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CINA: DALLA GUERRIGLIA ALLA POTENZA

La cultura strategica e militare cinese


La Cina cambia, ma quanto? È la potenza – confuciana e maoista – che ha sempre rifiutato approcci
di conquista e ingerenza fuori dalla propria regione geopolitica, ma che si fa sempre più decisa nel
difendere i propri interessi. Uno strumento nucleare triadico ma ancora limitato, la predilezione per
una combinazione di strumenti simmetrici (una marina in crescita) e asimmetrici (la missilistica,
l’arma informatica e lo spionaggio) nonché conclamati ritardi tecnologici nel settore aeronautico e
marittimo rendono difficile da decifrare un “pericolo giallo” forse esagerato dagli Stati Uniti. Di
sicuro le tensioni nella regione geopolitica cinese sono marcate e la Repubblica Popolare è per gli
USA un avversario da non sottovalutare anche se non ancora una potenza con capacità di proiezione
globale. Obiettivo minimo della Repubblica Popolare Cinese rimane la tutela dell’integrità e della
sovranità nazionale (nella quale viene senz’altro inclusa Taiwan). L’originaria cultura militare cinese
enfatizza l’uso di strumenti asimmetrici: non lo scontro diretto e di attrito tra forze “muscolari”, ma
la penetrazione psicologica, culturale, propagandistica, di intelligence e – oggi – di guerra economica.
Uno dei primi grandi studi extraeuropei sulla guerra asimmetrica è da attribuirsi proprio a due ufficiali
dell’esercito cinese – gli allora colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui – autori, tra il 1996 e il 1999,
di Guerra senza limiti, una intelligente e complessa analisi che, lungi dal focalizzarsi solo sugli
strumenti asimmetrici contrapponendoli a quelli convenzionali, prende coscienza del superamento
del confine tra questi. Il confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori il campo di battaglia e il confine
stesso del campo di battaglia sfumano nella “guerra senza limiti”, che include strumenti
convenzionali, di sovversione, di diplomazia, di guerra, economia e tecnologia, financo di cultura e
ideologia; questo comporta la necessità di combattere le guerre del futuro assecondando la sempre
maggiore integrazione di questi aspetti e la loro “reductio ad arma”1. In realtà, questo modo di
interpretare la guerra risale alle origini della tradizione intellettuale cinese, una cultura che per
millenni si è basata su un forte potere politico centrale che soprintendeva, prima ancora che alla
guerra, alle opere di canalizzazione dei fiumi, di gestione delle risaie e dell’economia. La cultura
cinese ha sempre visto Stato ed economia come un tutt’uno ed ha mirato alla loro armonia, come
teorizzato in uno dei più antichi manuali strategici della storia dell’umanità, quello di Sun Tzu (redatto
tra il VI e il V secolo a.C.). Per la cultura occidentale la battaglia è il fulcro della guerra: la nostra arte
militare mira alla ricerca e alla gestione del “momento culminante” dell’incrocio delle forze e alla
sua gestione tattica e strategica. Per i Cinesi – da Sun Tzu ad oggi – il generale migliore è quello che
evita lo scontro, che vince senza combattere, disarticolando i mezzi del nemico con la guerra
economica, la sobillazione della sua opinione pubblica e delle sue truppe, lo spionaggio. Paradosso
per paradosso, la cultura politica e militare occidentale, preso atto della natura cinetica della guerra e
del fatto che essa possa – in certi casi debba – giungere a coinvolgere l’intera società (civili inclusi)
nel proprio turbine di violenza, mira a limitare la guerra medesima. La “guerra lampo”, la guerra
preventiva, lo stesso bombardamento, teorizzato come arma psicologica nel corso del Novecento e
mirante a sobillare contro i propri governanti il popolo aggredito, sono tutte forme di pensiero
strategico che prendono atto della pervasività della guerra come dramma da evitare, con l’obiettivo
di farla durare il meno possibile. La cultura strategica cinese assume come punto di partenza l’idea
che la guerra non è solo un fatto “bellico-meccanico”, ma anche e soprattutto un fatto politico,
culturale e sociale, e mira a combatterla più in tali termini che con “bracci di ferro” con potenze
occidentali ancora più forti. Il conflitto oggi è asimmetrico per eccellenza, dal momento che nessun
paese al mondo può sfidare gli USA in campo aperto. Com’è che la Cina traduce questo suo bagaglio

