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Facoltà di Economia
Disoccupazione e
crescita economica:
analisi ed applicazioni
ad alcuni Paesi
dell’OCSE
Larger Cristian
Relatore:
Professor Pugno Maurizio
INDICE:
Indice 2
Introduzione 5
1. Mercato del lavoro 6
1.1 Mercato del lavoro neoclassico 6
La curva di offerta del lavoro 6
La curva di domanda del lavoro 9
L’equilibrio tra domanda e offerta del lavoro 11
Il mercato della produzione 12
La disoccupazione nel sistema neoclassico 13
1.2 La critica keynesiana al mercato del lavoro neoclassico 14
1.3 Conclusioni 18
2. MERCATO DEL LAVORO E INFLAZIONE .19
2.1 Curva di Phillips 19
2.2 Mercato del lavoro in concorrenza perfetta 21
2.2.1 Sintesi neoclassica-keynesiana 21
2.2.2 Il modello di Friedman 23
Mercato del lavoro di breve periodo 24
Mercato del lavoro di lungo periodo 24
2.3 Mercato del lavoro in concorrenza imperfetta .27
2.3.1 Il modello della contrattazione sindacale proposto da
Carlin W. e Soskice D. .27
La curva del salario reale contrattato 28
La curva del salario reale definito dal prezzo 29
L’equilibrio sul mercato del lavoro 30
Determinazione del livello d’occupazione nel modello
di concorrenza imperfetta 31
2.3.2 Il modello di Layard-Nickell-Jackman 32
2.3.3 NAIRU e crescita economica 35
2.4 Conclusione sui modelli del mercato del lavoro 37
3. CRESCITA ECONOMICA 39
3.1 Il modello di Solow 39
3.1.1. Conclusioni del modello di Solow 42
3.2 Crescita economica e mercato del lavoro 43
3.3 Conclusioni 44
4. SVILUPPI EMPIRICI SULLA RELAZIONE TRA
DISOCCUPAZIONE E CRESCITA ECONOMICA 46
4.1 Disoccupazione e crescita economica: esiste una chiara
correlazione? 47
4.2 Il progresso tecnico 52
4.3 L’accumulazione di capitale 58
4.4 Costi opportunità 60
4.5 Il mercato del lavoro 63
4.6 L’analisi sul caso italiano 71
4.7 L’analisi sul caso europeo 74
5 ANDAMENTO DELLA FORZA LAVORO,
DELL’OCCUPAZIONE E DEL GDP – ANALISI PER
ALCUNI PAESI EUROPEI 77
5.1 Germania 78
5.2 Francia 81
5.3 Regno Unito 85
5.4 Italia 90
5.5 Una visione d’insieme 94
5.6 Gli altri Paesi analizzati 99
Irlanda 99
Spagna 100
Finlandia 102
Canada 103
Nuova Zelanda 105
Turchia 106
6. DISOCCUPAZIONE E CRESCITA: ALCUNE
REGRESSSIONI 108
6.1 Disoccupazione e crescita della produttività 108
6.2 Disoccupazione e crescita della produttività considerati
all’interno d’archi temporali più brevi 111
Germania 112
Francia 113
Italia 113
Regno Unito 114
Irlanda 114
Spagna 114
Stati Uniti – Canada – Giappone 115
Nuova Zelanda 115
Finlandia 116
Turchia 116
Conclusioni 116
6.3 Crescita della produzione e tasso di disoccupazione 117
Germania 118
Francia 118
Italia 119
Regno Unito 119
Irlanda 119
Spagna 120
Nuova Zelanda 120
Finlandia 121
Conclusioni 121
6.4 Variazione della disoccupazione 122
6.5 Tasso di partecipazione 124
6. Appendice 125
7. ALCUNE BREVI CONCLUSIONI 127
APPENDICE STATISTICA 130
BIBLIOGRAFIA 154
INTRODUZIONE
Nell’analizzare le principali teorie macroeconomiche del mercato del lavoro e della crescita
economica, si deve notare come le due si sviluppino in modo indipendente. Questo è dovuto alle
ipotesi adottate nella ricerca dell’equilibrio del mercato del lavoro e delle condizioni necessarie per
avere una crescita di pieno impiego.
Nelle teorie del mercato del lavoro il ricorso ad una funzione di produzione con livello di capitale
esogeno consente di determinare in concorrenza perfetta il tasso di disoccupazione d’equilibrio ad
inflazione stabile (NRU), mentre in concorrenza imperfetta si ottiene il tasso di disoccupazione ad
inflazione nulla (NAIRU).
Nella teoria della crescita economica di Solow il ricorso alla curva d’offerta del lavoro anelastica
oppure alla curva d’offerta del lavoro elastica con progresso tecnico nullo, consente di ottenere il
percorso della crescita con un tasso di disoccupazione nullo.
L’uomo della strada invece non crede all’esistenza dell’indipendenza tra disoccupazione e crescita
economica, ritenendo che la crescita economica determina necessariamente una diminuzione della
disoccupazione.
L’obiettivo di questa tesi è verificare se l’adozione delle ipotesi che consentono di mantenere
indipendenti l’analisi dell’equilibrio del mercato del lavoro e della crescita di pieno impiego sia
giustificata dall’evidenza empirica. Il percorso seguito nell’analisi della correlazione tra
disoccupazione e crescita prevede un iniziale rapido richiamo delle teorie tradizionali del mercato
del lavoro e della crescita economica, evidenziandone ipotesi e risultati, seguito dall’esposizione
della recente letteratura empirica e dall’analisi dei dati relativi ad alcuni Paesi dell’OCSE. Alla fine
del lavoro si potrà rilevare se esiste una correlazione tra crescita economica e disoccupazione,
dando ragione all’uomo della strada oppure ai teorici della macroeconomia tradizionale.
Il mercato del lavoro è una costruzione analitica che descrive la struttura dell’incontro tra domanda
e offerta di lavoro, al fine di determinare il livello d’occupazione e di salario, strettamente
dipendenti dalle ipotesi poste al modello stesso. Il mercato del lavoro così definito, serve come
modello di riferimento e confronto all’analisi empirica e al dibattito teorico. Secondo
quest’impostazione, possiamo ora brevemente esaminare le tradizionali formalizzazioni del mercato
del lavoro.
1.1 Mercato del lavoro neoclassico
Secondo la concezione neoclassica, l’equilibrio sul mercato del lavoro determina le variabili reali
del sistema economico (occupazione, salario reale, produzione ecc.). L’ipotesi su cui si basa
l’analisi è la perfetta razionalità degli agenti economici, i quali si trovano in concorrenza perfetta e
basano le loro scelte sull’utilità marginale e il calcolo massimizzante. L’agente economico è
considerato un meccanismo del sistema, completamente impersonale, che opera secondo azioni
predeterminate. Caratteristica di questo sistema, è lo scambio di prodotti indifferenziati.
La curva d’offerta di lavoro è determinata dalle preferenze individuali, formate sulla base
dell’utilità della produzione acquisibili attraverso il salario e la disutilità del lavoro eseguito (fatica,
perdita di tempo libero).
• W = wL
La quantità di prodotto che l’agente economico può acquistare (pari al salario reale):
• y = W/p
E’ possibile esprimere il salario reale complessivo (W/p) in funzione del lavoro eseguito (L):
• W/p = (w/p)L
Tracciando il livello di salario reale complessivo in funzione del lavoro eseguito su un grafico
d’assi (L, (w/p)L), abbiamo una famiglia di rette che partono dall’origine con inclinazione positiva.
Se sarà maggiore il livello del salario unitario, maggiore sarà la pendenza delle rette. Se
introduciamo nello stesso grafico le curve d’indifferenza relative al lavoratore, otteniamo i punti
d’equilibrio del lavoratore stesso. Le curve d’indifferenza così tracciate indicano che il lavoratore
all’aumentare della quantità di lavoro eseguita, desidera maggiori unità marginali di salario.
I punti d’equilibrio del lavoratore, così ottenuti, indicano la quantità di lavoro offerta per ogni
livello di salario, crescente al crescere del salario reale. Facendo la derivata prima rispetto alla
quantità di lavoro eseguita, otteniamo il livello di salario richiesto dai lavoratori per un ulteriore
unità di sforzo lavorativo:
∂ (w/p)L/∂L = w/p
Dall’insieme dei punti d’equilibrio del lavoratore otteniamo la curva d’offerta di lavoro (L°).
La curva di domanda di lavoro
Nell’analisi della domanda di lavoro, si ricorre alla funzione di produzione di breve periodo,
considerando capitale e tecnologia costanti. Posta l’ipotesi che la quantità di prodotto offerta sia
identica alla quantità domandata, possiamo ricavare dalla funzione di produzione, i ricavi, mentre
dalla differenza tra costi e ricavi otteniamo il profitto. Il profitto è un punto determinante di questa
formalizzazione, in quanto secondo l’impostazione neoclassica, l’obiettivo dell’imprenditore è la
massimizzazione del profitto stesso.
Definendo:
• R: ricavi
• C: costi
• R = Yp = Y(L)p: i ricavi sono dati dalla produzione ottenuta impiegando una quantità di
lavoro L, moltiplicata per il prezzo
• C = wL: i costi complessivi sono dati per ipotesi solo dal costo del lavoro
• Π = R – C = Y(L)p – wL: profitto dell’imprenditore in funzione del lavoro impiegato
Massimizzare il profitto implica massimizzare la differenza tra costi e ricavi in base al lavoro
impiegato:
Graficamente questo punto di massimo corrisponde al tratto di maggiore differenza tra la curva dei
ricavi e dei costi, dove la pendenza tra la curva R e C è uguale.
Per massimizzare il profitto, l’imprenditore paga al lavoratore un salario pari alla produttività
marginale del lavoro. Ogni punto d’eguaglianza tra produttività marginale del lavoro e livello di
salario reale unitario, corrisponde ai punti d’equilibrio dell’impresa, da cui si ottiene la curva di
domanda di lavoro (Ld).
Abbiamo così determinato l’equilibrio (parziale) sul mercato del lavoro. Qui abbiamo una domanda
di lavoro endogena determinata dalla funzione di produzione (assumendo pieno utilizzo del
capitale, in quanto tutto il risparmio è investito) e dalla massimizzazione del profitto, ed un’offerta
di lavoro esogena determinata dalle preferenze. Ma per fare un adeguato confronto con le teorie
successive dobbiamo passare ad un equilibrio che consideri anche il mercato della produzione.
Il modello neoclassico comprendente il mercato della produzione, qui esposto in forma grafica, può
essere così formalizzato:
Così a questo livello di salario d’equilibrio abbiamo il pieno impiego dei fattori. Il livello di salario
determina quindi il livello di produzione, attraverso la funzione di produzione. Abbiamo inoltre
un’offerta aggregata endogena, determinata dall’occupazione e anelastica rispetto ai prezzi. Questo
comporta che a qualsiasi livello dei prezzi, abbiamo un equilibrio d’occupazione.
Nel sistema neoclassico il lavoratore valuta se il livello attuale di salario pagato dall’imprenditore lo
remunera adeguatamente per la disutilità sostenuta. In base alle sue preferenze il lavoratore decide
se lavorare o non lavorare ad un determinato livello di salario. Non è teoricamente possibile
l’esistenza di disoccupazione involontaria, poiché non ci sono altri lavoratori disposti a lavorare a
quel livello di salario.
• cambiamento delle preferenze del lavoratore che determinano una nuova curva d’offerta di
lavoro
• cambiamento della funzione di produzione tramite shock tecnologici, che determinano un
nuovo equilibrio tra produttività marginale del lavoro e salario reale unitario.
Keynes nella sua Teoria generale si oppone alla teoria neoclassica, dove questa considera la
disoccupazione dei lavoratori come un problema di lentezza d’aggiustamento del sistema e dove si
ricorre alla moneta esclusivamente come strumento transattivo, in modo tale che ogni variazione di
prezzo sia irrilevante per il mercato. A differenza del sistema neoclassico, l’agente economico non è
considerato una macchina razionale che applica azioni predeterminate, perché non ha una perfetta
informazione e una perfetta razionalità, così da mettere in evidenza il carattere umano degli
operatori economici. Gli agenti economici devono ricorrere così a stime e supposizioni, soprattutto
per quanto riguarda il livello della domanda aggregata. Assumendo una situazione d’incertezza e
instabilità entro cui agire, gli agenti economici fanno dipendere l’equilibrio dell’occupazione e la
stabilità dei prezzi al raggiungimento di un livello di domanda aggregata tale da cercare di garantire
la completa utilizzazione della forza lavoro disponibile. Questo può comportare una
sottoutilizzazione del capitale disponibile, così da parlare d’equilibrio di sottoccupazione.
La domanda aggregata, determinata dal tasso d’interesse prezzi, influenza attraverso le aspettative,
l’offerta aggregata. L’offerta, tramite la funzione di produzione di breve periodo neoclassica
determina l’occupazione, che può non essere a livello di pieno impiego previsto dall’equilibrio
neoclassico. Ora, oltre alle preferenze relative al lavoro del lavoratore e la massimizzazione del
profitto, nel definire il livello di disoccupazione è rilevante anche il livello di domanda aggregata.
Questo comporta che possiamo avere equilibri in cui esistono lavoratori disoccupati disposti a
lavorare ad un livello di salario inferiore a quello attuale (disoccupazione involontaria). Le
aspettative dell’imprenditore sul livello della domanda aggregata, se negative, possono determinare
la disoccupazione.
Definendo:
La domanda aggregata è funzione del tasso reale d’interesse, determinato sul mercato della moneta.
Qui si determina l’equilibrio tra domanda e offerta di moneta, la quale nella teoria keynesiana ha
effetti reali in quanto riserva di valore.
Per completare la nostra rapida presentazione del sistema keynesiano, definiamo ora le variabili sul
mercato del lavoro:
La domanda aggregata, oltre a dipendere dalla spesa reale aggregata esogena (per consumi,
investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette), è legata positivamente alla quantità di moneta,
tramite l’interesse reale, che determina quanta moneta investire o detenere come riserva di valore.
La domanda di prodotti determina così la domanda di lavoro, mentre rimane esogena l’offerta di
lavoro. In questo modello il salario non determina l’equilibrio, ma è determinato in base
all’occupazione, dal livello di produzione deciso in base alle aspettative.
2. CONCLUSIONI
I modelli del mercato del lavoro elaborati dalle teorie neoclassica e keynesiana, tramite un
impostazione di tipo statico, consentono di determinare il livello di produzione, d’occupazione e del
salario reale. Sono così definiti due diversi equilibri (di pieno impiego e di sottoccupazione),
ottenendo due formalizzazioni che sono sostanzialmente complementari, nonostante i punti di
contrasto teorico. Per giungere a questi risultati assumono esogeni il livello di capitale e progresso
tecnico, ricorrendo alla funzione di produzione di breve periodo. Sia la teoria neoclassica del
mercato del lavoro, che la critica keynesiana assumono esogeni il capitale (K) e la produttività (T)
in quanto si riferiscono ad un analisi di breve periodo.
Questa impostazione ha consentito lo sviluppo di due tipi d’impostazione d’analisi, una riguardante
la relazione tra occupazione ed inflazione (vedi cap. 2), in cui si assumono esogeni accumulazione e
progresso tecnico; l’altra tendente a determinare i fattori determinanti la crescita economica (vedi
cap. 3), in cui si assume esogeno l’equilibrio sul mercato del lavoro. Quest’impostazione porta a
considerare indipendenti disoccupazione e crescita economica, soluzione inizialmente adottata per
semplificare l’impostazione del modello teorico, ma che, come vedremo, per alcuni studiosi ha un
suo fondamento teorico.
Il ricorso alle ipotesi legate all’analisi di breve periodo, quali livello di capitale e tecnologia
costanti, consente lo sviluppo di teorie tendenti a considerare la relazione tra disoccupazione ed
inflazione. All’interno del sistema di mercati in concorrenza perfetta si è così giunti alla
determinazione del NRU (vedi par.2.2.2). La medesima relazione è considerata in seguito
all’interno della concorrenza imperfetta, giungendo a determinare il NAIRU (vedi par. 2.3.1 e
succ.).
Nel 1958 viene pubblicato sulla rivista "Economica" uno studio di Phillips A.W. sull’inflazione.
Phillips raccoglie i dati sull’andamento del salario monetario e la disoccupazione per il periodo tra
il 1861 e il 1957 nel Regno Unito. Su questi dati viene rilevata una relazione empirica tra tasso di
disoccupazione e tasso di variazione del salario monetario. Precisamente viene rilevata una
relazione inversa, che determina il tasso di variazione del salario nominale, dato il tasso di
disoccupazione a variazione del salario nominale nullo.
• u: tasso di disoccupazione
• u^: tasso di disoccupazione a tasso di variazione annuo del salario monetario nullo
• W: salario monetario del periodo
• W-1: salario monetario del periodo precedente
La stessa può essere così espressa, al fine di determinare il salario monetario del periodo:
• W = W-1[1 - œ (u - u^)]
Questa determina il salario monetario (W) del periodo come variazione del salario del periodo
precedente (W-1), legato alla variazione dal tasso di disoccupazione d’equilibrio (u^), del tasso di
disoccupazione esistente nell’economia.
