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[Giovanni Gherardini]

«UN ITALIANO»
RISPONDE AL DISCORSO DELLA STAÉL
« Biblioteca italiana », aprile 1816.

Sarò io il primo, o signori, ad usare la libertà che promettete


nel proemio del vostro giornale, invitando ciascuno a mandarvi
i suoi pensieri, qualora nel giornale s’incontri in qualche opinione
che pienamente noi soddisfaccia. Vi dirò dunque schiettamente,
sapere io di certissimo e da ogni parte d’Italia insorte molte
contraddizioni al discorso di madama la baronessa di Staél, che si
trova sul bel principio della vostra « Biblioteca ». Ciò che di quel
discorso può toccare ad altre nazioni, poco richiede che noi ne
disputiamo. Ma quello che vi si parla degl’ italiani ha suscitato
molti clamori. Io devo credere di non offender voi scrivendoli ;
poiché reputo sincera la vostra promessa. Ma forse offenderò
molti, o certamente non potrò piacere a tutti, se apparirà che
non di tutte quelle obiezioni che si fanno io sia capace. Quanto
alla dama illustre, non le dovrò dispiacere, se come italiano in
qualche parte della letteratura nazionale non posso consentire
alle sue opinioni ; la quale diversità punto non mi scema il ri¬
spetto che T è dovuto, e eh’ io pubblicamente le professo.
Molti italiani, per cagione della Corinna, e per alquante cose
dette nel Discorso, credono madama di Staél avversa all’ Italia.
Io noi posso credere di persona tanto dotta e gentile, ma se pur
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fosse, io guardo semplicemente alle proposizioni affermate, o


negate, se mi paiano vere, o altrimenti ; e punto non mi occorre
d’investigare le intenzioni. È poi mio costume, se alcuno m’in¬
sulta, neppure ascoltarlo : se mi riprende, e dica il vero, dolermi
di me stesso, lui ringraziare. E questo animo stimerei che tutta
la nazione dovesse avere verso gli stranieri. Molte e molte in¬
solenze ci hanno gittate addosso i francesi, delle quali era da
ridere. Ma se alcuno decentemente ci avvisi de’ nostri difetti,
perché non si vorrà ascoltare, e del suo avviso fare profitto?
Io non veggo che ci dobbiamo dolere di madama di Staèl, se
ci ricorda di faticare quanto più possiamo negli studi, come sia
questa l’unica via che ne’ tempi presenti ci rimanga alla gloria.
O questo è vero, o non è. Se è, che ingiuria ci fa chi ci dice
il vero? E se non è, corriamo alla gloria animosamente per tutte
le vie possibili, e per gli studi, e per ogni altro cammino che
la fortuna ci apra. Io più d’ogni altro desidero che madama di
Staèl non abbia ragione ; ma non per quelle poche parole vorrò
contender seco.
Né manco saprei come contraddirle, dove dice che il nostro
teatro non è buono a niente; che noi vi perdiamo il tempo senza
profitto, e vi perdiamo gran parte della facoltà di pensare; poi¬
ché è pur certo che tutte le facoltà, o meccaniche o intellettuali,
per disuso si scemano. Dolgaci che sia giusto il rimprovero, e non
che altri cel faccia. E io sono con madama, quando ella ci esorta
di preparare al teatro materia degna e utile ; ma sono poi co¬
gl’ italiani i quali giustissimamente contendono che questa ma¬
teria non si debba andare a prendere in Francia, donde già
troppe cose prendemmo, e per nostro gran male, e male più che
letterario; ma che in Italia si debba e creare, e comporre, e colo¬
rire ciò che sul teatro italiano possano i nostri giovevolmente
ascoltare, e anche gli stranieri lodare. È troppo vero che da gran
tempo vanno facendosi miserabili tragedie, e commedie indegnis¬
sime; non per questo consentiremo giammai che si portino teatri
stranieri nelle nostre città. Fra le altre pessime conseguenze ne
verrebbe pur questa, che mai più non potremmo avere un teatro
proprio. E dobbiamo già disperarne ? Sono dunque isterilite senza

