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NASCITA BIOETICA.

La nascita della bioetica, intesa letteralmente come “etica della vita” si fa


coincidere con la data di nascita dell’etica, quale riflessione razionale sui valori (distinzione tra
bene e male) e sul dover essere (sull’obbligatorietà delle azioni dell’uomo finalizzate a realizzare il
bene ed evitare il male), nasce con la stessa filosofia che riflette sull’uomo. Il termine bioetica,
invece, risale al 1970 quando bioetica V.R. Potter coniò tale termine per indicare l’esigenza di una
riflessione morale per l’uomo contemporaneo, con la specifica funzione di ponte tra le scienze bio-
sperimentali e le scienze umane etico-antropologiche per la sopravvivenza della specie umana,
identificando le nuove forme di responsabilità dell’uomo nei confronti della vita. “Il genere umano
necessita urgentemente di una sapienza come guida per l’azione, un sapere come usare la
conoscenza per il bene e il futuro della condizione umana: di una scienza per la sopravvivenza, la
bioetica, col requisito fondamentale di promuovere la qualità della vita” Da quel momento in poi la
bioetica si diffuse rapidamente per indicare l’etica della vita in ambiti specifici quali quello della
medicina o della biologia ecc. Nonostante Potter sia riconosciuto come il coniatore del termine, la
storia della bioetica cambia in funzione al significato che si attribuisce al termine e in funzione del
ruolo che si ritiene abbia avuto e debba avere la bioetica. Vi sono due linee di pensiero:
1. Si ritiene che la bioetica coincida con la nascita di una nuova etica, nuova rispetto all’etica
tradizionale: la novità è necessaria a causa delle trasformazioni provocate dalla scienza e
dalla tecnologia in biomedicina in relazione alle questioni di inizio vita (aborto volontario,
diffusione di contraccettivi, uso di tecnologie riproduttive) e a quelle di fine della vita umana
(terapie di sostentamento vitale).
2. Si ritiene che la bioetica sia una ideale continuazione nonché una specificazione della
riflessione etica medica tradizionale che negli anni ‘70 del secolo scorso ha vissuto una
incredibile accelerazione investendo la responsabilità morale (si pensi alle scoperte
nell’ambito della genetica, delle tecnologie riproduttive). Si risale, quale antecedente della
nascita della bioetica, all’elaborazione del Codice di Norimberga (1946) quale presa di
coscienza etica dei possibili abusi della medicina contro l’uomo nell’ambito del processo
contro i criminali nazisti e nell’ambito delle pratiche mediche sperimentali.
DEFINIZIONE DI BIOETICA. La definizione a cui si fa rifermento è quella contenuta nella
prima edizione della Encyclopedia of Bioethics – lo studio sistematico della condotta umana
nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, esaminata alla luce di valori e principi
morali– successivamente precisata così: lo studio sistematico delle dimensioni morali,
comprendenti visione morale, decisioni, condotta, politiche, delle scienze della vita e della cura
della salute, attraverso una varietà di metodologie etiche in un contesto interdisciplinare. Bioetica,
dunque, come sapere che riflette sui limiti di liceità e di illiceità degli interventi dell’uomo sulla
vita, resi possibili dal progressivo sviluppo della scienza e della tecnologia in biologia e medicina.
Interrogarsi su tale liceità significa interrogarsi sul senso e sul fondamento del valore e della vita
umana e non umana, sui limiti della responsabilità e della disponibilità dell’uomo rispetto alla vita,
sui confini della libertà e della responsabilità dell’uomo nei confronti degli altri. “DISCIPLINA
che studia in modo RIGOROSO l’ambito della PRASSI UMANA che fa riferimento alla
biologia(scienza riguardante la vita umana e non) e alla medicina (cura della salute rivolgendosi non
solo ai medici)
STATUTO DELLA BIOETICA. Interrogatorio emblematico della bioetica: tutto ciò che è tecno-
scientificamente possibile in ambito biomedico è anche eticamente lecito?. La bioetica è una
riflessione tra due estremi, “lo scientismo tecnlogico” (teorizzazione ottimistica che ipotizza la
possibilità di manipolare in modo condizionato ) e “l’anti-scientismo” (teorizzazione pessimistica
che nega ogni possibile intervento), per affermare la necessità di un confronto tra scienza biomedica
e normatività etica. CARATTERI STRUTTURALI DEL SAPERE BIOETICO:
interdisciplinarietà e pluralismo: La bioetica è una “inter-disciplina” nel senso che si costituisce
nel confronto tra esperti di discipline diverse e ognuna di queste è chiamata ad offrire, in
riferimento allo stesso oggetto di analisi, il proprio contributo, sforzandosi di trovare
un’integrazione dialettica con le altre prospettive. La tecno-scienza biomedica solleva il problema
descrivendo “come” si manifesta un determinato evento; le scienze umane contribuiscono ad offrire
dati, osservati, interpretati ed elaborati in riferimento al fenomeno; la filosofia riflette sui fatti alla
luce del senso del senso, interrogandosi sul “perchè” per poi giustificare norme di comportamento
generali che si rivolgono all’uomo nella pressi del suo agire concreto nella società. La bioetica
nasce dalla e nella biomedicina, nasce dall’esigenza avvertita sul piano scientifico e tecnologico,
biologico e medico, di sollevare problemi morali ai quali è chiamata a rispondere la filosofia ai fini
di giustificare e proporre norme di comportamento agli individui e alla collettività.
Costituzione europea. art. II-63 Diritto all’integrità della persona:
Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica.
Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati:
a) il consenso libero e informato della persona interessata secondo le modalità definite dalla legge
b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione
delle persone
c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro
d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani

BIOETICA E MEDICINA. La medicina “classica” si fonda sul modello ippocratico, il quale


sottolinea come ogni malattia abbia una causa naturale che spetta al medico individuare e
combattere e come, di conseguenza, nessun male possa, in linea di principio dipendere da un
intervento demoniaco(ciò per sottrarre la medicina dalle rinnovate tentazioni magiche ed esoteriche
cui è sottoposta). La tradizione ippocratica è dialogica e ciò lo spiega Platone quando distingue con
durezza il:

 “medico degli schiavi”- non è al servizio dei malati, ma dei padroni di questi; perciò non
perde tempo a parlare con i pazienti, gira frettolosamente per la città con l’unico desiderio di
massimizzare i suoi guadagni e verso i malati si comporta quasi come un tiranno, perché
li obbliga ad assumere farmaci senza spiegargliene gli effetti
 “medico dei liberi” - vero medico poiché è colui che prima ancora che curare cerca di
capire la causa del male; colui che interroga il paziente sul suo stile di vita e non prescrive
alcun farmaco prima di aver convinto il malato sulla opportunità della prescrizione.
Nella tradizione ippocratica, l’autentico sapere medico ha si per oggetto il corpo ma è anche e
soprattutto un sapere che non ignora che la via per la conoscenza del corpo è una via che chiede la
conoscenza dell’intero dell’uomo; una conoscenza che implica una generica responsabilità del
medico, come scienziato, nei confronto della verità e una responsabilità del medico, come uomo,
nei confronti di quegli altri uomini “concreti” che sono i suoi pazienti. Frequentemente si è parlato
di crisi della medicina ippocratica poiché a seguito dell’affermarsi ottocentesco del modello
positivistico di scienza, la medicina dialogica tenderebbe sempre più ad essere sostituita da una
medicina scientifica. Si pensi allo sviluppo della bioingegneria che, frapponendo tra medico e
paziente la macchina, come strumento preciso ed affidabile di diagnosi e terapia, azzererebbe o
comunque ridurrebbe le possibilità di un incontro personale. Si pensi infine a come la modernità
abbia alterato il rapporto dell’uomo col proprio corpo. Al corpo, diceva Platone, non basta essere
corpo. La modernità risponde: questo è un desiderio infantile, il corpo, nella prospettiva
materialistica oggi dominante, non rinvia ad altro che a se stesso. Sarebbe quindi il corpo e non più
l’uomo a divenire “l’altro” nella relazione terapeutica, l’unico referente della malattia; il corpo visto
come organismo, cioè in qualche modo, come diverso rispetto all’uomo, come portatore di
un’identità propria e distinta. Il concetto di malattia, a partire da questi presupposti, ha subito
modificazioni radicali. La malattia ha cessato di essere metaforicamente identificata come un
nemico da combattere, ed è stata appiattita a mero evento biologico; la si assimila agli stati di
anormalità che non può essere focalizzata attraverso riferimento sintomatici, obiettivamente
fisiologici(come ad es. il dolore) ma essenzialmente attraverso riferimenti statistici. La stessa
biologia tende ad eliminare la contrapposizione tra “normale” e “patologico” proclamando
insistentemente che la vita nella sua forma patologica non è “l’assenza di norme ma l’emergere di
altre norme”. All’uso di questi nuovi paradigmi vanno addebitate quelle pratiche di medicina
disumana, tipiche dei campi nazisti, in cui la patologia non era assunta come un nemico da
combattere ma come mera dimensione del possibile biologico, degna in certi casi di assurgere al
rango di monstrum (avvenimento portentoso, perché statisticamente raro) e di essere quindi, per una
migliore osservazione, artificialmente indotta all’uomo. Proprio a seguito dell’orrore suscitato da
queste pratiche è nata la bioetica e il suo consolidarsi nelle coscienze. La bioetica è nata non per
stigmatizzare la medicina moderna, ma per operare affinché questa non dimentichi le sue radici
ippocratiche. Compito della bioetica sarà quindi quello di aiutare la medicina a sottrarsi dalla
tentazione ossessiva del monologo. Tradurre in termini dialogici i problemi di etica medica significa
impostarli a partire dalle esigenze stesse della relazionalità. La bioetica non chiede al medico di
rinunciare alle conquiste della tecnologia più avanzata e meno che mai di rinunciare alla
scientificità del suo sapere; gli chiede solo di assumere la consapevolezza che quella della medicina
è una scientificità specifica, che non può essere modellata su quella tipica di altri settore dello
scibile.
BIOETICA E COMUNICAZIONE. Ogni esperienza umana di carattere relazionale mette alla
prova se stessa e la sua autenticità nella comunicazione. La scienza è stata qualificata come una
vera e propria impresa collettiva, basata sulla comunicazione tra scienziati e l’esperienza della
medicina non solo vive nel, ma nasce dal rapporto comunicativo medico/paziente. Comunicazione
medico/paziente – nella tradizione ippocratica, la relazione terapeutica medico/paziente è pensata
come dialogica: la malattia è un’afflizione del corpo ma va considerata anche come e soprattutto
come afflizione della persona nella sua totalità; la diagnosi, di conseguenza esige un’attenta
ispezione del corpo malato e della parte di questo colpita dalla malattia ma esige altresì un’adeguata
considerazione dell’alterazione globale che essa induce nell’equilibrio biologico, psicologico ed
esistenziale del malato stesso. Il progresso della biomedicina integra in modo significativa tale
paradigma ippocratico della comunicazione.

 Nella prospettiva tradizionale questa comunicazione era caratterizzata dal primato del medico
sul paziente sotto l’aspetto delle sue competenze cognitive e si riteneva che solo al medico
spettasse l’elaborazione della decisione terapeutica e che nei confronti di questa il paziente
dovesse assumere un atteggiamento di passività, anche se collaborativa. Tale asimmetria era
giustificata dall’orizzonte etico poiché si voleva massimizzare il bene del paziente.
 Tale modello, pur mantenendo la sua pregnanza nella stragrande maggioranza dei casi e talvolta
per esplicita richiesta del paziente, mal si adatta alla complessità della medicina contemporanea
che rende possibili e plausibili molteplici iniziative diagnostiche e strategie terapeutiche, di
diversa invasività, tollerabilità da parte del malato, di diversa rischiosità e di diversa onerosità.
Individuare a quali itinerari diagnostici sottoporsi diventa non solo sempre più complesso, col
progresso della medicina, ma esige anche la ponderazione di una molteplicità di elementi
valutativi che non sono sempre di esclusiva competenza medica. Il ruolo del paziente tende,
dunque, a diventare più attivo nella comunicazione col terapeuta, poiché solo al paziente spetta
formulare quelle indicazioni concrete (di carattere economico, familiare ed esistenziale) che
integrandosi con quelle scientifiche elaborate dal medico, consentono di giungere ad una scelta
concreta di trattamento. Comunicazione scientifica. Questa si caratterizza per il suo carattere
impersonale, esasperato per lo più dalle peculiarità lessicali e dalla formalizzazione, che sono
proprie del linguaggio scientifico. Il carattere aperto e planetario della comunicazione tra
scienziati rappresenta uno dei fattori che spiegano l’imporsi della scienza come modello
epistemologico dominante nella modernità. Da una parte, grazie ai suoi progressi e agli
eccezionali risultati, la scienza si è trovata nella necessità di esigere finanziamenti sempre più
vistosi; dall’altra ha attivato nella pubblica opinione mondiale timori e paure che si sono tradotti
in forti istanze di controllo delle stesse pratiche scientifiche. Scienza e scienziati devono quindi
attivare canali di comunicazione corretta, rigorosa ed efficace con la pubblica opinione
mondiale; ciò ha fatto perdere il monopolio della politica della scienza, la quale, risulta
strettamente dipendente dal consenso della società civile.
BIOETICA E RAGIONAMENTO. Le riflessioni e le dispute che hanno per oggetto
l’ottimizzazione del ragionamento in bioetica appaiono astratte e sterili poiché l’etica a differenza
della logica, non può partire da premesse chiare, precise e distinte e giungere a conclusioni
altrettanto chiare, precise e distinte. La logica si nutre di dimostrazioni mentre l’etica più che
dimostrare può tutt’al più mostrare. La verità dell’etica è una verità esistenziale dato che il bene più
che nell’intelletto vive nell’esperienza personale e relazionale. Da tali riflessioni si può comunque
imparare a pensare in modo riflessivo, a tener separati gli affetti e i sentimenti dalle valutazioni
razionali e soprattutto a oggettivare le proprie analisi. In bioetica più che la forza della logica
soccorre la virtù che i greci chiamano phronesis e i latini prudentia. In italiano, prudenza, significa
cautela, capacità di prevedere i rischi ed evitarli. Prudentia, è una dimensione di saggezza
pratica, che nasce non solo dal buono uso del nostro intelletto ma da una buona capacità di
leggere le pieghe della realtà, le determinazioni imprevedibili che si nascondono dietro ogni caso
umano. Il bioeticista di oggi dovrebbe essere simile a un saggio giudice, consapevole che ogni caso
giudizio è diverso dall’altro e che fare giustizia non significa applicare a tutti piattamente la stessa
legge, ma nel rispetto della legge, far emergere dal caso concreto le modalità ottimali per la sua
regolamentazione. Ragionare, in bioetica, significa soprattutto saper riflettere sui casi, riportandoli a
valutazioni di principio senza dimenticare che ciò che distingue i singoli casi è più rilevante di ciò
che sembra analogarli: se tutte le patologie sono analoghe, i singoli malati sono sempre tutti diversi
ed esigono di essere trattati in modo diverso e personalizzato e non in modo paritario e
sostanzialmente freddo e burocratico. Il bioeticistasta:
 distinguere, nel problema che deve fronteggiare, gli aspetti fattuali dagli aspetti morali;
 deve poi elaborare un primo e provvisorio giudizio morale, mettendo a fuoco su quali
premesse esso di fatto si fonda;
 deve poi confrontare i propri giudizi morali con quelli altre persone, a maggior ragione se
esperte ed autorevoli;
 è indispensabile che si prefiguri consensi e dissensi che possono sorgere quando il giudizio
morale viene reso pubblico. In particolare è doveroso elaborare una strategia nei confronti
degli atteggiamenti di dissenso: in alcuni casi le posizioni di dissenso potranno essere
riassorbite, in altri riconosciute e rispettate, in altri ancora sarò doveroso tollerarle; in pochi
casi estremi si potrà ipotizzare la loro assoluta intollerabilità. Es. è probabile che il
bioeticista ritenga giustificabile sostenere che esista per un malato il dovere etico di
sottoporsi alla terapia, in specie se particolarmente invasiva. Il malato, dal canto suo può
scegliere diversamente e il medico dovrà rispettare la volontà del malato e la sua pratica
professionale potrà ridursi ad una assistenza meramente palliativa. Il paziente, tuttavia
potrebbe rifiutare anche tale assistenza palliativa e il medico a sua volta dovrà rispettare tale
decisione, libero, comunque, di criticarla eticamente. Ove però la rinuncia sia fatta da un
genitore di minore gravemente malato, il medico, non esistendo più spazio alcuno per la
tolleranza delle pretese del suo paziente, avrebbe il dovere di salvare la vita del minore
malato, andando contro le indicazione del genitore e invocando, se necessario, l’intervento
di un magistrato.
LA VITA TRA (BIO)ETICA E (BIO)DIRITTO. Oggetto del ragionamento bioetico è la vita.
Nella logica di Jena, Hegel scrive che “di fronte alla vita, il pensiero si dissolve: per la mente
l’onnipresenza del semplice nella molteplicità del sembiante è una contraddizione assoluta, un
mistero impenetrabile ”. Anche se per la scienza un termine come mistero è insopportabile bisogna
dire che tale affermazione non è stata ancora smentita. Un modo di affrontare il tema della vita è
quello di impostarlo nelle sue valenze lessicali ma non potendo tener conto del linguaggio oggi a
nostra disposizione, a causa della sua indubbia povertà bisogna chiedere aiuto ad un lessico lontano:
ad esempio se cerchiamo nel greco l’equivalente di vita troviamo:

 La zoé indica la vita come fenomeno fisico; allude alla vitalità che si esprime e manifesta in
tutti gli esseri organici e che si percepisce nell’esperienza. Con essa percepiamo e ponendo
la distinzione vita/non vita, elaboriamo l’dea del luogo che siamo chiamati ad occupare nel
mondo: costruiamo la categoria dell’ambiente. In questa accezione il termine vita non
conosce plurale. Possono esserci più forme di vita( bioi in greco) ma la zoè è una soltanto,
non ci possono essere più vite. Non conosce termini antagonistici, dalla zoé si può
distinguere ciò che non è vitale, non si può contrapporre ad essa la morte perché quelli che
muoiono sono i singoli viventi non il principio della vita. La nostra generazione ha
elaborato la consapevolezza e percepito la possibilità che la zoè possa essere distrutta, tema
a cui danno credito i movimenti ecologisti, ma questi, sono a favore non della zoè ma del
bios, cioè delle singole specifiche forme di vita poste a rischio dalla manipolazione
dell’ambiente ma non è attraverso il bios che si salva la zoè: diversamente da questa, il bios
è costitutivamente individuale, costitutivamente plurale e costitutivamente mortale. Il
precetto salva la zoé è privo di contenuto cognitivo; il precetto salva il bios ha contenuto
cognitivo ma è mal formulato; salva i bioi è precetto epistemologicamente impeccabile,
perché correttamente formulato al plurale ma richiede che si determini quali siano i bioi da
salvare e se ne fornisca adeguata giustificazione. Zoé indica la "vita qua vivimus", bios la
"vita quam vivimus".
 Bios ha il significato di vita qualificata, di qualsiasi genere, che ha un inizio e una fine,
mentre con zoé si indica quella che è l'essenza della vita. Bios è il termine con cui la lingua
greca esprime il vivente nella sua individualità empirica, vincolata alla temporalità e
destinata a strutturarsi tramite il corpo, il soma: del bios a differenza che della zoè è
praticabile la nascita e la morte. Da qui la parola bios come riferimento all’uomo per
indicare la professione, il mestiere, i mezzi di sostentamento, cioè tutto ciò che qualifica
l’uomo nella sua fragile singolarità. Bios non ha fondamento in se stesso, la sua
individualità è data dalla connessione con la psychè; ben si capisce perché i latini abbiano
tradotto psychè con anima, perché l’anima anima i corpi, individualizzandoli. Tra bios e
psychè il vincolo è ontologico non biologico perché solo ontologicamente(con uno sguardo
dall’alto) si possono percepire le qualità emergenti, si può cioè percepire in un uomo
vivente una unità superiore alla mera somma delle cellule che compongono il suo corpo. È
con riferimento alla psychè che l’uomo riceve un nome, che il diritto è chiamato a tutelare.
Come mero dato empirico, bios è privo di rilevanza; è solo perché può ricevere dalla
psychè una identità e un senso che il bios acquista un valore, così come può perderlo.
Socrate dice ”una vita (bios) non meditata non è degna di essere vissuta(biotòs)”. Quello del
bios è quindi un valore estrinseco che il bios deve conquistare attraverso l’acquisizione di
ritmo interiore (eurythmia) ed armonia (euarmostia) che di per sé non possiede. Bios non
ha dunque alcun valore intrinseco, ecco perché in ben precisi contesti, come nei Vangeli, in
cui il termine vita deve essere connotato in modo assiologicamente forte ed inequivocabile,
non si fa cenno a bios ma a zoè e a psychè. Bios non viene chiaramente destituito di ogni
valore poiché esso è l’unico luogo in cui può manifestarsi la vita come psychè ed è sempre e
solo attraverso la realtà fisica, appunto il bios, che l’io (psychè) si fa strada e si
manifesta nel mondo come dimensione di valore.
Il diritto non appartiene alla natura ma opera nel suo ordine. Per questo è chiamato a difendere
quella vita che non è il bios ma la psychè che però non è da esso direttamente attingibile; ed ecco il
rilievo che il bios viene ad acquistare. S. Agostino osserva che la prima forma di espressione della
nostra libertà – la prima affermazione del nostro io – non si manifesta né attraverso un nobile “si” a
valori assoluti e trascendenti (si al bene, si a Dio) né attraverso un altrettanto nobile “no” ai
disvalori assoluti (no a Satana), ma attraverso il semplice e quotidiano no a quelle forme contingenti
di male che sono i delitti, e il primo delitto contro il bios che egli cita è l’omicidio. La psychè dice
“si” a se stessa dicendo di “no” ad ogni attentato che minacci il bios. Non c’è dubbio che la psychè
abbia un potere sul bios, potere che può liberamente diventare immenso (caso del suicidio) ma
non c’è nemmeno dubbio che attraverso l’uso di questo potere la psychè corre il pericolo di perdere
definitivamente se stessa. Bios e psychè sono legati da vincoli indissolubili ma sottili:
- quando questi si ispessiscono e portano al psychè ad appiattirsi sul bios, cadiamo nelle
forme di materialismo che vedono nella natura una forma di sacralità impersonale;
- quando invece questi vincoli si assottigliano, cediamo all’opposto in altrettanto ingenue
forme di individualismo solipsistico (Il solipsismo è la credenza secondo cui tutto quello
che l'individuo percepisce venga creato dalla propria coscienza.), per le quali la volontà
vuole quel che vuole e va sempre ritenuta insindacabile, purché autentica.
Nell’uno come nell’altro caso l’etica e il diritto non hanno più alcuno spazio. Per il diritto è
condannabile non la mera manipolazione del bios ma la manipolazione del vincolo di senso che
unisce il bios alla psychè. Es. un onesto allenamento atletico può anche essere materialmente più
violento nei confronti del bios di una attenta somministrazione di farmaci che ne potenzino
artificialmente e dolosamente le prestazioni, ma mentre questa è condannabile perché deforma la
psychè dell’atleta, inducendola all’inganno, quello può essere invece estremamente lodevole
quando per suo tramite la psychè dell’atleta raggiunge un pieno equilibrio con se stessa. Più in
generale, ogni pratica medica è giuridicamente giustificata non perché benefica sempre e
comunque per il bios, ma in quanto orientata a quel bene della persona, per la cui percezione,
il riferimento alla psychè è essenziale. Pratiche come la tortura, l’accanimento terapeutico, la
castrazione vanno rifiutate come non etiche e antigiuridiche non perché dannose ma perché
umiliano il nesso psychè/bios disumanizzandolo.

