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antico

Marco Camera

Terravecchia
di Grammichele
Storia di un insediamento della Sicilia
orientale tra indigeni e Greci

Edizioni Quasar
Antico
Antico
Collana fondata da Enzo Lippolis e Luigi M. Caliò

Diretta da Luigi M. Caliò

Comitato Scientifico
Massimo Frasca, Monica Livadiotti, Pietro M. Militello, Massimo Osanna,
Orazio Palio, Eleonora Pappalardo, Carlo Rescigno, Giorgio Rocco

Comitato di Redazione
Marco Camera, Valeria Parisi, Elena Santagati, Simona Todaro

Redazione
Rodolfo Brancato, Gianmichele Gierogiannis, Francesca Leoni,
Giulia Raimondi

Pubblicazione realizzata con il contributo della Scuola di Specializzazione in


Beni Archeologici dell'Università degli Studi di Catania.

In copertina: Terravecchia di Grammichele. Veduta delle rovine di Occhiolà


(foto di Luigi Nifosì).

© Roma 2020, Edizioni Quasar di Severino Tognon s.r.l.


via Ajaccio 41-43, 00198 Roma (Italia)
www.edizioniquasar.it

eISBN 978-88-5491-136-9

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doppio cieco.
Marco Camera

Terravecchia di
Grammichele
Storia di un insediamento della
Sicilia orientale tra indigeni e Greci

Edizioni Quasar
Sommario

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

1. Il sito, il territorio, la ricerca archeologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

1.1. Da Occhiolà a Terravecchia: quasi cinque secoli di studi e


ricerche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13

1.2. Terravecchia e la valle dei Margi: topografia e occupazione


antropica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

1.3. Viabilità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26

1.4. Paesaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30

2. Il sito in età preistorica e protostorica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

3. L’abitato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

3.1. Paolo Orsi e la “scoperta” dell’insediamento . . . . . . . . . . . . . . . 39

3.2. L’abitato di età arcaica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

3.3. L’abitato di età tardoclassica ed ellenistica . . . . . . . . . . . . . . . . 55

4. Le aree sacre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65

4.1. Poggio dell’Aquila . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65

4.2. Madonna del Piano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76

4.3. Poggio del Rullo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79

7
5. Le necropoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89

5.1. Paolo Orsi e l’individuazione delle necropoli. . . . . . . . . . . . . . . 89

5.2. La necropoli di Casa Cantoniera. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95

5.3. Altre aree di necropoli arcaiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .117

5.4. Le necropoli di età classica ed ellenistica. . . . . . . . . . . . . . . . . .119

6. Arte e artigianato: tra produzione locale e importazioni . . . . . . .123

6.1. Impianti artigianali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .123

6.2. Ceramica indigena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .125

6.3. Ceramica greca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .129

6.4. Grande scultura fittile e coroplastica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .133

6.5. Scultura in pietra calcarea e in marmo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .139

6.6. Terrecotte architettoniche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .142

6.7. Vasellame metallico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .147

7. Le fonti epigrafiche e numismatiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151

7.1. La documentazione epigrafica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .151

7.2. La documentazione numismatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .158

8. Sviluppo e caratteri dell’insediamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177

8
Introduzione

Quando sul finire dell’Ottocento Paolo Orsi giunse a Grammichele,


i colli di Terravecchia erano noti da tempo per la presenza di antiche
vestigia, di cui poco ancora si conosceva. Erano gli albori di un’intensa
stagione di ricerche archeologiche che avrebbero presto portato ad una
prima definizione delle fasi di vita dell’insediamento antico. Da allora,
gli splendidi prodotti dell’artigianato arcaico restituitici dalle necropoli
e soprattutto dalle aree sacre, da cui provengono le due celebri statue
fittili di divinità femminili sedute in trono ed il torso di kouros in marmo
pario, uno dei pochi rinvenuti in Sicilia, hanno contribuito a rendere
noto il sito ad un pubblico più ampio della sola comunità scientifica.
Il palinsesto di storie che i poggi di Grammichele ed il loro sottosuolo
custodiscono offre una singolare prospettiva archeologica, che permette
di cogliere i tratti di continuità e le cesure che hanno caratterizzato
l’insediamento umano in quei luoghi nel corso dei secoli. Il toponimo
“Terravecchia”, nato nel ricordo delle rovine dell’antico borgo medievale
di Occhiolà, raso al suolo dal terribile sisma del 1693, cela, in realtà,
un’altra “terra vecchia”, quella dei resti di fasi più antiche, risalenti alla
protostoria e all’età greca, generando l’affascinante suggestione di una
“doppia” stratificazione archeologica.
La documentazione raccolta in oltre cento anni di ricerche sulle
colline di Terravecchia di Grammichele disegna un mosaico ricco e va-
riegato, ma troppo spesso lacunoso e di difficile lettura. La copiosità e
la ricchezza dei materiali rinvenuti stridono, infatti, con l’insufficien-
te conoscenza dei contesti archeologici, dalla cui sola interpretazione
si può giungere ad una ricostruzione storica dell’insediamento antico.
Già Paolo Orsi deprecava lo stolto saccheggio del sottosuolo e la con-
seguente dispersione dei suoi tesori, cominciata in seguito alla ripresa
delle attività agricole nella contrada abbandonata da circa due secoli.
La più che ventennale attività di ricerca dell’archeologo roveretano fu

9
volta sia al recupero dei materiali, dispersi nelle campagne, nelle case dei
contadini del luogo e, non di rado, sul mercato antiquario, sia allo studio
del territorio e all’interpretazione della messe di dati da lui raccolta, al
fine di tratteggiare la storia ed i caratteri del sito con il “fiuto” e l’acume
che lo contraddistinguevano. Negli oltre cento anni che ci separano da
quella stagione, la ricerca archeologica ha conosciuto un'attività intensa
ma discontinua, promossa dalla Soprintendenza di Siracusa e, dopo la
sua istituzione, soprattutto dalla Soprintendenza di Catania, altalenante
tra scavi sistematici, che hanno avuto come oggetto singoli complessi
archeologici, ed interventi scaturiti da rinvenimenti casuali, che rara-
mente hanno portato ad indagini in estensione.
Nonostante questi limiti, il sito riveste un ruolo di primo piano
come punto di osservazione privilegiato per l’analisi e la ricostruzione
delle vicende storiche e culturali che si dispiegarono nella Sicilia orien-
tale in età greca. L’insediamento di Terravecchia, nella sua posizione
dominante sulla valle dei Margi, crocevia delle principali direttrici di
collegamento tra le poleis greche della cuspide sud-orientale della Sicilia
e l’entroterra indigeno, fu certamente teatro di quella variegata gamma
di fenomeni di interazione tra genti diverse che, scaturiti dalla fonda-
zione delle apoikiai siceliote, proseguirono sino alla conquista romana
dell’isola: cinque secoli di storia in cui molti e diversi protagonisti si av-
vicendarono nel determinare le alterne fortune di questo insediamento
e del territorio su cui gravitava.
Lo scopo di questo libro è quello di provare ad intrecciare ed an-
nodare i fili di questa storia, tessuti in una trama talvolta sfilacciata,
frutto delle vicende discontinue della ricerca archeologica, mettendo a
sistema una moltitudine di dati sparsa nei tanti rivoli della letteratura
scientifica, che spesso mantiene il carattere di notizia dei rinvenimenti
o di pubblicazione preliminare, priva dell’edizione completa dei con-
testi e dei materiali rinvenuti. Si tratta di un lavoro che, oltretutto, si
regge quasi unicamente su basi archeologiche, non potendo giovarsi, se
non marginalmente, dell’apporto delle fonti storiche. A ciò concorre il
carattere anonimo dell’insediamento, solo ipoteticamente identificato
con Echetla, per il quale Paolo Orsi lamentava “il desolante mutismo
di quelli antichi abitanti, che sembra temessero di mandare a noi un
ricordo epigrafico” (O 1897). In una prospettiva diacronica, dalla
ricomposizione di questo “puzzle”, di cui molti pezzi devono ancora
essere ritrovati, si intravede con una certa nitidezza l’immagine dell’in-
sediamento d’età arcaica, caratterizzato dall’interazione tra popolazioni
epicorie ed apoikoi greci, le cui tracce nella cultura materiale sono da

10
sempre al centro del dibattito scientifico, nella continua ricerca di mo-
delli ermeneutici idonei ad una loro lettura ed interpretazione. Meno
definito appare, invece, il quadro relativo alle epoche successive, per cui
la documentazione assume spesso un carattere indiziario. Per esse è pos-
sibile tratteggiare lo sviluppo del centro per grandi linee, in attesa che
la ricerca archeologica metta a fuoco le fasi d’età classica e, soprattutto,
ellenistica, che le scoperte più recenti hanno rivelato significative come
prima forse non s’immaginava.
Questo libro vuole anche essere un omaggio ad un sito archeolo-
gico che è stato ripetutamente al centro dei miei studi nel corso della
mia formazione di archeologo, con l’auspicio che possa essere uno stru-
mento per chi voglia approfondirne la conoscenza ed un impulso ad
intraprendere nuove indagini e ricerche. Come per tutti i siti con una
tradizione di studi antica e radicata, dove dati e materiali archeologici
si sono stratificati nel tempo, anche per Terravecchia di Grammichele
è tutt’altro che esiguo il potenziale informativo del ricco patrimonio di
dati custodito tanto nel sottosuolo, quanto nei taccuini di scavo e nelle
cassette di reperti inediti, ancora foriero di risultati scientifici di inesti-
mabile valore.
Nel dare alle stampe questo lavoro desidero esprimere la mia grati-
tudine a mia moglie Ambra Pace, che, come me, ha più volte incrociato
il sito di Terravecchia di Grammichele nel corso dei suoi studi. Alla
sua competenza ed alle sue ricerche, ancora in gran parte inedite, deve
molto la ricostruzione proposta del santuario di Poggio dell’Aquila, uno
dei principali contesti e chiave di lettura imprescindibile per gli aspetti
connessi alla sfera del sacro nell’antico insediamento. Un sentito rin-
graziamento, inoltre, va al Prof. Massimo Frasca e alla Prof.ssa Rosa
Maria Albanese Procelli, per aver letto il testo esprimendo preziosi sug-
gerimenti, e al Prof. Luigi Caliò, per aver accolto questo volume nella
collana da lui diretta.

11
1. Il sito, il territorio, la ricerca archeologica

1.1. Da Occhiolà a Terravecchia: quasi cinque secoli di studi e ricerche

Ad Occhiolà il tempo si è fermato la mattina dell’11 Gennaio 1693,


irrimediabilmente sospeso sotto le macerie del rovinoso sisma che scos-
se il Val di Noto, cancellandone numerosi centri abitati. Subito dopo il
disastro, la città, dominio del Principe Carlo Maria Carafa Branciforti,
signore di uno dei maggiori possedimenti feudali dell’isola, venne ri-
fondata su un pianoro poco più a sud, nel feudo di Gran Michele, di
proprietà del principe stesso. Da allora, la contrada in cui era fiorito il
borgo medievale prese il nome di Terravecchia di Grammichele, dalla
nuova città a pianta esagonale, che costituisce ancora oggi il centro abi-
tato più vicino (Fig. 1.1).
Le colline di Terravecchia custodiscono nel loro sottosuolo un
intricato palinsesto storico-archeologico che va dalla fine dell’età del
Bronzo al XVII secolo, i cui segni affioravano già nel Cinquecento,
prima che il sisma radesse al suolo il borgo di Occhiolà, depositan-
dovi un ulteriore strato di rovine. Già allora, il siciliano Tommaso
Fazello, erudito frate domenicano e autore di un “De rebus Siculis
decades duae”, ponderoso e documentato prospetto di topografia sto-
rica ed archeologica della Sicilia, edito nel 1558, poteva registra-
re che presso il castello di Occhiolà erano visibili “antiquitatis mira
[…] monumenta”1. All’inizio del secolo successivo, non senza qualche
perplessità, l’umanista e geografo prussiano Filippo Cluverio, nel suo
saggio di geografia storica “Sicilia Antiqua”, collegava a quelle anti-
che vestigia il toponimo di Echetla2, centro menzionato dallo sto-
rico greco Polibio e da altre fonti letterarie antiche3, proponendo

1
F 1558, I, 10, 2.
2
C 1619, 360.
3
Polibio 1, 15, 10; Diodoro 20, 32, 1.

13
Fig. 1.1. Carta del territorio di Grammichele con l’indicazione del sito di Terravecchia.

un’identificazione che è rimasta la più comunemente accettata fino


ai giorni nostri4.

4
Sul problema dell’identificazione del sito, si vedano A 1757; S 1842; H
1896, p. 155; G 1928, pp. 14-24; P 1935, p. 202; V 1962, pp.
36-37; M 1981, p. 165; P 1990, p. 164. Una posizione più sfumata, dopo
aver segnalato le tante ipotesi in campo (Echetla, Morgantia, Omphake, Galarina, Eryke),

14
Dopo il terremoto del 1693, quei luoghi continuarono ad affascinare
studiosi e viaggiatori, attratti dalle rovine del castello e del borgo me-
dievale, nonché dalle testimonianze di un’antichità più remota, come i
vasi “del tipo cosiddetto etrusco, ornati di bellissime figure”5, che Jean
Houel poté ammirare presso alcuni privati in occasione di una sua visita
ad Occhiolà.
Circa duecento anni dopo il terribile disastro, in quei luoghi giunse
Paolo Orsi, da poco insediatosi a Siracusa come Ispettore degli Scavi,
Musei e Gallerie del Regno. L’archeologo roveretano, con la sua sin-
golare capacità di dipingere con le parole vividi affreschi dei siti da lui
visitati, descrisse quelle contrade all’inizio del resoconto delle sue esplo-
razioni nel territorio di Grammichele, pubblicato nel 1897: “Abbrac-
cia Terravecchia […] un complesso di colline arenarie, intersecate da
profondi valloni, nei quali scorrono rigagnoletti che nella sottostante
piana metton capo al fiume di Caltagirone. Distribuite a ferro di cavallo
intorno all’angusto vallone dei Chiusi o Genzala, sopra tre di esse e
nelle insellature intermedie veggonsi ancora le tristi ruine del castello,
delle chiese e dei quartieri di Occhiolà. […] Ma qui dove terminano
le ruine medioevali e moderne l’occhio dell’archeologo discerne tosto
ruderi di altra maniera e d’altra età, indizio certo di città antica […]”6.
Era l’inizio di un’attività scientifica che l’Orsi avrebbe condotto a più
riprese fra la fine del XIX secolo ed i primi vent’anni del secolo scorso,
con un avvicendarsi di scavi e ricognizioni nel territorio volte prevalen-
temente a tutelare il patrimonio archeologico, evitandone la dispersione
nel mercato antiquario.
Dopo le prime notizie di rinvenimenti archeologici, relative a sco-
perte fortuite avvenute fra il 1890 e il 18967, il primo contributo organi-
co di Orsi sul territorio di Grammichele è il già citato scritto del 1897,
in cui lo studioso, sulla scorta delle sue indagini sul terreno e dei reperti

fu assunta da Paolo Orsi. Egli, pur riconoscendo come Terravecchia presentasse molti dei
requisiti topografici attribuiti dalle fonti ad Echetla, non li ritenne sufficienti ad un’iden-
tificazione univoca e definitiva e preferì mantenere “un giudizio sospensivo”, lamentando
“il desolante mutismo di quegli antichi abitanti che sembra temessero di mandare a noi un
ricordo epigrafico” e l’ancora inadeguata conoscenza archeologica del vasto entroterra del-
la Sicilia orientale (O 1897, cc. 273-274; O 1907, cc. 167-168). Di diversa opinione
si dichiarò Domenico Seminerio, che propose per l’abitato di Terravecchia l’identificazio-
ne con Makella (S 1975, pp. 54-57).
5
H 1785, III, p. 57.
6
O 1897, cc. 201-202.
7
Si tratta della scoperta di una necropoli di epoca tardoellenistica-romana in località
Piano Croce (O 1891, pp. 357-358; O. 1897, cc. 207-208, fig. 4) e di un incensiere
bronzeo di età bizantina (O 1896, pp. 567-569).

15
rinvenuti, tentò di fare luce sull’articolazione topografica del complesso
collinare di Terravecchia e sulle antiche vestigia celate nel suo sottosuo-
lo8.
Sull’ampio arco formato dalle alture riconobbe le tracce di un inse-
diamento “di epoca ellenistica o greco-tarda”9, localizzandone l’acropoli
sul Poggio dei Pini in seguito a considerazioni di carattere topografi-
co10. Sepolcreti indigeni di età arcaica e tombe greche di varia tipologia
vennero individuati sui fianchi scoscesi delle colline, lungo i valloni che
separano le une dalle altre, e ai piedi di Poggio dell’Aquila11.
Proprio sulle balze del Poggio dell’Aquila avvenne la scoperta più
significativa, cui è dedicata ampia parte della monografia del 1897. La
segnalazione della frequente comparsa sul mercato antiquario di Sira-
cusa di terrecotte votive, provenienti da ingrottature scavate artificial-
mente sulla collina, suggerì all’Orsi di effettuare, nel 1895, una breve
campagna di scavi, che permise di individuare un santuario, che ipotizzò
avere una struttura lignea, anche se con copertura fittile, a causa dell’as-
senza di resti monumentali12. Fu recuperata gran parte del materiale
rinvenuto dai proprietari dei terreni, cui si aggiunsero i ritrovamenti
effettuati in quell’occasione: una notevole quantità di terrecotte votive di
tipo greco, comprendenti protomi femminili, statuette femminili sedute
e stanti, con attributi riconducibili alla sfera funeraria (melograno, fiore
di loto) e ctonia (fiaccola, porcellino), busti muliebri, qualche esemplare
di recumbente e di kourotrophos, nonché alcune patere bronzee. Da qui
proviene anche una grande statua fittile di divinità femminile su trono,
della seconda metà del VI secolo, la cui fattura piuttosto rozza tradisce
l’esecuzione in ambiente indigeno13.
Si giunge così al 1898, quando il rinvenimento in contrada Portella,
nei pressi dell’odierna Grammichele, di numerosi frammenti di terre-
cotte votive, databili fra il V e il IV secolo a.C., all’interno di una grotta
artificiale, suggerì a Orsi l’esistenza di un santuario extra moenia dedica-
to a Demetra e Kore14. Allo stesso anno risale la scoperta di due distinte
aree sepolcrali in contrada Favara, a sud-ovest del paese moderno, e, in
direzione opposta, presso il Mulino della Badia. Nella prima località fu

8
O. 1897.
9
O 1897, c. 206.
10
O 1897, cc. 202-204.
11
O 1897, cc. 264-273.
12
O 1897, cc. 209-215.
13
O 1897, cc. 216-263.
14
O 1902.

16
esplorata una necropoli arcaica del IV periodo siculo, ma la scoperta più
rilevante è quella, nelle contrade Madonna del Piano e Mulino della
Badia, di una vasta area di necropoli protostorica con sepolture ad inu-
mazione in tombe a fossa, attribuita dallo studioso alla fase di passaggio
fra il II e il III periodo siculo15. Dei corredi, composti prevalentemente
da materiali metallici, Orsi avrebbe dato più dettagliata notizia succes-
sivamente16.
Dopo alcuni anni in cui si registrano solo rinvenimenti sporadici17,
Orsi tornò ad occuparsi dell’area di Madonna del Piano in seguito
al ritrovamento, durante l’esecuzione di alcuni lavori agricoli, di una
struttura a blocchi a pianta quadrangolare, all’interno della quale si
rinvennero ceramica attica a figure nere, bronzi, vetri, terrecotte archi-
tettoniche e, soprattutto, una statua fittile di divinità femminile seduta
della seconda metà del VI secolo a.C., un torso efebico tardoarcaico
in marmo pario, una testa in calcare di figura maschile barbata con
elmo18.
In calce alla memoria del 1907, dedicata alla trattazione analitica
dei materiali rinvenuti a Madonna del Piano, dove si ipotizza l’esi-
stenza di un altro santuario extra moenia, Orsi tracciò un nuovo pro-
filo complessivo del quadro topografico-archeologico del territorio di
Grammichele, risultato dei dati da lui raccolti nel corso di più di un
ventennio di ricerche19. Sulle alture di Terravecchia ed alle loro pendi-
ci ipotizzò l’esistenza di un centro siculo α̉τείχιστος, fiorito fra il X e
il VI secolo a.C., che aveva i suoi santuari principali sul Poggio dell’A-
quila e, a partire da un secondo momento, nella sottostante contrada
di Madonna del Piano, entrambi di impronta greca. A questa realtà si
sarebbe sovrapposta, all’inizio del VI secolo a.C., la civiltà greca, at-
traverso l’arrivo, non si sa quanto pacifico, dei coloni greci provenienti
probabilmente dalle calcidesi Catania e Lentini. L’archeologo notava,
inoltre, che un abitato più tardo, dotato di un’acropoli munita, sarebbe
sorto sul Poggio dei Pini.
L’ultimo intervento dello studioso nel territorio di Grammichele
riguarda il rinvenimento, nel 1916, di un gruppo di tombe di tipologia
sia indigena sia greca nell’area della Casa Cantoniera lungo la strada

15
O 1898. Qui anche la notizia della scoperta della necropoli arcaica del IV periodo
siculo in contrada Favara.
16
O 1905.
17
O 1900; O 1907, c. 123.
18
O 1903; O 1907, cc. 125-165.
19
O 1907, cc. 165-168.

17
provinciale 33, a sud-ovest delle colline di Terravecchia, databili tra la
metà del VI e la metà del V secolo a.C.20.
Dopo il periodo segnato dall’attività di Paolo Orsi, bisogna atten-
dere la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso per una ripresa degli
studi, che ebbero come principale teatro, ancora una volta, le contrade
Madonna del Piano e Mulino della Badia21. Qui, nel 1959 e negli anni
1970-1971, si svolsero due campagne di scavo sistematiche, durante le
quali vennero portate alla luce più di trecento tombe di varia tipolo-
gia (inumazioni entro fossa o entro sarcofago litico, ad enchytrismòs, ad
incinerazione) che rivelarono una necropoli utilizzata fra l’XI ed il IX
secolo a.C.22.
Nei decenni successivi, le ricerche archeologiche nel territorio di
Grammichele proseguirono a cura della Soprintendenza Archeologica
di Siracusa e, dopo la sua istituzione nel 1987, della Soprintendenza ai
Beni Culturali e Ambientali di Catania.
Al 1985 risale la ripresa delle indagini nella necropoli di Casa Can-
toniera, con l’esplorazione di un ulteriore gruppo di tombe a camera
d’età arcaica, da una delle quali proviene il celebre cratere laconico figu-
rato confluito nelle collezioni del Museo Archeologico Regionale “Pa-
olo Orsi” di Siracusa23.
Tra il 1987 e il 1994 furono effettuati sulle colline di Terravecchia
diversi interventi di scavo che permisero di cominciare a definire l’esten-
sione dell’abitato antico e le fasi cronologiche di occupazione dell’area,
che mostra evidenti segni di frequentazione a partire dalla fine dell’età
del Bronzo24; fra i rinvenimenti più rilevanti di questi anni spiccano la
scoperta di un ulteriore settore della necropoli di Casa Cantoniera e di
una capanna protostorica alle pendici settentrionali del Poggio dei Pini.
Gli anni tra il 1996 e il 1998 sono segnati da numerosi rinvenimenti
sulle pendici orientali del Poggio dei Pini, relativi a settori dell’abitato

20
O 1920. In quest’area molti sepolcri erano già stati violati nella prima metà dell’Ot-
tocento, causando la dispersione degli oggetti di corredo, in parte acquistati dai Benedet-
tini e dal Museo Biscari di Catania o da privati (G 1928, p. 12).
21
Saggi di scavo furono effettuati, nel 1959, anche nell’area occupata dai resti di Occhiolà,
nel corso dei quali si rinvennero strati di età protostorica, arcaica ed ellenistica (G
1959).
22
B B, M, L P 1969; B B 1972-1973, pp. 178-
179; B B 1973. L’edizione complessiva degli scavi svolti negli anni 1970-1971
è stata curata da Rosa Maria Albanese: A et alii 2014-2015 (con bibliografia
precedente).
23
B 1988.
24
Sulle attività di ricerca svolte fra il 1987 e il 1994, vedi T 1988-1989; B-
, P, R 2000, passim; C 2010 (necropoli di Casa Cantoniera).

18
arcaico e ad alcune sepolture d’epoca diversa. In particolare, i lavori di
sbancamento per l’ampliamento della strada provinciale 33 furono oc-
casione per indagare un’area prospiciente la strada, dove vennero alla
luce i resti di una porzione di abitato, con edifici a pianta rettangolare,
in cui furono recuperati materiali databili fra la seconda metà del VI e la
prima metà del V secolo a.C.25.
Un nuovo contributo alla conoscenza dell’abitato sorto sulle colline
di Terravecchia viene dalle due campagne di scavo, condotte nel biennio
2000-2001 sul Poggio del Rullo dall’Università di Torino, che hanno
rivelato una lunga fase di occupazione continuativa dell’area, durata
dall’XI al III secolo a.C.26.
L’ultimo significativo intervento di scavo nel sito, nuovamente per
iniziativa della Soprintendenza, è stato condotto in due riprese negli
anni 2003-2005 e 2010-2011, quando sulle pendici occidentali del Pog-
gio del Rullo furono scoperti diversi complessi edilizi, non tutti comple-
tamente indagati27. Per uno di questi (edificio 1), l’unico completamente
messo in luce, è stata proposta l’identificazione con un santuario in uso
durante la prima età ellenistica.

1.2. Terravecchia e la valle dei Margi: topografia e occupazione antro-


pica

Il sistema collinare di Terravecchia domina l’estremità occidentale


della valle dei Margi, che dalla piana di Catania si incunea verso sud-o-
vest tra le ultime propaggini dei monti Iblei ed Erei, attraversata dal
corso dell’omonimo fiume (detto anche Caltagirone), che si immette
più a valle nel Gornalunga, affluente del Simeto (Fig. 1.2). Dalla sua
posizione di cerniera tra la valle dei Margi ed il massiccio montuoso
di Caltagirone, spartiacque naturale tra la piana di Catania e la piana
di Gela, il sito controllava le vie di comunicazione che dalle colonie
calcidesi della costa orientale dell’isola si addentravano all’interno fino
alla costa meridionale e, in particolare, a Gela (tramite le valli fluviali
del Maroglio e del Ficuzza) e a Camarina (lungo il corso dell’Ippari e
del Dirillo).

25
P 1997-1998, p. 197; B 1998, p. 24; R 2000, pp. 73-74;
B, P, R 2001.
26
B B 2001; Da Terravecchia di Grammichele a Occhiolà.
27
B, P, R 2012.

19
Fig. 1.2. Collocazione del sito di Terravecchia di Grammichele nella Sicilia sud-orientale
(rielaborazione da Google Earth).

Le alture di Terravecchia, un lembo del margine settentrionale


dell’altopiano ibleo affacciato sulla valle, costituiscono un complesso
articolato di colline arenarie disposte a ferro di cavallo e separate da
profondi valloni dalle pareti scoscese, in cui un tempo scorrevano corsi
d’acqua a carattere torrentizio (Fig. 1.3). Procedendo da ovest verso est,
i rilievi, dalle cime piane che non superano i 500 metri di altitudine,
prendono i nomi di Poggio del Castello, Poggio del Rullo, Poggio San
Leonardo, Poggio dei Pini. Tra di essi si incunea il Vallone dei Genzali
o di Terravecchia, mentre ad ovest del Poggio del Castello, separato da
esso dal Vallone delle Canne, si trova il Poggio Zaccano; il Poggio dei
Pini è, invece, fronteggiato ad est dal Poggio dell’Aquila, da cui lo separa
un’insellatura attraversata dalla strada provinciale 33, che dal fondoval-
le si inerpica sulle pendici dei colli in direzione dell’odierno centro di
Grammichele.
Le estremità dell’arco di Terravecchia sono quindi dominate ad ovest
dal Poggio del Castello, naturalmente difeso dai fianchi assai ripidi, in-
terrotti solamente dallo stretto istmo che lo collega al Poggio del Rullo
ed alle altre colline, e ad est dal Poggio dei Pini, il più alto del gruppo.
Le balze di quest’ultimo, che dalla cima declinano verso sud piuttosto
dolcemente fino alla sella che lo congiunge con il Poggio San Leonardo,
si protendono verso nord affacciandosi sulle sottostanti contrade di Pia-
no Croce e Madonna del Piano, estese su un’ampia terrazza digradante
verso il fondovalle e delimitata ad est dal Fosso della Badia (Fig. 1.4). Il
Poggio Zaccano, infine, sul lato opposto rispetto al Poggio dell’Aquila,
costituisce un’ulteriore ramificazione del sistema collinare, costituita da

20
Fig. 1.3. Il sistema collinare di Terravecchia di Grammichele (rielaborazione da Google
Earth).

un rilievo collegato al Poggio del Rullo da una stretta insellatura e ter-


minante in una dorsale allungata verso nord, insinuantesi tra il vallone
omonimo ed il Vallone delle Canne.
Le sommità delle due alture che costituiscono il versante occidentale
dell’arco collinare, Poggio del Castello e Poggio del Rullo, nonché parte
del contiguo Poggio San Leonardo, sono occupate dalle rovine del bor-
go di Occhiolà (Fig. 1.5), fondato probabilmente nel XIII secolo, con le
case e le chiese disposte ai lati dell’asse stradale che conduce ai ruderi
del castello, un tempo dominante, dalla sua posizione arroccata, il paese
e la valle sottostante. Ma i resti dell’abitato medievale e i campi che si
estendono sulle alture vicine e nelle contrade circostanti nascondono
nel sottosuolo vestigia ben più remote, testimonianza dell’antichità della
frequentazione di questi luoghi.
Sulle colline di Terravecchia, già occupate in età preistorica e proto-
storica28, si sviluppò l’antico abitato che, in età greca, partecipava di un
sistema di insediamenti d’altura che costellavano le sommità dei rilievi
affacciati sulle due rive del fiume dei Margi (Fig. 1.6), un comprenso-

28
Vedi infra, § 1.4.

21
Fig. 1.4. Veduta della contrada Madonna del Piano con, sullo sfondo, la valle dei Margi e l’Etna.

rio che assolveva alla funzione di cerniera tra la cuspide sud-orientale


e l’interno dell’isola, abitato sin dall’età preistorica29. La loro posizio-
ne era assai favorevole perché contemperava le esigenze di sussistenza,
ampiamente soddisfatte dalla fertilità delle terre e dalla possibilità di
sfruttare i pascoli per l’allevamento30, con le necessità strategiche legate
al controllo del territorio e delle principali vie di comunicazione che
collegavano i diversi centri tra loro e con le poleis greche.
Quest’area, in cui si fronteggiano i margini degli Iblei nord-occi-
dentali e degli Erei sud-orientali, nel V secolo a.C. fu il cuore della
lega sicula guidata da Ducezio. Centro della lega era probabilmente il
santuario dei Palici, identificato all’ingresso settentrionale della valle,
ai piedi dell’altura basaltica di Rocchicella, su cui sorgeva l’abitato di
Palikè, fronteggiante la pianura un tempo occupata dal lago di Naftia31.

29
Per un sintetico quadro d’insieme dei principali siti archeologici ricadenti nella valle dei
Margi e nel territorio circostante, si vedano: M 1979; B 2000; S
2005; M 2008, pp. 13-17. Per il ruolo di cerniera della valle, anche come fon-
damentale snodo viario, vedi infra, § 1.3.
30
L’intenso sfruttamento del territorio agricolo prospiciente la valle dei Margi è docu-
mentato, in età arcaica, dall’intenso popolamento delle campagne, testimoniato da nuclei
di tombe a camera riferibili a piccole fattorie (M 1979, p. 16).
31
M 2005; Il santuario dei Palici; M 2012 (con bibliografia prece-
dente).

22
Fig. 1.5. Rovine del borgo di Occhiolà (foto di L. Nifosì).

In un sito caratterizzato da livelli antropizzati risalenti fino al paleoli-


tico, le prime strutture risalenti alla fine del VII secolo a.C. attestano le
prime fasi sia dell’insediamento sull’altura sia del santuario. Dopo gli
imponenti interventi di ristrutturazione edilizia della metà del V secolo
a.C., cui si deve la sistemazione monumentale delle terrazze dell’area
sacra, l’abitato fu abbandonato definitivamente nel corso del III secolo
a.C., mentre il santuario continuò ad esistere anche in età romana fino
alla fine del III secolo d.C.
L’ingresso della valle ed il santuario sono dominati a sud dal Monte
Catalfaro e dalle alture su cui sorge l’odierna Mineo, dai più considerata
l’antica Menainon di Ducezio. Entrambi i siti recano le tracce degli in-
sediamenti di età greca, con strutture architettoniche e necropoli, che ne
testimoniano lo sviluppo dall’età arcaica all’età ellenistica32.
Sul lato opposto, in posizione elevata tra la valle dei Margi e quella
del fiume Gornalunga più a nord, sorgeva l’insediamento della Monta-
gna di Ramacca, di cui sono noti alcuni nuclei di abitato e di necropoli33.

32
M 1967; M 1971; M 1979; B 2000, p. 61; M-
 2005a; M 2012a.
33
A, P 1988-1989; P 2005a; P 1997-1998; P,
T, M 2018; P, A 2019

23
Fig. 1.6. Insediamenti d’età greca lungo la valle dei Margi (rielaborazione da Google Earth).

Fiorito in età arcaica, il centro subì una contrazione nella seconda metà
del V secolo a.C., ma reca tracce di occupazione fino al secolo successi-
vo, come testimoniano le sepolture più recenti rinvenute nella necropoli
occidentale e nell’area precedentemente occupata dall’abitato arcaico.
Un’altura aspra e rocciosa sulla dorsale che fiancheggia la riva sini-
stra del fiume dei Margi, proprio di fronte alle colline di Terravecchia,
era sede del centro fortificato di Piano dei Casazzi, ancora largamente
inesplorato34. L’insediamento d’età arcaica, sorto su un’area già frequen-
tata a più riprese tra l’antica età del Bronzo e la prima età del Ferro,
si estendeva sulla sommità pianeggiante del rilievo, naturalmente inac-
cessibile da molti lati e protetto nelle parti più vulnerabili da cortine
murarie. L’arco cronologico di vita del centro è indicato dalle necropoli,
utilizzate tra il VI ed il IV secolo a.C.
Sullo stesso versante, non molto distante, si trova il sito di Monte
Balchino, noto anche con il nome di Altobrando35. La sommità della
collina, costituita da un ampio pianoro, le cui tracce di frequentazione
risalgono fino alla preistoria, fu sede di un insediamento fortificato du-
rante l’età arcaica. Le diverse fasi edilizie, riconosciute sia in relazione
alle strutture domestiche sia alla cinta muraria, documentano l’occu-
pazione del sito fino ai primi decenni del V secolo a.C. Nonostante la
presenza di estesi strati di bruciato sancisca l’abbandono di alcuni settori
di abitato entro il 450 a.C., il rinvenimento in superficie di frammenti
ceramici più tardi consente di attestare la frequentazione del pianoro
ancora tra IV e III secolo a.C.
Il massiccio montuoso su cui sorge Caltagirone, che chiude a
sud-ovest la valle dei Margi, fu anch’esso abitato in età greca36. L’in-

34
L 2005 (con bibliografia precedente); T, L 2012.
35
S 1980; S 1984; L 2005a (con ulteriore bibliografia).
36
L 2005b (con bibliografia precedente).

24
sediamento, oggi completamente obliterato dall’attuale centro urbano,
è noto per le necropoli del colle San Giorgio (fine VII-inizi VI secolo
a.C.) e di contrada San Luigi-Cappuccini (V secolo a.C.). Ancora più a
sud-ovest, su un arco collinare proteso sulla valle del fiume Maroglio e,
attraverso questa, sulla piana di Gela, si trova il sito di Monte San Mau-
ro, abitato sin dall’antica età del Bronzo. Sulle vette pianeggianti dei
colli e sulle loro pendici rivolte a sud si estendeva un vasto insediamento,
sovrappostosi negli ultimi decenni del VII secolo a.C. ad un precedente
villaggio indigeno37. Il centro d’età arcaica, sorto in una posizione di
crocevia tra diverse aree dell’isola, nella lunga storia delle ricerche è stato
assegnato ora all’ambito indigeno, ora a quello greco, con un’attribuzio-
ne oscillante tra le sfere d’influenza geloa e calcidese. Le caratteristiche
della cultura materiale dell’abitato, dalla tipologia delle case al rituale
funerario, dalla fisionomia delle aree sacre alle produzioni artigianali,
lo connotano chiaramente come una città greca. L’identificazione con
Euboia, subcolonia di Lentini, fondata nel VII secolo e distrutta all’ini-
zio del V secolo a.C., trova oggi crescente consenso e sancisce l’appar-
tenenza della città all’orbita calcidese, suggerita anche dall’alfabeto con
cui sono redatte le tabelle bronzee, recanti inscritto il testo di una legge
sui reati di sangue, rinvenute all’interno del cosiddetto anaktoron sulla
collina centrale, ritenuta l’acropoli della città38.
Tracce di un insediamento d’età greca, infine, sono note a sud di
Grammichele, presso il Piano Bellia ed il Poggio Favarella39. Sui ver-
santi di quest’ultimo, si estendono le necropoli con tombe a camera
utilizzate tra la fine del VII ed il VI secolo a.C., mentre sul pianoro,
possibile sede dell’abitato, la frequentazione in età arcaica è rivelata dai
frammenti ceramici rinvenuti in superficie. Quest’ultimo sito si trova in
una posizione più arretrata rispetto alle creste montuose affacciate sulla
valle dei Margi, in un’area protesa verso il centro dell’altopiano ibleo, un
territorio a sua volta costellato di insediamenti epicori. Insieme ad essi,
primi tra tutti quelli più prossimi di Licodia Eubea e Monte Casasia,
gravitanti sull’alta valle del Dirillo, il centro di Terravecchia di Gram-
michele e quelli circostanti costituivano una fitta rete di abitati indigeni,
estesa fino agli Erei occidentali ed alle falde dell’Etna, efficacemente
collegati, attraverso le vie fluviali, sia tra loro sia con le apoikiai greche
ed i loro avamposti nell’entroterra.

37
Per una sintesi aggiornata sul sito si veda F 2017, pp. 116-127 (con bibliografia
precedente).
38
L’identificazione, proposta in F 1997, è stata più volte ribadita dallo studioso.
39
M 2005.

25
1.3. Viabilità

La posizione del sito di Terravecchia di Grammichele, al centro


di importanti vie di collegamento tra diversi distretti della regione, ne
faceva nell’antichità un centro di primaria importanza, il cui ruolo di
crocevia si riflette nella viabilità antica che ne attraversava il territo-
rio, oggetto delle ricostruzioni di diversi studiosi40. Da esse si ricava
come l’area di Terravecchia, prospiciente la valle dei Margi, costituisse
un punto di confluenza e snodo fondamentale del sistema viario che
collegava da nord a sud e da est ad ovest le principali poleis siceliote tra
loro e con l’entroterra indigeno (Fig. 1.7). Il sito costituiva il terminale
settentrionale di un’articolata rete stradale che, sfruttando il corso dei
fiumi e l’orografia del territorio, attraversava l’altopiano ibleo, metten-
dolo in collegamento con il litorale e con la regione centrale: ad ovest
con Monte San Mauro, a sud con la costa meridionale ed il territorio
camarinese, a sud-est, passando per Acre, con la costa ionica e Siracusa,
a nord-est con Lentini41.
Da ciascuno di questi itinerari, che si incrociano nel territorio a sud
di Grammichele, densamente occupato da insediamenti epicori, tra cui
spiccano i due maggiori di Licodia Eubea e Monte Casasia, si poteva
agevolmente raggiungere il centro di Terravecchia. L’innesto nella viabi-
lità che attraversava il sito doveva avvenire a sud del complesso collinare,
nei pressi dell’area occupata dalla necropoli di Casa Cantoniera, che
verosimilmente era sorta lungo l’asse stradale che veniva da sud, percor-
rendo a mezza costa la scarpata settentrionale di Piano Mendolara, di
cui la strada scavata nella roccia, su cui si aprono le tombe scoperte nel
1988 (Fig. 1.8), poteva essere il tratto terminale o un diverticolo42. Da
lì, i percorsi di collegamento verso nord con la viabilità di fondovalle
sono stati accuratamente ricostruiti esaminando il tracciato di trazzere
demaniali, mulattiere e sentieri, per i quali si ipotizza una continuità con

40
A 1962; G 1979, pp. 333-334; F 1994-1995, pp. 562-569.
Un più recente riesame complessivo della questione, con una ricostruzione della viabilità
primaria e secondaria collegata al sito, alla luce di dati archeologici, topografici, cartogra-
fici e d’archivio, si trova in B F 2001. Il raccordo del territorio della valle dei
Margi con la viabilità estesa più a nord, che garantiva i collegamenti con l’entroterra ereo
e con i centri alle pendici meridionali dell’Etna e lungo la valle del Simeto è delineato in
S 2012.
41
F 1994-1995, pp. 562-569.
42
B F 2001, p. 50. La disposizione della necropoli lungo un'asse stradale di
collegamento tra l'insediamento ed il territorio, invece che sui fianchi dei rilievi sottostanti
l'abitato, ricorda i criteri topografici di collocazione delle necropoli delle poleis greche,
piuttosto che dei coevi insediamenti indigeni.

