Sei sulla pagina 1di 8

GRAZIA E SALVEZZA IN GALATI E ROMANI

JOHN M.G. BARCLAY (Durham University)


[Seminario di aggiornamento per studiosi e docenti di S. Scritttura]
Pontificio Istituto Biblico – 23-27 gennaio 2017

La teologia di Paolo si occupa essenzialmente della salvezza, dell’umanità che viene salvata
dalla sua situazione drammatica e del compimento del nostro destino nella relazione eterna con
Dio. Questa situazione drammatica viene raffigurata in molteplici maniere e a molti differenti
livelli: per esempio, Paolo parla di peccato, di morte, di schiavitù alle potenze, di «questo mondo
malvagio», di inimicizia con Dio e così via. Per tale motivo, dunque, il linguaggio della salvezza
è vario, comprendendo molteplici metafore di liberazione, giustificazione, adozione, espiazione,
redenzione, novità di vita, riconciliazione ecc. Vi sono molte e differenti metafore, nessuna nelle
quali però è la metafora centrale; possiamo però differenziare tra le metafore, il contenuto, la
cornice e la forma della soteriologia paolina. Credo così che sia utile distinguere tra:
(i) Il contenuto centrale della salvezza, che è l’unione con Cristo o la partecipazione alla morte
e alla risurrezione di Cristo. Si può tracciare la crescente centralità di questo concetto nella
teologia di Paolo, dalle prime affermazioni sull’essere «con Cristo» (1 Tessalonicesi) alle
esposizioni complete della partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo (2 Corinzi,
Filippesi, Romani). Se mi si chiedesse di indicare un elemento che significa la salvezza in
Paolo, credo che sia questo: la partecipazione al Cristo crocifisso e risorto. Ovviamente, per
spiegare che cosa significhi questo ci vogliono tantissime specificazioni.
(ii) Le molteplici metafore sul modo in cui avviene questa salvezza, comprendenti liberazione,
riconciliazione, adozione ecc. Qui vorrei aggiungere la metafora della giustificazione – Dio
considera i credenti giusti in Cristo – perché ritengo che «giustificati» sia un altro modo per
descrivere lo stato di coloro che sono in Cristo, insieme a «eredi», «figli», «schiavi liberati»,
«eletti». La giustificazione è una metafora di tipo legale e sociale per quelli considerati «nel
giusto» davanti a Dio, ma come tutte le altre metafore dipende dal fatto centrale dell’unione
o della partecipazione a Cristo.
(iii) La cornice narrativa della salvezza, partendo dalla creazione e passando per le promesse ad
Abramo e l’elezione di Israele, fino all’evento centrale, l’evento-Cristo, e da quello all’oriz-
zonte escatologico della creazione redenta. Hays e Wright hanno recentemente e utilmente
messo in evidenza questa cornice narrativa, che impedisce alla teologia paolina di diventare
atemporale o astratta; essa inoltre pone l’accento sulla Chiesa come segnale sulla strada per
la salvezza nell’attuale tappa del «già e non ancora» della storia della salvezza.
(iv) La forma della salvezza, attuata per la grazia di Dio, che è data in Cristo senza badare al
merito. È qui che fa il suo ingresso il mio tema di oggi: la grazia, che non rappresenta il
contenuto della salvezza (la quale è la partecipazione a Cristo) e neanche una delle tante
metafore. È piuttosto la forma tipica di come Dio opera nella salvezza, la «grammatica» della
salvezza, un modello distintivo delle narrazioni che racconta. Ciò che affascina Paolo è il
fatto che Dio ha operato in Cristo non per ricompensare i giusti o per difendere i buoni, non
per riconoscere coloro che sono degni di ricevere i suoi doni, non per selezionare quelli che
meritano i suoi benefici, ma contro le aspettative, contrariamente alla ragione e con uno scon-
volgente disprezzo per il «merito». È questo – quella che io chiamo l’incongruenza della grazia
– a dare una forma distintiva a tutte le affermazioni di Paolo sulla salvezza (sia le narrazioni
che le metafore) e che voglio delinearvi oggi ricorrendo a Galati e Romani.

1. Galati: la grazia e la comunità nuova


Esiste un consenso alquanto ampio sulla situazione a cui si riferisce Paolo in Galati: i suoi
gentili convertiti di là erano stati convinti da altri missionari cristiani (provenienti forse da An-
2 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

