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FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO E DEL SISTEMA VASALE

Il sistema cardiovascolare è costituito da tre elementi:

(1) il sangue - un fluido che circola per il corpo e che porta sostanze alle cellule e ne allontana altre;
(2) i vasi sanguigni - condotti attraverso i quali il sangue circola;
(3) il cuore - una pompa muscolare che distribuisce il flusso di sangue nei vasi.

Il cuore è contenuto al centro della gabbia toracica, situato anteriormente e lievemente spostato a
sinistra. La sua forma assomiglia all'incirca a quella di un cono, la cui base è rivolta verso l'alto (a destra),
mentre la punta è rivolta in basso, verso sinistra.
Il miocardio, cioè il muscolo cardiaco, permette al cuore di contrarsi, aspirando sangue dalla periferia e
pompandolo nuovamente in circolo.
Internamente, il cuore è rivestito da una membrana sierosa, detta endocardio.
Esternamente, invece, il cuore è contenuto in un sacco membranoso detto pericardio, che costituisce lo
spazio entro il quale il cuore è libero di contrarsi, senza dover per forza dare luogo ad attriti con le strutture
circostanti. Le cellule del pericardio secernono un liquido che ha il compito di lubrificare le superfici per
evitare tali attriti.
La cavità del cuore è divisa in quattro aree:

-due aree atriali (atrio destro e atrio sinistro);


-due aree ventricolari (ventricolo destro e ventricolo sinistro).

Le due cavità di destra (atrio e ventricolo) sono comunicanti tra loro grazie all'orifizio atrio-ventricolare
destro, il quale viene ciclicamente chiuso dalla valvola tricuspide.

Le due cavità di sinistra sono in comunicazione tramite l'orifizio atrio-ventricolare sinistro, chiuso
ciclicamente dalla valvola bicuspide o mitrale.

Le cavità di destra sono completamente separate dalle cavità di sinistra; tale separazione avviene ad
opera di due setti: quello interatriale (che separa i due atri) e quello interventricolare (che separa i due
ventricoli).
Il funzionamento della valvola tricuspide (formata da tre lembi connettivali) e quello della valvola mitrale
(formata da due lembi connettivali) consentono al sangue di scorrere lungo una sola direzione, a partire
dagli atri, fino ad arrivare ai ventricoli, e non viceversa.

Il ventricolo di destra trae origine dall'arteria polmonare, ed è separato da questa attraverso la valvola
polmonare (costituita da tre lembi connettivali).

Il ventricolo di sinistra è separato dall'aorta attraverso la valvola aortica, la quale presenta una morfologia
del tutto sovrapponibile alla valvola polmonare.

Queste due valvole consentono al sangue di fluire dal ventricolo al vaso sanguigno (arteria polmonare e
aorta), senza che questo possa cambiare direzione.

L'atrio destro riceve sangue dalla periferia tramite due vene: la vena cava superiore e la vena cava
inferiore. Questo sangue, detto venoso, è povero di ossigeno e raggiunge il muscolo cardiaco proprio per
riossigenersi.

Al contrario, l'atrio sinistro riceve sangue arterioso (ricco di ossigeno) dalle quattro vene polmonari,
cosicché, lo stesso sangue possa essere riversato in circolo e assolvere le proprie funzioni: riossigenare e
dare nutrimento ai vari tessuti.

La piccola circolazione
La piccola circolazione inizia laddove termina la grande: il sangue venoso dall'atrio destro scende nel
ventricolo destro, e qui, tramite l'arteria polmonare, porta il sangue a ciascuno dei due polmoni. All'interno
del polmone i due rami dell'arteria polmonare si dividono in arteriole sempre più piccole, che diventano,
alla fine del loro percorso, capillari polmonari. I capillari polmonari scorrono attraverso gli alveoli
polmonari, ove il sangue, povero in O2 e ricco in CO2, viene riossigenato.
È interessante notare come nel circolo polmonare le vene trasportino sangue arterioso e le arterie sangue
venoso, contrariamente a quanto avviene nel circolo sistemico.

La grande circolazione
L'aorta, attraverso successive diramazioni, dà origine a tutte le arterie minori che raggiungono i vari organi
e tessuti. Tali diramazioni si fanno progressivamente sempre più piccole, fino a diventare capillari deputati
allo scambio di sostanze tra sangue e tessuti. Attraverso questi scambi vengono apportati alle
cellule elementi nutritivi ed ossigeno.

