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Matteo Maccione

Videomodeling
e autismo
Descrizione di un intervento educativo
Editing
Davide Bortoli | Medialab
Impaginazione
Medialab
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Copertina
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Matteo Maccione

Videomodeling e autismo
Descrizione di un intervento educativo

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menti di lavoro, dando voce ai professionisti del mondo della scuola, dell’educa-
zione e del settore socio-sanitario, ma anche a genitori, studenti, pazienti, utenti,
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gonisti hanno sviluppato e realizzato in ambito educativo, didattico, psicologico
e socio-sanitario, per dare loro la possibilità di condividerle attraverso la stampa
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no incontrarsi per confrontarsi, dare e ricevere suggerimenti, scambiare le proprie
esperienze, commentare le opere, trovare approfondimenti, scaricare materiali.
Un’occasione unica per approfondire una serie di tematiche importanti per la pro-
pria crescita personale e professionale.

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Indice

Presentazione 7
Introduzione 9

Capitolo 1 13
Autismo: che cos’è?
Capitolo 2 23
La mente e le nuove tecnologie
Capitolo 3 43
Il videomodeling
Capitolo 4 53
Intervento educativo

Conclusioni 63
Bibliografia 67

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Presentazione

Le nuove tecnologie si stanno inserendo nella quotidianità


sempre di più e con profondità e immediatezza sempre maggiori.
Anche le istituzioni educative e formative hanno dovuto far fronte a
quest’ondata rivoluzionaria. Gli impliciti sociali hanno fatto sì che i
nuovi media varcassero la soglia delle scuole, entrando e affiancandosi
di diritto ai curricoli disciplinari più consolidati.
Il presente volume prende in considerazione tali tecnologie
non tanto perché sono diffuse e generalmente accettate, ma assume
come linea un orientamento evidence-based, mettendole in discus-
sione e selezionandole sulla base di una loro dimostrata efficacia. Il
contributo, infatti, si propone di indagare quali tecnologie possano
essere considerate un valido supporto o siano irrilevanti o, peggio, un
intralcio, rispetto agli apprendimenti degli studenti.
La ricerca si è focalizzata sull’ambito degli allievi con bisogni
educativi speciali, in particolare con Disturbo dello Spettro Autistico
(Autism Spectrum Disorder – ASD), esaminando tecnologie, strumenti,
applicazioni che potessero essere considerati un sostegno per gli alunni

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con autismo. Il videomodeling si evidenzia come metodologia efficace
per l’insegnamento e l’apprendimento di comportamenti target.
Al termine di questa disamina, quindi, ho utilizzato il videomo-
deling per risolvere una situazione specifica e ho proceduto con uno
studio di caso relativo a un ragazzo di 17 anni, con diagnosi appunto
di Disturbo dello Spettro Autistico, per insegnargli ad allacciarsi le
scarpe. L’intervento è durato 11 incontri, in un arco di tempo di sei
settimane. Ho progettato tutte le risorse educative, ovvero i video e
i contesti di apprendimento, e sono stato il formatore che si è inter-
facciato direttamente con il ragazzo.
L’esito dell’intervento educativo è stato positivo, come descritto
nell’ultimo capitolo del volume.

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Introduzione

Il volume fornisce innanzitutto un panorama generale del Di-


sturbo dello Spettro Autistico (capitolo 1). Quindi vengono esposti gli
effetti che le nuove tecnologie hanno e possono avere sulla mente di
un soggetto, sia esso a sviluppo neurotipico o neurodiverso, normo-
dotato o con disabilità (capitolo 2). Nel capitolo 3 si presenta l’analisi
di una metodologia di lavoro che sta prendendo sempre più spazio
all’interno dei progetti di programmazione educativa individualizzata
(PEI) e riabilitativa: il videomodellamento. A conclusione è posto uno
studio di caso dove viene proposto e descritto un intervento educativo
basato sulla strategia analizzata in precedenza (capitolo 4).
Entrando nello specifico, il capitolo 1 presenta le nozioni di
base per identificare il Disturbo dello Spettro Autistico, con una prima
parte incentrata sulla storia del concetto del disturbo, dall’etimologia
del nome, passando per le modifiche di percezione e diagnosi della
patologia attraverso gli anni, fino a giungere alle definizioni esposte
nei due massimi manuali diagnostici a cui gli specialisti del settore
fanno riferimento oggigiorno (DSM-5 e ICD-10). L’ultima sezione

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viene dedicata ai principali modelli interpretativi della condizione
(Deficit delle funzioni esecutive, Deficit della coerenza centrale, De-
ficit primario nelle relazioni interpersonali, Deficit nella teoria della
mente) e a una panoramica delle statistiche sull’incidenza dell’autismo
nella popolazione mondiale.
Le argomentazioni proposte nel capitolo 2, La mente e le nuove
tecnologie, vertono sulle possibili influenze, positive e/o negative, che
i nuovi media, penetrati negli ultimi decenni in maniera massiccia
all’interno della società, hanno sulla mente umana, con lo scopo di
formulare poi una mappatura degli interventi maggiormente utili
nel lavoro psico-educativo dei soggetti con bisogni educativi speciali.
Nello specifico, il primo paragrafo tratta informazioni riguardanti i
dispositivi ideati per le persone con disabilità, sia fisica che intellettiva,
per valutare se possono avere un’influenza positiva nel supporto ad
attività quotidiane o compiti didattici; il secondo si occupa di quelle
tecnologie che si propongono di offrire un valido supporto alle persone
con Disturbo dello Spettro Autistico. Gli ultimi tre paragrafi parlano
degli effetti dei nuovi media sulla mente umana, di come insegnare e
imparare per mezzo dei nuovi dispositivi tecnologici e dei risultati di
tali applicazioni (favorevoli, dubbi o avversi); infine, ci si domanda
se risulti funzionale apprendere tramite la fruizione di queste nuove
applicazioni: quanto queste possono essere considerate utili, necessarie
e pratiche nell’apprendimento dei futuri studenti?
Il capitolo 3, Il videomodeling, espone in maniera globale le
particolarità del videomodeling (VM) inteso come strategia che ulti-
mamente viene sempre più presa in considerazione in campo riabili-
tativo e didattico. In prima analisi viene presentata la teoria alla base
del metodo, ovvero la Teoria dell’apprendimento sociale formulata da
Albert Bandura. Di seguito vengono elencate le caratteristiche tecniche
e i vari sottotipi di videomodellamento, come il self-videomodeling
(SVM) e il video prompting (VP). La parte dedicata ai dettagli del
VM elenca quali sono gli accorgimenti fondamentali per produrre

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un elaborato di videomodellamento: dagli strumenti utilizzati alle
metodologie educative, dal contesto nel quale proporre la strategia alle
persone da riprendere come modelli di comportamento. Il capitolo,
inoltre, si propone di rispondere a diversi quesiti sul videomodeling,
elencati di seguito.

– Può essere considerato una strategia di insegnamento efficace


da proporre a un soggetto con Disturbo dello Spettro Autistico?
– È una metodologia che prevede una certa rigidità procedurale?
– Quali sono i punti di forza della strategia educativa?
– Ci sono accorgimenti da valutare attraverso sperimentazioni
future?
– Il metodo risulta completo e standardizzato per tutti i soggetti?

Si passano poi in rassegna i contributi di vari autori, i quali


stabiliscono i punti di forza e di debolezza dello strumento, con
particolare riferimento agli studi di John Hattie.
Per completare la ricerca, all’interno del capitolo 4 è presentato
un intervento psico-educativo progettato su misura per un ragazzo di
17 anni con sindrome da alterazione globale dello sviluppo psicologico
di tipo autistico. Qui si risponde ad alcune delle domande poste nel
capitolo precedente partendo dalla concretezza di uno studio di caso,
dimostrando come la metodologia in questione possa essere un valido
aiuto per educatori e insegnanti che quotidianamente lavorano con
soggetti con autismo. Vengono descritte tutte le fasi del progetto (della
durata di circa due mesi), dal pre-training alle difficoltà riscontrate
dall’alunno, enunciando le strategie e le tecniche utilizzate per portare
a compimento determinate sequenze, fino a giungere alla realizzazione
del comportamento modello. Il capitolo si suddivide in tre paragrafi:

– Descrizione del caso, in cui viene esposta un’analisi delle peculiarità


del soggetto preso in esame;

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– Progetto, in cui si descrivono le sessioni di lavoro, il comportamento
modello da emulare, la strumentazione utilizzata, il periodo in cui
svolgere l’attività (orari e periodo) e il pre-training svolto prima
di affrontare l’intervento;
– Settimane di lavoro, in cui vengono analizzate, attraverso immagini
e descrizioni, le varie fasi del progetto, sviluppato all’interno di sei
settimane per un totale di 11 lezioni, partendo dalla prima seduta,
dove è stata esposta la metodologia, fino agli accorgimenti presi in
considerazione nella quarta e quinta settimana e al compimento
dell’intervento attraverso il video prompting (VP).

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Capitolo 1
Autismo: che cos’è?

In questo primo capitolo l’attenzione si focalizza sulla descri-


zione del Disturbo dello Spettro Autistico, citando alcune fonti per
quanto riguarda la definizione della condizione autistica, elencando
le principali aree deficitarie, esponendo i più noti modelli inter-
pretativi, quelli utilizzati con maggiore continuità ed evidenziati
dal successo che hanno riscosso. In ultima analisi, viene trattata
l’incidenza del Disturbo dello Spettro Autistico sulla popolazione,
osservando le ricerche che suggeriscono il picco di diagnosi negli
ultimi due decenni.

Evoluzione del concetto

Nel 1911 Eugen Bleuler, noto psichiatra svizzero, contribuì


in maniera fondamentale alla moderna psicopatologia introducendo
il concetto di «autismo» (dal greco autòs, che significa «se stesso»)
per elencare un criterio diagnostico della schizofrenia dell’adulto,

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considerato come un restringimento delle relazioni con le persone e
con l’ambiente che lo circonda, «talmente estremizzato da escludere
qualsiasi cosa eccetto il proprio sé» (Frith, 1989, p. 8).
Successivamente, nel 1943, lo psichiatra austriaco Leo Kanner,
parlando di «autismo infantile precoce» (Barale e Uccelli, 2006), scis-
se attraverso un articolo intitolato Autistic disturbances and affective
contact il concetto di Disturbi dello Spettro Autistico, riferendosi per
la prima volta all’età evolutiva, separandosi dalla teoria della psicosi
dell’adulto individuata da Bleuler in seguito alle osservazioni condotte
su un gruppo di undici bambini (nove maschi e due femmine) nel
reparto di Psichiatria Infantile dell’ospedale di Baltimora. Attraverso
questo studio, Kanner mise in risalto alcuni deficit che i soggetti
considerati mostravano, come:

– l’incapacità nel rapportarsi all’ambiente circostante nei modi tipici


dell’età biologica posseduta;
– una tendenza a isolarsi e a non comprendere i segnali provenienti
dall’esterno (Cottini, 2002).

