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Andrea Barbieri

Machiavelli, Castelvetro, Shakespeare: concordanze intertestuali

Nel precedente articolo Giacomo Castelvetro in Inghilterra e la lezione di zio Lodovico1 ho


sostenuto che le prefazioni alle edizioni italiane di Aretino e Machiavelli comparse a Londra fra il
1584 e il 1589 ad opera di John Wolf sono da attribuire tutte a Giacomo Castelvetro (nipote del più
celebre Lodovico), che aveva trascorso alcuni anni di vita presso lo zio a Ginevra, Lione e
Chiavenna prima di abbandonare definitivamente l'Italia a causa della fede. Ora mi propongo di
dimostrare che, attraverso le edizioni da lui curate, la conoscenza diretta di autori italiani – ma mi
limito per ora a Machiavelli – ha potuto giungere alle orecchie di Shakespeare e influenzarne la
produzione teatrale.
Ho volutamente accennato a una fruizione orale da parte sua, pensando a quello che scrive in
proposito Renzo Bragantini:

We may be satisfied, at any rate, that Shakespeare was undoubtedly familiar with Italian narrative
sources, whether indirectly or directly. While all efforts will be made to rest the argument on solid
evidence, inevitable complications arise from a fact it will do well to restate: as everyone in the field of
Shakespeare studies knows perfectly well, no copy of a text that ever belonged to Shakespeare (and
doubtlessly would have supplied a record of his annotations and impressions as reader) has come down to
us, so that all reasoning on the subject has to be conducted within the ample and uncertain domain of the
likely and the possible. This should not be cause for resignation, since some of the evidence avaliable is
often far more solid than the categories of the likely and possible would suggest, and can be elicited by
the means of textual scrutiny2.

Io non credo che Shakespeare fosse un gran lettore di libri: credo invece che fosse un grande
ascoltatore e che frequentasse le serate letterarie di circoli cortigiani come quello di sir Philip
Sidney, dove Italiani come Giacomo Castelvetro leggevano o narravano a memoria, in italiano,
storie del proprio Paese: che egli le ascoltasse come incantato e che immagazzinasse ogni parola per
rielaborarla poi nella sua immaginazione prodigiosa. Credo che per questa via egli abbia appreso
tanto della letteratura d'Italia: ma è solo un'opinione.
È certo, invece, che prima dell'arrivo di Giacomo Castelvetro erano reperibili, di Machiavelli, sul
mercato inglese solo le traduzioni dell'Arte della guerra e di Belfagor3. Di altre sue opere (Discorsi
e Principe) esistevano versioni francesi, ma, ancora una volta, noi non sappiamo se Shakespeare
fosse a conoscenza di quella lingua. Castelvetro, invece, curò per Wolf l'edizione dei Discorsi e del
Principe (1584), delle Historie e dell'Arte della guerra (1587), di una silloge di scritti minori col
titolo L'Asino d'oro e delle due commedie (1588): praticamente tutto, mentre in Italia l'intera
produzione del Segretario fiorentino era stata posta all'Indice fin dal 1559.
Sappiamo che dietro Wolf e Castelvetro c'era la Chiesa riformata italiana di Londra: è un atto di
sfida a Roma pubblicare Machiavelli (anche Aretino, ma affronterò il suo caso in altra sede), in un
momento in cui egli gode della massima attenzione presso il pubblico inglese, che è letteralmente
terrorizzato all'idea di una congiura papistica contro il regno di Elisabetta. Per dirla con Machiavelli
medesimo, è cogliere l'occasione propizia, ovvero un segno di eccellente fiuto editoriale. Nella

1 www.academia.edu//s/3b60e26a91 .
2 Renzo Bragantini, Measure for Measure and the Italian Cinquecento. Intertextuality and Sources: Certain, Likely
and Possible, www.academia.edu/35821684 pp. 75-76.
3 Marco Giola, Episodi della fortuna di Aretino nell'Inghilterra elisabettiana. Con una nota sull'edizione londinese
delle Quattro Comedie: John Wolfe, 1588, in L'Italia altrove. Atti del III Convegno internazionale di Studi dell'AIBA
(Associazione degli Italianisti nei Balcani), a cura di Danilo Capasso, Raleigh, Aonia Edizioni, 2014, p. 106.
prefazione ai Discorsi, la più ampia e meglio argomentata, il Segretario fiorentino è presentato al
lettore in veste di vittima di pregiudizi e di maldicenza:

Laonde sentendo noi da simili huomini biasimare la vita, overo gli scritti d'alcun valenthuomo,
incontanente (senza punto curarsi di vedere se il vero ci venga detto) ci diamo a credere di quel meschino
ogni male, et tanto ci lasciamo trasportare da questa malvagia impressione, che lo cominciamo non
altrimenti ad odiare, et a dirne ogni male, come se alcuna grave offesa da lui ci havessimo ricevuta, o
pure, se ne' suoi scritti alcuna cosa scandalosa havessimo letta4.

