Sei sulla pagina 1di 233

Il gioco nell’antica Roma

Profili storico-giuridici
Francesco Fasolino - Antonio Palma
(a cura di)

Il gioco
nell’antica Roma
Profili storico-giuridici
Seconda edizione

G. Giappichelli Editore
© Copyright 2018 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-1716-7

ISBN/EAN 9788892180369 (ebook)

Composizione: La Fotocomposizione - Torino

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/
fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge
22 aprile 1941, n. 633.

Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per
uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da
CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122
Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org.
Indice V

Indice

pag.

Premessa alla seconda edizione IX

Introduzione XI

Immagini e giochi dell’antichità: iocare, ludere,


iactare, non una semplice questione terminologica
Carmen Pennacchio

1. Premessa 1
2. Tra iocus e ludus … 3
3. … c’è l’azzardo 10
4. Levitas aleae 19

“Alea iacta est”:


la disciplina di giochi e scommesse a Roma
Francesco Fasolino

1. Cenni sui più antichi divieti in età repubblicana 25


2. La disciplina di età imperiale 27
3. Gli interventi di Giustiniano 32

“Quamvis et hi indigni videantur”:


l’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo
Giovanbattista Greco

1. Diffusione e contrasto del gioco d’azzardo a Roma 35


2. La figura dei susceptores 41
VI Indice

pag.

3. Il diniego di tutela giurisdizionale 47


4. Osservazioni conclusive 50

L’exceptio negotii in alea gesti


Giovanbattista Greco

1. D. 44.5.2.1 53
2. L’ambito oggettivo di rilevanza dell’exceptio negotii in alea gesti: i
giochi proibiti 54
3. (Segue). L’evizione 57
4. Aspetti funzionali 60
5. Profili processuali 62
6. Sui riflessi nel diritto attuale dell’exceptio negotii in alea gesti 64

Sul valore della posta in gioco


in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4
Giovanbattista Greco

1. Dimensione quantitativa del gioco e autonomia privata 69


2. Il gioco vescendi causa 72
3. Il limite di un solidum 75
4. Osservazioni conclusive 78

Le scommesse sui giochi virtutis causa


in diritto romano
Anna Bottiglieri

1. Il fenomeno ludico 81
2. Normativa di età repubblicana 83
3. De aleatoribus 86
4. Scommesse sulle gare atletiche 88
Indice VII

pag.

Disciplina privatistica classica


del gioco d’azzardo vietato
Paola Ziliotto
1. Il contenuto del titolo 11.5 ‘De aleatoribus’ del Digesto 95
2. ‘Exceptio negotii in alea gesti’ e ‘denegatio actionis’ 98
3. L’azione per la ripetizione delle perdite pagate 104
4. Paul. 19 ‘ad ed.’ D. 11.5.4.1 e le tracce di una pena da perseguire nel-
le forme del processo civile contro il giocatore che abbia incassato la
vincita. Il divieto senatorio di ‘in pecuniam ludere’ e l’azione di ripe-
tizione pretoria non penale 109
5. ‘Exceptio negotii in alea gesti’, ‘denegatio actionis’ e azione di ripetizione 114

Brevi note in tema di debiti di gioco


e obbligazioni naturali
Francesco Fasolino
1. Il gioco come contratto: Pothier e la codificazione napoleonica 117
2. Le incongruenze della sistematica di Pothier 121
3. Attualità ed implicazioni del modello romanistico di obbligazione na-
turale come obbligazione giuridica imperfetta 124

I ludi romani tra politica, società e diritto


Valeria Carro
1. Organizzazione dei ludi 127
2. Ludi e rituali 129
3. Donne e ludi 133
4. Cristianità e ludi 134

Il gioco crudele dei munera gladiatoria


tra religione e propaganda politica
Valeria Carro
1. Le origini religiose dei munera gladiatoria 137
2. La condizione dei gladiatori: equipaggiamento e combattimenti 138
VIII Indice

pag.

3. Le fonti 143
4. Imperatori e munera gladiatoria 146

Amant quos multant. La passione per l’arena


in un senatoconsulto del 19 d.C.
Carla Ricci

1. Il testo epigrafico 149


2. Il contesto normativo e sociale 158
3. Il mondo dell’arena nel Sc di Larino 167
4. Donne e gladiatura 180

Ludi gladiatori e crimen ambitus


Margherita Scognamiglio

1. Il ‘crimen ambitus’ 189


2. La ‘lex Tullia de ambitu’: corruzione elettorale e giochi gladiatori 192
3. Sul discrimine tra corruzione elettorale e liberalità 195
4. ‘Ludi gladitorii’ e ‘venationes’ 197
5. Brevi osservazioni conclusive 200

Indice delle fonti 201

Gli Autori 213


Introduzione IX

Premessa alla seconda edizione

A distanza di circa un anno dalla prima edizione, si è ritenuto opportu-


no rivedere in qualche sua parte ma soprattutto ampliare il contenuto del-
l’opera, che si arricchisce, così, del contributo di due ulteriori autori, i quali,
nei loro saggi, indagano significativi profili della disciplina del gioco a Roma,
non presi in considerazione nell’edizione precedente: in particolare, viene
soffermata l’attenzione sulle peculiarità del regime dei giochi c.d. virtutis
causa ed altresì su alcuni importanti snodi problematici della disciplina pri-
vatistica del gioco d’azzardo in età classica.
L’auspicio, nella prospettiva già a suo tempo prescelta, è quello di riu-
scire a delineare un quadro il più possibile unitario degli aspetti giuridici
salienti di un fenomeno, sicuramente complesso e multiforme, qual era,
per l’appunto, quello della ludicità nella Roma antica.

ANTONIO PALMA
FRANCESCO FASOLINO

Napoli-Salerno, ottobre 2018


X Introduzione
Introduzione XI

Introduzione

Il gioco e l’intrattenimento rivestono da sempre una posizione significa-


tiva se non addirittura centrale nel contesto dell’esistenza umana.
A spiegare la fascinazione che essi producono può forse bastare il ri-
chiamo alla nota e suggestiva metafora per la quale giocare consente di mi-
grare su un’isola felice, confortante e piacevole, dove le coordinate di luo-
go, tempo e spazio non corrispondono a quelle del quotidiano 1.
In effetti, la dimensione ludica ha tutto l’aspetto di una monade chiusa,
in cui il giocatore si immerge per dare risposta al proprio bisogno di svago,
innato e pressante, che investe tanto il versante pubblico che quello privato
del suo vissuto individuale. Tuttavia, proprio il tendenziale percorso del
giocatore verso l’isolamento, il suo forte, quando non addirittura smodato,
attaccamento alle sensazioni che il gioco produce, la strumentalizzazione a
cui facilmente si prestano le occasioni di intrattenimento, spiegano il moti-
vo per cui la scienza giuridica, al pari di altre scienze, non sia potuta rima-
nere indifferente a tale materia e, ancor più, ai suoi esiti devianti 2.

1
J. HUIZINGA, Homo ludens, Torino, 2002.
2
A testimoniare l’attenzione della letteratura contemporanea verso la tematica del
gioco vi è un’estesa ed eclettica bibliografia, tra cui si segnala: F. ABBONDANTE, Com-
patibilità fra il diritto comunitario alla libera prestazione dei servizi e monopoli ad Enti
pubblici sull’esercizio dei giochi di sorte o d’azzardo finalizzati alla tutela di interessi generali,
in Dir. pubblico comparato ed europeo, 2000, 292 ss.; S. BELTRANI, La disciplina penale dei
giochi e delle scommesse, Milano, 1999; L. Buttaro, voce ‘Giuoco – I) Giuoco e scommessa –
Diritto Civile’, in Enciclopedia giuridica Treccani, XV, 1989, 458 ss.; C. Campeggiani, C.
Papi, Il sistema di monopolio statale delle scommesse e la sua compatibilità con la normativa
comunitaria in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi (art. 43 e
49 CE), in Giustizia civile, 2004, I, 2529 ss.; M. COCCIA, ‘‘Rien ne va plus’’: la Corte di
Giustizia pone un freno alla libera circolazione dei giochi d’azzardo, in Foro italiano, 1994,
521 ss.; ID., Controllo pubblico sui giuochi d’azzardo e principio comunitario di libera
circolazione dei servizi, in Rivista di diritto sportivo, 1994, 729 ss.; M. CUNECA CABEZA, M.
IZAGUIRRE CASADO (a cura di), Ocio y juegos de azar, Bilbao, 2010; C. DE ROBBIO, Le
principali questioni penali in tema di esercizio abusivo dell’attività di gioco e scommessa, in
Giurisprudenza di merito, 2012, 2230 ss.; F. FILPO, Il gioco d’azzardo tra la direttiva servizi e
XII Introduzione

I segni di questo interessamento sono evidenti anche nel diritto romano,


senza soluzione di continuità dall’età più antica sino a tutta l’epoca giusti-
nianea.
Il gioco a Roma rappresentava un fenomeno trasversale, in grado di
coinvolgere individui di estrazione sociale e di livello culturale diversi. La
realtà ludica, quale oggetto di osservazione da parte del giurista, si mostra-
va complessa e multiforme, comprendendo passatempi che andavano dalla
facezia, al gioco d’azione, a quello di puro rischio. Questa varietà impone-
va di discernere gli ambiti meritevoli di intervento normativo da quelli ver-
so cui il ius poteva preservare un atteggiamento di sostanziale indifferenza.
A tanto la giurisprudenza e la legislazione romana più risalenti provvidero
connotando tipicamente di un profondo disvalore tutti quegli svaghi po-
tenzialmente idonei a provocare un inopinato depauperamento dei patri-
moni familiari, modificando gli equilibri insiti in una società che vedeva le
proprie strutture politiche organizzate in funzione delle ricchezze familiari.
Delle soluzioni a tal fine adottate abbiamo traccia nel Titolo V del Li-
bro XI del Digesto di Giustiniano, dove il contrasto del gioco d’azzardo –
‘alea’ nella terminologia delle fonti – è realizzato principalmente attraverso
il ricorso al rimedio restitutorio che avrebbe dovuto garantire al giocatore
perdente la possibilità di vedere ripristinato il proprio patrimonio nello
stato in cui si trovava prima che il debito di gioco fosse onorato 3.
Lo stesso gruppo di passi testimonia altresì come, nella prospettiva an-
zidetta, l’esperienza giuridica romana fosse giunta a delineare una chiara
distinzione tra le varie forme di svago. Da un lato, infatti, guardando ai
profili di ordine qualitativo, la disciplina repubblicana di ludi e sponsiones
si preoccupò di favorire la pratica di quelle competizioni che, come i gio-

la sentenza Placanica, in Contratto e impresa/Europa, 2007, 1028; E. FONDERICO, voce


‘Lotto e lotterie (diritto tributario)’, in Enciclopedia giuridica Treccani, XIX, Roma, 1990, 1
ss.; C.A. FUNAIOLI, Debiti di giuoco o di scommessa: in particolare obbligazioni naturali da
scommessa e rilevanza dei vizi della volontà, in Studi in onore di Francesco Messineo,
Giuffrè, 1959, 170 ss.; ID., Lotterie e tombole, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino,
1975, 1079 ss.; D.U. GALETTA, Una sentenza storica sul principio di proporzionalità con
talune ombre in ordine al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in Rivista italiana di
diritto pubblico comunitario, 1999, 2, 459 ss.; A. GANDOLFO, V. DE BONIS, Il gioco pubblico
in Italia fra tradizione e innovazione: aspetti economici e di marketing, Discussion Paper n.
115/2011, Dipartimento di Scienze Economiche – Università di Pisa; G. IMBUCCI, Il gioco
pubblico in Italia. Venezia, 1999.
3
D. 11.5.4.1: «Si servus vel filius familias victus fuerit, patri vel domino competit
repetitio. item si servus acceperit pecuniam, dabitur in dominum de peculio actio, non
noxalis, quia ex negotio gesto agitur: sed non amplius cogendus est praestare, quam id quod
ex ea re in peculio sit».
Introduzione XIII

chi virtutis causa, fossero in grado di conservare o migliorare la prestanza


fisica dei partecipanti, a tal fine escludendo dalla ripetibilità le vincite che
ad essi fossero collegate. Dall’altro, in termini quantitativi, la riflessione
giuridica valutò come innocui, e quindi immeritevoli di contrasto, i passa-
tempi praticati in ambito conviviale 4.
L’attenzione, tuttavia, non risulta incentrata soltanto sugli aleatores ma
investe anche il complesso ed articolato universo nel quale la pratica ludica
si svolge: il pretore, in particolare, si (pre)occupa a più riprese di coloro
che, perseguendo un personale interesse spesso poco o per nulla commen-
devole, facilitano l’accesso altrui alle competizioni vietate e lo svolgimento
delle partite 5.
Le modificazioni sociali e culturali prodottesi con il tramonto dell’età
repubblicana ed il progressivo affermarsi del pensiero cristiano segnano lo
iato esistente tra la disciplina del gioco tracciata da leges, senatusconsulta
ed editto del pretore e quella di cui si ha una significativa traccia nelle co-
stituzioni imperiali. Queste ultime, come sembra evidenziare l’incipit del
provvedimento trasmessoci in CI 3.43.1 pr. 6, non rinunciano all’esigenza
di tutelare le sostanze familiari ma, evidentemente sotto l’influsso del pen-
siero cristiano, ad essa affiancano un’attenzione precipua per le sorti della
persona del giocatore, esposto alla rovina materiale ma anche e soprattut-
to morale e spirituale per effetto di pratiche ludiche compulsive e sconsi-
derate.
La materia ludica nell’esperienza giuridica romana è stata sin qui ogget-
to di attenzione da parte di studiosi che hanno per lo più cercato di opera-
re una ricognizione complessiva degli istituti coinvolti 7 e, talvolta, di met-

4
D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.): «Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam rem
familia ludere permittitur».
5
D. 11.5.1.pr. (Ulp. 23 ad ed.): «Praetor ait: ‘Si quis eum, apud quem alea lusum esse
dicetur, verberaverit damnumve ei dederit sive quid eo tempore dolo eius subtractum est,
iudicium non dabo […]’».
6
Imperator Justinianus Alearum lusus antiqua res est et extra operas pugnantibus
concessa, verum pro tempore prodiit in lacrimas, milia extranearum nominationum
suscipiens. quidam enim ludentes nec ludum scientes, sed nominationem tantum, proprias
substantias perdiderunt, die noctuque ludendo in argento apparatu lapidum et auro.
consequenter autem ex hac inordinatione blasphemare conantur et instrumenta conficiunt.
[a. 529 d.C.]
7
In tale prospettiva si segnalano, in particolare, E. QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De
aleatoribus) y C. 3.43 (De aleae lusu et aleatoribus): Precedentes romanos del contrato de
juego, in Anuario Jurídico y Económico Escurialense, XLII, 2009, 17 ss.; E. NARDI.
Monobolo & C., Milano, 1991; M. J. DIAZ GOMEZ, El origen histórico del contrato de juego,
XIV Introduzione

tere in relazione, o quantomeno in comparazione, la disciplina romana dei


giochi con quella adottata nelle codificazioni moderne 8; qualcuno, infine,
più di recente, ragionando sull’organizzazione timocratica della società
romana, si è spinto poi ad indagare la ratio delle soluzioni adottate dal più
antico ius 9.
Il presente volume aspira ad approfondire, in maniera organica e il più
possibile completa, aspetti della regolamentazione alearia che finora hanno
ricevuto, per svariate ragioni, una minore attenzione ma che, nel loro in-
sieme, appaiono significativi e comunque utili al fine di lumeggiare il com-
plesso quadro del gioco a Roma e delle sue implicazioni a livello sociale.
In tale prospettiva, ad esempio, ci si sofferma sul complesso lessico del
divertimento e delle sue connotazioni in termini valoriali, la cui conoscenza
appare utile quando debba discriminarsi tra le diverse attività di svago ai
fini della loro disciplina.
Ancora, si indagano figure troppo spesso ed ingiustamente ritenute
marginali nell’economia della repressione dell’azzardo, quali i susceptores,
vale a dire coloro che facilitavano lo svolgimento delle partite: l’esatta indi-
viduazione di quanti potessero ascriversi a tale categoria appare, infatti, es-
senziale al fine di comprendere la raffinatezza delle soluzioni normative
partorite per contrastare il proliferare dei giochi di puro rischio.
Uno stretto legame con il vasto e sempre attuale tema dell’autonomia
privata e dei suoi limiti risulta, altresì, palese nel rimedio dell’exceptio ne-
gotii in alea gesti o nell’atteggiamento serbato verso l’ammontare del pre-
mio o della posta in gioco.
A questi temi si darà spazio nelle pagine che seguono senza trascurare la

in Derecho y Conocimiento, vol. 2, Universidad de Huelva, 2003, 285 ss.; S.B. FARIS,
Changing Public Policy and the Evolution of Roman Civil and Criminal Law on Gambling,
in UNLV Gambling Law Journal, 3, 2012, 199 ss.; G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, in
Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, Napoli, 1984, 2331 ss. possono menzionarsi
ID., Il regime del gioco nel corpus iuris in relazione con alcune codificazioni europee, in ID.,
Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 643 ss.; P. ZILIOTTO,
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato, in TSDP, X, 2017, 1 ss.
8
Cfr., ad es., A. CAPPUCCIO, ‘Rien de mauvais’. I contratti di gioco e scommessa nell’età dei
codici, Torino, 2011, 21 ss.; J.L. ZAMORA MANZANO, La regulación jurídico-administrativa del
juego en el derecho romano y su proiección en el derecho moderno, Madrid, 2011; C. MANENTI,
Del giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto romano e moderno, Appendice ai §§
757-762 di CH.F. GLUCK, Ausführliche Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, Palm,
Erlangen, 1796-1830, tr. it. Commentario alle Pandette, lib. XI, Milano, 1903.
9
A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima
de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 58 e EAD, Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto
romano, in BIDR, CXI, 2017, 41 ss.
Introduzione XV

capacità del diritto romano di essere di ausilio per il superamento di aporie


create da elaborazioni concettuali e dottrinarie formatesi nel corso dei se-
coli successivi, come quelle circa la natura ed il contenuto dell’obbliga-
zione prodotta dal contratto di gioco.
Nell’ottica di una considerazione complessiva e il più possibile comple-
ta della disciplina romana dell’intrattenimento, il presente volume tocca
anche il versante, invero non meno ricco di spunti, costituito dalla grande
varietà di spettacoli pubblici, anch’essi, significativamente, definiti ludi,
proprio in ragione della capacità del lemma di fondere in sé tanto l’idea
della competizione, del confronto di energie e abilità, quanto quella del-
l’esibizione e dell’intrattenimento.
In particolare si sofferma l’attenzione circa la loro rilevanza sul piano
dei costumi e della vita sociale che non tardò a trasformarli in un utile
strumento di propaganda politica, al punto da rendere fortemente ambito,
per la visibilità e il consenso che era in grado di produrre, l’incarico di cu-
rator ludorum. Da qui, tra l’altro, deriva anche uno specifico approfondi-
mento in ordine alle regole apprestate per evitare che l’organizzazione di
manifestazioni ludiche potesse tramutarsi in uno strumento volto allo slea-
le accaparramento del consenso elettorale, magari attraverso l’espediente
di regalare posti a sedere ad interi gruppi di cittadini.
Nella prospettiva delineata, i saggi inclusi in questa raccolta si preoccu-
pano di ricostruire un panorama di testimonianze altamente frammentato
con l’obiettivo di evidenziare i meccanismi che presiedevano all’orga-
nizzazione delle manifestazioni ludiche pubbliche e private e ricostruire
aspetti salienti della relativa disciplina sinora in qualche misura trascurati.
Ciò al fine di tratteggiare una cornice, all’interno della quale si possano
quantomeno delineare i molteplici e complessi legami tra ludi, religione e
propaganda politica e quelli, più in generale, tra pubbliche rappresenta-
zioni e fenomeni socio-culturali nel loro divenire.

ANTONIO PALMA
FRANCESCO FASOLINO

Napoli-Salerno, dicembre 2017


XVI Introduzione
Immagini e giochi dell’antichità 1

Immagini e giochi dell’antichità: iocare, ludere,


iactare, non una semplice questione terminologica
Carmen Pennacchio

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Tra iocus e ludus ... – 3. … c’è l’azzardo. – 4. Levitas aleae.

1. Premessa

L’ottica storico-umanistica rappresenta un approccio alla realtà ludica 1


del quale, nel nostro oggi, non se ne può fare a meno, in quanto le dimen-
sioni del gioco 2, e – più in generale – la compagine sociale, ne colgono

1
Ludo (= irrido, ingiurio), Ludus (= gioco), Lusus ‘richiama accad. ulsu (= piacere)’.
Mancando studi sintetici sul tema, e per non soffocare nelle ricerche dedicate a singole
aree, basterà ricordare i migliori studi sul ‘gioco’ in senso assoluto, che ne hanno tenuto
conto anche in senso antropologico, il classico Homo ludens di Johan Huizinga (Haarlem,
1938, Amsterdam, 2018, trad. it., C. van Schendel, Homo ludens, Torino, 1945 e 1973, sot-
totitolo, Proeve eener bepaling van het spel-element der aulnur), che mirando a “integrare il
concetto di gioco in quello di cultura”, concludeva che “cultura vera non può esistere sen-
za una certa qualità ludica”, e che “la cultura vuole … essere giocata dopo comune accor-
do, secondo date regole” (e, fra le argomentazioni, adduceva anche un capitolo dedicato a
una vera e propria ricerca onomasiologica sulla nozione del ‘gioco’ nelle diverse lingue). O
il più recente The ambiguity of play (1997) di Brian Sutton-Smith, con vasta bibliografia,
nel quale il tema dell’ambiguità del gioco emerge, anche, in relazione all’alternarsi, nel ruo-
lo dei giocatori, di bambini, insegnanti, atleti, attori, comici, prestigiatori, giocolieri, gente
comune e giocatori di azzardo.
2
Il termine deriva dal latino iocus, gioco, scherzo, burla, beffa, dal verbo iectare (fre-
quentativo di iacere, gettare, andare e mandare oltre), il cui participio passato è iactum,
lanciato. Quindi, nell’etimologia del termine, risulta evidente l’idea del lancio, del movi-
mento che accompagna la primitiva espressione del gioco. Altri (Aristotele) mettono in
relazione il gioco con la felicità. Ci sono attività, si trova scritto nell’Etica Nicomachea, che
meritano di essere scelte per se stesse, non per altro, come la felicità. Tra queste pratiche,
che non sono dettate da interesse né hanno uno scopo al di fuori di sé, ci sono le azioni
2 Carmen Pennacchio

l’istanza, dal momento che questa attività rischia di essere soffocata dai pe-
santi risvolti tecnici (dalle metodiche e strategie, fino ai materiali, passando
per l’economia 3, inteso il gioco come business). Esso, però, non può so-
pravvivere a lungo di pura tecnica e di ricchezza, ed, infatti, emergono –
dai moderni dati fattuali – insufficienze ed antinomie che pongono all’at-
tenzione dell’interprete una serie di dettagli valoriali, i quali a loro volta
esigono riferimento anche alla storia del fenomeno ludico e sportivo 4.

virtuose e, appunto, il gioco. Il tiro – però – viene immediatamente corretto, sostenendo


che la felicità sia in realtà garantita solo dall’esercizio della virtù e non dal divertimento,
che troppo spesso distoglie da obiettivi più nobili e va comunque difeso solo se espressio-
ne di uno spirito libero. “Il passaggio semantico da ‘giocare’ a ‘rappresentare, mimare una
parte, recitare’ mi sembra comunque oltremodo significativo, ed è anche tipico, per esem-
pio, sia del francese che delle lingue germaniche: fr. Jouer, ingl. play, ted. spielen, ned. spe-
len, sved. spela, dan. spillen ecc., tutti ‘giocare’, ‘suonare’ e ‘recitare’”. Così si esprime M.
ALINEI, Lat. hister, -tri, histrio, -onis ‘attore’: un prestito dal greco mediato dall’etrusco, in R.
BOMBI, G. CIFOLETTI, F. FUSCO, L. INNOCENTE, V. ORIOLES (a cura di), Studi linguistici in
onore di Roberto Gusmani, Alessandria, 2006, 13. Inoltre, va ricordato che alle origini del
concetto del ‘gioco’ vi è molto spesso la nozione della ‘danza’ (cfr. C.D. BUCK, A dictionary
of selected synonyms in the principal Indo-European languages, The University of Chicago
Press, Chicago Illinois, 1949, 16.26). La danza mimica alla quale fu aggiunto il canto (Liv.,
7.2.2) indicò la necessità di creare un nuovo lemma (histrio) indicante un attore danzatore,
accentuando la mediazione con l’etrusco. Si veda il gioco del Phersu al quale facciamo rife-
rimento nell’ultimo § del presente scritto.
3
Prendiamo ad esempio, la competizione sportiva, A. BUONFINO, Competizione sportiva
e sviluppo sostenibile nel sistema della Carta olimpica: riflessioni a margine dei giochi di Rio,
in Rivista di Diritto Sportivo (CONI), versione online, 4 luglio 2016.
4
Una valutazione storica quindi può essere un valido contributo per una cultura del
gioco e dello sport. Infatti, già nel mondo greco il fenomeno si trova connesso alla cultura,
anzi nella storia, appare non solo condizionato dalla cultura del tempo ma anche in grado
di pigmentare valori – quali l’uguaglianza, la fratellanza e la lealtà – che dal gioco transita-
no alla società. L’esperienza greca, come quella medievale, li propongono, almeno in parte,
in quanto lo sport, ad esempio, è sempre stato, per sua stessa natura, rispetto delle regole;
ma, oltre a questo, nell’antichità albergava l’idea che lo sport potesse essere vettore di
un’esperienza di comunità umana (Giochi Olimpici, panellenici). Limiti, ovviamente ve ne
erano, tant’è che, nella concezione greca, la pratica di una attività era riservata ai maschi
(aristocratici e fisicamente perfetti). Alla fine del XIX secolo, i valori dell’antichità verran-
no ridisegnati nella carta olimpica (pubblicata all’inizio del XX, ultima revisione appartie-
ne al XXI secolo), ovviamente senza i pregiudizi del passato, essendo riconosciuto il carat-
tere ecumenico dello sport, grazie alla possibilità, offerta a tutti, di accedervi. A quel tem-
po come pure nel nostro, i valori di uguaglianza, fratellanza e lealtà non erano pienamente
acquisiti dalla società ed il movimento olimpico, proponendoli, ne favorì la diffusione in
un contesto dove lo sport subiva anche la pressione di una mentalità comune spesso elita-
ria, se non addirittura razzista. Lo stesso de Coubertin (che scrisse alcune regole nel 1899)
non era immune da pregiudizi, non sopportando l’agonismo femminile, convinzione gene-
Immagini e giochi dell’antichità 3

2. Tra iocus e ludus …

La radice etimologica dei lemmi disvela molto della loro essenza 5 e del-
la, conservata o dimenticata 6, evoluzione 7.

rata dalla persuasione che la fisiologia della donna, diversa da quella dell’uomo, ed il ruolo
da ella stessa giocato nella società civile, la rendessero inidonea all’attività sportiva. Cfr.,
M.V. ISIDORI, Europeizzazione della Carta olimpica, in Studi sulla formazione, XII.1/2,
2009, 207 ss. Inoltre, R. FRASCA, Lo sport nel mondo antico, in Enciclopedia dello Sport,
Roma, 2003, 1 ss.
5
Cfr., A. NUTI, Ludus e iocus, Roma, 1998, 24. L’Autore evidenzia la natura particolare
del ludus per distinguerlo dal gioco come attività pubblica e sociale, (iocus): “Sono qui
presentate le otto delle ventuno attestazioni plautine in cui ludus compare al singolare. In
esse possiamo individuare un valore che non si discosta troppo dai termini italiani quali il
divertimento, gioco; ludus indica cioè qualcosa che è causa di ricreazione e svago per l’ani-
mo umano …”.
6
R. FRASCA, La dimensione ludica nella società romana, in F. CAMBI, G. STACCIOLI, Il
gioco in Occidente. Storia, teorie, pratiche, Roma, 2007, 13 ss.
7
Si potrebbe dire che agli inizi iocus, cioè il ‘gioco di parole/scherzo’ si opponeva a ludus,
ossia la ‘presa in giro/derisione’. Si pensi a ludibrio, ma anche al latino ludius che significa
istrione, ballerino, pantomimo, sebbene pure gladiatore. Da un lato, quindi, alcunché di lieve
e ironico, carnevalesco, dall’altra qualcosa di ‘studiato’, fisico, competitivo. Come a dire, og-
gi, uno spettacolo da circo rispetto a uno da stadio. Tale distinzione è netta nella opposizione
latina fra iocus e ludus. Non a caso nel linguaggio poetico ioci erano i divertimenti, gli spassi e
Iocus era la divinità dello scherzo. Mentre ludi erano gli esercizi militari, le gare pubbliche, i
giochi istituzionali, ma anche la scuola: ‘ludi magister’ era detto il maestro di scuola. Il deca-
dere, poi, del secondo termine rispetto al primo probabilmente si deve alla proibizione dei
giochi pubblici e delle Olimpiadi con Teodorico, su pressione dei cristiani, alla fine del IV
sec. d.C. Anche nella lingua greca c’è una netta distinzione fra paidià e agon/athlon. Il primo
termine rimanda al giocare dei bambini, mentre i secondi alla gara di adulti. E nel mondo
contemporaneo il primo lemma appartiene solamente al lessico colto, mentre dai secondi de-
rivano gli usatissimi agonistico e atletico. Quello che è significativo, tuttavia, è la densità poli-
semantica del verbo paizo, che sta alla base del sostantivo paidià, e che significa: ‘giocare,
danzare, suonare, scherzare, deridere, cacciare’, pure: ‘fare all’amore’. Anche nelle principali
lingue moderne ‘occidentali’ permane simile conglomerato semantico che accomuna tre si-
gnificati fondamentali: giocare, recitare, suonare. L’italiano giocare, anche se desueti ormai,
aveva i sensi pure di ‘suonare’ e ‘fare spettacolo’. Ma si pensi a lemmi come all’inglese to play
(dal sassone plegian/plega (= fare qualcosa solo per divertimento o svago), al tedesco spielen,
(parallelo all’olandese spelen, ne è sconosciuta l’etimologia), entra nel linguaggio medievale
col significato specifico di ‘danza/danzare’. Il significato sportivo è documentato a partire
dalla fine del XVIII sec. Altra ipotesi deriva spielen dalla forma ausspielen (= giocare una car-
ta), che risale al latino allusio (= scherzo) che richiama lusio (= gioco, divertimento e rinvia a
lusus), al francese jouer (come l’italiano, lo spagnolo, il portoghese e il rumeno: a juca, dal la-
tino iocari (= scherzare) e al russo igrat (Vasmer mette in parallelo igrá (= gioco) e igrat (=
giocare) rispettivamente al greco: paignion (= gioco, giocattolo, scherzo, trastullo, divertimen-
4 Carmen Pennacchio

Gioco 8 deriva dal termine iocus 9, con significato, originario, di “gioco


di parole”, “scherzo” 10, facezia (arguta o volgare) 11, nella declinazione plu-

to, scenetta, ludibrio, amante), e paizein [v. supra], cfr.: M. VASMER, Russisches Etymologi-
sches Wörterbuch, Heidelberg, Winter, 1953-58, s.v. igrá), e che tutti mantengono i tre signi-
ficati. Anche nello spagnolo jugar oltre al senso di ‘giocare’ c’è quello di ‘aver parte’, ‘interve-
nire’, (juego significa anche stupire il pubblico con giochi di parole) e pure nel portoghese
jogar, oltre a ‘giocare’ e ‘scherzare’, c’è nel sostantivo jogo la valenza teatrale: jogo cénico, e
musicale, dato che allude all’insieme dei registri di un organo. A dire dell’origine del gioco
come emanazione/derivazione dal ritmo, dalla commistione di verbale, musicale e fisico, tipi-
co della antropologia che si manifesta nella religiosità, nella rappresentazione teatrale, nella
festa popolare, non è facile. Il gioco è un agire che collabora al tentativo di interpretazione
dell’enigma dell’esistenza che l’umanità si dà; ma esprime pure una manifestazione dell’indi-
viduo che intenda definirsi. Il gioco, piú che alla struttura dell’io, serve all’autocostruzione
dell’immagine di sé. Mediante il giocare uno ‘realizza’ quello che crede di essere; specie nel-
l’età giovanile. Spesso si tratta di una forma di autoinvestitura fantastica, mediante cui ci si
distingue dalla figura o ruolo sociale che la comunità parentale o sociale attribuisce, perché
non corrispondono a quelli che uno ritiene di rappresentare. Tuttavia non si è giunti finora
ad una definizione soddisfacente del gioco, che rimane, per certi aspetti, un enigma. Si tratta
però di considerarlo come un dato costitutivo per la formazione del pensiero e della creativi-
tà umani. Cfr., A. NUTI, Percorsi di ludicità nella lingua latina, Roma-Treviso, 1998, passim.
8
Anticipando di secoli l’attuale dibattito sulla pedagogia e sull’estetica del gioco, Pla-
tone riconosce l’aspetto educativo dell’attività ludica quando, nelle Leggi, descrive il gioco
dei bambini piccoli come una preziosa occasione educativa, oltre che ricreativa, utile per lo
sviluppo corporeo attraverso il movimento, per la socializzazione (si privilegiava infatti
l’attività in un gruppo eterogeneo) e, infine, efficace per la crescita morale attraverso il
principio che impone il rispetto delle regole e la loro immodificabilità. Solo indirettamente
evocato da Platone, ma fondamentale nella moderna concezione del gioco, è infine la sua
dimensione simbolica e mimetica: attraverso la moltiplicazione di simboli, maschere, fin-
zioni, il gioco si presenta infatti come un grande teatro, una sorta di scena immaginaria la
cui funzione metaforica non riduce, ma anzi esalta la serietà della rappresentazione. Il
connubio tra serio e scherzoso, tra impegno e levità è chiaramente restituito dall’etimolo-
gia greca della parola “gioco”: paignion ha la medesima radice di pais, “bambino”, di
paizein (che significa “giocare”, ma anche danzare, suonare, fare l’amore), e infine di pai-
deia, “educazione” e cultura nel senso più nobile e completo del termine. Nel gioco esiste
un’unione inscindibile tra leggerezza e serietà; pur essendo espressione della massima li-
bertà, il gioco chiede il severo rispetto di regole, senza le quali non solo non funzionereb-
be, ma addirittura non esisterebbe.
9
Cfr., G. CIPRIANI, sv. Iocus, in EO, 2, 1997, 401 s. Il termine è ‘divertimento, gioco; op-
posto a serium, il serio, <iocor, iocaris> scherzo’, collegabile ad ambiti linguistici orientali ac-
cadico-ebraici che significano ‘essere folle’, ‘fare festa’, ‘danzare’, ‘discorrere’, ‘disputare’.
10
Se si riflette sui termini che dicono ‘il giocare’, si vede, secondo alcuni, con nettezza,
come gli etimi rimandino alla sfera del parlare e dello scherzo verbale. Si pensi all’indoeu-
ropeo yok-o (= qualcosa detto), stessa famiglia di yek (= parlare), mentre per altri iocus sta
per diocus dalla radice div-=dju giocare, scherzare. Iocus, secondo Semerano (G. SEME-
RANO, Dizionario della lingua latina e di voci moderne, Firenze, 1994, s.v.), è “divertimento,
Immagini e giochi dell’antichità 5

rale, poi, indica spesso i giochi amorosi 12, il corteggiamento disimpegna-


to 13, i componimenti letterari a sfondo erotico 14.
Il gioco di azione è invece reso con ludus 15, così quelli pubblici nel Cam-

gioco; opposto a ‘serium’, il serio, <iocor, iocaris> scherzo”, collegabile ad ambiti linguistici
orientali accadico-ebraici che significano ‘essere folle’, ‘fare festa’, ‘danzare’, ‘discorrere’,
‘disputare’.
11
Hor., epist. 2.1.145-155: Fescennina per hunc invecta licentia morem versibus alternis
opprobria rustica fudit, libertasque recurrentis accepta per annos lusit amabiliter, donec iam
saevos apertam in rabiem coepit verti iocus et per honestas ire domos inpune minax. doluere
cruento dente lacessiti; fuit intactis quoque cura condicione super communi; quin etiam lex
poenaque lata, malo quae nollet carmine quemquam describi: vertere modum, formidine fu-
stis ad bene dicendum delectandumque redacti. [In queste usanze nacque la licenza dei Fe-
scennini, che in versi a botta e risposta profondeva rustici improperi e la libertà, ben accet-
ta nella ricorrenza annuale, scherzò amabilmente, finché il gioco, fattosi crudele, cominciò
a mutarsi in rabbia aperta e a portare impunemente minacce per le case degli onesti. Chi fu
provocato dal morso sanguinoso si dolse e anche quelli che non erano toccati si preoccu-
parono della sorte comune e finì che fu proposta una legge e una pena, per impedire che
uno fosse vittima di canzoni diffamatorie: cambiarono sistema, la paura del bastone li ri-
portò a divertire senza parole d’insulto.]. Il costume della festa contadina offre sfogo a
pulsioni liberatorie e aggressive, connesse con rituali di fecondità animale e vegetale. Se-
condo questa ricostruzione oraziana, la primissima fase, quella identificata con la Fescen-
nina licentia, consiste in uno scambio di amabilità rustica in versi: insulti, rozze battute ag-
gressive di carattere contadino, secondo l’accezione sia denotativa che connotativa dell’ag-
gettivo. Il rituale rustico, recepito e in qualche modo ‘regolarizzato’ nell’ambito delle ri-
correnze annuali, (notevole lo slittamento semantico da licentia a libertas) si evolve in un
lusus piacevole e socialmente apprezzato (seconda fase: lusit amabiliter), fino a una terza
fase, in cui il gioco (si noti ancora lo slittamento semantico lusus/iocus) si evolve ulterior-
mente verso l’aggressione violenta, che, con la copertura di impunità assicurata da un con-
testo originariamente rituale, tende a diventare una minaccia incontrollabile per la rispet-
tabilità sociale (per honestas ire domos). Inoltre in Ovidio ritroviamo iocus (Ars amat. 3.
367: mille facesse iocos. turpest nescire puellam/ ludere: ltdendo saepe paratur amor); (Ars
amat. 3.381: hos ignava iocos tribuit natura puellis; / materia ludunt uberiore viri).
12
A. TEDESCHI, Il giogo imperfetto e lo scarto in amore, in Aufidus, 10, Roma, 1990, 53 ss.
13
All’amore visto come passione esclusiva e spesso devastante di Catullo e Properzio,
Ovidio (Remedia 25.6) mette di fronte l’esperienza d’amore a poco più di un “lusus” mon-
dano e galante (un gioco), analizzandola con ironia e distacco intellettuale. Sul punto, G.
MOTTI, Un proemio ovidiano e la presenza di Meleagro: Rem. am., 25-6, in Analecta Brix
iana, 2004, 303 ss.
14
Orazio in Carm. 1.33.11-12 ricorda il gioco feroce (saevus iocus) di Venere che “sot-
topone a un sol giogo di bronzo le difformi nature”, obbligando ad accoppiarsi individui
che non possono stare insieme.
15
Il verbo ludo, come il sostantivo ludus derivano dalla radice indoeuropea *loid – che
ha dato come esito in latino lud – e in greco loid (or) – da cui loidoreuw, “insulto”. Il signi-
ficato del verbo greco non è lontano dal latino ludibrium, derisione, e all’italiano ludibrio. Si
6 Carmen Pennacchio

po Marzio 16, gli spettacoli dei gladiatori 17, gli agoni sportivi. Il gioco, dun-
que, come ludus 18 è una risorsa e un antidoto al disastro sociale 19. Nel
mondo greco erano i Giochi Olimpici a costituire, nella loro scadenza
quadriennale, la principale manifestazione sportiva e insieme religiosa del-
l’Ellade.
In sintesi, il lemma “gioco” (e la proiezione del fenomeno) 20 ha in origi-
ne una semantica ristretta ai giochi di parola, mentre il gioco più propria-
mente d’azione, per i latini, era designato con ludus 21, come abbiamo rileva-

vede dunque che la radice ha una componente negativa che può sempre affiorare. Per
esempio in collusione, delusione, illusione. M. TAGLIAFICO, Ludiones, ludi saeculares e ludi
scaenici, cit., 53 s.
16
Cfr., R. FRASCA, La dimensione ludica, cit., 16, a proposito dell’origine di essi.
17
Apprezzabile appare il collegamento ai ludiones, sul punto vedi, B. ZUCCHELLI, Le
denominazioni latine dell’attore, Brescia, 1964, 20, il quale ipotizza che con il termine lu-
dius si intendesse colui che attivamente o passivamente partecipava al ludus. La derivazio-
ne di ludius da ludere e sostenuta anche da A. ERNOUT, A. MEILLET, Dictionnaire ttymolo-
gique de la langue latine, Paris, 19594, 369. Inoltre, M. TAGLIAFICO, Ludiones, ludi saecula-
res e ludi scaenici, cit., 53 in particolare nota 15, ed altra bibliografia ivi riportata. Interes-
santi appaiono i collegamenti lessicali riferiti dall’Autrice.
18
Miserarum est neque amori dare ludum neque dulci / mala uino lauere aut exanimari /
metuentis patruae uerbera linguae (Horat., carm. 3.12.1-3) Secondo parte della dottrina
(cfr. R.G.M. NISBET, N. RUDD, A Commentary on Horace: Odes Book 111, Oxford, 2004,
167) l’espressione dare ludum è da intendersi nel senso di ‘concerdersi al piacere’ e si rinvia
anche a Plaut., Bacch. 1083: ‘nimi’ nolo desidiae ei dare ludum, e a Cic. Cael. 28 datur enim
concessu omnium huic aliqui ludus aetati.
19
L’associazione iocus ludus è presente, certamente, in Plauto (Capt. 770, ludum iocum;
Merc. 846, ludum iocum; Ps. 65; Cic. Cael. 46, ludus iocus; Verr. 2.1.155, per ludum et io-
cum) ed in Terenzio (Eun. 300, ludum iocumque).
20
Il termine ‘gioco’ richiama, in realtà, come alcuni autori in particolare hanno contri-
buito a chiarire, una classe indefinita di dinamiche, non sussumibili, per le loro divergenti
caratteristiche, ad un unicum definitorio. Su questa linea, ancora Wittgenstein ha afferma-
to che il gioco è un “concetto dai contorni sfumati”, L. WITTGENSTEIN, Philosophische Un-
tersuchungen, Philosophical investigations, a cura di G.E.M. ANSCOMBE e RUSH RHEES, Ox-
ford, 1953, 1958; Ricerche filosofiche, trad. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, a cura di M.
Trinchero, Torino, Einaudi, 1967, 47 s.
21
Il gioco per gli antichi rappresenta uno strumento per lo sviluppo del corpo. Infatti i
ludi sportivi richiedevano ai partecipanti una preparazione con allenamenti durissimi e co-
stanti (a partire dai sette anni di età, quando essi cominciavano a frequentare le scuole-
ginnasi). Inoltre, la stretta connessione tra mente e corpo permetteva di avvertire il gioco
anche come allenamento mentale, strumento per fortificare lo spirito e, in un secondo mo-
mento, mezzo per acquisire sviluppate capacità logiche e mnemoniche, come nel caso dei
giochi matematici, degli enigmi e dei paradossi. In altro senso, L. PÉREZ GÓMEZ, Literacy
en Plauto: Discere et docere o la escritura como ludus, Florentia Iliberritana 18, 2007, 333 ss.
Immagini e giochi dell’antichità 7

to supra. A riprova di come l’estensione espressiva della parola gioco sia


molto grande in tutte le lingue europee, il latino, a differenza del sottile e
raffinato greco, preferiva una sola parola per esprimere tutto il dominio del
gioco e del giocare: ludus e ludere. Come abbiamo già detto prima, vi è an-
che iocus, iocari, col significato specifico però di scherzo, burla.
La base etimologica di ludere, anche potendola usare per il guizzare dei
pesci, per lo svolazzare degli uccelli, per il mormorio dell’acqua, sembra
non omologarsi al potere del movimento veloce 22, come accade per tante
parole che in altre lingue designano il gioco, ma piuttosto a quello della
non-serietà, dell’apparenza, dello scherno. Ludus, ludere raccoglie il passa-
tempo del bambino, la ricreazione, la gara, la rappresentazione liturgica e
scenica in generale, il gioco d’azzardo. Anche i composti alludo, colludo,
illudo, deludo tendono tutti al senso dell’irreale, dell’ingannevole. Da que-
sto sostrato semantico derivano i ludi, nel significato di giochi pubblici, ed
il ludus col senso di scuola 23, il primo partendo dal significato “gara”, il se-
condo probabilmente da quello di “esercizio”.
Per ragioni fonetiche o – meglio – semassiologiche, i segni ludus, ludere
della lingua latina sono stati surrogati dai derivati del termine iocus, iocari,
in tutte le lingue romanze ed è significativo che, in questo passaggio,
l’accezione si sia ulteriormente estesa, giungendo a comprendere parecchie
nozioni di movimento e di azione che poco hanno a che vedere col gioco in
senso stretto e formale; ad esempio l’uso del termine giocare, gioco, per
indicare la limitata mobilità della parte di qualche meccanismo è comune
al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e
anche al giapponese.
Abbandonando la nostra forma mentis ed indagando, ad esempio, nel-
l’ambito della lingua cinese, si incontrano ulteriori spunti di riflessione: la
parola wan si riferisce al gioco dei bambini, ma significa anche occuparsi
di qualche cosa, divertirsi con qualcosa, baloccare, saltellare, folleggiare,
scherzare, annusare e perfino godere del chiaro di luna.
La base semantica sembra dunque espressione di un avvicinare una cosa
con festevole attenzione, essere assorto in modo vago e lieve; per indicare il
gioco di abilità (o la gara), la lingua cinese utilizza il lemma cheng che ap-
partiene al concetto di “situazione, disposizione”, corrispondentemente ai
termini inglesi play e game.

22
R. FRASCA, Il corpo e la sua arte. Momenti e paradigmi di storia delle attività motorie,
da Omero a P. de Coubertin, Milano, 2005, passim.
23
R. FRASCA, Educazione e società in Grecia e a Roma, in P. SALADINI, R. LOLLI (a cura
di), Filosofie nel tempo, I, Dalle origini al sec. XIV d.C., Tomo I, Roma, 2001, 461 ss.
8 Carmen Pennacchio

Non è di poco momento la riflessione che in lingue appartenenti alle ci-


viltà cosiddette “primitive” si ritrovino distinzioni e puntualizzazioni anco-
ra più sottili; per esempio, nella lingua degli Algonchini, tribù indiana del
Canada sud orientale, esiste un termine, koàni, dal significato analogo a
play, mentre wan viene riferito principalmente al gioco dei bambini; per
adolescenti ed adulti che pratichino gli stessi svaghi esiste invece un termi-
ne rigorosamente diverso, salvo poi riprendere il termine koàni in senso
erotico e particolarmente per indicare le relazioni illecite.
La dottrina ha sperimentato una definizione, progressiva, del gioco:
“Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato
non è più un gioco (...) Gioco non è la vita ‘ordinaria’ o ‘vera’, è un allon-
tanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità
tutta propria, già il bambino sa perfettamente di ‘fare solo per finta’, di ‘fa-
re solo per scherzo’” 24. Ancora: “Il gioco è qualcosa di disinteressato, è un
intermezzo della vita quotidiana, una ricreazione”. E poi: “Il gioco si isola
dalla vita ordinaria in luogo e durata; (...) il gioco comincia ed a un certo
momento è finito” 25. Infine: “Ogni gioco ha le sue regole precise e possie-
de una sua armonia e bellezza (...). Il giocatore che si oppone alle regole o
vi si sottrae è un guastafeste. Il guastafeste è tutt’altra cosa che il baro: que-
st’ultimo finge di giocare il gioco” 26.
Cosa traiamo da queste poche riflessioni, innanzitutto che il gioco è un
atto libero. È libertà. Congiunta a questa è la seconda caratteristica: gioco
non è la vita “ordinaria” o “vera”. È un allontanarci da quella per entrare
in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria.
In quest’idea del soltanto per scherzo, come si verifica nel gioco, si ri-
trova la coscienza dell’inferiorità del “gioco” rispetto al “serio”, ma in real-
tà, tale percezione di giocare soltanto non esclude affatto che questo “gio-
care soltanto” non possa avvenire con la massima serietà, anzi con un ab-
bandono, che si fa estasi 27. Ogni gioco può in qualunque momento impos-
sessarsi completamente del giocatore.
L’antitesi gioco-serietà 28 soffre il limite della presupposta superiorità

24
J. HUIZINGA, Homo Ludens, cit., 11.
25
J. HUIZINGA, Homo Ludens, cit., 13.
26
J. HUIZINGA, Homo Ludens, cit., 15.
27
P.P. FIORINI, L’essenza del gioco e il tentativo del diritto: Linee di una indagine feno-
menologica, in Rivista della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, Roma, 1, 2004,
277 ss.
28
Cfr., A. FERRARI, “Tenuissimus ingeni fructus”: il riso secondo Cicerone, in Studying
Humour – International Journal, 1, 2014. Per introdurre l’argomento del ridicolo, Cicerone
Immagini e giochi dell’antichità 9

della serietà. Il gioco si converte in serietà, la serietà in gioco e sa innalzarsi


a vette di bellezza e di “santità” che la serietà non raggiunge 29.
La dinamica del gioco isola dalla vita di tutti i giorni in luogo e durata,
si srotola entro confini cronologici e spaziali ed ha svolgimento proprio e
senso in sé.
Come formalmente non appare diversificazione tra gioco e rito, nel sen-
so che il rito si compie con le stesse forme d’un gioco e viceversa, allo stes-
so modo non si distingue il luogo deputato al rito da quello al gioco 30.
Nell’ambito degli spazi destinati al gioco, domina un ordine proprio e
assoluto. Segno importante del gioco è che esso crea un assestamento, rea-
lizza, nel mondo manchevole e nella vita confusa, una perfezione limitata,
nel tempo e nello spazio. L’ordine imposto dal gioco è assoluto. La minima
deviazione da esso rovina il gioco, gli toglie il suo carattere e lo svalorizza.
Ogni gioco è provvisto di regole, le quali determinano quello che varrà
dentro quel mondo temporaneo delimitato, recano il carattere dell’obbli-
gatorietà e dell’inconfutabilità, nel momento in cui si trasgrediscono le re-
gole, il mondo così retto crolla. Non esiste più il gioco. Il giocatore che
s’oppone alle regole o vi si sottrae, non è tollerabile, il suo sottrarsi al gio-
co, rivela la sua relatività e la fragilità di quel mondo-del-gioco nel quale
era “provvisoriamente rinchiuso” con gli altri. Egli toglie al gioco l’illusio-
ne e, giacché minaccia l’esistenza della comunità “giocante”, deve essere
eliminato.

usa due termini: iocus, motteggio, e facetia, facezia, che, insieme, costituiscono l’ars salis
(2.216). Questi termini sono collegabili all’idea della leggerezza: iocus è anche il gioco e
implica l’immagine della levità scherzosa (il suo contrario è il serius sermo).
29
Il gioco si isola dalla vita ordinaria in luogo e durata. Si svolge entro certi limiti di
tempo e di spazio. Ha un decorso proprio e un senso in se stesso. Ecco qui una caratteri-
stica nuova e positiva del gioco. Esso comincia e a un certo punto è finito. Mentre ha luo-
go c’è un movimento, un andare su e giù, un’alternativa, c’è il turno, l’intrigo e il districa-
mento. Alla sua limitazione nel tempo si collega un’altra qualità curiosa. Il gioco si fissa
subito come forma di cultura. Giocato una volta, permane nella memoria come un ricordo,
o come un tesoro dello spirito, e può essere tramandato, e ripetuto in qualunque momen-
to. Oltre alla limitazione nel tempo, il gioco ha una precisa limitazione nello spazio. Ogni
gioco si muove entro il suo ambito, il quale, sia materialmente sia nel pensiero, di proposi-
to o spontaneamente, è delimitato in anticipo.
30
L’arena, il tavolino da gioco, il cerchio magico, il tempio, la scena, il tribunale, tutti
sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè spazio delimitato, luoghi segregati, cin-
ti, consacrati, sui quali valgono proprie e speciali regole. Sono dei mondi provvisori entro
il mondo ordinario, destinati a compiere un’azione conchiusa in sé.
10 Carmen Pennacchio

3. … c’è l’azzardo

Nel mondo antico, il gioco d’azzardo (termine che deriva dall’arabo az-
zahr e significa dado 31) consisteva nello scommettere beni sull’esito di un
evento futuro e, per tradizione, le quote si pagavano in contanti. L’azzardo
nacque quando indovinare un evento futuro, da pratica esclusiva di indo-
vini e sacerdoti, si trasformò anche in occasione di sfida tra uomo e fato, e
tra uomo e uomo. Giocare d’azzardo divenne, pertanto, una pratica sociale
in cui furono stabilite delle regole e delle poste in palio. I più antichi giochi
d’azzardo si facevano, infatti, utilizzando dadi e scommettendo sul numero
che sarebbe uscito.
Maschi e femmine, i bambini romani giocavano alle noci 32 e le usavano
spesso in alternativa alle biglie; tali frutti, erano talmente importanti, nel-
l’immaginario collettivo, che la giovane età veniva chiamata il tempo delle
noci, un tempo che sarebbe finito con l’infanzia stessa. L’espressione, in-
fatti, relinquere nuces (lasciare le noci, Catull., 71.131) significava lasciare
l’infanzia, una svolta importante per un giovane romano. Secondo Marzia-
le: “già triste lo scolaro ha lasciato le noci/dietro gli schiamazzi del mae-
stro”. Al compimento del diciassettesimo anno d’età il giovane indossava la

31
Da cui probabilmente discende “zara”, famoso gioco a tre dadi molto praticato nel-
l’antichità, che consisteva nell’indovinare in anticipo il risultato dovuto alle diverse combi-
nazioni dei vari lanci
32
Con le noci si poteva giocare a nuces castellatae (Plin., Nat. Hist. 19.112), per il quale
bastavano quattro noci, non di più. Il gioco consisteva nel fare un triangolo con tre noci
ravvicinate, mettendone poi una in cima, formando così un castello. L’avversario doveva
lanciare una noce addosso al castello: se lo distruggeva vinceva le noci colpite, se non le
colpiva non guadagnava nessuna noce. Noci sull’asse inclinata; si svolgeva prendendo
un’asse di legno e tenendola sospesa, con un’estremità appoggiata per terra; ogni giocatore
faceva rotolare la propria noce sull’asse e cercava di colpirne o sfiorarne qualcuna dei
compagni, tra quelle sparse per terra; quando non riuscivano a colpirne, lasciavano lì la
propria, così gli altri giocatori potevano conquistarla. Orca; consisteva nel cercare di far
entrare nel collo di un’anfora una noce lanciata da una certa distanza. Tropa o fossetta;
bastava realizzare un avvallamento nel terreno che diventava il bersaglio nel quale far en-
trare la noce o la biglia. I greci chiamavano questa variante gioco della tropa. Doveva con-
sistere nel far cadere una noce, secondo una successione stabilita, in tutte le fossette, fino
ad arrivare all’ultima al di là della riga (come il minigolf). In alcuni casi l’ultima buca era
rettangolare per evidenziare la fine del percorso. Il delta (Nux, 81-84) o triangolo, l’indo-
vinello del numero delle noci contenute nel sacchetto, quel sacchetto in cui ogni bimbo
conservava gelosamente le sue noci: erano il suo tesoro, ed egli cercava di accrescerlo, cosa
che riusciva a fare vincendo le gare contro i suoi compagni. Le cinque dita o il par-impar
(Nux, 79), il pari e dispari; alcuni dei giochi che i fanciulli facevano con le noci, li potevano
fare anche con gli astragali, gli ossicini o le biglie.
Immagini e giochi dell’antichità 11

toga virile e appendeva la sua bulla sopra il focolare domestico. Nella ope-
ra Nux, Le noci, attribuita, con qualche perplessità, ad Ovidio, si descrivo-
no almeno sei tipi diversi di gioco 33.
Il segno linguistico alea 34 traduce ‘dado/gioco di sorte con dadi’,
facendo un passaggio successivo, diviene sinonimo di ‘caso’, ‘rischio’
e, infine, ‘azzardo’ 35. Da queste premesse vien fuori aleator 36, aleato-

33
Un po’ come le figurine moderne, le noci erano infatti oggetto di accumulo e sfide
in partite organizzate con i propri compagni di gioco. Le noci erano così identificative
con l’età dei più piccoli, e ne troviamo eco anche nei poeti antichi. Catullo nel carme 61,
un’epitalamio dedicato alle nozze di Manlio e Aurunculeia, nei vv. 119-128, scrive: Ne
diu taceat procax [Non taccia più lo scherzo] / Fescennina iocatio, [fescennino salace,] /
nec nuces pueris neget [non neghi ai bambini le noci] / desertum domini audiens
[l’amante, sapendo di essere]/concubinus amorem [abbandonato dal suo padrone] / Da
nuces pueris, iners [Da’ le noci ai bambini,] / concubine! Satis diu [amante disoccupato;]
/ lusisti nucibus: lubet [che con le noci hai giocato abbastanza:] / iam servire Talasio. [È
ora di servire Talassio;] / Concubine, nuces da. [da’ le noci ai bambini.]. Il poeta ci in-
troduce ad un costume romano, quello dello sposo di donare noci ai bambini come ri-
tuale di passaggio dall’età dell’infanzia a quella della maturità, segnata appunto dal re-
linquere nuces, lasciare le noci, famosa frase di Persio (1.10). In questo caso è il povero
schiavo a dover lasciare il gioco, perché con l’arrivo della sposa, il tempo per questo
amore era finito per sempre. A dispetto di altri giochi di cui non abbiamo un riscontro
letterario o figurato, le noci sono abbastanza rappresentate nell’arte e anche un poemet-
to di 182 versi chiamato, Nux, La noce, come abbiamo già detto sopra, attribuito erro-
neamente ad Ovidio, ci elenca una serie di attività ludiche in cui i frutti erano protagoni-
sti assieme all’abilità dei partecipanti. In relazione all’educazione, R. FRASCA, Il lavoro
“sacro” del puer romano, in E. BECCHI, A. SEMERARO (a cura di), Archivi d’infanzia, Firen-
ze, 2001, 357 ss.; EADEM, Modelli della storiografia dell’educazione antica greca e romana,
in L. BELLATALLA, P. RUSSO (a cura di), La storiografia dell’educazione. Metodi, fonti,
modelli e contenuti, Milano, 2005, 151 ss.
34
F. WAGNER, sv. Alea, in Lexicon Latinum seu […] Universae Phraseologiae Corpus
Congestum [...], Bruges, 1878, 38.
35
G. GRECO, Gioco d’azzardo e deterrenza: brevi note sui susceptores, in Iura and Legal
Systems, 3, 2016, 45 ss. Per definizione, un gioco è d’azzardo quando prevede una scom-
messa in denaro su eventi prevalentemente aleatori, cioè casuali. Il termine arabo az-zahr
che significa dado, oggetto associato per antonomasia al gioco, spiega il termine. Non a
caso, anche aleatorio, dal latino aleatorius, deriva da alea, che significa ‘gioco di dadi’ o
‘rischio’.
36
Nel Digesto troviamo un intero titolo (D. 11.5) dedicato alla figura. In tema l’ar-
ticolo di E. QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De aleatoribus) y C. 3.43 (De aleae lusu et aleatori-
bus): precedentes romanos del contrato de juego, in Anuario jurídico y económico escuria-
lense, 42, Madrid, 2009, 17 ss.; ripubblicato con lo stesso titolo, ma con un ampliamento
in Revista General de Derecho Romano, www.iustel.com, 12, 2009, 1 ss.). In relazione alla
loro fama, per le fonti, Cic., Phil. 8.26 e Catil. 2.23; in letteratura, cfr., A. BOTTIGLIERI, Il
gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima de poenis, 1, Napoli,
12 Carmen Pennacchio

rius 37. L’incertezza delle origini terminologiche non chiudono il vasto


campo semantico nel quale alea gravita, i luoghi concettuali che apre, i ge-
sti umani che stringe e custodisce, infine gli effetti che l’agire – ludere o
exercere in alea – produce.

2015, 58. Il gioco d’azzardo rappresentava una pratica frequente che non si arrendeva
neanche di fronte alle distinzioni cetuali, essendo forte la sua seduzione. L’alea contrad-
distingueva ogni agone nel quale il superamento vittorioso era retto solo da un dato sog-
gettivo, che era la temerarietà dei partecipanti, e da un elemento oggettivo, che era la ca-
sualità, non contando, ovviamente, le abilità individuali. Aleatores erano quasi sempre
schiavi, anche se non erano indifferenti al gioco gli appartenenti agli alti strati della socie-
tà (vedi gli esempi riferiti da G. GRECO, op. cit., 45 s., in particolare note 4, 5 e 6) ed il
dato emerge, a contrario, dalla lettura dell’ulpianeo D. 21.1.19.1, nel quale si rinviene
l’obbligo del venditore di uno schiavo di garantire che questi possieda le caratteristiche
vantate, ivi compresa la sua estraneità alla pratica del gioco d’azzardo. L’ostilità nei con-
fronti del gioco e, di converso anche, per i giocatori si fondava su varie ragioni che ri-
spondevano alla necessità di concentrazioni di ricchezza non legittimate dallo svolgimen-
to di attività produttive; la volontà di capitalizzare i frutti in risparmio; l’esigenza di legit-
timare fonti di arricchimento attraverso attività illecite. Cfr., A. BOTTIGLIERI, op. cit., 58
ss. L’ordinamento, almeno fino all’epoca repubblicana, radicava il disvalore con il quale
considerava l’azzardo in un’actio in quadruplum, probabilmente de aleatoribus, che vede-
va legittimato, attivamente, qualunque cittadino, contro i giocatori. La Compilazione
Giustinianea sanzionò la nullità del patto di gioco turpe (G. IMPALLOMENI, In tema di gio-
co, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, Napoli, 1984, 2331 ss.). Il vincitore
non poteva reclamare la posta non versata ed anche se vi fosse adempimento spontaneo,
sussisteva la ripetibilità di quanto versato da parte del perdente o, se si trattasse di un sot-
toposto, su iniziativa dell’avente potestà. Nei confronti del padrone si poteva esercitare
un’azione de peculio, se ad incassarla era stato un suo schiavo. Gli emancipati ed i liberti
perdenti potevano attivarsi per il recupero, in via utile, contro il pater familias e il patrono
(D. 11.5.4.1). Il termine prescrizionale dell’azione di ripetizione, ad opera di Giustiniano,
fu fissato in cinquant’anni. Si stabilì anche una ulteriore tutela a favore degli eredi del
perdente, offrendo loro la possibilità di esigere la restituzione di quanto versato dal de
cuius per motivi di gioco. A loro potevano surrogarsi i decurioni della città e i defensores
locorum, sottoposti alla vigilanza dei vescovi ed aiutati dai governatori provinciali (C.
3.43.1.1). Per una rassegna dell’indagine, si veda G. GRECO, op. cit., 47, nota 14. In gene-
rale per la lex (o le leges: D. 11.5.3 [Marcian. 5 reg.]) de alea, cfr., C. SCHÖNHARDT, Alea.
Über die Bestrafung des Glücksspiel im älteren römischen Recht. Eine Strafrechtsgeschi-
chtliche Studie, Stuttgart, 1885, 7 ss., 36 ss.; M. KURYLOWICZ, ‘Leges aleariae’ und ‘leges
sumptuariae’ in antiken Rom, in Studia E. Polay, Szeged, 1985. Inoltre. G. IMPALLOMENI,
In tema di gioco, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, V, Napoli, 1984, 2331 ss. (=
Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 499 ss.).
37
Individua cosa pericolosa o incerta (come un contratto assicurativo) che dipende
esclusivamente da circostanze fortuite. Se aleatorio subisce la perdita del suo stretto lega-
me col gioco, subentra, invece, propriamente connesso col gioco, azzardo, che esprime il
rischio che si corre puntando anche grosse cifre di denaro, ma non solo.
Immagini e giochi dell’antichità 13

Isidoro di Siviglia (Etymologiae 60.1), per il quale alea 38 rappresenta lu-


sus tabulae (gioco di dadi con scacchiera), liquida le origini del lemma fa-
cendo ricorso ad una etimologia di carattere onomastico, richiamando un
aneddoto prime facie semplice ma particolarmente gettonato da lessici e
dizionari: Alea era un soldato che inventò il gioco con dadi nei momenti
d’ozio durante la guerra di Troia 39; anche se non sfugge, a chi scrive, altra
voce dottrinale che propone una sua derivazione latina da alea, utilizzato,
in epoca romana, nel significato di azzardo 40. Si badi, comunque, che l’alea-
torietà, quantunque marcatamente collegata al fenomeno ludico del gioco
e della scommessa 41, se ne distingue per la portata ben più ampia; e, altret-
tanto, deve dirsi, l’alea rappresenta solo uno dei modi d’essere del contrat-
to aleatorio, quale elemento originario e caratterizzante “che colora e qua-
lifica lo schema causale del contratto” 42.
Nella lingua latina sono presenti anche altri vocaboli che traducono il
dado 43: talus 44, o il suo diminuitivo taxillus, e tessera.
Ancora Isidoro ne rileva alcuni usi, ed anche se sia acclarata la tesi di un
lemma dall’origine incerta, le ipotesi etimologico-semantiche intorno al
tratto latino alea non mancano di creare una fitta trama di suggestioni 45.

38
Fonti sulla storia dell’alea si rinvengono pure in Plaut., Mil. 164; cfr. Horat, carm.
3.24.58; Ovid., trist. 2.470 s.; in tal senso C. CASCIONE, Tresviri Capitales. Storia di una Ma-
gistratura Minore, Napoli, 1999, 190 in particolare nota 95.
39
G. RIDOLFI, sv. Alea-Aleatorii (Contratti), in Digesto italiano, 1, Torino, 1929, 253.
40
S. MAIORCA, Il contratto. Profili della disciplina generale. Lezioni di diritto privato, To-
rino, 19962, 78.
41
In proposito, G. GRECO, Ludi, Sponsiones e Autonomia Privata, in Ludi Universum –
Gioco Pubblico, Sport e Tempo Libero, Rivista Scientifica dell’osservatorio Internazionale sul
Gioco, 1, 2016, 115 ss.
42
Così, R. NICOLÒ, sv. Alea, in ED., II, Milano, 1958, 1029.
43
Antenati dei dadi potrebbero essere gli astagali.
44
Plauto, in una battuta del Curculio (354), propone la differenza tra talus e alea, no-
nostante entrambi possano nominare i dadi: Talos poscit sibi in manus. Provocata me in
aleam, ut ego ludam. [Prese in mano i dadi (talos), e provocatomi a sfidare la sorte (aleam)
perché io giocassi].
45
Il Thesaurus Linguae Latinae (1900) – facendo eco allo studio di grammatica compa-
rativa di Leo Meyer (1861) – deriva alea dalla parola sanscrita aksáh (dado) e repertoria il
termine sotto l’uso proprio, da riferirsi ai dadi e al gioco; ed altra rubrica che fa appello al
l’uso traslato e proverbiale, riconducibile al significato più astratto di caso e di fortuna.
Nell’Etymologicum (1662) Vossius connette alea al verbo greco ἀλάομαι che significa
‘andare errando’, o ‘girare qua e là’, con una sottile sfumatura d’incertezza. In certi casi
può significare ‘esser esiliato’ (G.J. VOSSIUS, Etymologicon linguae latinae. Praefigitur eju-
14 Carmen Pennacchio

Leggiamo il parere di

sdem de literarum permutatione tractatus, Amsterdam, 1662). Da questo presupposto – se-


condo Chantraine – è nato il nomen agentis ἀλήτης (P. CHANTRAINE, Dictionnaire Étymolo-
gique de la Langue Grecque. Histoire des mots, Paris, 1968), ‘errante’ o ‘vagabondo’ (sui
nomina agentis, vedi E. BENVENISTE, Noms d’agent et noms d’action en Indo-Européen, Pa-
ris, 19932). Francis E.J. Valpy, nell’Etymological Dictionary of the Latin Language (Valpy
1928), fa sua, e coltiva, questa ipotesi (eccentrica?) dell’origine greca ed individua nell’ag-
gettivo ἠλεός, che traduce ‘folle’, il corrispondente dorico ᾱλεᾱ dal quale potrebbe dedursi
la genesi del latino alea, comunque non dimendicando che un’altra possibile derivazione è
agganciabile al sostantivo ἅλη, l’‘andare errando’, una corsa vagabonda che, nella forma
traslata, significa ‘perplessità’ e ‘disordine’ e in quella transitiva ‘ciò che fa errare’, o ‘travia’
(L. ROCCI, s.h.v. Vocabolario greco-italiano, Roma, 1939). Quest’ultima sfumatura lessicale
è appartenuta ad Eschilo, nel primo canto del coro di Agamennone (vv. 191-194), quando
prima del vaticinio dell’oracolo (che avrebbe suggerito lo sgozzamento di Ifigenia), le navi
e gli uomini sono ferme in preda ai venti ed all’ozio “che fa errare”. Isidoro di Siviglia ri-
conosce la caratteristica della sospensione e dell’indugio nel gioco aleatorio e correlaziona
il moto continuo dei dadi, mai fermi e stabili in un punto fisso, con il fluire incessante del
tempo: Quidam autem aleatores sibi videntur phisiologice per allegoriam hanc artem exerce-
re, et sub quadam rerum similitudine fingere. Nam tribus tesseris ludere perhibent propter
tria saeculi tempora: praesentia, praeterita et futura; quia non stant, sed decurrunt. Sed et ip-
sas vias senariis locis distinctas propter aetates hominum ternariis lineis propter tempora ar-
gumentatur. Inde et tabulam ternis discriptam dicunt lineis. [Alcuni giocatori ritengono che
l’esercizio di quest’arte si fondi su basi naturali e credono che esso abbia un determinato
significato allegorico. Dicono, infatti, che si gioca con tre dadi a significare i tre tempi del
mondo: il presente, il passato e il futuro, che come i dadi non rimangono mai fermi, ma
trascorrono incessantemente]. Inoltre, cfr., A. ERNOUT, A. MEILLET, sv. Alea, in Dictionnai-
re Étymologique de la Langue Latine. Histoire des mots, Paris, 1959, nel quale il termine
traduce una sorta di gioco di dadi su tavola con i tali, ossicini o astragali; significa anche
‘gioco d’azzardo’ e, per spostamento figurato, intendendo azzardo in opposizione a ratio.
Per la contrapposizione tra alea e ratio, sempre nel dizionario si rinvia al De re rustica (1.4-
18 passim), dove Varrone lega alea a un tempo di assenza di salubritas della terra, durante
il quale la coltura non è governata dal padrone, mentre dal punto di vista etimologico-
semantico, nello specifico, gli autori rifuggono l’avvicinamento di alea al verbo alucinor
(‘farneticare’, ‘parlare vanamente’, ‘errare’), che corrisponde al verbo greco άλάομαι, così
come non riconoscono l’ipotesi di una possibile mutuazione dall’aggettivo ἠλεός (folle),
attraverso l’intermediario dorico ᾱλεᾱ. Per Ernout-Meillet alea è una parola “senza etimo-
logia” e, di certo, un termine emprunté, cioè ‘preso in prestito’. Continuando il repertorio
dei lessici, si veda, E. FORCELLINI, G. FURLANETTO, sv. Alea, Totius Latinitatis Lexicon, Pa-
dova, 1827-1831, dove tra le rubriche di alea, se ne rileva l’utilizzo sinonimico, al posto di
discrimen (‘prova’, ‘momento decisivo’, ‘pericolo’), dubitatio (‘incertezza’, ‘indugio’), incer-
tuum eventum (‘evento incerto’ o ‘oscuro’). La poesia latina ha dispiegato facondia di epi-
teti estendendo ulteriormente i domini semantici di alea. Louis Quicerat, nel Thesaurus
Poeticus Linguae Latinae (1843), rubrica alcuni casi: anceps, dubia, incerta, fallax, damnosa,
iniqua, fugienda. In letteratura latina (Ovidio, Ars am. 1.375-380), alea e casus rappresen-
tano anche fattori della tecnica “venatoria” della seduzione. Infine nell’espressione piutto-
sto comune (a partire da Lucano, che fu il primo ad utilizzarla) nella lingua latina di alea
Immagini e giochi dell’antichità 15

Isidoro, Etym. 63.1: Tesserae vocatae quia quadrae sunt ex omnibus partibus.
Has alii lepuscolos vocant, eo quod exiliendo discorrant. Olim autem tesserae ia-
cula appellabantur, a iacendo 46.

L’origine ricondotta alla sfera semantica del verbo ἀλάομαι staziona in


molti dizionari e si fa portavoce di quel sostrato significante che permane
invariato in alea, attraverso il tempo, e che rimanda ad un’attività, si agita
nell’incertezza e nell’erranza, in un abbandono temporaneo – perché inclu-
so nel tempo chiuso del ludus – dalla ragione 47. Ciò equivarrebbe, nella
forma peggiore, a molti degli assunti del gioco d’azzardo. Parte della lette-
ratura batte questo percorso, in quanto l’alea è propria dell’homo ludens
che fugge il calcolo logico e si getta nell’irrazionale, nella follia del gioco 48.
In questo senso ritroviamo il rapporto con l’ebraico hālal (folleggiare), ‘to
be foolish’, con l’accadico alālu e con l’arabo hallala, ‘darsi bel tempo’, in
tedesco ‘jubeln’ 49.

fati, ‘incertezza del destino’, si riconosce il senso di un evento arbitrario e non governabile,
presente anche nella costruzione subire aleam. Da notare, in limine, è l’estensione con cui il
segno alea si avvicini a luoghi semantici afferenti il tempo, sia nella piega positiva di un
tempo trascorso nel diletto e nello svago in espressioni quali indulgere aleae (‘abbandonar-
si all’alea’) o oblectare se alea (‘occupare il proprio tempo nell’alea’); sia nel senso di un
tempo consumato in perdita, come attestato in alcuni passaggi ciceroniani (Cic., Phil.
13.11: In lustris, popinis, alea, vino, tempus aetatis omne consumere. [Nei bordelli, nelle
bettole, nei dadi, nel vino, si consuma il tempo dell’esistenza.]). Inoltre, anche il riferimen-
to al giovane aristocratico ozioso della satira VIII di Giovenale 7.9-12: Effigies quo / tot
bellatorum, si luditur alea pernox / ante Numantinos, si dormire incipis ortu / Luciferi, quo
signa duces et castra movebant? [A che ti servono i ritratti di tanti guerrieri, se tutta la notte
(pernox) tu giochi ai dadi (alea) sotto gli occhi di chi vinse Numanzia, se inizi a dormire
quando sorge Lucifero, nell’ora in cui quei generali dagli accampamenti movevano le inse-
gne?]. Le conseguenze estreme prospettate alimentarono riprovazione etica del tempo
sprecato in alea e l’adozione di una normativa restrittiva contro il gioco d’azzardo (Lex de
alea) ed il confinamento in una specie di “spazio legale” riservato all’alea, durante la festa
dei Saturnali.
46
I dadi sono stati chiamati tesserae in quanto quadrati da ogni lato. Vi è chi dà loro il
nome di lepusculi [ossia leprotti], in quanto si muovono saltando. Anticamente i dadi era-
no detti iacula, dal verbo iacere, che significa lanciare.
47
J. HUIZINGA, Homo ludens, cit.; R. CAILLOIS, Les Jeux et les hommes: le masque et le ver-
tige, Paris, 1958, trad. it., R. CAILLOIS, L. GUARINO (a cura di), I giochi e gli uomini. La ma-
schera e la vertigine, Milano, 1981.
48
R. CAILLOIS, I giochi e gli uomini, cit., 23.
49
G. SEMERANO, Le origini della cultura europea, 2, Dizionari etimologici. Basi semitiche
delle lingue indeuropee. Tomo I, Dizionario della lingua greca; Tomo II, Dizionario della
lingua latina e di voci moderne, Firenze, 1994.
16 Carmen Pennacchio

Altra probabile origine di alea è il verbo ἰᾱλλω, ‘getto’, ‘lancio’, ‘sca-


glio’ 50, e pure in questa circostanza ricadiamo nell’ipotesi derivate da asso-
nanza semantica, ed anche in questa sezione domina l’azione del getto e
del lancio.
Leggiamo un passo, tratto dal libro nono ad Sabinum, di Pomponio che
sembrava aprisse ad un’eccezione alla regola nulla venditio sine re quae ve-
neat 51. Secondo il giurista, la emptio spei come contratto aleatorio (quasi
alea emitur) si può verificare nel caso della pesca e della caccia, ed anche
nell’ipotesi di missilia 52 (ossia, gettoni buttati in mezzo alla folla, per chi
avesse la fortuna o l’abilità di prenderli). L’acquisto, aleatorio 53, della spe-
ranza (emptio spei) si realizza allorquando oggetto del contratto non sia
una res, ma una speranza, ossia, l’aspettativa che la res venga ad esistere (in
una determinata quantità). Gli esempi portati nel Digesto di Giustiniano
sono divenuti modelli della teoria di acquisto di un oggetto non ancora esi-
stente.

D. 18.1.8.1 (Pomp. 9 ad Sab.): Aliquando tamen et sine re venditio intellegitur,


veluti cum quasi alea emitur. Quod fit, cum captum piscium vel avium vel missi-
lium emitur: emptio enim contrahitur etiam si nihil inciderit, quia spei emptio

50
F.E.J. VALPY, sv. Alea, in Etymological Dictionary of the Latin Language, London,
1928. Cfr., M. SIČ (SZŰCS), L’eredità futura come oggetto del contratto (patto) nel diritto
classico e postclassico, in RIDA, LIX, 2012, 198 ss.
51
Secondo la regola classica, la vendita di eredità futura (della persona vivente) è nulla:
“Si hereditas venierit eius, qui vivit aut nullus sit, nihil esse acti, quia in rerum natura non sit
quod venierit” (Pomp. D. 18.4.1). Secondo parte della dottrina (V. ARANGIO-RUIZ, La
compravendita in diritto romano, 1, Napoli, 1978, 116 ss.), si tratta dell’applicazione di una
regola risalente al tempo in cui l’unica pratica conosciuta era la vendita a contanti (nulla
venditio sine re quae veneat, Pomp. D. 18.1.8 pr.1). In questo contesto, l’eredità della per-
sona vivente non si può vendere, semplicemente perché essa non esiste: quia in rerum na-
tura non sit quod venierit. Senza riferirsi alle fonti, l’Arangio-Ruiz argomentava la nullità
della vendita anche con “la ripugnanza romana verso le convenzioni relative all’eredità di
persone viventi”, e con la difficoltà di realizzare la richiesta di adempimento della presta-
zione dedotta nel contratto.
52
Sul punto F. BARTOL, Emptio lactus missilium, in UNED. Revista de Derecho, 2, 2007,
445 ss. Lo Studioso si esprime nei seguenti termini (445): “Etimológicamente el término
missilia significa lo lanzado, lo enviado. Este vocablo que es propio del lenguaje militar, tal
como puede apreciarse en los historiadores romanos. Tito Livio, Tácito o Amiano Marce-
lino’, generalmente aparece unido al término telum. Así Festo escribe. Tela proprie dici vi-
dentur ea, quae missilia sunt, ex Graeco videlicet transíate eorum. nomine, quoniam illi
τηλόϑξν missa dicunt, quae nos eminus”.
53
Il rischio contrattuale inerente all’alea nell’atto negoziale ha generato la “vendita alea-
toria” nella disciplina giuridica e nel diritto civile italiano (art. 1472 cc.).
Immagini e giochi dell’antichità 17

est: et quod missilium nomine eo casu captum est si evictum fuerit, nulla eo no-
mine ex empto obligatio contrahitur, quia id actum intellegitur 54.

In poche parole: si mette in guardia dal praticare l’alea in una vendita in


quanto equivarrebbe pressoché a guadagnare (emere) una res incerta 55 co-
me per la cattura dei pesci e degli uccelli o il lancio di qualsiasi arma da
getto (missilium) 56. Dal pescatore o dal cacciatore si acquista quanto han-
no catturato. L’oggetto dell’affare è rappresentato dalla speranza che essi
prendano qualcosa, l’acquirente sarà tenuto a corrispondere il prezzo con-
cordato anche se il pescatore non abbia preso nulla. Il terzo esempio
esprime una vicenda ricorrente nella vita romana. Il caso integra l’ipotesi
del iactus missilium 57 (il lancio di monete al pubblico da parte dell’impera-
tore). Il venditore promette di dare all’acquirente le monete che egli riusci-
rà a raccogliere e l’acquirente, da parte sua, s’impegna a pagare in ogni ca-
so un determinato prezzo. È appena il caso di ribadire che i pescatori, i
cacciatori o le persone che catturano i missilia devono tenere un compor-
tamento allineato alla bona fides affinché la cosa oggetto di vendita si mate-
rializzi, ossia per catturare i pesci, gli animali, o i gettoni. Ritroviamo anche
degli ibridi, nei quali era difficile stabilire se fosse in questione una res spe-
rata o una spes 58.
A seconda dell’impeto impresso al gesto volontario della mano o al-

54
Per completezza riferiamo anche il principium: Nec emptio nec venditio sine re quae
veneat potest intellegi. Et tamen fructus et partus futuri recte ementur, ut, cum editus esset
partus, iam tunc, cum contractum esset negotium, venditio facta intellegatur: sed si id egerit
venditor, ne nascatur aut fiant, ex empto agi posse.
55
Cfr., sul punto, A.M. RABELLO, La base romanistica della teoria di Rudolph von Jhering
sulla culpa in contrahendo, in Diritto@Storia. Ius-Antiquum-Древнее-право, 20, 2007, in parti-
colare nota 23, nella quale si riferisce il dibattito dottrinale anche circa la genuinità
dell’esempio e l’opinione della dottrina sull’opportunità della fattispecie. Cfr., TLL., 1900.
56
Da questo il senso di una espressione francese, acheter un coup de filet, il lancio, for-
tunato o no, del filo da pesca (W. FREUND, N. THEIL, Grand dictionnaire de la langue latine,
Paris, 1855).
57
Cfr., F. BARTOL, op. cit., 445 ss. In precedenza, J. ERDŐDY, Some questions concerning
money in Roman law. A new perspective, in Acta Antiqua Academiae Scientiarum Hungari-
cae, 47.3, Sept. 2007, 241 ss.; V. J. BENKE, Emptio spei, in Tanulmányok Dr. Molnár Imre
egyetemi tanár 70. születésnapjára, Szeged, 2004, 71.
58
Cfr. il giulianeo D. 18.1.39.1, e sul tema cfr., V. ARANGIO RUIZ, op. cit., 121. La dot-
trina ottocentesca, fondandosi su questi ragionamenti, tentò di giungere ad un criterio ge-
nerale, in base al quale, riferendosi ad una quaestio voluntatis, si stabilì che la vendita di un
oggetto non ancora venuto ad esistenza determini l’acquisto di una res sperata o di una
spes, a seconda della volontà delle parti. Cfr., A.M. RABELLO, op. cit., nota 25.
18 Carmen Pennacchio

l’azione che il tiro produce 59, i dadi si lanciano (iactare) 60, o cadono (cade-
re) 61, anche se gli stessi possono cadere non solo dalla mano, tant’è che si
introdusse l’uso di un contenitore 62 (bossolo o bussolotto, pyrgus, turricula
[Mart. 14.16], phimus o fritillus [Sidon., Epist. 8.12]) che avrebbe inibito
lanci mirati con la mano di taglio a cercare la caduta migliore e dal lato più
favorevole 63.
I dadi si lanciano e cadono sopra una tavola 64, che il latino esprime con
una variegata gamma lessicale: alveus, alveolus e abacus.
Nell’Apocolocyntosis di Seneca, satira sulla morte e apoteosi per “inzuc-
camento” dell’imperatore, Claudio dopo la sua morte sarà condannato a
ludere aleam (giocare l’alea) in eterno e con un bussolotto bucato (pertuso
fritillo) da cui i dadi cadranno a vuoto 65.