Il passo successivo è stato quello di identificare, sempre per semplicità d’impostazione, il concetto
dell’inflazione salariale (tasso d’incremento dei salari) al tasso di crescita dei prezzi (inflazione
propriamente detta), secondo la seguente eguaglianza:
Così impostata la curva di Phillips, può essere semplicemente utilizzata nelle teorie sul mercato del
lavoro, per determinare la relazione tra disoccupazione e inflazione. Presentiamo ora alcuni modelli
macroeconomici proposti per illustrare questa relazione in cui per maggiore semplicità, invece che
al tasso di disoccupazione si ricorre al livello di disoccupazione (U), secondo la seguente
formulazione:
• W - W-1 = œ (U^ - U)
Questo consente di utilizzare nella rappresentazione grafica, una retta con pendenza negativa, che è
maggiormente trattabile rispetto all’originale curva di Phillips.
2.2 MERCATO DEL LAVORO IN CONCORRENZA PERFETTA
Con l’introduzione della curva di Phillips si è potuto procedere ad una sintesi completa tra il
modello neoclassico e quello keynesiano. Con questo modello è ora possibile stabilire i movimenti
sul mercato del lavoro, partendo dal livello di domanda aggregata. Si determina così, dato il livello
di domanda aggregata e il livello di disoccupazione a variazione del salario monetario nullo, se
avremo dell’inflazione.
Il livello di produzione viene determinato dalla domanda aggregata (a sua volta dipendente dalla
quantità reale di moneta offerta). La produzione così determinata, stabilisce quale sia il livello di
disoccupazione sul mercato del lavoro, e di conseguenza la variazione del salario data dalla
relazione determinata da Phillips. Ipotizzando che la variazione dei prezzi (inflazione) sia pari alla
variazione dei salari, possiamo così esprimere il nostro modello:
Friedman partendo dalla sintesi neoclassico-keynesiana, cerca di riportare il modello del mercato
del lavoro entro le condizioni neoclassiche, ricostituendo le condizioni per cui l’equilibrio del
sistema sia nuovamente determinato dal mercato del lavoro. Egli suppone che le imprese operano in
concorrenza perfetta, massimizzando il profitto e supponendo di potere vendere qualsiasi quantità di
prodotto al prezzo corrente. Deve però proporre delle ipotesi sull’andamento di lungo periodo di
capitale e sviluppo tecnologico per il mantenimento dell’equilibrio.
Ma nel breve periodo, i lavoratori possono non percepire perfettamente quale sia il livello di salario
corrente. Questo a causa di un’errata conoscenza dei prezzi (così da avere prezzi correnti diversi dai
prezzi attesi). L’errata conoscenza è riconducibile ad una non perfetta distribuzione
dell’informazione tra gli agenti economici, specialmente si è rilevata lentezza nella distribuzione
informativa. Così, i lavoratori offrono quantità errate di lavoro, ma nel lungo periodo tramite un
sistema d’apprendimento per tentativi ed errori, questi riescono a conoscere il livello di salario
reale. Vengono effettuate di conseguenza gli adeguati aggiustamenti d’offerta del lavoro,
ricostituendo così nel lungo periodo un equilibrio di piena occupazione.
Nel breve periodo, abbiamo già affermato che in presenza d’informazione asimmetrica, l’offerta di
lavoro è possibile sia errata rispetto al livello di salario reale presente sul mercato.
Illustriamo ora il caso in cui i prezzi correnti siano maggiori dei prezzi attesi. Nel breve periodo,
l’agente economico che offre lavoro rilevando sul mercato del lavoro un livello dei prezzi atteso
presuppone che questo sia identico al prezzo corrente effettivo, determinando l’equilibrio in L1. Ma
se il prezzo corrente effettivo è maggiore di quello atteso, il lavoratore avrebbe potuto offrire una
quantità di lavoro maggiore, con equilibrio di pieno impiego in L2. La differenza tra questi due
livelli d’offerta determina la quantità di disoccupazione involontaria, dovuta alle errate valutazioni
dei prezzi da parte del lavoratore.
Mercato del lavoro di lungo periodo
Nel lungo periodo, il lavoratore tramite un procedimento per tentativi ed errori, può determinare il
prezzo corrente del mercato, così da avere una sola curva d’offerta di lavoro. Difatti il prezzo atteso
viene a coincidere effettivamente con il prezzo corrente, e la quantità di lavoro efficiente è L1.
Questo spostamento della curva di offerta di lavoro, è dovuto al movimento sul mercato dei prodotti
dove si ha nel lungo periodo una diminuzione della domanda di prodotti, causata dall’aumento dei
prezzi.
L’aumento dei prezzi determina una diminuzione della domanda di prodotti nel lungo periodo.
Questo movimento sul mercato dei prodotti ha l’effetto di spostare la curva di offerta di lavoro e la
curva di Phillips di breve periodo (A −> B). Di conseguenza nel lungo periodo la curva di Phillips è
una verticale sul livello di disoccupazione (U^). In questo modo viene determinato il tasso di
disoccupazione naturale (NRU), dove corrisponde l’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro ed
abbiamo un tasso di inflazione stabile. L’inflazione così determinata, nel lungo periodo, non ha
effetti reali ed è esclusivamente collegata all’offerta di moneta. Difatti a questo tasso di
disoccupazione può essere correttamente prevista l’inflazione. Così, secondo Friedman, nel lungo
periodo non esiste alternativa tra disoccupazione e inflazione.
Questi spostamenti presuppongono la perfetta flessibilità del mercato del lavoro, dove in ogni
momento si è in grado di portare il salario reale al salario d’equilibrio. Ma possono esistere delle
restrizioni sul mercato (istituzioni socioeconomiche, regolamentazioni), che limitano questa
flessibilità. Il perdurare di situazioni di disoccupazione involontaria sono quindi riconducibili
all’esistenza di queste rigidità. In queste condizioni l’inflazione può determinare effetti reali.
2.3 Il mercato del lavoro in concorrenza imperfetta
In seguito alle teorie che considerano le imperfezioni del mercato (costi di transizione, informazione
asimmetrica, operatori collettivi) si è cercato di formalizzare modelli macroeconomici di
concorrenza imperfetta. Questi modelli sono costruiti con l’intento di integrare l’analisi della
concorrenza perfetta, senza obiettivi di contrapposizione teorica. Così si considera un sistema dove
si ha la presenza di agenti economici individuali e collettivi, dove si ha una distribuzione
asimmetrica delle informazioni e del potere contrattuale.
Nella concorrenza imperfetta i prezzi e i salari non sono unicamente determinati dal mercato. Siamo
in un’economia dove non ci sono solo price-takers e wage-takers, ma imprese e lavoratori possono
influenzare i livelli dei prezzi e dei salari, in base al loro potere contrattuale e alle informazioni
disponibili.
I salari possono essere determinati tramite negoziazioni contrattuali collettive, tra sindacati ed
imprese. Le imprese influenzano la contrattazione tramite la strategia aziendali che determina i
prezzi dei prodotti finali. I profitti (obiettivo d’impresa) sono determinati come mark-up dei costi di
produzione. I sindacati (organizzazione collettiva della forza lavoro) basandosi sulle aspettative del
costo della vita, e cercano di ottenere un salario medio sufficiente a coprire questi costi.
Nel mercato del lavoro in concorrenza imperfetta i salari sono determinati tramite la contrattazione
collettiva fra sindacati e imprese. La contrattazione avviene all’inizio del periodo considerato, e si
ipotizza che resti valida durante tutto il periodo per semplicità d’analisi.
I sindacati, agendo nell’interesse del lavoratore, contrattano il livello del salario, in base al livello
dei prezzi attesi, caratterizzanti il periodo successivo. Il salario che il sindacato riuscirà ad ottenere
è legato proporzionalmente alla forza lavoro occupata. Questo perché si ritiene che il potere
contrattuale del sindacato sia basata sulla capacità di organizzare scioperi efficaci, e lo sciopero è
considerato uno strumento credibile a bassi livelli di disoccupazione. Naturalmente, qui si suppone
che gli occupati seguano le indicazioni del sindacato.
Cominciamo col definire la struttura della forza lavoro:
• LF = forza lavoro
• L = occupazione
• U = LF – L: disoccupazione
Definiamo in seguito la curva del salario reale contrattato (BRW) come funzione decrescente del
livello di disoccupazione:
• wb = b(LF – L))
Otteniamo così una curva di salario reale contrattato (BRW) funzione crescente del livello di
occupazione, espressa in termine di salario reale atteso.
Come già detto l’impresa punta a conseguire un profitto, stabilito come mark-up sui costi di
produzione. Per semplicità si assume che i costi di produzione nella nostra economia siano dati
solamente dal salario.
Fissando l’impresa nella sua strategia il prezzo del prodotto finale, questa in base al mark-up che
vuole ottenere, determina implicitamente il salario reale che è disposta a pagare.
Questa impostazione consente di considerare la concorrenza perfetta come un caso particolare della
concorrenza imperfetta. Se fossimo in concorrenza perfetta il salario dovrà essere pari alla
produttività marginale del lavoro, quindi la curva del salario reale definito dal prezzo (PRW)
corrisponderebbe alla curva di domanda di lavoro neoclassica.
Nella realtà la PRW è molto piatta, per la scarsa sensibilità del prezzo alle variazioni di domanda.
Questo significa che l’imprenditore è disposto a rinunciare a parte dei profitti, pur di non modificare
prezzi e salari. Difatti, la modifica risulterebbe un operazione costosa, oltre al fatto che la
contrattazione avviene una volta per periodo.
• µ: mark-up
• P = (1 + µ)(W/LP): prezzi decisi dall’impresa
• LP = (1 + µ)W/P: produttività del lavoro espressa in base al salario reale
• LP/(1 + µ) = wp: salario reale che l’impresa è disposta a pagare
• m = µ/(1+ µ)
Se il salario atteso che i sindacati sono disposti a negoziare, è uguale al salario determinato dal
prezzo, siamo ad un livello d’occupazione ad inflazione del salario nulla. Il tasso di disoccupazione
corrispondente a (U^) = (LF – L^) è un tasso di equilibrio (NAIRU). Questo significa che la quota
di prodotto che i sindacati richiedono come salario e la quota che le imprese sono disposte a cedere,
per conseguire un profitto, sono uguali.
Se le richieste del sindacato sono superiori a quanto sono disposti a cedere le imprese si genera un
processo inflazionistico di rincorsa tra salari e prezzi. Per tornare al NAIRU occorre variare il
potere contrattuale del sindacato (legato al livello di occupazione), così da scorrere all’indietro
lungo la BRW. Oppure tramite lo spostamento della PRW e della BRW, si assume l’attuale livello
di occupazione come nuovo punto di NAIRU. Questo significa che i coefficienti della curva PRW e
della curva BRW, rappresentanti la struttura del mercato, variano.
Possiamo così formalizzare l’equilibrio sul mercato del lavoro di concorrenza perfetta, determinante
l’inflazione:
Come per il mercato del lavoro in concorrenza perfetta, il livello di occupazione può essere
raggiunto sul mercato del lavoro oppure può essere determinato dal livello di produzione.
All’interno del modello di concorrenza imperfetta può essere riproposta l’ipotesi keynesiana,
secondo cui la produzione è decisa dalle aspettative relative alla domanda aggregata. La
produzione, per semplicità, si basa ancora nella funzione di produzione neoclassica con capitale e
tecnologia costante. Questo determina il seguente livello di occupazione:
Si ricava così la curva dell’occupazione determinata dalla domanda aggregata (EAD), che porta alla
seguente rappresentazione grafica:
Il livello di occupazione così determinato può non corrispondere al NAIRU. Questo genera processi
inflazionistici sulla base della differenza del salario determinato nella BRW e PRW.
Il livello di occupazione è così determinato dalla domanda aggregata. Possiamo quindi avere
disoccupazione volontaria ed involontaria. La dinamica della disoccupazione può essere invece data
dal conflitto contrattuale che influendo sull’inflazione, determina la domanda aggregata.
Ma questi risultati, come si vedrà in seguito, sono stati ottenuti proponendo la medesima
impostazione tenuta per la concorrenza perfetta, dove le variazioni tecnologiche e d’intensità di
capitale, sono considerate esogene.
Per meglio formalizzare come viene a determinarsi il NAIRU e i relativi processi inflazionistici,
riportiamo il modello esposto da Layard, Nickell, Jackman.
Gli autori formulano le curve di domanda e offerta del lavoro in base al livello di disoccupazione.
Anch’essi propongono un’offerta del lavoro basata sul sindacato.
Nella curva del salario contrattato dai sindacati, il salario è espresso come mark-up sui prezzi attesi,
dove il mark-up cresce all’aumentare del tasso d’occupazione e al diminuire del tasso di
disoccupazione:
• w: salario reale
Nella curva del salario offerto dalle imprese, i prezzi sono stabiliti in base ad un mark-up sul salario
atteso, il quale è legato negativamente al livello d’occupazione ( maggiore è la disoccupazione,
maggiore è il mark-up):
• p – we: mark-up dell’impresa
• p – we = β0 - β1u: curva del salario reale definito dal prezzo (β1≥0)
Da queste, se i salari e i prezzi attuali sono uguali a quelli attesi (p = pe; w = we), il tasso di
disoccupazione d’equilibrio è pari a:
• (p – pe) = (w – we)
Allora possiamo determinare quanto la disoccupazione è distante dal livello d’equilibrio sulla base
della seguente equazione:
• u – u* = -(1/Θ1)(p – pe)
• Θ1 = ( β1 + γ1)/2
Abbiamo ricavato una relazione negativa tra variazione della disoccupazione dal livello d’equilibrio
e variazione dai prezzi attesi. Questo indica che una minore disoccupazione è legata ad una
differenza positiva tra prezzi realizzati e prezzi attesi.
Ora possiamo formalizzare il livello di NAIRU, partendo dai prezzi. Definendo la differenza tra
prezzi del periodo precedente e prezzi attesi come:
• pe – p-1 = ∆p-1
E la differenza tra i prezzi del periodo precedente e i prezzi realizzati nel periodo corrente:
• p - p-1 = ∆p
Allora la differenza tra prezzi correnti e prezzi attesi, è data dall’inflazione e dalla differenza tra
prezzi attesi del periodo e prezzi dal periodo precedente:
Questa è definita come la variazione dell’inflazione, che riportata con le precedenti, possiamo
riproporre la curva di Phillips:
• ∆p - ∆p-1 =
- Θ1(u –
u*): curva
di Phillips
Nei fatti stilizzati posti all’inizio del loro testo, si rende evidente come la disoccupazione non
presenti un trend nel lungo periodo, quindi considerano legittimo riproporre l’impostazione
precedente basata sull’indipendenza.
Gli autori dimostrano come in concorrenza imperfetta, grazie al ricorso ad una funzione di
produzione Cobb-Douglas, la disoccupazione d’equilibrio è indipendente dal tasso di crescita della
produttività (K/L). Consideriamo la formalizzazione proposta.
Nel secondo capitolo del loro libro, Layard-Nickell-Jackman riportano un modello di contrattazione
salariale tra impresa e sindacato, basato sul prodotto asimmetrico di Nash e al ricorso ad una
funzione di produzione Cobb-Douglas a rendimenti di scala costanti:
• Y = TLαK1-α
Con V* e Π* si indicano gli obiettivi minimi del sindacato e delle imprese, dove β indica il potere
contrattuale del sindacato.
L’obiettivo del sindacato è massimizzare il reddito medio degli iscritti (V), in base al reddito degli
occupati e ai sussidi percepiti dai disoccupati:
• Π = Y – wL
• N = (w – A)βΠe(w)
Dato: ∂Πe/∂w = - Le
Moltiplicando per il salario reale possiamo ottenere il mark-up tra il salario (w) e le entrate
alternative (A), funzione del potere contrattuale del sindacato:
• (w – A)/w = [(wLe/βΠe)]-1
Otteniamo così:
Assumendo che A = we(1-u), in quanto si ritiene che il sindacato possa ottenere per i disoccupati
sussidi in linea con il salario atteso, quando l’occupazione è maggiore, possiamo ottenere la
seguente disoccupazione d’equilibrio:
Gli autori ottengono che la disoccupazione è indipendente dalla variazione del rapporto
capitale/lavoro, in quanto ricorrendo ad una Cobb-Douglas a rendimenti costanti, una crescita di
steady-state non modifica la distribuzione del reddito e lascia inalterato il rapporto (Πe/ w Le).
Scorrendo i modelli sul mercato in concorrenza perfetta e sul mercato in concorrenza imperfetta, si
nota che i principali sviluppi delle teorie sul mercato del lavoro sono incentrate sull’analisi del
rapporto tra disoccupazione ed inflazione, assumendo esogeno la crescita di capitale e il progresso
tecnico. Determinano così uno stato stazionario (NRU E NAIRU), assumendo esogeni il livello di
capitale e il livello della popolazione, che invece caratterizzano l’analisi della crescita economica.
Layard, Nickell e Jackman, sulla base d’analisi empiriche che non rilevano una chiara correlazione
tra disoccupazione e crescita, decidono di mantenere l’ipotesi di indipendenza tra disoccupazione e
crescita economica. La dimostrazione teorica portata dagli autori deve essere però letta per quello
che effettivamente è. Siamo in presenza della una dimostrazione di un caso particolare come lo può
essere un economia con perfetta sostituzione dei fattori. Il ricorso ad una funzione di tipo Cobb-
Douglas è dovuto alla semplificazione necessaria per ottenere un’analisi del rapporto tra
disoccupazione e inflazione. Non hanno voluto considerare l’effettiva esistenza di una relazione tra
crescita e disoccupazione. Si seguirà la medesima impostazione anche nei modelli che analizzano la
crescita, in quanto saranno incentrati sulla relazione tra crescita della capacità produttiva e crescita
del capitale.