IPEREMIA
Il termine iperemia indica la presenza di un'eccessiva quantità di sangue all'interno dei vasi che irrorano
una determinata regione corporea; per questo motivo viene spesso seguito dall'aggettivo "locale".
Si riconoscono due diversi tipi di iperemia:

- l'iperemia attiva;
- l'iperemia passiva.

IPEREMIA ATTIVA
L'aumentato afflusso di sangue è il risultato di un rilassamento degli sfinteri precapillari e della dilatazione
della parete arteriolare.
IPEREMIA PASSIVA
L'iperemia passiva, invece, consegue all'impedimento del normale deflusso sanguigno, fenomeno tipico
dei processi infiammatori.

Nella maggior parte dei casi, l'iperemia rimane comunque un processo assolutamente fisiologico,
conseguente all'aumentata attività metabolica di un determinato organo (ad esempio
del muscolo quando si contrae durante uno sforzo, degli organi dell'apparato digerente dopo i pasti, o
del pene maschile durante l'erezione, fenomeno che inizia grazie ad una iperemia attiva e si mantiene
attraverso un'iperemia passiva).
Clinicamente, l'iperemia si manifesta come eritema. Quando, ad esempio, la parte del corpo colpito dalla
vasodilatazione è la congiuntiva, allora si parla di iperemia congiuntivale, che determina, in chi ne è colpito,
il cosiddetto "occhio rosso".

Abbiamo un altro tipo di iperemia, ovvero l’iperemia reattiva.

IPEREMIA REATTIVA
L'iperemia reattiva è l'aumento transitorio in organo del flusso sanguigno che si verifica a seguito di un
breve periodo di ischemia. Infatti, dopo l'evento ischemico vi sarà una carenza di ossigeno e un accumulo
di rifiuti metabolici.
L'iperemia reattiva spesso si verifica come conseguenza del fenomeno di Raynaud, dove
il vasospasmo della muscolatura dei vasi porta ad ischemia e necrosi del tessuto e quindi un conseguente
aumento del flusso sanguigno per rimuovere i prodotti di scarto e i detriti cellulari.

EMBOLIA
Un'embolia è un'interruzione del flusso sanguigno, dovuta alla presenza di un corpo estraneo mobile e
insolubile, come per esempio un coagulo di sangue, una bolla d'aria, un grumo di grasso o liquido
amniotico, un cristallo di colesterolo, un granulo di talco ecc. In medicina, qualunque corpo estraneo
mobile e insolubile, che interrompe il flusso di sangue lungo le arterie o le vene, prende il nome
di embolo. Gli emboli viaggiano attraverso l'ampia rete di arterie e vene del corpo umano, sfruttando la
circolazione sanguigna. Se possiedono grandi dimensioni, non possono raggiungere i vasi sanguigni di
piccolo-medio calibro; al contrario, se sono di dimensioni ridotte, possono incunearsi anche nelle arterie e
nelle vene più piccole. Un embolo rappresenta un ostacolo per il flusso di sangue, nel momento in cui si
incunea in un vaso sanguigno di dimensioni simili: in questi frangenti, infatti, non è più in grado di
continuare la sua corsa e agisce come un tappo. I fenomeni di embolia possono risultare letali per chi ne è
vittima, in quanto riducono o impediscono l'afflusso di sangue diretto a uno o più organi. Le conseguenze
più gravi e il maggior rischio di morte si hanno quando l'embolia interessa elementi anatomici vitali, come
il cervello, i polmoni o il cuore. Le più note embolie dal punto di vista clinico sono:

- l'ictus ischemico di tipo embolico;


- l'embolia polmonare;
- l'embolia coronarica.

Le appena citate condizioni di embolia presentano una propria sintomatologia tipica, che dipende dalla
sede in cui ha luogo l'interruzione sanguigna.

I fenomeni di embolia più comuni, come abbiamo appena detto, riguardano:


• I vasi arteriosi che riforniscono il cervello:
L'interruzione o la riduzione dell'afflusso di sangue a un distretto del cervello prende il generico
nome di ictus. Se l'ictus è dovuto alla presenza di un embolo, è denominato ictus ischemico di tipo
embolico.