Precisò che i bambini osservati erano tendenti all’isolamen-


to, felici se lasciati da soli, come in un guscio, «simili a un’ostrica»
(Fontani, 2014, p. 19). Descrisse inoltre che molti dei fanciulli da
lui osservati presentavano un’anomalia dello sviluppo del linguaggio
(Vianello, Mariotti e Serra, 2004): alcuni si limitavano a forme pri-
mitive di comunicazione (semplici vocalizzi, forme gestuali), in altri
questo era totalmente assente (Kanner, 1943).
Secondo lo psichiatra austriaco si attribuiva questo disturbo
alle influenze non positive dei familiari (tanto che qualcuno arrivò
a etichettarli «genitori frigorifero»), considerati distaccati, evitanti e
freddi nelle relazioni affettive con il proprio bambino (Tustin, 1972).
Solo nei primi anni Settanta del Novecento, Kanner modificò la sua
descrizione della patogenesi allontanandosi dalla precedente e soste-

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nendo che era un disturbo innato del contatto affettivo, il quale non
permetteva ai fanciulli e alle fanciulle una corretta appropriazione
delle cure offerte da parte dei familiari più stretti.
Un altro pioniere, che si interessò all’osservazione di comporta-
menti di bambini simili a quelli descritti da Kanner, è Hans Asperger
(pediatra presso il reparto di Pedagogia Curativa della Clinica Pedia-
trica di Vienna), il quale in un saggio del 1944 definì il concetto di
«psicopatia autistica» (autistichen Psychopathen) (Asperger, 1991).
Asperger spiegò infatti che i fanciulli da lui visionati (inizialmente
quattro, con età compresa tra i 6 e 11 anni) presentavano analogie
e differenze in confronto a quelli analizzati da Kanner a partire dal
1938. Venivano mantenuti i deficit nelle relazioni interpersonali,
mentre non presentavano difficoltà a livello fonologico, sintattico,
semantico e grammaticale. Inoltre, ad avere alterazioni era la capacità
comunicativa, di iniziare e mantenere una conversazione, di affiancare
e supportare la produzione verbale con gesti espressivi e di utilizzare
un’adeguata prosodia (Frith, 1989). Sul piano affettivo, il pediatra
viennese evidenziò nei soggetti una difficoltà generalizzata nel rico-
noscere e gestire le emozioni (Zappella, 1996), una carenza empatica,
un’incapacità nel regolare scambi interpersonali.

Definizione secondo i manuali: ICD-10 e DSM-5®

I Disturbi dello Spettro Autistico vengono diagnosticati in


conformità con le linee guida dei due principali volumi ai quali i
professionisti fanno riferimento (Vivanti, 2010), scelti dall’Organiz-
zazione Mondiale della Sanità (OMS), ovvero:

– DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)


del 2013, un manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali
redatto dall’APA (American Psychiatric Association, 2013);

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– ICD-10 (International Classification of Diseases) del 1994, il qua-
le rappresenta la decima revisione della classifica internazionale
delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali stipulato
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1994).

Nel primo manuale citato (DSM-5, APA, 2013), la categoria


diagnostica è identificata dai Disturbi dello spettro dell’autismo, inse-
rita nei Disturbi del neurosviluppo, che si distingue dalla precedente
macrocategoria dei Disturbi pervasivi dello sviluppo (DPdS), la quale
comprendeva anche la sindrome di Asperger (ora definita «Disturbo
dello Spettro dell’Autismo livello 1 senza problemi intellettivi e di
linguaggio»), la sindrome di Rett (spostata nei disturbi neurologici),
il Disturbo disintegrativo e il Disturbo pervasivo dello sviluppo non
altrimenti specificato (NAS) (eliminati completamente). La patologia
si caratterizza attraverso due macro-aree di problematicità (detta diade
sintomatologica), che comprendono:

– deficit persistenti nella comunicazione e nell’interazione sociale in


diversi ambienti, non dovuti a generali ritardi dello sviluppo (questa
area agglomera le difficoltà di tipo sociale a quelle comunicative
presentate nella versione precedente, ovvero il DSM-IV);
– schemi di comportamento ripetitivi, ristrettezza di interessi e
nelle attività.

Per la prima categoria di sintomi devono essere soddisfatti i


seguenti criteri:

– deficit nella reciprocità socio-emozionale;


– deficit nei comportamenti di comunicazione non verbale utilizzati
per l’interazione sociale;
– deficit nello sviluppo, nel mantenimento e nella comprensione
di relazioni appropriate.

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Mentre per la seconda categoria, che riguarda i comportamenti,
interessi e attività ristretti e ripetitivi, devono essere compresi almeno
due dei seguenti punti:

– linguaggio ripetitivo (ecolalia immediata e/o differita, frasi idiosin-


cratiche), utilizzo routinario di oggetti o movimenti stereotipati;
– interessi fortemente ristretti (attaccamento morboso o preoccu-
pazione per oggetti inusuali);
– aderenza eccessiva alla routine, rituali di comportamento verbale
e non, resistenza ai cambiamenti improvvisi;
– iper o ipo-reattività agli stimoli sensoriali (apparente indifferenza
al dolore, eccessivo odorare e toccare oggetti o parti di essi, risposta
avversa a suoni o consistenze particolari, attrazione per luci, colori
specifici o oggetti roteanti).

La diade sintomatologica deve essere presente nel periodo della


prima infanzia, o fino a quando le richieste sociali oltrepassano il limite
delle capacità. Inoltre, l’insieme dei sintomi deve limitare e/o compro-
mettere il funzionamento quotidiano del paziente (Caretto, 2015).
Riprendendo lo «snellimento» del nuovo manuale diagnostico
(DSM-5), si evince il voler concentrare le proprie risorse sui tratta-
menti, basati sui punti di forza e comprensione delle debolezze del
soggetto, e non configurandosi in conformità all’etichetta assegnata
dai test. Così il processo diagnostico si alleggerisce.

I principali modelli interpretativi

Con l’aumentare degli studi riguardanti il funzionamento


autistico, negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di nuovi
modelli interpretativi e alla caduta di altri (come, ad esempio, le teorie
psicodinamiche). I modelli proposti si prestano a facilitare il lavoro

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educativo, individuando delle linee guida ben precise a cui riferirsi
(Cottini, 2011).
I principali modelli interpretativi riguardano:

– deficit delle funzioni esecutive;


– deficit di coerenza centrale;
– deficit primario nella relazione interpersonale;
– deficit della teoria della mente.

Deficit delle funzioni esecutive

Le funzioni esecutive comprendono una serie di operazioni


che riguardano il controllo, l’organizzazione e la pianificazione del
comportamento (Pennington e Ozonoff, 1996). Questo deficit com-
promette, secondo la teoria di Pennington, Ozonoff e Rogers (1991),
la capacità di problem solving e la pianificazione di azioni necessarie
al raggiungimento di uno scopo.

Deficit di coerenza centrale

Il deficit di coerenza centrale presuppone le seguenti peculiarità


nel soggetto con autismo:

– fissazione eccessiva su spaccati di vissuto o esperienze particolari;


– difficoltà di passaggio dal particolare al generale;
– deficit nella comprensione delle caratteristiche di un determinato
stimolo all’interno di un complesso (Happé, 1996).

Deficit primario nella relazione interpersonale

Viene evidenziato come la carenza sociale riscontrata nella pa-


tologia autistica sia dovuta a un non adeguato funzionamento delle

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relazioni interpersonali. Questa teoria viene proposta da Hobson
(1990; 1991), che sottolinea l’incapacità di percepire, per mezzo
dell’esperienza che si acquisisce attraverso le relazioni con gli altri, le
espressioni delle emozioni dei propri caregiver.

Deficit della teoria della mente (ToM)

Questo modello ipotizza uno squilibrio nella capacità della


mente umana di attribuire stati mentali, credenze e desideri dell’al-
tro. Nel paziente con Disturbo dello Spettro Autistico permane uno
stato di cecità mentale rispetto alla lettura della mente propria e
all’interpretazione di quella altrui (Baron-Cohen, Tager Flusberg e
Cohen, 2000).
Wimmer e Perner (1983) formularono diverse prove per sta-
bilire la capacità del bambino con autismo nel comprendere gli stati
mentali. Arrivarono alla conclusione che i bambini di 4 anni o più
erano in grado di comprendere esplicitamente una convinzione errata
di un’altra persona e di conseguenza predire il comportamento futuro.
Simon Baron-Choen e colleghi hanno adattato il loro metodo
formulando un compito di falsa credenza (false belief task), denomi-
nato Prova di Sally e Anne. La versione dello spostamento inatteso
favorisce una dimostrazione di come il soggetto interpreti la situazione
predicendo dove il protagonista della vicenda andrà a cercare l’oggetto
(Caravita, 2018).
Vengono presentate al soggetto due bambole: Sally e Anne. La
prima ha un cestino e la seconda una scatola. Sally esce a passeggio
dopo aver messo una biglia nel proprio cestino e averlo coperto con
un panno. Mentre Sally è fuori, Anne prende la biglia dal cestino e la
nasconde nella propria scatola. Sally torna e vuole giocare con la sua
biglia. A questo punto si chiede al soggetto: «Dove cercherà la biglia
Sally?». Se il soggetto risponde affermando il dato reale o di fatto, cioè
che Sally l’avrebbe cercata nella scatola di Anne, si può affermare che

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non è in grado di formulare «false credenze», ovvero non è in grado
di conoscere gli stati mentali altrui.
Questo esperimento è servito a dimostrare che i bambini con
autismo non comprendono che Sally possa avere una falsa credenza.

Incidenza dell’autismo nella popolazione

Le diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico negli ultimi anni


sono notevolmente aumentate. Gli esperti si interrogano sui motivi
di questa diffusione così ampia e rapida della patologia all’interno
della popolazione mondiale.
Vengono ipotizzati diversi fattori che stanno determinando
questo picco di diagnosi. Ad esempio, si pensa che la responsabilità
sia dovuta agli avanzamenti che la medicina ha compiuto in campo
diagnostico e all’affinamento degli strumenti standardizzati prodotti
negli ultimi anni, dotati di maggior potere discriminativo (Cottini,
2011).
Altre cause di incidenza vengono attribuite all’aumento dei
servizi sanitari sul territorio, a una maggiore definizione dei criteri
diagnostici (includendo anche forme più lievi dell’autismo o forme
parziali all’interno dello spettro) e a una maggiore sensibilizzazione
da parte di operatori, enti, specialisti, ecc.
Facendo un passo indietro, Kanner, attraverso i suoi primi
studi sulla patologia, stabilì un’incidenza di 4 casi su 10.000; succes-
sivamente (nel 1979) Wing e Gould registrarono 20 casi su 10.000.
La Società Nazionale dell’Autismo formula una stima di 91/10.000
nel 1997 (Autismo Italia, 2002), fino ad arrivare agli studi condotti
negli ultimi anni, in cui viene stimata un’incidenza del disturbo pari
a 1/68 (Christensen et al., 2012).
Oggigiorno la condizione autistica viene diagnosticata in Italia
con un influsso di 1 bambino ogni 77 secondo l’Osservatorio Nazio-

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nale Autismo, che fa capo all’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Viene
descritta una rilevanza maggiore (4:1) nei maschi piuttosto che nelle
femmine, dove però i sintomi si manifestano con gravità superiore
(Autismo Italia, 2002).