1Lian Qiao e Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Edizioni,
2019 e Ofer Fridman, Russian Hybrid Warfare. Resurgence and politicisation, Oxford University Press, 2018.
1
teorico e culturale in prassi geopolitica? Basso profilo nelle relazioni internazionali e nessun
intervento militare all’estero – se si escludono alcune missioni in ambito ONU e l’installazione di una
base a Gibuti.

La Cina che cambia


Eppure con il passare degli anni qualcosa sembra cambiare nell’atteggiamento cinese. La Cina è in
una posizione geopolitica di estrema difficoltà: deve difendersi sia per mare che per terra. I rapporti
con l’India sono storicamente tesi, ma il contrafforte montano del Tibet fornisce sufficiente sicurezza.
A Nord vi sono le distese siberiane della Russia, i rapporti con la quale sono marcati da storica
diffidenza reciproca e da convergenze tattiche più o meno ricorrenti ma sempre momentanee. L’unico
accesso alla massa eurasiatica che permetta di non dover spedire le merci cinesi verso il nord in
Siberia è la regione dello Xinjiang, storicamente turcofona ed islamica, instabile e segnata da moti
centrifughi anche violenti e dalla quale arrivano anche le risorse naturali dell’Asia Centrale. Anche i
confini meridionali – tra impraticabili monti e foreste con la Birmania ed il Vietnam – sono stati
segnati in passato da linee di conflitto. I pericoli peggiori per la Cina vengono però dal mare. Dalle
rapide vie blu passano la maggior parte dei traffici dalla Cina e verso la Cina, la quale però è
circondata da fasce di isole ostili (Taiwan e Giappone) o sospettose (Indonesia, Malesia, Filippine) e
con le quali esistono contese territoriali. In Corea si ha uno dei teatri politici più caldi del mondo: la
Cina è costretta, volente o nolente, ad impedire il collasso nordcoreano per evitare che la
riunificazione della penisola crei un’ancor più grande potenza vicinissima al cuore del potere a
Pechino, per di più alleata degli USA. Proprio questo “dilemma della sicurezza” spinge i Cinesi a
diventare più risoluti e intraprendenti nella loro politica estera e militare, cosa che oggi rende ostili i
sospettosi e in futuro renderà gli ostili dichiaratamente nemici. La Cina ha bisogno, geopoliticamente
ed economicamente, di profondità strategica. Geopoliticamente per sfuggire all’accerchiamento;
perciò, essa investe nelle infrastrutture che svilupperanno il progetto della Nuova Via della Seta.
Economicamente, perché è bisognosa di materie prime e di sbocchi per le proprie merci e per i capitali
accumulati nel tempo, ma ancor di più di tecnologie. Preoccupate dalla massiccia presenza cinese in
Africa e in Asia, le potenze occidentali corrono ai ripari alzando barriere commerciali e giuridiche
per ostacolare le acquisizioni cinesi di competenze e tecnologie. La Cina continua ad affermare di
non voler farsi Occidente e di voler agire confucianamente: nessun espansionismo militare, ma
investimenti in infrastrutture e coinvolgimento dei paesi asiatici, africani ed europei in iniziative di
reciproco vantaggio. L’Africa affamata di sviluppo ed i paesi europei strozzati dalla miope austerità
non possono resistere, ma pochi possono dire se gli investimenti cinesi siano cavalli di Troia e se le
infrastrutture potranno davvero essere volano di sviluppo locale e non puramente funzionali alla Cina,
lasciando i paesi oggetto di investimento intrappolati nel debito contratto con la Repubblica Popolare
(come nei casi di Pakistan e Sri Lanka). Che la Repubblica Popolare stia lentamente deponendo la
politica di Deng Xiaoping di mantenimento di un bassissimo profilo internazionale: aumenta le
proprie spese militari, apre basi all’estero, è ormai un punto di riferimento economico per l’Africa,
l’Europa e l’Asia. Resta un paese che protegge il proprio mercato e il proprio modello di sviluppo,
che non separa la politica dall’economia. Non si può dire, quindi, che la Cina si stia occidentalizzando
in una prassi politica assertiva e – diciamolo – imperialista, ma si può affermare che essa rappresenta
un interlocutore politico, oltre che economico, dal quale è anche opportuno tutelarsi. L’assertività
muscolare americana degli ultimi trent’anni e il riflesso condizionato del forte che sa utilizzare solo
la forza (“se l’unico strumento che sai usare è il martello, tratterai ogni problema come se fosse un
chiodo”) hanno spinto Russia, Cina e Iran tra le braccia l’uno dell’altro, azzerando la manovra
kissingeriana di separazione dei propri avversari. Poco ma sicuro: una potenza globale è tale quando
ha il prestigio necessario. La drammatica vicenda del Coronavirus assesta un colpo forte all’immagine
2
della Repubblica Popolare nell’opinione pubblica mondiale (colpo che i media statunitensi sono stati
ben lieti di sfruttare); tuttavia la Cina risponde con una prontissima ed efficace diplomazia sanitaria
verso i paesi colpiti (tra i quali l’Italia).