• I vasi sanguigni che trasportano il sangue povero di ossigeno dal cuore ai polmoni (arterie
polmonari o loro diramazioni):
Quando un embolo ostruisce la pervietà delle arterie polmonari o delle loro diramazioni, i medici
parlano di embolia polmonare.
Si ricorda che la funzione delle arterie polmonari (e le loro diramazione) è trasportare il sangue
povero di ossigeno fino ai polmoni (precisamente agli alveoli polmonari), per caricarlo di ossigeno.

• I vasi sanguigni arteriosi che alimentano i tessuti del cuore (le cosiddette coronarie):
La condizione caratterizzata dall'ostruzione delle arterie coronarie, a causa di uno o più emboli,
prende il nome di embolia coronarica. Un'embolia coronarica può dar luogo a un attacco di cuore.

È tendenza alquanto diffusa confondere il fenomeno dell'embolia con il fenomeno della trombosi.
Se il termine embolia indica la presenza, nel sangue, di un corpo mobile non solubile, la parola trombosi fa
riferimento alla presenza stabile, sulla parete di un'arteria o una vena, di un coagulo di sangue, che
prende il nome specifico di trombo.
Se raggiunge determinate dimensioni, un trombo può ostacolare il flusso sanguigno al punto da privare del
sangue necessario gli organi e i tessuti, riforniti dal vaso interessato.
Come nel caso di un'embolia, le conseguenze di una trombosi possono essere anche letali per il soggetto
che ne è affetto.
La confusione tra trombosi ed embolia nasce dalla possibilità che dalla prima condizione insorga la seconda:
infatti, è possibile che un trombo si sfaldi dando origine a uno o più coaguli sanguigni mobili, in altre parole
a emboli.

TROMBOSI
Il termine trombo (da thrombos = grumo) indica la presenza di un coagulo di sangue che aderisce alle
pareti non lesionate dei vasi, siano essi arteriosi, venosi, capillari o coronarici (che provvedono
all'irrorazione sanguigna del cuore). La presenza di un trombo è una condizione potenzialmente grave,
poiché se raggiunge dimensioni significative può ostruire il lume del vaso e bloccarne il flusso. La
condizione peggiora ulteriormente quando i trombi vanno ad occludere grossi vasi arteriosi, privando di
ossigeno e nutrimento parti più o meno importanti di organi vitali, fino a causarne la necrosi
(ictus, infarto, gangrena dell'arto).
La coagulazione del sangue è un processo di importanza vitale ma che deve assolutamente rimanere in
equilibrio; se fosse scarsamente efficace causerebbe infatti eccessivi sanguinamenti, mentre un aumento
dell'attività emostatica porterebbe, appunto, alla formazione di trombi.
Abbiamo:

-TROMBOSI VENOSE
-TROMBOSI ARTERIOSE
TROMBOSI VENOSE
Le trombosi venose sono solitamente la conseguenza di uno o più dei seguenti fattori di rischio:
- traumi
- interventi chirurgici
- immobilità prolungata
- vene varicose
- infezioni
- lesioni delle pareti venose
- ipercoagulabilità
- stasi venosa
- malattie infettive
- ustioni
- tumori maligni
- età avanzata
- terapia con estrogeni
- obesità
- gravidanza e parto.

TROMBOSI ARTERIOSE
Le trombosi arteriose colpiscono generalmente arterie malate in corrispondenza di una lesione secondaria
ad aterosclerosi (malattia data dalla presenza di ateromi - formazioni ostruttive concettualmente simili ai
trombi, ma formate da elementi diversi come colesterolo, macrofagi, lipidi e cristalli di calcio -). Quando la
parete superficiale della placca aterosclerotica si rompe, si ha formazione di un coagulo, proprio come
succede quando ci procuriamo una ferita. All'interno dell'arteria i meccanismi della coagulazione danno così
origine ad una sostanza dura (trombo o coagulo) che può interrompere il flusso sanguigno determinando
un improvviso ingrossamento della placca. A causa della lesione potrebbe anche staccarsi un pezzetto
di ateroma che, trasportato in periferia dal sangue, andrebbe ad occludere vasi di dimensioni minori
(embolia).
I principali fattori di rischio per lo sviluppo di una trombosi arteriosa sono quindi di origine:

- genetica (familiarità per la patologia)

- individuale (età, sesso, vita sedentaria ed obesità, fumo, dieta ricca di colesterolo e grassi saturi, stress,
cattive abitudini alimentari e diabete).

