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“medico degli schiavi”- non è al servizio dei malati, ma dei padroni di questi; perciò non
perde tempo a parlare con i pazienti, gira frettolosamente per la città con l’unico desiderio di
massimizzare i suoi guadagni e verso i malati si comporta quasi come un tiranno, perché
li obbliga ad assumere farmaci senza spiegargliene gli effetti
“medico dei liberi” - vero medico poiché è colui che prima ancora che curare cerca di
capire la causa del male; colui che interroga il paziente sul suo stile di vita e non prescrive
alcun farmaco prima di aver convinto il malato sulla opportunità della prescrizione.
Nella tradizione ippocratica, l’autentico sapere medico ha si per oggetto il corpo ma è anche e
soprattutto un sapere che non ignora che la via per la conoscenza del corpo è una via che chiede la
conoscenza dell’intero dell’uomo; una conoscenza che implica una generica responsabilità del
medico, come scienziato, nei confronto della verità e una responsabilità del medico, come uomo,
nei confronti di quegli altri uomini “concreti” che sono i suoi pazienti. Frequentemente si è parlato
di crisi della medicina ippocratica poiché a seguito dell’affermarsi ottocentesco del modello
positivistico di scienza, la medicina dialogica tenderebbe sempre più ad essere sostituita da una
medicina scientifica. Si pensi allo sviluppo della bioingegneria che, frapponendo tra medico e
paziente la macchina, come strumento preciso ed affidabile di diagnosi e terapia, azzererebbe o
comunque ridurrebbe le possibilità di un incontro personale. Si pensi infine a come la modernità
abbia alterato il rapporto dell’uomo col proprio corpo. Al corpo, diceva Platone, non basta essere
corpo. La modernità risponde: questo è un desiderio infantile, il corpo, nella prospettiva
materialistica oggi dominante, non rinvia ad altro che a se stesso. Sarebbe quindi il corpo e non più
l’uomo a divenire “l’altro” nella relazione terapeutica, l’unico referente della malattia; il corpo visto
come organismo, cioè in qualche modo, come diverso rispetto all’uomo, come portatore di
un’identità propria e distinta. Il concetto di malattia, a partire da questi presupposti, ha subito
modificazioni radicali. La malattia ha cessato di essere metaforicamente identificata come un
nemico da combattere, ed è stata appiattita a mero evento biologico; la si assimila agli stati di
anormalità che non può essere focalizzata attraverso riferimento sintomatici, obiettivamente
fisiologici(come ad es. il dolore) ma essenzialmente attraverso riferimenti statistici. La stessa
biologia tende ad eliminare la contrapposizione tra “normale” e “patologico” proclamando
insistentemente che la vita nella sua forma patologica non è “l’assenza di norme ma l’emergere di
altre norme”. All’uso di questi nuovi paradigmi vanno addebitate quelle pratiche di medicina
disumana, tipiche dei campi nazisti, in cui la patologia non era assunta come un nemico da
combattere ma come mera dimensione del possibile biologico, degna in certi casi di assurgere al
rango di monstrum (avvenimento portentoso, perché statisticamente raro) e di essere quindi, per una
migliore osservazione, artificialmente indotta all’uomo. Proprio a seguito dell’orrore suscitato da
queste pratiche è nata la bioetica e il suo consolidarsi nelle coscienze. La bioetica è nata non per
stigmatizzare la medicina moderna, ma per operare affinché questa non dimentichi le sue radici
ippocratiche. Compito della bioetica sarà quindi quello di aiutare la medicina a sottrarsi dalla
tentazione ossessiva del monologo. Tradurre in termini dialogici i problemi di etica medica significa
impostarli a partire dalle esigenze stesse della relazionalità. La bioetica non chiede al medico di
rinunciare alle conquiste della tecnologia più avanzata e meno che mai di rinunciare alla
scientificità del suo sapere; gli chiede solo di assumere la consapevolezza che quella della medicina
è una scientificità specifica, che non può essere modellata su quella tipica di altri settore dello
scibile.
BIOETICA E COMUNICAZIONE. Ogni esperienza umana di carattere relazionale mette alla
prova se stessa e la sua autenticità nella comunicazione. La scienza è stata qualificata come una
vera e propria impresa collettiva, basata sulla comunicazione tra scienziati e l’esperienza della
medicina non solo vive nel, ma nasce dal rapporto comunicativo medico/paziente. Comunicazione
medico/paziente – nella tradizione ippocratica, la relazione terapeutica medico/paziente è pensata
come dialogica: la malattia è un’afflizione del corpo ma va considerata anche come e soprattutto
come afflizione della persona nella sua totalità; la diagnosi, di conseguenza esige un’attenta
ispezione del corpo malato e della parte di questo colpita dalla malattia ma esige altresì un’adeguata
considerazione dell’alterazione globale che essa induce nell’equilibrio biologico, psicologico ed
esistenziale del malato stesso. Il progresso della biomedicina integra in modo significativa tale
paradigma ippocratico della comunicazione.
Nella prospettiva tradizionale questa comunicazione era caratterizzata dal primato del medico
sul paziente sotto l’aspetto delle sue competenze cognitive e si riteneva che solo al medico
spettasse l’elaborazione della decisione terapeutica e che nei confronti di questa il paziente
dovesse assumere un atteggiamento di passività, anche se collaborativa. Tale asimmetria era
giustificata dall’orizzonte etico poiché si voleva massimizzare il bene del paziente.
Tale modello, pur mantenendo la sua pregnanza nella stragrande maggioranza dei casi e talvolta
per esplicita richiesta del paziente, mal si adatta alla complessità della medicina contemporanea
che rende possibili e plausibili molteplici iniziative diagnostiche e strategie terapeutiche, di
diversa invasività, tollerabilità da parte del malato, di diversa rischiosità e di diversa onerosità.
Individuare a quali itinerari diagnostici sottoporsi diventa non solo sempre più complesso, col
progresso della medicina, ma esige anche la ponderazione di una molteplicità di elementi
valutativi che non sono sempre di esclusiva competenza medica. Il ruolo del paziente tende,
dunque, a diventare più attivo nella comunicazione col terapeuta, poiché solo al paziente spetta
formulare quelle indicazioni concrete (di carattere economico, familiare ed esistenziale) che
integrandosi con quelle scientifiche elaborate dal medico, consentono di giungere ad una scelta
concreta di trattamento. Comunicazione scientifica. Questa si caratterizza per il suo carattere
impersonale, esasperato per lo più dalle peculiarità lessicali e dalla formalizzazione, che sono
proprie del linguaggio scientifico. Il carattere aperto e planetario della comunicazione tra
scienziati rappresenta uno dei fattori che spiegano l’imporsi della scienza come modello
epistemologico dominante nella modernità. Da una parte, grazie ai suoi progressi e agli
eccezionali risultati, la scienza si è trovata nella necessità di esigere finanziamenti sempre più
vistosi; dall’altra ha attivato nella pubblica opinione mondiale timori e paure che si sono tradotti
in forti istanze di controllo delle stesse pratiche scientifiche. Scienza e scienziati devono quindi
attivare canali di comunicazione corretta, rigorosa ed efficace con la pubblica opinione
mondiale; ciò ha fatto perdere il monopolio della politica della scienza, la quale, risulta
strettamente dipendente dal consenso della società civile.
BIOETICA E RAGIONAMENTO. Le riflessioni e le dispute che hanno per oggetto
l’ottimizzazione del ragionamento in bioetica appaiono astratte e sterili poiché l’etica a differenza
della logica, non può partire da premesse chiare, precise e distinte e giungere a conclusioni
altrettanto chiare, precise e distinte. La logica si nutre di dimostrazioni mentre l’etica più che
dimostrare può tutt’al più mostrare. La verità dell’etica è una verità esistenziale dato che il bene più
che nell’intelletto vive nell’esperienza personale e relazionale. Da tali riflessioni si può comunque
imparare a pensare in modo riflessivo, a tener separati gli affetti e i sentimenti dalle valutazioni
razionali e soprattutto a oggettivare le proprie analisi. In bioetica più che la forza della logica
soccorre la virtù che i greci chiamano phronesis e i latini prudentia. In italiano, prudenza, significa
cautela, capacità di prevedere i rischi ed evitarli. Prudentia, è una dimensione di saggezza
pratica, che nasce non solo dal buono uso del nostro intelletto ma da una buona capacità di
leggere le pieghe della realtà, le determinazioni imprevedibili che si nascondono dietro ogni caso
umano. Il bioeticista di oggi dovrebbe essere simile a un saggio giudice, consapevole che ogni caso
giudizio è diverso dall’altro e che fare giustizia non significa applicare a tutti piattamente la stessa
legge, ma nel rispetto della legge, far emergere dal caso concreto le modalità ottimali per la sua
regolamentazione. Ragionare, in bioetica, significa soprattutto saper riflettere sui casi, riportandoli a
valutazioni di principio senza dimenticare che ciò che distingue i singoli casi è più rilevante di ciò
che sembra analogarli: se tutte le patologie sono analoghe, i singoli malati sono sempre tutti diversi
ed esigono di essere trattati in modo diverso e personalizzato e non in modo paritario e
sostanzialmente freddo e burocratico. Il bioeticistasta:
distinguere, nel problema che deve fronteggiare, gli aspetti fattuali dagli aspetti morali;
deve poi elaborare un primo e provvisorio giudizio morale, mettendo a fuoco su quali
premesse esso di fatto si fonda;
deve poi confrontare i propri giudizi morali con quelli altre persone, a maggior ragione se
esperte ed autorevoli;
è indispensabile che si prefiguri consensi e dissensi che possono sorgere quando il giudizio
morale viene reso pubblico. In particolare è doveroso elaborare una strategia nei confronti
degli atteggiamenti di dissenso: in alcuni casi le posizioni di dissenso potranno essere
riassorbite, in altri riconosciute e rispettate, in altri ancora sarò doveroso tollerarle; in pochi
casi estremi si potrà ipotizzare la loro assoluta intollerabilità. Es. è probabile che il
bioeticista ritenga giustificabile sostenere che esista per un malato il dovere etico di
sottoporsi alla terapia, in specie se particolarmente invasiva. Il malato, dal canto suo può
scegliere diversamente e il medico dovrà rispettare la volontà del malato e la sua pratica
professionale potrà ridursi ad una assistenza meramente palliativa. Il paziente, tuttavia
potrebbe rifiutare anche tale assistenza palliativa e il medico a sua volta dovrà rispettare tale
decisione, libero, comunque, di criticarla eticamente. Ove però la rinuncia sia fatta da un
genitore di minore gravemente malato, il medico, non esistendo più spazio alcuno per la
tolleranza delle pretese del suo paziente, avrebbe il dovere di salvare la vita del minore
malato, andando contro le indicazione del genitore e invocando, se necessario, l’intervento
di un magistrato.
LA VITA TRA (BIO)ETICA E (BIO)DIRITTO. Oggetto del ragionamento bioetico è la vita.