TEORIE ETICHE IN BIOETICA


In bioetica non è sufficiente possedere un ricettario che ci dica “come” ci si debba comportare in
determinate situazioni: è invece necessario sapere “perché” ci si “deve” comportare proprio in quel
modo, rispetto ai molteplici comportamenti, fisicamente, spazialmente e temporalmente possibili. È
necessario conoscere le ragioni del dovere affinché le norme non risultino fredde imposizioni
estrinseche, ma siano interiorizzate e rispettate, proprio perché avvertite come interiormente
obbligatorie.
BIOETICA LIBERALE – LIBERTARIA. La prospettiva liberale - libertaria in bioetica (a partire
dall’assunto della non esistenza e non conoscibilità di una verità oggettiva comune) coincide con il
pluralismo bioetico pluralità di etiche e irriducibilità delle stesse (ossia non riconducibilità ad
elementi comuni ed univoci: le bioetiche non possono essere ricondotte alla bioetica). Ogni visione
etica soggettiva, nel momento in cui si manifesta, va accolta, tollerata e legittimata nei suoi
contenuti, in modo equivalente rispetto a qualsiasi altra. L’unica via d’uscita per non cadere nel
nichilismo è il procedurilismo: se non è possibile la condivisione di una morale sostanziale (ossia
l’assenso su ciò che è bene o male) rimane possibile ed auspicabile tale condivisione all’interno di
“comunità morali” particolari nelle quali si instaurino legami tra “amici morali” nella
consapevolezza che tali comunità sono estranee le une alle altre. Tra queste è possibile solo
concordare procedure di negoziazione per la risoluzione di controversie bioetiche: le procedure
consistono nella stipulazione di contratto o accordi (tra individui che hanno concezioni morali
divergenti), basati sul permesso e sul consenso informato, nel libero mercato di una società liberale
neutrale. Il proceduralismo, in questo contesto, costituisce l’unica morale laica comune possibile
nella bioetica postmoderna pluralistica, ove ognuno può mantenere la propria concezione etica
particolare (privata, individuale) e allo stesso tempo collaborare, pattuire, commerciare
(pubblicamente) e dunque coabitare con gli stranieri morali (persone con visioni morali diverse). La
bioetica libertaria ritiene che il dibattito pubblico sia possibile nel mero fatto dell’accordo tra i
soggetti o le comunità morali. In tale prospetti i principi proposti in bioetica sono:

 principio di autonomia o del permesso – garantisce la condizione di possibilità della


morale (fissando i limiti invalicabili nel rapporto tra individui a prescindere dal giudizio
sulle reciproche visioni morali), stabilendo i confini della morale di ogni comunità morale.
Si riassume nella frase: non fare agli altri ciò che essi non vorrebbero fosse loro fatto.
Individua il soggetto morale nell’individuo che esprime autonomamente un consenso. Si
garantisce uno spazio in cui l’individuo possa fare ciò che vuole nel limite del rispetto
del danno ad altri.
 principio di beneficenza (o beneficità) identifica il contenuto della vita morale
nell’individuazione di un senso particolare di ciò che è bene, enunciabile secondo una re-
interpretazione della regola aurea nel senso “fai agli altri il loro bene”. È un complemento
possibile di una visione morale determinabile solo all’interno della comunità morale
auspicando un atteggiamento benevolo tra stranieri morali o un atteggiamento
simpatetico degli agenti morali verso colo che non fanno o non fanno più parte di una
comunità morale introducendoli in un “ruolo sociale”
Persona “in senso stretto” o “in senso proprio” è solo l’agente morale, ossia colui che è in grado di
stipulare un contratto, di esprimere un consenso e un permesso, ossia di partecipare in modo attivo
alla vita morale, dunque un soggetto autocosciente, capace di razionalità e di autodeterminazione:
alla persona va garantita la possibilità di manifestare la capacità contrattuale, senza interferenze.
Persone “in senso lato” o “in senso sociale”, sono gli esseri umani che non sono in grado di
esprimere un consenso, ossia in base a ciò che decidono gli agenti morali o ai sentimenti di
benevolenza dei contraenti. Solo l’agente morale gode di adeguata protezione; non sono protetti gli
individui che non sono in grado di esercitare la libertà – “pazienti morali”- perché non la
esercitano ancora (embrioni, feti, neonati, infanti, minori) e non la esercitano più (cerebrolesi,
dementi, disabili, comatosi) o, ancora, non l’hanno mai esercitata e non la eserciteranno più
(handicappati gravi congeniti senza prospettive di guarigione). Gli individui non in grado di dare il
proprio consenso divengono “oggetti” della beneficenza degli agenti morali che potrebbero decidere
di proteggerli come anche di sacrificarli in vista della realizzazione di altri beni. Il modello
procedurale si basa su alcuni presupposti la cui tematizzazione porta a rinnegare le premesse stesse
del discorso.

BIOETICA UTILITARISTA. La bioetica utilitarista è una teoria morale :


 consequenzialista – in quanto giustifica gli enunciati morali sulla base della valutazione
delle conseguenze che produce un azione e non sulla base dell’agente o dell’atto in sé.
 benesserista – in quanto ritiene etica l’azione che produce le conseguenze migliori
(rispetto alle possibili alternative) in termini di utilità che coincide con il benessere (o
felicità), ossia il miglior saldo “ottimifico”, in termini comparativi, dei benefici sui costi,
delle soddisfazioni sulle frustrazioni, delle preferenze/interessi (in termini di paicere/gioia)
sui danni (dolori/sofferenze). o eguale gli interessi di ogni individuo
 egualitarista- aggregazionista – Il calcolo dell’utile come benessere (unico movente
dell’atto) deve tenere in considerazione in modo eguale gli interessi di ogni individuo e
massimizzare gli interessi di tutti gli individui coinvolti considerati nel loro insieme.
Vi sono diverse versioni dell’utilitarismo:

 in base alla teoria del valore si distingue:


o UTILITARISMO EDONISTA degli “stati mentali” o “stati di cose”, secondo il
quale il valore si identifica con il piacere prodotto da una azione e il disvalore
con il dolore (misurati in base a intensità,durata,certezza e prossimità)
o UTILITARISMO DELLE PREFERENZE che individua il valore nella
soddisfazione e realizzazione di un desiderio.
 in base alla teoria dell’obbligo si distingue:
o UTILITARISMO DELL’ATTO che calcola il risultato dei costi/benefici in
riferimento alla singola azione (ritenendo doverosa l’azione che massimizza il
benessere)
o UTILITARISMO DELLA REGOLA che considera doverosa la
conformazione delle azioni alle prescrizioni che, in genere e nelle condizioni
normali, producono un saldo complessivo di utilità(dovere che va perseguito
anche se la sua violazione massimizza il benessere)
La bioetica utilitarista ricerca la massimizzazione del piacere e/o preferenza (minimizzazione dolore
e/o frustrazione), in riferimento al singolo atto o alla regola complessiva dell’utile; attribuisce una
priorità alla sensazione rispetto alla ragione: ciò che conta per l’utilitarismo, sul piano dell’agire, è:
1. la capacità di provare piacere e dolore, dunque avere sensazioni e interessi
2. la capacità di preferire il piacere al dolore, dunque avere preferenze quale risultato di una
comparazione di stati mentali, in riferimento al presente ma anche proiettata nel futuro
3. la capacità di autonomia , quale preferenza che coincide con la autodeterminazione della
razionalità e del volere. In questo senso la bioetica utilitarista delinea diversi livelli di
soggettività e statuto personale in base ai diversi livelli di coscienza:
o livello minimale – possesso della capacità di avere sensazioni piacevoli e spiacevoli
nell’immediatezza del presente, dunque possesso del sistema nervoso centrale quale
condizione neurofisiologica necessaria
o livello intermedio – possesso della capacità di elaborazione complessa delle
sensazioni, mediante confronto, comparazione e scelta preferenziale, nel presente e
nel futuro
o livello massimo – decisione autonoma dell’individuo.
La soggettività personale si esprime o scompare, cresce o decresce in base al livello di coscienza :

 sensitività
 autocoscienza come consapevolezza di sé nel tempo o soggettività in grado di apprezzare la
vita
 razionalità
 autonomia
La soggettività personale è attribuita agli individui in funzione del livello accertabile di coscienza
a prescindere dall’appartenenza alla specie umana o non umana.
E’ soggetto o persona chi percepisce, chi elabora percezioni, chi decide autonomamente –
riduzione della soggettività personale alla presenza di funzioni con definizione della rilevanza
morale della soggettività personale in base all’intensità e alla durata della manifestazione delle
funzioni a prescindere da considerazioni qualitative (appartenenza alla specie o natura): ha più
valore che ha un maggiore livello di coscienza. Ne consegue che la soggettività personale è
dissociata dalla natura umana: non tutti gli esseri umani sono persone. La bioetica utilitarista accusa
la teoria antropocentrica di “specismo” poiché porre al centro del discorso morale l’uomo in quanto
uomo è ritenuto un privilegio arbitrario ingiustificato. Al centro del discorso etico l’utilitarismo
pone:
- la sensitività o coscienza sensitiva, a livello minimale
- la razionalità o autocoscienza, a livello massimale
Sono soggetti o persone (in senso debole) gli individui senzienti e (in senso forte) gli individui
autocoscienti (uomini o animali), ossia coloro che sono in grado di essere consapevoli di sé come
soggetti continui nel tempo ed esprimere le proprie preferenze e i propri desideri, e sono in grado di
elaborarli razionalmente oltre che decidere autonomamente. Ne consegue che gli embrioni umani in
quanto non senzienti non sono soggetti o persone: lo sono invece gli animali o meglio alcuni
animali, in quanto in grado di percepire piacere e dolore.
Per la teoria utilitarista “avere interessi”(ossia essere individui senzienti) costituisce il livello
minimo per avere una rilevanza morale e giuridica: chi può percepire piacere e dolore gode di una
qualche tutela, almeno gli si deve riconoscere il diritto a non soffrire inutilmente.
La bioetica utilitarista si identifica con la “bioetica della qualità della vita” in contrapposizione alla
“bioetica della sacralità/santità della vita”: gli utilitaristi intendono proporre una morale nuova che,
subordinando il valore della vita alla presenza di qualità, si contrappone alla morale tradizionale che
ritiene la vita un valore assoluto a prescindere dalle qualità, ossia vietando qualsiasi atto di
uccisione diretta e intenzionale di una vita innocente. Gli utilitaristi fanno coincidere la posizione
della sacralità della vita con il vitalismo, ossia il valore della vita umana sempre e comunque, in
qualunque stadio e in qualunque condizione arrivando anche a giustificare il prolungamento
indefinito con qualsiasi forma o mezzo.
 Per l’utilitarismo egualitarista il principio di eguale considerazione degli interessi prescrive
di non discriminare fra interessi uguali di individui diversi a prescindere dall’appartenenza
alla specie. Riconoscere il diritto a non soffrire non equivale a riconoscere il diritto a vivere:
il valore della vita dei soggetti senzienti è attribuibile subordinatamente al piacere/dolore; in
altri termini, è possibile togliere la vita ad un individuo senziente senza provocargli il
dolore(ossia con tecniche indolori). Riconoscere il diritto a non soffrire inutilmente significa
anche riconoscere un obbligo a togliere la vita nella misura in cui la sofferenza è eccessiva
nel presente(e probabilmente anche nel futuro) e produce troppa sofferenza rispetto agli altri
(nel presente e nel futuro)
 Nella logica del calcolo della massimizzazione del piacere e del dolore la vita ha valore
solo subordinatamente alla presenza di condizioni di piacevolezza, ossia di un certo livello
di qualità della vita misurata in base al benessere. La vita (umana e non) nella quale la
sofferenza prevale, si ritiene “non valga la pena di essere vissuta”. Il “diritto a non
soffrire inutilmente” finisce col coincidere con un “dovere” di sopprimere la vita sofferente
o che può soffrire, o causare sofferenza agli altri. L’unico limite all’uccisione di esseri
senzienti può essere la presenza o l’espressione di una “preferenza di vivere”, l’essere cioè
un soggetto di una vita che apprezza la propria esistenza, purchè non sia in contrasto con la
preferenza degli altri; in ogni caso un individuo autocosciente, a prescindere dalle sue
condizioni esistenziali, se valuta negativamente la sua vita e ritiene preferibile morire, nei
suoi desideri dovrebbe essere rispettato. Un diritto serio alal vita è attribuibile solo alle
persone razionali e autocoscienti che preferiscono vivere.
 Nella prospettiva utilitarista aggregazionista, prevale la tutela degli interessi del maggior
numero: pertanto nel calcolo felicifico totale è ritenuta giustificabile la soppressione di
una vita non felice nella misura in cui possa essere sostituita da un’altra vita con
maggiori probabilità di felicità (sarebbe giustificabile l’aborto o eutanasia neonatale se la
soppressione del feto o del neonato con bassa qualità di vita prevedibile potesse essere
sostituita con la decisione, da parte dei genitori di avere un altro figlio con maggiori
probabilità di una buona qualità di vita)
CRITICHE. La bioetica utilitarista ha suscitato vivaci reazioni per la provocatorietà della tesi che
esprime. Le tesi proposte sono contro-intuitive e contrastano, spesso, con la morale del senso
comune e le convinzioni generalmente diffuse nella società: in questo senso l’utilitarismo mostra
una contraddizione, visto che ritiene che il principio dell’utile si radichi nella morale sociale.
L’utilitarismo non tiene in considerazione un elemento che non si può escludere dall’uomo anzi, ne
costituisce la sua identità profonda, ossia la possibilità che un individuo faccia scelte in contrasto
con interessi e preferenze soggettive per il mero senso del dovere: l’utilitarismo presuppone che
l’agente razionale non possa compiere azioni solo in quanto sono un certo tipo di azioni, ritenute
doverose a prescindere dall’immediatezza del piacere o dalla soddisfazione di desideri. La
massimizzazione delle preferenze, potendo implicare la frustrazione di interessi anche solo per un
gruppo minoritario, giustifica una obbligatorietà morale incompatibile con l’equità: la prospettiva
utilitarista aggregazionista, in vista della produzione del maggiore benessere possibile, rischia di
penalizzare anche gravemente alcuni interessi individuali, portando potenzialmente iniquità,
inaccettabile per la morale comune. Per queste ed altre ragioni risulta difficile o quanto meno
problematico accettare la legittimazione di interventi soppressivi su esseri umani: l’eliminazione di
una vita non può essere mai indolore; inoltre un dolore che appare insopportabile può essere per
un altro o per gli altri non solo sopportabile ma addirittura una ragione di vita e anche ammettendo
che una certa situazione esistenziale di malattia facesse soffrire altri, l’effetto indiretto rispetto ai
terzi non può prevalere sull’effetto diretto nei confronti dell’individuo. Così come non sono
analogabili le esperienze sensitive umane e non umane, se non altro perché l’uomo non può
uscire dalle proprie categorie conoscitive; per quanto possiamo provare a vivere le esperienze
percettive degli animali non potremo che ragionare o per inferenza o per analogia.
BIOETICA DEI PRINCIPI. La bioetica dei principi o principialismo è un particolare approccio ai
problemi morali. Nell’ambito della distinzione tra diversi livelli dell’etica (le teorie, i principi, le
norme, i giudizi e le azioni), il principalismo ritiene possibile elaborare una bioetica al livello di
principi. Si tratta di un approccio che ritiene possibile, pur nel pluralismo etico sul piano teorico,
trovare un accordo sulla tematizzazione di alcuni principi di riferimento con la funzione di
elaborare uno schema interpretativo al fine di analizzare le questioni bioetiche emergenti:

 Principio di autonomia – libertà dell’individuo come non interferenza e


autodeterminazione, quando si tratta di azioni intenzionali, informate/consapevoli e senza
condizionamenti esterni. Indica alcune regole pratiche quali dire la verità, rispettare la
privacy, ottenere il consenso informato in contrapposizione al tradizionale paternalismo
medico: il paziente va sempre informato adeguatamente affinché sia messo nelle condizioni
per poter decidere autonomamente; sono ammesse tuttavia eccezioni che fanno riaffiorare
modalità paternalistiche (ad es. nel caso in un medico che minacci di interrompere il
trattamento di un paziente che si comporta in modo infantile e non accondiscendente).
 Principio di beneficenza – distinto in beneficenza positiva o dovere di promuovere il
bene e l’utilità, nel senso di scegliere l’azione che produce il miglior saldo positivo tra
benefici e danni. Prescrive il dovere di fare il bene, dunque di assistere alla salute dei
pazienti e l’utilità indica il saldo costi- benefici (ma l’utile complessivo può non coincidere
col bene individuale).
 Principio di non maleficenza – l’ippocratico non nocere o non fare il male, ossia l’obbligo
di non arrecare intenzionalmente un danno. Indica il dovere di non procurare danni fisici
ma talvolta ammette eccezioni (nei casi in cui certe azioni infliggano non intenzionalmente
un danno).
 Principio di giustizia – criterio dell’equità distributiva. Indica l’equità che si può basare su
criteri diversi e contrapposti (dare a ciascuno in modo eguale, in base al bisogno,
all’impegno, al merito)ridistribuzione dei costi benefici e rischo.
Detti principi, offrono una mediazione tra contrapposte teorie etiche per giungere ad accordi
pragmatici da applicare alle situazioni concrete; hanno uno statuto non assoluto, sono principi
sempre vincolanti, salvo che non confliggano con altri obblighi, rendendo necessario un
bilanciamento; non sono gerarchizzabili e irrevocabili, anzi sono rivedibili in base alla diversità
delle situazioni particolari e delle circostanze concrete. Tale approccio che trae ispirazione dalle
teorie intuizionisti che di Ross e Frankena, è giustificato alla luce delle teorie del “senso comune” e
del “coerentismo”: a partire da giudizi paradigmatici, ossia concezioni morali maggiormente
condivise, attraverso la loro sistematizzazione coerente ossia mediante la loro armonizzazione e
aggiustamento attraverso la revisione e precisazione critica, si traggono i “giudizi ponderati”. Dai
giudizi ponderati, che offrono la base di partenza del ragionamento morale si evincono per
generalizzazione le regole e poi i principi: ad es. dal giudizio ponderato relativo al fatto che il
medico non possa usare i pazienti a suo vantaggio o per interessi personali, si trae la regola che il
medico debba anteporre gli interessi del paziente ai propri, da cui è elaborato il principio di
beneficenza. Si tratta di un approccio che tenta la mediazione tra le opposte tendenze del
deduttivismo e dell’induttivismo proponendo un equilibrio riflessivo, ispirato alla teoria di John
Rawls: prendendo le distanze dal deduttivismo (ossia la giustificazione di tipo sillogistico, che si
basa sulla sussunzione del particolare nel generale, traendo la validità del principio dalla teoria etica
che lo giustifica) in quanto presuppone principi auto evidenti o teorie metafisiche e prendendo le
distanze dall’induttivismo (ossia la giustificazione che si ferma ai giudizi particolari e al confronto
delle esperienze) in quanto manca di criteri generali che consentano una valutazione critica dei
fatti, la bioetica dei principi cerca una giustificazione nella coerenza complessiva dei principi, nel
rapporto dialettico tra morale comune (che nasce dall’esperienza) e armonizzione e
sistematizzazione (che è elaborata sul piano teorico): i principi sono generalizzazioni di giudizi
ponderati, pertanto provengono dall’esperienza, ma sono soggetti a correzione se incompatibili con
altri principi o giudizi ponderati, secondo la logica dell’armonizzazione. I principi così formulati
sono sempre suscettibili di verificazione o falsificazione nel confronto con l’esperienza: la teoria e i
principi, pur nascendo dalla generalizzazione dell’esperienza, funzionano fino a che non sono
smentiti o resi incoerenti dalla realtà, che costringe ad una riformulazione. In questo senso il
principalismo si rivela un approccio dinamico, duttile, sempre riformulabile in un equilibrio mai
assolutamente stabile ma che tende alla stabilità. I principi sono guide generali di azione di cui
tenere conto, ma non obbliganti, o meglio la loro obbligatorietà dipende dalle circostanze. I principi
sono sottoposti a una duplice strategia:

 Bilanciamento – consiste nello spostamento del peso di obbligatorietà da un principio


all’altro nella valutazione delle singole circostanze, e dunque nella modificazione della
gerarchia dei principi in caso di conflitto (un principio è vincolante finché non entra in
conflitto con gli altri; in tal caso non c’è una regola a priori che definisca la priorità dell’uno
sull’altro); bisogna distinguere tra:
o Doveri “condizionali” – tendono a essere un dovere ma divengono dovere reale solo
in determinate circostanze
o Doveri “propri” (reali e attuali).
 Specificazione – indica la progressiva aderenza e adeguazione dei principi alla
situazione concreta nella quale vengono applicati
CRITICHE: secondo tale prospettiva la ragione non ha alcuno spazio in etica sul piano fondativo:
la ragione può verificare la coerenza delle teorie, delle regole, limitandosi però a descrivere,
chiarificare il linguaggio etico e ad analizzare i problemi. Ciò se da un lato consente di sottrarre le
scelte etiche dalla pura arbitrarietà, dall’altro lato non può che presentare i principi e i valori come
prima facie, mai assoluti e universali bensì sempre relativi e particolari. Si assiste qui, a un
recupero della razionalità come ragionevolezza coerente in etica, ove si ritiene che la ragione sia
incapace di attingere verità forti, limitandosi a orientare pragmaticamente le scelte migliori in
determinate situazioni. Il paradigma dei principi rischia di fallire a causa della sua rinuncia ad
una giustificazione fondativa. I principi rischiano di divenire meri riferimenti nominali vuoti
riempibili di contenuto in base alle diverse teorie e diverse situazioni. L’accusa che viene mossa
alla bioetica dei principi è proprio la mancanza di un quadro teorico di riferimento solido che
garantisca significati costanti; ne è un chiaro esempio il principio di non maleficenza: se si da una
valenza negativa, di astensione intenzionale da azioni che rechino danno, bisogna precisare che cosa
si intende per danno esempio danni banali e seri, danni fisici e morali. Il modello dei principi ha
altresì una debolezza intrinseca nella misura in cui da un lato recepisce acriticamente la moralità
comune e dall’altro pretende di sottoporla a un vaglio critico.
BIOETICA DELLE VIRTU’. I teorici della bioetica delle virtù o bioetica aretaica (da aretè, ossia
virtù) pongono l’attenzione sull’agente morale e non sull’azione, sulla riflessione personale o in
prima persona nel tentativo di rispondere alla domanda “che tipo di persona voglio essere” o “chi
dovrei essere”?; la bioetica della virtù riguarda la motivazione etica, ritenendo l’agire morale
non riducibile a mera obbedienza estrinseca alle regole, in quanto radicato nella intenzione
interiore; la virtù in bioetica rimanda ad un modello d’impegno nell’arco complessivo della vita
“etica” individuale, quale sforzo volto all’eccellenza dell’agire, anche con comportamento che
oltrepassano quanto richiesto dalle regole. Vi sono due linee di pensiero:
 Bioetiche ispirate alla teoria aristotelica (finalistico - metafisica) delle virtù, intesa quale
realizzazione di un fine interno al soggetto agente nelle pratiche che esercita – l’uomo
virtuoso è colui che eccelle nell’esercizio della funzione razionale, ossia l’uomo saggio che,
mediante la retta ragione, discerne e decide secondo medietà e giusto mezzo ) –la virtù è
identificabile nel contesto di un’unità armonica e sintetica
 Bioetiche ispirate alla teoria humeana (empiristica) delle virtù, quale percezione o
sentimento di gradevolezza, soddisfazione o approvazione provocata dalla sensazione di
piacere che abitualmente, per educazione o convenzione, è associata a certe azioni – l’uomo
virtuoso è colui che è orientato alle passioni o emozioni nella vita etica – la virtù è
irriducibilmente plurale, variabile e non gerarchizzabile.
Nel contesto della concezione neoaristotelica si inserisce la bioetica delle virtù che propone una
riflessione filosofica del sapere medico con l’obiettivo di elaborare una “filosofia della medicina”,
ossia una filosofia intrinseca alla prassi di chi opera in ambito sanitario. Si ha un atteggiamento
critico di fronte alla filosofia che si rivolge a paradigmi teorici esterni o che si frammenta nella
descrizione clinica dei casi: è un approccio che si propone di partire da una riflessione interna alla
pratica medica, indagando le ragioni della medicina, della professione medica, dell’agire medico nei
confronti del paziente. Questo tipo di bioetica intende configurare un corretto rapporto tra filosofia
e medicina, ritenendo che le due discipline non siano sostituibili l’una con l’altra e nemmeno
contrapposte l’una all’altra. La filosofia non deve imporsi sulla medicina e non deve nemmeno
assoggettarsi alle prepotenze del sapere medico che la usa per giustificare i fini arbitralmente
scelti. La bioetica delle virtù delinea una via d’uscita da questa alternativa lacerante nell’attivazione
di un dialogo tra le discipline, ossia un confronto che non generi commistioni metodologiche, ma
che riconosca la specificità epistemologica. La filosofia è chiamata a comprendere la natura della
medicina, la sua essenza, la sua ragion d’essere e i suoi fini: a partire da questa comprensione
interna di senso è possibile cogliere le regole morali della pratica medica. Si tratta di una
elaborazione bioetica che ha una visione umanistico – essenzialistica della medicina contro la
concezione riduzionistica che ritiene la medicina una mera accumulazione di nozioni utili alla
prassi. La bioetica, radicata nella filosofia della medicina, ritiene che la natura propria della
medicina sia la comprensione qualitativa dell’umano: in questo senso la medicina ha e non può
non avere una valenza etica. Il medico è chiamato, in nome della vocazione propria della
professione che pratica, ad agire “per il bene del paziente”, intendendo per bene il valore biomedico
della sua saluta ma anche il suo benessere globale. Si parte da un’analisi della malattia quale
momento della vita dell’uomo in cui l’individuo subisce un assalto alla sua corporeità ed identità
personale: la malattia diviene il segno della vulnerabilità ontologica dell’uomo, di fronte alla quale
il medico, in quanto in possesso di conoscenze e abilità per curarlo, si pone inevitabilmente in una
posizione di superiorità. Detta ineguaglianza strutturale tra medico è paziente che può sfociare
in un paternalismo o in un contrattualismo, è risolta dalla bioetica delle virtù con la
proposizione di un modello c.d. intermedio: si basa sulla priorità del principio di beneficenza
nella relazione medico-paziente(beneficenza nella fiducia), sull’affidamento fiducioso del
paziente al medico e sull’obbligo etico del medico di curare la malattia, intesa non come mero
evento fisico ma come segno di un disagio psichico e spirituale del malato come persona. Una
medicina quindi ispirata alla virtù dell’agire medico; un agire virtuoso ove la virtù indica la
predisposizione interiore abituale ad agire bene, per il bene del paziente. Di fronte al “fatto
della malattia” la virtù è l’obbligazione etica che scaturisce dall’”atto della professione” e dall’”atto
medico”; una virtù della cura intesa nel duplice senso di guarire e di prendersi cura: cura al fine di
ristabilire in senso terapeutico la salute del pazienza, cura come partecipazione empatica al vissuto
dell’altro. La bioetica delle virtù si è anche espressa nella linea di pensiero della bioetica
d’impostazione comunitaristica che punta l’attenzione sulla condivisione di ideali di vita buona
incarnati nelle pratiche della comunità situata storicamente e culturalmente; nella bioetica narrativa
che pone attenzione alla narrazione dei casi, nella rilevazione degli atti e delle intenzioni in base
alla descrizione completa del caso attraverso il racconto al fine di formulare un giudizio specifico –
il virtuoso è colui che sa cogliere le somiglianze e le differenze tra i casi ed elaborare, a partire dalla
narrazione dei casi, un modello di azione buona; nella bioetica casistica, che riabilita il
ragionamento per analogia in ambito morale. La bioetica delle virtù si è anche espressa seguendo
l’orientamento empiristico-humeano nell’esaltazione della dimensione empirica e passionale della
determinazione della vita buona. Detta bioetica ha spostato l’attenzione della riflessione bioetica
sulla soggettività interiore, sulla motivazione ed abitudine all’agire etico, sulla relazionalità, sui
valori interni della pratica medica ma presente alcune ambiguità: non indica con chiarezza la
dialettica ragione/emozione, non offre una chiara giustificazione della pretesa universalistica
lasciando aperta la possibilità di una interpretazione in chiave situazionistica, storicistica e
relativistica. Rischia di divenire o la catalogazione dell’agire etico di una comunità storicamente
determinata o di una prassi o di un individuo.
BIOETICA FEMMINISTA E FEMMINILE (DELLA CURA). La bioetica femminista si
inserisce nell’ambito della tradizione di pensiero del femminismo il cui filo conduttore è
rintracciabile nel tentativo di analizzare le ragioni della subordinazione e della oppressione
della donna rispetto all’uomo/maschio e di teorizzare un cambiamento, in meglio, delle
condizioni della donna, combattendo la discriminazione sessista e il maschilismo androcentrico
patriarcale. Vi è un accusa alla bioetica “umana” di apparente neutralità: parlando di essere umano
ha ignorato le differenze sessuali o, ancor peggio, ha assimilato le donne agli uomini/maschi,
annullando o cancellando le differenze. Vi è stato, dunque, da parte del femminismo, uno
spostamento dell’oggetto, dalla rivendicazione dell’uguaglianza alla rivendicazione della
differenza: l’obiettivo è quello di evidenziare i pericoli dell’uguaglianza centrando l’attenzione sulla
differenza e sulle diverse interpretazioni della differenza. Si possono distinguere due pensieri di
bioetica femminista:
 Radicale – della differenza come separazione irriducibile, dunque come libertà e potere.
Nega l’esistenza e la conoscibilità di una natura umana comune, ritenuta una
generalizzazione astratta. Si ritiene che esistano empiricamente solo individui incarnati in
una soggettività sessuata (maschile o femminile) ma si asserisce anche che la differenza
empirica coincide con la differenza ontologica: in questo ambito si afferma che la donna non
è altro rispetto all’uomo maschio e dunque deve partire da se stessa e costruire se stessa in
modo autoreferenziale.
 Moderato – della differenza intesa come distinzione nell’integrazione. Propone il
riconoscimento della comune appartenenza al genere umano che nasce dalla constatazione
che donne e uomini, pur diversi, sono simili, essendo persone, ossia individui di natura
razionale. Si parte dal presupposto che la dualità femminile/maschile sia un’indubbia
diversità esperienziale, ma che tale diversità empirica(l’essere maschi o femmine)
rimandi, in ultima istanza, ad una uguaglianza ontologica(maschi e femmine sul piano
dell’essere sono umani). Se la differenza femminile/maschile è intesa in senso debole, ossia
componibile nell’unità umana, ne consegue che esiste una bioetica umana come sapere
unitario, ma che tale bioetica deve essere meglio tematizzata e precisata alla luce della
riflessione sulle diversità di approcci morali(maschile/femminile) nella prospettiva di una
integrazione complementare. In questi significati di bioetica si inserisce il rifermento alla
bioetica della cura.
La definizione di cura rimanda a due livelli di significato:
- un significato ristretto, cura come guarire, combattere la malattia con opportuni mezzi terapeutici
- un significato ampio, cura come prendersi cura di, nel senso di preoccuparsi ed avere attenzione
per gli altri.
La bioetica al femminile ha dunque portato a una riflessione sistematica sul concetto di cura, con
particolare riferimento al significato del prendersi cura di. La fondatrice di tale pensiero è C.
Gilligan, è riuscita a mostrare la diversità di approcci morali, ossia di modi di ragionare e di porsi di
fronte a dilemmi morali.