L'iperlipidemia si associa ad un aumentato rischio di trombosi.

SHOCK
Lo shock è uno stato di ipoperfusione periferica, cioè di ridotta perfusione ematica e ridotto apporto di
ossigeno ai tessuti con conseguente progressiva disfunzione e successiva morte cellulare.
Dal punto di vista fisiopatologico il momento fondamentale è rappresentato dal ridotto apporto ematico
sistemico con inadeguato rilascio di ossigeno ai tessuti fino a perdita della normale funzione e morte
cellulare.
La ipoperfusione porta all’attivazione della cascata coagulativa e delle citochine, che, assieme al rilascio di
mediatori pro infiammatori quali Tumor Necrosis factor e Nitrossido Sintetasi, causano il progressivo
danno d’organo fino al drammatico quadro clinico di insufficienza multiorgano (MOF).

Shock cardiogeno
Lo shock cardiogeno è dovuto alla riduzione critica della gittata cardiaca secondaria ad un deficit primitivo
della attività di pompa del cuore o conseguente ad aritmie iper o ipocinetiche.
MALATTIE DEL MIOCARDIO E DEL PERICARDIO
MIOCARDITE
La miocardite è un’infiammazione del tessuto muscolare del cuore (miocardio) che provoca la morte del
tessuto.

La miocardite può essere causata da molti disturbi, compresi infezioni, tossine e farmaci che influenzano
il cuore, nonché patologie sistemiche come la sarcoidosi, ma spesso la causa è sconosciuta.

I sintomi possono variare e possono includere affaticamento, respiro affannoso, gonfiore (edema),
percezione del battito cardiaco (palpitazioni) e morte improvvisa.
L’infiammazione può diffondersi a tutto il muscolo cardiaco o rimanere confinata a una o poche zone. Se
l’infiammazione si estende al pericardio (il sacco flessibile a doppio strato che avvolge il cuore), si
sviluppa miopericardite. L’infiammazione che si diffonde in tutto il cuore può provocare insufficienza
cardiaca, aritmie e talvolta morte cardiaca improvvisa. L’infiammazione meno estesa è meno probabile
provochi insufficienza cardiaca, ma può comunque causare aritmie e morte cardiaca improvvisa. Il
coinvolgimento del pericardio determina dolore toracico e altri sintomi tipici della pericardite. Alcune
persone sono asintomatiche.

PERICARDITE
La pericardite è l'infiammazione del pericardio, ovvero quella membrana che avvolge, sostiene e protegge il
cuore. Le cause di questo disturbo sono diverse, talvolta non riconoscibili anche dopo una diagnosi
accurata.
Il classico sintomo della pericardite è il dolore toracico, che ricorda, per certi aspetti, il dolore da attacco di
cuore. Pertanto, sebbene l'infiammazione del pericardio non sia di per sé un episodio grave, richiede
comunque massima attenzione e sorveglianza.
Il dolore da pericardite insorge a seguito di un mutamento nella composizione del liquido pericardiaco.
Quest'ultimo, infatti, riempiendosi di cellule infiammatorie, pregiudica la sua funzione lubrificante e fa sì
che tra lo strato fibroso e quello sieroso si crei attrito e frizione; attrito e frizione, che si manifestano
appunto con la sensazione dolorosa.
Talvolta, inoltre, può capitare che il liquido aumenti di volume, esercitando in questo modo una pressione
dolorosa sul cuore. Questa situazione è nota anche col termine di versamento pericardico. Di solito,
all'origine del disturbo c'è un'infezione virale, ma non sono da escludersi infezioni batteriche, malattie
autoimmuni, tumori, insufficienza renale ecc.
Il dolore toracico da pericardite è improvviso, acuto e lancinante. Solitamente, lo si avverte dietro allo
sterno, sul lato sinistro. In certi casi, può diramarsi fino alla spalla destra e al collo.
Tossire, respirare profondamente, mangiare o sdraiarsi sono atti che acuiscono la sensazione dolorosa. Al
contrario, sedersi o piegarsi in avanti sono posizioni che producono sollievo.
Il dolore toracico da pericardite e quello da attacco di cuore sono molto simili, tanto che è impossibile
riconoscerli, se non con opportune indagini diagnostiche. Perciò, nonostante la pericardite non sia una
condizione patologica particolarmente grave (fatta eccezione per quelle forme sostenute da gravi
condizioni patologiche, come un tumore, un problema cardiaco ecc.), un dolore toracico come quello
appena descritto merita grande attenzione, sia da parte di chi ne è affetto sia da parte del medico.
CARDIOPATIA
ISCHEMICA
La cardiopatia ischemica include tutte le condizioni in cui si verifica un insufficiente apporto di sangue e di
ossigeno al muscolo cardiaco. La causa più frequente è l'aterosclerosi, caratterizzata dalla presenza di
placche ad elevato contenuto di colesterolo (ateromi) nelle arterie coronarie, capaci di ostruire o ridurre il
flusso di sangue. La cardiopatia ischemica presenta manifestazioni cliniche differenti quali l’angina pectoris
stabile e instabile e l’infarto del miocardio.