Da Mao a Xi Jinping: le dottrine militari della Repubblica Popolare


Dopo secoli di chiusura al mondo, l’Impero cinese venne costretto per tutto il XIX secolo a
confrontarsi non solo con le cannoniere delle potenze coloniali europee (Gran Bretagna in primis),
ma anche con i sempre maggiori appetiti del Giappone imperiale. Si presentò all’appuntamento con
uno strumento militare arretrato in termini sia organizzativi e dottrinari che tecnologici, e dovette
intraprendere, sotto il peso umano, politico, morale e finanziario di continue sconfitte una
mastodontica opera di modernizzazione, contrastata sul fronte interno dagli ambienti più reazionari
della corte imperiale e dell’aristocrazia. Iniziò per la Cina un periodo di continue umiliazioni, che ha
segnato pesantemente la memoria storica e l’orgoglio nazionale di un popolo fiero e patriottico: una
delle fonti di legittimazione del Partito Comunista agli occhi dei Cinesi è proprio la qualifica – sin
qui onorata – di vindice dell’indipendenza nazionale e della lotta tanto contro l’invasore straniero
(giapponese o britannico che fosse) quanto contro il nemico interno (identificato ora nella vecchia
aristocrazia e borghesia ansiosa di fare affari con le potenze esterne, ora con i nazionalisti del
Kuomintang). Non mancavano infatti nell’epoca che va dagli ultimi decenni dell’Ottocento ai primi
del Novecento - sia tra i funzionari più autenticamente patriottici sia tra i giovani intellettuali
rivoluzionari nutriti delle idee occidentali di nazionalismo e di socialismo - menti lucide in grado di
rendersi conto della drammatica situazione di un paese invaso, impoverito, in ritardo rispetto al
progresso tecnico e sociale del mondo avanzato. La vittoria della guerriglia cinese contro l’invasore
giapponese nel pluridecennale conflitto sovrappostosi alla Seconda Guerra Mondiale, e quindi la
vittoria dei comunisti contro i nazionalisti (cui seguirono le riannessioni del Tibet e del Xinjiang)
inaugurarono una stagione di rinnovata unità nazionale e di sviluppo industriale (dapprima con
assistenza sovietica, quindi in modo autarchico). La costante era chiara: mai più la Cina si sarebbe
prestata alla subordinazione verso altre potenze, fossero anche la virtualmente amica URSS (con la
quale essa condivideva una base ideologica) o l’alleato di fatto americano (nella finestra che va
dall’apertura kissingeriana alla Cina fino al rinnovato isolamento imposto al paese dopo i fatti di Tien
An Men). Che si tratti di difendere l’appartenenza cinese del Tibet, l’unità della nazione attorno al
Partito, il legame di Hong Kong con la Madrepatria, nemmeno per un secondo la Repubblica Popolare
Cinese è disposta a cedere sulla propria sovranità. Non si tratta (solo) di una forma di nazionalismo
come lo intendiamo in Occidente, ma della consapevolezza del fatto che le sfortune della Cina sono
derivate dalla divisione territoriale e dall’ingerenza straniera nei suoi affari interni. È in questa
filigrana che possiamo e dobbiamo leggere il mutare – anche profondo – delle dottrine militari cinesi
nel corso della storia contemporanea del paese. Unificata la Cina sotto il governo comunista, la
definizione della dottrina militare divenne un affare politico oltre che squisitamente tecnico, a
sottolineare la sottomissione dell’Armata Popolare di Liberazione al Partito e del militare al politico.
Non è corretto interpretare l’interesse e la spiccata sensibilità cinese al conflitto asimmetrico alla luce
di un appiattimento sulla guerriglia; fu lo stesso Mao a teorizzare la necessità di passare dalla guerra
di guerriglia al conflitto convenzionale, qualora le proprie forze e lo scenario bellico lo avessero
permesso. Le radici del pensiero maoista – in armonia, come abbiamo notato, con l’antico pensiero
strategico cinese – sono da ricercarsi non tanto nella guerriglia in sé (uno strumento, una tattica), ma