Discussioni e polemiche sul Romanticismo -1. 2


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rimedio le fantasie italiane? testis pars nulla paterni vivit in


nobis? Né il cielo né il terreno d’Italia è mutato : ne fa testi¬
monio a tutto il mondo Canova. Dov’egli dunque può creare quelle
sue sovrumane figure, non si potrà più inventare una scena?
Ma di Canova non è solamente raro l’ingegno, raro è pure
l’amore alla fatica. Si cacci d’Italia la superba ignavia ; e non ci
bisognerà andare vilmente accattando fuori, di che adornare
l’ingegno : il quale dèe della propria sustanza vestire se stesso,
come dalle sue viscere trae donde ricoprirsi quell’animaletto in¬
dustrioso, che prepara i manti ai re, e gli abbigliamenti alle belle.
Si grida ancora contra il consiglio datoci da madama di
abbandonare come vieta la mitologia de’ greci e de’ latini. Che
abuso noiosissimo ne facciano tutto di una turba di meschini
verseggiatori, io lo credo tanto a me stesso, che non mi è pos¬
sibile dubitarne. Ma sarebbe fatica d’uomo e dottissimo e giu¬
diziosissimo il ben definire a qual termine e in qual modo se ne
possa far buon uso oggidì, ch’ella ci è rimasta come un fidecom-
misso de’ poeti, e non è più una religion popolare e una credenza
universale, come fu in que’ secoli passati. E nondimeno anche
ne’ tempi che quelle favole non erano strane, riuscivano spesso
noiose a uomini di buon giudizio, per lo incessante e stucchevol
ripetere che ne faceva ogni poetarello, magro d’invenzione : e
noiato se ne sdegnava Giovenale, dicendo : Nota magis nulli do-
mus est sua quani mihi Incus Martis, e dopo lunga enumerazione
conchiudendo : Expectcs eadem a summo minimoque poeta. Ma
ci vorrebbe assai più lungo e profondo ragionamento, che non
comportino le mie forze, e il mio presente proposito.
Si dolgono molti che la baronessa mostri di pregiar poco lo
studio dell’antichità, paragonando il travaglio di tali eruditi alla
misera fatica di coloro che vanno razzolando le ceneri per la spe¬
ranza di qualche granel d’oro. Io non credo che quello che v’ è
di buono e di grande e di utilissimo nella cognizione delle cose
antiche possa essere disprezzato da una dama, la quale ha pur
voluto erudirsi tanto più oltre la consuetudine delle donne. E fa¬
cilmente confesso che ogni studio abbia de’ superstiziosi e de’
noiosi, ai quali conviene però lasciare che senza altrui danno
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contentino il proprio genio. Ma già la clama stessa, per quanto