26
Fig. 1.7. Carta della viabilità antica tra Iblei settentrionali ed Erei meridionali (elabora-
zione di R. Brancato).

27
Fig. 1.8. Area di Casa Cantoniera. Strada scavata nella roccia (da B F 2001).

i percorsi antichi (Fig. 1.9)43. Si evince che, dall’area di Casa Cantoniera,


la strada doveva proseguire costeggiando il fianco orientale delle colline
di Terravecchia, per poi girare verso ovest, attraversando l’avvallamento
tra Poggio dei Pini e Poggio San Leonardo, in corrispondenza del taglio
nella roccia individuato già da Paolo Orsi44, e raggiungere il fondovalle
percorrendo le balze affacciate sul vallone di Terravecchia e le contrade
di Piano Croce e Madonna del Piano45. Un secondo itinerario, parten-
do dal settore di abitato che si estendeva tra Poggio dei Pini e Poggio
dell’Aquila, doveva raggiungere il fondovalle discendendo lungo il fianco
nord-occidentale di Poggio dell’Aquila, passando per la località Molino
della Badia46; è possibile che questo percorso, più diretto del precedente,
fosse utilizzato per raggiungere il santuario di Poggio dell’Aquila, per
il quale è facile ipotizzare una frequentazione non limitata ai residenti
nel sito, ma estesa alla popolazione stanziata nei piccoli insediamenti
agricoli che costellavano le campagne sulle sponde del fiume dei Margi.
Raggiunto il fondovalle, la viabilità d’altura proveniente da Terravec-
chia si immetteva nel percorso che, nell’antichità come oggi, collegava la
piana di Catania e di Lentini con quella di Gela, percorrendo da nord-est
a sud-ovest la valle dei Margi e, dopo aver scavalcato il massiccio mon-

43
B F 2001, pp. 51-53.
44
O 1897, c. 203.
45
B F 2001, pp. 51-52.
46
B F 2001, pp. 52-53.

28
Fig. 1.9. Carta della viabilità antica nel territorio di Terravecchia (elaborazione di R. Bran-
cato da B F 2001).

tuoso di Caltagirone, quella del Maroglio fino alla costa meridionale. At-
traverso la viabilità di fondovalle era poi possibile imboccare anche le vie
di comunicazione interne che si addentravano a settentrione nella regione
montuosa degli Erei, oppure dirigersi a nord-est verso la regione etnea,
raggiungibile attraverso una direttrice che si dipartiva da un’altra impor-
tante area di snodo, compresa tra Palikè e la Montagna di Ramacca47.

47
M 1979, p. 10, fig. 1; S 2012.

29
1.4. Paesaggio

L’orografia piuttosto accidentata del territorio di Terravecchia era


caratterizzata dall’alternanza di stretti pianori sulla sommità delle colli-
ne, idonei ad ospitare le aree abitative, ben protette naturalmente dalle
pareti scoscese dei valloni che separano i rilievi, e di zone adatte allo
sfruttamento agricolo ed al pascolo. A queste attività dovevano essere
destinate le aree più ampie, pianeggianti o in lieve pendio, estese soprat-
tutto sulle balze inferiori affacciate sulla valle dei Margi e tra le alture a
sud del complesso collinare, o anche terrazzamenti artificiali ricavati sui
fianchi delle alture, documentati nell’abitato. Un quadro del paesaggio,
sia relativamente all’ambiente naturale, sia al suo sfruttamento antropi-
co, è fornito dalle analisi palinologiche, svolte su campioni prelevati in
occasione delle campagne di scavo condotte dall’Università di Torino
sul Poggio del Rullo (Fig. 1.10)48.
Il territorio doveva essere caratterizzato da aree di querceto e macchia
mediterranea, con le seconde che aumentano parallelamente al decremento
delle prime, probabilmente in correlazione con l’andamento della coltiva-
zione e dell’antropizzazione. Più sporadica era la presenza di zone a pra-
to-pascolo, possibile indicatore dello sviluppo dell’allevamento, documenta-
te soprattutto dai campioni di V secolo a.C. L’assenza di specie tipiche delle
aree umide evidenzia la scarsa presenza d’acqua, cui si doveva sopperire con
il massiccio ricorso all’uso di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, am-
piamente documentate per l’abitato d’età tardoclassica ed ellenistica49.
L’intenso sfruttamento a scopo agricolo del territorio è testimoniato
dall’alta percentuale di pollini riferibili alla coltura di cereali, la principale
attività agricola della zona, costantemente attestata nell’arco cronologico
di sviluppo dell’insediamento d’età greca, con un decremento a partire
dalla fine del IV secolo a.C. Ad essa si associavano la coltivazione della ca-
napa, con le cui fibre si producevano soprattutto tessili e corde, e del noce,
albero da frutto da cui si potevano ricavare anche legno ed olio alimenta-
re. Non sembra, invece, attestata la coltivazione dell’olivo, di cui sono stati
rilevati pollini riconducibili al tipo spontaneo dell’olivastro, e della vite50.

48
C, F, A 2006. Si deve rilevare, tuttavia, la limitatezza dei cam-
pioni esaminati, in relazione sia al loro numero, come sottolineato dagli stessi autori dello
studio, sia alla provenienza da un unico areale, collocato all’estremità occidentale dell’in-
sediamento antico.
49
Vedi infra, § 3.3.
50
La documentazione dell’attestazione della vite coltivata, tramite il dato palinologico,
è tuttavia problematica per la limitatezza della dispersione anemofila del polline, che si
esaurisce a breve distanza dalla fonte d’origine (C, F, A 2006, p.

30
Fig. 1.10. Diagramma palinologico relativo ai campioni d’età greca prelevati sul Poggio del
Rullo (da C, F, A 2006).

L’intensa frequentazione del territorio sembra indicata anche dalle


alte percentuali di pollini appartenenti a vegetali indicatori di calpestio
ed a piante diffuse in ambienti antropizzati, molte delle quali comme-
stibili.

463).

31
2. Il sito in età preistorica e protostorica

La frequentazione del sito in età preistorica è suggerita da alcuni


ritrovamenti di carattere episodico. Reperti di industria litica preistorica
sono stati rinvenuti in giacitura secondaria sul Poggio del Rullo, in su-
perficie o in strati d’età greca1. Altri indizi sono forniti da segnalazioni e
rinvenimenti sporadici nel territorio di Terravecchia, relativi a manufatti
e sepolcri pertinenti a diverse fasi cronologiche, comprese tra l’antica e
la tarda età del Bronzo2.
La più antica fase di occupazione stabile del sito è documentata in
età protostorica dagli ingenti resti di un insediamento databile tra la fine
dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del Ferro, eponimo della facies co-
siddetta di Mulino della Badia, che caratterizza una serie di villaggi sorti
tra sui rilievi che fanno da corona alla Piana di Catania, caratterizzati
dalla commistione di elementi di origine locale e continentale3.
La documentazione più consistente proviene dalla vasta necropoli
che si estende nelle contrade Mulino della Badia e Madonna del Piano,
scavata a più riprese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio degli anni Set-
tanta del secolo scorso4. Per l’area funeraria è stata proposta una crono-
logia compresa tra la seconda metà dell’XI secolo a.C., coincidente con
l’epoca dello stanziamento dei Siculi in Sicilia tramandata dalle fonti

1
A 2006, pp. 57-60. L’editore assegna in via ipotetica tali materiali ad una tar-
da testimonianza dell’industria in pietra scheggiata, proveniente da contesti abitativi di
livelli del Bronzo finale, associandoli alle più antiche ceramiche protostoriche rinvenute
nell’area, anch’esse residuali in contesti più tardi.
2
Si vedano le segnalazioni in G 1928, p. 14 (“sepolcri a forno, armi, scuri,
coltelli e strumenti da lavoro silicei, macinelli in pietra lavica”); B F 2001,
p. 39, nota 9 (due tombe, una a forno ed una a grotticella artificiale a pianta ovale, nel
versante sud-occidentale del Poggio dei Pini); B, P, R 2001, C26
(pendaglio litico).
3
A 2003, p. 33.
4
B B, M, L P 1969; B B 1972-1973, pp. 178-179;
B B 1973; A et alii 2014-2015 (con bibliografia precedente).

33
Fig. 2.1. Necropoli di Mulino della Badia-Madonna del Piano. Tombe a fossa (1), a en-
chytrismòs (2) e urne a incinerazione (3) (da A 2003).

letterarie, e gli inizi del IX secolo a.C.5. L’assenza di dati certi sulla fre-
quentazione del sito antecedente alla fine dell’età del Bronzo non con-
sente di valutare se l’insediamento fosse stato impiantato in un luogo
disabitato, per opera di gruppi peninsulari provenienti dalla Calabria
tirrenica, o se avesse rioccupato un abitato precedente, come lasciano
ipotizzare alcuni materiali più antichi rinvenuti in una capanna coeva
alla necropoli6. Materiali sporadici della prima età del Ferro potrebbero
documentare un prolungamento nell’uso del sepolcreto, non tale, tutta-
via, da permettere di ipotizzare una continuità ininterrotta fino all’età
arcaica, epoca cui risalgono alcune tombe segnalate nell’area, come av-
viene, invece, per l’insediamento di facies affine di Morgantina7.
La complessità della comunità, che doveva avere un’origine mista e
diversificata, si riflette nella pluralità dei riti funerari, con tipi diversi
di pratiche a cremazione e a inumazione (Fig. 2.1), e nella grande va-
riabilità rilevata nella composizione dei corredi, rispondenti a norme
dovute ad un intreccio di elementi: diversa origine culturale, classi di
età, differenze di genere e di ruolo degli individui nella famiglia e nella
comunità, cambiamenti diacronici8. Ne è stata dedotta l’immagine di

5
A 2014-2015, p. 535.
6
A 2014-2015, p. 573. Per le tracce dell’abitato relativo alla necropoli, vedi infra.
7
A 2014-2015, pp. 572; 577. Per le tombe d’età arcaica, vedi infra, § 5.1 e § 5.3.
8
A 2014-2015, pp. 573-576.

34
Fig. 2.2. Necropoli di Madonna del Piano. Tomba 26: urna-cinerario e corredo fittile e
metallico (da A 2003).

una società tribale poco gerarchizzata, dove le differenziazioni sociali


cosiddette orizzontali, connesse ad età e genere, sono più evidenti di
quelle verticali, collegate alla gerarchia sociale, in cui l’elevato status
femminile, probabilmente legato al ruolo della donna nell’economia
della famiglia e del villaggio, è espresso dalla complessità dei relativi
corredi (Fig. 2.2). Il processo di differenziazione sociale della comu-
nità, inizialmente segnalato dalle più antiche sepolture a cremazione,
relative a figure di status sociale elitario come un ristretto numero di

35
Fig. 2.3. Necropoli di Madonna del Piano. Corredo della tomba 150 bis (da A
2014-2015).

36
Fig. 2.4. Poggio dei Pini. Planimetria della capanna protostorica (da R 2000).

guerrieri (Fig. 2.3), aumenta nel corso del tempo, segnalando l’accre-
sciuta possibilità di accesso alle risorse economiche da parte di alcuni
gruppi sociali.
L’evidenza della necropoli ha permesso di ipotizzare, seppur con cau-
tela, una comunità che, al suo apogeo, deve aver raggiunto la consistenza
demografica di alcune centinaia di individui, favorita dallo stanziamen-
to in una posizione vantaggiosa per le possibilità di sfruttare il territorio
per la coltivazione e l’allevamento e di intrattenere rapporti di scambio
con altre aree della regione9. L’abitato (o uno dei suoi nuclei) aveva sede
sul pianoro soprastante, all’estremità settentrionale del Poggio dei Pini,
dove nel 1993 è stata messa in luce una capanna con il piano incassato
nella roccia (Fig. 2.4)10. Ampia e di forma rettangolare, dotata di pareti
e tetto a doppio spiovente sorretti da una triplice fila di pali lungo il
perimetro e al centro, era conforme al tipo in uso presso le comunità di
facies peninsulare della Sicilia orientale, adeguato a comunità strutturate
in famiglie allargate, con un uso multifunzionale dello spazio adatto ad
unità probabilmente autosufficienti per produzione e consumo11.

9
A 2014-2015, p. 572.
10
B, P, R 2000, pp. 74-75; A 2003, pp. 54-55; A
2014-2015, p. 572; G 2014-2015.
11
A 2014-2015, p. 574. Per le capanne di uguale tecnica costruttiva di Morgan-
tina e Metapiccola presso Lentini, vedi L 1993; L 2012; F 2009,
pp. 27-32 (con bibliografia precedente).

37
La frequentazione in età protostorica anche di altri settori dell’arco
collinare di Terravecchia è documentata dai frammenti ceramici resi-
duali e da altri materiali pertinenti alla stessa facies rinvenuti sul Poggio
del Rullo, tutti provenienti da strati più tardi o superficiali12.
Nel sito non sono state rilevate emergenze archeologiche protostori-
che relative ad epoca posteriore alla prima età del Ferro, delineando uno
iato esteso fino alla rioccupazione d’età arcaica. Un’unica, labile traccia
potrebbe essere costituita da un frammento di scodellone pluriansato in
ceramica grigia a decorazione incisa, pertinente alla facies del Finocchi-
to, rinvenuto durante lo scavo di un nucleo abitativo tardoarcaico alle
pendici orientali del Poggio dei Pini13.

12
B B 2006, p. 18, nota 69; A 2006, pp. 60-66; M 2006b,
pp. 349-350.
13
B, P, R 2001, C12.

38
3. L’abitato

3.1. Paolo Orsi e la “scoperta” dell’insediamento

Quando sul finire del XIX secolo Paolo Orsi giunse a Terravecchia
di Grammichele, l’esistenza di un insediamento antico al di sotto delle
rovine del borgo medievale di Occhiolà era ben nota da secoli1. Lo stu-
dioso vi condusse una campagna di esplorazioni archeologiche, solleci-
tata dai frequenti rinvenimenti occasionali, spesso ad opera di contadini
locali, che da tempo alimentavano il mercato antiquario o provocavano
la dispersione dei reperti nelle campagne, che allora tornavano ad essere
coltivate dopo due secoli d’abbandono. Durante le ricognizioni, l’arche-
ologo percorse da un capo all’altro le colline di Terravecchia e le valli
tra esse, cosa che gli permise di tratteggiare per la prima volta i caratteri
dell’insediamento antico, sancendone l’ingresso nella letteratura arche-
ologica moderna2.
Gli indizi più consistenti della presenza di un abitato di età anti-
ca furono rintracciati sulle alture che fiancheggiano ad est il vallone
dei Genzali o di Terravecchia, quindi sul Poggio dei Pini e sulle bal-
ze nord-orientali del Poggio San Leonardo fino a S. Spirito (Figg. 1.3
e 5.1). Oltre quel punto, la parte meridionale ed occidentale dell’arco
collinare, fino alla vetta dominata dal castello, era occupata dalle rovine
più recenti di Occhiolà (Fig. 3.1), facilmente riconoscibili per i muri
conservati in elevato fuori terra e per la malta utilizzata nella loro co-
struzione, laddove i resti più antichi erano interamente celati nel sotto-
suolo, rivelati soltanto dalle tracce portate alla luce dai lavori agricoli.
Ciò nonostante, la spiccata attitudine di Orsi ad intuire la fisionomia
degli insediamenti antichi sulla base della topografia e della natura dei

1
Vedi supra, § 1.1.
2
O 1897, cc. 201-212-273-274.

39
Fig. 3.1. Rovine del borgo di Occhiolà (foto di L. Nifosì).

luoghi, prima ancora che delle evidenze archeologiche, lo indusse a non


escludere la possibilità di una maggiore estensione dell’abitato, allora
segnalata unicamente da qualche rinvenimento sporadico3: “Un atten-
to esame di tutti i ruderi che si stendono ad arco da S. Spirito sino al
Castello mi ha convinto che essi sono medioevali o moderni; né potei,
per quanto io abbia cercato, avvertire materiale antico impiegato in essi,
cosa che però deve ammettersi come sicuramente avvenuta. Se la collina
del castello fosse stata fortificata nell’antichità non può dirsi, perché
le immani ruine di esso coprono tutto il suolo; eppure quella posizio-
ne aveva anche allora non minor importanza dell’ opposta acropoli, in
quanto con questa era la chiave di tutte le posizioni retrostanti; da que-
ste due punte si domina a distanza la fertile piana di Caltagirone, con
tutti gli accessi alle colline, non meno che le opposte colline; a levante
si disegna nitido sulla sua alta rupe Mineo; a nord-ovest Caltagirone; a
settentrione circumfuso di nebbie il colosso dell’Etna”4. Questa intui-
zione sarebbe stata confermata dalle scoperte avvenute solamente molti
anni dopo la stagione di ricerche dello studioso roveretano.
L’acropoli menzionata da Orsi è il Poggio dei Pini, da lui imma-
ginato, per la sua posizione dominante nel settore orientale di Terra-

3
Vedi infra, § 3.2 e § 3.3 (per l’abitato) e § 5.1 (per le necropoli).
4
O 1897, c. 206.

40
vecchia, come fulcro dell’insediamento che doveva abbracciare, oltre ai
declivi più a sud, anche le balze del vicino Poggio dell’Aquila. Sebbene
qui, come nei ripidi pendii delle colline circostanti, le tracce più note-
voli fossero pertinenti a contesti sacri e funerari d’età arcaica5, le trac-
ce dell’abitato identificate dall’archeologo erano tutte d’età ellenistica,
riconoscibili nei lacerti di strutture e nei materiali sparsi sul terreno6,
mentre le fasi arcaiche rimanevano ancora da scoprire.

3.2. L’abitato di età arcaica

Come tanti insediamenti indigeni della Sicilia orientale, anche quel-


lo di Terravecchia è noto soprattutto per i corredi funerari rinvenuti
nelle necropoli, che qui si associano ai ricchi depositi votivi recuperati
nelle aree sacre. All’eccezionalità di questi materiali, cui si deve la fama
del sito nel panorama della Sicilia arcaica, non corrisponde un’adeguata
conoscenza delle caratteristiche dell’abitato, di cui sono note poche e
limitate porzioni, venute alla luce in occasione di indagini dal carattere
per lo più episodico, che finora non sono mai state oggetto di edizioni
complete, ma soltanto di brevi resoconti preliminari.
I dati più rilevanti relativi all’abitato arcaico provengono da due set-
tori vicini, scavati a quote diverse sulle pendici nord-orientali del Poggio
dei Pini.
Un nucleo composto da quattro abitazioni è stato scoperto nel 1996
in proprietà Ledda, a mezza costa sulle balze affacciate verso Poggio
dell’Aquila7. Gli edifici, alcuni dei quali scavati solo parzialmente, sono
di dimensioni e articolazione differenti e si distribuiscono con orien-
tamenti diversi in un’area con pendenza irregolare. Omogenea appare
la tecnica edilizia adoperata per l’intero complesso, caratterizzata dal-
la commistione di parti costruite in muratura con pietre sbozzate e di
ambienti scavati nel banco roccioso che, appositamente regolarizzato,
costituisce il piano di calpestio delle case (Figg. 3.2 e 3.3).
Due dei quattro edifici sono stati interamente indagati. Il pri-
mo (casa 1) consta di un solo ambiente a pianta rettangolare di metri
4,40×3,00, orientato in senso nord-sud. Il secondo (casa 3), di uguale

5
Vedi infra, § 4.1 (per le aree sacre) e § 5.1 (per le necropoli).
6
Per una disamina, vedi infra, § 3.3.
7
P 1997-1998, pp. 199-200; B 1998, pp. 23-24; R 2000, p.
74. A pochi metri di distanza è stata rinvenuta una tomba a camera ipogeica della seconda
metà del VI secolo a.C. (vedi infra, § 5.3).

41
Fig. 3.2. Poggio dei Pini, proprietà Ledda. Casa arcaica (da P 1997-1998).

orientamento, è il più vasto ed ha un’estensione complessiva di metri


8,60×2,90, suddivisa in due vani di forma irregolarmente rettangolare.
All’interno di uno di essi è stato rinvenuto un forno domestico per la
cottura di cibi, di forma circolare, di un tipo già attestato in un altro
contesto insediativo coevo8.
Gli altri due edifici sono stati esplorati solo parzialmente, per cui
la loro articolazione completa non è nota. Della casa 2 è stato messo
in luce un ambiente di forma rettangolare orientato in senso est-ovest,
dalle dimensioni (metri 4,30×3,00) molto vicine a quelle della casa 1.
La casa 4, messa in luce per un’ampiezza totale di metri 5,00×4,50, è
costruita a ridosso della parete rocciosa, che chiude l’ambiente interno,
mentre la parte anteriore è realizzata in muratura, con muri conser-
vati fino ad un’altezza di metri 2,70. Nella parete di roccia si apre una
rientranza a pianta curvilinea che poteva costituire un’appendice del
vano. L’ambiente indagato, parte di una struttura più ampia, ha pianta
grossolanamente quadrangolare ed è dotato di basse di banchine laterali

8
P 1997-1998, p. 199. Il forno è stato confrontato con quello rinvenuto poco tem-
po prima all’interno dell’edificio N nel sito della Montagna di Ramacca, utilizzato tra la
fine del VII e gli ultimi anni del VI secolo a.C.: la struttura, del diametro di 1,50 metri,
aveva il piano di cottura formato da lastre di materiale gessoso e doveva essere coperto
da una calotta emisferica in materiale refrattario, di cui si conservavano alcuni frammenti
muniti di fori di sfiato (P 1997-1998, pp. 201-214; P 2005a, p. 114).

42
Fig. 3.3. Poggio dei Pini, proprietà Ledda. Casa arcaica (da P 2005).

formate da piccoli blocchi lapidei e riempimento a secco, che potevano


fungere al contempo da sedili e da piano d’appoggio per gli oggetti.
Nell’angolo sud-occidentale, a ridosso della parete ricavata nella roccia,
è stato rinvenuto un piccolo forno circolare con imboccatura quadran-
golare; al centro del vano, sul piano pavimentale, furono individuate le
tracce ben visibili di un focolare.
All’interno delle case sono stati rinvenuti materiali ceramici sia di
fabbrica indigena sia di tipo greco, tra cui prevalgono le forme potorie.
Negli ambienti è stato documentato lo svolgimento di diverse attività
domestiche: la preparazione e la cottura dei cibi sono dimostrate, oltre
che dalla presenza del forno e del focolare, anche dal rinvenimento di
macine, mentre numerosi pesi da telaio testimoniano la pratica della
tessitura. La presenza di vasche, infine, se non riferibili ad attività ma-
nifatturiere, potrebbe documentare l’adozione di sistemi evoluti per la
cura dell’igiene personale9.
L’esame preliminare dei materiali ceramici ha consentito di collo-
care nel VI secolo a.C. la fase d’uso degli ambienti, mentre non ha reso
possibile la distinzione di diverse fasi cronologiche, che pure le diffe-
renti soluzioni planimetriche, sebbene definite solo in parte, potrebbero
riflettere. Inoltre, il rinvenimento di una piccola quantità di frammenti

9
A 2003, p. 158.

43
ceramici ascrivibili alla seconda metà del VII secolo a.C. indica una fre-
quentazione dell’area già in un periodo più antico.
Il settore di abitato messo in luce in proprietà Ledda, nonostante
sia stato esplorato solo in parte e attenda una pubblicazione esaustiva,
che permetta di valorizzare pienamente i dati disponibili, riveste una
notevole importanza sotto diversi punti di vista.
Di assoluto rilievo appare il dato cronologico, poiché la frequenta-
zione di VII secolo a.C., anche se non ancora messa in relazione con
le strutture e non definita nei suoi rapporti, in termini di continuità
o meno, con la successiva fase di VI secolo a.C., costituisce una delle
rarissime tracce di frequentazione dell’abitato contemporanea alle più
antiche deposizioni individuate nella necropoli di Casa Cantoniera10.
In secondo luogo, gli edifici dimostrano l’adozione a Terravecchia
di una tecnica costruttiva molto diffusa nella regione compresa tra le
pendici settentrionali dell’altopiano ibleo e le propaggini sud-orientali
degli Erei, che unisce alle pareti in muratura lo sfruttamento del ban-
co roccioso per la realizzazione del piano di calpestio e degli ambienti
interni o di parte di essi. Il ricorso a questa tecnica mista è documen-
tato sia in ambiente indigeno, come nei vicini siti di Ramacca, Monte
Balchino e Piano dei Casazzi, sia a Lentini, dove nelle pareti rocciose
si ricavavano vere abitazioni rupestri, talvolta dotate di vani anteriori
costruiti con muri di pietrame, che costituiscono una soluzione abitativa
attestata, con frequenti fenomeni di riuso, durante l’intero arco di vita
della città greca11. La ragione dello sviluppo di siffatte tipologie abitative
risiede probabilmente nell’esigenza di adattarsi all’orografia dei luoghi,
che comporta la regolarizzazione dei terreni in declivio, da cui deriva lo
spianamento del banco roccioso che funge da piano di calpestio, e la ne-
cessità (ma anche opportunità) di sfruttare le ripide pareti rocciose che
contraddistinguono questo comprensorio, ricavando ambienti in parte
o totalmente rupestri.
Lo stesso quartiere abitativo, inoltre, sembrerebbe documentare di-
verse soluzioni planimetriche e funzionali, che potrebbero testimoniare
la commistione di forme abitative di tradizione indigena e di tipologie

10
Vedi infra, § 5.2.
11
Per un quadro d’insieme della documentazione di Lentini e del vicino insediamento
rupestre di contrada Caracausi, si vedano R 1980; F 2009, pp. 71-73; 132-136;
Caracausi. Per i siti indigeni, si vedano: P 1988, pp. 76-77 (Ramacca); S
1975, p. 50; S 1980, pp. 164-166; L 2005a, p. 150 (Monte Balchino); L-
 2005, p. 158 (ivi ulteriori indicazioni circa l’impiego della stessa tecnica costruttiva
in altri siti degli Erei interni).

44
architettoniche di matrice greca. Le prime potrebbero riconoscersi nella
persistenza di abitazioni costituite da un unico vano (casa 1) e nella pre-
senza delle banchine cui è annesso un apprestamento per cucinare (casa
4)12; tra le seconde possono essere annoverate le proporzioni planime-
triche (case 1, 2 e 4) e l’articolazione in più vani (case 2, 3 e 4), specchio
di una specializzazione funzionale degli ambienti13. Tra le sintetiche
informazioni edite, purtroppo, non si registrano dati circa la tecnica di
copertura degli edifici, che avrebbero consentito di aggiungere un ulte-
riore elemento di valutazione in relazione all’evoluzione dell’architettura
domestica.
Pare opportuno notare che la commistione di tecniche costruttive e
modelli architettonici diversi, che sembra potersi ravvisare negli edifici
di proprietà Ledda, con la presenza di elementi riferibili sia alla tra-
dizione indigena sia a quella greca, si riscontra anche a Lentini, dove
l’architettura domestica testimonia l’utilizzo delle esperienze locali nel-
la realizzazione di abitazioni rupestri, che sono spesso dotate, come le
tombe indigene, di banchine ricavate lungo le pareti14.
Altri lembi dell’abitato arcaico sono stati scoperti a breve distanza.
Il rinvenimento è avvenuto in occasione dei lavori di ammodernamen-
to del tracciato della strada provinciale 33, che congiunge il paese di
Grammichele alla viabilità di fondovalle risalendo lungo il fianco orien-
tale dello stesso Poggio dei Pini. I saggi di scavo, effettuati tra il 1997
ed il 1998, permisero di mettere in luce, in punti diversi, i resti di varie
strutture, purtroppo severamente compromesse dall’azione di sbanca-
mento dei mezzi meccanici intervenuti per l’ampliamento della sede
stradale: si tratta di due ambienti pertinenti ad un’abitazione di VI seco-
lo a.C. con alcuni pithoi ancora in situ (Fig. 3.4), di una fornace di epoca
arcaica e di un secondo gruppo di ambienti appartenenti ad abitazioni
coeve15. L’area di quest’ultimo rinvenimento, dove erano emersi i resti
antichi più rilevanti, è stata oggetto di un intervento di scavo che ha

12
Anche se diverse dal punto di vista planimetrico, questa caratteristica sembra accomu-
nare la casa 4 con l’edificio N di Ramacca, assimilabile a modelli protostorici per la ca-
ratteristica estensione in lunghezza e per l’assenza di un’articolazione interna (G,
V 2013, pp. 69-70; P, A 2019, p. 60).
13
A 2003, pp. 147-148.
14
Nelle case lentinesi parzialmente o interamente ricavate nella roccia, rispondenti alla
necessità di adattarsi alla natura del terreno, è stata più volte ravvisata l’influenza della tec-
nica sviluppata dalle popolazioni locali grazie alla secolare consuetudine con l’escavazione
delle tombe a grotticella (R 1980, p. 127; F 2009, p. 71, C 2016, p. 92).
15
P 1997-1998, p. 197; B 1998, p. 24; R 2000, pp. 73-74.
Nella stessa occasione furono scoperte tombe d’età arcaica ed ellenistica (vedi infra, § 5.3
e § 5.4).

45
Fig. 3.4. Poggio dei Pini, area prospiciente la strada provinciale 33. Resti di abitazioni
arcaiche (da B 1998).

consentito di approfondire l’indagine archeologica di un complesso di


edifici, la cui fase d’uso è stata datata tra la metà del VI e la prima metà
del V secolo a.C. sulla base dei materiali rinvenuti all’interno16.
Il settore di abitato in questione si trova poco più a sud di quello pre-
cedentemente illustrato ed occupa una terrazza a quota inferiore, dove
il pendio si fa più dolce in corrispondenza dell’insellatura tra il Poggio
dei Pini ed il Poggio dell’Aquila. Sono state riconosciute strutture perti-
nenti a quattro unità abitative, separate da spazi aperti, indagate solo in
minima parte a causa della limitatezza dell’area di scavo e dei danneg-
giamenti dovuti ai lavori di ampliamento della strada provinciale, che
hanno completamente asportato la parte orientale degli edifici rivolta
a valle (Fig. 3.5). I muri perimetrali delle case messe in luce, tutti dello
spessore di 60 centimetri, sono interamente costruiti in muratura con
filari di pietre di medie dimensioni, spesso sbozzate fino ad assumere
approssimativamente la forma di blocchetti, frammiste a pietre di pic-
cole dimensioni inserite negli interstizi.
La casa meglio esplorata è delimitata ad ovest da un muro conservato
per 10 metri e a sud da un muro che forma con questo un angolo lieve-
mente ottuso, determinando la pianta appena trapezoidale del vano meri-

16
B, P, R 2001.

46
Fig. 3.5. Poggio dei Pini, area prospiciente la strada provinciale 33. Resti di abitazioni
arcaiche (da R 2000).

dionale, separato da un tramezzo da un secondo ambiente che lo affianca


a nord. Il primo dei due vani, l’unico di cui sia possibile determinare la
misura di un lato (5,60 metri), conserva parte della pavimentazione origi-
naria, realizzata con un basolato di lastre di calcare dalla forma irregolare.
La copertura con un tetto fittile di tipo siciliano è indicata dalla presenza
di uno spesso strato di crollo, contenente tegole piane con listello (solenes)
e coppi a profilo curvo (kalypteres). Sul pavimento, presso l’angolo sud-o-
vest del vano, era collocata una vasca di pietra calcarea delle dimensioni di
metri 1,27×0,48, ancora visibile in situ17; all’angolo opposto, formato dalla
parete di fondo e dal muro divisorio interno, si trova un piccolo forno
domestico di forma rettangolare18; alla cottura degli alimenti rimandano
anche i frammenti di ceramica da fuoco destinata ad essere posta sul fo-
colare di cui sono attestati i resti. Altre attività svolte all’interno del vano
sono desumibili dai materiali rinvenuti sul piano pavimentale al di sotto
del crollo del tetto: pithoi per la conservazione di derrate alimentari, maci-
ne in pietra lavica e mortai per la preparazione di cibi, vasellame da mensa
per il consumo dei pasti, pesi da telaio per la tessitura.
Di un secondo edificio, posto più a sud, si conserva solo l’angolo
sud-occidentale, delimitato da due muri congiunti ad angolo retto, che
disegnano un vano quadrangolare con orientamento lievemente diver-
gente rispetto all’edificio adiacente. Il lato occidentale del vano, l’unico
che sembra conservato interamente, misura poco meno di 6 metri. Al
suo interno sono stati rinvenuti numerosi contenitori per derrate.

17
Per la tipologia delle vasche da bagno domestiche, vedi M, P V
1980 p. 408.
18
Per gli apprestamenti destinati alla cottura degli alimenti, focolari e forni, vedi M-
, P V 1980 pp. 410-411.

47
Fig. 3.6. Poggio dei Pini, settore di abi-
tato arcaico prospiciente la strada pro-
vinciale 33. Area esterna basolata (da
R 2000).

L’esistenza di altri due edifici, non esplorati, è ipotizzata per la pre-


senza di due muri messi in luce lungo il margine occidentale del saggio
di scavo, che dovrebbero costituirne il lato orientale. Hanno ambedue
un andamento nord-sud e si conservano per una lunghezza rispettiva-
mente di 9,50 e di 4,50 metri.
Gli spazi di ampiezza irregolare compresi tra i muri perimetrali
degli edifici, alcuni dei quali risultano allineati e hanno un comune
orientamento, sono ricoperti da un basolato di lastre calcaree di for-
ma irregolarmente poligonale, che sembra caratterizzare degli spazi
aperti di uso comune (Fig. 3.6). Si tratta probabilmente di passaggi a
servizio degli isolati e funzionali anche al deflusso delle acque lungo
il pendio; un efficiente sistema di smaltimento dell’acqua piovana è
testimoniato anche dal rinvenimento di un tratto di canaletta rea-
lizzata con coppi fittili (Fig. 3.7), verosimilmente destinata a convo-
gliare verso il fondovalle, assecondando la pendenza naturale, quella
ricevuta dal sistema di captazione, di cui i tetti dovevano essere mu-
niti.
I materiali recuperati durante lo scavo forniscono interessanti indi-
cazioni relativamente alla cultura materiale che caratterizzava l’abitato
arcaico.
Si è detto della copertura fittile dei tetti, di cui sono stati rinvenuti
anche frammenti di terrecotte architettoniche, relativi ad un’antefissa
gorgonica e ad un elemento a palmetta19; almeno un coppo, inoltre, reca

19
Vedi infra, § 6.6.

48
Fig. 3.7. Poggio dei Pini, settore di abitato
arcaico prospiciente la strada provinciale
33. Canaletta fittile (da R 2000).

traccia di decorazione dipinta20. La natura di tali terrecotte architetto-


niche potrebbe far ipotizzare la presenza nelle vicinanze di un sacello,
anche se altri esempi dimostrano come elementi del genere potessero
decorare anche edifici privati21, per cui è possibile che appartenessero al
coronamento di una delle abitazioni messe in luce.
Il materiale ceramico edito denota la consueta commistione di vasella-
me indigeno e di prodotti greci, sia d’importazione sia di fabbrica siceliota.
La ceramica indigena è rappresentata da un repertorio piuttosto cir-
coscritto, limitato alle tradizionali scodelle ed ai contenitori per derra-
te22. Tra questi ultimi è attestato un tipo di anfora che costituisce una
specializzazione funzionale della tipica forma indigena, caratterizzato
dalla presenza di un beccuccio di versamento cilindrico sulla parete in
prossimità del fondo, di cui si ignora l’esatta destinazione, da collocarsi
probabilmente in contesto agricolo e domestico23.

20
B, P, R 2001, A5.
21
Si vedano i casi accertati di Imera (B 1978, p. 589) e quello ipotetico di
Catania, da cui proviene un’antefissa a palmetta simile a quella di Grammichele (F
2000, pp. 120-121; 124, fig. 7).
22
B, P, R 2001, C12-C20; D1-D4. Tra le scodelle, oltre a tipologie tar-
doarcaiche (B, P, R 2001, C17; cfr. C 2018, p. 146, tipo LI.C4),
sono presenti esemplari a labbro carenato rigido, che costituiscono una delle più tarde attesta-
zioni di un tipo, ancora piuttosto vicino ai prototipi protostorici, diffuso prevalentemente fino
alla metà del VI secolo a.C. (B, P, R 2001, C15 e C16; cfr. C
2018, pp. 135-143, tipo LI.C1; p. 195 per una discussione sulla cronologia). Un segno di arcai-
cità è costituito anche dalla decorazione a gruppi di tratti obliqui sul labbro dell’esemplare C15.
23
B, P, R 2001, C13 (cfr. C 2018, p. 45, tipo I.A4a; p. 175).
Per le ipotesi sulla sua funzione, vedi infra, § 6.2.

49
Tra la ceramica greca sono documentati soprattutto vasi potori (cop-
pa ionica B2, kotyle corinzia, skyphos coloniale, coppe attiche a vernice
nera) ed altri contenitori da mensa (ciotoline a vernice nera, baciletti)
e lucerne24.
Di tipo greco sono anche i diversi frammenti di ceramica da fuoco,
tutti appartenenti a chytrai25. L’esclusiva attestazione di pentole di que-
sto tipo nel sito, documentata anche nella necropoli26, segna la completa
sostituzione dei tradizionali recipienti da fuoco di derivazione proto-
storica con quelli di tipo greco, testimoniando non solo un mutamen-
to nelle abitudini alimentari ma anche il necessario adattamento della
struttura del focolare e della relativa attrezzatura da cucina27. Non è noto
se questi contenitori da fuoco in argilla refrattaria fossero prodotti lo-
calmente o importati dai vicini centri coloniali, ma certamente l’inte-
ro equipaggiamento per la preparazione dei cibi è di tipo greco, come
testimonia anche un frammento di mortaio diffuso in ambiente ma-
gnogreco e siceliota28. Per il servizio ed il consumo dei pasti, invece, le
stoviglie erano miste: accanto alle forme greche doveva persistere l’uso
del vasellame di tradizione indigena, probabilmente perché le scodelle,
profonde e capienti, risultavano funzionali a contenere zuppe e mine-
stre, che probabilmente costituivano la base della dieta29.
Confrontando i due settori di abitato messi in luce sulle pendici del
Poggio dei Pini, appare evidente come essi siano improntati non solo
a modelli architettonici differenti, ma anche ad una diversa modalità
di sfruttamento degli spazi, dettata dalle caratteristiche orografiche dei
luoghi. Una precisazione in termini più ristretti della datazione delle
fasi d’uso (una o più di una?) delle case di proprietà Ledda, inoltre, potrà
chiarire se le differenze rispecchino anche uno scarto cronologico tra i
due quartieri abitativi.
Il complesso di Proprietà Ledda sorge su un terrazzamento a quo-
ta superiore, dove la costruzione di ambienti parzialmente scavati nella
roccia è funzionale a sfruttare i fianchi scoscesi del colle. Le abitazioni
prospicienti la strada provinciale 33 sono attestate su un terrazzamento
a quota inferiore, dove il pendio è più dolce. Qui, gli edifici, interamente
in muratura, sembrano disposti secondo un impianto non regolare ma

24
B, P, R 2001, C4-C11.
25
B, P, R 2001, C21-C25.
26
Vedi infra, § 5.2.
27
A 1988-1989, pp. 370-371.
28
B, P, R 2001, C18.
29
A 1988-1989, p. 371; A 2003, p. 182.

50
razionalmente concepito, volto ad adattarsi alla situazione geomorfo-
logica dell’area, cui rispondono sia gli orientamenti lievemente diversi
delle strutture sia l’alternanza tra queste e gli spazi aperti e di transito,
idonei ad un sistema efficiente di smaltimento delle acque, che sfruttava
la naturale pendenza del terreno.
La limitatezza dell’area scavata e la conoscenza estremamente par-
ziale della planimetria delle case, nessuna delle quali è nota nella sua
interezza, rende prematura qualsiasi conclusione sulla tipologia archi-
tettonica degli edifici e sul grado di organicità riconoscibile nell’orga-
nizzazione del complesso. Ciò nonostante, sembra difficile sfuggire alla
suggestione di cogliere le analogie del settore di abitato del terrazza-
mento inferiore con il nucleo di case arcaiche messe in luce sul ver-
sante sud-orientale del Colle 3 nella non lontana Monte San Mauro
di Caltagirone, ugualmente improntato allo sfruttamento razionale
della morfologia del luogo30. Simile appare la distribuzione degli spazi,
nell’aggregazione degli edifici separati da aree libere e di transito non
rettilinee e di ampiezza variabile a causa delle differenze nelle dimen-
sioni, nelle proporzioni e nell’orientamento delle unità abitative, dettate
dall’adattamento alle curve di livello. Simile appare anche la struttura
delle case, sia nella tecnica e nella tessitura dei muri, sia nel sistema di
copertura con tetti con rivestimento fittile di tipo siciliano. Troppo poco
sappiamo dell’articolazione planimetrica delle case di Grammichele, ma
anche qui sembra di poter riconoscere tratti comuni, come l’associazio-
ne di vani a pianta rettangolare e di altri a pianta trapezoidale. Nei resti
della casa meglio conservata, inoltre, sono probabilmente da riconoscere
due vani interni adiacenti, che potevano aprirsi direttamente all’esterno
o su un vano comune, ricalcando in quest’ultimo caso la tipologia delle
abitazioni calatine, accostate al tipo cosiddetto a pastàs31. Le analogie
tra i due complessi, inoltre, sembrano estendersi all’arredo interno ed
alla destinazione dei vani, che non sembra configurare una loro vera e
propria specializzazione funzionale, ma piuttosto una gestione razionale
ed evoluta dei loro diversi settori32: in entrambi i casi sono attestati vani
adibiti a magazzino per derrate alimentari ed altri, quelli più interni,
dove si svolgevano diverse attività domestiche, suggerite dalla relativa

30
Si vedano S 1979; S 1980, pp. 151-164; S 1980-1981.
31
Per la discussione su questa tipologia planimetrica e per il suo inquadramento nell’am-
bito dell’architettura domestica greca e siceliota, vedi S 1980, pp. 151-156.
32
Per Monte San Mauro, vedi S 1980, p. 157. L’assenza di una ripartizione funziona-
le degli ambienti secondo regole rigide è caratteristica dell’architettura domestica arcaica
(M, P V 1980 p. 410).