Nella logica di Jena, Hegel scrive che “di fronte alla vita, il pensiero si dissolve: per la mente
l’onnipresenza del semplice nella molteplicità del sembiante è una contraddizione assoluta, un
mistero impenetrabile ”. Anche se per la scienza un termine come mistero è insopportabile bisogna
dire che tale affermazione non è stata ancora smentita. Un modo di affrontare il tema della vita è
quello di impostarlo nelle sue valenze lessicali ma non potendo tener conto del linguaggio oggi a
nostra disposizione, a causa della sua indubbia povertà bisogna chiedere aiuto ad un lessico lontano:
ad esempio se cerchiamo nel greco l’equivalente di vita troviamo:
La zoé indica la vita come fenomeno fisico; allude alla vitalità che si esprime e manifesta in
tutti gli esseri organici e che si percepisce nell’esperienza. Con essa percepiamo e ponendo
la distinzione vita/non vita, elaboriamo l’dea del luogo che siamo chiamati ad occupare nel
mondo: costruiamo la categoria dell’ambiente. In questa accezione il termine vita non
conosce plurale. Possono esserci più forme di vita( bioi in greco) ma la zoè è una soltanto,
non ci possono essere più vite. Non conosce termini antagonistici, dalla zoé si può
distinguere ciò che non è vitale, non si può contrapporre ad essa la morte perché quelli che
muoiono sono i singoli viventi non il principio della vita. La nostra generazione ha
elaborato la consapevolezza e percepito la possibilità che la zoè possa essere distrutta, tema
a cui danno credito i movimenti ecologisti, ma questi, sono a favore non della zoè ma del
bios, cioè delle singole specifiche forme di vita poste a rischio dalla manipolazione
dell’ambiente ma non è attraverso il bios che si salva la zoè: diversamente da questa, il bios
è costitutivamente individuale, costitutivamente plurale e costitutivamente mortale. Il
precetto salva la zoé è privo di contenuto cognitivo; il precetto salva il bios ha contenuto
cognitivo ma è mal formulato; salva i bioi è precetto epistemologicamente impeccabile,
perché correttamente formulato al plurale ma richiede che si determini quali siano i bioi da
salvare e se ne fornisca adeguata giustificazione. Zoé indica la "vita qua vivimus", bios la
"vita quam vivimus".
Bios ha il significato di vita qualificata, di qualsiasi genere, che ha un inizio e una fine,
mentre con zoé si indica quella che è l'essenza della vita. Bios è il termine con cui la lingua
greca esprime il vivente nella sua individualità empirica, vincolata alla temporalità e
destinata a strutturarsi tramite il corpo, il soma: del bios a differenza che della zoè è
praticabile la nascita e la morte. Da qui la parola bios come riferimento all’uomo per
indicare la professione, il mestiere, i mezzi di sostentamento, cioè tutto ciò che qualifica
l’uomo nella sua fragile singolarità. Bios non ha fondamento in se stesso, la sua
individualità è data dalla connessione con la psychè; ben si capisce perché i latini abbiano
tradotto psychè con anima, perché l’anima anima i corpi, individualizzandoli. Tra bios e
psychè il vincolo è ontologico non biologico perché solo ontologicamente(con uno sguardo
dall’alto) si possono percepire le qualità emergenti, si può cioè percepire in un uomo
vivente una unità superiore alla mera somma delle cellule che compongono il suo corpo. È
con riferimento alla psychè che l’uomo riceve un nome, che il diritto è chiamato a tutelare.
Come mero dato empirico, bios è privo di rilevanza; è solo perché può ricevere dalla
psychè una identità e un senso che il bios acquista un valore, così come può perderlo.
Socrate dice ”una vita (bios) non meditata non è degna di essere vissuta(biotòs)”. Quello del
bios è quindi un valore estrinseco che il bios deve conquistare attraverso l’acquisizione di
ritmo interiore (eurythmia) ed armonia (euarmostia) che di per sé non possiede. Bios non
ha dunque alcun valore intrinseco, ecco perché in ben precisi contesti, come nei Vangeli, in
cui il termine vita deve essere connotato in modo assiologicamente forte ed inequivocabile,
non si fa cenno a bios ma a zoè e a psychè. Bios non viene chiaramente destituito di ogni
valore poiché esso è l’unico luogo in cui può manifestarsi la vita come psychè ed è sempre e
solo attraverso la realtà fisica, appunto il bios, che l’io (psychè) si fa strada e si
manifesta nel mondo come dimensione di valore.
Il diritto non appartiene alla natura ma opera nel suo ordine. Per questo è chiamato a difendere
quella vita che non è il bios ma la psychè che però non è da esso direttamente attingibile; ed ecco il
rilievo che il bios viene ad acquistare. S. Agostino osserva che la prima forma di espressione della
nostra libertà – la prima affermazione del nostro io – non si manifesta né attraverso un nobile “si” a
valori assoluti e trascendenti (si al bene, si a Dio) né attraverso un altrettanto nobile “no” ai
disvalori assoluti (no a Satana), ma attraverso il semplice e quotidiano no a quelle forme contingenti
di male che sono i delitti, e il primo delitto contro il bios che egli cita è l’omicidio. La psychè dice
“si” a se stessa dicendo di “no” ad ogni attentato che minacci il bios. Non c’è dubbio che la psychè
abbia un potere sul bios, potere che può liberamente diventare immenso (caso del suicidio) ma
non c’è nemmeno dubbio che attraverso l’uso di questo potere la psychè corre il pericolo di perdere
definitivamente se stessa. Bios e psychè sono legati da vincoli indissolubili ma sottili:
- quando questi si ispessiscono e portano al psychè ad appiattirsi sul bios, cadiamo nelle
forme di materialismo che vedono nella natura una forma di sacralità impersonale;
- quando invece questi vincoli si assottigliano, cediamo all’opposto in altrettanto ingenue
forme di individualismo solipsistico (Il solipsismo è la credenza secondo cui tutto quello
che l'individuo percepisce venga creato dalla propria coscienza.), per le quali la volontà
vuole quel che vuole e va sempre ritenuta insindacabile, purché autentica.
Nell’uno come nell’altro caso l’etica e il diritto non hanno più alcuno spazio. Per il diritto è
condannabile non la mera manipolazione del bios ma la manipolazione del vincolo di senso che
unisce il bios alla psychè. Es. un onesto allenamento atletico può anche essere materialmente più
violento nei confronti del bios di una attenta somministrazione di farmaci che ne potenzino
artificialmente e dolosamente le prestazioni, ma mentre questa è condannabile perché deforma la
psychè dell’atleta, inducendola all’inganno, quello può essere invece estremamente lodevole
quando per suo tramite la psychè dell’atleta raggiunge un pieno equilibrio con se stessa. Più in
generale, ogni pratica medica è giuridicamente giustificata non perché benefica sempre e
comunque per il bios, ma in quanto orientata a quel bene della persona, per la cui percezione,
il riferimento alla psychè è essenziale. Pratiche come la tortura, l’accanimento terapeutico, la
castrazione vanno rifiutate come non etiche e antigiuridiche non perché dannose ma perché
umiliano il nesso psychè/bios disumanizzandolo.
sensitività
autocoscienza come consapevolezza di sé nel tempo o soggettività in grado di apprezzare la
vita
razionalità
autonomia
La soggettività personale è attribuita agli individui in funzione del livello accertabile di coscienza
a prescindere dall’appartenenza alla specie umana o non umana.
E’ soggetto o persona chi percepisce, chi elabora percezioni, chi decide autonomamente –
riduzione della soggettività personale alla presenza di funzioni con definizione della rilevanza
morale della soggettività personale in base all’intensità e alla durata della manifestazione delle
funzioni a prescindere da considerazioni qualitative (appartenenza alla specie o natura): ha più
valore che ha un maggiore livello di coscienza. Ne consegue che la soggettività personale è
dissociata dalla natura umana: non tutti gli esseri umani sono persone. La bioetica utilitarista accusa
la teoria antropocentrica di “specismo” poiché porre al centro del discorso morale l’uomo in quanto
uomo è ritenuto un privilegio arbitrario ingiustificato. Al centro del discorso etico l’utilitarismo
pone:
- la sensitività o coscienza sensitiva, a livello minimale
- la razionalità o autocoscienza, a livello massimale
Sono soggetti o persone (in senso debole) gli individui senzienti e (in senso forte) gli individui
autocoscienti (uomini o animali), ossia coloro che sono in grado di essere consapevoli di sé come
soggetti continui nel tempo ed esprimere le proprie preferenze e i propri desideri, e sono in grado di
elaborarli razionalmente oltre che decidere autonomamente. Ne consegue che gli embrioni umani in
quanto non senzienti non sono soggetti o persone: lo sono invece gli animali o meglio alcuni
animali, in quanto in grado di percepire piacere e dolore.
Per la teoria utilitarista “avere interessi”(ossia essere individui senzienti) costituisce il livello
minimo per avere una rilevanza morale e giuridica: chi può percepire piacere e dolore gode di una
qualche tutela, almeno gli si deve riconoscere il diritto a non soffrire inutilmente.
La bioetica utilitarista si identifica con la “bioetica della qualità della vita” in contrapposizione alla
“bioetica della sacralità/santità della vita”: gli utilitaristi intendono proporre una morale nuova che,
subordinando il valore della vita alla presenza di qualità, si contrappone alla morale tradizionale che
ritiene la vita un valore assoluto a prescindere dalle qualità, ossia vietando qualsiasi atto di
uccisione diretta e intenzionale di una vita innocente. Gli utilitaristi fanno coincidere la posizione
della sacralità della vita con il vitalismo, ossia il valore della vita umana sempre e comunque, in
qualunque stadio e in qualunque condizione arrivando anche a giustificare il prolungamento
indefinito con qualsiasi forma o mezzo.
Per l’utilitarismo egualitarista il principio di eguale considerazione degli interessi prescrive
di non discriminare fra interessi uguali di individui diversi a prescindere dall’appartenenza
alla specie. Riconoscere il diritto a non soffrire non equivale a riconoscere il diritto a vivere:
il valore della vita dei soggetti senzienti è attribuibile subordinatamente al piacere/dolore; in
altri termini, è possibile togliere la vita ad un individuo senziente senza provocargli il
dolore(ossia con tecniche indolori). Riconoscere il diritto a non soffrire inutilmente significa
anche riconoscere un obbligo a togliere la vita nella misura in cui la sofferenza è eccessiva
nel presente(e probabilmente anche nel futuro) e produce troppa sofferenza rispetto agli altri
(nel presente e nel futuro)
Nella logica del calcolo della massimizzazione del piacere e del dolore la vita ha valore
solo subordinatamente alla presenza di condizioni di piacevolezza, ossia di un certo livello
di qualità della vita misurata in base al benessere. La vita (umana e non) nella quale la
sofferenza prevale, si ritiene “non valga la pena di essere vissuta”. Il “diritto a non
soffrire inutilmente” finisce col coincidere con un “dovere” di sopprimere la vita sofferente
o che può soffrire, o causare sofferenza agli altri. L’unico limite all’uccisione di esseri
senzienti può essere la presenza o l’espressione di una “preferenza di vivere”, l’essere cioè
un soggetto di una vita che apprezza la propria esistenza, purchè non sia in contrasto con la
preferenza degli altri; in ogni caso un individuo autocosciente, a prescindere dalle sue
condizioni esistenziali, se valuta negativamente la sua vita e ritiene preferibile morire, nei
suoi desideri dovrebbe essere rispettato. Un diritto serio alal vita è attribuibile solo alle
persone razionali e autocoscienti che preferiscono vivere.
Nella prospettiva utilitarista aggregazionista, prevale la tutela degli interessi del maggior
numero: pertanto nel calcolo felicifico totale è ritenuta giustificabile la soppressione di
una vita non felice nella misura in cui possa essere sostituita da un’altra vita con
maggiori probabilità di felicità (sarebbe giustificabile l’aborto o eutanasia neonatale se la
soppressione del feto o del neonato con bassa qualità di vita prevedibile potesse essere
sostituita con la decisione, da parte dei genitori di avere un altro figlio con maggiori
probabilità di una buona qualità di vita)
CRITICHE. La bioetica utilitarista ha suscitato vivaci reazioni per la provocatorietà della tesi che
esprime. Le tesi proposte sono contro-intuitive e contrastano, spesso, con la morale del senso
comune e le convinzioni generalmente diffuse nella società: in questo senso l’utilitarismo mostra
una contraddizione, visto che ritiene che il principio dell’utile si radichi nella morale sociale.