 L’approccio morale maschile è identificabile nella individualità, autonomia e autoreferenzialità.


In un atteggiamento di rispetto formale, distacco impersonale e imparziale, in un metodo razionale
e logico-deduttivo, nel contesto della giustizia;
 l’approccio morale femminile è rintracciabile nella relazionalità e responsabilità, in un
atteggiamento di coinvolgimento interiore, personale e affettivo nel contesto della cura
Gilligan riconosce esplicitamente che la differenza di approcci morali è indipendente
dall’appartenenza di genere. Il fatto che la cura si un modo di agire moralmente emerso dalle donne
sia più diffuso e ripetuto nell’esperienza femminile non nega che anche l’uomo abbia o possa vivere
tale modo di agire etico. Su tali basi è nata la bioetica della cura: rappresenta lo sforzo di dare voce
a coloro cui non prestiamo sufficiente attenzione e alla dimensione emotiva oltre la razionalità
uscendo dalla rigida polarizzazione ragione/sentimento verso una ragione morale che non si
esaurisca nell’obbedienza passiva delle regole o calcolo delle conseguenze, ma coinvolga il vissuto
personale nella concretezza delle relazioni. La bioetica femminista è stata criticata in quanto. La
cura è intesa come agire morale responsabile, che si esprime nell’impegno quotidiano dei
rapporti che scaturisce spontaneamente da un convincimento interiore, dall’empatia come
compassione, dall’inclinazione verso gli altri, dalla capacità di trascendere i propri interessi
immediati nella situazione concreta, dalla gratutità e benevolenza rispetto all’alterità. Il
concetto di cura in etica e bioetica è stato oggetto di critiche:
 È accusata di ideologizzazione: se le relazioni di cura sono più frequenti di fatto tra le
donne, ciò non rende tali attitudini intrinsecamente femminili di principio
 L’enfatizzazione della cura femminile può essere usata come argomento contro la donna col
rischio dello scivolamento nel tradizionalismo, ossia nella relegazione della donna alla sfera
domestica e privata, nella fissazione del ruolo di genere tradizionale e dunque nel ritorno al
sessismo o femminilismo: in questo senso la cura diverrebbe sudditanza, sclerotizzerebbe
l’immagine della donna. Idealizzerebbe la donna ma anche materializzerebbe la sua figura.
 la cura può essere usata in modo improprio: cura di sé come narcisismo, come
dimenticanza di sé; l’eccesso di cura diviene accanimento, soffocamento, oppressione che
crea dipendenza nell’altro, il debole si adagia nell’essere accudito e rimane inerte, diventa
ostaggio della cura.
 porta ad un ribaltamento del maschilismo patriarcale nel femminismo matriarcale: il
femminismo della liberazione della donna tende a divenire un maschilismo rovesciato,
proponendo l’esaltazione del femminile contro l’esaltazione del maschile: la bioetica
femminista ricade, sul versante opposto, nello stesso errore da cui intende prendere le
distanze, sostituendo il matriarcato al patriarcato.
Queste obiezioni e gli usi impropri della cura non ne impoveriscono il senso etico.
BIOETICA DELLA RESPONSABILITA’. La presa di coscienza dei rischi per la sopravvivenza
della vita sul nostro pianeta a causa di catastrofi improvvise o del pericolo di possibili abusi del
potere connesso alle conoscenze tecnologiche e scientifiche e del loro potenziale distruttivo, porta,
inevitabilmente, l’etica ad allargare lo sguardo oltre l’uomo e oltre il presente e. Il tema etico della
responsabilità ha avuto un notevole impatto sulle questioni bioetiche e H.Jonas ha elaborato il c.d.
“principio responsabilità” che parte dalla presa d’atto della sproporzione tra potere incontrollato
scientifico e tecnologico e condizioni di vulnerabilità e fragilità della vita; la minaccia radicale
della possibilità di distruggere la vita sulla terra e la presa di coscienza dei pericoli ai quali ci
espone il potere tecno scientifico a livello planetario e cosmico mostra l’esigenza etica di valutare il
rischio delle conseguenze delle scelte e delle decisioni umane nei confronti della natura. L’etica si
trova ad affrontare inevitabilmente un problema che ne dilata i confini oltre l’uomo e oltre il
presente, nell’orizzonte collettivo e globale, proiettato a lungo termine. È necessaria, quindi,
l’elaborazione di nuove categorie etiche: dall’etica della prossimità (spaziale e temporale) all’etica
della responsabilità (estesa parzialmente e temporalmente). È indispensabile allargare l’orizzonte
etico oltre l’individuo e la società, alla vita non umana e proiettare lo sguardo nel futuro al
fine di valutare gli effetti delle azioni, riflettere tenendo conto dei rischi delle degenerazioni
del progresso senza ostacolarne però lo sviluppo. L’elaborazione teorica jonasiana parte dalla
constatazione del fatto che in ogni organismo vivente, umano e non umano, vi sia una apertura
verso scopi, primo tra tutti la sopravvivenza. In questa prospettiva finalistica la natura animata
appare libera dalla causalità deterministico-meccanicista rispetto alla materia inanimata. L’uomo
avendo una maggiore libertà è investito da una responsabilità nei confronti della natura, dato che
l’evoluzione della specie è condizionata pure dalle scelte che possono influire anche in misura
considerevole sulla evoluzione stessa. Di fronte al fatto che la vita futura dipende dalle scelte
dell’uomo emerge l’interrogativo di valore: è meglio che l’essere continui ad esistere o è meglio il
nulla (la distruzione)? Il fondamento ultimo della responsabilità rimanda al “dover essere
(categorico) dell’essere”: la ragione che giustifica la continuazione della vita e il dovere di esistere
dell’umanità si radica nella metafisica ontologica. Proprio il fatto della consapevolezza della
capacità di avere degli scopi costituisce di per sé un valore: avere degli scopi rappresenta un
bene in sé “la cui infinita superiorità rispetto ad ogni assenza di scopo dell’essere è
intuitivamente certa”; l’esistenza della capacità di avere scopi è superiore alla assenza totale di
scopi, dunque costituisce un valore. L’imperativo della responsabilità ha pertanto un fondamento
ontologico (il dovere categorico di preservare le condizioni di esistenza della vita sulla terra), ma
anche emotivo; il senso di responsabilità nasce dal sentimento suscitato dalla fragilità, dalla
transitorietà e dalla vulnerabilità della vita che dipende dall’uomo e dalle sue scelte. Partendo
dal principio ontologico che è meglio essere piuttosto che non essere (lo scopo di tutti gli scopi
è la vita), ne consegue l’imperativo categorico (ossia il dovere di essere) dell’individuo e della
specie umana: poiché l’umanità ha diritto al rispetto e alla generale protezione etica, quale
condizione per la difesa della stessa sussistenza, la terra, quale dimora degli essi umani, va
salvaguardata. L’uomo essendo l’unico essere sulla terra che ha la possibilità di scegliere tra i fini
(potendo compiere scelte, sacrificando un fine immediato per un fine ulteriore), è chiamato a
percepire l’esigenza oggettiva dell’essere (umano e non) e garantire il conseguimento del fine
all’essere. Su queste basi filosofiche si basa la “macroetica” jonasiana per la civiltà tecnologica
formulata dall’imperativo: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili
con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” o, in senso negativo, “agisci in modo che
le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita”. Jonas sottolinea
come sia proprio la minaccia all’identità umana la principale causa che ha sollecitato l’emergere
della consapevolezza del valore della salvaguardia dell’identità antropologica. È necessario allargar
gare all’ambiente e ai posteri, intesi come i discendenti umani e non, remoti, oltre che prossimi, i
nostri doveri di responsabilità al fine di assicurare l’integrità futura della natura umana,
scongiurando l’eventualità della distruzione del pianeta. La responsabilità dei genitori verso i figli e
dell’uomo politico verso la comunità ne costituiscono gli archetipi. Si tratta di deontologismo
intrecciato con il consequenzialismo , ove il calcolo delle conseguenze delle azioni è proiettato a
lungo termine e non si riferisce al benessere ma alla sopravvivenza. La responsabilità è strettamente
connessa alla “paura”. L’incertezza della scienza, spesso basata su probabilità, mostra l’esigenza di
un atteggiamento di cautela o prudenza, pensando che probabilmente avverrà la cosa peggiore:
“l’euristica della paura”, il timore per la possibile distruzione di tutto porta a dare priorità
decisionale alle previsioni di sventure rispetto a quelle di salvezza; si tratta di una paura che diviene
strumento emotivo finalizzato alla cura altruistica del vulnerabile. Responsabilità significa
riconoscimento del dovere di prendersi cura anche di chi o che cosa non è in grado di prendersi cura
di sé, non è in grado e non lo sarà mai, di ricambiare le nostre azioni morali (dunque anche gli
animali, i vegetali, l’ambiente, le generazioni future); rispetto significa obbligo di tutela (con divieto
di distruzione e danneggiamento, almeno senza un’adeguata ragione) anche nei confronti di chi è
più vulnerabile ed in capace di difendersi sulla base anche solo della considerazione del valore
estetico, simbolico e storico. Si tratta di una responsabilità “corresponsabile”: ogni uomo come
membro di una comunità di cooperazione(non agendo dunque solo come individuo) è chiamato ad
estendere la cura in senso planetario e dilatarla nel tempo: ogni soggetto è chiamato a rispondere nel
confronto degli altri (umani e non umani). In questo senso la responsabilità accomuna, rinsalda i
legami relazionali, oltre che intersoggettivi, anche tra le specie e le generazioni. La critica che è
mossa alla prospettiva di Jonas riguarda la differenza tra il principio di responsabilità elaborato sul
piano teorico e la trattazione delle questioni bioetiche applicative. Mancai il tentativo di ricondurre
le due prospettive ad un pensiero unitario.
BIOETICA PERSONALISTA. La prospettiva personalista è la teoria che giustifica in bioetica la
tesi della dignità intrinseca della persona riconosciuta in ogni essere umano a prescindere
dalla condizione dell’esistenza(salute o malattia) o dalle proprietà che possiede o le capacità
che è in grado di esibire. Essa si riferisce alla concezione filosofia originaria della persona,
riconducibile alla formulazione aristotelica di “animale razionale” o alla formulazione boeziana
“sostanza di natura razionale”: persona è considerata, in questa concezione, un individuo concreto,
incarnato biologicamente in un corpo, che ha una propria natura ontologica e che si manifesta in
capacità e comportamenti ma non è riducibile ad essi. La persona è distinta dalle sue funzioni, non
coincide con esse, in quanto le trascende. Secondo la bioetica personalista l’alternativa ontologica è
radicale: o si è persona o non si è persona. Il corpo umano in condizioni di “potenzialità” (non
essere ancora), di “residualità” (non essere più), di “privazione” (non essere mai), ossia di non
attuazione, transitoria o permanente di certe capacità (dovuta ad incompletezza dello sviluppo o alla
presenza di fattori che ne ostacolano o impediscono totalmente la manifestazione) non nega la
nature dell’essere. Ne consegue che l’embrione, il feto, l’infante sono “già” persone, in quanto, pur
non essendo ancora manifestate nel corpo biologico in atto, tutte e al grado più elevati le proprietà,
sono presenti le condizioni che costituiscono il supporto necessario del processo dinamico continuo
e progressivo che consentirà l’attuazione di tali caratteri. Allo stesso modo il cerebroleso,
l’individuo in coma, il demente sono “ancora” persone, perché anche se sono in condizioni
esistenziali che impediscono la manifestazione di certi comportamenti, l’assenza delle funzioni non
modifica la loro natura ontologica. Non si può essere più o meno persone, secondo gradi diversi di
intensità, in base al livello raggiunto della maturazione fisica o psichica del corpo, o addirittura a
prescindere dal corpo: nella prospettiva personalista corpo umano e persona sono strettamente
ed inscindibilmente interconnessi. Il corpo umano ha uno sviluppo ininterrotto che non ha salti di
qualità o tappe che assumono un particolare significato. La prospettiva personalista ritiene che il
salto di qualità sia all’inizio e alla fine del processo di sviluppo ininterrotto, non essendoci momenti
più o meno rilevanti. Secondo il personalismo, l’errore delle teorie separazioniste (che hanno
separato la persona dall’essere umano) consiste nel misconoscere che la presenza di una funzione o
la presenza delle condizioni per la sua estrinsecazione presuppone l’esistenza di un soggetto; è
l’esistenza del soggetto che rende possibile l’esercizio di certe funzioni, non l’esercizio delle
funzioni che costituisce l’esserci del soggetto. Non esistono i comportamenti sensitivi, raziocinanti
o volitivi, ma esistono i soggetti incarnati in un corpo che percepiscono, ragionano vogliono. Le
qualità astratte non esistono: esistono solo le concrete determinazioni di uno specifico ente
incarnato, identificabile nella persona umana. Nessuno può incontrare l’altro (soggetto) senza
incontrare il suo corpo(oggetto); non si incontra la sensitività, la razionalità, l’autocoscienza,
la volontà. Il corpo umano è sempre corpo della persona umana. Benché sia possibile, di fatto,
distinguere la soggettività personale dall’oggettività corporea non è altrettanto possibile, di
principio, separare corpo e persona in quanto uniti, costitutivamente, nell’umanità dell’essere. Del
resto, se fosse vera la coincidenza tra persona e funzione, anche l’individuo umano adulto in stato di
anestesia, dormiente, ubriaco, drogato o comunque l’individuo che mostrasse ad intermittenza o
sospendesse momentaneamente le capacità richieste per l’attribuzione dello stato personali non
sarebbe persona. Se la persona fosse ridotta ad un insieme di caratteri che compaiono e scompaiono
nei diversi individui e nelle diverse situazioni, per riconoscere la presenza di una persona
bisognerebbe valutare caso per caso; la persona diverrebbe una categoria aleatoria, applicabile con
notevoli difficoltà alla prassi biomedica. Il nostro corpo siamo noi stessi. Siamo il nostro corpo, le
nostre cellule, tessuti e organi: siamo un’unità psicosomatica, non solo una cosa. Il corpo soggetto
che sentiamo dentro la pelle, nella vitalità, nella sofferenza è anche corpo oggetto: la compresenza
di oggettività e soggettività, di essere e di avere costituisce il paradosso e il mistero del nostro
essere uomini. In questo senso il corpo umano diviene crocevia dell’immanenza e della
trascendenza di sé, dell’autorelazione e della etero relazione. Del nostro corpo possiamo dire
indissociabilmente di “essere”e ”avere” un corpo, essendo il punto di convergenza indisgiungibile
del somatico e dello psichico. L’ontologia e la fenomenologia del corpo umani ci mostrano che il
dato empirico da “prendere sul serio” sul piano bioetico, non è ciò che appare ma l’origine: l’uomo
che è colui che nasce da uomini. Esistiamo come persone per il solo fatto di essere stati concepiti
da altre persone. La natura umana è ciò che ci accomuna e non ci differenzia. La posizione
dell’uomo, in un corpo, nel mondo, per il solo fatto di essere uomo tra gli uomini, assume una
rilevanza etica forte. Del resto è impossibile dividere una unità indivisibile. Se l’essenza dell’uomo
è la tendenza all’attuazione piena di sé, ne consegue un dovere di rispetto nei confronti della vita in
ogni sua manifestazione affinché essa giunga al compimento naturale. La natura stessa, ha una
valenza normativa: la vita umana va difesa in quanto espressione di una vita personale,
dinamicamente protesa alla piena manifestazione di sé. Nel contesto del personalismo
ontologico i principi proposti in bioetica sono:
 la difesa della vita – dunque la sua intangibilità e indisponibilità
 il principio terapeutico – per il quale ogni intervento sulla vita è giustificato solo se ha il
fine di guarire il soggetto su cui si interviene
 il principio di libertà e di responsabilità – ove la libertà riconosce come limite oggettivo il
rispetto della vita dell’altro quale condizione ineliminabile del bene comune attraverso il
bene del singolo e la solidarietà verso chi ha più bisogno
 il principio di socialità e di sussidiarietà – ossia il raggiungimento del bene comune
attraverso il bene del singolo e la solidarietà verso chi ha più bisogno
BIOETICA CATTOLICA E LAICA. Vi sono due prospettive di pensiero: cattolica e laica.
Occorre distinguere i diversi livelli di significato di detti pensieri:
- ad un primo livello di significato, la bioetica “cattolica” indica la posizione bioetica della
confessione religiosa cattolica e si identifica con gli interventi pubblici del Magistero in materia
(decorsi del Pontefice, encicliche, lettere dei vescovi, esortazioni apostoliche ecc). Parte dall’ipotesi
di Dio e sulla base della fede e del richiamo alle Sacre Scritture deduce una serie di prescrizioni,
assolute, universali e immutabili, da applicare alle singole questioni bioetiche; riconosce la
sacralità e santità della vita da cui deduce il divieto assoluto di uccidere l’essere umano e il
dovere di proteggere la vita umana ritenuta inviolabile, dall’inizio alla fine del suo sviluppo:
uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, vita come dono e sottratta alle scelte individuali; si
rivolge ai credenti appellandosi alla fede e per ciò è accusata di confessionalismo, fideismo e
dogmatismo. La bioetica cattolica è confessionale, come qualsiasi altra bioetica religiosa ma NON
fideistica e dogmatica nella misura in cui elabora anche razionalmente i discorsi bioetici, non
essendo pertanto arazionale o irrazionale; non impone al credente una accettazione cieca e acritica
della verità, ma esiste una comprensione del significato della fede alla luce della ragione, che
illumini e rafforzi la fede. Non è altro che la prospettiva di chi, fondandosi su una possibile
giustificazione sul piano della ragione, parte dall’esistenza di Dio e fonda la spiegazione dei
principi e dei valori bioetici. Tutte le creature sono regolate dalla legge eterna; l’uomo, quale
essere dotato di ragione, partecipa al piano sapienziale divino mediante l’intelletto, dunque, di
principio, è in grado di cogliere la verità nella natura. La ragione, partendo dall’osservazione
delle tendenze naturali dell’uomo – conservazione, riproduzione, conoscenza della verità e del
vivere in società – traduce e interpreta le regole della condotta che prescrivono il conseguimento dei
fini: bene (dovere) è ciò che è in accordo con i fini della natura, voluti da Dio; male, (proibito) è ciò
che è difforme dai fini della natura.
- un ulteriore livello di significato di bioetica “cattolica” è quello che viene attribuito ad ogni
riflessione bioetica che difende su basi razionali la vita dell’essere umano, dall’inizio alla fine
del suo sviluppo. Significato, questo, improprio: le prospettive che riconoscono la dignità intrinseca
della vita umana sulla base di argomentazioni filosofiche e razionali(come la bioetica personalista)
non dovrebbero dirsi “cattoliche”, ma semmai “laiche” nel significato originario dell’aggettivo,
ossia razionali. La posizione di chi riconosce la vita umana come un valore non è cattolica ma
ANCHE cattolica: è la posizione di chiunque, credente o meno, ritenga che esistano argomentazioni
razionali condivisibili che giustifichino la dignità intrinseca della vita umana. In questo senso la
bioetica è “laica” nel senso di razionale: laico non è colui che afferma l’ipotesi di Dio, né colui che
nega l’ipotesi di Dio, ma colui che ragiona “come se Dio non fosse”, ossia mettendo tra
parentesi l’esistenza o la non esistenza di Dio, non pronunciandosi su di essa. Posizione ,questa,
di chi vuole elaborare un’etica filosofica e non teologica o religiosa, in questo senso la bioetica laica
coincide con la bioetica filosofica: la ragione ha un compito rilevante che non è quello
dell’imposizione dogmatica della verità, né quello della rinuncia scettica e relativistica ella verità
ma il compito della ricerca di una verità comune, nella consapevolezza che, data la finitezza e
limitatezza dell’uomo, “LA”verità compiuta e definitiva non sarà mai conosciuta nella sua
totalità, nella fiducia in un avvicinamento alla verità che possa aiutare a cogliere significati e
valori condivisi e condivisibili. La bioetica laica è la posizione di chi non intende né frenare né
esaltare la tecno scienza, ma asserisce che sia filosoficamente e razionalmente giustificata
l’esigenza che ogni uomo sia rispettato in quanto uomo, in ogni fase della sua vita. È importante
nella discussione bioetica andare oltre le aggettivazioni “cattolica” ”laica” e comprenderne i
significati: il problema è che la bioetica che si definisce laica, non si riferisce al significato
groziano (grozio era un giusnaturalista), ma indica una prospettiva diversa, precisamente che
nell’orizzonte antimetafisico e non-cognitivista (ritenendo che non esista una verità oggettiva oltre i
fatti) nega che la vita sia un bene oggettivo in sé e per sé e afferma che la vita abbia un valore prima
facie, dunque possa essere un valore, ove tale possibilità e intensità assiologia dipende
dall’attribuzione o conferimento da parte dell’uomo in base a circostanze. Questa non dovrebbe
dirsi, propriamente, bioetica laica ma piuttosto bioetica della “qualità della vita”, ritenendo che dalla
vita, propria e altrui, sia possibile disporre sulla base di scelte individuali al fine di migliorarne la
qualità.
BIOETICA, DEONTOLOGIA E BIODIRITTO. Per deontologia si intende un’etica speciale,
che ha per destinatari i soggetti che esercitano determinate professioni e solo nei limiti in cui le
esercitano: essa regola pertanto il buon esercizio delle attività professionali. Gli ordinamenti
deontologici maturano nel corso del 1800, nel caso della medicina però, il consolidarsi di norme
deontologiche si fa risalire all’epoca classica, trovando espressione nel celebre Giuramento di
Ippocrate che risale al V secolo a.C. La deontologia per molto è considerata un’etica di secondo
grado, di valenza marginale, dotata di scarsa dignità intrinseca; talvolta le norme deontologiche
sono state considerate mere indicazioni di comportamento per professionisti. L’errore di tale visione
riduttiva della deontologia sta in questo, nel ritenere che l’etica possa governare tutte le azioni e
tutti i comportamento umani con norme generalissime, non necessariamente calibrate sulle singole
forme di pratica sociale in cui può trovarsi ad operare l’individuo. La deontologia fa invece
esattamente questo: prende sul serio le particolarità delle singole professioni mostrando che oltre ad
una dimensione tecnica esse possiedono una dimensione di valore , che crea problemi morali e
giustifica la costruzione , da parte di singoli operatori professionali,. Di un insieme di specifiche
norme di condotta. In questa prospettiva, la deontologia è un insieme di norme elaborate dai
professionisti. La crescente complessità delle società avanzate e il conseguente complicarsi delle
pratiche professionali hanno resa opportuna una codificazione della deontologia, con tutti i rischi
che ciò comporta, primo tra tutti quello dell’assimilazione della deontologia stessa più al diritto
positivo che all’etica. Il Giuramento di Ippocrate mantiene ancora oggi un fascino irriducibile per
tutti i medici di ogni cultura e costituisce il prototipo di tutta una serie di ulteriori giuramenti tra cui
va ricordato quello promosso dall’Associazione Medica Mondiale (AMM), il c.d. giuramento di
Ginevra correlato al tema dei diritti umani proclamati solennemente nella Dichiarazione Universale
adottata dalle Nazioni Unite. Successivamente ci fu il Codice Internazionale di Etica Medica. Il
Codice di deontologia medica italiano, esige che i medici giurino di osservare le norme
deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultano in
contrasto con gli scopi della loro professione. Si ipotizza quindi la possibilità che i medici
percepiscano un contrasto tra i doveri legali, cui sono soggetti come tutti gli altri cittadini, e gli
specifici doveri deontologici che conseguono all’aver abbracciato la professione medica e all’aver
prestato il relativo giuramento. In concreto al medico, si offre la possibilità di disattendere la
legge dello Stato, avanzare obiezione di coscienza, far prevalere le specifiche ragioni etiche
della sua professionalità rispetto alle contrastanti pretese del diritti positivo. In alcuni, pochi casi
(es. l’aborto) l’obiezione addirittura può ricevere un riconoscimento legale: ma si tratta di ipotesi
del tutto eccezionali. La Costituzione italiana, riconoscendo l’autonomia delle arti e delle scienze,
stabilisce implicitamente l’illegittimità di ogni legge ordinaria che attenti a tale autonomia,
anche sotto il profilo deontologico. In questo senso è auspicabile che nella società civile il rispetto
per l’autonomia deontologica dei professionisti, cresca, si diffondi e si consolidi.
La deontologia delle professioni sanitarie è si un’etica di carattere particolare, attinente
alla specificità delle prassi professionali, ma è pur sempre un’etica e solo in quanto tale va pensata e
giustificata e non può essere ridotta ad ambiti burocratico-formali, istituzionalmente freddi. Le
professioni sanitarie hanno un forte carattere etico in quanto si estrinsecano in una relazione
interpersonale. In nessun altra professione la dimensione relazionale, quella che si manifesta come
il “prendersi cura di” possiede un carattere così intimo e personale, come in quella medica e
infermieristica. C.d. caring relationships. Quella delle professioni sanitarie però, possiede una
valenza che va ben al di là della logica dei “buoni sentimenti”, che sono un’ottima cosa se posseduti
da medici e infermieri ma appaiono dotati di un carattere più psicologico che etico. In questa logica,
la persona scompare e resta solo un corpo; scompare il malato e resta solo la malattia. Nella
prospettiva del dominio della tecnica, la malattia non è un male in sé, bensì una diversa modalità
biologica di funzionamento dei corpi, che i medici possono fronteggiare, come usualmente fanno, in
chiave diagnostico-terapeutica, che gli infermieri sono chiamati a gestire in chiave assistenziale ma
che in linea di principio potrebbero e posssono gestire in chiave non terapeutica (come il caso della
medicina estetica o comunque le pratiche sanitarie di riabilitazione fisica). La richiesta che il
paziente rivolte al medico e all’infermiere perché lo curino e lo accudiscono non è una semplice
richiesta di simpatia e affetto, né è la richiesta di una specifica prestazione tecnico-professionale: è
l’una e l’altra cosa. Ciò che la prossimità del medico e dell’infermiere può dare al malato è la
certezza che la malattia non solo non gli toglie dignità, ma non toglie senso alla sua esperienza di
vita; l’aggredisce, la ferisce, a volte la deforma ma non la sopprime. La deontologia si manifesta
come forma purissima di bioetica, intesa come prospettiva che attribuisce alla vita umana un
senso, più che un valore. Il valore, infatti, come ci insegna l’economia, può essere calcolato e al
limite azzerato; il senso, invece, non tollera né calcoli né valutazioni; è semplicemente l’orizzonte
all’interno del quale ci è dato vivere: ed è per questo che la difesa di questo orizzonte e la difesa
della vita sono sostanzialmente la stessa cosa.
Il legame tra bioetica e deontologia si mostra come necessario ma non sufficiente. La
deontologia è indispensabile in bioetica per bilanciare le asimmetrie tra operatori sanitari e medici
ed esortare gli operatori sanitari ad agire per il bene del malato. L bioetica pone problemi
all’intera società che esige un normazione, ovvero l’intervento del diritto – biodiritto, dovuto
all’emergere dell’esigenza sempre più avvertita nella società attuale di una regolamentazione
giuridica delle pratiche biomediche. Vi è l’urgenza di REGOLE che disciplinino decisioni e
comportamenti umani a livello sociale, nel contesto dell’avanzamento delle conoscenze
scientifiche. Il biodiritto affronta i problemi bioetici con un approccio e una prospettiva
giuridica, senza proporre orientamenti assiologici alla coscienza per una condotta che realizzi il
bene massimo, limitandosi a prescrivere in modo vincolante i comportamenti per garantire la
convivenza sociale. Vi si lamenta però dell’assenza o comunque di un ritardo del biodiritto,
evidenziando un “vuoto giuridico”. RAGIONI DEL RITARDO:

 asincronia tra rapidità e dinamicità del progresso tecno-scientifico biomedico e


lentezza del diritto oltre che rigidità delle procedure di produzione normativa.
 prudenza, nel timore che determinate scelte possano provocare effetti imprevedibili e
irreversibili.
 A causa della pluralità di teorie biogiuridiche, ossia di modi di intendere il diritto e
dunque la funzione del diritto in bioetica. Necessità, a volte, d’individuare categorie
giuridiche nuove per definire e classificare fenomeni che fuoriescono dall’ambito
usuale di analisi con la riformulazione di nuovi diritti e soggetti giuridici

DIVERSI MODI DI INTEDERE IL DIRITTO.

Teorie del diritto nel biodiritto. Astensionismo – affermazione della libertà individuale
nelle questioni bioetiche. L’intervento pubblico del diritto è percepito come un’ingerenza che
opprime ed interferisce indebitamente con l’autonomia soggettiva. Si tratta di un modello di
pensiero che chiede uno “spazio libero dal diritto” manifestando l’esigenza che si possa esprimere,
nelle scelte che riguardano la vita e la morte, la salute e la malattia, la libertà “privata” della
coscienza individuale, senza alcuna imposizione coercitiva esterna. È il movimento di pensiero noto
come “Hill” ossia “higly inappropriate legislation”, che ritiene che le legislazioni in bioetica, in
qualsiasi modo siano formulate, non possono risultare “altamente inadeguate” ed “inappropriate” in
quanto inevitabilmente generiche rispetto alle specifiche esigenze individuali, incapaci di
rispondere alla estrema variabilità ed inconciliabilità dei bisogni molteplici soggettivi. Il modello
astensionista ritiene opportuno non legiferare in bioetica o comunque depenalizzare le
eventuali leggi esistenti, preferendo alle leggi le regolamentazioni dei codici deontologici o le
deliberazioni dei comitati etici, quali modalità normative indirette e flessibili, che fanno
coincidere la responsabilità con l’autocontrollo di una comunità o l’autodisciplina dei singoli
soggetti. Propone la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto, con la conseguente
PRIVATIZZAZIONE DELLE SCELTE. È il modello che propone la degiuridicizzazione in
bioetica, ossia la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto pubblico.
Modello liberale – chiede l’intervento del diritto in bioetica con la funzione di garantire la
libertà, intesa come autonomia o autodeterminazione individuale. È il modello che chiede al
biodiritto di potenziare la libertà soggettiva, amplificandola con la moltiplicazione delle possibilità
di scelta. Secondo questo paradigma i “diritti morali” attengono alla sfera di autonomia delle scelte
bioetiche rispetto alla quali il diritto positivo (ossia il diritto giuridico posto in essere dal legislatore)
non deve interferire se non proteggendo le condizioni esteriori che consentano alla libertà di
manifestarsi concretamente, abolendo gli impedimenti e procurando i mezzi per la traduzione
in comportamento. Il biodiritto liberale è chiamato a riconoscere il pluralismo etico senza
prendere posizione a favore o a sfavore di nessuna modalità, affinchè il singolo sia libero di
esprimere una opzione individuale. I “diritti giuridici” (identificati con il diritto positivo) hanno
un ruolo ridotto in bioetica, essendo l’agire umano affidato alle decisioni morali private degli
individui piuttosto che all’intervento pubblico della legge. Si ritiene indispensabile che la morale si
esprima nell’ambito della sfera privata, riconoscendo che l’altro possa fare ciò che vuole. Solo nella
misura in cui vi sia un fondato timore per eventuali rischi sulle conseguenze imprevedibili di
determinate scelte, sono ammesse regole temporanee, stabilite di volta in volta, utili a tamponare le
emergenze sociali, rivedibili ed eliminabili, se non necessarie.

Modello formalistico – tende a ridurre il diritto a una traduzione normativa della volontà
politica, facendo coincidere il biodiritto con la biopolitica. Il biogiurista ha la funzione di
registrare le decisioni espresse in sede politica, limitandosi a tradurle positivamente, determinando
la struttura formale, verificando la conformità, la coerenza e la compatibilità normativa, secondo i
parametri della certezza e della correttezza tecnica. Il biodiritto assume il ruolo di formalizzazione
delle decisioni politiche, delimitando il compito del diritto alla verifica della validità della
norma.
Modello procedurale – il biodiritto ha la funzione di difendere l’etica convenzionale pubblica, che
fissa per tutti le procedure, pubblicamente concordate, per la gestione e la negoziazione dei conflitti
sociali. Il diritto ha il compito di fissare le procedure pubbliche per la gestione dei conflitti
sociali. Si tratta di procedure che una volta concordate rimangono vincolanti per tutti e
possono essere modificate in funzione dell’emergere di nuovi orientamenti. Sono scelte
mediante l’accordo politico che scaturisce dalla dialettica democratica. Secondo tale modello, il
diritto in bioetica registra l’accordo tra le parti, manifestato nelle scelte della maggioranza; il
criterio democratico diviene criterio giuridico – formale per la procedura della normazione bioetica.
Modello contestuale – propone in biogiuridica il ragionamento per contesti. Le regole raccolgono
bisogni, esigenze e valutazioni che nascono in ambito extragiuridico, detto ciò, il compito del diritto
in bioetica è identificabile nella ricerca di ragionamenti che non pretendano di orientare e non si
limitano a registrare le scelte diffuse: il biogiurista è chiamato a partecipare attivamente al processo
di ricerca del consenso, non dovendo intervenire né prima nelle discussioni né dopo raccogliendo i
frutti dei dibattiti. Il giurista non ha il compito né di produrre nuove norme né di accogliere i valori
esistenti, ma di filtrare le esigenze sociali con le considerazioni di fattibilità e compatibilità della
regola giuridica, utilizzando alcune procedure o metodologie giuridiche(es. approccio per contesti)
Modello sociologico – fattuale – ritiene che il biodiritto coincida con l’azione sociale, con le
decisioni dei tribunali o con le previsioni di ciò che i tribunali effettivamente decideranno. In
questa prospettiva il diritto è la registrazione della prassi attraverso la percezione del
comportamento ripetuto, nel tempo e diffuso, nello spazio, in una determinata società e delle
esigenze comunemente avvertite nel convivere collettivo. Il diritto si identifica con ciò che è
deciso dai giudici o con ciò che si ipotizza possa essere deciso dai giudici in futuro. Il biodiritto
si limita o a prendere atto passivamente del comportamento della maggioranza dei consociati o
registrare le decisioni giudiziali.

Differenze tra i modelli analizzati:


- astensionista – degiuridicizzazione in bioetica
- liberale, formalistico, procedurale, contestuale e sociologico – si orientano invece verso una
giuridicizzazione della bioetica.
Si tratta di modi di intendere il diritto fermandosi alla rilevazione di “come” sono le norme, in modo
acritico, limitandosi ad esprimere giudizi di fatto, registrazioni dell’esistente senza mai pronunciare
giudizi di valore: c.d. diritto senza verità, ossia il diritto neutrale. Il diritto si riduce a un mero
recipiente, riempibile di qualsiasi contenuto o valore, in funzione della volontà individuale o
politica, dell’agire sociale o giudiziale. Il biodiritto assume una configurazione polivalente per
esigenze di volontà o scopi pratici immediati.
Biogiuridica, giustizia e diritti umani. La filosofia del diritto, nel contesto del dibattito
biogiuridico attuale, svolge un ruolo critico nel mettere in evidenza le contraddizioni del
relativismo, identificabili nel falso ed ambiguo appello alla neutralità; un ruolo propositivo nel
mostrare che l’alternativa al relativismo(quale negazione della esistenza e conoscibilità della verità)
non è il dogmatismo (affermazione definitiva e assoluta della conoscenza della verità). Il diritto, o
meglio la riflessione fenomenologico-strutturale sul senso costitutivo del diritto, mostra la
possibilità di una via intermedia individuabile nel riconoscimento razionale dell’esigenza
costitutivamente umana della coesistenza e della relazionalità intersoggettiva, quale riconoscimento
condivisibile etico “minimo” da parte di tutti gli uomini. La riflessione sul diritto consente di
comprendere che il diritto può trovare l’etica dentro di sé, al suo interno; è chiamato a rendere
ragione fino in fondo del significato interno del diritto stesso, quale strumento volto alla difesa della
coesistenza umana e della dignità di ogni uomo, quale presupposto e condizione di possibilità
strutturale della esistenza e coesistenza umana. Nel diritto è importante recuperare la
consapevolezza che esso non può divenire mero strumento asservito alla volontà di chi è più forte e
non può limitarsi alla registrazione della pressi; la sua funzione non può essere solo formale ed
empirica: il giurista per quanto intenda essere neutrale nell’ambito della società plurale
postmoderna non può essere indifferente rispetto alla valutazione sostanziale del diritto, almeno ad
una valutazione sostanziale minima che riconosca la valenza etica del diritto nella difesa della
dignità oggettiva dell’essere umano. Il diritto struttura in modo specifico la propria analisi a partire
dalla tematizzazione del criterio di giustizia, quale esigenza intrinseca al diritto, sostanziata nel
principio di uguaglianza, simmetria e reciprocità. Appellarsi al principio di uguaglianza significa
ritenere che ogni uomo, per il solo fatto di essere uomo, non può divenire oggetto di
discriminazione, ma deve essere trattato come soggetto avente una forte dignità a prescindere ad
altre considerazioni relative all’appartenenza politica, religiosa culturale e dunque anche
relativamente alla fase di sviluppo psico-fisica che raggiunge. Il principio di uguaglianza si radica
nell’essere dell’uomo, indipendentemente dal suo agire: il diritto riconosce all’uomo una dignità
speciale e sostanziale in forza della sua appartenenza al genere umano in vista della salvaguarda
della sua identità antropologica, essendo la dignità un dato naturale da riconoscere non una
qualificazione da attribuire o conferire. Il diritto è condizione di possibilità e di pensabilità della
relazionalità universale, della compossibilità delle libertà. Il biogiurista:

 è chiamato a difendere, attraverso il diritto, la dignità dell’essere umano come bene


indisponibile, proibendo ogni forma di strumentalizzazione del corpo umano e violazione
della vita umana nella consapevolezza che la vita umana è degna perché l’uomo e l’unico
soggetto naturale capace di identificare, di dire di se stesso io e di riconoscere
relazionalmente l’altro come un tu.
 è chiamato ad entrare nel merito del contenuto delle singole norme giuridiche esistenti,
allo scopo di esprimere una valutazione critica sul diritto vigente, interrogandosi sulla
conformità di esso (leggi,sentenze,regole) rispetto alle spettanze obiettive della natura
umana;
 ha il compito di ricercare nuovi modi di positivazzare le spettanze obiettive dell’umano nel
momento della formulazione ed elaborazione di regole giuridiche, nella continua, dinamica
ed interminabile ricerca di esplicitazione della normatività dalla natura, garantendo all’uomo
le condizioni per attuare pienamente la propria dignità, a partire dalla tutela genera della
integrità fisica.
Il biodiritto è chiamato a ritematizzare la soggettività giuridica umana, mostrando la
necessità che tutti i soggetti umani godono di un’uguale tutela giuridica, anche coloro che per
motivi accidentali o provvisori, non ontologici non sono in gradi di gestire in atto determinate
capacità o le gestiscono debolmente, divenendo dunque particolarmente vulnerabili e fragili di
fronte alle pressioni dell’avanzamento del progresso biotecnologico. Si tratta di richiamare e
attualizzare la dottrina dei diritti umani di fronte alle nuove possibilità di manipolazione e di
intervento sperimentale non terapeutico. In questo senso, la funzione del diritto e del biodiritto,
ha anche una valenza educativa: non solo alla “legalità” ma anche e soprattutto alla “legittimità”
nell’acquisizione della consapevolezza che non tutto ciò che è legale o deciso dai giudici è anche
legittimo. Il giurista non solo deve possedere una consapevolezza critica nei confronti del diritto
vigente e del diritto sociale, ma ha anche il compito di formare l’opinione pubblica alla
consapevolezza critica: a non accontentarsi di conoscere “come” il diritto ma esigere la
comprensione del “perchè” del diritto, delle ragioni delle leggi e delle sentenze. Il problema di
fondo che la filosofia del diritto è chiamata a mettere in luce è che la legiferazione o normazione
non è detto che risolva i problemi e tanto meno che pacifichi i conflitti sociali. Non ci si deve
limitare ad invocare una legge, quale essa sia, purchè legge; ad invocare l’intervento del
giudice, pur di risolvere problematiche e conflitti: ma bisogna auspicare e promuovere
l’emanazione di leggi giuste e legittime, di decisioni giudiziali ragionevoli e corrispondenti al
senso della giuridicità. Di fronte al pluralismo etico, il compito della biogiuridica è quello di
ricercare nel contesto della pluralità di valori, gli elementi comuni ed accomunanti gli uomini
nel riconoscimento della difesa e promozione della dignità umana. L’auspicio è che la
biogiuridica possa trovare una legiferazione giusta in bioetica, nell’ambito di una integrazione
giuridica europea e internazionale. Ci si è sempre più resi conto che l’elaborazione del biodiritto,
chiuso nell’ambito di nazione di appartenenza, tende sempre più a implementare il fenomeno del
“turismo bioetico”(ciò che è vietato in un Paese è o può essere permesso in un altro); inoltre la
stessa elaborazione del biodiritto all’interno di una concezione giuridica particolare può essere
smentita o contrastata da una concezione diversa. Si tratta di individuare principi giuridici
comuni che possano costituire un biodiritto che, seppur rispettando la specificità politica, la
diversità culturale e la eterogeneità etica sia estensibile universalmente, in senso
transnazionale ed interculturale. Il limite del diritto è “l’estrinsecismo”:
- il diritto si limita a coordinare le azioni sociali per evitare conflitti e superare
controversie, ma non entra né può entrare nella sfera dell’interiorità e della
relazionalità interpersonale;
- il diritto si limita a elaborare le regole della convivenza ma non prescrive né può
prescrivere le vie per l’attuazione piena dell’uomo, per il perfezionamento della
coscienza, per il rispetto compiuto della dignità propria e altrui
- Il diritto stabilisce, freddamente, l’uguaglianza la simmetria e la reciprocità
Compito della biogiuridica è tradurre il bene umano(oggetto della bioetica) in bene giuridico,
elaborando adeguate regole di traduzione-trasformazione. In questo senso biodiritto e bioetica sono
due sistemi retti da due codici binari diversi: bioetica bene/male, biodiritto giusto/ingiusto. La
biogiuridica, benché necessaria per il convivere sociale, in alcuni momenti cede il passo alla
bioetica e rimanda alla riflessione morale, in quanto, sulla base delle proprie categorie, non è in
grado e non può riuscire a gestire alcune situazioni. La bioetica e la biogiuridica sono momento di
riflessione necessaria, ma nessuno completamente autonomo e indipendente dall’altro: la
biogiuridica non può fare a meno della bioetica, come la bioetica non può prescindere dalla
biogiuridica. “Il biodiritto senza la bioetica è cieco” e “la bioetica senza il diritto risulta
vuota”: la biogirudica ha bisogno della bioetica, della riflessione critica e delle sollecitazioni
etiche alla considerazione materiale e sostanziale dei problemi, altrimenti rischierebbe di
ridursi ai mini termini, a mera regolamentazione astratta; anche la bioetica sarebbe vuota
senza il biodiritto, rischiando di rimanere chiusa nella riflessione speculativa, senza la
capacità di risolvere problemi e conflitti sociali e di informare la giurisprudenza, la
legislazione e la dottrina.
BIOETICA ALL’INIZIO DELLA VITA UMANA – statuto dell’embrione umano. Il dibattito
bioetico sullo statuto dell’embrione umano è emerso in seguito alle recenti possibilità di
manipolazione della fase iniziale della vita del’essere umano:
-possibilità di produzione in vitro di embrioni mediante fecondazione assistita
-possibilità di congelare gli embrioni per la loro conservazione
-possibilità di diagnosticare precocemente eventuali patologi ed intervenire per modificare il
patrimonio genetico
-possibilità di trasferimento degli embrioni nell’utero della madre biologica o surrogata
-possibilità di condonazione di embrioni
L’attuazione o l’attuabilità futura di tali pratiche solleva interrogativi che rimandano ad un
chiarimento sullo statuto del nascituro; vi sono due linee di pensiero:
1. quella che nega la dignità intrinseca al concepito
2. quella che giustifica una dignità intrinseca all’embrione umano

1. A partire da una concezione neopositivista della conoscenza – che riduce la ragione umana a
razionalità empirica, strumentale e calcolante, che subordina la verità alla verificazione fattuale –
l’embrione umano è ridotto a mero dato oggettuale, ossia a materia organica con uno sviluppo
estrinsecamente più o meno probabile: la ragione non è in grado di leggere nell’embrione alcun
segno della sua rilevanza antropologica, ossia della sua identità personale, nessuna indicazione
della sua rilevanza etica e giuridica, ossia della sua dignità e soggettività giuridica. Fin
dall’inizio, l’embrione è considerato una mera cellula appartenente alla specie umana che si
forma casualmente e si moltiplica. Il mero fatto dell’esistenza materiale della vita biologica di
un embrione non giustifica l’obbligatorietà di alcun comportamento sul piano assiologico e
normativo: lo sbarramento esplicitato dalla legge di Hume tra i fatti e valori/diritti, tra essere e
dover essere, impedisce la considerazione ontologica del nascituro come soggetto e persona.
L’embrione non è “ancora” soggetto ma lo diviene in qualche momento di sviluppo successivo,
delineando diversi “confini” dell’inizio della persona, posticipati rispetto all’inizio biologico della
vita dell’essere umano.

 I CONFINE – fecondazione. È un processo dinamico e complesso che si svolge nel tempo


(18-35 h) dal momento della penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo sino allo stadio di
singamia (ossia il momento della completa fusione di tutti i cromosomi delle cellule
germinali). La teoria della singamia ritiene che l’essere umano non sia già bio-
geneticamente costituito al momento della penetrazione del gamete maschile nel gamete
femminile ma che si possa considerare l’essere umano un soggetto solo dal momento della
completa fusione dei gameti e dei rispettivi pronuclei. Tale teoria è stata criticata sulla
base del fatto che già al momento della penetrazione le membrane delle rispettive cellule si
aprono e mettono in comune il materiale genetico.
 II CONFINE – annidamento della parete uterina del corpo materno, momento nel quale si
instaura una interrelazione cellulare. In tale prospettiva, l’embrione umano prima
dell’impianto sarebbe un mero insieme di cellule, un essere con sola vita organica
appartenente alla specie biologicamente umana. Solo con l’impianto, dunque, si
costituirebbe l’essere umano individuale relazionato. Tale teoria è stata criticata :
o Sul piano scientifico, poiché è stato rilevato che già prima dell’impianto si instaura
una relazione biochimica tra l’embrione e la madre;
o Sul piano filosofico, è stato osservato come la relazione, pur essendo un elemento
indispensabile per lo sviluppo embrionale, non costituisce l’essere, bensì ne
presupponga l’esistenza.
 III CONFINE – formazione della stria primitiva(14° gg dalla fecondazione). È stato
rilevato che il concetto di individualità (intesa come impossibilità di divisione) non sia
predicabile nell’embrione umano a causa dei fenomeni della gemellazione monozigotica e
fusione chimerica: secondo questa teoria possiamo risalire alla nostra identità genetica dal
momento della fecondazione ma non possiamo risalire all’identità individuale in quanto,
prima di tale data, può accedere che un individuo diventi due individui e che due individui
divengano uno solo. Vi sono tuttavia delle lacune nelle conclusioni che evidenziano
l’inaccettabilità delle premesse: il fenomeno della gemellazione è spiegabile anche senza
negare l’individualità poiché questa non significa divisione bensì duplicazione di un
individuo in due o più individui. In tal senso è l’individuo che dà origine ad un altro
individui, che da quel momento inizia un processo vitale con un patrimonio genetico
identico.
 IV CONFINE – formazione del sistema nervoso centrale. (teoria utilitarista) Viene
identificato nella teoria utilitaristica che considera quale elemento costitutivo per
l‘attribuzione dello statuto personale ad un soggetto, la capacità di avere interessi. L’inizio
della persona è identificato con l’inizio della sensitività, ossia della capacità percettiva di
desiderare e preferire la massimizzazione del piacere la minimizzazione del dolore: sono
esclusi dallo statuto personale tutti quei soggetti che non sono dotati di percettività o che,
pur essendone dotati, soffrono troppo o fanno soffrire gli altri; in tal senso la loro vita non
merita di essere vissuta.
 Altri autori identificano l’inizio della soggettività personale nella fase della formazione
della corteccia cerebrale. Si tratta di una visione razionalista della persona che ritiene
indispensabile l’accertamento della presenza delle condizioni neurologiche che consentano
lo sviluppo organico dell’intelligenza. Nascita del soggetto umano, dunque, con la
rilevazione dell’attività corticale.
 C’è chi teorizza l’imprescindibilità della ragione, intesa quale esercizio effettivo, per la
definizione della persona. Tale teoria esclude dallo statuto personale oltre l’embrione anche
il feto, il neonato, il minore e finisce con l’identificare la persona al momento
dell’acquisizione dell’autocoscienza, della manifestazione della capacità di intellezione e di
autodeterminazione, c.d. capacità di intedere, di volere e di valutare.
Entrambe le teorie (utilitarista e razionalista) hanno in comune l’identificare la soggettività
personale con la rilevazione esteriore delle condizioni o dell’esercizio effettivo di determinate
funzioni. Teoria, questa, criticata in quanto la presenza di una funzione (sensitiva, intellettiva) o
la presenza di condizioni per il suo esercizio, presuppone l’esistenza di un soggetto: è
l’esistenza del soggetto che rende possibile l’esercizio di certe funzioni, non l’esercizio delle
funzioni che costituisce l’esserci del soggetto. Le funzioni non sono IL soggetto ma sono
DEL soggetto; le funzioni non potrebbero esserci se non fossero manifestate da un soggetto in
grado di manifestarle. Il soggetto preesiste alle funzioni, ne è la condizione ontologica per la
loro estrinsecazione.
Tutte le teorie che ritengono l’embrione umano un aggregato di cellule privo della soggettività
persona sono criticabili su due piani, epistemologico e fisiologico:
- sul piano epistemologico, occorre ricorda che, se la scienza sperimentale si limita allo studio
quantitativo e mette tra parentesi le qualità e le essenze, ciò non significa ontologicamente che
la realtà (oggetto di osservazione scientifica) sia solo materia o meccanicismo, che cioè non
esistano qualità ed essenze. L’osservazione biologica del corpo umano nelle fasi iniziali di
sviluppo ci mostra la necessità di superare la spiegazione scientista e meccanicista e di
formulare ipotesi interpretative metabioligiche. Il corpo umano ha uno sviluppo continuo che
non ha salti di qualità o tappe che assumono una particolare significatività. Il salto di qualità è
all’inizio e alla fine del processo di sviluppo. Delle due, l’una: o tutte le fasi sono egualmente
importati o non lo è nessuna. Lo stesso Rapporto Warnock, afferma che è impossibile fissare
confini fattuali nel contesto dello sviluppo embrionale ma semmai ammette solo la possibilità di
fissare “confini convenzionali” per esigenze pragmatiche sociali. Se lo sviluppo è continuo,
l’embrione è già persona, in quanto pur non essendo ancora manifestate in atto tutte e al
massimo grado le proprietà, sono presente le condizioni che costituiscono il supporto necessario
del processo dinamico ininterrotto che consentirà l’attuazione di tali caratteri.

