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Capitolo 3 “La sperimentazione sui soggetti umani”

La prima regolamentazione sulla sperimentazione fu varata nel 1931 in Germania ma tali regole
furono disattese nel secondo conflitto. Proprio in conseguenza a tali eventi nel 1947 fu promulgato
il Codice di Norimberga costituito in dieci principi: consenso informato, utilità sociale, precedente
sperimentazione su animali, esclusione di ricerche pericolose per la vita, valutazione del rischio,
protezione dei soggetti sperimentali dal rischio, qualificazione scientifica degli sperimentatori,
diritto di interruzione per la propria partecipazione e dovere di interruzione in casi di rischio per la
vita dei soggetti. Tale impostazione fu poi assorbita nella dichiarazione di Helsinki, promuovendo
però una distinzione tra la ricerca terapeutica, giustificata dal potenziale curativo, e la ricerca non
terapeutica. Il caso di svolta nella legislazione conseguì alla sperimentazione clinica di Tuskegee in
Alabama: lo studio, durato dal ’32 al ’72, si prefissava di valutare la storia naturale della sifilide su
400 pazienti, tutti maschi e di pelle nera; nel corso dello studio si rese però disponibile (1943) l’uso
della penicillina nel trattamento della malattia infettiva, ciononostante i pazienti arruolati non
furono trattati, da ciò conseguirono morti e infezioni nelle coniugi e nei figli. Le rilevazioni
giornalistiche del caso portarono all’approvazione del National Research Act che produsse
documenti su vari aspetti della ricerca biomedica.
Gli studi prevedono la formulazione di ipotesi e la loro verifica. La metodologia ormai oggi seguita
prevede uno studio controllato, ovvero sia il paragone tra il gruppo sperimentale e il gruppo di
controllo che, solitamente, assume un trattamento attualmente in uso. I risultati, al fine di
minimizzare errori statistici (bias) richiedono l’assegnazione casuale dei pazienti ai due bracci di
trattamento (randomizzazione) e talora l’ignoranza del medico sul farmaco che sta somministrando
(doppio cieco).
Lo studio, nella fase preclinica, effettuato in vitro o in vivo, ha lo scopo di valutare la tossicità delle
sostanze. Non pochi problemi morali scaturiscono all’uso di animali in tale fase. Il movimento di
liberazione animale sancisce che tutti gli animali sono uguali, umani o non, e hanno diritto alla
considerazione dei propri interessi; l’uso di animali è giustificabile se: strettamente necessario,
direttamente produttore di un bene rilevante, minimizzi il numero di cavie utilizzate. L’obiezione a
tale movimento vedrebbe l’assenza nell’animale di capacità complesse e quindi di diritti morali;
ciononostante anche gli “umani marginali” (feti, neonati e affetti da malattie neurodegenerative)
mancano di tali capacità. Tali soggetti però hanno un’intrinseca potenzialità razionale che negli
animali manca strutturalmente. Una visione moderata di antropocentrismo attribuirebbe quindi lo
status morale pieno nell’uomo e nell’animale in proporzione alla complessità cognitiva, emotiva e
sociale.
La fase clinica si compone di quattro parti. Nella prima si studia la non tossicità, la tollerabilità e la
farmacocinetica. Nella seconda il potenziale terapeutico su piccola scala. Nella fase tre si allarga ad
un numero maggiore di pazienti puntando ad un’analisi statistica. La positiva conclusione di queste
tre fasi e la revisione dei dati da parte delle agenzie regolative (EMA e FDA) porta alla
commercializzazione del farmaco e quindi alla quarta fase di farmacovigilanza.
Il Belmont Report ha riassunto tre principi etici fondamentali della sperimentazione: il rispetto
delle persone e i principi di beneficenza e giustizia. Il rispetto presuppone che ogni persona è
autonoma e capace di deliberare sui propri scopi, ciò si esplica con un consenso informato,
compreso e volontario il quale può essere revocato in ogni momento. Il principio di beneficenza
presuppone la beneficenza vera e propria e la non maleficenza (primum non nocere); il rapporto tra
rischi e benefici è valutato dal Comitato etico, organismo indipendente composto da scienziati,
esperti di diritto e di etica. Un esempio rilevante della complessità di tale valutazione è dato dagli
human challenge studies che presuppongono lo studio su soggetti sani esposti volontariamente
all’agente patogeno da studiare (questa tipologia di studi è stata usata anche per i vaccini anti-Sars-
Cov2). Un’altra importante problematica nasce dagli studi di equivalenza clinica che
presuppongono lo studio comparativo di due farmaci, è importante sospendere tale studio nel
momento in cui ci si accerta della superiorità di uno dei due, onde evitare di esporre i pazienti a una
terapia poco efficace. Il principio di giustizia si esplica nell’equità della selezione dei soggetti,
cercando però di selezionare chi meglio può tollerare l’onere del trattamento.