in una strategia complessiva di difesa della patria mediante l’unità tra popolo e struttura politica. Il
popolo è l’ambiente nel quale il guerrigliero e il rivoluzionario devono muoversi come un pesce
nell’acqua2; ma l’alta mobilità delle truppe rivoluzionarie (che devono concentrarsi per attacchi a
2 Gastone Breccia, L’arte della guerriglia, Il Mulino, 2013.
3
sorpresa per poi tornare a disperdersi, mantenendo sempre l’iniziativa) deve sempre essere il preludio
al momento di svolta in cui, acquisita sufficiente forza e consistenza e vinti i cuori e le menti del
popolo, si passa all’offensiva convenzionale e alla presa del potere “en masse”. Proprio così nasce la
Repubblica Popolare al termine della guerra civile nel 1949. Le successive dottrine militari cinesi 3
sono il riflesso tanto degli equilibri interni al partito, quanto dell’identificazione dei nemici esterni
dai quali bisogna difendersi: l’autorità politica, come avviene nei paesi socialisti, ha una spiccata voce
in capitolo nella definizione delle dottrine, affinché la dimensione militare e quella politico-strategica
si completino. La nuova dottrina del 1956 (“Difesa strategica” o “avanzata”) vedeva negli Stati Uniti
il nemico principale e poneva l’accento su una difesa dei confini terrestri e costieri della madrepatria
(secondo la lezione della recente guerra coreana); nel frattempo procedeva a tappe forzate la
concentrazione delle industrie strategiche nell’entroterra. Come fu Mao la mente ispiratrice della
dottrina del ’56, fu Mao l’artefice di quella del ’64, che ritornava al concetto di difesa in profondità,
mobile e di guerriglia. Erano anni complessi, nel corso dei quali il Grande Timoniere cercava di tenere
saldo il controllo del partito e puntava ad un ritorno alle origini, alla purezza ideologica degli anni
della lotta antigiapponese: la guerriglia e la difesa in profondità (attraendo l’invasore nell’entroterra)
implicano una solidarietà totale tra popolo, partito e forze armate. Intanto il percorso di
allontanamento della Cina dall’URSS si accompagnava al progressivo riavvicinamento tra
Repubblica Popolare e Stati Uniti: con l’URSS nuovo nemico, la dottrina del 1980 (“Difesa attiva”)
ritorna alla difesa avanzata in chiave antirussa, integrata però con limitate dosi di guerra di mobilità.
È nel 1993 che il pensiero dottrinario cinese compie il definitivo ingresso nella contemporaneità, non
solo uscendo dalla logica dello scontro fra grandi potenze, ma iniziando quel lento percorso che
porterà a non vedere più l’esercito di terra come l’unico fulcro della strategia militare: con la dottrina
dei “Conflitti locali in condizioni di alta tecnologia” inizia a farsi strada la ricezione della Rivoluzione
negli Affari Militari, delle operazioni interforze, dell’alta tecnologia rispetto alla manovra. Le
operazioni interforze comportano l’attribuzione di un peso maggiore alle componenti aerea e navale;
si tratta un passaggio non banale per una potenza che, con Deng Xiaoping, ha ribadito il desiderio di
voler coltivare nell’ombra la propria crescita. Significa che la Cina mira ad essere più assertiva o più
aggressiva, pur dissimulandolo? Ad una riduzione degli organici militari in chiave di maggiore
efficienza si accompagnano grandi investimenti in tecnologie e negli strumenti aerei e marittimi
(l’esercito di terra non è più il sovrano indiscusso, si pensi alla sostanziale espansione del corpo dei
marines cinesi4 in controtendenza rispetto alla complessiva razionalizzazione delle forze armate della
Repubblica Popolare); alla vecchia cultura asimmetrica si accompagna l’ingresso nel pensiero
militare moderno. Il pensiero militare cinese dimostra senz’altro di essere flessibile e di sapersi
adattare ai tempi che cambiano: lo “Schema delle operazioni congiunte dell’Esercito Popolare Cinese
di Liberazione” appena licenziato nel 2020 dalla Commissione Militare Centrale, stando ai riassunti
stampa5, enfatizza la necessità di un approccio sempre più interforze.