59
La spinta impressa alla caduta dei dadi cancella dalla scena del lancio ‘aleatorio’ l’ele-
mento volontaristico, cioè l’azione della mano. Questo proverebbe, in parte, il degrado del
termine da dado a rischio o azzardo, se possiamo chiamare in causa l’etimologia della pa-
rola francese chance, derivante dal latino popolare cadentia, che designava esattamente la
maniera di lanciare i dadi, da cui ‘jeter la chance’. Cfr., sv. chance, in F. GODEFROY, Lexi-
que de l’ancienne langue française, Paris, 1901, dove si legge un significato specifico e tec-
nico: è il punto segnato col dado o la sua stessa caduta, accezioni che hanno dato luogo
alle espressioni ‘donner la chance’ e ‘livrer la chance’.
60
Iactus è tecnicamente il lancio.
61
I due segnii sono ugualmente presenti, vedi nel proverbio Iacta alea est (Cesare all’attra-
versamento del Rubicone, Suet., De vita Caesarum 32). Simile appare la locuzione con il ver-
bo cadere (iudice Fortuna cadat alea) nel petroniano Satirycon (CXXII, 171) quando Eumolpo
declama i versi sulla guerra civile e le imprese di Cesare. Non sostanziale ma invadente è il
richiamo all’inappellabile giudizio della dea Fortuna, sotto cui giace la caduta del dado.
62
Lo strumento era strutturato con rientranze parallele (gradus) all’interno, cosicché si
producesse un rumore tintinnante quando il dado veniva lanciato (Mart. 4.14; 14. 1; Hor.,
Sat. 2. 7.17, che usa la forma greca phimus).
63
Sofocle ci dice (fr. 895) che solo a Zeus i dadi cadono nel verso giusto. L’uomo che ten-
ta di inserire un elemento volontario non sta praticando correttamente l’alea che, in quanto
tale, non deve possedere alcun rapporto tra causa ed effetto. Il lemma βαρός, ‘baro’, oltre a
significare ‘gravità’ e ‘pesantezza’, vuol dire anche ‘pressione’, ‘influenza’, ‘credito’.
64
Secondo la tradizione (Suet., De vita Caesarum 33), Claudio, imperatore – incallito
giocatore d’azzardo (aleam studiosissime lusit) – fece dotare la sua carrozza da viaggio di
un alveus, in modo da poter lanciare i dadi durante i viaggi attraverso l’impero. Svetonio
accenna anche alla circostanza che l’imperatore scrisse un trattato sull’arte aleatoria, del
quale non ci è giunta traccia.
65
Sen., Apocol. 14: Et iam coeperat fugientes semper tesseras quaerere et proficere. [E
aveva già iniziato a rincorrere i dadi che scappavano sempre e a non concludere niente].
Probabilmente l’aneddoto ha rappresentato l’antecedente cui Dante si ispirò per la legge
infernale del contrappasso.
Immagini e giochi dell’antichità 19

I dadi potevano essere fatti di legno, di pietra, di osso o di qualsiasi me-


tallo 66, anzi sembra che quelli migliori fossero proprio di osso, il più pe-
sante possibile, in maniera tale che in qualunque modo si lanciassero, po-
tevano produrre una caduta piana e uniforme.
Cicerone, nel De Senectute, dice che il gioco dei dadi è adatto alla vec-
chiaia la quale, per essere beata, deve dilettarsi e rifuggire qualsiasi sforzo
corporeo che spetta alla gioventù:

Cic., 16.58: Nobis senibus ex lusionibus multis talos relinquant et tesseras, id


ipsum ut lubebit, quoniam sine eis beata esse senectus potest 67.

4. Levitas aleae

Una tale idea di levità del gioco aleatorio pare non essere condivisa da
tutti, tant’è che una singolare pratica dell’alea, che non sembra avere affini,
è riferita da Tacito, De origine et situ Germanorum (Germania). 24 68, che

66
In riferimento alla loro fattura ‘ossea’ si ritrova l’ipotesi etimologica (organica) – di
uno dei più recenti dizionari, quello di Michiel de Meen (2008), nel quale, giacché falan-
gette di agnelli o altri animali, dette anche astragali o aliossi (in latino tālı̄), erano usate
come dadi, ed anche il termine ālea, in modo analogo, potrebbe essersi generato da un’al-
tra parte del corpo animale, per esempio da āla, che significa appunto ‘ala’, o ‘ascella’. Tale
congettura, anche se apparentemente stravagante, ha il merito di far intravedere origini
molto remote e arcaiche dell’oggetto-dado, inerenti a strati sacrificali e a sprofondamenti
viscerali delle pratiche divinatorie, ancora attive in età paleocristiana (cfr. Tavola 23a del-
l’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg; Urbini 2011).
67
A noi vecchi, dei molti giochi, lascino gli astragali e i dadi; e di questi quale dei due
vorranno, giacché la vecchiaia può essere felice senza di essi.
68
Il brano si presenta in due parti, corrispondenti a due diverse pratiche ludiche: il ca-
rosello o danza che si eseguiva tra le punte delle spade e delle lance, e il gioco d’azzardo
con i dadi. Nel primo caso, si tratta di una forma di spettacolo (genus spectaculorum, saltus,
ars, decor, voluptas spectantium) e, insieme, di un gioco (ludicrum, lascivia); secondo Taci-
to, questo passatempo è proprio delle popolazioni germaniche. La seconda parte del passo
affronta il gioco d’azzardo con i dadi, che, però, per Tacito non ha carattere ludico (inter
seria exercent); anche il riferimento alla sobrietà dei giocatore rimanda al dettaglio simpo-
siale della alea grecoromana (cfr., F. GIACOBELLO, Giocare a dadi a Pompei, tra vino, salsic-
ce e risse: un passatempo da taverna, in C. LAMBRUGO, F. SLAVAZZI, A.M. FEDELI (a cura di),
I materiali della Collezione Archeologica “Giulio Sambon” di Milano. 1. Tra “alea” e “agòn”:
giochi di abilità e di azzardo, Firenze, 2015, 37 ss.) per cui viene ribadita una separazione
netta della pratica barbarica del gioco dei dadi dalla sfera ludica propriamente intesa. La
connessione tra la danza delle spade e l’alea sembra essere rappresentata dall’audacia (au-
20 Carmen Pennacchio

descrive una sorta di rituale comunitario alla fine del quale gli uomini gio-
cano a dadi – in modo serio e senza bere, nota lo storico con meraviglia – e
una volta dilapidate le sostanze, con un ultimo e definitivo lancio (extremo
ac novissimo iactu), si giocano (contendant) la libertà ed il corpo (de liberta-
te ac de corpore) 69.
Il perdente si assoggetterà ad una servitù volontaria ed i Germani han-
no tanta ostinazione in questa perversione (re prava) e la chiamano fides.
Anche se Tacito non avesse fatto ricorso a materiali di prima mano (come
si sospetta), resta poco usuale l’aggiogare l’alea alla fides, apparendo i due
concetti, affiliati in prova di forza, distinti per addestrare lealtà, prestigio e
fede, le accezioni più comuni del termine fides, che può significare anche
‘credito’. Più una pratica superstiziosa che ludica 70. Non è da sottovalutare
che il lemma alea, seppur con le dovute precauzioni, lambisca spazi vici-
niori alle fides; anche se, avventurarsi in questo accidentato terreno, com-
porterebbe un maggiore approfondimento dal momento che l’associazione
di alea a questioni di fides, rimanda a problemi di scambio, simbolico e
non, tra uomini e cose 71.
Se, poi, poniamo mente ad alea, mettendo in pratica una operazione di
stiramento del termine, congetturando in prospettiva, fino a toccare l’acce-
zione che la forma aggettivale (aleatorio) ha raggiunto negli idiomi neolati-
ni, ci accorgiamo di come le espressioni della latinità letteraria/giuridica ne
avesse già apprezzati i destini, dissodato i luoghi di senso e determinato le
afferenze 72.

dax lascivia nel primo caso, temeritas nel secondo), cioè dal fatto che in entrambi i casi i
Germani arrivano a giocarsi la vita.
69
Cfr., C. TORRE, “Barbarus ludens”. I barbari e il gioco nelle fonti latine, in Acme, 1,
2016, 57 ss.
70
Non dimentichiamo che anche nel mondo greco-latino ai dadi (e agli astragali) era at-
tribuito un valore divinatorio, Cfr., A.A. NUÑO, ΑΝΕΡΡΙΦΘΩ ΚΥΒΟΣ. Áyax y Aquiles tiran
los dados, in MHNH: revista internacional de investigación sobre magia y astrología, 6, 2006,
15 ss.
71
Pare che in età tardo-antica e medievale il lemma alea fosse associato – forse fantasio-
samente – al pronome alter, in relazione alla circostanza che il gioco dei dadi e delle tavole
inscenano l’alterità e la reciprocità. Altro è colui che siede accanto e al quale si cede la ma-
no e, forse, anche la fortuna (P. CANETTIERI, Il gioco dei dadi nel medioevo [Internet]. Ver-
sion 1. Paolo Canettieri. 2009 Ott 6. Available from: https://paolocanettieri.wordpress.
com/article/il-gioco-dei-dadi-nel-medioevo-vyvpjuoxc2n0-62/).
72
Pure se il termine è presente, almeno fino al XVI secolo, in particolar modo nei trat-
tati (in latino) sui giochi da tavolo, il transito in Europa alle lingue volgari concentra in alea
l’oggetto, il concetto e il gesto, e durante questa lenta trasmigrazione lessicale il lemma
perderà la sua oggettiva tecnicità, conservandone solo l’astratto. In tal senso: “Something
Immagini e giochi dell’antichità 21

Nel suo liberarsi dalle pastoie concrete con l’oggetto, alea prende posto,
in alcuni luoghi fondativi del pensiero occidentale, come capacità, comun-
que, già avvertita dall’estrema e favorevole motilità della lingua latina.
La questione è complessa ma le due estreme linee di sviluppo possono
essere tracciate. La prima si riferisce al pericolo, insito nel gioco aleatorio,
di alterare il tempo dell’otium e del negotium, denuncia raccolta a larghe
mani dalla concezione protestante e calvinista della festa, nella quale af-
fondano snodi della riflessione sul capitale 73. La seconda prende l’avvio
dalla tradizione rinascimentale, il cui punto aureo è dato dal De Ludo
aleae, ad opera del matematico e astrologo Girolamo Cardano, la quale
rappresenta un punto di svolta nella concezione dei giochi di dadi e delle
sue tecniche ed apre le porte alle prime teorie circa il calcolo combinatorio
delle probabilità, che traghetterà verso scienze matematiche moderne.
In ultimo potremmo dire che nel termine alea alloggerebbe qualcosa di
suo proprio, caratteristica che non tutte le parole possiedono e che certi
linguisti individuano come la “vita pulsante” dei lemmi. Nel caso di alea
concorrerebbero i gesti e le voci che si alzano intorno al getto, nella frazio-
ne di tempo della puntata; cioè le interiezioni, gli accidentia (bestemmie?);
la messa in gioco di anima e moglie; la pronuncia del nome della fanciulla
amata; le parole auspicali in favore delle persone care; le acclamazioni al
lancio buono (Venus), o al lancio sfortunato (Canis) 74. In definitiva ciò che
Orazio, nelle Odi (II,1,6), chiama Opus aleae.
Quando la parola alea decadrà per fare posto ai termini corrispondenti
delle lingue neo-latine, ne sopravviverà il lascito (bollato dalla permanenza
dell’aggettivo ‘aleatorio’) di ciò che il dado richiede come condizione ulti-
ma: quella di affidarsi, nella cessione più incondizionata, al lancio nel-
l’aperto – che è il fato o la morte, in una immagine: il gioco del Phersu.
È databile intorno al 530 a.C. la comparsa, nelle tombe dipinte di Tar-
quinia, di una strana figura: indossa cappello a cono con lunghi copriorec-
chie, quasi copri guancia, ruvida pelle selvatica – in alcuni casi, invece, ve-
ste una corta giacca a scacchi colorati – ed il viso è coperto da una masche-
ra barbuta.

which involves uncertainty, a risk enterprise or purchase” secondo l’Oxford Latin Diction-
nary (1968). In italiano alea si conserva nel linguaggio colto, o in quello contrattuale.
73
M. WEBER, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, ed. it., P. BURRESI, Firenze,
1983, passim; L. ALTHUSSER, Sul materialismo aleatorio, Milano, 2000.
74
F. LÜBKER, sv. Alea, in Lessico ragionato dell’antichità classica, Roma, 1898, traduzio-
ne di Carlo Alberto Murero (ristampa anastatica con una premessa di S. Mariotti, Bologna,
1989).
22 Carmen Pennacchio

La sua immagine richiama quella di un essere primordiale, quasi ferino


– specie nel caso della “Tomba degli auguri”, dove la giubba sembra voler
richiamare una pelle vaccina frettolosamente conciata – che sembra collo-
carlo in una dimensione limitanea. Se selvatica appare l’immagine, selvag-
gio è anche il suo spazio d’azione. Infatti si muove in un macabro gioco,
nel quale un uomo nudo, coperto nel volto e nel capo con un sacco di pel-
le, combatte con un bastone contro un cane di grossa taglia, volontaria-
mente aizzato contro di lui.
In questo gioco il Phersu si atteggia a pungolare il cane e ad ostacolare –
con una lunga corda – i movimenti dell’uomo, il quale, a sua volta, non sa-
rà in grado di resistere a lungo prima di venir sbranato dalla fiera.
Nelle tombe tarquiniesi la figura del Phersu 75 si ritrova quattro volte, in
quella degli Auguri 76 (seconda metà del VI secolo a.C., detta appunto de-

75
M. MARTINELLI, Il gioco del Phersu, in Spettacolo e sport in Etruria. Musica, danza, ago-
nismo e rappresentazioni tra Italia e Mediterraneo, Toscana beni culturali, 9, 2007, 165 ss.
76
Molti ritengono che il termine persona (equivalente a maschera) derivi dall’etrusco
Phersu. Il phersu era un uomo con una maschera in volto e cappuccio in testa al cui braccio
era una fune che teneva legato un cane. Il gioco consisteva nell’aizzare il cane contro l’altro
uomo che, anch’esso incappucciato, brandiva una specie di clava per tentare la difesa dagli
attacchi del cane e del Phersu. Era un gioco mortale al pari di tanti altri, come la lotta, ad
esempio; ma era anche un rito funerario etrusco, uno tra i tanti che accompagnavano il de-
funto attraverso la porta che accedeva all’aldilà. Purtroppo era anche un fatto reale, violen-
to, crudele e perverso, ma come gioco fu introdotto a Roma diventando uno dei più seguiti
e richiesti giochi gladiatori. Nel gioco entrambe le persone non mostrano il volto. Entram-
bi sono contemporaneamente umani e bestiali. Al di là il Phersu, il carnefice, c’è un uomo
che incarna il bestiale come espressione di violenza e di godimento nell’atto violento. Die-
tro il prigioniero, la vittima, c’è un uomo che incarna la bestia mandata al macello, colui
che non avrà altra consolazione se non quella di morire il prima possibile. Dietro la ma-
schera del Phersu, la persona agisce come vuole, senza essere riconosciuta: i suoi gesti, le
sue azioni, forse anche le sue parole, diventano legittimi. Non è la persona che si esprime,
è la maschera che indossa, è l’altra parte di sé, la sua parte oscura. Un lato oscuro che
emerge e si rende visibile e reale attraverso la maschera che la persona indossa. Sotto il vol-
to coperto del prigioniero c’è la paura e il terrore, che non devono essere mostrati né visti
da altri. Non a caso le paure personali più oscure sono segrete, invisibili a tutti; e l’uomo,
chiunque esso sia, non può dimostrare nemmeno di temere la morte. Incutere timore è il
potere di esercitare il controllo, anche sulla paura della morte. Il rito sacro, il rito funerario
che serve ad esorcizzare lo spettro, diventa il gioco del Phersu perché solo così può essere
accettato e perché solo così può essere riproposto ad un pubblico che applaude la vittoria
del più forte. Il più forte, attraverso una maschera dietro cui si nasconde una persona, riu-
scirà ad incarnare quel ruolo anche in altri momenti di ogni epoca. Quando il condannato
a morte, a viso scoperto, sale sul patibolo ha davanti a sé il Phersu, il boia con il suo cap-
puccio e le sue armi di morte; quando il carnefice non ha la sua maschera, è il condannato
ad essere bendato per non guardare in faccia la morte. A volte, il prigioniero, in un gesto
Immagini e giochi dell’antichità 23

gli Auguri dallo scopritore Luigi Dasti) esso 77 è riprodotto in due diverse
scene.
Sulla parete destra è rappresentato un gruppo costituito da un indivi-
duo con maschera rossa barbata, corto giubbetto maculato, stretta fascia
rossa ai lombi ed alto berretto a punta, che tiene al laccio un cane (molos-
so?) che assale un condannato a morte. Quest’ultimo, con evidenti tracce
di ferite sul corpo, ha la vista impedita da un sacco che gli avviluppa la te-
sta e tenta di difendersi dagli attacchi del feroce animale con una clava che
impugna con la mano destra. Sulla parete sinistra della tomba il personag-
gio mascherato, seppur con abbigliamento diverso, appare impegnato in
una corsa con il capo rivolto all’indietro 78.
La cruenta scena di combattimento sopra descritta si riconosce, nono-
stante il cattivo stato di conservazione della pittura, anche su una delle pa-
reti della Tomba delle Olimpiadi 79 (ultimo venticinquennio del VI secolo

di rivalsa e ribellione, si toglie la benda, mostrando il viso al carnefice che, nonostante stia
per eseguire la condanna, sentirà per la prima volta la propria paura della morte. Chi in-
dossa la maschera è persona e può essere contemporaneamente vittima e carnefice. Solo
chi non porta maschera è se stesso. Il cane non porta maschera, non è persona. Solo il cane
è se stesso. Solo l’animale è unico; l’uomo è sempre doppio. Per la tomba degli Auguri cfr.
G. BECATTI, F. MAGI, Le pitture della Tomba degli Auguri e del Pulcinella, in Monumenti
della pittura antica scoperti in Italia, Sez. I, fasc. III-IV, Poligrafico dello Stato, Roma,
1956; anche M. CRISTOFANI, L’arte degli Etruschi, Produzione e consumo, Torino, 1978, 68
ss.; sul passaggio linguistico etrusco/latino, cfr. A. ERNOUT, Les èlèments ètrusques du vocabu-
laire latin, in Bullettin de la Sociètè linguistique, 30, 1930, 82 ss. Nell’antico Egitto inoltre è
intorno agli inizi del II millennio che viene introdotta la maschera che successivamente ebbe
quella vasta diffusione in ambito funerario con valenza altamente magica.
77
La pratica di gare (agones/ludi), in funzione di rito funerario, fu usanza diffusa in tutto
il mondo antico e variamente documentata presso gli Etruschi (cfr. B. D’AGOSTINO, L.
CERCHIAI, Il mare la morte l’amore. Gli etruschi, i Greci, l’immagine, Roma, 1999, 38). Si
spiegano così, le rappresentazioni di scene di gara e di banchetto nelle pitture tombali. Varie
erano le forme; dallo spettacolo di saltimbanchi, alle gare ginniche, al pugilato, alla corsa con
carri trainati da cavalli ed ai duelli all’ultimo sangue (Cfr. F. PAOLUCCI, Gladiatori: i dannati
dello spettacolo, Firenze, 2003, 12; inoltre, Tert. De spect. 12.2, riferisce dei giochi, in partico-
lare della gladiatura, come conseguenza di un rito propiziatorio per placare i defunti). Le ga-
re funebri rappresentavano nell’aspetto del combattimento, la precarietà della vita nei con-
fronti della morte. Un duello gladiatorio, il così detto gioco del Phersu, è dipinto, come ab-
biamo detto già, nella tomba degli Auguri a Tarquinia. Ma qual’era il significato di questo
duello? Phersu simboleggiava più che probabilmente un demone infernale, apportatore di
morte, la cui azione funesta veniva evocata e forse dissolta, mediante il rito gladiatorio.
78
M. MORETTI, Pittura etrusca in Tarquina, Milano, 1974.
79
La Tomba delle Olimpiadi risale al VI sec. a.C. (rinvenuta nel 1958) e i suoi affreschi
sono stati staccati dalle pareti al momento della scoperta del sepolcro, e conservati presso
24 Carmen Pennacchio

a.C.): in particolare sono visibili le teste del Phersu e del prigioniero incap-
pucciato che tiene in mano un’arma.
Sulla parete sinistra della Tomba del Pulcinella (anni finali del VI seco-
lo a.C.) e della Tomba del Gallo (inizi del IV secolo a.C.) il solito perso-
naggio con maschera barbata è invece rappresentato in scene di danza.
La raffigurazione in argomento sarebbe inoltre proiettata anche in alcu-
ne tombe di Chiusi: nella Tomba della Scimmia 80 (prima metà del V secolo
a.C.), dove un piccolo Phersu accompagna, suonando il flauto, la danza di
un guerriero e forse anche nella Tomba del Montollo 81, oggi distrutta e le
cui raffigurazioni ci sono giunte solo grazie alle riproduzioni ed alle descri-
zioni fornite dalla Gori 82.
Su un anfora del Pittore dei satiri danzanti 83, oggi a Karlsruhe, infine, è
rappresentato un phersu che danza con scudo e clava nodosa.
Nella Tomba delle Leonesse 84 è un Phersu agile che insidia una lieve,
succinta fanciulla che non fugge, lo affronta con un gesto apotropaico delle
dita: le corna hanno un lontano crisma celeste perché riproducono i cre-
scenti lunari. Un remoto motivo della melodia di Schubert: Der Tod und
das Mädchen.

il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia. Oltre a scene di banchetto, sono rappre-


sentate scene di giochi funebri in onore del defunto: corsa, salto in lungo, lancio del disco,
pugilato e corsa delle bighe. Questa tomba rivela delle somiglianze con quella degli Auguri
per gli stessi giochi rappresentati. Cfr. R. BARTOCCINI, C.M. LERICI, M. MORETTI, Tarquinia.
La Tomba delle Olimpiadi, Milano, 1959; La Tarquinia delle tombe dipinte. La tomba delle
Olimpiadi. La tomba della Nave, in Gli Etruschi di Tarquinia, Catalogo della Mostra, Mo-
dena, 1986, 255 ss.
80
R. BIANCHI BANDINELLI, L’Arte Etrusca, Milano, 2005, 202.
81
R. BIANCHI BANDINELLI, L’Arte Etrusca, cit., 235.
82
G. GORI, Gli etruschi e lo sport, Urbino, 1986.
83
M. CRISTOFANI (a cura di), Dizionario illustrato della civiltà etrusca, Firenze, 1985,
218 s.
84
S. AMARAL ROHTER, The Tomba delle Leonesse and the Tomba dei Giocolieri at Tar-
quinia, in http://www.brown.edu/Departments/Old_World_Archaeology_and_Art/html/
epublications/papers/tarquinia/ e bibliografia ivi.
“Alea iacta est”: la disciplina di giochi e scommesse a Roma 25

“Alea iacta est”:


la disciplina di giochi e scommesse a Roma
Francesco Fasolino

SOMMARIO: 1. Cenni sui più antichi divieti in età repubblicana. – 2. La disciplina di età
imperiale. – 3. Gli interventi di Giustiniano.

1. Cenni sui più antichi divieti in età repubblicana

Nonostante il discredito morale e sociale che accompagnava il gioco


d’azzardo, esso, non diversamente da quanto accade oggi 1, era parecchio
diffuso nell’antica Roma 2.
La disciplina giuridica dei giochi d’azzardo e delle scommesse lascia
trapelare nettamente il disfavore dell’ordinamento verso tali fenomeni in
quanto causa di repentini arricchimenti o impoverimenti, del tutto sgancia-
ti da un’attività lavorativa e, per di più, intrinsecamente criminogeni, per il
fatto che inducono frequentemente a far ricorso a mezzi illeciti (usura, fur-
ti, rapine, etc.) al fine di procurarsi il denaro necessario 3.

1
Tra gli studi maggiormente approfonditi dedicati al tema del gioco, dal punto di vista
storico-sociologico-antropologico, cfr. soprattutto G. IMBUCCI, Il gioco. Lotto, totocalcio,
lotterie. Storia dei comportamenti sociali, Venezia, 1997 e, l’ormai classico, J. HUIZINGA,
Homo ludens (prima ed. italiana: Torino, 1946), Torino, 2002.
2
Le fonti non giuridiche ci forniscono molte notizie in ordine ai vari giochi, tra cui i
più popolari sembra che fossero le partite a dadi (aleae). Per più ampi ragguagli, cfr., in
part., J CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, trad. it., Roma-Bari, 1993, 287 s.
3
Per la letteratura romanistica più recente in tema di giochi e scommesse si segnalano:
G. IMPALLOMENI, Il regime del gioco nel ‘Corpus Iuris’ in relazione con alcune codificazioni
europee, in ID., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 643 ss.; ID.,
In tema di gioco, in AA.VV., Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, vol. V, Napoli,
1984, 2331 ss., ora in ID., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996,
499 ss.; M.G. ZOZ, La disciplina giuridica del gioco e della scommessa: varianti e punti in
26 Francesco Fasolino

Per tutte queste ragioni, il gioco d’azzardo sin dall’epoca più antica è
stato, quindi, oggetto di una legislazione repressiva, le c.d. leges aleariae
(precisamente, le leggi Titia, Publicia e Cornelia 4), ricordate dal giurista
Marciano in un passo dei Digesta di Giustiniano, D. 11.5.3; di tale com-
plesso normativo, in parte risalente già alla fine del III secolo a.C., tuttavia,
ben poco sappiamo quanto al suo contenuto specifico, sia in termini di di-
vieti concreti che di tipologia di sanzioni previste.
Avendo a disposizione soltanto fonti indirette, sia letterarie che giuridi-
che 5, dalla loro lettura ricaviamo, in definitiva, che le leggi alearie vietava-
no il gioco d’azzardo e le scommesse in denaro ma, a quanto parrebbe,
senza sanzionare con la nullità il negozio di gioco bensì prevedendo la sola
applicazione di multe ad opera di alcuni magistrati, gli aediles.
Ad una delle ricordate leges alearie deve ricondursi, poi, probabilmente,
l’introduzione della c.d. actio de aleatoribus, un’azione penale privata in virtù
della quale i giocatori d’azzardo erano puniti mediante il pagamento di una
somma, pari al quadruplo di quanto illegittimamente vinto, la quale veniva
consegnata ai delatori che avevano sporto la denuncia (i c.d. quadruplatores,
personaggi che godevano di una pessima reputazione sociale) 6.

comune delle varie legislazioni, in ID., Fondamenti romanistici del diritto europeo. Aspetti e
prospettive di ricerca, Torino, 2007, 61 ss.; E. QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De aleatoribus) y
C. 3.43 (De aleae lusu et aleatoribus): Precedentes romanos del contrato de juego, in Anua-
rio Jurídico y Económico Escurialense, XLII, 2009, 29; A. CAPPUCCIO, ‘Rien de mauvais’. I
contratti di gioco e scommessa nell’età dei codici, Torino, 2011, 21 ss.; J.L. ZAMORA MANZANO,
La regulación jurídico-administrativa del juego en el derecho romano y su proiección en el
derecho moderno, Madrid, 2011; S.B. FARIS, Changing Public Policy and the Evolution of
Roman Civil and Criminal Law on Gambling, in UNLV Gambling Law Journal, 3, 2012,
199 ss.; A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Mini-
ma de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 58; EAD, Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto
romano, in BIDR, CXI, 2017, 41 ss.; P. ZILIOTTO, Disciplina privatistica classica del gioco
d’azzardo vietato, in TSDP, X, 2017, 1 ss. Sempre utile è la lettura di C. MANENTI, Del
giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato romano e moderno, in appen-
dice a F. GLÜCK, Commentario alle pandette tradotto e arricchito da copiose note e confronti
col Codice Civile del Regno d’Italia, Libro XI, titolo V, De aleatoribus, Milano, 1903, 547 ss.
4
G. ROTONDI, Leges publicae populi Romani, Milano, 1912, rist. Hildesheim, 1962, 261,
riesce ad ipotizzare una datazione (204 a.C.) solo per la legge Publicia, sulla scorta di
Plaut., Mil. glor. 2.2.166: atque adeo, ut ne legi fraudem faciant aleariae, adcuratote ut sine
talis domi agitent convivium.
5
Per una completa rassegna si rinvia a J.L. ZAMORA MANZANO, La regulación, cit., 59 ss.
6
Amplius, vd. A. POLLERA, In tema di repressione del gioco d’azzardo: dati e problema, in
Studi per L. De Sarlo, Milano, 1989, 522 ss., nonché a C. RUSSO RUGGERI, Leggi sociali e
quadruplatores nella Roma postannibalica, in Labeo 47.3, 2001, 361 ss. Da ultima, sull’argo-
mento, anche A. BOTTIGLIERI, Le scommesse, cit. 44 ss.
“Alea iacta est”: la disciplina di giochi e scommesse a Roma 27

Non rientravano, tuttavia, nel divieto previsto dalla legge le scommesse ri-
ferite a gare sportive: è nota, infatti, la passione dei Romani per questo genere
di competizioni (per lo più gare di corsa o di lotta o ludi circensi), in relazio-
ne al cui esito le scommesse venivano, per l’appunto, effettuate; l’esenzione si
giustifica in considerazione del fatto che si tratta di gare nelle quali la casuali-
tà viene ad avere un ruolo solo marginale mentre hanno valore preponderan-
te le doti e la perizia dei giocatori. La scriminante tra competizioni lecite (per
le quali sono ammesse le scommesse) e gioco d’azzardo, sempre illecito, viene
individuata, dunque, nella virtus che connota le prime, nelle quali appunto si
esprime il valore dei contendenti, mentre il secondo si caratterizza per la me-
ra sorte, poco o nulla valendo l’abilità dei giocatori 7.

2. La disciplina di età imperiale

Nel Digesto di Giustiniano ai giochi ed alle scommesse viene dedicata una


specifica sezione, il titolo quinto del libro undicesimo, denominato appunto
“De aleatoribus” (Sui giocatori d’azzardo). In essa sono raccolti quattro fram-
menti di opere giurisprudenziali, uno di Ulpiano, due di Paolo e uno di Mar-
ciano, nei quali si affronta specificamente la disciplina civilistica del gioco 8.
Nel primo frammento, tratto dal commentario di Ulpiano all’editto del
pretore, viene presa in considerazione la posizione del tenutario di una casa
di gioco. In primo luogo, viene riportato il passo dell’editto nel quale si dice
che il pretore non concederà alcuna tutela giudiziale al biscazziere nel caso
che qualcuno lo percuota o gli procuri altrimenti un danno ovvero gli sot-
tragga dolosamente qualcosa; il magistrato, invece, punirà chiunque faccia
ricorso alla violenza per indurre altri a giocare d’azzardo:

D. 11.5.1pr.-4 (Ulp. 23 ad ed.): Praetor ait: “si quis eum, apud quem alea lusum
esse dicetur, verberaverit damnumve ei dederit sive quid eo tempore dolo eius
subtractum est, iudicium non dabo. In eum, qui aleae ludendae causa vim intule-
rit, uti quaeque res erit, animadvertam”. 1. Si rapinas fecerint inter se collusores,
vi bonorum raptorum non denegabitur actio: susceptorem enim dumtaxat prohi-
buit vindicari, non et collusores, quamvis et hi indigni videantur. 2. Item notan-
dum, quod susceptorem verberatum quidem et damnum passum ubicumque et
quandocumque non vindicat: verum furtum factum domi et eo tempore quo alea

7
Per approfondimenti sul regime dei giochi virtutis causa si rinvia al lavoro di A. BOT-
TIGLIERI, Le scommesse, cit. 41 ss., ora pubblicato anche in questo volume, 81 ss.
8
I passi del Digesto sono di seguito riportati nella traduzione italiana a cura di S. SCHIPA-
NI, Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Testo e Traduzione, vol. II, Milano, 2005, 361 ss.
28 Francesco Fasolino

ludebatur, licet lusor non fuerit qui quid eorum fecerit, impune fit. Domum au-
tem pro habitatione et domicilio nos accipere certum est. 3.Quod autem praetor
negat se furti actionem daturum, videamus utrum ad poenalem actionem solam
pertineat, an et si ad exhibendum velit agere vel vindicare vel condicere. Et est
relatum apud Pomponium solummodo poenalem actionem denegatam, quod non
puto verum: praetor enim simpliciter ait ‘ si quid subtractum erit’ iudicium ‘non
dabo’. 4.‘In eum’ inquit ‘ qui aleae ludendae causa vim intulerit, uti quaeque res
erit, animadvertam’. Haec clausula pertinet ad animadversionem eius qui conpu-
lit ludere, ut aut multa multetur aut in lautumias vel in vincula publica ducatur 9.

Nel commentare le disposizioni del pretore, Ulpiano fornisce, poi,


alcune puntualizzazioni in ordine alla disciplina effettivamente applicabi-
le. Egli così precisa che l’azione non sarà denegata in caso di rapina com-
messa da qualcuno dei giocatori a danno degli altri: infatti, nota il giurista,
il pretore ha disposto ciò soltanto nei confronti dei gestori delle case da
gioco e non anche dei giocatori, benché anche costoro appaiano indegni.
Ulpiano chiarisce, altresì, che il gestore della bisca non riceve alcuna tu-
tela non soltanto se sia stato percosso o abbia ricevuto un danno durante
lo svolgimento del gioco o nel luogo in cui esso si teneva, ma ovunque e in
qualsiasi momento tali fatti siano accaduti; parimenti, resterà impunito an-
che il furto perpetrato nella casa del biscazziere (dovendosi senza dubbio
intendere per tale sia la residenza che il domicilio, come precisa il giurista)
nel mentre ivi si giocava d’azzardo, e ciò anche nell’eventualità che non sia
stato uno dei giocatori a compierlo. Ulpiano, infine, discostandosi dall’opi-

9
D. 11.5.1 (Ulpiano, nel libro ventitreesimo all’editto): “Afferma il pretore: se taluno
avrà percosso colui, presso il quale si dica essersi giocato d’azzardo, o gli avrà provocato
un danno, oppure se con dolo di quest’ultimo in quell’occasione gli sarà stato sottratto
qualcosa, non darò l’azione. Punirò, a seconda delle circostanza del fatto, chi avrà com-
messo violenza per giocare d’azzardo. 1. Se i giocatori avranno commesso rapine tra di lo-
ro, non sarà denegata l’azione per la rapina: infatti, il pretore ha proibito di rivendicare
soltanto a chi riceve le poste, non anche ai giocatori, sebbene anche costoro si considerino
indegni. 2. Del pari è da notare che chi riceve le poste, se sia stato percosso o abbia subito
un danno, ovunque e in qualsiasi momento ciò sia avvenuto, non può rivendicare; ma il
furto, compiuto in casa ed in quel momento in cui si giocava d’azzardo, sebbene non sia
stato un giocatore chi l’abbia commesso, resta impunito. È certo, poi, che per casa dob-
biamo intendere sia la residenza che l’abitazione. 3. Quanto poi al fatto che il pretore nega
che darà l’azione di furto vediamo se riguardi la sola azione penale o anche il caso in cui si
voglia agire per l’esibizione o rivendicare o chiedere la restituzione per intimazione. Ed in
Pomponio è stato riferito che è stata denegata soltanto l’azione penale, il che non reputo
vero: infatti, il pretore afferma semplicemente: Se gli sarà stato sottratto qualcosa, non darò
l’azione. 4. Punirò – dice il Pretore – a seconda delle circostanze del fatto chi avrà com-
messo violenza per giocare d’azzardo. Questa clausola riguarda la punizione di chi ha co-
stretto a giocare, perché sia multato o sia condotto nelle latomie o nel carcere pubblico”.
“Alea iacta est”: la disciplina di giochi e scommesse a Roma 29

nione di Pomponio, ed attenendosi rigorosamente alla lettera dell’editto,


ritiene che la denegatio actionis del pretore riguardi non soltanto l’azione
penale in senso stretto ma anche il caso in cui si voglia eventualmente agire
per l’esibizione o per la rivendica o per la restituzione 10.
Si tratta, con tutta evidenza, di una normativa dalla quale traspare il mas-
simo disprezzo per coloro che organizzavano e gestivano case da gioco.
Emerge, altresì, tutta la disapprovazione dell’ordinamento verso coloro
che inducevano al gioco mediante atti di violenza morale o materiale: la
punizione per chi avesse costretto altri ad iniziare a giocare, ovvero a con-
tinuare nel gioco, pur quando avesse perso, poteva essere la multa ma an-
che, a seconda della gravità del caso, i lavori forzati o la reclusione nel car-
cere pubblico. Infatti, come ci ricorda nel frammento successivo il giurista
Paolo 11 era un fenomeno assai diffuso (solent enim quidam) quello per cui
alcuni costringevano altre persone a giocare, spingendole forzatamente ad
iniziare il gioco ovvero a continuarlo nonostante avessero già perso:

D. 11.5.2pr. (Paul. 19 ad ed.): Solent enim quidam et cogere ad lusum vel ab ini-
tio vel victi dum retinent.

Il gioco d’azzardo, in generale, fu decisamente avversato anche in epoca


imperiale e la relativa pratica fu sottoposta ad una disciplina assai restrittiva:
venne, quindi, confermato il divieto di effettuare scommesse già contenuto
nelle leggi Tizia, Publicia e Cornelia, ammettendosi solo quelle correlate a
gare sportive, come ci attesta il giurista Paolo in D. 11.5.2.1:

(Paul. 19 ad ed.): Senatus consultum vetuit in pecuniam ludere, praeterquam si


quis certet hasta vel pilo iaciendo vel currendo saliendo luctando pugnando quod
virtutis causa fiat.

Dal passo apprendiamo, dunque, che un non meglio identificato sena-


toconsulto aveva vietato di giocare danaro (ludere in pecuniam) tranne che
in relazione ad alcuni giochi atletici, praticati virtutis causa, e precisamente
il lancio dell’asta o del giavellotto, la corsa, il salto, la lotta e il pugilato,

10
Per approfondimenti, si rinvia a G. GRECO, Giochi d’azzardo e deterrenza: brevi note sui
susceptores, in Iura and Legal Systems, 3, 2016, 45 ss. e ID., “Quamvis et hi indigni videan-
tur …”: l’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo, in questo volume, 35 ss., in part. 41 ss.
11
D. 11.5.22pr.-1 (Paolo, nel libro diciannovesimo all’Editto): Taluni, infatti, sono soliti
anche costringere altri a giocare o fin dall’inizio oppure quando li trattengono per aver
perso. 1 Un senatoconsulto ha vietato di giocare denaro, tranne nel caso in cui si competa
nel lancio dell’asta o del giavellotto, oppure nella corsa, nel salto, nella lotta, nel pugilato,
che sono gare fatte per esaltare il valore.
30 Francesco Fasolino

competizioni idonee a mettere in rilievo l’abilità, la destrezza ed il coraggio


dei contendenti 12.
Il frammento del giurista Marciano contenuto in D. 11.5.3 13 specifica,
poi, che soltanto nel caso di competizioni basate sul valore sportivo era leci-
to fare una scommessa mediante una promessa formale, pur non indicando
quali fossero le eventuali sanzioni in caso di violazione di tale disposizione 14:

D. 11.5.3 (Marcian. 5 reg.): In quibus rebus ex lege Titia et Publicia et Cornelia


etiam sponsionem facere licet: sed ex aliis, ubi pro virtute certamen non fit, non licet.

Alla luce di quest’ultimo passo, dunque, trova conferma l’ipotesi che in


età imperiale vigesse un generale divieto di effettuare scommesse, eccezion
fatta per quelle relative ai giochi virtutis causa, per le quali si poteva ricor-
rere ad una formale sponsio 15.
Infine, nell’ultimo frammento della rubrica de aleatoribus, tratto dal com-
mento all’editto di Paolo, il giurista, dopo aver chiarito che è consentito il
gioco vescendi causa, quello cioè fatto per puro svago in occasione di un
banchetto, passa in rassegna i rimedi civilistici utilizzabili in caso di viola-
zione del divieto di gioco d’azzardo. In primo luogo, ci ricorda Paolo, qua-
lora il perdente paghi la posta al vincitore, si potrà agire per la ripetizione
contro quest’ultimo; allorquando il perdente che ha pagato sia un servo o
un filius familias, l’azione in questione compete a chi esercita su di lui la po-
testà; inoltre, viene concessa un’actio de peculio, non nossale, nei confronti
del padrone del servo che ha vinto al gioco, nei limiti però di quanto sia
rimasto della vincita nel peculio. Infine, il giurista precisa che un’azione di

12
Cfr., a tale riguardo, U. GUALAZZINI, s.v. «Giuochi e scommesse», in Enciclopedia del
Diritto, 19, 1970, 32 s.; M.G. ZOZ, La disciplina giuridica del gioco, cit., 64, la quale ritiene
che l’elenco di Paolo sia meramente esemplificativo; nonchè A. CAPPUCCIO, “Rien de mau-
vais”. Contratti di gioco e scommesse nell’età dei codici, Torino, 2011, 32, il quale reputa
questi giochi assimilabili a quelli del pentathlon greco, sulla scia delle argomentazioni già
proposte da D. GOTOFREDO, Corpus iuris civilis Romani 1, Napoli, 1928, 558, nt. 15.
13
D. 11.5.3 (Marciano, nel libro quinto Delle regole): in questi casi, in base alla legge
Tizia e Publicia e Cornelia è anche lecito fare una promessa formale; ma negli altri, ove
non si compete per il valore sportivo, non è lecito. Sul rapporto tra questo frammento e il
precedente, vd. R. FERROGLIO, Ricerche sul gioco e la scommessa fino al secolo XIII, in Rivi-
sta di storia del diritto italiano, 71, 1988, 280.
14
Comunemente si ritiene che si trattasse di leges minus quam perfectae, le quali, pur
non sancendo la nullità del negozio di gioco, avrebbero prevista una pena pubblica per i
contraenti e presumibilmente anche per gli organizzatori: così G. IMPALLOMENI, In tema di
gioco, cit., 502.
15
In tal senso, da ultima, anche A. BOTTIGLIERI, Il gioco, cit. 54.
“Alea iacta est”: la disciplina di giochi e scommesse a Roma 31

ripetizione viene concessa, in via utile, anche agli emancipati e ai liberti che
abbiano perso al gioco, rispettivamente, contro i loro ascendenti e patroni:
D. 11.5.4pr.-2 (Paul. 19 ad ed.): Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam
rem familia ludere permittitur. 1. Si servus vel filius familias victus fuerit, patri vel
domino competit repetitio. Item si servus acceperit pecuniam, dabitur in dominum
de peculio actio, non noxalis, quia ex negotio gesto agitur: sed non amplius cogen-
dus est praestare, quam id quod ex ea re in peculio sit. 2. Adversus parentes et pa-
tronos repetitio eius quod in alea lusum est utilis ex hoc edicto danda est 16.
Proprio sulla base del commento di Paolo ed Ulpiano, il Lenel ha rico-
struito la rubrica edittale de aleatoribus 17, ipotizzando, peraltro, che in essa
dovesse probabilmente essere contenuta un’ulteriore disposizione, in base
alla quale sarebbe stato negato al vincitore di poter agire in giudizio contro
colui che avesse perso al gioco. Si tratta, tuttavia, di una mera congettura,
che l’insigne giurista tedesco avanza sulla scorta del contenuto di D. 44.5
(Quarum rerum actio non datur): sotto tale rubrica, infatti, sono raccolte al-
cune exceptiones, tra cui l’exceptio negotii in alea gesti, correlate a fatti per i
quali, in altre sue parti, l’editto contempla espressamente una denegatio
actionis: di qui, dunque, la deduzione del Lenel circa l’esistenza anche di
una presunta denegatio che avrebbe colpito tutte le eventuali pretese fon-
date su contrattazioni connesse con il gioco18.
Per una completa ricostruzione del quadro della disciplina privatistica
del gioco d’azzardo va tenuto conto, infine, anche dell’exceptio ricordata
da Paolo in D. 44.5.2.1 (Paul. 71 ad ed.):
Si in alea rem vendam, ut ludam, et evicta re conveniar, exceptione summovebi-
tur emptor.

16
D. 11.5.4pr.-2 (Paolo, nel libro diciannovesimo all’editto): È permesso ai componenti
della famiglia giocarsi d’azzardo ciò che è posto per mangiare in un convito. 1 Se a perdere
sia stato un servo o un figlio in potestà, la ripetizione compete al padre o al padrone. Del
pari, se un servo avrà ricevuto denaro, sarà data azione contro il suo padrone nei limiti del
peculio, e non nossale, in quanto si agisce per la gestione di un affare altrui, ma il padrone
non deve essere costretto a prestare di più di ciò che per tale fatto si trova nel peculio. 2
Contro gli ascendenti e i patroni, in base a questo editto, deve essere data in via utile la ri-
petizione di quanto si è giocato d’azzardo.
17
O. LENEL, Das edictum perpetuum, Leipzig, 1907, 170. Secondo G. IMPALLOMENI, In
tema di gioco, cit., 503, “la denegatio potrebbe avere avuto una sfera maggiore, tale da col-
pire tutte le pretese fondate su contrattazioni connesse con il gioco, concluse da giocatori
anche con estranei”. Da ultima, in tal senso, anche A. BOTTIGLIERI, Il gioco, cit. 55.
18
Sul tema, cfr. A. METRO, La “denegatio actionis”, Milano, 1972, 81 ss. Si veda, altresì,
più di recente, A. PALMA, Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano, Tori-
no, 2016, in part. 95 ss. Da ultima, sul punto, anche P. ZILIOTTO, Disciplina, cit. 28 s.
32 Francesco Fasolino

Nel passo si prende in considerazione il caso di colui che aveva venduto


un oggetto non suo per procurarsi il danaro necessario al gioco. Qualora la
cosa fosse stata reclamata dal vero proprietario, il compratore evitto che
avesse chiamato in giudizio il venditore ex empto, si sarebbe visto opporre
da questi un’eccezione. In tal modo veniva esclusa la responsabilità per
evizione nelle compravendite concluse al fine di poter effettuare puntate
nei giochi d’azzardo. Tale regola ha l’evidente finalità di non concedere al-
cuna protezione giuridica a coloro che cercavano di trarre vantaggio, in
qualunque forma e modalità, dalla pratica del gioco vietato 19.

3. Gli interventi di Giustiniano

In età giustinianea persistette il forte disfavore dell’ordinamento verso il


gioco d’azzardo. Nel Codice di Giustiniano, e precisamente in CI. 3.43 (de
aleatoribus et alearum lusu), la materia è disciplinata da due costituzioni
emanate dal medesimo imperatore 20. Il testo della prima è il seguente:

CI. 3.43.1pr.: Alearum lusus antiqua res est et extra operas pugnantibus conces-
sa, verum pro tempore prodiit in lacrimas, milia extranearum nominationum su-
scipiens. Quidam enim ludentes nec ludum scientes, sed nominationem tantum,
proprias substantias perdiderunt, die noctuque ludendo in argento apparatu lapi-
dum et auro: consequenter autem ex hac inordinatione blasphemare conantur et
instrumenta conficiunt. 1. Commodis igitur subiectorum providere cupientes hac
generali lege decernimus, ut nulli liceat in privatis seu publicis locis ludere neque
in specie neque in genere: et si contra factum fuerit, nulla sequatur condemnatio,
sed solutum reddatur et competentibus actionibus repetatur ab his qui dederunt
vel eorum heredibus aut his neglegentibus a patribus seu defensoribus locorum.
2. Non obstante nisi quinquaginta demum annorum aliqua praescriptione. 3.
Episcopis locorum hoc inquirentibus et praesidum auxilio utentibus. 4. Deinde
vero ordinent quinque ludos, ton monobolon ton condomonobolon ke kondacca
ke repon ke perichyten. Sed nemini permittimus etiam in his ludere ultra unum
solidum, etsi multum dives sit, ut, si quem vinci contigerit, casum gravem non
sustineat. Non solum enim bella bene ordinamus et res sacras, sed et ista: inter-
minantes poenam transgressoribus, potestatem dando episcopis hoc inquirendi et
auxilio praesidum sedandi [a. 529 d.X.K. Oct. Constantinopoli Decio cons.].

19
Sull’argomento vd., amplius, G. GRECO, L’exceptio regotii in alea gesti, in questo vo-
lume, 53 ss.
20
Si tratta di CI. 3.43.1 e di CI. 3.43.2. Secondo G. PIOLETTI, s.v. «Giochi vietati», in
ED, 19, 1970, 72, le due costituzioni sarebbero due diverse traduzioni di un unico origina-
le in lingua greca.
“Alea iacta est”: la disciplina di giochi e scommesse a Roma 33

All’imperatore, dunque, sono ben note le gravi conseguenze, tanto di


ordine morale che patrimoniale, derivanti dal vizio del gioco d’azzardo
(Quidam enim ludentes nec ludum scientes, sed nominationem tantum,
proprias substantias perdiderunt, die noctuque ludendo in argento apparatu
lapidum et auro: consequenter autem ex hac inordinatione blasphemare co-
nantur et instrumenta conficiunt). La disposizione normativa ribadisce, per-
tanto, il generale divieto di scommettere, sia in pubblico che in privato, sul-
l’esito delle gare, fatta eccezione per alcuni giochi riconducibili a manife-
stazioni sportive, effettuate virtutis causa, che l’imperatore, tuttavia, indivi-
dua in soli cinque tipi: il monobolo, il contomonobolo, il cuntano contace
senza la fibula, il pericutè e l’ippica (vale a dire: salto libero, salto con la per-
tica, lancio del dardo, la lotta, le corse di cavalli) 21.
In ogni caso, per le scommesse consentite è previsto un limite massimo
all’ammontare della puntata che non deve superare un solidus. In caso di
violazione del divieto non è riconosciuta alcuna azione al vincitore del gio-
co ed è, invece, consentita ai perdenti (ovvero ai loro eredi) la ripetizione
di quanto pagato, con una azione che si prescrive in cinquanta anni. In ca-
so di negligenza nell’esercitare tale diritto da parte degli uni o degli altri, è
prevista una sorta di supplenza da parte degli organismi pubblici, potendo
agire in sostituzione i patres (cioè i decurioni) o i defensores locorum. Inol-
tre, si prevedono pene severe per i trasgressori e viene demandata ai vesco-
vi, con l’ausilio dei presidi, una potestà di vigilanza su questa materia.
L’imperatore, altresì, vietò risolutamente un tipo di gioco d’azzardo allo-
ra molto diffuso, gli equi lignei, assimilabile alla moderna roulette 22: in CI.
3.43.2, egli, oltre a stabilire la confisca dei luoghi in cui tale gioco si tiene,
prevede in favore del perdente un’azione di ripetizione, stabilendo che, qua-
lora questi trascuri di esercitare il suo diritto, il denaro verrà recuperato ad
opera di un procurator e utilizzato per la realizzazione di opere pubbliche:

21
Per l’identificazione di tali giochi, cfr., in particolare E. NARDI, Monobolo & C., in
Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, 75, 1987-1988, 15 ss. ora in
AA.VV., Scritti in onore di Angelo Falzea 4, Milano, 1991, 297 ss. A. CAPPUCCIO, Rien de
mauvais, cit., 35, vi ravvisa una variante del quinquertium, traendo conferma alla sua tesi
anche da Teodoro Balsamone (metà del XII sec.), secondo cui: “monobolo è detta la corsa,
contomonobolo il salto, cuntano contace senza la fibula il lancio senza la fibula di ferro …,
pericuté la lotta, e ippica la corsa dei cavalli”.
22
In tal senso, G. PIOLETTI, s.v. «Giochi vietati», cit., 72; della stessa opinione già R. NOTA-
RISTEFANI, sv. Giuoco d’azzardo, in Digesto italiano, XII, Torino, 1901, 439. Secondo A. BOT-
TIGLIERI, Il gioco, cit. 56 nt. 25, “sembra si trattasse di una struttura di legno, composta da vari
gradini sui quali erano stati praticati dei fori; i giocatori ponevano sui gradini quattro palline di
quattro colori, poi le lasciavano cadere e la prima delle palline che, passando attraverso i fori,
usciva dall’ultimo di essi, assegnava la vittoria a colui che aveva puntato su quella pallina”.
34 Francesco Fasolino

CI. 3.43.2pr.: Imperator Justinianus. Prohibemus etiam, ne sint equi lignei: sed
si quis ex hac occasione vincitur, hoc ipse recuperaret: domibus eorum publicatis,
ubi haec reperiuntur. 1. Si autem noluerit recipere is qui dedit, procurator noster
hoc inquirat et in opus publicum convertat. 2. Similiter provideant iudices, ut a
blasphemiis et periuriis, quae ipsorum inhibitionibus debent comprimi, omnes
penitus conquiescant [a. 529 d.X.K. Oct. Constantinopoli Decio cons.].

Giustiniano, inoltre, in CI. 1.4.34.1-7, detta disposizioni molto severe nei


confronti degli ecclesiastici, facendo loro divieto non solo di giocare ai dadi
ma, finanche, semplicemente di assistere alle partite come pure di partecipare
alle gare dei cavalli e di fare scommesse, sia direttamente che attraverso altri.
Un analogo divieto è esteso espressamente al gioco del tavoliere da Nov.
123.10.1, dell’anno 546, tramandata in numerose compilazioni ad uso eccle-
siastico risalenti tra la fine del IX e gli inizi del X secolo: la sanzione per i tra-
sgressori consisteva nell’interdizione dal ministerio ecclesiastico per tre anni
durante i quali si veniva rinchiusi in monastero: Interdicimus autem ... ad ta-
bulam ludere aut talia ludentibus participes aut inspectores fieri aut ad quodli-
bet spectaculum spectandi gratia venire. Si quis autem ex eis hoc deliquerit, iu-
bemus hunc in tribus annis venerabili ministerio prohiberi et monasterio redigi.
Dalle disposizioni contenute nella legislazione giustinianea, in definitiva,
emerge chiaramente quanto fosse ritenuto sconveniente per gli ecclesiastici
non soltanto fare scommesse ma anche partecipare, fosse solo quali m e r i
spettatori, ai giochi: evidentemente tali attività non soltanto non erano con-
siderate dignitose per gli appartenenti al clero ma si riteneva che costituis-
sero una pratica nefasta e peccaminosa, foriera di altri e più gravi vizi 23.

23
Con ogni probabilità, la legislazione imperiale interdittiva del gioco per gli eccle-
siastici fu influenzata dai Canoni Conciliari: il Decretum di Graziano (Distinctio 35, Ca-
none Episcopus) riferisce che già nei c.d. Canones Apostolorum (risalenti al IV sec.) veniva-
no previste sanzioni assai gravi, quali la deposizione e la scomunica, nei confronti degli
ecclesiastici dediti abitualmente al vizio del gioco: cfr., sul punto, G. CECCARELLI, Il gioco e
il peccato. Economia e rischio nel tardo medioevo, Bologna, 2003, 50 ss.
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 35

“Quamvis et hi indigni videantur”:


l’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo
Giovanbattista Greco

SOMMARIO: 1. Diffusione e contrasto del gioco d’azzardo a Roma. – 2. La figura dei su-
sceptores. – 3. Il diniego di tutela giurisdizionale. – 4. Osservazioni conclusive.

1. Diffusione e contrasto del gioco d’azzardo a Roma

La diffusione del gioco d’azzardo presso i Romani è nota ed ampiamen-


te attestata.
Con il sostantivo ‘alea’ essi indicavano tutte quelle competizioni in cui
la vittoria dipendeva esclusivamente dalla temerarietà dei partecipanti e dal
caso, a nulla rilevando le abilità individuali 1-2.
La diffusione di questo tipo di intrattenimenti era tale da superare le
differenze di ceto.
La presenza di ‘aleatores’ presso la classe servile ci è testimoniata indi-

1
Si veda la voce corrispondente in F. WAGNER, Lexicon Latinum seu […] Universae
Phraseologiae Corpus Congestum [...], Bruges, 1878, 38.
2
Il gioco d’azzardo più diffuso era quello dei dadi, di cui si conoscevano due tipologie:
le tesserae e i tali. Le prime presentavano sei facce, marcate con i numeri I, II, III, IV, V,
VI. Dei secondi si consideravano solo le quattro facce in senso longitudinale su cui erano
impressi, in reciproca opposizione, i numeri uno, sei, tre e quattro. Ciascun lancio preve-
deva l’impiego di tre tesserae e quattro tali. Il lancio maggiormente fortunato, detto ‘Ve-
nus’, si aveva realizzando tre sei con le tesserae e numeri diversi quanto ai tali. Il lancio più
sfortunato, denominato ‘canis’, era quello in cui ciascuna tessera mostrava la faccia con il
numero uno e i tali davano numeri identici. Con un altro gioco, simile all’odierna morra, si
chiedeva ai partecipanti di indovinare i numeri che l’avversario avrebbe mostrato con le
dita. Diffusamente v. A. ADAM, Roman antiquities: or, An account of the manners and cu-
stoms of the Romans; designed to illustrate the Latin classics, by explaining words and phra-
ses, from the rites and customs to which they refer, New York, 1819, 436 ss.
36 Giovanbattista Greco

rettamente da D. 21.1.19.1, dove Ulpiano, nel commentare l’editto degli


edili curuli relativo alle compravendite di mancipia, sostiene che il venali-
ciarius è tenuto a garantire che lo schiavo abbia effettivamente le caratteri-
stiche dichiarate al momento del trasferimento, compresa la sua estraneità
alla pratica del gioco d’azzardo 3-4. Una marcata propensione ad intratte-
nersi in occupazioni ludiche è infatti ritenuta a tutti gli effetti un vitium
animi che, allo stesso modo della volubilità, della tendenza alla supersti-
zione e all’ira, dell’eccessiva ostinazione della timidezza o dell’avarizia 5 com-
promette la possibilità di impiegare il soggetto come risorsa produttiva
quando l’occupazione a cui dovrà essere destinato non comporti solo l’ap-
plicazione di energie muscolari ma richieda la gestione di relazioni inter-
personali o l’amministrazione di beni.
Inclini a giocare d’azzardo erano anche gli strati più elevati della società
e chi avesse responsabilità di governo. Il triumviro Marco Antonio non
avrebbe mancato di abusare delle proprie prerogative pur di dedicarsi al
gioco assieme a chi risultava a lui più gradito 6; Augusto, per la sorte avver-
sa, sarebbe stato capace di accumulare consistenti perdite di denaro 7; Ne-

3
“Plane, si dixerit aleatorem non esse, furem non esse, ad statuam numquam confugisse,
oportet eum id praestare”.
4
Relativamente all’esercizio del commercio degli schiavi v. R. ORTU, Note in tema di or-
ganizzazione e attività dei venaliciarii, in Diritto@Storia, 2, 2003 <http://dirittoestoria.it/
tradizione2/Ortu-Venaliciarii.htm>; ID., Brevi note in tema di societas venaliciaria, in Ar-
chivio storico giuridico sardo di Sassari, 19, 2014, 152 ss. Sull’editto degli edili curuli e le
garanzie in favore degli acquirenti v., per tutti, G. IMPALLOMENI, L’editto degli edili curuli,
Padova, 1955; R. MONIER, La garantie contre les vices cachés dans la vente romaine, Paris,
1930; R. ORTU, Alle origini della tutela giuridica del consumatore: fondamenti romanistici
della disciplina europea, in Archivio storico e giuridico sardo di Sassari, 2016, 131 ss.; A. PE-
TRUCCI, Osservazioni minime in tema di protezione dei contraenti con i venaliciarii in età
commerciale, in AA.VV., Filìa. Scritti per Gennaro Franciosi, III, Napoli, 2007, 2079ss.; D.
PUGSLEY, The Aedilician Edict, in A. WATSON (a cura di), Daube Noster, Edinburg-
London, 1974, 253 ss.; L. SOLIDORO, Gli obblighi di informazione a carico del venditore.
Origini storiche e prospettive attuali, Napoli, 2007.
5
Cfr. C.E. ROJAS PERALTA, Los vicios ocultos en la compraventa (emptio et venditio-
ne) del derecho romano, in Revista electronica del trabajador judicial, <https://erwin
rodriguez.wordpress.com/los-vicios-ocultos-en-la-compraventa-emptio-et-venditione-del-
derecho-romano/>.
6
Tanto è riferito in Cic., Phil. 2,23,56: “Restituebat multos calamitosos. In iis patrui nul-
la mentio. Si seuerus, cur non in omnis? Si misericors, cur non in suos? Sed omitto ceteros;
Licinium Denticulum de alea condemnatum, conlusorem suum, restituit; quasi uero ludere
cum condemnato non liceret; sed ut, quod in alea perdiderat, beneficio legis dissolueret”.
7
“[…] Inter cenam lusimus geronticos et heri et hodie; talis enim iactatis, ut quisque ca-
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 37

rone avrebbe lasciato ai posteri la memoria di puntate ai dadi di importo


smodato 8.
Malgrado i temperamenti di giudizio imposti dal rango degli interessati,
la predilezione verso svaghi di puro rischio, specie quando risultava parti-
colarmente marcata, costituiva generale motivo di discredito: nell’opinione
comune, la fama di ‘aleator’ veniva equiparata a quella di lenoni, adulteri, e
dissoluti 9.
L’avversione verso il gioco e i giocatori era alimentata da ragioni tra lo-
ro convergenti: la necessità di impedire spostamenti di ricchezza che non
fossero collegati allo svolgimento di attività produttive; la volontà di pre-
servare risorse per finalità di risparmio; l’esigenza di contrastare il radica-
mento di attività illecite. Né può tacersi una specifica preoccupazione im-
posta dal carattere timocratico delle strutture sociali e costituzionali roma-
ne: “Il depauperamento di un pater familias, che perde le proprie sostanze
al gioco, porta all’iscrizione della famiglia in una classe inferiore del censo,
precludendo anche la possibilità di una brillante carriera politica ai mem-
bri della famiglia stessa” 10.
In ambito giuridico, il disvalore che connotava l’azzardo si tradusse, duran-
te l’epoca repubblicana, nella proibizione di tutti i giochi e le scommesse 11

nem aut senionem miserat, in singulos talos singulos denarios in medium conferebat, quos
tollebat universos, qui Venerem iecerat”. Et rursus aliis litteris: “Nos, mi Tiberi, Quinqua-
trus satis iucunde egimus; lusimus enim per omnis dies forumque aleatorium calfecimus. Fra-
ter tuus magnis clamoribus rem gessit; ad summam tamen perdidit non multum, sed ex ma-
gnis detrimentis praeter spem paulatim retractum est. Ego perdidi viginti milia nummum
meo nomine, sed cum effuse in lusu liberalis fuissem, ut soleo plerumque. Nam si quas manus
remisi cuique exegissem aut retinuissem quod cuique donavi, vicissem vel quinquaginta milia
[…]”. (Suet., Aug. 71).
8
“Nullam vestem bis induit. Quadringenis in punctum sestertiis aleam lusit […]” (Suet.
Nero., 30,3).
9
Tanto risulta da Cic., Phil. 8,26 e Catil. 2,23.
10
A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima
de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 58.
11
Le fonti giuridiche romane operavano una suddivisione degli intrattenimenti compe-
titivi in ‘giochi’ e ‘scommesse’ attraverso il ricorso ai lemmi ‘ludus’ e ‘sponsio’ e alle relative
forme verbali ‘ludere’ e ‘spondere’. Di questi, l’alea costituiva la manifestazione deteriore.
La materia non sembra aver conosciuto un compiuto sforzo classificatorio e il discrimine
terminologico di cui si è dato conto, benché ricorrente e non degradabile al rango di mera
variante lessicale, è rimasto appena abbozzato. A spiegare la mancata codificazione degli
elementi distintivi di ciascuna classe di occupazioni ludiche potrebbe validamente richia-
marsi la ridotta propensione della giurisprudenza romana verso i processi di astrazione (F.
SCHULZ, I principi del diritto romano, trad. it. V. Arangio Ruiz, Firenze, 1946, 34). Nem-
38 Giovanbattista Greco

che non si ricollegassero ad occupazioni idonee a preservare la prestanza


fisica dei partecipanti 12.
Un’actio in quadruplum, probabilmente detta ‘de aleatoribus’, era a di-
sposizione di qualunque cittadino che volesse attivarsi contro i giocatori
che violavano il divieto 13.

meno va trascurata, però, la concreta difficoltà di segnare un confine tra le attività di svago
che fosse oggettivamente percepibile e presentasse un quid pluris rispetto alle mutevoli de-
nominazioni con cui quelle venivano designate nella pratica quotidiana. Analoghe difficol-
tà di approccio sono venute in luce quando ci si è proposto di stabilire il significato delle
nozioni di ‘gioco’ e ‘scommessa’ impiegate nelle codificazioni contemporanee. Così, valo-
rizzando l’elemento oggettivo della fattispecie, si è giunti a riconoscere nel gioco una gara a
contenuto agonistico e ricreativo e nella scommessa una contesa sulla verità di un fatto o di
una osservazione (C.A. FUNAIOLI, Il giuoco e la scommessa, in Trattato Vassali, IX, 2, Tori-
no, 1961). Concentrando l’attenzione sul profilo soggettivo, si è concluso che solo nel gio-
co si riscontrerebbe la partecipazione diretta dei contendenti alla realizzazione dell’evento
oggetto di competizione, laddove nella scommessa questi vi rimarrebbero estranei (M. PA-
RADISO, I contrati di gioco e scommessa, Milano, 2003, 43 ss.). In una prospettiva teleologi-
ca, è stato infine osservato che il gioco sarebbe animato dal desiderio di lucro laddove la
scommessa risulterebbe retta dalla mera volontà di veder prevalere la propria affermazione
(B. BELOTTI, voce ‘Giuoco’, in Il Digesto italiano, XII, 1900-1904, 403 ss.). Difficilmente
dall’incerto panorama definitorio odierno potrebbero derivarsi elementi utili ad acclarare
l’essenza di fenomeni passati. Ci sembra piuttosto che i caratteri cumulativamente richiesti
affinché un’attività di svago potesse incontrare l’interesse del ius fossero due: a) il confron-
to intersoggettivo di energie fisiche, psichiche o capacità previsionali; b) l’esistenza di un
premio o posta costituiti da denaro o altra utilità. Per converso, quando l’intrattenimento
si esauriva nella sfera individuale o non implicava lo spostamento di ricchezza, la sua prati-
ca si iscriveva a pieno titolo nell’area del giuridicamente indifferente, mancando qualun-
que possibilità che fossero pregiudicate istanze collettive. In quest’ottica, la discriminazio-
ne tra giochi e scommesse si diluiva al punto che essi ben potevano ricostruirsi come “fra-
telli siamesi” (T. SANFELICI, voce ‘Giuoco e scommessa’, in Enciclopedia giuridica italiana,
VII, 1903, I, 611), “quasi una tautologia” (G. IMPALLOMENI, Il regime del gioco nel ‘Corpus
Iuris’ in relazione con alcune codificazioni europee, in ID., Scritti di diritto romano e tradi-
zione romanistica, Padova, 1996, 643).
12
D. 11.5.2.1 (Paul. 19 ad ed.): “Senatus consultum vetuit in pecuniam ludere, praeter-
quam si quis certet hasta vel pilo iaciendo vel currendo saliendo luctando pugnando quod vir-
tutis causa fiat”; D. 11.5.3 (Marc. 5 reg.): “In quibus rebus ex lege Titia et Publicia et Corne-
lia etiam sponsionem facere licet: sed ex aliis, ubi pro virtute certamen non fit, non licet”.
13
Si trattava indubbiamente di un’actio popularis, per come descritta in Plaut., Persa,
62-74: “Neque quadruplari me volo; neque enim decet/ sine meo periclo ire aliena ereptum
bona / neque illi qui faciunti mihi placent. Planen loquor? / Nam publicae rei causa quicum-
que id facit / magis quam sui quaesti, animus induci potest / eum esse civem et fidelem et bo-
num. / Sed si legirupam qui damnet, det in publicum / dimidium; atque etiam in ea lege ad-
scribier / ubi quadruplator quempiam inieit manum / tantidem ille illi rursus iniciat manum,
/ ut aequa parti prodeant ad trisviros. / Si id fiat, ne isti faxim nusquam appareant / qui hic
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 39

Quanto all’accordo concluso in ambito ludico, la dottrina più risalente non


ha mancato di esprimersi nel senso che fosse da ritenersi nullo, per il fatto di
non produrre azione, quando avesse ad oggetto intrattenimenti proibiti 14.
L’opinione che attualmente incontra maggior seguito ritiene invece che
il peculiare oggetto del negozio di gioco non fosse sufficiente a comportar-
ne l’invalidità, potendo questa prospettarsi solo in ipotesi di causa turpe.
Ad avvalorare l’assunto è risultata decisiva l’esegesi di D. 19.5.17.5
(Ulp. 28 ad ed.):

“Si quis sponsionis causa anulos acceperit nec reddit victori, praescriptis verbis
actio in eum competit: nec enim recipienda est sabini opinio, qui condici et furti
agi ex hac causa putat: quemadmodum enim rei nomine, cuius neque possessio-
nem neque dominium victor habuit, aget furti? Plane si inhonesta causa sponsio-
nis fuit, si anuli dumtaxat repetitio erit”.

La fattispecie riguarda due scommettitori che hanno depositato degli


anelli presso un terzo affinché questi, all’esito del confronto, li consegni al
vincitore.
Il passo ipotizza che il fiduciario, giunto il momento di liberarsi dei
monili, rifiuti di farlo. Sorge dunque il problema di individuare lo stru-
mento processuale disponibile contro di lui. Ulpiano dichiara in maniera
perentoria che tale rimedio debba individuarsi nell’actio praescriptis verbis.
Esclude invece, contro il parere di Sabino, che vi siano i presupposti per
dar corso ad un’actio furtiva, non essendo il victor titolare né del possesso
né della proprietà dei beni contesi. Qualora la causa sponsionis fosse stata
inhonesta, soggiunge il giurista, l’interessato avrebbe potuto recuperare so-
lo il proprio anello. La preferenza ulpianea verso l’azione contrattuale è
stata interpretata come logica conseguenza del fatto che la scommessa pre-
supposta dovesse ritenersi pienamente efficace e ciò anche quando fosse
intervenuta in relazione a giochi di cui era sanzionata la pratica.
Ad ogni modo, in base al ius honorarium, quando il vincitore ricevesse
spontaneamente il pagamento del premio o della posta, l’arricchimento

albo rete aliena oppugnant bona”. In tema v. Y. RIVIÈRE, Les quadruplatores: la rèpression
du jeu, de l’usure et quelques autres délits sous la Republique romaine, in Mélanges École
Française de Rome (MEFRA), 109.2, Roma, 1997, 577 ss.; F. DE MARTINO, I “quadruplato-
res” nel “Persa” di Plauto, in Labeo, 1955, 32 ss.
14
C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato romano
e moderno, in appendice a F. GLÜCK, Commentario alle pandette tradotto e arricchito da
copiose note e confronti col Codice Civile del Regno d’Italia, Libro XI, titolo V, De aleatori-
bus, Milano, 1903, 547.
40 Giovanbattista Greco

conseguito doveva considerarsi precario, potendo il perdente chiederne la


restituzione personalmente o, se non fosse soggetto sui iuris, attraverso
l’esercente potestà. Contro il dominus era prevista un’azione de peculio nei
limiti di quanto fosse rimasto della vincita, se ad incassarla era stato un suo
schiavo. Gli emancipati ed i liberti perdenti potevano attivarsi per il recu-
pero, in via utile, rispettivamente verso il parens manumissor e il patrono 15.
Giustiniano stabili in cinquant’anni il termine prescrizionale dell’azione di
ripetizione consentendo anche agli eredi del perdente di esigere la restituzione
di quanto versato dal de cuius per motivi di gioco. Alla loro inerzia avrebbero
dovuto sopperire i decurioni cittadini e i defensores locorum, all’uopo sottopo-
sti alla vigilanza dei vescovi, coadiuvati dai governatori provinciali 16.
La materia è stata indagata dalla scienza romanistica in maniera abba-
stanza esaustiva 17.

15
D. 11.5.4.1: “Si servus vel filius familias victus fuerit, patri vel domino competit repeti-
tio. Item si servus acceperit pecuniam, dabitur in dominum de peculio actio, non noxalis, quia
ex negotio gesto agitur: sed non amplius cogendus est praestare, quam id quod ex ea re in pe-
culio sit”.
16
C. 3.43.1.1: “Imperator Justinianus Commodis igitur subiectorum providere cupientes
hac generali lege decernimus, ut nulli liceat in privatis seu publicis locis ludere neque in spe-
cie neque in genere: et si contra factum fuerit, nulla sequatur condemnatio, sed solutum red-
datur et competentibus actionibus repetatur ab his qui dederunt vel eorum heredibus aut his
neglegentibus a patribus seu defensoribus locorum” [a. 529 d.C.].
17
Oltre ai già segnalati A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LU-
CREZI (a cura di), Minima de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 45 ss. e G. IMPALLOMENI, In tema
di gioco, in AA.VV., Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, Napoli, 1984, 2331 ss.
possono menzionarsi ID., Il regime del gioco nel corpus iuris in relazione con alcune codifica-
zioni europee, Vienna-Manz, 1993; C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa dal punto di
vista del diritto romano e moderno, Appendice ai §§ 757-762 di CH.F. GLUCK, Ausführliche
Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, Palm, Erlangen, 1796-1830, trad. it., Commenta-
rio alle Pandette, lib. XI, Milano, 1903; E. QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De aleatoribus) y C.
3.43 (De aleae lusu et aleatoribus): Precedentes romanos del contrato de juego, in Anuario
Jurídico y Económico Escurialense, XLII, 2009, 17 ss.; J.G. CAMINˇAS, Sobre los “quadrupla-
tores”, in Studia et Documenta Historiae Iuris, 50, 1984, 472 ss.; A. POLLERA, In tema di re-
pressione del gioco d’azzardo: dati e problemi, in AA.VV., Studi per Luigi De Sarlo, Milano,
1989, 323 ss.; E. NARDI, Monobolo & C., Milano, 1991; M.J. DIAZ GOMEZ, El origen históri-
co del contrato de juego, in Derecho y Conocimiento, vol. 2, Universidad de Huelva, 2003,
285 ss.; S.B. FARIS, Changing Public Policy and the Evolution of Roman Civil and Criminal
Law on Gambling, in UNLV Gambling Law Journal, 3, 2012, 199 ss.; A. BOTTIGLIERI, Le
scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano, in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano “Vittorio Scialoja”, XCI, 2017, 1 ss.; P. ZILIOTTO, Disciplina privatistica classica del
gioco d’azzardo vietato, in Teoria e Storia del Diritto Privato, X, 2017, in www.teoria
estoriadeldirittoprivato.com/media/rivista/2017/contributi/2017_Contributi_Ziliotto.pdf.
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 41

Qualche riflessione ulteriore pare tuttavia opportuna circa il trattamento


riservato a coloro che, pur rimanendo estranei alla partita, ne agevolassero
materialmente lo svolgimento. Si tratta di una categoria negletta dagli stu-
diosi malgrado risulti destinataria di autonoma considerazione da parte del-
l’editto del pretore. Si tenterà dunque di segnare con precisione i confini di
questo novero di soggetti e di approfondire il meccanismo sanzionatorio lo-
ro dedicato.

2. La figura dei susceptores

L’indagine sull’ambito dei soggetti attenzionati dalla normazione in ma-


teria alearia, poiché responsabili di una condotta facilitatrice della pratica
del gioco d’azzardo, può legittimamente prendere avvio da D. 11.5.1. pr.:

“Praetor ait: ‘Si quis eum, apud quem alea lusum esse dicetur, verberaverit
damnumve ei dederit sive quid eo tempore dolo eius subtractum est, iudicium
non dabo […]’”.

Il testo ci segnala che, per determinazione pretoria, relativamente ad


una serie di fattispecie quali la verberatio, il damnum iniuria datum e il fur-
tum, sarà negata l’azione a colui presso il quale si dica che sia stato pratica-
to il gioco d’azzardo.
La previsione edittale è accompagnata da una precisazione di Ulpiano
(D. 11.5.2):

“Item notandum, quod susceptorem verberatum quidem et damnum passum ubi-


cumque et quandocumque non vindicat: verum furtum factum domi et eo tempo-
re quo alea ludebatur, licet lusor non fuerit qui quid eorum fecerit, impune fit.
Domum autem pro habitatione et domicilio nos accipere debere certum est”.

Il giurista illustra luoghi, tempi e condotte interessati dalla denegatio ac-


tionis preannunciata dal praetor in danno di quanti possano definirsi ‘su-
sceptores’.
Non fornisce però particolari delucidazioni sull’identità esatta dei sanzio-
nati, profilo la cui definizione è preliminare a qualunque ulteriore riflessione.
In argomento possono accreditarsi almeno tre ipotesi alternative.
Una prima suggerisce di chiamare in causa i tenutari di bische 18, soli-

18
Tra gli altri, G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, cit., 2335; E. QUINTANA ORIVE, D.
11.5 (De aleatoribus), cit., 24; S.B. FARIS, Changing Public Policy, cit., 204.
42 Giovanbattista Greco

tamente occultate in cauponae o popinae 19.


La prospettazione è suffragata da alcune risultanze archeologiche, la più
significativa delle quali è stata forse rinvenuta nella c.d. Caupona di Salvius a
Pompei. Si tratta di due scenette affrescate che danno conto di una lite tra
giocatori di dadi generata dalla discordante interpretazione del risultato di
un lancio. L’alterco è sedato dal gestore della taverna che si affretta a spin-
gere i due figuri in strada, con l’evidente scopo di evitare che la rissa possa
avere conseguenze spiacevoli per sé ed il locale che ha in conduzione 20.
La qualificazione proposta, pur nel silenzio dei suoi sostenitori, sembra
riposare sulla circostanza che al verbo suscipere può farsi ricorso per desi-
gnare l’assunzione di un incarico e, per estensione, lo svolgimento di un’at-
tività di impresa 21.
Questa accezione è agevolmente riscontrabile in ambito letterario. Un
esempio tra tutti ce lo fornisce Quintiliano in Instit. or. 12,9,6-8:

“[…] Finem tamen hunc praestabit orator, ut videatur optimam causam optime
egisse. Illud certum erit neminem peius agere quam qui displicente causa placet;
necesse est enim extra causam sit quod placet. [7] Nec illo fastidio laborabit ora-
tor non agendi causas minores, tanquam infra eum sint aut detractura sit opinio-
ni minus liberalis materia. Nam et suscipiendi ratio iustissima est officium, et op-
tandum etiam ut amici quam minimas lites habeant; et abunde dixit bene, qui-
squis rei satisfecit. [8] At quidam, etiamsi forte susceperunt negotia paulo ad di-
cendum tenuiora, extrinsecus adductis ea rebus circumlinunt ac, si defecerint alia,
conviciis implent vacua causarum, si contingit, veris, si minus, fictis, mode sit
materia ingenii mereaturque clamorem dum dicitur”.

Nel passo, l’Autore argomenta contro la falsa concezione secondo la


quale l’esercizio dell’oratoria possa svolgersi a pieno unicamente nel pa-
trocinare cause importanti. A tale luogo comune contrappone l’importan-
za di presentare adeguatamente il proprio caso affinché questo incontri

19
Trattasi di tipologie di taberna. Le cauponae, a differenza delle popinae, potevano di
solito offrire anche alloggio ai viaggiatori. Per un approfondimento v. N. MONTEIX, Cau-
ponae, popinae and “thermopolia” standard literary and historiographic Pompeian reality, in
Contributi di archeologia vesuviana, III, Roma, 2007, 119 ss.; F. GROSSI, Bar, fast food e ta-
vole calde: nomi e funzioni dei locali di ristoro nelle città romane dell’Impero, in Lanx. Rivi-
sta della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università degli Studi di Milano, 9,
2011, 1 ss.
20
Si fa menzione dell’illustrazione, ad esempio, in C. JIMÈNEZ CANO, Estudio preliminar
sobre los juegos de mesa en Hispania, in Antesteria, 3, 2014, 125 ss.
21
Il primo significato accordato alla voce ‘Susceptor’ in W. FREUND, Grand dictionnaire
de la langue latine, Paris, 1883, è proprio quello di ‘entrepreneur’, ‘imprenditore’ (p. 385).
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 43

approvazione e seguito. Quindi, mette in guardia sul fatto che taluni, pur
difendendo ragioni per le quali ci sarebbero spazi angusti per l’eloquenza
(“etiamsi forte susceperunt negotia paulo ad dicendum tenuiora”), le abbelli-
scono con argomenti non pertinenti e colmano le lacune del ragionamento
con insulti.
Un oratore può dirsi susceptor, quindi, nella misura in cui si fa carico
della responsabilità di perorare – prendere su di sé – le ragioni di una par-
te. In questo modo si onera dello svolgimento di una serie di attività pro-
pedeutiche al raggiungimento di un risultato, costituito dalla raccolta di
consenso rispetto a una tesi.
La trasposizione tecnico-giuridica del concetto può leggersi nel noto D.
44.7.5, dove viene illustrata la liceità della negotiorum gestio 22 con riferi-
mento all’amministrazione di un affare altrui senza il preventivo rilascio di
un mandato (“sine mandatu suscipere negotiorum administrationem”):

“Sed neque ex contractu neque ex maleficio actiones nascuntur: neque enim is


qui gessit cum absente creditur ante contraxisse, neque ullum maleficium est sine
mandatu suscipere negotiorum administrationem: longe magis is, cuius negotia
gesta sunt, ignorans aut contraxisse aut deliquisse intellegi potest: sed utilitatis
causa receptum est invicem eos obligari”.

Anche in questo caso, il suscipere è intrinsecamente collegato all’agire


per una finalità prefissata.
La dottrina che ritiene che i susceptores evocati in materia alearia siano i
gestori di case da gioco valorizza dunque l’aspetto più dinamico del signi-
ficato del lemma impiegato da Ulpiano.
In contrapposizione a quanto sinora discusso, i destinatari della dispo-
sizione pretoria riportata in D. 11.5.1 pr. sono stati anche identificati con i
custodi della posta in gioco, e quindi con una classe di individui allo stesso

22
Circa la gestione d’affari altrui in diritto romano rimandiamo, tra gli altri, ad A. CEN-
DERELLI, La negotiorum gestio: Corso esegetico di diritto romano. I. Struttura, origini, azioni,
Torino, 1997; G. FINAZZI, Ricerche in tema di negotiorum gestio, azione pretoria ed azione
civile, I, Napoli, 1999; ID., Ricerche in tema di negotiorum gestio, II. 1. Requisiti delle actio-
nes negotiorum gestorum, Cassino, 2003; G. NICOSIA, voce ‘Gestione di affari altrui’ (sto-
ria), in Enciclopedia del Diritto, XVIII, Varese, 1969, 628 ss.; F. GALLO, Per la ricostruzione
e l’utilizzazione della dottrina di Gaio sulle obligationes ex variis causarum figuriis, in Bul-
lettino dell’Istituto di Diritto Romano ‘Vittorio Scaloja’, 76, 1973, 171 ss.; P. STEIN, The Na-
ture of Quasi Delictual Obligations in Roman Law, in Revue internationale des droits de
l’antiquité, 5, 1958, 563 ss.; E. BETTI, Appunti di teoria dell’obbligazione in diritto romano,
Roma, 1958.
44 Giovanbattista Greco

tempo diversa e più ampia degli imprenditori dell’azzardo di cui si è appe-


na detto 23.
In questo senso può farsi valere che tra i significati di suscipere vi sia, tra
l’altro, proprio quello di raccogliere e custodire cose inanimate, secondo
l’uso riscontrabile, tra l’altro, in Paul. Sent. 5.3.2.:

“Quidquid ex incendio ruina naufragio navique expugnata raptum susceptum


suppressumve erit, eo anno in quadruplum eius rei, quam quis suppresserit cela-
verit rapuerit, convenitur, postea in simplum”.

