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Scrivere è amare di nuovo,

Rossana Campo
Letteratura Italiana
Università degli Studi di Roma La Sapienza (UNIROMA1)
4 pag.

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Scrivere è amare di nuovo, Rossana Campo
Per l’autrice, la scrittura è sempre stata la strada per sentire a fondo le emozioni. È anche un modo per
autorizzarsi, per concedere una possibilità al nostro potere interiore, per poter stare al mondo con agio.
Scrivere è una seconda nascita: è un partorirsi di nuovo, per scoprire chi siamo davvero, chi siamo oltre le
parti che si sono adattate per sopravvivere. Anche Nietzsche parla di reinventarsi attraverso la scrittura per
diventare ciò che si è.
Il potere di creare ci lascia andare ad una forza che è dentro di noi. La scrittura è un’energia che fluisce
attraverso di noi. La calligrafia stessa trascina fuori le parole e frasi: il nostro modo di scrivere ha una sua
urgenza se non siamo sottomessi al vaglio del censore interno. Inizialmente, bisogna scrivere di getto, senza
pensare, sfuggendo al controllo logico. La letteratura ha un grande valore perché ci fa vedere le cose da
nuove angolazioni, scuotendo le certezze messe insieme per andare avanti. Quando scriviamo viene fuori il
gemello tenuto nell’ombra, il nostro doppio potente nascosto e imbavagliato, con le mani legate.
Durante le prime stesure non è necessario pensare alla grammatica, alla sintassi, alle regole. Questo è invece
il momento di andare a caccia di energie più potenti. Come afferma il filosofo Gilles Deleuze, lo stile di uno
scrittore si forma attraverso le torsioni linguistiche che mette in atto. Ad esempio, l’autrice predilige gli scrittori
capaci di non rispettare le regole, ma che fanno saltare in aria le convenzioni proprie di una scrittura rigida,
mummificata, omogeneizzata. Spesso nelle case editrici le invenzioni linguistiche non vengono accettate, ma
gli autori che sono capaci di rimanere rilevanti nel tempo sono quelli che continuano a scrivere cose
interessanti, perché capaci di andare per la propria strada. Zadie Smith afferma che al cuore della creatività si
trova un rifiuto: rifiuto delle convenzioni, della norma, del brand. I lettori devono ottenere dagli scrittori non ciò
che vogliono, ma ciò che non sapevano di volere. Nemmeno la punteggiatura è importante nelle prime
stesure: sono ben accolti il flusso di coscienza, le sensazioni nascoste, le inquietudini, le richieste oscene e i
desideri di libertà.
Scrivere significa partire da una necessità, per poi arrivare alla bellezza: l’autenticità, la verità di chi l’ha scritta,
ottenuta tramite un lavoro accurato ed espressa nella forma giusta ma sempre aderente all’energia con cui è
stata creata. Scrivere significa disporre della chiave di accesso ad un territorio interiore dove vige la libertà di
essere noi stessi, nudi, senza costrizioni. Rimbaud affermava Je est un autre, Io sono un altro. Quell’io che
abbiamo costruito per renderci presentabili, che nasconde ciò che abbiamo di più vero, autentico, fragile,
sensibile, è un fantoccio, una maschera pirandelliana. Il fantoccio è pieno di opinioni e giudizi, che crede di
sapere come si fa a vivere. Il diritto di essere noi stessi può essere riacquistato tramite la scrittura, per
riprendere potere dal fantoccio.
Se mentre scriviamo sentiamo che stiamo toccando qualcosa di pauroso, che ci mette a disagio, che ci fa
sentire insicuri, è il momento di proseguire. Prima di pubblicare un testo ci sono molti passaggi: c’è tempo per
decidere ciò che si vuole lasciare o togliere, ciò che deve essere travestito o riconoscibile. Il materiale che
fuoriesce dalla prima stesura è speciale, in quanto ha un’energia grezza traboccante di verità ed errori. Il
lavoro di editing lo renderà pronto per lo scaffale delle librerie. Anche per ottenere una buona forma è
necessario un lavoro nei sotterranei dell’anima. Riprendendo Hemingway, un buon racconto deve essere
come un iceberg: noi ne vediamo la punta (il racconto finito) ma dietro, sotto, ci deve essere tutto il resto.