tiochia o anche da Gerusalemme) del fatto che Paolo li aveva convertiti solo a metà, e che ave-
vano bisogno di assumere pienamente l’impegno di osservare la Legge giudaica (mosaica), il
che significava, tra l’altro, che quanti tra loro erano maschi avevano bisogno di venire circoncisi,
in quanto segno fondamentale di appartenenza all’alleanza con Abramo (Gen 17). Si trattava di
un attacco all’autorità di Paolo, ma riguardava anche una questione centrale di identità del mo-
vimento gesuano. Era necessario che i seguaci di Gesù, sia gentili che ebrei, vivessero all’interno
della cornice storica e culturale della tradizione giudaica, come espresso nella Legge di Mosè e
come era normale per i proseliti del giudaismo? Oppure era legittimo per i credenti gentili se-
guire Cristo con modalità che non aderivano completamente alla legge mosaica e alle tradizioni
ancestrali giudaiche, ma che erano stabilite sotto la guida dello Spirito e all’interno del modello
dell’evento-Cristo?
A un certo livello, la questione verteva su che cosa significava essere veri figli di Abramo –
con Paolo che insisteva sul fatto che ciò che era fondamentale per l’alleanza abramitica e le pro-
messe di Dio per le nazioni, era la fede o il credere (Gen 15, non Gen 17). Ma a un altro livello,
la questione riguardava il carattere dell’evento-Cristo e che cosa implicava per quanti vivevano
seguendolo. In questa disputa, entrambe le parti concordavano sul fatto che l’evento Cristo fosse
significativo, ma ci si chiedeva se il Messia Gesù adempisse semplicemente la storia di Israele
modellata sulla Torah in modo che la Torah (la Legge mosaica) continuasse a essere la cornice
determinante della vita, oppure in qualche maniera avesse stabilito un proprio regime di valori,
che avesse la priorità sulla Torah anche per i credenti ebrei in Cristo.
È generalmente riconosciuto che in Galati prevale il linguaggio del dono o della grazia, e
ritengo che sia una chiave di comprensione della forma argomentativa usata da Paolo in questa
lettera (è opportuno ricordare che charis è un termine usato normalmente in greco per indicare
dono, beneficio o favore, ragione per cui qui non consideriamo solamente quest’unico termine,
ma anche altre parole o frasi appartenenti al campo semantico del dono). Come avviene per
tutte le altre lettere di Paolo, anche Galati è inframmezzata da delle benedizioni che fanno rife-
rimento alla «grazia» di Dio/Cristo (1,3; 6,18), che è la dinamica di trasformazione all’interno di
tutto il dramma della salvezza. Ma in Galati, la cosa è particolarmente associata al riferimento
al darsi di Gesù («che ha dato se stesso per i nostri peccati», 1,4), riassunta in 2,20 con: «Il Figlio
di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Questo darsi di Cristo (il dono-Cristo)
si riferisce particolarmente al dono di se stesso nella morte, ma viene immediatamente spiegato
come «la grazia di Dio» che esclude un’alternativa, la «giustificazione per mezzo della Legge».
«Non rifiuto la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto in-
vano» (2,21). Lo stesso polarismo appare in 5,4, dove quelli che sono giustificati nell’ambito della
Legge vengono avvisati che saranno separati da Cristo e decadranno dalla grazia (2,21). Il ter-
mine charis spicca quindi là dove Paolo descrive l’esperienza della conversione dei credenti: i
galati sono rimproverati per aver abbandonato «colui che vi ha chiamati nella grazia di Cristo»
(1,6) e in una frase corrispondente, Paolo descrive la propria esperienza di chi è stato scelto e
chiamato con la grazia di Dio (1,15).
Ma che cosa c’entrano la grazia o il dono con l’argomentazione di Galati e il modo con cui
Paolo vi raffigura la salvezza? A questo punto dobbiamo fermarci un attimo per comprendere
il modo con cui funzionano i doni, compresi quelli di Dio, come li si comprendeva nel mondo
antico (e in gran parte delle situazioni di oggi). I doni buoni sono dati con abbondanza, ma in
modo discriminato; non sono distribuiti a caso, ma vengono dati a quelli che per un verso o per
l’altro sono adatti o degni di riceverli. Anche oggi non si fanno doni, o favori ad estranei, o si
lasciano soldi in un testamento a una persona qualsiasi o per qualsiasi cosa: si scelgono invece i
destinatari dei propri benefici, persone o cause che si ritengono meritevoli. In altri termini, i
doni di qualcuno rappresentano il suo sistema di valori, ciò che secondo lui vale qualcosa e
merita una ricompensa. La stessa cosa veniva applicata a Dio (o alle divinità) nell’antichità: le
persone si presentavano alle divinità come meritevoli del loro favore, e filosofi come Filone ri-
tengono che Dio dia i suoi doni migliori a coloro che meglio li possano ricevere, vale a dire (nella
visione di Filone) ai maschi adulti, liberi e con una buona educazione (cioè alla gente come lui!).
J.M.G. Barclay, Grazia e salvezza in Galati e Romani – 3