Machiavelli, invece, non ha scritto alcuna cosa scandalosa, come vorrebbe il giudizio malvagio
di coloro cui ci ostiniamo a dare credito, nonostante li udiamo proferire menzogne. Ecco che 'un
huomo molto savio et negli affari politici molto profondo' consiglia a Giacomo di non voler credere
che il Diavolo sia 'cotanto laido et nero quanto altri se lo dipinga' e di voler 'per amor della verità'
leggere prima e poi giudicare. Chi accoglie la cattiva fama attribuitagli lo fa senza conoscerlo,
basandosi sul credito che assegna a persone ritenute degne di stima, ma capaci tuttavia di emettere
giudizi errati: legga le sue opere e vedrà che ha scritto 'per giovare a' buoni' e non per creare
scandalo. Giacomo prosegue elencando i benefici che ha tratto dalla lettura:

Et in brieve conobbi d'havere più in un giorno da loro imparato, de' governi del mondo, che non haveva
fatto, nel resto della mia passata vita, da tutte le historie lette. Imparai a punto a conoscere qual differenza
sia da un Prencipe giusto ad un Tiranno, dal governo di molti buoni a quello di pochi malvagi, et da un
commune ben regolato ad una moltitudine confusa et licentiosa5.

Attraverso la prefazione ai Discorsi viene così operata la piena riabilitazione di Machiavelli: è


reo il giudizio che lo indica come immorale, ossia quello della Chiesa di Roma. La grande efficacia
dialettica di questa argomentazione consiste nel fatto che è applicabile a qualunque altro autore sia
stato condannato per i suoi scritti: dunque allo zio Lodovico Castelvetro, 'eretico fuggitivo e
impenitente', di cui è ben viva nel nipote la venerata memoria. In una delle postille al commento di
Landino all'Inferno di Dante (di cui mi auguro che si smetta, una buona volta, di negare l'autografia
a dispetto di ogni evidenza), Lodovico annota, a proposito della natura doppia del centauro Chirone
(versi 83-84 del canto dodicesimo): «Vedi quel che ne dice il Machiavello nel suo Tiranno»6,
alludendo al celebre passo del diciottesimo capitolo del Principe:

Dovete adunque sapere come sono due generationi di combattere: l'una con le leggi, l'altra con le forze;
quel primo modo è de gli huomini, quel secondo è delle bestie; ma perché il primo spesse volte non basta,
bisogna ricorrere al secondo. Per tanto ad un Prencipe è necessario sapere bene usare la bestia et l'huomo.
Questa parte è stata insegnata a' Prencipi copertamente da gli antichi scrittori; i quali scrivono come
Achille e molt'altri di quelli Prencipi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua
disciplina gli custodisse: il che non vuole dir altro, lo haver per precettore uno mezzo bestia et mezzo
huomo, se non che bisogna ad un Prencipe saper usare l'una et l'altra natura; et l'una senza l'altra non è
durabile7.

Ove è cancellata, fin nel titolo Tiranno anziché Principe, qualunque ombra di encomio
dell'esercizio dispotico del potere, per privilegiare invece una lettura del trattato come educazione
all'esercizio collettivo della libertà e alla repressione di ogni abuso. È dunque un Machiavelli
morale quello che si propone al lettore inglese, sulla scorta dell'interpretazione datane a suo tempo
da Lodovico Castelvetro, ancora viva nella memoria del nipote8. Il fantasma dello zio aleggia fra le