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Capitolo 2
La mente e le nuove tecnologie

In questo capitolo si presentano alcune informazioni in merito


all’impatto delle nuove tecnologie su soggetti con bisogni educativi
speciali, in generale su persone con disabilità e nello specifico su
soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (Autism Spectrum
Disorder – ASD). L’obiettivo è valutare e comprendere se l’avvento
di questi nuovi mezzi possa supportare queste persone in diversi
ambiti (dell’apprendimento, esperienziale, comunicativo, espressivo,
ecc.), oppure le penalizzi, oppure ancora produca una variazione
non significativa.
Inoltre, a partire da un esame delle fonti disponibili si espongono
quali effetti possano avere le tecnologie sulla mente, sul pensiero e sugli
apprendimenti dell’uomo, al fine di comprendere se queste possano
realmente essere uno strumento duttile e funzionale alla quotidianità.
Come ci suggerisce Vivanet, negli ultimi anni «lo sviluppo delle
tecnologie ha offerto un’ampia soluzione di alternative nel campo
pedagogico, attraverso le applicazioni installate su dispositivi, robot
e realtà virtuale» (Vivanet, 2014, p. 85).

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Le nuove tecnologie a supporto della disabilità

Il mondo della scuola e dell’apprendimento, secondo la mag-


gioranza degli esperti, sta vivendo una riformattazione importante
grazie all’avvento delle tecnologie prodotte negli ultimi anni.
Si sono venuti a creare dei nuovi imperativi sociali in base ai
quali famiglie, mondo pubblicitario, industrie pressano i sistemi
educativi principali, quindi istituti scolastici pubblici e privati di
ogni ordine e grado, servizi doposcuola, agenzie formative, affinché
adottino nuove tecnologie per raggiungere un livello di educazione
armonico (Negroponte, 1995, p. 237) per tutti.
A favore delle tecnologie per l’apprendimento Calvani e Ranieri
(2011) evidenziano dei punti ormai divenuti di senso comune:

– la multimedialità favorisce in modo cospicuo l’apprendimento


degli studenti sul piano della didattica;
– il web crea un apprendimento collaborativo, favorendo un’oppor-
tunità sociale dove l’interattività promuove un coinvolgimento
maggiore;
– l’utilizzo dei computer sviluppa e costruisce una motivazione
maggiore nell’affrontare i compiti scolastici.

Ranieri (2011) sostiene che le tecnologie forniscono degli


importanti benefici sui processi cognitivi dello studente. Queste
influiscono migliorando gli apprendimenti, rendendo l’attività inte-
rattiva, coinvolgente, aumentando la produttività sia di tutta la classe
di studenti, sia del singolo.
Viene quindi da chiedersi: le teorie condotte su gruppi di persone
neurotipiche e/o normodotate hanno la stessa valenza per la popolazione
con disabilità, cognitiva e/o fisica?
Il gruppo di ricerca di Higgins, attraverso un’indagine per sta-
bilire quali fossero gli effetti benefici e quelli negativi delle tecnologie

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(Higgins et al., 2016), ha evidenziato l’uso particolarmente efficace
dei nuovi strumenti per fornire un valido sostegno a soggetti con
bisogni educativi speciali, in quanto questi dimostrano una funzione
supplementare al tradizionale insegnamento didattico.
Le nuove tecnologie digitali o i dispositivi di input (Chiappini,
Dini e Ferlino, 2004) diventano facilitatori per gli studenti con bisogni
speciali (Carruba, 2014), in quanto sostengono, compensano, abili-
tano la persona non solo nel compito educativo, ma anche nella sua
indipendenza o nell’ambito lavorativo, proponendosi come un valore
aggiunto, permettendo alla persona con disabilità di condurre attività
che altrimenti sarebbero impossibili (ad esempio, per comunicare con
modalità funzionali, per le interazioni sociali, per gli apprendimenti,
per attività quotidiane, ecc.) (Burgstahler, 2003).
Osserviamo due esempi di questi supporti nelle figure 2.1 e
2.2, dove vengono raffigurati due mezzi alternativi con i quali l’allievo
può interfacciarsi con un computer. La prima raffigura una tastiera
facilitata, pensata per alunni con disturbi dell’attenzione o Disturbi
Specifici dell’Apprendimento, in grado di concentrare l’attenzione
dello studente per mezzo di aree tracciate con due diversi colori.
La seconda figura mostra un mouse adattato in grado di muovere il
puntatore sullo schermo di un PC per mezzo di una palla girevole.
L’utilizzo di questi supporti tecnologici nei contesti di appren-
dimento ha permesso alla popolazione con disabilità il superamento
di quelle barriere culturali, architettoniche e digitali che prima im-
pedivano loro di formarsi e di apprendere.
Sempre di più, in campo tecnologico e in particolar modo in
quello robotico, si stanno facendo passi avanti nel produrre dispositivi
alternativi per consentire alla persona con disabilità di interfacciarsi
con un prodotto per comunicare e socializzare. Ad esempio: mouse
alternativi per facilitare la prensione, oppure tastiere che evidenziano
i gruppi di lettere, differenziandoli dai numeri e/o da altri simboli,
tastiere semplificate (con sole lettere), puntatori oculari progettati e

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pensati per soggetti con una scarsa mobilità, come persone con tetra-
plegia o paraplegia degli atri superiori, oppure riproduttori vocali, detti
screen reader, per consentire alla popolazione non vedente la lettura
di un testo tramite riproduzione audio (Vivanet, 2017).

Fig. 2.1 Tastiera facilitata, per favorire la Fig. 2.2 Mouse «bigtrack», utilizzato per
concentrazione su diversi gruppi persone con scarsa motricità
di lettere e numeri. negli arti superiori.

Le tecnologie per l’autismo

Negli ultimi anni nel campo dell’apprendimento e dell’educa-


zione si sono verificate numerose esperienze di applicazioni tecnologi-
che pensate per soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico (Vivanet,
2017). I nuovi dispositivi tecnologici hanno permesso a pedagogisti,
educatori e insegnanti di ripensare gli obiettivi pedagogici da formulare
nei progetti di vita dei soggetti con autismo, per consentire loro un
bagaglio di apprendimenti altrimenti non accessibile.
Le applicazioni studiate e sperimentate si propongono di aiu-
tare e supportare i soggetti nello spettro autistico nelle loro specifiche
difficoltà, in particolare nel deficit della comunicazione e interazione
sociale (si veda il capitolo 1). La ricerca, per il momento, si propone
questi obiettivi, considerati i più urgenti per rendere il soggetto con
autismo il più autonomo possibile.

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Ad esempio, una tecnologia prodotta per supportare le intera-
zioni sociali nei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico sono i
Google Glass (figura 2.3), ovvero degli smart glass, occhiali tecnologici
in grado anche di leggere e tradurre le espressioni sul volto della persona
con cui stiamo interloquendo. Il sistema, progettato dai ricercatori
della Stanford University, facilita il riconoscimento delle emozioni
per mezzo di alcuni punti sul viso, i quali si modificano in base alle
sensazioni provate dall’individuo: a ogni movimento di occhi, bocca,
guance e sopracciglia è associabile un’emozione umana (si veda http://
autismglass.stanford.edu, 2015). La lettura dell’emozione mostrata
dall’interlocutore viene trasmessa al soggetto che indossa gli occhiali
tech tramite una emoji (cioè un’immagine semplificata di un volto
che esprime l’emozione provata in quel momento).

Fig. 2.3 I Google Glass consentono la decodifica delle espressioni facciali dell’interlo-
cutore.

Grazie alle testimonianze di persone con autismo ad alto fun-


zionamento, e alle numerose ricerche in campo clinico e psicologico,
si evince come il pensiero visivo (Grandin, 2006) sia un canale for-
temente utile per far apprendere la persona autistica e comunicare
con essa.
Come sostiene Temple Grandin, docente di fama mondiale della
Colorado State University, affetta da sindrome di Asperger:

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Io penso in immagini. Le parole sono come una seconda
lingua per me. Io traduco immediatamente le parole, sia pro-
nunciate che scritte, in filmati a colori completi di suono, che
scorrono come una videocassetta nella mia mente. Quando
qualcuno mi parla, traduco immediatamente le sue parole in
immagini (Grandin, 2006).

Partendo da queste riflessioni è stato possibile introdurre anche


l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali come smartphone, tablet, por-
table computer e altri «piccoli schermi» a supporto degli insegnamenti
didattici e di nuove abilità comportamentali.
A seconda dell’applicazione utilizzata nei vari dispositivi è pos-
sibile agire in diverse aree degli apprendimenti: si possono favorire
atteggiamenti idonei al contesto, eliminare alcune forme comporta-
mentali di tipo problematico, insegnare nuove abilità pratiche e di au-
tonomia. In aggiunta favoriscono un’attrazione maggiore nei compiti
scolastici, influendo positivamente sulla riuscita degli stessi, possono
supportare nella comunicazione e nelle produzione verbale, infine
possono formare e aiutare lo studente nell’inserimento lavorativo.
Secondo recenti studi, una percentuale che oscilla tra il 25% e
il 50% dei soggetti con ASD non acquisisce alcun tipo di linguaggio
verbale, mentre il 25% di quelli che hanno un’acquisizione nei primi
12-18 mesi va incontro a un aggravamento, perdendo buona parte
della produzione verbale/comunicativa (Militerni, 2015). Perciò
vengono a formarsi modalità comunicative non idonee attraverso la
produzione di ecolalie immediate e/o differite, l’inversione pronomi-
nale o addirittura la perdita totale del linguaggio.
Molti dispositivi si concentrano, attraverso applicazioni speci-
fiche, sull’area comunicativa del bambino con autismo, cercando di
sviluppare, incrementare, correggere e/o migliorare la produzione di
parole in quei soggetti che mostrano difficoltà.
È ciò che avviene con i dispositivi per la Comunicazione Au-
mentativa Alternativa, i quali permettono, attraverso pittogrammi

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utilizzati anche per la Lettura Globale (Beukelman e Mirenda, 2014),
di disporre frasi corrette in base al componimento di più immagini, e
di riprodurle anche attraverso una sintesi vocale (figura 2.4).

Fig. 2.4 Dispositivo per la Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA).

Altrettante sono le applicazioni che si propongono di agire sulla


condotta dell’allievo. Una tra queste, che si serve del supporto di uno
smartphone o di un tablet per far apprendere lo studente con ASD,
è il videomodeling (VM) (Cottini, 2012), una metodologia che si
sta rivelando molto efficace in campo psico-educativo e che agisce
in particolar modo sul comportamento attraverso il modellamento
dello stesso.
Il videomodeling si basa sul far apprendere allo studente con
autismo determinati comportamenti modello attraverso l’emulazione
di un’altra persona che compie un’azione (Bandura, 1969), visualiz-
zando un breve filmato (non più di 5-6 minuti) su un dispositivo
mobile (tablet, portable computer o smartphone), più duttile e facile
da spostare a seconda della situazione che si viene a creare.
Per mezzo di questo strumento gli specialisti del settore come
educatori, insegnanti e pedagogisti possono operare in varie aree nel
trattamento del soggetto:

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– abilità di gioco libero o strutturato;
– limitazione di comportamenti inadeguati al contesto (CIC);
– autonomie personali;
– gestione delle emozioni (Vivanet, 2017).