Una delle questioni più dibattute è l’uso del placebo, sostanza apparentemente simile a un farmaco
ma privo di principi attivi, indirizzato a ottenere un effetto di tipo psicologico piuttosto che organico
(l’effetto placebo esiste anche nella chirurgia con interventi simulati, sham surgery). La
comparazione tra farmaco e placebo risulta la metodologia più pura nella valutazione di efficacia,
riducendo anche costi. Tuttavia ciò espone alcuni pazienti a non essere trattati, ma nel contempo si
potrebbe dire che non li si espone a effetti collaterali del farmaco di studio e che i pazienti sono
coscienti della possibilità di ricevere un placebo; nel contempo però non mancano le critiche a
queste giustificazioni: il paziente non ha un’adeguata preparazione scientifica per capire a pieno
cosa gli viene spiegato e con il placebo, e quindi il mancato trattamento, viene meno il principio
beneficienza del medico. La dichiarazione di Helsinki giustifica l’uso del placebo nel momento in
cui: manca un farmaco da paragonare nel gruppo controllo, i pazienti sono non responsivi al
trattamento corrente (quindi e come se non esistesse un trattamento per loro), o nel caso in cui lo
studio preveda la comparazione di associazione di farmaci (paragonando così un gruppo che assume
due farmaci e uno che assume il farmaco in uso più un placebo). Ad oggi molti però ritengono
possibile l’uso del placebo anche in casi di necessità scientifica oppure di fronte a patologie non
gravi, per cui l’uso del placebo non comporterebbe nei pazienti una sequela grave o irreversibile.
Il rispetto decisionale della persona passa dal consenso basato su informazione, comprensione e
volontarietà. Molti ritengono inutile l’uso del consenso se si tratta di studi a basso rischio con
utilizzo di farmaci già in commercio, lasciando però la valutazione al Comitato etico. Le critiche a
tale movimento provengono dalla possibile sfiducia che potrebbe scaturire nella società nei
confronti delle istituzioni mediche, inoltre spostare tutta la decisione al Comitato etico porterebbe a
una situazione di neopaternalismo. Altri commentatori ritengono poi che andrebbe rimosso il
vincolo della comprensione, in quanto ideale etico cui ispirare ma non uno standard minimo: il
paziente non ha spesso le conoscenze base per la comprensione e ciò porta a fraintendimenti
terapeutici che renderebbero invalido il consenso stesso.
Ulteriore ambito di discussione sono gli studi di non inferiorità, ossia studi comparativi tra
farmaco in uso e farmaco sperimentale che si attende essere grossomodo equiparabile al primo. Tali
studi facilitano le aziende farmaceutiche a produrre, con minime spese, un nuovo farmaco da
mettere in commercio. I più ritengono questa produzione unicamente incentrata sui profitti delle
aziende, cionondimeno si devono anche considerare variabili quali: maggiore facilità di
somministrazione, minori effetti collaterali, riduzione dei disagi, costi inferiori.
I soggetti in sperimentazione devo essere volontari non pagati ma, al più, corrispondenti di un
rimborso spese. I più recenti indirizzi mettono in discussione la volontarietà di partecipazione a
fronte di un debito implicitamente contratto. Tutti noi usiamo farmaci per cui qualcuno è stato
oggetto di sperimentazione, sarebbe pertanto un dovere di tutti, se in buona salute e in condizione di
minimo rischio, sottoporsi a sperimentazione medica per il bene del progresso scientifico e della
società. La critica a tale posizione però presuppone che la società, in conseguenza a questa
obbligatorietà, finirebbe per vedere negli studi scientifici una minaccia.
Capitolo 4 “L’aborto volontario”
L’etica medica ha generalmente mantenuto una posizione contraria all’aborto, basandosi sui
concetti di persona e diritto alla vita. L’argomento tradizionale, un sillogismo, espone che se tutti
gli umani innocenti hanno diritto alla vita e il feto è un essere umano innocente, il feto ha diritto alla
vita. La valutazione moderna difende l’argomento biologico: dopo la fecondazione si forma lo
zigote e lo zigote è un nuovo individuo. La persona può essere intesa come individuo razionale e,
sebbene il feto non sia un individuo razionale, ha la potenzialità attiva per diventarvi.