William Burroughs afferma come scrivere sia un’operazione magica. Quando il lavoro è separato da questa
dimensione cerimoniale, magica, perde la sua vitalità. È necessario scrivere per scrivere; senza un obiettivo.
In un secondo momento è possibile rileggere tutto ciò che abbiamo accumulato e scoprire per cosa siamo
portati, quale tono ci calza meglio, il ritmo. È importante sperimentare.
Citando Nietzsche, lo stile deve dimostrare che si crede ai propri pensieri e che non li si pensa soltanto, ma li
si sente. Ogni scrittore costruisce un proprio mondo riconoscibile attraverso il suo stile. Per questo, quando

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amiamo uno scrittore è perché ci interessa come sente, ci piace cosa vede, e ci piace il modo in cui ci fa
entrare nel suo immaginario, attraverso i suoi sensi. Se vogliamo che le vicende nostre e dei nostri personaggi
coinvolgano qualche lettore, lo dobbiamo irretire attraverso i sensi. Per provare a risentire ogni cosa potremmo
fare appello alla parte più infantile e sognatrice di noi, per risentire attraverso la scrittura. È importante provare
a scrivere di un’esperienza restando il più possibile nelle sensazioni fisiche, senza trasportare tutto subito
nella mente.
È possibile mostrare il significato di una storia, di una vita, facendo attenzione al dettaglio: la spazzola di
Madame Bovary, descritta nel dettaglio da Flaubert, ne è l’esempio. Racconta la fragilità psicologica di
Emma, il suo deserto simbolico, il vuoto interiore che riempie con accessori, abiti, amanti, letture romantiche.
L’autrice incita a continuare a scrivere, poiché insistendo non è possibile fallire. Il fallimento subentra quando
rinunciamo a scoprire chi siamo, cosa abbiamo dentro, tramite il medium della scrittura. Nella scrittura
autobiografica non esiste il fallimento, ma solo le giustificazioni che inventiamo per non mettere le mani in
luoghi non confortevoli della nostra vita. La scrittura autobiografica può farci scoprire che la nostra vita è
ordinaria e sacra. Le ferite, i sensi di colpa, l’invidia, la vergogna, sono sensazioni accolte dalla scrittura e
ripudiate da tutto il resto. Quando si scrive è possibile sentire tutto, tutta la propria verità.
Il desiderio di tenere un diario che molte persone hanno spinge l’autrice a pensare che il bisogno di scrivere
sia un’attività di primaria importanza, che ci costruisce e ci insegna ad avere un dialogo con noi stessi per
scoprire chi siamo. Significa praticare una forma di libertà.
Nella scrittura bisogna saper lasciarsi andare e abbandonare il modo consueto di vedere il mondo, giudicando
noi stessi e gli altri. Se continuiamo a scrivere ostinandoci a voler mantenere il controllo su tutto, non
usciranno mai parole vibranti, piene di forza ed energia. Le emozioni non scompaiono nonostante proviamo a
soffocarle, ma vengono rimosse dalla consapevolezza, alimentando pazzia ed infelicità. Quando la parte di noi
negata dalle regole sociali viene rifiutata, ci rintaniamo nella zona più superficiale della nostra vita, parlando
solo di argomenti comodi, sicuri, di qualcosa che non creerà conflitti o problemi, non minaccerà la nostra
sicurezza. Così, tutta la varietà di sentimenti di cui eravamo capaci si restringe. Per provare qualcosa occorre
nominarla: senza l’accesso al linguaggio, il sé autentico scompare. È necessario per recuperare la nostra vita
interiore, la fonte della vitalità e della creatività. È un diritto umano, etico e anche politico. Nella scrittura
diciamo no al senso del dovere, perché rispondere a questo senso in letteratura produce pagine morte.
Bisogna tenere invece come approccio l’apertura e la capacità di meravigliarci.