L’utilitarismo non tiene in considerazione un elemento che non si può escludere dall’uomo anzi, ne
costituisce la sua identità profonda, ossia la possibilità che un individuo faccia scelte in contrasto
con interessi e preferenze soggettive per il mero senso del dovere: l’utilitarismo presuppone che
l’agente razionale non possa compiere azioni solo in quanto sono un certo tipo di azioni, ritenute
doverose a prescindere dall’immediatezza del piacere o dalla soddisfazione di desideri. La
massimizzazione delle preferenze, potendo implicare la frustrazione di interessi anche solo per un
gruppo minoritario, giustifica una obbligatorietà morale incompatibile con l’equità: la prospettiva
utilitarista aggregazionista, in vista della produzione del maggiore benessere possibile, rischia di
penalizzare anche gravemente alcuni interessi individuali, portando potenzialmente iniquità,
inaccettabile per la morale comune. Per queste ed altre ragioni risulta difficile o quanto meno
problematico accettare la legittimazione di interventi soppressivi su esseri umani: l’eliminazione di
una vita non può essere mai indolore; inoltre un dolore che appare insopportabile può essere per
un altro o per gli altri non solo sopportabile ma addirittura una ragione di vita e anche ammettendo
che una certa situazione esistenziale di malattia facesse soffrire altri, l’effetto indiretto rispetto ai
terzi non può prevalere sull’effetto diretto nei confronti dell’individuo. Così come non sono
analogabili le esperienze sensitive umane e non umane, se non altro perché l’uomo non può
uscire dalle proprie categorie conoscitive; per quanto possiamo provare a vivere le esperienze
percettive degli animali non potremo che ragionare o per inferenza o per analogia.
BIOETICA DEI PRINCIPI. La bioetica dei principi o principialismo è un particolare approccio ai
problemi morali. Nell’ambito della distinzione tra diversi livelli dell’etica (le teorie, i principi, le
norme, i giudizi e le azioni), il principalismo ritiene possibile elaborare una bioetica al livello di
principi. Si tratta di un approccio che ritiene possibile, pur nel pluralismo etico sul piano teorico,
trovare un accordo sulla tematizzazione di alcuni principi di riferimento con la funzione di
elaborare uno schema interpretativo al fine di analizzare le questioni bioetiche emergenti:
Teorie del diritto nel biodiritto. Astensionismo – affermazione della libertà individuale
nelle questioni bioetiche. L’intervento pubblico del diritto è percepito come un’ingerenza che
opprime ed interferisce indebitamente con l’autonomia soggettiva. Si tratta di un modello di
pensiero che chiede uno “spazio libero dal diritto” manifestando l’esigenza che si possa esprimere,
nelle scelte che riguardano la vita e la morte, la salute e la malattia, la libertà “privata” della
coscienza individuale, senza alcuna imposizione coercitiva esterna. È il movimento di pensiero noto
come “Hill” ossia “higly inappropriate legislation”, che ritiene che le legislazioni in bioetica, in
qualsiasi modo siano formulate, non possono risultare “altamente inadeguate” ed “inappropriate” in
quanto inevitabilmente generiche rispetto alle specifiche esigenze individuali, incapaci di
rispondere alla estrema variabilità ed inconciliabilità dei bisogni molteplici soggettivi. Il modello
astensionista ritiene opportuno non legiferare in bioetica o comunque depenalizzare le
eventuali leggi esistenti, preferendo alle leggi le regolamentazioni dei codici deontologici o le
deliberazioni dei comitati etici, quali modalità normative indirette e flessibili, che fanno
coincidere la responsabilità con l’autocontrollo di una comunità o l’autodisciplina dei singoli
soggetti. Propone la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto, con la conseguente
PRIVATIZZAZIONE DELLE SCELTE. È il modello che propone la degiuridicizzazione in
bioetica, ossia la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto pubblico.
Modello liberale – chiede l’intervento del diritto in bioetica con la funzione di garantire la
libertà, intesa come autonomia o autodeterminazione individuale. È il modello che chiede al
biodiritto di potenziare la libertà soggettiva, amplificandola con la moltiplicazione delle possibilità
di scelta. Secondo questo paradigma i “diritti morali” attengono alla sfera di autonomia delle scelte
bioetiche rispetto alla quali il diritto positivo (ossia il diritto giuridico posto in essere dal legislatore)
non deve interferire se non proteggendo le condizioni esteriori che consentano alla libertà di
manifestarsi concretamente, abolendo gli impedimenti e procurando i mezzi per la traduzione
in comportamento. Il biodiritto liberale è chiamato a riconoscere il pluralismo etico senza
prendere posizione a favore o a sfavore di nessuna modalità, affinchè il singolo sia libero di
esprimere una opzione individuale. I “diritti giuridici” (identificati con il diritto positivo) hanno
un ruolo ridotto in bioetica, essendo l’agire umano affidato alle decisioni morali private degli
individui piuttosto che all’intervento pubblico della legge. Si ritiene indispensabile che la morale si
esprima nell’ambito della sfera privata, riconoscendo che l’altro possa fare ciò che vuole. Solo nella
misura in cui vi sia un fondato timore per eventuali rischi sulle conseguenze imprevedibili di
determinate scelte, sono ammesse regole temporanee, stabilite di volta in volta, utili a tamponare le
emergenze sociali, rivedibili ed eliminabili, se non necessarie.
Modello formalistico – tende a ridurre il diritto a una traduzione normativa della volontà
politica, facendo coincidere il biodiritto con la biopolitica. Il biogiurista ha la funzione di
registrare le decisioni espresse in sede politica, limitandosi a tradurle positivamente, determinando
la struttura formale, verificando la conformità, la coerenza e la compatibilità normativa, secondo i
parametri della certezza e della correttezza tecnica. Il biodiritto assume il ruolo di formalizzazione
delle decisioni politiche, delimitando il compito del diritto alla verifica della validità della
norma.
Modello procedurale – il biodiritto ha la funzione di difendere l’etica convenzionale pubblica, che
fissa per tutti le procedure, pubblicamente concordate, per la gestione e la negoziazione dei conflitti
sociali. Il diritto ha il compito di fissare le procedure pubbliche per la gestione dei conflitti
sociali. Si tratta di procedure che una volta concordate rimangono vincolanti per tutti e
possono essere modificate in funzione dell’emergere di nuovi orientamenti. Sono scelte
mediante l’accordo politico che scaturisce dalla dialettica democratica. Secondo tale modello, il
diritto in bioetica registra l’accordo tra le parti, manifestato nelle scelte della maggioranza; il
criterio democratico diviene criterio giuridico – formale per la procedura della normazione bioetica.
Modello contestuale – propone in biogiuridica il ragionamento per contesti. Le regole raccolgono
bisogni, esigenze e valutazioni che nascono in ambito extragiuridico, detto ciò, il compito del diritto
in bioetica è identificabile nella ricerca di ragionamenti che non pretendano di orientare e non si
limitano a registrare le scelte diffuse: il biogiurista è chiamato a partecipare attivamente al processo
di ricerca del consenso, non dovendo intervenire né prima nelle discussioni né dopo raccogliendo i
frutti dei dibattiti. Il giurista non ha il compito né di produrre nuove norme né di accogliere i valori
esistenti, ma di filtrare le esigenze sociali con le considerazioni di fattibilità e compatibilità della
regola giuridica, utilizzando alcune procedure o metodologie giuridiche(es. approccio per contesti)
Modello sociologico – fattuale – ritiene che il biodiritto coincida con l’azione sociale, con le
decisioni dei tribunali o con le previsioni di ciò che i tribunali effettivamente decideranno. In
questa prospettiva il diritto è la registrazione della prassi attraverso la percezione del
comportamento ripetuto, nel tempo e diffuso, nello spazio, in una determinata società e delle
esigenze comunemente avvertite nel convivere collettivo. Il diritto si identifica con ciò che è
deciso dai giudici o con ciò che si ipotizza possa essere deciso dai giudici in futuro. Il biodiritto
si limita o a prendere atto passivamente del comportamento della maggioranza dei consociati o
registrare le decisioni giudiziali.
1. A partire da una concezione neopositivista della conoscenza – che riduce la ragione umana a
razionalità empirica, strumentale e calcolante, che subordina la verità alla verificazione fattuale –
l’embrione umano è ridotto a mero dato oggettuale, ossia a materia organica con uno sviluppo
estrinsecamente più o meno probabile: la ragione non è in grado di leggere nell’embrione alcun
segno della sua rilevanza antropologica, ossia della sua identità personale, nessuna indicazione
della sua rilevanza etica e giuridica, ossia della sua dignità e soggettività giuridica. Fin
dall’inizio, l’embrione è considerato una mera cellula appartenente alla specie umana che si
forma casualmente e si moltiplica. Il mero fatto dell’esistenza materiale della vita biologica di
un embrione non giustifica l’obbligatorietà di alcun comportamento sul piano assiologico e
normativo: lo sbarramento esplicitato dalla legge di Hume tra i fatti e valori/diritti, tra essere e
dover essere, impedisce la considerazione ontologica del nascituro come soggetto e persona.
L’embrione non è “ancora” soggetto ma lo diviene in qualche momento di sviluppo successivo,
delineando diversi “confini” dell’inizio della persona, posticipati rispetto all’inizio biologico della
vita dell’essere umano.
Posizione tuzioristica. In una posizione intermedia sono coloro che, non volendosi
pronunciare in merito alla predicabilità della nozione di persona all’embrione, ritengono che
l’embrione vada comunque protetto e tutela sulla base della regola aurea: l’embrione
essendo un nostro simile, ed essendo, pertanto, destinato intrinsecamente a svilupparsi
in un essere umano completo, chiede l’impegno responsabile della nostra libertà. La
posizione tuzioristica è condivisa da chi ritiene che il valore della vita umana sia un bene
così alto che anche nel dubbio circa la riconoscibilità dello statuto personale, merita
comunque di essere rispettato. Nel dubbio che di un essere umano veramente si tratti, ci
si deve astenere da ogni intervento lesivo della sua integrità e della sua eventuale
dignità.
2. il riconoscimento, dell’embrione come persona giustifica la fondazione della dignità intrinseca in
senso forte. Lo statuto personale dell’embrione umano è considerato condizione necessaria e
sufficiente per mostrarne la valenza morale e la titolarità di diritti: se dunque la pienezza di vita
della persona è il fine intrinseco dell’uomo iscritto nell’embrione, già a tale stadio la vita umana
deve essere rispettata in senso forte, al fine di garantirne la piena espressione. In tal senso è fondato
il dovere assoluto e gerarchicamente proprietario del rispetto dell’embrione umano, quale
espressione della vita dell’essere umano, ove il rispetto va inteso in un duplice senso, sia
negativo (non intervenire in senso distruttivo) sia positivo (avere riguardo e cura per
l’embrione).
Tecnologie riproduttive. l’aumento della sterilità e dell’infertilità individuale e di coppia hanno
comportato una sempre più diffusa richiesta sociale di accesso alla procreazione medicalmente
assistita. Va fatta una distinzione tra “inseminazione assistita in vivo” (intra-corporea, ossia
l’inserimento del gamete maschile nel corpo della donna) e “fecondazione assistita in vitro”
(extra-corporea, ossia prelievo dei gameti, maschile e femminile e fecondazione in provetta, con
trasferimento di embrione nell’utero. C.d. FIVET).