Un altro campo tecnologico che si è posto a supporto delle


persone con autismo, e delle persone con disabilità in generale, è la
robotica, la quale ha offerto incredibili possibilità e scenari nell’in-
segnamento ai soggetti con bisogni educativi speciali. In particolar
modo sono stati progettati e costruiti dei robot sociali, ovvero dei
robot con somiglianze umane dotati di funzioni di interazione e co-
municazione (Vivanet, 2017). In tal modo si possono insegnare allo
studente con autismo nuove capacità relazionali, grazie alla virtualità
delle applicazioni, più efficace nello stimolare la comunicazione e
l’interazione. Questa metodologia coinvolge il soggetto in situazioni
sociali caratterizzate da interazioni basilari, prevedibili e ben indivi-
duate (Aresti-Bartolome e Garcia-Zapirain, 2014).
Un esempio è Kaspar, il social robot progettato dall’Università
di Hertfordshire in grado di attivare delle interazioni sociali con il
soggetto che gli si pone davanti. I robot proposti, predisposti con
fattezze umane, si sono dimostrati buoni insegnanti, per quanto
concerne le abilità carenti dei soggetti, e ottimi compagni di gioco,
indentificandosi come pari, per una fase ludico-conoscitiva (Penna-
zio, 2019).
Dautenhahn e collaboratori (2009) hanno messo in luce che
attraverso l’utilizzo di robot per favorire abilità sociali, come Kaspar,
si registra un miglioramento complessivo della produzione di com-
portamenti connotati come socialmente adeguati, in special modo
l’attenzione congiunta, e in diversi casi si stimola l’emergere dell’imi-
tazione. Il lavoro con i social robot ha prodotto inoltre significativi
apprendimenti per quanto riguarda comportamenti collaborativi e
l’applicazione di questi nell’interazione con una presenza umana.

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Nonostante i risultati positivi fin qui prodotti, tuttavia, si
tratta di un campo di ricerca ancora poco esplorato, che dovrà essere
supportato da maggiori evidenze.

Gli effetti sulla mente

L’inizio del nuovo millennio ha visto un’esplosione in cam-


po tecnologico, un’evoluzione senza precedenti che sta formando
e modificando, in ogni area, il modus vivendi e il modus cogitandi
dell’essere umano.
Molti autori e ricercatori hanno coniato nuovi termini per
identificare i cambiamenti avvenuti sull’essere umano nell’era tecno-
logica. Un esempio ci giunge da Marc Prensky, che parla di «nativi
digitali» (Prensky, 2012) per indicare tutte le persone nate negli ultimi
vent’anni, caratterizzate da una spiccata propensione nell’utilizzo dei
nuovi media (Vivanet, 2017, p. 18). Lo studioso statunitense sug-
gerisce inoltre la formula di «immigrati digitali» per indicare coloro
che sono nati prima di quest’ultimo periodo ma si interfacciano con
queste nuove strumentazioni.
Ancora, il sociologo de Kerckhove parla di «psicotecnologia»
(de Kerckhove, 1993), riferendosi alla condizione psicologica delle
persone quando sono sottoposte all’influsso delle nuove tecnologie.
Insomma, quest’ondata digitale ha portato scompiglio e stupore
nella società odierna: molti sono favorevoli alle nuove applicazioni, altri
contrari, altri ancora vedono questa novità come una normale evoluzio-
ne della specie umana che deve essere affrontata sfruttando al meglio
le possibilità offerte dai nuovi mezzi, integrandoli nella quotidianità.
È lecito, dunque, domandarsi quali effetti possano avere le tec-
nologie sulla mente umana.
Infatti, i nuovi media esercitano un’influenza più che consi-
derevole sulla mente umana (Vivanet, 2017), tant’è che possiamo

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parlare di tecnologia cognitiva, in riferimento a quel momento
in cui i processi di apprendimento dell’essere umano vengono a
intersecarsi con i dispositivi tecnologici (Calvani, 2017, p. 19),
formando, in molte situazioni comuni, una simbiosi tra le parti. I
nuovi dispositivi si fondono al corpo principale e creano una sorta
di articolazione artificiale.
Oggi, grazie agli studi sulle nuove tecniche di scansione neuro-
logica (neuroimaging), possiamo evidenziare come il cervello possieda
una plasticità assai maggiore rispetto a quanto si pensava in passato.
In particolar modo, si può sottolineare come l’utilizzo frequente di
un determinato oggetto (ad esempio, uno strumento musicale o un
utensile di lavoro) oppure un’azione consolidata nel tempo (come
compiere con l’auto lo stesso tragitto per anni o fare un’attività
domestica sempre con le stesse modalità), compiuta con una certa
intensità e per un periodo di tempo considerevole (Small e Vorgan,
2009, parlano di anni) possa alterare e plasmare in maniera evidente
la struttura cerebrale, perfino da un punto di vista anatomico.
Pascual-Leone e collaboratori (2005) sostengono che il nostro
cervello muta di continuo in risposta alle esperienze che intercorro-
no nell’arco di vita, permettendo di adattarci alle situazioni che si
presentano. Grazie a queste recenti indagini in campo neurologico è
possibile sostenere che le tecnologie odierne, se frequentate con una
certa rilevanza, possono influenzare i circuiti neurologici e di conse-
guenza agiscono sui processi cognitivi della persona.
A sostegno di questa teoria, Healy scrive:

Ogni nuovo medium porta con sé nuovi simboli che, a loro


volta, influenzano il modo in cui il cervello impara a ricevere
e processare le informazioni. Nelle società contemporanee,
la plasticità cerebrale implica che le connessioni sinaptiche
del cervello si evolvano con un ambiente in cui l’utilizzo dei
media è un fattore dominante. I bambini che crescono in un

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ambiente ricco di stimoli multimediali hanno un cervello con
connessioni diverse da quelle di chi è giunto alla maturità senza
essere sottoposto a tali condizioni (Healy, 1998, pp. 142, 191).

Di seguito verranno citate alcune tesi a supporto e altre a sfavore


dell’impiego delle nuove tecnologie in campo didattico e educativo,
analizzando se queste possano essere utili all’allievo oppure creino
intralcio al percorso scolastico.
Due di queste teorie, proposte da Prensky, sostengono che
l’utilizzo dei media favorisce negli studenti un pensiero prettamente
visivo, facilitando di conseguenza lo studio di schemi, parole e spie-
gazioni associate a immagini, trasformando i concetti verbali appresi
in figure. Oltre a ciò, utilizzando con continuità e perseveranza i
molti dispositivi multimediali, come computer, tablet e smartphone,
si evince, in seguito, la destrezza nel possedere una migliore capacità
di coordinazione oculo-manuale (Prensky, 2012).
Jonassen e Carr (2000) parlano di mindtools per definire que-
gli strumenti informatici progettati e sviluppati con la funzione di
partner dello studente nei processi di apprendimento. Questi hanno
la caratteristica di amplificare il carico cognitivo, accostandosi alla
mente, supportandola, intrecciandosi con essa, in modo da creare una
sorta di sinergia per favorire, velocizzare e migliorare l’elaborazione
intellettuale.
In opposizione vengono formulate alcune tesi che evidenziano
un effetto negativo dei nuovi media sulla mente delle persone o, in
questo caso, degli studenti.
Una conseguenza rilevata delle nuove tecnologie sulla mente
umana è il pensiero multitasking (multiprocessuale), ossia la capacità
da parte di una persona di compiere due o più attività contempora-
neamente. Non ci sono evidenze a prova che il nostro cervello possa
supportare il carico di più informazioni in contemporanea (Hattie e
Yates, 2013), ma viene dimostrato che la mente compie un salto da

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un input informativo all’altro e che questo meccanismo può risultare
dannoso per l’apprendimento del soggetto, favorendone la distrazione.
Questo processo di sovraccarico impedisce al soggetto di risolvere una
data situazione per l’eccesso di informazioni superflue, che rende così
difficile scovare gli elementi essenziali alla propria ricerca (Calvani,
2017).
Il professor Calvani aggiunge alcune tesi a sfavore, sottolineando
come l’effetto dei nuovi media possa essere deficitario. Nello specifico,
parla di «disabilitazione» (deskilling) (Calvani, 2001) quando la mente
umana opera in modo esclusivamente utilitario, meccanico, acco-
standosi alla tecnologia e riducendo notevolmente il carico cognitivo
interno, disabilitando quest’ultimo nel lavorare in maniera costante,
limitandolo nel tempo. In altre parole, la tecnologia sopperisce al
carico di lavoro che il cervello è abituato a sostenere e man mano che
la situazione si ripete viene a crearsi una situazione di «handicap» per
il soggetto, rendendolo succube del dispositivo.
Calvani suggerisce che una delle conseguenze più comuni
dell’interfacciarsi con le nuove tecnologie è una forte limitazione
del coinvolgimento cognitivo. Si sostiene che la maggior parte delle
interazioni degli alunni con i dispositivi è di tipo passivo. In altre pa-
role, il confronto tra i due attori è fortemente caratterizzato da scarsi
input cognitivi, di pensiero e di ragionamento. Avvengono solamente
scambi informativi senza alcuna elaborazione da parte dello studente.
Quando l’allievo fruisce di tecnologie per apprendere possono
presentarsi alcune situazioni sfavorevoli all’apprendimento: scarso
coinvolgimento cognitivo, seguito da sovraccarico tecnologico e con-
seguente eccesso di nozioni informatiche; il tutto converge in quello
che viene definito deskilling, inteso come perdita di alcune capacità.
Per quanto concerne invece i fattori favorevoli all’apprendimento,
si citano l’arricchimento conoscitivo, l’internalizzazione, la sinergia
conoscitiva fondata su risorse e/o soggetti esterni fino ad ora scono-
sciuti (Calvani, 2017).

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In ultima analisi, una spiegazione analizzata e studiata da diversi
esperti implica che uno dei fattori che influisce negativamente nel
rapporto tra nuove tecnologie e intelletto è il canale trasmissivo; ov-
vero gli immigrati digitali (insegnanti, educatori, ma anche i genitori
stessi degli studenti) non sono in grado di apprendere al meglio le
funzionalità dei dispositivi tecnologici, che di conseguenza vengono
impartite in modo non corretto ai nativi digitali (Ranieri, 2011).

Come si apprende

All’interno di questa sezione gli argomenti trattati saranno


inerenti all’apprendimento formale e informale per mezzo dei nuovi
dispositivi tecnologici che l’«era dell’accesso» (Rafkin, 2000) ha
portato in tutte le case e in tutte le istituzioni formative, inserendosi
nella quotidianità e rendendosi parte di essa.
Prima di documentare se gli apprendimenti possano essere in-
fluenzati in modo positivo o negativo dalle nuove tecnologie digitali,
è bene definire i concetti che stanno alla base di questa discussione,
ovvero la competenza digitale e i vari processi di immagazzinamento
delle informazioni.
La competenza digitale risulta una definizione alquanto com-
plessa e definisce quella dimestichezza nel saper utilizzare in maniera
consapevole e utile le tecnologie della società dell’informazione (TSI)
per il proprio tempo libero, in ambito lavorativo e per un’opportuna
interazione con terzi (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del
Consiglio, 2006). Essa è sostenuta da notizie basilari delle tecnologie
informatiche di comunicazione, come:

– saper fruire in ogni sua funzionalità di smartphone, tablet, com-


puter, quindi saper reperire, conservare, valutare, scambiare le
fonti rintracciate;

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– saper adoperare i supporti alla comunicazione multimediale, come
videocam, chat virtuali, piattaforme social, ecc.

