti lapidee, e particolarmente degli angoli. Ciò è dovuto al fatto che
il calore causa, in tutti i materiali, una leggera dilatazione (cfr. I.2.);
nelle zone d’angolo, però, quando scende bruscamente la temperatura,
Aurora Cagnana 75

viene dissipato con una velocità maggiore che altrove. Se ciò si ripete
per anni tali microfratture possono essere tali da favorire la penetra-
zione dell’acqua e quindi da provocare il distacco delle porzioni di pie-
tra corrispondenti alle zone più esposte alle differenze di temperatura.
Se agiscono su rocce costituite da minerali con un diverso indice di
dilatazione, nell’ambito dello stesso cristallo, gli sbalzi termici posso-
no provocare un degrado differenziato. Ciò accade, ad esempio, nei
marmi con venature grigie, dovute alla presenza di grafite (cfr. I.1);
una superficie di questo materiale può presentarsi disgregata nella
parte bianca, ma con le venature grigie in rilievo. Ciò è dovuto al fatto
che mentre i cristalli di calcite (che ha diversi indici di dilatazione)
possono venire staccati dagli sbalzi termici, la grafite (caratterizzata
invece da una dilatazione termica uguale in tutte e tre le direzioni
dello spazio) è in grado di resistere di più. L’aspetto assunto in segui-
to alla disgregazione per sbalzi termici viene definito dai cavatori di
Carrara ‘marmo cotto’.
I calcari a grana finissima resistono di più agli sbalzi termici a
causa della minore differenza di dilatazione dei singoli cristalli.
I fenomeni di gelo-disgelo sono all’origine di altri tipi di degrado
fisico, collegati all’azione dell’acqua. Poiché allo stato solido essa
aumenta leggermente di volume, se gela all’interno di una piccola
frattura, può provocare delle spinte che tendono ad aumentarne le
dimensioni. Talora la microporosità (sia essa naturale o dovuta alla
lavorazione o ad azioni di degrado) può generare fenomeni di gelività.

L’azione degli agenti chimici del degrado dà luogo a risultati diffe-


renti a seconda della composizione delle rocce.
La maggior parte di essi proviene dall’atmosfera, la cui composi-
zione naturale comprende: ossigeno (O2) prodotto dagli esseri vegeta-
li; anidride carbonica (CO2) emessa dai vulcani e dall’ossidazione di
combustibili e di sostanze organiche; azoto (N); idrogeno (H) e, nelle
fasce più esterne, ozono (O3), che tende a scindersi in ossigeno mole-
colare (O2) e atomico (O), molto attivo. Di fondamentale importanza
per il degrado chimico è l’anidride carbonica (CO2), che combinata con
acqua (H 2O) dà luogo all’acido carbonico (H2CO3).
L’acqua è l’agente di degrado più importante e pericoloso, sia a
livello fisico che chimico. In quest’ultimo caso può essere considerata
il più diffuso solvente che esista in natura. Oltre a favorire importan-
ti reazioni, (bicarbonatazione, solfatazione, deposito di sali), la sua
natura eteropolare è alla base di altri fenomeni: i legami idrogeno
76 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

delle sue molecole possono scomporre i composti ionici con i quali


viene a contatto.
L’azione dell’acqua è di tale rilevanza che neppure in natura esi-
stono rocce sane in superficie, ma sempre alterate.
Se presente nelle fondazioni, l’acqua può dare luogo a fenomeni di
risalita per capillarità, dovuti alla porosità, presente in tutti i mate-
riali da costruzione, eccetto il vetro. Tale meccanismo si verifica in
presenza di pori molto piccoli; in tal caso le polarità elettriche delle
molecole d’acqua vengono attratte da quelle di segno opposto presenti
nelle pareti dei pori e riescono a sollevare (anche per alcuni metri) un
piccolo volume d’acqua.
Infiltrazioni, falde del terreno, o inefficienti sistemi di smaltimen-
to delle piogge, possono causare una immissione costante di acqua
nelle fondazioni; in tal caso la risalita può superare anche i quattro
metri da terra. A tale altezza fuoriesce dalle pareti ed evapora depo-
sitando in superficie tutti i sali portati in soluzione. Questi ultimi
possono causare danni di lieve entità, soprattutto di carattere esteti-
co, come le efflorescenze. Se però l’evaporazione dell’acqua avviene in
maniera veloce, i sali trasportati cristallizzano non solo all’esterno
del muro, ma anche all’interno, provocando disgregazioni. Questo
fenomeno dà luogo ad alveolizzazioni, esfoliazioni, o distacchi di
materiale.

Nelle rocce carbonatiche l’azione chimica più importante è la bicar -


bonatazione. La pioggia, poiché contiene CO2, trasforma il carbonato
di calcio in bicarbonato, composto sul quale l’acqua esercita una velo-
ce azione solvente. Per rendersi conto dell’importanza di questo tipo di
degrado, basti pensare che tale fenomeno è lo stesso che produce il
carsismo. Pertanto tutti i materiali costituiti da carbonato di calcio, se
l’acqua non scorre ma ristagna, sono esposti, in caso di pioggia, a tale
degrado. Sempre questo fenomeno è causa, ad esempio, dell’asporta-
zione della frazione carbonatica delle ardesie, formate sia da argille
(silicati), sia da carbonato di calcio. Tuttavia la patina argillosa che si
viene a formare in superficie è in grado di proteggere dall’alterazione
i carbonati sottostanti. Infatti quando l’argilla viene attraversata dal-
l’acqua, lo strato più superficiale si satura; non è più in grado di rice-
verne e quindi agisce da impermeabilizzante. I tetti di ardesia non
vanno perciò inclinati troppo, in modo da evitare che l’acqua scorren-
te porti via lo strato superficiale di argilla, il quale permette alle sot-
tili lastre di durare anche cento o duecento anni.
Aurora Cagnana 77

I sali solubili che producono le efflorescenze possono essere disciol-


ti nel suolo, come i nitrati, o nei materiali stessi delle murature, come
i solfati. Nell’atmosfera si trovano anche radicali liberi (ad esempio di
cloro, nelle zone vicine al mare); la pioggia sulle rocce carbonatiche
può portare alla formazione di cloruro di calcio, ma si tratta di un
fenomeno molto lento, che tutt’al più agisce sulle tinte a calce.

Le rocce silicatiche sono invece soggette a un tipo particolare di


alterazione chimica, che viene definito ‘caolinizzazione’ (cfr. II.1). In
questo caso l’acqua agisce come solvente chimico sui feldspati; non è
in grado di sciogliere i legami covalenti che uniscono la silice e l’allu-
mina, e che sono molto resistenti, ma può asportare gli atomi di sodio
(Na) e di potassio (K), uniti agli atomi di ossigeno attraverso legami
ionici. Se una molecola di silicato cede un atomo di sodio o di potassio
e lo sostituisce con un ossidrile dell’acqua (OH), si forma un nuovo sili-
cato: la caolinite, un minerale argilloso, dotato di minore resistenza
meccanica (cfr. II.1).

La formazione della crosta nera non è dovuta ad agenti naturali,


ma all’inquinamento, che ha incrementato il fenomeno delle piogge
acide. Come è noto, l’atmosfera contiene quantità sempre maggiori di
CO2, prodotte dai combustibili, che sono per lo più generati da sostan-
ze organiche fossili. Oltre alla CO2 il carbone fossile e il petrolio emet-
tono nell’atmosfera anche eccessive quantità di zolfo, originato
anch’esso dalla fossilizzazione di antichi esseri viventi.
L’elevata quantità di CO2 dà luogo alla formazione di acido carbo-
nico (H2CO3), mentre l’anidride solforosa (SO 2), combinandosi con un
atomo di ossigeno,produce anidride solforica (SO 3). Quest’ultimo com-
posto può reagire con l’acqua e dare origine all’acido solforico (H2S04),
che è altamente corrosivo. Tale reazione non può avvenire, però, nel-
l’atmosfera, poiché, anche per produrla in laboratorio, è necessaria la
presenza di catalizzatori, costituiti per lo più da metalli. Dunque l’a-
cido solforico che attacca i materiali lapidei carbonatici, non può pro-
venire direttamente dall’atmosfera. La sua reazione col carbonato di
calcio produce il solfato di calcio biidrato (cioè il gesso), che di per sé è
bianco. Il colore nero della crosta sembra quindi essere dovuto alla
presenza di carbonio non ossidato e di metalli dovuti all’inquinamen-
to atmosferico. Pertanto la formazione dell’acido solforico non pare
avere origine sul materiale stesso, ma sembra favorita dai metalli, che
agirebbero da catalizzatori. Si è inoltre osservato che la formazione
78 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

della crosta nera non avviene nelle zone sottoposte alla pioggia bat-
tente; infatti l’azione fisica dell’acqua (che ha un peso di un chilo a
litro) asporta il solfato e impedisce il ristagno, il quale consente le rea-
zioni chimiche di solfatazione.

Tra i più comuni tipi di agenti biologici si trovano invece batteri,


alghe, funghi e licheni. Alcune specie di licheni sono dannose, soprat-
tutto per i carbonati; l’azione di altre specie, invece, si limita alla for-
mazione di patine superficiali (verdi, nere) che però non alterano
eccessivamente la materia.
Oltre a licheni ed alghe i materiali litici sono soggetti anche all’at-
tecchimento di muschi, muffe, piante erbacee e addirittura arboree.
Le piante superiori invece provocano problemi meccanici con il loro
ancoramento, dovuto alla penetrazione progressiva delle radici che poi
ingrossano producendo fratture.

8. Nota bibliografica

Alle rocce e alla loro estrazione e lavorazione viene dedicato ampio


spazio in vari manuali dedicati alla storia dei materiali da costruzio-
ne, come quello classico di DAVEY 1965, o i più recenti e aggiornati di
POLATI, SACCO 1990 e di MENICALI 1992 (il primo più incentrato sui
caratteri chimico-fisici e il secondo sugli aspetti storici). Per la classi-
ficazione genetica e composizionale delle rocce, oltre ai manuali cor-
renti di Scienze della Terra, è assai utile la lettura del breve saggio di
MANNONI 1986. Sui caratteri di durezza e tenacità, lavorabilità, resi-
stenza meccanica, peso specifico, indici di porosità, dilatazione termi-
ca, è ancora consigliabile la consultazione del classico manuale di lito-
logia applicata di CALVINO 1963. Sui litotipi utilizzati tradizionalmen-
te nell’edilizia in Italia si veda il volume di RODOLICO 1953.
Della vastissima bibliografia riguardante le attività estrattive
indichiamo qui solo alcuni dei lavori più utili per acquisire una cono-
scenza di base. Un panorama generale delle più antiche testimonian-
ze di coltivazione della pietra si può trovare in BROMEHEAD 1961; per
le cave dell’antico Egitto si vedano gli studi di ENGELBACH, CLARKE
1930; WAELKENS 1990; WAELKENS, HERZ, MOENS, 1992; per la Grecia
antica è ancora assai valido il testo di MARTIN 1965. Un esempio di dif-
fusione dell’opera quadrata di età ellenistica nel Mediterraneo occi-
dentale è stato magistralmente studiato da BESSAC 1980. Per l’epoca
Aurora Cagnana 79

romana, nel ricco panorama di lavori disponibili, si segnalano il


manuale di ADAM 1989 e il volume di PENSABENE 1995, dove si posso-
no trovare le notizie essenziali circa i caratteri tecnici e amministra-
tivi delle cave; per un maggiore approfondimento è invece utile con-
sultare BRAEMER 1986. Un corpus dei marchi di cava di Ostia e Roma,
fonte ricchissima di informazioni sugli aspetti amministrativi del
lavoro di estrazione, si trova in BACCINI LEOTARDI 1979. Fra i numero-
si contributi monografici dedicati allo studio di singole cave, si ricor-
dano inoltre: D’A MBROSI 1955, sul calcare di Aurisina (Trieste); DOLCI
1980 e L.T.MANNONI 1984 sul marmo lunense; LAMBRAKI 1980 sul
cipollino di Karysto; R AKOB 1993 sul ‘giallo numidico’ di Chemtou;
BESSAC 1996, sulle cave romane e tardoantiche dei calcari di Nîmes.
Un po’ meno numerose sono invece le ricerche che riguardano l’estra-
zione della pietra in età postclassica; si segnalano comunque i saggi di
WARD P ERKINS 1971, sull’età altomedievale, quello di MANNONI 1992
sulle cave medievali di Luni e di MANNONI, R ICCI 1992, sulla cava di
calcare bioclastico di S. Antonino di Perti; i sistemi di estrazione del
calcare di Nîmes in età medievale sono inoltre esaminati accurata-
mente nel citato volume di BESSAC 1996; sull’ardesia ligure si veda
infine SAVIOLI 1988. Più numerose sono invece le ricerche d’archivio
(atti notarili, capitolati di costruzioni, contabilità di cantieri) dai quali
sono stati ricavati dati sull’estrazione e la fornitura della pietra in età
medievale. Molti aspetti storico-economici dell’estrazione del marmo
di Carrara nel Medioevo sono trattati nella monografia curata dalla
KLAPISCH ZUBER 1969, sulla base di un’accurata analisi delle fonti
archivistiche e in particolare di quelle notarili. Un contributo più
recente è invece offerto, ad esempio, dal saggio di ALEXANDER 1995,
dove si esaminano le cave poste nel sud est dell’Inghilterra, che rifor-
nirono importanti cantieri come quello della cattedrale di Lincoln.
Per gli strumenti utilizzati nelle varie lavorazioni della pietra è
assai utile il manuale di ROCKWELL 1989, ma imprescindibile, per
chiunque voglia affrontare uno studio sulla litotecnica dell’antichità o
del periodo postclassico, è il repertorio raccolto in B ESSAC 1986, che
ricostruisce (sulla base di fonti dirette e indirette di vario tipo) la sto-
ria di tutti gli strumenti utilizzati nel bacino del Mediterraneo, dal-
l’antichità fino all’industrializzazione; per ciascuno di essi viene
descritto il modo di utilizzazione e vengono riprodotte le tracce lascia-
te sulla pietra. La trattazione è corredata da un diagramma cronologi-
co riassuntivo che evidenzia, per ogni strumento, l’epoca di apparizio-
ne e il periodo d’uso. Analoghi diagrammi sono stati elaborati su base
80 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

regionale; si veda M ANNONI 1993 per la Liguria e B IANCHI, PARENTI


1991, per gli strumenti attestati nel Medioevo in area toscana.
Una utilissima raccolta di tutte le fonti iconografiche relative al
cantiere di età medievale si trova in BINDING, NUSSBAUM 1978.
Per i problemi legati al trasporto molti dati si trovano nei testi più
sopra citati concernenti le fasi estrattive. Si segnalano comunque, fra
i lavori dedicati a situazioni specifiche, il volume di HEIZER FLEMING
1989, incentrato sui trasporti pesanti nell’ antichità; il saggio di
CHAPELOT 1975, sui cantieri borgognogni in età bassomedievale e quel-
lo di BOATO 1991, relativo all’edilizia genovese del XVI e XVII secolo.
Notizie sui problemi di trasporto in età medievale, soprattutto per
l’Italia centrale, si trovano in PARENTI 1995.
Circa le lavorazioni della pietra finalizzate alle opere murarie è
fondamentale la lettura del saggio di MANNONI 1997, dove si analizza
accuratamente il rapporto fra litotecnica e tessiture murarie.
Sulla standardizzazione nella produzione delle pietre squadrate (e
delle modanature architettoniche) in alcuni cantieri di cattedrali goti-
che, cfr. KIMPEL 1977.
Per le tecniche e gli strumenti usati dagli scultori, il manuale più
esaustivo è quello di ROCKWELL 1989. Per l’uso dei graffiti di cantiere
si vedano il saggio di HASELBERGER 1994, relativo al cantiere per la
costruzione del Pantheon; quello, sempre utile, di DENEUX 1925, sulla
cattedrale di Reims e il più recente studio di CLAVAL 1988, incentrato
sul cantiere della cattedrale gotica di Clermont-Ferrand.
Per il degrado dei materiali lapidei si vedano le pubblicazioni del
NORMAL, comitato nazionale formato dal CNR e dal Ministero per i
Beni e le Attività Culturali, per la normalizzazione delle analisi dia-
gnostiche sulla natura e sul degrado dei materiali lapidei.
Aurora Cagnana 81

II. I MATERIALI CERAMICI

1. L’argilla: l’unica roccia plastica

Le argille sono rocce sedimentarie clastiche, incoerenti (cfr. I.1.),


presenti in natura in grandi estensioni. La proprietà fondamentale,
che costituisce una caratteristica esclusiva delle argille è la plasticità
dopo un’opportuna bagnatura con acqua. Essa consiste nella capacità
di assumere una determinata forma, in seguito a una pressione, e di
mantenere tale forma anche quando la pressione viene a cessare. La
plasticità dell’argilla, che consente di foggiare vasi e vari materiali da
costruzione (mattoni, mattonelle, tegole, coppi ecc.) con misure e
forme prestabilite, è dovuta appunto alla struttura lamellare dei
minerali argillosi e ai legami di superficie che si vengono a costituire
fra loro.
I minerali argillosi appartengono al gruppo dei silicati e si for-
mano in seguito a un processo, definito caolinizzazione, di alterazio-
ne chimica di altri silicati, detti feldspati. Il termine deriva dalla
caolinite, uno dei più importanti minerali argillosi. I feldspati fanno
parte dei tectosilicati: nel loro reticolo cristallino ogni tetraedro è
collegato ad altri quattro attraverso i quattro vertici, e ciò da luogo
a una impalcatura tridimensionale. L’acqua piovana asporta dalla
struttura dei feldspati gli atomi di sodio (Na), potassio (K), calcio
(Ca) per sostituirli con ossidrili (OH). Ciò determina la formazione
di nuovi minerali definiti “silicati idrati di alluminio”, diversi dai
minerali di partenza. Essi presentano infatti una forma tabulare,
che permette di classificarli tra i fillosilicati (da fyllos = foglia). Tale
82 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

30- Struttura molecolare e abito cristallino di due diversi tipi di silicati:


un feldspato (a sinistra) e un minerale argilloso (a destra)

forma è dovuta al reticolo cristallino, caratterizzato dalla sovrappo-


sizione di strati di tetraedri di silice (SiO 2), strati di ottaedri di allu-
minio (Al 2O3) e strati di ossidrili (OH). L’alternanza di strati e inter-
strati si ripete periodicamente e caratterizza il reticolo cristallino
dei vari minerali argillosi, che si distinguono per lo spessore di stra-
ti e interstrati e per piccole differenze degli elementi che li costitui-
scono. I minerali argillosi presentano inoltre dimensioni piccolissi-
me, inferiori ai due micron, a causa del fatto che il processo di caoli-
nizzazione avviene contemporaneamente e in maniera diffusa su
ampie superfici; la ricristallizzazione in seguito all’azione dell’acqua
agisce perciò su piccole porzioni di materia, creando piccoli individui
cristallini.
I più frequenti minerali argillosi sono la caolinite, la montmorillo -
nite, l’illite.
Le argille diventano plastiche al contatto con limitate quantità
d’acqua, la quale penetra nei ‘pacchetti’ di cristalli piani e sostituisce
i suoi legami polari a quelli intercristallini dei minerali. Di conse-
Aurora Cagnana 83

guenza fa gonfiare i pacchetti e distacca i cristalli che rimangono


separati da cuscini d’acqua, i quali permettono loro di slittare gli uni
sugli altri. Se l’acqua è presente in quantità non troppo basse né
eccessive, le molecole mantengono la posizione che assumono, vale a
dire che il composto è plastico. Se invece l’acqua è eccessiva, la posi-
zione assunta non si mantiene, in quanto i cristalli si disperdono in
essa; se è insufficiente, gli slittamenti sono parziali.
Quando l’argilla secca, per evaporazione dell’acqua intercristalli-
na, i minerali argillosi, se hanno ancora legami liberi, si legano fra
loro e formano pacchetti ormai privi di plasticità, ma rigidi, e dota-
ti di una certa resistenza alla compressione. Per tornare plastici
devono essere messi nuovamente a contatto con opportune quantità
d’acqua.
Esiste un sistema empirico di valutazione della giusta plasticità
dell’argilla, che consiste nel plasmare un salsicciotto e piegarlo poi di
180°; se si strappa l’argilla non è sufficientemente plastica, se invece,
dopo essere stato piegato, non mantiene la stessa posizione, significa
che l’argilla è eccessiavamente plastica, cioè troppo ricca di acqua
intercristallina.
Un’altra importante caratteristica è l’impermeabilità. Essa è dovu-
ta al fatto che lo strato superficiale dei minerali argillosi, dopo esser-
si saturato di acqua per imbibizione, non ne riceve più e protegge quel-
li sottostanti. È facile notare, dopo le piogge, la presenza, nei terreni
molto argillosi, di uno strato superficiale scivolosissimo, sotto il quale,
però, dopo alcuni centimetri, il terreno è asciutto. È questa caratteri-
stica di impermeabilità che ha sempre fatto dell’argilla cruda un buon
materiale da costruzione.
Altre caratteristiche importanti sono quelle termiche: la refratta -
rietà, vale a dire la possibilità di resistere a temperature elevate
(950°-1100°) senza deformarsi; la bassa conducibilità, ovvero i tempi
di accumulo e di restituzione del calore. Il grado di refrattarietà può
essere ulteriormente alzato con aggiunta di altri componenti ricchi di
silice, come ad esempio il quarzo, composto che ha un alto punto di
fusione (1710°); la conducibilità può invece essere abbassata con
aggiunta di calcite e plagioclasi.
L’argilla, essiccata, presenta anche una buona resistenza mecca -
nica, dovuta al fatto che i minerali, come si è visto, sono di dimen-
sioni ridottissime e i legami intercristallini sono molti, dato il forte
sviluppo delle superfici dei cristalli stessi, in rapporto al volume di
argilla.
84 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

2. Terre alluvionali e caolini

Occorre ricordare che tutti i minerali argillosi sono bianchi, ma i


sedimenti di argille si trovano, in natura, generalmente colorati (gial-
lo, grigio, rosa, rosso) e molto raramente bianchi. Ciò è dovuto alle
diverse modalità di formazione dei sedimenti; solo le argille dette pri -
marie o residuali, sono caratterizzate dal colore bianco. Si tratta,
infatti, di depositi (dovuti alla caolinizzazione di rocce contenenti feld-
spati e prive di ferro) che non hanno subito un trasporto, ma che sono
rimasti, nel luogo stesso di formazione, sulla roccia madre. Fanno
parte di queste i caolini, che sono piuttosto rari in natura. La maggior
parte dei depositi argillosi è invece costituita da sedimenti alluviona-
li, o lacustri o marini, formati cioè in seguito al trasporto dei minera-
li argillosi dalla roccia madre in nuovi bacini di sedimentazione.
I cristalli che formano i minerali argillosi sono polari, cioè hanno
cariche residue periferiche, pertanto se durante il trasporto essi ven-
gono portati in sospensione nell’acqua, (cosa resa possibile dalle ridot-
te dimensioni) si combinano facilmente con ioni di ferro o manganese

31- La sedimentazione alla foce di un fiume: successione di livelli sabbio-


si (1) livelli sabbiosi più fini (2) deposizioni limose (3) e argillose (4) (da
CUOMO DI CAPRIO 1988)
Aurora Cagnana 85

e, una volta ridepositati, danno luogo a giacimenti argillosi colorati:


giallo, arancio, rosso o violaceo, a seconda del metallo presente. In
natura le argille alluvionali, colorate, sono molto più frequenti di quel-
le prive di ferro, cioè dei caolini. Quando sono ricche di certi metalli,
le argille prendono il nome di “terre” e possono essere usate come colo-
ranti (cfr. IV.1.). Per contro solo quelle prive di metalli coloranti hanno
la proprietà di “cuocere in bianco”, poiché i minerali argillosi, che di
per sé sono bianchi, lo restano anche cuocendo. Se invece nelle argille
si trovano anche ossidi metallici, (di ferro o di manganese) in cottura
assumono, in modo particolare, una colorazione viva.
Le argille, sia primarie che alluvionali, hanno anche uno scheletro,
costituito da feldspati non alterati e da minerali non soggetti all’alte-
razione, quali quarzo, miche, e, in certi casi, anche carbonato di calcio.
I sedimenti argillosi utilizzabili per foggiare manufatti ceramici
devono contenere almeno il 40% di minerali argillosi. Insieme ad essi
e allo scheletro si trovano anche sostanze organiche (resti vegetali,
humus); le terre agricole, molto organiche e con pochissimi minerali
argillosi, sono inadatte alla realizzazione di manufatti.

3. L’estrazione, la preparazione, la foggiatura

Le argille sono rocce incoerenti, la cui estrazione non è particolar-


mente complessa, anche perché la pezzatura della materia prima non
riveste alcuna importanza per le lavorazioni successive. Un sistema
usato nelle regioni fredde è quello dell’ibernazione, che consiste nello
sfruttamento delle crepature che si formano a causa del fenomeno di
gelo-disgelo.

Affinché un’argilla sia lavorabile è necessario che ci sia un giusto


rapporto tra scheletro e minerali argillosi, dato che questi ultimi, da
soli, non si possono foggiare, in quanto sono troppo plastici e il pro-
dotto che ne deriverebbe avrebbe un ritiro eccessivo in seguito all’es-
siccamento e alla cottura. La granulometria del dimagrante, inoltre,
va messa in rapporto con il prodotto che si vuole ottenere: per i lateri-
zi o le tubature, ad esempio, la presenza di uno scheletro troppo gros-
solano non va eliminata; se invece si vogliono ottenere prodotti più fini
(mattonelle, laggioni, ceramiche da mensa), è necessario operare una
“decantazione” in apposite vasche.
Per poter foggiare l’argilla è comunque indispensabile conferirle la
86 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

giusta plasticità; ciò si può ottenere attraverso due sistemi: uno è


quello della macerazione, che consiste nel tenerla a lungo in mucchi,
continuando ad aggiungere piccole quantità di acqua. Questa tecnica
era molto usata in Cina per produrre la porcellana; il caolino veniva
fatto macerare anche per due anni, in ambienti umidi, in modo da far
penetrare lentamente l’acqua necessaria, in tutti i pori. Un altro
sistema consiste nella manipolazione, con graduale aggiunta di acqua,
in modo da accelerarne la penetrazione.
Il grado di plasticità dell’argilla dipende anche dalla quantità di
minerali argillosi presenti in un sedimento: qualora essa sia eccessi-
va, l’impasto dovrà essere dimagrito con l’aggiunta di altro scheletro,
costituito generalmente da sabbia.
Infine le argille vanno depurate della eventuale presenza di
sostanze organiche, che altrimenti, bruciando in cottura, lascerebbero
dei vuoti e aumenterebbero la porosità dei prodotti; nei mattoni ciò
ridurrebbe anche la resistenza alla compressione.

La modellazione dell’argilla, a differenza della lavorazione della


pietra, è una tecnica ‘a mettere’, cioè basata sulla possibile aggiunta
di materiale e sulla progressiva modificazione della forma. Pertanto la
modellazione avveniva soprattutto con le mani, aiutate da spatole di
varie dimensioni. Nel più complesso lavoro di foggiatura dei conteni-

32- Depurazione di un’argilla tramite decantazione in acqua corrente (da


CUOMO DI CAPRIO 1988)
Aurora Cagnana 87

tori ceramici era invece utilizzato il tornio, lento oppure veloce, cioè
azionato da un pedale.
I mattoni, le mattonelle, le tegole e i coprigiunti (o ‘coppi’) e i mat-
toni sagomati venivano invece foggiati a stampo, utilizzando appositi
telai di legno, privi del fondo, in modo da agevolare l’estrazione del-
l’oggetto modellato. L’impasto di argilla veniva premuto a mano entro
lo stampo e la superficie superiore veniva poi spianata. Per la produ-
zione di tegole occorreva applicare due fasce di argilla lungo i lati lun-
ghi, premendole e modellandole poi a mano in modo da ottenere le
‘alette’ laterali rialzate. I ‘coppi’ erano invece ottenuti appoggiando le
lastre rettangolari di argilla su un pezzo di legno semicilindrico, dal
quale prendevano la forma.
I laterizi decorati erano ottenuti attraverso stampi o matrici in
ceramica, che recavano il disegno in negativo.

Una volta foggiato, il prodotto doveva essere fatto essiccare in


ambienti asciutti, ma necessariamente all’ombra: mai al sole (contra-
riamente a quanto spesso si legge), perché ciò avrebbe provocato un

33- Il banco per la formatura a mano dei mattoni, effettuata utilizzando


un ‘mucchio’ di argilla precedentemente preparata (da MENICALI 1992)
88 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

34- Vari tipi di cassette lignee, prive del fondo, usate per la foggiatura di
mattoni di diverse forme (da MENICALI 1992)

ritiro differenziato tra le parti esterne e quelle interne, e avrebbe cau-


sato crepature nel prodotto.
Con l’essiccazione l’argilla perde l’acqua posta fra le microlamelle,
detta di imbibizione, che evapora, e subisce pertanto un ritiro di volu-
me. Tale acqua, necessaria -come si è scritto- per conferire la plasti-
cità dell’argilla, ne causa infatti un aumento di volume fino al 30%;
aumento che può però essere limitato (entro il 15%) dalla presenza
dello scheletro. In seguito all’essiccazione i pacchetti di minerali argil-
losi, compattati fra loro, consentono al materiale di raggiungere una
discreta resistenza alla compressione, non diversa da quella di certe
malte.
La perdita dell’acqua di imbibizione è un processo reversibile, in
quanto essa può essere nuovamente addizionata all’argilla.
Aurora Cagnana 89

4. L’utilizzo dell’argilla cruda nelle costruzioni: il pisé e l’adobe

Le buone caratteristiche di impermeabilità e di resistenza alla


compressione dell’argilla essiccata, ne spiegano l’abbondante uso
come materiale da
costruzione. Le tecni-
che di impiego sono
due: l’adobe (dall’ara-
bo ‘at tub’=zolla),
ovvero la produzione
di mattoni crudi,
essiccati per alcune
settimane prima

35- Formatura a mano di coppi


e tegole (da MENICALI 1992)

36- Operazioni di formatura a mano di


elementi per la decorazione architet-
tonica templare: foggiatura del proto-
tipo; creazione della matrice con i
motivi decorativi in negativo; forma-
tura a stampo della copia e sua colora-
zione (disegno di Zanella 1999)
90 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

della posa in opera, e il


pisé. Quest’ultimo sistema
(dal francese = schiacciato)
consiste nel costruire cas-
soni lignei entro i quali
viene compressa dell’argil-
la umida, non troppo fine,
ma piuttosto ghiaiosa; una
volta tolte le casseforme,
resta un grande blocco, che
seccando indurisce; la
costruzione della muratura
procede pertanto a blocchi
sovrapposti. Benché opere
di questo tipo fossero in
grado di resistere anche
senza intonaco, general-
mente si preferiva proteg-
gere la superficie dei muri
con un rivestimento di
argilla cruda, mista a
37- Realizzazione di un muro in pisé paglia tritata. Questo tipo
(da ADAM 1989) di intonaco, usato ancor
oggi in Marocco, è menzio-
nato già da Vitruvio (De
Arch. II,3), che lo definisce torchis, (da torquere= spezzettare).

L’uso dell’argilla per pareti ad armatura vegetale è attestato fin


dalla Preistoria, ma è a partire dal terzo millennio a.C. che, in
Medioriente e in Egitto, questo materiale viene impiegato per realiz-
zare la struttura portante dei muri. Dalla fine dell’età del Bronzo
opere realizzate interamente in terra cruda sono attestate anche nel
Mediterraneo occidentale (Marocco, Andalusia, Aragona, Catalogna,
Francia meridionale, Italia del centro-sud). Pressoché sconosciute
nell’Europa temperata, almeno fino all’età romana, la tecnica del pisé
e quella dei mattoni crudi risultano impiegate, sulle coste del
Mediterraneo, anche per tutta l’Età del Ferro. In Grecia la costruzio-
ne di murature in argilla è documentata con continuità fino all’epoca
bizantina. L’importanza rivestita dalla produzione dei mattoni crudi
emerge, oltre che dalle prove archeologiche, anche da numerose fonti
Aurora Cagnana 91

38- Resti di muratura in adobe, dagli scavi della città romana di Lepida
Celsa, presso Saragozza

letterarie ed epigrafiche: ad Eleusi, ad esempio, l’amministrazione del


santuario provvedeva all’acquisto della terra e controllava le opera-
zioni di preparazione dell’argilla e di formatura dei mattoni. Anche in
età romana l’ampio utilizzo di queste tecniche è provato sia dai dati
archeologici sia dalle fonti letterarie: Plinio, descrivendo i muri in pisé
(parietes formacei), ne sostiene la durata “nei secoli”, e ne ricorda la
diffusione, ai suoi tempi, in Africa e nella penisola iberica (Nat. Hist.
XXXV, 48). Informazioni anche maggiori riguardano i mattoni crudi (o
lateres) la cui produzione viene descritta da Vitruvio con abbondanza
di particolari (De Arch. II, 3) e ricordata da molti autori successivi,
fino alla tarda antichità; il fatto che nell’editto dei prezzi di
Diocleziano (302 d.C.) venga fissato il compenso per i produttori di
mattoni crudi costituisce una prova ulteriore del loro ampio utilizzo in
tutto l’Impero.
Murature “de loto” (= di fango) sono ricordate in numerosi testi
scritti di età altomedievale, epoca in cui esse dovettero essere usate
non solo per le case, ma anche per le fortificazioni e per le chiese.
92 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Edilizia abitativa in pisé e in adobe è inoltre documentata per tutta


l’età Medievale e postmedievale, sia sulle coste del Mediterraneo, sia
nelle regioni dell’Europa temperata: resti archeologici di edifici con
muri in argilla su bassi zoccoli di pietra, databili al XII-XV secolo, sono
stati posti in luce da scavi archeologici in Inghilterra, in Germania, in
Francia, in Italia. In Marocco la tecnica del pisé registra una straordi-
naria continuità fino ai giorni nostri, essendo ancora utilizzata per
costruire monumentali edifici a più piani.
Meno noti sono altri casi di lunga durata della costruzione di muri
di terra, come quello della pianura alessandrina, dove si conservano
numerosi edifici abitativi e annessi rustici realizzate sia in pisé, sia in
mattoni crudi, che sono stati oggetto, in anni recenti, di accurate inda-
gini archeologiche. Lo studio delle date scritte e dei reperti ceramici
rinvenuti all’interno dei muri ha provato che le costruzioni più anti-
che risalgono al XVII secolo e si trovano ancora in buono stato di con-
servazione; si è registrato, infatti, che lo strato esterno delle muratu-
re non protette si è ridotto di circa 10 centimetri in un periodo di oltre
quattro secoli. Questi dati aiutano a comprendere perché gli autori
antichi apprezzassero tanto le opere in argilla, attribuendo loro una
durata anche maggiore di quelle in blocchetti lapidei.
È forse sulla base di simili osservazioni che il celebre architetto
Cointeraux propose, alla fine de XVIII secolo, l’utilizzo del “nouveau
pisé”, da realizzarsi con presse meccaniche, per la costruzione di case
rurali economiche e di qualità. Benché l’idea dell’architetto lionese
(regione in cui il pisé era allora ampiamente diffuso) non abbia pro-
dotto il successo sperato, la pubblicazione della sua opera, nel 1793,
costituisce comunque una fonte preziosa di informazioni per la cono-
scenza di questo antichissimo materiale da costruzione.

5. La cottura

Anche se l’utilizzo della terra cruda ha rivestito un’importanza sto-


rica notevole, l’impiego maggiore dell’argilla è però avvenuto in segui-
to alla cottura, operazione attraverso la quale l’oggetto foggiato perde,
in maniera irreversibile, la sua plasticità e diventa un prodotto cera-
mico. Secondo la studiosa Cuomo di Caprio, la fase della cottura era “il
banco di prova dell’intero ciclo di lavorazione” dell’argilla, dato che ogni
manufatto “soltanto quando esce dalla fornace diventa corpo ceramico,
solido, dotato di tali caratteristiche di resistenza da sfidare i secoli”.
Aurora Cagnana 93

Gli ambienti destinati alla cottura erano le fornaci: costruzioni


spesso molto modeste, ma realizzate sempre in modo da garantire il
migliore funzionamento in termini di calore prodotto e di tiraggio. La
loro introduzione ha sostituito, (in tempi diversi a seconda delle regio-
ni e dei contesti storici) l’uso dei più rudimentali “forni all’aperto”, in
cui i manufatti, posti a contatto diretto col combustibile incandescen-
te, presentavano, dopo la cottura, chiazze di colori diversi, dovute alla
disomogenea distribuzione dell’ossigeno e della temperatura.
Se si eccettuano alcune esperienze di età micenea, l’introduzione
di vere e proprie fornaci avvenne, in Grecia e in Etruria, nell’Età del
Ferro. Divenute costruzioni fisse, esse assunsero forme e tipologie
svariate, ma contraddistinte da alcune caratteristiche funzionali
costanti; in primo luogo la presenza di una camera di cottura sepa-
rata dal combustibile, nella quale penetravano i prodotti di combu-
stione (gas caldi, fumi, fiamme), attraverso un sistema di tiraggio,
ossia di circolazione dell’aria comburente. In genere le fornaci veni-
vano costruite entro una fossa, in modo che il piano di combustione
risultasse seminterrato. Tale accorgimento consentiva di resistere ai
fortissimi sbalzi di temperatura (che in una sola settimana poteva
raggiungere i 900°C/1000°C e poi tornare a quella ambiente) e impe-
diva inoltre che una parte del calore venisse dispersa per dissipazio-
ne. Oltre ad aumentare l’isolamento termico la costruzione semin-
terrata permetteva anche di ridurre la manutenzione dei muri in
elevato.
La documentazione archeologica ha dimostrato l’ampia diffusione
di un tipo di forno caratterizzato da una pianta ‘a otto’, attestato
anche per la produzione della calce o del vetro (cfr. III.4. e V.3.).
Per garantire il passaggio del calore veniva scavata nella parte
antistante una fossa più piccola, chiamata dai romani ‘prefurnium’,
che corrispondeva a uno dei due cerchi dell’’otto’. La strozzatura esi-
stente tra il prefornio e la camera di combustione produceva l’effetto
di un mantice, dato che, per la legge di Bernulli, i gas aumentano la
loro velocità se nel percorso incontrano una strettoia che li comprime,
e ne accresce la pressione. Si può dunque affermare che i fornaciai del
passato applicassero empiricamente una precisa legge fisica, molti
secoli prima che la scienza moderna ne fornisse le spiegazioni.
In questo sistema, detto ‘a fossa’, la camera di combustione veniva
a trovarsi nella parte più bassa, mentre il materiale da cuocere veni-
va collocato nella parte superiore, dove la temperatura raggiungeva i
massimi valori. La presenza del prefurnium, della strozzatura e del-
94 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

39- Fornace per laterizi di epoca romana (da MC WHIRR 1979)


Aurora Cagnana 95

l’apertura nella parte alta del forno garantivano perciò un ottimo


tiraggio e consentivano una buona cottura.

