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Rivista su trasformazione dei conflitti, cultura della riparazione e

mediazione
Journal on Conflict Transformation, restorative Culture and

La mancata risposta alla domanda di giustizia


Avv. Gian Andrea Chiavegatti

Da quando ho cominciato a svolgere la professione di avvocato nel lontano 1968 ho assistito


all’introduzione di numerose modifiche alla disciplina del processo, tutte finalizzate ad accorciarne i
tempi biblici, tuttavia senza risultati concreti. Anzi, nell’ottica di migliorare l’efficienza del sistema
processuale, il legislatore ha penalizzato costantemente l’efficacia della risposta alla domanda di
giustizia.

Ora, la capacità dello Stato di rispondere in modo imparziale ed in tempi ragionevoli alla domanda
del cittadino, che chiede di ricevere una risposta equa ad un suo problema, è uno dei principali
fattori di coesione sociale, in assenza della quale la comunità rischia di disgregarsi, come sembra di
fatto avvenire anche nel contesto italiano. Di più, l’efficacia della giurisdizione civile è condizione
per una riduzione delle violazioni penali, spesso provocate proprio da una mancata od
insoddisfacente risposta della stessa giurisdizione civile. Ma l’efficienza non può essere ottenuta a
spese dell’efficacia e della qualità della risposta alla domanda di giustizia.

Invece il legislatore italiano da decenni, nel tentativo frustrato di ottenere una maggiore efficienza,
non ha trovato di meglio che comprimere sempre più la domanda, attraverso vari meccanismi, che
non esito a definire perversi e punitivi, quali l’esecutività automatica delle sentenze di primo grado,
quando sarebbe più opportuno attribuirla caso per caso, l’aumento continuo del contributo unificato,
che rende problematico l’accesso alle Corti di una larga fascia di popolazione, l’introduzione di filtri,
per lo più arbitrari, in quanto privi di adeguata istruttoria, sulla presunta fondatezza delle azioni
promosse, e l’introduzione di nuove sanzioni per chi propone azioni non accolte. A tale ultimo
proposito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza 29.10.2021, n. 55064/11, ha
condannato l’Italia per gli eccessivi formalismi adottati dalla Corte di Cassazione nella decisione dei
ricorsi, ad esempio dichiarando inammissibile un ricorso per avere il difensore rubricato un motivo
di impugnazione “omessa motivazione”, anziché “omessa pronuncia”, benché dal tenore del motivo
risultasse chiaramente che di quest’ultimo vizio si trattava (cfr, tra le altre, Cass. n. 7268/2012)

Collateralmente a tali ostacoli il legislatore interviene ad esonerare i magistrati ordinari da una serie
di incombenze, attraverso l’espansione continua delle cosiddette Alternative Dispute Resolution
(ADR), su alcuni temi obbligatorie, quali la mediazione e la negoziazione assistita, l’ampliamento
delle competenze del Giudice di Pace e l’attribuzione di deleghe a soggetti terzi, quali i notai e gli

Mediares n. 2/2022
ISSN 1723-3437
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avvocati per le procedure esecutive. A prescindere dalla non sempre eccelsa qualità del servizio
prestato da tali operatori, va detto che il ricorso a terzi, mentre spesso non contribuisce a risolvere i
problemi, si risolve sempre in un aggravio cospicuo di spese, spesso inutili (penso, ad esempio alla
custodia degli immobili pignorati), per le parti.

Ancora, la digitalizzazione spinge sempre più verso una giustizia standardizzata e sempre più
lontana dal suo substrato reale, anche in ragione del venir meno dell’oralità a causa delle modalità
scritte del processo telematico, aggravate dal Covid, che le Corti tendono a rendere permanenti.
Peraltro, il legislatore, anche sulla spinta di una parte della magistratura, che da lezioni anche sulla
forma e lunghezza degli atti difensivi, vuole rendere gli atti processuali sempre più uniformi ed
omologabili, per affrontare il problema della concentrazione, con l’imposizione di nuovi oneri di
completezza in sede di costituzione (esperimento già fallito in passato), senza tuttavia sfruttare la
digitalizzazione per agevolare il ricupero delle precedenti fasi processuali, scaricato sulle spalle dei
difensori delle parti.

In buona sostanza tutti gli interventi sinora effettuati dal legislatore e dalla giurisprudenza
autoreferenziale della Suprema Corte si sono tradotti in una limitazione dell’accesso alla giustizia e
in una penalizzazione del diritto di difesa, con buona pace non solo dell’art. 24 della nostra
costituzione, secondo il quale la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e,
come tale, non può essere sottoposta a limiti né di forma (ad esempio, limitando la lunghezza degli
atti) né di sostanza (ad esempio, sottoponendo il diritto a filtri pregiudiziali e, in assenza di adeguata
istruttoria, arbitrari), ma anche dell’art. 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, secondo
il quale “ogni persona ha diritto a un processo equo…da parte di un tribunale indipendente ed
imparziale”..

E ciò in nome di una presunta efficienza della macchina giudiziaria, allo stato mai conseguita con
misure analoghe sperimentate nei trascorsi decenni, senza considerare che non è comprimendo la
domanda, ma investendo in risorse umane, giudici e collaboratori, e materiali, per migliorare
l’organizzazione e la qualità del servizio giustizia, che si ottiene l’accelerazione dei tempi
processuali.

La riforma del processo civile, che prende il nome dal Ministro Cartabia, si muove sugli stessi binari,
anzi aggravando gli effetti delle riforme precedenti. Infatti, introduce un procedimento sommario,
che si risolve in un iter non esaustivo, crea nuovi filtri in appello, consente un rinvio pregiudiziale
alla Corte di cassazione, così di fatto vanificando i tre gradi di giudizio, amplia le attività delegabili,
aumenta ancora le competenze del Giudice di pace, riduce fortemente l’interazione tra le parti

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processuali ed il Giudice, importando il collegamento audiovisivo e sostituendo l’udienza di


precisazione delle conclusioni con il deposito di note scritte.

E’ inutile aspettarsi qualche beneficio per l’efficacia del servizio “giustizia” in sede civile, quando
l’unica preoccupazione è quella di sgravare i giudici togati dal fastidio dei cittadini e dei loro
avvocati, rendendo la risposta giudiziaria più efficiente, cioè più rapida, attraverso la limitazione dei
diritti di difesa e la standardizzazione dei modelli, senza tener conto della qualità della risposta.

In questo preoccupante solco si colloca anche la cosiddetta giustizia predittiva, della quale tanto si
parla e che è già in fase di sperimentazione. Essa, confidando nell’intelligenza artificiale (cosa sarà
mai?), affida ad un algoritmo la risposta sulla presunta fondatezza o meno di un’azione.
Naturalmente il sistema si basa sull’organizzazione mentale del programmatore sistemista e
sull’elaborazione, certamente più veloce di quella del cervello umano, delle informazioni introdotte.

Ma, a prescindere dalla questione dell’utilità concreta di tale predizione, che mi pare totalmente
assente, si tratta di un’ulteriore limitazione alla libertà di pensiero, quella stessa libertà che ha
consentito il ripensamento di indirizzi giurisprudenziali consolidati.

In definitiva, anche in un ambito dove l’umanità è un valore essenziale, quale quello del rendere
giustizia, il sospetto è che si voglia rendere la persona un semplice consumatore pagante del servizio
con diritti limitati piuttosto che valorizzarla nel suo ruolo di cittadino, portatore di valori e diritti
inalienabili. Confidiamo in un pronto revirement del legislatore.

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