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Edward Morgan Forster, Aspetti del romanzo [1927], Milano, Garzanti, 2022

pp. 81-83
Nel XVII secolo i personaggi piatti venivano chiamati «humours», e ora vengono definiti tipi o
caricature. Nella loro forma più pura sono costruiti intorno a un’unica idea, o qualità; mentre se è presente
in essi più di un fattore, allora ha inizio quella curvatura che porta al personaggio tondo. Il personaggio
davvero piatto può essere espresso con una sola frase […] Non è la sua idée fixe, perché in lui nulla
esiste in cui possa fissarsi un’idea. È lui stesso l’idea, e quel tanto di vita che possiede emana dalle sue
linee di contorno e dalle scintille che scoccano quando entra in contatto con altri elementi del romanzo. […]
Un grande vantaggio del personaggio piatto è che lo si riconosce subito: ogni volta che entra in scena
viene identificato dall’occhio emotivo del lettore, non da quello visivo in cui si imprime soltanto il
ricorrere di un nome proprio. Nei romanzi russi, dove sono molto rari, riuscirebbero decisamente di
grande aiuto. È comodo, per un autore, poter vibrare un colpo improvviso con tutta la sua forza, e i
personaggi piatti gli riescono proprio utili, poiché non occorre mai tornare a introdurli, non scappano
mai, non hanno bisogno di esser tenuti lungo il loro svolgimento, e sono essi stessi a determinare la
propria atmosfera: piccoli dischi luminosi di misura prestabilita, spinti qua e là come gettoni in mezzo al
vuoto o tra le stelle; veramente molto utili.
Un altro vantaggio consiste nel fatto che, in seguito, il lettore se li ricorda facilmente. Gli restano in mente
inalterabili poiché le circostanze del libro non erano mai intervenute a modificarli: si muovevano in esse,
acquistando così nel ricordo una qualità confortante che vale a preservarli anche quando il libro che li ha
prodotti si deteriora.

pp. 97-98
Il carattere», dice Aristotele, «manifesta le nostre qualità; ma con gli atti – con ciò che facciamo – lasciamo vedere
se siamo felici oppure no.» Abbiamo già affermato in precedenza che Aristotele ha torto, e adesso bisogna
affrontare le conseguenze di tale disaccordo. «Ogni nostro stato di felicità o d’infelicità», dice Aristotele, «assume
la forma di un’azione.» Noi la sappiamo più lunga. Felicità e infelicità esistono, ne siamo convinti, nella vita segreta
che ognuno di noi vive nel proprio intimo e alla quale ha accesso (attraverso i suoi personaggi) il romanziere. Ma
con vita segreta intendiamo riferirci alla vita di cui non appaiono prove esterne di nessun genere, e non, come
volgarmente si suppone, quelle rivelate da una parola o da un sospiro involontariamente sfuggiti. Una parola o un
sospiro involontari sono prove tanto evidenti quanto un discorso o un assassinio: la vita che rivelano cessa di essere
segreta per entrare nel regno dell’azione.
Non c’è motivo, tuttavia, di mostrarci severi verso Aristotele. Egli aveva letto pochi romanzi, e nessuno moderno,
l’Odissea sì, ma non l’Ulisse; era alieno per indole da ogni forma di segretezza e considerava anzi l’animo umano
una sorta di mastello da cui si finisce con l’estrarre tutto “quello che si vuole; e quando scrisse le parole sopracitate
aveva in mente il dramma, dove esse possono senza dubbio risultare esatte. Nel dramma, la felicità e l’infelicità
umana diventano e devono diventare azione. Altrimenti la loro esistenza rimane sconosciuta, e in ciò consiste la
grande differenza tra dramma e romanzo. La caratteristica peculiare del romanzo è che l’autore possa parlare dei
propri personaggi non solo attraverso i personaggi stessi, ma anche facendo in modo che noi possiamo ascoltarli
mentre discorrono tra sé e sé. Egli ha libero accesso alle autoconfidenze e da quel punto può calarsi ancora più in
fondo per sbirciare nel subconscio. Un uomo non parla mai del tutto sinceramente con sé stesso, nemmeno con
sé stesso; la felicità o l’infelicità che segretamente prova procedono da cause che egli non riesce a spiegarsi, perché
non appena le solleva al livello del razionale smarriscono la loro qualità originaria. Qui il romanziere si trova in
vero vantaggio. Può mostrarci il subcosciente nel momento in cui, come per u improvviso cortocircuito, passa
all’azione (cosa che il drammaturgo stesso è in grado di fare); può anche mostrarcelo nei suoi rapporti col
soliloquio. Egli domina l’intera vita segreta, né deve essere privato di questo privilegio. «E questo lo scrittore come
l’ha saputo?» si dice a volte. «Qual è il suo punto di vista? Non è coerente: da una posizione circoscritta passa di
continuo all’onniscienza, e poi torna di nuovo indietro.» Domande così sanno un po’ troppo di tribunale. Al lettore
una sola cosa importa: che quel mutare di atteggiamento e quella vita segreta siano convincenti, che siano davvero
πιθανόν. E con questa sua parola prediletta che gli risuona nell’orecchio, Aristotele può ritirarsi.

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