Già a 600°C il materiale argilloso abbandona la plasticità in


maniera irreversibile; infatti questa temperatura causa la perdita del-
l’acqua che fa parte dei cristalli dei minerali argillosi; si determina
cioè un cambiamento chimico dell’argilla, che muta radicalmente la
sua struttura: essa diviene un materiale non più cristallino, ma orga-
nizzato in maniera disordinata, e definito ‘argilloide’.
Alzando ancora la temperatura (tra gli 800°C e i 900°C) la silice e
l’allumina si riorganizzano in nuovi silicati (di calcio, ad esempio),
simili a quelli che costituiscono alcune rocce magmatiche; questa tra-
sformazione fa ritirare ulteriormente l’impasto che diventa più rigido,
più resistente e meno poroso; ciò causa anche l’annerimento dei pro-
dotti argillosi.
A temperature ancora superiori comincia la fusione del quarzo,
ovvero i prodotti ceramici subiscono una semivetrificazione, mentre
l’argilla si compatta e perde ulteriormente volume. È questo il caso dei
mattoni scuri la cui presenza si osserva non di rado nelle murature o
nelle pavimentazioni di età medievale e postmedievale. Lo studio
della documentazione archivistica genovese ad esempio, ha permesso
di capire che tali mattoni più scuri, molto cotti, venivano definiti, nei
capitolati di costruzione dal XVI al XVIII secolo, ‘ferrioli’; i censori
della Repubblica di Genova avevano stabilito che per tali laterizi si
pagasse un prezzo più alto che per gli altri, proprio perché erano più
impermeabili e resistenti.
Temperature ancora maggiori danno luogo alla fusione del prodotto
ceramico, che perde definitivamente la propria forma. Quest’ultimo caso
avveniva di frequente in passato, per la non omogeneità termica delle
fornaci; in generale però i ceramisti erano in grado di controllare la tem-
peratura ottenuta nella camera di combustione attraverso strumenti
empirici, come il colore raggiunto dai prodotti, procedimento definito nel
gergo dei fornaciai “cuocere al rosso”, “cuocere al bianco”, ecc. Ciò per-
metteva loro di intervenire sul processo di cottura aumentando la quan-
tità di combustibile oppure regolando le aperture dei tiraggi.

Una grande trasformazione nella produzione dei laterizi è stata


portata dall’introduzione delle fornaci Hoffmann, avvenuta nel secolo
XIX. Questo tipo di impianti venne studiato e messo a punto per supe-
rare i limiti delle fornaci tradizionali e cioè la dispersione del calore e
96 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

40- Pianta, sezione e schema di funzionamento di una fornace Hoffmann:


la zona del fuoco è situata nelle camere 12 e 13; i nuovi mattoni da cuoce-
re sono posti nella 4; quelli già cotti vengono scaricati dalle camere 5 e 6.
L’aria entra dalla zona 4, raffredda i laterizi cotti delle camere 5 e 6 riscal-
dandosi essa stessa; aumenta perciò la resa termica delle camere 12 e 13;
quindi passa a preriscaldare i mattoni crudi posti nelle camere da 14 a 3
(da MENICALI 1992)
Aurora Cagnana 97

il funzionamento ‘intermittente’, ovvero basato sulle quattro fasi di


carico, cottura, raffreddamento e scarico. Le fornaci Hoffmann furono
il primo tentativo di realizzare un ciclo di produzione ininterrotto e
senza spreco di calore. Erano formate da una galleria anulare conti-
nua, che costituiva un grande canale di cottura, diviso in celle per
mezzo di paratie. La cottura si sviluppava in due vani per volta, ubi-
cati in posizione opposta alla zona di carico, che era invece adiacente,
ma separata da quella di scarico. L’aria entrava fredda nella cella con
i mattoni appena cotti, li raffreddava e si surriscaldava lei stessa, in
modo che, una volta raggiunte le celle di cottura, ne aumentava la
resa termica; infine fuoriusciva per preriscaldare le stanze dove si tro-
vavano i laterizi crudi. La zona di cottura veniva continuamente spo-
stata e così le altre di carico, scarico, ecc. Questo sistema era in grado
di produrre dai 15000 ai 20000 laterizi in 24 ore.
Le fornaci Hoffmann sono state successivamente sostituite dai
forni a tunnel, a fuoco fisso.

6. Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici

I prodotti ceramici presentano una grande varietà e vengono clas-


sificati in base al tipo di argilla, alla presenza o meno di rivestimento
e ai caratteri di quest’ultimo. Prima di analizzare i manufatti usati
nell’architettura, è perciò necessario premettere una classificazione
tecnologica di tutti i tipi ceramici, basata, per lo più, su caratteri visi-
bili macroscopicamente.
La prima distinzione riguarda l’impasto che può essere bianco o
colorato, in relazione, come si è scritto, alla presenza o meno di ossidi
metallici nell’argilla. In secondo luogo i corpi ceramici (bianchi o colo-
rati che siano) possono essere porosi oppure impermeabili.
La porosità è dovuta alle caratteristiche del corpo argilloso, che, se
viene cotto a temperature non eccessive, non raggiunge la semifusio-
ne degli impasti. In tal caso, per ottenere l’impermeabilità, è necessa-
rio aggiungere un rivestimento. Quest’ultimo (detto anche coperta)
veniva applicato sia per scopi estetici, sia per motivi di funzionalità.

Le ceramiche a corpo colorato, poroso, che non ricevono alcun rive-


stimento, vengono definite ‘nude’ (grezze o depurate a seconda della
granulometria dell’inerte) o ‘terrecotte’. Una sorta di impermeabilità
può essere ottenuta lisciando a crudo la superficie, oppure pennellan-
98 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

dola con un ulteriore strato di argilla fine, molto diluita. Queste ope-
razioni consentono di aumentare la resistenza all’acqua e di ridurre la
porosità esterna, dopo la cottura.

-Classificazione tecnologica dei prodotti ceramici

La maggior parte dei prodotti ceramici utilizzati nelle costruzioni


(mattoni, tegole, coppi, terrecotte architettoniche) appartiene a questa
categoria.
L’ingobbio (dal francese engobe) è il tipo di rivestimento più antico,
essendo noto già nella Preistoria. Veniva realizzato con un materiale
della stessa natura del corpo ceramico, vale a dire con argilla, più
diluita e depurata di quella con la quale era stato foggiato il vaso.
Pertanto di per sé non attribuiva l’impermeabilità, ma soltanto se era
lisciato o lucidato poteva rendere il vaso meno poroso.
I greci usarono per primi, su vasi di argilla rossa, un tipo di ingob-
biatura bianca, a base di caolino, stesa su coppe (kylikes) o su vasi a
forma chiusa (lékitoi) allo scopo di ottenere superfici bianche, da deco-
rare con vivaci policromie.
Nel Medioevo l’ingobbio bianco a base caolinica veniva steso, sem-
pre su corpi ceramici rossi, sotto al rivestimento vetroso, per fare
risaltare meglio la decorazione policroma presente nella vetrina.

La vernice sinterizzata non va confusa con la vetrina, è infatti


costituita anch’essa da un’argilla, che prende il nome di barbotina, e
che veniva depurata fino a ottenere una eliminazione totale dello
scheletro, lasciando solo i minerali di grandezza inferiore al micron,
ricchi di ioni di ferro. Una volta stesa (a pennello o a immersione) sul
Aurora Cagnana 99

vaso essiccato, la cottura doveva raggiungere temperature tali da sin-


terizzare i minerali della vernice stessa, ovvero a portarli a una tem-
peratura compresa fra gli 800°C e i 900°C, in seguito alla quale la
barbotina cambiava colore. Essa poteva assumere un rosso corallino
(dovuto alla trasformazione del ferro delle argille in ematite, o ossido
ferrico; Fe2O3), oppure nero, (dovuto alla trasformazione del ferro
delle argille in magnetite, o ossido ferroso-ferrico FeOFe2O3). La
varietà di tale esito dipendeva dal tipo di cottura, che, se ossidante,
dava luogo alla formazione dell’ossido ferrico, se riducente, dava ori-
gine alla magnetite. In altre parole le barbotine sinterizzavano nel
senso che il ferro si riorganizzava in cristalli lucenti di magnetite
oppure di ematite. L’abilità dei ceramisti consisteva nel saper control-
lare l’atmosfera di cottura, ovvero la quantità di ossigeno presente nel
forno ad alte temperature. Le superfici esterne dei vasi acquistavano
così una lucidità che le rendeva riflettenti e impermeabili, anche in
assenza di un vero e proprio rivestimento vetroso.
Queste tecniche erano già conosciute dai Cretesi e dai Micenei, ma
vennero particolarmente perfezionate dai greci di età storica. Se è
relativamente facile comprendere come si potessero ottenere superfici
interamente rosse o interamente nere, attraverso i meccanismi
descritti, più difficile è riuscire a capire come si ottenessero superfici
con due diverse colorazioni, vale a dire come si producessero i vasi a
figure nere su sfondo rosso, oppure i famosi vasi attici a figure rosse
su sfondo nero, nei quali era evidente una perfetta padronanza di que-
sto tipo di tecnica. Di recente si è compreso che i ceramisti greci del-
l’età classica giocavano molto sui diversi tipi di cottura (ossidante e
riducente) applicati su uno stesso vaso; per poterla controllare meglio
cuocevano un vaso per volta. Se si cercava il fondo rosso, si faceva una
prima cottura ossidante e quando questa era ultimata si dipingevano,
col pennello immerso nella barbotina, le figure; queste ultime diven-
tavano nere con la seconda cottura in ambiente riducente. Quando il
ferro cristallizza in ematite o in magnetite si creano composti stabili,
che non cambiano subito, anche se entrano in un nuovo ambiente.
Pertanto, se il fondo del vaso era già sinterizzato in rosso (cioè se si
erano già formati cristalli di ematite), la seconda cottura riducente
non faceva in tempo a riorganizzare i cristalli per trasformarli in quel-
li di magnetite. Di conseguenza se la seconda cottura avveniva velo-
cemente, non era in grado di alterare gli esiti della prima.
Con le vernici sinterizzate si otteneva un ottimo risultato estetico,
ma anche una buona impermeabilità del vaso.
100 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Dopo i greci questa tecnica passò ai romani, i quali la usarono


soprattutto per produrre vasi con rivestimenti monocromi (neri in età
repubblicana, rossi in età imperiale, arancio in età tardoimperiale).
Con la fine dell’Impero la tecnica dei rivestimenti sinterizzati è tra-
montata, e non è stata più reintrodotta nel Medioevo.

L’aggiunta di coperte vetrose, per rendere impermeabili i manu-


fatti ceramici porosi, avveniva invece con applicazione al corpo cera-
mico di materiali che fondessero in cottura. Ciò poteva avere luogo
attraverso due procedimenti: la monocottura e la biscottatura. Il
primo consisteva nello stendere sul corpo ceramico, foggiato ed essicc-
cato, una polvere di vetro, (precedentemente macinata) finissima, che
veniva sospesa in acqua e data a pennello o per immersione. In cottu-
ra, la polverina rimasta in superficie dopo l’assorbimento giungeva al
rammollimento. Il vetro, non avendo uno stato cristallino, non ha un
preciso punto di fusione, ma comincia ad essere molle attorno ai 500°C
(cfr. V.1.). Perciò la fluidità del vetro avveniva in superficie mentre
l’interno del vaso non aveva ancora ultimato la cottura, di conseguen -
za i gas che si liberavano da dentro, non trovavano in superficie vie di
sfogo, in quanto i pori della ceramica erano già impermeabilizzati dal
rivestimento. Cercavano perciò di fuoriuscire dal vetro, nel quale spes-
so rimanevano imprigionati, lasciando bolle, rigonfiamenti, piccoli
crateri, mentre la vetrina veniva in parte riassorbita dal corpo cera-
mico. Ne risultavano superfici irregolari, benché l’adesione del vetro
al corpo ceramico fosse molto alta.
Nel sistema della biscottatura, invece, il manufatto ceramico veni-
va cotto due volte. La prima riguardava il vaso appena essiccato e non
rivestito; con la seconda, a temperatura più bassa, l’oggetto era cotto
insieme alla polvere vetrosa del rivestimento. In questo modo non si
formavano bolle e la superficie rimaneva più regolare, perfettamente
speculare. Questa tecnica era già usata in epoca romana imperiale,
per decorare oggetti prodotti a stampo, con motivi che imitavano quel-
li dei vasi bronzei a sbalzo. Il colore giallo della vetrina rendeva anco-
ra più simile il contenitore ai prodotti metallici.
Le proprietà di impermeabilizzazione del rivestimento vetroso ven-
nero sfruttate, soprattutto in epoca postclassica, per la produzione di
pentolame da cucina, particolarmente utile nella preparazione dei cibi
liquidi.
Nel Medioevo la tecnica dell’invetriatura venne molto perfeziona-
ta, sia nel mondo bizantino, sia in Europa, ed estesa alle piastrelle da
Aurora Cagnana 101

rivestimento (cfr. II.7.). In particolare venne utilizzata per la produ-


zione di ceramiche policrome, nelle quali la decorazione colorata, otte-
nuta con l’aggiunta di ossidi metallici alla vetrina, veniva valorizzata
per la presenza, tra vetrina e corpo ceramico, di un ingobbio bianco,
caolinico, applicato sull’oggetto crudo. Questo sistema era usato anche
per ottenere le ceramiche graffite, diverse dalle ingubbiate e dalle
invetriate policrome, in quanto decorate (oltre che col colore) anche
mediante incisioni praticate sull’ingobbio a crudo, prima dell’invetria-
tura. In entrambe i casi l’ingobbio bianco sottostante rivestiva unica-
mente una funzione estetica.

Le terraglie sono invece prodotti ceramici a corpo bianco, realizza-


to cioè con caolino e con scheletro bianco (calcite, generalmente) che
mantiene tale colore anche in seguito alla cottura. A differenza della
porcellana, caratterizzata anch’essa da corpo bianco, ma vetrificato, la
terraglia non subisce una cottura superiore ai 900°C, anche perché a
tali temperature la calcite si scomporrebbe e perderebbe il suo stato
cristallino. Di conseguenza non si raggiunge la fusione del quarzo, e il
prodotto non è impermeabile, ma dotato di un rivestimento applicato,
vetroso e trasparente, detto ‘cristallina’, che lo rende impermeabile.
La terraglia venne prodotta per la prima volta in Inghilterra, nel
1745-47, allo scopo di mettere in commercio un prodotto molto simile
alla porcellana, ma molto più a buon mercato. Inizialmente veniva
decorata con pittura a mano. Nel corso del XIX e del XX secolo, quan-
do queste ceramiche conobbero una grande diffusione, ricevettero una
decorazione applicata a decalcomania, ottenuta con un procedimento
meccanico molto più veloce. I motivi decorativi venivano infatti rea-
lizzati su matrici e quindi stampati su fogli di carta, con pigmenti a
base metallica. La carta veniva applicata al biscotto, rivestito della
polvere della cristallina, che era poi mandato in seconda cottura, dove
bruciava, lasciando aderire al prodotto il pigmento. La terraglia è
stata utilizzata in architettura per produrre piastrelle, bianche o deco-
rate, e per i servizi igienici.

Le ceramiche smaltate, o maioliche, sono caratterizzate dalla pre-


senza di un rivestimento vetroso, reso opaco con l’aggiunta di ossido
di stagno nella vetrina, secondo un procedimento usato anche nella
decorazione dei metalli, soprattutto per i prodotti di oreficeria. Per
opaco si intende, in ceramologia, un corpo non trasparente, cioè che
non lascia passare la luce, anche se lucido in superficie.
102 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

La presenza di una vetrina non trasparente e bianca permetteva di


evitare la stesura dell’ingobbio sottostante, onde evidenziare bene i
colori.
Fra i prodotti opacizzanti, il più antico a essere utilizzato era l’an-
timoniato di calcio, costituito da granelli piccolissimi, che creavano
una nuvola bianca nel vetro.
Successivamente, già dall’età romana, ma poi soprattutto da parte
degli Arabi (a partire dal X-XI secolo) venne usato il biossido di sta-
gno, che si trova in natura sotto forma di un minerale detto cassiteri -
te, oppure si poteva produrre artificialmente, surriscaldando con un
mantice lo stagno metallico, che assumeva così l’aspetto di una polve-
re bianca. La smaltatura è stata molto usata dagli arabi e, in Europa,
è stata introdotta nel Medioevo e si è diffusa in particolare modo a
partire dal Rinascimento, per piastrelle policrome, decorate e figurate
(cfr. II.7).

L’unico manufatto ceramico a corpo bianco e impermeabile è la por -


cellana. Prodotta in Cina in epoca corrispondente al I secolo d.C., era
già nota ai romani, ma è stata importata nei paesi Mediterranei in
misura maggiore a partire dal Medioevo. In Europa si è imparato a
produrla solo nel 1720, in Sassonia. Nell’architettura la porcellana è
stata usata, limitatamente ai servizi igienici, a partire dall’Ottocento.
Per la produzione della porcellana è necessario il caolino, l’unica
argilla, come si è visto, completamente priva di ferro, e che perciò
cuoce in bianco (cfr. II.2). Se era necessario aggiungere lo scheletro,
per mantenere il colore del corpo ceramico, si sceglievano soltanto
minerali bianchi, e cioè quarzo fine e feldspati, che in cinese venivano
detti petunzé. L’impermeabilità del prodotto è dovuta al fatto che esso
presenta un corpo ceramico molto duro, formato da quarzo vetrificato.
Questo minerale fonde a 1770°C, temperatura impossibile da ottene-
re in tutte le età preindustriali: in Europa si sono costruite molto tardi
fornaci in grado di superare i 1100°C, mentre in Cina, tramite piccoli
forni molto coibentati, si ottenevano temperature che al massimo
oscillavano fra i 1200°C e i 1400°C. Per provocare la fusione del quar-
zo in tali condizioni era necessaria la presenza di fondenti, costituiti
dagli alcali (sodio, potassio) contenuti nei feldspati che venivano
aggiunti allo scheletro. In presenza di tali fondenti i tetraedri di silice
si possono staccare, poiché il sodio o il potassio riescono a sostituirsi
all’ossigeno, causando la separazione tra due tetraedri, ovvero disor-
ganizzano lo stato solido cristallino e ne provocano la fusione (cfr.
Aurora Cagnana 103

V.3.). Pertanto, sfruttando la presenza dei petunzé, nell’antica Cina si


riusciva a fondere il quarzo, che costituiva lo scheletro del caolino.
L’impermeabilità della porcellana è dunque legata alla vetrificazione
della silice, dato che il vetro è l’unico materiale assolutamente non
poroso.

Il gres è un altro tipo di manufatto ceramico impermeabile, realiz-


zato però con argilla alluvionale, cioè colorata dalla presenza di ossidi
metallici. Analogamente alla porcellana semivetrifica in cottura, per-
ché il manufatto viene foggiato con un’argilla contenente anche ele-
menti fondenti (sodio, potassio, o calcio); la loro presenza permette
così la fusione del quarzo già a 900°-1000°C, secondo un processo che
viene appunto definito greissificazione.
I primi, in Europa, a sfruttare questo fenomeno furono i Paesi
Bassi, la penisola scandinava, e soprattutto le città baltiche della lega
anseatica. In queste regioni la produzione del grés prese avvio già nel
bassomedioevo; in età moderna tale sistema venne usato anche per
produrre piastrelle colorate da pavimento.
La greissificazione dei prodotti ceramici poteva avvenire anche
non intenzionalmente; non di rado, ad esempio, si osserva nelle mura-
ture la presenza di mattoni parzialmente vetrificati. Evidentemente
sono stati cotti eccessivamente, fino a temperature tali da raggiunge-
re la vetrificazione della silice. Ciò li ha resi più duri e impermeabili,
e pertanto particolarmente adatti a essere impiegati nelle cisterne o
nelle pavimentazioni stradali. È interessante ricordare come nei docu-
menti scritti genovesi del XVI e XVII secolo ricorra l’espressione “mat -
toni da carroggio”, (cioé ‘da vicolo’) che con ogni probabilità si riferisce
proprio a laterizi greissificati, (forse non intenzionalmente) ma
comunque resi particolarmente resistenti e adatti alle pavimentazio-
ni stradali.

7. I materiali ceramici usati nell’architettura

Le proprietà plastiche dell’argilla erano certamente conosciute già


nel Paleolitico, quando si iniziarono a fabbricare i primi manufatti,
ma dovettero trascorrere diversi millenni prima che la produzione di
oggetti ceramici si estendesse dall’ambito domestico all’industria edi-
lizia; le più lontane testimonianze sembrano risalire alle civiltà della
Mesopotamia e dell’Egitto.
104 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Nella grande varietà di manufatti ceramici usati, nel corso dei


secoli, come materiali da costruzione, occorre fare una distinzione fra
quelli prodotti per scopi indipendenti e il cui impiego nell’architettura
è di carattere secondario, anche se tutt’altro che occasionale, e quelli
destinati esclusivamente per l’edilizia e utilizzati su scala tanto vasta
da aver alimentato un fiorente mercato manifatturiero, sottoposto al
rispetto di precise normative emesse dalle autorità pubbliche, come
nel caso dei mattoni.
Rientrano fra i manufatti ceramici impiegati nell’architettura per
usi secondari le anfore da trasporto romane, che dal punto di vista tec-
nologico sono classificabili fra i prodotti a corpo colorato, poroso, privi
di rivestimento o, al massimo, impermeabilizzati con un ingobbio
argilloso. A partire dalla tarda antichità esse sono state utilizzate
ampiamente per le costruzioni di volte. L’impiego di tali contenitori,
che dopo essere svuotati delle derrate alimentari diventavano inutili,
risultava economicamente vantaggioso poiché costituiva una sorta di
riciclaggio di rifiuti che permetteva di evitare produzioni apposite di
materiale da costruzione. D’altro canto le anfore ben si prestavano,
per la forma cilindrica e per la vuota cavità interna, all’utilizzo per
costruzione di volte, offrendo il duplice vantaggio di essere materiali
resistenti e al tempo stesso leggeri. Fra i diversi esempi noti nell’am-
bito dell’architettura tardoantica dell’Impero d’Occidente è molto inte-
ressante, per il buono stato di conservazione, quello del sacello mila-
nese di San Simpliciano, con una copertura costituita da anfore poste
a strati ora perpendicolari, ora paralleli alla volta, annegate in abbon-
dante malta.
Un altro fenomeno di utilizzo secondario di manufatti ceramici è
costituito dall’impiego, a scopi decorativi, di grandi piatti da mensa,
rivestiti di coperte vivacemente colorate, che venivano collocati sulle
superfici murarie dei principali monumenti romanici dell’Italia cen-
tro-settentrionale e della Sardegna. Lo studio di questi oggetti, che
vengono chiamati “bacini”, utilizzando la definizione che ne diede il
primo studioso che se ne occupò, alla metà del XVIII secolo, ha dimo-
strato, ormai da anni, la straordinaria ricchezza dei motivi decorativi,
delle tecniche, e la varietà dei circuiti di approvvigionamento. Roma,
Pavia, Bologna e Pisa, sono i centri più ricchi di tali testimonianze, e
proprio in quest’ultima città, nel Museo Nazionale di San Matteo, si
conserva la più vasta raccolta di bacini, formata da oltre 600 esem-
plari, realizzati in ceramiche invetriate, graffite, smaltate, uscite da
botteghe artigiane di tutto il Mediterraneo, e risalenti a un arco cro-
Aurora Cagnana 105

41- L’uso delle anfore


nella copertura del
sacello milanese di San
Simpliciano (sec. V
d.C.)(da BOCCHIO 1990)

42-Bacini ceramici inseriti nella muratura della chiesa di S.Martino a


Pisa (da BERTI, TONGIORGI 1981)
106 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

nologico compreso fra X e XVI secolo. I vari metodi di inserimento


nella muratura (senza alcun dubbio contemporanei alla costruzione)
sono stati studiati in occasione della rimozione, attuata per scopi con -
servativi.
Un caso di studio particolarmente interessante è rappresentato
dalla chiesa duecentesca di San Romano di Lucca, dove è stata evi-
denziata con precisione la tecnica di inserimento: essa prevedeva un
ancoraggio dei ‘bacini’ tramite legatura, attorno al piede, di una cor-
dicella in cotone, che è stata in parte ritrovata; tale legamento per-
metteva di fissare il vaso ad un mattone interno alla muratura.

La maggior parte dei manufatti ceramici che interessano il costrui-


to è stata però realizzata appositamente per essere utilizzata negli
edifici, sia nelle strutture, sia nelle decorazioni interne o esterne.
La produzione più vasta è quella dei laterizi destinati alle mura-
ture, agli archi, alle volte, agli impianti idrici, alle coperture, alle pavi-
mentazioni.
I primi mattoni (sovente segnati con un marchio o un’iscrizione)
vennero realizzati, già nel 3000 a.C., presso le civiltà urbane del
medio-oriente, anche se il loro impiego era marginale rispetto a quel-
lo dell’argilla cruda e limitato alle parti degli edifici che richiedevano
maggior protezione (rivestimenti, canalizzazioni, bacini).
Anche nell’antica Grecia la produzione principale era destinata
alle coperture: tegole (keramìs) e coprigiunti da porre sul colmo dei
tetti (kaluptér). Documentate fin dall’epoca arcaica in due diversi tipi
(corinzio e laconico) tegole e coprigiunti dovevano essere commerciati
attivamente, se negli scavi dell’agorà di Atene, si è rinvenuto un
modello destinato al controllo delle dimensioni dei pezzi da fornire ai
cantieri, che erano venduti a numero, come provano molti testi epi-
grafici. Decisamente più scarse sono invece le testimonianze dell’im-
piego di mattoni, documentati sporadicamente e solo a partire dall’età
ellenistica, come nel caso della produzione di laterizi bollati attestata
nella colonia focese di Velia.
Anche nell’architettura romana di età repubblicana l’impiego di
laterizi fu indirizzato quasi esclusivamente alla realizzazione delle
tegole o delle parti ornamentali dei tetti. È significativo che Vitruvio
dedichi un intero capitolo alle strutture in argilla e non faccia riferi-
mento ai mattoni, ma solo alle tegole (De Arch. II, 8), delle quali con-
siglia la riutilizzazione nei muri, secondo un sistema ampiamente
attestato dall’archeologia. È dopo Augusto e soprattutto dall’età nero-
Aurora Cagnana 107

niana che si sviluppa una manifattura laterizia su larga scala, fina-


lizzata a realizzare intere opere portanti. Da questo momento in poi
gli edifici in mattoni sono destinati a moltiplicarsi, in molte regioni
dell’Impero Romano. Realizzati in argilla alluvionale, porosa, priva di
rivestimento, i mattoni romani erano cotti in ottime fornaci, spesso
(anche se non sempre) ben distinte da quelle per la produzione di vasi.
Anche se il modulo rettangolare non era sconosciuto e se tutt’altro
che rari erano i pezzi triangolari o circolari, quelli quadrati erano deci-
samente prevalenti e le loro misure corrispondevano a multipli o sot-
tomultipli del ‘piede’; fra le pezzature più diffuse erano il pedale (col
lato di un piede, cioè cm 29,6 X 29,6 ) il bipedale (col lato di due piedi,
cioè cm 59,2 X 59,2), il sesquipedale (col lato di un piede e mezzo, cioè

43- Le diverse pezzature dei laterizi romani, caratterizzati dalla generale


adozione del modulo quadrato (da ADAM 1989)
108 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

cm 44,4 X 44,4) e il bessale (col lato di due terzi di piede, cioè cm 19,7
X 19,7). La forma quadrata rendeva necessaria la posa in opera con
due mani (e talora richiedeva anche due operai) per ciascun mattone;
in compenso le grandi dimensioni consentivano di usare i laterizi
come elementi passanti da parte a parte nel muro e perciò tali da
“legare” le strutture troppo disomogenee, come quelle in blocchetti
lapidei, dove i lati esterni erano generalmente scollegati rispetto al
nucleo interno.
In età imperiale una vasta produzione di manufatti per l’edilizia in
ceramica colorata, porosa, priva di rivestimento, è ben attestata sia da
resti di edifici messi in luce dagli scavi, sia dall’architettura soprav-
vissuta. In tale epoca l’uso dei laterizi si estende ad altre parti degli
edifici, come le pavimentazioni e le tubature, in virtù delle proprietà
di tenuta idraulica e di resistenza termica dei materiali ceramici.
Assai frequenti sono i resti di tubature, definite fistulae, incassate
nelle pareti e destinate allo smaltimento delle acque. Per gli impianti
termali era invece in uso un sistema di intercapedini, poste sotto i
pavimenti, che servivano a far circolare l’aria calda e che erano soste-
nute da pilastrini realizzati in apposite mattonelle (quadrate o circo-
lari) dette suspensurae.
L’uso di imprimere iscrizioni sui laterizi, dopo la foggiatura e
prima della cottura, è attestato, con maggiore o minore intensità, dal
I secolo a.C. al VI sec. d.C. Lo studio delle migliaia di tipi di ‘bolli’noti,
avviato già dall’Ottocento, costituisce un campo d’indagine di notevo-
le importanza per comprendere l’organizzazione della produzione, che
era basata su officine (figlinae) gestite da officinatores (imprenditori,
per lo più di condizione libera) e da domini (proprietari delle cave di
argilla o, secondo alcuni studiosi, anche degli impianti). Molte figline
appartenevano al fisco imperiale o erano proprietà personale degli
imperatori, che sovente figurano come domini nei bolli.

Con i secoli dell’Altomedioevo la produzione di laterizi subisce un


vistoso tracollo: l’archeologia dimostra infatti che anche gli edifici più
importanti venivano sovente realizzati in mattoni o tegole di recupe-
ro, provenienti dal crollo o dallo smantellamento di edifici più antichi.
Alle manifatture in impianti permanenti, saldamente regolamentate
dalle autorità pubbliche, si sostituirono rare produzioni occasionali,
spesso legate a cantieri monastici; ne sono esempio i mattoni altome-
dievali fabbricati nei cenobi di Novalesa (Torino), Montecassino
(Frosinone), Farfa (Rieti), San Vincenzo al Volturno (Isernia), casi
Aurora Cagnana 109

piuttosto isolati all’interno di un panorama dominato, anche nelle


aree urbane, dalle pratiche di recupero.

A partire dalla prima metà del XII secolo si registra, in diverse


città europee, la ripresa, più o meno simultanea, di produzioni siste-
matiche di laterizi. Per i caratteri tecnologici i mattoni medievali non
si differenziano da quelli romani, se si eccettua il fatto che non sono
più segnati da bolli.
Importanti differenze riguardano invece le dimensioni: i laterizi
medievali sembrano infatti avere definitivamente abbandonato il
modulo quadrato di epoca classica, per assumere quello nuovo, ret-
tangolare, più piccolo e perciò tale da consentire il sollevamento di un
pezzo con una sola mano. Recenti indagini archeologiche hanno pro-
vato che le misure di cm 30 x 15 x 7,5 circa (cioè un piede x mezzo
piede x un quarto di piede) sembrano accomunare le prime produzio-
ni di mattoni medievali anche in aree molto lontane fra loro (da

44- Lapide con indicazione in scala 1:1 delle misure imposte ai produttori
di mattoni dal comune di Assisi (1349)
110 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Genova a Savona, a Milano, a Venezia, alla Lucchesia, e persino alle


città tedesche come Lubecca). Le ragioni di questa iniziale corrispon-
denza delle misure non sono ancora del tutto note, ma è probabile che
siano da ricercare in una uniformità legislativa (e quindi metrologica)
che affonderebbe le sue radici nell’amministrazione imperiale, oppure
nell’universalismo dei cenobi monastici. Proprio lo studio delle dimen-
sioni dei laterizi costituisce, da diversi decenni, un campo d’indagine
assai importante per l’archeologia medievale e postmedievale, sia per
le notevoli ripercussioni che tali ricerche hanno in ambito storico-eco-
nomico, sia perché, in molti casi, l’esame delle misure dei mattoni si è
rivelato un ottimo strumento di datazione per l’architettura. La men -
siocronologia, o datazione dei mattoni in base alle dimensioni, si basa
infatti sull’analisi matematica delle misure dei laterizi, supportata
dal confronto con la documentazione scritta relativa alle norme che ne
regolamentavano la produzione e lo smercio. Poiché i mattoni erano
venduti a numero, le autorità pubbliche prescrivevano le misure alle
quali i fornaciai dovevano attenersi e in base alle quali venivano effet-
tuati severi controlli. Oltre che da fonti archivistiche questa prassi è
documentata dai numerosi esempi, ancora conservati, di modelli in

45- Rappresentazione assonometrica della diminuzione delle misure dei


mattoni genovesi dal XII al XIX secolo (da MANNONI , MILANESE 1988)
Aurora Cagnana 111

pietra che venivano apposti sui muri dei palazzi pubblici e che reca-
vano, in scala reale, le sagome e le misure che dovevano avere le cas-
sette per la foggiatura dei laterizi messi in commercio. La validità di
tali norme era limitata ai confini dei vari stati territoriali, e tale rima-
se fino alla fine dell’Antico Regime.
Tuttavia, se si esaminano le dimensioni dei mattoni di una mura-
tura omogenea, provenienti cioè da un’unica fornitura, si riscontra
un notevole divario di dimensioni (nello spessore, nella larghezza,
nella lunghezza) che possono presentare differenze anche superiori a
un centimetro. Ciò è dovuto a vari fattori, fra i quali il più importan-
te è il diverso ritiro dell’argilla, durante la cottura, che causa le dif-
ferenze visibili nei prodotti finiti, provenienti da un’unica infornata.
Tali differenze non potevano né essere previste né essere eliminate
dai fornaciai. La lettura dei testi legislativi dimostra come vi fosse
una precisa conoscenza di questo fenomeno: alcuni capitoli della cor-
porazione dei produttori di mattoni di Savona del 1598, ad esempio,
fanno riferimento alle frodi commesse ‘nella bontà’, ossia in buona
fede, e sembrano riferirsi proprio ai problemi del ritiro dell’argilla
durante la cottura.
È stato provato che se si dispongono su un grafico i valori delle
dimensioni dei mattoni di un’unica produzione, le differenze di misu-
re dei singoli pezzi tendono a formare una curva ‘a campana’, o ‘gaus-
siana’ che è appunto caratteristica delle variazioni che non dipendono
da interventi volonta-
ri, ma dal caso. Il ver-
tice della curva, corri-
spondente alla media,
è la misura cui tende-
vano i produttori,
quella imposta dalla
legge e alla quale il
fabbricante cercava di
attenersi, nonostante
le piccole variazioni,
indipendenti dalla sua
volontà.
Lo studio delle
46- La curva a campana, o ‘gaussiana’, che
rappresenta le piccole differenze di misure dimensioni dei mattoni
riscontrabili su mattoni coevi, dovute a ha inoltre provato che
variazioni casuali tali medie tendono a
112 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

ridursi continuamente dal XII al XVIII secolo. Questa riduzione è più o


meno accentuata e più o meno continua a seconda delle diverse città e
dipende da motivi di carattere economico. A Genova, per esempio, si è
registrata una diminuzione piuttosto drastica delle misure nei momen-
ti di più intensa attività costruttiva (fra XII e inizi XIV secolo e poi fra
XVI e XVII secolo) e una riduzione più graduale nei secoli di maggiore
stasi dell’attività edilizia. È evidente che tale riduzione delle dimensio-
ni è da ricondurre non più a fenomeni casuali, ma a cause volontarie,
legate all’andamento del mercato edilizio e che operavano molto lenta-
mente nel tempo, mascherate dalle variazioni involontarie. Tali dimi-
nuzioni volute sono perciò diverse da città a città, da stato a stato e
determinano un notevole particolarismo nelle misure dei laterizi,
(esclusa, come si è visto, la fase iniziale, dove il panorama pare assai
omogeneo). In Italia a una vera e propria uniformità delle misure dei
mattoni si giunse solo nel secolo scorso, parallelamente al processo di
unificazione nazionale, che portò all’introduzione dei mattoni ‘UNI’.

Accanto alla produzione di mattoni, anche l’uso di tegole dai bordi


rialzati, e dei relativi coprigiunto, riprese su larga scala nel Medioevo,
soprattutto nelle città. Tuttavia in alcune aree montane, come
l’Appennino ligure, o l’arco alpino, l’uso delle tegole sembra essere ces-
sato con la caduta dell’Impero Romano; successivamente in queste
zone si generalizzò l’impiego di lastre da copertura in pietra scistosa
(filladi, ardesie, ecc.), più abbondanti in loco e più facili da produrre e
da trasportare.

Le mattonelle da pavimento, conosciute già in epoca romana, ven-


nero anch’esse prodotte diffusamente a partire dall’età bassomedieva-
le. Spesso, quando una pavimentazione usurata doveva essere rifatta,
non veniva rimossa, ma vi si sovrapponeva direttamente quella nuova.
Nelle indagini archeologiche effettuate a Genova in occasione dei
lavori per il recupero del Palazzo Ducale, ad esempio, si sono rilevate,
in diversi ambienti, più pavimentazioni sovrapposte, frutto di succes-
sivi rifacimenti, avvenuti nel corso del tempo, che hanno conservato
un’ampia casistica di laterizi. Le cosiddette “chiappelle”, mattonelle
rettangolari fabbricate in ceramica a corpo colorato, poroso, senza
coperta, appositamente per pavimenti, sono state rinvenute soprat-
tutto nei fondi, nelle cantine, nei vani di servizio. Esse presentavano
dimensioni inferiori rispetto ai coevi mattoni e soprattutto spessori
molto bassi (cm 2,0-2,5), che ne riducevano notevolmente la resisten-
Aurora Cagnana 113

za all’urto. È forse per questo che non compaiono mai nelle pavimen-
tazioni degli esterni, dove si usavano invece i mattoni e soprattutto
quelli più refrattari e duri, come si è visto.
Nei piani nobili si è notata una maggiore ricercatezza delle pavimen-
tazioni, ottenuta intervallando mattonelle ottagonali con laterizi più pic-
coli, quadrati, talvolta rivestiti di coperte colorate in smalto verde, blu, o
nero. L’impiego di materiale ceramico per i pavimenti era spesso prefe-
rito al marmo poiché offriva un maggiore isolamento termico.
Anche l’uso di tubature incassate nei muri riprende in piena età
medievale, quando, soprattutto nelle aree urbane, vengono prodotte
appositamente a questo scopo condutture in ceramica a corpo colora-
to, poroso, impermeabilizzate con una coperta costituita da vetrina
piombifera, stesa solo sulla superficie interna e di colore verde o
bruno. A Genova questo sistema rimane in uso anche in età moderna,
quando si moltiplica l’impiego delle tubature invetriate, definite trom -
bette nei documenti d’archivio e costituite da varie parti, incastrabili
fra loro, grazie alle misure decrescenti del diametro.

Accanto ai diversi tipi di laterizi finalizzati alle parti strutturali,


fin qui descritti, non minore importanza riveste la produzione di
manufatti ceramici destinati alle decorazioni dell’architettura, che
hanno una storia altrettanto antica.
Fregi di terrecotte figurate ornavano i principali edifici greci ed
etruschi fin dall’epoca arcaica. Singole lastre foggiate a matrice veni-
vano applicate con chiodi in ferro alle travature e avevano il duplice
scopo di proteggere le strutture lignee del tetto e di costituire lunghe
fasce decorate. Lo studio di alcuni contesti di terrecotte architettoni-
che dell’Etruria ha dimostrato l’uso di due tecniche artistiche: una
detta ‘a ritaglio’ (usata in particolare per gli acroteri di epoca arcaica)
che consisteva nel modellare i pezzi a crudo uno ad uno, utilizzando
un coltello in modo da praticare dei motivi a traforo; un’altra tecnica,
più veloce, era invece basata sull’uso di matrici in ceramica. Dopo l’es-
siccazione i pezzi venivano rivestiti con un ingobbio di argilla depura-
ta e diluita, stesa a pennello e quindi sovradipinti in bianco, (con cao-
lino), in rosso, in marroncino, in nero (con argille ricche di ferro) e
quindi mandati in cottura.
Anche le statue acroteriali collocate sul colmo dei tetti venivano
ottenute con l’uso di stampi, erano svuotate internamente in modo da
essere più leggere. La produzione di ceramiche per la decorazione
architettonica (o coroplastica) di tradizione etrusca continuò per tutta
114 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

l’età romana repubblicana e scomparve a partire dall’età augustea per


essere sostituita dall’uso massiccio di marmi e pietre colorate.