La Cina in mare
Ogni due anni le autorità cinesi pubblicano un “Libro Bianco della Difesa” che indica gli obiettivi
strategici ai quali lo strumento militare della Repubblica Popolare si orienta6 – o almeno, quanto di

3 Che ci è possibile ricostruire e ricavare: si veda Taylor Fravel, Active Defense. China’s military strategy since 1949, Princeton
University Press, 2019.
4 Francesco Palmas, L’ascesa delle forze anfibie cinesi preoccupa Taiwan, www.analisidifesa.it, 8 Ottobre 2020 e Franco Iacch, La

Cina quintuplica la sua forza armata anfibia, www.ilgiornale.it, 27 Marzo 2017


5 Giorgio Cuscito, La Cina studia la luna per dominare lo spazio, www.limesonline.com, 4 Dicembre 2020 e Zhao Lei, Top Military

Organ Issues Guidelines, www.chinadaily.com.cn, 14 Novembre 2020,


6 Bert Chapman, Military Doctrine. A reference handbook, Praeger Security Company, 2009. Qui l’ultimo documento del 2019, State

Council Information Office of the People’s Republic of China , Full Text: China’s National Defense in the New Era,
www.xinhuanet.com
4
questi orientamenti i Cinesi desiderino il mondo conosca. L’ultimo in ordine cronologico è del 2019,
e parla chiaramente della necessità di difendere gli interessi cinesi nel mondo intero. La Cina si pensa
ormai come potenza globale, pur dichiarando di non avere alcun desiderio di ritagliarsi una sfera di
influenza ma di agire sempre in un’ottica difensiva. In ogni caso, non c’è strumento di proiezione di
potenza che non passi dal mare, e questo vale in particolar modo per una paese che dipende dal mare
per le esportazioni e le importazioni e che dal mare vede arrivare la potenziale minaccia americana
stratificata in tre livelli: gli immediati alleati degli USA (Taiwan, il Giappone e la Repubblica di
Corea), quindi la base americana di Guam e le basi galleggianti, ovverosia le portaerei a stelle e
strisce, e in terzo luogo la seconda fascia di alleati americani dall’Indonesia alle Filippine
all’Australia, in grado di controllare ogni passaggio dall’Oceano Pacifico a quello Indiano. Sia chiaro:
gli americani non hanno una forza sufficiente per invadere la Cina né possono schierarla
nell’immediato in quell’area; essi hanno però la capacità di limitarne e pregiudicarne l’accesso ai
mari. Il secondo punto sul quale occorre fare chiarezza è il seguente: oggi la Cina non è in grado di
sfidare direttamente gli USA, e nemmeno può esserlo in un futuro di breve o medio termine. La forza
area cinese è sulla carta la terza al mondo per numero di velivoli (più di 3200 aeromobili, staccando
di gran lunga quelle europee)7, ma il livello tecnologico della medesima, specie per quanto riguarda