4 Palermo, Biblioteca Nazionale: I discorsi di Nicolò Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio, Londra, 1584, c.
*2r (copia digitalizzata).
5 Ivi, c. *2v.
6 Modena, Biblioteca Estense α.K.1.13: Commento di Cristoforo Landino a Dante, Inferno, Venezia, 1497, c. 63v.
7 Firenze, Biblioteca nazionale Centrale Palat. C.10.3.16.2: Il prencipe di Nicolò Machiavelli, Londra, John Wolf,
1584, c. 30v-31r (copia digitalizzata).
8 Incidentalmente si noti che questa lettura di Machiavelli è identica a quella datane tre secoli più tardi da Ugo
righe della prefazione di Giacomo: è 'l'uomo molto savio e negli affari politici molto profondo', che
gli ha consigliato di leggere prima di giudicare, per non farsi influenzare da una malvagia opinione,
anziché esprimere, a ragion veduta, un buon giudizio: un giudizio onesto. Gli Inglesi, ormai avvezzi
a ritenere il papato un'empia tirannide, potevano così vedere in Machiavelli la guida utile, affidabile
e onesta all'arte della politica. Non c'è bisogno di spendere tante parole per dimostrare che, grazie a
una strategia di marketing così accorta, il successo delle sue opere in ambiente anglosassone fu
assicurato.
Il nostro intento è però misurarne l'esito attraverso un indice significativo: i riferimenti confluiti
nel teatro di Shakespeare, che, avido com'era di conoscere ogni cosa d'Italia, fu sicuramente uno dei
più attenti ascoltatori delle letture pubbliche di Giacomo Castelvetro. Il tema della differenza 'da un
Prencipe giusto ad un Tiranno' rinvia immediatamente alla tragedia Julius Caesar, ove si scontrano
le idee di Roma repubblicana e imperiale. Il personaggio di maggior spessore, per sensibilità e
cultura, è quello di Bruto, figlio adottivo del console romano. Queste sono le parole pronunciate da
Antonio, dopo la vittoria di Filippi, sul corpo dell'avversario, morto suicida:

ANTONIO: Fra costoro egli fu il romano più nobile. Tutti i congiurati, con la sola eccezione di Bruto,
fecero quel che fecero per rancore nei confronti del grande Cesare; lui soltanto divenne uno di loro,
mosso da una concezione nobile dello stato e per il bene della collettività. La sua vita fu esemplare, e gli
elementi si erano in tal guisa combinati in lui che la Natura potrebbe levarsi e proclamare al mondo
intero: «Questi fu un uomo!» (atto V, scena V)9.

Bruto è un uomo che pensa e agisce in modo onorevole per il bene comune («in a general honest
thought and common good to all»): vediamo ora cosa scrive sull'onore Machiavelli:

Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, et pensando meco medesimo se al presente in Italia
correvano tempi da honorare uno Prencipe nuovo, et se ci era materia che dessi occasione ad un prudente
et virtuoso a introdurvi forma che facesse honore a lui et bene all'università de gli uomini di quella: mi
pare concorrino tante cose in beneficio di uno Prencipe nuovo, che non so qual mai tempo fusse più atto a
questo10.

L'occasione che viene offerta a Bruto nel dramma di Shakespeare è di quelle che fanno 'onore a
lui e bene all'università degli uomini': se esita è perché è 'afflitto da passioni contrastanti', indeciso
fra la riconoscenza che deve a Cesare e il bene di Roma. «Per quanto mi riguarda, - egli dice ¯ non
ci sono motivi personali per osteggiarlo, solo il bene comune. Vorrebbe essere incoronato: come ciò
potrebbe modificare la sua natura, questo è il problema. […] Incoronarlo?... Certo! E allora, bisogna
ammettere, gli diamo un pungolo, sì che possa nuocere a suo piacimento. […] Poniamo la questione
in questi termini: quello che egli oggi è, se esaltato, potrebbe tendere a questi o quegli estremi; e
perciò consideriamolo un uovo di serpente, che, covato, diverrebbe per sua natura pericoloso, e
uccidiamolo nel guscio» (atto II, scena I).
«Ma sopra tutto maravigliosissima è, a considerare – scrive Machiavelli nei Discorsi – a quanta
grandezza venne Roma poi che ella si liberò da' suoi Re. La cagione è facile ad intendere: perché
non il bene particolare, ma il bene commune è quello che fa grande le città. Et senza dubbio questo
bene commune non è osservato se non nelle republiche»11. La considerazione del bene comune
muove Bruto all'azione: «Dovrà Roma stare sotto il giogo di un solo uomo? Come, Roma? Furono i
miei avi che scacciarono Tarquinio da Roma, quando fu proclamato re. […] O Roma, ti prometto, se
riparazione ci sarà, la tua implorazione sarà esaudita in pieno per mano di Bruto». Una volta risolto
il dissidio interiore, egli diviene anima della congiura:

Foscolo nei Sepolcri.