Mancanza di una adeguata responsabilità nei confronti del nascituro – se l’embrione è una
soggettività con potenzialità, ossia possibilità intrinseca di attuare pienamente i caratteri già
contenuto dal momento della fecondazione, la sua vita merita una adeguata protezione,
anche di fronte al comprensibile desiderio di avere un figlio. Desiderio riconosciuto ma
bilanciato con l’altrettanto desiderio di vivere, riconoscibile in ogni embrione umano. In
questo contesto, le tecnologie riproduttive sono considerate lecite in presenza di una serie di
condizioni a garanzia del nascituro:
o Accertamento della finalità terapeutica della richiesta (obbiettiva sterilità-
infertilità)
o Accertamento dell’impossibilità di rimuovere le cause impeditive del
concepimento e laddove altri metodi terapeutici risultino inefficaci
o Impedimento alla possibilità di dispersione di embrioni (gravidanze non giunte al
termine)
o Limitazione della produzione quantitativa di embrioni (produzione di embrioni
limitatamente al numero richiesto della coppia)
o Proibizione della riduzione di embrioni
la tutela dell’embrione si esprime non solo nella garanzia delle condizioni di vita, ma anche
della protezione dalla famiglia nella quale si troverà a nascere. Si ritiene doveroso il
riconoscimento del diritto di colui che nascerà a conoscere le proprie origini genetiche.
Si ritiene non accettabile, il fenomeno della monogenitorialità sociale, poiché porta alla
procreazione di un “orfano biologico” destinato, a causa di una scelta a priori e non per
sfortunate circostanza fattuali, a non avere un genitore. Anche il fenomeno della
bigenitorialità monosessuale è ritenuta inaccettabile, a causa della mancanza di una
differenziazione sessuale genitoriale rilevante per la costituzione dell’identità personale. La
situazione di genitorialità tardiva nell’ambito di fecondazione assistita di donne in
menopausa è ritenuta illecita a causa dell’eccessiva tecnicizzazione e medicalizzazione del
corpo femminile e a causa di un desiderio anacronistico, che può essere causa di gravi disagi
psichici, oltre di inevitabili disagi sociali.
A tutela del nascituro emerge la necessità di difendere un modello di famiglia fondata sul
matrimonio, quale forma di relazione umana esclusiva interpersonale, tra un uomo e una
donna, che intendono unirsi in una comunione coniugale stabile di vita. È nell’ambito del
matrimonio e della famiglia che si coglie il luogo ove l’individuo identifica, mediante la
relazione con l’altro, il proprio ruolo infungibile ed insostituibile di marito o di moglie, di
padre o di madre, di figlio o di figlia, di fratello o di sorella. La famiglia è riconosciuta
quale comunità naturale, luogo originario della razionalità, sede naturale
dell’identificazione antropologica. È un’esigenza imprescindibile la bigenitorialità: due
genitori possono garantire le condizioni, oltre che per l’identificazione, anche per una
maggiore possibilità di assistenza e accadimento, oltre che di persistenza del dovere di cura.
Il biodiritto DEVE difendere la bigenitorialità eterosessuale: la dualità polare
maschile/femminile. La mancanza di una delle due figure comporta il rischio che il figlio
rimanga impigliato nel narcisismo parentale senza che si istauri quella progressiva
separazione che consente al nato di divenire sé. La bioetica della “responsabilità
procreativa” ritiene indispensabile la bigenitorialità eterosessuale omologa mediante
matrimonio, in quanto pone le condizioni della stabilità del nascituro.
Ulteriore requisito a tutela della famiglia consiste nella delimitazione delle tecnologie alla
fecondazione omologa. La moltiplicazione delle figure genitoriali, nel caso di donazione
eterologa del gamete maschile, determina una asimmetria nella coppia: solo la madre ha un
vincolo genetico, mentre il padre, pur non avendolo, lo ritiene così irrinunciabile da
acconsentire di essere sostituito da un donatore. Se pur inizialmente la situazione pare essere
accettata dalla coppia, spesso il padre, poi, tende a vivere la donazione di gamete come un
“adulterio biologico” avvertendo anche un sentimento di rivalità e competizione nei
confronti del donatore. Ciò può ripercuotersi negativamente sull’identificazione bio-psichica
del nascituro, oltre che sulla stabilità del legame familiare.
MATERNITA’ SURROGATA ED ECTOGENESI. La prima consiste nella possibilità che una
donna offra (gratuitamente) o affitti (con remunerazione) il proprio utero per la gestazione di uno o
più embrioni: è la madre surrogata. Madre portante invece è il caso solo gestazionale, madre
sostitutiva invece è quella che dona il gamete e porta a gestazione l’embrione. La seconda consiste
nella possibilità di costruire un utero artificiale che ospiti la gestazione extracorporea dell’embrione.
Maternità surrogata. Gli argomenti addotti a sostegno della maternità surrogata si muovono su
due piani:
- maturità surrogata come atto gratuito: I sostenitori di questa ne rivendicano la legittimità
appellandosi alla generosità e all’altruismo filantropico della donazione della maternità gestazionale
- maturità surrogata retribuita: I sostenitori di questa si richiamano alla autonomia della donna nella
gestione e alla disponibilità sul proprio corpo, quale modalità per una parificazione della funzione
della donna rispetto all’uomo (come esiste il donatore di seme, deve esistere una madre donatrice di
gamete).
La difesa della libertà procreativa della madre surrogata non tiene adeguatamente conto degli
interessi del nascituro. La maternità surrogata determina inevitabilmente una proceduralizzazione
ulteriore del nascere che diviene sempre più un fatto spersonalizzato: oltre alla scissione tra
sessualità e procreazione, si introduce anche la separazione tra procreazione e gestazione, che
diviene il risultato di un accordo tra le parti. Si aggiunge una madre, una madre uterina o gestativa
oltre a quella sociale e a quella genetica, e la frantumazione della figura materna comporta una
serie di conseguenze che ricadono su diversi soggetti:
- sul nascituro, che vivrebbe l’abbandono della madre gestazionale e si troverebbe in una
situazione confusa con più figure di riferimento nel suo processo di identificazione
- sulla madre surrogata, dato il forte legame psico-fisico con il feto e l’inevitabile trauma del
distacco.
- sulla madre sociale, per il possibile conflitto con la madre portatrice che, oltre a poter rescindere
il contratto durante o dopo il parto, potrebbe anche esigere una totale libertà di comportamento con
conseguenze negative sulla salute del nascituro (che potrebbero mettere a rischio la gravidanza) e
potrebbe sempre rappresentare una minaccia di interferenza, dopo la nascita. Sul piano psicologico
e pedagogico(casi in cui la donatrice sia parente o amica della madre sociale).
Il biodiritto è tenuto a garantire la certezza della maternità al nascituro: l’unico modo è
riconoscere la maternità a colei che partorisce: un contratto tra coppia committente e donna che
presta l’utero non darebbe mai garanzie; la donna surrogante potrebbe non rispettare il patto e la
donna che stipulato il contratto non è mai sufficientemente tutelata. Infine,anche se gratuito, il gesto
di donazione dell’utero espone sempre la donna al rischio della strumentalizzazione e
mercificazione del corpo femminile ridotto a “recipiente” o “contenitore”. All’interno dello stesso
femminismo si sono sollevate voci in forte contrasto con la maternità surrogata, avvertendo
nell’invadenza tecnologica biomedica il rischio di medicalizzazione eccessiva, di artificializzazione
e di reificazione del corpo femminile.
Ectogenesi. Essa, analogamente alla maternità surrogata, scinde la gestazione dalla procreazione,
introducendo una ulteriore artificializzazione. L’ectogenesi riguarda le possibili future tecnlogie di
gravidanza extracorporea in un utero artificiale: va distinta :
- l’ectogenesi parziale o tardiva che interverrebbe dopo una prima fase di vita intrauterina,
precisamente dal momento in cui il feto ha il cordone ombelicale da applicare a macchinari capaci
di nutrire, ossigenare e depurare il sangue del feto;
- gestazione artificiale completa, dalla fecondazione al parto, che prevede la fabbricazione di uteri
come incubatrici meccaniche con una placenta artificiale, membrane e liquido amniotico surrogati
in modo da far sopravvivere un embrione e un feto fuori dal ventre materno, sostituendo
l’organismo materno nelle funzioni nutritive e di scambio.
Nonostante tale tecnologia non sia stata ancora concretamente realizzata, la bioetica già ne discute
la legittimità o illegittimità, riflettendo sulle problematiche relative alla disponibilità del corpo e
della sessualità, oltre alle implicazioni nell’ambito del rapporto uomo/donna, della famiglie e della
società in generale. I sostenitori della ectogenesi sostengono che sia giunta l’inaugurazione di
un’epoca che apre la possibilità di scelta tra maternità naturale e artificiale, garantendo una assoluta
autonomia riproduttiva della scelta individuale, in particolare della donna che percepisce la
maternità come un “giogo biologico” e vive la gravidanza come una schiavitù: consente di
realizzare concretamente una uguaglianza della donna rispetto all’uomo, potendo la donna
realizzare il proprio desiderio di avere n figlio senza il gravoso onere della gestazione. A
giustificazione della loro tesi, i sostenitori dell’ectogenesi fanno riferimento ai bambini che
nascono da gravidanze di donne in coma irreversibile o bambini adottati; adducono altresì la
possibilità di portare avanti gravidanze per donne che non hanno l’utero, senza fare ricorso a
maternità surrogate; la prevenzione di aborti spontanei non desiderati o anche desiderati; la
prevenzione di effetti nocivi sull’embrione di madri con comportamenti rischiosi; la possibilità di
controllare le diverse tappe di sviluppo del nascituro con la pianificazione anche di interventi
terapeutici. In quest’ambito, la gestazione intra-corporea rimarrebbe una scelta individuale solo per
donne che desiderino fare l’esperienza della gravidanza corporea naturale lasciando però la libertà
del corpo da costrizioni inevitabili. Indubbiamente la ectogenesi potrebbe rappresentare una
importante conquista per la tecno scienza biomedica nella misura in cui fosse considerata una
ipotesi terapeutica, ossia finalizzata solo a salvare feti da aborti spontanei. Ma anche in tali ipotesi,
rimane aperto un problema bioetico ineludibile: nella fase di sperimentazione di un apparato
sostitutivo del grembo materno, embrioni umani sarebbero usati e strumentalizzati, con un probabile
numero elevatissimo di danni e di distruzione di embrioni. Tale uso di embrioni contraddirebbe ai
principi generalmente accolti della sperimentazione di farmaci o apparati medici sull’uomo: la
sperimentazione deve essere condotta nel rispetto dell’integrità fisica del soggetto su cui si applica,
finalizzata al miglioramento della sua salute e non alla sua soppressione o danneggiamento. Un
primo ostacolo dunque alla costruzione dell’utero artificiale consiste nella illiceità delle azioni
dirette consapevolmente alla produzione di embrioni in vista di un loro sacrificio certo o
altamente probabile. In verità dietro al progetto di ectogenesi non c’è solo una finalità terapeutica:
si tratta di un progetto che presuppone una de naturalizzazione e debiologicizzazione della
riproduzione aprendo ad una artificializzazione completa del nascere: il progetto non può non
prendere in considerazione una possibile conseguenza di una tale tecnologia su chi nascerà, dovuta
alla frattura del legame fisico-psichico materno - fetale. La separazione tra madre genetica e
madre uterina spezzerebbe in modo definitivo il legame tra madre e figlio dal punto di vista
naturale, legame che non potrebbe essere sostituito da presidi meccanici surrogati. Tali tecniche
costituirebbero oltretutto una premessa per la radicale de-sessualizzazione della procreazione,
consentendo la diffusione di famiglie monoparentali e omoparentali, aprendo anche scenari
possibili di produzioni di bambini senza genitori, procreazioni anonime in cui orfani potrebbero
essere cresciuti in strutture collettive. La possibilità della maternità surrogata e della ectogenesi
portano la donna ad una riflessione sul significato della gravidanza:la gravidanza, pur con
l’inevitabile onere biologico e psicologico che porta con sé, non va considerata come un limite o
una schiavitù, ma come un privilegio e una opportunità, l’opportunità di vivere una relazione
carnale col bambino che nascerà, l’opportunità di fare l’esperienza della costruzione di un rapporto
sin dall’inizio; l’eliminazione della gravidanza e del parto rischiano di provocare una
modificazione profonda della maternità e del ruolo della donna. La maternità non sarebbe più
un ruolo insostituibile, ma diverrebbe sostituibile dalla paternità, portando ad una scomparsa
progressiva della differenza sessuale o della rilevanza della differenza sessuale nel nascere, che
annullerebbe la stessa peculiarità di ogni sesso,con la conseguente espropriazione della donna dalla
funzione propria. Si genererà un annullamento del significato qualitativo della
genitorialità(moltiplicabile o riducibile) e l’annullamento della peculiarità della soggettività
femminile.