i motori8 (la parte più complessa del velivolo) e forse anche l’avionica, è di gran lunga inferiore non
solo a quello russo e americano, ma anche a quello dei grandi paesi europei. Né deve impressionare
la capacità cinese di costruire aerei “stealth”: quanti? e quanto efficaci? Le forze aeree cinesi devono
ancora importare dalla Russia il meglio dei propri aeroplani. Un livello quantitativo impressionante
delle truppe di terra – con livelli qualitativi discontinui – si accompagna ad un limite nelle capacità
navali e di sbarco; come proiettare quindi una forza concepita per decenni per la pura difesa? La
debolezza della Cina è sul mare: essa dispone di due portaerei (la Liaoning, praticamente una “nave
prova”, e la Shandong), una delle quali è una vecchia nave sovietica riadattata, mentre l’altra è stata
prodotta localmente basandosi sulla prima. Presto dovrebbe partire la costruzione di altre due
portaerei nazionali, anch’esse a propulsione convenzionale. Mastodontici piani per dotarsi di grandi,
complesse e costose portaerei nucleari sembrano sempre più evanescenti e lontani dalle capacità
industriali cinesi9. Questo è il primo punto dolente: la Cina non ha ancora le capacità per produrre
armamenti di qualità tale10 da competere, fuori dai mercati dei paesi africani e asiatici più poveri (nei
quali però non mancano problemi con la scarsa affidabilità e robustezza dei prodotti “made in
China”), non solo con quelli occidentali ma anche con quelli russi. In quest’ottica, gli allarmismi da
parte americana per l’espansione della spesa militare – e militare marittima – cinese hanno un solo
senso: quello della “costruzione del nemico”. Ciò va anche oltre la valutazione del dato quantitativo:
la Cina sto potenziando la propria flotta di mezzi da sbarco11, ma non ha alcuna esperienza di
operazioni anfibie (meno ancora quindi di quanta ne abbia per le operazioni terrestri e navali “pure”,
avendo combattuto l’ultima vera guerra nel 1979, contro il Vietnam). Anche solo un’operazione di
riconquista di Taiwan sarebbe un azzardo. In definitiva, vi è un macroscopico problema a monte:
come non abbiamo mancato di sottolineare, la programmazione militare cinese pensa in termini
interforze forse solo da un trentennio (il primo accenno alla “necessità di combattere per terra e per

7 Maurizio Sparacino, FlightGlobal: la Russia schiera la seconda forza aerea del mondo, www.analisidifesa.it, 29 Gennaio 2020.
8 Andrea e Mauro Gilli, Why China Has Not Caught Up Yet, International Security, Vol. 43, No. 3 2019.
9 Minnie Chan, Chinese navy set to build fourth aircraft carrier, but plans for a more advanced ship are put on hold, www.scmp.com,