Senza questi basilari fondamenti acquisiti all’interno dell’am-


bito tecnologico non potremmo discutere dell’influenza sul carico
cognitivo degli studenti.
La facilità con cui l’allievo si interfaccia con il dispositivo
digitale ci aiuta nel comprendere la qualità con cui un determinato
apprendimento viene incorporato. Diventa fondamentale progettare
un intervento «su misura» dell’alunno in modo da concedere il più
possibile un percorso ergonomicamente idoneo (Conti, 2002).
A giocare un ruolo fondamentale sugli apprendimenti, inoltre,
è il carico cognitivo che si propone allo studente. Sweller (1988) illu-
stra come il materiale da apprendere sia di più facile acquisizione se
si allinea il più possibile alle architetture cognitive umane, trovando
delle situazioni per alleggerire il carico della memoria di lavoro, per
poi facilitare l’assimilazione nella memoria a lungo termine (MLT).
La funzione mnemonica, all’interno del sistema nervoso centrale
(SNC), ha un ruolo cardine nell’appropriamento delle informazioni
esterne. Per il SNC, invece, diventa impossibile percepire tutti gli
stimoli ambientali, di conseguenza esso si limita a selezionarne alcuni,
i quali superano la soglia percettiva e vengono poi elaborati a livello
corticale. Pertanto, ai fini di un corretto apprendimento, proporre
molti stimoli simultaneamente può risultare controproducente,
impedendo alle sollecitazioni significative di arrivare alla memoria
a lungo termine.
Paivio (1986) formula, a proposito del sovraccarico cognitivo
nei processi di apprendimento, la teoria del doppio codice: il sistema
cognitivo umano riesce ad acquisire le informazioni in entrata, attra-
verso il sistema sensoriale, e a riprendere quelle immagazzinate nella
MLT grazie a due tipologie di codifica, una non verbale (costituita
da unità chiamate immageni) e l’altra verbale (costituito da unità

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definite logogeni). I due canali presenti nella teoria di Paivio sono
indipendenti, ma possono operare in modalità parallela, essendo
interconnessi fra loro.
Il doppio codice permette di recuperare tutte quelle informa-
zioni contenute nella MLT per mezzo di più tracce mnemoniche, in
quanto le parole vengono assimilate solo dal sistema verbale, mentre
le immagini affrontano una doppia metabolizzazione, sfruttando
entrambi i canali, verbale e non verbale (Conti, 2002).
Questa teoria propone di strutturare i progetti didattici e gli
insegnamenti con il supporto di materiale visivo, quali fotografie,
immagini, film, documentari, ecc.

Apprendere con le tecnologie

Le nuove TCI permettono di intersecare differenti potenzialità,


ad esempio quelle comunicative e quelle formative, oltre a quelle dei
linguaggi tipicamente utilizzate dai media. Questi strumenti tecno-
logici, secondo Jonassen (1994), devono proporsi come mediatori
per l’apprendimento, devono considerarsi dei partner intellettuali a
supporto dello studente, per sostenerlo nei processi cognitivi.
Le nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione, se
inserite correttamente nel progetto formativo, consentono all’allievo
di riformulare, ripensare, personalizzare, condividere e comunicare
gli apprendimenti appresi.
Secondo Calvani (2013), è fondamentale stare attenti a come
operare con i nuovi media in chiave educativa. Per fruire al meglio
delle tecnologie l’Autore propone due domande e dieci raccoman-
dazioni.
Quali criteri per una politica tecnologica? La risposta si pone in
un’ottica preventiva e suggerisce di fare un passo indietro nella rincorsa
verso l’ultima tecnologia, cercando di non fomentare la ricerca del

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prodotto uscito cronologicamente più tardi, sperando possa essere il
migliore, ma analizzando la propria esperienza e la propria situazione
per utilizzare al meglio ciò di cui si dispone in quel momento. Un
altro concetto è quello di orientare la politica tecnologica al futuro
e pensare in termini di sostenibilità, concentrandosi su cosa si vuole
ottenere con la tecnologia e non sulla tecnologia stessa. Sicuramente
un altro fattore è quello di ottimizzare il rapporto tra tecnica e me-
todo, di conseguenza far scoprire a insegnanti, educatori, genitori e
a chiunque svolga un ruolo formativo che le tecnologie possono loro
semplificare la vita.
In che modo usare le tecnologie per apprendere? Secondo i diversi
studi condotti e già citati, le tecnologie migliorano gli apprendimenti
in virtù dell’interattività che propongono. Mostrano canali e stili
comunicativi accattivanti, quindi offrono condizioni di apprendi-
mento «incommensurabili». Un esempio ne sono i mindtools, ovvero
ambienti di apprendimento adattati per funzionare da «compagno
intellettuale» allo scopo di sviluppare e favorire il pensiero critico e
strutture apprenditive più consolidate.
Prendiamo ora in considerazione le teorie che sostengono l’ef-
ficacia delle tecnologie in campo educativo e formativo e le ricerche
che evidenziano invece gli effetti negativi dei nuovi dispositivi. Non
va infatti nascosto che vi è una consistente massa di letteratura che
sostiene la scarsa utilità dei media nel campo dell’apprendimento.

OECD

L’OECD (Organization for Economic Co-operation and Deve-


lopment) nel 2015 studia la relazione tra gli investimenti della scuola
nelle nuove tecnologie e i risultati di apprendimento degli studenti.
I dati emersi dalla ricerca portano alla luce miglioramenti per nulla
significativi, come di contro si sperava. Viene appunto portata alla
luce la relazione tra l’utilizzo del computer per i compiti didattici

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nell’ambito domestico e a scuola e le abilità di lettura. Si evince, per
quanto riguarda l’attitudine alla lettura, che nei Paesi dove l’utilizzo
del computer è meno frequente i risultati degli allievi migliorano in
modo più rapido e significativo rispetto a quanto avviene in quelli
con maggiore intensità di utilizzo. Questo implica che un uso limi-
tato e consapevole del dispositivo può risultare vantaggioso ai fini
dell’apprendimento piuttosto di un suo inutilizzo totale, ma se i livelli
superano la media rilevata dall’OECD si può incorrere in risultati
visibilmente negativi.

Higgins e Hattie

Steve Higgins sostiene che le tecnologie si sono imposte in


modo così preponderante in diversi ambiti del quotidiano per merito
dell’enfasi, dell’entusiasmo dovuto alla novità con cui le persone si
sono avvicinate ai nuovi mezzi. Molti ne sono rimasti affascinati, senza
valutare criticamente il loro reale potenziale e gli effetti che possono
produrre (Higgins, Xiao e Katsipataki, 2012).
Anche John Hattie, dell’Università di Melbourne, si è impe-
gnato nella ricerca su questo tema, registrando scarsi livelli di efficacia
riguardo agli interventi didattici per mezzo delle tecnologie. Secondo
i suoi studi, nessun dispositivo produce un effetto positivo sugli ap-
prendimenti, fuorché i video interattivi, i quali sono gli unici a creare
un cambiamento (Hattie, 2009).
Il ricercatore australiano ha analizzato diverse tipologie di input
tecnologici attraverso una ricerca basata sull’evidence-based, compo-
nendo una meta-analisi di secondo ordine di oltre 800 meta-analisi
(Calvani e Vivanet, 2014).
È stata messa in evidenza la relazione tra i vari dispositivi
(telefoni cellulari, calcolatrici, video interattivi, Computer-Assisted
Instruction – CAI, tecnologie digitali online, Intelligence Tutoring
System – ITS, metodi visivi e audiovisivi) e i cambiamenti degli

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apprendimenti, per far emergere il loro effetto sullo studente nel
contesto scolastico.
Dalle ricerche emerge come l’effect size sia superiore allo 0,50
(quindi un valore significativo) solo nel caso dei video interattivi (0,52)
proposti agli studenti; gli altri strumenti e metodi analizzati hanno
prodotto un impatto sull’apprendimento non considerevole, anzi quasi
nullo (ad esempio, la formazione a distanza 0,09; l’apprendimento
basato sul web 0,18).

In che modo le tecnologie sono utili all’apprendimento?

I dispositivi tecnologici possono essere funzionali all’appren-


dimento se si interpongono con una funzione supplementare (un
esempio ne sono i video interattivi, i quali supportano lo studente
nello studio o nel comprendere una lezione) e non sostitutiva; inoltre,
si può comprendere dagli studi che utilizzare dei dispositivi in coppia
o in piccoli gruppi può risultare molto produttivo ai fini di un buon
immagazzinamento di informazioni. Ma l’esito più significativo si ha
in campo pratico matematico e scientifico, dove le nuove tecnologie
possono realmente costituire un aiuto fondamentale nell’immagaz-
zinamento delle conoscenze.
Diventa quindi fondamentale, al fine di delineare l’efficacia
didattica di questi supporti, la crescita professionale dell’insegnante
per un utilizzo dei nuovi media in senso formativo (Higgins et al.,
2016).
Hattie (2009) a tal proposito elenca quattro punti per delineare
l’efficacia dei mezzi tecnologici in base a determinati e determinanti
fattori:

– quando l’insegnante è in grado di plasmare la sua didattica,


adattandola alle diverse situazioni che si possono venire a creare
e offrendo ai suoi allievi opportunità multiple di apprendimento;

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– quando l’insegnante è stato, in precedenza, formato sull’utilizzo
delle tecnologie didattiche;
– quando lo studente ottiene il controllo del proprio processo di
apprendimento;
– quando si favorisce l’apprendimento in gruppo, sviluppando così
un feedback continuo.

Lo stesso autore registra un forte interesse per l’utilizzo inte-


grativo di video a scopo didattico. Saltano all’occhio le ricerche che
fanno emergere l’efficacia attraverso l’uso di video interattivi, ovvero
la combinazione di Computer-Assisted Instruction e tecnologie video.
Un altro strumento, figlio dei video supportati da interazioni
e utile ai fini apprenditivi, è quello dei tutorial, emersi dalla ricerca
comportamentista, basati secondo un approccio direttivo-interattivo.
Questa metodologia ha reso possibile un apprendimento fortemente
strutturato, parcellizzato e sequenzializzato, avendo come caratteristica
fondamentale quella di ricevere un feedback a ogni step del compito
appreso. Un esempio ne è il video prompting: una successione di video
sequenzializzata, che deriva dal videomodeling e si propone di fornire
l’acquisizione di un comportamento modello allo studente per mezzo
di brevi video contenenti una serie di passi successivi (step-by-step),
per portare a compimento la condotta da immagazzinare. Il tema sarà
affrontato più diffusamente nel prossimo capitolo.
Tornando alla disamina delle tecnologie utili all’apprendimento,
si rivela produttivo lo schema basilare di funzionamento dei tutorial,
il quale si interfaccia tramite la sequenza presentazione-dimostrazione-
verifica-feedback (Bonaiuti, 2014), proponendosi di affiancare e
supportare lo studente passo passo nel processo di acquisizione delle
informazioni, attraverso la ripetizione di esercizi mirati e di verifiche
continue per valutarne i progressi raggiunti.
È stato registrato un interesse crescente verso l’utilizzo di video
interattivi a scopo didattico. Sempre attraverso la meta-analisi di

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Hattie (2009) sono emerse delle evidenze di efficacia nei confronti
di questa metodologia, in particolar modo se rivolta a studenti con
bisogni educativi speciali.

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Capitolo 3
Il videomodeling

Il videomodeling (VM) è un sistema di auto-apprendimento


per imitazione utilizzato in particolar modo per l’apprendimento di
nuove abilità nei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico, ma
può essere impiegato anche da altri individui con differenti diagnosi.
Viene somministrato per mezzo di un dispositivo elettronico inte-
rattivo (tablet, computer o smartphone), nel quale viene riprodotta
una serie di registrazioni video per insegnare all’allievo un particolare
comportamento modello. È stato analizzato e studiato dimostrando
la sua efficacia per mezzo di evidenze scientifiche. In questo capito-
lo, quindi, ci concentreremo sulle specifiche funzioni del metodo,
riprendendo la teoria alla base dell’applicazione, la Teoria dell’ap-
prendimento sociale di Bandura.