Sembra strano pensare che Dio dia in ogni caso senza seguire questo modello normale di
«doni buoni a destinatari meritevoli», ma Paolo è convinto che il dono di Dio in Cristo sia stato
dato, sorprendentemente, senza badare a dei modelli precostituiti di merito. Dio non ha dato
agli ebrei preferendoli ai gentili, o agli uomini preferendoli alle donne, o agli uomini liberi pre-
ferendoli ai liberti o agli schiavi (cf. 1Cor 1,26-28). Nell’ottica di Paolo, i gentili erano dei pecca-
tori (Gal 2,15) e degli idolatri ignoranti (4,8-9); ancora peggio, erano schiavi de «gli elementi del
mondo» e ammaliati da esseri che in realtà non erano delle vere divinità (4,8-9). Eppure, mal-
grado questa indegnità etnica, intellettuale e morale, Dio ha chiamati i Gentili nella grazia (1,6)
– grazia intesa qui non come un dono ordinario, ma incongruente, un dono dato a chi non lo
merita. È stato a persone come queste che Dio ha dato il suo Spirito, l’adempimento delle pro-
messe fatte ad Abramo, prima e senza considerare la loro osservanza della Legge mosaica. In
più, questa grazia incongruente – questa discrepanza tra il dono di Dio e la condizione di chi lo
riceve – era anche un’esperienza personale di Paolo. Spinto dallo zelo per la Legge aveva perse-
guitato la Chiesa di Dio (1,13), ma nonostante ciò, Dio lo ha chiamato nella grazia. Anzi, ciò era
avvenuto già prima che nascesse (1,15), vale a dire senza tener conto del suo merito negativo (la
persecuzione della Chiesa) e senza considerare neanche quello che secondo lui era un suo merito
positivo (il suo zelo per le tradizioni dei padri, 1,14).
Credo che questa nozione di dono discrepante, incongruente fornisca la chiave per compren-
dere il disaccordo di Paolo con i suoi oppositori in Galazia e spieghi i termini radicali su cui egli
ha svolto la sua missione ai gentili. Se Dio ha operato in Cristo e nel dono dello Spirito senza
tener conto del merito precedente di chi lo riceve, i suoi doni non convalidavano o rafforzavano
i precedenti sistemi di valori, compreso il sistema di merito insito nella Legge di Mosè. Un tale
dono radicale metteva in questione tutte le precedenti configurazioni di valori: fece compren-
dere a Paolo che le cose che secondo lui avevano un valore supremo, e che Dio avrebbe sicura-
mente onorato e ricompensato, non erano il modo con cui Dio aveva operato in Cristo (cf. Fil
3,2-11). Paolo si sentiva mancare il terreno sotto i piedi: era obbligato a ripensare tutto da questo
nuovo punto di partenza, dallo stesso evento di Cristo. Ora predicava Cristo senza richiedere la
circoncisione ai suoi convertiti maschi, perché in Cristo «non è la circoncisione che vale o la non
circoncisione» (5,6; 6,15); né il segno ebraico della circoncisione né la stima dei greci per il corpo
maschile senza difetti avevano in fondo importanza per Dio, poiché quello che vale, seguendo
Cristo, è «la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6) cioè l’effetto di una «nuova crea-
zione» (6,15). Un dono incongruente, un dono dato nonostante e non a causa, di fatto sovverte
tutto quanto quello che pensavamo fosse appropriato e buono.
Notate che inquadro l’affermazione fatta qui in termini di merito e non di opere. Il problema
non è che gli oppositori di Paolo stanno chiedendo ai convertiti da Paolo di fare delle cose, come
se la questione fosse questo operare. Ciò che gli oppositori di Paolo chiedono è che le persone
adottino una gerarchia di meriti o di valori che non è derivato dallo stesso Vangelo, ma che
invece è derivato dalla Legge mosaica o dalla tradizione ebraica dei padri. Vogliono costringere
il Vangelo all’interno di un certo quadro culturale di valori, mentre Paolo insiste sul fatto che la
buona notizia del dono immeritato fatto da Dio in Cristo infrange tutti i sistemi precostituiti di
valori. La missione ai gentili crea nuove comunità che attraversano le precedenti frontiere create
da differenziali etnici, culturali e sociali, perché la grazia di Dio viene data senza tener conto di
tali definizioni precostituite di valori. Adesso gli ebrei e i gentili condividono il medesimo fon-
damento, non a causa di un qualche principio astratto di eguaglianza, ma perché entrambi si
trovano semplicemente sulla stessa base della grazia immeritata di Dio, e ciò è un fatto univer-
sale in quanto non guarda ai modi in cui noi creiamo delle gerarchie di merito razziali, sociali o
di genere.
Paolo capisce questo la prima volta in Galati, in occasione della sua disputa con Pietro ad
Antiochia (2,11-14) e nei commenti seguenti (2,15-21). Secondo Paolo, il comportamento tenuto
da Pietro ad Antiochia equivaleva a obbligare i gentili a vivere come dei Giudei. Ritirandosi dal
pasto in comune con i gentili, egli indicava che avevano bisogno di vivere come Giudei se vole-
vano essere pienamente riconosciuti e onorati come membri del popolo di Dio in Cristo. Altri-
menti sarebbero stati tenuti sempre in una posizione inferiore. Ma ciò, dice Paolo, non è in linea
4 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