mi pare, ci aperse la strada ad essere d’accordo. Sia cosa misera
e sia non lodata vagliare l’arena e le ceneri ; sia di privato tra¬
stullo e non di pubblico onore l’ansietà intorno alle minuzie. Ma
cavare una miniera, trarne vere e copiose ricchezze, questo non
si negherà che sia e guadagno e gloria della nazione. Quando il
nostro Mai ha disseppellito, o risuscitato, o creato il Frontone, e
ci ha fatto udire una scuola di eloquenza latina, tanto celebrata
dagli antichi e a noi incognita, e ci ha introdotti ne’ propri ap¬
partamenti di Marco Aurelio, quell’ imperatore si grande e savio
e buono, egli acquistò molto onore all’ Italia, e da tutta la Europa,
quanto ella è civile, meritò gratitudine. Queste non furono pa¬
gliuzze, ma un tesoro. Chi riderà delle fatiche del Mai, e le
giudicherà sterili ? Sono barbari ed infelici i secoli che ci fa cono¬
scere il dottissimo volume di Gaetano Marini ; il quale adunò da
tutto il mondo i laceri avanzi di 146 papiri, e ce li diede possibili
a leggere, e con dichiarazioni eruditissime c’ insegnò quante belle
notizie contengano. Ma quelle notizie, comeché di secoli privi di
gentilezza e di prosperità, sono però belle e assai profittevoli.
Da tutte le età e regioni vetuste, che furono in qualche modo
partecipi della lingua e delle arti de’ greci, ha raccolto la im¬
mensa dottrina di Ennio Visconti, le immagini e le azioni degli
uomini, il cui nome è tuttavia ricordato. E prosiegue, dicono,
a fare della iconografia latina ciò che si mirabilmente ha compiuto
della greca. A chi non parrà maggior d’ogni lode un simil lavoro
antiquario? Ho voluto qui parlare solamente di queste tre opere
che sono uscite dal principio del secolo all’anno che fini. E chi
ben considera non è da stimare che in questo genere abbia fatto
poco l’Italia in quindici anni. E son certo che opere antiquarie
di tanto ingegno e di tanta utilità ognuno le tiene in gran conto,
e madama di Staèl non le disprezza ; e meco si unisce ad esortare
gl’ italiani, che di simili tesori dalle miniere dell’antichità procac¬
cino al mondo. Dell’opera di monsignor Marini sopra i papiri
nacque già desiderio nella gran mente di Scipione Maffei, che
palesollo a tutta Europa, e mostrogliene un piccol disegno ; né
parve all’ Europa che fosse fatica indegna ad un sommo intelletto ;
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e Marini ha conservato all’ Italia l’onore (che assai volte si lasciò


perdere) di dare alla luce perfetto ciò che avea saputo concepire.
Pubblicando Marini il suo libro nel 1805, diede la prima grande
opera che vedesse in questo secolo l’Italia ; e fu opera vera¬
mente secolare ed europea. E a questo proposito mi piace di
rammentare che la prima grande opera italiana del secolo pas¬
sato, usci nel 1707; e fu del Gravina sulle .origini della ragione:
e fu opera applaudita da tutta l’Europa ; e opera nella quale
principalmente si ammirasse la profonda cognizione dell’antichità.
Nel quale studio, poiché furono una volta primi, e poi sempre
gloriosi, gl’ italiani, giusto è che non cessino di travagliarsi ed
onorarsi. Ma per ciò è necessario che studino davvero nel latino
e nel greco, dove è doloroso a dire : « Che fur già primi ed ora
son da sezzo ».
Tutte queste dispute sono un niente a paragone del romore e
della contesa che sorge da quelle poche parole che madama gittò
contro la miserabile infinità de’ cattivi versi che ammorba l’Italia.
Infelicissima fecondità che questi cantori ci nascano come le
rane. Ed io, ben lungi dal contraddire al vero, e a chiunque
cel ricorda, non avrei mai fine di lamentarmi, e di pregare l’Ita¬
lia, che per dio voglia guarirsi di tale pestilenza. Ogni nazione
debbe per onor suo avere grandi poeti ; i quali per ciò non pos¬
sono essere se non pochissimi. Come dunque pongon mano tanti
e tanti a ciò che è un dono, un privilegio, quasi dissi un mira¬
colo di natura, e non può essere una professione, non dev’essere
una faccenda di molti ? Ogni anima gentile dèe saper intendere
e gustare e amare la buona poesia; ma chi non è poeta, chi non
è vero poeta, cui non sit publica vena,