51
attrezzatura, comprendenti la cottura del cibo in apprestamenti stabili
(forni), la consumazione dei pasti (ceramica da mensa), la toletta perso-
nale (vasche litiche o fittili), la tessitura (pesi da telaio).
La coesistenza in un unico sito di tipologie architettoniche molto
diverse, come quelle documentate nell’insediamento di Terravecchia,
non costituisce un unicum nel panorama siciliano. Per rimanere nello
stesso comprensorio, la medesima circostanza si registra a Lentini, una
città sorta in un territorio dalla conformazione fisica assai simile, dove
le case erano costruite in muratura laddove il terreno, come quello piano
o in lieve pendio della sommità dei colli, lo rendeva possibile33; i fianchi
scoscesi dei rilievi, come già detto, erano invece punteggiati da abitazio-
ni rupestri.
Non lontano dai precedenti settori di abitato doveva trovarsi anche
un’altra casa di età arcaica, le cui strutture affiorarono fortuitamente negli
anni 1983-1984 in occasione di lavori di terrazzamento del colle34. A
fianco dell’abitazione, in posizione tale da far supporre che fossero scivo-
lati dall’alto, lungo il pendio, furono recuperati i frammenti di una lastra
fittile di probabile destinazione architettonica, purtroppo incompleta35.
Nessun’altra parte dell’abitato arcaico è stata indagata come quelle
sulle pendici orientali del Poggio dei Pini, ad eccezione delle strutture
messe in luce sul fianco nord-occidentale del Poggio del Rullo, riferite
però dagli scavatori ad un contesto cultuale e non abitativo36.
Tracce di frequentazione d’età arcaica o della prima età classica, tut-
tavia, sono state individuate anche in altri punti dell’arco collinare di
Terravecchia.
Sulla sommità del Poggio San Leonardo, nell’area in cui già Orsi
aveva segnalato, presso la Casupola Centorbi, “una filata di fondazione
di blocchi bene squadrati e congiunti, che può bene essere muro di cinta
o di buon edifizio”37, sono state messe in luce le fondazioni in grandi
blocchi di pietra calcarea di tre muri delimitanti il perimetro di un vano,
poi obliterate da costruzioni più recenti (Fig. 3.8)38. Per quest’edificio, la
cui tecnica costruttiva si distingue per monumentalità rispetto a quella
utilizzata per i muri delle case, realizzati con pietre di medie e piccole

33
F 2009, p. 73.
34
B 1984-1985, p. 714; R 2000, p. 79, nota 40.
35
B 1984-1985, pp. 714-715; vedi infra, § 6.6.
36
Vedi infra, § 4.3.
37
O 1897, c. 205.
38
P 1996, p. 40; R 2000, p. 76. Le indagini furono condotte all’inizio degli
anni Novanta del secolo scorso dalla Soprintendenza di Catania. Per le costruzioni di IV
secolo a.C. che si sovrapposero, obliterandola, alla struttura più antica, vedi infra, § 3.3.

52
Fig. 3.8. Poggio San Leonardo. Fondazioni a grandi blocchi e strutture sovrapposte (ri-
lievo Regione Siciliana, Assessorato regionale dei beni culturali e I.S., Soprintendenza di
Catania).

dimensioni, è stata avanzata l’ipotesi che potesse avere una destinazione


pubblica, forse sacra, che appare legittimata anche dalla planimetria (per
quanto nota solo parzialmente) e dall’orientamento est-ovest39.
Sulle pendici meridionali della stessa altura, nel 1994, ad est della
stradella di accesso al Parco Archeologico di Occhiolà, muri di VI seco-
lo a.C. sono stati riconosciuti nelle fondazioni di una casa più tarda, of-
frendo una testimonianza dell’occupazione della collina in età arcaica40.
La sommità del Poggio del Rullo e le terrazze superiori dei suoi
fianchi sono state oggetto, negli anni 2000 e 2001, di estese indagini

39
Il vano ha restituito materiali cronologicamente risalenti almeno alla seconda metà
del V secolo a.C. (R 2000, p. 76), ma la monumentalità della struttura lascia
presupporre che la sua costruzione risalga ad una fase più antica, non posteriore alla prima
metà del secolo.
40
R 2000, p. 76.

53
Fig. 3.9. Poggio del Castello. Rovine del castello e del borgo di Occhiolà (foto di L.
Nifosì).

archeologiche che hanno dimostrato l’occupazione del colle in età gre-


ca, soprattutto tra IV e III secolo a.C.41. Tracce di età arcaica (nessuna
struttura ma soltanto pochi materiali ceramici residuali) sono emerse
esclusivamente nei saggi B ed M, aperti sul versante occidentale, sulle
terrazze sommitali soprastanti quella occupata dalla presunta area sa-
cra42, e nei saggi E ed F, in prossimità dell’istmo che collega la collina
con il vicino Poggio San Leonardo.
Segni di preesistenze d’età arcaica sono note anche sul Poggio del
Castello, a nord delle rovine medievali (Fig. 3.9)43; il dato, per quanto
non accompagnato da notizie più dettagliate, testimonia la frequen-
tazione in questo periodo anche dell’estremità nord-occidentale del
complesso collinare e conferma così l’intuizione di Orsi circa l’im-
portanza strategica del luogo e la sua probabile occupazione già in età
antica44.

41
Per l’edizione definitiva dei risultati delle ricerche, condotte dall’Università di Torino,
vedi Da Terravecchia di Grammichele a Occhiolà. Per le evidenze dell’abitato d’età ellenistica,
vedi infra, § 3.3.
42
Vedi infra, § 4.3.
43
G 1959; R 2000, p. 78.
44
O 1897, c. 206.

54
Oltre l’arco collinare di Terravecchia, non è da escludere che l’abita-
to arcaico potesse estendersi, probabilmente con abitazioni isolate, sul
fianco sud-occidentale del Poggio dell’Aquila, dove sono state messe in
luce due strutture abitative del VI secolo a.C. parzialmente scavate nella
roccia, la tecnica costruttiva già riscontrata sulle vicine balze del Poggio
dei Pini45. Nella stessa area, Orsi segnala, sulle pendici più basse, i resti
di costruzioni di varia età, anche se per lo più identificate come di età
ellenistico-romana46.
La presenza di un nucleo abitativo tardoarcaico, infine, si registra
anche a nord di Terravecchia, in località Piano Croce, dove sono noti
anche gruppi di sepolture coeve47. Qui è stato individuato un piccolo
insediamento con impianto regolare di tipo greco, pertinente ad una
fattoria o ad un villaggio agricolo48.

3.3. L’abitato di età tardoclassica ed ellenistica

“Il carattere complessivo delle ruine classiche sulle creste che inco-
ronano il fianco destro del vallone di Genzala è molto modesto; queste
rovine non sono di tempi remoti, come ci dimostrerà una breve escur-
sione attraverso di esse”49. Ripercorrere sulle orme del testo di Orsi la
ricognizione delle tracce antiche individuate dallo studioso lungo l’ar-
cata orientale delle colline di Terravecchia, comprendente la sommità
e le pendici del Poggio dei Pini e dell’adiacente Poggio San Leonardo,
permette di abbozzare i contorni dell’insediamento d’età ellenistica, così
come cominciava a delinearsi sul finire dell’Ottocento, quando si svolse-
ro le prime battute della ricerca archeologica a Grammichele.
Sulla sommità del Poggio dei Pini, Orsi non vide significativi resti
di strutture, distrutte o nascoste dalle colture, ma ne riconobbe le tracce
nella grande quantità di kalypteres e solenes, pietre lavorate, frammenti
di intonaco dipinto e materiali ceramici (frammenti di pithoi e di vasi a
vernice nera) sparsi al suolo o ammassati in cumuli utilizzati per segnare
il confine dei poderi. Tali resti furono attribuiti a case di cui affioravano
qua e là i muri perimetrali, emergenti da strati ricchi di residui d’incen-

45
La scoperta si deve ad indagini svolte dalla Soprintendenza di Siracusa (B F-
 2001, p. 40, nota 13).
46
O 1897, c. 212.
47
Vedi infra, § 5.3.
48
B 1984-1985, pp. 713-714; B 2000, p. 85.
49
O 1897, c. 202.

55
dio, dotate di “cisternoni conici” intonacati individuati sulla cima ed ai
piedi del colle50.
A quanto visto da Orsi, si aggiungono i rinvenimenti effettuati nel
1999 lungo il fianco occidentale del colle, dove sono stati messi in luce
due ambienti d’età ellenistica che si adattano al pendio naturale: per uno
di essi la funzione abitativa è stata indicata dagli arredi (forno) e dai ma-
teriali rinvenuti (ceramica comune e da fuoco); per l’altro, la presenza di
lucerne, terrecotte figurate (tra cui un busto) e pesi da telaio ha suggerito
una funzione cultuale domestica51.
Per la sua posizione strategica Orsi ipotizzò che il Poggio dei Pini
fosse la sede dell’acropoli dell’insediamento. Non avendo individuato
alcun tratto di cinta fortificata, considerò che la rocca dovesse essere
naturalmente difesa dai ripidi fianchi rocciosi, integrati in qualche pun-
to da opere murarie, cui dovevano appartenere i blocchi lapidei rotolati
lungo il pendio e non più in situ52. Un tratto di muro in tecnica isodoma,
di cui si conservano due filari di blocchi di pietra calcarea (Figg. 3.10 e
3.11), sarebbe stato rinvenuto quasi un secolo dopo, alle pendici setten-
trionali del colle53. È stato ipotizzato che tale muro, di cui non è nota la
cronologia, potesse avere funzione difensiva o di terrazzamento, o assol-
vere contemporaneamente ad entrambe54. Scavi più recenti sui fianchi
del Poggio del Rullo hanno dimostrato la presenza di muri in blocchi
di calcare squadrati in più punti del sito, con funzione di terrazzamen-
to delle balze superiori dei colli; i dati stratigrafici, inoltre, hanno evi-
denziato come la medesima tecnica fosse impiegata tanto in età arcaica
quanto in epoca successiva55.
L’evidenza appariva la stessa discendendo lungo il crinale meridio-
nale della collina e risalendo, attraversata la depressione che le separa,
sul vicino Poggio San Leonardo, percorrendone il pianoro sommitale
fino a S. Spirito, punto da cui iniziavano ad affiorare i resti medievali di

50
O 1897, c. 203.
51
R 2000, p. 73.
52
O 1897, cc. 202-203.
53
La scoperta avvenne nella prima metà degli anni Novanta del secolo scorso, nell’ambito
di indagini condotte dalla Soprintendenza di Catania (R 2000, p. 75).
54
R 2000, p. 75, nota 46.
55
Il primo caso si verifica sul versante nord-occidentale del colle, dove muri in blocchi
di calcare vengono costruiti nella seconda metà del VI secolo a.C. per creare una terrazza
artificiale (vedi infra, § 4.3); il secondo sul fianco opposto, dove un muro di sostruzione,
costruito con la medesima tecnica, è connesso a lacerti di strutture databili tra la seconda
metà del IV ed il III secolo a.C. (vedi infra). La finalità difensiva di queste opere murarie
è esclusa, sulla base di dati stratigrafici e di considerazioni di carattere topografico, da M.
Barra Bagnasco (B B 2006, p. 9, nota 40).

56
Fig. 3.10. Poggio dei Pini.
Muro in tecnica isodoma
(da P 2005).

Fig. 3.11. Poggio dei Pini.


Prospetto del muro in tec-
nica isodoma (da R-
 2000).

Occhiolà: “Sono fabbriche di varia maniera, per lo più di opera incerta


ordinaria, quasi rustica; qua e là quadroni di calcare, ma spostati dal
loro sito primitivo; e tutte le macerie che dividono i piccoli terreni sono
piene di tegoli, embrici, rottami di doli e pezzami di fabbriche”56. Delle
case erano visibili sul terreno, dove erano sparsi frammenti ceramici a
vernice nera, ampi tratti di pavimenti in signinum e resti degli arre-
di interni come arule cilindriche e louteria o sostegni di trapeza fittili
(Fig. 3.12).
“Insisto sul fatto che in tutta questa zona nulla vidi, e per quanto
potei sentire, nulla si trovò mai di arcaico; e tutto sembra riferirsi ad un
abitato di epoca ellenistica o greco-tarda”57. Sono queste le conclusioni
cui giunse Orsi, che importanti evidenze relative a contesti funerari e
cultuali d’età arcaica rinvenne, invece, come si è detto, sulle balze del
vicino Poggio dell’Aquila, dove l’archeologo non mancò di segnalare
anche le tracce di frequentazione più tarde.

56
O 1897, cc. 204-205.
57
O 1897, c. 206.

57
Fig. 3.12. Terravecchia di Grammichele, abitato di età ellenistica. Pavimento in signinum
e sostegno di louterion o trapeza (da O 1897).

Sulla base di quanto da lui direttamente osservato o appreso dai


contadini, Orsi escluse un’estensione dell’abitato sulla vetta spianata del
colle, “malgrado che e per postura e per estensione fosse la più acconcia
e deliziosa delle varie colline note sotto il nome complessivo di Terra-
vecchia”58. Lì, infatti, non emergevano aree significative di frammenti
fittili né furono rinvenute strutture antiche, ad eccezione di un “cister-
none conico” attribuito, come quelli sul Poggio dei Pini, ad abitazioni
di età ellenistico-romana, segnalate, lungo il margine sud-occidentale,
da “piccoli tratti di muro di pessima costruzione (ciottoloni, rottami di
laterizi) con avanzi di cattivo intonaco [...] in mezzo a rottami fittili e
tegole romane o greco-tarde, con tracce d’incendio”59. Qui, a differenza
del colle vicino, le case non dovevano costituire un quartiere ma soltan-
to unità abitative isolate. Altre tracce di abitazioni affioravano soltanto
sulle pendici meridionali, a quota inferiore rispetto alle balze occupate
dai depositi votivi e dai sepolcri, dove alla base della collina erano visibili
“qua e là tracce di piccoli fabbricati antichi, non fittamente agglomerati
ma saltuariamente sparsi”60.
Anche sul versante occidentale dell’arco collinare di Terravecchia,
trascurato da Orsi perché occupato dalle rovine di Occhiolà, le ricerche
archeologiche più recenti hanno permesso di documentare un’occupa-

58
O 1897, c. 210.
59
O 1897, cc. 210-211. A conferma della datazione Orsi segnala il rinvenimento di
“un denaro, alterato dal fuoco, della famiglia Afrania”. Si tratta di un denario di Spurius
Afranius del 150 a.C.: C 1974, 206/1 (ringrazio la collega Maria Agata Vicari
per l’indicazione).
60
O 1897, c. 212.

58
zione più antica, prevalentemente compresa tra l’età tardoclassica e la
prima età ellenistica.
Sulla sommità del Poggio San Leonardo, l’area in cui sorgeva l’edi-
ficio con le fondazioni in grandi blocchi di pietra calcarea fu occupata
nel IV secolo a.C. da un’abitazione dotata di una cisterna scavata nel-
la roccia, la cui costruzione intaccò i resti delle strutture più antiche61.
Blocchi lapidei, inoltre, apparvero reimpiegati nella costruzione di altre
abitazioni di IV secolo a.C. messe in luce nelle vicinanze62.
La destinazione pubblica di alcune aree del colle, che doveva ospi-
tare edifici rilevanti anche dal punto di vista architettonico, sembre-
rebbe dimostrata anche dal materiale recuperato nel riempimento di
alcune cisterne ellenistiche, rinvenute nel 1994 sotto i livelli medievali
sulle pendici meridionali63. Si tratta di tre cisterne dal profilo campa-
nato, che sembrano costituire l’ossatura del sistema di approvvigiona-
mento idrico dell’insediamento d’età tardoclassica ed ellenistica. Lo
scavo del riempimento di due di esse ha restituito grandi blocchi lapi-
dei, frammenti di cassette architettoniche ed un altorilievo in calcare
(Fig. 3.13).
Nei pressi delle cisterne, ad est della stradella di accesso al parco
archeologico di Occhiolà, nel corso delle stesse indagini, fu messa in
luce un’abitazione attribuita al IV secolo a.C., sovrapposta ai resti di
una casa d’età arcaica (VI secolo a.C.) parzialmente scavata nella roccia
(Fig. 3.14)64.
L’area sommitale del Poggio del Rullo è stata largamente indagata
nel corso di due campagne di ricerca archeologica, condotte negli anni
2000 e 2001, quando furono aperti diversi saggi di scavo con lo sco-
po di verificarne l’occupazione in epoca antecedente all’età medievale
(Fig. 3.15)65. Gli scavi hanno dimostrato come le strutture del borgo di
Occhiolà, presenti su tutto il colle, siano state generalmente impiantate
direttamente sul banco roccioso, dopo aver provveduto alla rimozione
di quelle più antiche, i cui resti furono probabilmente reimpiegati come
materiale da costruzione. Malgrado ciò, i materiali ceramici residuali,
rinvenuti in strati più recenti, hanno evidenziato ovunque una frequen-
tazione più antica, talvolta risalente ad età arcaica, ma per lo più concen-
trata tra il IV (soprattutto seconda metà) ed il III secolo a.C.

61
R 2000, p. 76. Per l’edificio più antico, vedi supra, § 3.2.
62
R 2000, p. 76.
63
R 2000, pp. 76-77; P 1996, p. 45.
64
R 2000, p. 76.
65
Le ricerche furono condotte dall’Università di Torino (B B 2006).

59
Fig. 3.13. Poggio San Leonardo. Altorilievo in calcare (da P 1996).

Nonostante la generalizzata asportazione delle preesistenze d’età


antica, in alcuni saggi sono emerse tracce di strutture che contribuisco-
no a definire, seppur in modo assai parziale, i caratteri dell’occupazione
del colle in età greca.
Nei saggi L e N, all’estremità occidentale della terrazza sommitale,
sotto i crolli ed i resti murari di alcuni ambienti secenteschi, sono emer-
se labili tracce dell’occupazione ellenistica, riconosciute in un taglio nel
banco roccioso delimitante un vano, al cui interno si sono conservati due
sottili strati e le tracce di un focolare datati da due monete di Agatocle
e Ieronimo66.
Sul lato opposto, sul fianco orientale del colle, in un’area occupata
da consistenti resti delle case secentesche di Occhiolà, addossate al
banco roccioso affiorante e dotate di cisterne scavate nella roccia, il
saggio G (Fig. 3.16) ha permesso di definire le strutture antiche par-
zialmente messe in luce in occasione di un precedente intervento di

66
B B 2006, p. 30.

60
Fig. 3.14 Poggio San Leonardo. Casa di IV secolo a.C. impostata su strutture arcaiche
(da R 2000).

scavo67. Un muro in blocchi calcarei di diversa pezzatura, rinzeppati con


pietre di piccole dimensioni (Fig. 3.17), era costruito contro il terreno ver-
gine, in modo da creare un terrazzamento artificiale. Sulla terrazza, sotto i
resti di strutture moderne, sono emersi lacerti di muri delimitanti dei vani
e livelli di frequentazione databili tra la seconda metà del IV ed il III se-
colo a.C.; la medesima cronologia è stata estesa al muro di terrazzamento,
la cui costruzione risulta funzionale all’occupazione dell’area68.
Resti di strutture d’età ellenistica, infine, sono stati scoperti nei saggi
E ed F (Fig. 3.18), lungo il declivio meridionale rivolto verso il Poggio
San Leonardo, dove erano presenti anche sporadici materiali d’età ar-
caica69. Sotto i livelli d’occupazione moderna, sono stati messi in luce
lacerti di due muri delimitanti un vano con pavimento in cocciopesto; i
materiali residuali, rinvenuti negli strati superiori, rimandano ad un arco
cronologico compreso tra il IV e la fine del III secolo a.C.70
Ancora sul versante occidentale di Terravecchia, tracce risalenti all’età
ellenistica sono segnalate da Orsi ai piedi del Poggio Zaccano, in corri-
spondenza dell’istmo che lo collega al Poggio del Rullo: nei pressi di una

67
Il primo intervento di scavo nell’area fu operato dalla Soprintendenza di Catania
all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (R 2000, p. 77).
68
B B 2006, pp. 31-34.
69
Vedi supra, § 3.2.
70
B B 2006, pp. 34-35.

61
Fig. 3.15 Poggio del Rullo. Saggi di scavo 2000-2001 (da B B 2006).

piccola macchia, denominata Selva dei Monaci, da cui seppe che proveni-
va una base di trapeza o louterion raccolta da un privato, vide frammenti di
tubuli fittili e di un pithos, oltre ad una macina in pietra lavica71.

71
O 1897, c. 210.

62
Fig. 3.16. Poggio del Rullo. Pianta del saggio G (da B B 2006).

Fig. 3.17 Poggio del Rullo, saggio G. Prospetto del muro in blocchi calcarei 201-202 (da
B B 2006).

Fig. 3.18. Poggio del Rullo. Pianta dei saggi E-F (da B B 2006).

63
Resti di strutture ellenistiche, infine, furono individuate, insieme a
tracce di preesistenze arcaiche, all’estremità settentrionale del Poggio
del Castello, a nord delle rovine della rocca medievale che dominava il
borgo di Occhiolà72.

72
G 1959; R 2000, p. 78.

64
4. Le aree sacre

4.1. Poggio dell’Aquila

“Sull’altura di Pojo Aquja sorgeva un santuario, […] o forse anche


un temenos ancor più primitivo, aperto, dove l’antica divinità della terra
e delle frugi, quella che sarà poi la Demeter dei Greci, era venerata
con forme plastiche dovute a mano e ad ispirazione greca”1. Con queste
parole Paolo Orsi definiva nel 1907 i caratteri dell’area sacra di Pojo
Aquja, il rilievo più orientale del sistema collinare di Terravecchia, che
sorgeva “ad un tiro di moschetto” da Poggio dei Pini, che egli conside-
rava l’acropoli della città2. L’archeologo, già nel 1897, a proposito delle
sue prime ricerche nel sito, sottolineava come la toponomastica di tutta
la regione presentasse dei toponimi variabili e come, pertanto, le indica-
zioni fossero “doppie e dubbie, a seconda degli informatori”: è il caso del
toponimo di questa collina, pronunziato variamente, per il quale Orsi
decise di adottare la forma “Pojo dell’Aquja” utilizzata dai contadini lo-
cali, che secondo alcuni significava “aquila”, secondo altri “acqua”3. Oggi
il colle è noto come Poggio dell’Aquila, una denominazione già docu-
mentata, più in generale, per il sito di Occhiolà, a cui si affiancavano
anche “Alvila” e “Alchila”, probabilmente proprio in relazione al nome
di questa collina4.
Ciò che condusse Orsi, nel 1895, ad eseguire delle ricerche sul Pog-
gio dell’Aquila, fu la comparsa di piccoli lotti di terrecotte votive sul
mercato antiquario di Siracusa, a partire dall’inverno dell’anno prece-
dente, che l’archeologo ebbe presto a scoprire provenienti dalla pro-
prietà dei grammichelesi fratelli Di Conto, sita sul margine meridionale

1
O 1907, c. 122.
2
O 1897, c. 209; vedi supra, § 3.1.
3
O 1897, c. 209, nota 1.
4
A 1757, s.v. Occhialà, II, pp. 230-231.

65
della collina. Se le esplorazioni di Orsi si rivelarono alquanto deludenti,
poiché le evidenze archeologiche erano quasi del tutto inesistenti ed i
depositi votivi erano stati completamente depredati, lo studioso riuscì,
tuttavia, a recuperare nella loro totalità le terrecotte votive rinvenute
durante e ad assicurarle al Museo di Siracusa5.
Sulla base di quanto Orsi poté vedere, e delle informazioni che rac-
colse dagli improvvisati archeologi Di Conto, fu chiaro che gli ana-
themata provenissero dalla frattura provocata da uno smottamento del
terreno sul margine meridionale della collina, caratterizzato dalla natura
franosa degli strati geologici (Fig. 5.1, n. 6)6: “le terrecotte formavano
ammassi di varia estensione, a breve distanza l’uno dall’altro, a 4 metri
di profondità. Ognuno di codesti ammassi sarebbe stato deposto dentro
ingrottature aperte nell’arenaria compatta e protette in giro da pezzami
di pietra; e le ingrottature non sarebbero già state aperte verticalmente,
scendendo dal piano della collina, ma orizzontalmente, scavando quasi
delle gallerie dal fianco sud-est, ed addentrandosi nelle viscere di essa.
[...] Causa i franamenti secolari, o forse anche per lavoro intenzionale
antico, tutte codeste piccole ma profonde grotte sarebbero state ostruite
di sabbie.”7. Orsi escluse che tali ingrottature potessero essere dei luoghi
di culto e le interpreta come “ripostigli, in qualche modo simili se non
per forma, per destinazione alle favisse”8.
Per verificare la ricostruzione degli scopritori, Orsi si spinse a scava-
re una delle cavità, riconosciuta sul fianco della collina dopo un impe-
gnativo lavoro di rimozione del terreno lungo il declivio (Fig. 4.1), recu-
perando nella terra di riempimento e sul piano di calpestio frammenti
ceramici di vario genere che ne confermarono la natura9.
I depositi restituirono soprattutto terrecotte votive, che secondo lo
studioso coprivano un arco cronologico tra la metà del VI e la seconda
metà del V secolo a.C., ma anche oggetti metallici e ceramiche fram-
mentarie10. Di grande importanza fu, certamente, il rinvenimento di una
grande statua fittile rappresentante una figura femminile assisa su tro-
no, rinvenuta anch’essa “dentro una di codeste grotte, al centro di tutte
le altre [...] circondata di pietre, piazzate verticalmente”, mentre “un
poco più profondi di essa si trovarono i due busti muliebri, ed intorno

5
O 1897, cc. 209-210.
6
O 1897, c. 212.
7
O 1897, c. 213.
8
O 1897, c. 213.
9
O 1897, cc. 214-215.
10
O 1897, cc. 216-264.

66
Fig. 4.1. Poggio dell’Aquila.
Sezione dello scavo di Paolo
Orsi (da O 1897).

al maggior idolo vi erano terrecotte in massa, con prevalenza di figure


sedute; quivi pure si raccolse il maggior numero delle patere”11. Orsi
precisa, inoltre, che furono rinvenuti anche altri frammenti di simile
fattura, probabilmente pertinenti ad altre statue fittili in trono di grandi
dimensioni, non solo femminili, ma anche maschili12: di particolare in-
teresse appare un frammento di mano, molto simile a quella della statua
integra, che reca un fiore ed una spiga, attributi legati alla feracità della
terra che sembrano evidentemente rimandare alla sfera demetriaca.
Nonostante le ripetute indagini sulla collina, Orsi non rintracciò al-
cuna struttura pertinente al santuario, la cui esistenza era rivelata dai
depositi votivi; ciò lo indusse a congetturare, data la copiosa messe di
materiali rinvenuta, che il santuario, sorto sul ciglio della collina, doves-
se avere edifici e strutture in legno, scivolate a valle nel corso del tempo
in seguito ai frequenti movimenti franosi che caratterizzavano, allora
come oggi, i fianchi scoscesi dei rilievi13. L’esistenza del santuario, inol-
tre, era indicata dal rinvenimento di un frammento di sima policroma,
pertinente evidentemente alla copertura di un edificio14.
L’alterazione dello stato originario dei luoghi e la lacunosità del-
la documentazione, relativa sia alla composizione sia alla disposizione
spaziale dei depositi, rendono purtroppo ardua l’interpretazione del

11
O 1897, cc. 213; 217-220; vedi infra, § 6.
12
O 1897, cc. 220-221.
13
O 1897, cc. 211-212.
14
O 1897, cc. 261-262, fig. 44; vedi infra, § 6.

67
contesto sacro. Se l’esistenza nei pressi di un edificio è suggerita dal
rinvenimento del frammento architettonico, ciò non implica necessa-
riamente la presenza di un santuario articolato attorno ad un edificio di
culto. Gli spazi cultuali, infatti, non sempre assumevano uno sviluppo
monumentale: alcune aree sacre, soprattutto extraurbane, potevano es-
sere prive di una complessa connotazione architettonica e strutturate
in stretta connessione con l’azione cultuale, venuta meno la quale ve-
nivano abbandonate15. Potrebbe essere questo il caso dell’area sacra di
Poggio dell’Aquila, presso cui le cerimonie religiose potevano svolgersi
all’aperto, in strutture provvisorie o anche all’interno degli ingrotta-
menti, possibili scenari del rito, culminante nei depositi votivi rinvenuti.
La piena comprensione del contesto è sfortunatamente preclusa dalle
circostanze del rinvenimento, la cui documentazione non consente di
ricostruire le modalità di deposizione degli oggetti, dato indispensabile
al riconoscimento della natura primaria o secondaria dei depositi ed alla
conseguente interpretazione16. Il contesto grammichelese non doveva
essere dissimile da quello di altri spazi sacri, attestati sia in Sicilia17 sia in
Magna Grecia18, immersi nella natura, ricchi di anfratti naturali o rica-
vati artificialmente, talora gravitanti intorno ad edifici di culto. In parti-
colare, ma si tratta di una suggestione, l’area sacra di Poggio dell’Aquila
sembra avere più di un elemento in comune con il luogo di culto mes-
sapico di Monte Papalucio ad Oria, collocato in posizione di cardine tra
spazio urbano, necropoli e territorio agricolo, articolato, sul pendio di un
rilievo, in terrazze antistanti ad una cavità naturale aperta nella parete
rocciosa, che verosimilmente ne costituiva il centro (Figg. 4.2 e 4.3)19.
Per ciò che concerne la divinità titolare dell’area sacra, Orsi ipotiz-
zò, sulla base della sua dislocazione (fuori dall’abitato e in prossimità
di aree funerarie) e, soprattutto, sulla base dell’analisi delle offerte vo-
tive, che fosse dedicata a Demetra e Kore, divinità connesse col mondo
ctonio20.
Ai rinvenimenti di Orsi devono aggiungersi quelli effettuati dalla
Soprintendenza di Catania nel 1989, che, quasi un secolo dopo le prime
scoperte dello studioso, realizzò una serie di saggi sulla collina21. Pur-

15
L 2005, p. 95.
16
Per una disamina della questione relativa alla ricostruzione delle condizioni di giacitura
e delle modalità di formazione dei depositi, si veda P 2017, pp. 478-485.
17
T, L 2012, pp. 42-43; P, T, M 2018, pp. 140-141.
18
M 2005, pp. 173-174.
19
M 2013, pp. 31; 223-225.
20
O 1897, c. 215, cc. 259-260.
21
T 1988-1989, p. 57; P 1996, pp. 44-45.

68
Fig. 4.2. Monte Papalucio. Veduta ricostruttiva del luogo di culto nel IV-III secolo a.C.
(da M 2013).

Fig. 4.3. Monte Papalucio. Ricostruzione di scena di culto all’interno della grotta in età
arcaica (da M 2013).

69
troppo, come tante delle indagini svolte in quegli anni, la documenta-
zione concernente le modalità di svolgimento dello scavo è molto scar-
na, limitata a qualche breve notizia edita e ad un taccuino di scavo con
poche annotazioni. Le poche informazioni desunte dai taccuini mo-
strano che lo scavo si articolò in cinque saggi, effettuati in tempi diver-
si; i rinvenimenti effettuati in uno di essi, dalla descrizione, sembrano
avvicinarsi all’aspetto delle ingrottature rinvenute da Orsi22. I materiali
rinvenuti nel corso degli scavi sono costituiti da coroplastica votiva, in
stato molto frammentario, delle medesime tipologie rinvenute da Orsi,
databili tra la fine del VI ed il IV secolo, e da ceramiche locali, coloniali
e d’importazione, anch’esse frammentarie.
In considerazione di ciò, gli unici indizi che consentano di delineare
i contorni di questa area sacra sono i materiali recuperati nei depositi
votivi. Il gruppo più cospicuo è certamente rappresentato dalle terre-
cotte votive, di cui Orsi pubblicò un gruppo rappresentativo delle prin-
cipali tipologie rinvenute, cui si aggiunsero altri ritrovamenti sporadici
effettuati negli anni successivi alle prime scoperte23. Tuttavia, l’intero
complesso di materiali rimane a tutt’oggi inedito, ad eccezione di con-
tributi d’insieme di carattere generale o di approfondimento su singo-
li reperti24, lasciando in tal modo una grave lacuna nella conoscenza
dell’area sacra e del territorio grammichelese. Ciononostante, non sono
mancati tentativi di lettura d’insieme dei dati archeologici, come quello
di Ambra Pace, finalizzati all’interpretazione del complesso delle terre-
cotte votive al contempo in chiave stilistica, cultuale e storica25. La fase
iniziale di frequentazione del santuario, che sembra potersi datare tra
la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C.26, mostra una commistio-
ne tra votivi riconducibili a produzioni coloniali e manufatti di matrice
probabilmente indigena (Fig. 4.4), analogamente a quanto dimostra la
ceramica rinvenuta presso Poggio dell’Aquila durante gli scavi del 1989,
costituita da frammenti di vasellame greco ed indigeno databili tra la
fine del VII ed il V secolo a.C., ed a quanto si registra in più aspetti della
documentazione del sito27.

22
P 2007-2008.
23
O 1897, cc. 216-264; O 1907, cc. 123-124.
24
Si vedano, in particolare, M 2012; P 2020.
25 La studiosa, dopo aver affrontato lo studio del corpus delle terrecotte votive (P
2003-2004; P 2007-2008), ne ha proposto una lettura sotto molteplici aspetti (P
2020).
26
Il dato amplia l’arco cronologico indicato da Orsi, che proponeva per una datazione
iniziale alla metà del VI secolo a.C. (O 1897, c. 217).
27
P 2020, p. 190.

70
Fig. 4.4. Poggio dell’Aquila. Terrecot-
te votive di probabile fattura indigena
(da P 2020).

Fig. 4.5. Poggio dell’Aquila. Protomi, korai, statuetta seduta di tipo ionico, statuetta con
pettorali (da P 2020).

L’analisi stilistica condotta sulle terrecotte databili tra la metà del VI


e l’inizio del V secolo a.C., in particolare protomi ed offerenti femmi-
nili (Fig. 4.5), ha mostrato la consonanza con le produzioni artigianali
delle colonie calcidesi della Sicilia ionica e di altri centri indigeni ad
esse afferenti, che ha portato ad ipotizzare a buon diritto l’inserimento
del santuario di Poggio dell’Aquila “in una rete di aree sacre […] nei
centri del retroterra, quali Morgantina, Ramacca, Monte S. Mauro di
Caltagirone, Piano Casazzi, da parte delle calcidesi Katane e Leontinoi,
al fine di attuare un controllo politico ed economico sul territorio”28.
La studiosa evidenzia come la presenza di protomi, offerenti e statuette
con pettorali metta in luce l’assoluta preponderanza dell’elemento fem-

28
P 2020, p. 193.

71
Fig. 4.6. Poggio dell’Aquila.
Statuette di peplophoroi (da
P 2020).

minile e, pertanto, congettura l’esistenza di un culto consacrato ad una


divinità muliebre, probabilmente di carattere demetriaco, avanzando la
suggestiva ipotesi che l’area sacra potesse essere un “luogo di integra-
zione, aggregazione e mediazione” tra mondo greco e mondo indigeno,
anche in considerazione dell’importanza del ruolo di “mediatrice dello
scambio” della donna in contesti sacri indigeni29. Nel corso del tempo,
in effetti, la ricerca archeologica si è più volte soffermata sull’importanza
di questo santuario all’interno dei complessi rapporti tra mondo greco
e mondo indigeno30.
La connotazione demetriaca, ipotizzata già per la fase tardoarcaica
della vita del santuario, sembra assumere contorni decisamente più netti
nel corso della prima metà del V secolo a.C., momento in cui l’area
sacra sembra raggiungere l’akmè. L’iconografia dell’offerente con por-
cellino, da sempre connessa alla divinità, diventa la più diffusa, e ad essa
si accostano anche busti ed altre tipologie di offerenti, che mostrano
l’altissimo livello raggiunto dalla produzione artigianale locale, ispirata
direttamente ai prestigiosi modelli della madrepatria (Fig. 4.6). Il dato
interessante, che la studiosa sottolinea, è la contraddizione tra il floruit
del santuario e la speculare, progressiva contrazione dell’abitato e delle
necropoli, che sembra iniziare in questo periodo, contemporaneamente
all’apparente abbandono della vicina area sacra di Madonna del Piano31.

29
P 2020, p. 193. L’interpretazione in senso demetriaco sembra confermata anche dal
frammento di grande statua fittile precedentemente menzionato, recante un fiore e una
spiga, databile intorno alla metà del VI secolo a.C.
30
D 1948, p. 124; A 1956, pp. 145-146; M 1984-1985, pp.
171-172; P 1996, p. 143; A 2003, p. 217; A 2006, p. 64.
31
Vedi infra, § 4.2.

72
Questa fase potrebbe vedere l’inserimento di Grammichele nell’orbita
degli interessi prima di Ippocrate di Gela, tiranno che travolse le colonie
calcidesi ed i territori ad esse afferenti, e poi dei Dinomenidi. Peral-
tro, l’archeologa ha messo in luce la singolare consonanza stilistica tra
i materiali dell’area sacra di Poggio dell’Aquila e quelli dei santuari di
Catania e Francavilla di Sicilia, che condividono con il contesto gram-
michelese non solo schemi iconografici ed idiomi stilistici, ma anche,
e soprattutto, la forte caratterizzazione del culto in senso demetriaco,
messa più volte in relazione con la politica religiosa dei Dinomenidi,
una famiglia che esercitava il sacerdozio di Demetra sin da epoca molto
antica32. Questi ebbero certamente un ruolo nel favorire la diffusione del
culto delle divinità eleusine, che tanta fortuna ebbe nella Sicilia greca e
indigena: il santuario di Poggio dell’Aquila, per la sua posizione strate-
gica ai fini del controllo di importanti vie di comunicazione, si prestava
a rivestire un ruolo di rilievo nell’infrastrutturazione sacra del territorio,
in un’epoca di cambiamenti e di riassetto degli equilibri tra le poleis si-
celiote che coinvolse inevitabilmente anche le rispettive aree d’influen-
za nell’entroterra33. La presenza di individui di stirpe dorica nel sito, a
partire dal V secolo a.C., potrebbe trovare un riscontro in una laminetta
bronzea rinvenuta da Orsi insieme alle terrecotte, recante l’iscrizione
di un nome maschile di persona seguito dal patronimico, ricondotto ad
ambiente geloo34.
È possibile, tuttavia, che la connotazione demetriaca del santuario
non fosse quella esclusiva. Da recenti studi, che attraverso un’indagine
contestuale della distribuzione dei busti fittili hanno messo in luce il le-
game tra questi manufatti, rappresentati a Grammichele da esemplari di
altissimo pregio35, e la sfera cultuale delle nymphai (nella duplice acce-
zione divina ed umana), emerge come spesso dietro definizioni “pan-de-
metriache” possano celarsi orizzonti cultuali più complessi36. Questi
sono caratterizzati da una polisemia che ha al centro una valenza con-
nessa all’ambito delle nozze e della maturazione sessuale-esistenziale
della donna, posta all’intersezione tra più sfere di competenza contigue
di varie divinità, tra cui quelle ctonie come Demetra e Kore figurano,

32
P 2020, pp. 196-198.
33
Per una rassegna dei santuari che compongono l’infrastrutturazione sacra della Sicilia
tra l’età arcaica e la prima metà del V secolo a.C., vedi V 2006 (in particolare, pp.
184-185 per la valle dei Margi; pp. 214-215 per l’area sacra di Poggio dell’Aquila).
34
O 1897, cc. 262-263, fig. 45; C 1992. Vedi infra, § 7.1.
35
Vedi infra, § 6.
36
P 2012.