Un rinnovato impiego di laterizi decorati con motivi a rilievo si


registra a partire dall’età tardoantica a Cartagine e nell’area nord-
africana, da dove sembra essersi diffuso alla Spagna visigota e alla
Gallia merovingia, verosimilmente attraverso le isole Baleari. Questi
mattoni, murati nelle pareti interne o esterne degli edifici, erano deco-
rati con motivi geometrici, vegetali, figurati, oppure con simboli cri-
stiani; presentano una forma quadrangolare o rettangolare e misure
ancora basate sul modulo romano. La loro produzione continua per
tutto l’Altomedioevo ed è ampiamente attestata anche in Italia, come
provano, ad esempio, i celebri casi di San Salvatore di Brescia, di
Cividale, di Canosa di Puglia. Benché non manchino i prodotti sicura-
mente ottenuti a stampo, è però certo che, in molti casi, le decorazio-
ni venivano scolpite a cotto, spesso utilizzando mattoni romani di
recupero, come è stato provato dalle differenze e irregolarità riscon-
trate in occasione di specifiche analisi archeologiche. Le ragioni di una
tale pratica vanno ricercate, ancora una volta, nel panorama storico
ed economico dell’età altomedievale, nella quale tutte le produzioni
manifatturiere conobbero un drastico ridimensionamento e la ‘cultura
del reimpiego’ si affermò sotto varie forme.
Col XIII e XIV secolo si registra un recupero della produzione di
terrecotte ornamentali, ottenute a stampo entro madreforme negati-
ve, generalmente realizzate in ceramica, ma talora anche in gesso.
Con l’affermarsi del gusto rinascimentale tale produzione conobbe
una diffusione maggiore, soprattutto in area padana e toscana; nelle
decorazioni vennero introdotti motivi nuovi (ovuli, perline, dentelli,
candelabre), ispirati al mondo classico. Cornici ornamentali erano
spesso composte mediante l’assemblaggio di elementi modulari pro-
dotti serialmente; stampi particolari permettevano di realizzare
balaustre e mensole con modanature complesse. Non sempre tali deco-
razioni mantenevano il colore rosso vivo dell’argilla: sono documenta-
ti, infatti, casi in cui sulla superficie delle terracotte è stata stesa una
tinteggiatura grigia, allo scopo di imitare il materiale lapideo.
Accanto alla tecnica a stampo ne esisteva anche un’altra, effettua-
ta a crudo sui laterizi essiccati, che venivano graffiti e scolpiti sulla
base di precisi disegni preparatori. Doveva essere particolarmente
usata nella produzione dei mattoni destinati agli archi, dove l’anda-
mento del motivo decorativo veniva stabilito, sui pezzi montati a
Aurora Cagnana 115

terra, attraverso linee guida segnate col compasso. Un caso simile è


stato documentato, attraverso una meticolosa analisi archeologica, sul
portale in cotto della chiesa di San Bartolomeo di Bologna.

Un altro gruppo di manufatti ceramici prodotti appositamente per


l’edilizia, a scopi decorativi, è quello delle mattonelle rivestite da
coperte vetrose o smaltate. Già conosciute nell’architettura dell’antico
oriente (si pensi ai celebri mattoni invetriati della strada processiona-
le di Babilonia, della fine del VII secolo a.C.) le mattonelle rivestite da
coperte vetrose conobbero una rinnovata importanza nel Medioevo,
quando vennero utilizzate sia per i rivestimenti parietali interni o
esterni, sia per le pavimentazioni, sostituendo i mosaici in pietra e
marmo, decorati a motivi geometrici, usati nei secoli precedenti.
Si tratta di prodotti nei quali la foggiatura del corpo ceramico
richiama metodi propri della produzione dei laterizi (uso di stampi),
mentre le coperte vetrose sono applicate secondo gli stessi procedi-
menti usati per il vasellame.
Nel Mediterraneo orientale la produzione di laterizi rivestiti pren-
de avvio con la fine del IX-inizi del X secolo. A da partire tale periodo
le regioni del mondo bizantino iniziano a produrre mattonelle e plac-
che ornamentali con invetriature moncrome o policrome, mentre nel
mondo arabo si dà avvio alla produzione di manufatti smaltati.
Nell’Europa nord-occidentale mattonelle invetriate policrome ven-
nero usate, a partire dal XII secolo, soprattutto negli edifici religiosi;
nel corso del XIII e del XIV secolo il loro uso si estese anche ai castel-
li e alle residenze laiche. Più rare, soprattutto all’inizio, erano invece
le mattonelle smaltate. Una ricca produzione istoriata è attestata nel
XIV secolo nella sontuosa residenza papale di Avignone.
Recenti indagini archeologiche hanno portato alla luce, nel sotto-
suolo di Marsiglia, i resti di fornaci ceramiche che, oltre a vasellame
domestico, producevano anche mattonelle in maiolica, decorate con
motivi a croce, forse copiati da analoghi prodotti ingobbiati e invetria-
ti del nord della Francia. Erano state fabbricate in serie, modellando
l’argilla con forme lignee quadrangolari prive del fondo, e quindi rifi-
nite (una volta essiccate) con un coltello che ne ritagliava i bordi in
modo da ottenere angoli fortemente inclinati, utili per facilitare la
posa in opera. La vera difficoltà tecnica era però rappresentata dal
rivestimento in smalto (applicato in seconda cottura), con decorazione
dipinta in verde (ramina) e bruno (manganese).
In Italia, se si escludono alcuni casi isolati di laterizi rivestiti data-
116 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

bili al XII secolo, la diffusione di questi prodotti comincia ad essere più


significativa a partire dalla prima metà del XIII secolo. Piastrelle
semicircolari rivestite da una coperta verde ornano i campanili due-
centeschi di San Francesco e Santa Chiara ad Assisi; sempre in
Umbria la facciata della chiesa di San Francesco di Perugia è decora-
ta da losanghe bicolori bianco-verdi.
Risalgono invece ai primi decenni del XIV secolo i quadrelli mono-
cromi blu posti nel secondo ordine del campanile di Giotto a Firenze,
per i quali non è ancora stata chiarita la natura del colorante utiliz-
zato, anche se pare da escludersi l’ossido di cobalto.
Fra gli esempi più celebri è la serie delle 27 formelle ancora collocate
nelle murature esterne del duomo di Lucca; si tratta di elementi di forma
romboidale, con lato di cm 28 circa, realizzate in ‘maiolica arcaica’, cioè
rivestite di uno smalto bianco e dipinte con pigmenti bruno-manganese
e verde-ramina. Queste ceramiche, databili ai primi decenni del XIV
secolo, presentano decorazioni geometriche, ma anche istoriate, copiate
sia dai motivi intarsiati attestati nel duomo stesso, sia desunti dall’area
francese meridionale, come suggerirebbero alcune somiglianze con i
pavimenti avignonesi (più sopra citati) ad essi contemporanei.
Un interessante contesto di mattonelle smaltate destinate ad
ambienti interni è stato rinvenuto (in giacitura secondaria) negli scavi
condotti nell’abbazia benedettina di San Fruttuoso di Camogli (Genova).
Si tratta di 170 piastrelle a forma di croce e di stella a otto punte, con
smalto monocromo (bianco, verde ramina, bruno manganese), databili al
XIV secolo, che dovevano incastrarsi a formare una composizione geo-
metrica e forse erano state impiegate in un pavimento. È interessante
osservare come la forma sia chiaramente derivata da esemplari di area
islamica, mentre l’impasto del corpo ceramico e i colori delle coperte pro-
vano che i pezzi sono usciti da botteghe liguri, forse savonesi.
In tutti i casi fin qui descritti si tratta di manufatti di lusso, pro-
dotti su committenza specifica, generalmente di ambito ecclesiastico, e
destinati a monumenti religiosi o comunque a raffinate élites sociali.
Meno rare erano invece le mattonelle quadrate o rettangolari,
rivestite da coperte monocrome, prodotte nel XIV e XV secolo in varie
regioni italiane e spesso definite ‘quadretti’.’
Nei secoli finali del Medioevo la Spagna araba divenne la maggiore
produttrice di piastrelle smaltate, (dette azulejos), che venivano distri-
buite in tutte le maggiori città Mediterranee: a Genova, ad esempio, ne
veniva importato un tipo assai elegante, con decorazione a intreccio rea-
lizzata in bianco, su fondo blu, caratteristica di botteghe valenzane della
Aurora Cagnana 117

47- Piastrelle a forma di croce e stella (sec. XIII) rinvenute negli scavi del
monastero di San Fruttuoso di Camogli (Genova)

metà del XV secolo. È significativo il fatto che in questa città italiana le


piastrelle da rivestimento in maiolica decorata vengano definite ‘laggio -
ni’, con un termine derivato dall’arabo ‘zullaygiun’, che significa appun-
to mattonella. I genovesi non solo le importavano per consumo interno,
ma, nel XV secolo, dovevano essere fra i principali mediatori commer-
ciali delle ceramiche spagnole, come attestano, ad esempio, i registri
portuali di Southampton (Inghilterra), che menzionano una “gene pots”
(ceramica genovese), che era probabilmente maiolica spagnola. Fra la
fine del XV e la prima metà del XVI secolo veniva importato dalla
Spagna un tipo di laggioni eseguiti con una tecnica definita ‘a cuenca’.
Essa consisteva nel riprodurre a stampo, sulle piastrelle ancora crude, i
motivi decorativi (geometrici o vegetali) i contorni dei quali rimanevano
in rilievo, mentre la parte centrale si infossava, formando, appunto,
delle ‘conchette’. Dopo la prima cottura ogni cavità riceveva uno smalto
di colore diverso (bianco, azzurro, verde, bruno, giallo); in seguito alla
seconda cottura si otteneva così una decorazione a rilievo, policroma. Si
trattava comunque di una produzione piuttosto seriale, che consentiva
di ottenere grandi quantità di merce con una certa velocità.
118 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

48- Laggioni policromi decorati ‘a cuenca’, di produzione spagnola


(sec.XVI), rinvenuti a Genova

A partire dalla fine del XV secolo la tecnica di produzione delle


maioliche italiane conobbe profonde innovazioni: il rivestimento di
smalto divenne più spesso e migliorò nel colore e nella qualità; tale
cambiamento era dovuto sia all’aumento della percentuale di stagno,
sia all’introduzione di fornaci dette ‘a muffola’, nelle quali i manufat-
ti venivano protetti dal contatto diretto col fumo. Queste innovazioni
tecnologiche, oltre ai nuovi motivi decorativi, distinguono le maioliche
rinascimentali da quelle medievali; le prime ad adottare i nuovi siste-
mi furono le manifatture dell’Italia centrale (Toscana, Marche,
Umbria) e della val Padana (Faenza).
Una interessante produzione di laggioni smaltati di tipo rinasci-
mentale è attestata a Genova a partire dagli anni 1530-40, in seguito
a scavi archeologici condotti in un quartiere allora suburbano (via San
Vincenzo). In tale zona si sono evidenziati i resti di una cava d’argilla
e un curioso ‘tappeto’ di piastrelle rinascimentali, tutte realizzate con
lo stesso disegno, ma con diverse tonalità di colore. La loro sistemazio-
ne (senza uso di malta) ha fatto pensare a un campionario, oppure a un
Aurora Cagnana 119

reimpiego, per un pavimento posticcio, di ‘prove’ di cottura scartate.


Ciò che è certo è che si tratta della più antica traccia di una produzio-
ne genovese a ‘smalto pesante’, cioè di tipo rinascimentale. È assai pro-
babile che l’impianto di questa manifattura sia da collegare all’inse-
diamento, avvenuto proprio all’inizio del XVI secolo (stando alle fonti
scritte), dei Da Pesaro, famiglia di ceramisti marchigiani, i quali
avrebbero introdotto a Genova le innovazioni tecniche della maiolica
rinascimentale. Occorre però notare che i motivi decorativi dipinti sullo
smalto non derivano dal repertorio dell’Italia centrale, ma imitano pro-
dotti arabi, turchi, persiani, ripresi a loro volta dalle porcellane cinesi.
Evidentemente la scelta della decorazione, con tipici motivi mediterra-
nei, era stata imposta dai committenti (verosimilmente ricchi mercan-
ti) in vista di uno smercio di tali prodotti a vasto raggio. Questa ipote-
si risulta confermata dal ritrovamento di simili manufatti in Egitto, in
Spagna (dove le produzioni locali erano decadute dopo la ‘riconquista
cattolica’) e persino oltre Atlantico, a Città del Messico.

8. Principali cause di degrado

Le costruzioni in argilla cruda sono soggette a deterioramento da


parte delle acque piovane; in primo luogo la pioggia battente può cau-
sare danni meccanici, dilavare e portare via lo strato superficiale (quel-
lo impermeabile), mettendo a nudo la parte più interna. Se però le
piogge sono modeste e senza venti, questo danno non è particolarmen-
te veloce; pertanto, se il muro è stato costruito con uno spessore mag-
giore del necessario, oppure se ha un buon intonaco, può durare molto
a lungo, come si è verificato nello studio dell’architettura in terra del-
l’alessandrino (cfr. II.4). La presenza della ghiaia all’interno dell’argil-
la consente di ridurre l’eccessiva plasticità e di resistere più a lungo
all’erosione dell’acqua battente, rallentando il degrado superficiale.
I laterizi sono invece soggetti, talvolta, a fenomeni di efflorescenza
(cfr. I.7.) dovuti all’impiego di argille provenienti da depositi marini o
lacustri, ricche di sostanze solfuree provenienti da residui organici che,
sotto forma di solfuri di ferro (piriti) rimangono nelle argille. Durante la
cottura i solfuri si ossidano, lo zolfo si lega al calcio e forma solfato di cal-
cio. In presenza di acque circolanti all’interno dei muri, il solfato viene
trasportato in soluzione e depositato poi in superficie con la fuoriuscita.
I laterizi sono inoltre soggetti allo stesso tipo di degrado che inte-
ressa le rocce silicatiche porose.
120 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

I rivestimenti vetrosi e le decorazioni a base di ossidi metallici


sopradipinte, invece, offrono il grande vantaggio di non alterarsi mai
nel tempo. Le piastrelle policrome sono soggette a usure meccaniche,
ma non ad alterazione dei loro colori originali, che possono durare,
praticamente intatti, per molti secoli.

9. Nota bibliografica

Sulla formazione dei minerali argillosi e sui caratteri delle argille


molte notizie si trovano nel volume di CUOMO DI CAPRIO 1985, dove si
esaminano accuratamente anche i sistemi tradizionali di preparazio-
ne e di foggiatura. Su questi ultimi aspetti si veda inoltre il manuale
di CARUSO 1983, che contiene anche molti esempi di ‘archeologia spe-
rimentale’ sulle varie tecniche di lavorazione dell’argilla. Le principa-
li fasi del ciclo di produzione dei manufatti ceramici sono inoltre
descritte nel volume di MANNONI, GIANNICHEDDA 1996 (pp. 78-88).
Per le costruzioni in argilla cruda si segnala l’opera curata da
LASFARGUES 1985, che contiene gli atti di un importante convegno tenu-
tosi a Lione nel 1983 e incentrato sull’architettura in terra e legno
(soprattutto del Mediterraneo occidentale) dalla protostoria al
Medioevo, con particolare attenzione all’età romana. All’interno del
volume si segnala, in particolare, il saggio di ARCELIN, BUCHSENSCHUTZ
1985, dedicato a un’esauriente disamina delle fonti antiche che men-
zionano o descrivono in vario modo le costruzioni in terra e legno.
Sull’uso dell’argilla cruda nell’architettura greca antica è ancora molto
valida la già citata opera di MARTIN 1965 (pp. 46-63) che pone a con-
fronto dati epigrafici e archeologici. Per quanto concerne
l’Altomedioevo, interessanti esempi di case di terra di area abruzzese
vengono esaminati nel saggio di S TAFFA 1994, (corredato di un’utile
bibliografia e arricchito da confronti etnografici); case realizzate in
terra vengono inoltre considerate nella classificazione di FRONZA,
VALENTI 1994 (tipo AVIII). Per le case di terra di età medievale si veda
PESEZ 1985, con un succinto ma essenziale quadro della realtà europea;
interessanti esempi documentati in area toscana attraverso l’archeolo-
gia sono trattati nel saggio di FRANCOVICH, GELICHI, PARENTI 1980; men-
tre i risultati delle ricerche sulle case di terra dell’alessandrino sono
raccolti in PAGELLA POGGIO 1992. Sull’utilizzo del pisé in età medievale
e postmedievale in area toscana cfr. inoltre PARENTI 1995, p. 378.
Alla cottura della ceramica è dedicato ampio spazio nel citato volu-
Aurora Cagnana 121

me di CUOMO DI CAPRIO 1985 (pp. 125-149) e alla stessa Autrice si deve


un’esaustiva tipologia delle fornaci per mattoni e vasellame in area
italiana, dalla preistoria a tutta l’epoca romana (cfr. CUOMO DI CAPRIO
1971/72). Per la classificazione tecnologica dei prodotti ceramici è
sempre fondamentale la lettura del volume di MANNONI 1975; il testo
di ALIPRANDI, MILANESE 1986, di carattere più divulgativo, contiene
comunque essenziali informazioni sui caratteri tecnologici e sulla sto -
ria delle principali categorie di prodotti ceramici dall’antichità all’e-
poca contemporanea.
Sull’uso dei bacini ceramici nell’architettura esiste una vastissima
bibliografia, ci si limita pertanto a segnalare solo le opere principali: per
la situazione pisana BERTI, TONGIORGI 1981 con il catalogo di tutti i baci-
ni e BERTI 1997, per una breve guida al Museo di San Matteo. Molti arti-
coli si trovano in due Convegni svoltisi, a distanza di tempo, ad Albisola
e dedeicati, il primo, all’impiego della ceramica nell’architettura (AA.VV.
1983) e il secondo specificamente ai bacini murati medievali (A A.VV.
1996); di quest’ultimo si segnala, in particolare, il contributo di BERTI,
GABBRIELLI, PARENTI 1996 incentrato sulle tecniche di inserimento dei
bacini nelle murature. Lo studio del caso di San Romano di Lucca, più
sopra citato, si trova invece in BERTI, PARENTI 1994.
Sulla produzione di laterizi nella Grecia antica cfr. MARTIN 1965, p.
63 e segg.; per i laterizi bollati prodotti a Velia si veda MINGAZZINI
1954. Sui laterizi di epoca romana le notizie essenziali si trovano nei
più noti manuali sulle tecniche costruttive come ADAM 1989, (p. 65 e
segg.); per una raccolta di contributi specifici su singole ricerche si
veda inoltre MC WHIRR 1979. Sui bolli dei laterizi romani la bibliogra-
fia è vastissima e si rimanda perciò ai principali lavori di sintesi quali
BLOCH 1947; STEINBY 1974-75 e STEINBY 1986. Per i problemi relativi
alla produzione di laterizi durante l’altomedioevo cfr. FIORILLA
1985/86; FIORILLA 1986 per l’area lombarda ed ARTHUR, WITEHOUSE
1983 per l’Italia centro-meridionale. Sulla produzione laterizia di età
medievale e postmedievale e sulla mensiocronologia dei mattoni cfr.
MANNONI, MILANESE 1988; GHISLANZONI, PITTALUGA 1989; PITTALUGA,
GHISLANZONI 1991; PITTALUGA, GHISLANZONI 1992; QUIROS CASTILLO
1996; RECCHIONE 1996; ROTA, SARTORI 1996; P ITTALUGA, QUIROS
CASTILLO 1997; QUIROS CASTILLO 1997; PARENTI, QUIROS CASTILLO c.s.;
CASOLO GINELLI 1998.
Interessanti spunti sulla produzione di tegole nell’Inghilterra
meridionale fra la fine del XIII e l’inizio del XVI, scaturiti da un’ana-
lisi delle fonti d’archivio, si trovano in HARE 1991. Un sistematico spo-
122 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

glio della documentazione archivistica genovese del XVI e XVII secolo


concernente le pavimentazioni in laterizio è contenuto nel saggio di
BOATO, DECRI 1992, dal quale sono tratte le sporadiche citazioni ripor-
tate nei precedenti paragrafi.
Per quanto concerne gli aspetti tecnologici delle decorazioni archi-
tettoniche greche ed etrusche, la bibliografia è tutt’altro che abbon-
dante, oltre al citato MARTIN 1965, p. 87 e segg. (per l’area greca), utili
notizie sono riportate in AA.VV. 1986, p. 93 e segg. (per l’area etrusca).
Sulla produzione di laterizi a stampo in età tardoantica e altomedie-
vale cfr. NOVARA 1994, con un ricco apparato bibliografico.
Sui mattoni decorati di epoca medievale e rinascimentale esistono
numerosi saggi incentrati sullo studio di singoli contesti; ottimi lavo-
ri di sintesi, che comprendono una rassegna delle principali tecniche
attestate sono stati curati da G ABBRIELLI, PARENTI 1992 e P ARENTI
1997, ai quali si rimanda anche per l’amplia bibliografia riportata. Il
caso del portale di San Bartolomeo di Bologna, citato più sopra, è
stato esaminato in D I CARLO ET ALII 1985. Sui mattoni decorati di età
medievale è inoltre fondamentale la lettura del poderoso lavoro sto-
rico-archeolgico curato recentemente da B ARACCHINI, GELICHI ,
PARENTI 1998, relativo all’area lucchese, ma di valore metodologico
più generale.
Per le piastrelle smaltate e invetriate di epoca medievale si segna-
la il recente volume curato da GELICHI, NEPOTI 1999, con contributi
che abbracciano l’intera area mediterranea. Per l’area francese si
segnalano il volume curato da DERŒUX 1986, che raccoglie gli atti di
un convegno specifico svoltosi nel 1985. Assai utile è inoltre il catalo-
go della mostra svoltasi ad Avignone nel 1995 (AA. VV. 1995); per lo
scavo delle fornaci marsigliesi di mattonelle smaltate cfr. MARCHESI,
THIRIOT, VALLAURI 1997, p. 307 e segg. Una puntuale rassegna delle
mattonelle maiolicate impiegate nell’architettura medievale
dell’Italia centrale si trova inoltre in BERTI, CAPPELLI 1994, dove ven-
gono esaminate in particolare le formelle del Duomo di Lucca (p. 169
e segg.). Per quelle del campanile di Giotto a Firenze, più sopra citate
cfr. MOORE VALERI 1986 oltre alla scheda specifica contenuta in
GELICHI, NEPOTI 1999, p. 104. Per le piastrelle medievali rinvenute
negli scavi dell’abbazia di San Fruttuoso, più sopra citate, una scheda
specifica si trova ancora in GELICHI, NEPOTI 1999, pp. 90-91. Per le
mattonelle maiolicate rinascimentali, molti saggi si trovano negli Atti
dei Convegni Internazionali di Albisola; per il caso della manifattura
genovese di via S.Vincenzo, cfr. MANNONI 1994, pp. 88-111.
Aurora Cagnana 123

III. I LEGANTI, GLI INTONACI,


GLI STUCCHI

1. Selenite, calcari e dolomie: le materie prime

Il primo legante impiegato dall’uomo è stato l’argilla, e il suo uso è


durato a lungo, soprattutto nell’edilizia rurale, anche in epoche recen-
ti. Tuttavia per ottenere costruzioni solide ed elevate in altezza
(soprattutto con pietre piccole o non squadrate) l’uso di leganti più
tenaci era di fondamentale importanza, onde consentire di aggregare
fra loro gli elementi delle murature e aumentarne la resistenza alla
compressione; materiali più durevoli vennero perciò prodotti con tra-
sformazioni di tipo chimico dovute, principalmente, alla cottura di
rocce particolari.
I leganti preindustriali sono costituiti da gesso e calci; il loro uso
non era limitato alle strutture portanti (malte e calcestruzzi), ma si
estendeva ai rivestimenti (intonaci), alle decorazioni in rilievo (stuc -
chi), alle pavimentazioni.
I leganti vengono definiti anche materiali ‘litoidi’, dato che deriva-
no da quelli litici, ad essi assomigliano e come tali si comportano. Si
ottengono per trasformazione di alcune rocce sedimentarie di origine
chimica, sia solfatiche, sia carbonatiche (cfr. I.1.).
La selenite o pietra da gesso ha una composizione solfatica, è mono-
mineralica, essendo costituita prevalentemente da cristalli di gesso, o
solfato biidrato di calcio (Ca SO4 2H2O), il quale si trova in natura in
formazioni stratificate, dovute a depositi originati per evaporazione di
bacini d’acqua chiusi.
Per la produzione di calci si usavano invece rocce sedimentarie car-
124 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

bonatiche, ovvero calcari. Molto adatti erano quelli puri, cioè con alto
contenuto di carbonato di calcio, costituito per lo più dalla calcite
(CaCO3), che in alcune formazioni può anche trovarsi in quantità pari
al 95%.
In alcune circostanze vennero utilizzati anche i marmi, originati
dal metamorfismo dei calcari (cfr. I.1.), e nei quali il carbonato di cal-
cio può rappresentare il 98-99% della roccia; tuttavia essi sono poco
adatti alla produzione di calce, perché macrocristallini. Anche i calca-
ri meno puri, contenenti cioè piccole quantità di quarzo, ossidi di ferro,
o minerali argillosi, venivano utilizzati, in passato, per la produzione
di leganti.
Un altro litotipo calcareo molto usato era la dolomia, anch’essa
roccia sedimentaria di origine chimica, costituita da carbonato di cal-
cio e magnesio (CaMg (CO3)2). Non molto diversi sono i calcari dolo-
mitici, rocce ‘intermedie’ fra i calcari e le dolomie, nei quali, a diffe-
renza della dolomia, il rapporto calcio-magnesio non è sempre pari a
1:1, ma la quantità di calcio è maggiore; in pratica si tratta di litotipi
formati da calciti, dove il magnesio sostituisce una parte del calcio.

2. I sistemi di estrazione

Rispetto alle cave di pietra da taglio, che dovevano fornire blocchi


grandi, regolari e senza difetti, quelle per la pietra da calce, erano
basate su procedimenti assai meno complessi. Le cave erano sempre
organizzate a gradoni, con un fronte e un piazzale, ma per l’estrazio-
ne non si operavano i faticosissimi e regolari solchi delle ‘tagliate a
mano’, ma si cercava di sfruttare ogni difetto, ogni crepatura o frattu-
razione naturale. I massi potevano essere distaccati dalla roccia
madre con picconi e leve o con cunei infissi a martello nelle fessure.
Dopo il distacco le pietre venivano fatte rotolare sul piazzale, per esse-
re ridotte in frammenti minori.
Appena estratte avevano perciò forme irregolari; le dimensioni
potevano essere diverse, tuttavia non troppo piccole, né troppo gran-
di, in modo da agevolare le operazioni di trasporto: la lunghezza idea -
le non superava i 20-30 centimetri.
Dalla fine del XVII secolo nelle cave per pietra da calce è stato
introdotto massicciamente l’uso di esplosivi, proprio perché non vi
erano precauzioni di rovinare il materiale e tutto il prodotto estratto
poteva essere utilizzato.
Aurora Cagnana 125

3. Il ciclo di lavorazione del gesso

Il gesso veniva ottenuto in seguito alla cottura della selenite, a


temperature relativamente basse. Già a 130° C, infatti, questa roccia
subisce una trasformazione chimica, dovuta alla parziale disidrata-
zione, che dà luogo al solfato di calcio semiidrato:

2(Ca SO 4 2H2O) + 130° = (Ca SO4)2 H2O + 3 H 2O

Si tratta del cosiddetto gesso a presa rapida, utile solo per inter-
venti veloci. A questo stadio la trasformazione è reversibile, in quanto
il semiidrato, se impastato, può riprendere acqua e quindi tornare
rapidamente biidrato, ovvero a una forma abbastanza resistente.
Con una cottura a 160°-180° C si ottiene il gesso da stuccatori, che
impiega pochi minuti per fare presa.
Se invece la selenite viene cotta a temperature di 400°C o superio-
ri ha luogo una completa disidratazione (gesso cotto) e si ottiene il sol-
fato di calcio anidro.

2 (Ca SO 4 2H2O) + 400°C = (Ca SO4)2 + 4H2O

Questo materiale, impastato con acqua ed esposto all’aria, ricri-


stallizza più lentamente, diventando prima semiidrato e poi biidrato.
La scagliola deriva invece dalla miscela di gesso da stuccatori e
selenite macinata finissima, unita a colla animale. Ha una presa nor-
male ed è perciò adatta a essere utilizzata per la produzione scultorea,
ad esempio nei modelli per la statuaria in pietra, oppure negli altari e
paliotti, realizzati a imitazione del marmo.
Se la cottura avviene a temperature comprese fra i 600° e i 900°, si
ottiene il cosiddetto gesso morto, o cotto a morte. È un materiale assai
stabile e poco idratabile.

Poiché è il più facile da produrre, potendo subire trasformazioni


reversibili già a basse temperature, il gesso è la più antica sostanza
legante prodotta artificialmente. Quello a presa lenta, infatti, è molto
plastico, adatto a essere modellato, e solidificandosi non cambia volu-
126 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

me, perciò non ha bisogno di inerti. L’unico inconveniente che presen-


ta è quello di essere molto igroscopico, vale a dire che allo stato micro-
cristallino è assai poroso e perciò assorbe acqua la quale tende, col
tempo, a polverizzarlo. Per questo il suo uso era maggiormente adat-
to nelle regioni con climi caldi, oppure negli interni.
Come legante fu utilizzato dagli Egizi, dal terzo millennio a.C., (si
trova ad esempio nelle piramidi di Gizah e nelle tombe di Saqqara) e
in età minoica. In seguito venne utilizzato assai più per gli intonaci e
per gli stucchi (cfr. III.7.) che per l’allettamento delle pietre nei muri.

4. La calce: cottura, spegnimento, impasto, presa

Le malte sono miscele costituite da legante di calce, sabbia aggiun-


ta come aggregato (un tempo chiamato inerte) e da acqua. Al contatto
con la CO2 dell’aria il legante indurisce, diminuendo di volume e
diventando consistente, pertanto è un materiale particolarmente
adatto come impasto per l’allettamento delle pietre nei muri.
Nella classificazione tecnologica, la distinzione fondamentale va
fatta fra malte aeree, nelle quali il legante fa presa con l’aria, e malte
idrauliche, che possono far presa anche in assenza di aria, come
sott’acqua (cfr. III.5.).
Un’altra distinzione viene fatta, in base alla composizione chimica
dei leganti, fra calci grasse e calci magre: le prime si ottengono dalla
cottura di calcari, le seconde dalla cottura di dolomie o di calcari dolo-
mitici, e perciò vengono dette anche calci magnesiache.
Occorre non confondere il concetto di calce grassa o magra con
quello di malta grassa o magra: le malte grasse contengono infatti
maggiori quantità di legante, mentre quelle magre ne hanno percen-
tuali minori. Si possono così avere, ad esempio, malte grasse di calce
magra, o viceversa.

La preparazione delle calci aeree grasse si ottiene in seguito alla


cottura a 900°C di pietre calcaree. A tale temperatura il carbonato di
calcio si trasforma tutto in ossido di calcio (CaO) o calce viva, con
emissione di anidride carbonica, che si disperde nell’atmosfera.

CaCO3 + 900° = CaO (calce viva) + CO2


Aurora Cagnana 127

La calce viva è un composto molto caustico, poiché il calcio (come il


magnesio) fa parte degli elementi alcalino-terrosi, i quali, ossidati,
sono basi molto aggressive, in quanto tendono a idratarsi velocemen-
te, cioè a catturare idrogenioni e quindi a disidratare i tessuti organi-
ci. Per tali motivi la calce viva era molto usata in passato come disin-
fettante.
Prima di essere impiegata nelle murature deve essere spenta con
acqua. Il sistema tradizionale di spegnimento consisteva nella pre-
parazione del grassello. Le zolle di calce viva venivano messe a bagno
con quantità d’acqua poco superiore a quella necessaria per idratar-
si chimicamente. Questa operazione dà luogo, con abbondante emis-
sione di calore, alla calce spenta (Ca (OH)2), cioè all’idrossido di cal -
cio. Durante lo spegnimento la calce viva veniva molto impastata,
oppure lasciata macerare a lungo, affinché la reazione fosse comple-
ta. È questo grassello che veniva impastato nei cantieri, insieme a
sabbia e acqua, per ottenere miscele pronte a essere poste in opera
nei muri.
Oggi sappiamo che l’idrossido di calcio ha una struttura cristalli-
na, essendo costituito da individui di forma tabulare che esistono
anche in natura, con il nome di portlandite. È interessante osservare
come questo composto, a differenza della calcite di partenza e dell’os-
sido di calcio, con una aggiunta limitata di acqua diventi plastico, ana-
logamente all’argilla (cfr. II.1.). È molto probabile che tale plasticità
sia dovuta alla forma cristallina della portlandite, che, analogamente
ai minerali argillosi, ha un abito lamellare. Anche l’idrossido di calcio
è un prodotto caustico, come la calce viva.
Una volta impastato e allettato nelle murature, l’idrossido viene a
contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera e provoca una carbo -
natazione, con altra emissione di calore, che causa la ricristallizzazio-
ne della calcite, di conseguenza ritorna alla durezza del calcare origi-
nario.

CaO + H 2O = CaOH 2 (idrossido di calcio o portlandite)


CaOH2 + CO2 = Ca CO 3 (calcite) + H 2O

La calce viva poteva essere prodotta nei cantieri, oppure acquista-


ta da fornaci poste in prossimità delle cave, fuori dagli abitati, in aree
boscose, dove era più facile l’approvvigionamento di legna.
128 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Il grassello invece, essendo pastoso e bagnato, non poteva essere


commerciato facilmente, pertanto veniva prodotto direttamente nei
cantieri. Quello che non era usato subito veniva conservato in fosse,
coperto con acqua, (talvolta anche con pelli) per proteggerlo dal con-
tatto con l’aria e per impedirne la reazione con l’anidride carbonica
che avrebbe causato la carbonatazione prima del tempo.
Nel secolo scorso, con l’industrializzazione e con la nascita della
scienza dei materiali è stato introdotto un altro sistema di spegni-
mento, di tipo stechiometrico, cioè basato sulla combinazione di mole-
cole di ossido di calcio e molecole di acqua, in quantità calcolate in
base al peso. Ciò dà luogo a un idrossido di calcio che non si presenta
in forma plastica, perché non ha acqua in sovrabbondanza, ma in
forma di polvere ed è perciò più facilmente commerciabile. Se viene
mantenuto sigillato, in modo da non carbonatarsi al contatto con l’a-
nidride carbonica e con l’umidità dell’atmosfera, può essere anche con-
servato. Se invece i sacchi sono di carta e traspirano, la parte esterna
della calce spenta viene progressivamente a contatto con l’anidride
carbonica dell’aria e, in presenza di umidità, avviene la reazione di
carbonatazione, che porta alla formazione della calcite. Poiché l’idros-
sido di calcio in polvere non può essere distinto, a vista, dal carbona-
to di calcio, se è commerciato nei sacchetti va usato fresco, prima che
avvenga la carbonatazione a contatto con l’aria.

La preparazione delle calci aeree magre ha luogo in seguito alla


cottura di rocce magnesiache (calcari dolomitici o dolomie); la presen-
za del magnesio (sopra al 10%) dà meno plasticità e una presa più
lenta al legante. Con temperatura pari a circa 900°C si ottengono ossi-
do di calcio e ossido di magnesio (CaO e MgO), entrambe caustici,
anche se il magnesio è meno aggressivo perché più lento è il suo pro-
cesso di idratazione rispetto a quello del calcio.

Ca Mg (CO 3)2 + 900° = CaO + MgO (calce viva) + CO2

Lo spegnimento della calce viva magra con acqua produce un gras-


sello costituito da idrossido di calcio (Ca(OH)2) e idrossido di magne-
sio (Mg(OH)2). Come la portlandite anche l’idrossido di magnesio esi-
ste in natura e viene definito brucite; essa ha un abito cristallino fibro-
so, non soggetto a comportamenti plastici.
Aurora Cagnana 129

CaO MgO +2 H 2O = Ca(OH) 2 (portlandite) Mg(OH)2(brucite)


Ca(OH)2 + CO2 = CaCO 3 (calcite)
Mg(OH)2 + CO2= MgCO 3 (magnesite)

Lo spegnimento dell’ossido di calcio e dell’ossido di magnesio avvie-


ne con emissione di molto calore, è cioè una reazione esotermica. La
formazione degli idrossidi e della plasticità causa anche un notevole
aumento di volume, che poi con la carbonatazione viene perso.
A contatto con l’anidride carbonica dell’atmosfera l’drossido di cal-
cio si trasforma in calcite, mentre l’idrossido di magnesio o resta tale
o, più difficilmente, si trasforma in magnesite. Mentre l’idrossido di
calcio non lega finché non ha compiuto la carbonatazione, l’idrossido
di magnesio, invece, è un composto già molto resistente. Ciò spiega
perché le calci magnesiache fanno presa anche con poca anidride car-
bonica.

L’aggregato, che viene impastato col grassello prima della posa in


opera, è il componente della malta che non reagisce e non cambia
stato né volume, impedisce perciò al legante di spaccarsi durante la
carbonatazione. Quest’ultima, infatti, causa nel legante un ritiro di
volume, e poiché ciò avviene in tempi differenti per le parti esterne e
per quelle interne, può provocare la spaccatura del materiale. È per
tale motivo che si rende necessaria l’aggiunta dell’aggregato, ovvero di
altro materiale litico fine, che non ha ritiro. Esso ha inoltre una fun-
zione di dimagrante, in quanto riduce la plasticità della calce, che è
molto alta. Generalmente la miscela migliore consiste nel combinare
1 parte di calce e 3-4 parti di inerte. Queste proporzioni variano però
a seconda dello spessore della malta: quanto più è maggiore tanto più
aumenta il ritiro ed è necessario l’aggregato. Le percentuali in rap-
porto allo spessore sono indicate nella tabella seguente:

SPESSORE MALTA % AGGREGATO


> cm 2,0 75-80%
cm 1-2 65-70%
mm 1-2 50%

L’aggregato più usato è la sabbia, ma era frequente anche l’uso di


rocce macinate. Se si dovevano ottenere composti di colore bianco, si
frantumavano minerali selezionati, come ad esempio la calcite. Talora
certi elementi dell’aggregato reagiscono chimicamente con il grassel-
130 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

lo, aumentando la resistenza della malta: perciò si preferisce oggi il


temine ‘aggregato’ a quello di inerte.
Le caratteristiche più importanti sono la granulometria (che deve
raggiungere dimensioni tanto più grandi quanto più abbondante è l’i-
nerte) e la resistenza dei litotipi costituenti.
In genere non venivano usate sabbie a granulometria omogenea,
(ovvero ‘classate’), sia perché in natura sono rare (e si potevano otte-
nere solo con una doppia setacciatura) sia perché sono meno buone, in
quanto lasciano più spazi vuoti, non avendo materiale fine in grado di
riempirli.
Le sabbie fluviali generalmente sono poco classate e presentano
granelli con dimensioni varie, che vanno dall’ordine del micron ai cla-
sti ben visibili a occhio. Esse potevano perciò fornire un aggregato in
grado di riempire anche i vuoti minuti della malta, lasciando al legan-
te solo il compito di saldare fra loro i granuli. Le sabbie con frazioni
grossolane, cioè con granulometria molto estesa, richiedono minor
quantità di legante e permettono perciò di ottenere una malta più
magra in grandi spessori. Le elevate dimensioni granulometriche non
riducono la resistenza alla compressione, soprattutto se i granelli sono
costituiti da rocce dure e tenaci. Questo principio è alla base del cal -
cestruzzo, una miscela di ciottoli o schegge di pietra, sabbia e calce. Se
il materiale fine delle sabbie è in grado di riempire tutti i vuoti lascia-
ti da quello grossolano e la durezza dei clasti maggiori è alta, il calce-
struzzo ha una resistenza pari a quella di un’arenaria con cemento
calcareo. Fra la calce e l’inerte sono possibili legami fisici e chimici; i
primi sono costituiti dall’eventuale penetrazione del legante nei pori
dell’aggregato, mentre i secondi si stabiliscono in superficie fra i cri-
stalli di calcite e i minerali che formano gli inerti. Come nelle rocce,
questi legami hanno una resistenza più bassa di quelli interni ai cri-
stalli stessi. In pratica si crea artificialmente un materiale che ha le
stesse caratteristiche delle arenarie, formatesi in seguito alla litifica-
zione, attraverso cemento calcareo, di sabbia marina (cfr. I.1.). Nella
scelta delle sabbie è dunque importante che i costituenti abbiano una
durezza uguale o maggiore rispetto a quella del carbonato di calcio.
Per il prelievo della sabbia generalmente sono migliori le spiagge
lacustri o gli alvei dei fiumi non torrentizi, dove cioè l’argilla viene
separata durante la sedimentazione. La presenza di poca argilla
cruda nelle malte è infatti dannosa, mentre per ragioni non ancora
note, si è osservato che, al contrario, la presenza di poca calce in gran-
de quantità di argilla cruda ha dato buoni risultati. L’uso della sabbia
Aurora Cagnana 131

marina era sconsigliato anche nella trattatistica antica: per poter


essere impiegata quest’ultima doveva essere lavata accuratamente, in
modo da togliere il sale, la presenza del quale alterava la presa.
Un altro tipo di inerte era il pietrisco, o pietra macinata. La pro-
duzione di questo materiale, laddove non era disponibile sabbia, era
un lavoro non particolarmente specializzato, ma che richiedeva molta
fatica fisica.
Fra l’inerte costituito da pietrisco macinato ve ne è un tipo ottenu-
to da pietre scelte e selezionale intenzionalmente: la calcite o il
marmo. Questi materiali, dopo essere stati macinati e setacciati veni-
vano utilizzati soprattutto negli intonaci esterni (cfr III.6.), il loro
impiego era dovuto non solo alla necessità di ottenere il colore bianco,
ma anche al fatto che, per motivi non ancora chiariti, rendono più resi-
stente il rivestimento.

