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LA RIFORMA DEL GIUDIZIO DI APPELLO:

LA FORMA DELL'ATTO, I PROVVEDIMENTI


SULL'ESECUZIONE PROVVISORIA, IL
FILTRO

di PIETRO D'ALESSANDRO
Approfondimento del 20 aprile 2023

ISSN 2420-9651

Utente: DALIA ASS.PROF.


giustiziacivile.com - n. 4/2023
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Approfondimento di Pietro D'Alessandro

La riforma del processo civile ha interessato anche il giudizio di appello


con varie modifiche volte sia a cercare di semplificare la redazione degli
atti e lo svolgimento del procedimento che ad integrare qualche lacuna o a
risolvere problemi interpretativi.

SOMMARIO: 1. Contenuto e forma dell'atto di appello - 2. I presupposti ed il


procedimento per la sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza
di primo grado - 3. L'abrogazione del filtro ed il procedimento semplificato per la
definizione del giudizio

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1. Contenuto e forma dell'atto di appello


Con la riforma del processocivile sono state apportate varie modifiche anche al giudizio
di appello volte, soprattutto, a cercare di semplificare le forme degli atti e lo
svolgimento del processo per tentare di ridurre i tempi di definizione; alcune
disposizioni, poi, sono state dettate per integrare la disciplina e colmare qualche lacuna
o per risolvere problemi interpretativi.
Il legislatore ha ritenuto di seguire il parere della Commissione Luiso [1] secondo il
quale, per risolvere il problema dell'eccessiva durata dei procedimenti, sarebbe stato
necessario rendere più stringenti le regole di redazione dei motivi di impugnazione, da
far redigere in base alle regole di chiarezza e sinteticità, nonché modificare la gestione
delle udienze, affidandole ad un istruttore.
Quanto alla prima indicazione, la riforma ha attuato il principio della delega [contenuto
nella lettera c) del comma 8], che ha richiesto di “prevedere che, negli atti introduttivi
dell'appello disciplinati dagli articoli 342 e 434 del codice di procedura civile, le
indicazioni previste a pena di inammissibilità siano esposte in modo chiaro, sintetico e
specifico”, modificando l'art. 342 c.p.c. per dettare sia forme che modi della redazione
dei motivi di appello.
L'attuale formulazione dell'articolo prevede che l'atto di appello deve contenere le
indicazioni stabilite nell'art. 163 c.p.c. e “essere motivato e, per ciascuno dei motivi
deve indicare, a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico:
1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato;
2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado;
3) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione
impugnata”.
Il legislatore ha quindi avvertito la necessità di risolvere i problemi della pratica creati
dalla riforma dell'art. 342 c.p.c. operata con la legge n. 134/2012.
Ispirandosi al codice di procedura tedesco (art. 520, comma 3) [2], ma adattandone in
parte il testo alla diversa finalità dell'appello italiano che non ha la funzione di garantire
la giustizia della decisione, secondo il modello tedesco, ma solo quella di rimediare agli
errori del giudice, nel 2012 il requisito prima previsto dei motivi specifici è stato
sostituito dalla disposizione che prevedeva che la citazione in appello dovesse
contenere, a pena di inammissibilità, “1) l'indicazione delle parti del provvedimento che
si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto

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compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la
violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.
I requisiti di forma dell'atto vennero quindi aumentati e dettagliati e, per di più,
trasformati da presupposto di validità, come avveniva per i “motivi specifici”, in
condizione di ammissibilità.
La differenza tra le discipline ha conseguenze assai rilevanti; la nullità contiene il
principio di conservazione degli atti che hanno raggiunto lo scopo (art 156/3 c.p.c.) che,
come osservato da autorevole dottrina [3], costituisce un ostacolo ad interpretazioni
improntate a formalismo eccessivo e deteriore, a differenza di quanto accade per
l'inammissibilità che non è in alcun modo sanabile.
Anche nella precedente formulazione dell'articolo, va precisato, la giurisprudenza
sanzionava con l'inammissibilità gli appelli redatti in violazione del principio della
specificità dei motivi ma non già come conseguenza dell'inosservanza di presupposti
formali, ma per ragioni, per così dire, “sostanziali”, in base cioè al contenuto dell'atto,
se non conteneva, accanto alla parte volitiva, una parte argomentativa di puntuale critica
alla motivazione del primo giudice.
Il diverso testo dell'art. 342 c.p.c. indusse gli operatori pratici ad eccedere in cautele
redigendo atti di appello sempre più lunghi, complessi e inutilmente ridondanti con la
trascrizione integrale della motivazione della sentenza, spesso più volte ed in ogni
singolo motivo; gli atti erano perciò meno chiari e lineari e rendevano difficile l'attività
difensiva delle controparti e le valutazioni del giudice.
Cautele, per la verità, anche rese opportune da pronunce di inammissibilità frutto di
interpretazioni viziate da formalismo ingiustificato e, peraltro, in contrasto, secondo la
giurisprudenza della Corte di Cassazione, col principio del giusto processo imposto
dall'art. 111 della Costituzione per il quale non sono ammesse interpretazioni
suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o ispirate ad un formalismo funzionale
non già alla tutela dell'interesse della controparte ma piuttosto a frustrare lo scopo stesso
del processo, che è quello di consentire che si pervenga ad una decisione di merito [4].
La Relazione illustrativa chiarisce che la legge ha tentato di trovare un equilibrio tra le
esigenze di efficienza del sistema e quelle di tutela effettiva delle parti, tenendo conto
che i canoni di chiarezza e sinteticità non possono arrivare a comprimere l'esercizio del
diritto di azione e le esigenze difensive delle parti e che le regole non devono essere
intese in modo formalistico, impedendo il raggiungimento dello scopo del processo di

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una sentenza che decida nel merito.


Lo scopo perseguito è stato quello di evitare interpretazioni eccessivamente rigide della
norma che, andando al di là dell'obiettivo di richiedere che l'appello sia costruito come
una critica motivata alle statuizioni della sentenza che vengono impugnate, finiscano
per appesantire inutilmente l'esposizione o costringano a redigere proposte di una
sentenza alternativa nel timore di pregiudizievoli pronunce di inammissibilità.
Analoga ragione ha indotto a riformulare, nell'ottica della sinteticità, la previsione
relativa alla indicazione, in relazione a ciascun motivo di appello, del capo della
decisione che viene impugnato, per evitare le inutili trascrizioni nell'atto delle pagine
delle pronunce appellate.
La nuova formulazione ha voluto anche schematizzare meglio i contenuti dell'appello
eliminando le incertezze create dal precedente tenore dell'art. 342 c.p.c. che, nella parte
in cui stabiliva che l'atto di appello dovesse contenere “l'indicazione delle circostanze
da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione
impugnata”,confondevagli elementi di fatto e quelli di diritto, poiché le circostanze cui
fa riferimento la norma non possono che consistere negli aspetti di fatto prospettati al
giudice [5].
L'art 342 c.p.c. distingue ora invece nettamente l'oggetto dell'appello, cioè il capo di
sentenza impugnato, le censure in fatto e le ragioni di diritto e ciò dovrebbe agevolare la
stesura dell'atto che diviene più simile all'atto introduttivo del primo grado.
La norma dà indicazioni precise anche sui modi di esposizioni delle ragioni che la parte
vuol far valere richiedendo che i motivi di appello siano esposti in maniera chiara,
sintetica e specifica, con l'evidente scopo di semplificare il dibattito processuale e la
decisione, consentendo alla controparte ed al giudice di individuare senza sforzi
interpretativi i punti impugnati e le ragioni di doglianza.
La prospettazione dei motivi deve essere chiara, cioè facilmente ed univocamente
intellegibile, sintetica, e quindi non prolissa e priva di inutili ripetizioni, e specifica
perché rivolta alla motivazione della sentenza con argomentazioni di critica precise e
circostanziate e non generiche.
La previsione costituisce una specificazione in materia di giudizio di appello del più
generale principio di chiarezza e specificità degli atti processuali posto dall'art. 121
c.p.c. per il quale “Gli atti del processo, per i quali la legge non
richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al