73
in quanto legate rispettivamente alla sfera familiare-riproduttiva ed a
quella della transizione alla sessualità, all’interno di un pantheon più am-
pio dove trovano posto anche le Ninfe, associate alla preparazione delle
giovani alla sessualità ed alla sfera erotico-riproduttiva37. In proposito è
stata sottolineata l’importanza nei contesti ninfali dell’ambientazione
rupestre, dell’acqua ed in generale dell’elemento “umido”, connesso alla
sfera sessuale ed alla fecondazione, della cui presenza potrebbe serbare
il ricordo anche il toponimo stesso del colle38. Ad un ambito cultuale
di questo tipo potrebbe rimandare, infatti, la dimensione paesaggistica
dell’area sacra, immersa nella vegetazione, ed in prossimità di un corso
d’acqua, che doveva scorrere alla base della collina; la presenza di un
marcatore ambientale come le grotte, inoltre, potrebbe essere individua-
ta negli ingrottamenti artificiali, per i quali, sebbene interpretati come
favisse di un santuario ubicato a monte, non è da escludere la natura di
luoghi sacri presso cui forse erano praticate azioni rituali39.
La presenza nel territorio grammichelese di busti fittili, inoltre, è
nota anche da un altro contesto archeologico di cui dà notizia Orsi, il
deposito votivo d’età tardoclassica-ellenistica sito in contrada Portella,
anch’esso caratterizzato da un’ambientazione rupestre40. Si trattava in
massima parte di terrecotte votive, soprattutto busti femminili, assicu-
rati al Museo di Siracusa dopo essere finite in mano ad un negoziante di
stoffe, che spinsero Orsi, anche in questo caso, ad interpretare il luogo
come un’area sacra a frequentazione mista, un “antro sacro”, dedicato
a “Demeter, la dea delle frugi e dei campi, alla quale rivolge fiducioso
la preghiera il villico e l’agricoltore, così greco come siculo”41. Tuttavia,
alla luce di quanto detto sopra e del rinvenimento di un pinax su cui è
riprodotta una triade femminile in posa ieratica (di cui si conservano
solo due teste), interpretata come raffigurazione di Ninfe (Fig. 4.7)42, è
forse possibile pensare ad un culto ninfale, cui rimanderebbe non solo
il pinax, per altro significativamente associato, anche in questo caso, ai
busti, ma anche, come accennato, il sito di rinvenimento: una grotta
rupestre ricavata artificialmente, sita nei pressi di fonti di acqua sorgiva.

37
P 2012, pp. 244-245.
38
P 2012, pp. 232-234; 243-244; vedi anche P 2020.
39
Come si è visto, la perdita di molti dati contestuali, causata dalle circostanze di rinve-
nimento, pregiudica la piena comprensione del complesso archeologico (in proposito, con
riferimento anche ad altri contesti, vedi P 2012, pp. 2333-234).
40 O 1902. La località si trova due chilometri e mezzo ad est dell’odierna Grammi-
chele.
41
O 1902, p. 226.
42
P 2012, p. 231.

74
Fig. 4.7. Grammichele, contrada Portella. Pinax fittile frammentario (da O 1902).

Nei contesti cultuali in cui sono stati rinvenuti, i busti fittili, spes-
so contraddistinti da un notevole pregio artigianale, potrebbero essere
interpretati come veri e propri “agalmata, dedicati nel corso di riti cui
si ‘invitava’ a presenziare la stessa entità divina”43. Tali contesti, accanto
alle aree sacre rupestri, sono stati individuati anche entro aree di abitato,
nei cosiddetti santuari di quartiere o anche in sacelli domestici, posti
dentro o ai margini degli insediamenti44. Potrebbe essere il caso di un
ambiente d’età ellenistica rinvenuto nel 1999 lungo il fianco occidentale
del Poggio dei Pini45.
A partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quantità di ter-
recotte votive attestate sembra iniziare a scemare lentamente e, proprio
in questo periodo, le offerenti con e senza porcellino grammichelesi
presentano tipologie riconducibili a produzioni dell’artigianato camari-
nese46. Pochi fittili sembrano potersi collocare entro l’orizzonte cronolo-
gico del IV secolo47. L’impoverimento del santuario sembra del resto es-
sere contestuale a ciò che le testimonianze archeologiche segnalano per
il sito di Grammichele in generale48: un processo lento ed inesorabile,

43
P 2012, pp. 246-247.
44
P 2012, p. 234.
45
R 2000, p. 73; vedi supra, § 3.3.
46
P 2007-2008.
47
P 2007-2008.
48
P 2007-2008.

75
che pare intensificarsi a partire dall’inizio del IV secolo, momento in cui
Dionigi I di Siracusa conquistò Morgantina ed estese il suo controllo
nei centri del retroterra della piana di Catania49.

4.2. Madonna del Piano

A meno di dieci anni dalle scoperte effettuate presso Poggio


dell’Aquila, l’archeologo roveretano ritornò sui colli di Grammichele,
dove realizzò una “scoperta di molto significato nella storia della pe-
netrazione dell’arte e del culto greco nelle montagne della Sicilia”, che
sarebbe stata “capitale […] se mani profane e vandaliche non avessero
sacrilegamente manomesso e disperso il venerando deposito di oggetti
di culto”50. Ancora una volta, infatti, Orsi arrivò sul posto troppo tardi.
Nell’inverno del 1903, il signor Ventura, proprietario di un terreno nel-
la contrada di Madonna del Piano, un vasto pianoro esteso a nord di
Terravecchia e rivolto verso la sottostante valle dei Margi aveva, infatti,
portato alla luce accidentalmente una costruzione quadrangolare, da cui
era poi stato estratto il contenuto con modalità che hanno compromes-
so per sempre la possibilità di valutare il complesso nel suo insieme.
Rimpiangendo “la tragica risurrezione di sì bel tesoro d’arte”51 ed il fatto
di non essere riuscito a ricavare alcun dato sulla stratigrafia del materiale
raccolto, Orsi racconta che “dentro a questo vano apparvero dapprima
sabbie e poi, mano mano si scendeva coll’opra di distruzione, con grande
stupore dei villici, risorgevano dalla terra sabbiosa tutti i pezzi [...]. Ciò
che non era intero veniva strappato a furia, e la speranza di un tesoro
fece anche nervosamente affrettare il lavorio, che si arrestò solo quando
sul fondo si trovò la roccia vergine. Man mano i villici estraevano i pez-
zi, li accatastavano sul terreno, e solo i maggiori portavano a casa. [...]
Di tal guisa furono possibili numerosi furti, che nemmeno meritano
tale nome, perché il Ventura permetteva ai contadini delle circostanti
terre, accorsi alla nuova del rinvenimento, di portarsi qualche ricordo”52.
Qualche mese dopo, fortunatamente, l’archeologo riuscì a recuperare al-
cuni dei reperti rinvenuti a Madonna del Piano, sia ispezionando l’area,
dove rinvenne, dispersi in mezzo all’erba, vari reperti frammentari tra

49
P 2000a, pp. 94-95.
50
O 1907, c. 125.
51
O 1907, c. 129.
52
O 1907, cc. 127-128.

76
Fig. 4.8. Madonna del Piano. Pianta della struttura del deposito votivo (da O 1907).

cui un torso marmoreo di kouros53, sia peregrinando “di tugurio in tugu-


rio” alla ricerca dei pezzi dispersi e acquistando dal Ventura quanto da
lui recuperato54.
La costruzione, a pianta quadrata di metri 6×6, era realizzata in bloc-
chi di arenaria disposti su otto assise, conservata per una profondità di
circa 4 metri (Fig. 4.8). Come ipotizzato da Orsi, sembra trattarsi di una
profonda fossa scavata nel terreno e rivestita di blocchi, destinata pro-
babilmente allo scarico di materiale votivo55. La presenza di terrecotte
architettoniche56, suggerì allo studioso che queste potessero appartenere
ad un edificio templare, la cui presenza immaginava nei pressi, o ad una
costruzione con carattere di thesauròs che doveva probabilmente sorgere
al di sopra della fossa57.
Orsi interpreta, dunque, la struttura, unitamente agli importanti re-
perti rinvenuti, come “sicuro indizio di un santuario greco, la cui scoper-

53
Vedi infra, § 6.
54
O 1907, cc. 127-129.
55
O 1907, cc. 162-165.
56
Vedi infra, § 6.
57
O 1907, c. 146 e c. 168.

77
Fig. 4.9. Madonna del Piano. Lamina bronzea decorata a sbalzo (da O 1907).

ta sarà compito riserbato all’avvenire”58. Il materiale assicurato al Museo


di Siracusa spicca per il grande pregio59: si distinguono in particolar
modo, oltre alle terrecotte architettoniche ed al torso di kouros in marmo
pario, una testa maschile in pietra ed una statua femminile fittile assisa
in trono60; insieme a questi oggetti, furono rinvenute anche vasi attici a
figure nere (lekythoi, una plemochoe, una oinochoe, una hydria, un’anfora o
cratere, frammenti di altri vasi)61, una tartaruga fittile, anforette vitree;
tra i metalli si annoverano, invece, grandi chiodi bronzei ed una lamina
di bronzo argentato decorata a sbalzo, probabilmente pertinente ad un
cinturone (Fig. 4.9).
Sulla base dei suoi rinvenimenti Orsi concluse che a Madonna del
Piano doveva sorgere tra la seconda metà del VI e l’inizio del V se-
colo a.C. un santuario “per uso di popolazione greca, venuta colà ad
aggiungersi ai Siculi indigeni”62: secondo lo studioso, infatti, i materiali
ritrovati, in particolar modo la statua femminile ed il kouros, sarebbero
“elementi d’arte e di culto puramente greci”63, impossibili da attribuire
ad una fruizione esclusivamente indigena del luogo di culto, conside-
rato il pregio artistico degli oggetti, poiché a quell’epoca “il processo
di trasformazione dei Siculi non era certamente arrivato al punto da
darci quel materiale di fisionomia e di contenuto puramente greco che
il tesoro di Madonna del Piano ci ha svelato. Dunque Greci accanto a
Siculi o sovrapposti ai Siculi”64. Era il quesito che il celebre archeologo
si sarebbe posto nuovamente, qualche anno più tardi, dopo la scoperta
delle prime tombe della necropoli di Casa Cantoniera65.

58
O 1907, c. 168.
59
O 1907, cc. 129-165.
60
Vedi infra, § 6.
61
Vedi infra, § 6.
62
O 1907, c. 132.
63
O 1907, c. 165.
64
O 1907, c. 166.
65
Vedi infra, § 5.2.

78
4.3. Poggio del Rullo

Tra il 2000 e il 2001 l’Università degli Studi di Torino, ha condotto


una serie di scavi sul Poggio del Rullo, mettendo in luce, nel saggio A,
effettuato sulle prime pendici nord-occidentali della collina (Fig. 3.16),
alcune evidenze per le quali gli scavatori hanno proposto, sulla base dei
dati di scavo e dei materiali rinvenuti, una destinazione cultuale che
avrebbe caratterizzato le diverse fasi di frequentazione dell’area, com-
prese tra la seconda metà del VI e l’inizio del III secolo a.C. (Fig. 4.10)66.
La prima fase di occupazione dell’area, databile tra la seconda metà
del VI e l’inizio del V secolo, coincide con la creazione di una terraz-
za con orientamento nord-sud, sostenuta da muri di contenimento in
tecnica isodoma, costruiti con blocchi di calcare (Fig. 4.11). Alcuni
tagli rintracciati sul piano roccioso sono stati messi in relazione con
la presunta realizzazione di una sorta di banconi, forse utilizzati come
possibile piano d’appoggio per offerte nel quadro di una primitiva desti-
nazione sacra dell’area. Tale terrazza sarebbe stata in uso, sulla base dei
dati stratigrafici, anche durante le fasi successive.
All’inizio del V secolo è stata individuata una successiva fase di oc-
cupazione dell’area, caratterizzata dalla presenza di una buca circolare
scavata nel banco roccioso. Il riempimento di tale buca ha restituito
terra frammista a tracce di bruciato, con frammenti ceramici (ceramica
indigena e a vernice nera) e resti osteologici. Nei pressi della buca è stata
rinvenuta anche una chiazza di bruciato con resti ceramici e ossei. Tali
evidenze, piccole cavità in cui venivano presumibilmente interrati resti
di pasti rituali, sono state interpretate come le più antiche testimonianze
di un uso presumibilmente rituale dello spazio dopo la prima sistema-
zione della terrazza. In questa fase si registra anche la presenza di due
muri ortogonali costruiti con pietre a secco, che obliterarono le tracce
delle precedenti azioni votive, interpretati come resti di un piccolo re-
cinto funzionale alle attività ivi svolte. In fase con tale recinto, ed egual-
mente connessa ad attività cultuali, sarebbe anche una base rettangolare
dal perimetro irregolare, realizzata con pietre disposte di piatto.
La fase con maggiori evidenze archeologiche è quella databile nella
prima metà del V secolo a.C. È stato messo in luce un edificio ret-
tangolare ampio almeno metri 8,20×3,40, con ingresso sul lato corto
rivolto a nord. La struttura, realizzata in parte con pietrame messo in
opera a secco, in parte con grossi blocchi di calcare, forse pertinenti ad

66
B B 2001, pp. 25-35; B B 2006, pp. 7-23.

79
Fig. 4.10. Poggio del Rullo. Pianta del saggio A (da B B 2006).

Fig. 4.11. Poggio del Rullo. Saggio A, sezione di muro 1-2 in tecnica isodoma (da B
B 2006).

un ampliamento dell’ambiente, era dotata di una copertura fittile, come


dimostrato dalle tegole rinvenute nelle sue adiacenze e doveva avere una
decorazione architettonica di rimane un frammento di lastra di rivesti-
mento fittile dipinta, rinvenuta nello strato di crollo67.
La costruzione sorgeva su una terrazza visibile anche dal basso, dalla
valle dei Margi, in una posizione di preminenza che è stata messa in
relazione con una destinazione pubblica, suggerendo agli editori l’inter-

67
Vedi infra, § 6.

80
Fig. 4.12. Poggio del Rullo. Sag-
gio A, base in calcare (da B
B 2006).

pretazione come un edificio di culto, riferibile alla categoria dei sacelli


senza peristasi, ben documentati in ambito siciliano68. A corroborare
l’ipotesi è stato ricordato il rinvenimento di una base cilindrica moda-
nata in calcare (Fig. 4.12), identificata come supporto di una statua o,
meno probabilmente, come parte inferiore di un altare. La destinazione
sacra dell’edificio sembrerebbe, inoltre, confermata anche dalla presenza,
nel piano di calpestio interno, di due fossette che, in consonanza con
quelle della fase precedente, recavano frammenti ceramici e osteologi-
ci misti a tracce di combustione, segno della continuità delle pratiche
rituali. Tale continuità sarebbe dimostrata anche dalla conservazione,
forse intenzionale, della memoria di pratiche precedenti, indiziata dalla
presenza, sotto il piano di calpestio, delle tracce di resti votivi ascrivibili
ad un periodo più antico (piccoli accumuli di frammenti ceramici e me-
tallici); lo stesso battuto pavimentale inglobava, inoltre, altri materiali
frammentari, riferiti al consumo rituale di cibo e vino, probabilmente
abbinato a presentazione di offerte69.
Sebbene gli stessi scopritori ammettano che la semplicità planime-
trica e strutturale della costruzione potrebbe essere compatibile anche
con una destinazione privata, richiamando esempi di edifici domestici
simili presenti nel comprensorio70, l’ipotesi della destinazione sacra vie-
ne preferita alla luce di un variegato quadro di indizi. Tra questi, oltre
quelli precedentemente citati, vanno ricordati il rinvenimento di nume-
rose lucerne, molte delle quali con il beccuccio annerito dalla fiamma, e
frammenti di almeno undici louteria fittili, connessi forse a pratiche di

68
Vedi B B 2006, pp. 19-20 (con ulteriori riferimenti bibliografici).
69
B B 2006, pp. 14-15.
70
B B 2006, p. 20.

81
abluzione71. Peraltro, l’assenza nell’area di fonti d’acqua, indispensabili
per lo svolgimento di riti purificatori, è stata qui messa in relazione con
il rinvenimento di più di settanta frammenti di anfore, giustificati dalla
necessità di trasportare, da sorgenti poste a valle o da cisterne, l’acqua
indispensabile per le abluzioni in un contesto sacro, piuttosto che con la
loro funzione primaria di contenitori per derrate alimentari72.
L’esiguità dei resti rinvenuti nell’area, di difficile esplorazione sia
per la natura impervia del terreno, sia per le ripetute incursioni di sca-
vatori clandestini, non ha reso possibile la formulazione di ipotesi sul
culto praticato presso la supposta area sacra, da cui proviene un unico
frammento coroplastico riferibile alla fase in questione, probabilmente
riconducibile ad una statuetta femminile seduta73. Tuttavia, la collo-
cazione della struttura in un contesto naturale ricco di vegetazione ha
fatto avanzare l’ipotesi di un culto indigeno, genericamente legato alla
fertilità della natura, non dissimile da quelli di Demetra e Kore supposti
da Orsi per Poggio dell’Aquila74.
Come testimoniato dalla stratigrafia, l’edificio venne abbandonato
poco dopo la metà del V secolo a.C., quando un evento traumatico sem-
bra averne determinato la distruzione, messa in relazione con gli eventi
bellici collegati all’azione di Ducezio, analogamente a quanto ipotizzato
per altri siti come Ramacca e Morgantina75, o con il brusco sconvolgi-
mento dell’area, archeologicamente documentato, causato dallo smot-
tamento del lato occidentale della terrazza affacciato sul vallone delle
Canne76.
A causa di consistenti rimaneggiamenti moderni, non si sono con-
servati livelli degli ultimi decenni del V e dell’inizio del IV secolo, sebbe-
ne alcuni frammenti ceramici rinvenuti nell’area sembrino testimoniar-
ne una continuità di frequentazione, forse segnata da attività votive77.
L’ultima fase è datata dagli scavatori tra la seconda metà del IV ed il
III secolo a.C. All’inizio del periodo, la terrazza fu ripristinata e vi furo-

71
La datazione delle lucerne, però, sembra riferirne la presenza alla fase precedente; i
louteria, come giustamente ricordato (B B 2006, p. 21, nota 79), costituivano
un arredo fittile utilizzato anche in contesti non votivi, circostanza verificata anche nello
stesso sito (vedi supra, § 3.3).
72
B B 2006, p. 21. È opportuno ricordare, però, che la maggior parte dei
frammenti anforari sono pertinenti alla più tarda fase di IV-inizi III secolo a.C. (B
B 2006a, p. 314).
73
B B 2006, p. 21; B B 2006b, p. 347 (CO1).
74
B B 2006, p. 22.
75
A, P 1988-1989, p. 148.
76
B B 2006, pp. 20-21.
77
B B 2006, p. 22.

82
no costruite strutture di cui rimane solo qualche lacerto. L’esaurirsi della
documentazione ceramica nella seconda metà del III secolo a.C. è stato
interpretato come segno evidente dell’avvenuto abbandono dell’area alla
fine del secolo. Per questa fase, la continuità della destinazione sacra è
stata ipotizzata sulla base di un indizio ancor più labile, costituito da
un frammento coroplastico pertinente ad una statuetta del tipo della
cosiddetta “Artemide sicula”78.
Secondo l’interpretazione degli editori, dunque, l’area indagata di
Poggio del Rullo avrebbe avuto un carattere pubblico con funzione sa-
cra, esercitata senza soluzione di continuità dalla seconda metà del VI
secolo sino al III secolo a.C. Sebbene, come si è visto, sia documentato
un suggestivo quadro indiziario, anche se spesso ricavato da reperti fuori
contesto, sembra opportuno segnalare, tuttavia, come la tipologia delle
strutture e la natura delle attività cultuali praticate risultino tutt’altro che
chiare, poiché l’evidenza archeologica appare caratterizzata da un tratto
di indeterminatezza che la più volte sottolineata alterazione dell’area in
epoca antica e moderna non sembra sufficiente a spiegare del tutto. Se
la presenza isolata di alcune fossette nelle prime due fasi e l’attestazione
di un unico frammento coroplastico nell’ultima rimangono, infatti, ele-
menti troppo evanescenti, anche per la fase principale, della prima metà
del V secolo a.C., i dati disponibili non sembrano sufficienti ad un’inter-
pretazione univoca. La struttura dell’edificio, come segnalato dagli stessi
editori, è compatibile anche con una destinazione privata e non sembra
presentare quei caratteri di monumentalità, archeologicamente testimo-
niati da un unico frammento di terracotta architettonica, che la citata
posizione preminente, visibile dal fondovalle, è sembrata presupporre.
Inoltre, anche la quasi totale assenza di coroplastica nell’area, unitamen-
te all’attestazione di vasellame da cucina e da fuoco e di una grande
varietà di forme ceramiche riconducibili a diverse categorie funzionali,
contribuisce a delineare i contorni di un’evidenza archeologica piuttosto
ambigua, e pertanto di difficile definizione, che non sembra permettere
di stabilire con certezza in quale ambito avvenissero le pratiche cultuali
documentate.
La destinazione sacra di questo versante di Poggio del Rullo sem-
bra segnata dalla presenza di un complesso santuariale, relativo alla fase
più tarda dell’insediamento, individuato su una balza più in basso, af-
facciata sul vallone delle Canne, lungo il pendio sud-occidentale del

78
B B 2006, pp. 22-23. Per il frammento di statuetta, vedi B B-
 2006b, p. 347 (CO2).

83
Fig. 4.13. Veduta di Poggio del Rullo e degli scavi del santuario ellenistico (foto di L.
Nifosì).

colle (Fig. 4.13). Qui, tra il 2010 ed il 2011, fu completato lo scavo di


un edificio (edificio 1) già parzialmente messo in luce in occasione di
precedenti indagini negli anni 2003-200579. Si tratta di un complesso, di
circa m2 100 di estensione, articolato in sei ambienti disposti intorno ad
un vestibolo centrale in cui si apriva una cisterna campanata (Figg. 4.14
e 4.15). Due dei sei ambienti (I e IV) sono stati considerati i più signi-
ficativi per l’interpretazione dell’edificio.
L’ambiente I, nella porzione nord-orientale dell’edificio, ha una
pianta rettangolare di metri 4,70×3,00, con pareti perimetrali conserva-
te per un’altezza di oltre metri 3,50. Queste, recanti tracce di intonaco
ravvivato da policromia, sono costruite con pietre accuratamente sboz-
zate e disposte su più filari con l’uso di malta di terra come legante. Sulla
parete di fondo, realizzata con particolare cura con l’impiego di catene in
tecnica africana, si apre una nicchia sormontata da un architrave mono-
litico, al cui interno è stata identificata un’edicola (Fig. 4.16); nella parte
centrale del vano una piccola struttura a pianta quadrata, realizzata con

79
Le indagini furono condotte dalla Soprintendenza di Catania, sotto la direzione di An-
drea Patanè (B, P, R 2012; P et alii 2013). In quell’occasione,
nella stessa area, furono scoperti altri due edifici, non completamente esplorati, per i quali
non risulta ancora chiarita la destinazione d’uso.

84
Fig. 4.14. Poggio del Rullo. Edificio 1 (da P et alii 2013).

Fig. 4.15. Poggio del Rullo. Edificio 1 (da B, P, R 2012).

85
Fig. 4.16. Poggio del Rullo. Edificio 1, ambiente I (da B, P, R
2012).

Fig. 4.17. Poggio del Rullo. Edificio 1, ambiente I (da B, P, R
2012).

piccole pietre e lastrine calcaree su filari sovrapposti, è stata interpretata


come un altare (Figg. 4.17 e 4.18). L’ambiente IV, dalla pianta pressoché
quadrangolare di metri 4,80×4,60, occupa la parte sud-occidentale del
complesso (Fig. 4.19). Le pareti sono costruite con la medesima tecnica

86
Fig. 4.18. Poggio del Rullo. Edificio 1, ingresso dell’ambiente I (da B, P,
R 2012).

Fig. 4.19. Poggio del Rullo. Edificio 1, ambiente IV (da B, P, R
2012).

muraria ed un altare a pianta quadrata, modanato ed intonacato, è ubi-


cato in posizione centrale. Nei pressi dell’altare sono state rinvenute una
machaira di ferro ed una grattugia in bronzo, ricollegate a pratiche rituali
che comprendevano il sacrificio di piccoli animali.

87
Fig. 4.20. Poggio del Rullo. Statuette femminili fittili dall’edificio 1 (da B, P,
R 2012).

Entrambi i vani hanno restituito numerosi oggetti, disposti sul pia-


no pavimentale intagliato nel banco roccioso, che hanno rivelato la na-
tura sacra del complesso: un busto e statuette femminili fittili policrome,
louteria, thymiateria, arule, lucerne, vasi miniaturistici ed altri materiali
ceramici (Figg. 4.20). Le numerose lucerne, unite alle tracce di combu-
stione ed ai resti di carboni compattati rinvenuti sui piani pavimentali,
hanno fatto ipotizzare che nel complesso si svolgessero cerimonie nelle
ore notturne, per le quali fosse necessario illuminare artificialmente gli
ambienti.
Le caratteristiche planimetriche, le strutture e gli oggetti rinvenuti
nel complesso hanno permesso agli scopritori di assimilarlo al tipo dei
cosiddetti santuari a cortile, di cui si hanno esempi a Morgantina nella
stessa epoca, compresa tra il IV ed il III secolo a.C.80. La tipologia dei
votivi, inoltre, ha suggerito l’ipotesi che il complesso fosse destinato al
culto di Demetra e Kore o forse anche delle Ninfe, e, dunque, più in
generale, al mondo femminile e ai cambiamenti di status ad esso con-
nessi. Le cerimonie rituali, di cui gli scavi hanno restituito un’immagine
vivida, cessarono di essere celebrate nell’ultimo ventennio del III secolo
a.C., quando la datazione delle monete rinvenute sui pavimenti dei vani
segna l’abbandono definitivo dell’edificio, i cui ambienti furono presto
obliterati dal crollo del tetto fittile81.

80
B, P, R 2012, p. 138. Per i santuari del tipo a cortile di Morgan-
tina, vedi A 1977; B 2008.
81
B, P, R 2012, pp. 138-139.

88
5. Le necropoli

5.1. Paolo Orsi e l’individuazione delle necropoli

L’individuazione delle necropoli pertinenti all’insediamento di


Terravecchia fu uno dei primi problemi che Paolo Orsi si pose sin dal
principio delle sue indagini nel territorio di Grammichele, attribuen-
dogli particolare rilievo per la comprensione e l’interpretazione della
documentazione archeologica che allora cominciava ad essere raccolta
in modo sistematico. A tale proposito, nel resoconto sulle prime ricerche
da lui svolte nel sito, l’archeologo annotava: “ho cercato di riconoscere
l’esatta ubicazione della necropoli pertinente alla città che si estendeva
sulle colline di Terravecchia, perché la scoperta di essa e la eventuale sua
esplorazione ci avrebbe fornito i migliori elementi per pronunziare un
giudizio cronologico e forse anche etnico sulla origine della città”, ag-
giungendo di ritenere probabile, in considerazione della conformazione
dell’abitato, l’esistenza di più sepolcreti1. Di questi, effettivamente, erano
già emerse delle tracce, costituite da singole tombe rinvenute casual-
mente in diverse aree, segnalate nell’introduzione topografica che apre il
resoconto e puntualmente indicate nel relativo schizzo topografico (Fig.
5.1). Venne individuata come area di necropoli un’ampia zona estesa
tra le pendici sud-orientali dell’arco collinare di Terravecchia, compren-
denti le balze scoscese di Poggio San Leonardo e Poggio dei Pini, ed i
fianchi del Poggio dell’Aquila, dove si concentrava il maggior numero di
rinvenimenti. Il loro carattere isolato, tuttavia, non era tale da configu-
rare un’area sepolcrale densa ed estesa, allora data per distrutta o ancora
da ritrovare, forse sotto la coltre di terra franata dall’alto lungo il pendio
delle colline2.

1
O 1897, c. 264.
2
O 1897, c. 264.

89
Fig. 5.1. Schizzo topografico delle colline di Terravecchia con indicazione dei luoghi dei
principali rinvenimenti segnalati da Paolo Orsi (da O 1897).

Presso la casa cantoniera (Fig 5.1, n. 1) sita a sud dell’arco collina-


re di Terravecchia lungo la ruotabile Grammichele-Catania, l’odierna
strada provinciale 33, che dalla valle si inerpica sulle pareti scoscese dei
poggi fino a raggiungere l’attuale centro abitato, Orsi registrò la pre-
senza di “alcuni massi di tufo poroso” attribuiti dalla gente del luogo
ai resti di un grande sepolcro, del cui corredo fu possibile vedere “un
vaso a colonnette tutto nero”3. Un po’ più ad ovest (Fig. 5.1, n. 2) venne
segnalata la scoperta, avvenuta poco tempo prima, di un’altra “grande
sepoltura, formata di massi voluminosi” ancora visibili sul posto, conte-

3
O 1897, c. 207. Si tratta del primo riferimento alla casa cantoniera da cui deriva il
toponimo cui si lega la necropoli d’età arcaica e classica scoperta e parzialmente esplorata
dallo stesso Orsi diversi anni più tardi (vedi infra). Il rinvenimento dei resti della tomba,
contenente quello che sembra essere un cratere laconico a vernice nera, ne costituisce
probabilmente la prima evidenza.

90
Fig. 5.2. Poggio dell’Aquila.
Tomba a cella ipogeica (da
O 1897).

nente uno scheletro e due vasi dipinti, e, vicino ad essa, della tomba di
un bambino4. Non molto distante, all’estremità meridionale del vallone
delle Canne, erano visibili alcuni blocchi lapidei (Fig. 5.1, n. 3): sebbene
gli fosse stato riferito del rinvenimento di un sepolcro, Orsi ritenne che
si trattasse di materiali rotolati dall’alto lungo le pendici della collina
soprastante5.
Più consistenti furono i rinvenimenti sul Poggio dell’Aquila: lungo
la fascia mediana dei versanti rivolti a sud e ad ovest, dove le coste assai
ripide della parte superiore mutano in un pendio più dolce, si distribui-
vano sepolture di tipologia diversa6.
La presenza di numerosi cocci sparsi sul terreno rivelò la presenza
di due tombe a camera, rinvenute poco tempo prima da un contadino e
purtroppo ormai violate. Dei corredi fu possibile recuperare soltanto al-
cuni vasi indigeni a decorazione dipinta di stile subgeometrico, ricostru-
iti dai frammenti raccolti all’interno delle tombe e nell’area circostante.
A quota più bassa, sempre grazie alle indicazioni di un contadino,
al centro del versante meridionale, fu individuato un piccolo gruppo di
sepolcri di tipo greco. Ad epoca arcaica fu assegnata una grande tomba
a cella ipogeica, rinvenuta già violata e priva di copertura, contenente sul
fondo frammenti ceramici risalenti al VI secolo a.C. Il sepolcro, a pianta
quadrangolare, aveva il fondo formato da sei lastre lapidee e le pareti
costituite da tre assise di grandi blocchi (Fig. 5.2). Non era un rinveni-
mento isolato, ma si trattava dell’unica tomba esaminata da Orsi delle
quattro dello stesso tipo da lui viste in occasione di un suo sopralluogo
sul posto (Fig. 5.1, n. 7)7, riconducibili ad una tipologia diffusa nelle

4
O 1897, cc. 208-209.
5
O 1897, c. 209.
6
O 1897, cc. 264-271.
7
O 1897, c. 211.

91
colonie siceliote sin dal VII secolo a.C. e considerata pertinente alla se-
poltura di personaggi eminenti per l’impegno costruttivo, per il numero
limitato e per la qualità dei corredi8. Nella stessa area, vennero allora
individuate altre tombe di tipo greco, che Orsi ritenne appartenenti ad
un piccolo gruppo di sepolcri di cronologia piuttosto tarda9.
Nelle campagne della vicina contrada di Madonna del Piano,
nei pressi del deposito votivo tardoarcaico10, Orsi segnala il rinve-
nimento, di cui aveva appreso da contadini impegnati nell’impian-
to di una vigna, di tombe di diversa tipologia, costituite da enchytri-
smoi entro dolii, di cui poté vedere frammenti riconosciuti simili
ai tipi noti a Gela e a Monte San Mauro, probabilmente identifica-
bili con pithoi con decorazione a flabelli, e “sepolcri formati di pezzi
lapidei, poveri di vasi e privi di oggetti metallici”11. La scoperta, in un’area
a breve distanza dalla necropoli protostorica di Molino della Badia, la
cui estensione fin lì era indicata dai rinvenimenti sporadici di reper-
ti metallici, fece ipotizzare allo studioso una lunga continuità nell’uso
dell’area sepolcrale, con l’attestazione di una necropoli greca, forse di VI
secolo a.C., sopra o accanto alle tombe più antiche. La natura del rinve-
nimento, tuttavia, e la relativa ricostruzione storica, rimangono dubbie,
poiché ancorate a notizie raccolte sul posto e agli scarsi resti osservati
sul terreno, privi di chiari indicatori cronologici, che avrebbero richiesto,
come ammesso dallo stesso Orsi, una verifica attraverso scavi sistematici
allora impossibili per l’intenso sfruttamento agricolo dell’area. Si po-
trebbe pensare, infatti, che le tracce allora individuate fossero in realtà
pertinenti alla più antica necropoli protostorica, la cui conoscenza era
ancora estremamente limitata.
Infine, del corredo di uno o più sepolcri d’età arcaica, che purtroppo
non fu possibile identificare, dovevano far parte alcuni oggetti di orna-

8
C, O 1890, c. 770. Per l’attestazione nei centri coloniali sicelioti, vedi O
1904, c. 398 (Selinunte, Camarina, Siracusa, Megara Iblea); O 1906, cc. 77-79 (Gela).
Per la tipologia della tomba, vedi K, B 1971, p. 310. La pertinenza delle
tombe di questo tipo a sepolture dal carattere eminente è confermata, più recentemente,
dal rinvenimento di una di esse nella necropoli nord-orientale di Monte San Mauro di
Caltagirone: si tratta della tomba 164, contenente un corredo molto ricco di vasi e balsa-
mari in argilla, faïence e bronzo, riconosciuta come la tomba più rilevante di un gruppo di
quattro sepolture attribuite ad un nucleo familiare aristocratico (F 2001). Due tom-
be di analoga tipologia sono state rinvenute anche in contesto anellenico nell'entroterra
di Gela, a Monte Bubbonia: vedi P, N 1992, p. 148 (con ulteriore bibliografia
relativa agli esempi di ambito coloniale siceliota).
9
Vedi infra, § 5.4.
10
Vedi supra, § 4.
11
O 1907, c. 126. La notizia è ripresa in B 2000, p. 83.

92
Fig. 5.3. Poggio dell’Aquila. Oggetti di ornamento personale in metallo e ambra dalle
tombe arcaiche (da O 1897).

mento personale, per lo più metallici, acquistati da Orsi a Grammiche-


le: si tratta di un gruppo di fibule di bronzo e di ferro, anelli, vaghi di
collana e un pendaglio di bronzo, due spirali fermatrecce ed una perla
d’argento, una perla d’ambra (Fig. 5.3). Di essi l’archeologo sottoline-
ava come rappresentassero, in alcuni casi, una novità nel loro contesto
cronologico e topografico di rinvenimento, evidenziandone i confronti
con i materiali rinvenuti nelle necropoli indigene più antiche, risalenti
al terzo periodo siculo (corrispondente alle facies di Pantalica Sud e del
Finocchito), e nelle poleis siceliote12.
Nonostante il carattere estremamente frammentario delle noti-
zie riportate da Orsi, la documentazione raccolta fino ad allora sulle
necropoli del territorio di Grammichele è di grande interesse sotto
molteplici punti di vista, inerenti sia la definizione cronologica, topo-
grafica e culturale del sito, sia, più in generale, la ricostruzione delle
facies archeologiche della Sicilia orientale e la storia degli studi ad essa
relativi.
La dislocazione delle tombe permise di individuare le aree destinate
alle necropoli, cominciando a delineare l’articolazione dell’insediamen-
to ed i rapporti topografici fra le aree sepolcrali e quelle che già allora
andavano configurandosi come aree sacre e quartieri abitativi. La data-
zione e la tipologia dei sepolcri fornì la chiave per riconoscere, quando la
ricerca archeologica nel sito era ancora ad uno stadio iniziale, l’esistenza
di due fasi cronologiche, quella d’età arcaica e quella ellenistica (di cui

12
O 1897, cc. 271-273.

93
Orsi individuò anche le tracce dell’abitato)13, che nel tempo si sareb-
bero rivelate quelle più significative, mettendo nel contempo in luce la
duplicità della documentazione sotto il profilo culturale, rivelatrice del-
la commistione tra caratteri indigeni ed elementi di matrice greca che
costituisce, nella misura che ha assunto con il progredire delle ricerche,
uno dei tratti peculiari del sito.
Su un piano più ampio, spostando lo sguardo dal sito alla storia
dell’archeologia siciliana, rileggere oggi le pagine in cui Orsi discute la
tipologia dei materiali recuperati dai contesti funerari di Grammichele
permette di ricostruire le fasi intermedie delle ricerche che gli avrebbero
di lì a poco consentito di definire l’ultimo dei quattro periodi in cui
suddivise lo sviluppo della civiltà indigena della Sicilia orientale. Se le
osservazioni sugli oggetti metallici dimostrano una conoscenza ancora
limitata dei contesti indigeni della piena età arcaica, fu soprattutto la
ceramica, con i vasi riconducibili al cosiddetto “geometrico siculo”, ma
di una fase più tarda rispetto a quelli rinvenuti a Monte Finocchito o
a Tremenzano14, a guidare Orsi nel riconoscimento di una nuova facies
archeologica. A proposito dei vasi a decorazione subgeometrica rinve-
nuti sui fianchi del Poggio dell’Aquila (Fig. 5.4), scriveva l’archeologo
roveretano: “emerge che le tombe, che hanno dato codesti vasi geome-
trici, sono sicule di tempi storici; escludo la loro grecità, perché codesta
ceramica mai è apparsa in tombe greco-arcaiche dell’isola, e viceversa i
riscontri fatti sempre ci riconducono ai siculi del terzo periodo, o di un
momento posteriore. [...] Sarebbe un quarto periodo siculo, parallelo
ai tempi storici greci, del quale mancano ancora necropoli sistematica-
mente esplorate [...]. È da augurarsi la scoperta di qualche gruppo di
sepolcri ancora intatti di tale epoca, per fissare definitivamente questa
ultima fase della cultura sicula, che poi si confonde nella greca”15. Orsi
non dovette attendere a lungo: di lì a poco, gli scavi nelle necropoli di
Licodia Eubea gli avrebbero permesso di dare alle stampe “Le necro-
poli di Licodia Eubea ed i vasi geometrici del quarto periodo siculo”, il
saggio in cui la cultura materiale tipica degli insediamenti indigeni d’età
arcaica della Sicilia orientale, rappresentata soprattutto dalla ceramica,
avrebbe trovato una pionieristica classificazione ed un primo tentativo
di interpretazione storica16.

13
Vedi supra, § 3.2.
14
O 1892; O 1894.
15
O 1897, cc. 268-269.
16
O 1898.

94
Fig. 5.4. Poggio dell’Aquila. Vasi indigeni dalle tombe arcaiche (da O 1897).

5.2. La necropoli di Casa Cantoniera

Il desiderio, nutrito da Orsi sin dall’inizio delle sue ricerche a Gram-


michele, di individuare ed esplorare una necropoli sufficientemente am-
pia e strutturata da fornire una chiave di lettura per l’inquadramento
cronologico e culturale dell’insediamento, fu esaudito soltanto un ven-
tennio dopo, a conclusione della sua stagione di indagini archeologiche
sui poggi di Terravecchia, con lo scavo del primo settore della necropoli
di Casa Cantoniera (Fig. 5.5).
La ricerca archeologica nell’area di Casa Cantoniera prese le mosse
da un rinvenimento casuale. Nell’inverno del 1916, in occasione di al-
cuni lavori agricoli, il proprietario di un piccolo podere portò alla luce
“un paio di tombe a grande fossa” il cui “ricco corredo di vasi e qualche
figurina” fu acquistato dal Museo di Siracusa17. Gli oggetti componenti
tali corredi, sommariamente elencati da Orsi, comprendevano ceramica

17
O 1920, p. 336.

95
Fig. 5.5. Area della necropoli di Casa Cantoniera

indigena mista a vasellame corinzio e attico riferibile ad un periodo


compreso fra la metà del VI e la seconda metà del V secolo a.C.18 Tra
i vasi rinvenuti, destò allora vivo interesse una grande kotyle a figure
nere, recante sul fondo esterno una lunga iscrizione graffita con caratteri
greci che, nel corso del tempo, è stata oggetto di differenti interpreta-
zioni19. La fortuita scoperta in proprietà Viola indusse Orsi a condurre,
nella primavera dello stesso anno, una campagna di scavi che consentì
l’esplorazione di quarantasei sepolcri di varia tipologia (tombe a cas-
sone monolito, a cappuccina, fosse nella nuda terra, enchytrismoi entro
pithoi, piccole camere ipogeiche, ustrini), contenenti ceramica di fabbri-
ca indigena, corinzia e attica, oltre ad oggetti di ornamento personale
di bronzo e d’argento, cronologicamente contemporanei alle due tombe
precedentemente rinvenute20.
Orsi non presentò mai uno studio analitico del materiale recupera-
to durante lo scavo, che pure giudicava “degno di essere pubblicato in
extenso”21. Ciò nonostante, la documentazione raccolta gli permise di
mettere a fuoco quello che ancora oggi costituisce il nodo fondamen-

18
O 1920, p. 336.
19
Vedi infra, capitolo 7.
20
O 1920, p. 337.
21
O 1920, p. 337.

96
tale nell’interpretazione dell’intero sito: di fronte alla commistione di
elementi indigeni e greci, rilevabile sia nelle tipologie sepolcrali sia nei
materiali di corredo, lo studioso si chiese se si trattasse “di una inva-
sione greca semplicemente industriale, o non pure etnica e politica” da
attribuire ai Calcidesi di Catania22. In particolare, la presenza di quattro
sepolture a cremazione, estranee al costume funerario indigeno, pose
Orsi di fronte ad una duplice possibilità interpretativa, portandolo a
concludere che potesse essere il segno “di una infiltrazione dell’elemento
greco che conviveva ormai con quello siculo [...] commisto o accanto
ad esso” oppure che “nella mentalità e nella concezione religiosa sicula
si era ormai avverata una tale mutazione, da non aborrire da un primo
tentativo di modificazione del rito dell’inumazione, ininterrottamente e
rigorosamente mantenuto per oltre un millennio e mezzo”23.
Una più vasta conoscenza di quello che si sarebbe rivelato il più
importante complesso funerario d’età arcaica, la cui fase d’utilizzazione
continuativa abbraccia anche la prima età classica, si deve alle indagini
condotte a più riprese molto tempo dopo, quando, dopo quasi settanta
anni dalle prime scoperte, ancora una volta dei lavori agricoli furono
l’occasione per la ripresa degli scavi. Nell’inverno del 1985, la Soprin-
tendenza Archeologica di Siracusa procedette all’esplorazione di una
trentina di tombe a camera ipogeica scavate in un costone di roccia are-
naria, databili tra la fine del VII e l’inizio del V secolo a.C.24 All’interno
di una di esse, la tomba 16, fu recuperato un eccezionale cratere laconico
figurato, datato fra il 570 e il 560 a.C.: il vaso è divenuto eponimo di
un artista, il “Pittore del cratere di Grammichele”, vicino alla cerchia del
pittore di Naukratis, uno dei massimi maestri della ceramografia laconi-
ca25. Il corredo della tomba, pertinente a più deposizioni distribuite tra il
secondo quarto e la fine del VI secolo a.C., era composto da oltre cento
vasi e comprendeva, accanto ad oggetti comuni negli altri corredi coevi
(vasi tardocorinzi, ceramiche a vernice nera laconiche ed attiche, vasi
attici a figure nere tardoarcaici, coppe ioniche, ceramiche di produzione
coloniale e indigena), alcuni prodotti d’importazione particolarmente
pregiati o, comunque, meno diffusi, contemporanei al cratere figurato:

22
O 1920, p. 337.
23
O 1920, p. 337. In conclusione della breve nota, Orsi sembra propendere per la pri-
ma ipotesi, ritenendo verosimile che i Calcidesi, già precedentemente stanziatisi a Monte
San Mauro di Caltagirone, avessero ritenuto opportuno occupare, alla metà del V secolo
a.C., una posizione chiave per il controllo del passaggio dalla Piana di Catania ai Monti
Erei.
24
B 1988, p. 1 e p. 13, nota 1.
25
B 1988; P 1990; B 1995. Vedi infra, § 6.3.