La Teoria dell’apprendimento sociale di Bandura

Albert Bandura (1969), scostandosi da tutte le teorie com-


portamentiste, sostiene che la gran parte dei nostri comportamenti

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avviene per imitazione, ossia partendo dall’osservazione e dalla
riproduzione di azioni altrui. Nella maggior parte dei soggetti
con disturbo autistico tale capacità è stata definita carente, se non
inesistente. Tuttavia, negli ultimi anni si sono registrati risultati
opposti qualora i soggetti possedessero delle minime abilità imita-
tive o svolgessero determinati esercizi di pre-training per acquisirle
(Varni et al., 1979).
Lo psicologo cognitivista, all’interno della sua Teoria dell’ap-
prendimento sociale (1977), richiama il focus sui diversi modi in cui le
esperienze sociali contribuiscono alla regolazione della condotta e della
personalità; parla di una determinata abilità intrinseca all’essere umano
definendola con il termine «modellamento» (modeling), ovvero quella
capacità di apprendere per mezzo dell’osservazione. Questa modalità
implica la presenza di un osservatore e di un modello da osservare;
se il comportamento del secondo si modifica dopo l’osservazione di
un’azione del primo allora si è verificato un modeling.
La Teoria esplicita come l’apprendimento non implichi soltanto
il contatto diretto con gli oggetti, ma come questo possa avvenire
anche per mezzo di esperienze indirette. A compimento di questo
processo viene poi a realizzarsi il condizionamento vicariante (Bandura
e Walters, 1958), definito come il tipo di apprendimento che avviene
attraverso l’osservazione delle conseguenze di un comportamento
per un’altra persona: la punizione o il rinforzo che viene a crearsi sul
modello in base al suo comportamento ha il medesimo effetto anche
sull’osservatore; il soggetto poi comprende se la determinata azione sia
desiderabile e funzionale in una situazione o meno, e di conseguenza
è incoraggiato nell’imitarlo.
Bandura sostiene che nel corso dell’apprendimento il bambi-
no prova a riprodurre i comportamenti che ha osservato e riceve un
feedback (una risposta) rispetto a quanto il suo atteggiamento asso-
migliasse a quello del soggetto modello (definito rinforzo vicariante).
Sottolinea inoltre che l’ambiente non è l’unico fattore a intervenire

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sul comportamento del soggetto, ma uno dei tanti. Infatti, il contesto
completo dell’apprendimento è formato da tre fattori: una persona
(person – P), il suo comportamento (behavior – B) e l’ambiente
(environment – E) che la circonda. Questi elementi si controllano e
alimentano a vicenda, creando un processo chiamato determinismo
reciproco, dove il comportamento del soggetto influenza e plasma il
proprio ambiente (figura 3.1).

B
Behavior
(Comportamento)
Risposte motorie e
verbali; interazione sociali

E P
Environment Person
(Ambiente) (Persona)
Ambiente fisico, Abilità cognitive,
famiglia e amici caratteristiche fisiche e
altre influenze sociali

Fig. 3.1 Schematizzazione della relazione tra B (comportamento), E (ambiente)


e P (persona), secondo la Teoria dell’apprendimento sociale di Bandura
(1988).

L’apprendimento per osservazione si materializza grazie a quat-


tro processi intrinseci nell’essere umano (Bandura, 1977), elencati di
seguito.

– Attenzione: il soggetto che apprende deve trovare interessante e


stimolante il modello da imitare, deve perciò rimanere attento
durante l’arco di tempo in cui l’osservato compie l’azione. Diventa

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probabile una maggiore concentrazione attentiva se il modello è
considerato positivamente da chi osserva, se non compie gesti
troppo complessi e se vi sono molte occasioni in cui quel dato
atteggiamento riscuote successo.
– Memoria (processi di ritenzione): l’evento dev’essere codificato in
simboli, poi integrato nell’organizzazione cognitiva del soggetto e
infine riprodotto. La reiterazione cognitiva e la reiterazione rap-
presentativa sono i sottoprocessi che permettono la funzionalità
del comportamento da imitare.
– Controllo motorio (processi di produzione): nel soggetto deve
avvenire un’organizzazione cognitiva della risposta nel momento
in cui vengono integrate le sottocapacità motorie, indi per cui
devono avere inizio la risposta e il suo controllo; infine, la risposta
dev’essere perfezionata come il risultato di un controllo di quanto
il comportamento prodotto sia simile a quello osservato.
– Processi motivazionali: chi apprende un comportamento modello
deve essere incentivato a riprodurlo.

Il fallimento nell’imitare l’atteggiamento di un modello deriva


dal malfunzionamento di uno o più dei processi sopra elencati.
Un altro elemento che risulta fondamentale per la riuscita del
processo di apprendimento per osservazione è il rinforzo (Bandura,
2000), ovvero quel momento durante la fase finale in cui si riceve una
gratificazione, o comunque un feedback piacevole, per aver portato
a compimento il comportamento visionato.
Dalle varie tipologie di comportamenti osservati e rinforzati in
specifiche situazioni viene appreso un insieme generale di norme di
condotta che, trattenute in memoria, guidano il futuro comporta-
mento per mezzo di un meccanismo di anticipazione del sentimento
di orgoglio e di autocritica.
Con il tempo lo studente imparerà a soppesare in ogni situa-
zione questo stimolo.

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Il videomodeling: caratteristiche tecniche e potenzialità

Il videomodellamento è una strategia molto utilizzata negli


ultimi anni nel campo della pedagogia speciale grazie all’implemen-
tazione delle nuove tecnologie che, dagli anni Novanta a oggi, hanno
rivoluzionato la quotidianità. Un incremento esponenziale agevolato
dallo sviluppo tecnologico, in particolar modo dalla banda larga e
dalla miniaturizzazione delle tecnologie, sempre più maneggevoli,
leggere e intuitive (Micheletta, 2014).
Base teorica del videomodeling è la Teoria dell’apprendimento
sociale di Albert Bandura (si veda il paragrafo precedente), la quale
prevede un apprendimento per osservazione.
Diversi professionisti hanno esposto in articoli su riviste e siti
web come il videomodeling risulti una strategia particolarmente ef-
ficace, per la facile somministrazione e per i risultati ottenuti. È stato
dimostrato che i bambini tendono a imitare ciò che viene visionato
in un audiovideo con maggiore facilità rispetto a quanto possono
osservare nell’interazione faccia a faccia. Il video ha la peculiarità,
essendo formato da immagini, di superare le difficoltà e le ambiguità
che spesso si esprimono nel linguaggio verbale, facilitando così l’os-
servazione pratica e diretta (Micheletta, 2014).
Di seguito vengono elencate le diverse indicazioni materiali da
seguire per svolgere un lavoro corretto.

– Lunghezza dei video: numerose ricerche rivelano che il tempo


medio di attenzione impiegato dagli studenti davanti a un vi-
deo è inferiore ai sei minuti. Per il videomodeling, nei soggetti
con autismo, il tempo si riduce, portando la soglia a circa tre-
quattro minuti (Dorwick, 1999). Va ricordato che al crescere
della lunghezza del video l’attenzione diminuisce, rischiando
di vanificare il lavoro svolto in precedenza (Guo, Kim e Rubin,
2014).

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– Tonalità della voce: il coinvolgimento dell’allievo si dimostra
maggiore se la velocità della narrazione del comando da eseguire
risulta più fluida e meno interrotta o rallentata.
– Registro colloquiale: si evidenzia una maggiore efficacia se vengo-
no utilizzate parole con stile colloquiale, senza ricercare vocaboli
troppo formali. Adoperare un vocabolario consono alle capacità
dello studente risulta più produttivo e immediato.
– Integrazione dei canali comunicativi: come osservato nel capitolo
2 trattando della Teoria del doppio codice di Paivio, i due sistemi
di codifica delle informazioni vanno integrati. Perciò risulterà più
accessibile comprendere un comando se, nel medesimo momento,
si visualizza il compito.
– Caratteristiche del soggetto modello: secondo Bandura, più il mo-
dello è fisionomicamente simile al soggetto che deve apprendere,
migliore sarà il risultato, in quanto lo studente si immedesimerà
nell’esercizio con maggiore partecipazione (Schmidt e Bonds-
Raacke, 2013).
– Scelta dell’inquadratura: la scelta della tipologia di inquadratura può
determinarsi fondamentale nella riuscita di un VM. Vi sono due
formati da poter attuare: l’inquadratura soggettiva, dove il punto di
vista è quello della persona che esegue il compito, e l’inquadratura
oggettiva, ovvero il campo totale, dove viene ripresa nella scena tutto
l’ambiente circostante in cui il modello esegue l’attività.
– Task analysis (ovvero l’analisi dei compiti da svolgere, di ciò che va
fatto e delle parole da utilizzare): è un passaggio di fondamentale
importanza per delineare tutti i procedimenti che intercorrono
all’interno del video. L’analisi dei compiti consente di suddividere
l’azione in parti più piccole, che di conseguenza possono essere
apprese con maggiore facilità dal soggetto (Ianes, 2006).

Vi sono diverse tipologie di filmati identificate con nomi


differenti. Oltre al videomodeling possiamo lavorare tramite self-

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videomodeling (SVM) e video prompting (VP) (D’Agostini, 2016).
La realizzazione dell’audiovideo comporta diverse modalità, le quali
dovranno essere esposte in modo sistematico e sequenziale; la scelta
di una tipologia di video rispetto a un’altra dovrà essere attentamente
valutata dall’educatore o da chi somministra il compito.
Per self-videomodeling (SVM) si intende un video in cui l’at-
tore o il modello che compare è la stessa persona che deve effettuare
l’azione. Il comportamento dell’individuo deve essere filmato per un
periodo di tempo considerevole e successivamente montato inserendo
nel video finale solo le azioni positive e funzionali in relazione agli
obiettivi di apprendimento (Dorwick, 1999). Questa metodologia
è pensata per implementare un comportamento già acquisito, per
renderlo più frequente, costante e fluido. Infatti, vedere se stesse ri-
produrre un comportamento corretto e coronato dal successo motiva
le persone a ripeterlo.
Il video prompting (VP) è utilizzato per insegnare un’abilità
relativamente lunga e con una successione di passaggi (per gli strumenti
dell’allievo) in cui sono previsti una serie di step interni, oppure nei
casi in cui gli alunni abbiano particolari difficoltà di apprendimento.
La modalità scelta dovrà essere valutata in base all’attività, al
gesto o al comportamento che si vuole insegnare allo studente.
Inoltre, attraverso il videomodeling abbiamo la possibilità di
visione reiterata del filmato, la quale sicuramente aiuta a fissare nella
memoria del soggetto le caratteristiche del comportamento che si
vuole insegnare (Cottini, 2012). Permette inoltre di presentare una
situazione reale e concreta, sia per il contesto di riferimento sia per
l’azione delle persone.
Si ha una maggiore ricchezza di informazioni, rispetto a delle
immagini statiche, soprattutto se l’azione è collegata a una situazione,
così da facilitare la comprensione dell’intera sequenza. Oltre ciò, è
emerso dagli studi che i bambini sono maggiormente attratti dalle
animazioni piuttosto che dalle immagini ferme e in alcune occasioni

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tendono a imitare il modello anche durante la visione. Questa oppor-
tunità riduce il campo di focalizzazione agli elementi essenziali della
situazione, senza eccessi di stimolazioni visive e verbali, che possono
distogliere l’attenzione da elementi rilevanti.
Il VM risulta essere estremamente efficace in soggetti con ASD
anche grazie all’evitamento dell’interazione viso a viso e dei rapporti
di prossimità, che possono provocare momenti di stress e stati ansiosi.
In ultima analisi, gli ambiti in cui le strategie sono state eseguite
all’interno dei vari studi sono principalmente tre, proposti in diversi
ambienti: scuola, casa, servizi riabilitativi/comunità.
Le aree che il videomodeling ha permesso di ampliare sono:

– abilità sociali e comportamenti relativi al gioco;


– abilità comunicative e di conversazione;
– abilità funzionali di vita quotidiana.