con la verità del Vangelo (2,14), appare cioè assolutamente in contraddizione con le esigenze
evangeliche. I versetti seguenti (2,15-21) ne indicano il motivo. Gli ebrei come Pietro e Paolo
erano abituati a ritenersi superiori ai «peccatori gentili», poiché presumevano che osservando
la Legge giudaica (praticando quelle che Paolo chiama «le opere della Legge») si sarebbero tro-
vati in regola davanti a Dio. Con questa definizione di giustificazione, essi erano chiaramente i
destinatari appropriati dei doni di Dio, non ultimo il dono della salvezza. Qualcosa però li ha
aiutati a vedere (Paolo più chiaramente di Pietro) che in realtà non è così. «Noi, che per nascita
siamo Giudei e non pagani peccatori, sappiamo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le
opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Cristo e non per le opere della Legge»
(2,15-16) (Qui traduco pistis come «fede», e la frase pistis Christou come «fede in Cristo», e non,
come preferiscono alcuni come «fedeltà di Cristo»).
Possiamo tradurre ciò nel linguaggio del cosiddetto «capitale simbolico». Considerare le
«opere della Legge» un criterio di merito significa assumere la validità di una forma di capitale
simbolico che si è visto non avere nessun valore davanti a Dio. Far «giudaizzare» i gentili signi-
fica investire in quel capitale simbolico, ma in Cristo sappiamo che non è questo ciò che Dio
considera un valore supremo. Siamo considerati giusti (vale a dire persone che sono in regola
davanti a Dio, persone di merito e valore davanti a Dio) se crediamo in Cristo Gesù, perché
abbiamo investito tutto su Cristo. Ciò che Dio ha dato in Cristo è l’unica cosa che vale per il
credente, ma vale più di ogni altra cosa. Tutti gli altri modelli di merito (etnicità, salute, stato
sociale, successo, risultati morali) decadono e riutilizzarli come metro di valore è come fare af-
fidamento su di una valuta fuori corso, è come accumulare lire mentre la valuta attuale è l’euro.
Ma allora qual è la nuova valuta? Difficilmente sarà qualche capacità umana, qualche tratto
ereditato, o qualche altra tradizione culturale, bensì la fede in Cristo – il riconoscimento che
l’unica cosa che vale è proprio Cristo. La fede, il credere in Cristo non è una conquista umana
alternativa, o un tipo raffinato di spiritualità umana, bensì una dichiarazione di bancarotta, il
riconoscimento radicale e sconvolgente che l’unico capitale nell’economia divina è il dono di
Cristo crocifisso e risorto.
Così, si chiede Paolo, se cerchiamo di essere giustificati (considerati giusti) in Cristo, e per
questo non accordiamo valore supremo ai modelli della Torah, diventiamo forse peccatori e Cri-
sto ne è il responsabile (2,17)? Ma in realtà «io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio,
perché sono stato crocifisso con Cristo» (2,19). La mia vita è stata scomposta e ricostruita intorno
alla morte e alla risurrezione di Cristo, in modo che ciò che importa ora non è quello che co-
manda la Torah, ma ciò che si richiede per vivere in Cristo. Anzi, lo si potrebbe esprimere in un
modo ancora più radicale: ciò che importa ora è Cristo che vive in me (2,20), poiché la mia vita di
prima è finita e quella di ora non solo è conformata, ma generata dalla vita di Cristo risorto, che
opera in me, anche se io adesso continuo a vivere nella carne.
È questa l’unione con Cristo, o la partecipazione a Cristo, di cui ho parlato all’inizio come
nucleo della salvezza. Ma quello che Paolo porta in evidenza qui è che questa partecipazione
avviene mediante una ristrutturazione radicale di se stessi, e un ripensamento radicale del me-
rito. Se tutto si fonda su «il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (2,20), io
ora non posso rifiutare la grazia di Dio ripristinando la Torah come modello di giustizia (2,21).
Il dono di Dio, dato senza guardare al merito, ha dissolto le mie supposizioni precedenti e mi
ha liberato per vivere solamente de «la verità del Vangelo».
Ciò ha effetto non solo sul singolo, ma anche sulla conformazione di tutta la comunità. Quello
verso cui spinge la teologia paolina è la formazione di nuove comunità conformate dal Vangelo,
cioè, dall’amore incondizionato di Dio. Per far parte di questa comunità non si deve essere all’al-
tezza di alcuni modelli umani preconcetti di merito, e le regole che valgono in essa non proven-
gono dal loro contesto culturale, ma dalla «legge di Cristo» (6,2). In Gal 5-6, Paolo descrive in
linea di massima le caratteristiche di tali comunità che camminano secondo lo Spirito e portano
il frutto dello Spirito. In primo piano qui è la loro resistenza allo spirito di competizione (invidia,
rivalità, ostilità, faziosità) che costituiva il pilastro della cultura dell’onore-vergogna nel mondo
greco-romano. Siccome il dono incongruente fatto da Dio in Cristo ha messo in questione i mo-
delli di questa competizione, la comunità può vivere con un’etica alternativa, un’etica nella
J.M.G. Barclay, Grazia e salvezza in Galati e Romani – 5

quale l’unico motivo di vanto consiste nel servizio degli altri e nel portare gli uni i pesi degli
altri (5,13-14; 6,2). È formando tali comunità e disprezzando le aspettative della cultura circo-
stante che i credenti scoprono quello che significa essere salvati da una grazia che sovverte i
sistemi di valori dati per acquisiti. La grazia di Dio non cerca e ricompensa quelli che ne sono
degni, ma abbraccia gli indegni e quelli il cui «merito» risulta essere vano, trasformandoli in
persone le cui vite sono conformate dalla buona notizia, come mostrato dal loro amore e dalla
loro generosità.