La prima critica all’argomento tradizionale proviene da Tooley. La persona è portatrice di diritti
morali alla vita, ma la mera appartenenza alla specie umana non è condizione sufficiente a tale
diritto. Avere diritti morali equivale a dire che vi sono degli interessi che giustificano l’attribuzione
di doveri di altri nei confronti del soggetto, posto che il soggetto lo desideri. Il fatto di collegare il
diritto al desiderio serve ad evitare che il diritto venga tutelato quando viene meno l’interesse alla
tutela. Vi sono però condizioni, come il coma, in cui l’espressione del desiderio non è possibile, e
quindi verrebbe meno il diritto. Tooley allora avanza tre condizioni controfattuali, il diritto è
mantenuto in assenza di desiderio se vi è: squilibrio emotivo, privazione di coscienza, forte
condizionamento sociale. Il diritto a continuare a vivere può pertanto essere espresso da un soggetto
di esperienze e stati mentali complessi, che lo si desideri, ovvero che si sia dotati di autocoscienza.
Il feto, non soddisfando le condizioni necessarie, non ha diritto alla vita: è pertanto moralmente
accettabile sia l’aborto che, perfino, l’infanticidio nelle prime due settimane.
L’obiezione che si può rivolgere a Tooley è l’argomento della potenzialità. L’autore risponde alla
critica della potenzialità con un esperimento: immaginiamo di iniettare a un gattino una sostanza
che renda il suo cervello analogo a quello umano; se ciò fosse possibile, si dovrebbe attribuire il
diritto alla vita ai gatti dopo tale iniezione; d’altro canto non sarebbe sbagliato uccidere il gattino
prima dell’iniezione, in quanto ancora manca di diritto alla vita. Ora se si assume la simmetria
morale tra il non dare inizio al processo e l’interferirvi, interrompere il processo di trasformazione
del gattino è altrettanto lecito. Quindi, a meno che non si sostenga che il non dare inizio alla
trasformazione sia illecito, non si può asserire che l’interferenza sia illecita. Nella pratica o si
ammette che la contraccezione e l’astinenza sessuale sono immorali oppure si deve concludere che
neanche l’aborto lo è.
La critica a questa visione proviene dall’errata eguaglianza tra omissioni e azioni, al più discutibile.
In secondo luogo la potenzialità dei gatti è artificiale e non naturale come quella del feto.
La seconda strategia di difesa dell’aborto è la posizione femminista. L’aborto è uno strumento di
effettiva liberazione femminile da una società patriarcale. È anche vero però come la diseguaglianza
femminile sia più un problema sociale-politico-legislativo e probabilmente non è condizione
giustificante moralmente l’interruzione della gravidanza.
Un diverso argomento femminista pone al centro il carattere relazionale della persona: ciò che rende
una persona di valore non sono le proprie caratteristiche ma l’essere inserito in una comunità di
relazione. Il feto non ha carattere relazionale ma il suo stato sociale è riferibile alla donna che lo
porta in grembo, alla loro relazione.
Thomson, pur mettendo al centro la tesi dell’autodeterminazione del proprio corpo, ammette il
diritto alla vita del feto; tuttavia vi è un conflitto tra i diritti della madre e del feto. Il suo argomento
parte da una analogia: una mattina ci si sveglia attaccati al sistema circolatorio di un famoso
violinista con insufficienza renale, questo collegamento gli permette la vita, staccarlo vorrebbe dire
ucciderlo e, invece, per salvarlo basterebbero nove mesi. Fungere per nove mesi da macchina
dialitica sarebbe moralmente apprezzabile, ma ciò non presuppone un dovere. Allo stesso modo la
madre ha diritto alla gestione del proprio corpo, e tale diritto prevale su quello della vita del feto.
L’aver avuto rapporti sessuali consapevoli pone però delle responsabilità aggiuntive alla madre.
L’autore però presuppone che tale responsabilità decada nel momento in cui si siano utilizzate
adeguate precauzioni anticoncezionali: se un ladro entra dalla finestra lasciata aperta per fare
cambiare l’aria, il furto non può essere responsabilità del padrone di casa. Le donne potrebbero
sottoporsi a isterectomia per evitare le conseguenze di una violenza carnale, ma è assurdo ritenere
che la mancata operazione faccia cadere la responsabilità sulla vittima di violenza.
L’obbligo di sobbarcarsi la gravidanza presuppone delle speciali responsabilità, altrimenti si rischia
di rendere obbligatorio l’agire da buoni samaritani. Abortire per non rinviare una vacanza, sebbene
moralmente indecente, non può essere inteso come illecito in quanto la legge non obbliga a essere
buoni samaritani.