Il frammento richiama l’applicazione di una sanzione in quadruplum en-


tro l’anno, quindi successivamente in simplum, ai danni di chi sia colpevole
della sottrazione, (“quidquid raptum”), custodia (“susceptum”) o soppres-
sione (“suppressumve”) di cose provenienti da incendi, crolli, naufragi o
navi conquistate.
Sono poi notoriamente designati come susceptores quanti, nel tardo im-
pero, partecipavano dell’amministrazione finanziaria avendo la responsabi-
lità di ricevere il pagamento di tributi in danaro o natura. Ad essi fanno ri-
ferimento le costituzioni riportate in C. 10.72.
Del resto, la pratica dei giocatori o scommettitori di consegnare ad un
terzo il premio pattuito perché, all’esito della competizione, ne garantisse il
trasferimento al vincitore costituisce il presupposto del caso illustrato in D.
19.5.17.5 (Ulp. 28 ad ed.), e su cui ci si è già soffermati:

“Si quis sponsionis causa anulos acceperit nec reddit victori, praescriptis verbis
actio in eo competit […]” 24.

Nel passo, qui riproposto solo quanto all’incipit, si richiama la dispo-


nibilità di un actio praescriptis verbis contro chi abbia ricevuto degli anelli
dagli scommettitori (“sponsionis causa”) e si rifiuti di renderli alla parte
vittoriosa.
La polisemia dei lemmi suscipere e susceptor, tuttavia, è tale da consenti-

23
S. SCHIPANI (a cura di), Iustiniani Digesta Seu Pandectae. Testo e traduzione, vol. II: 5-
11, Milano, 2005, 362.
24
Il testo è analizzato da G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, cit., 2332 ss. il quale ravvisa
che “[i]l negozio di gioco, nel caso la sponsio, non deve ritenersi invalido ancorché vietato.
Diverrebbe invalido qualora sfociasse nella turpitudine. Dunque, le sanzioni sia d’ordine
privatistico, come la denegatio actionis, l’exceptio e la ripetibilità del pagato, sia d’ordine
pubblicistico come eventuali ammende, dovevano operare all’esterno di esso, senza colpir-
ne la validità”.
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 45

re risultati esegetici sicuramente più interessanti se, delle loro numerose


accezioni, si valorizza quella che riguarda il garantire accoglienza e riparo
alle persone, specie in connessione con la commissione di illeciti.
È questo l’uso riscontrabile in D. 47.2.48.2-3 (Ulp. 42 ad Sab.):

“Qui ex voluntate domini servum recepit, quin neque fur neque plagiarius sit,
plus quam manifestum est: quis enim voluntatem domini habens fur dici potest?
[3] Quod si dominus vetuit et ille suscepit, si quidem non celandi animo, non est
fur, si celavit, tunc fur esse incipit. Qui igitur suscepit nec celavit etsi invito do-
mino, fur non est”.

Il frammento illustra con lucido schematismo i limiti di configurabilità


del furto dello schiavo precisando che chi ha ne ha accolto (“recepit”) uno
secondo la volontà del padrone, non è ladro (“fur”) né plagiario 25. Neppu-
re può dirsi ladro se, malgrado il divieto del dominus, lo abbia accolto
(“suscepit”) ma senza l’intenzione di nasconderlo. È invece incolpabile di
furto da quando cominci ad occultarlo.
Nell’economia del discorso, può richiamarsi utilmente anche Pauli Sent.
5.3.4:

“Receptores adgressorum itemque latronum eadem poena adficiuntur, qua ipsi


latrones: sublatis enim susceptoribus grassantium cupido conquiescit”.

Il passo si sofferma sulla necessità che coloro che garantiscono riparo


all’autore di aggressioni o razzie subiscano la medesima pena del reo per-
ché, azzerato il numero dei soggetti disponibili a prestargli rifugio (“subla-
tis enim susceptoribus”), possa placarsi l’impulso all’azione illecita.
Significativamente, sia con riferimento allo schiavo altrui che all’adgressor
o al latro, l’azione di suscipere si compie contro la volontà o le disposizioni di
chi, dominus o autorità pubblica, è nella posizione di poterla vietare.
Applicando il senso da ultimo illustrato al frammento ulpianeo del De
aleatoribus è possibile prospettare che, almeno in epoca più risalente, i su-
sceptores colpiti da denegatio actionis potessero individuarsi in tutti coloro
che accordavano rifugio ai lusores, pure se ciò avvenisse in maniera occa-
sionale e senza che risultasse necessaria la derivazione di un lucro o la pre-
sa in consegna della posta in gioco.
La sanzione pretoria era dunque destinata a colpire chiunque, anche so-
lo per ragioni di malintesa o consapevole cortesia ed ospitalità, facilitasse la

25
Sul plagium, da ultimo, v. F. LUCREZI, L’asservimento abusivo in diritto ebraico e ro-
mano, Studi sulla ‘Collatio’, V, Torino, 2010.
46 Giovanbattista Greco

diffusione dell’azzardo consentendone la pratica presso luoghi che rientra-


vano nella sua disponibilità, ivi compresa la propria dimora.
La ricostruzione sembra potersi avvantaggiare di un numero di riscontri
più ampio di quelle concorrenti.
A suo favore possono anzitutto invocarsi i termini assolutamente gene-
rici con cui Ulpiano ci tramanda la disposizione edittale (‘Si quis eum, apud
quem alea lusum esse dicetur […]’), invero incompatibili con la circoscri-
zione dei suoi effetti ad una data categoria di soggetti.
Milita nello stesso senso la menzione dell’habitatio tra i luoghi in cui è
tollerato il furto che sia perpetrato durante una partita.
Soccorre, poi, un frammento plautino, tratto da Mil. Glor. II, 164-165,
che richiama la vigenza, tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., di un
non meglio circostanziato divieto di giocare d’azzardo anche in ambito
domestico, nelle occasioni conviviali:

“Atque adeo, ut ne legi fraudem faciant aleariae,


Adcuratote ut sine talis domi agitent conuiuium”.

A riprova della permanenza di fortissime esigenze di contrasto del fe-


nomeno dell’alea, lo stesso divieto è ricavabile dalla previsione giustinianea
“ut nulli liceat in privatis seu publicis locis ludere”, riportata in C. 3.43.1.1 e
datata 529 d.C.
A detrimento di quanto argomentato, non potrebbe tuttavia invocarsi
l’eccezione riportata in D. 11.5.4 pr. (“Quod in convivio vescendi causa po-
nitur, in eam rem familia ludere permittitur”) per un duplice ordine di mo-
tivi.
Anzitutto, come osservato da Impallomeni, la deroga al divieto di gioca-
re d’azzardo in occasioni conviviali non troverebbe fondamento in un testo
normativo ma sarebbe stata attinta da una consuetudine interpretativa 26.
Dovendosi ragionevolmente escludere che Plauto potesse avere interesse a
menzionare divieti che i suoi spettatori avrebbero chiaramente percepito
come fantasiosi 27, è lecito immaginare che detta consuetudine si sia impo-

26
G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, cit., 2339 ss.
27
Tra quanti ritengono che Plauto sia fonte attendibile per la ricostruzione degli istituti
del diritto romano possono includersi, senza pretesa di esaustività: M. BERCEANU, La vente
consensuelle dans les comedies de Plaute, Parigi, 1907; E. COSTA, Il diritto privato romano
nelle commedie di Plauto, Torino, 1890; L. PERNARD, Le droit romain et le droit grec dans le
théâtre de Plaute et de Térence, Lione, 1900; J. VAN KAN, La possession dans les comedies de
Plaute, in Mélanges de droit romain dédiés a G. Cornil, II, Gand-Parigi, 1926, 3 ss.; E. VOL-
TERRA, Studio sull’‘arrha sponsalicia’, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche, 2, 1927,
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 47

sta solo a partire dall’ultimo secolo e mezzo della res publica, comunque
dopo il 205 a.C., anno presumibile di composizione del Miles gloriosus 28.
In secondo luogo, la deroga non avrebbe comunque riguardato qualun-
que tipo di giocata svolta in convivio ma unicamente quelle vescendi causa,
la cui posta, cioè, fosse consistita in una modesta cena o un bicchiere di vi-
no all’osteria 29.

3. Il diniego di tutela giurisdizionale

La sanzione stabilita dall’editto per i susceptores consiste nel diniego


dell’azione per il caso in cui restassero vittima di verberatio, damnum iniu-
ria datum e furtum.
Nel bilanciamento tra diritto e valori, la deprecabilità del comporta-
mento di quanti accordino ai lusores un riparo è ritenuta dal praetor giusta
causa per rifiutare loro protezione. Come è stato osservato: “Il pretore
esponeva in pratica coloro presso i quali si praticava il gioco d’azzardo (al-
lo scopo di reprimerne l’attività illecita) al rischio di subire determinati de-
litti senza alcuna possibilità di tutela, in quanto già escludeva a priori la
concessione nei loro riguardi delle azioni relative a tali delitti” 30-31.

581 ss.; C. TOMULESCU, Observations sur la terminologie juridique de Plaute, in AA.VV.,


Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, VI, Napoli, 1984, 2771 ss.
28
Per la proposta di datazione v. M. ACCI PLAUTI, Miles gloriosus, Edizione critica con
introduzione e commento di E. Cocchia, Torino, 1893 dove si ipotizza un anno tra il 206 e il
205 a.C. (p. III) ed E. PARATORE, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Mi-
lano, 1993, che propende per il 205 a.C. (p. 43).
29
G. IMPALLOMENI, Il regime del gioco, cit., 649.
30
A. METRO, La “denegatio actionis”, Milano, 1972, 112 ss.
31
Le modalità attraverso le quali trovava espressione il diniego di azione restano dibat-
tute. Alcuni autori sostengono che in materia vigesse libertà di forme, ben potendo il ma-
gistrato limitarsi ad un atteggiamento di mera renitenza. In questo senso v. C.A. CANNATA,
Profilo istituzionale del processo privato romano, II: il processo formulare, Torino, 1982,
162; A. GUARINO, Diritto privato romano, Napoli, 2001, 217, nt. 11.3.3.; F. FASOLINO, ‘Po-
stulare iudicem’, in L. GAROFALO (a cura di), Il giudice privato nel processo civile romano.
Omaggio ad Alberto Burdese, II, Padova, 2012, 261, nt. 25. Dottrina non meno autorevole
propende per l’emissione di un provvedimento di natura decretale, tra cui A. METRO, La
“denegatio actionis”, cit., 161, nt. 201; ID., Decreta praetoris e funzione giudicante, in Ius
Antiquum, 6, 2000, 69 ss., M. TALAMANCA (a cura di), Lineamenti di storia del diritto roma-
no, Milano, 1989, 146; F. GALLO, Un nuovo approccio per lo studio del ius honorarium, in
Studia et Documenta Historiae Iuris, 62, 1996, 58 ora anche in ID., L’officium del pretore
nella produzione e applicazione del diritto. Corso di diritto romano, Torino, 1997, 125; G.
48 Giovanbattista Greco

Le aggressioni per le quali al susceptor non è accordata l’azione sono di-


rette contro beni primari quali l’integrità fisica e il patrimonio e rientrano
nei quattro delitti emblematici della tradizione gaiana 32-33.
La designazione di verberatio 34 e damnum iuria datum 35 non può rite-
mersi casuale, trattandosi di condotte che potevano prevedibilmente trova-
re realizzazione tanto in occasione di diverbi sorti per motivi di gioco
quanto di successive rappresaglie. L’efficacia deterrente della denegatio ac-
tionis è quindi preservata stabilendo che essa operi quale che sia il tempo e
il luogo di commissione del fatto lesivo.
La tolleranza verso il furtum perpetrato in domo durante lo svolgimento
del gioco può ritenersi di interesse secondario solo adottando la prospetti-
va dell’uomo contemporaneo, che ritiene intangibile anzitutto il bene salu-
te e, solo subordinatamente, le proprie sostanze.
Nel contesto in cui è partorita, la previsione edittale è di singolare

MANCUSO, Decretum praetoris, in Studia et Documenta Historiae Iuris, 63, 1997, 381; S.
SCIORTINO, “Denegare actionem”, decretum e intercessio, in Annali del seminario giuridico
dell’Università degli Studi di Palermo, 55, 2012, 659 ss.
32
“Transeamus nunc ad obligationes, quae ex delicto nascuntur, ueluti si quis furtum fe-
cerit, bona rapuerit, damnum dederit, iniuriam commiserit” (Gai Inst. 3.182).
33
Per tutti v. F. BELLINI, Delicta e crimina nel sistema quiritario, Padova, 2012.
34
Quanto alla fattispecie, D. 47.10.5.1 ci informa che la verberatio ricorreva quando si
percuotesse altri in modo da arrecare dolore, dovendosi parlare altrimenti di pulsatio.
35
La repressione del danneggiamento quale delictum fu introdotta, nel corso del III se-
colo a.C., dai capitoli primo e terzo della lex Aquilia de damno. L’intervento normativo in
questione è stato oggetto di scrutinio sotto numerosi aspetti. Della vastissima letteratura
prodotta a riguardo, ci limitiamo a segnalare: G. VALDITARA, Damnum iniuria datum, in J.
APARICIO (a cura di), Derecho Romano de Obligaciones. Homenaje al profesor José Luis
Murga Gener, Madrid, 1994, 825 ss.; ID., Sulle origini del concetto di damnum, Torino,
1998; ID., Damunm iniuria datum, Torino, 2005; C.A. CANNATA, Delitto e obbligazione, in
Atti del convegno internazionale di Diritto Romano. Copanello 4-7 giugno 1990, Napoli,
1992, 37 ss.; S. SCHIPANI, Responsabilità ‘ex lege Aquilia’. Criteri di imputazione e problema
della ‘culpa’, Torino, 1969; ID., Contributi romanistici al sistema della responsabilità extra-
contrattuale, Torino, 2009; A. BIGNARDI, Teoph. Par. 4.3.15: ancora sulla data della lex
Aquilia, in Annali dell’Università di Ferrara – Scienze Giuridiche, III, 1989, 3 ss.; A. BI-
SCARDI, Sulla data della lex Aquilia, in AA.VV., Scritti in memoria di Antonino Giuffrè, I,
1967, 77ss.; B. PERRIN, Le caractère subjectif dell’“iniuria” aquiliana à l’epoque classique, in
AA.VV., Studi in Onore di Pietro De Fracisci, IV, 1956, 263 ss.; M.F. CURSI, Iniuria cum
damno. Antigiuridicità e colpevolezza nella storia del danno aquiliano, Milano, 2002; F.M.
DE ROBERTIS, Damnum iniuria datum. Trattazione della responsabilità extracontrattuale nel
diritto romano con particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, Bari, 2000; F. LUCREZI,
La responsabilità aquiliana tra criterio oggettivo e soggettivo nell’esperienza antica e moder-
na, in Index. Quaderni Camerti di Studi Romanistici, vol. 30, 2002, 199 ss.
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 49

gravità, attesa la rilevanza di ordine sacrale e laico assegnata alla casa.


Questa costituiva, per retaggio ancestrale, la sede dei Lari protettori della
famiglia, una sorta di recinto sacro 36. Al tempo stesso integrava il riferi-
mento territoriale di esplicazione dei poteri del pater familias 37-38.

36
Sulla possibilità che la casa accresca la propria aura sacrale in ragione della persona
che la occupa o delle attività che vi sono svolte si esprime con particolare enfasi Cic., De
or. 1,45,200: “Est enim sine dubio domus iuris consulti totius oraculum civitatis [...]”. In
tema cfr. F. D’IPPOLITO, Sulla giurisprudenza medio repubblicana, Napoli, 1988.
37
Sulla genesi del principio in discussione, anche per quanto concerne i risvolti di natu-
ra processuale, v. O. LICANDRO, Domicilium. Il principio dell’inviolabilità dalle XII Tavole
all’età tardoantica. Lezioni di esegesi, Torino, 2009 e ID., Domicilium habere. Persona e ter-
ritorio nella disciplina del domicilio romano, Torino, 2004.
38
Le modalità di svolgimento della risalente quaestio lance et licio, prevista proprio in te-
ma di furtum conceptum, testimoniano l’assoluto rispetto serbato verso sede del nucleo fami-
liare e di quanto in essa vi si trovava. È Gai. 3.192-193 a descrivere questa procedura di ispe-
zione della dimora del presunto ladro da parte del derubato. Il rituale imponeva che chi vo-
lesse cercare la cosa sottrattagli in casa altrui vi entrasse vestito di una semplice tunica legata
in vita da un filo (“nudus quaerat, licio cinctus”) e con l’uso delle mani impedito da un piatto
o da un disco che doveva reggere per tutto il tempo (“lancem habens”). Sebbene il principio
di inviolabilità della domus cedesse il passo, in occasione del sopralluogo, ad esigenze di giu-
stizia, le formalità che ne accompagnavano lo svolgimento sembrano dirette ad evitare non
solo che il derubato potesse a sua volta sottrarre beni nell’abitazione del presunto reo ma an-
che che la sua interazione con quell’ambiente fosse il più neutra possibile. Sulla procedura
appunta l’attenzione, tra gli altri, A. PALMA, Iura vicinitatis. Solidarietà e limitazioni nel rap-
porto di vicinato in diritto romano dell’età classica, Torino, 1988, 89 ss. Più in generale, sul
furtum si vedano M. PAMPALONI, Studi sopra il delitto di furto, in Bullettino dell’Istituto di Di-
ritto Romano ‘Vittorio Scaloja’, 12, 1908, 205 ss.; F. MESSINA VITRANO, Note intorno alle azio-
ni ‘in factum’ di danno e di furto, contro il nauta, il caupo, lo stabularius, Palermo, 1909; P.
HUVELIN, Études sur le furtum dans le très ancien droit romain I. Les sources, Lyon-Paris,
1915; V. ARANGIO RUIZ, La répression du vol flagrant et du non flagrant dans l’ancien droit
romain, in Al Qanoun Wal Iqtisad, II, 1932, 109 ss.; poi pure in ID., Rariora, Roma, 1946, rist.
Camerino, 1970, 197 ss. e ID., Scritti di diritto romano, II, Napoli, 1974, 371 ss.; J.A.C. THO-
MAS, Furtum and locatio-conductio, in The Irish jurist, 11, 1976, 170 ss., ID., Textbook of Ro-
man Law, Amsterdam-New York-Oxford, 1976, 353 ss., O.F. ROBINSON, The Criminal Law
of Ancient Rome, Baltimore, 1995, 23 ss., M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Paler-
mo, 1999, 522 ss.; F. AMARELLI, L. DE GIOVANNI, P. GARBARINO, A. SCHIAVONE, U. VINCENTI,
Storia del diritto romano, Torino, 2000, 261 ss., D. DALLA, R. LAMBERTINI, Istituzioni di diritto
romano, Torino, 2001, 386 ss., A. GUARINO, Diritto privato romano, Napoli, 2001, 985 ss., V.
GIUFFRÈ, Istituzioni di diritto romano. Corso, Napoli, 2001, 201 ss., L. PEPE, Ricerche sul furto
nelle XII Tavole e nel diritto attico, Milano, 2004, P. FERRETTI, Complicità e furto nel diritto
romano, Milano, 2005; I. FARGNOLI, Ricerche in tema di furtum. Qui sciens indebitum accipit,
Milano, 2006; L. FASCIONE, Storia del diritto privato romano, Torino, 2006, 138 ss. e 417 ss.;
F. LUCREZI, Il furto di terra e di bestiame in diritto ebraico e romano. Studi sulla ‘Collatio’, VII,
Torino, 2015.
50 Giovanbattista Greco

Rispetto ai susceptores, Ulpiano, superando l’opinione di Pomponio,


chiarisce che il diniego pretorio non poteva ritenersi limitato all’actio furti,
come ritenuto da quel giurista, ma si estendeva “ad exhibendum velit agere
vel vindicare vel condicere” (D. 11.5.1.3).
L’espressa equiparazione tra habitatio e domicilium, effettuata in D.
11.5.2 allo scopo di chiarire l’estensione del diniego di tutela avverso le
azioni furtive è significativamente speculare a quanto Labeone dichiara a
commento dell’iniuria di vi introire in alienam domum perseguita dalla lex
Cornelia de iniuriis: “Domum accipere debemus non proprietatem domus,
sed domicilium. Quare sive in propria domus, quis habitaverit sive in conduc-
to vel gratis sive hospitio receptus, haec lex locum habebit” (D. 47.10.5.2).
In sostanza, il pretore nega al suceptor protezione con riferimento a
quegli stessi luoghi la cui intangibilità è presupposta dall’intervento legisla-
tivo sillano in materia di intrusioni violente e non autorizzate.

4. Osservazioni conclusive

Benché in D. 11.5.1.1 venga espressamente affermato che gli aleatores e


chi li agevola nel vizio sono da ritenersi esseri abietti in egual misura 39, il
trattamento sanzionatorio riservato ai secondi si mostra di gran lunga dete-
riore.
A differenza di quanto osservato per i suceptores, i partecipanti alla par-
tita sono esposti unicamente a conseguenze di ordine patrimoniale, restan-
do perseguibile, ad esempio, la rapina che subiscano su iniziativa dell’av-
versario.
Le ragioni di questa discriminazione non sono esplicitate dalla giuri-
sprudenza e vanno probabilmente ricondotte ai meccanismi che presiedo-
no il reciproco relazionarsi delle due categorie.
Una costituzione giustinianea sembra suggerire che il turpe rapporto tra
giocatori e susceptores fosse interpretato come impari, poiché volgeva ad
esclusivo pregiudizio per i primi:

C. 3.43.1 pr.: “Imperator Justinianus Alearum lusus antiqua res est et extra ope-
ras pugnantibus concessa, verum pro tempore prodiit in lacrimas, milia extra-
nearum nominationum suscipiens. Quidam enim ludentes nec ludum scientes,

39
“Si rapinas fecerint inter se collusores, vi bonorum raptorum non denegabitur actio: su-
sceptorem enim dumtaxat prohibuit vindicari, non et collusores, quamvis et hi indigni vi-
deantur”.
L’avversione verso i facilitatori del gioco d’azzardo 51

sed nominationem tantum, proprias substantias perdiderunt, die noctuque lu-


dendo in argento apparatu lapidum et auro. Consequenter autem ex hac inordi-
natione blasphemare conantur et instrumenta conficiunt. * Just. a. Demostheni
eparcho praitorion” [a. 529 d.C.].

L’imperatore dimostra di guardare con atteggiamento paternalistico co-


loro che si dedicano ad attività ludiche in maniera compulsiva, sino a dis-
sipare tutte le proprie sostanze. Perciò colloca al centro della ricognizione
dei costi sociali dell’azzardo abbozzata nel provvedimento quelli che defi-
nisce ludentes nec ludum scientes. Questi ci vengono descritti come perso-
ne a tal punto soggiogate dal brivido del rischio da prendere parte al gioco
malgrado ignorino le regole da seguire, talvolta persino il nome dell’intrat-
tenimento che stanno praticando. Tanta avventatezza non può che genera-
re conseguenze nefaste sulla loro condotta morale (“blasphemare conan-
tur”) e stabilità economica (“instrumenta conficiunt”).
In quest’ottica chi, come i susceptores, facilita in maniera concreta e de-
cisiva il radicarsi di passatempi deprecabili e dannosi incontra maggior ri-
gore punitivo rispetto all’aleator, che sconta già il peso di essere vittima
della debolezza umana.
52 Giovanbattista Greco
L’exceptio negotii in alea gesti 53

L’exceptio negotii in alea gesti


Giovanbattista Greco

SOMMARIO: 1. D. 44.5.2.1. – 2. L’ambito oggettivo di rilevanza dell’exceptio negotii in alea


gesti: i giochi proibiti. – 3. (Segue). L’evizione. – 4. Aspetti funzionali. – 5. Profili pro-
cessuali. – 6. Sui riflessi nel diritto attuale dell’exceptio negotii in alea gesti.

1. D. 44.5.2.1

La disciplina di giochi e scommesse nel Corpus Iuris Civilis è per lo più


ospitata nel Titolo V del Libro XI del Digesto, dove sono accolti quattro
passi provenienti dalle opere di Ulpiano, Paolo e Marciano. Stralci di legi-
slazione imperiale possono invece leggersi in C. 3.43. Fuori da questi luo-
ghi la materia trova scarsissime occasioni di essere trattata, per l’evidente
difficoltà di scorgervi punti di contatto con altri settori dell’ordinamento.
A fare eccezione è un frammento dal contenuto tanto breve quanto signifi-
cativo, estratto dai libri ad edictum di Paolo:

D. 44.5.2.1 (Paul. 71 ad ed.): “Si in alea rem vendam, ut ludam, et evicta re con-
veniar, exceptione summovebitur emptor”.

Il testo deve la sua notorietà al fatto di riferire dell’esistenza, tra gli


strumenti processuali approntati dal pretore, di una eccezione per mezzo
della quale chi avesse venduto una cosa, poi evitta, poteva sottrarsi al giu-
dizio intentato dall’acquirente dimostrando che il trasferimento fosse da
riconnettersi alla pratica del gioco d’azzardo 1.

1
Sulla disciplina del fenomeno in diritto romano cfr. C. MANENTI, Del giuoco e della
scommessa dal punto di vista del diritto privato romano e moderno, in appendice a F.
GLÜCK, Commentario alle pandette tradotto e arricchito da copiose note e confronti col Codi-
ce Civile del Regno d’Italia, Libro XI, titolo V, De aleatoribus, Milano, 1903; G. IMPALLO-
MENI, Il regime del gioco nel ‘Corpus Iuris’ in relazione con alcune codificazioni europee, in
54 Giovanbattista Greco

Sarà utile soffermare l’attenzione sui presupposti di efficacia e le conse-


guenze riconducibili a questa exceptio, nell’ottica del mai sopito dibattito
intorno all’autonomia privata e ai suoi limiti, ormai esteso anche ai diritti
antichi 2.

2. L’ambito oggettivo di rilevanza dell’exceptio negotii in alea gesti: i


giochi proibiti

Una primissima indicazione riguardante il funzionamento del rimedio


pretorio di cui è data notizia in D. 44.5.2.1 ci proviene dall’incipit del testo:
“Si in alea …”.
Il richiamo ai passatempi di puro rischio è inequivoco. Benché l’origine
del lemma ‘alea’ appaia incerta, non sussiste alcun dubbio in ordine al fat-
to che esso finì per designare prima il gioco dei dadi (‘tesserae’) poi, per
traslato, l’intera categoria dell’azzardo 3.
In questo novero confluivano quegli intrattenimenti competitivi nei

ID., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 643 ss.; ID., In tema di
gioco, in AA.VV., Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, vol. V, Napoli, 1984, 2331
ss., ora in ID., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 499 ss.; M.G.
ZOZ, La disciplina giuridica del gioco e della scommessa: varianti e punti in comune delle va-
rie legislazioni, in ID., Fondamenti romanistici del diritto europeo. Aspetti e prospettive di
ricerca, Torino, 2007, 61 ss.; E. QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De aleatoribus) y C. 3.43 (De
aleae lusu et aleatoribus): Precedentes romanos del contrato de juego, in Anuario Jurídico y
Económico Escurialense, XLII, 2009, 29; A. CAPPUCCIO, ‘Rien de mauvais’. I contratti di
gioco e scommessa nell’età dei codici, Torino, 2011, 21 ss.; J.L. ZAMORA MANZANO, La regu-
lación jurídico-administrativa del juego en el derecho romano y su proiección en el derecho
moderno, Madrid, 2011; S.B. FARIS, Changing Public Policy and the Evolution of Roman
Civil and Criminal Law on Gambling, in UNLV Gambling Law Journal, 3, 2012, 199 ss.; A.
BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima de poe-
nis, vol. I, Napoli, 2015, 58.
2
Dei numerosi scritti che hanno approfondito il tema dell’autonomia privata ci limi-
tiamo a segnalare: P. PERLINGIERI, Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, Napoli,
2000; A BELVEDERE, C. GRANELLI (a cura di), Confini attuali dell’autonomia privata, Pado-
va, 2001; L. FERRI, L’autonomia privata, Milano, 1959; M. NUZZO, Utilità sociale e autono-
mia privata, Milano, 1974; L. MENGONI, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa
e titoli di credito, 1997, I, 1 ss.; R. SACCO, voce ‘Autonomia nel diritto privato’, in Digesto
delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, I, Torino, 1990, 517. In ambito romanistico v.,
per tutti, i recenti V. GIUFFRÈ, L’autonomia dei privati. Prospezioni e prospettazioni futuribi-
li, Napoli, 2013 e G. ZARRO, Aspetti dell’autonomia negoziale dei romani. Dalla fides ai no-
va negotia, Napoli, 2015.
3
Cfr. voce ‘Alea’ in A. FORCELLINI, Lexicon totius latinitatis, vol. I, 1940, 174.
L’exceptio negotii in alea gesti 55

quali la vittoria dipendeva in massima parte dal caso e a cui il diritto guar-
dava con sfavore per numerose ragioni.
Tra queste potevano annoverarsi senz’altro la necessità di impedire spo-
stamenti di ricchezza che non fossero collegati allo svolgimento di attività
produttive; la volontà di preservare risorse per finalità di risparmio; l’esi-
genza di contrastare il radicamento di attività illecite. Né può tacersi una
specifica preoccupazione imposta dal carattere timocratico delle strutture
sociali e costituzionali romane: “Il depauperamento di un pater familias, che
perde le proprie sostanze al gioco, porta all’iscrizione della famiglia in una
classe inferiore del censo, precludendo anche la possibilità di una brillante
carriera politica ai membri della famiglia stessa” 4. Il negozio di gioco – che
poteva esprimersi in un contratto, in un nudo patto o in stipulazioni reci-
procamente condizionate – non risultava di per sé invalido 5 ma poteva ve-
dere la sua efficacia sostanzialmente paralizzata dal ius honorarium.
L’editto del pretore sanciva, infatti, la ripetibilità di ciò che era stato
spontaneamente pagato dal perdente 6.

4
A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima
de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 58.
5
Depone nel senso indicato l’esegesi di D. 19.5.17.5 (Ulp. 28 ad ed.) suggerita da G. IM-
PALLOMENI, In tema di gioco, in ID., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova,
1996, 500. La fattispecie presa in considerazione riguarda due scommettitori che hanno de-
positato degli anelli presso un terzo affinché questi, all’esito del confronto, li consegni al vin-
citore. Ulpiano ipotizza che il fiduciario ometta di consegnare i monili quando sia richiesto di
farlo dall’avente diritto. Sorge allora il problema di individuare lo strumento processuale di-
sponibile contro il depositario. Il giurista dichiara la propria preferenza verso l’actio prae-
scriptis verbis. Esclude invece, contro il parere di Sabino, che il victor possa validamente
promuovere un’actio furtiva: infatti, egli non dispone né del possesso né della proprietà dei
beni contesi. Dalla circostanza che il commentatore dell’editto ritenga esperibile l’azione con-
trattuale piuttosto che quella extracontrattuale Impallomeni desume quale logica conseguen-
za che la scommessa conclusa dai proprietari degli anelli dovesse ritenersi pienamente valida
sul piano negoziale e ciò anche quando fosse intervenuta in relazione a giochi di cui era vieta-
ta la pratica (cfr. D. 11.5.2.1-2). Contra, però, v. C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa,
cit., 547. In obiettivo dissenso si pone pure J.L. ZAMORA MANZANO, La regulación jurídico-
administrativa del juego en el derecho romano, cit., 39, secondo il quale, stando alla termino-
logia usata, la puntata a cui fa riferimento Ulpiano in D. 19.5.17.5 non riguarderebbe affatto i
giochi proibiti ma fattispecie rispetto alle quali era lecito piazzare scommesse, come il verifi-
carsi di un generico evento futuro e incerto o l’esito di giochi circensi.
6
D. 11.5.4.1-2: “Si servus vel filius familias victus fuerit, patri vel domino competit repe-
titio. Item si servus acceperit pecuniam, dabitur in dominum de peculio actio, non noxalis,
quia ex negotio gesto agitur: sed non amplius cogendus est praestare, quam id quod ex ea re
in peculio sit. [2] Adversus parentes et patronos repetitio eius quod in alea lusum est utilis ex
hoc edicto danda est”.
56 Giovanbattista Greco

La repetitio presentava un ampio raggio d’azione, essendo concessa, in


via utile, anche contro il pater familias ed il patrono quando la vincita fosse
stata lucrata ai danni di un soggetto emancipato o di un liberto. In questo
modo, i patrimoni dei giocatori erano riportati nello stato in cui si trovava-
no prima del pagamento della posta o del premio, soddisfacendo la dupli-
ce esigenza di togliere ogni convenienza economica al gioco e di conservare
intatte le ricchezze familiari.
Verso finalità dissuasive muoveva anche un’actio particolarmente afflit-
tiva, probabilmente detta ‘de aleatoribus’, esperibile da qualunque cittadi-
no, che esponeva i giocatori ad una pena pari a quattro volte il valore delle
somme illecitamente guadagnate 7.
Estranee all’azzardo, e quindi anche allo strumento richiamato in D.
44.5.2.1, risultavano invece le competizioni virtutis causa, la cui pratica era
consentita in ragione del fatto che concorressero a preservare l’efficienza
fisica e mentale dei cittadini, rendendoli più idonei alla milizia. Stando alla
menzione operata in D. 11.5.2.1-2, si trattava essenzialmente di attività
agonistiche 8. La loro elencazione è ripresa, con lievi variazioni, in C.
3.43.1.4, dove sono specificati i giochi che Giustiniano ritenne di esentare
dal divieto di ‘ludere in pecuniam in privatis seu publicis locis’ 9.
Una menzione a parte meritano le giocate ‘vescendi causa’, tollerate per-
ché riferibili al piacere domestico e conviviale 10. Rispetto ad esse, ritenia-
mo che il problema di verificare l’operatività dell’exceptio negotii in alea
gesti non si ponesse affatto, alla luce del valore simbolico della posta in
gioco, che avrebbe consentito a chiunque di prendervi parte senza pericolo
per le proprie sostanze 11.

7
“Quadriplatores delatores erant criminum publicorum, in qua re quartam partem de pro-
scriptorum bonis quos detulerant consequebantur. Alii dicunt quadriplatores esse eorum re-
rum accusatores qui convicti quadrupli damnari soleant aut aleae aut pecuniae gravioribus
usuris feneratae quam pro more maiorum aut eiusmodi aliorum criminum” (Ps. Asc. in Div.
Caec., 24).
8
D. 11.5.2.1-2 (Paul. 19 ad ed.): “Senatus consultum vetuit in pecuniam ludere, praeter-
quam si quis certet hasta vel pilo iaciendo vel currendo saliendo luctando pugnando quod vir-
tutis causa fiat”.
9
C. 3.43.1.4: “Deinde vero ordinent quinque ludos, ton monobolon ton condomonobolon
ke kondacca ke repon ke perichyten. Sed nemini permittimus etiam in his ludere ultra unum
solidum, etsi multum dives sit, ut, si quem vinci contigerit, casum gravem non sustineat
[…]” [a. 529 d.C.].
10
D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.): “Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam rem
familia ludere permittitur”.
11
Doveva trattarsi di utilità di scarsa consistenza, quali la quota di partecipazione al
L’exceptio negotii in alea gesti 57

3. (Segue). L’evizione

A definire ulteriormente l’ambito oggettivo di rilevanza dell’exceptio


negotii in alea gesti soccorre il riferimento espresso all’evizione.
È noto che già nel ius civile vetus, il venditore era tenuto a garantire
l’acquirente qualora la res trasferita gli fosse legittimamente sottratta. Ciò
avveniva in tutti i casi in cui un terzo fosse abilitato a rivendicarne la pro-
prietà 12.
Originariamente, la garanzia operava in relazione alla compravendita
reale realizzata attraverso la mancipatio, il cui effetto era quello di attribui-
re immediatamente all’acquirente il dominium ex iure quiritium sull’ogget-
to mancipato.
Le parti realizzavano un atto solenne – gestum per aes et libram – in
cui il cedente si rendeva garante della legittima acquisizione in capo alla

banchetto, una modesta cena o un bicchiere di vino (G. IMPALLOMENI, Il regime del gioco
nel ‘Corpus Iuris’, cit., 649).
12
T. DALLA MASSARA, Per una ricostruzione delle strutture dell’evizione, in C. RUSSO
RUGGERI (a cura di), Studi in onore di Antonino Metro, II, Milano, 2010, 100 osserva signi-
ficativamente che “nel regime dell’evizione trova composizione un conflitto emergente tra
il soggetto che rivendica la proprietà di un bene e il soggetto che, in forza della compra-
vendita, reputa di avere legittimamente acquistato da altri il diritto sul medesimo bene.
[...] [I]l tema si colloca in quel territorio di confine – tra problematiche del contratto e di-
ritti reali – che si è soliti definire della circolazione della proprietà”. Per una bibliografia
essenziale: P.F. GIRARD, La garantie d’éviction dans la vente consensuelle, in Nouvelle Re-
vue historique de droit francais et etranger, VIII, 1884, 395 ss.; ID., Études historiques sur la
formation du système de la garantie d’eviction en droit romain, in Mélanges de droit romain,
II, Droit privé et procédure, Paris, 1923, 5 ss.; ID., L’‘auctoritas’ et l’action ‘auctoritatis’. In-
ventaire d’interpolations, in Mélanges de droit roman, II, cit., 153 ss.; G. IMPALLOMENI, voce
‘Evizione’ (dir. rom.), in Novissimo digesto italiano, VI, Torino, 1960, 1048 s.; M. SARGEN-
TI, L’evizione nella compravendita romana, Milano, 1960; A. BURDESE, voce ‘Vendita’ (dir.
rom.), in Novissimo digesto italiano, XX, Torino, 1975, 597 s.; A. CALONGE, Evicción. Hi-
storia de un concepto y análisis de su contenido en el Derecho romano clásico, Salamanca,
1968; M. TALAMANCA, voce ‘Vendita in generale’ (dir. rom.), in Enciclopedia del diritto,
XLVI, Milano, 1993, 303 ss.; H. ANKUM, Alcuni problemi concernenti la responsabilità per
evizione, in Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, LVII, Messina, 1989, 6 ss.; ID.,
Problemi concernenti l’evizione del compratore nel diritto romano classico. (La relazione fra
le azioni spettanti al compratore in riguardo all’evizione: ‘actio de auctoriatate’, ‘actio ex sti-
pulatu’ basata su una ‘stipulatio de evictione’ e ‘actio empti’), in L. VACCA (a cura di), Vendi-
ta e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del Congresso
Internazionale Pisa-Viareggio-Lucca, I, Milano, 1991, II, 610 ss.; T. DALLA MASSARA, Ga-
ranzia per evizione ed interdipendenza delle obbligazioni nella compravendita romana, in L.
GAROFALO (a cura di), La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto
romano, II, Padova, 2007, 277 ss.
58 Giovanbattista Greco

controparte negoziale del titolo di dominus. A tale garanzia restava vinco-


lato per uno o due anni, in dipendenza della natura del bene trasferito, se
mobile o immobile. Si trattava del tempo richiesto dalle XII Tavole affin-
ché la cosa fosse acquistata a titolo originario per effetto dell’usuca-
pione 13.
Quando, durante il periodo considerato, fosse introdotta una causa
contro il mancipio accipiens in ordine alla titolarità della res, questi ne in-
formava il mancipio dans (litem denuntiare, auctorem laudare). Il mancipio
dans, in tal caso, poteva assumere su di sé l’onere del giudizio o prestare la
necessaria assistenza (liti substituere).
Nel caso in cui si rifiutasse di intervenire (auctoritatem defugere) oppure
non riuscisse a respingere la pretesa (auctoritas nomine vinci), l’acquirente,
aveva il diritto, attraverso un’actio auctoritatis, ad un risarcimento pari al
doppio del prezzo d’acquisto.
In epoca classica e postclassica la tutela dell’acquirente rispetto all’evi-
zione non cessò di essere praticata, benché il venditore non potesse più
considerarsi di per sé responsabile dell’evizione stessa. Ed infatti, non es-
sendo obbligato a trasmettere all’acquirente la proprietà dei beni, ma sol-
tanto il loro possesso incontrastato, nulla gli si poteva opporre, a priori, nel
caso in cui altri si facesse avanti in qualità di proprietario o accampando la
titolarità di diritti reali minori.
In relazione all’emptio venditio, si affermò quindi la stipulatio habere
licere, per mezzo della quale l’alienante rassicurava che la disponibilità
materiale della cosa presso di sé fosse conforme al diritto, assumendosi
implicitamente il rischio che venisse accertato il contrario. Secondo Sa-
bino, l’acquirente doveva così essere tenuto indenne da qualunque ag-
gressione gli fosse portata; Ulpiano, sul presupposto che la promessa del
fatto del terzo fosse irrilevante, riteneva invece che la pattuizione potes-
se spiegare efficacia limitatamente ad eventuali pretese sulla res aziona-
te dallo stesso venditore-promissor e dai suoi aventi causa a titolo univer-
sale 14.
Nel novero degli strumenti a protezione del compratore evitto si conso-
lidò pure la stipulatio duplae (pecuniae), concepita come una stipulatio pe-
nale sottoposta a condizione sospensiva, in forza della quale era lecito
chiedere al venditore un ristoro pari al doppio del prezzo d’acquisto. Con
Ulpiano si pervenne alla prospettazione di un collegamento diretto tra la

13
Gai. 2.42: “Usucapio autem mobilium quidem rerum anno completur, fundi vero et ae-
dium biennio; et ita lege XII tabularum cautum est”.
14
D. 45.1.38 pr.-9.
L’exceptio negotii in alea gesti 59

responsabilità per l’evizione e la bona fides 15-16 mentre la relativa garanzia


cessò progressivamente di costituire un patto aggiunto, venendo attratta
nella cornice contrattuale.
Bisogna doverosamente chiedersi se l’eccezione per cui una attività ne-
goziale fosse collegata alla pratica del gioco d’azzardo operasse solo con
riferimento alle azioni di cui si è sommariamente detto oppure attenesse a
qualunque pretesa il venditore potesse vedersi opposta in dipendenza del
trasferimento.
Il tenore testuale delle fonti non risolve il dubbio, neppure quando si
coordini il contenuto di D. 44.5.2.1 con quello dell’unico altro testo in cui
è contenuto un richiamo espresso all’oggetto della nostra indagine:

D. 22.3.19 pr. (Ulp. 7 disp.): “In exceptionibus dicendum est reum partibus acto-
ris fungi oportere ipsumque exceptionem velut intentionem implere: ut puta si
pacti conventi exceptione utatur, docere debet pactum conventum factum esse.
[1]. Cum quis promisisset iudicio se sisti et rei publicae causa afuisse dicat et ob

15
D. 21.1.31.20 (Ulp. 1 ad ed. aed. curul.): “Quia adsidua est duplae stipulatio, incirco
placuit etiam ex empto agi posse, si duplam venditor mancipii non caveat: ea enim, quae sunt
moris et consuetudinis, in bonae fidei iudiciis debent venire”.
16
La bona fides si poneva tanto come limite quanto come fondamento di numerose fat-
tispecie giuridicamente rilevanti. Costituiva un paradigma di comportamento che il ius ho-
norarium modellò ispirandosi al contegno non già di un soggetto concreto ma di un agente
artificiale, il bonus vir. Quest’ultimo rappresentava una trasposizione ideale della persona
onesta e corretta, un modello di azione che si imponeva a tutte le parti di un rapporto giu-
ridico nel loro reciproco relazionarsi. Come è stato condivisibilmente sostenuto, gli iudicia
bonae fidei, dove il parametro trovava la sua più pregnante espressione, implicavano che
“quando il pretore ordina al giudice di stabilire quel che NN deve ad AA ex fide bona, non
gli dice di valutare quel che NN avrebbe fatto e farebbe se fosse buono ed onesto, ma quel
che NN avrebbe fatto rispetto a quel che ha fatto AA se fossero entrambi vissuti in una
dimensione esistenziale di buoni ed onesti” (C.A. CANNATA, Bona fides e strutture proces-
suali, in L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridi-
ca storica e contemporanea. Atti del convegno internazionale di studi in onore di Alberto
Burdese, II, Padova, 2003, 261. Sempre in argomento v. L. LOMBARDI, Dalla fides alla bona
fides, Milano, 1961; C. BEDUSCHI, I profili giudiziali della fides, in L. PEPPE (a cura di), Fi-
des, Fiducia, Fidelitas, Padova, 2008, 16 ss.; R. FIORI, Fides e bona fides. Gerarchia sociale e
categorie giuridiche, in ID. (a cura di), Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto
privato, III, Napoli, 2008, 237 ss.; R. CARDILLI, ‘Vir bonus’e ‘bona fides’, in A. LOVATO (a
cura di), ‘Vir bonus’. Un modello ermeneutico della riflessione giuridica antica, Bari, 2013,
179 ss.; A. PALMA, Violazione del principio della buona fede e risarcibilità del danno conse-
guente: brevi profili comparatistici, in L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede og-
gettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea, cit., III, 27 ss. Nella stessa raccolta
di atti, segnaliamo: M. TALAMANCA, La bona fides nei giuristi romani (IV, 1 ss.); F. GALLO,
Bona fides e ius gentium (II, 117 ss.).
60 Giovanbattista Greco

id non stetisse, vel dolo malo adversarii factum quo minus sisteretur, vel valetu-
dinem sibi impedimento fuisse vel tempestatem, probare eum id oportet. [2] Sed
et si procuratoria quis exceptione utatur, eo quod non licuisset adversario dare
vel fieri procuratorem, probare id oportet obicientem exceptionem. [3] Idem erit
dicendum et si ea pecunia petatur, quae pensata dicitur. [4] Hoc amplius, si iudi-
catae rei vel iurisiurandi condicio delata dicatur de eo quod nunc petitur, sive in
alea gestum esse contendatur, eum implere probationes oportet”.

Ulpiano affronta il problema della distribuzione dell’onere della prova


tra i litiganti, su cui si tornerà oltre. Nel farlo, fornisce un vasto catalogo di
eccezioni, in cui è compresa quella di nostro interesse: ‘sive in alea gestum
contendatur, eum implere probationes oportet’. La menzione non è accom-
pagnata dal benché minimo dato circostanziale, né sembra possano trarsi
spunti meritevoli di approfondimento dai mezzi processuali che la prece-
dono nell’elenco, i quali, nella loro eterogeneità, ci sembrano enumerati
senza alcuna pretesa sistematica.
Con le doverose cautele dettate dal carattere lacunoso delle evidenze di-
sponibili, si potrebbe ritenere che il silenzio su ulteriori ipotesi di rilevanza
dell’exceptio negotii in alea gesti fuori dal caso dell’evizione sia indicativo
del fatto che, in definitiva, non ve ne fossero.
Del resto, ritenere paralizzabili tutte le iniziative processuali che avesse-
ro a base il trasferimento avrebbe significato limitare anche le facoltà del
venditore-giocatore e non solo quelle di chi, fornendogli disponibilità li-
quide in cambio di beni, lo aveva assecondato nel vizio, esponendolo al ri-
schio di dissesto economico.
La discriminazione tra giocatore e facilitatore del gioco, era ben nota al
magistrato giusdicente, come dimostra la soluzione adottata per il caso di
rapina, laddove questa è ritenuta perseguibile unicamente se avviene tra i
giocatori e non pure quando ne sia vittima il ‘susceptor’, ovvero colui che
consente la pratica dell’azzardo in luoghi posti nella sua disponibilità 17.

4. Aspetti funzionali

Al richiamo al gioco d’azzardo contenuto nel testo di cui stiamo appro-


fondendo l’analisi, segue un’importante precisazione, costituita dal poco suc-
cessivo “ut ludam”. L’inciso contribuisce a circostanziare in maniera signifi-

17
D. 11.5.1.1 (Ulp. 23 ad ed.): “Si rapinas fecerint inter se collusores, vi bonorum rapto-
rum non denegabitur actio: susceptorem enim dumtaxat prohibuit vindicari, non et colluso-
res, quamvis et hi indigni videantur”.
L’exceptio negotii in alea gesti 61

cativa la fruibilità dell’exceptio negotii in alea gesti ai casi in cui la vendita del
bene sia avvenuta per procurarsi la liquidità necessaria a partecipare al gioco.
Quando venditore e acquirente siano gli stessi giocatori, ci sembra che
l’exceptio concorra con il rimedio della ripetibilità di quanto versato dal
perdente, senza tuttavia confondersi con esso. Ed infatti, per come ci viene
presentato da Paolo, il primo dei due rimedi difensivi, diversamente dal-
l’altro, non risulta nella disponibilità esclusiva di chi soccombe nel gioco
ma risulta azionabile da chiunque abbia liquidato una componente del pa-
trimonio per coltivare un disimpegno ritenuto fortemente nocivo.
La necessità che il venditore sia messo al riparo dalle conseguenze pre-
giudizievoli che gli deriverebbero dal dover prestare la garanzia per l’evi-
zione, quali che siano le sue fortune al gioco, dipende dalla necessità di evi-
tare che, con l’escussione del garante, si realizzi un passaggio di ricchezza
la cui origine, oltre ogni apparenza, è comunque riconducibile ad una pra-
tica di gioco proibita.
Exceptio e repetitio sono strettamente dipendenti tra loro. Se non fosse
stata prevista l’eccezione, sarebbe venuta meno l’efficacia deterrente dello
stesso diritto del perdente al rimborso di quanto pagato per debiti di gio-
co, che si sarebbe potuto neutralizzare attraverso il compimento di attività
negoziali in frode.
Quando invece l’emptor non appartenga alla cerchia degli aleatores, egli
è costretto a subire l’eccezione dal momento che fornisce al giocatore le
risorse necessarie a rafforzare la propria dipendenza dall’azzardo.
La sanzione è perfettamente coerente con la politica di intervento del pre-
tore in tema di giochi e scommesse, che fa registrare provvedimenti di assolu-
ta severità contro quanti, non necessariamente per ricavare un lucro, consen-
tivano che si giocasse in luoghi che si trovavano nella loro disponibilità (i c.d.
‘susceptores’) 18 o, con l’uso della forza, costringessero altri a giocare 19.

18
D. 11.5.1 pr. (Ulp. 23 ad. ed.): “Praetor ait: ‘si quis eum, apud quem alea lusum esse
dicetur, verberaverit damnumve ei dederit sive quid eo tempore dolo eius subtractum est, iu-
dicium non dabo. in eum, qui aleae ludendae causa vim intulerit, uti quaeque res erit, ani-
madvertam’ [...]. [2] Item notandum, quod susceptorem verberatum quidem et damnum pas-
sum ubicumque et quandocumque non vindicat: verum furtum factum domi et eo tempore
quo alea ludebatur, licet lusor non fuerit qui quid eorum fecerit, impune fit. Domum autem
pro habitatione et domicilio nos accipere debere certum est. [3] Quod autem praetor negat se
furti actionem daturum, videamus utrum ad poenalem actionem solam pertineat an et si ad
exhibendum velit agere vel vindicare vel condicere. Et est relatum apud Pomponium solum-
modo poenalem actionem denegatam, quod non puto verum: praetor enim simpliciter ait ‘si
quid subtractum erit, iudicium non dabo’”.
19
D. 11.5.1.4 (Ulp. 23 ad ed.): “‘in eum’, inquit, ‘qui aleae ludendae causa vim intulerit,
62 Giovanbattista Greco

5. Profili processuali

Il rimedio previsto in D. 44.5.2.1 è qualificato a tutti gli effetti come una


exceptio. Nel processo formulare, questa costituiva il principale strumento
a disposizione del convenuto per contrastare la pretesa dell’attore, esposta
nella parte del iudicium conosciuta come ‘intentio’.
Introducendo un’eccezione, l’interessato andava ad incidere sul tenore
della formula edittale tipica, integrandola con il riferimento a fatti difensivi
che, altrimenti, il giudice non avrebbe potuto prendere in considerazione
per la decisione del caso.
Dal punto di vista squisitamente tecnico, siamo al cospetto di una clau-
sola condizionale negativa per mezzo della quale sono veicolati in giudizio
principi e contenuti che contrastano con la tesi attorea 20.
Quando le ragioni dell’attore si fondano sulla stretta applicazione del
ius civile, l’exceptio può implicare il richiamo a soluzioni che superano, in
una prospettiva di maggiore equità, il rigore delle norme più antiche. In
questo senso, essa si rivela strettamente funzionale al compito di adiuvare,
supplere e corrigere che il diritto onorario assumeva nei confronti del dirit-
to civile 21.
In termini concreti, le circostanze tendenti ad escludere il fondamento
dell’azione intrapresa dall’avversario costituiscono una componente ineli-
minabile dell’antitesi tra le posizioni dei litiganti su cui si fondava la dina-
mica processuale. Oggetto della contrapposizione poteva ben risultare un
diritto più forte di quello azionato dall’attore o, in alternativa, una que-
stione relativa alla legittimazione, alla competenza o alla litispendenza ido-
nea ad invalidare l’actio intrapresa.
Per altro verso, l’eccezione può servire ad integrare la tutela prestata da
leges imperfectae o assicurare protezione ad interessi non ancora considera-
ti dal ius civile 22.

uti quaeque res erit, animadvertam’. Haec clausula pertinet ad animadversionem eius qui
compulit ludere, ut aut multa multetur aut in lautumias vel in vincula publica ducatur”.
20
A. PALERMO, Studi sulla “exceptio” nel diritto classico, Milano, 1956, 89 ss.
21
D. 1.1.7.1 (Pap., 2 def.) “Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi
vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Quod et honora-
rium dicitur ad honorem praetorum sic nominatum”.
22
Gli effetti spiegati dall’exceptio sul processo possono variare in dipendenza delle con-
crete circostanze che ne sono oggetto. Così, le stesse fonti distinguono tra exceptiones pe-
remptoriae e dilatoriae, a seconda che ostacolino in maniera durevole l’actio o ne differi-
scano la realizzazione in un’epoca successiva, quando le circostanze allegate dall’eccipente
avranno cessato di spiegare efficacia.
L’exceptio negotii in alea gesti 63

L’onere di provare i fatti posti a fondamento dell’eccezione gravava sul-


la parte che la introduceva in giudizio, alla luce del generale principio se-
condo cui “Ei incumbit probatio qui dicit non qui negat” e della piena
equiparazione del convenuto all’attore in relazione alla dimostrazione delle
proprie allegazioni difensive 23.
Nel caso dei negozi collegati al gioco, l’accoglimento dell’eccezione
avrebbe comportato la denegatio actionis, come testimonia l’inclusione del
frammento D. 44.5.2.1 nel Titolo rubricato ‘Quarum rerum actio non datur’.
La mancata concessione dell’azione da parte del magistrato giusdicente
costituiva espressione di una valutazione non solo della legittimità ma an-
che, per quel che ci interessa, dell’equità e giustizia del procedimento in-
tentato. Essa si fondava sull’imperium e contribuiva a connotare l’accesso
alla giustizia da parte del civis non già come un diritto ma come una con-
cessione da parte dell’autorità.
L’actio era paralizzata nella fase in iure quando le ragioni dell’attore fos-
sero palesemente immeritevoli di tutela.
Poteva tuttavia accadere che le circostanze un base alle quali poteva
aversi denegatio non riguardassero i requisiti di ammissibilità dell’azione,
ma consistessero in fatti della cui cognizione poteva essere utilmente inve-
stito il iudex privatus. Ciò dovette diventare sempre più frequente a mano a
mano che il diniego si estese ad ipotesi in cui l’accoglimento della pretesa,
pur se regolare e fondata, avrebbe condotto ad esiti inaccettabili sul piano
della giustizia sostanziale. In tal caso, i motivi che si frapponevano all’eser-
cizio dell’azione, andavano introdotti, appunto, in exceptionem 24. Tanto

23
D. 44.1.1 (Ulp. 4 ad ed.): “Agere etiam is videtur, qui exceptione utitur: nam reus in
exceptione actor est”.
24
A. METRO, La “denegatio actionis”, Milano, 1972, 76 ss. È stata di recente approfondi-
ta una variazione lessicale nelle fonti, alla cui stregua potrebbe distinguersi tra la decisione
del magistrato di ‘denegare iudicium’ e quella di ‘denegare actionem’. Nel primo caso, si
sarebbe verificato il rifiuto di concedere il programma di giudizio sia in senso astratto –
ossia come modello affisso all’albo (come accade nell’editto de aleatoribus) – sia in senso
concreto – ossia come formula autorizzata dal magistrato e concordata dalle parti. Il lem-
ma iudicium avrebbe quindi trovato impiego in un significato aderente alla sua etimologia,
connessa all’atto del giudicare. Il diniego dell’actio, invece, pur potendo talora accompa-
gnarsi ai medesimi esiti segnalati per l’ipotesi alternativa, non era astrattamente incompa-
tibile con una datio exceptionis, per cui la formula richiesta dall’attore veniva opportuna-
mente integrata per consentire l’accertamento delle allegazioni difensive articolate dal con-
venuto (S. SCIORTINO, Denegare iudicium e denegare actionem, in Annali del Seminario
Giuridico dell’Università degli Studi di Palermo, LVIII, 2015, 199 ss.). Sui meccanismi di
formazione del convincimento del decidente v. A. PALMA, Note sulla autonomia e discre-
64 Giovanbattista Greco

era richiesto in relazione al negotium in alea gestum, del quale evidente-


mente si supponeva l’immeritevolezza di tutela, almeno rispetto a taluni
degli effetti, per le esternalità negative che andava a produrre.

6. Sui riflessi nel diritto attuale dell’exceptio negotii in alea gesti

Sebbene sia figlia di un contesto sociale e materiale sensibilmente diver-


so da quello contemporaneo e risulti funzionale alla tutela del patrimonio
familiare più che della persona del giocatore, l’exceptio negotii in alea gesti
lascia trasparire una profonda sensibilità della scienza giuridica romana nel
bilanciamento di interessi quali la stabilità dei traffici e la tutela di esigenze
di ordine pubblico.
Come si è potuto vedere, per paralizzare l’azione mossa contro l’alie-
nante, la giurisprudenza non riteneva sufficiente che l’attività di gioco e la
realizzazione del negozio traslativo fossero contestuali, dovendo necessa-
riamente aversi anche che i proventi dell’alienazione venissero impiegati
nella partita.
Se la figura del negozio giuridico non apparteneva allo strumentario
teorico della giurisprudenza romana, ancor meno poteva farne parte la
dottrina del collegamento negoziale. Tuttavia, il commento di Paolo al-
l’editto dimostra che i magistrati giusdicenti avevano ben chiaro che lo
strumento difensivo dell’exceptio non potesse intervenire quando, tra la
vendita di un bene ed il gioco proibito, vi fosse un rapporto che, con ter-
minologia a noi coeva, diremmo di collegamento occasionale. Tale è rite-
nuto il legame intercorrente tra stipulazioni che siano semplicemente in-
tervenute nel medesimo frangente o siano nel medesimo documento e che,
per ciò solo, non perdono la propria autonomia 25.
Accordare conseguenze giuridiche sfavorevoli a relazioni tanto labili tra
negozio di gioco e negozio traslativo avrebbe rappresentato un ostacolo al-
la circolazione della ricchezza sproporzionato rispetto alla minaccia porta-
ta ai valori che il ius honorarium intendeva preservare attraverso la conces-
sione del mezzo di difesa.
La rilevanza conferita nell’editto alle modalità di impiego del prezzo
dell’alienazione comportava che la dismissione patrimoniale e l’attività di

zionalità del giudicante: non liquet e denegatio actionis, in KOINΩNIA, 35, 2015, 557 ss. e
ID., Il luogo delle regole. Riflessioni sul processo civile romano, Torino, 2016.
25
Cfr. Cass. civ., 27 marzo 2007, n. 7524; Cass. civ., 21 settembre 2011, n. 19211; Cass.
civ., 11 giugno 2001, n. 7852; Cass. civ., 13 febbraio 1992, n. 1751.
L’exceptio negotii in alea gesti 65

gioco dovessero trovare l’una alimento nell’altra, giustificando l’adozione


di misure dissuasive.
Il pregio della soluzione descritta – dalla cui formulazione ci separano
ormai approssimativamente due millenni – può apprezzarsi osservando
come essa si trovi sostanzialmente riproposta, benché non è dato sapere
quanto consapevolmente, nelle posizioni assunte dalla giurisprudenza di
legittimità italiana.
In tema di giochi e scommesse, il nostro codice civile, pur escludendo
che siano ripetibili i pagamenti di debiti di gioco per i quali non vi sia stata
frode, all’art. 1933 stabilisce che non compete azione per il pagamento di
un debito di giuoco o di scommessa, anche se si tratta di giuoco o di
scommessa non proibiti.
La Corte di cassazione si è espressa nel senso che l’estensione di tale di-
sciplina a fattispecie quali dazioni di denaro, di fiches, promesse di mutuo,
riconoscimenti di debito, è possibile unicamente allorché tali atti risultino
funzionalmente collegati all’attuazione del giuoco o della scommessa, di
talché possa ritenersi sussistente un diretto interesse del mutuante a favori-
re la partecipazione al gioco del mutuatario; con la reciproca e speculare
conseguenza che, ove siffatto interesse manchi, per essere il mutuante del
tutto estraneo all’uso che il mutuatario fa delle somme erogategli, le cause
dei due negozi non hanno, tra loro, quel collegamento che solo giustifica la
sottoposizione dell’uno alla disciplina dell’altro 26.
Nel fissare tale principio, i giudici sono arrivati a paralizzare la pretesa
azionata contro il giocatore da un operatore turistico che organizzava tra-
sferimenti presso casinò internazionali i quali ospitavano gratuitamente i
clienti, richiedendo in cambio soltanto che gli stessi partecipassero ai gio-
chi. Nello specifico, l’imprenditore si assumeva creditore della somma por-
tata da un assegno pervenutogli da una di queste strutture, a cui era stato a
sua volta consegnato per coprire perdite di gioco.
La stessa Corte di cassazione, valorizzando il criterio della contestualità,
ha altrove chiarito che il mutuo successivo allo svolgimento del gioco, con-
cesso dal terzo estraneo al giocatore perdente affinché questi adempia il
proprio debito nei confronti del vincitore, non è funzionalmente collegato
al gioco, sicché il mutuante può ripetere la somma consegnata al mutuata-
rio quand’anche fosse consapevole che la somma stessa era stata perduta
nel corso di un gioco d’azzardo vietato 27.

26
Cass. civ., 2 aprile 2014, n. 7694.
27
Cass. civ., 17 novembre 1999, n. 12752.
66 Giovanbattista Greco

Parimenti significativa è l’evoluzione fatta registrare in materia dalla


giurisprudenza civile spagnola.
Nell’ordinamento iberico, il Real Decreto n. 444/1977 per mezzo del
quale si dettano disposizioni integrative al Real Decreto Ley n. 16/1977 che
regola gli aspetti penali, amministrativi e fiscali dei giochi di sorte, con
puntate, di azzardo nonché delle scommesse, all’art. 10 riporta il divieto di
“otorgar préstamos a los jugadores o apostantes en los lugares en que tengan
lugar los juegos”.
Contro un precedente pronunciamento reso nel 1988 che attribuiva alla
preclusione mera rilevanza amministrativa, il Tribunal Supremo, con la sen-
tenza n. 878 del 10 ottobre 2008 ha escluso che il casinò intenzionato a re-
cuperare il denaro dato in prestito ad un proprio cliente possa esperire con
successo la relativa azione.
A sostegno delle proprie determinazioni, l’organo giurisdizionale è arri-
vato ad articolare ben due argomentazioni
Stando alla prima, la concessione del prestito, violando un apposito di-
vieto, avrebbe trasformato un gioco originariamente lecito in gioco proibi-
to, con la conseguenza di inibire l’esercizio del diritto di credito ad esso
collegato.
Per altro verso, anche a voler escludere che il prestito attribuito dalla
casa da gioco al giocatore costituisca di per sé un illecito, attraverso di esso
si introduce nel contratto di gioco o scommessa una causa turpe. Questa
impedisce a chi ha erogato la liquidità di recuperarla, trattandosi del me-
desimo soggetto che, vincendo al gioco, ha di fatto provocato l’indebita-
mento del beneficiario della dazione 28.
Malgrado la fattispecie considerata dall’alta corte spagnola riguardi un
rapporto consumato tra le stesse parti del negozio di gioco, va sottolineato

28
“Sobre tal cuestión caben dos vías que se traducen en una misma solución, consistente
en que la empresa explotadora del casino no tendrá derecho a exigir al jugador lo que este
perdió jugando o apostando a crédito o con dinero prestado. La primera vía que permite llegar
técnicamente a esta solución está constituida por los arts. 1798 y 1799 del Código Civil en
relación con sus arts. 1800 y 1801, porque el juego en el casino habría dejado de ser lícito o
no prohibido a partir del momento en que se prestó dinero al jugador y, en consecuencia, la
empresa explotadora del casino carecerá de acción, conforme al art. 1798, para reclamar lo
ganado en el juego; y la segunda vía por la que también se llega a idéntica solución se encuen-
tra en el art. 1306 del mismo Cuerpo legal, ya que el préstamo o crédito a una persona para
jugar, concedido por la empresa titular del casino o sus directivos o empleados, no constituye
delito pero sí introduce en el contrato de juego o apuesta una causa torpe que impide al pre-
stamista, ganador a su vez en el juego, reclamar la devolución del dinero que prestó para ju-
gar”.
L’exceptio negotii in alea gesti 67

come non sia la partecipazione alla partita in sé a spiegare conseguenze in-


validanti del mutuo ma, sostenendo la tesi della sopravvenuta turpitudine
della causa contrattuale, l’acquisizione di un lucro dalle sconfitte del gioca-
tore e la sua agevolazione a permanere nel vizio, il che riporta alla mente le
motivazioni sottese alla previsione antica.
68 Giovanbattista Greco
Sul valore della posta in gioco in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4 69

Sul valore della posta in gioco


in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4
Giovanbattista Greco

SOMMARIO: 1. Dimensione quantitativa del gioco e autonomia privata. – 2. Il gioco vescendi


causa. – 3. Il limite di un solidum. – 4. Osservazioni conclusive.

1. Dimensione quantitativa del gioco e autonomia privata

L’attenzione degli ordinamenti verso le conseguenze prodotte dalla par-


tecipazione al gioco ha radici profonde, che arrivano ad intersecare l’espe-
rienza giuridica romana. Qui le pratiche ludiche sono guardate con parti-
colare sfavore, specie quando sfociano nell’azzardo (‘alea’), dove non è
l’abilità o la forza dei contendenti a garantire il successo ma, prevalente-
mente, il caso. Al ius civile può farsi risalire l’introduzione di sanzioni a ca-
rico degli aleatores in misura pari al quadruplo delle somme giocate 1; al ius

1
In assenza di una figura contrattuale tipica, deve presumersi che, in diritto romano,
l’impegno a giocare fosse formalizzato per mezzo di un nudo patto, di un contratto o di
due stipulationes inversamente condizionate. La dottrina più risalente non ha mancato di
esprimersi nel senso che l’accordo concluso in ambito ludico, quando avesse ad oggetto
intrattenimenti colpiti da proibizione, fosse da ritenersi nullo per il fatto di non produrre
azione (C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato ro-
mano e moderno, in appendice a F. GLÜCK, Commentario alle pandette tradotto e arricchito
da copiose note e confronti col Codice Civile del Regno d’Italia, Libro XI, titolo V, De aleato-
ribus, Milano, 1903, 547). L’opinione che attualmente incontra maggior seguito ritiene in-
vece che il peculiare oggetto del negozio di gioco non fosse sufficiente a decretarne l’invali-
dità, potendo questa prospettarsi solo in ipotesi di causa turpe. Ad avvalorare l’assunto è
risultata decisiva l’esegesi di D. 19.5.17.5 (Ulp. 28 ad ed.).
La fattispecie presa in considerazione nel testo riguarda due scommettitori che hanno
depositato degli anelli presso un terzo affinché questi, all’esito del confronto, li consegni al
vincitore. L’ipotesi è che il fiduciario, giunto il momento di liberarsi dei monili, rifiuti di
farlo. Ulpiano dichiara in maniera perentoria che l’avente diritto è legittimato ad agire con-
70 Giovanbattista Greco

honorarium si deve invece la scelta di rendere precari gli arricchimenti lu-


crati giocando, obbligandone la restituzione su richiesta del perdente 2.
In dottrina, questi meccanismi di deterrenza hanno costituito oggetto di
un discreto numero di approfondimenti 3. Scarsa attenzione è stata invece
rivolta al collegamento tra alcune soluzioni normative e la consistenza delle
risorse economiche impiegate per giocare. A questo aspetto si darà spazio
nelle pagine che seguono, per la ricchezza di spunti che è in grado di offri-
re in relazione al più vasto tema dell’autonomia privata 4. Interrogarsi sugli

tro il depositario con l’actio praescriptis verbis. Esclude invece, contro il parere di Sabino,
che trovi ingresso un’actio furtiva, non potendo il victor vantare né il possesso né la pro-
prietà dei beni contesi. Qualora la causa sponsionis fosse stata inhonesta, soggiunge il giuri-
sta, l’interessato avrebbe potuto recuperare solo il proprio anello. La preferenza dichiarata
da Ulpiano verso l’azione contrattuale contro il depositario della posta in gioco è stata in-
terpretata come logica conseguenza del fatto che la scommessa presupposta dovesse rite-
nersi pienamente efficace per il ius civile e ciò anche quando avesse ad oggetto giochi di
cui era proibita la pratica (G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, in AA.VV., Sodalitas. Scritti
in onore di Antonio Guarino, vol. V, Napoli, 1984, 2331 ss., ora in ID., Scritti di diritto ro-
mano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 499 ss.).
2
D. 11.5.4.1-2 (Paul. 19 ad ed.): “[1] Si servus vel filius familias victus fuerit, patri vel
domino competit repetitio. Item si servus acceperit pecuniam, dabitur in dominum de peculio
actio, non noxalis, quia ex negotio gesto agitur: sed non amplius cogendus est praestare, quam
id quod ex ea re in peculio sit. [2] Adversus parentes et patronos repetitio eius quod in alea
lusum est utilis ex hoc edicto danda est”.
3
Cfr. C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato ro-
mano e moderno, cit.; G. IMPALLOMENI, Il regime del gioco nel ‘Corpus Iuris’ in relazione
con alcune codificazioni europee, in ID., Scritti di diritto romano e tradizione romanistica,
Padova, 1996, 643 ss.; ID., In tema di gioco, cit.; M.G. ZOZ, La disciplina giuridica del gioco
e della scommessa: varianti e punti in comune delle varie legislazioni, in ID., Fondamenti
romanistici del diritto europeo. Aspetti e prospettive di ricerca, Torino, 2007, 61 ss.; E.
QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De aleatoribus) y C. 3.43 (De aleae lusu et aleatoribus): Prece-
dentes romanos del contrato de juego, in Anuario Jurídico y Económico Escurialense, XLII,
2009, 29; A. CAPPUCCIO, ‘Rien de mauvais’. I contratti di gioco e scommessa nell’età dei co-
dici, Torino, 2011, 21 ss.; J.L. ZAMORA MANZANO, La regulación jurídico-administrativa del
juego en el derecho romano y su proiección en el derecho moderno, Madrid, 2011; S.B. FARIS,
Changing Public Policy and the Evolution of Roman Civil and Criminal Law on Gambling,
in UNLV Gambling Law Journal, 3, 2012, 199 ss.; A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in di-
ritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 58.
4
Va opportunamente sottolineato come la nozione giuridica di ‘autonomia’ presenti un
ambito di rilevanza particolarmente vasto e acquisti numerose accezioni, in dipendenza
delle aggettivazioni che le sono accordate. Si suole distinguere tra un’‘autonomia indivi-
duale’ ed una ‘collettiva’ a seconda che gli interessi oggetto di regolamento pertengano al
singolo o siano piuttosto espressione di categorie professionali o sociali considerate nella
loro interezza. Si parla di ‘autonomia di scambio’ quando le parti addivengano ad un ne-
gozio muovendo da posizioni opposte verso scopi non coincidenti, versandosi, in caso con-
Sul valore della posta in gioco in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4 71

strumenti attraverso i quali, anche nel mondo antico, veniva segnato il pe-
rimetro dell’agire individuale ha il pregio di evidenziare quel nucleo di
meccanismi, idee e valori che, tra rivolgimenti e confluenze, ha accompa-
gnato il cammino delle comunità organizzate nel corso delle epoche.
Le suggestioni in tema di autonomia privata offerte da esperienze stori-
camente più risalenti hanno per lungo tempo incontrato scarsa attenzione,
talvolta sul presupposto che l’attività di scambio e, quindi, l’agire autono-
mo, avessero assunto carattere residuale in contesti dominati dall’organiz-
zazione autarchica della comunità familiare e di villaggio 5.
Un simile approccio non sembra potersi però ritenere ulteriormente
appagante. In primo luogo, per sua stessa natura, la questione della rile-
vanza giuridica dell’azione umana e dei limiti che essa incontra è connatu-
rata al diritto di ogni tempo perché questo, non va trascurato, è essenzial-
mente norma di comportamento 6. Per altro verso, recenti indagini sulle di-
namiche commerciali e migratorie hanno contribuito a ridimensionare si-
gnificativamente l’assunto per cui le società arcaiche vivessero in condizio-
ni di segregazione e i loro membri fossero tendenzialmente sedentari 7.

trario, nell’alveo della ‘autonomia associativa’. In base al mezzo di estrinsecazione, l’agire


autonomo è poi suddistinto in ‘negoziale’ o ‘contrattuale’. A quest’ultimo ordine di ipotesi
fanno capo le sottocategorie dell’‘autonomia contrattuale assistita’ e della ‘autonomia con-
trattuale incentivata’. La prima ricorre quando i titolari degli interessi procedono alla loro
regolamentazione con l’ausilio delle rispettive associazioni di categoria. La seconda è teo-
rizzata in relazione alle fattispecie in cui la contrattazione di taluni beni o servizi è agevola-
ta dal legislatore attraverso la concessione di contribuiti o sgravi. Più diffusamente, anche
per la bibliografia, rimandiamo a P. PERLINGIERI, Autonomia negoziale e autonomia con-
trattuale, Napoli, 2000, 327 ss.
5
F. DI CIOMMO, Efficienza allocativa e teoria giuridica del contratto. Contributo allo stu-
dio dell’autonomia privata, Torino, 2012, 2 ss.
6
A tal proposito riteniamo di aderire a quanto espresso da R. GUASTINI, Il diritto come
linguaggio. Lezioni, Torino, 2001, 7 ss. circa il fatto che il contenuto prescrittivo del diritto
come ‘discorso del legislatore’ non possa dirsi in alcun modo intaccato dalla forma sintatti-
ca degli enunciati che lo compongono, i quali possono avere indifferentemente natura in-
dicativa o deontica.
7
Con riferimento al nostro quadrante geografico, rinviamo, anche in ragione dell’am-
pio supporto bibliografico, a P. VAN DOMMELEN, A. BERNARD KNAPP (a cura di), Material
Connections in the Ancient Mediterranean. Mobility, Materiality and Identity, Londra-New
York, 2011. Sullo stesso argomento, ma con specifico riferimento al mondo romano, v. C.
MOATTI, voce ‘Roman world, mobility’, in The Encyclopedia of Global Human Migration,
Hoboken, 2013, DOI 10.1002/9781444351071.wbeghm459 in cui l’A. offre una completa
disamina delle prassi materiali e giuridiche che accompagnavano i flussi in ingresso ed
uscita dai confini della res publica e dell’impero.
72 Giovanbattista Greco

2. Il gioco vescendi causa

L’ammontare del premio o della posta in gioco viene in rilievo, anzitut-


to, in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.):

“Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam rem familia ludere permitti-
tur”.

Il frammento è estratto dai libri di commento all’editto di Paolo e si oc-


cupa di affermare la liceità del gioco quando fosse svolto in ambito convi-
viale ed avesse ad oggetto utilità di ridotto valore economico, quali po-
trebbero ritenersi la quota di partecipazione al banchetto 8, una modesta
cena o un bicchiere di vino 9.
Il testo non reca menzione della fonte da cui ha tratto i propri contenu-
ti. Questa non sembra potersi far corrispondere con uno degli interventi
normativi richiamati nel Titolo V del Libro XI del Digesto, notoriamente
rubricato come De aleatoribus. I passi accolti sotto D. 11.5.2 e 11.5.3 dan-
no conto dell’emanazione, in età pregiustinianea, di un senatoconsulto e di
tre leges che avrebbero proibito il gioco e la scommessa d’interesse (‘in pe-
cuniam ludere’) quando non riguardassero gare a carattere agonistico de-
stinate ad esaltare la prestanza fisica dei partecipanti (‘virtutis causa’). Le
competizioni sottratte al divieto sono testualmente individuate nel lancio
dell’asta o del pilum, nella corsa, nel salto, nella lotta e nel pugilato.
Non vi è motivo di ritenere che gli stessi testi legislativi destinati a de-
cretare un favor verso occupazioni ludiche nobilitanti potessero spingersi a
regolare, contemporaneamente, anche passatempi leggeri, come quelli con-
sumati tra le mura domestiche. Il carattere frivolo del gioco conviviale ren-
de parimenti improbabile che potesse trovare autonoma considerazione
nell’editto del pretore. Molto probabilmente, allora, la posizione espressa
D. 11.5.4 pr. è un prodotto della riflessione giurisprudenziale. La genesi di
una tale consuetudine interpretativa non può collocarsi prima del II secolo
a.C., dovendosi ritenere che, ancora all’epoca di Plauto, in forza della legi-
slazione alearia, non potessero coniugarsi banchetti e dadi 10.

8
M.G. ZOZ, La disciplina giuridica del gioco e della scommessa, cit., 66.
9
G. IMPALLOMENI, Il regime del gioco nel ‘Corpus Iuris’, cit., 649.
10
Un frammento plautino, tratto da Mil. Glor. II, 164-165, richiama la vigenza, tra la
fine del III e l’inizio del II secolo a.C., di un non meglio circostanziato divieto di giocare
d’azzardo anche in ambito domestico, nelle occasioni conviviali: “Atque adeo, ut ne legi
fraudem faciant aleariae / adcuratote ut sine talis domi agitent conuiuium”. Quanto alla da-
Sul valore della posta in gioco in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4 73

Per effetto del trattamento eccezionale riservato al gioco vescendi causa,


è presumibile che il soccombente non potesse domandare in restituzione la
vincita che avesse corrisposto all’avversario. Per converso, tuttavia, il vinci-
tore che intendesse riscuotere il premio difficilmente avrebbe potuto tro-
vare ascolto presso il magistrato giusdicente, in ragione del carattere de
minimis della pretesa agitata. Da qui il ricorso dei giocatori all’espediente
di far custodire la posta in gioco da un fiduciario, affinché la consegnasse a
chi ne avrebbe avuto diritto in base all’esito della partita 11.
Le ragioni in base alle quali giocare a tavola era tollerato vanno ragione-
volmente individuate nell’assoluta incapacità a nuocere di tale distrazione.
L’avversione dei romani verso l’azzardo era alimentata da ragioni tra lo-
ro convergenti: la necessità di impedire spostamenti di ricchezza che non
fossero collegati allo svolgimento di attività produttive; la volontà di pre-
servare risorse per finalità di risparmio; l’esigenza di contrastare il radica-
mento di attività illecite. Né può tacersi una specifica preoccupazione im-
posta dal carattere timocratico delle strutture sociali e costituzionali roma-
ne: “Il depauperamento di un pater familias, che perde le proprie sostanze
al gioco, porta all’iscrizione della famiglia in una classe inferiore del censo,
precludendo anche la possibilità di una brillante carriera politica ai mem-
bri della famiglia stessa” 12. Per le classi agiate il gioco risultava, al tempo
stesso, una violazione del decoro e una fuga dai doveri 13; per quelle più in-
fime, indice di scelleratezza e motivo di comportamenti opportunistici e
predatori 14.
Quale elemento destabilizzante dell’ordinato svolgersi dei rapporti,
l’aleator era equiparato, nel sentire sociale, a lenoni, adulteri, e dissoluti 15.

tazione della commedia, in M. ACCI PLAUTI, Miles gloriosus, Edizione critica con introdu-
zione e commento di E. Cocchia, Torino, 1893, III, si ipotizza un anno tra il 206 e il 205
a.C.; E. PARATORE, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Milano, 1993, 43
propende per il 205 a.C.
11
G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, cit., 2340. Sembra doversi tuttavia ipotizzare che
alla prassi in questione si facesse ricorso in maniera generalizzata e non solo in contesti
conviviali (v. supra, nt. 1).
12
A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di), Minima
de poenis, vol. I, Napoli, 2015, 58.
13
È assolutamente significativo che, in uno dei momenti più accesi delle lotte politiche
repubblicane, Cicerone, allo scopo di gettare discredito sull’avversario Marco Antonio,
arrivi a richiamarne la torbida amicizia che quegli intratteneva con un tale Lucio Lenticola,
condannato per essere giocatore d’azzardo (Cic. Phil. 2,23,56).
14
Juv. Sat. 1, 88-93.
15
Tanto risulta, ad esempio, da Cic., Phil. 8,26 e Catil. 2,23.
74 Giovanbattista Greco

Uno stigma tanto odioso doveva però risultare inappropriato per chi si li-
mitasse a giocare nel corso di un convivio, commisurando il rischio a beni
di valore assolutamente modico. A queste condizioni, non era possibile
prefigurare alcun pericolo né per le sostanze né per la rispettabilità del
giocatore, specie alla luce della progressiva rivalutazione del concetto di
sumptus registratasi a partire dal principato 16.
La qualificazione in termini di liceità del gioco vescendi causa formulata
da Paolo interviene allora a sottrarre all’apparato sanzionatorio un intrat-
tenimento innocuo e apprezzato dalle elite cittadine 17.
A differenza di altre occasioni di incontro, il rito della tavola presenta
per gli antichi una forte valenza simbolica, oltre che sfumature sacrali. La
mensa è il luogo di aggregazione di chi vi è ammesso e, al contempo, si ve-
ste da simbolo di esclusione per chi non viene invitato: “mangiare alla stes-
sa mensa è il segno indicatore di un vincolo sociale” 18. Perciò, nel silenzio
delle fonti, le attività ludiche poste in essere fuori dall’ambito conviviale,
anche quando si accompagnassero a premi di scarso rilievo, non sembrano
escluse dall’intento repressivo del legislatore.