Il trattamento della cardiopatia ischemica è finalizzato a ripristinare il flusso di sangue diretto al muscolo
cardiaco:

• Nitrati (nitroglicerina): è una categoria di farmaci adoperata per favorire la vasodilatazione delle
coronarie, permettendo così un aumento del flusso di sangue verso il cuore.
• Aspirina: studi scientifici hanno appurato che l'aspirina riduce la probabilità di infarto. L'azione
antiaggregante di questo farmaco previene infatti la formazione di trombi. La stessa azione viene
svolta anche da altri farmaci antipiastrinici (ticlopidina, clopidogrel, prasugrel e ticagrelor), che
possono essere somministrati in alternativa o in associazione all’aspirina stessa, secondo le diverse
condizioni cliniche.
• Beta-bloccanti: rallentano il battito cardiaco e abbassano la pressione sanguigna contribuendo in
questo modo a ridurre il lavoro del cuore e quindi anche del suo fabbisogno di ossigeno.
• Statine: farmaci per il controllo del colesterolo che ne limitano la produzione e l'accumulo sulle pareti
delle arterie, rallentando lo sviluppo o la progressione dell’aterosclerosi.
• Calcio-antagonisti: hanno un'azione di vasodilazione sulle coronarie che consente di aumentare il
flusso di sangue verso il cuore.

In presenza di alcune forme di cardiopatia ischemica può rendersi necessaria la soluzione interventistica, che
include diverse opzioni:

• Angioplastica coronarica percutanea, un intervento che prevede l'inserimento nel lume della
coronaria, in corso di angiografia, di un piccolo pallone solitamente associato ad una struttura
metallica a maglie (stent), che viene gonfiato ed espanso in corrispondenza del restringimento
dell'arteria. Questa procedura migliora il flusso di sangue a valle, riducendo o eliminando i sintomi e
l’ischemia.
• Bypass coronarico, un intervento chirurgico che prevede il confezionamento di condotti vascolari (di
origine venosa o arteriosa) in grado di “bypassare” il punto di restringimento delle coronarie, facendo
pertanto comunicare direttamente la porzione a monte con quella a valle della stenosi. L’intervento
viene effettuato con diverse tecniche operatorie, con il paziente in anestesia generale e in molte
circostanze con il supporto della circolazione extra-corporea.
INFARTO
L'infarto è la morte o necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue
e ossigeno dalla circolazione arteriosa a loro dedicata. Quando un vaso arterioso non ha un buon flusso, o
non è in grado di aumentarlo in base alle esigenze del territorio che irrora, si manifesta l'ischemia dei tessuti
a valle del vaso e, qualora l'ischemia sia sufficientemente prolungata da provocare necrosi, l'infarto stesso.
Sebbene l’infarto possa manifestarsi in molti distretti dell’organismo umano, con questo termine si indica più
comunemente l’infarto cardiaco, che interessa il tessuto muscolare del cuore o miocardio, e l’infarto
cerebrale, chiamato comunemente ictus ischemico. Insieme, l’infarto cardiaco e cerebrale rappresentano
anche la più comune causa di morte dei paesi sviluppati. La necrosi del tessuto colpito da infarto, se l’evento
non ha avuto un esito fatale, viene riparata attraverso un processo di cicatrizzazione. In questo modo l’organo
interessato perde una parte della sua funzionalità. La causa più frequente di infarto cardiaco o cerebrale è
la malattia aterosclerotica delle arterie che portano il sangue a cuore e cervello.