La posizione utilitaristica, nella persona di Hare, pone al centro la qualità della vita e il
miglioramento del mondo. Se dalla gravidanza nascesse un neonato gravemente malformato, e alla
successiva gravidanza invece potremmo far nascere un bambino sano, l’aborto è la scelta corretta:
in primo luogo perché preserva la felicità del nascituro e in secondo luogo perché questa scelta
migliorerebbe il mondo. Vediamo come in questo modo noi andiamo a equiparare aborto e
contraccezione e, inoltre, il porre al centro la felicità del nascituro, potrebbe condurre anche,
volendo, a un dovere di procreare pressoché illimitato.
Le continue nascite di bambini felici porterebbero però, a lungo andare, a un mondo sovraffollato e,
pertanto, ridurrebbe la qualità della vita media. Se non poniamo, inoltre, distinzione tra individuo
attuale e meramente possibile, potremmo perfino giustificare l’infanticidio, così da sostituire il
bambino nato con un successivo nascituro primo di malattia.
Hare risponde alle critiche ponendo intanto una differenza tra aborto e contraccezione, il primo
infatti è un processo che ha più probabilità di portare a una nascita. Circa la procreazione illimitata:
se dalla nascita di un nuovo individuo deriva un onere per il mondo e quindi per ogni singolo
vivente, la sua stessa nascita gli arrecherebbe infelicità e quindi non sarebbe giustificata. Hare
inoltre, sebbene sottolinei la distinzione tra aborto e infanticidio, giustifica, in casi eccezionali, la
sostituibilità persino dei neonati.
In conclusione però le teorie utilitaristiche pongono una critica troppo impersonale, ponendo al
centro unicamente il bene comune e facendo astrazione dagli individui concreti, portatori di
interessi.
Un altro approccio utilitarista è quello di Sumner. L’autore vee un progressivo sviluppo, nel corso
della gravidanza, della considerazione morale del feto, secondo un criterio di sensibilità. Bisogna
pertanto distinguere gli aborti precoci da quelli tardivi. Posto sempre al centro l’utile comune e del
singolo, la contraccezione ad esempio previene la realizzazione dell’utilità comune ma protegge
l’utile della donna e la sua volontà di non crescerlo (da ciò ne consegue però l’opportunità della
adozione). La contraccezione è pertanto preferibile all’aborto, e l’aborto precoce è preferibile a
quello tardivo.
La legge deve però essere neutrale alle questioni filosofiche e morali. Storica la sentenza Roe vs
Wade del ’73 che pone il diritto alla privatezza davanti al diritto alla vita del feto: i diritti di legge
non si applicano per i non nati, la loro applicabilità per il feto si ha nel momento in cui il feto ha
possibilità di sopravvivenza al di fuori dell’utero.
In Italia la legge 194 del ’78 concepisce l’aborto come un problema sociale e favorisce, nei limiti, la
maternità. La tutela fisica e psichica della madre viene però prima e giustifica l’interruzione nel
primo trimestre. La maternità però è tutelata dall’attesa obbligatoria tra la richiesta di interruzione e
la sua messa in opera. Altri aspetti di critica alla legge provengono all’uso della pillola RU486 che
conduce ad aborto farmacologico: potrebbe infatti portare a una banalizzazione della scelta
abortiva, ma lo stesso testo promuove l’uso delle tecniche più moderne; l’obbligatorietà al ricovero
dopo assunzione della pillola, come originariamente stabilito, viene visto come un tentativo di
limitare la libertà della madre e da alcune regioni italiane è stato superato.
Non di poco conto infine il problema dell’obiezione di coscienza, la quale esonera il medico dal
compiere interruzioni di gravidanza, se non nei limiti della legge. Oggi molti ritengono che tale
garanzia andrebbe abrogata poiché chi intraprende la specializzazione in ginecologia, e la
intraprende volontariamente, sa già che nei servizi statali rientra l’interruzione di gravidanza; inoltre
l’aumento negli ultimi anni degli obiettori viene visto più come una opportunità che come un
vincolo morale. Nel contempo non è pensabile violare il diritto di scelta da parte del medico della
specializzazione da intraprendere. La tutela dell’obiezione di coscienza e il diritto all’aborto
presentano un confine che dovrebbe essere meglio definito, le ipotesi a compenso di questa
mancanza potrebbero essere la richiesta, agli obiettori, di servizi compensatori o la previsione di
concorsi riservati solo ai non obiettori.

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