16
Cfr., anche per la letteratura richiamata, il recente intervento di A. BOTTIGLIERI, Le
leggi sul lusso tra Repubblica e Principato: mutamento di prospettive, in Mélanges de l’École
française de Rome – Antiquité <http://mefra.revues.org/3158>.
17
Non deve meravigliare, quindi se il fatto di essere di buona compagnia ai banchetti è
considerato dai romani una virtù di cui vantarsi con i propri conoscenti, come fa Periple-
comeno in Plaut., Mil. Glor., III,1,639-660: “Per.: [...] et ego amoris aliquantum habeo
umorisque etiam in corpore / neque dum exarui ex amoenis rebus et voluptariis. / Vel cavilla-
tor facetus vel conviva commodus / item ero, neque ego oblocutor sum alteri in convivio: /
incommoditate abstinere me apud convivas commodo / commemini et meae orationis iustam
partem persequi / et meam partem itidem tacere, quom aliena est oratio; / minime sputator,
screator sum, itidem minime mucidus: / post Ephesi sum natus, non enim in Apulis; non sum
Animulas. / Pal.: O lepidum senem, in se si quas memorat virtutis habet, / atque equidem
plane educatum in nutricatu Venerio. / Per.: Plus dabo quam praedicabo ex me venustatis
tibi. / Neque ego umquam alienum scortum subigito in convivio, / neque praeripio pulpa-
mentum neque praevorto poculum, / neque per vinum umquam ex me exoritur discidium in
convivio: / si quis ibi est odiosus, abeo domum, sermonem segrego; / Venerem, amorem
amoenitatemque accubans exerceo. / Pal.: Tu quidem edepol omnis moris ad venustatem ~
vacet; / cedo tris mi hominis aurichalco contra cum istis moribus. / Plevs.: At quidem illuc
aetatis qui sit non invenies alterum / lepidiorem ad omnis res nec qui amicus amico sit ma-
gis”.
18
M. MONTANARI, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola. Dall’antichità al Me-
dioevo, Bari, 1989, IX.
Sul valore della posta in gioco in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4 75

3. Il limite di un solidum

Un diverso ma non meno significativo richiamo di ordine quantitativo


all’oggetto dell’accordo ludico si rinviene nella costituzione giustinianea
che può leggersi in C. 3.43.1.4:

“Deinde vero ordinent quinque ludos, ton monobolon ton condomonobolon ke


kondacca ke repon ke perichyten. Sed nemini permittimus etiam in his ludere ul-
tra unum solidum, etsi multum dives sit, ut, si quem vinci contigerit, casum gra-
vem non sustineat […]” [a. 529 d.C.].

Il provvedimento mitiga il divieto di giocare d’interesse “in privatis


seu publicis locis […] neque in specie neque in genere” enunciato perento-
riamente dallo stesso Giustiniano in C. 3.43.1.1 19, stabilendo una deroga
in favore di cinque discipline. Queste evidenziano caratteristiche analo-
ghe ai giochi virtutis causa di cui è fatto richiamo nel Digesto. Ed infatti,
il monobolos (τὸν μονόβολον) è stato alternativamente identificato in una
gara di lancio, di corsa o di salto senza pertica; il contomonobolos (τὸν
κονδομονόβολον) sarebbe consistito nel salto con l’ausilio di un’asta o di
una pertica; al quintanus contax sine fibula (κόντακα) è stato associato il
lancio di un giavellotto o dardo con la sola mano, senza ausilio di correg-
gia; con il termine perychites (περιχυτήν) si sarebbe richiamata la lotta men-
tre hippice (ἰππικήν) starebbe a indicare la corsa di cavalli o cocchi 20.
Al giocatore che si orienti verso una di queste competizioni non è però
consentito di rischiare oltre i limiti di un solidum 21, quale che fosse la sua
effettiva capacità patrimoniale.
La severità con cui viene regolato il settore trova spiegazione nel proe-
mio dell’editto riportato in C. 3.43.1 pr.:

19
“Commodis igitur subiectorum providere cupientes hac generali lege decernimus, ut
nulli liceat in privatis seu publicis locis ludere neque in specie neque in genere: et si contra
factum fuerit, nulla sequatur condemnatio, sed solutum reddatur et competentibus actionibus
repetatur ab his qui dederunt vel eorum heredibus aut his neglegentibus a patribus seu defen-
soribus locorum”.
20
C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto privato romano
e moderno, cit., 68 ss.
21
Il solido era una moneta d’oro, del peso di 1/72 di libbra (circa 4,5 g.), circolante sul-
la base del valore ponderale. Un quadro della monetazione di epoca postclassica è traccia-
to in F. CARLÀ, Il sistema monetario di età tardoantica: spunti per una revisione, in Annali
dell’Istituto italiano di numismatica, vol. 53, 2007, 155 ss.
76 Giovanbattista Greco

“Alearum lusus antiqua res est et extra operas pugnantibus concessa, verum pro
tempore prodiit in lacrimas, milia extranearum nominationum suscipiens. Qui-
dam enim ludentes nec ludum scientes, sed nominationem tantum, proprias sub-
stantias perdiderunt, die noctuque ludendo in argento apparatu lapidum et auro.
Consequenter autem ex hac inordinatione blasphemare conantur et instrumenta
conficiunt.” [529 d.C.].

Il testo opera un riferimento esplicito alla preoccupante diffusione del-


l’azzardo che, anticamente tollerato come passatempo dei soldati nelle
pause delle operazioni belliche, ha visto la sua pratica espandersi pericolo-
samente, con la creazione di un’infinita serie di giochi dalle denominazioni
esotiche. Ciò ha comportato la rovina di numerosi giocatori che si sono fat-
ti soggiogare dal gioco e vi hanno preso parte talvolta senza neppure cono-
scerne le regole di svolgimento ma solo il nome, divenendo così artefici
della propria rovina materiale e spirituale.
La soluzione congegnata da Giustiniano, al netto dei propositi che la
accompagnano, trascura di considerare che il gioco d’azzardo non può
trattarsi come una qualunque merce: la misura giusta del prezzo da pagare
in caso di perdita non può essere fissata in modo rigido e aprioristico. La
somma rischiata al gioco potrà considerarsi equa se il rapporto in cui si
trova con il guadagno netto che si riceverebbe in caso di vincita è uguale a
quello tra la concreta probabilità di vincere del giocatore e quella di per-
dere 22.
Non si tratta dell’unico caso in cui la legislazione giustinianea interviene
autoritativamente a fissare limiti alla misura degli spostamenti di ricchezza
consentiti, nell’ottica di rendere la normazione uno strumento riformatore
di rapporti ed istituti dotati di uno statuto consolidato. Un esempio in tal
senso proviene dalla controversa vicenda degli interessi convenzionali. In
argomento la generalis sanctio del 23 dicembre 528, accanto al limite mas-
simo fissato al 6%, stabilì soglie diversificate degli accessori esigibili in re-
lazione a specifiche categorie di creditori, quali gli illustres (4%), i mercan-
ti banchieri e gli altri negotiatores (8%), i finanziatori di traffici marittimi e
coloro che concedevano prestiti di derrate (12%) 23-24. L’iniziativa si inseri-

22
P. GARBOLINO, I giochi d’azzardo, Milano, 1998, 15.
23
C. 4.32.26.1-2: “[1] Super usurarum vero quantitate etiam generalem sanctionem facere
necessarium esse duximus, veterem duram et gravissimam earum molem ad mediocritatem
deducentes. [2] Ideoque iubemus illustribus quidem personis sive eas praecedentibus minime
licere ultra tertiam partem centesimae usurarum in quocumque contractu vili vel maximo
stipulari: illos vero, qui ergasteriis praesunt vel aliquam licitam negotiationem gerunt, usque
ad bessem centesimae suam stipulationem moderari: in traiecticiis autem contractibus vel
Sul valore della posta in gioco in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4 77

sce nel più ampio quadro di una politica legislativa volta a preservare l’or-
dine sociale evitando che il pesante indebitamento di cospicue masse di
debitori potesse essere motivo di disordini 25.
Nella stessa prospettiva si colloca la Nov. 122 del 23 marzo 544, per
mezzo della quale l’autorità imperiale si attiva per contrastare la formazio-
ne di monopoli privati attraverso la fissazione dei prezzi di determinati be-
ni e servizi da praticare nelle vendite al minuto 26. L’occasione di questo in-
tervento normativo è data dall’avidità dimostrata dai ceti produttivi e mer-
cantili a breve distanza da una grave epidemia che, tra la primavera e l’au-

specierum fenori dationibus usque ad centesimam tantummodo licere stipulari nec eam
excedere, licet veteribus legibus hoc erat concessum: ceteros autem omnes homines dimidiam
tantummodo centesimae usurarum posse stipulari et eam quantitatem usurarum etiam in aliis
omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra stipulationem usurae exigi solent”.
24
Sulla regolamentazione giustinianea delle usurae v., tra gli altri, F. FASOLINO, Studi
sulle usurae, Salerno, 2006, 153 ss.; ID., Per una storia giuridica dell’anatocismo. La discipli-
na delle usurae usurarum nel diritto romano, Napoli, 2016, 200 ss.; B. BIONDI, Giustiniano
primo principe e legislatore cattolico, Milano, 1936, 34 s.; E. BIANCHI, In tema d’usura. Ca-
noni conciliari e legislazione imperiale del IV secolo (II), in Athenaeum, LXII, 1984, 136 ss.;
L. SOLIDORO, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale, in Index, XXV,
1997, 555 ss.; M. BIANCHINI, La disciplina degli interessi convenzionali nella lesgislazione
giustinianea, in AA.VV., Studi in onore di A. Biscardi, II, Milano, 1982, 389 ss.; ID., Temi e
tecniche della legislazione tardoimperiale, Torino, 2009, 123 ss.
25
F. FASOLINO, Studi sulle usurae, cit., 156 s.
26
Praefatio. Cognovimus post castigationem quae secundum domini dei clementiam con-
tigit eos qni negotiationes et artificia exercent et diversarum artium opifices et agricultores
nec non nautas, cum potius meliores fieri deberent, avaritiae se dedisse, et duplicia atque tri-
plicia pretia mercedesque contra veterem consuetudinem exigere.
I. Placuit igitur nobis per sacrum edictum omnibus eiusmodi avaritiam interdicere, neve
ullus in posterum negotiator aut agricola aut artifex ex quacumque arte vel negotiatione vel
agricultura maiora quam secundum veterem consuetudinem pretia mercedesve exigere. Iu-
bemus autem eos quoque qui aedificiorum et agrorum colendorum aliorumque operum men-
suras faciunt nihil amplius operariis imputare, sed ipsis quoque antiquam consuetudinem ser-
vare. Atque haec eos quoque observare iubemus, qui qualiacumque opera imperant vel etiam
species quasdam redimunt: quibus ne ipsis quidem ut plus quam more constitutum est prae-
stare liceat permittimus. Sciant autem qui quicquam amplius quam vetus consuetudo fert
exigunt, se triplicem quantitatem fisco inferre coactum iri, si contra id quod ab initio constitu-
tum erat eos accepisse vel dedisse appareat.
Epilogus. Haec autem examinari atque vindicari iubemus et a tua sublimitate et a
gloriosissimo praefecto huius felicis urbis. Per vos enim ab iis qui hanc nostram
constitutionem violaturi sint multam definitam exigi eosque poenis subici volumus; cum
officiis quae vobis apparent quinque librarum auri poena immineat, si quid eorum quae a
nobis constituta sunt neglectum fuerit. Dat. x. k. Apr. CP. <imp.> dn. Iustiniani pp. Aug.
anno XVII. post cons. Basilii vc. anno III.
78 Giovanbattista Greco

tunno del 542, aveva flagellato l’impero e la stessa capitale, finendo per in-
sidiare anche la vita del sovrano. L’applicazione delle remunerazioni stabi-
lite per legge è disposta sotto la minaccia di una sanzione pecuniaria a fa-
vore del fisco, pari a tre volte il prezzo indebitamente convenuto, a carico
di entrambi i contraenti 27. I funzionari incaricati di vigilare sull’osservanza
delle disposizioni sono a loro volta passibili di una multa nel caso ometta-
no i controlli.
Sebbene le modalità di realizzazione degli obiettivi di politica legislativa
che l’imperatore si prefigge prevedono, in tutti i casi menzionati, l’introdu-
zione di soglie dimensionali predefinite all’oggetto di attività negoziali, la
riduzione ad un solidum del valore della giocata lecitamente effettuabile si
segnala per il carattere assolutamente voluttuario della transazione presa in
considerazione.

4. Osservazioni conclusive

Il confronto tra l’ipotesi trattata dal giurista Paolo in D. 11.5.4 pr. e l’ec-
cezione regolata in C. 3.43.1.4 consente alcune utili acquisizioni.
In primo luogo, sembra essere smentita l’idea che le opzioni in materia
di legislazione alearia conosciute dal diritto romano nelle varie epoche pos-
sano leggersi in un’ottica di continuità, come suggerirebbe l’omologazione
in forma di codice impressa dal Corpus Iuris ai materiali dell’antica tradi-
zione 28.
In secondo luogo, è fatto palese che l’autonomia privata non può essere
sufficientemente indagata in un’ottica meramente quantitativa, attraverso
cioè la semplice ricognizione del numero e dell’intensità delle facoltà nego-
ziali accordate a giocatori e scommettitori nel corso dei secoli. I rapporti
tra eteronormazione e autonormazione presentano, al contrario, anche una
dimensione qualitativa, che investe il loro modo di essere e di atteggiarsi.
Proprio in argomento è stato autorevolmente osservato che, almeno si-

27
Proprio sul rilievo che anche il contraente debole possa subire l’applicazione della
sanzione del triplo, non sono mancati dubbi sul fatto che il vero scopo perseguito dalla
Novella fosse quello di salvaguardare i consumatori. Si è suggerito, in alternativa, che
l’editto sui prezzi rispondesse a ragioni di ordine pubblico, intendendo riportare in vita i
valori di scambio praticati prima dell’epidemia allo scopo di combattere lo spettro della
fame e delle rivolte (M. BIANCHINI, Temi e tecniche della legislazione tardoimperiale, cit.,
194 ss.).
28
A SCHIAVONE (a cura di), Diritto privato romano. Un profilo storico, Torino, 2010, 3-
12.
Sul valore della posta in gioco in D. 11.5.4 pr. (Paul. 9 ad ed.) e C. 3.43.1.4 79

no al principato, “[i] giuristi, lo stesso pretore presupponevano la forza


creatrice dell’autonomia dei privati. Controllavano soltanto, per così dire
ab extrinseco, che i negotia non debordassero dal lecito, non deformassero
inammissibilmente il sistema e, in positivo, fossero connotati da consape-
volezza circa i loro effetti e da riconoscibilità” 29. La validità di tale affer-
mazione è riscontrabile in relazione al gioco conviviale, dove la riflessione
giuridica prende atto dell’esistenza di usi profondamente radicati nella po-
polazione, ne valuta positivamente la conformità ai valori dominanti su cui
è costruito lo stesso ordinamento e, quindi, ne formalizza il diritto alla so-
pravvivenza in un orizzonte normativo che altrimenti sfavorisce le occupa-
zioni ludiche.
In età giustinianea, come testimoniato da C. 3.43.1.4, la prospettiva de-
scritta subisce un ribaltamento per effetto delle mutate strutture costitu-
zionali e dei nuovi meccanismi di produzione normativa. Gli interventi in
materia di azzardo non rispondono più alla necessità di arginare ex post gli
eccessi dell’autoregolazione ma si propongono di modellare ex ante i con-
fini dell’agire autonomo, con l’introduzione di un generale divieto di gio-
care d’interesse, temperato da un esiguo numero di deroghe. L’ambito in
cui può svolgersi il gioco lecito è predeterminato e la rigidità dei suoi con-
fini è presidiata dal vasto potere-dovere che le autorità hanno di surrogarsi
all’avente diritto nel pretendere dal vincitore la restituzione della posta
versata 30. La regolazione è tanto minuziosa da specificare, come si è potuto
osservare, perfino l’impegno economico che l’aleator poteva assumere gio-
cando.
L’approccio al problema dell’agire autonomo in epoca tardoantica pre-
senta forti affinità con quello odierno, in cui i presupposti di validità del-
l’autonormazione risultano indefettibilmente stabiliti dal legislatore 31. Man-
cando il riconoscimento da parte delle strutture ordinamentali, la regola
posta dal consociato non potrebbe acquisire quella dignità indispensabile a
farla apparire “come una norma giuridica, cioè come una piccola legge de-
stinata a governare, in un’occasione o in un piccolo numero di occasioni, i
comportamenti di un soggetto o di un piccolo numero di soggetti” 32. Sem-
pre alla fonte normativa spetta di determinare i confini entro i quali l’auto-

29
V. GIUFFRÈ, L’autonomia dei privati. Prospezioni e prospettazioni futuribili, Napoli,
2013, 56.
30
Cfr. C. 3.43.1.1-3.
31
Per tutti, v. L. FERRI, L’autonomia privata, Milano, 1959, 3 ss.
32
R. SACCO, voce ‘Autonomia nel diritto privato’, in Digesto delle Discipline Privatisti-
che, Sezione Civile, I, Torino, 1990, 517.
80 Giovanbattista Greco

regolamento ha facoltà di esplicarsi, alla luce del progresso materiale e dei


valori supremi che contraddistinguono la comunità organizzata in un dato
tempo.
La discontinuità nei rapporti tra autonormazione ed eteronormazione si
accompagna a quella dei valori di riferimento.
La fattispecie analizzata in D. 11.5.4 pr. testimonia l’attenzione verso
istanze diffuse, il cui centro di imputazione non è rappresentato principal-
mente dal singolo ma da un gruppo sociale e dai suoi stili di vita. La previ-
sione richiamata in C. 3.43.1.4, invece, appunta l’attenzione sulla dimensio-
ne individuale del giocatore La restrizione quantitativa imposta alle puntate
connesse ai quinque ludos vige in via inderogabile, a prescindere dalla ric-
chezza del lusor e può interpretarsi come un tentativo di governare il delica-
to equilibrio tra il libero accesso dei sudditi al disimpegno e allo svago e le
precauzioni indispensabili ad evitare il loro imprigionamento in quello che
gli studiosi contemporanei considerano, a buon diritto, una monade esclu-
dente, fornita di una propria dimensione spaziale e temporale 33.
Questo intento si affianca, senza confondersi, al contestuale e progres-
sivo spostamento su di un piano sovrannaturale degli scopi della vita pro-
dotto dal diffondersi della dottrina cristiana: spettacoli e divertimenti che
non comportino onesto svago o cura del corpo costituiscono per il creden-
te una futile distrazione dalle pratiche religiose e possono offrire l’oppor-
tunità di peccare 34-35.

33
V. O. DE ROSA, Il mercato del gioco. Evoluzioni e tendenze, in O. DE ROSA, D. VERRA-
STRO (a cura di), Gioco e Società, Bologna, 2012, 15 ss.
34
B. BIONDI, Il diritto romano cristiano, Milano, 1952, vol. I, 115 ss. e vol. II, 279 ss.
35
Un’interpretazione della costituzione accolta in C. 3.43.1 pr. alternativa a quella da
noi avvalorata si deve a S.B. FARIS, Changing Public Policy and the Evolution of Roman Ci-
vil and Criminal Law on Gambling, in UNLV Gambling Law Journal, 3, 2012, 199 ss. L’A.
assume che lo scopo perseguito dall’intervento normativo fosse quello di preservare l’inte-
grità dell’impero attraverso il contrasto della pratica della blasfemia. Quest’ultima, costi-
tuendo un’offesa gravissima alla divinità, sarebbe stata interpretata da Giustiniano quale
causa di una serie di disastri (terremoti, carestie, guerre) verificatisi sotto il suo regno e su-
scettibili di minarne l’esistenza (215). Riteniamo che il tenore del provvedimento in esame,
incentrato sulle conseguenze prodotte dal gioco smodato nella sfera individuale, non auto-
rizzi contestualizzazioni tanto ampie.
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 81

Le scommesse sui giochi virtutis causa


in diritto romano
Anna Bottiglieri *

SOMMARIO: 1. Il fenomeno ludico. – 2. Normativa di età repubblicana. – 3. De aleatoribus. –


4. Scommesse sulle gare atletiche.

1. Il fenomeno ludico

Il fenomeno ludico è antico e, di frequente, è stato visto con disfavore.


Se si è ritenuto di poterlo accettare quando era legato alle virtù fisiche o a
ingenui passatempo 1, lo si è invece avversato quando era legato al malco-
stume dell’azzardo.
Vi è sempre una sorta di ambiguità nelle legislazioni in questa materia: lo
Stato detiene il monopolio di molti giochi, per cui, se da un lato cerca di di-
sincentivarli, dall’altro li favorisce, a volte utilizzandoli come forma subdola
di tassazione, anche al fine di ricavare entrate utili per l’amministrazione 2.
La stessa differenza tra gioco e scommessa non è pacifica e sono state
prospettate diverse soluzioni: alcuni autori ritengono che si possa parlare
di gioco quando vi sia la partecipazione dei soggetti all’evento, di scom-
messa invece quando i soggetti non prendono parte all’evento che deter-

* Questo lavoro, già pubblicato in BIDR (Quarta serie – vol. VII. Dell’intera collezione
vol. CXI (2017), pp. 41 ss.), è qui riprodotto con l’aggiunta di alcune note.
1
Cfr. A. CAPPUCCIO, Rien de mauvais. I contratti di gioco e scommesse nell’età dei codici,
Torino, 2011, 29 ss.
2
I propositi normativi di limitazione dei giochi d’azzardo sono destinati a naufragare di
fronte alla necessità dello Stato di trovare, in circostanze eccezionali, quei fondi che sono
indispensabili per far fronte a situazioni di emergenza, come ad esempio nel caso del c.d.
decreto Abruzzo, volto ad aiutare le persone di questa regione colpita dal terremoto: sul
punto vd. A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo in diritto romano, in F. LUCREZI (a cura di),
Minima de poenis, Napoli, 2015, 47 ss.
82 Anna Bottiglieri

mina il gioco; altri sostengono che la diversità stia nello scopo perseguito,
che nel gioco sarebbe il conseguimento di un vantaggio, nella scommessa il
desiderio di far valere la propria affermazione 3.
Se si volge lo sguardo all’indietro, si può notare nelle fonti romane da
un lato il disprezzo sociale in cui erano tenuti coloro che scommettevano
danaro, mettendo a rischio i propri averi 4, dall’altro l’amore che per i gio-
chi d’azzardo nutrivano personaggi importanti dell’epoca. La passione
smodata per tali passatempo arrivava al punto di rischiare e perdere som-
me esorbitanti, che incidevano poi sull’economia domestica fino a non per-
mettere al padrone di comprare una tunica per lo schiavo 5. Numerosi era-
no i pregiudizi che potevano derivare da tali sconsiderati svaghi. Nella so-
cietà romana depauperare il proprio patrimonio sperperandolo con i gio-
chi d’azzardo, comportava un declassamento, cioè l’iscrizione in una classe
inferiore del censo, precludendo anche la possibilità di una brillante car-

3
In tal senso B. BELOTTI, s.v. Giuoco, in Digesto Italiano, 1900-1904, 403 ss., ma vd. pure
M. PARADISO, I contratti di gioco e scommessa, Milano, 2003, 43 ss. Analisi approfondita del
rapporto tra gioco e scommessa in diritto romano in S. BREMBILLA, Provocat in me aleam ut
ego ludam. Scommessa e giuoco nella prospettiva della dottrina e delle fonti, in SDHI 75, 2009,
343 ss. L’A. opera una distinzione tra gioco e gioco con scommessa, mettendo in rilievo come
a Roma fosse vietata la sola scommessa e non il gioco, e collega tale divieto con la necessità di
evitare il depauperamento dei patrimoni.
4
Cic. Phil. 2.27.67: domus erat aleatoribus referta, plena ebriorum; Cicerone accomuna i
giocatori in un unico giudizio negativo ai commedianti e ai lenoni: Phil. 8.9.26 Cavet mimis,
aleatoribus, lenonibus; e, in Catil. 2.10.23, agli adulteri, agli immorali e agli spudorati: In his
gregibus omnes aleatores, omnes adulteri, omnes impuri impudicique versantur. Per la cattiva
considerazione in cui erano tenuti i giocatori vd. anche D. 17.2.59.1 (Pomp. lib. 12 ad Sab.),
D.21.1.19.1 (Ulp. lib. 1 ad ed. aedil. cur.), D.50.16.225 (Tryph. lib.1 disp.).
5
Giov. Sat. 1.89-93: Alea quando hos animos? Neque enim loculis comitantibus itur ad
casum tabulae, posita sed luditur arca. Proelia quanta illic dispensatore videbis armigero!
Simplexne furor sestertia centum perdere et horrenti tunicam non reddere servo; Tacito
documenta la passione dei Germani che arrivavano a puntare ai dadi persino la propria
libertà personale: Germ. 24.2 Aleam quod mirere, sobrii inter seria exercent, tanta
lucrandi perdendive temeritate, ut, cum omnia defecerunt, extremo ac novissimo iactu de
libertate ac de corpore contendant.Victus voluntariam servitutem adit; quamvis robustior
alligari se ac venire patitur. Svetonio è ricco di testimonianze sulla propensione per
l’azzardo degli imperatori: Svet. Aug. 71: Alea rumorem nullo modo expavit lusitque
simpliciter et palam oblectamenti causa etiam senex ac praeterquam Decembri mense, aliis
quoque, festis et profestis diebus; Calig. 41: Ac ne ex lusu quidem aleae compendium
spernens plus mendacio atque etiam periurio lucrabatur; Claud. 33.2: Aleam studiosissime
lusit, de cuius arte librum quoque emisit, solitus etiam in gestatione ludere, ita essedo
alveoque adaptatis ne lusus confunderetur; Nero 30.3: Quadringenis in punctum sestertiis
aleam lusit; Vitel. 4: Precipuum in aula locum tenuit, Gaio per aurigandi, Claudio per
aleae studium familiaris; Domit. 21: Quotiens otium esset, alea se oblectabat, etiam
profestibus diebus matutinisque horis.
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 83

riera politica ai membri della famiglia stessa 6. Inoltre, l’inclinazione a tale


vizio veniva visto come un difetto caratteriale grave, tanto che, se ne era
afflitto lo schiavo, doveva essere dichiarata dal venditore 7.

2. Normativa di età repubblicana

Fin dall’età repubblicana è testimoniato il divieto di giocare d’azzardo,


sancito dalle leggi Tizia, Publicia e Cornelia 8. Non abbiamo notizie precise
sull’epoca di emanazione e sul contenuto di tali leggi 9, ma si può supporre

6
A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo, cit., 58.
7
D. 21.1.19.1 (Ulp. lib.1 ad aed. cur.): Plane si dixerit aleatorem non esse, furem non esse,
ad statuam numquam confugisse, oportet eum id praestare. Le fonti parlano a tal proposito di
un vizio morale; cfr. Quint. Inst. 2.4.22: de hiis loquor, quibus circa personas in ipsa vitia moris
est perorare, ut in adulterium, aleatorem, petulantem. Ma vd. anche D. 21.25.6 (Ulp. lib. 1 ad
ed. aed. cur.): Hoc autem, quod deterior factus est servus, non solum ad corpus, sed etiam ad
animi vitia referendum est, ut puta si imitatione conservorum apud emptorem talis factus est,
aleator forte vel vinarius vel erro evasit. Su questi temi diffusamente, M. KURYLOWICZ, “Servus
aleator”, in Studi in onore di A. Biscardi, 4, Milano, 1983, 532.
8
G. ROTONDI, Leges publicae pouli Romani, Milano, 1912, rist. Hildesheim, 1962, 261,
colloca, con qualche dubbio, la prima legge alearia nel 204 a.C. sulla base della testimo-
nianza di Plauto, Miles glor. 2.2.166, il quale ricorda la legge che vieta il gioco degli ossi-
cini; esprime dubbi per la datazione delle altre due. Leggi alearie sono menzionate da
Cicerone (cfr. Cic. Phil. 2.23.56), il quale, nel tratteggiare la figura di Antonio e le sue
malefatte, ricorda che costui aveva fatto graziare un certo Licinio Denticola, condannato
de alea e suo compagno di gioco, per pagare con il prezzo di questo favore ciò che aveva
perso. Per giustificare l’annullamento della condanna, Antonio non addusse ragioni tecni-
che (non disse che non vi era una legge che vietasse il gioco d’azzardo, che era stato giu-
dicato senza essere stato ascoltato, che era stato accusato in sua assenza, che il giudice era
stato corrotto), ma affermò che Licinio Denticola era un uomo dabbene e degno della
repubblica, sebbene Cicerone lo tratteggi come uno dei più perversi, dedito al gioco d’az-
zardo perfino nel foro, già condannato in forza della legge che regolava questi giochi.
9
S. BREMBILLA, Provocat me in aleam ut ego ludam, cit., 367 ss., ipotizza che le tre leggi
abbiano contenuti differenti: “dalla lettura del testo si evince che nel discorso di
Marciano la legge Cornelia si differenzia dalle altre due: se Marciano avesse voluto so-
stenere che le tre leggi avevano il medesimo contenuto avrebbe certamente costruito la
frase in altro modo”. Già M. VOIGHT, Ueber die lex Cornelia sumptuaria, Berichten der
Königl. Sächs. Gesellschaft der Wissenschaften, 42, 1890, 244 ss., supponeva che la lex Titia
fosse da collocare tra il 339 e il 328 a.C., sicuramente prima del 327, anno della lex
Publicia, e, in considerazione dell’origine plebea della gens Titia, riteneva che fosse un ple-
biscito. Quanto alla lex Cornelia, citata in D.11.5.3, Voight la identifica con la lex Cornelia
sumptuaria, forse una legge di contenuto molto vasto, che conterrebbe una più generale
regolamentazione dei costumi attribuibile a Lucio Cornelio Silla. Tale legge avrebbe rego-
lamentato le spese per la tavola, il gioco a scopo di lucro e le garanzie per le promesse di
84 Anna Bottiglieri

che la repressione per la loro violazione fosse affidata agli edili, come sem-
bra attestare un brano di Marziale 10. La competenza di questi magistrati
venne mantenuta in epoca imperiale, successivamente essa fu demandata al
praefectus urbi, in quanto responsabile dell’ordine pubblico 11. In Plauto si
legge che qualsiasi cittadino poteva essere legittimato all’esercizio di un’actio,
un’azione penale privata introdotta da una lex alearia. In particolare, nel
Persa, Saturione, dopo aver ricordato che risaliva ai suoi antenati, chiamati
con il nomignolo Duricapitones (Duricapocchioni), la sua abilità di rosicare
come un sorcio la roba del prossimo, lamenta l’attività di coloro che de-
nunziano un trasgressore della legge per il proprio tornaconto personale e
non per il bene della patria: egli non vuole fare il delatore, non vuole qua-
drupulari. A tal proposito si augura che sia approvata una legge che sanci-
sca che ogni qual volta un delator (quadrupulator) denunzi un trasgressore
della legge, questi abbia l’obbligo di sporgere una controdenunzia in modo
che, quando andranno davanti al pretore, saranno alla pari. Se così si fa-
cesse sparirebbero dalla circolazione quei tali che si servono dell’albo del
pretore come di una rete per pescare ed appropriarsi dei beni altrui 12. Il

pagare i debiti di gioco, l’ammontare delle somme per cui si poteva prestare garanzia, le
spese per i funerali, la protezione dei monumenti funebri e alcuni illeciti rapporti sessuali.
Ma vd. le efficaci critiche di S. PEROZZI, in RISG. 11, 1891, 261 ss. e cfr. A. BOTTIGLIERI, La
legislazione sul lusso nella Roma repubblicana, Napoli, 2002, 164 s.: “Questa ricostruzione,
se da un lato potrebbe confortare l’idea della formazione di cataloghi che raggruppano
leggi con un contenuto normativo inquadrabile in fattispecie affini, rimane pur sempre
ipotetica, dal momento che i dati forniti dalle fonti sono troppo esigui per poter avanzare
un’ipotesi probabile e ancora le leggi che vengono legate dal comune denominatore del
lusso sembrano troppo eterogenee”.
10
Mart. 5.84: Iam tristis nucibus puer relictis / clamoso revocatur a magistro, / et blando
male proditus fritillo, / arcana modo raptus e popina, / aedilem rogat udus aleator. / Saturnalia
transiere tota, / nec munuscula parva nec minora / misisti mihi, Galla, quam solebas. / Sane sic
abeat meus December: / scis certe, puto, vestra iam venire / Saturnalia, Martias Kalendas; / tunc
reddam tibi, Galla, quod dedisti.
11
Così E. QUINTANA ORIVE, D. 11.5 (De aleatoribus) y C. 3.43 (De alea lusu et
aleatoribus): Praecedentes romanos del contrato de juego in Anuario Jurìdico y Econòmico
Escurialense, 42 (2009), 22, nt. 21. Cfr. pure Y. RIVIERE, Les “quadruplatores”: la répression
du jeu, de l’usure et de quelques autres délits sous la République romaine, in MEFRA
109.2,1997, 616 ss.
12
Plaut. Pers. 1.3.52-76: Veterem atque antiquum quaestum maio <rum meum> servo
atque obtineo et magna cum cura colo. Nam numquam quisquam meorum maiorum fuit,
quin parasitando paverint ventres suos: pater, avos, proavos, abavos, atavps, tritavos quasi
mures semper edere alienum cibum, neque edacitate eos quisquam poterat vincere; atque is
cognomentum era Duriscapitonibus. Unde ego hunc quaestum optineo et maiorum locum.
Neque quadrupulari me volo, neque enim decet sine meo periculo ire aliena ereptum bona,
neque illi qui faciunt mihi placent. Plane loquor? Nam publicae rei causaquicumque id facit
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 85

frammento plautino stato sottoposto a stringente analisi e non è questa la


sede per riproporre i problemi connessi alla tradizione testuale 13. Quello
che occorre mettere in evidenza è il legame inequivocabile tra la repressio-
ne del gioco d’azzardo e i quadruplatores. Il commediografo considera non
rischiosa e redditizia l’attività del quadruplator che cerca di impadronirsi
dei beni altrui. Afferma De Martino che “Esistevano azioni giudiziarie, nel-
le quali veri e propri lestofanti potevano attentare al patrimonio dei citta-
dini, senza alcun vantaggio per l’erario pubblico, per violazioni della legge,
le quali potevano essere vere, ma anche essere inventate dagli accusato-
ri” 14. Queste azioni penali private avevano carattere popolare, cioè pote-
vano essere promosse da chiunque e dovevano avere lo scopo di preservare
l’osservanza delle leggi a tutela del pubblico interesse, ma spesso a benefi-
ciarne era soltanto il truffatore, che sottoponeva a giudizio cittadini che
erano a volte più onesti di lui. Nell’epoca di Plauto, dunque, esistevano
azioni penali private a tutela di interessi che potevano innescare una pro-
cedura esecutiva del cui esito positivo si giovava l’attore popolare.
Il termine quadruplatores è così spiegato da Festo: Quadruplatores di-
cebantur, qui eo questu se tuebantur, ut eas res persequerentur, quarum ex
legibus quadrupli erat actio 15. Esso, dunque, assume sempre carattere di-

magis quam sui quaesti, animus induci potest, eum esse civem et fidelem et bonum. Sed ***si
legirupam qui damnet, det in publicum dimidium; atque etiam in ea lege adscribier: ubi
quadrupulator quem piam iniexit manum tantidem ille illi rursus iniciat manum, ut aequa
parti prodeant ad tris viros: si id fiat, ne isti faxim nusquam appareant, qui hic albo rete
aliena oppugnant bona. Sed sumne ego stultus, qui rem curo publicam, ubi sint magistratus,
quos curare oporteat? Nunc huc intro ibo, visam hesternas reliquias, quierintne recte necne,
num afuerit febris, opertaen fuerint, ne quis obreptaverit. Sed aperiuntur aedes, remorandust
gradus. Nella lettura dei testi di Plauto è indispensabile usare cautela in quanto, come si sa,
essi spesso sono costruiti utilizzando schemi di commedie greche. Cfr. E. COSTA, Il diritto
privato romano nelle commedie di Plauto, Torino, 1890, 410; E. FRAENKEL, Elementi plau-
tini in Plauto, trad. it. 1960, 1972, 82 ss.
13
F. DE MARTINO, I quadruplatores nel Persa di Plauto, in Labeo 1, 1955, 32, ora in
Diritto economia e società nel mondo romano, Napoli 1996, 99 ss., ritiene, a mio avviso giu-
stamente, che ci sia un vuoto nel testo, nella parte i cui si parla di colui che agisce più nel
pubblico interesse che nel proprio e le proposte successive: “il sed dovrebbe introdurre
un’antitesi che però non c’è. Ci si attenderebbe o la descrizione di un quadruplator, il quale
intenti l’azione solo per brama di illecito guadagno, ovvero la menzione di una legge che
costringa l’attore a versare all’erario la metà del profitto”. Inoltre, l’A. sottolinea che nel
brano si parla di “ea lege”, cosa che presuppone che si alluda a una determinata disposi-
zione normativa che nel testo non è riportata. Si deve quindi accettare l’ipotesi che dopo il
sed sia caduto un verso nel quale vi era un riferimento alla legge di riforma.
14
DE MARTINO, I quadruplatores, cit., 104.
15
Fest. s.v. quadruplatores 309 L., cfr. Apul. Apol. 89; Sen. De benef. 7.25.1, 7.25.5-6;
Asc. In div. 24.
86 Anna Bottiglieri

spregiativo, denotando che nell’opinione comune non erano tenuti in buo-


na considerazione coloro che esercitavano azioni giudiziarie volte a tutelare
il pubblico interesse, intentando azioni calunniose, cioè dolosamente in-
fondate 16. Quadruplator quindi è chi tende ad appropriarsi di una cosa non
sua, mediante strumenti giudiziari: costui consegue il quadruplo esercitan-
do un’actio alla quale è legittimato qualsiasi cittadino. In uno scolio di Ps.
Asconio l’azione dei quadruplatores è in connessione con il gioco d’azzar-
do 17: viene data un’azione popolare in quadruplum contro gli aleatores ed è
plausibile che la sanzione più antica prevista per questo tipo di reati fosse
una pena da esigersi mediante un’azione popolare 18.

3. De aleatoribus

Il titolo quinto del libro undicesimo del Digesto, de aleatoribus 19, con-
tiene quattro frammenti, relativi agli interventi del pretore in materia di
gioco d’azzardo. In D. 11.5.1 20, tratto dal commento di Ulpiano all’editto,
vengono prese in considerazione e regolamentate le fattispecie relative ai
susceptores, soggetti identificabili con i tenutari di bische o i custodi della

16
Un esempio è in Cic. in Verr. 2.2.8.22 cfr. 7.21 e Liv. 3.72.4.
17
Ps. Asc. in div. 24: … alii dicunt quadruplatores esse eorum reorum accusatores, qui
convicti quadrupli damnari soleant, [aut <ut> aleae aut pecuniae gravioribus usuris
foeneratis … aut alius modi aliorum criminum.
19
Così DE MARTINO, I quadruplatores, cit., 111.
19
S. BREMBILLA, Provocat me in aleam ut ludam, cit., 343, ritiene che la rubrica de
aleatoribus non trovi corrispondenza con il contenuto del titolo, dato che tale figura non
compare nei frammenti inseriti.
20
D. 11.5.1 (Ulp. lib. 23 ad ed.): Praetor ait: “si quis eum, apud quem alea lusum esse
dicetur, verberaverit damnumve ei dederit sive quid eo tempore dolo eius subtractum est,
iudicium non dabo. in eum, qui aleae ludendae causa vim intulerit, uti quaeque res erit,
animadvertam. Si rapinas fecerint inter se collusores, vi bonorum raptorum non denegabitur
actio: susceptorem enim dumtaxat prohibuit vindicari, non et collusores, quamvis et hi indi-
gni videantur. Item notandum, quod susceptorem verberatum quidem et damnum passum
ubicumque et quandocumque non vindicat: verum furtum factum domi et eo tempore quo
alea ludebatur, licet lusor non fuerit qui quid eorum fecerit, impune fit. domum autem pro
habitatione et domicilio nos accipere debere certum est. Quod autem praetor negat se furti
actionem daturum, videamus utrum ad poenalem actionem solam pertineat an et si ad exhiben-
dum velit agere vel vindicare vel condicere. et est relatum apud Pomponium solummodo
poenalem actionem denegatam, quod non puto verum: praetor enim simpliciter ait “si quid
subtractum erit, iudicium non dabo”. “In eum”, inquit, “qui aleae ludendae causa vim intu-
lerit, uti quaeque res erit, animadvertam”. Haec clausula pertinet ad animadversionem eius
qui compulit ludere, ut aut multa multetur aut in lautumias vel in vincula publica ducatur.
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 87

posta in gioco 21, i quali erano privati della tutela nascente dalla concessio-
ne delle azioni derivanti dai delitti di iniuria, di damnum iniuria datum e di
furtum, perpetrati nei suoi confronti o presso di lui in occasione del gio-
co 22. Ulpiano riporta l’opinione di Pomponio in relazione al quesito se sarà
possibile denegare l’actio penale o se sarà possibile agire per l’esibizione o
per la rivendica o per la restituzione, e, contrariamente all’opinione di
Pomponio, il quale ritiene che è possibile denegare solo l’azione penale,
afferma quod non puto verum, ritenendo possibile un’ampia applicazione
della denegatio 23. Ulpiano prende in considerazione quindi il caso di un
soggetto che costringa altri a giocare, iniziando un nuovo gioco, o a conti-
nuare quello già iniziato: costui sarà punito o con una multa o sarà condot-
to nelle latomie o nel carcere pubblico. Il frammento ulpianeo si lega al
successivo di Paolo in quanto quest’ultimo spiega, – introduce il discorso
con un enim, – che si era soliti indurre le persone a giocare o a continuare
il gioco in caso di perdita. Paolo poi ricorda che un senato consulto aveva
vietato di scommettere danaro tranne nel caso in cui la competizione avve-
nisse nel lancio dell’asta, del giavellotto, nella corsa, nel salto, nella lotta,
nel pugilato, cioè in quelle gare fatte per esaltare l’abilità dei concorrenti 24.

21
Analisi dettagliata in G. GRECO, Gioco d’azzardo e deterrenza: brevi note sui susceptores,
in Iura and Legal Systems, 3, 2016, 45 ss.
22
Per gli aspetti connessi con i problemi derivanti dalla denegatio iudicium e dalla
denegatio actionum, vd. S. SCIORTINO, Denegare iudicium e denegare actionum, in AUPA 58,
2015, 199 ss., il quale utilizza tale testo per dimostrare che “l’attività di denegare iudicium si
dovette concretare nel solo rifiuto del programma di giudizio e non nella concessione di una
formula dotata di exceptio”, come invece ritengono G. Impallomeni, In tema di gioco, in
Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, 5, Napoli, 1984, 2331 e A. POLLERA, In tema di
repressione del gioco d’azzardo: dati e problemi, in Studi L. De Sarlo, Milano, 1989, 535.
23
S. BREMBILLA, Provocat me in aleam ludere, cit., 357.
24
D. 11.5.2.1 (Paul. lib. 19 ad ed.): Senatus consultum vetuit in pecuniam ludere, praeter-
quam si quis certet hasta vel pilo iaciendo vel currendo vel saliendo luctando pugnando quod
virtutis causa fiat. La posta in gioco per le scommesse virtutis causa può essere o in moneta
sonante, in pecuniam ludere, o come promessa, in sponsionem facere. Nella posta in pecu-
niam, i partecipanti ponevano come posta un oggetto di valore (in D. 19.5.17.5 si parla di
anelli) e il giocatore, in caso di vittoria, recuperava la sua posta e otteneva un guadagno.
Nella scommessa come promessa il rischio che correva il giocatore poteva essere grave per-
ché costui poteva scommettere più di quanto aveva e quindi indebitarsi, a differenza della
scommessa con moneta, dove si poteva perdere solo ciò che si aveva materialmente. La
sponsio che originariamente era un modo di contrarre obbligazione mediante domanda e
risposta orale, caratterizzato dal formalismo e solennità verbale, venne in seguito usata af-
finché il promittente assumesse la responsabilità per la propria prestazione; essa non è più
presente nelle fonti giustinianee e nei pochi testi in cui ancora si conserva, la parola sponsio
si riferisce esclusivamente alla scommessa comune. Così A. WACKE, Juegos y apuestas (espe-
88 Anna Bottiglieri

Dunque erano escluse dal novero delle scommesse proibite quelle fatte sui
risultati delle gare sportive e quelle fatte durante le feste dei Saturnalia 25.
Nel frammento seguente, Marciano richiama, a tale proposito, le leggi Ti-
tia, Publicia e Cornelia, che consentivano le scommesse per i giochi ricor-
dati da Paolo, nei quali si gareggiava per il valore sportivo, mentre erano
vietate negli altri 26.

4. Scommesse sulle gare atletiche

L’esclusione del divieto delle scommesse fatte nei giorni di festa 27, è fa-
cilmente comprensibile, dal momento che in quei giorni si può dare sfogo
a comportamenti licenziosi, come è testimoniato da numerosi autori 28. In-
vece è opportuno indagare, sull’esclusione del gioco d’azzardo legato alle
gare atletiche dal novero dei comportamenti illeciti 29.
Ripercorriamo, attraverso la lettura delle fonti, il concetto che i Romani
avevano dell’atleta.
Tale figura, così come viene tratteggiata dagli autori antichi, appare con

cialmente del deporte) en la evolucion de Derecho civil europeo, in Estudios en Homenaje a


José Maria Miguel Aranzadi, Thomson Reuters, Madrid, 2014, 3734.
25
La liceità del gioco d’azzardo nel periodo dei Saturnalia è documentato da Mart. Epigr.
4.14: nel mese di dicembre, durante la festa dei Saturnalia risuonano, nel piacevole gioco dei
dadi, i bossoli dall’esito incerto e ha luogo il più difficile gioco della tropa; 5.84: i giorni dei
Saturnali sono passati: i fanciulli, tristi per aver lasciato il gioco delle noci, sono richiamati a
scuola dalle grida del maestro, il giocatore di dadi, tradito per sua disgrazia dall’allettante
bossolo, viene portato fuori dall’osteria e, gonfio di vino, invoca il perdono dell’edile.
26
D. 11.5.3 (Marc. lib. 5 reg.): In quibus rebus ex lege Titia et Publicia et Cornelia etiam
sponsionem facere licet: sed ex aliis, ubi pro virtute certamen non fit, non licet.
27
Gli spettacoli appassionavano i Romani come è documentato dalle fonti letterarie (v.
ad es. Giov. Sat. 10.80), ma testimonianza di questo amore viene anche dai calendari che
riportano i giorni festivi (ben 177 nel IV secolo) e l’elenco degli spettacoli che vi si
tenevano. Vd. per una rassegna delle feste e dei giuochi, L. Luschi, Potere pubblico: spese,
spettacoli, feste, in Civiltà dei Romani, a cura di S. Settis, Milano 1991, 217 ss.
28
Cfr. Mart. Epigr. 4.14; 5.84. Svet. Nero 16, narra che Nerone proibì gli scherzi dei
guidatori di quadrighe che nel passato avevano il permesso di andare in giro schiamazzan-
do a truffare e a rubare: vetiti quadrigariorum lusus, quibus inveterata licentia passim vagan-
tibus fallere ac furari per iocum ius erat.
29
Non sappiamo in che modo era organizzato il sistema di ricezione di tali scommesse,
forse erano scommesse spontanee nel contesto di competizioni che mettevano alla prova
l’abilità dei partecipanti. È probabile che una persona raccogliesse le scommesse pecunia-
rie tra il pubblico e a conclusione della gara consegnasse la vincita a chi spettava. Così A.
WACKE, Juegos y apuestas, cit., 3735.
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 89

diverse sfaccettature, a seconda dell’epoca storica. Bisogna innanzitutto ri-


cordare che Roma mutua dalla Grecia la concezione dell’educazione fisica
come un elemento fondamentale della vita dell’uomo. Come è noto, i Greci
considerarono l’attività agonistica un elemento importante per lo sviluppo
fisico e intellettuale del cittadino e istituirono numerosi giochi, detti panel-
lenici, perché ad essi potevano partecipare tutte le città della Grecia, i più
importanti dei quali furono i giochi olimpici. Questi giochi erano nati per
favorire la coesione tra le diverse città della Grecia con la consapevolezza di
una comune nazionalità fra varie popolazioni. Tale concezione era assente
nel mondo romano in cui i giochi erano allestiti da uomini politici con lo
scopo di accattivarsi il favore popolare: Livio fa risalire all’età dei Tarquini
l’organizzazione a Roma dei primi giochi pubblici con maggior sfarzo di
quelli organizzati dai re precedenti, facendo così capire che anche in età più
antica erano stati organizzati: ludos opulentius instructiusque quam priores
reges fecit 30. Dice Livio: allora per la prima volta fu scelto quel luogo che og-
gi si chiama Circo Massimo (…) lo spettacolo era costituito da corse di ca-
valli e gare di pugilato con atleti fatti venire per la maggior parte dall’Etruria.
I giochi vennero celebrati ogni anno con il nome di ludi Romani o magni 31.
Numerose sono le notizie che testimoniano già in epoca repubblicana
l’organizzazione di giochi atletici. Gare sportive di tradizione greca (certa-
mina Graecae) furono patrocinate nel 186 a.C. da M. Fulvio Nobiliore 32 e
dopo di lui molti altri uomini politici li organizzarono per ringraziare gli
dei dell’esito favorevole di una battaglia o per altre particolari circostan-
ze 33. Venivano invitati a partecipare i più importanti e famosi atleti del mo-
mento, ai quali erano offerti lauti compensi. Non si trattava quindi più di
gare fatte virtutis causa, ma di certamina profumatamente pagate. Nono-
stante ciò, su di esse era possibile scommettere e le scommesse, come tra-
mandano le fonti, erano particolarmente onerose.

30
Liv. 1.35.7.
31
Liv. 1.35.8-9: Tum primo circo, qui nunc maximus dicitur, designatus locus est. Loca
divisa patribus equitibusque, ubi spectacula sibi quisque facerent.
32
Liv. 39.22.1-2: Per eos dies, quibus haec ex Hispania nuntiata sunt, lidi Taurii per biduum
facti religionis causa. Decem deinde dies magnifice apparatos ludos M. Fulvius, quos voverat
Aetolico bello, fecit. Multi artifices ex Graecia venerunt honoris eius causa. Athletarum quoque
certamen tum primo Romanis spectaculo fuit, et venatio data leonum et pantherarum. Et
prope huius saeculi copia ac varietate ludicrum celebratum est. Cfr. Val. Max. 2.4.7: Nam
gladiatorum munus primum Romae datumest in foro boario Appio Claudio Q. Fulvio con-
sulibus. Dederunt Marcus et Decimus filii Bruti Parae funebri memoria patris cineres hono-
rando. Athletarum certamen a M. Scauri tractum est munificentia.
33
Appian. Bell. Civ. 1.99, Val. Max. 2.4.7, Plutarc. Pomp. 52, Plin. N. A. 36.120, Svet.
Iul. 39.
90 Anna Bottiglieri

Gli atleti erano uomini liberi, esclusi dal novero di coloro che artem lu-
dricam faciunt 34 come si legge in Ulpiano che riporta l’opinione di Sabino e
Cassio.
D. 3.2.4pr. (Ulp. lib. 6 ad ed.): Athletas autem Sabinus et Cassius responderunt
omnino artem ludicram non facere: virtutis enim gratia hoc facere. Et generaliter
ita omnes opinantur et utile videtur, ut neque thymelici neque xystici neque agi-
tatores nec qui aquam equis spargunt ceteraque eorum ministeria, qui certamini-
bus sacris deserviunt, ignominiosi habeantur.

In questo brano, il giurista severiano esamina quali categorie debbano


essere prese in considerazione come ignominiose ed esclude quella degli
atleti, che non praticano in alcun modo l’arte scenica, ma si esibiscono per
mostrare il loro valore. Sono equiparati ad essi gli addetti ai servizi negli
spettacoli sportivi (xystici) e i coristi (thimelici) 35.
È sempre Ulpiano a testimoniare che l’arte atletica era priva di conse-
guenze giuridiche dannose:
D. 9.2.7.4 (Ulp. lib.18 ad ed.): Si quis in colluctatione vel in pancratio, vel pugi-
les dum inter se exercentur alius alium occiderit, si quidem in publico certamine
alius alium occiderit, cessat Aquilia, quia gloriae causa et virtutis, non iniuriae
gratia videtur damnum datum. Hoc autem in servo non procedit, quoniam inge-
nui solent certare: in filio familias vulnerato procedit. Plane si cedentem vulne-
raverit, erit aquiliae ocus, aut si non in certamine servum occidit, nisi si domino
committente hoc factum sit: tunc enim Aquilia cessat.

Se qualcuno si esercita nella lotta o nel pancrazio, o se un pugile duran-


te l’allenamento uccida un altro, o se ciò sia avvenuto in una gara pubblica,
non si applica la legge Aquilia, perché il danno si considera arrecato perse-
guendo gloria e valore, non per un atto ingiusto.
Agli atleti, come categoria, come associazione, e anche come singoli, fu-
rono spesso conferiti privilegi, alcuni con carattere meramente onorifico, al-
tri a contenuto economico. Alcune città dedicarono agli atleti più meritevo-
li statue o conferirono loro la cittadinanza onoraria 36. L’imperatore Claudio

34
Sullo status sociale e giuridico degli atleti vd. E. FRANCIOSI, Athletae, agitatores,
venatores. Aspetti del fenomeno sportivo nella legislazione postclassica e giustinianea, Torino,
2012, 74.
35
M. AMELOTTI, La posizione degli atleti di fronte al diritto romano, in SDHI. 21, 1955,
124, ora in Scritti giuridici, a cura di L. MIGLIARDI ZINGALE, Torino 1996, 327.
36
Per una completa ricognizione dei privilegi concessi agli atleti vd. M. AMELOTTI, La
posizione degli atleti, cit., 329 ss. e nt. 13, in cui si ricorda che il pugile e pancraziaste
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 91

avrebbe addirittura concesso ad un certo Diogene di Antiochia la cittadi-


nanza romana 37.
Particolarmente significativo è un documento che contiene una lettera
del triumviro Marco Antonio 38 diretta alla comunità dei Greci d’Asia. Si
tratta, molto probabilmente, di un editto magistratuale, con il quale vengono
ribaditi dal triumviro rei publicae costituendae i privilegi concessi all’associa-
zione rappresentata dal suo amico personale Artemidoro e dal sacerdote
eponimo. I privilegi richiesti e concessi sono diversi: esonero dal servizio mi-
litare, immunità da tutte le liturgie, dispensa dall’obbligo di fornire alloggio
alle truppe, tregua durante i giochi organizzati dall’associazione, immunità
dall’esecuzione personale, permesso di indossare la porpora 39.
Secondo Modestino, che riporta l’opinione di Ulpiano, gli atleti benefi-
ciano anche dell’esenzione dalla tutela: Ulpianus libro singulari de officio
praetoris tutelaris ita scribit: Athletae habent a tutela excusationem, sed qui
sacris certaminibus coronati sunt 40. Nel III secolo, dunque, agli atleti era ri-
conosciuta la possibilità di ottenere l’excusatio tutelae, privilegio riservato
ai vincitori di gare particolarmente importanti (certamina sacra).
Il quadro fin qui tracciato consente di affermare che anche l’esenzione
dal novero delle scommesse proibite delle gare atletiche debba essere vi-
sta alla luce di un particolare favore nei confronti di concorrenti 41. Ma
con il passar del tempo cominciarono a ravvisarsi nella legislazione romana
segni di insofferenza pure verso i giochi non proibiti, perché la virtutis causa
non si ravvisava più. I gareggianti erano sempre meglio pagati, vi erano le
varie fazioni che godevano di smisurati privilegi. Fu presumibilmente questa
la ragione per cui vennero introdotte delle limitazioni alle scommesse non

Marco Aurelio Demostrate Damas fu insignito di una quindicina di tali cittadinanze ono-
rarie, dato che era invalso l’uso di concedere tale cittadinanza a tutti gli atleti che avessero
conseguito una vittoria nella città. Questo uso così generalizzato portò alla svalutazione
dell’onore stesso.
37
M. AMELOTTI, La posizione degli atleti, cit., 341, che riporta la disposizione contenuta
in P. Lond. 1178, fornendone un esaustivo commento.
38
Tale lettera è conservata in un papiro di origine egizia, v. M. AMELOTTI, La posizione
degli atleti di fronte al diritto romano, cit., 329.
39
AMELOTTI, La posizione degli atleti, cit., 332.
40
D. 27.1.6.13 (Modest. lib. 2 excus.).
41
Permettendo tali scommesse, non si incoraggiavano i cittadini romani a praticare uno
sport, quindi non si vede alcun collegamento con la virtus. Vi era solo, attraverso il tifo per
un concorrente o per l’altro, un incremento dello spirito di rivalità, che veniva considerato
un interesse degno di essere protetto giuridicamente. I tifosi, pur non partecipando attiva-
mente alla gara, avevano attraverso le scommesse un interesse personale a che il risultato
fosse per loro favorevole. V. A. WACKE, Juegos y apuestas, cit., 3735.
92 Anna Bottiglieri

proibite e fu circoscritta a pochi casi la possibilità di puntare somme, peral-


tro di entità ridotta. Si poteva scommettere solo in convivio vescendi causa 42,
nel qual caso la posta in gioco era modesta e non comportava né una grossa
perdita né un grosso arricchimento per i giocatori.
Nel tardo impero rimase, in linea generale, lo stesso regime dell’epoca
precedente.
Nel Codice giustinianeo due sono le costituzioni, entrambe di Giusti-
niano, in materia di gioco d’azzardo 43. Nella prima 44, l’imperatore mostra
pena per gli schiavi del vizio, che giocano senza sapere neppure quali sono
le regole da seguire e il nome del gioco che stanno facendo, e rinnova il di-
vieto generale delle puntate, eccezion fatta per quelle riconducibili a mani-
festazioni sportive. La pretesa del vincitore di ottenere la vincita era bloc-
cata dalla denegatio actionis ed era esclusa la possibilità di condanna per il
perdente che non pagava 45. A maggior danno per il vincitore veniva sanci-

42
D. 11.5.4 (Paul. lib. 19 ad ed.): Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam rem
familia ludere permittitur. Si servus vel filius familias victus fuerit, patri vel domino competit
repetitio. Item si servus acceperit pecuniam, dabitur in dominum de peculio actio, non
noxalis, quia ex negotio gesto agitur: sed non amplius cogendus est praestare, quam id quod
ex ea re in peculio sit. Adversus parentes et patronos repetitio eius quod in alea lusum est
utilis ex hoc edicto danda est.
43
G. PIOLETTI, s.v. Giochi vietati, in ED. 29, 1970, 72, ritiene che le due costituzioni
contenute sotto il titolo De alea lusu et aleatoribus sembrano due diverse traduzioni di
un’unica costituzione greca.
44
CI. 3.43.1: Imperator Iustinianus. Alearum lusus antiqua res est et extra operas pugnan-
tibus concessa, verum pro tempore prodiit in lacrimas, milia extranearum nominationum
suscipiens. Quidam enim ludentes nec ludum scientes, sed nominationem tantum, proprias
substantias perdiderunt, die noctuque ludendo in argentio apparatu lapidum et auro. Conse-
quenter autem ex hac inordinatione blasphemare conantur et instrumenta conficiunt. Commodis
igitur subiectorum provvidere cupientes hac generali lege decernimus, ut ulli liceat in privatis seu
publicis locis ludere neque in specie neque in genere: et si contra factum fuerit, nulla sequatur
condemnatio, sed solutum reddatur et competentibus actionibus repetatur ab his qui dederunt vel
eorum heredibus aut his negligentibus a patribus seu defensoribus locorum: Non obstante nisi
quinquaginta demum annorum aliqua praescriptione: Episcopis locorum hoc inquirentibus et
presidum auxilio utentibus. Deinde vero ordinent quinque ludos, ton monobolon ton condomo-
nobolon ke kondacca ke repon ke perichyten. Sed nemini permittimus etiam in his ludere ultra
unum solidum, etsi multum dives sit, ut, si quem vinci contigerit, casum gravum non sustineat.
Non solum eim bella bene ordinamus et res sacras, sed et ista: interminantes poenam trasgresso-
ribus, potestatem dando episcopis hoc inquirendi et auxilio praesidum sedandi.
45
Il giocatore per procurarsi il danaro che gli occorreva per giocare, con la consapevo-
lezza del compratore, gli vendeva un bene poi evitto dal terzo: quando non immediata-
mente denegata l’azione del compratore per l’evizione, era comunque paralizzabile dall’ec-
cezione: D. 44.5.2.1 (Paul. lib.71 ad ed.): Si in alea rem vendam, ut ludam, et evicta re
conveniar, exceptione summovebitur emptor.
Le scommesse sui giochi virtutis causa in diritto romano 93

ta la ripetibilità della vincita. Se non vi provvedeva la parte, poteva aziona-


re la ripetizione l’autorità pubblica o religiosa con un termine di prescri-
zione cinquantennale. Per le vincite legate a scommesse fatte su gare virtutis
causa era fissato un limite per l’ammontare della posta che non doveva
esssere superiore a un solido, limite che era tale anche per le persone ric-
che. Se si scommetteva di più, l’azionabilità era limitata a questa somma e
denegata per la parte eccedente. Se la parte eccedente era stata pagata, essa
era a sua volta ripetibile. Veniva demandata ai vescovi, con l’ausilio dei
presidi, la potestà di investigare su questa materia. Infine erano regolati
cinque giochi: il monobolo, il contomonobolo, il cuntano contace senza la
fibula, il pericuté e l’ippica 46.
In CI. 3.43.2 47 è sancito il divieto per il gioco degli equi lignei 48 e la
confisca dei luoghi in cui si svolgevano tali giochi. Con Giustiniano si ina-
sprisce la condanna per l’azzardo. Si assiste, con l’affermarsi della religione
cristiana, ad una riprovazione tout court del gioco 49. Viene vietato agli eccle-
siastici di giocare ai dadi e di fare amicizia con i giocatori, ma anche di essere
spettatori di tale gioco o partecipare a gare ippiche e di scommettere sul loro
esito, pur se si demandi ad altri la scommessa. Le sanzioni saranno applicate
non solo ai trasgressori, ma anche a coloro che non li puniscono 50. Tale di-

46
Si è molto discusso sull’identificazione di tali giochi. Sul punto vd. E. NARDI,
Monobolo & C, in Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, ora in Scritti in
onore di A. Falzea, 4, Milano 1991, 297 ss. Cappuccio, Rien de mauvais, cit., 35, li iden-
tifica con una variante del quinquertium e ricorda il commento di Teodoro Balsamone,
autore della metà del XII secolo, il quale afferma che monobolo è detta la corsa, conto-
monobolo è il salto, cuntano contace senza la fibula il lancio senza la fibula di ferro,
pericuté la lotta e ippica la corsa dei cavalli.
47
CI. 3.43.2: Imperator Iustinianus: Proibemus etiam, ne sint equi lignei: sed si quis ex
hac occasione vincitur, hoc ipse recuperet: domibus eorum publicatis, ubi haec reperiuntur. Si
autem noluerit recipere is qui dedit, procurator noster hoc inquirat et in opus publicum
convertat. Similiter provideant iudices, ut a blasphemiis et periuriis, quae ipsorum inhibi-
tioonibus debent conprimi, omnes penitus conquiescant.
48
Non si sa nulla di preciso su tale gioco. Sembra si trattasse di una struttura di legno,
composta da vari gradini su cui erano stati praticati dei fori; i giocatori ponevano sui gradini
quattro palline di colore diverso poi le lasciavano cadere e la prima delle palline che, pas-
sando attraverso i fori, usciva dall’ultimo di essi, assegnava la vittoria a colui che aveva pun-
tato su quella pallina: vd. A. BOTTIGLIERI, Il gioco d’azzardo, cit., 56 nt. 25 e POLETTI, s.v.
Giochi vietati, cit., 72, che lo identifica con un gioco simile alla nostra roulette.
49
Ne fanno fede numerose opere di scrittori cristiani, la più significativa delle quali è
Pseud. CIPRIANO, Il gioco dei dadi, a cura di C. NUCCI, Bologna, 2005, 76 ss., scritta da un
vescovo preoccupato per il diffondersi del gioco d’azzardo.
50
CI. 1.4.34.1-7 part. 7: … Et si quaestione ex omni parte divinis oraculis propositis
instituta accusatio iusta esset apparebit et probabitur diaconum vel presbyterum aut aleatorem
94 Anna Bottiglieri

vieto è ribadito in Nov. 123 51 per gli ecclesiastici che partecipino anche co-
me semplici spettatori al gioco del tavoliere. In caso di trasgressione saranno
sospesi dalle loro funzioni per tre anni e rinchiusi in un monastero.
Il gioco d’azzardo fu avversato in tutte le epoche, anche se vi fu un pe-
riodo in cui si cercò di allargare le maglie della legislazione introducendo
per gli aleatores la possibilità di scommettere sui giochi che si svolgevano
virtutis causa. Quando i giochi atletici vennero esercitati da professionisti,
che ricavavano lauti guadagni dalla loro attività, cambiò anche l’atteggia-
mento del legislatore, che introdusse restrizioni sempre più stringenti per i
giocatori fino a vietare il gioco, sanzionandolo pesantemente. Un ulteriore
colpo in tal senso fu fornito dall’affermarsi della religione cristiana, i cui
ministri teorizzarono che il gioco d’azzardo era opera del diavolo 52 e per
tale ragione era fatto assoluto divieto ai fedeli di praticarlo. Tale concezio-
ne verrà recepita dalla legislazione del tardo impero e influenzerà notevol-
mente anche le epoche successive.

esse aut cum aleatoribus conversatum esse aut eiusmodi vanitatibus adsedisse aut memoratis
spectaculis interfuisse, vel fortasse etiam religiosissimorum episcoporum quis (quod plane non
eventurum confidimus) tale spectaculum passus erit vel tesseris ludentibus adsidere et cum iis
esse in futurum ausus erit, talis statim a beatitudine tua vel a metropolita vel religiosissimo
episcopo sub quo constitutus est, si e clericis qui dicuntur est, a sacro ministerio removeatur
eique canonica poena imponatur et tempus definiatur, intra quod eum conveniat ieiunia ac
supplicationes subeundo magnum deum super tali delicto placare.
51
Nov. 123.10.1: Interdicimus autem sanctissimis episcopis et presbyteris et diaconibus et
subdiaconibus et lectoribus et omnia lii cuiuslibet venerandi collegii aut schematis constitutis ad
tabulam ludere aut talia ludentibus participes aut inspectores fieri aut ad quodlibet spectaculum
spectandi gratia venire. Si quis autem ex eis hoc delinquerit, iubemus hunc in tribus annis
venerabili ministerio prohiberi et monasterio redigi. Si autem in medio tempore ostenderit
dignam sui vitii paenitentiam, liceat et sacerdoti sub quo constitutus est minuere tempus et hunc
rursus proprio reddere ministerio, scvientibus quoque sanctissimis episacopis debentibus haec
vindicare, quia si tale agnoscentes non vindicaverint, ipsi rationem deo pro tali cauisa persolvent.
52
Pseud. CIPRIANO, Il gioco dei dadi, cit., 89 ss. Un esempio è fornito dall’omelia di
questo vescovo, il quale afferma che nel gioco dei dadi è presente il laccio del diavolo, che
inietta il mortale veleno del serpente; la mano che lancia i dadi è una mano abituata ad
un’occupazione viziosa; tutto il gioco è un male provocato dal diavolo.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 95

Disciplina privatistica classica


del gioco d’azzardo vietato
Paola Ziliotto

SOMMARIO: 1. Il contenuto del titolo 11.5 ‘De aleatoribus’ del Digesto. – 2. ‘Exceptio nego-
tii in alea gesti’ e ‘denegatio actionis’. – 3. L’azione per la ripetizione delle perdite paga-
te. – 4. Paul. 19 ‘ad ed.’ D. 11.5.4.1 e le tracce di una pena da perseguire nelle forme
del processo civile contro il giocatore che abbia incassato la vincita. Il divieto senatorio
di ‘in pecuniam ludere’ e l’azione di ripetizione pretoria non penale. – 5. ‘Exceptio negotii
in alea gesti’, ‘denegatio actionis’ e azione di ripetizione.

1. Il contenuto del titolo 11.5 ‘De aleatoribus’ del Digesto

Il breve titolo 11.5 del Digesto 1, a dispetto della rubrica De aleatoribus,


solo in parte è dedicato ai giocatori d’azzardo 2, che fra l’altro non sono

1
Come ha notato E. VALIÑO, ‘Actiones utiles’, Pamplona, 1974, 202, si tratta di un tito-
lo poco studiato. Si vedano essenzialmente F. GLÜCK, Commentario alle Pandette, XI, Mi-
lano, 1903, 533; C. SCHOENHARDT, ‘Alea’. Über die Bestrafung des Glücksspiels im älteren
römischen Recht. Eine Strafrechtsgeschichtliche Studie, Stuttgart, 1885, che però se ne oc-
cupa solo sotto il profilo del diritto penale; O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, Leip-
zig, 1901, 1347 ss.; M. KURYŁOWICZ, Die Glücksspiele und das römische Recht, in Studi in
onore di C. Sanfilippo, IV, Milano, 1983, 278 ss.; ID., Das Glücksspiel im römischen Recht,
in ZSS, CII, 1985, 185 ss.; G. IMPALLOMENI, In tema di gioco, in Sodalitas. Scritti in onore di
A. Guarino, V, Napoli, 1984, 2331 ss., ora in Scritti di diritto romano e tradizione romani-
stica, Padova, 1996, 499 ss.; A. POLLERA, In tema di repressione del gioco d’azzardo: dati e
problemi, in Studi per L. de Sarlo, Milano, 1989, 519 ss.; E. NARDI, Monobolo & C., in Scrit-
ti in onore di A. Falzea, IV, Milano, 1991, 299 ss.; M.G. ZOZ, Fondamenti romanistici del
diritto europeo. Aspetti e prospettive di ricerca, Torino, 2007, 61 ss.; S. BREMBILLA, ‘Provocat
me in aleam ut ego ludam’. Scommessa e giuoco nella prospettiva della dottrina e delle fonti,
in SDHI, LXXV, 2009, 331 ss., spec. 343 ss.
2
A scanso di equivoci dico subito che, quando parlo di gioco d’azzardo, non intendo
riferirmi a uno specifico gioco d’azzardo, ma a qualunque gioco dal cui esito incerto (di-
96 Paola Ziliotto

mai chiamati aleatores 3-4. Esso infatti consta di soli quattro frammenti, dei
quali il primo e più lungo (di Ulpiano), nonché il principium del secondo
(di Paolo), riguardano un editto del pretore relativo a colui apud quem alea
lusum esse dicetur, cioè al susceptor (al quale viene negata ogni tutela per il
caso in cui sia stato vittima di ingiurie, danni o furti), e a colui qui aleae
ludendae causa vim intulerit (al quale sarà irrogata una pena diversa a se-
conda delle circostanze del caso concreto) 5. Di seguito vengono menziona-
ti un non meglio precisato senatoconsulto che vetuit in pecuniam ludere,
salvo nelle gare che si fanno virtutis causa, quali il lancio del giavellotto, la
corsa, il salto, la lotta e il pugilato (fr. 2.1); quindi tre leggi altrettanto in-
certe, le leggi Titia, Publicia e Cornelia, in base alle quali, nei certamina fatti
virtutis causa, era lecito etiam sponsionem facere (fr. 3, di Marciano). Nel
quarto e ultimo frammento, di nuovo Paolo, dopo aver ricordato che è per-
messo giocarsi quod in convivio vescendi causa ponitur, si sofferma sui ri-
medi utilizzabili per recuperare la perdita al gioco d’azzardo quando la po-
sta sia stata pagata da uno schiavo o da un filius familias, quando sia stata
ricevuta da uno schiavo, e quando sia stata pagata al parens e al patronus,
caso in cui ex hoc edicto danda est una repetitio utilis.
Questo, in sintesi, il contenuto del titolo De aleatoribus del Digesto.
Dalla sua lettura, alcuni dati saltano subito all’occhio.
Innanzi tutto, salvo a voler identificare le tre leggi menzionate da Mar-
ciano con le leges aleariae di cui è traccia nelle fonti letterarie 6, leggi che

pendente solo dal caso) i giocatori facciano discendere la perdita e la vincita di una somma
di denaro o di altra posta. È chiaro poi che il divieto di gioco per denaro non colpisce il
gioco in sé (v. C. MANENTI, Del giuoco e della scommessa dal punto di vista del diritto priva-
to romano e moderno. Appendice del traduttore, in F. GLÜCK, Commentario, cit., 591 ss.),
bensì per l’appunto il gioco per denaro, l’azzardo, sanzionando, come vedremo, il capere
denaro a titolo di gioco, oppure il negozio di gioco. Sul punto v. S. BREMBILLA, ‘Provocat
me in aleam’, cit., 331 ss., spec. 336 ss., che distingue il gioco, fatto di per sé irrilevante per
il diritto, e la scommessa sull’esito del gioco, negozio vietato o consentito dalla legge.
3
Sul punto v. S. BREMBILLA, ‘Provocat me in aleam’, cit., 331 ss.
4
Sulla rilevanza sociale del fenomeno v. M. KURYŁOWICZ, Die Glücksspiele, cit., 269 ss.;
J. CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, Roma-Bari, 1978, 287 ss.
5
Il testo dell’editto è riportato in Ulp. 23 ad ed. D. 11.5.1 pr.: Praetor ait: ‘Si quis eum,
apud quem alea lusum esse dicetur, verberaverit damnumve ei dederit sive quid eo tempore
[dolo] <e domo> eius subtractum est, iudicium non dabo. in eum, qui aleae ludendae causa
vim intulerit, uti quaeque res erit, animadvertam’. Sulla prima clausola di questo editto, ol-
tre agli autori citati nella nt. 1, v. A. METRO, La ‘denegatio actionis’, Milano, 1972, 111 ss.;
S. SCIORTINO, ‘Denegare iudicium’ e ‘denegare actionem’, in AUPA, LVIII, 2015, 211 ss.
6
Pl. Mil. 164-165: Atque adeo ut ne legi fraudem faciant aleariae,/adcuratote, ut sine talis
domi agitent convivium (per il doppio senso contenuto nel secondo verso, v. C. SCHOENHARDT,
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 97

avrebbero vietato il gioco d’azzardo irrogando agli aleatores non meglio


precisate pene, nel Digesto non sembra restare traccia di sanzioni di carat-
tere penale 7 contro i giocatori d’azzardo: del senatoconsulto si dice infatti
solo che vietò di ludere in pecuniam, salvo che in relazione ai giochi fatti
virtutis causa, senza indicare le conseguenze della violazione del divieto 8; e
delle leggi Titia, Publicia e Cornelia si dice solo che esse riconobbero la li-
ceità anche delle sponsiones fatte in occasione dei giochi atletici 9.
In secondo luogo, dal tenore dell’editto risulta invece chiaramente l’in-
tenzione del pretore di punire tutti coloro che, vuoi ospitando o organiz-
zando il gioco d’azzardo (susceptores), vuoi usando violenza per costringe-
re altri a giocare, favorivano il gioco d’azzardo.
In terzo luogo, come ha notato Lenel 10, risulta che l’editto del pretore
ci è pervenuto in modo incompleto. In Paul. 19 ad ed. D. 11.5.4.2 si legge
infatti che «Adversus parentes et patronos repetitio eius quod in alea lusum
est utilis ex hoc edicto danda est», dal che si deduce che l’editto doveva ac-
cordare una ripetizione in via diretta di quanto perso nel gioco vietato.
In quarto luogo, si nota che la ripetizione è documentata solo per casi
particolari (per le perdite pagate dallo schiavo o dal figlio, per le vincite in-
cassate dallo schiavo 11, e per quelle incassate da parentes e patroni).
Infine, si nota che, in riferimento ai casi in cui è permesso in pecuniam
ludere sulla base del senatoconsulto, non è detto se il vincitore fosse muni-
to di azione contro il perdente 12.
Tenuto conto della incongruenza tra la rubrica e il contenuto del titolo
11.5, della circostanza che l’editto De aleatoribus ci è indubbiamente per-

‘Alea’, cit., 8; M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 193; E. NARDI, Monobolo, cit., 300);
Hor. carm. 3.24.58: Seu malis vetita legibus alea (sul plurale legibus, v. C. SCHOENHARDT,
‘Alea’, cit., 8 s.); Cic. Phil. 2.23.56: Licinium Denticulum de alea condemnatum … Hominem
nequissimum, qui non dubitaret vel in foro alea ludere, lege, quae est de alea, condemnatum.
Esclude che queste leggi possano identificarsi con quelle menzionate da Marciano, C.
SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 15 ss., spec. 18 s. V. però F. GLÜCK, Commentario, cit., 540 s.;
G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 501.
7
Uso qui l’aggettivo ‘penale’ in senso ampio, in riferimento cioè sia a pene irrogabili in
forza della coercitio magistratuale o nell’ambito di processi criminali, sia a pene perseguibi-
li nelle forme del processo privato.
8
Sul punto v. C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 11 ss., spec. 14.
9
Sul punto v. C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 15 ss.
10
O. LENEL, Das Edictum Perpetuum3, Leipzig, 1927, 176.
11
Paul. 19 ad ed. D. 11.5.4.1.
12
Questo problema non sarà peraltro affrontato nel presente studio, dedicato – come si
dirà subito – alla disciplina privatistica del solo gioco vietato (v. però l’ultima nota).
98 Paola Ziliotto

venuto in modo parziale, e forse anche del fatto che non sembra residuare
alcuna traccia delle sanzioni penali comminate agli aleatores, si ha dunque
l’impressione di un titolo incompleto, di un titolo in parte anche oscuro, di
un titolo soprattutto che disciplina aspetti di contorno o di dettaglio rispet-
to a quello che doveva costituire lo ‘zoccolo duro’ della normativa classica
sul gioco d’azzardo e sulle sue conseguenze giuridiche per i giocatori, vale
a dire la disciplina privatistica 13.
Le ragioni della scelta dei Compilatori si possono intuire quando si pas-
si a leggere il titolo 3.43 del Codice giustinianeo 14, il quale, sotto la rubrica
De aleae lusu et aleatoribus, nella edizione di Krüger contiene l’epitome la-
tina di due costituzioni greche di Giustiniano del 529, epitome che può es-
sere integrata con gli indici di Taleleo e di Anatolio. Ebbene, la prima di
queste costituzioni vieta il gioco d’azzardo disciplinandone gli aspetti pri-
vatistici, vale a dire il dovere di restituire quanto ricevuto come vincita e il
diritto di ripetere, con azione che si prescrive in cinquant’anni, quanto pa-
gato come perdita; essa elenca poi cinque giochi nei quali è permesso gio-
care per denaro, ma solo entro i limiti di un solidum, riconoscendo forse in
questo caso il diritto di esigere la vincita. Non è chiaro, invece, se la costi-
tuzione abbia previsto delle sanzioni per i giocatori 15.
Si può dunque facilmente ipotizzare che l’esistenza di questa legge ab-
bia indotto i Commissari giustinianei a considerare, nella compilazione del
Digesto, i soli aspetti della disciplina del gioco d’azzardo non contemplati
nella costituzione di Giustiniano e non contrastanti con essa 16. Ciò nono-
stante, qualche traccia della disciplina privatistica classica del gioco d’az-
zardo vietato è rimasta, e su di essa si concentrerà l’attenzione in questo
studio.

2. ‘Exceptio negotii in alea gesti’ e ‘denegatio actionis’

Innanzitutto, è opinione comune 17 che l’editto De aleatoribus dovesse

13
Comprensiva di una eventuale azione penale esperibile nelle forme del processo per
formulas. Su questa congettura, v. oltre, § 4.
14
Pervenutoci, peraltro, in pessime condizioni: sul punto v. C. SCHOENHARDT, ‘Alea’,
cit., 89 s.
15
Su questa costituzione, oltre agli autori citati nella nt. 1, v. B. BIONDI, Il diritto roma-
no cristiano, II, La giustizia – Le persone, Milano, 1952, 283 s.
16
Cfr. M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 204 s.
17
Cfr. E. NARDI, Monobolo, cit., 306 s.; G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 503 s.; M.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 99

negare l’azione non solo al susceptor per i delitti da questi subiti, ma anche
al giocatore che intendesse agire contro il perdente per ottenere la vincita.
L’ipotesi poggia su di una constatazione di Lenel 18. Lo studioso osserva
infatti che sotto la rubrica Quarum rerum actio non datur (D. 44.5) sono
raccolte alcune eccezioni relative a fatti per i quali, in una precedente parte
dell’editto, era prevista una denegatio actionis. Le eccezioni menzionate so-
no tre e una di queste è l’exceptio negotii in alea gesti 19. Per le altre due,
cioè per l’exceptio iurisiurandi 20 e per l’exceptio onerandae libertatis causa 21,
risulta anche la corrispondente denegatio actionis 22, mentre per il negotium
in alea gestum è documentata la sola eccezione: si ritiene, però, che dovesse
essere contemplata anche la denegatio actionis.
Più incerto resta invece l’ambito di applicazione dei due rimedi, o me-
glio, non è chiaro se l’ambito di applicazione dei due rimedi, denegatio e
exceptio, fosse coincidente.
L’unico caso a noi noto in cui viene utilizzata l’eccezione è infatti quello
tramandato in D. 44.5.2.1 dove il rimedio serve per paralizzare non già la
pretesa del vincitore contro il perdente, bensì quella di un soggetto divenu-
to creditore del giocatore sulla base di un negozio contratto ai fini del gioco.

Paul 71 ad ed. D. 44.5.2.1: Si in alea rem vendam, ut ludam, et evicta re conve-


niar, exceptione summovebitur emptor.