3. LA CRESCITA ECONOMICA
Lo studio della crescita economica, s’incentra sull’analisi della crescita del reddito reale. La crescita
viene considerata in relazione alla disponibilità delle risorse (lavoro e capitale) e dell’efficienza
nell’utilizzo delle risorse stesse (tecnologia). In base a queste si cerca di determinare il tipo di
crescita (capital-intensive, labour-intensive) e le cause della stessa (crescita della popolazione,
crescita della domanda aggregata). Il modello cui maggiormente si fa riferimento per la sua
semplicità e potenza, è il modello di Solow, che determina la crescita di pieno impiego.
Il modello di Robert Solow come già detto punta a determinare le condizioni e i percorsi della
crescita di pieno impiego. Il modello analizza la crescita economica attraverso la funzione di
produzione neoclassica omogenea di primo grado. Ipotesi fondamentale di questa costruzione è la
perfetta sostituibilità fra capitale e lavoro, oltre al ricorso ad un’economia isolata, dove si ottiene un
unico prodotto. Analizziamo, ora il modello proposto da Solow.
Solow ipotizza che l’accumulazione del capitale sia in funzione del livello di produzione,
collegando accumulazione e produzione tramite il risparmio. L’accumulazione è formalizzata nel
seguente modo:
Questo significa che il modello assume che tutto il risparmio venga automaticamente investito. Il
risparmio è funzione del reddito in base alla propensione al risparmio (s), determinata
esogenamente. In questo modo otteniamo che la quota di produzione destinata al risparmio,
corrisponde all'accumulazione.
La funzione di produzione, come già detto è una funzione neoclassica a rendimenti marginali
decrescenti:
• Y = F(L,K,T)
I rendimenti di scala sono costanti e non vi sono vincoli di scarsità delle risorse.
Unendo le due precedenti equazioni si ottiene la crescita del capitale in funzione del capitale, del
lavoro e della tecnologia impiegata:
• K – K-1 = sF(L,K,T)
L’accumulazione viene così a dipendere dalla tecnologia utilizzata e dal livello di risorse impiegate.
Così posta, abbiamo un’equazione a due incognite. Qui Solow introduce un’ipotesi forte, perché
utilizza, per determinare il risultato del mercato del lavoro, una curva d’offerta di lavoro anelastica
rispetto al salario, così da avere occupazione di pieno impiego e disoccupazione costante nulla:
Si ottiene così, per la crescita del capitale, dato il livello di tecnologia, un’equazione ad
un’incognita (K):
• Kt – Kt-1 = sF(K,L°ent,T)
Solow procede nell’analisi per determinare come si giunge ad una crescita di steady state,
considerando il rapporto capitale – lavoro:
Esprime quindi la variazione del rapporto capitale-lavoro, come crescita del capitale e
dell’occupazione:
• r - rt-1 = rsF(K,L)/K – nr
• r - rt-1 = sF(r,1) – nr
Se il tasso di variazione del rapporto capitale-lavoro è nullo avremo crescita di steady-state. Questo
avviene quando si eguagliano sF(r,1) e nr, in modo tale da mantenere costante il rapporto capitale-
lavoro.
Dove r* è il rapporto capitale – lavoro di steady state. Se nr è maggiore di sF(r,1), allora il rapporto
capitale-lavoro è inferiore al rapporto di steady-state, con delle variazioni negative del rapporto
stesso, che ci riportano ad una crescita di steady-state. Invece se nr è minore di sF(r,1), si avranno
delle variazioni positive che ci porteranno verso r*.
Il modello di Solow basa il suo successo sulla sua potenza esplicativa e semplicità, adottando i
principi della teoria neoclassica, giungendo all’importante conclusione che la crescita ha un
movimento convergente, verso una posizione d’equilibrio di pieno impiego.
La crescita è così determinata dalla crescita della popolazione e dallo sviluppo tecnologico, cui si
adegua l’accumulazione di capitale, per mantenere la piena occupazione. Quindi il tasso di crescita
è indipendente dal tasso di risparmio, il quale determina il livello dei redditi. Dato uguale tasso
d’accumulazione, uguale crescita della popolazione e uguale sviluppo tecnologico, due paesi
convergeranno quindi verso lo stesso tasso di crescita d’equilibrio.
Le principali critiche al modello sono le stringenti ipotesi sul mercato del lavoro, con
disoccupazione costante e nulla, e la perfetta sostituibilità tra lavoro e capitale. Infatti assumere la
curva d’offerta di lavoro come anelastica rispetto il salario, rende la variazione del rapporto
capitale-lavoro indipendente dal livello del salario d’equilibrio, proponendo come indipendenti la
crescita economica e la disoccupazione. Questo tipo d’impostazione è dovuto al diverso periodo
temporale di riferimento, cioè al breve periodo nelle teorie del mercato del lavoro (assumendo
esogeni capitale e tecnologia) e al lungo periodo per le teorie della crescita economica (assumendo
esogeno l’equilibrio sul mercato del lavoro).
Solow assume nel suo modello ipotesi sul mercato del lavoro particolarmente stringenti che
implicano disoccupazione costante nulla. Questo ha come conseguenza che disoccupazione e
crescita economica sono indipendenti.
Partendo da una differente curva d’offerta di lavoro, lo stesso Solow nel suo articolo si trova ad
affrontare questo problema, determinando un modello dove disoccupazione e crescita economica
non sono indipendenti. Introducendo una curva d’offerta di lavoro del tipo:
• L = L°ent (w/p)h
Ottiene così una diversa equazione per la variazione del rapporto capitale-lavoro:
• r - rt-1 = sF(r,1) – nr – h (w – w-1)/w
Utilizzando una Cobb-Douglas ottiene che il tasso di variazione del salario dipende esclusivamente
dalla variazione del rapporto capitale-lavoro:
• (w – w-1)/w = α (r - rt-1)/r
Come dimostra questa, la variazione del rapporto capitale-lavoro, dipende dalle stesse variabili del
caso in cui si considera una curva d’offerta di lavoro anelastica rispetto al salario. Ma come dice lo
stesso autore, l’indipendenza dal salario reale è dovuta al tipo di curva d’offerta di lavoro ipotizzata.
In questo caso (utilizzando una funzione di produzione Cobb-Douglas), Solow considera progresso
tecnico nullo. Tramite quest’ipotesi otteniamo che la disoccupazione è irrilevante per
l’accumulazione, come nel caso di curva d’offerta di lavoro anelastica.
Se invece consideriamo offerta di lavoro elastica e progresso tecnico non nullo possiamo avere
disoccupazione variabile.
M. Pugno partendo dall’elaborazione di Solow, illustra uno scenario in cui si ha riduzione della
disoccupazione al verificarsi di sviluppo tecnologico positivo, ricorrendo ad una crescita della forza
lavoro legata alle variazioni di salario oltre che al tasso naturale di crescita della popolazione. Il
modello si basa su una funzione di produzione del tipo:
• Y = TLαK1-α
Essendo l’occupazione funzione diretta della variazione del salario, se lo sviluppo tecnologico è
positivo, otteniamo una riduzione della disoccupazione, anche alla presenza di una crescita in
steady-state.
3.3 CONCLUSIONI
Il modello di Solow con offerta di lavoro anelastica o con offerta di lavoro elastica, ma progresso
tecnico nullo, grazie alle ipotesi fatte, illustra una crescita della produzione che è indipendente dalla
disoccupazione e crescita. Questo è dovuto all’ipotesi che la crescita dell’offerta di lavoro
(anelastica) determina la crescita, in un sistema a disoccupazione nulla. Ugualmente se l’offerta è
elastica, grazie al ricorso al progresso tecnico nullo tramite una funzione di produzione Cobb-
Douglas si mantiene l’indipendenza. Se invece consideriamo il modello di Solow con offerta
elastica e progresso tecnico non nullo, otteniamo che la disoccupazione varia, come illustra la
formalizzazione proposta da Pugno. La dicotomia tra disoccupazione e crescita economica viene
così a cadere, poiché lo sviluppo tecnologico determina il livello di disoccupazione e la crescita
della produzione. Quest’ultima formalizzazione illustra una chiara correlazione positiva tra
disoccupazione e produzione.
4. SVILUPPI EMPIRICI SULLA RELAZIONE TRA DISOCCUPAZIONE E CRESCITA
ECONOMICA
L’analisi delle principali teorie del mercato del lavoro e della crescita economica, ha illustrato come
l’impostazione delle stesse è legata all’ipotesi d’indipendenza tra l’equilibrio del mercato del lavoro
e la crescita economica di pieno impiego. Come visto, non è stata fornita una sostanziale conferma
teorica per la conferma dell’ipotesi adottata. La formalizzazione di Layard-Nickell-Jackman,
conferma l’indipendenza solo alla presenza di una tecnologia Cobb-Douglas, con perfetta
sostituibilità dei fattori. Se l’elasticità fosse inferiore all’unità, come confermano gli stessi autori,
non è più verificata l’ipotesi d’indipendenza.
Vari autori sono intervenuti per la verifica dell’effettiva esistenza empirica di una qualche relazione
tra disoccupazione e crescita economica. Questi lavori non giungono ha determinare un’univoca
relazione tra le due variabili, poiché, come asseriscono gli stessi Layard-Nickell-Jackman, la
disoccupazione non ha un trend di lungo periodo, diversamente dalla produzione.
Il grafico qui presentato, sull’andamento del GDP in Germania, Italia e Francia, conferma
l’esistenza di un trend di lungo periodo della variabile. Diversamente l’andamento del tasso di
disoccupazione per gli stessi Paesi non conferma l’assenza di trend. Infatti, si può rilevare da
quest’ultimo grafico l’esistenza di una tendenza alla crescita sull’arco temporale 1960-1996, con un
andamento instabile e poco uniforme tre i vari Paesi.
La domanda fondamentale che ci si può porre sulla relazione tra disoccupazione e crescita, è se
esiste per ogni livello di disoccupazione d’equilibrio un relativo tasso di crescita, ossia se esiste una
chiara relazione tra le due variabili. Si vuole quindi verificare se, ad alti tassi di disoccupazione
corrisponde una maggiore crescita (correlazione positiva) oppure un rallentamento della stessa
(correlazione negativa). Ugualmente, si vuole verificare quale, tra disoccupazione e crescita
economica, sia la variabile dipendente. Ciò non esclude che l’analisi possa confermare
empiricamente l’indipendenza.
Una regressione della crescita sulla disoccupazione presentata a tale scopo da Muscatelli e Tirelli,
rileva essenzialmente la presenza di una correlazione negativa, anche se il grado di significatività
del modello non è soddisfacente per tutti i Paesi analizzati.
GPL = a + bU
Dove (GPL) è la crescita della produttività del lavoro ed (u) è il tasso di disoccupazione.
L’eterogeneità del R-quadro rilevato in questo lavoro sui dati dei diversi Paesi, suggerisce che la
relazione deve essere in qualche modo più complessa. Difatti abbiamo l’R-quadro massimo pari al
85,4% rilevato per i Paesi Bassi, accompagnato all’R-quadro del Regno Unito pari al 0,2%.
Bean e Pissarides analizzano graficamente la crescita con una procedura diversa, rilevando
egualmente una correlazione negativa. Gli autori considerano la crescita media del tasso di
produttività del lavoro dei Paesi dell’OCSE per tre periodi temporali (1955-65,1965-75,1975-85)
con il tasso di disoccupazione medio degli stessi periodi. Quindi inseriscono questi valori su un
grafico a dispersione con il tasso di disoccupazione sulle ascisse e sulle ordinate il tasso di crescita
della produttività. La dispersione dei dati è ancora elevata e la correlazione, anche se negativa, non
è certamente chiara.
I grafici qui presentati per l’Italia e gli Stati Uniti, relativi al periodo 1961-1996, che considerano la
relazione tra tasso di crescita della produttività e tasso di disoccupazione, confermano in parte i
risultati di Bean e Pissarides. Infatti, mentre per gli Stati Uniti la correlazione non è chiara, per
l’Italia è riconoscibile una correlazione negativa.
L’analisi grafica della stessa relazione, utilizzando dati cross-country per le regioni italiane,
suggerisce il medesimo risultato. Podrecca e Mauro, rappresentano su un grafico a dispersione i dati
del tasso di disoccupazione media per il periodo 1963-89 nelle regioni italiane, coi relativi tassi di
crescita medi. L’immagine che si ottiene rileva una dispersione elevata dai dati. Gli autori ritengono
di essere alla presenza di una relazione ad U rovesciata, dovuta ad effetti di segno opposto quali la
distruzione creativa e la capitalizzazione. La regressione ottenuta da questi dati non rileva un’unica
correlazione tra crescita e disoccupazione, ma due diverse correlazioni secondo l’effetto che
prevale. Così il prevalere dell’effetto di distruzione creativa determina una correlazione positiva.
Questo perché sostituendo posti di lavoro a bassa produttività con posti a maggiore produttività
determina una crescita della produttività stessa, ma allo stesso tempo può portare alla diminuzione
dei posti di lavoro, se la velocità di creazione di nuovi posti di lavoro è inferiore alla distruzione dei
vecchi. Invece, il rallentamento della crescita dovuto alla diminuzione del risparmio disponibile per
l’investimento, perché utilizzato al sostentamento della crescente disoccupazione (effetto
capitalizzazione) determina una correlazione negativa.
Su una posizione diversa troviamo Gordon, che sostiene l’indipendenza tra crescita e
disoccupazione. Gordon, ricorrendo ad un modello statico basato sulla funzione di produzione
Cobb-Douglas, sostiene che, nel lungo periodo disoccupazione e crescita sono indipendenti. Allo
stesso tempo, sottolinea come nel breve periodo si possono verificare movimenti tali da generare
una correlazione positiva o negativa. Il segno della correlazione è legato al tipo di shock (shock
della domanda o dell’offerta di lavoro) che influenza il mercato del lavoro.
Ricorrendo ad uno schema grafico valido sia per la concorrenza perfetta sia per la concorrenza
imperfetta, Gordon illustra gli effetti degli shock d’offerta e di domanda di lavoro. Uno spostamento
verso l’alto della curva d’offerta di lavoro (L° L’°), comunque determinata, comporta una
diminuzione dell’occupazione ed un contemporaneo aumento della produttività. Abbiamo, quindi,
una correlazione positiva tra disoccupazione e crescita della produttività; ma l’aumento del costo
del lavoro comporta una diminuzione degli investimenti, che determinerà lo spostamento verso il
basso della curva di domanda di lavoro (Ld L’d). Abbiamo così un aumento della disoccupazione
e una diminuzione della produttività, tornando all’iniziale salario reale. A questo movimento è
legata una correlazione di segno opposto alla precedente.
Invece, uno spostamento iniziale verso il basso della curva di domanda di lavoro, comporta un
aumento della disoccupazione e una diminuzione della produttività. Il successivo movimento della
curva d’offerta di lavoro, genererà una correlazione positiva, ma in questo caso non è certo il ritorno
al salario reale precedente, poiché il risultato finale è legato alla struttura del mercato (incidenza
dell’isteresi, rigidità dei salari …). Questo comporta che in concorrenza perfetta potremmo avere
equilibri diversi da quelli determinati in concorrenza imperfetta, ma l’indipendenza tende a
persistere in entrambi i sistemi.
Anche in queste prime analisi non si rileva una chiara correlazione per l’elevata dispersione dei dati
e per la bassa esplicatività delle regressioni effettuate. Occorre irrobustire l’analisi analizzando le
variabili determinanti la crescita economica e la disoccupazione, quali sviluppo tecnologico,
accumulazione e struttura del mercato del lavoro.
Giustificazione per questo è l’evidenza grafica rilevata da Caballero, dove la relazione negativa tra
disoccupazione e crescita pro-capite, è illustrata tramite la devianza standard delle stesse variabili. I
Paesi considerati sono gli Stati Uniti e il Regno Unito per il periodo 1964-1992. Gli andamenti delle
due variabili in entrambi i Paesi sono opposti confermando la correlazione negativa. Ma l’instabilità
lungo l’intero arco temporale dell’andamento suggerisce che esistano effetti di più variabili.
L’analisi grafica della variazione della media del tasso di disoccupazione (u) e del tasso di crescita
del GDP (Y^) eseguita per la Germania da un risultato uguale.
L’impostazione seguita nei successivi paragrafi richiama le variabili che determinano la funzione
di produzione, analizzando l’importanza del progresso tecnico, dell’accumulazione (sottolineando
l’impostazione dei costi opportunità) e dell’equilibrio del mercato del lavoro (sottolineando l’analisi
sulla flessibilità). Si illustreranno in seguito analisi empiriche specifiche riguardanti l’Italia e
l’Unione Europea, pur eseguite per scopi diversi (la convergenza), che egualmente considerano
disoccupazione e crescita economica. L’obiettivo è illustrare il problema del rilevamento
dell’effettiva relazione tra disoccupazione e crescita.
Il progresso tecnico riveste un ruolo importante nel dibattito sulla dicotomia tra crescita economica
e disoccupazione. Difatti Pugno dimostra che all’interno della crescita di steady-state, si può
ottenere una riduzione della disoccupazione d’equilibrio, alla presenza di progresso tecnico positivo
(vedi par. 3.2). Questo è ottenuto utilizzando una curva d’offerta di lavoro elastica e una funzione di
produzione Cobb-Douglas.