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raggiungimento del loro scopo. Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e
sintetico”.
La relazione illustrativa chiarisce che l'articolo testé citato traduce in norma di legge un
principio immanente del processo, risultante anche dalla giurisprudenza della
Cassazione che ha più volte ricordato come il requisito della sinteticità sia stato
introdotto nell'ordinamento processuale con l'articolo 3, secondo comma, del codice del
processo amministrativo come espressione di un criterio generale del diritto processuale
destinato ad operare anche nel processo civile in quanto funzionale a garantire sia il
principio di ragionevole durata del processo previsto dall'art. 111 della Costituzione che
il principio di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice [6].
Il fatto che l'esposizione dei motivi di appello debba essere chiara, sintetica e specifica
corrisponde ad un criterio di buon senso e di logica comune, prima ancora che giuridica,
ma è certo che la norma non riuscirà a semplificare e velocizzare il procedimento in
maniera sensibile.
Un atto processuale, anche se chiaro e sintetico, può essere compreso nel suo esatto
significato solo se letto nel contesto di tutti gli atti del giudizio e con riferimento a tutte
le produzioni documentali e considerando il comportamento degli altri soggetti del
giudizio [7] e dunque il tempo necessario per le valutazioni del giudice non potrà mai
essere ridotto di molto.
Inoltre, quella che sembra essere una speranza inespressa del legislatore, cioè che gli atti
diventino (non solo comprensibili senza sforzo, ma anche) brevi, è destinata a restare
irrealizzata.
In una società che, per molteplici ragioni, tende a rendere sempre più complesso e
difficile lo svolgimento di ogni attività economica e sociale dei privati, assoggettandola
ad un numero crescente di controlli ed oneri formali, gli atti processuali che tale
complessità devono necessariamente riportare non potranno che essere lunghi.
Vi è anzi il rischio che norme che impongono come obbligo non forme, ma modi si
possano rivelare controproducenti, se aprono la strada a discussioni su come è stato
redatto l'atto, appesantendo così lo svolgimento del processo [8].
La violazione degli obblighi di chiarezza, sinteticità e specificità non è sanzionata dalla
legge ma determina comunque alcune conseguenze.
La mancanza di chiarezza, se è tale da rendere assolutamente incerto il petitum o
la causa petendi, può determinare la nullità dell'atto con la conseguente applicazione

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dell'art. 164 c.p.c. [9] in virtù del quale è possibile al giudice disporne l'integrazione; la
sanatoria, è stato rilevato, ha però efficacia ex nunc e dunque è ammissibile solo qualora
non siano decorsi i termini per l'impugnazione [10].
Nel caso in cui l'esposizione dei motivi non sia sintetica, il giudice, qualora lo ritenga
opportuno, potrebbe invitare la parte a riformulare l'atto in applicazione dell'art. 175
c.p.c. [11].
La scarsa specificità dell'atto, secondo la giurisprudenza della Cassazione, non
comporta conseguenze fin quando il giudice dell'appello sia in grado di comprendere la
natura, la portata ed il senso della critica [12]; oltre tale limite l'impugnazione diviene
inammissibile.

2. I presupposti ed il procedimento per la sospensione dell'efficacia esecutiva o


dell'esecuzione della sentenza di primo grado
Il legislatore della riforma ha ritenuto di intervenire anche sulla disciplina della
sospensione dell'esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, disciplinandone
diversamente i presupposti e prevedendo espressamente la possibilità che l'istanza sia
proposta, o anche riproposta, nel corso del giudizio, qualora tale necessità sorga per
effetto del mutamento delle circostanze.
Il precedente testo dell'art. 283 c.p.c. stabiliva che l'efficacia esecutiva o l'esecuzione
della sentenza impugnata potesse essere sospesa in presenza di gravi e fondati motivi e
richiedeva, quindi, la sussistenza congiunta dei due presupposti del fumus boni iuris e
del periculum in mora.
L'articolo attualmente vigente prevede, invece, che il giudice dell'appello, su istanza
dell'appellante principale o incidentale, sospende, in tutto o in parte, l'esecuzione della
sentenza, con o senza cauzione, se l'impugnazione appare manifestamente fondata o se
dall'esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile pur
quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in
relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti.
Con tali modifiche è stata data attuazione al principio contenuto nella legge delega [lett.
f), comma 8] per il quale era necessario “che la sospensione dell'efficacia esecutiva o
dell'esecuzione della sentenza impugnata sia disposta sulla base di un giudizio
prognostico di manifesta fondatezza dell'impugnazione o, alternativamente, sulla base di
un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall'esecuzione della sentenza anche in
relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti quando la sentenza contiene la