La fattispecie è dunque quella di chi, per procurarsi il denaro da gioca-


re, venda una cosa che viene poi evitta al compratore. In tal caso, se il ven-
ditore venga convenuto, la pretesa del compratore sarà paralizzata con
l’exceptio negotii in alea gesti. Non si capisce se il compratore sia il compa-
gno di gioco del venditore o se sia un terzo estraneo. Entrambe le ipotesi
sono possibili. È chiaro però che nel secondo caso, nel caso cioè in cui il
compratore sia un terzo estraneo al gioco, egli deve essere a conoscenza del
fatto che la controparte negoziale sta vendendo per giocarsi il prezzo, al-

KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 205; A. POLLERA, In tema, cit., 534 s.; M.G. ZOZ, Fon-
damenti, cit., 65.
18
O. LENEL, Das Edictum3, cit., 176, 46 e 512.
19
Paul. 71 ad ed. D. 44.5.2.1; v. anche Ulp. 7 disp. D. 22.3.19.4.
20
Ulp. 76 ad ed. D. 44.5.1 pr.-3; Paul. 71 ad ed. D. 44.5.2 pr.
21
Ulp. 76 ad ed. D. 44.5.1.4-12; Paul. 71 ad ed. D. 44.5.2.2; v. anche Paul. 3 ad Plaut.
D. 44.1.7.1.
22
Per il giuramento, v. Ulp. 22 ad ed. D. 12.2.7; Ulp. 22 ad ed. D. 12.2.9 pr. Per l’onere im-
posto alla libertà, v. O. LENEL, Das Edictum3, cit., 338, in riferimento a Ulp. 38 ad. ed. D. 38.1.2.
100 Paola Ziliotto

trimenti fra la tutela del giocatore/venditore e quella del compratore pre-


varrebbe inspiegabilmente la prima. Nei confronti del terzo estraneo a co-
noscenza del fatto che la vendita è fatta ai fini del gioco, invece, così come
nei confronti del compagno di gioco, l’eccezione si spiega nel quadro più
generale di un sistema di rimedi diretti a penalizzare tutti coloro che in un
modo o nell’altro favoriscono il gioco d’azzardo.
Tornando all’ambito di applicazione della eccezione e della corrispon-
dente denegatio actionis, il passo esaminato potrebbe indurre a credere che
la denegatio operasse nei confronti del giocatore che intendesse agire per il
conseguimento della vincita al gioco e che l’exceptio mirasse invece a para-
lizzare pretese diverse da quelle del vincitore, ossia le pretese azionabili
sulla base di negozi conclusi dal convenuto a fini di gioco.
Per lo più si ritiene però che l’eccezione fosse opponibile anche al vinci-
tore 23.
Kuryłowicz ha in particolare osservato che, nel caso in cui il debito di
gioco non fosse stato pagato subito ma fosse stato promesso nella forma
della stipulatio, tale stipulatio sarebbe stata nulla qualora dal suo tenore si
fosse potuto chiaramente desumere la contrarietà al divieto. Ragion per cui
i giocatori avrebbero fatto ricorso a stipulazioni espresse in forma astratta,
senza cioè allusione alla causa stipulationis, anche per evitare di rendere
manifesta la partecipazione al gioco vietato che li avrebbe esposti alle con-
seguenze penali. Le stipulazioni espresse in forma astratta sarebbero state
valide per il diritto civile, ma il pretore avrebbe paralizzato le pretese su di
esse basate concedendo al convenuto l’exceptio negotii in alea gesti, che
aveva sicuramente applicazione generale nei negozi di gioco 24.
Ammessa l’esattezza di queste considerazioni, viene però da chiedersi in
quali casi il pretore avrebbe potuto denegare l’azione al vincitore contro il
perdente. L’interrogativo si pone perché, escluso che i giocatori si impe-
gnassero con stipulazioni ‘titolate’ nulle, il loro accordo o veniva versato
nella ipotizzata stipulatio astratta, e allora la pretesa del vincitore sarebbe
stata paralizzabile in via di eccezione, oppure restava un nudo patto ac-
compagnato o meno dal versamento anticipato della posta in gioco, even-
tualmente anche nelle mani di un terzo. Nel caso del nudo patto senza ver-
samento anticipato della posta, il vincitore, anche a prescindere dalla con-
trarietà dell’accordo ai precetti normativi contenuti nelle fonti autoritative,
non avrebbe avuto azione, in quanto dal nudo patto non nasce azione. Nel-
l’altro caso, invece, quello cioè del nudo patto accompagnato dal versa-

23
Così G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 504; M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 206.
24
M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 206.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 101

mento anticipato della posta, il vincitore non avrebbe mai avuto necessità
di agire contro il perdente perché o la posta era sul tavolo, e allora se la sa-
rebbe accaparrata, oppure era stata consegnata a un terzo, e allora, in caso
di mancata restituzione, avrebbe semmai dovuto agire contro questi 25. E
allora, delle due l’una: o si ritiene che la pretesa del vincitore potesse essere
paralizzata solo in via di eccezione e si ipotizza un diverso ambito di appli-
cazione della denegatio actionis; o si ritiene che l’azione potesse essere non
solo paralizzata in via di eccezione, ma anche denegata dal pretore, cosa
però che non è detta da Kuryłowicz.
Del resto, l’ipotesi avanzata dallo studioso poggia sull’idea della nullità
del negozio avente ad oggetto un gioco vietato 26, idea che però non è paci-
fica in dottrina. In particolare, Giambattista Impallomeni ritiene che il ne-
gozio di gioco, ancorché vietato, fosse tuttavia valido salvo il caso in cui
sfociasse nella turpitudine 27. La validità del negozio di gioco vietato risul-
terebbe da D. 19.5.17.5, testo ritenuto particolarmente attendibile in quan-
to fuori della sedes materiae.

Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.5: Si quis sponsionis causa anulos acceperit nec reddit
victori, praescriptis verbis actio in eum competit: nec enim recipienda est Sabini
opinio, qui condici et furti agi ex hac causa putat: quemadmodum enim rei nomi-
ne, cuius neque possessionem neque dominium victor habuit, aget furti? plane si
inhonesta causa sponsionis fuit, sui anuli dumtaxat repetitio erit.

Secondo Impallomeni, il caso contemplato nel passo sarebbe quello di


due giocatori che, vincolatisi vicendevolmente mediante sponsio, avevano
consegnato i rispettivi anelli a un terzo fiduciario che li avrebbe dovuti re-
stituire entrambi al vincitore. Secondo Ulpiano, l’inadempimento del fidu-
ciario avrebbe consentito al vincitore di agire con l’actio praescriptis verbis 28,
salvo che la causa sponsionis fosse inhonesta: in tal caso, infatti, entrambi
gli scommettitori avrebbero potuto ripetere il rispettivo anello. Dall’inse-

25
Si potrebbe ipotizzare il caso che il terzo, anziché consegnare al vincitore la posta an-
ticipatamente versata dal perdente, la abbia restituita al perdente, e che dunque il vincito-
re, intenzionato a ottenere la soddisfazione del credito di gioco, debba rivolgersi al compa-
gno sconfitto. In tal caso, però, si ritorna all’ipotesi precedente, ossia che il vincitore sa-
rebbe munito di azione nel solo caso di accordo versato in una stipulatio astratta.
26
Nullità che i giocatori avrebbero aggirato ricorrendo alle stipulazioni astratte.
27
G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 499 ss., seguito da M.G. ZOZ, Fondamenti, cit., 64.
28
Sulla diversa soluzione di Sabino e di Ulpiano, v. M. KASER, Aktivlegitimation zur ‘ac-
tio furti’, in ‘De iustitia et iure’. Festgabe für U. von Lübtow zum 80. Geburtstag, Berlin,
1980, 310 s.
102 Paola Ziliotto

gnamento di Ulpiano si ricaverebbe dunque il seguente corollario: «Il ne-


gozio di gioco, nel caso la sponsio, non deve ritenersi invalido ancorché vie-
tato. Diverrebbe invalido qualora sfociasse nella turpitudine». Secondo lo
studioso, quindi, i rimedi di tipo privatistico di cui ci stiamo occupando,
cioè denegatio actionis ed exceptio 29, operavano all’esterno del negozio sen-
za intaccarne la validità 30. Tale validità, a sua volta, discenderebbe dal fat-
to che il primo intervento repressivo del gioco d’azzardo si sarebbe verifi-
cato in ambito pubblicistico ad opera delle tre leggi ricordate da Marciano
in D. 11.5.3 31, le quali avrebbero stabilito che fosse lecito anche il ricorso
alla sponsio in caso di gioco virtutis causa, mentre negli altri casi sarebbe
stato illecito. Secondo Impallomeni, infatti, si sarebbe trattato di leggi mi-
nus quam perfectae che avrebbero previsto una pena pubblica per i con-
traenti (e presumibilmente anche per gli organizzatori), senza toccare la va-
lidità del negozio di gioco. Solo così, infatti, si riuscirebbe a intendere l’uti-
lità della denegatio actionis introdotta dal pretore contro il vincitore. Ri-
medio che, data la lacuna delle fonti, Impallomeni ipotizza della stessa am-
piezza dell’exceptio negotii in alea gesti: come l’exceptio, la denegatio avreb-
be cioè coinvolto non solo i rapporti contrattuali tra giocatori, ma anche
quelli tra giocatori ed estranei.
La tesi di Impallomeni convince nella parte in cui afferma che i rimedi
pretori della denegatio e dell’exceptio presuppongono l’azionabilità di una
pretesa basata su di un negozio valido per il diritto civile. Meno persuasiva
è invece la sua interpretazione di D. 19.5.17.5. Innanzitutto, il testo parla
di una scommessa in generale 32, senza cioè specificare se essa si riferisca al-
l’esito di un gioco (proibito o lecito), all’esito dell’accertamento relativo al-
la esistenza o inesistenza di un determinato fatto (scommettiamo che il re
dei Parti è vivo?), o all’esito dell’accadimento o non accadimento di un de-
terminato fatto (scommettiamo che uscirò in pubblico vestito da donna?),

29
E la repetitio del pagato (sulla quale v. oltre, §§ 3 e 4), nonché quelli di ordine pub-
blicistico, come eventuali ammende.
30
Se non capisco male, quindi, il negozio di gioco vietato ma non turpe, in quanto vali-
do, avrebbe consentito al vincitore, al pari del negozio di gioco permesso, la richiesta di
restituzione di entrambi gli anelli tramite actio praescriptis verbis, azione che però avrebbe
potuto essere paralizzata dal pretore con la denegatio actionis o con l’exceptio negotii in
alea gesti. Nel solo caso di negozio vietato e turpe, infatti, l’invalidità del negozio avrebbe
consentito al vincitore esclusivamente la repetitio del proprio anello.
31
Leggi che G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 501 s. (seguito da M.G. Zoz, Fondamenti,
cit., 64) identifica con le leges aleariae tramandate nelle fonti letterarie (v. sopra, nt. 6).
32
B. WINDSCHEID, Diritto delle Pandette, II, trad. it., Torino, 1925, 626, e nt. 5, 629, e
nt. 2.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 103

etc. In secondo luogo, anche ammesso che la scommessa si riferisca all’e-


sito di un gioco, non si può escludere che essa, se collegata a un gioco d’az-
zardo vietato ancorché non turpe, costituisse per Ulpiano un caso di scom-
messa con causa inhonesta. Non si può infatti dimenticare che agli occhi di
Ulpiano gli aleatores erano indigni al pari dei susceptores 33, e che anche
nelle fonti giuridiche la figura dell’aleator si trova accostata a quella del la-
dro e dell’adultero 34. In terzo luogo, anche ammesso che la causa inhonesta
alluda al gioco turpe, non è detto che la sponsio sia invalida: questa conclu-
sione sarebbe infatti possibile solo ipotizzando che la parola causa sia qui
utilizzata in senso generico, cioè in riferimento a una turpitudo che risulti
dalla formulazione della sponsio (come oggetto della promessa o come con-
dizione); se invece l’espressione causa inhonesta allude alla causa di una
sponsio formulata in modo astratto, il negozio di gioco sarebbe valido per
ius civile e ‘invalidabile’ solo tramite exceptio 35, al pari di quello vietato an-
corché non turpe. Per tutte queste ragioni non mi pare quindi che il testo
di Ulpiano consenta le conclusioni che ne ha tratto Impallomeni (validità
del negozio di gioco vietato purché non sfoci nella turpitudine).
Chiusa questa digressione sulle ragioni per le quali non mi pare convin-
cente l’interpretazione di D. 19.5.17.5 offerta da Impallomeni, digressione
occasionata dalla considerazione che l’analizzata ipotesi di Kuryłowicz pog-
gia su di un’idea di nullità del negozio avente ad oggetto il gioco d’azzardo
non da tutti condivisa, va solo aggiunto che, rispetto al problema dell’am-
bito di applicazione di denegatio ed exceptio, la già menzionata risposta di
Impallomeni (probabile eguale estensione dei due rimedi, che avrebbero
entrambi coinvolto sia i rapporti contrattuali tra giocatori sia quelli tra gio-
catori ed estranei) non poggia su testi ulteriori rispetto a D. 44.5.2.1. Se
dunque nella sua ricostruzione si riesce a ipotizzare una denegatio diretta
a respingere la pretesa del vincitore nei confronti del perdente, più diffi-

33
Ulp. 23 ad ed. D. 11.5.1.1: Si rapinas fecerint inter se collusores, vi bonorum raptorum
non denegabitur actio: susceptorem enim dumtaxat prohibuit vindicari, non et collusores,
quamvis et hi indigni videantur.
34
Ulp. 1 ad ed. aed. cur. D. 21.1.19.1; Tryph. 1 disp. D. 50.16.225; Pomp. 12 ad Sab. D.
17.2.59.1 (sul quale v. F. STURM, Gesellschafterausgaben für Weib und Würfel, in Iura,
XXX, 1979, 78 ss.). Sul punto e per le fonti letterarie, v. M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel,
cit., 207, nt. 99, ID., Die Glücksspiele, cit., 274 s.; S. BREMBILLA, ‘Provocat me in aleam’, cit.,
332 s.
35
Cfr. Paul. 3 quaest. D. 12.5.8: Si ob turpem causam promiseris Titio, quamvis, si petat,
exceptione doli mali vel in factum summovere eum possis, tamen si solveris, non posse te re-
petere, …. Sul punto v. M. KASER, Über Verbotsgesetze und verbotswidrige Geschäfte im
römischen Recht, Wien, 1977, 80 ss., spec. 86 s.
104 Paola Ziliotto

cile è immaginare in quali casi l’azione avrebbe potuto essere denegata a


un terzo 36.

3. L’azione per la ripetizione delle perdite pagate

Come già anticipato, un secondo punto della disciplina privatistica del


quale sembra restare traccia nel titolo 11.5 del Digesto riguarda la generale
ripetibilità della perdita pagata. Essa è invero testimoniata per casi partico-
lari, ossia a favore del padre e del padrone per la perdita pagata dallo
schiavo e dal figlio, contro il padrone per la vincita incassata dal suo schia-
vo, e contro parentes e patroni. Manca invece una esplicita testimonianza
della esistenza di un rimedio restitutorio di carattere generale, utilizzabile
cioè da qualunque giocatore sconfitto. Questa circostanza, il fatto cioè che
l’azione di ripetizione sia attestata solo per casi che coinvolgono schiavi e
figli, parentes e patroni, potrebbe far pensare all’esigenza di una particolare
tutela, ma anche a un taglio dei Compilatori: in effetti, la presenza nel-
l’editto del pretore di una generale azione di ripetizione sembra potersi ri-
cavare da D. 11.5.4.2, nel quale Paolo, commentando l’editto De aleatoribus,
parla di una repetitio utilis che deve essere data ex hoc edicto contro parentes
e patroni. L’interpretazione del passo è però controversa e variamente col-
legata a quanto precede: è quindi opportuno riportare le precedenti parti
del commentario paolino solitamente richiamate per la spiegazione del
frammento in esame.

Paul. 19 ad ed. D. 11.5.2. pr.: solent enim quidam et cogere ad lusum vel ab ini-
tio vel victi dum retinent. 1. Senatus consultum vetuit in pecuniam ludere, prae-
terquam si quis certet hasta vel pilo iaciendo vel currendo saliendo luctando pu-
gnando quod virtutis causa fiat.

Paul. 19 ad ed. D. 11.5.4 pr.: Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam

36
Salvo ipotizzare che, nel caso contemplato in Ulp. 31 ad ed. D. 17.1.12.11 (Si adule-
scens luxuriosus mandet tibi, ut pro meretrice fideiubeas, idque tu sciens mandatum susceperis,
non habebis mandati actionem, quia simile est, quasi perdituro pecuniam sciens credideris), si
sarebbe denegata l’azione per la restituzione a chi avesse consapevolmente fatto un mutuo
a chi intendeva utilizzare il denaro per un gioco vietato: in questo senso v. F. GLÜCK, Com-
mentario, cit., 549 ss. Ammesso che la parte finale del passo possa riferirsi (anche) al caso
del prestito fatto a fini di gioco, il silenzio del testo spingerebbe però a credere che la pre-
tesa del mutuante sarebbe stata paralizzata non già con una denegatio actionis, bensì con
una exceptio negotii in alea gesti, così come la pretesa del compratore evitto (D. 44.5.2.1)
di cui si è detto all’inizio di questo paragrafo.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 105

rem familia 37 ludere permittitur. 1. Si servus vel filius familias victus fuerit, patri
vel domino competit repetitio. item si servus acceperit pecuniam, dabitur in do-
minum de peculio actio, non noxalis, quia ex negotio gesto agitur: sed non amplius
cogendus est praestare, quam id quod ex ea re in peculio sit. 2. Adversus parentes
et patronos repetitio eius quod in alea lusum est utilis ex hoc edicto danda est.

Partendo dalla considerazione che il divieto di in pecuniam ludere vige-


va già in forza delle leggi alearie, e che D. 11.5.2.1 non indica quale sia sta-
to il nuovo apporto del senatoconsulto, Impallomeni 38 ipotizza per esclu-
sione che in esso debba ravvisarsi la fonte autoritativa di ius civile che
avrebbe introdotto la ripetibilità delle perdite: il pretore (tramite denegatio
ed exceptio) aveva reso inesigibili le vincite, senza però prevedere la ripeti-
bilità del pagato, e il senato avrebbe completato la disciplina introducendo
l’azione di ripetizione. L’ipotesi sarebbe avvalorata dall’ordine espositivo
seguito da Paolo 39, nonché dalla contrapposizione dei verbi competere e
dare. Completato il commento all’editto De aleatoribus (D. 11.5.2 pr., che
si riferisce alla clausola edittale relativa a coloro che usano la forza per co-
stringere altri a giocare), Paolo sarebbe passato al senatoconsulto (D. 11.5.2.1)
e, dopo una parentesi sulle scommesse vescendi causa (D. 11.5.4 pr.), avreb-
be esaminato la ripetizione (D. 11.5.4.1 e 2): la sistematica dell’esposizione
comproverebbe dunque la relazione tra il senatoconsulto e l’azione per la
ripetizione. Inoltre, nella prima frase di D. 11.5.4.1 è usato il verbo com-
petere, mentre nel seguito del discorso (seconda parte di D. 11.5.4.1 e
D. 11.5.4.2) compare il verbo dare: se ne deduce l’originaria derivazione del-
l’azione di ripetizione dal senatoconsulto e la successiva applicazione della
stessa ad opera del pretore, de peculio contro il padrone per le vincite del
suo schiavo, in via utile contro ascendenti e patroni per espressa previsione
edittale. Per quanto riguarda quest’ultima azione, poi, Impallomeni nota
che parentes e patroni, verso i quali si esige particolare rispetto, sono le
stesse persone indicate nell’editto riportato in D. 2.4.4.1, il quale impone ai
discendenti e ai liberti che intendano agire contro di loro di ottenere dal
pretore la preventiva autorizzazione. Pertanto, discendenti e liberti inten-
zionati ad agire contro parentes e patroni per la restituzione delle perdite al
gioco, una volta conseguita la necessaria autorizzazione, avrebbero potuto

37
alea Cuiacius.
38
G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 505 s., seguito da M.G. ZOZ, Fondamenti, cit., 65.
39
La tesi di Impallomeni è accolta da A. POLLERA, In tema, cit., 538, il quale però poi
(p. 544) ritiene «molto probabile che già l’editto concedesse il diritto generalizzato», rica-
vabile da D. 11.5.4.1-2, «a ripetere quanto era stato perduto e pagato in un gioco illecito».
106 Paola Ziliotto

ottenere l’azione prevista dall’editto in via utile, ossia una azione mantenuta
entro limiti moderati non identificabili se non in via del tutto congetturale
con quanto l’ascendente o il patrono conservasse ancora della vincita 40.
Fermo restando che ci troviamo davanti a un titolo del Digesto oscuro e
lacunoso, e che dunque ogni tentativo di ricostruzione per quanto merite-
vole e ingegnoso presta inevitabilmente il fianco a qualche critica, mi pare
che anche la assai suggestiva ricostruzione di Impallomeni presenti qualche
punto debole che vale la pena di evidenziare.
Innanzi tutto, l’espressione ‘repetitio … utilis ex hoc edicto danda est’ fa
pensare non già a una azione utile prevista nell’editto, ma piuttosto, come
si è detto, a una azione utile che viene accordata sulla base di una azione
(diretta) prevista nell’editto. Del resto, se è vero che i verbi competere e da-
re sono in molti casi usati promiscuamente, cosa che è riconosciuta dallo
stesso Impallomeni 41, non è vero che essi alludano sempre rispettivamente
all’azione civile e a quella pretoria nei contesti in cui appaiono in contrap-
posizione 42: non è quindi detto che quella che competit al padre o al pa-
drone per i debiti di gioco pagati dal figlio o dallo schiavo sia una repetitio
civilis, da contrapporre alle applicazioni pretorie della stessa. Si può quindi
dubitare dell’originaria derivazione dell’azione di ripetizione dal senato-
consulto e ritenere che questa azione fosse invece effettivamente concessa
dal pretore in una parte dell’editto non pervenutaci. Del resto, l’identifica-
zione e la datazione di questo senatoconsulto sono assolutamente incerti 43,

40
In senso analogo, A. POLLERA, In tema, cit., 543 s.
41
G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 505 s., nt. 29; A. METRO, La ‘denegatio’, cit., 85 s., e
nt. 39.
42
Come invece ritiene G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 505 s., nt. 29. V. però, ad esem-
pio, in riferimento all’actio de in rem verso, Scaev. 5 dig. D. 15.3.21 (… quaero, an de in
rem verso adversus patrem actio competat. respondit, … dandam de in rem verso utilem
actionem).
43
Il problema per lo più discusso è se esso abbia preceduto o seguito le leggi Titia, Pu-
blicia e Sempronia (anch’esse di data incerta) menzionate da Marciano in D. 11.5.3. Per la
anteriorità del senatoconsulto, v. C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 11 ss., spec. 72 ss.; P. ROSSI,
L’opinione di Pomponio sulle origini del potere legislativo del senato, in Studi Senesi, VI,
1889, 125; G. CRIFÒ, Attività normativa del senato in età repubblicana, in BIDR, LXXI,
1968, 44 s., il quale inoltre, pur non entrando nel problema della datazione per assenza di
elementi decisivi, lo colloca in età repubblicana; in senso analogo, S. BREMBILLA, ‘Provacat
me in aleam’, cit., 347 s. e 353 s. Per l’anteriorità delle leggi, v. B. LORETI LORINI, Il potere
legislativo del Senato romano, in Studi in onore di P. Bonfante, IV, Milano, 1930, 389, la
quale afferma che nulla proverebbe l’anteriorità del senatoconsulto, a suo avviso risalente
all’età imperiale; in senso analogo, A. POLLERA, In tema, cit., 537 s. e nt. 42; in forma del
tutto congetturale, E. NARDI, Monobolo, cit., 305.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 107

e dunque è anche possibile che esso abbia preceduto l’editto del pretore 44.
Volendo attenersi all’ordine espositivo di Paolo, si potrebbe allora anche
ipotizzare che egli, dopo il commento all’editto relativo ai susceptores e a
coloro che usano la violenza per indurre altri a giocare, abbia ricordato la
delibera del senato relativa al divieto di in pecuniam ludere, in base alla
quale il pretore avrebbe concesso fra l’altro l’azione di ripetizione 45.
A una azione di ripetizione concessa dal pretore pensa anche Kuryło-
wicz 46. Egli parte dalla considerazione che la repetitio, menzionata in D.
11.5.4.1-2 come anche nella parte finale di D. 19.5.17.5 47, potrebbe astrat-
tamente essere tanto una rei vindicatio, quanto una condictio. Escluso, pe-
rò, che si trattasse di una rei vindicatio per la pratica impossibilità di una
identificazione delle monete presso il destinatario, egli si domanda a quale
condictio farebbero riferimento i testi citati. D. 19.5.17.5, nella parte in cui
parla della repetitio per il caso della inhonesta causa sponsionis, potrebbe
far pensare alla condictio ob turpem causam 48. L’ipotesi viene però scartata
perché in contrasto con la regola ‘ubi autem et dantis et accipientis turpitudo
versatur, non posse repeti’ (Paul. 10 ad Sab. D. 12.5.3) 49. E vengono scarta-
te pure le ipotesi di una condictio ob iniustam causam e di una condictio in-
debiti 50, in quanto non suffragate da dati testuali. Lo studioso pensa quindi
che, essendo stata giudicata inapplicabile la condictio del ius civile, il preto-
re avrebbe colmato il vuoto con il suo editto De aleatoribus, con il quale
avrebbe accordato al perdente una actio in factum 51 per la ripetizione (re-

44
Come ritiene H. KRÜGER, Verweisungsedikte im prätorischen Album, in ZSS, L, 1916,
296 s.
45
Sul punto si tornerà nel § 4.
46
M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 206 ss. e 209.
47
Riportato sopra, § 2.
48
In questo senso, v. R. VON MAYR, Die ‘condictio’ des römischen Privatrechtes, Leipzig,
1900, 159; F. SCHWARZ, Die Grundlage der ‘condictio’ im klassischen römischen Recht,
Münster-Köln, 1952, 183, nt. 42.
49
A questo proposito, M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 207, evidenzia da un la-
to la turpitudo di entrambi i giocatori derivante dal divieto di gioco, dall’altro il frequen-
te paragone dell’alea a stuprum e adulterium (lo studioso cita Cic. Catil. 2.10; 2.23; Iuv.
11.176 s.; Plin. pan. 82.9; Quint. Inst. 2.4.22; Sen. ben. 7.16.3; Svet. Cl. 5; Vit. 4; Macr.
Sat. 3.16.15; Pomp. 12 ad Sab. D. 17.2.59.1) entrambi assoggettati alla regola di Paul. 10
ad Sab. D. 12.5.3 (Ulp. 26 ad ed. D. 12.5.4 pr.).
50
Entrambe sostenute da E. VALIÑO, la prima in Las relaciones básicas de las acciones
adyecticias, in AHDE, XXXVIII, 1968, 431, e la seconda in ‘Actiones’, cit., 203.
51
A una actio in factum pensa anche O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit.,
1348.
108 Paola Ziliotto

petitio ex hoc edicto, Paul. D. 11.5.4.2) 52. Per quanto riguarda la fattispecie
considerata in D. 11.5.4.2, lo studioso pensa che essa sia la stessa contem-
plata nella seconda parte di D. 11.5.4.1 (dove viene accordata l’actio de pe-
culio contro il padrone e, a suo modo di vedere, anche contro il padre del-
lo schiavo e del figlio che abbiano incassato denaro vinto al gioco 53). La
particolarità starebbe nel fatto che, dopo aver vinto, lo schiavo sarebbe sta-
to manomesso e il filius familias emancipato: l’azione sarebbe perciò ac-
cordata in via utile perché lo schiavo e il figlio non erano più soggetti a po-
testà.
Se l’idea di una azione di ripetizione concessa dal pretore mi pare con-
vincente, altrettanto non posso dire per l’interpretazione di D. 11.5.4.2 of-
ferta da Kuryłowicz. Una volta promessa nell’editto l’azione di ripetizione
e una volta riconosciuto che il padrone dello schiavo (o il padre del filius
familias) poteva essere convenuto de peculio per le vincite incassate dal
soggetto a potestà ‘quia ex negotio gesto agitur’, nel caso in cui lo schiavo
fosse stato successivamente manomesso (o il figlio fosse stato successiva-
mente emancipato), non sarebbe stato necessario il ricorso a una repetitio
utilis, potendosi applicare le regole generali dettate in tema di actio de pe-
culio per il caso di cessazione del rapporto potestativo conseguente a ma-
nomissione ed emancipazione 54. Assai più probabile pare dunque l’ipotesi
secondo la quale la repetitio utilis di cui in D. 11.5.4.2 alluda all’azione
esperibile da figli emancipati e da schiavi manomessi per i debiti di gioco
pagati a parentes e patroni 55.

52
Non vi sarebbe però, secondo lo studioso, una relazione tra questo editto e il senatu-
sconsultum di cui in Paul. 19 ad ed. D. 11.5.2.1, in quanto la delibera del senato sarebbe
l’ultimo provvedimento di età classica a noi noto in materia di alea: M. KURYŁOWICZ, Das
Glücksspiel, cit., 196 s.
53
M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 209 ss.
54
Cfr. A. BURDESE, Diritto privato romano3, Torino, 1975, 510 s.; M. TALAMANCA, Istitu-
zioni di diritto romano, Milano, 1990, 88. Ancora meno convincente è la tesi di E. VALIÑO,
‘Actiones’, cit., 203, il quale ipotizza che l’azione utile fosse esperibile per far valere la resti-
tuzione delle vincite incassate dai figli emancipati e dagli schiavi manomessi e poi trasmes-
se ai loro parentes manumissores e patroni che sarebbero stati gli impresari del gioco: la
condictio sarebbe data in via utile perché gli impresari ricevevano la datio non direttamen-
te, ma per il tramite dei figli emancipati e degli schiavi manomessi, e dunque la finzione
inserita nella formula sarebbe stata o che figli emancipati e schiavi manomessi fossero filii
familias e servi, oppure che il pagamento del debito di gioco fosse stato fatto direttamente
a parentes manumissores e patroni. Come ha notato anche M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel,
cit., 212, nt. 118, questa ipotesi oltrepassa i limiti del testo.
55
In questo senso, oltre G. IMPALLOMENI, In tema, cit., 506, v. già anche F. GLÜCK, Com-
mentario, cit., 548; G.R. POTHIER, in Opere contenenti i trattati del diritto francese, I ed. ita-
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 109

4. Paul. 19 ‘ad ed.’ D. 11.5.4.1 e le tracce di una pena da perseguire


nelle forme del processo civile contro il giocatore che abbia incassato
la vincita. Il divieto senatorio di ‘in pecuniam ludere’ e l’azione di
ripetizione pretoria non penale

Resta infine un’ultima traccia della disciplina privatistica sulla quale


nessuno, mi pare, ha fermato l’attenzione. Essa si trova in D. 11.5.4.1, dove
il giurista, a proposito dell’azione da concedere contro il padrone per le
vincite incassate dallo schiavo, dice che essa è una actio de peculio, e non
noxalis, quia ex negotio gesto agitur 56. Ora, a me pare che se Paolo sente il
bisogno di specificarlo, ciò significa che qualche dubbio ci poteva essere.
Occorre dunque fare un passo indietro e fermare per un momento l’at-
tenzione sulle considerazioni fatte soprattutto dalla dottrina meno recente
a proposito della lex alearia o delle leges aleariae di cui è traccia nelle fonti
letterarie 57. È opinione pressoché indiscussa che questa legge, o almeno la
più antica di queste leggi 58, avrebbe previsto una poena quadrupli 59. È in-

liana, II, Livorno, 1836, 174, secondo il quale figli e liberti non erano ammessi a intentare
l’azione diretta in quanto famosa: a figli e liberti veniva dunque concessa un’azione utilis o in
factum che non portava con sé l’infamia del condannato; Lenel, il quale, nella prima edizione
dell’Edictum Perpetuum (O. LENEL, Das Edictum Perpetuum, Leipzig, 1883, 135, e nt. 10),
riteneva che l’azione di ripetizione fosse accordata in via utile contro parentes e patroni in
quanto quella prevista nell’editto probabilmente prevedeva un supplemento a titolo di pena;
O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit., 1348, il quale, escluso che l’azione diretta fosse
infamante, ritiene che essa non fosse esperibile contro parentes e patroni in quanto, essendo
concepita in factum, avrebbe menzionato nell’intentio la circostanza che l’oggetto della repe-
titio era stato vinto in alea dal convenuto; e siccome il guadagno al gioco era immorale, con-
tro parentes e patroni si sarebbe concessa una actio utilis priva di questo riferimento.
56
Il dato viene evidenziato da O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit., 1348, per
rilevare che l’azione non era penale e che dunque l’affermazione di Paolo impedisce di ac-
cogliere l’idea avanzata da Lenel (ricordata nella nota precedente), secondo il quale l’azio-
ne di ripetizione prevedeva probabilmente un supplemento a titolo di pena. Sulla base del-
la giusta osservazione di Karlowa, Lenel ritratterà la sua precedente ipotesi, affermando
che non si può ipotizzare un supplemento penale (O. LENEL, Das Edictum3, cit., 176, nt. 6).
Per un rilievo relativo alla vasta concezione di negotium gestum emergente dal passo, v. E.
LEVY, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klassischen römischen Recht, I, Berlin,
1918, 441; M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 210.
57
V. sopra, nt. 6.
58
Vale a dire, quella già nota ai tempi di Plauto (Mil. 164-165, sopra nt. 6), che per lo più
è datata al 204 a.C. (v. la lett. citata in S. BREMBILLA, ‘Provocat me in aleam’, cit., 342, nt. 25).
59
L’ipotesi poggia sullo scolio del Ps. Ascon. in div. 24: … alii dicunt quadruplatores es-
se eorum reorum accusatores, qui convicti quadrupli damnari soleant, [aut] <ut> aleae aut
pecuniae gravioribus usuris foeneratis … Sul punto v. W. REIN, Das Criminalrecht der
110 Paola Ziliotto

vece discusso se gli aleatores fossero puniti nell’ambito del processo civile
o nell’ambito di quello criminale 60. L’unico autore che ha studiato a fondo
il tema delle conseguenze penali del gioco d’azzardo 61, ipotizza però che le
diverse leggi alearie succedutesi nel tempo avrebbero previsto diverse pe-
ne: una più antica poena quadrupli esigibile nella forma della manus iniectio
pura e una più recente multa irrogabile nell’ambito del processo edilizio 62.
A noi interessa la più antica. L’ipotesi avanzata da Schoenhardt è che
l’actio quadrupli ex lege alearia farebbe parte delle azioni difensive teorizza-
te da Jhering 63. La più antica lex alearia, dunque, analogamente alla lex
Furia testamentaria, sarebbe stata una lex minus quam perfecta che avrebbe
consentito a chi avesse perso al gioco di reagire all’azione del creditore o di
prevenirla con una manus iniectio pura per il quadruplum 64-65. Schoenhardt
rileva però come, contro questa sua ipotesi, si potrebbe a ragione obiettare
che considerando il gioco d’azzardo quale fondamento di una azione del

Römer von Romulus bis auf Justinianus, Leipzig, 1844, 833; C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit.,
36 ss.; O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit., 1347; G. HUMBERT, voce ‘Alea’, in
DS, I, 1877, 180; O. LENEL, Das Edictum3, cit., 176, nt. 6; F. DE MARTINO, I ‘quadruplato-
res’ nel ‘Persa’ di Plauto, in Labeo, I, 1955, 43 s.; F. LA ROSA, Note sui ‘tresviri capitales’, in
Labeo, III, 1957, 238, nt. 28; G. LONGO, voce ‘Lex alearia’, in Noviss. dig. it., IX, Torino,
1968, 769; F. STURM, Gesellschafterausgaben, cit., 81; S. DI SALVO, ‘Lex Laetoria’. Minore età
e crisi sociale tra il III e il II a.C., Napoli, 1979, 135 s. e nt. 91; M. KURYŁOWICZ, Das
Glücksspiel, cit., 200; il collegamento della plautina lex alearia con la chiusa di Ps. Ascon.
in div. 24 resta ipotetico per E. NARDI, Monobolo, cit., 300 s. Contro l’idea – sostenuta ad
esempio da TH. MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899, 861, e nt. 4 – che l’alea
fosse punita con l’esilio, v. diffusamente C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 20 ss. Su questa ipo-
tesi, v. anche M. KURYŁOWICZ, Das Glücksspiel, cit., 201 s.
60
Sulla questione v. per tutti C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 39 ss.
61
C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 36 ss.
62
Tale sarebbe stato il processo contro Licinio Denticula cui accenna Cic. Phil. 2.23.56:
C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 45 ss., spec. 55 ss. Per una duplice forma di repressione, pe-
raltro già esistente all’epoca di Plauto, v. anche A. POLLERA, In tema, cit., 522 ss., spec. 526 ss.
63
R. VON JHERING, L’esprit du droit romain dans les diverses phases de son développe-
ment, IV, tr. franc., Paris, 1878, 107 ss.
64
V. anche O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit., 1347, secondo il quale il vin-
citore era damnas a restituire il doppio e la manus iniectio pura esperibile contro di lui au-
mentava al quadruplo se egli negava e manum sibi depellebat.
65
Secondo C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 70 e nt. 4, non è però improbabile che il legi-
slatore, qui come in altri casi, arrivasse al punto di accordare la ‘controazione’ nel quadru-
plo anche se il vincitore avesse accettato il volontario pagamento del debito di gioco. In tal
caso l’actio quadrupli esperita dal giocatore sconfitto avrebbe ricompreso la ripetizione del
pagato. In seguito il pretore avrebbe accordato la ripetizione spogliata del suo accresci-
mento penale nel quadruplo. Sotto questo profilo, dunque, anche questo a. critica l’ipotesi
inizialmente avanzata da O. LENEL, Das Edictum, 1883, 135 (v. sopra, ntt. 55 e 56).
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 111

perdente per un multiplo di quanto perso, si sarebbe in qualche modo for-


nito un premio per la perdita al gioco, e dunque, almeno in un senso, per
l’alea stessa, cosa che non poteva corrispondere all’intento del legislatore: è
chiaro, infatti, nota lo studioso, che il quadruplum ha un senso quale prete-
sa del derubato contro il ladro, o della vittima di un negozio usurario con-
tro il fenerator, ma non come pretesa del giocatore contro il giocatore, co-
me pretesa del complice contro il partner favorito dal caso 66. Contro que-
sta possibile obiezione, egli osserva però come non sia affatto impensabile
che il diritto antico, nella spinta diretta a prevenire un male che si stava
diffondendo, abbia sottovalutato o addirittura consapevolmente ignorato
la differenza che corre tra la posizione di un giocatore sconfitto e quella di
un derubato o di una vittima di negozio usurario, e che quindi anche nel-
l’alea abbia preso in considerazione solo l’immorale guadagno 67. A ciò si
aggiunga che la manus iniectio quadrupli sarebbe stata un’azione popola-
re 68, fin dall’inizio o per effetto di successivi interventi: qualora l’interes-
sato non avesse potuto o voluto agire, la manus iniectio sarebbe cioè stata
esperibile da qualunque cittadino. Intesa come azione (popolare) difensiva,
dunque, l’actio quadrupli ex alea non apparirebbe come uno strumento con-
cesso in base al delitto di alea e direttamente al correo, bensì come puni-
zione per il dolus dell’attore che avesse osato realizzare un profitto malvi-
sto dalla legge 69. L’idea che la legge mirasse a punire il solo giocatore che
avesse tratto guadagno dal gioco vietato diventa ancora più evidente quando
si vogliano accettare le conclusioni di Kaser circa gli effetti delle leges minus
quam perfectae 70, alle quali sarebbe comune 71 il fatto che la sanzione si di-
rigeva non immediatamente contro il negozio giuridico 72, bensì contro il

66
C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 71.
67
Sul punto v. anche C. FADDA, L’azione popolare. Studio di diritto romano e attuale, I,
Torino, 1894 (rist. anast., Roma, 1972), 25, il quale, partendo dall’idea di cui si dirà subito
nel testo, e cioè che questa manus iniectio quadrupli fosse un’azione popolare, osserva che
«l’interesse pubblico vuole in prima linea farsi valere: e a tal uopo la legge non si preoccupa
delle conseguenze. Sia pure che il perdente possa arricchire: non importa. Quel che impor-
ta è di far balenare davanti agli occhi dell’attore lo spauracchio di quella gravissima pena».
68
In questo senso, oltre C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 70 ss., v. C. FADDA, L’azione, cit.,
21; O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit., 1347; F. DE MARTINO, I ‘quadruplatores’,
cit., 43 s.; S. DI SALVO, ‘Lex Laetoria’, cit., 135 s., nt. 90; A. POLLERA, In tema, cit., 527 ss.
69
C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 71 s.
70
M. KASER, Über Verbotsgesetze, cit., 33 ss.
71
Fatta eccezione per la lex Laetoria che lo studioso ritiene di poter attribuire a questa
categoria di leggi (M. KASER, Über Verbotsgesetze, cit., 39 s.).
72
Così anche R. VON JHERING, L’esprit, cit., 108 s.
112 Paola Ziliotto

capere, cioè contro l’atto di acquisto basato sul negozio di attribuzione, cape-
re che veniva punito con una poena quadrupli 73: l’acquisto contrario al divie-
to non sarebbe divenuto inefficace e dunque l’acquirente lo avrebbe conser-
vato, accontentandosi il legislatore dell’efficacia intimidatoria della pena 74.
Chiusa questa parentesi sull’azione penale nel quadruplum esperibile con-
tro il vincitore sulla base della più antica lex alearia, è ora possibile tornare al
passo in cui Paolo precisa che l’azione esperibile contro il dominus per la
vincita incassata dal suo schiavo è una actio de peculio, e non una azione nos-
sale, quia ex negotio gesto agitur. La precisazione sembra diretta a chiarire
che il capere dello schiavo non costituisce un atto illecito perseguibile con
azione penale, fugando un possibile dubbio al riguardo. In essa si può dun-
que vedere il ricordo, oltre che una ulteriore conferma, dell’antica azione,
che spinge il giurista a sottolineare come l’azione di ripetizione non sia ormai
più una azione penale, ma una normale azione di ripetizione nei limiti del
peculio. Ma è possibile anche un’ipotesi più azzardata. Non si può infatti
escludere che, almeno in un primo momento, il pretore abbia accordato una
azione di ripetizione con caratteristiche analoghe a quelle dell’antica manus
iniectio quadrupli, ossia una azione di ripetizione penale e popolare 75, ancora
diretta contro l’illecito capere da parte del vincitore, azione che con il pas-
sare del tempo, vuoi per interpretazione giurisprudenziale, vuoi per suc-

73
Così nella lex Furia testamentaria, che puniva con poena quadrupli esigibile con ma-
nus iniectio pura chi – fatta eccezione per certi parenti – avesse accettato per legato o in
base ad altra disposizione mortis causa, più di 1000 assi; così nelle XII Tavole, che puniva-
no con poena quadrupli chi avesse accettato interessi eccedenti il fenus unciarium; così, in-
fine, nella lex Cincia, che puniva con poena quadrupli l’avvocato che avesse accettato doni
per la sua prestazione (M. KASER, Über Verbotsgesetze, cit., 33 ss., spec. 38).
74
Con il progressivo affinamento della coscienza giuridica si sarebbe cercata una giustifica-
zione per tale acquisto, forse trovato nel fatto che l’acquisto contrario alla legge veniva rimbor-
sato mediante la corresponsione della sanzione pecuniaria, così che la poena finiva per avere
nello stesso tempo una funzione ‘sachverfolgende’: M. KASER, Über Verbotsgesetze, cit., 39.
75
La congettura che l’azione pretoria di ripetizione, nel caso in cui il perdente o il suo
erede non avessero voluto o potuto agire, sarebbe stata popolare come l’antica manus
iniectio, è avanzata da O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, cit., 1348, il quale eviden-
zia che del resto la natura popolare si ritroverà anche nell’azione di ripetizione accordata
da Giustiniano. Poiché però, sulla base di Paul 19 ad ed. D. 11.5.4.1 (… dabitur in domi-
num de peculio actio, non noxalis, …), lo studioso giustamente esclude che l’azione di ripe-
tizione fosse penale (sopra, nt. 56), e poiché le azioni pretorie popolari sono tutte pe-
nali, mi pare che l’idea della popolarità dell’azione possa essere sostenuta solo in riferi-
mento a una ipotetica azione originaria non pervenutaci, sostituita poi dalla azione di ripe-
tizione non penale cui allude Paolo in D. 11.5.4.1. È infatti difficile pensare che la stessa
azione fosse reipersecutoria se esperita dal perdente e diventasse invece penale se esperita
dal quivis de populo.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 113

cessivi interventi normativi, avrebbe perso quelle caratteristiche. È chiaro


che ci troviamo sul piano delle pure congetture, e su questo piano ci si può
divertire a proseguire, prendendo spunto da un’idea di Hugo Krüger 76, se-
condo il quale la clausola edittale ipotizzata da Lenel, nella quale era an-
nunciata la denegatio actionis per la vincita, sarebbe stata introdotta nel-
l’editto del pretore per ordine del senato che vetuit in pecuniam ludere. Si
potrebbe cioè pensare che non già la clausola edittale relativa alla denega-
tio actionis, bensì l’altra clausola ipotizzata da Lenel, quella cioè contenen-
te la promessa dell’azione di ripetizione non penale (fin dall’origine o di-
venuta tale a seguito dell’ipotizzata trasformazione), vada ricollegata al-
l’intervento del senato. Si è detto che l’antica lex de alea, in quanto minus
quam perfecta, avrebbe vietato e punito il solo capere da parte del vincitore,
e che, sulla base di questa legge, il perdente (o il quivis de populo) avrebbe
potuto agire con la manus iniectio quadrupli; si è poi ipotizzato che l’azione
di ripetizione pretoria potrebbe inizialmente aver conservato natura penale
e popolare, dirigendosi quindi ancora contro l’illecito capere da parte del
vincitore; e si è pure detto come questo tipo di rimedi sia diretto a scorag-
giare illeciti guadagni nell’interesse pubblico, senza riguardo per le conse-
guenze, prima fra tutte l’arricchimento del perdente. Si può allora conget-
turare che in un’epoca più matura, il senato, forse anche in concomitanza
con l’affermarsi della repressione criminale del gioco d’azzardo o forse ad-
dirittura in un periodo in cui la repressione criminale del gioco d’azzardo
si era rivelata inadatta ad arginare il fenomeno dilagante 77, abbia voluto di-
sciplinare le conseguenze puramente civili del gioco d’azzardo, e abbia
perciò vietato l’in pecuniam ludere, intendendo sanzionare non più il cape-
re, bensì per l’appunto il gioco per denaro, il gioco d’azzardo, cioè il nego-
zio di gioco 78; e che, a tale scopo, il senato abbia attribuito al pretore il

76
H. KRÜGER, Verweisungsedikte, cit., 296 s.
77
Cfr. Ov. tr. 2.471-472: sunt aliis scriptae, quibus alea luditur, artes; / hoc est ad nostros
non leve crimen avos, dal quale sembra desumersi che ai suoi tempi l’infrazione del divieto
fosse considerata con minor rigore che al tempo degli avi. Sul punto v. S. BREMBILLA, ‘Pro-
vocat me in aleam’, cit., 340 s., e E. NARDI, Monobolo, cit., 303, il quale forse non a torto
rileva che «però ‘crimen’ ha l’aria d’esser qui solo un termine generico; che il giurista non
può utilizzare per deduzioni sull’ordinamento punitivo, bensì unicamente per valutazioni
sociali (o, si direbbe oggi, ‘sociologiche’)». V. inoltre le considerazione di M. KURYŁOWICZ,
Das Glücksspiel, cit., 197 s., relative al fatto che le leggi sul gioco, senatusconsultum com-
preso, erano applicate principalmente a persone appartenenti agli strati più bassi della so-
cietà romana, le quali peraltro erano poco sensibili alle sanzioni in esse previste, come ri-
sulterebbe da Mart. 14.1: nec timet aedilem.
78
Volendo accettare l’idea che Giustiniano (C. 3.43.1.1: … hac generali lege decerni-
114 Paola Ziliotto

compito di dare attuazione al divieto, cosa che il pretore avrebbe fatto ac-
cordando (fin dall’inizio o modificando il precedente editto) l’azione di ri-
petizione di cui è rimasta traccia nelle fonti 79. Di qui la precisazione di
Paolo, per cui l’azione esperibile contro il dominus dello schiavo che ha in-
cassato la vincita non è una azione nossale, ma una actio de peculio, quia ex
negotio gesto agitur.

5. ‘Exceptio negotii in alea gesti’, ‘denegatio actionis’ e azione di ri-


petizione

L’idea che il più antico rimedio contro il gioco d’azzardo sia stata una
manus iniectio quadrupli la quale, se esperita dal perdente, conteneva in sé
la ripetizione, e che in un modo o nell’altro questo antico diritto alla ripeti-
zione sia stato fin dall’inizio recepito nell’editto del pretore, consente infi-
ne un’ulteriore congettura.
Si è detto che la menzione dell’exceptio negotii in alea gesti nel titolo
44.5 del Digesto ha fatto ipotizzare la presenza di una corrispondente de-
negatio actionis nell’editto del pretore, e precisamente nell’editto De alea-
toribus, denegatio di cui però non è rimasta alcuna traccia 80. Se però si ri-
tiene che l’editto De aleatoribus abbia sempre contenuto un’azione di ripe-

mus, ut nulli liceat in privatis seu publicis locis ludere neque in specie neque in genere: et si
contra factum fuerit, nulla sequatur condemnatio, sed solutum reddatur et competentibus ac-
tionibus repetatur ab his qui dederunt vel eorum heredibus aut his neglegentibus a patribus
seu defensoribus locorum:) avrebbe inteso combattere il dilagante fenomeno del gioco
d’azzardo solo sul piano civilistico, abolendo ogni conseguenza penale dello stesso a carico
dei giocatori (il dato non è però sicuro in quanto nell’Indice di Taleleo, B. 60.8.5, si legge
che la costituzione di Giustiniano vietò i giochi e, fatta eccezione per cinque, stabilì τινα
ἐπιτίμια κατὰ τῶν κυβευόντων), e che proprio per questa ragione il Digesto non conter-
rebbe più alcun riferimento alle antiche leges aleariae (cfr. C. SCHOENHARDT, ‘Alea’, cit., 90
s.), la congettura appena fatta a proposito del senatoconsulto potrebbe anche spiegare
perché esso sarebbe stato invece conservato nel Digesto.
79
Il vincitore, dunque, sarebbe stato tenuto alla restituzione non già in base al senato-
consulto, bensì sul piano del ius honorarium. La congettura è dunque che il senatoconsulto
faccia parte di quei provvedimenti con i quali il senato, a partire dall’età repubblicana e
fino al I sec. d.C., è intervenuto nella disciplina dei rapporti privatistici con decisioni che
«vincolavano – forse più politicamente che giuridicamente – il magistrato, ma non avevano
un’efficacia normativa diretta nei confronti dei soggetti dell’ordinamento, che erano invece
tenuti, sul piano del ius honorarium, in base all’esercizio dell’imperium pretorio»: M. TA-
LAMANCA, Istituzioni, cit., 28.
80
V. sopra, § 2.
Disciplina privatistica classica del gioco d’azzardo vietato 115

tizione del perdente contro il vincitore (penale e popolare prima e poi rei-
persecutoria, oppure immediatamente reipersecutoria), una espressa previ-
sione edittale della denegatio actionis, salvo ipotizzare che essa fosse oppo-
nibile a terzi divenuti creditori del giocatore sulla base di negozi conclusi a
fini di gioco 81, potrebbe apparire superflua in quanto ‘ricompresa’ nella
previsione della ripetibilità del pagato. Se quindi il vincitore avesse avuto la
sfrontatezza di agire sulla base di un negozio dal quale risultava la causa il-
lecita della sua pretesa, anche a prescindere dalla validità del negozio stes-
so, il pretore, pure in assenza di una specifica previsione edittale, gli avreb-
be potuto denegare l’azione in base al principio dolo facit, qui petit quod
redditurus est 82; se invece avesse agito sulla base della ipotizzata stipulatio
concepita astrattamente, il pretore avrebbe concesso al convenuto l’exceptio
negotii in alea gesti; idem, nel caso in cui ad agire fosse il terzo. La conget-
tura è dunque che nel caso dell’alea, il rimedio corrispondente all’exceptio
negotii in alea gesti fosse non già la denegatio actionis, bensì l’azione per la
ripetizione accordata al perdente, che ricomprende in sé il rifiuto dell’azio-
ne al vincitore 83.

81
Ipotesi che però non è parsa convincente: sopra, § 2 i.f. e nt. 36.
82
Paul. 6 ad Plaut. D. 44.4.8 pr. = D. 50.17.173.3.
83
Resta fuori da questa riflessione – dedicata agli aspetti civilistici della disciplina classica
del gioco d’azzardo vietato – l’analisi del caso menzionato in Paul. 19 ad ed. D. 11.5.4 pr.
(Quod in convivio vescendi causa ponitur, in eam rem [familia] <alea> ludere permittitur),
nonché quella dei provvedimenti che riguardano il ludere in pecuniam consentito dall’ordi-
namento, ossia il ludere in pecuniam nei giochi virtutis causa (sui giochi consentiti, e in parti-
colare sul confronto tra quelli menzionati in Paul 19 ad ed. D. 11.5.2.1 e in C. 3.43.1.4, v. E.
NARDI, Monobolo, cit., 305 s., spec. 318 ss.). Si è detto che la liceità di questo gioco per dena-
ro risulta dal senatoconsulto menzionato in D. 11.5.2.1, il quale stabilì una eccezione al gene-
rale divieto di giocare per soldi per il caso delle competizioni atletiche. I Compilatori hanno
poi collegato a questo passo di Paolo un passo di Marciano che, per lo meno in questa con-
nessione, ci informa della esistenza di tre leggi (la lex Titia, la lex Publicia e la lex Cornelia) in
base alle quali, nei giochi atletici, sarebbe lecito anche il ricorso alla sponsio, mentre negli altri
casi sarebbe illecito (Marc. 5 reg. D. 11.5.3). La assoluta indeterminatezza di queste leggi e
del senatoconsulto ha indotto la dottrina a formulare diverse ipotesi sulla loro datazione, sul
loro contenuto e sui loro reciproci rapporti, ipotesi sulle quali non mi soffermo ulteriormente
(per qualche cenno, v. sopra, nt. 43) per la ragione appena indicata. Poiché però il tema del
gioco è poco esplorato dalla dottrina, credo meriti una breve considerazione l’ipotesi da ul-
tima avanzata da S. BREMBILLA, ‘Provocat me in aleam’, cit., 352 ss. Sulla base della struttura
sintattica della frase di Marciano (in quibus rebus ex lege Titia et Publicia et Cornelia etiam
sponsionem facere licet: sed ex aliis, ubi pro virtute certamen non fit, non licet), la studiosa ipo-
tizza che la lex Cornelia avrebbe avuto un contenuto diverso dalle altre due leggi in quanto
«l’uso del termine etiam dopo e non prima di Cornelia sta a significare che la legge in esame
prevede un qualche cosa in più e di diverso rispetto alle altre due» (p. 354). Fermo restando
116 Paola Ziliotto

che sulle leggi Titia e Publicia ci è consentito di sapere molto poco, la studiosa ipotizza che la
lex Cornelia possa identificarsi con la lex Cornelia de sponsu sulla quale ci informano le Isti-
tuzioni di Gaio (3.124). Gaio dice che in sede di interpretazione di questa legge, la quale fis-
sava un tetto massimo per le garanzie personali dello stesso garante per lo stesso debito nello
stesso anno, si era ritenuto che il beneficio della riduzione in essa previsto non si applicasse
nel caso in cui il debito principale fosse sottoposto a condizione. Brembilla nota quindi co-
me, considerando che nel negozio di gioco l’obbligazione sarebbe sottoposta a condizione, si
dovrebbe escludere l’applicabilità della legge ai garanti di obbligazioni nascenti da contratto
di gioco. Tuttavia, osserva la studiosa, nel negozio di gioco la vittoria è un evento che co-
munque si verificherà e dunque l’alea incide solo sull’individuazione di chi sarà creditore e
debitore, ma non sulla nascita dell’obbligazione, che è appunto certa. Contro questa ipotesi
si deve però osservare che essa reggerebbe solamente se il garante fosse tale per entrambi
gli scommettitori: è chiaro, invece, che per il garante di uno dei due giocatori il debito garan-
tito è condizionato, perché non si sa se il garantito vincerà o no, e dunque è incerto se diven-
terà debitore oppure no. D’altra parte, non pare convincente nemmeno il presupposto da
cui parte Brembilla, ossia che la struttura grammaticale della frase induce a pensare ad un
diverso contenuto della lex Cornelia rispetto alle due leggi precedentemente menzionate: col-
legando l’etiam solo a Cornelia, non si riesce infatti a capire il senso delle parole ex lege Ti-
tia et Publicia et, le quali restano in sospeso. Nonostante questo ulteriore tentativo di spiega-
zione, resta dunque ancora incerto cosa sia questa sponsio di cui le tre leggi avrebbero dispo-
sto la liceità in riferimento ai giochi per denaro consentiti dal senatoconsulto e l’illiceità in
riferimento a quelli vietati, fra i quali rientra evidentemente il gioco d’azzardo. In uno studio
come questo, dedicato alla disciplina privatistica del gioco d’azzardo vietato, una analisi di
queste leggi sarebbe quindi doverosa. Siccome, però, la completa ignoranza sulla datazione
di queste leggi e quindi sul loro rapporto con le leges aleariae menzionate nelle fonti letterarie
(le tre leggi sono le leges aleariae o sono leggi diverse?) e con il senatoconsulto, rende impos-
sibile qualsiasi ipotesi che non sia meramente congetturale, ritengo velleitario aggiungerne
una ulteriore a quelle che già sono state avanzate, alle quali dunque mi limito a fare rinvio.
Brevi note in tema di debiti di gioco e obbligazioni naturali 117

Brevi note in tema di debiti di gioco


e obbligazioni naturali
Francesco Fasolino

SOMMARIO: 1. Il gioco come contratto: Pothier e la codificazione napoleonica. – 2. Le in-


congruenze della sistematica di Pothier. – 3. Attualità ed implicazioni del modello ro-
manistico di obbligazione naturale come obbligazione giuridica imperfetta.

1. Il gioco come contratto: Pothier e la codificazione napoleonica

Com’è noto 1, è solo nel 1767, con la pubblicazione del Traité du jeu di
Robert Joseph Pothier 2, che viene ad essere riconosciuta al gioco la natura
di contratto giuridico vero e proprio; l’insigne giurista francese, abbando-
nando definitivamente i pregiudizi relativi agli effetti perniciosi delle prati-
che ludiche, di cui erano intrise le opere medioevali sull’argomento 3, giun-

1
L’iter formativo della disciplina dei contratti aleatori nel codice francese è ampiamente
illustrato da A. CAPPUCCIO, “Rien de mauvais”. I contratti di gioco e scommessa nell’età dei
codici, Torino, 2011, 90 ss. Da ultimo, sul tema, si veda l’interessante lavoro di D. BOSCHI,
L’obbligazione naturale come categoria non unitaria. Il modello canonistico e l’archetipo ro-
manistico nel sistema, Pisa, 2012.
2
R.J. POTHIER, Traité du jeu, Paris, 1767 (trad. it., Opere di G.R. Pothier, Livorno,
1836, 159 ss.). Sulla significativa influenza esercitata da questo giurista sulla codificazione
francese, cfr., per tutti, P. GROSSI, Un paradiso per Pothier (Robert-Joseph Pothier e la pro-
prietà moderna), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 1985,
401 ss.
3
Nel medioevo, come è noto, i giuristi nutrirono una forte avversione nei confronti del
gioco in generale, e in particolare di quello d’azzardo, considerato vero e proprio “ventre
del vizio”: per approfondimenti, si rinvia a A. CAPPUCCIO, Rien de mauvais, cit., 97, ed ivi
ampia bibliografia. Sulla repressione del gioco negli statuti comunali medievali, cfr. R.
FERROGLIO, Ricerche sul gioco e sulla scommessa fino al secolo XIII, in Riv. storia dir. it.,
1998, 309 ss. Per la distinzione, nell’ambito della trattatistica medievale, tra gare sportive,
giochi di intelligenza e gioco d’azzardo, cfr. U. GUALAZZINI, voce “Giochi e scommesse”
118 Francesco Fasolino

se ad affermare che il gioco non è altro che un contratto 4: si tratta, invero,


di una figura fondata sull’accordo raggiunto tra le parti, le quali convengo-
no tra loro di puntare una somma di denaro in relazione al verificarsi di un
evento futuro ed incerto, di talché il risultato finale non è mai sicuro; il ri-
schio, infatti, è una componente essenziale ed ineliminabile del negozio di
gioco o di scommessa: di qui la sua inclusione in quella particolare catego-
ria costituita dai contratti aleatori 5.
Pothier, operando una netta cesura rispetto all’opinione consolidatasi
nei secoli precedenti, afferma che tutti i contratti di gioco, anche quelli
d’azzardo, considerati in sé medesimi e senza tener conto delle finalità
che si prefiggono i giocatori, sono da considerarsi senz’altro leciti sul piano
causale 6; ciò però a patto che, come egli specifica, ricorrano tre condizio-
ni, e precisamente: la “liberté dans l’engagement”, la “égalité dans les con-
ventions” e la “fidélité dans l’exécution”, in mancanza delle quali la causa è
illecita ed il contratto è nullo e quindi improduttivo di effetti 7. Si tratta
delle medesime condizioni alle quali, circa sessant’anni prima, un altro fa-
moso giurista francese, Jean Barbeyrac, autore anch’egli di un Traité du
jeu, aveva subordinato la possibilità di riconoscere la “naturalità” del gioco
e la sua “conformità” ai princìpi etici e morali, sostenendo che “le jeu, con-
sideré en lui-même, n’est illicite ni par le Droit Naturel, ni par les Loix de la
Religion” 8.

(storia), in Enc. dir., XIX, 1970, 39; si veda anche A. GUALAZZINI, Premesse storiche al di-
ritto sportivo, Milano, 1965, 199. Mentre per il gioco d’azzardo il pagamento era irripetibi-
le per il noto principio in pari causa turpitudinis, invece, con riguardo al ludus mixtus
(quello cioè nel quale rilevano tanto la sorte che l’abilità dei giocatori), nonostante fosse
considerato lecito, si ritenne che non fosse possibile agire in giudizio né per il pagamento
né per la sua ripetizione: amplius, in proposito, cfr. M. LUCCHESI, Ludus est crimen?, Mila-
no, 2005, 159, nonché A. CAPPUCCIO, op. cit., 45 s.
4
J.R. POTHIER, Opere, cit., 159: “la convenzione con la quale due giocatori stabiliscono
che quegli tra loro che rimarrà perdente, darà una certa somma all’altro che resterà vincitore,
è un contratto della classe che diconsi interessata da ambedue le parti ed aleatori. Quan-
tunque il vincitore riceva la somma convenuta, senza nulla retribuire in cambio, ei non la riceve
gratuitamente ma la riceve come prezzo del rischio che ha corso … ”.
5
Sulla sistematica elaborata da Pothier in relazione ai contratti di sorte, cfr. amplius L.
BALESTRA, Il contratto aleatorio e l’alea normale, Padova, 2000, 14 ss.
6
J.R. POTHIER, Opere, cit., 166.
7
J.R. POTHIER, op. ult. cit., 162 ss.
8
J. BARBEYRAC, Traité du jeu: où l’on examine les principales questions de droit naturel
et de morale qui ont du rapport à cette matiere, Amsterdam, 1709, 36. Secondo quest’autore,
op. cit., 104 ss., si può parlare di “liberté dans l’engagement”, cioè di accordo liberamente
preso, quando la volontà dei giocatori non risulti viziata da violenza o raggiri; l’“égalité
Brevi note in tema di debiti di gioco e obbligazioni naturali 119

Nella prospettiva di Pothier (e di Barbeyrac), dunque, il gioco non ha in


sé nulla di intrinsecamente malvagio (“rien de mauvais”) 9: esso, pertanto,
può essere ritenuto idoneo a rappresentare una giusta causa di trasferimen-
to patrimoniale delle somme vinte 10. Come è stato in proposito osservato,
“dalla felice intuizione di Barbeyrac all’adesione consapevole che affiora
dalle frasi di Pothier corre poco più di mezzo secolo, un lasso di tempo tra-
scurabile se paragonato alla inveterata ostilità che pesa sui giochi. In questa
parentesi prende quindi corpo un vero rinnovamento culturale, prima che
sistematico” 11.
Nell’esaminare gli effetti derivanti dal contratto di gioco, Pothier, utiliz-
zando quella che ai suoi tempi era ormai una classificazione consolidata,
distingue tra giochi di destrezza, nei quali ciò che rileva è l’abilità, fisica o
intellettiva, dei giocatori; giochi d’azzardo, il cui esito dipende dalla mera
casualità; giochi misti, nei quali rilevano sia la sorte che l’abilità dei gioca-
tori: mentre i primi danno luogo a vere e proprie obbligazioni giuridiche
civilistiche 12, nel caso dei secondi (quelli che egli, con un’espressione de-

dans les conventions”, invece, sussiste allorquando la ripartizione del rischio tra i giocatori
è proporzionata; la “fidélité dans l’exécution”, infine, attiene alla corretta osservanza delle
regole del gioco. Analogamente J.R. POTHIER, Opere, cit., 160 ss.
9
Dunque, “le jeu (…), consideré qu’en lui-même, et sans aucun rapport à la fin que se
proposent les joueurs, ne paraît contenir rien de mauvais (…)”: così, testualmente, J.R.
POTHIER, op. ult. cit., 166.
10
Ciò vale per Pothier, op. ult. cit., 330 s., anche nel caso del gioco d’azzardo. A
fondamento della nascita dell’obbligazione naturale tanto da contratto di gioco vietato
quanto da contratto di gioco tollerato vi è dunque, secondo il giurista, l’essenziale distin-
zione tra “une cause qui est mauvaise et iniuste en elle même et intrinsèquement, et qui n’est
mauvaise que par quelque vice qui lui est extrinsque”: così J.R. Pothier, op. ult. cit., 330.
11
Cfr. A. CAPPUCCIO, Rien de mauvais, cit., 61 s., il quale sottolinea, altresì, che: “le
voci dei due francesi, e le altre egualmente autorevoli che a loro si uniscono, non riescono
a fare immediatamente breccia nel muro innalzato dalle ordonnances; l’apparato di san-
zioni penali con cui devono confrontarsi è troppo solido, e l’interesse verso i giochi d’az-
zardo non tende a scemare. Ciononostante sarà merito delle parole di questi giuristi la de-
finitiva assoluzione di molte pratiche ludiche, le quali, decenni dopo, verranno celebrate
come contratti o quantomeno ammesse come fonte di obbligazioni naturali. I loro trattati
du jeu guideranno le scelte della Commissione legislativa incaricata di redigere il progetto
destinato al successo e prevarranno sulle idee dei componenti del Consiglio di Stato, del
Tribunato e del Corpo legislativo”.
12
In tale categoria Pothier ricomprende quei giochi virtutis causa che ricevevano piena
tutela pure nel diritto romano, estendendola ad altri tipi di competizioni quali il tiro col
fucile: cfr. J.R. POTHIER, Opere, cit., 176. Sulla disciplina dei giochi virtutis causa nell’ordi-
namento giuridico romano vd., da ultima A. BOTTIGLIERI, Le scommesse sui giochi virtutis
causa in diritto romano, in BIDR CXI, 2017, 41 ss., ora anche in questo volume, 81 ss.
120 Francesco Fasolino

stinata ad avere una lunga fortuna, definisce giochi “piuttosto tollerati che
autorizzati”), colui che vince non può agire in giudizio per il pagamento
della posta ma, d’altro canto, chi perde non può chiedere la restituzione
della prestazione da lui volontariamente adempiuta 13.
Viene, dunque, effettuata una distinzione non soltanto tra causa illecita
e causa lecita ma anche, all’interno di quest’ultima categoria, a seconda che
la causa (lecita) riceva o meno piena tutela in giudizio. Secondo l’insigne
giurista, infatti, mentre non vi è dubbio alcuno che qualora la causa sia ille-
cita, la prestazione è sicuramente non coercibile e, se eventualmente adem-
piuta, essa è comunque ripetibile da colui che la ha eseguita (salvo che non
sussista una turpis causa, in ragione della quale, come è noto, trova applica-
zione il principio in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis),
non sussiste, invece, una situazione speculare nell’ipotesi di causa lecita; ed
invero, in tal ultimo caso, se la pretesa del creditore è, di regola, coercibile
ed irripetibile, tuttavia, con riferimento ad alcuni particolari contratti, tal-
volta sussistono circostanze tali da escluderne l’azionabilità in giudizio, fer-
mo restando però che non si può comunque richiedere indietro quanto il
debitore abbia pagato: il contratto di gioco rientra, appunto, in quest’ulti-
ma categoria 14.
In altri termini, per Pothier non è corretto sovrapporre il piano della
liceità della causa e quello della meritevolezza: pur quando la causa è le-
cita, infatti, l’assetto di interessi, per come concretamente voluto dalle
parti, può, invero, non essere idoneo a giustificare anche la piena tutela
del vincolo che è così sorto, bensì soltanto la stabilità dell’attribuzione pa-
trimoniale eventualmente effettuata da parte dell’obbligato; con riguardo
al gioco, infatti, sulla scorta della complessiva valutazione degli interessi
sottostanti all’intera vicenda, il costo di cui la società dovrebbe farsi cari-
co per consentire che la pretesa del vincitore sia azionabile in giudizio è
considerato eccessivamente alto: la denegatio actionis, in tal caso, si spie-
ga in ragione delle finalità di smodato guadagno che solitamente animano
i giocatori, e che l’ordinamento ed il costume sociale disapprovano radi-
calmente, in una con le conseguenze negative tipicamente derivanti dalla

13
Riguardo ai giochi di puro azzardo, Pothier opta per la soluzione applicata nelle
aree di droit coutumiér, nelle quali si riteneva sussistente l’obbligazione naturale del debi-
tore e quindi la soluti retentio, in caso di adempimento da parte di questi; non accoglie,
invece, l’orientamento vigente nelle regioni meridionali della Francia, di tradizione roma-
nistica, nelle quali al vincitore non si concedeva azione verso il perdente e, nel caso questi
adempisse spontaneamente, avrebbe potuto comunque agire per la ripetizione della
prestazione.
14
In tal senso, D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit. 149 ss.
Brevi note in tema di debiti di gioco e obbligazioni naturali 121

pratica del gioco d’azzardo e che, in quanto tali, non devono essere in-
centivate 15.
La riflessione di Pothier, come è noto, costituì il quadro logico sistema-
tico sulla base del quale venne costruito l’impianto del codice civile france-
se del 1804 in materia di giochi e scommesse. La relativa disciplina, invero,
contemplava due regole fondamentali: da un lato, la denegatio actionis per i
debiti scaturenti da giochi o scommesse (art. 1965), fatta eccezione per i
giochi di abilità e di destrezza (art. 1966) 16; dall’altro, la ripetibilità della
prestazione eventualmente eseguita, nelle sole ipotesi, però, in cui la vinci-
ta al gioco fosse stata ottenuta con dolo, angherie o imbrogli di qualunque
sorta (art. 1967): nel caso, invece, che il gioco si fosse svolto regolarmente,
l’eventuale esecuzione della prestazione da parte del perdente escludeva
qualunque condictio indebiti.
L’evidente correlazione che il giurista (presup)pone tra gli effetti del
contratto di gioco e l’obbligazione naturale in senso canonistico, intesa
cioè quale dovere della sfera etico-sociale, è tuttavia, come subito vedremo,
la causa di un’aporia sistematica che dalla teoria di Pothier si trasfonderà
nel code Napoléon e dalla quale prenderanno origine le principali controver-
sie dottrinali sul tema, ancora oggi in gran parte non sopite.

2. Le incongruenze della sistematica di Pothier

Pothier, dunque, pur considerando i giochi e le scommesse come dei veri


e propri contratti, sostiene, peccando di una certa qual incoerenza, che da
essi scaturirebbe una obbligazione naturale che si proietta nel solo “foro
interno”: non si tratterebbe, quindi, di un effetto giuridico in senso stretto
ma di un mero dovere morale e sociale (debito d’onore). Si ha, in tal modo,
una vera e propria contraddizione logica tra la qualificazione contrattuale
che viene riconosciuta al gioco e la natura extragiuridica degli effetti che
ne derivano.
Si è tentato, invero, di porre rimedio a questa evidente aporia sostenen-
do che, una volta degradata l’obbligazione derivante da giochi e scommesse
ad obbligazione naturale, e dunque extragiuridica, si avrebbe una conse-

15
In tal senso anche D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit. 151 s., cui si rinvia per
maggiori approfondimenti.
16
Si tratta precisamente, secondo la lettera della norma citata, dei giochi atti ad eserci-
tare al maneggio delle armi, delle corse, del gioco della palla ed “altri di tal natura che con-
tribuiscono alla destrezza ed all’esercizio del corpo” .Vd. anche nota 12.
122 Francesco Fasolino

guente degradazione anche della relativa fonte, ossia del gioco tollerato, che
dovrebbe essere ricostruito non più come contratto ma quale semplice fat-
to. In questa prospettiva, l’indifferenza dell’ordinamento cesserebbe soltan-
to allorquando trovi esecuzione il dovere morale/sociale in parola: solo in
tale ipotesi, invero, il negozio (di gioco o di scommessa) concluso tra le par-
ti e il volontario adempimento, ad opera del perdente, dell’obbligazione che
ne è derivata, costituirebbero una giusta causa a fondamento dell’attribu-
zione patrimoniale effettuata 17.
È stato già rilevato a tal proposito, tuttavia, che, in tal modo, si verrebbe
a qualificare il gioco tollerato come semplice fatto, ed al contempo, se ne
subordinerebbe l’efficacia, vale a dire la sua idoneità a dar luogo ad una
obbligazione naturale, alla sussistenza di tutti i requisiti di un valido con-
tratto, con tutte le evidenti ed insuperabili difficoltà legate ad “un fatto
consistente in un puntuale accordo a contenuto patrimoniale che deve avere
tutti i requisiti di struttura di un contratto affinché, esclusane la natura nego-
ziale sulla base dell’evento assunto a base del rischio, possa poi recuperare ef-
fetti e caratteri negoziali in virtù dell’adempimento degli obblighi che da quel
‘non contratto’ derivano. Un vero icocervo …”, insomma 18.
In realtà, sembra condivisibile l’opinione al riguardo di recente sostenu-
ta 19, secondo la quale il collegamento tra il gioco tollerato e l’obbligazione
naturale può recuperare una propria coerenza interna soltanto a c ondi-
zione che si ritenga che il c oncetto di obbligazione naturale racchiuda in sé
tanto il riferimento ad un’obbligazione giuridica imperfetta perché sprov-
vista di azione, quanto quello ad un’obbligazione (solo) eticamente e so-
cialmente fondata; proprio considerando il gioco come un contratto a tutti
gli effetti, ma a causa “debole”, si può, dunque, qualificare l’obbligazione
che ne scaturisce non come un dovere della morale sociale bensì come un
vero e proprio rapporto giuridico, anche se imperfetto perché non coerci-
bile: ciò in aderenza al modello romanistico di obbligazione naturale, qua-
le obbligazione di fatto che trova il suo fondamento in contratti obbligato-

17
Sulla qualificazione del gioco come fatto nella dottrina moderna, cfr. C.A. FUNAIOLI,
Il gioco e la scommessa, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, IX, Torino,
1950, 30 e A. CAPPUCCIO, Rien de mauvais, cit., 210. Si veda anche, in proposito, D. BO-
SCHI, L’obbligazione naturale, cit., 152 s.
18
Cfr. M. PARADISO, I contratti di gioco e scommessa, in Trattato di diritto civile, diretto
da R. SACCO, VIII, Milano, 2003, 16, il quale sottolinea come la ricostruzione del gioco
e della scommessa tollerati nella prospettiva dell’obbligazione naturale canonistica deter-
mini, in definitiva, una distorsione della realtà del fenomeno che è e resta, invece, intrinse-
camente giuridica.
19
D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit. 153.
Brevi note in tema di debiti di gioco e obbligazioni naturali 123

ri, validi ed efficaci, ma non tutelabili mediante actio in ragione della pecu-
liare situazione di alcune delle parti.
Secondo la dottrina più accreditata 20, infatti, nell’ordinamento giuridico
romano, l’idea di ius naturale o comunque di vincolo a fondamento etico ex-
tragiuridico sarebbe del tutto estranea al concetto classico di naturalis
obligatio, almeno in ordine alle obbligazioni contratte da personae alieni
iuris, vale a dire prive di soggettività giuridica; in tale prospettiva, dunque,
le obbligazioni naturali in senso stretto sarebbero esclusivamente quelle
che scaturiscono da un fatto che potrebbe essere qualificato come con-
tratto, e dunque produrre obbligazioni civili, laddove venga posto in esse-
re tra soggetti dotati di piena autonomia patrimoniale e capacità giuridica
(cd. soggetti sui iuris) 21.
Si tratta, insomma, di recuperare quella che era stata la prospettiva a
suo tempo già prescelta da Jean Domat, il quale nella sua famosissima ope-
ra Le loix civiles dans leur ordre naturel 22, faceva rientrare nell’obbligazio-
ne naturale solo il caso dell’obbligazione contratta da un soggetto sprovvi-
sto della capacità giuridica di agire ma fornito di quella naturale, circoscri-
vendo quindi la figura all’ipotesi dell’obbligazione giuridica imperfetta del
diritto romano classico, da ritenersi valida ma non tutelabile in giudizio
mediante actio proprio per i problemi relativi all’incapacità di almeno una
delle parti contraenti.
In definitiva, il modello romanistico di obbligazione naturale, intesa co-
me obbligazione imperfetta, consentirebbe di concepire la possibile coesi-

20
A. BURDESE, La nozione classica di naturalis obligatio, Torino, 1955, in part. 500 ss.
21
Secondo questa tesi, l’obligatio naturalis del servo costituirebbe, dunque, l’archetipo
dell’obbligazione naturale, trattandosi di un’obbligazione di fatto che trova il suo fon-
damento in contratti che, se posti in essere da soggetti dotati di autonomia giuridica e
patrimoniale, avrebbero dato luogo ad obbligazioni civili e sarebbero stati pertanto aziona-
bili “se a ciò non avesse ostato, ab antiquo, da parte dello ius civile, il mancato riconosci-
mento, a uno almeno dei soggetti del rapporto obbligatorio, della capacità di essere intesta-
tario delle conseguenze della relativa fattispecie”: cfr. A. BURDESE, La nozione classica, cit.
485 ss. In tal senso anche E. NARDI, In tema di confini dell’obbligazione naturale, in Studi in
onore di Pietro de Francisci, Milano, 1956, 582. Di recente, tuttavia, una prospettiva par-
zialmente differente, maggiormente critica circa il collegamento tra obbligazione naturale e
regime patrimoniale dei soggetti alieni iuris, è stata proposta da L. DI CINTIO, Natura debere.
Sull’elaborazione giurisprudenziale romana in tema di obbligazione naturale, Soveria Man-
nelli, 2009, sviluppando quanto dalla stessa A. già sostenuto in L. DI CINTIO, Considera-
zioni sulla naturalis obligatio del filius familias (a proposito di Afr. D. 112.6.38 e Ven. D.
14.6.18), in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité, 2006, 204 e ss.
22
J. DOMAT, Le loix civiles dans leur ordre naturel, Paris, 1745, 31. Per approfondimenti
si rinvia a L. BALESTRA, Il contratto aleatorio, cit. 23.
124 Francesco Fasolino

stenza della natura contrattuale del gioco, della liceità della sua causa e
della denegatio actionis; solo, infatti, rinunciando preliminarmente alla no-
zione canonistica di obbligazione naturale, nel senso di dovere a fonda-
mento etico, non sembra ravvisarsi più alcuna contraddizione logica tra il
contratto di gioco, a causa lecita, e la nascita da esso di un’obbligazione
naturale.
Soltanto pochissimi tra i giuristi francesi del XIX secolo, tuttavia, giunse-
ro, nella prospettiva appena delineata, ad escludere ogni collegamento con-
cettuale tra il fenomeno dell’obbligazione naturale in senso canonistico e
quello del gioco, qualificando le obbligazioni nascenti da gioco o da scom-
messa come obbligazioni civili imperfette 23: tra essi, il Pont, il quale, nel sot-
tolineare la natura contrattuale del gioco e la liceità della relativa causa, so-
stenne che da tale convenzione nascessero obbligazioni giuridiche a tutti
gli effetti, ma sprovviste di azione in giudizio; è in virtù degli abusi cui il
fenomeno del gioco dà spesso origine, infatti, che si spiega la denegatio
actionis, poiché una piena tutela viene valutata dal legislatore come un co-
sto sociale eccessivo, in quanto potenziale incentivo ad una smodata prati-
ca del gioco 24, foriera di perniciose conseguenze.

3. Attualità ed implicazioni del modello romanistico di obbligazione


naturale come obbligazione giuridica imperfetta

Nell’ambito della disciplina del gioco, il modello romanistico di obbli-


gazione naturale quale obbligazione giuridica imperfetta, a cui la legge ne-
ga tutela in giudizio in considerazione delle peculiarità della relativa causa,
non sembra, dunque, affatto abbandonato né superato da parte di quegli

23
Anche costoro, tuttavia, non sempre giunsero a conclusioni logicamente rigorose e
consequenziali. Il Laurent, ad esempio, pur accogliendo la tesi dell’obbligazione giuridica
imperfetta, proprio con riferimento al gioco, tuttavia, dichiara espressamente che non si
può prescindere dall’azione per l’esistenza di un contratto giuridico: cfr. F. LAURENT, Prin-
cipes de droit civil français, XXVII, Paris-Bruxelles, 1875, 165. Invece, C.B.M. TOUILLER,
Le droit civil français suivant l’ordre du code, III, Bruxelles, 1847, 372 s., pur intuendo la
distinzione tra valutazione di liceità della causa e meritevolezza della coercizione, ritenne
che la denegatio actionis si giustificasse in quanto l’ordinamento intendeva rimettere al de-
bitore perdente la scelta sul se adempiere la prestazione in quanto era solo questi a poter
valutare se il gioco si fosse svolto correttamente.
24
P. PONT, cit., 236. Per approfondimenti, cfr. D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit.
155 ss., al quale si rinvia anche per un circostanziato esame delle posizioni della dottrina
francese del XIX secolo a tale specifico riguardo.
Brevi note in tema di debiti di gioco e obbligazioni naturali 125

ordinamenti che, come il nostro, sono di chiara derivazione francese.


Ed invero, in ordine ai rapporti giuridici scaturenti dai contratti non
coercibili in quanto aventi una causa “debole” quali, per l’appunto, il gio-
co e la scommessa, di cui all’art. 1933 del vigente codice civile italiano,
sembra riscontrarsi la medesima figura giuridica ravvisabile nell’obbliga-
zione contratta da soggetti privi di autonomia giuridica nel diritto romano
classico 25.
Ed è proprio intorno a tale figura dell’obbligazione giuridica imperfetta
che sembrano strutturarsi anche quegli “altri” doveri, di cui si fa menzione
nel secondo comma dell’art. 2034 c.c., i quali, per la propria natura giuri-
dica e in quanto si fondano sul contratto, si distinguono nettamente, sotto
il profilo contenutistico, dagli obblighi della morale sociale ai quali fa rife-
rimento il primo comma del medesimo articolo 26: essi danno origine, per-
tanto, a dei puri debiti, vale a dire a rapporti giuridici non obbligatori, che
parimenti trovano il loro fondamento in un contratto a causa debole.
Tali situazioni giuridiche, dunque, non sembrano potersi considerare
una nuova categoria concettuale, elaborata dai redattori del codice italiano
del 1942 27, ma rappresentano, invero, il portato dell’evoluzione del model-
lo romanistico di obbligazione naturale prodottosi con il passaggio dal si-
stema contrattuale del diritto comune, dominato dall’esigenza di rispetto
della forma – una volta osservata la quale, come è noto, non è consentita
una valutazione nel merito della causa posta in concreto a fondamento
dell’obbligazione – ai sistemi giuridici moderni, improntati all’osservanza
rigorosa del principio consensualistico, con tutto quanto ne consegue in
termini di libertà delle forme negoziali, di atipicità nonché di valutazione
della meritevolezza degli interessi perseguiti dai contraenti 28.
Nella prospettiva del modello romanistico dell’obbligazione naturale è
possibile, dunque, superare l’alternativa tra riconoscimento oppure nega-

25
In tal senso, da ultimo, anche D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit., 156.
26
D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit., 156.
27
Come invece ritiene R. FERCIA, Le obbligazioni naturali, in Trattato delle obbligazioni,
diretto da L. GAROFALO e M. TALAMANCA, vol. 1: La struttura e l’adempimento, Tomo III,
Obbligazioni senza prestazione e obbligazioni naturali, Padova, 2010, 292 ss. e 437 ss.
28
Così, D. BOSCHI, L’obbligazione naturale, cit., 157, il quale sottolinea che il ricorso
alla figura dell’obbligazione giuridica imperfetta consente, altresì, di attribuire un signi-
ficato pieno ed autonomo a quanto disposto dall’art. 1322, 2° comma, c.c., il quale esige
che venga effettuato un controllo ulteriore rispetto a quello di mera esistenza e liceità della
causa, consistente, per l’appunto, nel valutare se gli interessi in gioco nell’assetto nego-
ziale voluto dalle parti abbiano effettivamente una rilevanza tale da giustificare la conces-
sione di una loro piena tutela giudiziale.
126 Francesco Fasolino

zione della piena coercibilità del vincolo, fondata sul nesso, apparentemen-
te indefettibile, tra giuridicità e tutela in giudizio: invero, ben può ricorrere
una terza ipotesi, un quid medium, per così dire, in cui la causa, pur essen-
do di per sé idonea a giustificare il sorgere di un rapporto giuridico, non è
tuttavia sufficiente a far sì che l’ordinamento si preoccupi di garantire a ta-
le rapporto una piena attuazione, sia nel senso che l’obbligazione che ne
scaturisce è incoercibile, sia nel senso che, laddove venga volontariamente
eseguita la prestazione, non ne è consentita la ripetizione.
In definitiva, causa (lecita) e tutela giudiziale solo normalmente coesi-
stono: infatti, come è stato autorevolmente affermato 29, “mentre l’esisten-
za della causa è assicurata da quegli interessi che attribuiscono un senso
razionale al contratto e che rivelano l’intenzione delle parti di obbligarsi
giuridicamente secondo il comune apprezzamento (cause raisonnable), la
coercibilità del vincolo sussiste solo se tali interessi rendono anche tollera-
bile il costo sociale della coercizione (cause iuste)”.
Il gioco è, per l’appunto, una di quelle ipotesi in relazione alle quali il
legislatore non ha tipicamente reputato sufficiente l’esistenza di una causa
lecita a fondamento dell’obbligazione delle parti, non ravvedendovi pure
gli altri presupposti necessari per la previsione di una tutela piena; al con-
trario, anzi, ha ritenuto mancante qualunque possibile giustificazione, in
termini di utilità economica, dell’elevato costo sociale che comporterebbe
la coercizione in giudizio dell’adempimento delle obbligazioni che dal gio-
co scaturiscono, così come dell’eventuale pretesa di restituzione di quanto
spontaneamente pagato dal perdente.