9 William Shakespeare, Giulio Cesare, cura e traduzione di Flavio Giacomantonio, Roma, Newton Compton , 1995.
10 Il Prencipe cit., c. 45r.
11 Palermo, Biblioteca Nazionale: I discorsi di Nicolò Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio, Londra, 1584, c.
80v (copia digitalizzata).
BRUTO: No, nessun giuramento. […] Quale sprone occorre, se non la nostra stessa causa, per essere
spinti a un atto di riparazione? Quale altro vincolo se non quello di essere romani discreti che, avendo
dato la propria parola, non useranno sotterfugi? E quale altro giuramento, se non il mutuo impegno
d'onore, che ciò si verifichi a costo di capitolare per la causa? Giurino i preti e i codardi, gli infidi, le
vecchie vizze carogne, e quegli spiriti tolleranti che accettano di buon grado gli oltraggi; giurino per cause
biasimevoli coloro che non son degni di fede: ma non contaminate la trasparenza della nostra
irreprensibile impresa, né l'insopprimibile ardore dei nostri animi, ritenendo che la nostra causa o la sua
esecuzione abbiano bisogno di un giuramento, quando ogni goccia di sangue che scorre nelle vene di ogni
romano, e da cui egli trae nobiltà, è motivo di grave impurità, se egli vien meno, anche in misura minima,
a qualsiasi voto da lui pronunciato.

Il suo piglio risoluto è del medesimo stampo di quello espresso nella conclusione del Principe:

Non si deve adunque lasciar passare questa occasione, accioché l'Italia vegga dopo tanto tempo apparire
un suo redentore. Né posso esprimere con quale amore ei fusse ricevuto in tutte quelle provincie, che
hanno patito per queste illuvioni esterne, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà,
con che lachrime. Quali porte se li serrerebbono? Quali popoli li negarebbono l'ubidienza? Quale invidia
se li opporrebbe? Quale Italiano li negherebbe di acconsentirli?12

Qui è introdotto il sentimento della pietà patria, che trova immediata corrispondenza nella
sensibilità acutissima di Shakespeare: «As, by our hands and this our present act, / – dice Bruto ad
Antonio davanti al cadavere di Cesare – You see we do, yet see you but our hands / And this the
bleeding business they have done: / Our hearts you see not; they are pitiful; / And pity to the general
wrong of Rome / (As fire drives out fire, so pity pity) / Hath done this deed on Caesar» (atto III,
scena I)13. L'amor di patria supera ogni altro sentimento:

BRUTO: Romani, concittadini, amici! Ascoltate le mie ragioni, e tacete perché possiate udire. Credetemi
sul mio onore, e perché possiate credermi, non dimenticate che sono uomo d'onore. Giudicatemi con
discernimento e destate il vostro senno, perché possiate meglio valutare. Se c'è qualcuno in
quest'assemblea, qualche amico intimo di Cesare, a lui dico che l'amore di Bruto per Cesare non era
inferiore al suo. Se questo amico poi mi chiede perché Bruto insorse contro Cesare, ecco la mia risposta:
non perché amassi Cesare di meno, ma perché amavo Roma di più. Preferireste che Cesare fosse vivo, e
morire tutti da schiavi, piuttosto che egli fosse morto, per vivere tutti da uomini liberi? Cesare mi amò, ed
io lo piango; la fortuna gli fu propizia, ed io ne sono felice; fu prode, ed io gli rendo onore; ma, poiché fu
ambizioso, gli ho tolto la vita (atto III, scena II).