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condanna al pagamento di una somma di denaro”.


I due presupposti sono stati quindi ridefiniti, ne è stata ridotta la portata e sono stati
posti in rapporto di alternatività, nel senso che la sussistenza di uno dei due è sufficiente
a giustificare la sospensione.
Per la concessione del provvedimento, adesso, non è più sufficiente che l'impugnazione
sembri fondata essendo invece necessario che appaia fondata in maniera manifesta; la
fondatezza dell'appello, cioè, deve essere immediatamente e totalmente percepibile e
comprensibile senza che sia necessario il ricorso ad accertamenti di tipo cognitivo o
interpretativo più approfonditi.
Una tale circostanza non può che accadere solo in ipotesi circoscritte, se non
eccezionali.
La fondatezza può essere manifesta, ad esempio, se la motivazione della sentenza è
contraria a principi di diritto del tutto pacifici in giurisprudenza o al significato
assolutamente univoco di una disposizione di legge, oppure se basata su norme di diritto
abrogate o inesistenti nell'ordinamento o anche qualora sia assolutamente
inequivocabile che i fatti di causa dedotti non possano produrre l'effetto giuridico
richiesto.
Uno dei motivi della limitazione alla manifesta fondatezza consiste probabilmente
nell'intento di limitare al minimo possibile l'attività del giudice dell'appello, il quale, nel
valutare se accogliere l'istanza, non deve compiere sostanzialmente nessun
accertamento.
Tutta la riforma sembra essere stata improntata all'idea, assai diffusa [13], per la quale
l'intervento del giudice va ridotto al minimo indispensabile in quanto la risorsa costituita
dalla giustizia sarebbe scarsa e quindi preziosa e non inesauribile ed il cui spreco in
cause ed in attività che si potrebbero evitare andrebbe a danno della comunità, che si
vedrebbe privata di occasioni per far valere reali diritti [14] [15].
L'opinione secondo la quale la risorsa sarebbe scarsa, però, non ha mai avuto neppure
un principio di dimostrazione e sembra anzi, sotto molti aspetti, vero il contrario [16].
L'altro requisito per la sospensione consiste nel danno grave ed irreparabile che
potrebbe derivare dall'esecuzione della sentenza.
La nuova formulazione richiede quindi, rispetto alla precedente, un'ulteriore
caratteristica del pregiudizio, che non deve essere solo grave ma anche irreparabile,
avendo il legislatore recepito, forse, le pronunce giurisprudenziali che tanto avevano