29
Da G. GORLA, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e
casistico, I, Lineamenti generali, Milano, 1954, 60 e 170 ss.
I ludi romani tra politica, società e diritto 127

I ludi romani tra politica, società e diritto


Valeria Carro

SOMMARIO: 1. Organizzazione dei ludi. – 2. Ludi e rituali. – 3. Donne e ludi. – 4. Cristiani-


tà e ludi.

1. Organizzazione dei ludi

I ludi ebbero sempre un carattere più di esibizione che di competizione


in quanto ludus significa gioco, quindi, allenamento o anche luogo di eser-
cizio, come si legge nelle Saturae di Orazio (1.6.72).
L’educazione fisica fece parte dell’educazione generale dei giovani, ma su-
bordinatamente ad altre discipline: lo sport fu, soprattutto, una forma di spet-
tacolo ed ebbe un carattere per lo più militare ed utilitaristico. Del resto i Ro-
mani impostavano generalmente la loro formazione sull’educazione militare.
I ludi pubblici romani, così, rappresentarono un aspetto rilevante del
costume e della storia religiosa 1 e sociale, trasformandosi, poi, in forti
strumenti demagogici di propaganda politica in epoca imperiale 2.
Essi si distinguevano in straordinari e ordinari in base alla loro periodi-
cità, e avevano origine pubblica o privata se prevalentemente periodici, o
se prevalentemente legati a circostanze occasionali di carattere funerario o
di propaganda elettorale ovvero accompagnavano convivi o erano disposti
per testamento 3.
In età imperiale nello stadio si tenevano gli agones di origine greca;
nell’anfiteatro avevano luogo i combattimenti dei diversi gladiatori, di
coloro cioè che combattevano con il gladio (munera gladiatoria), i com-

1
S.v. Ludi publici, DS. III.2, Paris, 1900, 1362 ss.
2
G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, München, 1912, 451 ss.
3
Sui ludi publici: Liv. 23.30.15; 28.21.1, 10; 31.50.4; 39.46.2; 41.28.11. Sui ludi privati:
CIL II, 1479; V 8664, XI 3811=ILS 6583.
128 Valeria Carro

battimenti di gladiatori con animali feroci o spettacoli di caccia ad ani-


mali selvaggi detti venationes 4 e le scene di battaglie navali combattute
da gladiatori in bacini naturali o artificiali dette naumachie 5, nel circo e
nel teatro, infine, si rappresentavano quegli spectacula che erano chiama-
ti ludi circenses e scaenici 6.
Numerose sono le disposizioni legislative in materia di ludi 7.
Le leges municipali contenevano precise disposizioni riguardo alla fun-
zione esercitata dai magistrati nello svolgimento dei ludi publici.
Ricordiamo, in particolare, la Tabula Heracleensis 8 che concedeva il
passaggio in città di giorno per i carri delle vergini vestali e dei reges sacro-
rum che si recavano ai ludi; l’occupazione a quelli tenuti alla cura ludorum
del loco publico necessario per allestire palchi e proibiva nelle ll. 135-139 ai
cittadini durante lo spettacolo di occupare i posti di senatores e decuriones.
La Lex municipii Tarentini 9, poi, prevedeva che l’ammenda per i tra-
sgressori del divieto di demolire o danneggiare pubblici edifici andasse per
metà messa a disposizione del magistrato in carica che poteva usarla alter-
nativamente per la celebrazione dei ludi annuali ovvero per far erigere un
proprio monumento celebrativo.
Ed, infine, la lex Coloniae Genetivae Iuliae Ursonensis 10 che riguardò la
regolamentazione delle competenze magistraturali 11, la gestione delle spese
e l’attribuzione dei posti d’onore 12 durante gli spettacoli.
I ludi più antichi erano diretti da sacerdoti, mentre in età imperiale il
peso maggiore dell’organizzazione dei ludi publici gravava sugli edili a te-
stimonianza dell’assunzione della funzione demagogica assunta dai ludi nel
corso del tempo.
Gli stessi imperatori spesso assunsero l’onere di organizzare personal-
mente gli spettacoli 13.

4
Svet. Calig. 27.1: munera ferarum.
5
ILS 5053; CIL IV 1190, 1184.
6
Aug. Res gestae 22-23.
7
M. FORA, I munera gladiatoria in Italia: considerazioni sulla loro documentazione epi-
grafica, Napoli, 1996.
8
CIL I 593=ILS 6085.
9
CIL I 590 cap. 4 ll. 32-38=ILS 6086.
10
CIL I 594=ILS 6087.
11
Capp. 70/71-128.
12
Capp. 125-127.
13
A. PALMA, Le ‘curae’ pubbliche, Napoli, 1980.
I ludi romani tra politica, società e diritto 129

Quello di curator ludorum era un incarico prestigioso come testimonia-


no le attribuzioni a cui aveva diritto l’interessato che disponeva di littori e
vestiva la pretesta 14, anche se privato editore 15.
Le spese per la celebrazione degli spettacoli gravavano sullo Stato, ma
contribuivano anche i magistrati preposti alla cura stessa 16.
La durata dei giochi e degli spettacoli dipendeva dall’importanza degli
eventi cui questi erano collegati.
Nota dominante delle rappresentazioni era la violenza, strumento per
ottenere consenso e deviare l’attenzione della popolazione urbana dalla
politica.

2. Ludi e rituali

I protagonisti della scena erano acclamati, ma si collocavano in una


condizione sociale deteriore provenendo anche dagli strati sociali più bassi.
Essi erano ricompensati da enormi somme, ma le loro attività erano
considerate infami 17.
Nei ludi sono coinvolti umili, schiavi, prigionieri di guerra e condannati
al gladium, ma tra i protagonisti vi sono anche i senatori, equites, esponenti
dei vertici della società attratti da un mondo affascinante.
I ludi erano una celebrazione pubblica di giochi tenuta in un teatro o
nel circo, organizzata in ricorrenza religiosa o politica, per compiacere il
pubblico.
La forma più antica della voce è loidus o loedus, il che escluderebbe l’eti-
mologia basata sull’assonanza da Lydus, pretendendosi che i giochi pubbli-
ci fossero stati celebrati prima nella Lidia, da cui sarebbero passati nell’uso
di popoli delle regioni occidentali e, attraverso l’Etruria, a Roma.
Il sinonimo di ludus, la voce latina lusus, era propriamente usato per in-
dicare i giochi privati, mentre per ludi si intendevano i pubblici.
I ludi erano associati a pubblici spettacoli.
Per assicurarsi la protezione divina si organizzavano, infatti, spettacoli

14
Dion. Hal. 6.95 Tac. Ann 1.15,2-3.
15
Cic. De leg. 2.24.61 Si quid ludorum, dominus funeris utatur accenso atque lictoribus.
16
Marco Aurelio ispirò il senatusconsultum de sumptibus ludorum gladiatorum minuen-
dis e con la grave crisi finanziaria del III secolo si introdusse il rimedio della excusatio ac-
cordata di volta in volta dagli imperatori ai meno agiati editores di ludi o munera.
17
V. CARRO, … et ius et aequom postulas. Studio sull’evoluzione del significato di postu-
lare, Napoli, 2006.
130 Valeria Carro

pubblici. Formulato il voto relativo, si stabiliva la somma necessaria per


l’allestimento dei giochi e, a volte, si poteva destinare anche una parte dei
bottini di guerra. I ludi stabiliti con tale procedura si dicevano ludi votivi.
Questi potevano essere promessi per una sola volta, ovvero si prometteva
l’annuale ripetizione di essi in un determinato giorno o serie di giorni. In
tale caso si dicevano ludi stati o annui e venivano registrati nel calendario
ufficiale nel giorno o nei giorni stabiliti.
I ludi conservarono il loro carattere sacro ma dai ludi pubblici sacri, si
distinsero i ludi funebres privati, celebrati in onore dei defunti di alta posi-
zione sociale.
I giochi pubblici si distinguevano a seconda del luogo – circo, teatro o
pubbliche piazze – ove venivano celebrati in: circenses, scaenici o theatrales
o compitalicii.
I ludi gladiatorii e i combattimenti con le fiere, furono in origine dati
dai privati in occasione di solenni funerali, nei novendiali. Solo più tardi,
furono parificati agli altri ludi e persero il loro carattere funebre e privato.
Tuttavia, in età imperiale, quando gli spettacoli gladiatorii erano dati nel-
l’anfiteatro sotto il controllo dell’imperatore stesso o dei magistrati, è pro-
babile che fosse mantenuta la finzione legale e che si credesse di assistere a
giochi privati.
Nei primi tempi dell’età repubblicana, i consoli organizzavano i ludi,
ma furono sostituiti nell’anno 49 a.C. dagli edili.
Con il lancio della mappa o panno di lino, si dava inizio ai giochi.
Gli spettatori assistevano in piedi allo spettacolo, ma nel tempo furono
disposti sedili per godere più comodamente le varie fasi dei giochi. Del re-
sto anche la loro durata andò prolungandosi.
I ludi si celebravano per più giorni consecutivi ed erano celebrati in
molti giorni dell’anno in quanto erano organizzati oltre che nelle solennità
religiose, anche in occasione del natalizio degli imperatori defunti diviniz-
zati, nella ricorrenza dell’anniversario dell’esaltazione al trono dell’impera-
tore, di ogni lieto evento nella famiglia imperiale, nei natalizi e negli anni-
versari della morte di congiunti dell’imperatore, e in ogni altra lieta circo-
stanza.
Il rituale da seguirsi nei ludi, specialmente per ciò che riguardava la ce-
rimonia religiosa che di regola li precedeva, era fissato, per i giochi in rela-
zione con il culto nazionale, dai pontefici, per quelli che si riferivano ai cul-
ti stranieri dal collegio del quindecemviri.
I ludi circenses ricollegavano la loro origine con le gare mitiche di Eno-
mao e Tantalo nell’Elide e con quelle cui partecipò Ercole. Entrati negli
usi dei popoli latini, sarebbero stati istituiti da Romolo in onore di Nettuno
I ludi romani tra politica, società e diritto 131

nella festività dei Consualia. Questi ludi detti Consuales o Magni si celebra-
vano nella valle Murcia tra il Palatino e l’Aventino con corse di cavalli e
carri. Poi si celebrarono nel Circo Massimo nelle solennità religiose in
giorni fissi (ludi ordinarii), e, in occasione di dedicazioni di templi, di inau-
gurazioni di basiliche o altri edifici pubblici, di vittorie e di altri eventi che
celebravano la gloria del popolo romano (ludi exstraordinarii). I ludi erano
preceduti da una processione solenne, pompa, che faceva il giro del circo
attorno alla spina. Al termine della processione rituale si compivano sacri-
fici propiziatorı̂ in onore della divinità. Il preludio era dato da una compa-
gnia di desultores che intrattenevano il pubblico con i loro esercizi di acro-
bazie. Seguivano gare di corse di carri e cavalli che formavano la parte es-
senziale dei ludi del circo, seguite dal certamen gymnicum, dal ludus Troiae
o da venationes, da pugna pedestris o equestris. Talvolta chiudeva lo spetta-
colo un combattimento navale, naumachia, nell’arena inondata di acqua. A
completare il lungo programma non mancavano esercizi di mimi, saltatori,
istrioni, funamboli, ma se durante la celebrazione fosse avvenuta una pro-
fanazione, questi dovevano essere rinnovati, ludi instaurativi. Con propor-
zioni più modeste, i ludi circenses erano celebrati anche nelle città italiche e
nei castra.
I ludi scaenici furono introdotti a Roma nel 394 a.C. per placare l’ira
degli dei durante una pestilenza. Furono rappresentati da artisti dell’Etru-
ria con danze mimiche in un teatro ligneo improvvisato. S’introdussero,
poi, exodia e atellane e più tardi, tragedie e commedie greche e latine.
Gli agoni ginnici e musicali furono, invece, istituiti da Augusto in me-
moria della battaglia di Azio. Nerone introdusse i ludi Iuvenales con corse
di cavalli e gare ginniche e musicali.
I ludi Apollinares, in onore di Apollo, furono, invece, dapprima votivi e
poi resi annuali per ottenere la conservazione della salute pubblica.
I ludi Augustales erano celebrati in ricordo del ritorno di Augusto dal-
l’Oriente e dell’erezione dell’Ara pacis. Celebrati la prima volta nell’11
a.C., dopo la morte di Augusto, a iniziativa di Tiberio, divennero stabili e
annuali.
Si ricordano, poi, i ludi scaenici graeci che si distinguevano in ludi astici
che derivavano dai giochi ateniesi e consistevano in rappresentazioni tea-
trali di tragedie e commedie e ludi thymelici che consistevano in vari generi
di intrattenimenti, svolti nell’orchestra, quali audizioni di canti a solo e co-
rali e danze.
I ludi bubetii erano celebrati nel giorno delle Parilia, festa dei pastori ri-
cordati da Plinio in Nat. Hist. 18.12. Furono forse in relazione con la dea
Bubona come si legge in August. De civit. Dei 4.24.34.
132 Valeria Carro

I ludi capitolini furono stabiliti, secondo Livio 5.20, dopo la cacciata dei
Galli nel 390 a.C. Si celebravano sul Campidoglio ed erano presieduti non
da un magistrato ma dai magistri di un collegio formato da abitanti delle
due alture del sacro colle detto Collegium Capitolinum. Consistevano in
gare di pugilato e di corsa cui si univano vari divertimenti fra i quali la cor-
sa con l’otre.
I ludi Castoris erano dati a Ostia in onore dei Dioscuri.
I ludi cereales e Megalenses erano rispettivamente celebrati in onore di
Cerere e della Mater Magna. Questi ultimi in principio furono scenici, cele-
brati sul Palatino avanti il tempio della divinità, poi anche circensi. Nei
giorni in cui si svolgevano, si recavano doni alla divinità e si facevano scam-
bievoli banchetti che degeneravano spesso in orge. I primi, invece, in origi-
ne erano votivi e poi divennero annuali. Iniziavano con una pompa che si
svolgeva dal Campidoglio al Circo Massimo e avevano carattere espiatorio.
I ludi compitalicii erano celebrati ogni anno nei compita della città in
onore dei Lares compitales. Consistevano in una gioiosa festa popolare cui
prendevano parte gli abitanti del vicinato. Ciascuno vi contribuiva con of-
ferte di cibo e partecipava al banchetto.
I ludi florales, istituiti per oracolo della Sibilla nel 238 a.C. furono dap-
prima votivi e furono, poi, scenici e circensi. Nel circo si davano cacce di
animali domestici e campestri, simulando corse e combattimenti.
I ludi Martiales si celebravano con la erezione dell’edicola di Marte sul
Campidoglio e la dedicazione del tempio di Marte Ultore, nel Foro di Au-
gusto. Erano giochi di circo e duravano un giorno.
I ludi Palatini avevano carattere per lo più privato e furono dati da Livia
in onore dell’imperatore Augusto per la durata di tre giorni e consistevano
in ludi scaenici.
I ludi piscatorii erano celebrati sulle rive del Tevere nella festa dei Nep-
tunalia. Le spese si sostenevano con il ricavato della vendita di quei piccoli
pesci che nel giorno dei Volcanalia si gettavano nel fuoco a fine espiatorio.
I ludi plebeii erano ludi fissi celebrati dopo il banchetto sacrificale in
onore di Giove che soleva essere solennizzato nel tempio di Giove Capito-
lino. Furono istituiti in memoria della riconosciuta e confermata sovranità
popolare, la secessione della plebe sul monte Aventino.
I ludi romani o Magni erano feste del patriziato e furono istituiti con
corse di cavalli e gare di pugilatori venuti dall’Etruria.
I ludi saeculares sarebbero stati istituiti per invocare la prosperità e la li-
bertà del popolo romano. Furono celebrati per la prima volta da Valerio
Publicola, per l’oracolo dei libri sibillini, nell’anno 509 a.C., nei campi già
di Tarquinio e da questo consacrati a Marte, presso il Tevere, nel Taren-
I ludi romani tra politica, società e diritto 133

tum, ove esisteva un’ara sotterranea sacra a Dite e a Proserpina, sulla quale
si soleva sacrificare per allontanare ogni male dal popolo romano.
I ludi Taurii erano celebrati in onore degli dei sotterranei e furono rin-
novati per espiazione ed erano accompagnati da sacrifici notturni.
I ludi venatorii erano dati in onore di Minerva e consistevano in giochi
scenici e venatorı̂.
I ludi Victoriae Caesaris furono istituiti da Cesare in occasione della de-
dicazione del tempio di Venere Genitrice.
I ludi Victoriae Sullanae furono istituiti in ricordo della vittoria di Silla
alla porta Collina.
Nel calendario Filocaliano del IV secolo si trovano poi menzionati ludi
di nuova istituzione del regno di Diocleziano, dei tetrarchi e di Costantino
relativi a vittorie imperiali e ai genetliaci degli imperatori.

3. Donne e ludi

L’ambizione e il confronto con i predecessori, spinsero gli imperatori


da Augusto in poi, a rendere le manifestazioni più spettacolari anche con la
presenza delle donne.
Nerone in occasione dei ludi in onore di sua madre, fece combattere nel
circus uomini e donne non solo di rango equestre, ma anche senatorio sia
come bestiarii che gladiatrici 18.
Domiziano per offrire spettacoli originali fece scendere delle donne nel-
l’arena 19, ma nel 200 d.C. Settimio Severo proibì alle donne di combattere
nell’arena 20.
Tuttavia con un Senatoconsulto dell’11 d.C. e successivamente con la Ta-
bula Larinas del 19 d.C. erano stati posti dei divieti precisi per arginare le esi-
bizioni gladiatorie delle donne ben nate. La Tabula Larinas così conferma il
fenomeno della gladiatura femminile riferendo dei divieti a uomini e donne.
I reperti fondamentali sono una iscrizione rivenuta nel porto romano di
Ostia, un frammento di terracotta rinvenuto a Leicester e un bassorilievo
del II secolo d.C. proveniente da Alicarnasso 21.

18
Tac. Annales 15.32; Cass. Dio. 62.17.3-4.
19
Suet. Domit. 4; Cass. Dio. 67.8.3-4.
20
Cass. Dio. 76.16.1.
21
Cfr. C. RICCI, Gladiatori e attori nella Roma giulio-claudia. Studi sul senatoconsulto di
Larino, Milano, 2006.
134 Valeria Carro

4. Cristianità e ludi

Con l’avvento del Cristianesimo e l’affermarsi di teorie filosofiche e religio-


se che esaltavano lo spirito ridimensionando il corpo, l’importanza dell’edu-
cazione fisica diminuì e furono ostacolate alcune forme di spettacolo sporti-
vo particolarmente cruente quali le venationes e i ludi gladiatorii, in cui spes-
so accadde che proprio i martiri cristiani divertissero a loro spese i Romani.
Le venationes, dal latino venatio cioè caccia, erano una forma partico-
larmente cruenta di divertimento negli anfiteatri romani che implicavano la
caccia e l’uccisione di animali selvatici.
Le bestie selvatiche ed esotiche venivano portate a Roma dai confini
dell’impero e le venationes si svolgevano durante la mattina, prima del
principale evento pomeridiano, i duelli gladiatorii.
Migliaia di animali selvatici venivano massacrati nel Foro romano, nei
Saepta e nel Circo Massimo dove non vi erano protezioni per la folla, ma
solo precauzioni, quali fossati, per scongiurare la fuga degli animali, che
solo talvolta sconfiggevano il gladiatore bestiarius, cioè il cacciatore delle
bestie selvagge.
A seguito delle venationes si svolgevano le esecuzioni capitali di cittadi-
ni di basso rango, gli humiliores.
Le forme comuni di esecuzione erano la morte sul rogo, la crocifissione
o la damnatio ad bestias cioè la condanna del prigioniero a essere divorato
vivo dalle belve nell’arena.
Scontri fatali con le bestie costituivano una antica forma di condanna a
morte: l’esecuzione era organizzata come una sorta di spettacolo teatrale
che si concludeva con la morte del protagonista.
I Romani catturavano e trucidavano gli animali perché per loro la caccia
non era solo un sadico divertimento, ma ribadiva il loro dominio sul mon-
do e, quindi, sulla natura.
Nel 325 d.C. l’imperatore Costantino abolì i munera sine missione.
L’ultimo combattimento dei gladiatori ci fu nel 438 d.C. ma, nonostante
i divieti, continuarono a svolgersi clandestinamente fino al VI secolo.
Con i Goti in Italia dal 537 d.C. cessarono tutti i giochi anfiteatrali.
Per comprendere la posizione dei cristiani nei confronti degli spettacoli,
in genere, e di quelli gladiatorii, in particolare, si possono ricordare alcuni
brani di autorevoli scrittori da Tertulliano, a San Cipriano, vescovo di Car-
tagine, decapitato nel 258 d.C. fino a Sant’Agostino.
Si sostenne che gli spettacoli gladiatorii, affascinavano il pubblico in
modo morboso, esercitando su di essi una forma di attrazione alla quale
era difficile sottrarsi.
I ludi romani tra politica, società e diritto 135

Queste fonti deploravano l’infatuazione del popolo per i ludi pubblici.


Tertulliano, scrittore romano e apologeta cristiano, scriveva:

De spectaculis 27: “Dobbiamo odiare queste riunioni e adunanze dei gentili, per-
ché vi si bestemmia il nome di Dio, vi si reclamano ogni giorno i leoni contro di
noi, vi nascono i decreti di persecuzione, vi fioriscono le tentazioni. Che farai tu,
preso in mezzo a quella tempesta di empi applausi? Non che tu possa patire qual-
cosa dagli uomini (nessuno sa che tu sei cristiano), ma pensa un po’ cosa accadrà
di te in cielo. Puoi dubitare che in quel momento, in cui il diavolo infuria contro
la Chiesa, tutti gli angeli non guardino dal cielo e notino uno per uno chi abbia
detto una bestemmia, chi l’abbia ascoltata, chi abbia offerto l’orecchio o la lingua
al diavolo contro Dio? Non fuggirai dunque quegli scanni dei nemici di Cristo,
quella scuola di morbosità, quella stessa aria, che vi incombe, insozzata da scelle-
rate voci? Si ammetta pure che alcuni di questi spettacoli siano dolci e graditi e
semplici, alcuni anche onesti. Nessuno nasconde il veleno nel fiele e nell’ellebo-
ro, ma in torte gustose e saporite e proprio tramite queste dolcezze introduce quel
nocumento. Così anche il diavolo imbeve quello che prepara per la nostra morte
delle cose di Dio più grate e più accette”.

In particolare, il ludo gladiatorio veniva organizzato per la “libidine di


occhi crudeli” ove l’uomo viene ucciso per il piacere dell’uomo.
Uccidere è considerato abilità, perizia e arte. Si commette delitto e lo si
insegna:

San Cipriano Ad Donatum Ep. 1.6, scriveva: “Il mondo gronda sangue fraterno:
l’omicidio che, commesso dai singoli è un delitto, fatto in massa assume il nome
di eroismo; così i delitti diventano impuniti non già per la loro incolpabilità, ma
per la loro mostruosa ferocia. Di più, se ti soffermi a guardare le città, t’imbatti in
una folla che ti parrà più insopportabile di qualunque solitudine. Vi si preparano
i giuochi gladiatori per sollecitare col sangue la libidine di uomini crudeli; si nu-
trono bene i corpi con cibi sostanziosi e s’ingrassano erculee membra robuste, af-
finché colui che è ben pasciuto muoia in pena recando un maggior guadagno al
padrone; si uccide un uomo per saziare la voluttà di un altro uomo e si chiama
perizia, abilità, arte il saper uccidere. Ma i delitti non solo vi si commettono, si
insegnano anche. Non c’è nulla di più barbaro e di più crudele. È un’arte il saper
ammazzare ed è una gloria l’ammazzare. Che cosa è questo, dimmelo, e perché si
getta in pasto alle belve gente da nessuno condannata, di fresca età, di bell’aspet-
to, vestita come a festa? Sciagurati! Mentre sono ancora in vita si adornano per
una morte da essi voluta, si gloriano persino della loro sventura. Combattono
contro le belve non per una condanna qualsiasi, ma per pazzia. E intanto i padri
guardano i figli battersi nell’arena; i fratelli e le sorelle stanno tra gli spettatori. E
sebbene una più solenne messa in scena accresca il prezzo dello spettacolo – oh
sventura! – anche la madre paga il prezzo dello spettacolo per essere presente an-
136 Valeria Carro

che lei alle sue sciagure. Così tutti, padre, fratello, sorella, madre, in mezzo a così
empio, barbarico e funereo spettacolo, non pensano di essere anch’essi parricidi
con i loro occhi”.

Tale condanna è sostenuta anche da Sant’Agostino, che nelle Confessio-


ni 6.8 scriveva:

“Alipio mi aveva preceduto a Roma per studiare diritto. Qui fu preso in maniera
indicibile da una incredibile passione per gli spettacoli dei gladiatori. Egli li av-
versava e li detestava, ma alcuni suoi amici e condiscepoli, avendolo un giorno
incontrato mentre tornava da colazione, benché egli si rifiutasse ed energicamen-
te resistesse, con violenza amichevole lo trascinarono nell’anfiteatro proprio nei
giorni di crudeli e sanguinosi spettacoli”. Egli diceva: “Se riuscirete a trascinare
ed a far sedere il mio corpo in quel luogo, potrete forse far rivolgere la mia atten-
zione ed il mio sguardo allo spettacolo? Vi assisterò come un assente, riportando
vittoria su voi e sullo stesso spettacolo”. Udito ciò, essi non rinunziarono al pro-
posito di portarlo con loro, mossi di più, forse, proprio dal desiderio di vedere se
riusciva nell’intento. Giunti colà si misero, così come poterono, a sedere: tutto
era un fremito di disumana voluttà. Alipio chiuse le porte degli occhi, vietò al suo
animo di muoversi fra tanto orrore; ma avesse potuto chiudere anche le orecchie!
In un incidente della lotta, avendolo fortemente scosso un immenso grido di tut-
to il pubblico, vinto dalla curiosità e come se fosse preparato a disprezzare ed a
vincere qualunque cosa essa fosse, anche dopo averla veduta, aprì gli occhi e fu
colpito nell’anima da una ferita più grave di quella che ricevette nel corpo colui
che egli desiderava vedere. Cadde perciò più miseramente di chi cadendo aveva
suscitato quel chiasso che, penetratogli per gli orecchi, gli aprì gli occhi … Come
vide quel sangue vi bevve insieme la ferocia; né volse altrove lo sguardo, anzi lo
tenne fisso, assorbendo inconsciamente passioni violente e si dilettava per la scel-
leratezza della lotta, ebbro di gioia sanguinaria. Egli non era più quello che era
entrato, ma uno della moltitudine tra cui era venuto; era oramai un vero compa-
gno di coloro dai quali si era fatto trascinare.
Assistette allo spettacolo, lo acclamò, si entusiasmò e portò via di là il pazzo desi-
derio di ritornarvi non solo con quelli che poc’anzi ve lo avevano trascinato a for-
za, ma precedendoli e trascinandovi anche altri.
Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica 137

Il gioco crudele dei munera gladiatoria


tra religione e propaganda politica
Valeria Carro

SOMMARIO: 1. Le origini religiose dei munera gladiatoria. – 2. La condizione dei gladiatori:


equipaggiamento e combattimenti. – 3. Le fonti. – 4. Imperatori e munera gladiatoria.

1. Le origini religiose dei munera gladiatoria

Gli spettacoli gladiatorii definiti munera si ricollegano all’antichissima


usanza di bagnare i riti funebri con sangue umano. Tale usanza era legata alla
credenza che le anime dei defunti gradissero tale tributo cruento, in quanto li
avrebbe predisposti ad affrontare con maggiore serenità la vita ultraterrena.
Le vittime di tanta crudele superstizione furono spesso i prigionieri di
guerra.
Nell’Eneide 10.517-520 Enea sacrificò otto schiavi sul rogo di Pallante
… e tosto quattro giovani, da Sulmona venuti ed altrettanti mandati dal-
l’Ufente, vivi afferra da immolare al suo Mane quali inferie che col lor san-
gue irrorino la pira …: Sulmone creatos / quattuor hic iuvenes, totidem,
quos educat Ufens, / viventis rapit, inferias quos immolet umbris / captivo-
que rogi perfundat sanguine flammas.
I Romani recepirono tale barbaro costume dagli Etruschi, verso i quali,
come è noto, furono debitori per moltissimi aspetti della loro civiltà ed in
particolare per alcune pratiche religiose. Numerose tombe etrusche, infatti,
sono decorate con immagini riproducenti uomini armati che si affrontano
in combattimento.
Anche presso i Greci, nel periodo arcaico, fu invalso il costume di fare
sacrifici umani sulle pire. Achille, del resto, fece uccidere dodici nobili pri-
gionieri troiani, per bagnare del loro sangue la pira dell’amico Patroclo.
Tuttavia nel tempo tale usanza si perse e non degenerò mai in forma di
sport-spettacolo come accadde a Roma.
138 Valeria Carro

In seguito al sacrificio puro e semplice, si sostituì una sorta di combat-


timento che doveva soddisfare contemporaneamente l’esigenza religiosa e
quella della ricerca del divertimento.
Il combattimento poteva avvenire tra uomini condannati a morte per
qualche reato o schiavi oppure tra uomini e animali.
D’altra parte essendo antichissima l’usanza di esporre alle fiere i con-
dannati a morte, era risalente anche quella di mettere a confronto animali e
uomini a scopo di spettacolo: evidentemente l’esigenza di allenarsi ad af-
frontare le fiere che quotidianamente insidiavano la loro vita, spinse gli
uomini primitivi a queste forme singolari di spettacolo. Un particolare tipo
di combattimento tra uomini e animali era la tauromachia, diffusa presso i
popoli mediterranei e assai praticata in special modo dalle popolazioni mi-
noiche.
Col tempo si perse il legame religioso con l’esecuzione dei condannati,
ma rimase l’abitudine di rendere tali esecuzioni pubbliche. Simili spettacoli
soddisfacevano quegli istinti sadici e quella sete di sangue che albergano
nella psiche umana e pare si siano manifestati in forme macroscopiche tra
gli antichi Romani.
A Roma si affermò la consuetudine di giustiziare una sola volta all’anno,
il 14 marzo, i prigionieri di guerra, ai quali potevano aggiungersi i delin-
quenti comuni. Che la cerimonia avesse ormai a un certo punto assunto
forma di spettacolo lo testimonia il fatto che in seguito si esposero all’attac-
co delle fiere non più uomini, ma pupazzi di stoffa.
Ma intanto l’elemento spettacolare delle lotte tra uomini o tra uomini e
animali, aveva cominciato a prevalere sugli altri, per cui si pensò di eserci-
tare degli individui a questo tipo d’incontri: nacquero in questo modo i
munera e la figura del gladiatore.

2. La condizione dei gladiatori: equipaggiamento e combattimenti

All’inizio i giochi gladiatorii si svolsero nelle piazze o nei posti dove


avevano luogo i funerali in quanto si cercava una giustificazione religiosa
alla crudeltà di tali atti. In seguito questi si organizzarono nel Foro e poi
nei circhi e negli anfiteatri.
Il primo combattimento di gladiatori sarebbe stato organizzato a Roma
dai fratelli Marco e Decimo Bruto in occasione dei funerali del loro padre
nell’anno 264 a.C. Tali combattimenti entrarono, però, nel calendario dei
giochi ufficiali soltanto nell’anno 42 a.C.
Verso la fine della Repubblica, sorsero delle vere e proprie scuole gla-
Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica 139

diatorie, i ludi, in cui s’insegnava l’arte di affrontare le fiere 1. All’inizio tali


scuole furono fondate e mantenute da municipi o da impresari privati, la-
nistae, ma poi anche dagli stessi imperatori. Si ricordano particolarmente
le quattro scuole volute da Domiziano a Roma. Esse furono il ludus galli-
cus, il ludus dacicus, il ludus matutinus e il ludus magnus.
I gladiatori alle dirette dipendenze dell’imperatore si chiamavano postu-
laticii, fiscales e imperiales. I gladiatori che dipendevano dal lanista erano
considerati di sua proprietà: egli ne disponeva a suo piacimento, venden-
doli o affittandoli agli editores dei giochi, magistrati o privati, che ne ave-
vano bisogno per allestire gli spettacoli.
Naturalmente il prezzo del gladiatore variava in base all’età, alla presen-
za fisica, alla forza: per questo i lanistae curavano l’allenamento e l’alimen-
tazione dei gladiatori appartenenti alle loro turnae¸ con molta attenzione.
S’iscrissero alle scuole gladiatorie, schiavi ormai rassegnati a un’esi-
stenza ai margini della società romana, cui particolari doti di forza e co-
raggio aprivano lo spiraglio alla notorietà, o in caso di fortuna, all’affran-
camento; condannati a morte costretti a pagare le loro colpe con un tri-
buto di svago, oltre che con la vita; persone umili vittime dei capricci di
qualche imperatore. Non mancarono, tuttavia, coloro che intrapresero la
carriera di gladiatori per motivi economici: tali volontari furono denomi-
nati auctorati e la somma di denaro per la quale si battevano si disse auc-
toramentum gladiatorium da Seneca, tra l’altro, definito turpissimum nelle
Epistulae 37.1.
I gladiatori entrati nei ludi all’inizio si esercitavano nel maneggio delle
armi e imparavano i primi rudimenti dell’arte. In seguito potevano passare
dalla categoria di tirones a quella di gladiatori esperti: tale passaggio, che
seguiva a una prova pubblica felicemente superata, era sottolineato con la
consegna di una tavoletta di avorio di forma allungata, detta tessera gladia-
toria, nella quale si incidevano il nome del tiro, il nome del padrone, la da-
ta della vittoria riportata e le sigle S P, spectatus.
Un gladiatore che si fosse particolarmente distinto in un combattimento
poteva essere premiato con la consegna di un fioretto, rudis, riconoscimen-
to che segnava il suo affrancamento da tale lavoro.
Una volta divenuti gladiatori, essi erano sottoposti a regole di vita molto
dure. Quando non erano nel circo o nei locali a essi destinati, erano tenuti
sotto la sorveglianza di soldati. Al minimo tentativo di ribellione o anche se
durante un combattimento non avevano soddisfatto il pubblico, erano in-

1
G. FERRARI, Ludi, in NNDI, IX, Milano, 1968, 1104 s.; U. GUALAZZINI, Giuochi, in
ED, XIX, Milano, 1970, 30 ss.
140 Valeria Carro

catenati, percossi e marchiati con il ferro rovente. Nonostante fossero con-


siderati e trattati per quello che erano, cioè schiavi o delinquenti comuni,
era molto curata la loro alimentazione, affinché non s’indebolissero. Si
somministravano loro pasti energetici che favorivano lo sviluppo dei mu-
scoli e in particolare la sangina a base di orzo, per cui venivano denominati
anche ordearii. Era loro proibito bere vino.
Gli allenamenti a cui erano sottoposti garantivano forza e prestanza fi-
sica.
L’aspetto fisico, il coraggio e l’abilità erano elementi che potevano de-
terminare un avanzamento di grado. Esistevano tra i gladiatori, infatti, vari
livelli.
Coloro che combattevano nei circhi contro le bestie feroci, bestiae, fe-
rae, prendevano vari nomi: arenarii¸ bestiarii, venatores, confectores fera-
rum: venatores vero et qui bestias feras in circo, vel alibi conficere aut dam-
nati solebant, bestiarii vocabantur.
Una rigida distinzione era fatta anche in base all’equipaggiamento e alla
tecnica di combattimento. Erano gladiatores bestiarii quelli che avevano
frequentato le scuole gladiatorie.
Anche negli appartamenti a loro riservati e nelle scuole esistevano più
spogliatoi in cui essi riponevano i loro attrezzi distintamente a seconda del-
la categoria a cui appartenevano: in Giovenale 2 si legge: Le reti non si mi-
schiano con l’infame tunica e colui che combatte nudo non ripone nella
stessa cella le spalliere e il tridente che percuote le armi avversarie. La par-
te più riposta della palestra accoglie questi esseri ed anche in prigione
hanno ceppi distinti.
I samnites erano armati alla foggia dei Sanniti da cui traevano il nome.
Avevano un grande scudo ovale, un elmo a visiera e una spada corta. I se-
cutores avevano uno scudo, spada ed elmo, e alle volte anche una mazza
piombata. I laqueatores erano armati alla leggera e si servivano di un laccio
con cui cercavano di atterrare l’avversario. I myrmillones e i galli erano ar-
mati alla maniera gallica, e portavano un elmo sormontato da una figura di
pesce. I thraces erano muniti di uno scudo rotondo e di un pugnale corto e
ricurvo. Gli hoplomachi avevano un’armatura pesante. Gli essedarii erano
armati come i Britanni e combattevano stando sui carri. Gli equites si bat-
tevano sui cavalli. L’armamento dei dimacheri consisteva in due spade. I
pegmatarii armati di bastoni e fruste, davano luogo a forme di spettacolo
più che altro burlesche, percuotendosi senza gravi conseguenze: in mezzo
all’arena si ergeva una macchina a forma di torre con più ordini che si an-

2
Sat. 6 v. 365. Cfr. R. ISIDORI FRASCA, Ludi nell’antica Roma, Bologna, 1980.
Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica 141

davano man mano restringendo verso l’alto, pegma; nei ripiani della mac-
china si ponevano i difensori pegmatarii che dovevano proteggerla dagli as-
salti di altri gladiatori i quali cercavano di espugnarla per impossessarsi di
armi, spade ed elmi posti sulla sommità di essa quale premio ai vincitori. I
sagittarii si difendevano lanciando frecce. I gladiatori ingaggiati per com-
battere durante le cerimonie funebri erano detti bustarii da bustum il rogo
su cui si bruciavano i cadaveri.
Alle volte si svolgevano spettacoli gladiatorii nelle abitazioni private a co-
ronamento di un banchetto. I gladiatori che si esibivano in tali luoghi erano
detti cubicularii da cubiculum. Infine erano chiamati retiarii quei gladiatori
che combattevano coperti da una corta tunica, non indossavano nessun ca-
sco o indumento di protezione ed erano quasi disarmati: in Giovenale 3 si
legge: nec galea frontem abscondit e … nudum ad spectacula vultum 4.
Tali gladiatori recavano in mano un tridente fuscina e una reticella iua-
culum oltre ad un corto pugnale. La loro specialità prevedeva l’incontro
con altri gladiatori regolarmente armati e protetti che essi mostrando note-
vole abilità e coraggio, tentavano di imbrigliare nelle maglie della rete, tra-
scinare a terra e finire con il pugnale, dopo aver ferito col tridente che per
la sua forma, provocava orrende lesioni.
Se il lancio della rete andava a vuoto, essi sfuggivano all’assalto dell’av-
versario correndo fino a che non riuscivano a riafferrare la rete e a tentare
un nuovo lancio. Tali incontri raramente avevano esito favorevole per i re-
ziarii e quasi sempre offrivano uno spettacolo crudele a loro danno. Alle
volte si combatteva in gruppi gregatim. In Svetonio 5 si legge: “Cinque re-
ziarii in tunica battendosi in gruppo erano stati vinti senza opporre resi-
stenza da un numero pari di gladiatori. Ne fu ordinata l’uccisione, allora
uno di essi, avendo ripreso il tridente, uccise tutti i vincitori. Caligola in un
editto rimproverò questa come una ferocissima strage e maledì coloro i
quali erano riusciti a sopportare … qui spectare sustinuissent … un tale
spettacolo”.
Nei combattimenti in gruppi che potevano essere costituiti anche da
molte centinaia di uomini, erano specializzati i catervarii.
Un frammento marmoreo conservato nel chiostro di S. Paolo a Roma,
offre utili informazioni sull’abbigliamento di retiarii e secutores.
Ogni scena presenta il numero d’ordine dei combattimenti, ma essendo

3
Sat. 8 v. 203.
4
Cfr. Sat. 5.5 v. 13.
5
Caligola 34.
142 Valeria Carro

il bassorilievo mutilo, ci restano ben visibili solo le scene contrassegnate


dai numeri II, III, IV, V, XIII e XIV. Delle iscrizioni che sicuramente era-
no sotto ogni scena, rimangono solo le seguenti: felicem, eundem felicem,
vrsvlv (m), victorinv (m).
I nomi essendo nel caso accusativo, dovevano riferirsi ai gladiatori vinti.
Il monumento doveva essere stato eretto in memoria di un gladiatore il
quale dall’abbigliamento e dalla rete, si capisce fosse reziario. Gli avversari
dovevano essere dei secutori, vale a dire quella speciale categoria di gladia-
tori sanniti che combattevano contro i reziarii.
Il reziario da quanto la cattiva conservazione della pietra lascia suppor-
re, ha sull’omero il galerus. Le gambe sono nude, eccezion fatta per alcune
bende o funicelle girate attorno alla caviglia. Da sotto il cinturone spunta il
subligaculum una specie di grembiule i cui lembi passano in mezzo alle
gambe. L’avversario è invece armato avendo il capo coperto con quell’el-
mo particolare, con visiera munita di un buco, tipica dei secutori, lo scudo
e la corazza a protezione del torace, manica al braccio e grembiule alla ma-
nica sinistra. Il grembiule che gli ricopre i fianchi è simile ai subligaculum
del reziario. La mano destra regge un pugnale. Nella scena segnata dal n.3
il reziario che è meglio visibile, porta il longus galerus che è uno dei princi-
pali distintivi della categoria. Tale longus galerus, impositus humero gladia-
toris, gli difendeva le spalle, testa e collo e aveva la foggia di una specie di
canale, chiuso da un lato e con una larga falda intorno. In Giovenale 6 leg-
giamo: “E qui trovi la vergogna di Roma, Gracco che duella senza l’arma-
tura del mirmillone, senza lo scudo e la galea ricurva, poiché rifiuta simili
fogge (le rifiuta e le odia, non cela il volto con l’elmo): ecco che manovra il
tridente e dopo aver gettato invano, bilanciando la destra, la sua pendente
rete, rivolge agli spettatori il volto scoperto e fugge ben riconoscibile attra-
verso tutta l’arena. Dobbiamo prestar fede alla cosa: poiché dall’imbocca-
tura della tunica si diparte un cordone dorato che viene sballottato sulla
spalliera allungata”.
Chiaramente i numeri indicavano, nelle iscrizioni commemorative dei
gladiatori, assai frequenti, il numero dei combattimenti sostenuti. Talora in
esse erano segnate anche le vittime con disegni di corone.
I gladiatori si gloriavano molto del numero dei combattimenti affrontati
e ne tenevano un conto preciso. Per questo sulle loro lapidi è riprodotta
spesso la formula qui pugnavit XIII ovvero pugnarum V. E tale formula era
ripetuta nei programmi dello spettacolo libelli munerarii di cui si sono ri-
trovate numerose tracce a Pompei.

6
Sat. 8.
Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica 143

3. Le fonti

Sebbene d’indole spesso spregevole e di provenienza sociale umile,


per abilità e coraggio, i gladiatori ottennero grande favore dal pubblico:
in Giovenale 7 leggiamo: “Eppia moglie di un senatore ha seguito una
compagnia gladiatoria sino a Faro, al Nilo e alle malfamate mura dei La-
gidi, sicché la stessa Canopo ha dovuto condannare l’incredibile immora-
lità di Roma … ma di quale bellezza, di quale splendore di giovinezza si è
incapricciata Eppia? Che cosa ha visto di così bello da sopportare la no-
mea di gladiatrice? In verità Sergiuzzo aveva già incominciato a radersi la
barba e a desiderare il riposo per via di quel braccio mutilato; senza con-
tare le varie deformità del viso: nel bel mezzo del naso una sporgente
bozza scorticata dalla visiera e un noioso malanno gli faceva lacrimare gli
occhi senza tregua. Ma era un gladiatore: questo basta a trasformarli in
tanti Giacinti”.
Anche i poeti li celebravano nei loro versi e le loro gesta furono spesso
immortalate su stoviglie e suppellettili domestiche. Trimalcione stesso si
vantava di avere vasi da bere con sopra raffigurate le gesta di due famosi
gladiatori, Ermete e Petraite. I ritratti dei gladiatori erano persino disegnati
con carbone o pittura rossa sui muri delle taverne o delle botteghe.
Ce ne parla Orazio 8 che fa pronunciare al servo Davo le seguenti paro-
le: “Ma quando tu fuori di te stesso, resti impalato di fronte ad un quadro
di Pausia, come sei meno in colpa di me, quando contemplo col ginocchio
proteso gli scontri di Fulvio e di Rutuba o di Placideiano, dipinti con l’ar-
gilla o con il carbone, così dal vivo, da sembrare che combattano davvero,
e si scambino ferite e si schermiscano col parare delle armi?”.
Spesso bisognava trascinare nell’arena i condannati ad bestias che veni-
vano presi dal panico al momento dell’esecuzione della sentenza.
Ci furono casi in cui fu fatta violenza a dei privati cittadini che furono
costretti a combattere contro le fiere per ordine dell’imperatore. Sveto-
nio 9, ci narra che Claudio costrinse cavalieri e tribuni ad affrontare le bel-
ve “… oltre alle gare con le quadrighe fece allestire il ludo Troiano e spet-
tacoli con belve africane che venivano uccise da gruppi di cavalieri preto-
riani sotto il comando dei tribuni e del prefetto stesso. Inoltre cavalieri del-
la Tessaglia …”.

7
Sat. 6.
8
Sat. 2.7. vv. 95 ss.
9
Claud. 21.
144 Valeria Carro

Sempre Svetonio 10 narra che Nerone durante i combattimenti gladiato-


rii da lui allestiti “… fece combattere anche quattrocento senatori e seicen-
to cavalieri romani alcuni anche ricchi e stimati, e da quelle stesse categorie
sociali trasse coloro che dovevano abbattere le fiere e incaricarsi dei vari
servizi del circo”.
E non mancarono casi in cui nobili romani vollero scendere a combatte-
re nell’arena come si legge in Giovenale 11: “Ma questo orrore è stato supe-
rato dal tridente di Gracco in tunica che in qualità di gladiatore è corso via
fuggendo in mezzo all’arena: lui più nobile dei Capitolini e dei Marcelli,
dei discendenti di Lutazio Catulo e di Emilio Paolo, ed altresì dei Fabii e
di tutti quelli che guardano i giochi dal podio, compreso pure quello stesso
che offrì lo spettacolo in cui Gracco apparve come reziario”.
Alle volte i condannati si suicidavano pur di evitare di combattere: da
Seneca 12 apprendiamo che un prigioniero per sfuggire all’incontro con le
fiere nell’arena, si introdusse in una latrina e si diede la morte conficcan-
dosi in gola un bastone sormontato da una spugna e sempre Seneca 13 ri-
porta la notizia di un condannato che durante il tragitto che lo conduceva
al circo sul carro, pulpitum, si sporse con la testa e lasciò che il collo gli fi-
nisse tra i raggi della ruota.
Le armi da difesa e da offesa, instrumenta venationum, dei gladiatori
erano varie e le si sceglieva durante la lotta in relazione alla distanza dalle
belve ed alla robustezza di queste. Esse erano lancae, iacula, funda, due tipi
di coltello culter venatorius e venabulum. I gladiatori erano raggruppati in
familiae venatoriae.
Alla vigilia dell’incontro si usava offrire al gladiatore un ricco pasto. Il
giorno dello spettacolo i gladiatori erano condotti nel luogo del combatti-
mento con una solennità detta traductio. Davanti al pubblico scendevano
dal carro in abiti sgargianti o nudi per esibire la bellezza e forza del corpo.
I rei condannati a essere divorati dalle fiere erano condotti legati sopra un
macchina detta pulpitum. Gli animali erano condotti entro gabbie.
Al collo dei condannati era legato un titulus su cui era scritto il motivo
della condanna. Giunti davanti all’imperatore tendevano la mano destra
verso di lui in segno di omaggio pronunziando la frase: ave Caesar morituri
te salutant.

10
Nero 12.
11
Sat. 2. vv. 143-148.
12
Ad Lucil. 8.1.
13
Ad Lucil. 8.11.
Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica 145

Si procedeva, poi, con la cerimonia della rivista delle armi. Il munera-


rius controllava che nella divisa i gladiatori non celassero frodi. A volte gli
imperatori ordinavano che si combattesse con armi spuntate, arma lusoria,
per mitigare gli effetti del combattimento.
Tutti i combattenti iniziavano con battaglie simulate e con la ventilatio
esercizio di abilità.
Questa fase del combattimento era detta praelusio. In seguito iniziava il
combattimento con suono della tuba e con la frase ponite iam gladios hebe-
tes pugnatur iam acutis: deponete le armi spuntate si combatte ormai con
quelle appuntite.
La passione dei Romani per gli spettacoli gladiatori fu eccezionale e for-
se non ebbe riscontro presso nessun altro popolo antico. Il popolo accor-
reva ad assistere agli spettacoli dei gladiatori e alla caccia alle fiere, vena-
tiones, mostrando eccitazione e divertimento per le lotte crudeli.
Tuttavia, in epoca repubblicana, la violenza espressa in tali giochi pro-
vocò proteste e critiche a tal punto che Cicerone promosse la lex Tullia
con la quale si cercò di attenuare le conseguenze crudeli che tale sport
provocava il più delle volte. Il senato successivamente tentò di frenare la
violenza di tali spettacoli.
Augusto nell’anno 22 a.C. stabilì che i giochi non avessero luogo più di
due volte all’anno e permise i giochi in occasione dei Quinquatrus (20-22
marzo) e durante i Saturnali. Ma, dopo di lui, Caligola abolì le limitazioni e
introdusse i combattimenti di massa catervatim. Con Traiano in occasione
della celebrazione delle vittorie sui Daci, le feste si protrassero per 123
giorni con l’impiego di diecimila gladiatori.
Durante i combattimenti si lanciavano scommesse che animavano la già
arroventata atmosfera dei giochi 14.
Seneca 15 si domanda i motivi di tale passione: “Niente è più dannoso
ai buoni costumi come oziare in certi spettacoli, dove i difetti trovano
modo di insinuarsi attraverso il piacere … capitai per caso a uno spetta-
colo pomeridiano; mi aspettavo di assistere a qualche scenetta spiritosa,
godermi qualche facezia e un po’ di svago così da sollevare un po’ la
mente e riposare gli occhi dalla vista del sangue. È stato perfettamente il
contrario. Le lotte precedenti in confronto erano state spettacolo di bon-
tà. Ora niente più scherzi ma veri e propri omicidi: i lottatori non hanno
armi di difesa e con tutta la persona esposta non allungano mai il pugno
invano. La maggior parte degli spettatori si diverte più a questi spettacoli

14
Tertul. De spect 27.
15
Ad Lucil. 1.7.
146 Valeria Carro

che a quelli delle coppie ordinarie di gladiatori oppure concessi poi a ri-
chiesta. E perché li preferiscono? Qui non vi è elmo né scudo con cui si
respinga la spada, sono superate difese e schermaglie, che servono a ri-
tardare la morte. Alla mattina questi uomini sono offerti ai leoni e agli or-
si e nel pomeriggio ai loro spettatori. Coloro che hanno ucciso sono poi
gettati avanti a quelli che li uccideranno e il vincitore viene così serbato
per un’altra strage. Tutti i combattenti sono destinati alla morte o col fer-
ro o col fuoco”.
Non sempre il gladiatore sconfitto moriva.
Il pubblico poteva gridare mitte cioè ‘rimandalo’ levando in alto il pol-
lice, pollice recto, altrimenti al grido iugula ‘scannalo’ sollevava la mano con
il pollice rivolto all’ingiù, pollice verso, e ne decretava la morte.
I cadaveri dei gladiatori erano trascinati fuori dall’arena con unci attra-
verso la porta libitina e raccolti nello spoliarum.
Il pubblico, in caso di parità tra gladiatori, poteva chiedere per entram-
bi la grazia. Essi erano stante missi cioè avevano ottenuto la grazia essendo
ancora abili al combattimento.
Marziale 16 ci narra di due gladiatori Prisco e Vero che combatterono a
lungo senza che nessuno dei due prevalesse. Alla fine tutti e due morenti
ricevettero dal lanista la palma.
Marziale 17, cita uno spettacolo inaugurale del Colosseo. Al tempo di
Caligola si soleva rappresentare un mimo che rievocava la morte del famo-
so brigante Laureolo. Ma sotto il regno di Tito quella che era stata una fa-
bula divenne uno spettacolo realistico disumano: a un condannato a morte
si fece fare la stessa fine del brigante Laureolo.

4. Imperatori e munera gladiatoria

Tra gli imperatori che alimentarono la pratica dei giochi gladiatori ci fu


Caligola che allestì lotte di gladiatori sia nell’anfiteatro di Tauro sia nel
Campo Marzio organizzando molte volte i giochi circensi dalla mattina alla
sera intervallandoli con la caccia alle fiere africane 18.
Nerone preferì invece i ludi theatrales nei quali amava gareggiare e in
una occasione durante un combattimento di gladiatori fu particolarmente

16
De spect. 29.
17
De spect. 7.
18
Svet. Caligola 18.
Il gioco crudele dei munera gladiatoria tra religione e propaganda politica 147

clemente: durante i combattimenti dei gladiatori che diede in un anfiteatro


di legno costruito in meno di un anno presso il campo Marzio, non fece
uccidere nessuno nemmeno tra i condannati 19.
Domiziano indisse continuamente spettacoli splendidi e costosi non so-
lo nell’anfiteatro, ma anche nel circo dove oltre alle tradizionali bighe e
quadrighe, fece tenere anche un doppio combattimento di cavalieri e di
fanti … e inoltre caccia e lotte di gladiatori anche di notte alla luce delle
fiaccole e non solo battaglie fra uomini, ma anche tra donne.
Inoltre a tal punto fu presente agli spettacoli organizzati dai questori e
che egli aveva rimessi in auge dopo una lunga pausa, da dare anche al
pubblico la possibilità di chiedergli due coppie di gladiatori della sua scu-
deria 20.
Claudio allestì moltissimi e bellissimi spettacoli e non solo quelli abitua-
li e nei soliti luoghi. Celebrò i ludi circensi anche sul Vaticano alternando
alle volte una caccia ogni cinque corse. Presentò anche in più luoghi molti
spettacoli di gladiatori: uno annuale nella caserma dei pretoriani senza cac-
cia né solennità; un altro nel Campo Marzio regolare e secondo le modali-
tà; uno nello stesso luogo straordinario e breve, di pochi giorni, che egli
denominò per primo Sportula perché quando stava per darlo, per la prima
volta, aveva detto che aveva voluto velut ad subitram condictamque cenu-
lum inviatare se populum 21.
Nerone istituì a Roma per la prima volta una gara quinquennale con tre
prove alla maniera greca: la prima letterario-musicale, la seconda ginnica,
la terza equestre e denominò Neroniano questo certame 22.
Domiziano istituì anche un concorso quinquennale in onore di Giove
Capitolino con tre prove: letterario-musicale, ippica e ginnica e con un
numero di premiati notevolmente superiore “... gareggiavano … nello sta-
dio, nella corsa a piedi anche fanciulle” 23.
Il capriccio di alcuni imperatori, che abusavano del loro potere, oltre a
manifestarsi nel costringere taluni a partecipare a ludi gladiatori, si spinse
anche al punto di organizzare scherzi crudeli ai danni degli spettatori 24.
Di Caligola si apprende che disturbato dal rumore delle persone che

19
Svet. Nero 12.
20
Svet. Domit. 4.
21
Svet. Claud. 21.
22
Svet. Nero 12.
23
Svet. Domit. 4.
24
Svet. Claud. 21; Nero 12.
148 Valeria Carro

verso mezzanotte andavano a occupare i posti gratuiti al circo, li fece tutti


cacciare a bastonate 25 e, inoltre, che durante le rappresentazioni sceniche
distribuiva le elargizioni più presto del solito per portare discordia fra ple-
bei e cavalieri in modo che i posti di questi ultimi venissero occupati dal
popolo. Qualche volta durante lo spettacolo dei gladiatori faceva togliere
le tende che riparavano dal sole impedendo a tutti di uscire e fatti allonta-
nare i protagonisti abituali li sostituì con gladiatori poco validi o vecchi.
Claudio si mostrò spesso crudele: Svetonio racconta che in ogni tipo di
spettacoli di gladiatori allestito da lui e da altri faceva uccidere anche quelli
che erano caduti per caso specialmente i reziarii per osservarne l’aspetto
mentre morivano. Una coppia di gladiatori era caduta per i colpi reciproci
ed egli si fece fabbricare due coltellini per lui con le armi di entrambi. Si
divertiva molto nei combattimenti con le fiere e specialmente in quelli
diurni tanto che non di rado si recava ad assistervi di mattina presto, ma vi
si fermava anche a mezzogiorno dopo aver lasciato che la folla si recasse a
pranzare 26.
A questa cruenta forma di spettacolo pubblico si pose fine solo agli inizi
del V secolo quando furono definitivamente aboliti in seguito alle pressioni
dei Cristiani.

25
Svet. Caligola 27.
26
Svet. Claud. 33.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 149

Amant quos multant. La passione per l’arena


in un senatoconsulto del 19 d.C.
Carla Ricci

SOMMARIO: 1. Il testo epigrafico. – 2. Il contesto normativo e sociale. – 3. Il mondo del-


l’arena nel Sc di Larino. – 4. Donne e gladiatura.

1. Il testo epigrafico

Agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, in quella che era stata l’antica
Larinum, municipium della secunda regio augustea (oggi Larino, in Molise),
veniva rinvenuta una tavoletta bronzea recante inciso il testo di un senato-
consulto dell’età di Tiberio, datato 19 d.C.
Il reperto ha restituito solo una parte del testo della deliberazione sena-
toria che era diretta a reprimere la partecipazione a spettacoli pubblici,
nell’arena o in teatro, di membri appartenenti al ceto senatorio ed al ceto
equestre, uomini e donne, i quali, attraverso forme di assoggettamento di
sé a vari tipi di impresari, subivano consapevolmente l’espulsione dalla
classe sociale di provenienza, perché colpiti dall’infamia, per potersi dedi-
care alle attività loro interdette.
Il testo epigrafico, noto come Tabula Larinas, pur presentandosi lacu-
noso a causa di un riutilizzo della tavola bronzea su cui era inciso, nelle 21
linee superstiti permette di ricostruire la struttura del senatoconsulto di
epoca giulio-claudia, distinto in due parti essenziali 1.
All’esame autoptico la lastra si presenta opistografa, cioè incisa su en-

1
Il testo inciso sulla lastra venne pubblicato per la prima volta nel 1978, in M. MALA-
VOLTA, A proposito del nuovo senatoconsulto da Larino, in Studi pubblicati dall’Istituto Ita-
liano per la storia antica XXVII (Sesta Miscellanea greca e romana), 1978, 347 ss., mentre
della scoperta della lastra era stata data comunicazione orale dal suo scopritore, Adriano
LA REGINA (cfr. Ann. Epigr., 1978, 145).
150 Carla Ricci

trambi i lati: di essi, uno reca il senatoconsulto, l’altro una tabula patrona-
tus, che attesta, con data 1° aprile 344 d.C., su 14 righe, il processo verbale
di conferimento del patronato da parte degli universi cives larinatium a C.
Herennius Lupercus.
Per ottenere la tabula patronatus la tavoletta originale (con il testo per
intero del senatoconsulto) ha subito degli interventi di mutilazione che ne
hanno ridotto le dimensioni; la lastra è stata infatti rivoltata ed utilizzata
perpendicolarmente rispetto al testo del senatoconsulto, sono stati elimina-
ti i due angoli superiori per ottenere un vertice triangolare, e sono stati ef-
fettuati altri due interventi: uno, consistente nel tagliare la tavola orizzon-
talmente così da avere un bordo inferiore, un altro, nel tagliarla in senso
verticale, dal lato destro, per determinare un nuovo bordo.
Tutti questi interventi hanno prodotto una serie di tagli, e quindi di la-
cune, nel testo della deliberazione senatoria, di cui sono sopravvissute so-
lamente 21 linee.
Le prime due lacune sono conseguenza dell’intervento che ha prodotto il
vertice triangolare: entrambe sul lato sinistro, una procede in senso decre-
scente dalla parte superiore fino al centro del testo, e riguarda le linee da 1 a
8; è stato conservato solo l’inizio delle linee 9-13, grazie alla presenza di un
margine a sinistra del testo del senatoconsulto; la seconda lacuna è invece di
dimensione crescente, va dal centro della tavola (linea 14) fino al bordo infe-
riore (linea 21). Vi è poi una lacuna costante, a destra, conseguenza del se-
condo degli interventi su descritti, che ha determinato la perdita della parte
terminale di ogni rigo; infine, il terzo intervento ha determinato la scomparsa
della parte inferiore del senatoconsulto, ovvero quella successiva alla linea 21.
Quello che segue è il testo del senatoconsulto, la cui trascrizione è av-
venuta in seguito ad un esame diretto della tavola:

1- s c
2- (…) in palatio, in porticu quae est ad apollinis scr adf c ateius l f ani capito
sex pomp (…)
3- (…) octavius c f ste fronto m asinius curti f arn mamilianus c gavius c f pob
macer q a did (…)
4- (…) us l norbanus balbus cos v f commentarium ipsos composuisse sic uti
negotium iis (…)
5- (…) rum pertinentibus aut ad eos qui contra dignitatem ordinis sui in
scaenam ludumv (…)
6- (…) us sc quae d e r facta essent superioribus annis adhibita fraude qua
maiestatem senat (…)
7- (…) cere ne quis senatoris filium filiam nepotem neptem pronepotem
proneptem neve que (…)
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 151

8- (…) el paterno vel materno aut fratri neve quam cuius viro aut patri aut avo
paterno ve (…)
9- fuisset unquam spectandi in equestribus locis in scaenam produceret
auctoramentove rog (…)
10- ret aut pinnas gladiatorum raperet aut ut rudem tolleret aliove quod eius rei
simile min (…)
11- praeberet conduceret neve quis eorum se locaret idque ea da causa
diligentius caveri dum (…)
12- eludendae auctoritatis eius ordinis gratia quibus sedendi in equestribus locis
ius erat aut p (…)
13- ut acciperent aut ut famoso iudicio condemnarentur dederant operam et
postea quam ei des (…)
14- (…) tribus locis auctoraverant se aut in scaenam prodierant neve quis eo-
rum de quibus (…)
15- (…) i faceret libitinam habep<r>et praeterquam si quis iam prode<i>sset in
scaenam operasve s (…)
16- (…) tus natave esset ex histrione aut gladiatore aut lanista aut lenone
17- (…) c quod m lepido t statilio tauro cos referentibus factum esset scriptum
compren (…)
18- (…) am an xx neve cui ingenuo qui minor quam an xxv esset auctorare se
operas (…)
19- (…) s locare permitteretur nisi qui eorum a divo augusto aut ti caesare aug
(…)
20- (…) niectus esset qui eorum is qui ita coniecisset auctorare se operasve suas
(…)
21- (…) arem redducendum esse statuissent id servari placere praeterquam (…).

L’esame della deliberazione senatoria è stato condotto verificando ini-


zialmente la possibilità di determinare il numero di lettere mancanti all’ini-
zio di ogni linea; a riguardo sono stati utilizzati diversi metodi, basati alcu-
ni sulle dimensioni dei caratteri incisi, altri sulla possibilità di una ricostru-
zione di alcune linee, il cui contenuto è costituito da espressioni formulari.
La conclusione cui si è giunti 2, anche utilizzando questi metodi a fini com-
paratistici, è che in ciascuna linea vi erano dalle 89 alle 98/100 lettere al
massimo.
La terza lacuna, infine, ha determinato la perdita della parte finale del
testo originario. Il numero totale delle linee potrebbe essere dedotto ipo-
tizzando quale fosse la forma della lastra prima della mutilazione, e a tal
proposito i primi commentatori hanno supposto una lunghezza totale pari

2
Così MALAVOLTA, A proposito del nuovo senatoconsulto da Larino, cit., 362, e B. LE-
VICK, The SC from Larinum, in JRS, LXXXIII, 1983, 97 ss.
152 Carla Ricci

a 63 od 84 linee, a seconda della forma presunta, quadrata o rettangolare.


È chiaro, comunque, che quello della lunghezza complessiva della lastra
è un problema di rilievo, dal momento che, a seconda della forma che le si
attribuisce, può ipotizzarsi in quale rapporto proporzionale sia la parte su-
perstite con il resto, se ne costituisca poco meno della metà, 1/3 o 1/4 3.
Dalla possibilità infatti che addirittura i 3/4 della tavola siano andati per-
duti deriva, chiaramente, un’influenza decisiva sulle interpretazioni del do-
cumento.
Gli Autori che si sono cimentati nel commento del testo 4 hanno sugge-

3
Quest’ultima stima è del Malavolta (e probabilmente già del La Regina).
4
Il senatoconsulto di Larino ha suscitato, sin dal suo ritrovamento, enorme interesse,
ed è stato oggetto di svariati studi sin dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Merita di
essere ricordata la bibliografia sul documento, a testimonianza dell’importanza assunta
nella giusromanistica e nella storia romana. I riferimenti essenziali sono costituiti da diversi
scritti dedicati all’epigrafe, che hanno offerto dei contributi originali a riguardo. Oltre a
quelli, sopra citati, essenziali, di MALAVOLTA e LEVICK, sono da menzionare V. GIUFFRÈ,
Un SC ritrovato: il SC de matronarum lenocinio coercendo, in AAN, XCI, 1980, P. MOREAU,
A propos du sénatus-consulte èpigraphique de Larinum: gladiateurs, arbitres et valets d’arene
de condition sénatoriale ou èquestre, in REL, LXI, 1981, S. DEMOUGIN L’ordre èquestre sous
les Julio-Claudiens, in B.E.F.A.R., CVIII, 1988, T.A.J. MC GINN, Prostitution and Julio-
Claudian Legislation. Tthe Formation of Social Policy in Early Imperial Rome, Ann Arbor,
1986, 284 ss., ora in ZSS, CVII, 1990, 315 ss.; ID., The SC from Larinum and Repression of
Adultery at Rome, Nashville, 1992, ora in ZPE, XCIII, 1992, 273 ss., W. FORMIGONI CAN-
DINI, Ne lenones sint in ullo loco reipublice Romane, in AUFeG (Ann. Univ. Ferrara, Sez. V,
Sc. Giuridiche), IV, 1990, 97 ss., W.D. LEBEK, Standeswurde und Berufserverbot unter
Tiberius. Das SC der Tabula Larinas, in ZPE, LXXXI, 1990, 37 ss.; ID., Das SC der Tabula
Larinas: Rittermusterung und Andere Probleme, in ZPE, LXXXV, 1991, 41 ss., E.
BALTRUSH, Regimen morum. Die Reglementierung des Privatlebens der Senatoren und der
Ritter in der Romischen Kaiserzeit, in Vestigia, XLI, 1989, 185 s., M. BUONOCORE Epigrafia
teatrale dell’Occidente Romano. III (Regiones Italiae II-V Sicilia Sardinia Corsica), in Vete-
ra, VI, 1992, 118 ss.; ID., Il Senatus consultum così detto di Larino: nuove proposte, in Pano-
rami, IV, 1992, 293 ss., e C. RICCI, Gladiatori e attori nella Roma Giulio-Claudia. Studi sul
Senatoconsulto di Larino, Milano, 2006. Il senatoconsulto di Larino è stato oggetto di at-
tenzione anche in alcuni studi “minori” sulla tavola bronzea, nonché in diversi lavori che
di esso tengono conto: M. MALAVOLTA, s.v. Larinum, in Diz. epigr., IV, 1978, 2138 ss., B.
BIONDO, in Labeo XXVI, 1980, 227-8, P. SABBATINI TUMOLESI, Gladiatorum Paria. Annun-
ci di spettacoli gladiatori a Pompei, in Tituli I, Roma, 1980, 128, nt. 48, 157; EADEM, Inediti,
in Tituli VI, Roma, 1987, 98, nt. 394, J. REINOLDS, Roman Inscriptions 1976-80, in JRS,
LXXI, 1981, 126 ss., S. DEMOUGIN, Uterque ordo. Les rapports entre l’ordre sénatorial et
l’ordre èquestre sous les Julio-Claudiens, in Tituli IV, Epigrafia ed ordine senatorio, I, Ro-
ma, 1982 (= Atti del colloquio internazionale AIEGL), 73 ss., M.A. LEVI, Un senatoconsul-
to del 19 d.C., in Studi Biscardi I, Milano, 1982, 69 ss., C. SALLES, Les bas-fonds de l’antiqui-
tè, Parigi, 1982, 283-4, L. SENSI, Praescriptio del senatoconsulto larinate, in Tituli IV, Epi-
grafia ed ordine senatorio, I, Roma, 1982 (= Atti del colloquio internazionale AIEGL su
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 153

rito diverse integrazioni delle lacune, tutte, come è facile comprendere,


strettamente collegate alle ipotesi che ciascuno di loro ha formulato in or-
dine al contenuto originario della risoluzione senatoria, ricostruendo le li-
nee dell’epigrafe in maniera più o meno funzionale a tali ipotesi.
L’analisi dei principali studi dedicati al senatoconsulto di Larino ha
permesso di evidenziare una sorta di convergenza delle posizioni dei com-
mentatori lungo due direttrici fondamentali: accanto a quelli che ritengono
che la disposizione senatoria riguardasse, oltre al divieto di svolgere attività
gladiatorie e sceniche, anche la repressione del fenomeno della prostitu-
zione delle matrone di rango senatorio ed equestre (sulla scia, come si ve-

epigrafia e ordine senatorio), 515 ss., R.A.J. TALBERT, The Senate of Imperial Rome, Prince-
ton, 1984; M.A. CAVALLARO, Spese e spettacoli. Aspetti economici e strutturali degli spettaco-
li nella Roma Giulio-Claudia, Bonn, 1984, 41-2, 86-8; D. DAUBE, Fraud n. 3. The legal
Mind, Essays for Tony Honorè, London, 1986, 1 ss., M. ZABLOCKA, Le modifiche introdotte
dalle leggi matrimoniali augustee sotto la dinastia Giulio-Claudia, in BIDR, XXVIII, 1986,
403 ss., M. AMELOTTI, L’epigrafia giuridica in Italia nell’ultimo decennio, in SDHI, LIII,
1987, 378 ss., M.T. RAEPSET-CHARLIER, Prosopographie des femmes de l’ordre sénatorial (I-
II siècles), I, 1987, 3 ss., A. GUARINO, L’apporto delle epigrafi, Giusromanistica elementare,
1989, 193 ss.; idem, in Labeo, XXXVI, 1990, 134 ss., B. SANTALUCIA, Diritto e processo pe-
nale nell’antica Roma, Milano, 1989, 97 ss.; S. TREGGIARI, Roman Marriage. Iusti coniuges
from the Time of Cicero to the Time of Ulpian, Oxford, 1991, 163, 297; A. CHASTAGNOL,
Le senat Romain a l’epoque imperiale, Parigi, 1992, 169 ss.; T. WIEDEMANN, Emperors and
Gladiators, Londra-New York, 1992; C. EDWARDS, The Politics of Immorality in Ancient
Rome, Cambridge, 1993 (rist. 1996), 132-33; G. PUGLIESE, Un nuovo esame della ciceroni-
ana Pro Cluentio, in Labeo, XL, 1994, 253, nt. 4; V. GIUFFRÈ, Altre notazioni esegetiche sul
senatoconsulto di Larino, in SDHI, LXI, 1995, 795 ss.; K. COLEMAN, The Contagion of the
Trong: Absorbing Violence in Roman World, in Hermathena, 164, 1998, 65-88; M. VESLEY,
Gladiatorial Training for girls in the Collegia Iuvenum of the Roman Empire, in Echos du
Monde Classique, 62 (17), 1998, 85-93; V.A. SIRAGO, Il Sannio Romano. Caratteri e persis-
tenze di una civiltà negata, Napoli, 2000, R. FREI-STOLBA, Le donne e l’arena, in Labeo, II,
2000, 282; R. VAN DE BERGH, The Role of Education in the Social and Legal Position of
Women in Roman Society, in RIDA, 3a serie, XLVII, 2000; R. VIGNERON, J.F. GERKENS,
The Emancipation of Women in Ancient Rome, in RIDA, 3a serie, XLVII, 2000; A. TOR-
RENT, Sul diritto penale matrimoniale, in Labeo, I, 2002, 127, A. ZOLL, Gladiatrix: the true
story of history’s unknown woman warrior, New York, 2002; C. FRANCO, Circe e le belve
spettacolari. Nota a Virgilio, Eneide, 7-24, in AuFe, vol. 2, 2008, 67; M. MALAVOLTA, Orazio
adultero, in C.C. BRAIDOTTI, E. DETTORI, E. LANZILLOTTA (a cura di), Ou pan ephemeron.
Scritti in memoria di Roberto Pretagostini, Roma, 2009, 329; C. MANN, Gladiators in the
Greek East: a case studi in Romanization, in The International Journal of the History of
Sport, vol. 1, 2009, 284; A. MANAS, New evidence of female gladiators: the bronze statuette
at the Museum für Kunst und Gewerbe of Hamburg, in The International Journal of the Hi-
story of Sport, vol. 28, n. 18, 2011, 2746 s.; M. MALAVOLTA, Auctoramentum: l’attrazione
irresistibile del modello proibito, in Civiltà Romana, Rivista pluridisciplinare di studi su Ro-
ma antica e le sue interpretazioni, II, 2015, 66 s.
154 Carla Ricci

drà, di precise testimonianze letterarie costituite da passi di Tacito, Sveto-


nio e Papiniano), vi sono altri che hanno invece escluso quest’ultima ipote-
si, propendendo per forme diverse di connessione tra tali provvedimenti.
Certo è che il documento, così come pervenuto, accanto a delle innega-
bili certezze presenta degli aspetti più dubbi, che è interessante indagare.
Di seguito la traduzione del testo epigrafico, accompagnata da integra-
zioni essenziali, riportate in parentesi:

1- Senatoconsulto
2- … sul colle Palatino, nel portico presso il tempio di Apollo. Assistettero
alla stesura C. Ateio Capitone, figlio di Lucio, della tribù Aniense, Sesto
Pompeio …
3- … Ottavio Frontone, figlio di Caio, della tribù Stellatina, Marco Asinio
Mamiliano, figlio di Curzio, della tribù Arnense, C. Gavio Macro, figlio di
Caio, della tribù Publilia, questore, Aulo Didio (Gallo, figlio di … della
tribù (?) questore …)
4- I consoli M. Silano e L. Norbano Balbo hanno dichiarato di aver elabora-
to, conformemente all’incarico loro affidato, una relazione su
5- quanto appartiene a (…? dei senatori?) o a quelli che contro la dignità del
proprio rango, come veniva stabilito da senatoconsulti precedentemente
adottati, (si sono esibiti) su palcoscenico o nell’arena,
6- raggirando la legge ed offendendo in questa maniera l’autorità del Senato.
Si era di questa opinione su quali misure adottare in questo caso:
7- ordinare che nessuno presenti sulla scena il figlio, la figlia, il nipote, la ni-
pote, il pronipote, la pronipote di un senatore, né un uomo (il cui padre
8- o nonno) paterno o materno, o il cui fratello, né alcuna donna il cui mari-
to o padre o nonno paterno o materno o il fratello
9- abbiano mai avuto il diritto di assistere agli spettacoli dai posti riservati ai
cavalieri, nessuno li presenti sulla scena né li faccia lottare dietro auctora-
mento (…)
10- o strappare i pennacchi dei gladiatori o alzare il bastone, o prestare assi-
stenza a svolgere qualunque altro servizio di questo genere; e che nessuno
li
11- impegni, (se qualcuno di loro) si offre; e che nessuno di loro si lochi per
un impegno simile. E ci si guardi da ciò con particolare attenzione, (affin-
ché non perseverino in intenzioni fraudolente quelli
12- che), per aggirare l’autorità di questo rango, hanno agito intenzionalmente
affinché coloro che avevano il diritto di sedere nei posti riservati ai cava-
lieri,
13- ottenessero (pubblica censura) o venissero giudicati in un procedimento
infamante, e, dopo aver (abbandonato spontaneamente il diritto a sedere)
14- nei posti riservati ai cavalieri, si impegnassero come gladiatori o si esibis-
sero sulla scena, (Inoltre si ordina) che nessuno
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 155

15- (di quelli su citati, se abbia fatto ciò contro la dignità del proprio rango),
abbia sepoltura, ad eccezione di quelli che si erano già esibiti prima (del
presente decreto) sulla scena o che si erano (impegnati per l’arena)
16- o fossero nati o nate da un attore o da un gladiatore o da un lanista o da
un lenone.
17- (E come nel SC) che fu emanato su richiesta dei consoli M. Lepido e T.
Statilio Tauro è scritto che … a nessuna
18- nata libera minore di 20 anni e a nessun nato libero minore di 25 si debba
permettere di impegnarsi o di vendere (le proprie prestazioni nell’arena
…)
19- ad eccezione di coloro che dal divo Augusto o da Tiberio Cesare Augusto
siano stati spinti (? alla partecipazione
20- nei giochi o nell’arena?), se colui che è stato spinto ad auctorarsi o i pro-
pri servigi a (…)
21- abbiano ordinato che fosse ricondotto, ciò deve avere validità, tranne ….

Tralasciando gli aspetti prosopografici – pure di notevole levatura – che


il documento suggerisce, l’analisi del testo conservato permette di eviden-
ziare la struttura del senatoconsulto, distinto in due parti, che possono così
essere sintetizzate:
– era vietato far esibire in spettacoli teatrali o combattimenti gladiatori
senatori e loro parenti (uomini e donne) fino al terzo grado, nonché cava-
lieri e loro parenti (uomini e donne) fino al secondo grado; era vietato in-
gaggiare (a qualunque titolo) queste categorie di persone, anche se avesse-
ro proposto esse stesse l’ingaggio o avessero offerto espressamente le loro
prestazioni (attraverso la stipula di particolari contratti, quali la locatio/
conductio e/o l’auctoramentum); si sollecitava l’attenzione verso i casi di
elusione fraudolenta dei divieti precedentemente sanciti, realizzata attra-
verso la volontaria rinuncia allo status di appartenenza, per mezzo della ri-
cerca di pubblico riconoscimento di infamia, finalizzata a potersi esibire
impunemente; la sanzione era data dal divieto di un’onorevole sepoltura.
La punizione, diretta espressamente agli esponenti dei ceti elevati datisi
alla scena, non aveva effetti retroattivi, oltre a non applicarsi ai discendenti
di histriones, gladiatores, lanistae, lenones; in riferimento ad un senatoconsul-
to dell’11 d.C. veniva fatto divieto alle ingenue minori di 20 ed agli ingenui
minori di 25 anni di darsi alla scena o all’arena, nonché di stipulare i relativi
contratti, ad eccezione dei casi in cui si fosse avuto il consenso imperiale per
l’esibizione, o si fosse stati ricondotti al proprio stato sociale dal princeps.
Come si accennava all’inizio, il contenuto del senatoconsulto ha solleva-
to diverse questioni e confronti, per comprendere i quali è necessario ri-
cordare, e commentare velocemente, il punto più dibattuto della storia del
156 Carla Ricci

documento, esaminato da tutti coloro che lo hanno studiato, e che forse


rappresenta un aspetto meno problematico di quanto sia stato considerato.
Il decreto senatorio restituito dalla Tabula Larinas rappresenta una te-
stimonianza essenziale per la comprensione della politica relativa ai ceti so-
ciali che andò elaborandosi nel periodo giulio-claudio. E forse è stato an-
che per questo che i principali studi che se ne sono occupati si sono con-
centrati sull’esame del contenuto e dell’intenzione della deliberazione, non
riuscendo a sottrarsi ad una suggestiva, sebbene fragile, tentazione rico-
struttiva, che ha portato ad interpretare il reperto epigrafico come confer-
ma di testimonianze letterarie già note, costituite nello specifico da passi
degli storici Tacito e Svetonio e del giurista Papiniano. Per far questo si è
dovuto in diverse occasioni minimizzare le difficoltà (spesso rilevanti) sorte
nell’armonizzare tra loro tali testi, utilizzare gli autori ponendoli talvolta in
contrasto, fino ad arrivare ad ipotizzare che le disposizioni che si volevano
a tutti i costi far risalire al senatoconsulto, non richiamate nel frammento,
fossero in realtà collocate nella parte perduta del testo.
In tal modo si voleva far prevalere, come è stato giustamente osservato
nella letteratura più recente che si è occupata del documento, un’interpre-
tazione che, manipolando il testo stesso, per armonizzarlo con fonti lette-
rarie e giuridiche “autorevoli”, perde di vista il fatto che esse, ad un attento
esame, mostrano di non concordare né con la testimonianza epigrafica, né
completamente tra loro 5.
Quest’ultimo dato emerge ancora più evidente da un confronto diretto
con i brani invocati a sostegno della tesi che qui si esamina.

Tac. Ann. 2.85.1. Eodem anno gravibus senatus decretis libido feminarum coer-
cita cautumque ne quaestum corpore faceret cui avus aut pater aut maritus eques
Romanus fuisset. 2. Nam Vistilia praetoria familia genita licentiam stupri apud

5
M. MALAVOLTA, op. cit., che ha offerto il testo di riferimento per tutte le altre edizioni,
ha identificato il senatoconsulto di Larino con quello di Tac. 2.85.1, commentato nel testo,
datato 19 d.C., che attesta provvedimenti del senato contro la prostituzione delle donne di
rango. Collegati all’interpretazione del testo di Malavolta sono l’edizione francese del sena-
toconsulto (Ann. Epigr., 1978, n. 145), lo studio di V. GIUFFRÈ (Un SC ritrovato, cit.), che
vuole il senatoconsulto di Larino essere rimedio contro la prostituzione delle matrone (de
matronarum lenocinio coercendo), e la descrizione della tavola di P. MOREAU, cit., che ap-
porta delle correzioni alla trascrizione di Malavolta. Lungo la seconda linea di ricerca si
collocano i lavori citati in nota 4) di S. Demougin ed E. Baltrush che rigettano le conclu-
sioni di Malavolta e Giuffrè, argomentando con la mancanza nel testo del SC superstite di
supporti per la tesi originaria. Si allontana spesso dal testo di Malavolta anche Barbara Le-
vick che, pur esprimendo profondo scetticismo per le conclusioni degli studi precedenti, è
alquanto titubante nel rigettarle recisamente.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 157

aedilis vulgaverat, more inter veteres recepto, qui satis poenarum adversum im-
pudicas in ipsa professione flagitii credebant. 3. Exactum et a Titidio Labeone
Vistiliae marito cur in uxore delicti manifesta ultionem legis omisisset. Atque illo
praetendente sexaginta dies ad consultandum datos necdum praeterisse, satis vi-
sum de Vistilia statuere; eaque in insulam Seriphon abdita est.