Nelle analisi empiriche si è rilevato una divergenza nei percorsi di crescita economica da quanto
previsto dal modello di Solow. E’ stato messo in evidenza come la crescita effettiva è stata
maggiore di quanto previsto come conseguenza dell’accumulazione e della crescita della
popolazione. Questo implica che la produttività totale dei fattori impiegati (Multi Factor
Productivity) è aumentata; questa differenza è chiamata residuo di Solow e si ritiene imputabile al
progresso tecnico.
Gordon eseguendo una serie di regressioni sui dati relativi ad alcuni Paesi dell’OCSE, considerando
tre periodi temporali (1960/73-1973/1979-1982), rileva come la crescita del MFP sia significativa
nella crescita degli Stati Uniti e dell’Italia. All’opposto il peso della variabile, nella crescita degli
altri Paesi europei, risulta scarso. Di conseguenza, Gordon intervenendo nel dibattito sul trade off
tra alti tassi di crescita e bassi tassi di disoccupazione, ritiene che la maggiore crescita della
produttività nei Paesi comunitari non è da imputare al progresso tecnico, ma è imputabile alla
maggiore accumulazione e alla convergenza. Inoltre, rileva che nella regressione della crescita
dell’output per ora lavorata, l’introduzione o l’esclusione della produttività non ha consistenti effetti
sul coefficiente relativo alla disoccupazione. Questo fatto secondo l’autore dimostra l’indipendenza
di lungo periodo tra crescita economica e disoccupazione.
Un’impostazione diversa, riguardo allo studio del progresso tecnico (impostazione complementare,
piuttosto che antitetica), è seguita nell’analisi del progresso tecnico indotto. Essa analizza il
progresso tecnico indotto dall’espansione della domanda e dall’incremento del costo delle risorse.
Questo tipo di progresso comporta l’adozione di tecnologie tali da affrontare l’espansione attesa
della domanda o di tecnologie che consentano di ridurre il consumo di risorse divenute costose.
Considerando l’effetto di una variazione del salario possiamo dire: con l’aumento del salario reale si
ha l’adozione di tecnologie che consentano di impiegare meno lavoro, mentre la convenienza
relativa del lavoro rispetto ad altre risorse porterà all’adozione di tecnologie che utilizzano
maggiore lavoro. Quindi l’adozione di queste tecnologie ha degli effetti sul numero dei disoccupati.
L’adozione di tecnologie con effetti sull’occupazione, come già detto, non è necessariamente da
ricondurre sempre alla variazione del salario, ma risulta possibile anche per affrontare l’espansione
della domanda. Se in una fase d’espansione della domanda adottassimo una tecnologia labour-
saving, avremo una chiara correlazione positiva tra crescita della produttività e disoccupazione. Ma
gli scenari possono essere innumerevoli.
Sylos-Labini propone un modello in cui si analizza la dinamica della disoccupazione rispetto allo
sviluppo tecnologico indotto sulla cui base esegue delle regressioni.
L’espansione della domanda determina l’espansione della produzione tramite maggiori investimenti
materiali e immateriali (quindi macchinari moderni e ricerca scientifica). Il meccanismo alla base di
questo processo è l’aspettativa di domanda crescente.
L’aumento del costo d’alcune risorse stimola l’adozione di tecnologie innovative, che consentano
un utilizzo minore di questi input. Generalmente queste nuove tecnologie, grazie al progresso
tecnico, consentono di risparmiare sull’utilizzo non solo delle risorse che risultano essere
maggiormente costose, ma anche sulle altre risorse utilizzate.
Queste condizioni determinano nel lungo periodo l’introduzione di macchinari che, altrimenti, non
sarebbe profittevole introdurre, mentre nel breve periodo si ricorre ad una razionalizzazione del
processo produttivo del tipo learning-by-doing.
Quindi risulta determinante nella selezione e nell’utilizzo di nuove tecnologie l’aumento del costo
del lavoro, che stimola l’adozione d’innovazioni labour-saving. Nelle scelte relative al costo del
lavoro, l’autore distingue breve e lungo periodo:
• nel breve periodo si comparano le variazioni dei salari con la variazione della produttività,
ovvero tra aumento del costo del lavoro e variazione del prezzo dei prodotti finali. Questo
determina scelte riguardanti la crescita della produttività per lavoratore di tipo learning-by-
doing;
• nel lungo periodo si confronta il salario con il costo dei macchinari, giacché si prevede che
la variazione del salario abbia il carattere della continuità e permanenza.
Sylos Labini elabora in base a queste scelte di breve e lungo periodo, la seguente log-lineare per la
variazione della produttività:
• (π − π−1) = α(Y – Y-1) + a[(L – L-1) – (P – P-1)] + b[(W – W-1) – (Pm – Pm-1)]-t
Con quest’equazione l’autore può determinare la variazione della produttività dovuta alle due cause
di progresso tecnologico indotto:
• (N – N-1) = c(Y – Y-1) + a [(L – L-1) – (P – P-1)] + b [(W – W-1) – (Pm – Pm-1)]-t
Da questa è possibile determinare l’equazione per la disoccupazione totale (cioè sia per chi ha perso
o rinunciato al posto di lavoro, che per chi è in cerca di prima occupazione):
• (U – U-1) = d(LF – LF-1) - c’’(Y – Y-1) + a’’ [(L – L-1) – (P – P-1)] + b’’ [(W – W-1) – (Pm –
Pm-1)]-t
La disoccupazione viene così a dipendere dalla variazione della forza lavoro [d(LF – LF-1)] e dalla
variazione della produttività dovuta al progresso tecnico indotto, come precedentemente
determinato.
Sylos Labini ricorre a queste equazioni per analizzare i dati della disoccupazione e della crescita
d’alcuni paesi dell’OCSE. Ciò porta a concludere che l’aumento della domanda aggregata
determina una maggiore occupazione, mentre l’aumento del costo del lavoro e dei salari, genera
disoccupazione. Più precisamente, in Italia (dove troviamo un R2 del 84%) l’incidenza maggiore
sulla disoccupazione e sulla crescita della produttività è data dalla domanda aggregata e dalle scelte
innovative di lungo periodo. Identica situazione si propone per gli altri due Stati comunitari
presentati (Germania e Francia), anche se con incidenza inferiore per l’innovazione causata
dall’aumento del costo delle risorse. In Svezia si nota, invece, una maggiore importanza
dell’innovazione di breve periodo rispetto ai casi precedenti. Negli Stati Uniti l’effetto dell’aumento
del costo delle risorse è d’inferiore importanza che nei paesi europei. Per questo Paese l’effetto
sull’occupazione della domanda aggregata è determinante e l’equazione proposta per la variazione
della produttività ha un R2 decisamene inferiore rispetto ai partner europei, indicando che variabili
determinanti per spiegare la produttività europea non sono esaustive nel caso statunitense. Difatti
introducendo per gli US la variabile investimento, l’esplicatività del modello per la produttività
raggiunge il 94%.
L’autore conclude da queste elaborazioni che gli effetti di ridistribuzione dei lavoratori tra occupati
e disoccupati, causati dall’innovazione tecnologica sono inferiori negli US, mentre l’espulsione
negli stati europei è sostanziale, indicando l’esistenza di un surplus occupazionale. L’elaborato di
Sylos Labini non porta indicazioni esplicite del tipo di crescita in atto, ma si può intuire dalla
diversa rilevanza del costo delle risorse sulla produttività, che siamo alla presenza di una
convergenza verso l’economia statunitense. Per rendere la convergenza rapida ed economicamente
conveniente si adottano tecnologie a costo inferiore o che consentano un limitato ricorso a
determinate risorse non più convenienti o che consentano di soddisfare una domanda più ampia.
Si determina però dall’analisi dinamica, una importante relazione tra progresso tecnico e
disoccupazione. La correlazione tra crescita della produttività e disoccupazione è comunque
rilevante, anche se il segno dipende dalla prevalenza degli effetti in diminuzione della crescita della
domanda aggregata o in aumento dell’innovazione per costi.
L’accumulazione di capitale nel modello di Solow è determinata dalla crescita dell’offerta di lavoro,
poiché in ogni periodo si investe quanto necessario per mantenere la piena occupazione. Questa
proposizione è di fondamentale importanza nel modello di Solow, in quanto permette di ottenere
una crescita di steady-state, cioè di piena occupazione.
Diversamente si può spiegare il ruolo del capitale seguendo la strada opposta, secondo
l’impostazione di Rowthorn. Nuovi investimenti possono creare nuovi posti di lavoro, mentre la
riduzione di capitale distrugge posti di lavoro (ovvero la creazione di posti di lavoro non riguarda
semplicemente l’aumento dei posti ad un costante livello di capitale). Questo significa che è la
domanda a stabilire il livello d’occupazione e il percorso di crescita.
Rowthorn sostiene che la maggior disoccupazione presente negli ultimi 20 anni nei Paesi
dell’OCSE, è dovuta ad un rallentamento dell’accumulazione. Egli rileva come negli ultimi 20 anni
nei principali Paesi dell’OCSE, la diminuzione del capitale sia stata sostanzialmente pari alla
riduzione dell’occupazione. Quindi un programma d’ampi investimenti dovrebbe ridurre la
disoccupazione.
Gli investimenti, secondo Rowthorn, sono diminuiti a seguito degli shock petroliferi per due
principali cause: l’aumento del costo del denaro, a seguito delle politiche monetarie
antinflazionistiche e l’aumento della quota salari ottenuta tramite i sindacati, sia per gli occupati che
per i sussidi destinati ai disoccupati.
Inoltre Rowthorn, eseguendo una regressione sui dati rilevati in 20 Paesi dell’OCSE, sottolinea
l’importanza della direzione che è seguita nell’accumulazione. Infatti, si ottiene un’importante
aumento dell’occupazione totale, aumentando lo stock di capitale del settore manifatturiero.
Diversamente, un aumento dello stock di capitale relativo ai servizi ha un modesto effetto
sull’occupazione del settore e tantomeno sul totale. Abbiamo così una forte correlazione positiva tra
accumulazione e occupazione.
Anche Gordon considera nelle sue regressioni il ruolo del capitale. Eseguendo una regressione del
tasso di crescita del capitale sulle ore lavorative, determina che la maggiore crescita in Europa è
dovuta all’accumulazione. Ma il ruolo dell’accumulazione è fortemente influenzato dalla variazione
della disoccupazione e da una serie di variabili regionali.
Riconducendo le variabili regionali alla struttura del mercato del lavoro e alla struttura economica
della regione, bisogna cercare di spiegare la relazione tra la disoccupazione e l’accumulazione. La
spiegazione che probabilmente approssima meglio la realtà è quella che fa capo all’effetto
capitalizzazione: il risparmio che altrimenti sarebbe investito, alla presenza di disoccupazione deve
essere utilizzato per il sostentamento di questa quota di forza lavoro, attualmente improduttiva.
Viene così limitata la creazione di nuovo capitale, che sarebbe necessario per aumentare la
domanda di lavoro.
Viene così a trovare sostegno l’ipotesi che la relazione tra accumulazione e mercato del lavoro sia
di direzione opposta da quanto sostenuto da Solow nel suo modello. Viene inoltre determinata una
correlazione negativa tra crescita della produzione e disoccupazione, in quanto un rallentamento
dell’accumulazione comporta una minore crescita e una maggiore disoccupazione.
Per decidere come attuare l’adozione di nuove tecnologie, si è visto che è determinante nella
crescita il metodo dei costi opportunità.
Saint-Paul G., ricorrendo a questo metodo, considera l’interazione tra ciclo economico e crescita,
ritenendo che i due fenomeni non siano indipendenti. Questa sua convinzione nasce da due correnti
teoriche sviluppatesi negli anni ottanta:
- la letteratura del ciclo economico reale, che imputa parte del ciclo economico stesso a variazioni
della produttività;
- la letteratura della crescita endogena, che ritiene che disturbi transitori (es. shock della domanda
aggregata) abbiano effetti di lungo periodo sulla crescita della produttività.
Prima di questa nuova impostazione, la teoria del ciclo economico era considerata indipendente ed
inconsistente rispetto alla teoria della crescita di lungo periodo, consentendo lo sviluppo di due
analisi indipendenti (ciclo economico e crescita di pieno impiego), che considerano esogeni i
rispettivi risultati (ciclo economico e crescita di pieno impiego). L’analisi empirica del ciclo
avveniva utilizzando dati detrendizzati, per riconoscere gli effetti e le determinanti economiche sul
ciclo, escludendo gli effetti imputabili alla crescita del capitale e della popolazione. Ma come
sottolinea Bean, gli shock d’offerta e di domanda hanno effetti persistenti su disoccupazione e
crescita.
Conseguenza della sostituzione intertemporale è il ricorso a questo tipo d’investimenti nei periodi di
recessione, in quanto il ritorno economico delle attività direttamente produttive è inferiore per la
scarsità di domanda. Così, si sostituiscono scarsi ritorni immediati con i maggiori ritorni distribuiti
nel tempo, dovuti ai nuovi investimenti productivity-improving.
• la recessione è il momento appropriato per la riallocazione del lavoro come risultato della
sostituzione intertemporale, trasferendo occupati da attività direttamente produttive ad
attività productivity-improving;
• esiste una relazione negativa sull’immediata perdita di profitti e la ristrutturazione ed
implementazione di nuove tecnologie, dovuta alla diversa entità dei flussi di profitti generati
dalle attività direttamente produttive e dalle attività productivity-improving;
• gli investimenti direttamente produttivi sono variabili procicliche, mentre gli investimenti in
attività productivity-improving sono variabili controcicliche;
• gli investimenti cash-intensive sono prociclici, mentre quelli ridistribuivi sono controciclici,
per il diverso flusso di profitti che generano;
• nel lungo periodo si determinano effetti sulla produttività degli shock di domanda, in quanto
le aspettative sulla domanda concorrono alla scelta del livello e tipo d’investimento;
• le attività di training interne all’impresa hanno maggiori effetti positivi durante i periodi di
recessione, in quanto sono un’espressione della ridistribuzione dell’occupazione e sono un
investimento in attività productivity-improving.
Abbiamo così, nei periodi di recessione una riorganizzazione aziendale, tramite una ridistribuzione
delle risorse dagli investimenti direttamente produttivi ad investimenti productivity-improving.
Questo consente di tenere un certo livello di domanda aggregata e, soprattutto, di utilizzare forza
lavoro che tramite gli effetti del learning-by-doing, determinerà un effetto positivo per la crescita.
L’autore sostiene che l’effetto positivo di lungo periodo delle attività productivity-improving, è
rilevante solo alla presenza di recessioni transitorie. Le fluttuazioni economiche hanno così un
effetto nel lungo periodo, dipendente dall’ampiezza e frequenza delle fluttuazioni stesse.
Saint Paul esegue delle regressioni per determinare la rilevanza di questi concetti. Tra queste né
troviamo una particolarmente rilevante per il nostro lavoro. La crescita del GDP reale, è determinata
dal reddito reale del 1965, dall’occupazione nell’industria, dalla lunghezza delle recessioni (tramite
un indice di transitorietà) e dalla porzione di varianza dei shock di domanda determinati
rispettivamente da componenti di frequenza da due a quattro anni oppure da componenti oltre i 16
anni. Il risultato che si ottiene è che la crescita viene a dipendere negativamente dagli shock di
domanda di breve periodo, mentre il segno della correlazione diventa positivo negli shock di lungo
periodo (anche se per questi ultimi i coefficienti non sono significativi). Quindi le fasi recessive di
lunga durata, caratterizzate da aspettative particolarmente pessimistiche, comportano effetti negativi
sulla crescita in quanto non si adotteranno investimenti in innovazioni tecnologiche. Gli shock di
domanda negativi, escludendo gli shock di lungo periodo per la scarsa significatività, determinano
un rallentamento della crescita. Inoltre, questi stessi shock hanno un impatto notevole sulla
variazione dell’occupazione che, però, si riduce nel lunghissimo periodo. All’opposto, la
produttività cresce maggiormente alla presenza di shock d’offerta negativi.
4.5 Il mercato del lavoro
L’equilibrio del mercato del lavoro determinando occupazione e salario d’equilibrio, determina
nello stesso tempo la disoccupazione d’equilibrio. L’importanza della relazione tra disoccupazione
e crescita economica, trova sostegno nell’impostazione da Bean e Pissarides. Per evidenziare questa
relazione, gli autori stilizzano un modello dove si evidenzia il rapporto dell’occupazione con la
struttura del mercato del lavoro e con l’accumulazione e la crescita:
Questo modello, le cui relazioni fondamentali sono state riportate verbalmente, da indicazioni su
come possa essere influenzata la domanda di lavoro e l’offerta di lavoro, e di conseguenza
l’equilibrio in generale. Si sottolinea quindi come l’impostazione solowiana del mercato del lavoro
è riduttiva nell’analisi della crescita. Ricordando che l’offerta di lavoro è la fondamentale
determinante del percorso di crescita in steady-state nel modello di Solow, l’analisi empirica
dell’equilibrio sul mercato del lavoro, non può esimersi dal considerare le variazioni che
influenzano l’offerta di lavoro (variazione del tasso di partecipazione, crescita della popolazione in
età lavorativa e crescita della forza lavoro). Bean sottolinea inoltre che la struttura del mercato del
lavoro in sé non è sufficiente a giustificare i differenti tassi di disoccupazione d’equilibrio presenti
nei Paesi dell’OCSE. Occorre considerare le diverse strutture del mercato del lavoro all’interno
della teoria della crescita.