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affermato.
La disposizione, però, non può che essere interpretata, a parere di chi scrive, nel senso
che un pregiudizio irreparabile è, per ciò stesso, anche grave.
Una diversa interpretazione sarebbe ingiustificatamente lesiva dei diritti dei privati, i
quali potrebbero finire per subire, dall'esecuzione di una sentenza ingiusta o illegittima,
un pregiudizio irreparabile solo perché ritenuto non grave sulla base, peraltro, di
valutazioni necessariamente connotate – in mancanza di riferimenti oggettivi per
orientare l'interprete - da marcata soggettività, ciò in pieno contrasto con il pacifico
principio costituzionale per il quale la tutela giurisdizionale deve essere non solo
effettiva ma anche piena [17].
Lo scopo della modifica della norma sembra essere stato quello di impedire qualsivoglia
pregiudizio possa derivare dall'esecuzione di sentenze manifestamente illegittime e,
negli altri casi, di evitare danni irreparabili.
Osserva autorevole dottrina che i due presupposti devono essere bilanciati, nel senso
che maggiore è la fondatezza dell'impugnazione, minore è il periculum richiesto per la
concessione della sospensione, laddove, con un alto rischio di danno, è sufficiente un
minor grado di probabilità di accoglimento dell'appello [18].
Come esposto nella Relazione, la norma ha lo scopo anche di precisare che il
pregiudizio grave e irreparabile che fonda l'accoglimento dell'inibitoria può derivare
anche dall'esecuzione di pronunce di condanna al pagamento di somme di denaro, in
particolare in relazione alla possibilità di insolvenza, ma che al tempo stesso la tutela
può riferirsi altresì a sentenze di condanna ad un facere o a un pati, in relazione alle
quali può venire in rilievo la possibilità di insolvenza di una delle parti.
Il legislatore, in attuazione dei principi della delega, ha quindi voluto evitare il rischio di
possibili interpretazioni restrittive che avrebbero limitato la rilevanza della possibilità di
insolvenza alle sole condanne aventi ad oggetto una somma di denaro.
L'insolvenza cui fa riferimento la norma è chiaramente quella civile, di contenuto, per
così dire, patrimoniale, da intendere come incapacità del debitore di soddisfare i propri
creditori per l'insufficienza del suo patrimonio [19].
All'articolo è stato poi aggiunto un comma per attribuire alle parti la facoltà di chiedere
la sospensiva non solo con l'appello principale o incidentale ma anche nel corso del
giudizio, qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze. In questo caso i mutamenti
devono essere specificamente indicati (e quindi provati) nel ricorso a pena di

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inammissibilità.
Il procedimento per la sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione è descritto
nell'art. 351 c.p.c.
Sull'istanza di sospensione il giudice provvede nella prima udienza con ordinanza non
impugnabile. La parte può, con ricorso al giudice, chiedere che la decisione
sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione.
Davanti alla corte di appello, i provvedimenti sull'esecuzione provvisoria sono adottati
con ordinanza collegiale.
Se nominato, l'istruttore, sentite le parti, riferisce al collegio.
Davanti alla corte d'appello il ricorso è presentato al presidente del collegio.
Il presidente del collegio o il tribunale, con decreto in calce al ricorso, ordina la
comparizione delle parti in camera di consiglio, rispettivamente, davanti all'istruttore o
davanti a sé. Con lo stesso decreto, se ricorrono giusti motivi di urgenza, può disporre
provvisoriamente l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione
della sentenza; in tal caso, con l'ordinanza non impugnabile, pronunciata all'esito
dell'udienza in camera di consiglio, il collegio o il tribunale conferma, modifica o
revoca il decreto con ordinanza non impugnabile.
Il giudice, all'udienza prevista dal primo comma, se ritiene la causa matura per la
decisione, può provvedere ai sensi dell'articolo 281-sexies c.p.c. facendo cioè precisare
le conclusioni alle parti e disponendo la discussione orale della causa nella
stessa udienza o, se vi è istanza di parte, in un'udienza successiva; la pronuncia della
sentenza avviene al termine della discussione, con lettura del dispositivo e della concisa
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione e la sentenza si
intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene
ed è immediatamente depositata in cancelleria.
Se non decide al termine della discussione orale, il giudice deposita la sentenza nei
successivi trenta giorni.
Davanti alla corte di appello, invece, se l'udienza è stata tenuta dall'istruttore, il collegio,
con l'ordinanza con cui adotta i provvedimenti sull'esecuzione provvisoria, fissa udienza
davanti a sé per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale e assegna alle
parti un termine per note conclusionali. Se per la decisione sulla sospensione è stata
fissata l'udienza di cui al terzo comma, il giudice fissa apposita udienza per la decisione
della causa nel rispetto dei termini a comparire.