Svetonio Tib. 35. Feminae famosae, ut ad euitandas legum poenas iure ac digni-
tate matronali exoluerentur, lenocinium profiteri coeperant, et ex iuuentute
utriusque ordinis profligatissimus quisque, quominus in opera scaenae harenae-
que edenda senatus consulto teneretur, famosi iudicii notam sponte subibant; eos
easque omnes, ne quod refugium in tali fraude cuiquam esset, exilio adfecit.

Pap. D. 48.5.11.2. Mulier, quae ad evitandae poenae adulteri gratia lenocinium


fecerit aut operas suas in scaenam locavit, adulterii accusari damnarique ex sena-
tus consulto potest.

La testimonianza di Tacito, quella di Papiniano e la prima parte della


notizia riportata da Svetonio sembrerebbero riferirsi ad uno stesso provve-
dimento, ma soltanto in Svetonio è presente il riferimento ai comporta-
menti dei giovani membri dei profligatissimi ordines oggetto anche delle
previsioni dell’iscrizione larinate, alla quale si pensa subito, sebbene lo sto-
rico attribuisca i provvedimenti all’iniziativa imperiale. Secondo l’autore
delle Vite dei Cesari, e concordemente con la testimonianza offerta dal-
l’epigrafe di Larino, i giovani membri di rango equestre e senatoriale, senza
distinzioni di sesso, “cercavano” consapevolmente la famosi iudicii nota
per poter accedere all’arena o al palcoscenico, loro interdetti per dignità di
ceto; le fonti usano il termine fraus per definire questo comportamento, in
quanto esso è finalizzato, attraverso la stipula di contratti di prestazione di
opere in teatro e nell’arena, all’elusione di normative previgenti che mira-
vano proprio ad evitare per gli aristocratici l’onta dell’esercizio di attività
che solo i reietti della società potevano svolgere.
Quello stesso spirito fraudolento connotava anche il comportamento
delle feminae famosae, che preferivano, dichiarandosi prostitute, essere
considerate infami (e pertanto esonerate dagli obblighi di ceto), anziché
sottostare alle ben più rigorose conseguenze che, in caso di adulterio, era-
no previste in loro danno dalla Lex Iulia de adulteriis coercendis. Su tale
punto acquista rilievo il contributo di Tacito, che cita il caso di Vistilia, di
famiglia pretoriana, prima vittima illustre della normativa senatoria e caso
“di monito” per chi volesse emularla. Le tre fonti citate convengono nel
ritenere che la modalità più ricorrente di ricerca dell’impunità sia stata il
lenocinium profiteri, laddove solo Papiniano indica l’alternativa dell’operas
158 Carla Ricci

suas in scaenam locare. Ciò che tuttavia conta, ai fini del discorso che si va
svolgendo, è il fatto che sia Tacito che Papiniano, nominando solamente la
disposizione relativa alle donne, non possono costituire una garanzia asso-
luta per la corrispondenza tra queste loro testimonianze e quella epigrafica
del senatoconsulto di Larino, che di quella disposizione, allo stato attuale,
non reca alcuna traccia evidente. Al contrario, le testimonianze analizzate
depongono in favore del fatto che i tre autori si riferiscano a provvedimen-
ti diversi. Oltretutto Tacito parla al plurale di gravibus senatus decreta, e
questo nello stesso Svetonio non incontra palese smentita, visto che lo sto-
rico attesta l’impiego di due forme di espedienti elusivi: il lenocinium profi-
teri (per le donne), e la famosa iudicii nota (per i giovani).
Il confronto tra le tre fonti tanto invocate a sostegno della tesi tradizio-
nale ed il testo dell’epigrafe di Larino, che presenta una troppo ampia la-
cuna, permette di concludere affermando che, non essendoci nella parte
superstite dell’iscrizione alcun elemento che possa far ipotizzare dei colle-
gamenti con la repressione dell’esercizio della prostituzione da parte delle
nobildonne, sotto forma di volontaria adesione all’esercizio “professiona-
le” di tale attività, l’unica fonte di cui ci si può avvalere in termini di paral-
lelo attendibile è Svetonio, con il suo riferimento ad un caso che sembra
evocare quello del senatoconsulto di Larino; Tacito e Papiniano non pos-
sono essere di aiuto per completare l’epigrafe, data la semplice affinità, allo
stato attuale del reperto, delle tematiche affrontate.
Tutto ciò, tuttavia, non esclude, anzi suggerisce l’opportunità di formu-
lare delle ipotesi che trovino riscontro nei dati presenti nel testo. Sebbene
infatti si ritenga che non si possa parlare in termini di identità tra le fonti
citate e l’epigrafe stessa, è tuttavia forte la convinzione che vi sia tra esse
una profonda connessione, per l’affinità delle tematiche affrontate, per il
contesto in cui si collocano, ed infine per la relazione cronologica e di plau-
sibili influenze reciproche tra i provvedimenti di cui sono testimonianza.
Non concordandosi con le obiezioni mosse ai primi commentatori che sia
errato avvicinarsi allo studio del documento epigrafico con un supporto di
diverse fonti con le quali armonizzarlo, si è al contrario convinti che queste
ultime costituiscano un bagaglio indispensabile per collocare nella realtà
socio-giuridica del tempo il documento larinate.

2. Il contesto normativo e sociale

La comprensione della portata del senatoconsulto di Larino passa attra-


verso una riflessione sul contesto normativo che caratterizzò l’età augustea
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 159

che, com’è noto, fu profondamente sensibile ai problemi che affliggevano i


publici mores, e senza dubbio proprio la legislazione moralizzatrice che
quel periodo produsse resta uno degli aspetti definitori della cultura del
tempo, il suo tratto peculiare.
L’avvento dell’Impero aveva comportato, soprattutto per l’ordine sena-
torio, una significativa compromissione della pietra angolare dell’identità
del ceto, ovvero il potere esercitato in epoca repubblicana. Augusto usò le
élites romane in modo da sostenere il nuovo ordine, e la sua dichiarata vo-
lontà di restaurare il passato gli permetteva di invocare – istituzionalizzan-
done la vigenza – un ritorno ai mores caduti in desuetudine e di ottenere,
attraverso il ristabilimento della moralità andata perduta nella tarda Re-
pubblica, un fondamento e delle credenziali positive per il suo regime au-
tocratico.
Il processo di riforme che si innestò incise radicalmente sul tessuto so-
ciale, al punto che nessuna compiuta disamina degli elementi caratterizzan-
ti il primo Impero può dirsi tale se non svolta analizzando la normativa
dedicata alla famiglia, alla morale, al matrimonio, all’adulterio.
Gli obiettivi che la legislazione moralizzatrice si prefiggeva erano distin-
ti, perché da una parte si intendeva proteggere la famiglia attraverso una
rifondazione dell’etica matrimoniale, dall’altra si voleva salvaguardare la
dignitas degli ordini superiori, pesantemente decaduta e compromessa 6.
Si riteneva dunque necessario intervenire sia per eliminare i pericoli de-
rivanti da una scarsa natalità, che per arrestare la massiccia infiltrazione di
elementi dalle origini ed estrazioni più disparate nella cittadinanza romana.
Il fulcro della riforma morale e normativa augustea fu l’istituto del ma-
trimonio, con l’associato crimine pubblico di adulterium. Le leges che af-
frontarono tali tematiche furono la Lex Iulia de maritandis ordinibus, la Lex
Iulia de adulteriis coercendis (del 18 a.C.) e la Lex Papia Poppaea nuptialis
del 9 d.C. (poi fusa con la prima del 18 a.C.) 7.

6
Si vedano, tra gli altri, B. BIONDI, La legislazione di Augusto, in Conferenze augustee
nel bimillenario della nascita, Milano, 1939 = Scritti giuridici II, Milano, 1965; K. GALIN-
SKY, Ideas, Ideal and Values, in ID., Augustan Culture: an Interpretative Introduction, Prin-
ceton 1996; C. EDWARDS, The Politics, cit., passim.
7
La letteratura sulla legislazione matrimoniale augustea è, come noto, assai vasta. Tra i
contributi più risalenti, B. BIONDI, op. cit.; si vedano, tra gli altri, anche L. FERRERO RA-
DITZA, Augustus’ Legislation Concerning Marriage, Procreatio, Love affairs, and Adultery, in
ARNW, II, 13, 1980, 278 ss.; R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, Padova, 1970; P.E. COR-
BETT, The Roman Laws of Marriage, Oxford, 1969; P. GARNSEY, Adultery Trials and the
Survival of the “quaestiones” in the Severian Age, in JRS, LVII, 1967, e Social Status, cit.,
186 ss., 230 ss., 258 ss., 276 ss.; P.G. VITALI, Premesse romanistiche a uno studio sull’impe-
160 Carla Ricci

La c.d. Lex Iulia et Papia recava norme disciplinanti sia i matrimoni che
le loro conseguenze, ed assolveva ad una duplice funzione: quella di garan-
tire le unioni matrimoniali ‘dignitose’ per gli ordini superiori 8, in partico-
lare quelli senatori, nonché quella di incoraggiare i matrimoni stessi attra-
verso un meccanismo di incentivi e premi alle famiglie più prolifiche 9, con
evidenti fini di incremento demografico, prevedendo forti penalizzazioni e
svantaggi sul piano economico per i celibi e le coppie senza figli. La ripro-
duzione veniva imposta per fronteggiare il calo delle nascite di quegli anni
nonché per assolvere al compito principale del matrimonio, ovvero il dove-
re civico di generare cives Romani, dovere di cui vengono investite le don-
ne in generale, ed a fortiori quelle di rango 10.
Coerentemente con tali previsioni, la Lex Iulia de adulteriis colpiva con
estrema severità di pene le unioni tra uomini e donne liberi che non fosse-
ro matrimonio, individuando precisi reati 11.

dimentum criminis (adulterio e divieti matrimoniali), in Studi in onore di Gaetano Scherillo,


I, Milano, 1972; E. CANTARELLA, Adulterio, omicidio legittimo e causa d’onore in diritto ro-
mano, ivi, 243-274; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Nota di lettura su P. Jors, Die Ehegesetze des
Augustus (1894) e Uber das Verhaltnis der ‘lex Iulia de maritandis ordinibus’ zur ‘lex Papia
Poppaea’ (1882), Napoli, 1985, con bibliografia più recente; D. DAUBE, The ‘lex Iulia’ con-
cerning adultery, in JRS, LXXI, 1972, 373 ss.; P. CSILLAG, The Augustan laws on family,
Budapest, 1976, passim; C. EDWARDS, The Politics of Immorality, cit., 130 ss.; G. RIZZELLI,
Il ‘crimen lenocinii’, in Arch. giur., CCX, 1990, 457-495; E. NARDI, Sui divieti matrimoniali
delle leggi augustee, in Scritti minori, I, 1991, 263 ss., S. TREGGIARI, Roman Marriage. ‘Iusti
coniuges’ from the time of Cicero to the time of Ulpian, Oxford, 1991.
8
La legge recava un preciso elenco di soggetti che era proibito sposare, perché di con-
dizione degradante.
9
Basti pensare ai benefici e privilegi connessi al jus liberorum. Cfr. Plin. Ep. II.13, Ep.
VII.16, Ep. X.95, Dig. 38.1, Ulp. Frag. 29, Cass. Dio. LV.2.
10
Obbligare per legge alla riproduzione (spingendosi all’imposizione di contrarre un
nuovo matrimonio indirizzata a vedove o divorziati), poteva comportare forti penalizza-
zioni soprattutto per le donne. Basti pensare alle conseguenze dei parti e degli aborti per
donne che, soprattutto nei ceti superiori, arrivavano impuberi alle nozze, con un fisico an-
cora acerbo, impreparato ad una gravidanza. L’obbligo normativo, dunque, aumentava il
rischio di incorrere nel fatale determinismo biologico che si abbatteva spesso con conse-
guenze nefaste sulle donne sposate. Cfr. M. DURRY, Le mariage des files impubéres à Rome,
in Comptes rendus de l’Académie des Inscriptions, 1955, 84 ss.; ID., Auto critique et mise au
point, in RIDA, 3, 1956, 16 e 17 ss.; K. HOPKINS, The Age of Roman Girls at Marriage, in
Population Studies, n. 18, 1965, 309 ss.; D. GOUREVITCH, Le mal d’étre femme, Parigi, 1984,
109 ss.
11
Se uno dei due amanti fosse stato sposato al momento del reato, la condotta crimino-
sa si sarebbe qualificata come adulterium, in caso di relazione sessuale con una donna di
condizione sociale onorata si sarebbe invece definita stuprum, perseguendosi pertanto co-
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 161

Erano solo le donne honestae a poter commettere il reato di adulterio,


in quanto la normativa augustea aveva esentato dai propri divieti prostitute
(feminae probosae e libertine) e forse mezzane, ritenute categorie di donne
in quas stuprum non committitur, non “onorate”, con le quali, cioè, pote-
vano intrattenersi temporanee relazioni sessuali senza incorrere nel reato di
stuprum e con le quali non poteva contrarsi matrimonio, giacché prive di
conubium. Il fatto di non poter costituire con tali donne un consortium
omnis vitae regolare e giuridicamente valido diede un significativo impul-
so, come spesso nelle fonti si evidenzia ironicamente, alla diffusione del
concubinato 12, visto quasi come una creazione della normativa augustea 13.
Il rigore che contraddistingueva la legislazione matrimoniale e quella
sull’adulterio era enorme, profonda la sua invadenza nelle vite private dei

me adulterium strictu sensu solo il tradimento commesso in presenza di iustum matrimo-


nium. Il regime repressivo di tali reati prevedeva che ogni cittadino potesse perseguire il
colpevole, uomo o donna, autore di adulterium o stuprum. Il marito dell’adultera doveva
ripudiare la moglie per non incorrere a sua volta nell’accusatio lenocinii, ed inoltre, entro
sessanta giorni dal ripudio, insieme al padre dell’adultera poteva esperire l’accusa privile-
giata (accusatio mariti vel patris) laddove, decorso tale termine, si apriva l’accusatio publica.
La pena irrogata dalla legge alla donna consisteva nella confisca di metà della dote e di un
terzo del patrimonio, oltre all’esilio, di solito in luoghi isolati ed impervi. Si vedano tra gli
altri, vista la copiosa bibliografia sul punto, G. RIZZELLI, Studi sulla disciplina di adulte-
rium, lenocinium, struprum, Bari, 1997; ID., ‘Stuprum’ e ‘Adulterium’ nella cultura augustea
e la Lex Iulia de adulteriis, in Bollettino dell’Istituto di Diritto Romano, 90, 1986, 29 ss.; E.
CANTARELLA, Adulterio, omicidio legittimo e causa d’onore in diritto romano, in Studi in
onore di G. Scherillo, I, Milano, 1972, 243 ss.; H. HANKUM, La ‘sponsa adultera’: problemes
concernant l’‘accusatio adulterii’ en droit romain classique, in Estudios de derecho romano en
honor de Álavaro D’Ors, Pamplona, 1987; P. GARNSEY, Adultery Trials and the Survival of
the ‘quaestiones’ in the Severian Age, in Journal of Roman Studies, 57, 1967.
12
E. CAILLEMER, v. Concubinatus, Daremberg-Saglio, Dictionnaire des antiquités
grecques et romaines 1/2, Paris 1887, 1434-1436; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno.
Condizione e immagine della donna nell’antichità greca romana, Roma, 1981; P. CSILLAG,
The Augustan Laws, cit., T.A.J. MC GINN, Concubinage and Lex Iulia on Adultery, in Tran-
saction of the American Philological Association, 121, 1991, 348, nt. 59.
13
Non va sottovalutato, nel discorso che si va svolgendo, l’istituto del concubinato, in
quanto il legame da esso nascente era spesso l’unica valida alternativa ai divieti di sposare
una determinata tipologia di donne, imposti ai membri dei ceti superiori. Ciò spiega anche
perché, con il passare del tempo e la diffusione massiccia di tale tipo di unioni, a molte
concubine veniva riservato il trattamento di una moglie, sia in tema di eredità che in caso
di adulterio. Quella di concubina poteva dunque essere una posizione rispettabile, e questi
segnali di inclusione del concubinato tra gli statuti legali sono stati da più parti interpretati
come dei gesti consapevoli e preordinati, volti ad eludere i pesanti divieti normativi senza
in tal modo incorrere nelle penalizzazioni che la loro inosservanza comportava. Cfr. E.
CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 152 ss.
162 Carla Ricci

cittadini e pesanti le pretese che a tali norme si accompagnavano 14.


In perfetta simmetria con le norme sopra descritte, già in epoca augu-
stea vigeva un sistema normativo di divieti, fondato prevalentemente su de-
liberazioni senatorie e destinato ad essere rafforzato negli anni successivi 15,
che interveniva a sanzionare la diffusa tendenza che spingeva molti giovani
di rango (sia uomini che donne) a dedicarsi all’esercizio di professioni in-
famanti, quali quelle di gladiatore, attore, lanista.
Questa pratica, che avveniva contra dignitatem del ceto di nascita, anda-
va corrodendo dalle fondamenta l’auctoritas della classe dirigente che col-
laborava con il sovrano nel governo dell’impero.
Le donne di malaffare, le mezzane, i tenutari dei bordelli, gli attori e le
attrici, i gladiatori e gli impresari di ludi erano invece esclusi da tutto que-
sto e, paradossalmente, nonostante la loro condizione di scarti della socie-
tà, di soggetti pubblicamente infami, proprio grazie a tale stato godevano
di una libertà che al contrario ai membri della buona società era negata,
ingabbiati com’erano, le donne in particolar modo, nei vincoli di una legi-
slazione rigida ed invasiva.
Quella condizione di libertà era per le donne di rango quasi motivo di
invidia, le esenzioni dalle pene per l’adulterio o lo stupro riservate alle
donne appartenenti a queste categorie “infami” erano percepite quasi co-
me dei privilegi dalle altre donne, su cui incombeva la pesante responsabi-
lità imposta della loro condizione sociale.
Da qui l’avversione nei confronti di una legislazione che, volendo ri-
marcare un confine assoluto tra donne per bene e ‘donnacce’, finì per con-
ferire proprio a quest’ultime un enorme potere di fatto, fondato sulla sug-
gestione di libertà che emanava dalla loro condizione, a nulla rilevando lo
stigma sociale di riprovazione a cui erano ufficialmente sottoposte.
Il rigore normativo produsse dei risultati stridenti con l’intento moraliz-
zatore che della legislazione augustea rappresentava l’anima più profonda,
verificandosi, con grande frequenza, la circostanza che proprio le donne
‘onorate’ (mogli, figlie e nipoti di senatores ed equites) manifestassero pub-
blicamente l’intenzione di dedicarsi alla prostituzione 16, scegliendo spon-
taneamente di subire la famosi iudicii nota, con la conseguente espulsione

14
Pietro BONFANTE, nel suo Corso di diritto romano, 1, Diritto di famiglia, (rist.) Mila-
no, 1963, 348, definì la Lex de adulteriis “tanto severa” quanto “nessuna legge al mondo”.
15
Senatusconsulta del 38 e 22 a.C., dell’11 d.C. e del 19 d.C. (Tabula Larinas).
16
Ulp. I ad l. Iul. et Pap. D. 23.4.43.6: ‘Lenocinium facere non minus est quam corpore
quaestum exercere’. V. F.S. ALVAREZ DE CINFUEGOS, Algunas observaciones a proposito de
la represiòn de ‘lenocinium’ en la ‘lex Iulia de adulteriis’, in St. Iglesias, 1988, 565 ss.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 163

dal ceto di appartenenza, per realizzare un possibile adattamento in una


società che imponeva separatezza, invisibilità pubblica e relegazione nelle
funzioni della riproduzione.
Allo stesso modo, tutti i giovani membri delle classi elevate (uomini e
donne), come attestato dal senatoconsulto di Larino, per avere la possibili-
tà di esercitare attività tanto affascinanti quanto proibite, quali quelle tea-
trali e soprattutto gladiatorie (fonte di una degradazione de iure), non esi-
tavano ad esporsi pubblicamente, ricorrendo alla stipula di contratti, con-
sistenti in locationes operarum ad scaena od auctoramenta gladiatorii, al fine
di essere espulsi dagli ordines di appartenenza, liberi all’obbligo di rispet-
tare i divieti in cui incorrevano in quanto cittadini liberi e di rango 17.
Il circuito di frodi escogitato e messo in pratica dagli esponenti dei ceti
elevati permetteva quindi il consolidarsi della relativa pratica, e a seconda
dei soggetti e delle attività che si intendevano svolgere, il mezzo per realiz-
zare lo scopo sembrava finalmente raggiunto.
Da quest’ultima affermazione, e dalla cronaca fornita da Tacito nel bra-
no richiamato all’inizio, tratto dai suoi Annales (2.85.1-3) riguardo al caso
della matrona Vistilia (forse la più esauriente informazione sul tema della
repressione dell’adulterio, che lo storico colloca proprio nel 19 d.C., lo
stesso anno del senatoconsulto di Larino) sorgono riflessioni e si sollevano
quesiti.
Il testo tacitiano racconta di Vistilia, donna di stirpe senatoria e moglie

17
Va rapidamente precisato che il concetto di ‘infamia’ si pone in diritto romano in una
posizione non compiutamente definita, a cavallo tra l’ordinamento giuridico e l’insieme di
convinzioni morali di una struttura sociale. Da tale ibrida collocazione è derivata un’evolu-
zione della nozione stessa, ispirata ad una continua fusione tra norme giuridiche e valuta-
zioni etico-religiose, di cui è fortemente permeata la compilazione giustinianea. Dapprima
collegata alla ‘nota’ comminata dai censori, collegata alla posizione politico-militare e con-
sistente nell’esclusione da una tribù, dalla classe senatoria o dei cavalieri, e nel trasferimen-
to ad una classe inferiore, nel tempo si arricchì di distinti divieti ed incapacità giuridiche,
sebbene fondasse sempre la sua ratio nel degradarsi della ‘fama’, cioè nella cattiva reputa-
zione dettata dal giudizio comune, di cui i censori restavano gli interpreti e garanti. Per un
approccio al tema dell’infamia v. soprattutto B. BIONDI in B. BIONDI, L. GIAMBENE, s.v.
Infamia, in Enciclopedia Italiana, XIX, Roma, 1933, 186, A. MAZZACANE, sv. Infamia (sto-
ria), in ED, XXI, 1971, 382 ss.; M. KASER, ‘Infamia’ und ‘Ignominia’ in den Rom. Rech-
tsquellen, in ZSS, LXXIII, 1956, 220 ss.; V. ARANGIO RUIZ, Istituzioni di diritto romano,
Napoli, 1977, 59 ss., tutti con copiosi riferimenti bibliografici; v. anche M. TALAMANCA,
Istituzioni di Diritto romano, Milano, 1990, 344, che si occupa principalmente della cosid-
detta infamia pretoria e ricorda gli auctorati accanto a prostitute, lenoni ed attori. Circa
l’infamia di questi ultimi nel sistema pretorio, si veda il contributo di E. BIANCHI, Appunti
minimi in tema di ‘infamia’ dell’attore nel regime pretorio, in Teoria e storia del Diritto pri-
vato, VI, 2013.
164 Carla Ricci

di un personaggio di rango equestre, Titidio Labeone, che, nell’estremo


tentativo di sfuggire alla pena inflitta alle adultere, si era dichiarata prosti-
tuta presso gli edili (licentiam stupri apud aediles vulgaverat), rendendo
pubblico il contratto che aveva stipulato con il tenutario di un bordello e
sperando che il conseguente stato di infamis le facesse evitare le pesanti
conseguenze normative; al contrario, il Senato adottò nei suoi confronti un
provvedimento esemplare, relegandola nella sperduta isola di Serifo, nel-
l’arcipelago delle Cicladi.
L’episodio, che si rivela sintomo di una pratica diffusa, portò il Senato
(a parte la pena inflitta a Vistilia) a stabilire, per il futuro, che nessuna
donna di rango equestre e (visto lo status della donna) senatoriale potesse
prostituirsi, ponendo in questo modo un limite alle scappatoie fino ad allo-
ra escogitate. Le espressioni usate da Tacito richiamano nello specifico la
pratica di dichiarare pubblicamente ai magistrati tenuti alla sorveglianza
dei bordelli la rinuncia all’appartenenza alla nobilitas, per diventare uffi-
cialmente una prostituta, la cui libertà era una chimera per cui ben valeva,
attraverso una sorta di promozione sociale alla rovescia, sacrificare il posto
occupato nella società 18.
Vistilia, tuttavia, non si era dichiarata prostituta prima di diventare adul-

18
In tale sede non si ritiene di approfondire il tema legato all’esistenza di una sorta di
‘registro in cui censire le prostitute’, tenuto dagli edili e di cui pure si è argomentato; basti
affermare che i riferimenti di Tacito e Svetonio (nel brano ricordato, Tib. 35,2) ad una au-
todichiarazione di esercizio del meretricio sono dei dati invocabili a sostegno della convin-
zione che una manifestazione di tal genere ai magistrati da parte delle matronae diventasse,
per esse, titolo legittimante e giuridicamente valido ai fini dell’esenzione dai divieti imposti
dalla legislazione augustea. Per un approfondimento sul tema della dichiarazione di eserci-
zio della prostituzione, si veda T. MOMMSEN, Rom. Straf., cit., 159, n. 2, dove si ritiene, sul-
la scorta di Plaut. Asin. 131, di identificare il registro delle prostitute con il registro tenuto
dai ‘tresviri capitales’. Quello che può affermarsi con maggior certezza è che gli edili ebbe-
ro una certa “autorità” nel controllo del fenomeno della prostituzione. Cfr. ‘Lex Lenonia’,
menzionata in un frammento di Plauto (conservato a Festo p. 127 L), e Svet. Tib. 34, in cui
viene menzionato l’incarico attribuito da Tiberio agli edili di “sorvegliare strettamente le
taverne ed i bordelli”. Per i vari aspetti concernenti la pratica della prostituzione, su cui vi
è vasta letteratura, v. T.A.J. MC GINN, Prostitution and Julio-Claudian Legislation. The
Formation of Social Policy in Early imperial Rome, Ann Arbor, 1986, ora in ZSS, CVII,
1990, 315 ss.; ID., Prostitution, Sexuality and Law in Ancient Rome, New York-Oxford,
1998; C. SALLES, I bassifondi dell’antichità, Parigi, 1982, passim; A. SICARI, Prostituzione e
tutela giuridica della schiava. Un problema di politica legislativa nell’impero romano, Bari,
1991, passim; W. FORMIGONI CANIDINI, Ne lenones, cit.; M. ZABLOCKA, Le modifiche, cit.,
97 ss.; C. FAYER, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, III, Concubinato Divorzio
Adulterio, Roma, 2005, 345-350. V. anche V. GIUFFRÈ, Un senatoconsulto ritrovato, cit., 13
sul caso di Vistilia.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 165

tera, ma lo fece quando non avrebbe potuto più negarlo in alcun modo,
ovvero nel momento in cui fu scoperta in pieno adulterio. Appellandosi ad
una pratica in uso dai tempi più remoti (more inter veteres recepto) tentò
così, attraverso un atto in frode alla legge 19, di eludere le norme imperative
alle quali per la sua condizione, proprio in quanto uxor in adulterio depre-
hensa, sarebbe stata sottoposta. Se la reazione di Vistilia fu ragionevolmen-
te il frutto del panico provato per una condanna imminente, il suo com-
portamento, tuttavia, violò ben più che lo spirito della legge: la donna si
pose oltre la stessa fraus, professandosi prostituta dopo aver commesso
adulterio, e non invece – come facevano le altre matrone – in via precau-
zionale, ottenendo per questa “sfrontatezza” una condanna rapida e seve-
rissima, con una pena ben più grave di quella prevista dalla stessa Lex Iu-
lia, come conferma Svetonio, che testimonia l’exilium 20. La punizione in-
flitta a Vistilia fu esemplare: oltre a perseguirsi il fine punitivo del caso
concreto, si era ottenuto anche un risultato preventivo, posto a regolamen-
tazione dei casi futuri, per scongiurare che la pratica della confessio quale
prostituta potesse continuare a giustificare impunite frodi alla legge in vi-
gore 21.
E proprio come le matrone, per evitare i rigori della legislazione matri-
moniale, non esitavano ad autodichiararsi prostitute o mezzane, così i gio-
vani membri, uomini e donne, della classe senatoria e del cavalieriato, at-
traverso forme (anche contrattuali e/o pseudo-contrattuali) di offerta delle
proprie operae ai vari tipi di impresari di ludi gladiatori, cercavano (ed ot-
tenevano) l’espulsione dal loro ceto, divenendo sì infames, ma conseguen-
do – proprio in tal modo – la totale possibilità di disporre di sé, liberi da
vincoli.
Prima che si arrivasse a questa configurazione era molto difficile, oltre
che arbitrario, distinguere tra comportamenti solo degradanti e compor-
tamenti ufficializzati in negozi fraudolenti.
Il senatoconsulto di Larino, indirizzando le sue prescrizioni a tali casi,
si colloca nel discorso appena svolto mostrando come esso sia una parte,
molto significativa sul piano giuridico, del disegno normativo di mora-
lizzazione dei costumi e di rafforzamento dei vincoli e dei doveri “di ce-

19
Paul. D. 1.3.29; Ulp. D. 1.3.30. HONSELL, Fs. Kaser, 1976; O. BEHERENDS, Die fraus
‘legis’, Gottingen, 1982, passim; L. FASCIONE, Fraus legi, Milano, 1983, passim.
20
C. CRIFÒ, sv. Esilio, in ED, XV, 1966, con bibliografia; P.S. 2.26.14; Ulp. D.48.5.30.1;
v. G. BRANCA, ED, I, cit., GRASMÜCK, Exilium: Untershungenzur Verbannung in der Antike,
Paderborn, 1978; M. ZABLOCKA, op. cit., 415; ROGERS, Criminal Trials, cit.
21
Così anche per il Sc Turpillianum: Tac. Ann. 14.41. Cfr. V. GIUFFRÈ, op. ult. cit., 20 ss.
166 Carla Ricci

to” posti alle classi dirigenti romane. Il documento non introduce infatti
nel tessuto normativo un divieto, peraltro già esistente, oggetto di pre-
cedenti deliberazioni senatorie, limitandosi a confermarlo; introduce in-
vece l’originale novità di considerare esplicitamente le contrattazioni po-
ste in essere per esibirsi nell’arena ed in teatro quali figure di negozi
fraudolenti.
Colpendo questi ultimi, il senatoconsulto di Larino compie un’azione
analoga a quella compiuta dal senatoconsulto di Vistilia: reprime dei tenta-
tivi di frode a delle norme vigenti, partendo da situazioni giuridiche simili.
L’interpretazione della Tabula Larinas spinge dunque in una chiara di-
rezione: il documento è una valutazione giuridica del comportamento dei
giovani nobili, le cui “scappatoie” divenivano prive di efficacia in quanto
esplicitamente bollate come un facere adversus senatus consulta.
Altro elemento interessante ed innovativo nel contesto che si va spie-
gando, è che nel SC di Larino il senato prende di mira in maniera alquanto
inconsueta anche i datori di lavoro, come testimoniano le righe da 7 ad 11
del documento (‘ne quis … (…) … conduceret’), ponendo un divieto di re-
clutare gladiatori ed attori tra i nobiles rivolto esclusivamente agli eventuali
impresari (‘lanistae’, ‘magistri’, etc.). L’accortezza nel tener conto anche
della controparte contrattuale dei giovani aristocratici rivela il preciso in-
tento giuridico di porre un efficace freno ai meccanismi fraudolenti sopra
descritti. Il Senato infatti, indirizzando dei divieti specifici al partner con-
trattuale della gioventù “ben nata” e tanto ingegnosa nell’escogitare truc-
chi per eludere norme imperative, esercita una pressione giuridica che si
vuole in grado di vanificare qualsiasi potenziale, futura scappatoia dei pre-
statori d’opera.
In tal modo si provvedeva non solo a preservare i giovani di buona fa-
miglia dal degrado morale e sociale, ma anche a “ricompattare” l’autorità
senatoria compromessa dalle tattiche fino ad allora escogitate.
È proprio la simmetria tra le ragioni che giustificavano le azioni dei tra-
sgressori, ovvero la volontà di evitare le conseguenze giuridiche dell’atto
illecito, ed il canale utilizzato, la fraus, reale o virtuale (come nel caso di
Vistilia), a costituire la compiuta testimonianza del mutuo rapporto esi-
stente tra il senatoconsulto di Larino e quello citato da Tacito, Svetonio e
Papiniano.
La vicinanza cronologica, lo stesso momento storico, le stesse classi so-
ciali destinatarie, iscrivono i due documenti nello stesso contesto, ovvero
quello di far fronte alle scappatoie escogitate contro un quadro normativo
troppo rigido e restauratore per i gusti “emancipati” e sensibili al fascino
del proibito di buona parte della giovane classe dirigente.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 167

3. Il mondo dell’arena nel Sc di Larino

Tutta l’antichità classica è stata caratterizzata dal fenomeno delle rap-


presentazioni pubbliche, che hanno contraddistinto in maniera vistosa sia i
costumi che la storia sociale e religiosa dei popoli mediterranei 22. La storia
dei ludi, in Roma, è stata contrassegnata, dopo la fase delle origini stretta-
mente connessa a solennità religiose, da un elemento dominante, costituito
dal risvolto politico, che sarebbe stato destinato a rivestire un ruolo di
sempre maggior rilievo, soprattutto in età imperiale.
Non può tuttavia semplificarsi eccessivamente, in quanto anche i ludi
della Roma imperiale, come di tutto il mondo classico, non sono ricondu-
cibili ad un’unica componente tra le tante che ne contraddistinsero, ali-
mentandola, la peculiare vitalità; dunque non solo la politica, ma anche la
religione, il senso artistico, la passione per lo sport, lo spettacolo e il desi-
derio di guadagni si fusero insieme con la spiccata propensione ai “giochi”,
caratteristica del costume romano.
I ludi costituiscono pertanto un fenomeno eterogeneo ed articolato,
estremamente suggestivo ed affascinante, caratterizzato da contenuti pro-
fondamente diversi tra loro: non si trattava, banalmente, solo di un diver-
timento, ma di una componente insostituibile della cultura e dell’esperien-
za romana, la cui gestione economico-politica avrebbe coinvolto le più alte
cariche governative, e con essa la politica, l’economia ed in fin dei conti la
morale stessa dello stato.
Chiaramente, diversi tempi e circostanze determinarono l’emersione in
varie forme e misure degli altrettanto diversi fattori di cui il fenomeno si
componeva. I ludi più antichi, ad esempio, erano organizzati e diretti da
sacerdoti (probabilmente i pontefici) per poi essere affidati a magistrati
statali in età repubblicana; infine, la natura sostanzialmente politica delle
celebrazioni degli ultimi anni della repubblica si trasfuse nella sempre
maggiore quantità di manifestazioni che in epoca imperiale furono dedica-

22
Per un quadro complessivo, relativo alla civiltà greca, etrusca e romana, DS, III/2,
p. 1362 ss., sv. Ludi publici. In riferimento ai tanti e vari aspetti che contraddistinguevano
il mondo della gladiatura, la letteratura è particolarmente vasta; tuttavia si ritiene necessa-
rio rinviare, sia per un inquadramento generale che per approfondimenti su singoli aspet-
ti, al classico studio di G. VILLE, La Gladiature en Occident des origines à la mort de Do-
mitien, in Bibliotheque des Ecoles francaises d’Athenes et de Rome, 245, Rome, 1981; più
recentemente, con ulteriore bibliografia, v. DUNKLE, Gladiators. Violence and Spectacle in
Ancient Rome, Londra, 2008 e la Review di H. DODGE, in The American Historical Revi-
ew, CXVI, 2011, 3, 854; su aspetti particolari, v. C. VISMARA, Il supplizio come spettacolo,
Roma, 1991.
168 Carla Ricci

te alla gratificazione del populus romano, costituendo un forte strumento


demagogico di propaganda politica 23.

23
Per l’analisi più risalente di questa tripartizione, v. G. WISSOWA, Religion und Kultus
der Römer, Monaco, 1912, 451 ss. Nonostante si faccia costantemente riferimento a questa
tripartizione, essenziale per la comprensione storica del fenomeno, non può tuttavia negar-
si che un’intima connessione con la componente mistico-cultuale non venne mai meno,
nemmeno nel periodo imperiale, quando si affermò il culto degli imperatori. Sul punto,
cfr. V. WEISMAN, Kirche und Schaüspiele, Würzburg, 1972, passim; H.F. SOVERI, De ludo-
rum memoria praecipue Tertullianea capita selecta, Helsingforsiae, 1912, 167 ss. Quanto
alle diverse forme di spettacoli, durante il periodo imperiale esse possono facilmente in-
quadrarsi, data la loro possibile suddivisione in funzione del luogo in cui venivano rappre-
sentati: nello stadio si tenevano gli agones di origine greca; nell’anfiteatro avevano luogo i
combattimenti dei diversi gladiatori (munera gladiatoria), i combattimenti con animali fe-
roci o spettacoli di cacce ad animali selvaggi (venationes) e le messinscene di battaglie na-
vali, agite da gladiatori in bacini naturali o artificiali (naumachie), nel circo e nel teatro,
infine, si rappresentavano quegli spectacula che soli venivano considerati e chiamati ludi:
circenses e scaenici. Sul punto, cfr. G. VILLE, La gladiature en Occident, cit., L. ROBERT, Les
gladiateurs dans l’Orient grec, Amsterdam, 1971, passim; G. TRAVERSARI, Gli spettacoli in
acqua nel teatro tardo-antico, Roma, 1960, passim. L’enumerazione degli spectacula fatta da
Augusto (Res gest. 22-23) trova un riscontro nell’elenco presente in Svetonio (Caes, 39; DA
43-45; Tib 7.1 e 34.1; Ner. 11; Dom. 4), nonché nella suddivisione di Tertulliano (De spect.
7-9, 10, 11 e 12: ludi circenses, ludi scaenici, agones e munera). La grande quantità di iscri-
zioni di provenienza latina e greca riguardanti le più diverse forme di rappresentazioni
pubbliche costituisce un sintomo evidente del livello di diffusione ed importanza raggiun-
to da questo fenomeno storico-sociale. Sul punto si rimanda a M. FORA, I ‘munera gladia-
toria’ in Italia: Considerazioni sulla loro documentazione epigrafica, Napoli, 1996, passim.
Un quadro sintetico delle principali disposizioni legislative in materia di ludi si può ricava-
re dalle leges municipali, che contengono precise disposizioni riguardo alla funzione eserci-
tata dai magistrati nello svolgimento dei ‘ludi publici’. Già la Tabula Heracleensis (CIL I
593=ILS 6085), ad esempio, disponeva (ll. 62-65) la possibilità di transito in città nelle ore
diurne, quando il traffico urbano era proibito, per i carri delle vergini vestali e dei ‘reges
sacrorum’ che si recavano ai ‘ludi’; concedeva (ll. 77-79) a quelli tenuti alla ‘cura ludorum’
di occupare il ‘loco publico’ necessario per allestire palchi; proibiva (ll. 135-39) ai semplici
cittadini, durante gli spettacoli, di occupare i posti di ‘senatores’ e ‘decuriones’. La ‘Lex
municipii Tarentini’ (CIL I 590 cap. 4 ll. 32-38=ILS 6086) prevedeva che l’ammenda per i
trasgressori del divieto di demolire o danneggiare pubblici edifici andasse per metà messa
a disposizione del magistrato in carica, che poteva usarla alternativamente per la celebra-
zione dei ‘ludi’ annuali, ovvero per far erigere un proprio monumento celebrativo. Il più
vasto complesso di informazioni di carattere legislativo sui ‘ludi publici’ è offerto dalla ‘Lex
Coloniae Genetivae Iuliae Ursonensis’ (CIL I 594=ILS 6087), di cui ben otto rubriche era-
no dedicate alla regolamentazione delle pubbliche rappresentazioni, dalle previsioni delle
competenze magistratuali (capp. 70/71-128), a quelle in materia economica (di sostegno
delle spese), all’attribuzione dei posti d’onore (capp. 125-127) durante gli spettacoli.
Quanto sinteticamente riportato riguarda chiaramente una legislazione sui ‘ludi’ in genera-
le, in un quadro d’insieme che può ottenersi collazionando gli statuti municipali conserva-
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 169

Nel corso del tempo, infatti, i giochi subirono una significativa evolu-
zione che vide in particolare, nei ludi circensi e gladiatori, il passaggio dal-
l’originaria affermazione di componenti “positive”, quali il coraggio, l’au-
dacia, o la padronanza delle tecniche atletiche e di combattimento, alla rea-
lizzazione di spettacoli finalizzati esclusivamente al divertimento puro degli
spettatori, con rappresentazioni che, soprattutto in età imperiale, furono
caratterizzate da violenza e forti emozioni; le stesse condanne a morte, ad
esempio, furono trasformate in spettacoli per il popolo, intrisi di crudezza.
I ludi andarono così progressivamente snaturandosi rispetto al periodo re-
pubblicano, diventando allo stesso tempo un mezzo con cui gli imperatori
ottenevano il consenso del popolo, oltre che un efficace modo per disto-
gliere l’attenzione della popolazione urbana dagli avvenimenti politici: quel-
l’ormai famoso panem et circenses che alla lunga avrebbe screditato l’intera
categoria dei giochi.
L’entusiasmo per gli spettacoli nell’arena era enorme, tanto da eccitare
e scatenare vere e proprie passioni popolari; ciononostante, non va trala-
sciato il fatto che i Romani ebbero con i loro protagonisti un rapporto am-
biguo: sebbene, infatti, nell’immaginario collettivo il gladiatore costituisse
senza dubbio il gradino più basso dell’abiezione e del degrado sociale 24,
altrettanto vero è che esso abbia sempre rappresentato un modello proibi-
to, di assoluto fascino, in grado di esercitare un’attrazione irresistibile:
amant quos multant, dirà Tertulliano per definire tale ambiguo rapporto 25.
I gladiatori, pur collocati in una condizione sociale profondamente de-
teriore, erano infatti l’equivalente delle moderne celebs dello spettacolo e
dello sport, spesso venerati da schiere di fans di ogni estrazione sociale.
Provenivano dagli strati sociali più bassi, spesso erano prelevati fra gli
schiavi, i prigionieri di guerra, ovvero fra i condannati alle pene più dure
(come nel caso dei noxii condannati a morte), e le loro operae venivano
“affittate” presso impresari, molto spesso liberti, la cui denominazione

ti, i quali si presentano come un complesso omogeneo di disposizioni prevalentemente si-


mili per tutte le città dell’impero. In questo stesso contesto vanno poi collocati tutti i prov-
vedimenti legislativi di portata particolare, attraverso i quali il senato prima, gli imperatori
poi, intervennero per disciplinare i vari aspetti riguardanti le pubbliche manifestazioni.
24
Cicerone, ad esempio, utilizzava il riferimento al gladiatore come un insulto, nelle sue
invettive contro Antonio. Si veda, ad es., Cic. Phil. 2, 29, 74, Phil. 7, 6, 17 Phil., 13, 29, 40,
in cui l’epiteto di lanista è rivolto invece da Antonio a Cicerone. Cfr. R. SYME, The Roman
Revolution, Oxford-New York, 1960 (1939), 177, nt. 2; J. HALL, The Philippics, in Brill’s
companion to Cicero. Oratory and Rhetoric, Leiden-Boston, 2002, 274-304 e M. MALAVOL-
TA, Auctoramentum, cit., 65.
25
De spect., 22.1.
170 Carla Ricci

cambiava in base al settore nel quale operavano, che intascavano la mag-


gior parte dei proventi delle rappresentazioni, ed ai quali gli editores ludo-
rum si rivolgevano in occasione delle diverse celebrazioni di ludi 26.
Nonostante dunque i performers dei ludi romani fossero spesso dei veri
professionisti e dei virtuosi nei loro generi, idolatrati dal pubblico, esaltati
finanche da alcune élites intellettuali e persino da membri della famiglia
imperiale, in grado di guadagnare anche somme enormi, le attività che
esercitarono furono sempre formalmente bollate d’infamia, e la stessa sorte
subirono anche i mestieri collegati. Tutte tali attività rientravano pertanto
fra le ragioni del discredito sociale in cui i loro esecutori incorrevano; pos-
sono dunque essere definite tecnicamente “infamanti” e quindi soggette
alle pesanti conseguenze giuridiche che nel mondo romano si connetteva-
no a tale qualifica 27.

26
Per le diverse categorie di impresari, v. Diz. Epigr., IV p. 370 sv. Lanistatura; ib., p.
2137 ss. sv. Ludicra, ars; ib. II, p. 1945a s.v. Dominus; ib. IV p. 1448 sv. Locator. Riguardo
all’ars ludicra, dal punto di vista dei temi di interesse per il presente contributo cfr. E.
FRANCIOSI, Gloriae et virtuti causa. Status sociale e giuridico degli atleti nel mondo romano,
in Studi per Giovanni Nicosia, I, Milano, 2007, 437-468 (449-450), con riferimenti anche
alla gladiatura. Su prostituzione e lenocinio v. ampiamente T.A.J. MC GINN, Prostitution,
cit., passim.
27
Cfr. V. ARANGIO RUIZ, Istituzioni, cit., 59, che tratta dell’infamia in riferimento al te-
ma delle minorazioni della “capacità giuridica”: “Nel concetto d’infamia si comprendono
più istituti del diritto antico. […]. Una limitazione della capacità per ragioni morali si ebbe
quando talune categorie di persone, che la pubblica opinione considerava ignominiosae,
vennero comprese nelle clausole dell’Editto pretorio che vietavano di postulare pro aliis,
cioe di rappresentare persone estranee in giudizio”. L’infamia, termine che il diritto roma-
no trovò nel linguaggio comune e provvide a codificare, laddove comminata comportava
infatti delle conseguenze precise, che si riflettevano sulla capacità giuridica del soggetto
colpito, legandosi a determinati atti o professioni che mediante condanna penale, o noto-
riamente, si consideravano tali, da rendere infamis colui che li compiva o esercitava. Un
intero capitolo del III libro del Digesto (3.2: ‘de his qui notantur infamia’) commenta ap-
punto le disposizioni contenute nell’edictum perpetuum praetoris urbani; tra le limitazioni
previste da leges per gli infames vanno ricordate le previsioni della lex Iulia municipalis,
connesse a condanne in iudicia publica o privata (per diverse cause, tutte citate), nonché
per l’esercizio dei mestieri di gladiatore, istrione, lanista, lenone (queive depugnandei causa
auctoratus est erit fuit fuerit … queive lanistaturam artemve ludicram fecit fecerit, quive le-
nocinium faciet). A tal riguardo, L. Iul. mun., ll. 120-122: condanne per calunnia o prevari-
cazione (v. anche lex agraria =Bruns, Fontes, cit., 81; D. 3.2.1 pr.; Cod Iust. 9.2.11); l. 112:
condanna per frode a danno di minori (Cic. De nat. Deor. 3.30.74); l. 110: condanne in
‘iudicia privata’ (v. lex Atestina l. 35=Bruns, cit., 101; Cic. Pro Cluent. 42.119; D. 3.2.1 pr.);
l. 113: condanna per falso giuramento del debitore (D. 3.2.1, pr.; cfr. Cic. ad Att. 1.8.3); l.
121: degradazione e cancellazione dall’esercito (D. 3.2.1 pr.); l. 113 s.: fallimento (Cic. pro
Quinct. 8.30. 1); ll. 123-124: pederastia e lenocinio (D. 3.1.1.6; D. 3.2.4.2); l. 123-133: me-
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 171

La percezione di tale contraddizione appare più marcata di fronte alla


presenza, attestata in diverse fonti, di membri dei ceti privilegiati, spesso
giovanissimi, tra le fila di istrioni e gladiatori. Non solo infatti persone tra
le più umili, schiavi, prigionieri di guerra e condannati ad gladium erano
tra i protagonisti del multiforme mondo ludico romano, ma anche senatori,
equites, esponenti dei vertici della società, attratti, sia pur per diverse ra-
gioni, da quel mondo proibito ma affascinante.
Proprio per questo, il loro volontario asservimento ad una condizione
così miserabilmente catalogata, posto in essere attraverso i meccanismi
fraudolenti descritti precedentemente, suggerisce un’analisi che, oltre ad
evidenziare le ricadute in campo giuridico, ne sottolinei anche i risvolti so-
ciali e di costume.
Le familiae gladiatorie facevano capo ad un lanista, di solito proprieta-
rio di palestre per gladiatori, che svolgeva funzioni di business manager
(spesso anche di maestro istruttore) e forniva agli editores ludorum che
contrattavano con lui tutto l’occorrente per il ludus: dai gladiatori di ogni
specie, agli inservienti fino agli animali feroci, quando ai duelli si aggiunse-
ro i combattimenti con le belve e le venationes 28.
Per tutti i responsabili di questi gruppi si poneva il problema di recluta-
re e vincolare ad obblighi puntuali i protagonisti dell’arena, il che avveniva
attraverso delle precise modalità.
I canali più ricorrenti di ingaggio erano la locatio/conductio (operarum)
e l’auctoramentum.
Con l’atto di auctoramentum 29 il gladiatore si subordinava al lanista,

stieri di gladiatore, istrione, lanista e lenone (cfr. ‘lex repetundarum’ l. 13=Bruns, cit., 61;
D. 3.2.1 pr: ‘qui artis ludicrae pronuntiandive causa in scaenam prodierit’; D. 3.1.1.6; Tert.
De spect. c. 22). L’iscrizione di Sarsina (CIL I 2123), attesta la riprovazione sociale per le
attività in esame e, sebbene non sia una fonte giuridica, è ugualmente indicativa della con-
siderazione in cui erano auctorati e compromessi in quaestum spurcum.
28
V. Diz. Epigr., II sv. Dominus (gladiatorum), p. 1945; ib., III, sv. Familia, 32; V. P.
SABBATINI TUMOLESI, Epigrafia anfiteatrale, cit., Tituli I, passim; eadem, Gladiatorum Paria,
cit., in Vetera, 2, passim; AUGUET, Cruautè, cit., passim.
29
V. principalmente E. POLLACK, s.v. Auctoramentum, auctoratus, in P.W., II.2 (1896),
coll. 2272-2274, A. BISCARDI, Nozione classica ed origini dell’‘auctoramentum’, in St. De
Francisci, IV, Roma, 1956, 112 ss.; A. GUARINO, Spartaco. Analisi di un mito, Napoli, 1979,
147 ss.; ID., Spartaco professore?, in Labeo, XXVI, 1980, 325 ss.; ID., I gladiatores e l’aucto-
ramentum, in Labeo, XXIX, 1983, 7 ss.; C. SANFILIPPO, Gli “auctorati”, in St. Biscardi, I,
Milano, 1982, 181 ss.; O. DILIBERTO, Ricerche sull’“auctoramentum” e sulla condizione giu-
ridica degli “auctorati”, Milano, 1981, passim, e specialmente, per quanto qui interessa, 81
ss. Per una bibliografia sull’‘auctoramentum’, v. soprattutto O. DILIBERTO, op. ult. cit., 1 nt.
1. V. anche M. MALAVOLTA, Auctoramentum, cit., passim.
172 Carla Ricci

dandosi volontariamente in suo potere e ricavando il guadagno dell’attività


svolta. Da un atto del genere, che prevedeva la pronuncia di una formula
sacrale 30, e che non era in grado di produrre effetti obbligatori nell’acce-
zione tecnica privatistica (sebbene compiuto con l’adesione di chi avrebbe
acquisito la disponibilità dell’auctoratus) 31, derivava per l’impresario un
potere personale illimitato sul soggetto che si vincolava e che, peraltro,
subiva tutta una serie di incapacità giuridiche. L’auctoratus diveniva così
un preciso genus della categoria dei gladiatori: accanto agli schiavi, ai pri-
gionieri di guerra, ai servi poenae od ai damnati in ludum, vi erano appun-
to gli auctorati, il cui stato di subordinazione fu particolarmente intenso 32,
tanto da non poter essere decisivamente avvicinato ad altre situazioni so-
miglianti conosciute dal diritto romano. Tali considerazioni suggeriscono
di inquadrare la natura giuridica del potere che si spiegava sull’auctoratus.
Riguardo a tale tema, si sono succedute diverse ipotesi, che hanno portato
a sostenere che l’auctoratus fosse un liber in mancipio 33, oppure che fosse
assimilabile ad un servus 34 o ad un iudicatus-addictus 35. Ma, come osserva-
to 36, non è affatto semplice associare le radici dell’auctoramentum, atto di

30
Iuro per … me uri vinciri verberari virgis ferroque necari et quidquid aliud iusseris vel
invitum me pati passurum. Il testo di questa formula, tramite la quale si assumeva la qualità
di auctoratus è ricostruita sulla base di Hor. Sat. 2, 7, 58-59; Sen. ep. 37, 1; Petron. Satyr.
117. Cfr. M. MALAVOLTA, op. ult. cit., 66.
31
Si tratta di un atto diverso dalla locazione di opere, dal momento che nei testi si regi-
stra la distinzione tra il ‘bestiarius, locator operarum’ e l’auctoratus: Coll. 4.3.2 (Paul. Sing.
De adult.): “… eum qui auctoramento rogatus est ad gladium, vel etiam illum qui operas suas
ut cum bestiis pugnaret locavit”; Coll. 9.2.2 (Ulp. 8 off. proc. s.t. ad l. Iuliam de vi publ. et
priv.): “… quive depugnandi causa auctoratus erit, quive ad bestias depugnandas se locavit”.
Il ‘bestiarius/locator’ è dunque identificabile come un contraente posto “giuridicamente”
su un piano di parità con il ‘conductor’, ed assume un’obbligazione di facere che non com-
prende, però, anche l’assoggettamento del proprio corpo.
32
Gai. 3.199, Interdum autem etiam liberorum hominum furtum fit, velut si quis libero-
rum nostrorum, qui in potestate nostra sint, sive etiam uxor, quae in manu nostra sit, sive
etiam iudicatus vel auctoratus meus subreptus fuerit.
33
W. KUNKEL, “Auctoratus”, in Symb. Taubenshlag, III, 1957, 207 ss. La teoria dell’A. è
stata criticata da C. SANFILIPPO, op. cit., 189 s. e O. DILIBERTO, op. cit., 71 ss.
34
Sebbene, aderendo a tale ipotesi, non si potrebbe spiegare compiutamente la quanti-
tà di fonti da cui risulta che i gladiatori e gli ‘auctorati <depugnandi causa>’, se giuridica-
mente capaci, furono, in vari momenti, privati dei diritti che non spettarono mai ai servi.
Sul punto, B. ALBANESE, Le persone nel diritto privato romano, Palermo, 1979, 10, nt. 7, e
O. DILIBERTO, op. cit., 63 s. e 70 s.
35
Cfr. C. SANFILIPPO, op. cit., 188, e prima di lui già A. BISCARDI, op. cit., 407, nt. 280.
36
V. A. GUARINO, Labeo, XXIX, cit., 11.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 173

subordinazione volontario, a quelle di qualcuno dei diversi casi di subor-


dinazione personale noti nel mondo romano, cercando di individuare un
qualche principio che li accomuni.
Il compimento di tale atto di carattere sacrale, non giuridico e volonta-
rio, generava un vincolo tale per cui il gladiatore (anche dietro elargizioni
di premi speciali) si impegnava a sottomettersi alla difficile e complessa di-
sciplina gladiatoria, per apprenderne la relativa ars, di cui avrebbe dato
sfoggio nell’arena, combattendo, se il lanista lo avesse voluto, anche fino
all’ultimo sangue. Vi è dunque una sorta di nota di “specialità” che ac-
compagna l’impegno preso dal gladiatore e che a proposito dell’auctora-
mentum ricorre anche in altre testimonianze, contribuendo a distinguere il
vincolo ad esso connesso, che comporta il prestare attività particolarmente
impegnative, dal vincolo che si crea attraverso una locatio operarum 37.
Nel caso dell’auctoramentum gladiatorio non si trattava di assumere un
impegno semplicemente a “difendersi” una volta lanciato nella mischia, ma
di un impegno a sfoggiare peculiari capacità, agilità e competenze, svilup-
pate grazie ai duri e continui allenamenti negli ergastula 38.
Quella gladiatoria era infatti una disciplina non soltanto altamente spe-
cializzata, ma anche pericolosa, complessa e difficile, che comportava pe-
santi e lunghi allenamenti e sacrifici notevoli, a fronte di rischi illimitati,

37
Tale osservazione può valere per il vindemiator auctoratus di Plin. NH 14.10, non
trattandosi di un qualunque contadino, ma un contadino ad alta specializzazione, impe-
gnato in un lavoro particolarmente difficile. E vale per Publio Rupilio in Val. Max. 6.9.8,
che in una prima fase della sua carriera al servizio di una societas publicanorum, operas de-
dit, mentre successivamente provvide a se stesso auctorato sociis officio, prestando dunque
alla società un’attività di particolare impegno, che non sembra potersi collegare ad una
semplice locatio operarum. Sul punto, A. GUARINO, op. ult. cit., 13, con bibliografia. In
Roma antica, la condizione di auctoratus non si collegava solo all’auctoramentum gladiato-
rio, ma con molta probabilità in origine l’auctoramentum consisteva in una forma partico-
lare di sacramentum militiae, prestato in vista di attività militari speciali. V. sul punto O.
DILIBERTO, op. cit., 87 ss.
38
In A. ZOLL, Gladiatrix: the true story of history’s unknown woman warrior, New
York, 2002, 33, viene richiamata la teoria di M. VESLEY, esposta in Gladiatorial Training,
cit., dove si è ipotizzato che gli auctorati ricevessero il loro allenamento non nelle palestre
gladiatorie, ma attraverso “private instruction or enrolled in the college iuvenum”. L’A. so-
stiene che la preparazione degli auctorati, proprio perché sancita da un suggello sacrale,
fosse più “professionale”, consistendo di “all manner of physical activity, from gymnastics
to martial arts”, le cui lezioni venivano impartite in “organised social clubs”, quali i collegia
Iuvenum. L’A. ritiene tale tesi confermata proprio dal contenuto della Tabula Larinas e
delle tre iscrizioni CIL XIV, 4014; CIL VIII, 1885 e CIL IX, 4696, e giunge alla conclu-
sione che anche le donne appartenenti ai ceti elevati, nei ‘collegia iuvenu’, si allenassero per
esibirsi in pubblico.
174 Carla Ricci

ben diversi ad esempio da quelli cui andavano incontro un bestiarius, od


un venator, che invece “affittavano” le loro attività per cacciare le fiere nel-
l’arena. L’impegno che il gladiatore auctorato assumeva, proprio perché di
carattere sacrale, era preso nei confronti di una divinità, non poteva assimi-
larsi alla merces della locatio, tanto da comportare, nel caso di inadempi-
mento, non solo la reazione (e punizione) da parte dell’impresario, nella
cui sfera di pratica disponibilità l’auctoratus si trovava, ma anche della sfe-
ra divina.
La scelta di vincolarsi con un atto sacrale più incisivo nei suoi effetti
della locatio operarum poteva valere 39 non solo per i liberi, che compivano
in tal modo un atto plateale di abiura del proprio stato, ma anche per gli
schiavi, se si tiene a mente, a prescindere dalla considerazione in cui questi
erano tenuti dallo ius Romanorum, l’attenzione che veniva posta nei con-
fronti delle caratteristiche e delle attitudini degli schiavi al momento del
loro acquisto. A fortiori, tale ragionamento vale anche per il lanista, visto
l’investimento che compiva andando a reclutare gladiatori per la sua pale-
stra, e la cui situazione, liberi o schiavi che fossero, di fronte ai rischi del
combattimento era la stessa.
Tali considerazioni possono essere di sostegno alla tesi che gli schemi
dell’auctoramentum e della locatio/conductio nell’ingaggiare i gladiatori fos-
sero tra loro alternativi, argomentandosi tale alternatività anche con le di-
verse specialità di cui i combattenti avrebbero dato prova.
In varie attestazioni epigrafiche, infatti, accanto ai nomi dei gladiatori,
spesso chiaramente servili, ed alla loro specializzazione, compare una sigla,
l. o lib., o per esteso liber 40, tradotta come “libero”, circostanza che con-
fermerebbe l’ipotesi dell’esistenza sia di gladiatores 41 che, attraverso l’atto
sacrale optavano per l’auctorare sese al lanista in vista dell’esercizio dell’ars
gladiatoria, nonché di altri, che preferivano locare operas suas, individuabili
appunto attraverso la sigla liber 42. Questi ultimi avrebbero mantenuto una
certa autonomia, sia nella preparazione che nella gestione professionale,
svincolati da ogni legame di scuola, e non soggetti alla possessio del lanista.
Una sorta di “libertà professionale”, sebbene collegata all’infame mestiere,
che li poneva tuttavia in una condizione quasi privilegiata, distinta da quel-

39
Come ipotizzato dal A. GUARINO, op. ult. cit., 13 ss.
40
Per i riferimenti epigrafici e la traduzione v. P. SABATINI TUMOLESI, Tituli, VI, cit., 97
s.; EADEM, Gladiatorum, cit., 101; L. ROBERT, Gladiateurs, cit., 287 ss.; contra, G. VILLE,
Gladiature, cit., 246 ss.
41
Gladiatori liberi, liberti od anche servi, secondo il A. GUARINO, op. ult. cit., 11.
42
Questa interessante ipotesi è esposta in P. SABATINI TUMOLESI, opp. ultt. citt., passim.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 175

la dei colleghi che avevano giurato uri, vinciri, verberari ferroque necari. Si
spiegherebbe così anche il silenzio delle fonti giuridiche sul punto, dove si
preferisce, per operare una distinzione, usare i termini tecnici di locatio
operarum e auctoramentum 43.
E proprio dall’esame della Tabula Larinas, dove costante appare l’alter-
nanza tra la locatio operarum e l’auctoramentum quali schemi giuridici di
reclutamento dei gladiatori, può venire un contributo a favore della tesi
esposta.

***

Commentare il senatoconsulto di Larino offre l’occasione per appro-


fondire, anche dal punto di vista sociologico, il fenomeno dei tanti perso-
naggi altolocati che se ludo vendebant, in particolare i giovani appartenenti
all’ordine senatorio ed equestre che, in dispregio di ogni obbligo e conte-
gno loro imposto dal ceto di appartenenza, rinunciavano deliberatamente
ai privilegi della loro condizione, scegliendo invece volontariamente di sot-
tomettersi a privazioni, difficoltà, disagi fisici e rischio della vita, in cui in-
correvano in occasione di ogni combattimento.
Il fatto che il mestiere di gladiatore fosse considerato infamante non
rappresentò evidentemente un deterrente in grado di scoraggiare la diffusa
tendenza ad esercitarlo, che ben presto dilagò anche tra gli esponenti del
ceto senatorio-equestre, non senza destare un certo scalpore. Già verso la
fine del periodo repubblicano, infatti, nei confronti di quei mestieri colpiti
dallo stigma del disprezzo sociale si registrò una sorta di evoluzione della
considerazione in cui erano tenuti. La guerra civile aveva dissipato il pa-
trimonio di molte famiglie notabili, ed in molti casi aveva contribuito an-
che ad annullare la loro coscienza sociale di appartenenza.
In occasione dei quattro trionfi di Cesare del 46 a.C. vi è la testimonian-
za storica della partecipazione di cavalieri, ed addirittura di un ex senatore,
ai munera gladiatoria 44. Alla richiesta di un senatore di poter combattere in
armamento completo, Cesare negò il suo consenso, permettendo invece
che degli equites combattessero 45. È noto l’episodio del cavaliere D. Labe-
rius, autore di mimi, che secondo una certa tradizione sarebbe stato co-
stretto da Cesare a svolgere personalmente sulla scena un argomento pro-

43
Si intuiscono degli spunti in tal senso anche in A. GUARINO, op. ult. cit., 12.
44
Svet. Iul. 39,1; Cass. Dio. 43.23.5.
45
V. Cass. Dio. 43.23.5.
176 Carla Ricci

posto dallo sfidante, Publilio Siro, un istrione di origine servile. Macrobio


tramanda come Laberio fosse cosciente che una esibizione del genere
comportasse l’espulsione dal ceto equestre 46, dove tuttavia alla fine fu
riammesso, essendogli stato restituito da Cesare l’anulus aureus simbolo
del suo rango. Lo stesso episodio è riportato anche da Svetonio 47, anche se
nel suo racconto assume toni decisamente diversi, non percependosi co-
strizione alcuna da parte di Cesare e paragonandosi, al contrario, l’atteg-
giamento di Laberio a quello di Furius Leptinus stirpe praetoria che nella
stessa occasione, nel corso del munus gladiatorio, scese spontaneamente
nell’arena, confermandosi in tal modo l’opinione che durante le manifesta-
zioni pubbliche del periodo augusteo-tiberiano gli honesti homines si esi-
bissero di propria iniziativa.
Tale circostanza troverebbe una conferma indiretta nella serie di risolu-
zioni senatoriali che si susseguirono a partire dal 38 a.C. le quali, vietando
(in diversi momenti) a senatori e cavalieri di esibirsi pubblicamente, mira-
rono ad arginare le loro performances artistiche ed atletiche 48.
Fu infatti progressivamente emanata una legislazione propria degli or-
dini superiori avente il preciso scopo di mettere un freno alla infamante
abitudine, introducendo un sistema di divieti indirizzati a senatori e cava-
lieri, di cui si doveva evitare la comparsa sulla scena e nell’arena.
I primi ad essere sottoposti a precise restrizioni furono i senatori, desti-
natari, nel 38 a.C., di un senatoconsulto che vietava loro di scendere nel-
l’arena e fu sempre con un senatoconsulto, nel 22 a.C., a disporsi, “allorché
cavalieri e donne per bene comparvero ancora sulla scena” 49, che fosse inter-

46
Sat. 2.3.7 ss.
47
Svet. Iul. 39.2.
48
Le esibizioni di cavalieri e senatori successive a quella data rappresentarono sempre
delle eccezioni, collegate di solito ad avvenimenti altrettanto eccezionali, come avvenne in
occasione dell’inaugurazione del tempio del Divus Iulius nel 29 a.C., quando combattè un
senatore (Cass. Dio. 51.22.4), e delle celebrazioni del 28 a.C. (Cass. Dio. 53.1.4), alle quali
dei nobiles parteciparono guidando delle bighe.
49
Cass. Dio. 54.2.5. Si tratta con ogni probabilità dello stesso provvedimento menzio-
nato da Svetonio, DA 43.3: ad scaenicas quoque et gladiatorias operas et equitibus Romanis
aliquando usus est, verum priusquam senatoconsulto interdiceretur. V. anche che in V.
ARANGIO-RUIZ (e B. BIONDI), “Senatusconsulta”, in Acta Divi Augusti, cit., 245, ora in Scr.
dir. rom., IV, Napoli, 1977, 87 è registrato solo il senatoconsulto menzionato da Svet., DA
43.3, sotto il n. 30, rubricato ‘ne equites operas scaenicas et gladiatorias exerceant’, datando-
lo intorno all’11 a.C. Bisogna tuttavia precisare la differenza tra i resoconti dei due storici,
dal momento che Dione si riferisce certamente a delle esibizioni teatrali “professionali”,
conseguenti ad un “contratto di lavoro” (conducere/se locare), mentre l’espressione di Sve-
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 177

detto di prodursi in teatro oltre che ai senatori, anche ai loro figli, nipoti ed
ai membri dell’ordo equester. Nonostante il provvedimento annotato da
Dione, nel tardo periodo augusteo troviamo ancora delle testimonianze di
esibizioni teatrali di cavalieri e matrone 50, a riprova del fatto che il divieto
posto in precedenza era stato perfettamente inutile, dal momento che mol-
ti giovani nobiles restavano incuranti dell’infamia che li colpiva, facendo al
contrario il possibile per conseguirla. Augusto tornò quindi sulla legisla-
zione relativa alla materia e, nell’11 d.C., autorizzò i cavalieri a partecipare
a combattimenti gladiatori senza incorrere nell’infamia 51. Nel 19 d.C., con
il nostro senatoconsulto, il divieto di esercitare attività sceniche e circensi
viene ribadito nei confronti di meglio specificate categorie di destinatari 52,

tonio si collega più propriamente a delle rappresentazioni “amatoriali” ed a titolo gratuito,


sicuramente più difficili da inquadrare nello schema di una violazione della normativa vi-
gente.
50
Svet. Nero 4; Cass. Dio. 55.10.11.
51
Cass. Dio. 56.25.7-8.
52
Le linee dalla 7 alla 9 del Senatoconsulto individuano i destinatari appartenenti ai ce-
ti superiori, distinguendo due diverse categorie sociali, separate nettamente: membri di
ordine senatorio da un lato, e membri di ordine equestre dall’altro. I legami di parentela
individuati per ciascuno degli ordini, con le relative definizioni, sono differenti. La paren-
tela senatoria comprende quattro generazioni, dal padre al pronipote, secondo le linee del-
la discendenza agnatizia, la cui origine è agganciata alla persona del senatore, da cui deriva,
per tutti i discendenti, la dignitas. Questo modo di definire la parentela diretta di un sena-
tore non è unico, ricorrendo anche nelle clausole della ‘lex Iulia et Papia’ (D. 23.2.44 pr.
qui senator est quive filius neposve ex filio proneposve ex filio nato cuius eorum est erit …
(…); (…) Neve senatoris filia neptisve ex filio proneptisve ex nepote filio nata nato … (…).
Cfr. anche D. 50.1.22.5 per un paragone con la determinazione di una discendenza senato-
ria nell’ipotesi di esonero da cariche municipali. La posizione del senatore impegna dun-
que i suoi diretti discendenti, in quanto l’appartenenza all’ordo senatorio ha una precisa
portata sociale: esser nati da un senatore significa avere una sorta di vocazione all’ingresso
nello stesso ordine del padre, senza tuttavia incorrere in precisi obblighi di carriera. Dun-
que, la dignitas di una famiglia senatoria trova origine nel rango paterno e si estende oltre
la prima generazione, ricadendo su nipoti e pronipoti. Nel senatoconsulto si evidenzia una
parentela verticale, omettendosi ogni riferimento a parenti in linea orizzontale, quali i fra-
telli dei senatori. La ragione di ciò è, per l’epoca antica, ovvia: non tutti i membri di una
stessa generazione entravano necessariamente nell’assemblea senatoria, mentre, al contra-
rio, l’idea della dignità personale di un senatore che si estendeva alla parentela agnatizia
era saldamente radicata nello spirito dei tempi. Cfr. gli esempi di statuti sociali divergenti
di fine periodo repubblicano, relativi a fratelli di cui uno senatore, l’altro cavaliere, in C.
NICOLET, L’ordre èquestre à l’èpoque rèpublicaine, Parigi, 1966, 256 ss.; sull’estensione del-
la dignitas dei membri degli ordini superiori ai discendenti, Paul. D. 23.2.44 (discendenza
dei senatori) e C.J. 9.41 (discendenza dei clarissimi e perfectissimi). Più complessa appare
la definizione della parentela equestre in quanto, a differenza di quella senatoria, oltre alla
178 Carla Ricci

andandosi a colpire specificatamente gli artifici posti in essere per eludere


le norme anteriori, ed indirizzando i divieti, stavolta, anche agli impresari
teatrali e circensi, mantenendosi solo la validità delle clausole eccezionali
emanate da Augusto e Tiberio.
A questo proposito vale porre in evidenza un ulteriore aspetto suggerito
dalle ultime linee del senatoconsulto di Larino, ovvero la prevalenza di
giovani ragazzi e ragazze tra le fila dei nobiles che si dedicavano ai mestieri
infamanti di attore e gladiatore. Che i membri dei profligatissimi ordines
contravvenissero alle aspettative morali loro imposte dipendeva non solo
dalla mancanza di coesione di un gruppo fluttuante, ma soprattutto dal fat-
to che molti di loro, proprio perché giovani, erano naturalmente sensibili
al fascino del mondo artistico, così lontano dal rigore delle classi di prove-
nienza.
Ed altrettanto prevedibile è che i principali destinatari di quei provve-
dimenti fossero soprattutto i giovani, dal momento che per combattere
nell’arena o per rappresentare pantomime si richiedeva un corpo atletico
ed allenato, requisito questo difficilmente posseduto dagli anziani. Altro
fattore non trascurabile è che molto spesso questi giovani versavano in
precarie condizioni economiche. Nel 4 d.C., ad esempio, il princeps dovet-
te intervenire finanziariamente, dal momento che “molti giovani apparte-

parentela maschile, viene data rilevanza anche a quella femminile. Riguardo alla delimita-
zione degli effetti della dignitas equestris sulla discendenza maschile, nel senatoconsulto si
considerano soggetti ad essa gli individui di sesso maschile i cui genitori, nella discendenza
di agnazione o cognazione, erano appartenuti all’ordo equester, dunque i due nonni, dal
lato paterno e materno, il padre, il fratello. Per le donne, a questo elenco si aggiunge il ma-
rito, di cui si segue con il matrimonio la condizione sociale. Il riferimento alla moglie non
ricorre, invece, per i senatori, le cui spose non godevano del prestigio del rango, come in-
vece la loro posterità. Questa interruzione della trasmissione della dignitas senatoria per
parte femminile è forse comprensibile se si pensa che, con il matrimonio, la figlia di un se-
natore entrava in un’altra famiglia, quella del marito, di cui acquistava il rango, potendosi
quindi verificare, in caso ad esempio di nozze con un eques, una retrocessione nella gerar-
chia sociale: non più clarissima femina, ma matrona equestris. Su tale punto, v. A. CHASTA-
GNOL, Les femmes de l’ordre senatorial: titolature et rang social à Rome, in Rev. Hist.,
CCLXII, 1979, 1 ss.; S. DEMOUGIN, La definizione della parentela equestre secondo il ‘sena-
tus consultum’ di Larino, estratto dalla Collection de l’Ecole Française de Rome, vol. 108,
ID., L’ordre èquestre sous les Julio-Claudiens, Roma, 1988, 561 ss.; H. DEVIJVER, M.T. RAE-
e e
PSAET CHARLIER, L’Ordre équestre: histoire d’une aristocratie (II siècle av. J.C.-III siècle ap.
J.C), Actes du colloque international, Bruxelles-Leuven, Parigi, 1995. Si segnala poi la dif-
ferenza nel numero di generazioni colpite dal divieto, quattro per i senatori e tre per i ca-
valieri, per i quali l’efficacia del provvedimento si estende fino ai nipoti. Infine, la parente-
la senatoria è descritta seguendo un ordine discendente; quella equestre, invece, seguendo
un ordine ascendente: dal nipote al nonno, sia in linea maschile che femminile.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 179

nenti al ceto senatoriale e alla restante parte del cavalierato erano poveri” 53,
e rischiavano dunque di fuoriuscire dai propri ordines di appartenenza.
Dunque, accanto alla leggerezza dell’età ed al fascino esercitato da quel
mondo, dietro la scelta del mestiere di attore o gladiatore potevano spesso
nascondersi anche dei precisi interessi materiali, se non addirittura dei bi-
sogni, che inducevano a tentare la fortuna nell’arena o sul palcoscenico 54.
Il mondo gladiatorio in genere garantiva guadagni minori, sebbene si
abbiano anche in questo caso testimonianze di ingenti compensi 55. Deci-
dere di darsi alla gladiatura per denaro, e non solamente per amore delle
arti militari o per altre irrazionalità, significava essere caduti notevolmente
in basso, come i nobiles ricordati da Seneca, “portati all’arena dai loro
sperperi” 56. Il tema della paga è un motivo interessante, dal momento che
la corresponsione o meno di un compenso costituiva un elemento di diffe-
renziazione nella valutazione morale e giuridica delle diverse attività, per-
ché per i ceti dominanti ridursi ad accettare dei compensi rappresentava
motivo di ulteriore declassamento, con conseguente perdita inappellabile
del livello di considerazione sociale 57.

53
Cass. Dio. 55.13.6.
54
Riguardo al tema del compenso, v. B. LEVICK., The Sc., cit., 110, che sottolinea pro-
prio il ruolo degradante della paga, rispetto all’esibirsi gratuitamente, per puro spirito di-
lettantesco. Il teatro costituiva un’attività estremamente redditizia, e gli attori più famosi
erano spesso ingaggiati con somme in grado di far impallidire anche i detentori di patri-
moni da cavaliere: le pagine della letteratura e della storiografia latina sono ricche di testi-
monianze in proposito. Cicerone, nel Q. Rosc. 23 ricorda che il famoso attore ‘Q. Roscius
Gallus’ avrebbe potuto in dieci anni accumulare sei milioni di sesterzi, se non si fosse esibi-
to gratuitamente. Somme notevoli sono riportate da Macrobio, in Sat. 3.14.13 in relazione
a ‘Roscius’, ed in Sat. 3.14.14, in relazione all’attore tragico Aesopus, che avrebbe lasciato
20 milioni di sesterzi. ‘Pylades’, il più famoso pantomimo, in età avanzata potè permettersi
di finanziare delle pubbliche rappresentazioni (Cass. Dio. 55.10.11).
55
Svet. Tib. 7.1; Claud. 21.5, e dettagli economici sono presenti anche in reperti epigra-
fici, quali ILS 9340 e CIL II 6278=ILS 5163.
56
Epist. 99.13.
57
Cicerone, ad esempio, formula un appunto preciso, quando collega tra loro l’infimo
livello dell’esercizio di un’arte ed il compenso (De off. 1.150), ed è chiaramente sprezzante
Seneca (Epist. 88.1) quando parla di ‘meritoria artificia’. Erano consapevoli delle conse-
guenze del ricevere un compenso ‘Q. Roscius Gallus’, quando si presentò sulla scena gra-
tuitamente (Cic. Pro Rosc. Com. 23), ed il pompeiano ‘Fadius’, che ‘Balbus quaestor’ fece
combattere durante i giochi organizzati a Cadige nel 43 a.C. Questi ‘in ludum bis gratis de-
pugnasset’, ma si rifiutò di ‘auctorare sese’ (‘Asinius Pollio apud Cic. ad Fam.’ 10.32.2), mo-
strando in tal modo considerare la sua onorabilità, ed allo stesso tempo di aver ben chiaro
quanto vergognoso fosse ritenuto l’esibirsi per denaro.
180 Carla Ricci

Non a caso il tema del compenso ricorre da un capo all’altro del senato-
consulto di Larino, nelle linee 9, 14, <15>, 18, <19>, 20, dove sono esplici-
tati i riferimenti alle diverse forme di contrattazione e di “vendita” di sé al
fine di esercitare i turpi mestieri.

4. Donne e gladiatura

Uno degli aspetti più interessanti che emerge dall’esame della tabula La-
rinas è quello relativo al rapporto delle donne con la gladiatura, dal mo-
mento che il costante riferimento ad esse, presente nelle linee del decreto
senatorio, come destinatarie dei divieti di esibirsi in teatro e di scendere
nell’arena, costituisce un elemento incontrovertibile di conferma della dif-
fusione e della dimensione (visto proprio il carattere generalizzato delle
norme imposte) del fenomeno di donne dedite all’esercizio dell’ars gladia-
toria.
Il mondo gladiatorio, è risaputo, fu sempre un terreno di attrazione ir-
resistibile per le donne romane, soprattutto per quelle di rango: basti ri-
cordare il profilo, tracciato da Giovenale nella sua celebre Satira VI contro
le donne, di Eppia, moglie di un senatore, che abbandonò figli, marito e
casa, scegliendo di unirsi alla famiglia gladiatoria del suo amante Sergiolus,
un gladiatore di cui il poeta, a voler sottolineare l’indecenza della donna,
tramanda un ritratto impietoso: mutilato di un braccio, in mezzo al naso
una bozza sporgente scorticata dalla visiera e un fastidioso malanno che gli
fa lacrimare gli occhi senza tregua 58.
Ciononostante, il solo fatto che si trattasse di un gladiatore era suffi-
ciente a garantirgli l’ammirazione della donna, in aderenza ad un modello
ispirato al fascino della forza virile, della brutalità, del dominio sull’altro
sesso, accertato sul piano antropologico, che costituiva un fatto di cui nel-
l’antichità si era perfettamente consapevoli, tanto che anche la casa impe-
riale non andò esente da passioni ardenti nei confronti dei gladiatori, icone
della virilità per eccellenza 59.