28 Novembre 2019.
10 Andrea e Mauro Gilli, op. cit.
11 E, utile ripeterlo, sta investendo sul potenziamento della fanteria di marina: “China now has between 25,000 and 35,000 marines,

according to U.S. and Japanese military estimates. That’s a sharp increase from about 10,000 in 2017” come riporta David Lague in
China expands its amphibious forces in challenge to U.S. supremacy beyond Asia, www.reuters.com, 20 Luglio 2020. L’articolo
contiene molte informazioni interessanti ma chi scrive dissente ampiamente con la visione di una Cina con ambizioni militari globali,
almeno nel quadro globale.
5
mare” è nella dottrina del 198512) e si sta indirizzando verso la costruzione di un efficace strumento
marittimo moderno da meno ancora. Già dai primi albori del pensiero marittimo cinese moderno (che
comunque era arrivato a concepire la necessitò non solo di dotarsi di difese costiere ma anche di una
flotta in grado di affrontare i Giapponesi in mare aperto) in quel XIX secolo “delle umiliazioni”, la
capacità navale cinese si era dovuta confrontare coi limiti industriali e finanziari e con la rivalità delle
forze terrestri13. L’enfasi cinese attuale rimane non sull’attacco, bensì sull’interdizione nei confronti
delle attività nemiche mediante missili antinave, attacchi ai satelliti e creazione di bolle “Anti-Access
/ Area-Denial” antinave e antiaeree, nelle quali gli Stati Uniti non possano operare liberamente con
la propria flotta e i propri mezzi aerei (ciò è perfettamente coerente con la cultura cinese dello scontro
asimmetrico, del colpire il nemico qualora questo si sia avventurato inopinatamente in territorio ostile,
e del portare comunque la prima linea di difesa proprio sulla costa). Il dibattito sulle reali capacità
“Anti-Access / Area-Denial” cinesi, o sull’esistenza stessa di una simile dottrina, nonché sulla natura
di difesa “statica” o “attiva” delle coste cinesi (personalmente, propendiamo per la seconda ipotesi) è
aperto14; ma è l’asimmetricità degli strumenti cinesi che oggi occorre sottolineare. Per quanto tale
asimmetricità riveli la concezione cinese difensiva dell’uso della forza, il mondo spera di non dover
mai sperimentare le capacità radar ed elettroniche cinesi di identificare ed ingaggiare una flotta aerea
e navale americana (capacità sulla quale gli stessi americani hanno dei dubbi), fino a colpire e
affondare le portaerei con missili da terra (capacità invece già nelle disponibilità della Repubblica
Popolare).

La Cina nucleare
Regine delle armi asimmetriche, delle armi con le quali il debole può rispettivamente dissuadere e
mettere in ginocchio il forte, sono quella nucleare e quella cibernetica. Le capacità cibernetiche cinesi
sono talmente temibili da meritare una trattazione separata: alla nostra analisi della dottrina e del
pensiero militare cinese giova constatare come ancora una volta lo strumento militare migliore della
Repubblica Popolare miri a colpire l’avversario in modo furtivo ed anonimo, in quella che è la vera
e propria guerriglia del XXI secolo, “senza limiti” e già attivamente in corso tra Repubblica Popolare
e Stati Uniti. È un’arma assai più temibile del limitato arsenale atomico cinese, il quale, pur in fase
di modernizzazione e ampiamento, conta ad oggi meno di 300 testate (delle quali poco più di 200 in
basi terrestri e una ventina a caduta dai bombardieri H-6, derivati dai Tu-16 russi). Completa la triade
nucleare una flotta di quattro sottomarini lanciamissili balistici, programmati per crescere fino al
numero di dieci battelli nei prossimi anni. Numeri quindi non imponenti se rapportarti a quelli
americani, e tecnologie non sempre modernissime e dalla efficacia limitata (si pensi al raggio dei
missili o alla rumorosità e conseguente rilevabilità dei sottomarini esistenti). Per la dottrina cinese
l’arma nucleare è uno strumento politico e non militare, che evidenziava l’indipendenza dall’alleato-
nemico sovietico e rappresenta oggi il diritto a partecipare al consesso delle grandi potenze. È un
deterrente assai limitato rispetto alla capacità americana di primo colpo e consegnato al principio del
“Rifiuto del primo impiego” (a meno che non sia proprio l’arsenale atomico ad essere colpito anche