Qui nihil expositum soleat deducere, nec qui


Communi feriat carmen triviale moneta;
Is qualem nequeo monstrare, et sentio tantum,

per pietà si taccia. Sono tanti secoli che si va ripetendo la sen¬


tenza d’Orazio, o piuttosto il grido della natura, non essere sop¬
portabili i poeti mediocri; e ci si moltiplicano ogni di a dismi-
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sura i pessimi. Io fo ragione che in Italia la metà almeno di


quelli che sanno leggere, presumono di far versi. Non sapranno
altro al mondo; ma si credono poeti. E questa vana e matta
credenza è gran cagione che in tutta la vita non imparino mai
cosa buona. Ogni città, ogni borgo, ogni terricciuola d’Italia
tiene accademie : per far che ? per esercitarsi nella lettura e
nell’ intendimento de’ classici ? per istudiare la storia naturale
o la civile del proprio paese? per trovar modi a migliorare
l’agricoltura e le arti ? per fare esperienze di fisica o di chimica ?
per discorrere sulla storia, e cavarne insegnamenti alla vita ci¬
vile? per rinnovare con lodi la memoria e l’esempio de’nostri
buoni maggiori ? No no, queste sarebbero miserie, non degne a
begli spiriti. Per recitare sonetti, odi, madrigali, elegie. Ma
sopra tutto sonetti : questi sono il pane cotidiano, e la delizia
degl’ intelletti. Ma, per tutti gli dei, che farà mai al mondo un
popolo di sonettanti ? Oh liberiamoci una volta da questa follia.
Se tra noi è alcuno che la natura propriamente abbia destinato
poeta,

Ingenium cui sit, cui mens divinior, atque os


magna sonaturum,

non si ribelli alla natura; degnamente sudi nell’acquisto

Del nome che più dura e più onora;

faccia sé immortale, e gloriosa la sua nazione. Ma quei cinque¬


cento o seicentomila facitori di righe rimate o non rimate, si
traggano d’inganno ; siano capaci che un mezzo milione di poeti
noi può la natura produrre, noi può patire la nazione ; cessino
di perdere il tempo, d’esser noiosi e ridicoli ; occupino l’ingegno
in cose utili ; studino e imparino ciò che a loro e alla patria
giova sapersi ; ci lascino riposare da tanto fastidioso e vergognoso
frastuono. So che per poche parole mi fo più d’un milione di
nemici. Si sdegnino pure, ma si emendino gl’ ingegni ; si purghi
l’Italia ; lasci le inezie ; si riempia di buoni e giovevoli ed onorati
studi.
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Fra gli studi veramente utili ed onorevoli all’ Italia porremo