La calcinazione delle rocce calcaree richiede, come si è visto, tem-


perature maggiori rispetto alla cottura del gesso e quindi maggiori
quantità di combustibile e impianti di cottura più complessi; pertan-
to, alcuni studiosi sostengono che la sua scoperta sia da ritenersi più
tarda rispetto ai leganti a base di gesso, anche se la sua origine non è
ancora del tutto certa. Secondo N. Davey in Egitto vi sarebbero poche
prove di un impiego della calce prima del periodo tolemaico. L’uso
delle calci nelle costruzioni era certamente noto ai Minoici, ai Micenei
e ai Greci dell’epoca arcaica, anche se l’uso principale che ne veniva
fatto era per i rivestimenti (cfr. III.6.) e, in misura assai minore, per
le malte.
È solo con l’età romana che questo materiale venne utilizzato siste-
maticamente per le murature; la sua introduzione nell’architettura si
data attorno alla fine del III sec. a.C. e a partire da questo momento
il suo impiego si generalizza sempre più. Alcuni archeologi hanno pro-
posto una spiegazione assai convincente di questo fenomeno, osser-
vando che l’enorme afflusso di ricchezze e di manovalanza servile,
seguito alla conquista militare del Mediterraneo, aveva determinato
forti investimenti nell’industria edilizia, nella quale veniva impiegata
abbondante mano d’opera schiavistica, poco specializzata; ciò avrebbe
reso necessario adottare sistemi costruttivi più standardizzati e velo-
ci rispetto alla costruzione di muri in pietra squadrata e avrebbe reso
conveniente un uso generalizzato dei muri pietra a spacco e malta.
La prima descrizione del funzionamento di un forno da calce si
deve a Catone (De Agr. XLIV, 38) e risale al 160 a.C. circa. Lo scritto-
132 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

re latino descrive un impianto dotato di una o due bocche e di un foro


di sfiato posto nella parte alta della cupola, che doveva essere carica-
ta con pietre bianche, accendendo il fuoco in basso e facendo fuoriu-
scire il fumo dall’apertura superiore. Della preparazione di malta par-
lano estesamente, in seguito, anche Vitruvio (De Arch. II,5) e Plinio
(Nat. Hist.XXXVI). L’impiego sistematico della calce permise il perfe-
zionamento delle malte idrauliche (cfr. III.5.) e l’utilizzo su ampia
scala del calcestruzzo (detto caementum, da caementa = scaglie lapi-
dee) per costruire volte di dimensioni eccezionali.
Una organizzazione produttiva assai articolata è attestata, per l’e-
poca tardoimperiale, dal Codice Teodosiano, dove si apprende che per
la cottura della calce esisteva una speciale corporazione di calcarien -
ses, sorvegliati da un praepositus calcis. Quando, nel 365, l’imperato-
re Valentiniano dispose la fornitura alla città di Roma di 3000 carret-
tate annue di calce, destinate alla manutenzione degli edifici pubblici,
il trasporto venne affidato a un’apposita corporazione di vecturarii,
anch’essi sottoposti alla sorveglianza del praepositus calcis.
L’industria della calce non tramontò nei secoli dell’Altomedioevo,
quando la sua produzione è ancora attestata sia da prove archeologi-
che sia da fonti scritte. Interessante è a tale proposito la scoperta, a
Roma, negli scavi della Crypta Balbi, di una fornace databile fra la
fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Costruita a ridosso di murature di
età augustea, era costituita da una grande struttura cilindrica scava-
ta nel terreno; le pareti erano di laterizi reimpiegati, legati da argilla.
La pianta presentava la strozzatura di collegamento fra la camera di
cottura e il praefurnium, caratteristica anche delle fornaci da cerami-
ca (cfr. II.5). Nei pressi si è rinvenuto un deposito di materiale chia-
ramente destinato alla cottura, costituito da elementi architettonici di
recupero (soprattutto travertini e, in misura minore, marmi bianchi,
oltre a rari frammenti di marmi colorati). Assai interessante era inol-
tre la presenza di una risega interna, sporgente di 40 centimetri, che
seguiva l’intero perimetro della camera di cottura, (tranne che in cor-
rispondenza del prefurnio), interpretabile come un piano d’appoggio
destinato a sostenere la ‘volta’ che veniva realizzata con i blocchi da
calcinare. Tale risega corrisponderebbe al fórtax descritto da Catone,
caratteristico dei forni da calce di età romana, poi scomparso in epoca
medievale; l’esempio della Crypta Balbi testimonierebbe perciò la
sopravvivenza di questo elemento in un periodo assai avanzato.
Nei forni di età successiva, fino a quelli descritti nell’Encyclopédie
di Diderot e D’Alembert, la ‘volta’ formata dai blocchi da calcinare,
Aurora Cagnana 133

veniva costruita diretta-


mente sul fondo, come indi-
cano numerose prove
archeologiche e iconografi-
che.
Alcuni impianti post-
medievali di questo tipo,
ancora ben conservati nella
periferia occidentale di
Genova, sono stati oggetto
di studi recenti; il confron-
to fra analisi dei manufatti
e lettura delle fonti archivi-
stiche ha permesso di cono-
scere molti dettagli sulla
produzione e sul mercato
della calce fra XVII e XIX
secolo. Ogni unità produt-
tiva era composta da una
fornace e dall’attigua casa
del calcinarolo, che lavora-
va alle dipendenze del fab -
bricante, il quale era pro-
prietario degli impianti,
dei boschi che fornivano il
49- La fornace da calce altomedievale combustibile, dei mezzi di
rinvenuta a Roma, negli scavi della trasporto (muli e imbarca-
Crypta Balbi (da SAGUì 1986) zioni) e persino di piccoli
scali costieri. Ogni cottura
richiedeva da quindici a
venti giorni; il fornaciaio
poteva controllare continuamente l’andamento delle ‘cotte’ dalla pro-
pria casa, collegata alla fornace tramite un apposito vano.
L’operazione di carico, tramite la costruzione del ‘volto’, era assai deli-
cata, poiché da essa dipendeva il buon esito della cottura; perciò
richiedeva la presenza di uno specialista (maestro), aiutato da alcuni
fornacini. Per sapere se la ‘cotta’ era ultimata si prelevava una picco-
la porzione di materiale inserendo nel ‘volto’ lunghe aste uncinate
(panferri). Non appena raffreddata, la calce viva veniva immagazzi-
nata in botti di legno, fatte scendere a valle tramite muli e quindi con-
134 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

dotte presso i cantieri, oppure trasportata su piccole imbarcazioni fino


al Ponte Spinola, nel porto di Genova, dove era venduta al minuto. La
Magistratura dei Censori, dotata di specifiche competenze in materia
edilizia, regolamentava tutte le fasi della produzione e dello smercio.
La fornace, ad esempio, poteva essere caricata, ma non si poteva
avviare la cottura prima del controllo e della verifica della qualità del
combustibile e del tiraggio. La cottura stessa non poteva poi essere
ultimata senza un’ulteriore ispezione: nel caso in cui si fosse riscon-
trata la presenza di materiale ancora crudo, la vendita di tutta l’infor-
nata sarebbe stata vietata. Solo per la calce riuscita “di perfezione”,
veniva autorizzato lo smercio, ma il prezzo, le unità di misura adotta -
te, il luogo della vendita erano sottoposti a ulteriori normative.

Tutte le fornaci descritte sino ad ora sono di tipo intermittente,


ovvero basate sulle tre distinte fasi di carico, cottura, scarico. Più rare
erano quelle a fuoco continuo, certamente esistenti già in età basso-
medievale e descritte anche nell’Encyclopédie di Diderot-D’Alembert;
in questi impianti la cottura veniva eseguita tramite la sovrapposi-
zione di strati alterni di calcare e di combustibile.

Se lo studio storico e archeologico degli impianti per la cottura


della calce e delle successive fasi del ciclo produttivo delle malte sono
abbastanza sviluppati e ci forniscono, perlomeno, una vasta casistica,
ancora molto problematica è invece la conoscenza del comportamento
chimico delle sostanze leganti; campo d’indagine che richiederebbe un
vasto programma di ricerche archeometriche mirate e puntuali. La
scarsa conoscenza della chimica delle malte è anche dovuta al fatto
che, dopo l’introduzione del cemento Portland (cfr. III. 5), l’uso dei
leganti tradizionali è stato abbandonato e con esso anche l’analisi
scientifica dei loro comportamenti; si pensi che solo da poco si cono-
scono le dinamiche della reazione di carbonatazione dell’idrossido.
Un caso particolarmente significativo di questo vuoto di conoscen-
ze è rappresentato dal problema delle calci magnesiache, in passato
molto usate, ma sulle quali si sono acquisite solo di recente le prime
conoscenze scientifiche. Nei manuali sui materiali da costruzione con-
temporanei esse vengono spesso definite poco plastiche, a presa lenta
e, in definitiva, scadenti.
Le ricerche condotte da diversi anni sui leganti del centro storico
di Genova (e in particolare sulle infrastrutture portuali) hanno invece
permesso di constatare come in questa città l’uso di calci magre sia
Aurora Cagnana 135

50- Fasi di carico (costruzione


del ‘volto’), cottura e scarico in
una fornace da calce del XVIII
secolo del genovesato (da
VECCHIATTINI 1998)

stato sistematico, dal XII secolo in poi, e non solo per le murature, ma
anche per i rivestimenti esterni e per le opere idrauliche. Il loro otti-
mo stato di conservazione, che contrasta con i giudizi negativi dei
manuali, ha fatto supporre che la scelta dei calcari dolomitici non sia
stata casuale, ma dettata da una precisa volontà. Si consideri, ad
esempio, che l’area tradizionale per la produzione delle calci, (descrit-
ta più sopra), è posta in corrispondenza dell’unico affioramento di cal-
cari magnesiaci esistente nei dintorni di Genova. Si può persino ipo-
tizzare che a introdurre l’uso della calce magnesiaca siano stati i
Magistri Antelami, (corporazione di costruttori lombardi attiva a
Genova fino alla caduta dell’Antico Regime) esplicitamente citati nel
più antico atto notarile relativo alla produzione di calce, redatto nel
XII secolo. Che i maestri lombardi prediligessero la dolomia è d’altra
parte emerso da un recente studio condotto sulle cave medievali della
zona dei laghi di Varese, dove, fra le varie formazioni calcaree presenti
136 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

51- Operazione di spegnimento della calce viva con acqua e formazione del
grassello (da una miniatura del XV secolo conservata a Vienna, Österrei-
chische Nationalbibliothek)
Aurora Cagnana 137

nella zona, veniva sistematicamente scelta la dolomia ladinica, anche


in presenza di calcari puri.
Tutti questi indizi sembrano dunque indicare che l’utilizzo di
rocce magnesiache per la produzione delle calci non fosse casuale, ma
intenzionale.
Evidentemente l’avversione per il magnesio è iniziata fra la fine
dell’Ottocento secolo scorso e gli inizi del Novecento, contemporanea-
mente al diffondersi del cemento Portland, in sostituzione delle malte
tradizionali.

5. Far presa sott’acqua: le malte idrauliche

Esistono alcuni particolari tipi di materiali leganti che possono


indurire e fare presa in ambienti molto umidi, oppure sott’acqua, cioè
in assenza di aria; di conseguenza essi permettono la costruzione delle
opere marittime e idrauliche in generale.
In passato erano in uso diversi sistemi per costruire nell’acqua:
-tramite additivi idraulicizzanti che venivano aggiunti all’inerte e
quindi impastati con le normali calci aeree. Durante la carbonatazio-
ne essi reagivano con la calce, creando composti più resistenti all’u-
midità di quanto non sia il carbonato di calcio;
-cuocendo calcare marnoso, ovvero rocce contenenti argilla in per-
centuale variabile fra il 10 e il 25%;
-usando calce aerea, meglio se magnesiaca, senza additivi e
costruendo all’asciutto, entro palancolate e attendendo la presa,
prima di immettere l’acqua.

L’uso di additivi doveva essere il più frequente fra i leganti idrau-


lici del passato. I Greci utilizzavano, ad esempio, la pietra pomice del-
l’isola di Santorino, macinata e mescolata all’inerte, oppure la terra
vulcanica, di colore scuro, dell’isola di Thera, o ancora frammenti di
laterizi pestati. Questi ultimi due sistemi vennero particolarmente
sviluppati in età romana, quando si impiegò abbondantemente la
terra di origine vulcanica dei colli Albani e del golfo di Napoli, che
venne detta pozzolana dalla città di Puteoli-Pozzuoli.
Anche l’aggiunta di frammenti di laterizi o di altri prodotti ceramici,
che conferiscono alla malta il tipico colore rossastro e che le valgono la defi-
nizione di ‘cocciopesto’, data dagli archeologi, fu molto in uso, sia per i pavi-
menti, sia per gli intonaci, soprattutto nelle cisterne e negli acquedotti.
138 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Tutte queste sostanze usate come additivi sono ricche di silice e


allumina attive, le quali permettono la formazione di silicati e allu-
minati di calcio, composti più resistenti all’acqua di quanto non sia il
carbonato di calcio. La pozzolana è infatti una terra di origine vulca-
nica e perciò è in larga misura costituita da silico-alluminati, così
come la pomice, anch’essa di origine vulcanica. Il cocciopesto è costi-
tuito da frammenti di ceramica, derivata, come si visto, dalla tra-
sformazione in seguito a cottura di minerali argillosi, che sono
appunto silicati idrati di alluminio (cfr. II.1.). Durante la cottura, poi-
ché perdono l’acqua di cristallizzazione, la silice e l’allumina si tro-
vano allo stato libero, non cristallino, e pertanto possono facilmente
combinarsi col calcio.
Se si osserva al microscopio a luce polarizzata una sezione sottile
di cocciopesto, si nota che attorno ai frammenti di mattone macinato,
l’aderenza della calce è maggiore che non attorno ai granuli di sabbia.
Alcune particolari analisi chimiche effettuate al microscopio elettro-
nico in corrispondenza dei granelli di ceramica, hanno dimostrato, in
questa zona, l’avvenuta reazione chimica dell’allumina e della silice
con il calcio, il quale non forma, in questo caso, carbonato di calcio con
l’anidride carbonica. Resta comunque problematico comprendere
come mai il cocciopesto (che solo in parte è costituito da silicati e allu-
minati di calcio e in parte da carbonati di calcio) sia talora più resi-
stente, soprattutto in acqua, persino del cemento Portland, costituito
interamente di silicati e alluminati di calcio.
Un altro tipo di calci rese idrauliche con l’aggiunta di additivi
erano quelle a base di argilloscisto macinato e cotto, oppure di scorie
di fabbro, sempre mescolate all’inerte. Queste sostanze, pur molto
diverse fra loro, hanno in comune il fatto di essere anch’esse ad alto
contenuto di silice e allumina attive: l’argilloscisto deriva infatti dal
metamorfismo di argille, mentre le scorie di fabbro sono costituite da
vetro e, dunque, da silice attiva. A differenza della pozzolana, del coc-
ciopesto, delle scorie di fabbro, che possono essere aggiunti diretta-
mente all’inerte, l’argilloscisto oltre che macinato deve anche essere
cotto. Questo è dovuto al fatto che la silice e l’allumina si trovano nella
roccia combinate chimicamente, all’interno dei reticoli cristallini dei
minerali argillosi; solo attraverso la cottura questi ultimi perdono gli
ossidrili e si trovano allo stato libero, non cristallino, pertanto si pos-
sono legare al calcio in modo da formare silicati e alluminati.
Interessanti dati sulle malte idrauliche medievali e moderne sono
stati raccolti grazie alle accurate ricerche archeologiche condotte sui
Aurora Cagnana 139

moli del porto di Genova, purtroppo demoliti in occasione delle mani-


festazioni colombiane del 1992. Indagini sul costruito, effettuate
parallelamente all’esame delle fonti archivistiche e alle analisi di
laboratorio dei leganti, hanno dimostrato che a Genova l’impiego della
pozzolana, come additivo per ottenere malte idrauliche, non è attesta-
to prima del XVII secolo. Anche nella documentazione scritta, la
prima citazione di questo materiale si trova in un documento del 1612,
proveniente dall’Archivio dei Padri del Comune. Prima di tale epoca le
malte per la costruzione dei moli e delle banchine erano ottenute,
nella maggioranza dei casi, con aggiunta di caolino, argilla primaria
bianchissima (cfr. II.2.). Si pensi che nelle fasce di battigia dei ponti
del XIV-XV, dove cioè il degrado del muro era particolarmente avan-
zato, a causa dell’azione chimica, fisica e meccanica del mare e dei
molluschi litofagi, i giunti di malta idraulica a base di caolino hanno
resistito meglio della stessa pietra calcarea.
Il caolino veniva importato a Genova, insieme all’allume, dai gia-
cimenti laziali della Tolfa, dei quali i genovesi avevano il monopolio
nei secoli XV-XVI. Malte di questo tipo sono state rinvenute in molte
opere idrauliche, fra le quali l’acquedotto pubblico, e sembra che il suo
impiego, protrattosi fino agli anni ‘30 del Novecento, abbia potuto
competere con la stessa introduzione del cemento Portland. Questa
lunga tradizione spiega perciò la sopravvivenza del ricordo di tale
materiale presso alcuni costruttori genovesi che avevano appreso il
mestiere secondo i metodi tradizionali. Tali malte idrauliche venivano
da loro definite “alla porcellana”, forse perché quest’ultima, come si è
visto, è prodotta appunto con il caolino (cfr. II.6). Come l’argilloscisto,
questo materiale doveva essere aggiunto all’inerte dopo la cottura, in
modo da favorire la disgregazione dei cristalli dei minerali argillosi e
quindi la combinazione di silice e allumina con il calcio.
Se l’impiego di un’argilla bianca al posto di additivi che conferisco-
no un colore rosato è comprensibile, per motivi estetici oltre che fun-
zionali, negli intonaci delle facciate, (per le quali l’uso della malta alla
porcellana è ben documentato) più problematico è comprenderne il
significato nelle strutture marittime, destinate a non essere viste.
Non vi sono ancora spiegazioni accettabili sulle ragioni di una tale
scelta, così come non è dato conoscere quali origini abbia questa par-
ticolare formula, alternativa a quella delle malte alla pozzolana, tipi-
che della tradizione romana. È stata avanzata l’ipotesi di una sua ori-
gine orientale, ma troppo scarno è il panorama degli studi e delle ana-
lisi per poter formulare spiegazioni sicure.
140 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Una simile trasformazione chimica del calcio si poteva ottenere


anche cuocendo calcare marnoso, cioè contenente argilla, al posto del
calcare puro o del calcare magnesiaco; in questo caso la formazione di
silicati e alluminati di calcio, che conferiscono l’idraulicità, è propria
della calce stessa, e non dovuta all’aggiunta degli additivi. Calci di
questo genere erano chiamate ‘selvatiche’ in Liguria (perché prodotte
nelle campagne); ‘forti’ in Lombardia e vennero dette ‘idrauliche’ a
partire dall’Ottocento.

Infine, il terzo sistema per ottenere opere idrauliche è assai meno


noto, ma altrettanto antico di quelli fino ad ora descritti; esso consiste
nella costruzione dei muri all’asciutto, con l’impiego di palancolate,
usando malte senza alcun addittivo. Questo metodo viene descritto nel
Codice 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca, datato fra la fine
dell’VIII e l’inizio del IX secolo, e si è fatta l’ipotesi che esso rappre-
senti la sopravvivenza di una tecnica precedente, già usata in età
romana. Pochi sono i riscontri archeologici attualmente noti del suo
utilizzo; è stato adottato, ad esempio, nella costruzione del primo molo
del porto di Genova, quello di San Marco, realizzato all’inizio del XII
secolo. L’esame archeologico e archeometrico ha infatti dimostrato che
tale poderosa struttura è stata costruita all’asciutto, con robustissimi
muri esterni, in conci perfettamente squadrati, legati da calce priva di
additivi, la quale ha resistito in ottimo stato, sebbene immersa per
novecento anni nell’acqua marina. Le analisi di laboratorio della
malta hanno rivelato la presenza di idrossido di magnesio, o brucite,
e ciò prova che è stata usata calce magra. Tuttavia non si conoscono
ancora i procedimenti empirici né i meccanismi chimici che hanno
reso questo materiale tanto resistente all’azione dell’acqua.
È però interessante ricordare che un metodo per la preparazione di
malta idraulica senza addittivi venne descritto, alla metà del XVIII
secolo, dal noto ingegnere francese Loriot, appassionato studioso delle
calci di età romana; egli propose un sistema per la costruzione di opere
idrauliche con calce aerea, che consisteva nell’aggiungere a un gras-
sello “spento da parecchio tempo e conservato in tutta la sua freschez -
za” un terzo di calce viva in polvere. Secondo il Loriot, raggiungendo il
“giusto accordo” dal quale “deriva la perfezione”, si poteva ottenere un
composto con l’”eminente qualità di restare impermeabile all’acqua”.

Con la rivoluzione industriale venne introdotto, fra la fine del


XVIII secolo e l’inizio del XIX, il primo cemento, che venne detto
Aurora Cagnana 141

Portland, per distinguerlo dal caementum romano. Il nome deriva


dalla penisola meridionale della Gran Bretagna dove veniva estratta
la roccia utilizzata. Si prepara cuocendo miscele di calcare e argilla a
temperature molto alte (1450°C) le quali permettono la completa
combinazione della calce con la silice e con l’allumina allo stato fuso.
Il materiale di cottura, detto clinker, viene poi raffreddato e quindi
macinato con l’aggiunta di piccole quantità di gesso, necessario a ral-
lentare la presa.

6. Gli intonaci

La preparazione degli intonaci, per il rivestimento e la rifinitura


delle superfici murarie, era basata sulle stesse regole viste per le
malte: miscela di calce aerea con sabbia, acqua, ed eventuali additivi,
e successiva presa a contatto con l’aria.
Per evitare il problema del ritiro di volume dell’idrossido, dopo la
carbonatazione, non si potevano realizzare intonaci di grande spesso-
re; pertanto, quando si volevano ottenere rivestimenti particolarmen-
te robusti, si applicavano più strati sovrapposti, di spessore via via più
sottile, con inerte in proporzioni sempre minori e di granulometria più
fine.
Per garantire l’aderenza dei vari strati occorreva applicarli quan-
do quello sottostante non era più plastico, ma non era ancora asciut-
to; di conseguenza, quando avveniva la carbonatazione, si verificava
una cristallizzazione comune dei diversi strati che così aderivano fra
loro in maniera perfetta. Ciò richiedeva una procedura veloce, dato
che lo strato superiore doveva essere steso prima che quello sotto-
stante fosse asciutto, cioè cristallizzato.
Lo strato più profondo, posto a contatto col muro, viene detto rin -
zaffatura o arriccio e presenta uno spessore di alcuni centimetri.
Quello superiore, più sottile, è l’intonaco vero e proprio, o arenino, con
spessore da 1 a 2 centimetri e con inerte costituito da sabbia più fine.
Per ottenere poi una superficie liscia e resistente si applica, sem-
pre a fresco, un terzo strato: l’intonachino, dello spessore di 1-2 milli-
metri, costituito da un dimagrante a granulometria finissima.
Generalmente è formato da una malta molto grassa, in quanto con-
tiene solo il 50% di scheletro. Per motivi estetici veniva utilizzato,
generalmente, un aggregato bianco, costituito da marmo o da calcite
macinati; per tale ragione questo strato prende anche il nome di mar -
142 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

52- Operazione di impasto della calce spenta (o grassello) con sabbia e


acqua (da ADAM 1989)

morino. Fra questi due materiali la calcite macinata era migliore, per-
ché, a differenza del marmo, è costituita da cristalli tabulari.

L’uso di rifinire le superfici murarie con diversi strati di intonaco a


base di calce e sabbia è attestato con certezza in alcune città dell’an-
tica Grecia: a Delo si sono riscontrate pareti rivestite da due, tre,
quattro e talora cinque strati di intonaco; spesso nel rinzaffo si trova-
va anche del cocciopesto. A Priene vi sono attestazioni dell’uso di tre
strati di intonaco, l’ultimo dei quali presentava un inerte costituito da
polvere di marmo.
Dei rivestimenti parietali parla diffusamente anche Vitruvio (De
Arch. VII, 3), che raccomanda l’uso di ben sette strati, indicazione che
però non pare aver trovato riscontri archeologici, dato che, general-
mente, i rivestimenti di epoca romana sono costituiti da 3 a 5 strati e
solo eccezionalmente se ne sono riscontrati sei. Alcuni cantieri incom-
piuti, come quello celebre della casa del Criptoportico di Pompei,
Aurora Cagnana 143

hanno permesso di capire che l’applicazione del rivestimento era fatta


a fasce orizzontali, partendo dall’alto e proseguendo verso il basso,
all’evidente scopo di evitare di macchiare le zone sottostanti. Il lavoro
progrediva a ‘giornate’ successive, nelle quali su una determinata
fascia di superficie venivano stesi arriccio, arenini, intonachino, e per-
sino l’affresco (cfr. IV. 4.).
L’uso di intonaci non sembra essersi interrotto nel corso
dell’Altomedioevo: i Magistri Comacini, ad esempio, fissano un prezzo
particolare per realizzare un muro albato, (cioè intonacato); tuttavia
il riscontro con i dati archeologici sembra indicare che, in molti casi, il
rivestimento si limitava semplicemente a un rinzaffo delle pareti,
senza ulteriori rifiniture.
L’utilizzo di più strati di intonaco riprende nei secoli seguenti,
soprattutto per le superfici interne. Dal XV-XVI secolo in poi, con il
decadere del gusto per le murature in pietre squadrate a vista,
aumenta massicciamente l’impiego di intonaci, anche per gli esterni.
Oltre a quelli affrescati si sperimentano numerosi altri tipi di rivesti-
mento: con decorazioni in rilievo, a imitazione di bugnati, graffiti.
L’esame sistematico degli atti notarili che riguardano i cantieri
edili genovesi fra il XVI e il XVII secolo, ad esempio, ha permesso di

53- Esempio di ‘infrascatura’; a sinistra la parte originale, a destra la


parte restaurata dove le righe sono ottenute con pezttine di legno
144 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

54- Microfotografia dove


sono evidenti i successi-
vi strati di preparazio-
ne: intonaco e intona-
chino al marmo (o mar-
morino) (Genova, Palaz-
zo Ducale)

evidenziare una straordinaria ricchezza lessicale per indicare i vari


tipi di rivestimenti parietali allora in uso: (imboccare, indarbare,
indarbusare, infrascare). Fra queste operazioni, l’infrascatura era un
tipo particolare di intonachino, rifinito da rigature leggermente in
rilievo, quasi parallele fra loro. Non si conosce in dettaglio il sistema
col quale questo intonaco veniva realizzato, ancora negli anni ‘30 di
questo secolo, ma da testimonianze orali si è potuto apprendere che
per praticare le righe si usavano rami (‘frasche’, da cui il nome) di allo-
ro o di lentischio, piante con foglie piuttosto untuose e quindi tali da
scivolare bene sull’intonaco ancora bagnato.
Attraverso le analisi di laboratorio di alcuni campioni genovesi del
XVI e XVII secolo si è talvolta riscontrata, al posto dell’intonachino, la
presenza di una superficie liscia e ben levigata, costituita da una fine
stuccatura di grassello puro, che viene definita ‘pasta’.

Oltre che per i rivestimenti parietali l’intonaco venne utilizzato


anche per speciali rifiniture, che fingevano la presenza di marmi
lucidi, bianchi o colorati, lavorati a rilievo, o di conci a bugnato rea-
lizzati in pietre particolari. Questi rivestimenti, che costituiscono
talora delle superfici piane e talora degli elementi modanati o delle
finte architetture, sono costituiti da un marmorino esterno levigato
e, nelle superfici piane, anche lucidato a caldo. Tale uso è ben atte-
stato dal XVI secolo in poi, in Italia settentrionale. Alla conoscenza
delle tecniche di realizzazione hanno contribuito anche le testimo-
nianze orali di alcune famiglie di artigiani liguri, eredi di un mestie-
re che trova le sue lontane origini nella tradizione dei maestri lom-
bardi. Ciò ha permesso di conoscere che la realizzazione degli strati
di base non è diversa rispetto agli altri intonaci, poiché prevede la
Aurora Cagnana 145

serie di arriccio, arenino, intonachino, ciascuno steso su quello sot-


tostante quando è ancora fresco, ma non più malleabile. La coloritu-
ra e lucidatura delle superfici piane si praticano sull’ultimo strato
(l’intonachino a fresco), e prevedono una decorazione dipinta a finto
marmo, con pigmenti sciolti in acqua, una passata di sapone di
Marsiglia sciolto anch’esso in acqua, e infine una lucidatura fatta
con una piastrina di metallo (scaldata a 65-70°C), posta a contatto
con la superficie dell’intonachino e continuamente mossa. La tempe-
ratura del metallo viene misurata empiricamente col dorso della
mano e raggiunge il calore adatto quando, a breve contatto con la
pelle, permette di avvertire il caldo senza scottarsi. Questa opera-
zione rende la superficie sottostante lucida e riflettente, al punto che
è difficile distinguerla dal marmo.
Un sistema simile è documentato anche per la produzione dei
“marmorini lucidi” di Venezia, realizzati, analogamente a quelli di tra-
dizione lombarda, passando sull’intonachino saponato dei ferri d’ac-
ciaio caldi, definiti “ferri da stiro”.
Se il procedimento tecnico è ora sufficientemente noto, la spiega-
zione chimico-fisica di questo meccanismo non è invece altrettanto
chiara; è probabile che il calore della piastra acceleri la carbonatazio-
ne dell’intonachino e impedisca ai cristalli di crescere oltre un certo
limite; in questo senso il metallo caldo bloccherebbe la crescita dei
romboedri della calcite, ottenendo tante facce complanari poste sulla
superficie esterna, che diventa perciò riflettente.

7. Gli stucchi

Col termine ‘stucco’ si indica un particolare tipo di decorazione


parietale in rilievo, realizzata in materiale plastico bianco, eventual-
mente colorato con pigmenti, che indurisce all’aria. È importante
ricordare che tale definizione non si riferisce a un materiale preciso,
dato che gli stucchi possono essere realizzati con leganti derivati da
rocce solfatiche oppure carbonatiche; solo con adeguate analisi di labo-
ratorio è pertanto possibile stabilire l’esatta natura geologica e chimi-
ca di ogni manufatto.
Le tecniche di lavorazione del materiale possono essere di due tipi:
modellamento a mano oppure formatura entro stampi; in entrambe i
casi i particolari vengono aggiunti successivamente, adoperando spa-
tole di varie dimensioni.
146 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

La realizzazione di rilievi in stucco è attestata già nell’antico


Egitto, oltre che nell’architettura minoica e micenea.
Impiegati presso i Greci di età classica, furono particolarmente dif-
fusi dal IV sec. a.C. per la decorazione di case o di monumenti fune-
rari. Nell’architettura domestica di Delo sono attestate decorazioni
parietali in stucco a imitazione delle murature in conci, mentre moti-
vi particolarmente raffinati caratterizzavano invece la produzione
degli stucchi alessandrini. Pare che i Greci utilizzassero prevalente-
mente rocce calcaree e, in misura minore, solfatiche. Secondo alcuni
studiosi la tecnica dello stucco si sarebbe estesa, tramite la Grecia
ellenistica, all’Asia Minore e quindi al Medio Oriente, dove prese avvio
una tradizione artigianale particolarmente ricca presso i Parti e, suc-
cessivamente, presso i Sassanidi.
Decorazioni in stucco sono documentate anche nell’architettura
funeraria etrusca, come attesta il celebre esempio della “Tomba dei
Rilievi” di Cerveteri. Analisi dettagliate hanno dimostrato che i nume-
rosi oggetti quotidiani raffigurati sulle pareti sono stati realizzati in
un impasto di calce e sabbia; formati singolarmente, con apposite
matrici, i singoli motivi sono stati poi saldati alla parete, sopra uno
strato di intonaco dalla superficie ruvida, sul quale erano stati pre-
ventivamente incisi i contorni.
A partire dal I secolo a.C. la diffusione di stucchi si moltiplica: nelle
città campane, a Roma, nel Lazio, si fanno numerose le testimonian-
ze di decorazioni in rilievo sulle pareti e sulle volte; cornici o motivi
annessi a pitture murali si diffondono inoltre nelle provincie romane
occidentali, come la Gallia, la Bretagna e anche il Norico e la
Pannonia.
Un’accurata indagine condotta negli anni Settanta sugli stucchi di
queste regioni ha permesso di comprendere molti aspetti della loro rea-
lizzazione. Gli elementi modanati o le cornici erano non di rado model-
lati in più strati: quelli inferiori costituiti da calce e sabbia e quello
superficiale da malta grassa e marmo macinato. Le cornici in rilievo
potevano essere realizzate soltanto nello strato esterno, oppure, se ave-
vano molto aggetto, venivano abbozzate anche nei sottostanti livelli di
malta. Per ottenere i singoli motivi decorativi si utilizzavano piccole
matrici a forma allungata, che portavano, in negativo, uno o più soggetti
giustapposti e che venivano premute sulla pasta ancora umida. L’esame
comparativo di cornici rinvenute in aree anche molto lontane fra loro ha
dimostrato l’identità di molti motivi e di conseguenza ha indicato la
grande circolazione delle matrici. L’esistenza di artigiani itineranti,
Aurora Cagnana 147

55- Tectores romani intenti a realizzare una decorazione in stucco in un


ambiente interno; il disegno ricostruisce tre diversi tipi di operazioni: rea-
lizzazione di una modanatura liscia; di una cornice decorata a stampo;
modellazione di soggetti a mano libera (da ADAM 1989)

addetti alla preparazione di intonaci e stucchi (tectores), è stata d’altra


parte dimostrata anche da specifiche ricerche di epigrafia; evidente-
mente questi artigiani portavano con loro anche gli stampi.
Per realizzare decorazioni meno stereotipate, più aggettanti o per
vere e proprie scene figurate si ricorreva invece al modellamento a
mano con spatole.
L’analisi chimica di oltre settanta campioni di stucchi prelevati in
varie città delle provincie romane occidentali ha dimostrato che uno
148 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

solo era costituito in prevalenza da solfato di calcio, mentre tutti gli


altri erano stati realizzati con rocce carbonatiche; ciò ha portato a sup-
porre che nelle provincie occidentali dell’Impero gli stucchi venissero
realizzati con calce e sabbia, a differenza delle regioni orientali dove
l’uso di gesso doveva essere prevalente.
Tutt’altro che rare dovevano essere le decorazioni in stucco duran-
te l’Altomedioevo, soprattutto per gli interni dei principali edifici reli-
giosi; l’uso di questo materiale costituiva forse un surrogato della pie-
tra e del marmo, la cui fornitura era divenuta sempre più costosa,
dato l’abbandono progressivo delle cave (cfr. I.3.). La esecuzione di
decorazioni ornamentali, ma anche di veri e propri elementi architet-
tonici (fregi, archetti, pilastrini, capitelli, ecc.) e persino di manufatti
non connessi al supporto della parete (plutei, transenne, altari) è
ampiamente attestata anche nei secoli XI e XII. Le tecniche di lavo-

56- Rivestimento in stucco di una superficie muraria in mattoni (da


DONATI 1990, rielaborata)
Aurora Cagnana 149

razione sono ancora lo stampo entro matrice, oppure il modellamento


a mano, con spatola e stecca, spesso colando l’impasto su un’armatu-
ra di canne o su un nucleo in argilla. Generalmente i motivi richia-
mano il repertorio orientale: bizantino, sassanide o islamico. Questo
dato è di particolare importanza se lo si confronta con i risultati delle
analisi condotte su diversi campioni di stucchi prelevati da vari monu-
menti altomedievali d’Europa, che hanno dimostrato, nella quasi tota-
lità dei casi, l’impiego di gesso pressoché puro. L’esame della materia
prima sembrerebbe pertanto confortare l’ipotesi di una tradizione
artigianale diversa da quella tardoromanana e legata invece alla cul-
tura greco-bizantina o addirittura araba o sassanide.
Un ricchissimo contesto rinvenuto di recente a Gerace (RC), costi-
tuito da oltre 180 frammenti appartenenti a pilastrini, formelle,
archetti, fregi, pulvini, datati ad epoca normanna, è stato probabil-
mente realizzato da artigiani arabi, forse provenienti dalla Sicilia,
come attesterebbe l’analisi dei motivi decorativi.
L’ipotesi della presenza di maestranze orientali, forse bizantine, è
stata avanzata anche per le transenne in stucco rinvenute recente-
mente negli scavi dell’abbazia di San Fruttuoso di Camogli (GE) e
datate fra X e XI secolo. In questo caso, mirate analisi archeometriche
hanno rivelato la presenza di un legante misto, a base di calce aerea
e di gesso e di un inerte la cui composizione petrografica, estranea al
territorio ligure, potrebbe essere di provenienza egea. Se così fosse ci
troveremmo in presenza di maestranze itineranti che avrebbero por-
tato con sé, oltre alle conoscenze tecniche, anche il materiale necessa -
rio alla realizzazione dei manufatti.
Nei secoli successivi, la riaffermazione dei materiali lapidei, e
quindi delle decorazioni scultoree, sembra aver causato (tranne che
nell’area tedesca) una diminuzione nell’uso degli stucchi.
Una rinnovata importanza di questo materiale per la decorazione
architettonica si registra invece a partire dal XVI secolo, sia per gli
esterni, sia, soprattutto, per gli ambienti interni. Forse la causa è da
ricercare nel generalizzato tentativo di imitare l’architettura classica;
ornamentazioni fastose in stucco, talora alternate alla pittura, come
nell’arte romana antica, vengono realizzate da celebri artisti rinasci-
mentali; da questi ultimi traggono origine scuole di stuccatori che
esportano la loro tradizione artigianale in tutta Italia, in Francia, in
Germania e persino nell’Europa orientale.
Questa ricca produzione, che perdura anche per tutto il XVII e il
XVIII secolo, sembra essersi basata soprattutto sulla cottura di rocce
150 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

calcaree: il Vasari, descrivendo la composizione dello stucco romano


raccomanda l’impiego di calce fatta “o di scaglie di marmo o di traver -
tino” impastata con “marmo pesto (...) mettendo due terzi calce et un
terzo marmo pesto”. Dello stuccatore Giovanni da Udine, allievo di
Raffaello, lo stesso autore scrive che “fatto pestare scaglie del più bian -
co marmo che si trovasse, ridottolo in polvere sottile e stacciatolo, lo
mescolò con calcina di travertino bianco, trovò che così veniva fatto
senza dubbio niuno il vero stucco antico”.
Le analisi di laboratorio effettuate su diversi campioni genovesi
hanno dimostrato che essi sono stati realizzati prevalentemente con
calci magnesiache, mentre il gesso prima del XIX secolo è stato usato
pochissimo, e misto a calce. Nelle cornici modanate e nelle finte archi-
tetture la modellazione non si limitava all’ultimo strato, ma doveva
essere fatta anche in quelli sottostanti, fino all’arriccio, onde mante-
nere un intonachino grasso e molto sottile. Pertanto la realizzazione
prevedeva necessariamente la preparazione preliminare di cartoni e
la foggiatura di ogni sporgenza delle modanature in tutti gli strati
inferiori. I dettagli più fini venivano poi elaborati solo nel marmorino.
Quando i motivi decorativi presentavano spessori notevoli, come nei
mascheroni o nei putti, al posto del marmorino si usava uno stucco a
base di calce e gesso, con poco inerte finissimo, che non presentava
ritiri dannosi e che poteva resistere anche negli esterni, come attesta
lo stato di conservazione di molte di queste decorazioni plastiche.