 Posizione tuzioristica. In una posizione intermedia sono coloro che, non volendosi
pronunciare in merito alla predicabilità della nozione di persona all’embrione, ritengono che
l’embrione vada comunque protetto e tutela sulla base della regola aurea: l’embrione
essendo un nostro simile, ed essendo, pertanto, destinato intrinsecamente a svilupparsi
in un essere umano completo, chiede l’impegno responsabile della nostra libertà. La
posizione tuzioristica è condivisa da chi ritiene che il valore della vita umana sia un bene
così alto che anche nel dubbio circa la riconoscibilità dello statuto personale, merita
comunque di essere rispettato. Nel dubbio che di un essere umano veramente si tratti, ci
si deve astenere da ogni intervento lesivo della sua integrità e della sua eventuale
dignità.
2. il riconoscimento, dell’embrione come persona giustifica la fondazione della dignità intrinseca in
senso forte. Lo statuto personale dell’embrione umano è considerato condizione necessaria e
sufficiente per mostrarne la valenza morale e la titolarità di diritti: se dunque la pienezza di vita
della persona è il fine intrinseco dell’uomo iscritto nell’embrione, già a tale stadio la vita umana
deve essere rispettata in senso forte, al fine di garantirne la piena espressione. In tal senso è fondato
il dovere assoluto e gerarchicamente proprietario del rispetto dell’embrione umano, quale
espressione della vita dell’essere umano, ove il rispetto va inteso in un duplice senso, sia
negativo (non intervenire in senso distruttivo) sia positivo (avere riguardo e cura per
l’embrione).
Tecnologie riproduttive. l’aumento della sterilità e dell’infertilità individuale e di coppia hanno
comportato una sempre più diffusa richiesta sociale di accesso alla procreazione medicalmente
assistita. Va fatta una distinzione tra “inseminazione assistita in vivo” (intra-corporea, ossia
l’inserimento del gamete maschile nel corpo della donna) e “fecondazione assistita in vitro”
(extra-corporea, ossia prelievo dei gameti, maschile e femminile e fecondazione in provetta, con
trasferimento di embrione nell’utero. C.d. FIVET).

 Le teorie favorevoli ad ogni liberalizzazione nell’accesso a tali tecniche ritengono


legittimo anche l’intervento invasivo e sostitutivo del medico rispetto all’atto unitivo
della coppia, appellandosi alla libertà procreativo e alla soddisfazione di un desiderio
diffuso.
 La prospettiva che pone al centro della riflessione bioetica la dignità intrinseca della
persona umana, ritiene, invece, che l’eccessiva tecnicizzazione e proceduaralizzazione
del nascere tendano sempre più a ridurre la procreazione ad un atto artificiale ed
impersonale.
 La Chiesa Cattolica si è espressa in modo esplicito ritenendo illegittima la fecondazione
extracorporea a causa della invadenza della tecnica rispetto alla naturalità dell’atto
generativo umano e legittima l’inseminazione artificiale intra-corporea in quanto
l’intervento del medico è considerato un aiuto terapeutico per facilitare e completare
l’atto sessuale. Il medico interviene in modo ausiliare rispetto al concepimento naturale.
Anche la fecondazione “intermedia” (o GIFT che prevede il prelievo di entrambi i
gameti e il trasferimento simultaneo e separato nelle tube, ove avviene la fecondazione)
è eticamente ammessa in quanto il concepimento avviene nel luogo naturale.
 I teorici della libertà procreativa, sono favorevoli a qualsiasi tecnologia, scelta
autonomamente in funzione dei propri interessi: si ritengono lecite e poste sullo stesso
piano, dal punto di vista bioetico, le tecnologie riproduttive nella fattispecie omologa
(con donazione di gameti all’interno della coppia richiedente) eterologa (con donazione
di uno o più gameti all’esterno della coppia), ritenendo che la moltiplicazione elle figure
genitoriali non costituisca un elemento eticamente problematico, nella misura in cui
venga garantito l’anonimato del donatore e ritenendo che comunque l’allargamento della
famiglia possa essere considerato una innovazione storico-sociale da accertare ed
accogliere positivamente.
 I sostenitori della liberalizzazione ritengono che l’accesso non debba essere subordinato
all’accertamento medico delle obiettive condizioni di sterilità o infertilità, poiché il
concepimento naturale e l’uso delle tecnologie riproduttive, sono messi sullo stesso
piano; la fecondazione assistita così diventa una alternativa ritenuta equivalente al
concepimento naturale. La scelta riproduttiva dipende non da fattori oggetti ma
soggettivi; anche donne sole e lesbiche, possono accedere alla fecondazione assistita
solo per scelta. A sostegno di tale prospettiva vi è il richiamo al fatto che è possibile,
anche a causa di eventi non voluti o di accadimenti accidentali, che un bambino cresca
con un solo genitore, senza che ciò comprometta la sua identificazione antropologica e
sociale; l’eterosessualità non è considerata un elemento indispensabile per una buona
identificazione del bambino, affermando che ciò che conta nella famiglia è l’amore e
l’affetto. Anche il fattore età (per la donna) non costituisce limite di accesso, in questa
prospettiva libertaria: donne in età avanzata hanno comunque diritto a vedere esaudito il
loro desidero di maternità. La presenza (vivente) di entrambi i genitori non è considerato
un fattore indispensabile. Anche la distinzione coppie di fatto e coppie sposate non
dovrebbe essere fatto
 Le teorizzazioni bioetiche che chiedono la liberalizzazione riconoscono come unico
limite l’accertamento del senso di responsabilità, ritenendo che non esista una prova
empirica di un eventuale danno per il nascituro(dovuto all’assenza di un genitore o alla
presenza di genitori omosessuali), affermando che sia meglio nascere con un genitore
solo o con genitori omosessuali piuttosto che non nascere.
 Nell’ambito della legittimazione della fecondazione eterologa, la prospettiva bioetica
d’ispirazione liberale-libertaria propende verso la garanzia dell’anonimato del donatore
Le uniche limitazioni generalmente ammesse alla scelta di donazione sono di carattere biomedico:
- selezione del donatore per ragioni sanitarie
- delimitazione del numero e della distanza temporale o geografica delle donazioni, per evitare
incesti
- si ritiene di dover proteggere la riservatezza di chi ha deciso di riprodursi mediante tali tecnologie,
non riconoscendo l’obbligo rivelare agli altri e al figlio le modalità della nascita.

CRITICHE E TUTELE DA PORRE:

 Mancanza di una adeguata responsabilità nei confronti del nascituro – se l’embrione è una
soggettività con potenzialità, ossia possibilità intrinseca di attuare pienamente i caratteri già
contenuto dal momento della fecondazione, la sua vita merita una adeguata protezione,
anche di fronte al comprensibile desiderio di avere un figlio. Desiderio riconosciuto ma
bilanciato con l’altrettanto desiderio di vivere, riconoscibile in ogni embrione umano. In
questo contesto, le tecnologie riproduttive sono considerate lecite in presenza di una serie di
condizioni a garanzia del nascituro:
o Accertamento della finalità terapeutica della richiesta (obbiettiva sterilità-
infertilità)
o Accertamento dell’impossibilità di rimuovere le cause impeditive del
concepimento e laddove altri metodi terapeutici risultino inefficaci
o Impedimento alla possibilità di dispersione di embrioni (gravidanze non giunte al
termine)
o Limitazione della produzione quantitativa di embrioni (produzione di embrioni
limitatamente al numero richiesto della coppia)
o Proibizione della riduzione di embrioni

 la tutela dell’embrione si esprime non solo nella garanzia delle condizioni di vita, ma anche
della protezione dalla famiglia nella quale si troverà a nascere. Si ritiene doveroso il
riconoscimento del diritto di colui che nascerà a conoscere le proprie origini genetiche.
 Si ritiene non accettabile, il fenomeno della monogenitorialità sociale, poiché porta alla
procreazione di un “orfano biologico” destinato, a causa di una scelta a priori e non per
sfortunate circostanza fattuali, a non avere un genitore. Anche il fenomeno della
bigenitorialità monosessuale è ritenuta inaccettabile, a causa della mancanza di una
differenziazione sessuale genitoriale rilevante per la costituzione dell’identità personale. La
situazione di genitorialità tardiva nell’ambito di fecondazione assistita di donne in
menopausa è ritenuta illecita a causa dell’eccessiva tecnicizzazione e medicalizzazione del
corpo femminile e a causa di un desiderio anacronistico, che può essere causa di gravi disagi
psichici, oltre di inevitabili disagi sociali.
 A tutela del nascituro emerge la necessità di difendere un modello di famiglia fondata sul
matrimonio, quale forma di relazione umana esclusiva interpersonale, tra un uomo e una
donna, che intendono unirsi in una comunione coniugale stabile di vita. È nell’ambito del
matrimonio e della famiglia che si coglie il luogo ove l’individuo identifica, mediante la
relazione con l’altro, il proprio ruolo infungibile ed insostituibile di marito o di moglie, di
padre o di madre, di figlio o di figlia, di fratello o di sorella. La famiglia è riconosciuta
quale comunità naturale, luogo originario della razionalità, sede naturale
dell’identificazione antropologica. È un’esigenza imprescindibile la bigenitorialità: due
genitori possono garantire le condizioni, oltre che per l’identificazione, anche per una
maggiore possibilità di assistenza e accadimento, oltre che di persistenza del dovere di cura.
Il biodiritto DEVE difendere la bigenitorialità eterosessuale: la dualità polare
maschile/femminile. La mancanza di una delle due figure comporta il rischio che il figlio
rimanga impigliato nel narcisismo parentale senza che si istauri quella progressiva
separazione che consente al nato di divenire sé. La bioetica della “responsabilità
procreativa” ritiene indispensabile la bigenitorialità eterosessuale omologa mediante
matrimonio, in quanto pone le condizioni della stabilità del nascituro.
 Ulteriore requisito a tutela della famiglia consiste nella delimitazione delle tecnologie alla
fecondazione omologa. La moltiplicazione delle figure genitoriali, nel caso di donazione
eterologa del gamete maschile, determina una asimmetria nella coppia: solo la madre ha un
vincolo genetico, mentre il padre, pur non avendolo, lo ritiene così irrinunciabile da
acconsentire di essere sostituito da un donatore. Se pur inizialmente la situazione pare essere
accettata dalla coppia, spesso il padre, poi, tende a vivere la donazione di gamete come un
“adulterio biologico” avvertendo anche un sentimento di rivalità e competizione nei
confronti del donatore. Ciò può ripercuotersi negativamente sull’identificazione bio-psichica
del nascituro, oltre che sulla stabilità del legame familiare.
MATERNITA’ SURROGATA ED ECTOGENESI. La prima consiste nella possibilità che una
donna offra (gratuitamente) o affitti (con remunerazione) il proprio utero per la gestazione di uno o
più embrioni: è la madre surrogata. Madre portante invece è il caso solo gestazionale, madre
sostitutiva invece è quella che dona il gamete e porta a gestazione l’embrione. La seconda consiste
nella possibilità di costruire un utero artificiale che ospiti la gestazione extracorporea dell’embrione.
Maternità surrogata. Gli argomenti addotti a sostegno della maternità surrogata si muovono su
due piani:
- maturità surrogata come atto gratuito: I sostenitori di questa ne rivendicano la legittimità
appellandosi alla generosità e all’altruismo filantropico della donazione della maternità gestazionale
- maturità surrogata retribuita: I sostenitori di questa si richiamano alla autonomia della donna nella
gestione e alla disponibilità sul proprio corpo, quale modalità per una parificazione della funzione
della donna rispetto all’uomo (come esiste il donatore di seme, deve esistere una madre donatrice di
gamete).

La difesa della libertà procreativa della madre surrogata non tiene adeguatamente conto degli
interessi del nascituro. La maternità surrogata determina inevitabilmente una proceduralizzazione
ulteriore del nascere che diviene sempre più un fatto spersonalizzato: oltre alla scissione tra
sessualità e procreazione, si introduce anche la separazione tra procreazione e gestazione, che
diviene il risultato di un accordo tra le parti. Si aggiunge una madre, una madre uterina o gestativa
oltre a quella sociale e a quella genetica, e la frantumazione della figura materna comporta una
serie di conseguenze che ricadono su diversi soggetti:
- sul nascituro, che vivrebbe l’abbandono della madre gestazionale e si troverebbe in una
situazione confusa con più figure di riferimento nel suo processo di identificazione
- sulla madre surrogata, dato il forte legame psico-fisico con il feto e l’inevitabile trauma del
distacco.
- sulla madre sociale, per il possibile conflitto con la madre portatrice che, oltre a poter rescindere
il contratto durante o dopo il parto, potrebbe anche esigere una totale libertà di comportamento con
conseguenze negative sulla salute del nascituro (che potrebbero mettere a rischio la gravidanza) e
potrebbe sempre rappresentare una minaccia di interferenza, dopo la nascita. Sul piano psicologico
e pedagogico(casi in cui la donatrice sia parente o amica della madre sociale).
Il biodiritto è tenuto a garantire la certezza della maternità al nascituro: l’unico modo è
riconoscere la maternità a colei che partorisce: un contratto tra coppia committente e donna che
presta l’utero non darebbe mai garanzie; la donna surrogante potrebbe non rispettare il patto e la
donna che stipulato il contratto non è mai sufficientemente tutelata. Infine,anche se gratuito, il gesto
di donazione dell’utero espone sempre la donna al rischio della strumentalizzazione e
mercificazione del corpo femminile ridotto a “recipiente” o “contenitore”. All’interno dello stesso
femminismo si sono sollevate voci in forte contrasto con la maternità surrogata, avvertendo
nell’invadenza tecnologica biomedica il rischio di medicalizzazione eccessiva, di artificializzazione
e di reificazione del corpo femminile.

Ectogenesi. Essa, analogamente alla maternità surrogata, scinde la gestazione dalla procreazione,
introducendo una ulteriore artificializzazione. L’ectogenesi riguarda le possibili future tecnlogie di
gravidanza extracorporea in un utero artificiale: va distinta :
- l’ectogenesi parziale o tardiva che interverrebbe dopo una prima fase di vita intrauterina,
precisamente dal momento in cui il feto ha il cordone ombelicale da applicare a macchinari capaci
di nutrire, ossigenare e depurare il sangue del feto;
- gestazione artificiale completa, dalla fecondazione al parto, che prevede la fabbricazione di uteri
come incubatrici meccaniche con una placenta artificiale, membrane e liquido amniotico surrogati
in modo da far sopravvivere un embrione e un feto fuori dal ventre materno, sostituendo
l’organismo materno nelle funzioni nutritive e di scambio.
Nonostante tale tecnologia non sia stata ancora concretamente realizzata, la bioetica già ne discute
la legittimità o illegittimità, riflettendo sulle problematiche relative alla disponibilità del corpo e
della sessualità, oltre alle implicazioni nell’ambito del rapporto uomo/donna, della famiglie e della
società in generale. I sostenitori della ectogenesi sostengono che sia giunta l’inaugurazione di
un’epoca che apre la possibilità di scelta tra maternità naturale e artificiale, garantendo una assoluta
autonomia riproduttiva della scelta individuale, in particolare della donna che percepisce la
maternità come un “giogo biologico” e vive la gravidanza come una schiavitù: consente di
realizzare concretamente una uguaglianza della donna rispetto all’uomo, potendo la donna
realizzare il proprio desiderio di avere n figlio senza il gravoso onere della gestazione. A
giustificazione della loro tesi, i sostenitori dell’ectogenesi fanno riferimento ai bambini che
nascono da gravidanze di donne in coma irreversibile o bambini adottati; adducono altresì la
possibilità di portare avanti gravidanze per donne che non hanno l’utero, senza fare ricorso a
maternità surrogate; la prevenzione di aborti spontanei non desiderati o anche desiderati; la
prevenzione di effetti nocivi sull’embrione di madri con comportamenti rischiosi; la possibilità di
controllare le diverse tappe di sviluppo del nascituro con la pianificazione anche di interventi
terapeutici. In quest’ambito, la gestazione intra-corporea rimarrebbe una scelta individuale solo per
donne che desiderino fare l’esperienza della gravidanza corporea naturale lasciando però la libertà
del corpo da costrizioni inevitabili. Indubbiamente la ectogenesi potrebbe rappresentare una
importante conquista per la tecno scienza biomedica nella misura in cui fosse considerata una
ipotesi terapeutica, ossia finalizzata solo a salvare feti da aborti spontanei. Ma anche in tali ipotesi,
rimane aperto un problema bioetico ineludibile: nella fase di sperimentazione di un apparato
sostitutivo del grembo materno, embrioni umani sarebbero usati e strumentalizzati, con un probabile
numero elevatissimo di danni e di distruzione di embrioni. Tale uso di embrioni contraddirebbe ai
principi generalmente accolti della sperimentazione di farmaci o apparati medici sull’uomo: la
sperimentazione deve essere condotta nel rispetto dell’integrità fisica del soggetto su cui si applica,
finalizzata al miglioramento della sua salute e non alla sua soppressione o danneggiamento. Un
primo ostacolo dunque alla costruzione dell’utero artificiale consiste nella illiceità delle azioni
dirette consapevolmente alla produzione di embrioni in vista di un loro sacrificio certo o
altamente probabile. In verità dietro al progetto di ectogenesi non c’è solo una finalità terapeutica:
si tratta di un progetto che presuppone una de naturalizzazione e debiologicizzazione della
riproduzione aprendo ad una artificializzazione completa del nascere: il progetto non può non
prendere in considerazione una possibile conseguenza di una tale tecnologia su chi nascerà, dovuta
alla frattura del legame fisico-psichico materno - fetale. La separazione tra madre genetica e
madre uterina spezzerebbe in modo definitivo il legame tra madre e figlio dal punto di vista
naturale, legame che non potrebbe essere sostituito da presidi meccanici surrogati. Tali tecniche
costituirebbero oltretutto una premessa per la radicale de-sessualizzazione della procreazione,
consentendo la diffusione di famiglie monoparentali e omoparentali, aprendo anche scenari
possibili di produzioni di bambini senza genitori, procreazioni anonime in cui orfani potrebbero
essere cresciuti in strutture collettive. La possibilità della maternità surrogata e della ectogenesi
portano la donna ad una riflessione sul significato della gravidanza:la gravidanza, pur con
l’inevitabile onere biologico e psicologico che porta con sé, non va considerata come un limite o
una schiavitù, ma come un privilegio e una opportunità, l’opportunità di vivere una relazione
carnale col bambino che nascerà, l’opportunità di fare l’esperienza della costruzione di un rapporto
sin dall’inizio; l’eliminazione della gravidanza e del parto rischiano di provocare una
modificazione profonda della maternità e del ruolo della donna. La maternità non sarebbe più
un ruolo insostituibile, ma diverrebbe sostituibile dalla paternità, portando ad una scomparsa
progressiva della differenza sessuale o della rilevanza della differenza sessuale nel nascere, che
annullerebbe la stessa peculiarità di ogni sesso,con la conseguente espropriazione della donna dalla
funzione propria. Si genererà un annullamento del significato qualitativo della
genitorialità(moltiplicabile o riducibile) e l’annullamento della peculiarità della soggettività
femminile.
DIAGNOSI PRENATALI. Sono rese possibili grazie alle tecniche scientifiche e al progresso,
consentono di identificare precocemente malformazioni somatiche e patologie genetiche nello
sviluppo embrio-fetale. Bisogna distinguere le diagnosi pre-impianto da quelle post-impianto: le
prime indicano una serie di procedure che consentono di effettuare la diagnosi sulla cellula uovo
non fecondata, sull'embrione prodotto in vitro o estratto dall'utero; la seconda è un'insieme di
tecniche applicate al feto in momenti diversi della gravidanza. Ogni procedura è distinguibile a
seconda del grado di invasività: vi sono quale meno invasive come l'ecografia e tecniche più
invasive come prelievo di cellule/tessuti (amniocentesi, prelievo liquido amniotico). Le tecniche
diagnostiche sono anche distinguibili per il grado di rischio – correlato all’invasività della tecnica
– rapportato al beneficio ottenibile rappresentato dalla concreta possibilità di cura). La diagnosi
prenatale deve essere sempre preceduta e seguita da una consulenza genetica: prima della diagnosi
per determinare la presenza o meno di indicazioni all'intervento diagnostico sulla base
dell'acquisizione delle informazioni sull'età, stato di salute dei genitori, eventuali altri figli e per
determinare e valutare il rischio(di danno all’embrione o aborto) rapportato ai benefici ottenibili(in
rapporto alle possibilità di terapia) per poi informare la coppia su tali rischi/benefici; dopo la
diagnosi, invece, la consulenza, ha lo scopo di comunicare il risultato della diagnosi (eventuali
patologie accertate) e il beneficio ottenibile (in riferimento alle terapie), offrendo le informazioni
sulle possibili conseguenze alla decisione di proseguimento o interruzione gravidanza sul piano
psico-sociale ed etico - giuridico. Nell'ambito della diagnosi prenatale è indispensabile fare una
distinzione tra diagnosi individuali e screening genetici: questi ultimi sono l'applicazione
sistematica di tecniche diagnostiche prenatali su larga scala a categorie di soggetti, anche a
rischio solo probabile, al fine di rilevare dati a scopo conoscitivo o preventivo. Sono applicabili
previo consenso informato; è applicabile solo previo consenso informato al fine di consentire una
libera espressione di volontà: si tutela la privatezza della scelta individuale.
Nella prospettiva liberale-libertaria, che esalta il principio bioetico di autonomia, la diagnosi
prenatale è legittima se è protetta la libera decisione della madre non essendo il nascituro autonomo
soggetto di diritto. Sono pertanto ammesse diagnosi pre-post impianto se la donna accetta
mediante consenso informato i rischi per la propria salute; si ritiene che la finalità della diagnosi
sia quella di consentire alla donna di decidere se impiantare o meno l'embrione, se
interrompere o meno la gravidanza sia nel caso in cui il feto abbia malformazioni incurabili,
sia nel caso in cui abbia caratteri psico-fisici indesiderati. Ciò si giustifica con il “dovere di
abortire” della madre e “diritto a non nascere” del feto se malformato, poiché c'è la possibilità per
il feto, divenuto adulto, di chiamare in causa il medico/genitori per averlo fatto nascere, accusandoli
di danno da procreazione. Nell’ambito della teoria utilitarista, che pone al centro della riflessione
morale e giuridica, la convenienza sociale, si ha una duplice posizione in rapporto alle diagnosi
prenatali.
L’utilitarismo ritiene che le tecniche (sia pre che post impianto) si debbano applicare, anche se
mediante consulenza genetica prediagnostica se ne accertasse l’invasività e la rischiosità (per il
nascituro), in quanto l’embrione non è considerato un soggetto di interessi; anche nel caso del
feto con patologie o anomalie genetiche tali renderlo infelice nel futuro, ne sarebbe legittimata la
sua eventuale soppressione. La consulenza post-diagnostica ha, dunque, la funzione di informare
sullo stato di salute del nascituro e di proporre l’aborto come “prevenzione” della malattia, ove
prevenzione è intesa come eliminazione del nascituro. La prospettiva utilitarista ritiene non utile la
diagnosi prenatale nel caso in cui i costi economici e i rischi siano elevati, considerando, invece,
utile portare a termine comunque la gravidanza e in caso di rilievo di “imperfezioni” dopo la
nascita, praticare l’eutanasia neonatale. Lo screening prenatale invece è ritenuto utile nella
misura in cui, calcolando costi, rischi e benefici, ne risulti un effettivo vantaggio per la
collettività.
La teoria che protegge la dignità intrinseca dell’essere umano sin dal concepimento esprime un
atteggiamento più restrittivo e cauto nei confronti delle procedure diagnostiche prenatali, ritenendo
indispensabile enunciare delle condizioni di tutela dei soggetti coinvolti:
- la diagnosi genetica pre-impianto sull’embrione umano è considerata illecita a causa della
sperimentabilità delle tecniche che non consente una adeguata protezione del concepito: in molti
casi l’embrione sul quale si applica la biopsia o il prelievo di cellule, muore prima del
trasferimento; la stessa diagnosi usata per evitare patologie può produrre malformazioni.
- la diagnosi genetica post-impianto è considerata lecita a determinate condizioni: nel caso di
tecniche invasive è indispensabile un accertamento mediante consulenza pre-diagnostica delle
indicazioni alla diagnosi sulla base di precisi criteri scientifici. Solo l’ecografia è ritenuta
eticamente lecita, data l’assenza di rischi per il nascituro e per la madre. La consulenza ha il
compito di comunicare oltre ai rischi anche i benefici ottenibili, in relazione alla curabilità o
possibilità di intervento sulle malattie diagnosticate; è dunque lecito l’accesso dei genitori a tali
modalità diagnostiche, purché la scelta non comporti l’intenzionalità selettiva nel caso di responso
infausto.
La prospettiva che difende la dignità intrinseca dell’essere umano ritiene che debba essere sostenuta
la ricerca nell’ambito della terapia prenatale e neonatale affinchè nel futuro, mediante interventi
medico-chirurgici prima e dopo la nascita si possano guarire le malattie genetiche.
La bioetica a difesa della persona umana ritiene che l’obiettivo sociale della diagnosi prenatale
debba essere quello della finalità curativa o preventiva non selettiva nel senso del prevenire la
nascita del bambino.