Analizziamo quindi come possiamo rilevare informazioni utili sulla struttura del mercato del lavoro.
Indicazioni sulla struttura dell’offerta sono rilevabili dalla crescita della popolazione in età
lavorativa, della forza lavoro e della popolazione, oltre che dal tasso di partecipazione. La crescita
media della popolazione in età lavorativa rilevata nel periodo 1974-96 è in diminuzione. La
diminuzione è minore negli Stati Uniti, rispetto a quanto rilevato nei Paesi europei. La
partecipazione aumenta ad un tasso medio decrescente, inferiore alla crescita della popolazione in
Francia e Germania, mentre è appena superiore nel Regno Unito e in Italia.
L’occupazione rileva una significativa espansione solamente tra il 1984-1990 in Europa, mentre
negli Stati Uniti il tasso di crescita rimane maggiormente costante. Come rilevano i grafici qui
presentati, occupazione e forza lavoro rilevano nel caso statunitense e italiano una forte
correlazione.
Successivamente si può rilevare che forza lavoro e occupazione sono fortemente correlate, in
quanto hanno la medesima risposta ad un’espansione economica. Difatti, in queste fasi, la riduzione
della partecipazione è di minore entità rispetto ad una variazione del tasso di crescita.
Rilevate queste indicazioni sulla struttura del mercato del lavoro occorre ora affrontare il dibattito
sulla necessità di introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro. Sicuramente, come
sostiene Bean, le differenti risposte del salario alla disoccupazione confermano che le differenze
istituzionali nella determinazione del salario sono utili nell’illustrare le differenze del tasso di
disoccupazione d’equilibrio, ma la flessibilità non ci porta verso un unico tasso di disoccupazione
d’equilibrio. Questo significa che la struttura del mercato del lavoro è importante (e quindi ne
affrontiamo l’analisi), ma occorre considerarla assieme alle variabili illustrate nei paragrafi
precedenti.
Simonazzi A. e Villa P. hanno considerato l’influenza della flessibilità del mercato sulla crescita nel
loro lavoro "Flexibility and growth". Questo è da considerare il naturale seguito del loro precedente
lavoro "Employment, growth and income inequality:..", in cui le autrici analizzano i dati
dell’occupazione all’interno dell’Unione Europea e li confrontano con i dati degli US. In questo
primo lavoro si analizzano gli interventi a favore della liberalizzazione del mercato del lavoro
attuati in Europa e si rileva empiricamente come questi interventi non abbiano avuto importanti
effetti sull’occupazione, come illustra la successiva tabella. All’opposto, la maggiore flessibilità può
generare una crescente divergenza delle retribuzioni, determinando una distribuzione
crescentemente inegualitaria.
Le uniche politiche che sembrano sortire effetti significativi nella riduzione della disoccupazione
sono, di conseguenza, quelle rivolte al mantenimento di un appropriato livello di domanda
aggregata; queste politiche devono però tenere conto della specificità istituzionale del mercato del
lavoro d’ogni regione. I dati rilevati in Europa indicano come la crescente diseguaglianza
distributiva possa essere limitata dalla presenza di forze istituzionali che regolano il mercato del
lavoro, rilevando un possibile trade off tra equità ed efficienza.
Partendo da queste conclusioni, in cui si rileva come non è necessariamente vero che una crescente
flessibilità porta ad un’occupazione maggiore, le autrici analizzano questa relazione rispetto alla
crescita. Come si legge nell’Abstract del loro scritto, nell’analisi dell’equilibrio del mercato del
lavoro bisogna considerare un’ulteriore variabile: il salario. Secondo le autrici ricorrere all’analisi
del ruolo dei differenti percorsi di crescita del reddito consente di migliorare la comprensione dei
differenti trend dell’occupazione rilevati in Europa e in US. La conclusione che vogliono verificare,
è l’importanza della flessibilità nella crescita e se il maggiore tasso di disoccupazione in Europa sia
dovuto al minore tasso di crescita. Ovvero, si cerca di rilevare una correlazione negativa tra
disoccupazione e crescita.
• il crescente livello del NAIRU è dovuto a rigidità nell’offerta di lavoro e questo comporta
effetti di lungo periodo per l’introduzione di tecnologie labour-saving;
• esistono dei "mismatch" nella creazione di nuovi posti di lavoro tra domanda e offerta di
lavoro, il che non esclude l’esistenza di rigidità del salario.
Le autrici cercano di mettere in evidenza le cause del fallimento delle politiche sulla flessibilità.
Prima di tutto, citano le più recenti analisi dove si dimostra che il mercato del lavoro in Europa non
è così rigido come si pensava in passato. Infatti, le analisi dei flussi del mercato del lavoro
concludono che la scarsa capacità di creare nuovi posti di lavoro netti non è imputabile all’errato
funzionamento degli aggiustamenti strutturali. La differenza rilevante tra il mercato del lavoro
americano e quello europeo è la preferenza delle imprese europee di mantenere un lungo rapporto di
lavoro con i propri dipendenti, con alti investimenti in capitale umano, piuttosto che assumere un
considerevole numero di lavoratori non specializzati con un alto tasso di turn-over, in quanto
ricercano una stabilità delle performance dell’impresa stessa.
Le politiche della flessibilità, come dimostra la tabella riportata dal lavoro di Simonazzi - Villa, non
sono comunque da rigettare in quanto l’elasticità dell’occupazione rispetto al ciclo in Europa è
molto maggiore nell’ultimo periodo espansivo (1984-90) che nei periodi precedenti. Questo
significa una maggiore risposta dell’occupazione alle variazioni della crescita del reddito nazionale
(anche se con un certo ritardo temporale). Viene così confermata l’ipotesi di Bean che le politiche
della flessibilità hanno aumentato la capacità allocativa, ma non sono riuscite a risolvere il
problema della disoccupazione persistente.
Per quanto riguarda il trade-off tra distribuzione egualitaria e disoccupazione, le autrici richiamano
analisi in cui si dimostra come le evidenze empiriche raccolte non sono significative nel supportare
l’ipotesi. Si è rilevato come anche in Paesi dove sono fortemente impiegati lavoratori non
specializzati, il grado di dispersione della distribuzione sia relativamente basso. Questo
sottolineando come sia difficile stabilire quale sia la qualificazione del lavoratore (specializzato e
non), in base alla preparazione scolastica (anni di frequenza scolastica). Difatti, anche se l’unico
termine di paragone sono i periodi di preparazione scolastica, uguali periodi possono portare in
Paesi diversi ad una preparazione qualitativa molto differente.
Tornando a valutare gli effetti della regolamentazione, le autrici sottolineano come queste hanno
effetti discordi sul mercato del lavoro nei vari Paesi. Stessa conseguenza è riscontrabile nella
deregolamentazione: questo perché la disoccupazione è sensibile ai dettagli istituzionali del mercato
del lavoro e alle regole che governano la vita sociale.
Dopo questa presentazione dei risultati sulla flessibilità, le autrici passano ad analizzare la relazione
tra occupazione e crescita, esponendo i seguenti risultati. Regioni con uguali restrizioni sul mercato
del lavoro rispondono differentemente in termini d’occupazione alla crescita. Quindi la differenza
del livello d’occupazione tra US ed Europa, non è semplicemente ascrivibile al minore tasso di
crescita del GDP in Europa. Le autrici suggeriscono, a giustificazione, che è di primaria importanza
il livello di sviluppo, piuttosto che la flessibilità del mercato del lavoro. Per sottolineare questo, le
autrici ricordano come l’effetto di un basso tasso di crescita, alla presenza di un alto tasso
d’innovazione tecnologica, possa aggravare i problemi strutturali del mercato del lavoro. Si rileva
come gli investimenti in fasi di basso livello di crescita atteso, sono rivolti alla razionalizzazione e
alla ristrutturazione. Sembra essere questa la principale causa della situazione europea, dove le
incerte aspettative sulla domanda aggregata, hanno fatto sì che non fosse conveniente investire in
uno sviluppo di tipo labour-intensive. Inoltre, la preferenza delle imprese europee ad avere un
rapporto duraturo con i lavoratori, non rende attraente la creazione di nuovi posti di lavoro alla
presenza d’incertezza sulla domanda aggregata, fatto che è diventato maggiormente evidente per le
politiche macroeconomiche adottate dopo lo shock petrolifero (rallentamento degli investimenti per
l’aumento dei tassi d’interesse). Quindi, non è la semplice flessibilità del mercato del lavoro che
garantisce migliori performance economiche, ma anche il contesto macroeconomico. La
disoccupazione è influenzata dal tipo di crescita in atto (ad intensità di capitale o di lavoro),
determinata dalla convenienza economica e, bisogna sottolinearlo, dalle regole che governano la
vita sociale. La flessibilità, dovrebbe tornare ad essere decisiva nel diminuire la disoccupazione, a
parità di sviluppo socioeconomico.
Analizziamo ora quali relazioni sono state rilevate tra disoccupazione e crescita in Italia. Il lavoro
cui si può fare maggiore riferimento è "Crescita e disoccupazione nel lungo periodo: un’indagine
empirica per le regioni italiane", dove E. Podrecca - L. Mauro studiano la relazione tra crescita della
produzione e tassi di disoccupazione per il caso italiano nel periodo 1963-89.
Essi rilevano inizialmente una relazione ad U rovesciata tra i tassi di crescita della produzione e i
tassi di disoccupazione sulla base della seguente regressione:
Dove:
Si determina così, una relazione negativa nelle regioni con tassi di disoccupazione relativamente
elevati, mentre abbiamo una relazione tendenzialmente positiva nelle regioni con tassi di
disoccupazione relativamente minori. Secondo gli autori, non si conferma l’ipotesi secondo cui le
due variabili non sono correlate nel lungo periodo. Ma gli stessi autori fanno un ulteriore passo
richiamando il metodo utilizzato da Saint Paul, Bean e Pissarides, dove si ricorre ad una crescita
depurata dal contributo dell’accumulazione di capitale e della forza lavoro. Essi si discostano in
parte dall’ordinario metodo di determinazione dei residui di Solow, in quanto considerano rilevante
le deviazioni dalla media interregionale nel periodo considerato dei residui stessi. Ottengono così i
TFP (tassi di crescita tecnologica), utilizzati come indicatori dei differenziali regionali nei tassi di
crescita del progresso tecnico. Il ricorso a questa correzione determina il ridimensionamento della
crescita nelle regioni meridionali, determinando tassi di crescita inferiori per le regioni con tassi di
disoccupazione relativamente più elevati. Esiste una correlazione negativa tra crescita tecnologica e
disoccupazione a livello globale, espressa dalla seguente regressione:
- nelle regioni meridionali, gli elevati tassi di disoccupazione hanno rallentato la crescita,
sfavorendo l’accumulazione del capitale umano, che è risultata inferiore a quella registrata nei paesi
del Centro-Nord.
- nel Centro-Nord, invece, ha maggiore rilevanza quello che gli autori definiscono distruzione
creativa, dove posti di lavoro a bassa produttività sono rimpiazzati da posti di lavoro a maggiore
produttività.
Quindi il segno della correlazione è determinato da due effetti contrapposti, che sembrano
confermare ulteriormente le ipotesi del learning-by-doing, componente prociclica dell’innovazione.
Fagenberg e Verspagen, analizzando la crescita regionale nei Paesi comunitari nel dopoguerra,
rilevano che l’iniziale convergenza del GDP pro-capite negli ultimi anni ha un movimento incerto.
Tramite una regressione dei dati regionali di Regno Unito, Germania, Italia, Francia, Olanda e
Belgio rilevano tre differenti gruppi di regioni; distinti tramite una regressione della disoccupazione
sugli investimenti in R&D con il supporto dell’EU, sugli investimenti fatti con il supporto della
European Investiment Bank, sul logaritmo del GDP procapite.
Il primo gruppo è caratterizzato da: un elevato tasso di disoccupazione (rispetto le altre regioni
europee); un produttività iniziale bassa con una successiva crescita media; scarsi investimenti in
R&D; elevati investimenti da parte dell’EU. Il secondo gruppo è caratterizzato da: disoccupazione
media; una media produttività iniziale, ma con una crescita bassa; elevati investimenti in R&D;
investimenti dell’UE limitati. Il terzo gruppo di regioni è caratterizzato da: un basso tasso di
disoccupazione; alto tasso di crescita della produttività; alti investimenti in R&D; elevati
investimenti dell’EU. Si rileva così, oltre tre gruppi di convergenza nella crescita europea, una
correlazione negativa tra crescita e disoccupazione.
Uguale correlazione è stata rilevata da Taylor e Bradley tra tasso di disoccupazione regionale e
deviazione dal trend del prodotto reale nazionale. Nella regressione presentata, relativa a Germania,
Italia e Regno Unito, si rileva che la disoccupazione regionale è legata principalmente al tasso di
disoccupazione nazionale, alla struttura economica del Paese (industry mix), al costo dell’unità
lavorativa e alla densità degli occupazione (occupati/km2). Le regioni a maggiore, disoccupazione
sono caratterizzate da un elevato costo del lavoro e un "povero" industry mix (con povero si indica
una struttura economica con occupazione a bassa produttività). Questo significa che oltre ad una
minore competitività siamo alla presenza di un inferiore sviluppo tecnologico.
L’analisi della convergenza risulta a noi utile, in quanto considera l’andamento della produzione e
della disoccupazione. I grafici qui inseriti illustrano come anche nell’ambito europeo non sia
rilevabile una chiara correlazione tra disoccupazione e crescita economica. I dati presentati,
illustrano come il tasso di disoccupazione, dopo un andamento convergente rilevabile fino alla fine
degli anni settanta, ha un andamento divergente e tende a crescere lungo tutto l’arco temporale. Il
tasso di crescita ha un andamento maggiormente variabile rendendo difficile riconoscere un
movimento convergente. L’andamento dei due grafici è adeguatamente illustrato dai grafici dei
Paesi europei dimostrando come non siamo alla presenza di un movimento di convergenza. Uguali
risultati si ottengono considerando i dati a livello regionale.
5. Andamento della forza lavoro, Dell’occupazione e del GDP – analisi per alcuni paesi
europei.
Questo grafico è accompagnato da altri due grafici utili alla nostra analisi: il primo costruito
secondo lo stesso concetto, necessario per interpretare l’effetto della crescita della popolazione,
dove si divide il logaritmo di forza lavoro e occupazione per il logaritmo della popolazione; il
secondo illustra la correlazione tra tasso di disoccupazione e crescita della produzione.
Il capitolo è diviso in due parti: nella prima si presenterà la storia dei quattro maggiori Paesi
comunitari, dando una successiva visione d’insieme dei dati confrontandoli con gli Stati Uniti e il
Giappone; la seconda parte illustrerà brevemente i grafici degli altri Paesi dell’OCSE analizzati
nelle regressioni del successivo capitolo.
5.1 Germania
In Germania, il periodo di crescita economica che parte dagli anni sessanta e che seguendo fasi
alterne arriva fino al 1973, è caratterizzato da un’esigua crescita della forza lavoro. La
disoccupazione nel periodo si mantiene sostanzialmente costante. Nel grafico dei logaritmi di forza
lavoro e occupazione questo è rappresentato dalla curva dell’occupazione che coincide con la curva
della forza lavoro, mentre si ha una continua crescita della produzione. Questo ha determinato una
crescita vincolata dallo scarso aumento della forza lavoro. Per rispondere alla maggiore domanda
d’occupati, si ricorre a forza lavoro esterna; abbiamo quindi una forte immigrazione da altri Paesi
europei. Questa situazione ha dotato i sindacati di un forte potere contrattuale. La politica dei
sindacati è però indirizzata verso la stabilità dei salari (limitandone la crescita), fino al triennio
‘68-’71, puntando al miglioramento della qualità dei posti di lavoro. Secondo stime presentate da
W. Carlin, la crescita in questo periodo nella Germania occidentale è in buona parte dovuta alla
crescita del TFP.
La crescita è trainata dal mercato estero di beni capitali, soprattutto macchinari verso altri Paesi
europei (Italia e Francia), dove si ha un limitato intervento pubblico sulla domanda. Solo nel
biennio 1966-67 abbiamo una recessione per il riassestamento del sistema monetario internazionale.
L’andamento del biennio indica che lo sviluppo export-led della Germania necessita di una
riorganizzazione strutturale. Abbiamo una diminuzione dell’occupazione (1967) maggiore della
diminuzione dell’output (1966). Questa recessione ha l’effetto di allocare in altri settori (piccoli
macchinari) l’occupazione, che è contemporaneamente diminuita, con guadagni in termini di
produttività. Il nostro grafico in questi anni rileva un salto delle due curve confermando la
diminuzione dell’occupazione durante la recessione, con l’aumento della disoccupazione.
Nel periodo dal 1968 al 1971 abbiamo un fase caratterizzata da scioperi e forte crescita dei salari.
Questo legato allo shock petrolifero del 1973 crea un periodo d’incertezza economica, che
determina il rallentamento della crescita. Fino agli anni novanta si registreranno minori tassi di
crescita, rispetto agli anni cinquanta e sessanta, con il contemporaneo aumento della disoccupazione
e delle disparità distributive. Nella recessione che segue le crisi petrolifere, rileviamo che l’aumento
della disoccupazione è dovuto all’aumento della forza lavoro, che alla contemporanea riduzione
dell’occupazione.