Ecco come la pietà può andare a braccetto col tirannicidio. Non una pietà passiva, che versa
lacrime sui destini della patria, ma un sentimento che rende 'fortissimi i deboli', come dice Cassio
(atto I, scena III):

CASSIO: In tal modo voi, o dèi, rendete fortissimi i deboli; in tal modo voi sgominate i tiranni. Né torri di
pietra, né mura di bronzo battuto, né prigioni prive di aria, né solide catene di ferro possono essere
ostacolo alla forza dello spirito; ma quando la vita è stanca degli impedimenti terreni, ha sempre il potere
di congedarsi. Se io son consapevole di ciò, anche il mondo intero sappia che questa schiavitù, che son
costretto a sopportare, posso scrollarmela di dosso a mio piacimento. […] E perché, dunque, Cesare
dovrebbe essere un tiranno? Poveretto! So che non farebbe il lupo se non vedesse che i romani null'altro
sono che pecore. Non sarebbe leone se i romani non fossero cervi.

Nel secondo capitolo del libro secondo dei Discorsi, Machiavelli si chiede perché ai tempi
antichi i popoli amassero la libertà più che ai suoi e trova la causa nella diversità delle rispettive

12 Il Prencipe cit., c. 47r.


13 «Se in questo momento possiamo apparire sanguinari e crudeli, e tali dalle nostre mani e da questa nostra impresa
sei indotto a giudicarci, è che tu vedi solo le nostre mani e l'atto efferato che esse hanno compiuto. Tu non vedi i
nostri cuori; essi sono colmi di pietà; e la pietà per le molte sventure arrecate a Roma (come il fuoco estingue il
fuoco, così la pietà fa con la pietà) ha determinato questo gesto contro Cesare».
religioni. Gli antichi ponevano il sommo bene nell'onore del mondo, e questo li rendeva più feroci
nelle loro azioni. Al contrario:

la nostra religione ha glorificato più gli huomini humili et contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il
sommo bene nella humiltà, nella abiettione, e nel dispregio delle cose humane. Quell'altra lo poneva nella
grandezza dell'animo, nella fortezza del corpo et in tutte l'altre cose atte a fare gli huomini fortissimi; et se
la religione nostra richiede che habbia in te fortezza, vuole che tu sia atto a patire, più che a fare una cosa
forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che habbia renduto il mondo debole et datolo in preda a gli
huomini scelerati; i quali sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università de gli huomini,
per andare in paradiso, pensa più a sopportare le sue battiture, che a vendicarle14.

Una religione male intesa priva i popoli di quella forza che costituisce l'unica arma contro i
tiranni, al contrario di quel che fa la religione posta a servizio del bene comune: «Et vedesi, chi
considera bene le historie romane, quanto serviva la religione a comandare a gli esserciti, a riunire
la plebe, a mantenere gli huomini buoni, a fare vergognare gli tristi»15.
Se nel finale del Principe di Machiavelli sopra citato c'è solo l'auspicio che la pietà si muti in
virtù civile, nell'Inghilterra elisabettiana la religione è divenuta invece un'arma formidabile nelle
mani del sovrano: ma è un'arma a doppio taglio come il gladio romano, da usare con cautela. In
mano a un re cattolico può costargli la testa.
Ho tenuto per ultima, di queste concordanze, quella che mi sembra la più convincente. Nel
secondo libro dei Discorsi, volendo fornire un esempio di odio verso i tiranni e amore di libertà,
Machiavelli ricorre a questa vicenda:

come intervenne quando Girolamo, nipote di Hierone Siracusano, fu morto in Siracusa, che, venendo le
novelle della sua morte nel suo essercito, che non era molto lontano di Siracusa, cominciò prima a
tumultuare et pigliare l'armi contra a gli occiditori di quello; ma come ei sentì che in Siracusa se gridava
libertà, allettato da quel nome si quietò tutto, pose giù l'ira contra a' tirannicidi et pensò come in quella
città si potesse ordinare un viver libero16.

Il modo della narrazione ricalca in maniera sorprendente la dinamica della seconda scena del
terzo atto di Julius Caesar, ai cittadini romani che chiedono ragione della morte di Cesare, Bruto
risponde dal rostro nei termini che abbiamo riportato di sopra; al termine del suo discorso, tutti
inneggiano a lui, già dimentichi del tirannicidio. Ma Shakespeare è troppo esperto del mondo per
non conoscere la volubilità delle folle: Antonio sale sul pulpito, pronuncia la sua orazione in lode di
Cesare e il popolo cambia di nuovo partito, inveisce contro gli uccisori e li costringe alla fuga: 'al
mondo non è se non vulgo'.

14 I discorsi di Nicolò Machiavelli cit., c. 82r.


15 Ivi, c. 20r.
16 Ivi, c. 81r.

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