97
una kelebe attica a figure nere e due coppe a figure nere di tipo Siana
(anche se di sospetta fabbrica non attica)26.
Tre anni dopo, nell’autunno del 1988, fu la Soprintendenza di Ca-
tania ad effettuare due brevi campagne di scavo27. Nel corso dei lavori
fu messo in luce, in proprietà Zapparrata28, un nuovo gruppo di di-
ciotto tombe, per lo più a camera ipogeica. Poiché si tratta dell’unico
settore della necropoli oggetto di una pubblicazione analitica, è su di
esso, con l’ausilio delle notizie inerenti ai settori precedentemente in-
dagati, che si deve necessariamente fondare la lettura del complesso
funerario, ad oggi la più rilevante fonte di informazioni sull’insedia-
mento antico29.
Le tombe sono scavate a quota variabile nelle ripide pareti che fian-
cheggiano una strada scavata nella roccia, il cui tracciato procede per
circa 55 metri, con andamento nord/nord-est - sud/sud-ovest, lungo le
pendici di un costone roccioso che fronteggia a sud le colline di Terra-
vecchia (Figg. 5.6 e 5.7). L’azione del tempo sulla tenera arenaria in cui
sono ricavate le camere, lo sconvolgimento dello stato primitivo dei luo-
ghi e le modalità dell’indagine archeologica, di cui ben poco si conosce,
costituiscono un ostacolo alla ricostruzione integrale dell’architettura
tombale, che risulta tuttavia sufficientemente comprensibile nelle sue
linee fondamentali30.
Le camere funerarie mostrano una notevole uniformità tipologica:
sono di forma approssimativamente quadrangolare, spesso con le pareti
lievemente curvilinee e gli angoli arrotondati31. L’articolazione interna
più diffusa, comune nelle necropoli indigene della facies di Licodia Eu-
bea a partire dal VI secolo inoltrato, prevede la presenza di tre alte ban-
chine lungo le pareti, disposte attorno a un canale centrale rettangolare

26
B 1988, p. 13, nota 3.
27
Sulle modalità di questa e delle altre ricerche archeologiche svolte a Grammichele e in
altri centri della provincia di Catania fra il 1987 e il 1994, caratterizzate da una documen-
tazione assai lacunosa, vedi P 2000, p. 69, nota 28.
28
È lo stesso podere interessato dall’intervento del 1985.
29
La pubblicazione analitica delle tombe e dei corredi funerari rinvenuti nel 1988 (C-
 2010), precedentemente oggetto soltanto di brevi note (T 1988-1989,
p. 57; B 1998, p. 22; P 1996, pp. 14-15; P 1998, p. 25; B
2000, p. 82; P 2000a, p. 94; P 2005, passim; P 2006, pp. 20-22), sconta la
grave carenza di documentazione relativa allo scavo e si fonda sulla ricostruzione di buona
parte dei contesti originari resa possibile dalla ricognizione di ogni possibile fonte di dati
(vedi C 2010, pp. 39-40).
30
C 2010, pp. 71-73.
31
Per l’introduzione nelle necropoli siciliane delle camere a pianta quadrangolare vedi
A 1988-1989, pp. 348-349, note 472-473; F 1994-1995, pp. 483-484.

98
Fig. 5.6. Planimetria e sezioni della necropoli di Casa Cantoniera, scavi 1988 (da C
2010).

Fig. 5.7. Necropoli di Casa Cantoniera, scavi 1988. Strada scavata nel costone roccioso
(da C 2010).

99
Fig. 5.8. Necropoli di Casa Cantoniera. Sezione e pianta della tomba V/1988 (da C
2010).

scavato fra di esse (Fig. 5.8); in asse con quest’ultimo, al centro di un lato
breve, si apre l’ingresso della camera32.
Nell’adozione di questa tipologia strutturale è stato colto un riflesso
dell’evoluzione dell’architettura domestica33, suffragata a Grammiche-
le dalla contemporanea attestazione della pianta quadrangolare negli
edifici dell’abitato34, e di possibili mutamenti nell’arredo interno del-
le abitazioni indigene35. Il passaggio dal contesto insediativo a quello
funerario, tuttavia, non può essere considerato automatico: l’adozione
del modulo rettilineo per le case, infatti, nasce probabilmente dall’op-
portunità di accogliere il modello edilizio greco per la sua maggiore
funzionalità; simili necessità non possono essere invece ravvisate in al-
cun modo nell’innovazione apportata all’architettura tombale, che deve
aver ricevuto un impulso determinante da un mutamento del rituale
funerario, come tale con forti implicazioni culturali. In un siffatto cam-
biamento è stato colto un riflesso dell’acquisizione di una ideologia di
matrice greca, riconoscibile nell’assimilazione dei defunti deposti sulle
banchine a dei commensali distesi sulle klinai e circondati dai vasi fun-
zionali al consumo di cibi e di vino, forse da ricollegare alla diffusione
in ambiente indigeno di dottrine orfiche e dionisiache36. Per valutare

32
Per la diffusione in Sicilia delle tombe a camera fornite di banchine laterali vedi A-
 1988-1989, p. 350, nota 477.
33
A 1988-1989, p. 348.
34
Vedi supra, § 3.2.
35
F 2005, p. 137.
36
A 1988-1989, p. 349; A 2003, p. 164; F 2005, p. 137. Il riferi-
mento al banchetto sembra cogliersi anche ad altri livelli, ravvisabili nella composizione
dei corredi (vedi infra).

100
appieno questo dato, sembra però importante sottolineare come non si
tratti di uno spazio concepito ad evidente imitazione di un andròn37, ma
di un adattamento della tradizionale tomba a grotticella che mantiene
nel suo complesso la sua fisionomia conservando, per esempio, l’apertura
posta sull’asse centrale della camera38.
Casi isolati, quanto ad architettura funeraria, sono costituiti dalle
tombe II e VI: la prima è una camera di forma pressappoco quadrango-
lare priva di articolazioni interne39; la seconda, anch’essa priva di banchi-
ne, è invece fornita di due fosse rettangolari parallele scavate nel piano
pavimentale della camera, separate da un sottile diaframma risparmiato
nella tenera roccia arenaria.
La forma del soffitto risulta difficilmente ricostruibile a causa del
suo frequente cedimento, avvenuto già in antico, a causa della friabilità
della roccia, o in seguito all’intervento dei mezzi meccanici nell’area di-
rettamente soprastante le tombe; tuttavia, il progressivo restringimento
delle parti più alte delle pareti lascia ipotizzare un soffitto a volta, i cui
brevi tratti conservati, a contatto con la parete di fondo di alcune came-
re, hanno un profilo arcuato40.
Le tombe sono solitamente precedute da un piccolo padiglione in-
tagliato nella parete rocciosa, o, talvolta, da un pozzetto quadrangolare
poco profondo in cui si apre l’ingresso (Fig. 5.9). Nessuna conserva in-
tatta la facciata esterna, ma non si può escludere che, in qualche caso,
essa potesse essere costruita e anteposta all’ingresso con intento di mo-
numentalizzazione, così come ipotizzato in altre necropoli indigene41;
la presenza di strutture architettoniche nei pressi delle tombe potrebbe
essere suggerita dal rinvenimento di un capitello eolico (Fig. 5.10), per il
quale è stata ipotizzata anche la riutilizzazione come portello di chiusu-
ra di una camera funeraria42. Soltanto in pochi casi è stato documentato
il sistema di chiusura dell’entrata, costituito da un lastrone posto verti-

37
Per valutare la differenza, si pensi alla grande tomba a camera tarantina detta “tomba
degli atleti” (vedi L P 1967-1968).
38
Le modalità di acquisizione e ibridazione del modello architettonico potrebbero tro-
vare un riscontro nel carattere misto dei corredi e nella dinamica della loro composizione
funzionale (vedi infra).
39
Tale dato non stupisce, dal momento che si tratta, con la tomba I (possibile incinerazio-
ne), di una delle tombe più antiche, scavata fra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C.
40
Non è tuttavia possibile, a causa del pessimo stato di conservazione, escludere che al-
cune camere potessero avere un soffitto a doppio spiovente, spesso presente nelle tombe
dotate di banchine: vedi A 1988-1989, p. 347; F 2005.
41
Si veda F 2005, pp. 136-137.
42
B 2000, p. 82. Nel capitello, datato al VI secolo a.C., è stata colta l’eco di una
sperimentazione progettuale di matrice coloniale, denotante una “sensibilità ionica” pro-

101
Fig. 5.9. Necropoli di Casa
Cantoniera. Ingresso della
tomba XIII/1988 (da C-
 2010).

Fig. 5.10. Capitello eolico


dalla necropoli di Casa Can-
toniera (da B 2000).

calmente a sbarrare il passaggio o da pietre rozzamente accatastate volte


ad ostruire ed occultare l’ingresso.
Il rituale funerario, al pari della tipologia delle tombe, risulta piut-
tosto omogeneo43. All’interno delle tombe, solitamente destinate ad
accogliere più defunti, è accertata la presenza di un numero limitato
di sepolture, variabile da un minimo di una a un massimo di sei. Ad ec-
cezione di un solo caso, singolarmente costituito dalla tomba più antica
(tomba I), per il quale sussiste l’ipotesi, ancorché dubbia, che si tratti di
un’incinerazione44, l’unico rito attestato è l’inumazione in camera ipo-
geica. Nella maggior parte dei casi i defunti erano distesi in posizione
supina sulle banchine, singolarmente o in coppia, ma si registra anche

pria di altri esempi attestati nello stesso comprensorio territoriale gravitante tra la ro-
dio-cretese Gela e la calcidese Lentini (T 2016, p. 390).
43
C 2010, pp. 73-75.
44
La documentazione relativa alla tomba è alquanto lacunosa, per cui il dato rimane
incerto (in proposito, vedi C 2010, pp. 40 e 73). Si tratterebbe di una precoce at-
testazione, tra la metà del VII e l’inizio del VI secolo a.C. circa, di un rito funebre greco,
sebbene già attestato nel sito: quattro ustrini, nella stessa necropoli, furono registrati già
da Paolo Orsi (vedi supra).

102
un caso in cui lo scheletro giaceva rannicchiato su un fianco45. Accade
frequentemente che alcune sepolture trovassero posto anche nel ca-
nale centrale, secondo diverse modalità di deposizione che denotano
una certa libertà nell’uso dello spazio funerario: esso poteva fungere da
luogo di giacitura primaria ma anche, probabilmente, da spazio in cui
raccogliere i resti scomposti delle deposizioni più antiche, rimosse dalle
banchine per fare posto alle nuove inumazioni.
Una singolare dinamica rituale sembra, invece, caratterizzare la già
ricordata tomba VI, che costituisce una tipologia sepolcrale per così
dire “ibrida”, caratterizzata dalla presenza di due fosse scavate nel pavi-
mento della camera (Fig. 5.11)46: nella fossa di destra, più profonda, si
trovavano resti di ossa sconnesse, pertinenti a più individui, e due sole
brocchette acrome; in quella di sinistra, invece, giaceva uno scheletro
incompleto, accompagnato dagli oggetti di corredo. Sembra verosimile
desumere che la fossa di destra fungesse da ossario dove riunire i resti
rimossi dalla fossa adiacente in occasione di ogni nuova deposizione47.
Nelle camere che ne sono fornite, le banchine, così come il canale
centrale, non erano destinate esclusivamente a ospitare le spoglie dei
morti ma potevano essere occupate anche dai corredi, costituiti in mas-
sima parte da vasellame ceramico.
Sono i corredi funerari a fornire i capisaldi cronologici per determi-
nare le fasi d’uso di questo settore della necropoli48. Si evince un periodo
di utilizzazione ininterrotta compreso fra la metà circa del VII e la fine
del V secolo a.C., estremi forniti, rispettivamente, dalle più antiche ce-
ramiche corinzie e coloniali, nonché dai più antichi prodotti indigeni
per il termine superiore, dai più tardi vasi attici a vernice nera per quello
inferiore. A questa lunga fase, in gran parte coincidente con l’arco cro-
nologico già definito da Paolo Orsi per le prime tombe da lui scavate
nella stessa area49, seguì uno sporadico fenomeno di riuso delle camere
tra la seconda metà del IV e l’inizio del III secolo a.C., quando alcune di

45
Si tratta di una delle deposizioni della tomba XVI. Per testimonianze precedenti
dell’uso di deporre i defunti in posizione rannicchiata e per la sua persistenza in età arcai-
ca, vedi A 1988-1989, pp. 350-352.
46
Per la presenza, nelle necropoli indigene, di elementi specifici della tradizione funeraria
greca, adattati alle esigenze locali, vedi F 2005, pp. 136-137: si ricordano, tra gli altri,
i casi delle tombe a fossa ricavate all’interno delle tradizionali camere ipogeiche a Mor-
gantina (L 1996) o destinate ad ospitare più deposizioni come quelle di Castiglione
di Ragusa (M 2012).
47
Le modalità di utilizzazione della tomba sono le stesse riscontrate nel caso simile della
tomba XXI della necropoli di Monte Casasia (F 1994-1995, pp. 442-443 e 484).
48
C 2010, pp. 109-112.
49
Vedi supra.

103
Fig. 5.11. Necropoli di Casa
Cantoniera. Tomba VI/1988
(da C 2010).

esse vennero riaperte per ospitare un numero assai limitato di sepolture,


non sembra più di una per tomba50.
Le tombe, che accolsero sepolture per un periodo di tempo più o
meno prolungato, sono suddivisibili in due gruppi su base cronologi-
ca. Al primo (gruppo 1) appartengono le tombe I e II, le uniche che
abbiano restituito materiale databile tra il VII e l’inizio del VI secolo
a.C., mentre i reperti più recenti in esse rinvenuti sembrano indicarne
un uso protrattosi fino alla fine del secolo. Il secondo gruppo (gruppo
2) comprende tutte le altre tombe, la cui escavazione avvenne fra il se-
condo e l’ultimo quarto del VI secolo a.C. In relazione alla durata del
loro periodo di utilizzazione sono stati riconosciuti tre sottogruppi, cui
appartengono rispettivamente le tombe definitivamente chiuse entro la
fine del VI secolo a.C. (gruppo 2a: tombe III-IV), quelle in uso fino al
primo quarto o alla prima metà del V secolo a.C. (gruppo 2b: tombe
V-XV) e, infine, le camere che accolsero sepolture fino agli anni finali
del V secolo a.C. (gruppo 2c: tombe XVI-XVIII).
Un esame d’insieme dei corredi permette di individuare, nelle sue
linee generali, l’andamento diacronico e tipologico delle attestazioni
delle diverse classi ceramiche e i rapporti quantitativi fra di esse (Fig.
5.12)51.

50
Analogo fenomeno di riuso in età tardoclassica o ellenistica si verifica a Montagna
di marzo (M 1966, pp. 64-65), Centuripe (R 1972-1973, pp. 366-373),
Morgantina (L 1996, p. 18).
51
Per lo studio analitico della tipologia della ceramica rinvenuta nella necropoli, vedi
C 2010, pp. 78-109; per i limiti che la natura del campione di materiali pone ad
un’analisi quantitativa, vedi C 2010, p. 110, nota 236.

104
Fig. 5.12. Necropoli di Casa Cantoniera. Andamento diacronico delle attestazioni delle
diverse classi ceramiche e loro percentuali sul totale dei rinvenimenti (da C 2010).

La presenza di ceramica greca è ben documentata sin dal VII secolo


a.C., rappresentata dalle coppe biansate a labbro distinto di tradizio-
ne protocorinzia e greco-orientale, di cui si registrano anche imitazioni
coloniali, e dalle oinochoai a decorazione geometrica di produzione si-
celiota, mentre entro l’inizio del VI secolo si registra la presenza di un
esemplare di coppa ionica B1 e delle prime importazioni corinzie. Alle
prime attestazioni di ceramica greca si associano anche i più antichi
vasi indigeni documentati, costituiti da due oinochoai in argilla grigia
(Fig. 5.13).
Fra il secondo quarto del VI e l’inizio del V secolo a.C., arco di
tempo in cui si collocano gran parte dei corredi, la gamma delle classi
ceramiche documentate si amplia notevolmente (Fig. 5.14). Fra le pro-
duzioni greche, la ceramica corinzia è presente con un numero di vasi
piuttosto esiguo, tra cui prevalgono gli exaleiptra tardocorinzi decorati
nel white style52. Parallelamente si registra una massiccia presenza di
vasi di tradizione greco-orientale, molti dei quali probabilmente ascri-
vibili a produzioni siceliote, composti soprattutto da coppe ioniche di
tipo B2, cui si associano anche altre forme (askoi, exaleiptra, ciotole e
altre ancora). La ceramica coloniale, già attestata in precedenza, con-
tinua ad essere ben rappresentata, sebbene quasi esclusivamente dal

52
Il dato sembrerebbe confermare una tendenza generalizzata nei centri indigeni della
Sicilia, probabilmente dovuta al particolare significato che questo tipo di vaso rivestiva nel
locale rituale funerario (L 1996, p. 43). Anche gli altri vasi documentati (una pisside,
kotylai, aryballoi), sebbene in quantità ridotta, confermano il quadro tipologico e lo svilup-
po cronologico delle importazioni corinzie noto nei centri interni dell’isola.

105
Fig. 5.13. Necropoli di Casa Cantoniera. Ceramiche dalla tomba I/1988 (da C
2010).

grande numero di oinochoai a bocca trilobata decorate per immersione


che costituiscono un elemento costante dei corredi di VI secolo. È
questo il periodo in cui fanno la loro comparsa anche le ceramiche la-
coniche, ascrivibili alla categoria del vasellame da banchetto di qualità,
prodotto dalle officine spartane ed esportato in tutto il Mediterraneo
nel corso dell’età arcaica: si tratta di tre crateri a staffa a vernice nera, di
cui uno in set con un’oinochoe, tra cui è possibile ipotizzare la presenza
di probabili imitazioni.
A partire dalla metà del secolo sono documentati i primi vasi attici
e le relative imitazioni, il cui numero di attestazioni cresce a partire
dall’ultimo quarto del VI secolo parallelamente al declino delle impor-
tazioni corinzie. La ceramica attica figurata, circoscritta alla tecnica a
figure nere, è costituita da un gruppo di sette vasi, per lo più kylikes,
generalmente di livello qualitativo non elevato. Fra tutti si distingue,
per antichità e qualità artigianale, una band-cup decorata nello stile dei
“Piccoli Maestri” (Fig. 5.15); gli altri esemplari, concentrati nei decen-
ni a cavallo fra il VI e il V secolo a.C., sono espressione della tarda
produzione a figure nere: due kylikes decorate da un fregio di palmette
fra le anse, una coppia di kylikes ad occhioni attribuibili al Leafless
Group (Fig. 5.16) ed una coppa skyphoide ricollegabile al Gruppo
CHC. Anche tra la ceramica a vernice nera, che diviene comune nello
stesso periodo, predominano le kylikes, concentrate, con la loro varietà

106
Fig. 5.14. Necropoli di Casa Cantoniera. Corredo della tomba V/1988 (da C 2010).

107
Fig. 5.15. Necropoli di Casa Cantoniera. Kylix attica dalla tomba IV/1988 (da C
2010).

di tipi53, fra il 525 e il 470 a.C.: il tipo C, plain rim e concave lip, il tipo
stemless large inset lip, la kylix skyphoide del tipo Early: 6th century and
early 5th54.
Come già nel caso della kotyle rinvenuta da Orsi55, alcuni vasi attici
riportano iscrizioni graffite: all’interno della vasca di due coppe sono
graffite due brevi iscrizioni in alfabeto greco, interpretate come formule
di possesso; un caso analogo, tuttavia, è costituito da una scodella mo-
noansata indigena con iscrizione graffita all’esterno56.
Si inquadra in questa fase anche la quasi totalità del vasellame in-
digeno a decorazione dipinta del tipo “matt painted”, riconducibile alla
facies di Licodia Eubea: costituito soprattutto da anfore e scodelle, cui
si aggiungono oinochoai, askoi ed altre forme documentate da singoli
esemplari (krateriskos, scodellone triansato, pisside stamnoide), esso de-
nota una commistione di forme risalenti alla tradizione indigena dell’età
del Ferro e di altre mutuate dal repertorio greco57.
La presenza di ceramica da fuoco, presente soltanto in questa fase,
è quantitativamente e tipologicamente molto limitata, circoscritta a
due chytrai globulari tardo-arcaiche di derivazione greca, il cui uso
effettivo è testimoniato dalle tracce di esposizione al fuoco sulla super-
ficie esterna. Le numerose attestazioni di questi recipienti, non limita-
te a contesti domestici, ne testimoniano l’ampio utilizzo anche come

53
Per la tipologia della ceramica attica a vernice nera si fa riferimento alla classificazione
dei materiali dell’agorà di Atene (S, T 1970).
54
Per il significato che tale tipo di kylix, ridefinita “Castulo cup”, può assumere nel mon-
do anellenico, vedi S 1996.
55
Vedi supra, § 5.1.
56
Vedi infra, capitolo 7.
57
Vedi infra, § 6.2, per una discussione più ampia sull’artigianato ceramico locale.

108
Fig. 5.16. Necropoli di Casa Cantoniera. Kylikes attiche dalla tomba XV/1988 (da C-
 2010).

oggetti di corredo nelle sepolture o come offerte votive58. Nei centri


indigeni della Sicilia, le chytrai di derivazione greca sono ampiamente
diffuse, sia in contesti abitativi sia funerari, soprattutto dal VI secolo
a.C.59. Del tutto assenti nelle tombe di questo settore di necropoli,
invece, sono le pentole proprie della tradizione indigena, attestate,
sebbene in numero limitato, in altri siti della Sicilia orientale60. L’uso
di chytrai di tipo greco, prodotte localmente o importate dalle colonie,
destinate alla cottura di zuppe semiliquide di cereali e di leguminose61,
a differenza delle tradizionali pentole indigene, più adatte alla cottura
di cibi che richiedono minore quantità d’acqua62, risulta significativo
anche perché testimonia un’innovazione in una classe di materiali che
è tradizionalmente più conservativa in quanto non condizionata da
valori simbolici bensì specchio di abitudini quotidiane come le prati-
che alimentari e dei loro mutamenti63.

58
Per lo sviluppo e la funzione della forma nella Grecia propria e in Sicilia, vedi A-
 1988-1989, pp. 369-371 (in particolare le note 592-594 e 597).
59
Per la diffusione in strati abitativi, vedi A 1988-1989, p. 225, nota 599; cfr.
B, P, R 2001, nn. C21-C25 per esemplari in contesti di Grammi-
chele. Per la diffusione in ambito funerario, vedi L 1996, p. 90; A, A-
 2018, p. 181. L’uso funerario della chytra è attestato in Sicilia anche in ambiente
punico: cfr. D S, F 1998, p. 308 (tipo C 1b).
60
Per tipologia e attestazioni, vedi C 2018, pp. 169-171; 198-199.
61
B 1988, p. 45; B 1994, p. 408.
62
A 2005, pp. 360-361.
63
La loro introduzione, nel corso del VI secolo a.C., nei centri epicori, soprattutto se pre-
coce, è stata ipoteticamente ricollegata alla presenza stanziale di Greci (A 2003,
pp. 182 e 199). Per i possibili riflessi delle abitudini alimentari individuabili nelle forme

109
Per concludere il quadro relativo alla ceramica, in quasi la metà delle
tombe con corredi databili tra la fine del VI e la prima metà del V secolo
a.C., sono rinvenute lucerne: sono tutte riconducibili al tipo Athenian
Agora 19B64, molto frequenti nei contesti siciliani coevi e considerate
di produzione attica o greco-orientale65; alla luce della loro imponen-
te diffusione nell’isola, tuttavia, non può essere scartata l’ipotesi di una
provenienza da fabbriche coloniali66. La loro reale utilizzazione, prima
o durante il rito funebre, è documentata con certezza dalle tracce di
esposizione al fuoco riconoscibili sul beccuccio di molti esemplari: il
motivo della loro deposizione nelle tombe, costume diffuso cui si può
attribuire soltanto una generica simbologia funeraria67, potrebbe essere
legato anche all’esigenza pratica di illuminare la camera ipogeica in oc-
casione delle esequie.
Gli oggetti di ornamento personale in metallo o altro materiale,
che abbellivano le vesti e il corpo dei defunti in osservanza dell’anti-
co costume indigeno di ascendenza protostorica, sono documentati in
numero limitato, in accordo con l’evolversi del costume funerario che
in età arcaica che tende a ridurne progressivamente la presenza nei cor-
redi68. La loro persistenza, soprattutto per quanto riguarda l’uso della
fibula, potrebbe rispecchiare il conservatorismo nell’abbigliamento pro-
prio della componente femminile indigena69. Essi sono stati rinvenuti
in cinque tombe, nessuna delle quali accolse sepolture dopo la prima
metà del V secolo a.C. (ad eccezione di più tarde riutilizzazioni). L’e-
sigua documentazione di reperti metallici, peraltro assai frammentaria,
è circoscritta a pochi oggetti in bronzo (fibule ad arco rialzato, anel-
li, una spiralina, vaghi di collana), piombo (un piccolo frammento di
lamina), argento (un anello, un elemento ornamentale e una spiralina
“fermatrecce”). Mentre questi ultimi sono di probabile fabbricazione
greco-coloniale70, la maggior parte della suppellettile bronzea ha una
lunga storia nella cultura indigena e risale a prototipi di età protostorica.

della ceramica refrattaria vedi A 1988-1989, pp. 370-371; A 2005, pp.
360-362.
64
H H 1958, pp. 40-43, tavv. 5 e 33.
65
Si veda F 1994-1995, p. 550. Per la diffusione in Sicilia, vedi Himera II, p. 531.
66
F 1994-1995, p. 552, nota 285.
67
B 1992, p. 54; A, A 2018, p. 178 (con riferimento ad un
contesto funerario con corredi della stessa facies).
68
In proposito, si vedano A 1988-1989, p. 382; F 1994-1995, p. 486.
69
A 2003, p. 165.
70
Per l’origine e la diffusione degli oggetti in argento in ambiente indigeno e siceliota,
vedi A 1988-1989, p. 353.

110
Fig. 5.17. Necropoli di Casa Cantoniera. Vasi attici dalle tombe XVII e XVIII/1988 (da
C 2010).

Nel modesto panorama fin qui delineato si distinguono i pochi reperti


in pasta vitrea (vaghi di collana, frammenti di balsamari policromi), esile
testimonianza della circolazione di questi preziosi oggetti di artigianato
di antichissima tradizione71.
Non sono molte, infine, le camere funerarie che accolsero deposizio-
ni nel corso del V secolo avanzato e soltanto tre furono utilizzate fino
alla fine di esso. Nei corredi di questo periodo perdurano le importazio-
ni attiche (Fig. 5.17), che con gli esemplari più tardi forniscono il ter-
mine cronologico per le ultime sepolture, mentre si registra la sensibile
riduzione dei prodotti di altra fabbrica, sia greca sia indigena, limitati a
pochi vasi d’uso comune.
Il quadro fin qui delineato non si discosta, nelle sue linee generali, da
quello restituito dai coevi insediamenti della Sicilia centro-orientale e
riflette la circolazione di merci e lo sviluppo delle direttrici commerciali
usuale fra l’età arcaica e la prima età classica, in cui il sito si dimostra
pienamente inserito. Un dato che sembra, invece, caratterizzare la ne-
cropoli di Grammichele, è costituito dalla grande quantità di ceramica
greca, che nel suo insieme costituisce più del 75% del vasellame rinve-
nuto, relegando a meno di un quarto del totale la ceramica di tradizione
locale. Sebbene occorra cautela nel valutare questi dati numerici, consi-
derata la difficoltà nell’assegnare alcuni gruppi di vasi all’una o all’altra
sfera produttiva72 e le differenze diacroniche nelle attestazioni delle sin-

71
Per l’origine, le tecniche di fabbricazione, i luoghi di produzione e la diffusione delle
paste vitree, vedi S G 1998, p. 374 ss.
72
Sul problema, si vedano le considerazioni sviluppate in C 2016.

111
gole classi, non si può fare a meno di notare come negli altri siti ricaden-
ti nella stessa area geografica, di cui possediamo una documentazione
sufficiente a sviluppare considerazioni di carattere generale, la ceramica
indigena sia presente in percentuali ben più significative73.
In relazione alle categorie funzionali dei vasi deposti nelle tombe,
il 90% circa appartiene alla categoria del vasellame da mensa, mentre i
contenitori da toletta, per unguenti e profumi, le ceramiche da fuoco e
le lucerne non superano, nel loro insieme, il 10%.
Lo sbilanciamento a favore dei vasi da mensa si spiega con la con-
notazione funzionale dei corredi, nei quali è spesso possibile ricono-
scere dei servizi da banchetto. Se i corredi non sono spesso ricostruibili
nella loro integrità, a causa dello sconvolgimento dovuto al riutilizzo
prolungato delle tombe, al loro stato di conservazione o alle modalità
dello scavo, tuttavia è possibile analizzarne alcuni, integralmente rico-
struibili nella loro composizione originaria con un accettabile margine
di affidabilità per la loro disposizione nelle camere funerarie o perché
rinvenuti in tombe monosome. È il caso dei corredi delle tombe VII,
XIII e XIV (Figg. 5.18 e 5.19), tutti datati fra l’ultimo quarto del VI e il
primo quarto del V sec. a.C., in cui vasi indigeni e greci, funzionalmente
complementari, concorrono a formare quelli che sembrano dei veri e
propri servizi da banchetto, in cui il riferimento al consumo del vino,
plausibile in età tardo-arcaica, è reso evidente dall’abbondanza di forme
potorie74. Queste sono tutte di produzione greca, siceliota o d’importa-
zione, costituite per lo più da coppe di tipo ionico B2 e da coppe attiche
a vernice nera75. Un’analoga connotazione può essere intravista anche in
altri corredi la cui composizione esatta risulta però difficilmente appu-
rabile. Alla sfera della commensalità, inoltre, potrebbe rimandare anche
la presenza degli askoi, alla luce della destinazione di contenitore per
liquidi, e in particolare vino, suggerita dalla nota iscrizione incisa su un
esemplare di Centuripe76.
Come dimostrano questi corredi, nonostante il cratere sia ben rap-
presentato nella necropoli da esemplari laconici ed attici, che ne testi-
moniano la diffusione e l’uso, la sua presenza non è costante all’interno

73
La ceramica indigena costituisce il 48,7% del totale a Morgantina (L 1996, p.
126), il 38% a Monte Casasia (F 1994-1995, pp. 554-555), il 37% nella necropoli
occidentale di Castiglione di Ragusa (M 2012, p. 33).
74
C 2010, pp. 112-113. Per una proposta organica d’analisi funzionale dei corredi
della necropoli, vedi C 2019.
75
Sulla carenza di forme potorie nel repertorio indigeno della facies di Licodia Eubea,
vedi C 2018, pp. 198; 223; 232.
76
A 1991, p. 107, nota 35 con bibliografia precedente.

112
Fig. 5.18. Necropoli di Casa Cantoniera. Corredo della tomba VII/1988 (da C
2010).

Fig. 5.19. Necropoli di Casa Cantoniera. Corredo della tomba XIII/1988 (da C
2010).

113
delle tombe. Nei corredi in questione, d’altra parte, è sempre presente
un’anfora, forma vascolare tipica del repertorio indigeno, che col cratere
condivide le dimensioni medio-grandi e l’idoneità a contenere liquidi,
costantemente associata a piccole oinochoai adatte a prelevarne e distri-
buirne il contenuto: le loro caratteristiche morfologiche77 appaiono, in-
fatti, indicarne la destinazione principale nel travaso di liquidi da un
contenitore all’altro, una possibilità suggerita anche dai casi di rinve-
nimento, in contesti affini, di oinochoai analoghe all’interno di anfore o
hydriai, possibile indice dell’unità funzionale del set 78. Non sembra da
escludere, quindi, la possibilità che l’anfora indigena, per la sua tettoni-
ca79, potesse sostituire funzionalmente il cratere, ipotesi del resto formu-
labile anche intuitivamente sulla base della non frequente associazione
dei due contenitori all’interno della stessa tomba, circostanza che sembra
connotarli come reciprocamente alternativi. Che cosa questo significhi,
in termini di interpretazione dei drinking patterns (per quanto traslati in
ambito funerario) di cui tali corredi sono espressione, è difficile dirlo. Se
il cratere è tradizionalmente considerato un sicuro marker archeologico
del consumo di vino graeco more, non sono mancate, recentemente, posi-
zioni critiche nei confronti di tale assunto, volte a mettere in evidenza la
variabilità della sua valenza su scala diacronica e diatopica80. Non è det-
to, del resto, che le pratiche conviviali indigene contemplassero sempre
la pratica greca di miscelare vino e acqua, come sembrerebbe suggerire
l’adozione di piccoli crateri fabbricati localmente, le cui ridotte dimen-
sioni potrebbero tradire una funzione diversa81. Quanto alle modalità di
consumo del vino, inoltre, è stato notato come berlo akratos, puro, fos-
se considerata un’usanza propria non solo dei popoli barbari ma anche
dei satiri che compongono il corteo di Dioniso, alla cui sfera sembrano
alludere i temi iconografici (komos, satiri, menadi) raffigurati sulla cera-
mica attica e in particolar modo sulle kylikes e sugli altri vasi potori: una

77
Le più significative, dal punto di vista della funzionalità, sono le piccole dimensioni,
compatibili con l’accesso attraverso l’imboccatura delle anfore indigene, l’orlo trilobato, la
presa a nastro impostata all’altezza dell’imboccatura, il baricentro spesso piuttosto alto e il
piede di piccole dimensioni poco adatto all’appoggio stabile del contenitore pieno.
78
Si veda L 1996, p. 156, nn. 6-11 e 6-15; p. 198, nn. 27-1 e 27-2; p. 214, nn. 32-5
e 32-7 (anfore); p. 160, nn. 9-3 e 9-6; p. 174, nn. 9-226 e 9-227; p. 222, nn. 50-5 e 50-7
(hydriai).
79
Caratteristiche morfologiche significative, in quest’ottica, sono la capacità, l’ampiezza
dell’imboccatura e della base d’appoggio, la posizione e la conformazione delle anse, evi-
dentemente non adatte a favorire l’azione del versare.
80
Si vedano H 2004, pp. 44-45; K 2012, pp. 225-228; R 2019.
81
A 2003, pp. 192-193. Per la tipologia dei crateri e krateriskoi indigeni, vedi
C 2018, pp. 64-71; 179-181.

114
simile scelta, qualora fosse frutto di una deliberata selezione tematica e
non di una semplice casualità, come suggerisce l’esclusività dei soggetti,
potrebbe essere la spia della capacità, da parte della comunità o di alcuni
settori di essa, di cogliere il significato profondo e le complesse allusioni
alla sfera oltremondana insiti nell’universo dionisiaco82.
L’allusione alla sfera conviviale, infine, è rafforzata dalle iscrizioni di
possesso graffite sui vasi, tra cui la prevalenza forme potorie d’importa-
zione attica potrebbe indicare un richiamo, più esplicito rispetto ad altri
indizi, al simposio ed alla consumazione codificata del vino83.
Quelli di Grammichele si inseriscono in una più vasta casistica di
corredi funerari di centri della Sicilia interna, tradizionalmente in-
terpretati come il segno dell’acquisizione, da parte delle popolazio-
ni indigene o almeno delle loro elites, di pratiche di commensalità di
matrice ellenica implicanti anche il consumo di vino, come suggerito
dalla precoce adozione del relativo vasellame specializzato84. Come la
recente letteratura archeologica dimostra, tuttavia, la questione può
essere affrontata applicando paradigmi interpretativi diversi, tendenti
a valorizzare ora i processi di trasformazione delle tradizioni locali
innescati dal contatto con i Greci, ora, al contrario, gli aspetti di con-
tinuità nelle pratiche indigene85.
La composizione mista dei corredi mette bene in luce la proble-
maticità dell’interpretazione della documentazione archeologica in
relazione alla necessità di non cadere in generalizzazioni e di cogliere,
invece, sfumature e specificità locali celate dietro la ricezione e l’uso

82
Si vedano A 2005a, pp. 115-117 e A, A 2018, pp. 197-
200 per le considerazioni sviluppate, a proposito della tomba Est 31 di Montagna di
Marzo, circa il possibile significato da attribuire alla connotazione dionisiaca dei corredi
ed i richiami che essa potrebbe sottintendere a simbologie salvifiche della religione di
Demetra e di altre dottrine misteriche. Al diffondersi di queste dottrine, che in Magna
Grecia coinvolge anche le aristocrazie indigene, è stata connessa la progressiva adozione
del banchetto funebre dalla seconda metà del VI sec. a.C. (A 1988-1989, p. 349;
A 2003, p. 164).
83
A 1991, pp. 107-108; A 2003, pp. 220-221; A, A
2018, pp. 194-195.
84
Per la Sicilia centro-orientale, si vedano L 1991, pp. 6-7; A 1991, pp.
105-111; H 2000; A 2003, p. 164. Le più antiche attestazioni del cratere
risalgono agli esemplari su alto piede con anse composite a staffa, di probabile derivazio-
ne euboica, rinvenuti a Cozzo della Tignusa (nel territorio di Lentini) e nella necropoli
del Marcellino a Villasmundo, inquadrabili ancora nella facies del Finocchito (V,
V 1956, p. 15, tav. V,1; P 1982, p. 161, fig. 19, tav. XLI, 3; V 1978, p.
106, tav. XXVI, 2).
85
Si vedano H 2000 pp. 48-51; A 2004, p. 73. Per una sintesi con rife-
rimento anche al caso di Terravecchia di Grammichele, vedi C 2016, pp. 89-91.