Dopo il 1979 abbiamo una riduzione della crescita della produttività del settore manifatturiero, ma
l’aumento della competitività sui mercati internazionali dovuti alla forza del marco, consente di
registrare una fase espansiva (dai primi anni ‘80), ma come già detto questa è caratterizzata da tassi
di crescita inferiori ai precedenti. La causa del prolungarsi del rallentamento della crescita è
solitamente imputata alla politica monetaria restrittiva della Bundesbank, che ha ridotto gli
investimenti. La riduzione della produttività seguita al 1979, si può leggere nel nostro grafico
rilevando l’aumento della forza lavoro con una diminuzione dell’occupazione mentre la produzione
non aumenta. Gli effetti della politica monetaria restrittiva sono invece dati dal prolungarsi della
successiva crescita a tassi moderati.
Durante la ripresa economica si rileva una diminuzione del potere contrattuale dei sindacati,
accompagnata da una lenta ma graduale diminuzione della disoccupazione. Il grafico illustra questa
situazione con la convergenza della curve della forza lavoro e dell’occupazione.
Questa situazione si mantiene fino agli anni novanta. L’unificazione determinerà invece un periodo
di riassestamento dell’organizzazione produttiva con espulsione della forza lavoro e di riduzione
degli occupati, oltre ad un ulteriore rallentamento della crescita. Nel grafico questa situazione è
confermata dal salto delle curve nei primi anni novanta e dalla loro successiva diminuzione.
L’occupazione durante l’intero arco temporale tende comunque a convergere verso la forza lavoro,
sia per l’elasticità tra occupazione e produzione crescente, che per una minore crescita del tasso di
partecipazione. I successivi grafici relativi alla Germania, illustrano come l’aumento della
partecipazione ha contribuito alla crescita della disoccupazione negli anni settanta e ottanta, mentre
negli anni novanta la riduzione della forza lavoro è stata inferiore alla diminuzione degli occupati.
Inoltre, si rileva dal grafico della correlazione tra disoccupazione e crescita che i dati sono
caratterizzati da due periodi di correlazione negativa dovuti allo spostamento dei tassi durante le
crisi petrolifere.
5.2 Francia
L’andamento francese sull’intero periodo 1960-96 mostra come la disoccupazione tenda a crescere
rispetto al GDP, con movimenti ciclici d’aumento nelle fasi di recessione e diminuzione nelle fasi
espansive. L’elasticità tra occupazione e GDP rimane costante solo per brevi periodi. Nei periodi di
recessione diminuiscono gli occupati per unità di prodotto, per poi aumentare nelle fasi espansive.
I primi anni ’60, sono anni di rapida crescita dovuta alla svalutazione della moneta nazionale, la
ripresa della convertibilità con le altre valute e l’ingresso nel Mercato comune. Si ha un aumento
dell’accumulazione, ma soprattutto una diversa allocazione del capitale e del lavoro, con lo
sviluppo di un forte settore per l’esportazione. Il tasso di crescita del TFP in questo periodo è
superiore a quello registrato dopo gli shock petroliferi, ma il suo impatto sulla crescita è comunque
basso (0.4), perché s’investe capitale in industrie già capital intensive.
La strategia vincente del periodo è l’apertura ai mercati internazionali, allocando risorse verso
l’esportazione. Inoltre la fase espansiva è caratterizzata dal tentativo di colmare il divario con altre
economie sviluppate, cercando di sfruttare l’intero potenziale di catch up.
Dopo le rivendicazioni sociali del 1967 si ha un rallentamento della crescita dell'occupazione, con
una successiva rapida ripresa. Abbiamo inoltre, a seguito della crisi monetaria internazionale, gli
effetti dello sviluppo strutturalmente sproporzionato della crescita export-led, con una
riorganizzazione dell’allocazione della forza lavoro. Questa crisi non ha però effetti negativi
dell’entità registrata in Germania, poiché non ha nessun effetto negativo sulla crescita della
produzione. Il grafico dei logaritmi illustra questa fase espansiva con la crescita delle tre variabili
presentate, dove le curve della forza lavoro e dell’occupazione divergono indicando la crescita della
disoccupazione.
Fino alle crisi petrolifere la tendenza dell’occupazione è di seguire la forza lavoro con un tasso di
disoccupazione in leggera crescita, ma con una forte espansione produttiva.
L’andamento dopo le crisi petrolifere è simile agli altri Paesi europei. Con il primo shock
petrolifero si riconosce una diminuzione dell’occupazione con variazione dell’elasticità tra
occupazione e GDP. Questo shock è rappresentato nel nostro grafico con l’aumento della
disoccupazione, in un periodo d’elasticità costante tra occupazione e produzione. Gli effetti di
questa crisi si rilevano nei rapporti con le altre monete europee componenti il "serpente" monetario
(istituito nel 1972): si ha l’immediato ritiro dal sistema monetario europeo nel 1973, per rientrare
nel ‘75 ed uscirne nuovamente nel ‘76. Seguono tre anni d’austerità per entrare nell’ECU nel ‘79,
da cui si ha un immediato ritiro per effetto della seconda crisi petrolifera, per poi riuscire a rientrare
nel 1981.
L’occupazione in questo periodo tende a rimane costante, senza convergere verso la forza lavoro,
che continua a crescere fino ai primi anni ottanta.
Fino al 1981 siamo in un periodo di tensione salariale, appesantendo la già difficile situazione
economica. Ma il sistema economico francese mostra una maggiore capacità di assorbire gli shock
sul fronte interno, rilevando una crescita del GDP maggiore degli altri Paesi. Questo grazie alle
politiche di contenimento dei salari adottate per contenere l’inflazione, preferendo questa via alle
politiche monetarie restrittive.
Dal 1981 si adottano politiche per liberalizzare maggiormente il mercato dei beni. All’opposto il
mercato del lavoro rimane fortemente regolato. Con Mitterand si segue politica di stabilità del
cambio, per rimanere all’interno dell’ECU, con effetti positivi per l’esportazione. Nel grafico è
confermata questa politica dalla lenta variazione dell’elasticità tra occupazione e produzione.
I primi anni sono caratterizzati da politiche d’espansione che tentano di stimolare la domanda con
l’aumento del deficit di bilancio. Si adotta un’ulteriore serie di regolamentazioni sulle condizioni
del mercato del lavoro. Queste politiche però non riescono ha fermare la crescita della
disoccupazione e dell’inflazione. Di conseguenza si adottano le politiche market-oriented che
caratterizzano i primi anni novanta, dove si comincia a liberalizzare il mercato del lavoro.
Le politiche degli anni ottanta hanno bloccato la crescita dei salari per buona parte del decennio,
senza però portare all’aumento degli investimenti. Questo sembra essere una delle fondamentali
cause della crescente disoccupazione. Possibile causa del capital shortage del periodo è l’elevato
costo del mantenimento all interno del sistema monetario europeo, che costringe il Paese ad una
costosa austerità.
Il periodo è però caratterizzato dalla crescita della produttività. Dopo il secondo shock petrolifero
fino al ’85, come già visto, si ha una continua variazione dell’elasticità nella direzione della
riduzione degli occupati per unità di prodotto. In seguito. per alcuni anni, l’elasticità rimane
costante per poi assumere un andamento crescente fino al ’91 (crisi valutaria), dove nel giro di
pochi anni si ripercorre l’andamento dell’elasticità rilevato per l’intero decennio precedente, con
una rapida diminuzione dell’occupazione seguita dall’immediata ripresa. Contemporaneamente,
tutti gli anni ottanta e novanta la forza lavoro continua a crescere, con un forte aumento della
disoccupazione. Infatti le curve della forza lavoro e dell’occupazione in questo periodo divergono.
Il tasso di partecipazione rimane tendenzialmente costante (43%) per l’intero periodo 1960-96,
anche se per gli ultimi anni degli anni sessanta e per i primi anni degli anni settanta si nota una
leggera diminuzione (41%). La disoccupazione francese negli anni sessanta e settanta è in linea con
l’andamento della media dei 12 Paesi della CEE, e ha un esplosione inferiore ha seguito degli
shocks petroliferi. Risulta invece essere superiore la crescita della disoccupazione a seguito
dell’austerità degli anni ottanta ed a seguito della crisi valutaria dei primi anni novanta. In questo
caso il grafico che rappresenta i logaritmi di forza lavoro e occupazione corretti dalla popolazione
indica che la principale causa della disoccupazione francese è la diminuzione dell’occupazione,
piuttosto che la crescita della partecipazione. Si conferma rileva inoltre la correlazione negativa dei
dati illustrati dal terzo grafico.
Il Regno Unito dopo la Seconda Guerra mondiale affronta un lungo declino nell’importanza del
proprio ruolo nell’economia internazionale. Per risolvere quest’involuzione e raggiungere
soddisfacenti livelli di crescita economica sono seguite due linee fondamentali d’intervento.
Durante gli anni sessanta - settanta, la politica economica attuata per riprendere una consistente
crescita, è indirizzata alla promozione diretta dell’investimento. Diversamente la politica economica
negli anni ottanta prevede la riduzione dell’imposizione diretta e la promozione della cultura
imprenditoriale.
Gli anni sessanta sono caratterizzati da una minore fluttuazione del GDP rispetto altri paesi. Per le
politiche d’offerta si nota l’attuazione di politiche a favore dell’investimento soggette però ad
un’eccessiva variabilità delle misure e dei settori obiettivo d’intervento, che troveranno stabilità
solo verso la fine degli anni sessanta. L’obiettivo in tutti i settori è l’accrescimento del capitale
fisico, a discapito però del capitale umano.
Nonostante gli interventi a favore dell’investimento, negli anni 60-70 la produttività e il prodotto
sono cresciuti meno che nei Paesi europei. Il grafico indica in questo periodo un aumento lento del
GDP. Abbiamo così un peggioramento relativo rispetto a Germania e Francia, che hanno avuto una
migliore convergenza con gli Stati Uniti. Solo negli anni ottanta è recuperato il gap che si era creato
nella manifattura.
L’inferiore crescita della produttività è caratterizzata dell’inferiore input di capitale negli anni 50-70
e dall’inferiore crescita del TFP. Inoltre negli anni sessanta si registra che la minore crescita della
produttività, è in parte imputabile alle differenze nella partecipazione (impegno) lavorativa, alle
pratiche lavorative restrittive e all’inferiore qualità del management. Con maggiore precisione si
può parlare di non ottimale allocazione degli occupati nel settore industriale, oltre ad una
preparazione della forza lavoro, inferiore a Paesi come Francia e Germania. In questo periodo
l’occupazione e la forza lavoro crescono fino 1966, poi fino al 1971 si rileva nel grafico una
diminuzione delle due variabili. Ulteriore causa della lenta crescita è l’inferiore crescita del rapporto
K/Y, rispetto agli altri Paesi europei. Specialmente durante il periodo dal ’60 al ’73 si notano le
minori spese in costruzioni (stabilimenti, impianti fissi produttivi).
Gli investimenti in R&D sono rimasti una quota costante del GDP (2,3-2,2%) per l’intero arco
1950-89. Diverso è stato l’andamento negli altri Paesi, dove si è passati da livelli inferiori a livelli
maggiori. In questo periodo l’occupazione e la forza lavoro crescono fino 1966, poi fino al 1971 si
rileva una diminuzione delle due variabili.
Negli anni settanta la produttività inglese era inferiore, oltre a quella americana anche alla
produttività tedesca. Si è cercato durante gli anni settanta di dare maggiore potere al mercato,
limitando il corporativismo e garantendo maggiori possibilità d’entrata. Ma questi interventi non
hanno aumentato la produttività.
Durante gli anni sessanta si ha una riduzione del debito pubblico, mentre il legislatore interviene sul
mercato del lavoro cercando di raggiungere una maggiore decentralizzazione della contrattazione
salariale. Si favorisce la contrattazione salariale, anche se diventa frammentaria. Questa struttura
delle relazioni industriali ha limitato la crescita del TFP prima degli anni ottanta (si stima che nel
periodo 1973-79, nel Regno unito il TFP cresce dello 0,6, uno dei risultati peggiori per le economie
occidentali).
Negli anni 74-79 si rileva un inflazione estremamente alta, senza contenere la crescita della
disoccupazione, soprattutto di lungo periodo. Per combattere quest’inflazione crescente si ripropone
di definire un nuovo contratto sociale coi sindacati (supply-side policy), ma questo condiziona
eccessivamente le scelte imprenditoriali. Negli anni ottanta si è cercato di modificare la
contrattazione tra imprese e forza lavoro, che era rimasta per lungo tempo all’interno di un contesto
tradizionale. Si è così cercato di investire nella disoccupazione di breve periodo, nel tentativo di
ottenere effetti positivi nel lungo periodo. Inoltre si riesce ad aumentare la produttività, tramite
l’espulsione di lavoratori.
NAIRU stimato
1956-66 1967-73 1974-79 1980-89
1,96 2,8 5,2 7,9
Nel periodo 1971-80 l’elasticità dell’occupazione e della forza lavoro rimane costante, mentre la
forza lavoro cresce, ottenendo un aumento della disoccupazione. I primi anni ottanta sono invece
caratterizzati da una rapida diminuzione dell’occupazione e della produzione con riduzione
dell’elasticità.
Negli anni ottanta si è provveduto a cedere le partecipazioni statali acquisite negli anni settanta.
Queste hanno avuto un impatto limitato, con perdite di produttività. Difatti il governo non era in
grado di potere esercitare un adeguato controllo sulle imprese. Il governo Thatcher ha così
provveduto alla ristrutturazione e privatizzazione di queste imprese.
Si è avviata un politica di riduzione dei costi nella ricerca della migliore allocazione delle risorse,
abbandonando le politiche controcicliche d’ispirazione keynesiana. Si accetta una disoccupazione
crescente per cercare di ridurre l’inflazione e il gap di produttività con gli altri Paesi occidentali. Si
passa in questo modo dalle politiche per l’equità alle politiche per l’efficienza. Inoltre, per favorire
gli investimenti è attuata una politica di riduzione della tassazione personale, favorendo
l’accumulazione del capitale, cercando nel frattempo di ridurre le spese di welfare. I risultati di
queste politiche risultano evidenti nella seconda metà degli anni ottanta dove la produttività nel
settore manifatturiero comincia ha recuperare il terreno perduto. Si ritiene che questi risultati siano
stati possibili grazie alla perdita del potere contrattuale dei sindacati inglesi, considerati responsabili
della limitata crescita negli anni 50-60. Il grafico indica per la fine degli anni ottanta la convergenza
delle curve della forza lavoro e dell’occupazione. Con aumento dell’elasticità occupazione –
produzione e diminuzione della disoccupazione.
I risultati delle politiche inglese (politiche di breve termine orientate al conflitto inflazione-
disoccupazione) non hanno comunque consentito un elevato tasso di crescita, suggerendo
l’esistenza di un trade-off tra politiche per l’inflazione e politiche per raggiungere una crescita
stabile. Inoltre negli anni novanta le politiche tendenti a contenere la domanda hanno determinato
una forte riduzione della produzione e dell’occupazione.
L’andamento alterno della produttività è illustrato dal grafico relativo al Regno Unito, che illustra
un coefficiente occupazione-produzione variabile. Si rileva una tendenza alla diminuzione dalla fine
degli anni 60 fino ai primi anni 80 per poi aumentare fino agli inizi degli anni 90. Il primo
importante cambiamento si rileva sempre nel 1967, dove si ha un elevata espulsione di lavoratori.
Quest’espulsione invertirà di segno solo per i primi anni settanta. Dopo gli shock petroliferi si rileva
un ulteriore sostanziale riduzione degli occupati, che rientreranno solo alla fine degli anni ottanta.
5.4 Italia
Gli anni sessanta italiani sono caratterizzati da fasi alterne d’espansione e recessione. Si seguono
politiche d’investimento infrastrutturale e industriale in aree concentrate, oltre a misure per favorire
l’investimento stesso. Sono apprestati programmi di settore e si ricorre alla contrattazione
programmata con grandi imprese per tentare una soluzione al divario che si sta aggravando tra il
Mezzogiorno e il resto del Paese. Queste misure però non riescono a risolvere, se non per un breve
periodo, la crescente disoccupazione. Dal 1963 il divario regionale nel reddito, occupazione e
prodotto diventa sempre più elevato. Gli iniziali interventi adottati, sono quindi ricondotti
all’interno di un piano nazionale di programmazione. Gli investimenti nel Mezzogiorno sono
garantiti tramite gli enti collegati alla pubblica amministrazione e progetti speciali, in base ad una
quota fissa di spesa. Le politiche fino al 1970 prevedono ancora una concentrazione degli
investimento in pochi settori, ma questi interventi sono caratterizzati da una scarsa rilevanza degli
effetti indotti. Il periodo è inoltre caratterizzato dai programmi di nazionalizzazione. Nel grafico
questo periodo è illustrato con una forte crescita del prodotto, con riduzione della forza lavoro e
dell’occupazione.
Nel 1973-74 la dinamica del Mezzogiorno migliora per merito delle imprese a partecipazione
statale, ma come detto con scarsa diffusione degli effetti positivi al resto dell’economia. Il periodo è
inoltre caratterizzato dalla crescita consistente nella produttività dell’agricoltura (anche se quasi
esclusivamente al Centro-Nord), accompagnata dalla riduzione dei relativi occupati. All’opposto la
produttività nei servizi ha una crescita irrilevante.