8. Pavimentazioni in ‘signino’ e ‘seminate’

Fin dall’antichità le malte sono state utilizzate ampiamente per le


pavimentazioni, non solo per l’allettamento delle tessere di mosaico o
delle lastre per intarsi marmorei, ma anche come finitura definitiva.
Con ogni probabilità furono ereditati dall’architettura ellenistica i
pavimenti di età romana realizzati in malta resa idraulica da abbon-
dante cocciopesto, dal caratteristico colore rosso, che presero il nome
di opus signinum, derivato dalla città laziale di Signia, l’attuale
Segni. Essi potevano ricevere anche una semplicissima decorazione in
scaglie di marmo o in tessere colorate, disposte in maniera molto spa-
ziata, a formare motivi geometrici o cornici a meandri.
Assai diffusi in tutta l’antichità classica, soprattutto per i vani di
servizio, i pavimenti in cocciopesto vennero utilizzati, in età altome-
dievale, anche nelle chiese e negli edifici pubblici.
Aurora Cagnana 151

La tradizione dei pavimenti in signino conobbe una curiosa conti-


nuità a Venezia, dove, dalla fine del XV secolo, essi presero il nome di
terrazzi, forse perché realizzati in preferenza nelle logge esterne delle
ville. La loro posa in opera, arte in cui i veneti rimasero a lungo degli
specialisti, è ricordata dalle fonti trattatistiche rinascimentali e dai
commentatori veneziani di Vitruvio; essa prevedeva la preparazione
di un impasto ben battuto di calce, cocciopesto, ghiaia, talora arric-
chito con scaglie di marmi. A partire dal XVI secolo e soprattutto nel
corso del XVII e del XVIII secolo la tecnica dei terrazzi alla veneziana,
detti anche seminati, si diffuse fuori dell’area veneta, in tutta l’Italia
settentrionale e anche in Francia, come provano numerose fonti scrit-
te e diverse testimonianze materiali.

9. Principali cause di degrado

Sugli intonaci l’acqua piovana battente esercita un’azione mecca-


nica: può infatti asportare particelle superficiali e provocare solcature
o fenomeni di ruscellamento. In corrispondenza di ganci di ferro, può
causare la formazione di macchie e, se i ferri si gonfiano per la ruggi-
ne, può provocare vere e proprie rotture.
L’erosione superficiale dell’intonaco è invece dovuta alla bicarbona-
tazione del legante. Questo tipo di degrado chimico avviene quando l’ac-
qua piovana, contenente anidride carbonica, non scorre, ma ristagna.

Molto dannosa è anche l’azione dell’acqua che, per cause varie, cir-
cola all’interno dei muri. Essa fuoriesce in superficie per capillarità e,
se negli stucchi o negli intonaci esterni si trovano piccolissime cavil-
lature (provocate dal ritiro del materiale), l’acqua li attraversa e ne
aumenta le dimensioni causandone, col tempo, il distacco. L’acqua che
risale per capillarità dalle fondazioni del muro crea distacchi ad altez-
ze precise, dove cioè fuoriesce ed evapora; la sua risalita raramente
supera i 4 metri di altezza.
Talvolta si osserva sulle superfici intonacate la presenza di frattu -
razioni, non dovute a crepature originali, provocate cioè dal ritiro del
materiale durante la presa, ma avvenute in un secondo tempo, e spes-
so dovute ai sali solubili, trasportati dalle acque circolanti nei muri e
depositati sotto l’intonaco, provocandone lentamente il rigonfiamento
e poi il distacco. Se i sali vengono depositati in superficie si verificano
soltanto efflorescenze bianche.
152 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Analogamente a quanto descritto per i materiali litici (cfr. I.7.) il


ristagno di acque contenenti anidride solforosa (dovuta alle piogge
acide) provoca la solfatazione dei leganti costituiti da calce aerea; tale
degrado è riconoscibile per la presenza della tipica “crosta nera”, a
base di solfato che, se ricristallizza anche all’interno dell’intonaco,
aumenta di volume e finisce per disgregare il materiale. Dove la piog-
gia batte o ruscella non si forma la crosta nera, e l’intonaco mantiene
il suo colore, o, al massimo, subisce l’abrasione meccanica della piog-
gia.

La presenza di una corrosione a meandri; infine, è indice dell’azio-


ne di colonie biologiche (alghe o batteri), che attaccano le superfici dei
carbonati.

10. Nota bibliografica

I caratteri dell’estrazione delle pietre da gesso e da calce e le rea-


zioni chimiche che avvengono durante la cottura sono trattati nei
manuali sui materiali da costruzione più volte citati: DAVEY 1965, pp.
100-118; ADAM 1989, pp. 76-84; MENICALI 1992, pp. 126-176. In parti-
colare sul gesso si veda il recente volume di TURCO 1990. L’utilizzo
della malta nell’architettura greca antica è esaminato nel manuale di
MARTIN 1965, pp. 422-439. Per lo studio di malte e intonaci di epoca
romana è fondamentale l’opera di FRIZOT 1975, ricca di analisi
archeometriche e di dati quantitativi, oltre che corredata di un’accu-
rata disamina delle fonti letterarie e dei dati archeologici. Assai utile
è inoltre il saggio di B ARBET, ALLAG 1972, incentrato sulla pittura, ma
con approfondite analisi anche dei supporti delle decorazioni pittori-
che. Sugli aspetti storici e sociali legati all’introduzione massiccia dei
muri in calce in epoca romana repubblicana si veda COARELLI 1977.
Uno studio esaustivo della fornace descritta da Catone, basato su con-
creti confronti etnografici raccolti in varie regioni mediterranee si
trova in ADAM, VARENE 1982. Sulla corporazione romana dei calca -
rienses alcune notizie si trovano in WALTZING 1968, p. 116 e segg. Per
la fornace della Crypta Balbi cfr. SAGUÍ 1986. Un interessante saggio
sulla produzione della calce nei cantieri medievali, basato sul con-
fronto tra fonti archeologiche, iconografiche e letterarie si trova in
BARAGLI 1998. Sugli intonaci e sulle calci di epoca medievale e post-
medievale una serie di utili contributi, sia di carattere metodologico,
Aurora Cagnana 153

sia incentrati su singole ricerche si trova in SAPIN 1991. Lo studio


archeologico ed archivistico della produzione e del commercio delle
calci a Genova è trattato nel saggio di VECCHIATTINI 1998. Per i pro-
blemi chimici di calci e intonaci, sulla base delle analisi condotte prin-
cipalmente su campioni genovesi, è indispensabile la lettura di
MANNONI, 1984; MANNONI, RICCI, SFRECOLA, 1988; MANNONI 1990, rac-
colti nel volume MANNONI 1994/a. Una rassegna dei vari tipi di inerti
utilizzati nelle malte e negli intonaci dell’edilizia storica ligure, basa-
ta su analisi minero-petrografiche, si trova in R ICCI 1989 e RICCI 1998.
Sulle calci idrauliche greche e romane cfr. i citati lavori di MARTIN
1965 e F RIZOT 1975. Sulle calci idrauliche rinvenute nelle strutture
portuali di Genova cfr. MANNONI 1988; BOATO, MANNONI 1993;
CUCCHIARA ET ALII 1993 (saggi raccolti in MANNONI 1994/a) e inoltre
MANNONI 1996. Sul cosiddetto ‘metodo Loriot’ interessanti considera-
zioni si trovano in FIENI 1997. Un’ampia casistica di ricerche sugli
intonaci (composizione, degrado, esperienze di restauro) è stata pre-
sentata al convegno svoltosi a Bressanone gli Atti del quale sono stati
curati da BISCONTIN 1985. Sul lessico degli intonaci genovesi del XVI
e XVII secolo cfr. BOATO, DECRI 1990. Sugli intonaci lucidati a caldo cfr.
MANNONI 1993/a per la situazione genovese e FOGLIATA, S ARTOR 1995
(p. 149 e segg.) per i dati su Venezia.
Sugli stucchi greci cfr. MARTIN 1965; su quelli romani è fondamen -
tale la lettura di FRIZOT 1977, incentrato sulle provincie occidentali
dell’Impero romano, ma che contiene una ricca disamina dei procedi-
menti esecutivi, basata anche su accurate analisi di laboratorio. Utili
anche i lavori di LING 1972 e MIELSCH 1975, sebbene più incentrati
sull’evoluzione stilistica dei motivi. Interessanti contributi di storia
sociale sulla figura artigianale di intonacatori e stuccatori di epoca
romana si trovano in BLANC 1983. I dati sulla tomba dei rilievi di
Cerveteri, più sopra riportati, sono tratti da BLANK, PROIETTI 1986. Le
analisi chimiche di stucchi altomedievali sono state pubblicate in
SALVI 1962 e riportate in FRIZOT 1977, pp. 48-49. Per gli stucchi di
Gerace (Reggio Calabria) cfr. DI GANGI 1995 e DI GANGI, LEBOLE DI
GANGI, SABBIONE 1991; per gli stucchi di San Fruttuoso di Camogli
(Genova) cfr. FRONDONI 1998/99 e, per le analisi sui materiali, CAPELLI,
MANNONI, RICCI 1998/99. Un interessante convegno sugli stucchi alto-
medievali, molto incentrato anche sugli aspetti tecnologici, si è tenu-
to recentemente a Hildesheim (EXNER 1996). Sugli stucchi rinasci-
mentali, barocchi, neoclassici, una sintesi di carattere storico-artisti-
co si trova in BEARD, 1983; mentre per gli aspetti riguardanti le tecni-
154 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

che di lavorazione è assai utile il lavoro di F OGLIATA, SARTOR 1995,


incentrato sulle tradizioni veneziane.
Per i pavimenti in signino di epoca romana cfr. MORRICONE 1971;
per i ‘terrazzi alla veneziana’ cfr. CROVATO 1989; un interessante stu-
dio sulle famiglie di terrazzieri friulani che operavano a Venezia dal
XVI al XX secolo si trova in COLLEDANI, PERFETTI 1994; dove si analiz-
zano puntualmente i vari procedimenti utilizzati per la stesura dei
‘terrazzi’ e l’organizzazione del lavoro all’interno delle maestranze.
Per la diffusione dei terrazzi in Italia settentrionale cfr. inoltre MOR,
MUSSO, PITTALUGA 1993; BOATO 1998.
Aurora Cagnana 155

IV. I COLORI

1. Natura fisica e valutazione oggettiva del colore

Il colore è una sensazione prodotta sul cervello, tramite l’occhio, da


un corpo opaco colpito dalla luce; tale apparenza cromatica è dovuta
essenzialmente a particolari proprietà di riflessione dei raggi lumino-
si da parte di certi materiali. Se la luce incontra un corpo opaco, una
parte vi penetra, cioè viene assorbita, e una parte viene riflessa. La
riflessione è di tipo speculare, come nelle pietre lucidate, se la super-
ficie è levigata, altrimenti è di tipo diffuso.
Se un corpo assorbe tutta la luce incidente, apparirà nero; se, al
contrario, la luce incidente, policromatica, non viene assorbita, ma è
completamente riflessa, l’oggetto apparirà bianco; appaiono colorati
solo i corpi che riflettono un particolare e limitato intervallo di lun-
ghezze d’onda. Se ad esempio un oggetto colpito da luce bianca, sola-
re, riflette solo onde elettromagnetiche con valori λ caratteristici della
componente verde dello spettro solare, apparirà verde. Ciò significa
che il colore di un oggetto è il risultato dell’insieme delle radiazioni
non assorbite dalla superficie dell’oggetto stesso.
Il particolare colore assunto da un oggetto opaco colpito da un
fascio di luce dipende dalla composizione della luce incidente e dalla
struttura fisica, a livello molecolare, dell’oggetto stesso.
Nei corpi trasparenti, invece, la riflessione della luce è bassissima,
mentre avviene il fenomeno della rifrazione: i raggi luminosi attraver-
sano il corpo, anche se vengono deviati dal loro cammino secondo leggi
ben precise. Esiste anche il fenomeno della rifrazione doppia, o biri -
156 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

frangenza, tipico della maggior parte dei corpi solidi cristallini, i quali,
se penetrati da un raggio di luce lo sdoppiano, secondo due diverse dire-
zioni; vale a dire che ad ogni angolo incidente corrispondono due angoli
rifratti. Il minerale con più alta birifrangenza è la calcite e tale pro-
prietà è la causa del fenomeno per cui se un oggetto viene osservato
attraverso un cristallo di calcite, se ne vedono due immagini.

Si calcola che l’occhio umano sia in grado di distinguere circa quat-


tromila colori; per poterli valutare e descrivere in maniera oggettiva
sono state elaborate, negli ultimi decenni, delle “carte del colore” che
consentono di definire ogni tonalità con un preciso codice. Si tratta di
‘libri’ costituiti da tavole, da utilizzare come termine di confronto,
sulle quali sono stati applicati dei colori ben precisi prodotti in labo-
ratorio.
Le tavole sono state elaborate in base al principio che ogni colore è
definito da tre attributi:
-la tinta, che indica i colori base (giallo, rosso, verde, ecc.), ovvero
le lunghezze d’onda della luce riflessa; l’occhio umano ne distingue
quaranta;
-la chiarezza, che indica la quantità di bianco e di nero presente nel
colore: fra il bianco e il nero assoluti è possibile riconoscere una scala
di otto grigi;
-la saturazione, che indica la quantità di tinta presente in un dato
colore, in rapporto al bianco, al nero, o al grigio stabilito dal valore di
chiarezza: a seconda del valore di chiarezza e della tinta base, si pos-
sono riconoscere da cinque a undici livelli di saturazione.
Tutte le variazioni che l’occhio umano è in grado di registrare si
possono classificare in base a queste tre variabili.
Nelle carte di colore sono riportate, per ogni tinta, tutte le possibi-
li variazioni, incrociate e progressive, di chiarezza e saturazione, e cia-
scuna di esse è contraddistinta da un codice alfanumerico. Il più usato
è il Munsell Book of Color nel quale le dieci tinte più importanti sono
state divise in cinque principali (rosso; giallo; verde; blu; porpora) e
cinque intermedie (giallo/rosso; verde/giallo; blu/verde; porpora/blu;
rosso/porpora); a loro volta queste dieci tinte sono divise in quattro
intervalli uguali, raffigurabili su un cerchio.
Il codice che identifica un determinato colore è composto da tre parti:
numero+sigla alfabetica /numero /numero
La prima indica la tinta, la seconda la chiarezza, la terza la satu-
Aurora Cagnana 157

razione. Ad esempio il colore 5YR/6/8 permette di individuare una


tonalità collocabile al centro dell’intervallo della tinta giallo-rosso
(yellow-red); con chiarezza 6 e con grado di saturazione 8.

2. Colori minerali, terre, ocre: ricerca ed approvvigionamento

Le sostanze coloranti più usate in passato erano i pigmenti, ovve-


ro composti non solubili in acqua, già colorati in natura e in grado di
colorare altri materiali per applicazione. Potevano essere di origine
organica o inorganica (cioè minerale), naturali o artificiali. I primi
provenivano, ad esempio, da estratti animali, come la cocciniglia, o il
gasteropode detto porpora emastoma, oppure potevano essere estratti
da vegetali, come l’indaco, o da sostanze organiche fossili, come il bitu-
me. I neri erano molto spesso ottenuti da pigmenti di origine organi-
ca, quali carboni, sia fossili che artificiali, prodotti con vegetali o con
resti di animali (ossi, corna). Tutti i pigmenti organici, particolarmen-
te adatti per tingere le fibre vegetali o animali, erano invece meno
usati nelle coloriture dei muri, per le quali erano preferibilmente
impiegati pigmenti minerali costituiti da composti dei metalli (ferro,
manganese, rame, piombo, zinco, cromo, ecc.).
Il fatto che i metalli siano ottimi coloranti si spiega con la loro par-
ticolare struttura atomica. Gli elementi della tavola periodica consi-
derati “metalli” sono infatti caratterizzati da una notevole mobilità
elettronica; gli elettroni dell’orbitale esterno hanno una spiccata ten-
denza a combinarsi con altri atomi, (specialmente con l’ossigeno) e, di
conseguenza, vengono ceduti o possono circolare tra atomi diversi
dello stesso metallo. Gli elettroni dell’orbitale sottostante possono
occupare più livelli energetici rispetto al nucleo. Gli spostamenti verso
l’esterno avvengono con assorbimento di onde elettromagnetiche,
caratterizzate da lunghezze d’onda ben precise, corrispondenti alle
quantità di energia necessaria per compiere un determinato “salto”.
Pertanto la mobilità degli elettroni è collegata alla possibilità di assor-
bire particolari onde elettromagnetiche di luce e di rifletterne altre,
corrispondenti a precisi colori.
I metalli, anche se portati alla massima sottigliezza, non sono mai
trasparenti, ma assorbono e riflettono sempre un po’ di luce; fa ecce-
zione l’oro, il più malleabile, il quale, se viene ridotto allo spessore di
millesimi di millimetro, si lascia attraversare dalla luce, ovvero assu-
me un comportamento simile ai corpi traslucidi.
158 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

L’instabilità dell’assetto elettronico spiega anche la varietà strut-


turale dei metalli: il ferro, ad esempio, può essere bivalente o triva-
lente; nel primo caso riflette lunghezze d’onda corrispondenti al colo-
re verde, nel secondo al colore rosso. A seconda dei composti che forma
con l’ossigeno, inoltre, può assumere colori ancora differenti: nero è
l’ossido ferroso-ferrico (magnetite); rosso l’ossido ferrico (ematite);
verde l’ossido ferroso; varie tonalità di giallo-arancio-bruno sono date
invece dall’ossido ferrico più o meno idrato (limonite).
Il bianco, oltre che con la calce stessa (carbonato di calcio) poteva
essere ottenuto col carbonato di piombo (biacca). Altri minerali piut-
tosto usati erano la manganite e la pirolusite (ossidi di manganese),
che danno un rosso scuro violaceo, e il cinabro (solfuro di mercurio),
che da un rosso vermiglio, differente da quello del ferro.
Più rari erano i materiali dai quali ottenere il blu, che si poteva
ricavare dall’azzurrite (carbonato basico di rame), dagli ossidi di
cobalto, o dal rarissimo lapislazzuli (silicato di sodio, calcio e allumi-
nio), minerale assai pregiato che si trovava principalmente in
Afganistan e che, per la sua lontana provenienza, veniva definito ‘blu
oltremare’.

Fra tutti questi pigmenti minerali quelli più facili da ottenere


erano i composti del ferro, metallo piuttosto abbondante (rappresenta
circa il 5% della crosta terrestre), che si trova, oltre che nei giacimen-
ti minerari, anche in altri composti, ad esempio in molti silicati che
costituiscono le rocce magmatiche basiche (cfr. I.1.). In seguito alla
loro alterazione, dovuta al fenomeno di caolinizzazione dei feldspati
che dà origine ai minerali argillosi, il ferro finisce nelle terre alluvio-
nali, trasportato dall’acqua insieme alle argille. È proprio il ferro,
combinato con l’ossigeno e accompagnato talora da altri metalli (come
il manganese), la causa della colorazione dei depositi argillosi che
altrimenti sarebbero bianchi (cfr. II.2.). Pertanto, per ottenere sostan-
ze coloranti, era più facile sfruttare queste concentrazioni di ferro con-
tenute nei depositi alluvionali, che non estrarre il minerale. Ciò spie-
ga perché, tradizionalmente, molti colori venissero indicati col termi-
ne “terra”. La presenza del 10-12% di ferro in un’argilla è già suffi-
ciente per ottenere ottimi coloranti.
A seconda dei composti del ferro che contengono, le terre possono
fornire i colori rosso (dato dall’ematite), giallo arancio marroncino
(dato dalla limonite) e, assai più raramente, verde (dato dalla glauco-
nite e dalla celadonite).
Aurora Cagnana 159

Le terre particolarmente ricche di ossidi metallici (in quantità


superiori al 10-12%) vengono dette ocre (dal greco ochrós = giallo)
oppure boli (dal greco bôlos = zolla). Non sono invece utilizzabili i
depositi che contengono sostanze coloranti in quantità inferiori al
10%.
In alcune regioni si trovavano terre particolarmente famose: il bolo
armeno, ad esempio, con elevati tenori di ferro e manganese; oppure
le ocre del Roussillon (Francia) dai vivaci colori gialli, rossi, viola, par-
ticolarmente ricche di ferro, manganese e titanio.
Ma buone terre a base di ossidi di ferro per ottenere pigmenti rossi
o gialli si potevano trovare quasi dovunque: nel corso di una ricerca
sperimentale condotta nel genovesato, ad esempio, è stato possibile
raccogliere, con relativa facilità, trenta tipi di pigmenti differenti,
compresi nella fascia cromatica dei rossi e dei gialli. I materiali rac-
colti sono stati utilizzati per prove di decorazione ad affresco; si è così
riscontrato, ad esempio, che con trenta cc. di polvere è possibile tin-
teggiare un metroquadrato di superficie muraria; ciò ha permesso di
calcolare che con un metrocubo di terra grezza si può ottenere una
quantità di pigmento sufficiente a colorare circa 10.000 metriquadra-
ti di superficie. Il confronto tra le tonalità dei pigmenti raccolti e quel-
le dei coloranti utilizzati tradizionalmente nella decorazione degli
intonaci del genovesato (definite tramite il sistema Munsell) ha per-
messo di constatare una sostanziale corrispondenza delle varie quan-
tità, e ciò ha confermato un ampio utilizzo di terre locali nella tinteg-
giatura dell’edilizia storica.
Se l’approvvigionamento dei rossi e dei gialli tramite la raccolta di
terre a base di ferro era piuttosto semplice, data la loro relativa diffu -
sione, più complesso e costoso era invece rifornirsi di quei colori che
non si trovano nelle terre, ma che necessitano di una vera e propria
estrazione in miniera.
Tutti i composti del piombo, rame, mercurio, cobalto, antimonio,
eccetera, sono piuttosto rari in natura, sia sotto forma di minerali, sia
in superficie; si trovano generalmente concentrati in particolari filoni
metalliferi che si sono formati nelle spaccature interne delle rocce e
sono perciò assai complessi da trovare e da estrarre (cfr. VI.1.).
Particolarmente difficile era procurarsi gli azzurri, che non esisto-
no in alcuna terra. Data la rarità di minerali con questo colore, si
imparò assai presto a ottenerli artificialmente; fra i pigmenti inorga-
nici prodotti a bottega il più noto è il cosiddetto ‘blu egizio’, che si rica-
vava fondendo quarzo, calcite e rame ad alte temperature e lasciando
160 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

poi raffreddare lentamente il composto; in tal modo si poteva provoca-


re la cristallizzazione di silicati di calcio e rame, ottenendo così un
minerale artificiale dal colore blu vivo.

Completamente diversi dai pigmenti, descritti fino ad ora, sono


invece le tinture, le quali provengono sempre da sostanze organiche
naturali e sono in grado, dopo essere state sciolte in acqua, di rende-
re colorate le fibre naturali con cui vengono a contatto: cellulosa,
legnina, cheratina, eccetera. Si usavano pertanto per colorare i tessu-
ti, le pelli, o per dipingere su carta, ma non nelle costruzioni, perché,
se applicate a materiali inorganici, non coloravano ed erano instabili
alle radiazioni solari.

3. I pigmenti più usati nell’architettura

Lo studio dei pigmenti impiegati nelle pitture murali antiche ha


preso avvio da almeno due secoli, in seguito alla scoperta di Ercolano
e Pompei, e inizialmente era rivolto soprattutto alla identificazione
dei vari materiali usati in passato. È con la ricerca archeologica più
recente che tali analisi sono state finalizzate anche a considerazioni di
carattere cronologico ed economico, tese a chiarire, ad esempio, la pro-
venienza, la diffusione sociale oppure i periodi di comparsa, utilizzo e
abbandono delle varie sostanze coloranti.
I ritrovamenti sui quali si possono basare indagini di questo tipo
sono costituiti sia dalle pitture murali, manufatti relativamente fre-
quenti, sia dai pigmenti stessi, che, in casi piuttosto eccezionali, si
sono rinvenuti in sepolture, oppure negli scavi di botteghe o di cantie-
ri antichi.

I primi pigmenti usati per la pittura parietale furono le ocre e il


carbone, il cui impiego è attestato fin dal Paleolitico Superiore, come
dimostrano le indagini condotte nelle grotte di Altamira e di Lescaux,
risalenti a 15.000 anni fa.
Più tardi, con la formazione delle prime civiltà urbane in Medio-
oriente e in Egitto, aumentò la varietà dei pigmenti organici e mine-
rali e venne introdotto l’uso di quelli artificiali: la produzione del blu
egizio, ad esempio, comparve nel terzo millennio a.C. La recente sco-
perta, a Karnak, del laboratorio di un pittore vissuto nel XV secolo
a.C., ha permesso di riconoscere l’utilizzo di diversi pigmenti: oltre
Aurora Cagnana 161

all’ocra gialla e rossa e al blu egizio, si sono individuati un verde otte-


nuto con la cottura di silicati e di ossidi di rame e un bianco prodotto
con la macinazione di conchiglie.
Recenti analisi effettuate su campioni di pitture murali provenienti
da Cnosso e Micene hanno attestato anche qui l’impiego del blu egizio,
di terre a base di ossidi di ferro, di minerali locali, e di carbone. Nella
pittura greca la tavolozza dei pigmenti sembra essersi arricchita ulte-
riormente: per la decorazione delle tombe macedoni del IV secolo a.C.,
ad esempio, sono stati utilizzati un bianco formato da calcite e caolino,
il blu egizio e dei rossi ottenuti sia da ematite sia dal più pregiato cina-
bro, del quale parla anche Teofrasto, e che sembra essere stato impie-
gato a partire dal VI secolo a.C. Esso compare anche nella decorazione
pittorica di alcune tombe etrusche di età ellenistica, accanto all’uso dei
più comuni ossidi di ferro, provenienti da ocre o terre. È però in epoca
romana che il cinabro venne impiegato su larga scala; Plinio (Nat. Hist.
XXXIII, 118) ricorda che veniva estratto da miniere spagnole e impor-
tato a Roma, dove esistevano apposite officine per il lavaggio e la pre-
parazione e afferma che la sua vendita era regolamentata e il prezzo
stabilito da un’apposita legge. Plinio e Vitruvio ricordano anche la pro-
duzione del blu artificiale, denominato “caeruleum aegyptium” del
quale esisteva una celebre manifattura a Pozzuoli. I verdi, invece, pote-
vano essere realizzati con materiali omogenei (malachite o terre verdi),
oppure tramite la sovrapposizione di blu e giallo.
Dei colori utilizzati in età romana alcune fonti antiche forniscono
anche i prezzi di mercato e in base a tali indicazioni sono state com-
pilate utili tabelle, che permettono di quantificare i diversi costi di
produzione per i vari coloranti. Alcuni archeologi hanno dimostrato
che l’uso più o meno abbondante di pigmenti ricercati e costosi può
costituire un importante indicatore sociale nello studio dell’edilizia
privata. In questo senso è interessante richiamare i risultati di una
ricerca effettuata su una domus del I. sec. d.C., posta in luce Aix en
Provence, nella quale si è cercato di quantificare i tipi di pigmenti
usati per la decorazione ad affresco di due stanze e di compararne il
costo. È emerso che, a parità di quantità di materiale, la spesa per i
pigmenti di una sala, affrescata con ampie campiture in rosso cinabro
separate da bande blu, deve essere stata da dodici a sedici volte più
alta rispetto a un’altra, decorata a pannelli rosso ocra, separati da
bande nere. La differenza di investimento si spiegava evidentemente
con la diversa funzione dei due vani: aperto su un’entrata a portico il
primo e su un giardino interno il secondo.
162 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

L’incidenza del costo delle diverse sostanze coloranti emerge inol-


tre nello studio delle pitture murali dell’Altomedioevo, periodo in cui
la varietà dei pigmenti sembra essersi decisamente ridotta; tale feno-
meno può essere osservato, ad esempio, per le tonalità azzurre, che in
relazione alle nuove tematiche religiose avevano acquistato un’impor-
tanza maggiore rispetto al passato. Se l’impiego del blu egizio è stato
accertato per gli affreschi di S.Maria Antiqua a Roma, o per i dipinti
carolingi dell’abbazia di San Giovanni di Müstair, esistono casi, come
quello del Tempietto sul Clitumno, presso Spoleto, in cui la tavolozza
è decisamente scarna e il pigmento azzurro è addirittura assente. In
altri casi si è riscontrato invece l’impiego di un miscuglio di bianco
(calcite), di nero (carbone) e pochissimo rosso (ocra) che dà l’impres-
sione di un colore blu grigiastro, utilizzato al posto dei pigmenti
azzurri e che viene denominato ‘falso blu’. Un simile espediente, per
far fronte alla mancanza di coloranti rari, è stato recentemente riscon-
trato nei dipinti murali della cripta carolingia di Saint Germain
d’Auxerre; in questo caso si è osservato che la presenza di pochissimo
cinabro, (che non compare invece nelle parti rosse, eseguite con ocre)
è evidentemente dovuta alla precisa esigenza di mescolarlo con il
bianco e il nero per ottenere il ‘falso blu’.
La decorazione della chiesa campana di S. Angelo in Formis, edifi-
cata alla fine dell’XI secolo, costituisce uno dei più antichi esempi di
uso del pregiatissimo “oltremare”. Questo minerale, già noto ai roma-
ni e ai bizantini, si diffuse più tardi anche nell’Europa occidentale e
finì per soppiantare l’antico blu egizio.
A partire dal XIII e dal XIV secolo la gamma cromatica delle
sostanze coloranti torna ad essere molto ricca; oltre al lapislazzuli il
blu era anche ottenuto dall’azzurrite, proveniente dalle miniere di
rame della Slesia e della Boemia e definita “azzurro di Alamagna”.
Anche per i verdi erano particolarmente impiegati i minerali di rame,
peraltro già noti ai romani. Per i rossi, oltre alle onnipresenti ocre,
riprese ad essere usato stabilmente il cinabro. Nel Libro dell’Arte di
Cennino Cennini, della fine del XIV secolo, si trovano elencati e
descritti i numerosi pigmenti allora in uso, per i quali si precisa anche
il miglior modo di applicazione.
In diversi casi i colori, essendo molto costosi, erano forniti al pitto-
re dai committenti e venivano indicati con precisione nei contratti
scritti, come in quello piuttosto famoso con cui si ingaggiò Gentile da
Fabriano per la decorazione della cappella del Broletto di Brescia,
all’inizio del XV secolo.
Aurora Cagnana 163

Poche sono le variazioni registrate nell’uso dei pigmenti nel corso


dei secoli successivi; per la produzione dei bianchi sembra sia aumen -
tato l’impiego di gusci d’uovo cotti e macinati, mentre per i blu l’uso
dell’azzurrite diminuì progressivamente dopo la metà del XVII secolo,
a causa dell’invasione dell’Ungheria da parte dei Turchi.
Dal XVIII secolo in poi venne particolarmente usato un altro pig-
mento artificiale, detto ‘giallo di Napoli’, che si otteneva riscaldando
ad alte temperature ossido di piombo e ossido di antimonio, i quali
producevano un antimoniato di piombo.
Con il progresso della chimica, fra la fine del XVIII e l’inizio del
XIX secolo, le preparazioni artificiali finirono per sostituire progressi-
vamente l’uso dei minerali naturali. All’inizio dell’800 si riuscì persi-
no ad elaborare un metodo per produrre artificialmente il rarissimo
blu oltremare.
Più recentemente l’uso dei colori minerali è stato definitivamente
soppiantato dalla produzione di quelli sintetici.

4. La tecnica dell’affresco

Una volta raccolte, le terre venivano sottoposte a successive ope-


razioni (lavaggio, filtratura, essiccazione) e quindi macinate, come
pure i minerali, in modo da ottenere polveri costituite da granelli della
grandezza di pochi micron. Tali dimensioni permettevano alle parti-
celle di pigmento di essere così leggere da restare in sospensione nel-
l’acqua.
La tecnica di tinteggiatura definita ‘affresco’consisteva nel far ade-
rire alle pareti i colori ad acqua applicandoli sull’intonaco ancora
bagnato, cioè sull’idrossido di calcio. In questo modo il colore si mesco-
lava all’idrossido e successivamente il contatto con l’aria determinava
l’evaporazione dell’acqua e la carbonatazione dell’idrossido di calcio,
che passava a carbonato di calcio, il quale cristallizzava in calcite
secondo la reazione già descritta per le malte (cfr. III.4.). I granuli di
pigmento restavano perciò ‘imprigionati’ fra quelli di calcite, che,
essendo un minerale trasparente, permetteva di vedere i colori senza
alterarli, creando superfici brillanti. Inoltre, la sua altissima birifran-
genza rendeva i colori cangianti, a seconda del punto di osservazione.
È solo questo processo fisico-chimico che viene definito affresco e
che veniva utilizzato sia nelle coloriture, sia nelle decorazioni e nelle
pitture vere e proprie, tanto per gli interni, quanto per gli esterni; è il
164 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

sistema di decorazione parietale più bello da vedere, ma anche più


duraturo, poiché, a differenza delle tinture, i pigmenti non sono solu-
bili nell’acqua e sono generalmente molto stabili.
Prima dell’applicazione sul muro la tonalità presente in una terra
o in un’ocra poteva comunque essere schiarita per diluizione in latte
di calce, ovvero in un grassello molto liquido. I minerali puri, macina-
ti, erano invece utilizzati nei casi in cui si volevano ottenere tinte più
vivaci, cioè più sature.