2. Romani: la grazia come vita dalla morte


Ciò che abbiamo tracciato in Galati è quella che io chiamo la forma della salvezza, una forma
peculiare dove le cose non sono conformi, ma dove Dio salva i peccatori, redime i gentili igno-
ranti e gli ebrei persecutori, dove coloro che sono ridotti in schiavitù diventano figli adottivi e
la sterile partorisce (4,1-7.21-31). È la forma o «grammatica» della grazia, una grazia incon-
gruente che non opera per adeguatezza o ricompensa. In Galati si usano molte metafore diffe-
renti (adozione, liberazione, nascita, giustificazione, nuova creazione) e la salvezza viene situata
su di un filo narrativo che corre da Abramo all’eschaton; inoltre, come abbiamo visto, il suo con-
tenuto centrale è la partecipazione a Cristo, il morire con Cristo e Cristo che vive in me (Gal
2,19-20). Ma è la forma-di-grazia di tutto ciò a dare alla teologia di Paolo il suo carattere pecu-
liare e a fondare la sua pratica radicale nell’attuazione della sua missione ai gentili.
In Romani, Paolo mette tutto questo all’interno di un canovaccio più ampio, che si estende
da Adamo al principio fino alla futura creazione redenta alla fine. Quando scrive questa lettera
è impaziente di andare a Roma, ma è obbligato prima a prendere la direzione sbagliata, a Geru-
salemme, per compiere la sua sventurata missione di consegnarvi la colletta per le chiese ebrai-
che. Siccome i cristiani di Roma non sono suoi convertiti, ma necessita della loro accoglienza e
del loro supporto per la sua missione in Spagna, egli ha bisogno di presentarsi loro come loro
apostolo, e quindi di mostrare il carattere del suo Vangelo e come Dio sta rifacendo il mondo
attraverso Cristo. Se la narrativa è ampliata e attinge alla storia di Israele, e se vengono coniate
nuove metafore e alcune vecchie sono ampliate, il contenuto della salvezza è ancora l’unione
con Cristo, e la forma della salvezza è determinata ancora dalla grazia (o misericordia) incon-
gruente di Dio. Voglio partire dal centro, da un passo che riassume la forma del tutto (Rm 5,1-
11), e proprio da lì voglio lavorare sia all’indietro (verso Rm 1-4) sia in avanti (verso Rm 5-8 e 9-
11) per delineare questa forma nelle mutevoli espressioni paoline della soteriologia.
In Rm 5,1-11, Paolo riassume ciò che avviene nell’evento-Cristo sotto il titolo dell’amore di
Dio. Mentre eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi (5,6). Ciò significa
che Dio non ha ricompensato i valorosi o difeso i fedeli, ma è una missione di salvezza che ha
riguardato quanti erano assolutamente immeritevoli del favore di Dio. Paolo sottolinea la straor-
dinarietà della cosa: a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto, sebbene forse qualcuno
oserebbe morire per una persona buona (5,7). Questo sarebbe un dono adeguato, che qualcuno
cioè donasse la vita per una persona buona e per una buona causa. Ma Cristo non è morto per
le persone buone: Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora pec-
catori, Cristo è morto per noi (5,8). È questa grazia incongruente che dà a Paolo speranza per il
futuro: se mentre eravamo nemici siamo stati riconciliati a Dio mediante la morte del Figlio suo,
molto più ora che siamo riconciliati, non saremo forse salvati nella/dalla sua vita (5,10)? Si noti
ancora una volta come il contenuto della salvezza è aver parte alla morte e alla vita di Cristo
(come si spiegherà meglio poi in Rm 6), ma la forma di ciò che Dio ha fatto in Cristo è centrale
per il suo significato. La morte di Cristo è stata per i deboli, gli empi, i peccatori e i nemici di
Dio; difficilmente si potrebbe sottolineare meglio l’incongruità di questa grazia. È questa la ra-
gione per sperare in mezzo all’attuale sofferenza e debolezza, perché l’amore di Dio non è stato
mai dipendente dalla nostra forza. Ed essendosi dato a noi in questo modo così improbabile,
difficilmente Dio ci abbandonerà ora.
Il paragrafo che abbiamo esaminato (Rm 5,1-11) è un passo che fa da ponte tra la conclusione
di quanto precede (in Rm 1,18-4,25) e l’introduzione alla successiva grande esposizione della
salvezza (in Rm 5,12-8,39). Nel blocco precedente (capitoli 1-4), Paolo esamina il come e il perché
6 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