58
Iuv. 6, 82-112.
59
I gladiatori costituivano un vero e proprio fenomeno divistico, con fenomeni parago-
nabili a quelli dei moderni fans: CIL 5142a e 5142b testimoniano la fama del gladiatore
trace Celado, ‘decus puellarum’, ‘suspirium puellarum’. Né va dimenticata la malignità sto-
rica che tramanda che l’imperatore Commodo, di cui è nota la passione per l’arena, ove si
esibì personalmente, sarebbe stato il frutto di una relazione che legò la consorte di M. Au-
relio, Faustina Minore, ad un gladiatore di Gaeta. La tradizione letteraria su Commodo è
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 181

Le matrone erano interessate sì alla prestanza fisica dei combattenti, ma


c’era anche qualcosa di più, perché il fascino del gladiatore nasce proprio
dal suo essere tale e dal ruolo che la figura riveste nell’arena, dal fatto di
lottare con la morte, con tutto l’immaginario che da questo deriva.
Ed infatti l’attrazione delle donne non fu solo per i gladiatori, fu per la
stessa gladiatura, alla quale si dedicarono 60.
Durante il periodo repubblicano non si hanno testimonianze di com-
battimenti gladiatori con donne protagoniste, ma le cose erano destinate a
cambiare con il diffondersi sul territorio romano e romanizzato degli anfi-
teatri.
La presenza di donne nell’arena doveva essere, oltre che originale, al
contempo scandalosa ed emozionante e l’ammettere tale presenza va con-
siderato anche alla luce dell’ambiguità che contraddistinse il rapporto degli
imperatori riguardo a ciò che potesse o meno essere permesso in occasione
dei ludi.
Se da un lato, infatti, molti di essi ambivano a presentarsi come garanti
della legalità e della moralità, legiferando riguardo a chi potesse o meno
combattere, dall’altro, la competizione (o la rivalità) che si creava con i
propri predecessori spingeva spesso i principes ad offrire competizioni
grandiose e spettacolari 61, che si traducevano in manifestazioni che coin-
volgevano un numero enorme di gladiatori, venatores, bestie feroci, giun-
gendosi sempre più a porre l’attenzione al fascino dell’esotismo e dell’ori-
ginalità nelle esibizioni.
Fu proprio tale peculiarità, già presente in embrione nella tarda repub-
blica, ad accentuarsi nel periodo imperiale.
I combattimenti di donne nell’arena possono essere collocati in tale
contesto e, non a caso, si andò parallelamente registrando un incremento

stata esaminata di recente da A. GALIMBERTI, Erodiano e Commodo. Traduzione e commen-


to storico al primo libro della Storia dell’Impero dopo Marco, Gottingen, 2013, passim. Un
altro elemento assimilato al mondo della gladiatura, che ne testimonia l’appeal, è la tradi-
zione che attribuiva al sangue dei gladiatori spiccate proprietà terapeutiche, queste ultime
attestate da Plinio (NH, XXVIII, 4), che ricorda che gli epilettici bevevano il sangue dei
gladiatori “ut bibendi poculis”, e che essi “sorbere efficacissimus putant calidum spirante-
mque et vivam ipsam animam ex osculo vulu”. V. A. PASQUALINI, Passione e repulsione: le
due facce dell’arena, in Civiltà Romana, Rivista pluridisciplinare di studi su Roma antica e le
sue interpretazioni, II, 2015, 51 ss.
60
V. R. FREI-STOLBA, Le donne e l’arena, in Labeo, XLVI, 2000, 2, 282-289; A. MCCUL-
LOUGH, Female Gladiators in Ancient Rome: Literary Context and Historical Fact, in Classi-
cal World, CI, 2008, 2, 197-209, A. ZOLL, Gladiatrix, cit., passim.
61
Cfr. T. WIEDEMANN, op. ult. cit., 112.
182 Carla Ricci

di presenze femminili anche in teatro, ove spesso le donne recitavano


completamente nude 62.
Lo sfogo di Giovenale nella VI Satira contro le donne che si abbigliava-
no, allenavano e combattevano come gladiatori perdendo ogni dignità, non
è solo letteratura, perché la presenza di donne nell’arena emerge inequivo-
cabilmente dalla documentazione letteraria, storica, archeologica ed epi-
grafica.
Cassio Dione e Tacito ricordano come Nerone, in occasione dei ludi in
onore di sua madre, fece combattere nel circus uomini e donne non solo di
rango equestre, ma anche senatorio, sia come bestiarii che gladiatrici 63. Pe-
tronio, nel Satyricon 64, ricorda una donna essediaria che combatteva a ca-
vallo, mentre Svetonio ricorda che Domiziano, per offrire spettacoli origi-
nali, fece scendere delle donne nell’arena 65, perché combattessero alla luce
delle torce.
Verosimilmente, la partecipazione di donne a munera e venationes dove-
va suscitare un certo scandalo, ma, altrettanto evidentemente, il pubblico
doveva trovarlo uno spettacolo emozionante: il fenomeno avrebbe raggiun-
to dimensioni importanti, tanto che, ancora nel 200 d.C., Settimio Severo
promulgò un editto che proibiva alle donne di combattere nell’arena 66.
Ciò spiega la circostanza, precedentemente ricordata, del susseguirsi di
diversi provvedimenti senatori destinati ad arginare il fenomeno dell’esibi-
zione pubblica di donne di estrazione aristocratica.
In tali testi, il riferimento puntuale ad individui di sesso femminile ap-
partenenti ai ranghi elevati testimonia chiaramente che le attività vietate
erano praticate anche da donne che, per dedicarsi ad esse, abiuravano la
propria origine. Il senatoconsulto di Larino si iscrive nella sequenza tem-
porale di atti che hanno posto divieti precisi volti ad arginare la pratica
delle esibizioni gladiatorie delle donne “ben nate”, costituendo una fonte
preziosa che non solo conferma il fenomeno della gladiatura femminile ma,
soprattutto, ne conferma la diffusione generalizzata al punto da essere in-
serita in un provvedimento normativo di portata altrettanto generale, resti-
tuito dal tempo sul suo supporto originale.

62
Tert., XVII, T. WIEDEMANN, op. cit., 148.
63
Cass. Dio., LXII, 17, 3-4; Tacitus, Annales, XV, 32. Nerone, in occasione di un mu-
nus a Pozzuoli, fece combattere donne di colore contro nani: Cass. Dio. LXVII, 8.
64
45,4.
65
Suet. Domitianus 4.
66
Cass. Dio., LXXVI, 16.1.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 183

Esistono anche testimonianze figurate, archeologiche ed epigrafiche di


gladiatrici.
Un’iscrizione da Ostia descrive un magistrato locale, Hostilianus, van-
tarsi di essere stato primus om <niu>m ab urbe condita ludos cum (…) or et
mulieres <a>d ferrum dedit 67. L’iscrizione, probabilmente del III secolo
d.C., testimonia come i combattimenti gladiatori di donne non cessarono
neanche con i citati divieti di Settimio Severo del 200 d.C.
Un frammento di terracotta rossa, con praticato un foro (probabilmente
un ciondolo), reca inciso Verecunda ludia Lucius gladiator, ed a riguardo è
stato sostenuto 68 che Verecondia fosse una gladiatrice, collega di troupe
del Lucius Gladiator, sebbene si ritenga tale affermazione possa non essere
completamente corretta, in quanto il termine ludia indica, di solito, chi si
esibisce come attore/mimo 69.
Vi è inoltre un significativo reperto, un bassorilievo di marmo, del I o II
secolo d.C., proveniente da Alicarnasso, conservato presso il British Mu-
seum di Londra, che rappresenta due donne, di cui vengono tramandati i
nomi, Amazon ed Achilia, certamente pseudonimi di combattimento, ri-
tratte senza elmo, a petto nudo, con spade corte, scudo ed equipaggiate
con subligaculum e manica a protezione del braccio. Ai loro piedi è incisa
un’iscrizione in greco, che equivale al latino missae sunt, espressione con
cui si indicava il congedo dei gladiatori dal ludo al quale avevano parteci-
pato e dove si erano distinti, meritando di aver salva la vita.
Una statuetta d’origine sconosciuta e conservata presso il Museum für
Kunst und Gewerb di Amburgo, secondo alcune recenti teorie 70 rappre-

67
V. K. COLEMAN, Missio at Halicarnassus, in Harvard Studies in Classical Philology,
2000, 487-500. Si veda anche M. CEBEILLAC GERVASIONI, F. ZEVI, Rèvision et nouveautès
puor trois inscriptions d’Ostie, in M.E.F.R.A., LXXXVIII, 1976, 612-618 e M. CEBEILLAC
GERVASONI, M.L. CALDELLI, F. ZEVI, Epigrafia Latina. Ostia: cento iscrizioni in contesto,
Roma, 2010, 289-290.
68
V. R. JACKSON, Gladiators in Roman Britain, in British Museum Magazine, n. 38,
Londra, 2000, 16-21.
69
Cfr. M. MALAVOLTA, s.v. Ludio, in Diz. Ep., IV, Roma, 1978, 2139 e A. PASQUALINI,
op. cit., 59, che suggerisce potersi trattare del pegno di un rapporto, forse amoroso, tra i
due.
70
La statuetta era tradizionalmente ritenuta raffigurare un’atleta. A riguardo, v. E.
KOHNE, C. EWIGLEBEN, R. JACKSON (ed.), Gladiators and Caesars: The Power of Spectacle in
Ancient Rome, London, 2000, 136, n. 155A. La nuova identificazione è in A. MANAS, New
evidence of female gladiators: the bronze statuette at the Museum für Kunst und Gewerbe of
Hamburg, in The International Journal of the History of Sport, XXVIII, 2011, issue 18,
2726-2752. Per un commento, v. A. PASQUALINI, op. cit., 59.
184 Carla Ricci

senterebbe una donna vestita del subligaculum che alza il tradizionale col-
tello ricurvo di origine tracia, la sica, in segno di vittoria.
Ma è un’altra testimonianza archeologica quella che si vuole ricordare,
che ben si colloca nel contesto che si esamina. Si tratta del rinvenimento
(avvenuto a fine anni ’90 del secolo scorso), durante gli scavi di una necro-
poli nella zona meridionale di Londra (Southwark), nei pressi dei resti del-
l’Anfiteatro dell’antica Londinium, di una sepoltura contenente i resti car-
bonizzati di quella che, con buona probabilità, doveva essere stata una
donna gladiatrice. Questo speciale ritrovamento è stato senza precedenti e
rappresenta la prima prova su reperto umano dell’effettiva presenza di
donne dedite alla gladiatura.
La sepoltura era posta al di fuori del muro di cinta dell’area cimiteriale,
nelle vicinanze dell’anfiteatro, a conferma della perdita del diritto ad una
onorevole sepoltura cui erano soggetti i gladiatori, in quanto infames, così
come attestato proprio dal senatoconsulto di Larino nella linea 15.
Inoltre, era collocata in un bustum – una sorta di fosso in cui era posta
la pira sulla quale veniva arso il corpo; busta sono alquanto rari in Britan-
nia, costituendo meno dello 0,5% di tutte le sepolture Romane tra il I ed il
III secolo d.C. 71.
Tali tipi di sepolture erano collocate soprattutto nei pressi di siti militari
– con una significativa concentrazione lungo il Vallo di Adriano – e rap-
presentano un costume importato dal continente, dove invece erano molto
più diffuse 72.
Sui resti rinvenuti nella sepoltura di Southwark sono state effettuate
delle indagini; in particolare, l’esame di un frammento di osso pelvico
scampato alla cremazione ha permesso di identificare il reperto come ap-
partenente ad una giovane donna di circa vent’anni.
Sepolti con la donna sono stati rinvenuti diversi oggetti del corredo fu-
nebre, tutti posti sulla cima della pira su cui la giovane è stata bruciata, tra
cui spiccano quattro lucerne, una delle quali mostra un gladiatore Sannita
seduto 73, che indossa il suo elmo piumato, mentre le altre tre raffigurano il

71
V. N. BATEMAN, Gladiators at Guildhall, Londra, 2000.
72
Cfr. M. STRUCK, Romerzeithiche Graber als Quellen zu Religion, Bevolkerungsstruktur
und Sozialgeschichte, in Archaologische Schriften des Instituts fur Vor-Fruhgeschichte der
Iohannes Gutenburg – Universitat Mainz, Band 3, 1993.
73
A. MACKINDER, op. cit., 33: “The discus shows a fallen gladiator, a Samnite, wearing a
crested helmet, sword in right hand, his left arm raised to his face, with his shield in front of
him”. Per il gladiatore di tipo sannita, cfr. C. DAREMBERG, E. SAGLIO, Dictionnaire, cit.; A.
HONLE, A. HENZE, Romische Amphitheatre und Stadien, Freiburg, 1981, 24.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 185

dio egizio Anubi, che controllava l’ingresso nel mondo dei defunti, che ri-
manda al culto di Iside, diffuso soprattutto tra le donne e che è tradizio-
nalmente associato al greco Hermes ed al romano Mercurio Psychopompus,
l’accompagnatore delle anime nell’aldilà.
Quest’ultimo, nella rappresentazione rituale dell’arena, è colui che con-
duce le anime e trasporta i morti fuori dalla Porta Libitina, l’ingresso attra-
verso il quale venivano fatti uscire i gladiatori caduti in combattimento.
Quando un gladiatore veniva ucciso, degli schiavi entravano nell’arena ab-
bigliati come Mercurio Psychopompus, guida delle anime negli inferi, e
conducevano i corpi nello spoliarium.
Il culto di Isis (in cui Anubi gioca il suo ruolo) si diffuse rapidamente
nell’impero, e suscitò interesse soprattutto fra le donne 74.
Riguardo al sepolcro della gladiatrice, si è per l’appunto ipotizzato che
nella sepoltura vi fosse una prova indiretta, oltre che di un indiscutibile ri-
to di origine orientale, proprio del culto di Isis 75.
Tornando al corredo funebre, in particolare alle condizioni di ritrova-
mento, va precisato che gli oggetti sono stati rinvenuti non bruciati, sebbe-
ne collocati in cima alla pira. Tale collocazione, ed il fatto che essi non re-
cassero tracce d’uso, ha fatto ipotizzare che costituissero più che altro un
equipaggiamento per l’aldilà 76.
La funzione doveva dunque essere prevalentemente simbolica ed iscrit-
ta nel contesto di un complesso rituale funebre, in cui si definisce anche il
ruolo degli altri resti rinvenuti: pigne e pinoli (l’unico posto della Londra
romana dove trovare le pigne era l’anfiteatro, dove venivano arse per co-
prire gli odori spesso nauseabondi che da lì provenivano), frammenti di ve-
tro, nonché residui di un pasto comprendente pollo, pane, datteri, fichi e
mandorle.
La tipologia del corredo funebre – in particolare la raffigurazione del
gladiatore su una delle lucerne – nonché il significato simbolico, connesso
al mondo della gladiatura di Anubi, ed i resti arsi di pigne, oltre a conferire
una assoluta originalità alla sepoltura, hanno sin da subito fatto ipotizzare
che i resti rinvenuti appartenessero ad una donna gladiatrice, probabil-
mente – come detto – anche adepta del culto di Iside.
Tutto, nella sepoltura, indica che dovette essersi verificato un rito fune-

74
Cfr. C. JOLMS, “Isis, not Cybele: a bone hairpin from London”, in J. BIRD, M. HASSALL,
H. SHELDON, Interpreting Roman London, Londra, 1996.
75
A. WARDLE, apud A. MACKINDER, op. cit., 27-28.
76
A. MACKINDER, op. cit., 28.
186 Carla Ricci

bre complesso ed elaborato, indice di un forte senso di potere e ricchezza,


finanche di raffinatezza 77.
Ciò suggerisce un quesito; perché riservare un rito così articolato e
senz’altro costoso ad una donna da seppellire nell’area destinata a coloro
che erano colpiti dal bollo d’infamia?
Forse perché la ragazza di Southwark era tenuta in considerazione, era
rispettata, ma non per questo era formalmente “rispettabile”, proprio per-
ché coinvolta in un turpe mestiere.
Indubbiamente, l’evidenza delle prove portate alla luce dallo scavo mo-
stra che vi è uno stretto collegamento tra la ragazza cremata ed il mondo
della gladiatura. Se non una gladiatrice, la giovane sepolta nei pressi del-
l’anfiteatro londinese aveva senza dubbio un profondo legame con i gladia-
tori.
I principali quesiti riguardano proprio l’interpretazione da dare alla se-
poltura nel suo complesso, nonché alle implicazioni generate dalle raffigu-
razioni presenti sugli oggetti del corredo funebre che, apparentemente,
sembrano connettersi in maniera immediata alla vita della defunta: in que-
st’ottica, la sepoltura può effettivamente essere considerata quella di una
gladiatrice. Vi è però anche un’altra possibile interpretazione, pure ritenu-
ta plausibile dagli studiosi britannici che hanno scoperto la tomba e l’han-
no studiata 78, che riguarda la possibilità di “decodificare” l’intero insieme
di oggetti e raffigurazioni, elevandolo ad un livello più simbolico, ed in tal
caso si sarebbe in presenza di un rituale complesso, legato alla religione di
appartenenza della defunta.
Il rito che fa da sfondo alla sepoltura rivela infatti quella particolare ca-
ratteristica dell’esperienza romana di stratificare fedi e rituali in una artico-
lata dialettica.
Qualunque fosse il ruolo della donna sepolta nell’area della Londra un
tempo romana, i simboli che la accompagnano dimostrano che il mondo
dell’arena, e dei ludi in generale, non può essere considerato, come si dice-
va all’inizio, un semplice “divertimento”. Al contrario, questa scoperta ar-
cheologica offre ancora oggi un contributo esemplare alla ricostruzione del

77
Si veda A. MACKINDER, “A Romano-British Cemetery on Watling Street – Excavations
at 165 Great Dover Street, Southwark, London, MOLAS, Londra, 2000 e N. BATEMAN,
Gladiators, cit.
78
Cfr. A. MACKINDER, op. cit. e N. BATEMAN, op. cit. Le considerazioni sopra esposte
sono state redatte tenendo conto delle riflessioni emerse durante gli incontri avuti presso il
Musem of London Archaeology Service (oggi MOLA) con il Dr. Bateman, che ha curato
gli scavi e svolto diversi studi sulla sepoltura.
Amant quos multant. La passione per l’arena in un senatoconsulto del 19 d.C. 187

complicato substrato psicologico e metafisico in cui era collocata la gladia-


tura.
Per di più, per tornare a collegarsi con il documento rinvenuto a Larino
– che rappresenta una preziosa testimonianza del complesso meccanismo
di interazione fra norme moralizzatrici e dinamica sociale, in cui si iscrive
al smodata passione del popolo di Roma per la gladiatura – non v’è dubbio
che il rito fastoso ed i simboli di quella sepoltura, la raffinatezza che aleg-
gia in essa, siano una testimonianza di come il senso di potere, unitamente
al rispetto tributato ad esso al momento della morte, possano non coinci-
dere con i tradizionali concetti di fama ed infamia, collocandosi al contra-
rio in un contesto più simbolico e complesso, che supera i paletti del dirit-
to e della sua stessa trasgressione, per trasformarsi in uno strumento di
comunicazione tra soggetti che quel potere esercitano, a prescindere dalla
loro condizione ‘legale’, e soggetti che lo subiscono, riconoscendone la
portata.
In tale contesto di riflessioni è facile comprendere come la gladiatura
rappresenti un fenomeno dalle dimensioni enormi, da esaminare ed analiz-
zare attentamente. Il rigore delle norme del documento larinate suggerisce
che l’attrazione verso il modello proibito ed il fascino che da esso si spri-
gionava incontrano una spiegazione complessa, intimamente legata alla
stessa struttura di quella società antica, dove in alcuni momenti la figura
del gladiatore, che con Commodo sembrerà quasi emergere a discapito di
quella dell’imperatore 79, arrivi a proporsi, com’è stato affermato, con il vi-
gore di un Idealtypus weberiano 80. Nel gladiatore si fondevano la bravura
ed il coraggio del combattente, un tempo fondamento della potenza di
Roma, nonché il destino di un popolo che da combattente era diventato
massa di spettatori, da artefice della vita pubblica si era piegato ad essere
suddito del potere, dimenticando la propria sovranità, più che libertà, o
meglio, rinunciando ad essa 81. Vista dal lato del princeps, che deteneva il
potere assoluto, il modello del gladiatore restituiva vigore alla figura del
sovrano che, ridotta la sua auctoritas 82, diveniva a sua volta gladiatore ed
incarnava le pulsioni più basse della plebe di cui diventava – proprio per
questo – l’idolo.

79
V. A. PASQUALINI, Passione e repulsione, cit., 51 ss.
80
Così M. MALAVOLTA, Auctoramentum, cit., 70.
81
V. M. MALAVOLTA, op. ult. cit., 71.
82
V. A. MAGDELAIN, Ius Imperium Auctoritas, in Etudes de droit romain, Collection de
l’Ecole francaise de Rome, 133, Rome, 1990; C. LANZA, Auctoritas principis, I, Milano,
1996, L. FANIZZA, Autorità e diritto. L’esempio di Augusto, Roma, 2004.
188 Carla Ricci

Tali riflessioni permettono di collocare il documento epigrafico di Lari-


no in un contesto più ampio, individuandolo quale testimonianza di preci-
se regole “sociali”, che acquistano un significato ancora più interessante se
inoltre, come visto, si considera la posizione delle donne nella società ro-
mana.
Di fronte ai rigori di una legislazione che ingabbiava in un preciso ruo-
lo, diversi giovani, uomini e donne, appartenenti ai segmenti “alti” della
società, destinati a svolgere un compito predeterminato (ritenuto sano ed
invalicabile, perché funzionale anche alla creazione di un sostegno al prin-
ceps, robusto soprattutto sotto il profilo morale 83), si muovono elaborando
scappatoie giuridiche che li trasformano in figure borderline tra diritto e
trasgressione della norma, rendendoli di fatto liberi dai troppo stretti lacci
normativi e dagli obblighi di ceto, divenendo al contempo esempio per
molti altri del loro rango.
Le condotte analizzate possono essere (ed a lungo sono) tollerate dal di-
ritto, ma incontrano la forte riprovazione sociale, tanto da sfociare alfine
nello stigma dell’infamia. Sono condotte forti e ripetute, in grado, a partire
da un certo momento, di scatenare la reazione dell’establishment, che pu-
nirà in maniera esemplare coloro che se ne sono resi protagonisti e prota-
goniste.
Di questo processo il senatoconsulto di Larino è testimone, frutto ed in-
terprete.

83
Tale ruolo, per le donne, si traduceva nel rispettare il modello di moglie sottomessa e
fedele, di madre laboriosa e feconda, compensato da alcune libertà e da un rispetto sociale
particolarmente intenso. In letteratura, si vedano, a mero titolo esemplificativo, tra i nume-
rosi contributi sul tema, E. CANTARELLA, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sul-
picia, Milano, 1996; EAD., Figlie romane, in L. ACCATI, M. CATTARUZZA, M. VERZAR BASS (a
cura di), Padre e figlia, Torino, 1994; C. PETROCELLI, La stola e il silenzio. Sulla condizione
femminile nel mondo romano, Palermo, 1989; F. GESTRI GRECO, Le donne di Roma antica:
le vergini Vestali e le altre, Firenze, 2000; S. TREGGIARI, Women in Roman Society, I, Clau-
dia, Women in ancient Rome, New Haven, 1996; J.F. GARDENER, Woman in Roman Law
and Society, Blooming-Indanapolis, 1986; A. RICHLIN, Julia’s Jokes, Galla Placidia and the
Roman Use of Women as Political Icons, in STEREOTYPES OF WOMEN IN POWER, Historical
Perspectives and Revisionist Views, Westport, 1992; F. SAMPOLI, Le grandi donne di Roma
antica, Roma, 2011; F. CENERINI, La donna romana, modelli e realtà, Bologna, 2011.
Ludi gladiatori e crimen ambitus 189

Ludi gladiatori e crimen ambitus


Margherita Scognamiglio

SOMMARIO: 1. Il ‘crimen ambitus’. – 2. La ‘lex Tullia de ambitu’: corruzione elettorale e


giochi gladiatori. – 3. Sul discrimine tra corruzione elettorale e liberalità. – 4. ‘Ludi gla-
ditorii’ e ‘venationes’. – 5. Brevi osservazioni conclusive.

1. Il ‘crimen ambitus’

La crisi del sistema repubblicano fu caratterizzata – tra l’altro – dalla


promulgazione di un numero considerevole di provvedimenti normativi
finalizzati a contenere la fase di emergenza politica e sociale che Roma sta-
va attraversando.
Per quanto attiene alla tutela della correttezza dello svolgimento delle
funzioni pubbliche, la nostra attenzione deve indirizzarsi verso un insieme
di disposizioni che sotto profili differenti hanno disciplinato i meccanismi
di funzionamento delle assemblee comiziali e le modalità di organizzazione
delle campagne elettorali. Negli ultimi due secoli della Repubblica, infatti,
furono emanati numerosi provvedimenti atti a regolamentare per un verso
le attività comiziali, introducendo sistemi e regole di controllo e tutela del-
la libertà del voto espresso dal civis, indipendentemente dal fatto che il
comizio fosse riunito in funzione elettiva, legislativa o giudiziaria 1; e per
altro verso le attività che precedevano la convocazione delle assemblee po-
polari e che determinavano la formazione del consenso elettorale nella fase
antecedente alla votazione, prevedendo comportamenti vietati ai candidati
perché considerati alla stregua di brogli elettorali 2.

1
Sulle leggi tabellarie, si rinvia a F. SALERNO, ‘Tabella quasi vindex libertatis’, Napoli,
2001; e con riferimento all’insieme delle disposizioni volte a garantire il regolare svolgi-
mento delle operazioni di voto e delle campagne elettorali a T. WALLINGA, ‘Ambitus’ in the
Roman Repubblic, in RIDA, 41, 1994, 422.
2
Tra la vasta bibliografia si segnalano: U. COLI, voce ‘Ambitus’, in NNDI, 1.1, Torino,
190 Margherita Scognamiglio

È in questo contesto socio-politico che il crimen ambitus 3 assunse con-


torni più precisi rispetto al passato e che contestualmente venne punito
con pene ancora più severe nei confronti di coloro i quali erano condanna-
ti de ambitu.
Tra le prime leggi che punirono l’illecito accaparramento dei voti nelle
elezioni per le magistrature, devono essere ricordate la lex Cornelia Baebia 4
e la lex Cornelia Fulvia 5, risalenti rispettivamente al 181 a.C. e al 159 a.C. 6,
le quali – stando alla testimonianza di Polibio 7 – sanzionarono con la pena
di morte coloro che avessero fatto regali alla popolazione per ottenerne in
cambio il voto 8.
Plutarco riferisce, poi, di un processo de ambitu contro Gaio Mario, che
ebbe luogo nel 116 a.C. 9, verosimilmente davanti a una quaestio de ambitu
non permanente 10. Il punto in realtà è controverso, poiché dalle fonti non

1957, 534 ss.; E.S. GRUEN, The last Generation of the Roman Republic, Berkeley-Los Ange-
les-London, 1974, 212 ss.; L. FASCIONE, ‘Crimen’ e ‘quaestio ambitus’ nell’età repubblicana.
Contributo allo studio del diritto criminale romano, Milano, 1984; A. LINTOTT, Electoral
Bribery in the Roman Repubblic, in JRS, 80, 1990, 1 ss.; T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 411
ss.; J.L. FERRARY, La legislation ‘de ambitu’, de Sulla à Auguste, in AA.VV., ‘Iuris Vincula’.
Studi in Onore di Mario Talamanca, III, Napoli, 2001, 159 ss.; A. TRISCIUOGLIO, Studi sul
‘crimen ambitus’ in età imperiale, Torino, 2017.
3
Sul valore dei termini ambire, ambitio e ambitus, si veda da ultimo A. TRISCIUOGLIO,
Studi, cit., 20 ss.
4
Liv. 40.19.11.
5
Liv. Per. 47.
6
L’annalistica ricorda anche provvedimenti precedenti, ma si trattò di interventi del
tutto sporadici e occasionali, il cui contenuto e la cui finalità non risultano sempre chiari.
Così, possiamo ricordare una lex de ambitu del 432 a.C. (Liv. 4.25.13-14; Isid. Orig.
19.24.6), la quale sembra abbia proibito ai candidati di indossare vesti imbiancate, e una
lex Poetelia del 358 a.C. (Liv. 7.15.12), che vietò di circolare per i mercati con l’intento di
accaparrare voti. Su questi provvedimenti di epoca risalente si veda in particolare: L. FA-
SCIONE, Alle origini della legislazione ‘de ambtu’, in F. SERRAO (a cura di), Legge e società
nella repubblica romana, I, Napoli, 1981, 255 ss.; A. LINTOTT, Electoral Bribery, cit., 3 s.; T.
WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 414 ss.
7
Pol. 6.56.4.
8
Sul contenuto di queste due leggi si rinvia a A. BERGER, voce ‘Lex Cornelia Baebia de
ambitu’, in PWRE, 12.2, Stuttgart, 1925, 2344; ID., voce ‘Lex Cornelia Fulvia de ambitu’, in
PWRE, 12.2, cit., 2344 ss.; U. COLI, voce ‘Ambitus’, cit., 534; L. FASCIONE, ‘Crimen’, cit.,
27 ss.; A. LINTOTT, Electoral Bribery, cit., 5; T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 420 ss.; B. SAN-
2
TALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma , Milano, 1998, 69 s.
9
Plut. Mar. 5.2-10; Val. Max. 6.9.14.
10
Sul processo contro Mario si rinvia a E.S. GRUEN, Roman Politic and the Criminal
Ludi gladiatori e crimen ambitus 191

è possibile ricavare la certezza circa la natura del tribunale che si occupò di


giudicare l’imputato, se cioè si trattasse di una quaestio perpetua o di una
quaestio straordinaria. Sebbene vi sia chi fa risalire l’istituzione della prima
quaestio perpetua de ambitu alla legge Sempronia iudiciaria del 122 11, mi
sembra che debba essere accolta una tesi più cauta, la quale, facendo leva
sulla scarsità delle fonti relative a questo tribunale, prospetta la quaestio
del 116 a.C. come istituita occasionalmente con l’intento di perseguire per
ambitus Gaio Mario 12.
Nel complesso delle riforme del sistema dei publica iudicia messo a pun-
to da Silla rientra, poi, una lex Cornelia de ambitu, probabilmente databile
all’81 a.C., con la quale il dittatore introdusse un tribunale permanente per
la persecuzione di brogli e corruzione elettorale 13. La sanzione che la legge
prevedeva per i colpevoli di crimen ambitus consisteva nell’interdizione
dalle cariche pubbliche per dieci anni 14. Nel 67 a.C. il tribuno C. Cornelio
propose una legge ancor più severa 15; tuttavia, la proposta fu superata da
una legge suggerita dal Senato di contenuto più mite, che le fonti ricorda-

Courts. 149-78 B.C., Cambridge, 1968, 123 ss.; A.H.M. JONES, The criminal Courts of the
Roman Republic and Principate, Oxford, 1972, 52 ss.; L. FASCIONE, ‘Crimen’, cit., 51 ss.; D.
MANTOVANI, Il problema d’origine dell’accusa popolare, Padova, 1989, 212 ss.; A. LINTOTT,
Electoral Bribery, cit., 6; T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 423.
11
In particolare T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 423. Non condivisibile mi sembra la teo-
ria proposta da L. FASCIONE, ‘Crimen’, cit., 51 ss., il quale sostiene che la prima quaestio
perpetua de ambitu fosse stata creata dalla lex Cornelia Fulvia e che dunque i riferimenti ad
una lex Cornelia de ambitu istitutiva della corte permanente per i brogli elettorali non ri-
guardassero la legge sillana (che secondo Fascione non fu mai promulgata), bensì, appun-
to, la lex Cornelia Fulvia. La tesi è stata contestata in modo particolare da B. SANTALUCIA,
Diritto, cit., 127, nt. 76, 144 s., nt. 124; e da J.L. FERRARY, La legislation, cit., 162, alle cui
argomentazioni rinvio.
12
In questo senso, A. LINTOTT, Electoral Bribery, cit., 6; B. SANTALUCIA, Diritto, cit.,
127 e nt. 76. Altri processi de ambitu svolti dinanzi a una quaestio verosimilmente non
permanente sono documentati nel 116 a.C. (Cic. Brut. 113; Cic. de orat. 2.280), nel 98 a.C.
(Cic. de orat. 2.274), nel 92 a.C. (Flor. 2.5) e nel 90 a.C. (Cic. Brut. 180). Contra: E.S.
GRUEN, Roman Politic, cit., 260 s.; J.L. FERRARY, La legislation, cit., 163, che data la prima
quaestio perpetua de ambitu al 116 a.C.
13
A. BERGER, voce ‘Lex Cornelia de ambitu’, in PWRE, 12.2, cit., 2344; U. COLI, voce
‘Ambitus’, cit., 534; W. KUNKEL, voce ‘Quaestio’, in PWRE, 24, Stuttgart, 1963, 744 ss.,
ora in ID., Kleine Schriften, Weimar, 1974, 61 ss.; L. FASCIONE, ‘Crimen’, cit., 47 ss.; A.
LINTOTT, Electoral Bribery, cit., 7 s.; T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 425; B. SANTALUCIA, Di-
ritto, cit., 144.
14
Schol Bob. 9, 28-10, 3 (H.).
15
Cic. Corn. 1.40-41; Dio Cass. 36.38.4.
192 Margherita Scognamiglio

no col nome di lex Calpurnia de ambitu 16. Il provvedimento comminò la


sanzione dell’impossibilità perpetua ad accedere alle cariche pubbliche,
nonché la perdita del rango senatorio e una multa. Inoltre, furono sanzio-
nati anche i divisores, per la loro partecipazione alla campagna elettorale 17.
Sempre collegata al crimen ambitus è un’altra legge, promulgata nel 64 a.C.:
la lex Fabia de numero sectatorum 18, con la quale s’impose un numero mas-
simo di sectatores ai candidati 19, verosimilmente comminando per l’inosser-
vanza della disposizione una sanzione sia ai candidati sia ai sectatores.

2. La ‘lex Tullia de ambitu’: corruzione elettorale e giochi gladiatori

Nello stesso frangente temporale, a dimostrazione di quanto fosse di-


ventato diffuso e preoccupante il problema della corruzione elettorale,
venne emanata un’ulteriore legge, con la quale, tra l’altro, ai candidati fu-
rono vietate talune attività nei mesi precedenti le elezioni. Nel 63 a.C., in-
fatti, Cicerone fece approvare una lex Tullia de ambitu, con la quale furono
represse condotte particolari e furono contestualmente inasprite le sanzio-
ni a carico dei condannati 20.
In particolare si previde che alle pene sancite dalla lex Calpurnia si ag-
giungesse anche l’esilio di dieci anni 21, oltre a una poena gravior 22, non
meglio definita, a carico della plebe ritenuta corruttibile. Tra le fattispecie
perseguite si fece rientrare anche la condotta di chi, per evitare lo svolgi-
mento di un processo per ambitus, faceva rinviare il giudizio adducendo

16
Cic. Mur. 46; Cic. Corn. 1.25; Ascon. 69.11-13 (Cl.); Ascon. 88.15-16 (Cl.); Schol.
Bob. 9, 25-28 (H.); Dio Cass. 36.38.1. In letteratura: A. BERGER, voce ‘Lex Calpurnia de
ambitu’, in PWRE, 12.2, cit., 2338; E.S. GRUEN, The last Generation, cit., 213 ss.; L.
FASCIONE, ‘Crimen’, cit., 66 ss.; T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 425 ss.; B. SANTALUCIA, Dirit-
to, cit., 154; J.L. FERRARY, La legislation, cit., 167 s.
17
Ascon. 75.24-76.2 (Cl.).
18
T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 427; J.L. FERRARY, La legislation, cit., 169, il quale di-
scute la datazione del provvedimento, affermando che permane il dubbio circa l’anno della
sua promulgazione.
19
Cic. Mur. 71; Plut. Cato min. 8.4.
20
A. BERGER, voce ‘Lex Calpurnia de ambitu’, in PWRE, 12.2, cit., 2416; E.S. GRUEN,
The last Generation, cit., 222 ss.; L. FASCIONE, ‘Crimen’, cit., 72; T. WALLINGA, ‘Ambitus’,
cit., 427 s.; B. SANTALUCIA, Diritto, cit., 154; J.L. FERRARY, La legislation, cit., 172 ss.
21
Dio Cass. 37.29.1; Cic. pro Mur. 89; Cic. pro Planc. 83.
22
Cic. pro Mur. 47.
Ludi gladiatori e crimen ambitus 193

ragioni di salute 23. Il rinvio, infatti, avrebbe consentito al candidato che


fosse risultato eletto di restare impunito per tutta la durata del mandato
magistratuale, in virtù dell’immunità di cui avrebbe goduto per l’anno di
carica 24. Fu altresì sancito il divieto di allestire ludi gladiatorii a partire dal
primo gennaio dell’anno precedente l’elezione, a meno che l’organizzazio-
ne dello spettacolo non fosse stata disposta per testamento recante la data
precisa in cui tenere i ludi 25. Accanto a queste disposizioni, Cicerone si
preoccupò di provocare un’interpretazione della lex Calpunia da parte del
Senato, all’esito della quale risultarono vietati anche i banchetti a fini di
propaganda elettorale, il dono di biglietti per assistere ai ludi e il ricorso ai
sectatores 26.
Dal complesso delle informazioni che abbiamo circa il contenuto del
provvedimento voluto da Cicerone risulta molto forte il nesso tra l’organiz-
zazione di spettacoli gladiatori, da sempre amati dalla popolazione, e l’ac-
caparramento di voti; un nesso che con la lex Tullia assunse il carattere
dell’illiceità, poiché il dare munera o il regalare posti a sedere in occasione
dei giochi a intere compagini di cittadini venne da quel momento in poi
considerato un atto diretto a corrompere il civis e ad acquisire un voto che
altrimenti il candidato non avrebbe ottenuto.
Che i giochi gladiatori e tutto ciò che attorno ad essi ruotava fossero
considerati uno strumento per assicurarsi un ampio consenso elettorale è
noto e risulta anche da numerose testimonianze. Così, ad esempio, nella
Pro Murena, Cicerone si sofferma a lungo sulla tradizione romana di rega-
lare al popolo spettacoli e banchetti:

Cic. pro Mur. 72: … Quod enim tempus fuit aut nostra aut patrum nostrorum
memoria quo haec sive ambitio est sive liberalitas non fuerit ut locus et in circo
et in foro daretur amicis et tribulibus? …

Cic. pro Mur. 74: … Horribilis oratio; sed eam usus, vita, mores, civitas ipsa re-
spuit … 75. Qua re noli, Cato, maiorum instituta quae res ipsa, quae diuturnitas
imperi comprobat nimium severa oratione reprehendere …

Cic. pro Mur. 77: … Qua re nec plebi Romanae eripiendi fructus isti sunt ludo-
rum, gladiatorum, conviviorum, quae omnia maiores nostri comparaverunt, nec

23
Cic. pro Mur. 47.
24
T. WALLINGA, ‘Ambitus’, cit., 428.
25
Cic. pro Sest. 133, 135; Cic. in Vat. 37; Schol. Bob. 105, 14-18 (H.).
26
Cic. pro Mur. 67.
194 Margherita Scognamiglio

candidatis ista benignitas adimenda est quae liberalitatem magis significat quam
largitionem.

Va altresì ricordato il collegamento tra le disposizioni in tema di ambi-


tus e la legislazione sul lusso: significativo al riguardo il richiamo nel De of-
ficiis di Cicerone al pensiero di Teofrasto e di Aristotele, che condannava-
no lo sperpero di ricchezze al fine di incantare il popolo con l’allestimento
di spettacoli:

Cic. de off. 2.16.56: Itaque miror, quid in mentem venerit Theophrasto, in eo li-
bro, quem de divitiis scripsit, in quo multa praeclare, illud absurde: est enim mul-
tus in laudanda magnificentia et apparitione popularium munerum taliumque
sumptuum facultatem fructum divitiarum putat. Mihi autem ille fructus liberali-
tatis, cuius pauca exempla posui, multo et maior videtur et certior. Quanto Ari-
stoteles gravius et verius nos reprehendit, qui has pecuniarum effusiones non
admiremur, quae fiunt ad multitudinem deleniendam … 27.

Altrettanto interessante è l’impiego da parte dei Romani del lemma


munus per indicare gli spettacoli gladiatori, a partire dalla tarda Repubbli-
ca. In effetti, sebbene le varie tipologie di spettacoli (gladiatorii, circenses e
scaenici) fossero comunemente denominate ludi, solo per i giochi gladiatori
a partire dal I secolo a.C. venne utilizzato munus, termine con cui si indi-
cava una prestazione dovuta al popolo 28.
Posto, dunque, lo stretto legame tra giochi gladiatori, potere politico e
conseguimento di un forte consenso popolare, e alla luce della legislazione
de ambitu, può essere interessante esaminare due esempi di interpretazione
della legislazione sui brogli elettorali proprio con riferimento ai divieti rela-
tivi ai munera, sia in relazione al dare gladiatores, sia con riferimento alla
distribuzione a titolo gratuito di posti a sedere negli spettacoli gladiatori.

27
Il tema è affrontato in modo particolare da A. BOTTIGLIERI, La legislazione sul lusso
nella Roma repubblicana, Napoli, 2002, part. 58 ss., 132 ss.; C. VENTURINI, ‘Leges sumptua-
riae’, in ID., Studi di diritto delle persone e di vita sociale in Roma antica, a cura di A. PAL-
MA, Napoli, 2014, 569 ss.; A. TRISCIUOGLIO, Studi, cit., 32.
28
In questo senso: G.L. GREGORI, Aspetti sociali della gladiatura romana, in ID., ‘Ludi’ e
‘munera’. 25 anni di ricerche sugli spettacoli d’età romana, Milano, 2011, 15; P. PASQUINO,
Gli edifici per spettacoli in Roma antica quali ‘res publicae’, in L. GAROFALO (a cura di), I
beni di interesse pubblico nell’esperienza giuridica romano, II, Napoli, 2016, 83, nt. 4.
Ludi gladiatori e crimen ambitus 195

3. Sul discrimine tra corruzione elettorale e liberalità

Nel 63 a.C., entrata da poco in vigore la nuova legge de ambitu voluta


da Cicerone, venne accusato di broglio elettorale Lucio Licinio Murena,
risultato vincitore insieme a Decimo Giunio Silano alle elezioni consolari
per il 62 a.C., avendo sconfitto Catilina 29. Il processo si svolse probabil-
mente nel mese di novembre di quell’anno. Tra le varie condotte illecite
addebitate a Murena da un collegio di accusatori di particolare prestigio,
composto da Marco Porcio Catone, Gaio Postumo e Servio Sulpicio, vi fu
l’aver offerto a un numero considerevole di cittadini posti gratuiti in occa-
sione di spettacoli gladiatori, pratica che era stata vietata proprio dalla lex
Calpurnia in base all’interpretazione datane dal senatoconsultum provocato
da Cicerone in occasione dell’emanazione della lex Tullia de ambitu:

Cic. pro Mur. 72: At spectacula sunt tributim data et ad prandium volgo
vocati …

La difesa di Murena fu assunta da Cicerone, il quale non soltanto era in


ottimi rapporti di amicizia con l’imputato, ma aveva anche un forte inte-
resse a che il ruolo di Catilina rimanesse politicamente ridimensionato. Ci-
cerone, inoltre, si trovava nella particolarissima posizione di promulgatore
della legge de ambitu in base alla quale Murena era stata accusato e di di-
fensore dell’imputato, aspetto questo che non mancò di essere sottolineato
dal collegio d’accusa 30.
La strategia difensiva di Cicerone era incentrata sullo status coniectura-
31
lis , vale a dire sull’accertamento relativo all’an sit:

Cic. pro Mur. 67: … Dixisti senatus consultum me referente esse factum, si mer-
cede obviam candidatis issent, si conducti sectarentur, si gladiatoribus volgo locus
tributim et item prandia si volgo essent data, contra legem Calpurniam factum
videri. Ergo ita senatus iudicat, contra legem facta haec videri, si facta sint; de-
cernit quod nihil opus est, dum candidatis morem gerit. Nam factum sit necne
vehementer quaeritur; sin factum sit, quin contra legem sit dubitare nemo potest.

Esposta l’interpretazione offerta dal Senato, Cicerone si preoccupò per


un verso di escludere l’attribuzione a Murena dei fatti contestati, per l’altro

29
C.J. CLASSEN, Diritto, retorica, politica, trad. it., Bologna, 1985, 123 ss.
30
Cic. pro Mur. 1-10.
31
C.J. CLASSEN, Diritto, cit., 168 s.
196 Margherita Scognamiglio

di chiarire che i posti erano realmente stati offerti, ma da alcuni amici di


Murena, e tutto era avvenuto con discrezione e nei limiti consentiti dalla
consuetudine:

Cic. pro Mur. 72: … Etsi hoc factum a Murena omnino, iudices, non est, ab eius
amicis autem more et modo factum est …

A questo punto, la difesa di Cicerone venne incentrata sull’indagine cir-


ca la corrispondenza tra la fattispecie astratta descritta dal senatoconsulto
e il caso di Murena, al fine di evidenziare che il fatto ascritto all’imputato
non corrispondeva a quello sanzionato. Cicerone, infatti, sottolineò come
“ciò che il senato vieta non è stato commesso da Murena e ciò che Murena ha
fatto non è stato proibito dal senato”32:

Cic. pro Mur. 73: Senatus num obviam prodire crimen putat? Non, sed mercede.
Convince. Num sectari multos? Non, sed conductos. Doce. Num locum ad spec-
tandum dare aut <ad> prandium invitare? Minime, sed volgo, passim. Quid est
volgo? Vniversos. Non igitur, si L. Natta, summo loco adulescens, qui et quo
animo iam sit et qualis vir futurus sit videmus, in equitum centuriis voluit esse et
ad hoc officium necessitudinis et ad reliquum tempus gratiosus, id erit eius vitrico
fraudi aut crimini, nec, si virgo Vestalis, huius propinqua et necessaria, locum
suum gladiatorium concessit huic, non et illa pie fecit et hic a culpa est remotus.
Omnia haec sunt officia necessariorum, commoda tenuiorum, munia candidato-
rum.

La sintesi della difesa di Cicerone, può dunque essere rappresentata da


due frasi: con la prima l’Arpinate introduceva la parte dell’orazione dedi-
cata a scardinare l’accusa di broglio:

Cic. pro Mur. 67: … Poenivi ambitum, non innocentiam …

Con la seconda traeva le conclusioni della sua argomentazione:

Cic. pro Mur. 77: … Qua re nec plebi Romanae eripiendi fructus isti sunt ludo-
rum, gladiatorum, conviviorum, quae omnia maiores nostri comparaverunt, nec
candidatis ista benignitas adimenda est quae liberalitatem magis significat quam
largitionem.

L’efficacia retorica della prima affermazione risulta ancora più accre-


sciuta se si osserva l’impiego del verbo ‘poenivi’, alla prima persona singo-

32
Così, C.J. CLASSEN, Diritto, cit., 173 s.
Ludi gladiatori e crimen ambitus 197

lare. Cicerone si era dovuto giustificare per aver assunto la difesa di Mure-
na, pur essendo stato promotore della lex de ambitu che portava il suo no-
me. Ebbene, proprio quel ruolo diviene per Cicerone un argomento per
rafforzare l’interpretazione dei fatti e delle disposizioni normative che sta-
va per proporre alla giuria. Un’asserzione, dunque, che si presenta quasi
alla stregua di un’interpretazione autentica: “ho perseguito il broglio e non
l’innocenza” 33.

4. ‘Ludi gladitorii’ e ‘venationes’

Come abbiamo ricordato, non soltanto regalare l’ingresso agli spettacoli


gladiatori rientrava nelle condotte punite a titolo di ambitus, ma anche l’or-
ganizzare munera gladiatoria nel biennio precedente l’elezione. Le disposi-
zioni della lex Tullia a tal riguardo ci risultano da diverse fonti:

Cic. pro Sest. 133: … Acta mea sibi ait displicere. Quis nescit? qui legem meam
contemnat, quae dilucide vetat gladiatores biennio quo quis petierit aut petiturus
sit dare. 135. … Sed habet defensiones duas, primum “do,” inquit, “bestiarios; lex
scripta de gladiatoribus.” Festive! Accipite aliquid etiam acutius. Dicet se non
gladiatores sed unum gladiatorem dare et totam aedilitatem in munus hoc
transtulisse. Praeclara aedilitas! unus leo, ducenti bestiarii. Verum utatur hac
defensione; cupio eum suae causae confidere …

Cic. in Vat. 37: Atque illud etiam audire (de) te cupio, qua re, cum ego legem de
ambitu tulerim ex senatus consulto, tulerim sine vi, tulerim salvis auspiciis,
tulerim salva lege Aelia et Fufia, tu eam esse legem non putes, praesertim cum
ego legibus tuis, quoquo modo latae sunt, paream; cum mea lex dilucide vetet
BIENNIO QUO QUIS PETAT PETITURUSVE SIT GLADIATORES DARE NISI EX
TESTAMENTO PRAESTITUTA DIE, quae tanta in te sit amentia ut in ipsa petitione
gladiatores audeas dare? Num quem putes illius tui certissimi gladiatoris similem
tribunum plebis posse reperiri qui se interponat quo minus reus mea lege fias?

Schol. Bob. 105, 14-18 (H.): Praescribebatur enim inter cetera, ne candidatus
inter biennium quam magistratus petiturus esset, munus populo ederet, propter
ambitum scilicet, ne hoc ipso popularis animus eblanditus designationi eius
succumberet.

33
Interessanti osservazioni sul confine tra lecito e illecito, proprio a proposito dell’am-
bitus, possono leggersi in F. LUCREZI, La corruzione elettorale nel ‘Commentariolum peti-
tionis’, in Fundamina, 17.2, 2011, 83 ss., in part. 97 ss.
198 Margherita Scognamiglio

Anche questa previsione della lex Tullia fu oggetto di interpretazioni


divergenti, di cui abbiamo notizia attraverso l’orazione difensiva di Cice-
rone, pronunciata nel processo a carico di Sestio, e nell’in Vatinium, l’in-
vettiva dello stesso Arpinate contro Vatinio, testimone dell’accusa nel me-
desimo procedimento.
Nel 56 a.C. Sestio, amico e uomo di fiducia di Cicerone, subì un processo
de vi per aver costituito, durante il tribunato, una propria guardia del corpo.
Nel corso del giudizio, Cicerone incentrò una parte della sua difesa sulla fi-
gura di Vatinio, con l’intento di screditarlo e dunque di ridimensionare l’ef-
ficacia probatoria e persuasiva della sua testimonianza. È a tal fine che
l’oratore si soffermò su comportamenti illeciti o moralmente discutibili tenu-
ti da Vatinio. Tra di essi risulta per noi di particolare interesse l’addebito ri-
volto al teste-chiave dell’accusa di aver infranto la lex Tullia de ambitu,
quando, in occasione della campagna elettorale per l’edilità, aveva organiz-
zato dei giochi gladiatori con l’intento di sponsorizzare la sua candidatura.
Da alcuni passaggi della pro Sestio e dell’in Vatinium riusciamo a ricava-
re il punto controverso della questione. La difesa di Vatinio, probabilmen-
te esposta in occasione del processo subito all’inizio del 56 a.C. 34, ma che
non giunse a conclusione, mirava non a negare il fatto, bensì a dimostrare
che era lecito 35. Cicerone, con ironia, ricordò infatti che Vatinio aveva so-
stenuto di non aver trasgredito alla legge, perché essa si riferiva solo ai gio-
chi gladiatori, mentre gli spettacoli che egli aveva organizzato vedevano la
partecipazione di bestiarii:

Cic. pro Sest. 135: … do … bestiarios; lex scripta de gladiatoribus …

Stando alle parole di Cicerone, Vatinio sosteneva un’interpretazione re-


strittiva della legge, basata sulla distinzione tra spettacoli di bestiarii (vena-
tiones) e spettacoli gladiatori (munera) 36. Solo questi ultimi sarebbero stati
vietati dalla lex Tullia. E, in effetti, lo stesso Cicerone riporta nell’in Vati-
nium una parte del testo della legge, in cui era impiegata la formula ‘gladia-
tores dare’, corrispondente alla locuzione ‘munus ederet’, presente negli

34
M.C. ALEXANDER, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to 50 BC, Toronto-
Buffalo-London, 1990, 133 s., n. 274.
35
La controversia sembra costituire perciò un caso di qualitas iuridicialis absoluta, su
cui si veda L. CALBOLI MONTEFUSCO, La dottrina degli ‘status’ nella retorica greca e romana,
Hildesheim-Zürich-New York, 1986, 108 ss.
36
Sul punto si veda G. VILLE, La Gladiature en Occident des origines à la mort de Domi-
tien, Rome, 1981, 55 s.
Ludi gladiatori e crimen ambitus 199

Scholia Bobiensia. Probabilmente, la difesa di Vatinio, nonostante l’ironica


invettiva di Cicerone, era tutt’altro che inopportuna e doveva apparire ben
più aderente alla lettera del testo legislativo e alla sua comune interpreta-
zione di quanto l’Arpinate non volesse dare a vedere 37.
Tuttavia, Cicerone evidenziò un altro aspetto contestabile circa le mo-
dalità di organizzazione dei giochi da parte di Vatinio: se si presta fede alle
parole di Cicerone e alla sua sintesi della difesa di Vatinio, questi avrebbe
fatto esibire dei gladiatori in luogo dei bestiarii, perché combattessero in
una venatio. Circostanza, questa, che verosimilmente non fu negata dall’ac-
cusato, il quale, tuttavia, sottolineò che la legge vietava di utilizzare più
gladiatori, mentre ne aveva fatto esibire uno soltanto:

Cic. pro Sest. 135: … Dicet se non gladiatores, sed unum gladiatorem dare … 38.

La difesa di Vatinio fu quindi articolata in due punti: in primo luogo,


egli sostenne che la lex Tullia de ambitu aveva introdotto solo il divieto di
offrire spettacoli gladiatori, e non anche quello di organizzare venationes;
in secondo luogo, avendo ammesso di aver utilizzato un gladiator, il quale
aveva però combattuto come bestiarius, ricordò che il testo della legge era
formulato in modo tale da consentire che si potesse ricorrere legittimamen-
te a un unico gladiatore.
Cicerone, dal canto suo, fornì una sorta di interpretazione autentica an-
te litteram della lex che portava il suo nome: egli affermò che doveva rite-
nersi illegittima l’organizzazione di qualunque tipo di spettacolo in cui fos-
se coinvolto anche un solo gladiatore. Fu proprio per questo motivo che
l’Arpinate nella sua orazione riferì di un unico munus organizzato da Vati-
nio per promuovere l’intera edilità:

Cic. pro Sest. 135: … totam aedilitatem in munus hoc transtulisse …

Egli, quindi, fu ben attento a non utilizzare mai il termine venatio e a ri-
condurre, invece, alla categoria dei munera ogni spettacolo al quale avessero
partecipato dei gladiatori, indipendentemente dal ruolo da essi rivestito 39.

37
Discussione delle fonti in G. VILLE, La Gladiature, cit., 57 ss., e, relativamente al caso
di Vatinio, 64 s., 82 ss.
38
Su questo punto si veda G. VILLE, La Gladiature, cit., 64.
39
Sull’impiego da parte di Cicerone della topica argomentativa caratteristica delle con-
troversie di scriptum et voluntas, si rinvia a M. SCOGNAMIGLIO, Tra retorica e diritto: alcuni
esempi di interpretazione delle ‘leges iudiciorum publicorum’ nelle orazioni di Cicerone, in B.
200 Margherita Scognamiglio

Anche negli Scholia Bobiensia troviamo conferma della linea interpretativa


adottata da Cicerone:

Scol. Bob. 105, 21-29 (H.): Cum Vatinius invidiam sibi magnam conflasset de
apparatu gladiatorum, simulaverat se bestiarios potius habere quam gladiatores et
unum gladiatorem confitebatur, cui nomen Leoni fuit. Hanc igitur stultitiam M.
Tullius inridens unum leonem dicit, ducentos bestiarios, id est venatores; sine
dubio volens intellegi omnem hanc manum gladiatoriam seditionis causa compa-
ratam. Hoc etiam dictum de Leone Tullius Tiro, libertus eiusdem, inter iocos
Ciceronis adnumerat.

5. Brevi osservazioni conclusive

Da quanto sin qui esposto, risulta che l’organizzazione di spettacoli gla-


diatori, così come l’attività volta a consentire al popolo di assistervi a titolo
gratuito, costituiva uno strumento assolutamente irrinunciabile per i can-
didati alle varie magistrature, al fine di portare a termine una campagna
elettorale almeno teoricamente vittoriosa. Per conseguenza, si ricorreva a
espedienti retorici atti a circoscrivere al massimo il divieto posto dalla lex
Tullia, sebbene fosse a tutti ben chiara la finalità stessa della legge, vale a
dire impedire l’accaparramento di voti solo in ragione della magnificenza
degli spettacoli, piuttosto che del valore del candidato.
La ratio legis Tulliae si ricava dal passaggio degli Scholia Bobiensia, in
cui è brevemente descritto il contenuto della legge (Schol. Bob. 105, 14-18
[H.]): nel contrasto tra tradizione e libera formazione del consenso eletto-
rale, almeno formalmente con la lex Tullia si optò per garantire la seconda
esigenza, nonostante ciò avesse provocato un indubbio malcontento gene-
rale, come risulta dalle stesse parole di Cicerone, pronunciate nella pro
Murena:

Cic. pro Mur. 72: … tamen admonitus re ipsa recordor quantum hae conquestio-
nes in senatu habitae punctorum nobis, Servi, detraxerint …

SANTALUCIA (a cura di), La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e per-
suasione, Pavia, 2009, 273 ss.
Indice delle fonti 201

Indice delle fonti

FONTI GIURIDICHE 1.4.34.4: 34, 93 nt. 50


1.4.34.5: 34, 93 nt. 50
1.4.34.6: 34, 93 nt. 50
1. FONTI PREGIUSTINIANEE 1.4.34.7: 34, 93 nt. 50
3.43: 32, 53, 98
Collatio legum Mosaicarum et Romanarum 3.43.1: 32 nt. 20, 92 nt. 44
4.3.2: 172 nt. 31 3.43.1 pr.: XI, XI nt. 6, 32, 50, 75
9.2.2: 172 nt. 31 3.43.1.1: 12 nt. 36, 32, 40 nt. 16, 46,
75, 79 nt. 30, 113 nt. 78
Gai Institutiones 3.43.1.2: 32, 79 nt. 30
2.42: 58 nt. 13 3.43.1.3: 79 nt. 30
3.124: 116 nt. 83 3.43.1.4: 75, 78, 79, 80, 115 nt. 83
3.182: 48 nt. 32 3.43.2: 32 nt. 20, 33
3.192: 49 nt. 38 3.43.2 pr.: 34, 93, 93 nt. 47
3.193: 49 nt. 38 4.32.26.1: 76 nt. 23
3.199: 172 nt. 32 4.32.26.2: 76 nt. 23
9.2.11: 170 nt. 27
Pauli Sententiae 9.41: 177 nt. 52
2.26.14: 165 nt. 20 10.72: 44
5.3.2: 44
5.3.4: 45 Digesta
1.1.7.1: 62 nt. 21
Tituli ex Corpore Ulpiani 1.3.29: 165 nt. 19
29: 160 nt. 9 1.3.30: 165 nt. 19
2.4.4.1: 105
3.1.1.6: 170 nt. 27, 171 nt. 27
2. CORPUS IURIS CIVILIS 3.2: 170 nt. 27
3.2.1 pr.: 170 nt. 27, 171 nt. 27
Codex repetitae praelectionis 3.2.4 pr.: 89
1.4.34.1: 34, 93 nt. 50 3.2.4.2: 170 nt. 27
1.4.34.2: 34, 93 nt. 50 9.2.7.4: 90
1.4.34.3: 34, 93 nt. 50 11.5: 95, 97, 104
202 Indice delle fonti

11.5.1: 28 nt. 9, 43, 86, 86 nt. 20 22.3.19.1: 59


11.5.1 pr.: XI nt. 5, 27, 41, 61 nt. 18, 22.3.19.2: 60
96 nt. 5 22.3.19.3: 60
11.5.1.1: 27, 50, 60 nt. 17, 61 nt. 18, 22.3.19.4: 60, 99 nt. 19
103 nt. 33 23.2.44 pr.: 177 nt. 52
11.5.1.2: 27, 61 nt. 18 23.4.43.6: 162 nt. 16
11.5.1.3: 27, 50, 61 nt. 18 27.1.6.13: 91 nt. 40
11.5.1.4: 27, 61 nt. 19 38.1: 160 nt. 9
11.5.2: 41, 50, 72, 105 38.1.2: 99 nt. 22
11.5.2 pr.: 29, 104 44.1.1: 63 nt. 23
11.5.2.1: 29, 38 nt. 12, 55 nt. 5, 55 nt. 44.1.7.1: 99 nt. 21
6, 87 nt. 24, 105, 108 nt. 52, 115 nt. 83 44.4.8 pr.: 115 nt. 82
11.5.2.2: 55 nt. 5, 55 nt. 6 44.5: 31, 99, 114
11.5.3: 12 nt. 36, 26, 30, 30 nt. 13, 38 44.5.1 pr.: 99 nt. 20
nt. 12, 72, 83 nt. 9, 88 nt. 26, 102, 106 44.5.1.1: 99 nt. 20
nt. 43, 115 nt. 83 44.5.1.2: 99 nt. 20
11.5.4 pr.: XI nt. 4, 31, 31 nt. 16, 46, 72, 44.5.1.3: 99 nt. 20
78, 80, 91 nt. 42, 104, 105, 115 nt. 83 44.5.1.4: 99 nt. 21
11.5.4.1: X nt. 3, 12 nt. 36, 31, 31 nt. 44.5.1.5: 99 nt. 21
16, 40 nt. 15, 97 nt. 11, 105, 105 nt. 39, 44.5.1.6: 99 nt. 21
107, 108, 109, 112 nt. 75 44.5.1.7: 99 nt. 21
11.5.4.2: 31, 31 nt. 16, 97, 104, 105, 44.5.1.8: 99 nt. 21
105 nt. 39, 107, 108 44.5.1.9: 99 nt. 21
12.2.7: 99 nt. 22 44.5.1.10: 99 nt. 21
12.2.9: 99 nt. 22 44.5.1.11: 99 nt. 21
12.5.3: 107, 107 nt. 49 44.5.1.12: 99 nt. 21
12.5.4 pr.: 107 nt. 49 44.5.2 pr.: 99 nt. 20
12.5.8: 103 nt. 35 44.5.2.1: 31, 53, 54, 59, 62, 63, 92 nt.
15.3.21: 106 nt. 42 45, 99, 99 nt. 19, 103, 104 nt. 36
17.1.12.11: 104 nt. 36 44.5.2.2: 99 nt. 21
17.2.59.1: 82 nt. 4, 103 nt. 34, 107 nt. 49 44.7.5: 43
18.1.8 pr.: 16 nt. 51 45.1.38 pr.: 58 nt. 14
18.1.8.1: 16 45.1.38.1: 58 nt. 14
18.1.39.1: 17 nt. 58 45.1.38.2: 58 nt. 14
18.4.1: 16 nt. 51 45.1.38.3: 58 nt. 14
19.5.17.5: 39, 44, 55 nt. 5, 69, 87 nt. 45.1.38.4: 58 nt. 14
24, 101, 102, 103, 107 45.1.38.5: 58 nt. 14
21.1.19.1: 12 nt. 36, 36, 82 nt. 4, 83 nt. 45.1.38.6: 58 nt. 14
7, 103 nt. 34 45.1.38.7: 58 nt. 14
21.1.31.20: 59 nt. 15 45.1.38.8: 58 nt. 14
21.25.6: 83 nt. 7 45.1.38.9: 58 nt. 14
22.3.19 pr.: 59 47.2.48.2: 45
Indice delle fonti 203

47.2.48.3: 45 13.02.1992, n. 1751: 64 nt. 25


47.10.5.2: 50 17.11.1999, n. 12752: 65 nt. 27
48.5.11.2: 157 27.03.2007, n. 7524: 64 nt. 25
48.5.30.1: 165 nt. 20 21.09.2011, n. 19211: 64 nt. 25
50.1.22.5: 177 nt. 52 02.04.2014, n. 7694: 65 nt. 26
50.16.225: 82 nt. 4, 103 nt. 34
50.17.173.3: 115 nt. 82 Tribunal Supremo (Spagna)
10.10.2008 n. 878: 66
Novellae
122: 77
123.10.1: 34, 93, 94 nt. 51
DIRITTO CANONICO

3. FONTI POSTGIUSTINIANEE Decretum Gratiani


D. 35, C. 1: 34 nt. 23
Basilicorum libri
60.8.5: 114 nt. 78
FONTI EPIGRAFICHE
4. FONTI MODERNE Corpus Inscriptionum Latinarum
(CIL)
Code Napoleon (1804) I.2123: 171 nt. 27
1965: 121 II.1479: 127 nt. 3
1966: 121 II.6278: 179 nt. 55
1967: 121 IV.1184: 128 nt. 5
IV.1190: 128 nt. 5
Codice Civile Italiano (1942) V.8664: 127 nt. 3
1322: 125 nt. 28 VIII.1885: 173 nt. 38
1472: 16 nt. 53 IX.4696: 173 nt. 38
1933: 125 XI.3811: 127 nt. 3
2034: 125 XIV.4014: 173 nt. 38

Código Civil (Spagna) Inscriptiones Latinae Selectae (ILS)


5053: 128 nt. 5
Real Decreto 11.04.1977 n. 444 5142a: 180 nt. 59
(Spagna) 5142b: 180 nt. 59
10: 66 5163: 179 nt. 55
6583: 127 nt. 3
9340: 179 nt. 55
4. GIURISPRUDENZA
Lex Acilia repetundarum
Cassazione civile (Bruns, Font., III.10)
11.06.2001, n. 7852: 64 nt. 25 l. 13: 171 nt. 27
204 Indice delle fonti

Lex agraria l. 121: 170 nt. 27


(Bruns, Font., III. 11) l. 122: 170 nt. 27
170 nt. 27 l. 123: 170 nt. 27
l. 124: 170 nt. 27
Lex Atestina l. 125: 170 nt. 27
(Bruns, Font., III.17) l. 126: 170 nt. 27
l. 35: 170 nt. 27 l. 127: 170 nt. 27
l. 128: 170 nt. 27
Lex Coloniae Genetivae Iuliae Ursonensis l. 129: 170 nt. 27
(CIL I, 594 = ILS 6087) l. 130: 170 nt. 27
70: 128 nt. 11, 168 nt. 23 l. 131: 170 nt. 27
71: 128 nt. 11, 168 nt. 23 l. 132: 170 nt. 27
125: 128 nt. 12, 168 nt. 23 l. 133: 170 nt. 27
126: 128 nt. 12, 168 nt. 23 l. 135: 128, 168 nt. 23
127: 128 nt. 12, 168 nt. 23 l. 136: 128, 168 nt. 23
128: 128 nt. 11, 168 nt. 23 l. 137: 128, 168 nt. 23
l. 138: 128, 168 nt. 23
Lex municipii Tarentini l. 139: 128, 168 nt. 23
(CIL I, 590 = ILS 6086)
Cap. 4, l. 32: 128 nt. 9, 168 nt. 23 Res gestae Divi Augusti
Cap. 4, l. 33: 128 nt. 9, 168 nt. 23 22: 128 nt. 6, 168 nt. 23
Cap. 4, l. 34: 128 nt. 9, 168 nt. 23 23: 128 nt. 6, 168 nt. 23
Cap. 4, l. 35: 128 nt. 9, 168 nt. 23
Cap. 4, l. 36: 128 nt. 9, 168 nt. 23 Tabula Larinas
Cap. 4, l. 37: 128 nt. 9, 168 nt. 23 (AE 1978.145)
Cap. 4, l. 38: 128 nt. 9, 168 nt. 23 l. 1: 150, 154
l. 2: 150, 154
Lex Tabulae Heracleensis l. 3: 150, 154
dicta Iulia Municipalis l. 4: 150, 154
(CIL I, 593 = ILS 6085) l. 5: 150, 154
128 nt. 8 l. 6: 150, 154
l. 62: 168 nt. 23 l. 7: 150, 154
l. 63: 168 nt. 23 l. 8: 151, 154
l. 64: 168 nt. 23 l. 9: 151, 154, 180
l. 65: 168 nt. 23 l. 10: 151, 154
l. 77: 168 nt. 23 l. 11: 151, 154
l. 78: 168 nt. 23 l. 12: 151, 154
l. 79: 168 nt. 23 l. 13: 151, 154
l. 110: 170 nt. 27 l. 14: 151, 154, 180
l. 112: 170 nt. 27 l. 15: 151, 155, 180
l. 113: 170 nt. 27 l. 16: 151, 155
l. 120: 170 nt. 27 l. 17: 151, 155
Indice delle fonti 205

l. 18: 151, 155, 180 Plutarchus


l. 19: 151, 155, 180 Vitae parallelae
l. 20: 151, 155, 180 Cato Minor
l. 21: 151, 155 8.4: 192 nt. 19

Marius
5.2: 190 nt. 9
FONTI LETTERARIE
5.3: 190 nt. 9
5.4: 190 nt. 9
1. FONTI GRECHE 5.5: 190 nt. 9
5.6: 190 nt. 9
Aeschilus 5.7: 190 nt. 9
Agamemnon 5.8: 190 nt. 9
191: 14 nt. 45 5.9: 190 nt. 9
192: 14 nt. 45 5.10: 190 nt. 9
193: 14 nt. 45
194: 14 nt. 45 Pompeus
52: 89 nt. 33
Cassius Dio
Historia Romana Polybius
36.38.1: 192 nt. 16 Historiae
36.38.4: 191 nt. 15 6.56.4: 190 nt. 7
37.29.1: 192 nt. 21
43.23.5: 175 nt. 44, 175 nt. 45 Sophocles
51.22.4: 176 nt. 48 Philoctetes
53.1.4: 176 nt. 48 895: 18 nt. 63
54.2.5: 176 nt. 49
55.2: 160 nt. 9
55.10.11: 177 nt. 50, 179 nt. 54 2. FONTI LATINE
55.13.6: 179 nt. 53
56.25.7: 177 nt. 51 Apuleius
56.25.8: 177 nt. 51 Apologia
62.8: 182 nt. 63 89: 85 nt. 15
62.17.3: 133 nt. 18, 182 nt. 63
62.17.4: 133 nt. 18, 182 nt. 63 Asconius
67.8.3: 133 nt. 19 Orationes Ciceronis quinque enarratio
67.8.4: 133 nt. 19 (Clark)
76.16.1: 133 nt. 20, 182 nt. 66 69.11: 192 nt. 16
69.12: 192 nt. 16
Dionysius Halicarnassensis 69.13: 192 nt. 16
Antiquitates Romanae 75.24: 85 nt. 15
6.95: 129 nt. 14 76.2: 158 nt. 17
206 Indice delle fonti

Asinius Pollio Pro Caelio


Apud Cicero, Epistulae ad familiares 28: 6 nt. 18
10.32.2: 179 nt. 57 46: 6 nt. 19

Augustinus Hipponensis Pro Cluentio


Confessiones 42.119: 170 nt. 27
6.8: 136
Pro Cornelio de maiestate
De civitate Dei 1.25: 192 nt. 16
4.24.34: 131 1.40: 191 nt. 15
1.41: 191 nt. 15
Catullus
Carmina Pro Murena
61.119-128: 11 nt. 33 1: 195 nt. 30
71.131: 10 2: 195 nt. 30
3: 195 nt. 30
Cicero (Marcus Tullius) 4: 195 nt. 30
5: 195 nt. 30
Epistulae 6: 195 nt. 30
Ad Atticum 7: 195 nt. 30
1.8.3: 170 nt. 27 8: 195 nt. 30
9: 195 nt. 30
Orationes 10: 195 nt. 30
In Catilinam 46: 192 nt. 16
2.10: 107 nt. 49 47: 192 nt. 22, 193 nt. 23
2.23: 11 nt. 36, 37 nt. 9, 73 nt. 15, 82 67: 193 nt. 26, 195, 196
nt. 4, 107 nt. 49 71: 192 nt. 19
72: 193, 195, 196, 200
In Vatinium
73: 196
35: 193 nt. 25
74: 193
37: 163
77: 193, 196
In Verrem 89: 192 nt. 21
2.1.155: 6 nt. 19 Pro Plancio
2.2.8.22: 85 nt. 16 83: 192 nt. 21
Orationes Philippicae Pro Quinctio
2.23.56: 36 nt. 6, 73 nt. 13, 83 nt. 8, 97 8.30.1: 170 nt. 27
nt. 6, 110 nt. 62
2.27.67: 82 nt. 4 Pro Q. Roscio comoedo
2.29.74: 169 nt. 24 23: 179 nt. 54, 179 nt. 57
7.6.17: 169 nt. 24
8.26: 11 nt. 36, 37 nt. 9, 73 nt. 15 Pro Sestio
13.11: 15 nt. 45 133: 193 nt. 25, 197
13.29.40: 169 nt. 24 135: 193 nt. 25, 198, 199
Indice delle fonti 207

Philosophica 2.1.6: 21
De legibus 2.7.17: 18 nt. 62
2.24.61: 129 nt. 15 3.12.1: 6 nt. 18
3.12.2: 6 nt. 18
De natura Deorum 3.12.3: 6 nt. 18
3.30.74: 170 nt. 27 3.24.58: 13 nt. 38, 97 nt. 6

De officiis Epistulae
1.150: 179 nt. 57 2.1.145-155: 5 nt. 11
2.16.56: 194
Saturae
De senectute 1.6.72: 127
16.58: 19 2.7.17: 18 nt. 62
2.7.58: 172 nt. 30
Rhetorica 2.7.59: 172 nt. 30
Brutus
113: 191 nt. 12 Isidorus Hispaliensis
180: 191 nt. 12 Etymologiae (Origines)
19.24.6: 190 nt. 6
De oratore 60.1: 13
1.45.200: 49 nt. 36 63.1: 15
2.216: 9 nt. 28
2.274: 191 nt. 12 Juvenalis
2.280: 191 nt. 12 Saturarum libri
1.88: 73 nt. 14
Cyprianus Carthaginensis 1.89: 73 nt. 14, 82 nt. 5
Ad Donatum 1.90: 73 nt. 14, 82 nt. 5
1.6: 135 1.91: 73 nt. 14, 82 nt. 5
1.92: 73 nt. 14, 82 nt. 5
Festus grammaticus 1.93: 82 nt. 5
De verborum significatu 2.143: 144 nt. 11
cum Pauli epitome (Lindsay) 2.144: 144 nt. 11
s.v. Tippula (L 127): 164 nt. 18 2.145: 144 nt. 11
s.v. Quadruplatores (L 309): 85 nt. 15 2.146: 144 nt. 11
2.147: 144 nt. 11
Florus 2.148: 144 nt. 11
Epitoma 2.7.95: 143 nt. 8
2.5: 191 nt. 12 5.5.13: 141 nt. 4
6: 143 nt. 7
Horatius 6.82: 180 nt. 58
Carmina (Odes) 6.83: 180 nt. 58
1.33.11: 5 nt. 14 6.84: 180 nt. 58
1.33.12: 5 nt. 14 6.85: 180 nt. 58
208 Indice delle fonti

6.86: 180 nt. 58 3.72.4: 85 nt. 16


6.87: 180 nt. 58 4.25.13: 190 nt. 6
6.88: 180 nt. 58 4.25.14: 190 nt. 6
6.89: 180 nt. 58 5.20: 132
6.90: 180 nt. 58 7.2.2: 2 nt. 2
6.91: 180 nt. 58 7.15.12: 190 nt. 6
6.92: 180 nt. 58 23.20.15: 127 nt. 3
6.93: 180 nt. 58 28.21.1: 127 nt. 3
6.94: 180 nt. 58 28.21.10: 127 nt. 3
6.95: 180 nt. 58 31.50.4: 127 nt. 3
6.96: 180 nt. 58 39.22.1: 89 nt. 32
6.97: 180 nt. 58 39.22.2: 89 nt. 32
6.98: 180 nt. 58 39.46.2: 127 nt. 3
6.99: 180 nt. 58 40.19.11: 190 nt. 4
6.100: 180 nt. 58 41.28.11: 127 nt. 3
6.101: 180 nt. 58
6.102: 180 nt. 58 Periochae
6.103: 180 nt. 58 47: 190 nt. 5
6.104: 180 nt. 58
6.105: 180 nt. 58 Macrobius
6.106: 180 nt. 58 Saturnalia
6.107: 180 nt. 58 2.3.7: 176 nt. 46
6.108: 180 nt. 58 3.14.13: 179 nt. 54
6.109: 180 nt. 58 3.14.14: 179 nt. 54
6.110: 180 nt. 58 3.16.15: 107 nt. 49
6.111: 180 nt. 58
6.112: 180 nt. 58 Martialis
6.365: 140 nt. 2 Epigrammata (Liber de spectaculis)
8: 142 nt. 5 4.14: 18 nt. 62, 87 nt. 25, 88 nt. 28
8.9: 15 nt. 45 5.84: 84 nt. 10, 87 nt. 25, 88 nt. 28
8.10: 15 nt. 45 7: 112 nt. 17
8.11: 15 nt. 45 14.1: 18 nt. 62
8.12: 15 nt. 45 14.16: 18
8.203: 141 nt. 3 29: 112 nt. 16
10.80: 88 nt. 27
11.176: 107 nt. 49 Ovidius
11.177: 107 nt. 49 Ars amatoria
1.375-380: 14 nt. 45
Livius 3.367: 5 nt. 11
Ab Urbe condita 3.381: 5 nt. 11
1.35.7: 89 nt. 30
1.35.8: 89 nt. 31 Remedia amoris
1.35.9: 89 nt. 31 25.6: 5 nt. 13
Indice delle fonti 209

Tristia 3.1.649: 74 nt. 17


2.470: 13 nt. 38 3.1.650: 74 nt. 17
2.471: 13 nt. 38, 113 nt. 77 3.1.651: 74 nt. 17
2.472: 113 nt. 77 3.1.652: 74 nt. 17
3.1.653: 74 nt. 17
Petronius 3.1.654: 74 nt. 17
Satyricon 3.1.655: 74 nt. 17
45.4: 182 nt. 64 3.1.656: 74 nt. 17
122.171: 18 nt. 61 3.1.657: 74 nt. 17
117: 172 nt. 30 3.1.658: 74 nt. 17
3.1.659: 74 nt. 17
Plautus 3.1.660: 74 nt. 17
Asinaria
131: 164 nt. 18 Persa
62: 38 nt. 13
Bacchides 63: 38 nt. 13
1083: 6 nt. 18 64: 38 nt. 13
65: 38 nt. 13
Captivi 66: 38 nt. 13
770: 6 nt. 19 67: 38 nt. 13
68: 38 nt. 13
Curculio 69: 38 nt. 13
354: 13 nt. 44 70: 38 nt. 13
71: 38 nt. 13
Mercator 72: 38 nt. 13
846: 6 nt. 19 73: 38 nt. 13
74: 38 nt. 13
Miles gloriosus
2.164: 13 nt. 38, 46, 72 nt. 10, 96 nt. 6, Pseudolus
109 nt. 58 65: 6 nt. 19
2.165: 46, 72 nt. 10, 96 nt. 6, 109 nt. 58
2.2.166: 26 nt. 3, 83 nt. 8 Plinius Maior
3.1.639: 74 nt. 17 Naturalis historia
3.1.640: 74 nt. 17 14.10: 173 nt. 37
3.1.641: 74 nt. 17 18.12: 131
3.1.642: 74 nt. 17 19.112: 10 nt. 32
3.1.643: 74 nt. 17 28.4: 181 nt. 59
3.1.644: 74 nt. 17 36.120: 89 nt. 33
3.1.645: 74 nt. 17
3.1.646: 74 nt. 17 Plinius Minor
3.1.647: 74 nt. 17 Epistulae
3.1.648: 74 nt. 17 2.13: 160 nt. 9
210 Indice delle fonti

7.16: 160 nt. 9 Seneca


10.95: 160 nt. 9 Apocolocyntosis
14: 18 nt. 65
Panegyricus
82.9: 107 nt. 49 De beneficiis
7.16.3: 107 nt. 49
7.25.1: 85 nt. 15
Ps. Asconius
7.25.5: 85 nt. 15
In divinationem in Q. Cecilium
7.25.6: 85 nt. 15
24: 109 nt. 59
Epistulae morales ad Lucilium
Ps. Ovidius 1.7: 145 nt. 15
Nux 8.1: 144 nt. 12
79: 10 nt. 32 8.11: 144 nt. 13
81-84: 10 nt. 32 37.1: 139, 172 nt. 30
88.1: 179 nt. 57
Quintilianus 99.13: 179 nt. 56
Institutio oratoria
2.4.22: 83 nt. 7, 107 nt. 49 Sidonius Apollinaris
12.9.6: 42 Epistulae
12.9.7: 42 8.12: 18
12.9.8: 42
Suetonius
Scholia in Ciceronis orationes Bobiensia De vita Caesarum
(Hildebrandt) Divus Iulius
9.25-18: 158 nt. 16 32: 18 nt. 61
39: 89 nt. 33, 164 nt. 23
9.28: 191 nt. 14
39.1: 175 nt. 44
10.3: 191 nt. 14
39.2: 176 nt. 47
105.14: 193 nt. 25, 197
105.15: 193 nt. 25, 197
Divus Augustus
105.16: 193 nt. 25, 197 43: 168 nt. 23
105.17: 193 nt. 25, 197 43.3: 176 nt. 49
105.18: 193 nt. 25, 197, 166 44: 168 nt. 23
105.21: 200 45: 168 nt. 23
105.22: 200 71: 37 nt. 7, 82 nt. 5
105.23: 200
105.24: 200 Tiberius
105.25: 200 7.1: 168 nt. 23, 179 nt. 55
105.26: 200 34: 164 nt. 18
105.27: 200 34.1: 168 nt. 23
105.28: 200 35: 157
105.29: 200 35.2: 164 nt. 18
Indice delle fonti 211

Gaius Caligula Terentius


18: 146 nt. 18 Eunuchus
27: 148 nt. 25 300: 6 nt. 19
27.1: 128 nt. 4
34: 141 nt. 5 Tertullianus
42: 82 nt. 5 De spectaculis
7: 146 nt. 17, 168 nt. 23
Divus Claudius 8: 168 nt. 23
5: 107 nt. 49 9: 134 nt. 23, 168 nt. 23
21: 143 nt. 9, 147 nt. 21, 147 nt. 24 10: 134 nt. 23, 168 nt. 23
21.5: 179 nt. 55 11: 134 nt. 23, 168 nt. 23
33: 18 nt. 64, 148 nt. 26 12: 134 nt. 23, 168 nt. 23
33.2: 82 nt. 5 12.2: 23 nt. 77
17: 182 nt. 62
Nero 22: 171 nt. 27
4: 177 nt. 50 22.1: 169 nt. 25
11: 168 nt. 23 27: 135, 145 nt. 14
12: 144 nt. 10, 147 nt. 19, 147 nt. 22, 29: 146 nt. 16
147 nt. 24
16: 88 nt. 28 Valerius Maximus
30.3: 37 nt. 8, 82 nt. 5 Facta et dicta memorabilia
2.4.7: 89 nt. 32, 89 nt. 33
Vitellius 6.9.8: 173 nt. 37
4: 82 nt. 5 6.9.14: 190 nt. 9

Domitianus Varro
4: 133 nt. 19, 147 nt. 20, 168 nt. 23, De re rustica
182 nt. 65 1.4: 14 nt. 45
21: 82 nt. 5 1.5: 14 nt. 45
1.6: 14 nt. 45
Tacitus 1.7: 14 nt. 45
Annales 1.8: 14 nt. 45
1.15: 129 nt. 14 1.9: 14 nt. 45
2.85.1: 122, 122 nt. 5, 156, 163 1.10: 14 nt. 45
2.85.2: 156, 163 1.11: 14 nt. 45
2.85.3: 157, 163 1.12: 14 nt. 45
14.41: 165 nt. 21 1.13: 14 nt. 45
15.32: 133 nt. 18, 1.14: 14 nt. 45
1.15: 14 nt. 45
De origine et situ Germanorum 1.16: 14 nt. 45
24: 19 1.17: 14 nt. 45
24.2: 82 nt. 5 1.18: 14 nt. 45
212 Indice delle fonti

Vergilius 10.518: 137


Aeneis 10.519: 137
10.517: 137 10.520: 137
Indice delle fonti 213

Gli Autori

Francesco Fasolino è professore associato di Storia del diritto romano nel-


l’Università degli Studi di Salerno, dove insegna anche Fondamenti del di-
ritto europeo

Antonio Palma è professore ordinario di Istituzioni di diritto romano nel-


l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Insegna anche all’Università
degli Studi di Firenze

Anna Bottiglieri è professore associato di Istituzioni di diritto romano nel-


l’Università degli Studi di Salerno

Valeria Carro è ricercatrice di Diritto romano e diritti dell’antichità presso


l’Università degli Studi di Napoli Federico II dove insegna Istituzioni di di-
ritto romano

Giovanbattista Greco è dottorando di ricerca in Scienze Giuridiche (Curriculum


storico-filosofico-giuridico) nell’Università degli Studi di Salerno

Carmen Pennacchio è ricercatrice di Diritto romano e diritti dell’antichità


presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II

Carla Ricci, avvocato, è dottore di ricerca in Storia delle strutture amministra-


tive

Margherita Scognamiglio è professore associato di Istituzioni di diritto ro-


mano nell’Università degli Studi di Salerno

Paola Ziliotto è professore associato di Istituzioni di diritto romano nel-


l’Università degli Studi di Udine
214 Gli Autori
Indice delle fonti 215

Finito di stampare nel mese di novembre 2018


nella Stampatre s.r.l. di Torino
Via Bologna, 220
216 Gli Autori

Potrebbero piacerti anche