115
di oggetti di origine allogena che, in contesti di contatto fra culture,
possono acquisire significati diversi da quelli originari86. In altri termi-
ni, bisogna rifuggire da facili quanto infondati riferimenti a pratiche
simposiache che implicherebbero valenze sociali e politiche non tra-
sferibili con facilità dall’ambito greco a quello indigeno in mancanza
dell’apporto delle fonti letterarie87. Rimanendo, invece, ancorati alla
documentazione archeologica, sembra di poter concludere che se l’at-
testazione del cratere nel sito rivela la conoscenza delle modalità gre-
che del consumo del vino88, il generale carattere misto dei corredi in-
dica probabilmente, più che la volontà di esibire i simboli di un’usanza
esotica, piuttosto la consuetudine con una pratica non indigena, spie-
gabile alla luce di intense forme di contatto che a Grammichele sono
segnalate da molti indizi. Inoltre, la possibile sostituzione del cratere
con un recipiente di antica tradizione locale come l’anfora, forse ado-
perato con la medesima funzione, potrebbe essere indice tanto di una
sua reinterpretazione in chiave di rivendicazione identitaria89, quanto
del riferimento ad un diverso modello di comportamento conviviale,
non necessariamente di matrice anellenica90.
Si tratta, con tutta evidenza, di indagare dinamiche culturali com-
plesse che, anche in ambiti territoriali e contesti diversi, pongono analo-
ghi problemi interpretativi91. Tali dinamiche implicano una lettura che
tenga conto delle innumerevoli varianti di contesto anche su scala locale
e regionale, in grado di valutare in che misura e con quali modalità gli
oggetti costituiscano un sistema coerente in sé e in relazione al più am-
pio contesto (complesso archeologico, sito, regione) in cui sono inseriti,

86
H 2006, p. 153-154.
87
Per analoghi richiami alla prudenza, relativamente ai contesti siciliani, si vedano A-
 1991, p. 105; A 2003, p. 193. Un diverso statuto delle pratiche di commen-
salità indigene è indicato, per esempio, dalla probabile partecipazione delle donne a questi
rituali, inferita da alcuni contesti funerari (L 1996, pp. 129-133).
88
Per la valenza del rinvenimento del cratere in contesti anellenici, si veda il caso della
Messapia in S 1997, p. 357.
89
Nella medesima direzione interpretativa spinge l’uso del cosiddetto “alpha siculo” nelle
iscrizioni graffite sui vasi, interpretato da Luciano Agostiniani come marker socioculturale
ed espressione di istanze autoidentificative (A 1988-1989, pp. 181-182).
90
Per la coesistenza di diversi modelli di consumo del vino nell’ambito del mondo greco,
vedi K 2012, pp. 225-228.
91
Il problema della comprensione dei fenomeni legati all’adozione di drinking patterns
estranei alla tradizione locale, implicante la valutazione dei cambiamenti nelle pratiche
culturali ad essi connesse, è stato a più riprese oggetto di riflessione da parte di M. Dietler
e al centro della sua elaborazione di modelli interpretativi ottenuti dalla combinazione di
dati archeologici ed analisi antropologica (D 1990; D 1996; D 1997;
D, H 2001; D 2010, capitoli 3 e 7).

116
alla luce dell’intreccio di legami e relazioni sviluppato a più livelli, nel
corso del tempo, dalla comunità o da settori di essa92.
Quanto detto, quindi, non implica una generalizzata adesione ai costu-
mi funerari greci. Lo si può notare, per esempio, anche nello scarso peso
della ceramica da toletta,probabilmente da leggersi come un riflesso del li-
mitato uso di questa categoria di contenitori sia nella vita quotidiana delle
popolazioni indigene, sia nel loro rituale funerario, in cui non doveva aver
assunto un rilievo particolare il costume greco dell’unzione del cadavere,
la cui acquisizione è solitamente indicata dalla diffusione delle lekythoi93.
Nuovamente come segno di un progressivo allontanamento dalle pratiche
funerarie tradizionali in favore dell’assunzione di abitudini ispirate a model-
li greci, invece, possono essere lette la scarsa quantità di suppellettile metal-
lica deposta nelle tombe e la riduzione del numero degli oggetti che com-
pongono i corredi, come anche la diminuzione delle deposizioni all’interno
delle camere funerarie, forse dovuta al passaggio da una famiglia “allargata”
a struttura gentilizia ad una famiglia di tipo nucleare94.
Alla luce del quadro fin qui tracciato, la necessaria prudenza impone
di non connotare eccessivamente i corredi mediante un codice di riferi-
mento univoco. Tuttavia, in un sito in cui l’acquisizione di tratti di cul-
tura materiale di tipo greco è estesa anche ad altri campi rilevanti della
documentazione archeologica, sembra opportuno registrare la coloritu-
ra ellenizzante di una pratica di commensalità cui il nucleo di individui
che seppellirono i loro morti nelle camere ipogeiche di Casa Cantoniera
ha voluto alludere tramite la scelta degli oggetti deposti a corredo delle
sepolture. Tali corredi dimostrano pienamente la loro natura di sistemi
polisemici, partecipi tanto del campo del reale, legato alla loro materialità
e all’effettivo svolgimento del rito funebre, quanto della sfera simbolica
insita nella natura stessa del contesto, rispecchiando, con la loro compo-
sizione, una società ibrida e con strutture sociali in continua evoluzione.

5.3. Altre aree di necropoli arcaiche

Altri nuclei di necropoli arcaiche sono noti nell’area di Terravecchia


grazie ai rinvenimenti effettuati nel corso degli anni, durante le ricerche

92
È il concetto di “entanglement” sviluppato da Dietler quale cornice entro cui inter-
pretare i fenomeni di cambiamento desumibili dalla cultura materiale (vedi, da ultimo,
D 2010).
93
A 1991, p. 105.
94
A 1988-1989, pp. 352; 382; F 1994-1995, p. 486; A 2003, p. 165.

117
archeologiche nel sito o in seguito ad interventi clandestini, e ai resti
ancora oggi visibili sulle balze delle colline e nelle zone circostanti.
I rinvenimenti più numerosi si concentrano sui declivi attorno al
Poggio dei Pini. Un’area sepolcrale, ampiamente manomessa da scavi
clandestini, fu intercettata nei primi anni Novanta del secolo scorso sul-
le estreme pendici settentrionali del colle, a breve distanza dalla capan-
na protostorica collegata alla necropoli di Madonna del Piano-Mulino
della Badia95: si tratta di una tomba ipogeica con deposizioni multiple,
databile al VI secolo a.C., costituita da una camera a pianta quadrango-
lare, dotata di banchine su tre lati, accessibile attraverso un breve dro-
mos aperto sul fondo di un profondo padiglione trapezoidale con basse
banchine lungo i lati (Fig. 5.20); la camera è connessa con altri ambienti
scavati nella roccia o parzialmente costruiti, la cui natura non appare
identificabile96.
Sul fianco nord-orientale della collina, pochi metri a nord di alcu-
ne strutture abitative arcaiche, furono scoperti, nel 1996, i resti di una
tomba a camera, contenente materiale di corredo databile nella seconda
metà del VI secolo a.C.97 Altre tombe a camera attribuibili ad età arcai-
ca si trovano lungo le pendici orientali del colle e nelle balze più a sud,
in possibile connessione con la vasta necropoli di Casa Cantoniera98.
Un ulteriore dato, infine, proviene dalle campagne a nord del com-
plesso collinare di Terravecchia, in località Piano Croce, teatro di alcune
scoperte di Paolo Orsi, che vi aveva segnalato la presenza di sepolture
d’età ellenistico-romana99. In questa zona, sono segnalate diverse tracce
di necropoli o nuclei di sepolture, purtroppo di tipologia imprecisata,
caratterizzate dalla presenza di materiali ceramici di tipo sia greco sia
indigeno, riferibili alla facies arcaica di Licodia Eubea100. È possibile che

95
Per il villaggio protostorico individuato sul pianoro all’estremità settentrionale di Pog-
gio dei Pini, vedi supra, capitolo 2.
96
L’indagine fu svolta dalla Soprintendenza di Catania, contestualmente allo scavo della
capanna protostorica. Le scarne informazioni esistenti sono riprese in R 2000, p.
75 e, in particolare, p. 80, nota 47; altri dati sono deducibili dalla documentazione grafica
dello scavo.
97
P 1997-1998, p. 199. Per i rinvenimenti relativi alle strutture abitative, vedi supra,
§ 3.2.
98
L’ingresso di diverse camere è tutt’oggi visibile nelle pareti rocciose e negli scoscen-
dimenti che fiancheggiano la strada provinciale 33, lungo il percorso che dal fondovalle
permette di risalire, costeggiandone i fianchi orientali, fino alle alture di Terravecchia.
Alcune di queste furono individuate negli stessi anni dei rinvenimenti precedentemente
illustrati (R 2000, p. 80, nota 47; P 1997-1998, p. 197).
99
Vedi infra, § 5.4.
100
B 1984-1985, p. 714.

118
Fig. 5.20. Poggio dei Pini. Area sepolcrale (rilievo Regione Siciliana, Assessorato regiona-
le dei beni culturali e I.S., Soprintendenza di Catania).

l’area sepolcrale, ubicata in una posizione eccentrica rispetto all’abitato


di Terravecchia ma ad esso prossima, sia da connettere al vicino insedia-
mento tardoarcaico parzialmente messo in luce dalla Soprintendenza di
Siracusa negli anni 1983-1984, cui è stato attribuito un carattere agri-
colo101.

5.4. Le necropoli di età classica ed ellenistica

Per le fasi post arcaiche dell’insediamento di Terravecchia, relative


alla piena età classica ed all’età ellenistica, le informazioni circa le aree
destinate a necropoli sono poche ed estremamente frammentarie.
È questo il periodo in cui si registra, a partire dal V secolo a.C.
inoltrato, il progressivo abbandono del tradizionale rituale funerario
dell’inumazione entro camere ipogeiche, che aveva ininterrottamente
caratterizzato le comunità indigene siciliane sin dalla preistoria. Nessu-
na delle tombe a camera conosciute nel sito, infatti, risulta scavata oltre
la fine del VI secolo a.C., mentre alcune continuano ad accogliere depo-
sizioni, in numero progressivamente decrescente, fino alla fine del secolo
successivo. Il cambiamento nel costume funerario avviene a vantaggio

101
B 1984-1985, pp. 713-714. Vedi supra, § 3.2.

119
dell’adozione di tipologie sepolcrali greche che, attestate nel sito già in
età arcaica, con il passare del tempo diventano pressoché esclusive102.
Sepolture risalenti al V secolo a.C. si registrano nella necropoli di
Casa Cantoniera103, dove tombe di tipo greco si affiancano alle tombe a
camera; se l’uso di queste ultime è documentato con certezza nel settore
di necropoli indagato nel 1988, la carenza di dati editi non consente di
sapere quali altre tipologie fossero utilizzate in questo periodo. Le tom-
be scavate nella necropoli da Paolo Orsi appartengono a tipologie per
lo più di derivazione greca, delle quali le tombe a cappuccina possono
probabilmente essere considerate tra le più tarde.
Ad un periodo compreso tra il V ed il IV secolo a.C. sono state
riferite alcune tombe scoperte sul versante settentrionale del Poggio dei
Pini, nell’area occupata in età protostorica dal villaggio capannicolo e
successivamente utilizzata come area sepolcrale già in età arcaica104. Si
tratta di un piccolo nucleo di tombe a fossa, scavate nel banco roccioso e
ricoperte di lastroni lapidei, che testimonia la continuità d’uso dell’area
durante buona parte dell’arco cronologico di sviluppo dell’insediamen-
to105. Altre tombe, genericamente attribuite ad epoca ellenistica, sono
venute alla luce sul fianco orientale del colle106.
In età tardoclassica ed ellenistica continuano ad essere sede di de-
posizioni funerarie anche le balze sud-occidentali di Poggio dell’Aquila.
La notizia si deve a Paolo Orsi che, guidato dalle indicazioni di un con-
tadino del luogo, individuò un piccolo gruppo di sepolture di cronologia
più recente rispetto a quelle arcaiche presenti nella stessa area107. Solo
tre poterono essere esplorate, mentre di altre, probabilmente distrutte
per ricavarne pietra da costruzione, fu notata la presenza di tracce sparse
sulla porzione inferiore del pendio108. Vennero indagate due tombe a
cappuccina, cui lo studioso attribuì una imprecisata datazione tarda a
causa della carenza di indicatori cronologici: nella prima lo scheletro era
accompagnato da un unico vaso acromo, la seconda era completamente

102
Per la precoce attestazione nel sito di tipologie tombali e riti funerari greci, vedi supra.
103
Vedi supra, § 5.2.
104
Vedi supra, § 5.3.
105
Per le assai scarne notizie sul rinvenimento, effettuato dalla Soprintendenza di Cata-
nia nel corso di un intervento svolto all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, vedi
R 2000, p. 75 e p. 80, nota 47; P 2000a, p. 95.
106
P 1997-1998, p. 197. Le tombe furono rinvenute nel corso dei lavori di amplia-
mento della strada provinciale 33, in occasione dei quali furono effettuati diversi saggi di
scavo cui si deve il rinvenimento anche di tombe arcaiche (vedi supra, § 5.3) e di un settore
di abitato (vedi supra, § 3.2).
107
Vedi supra, § 5.1.
108
O 1897, cc. 269-271.

120
Fig. 5.21. Piano Croce. Sarcofago fittile (da O 1897).

priva di corredo. La terza era una tomba a fossa rivestita e ricoperta di


lastroni lapidei, il cui corredo, anch’esso piuttosto povero, costituito da
quattro vasi a vernice nera e acromi, permise una datazione tra IV e III
secolo a.C.
Alla stessa fase cronologica possono essere riferite, infine, le tombe a
fossa scoperte sul versante meridionale delle colline di Terravecchia, alla
base della collina di Poggio San Leonardo109.
Sebbene in quantità ancora più limitata, non sono del tutto assenti
i dati relativi alle fasi d’età ellenistica successive alla conquista romana.
Sulle colline di Terravecchia e sugli scoscendimenti delle alture vici-
ne si ha notizia di tombe a fossa violate in epoca recente, presso le quali
sono stati recuperati frammenti ceramici risalenti al II secolo a.C.110
Tracce risalenti a quest’epoca sono presenti anche nella documenta-
zione raccolta da Orsi durante le sue prime esplorazioni nel territorio di
Grammichele. In località Piano Croce, nel 1890 fu scoperta una “necro-
poli con sepolcri a muratura e tegoloni”, che si ritenne molto povera per
l’assenza di corredi111. Da qui proviene un sarcofago fittile con coperchio

109
P 2000a, p. 95. L’area fu oggetto di indagini archeologiche nel 1994, nel corso
delle quali si rinvennero strutture pertinenti a diverse fasi cronologiche dell’abitato com-
prese tra VI e IV secolo a.C. (vedi supra, § 3.2 e § 3.3).
110
S 1975, p. 54.
111
O 1891.

121
a doppio spiovente (Fig. 5.21), di un tipo allora sconosciuto in Sicilia112.
La cassa è decorata da due fasce modanate con kyma lesbio a rilievo
molto stilizzato e irregolare; il coperchio presenta piccoli acroteri di for-
ma apicata. Il sarcofago, privo di corredo, fu attribuito da Orsi ad età
ellenistico-romana su base stilistica, con una datazione tra II e I secolo
a.C., suggerita dalla “corruzione degli elementi decorativi”, oggi con-
fermata dai caratteri tipologici113. Il rinvenimento del nucleo di tombe
di Piano Croce costituisce la prima evidenza dell’occupazione di quella
contrada in posizione decentrata rispetto alle colline di Terravecchia, in
seguito confermata dalla scoperta di un insediamento tardoarcaico e di
un impianto artigianale del IV secolo a.C.114

112
O 1891; O 1897, cc. 207-208. Per una descrizione più accurata e per l’inqua-
dramento tipologico tra i sarcofagi fittili della Sicilia, vedi B 1998, pp. 44-46,
161-162 (cat. n. 67), 215, 347, tav. 65.
113
O 1891, p. 358, nota 2. Per la datazione su base tipologica del sarcofago, ricondu-
cibile ad un tipo, realizzato talvolta anche in marmo, attestato in Sicilia in età ellenistica
fino al II secolo a.C., vedi B 1998, pp. 214-215.
114
Vedi supra, § 3.2 e § 6.1.

122
6. Arte e artigianato: tra produzione locale e im-
portazioni

6.1. Impianti artigianali

A Terravecchia di Grammichele dovevano essere attivi, sin dall’età


arcaica, impianti artigianali per la produzione della ceramica e di al-
tri materiali fittili. Di essi, purtroppo, rimangono soltanto labili tracce,
che non sempre consentono una definizione puntuale della cronologia
e della gamma di manufatti alla cui fabbricazione erano destinati. È
ragionevole credere che la produzione di coroplastica, documentata nel
IV secolo a.C., fosse attiva già in età arcaica, come testimoniano statue e
statuette fittili di fattura locale1. Lo stesso si può dire per la fabbricazio-
ne del vasellame indigeno, rinvenuto in ogni settore dell’insediamento2,
e, probabilmente, per le terrecotte architettoniche3. Queste ultime erano
indispensabili alla costruzione ed alla manutenzione dei tetti fittili di cui
erano dotate le case, almeno a partire dalla seconda metà del VI secolo
a.C.4, e, forse, alla realizzazione della copertura di sacelli, di cui proprio
i frammenti di rivestimenti in terracotta costituiscono l’unica traccia5.
La prima notizia si deve a Paolo Orsi, che già in occasione delle
sue prime ricognizioni nel sito poté vedere i resti di una fornace nella
piccola valle che separa Poggio dei Pini da Poggio dell’Aquila (Fig. 5.1,
n. 5), tra le strutture compromesse dal taglio della trincea realizzata per
la costruzione della strada che attraversa la valle (l’odierna strada pro-
vinciale 33): “un rudere [...] apparteneva ad una fornace, la cui bocca è

1
Vedi infra, § 6.4.
2
Vedi infra, § 6.2. La produzione locale di ceramica sembra essere provata anche dal
rinvenimento di scarti in alcuni saggi di scavo effettuati sul Poggio del Rullo; tali reperti,
purtroppo, non sono ricollegati né ad una produzione specifica, né ad una fase cronologica
determinata (B B 2001, p. 37, nota 50; M 2006, p. 103, nota 4.
3
Vedi infra, § 6.6.
4
Vedi supra, § 3.2.
5
Vedi supra, capitolo 4.

123
Fig. 6.1. Piano Croce. Ma-
trice fittile di busto femmi-
nile (da B 1984-1985).

formata da un poderoso blocco (1,20×0,82 metri) con basso portello,


per accensione del fuoco; il muro, un rozzo opus incertum, con la roccia
in cui posa, è tutto cotto dall’ardore della fiamma”6.
Che l’area tra i due colli orientali di Terravecchia, dove sono stati
individuati i resti più cospicui dell’abitato arcaico dovesse ospitare anche
impianti artigianali è confermato dal rinvenimento, in epoca più recen-
te, di una seconda fornace ai lati della medesima strada provinciale7.
La fornace, di cui è stata messa in luce solamente l’imboccatura, è stata
attribuita, per tipologia, ad ambito greco-arcaico8.
L’esistenza di una fornace, infine, è segnalata anche a nord del com-
plesso collinare di Terravecchia, in località Piano Croce, area in cui sono
state individuate le tracce di un piccolo insediamento tardoarcaico9. Tra
i materiali di scarico è stata rinvenuta la matrice fittile di un busto fem-
minile (Fig. 6.1), pertinente ad una tipologia ben attestata nel com-
prensorio di Grammichele (Poggio dell’Aquila, contrada Portella)10. La
datazione della matrice, collocabile intorno alla metà del IV secolo a.C.,
costituisce il punto di riferimento cronologico per l’attività dell’officina.

6
O 1897, c. 209.
7
Il rinvenimento è avvenuto in occasione dei lavori di ammodernamento del tracciato
della strada provinciale 33 effettuati tra il 1996 ed il 1998 (P 1997-1998, p. 197;
B, P, R 2001).
8
P 1997-1998, p. 197.
9
Vedi supra, § 3.2.
10
Cfr. O 1902, pp. 226-227, figg. 9 e 10; P 1996, p. 45, fig. 23; B
1998, p. 24, fig. 49.

124
Come si vede, la documentazione degli impianti artigianali a Gram-
michele è assai frammentaria e del tutto insufficiente a ricostruire i
contorni di un’attività che nell’insediamento d’età greca doveva essere
fiorente, a giudicare dai materiali restituiti soprattutto dai depositi vo-
tivi e dai corredi funerari. Degna di nota, a tale proposito, sembra la
collocazione topografica delle botteghe ceramiche: le prime due sono
state individuate ai margini dell’abitato antico, in prossimità di un’area
che dava accesso al santuario di Poggio dell’Aquila ed alle necropoli che
occupavano i crinali meridionali delle colline; la terza si trova in posi-
zione periferica, ma in possibile relazione con un’importante complesso
santuariale, di cui abbiamo traccia indiretta soltanto per una fase crono-
logica più antica, documentata dal deposito votivo della vicina contrada
Madonna del Piano11.
Gli impianti artigianali del sito, infine, non dovevano essere limitati
alle botteghe dei ceramisti: deve essere segnalato, infatti, il rinvenimento
di numerose scorie metalliche sul Poggio del Rullo, indice della possibi-
le presenza di un’attività di lavorazione del metallo12.

6.2. Ceramica indigena

I vasi di produzione locale, rinvenuti soprattutto nelle necropoli ma


anche in contesti cultuali e domestici13, rientrano nella categoria della co-
siddetta “ceramica di Licodia Eubea”, una classe di ceramica matt painted,
la cui denominazione deriva dal sito eponimo della facies archeologica di
cui è espressione, riconosciuta e definita da Paolo Orsi come IV periodo
siculo14. Sempre modellati al tornio, sono caratterizzati da un impasto
argilloso tenero, di colore chiaro (beige con sfumature rosate o arancioni),
ricco di abbondanti degrassanti lavici e spesso anche di inclusi micacei.
La superficie, che talvolta presenta deformazioni, fessurazioni e bolle di
cottura (ma con frequenza minore rispetto ad altri siti), è solitamente ri-
vestita da una sottile ingubbiatura chiara, su cui è realizzata la decorazione
dipinta in vernice bruna diluita, matta e di scadente qualità.

11
Vedi supra, § 4.2.
12
M 2006b, p. 349.
13
Per la ceramica indigena rinvenuta nei corredi della necropoli di Casa Cantoniera, vedi
C 2010, pp. 101-108; per i rinvenimenti da Poggio del Rullo, concentrati nel saggio
A, dove sono state messe in luce strutture cui è stata attribuita una destinazione cultuale,
vedi B 2006; per i materiali provenienti da ambienti domestici, vedi B,
P, R 2001.
14
O 1898.

125
Nel repertorio vascolare si possono distinguere forme la cui origine
risale alla tradizione indigena della seconda età del Ferro, quali l’anfo-
ra, l’oinochoe, la scodella mono o pluriansata, sulla cui evoluzione in età
arcaica influisce il contatto con la cultura artigianale greca, e forme che
sono direttamente derivate da quest’ultima, come il krateriskos, la pisside
stamnoide, l’askos, lo skyphos (Fig. 6.2). Mentre le prime sono attestate
già a partire dal VII secolo a.C., è soltanto nel VI secolo inoltrato che
si affermano le seconde, segno della crescente evoluzione del repertorio
ceramico indigeno in senso ellenizzante per influsso della ceramica gre-
ca contemporanea, rilevabile sia a livello morfologico sia decorativo15.
Tra le forme di tradizione indigena attestate a Grammichele deve
essere segnalata un’anfora dotata di becco di versamento in prossimità
del fondo, destinato a spillarne il contenuto16. Si tratta di un contenitore
specializzato, attestato in contesti di fine VII-VI secolo a.C. in diversi
siti epicori della Sicilia centro-orientale, probabilmente connesso con
la produzione o il consumo di prodotti agricoli locali (Fig. 6.3)17. Tra le
ceramiche di produzione locale, non dovevano mancare anche altri con-
tenitori per derrate alimentari come i pithoi, tra i quali si registra anche
un esemplare a decorazione dipinta di tipo indigeno18.
Il repertorio decorativo è quello tipico della fase più tarda della co-
siddetta “ceramica geometrica sicula”, derivato dalle prime importazioni
di ceramica geometrica greca e dai prodotti delle officine impiantate dai
primi coloni19. Sui vasi di maggiori dimensioni come le anfore, prevale
uno schema che prevede la ripartizione in campi metopali dello spazio
fra le anse, quasi sempre campiti da un motivo a grande “S” dritta o ro-
vesciata20, mentre il resto della superficie è decorato da semplici motivi

15 Per la classificazione della ceramica di Licodia Eubea e per l’analisi dei suoi caratteri e
del suo sviluppo diacronico, vedi C 2018.
16
Il contenitore (per il tipo cfr. C 2018, p. 45, tipo I.A4a; p. 175) proviene da un
ambiente domestico alle pendici orientali del Poggio dei Pini (vedi supra, § 3.2).
17
A 1996, p. 126. Per un’interpretazione come contenitore da olio, utilizzato in
frantoio nel processo di produzione nel caso degli esemplari più grandi, in dispensa per
uso domestico nel caso di quelli di minori dimensioni, e per le implicazioni della distribu-
zione dei rinvenimenti come indizio dell’incremento della produzione olearia nella Sicilia
arcaica, vedi A 2003, pp. 178-180 (con indicazione di contenitori affini in ambito
greco); A 2005, pp. 363-364. Altre ipotesi lo hanno identificato come vaso de-
stinato a contenere vino o miele (L 1996, p. 80) o bevande alcoliche come l’idromele
(A 1996, p. 126).
18
M 2006a, pp. 322-323.
19
Per il repertorio decorativo della ceramica di Licodia Eubea, vedi C 2018, pp.
201-218.
20
Cfr. C 2018, p. 217, fig. 4.3.14, nn. 25-26. Si tratta di un motivo decorativo di
origine greco-orientale, accolto nel repertorio indigeno a partire dal VI secolo avanzato

126
Fig. 6.2. Necropoli di Casa Cantoniera. Ceramica indigena.

lineari. La spalla degli askoi presenta una decorazione più libera, mentre
fasce dritte o ondulate sono motivi esclusivi della sintassi decorativa di
forme come l’hydria, diffusasi nel repertorio indigeno in una fase piutto-
sto avanzata, e di vasi di dimensioni minori, tra cui spiccano, per quan-
tità, le scodelle monoansate.
Nel suo insieme, la ceramica indigena rinvenuta nel sito risulta
assai omogenea ed aderente ai tratti che caratterizzano le produzioni

e presto diffusosi nelle produzioni locali di tutta la Sicilia orientale (C 2018, p.
207).

127
Fig. 6.3. Poggio dei Pini,
settore di abitato prospicien-
te la strada provinciale 33.
Anfora indigena con becco
di versamento (da B,
P, R 2001).

Fig. 6.4. Necropoli di Casa


Cantoniera. Oinochoai in ar-
gilla grigia.

locali dei siti ricadenti nell’area orientale di attestazione della facies di


Licodia Eubea, contraddistinte da una maggiore fedeltà nella traspo-
sizione dei modelli greci nel repertorio indigeno21. In questo ambito, la
scarsa varietà tipologica, la netta preferenza, tra le scodelle, per quelle
monoansate, la foggia delle anse verticali delle anfore, il limitato re-
pertorio di motivi decorativi, sono caratteristiche che distinguono l’ar-
tigianato ceramico di Grammichele non solo da quello della regione
dei Monti Erei più ad ovest, ma anche dal vicino comprensorio ibleo
più a sud.
A completare il quadro della ceramica indigena, accanto ai tradi-
zionali vasi a decorazione matt painted di tipo subgeometrico, deve es-
sere segnalata l’attestazione nel sito di due oinochoai in argilla grigia
(Fig. 6.4), appartenenti ad una classe per la quale sono state evidenziate
le connessioni con la grey ware greco-orientale (il cosiddetto bucchero
eolico) e con analoghe produzioni documentate in Eubea, messe in rela-
zione con la distribuzione della classe nella Sicilia orientale, concentrata
nell’area di influenza calcidese e di Lentini in particolare22.

21
C 2018, p. 226.
22
Vedi F, F, P 1994-1995, pp. 491-494; F 2015, p. 102
(con ulteriori indicazioni bibliografiche in nota 25).

128
Fig. 6.5. Necropoli di Casa Cantoniera. Cratere laconico dalla tomba 16/1985 (da B-
 2000).

6.3. Ceramica greca

Il quadro della ceramica greca attestata nel sito è restituito soprat-


tutto dai corredi funerari della necropoli di Casa Cantoniera, per il pe-
riodo compreso tra l’età arcaica e la prima età classica, e dai materiali
rinvenuti nei saggi di scavo eseguiti sul Poggio del Rullo, da cui proviene
una documentazione estremamente frammentaria e residuale, derivante
per lo più da strati di formazione più recente, ma tuttavia rappresentati-
va di un arco cronologico più ampio, coincidente quasi per intero con le
fasi di sviluppo dell’insediamento che contribuisce a delineare23.
Nel panorama già tracciato per la necropoli24, per il valore che assu-
me come indicatore del livello degli scambi intrattenuti dal centro sin
dalla prima metà del VI secolo a.C., è opportuno ricordare il cratere
laconico figurato rinvenuto nella tomba 16/1985, esemplare tra i più
considerevoli rinvenuti in Occidente (Fig. 6.5)25. Vaso eponimo di una
personalità artistica attiva nel secondo quarto del VI secolo a.C., vicina
alla cerchia del Pittore di Naukratis, raffigura su un lato un combatti-
mento tra due guerrieri armati di lancia, elmo con alto cimiero e scudo,
assistiti da due attendenti a cavallo, sull’altro una cavalcata di quattro
cavalieri al galoppo. Il suo eccezionale rinvenimento in un centro della

23
Per la documentazione della necropoli di Casa Cantoniera, vedi C 2010, pp. 78-
109; per i materiali di Poggio del Rullo, si vedano i diversi contributi in Da Terravecchia
di Grammichele a Occhiolà.
24
Vedi supra, § 5.2.
25
B 1988; S 1989, p. 126; P 1990, p. 168, n. 99, tav. XV; B 1995.

129
Fig. 6.6. Poggio del Rullo. Frammento di cratere corinzio figurato (da E 2006a).

Sicilia interna si inserisce nel contesto di un comprensorio territoriale,


a cavallo delle principali vie di comunicazione tra le poleis greche delle
coste ionica e meridionale dell’isola, i cui insediamenti hanno restituito
ceramica laconica, prevalentemente costituita da crateri a staffa a verni-
ce nera26. Tale circostanza ha posto in rilievo il ruolo che le colonie si-
celiote, soprattutto quelle calcidesi della costa orientale, ma anche Gela
e Camarina, dovettero ricoprire nella distribuzione di questi prodotti
nell’entroterra, garantendo il collegamento con il commercio tirrenico,
le cui rotte costituivano un vettore di diffusione in Occidente della ce-
ramica laconica27.
Il quadro di vivace prosperità del sito durante l’età arcaica e la pri-
ma età classica, inserito in una rete di contatti che assicurava l’afflusso
delle principali tipologie di merci circolanti nelle rotte mediterranee,
è confermato dal dossier ceramico ottenuto con le ricerche archeologi-
che sul Poggio del Rullo. Tra il secondo quarto del VI e la prima metà
del V secolo a.C., la documentazione raccolta rivela una composizione
conforme, per fabbriche e tipologie, al trend registrato nei coevi insedia-
menti epicori della Sicilia orientale, con limitate importazioni corinzie,
laconiche ed attiche associate al vasellame di produzione siceliota che
costituisce il nucleo principale del materiale ceramico28.
Tra le ceramiche importate meritano di essere segnalati i vasi figura-
ti corinzi e attici, tra cui sono presenti grandi forme vascolari come i cra-
teri (Fig. 6.6)29. Tale documentazione, per quanto estremamente fram-

26
B 1988, p. 2 e pp. 13-14, nota 6.
27
Bacci 1988, pp. 2-3 e p. 14, nota 7 (con ulteriore bibliografia sul problema della diffu-
sione in Occidente della ceramica laconica e dei suoi intermediari commerciali).
28
M 2006, p. 103.
29
Vedi E 2006a.

130
Fig. 6.7. Madonna del Piano. Frammento di vaso a figure nere (da O 1907).

mentaria, costituisce un’ulteriore testimonianza della circolazione nel


sito, con una continuità nel tempo che inizia in epoca assai precoce, di
prodotti ceramici d’importazione anche di grande pregio, già attestata
nella necropoli e nel deposito votivo di Madonna del Piano (Fig. 6.7)30.
Le ceramiche di produzione siceliota si articolano nelle tipologie
tipiche dell’età arcaica, caratterizzate dall’imitazione o rielaborazione di
prototipi della madrepatria, soprattutto corinzi, greco-orientali ed at-
tici31. Per questi manufatti, in particolar modo per le coppe ioniche, di
cui è ormai dimostrata la dimensione mediterranea della produzione, si
pone il problema del riconoscimento delle fabbriche di provenienza, da
individuarsi probabilmente nelle apoikiai costiere, ma per cui non può
essere esclusa una fabbricazione locale.
Tra i corredi della necropoli di Casa Cantoniera, un vasto gruppo
di vasi, è accomunato dallo stesso impasto argilloso e dalle medesime
caratteristiche tecniche, comprendente coppe ioniche di tipo B2 e varie
altre forme vascolari di tradizione greco-orientale, corinzia, attica e lo-
cale, databili tra la piena e la tarda età arcaica (Fig. 6.8)32. La consistenza
numerica del gruppo e l’eterogeneità dei modelli di riferimento lascia
ipotizzare che si tratti di prodotti provenienti da una o più officine co-
loniali dedite alla fabbricazione di ceramica imitante il vasellame allora
maggiormente diffuso. Gli stessi fattori, inoltre, suggeriscono la possibi-

30
Per la necropoli, vedi B 1988 (p. 13, nota 3 per i vasi figurati contenuti nella tomba
16/1988 insieme al cratere laconico) e C 2010, pp. 91-92; si vedano anche i vasi
figurati, tra cui due crateri attici a figure rosse (nn. inv. 15265 e 12781), rinvenuti o acqui-
stati da Paolo Orsi ed esposti al Museo Archeologico Regionale “P. Orsi” di Siracusa. Per
il deposito votivo di Madonna del Piano, vedi O 1907, cc. 158-162.
31
M 2006, pp. 103-104.
32
C 2010, pp. 82-83.

131
Fig. 6.8. Necropoli di Casa Cantoniera. Ceramica di produzione siceliota.

lità che si tratti di impianti artigianali di dimensioni ragguardevoli, tali


da raggiungere con i loro prodotti un ampio bacino. Non è certo possi-
bile trarre delle conclusioni sul mero esame autoptico, ma l’affinità tec-
nica tra il gruppo di ceramiche grammichelesi e le coppe di tipo ionico
rinvenute nel grande deposito votivo di piazza San Francesco a Catania
suggerisce di prendere in considerazione la possibile provenienza dalle
botteghe ceramiche catanesi, di cui andrebbe indagata l’articolazione
territoriale della rete commerciale33. Un impulso ad indagare in questa
direzione, per di più, viene dalle analisi petrografiche e geochimiche
già svolte su coppe ioniche provenienti da un gruppo di siti archeo-
logici dell’entroterra della Sicilia orientale34: da essi si è dedotta, senza
scartare la possibilità dell’esistenza di diversi atelier ceramici che pote-
vano condividere materie prime e tecniche di lavorazione, la probabile
provenienza da un unico centro produttivo, non ancora identificato, da
localizzare in una delle apoikiai calcidesi della costa ionica35.

33
C 2015, pp. 198-199.
34
B et alii 2010; B et alii 2011.
35
B et alii 2010, pp. 77-78.

132
Dopo un intervallo che si estende a tutta la seconda metà del V
secolo a.C., periodo in cui le attestazioni di ceramica appaiono ridotte
in tutto il sito36, la documentazione ritorna più corposa nel secolo suc-
cessivo, con una maggiore concentrazione tra la seconda metà del IV e
la prima metà del III secolo a.C., periodo dopo il quale le attestazio-
ni sembrano progressivamente esaurirsi37. Come nel resto della Sicilia
orientale, nel corso del IV secolo a.C. si assiste all’abbandono delle im-
portazioni a vantaggio di produzioni regionali o locali, sia nell’ambito
della ceramica figurata, rappresentata da diversi frammenti sicelioti a
figure rosse38, sia di quella comune39, sia, infine, di quella a vernice nera,
per la quale si registra un progressivo scadimento qualitativo40.
Un’ulteriore categoria di contenitori ceramici, importante come in-
dicatore di consumo e scambi di derrate alimentari, è costituito dalle
anfore da trasporto. La ridotta documentazione di Grammichele, com-
posta per lo più soltanto da frammenti, si distribuisce in un lungo arco
di tempo, compreso tra l’inizio del VI ed il III secolo a.C41. Tale do-
cumentazione comprende contenitori per il trasporto di olio, come le
anfore corinzie A e A’ e le anfore attiche SOS, ed anfore di produzione
magnogreca o siceliota (cosiddette ionico-massaliote e MGS I, II, III,
V), destinate a contenere soprattutto vino ma anche olio e altri prodotti
alimentari.

6.4. Grande scultura fittile e coroplastica

La grande statua femminile fittile assisa su trono, rinvenuta in uno


dei depositi votivi di Poggio dell’Aquila, risale alla metà del VI secolo
a.C. (Fig. 6.9)42. Interamente lavorata a mano, si presenta di fattura piut-

36
Per la necropoli, vedi supra, § 5.2, e più in dettaglio C 2010, pp. 110-112; per
Poggio del Rullo, vedi M 2006, p. 103, nota 2.
37
E 2006, p. 186.
38
Vedi E 2006b.
39
Per un quadro dettagliato della ceramica comune, vedi C, C 2006.
40
E 2006, pp. 183-186.
41
Per le attestazioni di anfore nel sito, si vedano A 1996; B B
2006a; C 2010, p. 114. Le anfore provengono quasi tutte dall’abitato, con una mag-
giore concentrazione nell’area sulle pendici del Poggio del Rullo cui è stata attribuita
una destinazione cultuale (vedi supra, § 4.3). Si ritiene, tuttavia, che la distribuzione dei
rinvenimenti noti sia fortemente condizionata dalla natura episodica e non estensiva della
ricerca archeologica nel sito, che non sempre, inoltre, ha prodotto edizioni analitiche dei
materiali.
42
O 1897, cc. 217-220; V 1980, p. 108, fig. 12; R, D M 1985, p. 174, fig.
178; L R 1989, p. 58, fig. 70; R 1996, p. 527; B 2000, p. 87, fig. 23; A-

133
Fig. 6.9. Poggio dell’Aquila. Statua femminile fittile (da R, D M 1985).

134
tosto rozza, realizzata con un impasto di argilla mista a tritume lavico;
la superficie, solcata da screpolature e fessurazioni, risente di una cottu-
ra disomogenea ed è ravvivata da una pittura bicroma, in rosso e nero.
Lo schema iconografico riproduce una figura femminile caratterizzata
da una capigliatura aderente sulla calotta cranica ed articolata in trecce
che scendono lungo le spalle, dipinte in nero. Il volto è squadrato ed i
grandi occhi a bulbo sono incorniciati da ampie arcate sopraccigliari; il
naso presenta radice stretta e base molto larga e la bocca è resa con solco
orizzontale. La figura indossa una veste lunga sino ai piedi nudi, che
lascia parzialmente scoperte le braccia; sul busto è visibile l’indicazione
appena accennata dei seni; una cintura in vita era realizzata mediante
l’utilizzo del colore. La mano destra è poggiata sulla gamba, quella si-
nistra è chiusa ed il pugno disegna una cavità cilindrica, probabilmente
destinata ad un attributo, che Orsi ipotizza essere una spiga43. Il trono
presenta una seduta ampia e due bassi braccioli; manca la parte poste-
riore, ma Orsi ipotizza che lo schienale dovesse essere anch’esso piut-
tosto basso, dal momento che le tracce di pittura sul dorso della figura
arrivano fino alla parte bassa della schiena. Tracce di pittura sono visibili
anche sui fianchi del trono, all’interno con una fascia, all’esterno con un
motivo a denti di lupo.
La letteratura archeologica si è più volte soffermata sull’analisi di tale
opera, considerata unanimemente come una statua di culto di fabbrica
indigena, in cui Orsi riconobbe “una divinità, un vero idolo, Demeter o
Core”44. Lo studioso, impietoso nella descrizione stilistica della statua,
la definì “incutente ripulsione ed antipatia più che rispetto; [...] quasi
senza stile; [...] un infantile tentativo di rendere a mano libera la figura
muliebre panneggiata e seduta”45. Tuttavia, sebbene sia indubbiamente
riconducibile, per resa e fattura, ad una matrice indigena, l’opera pre-
senta uno schema iconografico che tradisce inequivocabilmente l’ispira-
zione a modelli greci coevi, reinventati secondo il gusto e le possibilità
tecniche locali46. Certamente più complesso, invece, è comprendere se
la commistione stilistica tra cultura indigena e greca fosse anche l’este-

 2003, p. 217, tav. XXXI; P 2005, p. 119; La Sicilia in età arcaica, pp. 220-221.
La statua è conservata presso il Museo Archeologico Regionale di Siracusa (inv. 14366).
43
O 1897, c. 218. Il dato sembra possa essere confermato da un altro frammento di
statua fittile, proveniente dallo stesso contesto, recante in mano un fiore ed una spiga
(O 1897, c. 221); vedi supra, § 4.1.
44
O 1897, c. 220.
45
O 1897, c. 218.
46
R, D M 1985, p. 174; P 2005, p. 119; A 2003, p. 217; A-
 2006, p. 64.