la condizione dell’umanità sia quella che lui chiama debole, empia e peccatrice – la condizione
universale sia dei gentili che dei giudei «sotto il peccato» (3,9). Contro questo fosco scenario, ciò
che avviene nell’evento-Cristo, descritto in termini molto densi in 3,21-26, non è la scoperta e la
ricompensa dei pochi giusti, poiché non esistono persone giuste da scoprire e ricompensare,
neanche tra i giudei. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (3,23). Se sono con-
siderati giusti da Dio, può essere solo per un dono incongruente di grazia (il linguaggio del
dono è ripetuto per enfasi in 3,24), e «la giustizia di Dio» non deve significare la ricompensa dei
giusti, ma il dono di uno stato giusto davanti a Dio perché si crede in Cristo. Ancora una volta,
questo credere implica una dichiarazione di bancarotta: non c’è motivo di vanto, di confidare
cioè in qualche elemento di adeguatezza o di merito, neanche nell’osservanza della Torah (3,27).
Ancora una volta, ciò pone giudei e gentili sulla stessa base, e Dio prova di essere l’unico e lo
stesso per tutti ignorando gli indicatori di differenza etnica, come la circoncisione, e giustifi-
cando tutti solo per la loro fede in Cristo (3,28-30).
Come in Galati, Paolo ricorre anche qui alla storia di Abramo per trovare l’inizio e la forma
di questa storia di grazia. Abramo non è una figura atemporale, un’illustrazione strappata da
un punto qualsiasi della testimonianza biblica, ma il principio della narrazione dell’Alleanza. E
in quanto principio, è anche colui la cui storia determina il corso e la forma di ciò che segue.
Paolo è interessato ad Abramo come padre dei giudei e dei gentili, e così è colui che prefigura i
termini della missione ai gentili che è iniziata dall’evento-Cristo, ma ciò che gli interessa spe-
cialmente in questa storia di Abramo è il modo con cui la grazia opera contrariamente alle aspet-
tative normali di ricompensa, adeguatezza o rapporto causa-effetto. Il fatto che Abramo ha creduto a
Dio e che ciò gli è stato accreditato come giustizia (Gen 15,6) non è stato, insiste Paolo, oggetto
di salario o ricompensa e neanche un dono per chi lo merita: è stata nell’assenza di opere che
Dio ha giustificato gli empi (4,5), proprio come Davide ha trovato la misericordia e la benedizione
di Dio nel perdono del suo peccato (4,6-8). Non c’era nulla di meritevole in Abramo che lo ren-
desse adatto a ricevere la grazia di Dio.
In maniera abbastanza cosciente, su questo punto Paolo va contro la corrente della tradizione
giudaica, poiché per gli interpreti giudaici delle storie di Genesi era una cosa comune chiedersi
perché Dio avesse scelto Abramo, Isacco e Giacobbe, e rispondere che doveva esserci stato qual-
cosa in loro che li aveva resi speciali davanti a Dio. Dio doveva aver ricompensato la conversione
di Abramo dall’idolatria, o aver previsto che Giacobbe sarebbe stata una persona migliore di
Esaù – ci deve essere stato qualcosa che ha giustificato quella scelta, altrimenti Dio sarebbe ap-
parso arbitrario nella scelta dei patriarchi e nella scelta del popolo di Israele in base a loro. Al
contrario, Paolo fa un’affermazione audace: no, non c’era nulla in Abramo che lo rendesse spe-
ciale o meritevole della grazia di Dio. Ma se non esiste un criterio di corrispondenza che deter-
mina e pertanto limita la portata della grazia di Dio, questa grazia può estendersi a tutti, gentili
e giudei. Tutto questo è avvenuto, Paolo mette in evidenza, prima dell’istituzione della circon-
cisione (Gen 15 precede Gen 17) e ciò che viene non introduce un nuovo criterio.
Inoltre, Abramo diventa portatore di questa promessa non per la sua capacità naturale, non
per la fertilità potenziale di Sara, ma proprio mentre era per loro impossibile generare a causa
della loro età e della sterilità (4,16-25). Qui Paolo ostenta il fatto che la potenza di Dio, come il
dono di Dio, opera dove non c’è corrispondenza con il potenziale umano: l’indegnità e la nullità
umane, addirittura la morte non solo un ostacolo alla promessa di Dio, che opera sempre in
questa forma incongruente. La fede di Abramo in questa promessa è stata la sua dichiarazione
di incapacità o di una totale dipendenza dalla capacità di Dio. E questa, dice Paolo, è proprio
l’essenza della fede esercitata da quanti credono in Cristo (4,21-25).
In Rm 5,12-8,39, Paolo indica che cosa significa questa fede: nell’evento-Cristo, Dio ha tra-
sformato il peccato umano in giustizia e la morte nella vita nuova in Cristo. Il concetto chiave in
5,12-21 è la grazia (grazia e dono espressi con un accavallamento di vari termini greci) e ancora
una volta la sua forma è l’incongruenza, la forma del «tuttavia» o del «nonostante». Dove non
c’era altro che peccato, Dio ha creato giustizia; dove c’era solo morte e una ruota che girava
sempre nel senso che dal peccato portava alla morte, Dio ha invertito il senso di rotazione di
J.M.G. Barclay, Grazia e salvezza in Galati e Romani – 7