noi le traduzioni de’ poemi e de’ romanzi oltramontani ? Sarà ve¬
ramente arricchita la nostra letteratura adottando ciò che le
fantasie settentrionali crearono ? Cosi dice la baronesse., cosi
credono alcuni italiani ; ma io sto con quelli che pensano il con¬
trario. Consideriamo prima la loro fondamentale ragione : Ci
vuole novità. Ma io dico: oggetto delle scienze è il vero, delle
arti il bello. Non sarà dunque pregiato nelle scienze il nuovo,
se non in quanto sia vero, e nelle arti, se non in quanto sia
bello. Le scienze hanno un progresso infinito, e possono ognidì
trovare verità prima non sapute. Finito è il progresso delle arti :
quando abbiano e trovato il bello, e saputo esprimerlo, in quello
riposano. Né si creda si angusto spazio, benché sia circoscritto.
Se vogliamo che ci sia bello tutto ciò che ci è nuovo, perderemo
ben presto la facoltà di conoscere e di sentire il bello. Gli artisti
del disegno delirarono nel secolo decimosettimo, cercando nelle
pitture, nelle statue, negli edilizi le piu stravaganti novità; e
uscirono affatto della bellezza e della convenienza; dove l’età
nostra molto saviamente è ritornata. Ma l’arte di scrivere, che
nel Seicento fu da moltissimi difformata per la stessa follia di
novità, ha veramente mutato nel secol nostro, ma forse in peggio ;
in quanto che si è allontanata non pur dall’antico, ma dal na-*
zionale. Ché almeno i seicentisti avevano una pazzia originale
e italiana : la follia nostra è di scimie, e quindi tanto piu
deforme. Già si potrebbe molto disputare se sia veramente bello
tutto ciò che alcuni ammirano ne’ poeti inglesi e tedeschi ; e se
molte cose non siano false, o esagerate, e però brutte; ma diasi
che tutto sia bello; non per questo può riuscir bello a noi,
se lo mescoliamo alle cose nostre. O bisogna cessare affatto d’es¬
sere italiani, dimenticare la nostra lingua, la nostra istoria, mu¬
tare il nostro clima e la nostra fantasia : o, ritenendo queste cose,
conviene che la poesia e la letteratura si mantenga italiana: ma
non può mantenersi tale, frammischiandovi quelle idee setten¬
trionali, che per nulla si possono confare alle nostre. Questa
mescolanza di cose insociabili produrrebbe (come già troppo pro¬
duce) componimenti simili a’ centauri, che l’antichità favolò gene-
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rati dalle nuvole. Non dico per questo che non possa ragione¬
volmente un italiano voler conoscere le poesie e le fantasie de’
settentrionali, come può benissimo recarsi personalmente a vi¬
sitare i lor paesi; ma nego che quelle letterature (comunque
verso di sé belle e lodevoli) possano arricchire e abbellire la
nostra, poiché sono essenzialmente insociabili. Altro è andar nel
Giappone per curiosità di vedere quasi un altro mondo dal nostro :
altro è, tornato di là, volere fra gl’ italiani vivere alla giapponese.
Io voglio concedere a’ cinesi che abbia eleganza il loro vestire,
abbia decoro il loro fabbricare, abbia grazia il loro dipingere.
Ma se uno ci consigliasse di edificare e dipingere e vestire
come i cinesi ; poiché già è invecchiato il modo che noi teniamo
di queste cose; parrebbeci buono il consiglio? quante ragioni ad¬
durremmo di non doverlo né poterlo seguire ! E della letteratura
settentrionale, oltre le ragioni abbiamo pur anche avviso dalla
sperienza, che, innestata contro natura alle nostre lettere, ne ha
fatto scomparire quel pochissimo che vi rimaneva d’italiano.
Ognuno ponga mente come si scriva in Italia, dappoiché vi regna
Ossian; dietro cui è venuta numerosa turba di simili traduttori.
E bello è che questi appassionati di Milton, o di Klopstok, non
conoscono poi Dante, e non conosciuto lo disprezzano : cosa da
far molto ridere e gl’ inglesi e i tedeschi. Troppo è vero che agli
stranieri debbano parere isterilite oggidì in Italia le lettere; ma
questa povertà nasce da pigrizia di coltivare il fondo paterno;
né per acquistar dovizia ci bisogna emigrare e gittarci sulle altrui
possessioni, i cui frutti hanno sapore e sugo che a noi non si
confà. Studino gl’ italiani ne’ propri classici, e ne’ latini e ne’
greci ; de’ quali nella italiana più che in qualunque altra letteratura
del mondo possono farsi begl’ innesti ; poiché ella è pure un ramo
di quel tronco; laddove le altre hanno tutt’altra radice; e allora
parrà a tutti fiorita e feconda. Se proseguiranno a cercare le
cose oltramontane, accadrà che sempre più ci dispiacciano le
nostre proprie (come tanto diverse) e cesseremo affatto dal poter
fare quello di che i nostri maggiori furon tanto onorati ; né però
acquisteremo di saper fare bene e lodevolmente ciò che negli
oltramontani piace; perché a loro il dà la natura, che a noi altra-
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mente comanda; e cosi in breve condurremo la nostra letteratura


a somigliare quel mostro che Orazio descrisse nel principio della
Poetica.
Spero che non rifiuterete, o signori, di pubblicare questi
miei pensieri, nella cui esposizione panni avere fedelmente os¬
servata quella massima, che troppo spesso (e mi duole) dimenti¬
chiamo noi italiani scrivendo : Piena libertà nelle opinioni, e
molto rispetto alle persone. La quale massima chi non vuole
osservare contrista i buoni ; perché, oltre al disonorare se stesso,
reca infamia alle lettere e alla nazione.

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