135
riorizzazione di forme di sincretismo religioso47. Per altro, la statua di
Grammichele si inserisce in un più ampio orizzonte, in cui si collocano
anche altre figure femminili fittili di ambito anellenico48.
Strettamente connesse a quest’opera sono anche alcune statuette fit-
tili lavorate a mano rinvenute a Poggio dell’Aquila, che rivelano, pur nel-
le dimensioni minori, unità di ispirazione e di realizzazione (Fig. 4.4)49.
Speculare alla “dea” di Poggio dell’Aquila è la statua fittile femminile
seduta di Madonna del Piano (Fig. 6.10), che, pur presentando il mede-
simo schema iconografico, appare realizzata con una concezione ed una
tecnica completamente diverse50. La statua è stata eseguita mediante
l’assemblaggio di singole parti realizzate separatamente; il volto, che è
integrato in più punti, potrebbe essere stato realizzato a matrice. La
figura presenta una capigliatura che si dispone sulla fronte con bande
ondulate e poi discende sulle spalle con delle trecce rese con piccole
perle; sul capo è disposta una stephane sottolineata al margine superiore
da un diadema scandito da perle piatte. Il volto è rastremato verso il
basso e presenta ampi occhi amigdaloidi allungati, zigomi, pronunciati e
bocca atteggiata a sorriso; sul collo spicca una collana con un pendaglio
centrale. La figura indossa un chitone fittamente plissettato, su cui è
disposto l’himation, posto obliquamente, raccolto sul braccio destro e
disposto a pieghe larghe fin sulle gambe. Il braccio destro, adornato da
un’armilla spiraliforme, recava al petto un attributo che non si è conser-
vato, come anche il braccio sinistro, che probabilmente era proteso in
avanti. I piedi, posti su un suppedaneo, indossano dei calzari con fibbie.
Il trono, le cui gambe hanno le estremità inferiori configurate a zampa
leonina, presenta uno schienale a tre traverse; sulla seduta è posto un
cuscino con piccole nappe agli angoli.
Come si è accennato, la statua è stata oggetto di restauri ed integra-
zioni in più punti, ciononostante già Orsi ne aveva sottolineato il carat-
tere “greco” ed ipotizzava che “un simulacro di sì rilevanti dimensioni
e di tanta bellezza” dovesse essere stato realizzato in una bottega delle
vicine colonie greche51. Successivamente, è stato evidenziato il carattere
“provinciale” dell’opera, che, pur ispirandosi ad una temperie stilistica di

47
P 2005, p. 119.
48
S 1988-1989, p. 111; L R 1989, pp. 58-59; P 2005, p. 119.
49
P c.d.s.
50
O 1907, cc. 136-145; P 1938, p. 41, figg. 39-41; L, H 1965, pp.
262-263, fig. 39; R H 1975, p. 14, figg. 98-99; R, D M, 1985, p. 207,
fig. 208; B 2000, p. 85, fig. 21; La Sicilia in età arcaica, pp. 227-228. La statua è
conservata presso il Museo Archeologico Regionale di Siracusa (inv. 23166).
51
O 1907, cc. 143-144.

136
Fig. 6.10. Madonna del Piano. Statua femminile fittile (da M 2005).

137
Fig. 6.11. Poggio dell’Aquila. Busti femminili fittili (da P 2020).

area ionica, mostra una certa mancanza di organicità: i confronti istituiti


con alcune creazioni di Siracusa hanno, perciò, suggerito l’ipotesi che la
statua grammichelese possa essere considerato un prodotto di un’offici-
na dell’area siracusana della seconda metà del VI secolo a.C.52.
Da ricordare, infine, tra le produzioni fittili documentate a Grammi-
chele, accanto alle numerosissime tipologie coroplastiche che si distri-
buiscono lungo tutto l’arco cronologico di sviluppo dell’insediamento,
sono i grandi busti rinvenuti presso l’area sacra di Poggio dell’Aquila, le
cui prime attestazioni (Fig. 6.11) sono considerate uno dei segni della
particolare vivacità del santuario all’inizio del V secolo a.C.53. Essi sono,
infatti, considerati, dopo quelli agrigentini, tra i più antichi esemplari
di una tipologia che grande fortuna avrà nella Sicilia greca, esempio di
un’arte protoclassica che ha ormai abbandonato i modelli greco-orien-
tali per volgersi verso quelli attici, reinventati secondo un gusto tipica-
mente locale54. Dell’evoluzione di questa tipologia di manufatti, espres-
sione di un artigianato spesso di alto livello, localmente documentato
dall’impianto artigianale di Piano Croce55, il territorio grammichelese

52
R, D M 1985, p. 207; R 1996, p. 410.
53
O 1897, c. 47, tav. V; O 1907, cc. 123-124, tav. I; P 1938, p. 84, fig. 82; B-
 B 1958, p. 47; B 1972, p. 5, tav. IV, fig. 2; K 1977, pp. 85-87, figg. 43-
44, 48-50; R, D M 1985, p. 239, fig. 278; Stile severo, pp. 266-268, nn. 101-103;
R 1996, p. 417; C 2007, p. 307, figg. 58, 60-61; A 2012, p. 148,
fig. 5. I busti sono conservati presso il Museo Archeologico Regionale di Siracusa (invv.
14219, 14279, 20403).
54
C 2007, p. 308; A 2012, p. 148.
55
Vedi supra, § 6.1.

138
Fig. 6.12. Grammichele, contrada Portella. Busti femminili fittili (da O 1902).

fornisce un’ampia documentazione che giunge almeno alla metà del IV


secolo a.C. (Fig. 6.12).

6.5. Scultura in pietra calcarea e in marmo

La testa maschile in pietra calcarea locale rinvenuta nel deposito di


Madonna del Piano (Fig. 6.13), interpretata come testa di guerriero, è
databile entro la metà del VI secolo a.C.56. La testa, purtroppo scheg-
giata in più punti, si presenta stretta ed allungata, la fronte è breve e
gli occhi sono grandi, amigdaloidi ed incorniciati da spesse palpebre.
Il naso è grande con ampie narici e la bocca ampia e caratterizzata da
labbra carnose; il volto è desinente in una barba appuntita e prominente.
Le orecchie sono piuttosto piccole, se rapportate all’anatomia della testa
e sono tangenti ad una fascia liscia che cinge la parte inferiore della
testa, interpretata come fascia o come base di un elmo a calotta sferica.
Già Paolo Orsi aveva notato come la testa non fosse realizzata per
essere vista con una prospettiva frontale ed aveva prospettato l’ipotesi
che potesse trattarsi di una scultura frontonale, sebbene, considerate le
rilevanti dimensioni dell’oggetto, che avrebbero implicato un edificio
di grandi dimensioni di cui non appariva traccia, fosse più propenso a

56
O 1907, cc. 132-136; P 1938, fig. 155; R H 1975, p. 32, figg. 136-
137; B 2000, p. 84, fig. 20; D S 2002, pp. 43-45, fig. 34; La Sicilia in età
arcaica, p. 184. La testa è conservata presso il Museo Archeologico Regionale di Siracusa
(inv. 23160).

139
Fig. 6.13. Madonna del Piano.
Testa maschile calcarea (da
R, D M 1985).

considerarlo un “anathema isolato ed indipendente”57; altri studiosi, in


seguito, ne hanno riproposto la destinazione architettonica58.
La scultura è unanimemente ricondotta ad ambito indigeno, sebbe-
ne chiaramente ispirata a modelli greci. Una certa imperizia, evidente
nella resa anatomica e nella tecnica della lavorazione della pietra, portò
Orsi a considerarla l’opera di un artista locale “incapace a tradurre il
modello greco preso a copiare […] che peccava grossolanamente nella
anatomia e nella esecuzione”59. D’altra parte, Giovanni Rizza, pur rico-
noscendo nei tratti del volto nette e taglienti incisioni riconducibili alla
“lavorazione a freddo dei bronzetti indigeni”, non negava talune affinità
con opere coloniali nella modellazione delle masse60.
Dallo stesso deposito proviene un celebre kouros in marmo pario
(Fig. 6.14)61. Purtroppo la statua è gravemente mutila e se ne conserva
solo il torso; ciononostante, è possibile leggerne lo schema iconografico

57
O 1907, c. 135.
58
R H 1975, p. 32.
59
O 1907, c. 133. Alla stessa temperie artigianale Orsi attribuì una piccola statua
maschile in pietra calcarea (alta 21 centimetri), dalle caratteristiche singolari che ne fecero
dubitare l’attribuzione ad età antica, proveniente dalle campagne di Terravecchia (O
1907, cc. 124-125, tav. II).
60
R, D M 1985, p. 174.
61
O 1907, cc. 129-132, tav. III; R 1960, p. 146, n. 185, figg. 544-546; L-
, H 1965, p. 56, tavv. 46-47; R H 1975, p. 33, figg. 192-194;
V 1980, p. 113, figg. 21-22; R, D M 1985, p. 223, fig. 226; B 1987,
p. 240, fig. 8; R 1994, p. 301, fig. 306; B 2005, pp. 213-217, fig. 1; La Sicilia in età

140
Fig. 6.14. Madonna del Piano. Torso di kouros marmoreo (da R, D M 1985).

originario, che presentava una visione frontale del busto con la gamba
sinistra avanzata. È stata formulata l’ipotesi che, contrariamente allo
schema canonico dei kouroi, che prevedeva le braccia distese lungo i
fianchi, in questo caso, come mostra l’assenza di elementi di raccordo
sul busto o sui fianchi, esse potessero essere protese in avanti, forse a
reggere qualche attributo62. La resa delle masse mostra uno spiccato na-
turalismo: i muscoli sono tesi e vibranti e lasciano intravedere i contorni
del costato e della cresta iliaca; la spina dorsale è resa con una morbida
depressione, la lieve asimmetria delle natiche accompagna il movimento
della figura.
I confronti istituiti con altre sculture, in particolar modo attiche, ma
anche di provenienza siciliana, come il kouros da Lentini, cui è stilistica-

arcaica, p. 396. La statua è conservata presso il Museo Archeologico Regionale di Siracusa


(inv. 23159).
62
B 2005, p. 215.

141
mente molto vicino, hanno fatto propendere unanimemente gli studiosi
per una datazione all’inizio del V secolo a.C. Più controversa è, invece,
la questione legata alla produzione dell’opera: così come gli altri kouroi
marmorei tardoarcaici rinvenuti in Sicilia, gran parte della letteratura
archeologica considera il torso di Grammichele un’opera realizzata in
Grecia, da cui proviene il marmo in cui è scolpita; tuttavia, è stata soste-
nuta anche la tesi dell’esecuzione in Sicilia, da parte di un artista venuto
dalla Grecia che avrebbe operato su marmo importato come materiale
grezzo63.
Per ciò che concerne la destinazione della scultura, già Orsi aveva
proposto che la statua potesse essere considerata un votivo dedica-
to presso il santuario64, ipotesi generalmente accettata dagli studiosi
nel corso del tempo. A tal proposito, suggestiva, seppure impostata
su una base documentaria troppo fragile, appare la proposta di conte-
stualizzazione avanzata da M. Bell, secondo cui la presenza del kouros
a Grammichele, forse raffigurante un atleta vittorioso ai giochi pa-
nellenici, potrebbe essere ricollegata all’inserimento del sito sotto il
controllo geloo in seguito all’impresa militare di Ippocrate agli inizi
del V secolo a.C.65.

6.6. Terrecotte architettoniche

Da Terravecchia di Grammichele provengono diversi frammen-


ti di terrecotte architettoniche, da attribuirsi, almeno in buona parte,
all’artigianato indigeno, così come quelle rinvenute in altri siti epicori
della Sicilia orientale66. Sebbene non sia possibile, allo stato attuale
delle conoscenze, identificare i centri produttori, l’impasto argilloso di
molti esemplari sembra compatibile con l’ipotesi di una produzione
locale67.
I primi rinvenimenti si devono a Paolo Orsi, che ne segnalò la pre-
senza nei due grandi contesti votivi da lui identificati.
Sul Poggio dell’Aquila fu recuperato un frammento di sima con
decorazione a lingue e a meandro, dipinta alternatamente in rosso e

63
Vedi B 2005, pp. 213-217, con bibliografia di riferimento.
64
O 1907, c. 132.
65
B 2005, pp. 223-226.
66
P 2008-2009.
67
L’ipotesi è suffragata dalla somiglianza con gli impasti della ceramica indigena e dalla
frequenza con cui lo stesso impasto ricorre su diverse classi di materiali fittili, tra cui anche
laterizi (M 2006c, pp. 362-363).

142
Fig. 6.15. Poggio dell’Aquila. Frammento di syma fittile (da O 1897).

Fig. 6.16. Madonna del Piano. Antefisse fittili (da O 1907 e L R 1989).

bruno sull’ingubbiatura color crema (Fig. 6.15)68; nonostante sia chia-


ramente derivata da prototipi greci, Orsi la ritenne opera di artigiani
locali69.
Presso il deposito votivo di Madonna del Piano furono raccolte tre
antefisse (Fig. 6.16)70. Due, con tracce di policromia, sono del tipo a
protome gorgonica, il più diffuso nei centri interni della Sicilia Orien-

68
O 1897, cc. 261-262, fig. 44.
69
L’ipotesi è stata più volte ripresa in seguito (D 1948, pp. 123-124; S
1961-1962, p. 216, nota 3.
70
O 1907, c. 146, figg. 6-7.

143
Fig. 6.17. Poggio dei Pini, settore di abitato prospi-
ciente la strada provinciale 33. Palmetta fittile (da
B, P, R 2001).

tale, databili nella seconda metà del VI secolo a.C.71; la terza reca una
decorazione dipinta bicroma (bruno e rosso) con un motivo meandroide
in combinazione con linee tremole, la cui fattura rimanda all’artigianato
indigeno non solo per la scarsa precisione nell’esecuzione del disegno
ma anche per la presenza del motivo a linea tremola, caratteristico della
tradizione decorativa locale72.
Un’antefissa gorgonica ed un elemento fittile a palmetta (Fig. 6.17)
provengono dal settore di abitato tardoarcaico messo in luce alle pendici
orientali del Poggio dei Pini, ai margini della strada provinciale 3373.
Non lontano, nei pressi di una casa d’età arcaica le cui strutture
affiorarono fortuitamente negli anni 1983-1984, furono recuperati i
frammenti di una lastra fittile di probabile destinazione architettonica,
purtroppo incompleta, rinvenuti in posizione tale da far supporre che
fossero scivolati dall’alto lungo il pendio (Fig. 6.18)74.
La lastra, definita superiormente e lateralmente da un astragalo con
perle e fusi alternatamente color crema, rossi e neri, reca una decorazione
figurata dipinta: il frammento maggiore, delle dimensioni di 22,5×25 cen-
timetri, reca, sul fondo color crema, l’immagine di una sfinge alata rivolta a
sinistra con una zampa sollevata in posizione rampante al di sopra del dorso
di un’altra figura, una seconda sfinge o, più probabilmente, un quadrupe-

71
Tra i rinvenimenti più cospicui si ricordano le numerose antefisse gorgoniche tardoar-
caiche rinvenute a Ramacca (A, P 1988-1989, pp. 129-131).
72
L R 1967.
73
B, P, R 2001 (A1 e A2); vedi supra, § 3.2.
74
B 1984-1985, pp. 714-715; R 2000, p. 79, nota 40.

144
Fig. 6.18. Grammichele. Lastra fittile dipinta (da B 1984-1985).

de. Il corpo e l’ala della figura sono resi a silhouette piena con campitura
policroma (in nero, bruno e rosso), mentre il volto è disegnato a contorno,
con profilo pronunciato, occhi allungati e lunga chioma nera ricadente sulla
nuca. Un ulteriore frammento, la cui appartenenza alla stessa lastra è incer-
ta, conserva i piedi a silhouette di una figura incedente a sinistra.
Diversi aspetti della tecnica e dello stile della lastra hanno suggerito
il riferimento ad una matrice stilistica geloa, contaminata con modelli
corinzi e con una resa dal tono popolaresco75. Il riferimento all’artigia-
nato geloo sembra assai calzante se si prendono a confronto i frammenti
di un vaso rinvenuti nello scarico della fornace di via Dalmazia a Gela,
su cui sono dipinti una sfinge ed un guerriero76: nonostante la resa più
grossolana della figura della lastra grammichelese, più rozza nel disegno
e meno ricca di particolari rispetto a quella del vaso geloo (soprattutto
nella resa dell’ala), comuni appaiono lo schema del disegno e, soprattut-
to, la peculiare resa a contorno del volto di profilo dei personaggi e la
loro acconciatura, elementi in cui sono stati ravvisati inequivocabili ri-
chiami alla tradizione rodio-cretese d’età orientalizzante cui gli artigiani
geloi mostrano di ispirarsi a lungo, fino al periodo compreso tra la fine
del VII e l’inizio del secolo successivo77. Nonostante l’affinità stilistica

75
B 1984-1985, p. 715.
76
A 1953, pp. 244-245, tav. CVIII, fig. 1.
77
Per i frammenti geloi e per il loro inquadramento stilistico, vedi A 1953;
R, D M 1985, p. 153.

145
del disegno, per la lastra di Grammichele è probabilmente opportuno
proporre una cronologia più bassa, non anteriore alla metà del VI secolo
a.C., per la presenza dell’astragalo che ne definisce i contorni78. Sem-
brerebbe trattarsi di un’opera volutamente arcaizzante, forse ispirata ad
un prototipo più antico, per la quale può essere ipotizzata l’appartenen-
za all’apparato decorativo di un sacello, forse esistente sulla soprastante
sommità del Poggio dei Pini, che Orsi considerava l’acropoli dell’antico
abitato79. Quanto al luogo di produzione, le caratteristiche dell’impa-
sto argilloso, color giallo-grigiastro con molti inclusi lavici, inducono
ad escludere sia la provenienza da botteghe geloe, dove l’uso del tritume
lavico come degrassante non è diffuso, sia, con minore certezza, una
fabbricazione locale, poiché i vasi indigeni di Grammichele presentano
costantemente un’argilla di colore beige tendente al rosa o all’arancione.
Il luogo di provenienza deve allora essere presumibilmente individuato
in un altro centro interno in contatto con la colonia rodio-cretese la cui
documentazione archeologica abbia restituito terrecotte architettoniche
di probabile produzione locale: si potrebbe pensare a Monte San Mauro
di Caltagirone, al confine del territorio geloo, oppure, dal lato opposto,
alla vicina Palikè, dove l’influenza di Gela in età arcaica è stata colta
nella tipologia dei primi edifici del santuario80.
Altri frammenti architettonici, infine, provengono dai saggi di sca-
vo sul Poggio del Rullo. Il pezzo più interessante è un frammento di
lastra di rivestimento modanata, con decorazione dipinta in bruno e
rosso (meandro incrociato, lingue), il cui profilo non trova riscontri
puntuali (Fig. 6.19). La lastra proviene dal crollo della prima fase (fine
VI-prima metà V secolo a.C.) di un edificio sulle pendici nord-occi-
dentali del colle, identificato con un sacello, di cui doveva decorare le
pareti81. La presenza nella stessa area di edifici con coperture e rivesti-
menti fittili decorati è testimoniata dal rinvenimento di un frammento
di antefissa gorgonica, di tegole (anche con opaion), di kalypteres hege-
mones dipinti82.

78
Una datazione intorno alla metà del VI secolo a.C. è ipotizzata dagli scopritori (B
1984-1985, p. 715).
79
È tuttavia dubbia la destinazione architettonica della lastra, preliminarmente datata
intorno alla metà del VI secolo a.C. al momento della scoperta (B 1984-1985, p.
715).
80
M 2008, p. Una fornace per la produzione di terrecotte, che doveva servire
il santuario, è stata scoperta nel vicino centro di Monte Catalfaro (MC 2006, p.
429).
81
B B 2006b, p. 345 (TCA 1); vedi supra, § 4.3.
82
B B 2006b, pp. 345-346 (TCA 2); M 2006c, p. 363.

146
Fig. 6.19. Poggio del Rullo. Frammento di lastra di rivestimento modanata (da B
B 2006b).

6.7. Vasellame metallico

Non sono noti molti contenitori bronzei provenienti da Terravec-


chia di Grammichele. Alcuni di essi, tuttavia, sono sfuggiti alla spolia-
zione dei contesti antichi avvenuta a partire dalla fine dell’Ottocento,
in seguito alla messa a coltura delle campagne dopo il lungo periodo di
abbandono seguito al terremoto del 1693, che determinò la dispersione
di molti reperti nel mercato antiquario. Per quanto in numero esiguo, la
loro conservazione è sufficiente a documentare la circolazione nel sito di
manufatti metallici pregiati, segno dell’accesso delle aristocrazie locali
a circuiti di scambio elitari, nei quali circolavano beni di varia prove-
nienza.
Dai depositi votivi di Poggio dell’Aquila provengono sedici phialai
mesomphaloi a vasca poco profonda, tutte di bronzo tranne una d’ar-
gento, di piccole dimensioni (diametro compreso tra 4 e 6 centimetri),
decorate con cerchi concentrici di perline a rilievo di diverso diametro e
provviste di una piccola linguetta per la sospensione (Fig. 6.20)83. Sono
riconducibili ad un tipo di produzione greca, attestato a Gela, nello stra-
to arcaico del santuario di Bitalemi, ed in altri santuari di città siceliote84.
Di provenienza esotica è, invece, una cista bronzea a cordoni ac-
quistata da Paolo Orsi per il Museo di Siracusa (Fig. 6.21)85. Si tratta

83
O 1897, c. 263.
84
Cfr. V 2011, pp. 29-30, fig. 19, 2 (da Bitalemi) con ulteriore bibliografia di con-
fronto.
85
O 1918.

147
Fig. 6.20. Poggio dell’Aquila. Phialai mesomphaloi bronzee (da O 1897).

di recipienti realizzati in lamina bronzea martellata, destinati a conte-


nere vino o altre bevande in contesti festivi, per i quali è documentata
l’utilizzazione funeraria come urne cinerarie86. È del tipo con maniglie
mobili, con fasce decorate con puntini a sbalzo tra gli undici cordoni,
la cui produzione inizia dopo la metà del VI secolo a.C.87. La cista pre-
senta un’appendice sotto il bordo per l’alloggiamento del coperchio, di
cui si conserva un frammento in lamina decorata a sbalzo, che richiama,
per tecnica e motivi decorativi, esemplari di fine VI-inizi V secolo a.C.
della cultura di Golasecca, il cui territorio, in contatto con l’Etruria, era
tramite di scambi tra l’Europa centrale ed il Mediterraneo88.
Ricondotti oggi ad un’origine nell’Italia settentrionale, manufatti di
questo tipo, considerati da Orsi di produzione greca, direttamente ad
opera di artigiani calcidesi o dal commercio calcidese importati e dif-
fusi89, sono stati rinvenuti in siti dell’entroterra di Catania e Lentini90,
città, quest’ultima, da cui proviene una situla bronzea ricondotta allo
stesso ambito culturale91. Il quadro distributivo, comprendente anche

86
C 1995, p. 14.
87
A 2012, p. 8. Per il tipo, cfr. S 1967, pp. 89-90; D M 1988,
p. 202.
88
A 2012, pp. 7-8 (con ulteriori indicazioni bibliografiche).
89
O 1918, pp. 45-46.
90
Una cista a cordoni molto simile a quella di Grammichele proviene da un corredo
funerario di Cività di Paternò, alle falde sud-occidentali dell’Etna (R 1954, pp. 138-
141, figg. 11-12).
91
O 1912, pp. 30-31; vedi anche F 2009, p. 93 (con ulteriore bibliografia).

148
Fig. 6.21. Terravecchia di Grammichele. Cista bronzea (da O 1918 e A 2012).

l’Etruria meridionale e la Campania92, è indice del loro probabile arrivo


in Sicilia attraverso una via tirrenica coinvolgente diversi intermediari,
Etruschi e Calcidesi, responsabili della distribuzione di beni di prestigio
di vario tipo, riservati alle élites non solo magnogreche e siceliote ma
anche indigene93.

92
A 2012, p. 9 (con bibliografia di riferimento).
93
A 2012. Per il commercio arcaico di questo genere di beni, caratterizzato da
complessi meccanismi di intermediazione e di redistribuzione, vedi G 1985, p. 511;
G 1995, p. 135.

149
7. Le fonti epigrafiche e numismatiche

7.1. La documentazione epigrafica

Il dossier delle iscrizioni edite provenienti da Terravecchia di Gram-


michele, piuttosto ridotto ma significativo, inserisce il sito tra quelli
dell’entroterra della Sicilia orientale che hanno restituito una documen-
tazione epigrafica, i cui caratteri, che rimandano ad una sorta di koinè
grafica di matrice dorica siceliota, accomunano i centri del comprensorio
ibleo1. Queste iscrizioni sono il frutto della graduale acquisizione della
scrittura da parte di popolazioni indigene contraddistinte, fino al VI
secolo a.C., da una cultura unicamente orale. L’alfabetizzazione avvenne
tramite l’apprendimento e l’uso dell’alfabeto greco, che nell’arco di poco
più di un secolo sfociò nell’adozione della lingua greca, documentata
dalle iscrizioni più tarde, determinando, intorno alla metà del V secolo
a.C., l’esaurirsi della documentazione epigrafica anellenica. Le iscrizioni
rinvenute nei centri epicori, risalenti a questo intervallo cronologico, co-
stituiscono un corpus di problematica lettura, che ha dato spesso adito ad
interpretazioni di segno opposto, poiché accanto ad iscrizioni di sicura
attribuzione (greca o anellenica) si registrano casi di attribuzione lingui-
stica ambigua, che riflettono fenomeni di interferenza linguistica tipici
di una situazione fluida di contatto tra lingue, specchio delle più ampie
dinamiche di interazione fra codici culturali diversi di cui fu teatro la
Sicilia orientale in età arcaica2.
La documentazione epigrafica del sito consta di sei brevi iscrizioni:
quattro sono graffite su contenitori ceramici di fattura sia greca sia indige-
na, una su una placchetta bronzea, una su una piccola statuetta plumbea3.

1
A, C 2002, p. 78; C 2002, p. 122; A 2012, pp.
144; 152.
2
A, C 2002, p. 78; S 2015, p. 699.
3
La documentazione, oggetto di diversi studi nel corso del tempo, è stata recentemente

151
Fig. 7.1. Terravecchia di Grammichele. Kotyle attica con iscrizione graffita (da S
2015).

L’iscrizione più lunga compare su una kotyle attica a figure nere tar-
doarcaica, rinvenuta nel 1916 tra gli oggetti di corredo di una tomba
messa in luce in proprietà Viola, nell’area in cui si estende la necropo-
li di Casa Cantoniera4. La kotyle reca graffita sulla parte inferiore del
piede, con caratteri irregolari, quella che Paolo Orsi definì “una lunga
ed oscura iscrizione” (Fig. 7.1)5. Al momento della scoperta, Domenico
Comparetti, consultato da Orsi, vi riconobbe un verso della commedia
Ephialtes del comico Frinico6; da allora, l’iscrizione è stata oggetto di
analisi da parte di numerosi studiosi che ne hanno dato diverse letture,
attribuendola alternativamente agli ambiti greco o anellenico7.

raccolta in un contributo di sintesi da parte di Nella Sudano (S 2015, pp. 701-703),
cui si rimanda per una dettagliata e aggiornata analisi linguistica.
4
O 1920, p. 336.
5
O 1920, p. 336.
6
C 1919-1920, pp. 200-203.
7
L’attribuzione ad ambito anellenico, seppur con fenomeni di prestito linguistico dal
greco, è quella che ha riscosso maggiore consenso tra gli studiosi: vedi S 2015,
pp. 701-702, n. 2 (con indicazione della bibliografia precedente); la recente lettura ed

152
Fig. 7.2. Necropoli di Casa Cantoniera. Kylix attica con iscrizione graffita dalla tomba
XIII/1988(da C 2010).

Dalla stessa necropoli di Casa Cantoniera provengono le altre tre


iscrizioni incise su ceramica8. In due di queste, “iscrizioni parlanti” graf-
fite all’interno della vasca di due kylikes attiche, sono state riconosciute
formule in alfabeto greco ma con tratti linguistici anellenici9. Nella pri-
ma (Fig. 7.2), del tipo C plain rim (525-500 a.C.)10, è graffita la parola
νεδαι, dativo del nome νενδας, molto diffuso nell’onomastica anellenica
della Sicilia orientale11; nella seconda (Fig. 7.3), una kylix di tipo C con-
cave lip del primo ventennio del V secolo a.C.12, è stata letta l’iscrizione
ϙυπειπινιγοιεμι, interpretata come una formula onomastica bimembre
di stampo italico, seguita dalla parola greca εμι (“io sono”)13. In entrambi

analisi linguistica della studiosa, che ne conferma il carattere anellenico, ha enucleato


nell’iscrizione un probabile antroponimo indigeno ([ολτεσϙο) ed un riferimento alla sfera
conviviale (ποτερομ, prestito linguistico dal greco ποτήριον).
8
C 2010, pp. 115-116.
9
A, C 2002, pp. 83-88; C 2002, pp. 124-126.
10
Proviene dal corredo della tomba XIII/1988 (C 2010, pp. 59-60, n. XIII.4; pp.
92; 115-116).
11
A, C 2002, pp. 83-85. Per le attestazioni del nome, generalmente
interpretato come antroponimo, vedi S 2015, p. 702, n. 3.
12
Proviene dal corredo della tomba IX/1988 (C 2010, pp. 55-56, n. IX.4; pp. 92;
115-116).
13
A, C 2002, pp. 85-87. Nell’associazione di elementi linguistici
anellenici con il verbo greco “essere” è stato individuato “a very interesting case of ‘intra-
sentential code-mixing’” (S 2015, pp. 702-703, n. 4). Per una lettura diversa, vedi
M 2003, pp. 150-151.

153
Fig. 7.3. Necropoli di Casa Cantoniera. Kylix attica con iscrizione graffita dalla tomba
IX/1988 (da C 2010).

i casi si tratta di formule di possesso, con il ruolo semantico del pos-


sessore espresso in dativo, in luogo del genitivo consueto nell’epigrafia
greca arcaica, per un fenomeno di “interferenza linguistica” fra la lingua
greca e una lingua allotria14.
Alle due recenti iscrizioni se n’è più recentemente aggiunta una ter-
za, anch’essa “parlante”, graffita all’esterno di una scodella monoansata
indigena databile tra il secondo quarto del VI ed i primi decenni del V
secolo a.C. (Fig. 7.4)15. Vi si legge Μαιο, probabilmente una formula di
possesso al genitivo di un nome (antroponimo o teonimo) di probabile
matrice italica, attestato in età arcaica in altri centri epicori della regione
e, in periodi più tardi, anche nel Bruzio ed in centri greci di Sicilia e
Magna Grecia16.

14
A, C 2002, pp. 87-89; S 2015, p. 702. Per il fenomeno
dell’interferenza linguistica, sia a livello fonologico che morfo-sintattico, vedi A-
 1988-1989, pp. 195 ss.
15
Proviene dal corredo della tomba V/1988 (C 2010, pp. 45-48, n. V.13; pp. 105;
115-116). Per il tipo della scodella, cfr. C 2018, pp. 146-147 (tipo LI.C4); 196.
16
S 2015, p. 701, n. 1 (con riferimenti bibliografici).

154
Fig. 7.4. Necropoli di Casa Cantoniera. Scodella indigena con iscrizione graffita dalla
tomba V/1988 (da C 2010).

Tra i materiali rinvenuti nei depositi votivi di Poggio dell’Aquila,


Paolo Orsi recuperò una piccola placchetta di bronzo su cui si leggo-
no le parole Δαμαίνε|τος Μνα|σία, da lui interpretate come “nome e
patronimico (in gen. dor.) di uno che dedicò un anathema, sopra cui
la lastrina era applicata” (Fig. 7.5)17. All’interpretazione di Orsi, ripresa
anche recentemente, se ne affianca un’altra che considera la placchetta,
sulla quale mancano fori per la sua applicazione, una tessera pubblica di
un cittadino di una vicina polis siceliota, indispensabile per partecipare
alla vita amministrativa della propria comunità18. Tutte le letture sono
concordi nel considerare doriche sia l’onomastica (con particolare riferi-
mento all’ambito geloo), sia la forma linguistica, marcando, intorno alla
metà del V secolo a.C., la presenza di elementi dorici all’interno della
comunità, sia che l’iscrizione vada attribuita ad un personaggio greco, sia
che denoti l’acquisizione di tratti dorici nell’onomastica locale19.

17
O 1897, cc. 262-263, fig. 45.
18
C 1992.
19
S 2015, p. 703, n. 5 (con analisi degli antroponimi e delle loro attestazioni).

155
Fig. 7.5. Poggio dell’Aquila. Placchetta bronzea con iscrizione (da S 2015).

Un ultimo documento epigrafico è costituito dall’iscrizione presente


su una piccola statuetta di piombo acquistata da Paolo Orsi nel 1903
per il Museo di Siracusa (Fig. 7.6)20. Si tratta di una statuetta del genere
magico-apotropaico della “Rachepuppe” o “revenge doll”, databile tra il
V e l’inizio del IV secolo a.C., sul cui dorso sono inscritti dieci nomi,
alcuni di incerta lettura, riconducibili ad ambito dorico21:

Θοας|Σοστρατος|Παρον|Ηερμοδορος|Ηιερονυμος|
Αριστισ|Σιναρας|Λυσανιας|Αθανις|Σοσιμος.

L’evidenza epigrafica, per quanto esigua, testimonia tanto la vita-


lità dell’ethnos indigeno fra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C.,
marcata dall’uso dell’alpha “a freccia”, detto “alpha siculo”, interpretato
come marker socioculturale, segno dell’”affermazione della solidarietà
interna alla compagine sicula e del parallelo antagonismo nei confronti
dell’elemento greco”22, quanto l’elevato grado di integrazione con l’ele-
mento greco stesso, di cui l’alfabetizzazione ed il ricorrente fenomeno
dell’interferenza linguistica sono sintomi inequivocabili, perché presup-
pongono condizioni di contatto fra parlanti di lingue diverse.
Relativamente all’età tardoarcaica, questo quadro, di per sé signifi-
cativo, si arricchisce, inoltre, di un significato sociologico ancora più ac-
centuato se si considera che le iscrizioni “parlanti” di possesso, graffite su

20
C 1919-1920, pp. 194-197; M 1997, pp. 334-335.
21
S 2015, p. 703, n. 6 (con analisi degli antroponimi e delle loro attestazioni e
bibliografia precedente).
22
A 1988-1989, pp. 181-182; A 2012, p. 148.

156
Fig. 7.6. Terravecchia di
Grammichele. Statuetta di
piombo con iscrizioni (da
S 2015).

forme potorie ed evidentemente allusive alla sfera conviviale23, trovano


la loro cornice nel contesto funerario, uno degli ambiti privilegiati della
legittimazione sociale.
Le uniche due iscrizioni di epoca più tarda, tra la metà del V e gli
inizi IV secolo a.C., testimoniano come, dopo il tentativo duceziano,
nel sito si affermi un’onomastica completamente greca di stampo dorico,
la cui estensione a documenti epigrafici appartenenti alla sfera privata
(come la statuetta plumbea) è fortemente indicativa dell’inclusione del
sito nella sfera di influenza geloo-siracusana e dell’infiltrazione di genti
doriche nel territorio che era stato saldamente sotto il controllo delle
poleis calcidesi per tutta l’età arcaica24.

23
A 1991, pp. 107-108; A 2003, pp. 220-221.
24
S 2015, p. 704.

157
7.2. La documentazione numismatica

I primi rinvenimenti monetali dal territorio di Grammichele sono


ancora una volta dovuti all’opera di Paolo Orsi tra la fine dell’Ottocento
e gli inizi del Novecento25. Egli ci informa di aver assicurato al Museo
di Napoli più di un centinaio di denari argentei, appartenenti ad un
ripostiglio di circa duecento esemplari disperso sul mercato antiquario
catanese26. Ad essi si aggiunse un nucleo di trentasette pani bronzei
frammentari27; tra essi sono segnalati alcuni esemplari frammentari ret-
tangolari, identificabili come aes signatum italico, di cui tali testimonian-
ze, insieme a quelle di Bitalemi, indicherebbero il limite meridionale di
diffusione28. Di grande importanza sono, inoltre, due tesoretti pervenuti
presso il Museo di Siracusa all’inizio del XX secolo: il primo nel 190229,
il secondo nel 191530. Il primo tesoretto consta di soli due esemplari
argentei di zecca siculo-punica, l’uno databile al 350-315 a.C.31, l’altro
al 330-320 a.C.32. Ben più consistente è, invece, il secondo tesoretto,
composto da 128 monete bronzee33, databili dall’età dionigiana sino alla
fine del III secolo a.C. Tra esse spiccano, per numero di attestazioni, le
emissioni di Siracusa, che sembrano confermare la posizione di assoluta
preminenza della città nella parte orientale dell’isola tra la fine del V e
l’inizio del IV secolo a.C.34. Proprio a tale fase sarebbero riconducibi-
li alcune monete dionigiane, che sono state messe in relazione con la

25
Purtroppo manca una pubblicazione integrale dei rinvenimenti numismatici grammi-
chelesi. Le più antiche notizie si trovano in Orsi (O 1897; O 1900). Sono, inoltre,
noti due ripostigli monetali acquistati all’inizio del Novecento, cui devono aggiungersi
alcuni esemplari recentemente ritrovati presso il Museo Archeologico di Siracusa (C-
, M c.d.s.). Rinvenimenti monetali sono noti anche da più recenti scavi
(S 2006; B, P, R 2012). A Sarcinelli si deve una messa
a punto del quadro complessivo dei rinvenimenti numismatici nel sito (S 2006
con bibliografia di riferimento), cui sono da aggiungere le notazioni di Manenti e Carroc-
cio (C, M c.d.s.).
26
O 1897, c. 205, nota 2.
27
O 1900, pp. 276-282.
28
C 1985, pp. 2-3, fig. 2.
29
IGCH, p. 330, n. 2173.
30
IGCH, p. 339, n. 2236. Vedi C, M c.d.s. con bibliografia di riferimen-
to successiva.
31
J 1997, n. 105; C, M c.d.s.
32
J 1997, n. 123; C, M c.d.s.
33
Tale risulta essere il numero complessivo degli esemplari, sebbene l’indicazione ori-
ginaria conti 129 monete (C, M c.d.s.). Dubbi sono stati avanzati da
Manganaro circa l’“unitarietà” del tesoretto, che, secondo lo studioso, potrebbe essere, in
realtà, il risultato della commistione di due gruppi distinti (M 1999, p. 83).
34
S 2006, p. 435.

158
politica aggressiva del sovrano siracusano, interessato al controllo del-
le vie di comunicazione verso l’interno, che lo portò alla conquista del
centro indigeno di Morgantina35. Le emissioni di IV secolo rimandano,
invece, alla “parentesi” timoleontea e alla fase della “Terza Repubbli-
ca” (345/4-317 a.C.)36. La contestuale presenza nel sito delle due coeve
monete siculo-puniche note dall’altro ripostiglio ha suggerito l’ipotesi
che, durante il convulso periodo di scontri, i Punici, pur per un breve
periodo, avessero sottratto la zona al controllo siracusano, rinsaldatosi,
dopo gli attacchi di Iceta e Pirro, a partire da età ieroniana37. Si attesta-
no, inoltre, numerosi esemplari pertinenti ai regni di Ierone II e del suo
successore Ieronimo, ultimo sovrano siracusano prima della conquista
romana del 212 a.C. da parte del proconsole Marco Claudio Marcello.
Oltre alle monete siracusane, il ripostiglio ha restituito anche emissioni
di altre zecche siciliane: Agrigento, Taormina, Messana, Catania, Me-
nainon. Sono poi documentate anche due emissioni pertinenti a zecche
campane, l’una di Cales, l’altra di Neapolis, interpretate in relazione alla
presenza di mercenari italici nel corso del III secolo38.
La data dell’occultamento del tesoretto è stata ipotizzata sulla base
delle cronologie delle monete più recenti: le emissioni di Catania, data-
bili tra il 211 e il 204 a.C., e quella di Menainon, databile tra il 204 ed il
190 a.C., che portano a proporre un momento immediatamente prece-
dente al 200 a.C., “nella fase convulsa della prima occupazione romana,
tesa a preparare la spedizione africana e consolidare la conquista”39.
Per ciò che concerne le monete venute alla luce nel corso degli scavi
intrapresi dall’Università di Torino, si tratta di sei esemplari, databili
tutti nel corso del III secolo a.C.40. Cinque di essi sono pertinenti alla
zecca di Siracusa, attribuibili ai regni di Agatocle, Ierone II e Ieronimo.
È, infine, attestato un solo esemplare romano-repubblicano: un’uncia
bronzea collocabile cronologicamente tra il 215 ed il 212 a.C.