quella ruota e da una moltitudine di peccati ha portato giustizia e vita attraverso Cristo. I cre-
denti entrano in questa nuova controrotazione di grazia nel battesimo, come spiega Rm 6, e qui
si arriva al cuore del contenuto della salvezza. Nel battesimo si è uniti alla morte e alla sepoltura
di Cristo, una morte al peccato e alla decostruzione del vecchio modo di essere. E nello stesso
battesimo si è uniti alla vita del Cristo risorto, in modo che si possa vivere questa «novità di
vita» non più partendo da se stessi, ma dalla vita di Cristo stesso.
Ecco il contenuto della salvezza – prendere parte alla morte e risurrezione di Cristo – e scor-
rendo questi capitoli diviene ancora una volta chiaro che la forma o la grammatica di questa
salvezza è la discordanza creata dalla grazia. In questo caso, la discordanza è quella tra i corpi
mortali e morenti dei credenti, e la risurrezione, la vita eterna di Cristo che è già presente in loro
attraverso lo Spirito. È qui che Paolo vede il paradosso della salvezza, che cioè già in questa vita,
mentre i credenti sono ancora soggetti alla sofferenza, alla decadenza e alla morte, una nuova
vita sta traboccando spumeggiante in loro: non una vita generata da se stessi, e neanche un
qualche principio eterno nelle loro anime, ma la vita di Cristo, a cui partecipano con l’essere
uniti a Cristo nello Spirito.
Rm 6-8 è stata la base per l’affermazione fatta da Lutero che il credente durante tutta questa
vita terrena è simul justus et peccator (contemporaneamente giusto/giustificato e peccatore). Lu-
tero, come gli altri riformatori protestanti, seguiva l’ultimo Agostino nel leggere Rm 7, con le
sue grida di frustrazione sotto il peccato, come l’esperienza continua del credente, e così egli
interpretò Rm 7 e Rm 8 come due aspetti simultanei dell’esperienza cristiana: allo stesso tempo
peccatore (frustrato dal potere del peccato) e giustificato (vivente dal potere e dalla vita di Cristo
nello Spirito). Non credo che sia questa la giusta lettura di Rm 7, che invece interpreto non come
descrizione della vita cristiana, ma dell’intrappolamento della vita precristiana sotto il peccato,
espresso dall’«io» paradigmatico. Così non credo che il credente possa essere descritto un «pec-
catore», nel modo in cui immaginava Lutero. Comunque, penso proprio che in questi capitoli
ricorra un’altra forma di incongruenza, che possiamo esprimere come simul mortuus et vivens
(contemporaneamente morto e vivo). Paolo sembra sforzarsi qui di evidenziare la mortalità del
corpo (6,12; 8,10-11) e allo stesso tempo la vita del Cristo risorto o la vita dello Spirito (6,4-9;
8,11). Ecco nuovamente quella discordanza o inadeguatezza che abbiamo trovato ovunque nella
forma della grazia. Nei corpi già morenti e destinati alla morte opera una vita nuova, la vita di
Cristo nello Spirito, che trasforma il presente e dà speranza per il futuro. Se c’è una vita di re-
surrezione operante nei credenti, non si tratta di una loro creazione o di un talento concesso da
Dio, ma di un miracolo della grazia data da Dio, il prodotto di un dono che non può essere
revocato e non lo sarà (8,31-39). Arriviamo infine a Rm 9-11, dove Paolo traccia la storia di Israele
fino al suo attuale momento paradossale – e oltre il presente verso il suo futuro misterioso
quando secondo lui «tutto Israele sarà salvato» (11,26). Anche qui, ritengo che il filo che attra-
versa questi capitoli e che li collega a quello che è passato è la forma della storia, la forma di una
misericordia o grazia incongruente. Non abbiamo tempo ora per descrivere ciò nel dettaglio,
ma dovremmo notare che non appena elenca i privilegi di Israele (9,1-5), Paolo ritorna al prin-
cipio della storia, ad Abramo, Isacco e Giacobbe (9,6-13) al fine di trovarvi, come in Rm 4, la
forma della storia da seguire. E che cosa trova, allora? Che l’elezione di Dio non si basa sulla
stirpe, sul merito o su qualche altra forma di superiorità umana (come essere il più anziano di
due gemelli). In altri termini, Israele è stato costituito fin dall’inizio dalla misericordia incondi-
zionata di Dio: non c’era nulla di speciale in Israele, nulla di eccezionale nei patriarchi, nessun
possibile criterio di valore o di merito. Il principio dell’azione di Dio è inquietantemente sem-
plice e inquietantemente fuori dal controllo umano: «Avrò misericordia per chi vorrò averla e
avrò compassione di chi vorrò» (9,15, citando Es 33,19). Solo questo: una decisione divina, nel
tempo futuro, che rimane al di fuori dell’influsso o della conoscenza dell’uomo. «Quindi non
dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che mostra misericordia» (9,16).
Investire tutto nella decisione misericordiosa di Dio è una cosa nel contempo inquietante e
rassicurante. È inquietante perché toglie il corso della salvezza dal controllo e dalla predizione
dell’uomo: in Rm 9 Paolo descrive come Dio ha operato nella storia di Israele, talora riducendo
Israele a un resto e talora allargando Israele con l’inclusione dei gentili, ma sempre amando chi
8 – Seminario sulla letteratura paolina – PIB 23-27 gennaio 2017