Dal 1964 al 1973 si rileva una rapida crescita della produzione e dei salari, ma nonostante i piani
d’investimento approntati fino al 1964-65 si ha una dalla riduzione degli investimenti.
Si ritiene che le politiche economiche predisposte (export-led) fino al 1973 abbiano reso l’economia
eccessivamente vulnerabile agli shock esogeni. Ma notando la buona risposta italiana (in linea con
la risposta statunitense) allo shock petrolifero del 1978, questo giudizio deve essere considerato non
conclusivo. Infatti, il grafico per gli anni settanta e ottanta indica un’elasticità costante, mentre la
forza lavoro cresce in modo continuo e divergente.
Certamente dopo il 1973 abbiamo una riduzione della produttività, maggiore di quella registrata
durante le crisi inflazionistiche del 1963 e del 1969, ma il periodo è caratterizzato dalle politiche
restrittive per entrare nel Mercato comune.
Come risposta al secondo shock petrolifero, caratterizzato dalla caduta della profittabilità, si segue
la via della riorganizzazione dei rapporti industriali e dei salari, con un notevole utilizzo della cassa
integrazione. L’incertezza legislativa all’inizio degli anni ottanta ha portato alla definizione di
nuove linee d’intervento. Si ha un maggiore ricorso all’intervento programmatico di lungo periodo;
si predispongono piani triennali articolati in piani annuali; si comincia lo scorporo delle funzioni
della Cassa del Mezzogiorno, riorganizzando le stesse presso i Ministeri, con la contemporanea
ridefinizione delle procedure finanziarie. Inoltre si ha una maggiore collaborazione con gli enti
locali (Questo grazie anche all’istituzione e alla posa in opera delle Regioni). Si riforma il sistema
degli incentivi, con l’agevolazione all’accesso dei servizi finanziari. Dal 1983-84 fino alla fine del
decennio si registra una discreta crescita del GDP. Ma nello stesso tempo si ha un deciso aumento
del deficit statale, mentre la riorganizzazione dei rapporti industriali ha generato una crescente
diseguaglianza dei redditi. Per risolvere il problema del Mezzogiorno si cerca di differenziare
maggiormente l’intervento nelle varie aree. Queste attività sono organizzate tramite l’Agenzia per la
promozione dello sviluppo del Mezzogiorno. L’obiettivo prioritario è l’agevolazione per
l’acquisizione del know-how.
La disoccupazione italiana, tranne un’iniziale diminuzione dovuta alla maggiore diminuzione della
forza lavoro rispetto all’occupazione, tende a crescere per quasi tutto il periodo. Nel grafico non si
rileva il movimento convergente delle curve che caratterizza le fasi di forte espansione. Negli anni
sessanta la forza lavoro tende a diminuire, nonostante la crescita della popolazione,
indifferentemente dai periodi di recessione ed espansione. Tra il ’66 e il ’68 (periodo d’espansione
economica) sia la forza lavoro sia l’occupazione hanno una leggera ripresa.
Solo dal 1972 si ha una crescita sostanziale della forza lavoro, per poi avere un brusco
rallentamento nei primi anni novanta, alla presenza del peggioramento della stabilità economica, per
avviare in seguito una moderata ricrescita. L’occupazione segue sostanzialmente l’andamento della
forza lavoro fino al primo shock petrolifero. Segue così la caduta della crescita del GDP.
L’elasticità tra occupazione e produzione tende ad essere costante solo nel periodo tra il 1975 e il
1990, dove per la seconda crisi petrolifera si mostra un andamento simile agli Stati Uniti. Invece la
crescita della disoccupazione è dovuta come indicano gli ultimi grafici alla crescita della
partecipazione, confermando una correlazione negativa.
Ricordiamo inoltre che il salto rilevato nei grafici nel 1992 è dovuto alla variazione della
definizione della forza lavoro e dell’occupazione.
Utilizzando la forza lavoro come indicatore dell’offerta di lavoro, si rileva che non è legata alla
crescita della produzione (contrariamente all’ipotesi di Solow), difatti la crescita della forza lavoro
prosegue, generalmente, anche negli anni di riduzione della produzione. Inoltre l’andamento
determinato in Italia per gli anni sessanta, rileva la sostanziale indipendenza tra le due variabili. Il
tasso di partecipazione, tranne in alcuni casi circoscritti è risultato costante o con una leggera
tenenza alla crescita. Tasso che è maggiormente influenzato dai periodi di rivendicazione sociale
presenti in Europa (si nota alla fine anni ’60 in Italia e Germania, e meno in Francia), che hanno
rallentato la tendenza alla crescita.
Analizzando la domanda di lavoro (quindi l’occupazione), la prima cosa che è utile sottolineare
riguarda l’elasticità tra occupazione e produzione, che non è costante soprattutto nei Paesi europei.
Tranne gli Stati Uniti, dove si ha una sostanziale costanza per l’intero periodo, gli altri Paesi
rilevano un andamento instabile. Il Giappone ha un andamento dell’elasticità crescente e i Paesi
Europei intercalano periodi di variabile durata con elasticità costante o crescente, a brevissimi
periodi di sostanziale variazione. La risposta agli shock petroliferi, comporta uno spostamento
lungo un’unica retta per gli Stati Uniti e per l’Italia (quest’ultima lungo la retta rilevabile solo dal
1973 al 1989), mentre per il Giappone comporta lo spostamento lungo un'unica curva (quella
riconoscibile per il periodo ‘73-’85). Per Francia, Germania e Italia (quest’ultima solo per il primo
shock petrolifero) si rileva lo spostamento graduale o istantaneo verso un’altra retta e quindi una
diversa elasticità. Non si rileva invece un’influenza degli shock speculativi (es. ’87), rilevando
come negli anni ’80, si fosse alla presenza di un ambiente economico sociale, che favorisce
aspettative positive. All’opposto, l’elasticità sembra essere sostanzialmente influenzata dal grado di
flessibilità del mercato del lavoro. Difatti, gli Stati Uniti sembrano avere una risposta migliore dei
Paesi Europei (sostanziale rallentamento della crescita dell’occupazione per periodi più lunghi) ai
vari shock economici verificatisi nel periodo ‘60-’96, ciò escludendo dall’analisi il Giappone che in
genere mostra una crescita dell’occupazione anche nei periodi di crisi. Inoltre la disoccupazione
giapponese si mantiene costante per l’intero periodo, suggerendo l’assenza di relazione tra
disoccupazione e crescita.
In questo paragrafo sono brevemente considerati i grafici relativi ai dati d’altri Paesi analizzati nelle
successive regressioni.
Irlanda
L’Irlanda rileva un andamento costante della disoccupazione per tutti gli anni sessanta.
Successivamente alle crisi petrolifere abbiamo un drastico aumento della disoccupazione con la
diminuzione dell’elasticità occupazione – produzione. Dalla metà degli anni ottanta si rileva invece
una diminuzione della disoccupazione grazie alla convergenza della curva dell’occupazione verso la
curva della forza lavoro.
Come illustra il successivo grafico dove si analizza la partecipazione, si rileva come l’aumento della
disoccupazione precedentemente evidenziato sia dovuto al riduzione della domanda di lavoro,
indicando come il boom irlandese sia legato ad investimenti a bassa intensità di lavoro.. Si deve
inoltre sottolineare che l’aumento degli occupati degli anni ottanta e novanta è stato maggiore
dell’aumento della partecipazione. La correlazione tra disoccupazione e crescita economica è
negativa e il grafico della correlazione evidenzia come questa sia divisa in due periodi divisi da uno
spostamento successivo alla seconda crisi petrolifera.
Spagna
In Spagna è evidenziato fino alle crisi petrolifere una disoccupazione costante, che aumenta in
modo sostanziale durante la recessione economica successiva alle crisi stesse. In questo periodo si
rileva un effetto di scoraggiamento in quanto il tasso di partecipazione diminuisce al diminuire degli
occupati. Questa diminuzione è però inferiore all’espulsione d’occupati, rilevando come la
disoccupazione di questo periodo sia per la maggiore parte dovuta alla domanda di lavoro in
diminuzione. Invece il successivo persistere della disoccupazione è dovuto al rapido aumento del
tasso di partecipazione dalla metà degli anni ottanta.
Finlandia
In Finlandia è rilevato come ad ogni rallentamento della crescita sia collegato un aumento della
disoccupazione. Ma viene anche evidenziato come i tipi d’aumento sono due: alla fine degli anni
sessanta e negli anni novanta si ha una diminuzione dell’occupazione accompagnata dalla
diminuzione della forza lavoro (anche se d’entità inferiore), mentre negli anni settanta la
diminuzione dell’occupazione è accompagnata dall’aumento della forza lavoro, con evidenti effetti
sulla disoccupazione.
Quindi negli anni ottanta l’aumento del tasso di partecipazione può essere indicato come la
principale causa degli elevati livelli di disoccupazione rilevati. Mentre negli anni novanta è la
diminuzione degli occupati la principale causa di disoccupazione.
Il grafico della correlazione, indicando la negatività sull’intero periodo, illustra con chiarezza come
gli anni novanta siano invece caratterizzati da una correlazione positiva.
Canada
Il Canada ha un andamento della forza lavoro e dell’occupazione rispetto alla produzione stabile,
con una leggera divergenza delle curve. L’elasticità occupazione – produzione rimane pressoché
costante lungo l’intero arco temporale.
Il tasso di partecipazione aumenta negli anni ottanta aumento più dell’occupazione sull’intera
popolazione, rilevando che l’aumento della disoccupazione in questo periodo è ancora imputabile
alla crescita dell’offerta del lavoro piuttosto che alla limitata crescita della domanda di lavoro. La
correlazione tra disoccupazione e crescita economica è negativa sull’intero arco temporale, mentre
per gli ultimi anni è positiva.
Nuova Zelanda
La Nuova Zelanda è un interessante caso dal punto di vista economico in quanto ha un mercato del
lavoro rigido. Graficamente questo è illustrato dall’aumento dell’occupazione registrato con la
diminuzione della produzione successiva agli shock petroliferi.
La crescita della disoccupazione degli anni novanta è invece imputabile alle politiche di
liberalizzazione del mercato del lavoro, che hanno consentito la riduzione degli occupati sull’intera
popolazione.
Bisogna sottolineare come i successivi risultati delle regressioni per la Nuova Zelanda, devono
essere letti considerando che gli arrotondamenti dei dati determinano talvolta delle costanti
eccessivamente elevate, poiché negli anni sessanta si è ripetutamente passati da dati indicanti
disoccupazione nulla a disoccupazione di un migliaio d’unità.
Turchia
La Turchia è un altro caso dove l’andamento della forza lavoro e dell’occupazione rispetto alla
produzione è stabile, con un’elasticità occupazione – produzione pressoché costante.
Ma diversamente dagli altri Paesi analizzati, rileva tasso di partecipazione e occupati sull’intera
popolazione in diminuzione.
La correlazione tra disoccupazione e crescita è invece poco chiara.
6. DISOCCUPAZIONE E CRESCITA: ALCUNE REGRESSIONI.
Le regressioni eseguite su Paesi dell’OCSE, rilevano una correlazione negativa tra disoccupazione e
crescita della produttività. Si è inizialmente eseguito la regressione della crescita della produttività
sul tasso di disoccupazione riproponendo l’impostazione di Muscatelli-Tirelli. In seguito, si è
proceduto alla regressione del tasso di disoccupazione sulla crescita della produttività al fine di
rilevare se esistono importanti differenze nella significatività del coefficiente di regressione.
Dopo queste regressioni viene presentata l’analisi per sottoperiodi della relazione tra crescita della
produttività e tasso di disoccupazione, al fine di determinare quali fasi economiche sono
caratterizzate in modo significativo da una correlazione negativa.
La correlazione negativa è stata inoltre valutata con la regressione della produzione sul tasso di
disoccupazione eseguita sull’intero periodo 1961-96 e sui sottoperiodi.
Il passo successivo è stato l’elaborazione di una regressione del tipo proposto da Sylos Labini. Qui
si esegue la regressione della variazione della disoccupazione sulla variazione della produzione,
introducendo in seguito anche la forza lavoro.
Per completare l’analisi, si è ritenuto opportuno valutare l’importanza della partecipazione e per
fare questo si è eseguito una regressione del tasso di partecipazione sulla variazione della
produzione, per valutare quanto questa variabile abbia inciso nell’espansione della disoccupazione
degli anni ottanta.
Per concludere, si presentano in appendice i risultati della regressione della variazione della
produzione sulla variazione dell’occupazione e della forza lavoro per dare una descrizione
matematica ai grafici precedentemente proposti.
Eseguendo una regressione simile a quella proposta da Muscatelli e Tirelli, in cui la crescita della
produttività è la variabile dipendente ed è legata alla disoccupazione (senza l’introduzione del filtro
eseguita dagli stessi), si ottiene un’ampia visione della correlazione tra la crescita della produttività
e il tasso di disoccupazione.
La regressione della crescita della produttività (GPL) eseguita sui tassi di disoccupazione (u), oltre a
risultati significativi, rileva una chiara correlazione negativa tra disoccupazione e crescita della
produttività per un discreto numero di Paesi. L’R–quadro rilevato in questa regressione è alquanto
vario, passando dal 46% di Spagna e Giappone allo 0% di Regno Unito, Nuova Zelanda e
Finlandia. Questo indica che il modello non dà una visione uniforme della relazione esistente tra
disoccupazione e crescita nei vari Paesi considerati, ma, nonostante questo, fornisce dei risultati
significativi sul segno della correlazione.
GPL=a + bu a s.e. b s.e. R2
Germania 3,732 0,888 -0,337 0,172 10%
Francia 4,873 0,463 -0,316 0,064 42%
Italia 7,200 1,110 -0,475 0,132 28%
Regno Unito 1,905 0,592 0,033 0,870 0%
Irlanda 4,328 0,806 -0,053 0,074 2%
Spagna 6,216 0,537 -0,217 0,040 46%
Stati Uniti 2,548 1,040 -0,195 0,168 4%
Canada 2,508 0,674 -0,157 0,083 9%
Giappone 11,051 1,309 -3,385 0,629 46%
N. Zelanda 0,572 0,932 0,025 0,205 0%
Finlandia 3,205 0,600 0,003 0,083 0%
Turchia 0,714 3,874 0,313 0,471 1%
La regressione indica che Francia, Spagna e Giappone sono i Paesi maggiormente influenzati dalla
disoccupazione. Questo indifferentemente dal tasso di disoccupazione d’equilibrio (maggiore in
Francia e Spagna che in Giappone). Mentre per i Paesi anglofoni, l’incidenza della disoccupazione
sulla crescita della produttività è quasi nulla. Il segno del coefficiente di regressione è
maggiormente significativo nei casi di negatività, che sono anche i più numerosi.
Questi risultati sono ottenuti considerando il periodo 1961-96. Diversamente Muscatelli e Tirelli
considerano il periodo 1955-90. L’introduzione del filtro e il periodo temporale spostato all’indietro
di sei anni, non ha sostanziali effetti sui risultati relativi al segno della correlazione
precedentemente ottenuti per i Paesi comunitari, i quali erano soggetti ad una forte influenza della
disoccupazione. Diversamente i Paesi che nell’analisi precedente non erano sottoposti ad alcun
effetto della disoccupazione (Stati Uniti, Nuova Zelanda, Finlandia), in questa regressione sono
sostanzialmente influenzati dalla stessa. Questo significa che in questi ultimi Paesi, gli effetti di
breve periodo della disoccupazione sono opposti agli effetti di lungo periodo, diversamente da
quello che rileva Saint-Paul per gli effetti della domanda d’innovazione sulla produttività.
Queste tabelle illustrano come la correlazione tra disoccupazione e crescita della produttività nel
lungo periodo è per molti Paesi negativa. Il grado di significatività è sicuramente maggiore nelle
regressioni di Muscatelli e Tirelli, ma anche la prima tabella dà buoni risultati per un discreto
numero di Paesi. Però è utile confrontare i risultati ottenuti nella prima regressione oltre che con i
risultati di Muscatelli e Tirelli, anche con la regressione del tasso di disoccupazione sulla crescita
della produttività.
I Paesi che nella prima regressione avevano un buon livello di significatività mantengono questo
risultato anche in quest’ultima regressione. Identico discorso vale per i Paesi che risultavano non
significativi. L’inversione delle variabili nella regressione quindi non sembra avere un effetto
determinante sulla significatività.
6.2 Disoccupazione e crescita della produttività considerati all’interno d’archi temporali più
brevi.
Come anticipato l’analisi procede analizzando in periodi temporali più brevi, i risultati
precedentemente ottenuti con la regressione della crescita della produttività sul tasso di
disoccupazione.
I sottoperiodi considerati non sono uniformi per ogni Paese, perché ognuno ha risposto secondo la
propria struttura economica (e quindi anche in tempi diversi) all’andamento economico verificatosi.
Questo sottolineando che in genere si possono riconoscere in ogni economia due periodi: la fase
prima degli shock petroliferi e la fase durante e successiva agli stessi. Questi due periodi sono
d’estensione diversa a seconda di quando gli shock hanno determinato effetti sulle economie stesse.