DIAGNOSI PRENATALI. Sono rese possibili grazie alle tecniche scientifiche e al progresso,
consentono di identificare precocemente malformazioni somatiche e patologie genetiche nello
sviluppo embrio-fetale. Bisogna distinguere le diagnosi pre-impianto da quelle post-impianto: le
prime indicano una serie di procedure che consentono di effettuare la diagnosi sulla cellula uovo
non fecondata, sull'embrione prodotto in vitro o estratto dall'utero; la seconda è un'insieme di
tecniche applicate al feto in momenti diversi della gravidanza. Ogni procedura è distinguibile a
seconda del grado di invasività: vi sono quale meno invasive come l'ecografia e tecniche più
invasive come prelievo di cellule/tessuti (amniocentesi, prelievo liquido amniotico). Le tecniche
diagnostiche sono anche distinguibili per il grado di rischio – correlato all’invasività della tecnica
– rapportato al beneficio ottenibile rappresentato dalla concreta possibilità di cura). La diagnosi
prenatale deve essere sempre preceduta e seguita da una consulenza genetica: prima della diagnosi
per determinare la presenza o meno di indicazioni all'intervento diagnostico sulla base
dell'acquisizione delle informazioni sull'età, stato di salute dei genitori, eventuali altri figli e per
determinare e valutare il rischio(di danno all’embrione o aborto) rapportato ai benefici ottenibili(in
rapporto alle possibilità di terapia) per poi informare la coppia su tali rischi/benefici; dopo la
diagnosi, invece, la consulenza, ha lo scopo di comunicare il risultato della diagnosi (eventuali
patologie accertate) e il beneficio ottenibile (in riferimento alle terapie), offrendo le informazioni
sulle possibili conseguenze alla decisione di proseguimento o interruzione gravidanza sul piano
psico-sociale ed etico - giuridico. Nell'ambito della diagnosi prenatale è indispensabile fare una
distinzione tra diagnosi individuali e screening genetici: questi ultimi sono l'applicazione
sistematica di tecniche diagnostiche prenatali su larga scala a categorie di soggetti, anche a
rischio solo probabile, al fine di rilevare dati a scopo conoscitivo o preventivo. Sono applicabili
previo consenso informato; è applicabile solo previo consenso informato al fine di consentire una
libera espressione di volontà: si tutela la privatezza della scelta individuale.
Nella prospettiva liberale-libertaria, che esalta il principio bioetico di autonomia, la diagnosi
prenatale è legittima se è protetta la libera decisione della madre non essendo il nascituro autonomo
soggetto di diritto. Sono pertanto ammesse diagnosi pre-post impianto se la donna accetta
mediante consenso informato i rischi per la propria salute; si ritiene che la finalità della diagnosi
sia quella di consentire alla donna di decidere se impiantare o meno l'embrione, se
interrompere o meno la gravidanza sia nel caso in cui il feto abbia malformazioni incurabili,
sia nel caso in cui abbia caratteri psico-fisici indesiderati. Ciò si giustifica con il “dovere di
abortire” della madre e “diritto a non nascere” del feto se malformato, poiché c'è la possibilità per
il feto, divenuto adulto, di chiamare in causa il medico/genitori per averlo fatto nascere, accusandoli
di danno da procreazione. Nell’ambito della teoria utilitarista, che pone al centro della riflessione
morale e giuridica, la convenienza sociale, si ha una duplice posizione in rapporto alle diagnosi
prenatali.
L’utilitarismo ritiene che le tecniche (sia pre che post impianto) si debbano applicare, anche se
mediante consulenza genetica prediagnostica se ne accertasse l’invasività e la rischiosità (per il
nascituro), in quanto l’embrione non è considerato un soggetto di interessi; anche nel caso del
feto con patologie o anomalie genetiche tali renderlo infelice nel futuro, ne sarebbe legittimata la
sua eventuale soppressione. La consulenza post-diagnostica ha, dunque, la funzione di informare
sullo stato di salute del nascituro e di proporre l’aborto come “prevenzione” della malattia, ove
prevenzione è intesa come eliminazione del nascituro. La prospettiva utilitarista ritiene non utile la
diagnosi prenatale nel caso in cui i costi economici e i rischi siano elevati, considerando, invece,
utile portare a termine comunque la gravidanza e in caso di rilievo di “imperfezioni” dopo la
nascita, praticare l’eutanasia neonatale. Lo screening prenatale invece è ritenuto utile nella
misura in cui, calcolando costi, rischi e benefici, ne risulti un effettivo vantaggio per la
collettività.
La teoria che protegge la dignità intrinseca dell’essere umano sin dal concepimento esprime un
atteggiamento più restrittivo e cauto nei confronti delle procedure diagnostiche prenatali, ritenendo
indispensabile enunciare delle condizioni di tutela dei soggetti coinvolti:
- la diagnosi genetica pre-impianto sull’embrione umano è considerata illecita a causa della
sperimentabilità delle tecniche che non consente una adeguata protezione del concepito: in molti
casi l’embrione sul quale si applica la biopsia o il prelievo di cellule, muore prima del
trasferimento; la stessa diagnosi usata per evitare patologie può produrre malformazioni.
- la diagnosi genetica post-impianto è considerata lecita a determinate condizioni: nel caso di
tecniche invasive è indispensabile un accertamento mediante consulenza pre-diagnostica delle
indicazioni alla diagnosi sulla base di precisi criteri scientifici. Solo l’ecografia è ritenuta
eticamente lecita, data l’assenza di rischi per il nascituro e per la madre. La consulenza ha il
compito di comunicare oltre ai rischi anche i benefici ottenibili, in relazione alla curabilità o
possibilità di intervento sulle malattie diagnosticate; è dunque lecito l’accesso dei genitori a tali
modalità diagnostiche, purché la scelta non comporti l’intenzionalità selettiva nel caso di responso
infausto.
La prospettiva che difende la dignità intrinseca dell’essere umano ritiene che debba essere sostenuta
la ricerca nell’ambito della terapia prenatale e neonatale affinchè nel futuro, mediante interventi
medico-chirurgici prima e dopo la nascita si possano guarire le malattie genetiche.
La bioetica a difesa della persona umana ritiene che l’obiettivo sociale della diagnosi prenatale
debba essere quello della finalità curativa o preventiva non selettiva nel senso del prevenire la
nascita del bambino.
Mira a correggere difetti genetici in cellule germinali (spermatozoi e ovociti) con effetto
sulla discendenza – terapia genica germinale – la Convenzione sui diritti dell’uomo e la
biomedicina ha proibito ogni intervento sul genere umano, tranne che per ragioni preventive
o terapeutiche e in particolare ogni modifica del genoma della discendenza. Eticamente la
terapia altera il diritto di ogni essere umano di nascere con un patrimonio genetico non
manipolato. Anche la Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo
dell’Unesco, proibisce manipolazioni genetiche che non siano a fine diagnostico o
terapeutico, rispetto al soggetto stesso su cui si interviene, riconoscendo il diritto
all’integrità e alla non manipolabilità arbitraria del patrimonio genetico individuale.
Ha l’obiettivo di eliminare o ridurre difetti molecolari a livello delle cellule somatiche, con
effetti limitati all’organismo dell’individuo malato (e quindi non trasmissibili ai discendenti)
– terapia genica somatica. Non esiste alcun problema per quel che concerne l’eticità di tale
terapia se non quelli comuni a qualsivoglia intervento medico di frontiera. Il ricorso a tale
terapia dovrà essere motivato dalla gravità della malattia, dalla mancanza di una terapia
alternativa efficace e con effetti durevoli, dalla minima incidenza di effetti collaterali
indesiderati. Dovrà poi essere acquisito il consenso informato del pazienza al trattamento.
CLONAZIONE RIPRODUTTIVA. Per clone si intende, in biologia, l’insieme degli individui di
una determinata specie che possiedono tutti il medesimo patrimonio genetico. Recentemente si è
imposta una nuova accezione di clone: individuo procreato artificialmente per essere la perfetta
riproduzione genetica di un altro individuo. Nel 1997, ad opera di una èquipe di scienziati diretta da
Wilmut, si è realizzata la prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly. La procedura
adottata è stata la seguente: è stato prelevato il nucleo di una cellula somatica di un animale adulto,
è stata introdotta in un ovocita, e dopo 250 tentativi andati falliti, si è riusciti a riattivare l’ovocita
come un vero e proprio embrione. Successivamente tale embrione è stato piantato nell’utero di una
madre surrogata che ha portato avanti la gravidanza al termine della quale è nato un individuo
geneticamente identico a quello da cui era stata prelevata la cellula adulta. Il patrimonio genetico di
Dolly era derivato da un unico genitore! La clonazione attiva un processo che non esiste in natura e
che dal punto di vista evoluzionistico andrebbe qualificato come contro natura. Vi sono particolari
problemi che nascono dalla riflessione sulla clonazione umana. I sostenitori della clonazione umana
ritengono utile la legittimazione di tale tecnica per consentire l’avanzamento delle conoscenze
scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, per garantire la libertà dell’individuo di scegliere,
procurando possibili vantaggi presenti e futuri. In questa prospettiva si ritiene che la clonazione non
leda l’unicità individuale, essendo l’identità genetica distinta dall’identità biologica e biografica. In
una posizione intermedia vi è l’orientamento che propone una proibizione “debole” della
clonazione: si tratta di una sostanziale legittimazione di principio, nella misura in cui la società si
aprisse all’accettazione di tali pratiche e la scienza consentisse di applicarla senza conseguenze di
fatto negative, o comunque controllando le eventuali conseguenze negative. In effetti la letteratura
scientifica ha fornito i dati della sperimentazione sull’animale, mostrando che elevata è la mortalità
e la possibilità di contrarre patologie dei cloni(la stessa Dolly è morta precocemente di artrite
reumatoide). C’è poi chi considera gravemente illecita tale clonazione ritenendola una delle forme
più aberranti di manipolazione e oggettificazione della vita umana: lo scienziato che volesse attuare
un tale progetto avrebbe come uno scopo l’avanzamento della ricerca e della conoscenza, senza
alcuna considerazione sull’uso dei risultati e sul destino dell’uomo da lui creato. La clonazione
avrebbe il significato di una dimostrazione di onnipotenza della tecnica sull’uomo: ma
l’esibizione di onnipotenza potrebbe produrre un individuo non rispondente alle aspettative dello
scienziato; ed una eventuale produzione non rispondente al progetto iniziale non è mero materiale
che si possa gettare via o modificare a piacimento, me è una forma di vita comunque umana,
innocente e che meriterebbe di essere rispettata. La clonazione è una tecnica che de-personalizza la
nascita dell’uomo ancor più delle tecniche di procreazione assistita in vitro. Si produce una vita in
laboratorio senza l’uso delle cellule germinali maschile e femminile: ciò comporta inevitabilmente
una cancellazione della famiglia. Con clonazione si realizzerebbe la possibilità di un controllo
tecnico sulla natura umana fino al punto di non accettare la casualità delle ricombinazioni
cromosomiche nella catena delle ereditarietà; con la clonazione nascerebbe una nuova forma di
negazione della libertà, precisamente l’annullamento genetico della novità. Il clone sarebbe la copia
di un originale già vissuto prima di lui: il colone vedrebbe una sua realizzazione esistenziale,
vivrebbe una vita geneticamente già vissuta da qualcuno che ha manifestato alcune potenzialità del
suo essere. Con la clonazione si soffoca la spontaneità e si altera il rapporto con gli altri. Jonas
ritiene che con la clonazione in qualche modo il passato anticipi il futuro: “il rampollo clonato sa
troppo su di sé e gli altri sanno troppo su di lui”. La coscienza di essere la copia genetica di altri
individui umani ostacolerebbe la libertà di scoprire e far scoprire la propria identità, di sorprendere
e di sorprendersi: alla persona verrebbe sottratto “il diritto di essere valutata e accettata per come
essa è in se stessa” e le verrebbe “imposta una unità di misura della sua identità che è fuori di lei”.