INFARTO DEL MIOCARDIO

Il termine infarto del miocardio indica un processo di necrosi circoscritta causata da ischemia. L’area nella
quale il flusso ematico viene a mancare, o è così scarso da non poter mantenere le funzioni vitali delle cellule,
è detta zona infartuata o miocardio ischemico. L’infarto viene a verificarsi a causa di una condizione di
atereosclerosi o di spasmo locale di un’arteria coronarica. Vi sono delle cause minori legate all’infarto, che
possono essere: gravi e protratte ipotensioni, intossicazioni da CO o tachicardia prolungata.

L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico
rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato
da sintomi tipici. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:

• Lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità
fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi
• L’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo
• Le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali
• L’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale
per la circolazione del sangue.
• L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo
avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono
essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi
nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca
coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e
l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.

• In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume
e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica
(dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e
predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione
meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in
assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.

• L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è
l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato
adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto
cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le
complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione
ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.

• I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere
profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica
del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si
può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di
colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del
destro) e allo stomaco.

• Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima
di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al
petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina
pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare
necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un
vero e proprio infarto.

• L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono
la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma
l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire
una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere
riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto
nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza

• Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del
miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non
determina necessariamente l’arresto cardiaco.

• L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di
sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di
un elettrocardiogramma.

• Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune
sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco
che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo
l’evento.

L’entità dell’evento necrotico può essere di diversa severità:

- Infarto transmurale: interessa l’intero spessore della parete miocardica;


- Infarto subendocardico: la necrosi che si ha nel punto più distale (meno ossigenata) ovvero la regione
subendocardica in cui l’irrorazione avviene ad opera di vasi di piccolo calibro lontani dai grossi vasi; è la
zona in cui si verifica a volte un danno ischemico distale che man mano si diffonde lungo la parete: si avrà
un evento trombotico che si diffonde (la zona meno ossigenata dai vasi di calibro maggiore è quella più
esposta agli eventi ischemici ad esito necrotico).

Cosa avviene dopo l’occlusione di un’arteria coronarica? Quando c’è un blocco o un’ostruzione dell’arteria
coronarica ne risente soprattutto la zona più distante del deficit dell’apporto ematico; nell’arco di 2-24h la
zona infartuale necrotica si espande progressivamente dall’endocardio (in cui arrivano meno flusso e meno
ossigeno) verso l’intera parete. La prima cosa che si ha è un deficit contrattile, già a 10 minuti la cellula
miocardica perde il 50% del suo contenuto e dopo circa 40 minuti vi è solo il 10% della quantità di ATP
originale. Vi è perciò un danno irreversibile, viene meno il metabolismo ossidativo. Un’insufficienza
ischemica cronica si ha proprio perché nel sito infartuato si trova un tessuto non più funzionale quindi vi è
un’alterazione della condizione bioelettrica, lo stimolo contrattile non ha la stessa risposta che ha nel
tessuto normale e questo comporta delle complicazioni dell’infarto legate alle alterazioni della contrattilità
cardiaca dovuta alla diffusa presenza di zone ischemiche che poi se sono microinfartuali sono anche
fibrotiche e quindi non funzionali.

Il soggetto infartuato ha dolore: trafittivo, costrittivo, oppressivo, intenso, irradiazione, duraturo, inoltre,
il soggetto ha dispnea (irregolarità nella sequenza degli atti respiratori), polso rapido e debole, aritmie
(irregolarità nella successione delle fasi del ciclo cardiaco), palpitazione, sudorazione “fredda”, nausea e
vomito.

Nel 10-15% dei casi, l’infarto è asintomatico.

La diagnosi si effettua attraverso:


- Esame obiettivo;
- ECG;
- Valutazione laboratoristica basata sulla quantizzazione di marcatori sierici di necrosi miocardica;
Quest’ultima si effettua attraverso la valutazione di alcuni parametri enzimatici di cui alcuni informano in
maniera più specifica rispetto ad altri dell’avvenuto evento necrotico. Nella valutazione di questi enzimi
bisogna riferirsi a CPK (creatin fosfo-chinasi), presente nel 3% dei livelli circolanti; è costituito da due dimeri
(M e B): il dimero MM si trova soprattutto nel muscolo scheletrico, il dimero BB si trova nell’encefalo
mentre l’eterodimero MB si trova nel miocardio e in parte anche nel muscolo scheletrico. La mancanza di
un livello sierico di CPK di tipo MB durante i primi due giorni dell’esordio del dolore toracico esclude la
diagnosi di infarto miocardico, invece, l’isoforma MB facilita una diagnosi precoce e specifica. - LDH (dopo
7-9h e persiste più a lungo nel siero rispetto a CPK): è meno specifico di CPK, viene rilasciata dai miociti
cardiaci dopo il danno. - Troponine TnI/TnT (più importanti): si trovano all’interno dei filamenti sottili dei
sarcomeri, sono proteine che regolano la contrazione calcio-mediata nel cuore e nel muscolo scheletrico.
TnI e Tnt sono subunità legate al calcio, TnT è una subunità di troponina con un residuo N-terminale di circa
11 aa mentre TnI ha un residuo N-terminale di 32 aa sul muscolo cardiaco e di solito inibisce l’attività
ATPasica della miosina, presenta un picco entro 4-12h dall’insorgenza e può durare fino a 5-7 giorni nel
sangue circolante. - SGOT, SGPT: sono enzimi che non hanno specificità, hanno una componente di
derivazione epatica che interferisce

ARRESTO CARDIACO
In caso di arresto cardiaco avviene la cessazione dell’attività elettrica cardiaca, per cui il cuore si ferma con
conseguente perdita di coscienza e cessazione delle altre funzioni vitali, inclusa la respirazione.

Il soccorso rianimatorio deve essere immediato: un intervento tempestivo può evitare l’instaurarsi di
danni permanenti al cervello, agli altri organi vitali e la morte del paziente.

L’arresto cardiaco può essere causato sia da un’aritmia sia da un infarto in cui il danno tissutale è
particolarmente esteso, ma anche da scompenso cardiaco terminale, tamponamento cardiaco (dunque
incidenti che coinvolgono la zona toracica), grave miocardite e insufficienza respiratoria. Un paziente
soggetto ad arresto cardiaco perde immediatamente conoscenza, smette di respirare in autonomia e può
perdere il controllo degli sfinteri.

Prima dell’arresto cardiaco vero e proprio possono manifestarsi sintomi correlati alla causa sottostante:
dolore toracico se causa dell’arresto è un infarto, palpitazioni se la causa è una tachi-aritmia, difficoltà
respiratoria se la causa è l’insufficienza respiratoria.

L’arresto cardiaco comporta l’immediata necessità di supportare gli organi vitali e di fare ripartire il cuore.
Bisogna dunque effettuare la rianimazione cardiopolmonare, che prevede l’applicazione di un protocollo
con una sequenza di compressioni al torace e respirazione bocca a bocca e, se possibile e indicato,
effettuare la fibrillazione per fare cessare l’aritmia e fare riprendere l’attività al cuore.

INSUFFICIENZA O SCOMPENSO CARDIACO


L’insufficienza cardiaca o scompenso cardiaco è una condizione per cui il cuore non riesce a pompare
sangue in quantità sufficiente da soddisfare le esigenze dell’organismo.
L’insufficienza cardiaca non si manifesta all’improvviso ma si sviluppa lentamente, spesso nell’arco di anni:
Scompenso Cronico.
Il cuore perde gradualmente la sua capacità di pompa e ciò determina il grado di scompenso cardiaco.
Esistono tuttavia, anche manifestazioni acute della Insufficienza cardiaca, ed in generale ci sono due tipi di
scompenso cardiaco:

• lo scompenso cardiaco sistolico, che compare quando la capacità contrattile diminuisce e il cuore
non riesce più a pompare con una forza sufficiente a spingere il sangue nelle arterie;

• lo scompenso cardiaco diastolico, che compare quando il cuore ha un difetto nel rilasciamento e
oppone una resistenza al riempimento di sangue perché è diventato più rigido.

Sia l’Insufficienza cardiaca acuta che quello cronica sono associate ad una elevata mortalità e al rischio di
andare incontro a frequenti ospedalizzazioni ed inoltre ha un effetto negativo sulla qualità della vita.

L’insufficienza cardiaca si accompagna a sintomi caratteristici:

• dispnea, cioè difficoltà a respirare (mancanza di fiato);


• ortopnea difficoltà a respirare quando si è distesi;
• tosse frequente, soprattutto se distesi;
• gonfiore (edema) di piedi, caviglie e gambe;
• debolezza generale, affaticamento o stanchezza;
• aumento di peso inspiegabile;
• perdita di appetito;
• riduzione della quantità di urine di giorno, aumento di notte;
• senso di ripienezza o tensione addominale.