Quando prendiamo la responsabilità di dire chi siamo, stiamo assumendo il nostro potere interiore. Entriamo
così in contatto con emozioni, vecchie ferite e parti di noi che non ci piacciono o che non vorremmo avere.
Tuttavia, possiamo scegliere di avvicinarci ad esse con un’ottica di amore, anziché giudicante. L’amore è
sempre la scelta migliore, e va donato anche alle parti più randagie di noi, goffe e impresentabili. Gli spiriti
creativi sono quelli che hanno osato essere sé stessi. Inconsciamente, per sopravvivere, ci separiamo da quei
lati di noi che sentiamo pericolosi e ingombranti. Bisogna invece prestare attenzione al nostro outsider
interiore, accogliere con gratitudine e curiosità le nostre diversità. Solo così potremmo portare amore e
creazione. Scrivere è amare di nuovo, perché è come tornare a scuola da sé stessi, per imparare da noi e
dalle nostre parti che sono state abbandonate. Tutto ciò che serve per scrivere è dentro di noi, bisogna solo
fargli spazio e permettergli di emergere.
L’amore è un modo di essere, qualcosa che ci portiamo dietro in ogni situazione, anche al di là dello stato
d’animo del momento. È un sentimento profondo di unità e integrità interiore. È l’autorizzarci a essere noi,
come siamo, potenti e fragili, connessi con noi stessi e la nostra vita. Quando ci sentiamo integri, possiamo
amare. Questo perché non abbiamo bisogno di difenderci, giudicare, criticare, avendo già compreso noi
stessi. Il linguaggio, raccontare storie, è uno strumento molto potente per strutturare la realtà, per dare senso

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ai fatti della vita. Nella scrittura autobiografica accogliamo con empatia tutto ciò che siamo e siamo stati. I
grandi romanzi sono quelli in cui un autore ci racconta nel dettaglio la vita dei suoi personaggi, anche quelli
peggiori.
C’è solo un tipo di storia che possiamo raccontare: la nostra. Se attingiamo a ciò che conosciamo meglio, che
abbiamo vissuto, il lettore sentirà tutto e si riconoscerà nelle parole. La letteratura ci ricorda come siamo tutti
uniti, abbiamo tutti radici umane, ma allo stesso tempo come siamo unici. Per trovare il coraggio di raccontare
la propria storia, è utile avere dei mentori. La scrittrice Alice Walker cita come mentore Zola Neale Hurston,
la quale raccontava la vita degli afroamericani senza idealizzarli né svilirli: erano personaggi complessi, che
parlavano con un linguaggio proprio. Gli scrittori che ci hanno preceduto hanno aperto piste, e noi possiamo
percorrerle, ampliarle, anche per chi verrà dopo.
Per Mark Twain, per scrivere un romanzo è necessaria testardaggine, disciplina e caparbietà. Dobbiamo
dedicare alla scrittura le nostre migliori energie e molto tempo. I veri scrittori si riconoscono dalla continuità
con cui scrivono. La scrittura a volte ha molto in comune con la meditazione: osservare quello che vive
nascosto nelle profondità della nostra testa, del cuore. La creatura che vive in quelle profondità è molto più
interessante, unica, viva e originale dell’io che abbiamo costruito al suo posto. Citando Aldo Busi, “una volta
che mi sono impossessato della mia fragilità, ho fatto di questa un interlocutore di me stesso.”
Lo psicoanalista Donald Winnicott afferma come la costruzione del falso sé parte da tutto quello che la
famiglia, la scuola, la società non può vedere di noi, che resta come una possibilità di vita inespressa.
Scrivendo accumuliamo pagine che formano un altro corpo.
Martin Amis identifica la voce come il nostro marchio di fabbrica di scrittori: il tono, lo stile, portano con sé il
modo di sentire, di stare al mondo, ciò che abbiamo provato e vissuto, ma anche tutto quello che abbiamo
letto e tutto il tempo dedicato alla scrittura.