Habermas contro la clonazione afferma che la consapevolezza della programmazione genetica
potrebbe disturbare il “senso di naturalezza” dell’esistenza corporea del clone, provocando una
alterazione della percezione della propria esistenza fisica e mentale e trasformandola nella
percezione di essere un prodotto della tecnica. La clonazione apre il rischio sociale di una
produzione seriale di individui umani fissando alcuni caratteri prescelti, inserendosi
nell’evoluzione biologica mediante una sorta di “selezione artificiale”. Si potrebbero replicare
solo individui considerati “migliori”, ritenuti “eccellenti”. Ma su quali basi può essere definita
l’eccellenza? Si apre il rischio all’eugenismo, ossia la selezione arbitraria dei caratteri migliori in
funzione di una programmazione sociale. Si rischierebbe la strumentalizzazione dell’uomo: la
società potrebbe decidere di produrre copie di individui umani con caratteristiche fisiche sulla base
di considerazioni meramente utilitaristiche. Di fronte alla clonazione e ai rischi che comporta, il
biodiritto è chiamato a proteggere l’integrità fisica, la non manipolabilità del patrimonio genetico,
l’imprevedibilità genetica, il diritto alla famiglia, il diritto all’identità personale, il divieto di
strumentalizzazione e serializzazione dell’essere umano.
Eutanasia. L’etimologia del termine è fuorviante rispetto alla valenza semantica attuale. Si
potrebbe definire l’eutanasia sia quella azione (eutanasia attiva, iniezione letale) o omissione
(eutanasia passiva, omissione di cure) che per sua natura o nelle sue intenzioni, procura
anticipatamente la morte dell’essere umano, allo scopo di alleviarne le sofferenze. Si tratta
dunque di una azione o omissione per sopprimere intenzionalmente la vita di un malato terminale
o inguaribile, ma anche di un neonato con gravi handicap, di un anziano o di un disabile, al fine di
evitare sofferenze fisiche e psichiche: il fine è quello di fuggire alla morte perché si rifiuta una
vita ritenuta non dignitosa, non sopportabile e non desiderabile. Non può essere identificata col
rifiuto del paziente di farsi curare anche quando sa che il rifiuto lo porterà alla morte. Non si
configura come eutanasia il contesto della medicina palliativa, cioè quegli interventi che, non
potendo più avere come obiettivo la guarigione del paziente, cercano di aiutarlo sopportare i dolori
connessi alla sua patologia. Tranne casi particolarmente rari, la medicina palliativa è in grado di
controllare i dolori dei malati terminali e di garantire loro una qualità di vita più che accettabile. È
chiaro che c’è un abisso che separa l’intenzione che muove il medico che pratica la palliazione da
quella che muove il medico che pratica l’eutanasia. Quest’ultimo vuole raggiungere in maniera più
rapida la sedazione totale, cioè la morte del paziente, mentre il primo vuole intervenire sul paziente
per placarne i dolori e quindi non ha alcuna finalità letale nei confronti del malato che gli è stato
affidato.
L’eutanasia è l’abbandono terapeutico o l’astensione terapeutica quando la terapia avrebbe ancora
ragione di essere praticata in quanto proporzionata rispetto alle condizioni reali del paziente.
Quando si parla di eutanasia si fa esplicitamente riferimento all’eutanasia con consenso: si intendo
per atto eutanasico l’azione o omissione praticate su soggetto consenziente, ossia in grado di
esprimere la sua volontà di morire, che chiede di morire, in modo persistente, in presenza di
sofferenze insopportabili ed irreversibili. Si distingue “suicidio medicalmente assistito” o anche
“suicidio eutanasico”(consistente nell’anticipazione della morte, consapevolmente, da parte del
paziente, con l’aiuto del medico al quale si rivolte per la prescrizione di farmaci letali, tra questi la
c.d. pillola del suicidio), dall’”eutanasia volontaria” (consistente nella richiesta diretta del paziente
al medico di essere soppresso, aiutato a morire); nel primo caso il medico si limita a consigliare il
paziente, nel secondo caso il medico pratica direttamente la soppressione eutanasia con modalità
diverse, attivamente o passivamente. I movimenti per la legalizzazione dell’eutanasia sono attivi in
molti paesi e sono riusciti nel loro intento di far attribuire ai medici il potere legale di sopprimere
vite umane nel rispetto del principio di autonomia, ma praticare l’eutanasia non è rendere
omaggio alla libera volontà di una persona che chiede di essere aiutata a morire, bensì
sanzionare quello stato di abbandono morale e sociale che avrebbero il dovere, sia le
istituzioni, sia tutti li individui di buona volontà, di combattere. Il significato di eutanasia va
dilatandosi: in Olanda, nel 2004, è stato elaborato e concordato un protocollo per la soppressione
eutanasia di neonati e in generale minori; questo non solo nel caso in cui fossero malati terminali
ma anche nel caso in cui fossero colpiti da malattie invalidanti ma non mortali. Il riferimento al
principio di autonomia è del tutto fuori luogo in questo caso. Esempi come questo. Confermano la
fondatezza di quello che in bioetica si chiama rischio di “slippery slope” ossia di del pendio
scivoloso: una volta accettata la legittimità dell’eutanasia volontaria. In nome del principio di
autonomia, si giunte facilmente ad accettarla anche se involontaria, in nome di principi ritenuti
all’inizio troppo fragili come quello della compassione o del consenso presunto da parte del
paziente.
Anziani. La bioetica si occupa di tematizzare lo statuto antropologico delle persone anziani come
persone deboli a causa dell’inevitabile declino, fisico-psichico-sociale con la diminuzione repentina
delle capacità intellettive, relazionali e di partecipazione alla vita sociale. I paradigmi libertario e
utilitaristico giustificano l’emarginazione della senilità in quanto in condizione di dipendenza
da altri e di inefficienza per la società. Gli anziani sono avvertiti come un peso per le famiglie
e la società, in quanto hanno un basso livello di qualità di vita e spesso esigono alti costi per la
cura e l’assistenza oltre all’impiego di energie per il loro accudimento. Ciò determina una
graduale perdita della dignità e dei diritti, affidando al mero senso di beneficenza individuale o
sociale la loro “presa in carico”. La riflessione bioetica sostiene che l’anziano, se pur in condizioni
esistenziali di fragilità è una persona umana a tutti gli effetti, avente dunque il diritto umano
fondamentale a essere curato. La vecchiaia, in quanto condizione di fragilità, è meritevole di
doverose specifiche attenzioni igieniche, biomediche e sociali. La bioetica denuncia tutte le
forme di violenza cui vengono sottoposti gli anziani. Ove la bioetica uscisse vittoriosa da questa,
chiamiamola battaglia, non potrebbe e dovrebbe ritenere esauriti i propri compiti poiché le
resterebbe da combattere l’ostacolo più grande, ossia il dato della “segreta ostilità che la vita in
crescita oppone alla vita declinante”. L’impegno della famiglia e la solidarietà della società nei loro
confronti non deve affievolirsi; la bioetica può difendere adeguatamente le esigenze degli anziani
proponendo interventi di valorizzazione dell’anziano autosufficiente e di prevenzione e assistenza
dell’anziano non autosufficiente. È indispensabile la garanzia della tutela dell’integrità fisica ma
anche del rispetto globale dell’anziano nella sua dignità personale, proteggendo la salute e adeguate
condizioni di integrazione e partecipazione socioculturale, nella considerazione delle preferenze e
nella graduazione dell’assistenza ai bisogni reali della singola persona. Si tratta di educare
all’accettazione dell’anzianità come condizione di esistenza: l’anzianità non va rifiutata,
costituisce una condizione di vita ineludibile che riguarda tutti gli esseri umani
nell’approssimarsi alla morte; non deve essere vissuta come la fine dell’esistenza ma come una
fase della vita che può e deve avere spazi di arricchimento; la debolezza della condizione
anziana non può giustificare una deresponsabilizzazione familiare o sociale. L’anzianità si
manifesta da un lato come condizione di maggiore incidenza di malattie, disfunzioni, inabilità,
dall’altro è anche il luogo dove si possono manifestare risorse emotive e intellettuali
valorizzabili: anzianità vista non solo come fragilità ma come risorsa potenziale da stimolare.
La società, in questo senso, è chiamata a promuovere risorse per gli anziani e le famiglie. Il cd.
bilancio di competenze aiuta l’anziano a identificare le preferenze e le motivazioni e ad elaborare
un progetto personale e sociale, ad adattarsi a una nuova condizione di vita per imparare a
invecchiare, considerando la sua condizione quale opportunità formativa e di comunicazione
intergenerazionale. La legge n. 6 del 2004 a tal proposito ha istituito la figura dell’amministratore di
sostegno che supporta la capacità di agire di chi si trovi in condizioni di impossibilità, di provvedere
ai propri interessi senza far ricorso alla interdizione o inabilitazione. La comunità è giusto che
garantisca le risorse adeguate per l’assistenza e la cura di coloro che hanno contribuito al
benessere collettivo del passato e continuano, in qualche misura, anche nel presente.