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3. L'abrogazione del filtro ed il procedimento semplificato per la definizione del


giudizio
In ottemperanza al principio di delega [lettera e), del comma 8 dell'unico articolo], il
legislatore ha abolito il filtro di inammissibilità per le impugnazioni che non hanno una
ragionevole probabilità di essere accolte che era previsto dall'art 348-bis c.p.c.
sostituendolo con un diverso “filtro” attuato nelle forme di un modulo decisorio
semplificato per le ipotesi di manifesta infondatezza dell'appello.
La relazione illustrativa spiega che si è ritenuto opportuno sostituire la declaratoria di
inammissibilità con una pronuncia di merito in considerazione del fatto che il tempo
necessario per lo studio del fascicolo e la preparazione del provvedimento è
sostanzialmente identico nei due casi.
Il testo precedente dell'art. 348-bis c.p.c. prevedeva: Fuori dei casi in cui deve essere
dichiarata con sentenza l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, l'impugnazione
è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole
probabilità di essere accolta. Il primo comma non si applica quando: a) l'appello è
proposto relativamente a una delle cause di cui all'articolo 70, primo comma; b)
l'appello è proposto a norma dell'articolo 702-quater.
La norma, frutto dell'esigenza di ridurre i tempi del processo tramutata in una pericolosa
ossessione angosciosa che ha fatto sorgere l'arazionale presunzione di abuso delle
impugnazioni che non trova riscontro nei dati statistici, ha dato luogo ad enormi
problemi interpretativi [20] e seri dubbi di legittimità costituzionale [21], è stata accolta
con grande sfavore dalla classe forense e dalla dottrina ed ha avuto una scarsissima
applicazione da parte della magistratura [22], che ha ridotto l'uso del filtro a qualche
ipotesi di infondatezza manifesta dell'impugnazione [23].
Nella Relazione illustrativa della delega [24] viene affermato, per motivare le ragioni
dell'abrogazione del filtro, che “la scarsa utilizzazione dell'istituto introdotto dal
decreto-legge n. 83/2012 non ha consentito di incidere in termini percentuali
significativi sulla definizione dei giudizi di appello con il prescritto preventivo giudizio
di ammissibilità, mentre ha determinato un'ulteriore ipotesi di ricorso in Cassazione,
all'interno del medesimo giudizio, sicché la complessiva valutazione dell'istituto in
termini di costi/benefici appare negativa”.
Accogliendo il consiglio della Commissione Luiso, di mantenere un filtro per le ipotesi
di manifesta infondatezza o inammissibilità prevedendo un modello semplificato di

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decisione [25], è stato abrogato il filtro di inammissibilità per le impugnazioni non


dotate di una ragionevole probabilità di accoglimento sostituendolo con una più veloce
forma procedimentale di definizione della controversia.
Prevede il testo vigente dell'art. 348-bis c.p.c. che il giudice, se ravvisa che
l'impugnazione è inammissibile o manifestamente infondata, dispone
la discussione orale della causa secondo quanto previsto dall'articolo 350-bis c.p.c., cioè
nelle forme, già prima indicate, dell'art. 281-sexies c.p.c.
Se è proposta impugnazione incidentale, si può provvedere con il modello della
decisione a seguito di discussione orale solo se la manifesta infondatezza o
l'inammissibilità ricorrono sia per l'impugnazione principale che per quella incidentale,
altrimenti il giudice procede alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque
proposte contro la sentenza.
L'attuale disciplina risolve i problemi posti dalla precedente normativa perché distingue
chiaramente le questioni di merito da quelle relative al rito, sostituisce la formula
generica di ragionevole probabilità di accoglimento con quella dotata di maggiore
specificità di manifesta infondatezza, utilizzata già per il ricorso in cassazione e che
riguarda in pratica le ipotesi di abuso del diritto di azione e, infine, prevede la
definizione dell'appello con una sentenza e non più sulla base di una delibazione
sommaria [26].
In teoria quindi il nuovo sistema dovrebbe consentire una semplificata e celere
definizione degli appelli che non hanno prospettive di accoglimento con il minimo
impegno possibile, allo scopo di poter destinare gran parte delle risorse a quelli che
meritano maggiore attenzione perché presentano presupposti di fondatezza da valutare.
In teoria però, si sa, funziona sempre tutto.
Nella pratica, l'obbiettivo sarebbe conseguibile soltanto se fosse consentito al giudice
dell'appello di conoscere la causa a fondo sin dall'inizio, il che potrebbe avvenire solo se
avesse un carico di procedimenti assegnati ridotto in maniera assai significativa.
I modelli processuali possono funzionare bene se funzione bene il sistema della
giustizia, mentre non può accadere il contrario.