Strategia efficace?

La metodologia risulta possedere un elevato potenziale di effica-


cia (anche se non sempre convergente per tutti i soggetti coinvolti): la
modalità video si rivela in grado di collegare con successo, attraverso
la dimensione visiva, l’osservazione della pratica, che altrimenti ri-
marrebbe solo in spiegazioni verbali e astratte (Santagata, Zannoni e
Stigler, 2007). Uno strumento efficace con la potenzialità di catturare
l’attenzione e il focus degli studenti coinvolti.
Recentemente numerosi scienziati, ricercatori e professionisti
hanno cercato di dimostrare, attraverso studi e ricerche, l’efficacia della
metodologia in relazione alle persone nello spettro autistico. I risultati
pervenuti dalla letteratura scientifica, sulla base di prove tangibili
(evidence-based practices), sono la somma di una serie di elementi fon-
damentali per stabilire se le strategie di intervento si possono definire

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efficaci. In sostanza, per dimostrare tale produttività è necessario che
la strategia, in questo caso il videomodeling, sia supportata da studi
sperimentali (Horner et al., 2005; Reichow, Volkmar e Cicchetti,
2008), dove devono essere rispettati i seguenti criteri:

– la procedura deve essere definita in modo operazionale, quindi va


ben strutturata (occorre definire tutte le fasi);
– il contesto in cui viene somministrata tale metodologia va descrit-
to dettagliatamente (meglio se l’ambiente non presenta stimoli
fuorvianti per il soggetto, in modo che possa concentrarsi sul
compito, senza distrazioni);
– il protocollo dev’essere seguito passo passo in relazione al piano
di lavoro prestabilito;
– gli esiti devono documentare che i progressi siano funzionalmente
collegati con le modifiche alla variabile dipendente;
– gli effetti sperimentali devono essere convalidati da un numero
sufficiente di applicazioni e studi.

Anche Bellini e collaboratori (2007), facendo riferimento ai


criteri sopra elencati per le strategie educative del videomodeling
e del self-videomodeling, sostengono che possono essere inserite a
pieno titolo tra quelle strumentazioni validate e ritenute efficaci per
mezzo delle evidenze.
Cottini (2012) stila un elenco delle caratteristiche che la me-
todologia promuove all’interno del suo bagaglio, citando le evidenze
più significative in funzione dell’intervento didattico e educativo da
proporre agli allievi con Disturbo dello Spettro Autistico:

– è una procedura efficace per promuovere abilità funzionali in vari


ambiti (sociale, comunicativo, ludico e dell’autonomia);
– non richiede l’utilizzo di aiuti o rinforzi per determinare l’ap-
prendimento;

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– può essere applicato anche a bambini molto piccoli;
– non richiede tecnologie particolari per essere utilizzato;
– dà grande importanza alla processazione di azioni visive (un punto
di forza nei soggetti con autismo);
– risulta essere una strategia motivante;
– permette di orientare il video sui comportamenti essenziali, al fine
di evitare stimoli inutili;
– si associano minori condizioni di stress da parte del soggetto
rispetto al confronto faccia a faccia.

Tuttavia, rimangono ancora alcuni lievi dubbi che le ricerche e


le sperimentazioni non sono state in grado di fugare, ma che dovranno
essere rivisti in futuro per l’implementazione di interventi educativi
e riabilitativi fondati sull’utilizzo della suddetta strategia. Di seguito
sono elencati gli aspetti problematici a cui occorre prestare attenzione:

– definire il livello di capacità base del soggetto per poter proporre


il videomodeling, quindi i prerequisiti fondamentali per essere in
grado di sostenere l’attività;
– stabilire quale sia la tipologia di modello da riprendere maggior-
mente efficace, scegliendo tra le persone che ruotano attorno al
soggetto in esame (un familiare, l’educatore, un insegnante, o
addirittura l’allievo stesso);
– cercare la strategia di insegnamento che si riveli più funzionale
quando messa in relazione al videomodeling;
– valutare in maniera sistematica la potenzialità del SVM (self-
videomodeling) con soggetti con autismo;
– creare situazioni di generalizzazione utilizzando video che presen-
tano la medesima attività ma in contesti diversi.

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Capitolo 4
Intervento educativo

Studio di caso: Enrico si allaccia una scarpa. Descrizione

Lo studio di caso è stato realizzato con Enrico (nome di fantasia


per mantenere l’anonimato), studente di 17 anni, che presenta una
Sindrome da alterazione globale dello sviluppo psicologico di tipo
autistico associata a un ritardo delle funzioni comunicative. Il sog-
getto, che frequenta un istituto professionale, possiede un livello di
sviluppo funzionale di 62 mesi (5 anni e 2 mesi) dalle abilità emerse
nei test effettuati:

– PEP-3 (Psychoeducational Profile – Third Edition; Schopler et al.,


2006), per determinare i punti di forza e i punti di debolezza del
ragazzo, stabilire i livelli di sviluppo e di adattamento, essere utile
come strumento di ricerca negli studi sugli esiti dell’intervento;
– TTAP (TEACCH Transition Assessment Profile; Mesibov et al.,
2010), per valutare le abilità significative per il raggiungimento
dell’autonomia nei contesti di vita quotidiana.

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Le capacità cognitive dello studente appaiono riferibili a un ri-
tardo mentale medio/grave. La produzione verbale risulta molto scarsa
(il linguaggio espressivo è livellato a 36 mesi, mentre quello ricettivo
a 38 mesi), possedendo un vocabolario ristretto e pronunciando non
correttamente la maggior parte dei vocaboli (ad esempio, per dire che
vuole andare a casa pronuncia: «anda a cas»). L’alunno comprende
quasi sempre semplici istruzioni relative ai compiti didattici, mentre
risulta maggiore la sua comprensione nei confronti di stimoli ritenuti
per lui di grande interesse, come attività manuali, il laboratorio di
cucina o il laboratorio esterno di giardinaggio.
Per quanto concerne l’ambito motorio-prassico, Enrico possiede
un livello funzionale di 55 mesi (4 anni e 7 mesi) nelle abilità fino-
motorie e uno di 38 (3 anni e 2 mesi) in quelle globali. Possiede dunque
discrete capacità fino-motorie e di coordinazione oculo-manuale che
gli consentono di svolgere attività coordinate con entrambe le mani,
come ritagliare, infilare fili in apposite fessure, incollare fogli o pezzi
di carta, comporre puzzle di medie dimensioni, colorare all’interno
dei bordi, tagliare con il coltello, ecc.
Enrico, in presenza di situazioni poco chiare, rumorose, esterne
alla routine, che non riesce a gestire per una quantità eccessiva di stimo-
li, può manifestare alcuni comportamenti problematici (CP). Questi
si esplicitano attraverso vere e proprie crisi nervose, con conseguenti
condotte inadeguate al contesto, rivolte verso le persone presenti in
quel momento o verso l’ambiente circostante (ad esempio, lancio o
rottura di oggetti, agiti etero-diretti, agitazione incontrollata).

Progetto

Con l’alunno è stato pensato un progetto di videomodeling per


rinforzare l’area delle autonomie personali, abbastanza sviluppata ma
non completa. Nello specifico, gli è stato somministrato il compito

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di allacciare una scarpa per mezzo di un video prompting (ho prefe-
rito dividere i vari passaggi per incanalare l’attenzione di Enrico che,
altrimenti, si sarebbe dispersa con un video più lungo).
Il compito è stato proposto allo studente due volte a settimana,
per circa 15/20 minuti a sessione. Si è valutato che un tempo superiore
avrebbe vanificato il lavoro svolto in precedenza, in quanto l’allievo
si sarebbe distratto, avrebbe perso interesse o, addirittura, avrebbe
manifestato comportamenti problematici.
Il training iniziale è stato incentrato sulla motricità fino-moto-
ria, la coordinazione oculo-manuale e la coordinazione di entrambe
le mani utilizzate in contemporanea. Gli esercizi proposti sono stati:
inserire un filo dentro oggetti in legno con una fessura apposita di
piccole dimensioni; disegnare a specchio (riprodurre lo stesso disegno
sia con la mano sinistra che con la destra); tagliare il pane, o altri
cibi, con la mano sinistra (in cucina abbiamo cercato di potenziare la
destrezza della mano debole); infilare un laccio di scarpa all’interno
di una figura con numerosi piccoli buchi.
È stato proposto a Enrico un modello di video prompting
presentato nel volume Imparo con il videomodeling (Costa e Fiorot,
2018).

Settimane di lavoro

Prima settimana (lunedì 22 e mercoledì 24 ottobre)

Il lavoro inizia lunedì 22 ottobre 2018, alle ore 10.40 circa (alle
11.05 sarebbe suonata la campanella della ricreazione; ho utilizzato
questa tempistica come elemento motivante per Enrico).
Lo studente si dimostra subito partecipe e interessato al com-
pito proposto (figura 4.1). Scandisco il lavoro in più parti, in modo
tale da lavorare per competenze apprese e successivamente rinforzate.

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Durante la prima fase Enrico completa correttamente le prime tre
sequenze del video prompting, ovvero:

– prendo i lacci (1);


– tiro i lacci (2);
– incrocio i lacci (3).

Nel terzo movimento deve visionare il video tre-quattro volte


prima di eseguirlo completamente e in completa autonomia; non gli
fornisco alcun tipo di facilitazione, né fisica né verbale. Ho notato che
Enrico tende a velocizzare le azioni dopo che le ha prodotte la prima
volta, cercando di riprodurre subito la sequenza successiva. Comun-
que, dandogli il segnale di STOP alla fine dell’audio-video si blocca e
riparte appena il video inizia. Momentaneamente preferisco che prima
incanali tutti gli step correttamente e poi esegua da solo l’intera azione.
Svolge correttamente i comandi anche nella seconda seduta,
osservando solo una volta i vari passaggi.

Fig. 4.1 Primo giorno di lavoro con Enrico.

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Seconda settimana (lunedì 29 e mercoledì 31 ottobre)

Aumento la difficoltà del compito, portando la sequenza video


dalla fase 3 («incrocio i lacci») fino alla 6 («faccio un anello»). L’alunno
si dimostra competente nel compiere tutti i passaggi fino al quinto
step. Riscontra difficoltà nel sesto step, dove deve ricevere un prompt
fisico dell’educatore per comprendere meglio l’azione. Dopo questo
aiuto esegue la sequenza in completa autonomia:

– passo un laccio sotto (4);


– tiro i lacci (5);
– faccio un anello (6).