Lo scompenso cardiaco o insufficienza cardiaca è a sua volta la manifestazione di un problema sottostante.


Può dipendere da varie cause:

• infarto miocardico;
• malattia delle arterie coronarie, cioè il restringimento dei vasi sanguigni che nutrono il cuore;
• cardiomiopatia, malattia del muscolo cardiaco;
• malattie delle valvole cardiache;
• fibrillazione atriale, alterazioni del ritmo cardiaco;
• utilizzo di sostanze tossiche, incluso l’eccesso di alcool o l’abuso di droghe;
• difetti del cuore presenti alla nascita (cardiopatie congenite);
• infezioni del muscolo cardiaco.

ANGINA
L’angina è una ischemia miocardica transitoria e reversibile caratterizzata da attacchi parossistici (estremi)
di dolore toracico. Il dolore può essere accompagnato da senso di oppressione o costrizione. Ha
generalmente sede retrosternale ma spesso si irradia anche:

- alla spalla
- al braccio sinistro fino alle dita;
- alla gola;
- alla schiena;
- alla mandibola;
- ai denti;
- al braccio destro;

Frequentemente si associano: mancanza di respiro, sudorazione e pallore improvviso. Il tipico dolore


anginoso è transitorio di durata variabile dai 3 ai 15 minuti. Il dolore peggiora quando lo sforzo è compiuto
dopo un pasto, è più intenso se fa freddo. In alcuni casi il dolore può insorgere a riposo quando il soggetto è
in pieno rilassamento psico-fisico. Il dolore anginoso si deve al fatto che il miocardio non riceve abbastanza
ossigeno e/o nutrienti e le cellule iniziano a lavorare utilizzando le proprie riserve energetiche. I prodotti
rilasciati da questo tipo di metabolismo (es: Acido lattico) si accumulano e causano dolore. Alla base del
fenomeno c’è un circolo coronarico alterato generalmente per l’aterosclerosi, in casi più rari da embolo o
da spasmo della parete delle coronarie.

Classificazione dell’angina:

∙Angina stabile;
∙Angina variante di Prinzmtal;
∙Angina instabile;

Angina Stabile
Denominata anche Angina Pectoris tipica, è la forma più frequente. Si ha dunque un’aterosclerosi
coronarica cronica stenosante, responsabile della riduzione della perfusione. Viene definita fibrosa in
quanto si può avere una guaina fibrosa determinata dalle cellule muscolari dedifferenziate, che può essere
ben spessa e fornire una certa stabilità. Questa guaina riduce in parte il lume cellulare e di conseguenza
riduce il flusso ematico. In tali condizioni il dolore compare in corso di attività fisica perché l’individuo è
chiamato a sopperire ad un’attività funzionale di maggiore entità e recede con il riposo o con la
somministrazione di nitroglicerina. Nei pazienti affetti da angina stabile spesso esiste una precisa soglia del
dolore. L’evoluzione verso l’infarto non è frequente.
Angina variante
In cui la componente vasospastica è quella prevalente. Vi è un vasospasmo coronarico cioè il
restringimento delle coronarie, per cui il calibro si riduce e la quantità di sangue che giunge al cuore diventa
insufficiente anche a riposo. I pazienti presentano crisi anginose di notevole intensità e durata che possono
insorgere anche a riposo, spesso nelle ore notturne e che hanno notevole intensità e durata variabile. I
pazienti rispondono bene a Nitroglicerina e ai bloccanti dei canali al calcio. Nel 10% dei casi si ha morte per
infarto.

Angina instabile
Può appartenere alla lesione ateromasica di VI livello. Presenta fessurazione, ulcerazione o rottura di una
placca aterosclerotica con sovrapposizione di una trombosi parietale e possibile embolizzazione o
vasospasmo (o entrambi. I pazienti accusano attacchi di dolore più frequenti e percepiti in seguito a sforzi
di entità sempre minori, che spesso insorgono a riposo e tendono ad avere durata maggiore. Richiede
ricovero urgente in Ospedale e vi è un’alta probabilità di infarto del miocardio nel giro di tre mesi. Spesso ai
pazienti vengono somministrate eparina o acetilsalicilico per ridurre il rischio di infarto.

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