MANIPOLAZIONI GENETICHE. Si intende l'introduzione in organismi o cellule di un essere


vivente (animale, vegetale, umano) di un gene, cioè un frammento di DNA, che ne modifica la
struttura o ha l'effetto di riprogrammarlo, trasformandolo in OGM, cioè in un organismo
geneticamente modificato. Si possono modificare le piante per renderle più resistenti alle basse o
alte temperature, modificare la struttura degli animali per farli crescere più rapidamente, es. la
mucca per produrre più latte; trasferendo geni da una specie ad un’altra si creano ibridi inesistenti
in natura; si possono anche manipolare microrganismi come i batteri per produrre enzimi, o si può
modificare il DNA per produrre proteine e ormoni farmacologicamente preziosi (es. ormone della
crescita, l'insulina o anticorpi conto tumori, proteine antivirali, vaccini contro l’epatite). Alla
generale accettazione delle manipolazioni con finalità farmacologiche si affiancano polemiche che
hanno per oggetto gli OGM, o meglio il rischio che la produzione incontrollata di questi incida in
modo imprevedibile sulla salute e sull’evoluzione del vivente e dell’ambiente. Esistono due tipi di
terapia genica:

 Mira a correggere difetti genetici in cellule germinali (spermatozoi e ovociti) con effetto
sulla discendenza – terapia genica germinale – la Convenzione sui diritti dell’uomo e la
biomedicina ha proibito ogni intervento sul genere umano, tranne che per ragioni preventive
o terapeutiche e in particolare ogni modifica del genoma della discendenza. Eticamente la
terapia altera il diritto di ogni essere umano di nascere con un patrimonio genetico non
manipolato. Anche la Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo
dell’Unesco, proibisce manipolazioni genetiche che non siano a fine diagnostico o
terapeutico, rispetto al soggetto stesso su cui si interviene, riconoscendo il diritto
all’integrità e alla non manipolabilità arbitraria del patrimonio genetico individuale.
 Ha l’obiettivo di eliminare o ridurre difetti molecolari a livello delle cellule somatiche, con
effetti limitati all’organismo dell’individuo malato (e quindi non trasmissibili ai discendenti)
– terapia genica somatica. Non esiste alcun problema per quel che concerne l’eticità di tale
terapia se non quelli comuni a qualsivoglia intervento medico di frontiera. Il ricorso a tale
terapia dovrà essere motivato dalla gravità della malattia, dalla mancanza di una terapia
alternativa efficace e con effetti durevoli, dalla minima incidenza di effetti collaterali
indesiderati. Dovrà poi essere acquisito il consenso informato del pazienza al trattamento.
CLONAZIONE RIPRODUTTIVA. Per clone si intende, in biologia, l’insieme degli individui di
una determinata specie che possiedono tutti il medesimo patrimonio genetico. Recentemente si è
imposta una nuova accezione di clone: individuo procreato artificialmente per essere la perfetta
riproduzione genetica di un altro individuo. Nel 1997, ad opera di una èquipe di scienziati diretta da
Wilmut, si è realizzata la prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly. La procedura
adottata è stata la seguente: è stato prelevato il nucleo di una cellula somatica di un animale adulto,
è stata introdotta in un ovocita, e dopo 250 tentativi andati falliti, si è riusciti a riattivare l’ovocita
come un vero e proprio embrione. Successivamente tale embrione è stato piantato nell’utero di una
madre surrogata che ha portato avanti la gravidanza al termine della quale è nato un individuo
geneticamente identico a quello da cui era stata prelevata la cellula adulta. Il patrimonio genetico di
Dolly era derivato da un unico genitore! La clonazione attiva un processo che non esiste in natura e
che dal punto di vista evoluzionistico andrebbe qualificato come contro natura. Vi sono particolari
problemi che nascono dalla riflessione sulla clonazione umana. I sostenitori della clonazione umana
ritengono utile la legittimazione di tale tecnica per consentire l’avanzamento delle conoscenze
scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, per garantire la libertà dell’individuo di scegliere,
procurando possibili vantaggi presenti e futuri. In questa prospettiva si ritiene che la clonazione non
leda l’unicità individuale, essendo l’identità genetica distinta dall’identità biologica e biografica. In
una posizione intermedia vi è l’orientamento che propone una proibizione “debole” della
clonazione: si tratta di una sostanziale legittimazione di principio, nella misura in cui la società si
aprisse all’accettazione di tali pratiche e la scienza consentisse di applicarla senza conseguenze di
fatto negative, o comunque controllando le eventuali conseguenze negative. In effetti la letteratura
scientifica ha fornito i dati della sperimentazione sull’animale, mostrando che elevata è la mortalità
e la possibilità di contrarre patologie dei cloni(la stessa Dolly è morta precocemente di artrite
reumatoide). C’è poi chi considera gravemente illecita tale clonazione ritenendola una delle forme
più aberranti di manipolazione e oggettificazione della vita umana: lo scienziato che volesse attuare
un tale progetto avrebbe come uno scopo l’avanzamento della ricerca e della conoscenza, senza
alcuna considerazione sull’uso dei risultati e sul destino dell’uomo da lui creato. La clonazione
avrebbe il significato di una dimostrazione di onnipotenza della tecnica sull’uomo: ma
l’esibizione di onnipotenza potrebbe produrre un individuo non rispondente alle aspettative dello
scienziato; ed una eventuale produzione non rispondente al progetto iniziale non è mero materiale
che si possa gettare via o modificare a piacimento, me è una forma di vita comunque umana,
innocente e che meriterebbe di essere rispettata. La clonazione è una tecnica che de-personalizza la
nascita dell’uomo ancor più delle tecniche di procreazione assistita in vitro. Si produce una vita in
laboratorio senza l’uso delle cellule germinali maschile e femminile: ciò comporta inevitabilmente
una cancellazione della famiglia. Con clonazione si realizzerebbe la possibilità di un controllo
tecnico sulla natura umana fino al punto di non accettare la casualità delle ricombinazioni
cromosomiche nella catena delle ereditarietà; con la clonazione nascerebbe una nuova forma di
negazione della libertà, precisamente l’annullamento genetico della novità. Il clone sarebbe la copia
di un originale già vissuto prima di lui: il colone vedrebbe una sua realizzazione esistenziale,
vivrebbe una vita geneticamente già vissuta da qualcuno che ha manifestato alcune potenzialità del
suo essere. Con la clonazione si soffoca la spontaneità e si altera il rapporto con gli altri. Jonas
ritiene che con la clonazione in qualche modo il passato anticipi il futuro: “il rampollo clonato sa
troppo su di sé e gli altri sanno troppo su di lui”. La coscienza di essere la copia genetica di altri
individui umani ostacolerebbe la libertà di scoprire e far scoprire la propria identità, di sorprendere
e di sorprendersi: alla persona verrebbe sottratto “il diritto di essere valutata e accettata per come
essa è in se stessa” e le verrebbe “imposta una unità di misura della sua identità che è fuori di lei”.
Habermas contro la clonazione afferma che la consapevolezza della programmazione genetica
potrebbe disturbare il “senso di naturalezza” dell’esistenza corporea del clone, provocando una
alterazione della percezione della propria esistenza fisica e mentale e trasformandola nella
percezione di essere un prodotto della tecnica. La clonazione apre il rischio sociale di una
produzione seriale di individui umani fissando alcuni caratteri prescelti, inserendosi
nell’evoluzione biologica mediante una sorta di “selezione artificiale”. Si potrebbero replicare
solo individui considerati “migliori”, ritenuti “eccellenti”. Ma su quali basi può essere definita
l’eccellenza? Si apre il rischio all’eugenismo, ossia la selezione arbitraria dei caratteri migliori in
funzione di una programmazione sociale. Si rischierebbe la strumentalizzazione dell’uomo: la
società potrebbe decidere di produrre copie di individui umani con caratteristiche fisiche sulla base
di considerazioni meramente utilitaristiche. Di fronte alla clonazione e ai rischi che comporta, il
biodiritto è chiamato a proteggere l’integrità fisica, la non manipolabilità del patrimonio genetico,
l’imprevedibilità genetica, il diritto alla famiglia, il diritto all’identità personale, il divieto di
strumentalizzazione e serializzazione dell’essere umano.

CLONAZIONE TERAPEUTICA E CELLULE STAMINALI. Per cellule staminali si intende


comunemente indicare le cellule non specializzate che hanno due caratteristiche: la capacità di
rinnovamento e la capacità di dare origine a cellule “progenitrici” da cui discendono popolazioni di
cellule figlie. Tali capacità cambiano in base all’origine delle cellule e allo stadio di sviluppo
dell’organismo da cui si estraggono: le cellule staminali embrionali sono totipotenti, hanno capacità
di rinnovarsi in modo illimitato e di specializzarsi in ogni tipo di tessuto o organi, mentre quelle
derivate da stadi più avanzati dell’embrione, le cellule fetali e le cellule adulte, sono pluripotenti
non hanno capacità di rinnovarsi in modo illimitato e producono solo alcuni tipi di tessuti. La
clonazione terapeutica uno dei mezzi proposti per ottenere “cellule staminali”, che si
presume possano essere utilizzate nella terapia di malattie degenerative. Consiste nella produzione
di embrioni per trasferimento di nucleo di cellule di un soggetto in un ovocita denucleato, da cui
ottenere cellule staminali embrionali per finalità terapeutiche sul soggetto da cui sono state
prelevate le cellule somatiche. Tali cellule oltre ad essere totipotenti avrebbero anche le stesse
caratteristiche genetiche del soggetto su cui si applicherebbe la terapia. Si sono aperte, a tal
proposito, delle questioni riguardanti: l’uso delle cellule staminali embrionali, l’uso delle cellule
staminali derivate da feti abortiti, l’uso delle cellule staminali da adulto ma soprattutto la
provenienza
 Uso di cellule staminali embrionali: si tratta di cellule che derivano dalla regione interna
dell’embrione prima del suo impianto nella parete dell’utero; dotate di elevata capacità di
proliferazione, sono totipotenti(in grado, di principio, di dare origine a tutti i tipi cellulari
dell’organismo); se isolate e cresciute in vitro possono mantenere inalterate le loro proprietà per
anni. La discussione sulla possibilità dell’uso delle cellule staminali embrionali umane è
strettamente connessa al dibattito sullo statuto dell’embrione umano: per ottenere cellule
staminali embrionali mediante questa tecnica, si deve distruggere l’embrione umano, per scopi
di ricerca, per una possibile futura terapia. Non si discute sugli scopi che sono eticamente
accettabili ma si deve discutere sui mezzi (ossia sulla distruzione di embrioni umani). Vi
sono tre linee di pensiero:
 La bioetica di ispirazione libertaria e utilitarista ritiene leciti questi interventi sulla base del
valore della libertà della ricerca e dell’utilità della scienza sul dovere debole di protezione della
vita umana iniziale, di cui si nega la soggettività personale: si legittima la
strumentalizzazione dell’embrione giungendo anche alla posizione più radicale di ritenere
lecita la produzione di embrioni a solo scopo sperimentale distruttivo.
 Posizione intermedia assunta da chi ritiene di poter utilizzare solo embrioni congelati non
impiantabili, ossia in stato di abbandono e non più destinabili all’impianto e a condizione che
siano consapevolmente donati alle donne o alle coppie. Tale legittimazione sarebbe comunque
subordinata all’accertamento della ragionevole impossibilità di impianto, dell’informazione
corretta e completa e del consenso, escludendo ogni forma di compenso e di riserva sulla
destinazione delle linee cellulari che eventualmente verranno prodotte.
 Posizione di chi ritiene che l’embrione sia, sin dalla fecondazione, una soggettività personale. È
ritenuta gravemente illecita la sperimentazione su cellule staminali di embrioni umani.
Anche l’uso di embrioni congelati non impiantati è ritenuto illecito perché si tratta comunque
della soppressione diretta e intenzionale di embrioni vivi: la distruzione di embrioni è un male
in sé, indipendentemente dalle finalità dell’atto. Il diritto alla vita dell’embrione deve avere pari
dignità rispetto al diritto del malato di essere curato.
Si è discusso altresì sulla possibilità di ottenere le c.d. “staminali etiche” o “staminali salva-
embrione”, ossia di produrre cellule staminali embrionali senza danneggiare e distruggere gli
embrioni: una prospettiva considerata interessante perché potrebbe conciliare le esigenze
scientifiche di avanzamento della ricerca con le esigenze etiche di tutela della dignità dell’embrione
umano. La riflessione bioetica ha iniziato a riflettere su quattro possibili strade:
1. il prelievo di cellule staminali embrionali da embrioni morti
2. il prelievo di cellule staminali embrionali mediante biopsia da embrioni vivi
3. l’estrazione di cellule staminali embrionali da entità “non-embrionali” o “simil-embrione”
4. la riprogrammazione di cellule somatiche specializzate
1.prelievo di cellule staminali embrionali da embrioni morti: per morte si intende l’assenza
irreversibile di divisione cellulare, con cessazione della funzione della crescita e della
differenziazione che ne definiscono la impiantabilità.
2.il prelievo di cellule staminali embrionali mediante biopsia da embrioni vivi, risulta essere
problematica in quanto pone a rischio l’embrione(di morte o danneggiamento), rischio ingiustificato
in quanto sproporzionato e non finalizzato alla terapia, ma alla ricerca con solo ipotetici benefici
futuri; si tratta inoltre di una procedura costosa e tecnicamente complessa con scarsi benefici.
3.l’estrazione di cellule staminali embrionali da entità “non-embrionali” o “simil-embrione”,
consiste in una sorta di clonazione per trasferimento di nucleo con alterazione genetica che farà
ottenere un’entita “non embrionata” o “simil-embrione”, dalla quale prelevare cellule embrionali
che possano crescere e rispodursi
4. la riprogrammazione di cellule somatiche specializzate, si fanno regredire le cellule allo stadio
iniziale.
 l’uso delle cellule staminali derivate da feti abortiti, la liceità di tale uso( considerata analoga
bile al prelievo di organi da cadavere) è subordinata al consenso della donna; all’accertamento
di assenza di complicità tra chi effettua l’aborto e chi pratica il prelievo delle cellule; alla non
commerciabilità e brevettabilità di tali cellule. Inoltre va verificato che la necessità di reperire
cellule staminali fetali non costituisca una incentivazione all’atto abortivo e che la motivazione
umanitaria del prelievo non rappresenti una forma di implicita legittimazione dell’aborto
volontario.
 uso di cellule staminali adulte. La discussione bioetica si trova concorde nel ritenere lecita la
possibilità di cercare in tessuti umani di individui adulti cellule staminali pluripotenti capaci di
dare origine a più tipi di cellule. Il prelievo deve avere una finalità terapeutica, deve presupporre
il consenso informato, soprattutto se si tratta di trattamento invasivo, in ogni caso il prelievo non
deve mettere in pericolo la salute del paziente che si intende curare con tale metodologia.

BIOETICA ALLA FINE DELLA VITA UMANA


Accertamento della morte. lo sviluppo delle tecnologie ha spinto la snella direzione di una ri-
definizione della morte e del morire. Se tradizionalmente la morte biologica era intesa prima come
necrosi cellulare (distruzione del corpo) e poi come arresto delle funzioni respiratorie e cardiache,
oggi la possibilità tecnologica di supplire all’assenza di tali funzioni respiratorie e cardiache, ha
costretto a rivedere la determinazione del confine della vita umana. La scienza si è mossa nella
direzione della nuova teoria della morte cerebrale: è ormai accettato sul piano scientifico, che il
cervello sia il nuovo sistema critico per definire la morte umana. Occorre, tuttavia, introdurre alcune
distinzioni:
 teoria fisiologica della morte cerebrale o teoria della morte tronco-encefalica, definisce la
morte come cessazione della capacità dell’organismo di funzionare “nel suo complesso”,
ossia cessazione dell’integrazione neurologica sistematica e della omeostasi interna. La
morte è identificata con la mancanza di integrazione neurologica di sottosistemi. La
distruzione del tronco-encefalo è ritenuta la prova necessaria e sufficiente della morte
complessiva dell’organismo. Obiezioni: si richiama il fatto che si va aprendo la possibilità
tecnologica di sostituire artificialmente l’equilibrio omeostatico con la possibilità di
ripristinare altre funzioni vitali; in questo senso la cessazione della funzione di integrazione
non costituirebbe lo stato di morte come irreversibilità. La critica sostanziale consiste nella
rilevazione della cessazione funzionale del tronco encefalo quale prognosi, non diagnosi di
morte, in quanto è stato dimostrato che la parte superiore del cervello può ancora funzionare
se opportunamente stimolata, anche in assenza di sollecitazioni dal tronco.
 Teoria della morte cerebrale corticale, identifica la morte cerebrale con la cessazione
totale o parziale delle funzioni della neocorteccia o corteccia superiore, struttura nervosa che
presiede alla capacità di coscienza ed autocoscienza, all’attività mentale e di elaborazione
razionale, al pensiero, alla memoria e alla interazione sociale. Ciò che rimane integro è il
tronco cerebrale, ossia la regolamentazione omeostatica vegetativa, quale respirazione
spontanea o riflessa e la circolazione sanguigna: stato vegetativo persistente – coma vigile.
Obiezioni: è scientificamente incerta la localizzazione corticale della funzione della
coscienza: si preferisce parlare di frammentazione della coscienza, la cui sede è
difficilmente individuabile in un luogo definito. I neurologi non sono certi che la cessazione
delle funzioni superiori implichi una perdita di consapevolezza: in questo senso la morte
corticale sarebbe solo un’indicazione approssimativa. È inoltre lungo e incerto il periodo di
osservazione necessario per determinare l’irreversibilità della funzione mentale, la perdita
completa e definitiva della coscienza: la diagnosi e la prognosi dello stato vegetativo
persistente sono difficili e imprecise, basate spesso solo su dati statistici, lasciando sempre
aperta la probabilità di errore e la possibilità di recupero parziale della vita di relazione. Il
cambiamento di stato non è immediato e dunque risulterebbe concretamente difficile fissa il
momento preciso della morte. Rimane comunque difficilmente accettabile ritenere morto un
soggetto che respira: sarebbe macabro e difficilmente accettabile provvedere al
seppellimento o alla cremazione di individui in tali condizioni.
 Teoria della morte cerebrale totale, individua la morte con l cessazione totale e
irreversibile di ogni attività del cervello che segna la disgregazione dell’unità
dell’organismo umano. La morte viene definita come la perdita totale della capacità
dell’organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale: si tratta di uno
stato accertabile sul piano clinico, attraverso una serie di parametri scientifici. È questa la
definizione scientifica che meglio risponde al criterio di definizione di morte come stato
irreversibile.
Trapianto d’organo. Consiste nel trasferimento di organi, anche tessuti vivi e cellule, da un
individuo (donatore) ad un altro (ricevente), con lo scopo di mantenere nel ricevente una integrità
funzionale degli organi, tessuti, cellule trasferiti. Il donatore può essere vivente (trapianto rene, parti
del fegato, tessuti rigenerabili) o cadavere (cuore, pancreas, tutto il fegato).

 Trapianti d’organo da viventi. Le principali problematiche riguardano la questione