12 Simone Dossi, Rotte Cinesi. Teatri marittimi e dottrina militare, Università Bocconi Editore, 2014.
13 Ju Hailong, Alle origini del pensiero navale cinese, in Limes, Rivista italiana di geopolitica, n.7 2019, Gerarchia delle Onde.
14 Dibattito magistralmente riassunto da J. Michael Dahm, Beyond “conventional wisdom”: evaluating the PLA’s South China sea

bases in operational context, ww.warontherocks.com, 17 Marzo 2020. Le isole artificiali costruite dai Cinesi nel loro mare servono ad
estendere “bolle” Anti-Access/Area Denial o servono a guadagnare profondità in un mare percepito come territorio ostile? L’autore
dello studio riassume le differenti posizioni ma asserisce: “The Chinese are not in a defensive crouch waiting to be attacked in the
South China Sea. PLA informationized warfare strategies and operational concepts comport with the Chinese concept of “active
defense” — being strategically defensive while operationally offensive. U.S. military planners have unilaterally labeled Chinese
military capabilities as “anti-access/area denial” capabilities. This label has produced a myth that the PLA actually has a defensive
“anti-access/area denial” strategy or a “counter-intervention” strategy. Certainly, China has plans to employ substantial military
capabilities to thwart a U.S. military intervention. However, the Chinese military, like its U.S. counterpart, prefers to seize the
operational initiative and execute offensive operations.”
6
da un attacco convenzionale)15. “Minima allerta” (missili di terra senza testate installate), “Rifiuto
del primo impiego” (con le testate non installate sui missili da terra) che esclude comunque l’uso
contro Stati non dotati di arma atomica, “Deterrenza minima” e orientamento “counter-value”
(strategico contro le città nemiche, e non tattico contro le forze nemiche in avanzata) rimangono i
quattro pilastri nucleari di una Cina che preferisce investire su altre forze asimmetriche o sulle forze
convenzionali16, pur modernizzando ed espandendo un arsenale nucleare che essa non desidera
consegnare ad una corsa agli armamenti contro gli USA o contro l’India (la quale sembra piuttosto
rivolgerlo contro il Pakistan). È egualmente da intendersi come politica e non puramente militare la
mossa che, nel 2015, ha elevato il Secondo Corpo di Artiglieria (la branca dell’Esercito con
responsabilità della forza missilistica nucleare di terra) da branca a servizio militare autonomo,
rinominandolo Forza Missilistica: qualitativamente la forza nucleare cinese cresce, quantitativamente
resta esigua e rimarrà tale se paragonata a quella russa e americana. La Cina, sul piano politico, è
senza dubbio “l’utile nemico” che giustifica la presenza della potenza americana 17, ma sul piano
militare resta la terza o al massimo la seconda delle grandi potenze. Rimarrà tale almeno per il
prossimo lustro.

15 Paolo Mauri, Le armi nucleari cinesi che preoccupano gli Stati Uniti, it.insideover. com, 3 Luglio 2019
16 Lawrence Freedman e Jeffrey Michaels, The Evolution of Nuclear Strategy. New, updated and completely revised, Palgrave
MacMillan, 2019
17 Il dibattito statunitense in merito è ben riassunto da Austin Long, Myths or moving targets? Continuity and change in China’s nuclear

forces, warontherocks.com, 4 Dicembre 2020


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