Nel secondo incontro Enrico esegue autonomamente e in to-


tale controllo tutte le sequenze svolte fino a quel momento (dalla 1
alla 6). Non risulta più necessario alcun tipo di prompt, né fisico né
verbale (figure 4.2 e 4.3).

Fig. 4.2 Enrico compie il comando Fig. 4.3 Enrico ha completato la ri-
«faccio un anello». chiesta «faccio un anello».

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La motivazione da parte dello studente è evidenziata dal fatto
che entra in contatto con lo strumento nel quale vengono riprodotti
le videosequenze, ovvero il computer: tende a completare l’azione e
subito dopo utilizza il puntatore per cercare lo step successivo.

Terza settimana (mercoledì 7 novembre)

Durante la terza seduta di training (unica della settimana a


causa di assenza dell’alunno nei giorni successivi), il soggetto mostra
subito segni di frustrazione e nervosismo, probabilmente dovuti
agli eccessivi stimoli, continui e inaspettati, all’interno della stanza
di lavoro (studenti e professori che entrano nell’ambiente aprendo
continuamente la porta e un ragazzo che parla con la sua insegnante
ad alta voce nello spazio comune). Inizia a non seguire i VP, compie
azioni non attinenti al modello proposto.
Viene ripreso più volte attraverso comandi verbali, per cercare
di incanalare la sua attenzione, attraverso prompt verbali e fisici, ma
gli stimoli fanno sì che non esegua più i comandi. Pertanto decido
di concludere la lezione onde evitare situazioni troppo stressanti ed
eventuali CP, distogliendolo completamente dall’attività e propo-
nendogliene una più stimolante e gratificante (attività all’aperto nel
laboratorio di giardinaggio).

Quarta settimana (lunedì 12 e venerdì 16 novembre)

Nella quarta settimana viene registrato un assessment delle com-


petenze. Vengono verificati i passaggi appresi da Enrico, per vedere se
ci siano momenti da limare. L’allievo esegue in completa autonomia
tutte le sequenze visionate fino ad ora (dalla 1 alla 6).
Nella seconda seduta, per non ripetersi con il lavoro e, in seconda
analisi, per non far diventare l’attività ripetitiva e poco stimolante,
lavoro con il soggetto sui compiti di pre-training iniziali, ovvero tutte

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quelle attività legate alle capacità di base, per poi eseguire i processi di
videomodellamento (quindi compiti di coordinazione oculo-manuale,
utilizzo di entrambe le mani, capacità fino-motorie).

Quinta settimana (lunedì 19 e venerdì 23 novembre)

Durante la seduta propongo allo studente di giungere fino alla


nona videosequenza («tiro gli anelli»), completando così il compito
di allacciare la scarpa:

– giro il laccio attorno all’anello (7);


– metto dentro il laccio (8);
– tiro gli anelli (9).

Enrico mostra difficoltà nell’ottavo passaggio, ovvero al co-


mando «metto dentro il laccio», dopo averlo fatto passare dietro
all’anello realizzato in precedenza (nella settima sequenza), eseguito
correttamente. L’alunno confonde i vari fili che si sovrappongono
all’interno dello specchio visivo (figure 4.4 e 4.5).
Riscontrando questa difficoltà da parte del soggetto decido di
cambiare colore a uno dei due lacci (uno bianco e uno nero), così da
differenziarli, per osservare se il passaggio risulti di più facile fruizione.
Inoltre scelgo lacci di un materiale più rigido, così facendo il soggetto
riscontrerà minori difficoltà nella fase 7 («giro attorno all’anello»).
Nell’incontro successivo (22 novembre), l’alunno ha appreso
con maggiore facilità il compito e, dopo un prompt fisico, svolge cor-
rettamente l’esercizio di allacciare la scarpa. Il risultato, ovviamente,
va revisionato per definire se sia stato un caso o se il soggetto abbia
realmente incorporato la metodologia. Inoltre, è possibile in seguito
confrontare l’alunno con il videomodeling completo del comporta-
mento modello; quindi eliminare il video prompting step-by-step e
passare all’audiovideo integrale.

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Fig. 4.4 Enrico compie egregiamente Fig. 4.5 Enrico attraversa un momento
l’azione richiesta. di difficoltà nell’eseguire cor-
rettamente il modello propo-
sto («metto dentro il laccio»).

Sesta settimana (lunedì 26 e venerdì 30 novembre)

Durante il primo incontro della settimana l’alunno compie


ottimamente tutti i passaggi attraverso il video prompting, fino
all’ultimo punto: tiro gli anelli (figure 4.6 e 4.7).
La strategia di differenziare i due lacci con colori diversi sembra
aver portato al successo del compito richiesto. Il soggetto riconosce
con maggiore facilità gli elementi da intrecciare fin dalla prima ripro-
duzione del video (figure 4.8 e 4.9).
Anche nella seconda lezione, avvenuta venerdì 30 novembre,
Enrico porta a compimento tutti i passaggi in maniera egregia, senza
interruzioni e/o titubanze. Riesce quindi a completare tutti e nove i
punti proposti dal programma.

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Fig. 4.6 Enrico porta a termine l’ottava Fig. 4.7 Enrico porta a termine l’ottava
sequenza («metto dentro il sequenza («metto dentro il
laccio»). laccio»).

Fig. 4.8 Enrico porta a completa- Fig. 4.9 Enrico porta a completa-
mento l’ultimo step del video mento l’ultimo step del video
prompting, riuscendo così ad prompting, riuscendo così ad
allacciare la scarpa. allacciare la scarpa.

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Conclusioni

Nel percorso fin qui sviluppato ci siamo domandati se il video-


modeling possa essere considerato una strategia solida e proficua per
insegnare abilità comunicative, di autonomia e interazione sociale
nei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico, concentrandoci
prima sulla definizione della patologia autistica, per poi passare in
rassegna gli studi che mostrano evidenze positive nel dialogo tra mente
e tecnologie e come apprendere per mezzo di queste; infine ci siamo
soffermati su una particolare strategia e su uno studio di caso in cui
tale tecnologia viene applicata.
Si è cercato di dimostrare, attraverso la lettura e il commento di
diversi autori, che le nuove tecnologie possono essere un valido sup-
porto all’apprendimento degli studenti, sia con sviluppo neurotipico
sia con disabilità intellettiva, e che quindi possono entrare di diritto
nei progetti educativi degli alunni, se utilizzate con consapevolezza.
Come abbiamo avuto modo di argomentare, gli autori trovano
nuove formule per raccontare questo rapporto. De Kerckhove (2014)
parla di psicotecnologia, indicando la condizione delle persone sotto

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l’influsso costante delle tecnologie. Marc Prensky (2012) conia il ter-
mine nativi digitali per sottolineare quanto i nuovi dispositivi stiano
influenzando le generazioni presenti e future di alunni e il loro modo
di apprendere. Vivanet (2014) discute della tecnologia cognitiva,
dell’interrelazione fra i nuovi mezzi e l’apprendimento umano e delle
implicazioni positive che ne emergono. Anche Jonassen e Carr (2000)
si pongono a favore delle tecnologie come supporto agli studenti,
promuovendo i nuovi dispositivi come mediatori dell’apprendimento
definendoli mindtools (strumenti per la mente).
Una disamina critica dell’uso delle tecnologie digitali, rigorosa-
mente basata su evidenze, ci viene da Hattie (2013), che fornisce una
panoramica dei fattori che favoriscono l’apprendimento per mezzo di
queste nuove modalità, e da Calvani (2013), il quale fornisce una serie
di raccomandazioni per un utilizzo davvero positivo delle tecnologie:
da come farne uso, al definirne lo scopo, alla formazione del docente
per insegnare a sua volta ad approcciarsi ai nuovi media.
Considerati i riscontri positivi da parte della letteratura, nel
capitolo 3 il focus si è concentrato su una metodologia di insegna-
mento, il videomodeling, che ha dimostrato notevole efficacia e, come
affermano Bellini e collaboratori (2007), può essere inserita tra quelle
metodologie validate per mezzo di evidenze.
Varni e collaboratori (1979) sostengono che è possibile un
apprendimento per osservazione a patto che il soggetto con Disturbo
dello Spettro Autistico affronti un pre-training sulle capacità imita-
tive. Micheletta (2014) sottolinea l’importanza delle immagini, che
permettono di superare le difficoltà riscontrabili con il linguaggio
verbale, in modo da favorire l’osservazione diretta del compito da
svolgere, senza incomprensioni.
Cottini (2012) mette in luce un vantaggio fondamentale
dell’audiovideo, ovvero la possibilità di visionare più volte la sequenza
da apprendere; in tal modo il soggetto supera la difficoltà di dover
imparare osservando una sola e unica volta il modello. Grazie a questa

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impostazione si possono evitare situazioni di stress da parte dell’alun-
no, malintesi nella comunicazione o nelle azioni, nonché eventuali
comportamenti problema.
Nel capitolo 4 la descrizione dello studio di caso ci fornisce
buoni elementi per dimostrare l’efficacia e la validità del videomo-
deling nei soggetti con disturbo autistico. Attraverso un progetto
basato sulle caratteristiche dell’allievo, la strategia risulta funzionale
se somministrata in modo costante per circa due mesi. Ovviamente,
è da stabilire quale possa essere il livello cognitivo medio a partire dal
quale il soggetto è in grado di apprendere osservando.
In base al lavoro svolto, possiamo affermare che il videomode-
ling è risultato essere una strategia estremamente efficace, capace di
trasmettere in modo duraturo a un ragazzo con autismo un’autonomia
prima non posseduta; il metodo si è rivelato utile anche perché selettivo
nell’impostazione della task analysis ma con una base operativa solida,
fruibile anche da soggetti con basso livello funzionale (ad esempio
Enrico, nello studio di caso, presenta uno sviluppo funzionale di 5 anni
e 2 mesi), stimolante per chi ne usufruisce, interattivo e coinvolgente.

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di trasmettere in modo duraturo a un ragazzo con autismo un’autonomia
prima non posseduta. Il libro può quindi rivelarsi utile a genitori, educatori
e insegnanti che desiderino incentivare l’acquisizione delle autonomie in
bambini e ragazzi con bisogni educativi speciali o con disabilità.

MATTEO MACCIONE
Nato a Verona nel 1994, vive a Pistoia. Laureato in Scienze dell’Educa-
zione e della Formazione presso l’Università di Firenze, è attualmente
specializzando nel corso di Laurea Magistrale in Dirigenza scolastica e
Pedagogia clinica e studente presso il Centro Psicopedagogico OIDA
al Master annuale in Neuropedagogia dei processi cognitivi. Lavora
come educatore professionale presso il Centro Sanitario per l’autismo
Agrabah/Fondazione Raggio Verde a Santomato (PT), occupandosi
della progettazione e della realizzazione di interventi psico-educativi
basati sul videomodeling. Parallelamente coordina e allena due gruppi
all’interno di un progetto sportivo (nato dalla collaborazione della so-
cietà sportiva Shoemakers A.S.D. e la Fondazione Mai Soli) indirizzato
a utenti di diverse età con disabilità intellettive. I suoi interessi gravitano
attorno alla condizione autistica: strategie e tecniche di apprendimento,
il gioco, le nuove tecnologie e le situazioni comportamentali.

www.ericksonlive.it
Erickson dà voce alle tue esperienze

Copia concessa in licenza a Amalia Masullo; scaricato il 10/01/2021

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