35
S 2006, p. 435.
36
S 2006, p. 435.
37
C, M c.d.s.
38
C, M c.d.s.
39
C, M c.d.s.
40
S 2006, pp. 437-439; 442-443.

159
8. Sviluppo e caratteri dell’insediamento

Le più antiche tracce di frequentazione delle colline di Terravecchia


sembrano risalire all’età preistorica, cui rimandano alcuni rinvenimenti
di carattere episodico e sporadico, relativi ad isolati reperti d’industria
litica e ad altri manufatti e sepolcri pertinenti a diverse fasi cronologi-
che, comprese tra l’antica e la tarda età del Bronzo. La prima occupazio-
ne stabile archeologicamente documentata, tuttavia, risale ad un’epoca
più recente, quando genti di origine peninsulare, probabilmente pro-
venienti dalla Calabria tirrenica, si insediarono nel sito nella seconda
metà dell’XI secolo a.C., dando vita ad una comunità che esprimeva
una facies archeologica caratterizzata dalla commistione di elementi di
origine locale e continentale1.
Il vasto sepolcreto delle contrade Madonna del Piano e Mulino della
Badia, con la sua pluralità di riti funerari ed i suoi complessi corredi,
specchio di una comunità che doveva avere un’origine mista e diver-
sificata, costituisce la necropoli eponima di questa facies protostorica.
Essa accomuna una serie di villaggi sorti tra la fine dell’età del Bronzo
e l’inizio dell’età del Ferro sui rilievi che fanno da corona alla Piana di
Catania, favoriti dalla posizione vantaggiosa in funzione delle attività
agricole e pastorali e degli scambi con altre aree della regione.
La comunità, che al suo apogeo dovette raggiungere la consistenza
demografica di alcune centinaia di individui, aveva sede sulle balze so-
prastanti la necropoli, dove tracce di frequentazione relative a quest’epo-
ca, costituite da materiali residuali, sono state individuate in più punti
dell’arco collinare di Terravecchia. L’abitato, o uno dei suoi nuclei, si tro-
vava su un pianoro all’estremità settentrionale del Poggio dei Pini, dove
un’ampia capanna a pianta rettangolare documenta il tipo di abitazione
in uso presso le comunità di facies peninsulare della Sicilia orientale.

1
Vedi capitolo 2.

161
Dopo l’abbandono del villaggio protostorico, avvenuto agli inizi del
IX secolo a.C., il sito sembra essere rimasto disabitato per poco più
di due secoli, finché non venne rioccupato in età arcaica. Se si esclude
un’unica, labile traccia relativa alla fase del Finocchito, costituita da un
frammento di scodellone pluriansato, insufficiente a delineare i carat-
teri di una frequentazione già alla fine dell’VIII secolo a.C., l’inizio di
una nuova, duratura fase di occupazione può essere fissato intorno alla
metà del VII secolo a.C. È questa l’epoca cui si datano i più antichi
vasi deposti nelle tombe della necropoli di Casa Cantoniera, cui segue
una più ampia documentazione a partire dai decenni finali del secolo,
quando è attestata anche la prima frequentazione del santuario di Pog-
gio dell’Aquila, documentata dalle prime statuette fittili, e delle balze
orientali del Poggio dei Pini2. Da qui proviene una piccola quantità di
frammenti ceramici che documentano una fase di VII secolo a.C., pur-
troppo non ancora definita nei suoi rapporti, in termini di continuità o
meno, con la fase che si sviluppa nel secolo successivo, in cui tutta l’area
è segnata dalla presenza di settori di abitato.
La rioccupazione del sito avvenne nel quadro della proliferazione
di abitati che sorsero, tra il VII ed il VI secolo a.C., sulle alture che
delimitano la valle dei Margi, un fenomeno probabilmente connesso
con l’espansione economica e demografica delle poleis siceliote ed il con-
seguente aumento della richiesta di prodotti agricoli e di manodopera,
soddisfatta attraverso una riorganizzazione del territorio che, oltre alla
nascita degli insediamenti d’altura, vide una diffusa occupazione delle
campagne3. Tale riorganizzazione deve essere vista nell’ambito della po-
litica territoriale intrapresa nel corso del VII secolo a.C. da Lentini4: la
città, in una fase di rapida crescita economica, dopo aver integrato nella
comunità, probabilmente in posizione non subalterna, gli indigeni che
risiedevano nel sito5, si assicurò il controllo dell’entroterra e della valle
dei Margi, la principale via di collegamento con la costa meridionale,
sancito alla fine del secolo dalla deduzione di una subcolonia, Euboia,
probabilmente identificabile con Monte San Mauro di Caltagirone6. La
fioritura, durante tutta l’età arcaica, degli insediamenti nell’entroterra
costituisce lo sviluppo di un fenomeno avviato già tra la fine dell’VIII
e l’inizio del VII secolo a.C., probabilmente favorito dagli stessi Greci

2
Vedi §§ 5.2 e 3.2.
3
M 1979, p. 16.
4
P 1989.
5
F 2015, pp. 58-59.
6
Vedi § 1.2.

162
ai fini di uno sfruttamento intensivo delle aree coltivabili, in cui la ma-
nodopera indigena, con forme di coercizione o di cooperazione, dove-
va necessariamente essere coinvolta7. Nel caso della valle dei Margi, la
costruzione di opere difensive e le tracce di distruzione violenta che si
registrano negli insediamenti nel corso della prima metà del VI secolo8,
devono probabilmente essere viste non soltanto come indice di episodi
di conflittualità tra Greci e indigeni, che certamente dovettero essere
frequenti, ma anche in chiave di controllo di un territorio conteso in
un’ottica di competizione tra diverse poleis greche, in questo caso Lenti-
ni e Gela, la cui influenza nell’area, in concorrenza con quella calcidese,
è stata spesso richiamata9.
In questo quadro, il sito occupato dall’abitato di Terravecchia, non
solo per la sua vocazione agricola, ma soprattutto per la sua posizione
di crocevia dei principali itinerari di collegamento tra i diversi distretti
interni e costieri della Sicilia orientale, rivestiva un ruolo di assoluto
rilievo10.
Con il volgere del VI secolo a.C. si apre il lungo periodo che vide la
fioritura dell’insediamento d’età arcaica, con la sua ricchissima e cele-
bre documentazione di prodotti dell’artigianato locale, siceliota e greco.
I caratteri di questa fase, la più nota ma conosciuta in misura non ancora
adeguata alla sua importanza sotto il profilo storico, possono essere de-
lineati combinando i dati raccolti sui principali complessi archeologici
pertinenti all’abitato, ai santuari e alle necropoli, nonché le informazioni
desunte da rinvenimenti isolati, ma non per questo meno significativi.
Dell’abitato arcaico sono note poche e limitate porzioni. Il settore
più consistente è quello che occupa il fianco orientale del Poggio dei
Pini, estendendosi sulle balze digradanti verso l’insellatura che lo separa
dal Poggio dell’Aquila, dove sono noti due nuclei di abitazioni11. L’oro-
grafia del luogo è sfruttata in modo razionale: sui terrazzamenti supe-
riori, ottenuti regolarizzando il banco roccioso, che fungeva da piano di
calpestio, le case erano parzialmente rupestri, edificate con una tecni-

7
F 2015, pp. 170-171. Per una storia economica e sociale della Sicilia arcaica, vedi
D A 2016 (con bibliografia precedente dello stesso autore).
8
P 1989, pp. 683-684.
9
D 1948, pp. 123-125; A 1956, pp. 144-146; A
1960, p. 999; B 1963, pp. 231-232. Nel VI secolo a.C., l’influsso di Gela è stato
ravvisato nell’architettura monumentale del santuario dei Palici (M 2008, p.
131). Una lettura in questa chiave di molti fenomeni insediativi tra prima e seconda età
del ferro nell’altopiano ibleo è proposta in F 2015.
10
Vedi § 1.3.
11
Vedi § 3.2.

163
ca mista, che prevedeva ambienti in muratura costruiti a ridosso della
parete rocciosa, entro cui erano ricavati gli ambienti interni; a quota
inferiore, dove il pendio è meno ripido, le abitazioni erano interamente
in muratura e disposte secondo un impianto non regolare, ma volto ad
adattarsi alla situazione geomorfologica dell’area, cui rispondono sia gli
orientamenti lievemente diversi degli edifici, sia l’organizzazione degli
spazi aperti e di transito, idonei ad un sistema efficiente di smaltimento
delle acque, che sfruttava la naturale pendenza del terreno.
Le abitazioni del terrazzamento superiore, un settore forse di più
antica occupazione, sembrano mantenere, almeno in qualche caso, al-
cune caratteristiche riconducibili alla tradizione indigena, riconoscibi-
li non tanto nella tecnica edilizia, quanto in altri elementi dell’arredo,
come le banchine con annesso forno domestico ed il focolare centra-
le. Le case del terrazzamento inferiore, in uso tra la metà del VI e la
metà del V secolo a.C., erano coperte da tetti con rivestimento fittile di
tipo siciliano, probabilmente dotati di elementi decorativi come ante-
fisse gorgoniche ed altre terrecotte architettoniche. Alcuni degli edifici
avevano certamente una suddivisione interna in più vani, finalizzata ad
uno sfruttamento degli spazi funzionale alle diverse attività domestiche
(conservazione di derrate alimentari, preparazione e cottura di cibi, con-
sumo dei pasti, tessitura, toletta), indicate dalla suppellettile ritrovata
negli ambienti. La dotazione vascolare delle case denota la commistione
di vasellame indigeno e di prodotti greci, sia d’importazione, sia di fab-
brica siceliota. Se lo stoccaggio delle derrate avveniva in contenitori di
produzione locale (anfore, pithoi), l’equipaggiamento per la cottura dei
cibi (chytrai), specchio delle abitudini alimentari, e per l’illuminazione
degli ambienti (lucerne) era di tipo greco; per il servizio ed il consumo
dei pasti, invece, le stoviglie erano miste: accanto alle forme greche (so-
prattutto vasi potori) doveva persistere l’uso del vasellame di tradizione
indigena (scodelle).
I diversi modelli architettonici, le differenti modalità di sfruttamen-
to degli spazi interni ed esterni, dettate dalle caratteristiche orografi-
che, le tecniche edilizie, i sistemi di copertura, l’equipaggiamento degli
ambienti trovano riscontro in ambiente siceliota di matrice calcidese,
nelle non lontane Lentini e Monte San Mauro, dove le condizioni del
terreno favorirono la sperimentazione di soluzioni urbanistiche originali
e adatte alla situazione locale.
Il sempre vivace dibattito scientifico sui fenomeni d’interazione tra
apoikoi greci e popolazioni epicorie, e sulla possibilità di leggerne gli esiti
nella documentazione archeologica, non ha risparmiato l’interpretazio-

164
ne delle poche evidenze relative agli abitati indigeni, puntando spesso,
come per altri ambiti della cultura materiale, ad un ridimensionamento
dell’apporto greco nell’evoluzione dell’architettura domestica ed alla va-
lorizzazione dei fattori di continuità e dei meccanismi di acquisizione
selettiva di elementi alloctoni12.
Se il modulo rettilineo non costituisce una novità, dal momento che
era già proprio delle capanne protostoriche, l’influenza greca non sem-
bra poter essere estranea all’introduzione di molte innovazioni, ineren-
ti alle scelte dimensionali, all’articolazione interna degli ambienti con
criteri funzionali, alla tipologia degli arredi, all’adozione di sistemi di
copertura dei tetti con tegole fittili, alla gestione degli spazi comuni e di
transito13. L’introduzione dei tetti fittili a carattere permanente, inoltre,
dovette determinare cambiamenti significativi anche a livello sociale,
poiché la necessità del periodico rifacimento dei tetti straminei richie-
deva una mobilitazione collettiva, che probabilmente coinvolgeva anche
le donne, esclusa dal ricorso a materiali prodotti nell’ambito di un arti-
gianato specializzato14.
Quanto alla peculiarità delle case rupestri, la loro presenza a Lenti-
ni sin dall’età protoarcaica, è stata interpretata a più livelli come frutto
dell’interazione tra due componenti, la greca e l’indigena, che nella città
dovettero convivere almeno in una fase iniziale15. La singolare archi-
tettura domestica documentata nel sito, tuttavia, appare inusuale tanto
per i Greci quanto per gli indigeni: essa può comprendersi più verosi-
milmente alla luce della particolare conformazione topografica dell’area
urbana, che ne spiega la riproposizione in altri siti orograficamente si-
mili nel retroterra calcidese; a tale soluzione non deve, forse, essere stata
estranea l’ispirazione derivante dal particolare “panorama funerario” of-
ferto dalle tombe a grotticella delle necropoli indigene che punteggiano
le pareti rocciose della zona.

12
Si vedano, in relazione alla documentazione siciliana, L 2000, pp. 29-40;
H 2006, pp. 99-112.
13
A 2003, pp. 147-148. Una prova indiretta è costituita dal ritardo con cui avvie-
ne la ristrutturazione degli abitati in contesti della Sicilia occidentale, dove i contatti con
le apoikiai greche sono meno precoci e capillari (A 2003, p. 150).
14
A 2005b, p. 127.
15
Già Giovanni Rizza vi aveva ravvisato l’influenza della tecnica sviluppata dalle popola-
zioni locali grazie alla secolare esperienza nell’escavazione delle tombe a grotticella, indi-
viduandone la ragione nella necessità di adattarsi alla natura del terreno (R 1980, p.
127). Nella singolarità della forma architettonica delle abitazioni è stata più recentemente
ravvisata una creazione originale, frutto dell’interazione tra due gruppi etnici desiderosi
di integrarsi dando vita ad un “third space” ibrido (F 2007, p. 222). Per un quadro
aggiornato sulla questione della presenza indigena a Lentini, vedi F 2012.

165
Il quadro dei rinvenimenti, per quanto frammentario, autorizza ad
ipotizzare una certa continuità spaziale per l’abitato esteso sul fianco
orientale del Poggio dei Pini, anche se la presenza di tombe nei pressi
delle case sembrerebbe indicare una progressiva saturazione dello spa-
zio, forse a partire da nuclei abitativi inizialmente separati16. Altre case
arcaiche sono state individuate non lontano dalle precedenti, fin sulle
balze sud-occidentali del Poggio dell’Aquila, dove l’abitato doveva di-
radarsi in prossimità del santuario, che occupava il fianco meridionale
del colle, e delle vicine aree funerarie. Sul resto dell’arco collinare di
Terravecchia, l’insediamento, non si sa quanto denso, doveva occupare
i pianori sommitali e le prime pendici delle alture. Strutture arcaiche,
tra cui una pertinente ad un grande edificio con fondazioni in muratura
isodoma, sono documentate sul Poggio San Leonardo, successivamente
obliterate da costruzioni più tarde. Sul Poggio del Rullo, le tracce d’età
arcaica sono concentrate sul versante occidentale, a ridosso di una ter-
razza artificiale dove, a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C.,
sono documentate strutture pertinenti a più fasi di frequentazione, cui
è stato riconosciuto un carattere cultuale. Segni di preesistenze d’età
arcaica sono note, infine, anche sul Poggio del Castello, a nord delle
rovine medievali.
I limiti dell’abitato sono indirettamente indicati dalle aree funera-
rie17: verso sud, dalla necropoli di Casa Cantoniera e dalle tombe che
punteggiano le pendici meridionali e sud-orientali delle colline di Ter-
ravecchia; ad est, dai sepolcri del fianco occidentale del Poggio dell’A-
quila; a nord, dalla piccola area funeraria alle pendici settentrionali del
Poggio dei Pini. L’agglomerato tardoarcaico di Piano Croce doveva co-
stituire un insediamento topograficamente separato, con aree funerarie
di pertinenza, forse a carattere agricolo o in connessione con la non
lontana area sacra di Madonna del Piano.
I due santuari di Poggio dell’Aquila e Madonna del Piano18, entram-
bi posti ai margini dell’abitato, sono certamente tra i maggiori complessi
archeologici di Terravecchia di Grammichele, per i quali le travagliate
circostanze di rinvenimento, purtroppo, precludono ancora oggi un’ade-
guata lettura contestuale e ne rendono problematica l’interpretazione,
affidata quasi esclusivamente alle indicazioni fornite dai materiali recu-

16
Una piena comprensione delle dinamiche di sviluppo dell’abitato potrà venire, ancor
prima che da nuove indagini sul campo, da un più puntuale inquadramento cronologico
dei contesti già noti.
17
Vedi §§ 5.1, 5.2, 5.3.
18
Vedi §§ 4.1 e 4.2.

166
perati nei depositi votivi. Entrambi segnano l’emergere nel sito di una
strutturazione della sfera del sacro, un fenomeno che in Sicilia si data
a partire dalla seconda età del Ferro, in possibile connessione con l’at-
tribuzione ai santuari di una funzione di mediazione tra apoikoi greci
e popolazioni locali, di luoghi d’interscambio tra l’economia interna e
quella costiera, ma anche di definizione e controllo delle dinamiche ter-
ritoriali19.
Il santuario di Poggio dell’Aquila, da cui proviene la grande statua
femminile fittile assisa su trono di fattura indigena20, non doveva essere
dissimile da quello di altri spazi sacri, attestati sia in Sicilia sia in Magna
Grecia, immersi nella natura, ricchi di anfratti naturali o ricavati arti-
ficialmente, talora gravitanti intorno ad edifici di culto, la cui presenza
potrebbe essere suggerita solamente dal rinvenimento di un frammento
di terracotta architettonica21. La documentazione più cospicua del san-
tuario è certamente rappresentata dalle terrecotte votive rinvenute da
Paolo Orsi in una serie di ingrottamenti artificiali, da lui considerati alla
stregua di favisse, anche se non sembra da escludere che, almeno alcune
di esse, potessero essere luoghi sacri presso cui, forse, erano praticate
azioni rituali.
La fase iniziale di frequentazione del santuario, che sembra potersi
datare tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C., mostra una com-
mistione tra votivi riconducibili a produzioni coloniali e manufatti di
matrice probabilmente indigena. Le terrecotte databili tra la metà del
VI e l’inizio del V secolo a.C., stilisticamente omogenee con le pro-
duzioni artigianali delle colonie calcidesi della Sicilia ionica e di altri
centri indigeni ad esse afferenti, inseriscono il santuario nell’infrastrut-
turazione sacra dell’entroterra calcidese, funzionale al controllo ed alla
gestione del territorio ed alla mediazione tra mondo greco e mondo in-
digeno. La tipologia delle offerte mette in luce l’assoluta preponderanza
dell’elemento femminile, suggerendo, in linea con quanto già formulato
da Paolo Orsi, l’attribuzione ad un culto di carattere demetriaco, pro-
babilmente connesso alla sfera ctonia, ma anche a quella della famiglia
e della fertilità, dove la coppia divina Demetra-Kore figura all’interno
di un pantheon più ampio, in cui trovano posto, in progresso di tempo,
anche le Ninfe, associate alla preparazione delle giovani alla sessualità
ed alla sfera erotico-riproduttiva, garanzia di prosperità per la comunità.

19
A 2003, p. 211; 2015.
20
Vedi § 6.4.
21
Vedi § 4.1.

167
Questa connotazione assume contorni decisamente più netti nel
corso della prima metà del V secolo a.C., momento in cui l’area sacra
sembra raggiungere l’akmè, probabilmente in coincidenza con l’inseri-
mento di Grammichele nell’orbita degli interessi prima di Ippocrate di
Gela, e poi dei Dinomenidi, una famiglia che esercitava il sacerdozio
di Demetra sin da epoca molto antica. L’iconografia dell’offerente con
porcellino, da sempre connessa alla divinità, diventa la più diffusa, e ad
essa si accostano anche busti ed altre tipologie di offerenti, che mo-
strano l’altissimo livello raggiunto dalla produzione artigianale locale,
del tutto ispirata a modelli greci. I tiranni di Gela, e poi di Siracusa, si
sarebbero così sostituiti ai Calcidesi nello sfruttamento, ai fini del con-
trollo territoriale, della rete di aree sacre distribuite negli insediamenti
della chora, in un’epoca di cambiamenti e di riassetto degli equilibri tra
le poleis siceliote, che coinvolse inevitabilmente anche le rispettive aree
d’influenza nell’entroterra.
Dell’altra grande area sacra, quella di Madonna del Piano, si conosce
soltanto il singolare deposito votivo tardoarcaico, celebre in quanto con-
testo di provenienza della seconda grande statua fittile grammichelese,
di fattura greca, e del torso marmoreo di uno dei rari kouroi siciliani22.
Le circostanze dello scavo e la dispersione di parte dei materiali non
permettono di andare oltre le conclusioni di Orsi, che suppose l’esisten-
za, tra la seconda metà del VI e l’inizio del V secolo a.C., di un santuario
frequentato da Greci, così come esclusivamente greco era il materiale da
lui rinvenuto, considerato non attribuibile ad una fruizione indigena. Le
terrecotte architettoniche rinvenute furono considerate appartenenti ad
un thesauròs, che doveva probabilmente sorgere sul deposito, o all’edificio
templare che l’archeologo immaginava dovesse trovarsi nelle vicinanze.
L’unicità del ritrovamento e l’assenza di ricerche successive lascia-
no ancora oggi largamente lacunosa la ricostruzione della fisionomia
dell’area sacra e l’estensione del suo periodo di frequentazione: al di là
dell’intervallo cronologico indicato dai materiali rinvenuti nel deposito,
nulla è possibile dire sull’epoca di fondazione, che allo stato delle cono-
scenze deve essere fissata, pertanto, intorno alla metà del VI secolo a.C.,
né sulla sua sopravvivenza oltre i primi decenni del secolo successivo,
quando deve essere ipotizzato il suo abbandono23. Nell’arco cronologico
attualmente documentato, la fase d’uso dell’area sacra di Madonna del

22
Vedi §§ 4.2 e 6.4.
23
Una sopravvivenza fino al IV secolo a.C., del tutto ipotetica, potrebbe essere indiretta-
mente suggerita dalla presenza, nella vicina località Piano Croce, di un impianto artigia-
nale che produceva busti fittili (vedi § 6.1).

168
Piano si sovrappone a quella del santuario di Poggio dell’Aquila, circo-
stanza che ha fatto ipotizzare un fenomeno di segregazione dei culti,
dislocati contemporaneamente in due diversi ambiti topografici, in un
sito che, almeno da un certo momento, è probabile abbia accolto dei
residenti greci24.
È possibile che aree sacre sorgessero anche sulle alture di Terravec-
chia: lo lasciano ipotizzare le fondazioni, realizzate con blocchi squadra-
ti, di un edificio sul Poggio San Leonardo, di cui non si conoscono né la
planimetria completa né, la cronologia, cui è attribuibile certamente una
destinazione pubblica25, e le strutture rinvenute sul versante occidentale
del Poggio del Rullo. Qui, su una terrazza artificiale, realizzata poco
sotto il pianoro sommitale, sono state distinte più fasi di frequentazione
a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. Sebbene la documenta-
zione sia piuttosto evanescente, vi è stato riconosciuto lo svolgimento
di attività cultuali, culminate nella costruzione di un sacello nella prima
metà del V secolo a.C.26.
La più significativa area sepolcrale d’età arcaica è la vasta necropo-
li di Casa Cantoniera, ad oggi la più rilevante fonte di informazioni
sull’insediamento antico, di cui accompagna lo sviluppo a partire dalla
metà del VII secolo a.C.27. Tra l’età arcaica e le prime fasi dell’età clas-
sica, sono documentati più rituali funerari. L’inumazione entro camera
ipogeica, in osservanza del costume indigeno tradizionale, è certamente
la pratica preponderante. Le camere funerarie, di forma approssimativa-
mente quadrangolare e solitamente dotate di banchine, secondo la tipo-
logia più diffusa nelle necropoli indigene della facies di Licodia Eubea a
partire dal VI secolo inoltrato, ospitavano un numero piuttosto ridotto
di sepolture. Accanto a tale pratica sono documentate anche altre tipo-
logie sepolcrali di matrice greca: a fossa, a cappuccina, ad enchytrismòs,
ustrini. L’attestazione di pratiche funerarie allogene pone il problema
della loro interpretazione in relazione ad un’evoluzione del rituale loca-
le o all’attribuzione a residenti Greci, questione già sollevata da Paolo
Orsi, soprattutto in relazione alle incinerazioni. Queste, infatti, assumo-
no particolare rilevanza poiché la loro presenza, comune anche ad altri
insediamenti indigeni, può essere considerata indice dello stanziamento
di Greci nel sito quanto più essa è precoce e antecedente al progressivo

24
A 2003, p. 217.
25
Un terminus ante quem è costituito dalle strutture di IV secolo a.C. che vi si sovrappon-
gono (vedi § 3.2).
26
Vedi § 4.3.
27
Vedi § 5.2.

169
abbandono delle sepolture in camera ipogeica a partire dal V secolo a.C.
avanzato28. A Grammichele non possediamo sufficienti dati cronologi-
ci in merito, ma la tomba I/1988, identificata, seppur dubitativamente,
come incinerazione, potrebbe rappresentarne un’attestazione piuttosto
precoce (fine VII-inizi VI secolo a.C.), contemporanea ad un’analoga
sepoltura del sito di Ramacca29.
In relazione alla presenza di Greci residenti, è particolarmen-
te interessante il rinvenimento, sui fianchi sud-occidentali del Poggio
dell’Aquila, di quattro sepolture del tipo cosiddetto a cella ipogeica, co-
struite con pareti formate da più assise di grandi blocchi lapidei30. Que-
sta tipologia, diffusa nelle colonie siceliote sin dal VII secolo a.C., è stata
messa in relazione alle sepolture di personaggi socialmente eminenti,
in considerazione del loro numero limitato, dell’impegno costruttivo e
della qualità dei corredi, di cui nulla si è conservato, purtroppo, nelle
tombe di Grammichele.
Il quadro dell’andamento diacronico e tipologico delle attestazio-
ni delle diverse classi ceramiche all’interno dei corredi non si discosta,
nelle sue linee generali, da quello restituito dai coevi insediamenti della
Sicilia centro-orientale e riflette la circolazione di merci e lo sviluppo
delle direttrici commerciali usuale fra l’età arcaica e la prima età classi-
ca. I corredi appaiono sin dall’inizio di composizione mista, contenenti
ceramiche indigene e greche sia d’importazione (corinzia, greco-orien-
tale, laconica, attica), sia di produzione siceliota, insieme ad una ridotta
quantità di oggetti di ornamento personale in metallo e pasta vitrea.
Ciò che appare singolare, rispetto ad altri contesti coevi, è la net-
ta preponderanza della ceramica greca rispetto a quella indigena, cui
potrebbe legarsi il dato relativo alla connotazione funzionale dei corre-
di. Costituiti in massima parte da vasellame da mensa, in essi è spesso
possibile riconoscere dei servizi da banchetto, in cui il riferimento al
consumo del vino, plausibile in età tardoarcaica, è reso evidente dall’a-
dozione del relativo vasellame specializzato. Il riconoscimento, dietro
la composizione dei corredi, del riferimento a pratiche di convivialità
di matrice greca è stato ed è tuttora al centro di un acceso dibattito,
volto alla ricerca di strumenti ermeneutici utili alla comprensione di
una realtà complessa, dove gli oggetti sono chiamati a rivelare pras-
si ed orizzonti culturali non facilmente accessibili sulla sola base del

28
A 2003, p. 164; P 1989, p. 685.
29
Si tratta della tomba 1 della necropoli di proprietà Noiosi (informazione cortesemente
fornita da Rosa Maria Albanese).
30
Vedi § 5.1.

170
record archeologico31. Tuttavia, nel caso di Grammichele, un sito in cui
l’acquisizione di tratti culturali di tipo greco è estesa a più campi della
documentazione archeologica, la “coloritura” ellenizzante ed il carattere
misto dei corredi indicano probabilmente la consuetudine con pratiche
non indigene, spiegabile alla luce di intense forme di contatto col mon-
do siceliota, nel quadro di una società ibrida ed in continua evoluzione
come quella indigena.
Da quanto detto, emerge il quadro di un insediamento che in età
arcaica, a partire almeno dal secondo quarto del VI secolo a.C., godette
di una notevole prosperità, favorita dalla posizione strategica, che ne
garantiva la partecipazione ai principali circuiti economici di scambio e
redistribuzione di beni tra le poleis siceliote, terminali dei traffici tran-
smarini, ed i centri dell’entroterra, poli dell’economia e del commercio
terresti. Prova di ciò sono alcuni dei materiali restituiti dal sito, come
il cratere laconico figurato dalla necropoli di Casa Cantoniera, la cista
bronzea a cordoni, i frammenti di aes signatum32, che indicano la cir-
colazione di beni che viaggiavano attraverso circuiti riservati alle élites.
Tali beni giungevano nell’isola attraverso una via tirrenica controllata da
diversi intermediari, Etruschi e Calcidesi, responsabili della loro distri-
buzione alle élites non solo magnogreche e siceliote, ma anche indige-
ne33. In tale ottica, per l’insediamento di Terravecchia è stata ipotizzata
la funzione di stazione commerciale intermedia, gravitante su una via
terrestre che, in alternativa a quella marittima, doveva garantire l’accesso
di Gela ai traffici tirrenici attraverso il collegamento interno con la costa
ionica34. In questo quadro, non va naturalmente trascurato il ruolo del
centro nell’assicurare l’approvvigionamento di beni di prestigio alle ari-
stocrazie dei villaggi indigeni del retrostante altopiano ibleo, che in età
tardoarcaica ne esibivano il possesso nei corredi funerari35.
L’accesso a circuiti e beni elitari deve aver favorito l’emergere nel sito
dello status di individui o gruppi che, probabilmente, assunsero la re-
sponsabilità della gestione dei rapporti economici, dell’amministrazione
del surplus produttivo e della promozione di opere collettive, come la
costruzione di sacelli e muri di terrazzamento, il taglio di pendii roc-

31
Vedi § 5.2.
32
Vedi §§ 6.3, 6.7, 7.2.
33
A 2012. Per il commercio arcaico di questo genere di beni, caratterizzato da
complessi meccanismi di intermediazione e di redistribuzione, vedi G 1985, p. 511;
G 1995, p. 135.
34
G 1980-1981, p. 129; B F 2001, p. 39.
35
Per la distribuzione di sets di vasi ed utensili bronzei in Sicilia, vedi A 2012.

171
ciosi per la realizzazione di carreggiate stradali, la realizzazione di for-
tificazioni, se come tale dovesse essere interpretato il tratto di muro in
tecnica isodoma individuato alle pendici settentrionali del Poggio dei
Pini, possibile acropoli dell’insediamento36. Questa circostanza non do-
vette determinare, tuttavia, una forte gerarchizzazione della comunità,
che non trova alcun riscontro nei corredi funerari arcaici, dove anche gli
oggetti più prestigiosi, come il citato cratere laconico, sono pezzi unici
nel quadro di una generale standardizzazione. È il segno di un benessere
diffuso, che garantiva un accesso generalizzato ai prodotti veicolati dai
Greci, abbondantissimi nel sito. Probabilmente, questi erano ottenuti
in cambio di prodotti alimentari, primi tra tutti i cereali, la cui coltura
sembra essere stata la principale attività agricola della zona per tutto
l’arco cronologico di sviluppo dell’insediamento d’età greca, ma forse
anche legname e fibre tessili, come potrebbero suggerire la progressiva
diminuzione delle aree di querceto e la coltivazione del noce e della
canapa37. Che per tutta l’età arcaica i partners commerciali privilegiati
fossero le città calcidesi della costa orientale sembra essere confermato
dai materiali ceramici di produzione siceliota e dalla coroplastica, che
a quell’ambito artigianale rimanda sin dalle più antiche attestazioni38.
Lo sviluppo dell’insediamento, emerso alla luce della documenta-
zione archeologica, appare profondamente segnato dalle relazioni col
mondo siceliota. In accordo con tanta parte della letteratura archeolo-
gica, seppur in termini inevitabilmente ipotetici, è possibile immaginare
una presenza stanziale di alcuni nuclei di Greci nel sito, non perché si
voglia meccanicamente associare indistintamente un carattere etnico a
singoli aspetti della cultura materiale, ma perché alcuni di essi, come i
rituali funerari, tra cui figura anche l’incinerazione, appaiono particolar-
mente significativi, soprattutto in fasi cronologiche piuttosto precoci. Si
potrebbe pensare, allora, che le tombe a cella ipogeica, rinvenute sulle
balze sud-occidentali del Poggio dell’Aquila, fossero pertinenti a resi-
denti greci, probabilmente di status elevato, insediatisi sul posto e, forse,
responsabili del controllo del sito e mediatori nei rapporti con i gruppi
dirigenti locali39. La presenza di Greci in loco, inoltre, costituisce la più

36
Il fenomeno si registra già nelle prime fasi successive alla fondazione delle apoikiai
siceliote (F 2015, pp. 171-172).
37
Vedi § 1.4.
38
Vedi §§ 4.1, 6.2, 6.3.
39
In questa chiave, oltre alla matrice greca delle tombe a cella ipogeica e allo status sociale
di cui sembrano essere un indicatore, appare degno di nota il rinvenimento di due tombe
della medesima tipologia in un altro centro anellenico, Monte Bubbonia, nell'entroterra
di Gela. Di una di esse, datata tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., si consevano

172
naturale e, forse, inevitabile spiegazione di un fenomeno, l’alfabetizza-
zione di alcuni individui o gruppi, testimoniata dalla documentazione
epigrafica, che presuppone un elevato grado di integrazione40.
Sembrerebbe configurarsi una situazione in cui la presenza di gruppi
che sono in grado di accogliere aspetti della cultura e del lifestyle greci,
cogliendone anche, forse solo in parte, i significati ideologici e religio-
si41, si colloca in un quadro di più capillare osmosi culturale, leggibile
in tante manifestazioni della cultura materiale. Tra queste, figura anche
l’evoluzione del repertorio vascolare tradizionale42, che non implica au-
tomaticamente cambiamenti nelle abitudini quotidiane e un’adesione
a modelli allogeni: essi potevano essere accolti solo in parte e reinter-
pretati attraverso il filtro dalla tradizione locale43, la cui vitalità è te-
stimoniata dalla lunga persistenza, fino al V secolo a.C., dell’avito rito
funerario dell’inumazione multipla in camera ipogeica. Lungi dal voler
connotare in senso etnico questa documentazione diffusa, che caratte-
rizza tanti contesti archeologici misti della Sicilia arcaica, per i quali
la polarizzazione ellenico-anellenico non fornisce lo strumento inter-
pretativo più adeguato alla sua comprensione44, sembra opportuno fare
riferimento a quella varietà di modelli ermeneutici che, con sfumature
diverse, puntano alla valorizzazione degli aspetti di ibridazione, frutto
della variabilità di gruppi e identità sociali/etniche che caratterizza i
contesti del mondo coloniale45.
Affacciato sulla valle dei Margi, a controllo dell’accesso nord-orien-
tale del passo di Caltagirone, l’insediamento di Terravecchia beneficiò,
dunque, per tutta l’età arcaica, della sua posizione strategica. La situazio-
ne cambiò con il mutamento degli equilibri territoriali innescato dalla
politica espansionistica di Gela, attuata a partire dall’inizio del V secolo

alcuni elementi del corredo, tutti d'importazione (frammenti di vasi corinzi ed attici e di
uno scudo bronzeo decorato a sbalzo di produzione argivo-corinzia), che la connotano
con riferimenti all'ambito aristocratico e guerriero (vedi P, N 1992, pp. 89-
90, nn. 270-271; pp. 148 e 154-155). La tomba è stata attribuita dagli editori ad un greco o
ad un indigeno di alto rango (P, N 1992, p. 155); l'ipotesi che vi fosse deposto
un greco residente nel sito è stata riproposta in A 2005a, p. 110 e S
2011, p. 182.
40
Vedi § 7.1.
41
Vedi § 5.2 a proposito della composizione dei corredi funerari.
42
Vedi § 6.2 e, per un approfondimento più ampio, C 2018.
43
A 1991, p. 106.
44
Sul problema, con specifico riferimento alla Sicilia orientale, vedi C 2016.
45
Si vedano: M 2002; A 2009 (“middle ground”); A 2001;
A 2004; H 2005; H 2006 (“hybridity”); K 2012 (“glocalisa-
tion”).

173
a.C. Sebbene il sito non sembri essere stato toccato, se non marginal-
mente, dalle vicende belliche connesse alla spedizione militare di Ippo-
crate, la caduta di numerosi centri indigeni della chora calcidese e della
stessa Lentini, seguita dalla distruzione di Monte San Mauro ad opera
di Gelone, dovette comportare un nuovo assetto della regione ed una
parziale perdita di importanza del centro. In questa fase, l’insediamento
registra l’inizio di una progressiva contrazione, evidente soprattutto nei
corredi della necropoli. Sembra, invece, continuare lo sviluppo dell’area
sacra di Poggio dell’Aquila, che, come è stato detto, raggiunge il suo
apogeo nella prima metà del V secolo a.C.46, così come la frequentazio-
ne del Poggio del Rullo, che vede la costruzione del cosiddetto sacello47.
La sopravvivenza dell’insediamento, dove non sono state registrate trac-
ce di distruzione violenta, potrebbe essere, forse, dovuta alla sua ade-
sione all’assetto politico promosso dai tiranni di Gela, che segnò il suo
ingresso nella sfera d’influenza dinomenide. In questa fase, è probabile
che al sito sia toccata una sorte non diversa da quella del non lontano
santuario dei Palici, per il quale è stato ipotizzato un interesse da parte
di Siracusa, ormai in mano a Ierone48.
È alla metà circa del V secolo a.C. che nel sito si registrano la distru-
zione e l’abbandono di alcune delle strutture conosciute, come il cosid-
detto sacello di Poggio del Rullo e le case del terrazzamento inferiore
alle pendici sud-orientali del Poggio dei Pini49, evidenze che potrebbero
essere messe in relazione con gli accadimenti legati all’impresa di Duce-
zio, il condottiero siculo che si mise a capo del movimento irredentista
indigeno, presto soffocato dall’intervento siracusano.
Da questo momento, anche la scarna documentazione epigrafica re-
stituita dal sito testimonia come, dopo il tentativo duceziano, nel centro
si affermi un’onomastica completamente greca di stampo dorico, forte-
mente indicativa della sua inclusione nella sfera di influenza geloo-si-
racusana e dell’infiltrazione di genti doriche nel territorio, che era stato
saldamente sotto il controllo delle poleis calcidesi per tutta l’età arcaica50.
Dalla seconda metà del V secolo a.C., il sito conobbe un lungo pe-
riodo di progressivo declino, relativamente al quale non si conosce nes-
suna struttura nell’abitato, la cui sopravvivenza è indicata, oltre che da

46
Vedi § 4.1.
47
Vedi § 4.3.
48
M 2008, p. 131; T 2016.
49
In entrambi i casi, il rinvenimento di punte di freccia negli strati di crollo potrebbe far
pensare ad un evento bellico.
50
Vedi § 7.1.

174
materiali ceramici residuali, soltanto da pochi corredi funerari della ne-
cropoli di Casa Cantoniera e dalla limitata documentazione del santua-
rio di Poggio dell’Aquila, che in questa fase ha restituito tipi coroplastici
di influenza camarinese, probabilmente legati alla proiezione della città
siceliota verso il territorio di Morgantina, il cui possesso fu sancito dal
congresso di Gela del 424 a.C.51.
La fase di regresso persiste anche nei decenni successivi alla conqui-
sta di Morgantina da parte di Dionigi I di Siracusa nel 396 a.C.52, al cui
interesse per il controllo delle vie di comunicazione verso l’interno è sta-
ta ricollegata la presenza di alcune monete di età dionigiana53. È questa
la fase in cui il territorio della Sicilia orientale è controllato da gruppi di
mercenari campani, la cui presenza è ipotizzata anche a Palikè54.
Una ripresa è documentata soltanto tra la seconda metà del IV ed
i decenni finali del III secolo a.C., arco cronologico confermato anche
dalla documentazione numismatica55. In quell’epoca si registra una vasta
rioccupazione del sito, con un insediamento le cui tracce si estendono su
ampia parte del complesso collinare di Terravecchia, dal Poggio dei Pini
ad est al Poggio del Castello ad Ovest56. Dell’abitato si conoscono i resti
delle case, spesso pavimentate in cocciopesto e generalmente dotate di
cisterne per l’approvvigionamento idrico, che talvolta si sovrappongono
a strutture pertinenti alla fase arcaica. Una destinazione pubblica, in
continuità con l’abitato arcaico, doveva caratterizzare la sommità del
Poggio San Leonardo, come sembrano indicare i materiali architetto-
nici ivi rinvenuti. In questo periodo, accanto all’episodica riapertura di
alcune camere funerarie della necropoli di Casa Cantoniera, si registra
la presenza di piccole aree funerarie sparse, costituite da nuclei di tombe
a fossa e a cappuccina57. A questa fase risale il contesto sacro messo re-
centemente in luce sul fianco occidentale del Poggio del Rullo, testimo-
nianza, insieme ad alcuni oggetti fittili e gioielli acquistati da Paolo Orsi
per il Museo di Siracusa58, della prosperità dell’insediamento ancora
nella prima età ellenistica, una fase che deve ancora essere debitamente
messa a fuoco dalla ricerca archeologica.

51
G 1979, pp. 333-334.
52
P 2000a, p. 95.
53
Vedi § 7.2.
54
M 2008, p. 134.
55
Vedi § 7.2.
56
Vedi § 3.3
57
Vedi § 5.4.
58
M 2014.

175
Negli ultimi decenni del III secolo a.C., l’esaurirsi di ogni forma di
documentazione archeologica segna l’abbandono del sito, che da allora
conobbe soltanto un’occupazione sporadica, probabilmente a caratte-
re agricolo, di cui sono traccia alcuni piccoli gruppi di abitazioni e di
tombe risalenti al II secolo a.C.59, un periodo in cui, dopo la definitiva
conquista romana, gli equilibri e gli assetti territoriali dell’isola erano
destinati, ancora una volta, a cambiare.

59
Vedi §§ 3.3 e 5.4.
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2020
presso GlobalPrint – Gorgonzola (MI)

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