dell’integrità fisica del donatore. Le teorie che ritengono che il corpo sia oggetto di
disposizione del soggetto giustificano la donazione di organo in quanto scelta di
autodeterminazione dell’individuo; tali teorie ritengono legittima anche la vendita di organi,
essendo parti del corpo di proprietà del soggetto a cui appartengono. Le teorie che ritengono
che il corpo sia costitutivo dell’unitotalità della persona, affermano invece che la lesione e
menomazione dell’integrità fisica del soggetto, pur se motivata da un gesto oblativo
altruistico, entri in contrasto con il dovere di preservare la propria salute. I criteri bioetici
che consentono di rendere compatibili il principio integrità fisica e di solidarietà nel rispetto
delle dignità della persona umana sono:
o non lesività: salvaguardia della vita e della salute del donatore. E’ ritenuto
necessario che la lesività del prelievo degli organi sia ragionevole, ossia che il danno
fisico e psichico sia tollerabile e consenta una adeguata qualità di vita. Non sono
praticabili prelievi che mettono a rischio la sopravvivenza del donatore.
o proporzionalità, il danno provocato al donatore deve essere proporzionato alla
qualità di vita del ricevente: non è considerato lecito prelevare un rene per un
trapianto con scarse possibilità di riuscita
o libertà e gratuità, la donazione deve essere una libera scelta, senza costrizione e
condizionamenti, deve essere un atto libero e gratuito; in questo senso risulta essere
eticamente illecito il commercio di organi.
 Prelievo d’organo da cadaveri. Sono considerati requisiti bioeticamente necessari:
o l’accertamento della morte. E’ necessario l’uso di tecniche rianimatorie che
vicariano le funzioni vegetative dell’organismo per mantenere l’irrorazione degli
organi e conservarli idonei al trapianto. Si considera il criterio scientifico di morte
come criterio sufficiente alla legittimazione del prelievo di organi.
o la disponibilità del cadavere, apre un problema etico, in quanto il cadavere umano
non può essere trattato come un mero oggetto inanimato. Sussiste un dovere di
rispetto nel ricordo della persona che viveva in quel corpo, ma rientra nelle cose di
cui disporre per finalità sociali, pur tenendo conto delle eventuali volontà prima della
morte, della specificità di ogni singola cultura, del rispetto dovuto alle spoglie
mortali e alla famiglia. Tali considerazioni etiche non giustificano comunque la
proibizione dell’asportazione di parti di cadavere per uso finalizzato a salvare vite
umane
o il consenso del prelievo. Si delineano diverse posizioni bioetiche sull’argomento:
 Teoria della non necessita, è la prospettiva di chi ritiene che lo Stato possa
disporre del cadavere, ridotto a mero oggetto disponibile, qualunque fosse il
parere del soggetto in vita o dei parenti. CRITICA- urta il concetto di
rispetto del cadavere e dell’autonomia individuale
 Teoria della necessità, è la posizione di chi ritiene che il prelievo sia
giustificato solo se la persona in vita ha esplicitamente espresso parere
favorevole, quale decisione personale. CRITICA- porta come conseguenza
una scarsità di donazioni a causa della mancanza di sensibilità alla donazione
e delle paure connesse al prelievo di organi e accertamento della morte
 Teoria del consenso familiare, ritiene che in assenza del consenso
individuale sia sufficiente il consenso familiare, in quanto si ritiene che la
famiglia sia responsabile della tutela del cadavere e della decisione del
prelievo di organi per i sentimenti di pietà verso il defunto. CRITICA- apre
diverse problematiche nella misura in cui la famiglia teme di mancare di
rispetto nei confronti del parente defunto violando la sua integrità fisica, oltre
alle inopportunità di tale richiesta nel momento difficile della comunicazione
del decesso
 Teoria del consenso tacito o presunto, sostiene che sia legittimo prelevare
gli organi e i tessuti da un defunto se non ha esplicitamente manifestato in
vita il suo rifiuto: si basa sulla considerazione che il cadavere appartiene alla
società e che sia disponibile per il bene comune.
Trapianto di cervello. Si apre il problema filosofico del significato della persona: chi considera il
cervello quale sede della capacità di autocoscienza, di razionalità e volontà, identificato con la
persona, ritiene che trapiantare l’encefalo significhi far vivere chi possedeva un cervello; chi ritiene
che la persona sia una uni totalità di corpo e mente, reputa tale pratica illecita in quanto crea grave
turbamento e probabili danni devastanti all’identità psichica del ricevente.
Trapianto di gonadi, nella misura in cui conservano la potenzialità di produrre gameti, si avrebbe
una inserzione del patrimonio genetico di un individuo in un altro individuo, con la conseguenza
che la generazione configurerebbe una situazione analoga alla fecondazione eterologa assistita, con
possibili conseguenze negative sui figli che venissero a sapere di essere nati da gonadi prelevate da
cadaveri o feti abortiti.
Xenotrapianti,(trapianto di organi animali su esseri umani), si potrebbe ammettere la
legittimazione, data l’obiettiva carenza di organi e tessuti umani: tale legittimazione dovrebbe
comunque andare regolamentata in funzione della protezione dell’essere umano, esigendo la tutela
dell’identità del ricevente, il consenso informato del paziente e della famiglia, la valutazione del
rischio sanitario, la minimizzazione di sofferenze e stress per l’animale, rispettando i criteri di
necessità e ragionevolezza, evitando modificazioni non controllabili che alterino la diversità e
l’equilibrio delle specie, garantendo il diritto ad un equi accesso.
Accanimento terapeutico. Le tecniche di rianimazione, di respirazione artificiale e di circolazione
extracorporea consentono il mantenimento della vita anche di soggetti con gravi lesioni cerebrali e
gravi compromissioni fisiche. La questione della definizione dei limiti della cura costituisce il
cuore del problema bioetico alla fine della vita umana.
La bioetica libertaria ritiene che la scelta della cura o della sospensione della stessa debba essere
lasciata all’individuo in grado di intendere e di volere, ritenendo che la vita umana non sia un bene
indisponibile; il valore della vita umana dipende dalla decisione dei soggetti autonomi; l’individuo
ha il diritto di decidere se essere curato o se rifiutare le cure. Si configura l’accanimento terapeutico
ogni qualvolta il medico decide di curare il malato contro la sua volontà. Nell’ambito di questa
prospettiva il soggetto può scegliere anche di accettare interventi sproporzionati, dunque richiedere
l’accanimento terapeutico, manifestando la volontà di vivere ad ogni costo. Ma può anche scegliere
di rifiutare interventi proporzionati, ritenendo opportuno di anticipare la morte naturale. La bioetica
utilitarista ritiene che la scelta della cura dipenda al calcolo costi/benefici per l’individuo o della
società. Si configura l’accanimento terapeutico ogni qualvolta il medico decida di curare
l’individuo in contrasto con la percezione soggettiva della qualità della vita e in contrasto con
l’opportunità sociale, riferita al calcolo dei vantaggi e svantaggi, misurati in riferimento ad un
intervento terapeutico in una determinata situazione. Il criterio di proporzione o sproporzione
delle terapie, non è riferito alla considerazione medica oggettiva della salute del paziente, ma
esclusivamente in riferimento al bilanciamento soggettivo o collettivo della qualità della vita.
Nell’ambito della prospettiva che difende la dignità dell’essere umano la definizione di accanimento
terapeutico non è riconducibile alla volontà del medico di curare contro la scelta individuale del
paziente, ma richiede una valutazione adeguatamente rispettosa della dignità oggettiva della persona
umana, nell’ambito di una equilibrata relazione medico/paziente riducibile ad una alleanza
terapeutica quale affidamento reciproco; tale determinazione concettuale dell’accanimento
terapeutico comprende elementi oggetti ed elementi soggettivi. La definizione di accanimento
terapeutico, in questo senso, prevede la correlazione tra la valutazione medica oggettiva della
sproporzione delle terapie e la considerazione soggettiva della straordinarietà delle terapie:
valutazione medica oggettiva della sproporzionatezza dell’uso di mezzi terapeutici consiste nella
considerazione della inadeguatezza tecnico-medica delle cure in rapporto all’obiettivo
determinabile sulla base di diversi fattori: è indispensabile l’acquisizione di dati scientifici
oggettivi, in riferimento alla valutazione della gravità della malattia, alla non possibilità di
alternative terapeutiche, al rischio di morte e alle prospettive di sopravvivenza, al grado di
compromissione di organi vitali e alle potenzialità di guarigione, in riferimento alla possibilità di
successo delle terapie, nella previsione della evoluzione della malattia. Valutazione soggettiva
della straordinarietà dell’intervento: la considerazione dell’accanimento terapeutico va riferita
anche alla percezione soggettiva di un dolore fisico ritenuto insopportabile e non
sufficientemente lenibile, di un vissuto di paura e ripugnanza nei confronti dell’uso del mezzo, nel
contesto di una scarsa percezione dell’efficacia globale della terapia rispetto al vissuto soggettivo. Il
giudizio bioetico sull’accanimento terapeutico è rispettoso della persona umana nella misura
in cui prende sul serio questi due parametri in modo gerarchico e integrato. Ne consegue che
non si configura un accanimento terapeutico quando, pur se gli interventi risultano essere aggressivi
e intensivi, c’è una seria speranza di guarigione e quando l’imposizione di una sofferenza si ritiene
accettabile per i benefici prevedibilmente ottenibili: in questi casi si reputa deontologicamente ed
eticamente doveroso continuare le terapie. La sospensione delle terapie aggressive e intensive è
ritenuta eticamente doverosa, quando la spettanza di vita è breve, la prognosi sicuramente
infausta, le terapie futili e dannose in quanto impongono gravi sofferenze al paziente, anche
con difficoltà di accesso alle terapie, scarsa disponibilità o possibilità di applicazione delle
terapie. In questi casi ci si limita a cure ordinarie; persiste il dovere di cure palliative, la vicinanza e
l’accudimento umano. Sono da considerarsi facoltative, le terapie, a cui è lecito ricorrervi in assenza
di altri rimedi, quando anche se non sono risolutive, consentono di alleviare le sofferenze e
migliorare la qualità della vita; è anche lecito e doveroso interromperle se non danno risultati o se i
risolutati deludono le speranze. In questi casi il prolungamento forzato delle cure sarebbe precario,
ostinato e penoso divenendo accanimento terapeutico. Idratare, nutrire e assistere un paziente in uno
stato vegetativo persistente consiste nel compiere atti dovuti, in quanto ordinari. I pazienti in tale
stato sono vivi (secondo la definizione di morte cerebrale totale) e nessun medico può negare che
potrebbero riprendere coscienza. Non soffrono, perché lo stato vegetativo esclude ogni sofferenza e
il più delle volte è sufficiente accudirli con tecniche strettamente infermieristiche che si riducono a
idratazione e nutrizione. È estremamente difficile trovare una giustificazione alla soppressione di
questi malati che non sia quella dell’interesse sociale a risparmiare le spese che sono necessarie per
accudirli. Le possibilità sono due: cessare di alimentarlo e dissetarlo, sottoporlo cioè ad un’agonia
biologica, oppure intervenire con un’iniezione letale. L’accanimento terapeutico non è l’uso di cure
ordinarie, ma la disumanizzazione e proceduralizzazione della morte, con l’applicazione di terapie
sproporziona in condizioni di grave sofferenza; non dovrebbe essere accettato dal medico, anche se
chiesto dal paziente o dai familiari. La sospensione dell’accanimento terapeutico non deve essere
confusa con l”abbandono terapeutico”: una cosa è sospendere trattamenti vitali sproporzionati nella
misura in cui non so più in grado di arrestare il processo della morte (ma aggiungerebbero solo costi
umani e sociali) mantenendo invece le cure proporzionate; un’altra cosa è sospendere i trattamento
con l’intenzione di anticipare la morte (eutanasia). In quest’ultimo caso non è la condizione
patologica a far morire ma l’omissione di sostentamenti ordinari comunque dovuto al paziente nella
prospettiva di difesa della sua dignità.

Eutanasia. L’etimologia del termine è fuorviante rispetto alla valenza semantica attuale. Si
potrebbe definire l’eutanasia sia quella azione (eutanasia attiva, iniezione letale) o omissione
(eutanasia passiva, omissione di cure) che per sua natura o nelle sue intenzioni, procura
anticipatamente la morte dell’essere umano, allo scopo di alleviarne le sofferenze. Si tratta
dunque di una azione o omissione per sopprimere intenzionalmente la vita di un malato terminale
o inguaribile, ma anche di un neonato con gravi handicap, di un anziano o di un disabile, al fine di
evitare sofferenze fisiche e psichiche: il fine è quello di fuggire alla morte perché si rifiuta una
vita ritenuta non dignitosa, non sopportabile e non desiderabile. Non può essere identificata col
rifiuto del paziente di farsi curare anche quando sa che il rifiuto lo porterà alla morte. Non si
configura come eutanasia il contesto della medicina palliativa, cioè quegli interventi che, non
potendo più avere come obiettivo la guarigione del paziente, cercano di aiutarlo sopportare i dolori
connessi alla sua patologia. Tranne casi particolarmente rari, la medicina palliativa è in grado di
controllare i dolori dei malati terminali e di garantire loro una qualità di vita più che accettabile. È
chiaro che c’è un abisso che separa l’intenzione che muove il medico che pratica la palliazione da
quella che muove il medico che pratica l’eutanasia. Quest’ultimo vuole raggiungere in maniera più
rapida la sedazione totale, cioè la morte del paziente, mentre il primo vuole intervenire sul paziente
per placarne i dolori e quindi non ha alcuna finalità letale nei confronti del malato che gli è stato
affidato.
L’eutanasia è l’abbandono terapeutico o l’astensione terapeutica quando la terapia avrebbe ancora
ragione di essere praticata in quanto proporzionata rispetto alle condizioni reali del paziente.
Quando si parla di eutanasia si fa esplicitamente riferimento all’eutanasia con consenso: si intendo
per atto eutanasico l’azione o omissione praticate su soggetto consenziente, ossia in grado di
esprimere la sua volontà di morire, che chiede di morire, in modo persistente, in presenza di
sofferenze insopportabili ed irreversibili. Si distingue “suicidio medicalmente assistito” o anche
“suicidio eutanasico”(consistente nell’anticipazione della morte, consapevolmente, da parte del
paziente, con l’aiuto del medico al quale si rivolte per la prescrizione di farmaci letali, tra questi la
c.d. pillola del suicidio), dall’”eutanasia volontaria” (consistente nella richiesta diretta del paziente
al medico di essere soppresso, aiutato a morire); nel primo caso il medico si limita a consigliare il
paziente, nel secondo caso il medico pratica direttamente la soppressione eutanasia con modalità
diverse, attivamente o passivamente. I movimenti per la legalizzazione dell’eutanasia sono attivi in
molti paesi e sono riusciti nel loro intento di far attribuire ai medici il potere legale di sopprimere
vite umane nel rispetto del principio di autonomia, ma praticare l’eutanasia non è rendere
omaggio alla libera volontà di una persona che chiede di essere aiutata a morire, bensì
sanzionare quello stato di abbandono morale e sociale che avrebbero il dovere, sia le
istituzioni, sia tutti li individui di buona volontà, di combattere. Il significato di eutanasia va
dilatandosi: in Olanda, nel 2004, è stato elaborato e concordato un protocollo per la soppressione
eutanasia di neonati e in generale minori; questo non solo nel caso in cui fossero malati terminali
ma anche nel caso in cui fossero colpiti da malattie invalidanti ma non mortali. Il riferimento al
principio di autonomia è del tutto fuori luogo in questo caso. Esempi come questo. Confermano la
fondatezza di quello che in bioetica si chiama rischio di “slippery slope” ossia di del pendio
scivoloso: una volta accettata la legittimità dell’eutanasia volontaria. In nome del principio di
autonomia, si giunte facilmente ad accettarla anche se involontaria, in nome di principi ritenuti
all’inizio troppo fragili come quello della compassione o del consenso presunto da parte del
paziente.

Testamento biologico o testamento di vita, traducendo l’espressione anglosassone living will, è un


documento redatto, con ponderazione analoga a quella che è doveroso utilizzare per i testamenti
tradizionali, e dotato di altrettanta analoga certezza legale, col quale il testatore affida al medico,
con il controllo e la supervisione di un tutore, indicazioni o dichiarazioni anticipate di trattamento,
nel caso infausto in cui in futuro possa perdere la capacità di autodeterminazione, a causa di una
malattia acuta o degenerativa assolutamente invalidante, soprattutto da un punto di vista mentale, o
di un incidente eccezionalmente grave. Il testamento di vita potrebbe contenere indicazioni perché il
medico massimizzi gli sforzi di salvaguardia della vita di chi lo ha sottoscritto, esplicitare il rifiuto
dell’accanimento terapeutico, esplicitare preferenze di fronte ad eventuali alternative terapeutiche.
Nella realtà concreta delle cose, la redazione di un testamento biologico è auspicata da e per coloro
che, prefigurandosi ipotesi tragiche, ritengono che in situazioni patologiche estreme sia un bene per
gli uomini morire anziché continuare a vivere e preferiscono quindi essere uccisi che essere curati.
Sul testamento di vita è in atto da anni un accanito dibattito bioetico. I giuristi che chiedono che
validità si può riconoscere a simili dichiarazioni anticipate in un contesto in cui non si considera la
vita alla stregua di un bene disponibile; i medici, da parte loro, si interrogano sulla compatibilità dei
testamenti di vita con i loro doveri deontologici; i bioeticisti discutono se nella sfera insindacabile
di autodeterminazione del malato, si possa far rientrare altresì la pratica eutanasia, ove prescritta
anticipatamente da un testamento biologico. Spesso nell’ambito del dibattito pubblico, la
legittimazione del testamento biologico assume il significato di legalizzazione dell’eutanasia, nella
fattispecie volontaria anticipata. È facile in questioni di vita o di morte, inoltrarsi nel “pendio
scivoloso”: si parte col ritenere che si debbano legalizzare situazioni estreme, problematiche e rare,
e si arriva poi subito a estendere la legalizzazione a casi simili, sono estrinsecamente analogabili ai
precedenti, esempio ne è la legislazione olandese che depenalizza l’eutanasia qualificandola
come forma di rispetto verso la volontà del malato e poi subito la dilata, autorizzando il
medico a sopprimere il paziente anche in assenza di esplicito testamento biologico, nel
presupposto che la tutela del malato possa essere affidata a chi di lui se ne prende cura, come
il medico. I movimenti a favore dell’eutanasia si muovono a tutto campo: insistono perché tutti i
soggetti adulti e responsabili sottoscrivano i testamenti ma aggiungono poi che comunque dei
testamenti si può anche fare a meno perché esiste pur sempre qualcuno che con la sua volontà
integrerà la volontà non espressa o espressa in modo insoddisfacente dal malato. I movimenti pro-
eutanasici si battono per liberare i pazienti terminali da “sofferenze intollerabili”, ma non si
battono per la medicina palliativa, che pure della lotta contro la sofferenza ha fatto la sua
bandiera, si diffonda sempre più. Praticare l’eutanasia significa rendere superflua la ricerca e la
pratica della palliazione. Se la medicina palliativa si è diffusa e consolidata è perché sono esistiti ed
esistono medici e ricercatori che a fronte dei dolori delle malattie terminali non scelgono la via
breve della soppressione pietosa del malato, ma la via lunga della cura.
Cura del malato terminale. Nel tempo in cui viviamo, l’esperienza quanto la percezione della
morte si sono radicalmente alterate e di questo fenomeno ne è responsabile il progresso delle
discipline bio-mediche. La manipolazione del vivente mette a rischio la dignità specificatamente
umana del vivere e del morire. di questi problemi sia i medici sia i bioeticisti sono consapevoli e,
ciascuno nel proprio ambito di competenza, opera per indicare le strade che possono e devono
essere percorse perché ai soggetti, caratterizzati da una assoluta debolezza biologica e sociale, sia
garantita non solo la pienezza dei loro diritti di cittadini e di malati, ma anche e soprattutto la
pienezza delle loro spettanze umane e relazionali. A tal fine il diritto non basta: è necessario attivare
e potenziare quei vincoli di compassione, solidarietà e fraternità che trovano le loro ragioni e le loro
radici in un’etica profondamente umana e condivisa. L’etica di nobilissima e ippocratica origine è
riassumibile in un precetto: “difendi la vita”. Ci si chiede qual è il dovere del medico che assiste
un malato: il medico quando parla di vita, dando a questo termine un valore, non si riferisce
alla dimensione puramente biologica ma fa riferimento alla vita di una persona affidata alle
sue cure. Combattere per la vita e curare i malati sono precetti che si intrecciano indissolubilmente
e questo perché se non tutti i malati sono guaribili, tutti i malati sono curabili! È compito,
dunque, dei medici, prendersi cura del dolore dei pazienti e combatterlo per alleviarlo; si
inserisce qui la rilevanza della palli azione dell’insieme delle pratiche infermieristiche,
farmaceutiche e mediche volte non alla guarigione ma al controllo o al limite all’eliminazione
del dolore. Il progresso della medicina palliativa non crea particolari problemi etici, ma in alcuni
casi può darsi che la palliazione allevi si la sofferenza del malato ma ne indebolisca la resistenza
fisica e affretti perciò il momento del decesso. La finalità della palliazione però non è affrettare il
decesso, è un aiuto a chi soffre a sopportare le sofferenze della fase terminale della vita; è
un’autentica cura: una cura da praticarsi in situazioni estreme, con grande saggezza e senso
del limite e nella piena assunzione della responsabilità morale e professionale che qualifica la
pratica della medicina. È per un medico il modo più nobile di curare.

Distribuzione delle risorse sanitarie. Le risorse a disposizione per soddisfare la “domanda di


salute” decrescono mentre quest’ultime sono in costante aumento poiché non si accetta più la
malattia come un destino ineluttabile ma come un evento da fronteggiare e contro cui reagire:
l’invecchiamento della popolazione fa aumentare la percentuale di cittadini afflitti da malattie
croniche e invalidanti, l’esplodere di nuove patologie ha creato nuove e pesanti richieste
terapeutiche ed è ormai maturata la convinzione che anche se esistono malattie non guaribili, non
esistono però malattie non curabili: ogni malato ha diritto ad essere curato. Ciò comporta un
inevitabile aumento dei costi che gravano sui sistemi sanitari: lo sviluppo tecnologico offre si
nuove possibilità di intervento a favore dei malati ma fa anche lievitare i costi delle diagnosi.
Nessuno Stato, anche il più ricco è in grado di dare una risposta compiuta ai bisogni sanitari della
propria popolazione. Compito della bioetica al riguardo è quello di indicare quali sono i
problemi più scottanti e con quali criteri di equità è possibile gestirli. Si è soliti distinguere per
ciò che concerne l’allocazione delle risorse:
-problemi macro-allocativi, concernono, una volta determinata la quota di risorse pubbliche da
destinare alla sanità, secondo quali tipologie determinare le singole spese da effettuare. I problemi
macro allocativi interessano da una parte i bioeticisti e dall’altra gli studiosi di epidemiologia,
statistica sanitaria e bioecomisti. A questi ultimi interessa ovviamente studiare l’ottimizzazione e la
razionalizzazione delle spese sanitarie. E’ un’esigenza bioetica fondamentale quella di evitare che
l’allocazione delle risorse in sanità violi alcuni principi bioetici fondamentali, e primo tra tutti
quello dell’eguaglianza: tra i soggetti malati destinatari delle risorse sanitarie non si possono
fare discriminazioni sociali di alcun tipo. Poiché il diritto alla salute è un diritto umano
fondamentale, è indispensabile che nessuna discriminazione politica possa alterare il pari
accesso alle risorse sanitarie pubbliche da parte di coloro che vivono in comunità.
-problemi micro-allocativi, riguardano i singoli malati e le modalità di accesso alle risorse
sanitarie. Come selezionare quelli da trattare o comunque da trattare prioritamente? Diversi criteri,
primo tra tutti quello del “mero caso” che appare anche però come il meno ragionale. Altro criterio
è quello di favorire i malati più giovani rispetto ai più anziani, i malati con ruoli sociali più
forti rispetto a quelli con ruoli sociali deboli o inesistenti. Il diritto alla salute è un diritto umano
fondamentale e non ammette gerarchie. Molto discutibile è altresì il criterio del beneficio umano
e/o sociale che ci si può attendere privilegiando un paziente rispetto ad un altro. Passando poi alle
valutazioni che si possono fare in base a criteri di tipo strettamente sanitario: è ragionevole, ad es.,
ove l’organo da trapiantere sia uno soltanto, utilizzarlo prioritamente per un paziente che non abbia
altre patologie letali in atto e che possa con ogni probabilità ben reagire al trapianto, piuttosto che
per un paziente prevedibilmente in fase terminale per il sommarsi di diverse patologie molto gravi.
In merito alla micro- allocazione delle risorse, la presenza di Comitati di bioetica indipendenti e
autorevoli può essere di grande aiuto per risolvere problemi altrimenti intricatissimi.

ALTRE DIMENSIONI DELLA BIOETICA


Bioetica sociale: minori e anziani. Si parla di bioetica sociale indicando la riflessione sui problemi
etici di coloro che vivono in condizioni socio-sanitare di debolezza, di fragilità e di vulnerabilità:
debole è colui che non ha la possibilità transitoria o permanente di esprimere determinate capacità o
abilità. Sono deboli i minori intendendo con questo termine gli infanti, i bambini, gli adolescenti,
ossia colori che, non essendo ancora adulti, necessitano di specifiche attenzioni e cure; gli anziani
in condizione di graduale spegnimento delle facoltà cognitive e relazionali, spesso in situazioni di
non autosufficienza e bisognosi di assistenza; i disabili che, a causa di una patologia fisica e/o
psichica, non sono in grado di partecipare autonomamente alla vita sociale. È possibile distinguere
due linee di pensiero: teorie che emarginano i soggetti deboli privandoli di una garanzia oggettive di
tutela,ritenendo la debolezza una condizione di inferiorità ontologica etica e giuridica. E le teorie
che prendono in considerazione in modo specifico i soggetti deboli con l’intento di giustificare e
assicurare loro una protezione speciale in quanto ritenuti aventi pari dignità e diritti, anzi bisognosi
di diritti speciali per la loro condizione peculiare. La bioetica sociale intende porre una specifica
attenzione ai loro bisogni concreti tenendo in considerazione le situazioni di svantaggio, a causa
dell’età o di condizioni di malattie invalidanti. L’età serve a individuare staticamente lo stadio di
sviluppo raggiunto in senso fisico e psichico dalla persona; la malattia rileva tecnicamente e
diagnosticamente una condizione patologica e di non abilità; età e salute/malattia, dunque,
costituiscono si parametri descrittivi e quantitativi, ma contribuiscono altresì anche qualitativamente
e dinamicamente alla identificazione della persona.
Minori. Esseri umani dalla nascita alla maggiore età, includendo dunque neonati, bambini e
adolescenti. È una fase di sviluppo della vita umana che solleva una serie di problematiche sul
piano bioetico relativamente a interventi e trattamenti sanitari sui minori. Si delinea una tensione tra
le scienze umane che tematizzano dinamicamente le tappe di sviluppo del minore identificando la
gradualità e progressività nell’acquisizione dell’autonomia quale consapevolezza delle scelte e il
diritto che fissa staticamente la maggiore età come il momento di inizio della capacità di agire. Tale
tensione può essere mitigata da una riflessione filosofica sul “essere minori” quale condizione
ontologica. Una linea di pensiero ritiene che essere minore sia associabile a inferiore: l’inferiorità
cronologica, in ragione dell’età, diviene inferiorità gerarchica ontologica, assiologica e normativa; il
minore ha meno valore e meno diritti dell’adulto (considerato superiore). Altra linea di pensiero
ritiene che l’inferiorità abbia una valenza esistenziale, identificando una condizione di dipendenza,
in ragione della non piena maturazione psicofisica e sociale delle capacità: si giustifica in tal modo
un dovere di accudimento e una specifica tutela nei loro confronti, riconoscendone la piena
soggettività ontologica, in quanto esseri umani allo stesso titolo di qualsiasi altro. L’orientamento,
ispirato al paradigma libertario partendo dall’assunto che neonati e bambini non sono in grado di
scegliere, ritengono che siano gli altri a dover decidere sulla loro salute e sulla loro vita: in prima
istanza i genitori; tale autonomia dei genitori va rispettata in ogni caso, almeno fino a che non sia
evidente che i minori, divenuti adolescenti, siano in grado di essere pienamente autonomi e dunque
decidere per se. L’orientamento utilitarista ritiene che i genitori o tutori devono calcolare ciò che
conviene anche rispetto alla salute e alla vita di chi non può ancora decidere. L’orientamento
bioetico a difesa della dignità umana pone invece al centro della riflessione il bene oggettivo della
salute e della vita del minore, alla cui tutela sono chiamati a concorrere genitori, medico e minore
stesso. Il medico deve mettere in atto tutte le competenze tecniche e umane per valutare la soluzione
migliore nell’interesse del minore; i genitori sono chiamati a prendere le decisioni per il bene del
minore e in modo rispettoso della sua dignità. Se la terapia proposta dal medico è in grado di
guarire, i genitori devono collaborare affinchè sia sopportabile dal figlio minore anche contro la sua
volontà; in caso di incertezze sulle opzioni terapeutiche e sulla loro efficacia, genitori e figlio
minore sceglieranno se adeguarsi o meno al percorso terapeutico proposto dal medico. I limiti
dell’autonomia genitoriale rispetto ai trattamenti sanitari sui minori è identificabile nel
riconoscimento del bene oggettivo della vita umana. In bioetica emerge l’esigenza di introdurre
sistematicamente un colloquio col minore, nel quale egli possa esprimersi e essere ascoltato, in
modo che la presunzione di incapacità di intendere e volere giustificata in tenera età non venga
estesa a tutte le tappe di vita precedenti l’acquisizione della maggiore età. Il potere discrezionale
dei genitori si riduce in rapporto al progressivo accrescersi dell’autonomia e del peso della
volontà del minore: si vuole evitare l’adultocentrismo o prevaricazione degli adulti sui
bambini. I genitori non possono imporre arbitrariamente la propria volontà senza porsi in un
atteggiamento di apertura dialogica che tenga conto della sensibilità del minore e della sua
consapevolezza. Il minore va considerata persona a tutti gli effetti, perciò ha diritto di prendere
parte alle decisioni mediche che vengono prese su di lui: in riferimento alla Convenzione sui diritti
dell’uomo e della biomedicina, il parere del minore “deve essere tenuto in considerazione come un
fattore sempre più determinante in funzione dell’età e del grado di maturità”. Dovere di informare
(da parte del medico e dei genitori) e diritto di sapere (del minore).