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Riferimenti bibliografici
[1] In www.giustizia.it.
[2] L'articolo citato prevede “ […] La motivazione dell'appello deve contenere : 1.
L'indicazione delle parti della sentenza che si intendono appellare e l'indicazione delle
modifiche che vengono richieste; 2. L'indicazione delle circostanze da cui deriva la
violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata; 3.
L'indicazione degli elementi concreti che fondano il dubbio sulla correttezza o
completezza degli accertamenti di fatto contenuti nella sentenza impugnata e che
richiedono quindi un nuovo accertamento; 4. L'indicazione dei nuovi mezzi di attacco o
di difesa che si possono utilizzare…”.
[3] Verde, La riforma dell'appello civile: due anni dopo, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2014, 975/977.
[4] Cfr. ad esempio Cass 16 novembre 2005, n. 23220, in motivazione “[…] tale
interpretazione appare conforme ai principi costituzionalizzati del giusto processo, che
sono diretti a rimuovere gli ostacoli alla compiuta realizzazione dei diritti della difesa,
anche nel campo delle impugnazioni, evitando interpretazioni rigoristiche e formali”;
tra le tante, cfr. anche: Cass., 1° agosto 2013, n. 18410.
[5] Pappalardo, L'appello, in Il processo civile dopo la riforma, a cura di Cecchella,
Bologna, 2023, 343/344.
[6] La relazione illustrativa richiama vari precedenti giurisprudenziali: Cass., 30 aprile
2020, n. 8425; Cass., ord. 21 marzo 2019, n. 8009; Cass.,sez.un., 17 gennaio 2017, n.
964; Cass., 20 ottobre 2016, n. 21297; Cass., 6 agosto 2014, n. 17698.
La redazione in forma sintetica degli atti processuali corrisponde ad una necessità
sempre avvertita dalla giurisprudenza che talvolta ha indicato anche fonti diverse al
dovere di chiarezza ritenendo, ad esempio, che esso discenda dall'obbligo di lealtà
gravante sui difensori ex art. 88 c.p.c. [Cass. 2 marzo 2012, n. 3338] ovvero che la
disposizione contenuta nell'art. 132 comma 2, numero 4 c.p.c., secondo la quale la
sentenza deve contenere la “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della
decisione” non può non implicare un obbligo analogo per gli scritti difensivi delle parti
[nota del primo Presidente della Cassazione del 17 giugno 2013 inviata al CNF, in Foro
it, 2013, Anticipazioni e novità, 339].
[7] Buoncristiani, Il processo di primo grado. La leale collaborazione tra parti, giudice
e terzi, in Il processo civile dopo la riforma, a cura di Cecchella, Bologna, 2023, 37.