I risultati ottenuti non confermano l’ipotesi di correlazione negativa con la stessa significatività
rilevata precedentemente (vedi il caso della Francia e dell’Italia). Diversamente si rileva una
maggiore differenza del segno della correlazione. Si deve però sottolineare un particolare
interessante: i Paesi che presentavano nelle tabelle precedenti un R-quadro basso, ora presentano un
valore talvolta anche elevato (vedi il caso del Regno Unito, dell’Irlanda e della Finlandia). Ma la
significatività inferiore è imputabile alla brevità dei periodi considerati, che inoltre ci costringe a
non suddividere ulteriormente l’arco temporale considerato.
Di seguito sono presentati i sottoperiodi considerati nelle regressioni, con elencati i risultati delle
regressioni stesse.
Germania
Per la Germania, i due sottoperiodi considerati sono: 1961-1974 e 1975-1990. Il primo periodo
segue un andamento abbastanza uniforme, con l’occupazione che segue la forza lavoro, anche nel
salto relativo alla crisi degli anni 1967-68. Il secondo mostra invece in entrambi gli shock
petroliferi, un iniziale movimento divergente delle due variabili, seguito da un movimento
convergente. Si è scelto di interrompere prima degli anni novanta per non affrontare il problema
della riunificazione, che come ha mostrato il grafico relativo all’occupazione, forza lavoro e GDP,
oltre ad essere un periodo troppo breve per un analisi significativa, esce dalle indicazioni del
periodo 1975-90. Questo per il salto statistico presentato dai dati alla riunificazione.
Per la Francia, i due sottoperiodi determinati sono: 1961-74 e 1975-96. Il primo periodo è
caratterizzato da una discreta stabilità nell’andamento dell’occupazione e del GDP. Il successivo
periodo è invece caratterizzato da una notevole variabilità del rapporto occupazione - produzione.
Italia
Per l’Italia si segue una differente periodizzazione. Vista la diminuzione della forza lavoro fino al
1972 e il successivo aumento fino al 1992, si è così diviso il periodo dal 1961 al 1992: dal 1961 al
1972, con la fine degli effetti negativi sull’occupazione della crisi del 1969, e dal 1973 al 1992. Si è
escluso dall’analisi il periodo successivo al 1992, per l’effetto statistico generato dal cambiamento
della definizione della forza lavoro del 1992.
Regno Unito
Per il Regno Unito si è deciso si dividere l’arco temporale dal 1961 al 1996 in tre periodi: 1961-
1973, 1974-1983 e 1984-1996. La suddivisione degli anni ottanta è necessaria per le differenti
politiche economiche introdotte con il governo Thatcher.
L’Irlanda rileva un andamento delle variabili dell’occupazione e del GDP instabile fin dopo gli
shock petroliferi, mentre successivamente si rileva una crescita di entrambe le variabili, limitata
dalla diminuzione della forza lavoro della seconda metà degli anni ottanta. I due periodi scelti sono:
1961-1985 e 1986-1996.
Spagna
Per la Spagna si ripropongono le condizioni per una necessaria divisione in tre periodi: 1961-1974
(lenta crescita dell’occupazione), 1975-1985 (crollo dell’occupazione) e 1986-1996 (periodo di
ripresa anche se non stabile). L’ultimo periodo non mostra una chiara tendenza delle variabili
(crollo dell’occupazione nei primi anni novanta), ma una maggiore suddivisione del periodo
renderebbe ancora meno efficace l’analisi.
L’andamento del rapporto occupazione - produzione negli Stati Uniti, nel Giappone e nel Canada,
fa sì che per questi Paesi non sia necessaria una suddivisione temporale. Essendo il rapporto
sostanzialmente costante lungo l’intero periodo temporale, anche successivamente agli shock
petroliferi, non si trova giustificazione nella suddivisione temporale del periodo 1961-1996. L’unico
aspetto da sottolineare è che il divario generato dall’aumento della forza lavoro, maggiore
dell’aumento dell’occupazione nei periodi di rallentamento della crescita, sia richiuso nei periodi
d’espansione economica.
Nuova Zelanda
Finlandia
La Finlandia rileva un andamento instabile fino al 1978 per poi avere una crescita fino al 1989.
Anche se il periodo 1990-96 è breve si è proceduto a considerare i sottoperiodi 1961-78, 1979-89 e
1990-1996 possano dare indicazioni interessanti.
Turchia
Per la Turchia, anche se non viene rilevato l’andamento costante del rapporto occupazione –
produzione di Stati Uniti, Canada e Giappone, non indica nemmeno l’instabilità caratteristica degli
altri Paesi. Sono riconoscibili quattro sottoperiodi solo in base alla stabilità dell’andamento della
differenza tra forza lavoro e occupazione, ma questi, oltre a non essere sostanzialmente diversi,
sono troppo brevi per un’analisi significativa. Da rilevare sono i possibili anni di frattura: 1968
(crisi valutaria mondiale), 1978 (secondo shock petrolifero), 1989 (effetti negativi della concorrenza
della Comunità Europea).
Conclusioni. Dalle regressioni ottenute analizzando periodi all’interno dell’arco temporale 1961-
1996 si ottengono alcune interessanti indicazioni. Periodi di prolungata, se non addirittura
sostenuta, crescita sono caratterizzati in modo significativo da una correlazione negativa tra crescita
della produttività e tasso di disoccupazione. Così il periodo 1961-74 in Germania e in Francia, il
periodo 1961-73 in Gran Bretagna e il periodo 1986-96 in Irlanda, sono caratterizzati dal segno
negativo del coefficiente di regressione (b), con errori standard relativamente bassi. Altre
indicazioni sono di difficile estrazione se non il caso interessante della Gran Bretagna. L’analisi in
tre periodi determina entrambe le correlazioni (positiva e negativa), mentre sull’intero periodo non
si rileva nessuna chiara correlazione. L’iniziale moderata crescita in una situazione di stabilità con
correlazione negativa e seguita da periodi successivi dalla crescita instabile con correlazione
positiva. Anche altri Paesi rilevano una correlazione positiva nei periodi d’instabilità, ma questa
non è così significativa come nel Regno Unito.
Dopo avere affrontato la relazione proposta da Muscatelli e Tirelli tra disoccupazione e crescita
della produttività del lavoro, potrebbe essere utile considerare la relazione tre disoccupazione e
crescita della produzione.
Per consentire confronti omogenei tra i risultati ottenuti si ripropone la regressione della crescita
della produzione sul tasso di disoccupazione.
• Y^ = a + bu
• Y^ = ((GDPt – GDPt-1)/GDPt-1)*100
• u: tasso di disoccupazione
Otteniamo da questa regressione, come si legge dalla tabella, un’ulteriore conferma della
correlazione negativa tra crescita e disoccupazione.
Proponiamo quindi la precedente divisione per periodi, per consentire dei maggiori confronti tra i
risultati ottenuti:
Germania
Considerare, per la Germania, la crescita della produzione per il periodo 1961-74 ha un effetto
positivo sulla capacità esplicativa del modello. Infatti, in questo periodo la crescita non è
semplicemente dovuta alla crescita del prodotto per unità di lavoratori (quindi dovuta
all’accumulazione e allo sviluppo tecnologico), ma è dovuta soprattutto all’aumento
dell’occupazione. Questo conferma l’ipotesi che la crescita in Germania in questo periodo è limitata
dall’offerta di lavoro, come si è visto al paragrafo 5.1.
Francia
L’utilizzo della crescita della produzione nella regressione per la Francia non comporta come per la
Germania un aumento della capacità esplicativa. Vengono sostanzialmente confermati i risultati
della precedente regressione con la crescita della produttività.
Italia
Regno Unito
Il Regno Unito non segue le indicazioni precedenti. Così la regressione della crescita della
produzione è meno esplicativa della regressione della crescita della produttività. Questo indica, dato
anche il segno delle regressioni (positivo negli ultimi due periodi), la capacità del sistema inglese di
ristrutturarsi raggiungendo maggiori livelli di produttività sostituendo occupati con capitale. Questo
però a determinato una crescita limitata dalla domanda di lavoro, che di conseguenza ha aumentato
la disoccupazione, come avevamo rilevato nei grafici al paragrafo 5.3.
Irlanda
La regressione sul tasso di crescita della produzione comporta per l’Irlanda una maggiore
significatività con una capacità esplicativa maggiore rispetto alla precedente regressione del tasso di
crescita della produttività.
Spagna
Per la Spagna, l’utilizzo della regressione del tasso di crescita della produzione ha un effetto
positivo sull’analisi dell’ultimo decennio. Diventa maggiormente rilevante la disoccupazione sulla
crescita della produzione totale rispetto all’importanza nella crescita della produttività.
Nuova Zelanda
Per tutti i periodi considerati, utilizzare la regressione della crescita della produzione determina una
maggiore capacità esplicativa del modello con errori standard relativamente inferiori a quelli rilevati
nella regressione della crescita della produttività.
Finlandia
Per la Finlandia nell’utilizzo della regressione della crescita della produzione, l’effetto opposto al
caso neozelandese. La regressione perde capacità esplicativa e significatività.
Conclusioni. Il ricorso alla regressione della crescita della produzione comporta una maggiore
significatività dei coefficienti di regressione, con errori standard generalmente inferiori a quelli
rilevati per la crescita della produttività. Il segno dei coefficienti è negativo con una maggiore
frequenza rispetto alle nostre precedenti regressioni, sottolineando l’importanza degli effetti
negativi sulla crescita della produzione totale da parte della disoccupazione. Diversamente gli effetti
positivi della disoccupazione sulla crescita quali la distruzione creativa, comportano un incidenza
maggiore sulla crescita della produttività che sulla produzione totale. Quindi guadagni in termini di
produttività generati con la riduzione dell’occupazione non hanno effetti ugualmente positivi sulla
crescita totale.
6.4 Variazione della disoccupazione
• U^ = a + bY^
• U^ = ((Ut – Ut-1)/Ut-1)*100
• Y^ = ((GDPt – GDPt-1)/GDPt-1)*100
Un’ulteriore regressione che rispecchia l’impostazione di Sylos Labini, che torna utile nell’analisi
della correlazione tra disoccupazione e crescita è la seguente:
• U^ = a + bY^ + cFL^
• U^: variazione della disoccupazione
• Y^: variazione della produzione
• FL^: variazione della forza lavoro
Questa regressione dovrebbe consentire di valutare gli effetti della domanda (rappresentati tramite
la variazione della produzione) e dell’offerta di lavoro (rappresentati dalla variazione della forza
lavoro) sulla variazione della disoccupazione.
L’introduzione della variazione della forza lavoro ha un generale effetto positivo sulla capacità
esplicativa, rispetto alla regressione precedente. Il coefficiente della variazione della produzione
rimane negativo e significativo. Diversamente il coefficiente della variazione della forza lavoro è
significativo in sette casi, anche se con segni alterni. Infatti, mentre Italia, Irlanda, Stati Uniti,
Canada e Turchia sono caratterizzati da una correlazione positiva tra forza lavoro e disoccupazione
(come ci si dovrebbe aspettare in quanto un aumento della forza lavoro dovrebbe comportare un
aumento della disoccupazione), Regno Unito e Giappone sono caratterizzati da una correlazione
negativa.
Si deve inoltre sottolineare il caso della Turchia. Mentre il coefficiente della variazione della
produzione non è significativo come nella regressione precedente, ora viene acquisita una
sostanziale capacità esplicativa. L’introduzione della forza lavoro, che ha un coefficiente
significativo, sottolinea come la disoccupazione in Turchia sia fortemente influenzata dall’aumento
dell’offerta di lavoro, piuttosto che dalla variazione della produzione.
6.5 Tasso di partecipazione
Un altro interessante aspetto che lega la crescita al mercato del lavoro è l’effetto che questa
variabile ha sul tasso di partecipazione. Negli ultimi anni questo è aumentato in maniera sostanziale
in Europa e sicuramente questo ha determinato un aumento della disoccupazione. Questo aumento
della disoccupazione nei periodi di lenta crescita della fine degli anni ottanta e inizio degli anni
novanta, determina una correlazione positiva tra crescita e disoccupazione.
• (FL/POP) = a + b Y^
• (FL/POP): tasso di partecipazione
• Y^: variazione della produzione
La regressione rileva generalmente una correlazione negativa, in altre parole momenti di crescita
economica negativa comportano un aumento della partecipazione, mentre periodi d’espansione
economica consentono una riduzione della stessa. Sono però da notare due casi significativi di
correlazione positiva: Irlanda e Spagna. I risultati di questi Paesi indicano che sono sostanzialmente
caratterizzati da un effetto scoraggiamento (soprattutto la Spagna), vale a dire periodi di prolungata
disoccupazione comportano una diminuzione della partecipazione.
Per meglio sfruttare i grafici precedentemente presentati, dove si utilizzava il logaritmo di forza
lavoro, occupazione e produzione, si analizza ora la regressione della variazione della produzione
sulla variazione della forza lavoro e dell’occupazione.
La regressione utilizzata è la seguente:
I dati utilizzati sono sempre quelli utilizzati nelle precedenti regressioni, con l’occupazione rilevata
come differenza tra forza lavoro e disoccupazione. Il periodo considerato è sempre tra il 1961 e il
1996.
Questi risultati indicano che gli effetti negativi determinati dalla crescita della forza lavoro, sono
superiori agli effetti positivi determinati dalla crescita dell’occupazione.
Cerchiamo di chiarire gli effetti per la disoccupazione di questo modello. Se abbiamo la crescita di
un’unità della forza lavoro, questa anche se è occupata determina in generale un effetto negativo sul
GPL (solo in Giappone l’effetto positivo supera quello negativo). Maggiormente negativo sarà
l’effetto se la nuova unità non è occupata.
Una diminuzione della disoccupazione, a parità di forza lavoro, invece ha un generale effetto
positivo (quindi abbiamo una nuova unità d’occupati, senza variazione della forza lavoro).
Abbiamo così determinato una correlazione negativa tra variazione di disoccupazione e crescita
della produttività, e i risultati sono confermati dal grafico qui presentato relativo all’Italia.
L'efficacia della relazione non è sensibilmente peggiore di quella rilevata nelle relazioni precedenti,
e l’esplicatività mostra una minore variabilità (escludendo la Germania).
Il breve richiamo delle principali teorie del mercato del lavoro e della crescita economica ha
evidenziato come le ipotesi adottate hanno consentito di ottenere rilevanti risultati quali il NRU, il
NAIRU e la crescita di pieno impiego. D’altra parte si è rilevato come queste ipotesi hanno come
conseguenza l’indipendenza tra crescita economica e disoccupazione. Questa dicotomia è stata
anche supportata da argomentazioni teoriche quali quella proposta da Layard-Nickell-Jackman, ma
queste giustificazioni sono legate alle ipotesi adottate quali la curva di produzione Cobb-Douglas.
L’analisi descrittiva e grafica dei dati relativi ad alcuni Paesi dell’OCSE ha confermato l’esistenza
nel lungo periodo di una correlazione negativa tra disoccupazione e crescita economica, ma questa
correlazione non è uniforme nel tempo e nello spazio. Infatti, le regressioni eseguite, avvalorando la
correlazione negativa, sottolineano come questa sia rilevante soprattutto nelle fasi di sostenuta
espansione economica, quali gli anni sessanta in Francia e Germania, l’ultimo decennio in Irlanda.
Diversamente, sempre nell’ultimo decennio dove per molti Paesi si ha una crescita lenta, l’aumento
sostanziale del tasso di partecipazione accompagnato da una minore crescita degli occupati
sull’intera popolazione, genera una correlazione positiva, come illustrano bene i grafici di
Finlandia, Regno Unito e Giappone. Questo ci ha obbligato a cercare le cause della correlazione.
Nel quinto capitolo sono stati illustrate soprattutto le cause della correlazione negativa nella
direzione dalla disoccupazione alla crescita, quali l’effetto capitalizzazione e il learning-by-doing.
Risulta invece essere meno trattata la relazione dalla produzione verso la disoccupazione.
La correlazione tra crescita e domanda del lavoro è influenzata da una componente esogena
importante quale la popolazione. La regressione del tasso di partecipazione rileva come forza lavoro
e popolazione non siano chiaramente influenzate dalla variazione della produzione. Secondo queste
stime, l’aumento del tasso di partecipazione degli anni ottanta non è imputabile alla crescita
economica. Ciò ci permette di spiegare la maggiore disoccupazione degli anni ottanta in Europa,
con l’aumento del tasso di partecipazione piuttosto che dall’andamento economico. Infatti, in questo
periodo la significatività della correlazione negativa tra disoccupazione e crescita è scarsa, se non si
hanno, come già detto, delle correlazioni positive. Diversamente i grafici dell’andamento del tasso
di partecipazione e dell’occupazione sull’intera popolazione rilevano la chiara divergenza delle
curve in questo periodo.
La correlazione tra offerta di lavoro e crescita economica è invece influenzata dal progresso tecnico.
Come rileva Sylos Labini nella sua analisi, il progresso tecnico determina se la crescita sarà ad alta
intensità di lavoro oppure ad alta intensità di capitale. Questa scelta è rilevabile dai grafici del
logaritmo naturale dell’occupazione con il logaritmo della produzione, giacché il cambiamento
dell’elasticità indica quanti occupati si utilizzano nella produzione. Si rileva così che la
disoccupazione successiva agli shock petroliferi nel caso del Regno Unito e della Spagna, sia
dovuta all’adozione di tecnologie a minore intensità di lavoro.
La somma degli effetti del tasso di partecipazione e del progresso tecnico determineranno il segno
della correlazione dalla crescita economica verso la disoccupazione.
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