Nel libro Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato di Fitzgerald, lo scrittore dona dei consigli riassumibili in otto
punti:
 La lingua deve scaturire da un’emozione;
 Per raccontare bisogna essere spinti da una vera necessità;
 Fare economia di parole;
 Il personaggio deve essere vivo, una persona;
 I personaggi vanno mostrati al lettore;
 Tagliare senza pentimenti;
 Per raccontare bisogna essere imprudenti, accettare il fallimento, il rifiuto;
 Provocare effetti lenti, ma duraturi.
Le dritte dello scrittore Orwell sono invece:
 Non usare mai una metafora, una similitudine o figure della carta stampata (o del discorso politico e
televisivo);
 Non usare una parola lunga se ne esiste una corta;
 Se puoi tagliare una parola, tagliala sempre;
 Non usare la forma passiva quando puoi usare quella attiva;
 Non usare una parola straniera, scientifica o gergale se a diposizione ce n’è una del linguaggio
comune;
 Rompi tutte queste regole prima di dire qualcosa di tremendo.
La brevità di un racconto sembra renderlo accessibile anche a chi è alle prime armi; in realtà il mondo
narrativo di poche pagine è complesso da costruire. Nello spazio ristretto emergono facilmente le cadute di

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stile, le frasi sciatte, le parole inutili. Occorre invece una scrittura di buon livello, un’attenzione ai dettagli e alla
musica interna del testo e al suo ritmo. Flannery O’Connor scrive che il racconto è un’azione drammatica
compiuta, e in quelli migliori i personaggi si svelano mediante l’azione, e l’azione è condotta mediante i
personaggi. La storia non deve essere quindi spiegata dall’autore, né commentata, ma il significato generale
deve derivare dal suo complesso: personaggi, dialoghi, ambienti. Scrivere narrativa non è questione di dire le
cose, ma di mostrarle. Un racconto deve avere una sua profondità e rivelarci qualcosa. La struttura è qualcosa
di organico al testo, non va decisa a priori, né applicata al materiale scritto. Ogni racconto ha una sua forma.
Tre autobiografie:
1. Le parole per dirlo, Marie Cardinal (1975): il personaggio di Marie compie un resoconto potente e
dettagliato di un percorso di guarigione e consapevolezza attraverso l’analisi. Tramite la
femminilizzazione del linguaggio, le parole hanno una forza dirompente in sintonia con ciò che stava
accadendo (’68, il Maggio francese), con il tentativo di abbattere ogni barriera, ogni luogo comune
della classe borghese. Attraverso il percorso con l’analista, Marie scopre che il flusso costante di
mestruazioni che la colpisce da anni e le impedisce di vivere con serenità è un sintomo psicosomatico
di dolori interni e profondi che risalgono alla sua infanzia. Centrale la relazione madre – figlia.
2. Autobiografia di Alice Toklas, Gertrude Stein (1933): l’io narrante di questa autobiografia non
coincide con l’autrice, ma finge di essere quello della sua compagna. Ciò racchiude tutto l’universo
stilistico di questa scrittrice sovversiva, sperimentatrice di forme inedite e rinnovatrice del linguaggio
letterario classico. Cesare Pavese, primo e unico traduttore italiano del testo, che uscì nel 1938 per
Einaudi, afferma che questo è il libro più riuscito della Stein.
3. Momenti di essere, Virginia Woolf (1939-1940, pubblicati postumi): raccolti sei scritti autobiografici,
tra cui Reminiscenze, esercizi di scrittura. È un’insolita autobiografia, in quanto la differenza di tono
adoperata in ognuno degli scritti sembra mettere in gioco un aspetto differente dell’autrice. L’identità
appare come qualcosa di elusivo, di poco solido, simile a un flusso di percezioni e sensazioni da cui
siamo attraversati. Woolf scrive tutta la vita per ritrovare i momenti di essere, che sono una specie di
scossa, di epifania. Centrale il rapporto ossessivo con la madre, scomparsa prematuramente,
presenza silenziosa e perenne, ed il padre, despota e controllore. Rapporto negativo con il fratellastro
George. Centrale anche la dualità della casa di Hyde Park Gate, simbolo di sdoppiamento (convezioni
e riti sociali vs libertà, scrittura, pensiero e ricordo).

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