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[8] Come osserva Verde, Il problema della giustizia non si risolve modificando le
regole del processo, in www.giustiziainsieme.it.
[9] Relazione numero 110 dell'Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di
Cassazione, 103.
[10] Ferraro, Riflessioni a margine della riforma sul processo civile di appello, in
www.judicium.it, 5.
[11] Relazione dell'Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione numero
110 cit., 103.
[12] Cass.19 marzo 2019, n. 7675.
[13] Ad es: Magistratura democratica, Manifesto per una vera riforma della
giustizia, in Foro it., 2010, V, 200; tra le tante: in motivazione: Cass., sez. un., 12
dicembre 2014, n. 26242; Cass.,sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26243.
[14] Boccagna, Le norme sul giudizio di primo grado nella delega per la riforma del
processo civile: note a prima lettura, in www.ilprocessocivile.it, 2/3.
[15] Quest'ottica ha indotto il legislatore ad inserire un quarto comma nell'art 96 c.p.c.
prevedendo che, nei casi di responsabilità aggravata, il giudice condanna la parte al
pagamento di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende “a
compensazione del danno arrecato all'Amministrazione della giustizia per l'inutile
impiego di risorse speso nella gestione del processo” (Relazione illustrativa, 19).
[16] Il servizio, in realtà, viene ritenuto un costo per lo Stato solo perché le varie analisi
non prendono in considerazione tutte le tasse giudiziarie ma unicamente il contributo
unificato; soprattutto, tra le entrate non viene inserita la tassa di registro sulle sentenze,
il cui importo è di circa il doppio di quello che proviene dal contributo, ciò perché la
contabilità dello Stato ingloba in un'unica voce tutta l'imposta, sia quella gravante sugli
atti privati che quella che deriva dagli atti giudiziari. È stato invece dimostrato che, se si
sommano tutte le entrate di giustizia rappresentate dal contributo unificato, imposta di
registro, diritti di copia, fondo unico giustizia e recupero crediti, il sistema della
giustizia civile non solo autofinanzia integralmente il proprio funzionamento ma
presenta un attivo e diviene quindi non già un destinatario ma un erogatore di risorse
[Modena, Giustizia civile, Le ragioni di una crisi, 2019, 256/263]. Sviluppando sul
piano nazionale uno studio condotto su un solo tribunale [Il paradosso della contabilità
di un tribunale, in www.unionenazionalecamerecivili.it], l'A. dimostra anche che le
entrate provenienti dal settore civile riescono a coprire sostanzialmente tutte le spese per

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il funzionamento dei tribunali, restando escluse solo quelle delle procure. La risorsa
scarsa non soltanto non pesa minimamente sulla fiscalità generale ma sorregge i costi
dei procedimenti penali. La conseguenza è che l'ampliamento dell'organico della
magistratura non aggraverebbe la situazione dei conti pubblici ma anzi, in virtù
dell'aumento di sentenze emesse, creerebbe un'entrata che potrebbe concorrere a
sostenere anche il peso delle procure e, nei limiti in cui riesca a ridurre i tempi, potrebbe
determinare un risparmio sugli indennizzi per l'eccessiva durata dei processi, oltre a far
avere ai cittadini un servizio migliore.
Peccato che a saperlo non siano le persone giuste.
[17] Tra le tante: Corte Cost., 12 novembre 2002, n. 444; Corte Cost., 11 dicembre
2020, n. 268. Per spunti: Giordano, Di Marzio, L'articolo 24 della Costituzione, commi
1,2,3, in www.lamagistratura.it.
[18] Luiso, Il nuovo processo civile, Milano, 2023, 147.
[19] Sul concetto di insolvenza civile: Di Marzio, L'insolvenza nel codice della crisi e
dell'insolvenza, in questa Rivista, 25 maggio 2020.
[20] Soprattutto per la difficoltà di definire il concetto di “ragionevole probabilità” e
perché, sanzionando con l'inammissibilità l'impugnazione in seguito ad una valutazione
sul merito, confondeva profili diversi.
[21] Scarselli, Sul nuovo filtro per proporre appello, in Foro it, 2012, V, 287, il quale
rileva che, per l'art. 24 della costituzione, non è possibile limitare il diritto di azione
subordinandolo alla ragionevole probabilità della sua infondatezza, precisando che, se è
vero che l'appello non ha tutela costituzionale, se lo strumento esiste, e quindi l'azione è
riconosciuta, essa deve potersi esercitare senza limitazioni.
[22] Mocci, Il filtro in appello, bilancio minimo di una riforma mancata, in
www.magistraturaindipendente.it
[23] Ticchi, Considerazioni sugli ultimi orientamenti in tema d'inammissibilità
dell'appello, Riv. trim. dir. e proc. civ., 2015, 1068.
[24] In www.giustizia.it.
[25] Relazione Commissione Luiso, 47.
[26] Pappalardo, L'appello, in Il processo civile dopo la riforma, cit., 353 e 354.

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