Disabili. per disabilità si intende qualsiasi limitazione o perdita della capacità di compiere
un’attività nel modo o nell’ampiezza considerati normali per un essere umano: è distinta
dall’Handicap considerato “condizione di svantaggio conseguente a una menomazione o a una
disabilità che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per tale
soggetto in relazione all’età, al sesso e ai fattori socioculturali”. La disabilità fa riferimento sia al
corpo sia all’attività individuale, alla partecipazione alla vita sociale e ai fattori ambientali. La
disabilità diviene una condizione universale: ogni essere umano, in diversi momenti della sua
vita può essere disabile, essendo una condizione che limita l’interazione tra la persona e
l’ambiente rendendo l’individuo meno autonomo nello svolgere le normali attività sociali
quotidiane. La disabilità è la condizione di debolezza che consegue a una relazione tra i fattori
personali sociali ambientali e la salute di un individuo. La bioetica sociale nell’ambito della
disabilità fa emergere due questioni di particolare rilievo: la questione della discriminazione/non
discriminazione e la questione della riabilitazione. Il paradigma bioetico libertario e utilitarista
ritiene che i disabili non abbiano uno statuto di persone, dunque non abbiano dignità, non abbiano
diritti, non debbono essere tenuti in considerazione nel l’ambito delle politiche sociali. La
prospettiva libertaria ritiene che il soggetto disabile escluso dalla categoria di persona in senso
proprio a causa della assenza di autonomia e conseguente dipendenza dagli altri: in questo senso la
pianificazione della riabilitazione è strettamente correlata alla previsione del recupero della piena
capacità di autonomia (autosufficienza, autoconsapevolezza e autodeterminazione); la prospettiva
etica utilitaristica nega la soggettività piena ai disabili a causa della scarsa qualità di vita e di non
sufficiente produttività o efficienza sociale. La definizione del programma di riabilitazione (e del
connesso stanziamento di risorse economiche e umane a tal fine) dipende dalla valutazione delle
concrete e prevedibili possibilità di recupero di una sufficiente qualità della vita, non giustificando
spese considerate futili e inutili in quanto improduttive. Si tratta di due approcci (quello utilitarista e
libertario) che rischiano di produrre due esiti opposti: “l’abbandono” riabilitativo o “l’accanimento”
riabilitativo: nella misura in cui si ritiene che la persona abbia utilità solo se in condizioni di
autonomia ed efficienza ne può derivare un atteggiamento rinunciatario (abbandono del programma
riabilitativo nel caso di un prevedibile irraggiungimento dell’obbiettivo desiderato) o un
atteggiamento eccessivo, ossia decidere di attivare tutte le risorse possibili e disponibili per
raggiungere l’obiettivo a ogni costo, quando non sussistono le condizioni obiettive di recupero
totale, in una corsa verso l’efficientismo, il produttivismo, l’economicismo e l’autonomismo
esasperato. Il paradigma della bioetica sociale, riconosce il valore dell’uomo a prescindere delle
funzioni che è in grado di manifestare esteriormente; la riabilitazione, in questo contesto, non
è solo la programmazione di interventi terapeutici e assistenziali per un recupero delle
funzioni e dell’abilità, ma è un progetto integrale rivolto alla persona diversamente abile che
coinvolge diversi piani (fisico, psichico, sociale, ambientale e spirituale). La riabilitazione deve
adeguarsi alle trasformazioni soggettive e oggettive: si tratta di un percorso che presuppone la
relazionalità tra tutti coloro che iniziano a intraprendere il cammino: il medico, il malato, i
riabilitatori, la famiglia. La riabilitazione è da considerarsi molto più che una prassi: riabilitare
significa attivare una serie di interventi sul corpo e sulla persona terapeutici ma anche e
soprattutto umani; non si tratta solo di ripristinare l’uso di una funzione (un arto, un organo,
una capacità), ma anche instaurare un rapporto umano col paziente, prevede una interazione
attiva di entrambe le parti per recuperare un equilibrio dinamico. In questa direzione è
indispensabile promuovere una cultura bioetica sociale che da un lato abbatta le barriere
architettoniche, ritenendo giustificata sul piano politico sanitario ogni spesa che sappia ridare
speranza a chi soffre, e abbattendo le barriere della mente e i pregiudizi: è necessario un impegno
comunitario affinchè il disabile non si senta solo e emarginato, ma si senta accolto in una società
che comprenda la disabilità come potenzialità e non residualità. Per quanto riguarda la condizione
specifica dei disabili di mente la condizione è di estrema dipendenza: per quanto significativi
possano essere i trattamenti cui sono sottoposti, alcuni di loro hanno bisogno di un’elevata qualità e
quantità di cure per tutto il corso della loro vita. La distinzione tra capacità giuridica e capacità di
agire indica che la prima spetta a ogni essere umano fin dalla nascita e coincide con la capacità di
essere titolare di diritti e doveri; la seconda è la capacità di poter esercitare in modo diretto
personale e responsabile, i propri diritti e spetta solo ai soggetti che abbiano superato la maggiore
età e che non versino in stato di incapacità di intendere e volere. Per tutelare gli incapaci titolari di
capacità giuridica e non di capacità di agire, l’ordinamento giuridico prevede varie figure: potestà
genitoriale, tutela, curatela; istituisce figure specializzate di magistrati, giudici tutelari, cui può
essere deferita la tutela di incapaci. In Italia è vigente la Legge quadro, per l’assistenza,
integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Vi è un dato vistoso, quello della
massiccia rimozione della sofferenza umana come problema inaccettabile e inspiegabile; Nietzsche
ha espresso questa esigenza di rimozione: “i deboli mal riusciti devono perire: questo è il principio
del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve anche essere loro di aiuto”. Nel nostro caso
ciò avviene tramite il riferimento alla tecnica.
Bioetica interculturale. Nell’ambito della bioetica sociale si delinea la cd. bioetnoetica: si tratta di
quella parte della bioetica che si occupa delle questioni socio-sanitarie connesse alla diversità delle
etnie e culture. Ogni cultura ha una propria bioetica; ogni cultura ha colto e interpretato a suo modo
la rilevanza e il ruolo della bioetica in ambito teorico e applicativo. La convivenza di etnie in uno
stesso territorio e in una stessa epoca costringe ad uscire dalla visione limitata della propria cultura
ed instaurare, inevitabilmente, un confronto. Vi sono alcune linee di tendenza: la bioetica
etnocentrica, la bioetica multiculturale, la bioetica internazionale e la bioetica meta culturale.
Bioetica etnocentrica, si intende la riflessione bioetica che considera la propria cultura
come superiore alle altre ritenute inferiori, in una visione gerarchica: si tratta di una
prospettiva che assolutizza in modo esclusivo la bioetica della propria cultura come “LA”
bioetica predominante, con la conseguente imposizione della propria prospettiva sulle altre
bioetiche delle altre culture. Presuppone la superiorità dei propri valori culturali, non ritiene
necessario un confronto con le altre culture (nella ricerca di valori comuni), si impone sulle
culture più deboli esigendo un loro adeguamento. Propone il modello di assimilazione,
esigendo che coloro che appartengono ad altre culture si adattino alla bioetica della cultura
“principale”(paternalismo bioetico che porta alla perdita della identità culturale) e il modello
della subordinazione elle altre culture e del possibile sfruttamento. CRITICA: propone in
modo arbitrario ed indebito la propria posizione come superiore con un atteggiamento di
arroganza intollerante e ingiustificato.
Bioetica multiculturale, ritiene che la bioetica di ogni cultura sia e debba essere posta sullo
stesso piano rispetto alla bioetica di qualsiasi altra cultura: ogni bioetica di ogni cultura è
ritenuta equivalente rispetto a qualsiasi altra. È la teoria che propone un atteggiamento di
tolleranza, intesa come sopportazione e accettazione passiva di ogni bioetica culturale come
si manifesta, senza esprimere alcun giudizio etico. È la prospettiva relativista che, nell’ottica
della giustapposizione delle molteplici e diverse bioetiche, ritiene che la pluralità di
bioetiche sia irriducibile ad unità (non essendo conoscibili valori comuni): in questo senso la
bioetica multiculturale ritiene che non abbia senso cercare valori comuni, che non sia
nemmeno auspicabile trovare valori comuni, ritenendo la pluralità migliore dell’unità quale
espressione di ricchezza e originalità. Ogni bioetica è un mondo “chiuso” e tollera qualsiasi
altra bioetica culturale. CRITICA: cade in contraddizione nella misura in cui avanza pretese
incompatibili: da un lato nega l’esistenza e la conoscibilità di valori comuni, dall’altro
propone la tolleranza ritenendo sbagliato che chi vive in un contesto culturale giudichi ed
interferisca con i principi di un altro contesto culturale; la seconda affermazione entra in
contrasto con la prima, pretendendo di avere una valenza cognitivista.
Bioetica internazionale, si apre alla ricerca di un confronto TRA le culture per trovare
valori comuni. Vi sono due versioni:
o Bioetica internazionale procedurale, intende costruire razionalmente un ordine
morale e giuridico su base convenzionale: l’unica ed esclusiva fonte di legittimità
delle norme è, l’accordo tra individui in grado di accordarsi, ove il contratto rimane
sempre aperto alla negoziazione tra le parti, individui umani autonomi, posti
ipoteticamente in una posizione “originaria” dietro un “velo di ignoranza” (seguendo
la teoria di J.Rawls), stipulano un patto per concordare la procedura per la gestione
dei conflitti, procedura che, una volta concordata, sia vincolante e non possa essere
alterata arbitrariamente dai singoli o dai gruppi culturali: la procedura consiste nella
ricerca, degli ambiti nei quali le culture sono disposte a trattare ed ambiti che
considerano irrinunciabili, c.d. “beni primari non negoziabili”; questi non hanno una
valenza sostanziale ma solo procedurale, in quanto prescindono intenzionalmente dal
contenuto di ogni cultura. Ne consegue che i beni primari non negoziabili possono
anche essere contrari, sostanzialmente, ai diritti umani.
o Bioetica internazionale principalista (o dei principi), ritiene che sia possibile
costruire una bioetica internazionale solo al livello dei principi(livello intermedio tra
teorie e giudizi): non ritiene possibile condividere teorie sul piano filosofico ma si
ammette la possibilità di giungere ad un consenso e ad una convergenza tra le culture
intorno all’accettazione di principi da cui trarre regole per la politica e la prassi
biomedica, quali principi di autonomia, di non maleficenza, di beneficità e di
giustizia. CRITICA: è facile cogliere una matrice culturale occidentale: non tutte le
culture condividono pero tali principi, ma pur se condivisi, rischierebbero di
rimanere etichette vuote, assumendo significati diversi nei diversi contesti culturali,
col rischio di contrapporsi anziché integrarsi.
Bioetica meta culturale, ritiene possibile trovare almeno un valore comune transculturale
minimo, rintracciabile nella relazionalità: ammettere il valore della relazionalità significa
riconoscere l’esigenza del rispetto, della dignità umana quale condizioni di possibilità della
relazione. Ogni bioetica in ogni cultura è giudicabile: anzi, esiste un dovere di esprimere in
giudizio sulle bioetiche delle diverse culture (contro tesi relativista) non un giudizio di
superiorità o inferiorità (come bioetica etnocentrica) ma un giudizio di verità. L’uguaglianza
deve garantire a tutti gli uomini, a prescindere dall’appartenenza culturale, la possibilità di
conoscersi in quanto uomini, di porsi in relazione. L’uguaglianza è il presupposto per il
riconoscimento delle differenze che non è inteso come presa d’atto della diversità, ma come
interazione significativa tra gli uomini. Compito della bioetica, qui, è quello di riconoscere
la differenza tra le culture nella misura in cui tali differenze non rinneghino la relazionalità
interpersonale. La rilevanza della bioetica meta culturale consiste nella ricerca critica di
una continua mediazione interculturale tra i diritti umani e le esigenze specifiche delle
diverse culture; spetta l’onere di custodire il corretto evolversi della dialettica delle culture
onde evitare la tentazione della prevaricazione, per affermare la logica relazione della
diversità nell’uguaglianza, quale condizione inalienabile per l’affermazione dell’identità
soggettiva e del riconoscimento dell’uomo come soggetto giuridico transculturale. Tutto ciò
significa non pretendere di individuare la supremazia di una cultura sull’altra, né limitarsi a
giustificarle tutte ideologicamente: al contrario confrontare le bioetiche significa riconoscere
alla ragione umana la possibilità di avvicinarsi gradualmente alla verità oggettiva,
dialettizando culture diverse nella consapevolezza dell’impossibilità di possedere in modo
compiuto la verità (sapendo cioè che essa è sempre ulteriore rispetto a qualsiasi
formulazione ideologica in cui si possa esprimere). Obiettivo del confronto tra le culture in
Bioetica è cogliere le ragioni profonde che riconoscono la dignità dell’uomo. La prima
apparizione della bioetica meta culturale si è espressa nel 1947, nella condanna ai medici
nazisti per “crimini contro l’umanità”.