Gli esempi più antichi di affresco risalgono alla seconda metà del
terzo millennio a.C. e sono attestati in Mesopotamia e nell’Egeo
(Cnosso, Thera). Le pitture, infatti, come dimostrato da opportune
analisi, sono state applicate su un intonaco di calce; le impronte di
impressioni eseguite a cordicella, o di linee incise con un oggetto a
punta per segnare le partizioni della decorazione, sono parsi chiari
indizi del fatto che il colore è stato steso sull’intonaco ancora plastico,
ovvero ‘fresco’, sfruttando il fenomeno della carbonatazione.
La tecnica dell’affresco dovette essere impiegata ampiamente nel-
l’antica Grecia e in particolare in età ellenistica, quando vennero spe-
rimentati diversi procedimenti (uso di più strati di intonaco, linee di
contorno dipinte) che si diffusero poi anche nel Sud Italia e in Etruria.
Le conoscenze maggiori sono però relative all’epoca romana e ci sono
note, soprattutto, attraverso lo studio delle città vesuviane.
È assai probabile che per eseguire una decorazione affrescata i pit-
tori romani seguissero le indicazioni di un disegno preparatorio, con-
cordato con il committente, nel quale dovevano essere indicate, in
scala ridotta, le partizioni della parete, la presenza di cornici, l’am-
piezza delle zone destinate alle figure, eccetera. Un chiaro indizio di
ciò è rappresentato dal celebre bassorilievo, rinvenuto a Sens
(Francia), che riporta una scena di decorazione parietale eseguita da
un gruppo di artigiani, fra i quali si scorge un personaggio intento a
osservare un rotolo svolto, posato sulle ginocchia.
La decorazione procedeva dall’alto verso il basso, per successive
fasce orizzontali, corrispondenti alle pontate, sulle quali venivano
stesi, a fresco, i diversi strati di intonaco; sull’ultimo, costituito dal-
l’intonachino ancora umido, veniva quindi inciso il disegno; con il filo
a piombo, posto in tensione e intriso di colore, si determinavano le par-
tizioni verticali dello spazio, mentre con righe e compassi si costrui-
vano le suddivisioni orizzontali. Il disegno veniva praticato utilizzan-
do una punta, oppure una cordicella impregnata di terra rossa; i segni
Aurora Cagnana 165

lasciati da questi strumenti sono stati riscontrati in diversi casi a


Pompei e a Ercolano.
Dopo aver inciso le linee guida veniva applicato il colore. La ‘gior-
nata’ successiva ricominciava, dalla fascia sottostante, con la stesura
dei vari intonaci, fino alla decorazione affrescata.
In alcuni esempi di pitture murali di Ercolano e Pompei, dove il
degrado della pellicola pittorica aveva messo a nudo la superficie
dell’intonaco, è stato possibile ricostruire con esattezza il procedi-
mento seguito per tracciare il disegno preparatorio; per ottenere il
noto motivo dei “cubi in prospettiva”, ad esempio, si praticava l’inci-
sione di una quadrettatura ortogonale (eseguita con righe e squadre)
che serviva da guida per la successiva applicazione dei colori.
Analogamente venivano tracciate le sequenze di ‘scaglie’, o le corni-
ci a greche.
Per i motivi ‘a candelabre’, oppure per le girali vegetali, si pratica-
vano, a distanze regolari, incisioni con il compasso, in base alle quali

57- Alcuni sistemi di preparazione della parete ricostruiti in base alle


tracce di graffito ritrovate sotto la decorazione ad affresco: quadrettatura-
guida per l’opus scutulatum (Pompei) e per il motivo a scaglie (Ercolano);
cerchi realizzati col compasso per ottenere il motivo ‘a candelabra’ (da
BARBET ALLAG 1972)
166 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

58- Procedimento ‘a pontate orizzontali’, seguito in epoca romana e conti-


nuato in età medievale per la realizzazione di un affersco parietale (da
ADAM 1989)

venivano poi dipinte le volute, che potevano riprendere l’intera cir-


conferenza, oppure ricalcarla solo in parte. I paesaggi, le nature morte
entro ‘quadretti’, o le grandi composizioni a tema nilotico non sem-
brano invece essere state precedute da disegni preliminari, ma paiono
piuttosto essere state eseguite a mano libera. I grandi pannelli figu-
rati erano invece dipinti su porzioni murarie appositamente lasciate
in bianco durante la decorazione della parete; in questi casi è attesta-
to l’uso di disegni preparatori costituiti da linee di contorno dipinte
con fini pennelli intinti di ocra. Questo sistema, che secondo alcuni
studiosi sarebbe derivato dalla tradizione greca, sembra essere riser-
vato soltanto alla realizzazione di tali quadri. Esso può essere messo
in relazione con le sinopie, delle quali parla anche Plinio (Nat. Hist.
Aurora Cagnana 167

59- Procedimento di suddivisione della parete in ‘giornate’ di diversa


forma ed estensione, seguito in età rinascimentale (da RUFFA 1990)

XXXV, 6), il quale ricorda come il nome prenda origine dalla città pon-
tica di Sìnop, celebre per le sue terre coloranti.
Ciascuna delle diverse figure artigianali menzionate nei testi anti-
chi doveva essere specializzata in una sola operazione: il dealbator,
era forse l’addetto alla stesura dell’intonaco; il pictor parietarius, rea-
lizzava probabilmente le cornici formate da motivi ripetitivi, mentre
l’imaginarius, doveva curare l’esecuzione delle scene figurate.
Nel corso dell’Altomedioevo la tecnica dell’affresco non venne
abbandonata, ma semplificata: gli strati preparatori, ad esempio, si
ridussero di numero, già a partire dalla tarda antichità. Dallo studio
delle decorazioni ad affresco conservate, soprattutto nei luoghi di culto,
sembra potersi desumere una sostanziale persistenza delle tecniche
168 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

tradizionali romane. Si continuò, ad esempio, a suddividere le giorna-


te di lavoro secondo fasce orizzontali, ricalcate sulle pontate, ovvero
sulle porzioni murarie raggiungibili dal piano dell’impalcatura.
Un’importante innovazione nella tecnica dell’affresco si registra
invece dal XIII secolo, quando le ‘pontate’ orizzontali, di uguale altez-
za, iniziano ad essere sostituite da ‘giornate’ di diversa estensione; a
seconda della complessità esse potevano comprendere un’ampia por-
zione del fondo, oppure una sola figura, o anche un solo particolare, ad
esempio una testa. Generalmente la suddivisione partiva in alto a
sinistra e terminava in basso a destra. Nei grandi cicli della basilica
di Assisi sono attestati, accanto a partizioni più tradizionali basate
ancora sulle pontate, i primi esempi di ‘giornate’ suddivise col nuovo
sistema, destinato ad avere un notevole seguito nella grande decora-
zione parietale del Rinascimento.
Dall’inizio del XIV secolo il disegno di base divenne più particola-
reggiato: al semplice contorno schematico si sostituì un disegno a car-
bone, più curato, ripassato poi con un pennello intinto nella ‘terra di
Sinope’. A differenza dell’affresco romano, tali “sinopie” venivano rea-
lizzate nello strato di intonaco sottostante l’intonachino definitivo, sul
quale erano poi riprodotte a pennello, oppure a incisione, prima della
stesura del colore. Non sono rari i casi in cui il distacco dell’affresco ha
posto in luce, nella sinopia, la presenza di modifiche o ‘pentimenti’.
Questo sistema richiedeva un impegno costante del maestro, il quale
doveva curare personalmente, in ogni ‘giornata’ di lavoro, la prepara-
zione del soggetto da affrescare.
Nel corso del XV secolo il disegno diretto sul muro venne progres-
sivamente sostituito con quello eseguito su ‘cartoni’e poi riportato sul-
l’intonaco mediante lo ‘spolvero’. Esso consisteva nel praticare una
fitta serie di fori lungo i contorni del motivo da dipingere; una volta
appoggiato all’intonaco, il cartone veniva ripassato con una stoffa
impregnata di ocra o carbone; cadendo attraverso i fori, il pigmento
lasciava sul muro fresco la traccia del disegno. Questo sistema, che
finirà per sostituire definitivamente l’uso delle sinopie, si prestava a
una maggiore suddivisione del lavoro fra maestro (addetto alla prepa-
razione dei cartoni) e aiutanti, ai quali era affidato il più ripetitivo e
faticoso compito di riportare il disegno sul muro. Quest’ultimo poteva
anche essere eseguito con incisione indiretta, seguendo i contorni del
cartone; inoltre poteva essere ripreso, o completato, tramite ulteriori
incisioni con punta metallica, corda battuta, tracciamento con pig-
mento, eccetera.
Aurora Cagnana 169

60- Cartone forato (o spolvero) con il disegno-guida di un motivo vegetale


da riprodurre sulla parete da affrescare

Un interessante esempio di questo procedimento è stato rilevato di


recente nel ciclo di affreschi eseguiti dal Ghirlandaio nella chiesa di
Santa Maria Novella, a Firenze. L’osservazione ravvicinata, a luce
radente, compiuta in occasione dei restauri, ha permesso di ricostrui-
re la suddivisione in giornate e di riconoscere l’impiego di vari sistemi
per eseguire il disegno preparatorio: spolvero, uso della corda battuta,
incisione, nonché utilizzo di chiodi quali centri di rotazione nel trac-
ciamento di archi tramite corde.
Le tecniche messe a punto nella grande stagione rinascimentale
continuarono anche successivamente, senza sostanziali modifiche,
fino all’Ottocento, periodo nel quale le decorazioni affrescate vengono
riscoperte su larga scala. Dopo l’Unità d’Italia, in particolare, si regi-
stra la nascita di una diffusa committenza privata, di estrazione bor-
ghese, che affida la decorazione della propria dimora all’operato di
artigiani, formatisi per lo più nelle accademie d’arte. Queste mae-
stranze avevano ereditato, e tramandavano a loro volta, un patrimo-
nio di conoscenze che affondavano le loro radici nella tradizione rina-
170 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

cimentale o manieristica del ‘buon fresco’. Molte notizie su questa par-


ticolare organizzazione artigianale sono state raccolte nel corso di una
ricerca basata sulla testimonianza orale di un anziano decoratore di
facciate genovesi, Giuseppe Noli, il quale aveva appreso le regole del
mestiere, a partire dall’età di dieci anni, dal padre e dal nonno. Nel
suo laboratorio aveva conservato circa quattromila cartoni, in parte
suoi e in parte posseduti dalle due precedenti generazioni. Si è potuto
apprendere che lo schema d’insieme della parete veniva progettato a
terra, in scala ridotta, dato che sui ponteggi era impossibile avere una
visione globale.
I disegni preparatori dei singoli motivi erano invece realizzati in
scala reale; i contorni venivano forati fittamente con un ago, di solito
nelle ore serali. Alcuni soggetti erano copiati, non senza adattamenti,
dal Trattato di Sebastiano Serlio, del quale il nonno, formatosi presso
l’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, possedeva una ‘prezio-
sa’ copia.
Ogni cartone conteneva solo la metà di un motivo: per realizzare il
disegno intero era infatti sufficiente ribaltare il cartone sulla parete.

61- L’anziano affrescatore Noli insegna ad applicare i colori su un campio-


ne di intonaco fresco, con successive stesure, secondo il metodo tradizionale
Aurora Cagnana 171

Lo spolvero veniva eseguito con un sacchetto di tela contenente del


pigmento, in genere “terra di Siena bruciata”. Il contorno veniva poi
rinforzato con un segno graffito nell’intonaco, secondo una tecnica
ampiamente attestate nella decorazione delle facciate genovesi fin dal
XVI secolo. Anche la stesura del colore avveniva in base a precise rego-
le: per prime erano applicate le tinte di fondo, poi i contorni dei moti-
vi, quindi i vari gradi delle ombre e infine le lumeggiature. Una pre-
cisa tonalità poteva essere ottenuta, in poche decine di secondi, mesco-
lando i pigmenti con acqua. Poiché i disegni dovevano essere visibili a
distanza, i dettagli non venivano curati. Nel genovesato si conservano
circa una trentina di case decorate dai Noli, secondo due diversi stili:
uno eclettico costituito da modanature dipinte in giallo su fondo rosso,
e uno liberty, basato più sulla policroma.
La profonda conoscenza delle ‘regole dell’arte’ aveva persino con-
sentito a Giuseppe Noli, l’ultimo di questa famiglia di artigiani, di
adattare alla decorazione ad affresco i colori acrilici, che nel corso
degli anni ‘70, avevano finito per soppiantare definitivamente l’uso
delle tradizionali terre.

5. Il fresco secco e la pittura a calce

Con il termine ‘fresco secco’ si intende un tipo di pittura parietale


nella quale i pigmenti vengono stesi sull’intonaco asciutto, o quasi. Ciò
poteva accadere nei casi in cui la decorazione non era ancora stata ter-
minata ma l’intonaco aveva già iniziato la carbonatazione, ovvero era
già ‘secco’, oppure quando si doveva ritornare sulle parti ormai asciut-
te, per completare alcuni dettagli. Anche se la carbonatazione non era
ancora avvenuta del tutto, ma era in uno stadio avanzato, i pigmenti
avevano comunque pochissime possibilità di mescolarsi con l’idrossido
di calcio e di aderire alla calcite. Perciò in questi casi si stendeva sul
muro una scialbatura, cioè un sottile strato di latte di calce, sul quale
si applicava il colore in fretta, prima che l’acqua evaporasse.
Un sistema analogo consisteva nel miscelare i colori minerali con
latte di calce, talora addizionato con latte vaccino, che ne migliorava
l’aderenza e la coesione; quando l’idrossido asciugava, avveniva, come
nell’affresco, la carbonatazione, e quindi la formazione dei cristalli di
calcite.
Questo sistema, definito ‘pittura a calce’ può essere considerato
una variante della tecnica ad affresco; veniva utilizzato soprattutto
172 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

quando si dovevano ottenere composizioni complesse, con ombreggia-


ture e velature sovrapposte, che difficilmente potevano essere comple-
tate in un’unica, veloce stesura.
Una delle più antiche descrizioni di questa tecnica si trova nell’o-
pera del monaco Teofilo, Diversarum Artium Schedula, composta fra
XI e XII secolo. Le documentazioni materiali, invece, sono assai più
antiche; risalgono almeno all’epoca greca e accompagnano tutti i seco-
li successivi, parallelamente alle testimonianze di decorazioni affre-
scate.

6. La pittura a tempera

Per applicare il colore su un intonaco asciutto e senza utilizzare il


latte di calce, cioè senza sfruttare la carbonatazione, occorreva ricor-
rere all’uso di collanti, i quali venivano aggiunti ai pigmenti e ne
garantivano l’adesione al muro. Il colore applicato direttamente sulla
parete, con l’uso di un medium organico, viene definito tempera.
In passato si usavano collanti di vario tipo: l’olio, pur adatto per la
pittura su tela o su legno, lo era molto meno per i muri. Più usati
erano i collanti ottenuti da proteine animali (chiara d’uovo, caseina
del latte) che potevano essere aggiunti al colore anche quando l’into-
naco era in stato avanzato di carbonatazione. Essi erano però poco
resistenti al calore: già a 25°C, ad esempio, la caseina inizia a tra-
sformarsi in ossalato di calcio. Altri collanti organici di origine ani-
male venivano ottenuti dai collageni: le fibre delle ossa, delle pelli,
delle cartilagini, delle unghie, potevano essere estratte facendo mar-
cire le altre parti. Molto usata era ad esempio una colla ottenuta dalla
pelle di coniglio.
Esistevano anche collanti di natura vegetale, come le resine,
estratte dalle conifere o da altre piante, oppure la gomma arabica e la
colla dragante.
In ogni caso i colori applicati a tempera hanno una durata decisa-
mente inferiore a quella dell’affresco; ciò è dovuto al fatto che il fis-
saggio della tinteggiatura, invece di essere garantito dalla cristalliz-
zazione della calcite, è dovuto essenzialmente ai leganti i quali, essen-
do di natura organica, sono soggetti ad alterazioni nel tempo. Anche
la resa cromatica è inferiore, poiché la necessità di mescolare il pig-
mento al collante ne determina una bassa trasparenza e una tonalità
meno pura.
Aurora Cagnana 173

La tempera è una tecnica assai più antica dell’affresco; rappresen-


ta infatti il primo sistema di applicazione dei pigmenti alle pareti,
attestato già nel Paleolitico, a Lescaux e ad Altamira.
Certamente fu usata anche nella pittura greca e romana, anche se
è difficile ritrovarne tracce certe; anch’essa viene descritta nel tratta-
to di Teofilo, il quale sembra considerarla come un completamento
della pittura a calce, da utilizzarsi nella definizione dei dettagli. Nel
più tardo Libro dell’Arte del Cennini si riporta, accanto a un breve
elenco dei colori adatti all’affresco, una nutrita serie di quelli che
dovevano essere usati a tempera, fra i quali erano l’azzurrite, l’oltre-
mare, la biacca, il cinabro.
Nel Medioevo si fece un ampio uso della tempera murale, che fu
particolarmente apprezzata dalla scuola senese e, soprattutto, da
Simone Martini; questa tecnica si prestava bene, infatti, alla raffina-
tezza delle velature, all’uso di colori rari e di materiali ricercati, che
conferivano alla pittura un tono aulico e fastoso.
Anche nella grande stagione dell’affresco, fra XV e XVI secolo, si
attribuiva una grande importanza alla tempera, soprattutto per le
finiture. Essa fu usata da diversi artisti e in particolar modo da
Leonardo, il quale amava poco la tecnica dell’affresco, poiché la velo-
cità di esecuzione che richiedeva si conciliava male con la sua pittura
molto basata sullo studio grafico. Per tale motivo era solito sperimen-
tare l’impiego di collanti, come fece nel celebre caso dell’Ultima Cena
di Milano, dove usò una tempera a base di uova.

7. Principali cause di degrado

In seguito a naturali processi di alterazione chimica, solo alcuni


pigmenti minerali, sottoposti alla luce e all’aria, tendono a cambiare
abito cristallino e quindi a mutare la tinta: è il caso, ad esempio, del-
l’azzurrite, che col tempo tende a trasformarsi in malachite e a muta-
re colore da azzurro a verde, oppure del cinabro, che tende ad ossidarsi
e di conseguenza ad annerirsi.
Altri tipi di degrado possono essere subiti dalle decorazioni affre-
scate, non per alterazione chimica, ma per i danni meccanici procura-
ti dall’acqua. Se esposti a lungo alla pioggia battente i colori degrada-
no per asportazione dei pigmenti; nel caso in cui la calcite venga resa
solubile dall’anidride carbonica disciolta nell’acqua, anche i granelli
dei pigmenti possono venire asportati. Via via che diminuisce la quan-
174 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

tità di pigmento anche il colore tenderà perciò a schiarirsi. Attraverso


i sistemi di valutazione oggettiva più sopra descritti (cfr. IV.1.) è pos-
sibile quantificare in che misura il colore originario si sia spostato
verso il bianco e calcolare la percentuale di pigmento mancante.
Questo tipo di degrado può essere contrastato bloccando il processo di
asportazione.
Spesso, in un affresco degradato dalla perdita di colore, ciò che si
conserva meglio sono i contorni del disegno, perché lì i pigmenti ven-
gono trattenuti più a lungo dalla presenza del graffito.
Non sono infrequenti i casi di degrado differenziato degli affreschi,
vale a dire di zone in cui manca una quantità maggiore di pigmento.
Ciò avviene con più frequenza nelle parti che erano state realizzate
per ultime e dove perciò i colori erano applicati sull’intonaco già asciu-
gato.
Dove l’azione dell’acqua battente non ha asportato la superficie,
l’affresco resta invece brillante, perché i colori minerali nella maggior
parte dei casi non sono alterabili.

Come gli altri materiali a base carbonatica anche gli affreschi sono
soggetti alla solfatazione, con conseguente formazione della crosta
nera, per azione delle piogge acide.
Altre cause di degrado possono essere dovute a interventi moder-
ni, quali l’applicazione di silicati su pareti bagnate, o l’esfoliazione per
mancanza di traspirabilità dei colori polimerici.

8. Nota bibliografica

Per uno studio completo dei pigmenti usati nella pittura si veda il
volume AA. VV. 1986/a, che contiene un’analisi approfondita delle
sostanze coloranti utilizzate dall’Antichità al secolo scorso; di ciascu-
na di esse vengono descritti i caratteri naturali e viene ricostruita la
storia dell’utilizzo nel corso dei secoli.
Per lo studio sperimentale condotto nel genovesato sulle modalità
di approvvigionamento delle terre coloranti a base di ossidi di ferro
cfr. FANTONI, G ATTI 1994. L’analisi dei pigmenti rinvenuti nel labora-
torio del pittore egizio di Karnak si trova in ROUCHON ET ALII 1990. Un
quadro completo (anche se aggiornato solo ai primi anni ‘80) dello
stato delle conoscenze sui pigmenti utilizzati nella decorazione parie-
tale dell’architettura greca, etrusca, romana, si trova in FRIZOT 1982.
Per un aggiornamento su alcune ricerche posteriori si consiglia la let-
Aurora Cagnana 175

tura di A A.V V. 1990, che contiene gli Atti di un Convegno


Internazionale svoltosi in Francia sul tema dei pigmenti e coloranti
impiegati dall’Antichità al Medioevo; fra gli altri contributi si segnala
quello di BARBET 1990, dove viene descritto l’esempio della domus di
Aix en Provence più sopra citato. Per le analisi del ‘falso blu’ di
S.Germain di Auxerre cfr. COUPRY, SAPIN 1994.
Sulla tecnica dell’affresco si vedano inoltre CAMERON, JONES,
PHILIPPAKIS 1977 per le analisi di alcuni esempi di pittura parietale
minoica; VLAD B ORRELLI 1984 per la pittura etrusca; BARBET, ALLAG
1972 e BARBET 1985 per gli affreschi di epoca romana. Una utile e
chiara sintesi di tutti i sistemi di pittura parietale dell’antichità si
trova in CAGIANO DE AZEVEDO 1961. Per le tecniche di esecuzione delle
pitture parietali in età medievale e rinascimentale cfr. NEGRI ARNOLDI
1980; MORA L. P., P HILIPPOT 1977; B ENSI 1990. L’esempio del ciclo di
affreschi di Santa Maria Novella (Firenze) di Domenico Ghirlandaio è
trattato nel saggio di RUFFA 1990. Le ricerche di storia orale sulla
famiglia dei decoratori Noli si trovano in CAPURRO, GUGLIELMI
1991/92. Interessanti considerazioni sulla pittura a calce e sulla ese-
gesi del testo di Teofilo si trovano in C OSTANZI COBAU 1985.
Aurora Cagnana 177

V. IL VETRO

1. I sistemi di approvvigionamento della silice

Anche il vetro può essere considerato un ‘litoide’, in quanto si ottie-


ne per trasformazione di materiali litici. È rigido, ma oltre certe tem-
perature acquista una plasticità che lo rende modellabile.
Non ha una struttura cristallina, ma amorfa, vale a dire che non è
caratterizzato da un reticolo ordinato che si ripete con regolarità in
tutte le direzioni, ma si può considerare piuttosto un liquido altamen-
te vischioso, sopra-raffreddato. Come tutti i solidi amorfi, non ha un
punto di fusione preciso, che separa lo stato cristallino da quello fuso,
ma un’ampia fascia termica, all’interno della quale la sua viscosità
tende a diminuire, via via che si alza la temperatura. A 1000°C il vetro
è molto molle e non mantiene la forma conferitagli; tra 800°C e 600°C
presenta la plasticità maggiore. Se si diminuisce la temperatura l’agi-
tazione termica si riduce ulteriormente e aumenta la viscosità, finché
sotto ai 500° C si presenta rossiccio, non è più mobile e non si defor-
ma più; a temperatura ambiente, infine, ha raggiunto la sua stabilità
di materiale rigido ma amorfo.
La materia prima fondamentale per la produzione del vetro è la
silice, la cui forma cristallina più diffusa è il quarzo (SiO2), minerale
costituito interamente da tetraedri formati da quattro atomi di ossi-
geno per ogni atomo di silicio; ogni ossigeno stabilisce un legame cova-
lente con due atomi di silicio adiacenti, creando una struttura regola-
re e molto resistente. Queste unità tetraedriche sono anche l’elemen-
to che costituisce i minerali detti ‘silicati’ (cfr. II.1.); benché siano piut-
178 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

62- Confronto fra lo stato cristallino della silice, costituita da un reticolo


ordinato di tetraedri, e lo stato amorfo del vetro, dove i tetraedri sono
ammassati senza alcuna regolarità (da CUOMO DI CAPRIO 1988)

tosto abbondanti sulla crosta terrestre non è da essi che si poteva


estrarre la silice per produrre il vetro, dato che quest’ultima vi si trova
combinata con altri elementi. I sistemi di approvvigionamento tradi-
zionali erano piuttosto basati sulla ricerca di rocce nelle quali la sili-
ce si trovasse pressoché pura.
Si potevano ad esempio praticare estrazioni mirate di filoni quarzi-
feri contenuti in altre formazioni silicatiche, oppure, con più semplici
sistemi di raccolta, selezionare ciottoli di quarziti, rocce derivate dal
metamorfismo di arenarie e composte quasi unicamente da quarzo.
Altrettanto adatti erano i ciottoli di selce, una varietà di silice cripto-
cristallina presente in forma di noduli all’interno di rocce sedimenta-
rie; infine si potevano sfruttare le sabbie ricche di quarzo. Questo
minerale ha infatti una durezza molto elevata (cfr. I.2.) e perciò è in
grado di resistere maggiormente agli agenti abrasivi; di conseguenza,
la lunga elaborazione naturale finisce per consumare gli altri minera-
li e per selezionare il quarzo fino al punto da renderlo il componente
principale, se non esclusivo. Le sabbie desertiche o quelle di spiagge di
età geologiche, ad esempio, sono costituite al 98% di quarzo e possono
perciò essere considerate un vero e proprio deposito di silice, che si
trova pura e già ridotta in granelli finissimi grazie al trasporto eolico.
La raccolta di sabbie quarzifere è chiaramente ricordata dalle
Aurora Cagnana 179

fonti antiche come sistema di approvvigionamento della materia


prima per la produzione del vetro. Plinio menziona ad esempio la sab-
bia del fiume Belus, in Palestina (Nat. Hist. V, 75) e quella del fiume
Volturno, (Molise), che definisce alba emollissima, assai adatta per
ottenere vetro trasparente e incolore (Nat. Hist. XXVI, 66, 8).
In altri casi la ricerca archeologica ha invece rilevato le tracce di
estrazione di filoni quarziferi con piccole piccozze di ferro acciaioso,
come nella vetreria medievale di Monte Lecco (Genova), ubicata in
un’area montuosa dell’Appennino ligure, lontano da spiagge o da alvei
fluviali (cfr. V.2.).

2. Il processo di cottura e le sostanze fondenti

Per ottenere il vetro occorre fondere, cioè rendere liquido, il quar-


zo. Il passaggio dallo stato solido a quello liquido richiede una forte
quantità di energia, tale che l’agitazione termica degli atomi superi le
forze di legame. Tutti i solidi cristallini hanno una temperatura di
fusione ben precisa, a partire dalla quale passano dallo stato solido a
quello liquido. Nel quarzo, data la sua struttura molto stabile, è neces-
saria un’alta temperatura (1710°C) per spezzare alcuni dei legami fra
i tetraedri e renderli mobili tra loro, ovvero per passare allo stato
liquido.
La temperatura di fusione del quarzo era irraggiungibile con i
sistemi produttivi preindustriali, sia per i caratteri dei forni, sia per il
tipo di combustibile, costituito dal carbone di legna. In Europa, fino
alla rivoluzione industriale, non era possibile superare i 1200°-
1300°C; in Cina esistevano particolari fornaci in grado di raggiungere
temperature pari a 1400°C, usate per la produzione delle porcellane
(cfr. II.6.); soltanto in India, già in un’epoca corrispondente alla nostra
età romana, si riuscivano a toccare i 1500°C, in piccoli forni a river-
bero che fondevano il ferro per fare la ghisa in crogiolo. In ogni caso
nessun impianto era in grado di arrivare alla temperatura necessaria
per ottenere la fusione del quarzo.
Si è però imparato a riconoscere le proprietà fondenti di alcuni
materiali, in grado di abbassare tale soglia fino a 1100°C circa. Vi sono
infatti elementi come il sodio, il calcio, il magnesio, il potassio, il piom-
bo, che a una temperatura di 1000°-1100°C, e cioè in condizioni di agi-
tazione molto alta delle molecole di silice, possono catturare alcuni
legami dell’ossigeno, spezzando alcuni reticoli di tetraedri. A seconda
180 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

delle sostanze fondenti utilizzate il vetro viene perciò definito sodico,


potassico, alcalicalcico o piombifero.
Il primo era prodotto nell’Antichità, soprattutto nelle regioni medi-
terranee; Plinio e Teofrasto parlano di una sostanza chiamata natron,
identificabile con il carbonato di sodio (Na2CO3), molto abbondante
nelle aree desertiche. L’erosione chimica delle montagne che circonda-
no i deserti, infatti, è alla base del fenomeno, già descritto, di caoli-
nizzazione dei feldspati (cfr. II.1.), che si trasformano in minerali
argillosi perdendo sodio e potassio; questi ultimi, allo stato di carbo-
nati, vengono trasportati in soluzione durante le piogge. Poiché nei
deserti i corsi d’acqua tendono a prosciugarsi prima di giungere al
mare, l’evaporazione fa depositare i sali. Ciò spiega la frequente for-
mazione di croste di sale, spesso costituite da strati differenti, dovuti
alla diversa concentrazione necessaria per depositarsi. Il carbonato di
sodio si poteva perciò trovare con molta facilità.
Nell’Europa centro-settentrionale si usava invece prevalentemen-
te la potassa, (K2CO3) contenuta nelle ceneri di piante (felci o faggi);
per tale motivo il vetro che si otteneva veniva chiamato in Francia
‘verre de fougère’ (vetro di felce) e in Germania ‘waldglas’ (vetro di
bosco). Nelle ceneri, oltre al potassio e al sodio sono più o meno pre-
senti anche il magnesio e il calcio, il quale è importante in particolare
modo, perché rende il vetro più stabile nel tempo e lo preserva dalla
tendenza alla devetrificazione (cfr. V.5.).
L’uso del piombo, piuttosto raro nell’antichità, si è affermato nel
Rinascimento.

3. Dalla pasta vitrea alla soffiatura

I più antichi esempi di fusione della silice, per produrre manufat-


ti, risalgono alla metà del II millennio a.C. e provengono dall’area egi-
ziana e mediorientale, regioni dove le materie prime necessarie (sab-
bie desertiche ricche di quarzo e natron) erano facilmente disponibili;
si calcola che, con un fuoco ad alta temperatura, anche il 18% di sodio
fosse sufficiente a fondere l’82% di silice.
Il materiale che si ottiene dalla prima fusione del quarzo, di aspet-
to filamentoso e opaco, viene definito fritta e il suo modellamento per-
mette di ottenere oggetti in pasta vitrea.
Una delle più antiche tecniche di lavorazione, utilizzata per pro-
durre piccoli contenitori (per lo più unguentari), viene detta ‘a nucleo
Aurora Cagnana 181

friabile’; essa consisteva nel plasmare, sulla parte terminale di un’a-


sticella metallica, un nucleo di argilla, sabbia e altre sostanze orga-
niche leganti, intorno veniva poi avvolto uno spesso filamento di frit-
ta, piuttosto viscoso, che formava il corpo del vaso. Estratta l’asti-
cella e frammentato il nucleo di argilla per liberare l’interno, si otte-
neva il vaso; esso poteva essere completato con l’applicazione di orlo,
fondo, anse, ed eventualmente decorato con l’aggiunta di altri fila-
menti di colori diversi, disposti a festoni, a piume, a zigzag. Talora la
fritta poteva essere modellata anche a stampo; in ogni caso si trat-
tava di sistemi piuttosto lenti, che permettevano di ottenere oggetti
di piccole dimensioni, e che non consentivano una grande varietà di
foggiature.
È con l’epoca ellenistica che la diffusione dei contenitori in pasta
vitrea, come quella di molti altri manufatti artigianali, aumentò note-
volmente e, di conseguenza, si moltiplicarono i centri di produzione.
Fra questi assunsero una notevole importanza le officine dell’area
costiera siro-palestinese, come Sidone, ricordata anche più tardi da
Plinio quale artifex vitri.
In seguito alla conquista romana dei regni ellenistici si determinò
nel Mediterraneo occidentale un imponente afflusso di ricchezze e con
esse di beni e di maestranze artigianali specializzate, fra le quali
anche molti maestri vetrai. È in questo panorama di accresciuta
domanda e di grande circolazione di manufatti e di tecniche che si
registra, in età augustea, una innovazione tecnologica di portata
vastissima: la soffiatura. Questo nuovo sistema prevedeva di sotto-
porre la ‘fritta’ a una seconda cottura in speciali contenitori troncoco-
nici, realizzati in ceramica refrattaria, definiti crogioli. Insieme alla
fritta, macinata, si mescolavano frammenti di vetro pestati. Se si vole-
va ottenere un prodotto colorato, si aggiungevano anche pigmenti
metallici; a seconda dei composti (per lo più di rame, ferro, mangane-
se) e dell’ambiente di cottura (che poteva essere riducente oppure ossi-
dante) si potevano ottenere colori diversi, dal blu al rosso al giallo al
verde. Il prodotto della cottura, non più filamentoso, ma fluido e tra-
sparente, veniva prelevato in piccole quantità e soffiato entro una
canna in ferro; con l’aiuto di pochi strumenti (pinze, cesoie, ecc.) si
potevano foggiare in brevissimo tempo svariati oggetti, di diverse
forme e dimensioni, e con spessori anche molto sottili. Grazie alla sof-
fiatura il vetro conobbe una diffusione sociale decisamente maggiore.
Diverse decine di coppe realizzate in vetro soffiato, rinvenute a Roma
e risalenti all’età augustea, sono caratterizzate dalla presenza di bolli,
182 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

con i nomi, in greco, degli artigiani che le hanno fabbricate, seguiti dal
termine Seidónios (= di Sidone). Spesso i nomi sono ripetuti anche in
latino, allo scopo di essere compresi dalla clientela di Roma che, evi-
dentemente, riteneva il marchio sidonio una garanzia di buona qua-
lità. Secondo alcuni archeologi ciò proverebbe il trasferimento
dall’Oriente a Roma di specialisti del vetro ai quali si deve, con ogni
probabilità, l’introduzione della soffiatura; va comunque ricordato che
anche nel Mediterraneo orientale essa compare nello stesso periodo.
Questa innovazione tecnologica ha permesso al vetro di diventare un
prodotto ad amplissima diffusione e ha aperto molte possibilità nuove:
gli oggetti potevano essere allungati, modificati, soffiati entro stampi
e quindi rilavorati.
Moltiplicatesi velocemente in tutto l’Impero romano (comprese le
aree nordiche, come la Renania) le manifatture vetrarie divennero un
poco più rare nell’altomedioevo. La produzione aumentò nei secoli
seguenti, quando in Italia vennero aperte nuove fabbriche, basate
ancora sull’uso di fondente prevalentemente sodico, mentre nel resto
dell’Europa settentrionale si andava sviluppando quello potassico.
Un importante esempio di un impianto produttivo medievale è
stato fornito dallo scavo di una vetreria risalente alla seconda metà
del XIV secolo, posta a 830 metri s.l.m., su una montagna
dell’Appennino, nell’entroterra del porto di Genova. Con ogni probabi-
lità era gestita da vetrai provenienti da Altare, nel Savonese (zona
tradizionale di manifatture vetrarie) che fabbricavano soprattutto bic-
chieri e bottiglie, molte delle quali recavano un bollo con l’indicazione
della misura di capacità e la sigla del maestro.
La fornace aveva pianta a ‘8’, come quelle per ceramiche o per calce
(cfr. II.5.; III.4), ma in questo caso la strozzatura aveva la caratteri-
stica di essere regolabile attraverso la disposizione di pietre che,
all’occorrenza, potevano ridurne o aumentarne l’ampiezza. Il forno era
costituito da una suola rialzata rispetto al canale di tiraggio. Il suo
funzionamento è stato ricostruito in base ai resti rinvenuti e al con-
fronto con alcuni dati iconografici. Doveva essere a riverbero, cioè
costituito da una cupola che faceva convergere il calore dall’alto verso
il basso; un foro superiore doveva garantire il tiraggio. La silice era
estratta da vene quarzose ubicate poco lontano, come attestavano con-
sistenti tracce di coltivazione. Le analisi chimiche dei prodotti hanno
inoltre indicato l’uso di potassio, sodio, magnesio e calcio (estratti da
ceneri di piante), quali fondenti.
La silice veniva finemente frantumata e portata a fusione assieme
Aurora Cagnana 183

63- La soffiatura del vetro in una fonte iconografica del 1590, nella quale
si riconoscono chiaramente le varie fasi della lavorazione: preparazione
del combustibile, soffiatura, trasferimento dell’oggetto finito nella zona
‘della tempera’ (da MANNONI, GIANNICHEDDA 1996)
184 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

al fondente per ottenere la fritta, la quale veniva poi lasciata raffred-


dare e quindi ulteriormente macinata e mescolata a polvere di vetri
rotti, riciclati. Il miscuglio veniva nuovamente portato a cottura entro
crogioli, di forma troncoconica, realizzati in ceramica refrattaria. Di
notevole interesse sono risultati i dati emersi dall’analisi minero-
petrografica di tre diversi tipi di crogioli: si è potuto infatti stabilire
che le ottime caratteristiche di refrattarietà erano dovute all’alta per-
centuale di quarzo, utilizzato come inerte nell’impasto ceramico, e alla
presenza di caolinite, minerale argilloso caratterizzato da un’alta tem-
peratura di fusione (cfr. II.1.). La seconda esposizione al calore, detta
bollitura, richiedeva un certo periodo di tempo; il materiale doveva
essere controllato tramite finestrelle appositamente aperte nelle pare-
ti della fornace, le quali permettevano anche di attingere direttamen-
te dai crogioli; le bolle di gas erano espulse e venivano schiumate le
impurità che salivano a galla. Solo quando il vetro aveva raggiunto la
limpidezza necessaria veniva prelevato, allo stato fluido, con le canne
di ferro, sempre tramite le finestrelle, per essere modellato a fiato.
Dopo la foggiatura si doveva evitare il raffreddamento improvvi-
so, che rischiava di creare tensioni interne le quali, con piccoli urti,
avrebbero potuto provocare lo sgretolamento dell’oggetto. Per farlo
assestare, perciò, esso veniva tenuto a lungo in un ambiente, detto
‘stanza della tempera’, con temperatura attorno ai 200° - 400°C. È
probabile che in questo caso tale zona si trovasse nella parte supe-
riore del forno, a giudicare dalla forma degli speciali mattoni refrat-
tari che formavano la cupola, e come suggerirebbe il confronto icono-
grafico con impianti analoghi. Nei caratteri tecnologici essenziali, la
fornace medievale dell’Appennino genovese, fin qui descritta, non
sembra molto diversa da quelle più tarde, illustrate, ad esempio,
nelle tavole dell’Encyclopédie.