non è amato e chiamando gli estranei (9,25). È però rassicurante, perché il futuro non dipende
da una conquista umana o dall’acquisizione di un merito umano, ma solo dall’azione graziosa
di Dio. Quella grazia è stata definitivamente e finalmente resa esecutiva in Cristo, per cui il
fallimento attuale di Israele nel rispondere al Vangelo è, per Paolo, causa di seria ansietà e di-
spiacere. Ma non pensa che sia la fine della storia.
Rm 11 contiene l’estesa metafora dell’olivo, una delle metafore più riuscite per esprimere la
salvezza. L’albero dipende dalla sua radice, che Paolo chiama «radice di ricchezza» (11,17), e
prende questo per rappresentare non Abramo o i patriarchi in quanto tali, ma la grazia o la
misericordia di Dio. Chiunque è innestato in quella radice è salvo, rimanendo nella «bontà di
Dio» (11,22). Attualmente, quelli di Israele che non credono nella grazia di Dio in Cristo sono
tagliati via, mentre i gentili che credono sono innestati (contro natura). Ma la metafora termina
su di una nota di speranza: se Dio può innestare i gentili, prendendoli da un olivo selvatico,
«quanto più essi [Israele], che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati
sul proprio olivo» (11,24)? È questa la speranza che allora è espressa nel mistero che «tutto
Israele sarà salvato» e si basa su quella grazia che percorre tutta la lettera ai Romani – che «Dio
ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti» (11,32). Così questa
narrazione, come ogni narrazione della salvezza in Romani, segue la caratteristica forma pao-
lina. Dio non accresce o integra una capacità umana, o «ricarica» un’abilità naturale: Dio accetta
l’impossibile, il debole e l’empio, e crea qualcosa di nuovo dal nulla. È questo il motivo per cui
anche i gentili possono essere inclusi nei propositi di Dio, per il quale anche un’umanità empia
non è senza speranza, e per il quale anche l’incredulità attuale di Israele non è la fine della storia.
È questa la forma della storia di Abramo e di tutta la storia di Israele e, più di tutto, la forma
dell’evento Cristo, la storia della morte e della risurrezione dalla morte, della fine e di un nuovo
inizio. Credere in Cristo significa credere in Dio, la cui grazia «dà vita ai morti e chiama all’esi-
stenza le cose che non esistono» (4,17).

Ho delineato qui quella che chiamo la forma della soteriologia in Paolo, una forma dove il
dono-Cristo è dato non ai meritevoli, ma nonostante la loro mancanza di merito. Se allarghiamo
qui la categoria dalle opere al merito, tanto da includere il merito etnico, il merito degli antenati
e dello stato sociale, del genere e del corpo, della capacità come anche dei risultati ottenuti, pos-
siamo vedere come questa forma-di-grazia strutturi tutto il linguaggio della salvezza in Paolo,
e si ponga alla radice della sua missione ai gentili, della sua interpretazione della storia di Israele
e della sua descrizione della vita cristiana attuale. Capire la soteriologia paolina significa ricor-
darsi sempre che Dio ama chi non è amato, che giustifica gli empi, che rende potenti i deboli e
risuscita i morti. Questa è una liberazione non solo a livello individuale, ma è anche il fonda-
mento per la formazione di nuove comunità che ignorino i criteri convenzionali di merito, che
varchino i confini di razza, classe e stato sociale, e che formino delle sacche di controcultura
dove le persone non vengono classificate o giudicate per il loro successo terreno. La teologia di
Paolo porta sempre alla pratica sociale in tali comunità innovative e nei capovolgimenti radicali
delle attese sociali, come quelli amati da Papa Francesco. La soteriologia non è un sistema
astratto di pensiero né è confinata all’individuo: essa ristruttura i singoli credenti, ma anche le
comunità a cui essi appartengono, poiché la grazia le libera dai comuni sistemi di gerarchia e di
potere. Le chiese paoline erano degli esperimenti sociali nel panorama della società romana, e
non è un caso che sia Galati che Romani terminino con delle visioni della comunità e dell’acco-
glienza reciproca configurate in modi innovativi. Richiamare questa forma significa ricuperare
l’elemento più distintivo di Paolo – e ciò che rimane più creativo per la vita della Chiesa di oggi.

Potrebbero piacerti anche