Una delle questioni bioeticamente controverse riguarda la questione del diritto alla libertà
religiosa nella triplice valenza di libertà di fede, di proselitismo e libertà di culto. È solo grazie al
Cristianesimo che si è fatta strada l’idea che la fede sia incoercibile, che nessun uomo possa essere
obbligato dallo Stato o comunque dalla società civile cui appartiene a rendere omaggio a Dio e che
quello della propria coscienza è un vero e proprio sacrario.
Bioetica animale. Si occupa della liceità e illiceità riguardo interventi e trattamenti degli animali. Si
è sempre ritenuto evidente nella cultura occidentale che gli uomini avessero potere di soggiogare gli
animali a loro piacimento, e avessero un vero e proprio diritto di vita o di morte. Negli ultimi tempi
tali pretese sono andate in crisi prendendo atto di quanto fosse vistosa la brutalità con cui venivano
trattati gli animali. La difesa più appassionata dei loro diritti è quella elaborata negli ultimi decenni
da vari studiosi che sostengono che, se non possiamo prendere atto del primato fattuale che la
specie umana ha conquistato su ogni altra specie vivente, da ciò non consegue che tale primato
debba essere ritenuto eticamente giustificato. Ryder nel 1972 ha introdotto il termine “specismo”:
idolatrando la propria specie il genere umano commetterebbe un errore teorico ed etico. La critica
allo specismo già stata proposta da Bentham per il quale gli animali andrebbero pienamente
considerati “soggetti morali”: essi se non possono parlare possono soffrire, e l’impegno a evitare la
sofferenza di una creatura vivente avrebbe rilievo etico prioritario; anche se agli animali non può
essere attribuita la qualifica di attori morali (poiché gli manca la possibilità di elaborare la
distinzione tra bene e male) ad essi può applicarsi la categoria elaborata da Regan di “pazienti
morali”: esseri viventi che possono venire trattati giustamente o ingiustamente solo da noi umani.
La bioetica animalista parte dal presupposto che non c’è differenza di valore ma solo di potenza tra
uomini e animali. Bisogna però difendere gli animali, in quanto, secondo Tommaso d’Aquino la
negazione ontologica uomo animale non implica che non si possa nutrire un amore di carità verso
gli animali poiché sono creature di Dio e amandoli manifestiamo amore per il Creatore. L’odio
verso gli animali può acquistare in questo contesto disprezzo per le cose create dal Creatore. Ogni
forma di sofferenza imposta agli animali deve possedere un’adeguata giustificazione. Il bene umano
ha priorità sul bene dell’animale ma poiché anche quest’ultimo è autentico è necessario che
l’affermazione del bene umano non conduca all’annichilimento indebito del bene dell’animale. È
lecito usare gli animali per alimentarci, per alleviare il nostro lavoro, per compagnia; è lecito
utilizzarli per la sperimentazione medica e farmacologica. Ciò che non è lecito è pensarli e ridurli a
cose. Una delle questioni connesse alla bioetica animale è il vegetarianismo: “concezione e prassi
di alimentazione umana basata su presupposti di ordine non solo igienico, ma anche etico religioso
che prescrive l’uso di alimenti vegetali. Meno diffuso è il termine vegetarismo: “concezione
dell’alimentazione umana, derivata dal vegetarianismo, di cui rappresenta la forma più radicale, che
esclude l’uso di alimenti di provenienza animale e consente solo quello di alimenti vegetali”. Per
indicare l’uso di mangiare carne si potrebbe utilizzare sarcofagia: i sarcofagi sono denominati in tal
modo, come divoratori di carne, perché i cadaveri posti al loro interno lentamente sono divorati.
Precetto cardine dell’utilitarismo è: minimizzare il dolore per qualsiasi essere senziente, umano e
quindi anche animale. Se il problema fosse evitare il dolore una macellazione indolore non
dovrebbe riscuotere disapprovazione. Bentham, utilitarista, riteneva lecito mangiare carne di
animali purchè fossero stari uccisi in modo indolore. Le esigenze alimentari umane non giustificano
pratiche crudeli di allevamento e macellazione degli animali perché la crudeltà è un male morale
ingiustificabile. Quella vegetariana deve essere una scelta libera ma privata.
Bioetica ambientale. Coniatore del termine bioetica, Potter riteneva che occorresse costruire un
ponte tra scienze umane e biologiche. Il termine ecologia è stato coniato nel 1866 da Haeckel, e nel
1933 introdotto nell’opera Ecologia degli animali di Elton. Nucleo essenziale è il concetto di
ambiente: insieme delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche in cui si può svolgere la vita di un
organismo animale o vegetale. L’ambiente costituisce un problema perché è una realtà non
oggettivabile, dinamica. Non è possibile assumere come punto di partenza per una riflessione
sull’ambiente naturale l’idea che questo sia sempre e comunque benevolo: dovremmo concludere
che la vita in generale e umana sono mere accidentalità cosmiche sottoposte a forze incontenibili
che le sovrastano ciecamente. Conclusione che può essere confutata in quanto l’uomo ha una
capacità “tecnomorfica” di plasmare l’ambiente in cui vive, di umanizzarlo e di alterarlo fino alla
distruzione. Per studiare la natura come ambiente bisogna supporre questa come una realtà unitaria
e dotata di un senso. Qui si può ritenere legittimo che la natura non si riduca ad un generico insieme
di elementi, ma costituisce un unità che sussiste prima ancora che se ne possa analizzare i diversi
componenti. Se è possibile ipotizzare un sapere umano che abbia per oggetto la natura è altresì
legittimo affermare che esiste un rapporto primigenio tra uomo e natura e che questo sono
reciprocamente coinvolti. Per quanto concerne la questione dell’ambiente naturale, se si assume una
concezione ristretta di natura è ovvio concludere che l’uomo, poichè ha il potere di trascenderla e
dominarla, è legittimato a farlo, con l’unico vincolo della tutela dei suoi interessi. Se invece, si
intende l’ambiente come il “diverso da noi”, non si potrà più ritenere che l’uomo sia una variabile
indipendente rispetto ad esso e l’ambiente non potrà essere pensato come qualcosa che l’uomo
possa smontare e rimontare a suo piacimento.
Bioetica post-umana. Si occupa delle problematiche connesse alle possibilità di manipolazione del
corpo umano aperte dalle nuove biotecnologie GNR (genetica, nanotecnologie e robotica)
unitamente alle tecnlogie informatiche, finalizzate alla creazione di ibridi uomo-macchina(cyborg)
o robot dette anche entità post-umane o trans-umane. La riflessione bioetica dilata la
considerazione della soggettività oltre l’umano e la vita organica, presente e futura, fino ad
includere nuovi soggetti intermedi tra organico ed inorganico, nuovi soggetti artificiali, inanimati,
virtuali, cibernetici, sintetici. Si tratta di progettare un uso delle biotecnlogie a scopo sperimentale,
al fine di trasformare l’uomo per realizzare il suo potenziamento, ossia perfezionamento e
miglioramento mediante manipolazione genetica sia somatica che germinale del corpo,
l’introduzione di tecnologie per sostituire parti del corpo, la manipolazione della mente e
sostituzione artificiale del pensiero, la creazione di robot, autonomi con corpo-macchina e mente-
computer. Seguendo l’idea lanciata dai teorici dell’intelligenza artificiale, la bioetica post-umana
apre tecno-profeticamente un orizzonte futuro che potrebbe portare ad una alterazione radicale della
natura umana mettendo in correlazione il corpo umano con i computer sino alla totale
artificializzazione dell’umano. È la prospettazione di un futuro che tenderà a svuotare i corpi umani,
riducendoli a meri ricettacoli di componenti biotecnlogiche mutanti in gradi di assistere i processi
vitali dell’organismo se non a sostituirli, nello sforzo di immaginare e progettare una condizione
umana, che superi i limiti biologici, fisici e mentali. Nella fusione produttiva di uomo e macchina.
L’impianto nel corpo di materiali che non crescono organicamente, la costruzione di corpi imbottiti
di protesi e la progettazione di robot sono esempi di oggettivazione tecnica della natura umana.
Vi è una linea di pensiero che a partire da una concezione funzionalistica della persona (ridotta
all’esercizio di funzioni cognitive e volitive) ha aperto la strada alla tematizzazione della
disincarnazione del soggetto: la persona è identificabile nell’esistenza di un individuo in grado
esercitare determinate funzioni a prescindere dall’esistenza biologica di un corpo e
dell’appartenenza ad una determinata specie. Engelhardt porta al superamento della distinzione tra
corpo biologico di un uomo o di un angelo, di un extraterrestre o di un’intelligenza artificiale, nella
misura in cui fossero entità dotate delle capacità funzionali che qualificano la soggettività. I teorici
dell’intelligenza artificiale offrono argomento etici e tecnici a sostegno della convergenza
dell’intelligenza artificiale con l’intelligenza umana. Moravec e Bostrom ritengono che la bioetica
debba sostenere tali nuovi percorsi riconoscendo come unico limite i problemi economici. Il
pensiero postumanista e transumanista si richiama alla concezione di dualismo antropologico che da
Platone attraverso Cartesio ha caratterizzato parte della riflessione occidentale. La considerazione
del corpo come peso (Platone parlava di tomba dell’anima), la separazione del corpo dalla mente
sono alla base di tale orientamento che a partire da una svalutazione della corporeità giustifica la
fungibilità del corpo e della stessa mente. La postumanità segnerà l’epoca della liberazione totale
del corpo umano grazie al dominio della tecnica. Il corpo viene ridotto alla condizione di pure
oggetto, manipolabile e modificabile, assoggettato ad un controllo di qualità. Alcuni scienziati
preconizzzano la distruzione dell’uomo, ritenendo che leggi etica e istituzioni non siano sufficienti
per contrastare l’esaltazione tecnologica, sollecitando ad una ribellione al dominio delle macchine
sugli uomini. Questi timori si inscrivono nell’orientamento che Lecourt definisce del
“biocatastrofismo tecnofobico”. Di fronte a tali scenari futuri è indispensabile attivare una
riflessione filosofica critica sul corpo umano che sappia individuare i limiti delle biotecnologie
GNR e informatiche, senza esaltare la tecnologia disprezzando il corpo né esaltare il corpo
disprezzando la tecnologia. L’obiettivo è quello di consentire interventi biotecnologici, genetici e
informatici sul corpo umano senza snaturarne l’identità. Il transumanesimo diviene mostruoso nella
misura in cui intende intenzionalmente trasformare il corpo umano in identità nuova che sconvolge
radicalmente la dimensione intrinseca della identità antropologica. Il progetto postumanista tende a
portare l’uomo a fuggire dalla temporalità e dalla spazialità che lo costituisce: ma l’allontanamento
dall’io del proprio corpo provocherebbe un disadattamento profondo: è importante ricordrea che le
comunità virtuali sono originate dal corpo fisico e ad esso devono ritornare.