4. La produzione di lastre da finestra

Il vetro è particolarmente importante nelle costruzioni per le sue


caratteristiche di materiale impermeabile e trasparente, in grado di
creare un sufficiente isolamento termico, e al tempo stesso di lasciar
passare la luce e le immagini. L’introduzione della soffiatura e le inno-
vazioni tecnologiche dell’arte vetraria hanno influenzato notevolmen-
te, soprattutto nelle regioni a clima rigido, l’evoluzione tipologica delle
finestre.
Aurora Cagnana 185

In epoca romana vi erano, come si è visto, manifatture vetrarie


assai fiorenti, tuttavia sono molto più conosciuti gli oggetti da mensa
che non i vetri da finestra. Le più antiche attestazioni di lastre in
vetro riguardano edifici pubblici e solo successivamente l’edilizia pri-
vata, dove iniziano a essere più frequenti a partire dall’età neroniana.
Uno dei primi sistemi di fabbricazione era basato sulla colatura in
uno stampo dalla superficie liscia; ciò consentiva però di ottenere
oggetti di dimensioni limitate e di notevole spessore.
La produzione di manu-
fatti di qualità migliore fu
resa invece possibile dalla
soffiatura. Un sistema piut-
tosto diffuso, soprattutto
dal III secolo in poi, doveva
essere quello definito ‘a
cilindro’. Esso consisteva
nella preliminare realizza-
zione di una bolla; conti-
nuando poi a soffiare nella
canna e facendola alterna-
tivamente rotolare su una
base di marmo, si otteneva
un cilindro molto allungato.
Quando aveva raggiunto le
dimensioni volute, si prov-
vedeva a tagliare a caldo,
con un ferro rovente, le due
estremità, e quindi lo si
apriva in senso longitudi-
nale, in modo da ricavarne
una lastra rettangolare.
Per tagliare il cilindro si
usava una sorta di cesoia,
detta ‘grossarium’, che pro-
duceva un profilo affilato, il
64- Realizzazione di lastre da fine- quale però tendeva ad arro-
stra tramite il sistema ‘a cilindro’:
tondarsi a causa del calore.
soffiatura di una bolla e suo allunga-
mento; taglio delle estremità, apertu- Il grisatoio era invece uno
ra a caldo (da MENICALI 1992, riela- strumento metallico, ricur-
borata da Zanella, 1999) vo alle due estremità, che
186 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

65- Realizzazione di lastre da finestra tramite il sistema ‘a corona’: soffia-


tura di una ‘bolla’; appiattimento della base; distacco della canna e colle-
gamento a un’asticciola, modellamento della lastra per forza centrifuga e
stacco dell’asticciola (da MENICALI 1992, rielaborata da Zanella, 1999)
Aurora Cagnana 187

serviva per scheggiare finemente i bordi, quando le lastre erano di


dimensioni poco più grandi rispetto alla cornice.
Un’altra tecnica era detta invece “a corona” e consisteva nel rea-
lizzare una bolla larga e appiattita alternando il riscaldamento al
modellamento su una base in pietra. Quando la bolla aveva raggiunto
le dimensioni volute, veniva collegata alla base con un’asticella di
ferro, detta “pontello”, e staccata dalla canna da soffio; l’apertura veni-
va quindi dilatata con apposite spatole, in modo da renderla troncoco-
nica. Facendola ruotare rapidamente tramite il pontello, finiva per
assumere la forma di un disco. Lo stacco del pontello lasciava al cen-
tro della lastra il caratteristico addensamento di vetro definito ‘occhio
di bue’, mentre il bordo presentava un tipico ispessimento. Secondo
alcuni studiosi questo sistema sarebbe originario del Mediterraneo
orientale; per tre dischi rinvenuti ad Aquileia si è infatti ipotizzato che
si trattasse di importazioni, oppure di prodotti realizzati sul posto da
maestranze venute dall’Oriente.
A partire dall’età tardoantica sono attestati nelle province occiden-
tali altri ritrovamenti di lastre realizzate ‘a corona’: uno, in un conte-
sto di IV secolo è stato rinvenuto, ad esempio, a Chichester, la roma-
na Regnum. Celebri sono poi i dischi in vetro rinvenuti a San Vitale di
Ravenna, databili al VI secolo. Presentano diametri con dimensioni di
cm 17/26; alcuni sono colorati (blu, verde, giallo, rosa) altri sono inve-
ce incolori e conservano tracce di una decorazione sovradipinta in
rosso. Si è fatta l’ipotesi che in origine fossero fissati su telai lignei
oppure che fossero incastrati, tramite stucco, in appositi spazi di tran-
senne marmoree. Questi sistemi sembrano comunque caratteristici
della tradizione bizantina, mentre in occidente doveva essere mag-
giormente diffusa la produzione di lastre rettangolari, mediante il
sistema a cilindro. È stato osservato infatti che, nella stessa Ravenna,
tutte le raffigurazioni di edifici di culto che si trovano sui mosaici, pre-
sentano finestre con lastre rettangolari. Due intelaiature di legno,
destinate a fermare lastre di questo tipo, sono state rinvenute a
Sant’Apollinare in Classe, nella tamponatura di due finestre.
Per la conoscenza delle lastre di periodo altomedievale un ritrova-
mento di eccezionale interesse è stato effettuato durante gli scavi del
monastero di San Vincenzo al Volturno (Isernia). Nelle imponenti rico-
struzioni operate fra il 780 e l’830, questo complesso venne ingrandi-
to e ricostruito, tanto da diventare, con i suoi sei ettari di estensione,
uno dei più grandi cenobi d’Europa anteriormente al Mille. La distru -
zione operata nell’881 da parte di un gruppo di armati arabi ne ha
188 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

sigillato i resti nel sottosuolo. Gli scavi archeologici hanno così reso
possibile ritrovare, nei pressi della chiesa abbaziale di San Vincenzo
Maggiore, completata nell’808, una serie di impianti produttivi costi-
tuiti da fornaci per laterizi, per campane, per smalti e per vetri, tutti
destinati a rifornire i materiali per questo grandioso cantiere. Una
parte delle officine, a carattere provvisorio, venne installata in un’a-
rea antistante l’edificio di culto. Con il progressivo ampliamento della
chiesa gli impianti vennero spostati presso il fianco meridionale e
sistemati all’interno di strut-
ture edilizie permanenti,
costituite da cellette rettan-
golari affiancate. In una di
esse sono stati rinvenuti i
resti di due fornaci da vetro,
che producevano lastre vitree
colorate, delle quali si sono
rinvenuti circa 7000 fram-
menti (delle misure massime
di cm 12 x 15), destinate a
finestre di notevoli dimensio-
ni. Le analisi chimiche hanno
rilevato l’utilizzo di fondenti
alcalini (soprattutto sodio)
secondo la tradizione tecnolo-
gica romana. Di notevole
interesse il fatto che meno
dell’1% dei frammenti è
risultato eseguito col sistema
a corona, mentre oltre il 99%
è stato realizzato a cilindro.
Benché frammentarie, è
stato possibile individuare la
forma originaria delle lastre:
quelle della parte bassa
erano rettangolari, mentre
quelle poste in alto erano a
66- Ricostruzione di una finestra
altomedievale con lastre rettangola-
profilo curvilineo. Si è per-
ri, in base ai ritrovamenti archeolo- tanto ipotizzato che tali pan-
gici di San Vincenzo al Volturno (da nelli fossero inseriti su telai
DELL’ACQUA 1996) lignei simili a quelli rinvenu-
Aurora Cagnana 189

ti a Sant’Apollinare in Classe, più sopra ricordati; le vetrate di San


Vincenzo dovevano perciò rifarsi a quelle dei grandi edifici pubblici
della tarda Antichità. Si sono inoltre rinvenuti alcuni frammenti di
listelli in piombo, a sezione ad “H” o ad “U”, verosimilmente destinati
al fissaggio delle lastre. Un altro interessante esempio di un impian-
to di produzione vetraria, ubicato nei pressi di un cantiere edilizio, è
stato rinvenuto negli scavi della Torre Civica di Pavia. In origine essa
fu infatti utilizzata come officina per produrre materiali edilizi da
impiegare nell’edificazione delle due cattedrali romaniche di Santo
Stefano e Santa Maria del Popolo, ricostruite attorno al 1100. In que-
sto caso, però, tale ambiente non ospitava una vera e propria fornace,
della quale non si sono rinvenute tracce; secondo alcuni archeologi vi
sarebbe avvenuta soltanto una lavorazione secondaria, consistente
nel taglio dei vetri e nel montaggio delle finestre; secondo altri, inve-
ce, il luogo avrebbe ospitato un temporaneo deposito di lastre di scar-
to, già smontate e lì raccolte per un’eventuale rifusione. In ogni caso
tali frammenti, databili attorno al 1100, rappresentano una delle più
antiche attestazioni di vetrate romaniche.
Nei secoli successivi tali testimonianze si moltiplicano; il sistema a
corona risulta ampiamente documentato anche nel resto d’Europa: dal
XIII secolo in poi esso è particolarmente diffuso in Normandia, tanto
che fino a poco tempo fa si riteneva che fosse originario di questa
regione. Parallelamente continuò ad essere in uso anche il sistema a
cilindro.
Un contesto di alcune centinaia di frammenti di vetro da finestra
è stato rinvenuto a Genova, nel corso di scavi archeologici, in una
fossa databile alla fine del XVI secolo. Poiché quest’ultima era ubica-
ta nei pressi della chiesa di Santa Maria di Castello, la cui abside
venne rifatta appunto nel 1589, si è giustamente ipotizzato che i vetri
provenissero dalla demolizione della precedente fase tardo quattro-
centesca. Fra essi si trovavano numerosi esempi di dischi realizzati
con la tecnica “a corona”, ben riconoscibili dalla presenza della carat-
teristica protuberanza centrale dovuta allo stacco dell’asticella. Altre
lastre a forma di triangoli, pentagoni, tasselli quadrati, lunette e ret-
tangoli erano invece state prodotte con la tecnica del cilindro. Una
serie di lastre presentava una decorazione bruno violacea applicata
con ossidi di manganese, sulla quale erano ottenuti, a risparmio, moti-
vi decorativi vegetali.
Tutti questi elementi, di dimensioni comprese entro i 10-15 centi-
metri, dovevano essere uniti per mezzo di profilati di piombo (che però
190 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

67- Frammenti di lastre da finestra tardomedievali rinvenuti a Genova, in


una fossa scavata presso Santa Maria di Castello: tipologia delle forme
attestate; ricostruzione di un motivo geometrico a rombi e ottagoni allun-
gati; ricostruzione di una finestra con lastre circolari impiombate (da
GARDINI, MILANESE 1976)
Aurora Cagnana 191

non sono stati rinvenuti) a formare disegni geometrici, come nelle


vetrate fisse ancora esistenti in molte chiese medievali.
I vetri medievali erano spesso decorati con una pittura a base di
ossidi, che veniva fissata con una seconda cottura in fornace; i contor-
ni del disegno potevano essere disegnati in positivo, oppure realizzati
a risparmio, asportando la pellicola colorata, come nel caso genovese.
Le grandi vetrate gotiche, con decorazioni istoriate a vivaci colori,
fissate alle pareti attraverso telai di ferro, non potevano essere com-
pletamente realizzate con collages di vetri piombati, poiché sarebbero
state troppo pesanti; inoltre i profilati di piombo non avrebbero per-
messo di ottenere una grande ricchezza di dettagli. Le decorazioni
minute (volti, mani, monili) venivano pertanto eseguite con un siste-
ma definito grisaille, che consisteva nel dipingere le lastre con polve-
re di vetro colorato, misto a collanti. In seguito a una ulteriore cottu-
ra, praticata a temperature basse, in modo da evitare la deformazio-
ne delle lastre, solo la polvere di vetro fondeva, rimanendo aderente al
supporto.

Se la realizzazione di vetrate fisse non poneva problemi particola-


ri, quella delle finestre con ante mobili, che potessero essere aperte e
chiuse era decisamente più complessa. Nelle polifore delle più ricche
case mercantili, poiché non era possibile rendere apribili le vetrate
(unite da elementi in piombo e perciò troppo pesanti) si utilizzavano
telai lignei che venivano agganciati alla parete ogni giorno (uno per
archetto) e smontati ogni sera per essere sostituiti da scuri di legno.
Nelle case meno ricche, al posto dei telai con lastre di vetro si utiliz-
zavano invece tele cerate, o carta oleata. Telai e scuri venivano tenuti
fermi da paletti inseriti internamente, entro appositi alloggi ricavati
sugli stipiti e sulle pareti. Si trattava comunque di un sistema molto
scomodo, che aveva anche una tenuta termica bassissima.
La sostituzione delle polifore con finestre a croce, avvenuta a par-
tire dalla fine del XV secolo, permise di adottare un sistema più fun-
zionale: solo la parte superiore venne infatti dotata di vetrate piom-
bate, fisse, mentre nella parte bassa vennero poste due ante lignee
apribili. Infissi di questo tipo sono ampiamente attestati dalle fonti
iconografiche e, molto più raramente, da resti materiali.
Un caso di grande interesse è costituito dalla serie di finestre del
palazzo duecentesco dei Fieschi, a Cogorno (Genova). Grazie all’ottimo
stato di conservazione sono ben riconoscibili le tracce della trasforma-
zione delle polifore medievali in finestre a croce. Nella parte superio-
192 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

68- Testimonianza archeolo-


gica di finestre tardo-quattro-
centesche costituite da vetra-
te fisse in alto e da ante mobi-
li di legno in basso. Tali infis-
si rettangolari sono stati rica-
vati nello spazio delle più
antiche polifore medievali
(San Salvatore dei Fieschi -
Genova) (da MANNONI 1999/b)

re si conservano i resti delle vetrate fisse, mentre all’interno si indivi-


duano chiaramente, negli stipiti, gli alloggi utilizzati per i paletti
lignei che tenevano ferme le ante poste nella parte bassa.
La realizzazione di grandi finestre con ante apribili, costituite da
lastre di vetro rettangolari, montate su telai di legno, si diffuse inve-
ce più tardi: nei palazzi nobiliari soppiantò definitivamente le finestre
a croce a partire dal XVII secolo. Le lastre erano prevalentemente
prodotte col sistema a cilindro, nel quale vennero introdotte alcune
modificazioni tecnologiche, non sostanziali: per il taglio delle lastre,
ad esempio, dal XVII secolo si cominciò a fare uso del diamante.

5. Principali cause di degrado

La tendenza del vetro, sostanza amorfa, a riassumere col tempo


una struttura cristallina, è un fenomeno naturale, che ne causa la
Aurora Cagnana 193

devetrificazione. Questo processo è collegato alla perdita progressiva


delle sostanze fondenti; il sodio, in particolare, tende a staccarsi dal
vetro per lisciviazione dell’acqua. Rimasta senza alcali, la silice tende
a riorganizzarsi secondo una struttura cristallina; tuttavia i tetraedri
di SiO 2 non riformano più i cristalli di quarzo, ma la presenza di altri
elementi (ferro, magnesio, calcio) determina la formazione di nuovi
silicati fra i quali il più comune è la clorite, dal tipico colore verde. Le
colorazioni iridescenti assunte da molti vetri romani, a base sodica,
sono appunto dovute alla perdita degli alcali e alla formazione di sili-
cati. Questo fenomeno esiste anche in natura; molte colate laviche di
basalti, ad esempio, che in origine erano ricoperte da strati vetrosi,
dovuti al veloce raffreddamento in superficie, col tempo si sono tra-
sformate completamente in clorite.

6. Nota bibliografica

Sul ciclo di produzione del vetro una utile sintesi si trova in


MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 89-92; sulla vetrificazione del quar-
zo un essenziale richiamo dei principali meccanismi chimici si trova in
CUOMO DI CAPRIO 1985. Sulle tecniche di lavorazione, dalla pasta
vitrea alla soffiatura, si consiglia l’agile volumetto di SAGUÍ 1998 e il
testo di TAIT 1991, quest’ultimo particolarmente utile dal punto di
vista didattico, per le numerose esemplificazioni sperimentali. Sulla
vetreria medievale scavata nell’Appennino genovese, studiata con
grande attenzione e con il supporto di accurate analisi archeometriche
cfr. FOSSATI, MANNONI 1975; CASTELLETTI 1975; CALEGARI, MORENO
1975. Sui metodi a cilindro e a corona per la soffiatura di lastre da
finestra cfr. SINGER ET ALII 1961-66. Sull’uso di lastre da finestre nel-
l’architettura romana cfr. HARDEN 1969 e HARDEN 1971; una essenzia-
le sintesi delle principali problematiche relative alla storia del vetro
da finestra nell’architettura romana viene tracciata in margine allo
studio dei 2700 frammenti rinvenuti negli scavi della villa di
Settefinestre da DE TOMMASO 1985, pp. 50-51. Sui vetri prodotti col
sistema a corona cfr. CALVI 1968, pp. 174-175 per Aquileia;
CHARLESWORTH 1977 per Chichester; BOVINI 1964 per San Vitale. Per
le vetrate altomedievali rinvenute negli scavi del monastero di San
Vincenzo al Volturno cfr. MARAZZI, FRANCIS 1996; DELL’ACQUA 1996;
DELL’ACQUA 1996/a. Per le vetrate rinvenute nella torre di Pavia cfr.
WARD PERKINS ET ALII 1978; PIRINA 1993; SPATOLA 1993. Per il conte-
194 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

sto di vetri da finestra tardo quattrocenteschi rinvenuti a Genova cfr.


GARDINI, MILANESE 1976. Gli aspetti produttivi e iconografici delle
vetrate medievali sono trattati nella recente monografia di
CASTELNUOVO 1994. Sulle trasformazioni di finestre e serramenti dal
medioevo all’età moderna, notizie dettagliate, sebbene circoscritte
all’ambito genovese, si trovano in BOATO, MANNONI 1997/98. Sulle fine-
stre di San Salvatore dei Fieschi (GE) cfr. MANNONI 1999/b.
Aurora Cagnana 195

VI. I METALLI

1. Formazione e proprietà

La distinzione fra i metalli e gli altri elementi chimici si basa su


alcune caratteristiche quali la conducibilità elettrica e termica, la dut-
tilità e malleabilità, la facilità all’ossidazione, la lucentezza e la ten-
denza a riflettere la luce. Tutti questi caratteri derivano dalla mobilità
elettronica, già ricordata a proposito dei colori (cfr. IV.2.). Alcuni metal-
li (oro, argento, platino, rame) si possono trovare allo stato nativo, ma
la maggior parte di essi è invece combinata con altri elementi a forma-
re composti quali ossidi e idrossidi, solfuri, carbonati, silicati, ecc.

CLASSE NOME FORMULA METALLO


ESTRATTO

ossidi ematite Fe2 O3 Fe


magnetite FeO Fe 2O4 Fe
pirolusite MnO2 Mn
cuprite Cu2O Cu

idrossidi limonite FeO2 n H2O Fe

carbonati siderite FeCO3 Fe


azzurrite 2CuCO3 Cu (OH)2 Cu
malachite CuCO3 Cu (OH)2 Cu
cerussite PbCO3 Pb
solfuri calcopirite CuFeS2 Fe
calcocite Cu2S Cu
galena PbS Pb
argentite AgS Ag
cinabro HgS Hg

-Tabella con i minerali dai quali si ricavano i principali metalli-


196 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

69- Un filone metallifero all’interno di un rilievo montuoso, interessato


dall’erosione e trasportato in un sedimento vallivo (da DI CORBELTALDO
1967 semplificata)

Le concentrazioni di minerali metallici vengono definite giacimen -


ti e, in particolari condizioni che ne rendano vantaggiosa la coltiva-
zione, possono essere sfruttati dall’uomo.
I corpi metalliferi si trovano, all’interno di rocce che vengono dette
incassanti, in associazione con altri minerali non metallici, il cui insie-
me è definito ganga; quest’ultima si distingue per il suo colore chiaro
e ha generalmente un volume superiore a quello dei minerali metalli-
ci; frequenti sono, ad esempio, le ganghe quarzifere o quelle calcitiche.
Quanto alla classificazione generale, si distinguono giacimenti di
origine magmatica, sedimentaria e metamorfica.
I primi si formano durante il processo di consolidazione di un
magma, che avviene, attraverso vari stadi, a diverse temperature:
-allo stadio ortomagmatico (>750°C) cristallizza la maggior parte
del magma e si formano i minerali delle rocce;
-allo stadio pneumatolitico (>400°C) si formano alcuni giacimenti per
deposizione e cristallizzazione dei residui gassosi del magma (contenen-
ti anche metalli) che circolano nelle spaccature dovute al ritiro delle
rocce, in via di raffreddamento. Le sostanze volatili disciolte nel magma
(CO2; SO2; Cl; N; H; S) facilitano, in queste condizioni, la formazione dei
minerali metallici perché ne aumentano la mobilità e vengono perciò
detti agenti mineralizzatori. In questo stadio cristallizzano, ad esempio,
magnetite, ematite, cassiterite (ossidi); pirite e calcopirite (solfuri);
Aurora Cagnana 197

70- Schema della posizione


di un filone metallifero (reso
a tratteggio), circondato
dalla ganga (resa a puntini)
e compreso all’interno della
roccia incassante (in bianco)
(da DI CORBELTALDO 1967
semplificata)

-allo stadio idrotermale (<450°C), che rappresenta l’ultima fase di


consolidazione dei residui magmatici, si formano giacimenti per depo-
sizione di minerali disciolti nelle acque calde circolanti, che ad alte
pressioni sono liquide anche sopra ai 100°C. A seconda degli interval-
li di temperatura ai quali avviene la cristallizzazione si distinguono,
inoltre, giacimenti catatermali (450°-300°C), mesotermali (300°-
200°C) ed epitermali (200°-50°C). In questo stadio si formano alcuni
importanti solfuri quali la galena, la blenda, il cinabro.
I giacimenti di origine sedimentaria sono dovuti all’erosione e alla
rideposizione di minerali primari. Si definiscono clastici quelli prodot-
ti dall’azione meccanica degli agenti atmosferici che degradano le
rocce. I residui che si formano vengono poi trasportati dall’acqua e, in
base alle dimensioni, al peso, alla velocità di trasporto, subiscono una
selezione che può dare luogo a nuovi giacimenti, detti placers.
A seconda dell’ambiente in cui è avvenuta la sedimentazione essi
si distinguono in marini e continentali; questi ultimi sono a loro volta
suddivisibili in eolici, glaciali, lacustri, alluvionali, a seconda del pro-
cesso di sedimentazione. I giacimenti sedimentari di origine chimica,
invece, devono la loro formazione alla separazione di sostanze tra-
sportate in soluzione dalle acque.
Infine, quelli di origine metamorfica, sono dovuti alla trasforma-
zione di altri giacimenti, avvenuta nelle regioni profonde della crosta
198 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

terrestre, ad alte pressioni e temperature. Limonite, ematite, siderite,


ad esempio, possono subire variazioni caratteristiche, per metamorfi-
smo di contatto, e trasformarsi in magnetite.

2. Ricerca dei giacimenti e pratiche di estrazione

La conoscenza delle sostanze metalliche era già nota all’uomo di


Neanderthal, che raccoglieva le pepite d’oro e le usava come orna-
mento, depositandole nelle sepolture, accanto a cristalli di quarzo e a
conchiglie fossili.
La raccolta fu il primo sistema di approvvigionamento e continuò
ad essere praticata anche dopo che si appresero le tecniche metallur-
giche vere e proprie. Il primo ferro ad essere utilizzato, ad esempio,
sembra sia stato quello meteorico, poco ossidato perché già combinato
col nikel; altre forme di raccolta consistevano nello sfruttamento dei
sedimenti alluvionali.
Più complessa era invece la coltivazione dei giacimenti in posizio-
ne primaria, poiché assai raramente questi ultimi sono del tipo a cielo
aperto, come quelli di ferro dell’isola d’Elba; nella maggior parte dei
casi sono ubicati a notevoli profondità, nelle spaccature delle rocce,
dove si sono formati per solidificazione dei metalli trasportati dai gas
o dalle acque calde circolanti. La loro estrazione, o coltivazione, era
tale da richiedere difficili sistemi in sotterraneo, detti miniere. Lo
scavo di pozzi verticali, dell’altezza massima di un metro e mezzo, per
l’estrazione della selce, è attestato in Inghilterra già nel Paleolitico,
ma è solo a partire dal IV millennio a.C. che si registrano pratiche
estrattive destinate all’approvvigionamento di minerali del rame, ope-
rate con attrezzi di pietra. Con l’età del bronzo si verifica un notevole
sviluppo delle attività minerarie, che si estendono a varie regioni
europee. Le principali difficoltà dell’estrazione sotterranea erano rap-
presentate dalle esigenze di illuminazione, di ventilazione, di traspor-
to e di drenaggio; a quest’ultimo problema si provvedeva, general-
mente, tramite la realizzazione di pozzi per eliminare l’acqua. Le col-
tivazioni in genere avevano una geometria piuttosto irregolare, in
quanto si allargavano o si restringevano seguendo le vene metallifere.
Un caso piuttosto isolato è rappresentato dalle miniere greche del
Laurion, in Attica, utilizzate dal VII al I secolo a.C. per l’estrazione di
piombo e, soprattutto, di argento. La struttura geologica dei filoni di
galena argentifera, quasi orizzontali, aveva permesso una certa rego-
Aurora Cagnana 199

larità nella coltivazione, che veniva operata tramite pozzi rettangola-


ri scavati a coppie e uniti per mezzo di gallerie parallele munite di
cunicoli trasversali per agevolare la ventilazione. Nel IV secolo a.C. fu
promulgata una legge che proibiva la rimozione dei pilastri, rispar-
miati per sostenere il tetto delle gallerie e alti fino a 9 metri. Questa
relativa regolarità, favorita dalle condizioni naturali del giacimento,
costituisce comunque un’eccezione, poiché in generale le miniere
restarono formate da gallerie irregolari.
È nei sistemi di drenaggio che le coltivazioni di epoca romana
conobbero significativi miglioramenti rispetto al passato. La realizza-
zione di poderosi acquedotti permise infatti un ampio utilizzo della
risorsa idrica che, nel caso delle coltivazioni sotterranee, veniva impie-
gata per azionare le ruote, necessarie al sollevamento dell’acqua.
Un sistema piuttosto laborioso, messo a punto in particolare nelle
grandi miniere iberiche e definito ruina montium, prevedeva impo-
nenti sbancamenti nei depositi alluvionali ricchi di minerali metallici,
allo scopo di provocarne artificialmente la frana. L’immissione di
notevoli quantità d’acqua causava un forte processo erosivo e selezio-
nava i minerali in base al peso specifico; si otteneva così la formazio-
ne di giacimenti alluvionali, ricchi di minerali metallici.
Le testimonianze storico-archeologiche, assai rare per il periodo
altomedievale, aumentano notevolmente a partire dal XII-XIII secolo.
In Italia le principali aree metallifere si trovavano in Toscana (dove
erano state già ampiamente sfruttate dagli etruschi), in Sardegna e in
tutto l’arco alpino; secondo un’antica norma giuridica ereditata dall’e-
poca romana, il sottosuolo (e dunque anche i giacimenti minerari)
erano di proprietà dello Stato; il diritto all’apertura di nuove miniere
veniva generalmente concesso a famiglie private dietro corresponsio-
ne di una tassa.
La ricerca archeologica nei siti minerari lombardi di epoca medie-
vale ha registrato la presenza di estesi scavi in superficie, (eseguiti
con mazza, punta e cunei) effettuati per individuare la vena e sfrut-
tarla, dove possibile, all’aperto; quando i filoni metalliferi si immerge-
vano nella terra, l’estrazione li seguiva in profondità, con lo scavo di
pozzi e gallerie.
La conoscenza dei sistemi estrattivi di epoca medievale è stata note-
volmente arricchita grazie agli scavi condotti a Rocca San Silvestro
(Livorno), un abitato sorto fra X e XI secolo in una ricca zona mineraria
e abbandonato nel corso del XIV secolo. Il borgo era dominato dal castel-
lo (posseduto prima dai conti della Gherardesca e poi dai signori Della
200 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

71- Ricostruzione grafica di una delle miniere medievali del villaggio di


San Silvestro (Livorno) individuate dalle ricerche archeologiche (da
FRANCOVICH 1991 ridisegnato da Zanella 1999)

Rocca) ed era organizzato in una zona orientale, destinata alle abita-


zioni dei minatori e delle loro famiglie, e in una occidentale, dove si con-
centravano le attività metallurgiche. Poco lontano si trovavano i giaci-
menti, costituiti soprattutto da calcopirite e galena argentifera. Lo
scavo archeologico di alcune miniere ha permesso di datare le attività
estrattive al XII-XIII secolo. Sono state individuate sia fosse a cielo
aperto, del diametro raramente superiore ai dieci metri e profonde due-
tre metri, sia pozzi verticali, con imboccature dell’ampiezza di un metro
e mezzo-due metri, profonde al massimo una decina di metri. Il mine-
rale veniva estratto con piccone o con mazzetta e punta. Una prima
selezione avveniva in miniera, allo scopo di ridurre il peso da sollevare,
mentre una seconda cernita veniva compiuta all’esterno.
Nel XVI e XVII secolo si affermò, nelle principali aree estrattive,
Aurora Cagnana 201

72- Ricostruzione grafica, eseguita in base ai dati archelogici, di un


impianto per la riduzione del ferro col metodo a bassofuoco, nel villaggio
medievale di San Silvestro (Livorno). Per aumentare la temperatura era
utilizzato un mantice a mano, protetto dal calore tramite un muretto;
nello stesso ambiente erano presenti un secondo punto di fuoco, per il
riscaldamento del blumo e un’incudine per la sua battitura e scorificazio-
ne (da FRANCOVICH 1991 ridisegnato da Zanella 1999)

una maggiore diffusione dell’energia idraulica, che permise di miglio-


rare l’organizzazione dei pozzi minerari e consentì l’uso di montacari-
chi, oltre che di più progrediti sistemi di trasporto e trasformazione
del minerale. Per la conoscenza delle tecniche estrattive del XVI seco-
lo esistono importanti fonti trattatistiche, quali il de Pirotechnia, del
senese Biringuccio, opera in dieci libri uscita postuma nel 1540, e i
dodici volumi del De re metallica, del sassone Georg Bauer, più noto
come Agricola, il quale svolgeva l’attività di medico nel centro mine-
rario di Joachimsthal. Questi trattati descrivono accuratamente (e con
molte illustrazioni) le tecniche di prospezione per la ricerca di vene
metallifere, i metodi di scavo, le funzioni dei vari addetti, gli arnesi e
le macchine impiegate, le fasi di lavaggio e di lavorazione dei vari
metalli.
202 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

3. Il piombo e il bronzo

Forse anche per la sua bassa temperatura di fusione (340°C) il


piombo è stato uno dei primi metalli ad essere utilizzato.
Nell’architettura greca e romana veniva usato per produrre le grappe
di fissaggio dei grandi conci lapidei, le quali venivano fuse diretta-
mente in opera, in cavità appositamente predisposte.
I romani lo impiegarono ampiamente anche per la produzione di
condutture idriche di fontane e giardini, costituite da lamine, che
venivano fuse in posto e quindi ripiegate e saldate.
Nell’architettura medievale e postmedievale il suo uso maggiore è
legato alla produzione di elementi per il deflusso delle acque, quali
grondaie, e alla realizzazione di profilati per l’assemblaggio delle
lastre vitree (cfr. V.4.). Negli scavi della Torre Civica di Pavia, già
ricordati, si sono rinvenuti vari scarti di lavorazione dei metalli, fra i
quali anche scorie di piombo, usate, con ogni probabilità, per la fab-
bricazione di supporti per le vetrate.
Fra i materiali da costruzione una notevole importanza era rive-
stita anche dal bronzo, la più antica fra le leghe del rame, costituita
da una quantità di stagno variabile dall’8% al 20%. Il suo punto di
fusione non è costante e può abbassarsi fino a 800°C; allo stato fuso
può essere colato entro stampi per ottenere oggetti di forme e dimen-
sioni prestabilite. A partire dall’Altomedioevo venne utilizzato per la
fusione delle campane, tramite un metodo a cera persa (simile a quel-
lo in uso per la produzione di statue) ben descritto anche nel trattato
di Teofilo. Dapprima veniva realizzato un modello in argilla refratta-
ria, rivestito di uno strato di cera, a sua volta ‘rifasciata’ da un altro
strato di argilla. Con una breve cottura si induriva lo stampo cerami-
co e si scioglieva la cera ottenendo così un’intercapedine interna con
la forma dell’oggetto desiderato, nella quale veniva colato il bronzo
allo stato liquido. Dopo il raffreddamento lo stampo veniva frantuma-
to in modo da liberare la campana. Impianti di questo tipo sono stati
evidenziati non di rado negli scavi archeologici di cantieri, in partico-
lare di chiese. Una testimonianza assai antica è stata rinvenuta nel
complesso altomedievale di San Vincenzo al Volturno (Isernia), più
sopra menzionato. Più frequenti sono però i resti di età bassomedie-
vale, documentati in varie parti d’Europa; in Italia, ad esempio, si
sono poste in luce fornaci da campana negli scavi della Torre Civica di
Pavia, di Sant’Andrea di Sarzana (SP), di San Daniele del Friuli.
Attarverso la colatura di bronzo allo stato fuso venivano realizzate
Aurora Cagnana 203

anche le porte di edifici monumentali; molto rari sono i resti di età classi-
ca o tardoantica ancora conservati, mentre un numero maggiore di esem-
pi è documentato per il periodo medievale. L’esatta quantità dei metalli
costituenti la lega può essere determinata solo tramite opportune analisi
chimiche. Quelle effettuate in occasione di restauri hanno evidenziato, in
diversi casi, alte percentuali di rame (70-80%), pochissimo stagno (1-7%),
significative quantità di zinco (9-18%) aggiunto verosimilmente allo scopo
di aumentare le proprietà plastiche della fusione, e presenza di piombo (3-
8%), forse da considerarsi come un’impurità dello stagno o del rame.
Assai rare sono le porte prodotte tramite un’unica fusione, come
quelle celebri di Hildesheim, dell’inizio dell’XI secolo, nelle quali ogni
anta è stata fusa in un unico pezzo. Più frequentemente esse sono
costituite da pannelli realizzati separatamente e successivamente sal-
dati fra loro utilizzando una lega metallica caratterizzata da una tem-
peratura di fusione più bassa.
Un esempio di studio piuttosto interessante è costituito dalla famo-
sa porta eseguita da Bonanno per il duomo di Pisa. L’analisi dettaglia-
ta ha rivelato una cura particolare nelle lavorazioni a freddo, posteriori
alla fusione, eseguite con scalpelli, oltre che con strumenti tipici degli
orafi, quali punzoni, bulini e ceselli, per i particolari più minuti.

4. La metallurgia del ferro

Il ferro è uno dei metalli più diffusi sulla crosta terrestre, ma la


sua lavorazione è resa complessa dall’elevata temperatura di fusione
(1540° C) che ne differenzia notevolmente il ciclo produttivo rispetto a
quello degli altri metalli.
METALLO DIFFUSIONE SULLA TEMPERATURA
CROSTA TERRESTRE DI FUSIONE

Al 8,13% 659°C
Fe 5,00% 1540°C
Mn 0,10% 1250°C
Zn 0,08% 419°C
Cu 0,007% 1083°C
Sn 0,004% 232°C
Pb 0,0016% 340°C
Ag 0,00001% 960°C
Au 0,0000005% 1063°C

-Tabella che evidenzia la diffusione del ferro rispetto agli altri metalli
e le rispettive temperature di fusione
204 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

73- Ricostruzione grafica, eseguita in base ai dati archelogici, di una for-


gia: nella fossetta circolare avveniva il riscaldamento della bluma, con un
piccolo mantice azionato a mano. La bluma veniva quindi estratta con le
pinze e posta su un’incudine o sul banco roccioso stesso, per essere ribat-
tuta (da FRANCOVICH 1991?ridisegnato da Zanella 1999)

Le prime fasi di lavorazione venivano svolte nei pressi della minie-


ra e consistevano, come per gli altri metalli, nella frantumazione e
nella selezione del minerale appena estratto, allo scopo di eliminare la
ganga. Nel caso in cui la materia prima fosse costituita da siderite
oppure avesse contenuto tracce di pirite, veniva effettuata anche una
prima cottura ossidante, all’aria aperta, detta arrostimento, che cau-
sava la scomposizione dei carbonati o dei solfuri e la loro trasforma-
zione in ossidi di ferro.
L’eliminazione dell’ossigeno, per ottenere il metallo puro, veniva
poi effettuata in una successiva cottura, eseguita in apposite fornaci,
in atmosfera riducente.
Il più antico sistema utilizzato per ottenere il ferro è detto bassofuo -
co, o metodo diretto e avveniva a temperature inferiori ai 1540°C; per-
tanto non portava alla fusione del metallo, ma solo alla sua separazio-
ne dall’ossigeno. Il prodotto che si otteneva non aveva perciò un aspet-
Aurora Cagnana 205

to liquido, ma era costituito


da agglomerati microcri-
stallini che formavano una
sorta di pane detto blumo.
Interessanti resti di un
bassofuoco del XII secolo
sono stati individuati nel
villaggio minerario di San
Silvestro, più sopra menzio-
nato; il forno per la riduzio-
ne del minerale in blumo
era costituito da una ‘suola’
circolare di argilla, molto
arrossata dal fuoco, delimi-
tata da un muretto, posto
allo scopo di riparare dal
calore la zona retrostante,
nella quale si trovavano i 74- Riduzione del ferro tramite il metodo
mantici manuali. Il prodotto indiretto: all’interno dell’altoforno vengo-
della lavorazione a basso- no posti strati di carbone alternati al
fuoco è il cosiddetto ferro minerale; la reazione di riduzione del
metallo, esotermica, permette di raggiun-
dolce, che si ottiene dal
gere la temperatura di fusione. Il ferro
blumo, per battitura a caldo; fuso (ghisa) fuoriesce dalla parte bassa
poiché ha bassissime quan- del forno ed è accolto in una fossa, prima
tità di carbonio è caratteriz- di essere trascinato nell’acqua (da
zato da scarsa durezza. MANNONI, GIANNICHEDDA 1996)
Quest’ultima può essere
aumentata con il riscalda-
mento prolungato e la mar-
tellatura a contatto col carbone, che corrisponde all’acciaiatura del ferro.
La forgiatura aveva luogo in apposite fucine, che lavoravano il
blumo prodotto dalle fornaci, il quale veniva commerciato, general-
mente, sotto forma di barre. Nelle fucine esse venivano surriscaldate,
senza raggiungere il punto di fusione, ma a temperature abbastanza
alte da conferire al metallo una malleabilità sufficiente a essere lavo-
rato per martellatura; fino al Medioevo inoltrato quest’ultima veniva
effettuata a mano, con martello e incudine.
Un interessante impianto per la forgiatura del ferro è stato rinve-
nuto nel villaggio di San Silvestro, a pochi metri di distanza dalla for-
nace a bassofuoco, più sopra descritta. Era costituito da un focolare,
206 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

75- Un grande maglio per la battitura a caldo del ferro, azionato da ener-
gia idraulica (da DIDEROT, Planches)

dotato di mantici a mano, utilizzato per scaldare i blumi prima della


martellatura, che veniva effettuata su un’incudine posta, con ogni
probabilità, sul piano roccioso. Una fossa anteriore, emisferica, dove-
va contenere l’acqua per la tempera.
Apartire dal XV - XVI secolo per la forgiatura del ferro fu utilizzata
ampiamente l’energia idraulica; le fucine vennero perciò stanziate di
preferenza presso corsi d’acqua, appositamente incanalata, in modo da
azionare ruote destinate a muovere appositi ‘magli’ per la battitura.

La fusione del metallo si otteneva invece tramite l’altoforno, con un


metodo detto ‘indiretto’, costituito da un impianto cilindrico verticale
all’interno del quale si alternavano strati di carbone di legna e strati di
minerale. Il fuoco veniva acceso in basso e alimentato da un mantice
esterno; le reazioni esotermiche che avvenivano tra ossido di ferro e
carbonio causavano un forte innalzamento della temperatura e ciò per-
metteva di arrivare alla fusione del metallo. Il materiale scendeva sul
fondo dove veniva separato dalle scorie (costituite da silice e da silica-
ti) che galleggiavano per il minor peso. Il ferro, uscendo dal forno allo
Aurora Cagnana 207

stato liquido, poteva essere convogliato in appositi stampi, perciò tale


metodo veniva definito ‘gettata’, mentre il prodotto della fusione pren-
deva il nome di ghisa; quest’ultima non era ferro puro, ma una lega con
alta percentuale di carbonio; si caratterizzava perciò per una bassissi-
ma tenacità, che ne impediva la lavorazione per martellatura. Se veni-
va riscaldata in presenza di aria, se ne poteva ottenere una ossidazio-
ne, che diminuiva la percentuale di carbonio. È appunto la presenza di
quest’ultimo elemento che determina i diversi valori di durezza e tena-
cità del prodotto, come è schematizzato nella seguente tabella.

NOME % CARBONIO CARATTERISTICHE

ferro dolce <0,1% scarsa durezza


buona resistenza a trazione

acciaio 0,15-1,7% resistenza a trazione pari alla


resistenza a compressione

ghisa 2-5% elevata durezza


scarsa resistenza a trazione

-I diversi tipi di ferro e le rispettive caratteristiche

Sebbene oggetti di ghisa di piccole dimensioni fossero prodotti,


sporadicamente, già in età antica, è solo a partire dal bassomedioevo
che il sistema ad altoforno si diffuse maggiormente e finì col sosti-
tuirsi progressivamente al basso fuoco.

5. L’uso del ferro nell’architettura

Tra tutti i metalli è quello che ha conosciuto il maggiore impiego


nell’architettura; il ferro dolce, in particolare, battuto e reso acciaioso,
veniva utilizzato per la produzione di elementi di rinforzo, quali cate-
ne o chiodi da carpenteria, ma anche per inferriate, cancelli, cardini,
serrature, chiavi.
L’uso di catene, adatte a contrastare gli sforzi di trazione, è docu-
mentato, sebbene sporadicamente, già nell’architettura antica; in alcu-
ni templi greci, ad esempio, si sono riscontrati blocchi lapidei con inca-
vi rettangolari destinati a ospitare barre di ferro, inserite allo scopo di
208 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

offrire un’armatura più


rigida alla costruzione.
Tuttavia è in età medie-
vale, e soprattutto con l’ar-
chitettura gotica, che l’uti-
lizzo di rinforzi in acciaio si
ampliò notevolmente. Ciò
fu dovuto sia alle particola-
ri esigenze statiche richie-
ste dalle costruzioni (molto
sviluppate in altezza e con
le murature indebolite da
ampie finestre), sia a una
maggiore razionalizzazio-
ne del lavoro di cantiere,
che permise forniture più
sistematiche di metallo. La
Sainte Chapelle a Parigi
costituisce uno degli esem-
pi più celebri di tale siste-
ma. Gli abbondanti ele-
menti metallici che rinfor-
76- Un chiodaio tedesco, in un’immagine zano tutta la costruzione
della fine del XV secolo, produce chiodi di non si riconoscono che a
diverse dimensioni mediante un’apposita un’osservazione attenta: le
incudine forata (da SINGER ETALII , 1961-66) ogive dell’abside della cap-
pella inferiore, ad esempio,
sono contornate da ferri curvi, fissati con chiodi che attraversano i conci;
nella chiesa superiore la struttura muraria è rinsaldata da un comples-
so sistema di catene, costituite da barre metalliche di 4 metri di lun-
ghezza, immorsate le une nelle altre con appositi ganci uniti da cunei.
Anche la realizzazione di rosoni dal diametro gigantesco (quello della
cattedrale di Parigi è di circa 13 metri !) fu resa possibile grazie alla pre-
senza di elaborate armature in metallo.
Anche per il cantiere del Duomo di Milano, nel tardo Trecento, ven-
nero importate enormi quantità di ferro, necessario per realizzare le
catene delle volte, da varie località delle Prealpi, come si apprende dai
conti di fabbrica.

Un altro importante uso del ferro è rappresentato dalla realizzazione


Aurora Cagnana 209

di grate per la chiusura di finestre.