Anziani. La bioetica si occupa di tematizzare lo statuto antropologico delle persone anziani come
persone deboli a causa dell’inevitabile declino, fisico-psichico-sociale con la diminuzione repentina
delle capacità intellettive, relazionali e di partecipazione alla vita sociale. I paradigmi libertario e
utilitaristico giustificano l’emarginazione della senilità in quanto in condizione di dipendenza
da altri e di inefficienza per la società. Gli anziani sono avvertiti come un peso per le famiglie
e la società, in quanto hanno un basso livello di qualità di vita e spesso esigono alti costi per la
cura e l’assistenza oltre all’impiego di energie per il loro accudimento. Ciò determina una
graduale perdita della dignità e dei diritti, affidando al mero senso di beneficenza individuale o
sociale la loro “presa in carico”. La riflessione bioetica sostiene che l’anziano, se pur in condizioni
esistenziali di fragilità è una persona umana a tutti gli effetti, avente dunque il diritto umano
fondamentale a essere curato. La vecchiaia, in quanto condizione di fragilità, è meritevole di
doverose specifiche attenzioni igieniche, biomediche e sociali. La bioetica denuncia tutte le
forme di violenza cui vengono sottoposti gli anziani. Ove la bioetica uscisse vittoriosa da questa,
chiamiamola battaglia, non potrebbe e dovrebbe ritenere esauriti i propri compiti poiché le
resterebbe da combattere l’ostacolo più grande, ossia il dato della “segreta ostilità che la vita in
crescita oppone alla vita declinante”. L’impegno della famiglia e la solidarietà della società nei loro
confronti non deve affievolirsi; la bioetica può difendere adeguatamente le esigenze degli anziani
proponendo interventi di valorizzazione dell’anziano autosufficiente e di prevenzione e assistenza
dell’anziano non autosufficiente. È indispensabile la garanzia della tutela dell’integrità fisica ma
anche del rispetto globale dell’anziano nella sua dignità personale, proteggendo la salute e adeguate
condizioni di integrazione e partecipazione socioculturale, nella considerazione delle preferenze e
nella graduazione dell’assistenza ai bisogni reali della singola persona. Si tratta di educare
all’accettazione dell’anzianità come condizione di esistenza: l’anzianità non va rifiutata,
costituisce una condizione di vita ineludibile che riguarda tutti gli esseri umani
nell’approssimarsi alla morte; non deve essere vissuta come la fine dell’esistenza ma come una
fase della vita che può e deve avere spazi di arricchimento; la debolezza della condizione
anziana non può giustificare una deresponsabilizzazione familiare o sociale. L’anzianità si
manifesta da un lato come condizione di maggiore incidenza di malattie, disfunzioni, inabilità,
dall’altro è anche il luogo dove si possono manifestare risorse emotive e intellettuali
valorizzabili: anzianità vista non solo come fragilità ma come risorsa potenziale da stimolare.
La società, in questo senso, è chiamata a promuovere risorse per gli anziani e le famiglie. Il cd.
bilancio di competenze aiuta l’anziano a identificare le preferenze e le motivazioni e ad elaborare
un progetto personale e sociale, ad adattarsi a una nuova condizione di vita per imparare a
invecchiare, considerando la sua condizione quale opportunità formativa e di comunicazione
intergenerazionale. La legge n. 6 del 2004 a tal proposito ha istituito la figura dell’amministratore di
sostegno che supporta la capacità di agire di chi si trovi in condizioni di impossibilità, di provvedere
ai propri interessi senza far ricorso alla interdizione o inabilitazione. La comunità è giusto che
garantisca le risorse adeguate per l’assistenza e la cura di coloro che hanno contribuito al
benessere collettivo del passato e continuano, in qualche misura, anche nel presente.
Disabili. per disabilità si intende qualsiasi limitazione o perdita della capacità di compiere
un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano: è distinta
dall’Handicap considerato “condizione di svantaggio conseguente a una menomazione o a una
disabilità che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale
soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali”. La disabilità fa riferimento sia al
corpo sia all’attività individuale, alla partecipazione alla vita sociale e ai fattori ambientali. La
disabilità diviene una condizione universale: ogni essere umano, in diversi momenti della sua
vita può essere disabile, essendo una condizione che limita l’interazione tra la persona e
l’ambiente rendendo l’individuo meno autonomo nello svolgere le normali attività sociali
quotidiane. La disabilità è la condizione di debolezza che consegue a una relazione tra i fattori
personali sociali ambientali e la salute di un individuo. La bioetica sociale nell’ambito della
disabilità fa emergere due questioni di particolare rilievo: la questione della discriminazione/non
discriminazione e la questione della riabilitazione. Il paradigma bioetico libertario e utilitarista
ritiene che i disabili non abbiano uno statuto di persone, dunque non abbiano dignità, non abbiano
diritti, non debbono essere tenuti in considerazione nel l’ambito delle politiche sociali. La
prospettiva libertaria ritiene che il soggetto disabile escluso dalla categoria di persona in senso
proprio a causa della assenza di autonomia e conseguente dipendenza dagli altri: in questo senso la
pianificazione della riabilitazione è strettamente correlata alla previsione del recupero della piena
capacità di autonomia (autosufficienza, autoconsapevolezza e autodeterminazione); la prospettiva
etica utilitaristica nega la soggettività piena ai disabili a causa della scarsa qualità di vita e di non
sufficiente produttività o efficienza sociale. La definizione del programma di riabilitazione (e del
connesso stanziamento di risorse economiche e umane a tal fine) dipende dalla valutazione delle
concrete e prevedibili possibilità di recupero di una sufficiente qualità della vita, non giustificando
spese considerate futili e inutili in quanto improduttive. Si tratta di due approcci (quello utilitarista e
libertario) che rischiano di produrre due esiti opposti: “l’abbandono” riabilitativo o “l’accanimento”
riabilitativo: nella misura in cui si ritiene che la persona abbia utilità solo se in condizioni di
autonomia ed efficienza ne può derivare un atteggiamento rinunciatario (abbandono del programma
riabilitativo nel caso di un prevedibile irraggiungimento dell’obbiettivo desiderato) o un
atteggiamento eccessivo, ossia decidere di attivare tutte le risorse possibili e disponibili per
raggiungere l’obiettivo a ogni costo, quando non sussistono le condizioni obiettive di recupero
totale, in una corsa verso l’efficientismo, il produttivismo, l’economicismo e l’autonomismo
esasperato. Il paradigma della bioetica sociale, riconosce il valore dell’uomo a prescindere delle
funzioni che è in grado di manifestare esteriormente; la riabilitazione, in questo contesto, non
è solo la programmazione di interventi terapeutici e assistenziali per un recupero delle
funzioni e dell’abilità, ma è un progetto integrale rivolto alla persona diversamente abile che
coinvolge diversi piani (fisico, psichico, sociale, ambientale e spirituale). La riabilitazione deve
adeguarsi alle trasformazioni soggettive e oggettive: si tratta di un percorso che presuppone la
relazionalità tra tutti coloro che iniziano a intraprendere il cammino: il medico, il malato, i
riabilitatori, la famiglia. La riabilitazione è da considerarsi molto più che una prassi: riabilitare
significa attivare una serie di interventi sul corpo e sulla persona terapeutici ma anche e
soprattutto umani; non si tratta solo di ripristinare l’uso di una funzione (un arto, un organo,
una capacità), ma anche instaurare un rapporto umano col paziente, prevede una interazione
attiva di entrambe le parti per recuperare un equilibrio dinamico. In questa direzione è
indispensabile promuovere una cultura bioetica sociale che da un lato abbatta le barriere
architettoniche, ritenendo giustificata sul piano politico sanitario ogni spesa che sappia ridare
speranza a chi soffre, e abbattendo le barriere della mente e i pregiudizi: è necessario un impegno
comunitario affinchè il disabile non si senta solo e emarginato, ma si senta accolto in una società
che comprenda la disabilità come potenzialità e non residualità. Per quanto riguarda la condizione
specifica dei disabili di mente la condizione è di estrema dipendenza: per quanto significativi
possano essere i trattamenti cui sono sottoposti, alcuni di loro hanno bisogno di un’elevata qualità e
quantità di cure per tutto il corso della loro vita. La distinzione tra capacità giuridica e capacità di
agire indica che la prima spetta a ogni essere umano fin dalla nascita e coincide con la capacità di
essere titolare di diritti e doveri; la seconda è la capacità di poter esercitare in modo diretto
personale e responsabile, i propri diritti e spetta solo ai soggetti che abbiano superato la maggiore
età e che non versino in stato di incapacità di intendere e volere. Per tutelare gli incapaci titolari di
capacità giuridica e non di capacità di agire, l’ordinamento giuridico prevede varie figure: potestà
genitoriale, tutela, curatela; istituisce figure specializzate di magistrati, giudici tutelari, cui può
essere deferita la tutela di incapaci. In Italia è vigente la Legge quadro, per l’assistenza,
integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Vi è un dato vistoso, quello della
massiccia rimozione della sofferenza umana come problema inaccettabile e inspiegabile; Nietzsche
ha espresso questa esigenza di rimozione: “i deboli mal riusciti devono perire: questo è il principio
del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche essere loro di aiuto”. Nel nostro caso
ciò avviene tramite il riferimento alla tecnica.

Bioetica interculturale. Nell’ambito della bioetica sociale si delinea la cd. bioetnoetica: si tratta di
quella parte della bioetica che si occupa delle questioni socio-sanitarie connesse alla diversità delle
etnie e culture. Ogni cultura ha una propria bioetica; ogni cultura ha colto e interpretato a suo modo
la rilevanza e il ruolo della bioetica in ambito teorico e applicativo. La convivenza di etnie in uno
stesso territorio e in una stessa epoca costringe ad uscire dalla visione limitata della propria cultura
ed instaurare, inevitabilmente, un confronto. Vi sono alcune linee di tendenza: la bioetica
etnocentrica, la bioetica multiculturale, la bioetica internazionale e la bioetica meta culturale.
 Bioetica etnocentrica, si intende la riflessione bioetica che considera la propria cultura
come superiore alle altre ritenute inferiori, in una visione gerarchica: si tratta di una
prospettiva che assolutizza in modo esclusivo la bioetica della propria cultura come “LA”
bioetica predominante, con la conseguente imposizione della propria prospettiva sulle altre
bioetiche delle altre culture. Presuppone la superiorità dei propri valori culturali, non ritiene
necessario un confronto con le altre culture (nella ricerca di valori comuni), si impone sulle
culture più deboli esigendo un loro adeguamento. Propone il modello di assimilazione,
esigendo che coloro che appartengono ad altre culture si adattino alla bioetica della cultura
“principale”(paternalismo bioetico che porta alla perdita della identità culturale) e il modello
della subordinazione elle altre culture e del possibile sfruttamento. CRITICA: propone in
modo arbitrario ed indebito la propria posizione come superiore con un atteggiamento di
arroganza intollerante e ingiustificato.
 Bioetica multiculturale, ritiene che la bioetica di ogni cultura sia e debba essere posta sullo
stesso piano rispetto alla bioetica di qualsiasi altra cultura: ogni bioetica di ogni cultura è
ritenuta equivalente rispetto a qualsiasi altra. È la teoria che propone un atteggiamento di
tolleranza, intesa come sopportazione e accettazione passiva di ogni bioetica culturale come
si manifesta, senza esprimere alcun giudizio etico. È la prospettiva relativista che, nell’ottica
della giustapposizione delle molteplici e diverse bioetiche, ritiene che la pluralità di
bioetiche sia irriducibile ad unità (non essendo conoscibili valori comuni): in questo senso la
bioetica multiculturale ritiene che non abbia senso cercare valori comuni, che non sia
nemmeno auspicabile trovare valori comuni, ritenendo la pluralità migliore dell’unità quale
espressione di ricchezza e originalità. Ogni bioetica è un mondo “chiuso” e tollera qualsiasi
altra bioetica culturale. CRITICA: cade in contraddizione nella misura in cui avanza pretese
incompatibili: da un lato nega l’esistenza e la conoscibilità di valori comuni, dall’altro
propone la tolleranza ritenendo sbagliato che chi vive in un contesto culturale giudichi ed
interferisca con i principi di un altro contesto culturale; la seconda affermazione entra in
contrasto con la prima, pretendendo di avere una valenza cognitivista.
 Bioetica internazionale, si apre alla ricerca di un confronto TRA le culture per trovare
valori comuni. Vi sono due versioni:
o Bioetica internazionale procedurale, intende costruire razionalmente un ordine
morale e giuridico su base convenzionale: l’unica ed esclusiva fonte di legittimità
delle norme è, l’accordo tra individui in grado di accordarsi, ove il contratto rimane
sempre aperto alla negoziazione tra le parti, individui umani autonomi, posti
ipoteticamente in una posizione “originaria” dietro un “velo di ignoranza” (seguendo
la teoria di J.Rawls), stipulano un patto per concordare la procedura per la gestione
dei conflitti, procedura che, una volta concordata, sia vincolante e non possa essere
alterata arbitrariamente dai singoli o dai gruppi culturali: la procedura consiste nella
ricerca, degli ambiti nei quali le culture sono disposte a trattare ed ambiti che
considerano irrinunciabili, c.d. “beni primari non negoziabili”; questi non hanno una
valenza sostanziale ma solo procedurale, in quanto prescindono intenzionalmente dal
contenuto di ogni cultura. Ne consegue che i beni primari non negoziabili possono
anche essere contrari, sostanzialmente, ai diritti umani.
o Bioetica internazionale principalista (o dei principi), ritiene che sia possibile
costruire una bioetica internazionale solo al livello dei principi(livello intermedio tra
teorie e giudizi): non ritiene possibile condividere teorie sul piano filosofico ma si
ammette la possibilità di giungere ad un consenso e ad una convergenza tra le culture
intorno all’accettazione di principi da cui trarre regole per la politica e la prassi
biomedica, quali principi di autonomia, di non maleficenza, di beneficità e di
giustizia. CRITICA: è facile cogliere una matrice culturale occidentale: non tutte le
culture condividono pero tali principi, ma pur se condivisi, rischierebbero di
rimanere etichette vuote, assumendo significati diversi nei diversi contesti culturali,
col rischio di contrapporsi anziché integrarsi.
 Bioetica meta culturale, ritiene possibile trovare almeno un valore comune transculturale
minimo, rintracciabile nella relazionalità: ammettere il valore della relazionalità significa
riconoscere l’esigenza del rispetto, della dignità umana quale condizioni di possibilità della
relazione. Ogni bioetica in ogni cultura è giudicabile: anzi, esiste un dovere di esprimere in
giudizio sulle bioetiche delle diverse culture (contro tesi relativista) non un giudizio di
superiorità o inferiorità (come bioetica etnocentrica) ma un giudizio di verità. L’uguaglianza
deve garantire a tutti gli uomini, a prescindere dall’appartenenza culturale, la possibilità di
conoscersi in quanto uomini, di porsi in relazione. L’uguaglianza è il presupposto per il
riconoscimento delle differenze che non è inteso come presa d’atto della diversità, ma come
interazione significativa tra gli uomini. Compito della bioetica, qui, è quello di riconoscere
la differenza tra le culture nella misura in cui tali differenze non rinneghino la relazionalità
interpersonale. La rilevanza della bioetica meta culturale consiste nella ricerca critica di
una continua mediazione interculturale tra i diritti umani e le esigenze specifiche delle
diverse culture; spetta l’onere di custodire il corretto evolversi della dialettica delle culture
onde evitare la tentazione della prevaricazione, per affermare la logica relazione della
diversità nell’uguaglianza, quale condizione inalienabile per l’affermazione dell’identità
soggettiva e del riconoscimento dell’uomo come soggetto giuridico transculturale. Tutto ciò
significa non pretendere di individuare la supremazia di una cultura sull’altra, né limitarsi a
giustificarle tutte ideologicamente: al contrario confrontare le bioetiche significa riconoscere
alla ragione umana la possibilità di avvicinarsi gradualmente alla verità oggettiva,
dialettizando culture diverse nella consapevolezza dell’impossibilità di possedere in modo
compiuto la verità (sapendo cioè che essa è sempre ulteriore rispetto a qualsiasi
formulazione ideologica in cui si possa esprimere). Obiettivo del confronto tra le culture in
Bioetica è cogliere le ragioni profonde che riconoscono la dignità dell’uomo. La prima
apparizione della bioetica meta culturale si è espressa nel 1947, nella condanna ai medici
nazisti per “crimini contro l’umanità”.
Una delle questioni bioeticamente controverse riguarda la questione del diritto alla libertà
religiosa nella triplice valenza di libertà di fede, di proselitismo e libertà di culto. È solo grazie al
Cristianesimo che si è fatta strada l’idea che la fede sia incoercibile, che nessun uomo possa essere
obbligato dallo Stato o comunque dalla società civile cui appartiene a rendere omaggio a Dio e che
quello della propria coscienza è un vero e proprio sacrario.
Bioetica animale. Si occupa della liceità e illiceità riguardo interventi e trattamenti degli animali. Si
è sempre ritenuto evidente nella cultura occidentale che gli uomini avessero potere di soggiogare gli
animali a loro piacimento, e avessero un vero e proprio diritto di vita o di morte. Negli ultimi tempi
tali pretese sono andate in crisi prendendo atto di quanto fosse vistosa la brutalità con cui venivano
trattati gli animali. La difesa più appassionata dei loro diritti è quella elaborata negli ultimi decenni
da vari studiosi che sostengono che, se non possiamo prendere atto del primato fattuale che la
specie umana ha conquistato su ogni altra specie vivente, da ciò non consegue che tale primato
debba essere ritenuto eticamente giustificato. Ryder nel 1972 ha introdotto il termine “specismo”:
idolatrando la propria specie il genere umano commetterebbe un errore teorico ed etico. La critica
allo specismo già stata proposta da Bentham per il quale gli animali andrebbero pienamente
considerati “soggetti morali”: essi se non possono parlare possono soffrire, e l’impegno a evitare la
sofferenza di una creatura vivente avrebbe rilievo etico prioritario; anche se agli animali non può
essere attribuita la qualifica di attori morali (poiché gli manca la possibilità di elaborare la
distinzione tra bene e male) ad essi può applicarsi la categoria elaborata da Regan di “pazienti
morali”: esseri viventi che possono venire trattati giustamente o ingiustamente solo da noi umani.
La bioetica animalista parte dal presupposto che non c’è differenza di valore ma solo di potenza tra
uomini e animali. Bisogna però difendere gli animali, in quanto, secondo Tommaso d’Aquino la
negazione ontologica uomo animale non implica che non si possa nutrire un amore di carità verso
gli animali poiché sono creature di Dio e amandoli manifestiamo amore per il Creatore. L’odio
verso gli animali può acquistare in questo contesto disprezzo per le cose create dal Creatore. Ogni
forma di sofferenza imposta agli animali deve possedere un’adeguata giustificazione. Il bene umano
ha priorità sul bene dell’animale ma poiché anche quest’ultimo è autentico è necessario che
l’affermazione del bene umano non conduca all’annichilimento indebito del bene dell’animale. È
lecito usare gli animali per alimentarci, per alleviare il nostro lavoro, per compagnia; è lecito
utilizzarli per la sperimentazione medica e farmacologica. Ciò che non è lecito è pensarli e ridurli a
cose. Una delle questioni connesse alla bioetica animale è il vegetarianismo: “concezione e prassi
di alimentazione umana basata su presupposti di ordine non solo igienico, ma anche etico religioso
che prescrive l’uso di alimenti vegetali. Meno diffuso è il termine vegetarismo: “concezione
dell’alimentazione umana, derivata dal vegetarianismo, di cui rappresenta la forma più radicale, che
esclude l’uso di alimenti di provenienza animale e consente solo quello di alimenti vegetali”. Per
indicare l’uso di mangiare carne si potrebbe utilizzare sarcofagia: i sarcofagi sono denominati in tal
modo, come divoratori di carne, perché i cadaveri posti al loro interno lentamente sono divorati.
Precetto cardine dell’utilitarismo è: minimizzare il dolore per qualsiasi essere senziente, umano e
quindi anche animale. Se il problema fosse evitare il dolore una macellazione indolore non
dovrebbe riscuotere disapprovazione. Bentham, utilitarista, riteneva lecito mangiare carne di
animali purchè fossero stari uccisi in modo indolore. Le esigenze alimentari umane non giustificano
pratiche crudeli di allevamento e macellazione degli animali perché la crudeltà è un male morale
ingiustificabile. Quella vegetariana deve essere una scelta libera ma privata.
Bioetica ambientale. Coniatore del termine bioetica, Potter riteneva che occorresse costruire un
ponte tra scienze umane e biologiche. Il termine ecologia è stato coniato nel 1866 da Haeckel, e nel
1933 introdotto nell’opera Ecologia degli animali di Elton. Nucleo essenziale è il concetto di
ambiente: insieme delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche in cui si può svolgere la vita di un
organismo animale o vegetale. L’ambiente costituisce un problema perché è una realtà non
oggettivabile, dinamica. Non è possibile assumere come punto di partenza per una riflessione
sull’ambiente naturale l’idea che questo sia sempre e comunque benevolo: dovremmo concludere
che la vita in generale e umana sono mere accidentalità cosmiche sottoposte a forze incontenibili
che le sovrastano ciecamente. Conclusione che può essere confutata in quanto l’uomo ha una
capacità “tecnomorfica” di plasmare l’ambiente in cui vive, di umanizzarlo e di alterarlo fino alla
distruzione. Per studiare la natura come ambiente bisogna supporre questa come una realtà unitaria
e dotata di un senso. Qui si può ritenere legittimo che la natura non si riduca ad un generico insieme
di elementi, ma costituisce un unità che sussiste prima ancora che se ne possa analizzare i diversi
componenti. Se è possibile ipotizzare un sapere umano che abbia per oggetto la natura è altresì
legittimo affermare che esiste un rapporto primigenio tra uomo e natura e che questo sono
reciprocamente coinvolti. Per quanto concerne la questione dell’ambiente naturale, se si assume una
concezione ristretta di natura è ovvio concludere che l’uomo, poichè ha il potere di trascenderla e
dominarla, è legittimato a farlo, con l’unico vincolo della tutela dei suoi interessi. Se invece, si
intende l’ambiente come il “diverso da noi”, non si potrà più ritenere che l’uomo sia una variabile
indipendente rispetto ad esso e l’ambiente non potrà essere pensato come qualcosa che l’uomo
possa smontare e rimontare a suo piacimento.
Bioetica post-umana. Si occupa delle problematiche connesse alle possibilità di manipolazione del
corpo umano aperte dalle nuove biotecnologie GNR (genetica, nanotecnologie e robotica)
unitamente alle tecnlogie informatiche, finalizzate alla creazione di ibridi uomo-macchina(cyborg)
o robot dette anche entità post-umane o trans-umane. La riflessione bioetica dilata la
considerazione della soggettività oltre l’umano e la vita organica, presente e futura, fino ad
includere nuovi soggetti intermedi tra organico ed inorganico, nuovi soggetti artificiali, inanimati,
virtuali, cibernetici, sintetici. Si tratta di progettare un uso delle biotecnlogie a scopo sperimentale,
al fine di trasformare l’uomo per realizzare il suo potenziamento, ossia perfezionamento e
miglioramento mediante manipolazione genetica sia somatica che germinale del corpo,
l’introduzione di tecnologie per sostituire parti del corpo, la manipolazione della mente e
sostituzione artificiale del pensiero, la creazione di robot, autonomi con corpo-macchina e mente-
computer. Seguendo l’idea lanciata dai teorici dell’intelligenza artificiale, la bioetica post-umana
apre tecno-profeticamente un orizzonte futuro che potrebbe portare ad una alterazione radicale della
natura umana mettendo in correlazione il corpo umano con i computer sino alla totale
artificializzazione dell’umano. È la prospettazione di un futuro che tenderà a svuotare i corpi umani,
riducendoli a meri ricettacoli di componenti biotecnlogiche mutanti in gradi di assistere i processi
vitali dell’organismo se non a sostituirli, nello sforzo di immaginare e progettare una condizione
umana, che superi i limiti biologici, fisici e mentali. Nella fusione produttiva di uomo e macchina.
L’impianto nel corpo di materiali che non crescono organicamente, la costruzione di corpi imbottiti
di protesi e la progettazione di robot sono esempi di oggettivazione tecnica della natura umana.
Vi è una linea di pensiero che a partire da una concezione funzionalistica della persona (ridotta
all’esercizio di funzioni cognitive e volitive) ha aperto la strada alla tematizzazione della
disincarnazione del soggetto: la persona è identificabile nell’esistenza di un individuo in grado
esercitare determinate funzioni a prescindere dall’esistenza biologica di un corpo e
dell’appartenenza ad una determinata specie. Engelhardt porta al superamento della distinzione tra
corpo biologico di un uomo o di un angelo, di un extraterrestre o di un’intelligenza artificiale, nella
misura in cui fossero entità dotate delle capacità funzionali che qualificano la soggettività. I teorici
dell’intelligenza artificiale offrono argomento etici e tecnici a sostegno della convergenza
dell’intelligenza artificiale con l’intelligenza umana. Moravec e Bostrom ritengono che la bioetica
debba sostenere tali nuovi percorsi riconoscendo come unico limite i problemi economici. Il
pensiero postumanista e transumanista si richiama alla concezione di dualismo antropologico che da
Platone attraverso Cartesio ha caratterizzato parte della riflessione occidentale. La considerazione
del corpo come peso (Platone parlava di tomba dell’anima), la separazione del corpo dalla mente
sono alla base di tale orientamento che a partire da una svalutazione della corporeità giustifica la
fungibilità del corpo e della stessa mente. La postumanità segnerà l’epoca della liberazione totale
del corpo umano grazie al dominio della tecnica. Il corpo viene ridotto alla condizione di pure
oggetto, manipolabile e modificabile, assoggettato ad un controllo di qualità. Alcuni scienziati
preconizzzano la distruzione dell’uomo, ritenendo che leggi etica e istituzioni non siano sufficienti
per contrastare l’esaltazione tecnologica, sollecitando ad una ribellione al dominio delle macchine
sugli uomini. Questi timori si inscrivono nell’orientamento che Lecourt definisce del
“biocatastrofismo tecnofobico”. Di fronte a tali scenari futuri è indispensabile attivare una
riflessione filosofica critica sul corpo umano che sappia individuare i limiti delle biotecnologie
GNR e informatiche, senza esaltare la tecnologia disprezzando il corpo né esaltare il corpo
disprezzando la tecnologia. L’obiettivo è quello di consentire interventi biotecnologici, genetici e
informatici sul corpo umano senza snaturarne l’identità. Il transumanesimo diviene mostruoso nella
misura in cui intende intenzionalmente trasformare il corpo umano in identità nuova che sconvolge
radicalmente la dimensione intrinseca della identità antropologica. Il progetto postumanista tende a
portare l’uomo a fuggire dalla temporalità e dalla spazialità che lo costituisce: ma l’allontanamento
dall’io del proprio corpo provocherebbe un disadattamento profondo: è importante ricordrea che le
comunità virtuali sono originate dal corpo fisico e ad esso devono ritornare.

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