Una delle più antiche testimonian-
ze, datata alla fine del XII secolo, si
conserva in un magazzino del
grano di Gand ed è costituita da
una sbarra verticale munita di
appendici ricurve verso il basso. A
partire dal XIV secolo si diffuse
invece un sistema più complesso,
costituito da grate composte da
montanti verticali e aste trasver-
sali, incrociati regolarmente fra
loro tramite appositi occhielli. Tali
elementi erano ottenuti con una
lavorazione a caldo che prevedeva
l’esposizione al calore di una limi-
tata porzione della sbarra, succes-
sivamente martellata e quindi tra-
passata con un punzone.
Inferriate in ferro costituite
interamente da elementi smonta-
bili, attestate già nel Medioevo,
vennero prodotte soprattutto in
età successiva, ed è appunto dal
XVI secolo in poi che le testimo-
nianze si moltiplicano e che ci è
documentata una vasta casistica 77-Produzione di sbarre da infer-
di elementi ancora in posto. Le riate; in alto una barra di ferro
inferriate potevano venire inserite viene scaldata al centro e quindi
nello spessore degli stipiti, oppure posta in verticale e battuta in
modo da provocare un rigonfia-
essere aggettanti rispetto alla
mento centrale (follatura); in
muratura. I sistemi di montaggio basso una barra di ferro viene
potevano essere di tipo semplice, scaldata al centro e quindi forata
nei casi in cui gli occhielli di giun- in modo da ottenere un occhiello
zione fossero tutti orientati allo
stesso modo, oppure complesso,
nei casi in cui gli orientamenti cambiassero da nodo a nodo, secondo un
disegno prestabilito, in modo tale da non poter essere smontate dai
ladri. Inferriate in ferro battuto vennero prodotte ancora per tutto
l’Ottocento e non mancano testimonianze, risalenti all’inizio del nove-
210 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

cento, di manufatti usciti da piccole fucine, sopravvissute alla rivoluzio-


ne industriale, ancora organizzate secondo sistemi tradizionali.
Il ferro battuto è stato impiegato anche per la realizzazione di can-
celli e ringhiere. Le aste che le costituivano, collegate mediante ele-
menti trasversali, potevano presentare decorazioni a volute o a moti-
vi vegetali, generalmente prodotte tramite battitura a caldo e succes-
sivamente saldate. In molti casi le aste presentano un rigonfiamento
centrale (conformato in vario modo) che veniva prodotto con un parti-
colare sistema, definito ‘rifollatura’. Esso consisteva nel riscaldare la
barra di ferro soltanto nel punto in cui si voleva realizzare il rigonfia-
mento e nel batterla poi ad una estremità tramite la mazza; questa
operazione produceva nella zona riscaldata un ingrossamento, che
veniva poi formato, sempre tramite battitura a caldo, sino ad ottene-
re il motivo desiderato. L’osservazione attenta dei manufatti consente
di distinguere tale lavorazione da quella detta ‘ad anello’, assai più
semplice, che consisteva invece nell’applicare all’asta una laminetta,
realizzata a parte, ripiegata per battitura e quindi saldata.

Sempre in ferro di forgia erano prodotti molti altri manufatti, di picco-


le dimensioni e privi di qualità estetiche, ma comunque essenziali all’ar-
chitettura, come i chiodi da carpenteria o la ferramenta per gli infissi.
La produzione di chiodi era opera di fabbri specializzati, o chiodai,
che usavano una apposita incudine, dotata di fori di varie dimensioni,
nei quali venivano inserite piccole sbarre di ferro, realizzate nelle fuci-
ne; l’estremità veniva poi ribattuta a caldo per ottenere la capocchia.
Questo sistema, attestato da precise fonti iconografiche bassomedie-
vali, è sopravvissuto, in alcune zone, fino all’inizio del novecento.
Anche la ferramenta di porte e finestre era un elemento importan-
te della metallurgia del ferro destinata alle costruzioni. La produzione
di cardini a perno, fissati negli stipiti, e di bandelle a occhio, che veni-
vano chiodate nelle ante, risale almeno all’antichità ed è attestata da
numerosi ritrovamenti archeologici. Non meno importante era la pro-
duzione di manufatti destinati alla chiusura degli infissi, ovvero serra-
ture e chiavi. Delle prime esiste una vastissima casistica, che com-
prende vari tipi di ferrimorti, meccanismi con stanghetta ad avanza-
mento orizzontale, oppure a movimento verticale con molla di ritorno.
Infine, in ogni cantiere di costruzione, era indispensabile la pre-
senza di un fabbro per la produzione e la costante manutenzione degli
strumenti da lavoro. Gli scavi archeologici condotti nella Torre Civica
di Pavia, già menzionati, hanno permesso di ritrovare i resti di una
Aurora Cagnana 211

78- Vari esempi di ferramenta medievali da scavi archeologici: in alto


serratura, bandelle di cardini e chiavi dal villaggio di Zignago (La
Spezia) (da B IASOTTI ET ALII, 1985). In basso barra con occhielli e barra
liscia usate in una grata per finestra e cardine per porta da Monte
Ingino (Gubbio) (da WHITEHOUSE 1976)
212 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

79- Rinforzi metallici in un arco e dettaglio delle catene per il rinforzo


delle strutture murarie della Sainte Chapelle di Parigi (da Violet Le Duc,
riprodotto in ERLANDE BRANDENBURG 1996)
Aurora Cagnana 213

piccola forgia e circa 30 Kg di scorie di ferro, che sono state interpre-


tate come i resti di lavorazioni connesse alla preparazione degli stru-
menti da lavoro per gli operai del cantiere.

L’utilizzo della ghisa nelle costruzioni è invece molto più recente,


essendosi affermato solo a partire dal secolo XIX, con la rivoluzione
industriale. La ghisa è poco adatta alla produzione di travi, perché ha
scarsa resistenza a trazione, in compenso si presta a essere usata per
gli elementi che lavorano a compressione, come le colonne. Poiché è
ben modellabile, un grosso impiego è stato fatto per la produzione di
pezzi decorati di ringhiere o inferriate. La possibilità di utilizzare
stampi consentiva di realizzare velocemente anche motivi molto com-
plessi, e permetteva perciò una notevolissima semplificazione del
lavoro. È assai agevole riconoscere gli elementi prodotti a stampo da
quelli realizzati in ferro battuto, in quanto i primi presentano una
maggiore regolarità, dovuta appunto alla fusione, mentre con la for-
giatura si ottengono oggetti più irregolari e tutti differenti fra loro.
Queste osservazioni possono anche offrire elementi di datazione; nel-
l’edilizia del centro storico di Genova, per esempio, l’uso delle rin-
ghiere in ghisa è attestato dal 1870 circa, fino ai primi decenni del
novecento.

6. Principali cause di degrado

Questi materiali sono soggetti soprattutto a degrado di tipo chimi-


co, in quanto l’esposizione agli agenti atmosferici può portare all’i-
drossidazione oppure alla carbonatazione dei metalli, che possono così
tornare a certi composti minerali di partenza; ad esempio il ferro può
combinarsi e passare a limonite.

7. Nota bibliografica

Sull’origine e la classificazione geologica dei giacimenti minerari è


ancora utile la lettura del classico manuale di DI CORBELTALDO 1967.
Sulle antiche pratiche di individuazione dei giacimenti si rimanda
alla lettura di MANNONI, G IANNICHEDDA 1996, pp. 68-77 dove si trova
anche una vasta e aggiornata bibliografia.
Un panorama dell’evoluzione storica dei sistemi estrattivi si trova
inoltre nei saggi di BROMEHEAD 1961 e BROMEHEAD 1961/a.
Sull’archeologia della produzione mineraria esiste un’ampia biblio-
214 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

grafia e ci si limita perciò a segnalare alcune delle opere più recenti, come
HEALY 1993, sulle coltivazioni e sulla metallurgia di età greco-romana e
FRANCOVICH 1993, dove si trovano i risultati di molte recenti ricerche, con
particolare riguardo al periodo postclassico. Sugli scavi nel villaggio mine-
rario di San Silvestro cfr. FRANCOVICH 1991 e FRANCOVICH, WICKHAM 1994.
Per le ricerche nelle miniere medievali di area lombarda cfr. TIZZONI 1993.
Sull’uso dei metalli nell’architettura storica molti dati si trovano nel già
citato manuale di MENICALI 1992, pp. 218-253. Per l’utilizzo dei metalli
nell’architettura greca antica cfr. MARTIN 1965, pp. 155-162.
Per il Medioevo si consiglia la lettura dei vari saggi dedicati al tema
dell’impiego dei metalli nell’architettura raccolti in CHAPELOT, BENOIT
1985; per l’uso del piombo, in particolare, si veda lo studio di BILLOT 1985,
basato sull’esame delle fonti archivistiche. Fra le numerose pubblicazioni
di scavi archeologici di fornaci per la fusione di campane si segnalano
quelli di MARAZZI, FRANCIS 1996, su San Vincenzo al Volturno; BONORA
1975 su S. Andrea di Sarzana; WARD PERKINS ETALII 1978, e SPATOLA 1993
sulla torre civica di Pavia; GUERRA 1990 su San Daniele del Friuli. Sulla
tecnica di fusione delle porte bronzee di età bizantina cfr. MATTHIE 1971;
sulle porte bronzee dall’Antichità al Medioevo si veda SALOMI 1990; su
quelle medievali molti dati tecnologici si trovano in BANTI 1999; in parti-
colare sul portale di Hildesheim, citato nel testo, cfr. GALLISTL 1999 e sulla
porta di Bonanno a Pisa, MANNONI 1999/a.
Sulla metallurgia del ferro, in generale, si veda CIMA 1991; si consi-
glia inoltre la lettura di MANNONI, GIANNICHEDDA 1996, pp. 95-98, dove si
trova un’essenziale descrizione del ciclo di lavorazione attraverso i meto-
di a bassofuoco e ad altoforno. Sull’impiego del ferro nell’architettura
medievale del nord Europa cfr. STROOMBANTS 1985; circa l’importanza dei
rinforzi in ferro acciaioso nell’architettura gotica francese cfr. ERLANDE
BRANDENBURG 1996, con molti dati sulla Sainte Chapelle di Parigi. Un
tentativo, piuttosto utile, di cronotipologia delle inferriate in ferro battu-
to di epoca medievale si trova in DELAINE 1972; interessante è inoltre l’e-
sempio di ferro con occhielli emerso dagli scavi medievali di Monte
Ingino (Gubbio), riportato in WHITEHOUSE 1976, p.266; n.84. Per lo stu-
dio delle inferriate e delle ringhiere postmedievali di ambito genovese
cfr. B OATO, M ANNONI 1997/98, pp. 78-81. Una ricchissima tipologia di
chiavi e serrature delle Alpi orientali, che abbraccia un arco cronologico
compreso fra l’età del bronzo e l’Ottocento è stata presentata in una
mostra allestita recentemente nel castello del Buonconsiglio di Trento.
Di grande interesse è il catalogo (RAFFAELLI 1996) che contiene contribu-
ti di carattere archeologico, storico artistico e letterario.
Aurora Cagnana 215

VII. IL LEGNO

1. Elasticità e resistenza: le proprietà dei tessuti legnosi

Il legno è un prodotto di sintesi attuata dalle specie dette “legno-


se”, che sono tra gli esseri vegetali più evoluti.
Costituito da radici, fusto, rami, foglie, un albero non è propria-
mente un individuo, ma un’associazione di esseri in grado di riprodur-
si, i quali convivono usufruendo di organi comuni ed espletando fun-
zioni nelle quali ogni parte ha una sua particolare specializzazione.
L’elemento più attivo sono le foglie, che in presenza di luce e gra-
zie alla clorofilla, producono la fotosintesi, utilizzando l’anidride car-
bonica dell’atmosfera, l’acqua e l’azoto, prelevati dal suolo attraverso
un sistema di canali che risiede nel tronco. Quest’ultimo, dal quale si
estrae il legno, svolge la duplice funzione di elemento conduttore delle
sostanze e di sostegno del laboratorio vivente. Pertanto deve resistere
alla compressione, esercitata dal peso di rami e foglie, e alla trazione,
alla quale lo sottopongono di continuo i venti. Le caratteristiche mec-
caniche dei tronchi si sono perciò selezionate, nel corso del tempo, per
assicurare la sopravvivenza alle specie legnose anche in ambienti osti-
li: la robustezza è indispensabile al sostegno della pianta, mentre la
flessibilità è necessaria per resistere alla forza dei venti, che soffiano
in varie direzioni. Per questo motivo il legno presenta elevati valori di
resistenza alla trazione, a differenza di tutti gli altri materiali già
descritti, i quali (fatta eccezione per l’acciaio) hanno valori notevol-
mente più bassi rispetto alla resistenza alla compressione (cfr. I.2.).
La forma e la composizione chimica delle pareti delle cellule vege-
216 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

tali determinano i caratteri di resistenza e, al tempo stesso, di elasti-


cità dei tessuti legnosi. Tali pareti sono infatti costituite da più strati,
formati da microfibrille, ovvero da fasci di “fili” molto resistenti, con
disposizione elicoidale, che si chiamano cordoni micellari. Ciascuno di
essi è a sua volta formato da 50/100 molecole di cellulosa.
Quest’ultima, dalla caratteristica struttura ‘a sedia’, fa parte dei car-
boidrati polisaccaridi, vale a dire che è
costituita da catene di più elementi
monosaccaridici (formati da H, O, C,)
uniti fra loro da ossigeni, con legami di
tipo covalente. La robustezza dei legami
e la disposizione elicoidale (sia delle
macromolecole di cellulosa sia dei fasci
di fibrille) spiegano le caratteristiche di
robustezza e al tempo stesso di elasti-
cità delle fibre vegetali.
Per permettere il collegamento fra il
terreno e la chioma il tronco è dotato di
numerosi canali, formati da cellule vege-
tali vuote all’interno, con apertura cen-
trale (lume) di piccole dimensioni, e perciò
tale da permettere la risalita dal suolo,
per capillarità, dell’acqua, dei composti
azotati, e di altri elementi in soluzione.
Il fusto è formato da un midollo, il
tessuto connettivo centrale, avvolto da
un durame, ovvero dal legno vecchio,
fisiologicamente morto. Quest’ultimo
rappresenta la parte inattiva delle pian-
te, che non svolge più funzioni di tra-
sporto della linfa, ma continua a offrire
il sostegno meccanico; spesso è impre-
gnato di sostanze antiputrescenti, che
ne aumentano la durezza. L’alburno è
invece la parte giovane, fisiologicamente
attiva e destinata soprattutto alla fun-
zione conduttrice, mentre il cambio è il
80- La molecola della tessuto vegetale nascente, l’anello più
cellulosa, dalla tipica esterno, la cui crescita inizia in prima-
struttura ‘a sedia’ vera, rallenta in estate e cessa in autun-
Aurora Cagnana 217

81- Esempio di legno omoxilo di conifera (a sinistra) ed eteroxilo di latifo-


glia (a destra)

82- La successione di tessuti legnosi che compongono il fusto: M (midollo);


D (durame); A (alburno); C (cambio); L (libro); Co (Corteccia)
218 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

no. Per la distribuzione della linfa il tessuto principale è il libro, che


si trova a diretto contatto con la corteccia, ultimo strato del tronco, che
costituisce il rivestimento esterno per il fusto e per i rami. Il tipo di
crescita di ogni anello dipende dalla specie, dalla posizione dell’albero
nel bosco (che ne determina l’esposizione alla luce) e soprattutto dal
clima. Lo studio della dendrocronologia, che ha arricchito notevol-
mente la ricerca archeologica nell’ultimo trentennio, si basa appunto
sull’esame degli anelli. In ogni specie, e in ogni regione climatica, si
alternano anni di grande accrescimento ad altri in cui la crescita (e di
conseguenza lo spessore degli anelli) è minore. Pertanto le curve den-
drocronologiche regionali vengono elaborate in base alla misurazione
degli anelli di legni di cronologia certa e consentono di datare,
mediante confronto, altri legni la cui datazione non sia nota.

Le piante che forniscono la maggior parte di legname da costruzione


sono le conifere (o resinose), cioè quelle che danno frutti a forma conica,
e che producono resina, come il pino, l’abete, il larice, il cipresso, ecc. e
le latifoglie (o dicotiledoni), caratterizzate da foglie larghe e piatte, come
il castagno, il faggio, il frassino, la quercia, il pioppo, l’ontano, ecc.
Nelle conifere entrambe le funzioni di trasmissione della linfa e di
sostegno meccanico della pianta sono svolte dalle tracheidi. Si tratta di
cellule tubolari, della lunghezza di 3 millimetri, che quando si formano
in primavera presentano pareti sottili, in modo da favorire soprattutto
la funzione conduttrice; in autunno, invece, le pareti si ispessiscono e lo
spazio interno si riduce, privilegiando soprattutto le funzioni di resi-
stenza della pianta. Nelle latifoglie, invece, il tronco è costituito da due
tipi di cellule tubolari: le fibre, specializzate nelle funzioni meccaniche,
sono nettamente assottigliate alle estremità, hanno pareti spesse, costi-
tuite da fasci resistenti, le quali sostengono il peso della pianta, mentre
i vasi, che assolvono le funzioni di trasmissione, presentano un lume
largo e sono privi di membrana orizzontale.
Ogni anno, col cambiamento di stagione, si formano nell’anello
esterno cellule nuove. Nelle conifere il legno primaverile è costituito
da tracheidi più grandi, con pareti sottili, che si ispessiscono durante
l’autunno, diminuendo l’ampiezza del lume. Il legno delle conifere è
perciò definito omoxilo, perché non vi è una vera e propria differenza
qualitativa fra cellule primaverili e autunnali. Il legno delle latifoglie
si dice invece eteroxilo, a causa della differenza anche qualitativa delle
cellule, che a primavera sono costituite essenzialmente da vasi, e in
autunno soprattutto da fibre.
Aurora Cagnana 219

2. Tecniche di abbattimento

Il periodo più adatto per il taglio degli alberi è compreso fra dicem-
bre e marzo; in tale momento, infatti, gran parte della linfa interna si è
perduta, e quindi l’albero è più asciutto e può resistere meglio agli attac-
chi dei funghi e delle muffe o alla cristallizzazione dei sali trasportati.
Anche Vitruvio raccomandava che gli alberi fossero tagliati tra

83- Una scena di abbattimento di tronchi tramite scuri, raffigurata sulla


Colonna Traiana
220 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

l’autunno e l’inizio della primavera (De Arch., II, 9) e tale norma sem-
bra essere stata osservata in molte regioni.
Una tecnica di abbattimento consisteva nel praticare un taglio a ‘V’
sul lato previsto per la caduta. Per questa operazione veniva adopera-
ta una scure lunga (del peso di kg 2,5) con una lama stretta, usata a
trancio in maniera tale da penetrare nel tronco per pochi centimetri,
e perpendicolarmente alle fibre, in modo da vincere la loro resistenza.
Questa tecnica risale con ogni probabilità al Neolitico, quando
veniva praticata tramite asce di pietra costruite con rocce tenacissime
(ad esempio eclogiti o basalti), successivamente sostituite da stru-
menti in ferro acciaioso; diverse fonti iconografiche attestano che l’uso
di questo strumento non è cambiato nel corso dei secoli: appare ad
esempio nella Colonna Traiana ed è raffigurato, con poche differenze,
nei cicli medievali dei mesi.
A questa operazione poteva far seguito la segagione, operata sul
lato opposto, con il segone, o sega a due manici, dalla dentatura molto
grande, tale da superare la resistenza delle fibre.

3. Stagionatura e lavorazioni

Prima di essere utilizzati i tronchi devono espurgare tutte le solu-


zioni contenute; infatti, dopo il taglio della pianta, nei vasi si trovano
ancora molte sostanze la cui presenza può alzare eccessivamente l’u-
midità interna, oppure può dare luogo alla cristallizzazione di sali che
rischiano di danneggiare il tessuto legnoso. Le cellule tubolari, che
costituiscono i canali, hanno infatti bisogno di un certo periodo di
tempo, dopo il taglio della pianta, per interrompere completamente il
loro lavoro.
Per poter espellere i sali interni il legno tagliato deve perciò esse-
re sottoposto, per periodi più o meno lunghi, a un’adeguata stagiona -
tura. Questa veniva praticata tramite il lavaggio con acqua, effettua-
to, ad esempio, esponendo i tronchi alla pioggia, oppure, dove possibi-
le, utilizzando il trasporto fluviale. In seguito era necessario fare
asciugare la pianta molto lentamente, ma senza un’esposizione diret-
ta ai raggi del sole.
Dopo la stagionatura il legno è sempre più leggero rispetto al
momento del taglio, poiché ha perso buona parte delle sostanze liqui-
de interne, ma la sua resistenza non cambia, essendo dovuta alla
struttura delle fibre, che rimangono intatte.
Aurora Cagnana 221

La lavorazione del legno varia a seconda del prodotto che si deve


ottenere. Laddove non sono necessari requisiti estetici, come nelle fon-
dazioni, il tronco può essere utilizzato così com’è, senza praticare
alcun taglio, anche perché ciò consente di utilizzare al massimo le
fibre e di esercitare meglio le funzioni statiche.
Se invece è necessaria la squadratura, essa va effettuata seguendo
la direzione delle fibre. Per produrre travicelli e tavole di lunghezza
superiore al metro veniva usato un particolare metodo di segagione,
che permetteva di ottenere quattro o più travi da un unico tronco. Era
eseguito da artigiani specializzati, detti segantini, i quali si servivano
di una sega (diversa dal segone per l’abbattimento) costituita da un
telaio con lama centrale, con denti ricurvi verso il basso. Per garanti-
re un taglio regolare, che attraversasse interamente il tronco, si trac-
ciavano delle linee-guida tramite una corda tesa, impregnata di terra

84- Una squadra di segantini suddivide un tronco in lunghe tavole (da


DONATI 1990, ridisegnato da Zanella 1999)
222 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

rossa. Un artigiano si collocava sopra il tronco e posizionava la sega


mentre l’altro, a terra, al cenno convenuto, spingeva con forza l’at-
trezzo verso il basso, provocando un taglio netto e regolare. Quindi la
sega veniva sollevata (in questo caso senza tagliare) per essere posi-
zionata nuovamente. Per la riuscita di queste difficili operazioni, che
consentivano di effettuare tagli regolarissimi anche su legni molto
grandi, il tronco doveva essere tenuto fermo, con un’apposita imbra-
gatura, e fissato con adeguati pesi su una delle due estremità.
Questo tipo di lavorazione era certamente in uso nell’Antichità e
nel Medioevo, come provano molte fonti iconografiche; in alcune zone
(come nelle Prealpi lombarde) veniva praticata fino a pochi decenni fa
da squadre di falegnami che, all’occorrenza, si spostavano anche nelle
regioni limitrofe per eseguire il taglio della legna laddove non esiste-
va una tradizione artigianale locale.
Un altro sistema di lavorazione, finalizzato alla squadratura delle
travi, consisteva nell’asportare la parte esterna dei tronchi con un’a-
scia a zappa, operando dall’alto, mentre i fianchi venivano lavorati con
un’ascia a scure (o mannaia) con ampio taglio, oppure con un’ascia a
‘T’. Per lavorazioni particolari si usavano invece asce di piccole dimen-
sioni, e a filo curvo.
Un altro sistema di taglio era la spaccatura, praticata nella dire-
zione della lunghezza, sempre seguendo le fibre, che consentiva di
ottenere tavole di dimensioni non superiori a un metro. Il prodotto
finale era comunque molto resistente, perché costituito da fibre inte-
re, che rischiavano forse di incurvarsi, ma mantenevano la loro tena-
cità e potevano avere una notevole durata anche se esposte all’aperto.
Questo metodo veniva utilizzato per produrre le scandole per la coper-
tura dei tetti (cfr. VII.4.).

4. Utilizzo del legno nell’architettura

Per le sue peculiari caratteristiche di resistenza meccanica, e per


il fatto di poter essere reperito con facilità, il legno è uno dei più anti-
chi materiali conosciuti e lavorati dall’uomo.
Fin dalla Preistoria il modo più semplice di utilizzarlo per le
costruzioni era costituito dall’impiego di pali verticali, semplicemente
scortecciati, oppure squadrati. La realizzazione di vere e proprie pare-
ti con funzione portante venne introdotta molto più tardi; nel
Mediterraneo occidentale quest’uso non dovette avvenire prima del-
Aurora Cagnana 223

l’età del ferro, come sembrano indicare, da più direzioni, i dati archeo-
logici.
Due sono i principali sistemi costruttivi usati per la realizzazione
di pareti lignee portanti: il fachwerk e il blockbau. Il primo (dal tede-
sco = costruzione a scomparti) viene definito anche sistema ‘a ossatu-
ra’ o ‘a telaio’, ed è costituito da un’armatura di pali verticali, posti a
breve distanza fra loro, con gli spazi tamponati con rami, ciottoli,
oppure con mattoni o tavole (e in questo caso prende il nome di stan -
derbau), legate da argilla o malta. A seconda dei sistemi di chiusura
degli spazi fra i pali verticali, della disposizione di questi ultimi, della
presenza o meno di uno zoccolo in muratura, o di elementi lignei posti
in diagonale negli specchi di riempimento, si conoscono numerose
varianti, caratteristiche di particolari regioni o periodi storici. In area
mediterranea era ampiamente utilizzato in epoca romana, come pro-
vano numerosi esempi, perfettamente conservati, rinvenuti a
Ercolano e Pompei. In queste città le murature ad ossatura di pali
erano rinforzate da travi orizzontali, posti parallelamente fra loro, che
dividevano la parete in pannelli grosso modo quadrati. Strutture di
questo tipo (tamponate per lo più con murature di pietrame e calce)

85- Un edificio con murature portanti realizzate a fachwerk (da DONATI


1990, ridisegnato da Zanella 1999)
224 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

erano destinate ai muri divisori o ai perimetrali dei piani superiori,


essendo piuttosto leggere.
Queste pareti possono essere identificate con l’opus craticium, che
Vitruvio descrive come un sistema veloce da realizzarsi, ma assai
rischioso per il pericolo di incendi (De Arch. II, 1, 3, 8).
In epoca altomedievale dovette essere piuttosto diffuso, anche se,
considerata la notevole deperibilità del materiale, le testimonianze
archeologiche sono assai scarse. Un caso piuttosto interessante è
costituito dai resti di edifici lignei databili fra VI e X secolo, emersi,
nel corso di recenti scavi, a Fidenza (Parma), e nei quali il legno si è
conservato in maniera eccezionale. I muri perimetrali erano definiti
da travi orizzontali, poste a terra, realizzate in legno di quercia, le
quali recavano, a distanze regolari, gli alloggi per l’incastro di pali
portanti verticali.
Ad ossatura di pali, tamponati con ramaglie e argilla, erano inol-
tre le pareti che definivano gli edifici del celebre villaggio perilacustre
di Colletière, sul lago di Paladru (Grenoble), risalente all’XI secolo. Le
ricerche archeologiche hanno dimostrato che erano stati usati tronchi
di quercia, dal diametro di 18-35 centimetri, in parte squadrati e in
parte non lavorati; questi pali raggiungevano anche la lunghezza di
14 metri, ed erano stati conficcati nel sottosuolo per circa 5 metri, in
modo da raggiungere il substrato solido.
In epoca bassomedievale le costruzioni ad ossatura si diffusero
ampiamente in tutta Europa; in Francia tale tecnica viene definita
pan de bois o colombage (da columba, alterazione di columna, termi-
ne usato per indicare i pali portanti), in Inghilterra prende il nome di
half timber work. A Rouen, a York, a Salisbury, a Esslingen, a
Webergasse, si sono conservati interi edifici a più piani, i più antichi
dei quali risalgono al XIII o al XIV secolo. Il fachwerk di età basso-
medievale è caratterizzato dall’uso sistematico di basi in muratura,
realizzate sia per isolare le pareti, sia per dare maggiore solidità alla
costruzione. Un’importante evoluzione si registra nel corso del XV
secolo quando l’uso di pali verticali, che da terra arrivavano fino alla
sommità del tetto, venne sostituito dalla costruzione di singoli piani
indipendenti. Tale sistema permetteva di utilizzare tronchi più corti e
al tempo stesso di aumentare l’altezza degli edifici.
In molte regioni europee questo tipo di costruzioni rimase in uso
fino al XVII-XVIII secolo, quando venne sostituito dalle murature in
pietra o in mattone. Nei paesi come l’Italia, in cui l’architettura lignea
è stata soppiantata da quella in pietra già dall’età medievale, l’uso di
Aurora Cagnana 225

86- Case medievali a più piani del centro storico di Rouen, con pareti por -
tanti in fachwerk

pareti ad ossatura è comunque attestato per la realizzazione di muri


divisori, posti soprattutto ai piani superiori e in particolare laddove
erano necessarie pareti molto leggere. Nell’Appennino tosco-emiliano,
ad esempio, non è infrequente la presenza di murature formate da
telai rettangolari, resi rigidi da legni disposti in diagonale, e tampo-
nati in vario modo.
In diversi casi sono attestate (sempre ai piani superiori) tramezze
murarie realizzate ad intreccio, con pali verticali e polloni più giova-
ni, successivamente intonacate, secondo uno schema usato anche per
le palizzate esterne di divisione dei campi, attestato anche da molte
fonti iconografiche.
226 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

Il sistema del blockbau (dal tedesco = costruzione a blocchi) è inve-


ce caratterizzato dall’uso di tronchi sovrapposti orizzontalmente e
incastrati agli angoli. Necessita pertanto di alberi a fusto altissimo e
diritto e per tale motivo è stato usato nelle regioni ricche di conifere.
Anch’esso doveva essere diffuso nell’Antichità, benché le prove archeo-
logiche siano assai scarse. Vitruvio ricorda l’esistenza, presso alcuni
popoli dell’Asia minore nord-occidentale, di case formate da tavole

87- Una casa con murature portanti realizzate a blockbau (da DONATI
1990, ridisegnato da Zanella 1999)
Aurora Cagnana 227

disposte orizzontalmente (De Arch. II, 1). Un esempio di notevole inte-


resse è costituito dal ritrovamento in val di Ledro (Trentino Alto
Adige) dei resti di un edificio databile al VI-VII secolo d.C., costituito
da tronchi del diametro di circa 30 centimetri, disposti l’uno sull’altro
e incastrati in prossimità delle testate. Questo tipo di tecnica si è con-
servato a lungo nell’area alpina e in molte regioni montuose
dell’Europa centro-orientale. Negli affreschi della torre dell’Aquila del
castello del Buonconsiglio di Trento, (XV secolo), ad esempio, sono rap-
presentati, con notevole realismo e ricchezza di particolari, diversi
edifici realizzati nella tecnica del blockbau.
Nelle architetture del Nord Europa e nella regione alpina le case
in tronchi sovrapposti ancor oggi utilizzate sono per lo più sostenute
da uno zoccolo di muratura in pietra.

Considerando la notevole resistenza a trazione, oltre che a com-


pressione, il legno è stato molto usato, oltre che per le pareti portanti,
anche per la realizzazione di elementi orizzontali, come i solai. I resti
conservati nel sottosuolo sono in genere piuttosto rari, ma l’archeolo-
gia dell’elevato permette di evidenziarne diversi esempi ancora in
situ, in molti casi datati tramite la dendrocronologia. Nel centro sto-
rico di Genova, ad esempio, si sono individuati numerosi solai lignei,
in ottimo stato di conservazione, realizzati con travi, travicelli e tavo-
le, molti dei quali hanno conservato, sulla faccia inferiore, una deco-
razione dipinta a base di vernici ad olio di lino, con pigmenti minera-
li. Nelle case più ricche la pavimentazione era costituita da mattonel-
le o da piastrelle in ceramica rivestita (cfr. II. 7.), fissate sull’assito
ligneo tramite uno strato di malta e pietre. In un solaio del XVII seco-
lo, posto in luce in un palazzo nobiliare ubicato nelle vicinanze del
porto, si è rinvenuto un grosso albero di nave, con uno stemma di
famiglia dipinto a olio. Quest’uso documenta quanto fosse diffusa,
anche nelle residenze più ricche, la pratica del reimpiego del legname
proveniente dallo smontaggio delle navi; infatti questo materiale,
anche dopo un uso prolungato, poteva mantenere intatte le sue ottime
caratteristiche di resistenza.

Anche nelle coperture è sempre stato fatto un ampio uso del legno;
se per gli elementi che costituiscono l’orditura del tetto questo mate-
riale è praticamente insostituibile, nelle zone di alta montagna viene
utilizzato anche per le coperture, costituite da scandole prodotte a
spacco e messe in opera imbricate, analogamente alle tegole.
228 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

In una zona centrale dell’Appennino Ligure, posta fra il savonese


e l’alessandrino, si è conservata una singolare e ricchissima tradizio-
ne di lavorazione del legno e di costruzione di tetti in scandole, che con
ogni probabilità affonda le sue radici nell’Altomedioevo. Come atte-
stano le fonti storiche, quest’area faceva parte della Selva d’Orba, una
porzione dell’antico ‘bosco di Liutprando’, che nell’Altomedioevo si
estendeva da Bosco Marengo (Al) fino a Varazze (SV) ed era stato uti-
lizzato dai re longobardi come riserva per la caccia al cervo. La parte
montana di quest’area, preservata dal disboscamento di età bassome-
dievale, era passata successivamente alla Repubblica di Genova, e si
mantenne pressoché integra fino alla fine del XV secolo, quando venne
concessa ai contadini della zona per essere utilizzata a scopi agricoli e
di allevamento, non essendo ormai più adatta alla fornitura di legna-

88- Un tetto con copertura a scandole lignee (da GNONE 1995)


Aurora Cagnana 229

mi da nave. In quest’area è sopravvissuta una tradizione artigianale


paragonabile a quelle delle vallate alpine e vi è attestato un vasto uti-
lizzo di tetti in scandole lignee. Da un recente studio (basato sull’ana -
lisi archeologica del sopravvissuto edilizio confrontata con l’esame
delle fonti orali) è emerso che per la fabbricazione delle scandole si uti-
lizzava generalmente il legno di castagno, squadrato ad ascia e quin-
di ridotto in tavole tramite la ressia, una sega a telaio. Per coprire un
metro quadrato di tetto erano necessarie dalle venti alle venticinque
scandole della lunghezza di cm 75. Esse erano fissate sull’orditura sot-
tostante tramite perni di legno, ottenuti da tronchetti di castagno tra-
mite un piccozzino e conficcati in appositi fori praticati con una sorta
di punteruoli. Il colmo era costituito da tronchi scavati, che venivano
sovrapposti in vario modo.

La possibilità di resistere a lungo in acqua ha fatto del legno un


materiale assai adatto anche alle strutture di fondazione; la loro rea-
lizzazione è attestata almeno dal Secondo millennio a.C., come prova-
no numerosi rinvenimenti di abitati palafitticoli. Un caso piuttosto
eccezionale, per le condizioni di conservazione in cui è pervenuto, è
costituito dall’insediamento di Fiavé (Trentino Alto Adige) dove in
un’area di quasi 500 metriquadrati (un tempo lacustre) si sono rinve-
nuti oltre 800 pali, destinati a sorreggere un impalcato ligneo per il
sostegno delle abitazioni. I pali erano lunghi circa nove metri, ed
erano stati conficcati nel limo per oltre quattro. Erano ottenuti da
conifere (abeti rossi e larici, e in misura minore abeti bianch e pini sil-
vestri) e in un solo caso da olmo. La maggior parte veniva semplice-
mente scortecciata, prima di essere conficcata sul fondo, ma non man-
cano esempi di pali squadrati con asce, riconoscibili dalle tracce di pic-
coli colpi continui e regolari.
La costruzione di palificazioni lignee in acqua fu molto usata anche
in epoca romana, in particolare per realizzare strutture di fondazione
per ponti.
Di recente sono state studiate con attenzione le strutture murarie
dei moli del porto medievale di Genova, che poggiavano anch’esse su
fondazioni di pali lignei, rinvenuti in ottimo stato di conservazione. Le
analisi hanno dimostrato che l’80% dei pali era costituito da olmo, il
15% da ontano e il 5% da conifere. Evidentemente l’alta percentuale
di legno di olmo era dettata da precise ragioni; questa pianta è infat-
ti l’unica che, una volta immersa in acqua, in un ambiente anaerobi-
co, indurisce progressivamente.
230 ARCHEOLOGIA DEI MATERIALI DA COSTRUZIONE

5. Principali cause di degrado

Oltre alla elevata combustibilità le principali cause di degrado del


legno sono rappresentate dagli agenti biologici, e soprattutto dalle
colonie di batteri e dai funghi. Questi agiscono però in particolari con-
dizioni, in quanto riescono a svilupparsi solo se l’umidità interna
(dovuta a infiltrazioni d’acqua, causate generalmente dall’abbandono)
supera il 17-18%. I batteri si nutrono di sostanze ancora contenute nel
legno e degli atomi di ossigeno che uniscono le molecole di cellulosa,
provocandone, col tempo, la rottura, o marcescenza. Questo tipo di
degrado può però essere bloccato facendo asciugare in tempo l’acqua
in eccesso. Un intervento di manutenzione, effettuato qualche anno
dopo l’abbandono, può ancora salvare il legno.
Un’altra importante causa di degrado è costituita dagli animali
xilofagi: insetti, come le termiti, o larve, come i tarli. Questi si nutro-
no del legno, ma generalmente agiscono solo negli strati marginali, dei
quali diminuiscono lo spessore e quindi la sezione staticamente utile.
Non vanno invece confuse col degrado le crepature longitudinali
del legno, che talora sono molto evidenti. Esse sono infatti dovute,
semplicemente, a un ritiro non regolare, che separa fra loro i fasci di
fibre e che generalmente è dovuto a una cattiva stagionatura del tron-
co. Tuttavia la resistenza meccanica del materiale non viene compro-
messa, poiché è garantita dalla struttura stessa delle fibre.

6. Nota bibliografica

Sull’analisi dei materiali legnosi e sull’importanza della dendro-


cronologia nella ricerca storico-archeologica cfr. CASTELLETTI 1988;
utile è inoltre la lettura di CORONA 1986.
Per le tecniche di lavorazione si vedano il saggio di PARENTI 1994,
con molti dati sugli strumenti e sulle tecniche altomedievali e quello
di MILNE 1992, che concerne tutto il Medioevo. Utile e didatticamente
assai efficace è inoltre il volume di DONATI 1990, corredato da un otti-
mo apparato grafico.
Sull’uso del legno nell’architettura si vedano i saggi raccolti nel
volume curato da LASFARGUES 1985, incentrati sull’epoca romana, ma
con molte notizie concernenti anche l’età del ferro e l’età medievale.
Per il villaggio del lago di Paladru cfr. AA.VV. 1988. Molti dati archeo-
logici recenti sull’uso del legno nelle costruzioni altomedievali si tro-
Aurora Cagnana 231

vano negli Atti del Convegno tenutosi nel 1993 a Monte Barro (Lecco)
e dedicato all’edilizia residenziale altomedievale, editi a cura di
BROGIOLO 1994. Sempre sull’uso del legno nelle costruzioni altomedie-
vali è utile consultare la ricchissima banca-dati pubblicata da FRONZA,
VALENTI 1996 e concernente l’edilizia abitativa altomedievale di tutta
l’Europa. Per lo studio degli edifici lignei altomedievali di Fidenza cfr.
CATARSI DELL’AGLIO 1994. Per l’edificio in blockbau rinvenuto in val di
Ledro cfr. BASSI, C AVADA 1994. Per la tradizione costruttiva in block-
bau della regione alpina si veda DEMATTEIS 1986.
Sulla produzione di scandole nell’Appennino ligure centro-orienta-
le cfr. l’agile ma filologica ricerca di GNONE 1995. Sulla lavorazione del
legno nell’abitato palafitticolo di Fiavé cfr. MARZATICO 1988. Sulle pali-
ficazioni lignee che costituiscono le fondazioni del porto medievale di
Genova cfr. MELLI 1996, pp. 58-105.
Aurora Cagnana 233

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