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GIORGIO RENATO FRANCI – L’ INDUISMO (Basi per comprendere l’induismo) ॐ

Il termine India è usato nel libro usato nel senso geografico di regione fisica e antropica (Asia Meridionale).

PREMESSA

Una realtà complessa → Spesso affermiamo che gli indiani sono per la maggioranza induisti ed è vero, perché
la statistica della Repubblica indiana ci segnala che gli induisti sono l’80% della popolazione. Da quando il
Pakistan si separa dall’India, l’induismo ha assunto una posizione di maggioranza in questo paese multietnico e
multireligioso. Dire che l’induismo è la religione della grande maggioranza degli indiani non è corretto, perché
di induismo come religione si può parlare mettendo le mani avanti ammettendo il peccato di genericità, perché
innanzi tutto l’induismo non è una religione fondata cioè non deve la sua origine alla figura reale o mitica di un
essere umano o divino e contrariamente alle grandi religioni fondate non ha un contenuto dottrinale, anche
solo nelle intenzioni, unitario. Non ci sono dogmi e non esiste una chiesa che ne sia garante. Coesistono posizioni
diverse, e quando si pensa di aver trovato un elemento unificante ne salta fuori un altro che smentisce questa
illusione. Non è necessario credere in un dio o in più dei per essere induisti: si può esserlo anche essendo atei.
La base è credere alla verità dei testi sacri delle origini: il Veda, con contenuto eterogeneo e generico, dalla
conoscenza del quale le classi inferiori (enormi masse di induisti) sono escluse, e molti grandi maestri se ne sono
discostati. Vari studiosi tuttavia hanno posto in rilievo il peso dell’ordinamento della società in caste fino a farne
l’elemento essenziale. Anche in questo c’è del vero ma la tendenza a organizzarsi in gruppi ereditari chiusi su
scala gerarchica è tipica della società indiana in generale dato che coinvolge anche gli appartenenti ad altre
religioni e non solo gli induisti. Vari induisti si dichiarano estranei o anche contrari al sistema delle caste, con
atteggiamenti indifferenti o contrari, presenti da secoli nella tradizione del bhakti (devozione amorosa per un
Dio). Si dice che l’induismo sia la religione degli indiani che non si sono convertiti ad altra religione o che non
discendono da indiani convertiti ad altro (definizione per esclusione, non sbagliata) ma non ci dice molto.
Induisti colti definiscono l’induismo un modo di vivere. Questa definizione è la strada migliore per comprendere
cosa sia l’induismo, a discapito della nostra cultura occidentale in cui la religione è legata ai valori e ai modi di
pensiero per poter funzionare senza intoppi. L’induismo più che una religione è una cultura in senso
antropologico cioè un insieme di tradizioni, usi, valori, credenze trasmesse e accresciute di generazione in
generazione fra le genti indiane che per scelta personale o educazione familiare non hanno aderito ad altre
tradizioni spirituali.

L’induismo visto dagli induisti. Il nome ‘’India’’ è di origine straniera, e i primi popoli ad entrarvi in contatto
furono i loro confratelli iranici (Iran) con cui avevano antenati preistorici comuni; furono loro a chiamarli così
perché la loro terra era attraversata dal fiume Indo (sindhu), nome che poi ha trovato diffusione anche in
Occidente. Induismo deriva da hindu (termine di origine persiana) usato per indicare gli indiani non convertiti a
religioni differenti e all’islamismo. Gli induisti preferiscono parlare di sanaatana dharma.

- Sanatana: duraturo, perenne


- Dharma: non sussiste un equivalente singolo nella nostra cultura, dove distinguiamo fra religione,
moralità, diritto, legge, doveri. Dharma è tutto questo, un insieme in cui, a seconda delle singole
situazioni ai nostri occhi balzano in primo piano l’aspetto giuridico, la moralità individuale o di gruppo.
Ma si tratta di una realtà non divisa.

Per gli hindu tradizionalisti l’induismo è una realtà immutabile, definibile come ‘’ legge eterna del mondo ’’ cioè
l’insieme delle verità spirituali che sovrasta come principio di ordine supremo, il fluire del tempo. Per gli indiani
il tempo è un divenire ciclico senza principio e senza fine, in cui il sanatana dharma sta come una pietra miliare
immobile. Questo modo di intendere l’induismo non è in accordo con i risultati conseguiti dalla scienza
indologica. Tanti decenni di ricerche e riflessioni ci portano a vedere l’induismo come una realtà storica
imponente, multiforme e articolata nel tempo e nello spazio.

I tempi e lo spazio. Nel corso del tempo l’induismo si è arricchito di nuove forme ma senza superare quelle
antiche. Non c’è stata una rivoluzione che ha portato al cambiamento religioso epocale come è avvenuto per il

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Cristianesimo o l’Islam ma qui abbiamo la coesistenza di tendenze tenacemente conservatrici e spinte verso
l’innovazione (nuove idee, dottrine, culti) quindi la conservazione è più di forma che di sostanza: si può avere
devozione per il passato e attribuirgli significati che originariamente gli erano estranei, reinterpretandolo col
mutare del contesto storico tuttavia la sua natura e posizione possono essere solo esteriormente immutate. Tra
innovazione inconsapevolmente travestita da interpretazione fedele e rari casi di rinnovamento, tra ascesa di
nuovi culti e declino di altri, l’induismo ci appare come un grande bricolage che non butta via niente ma conserva
e ricicla secondo nuove necessità. Oltre che nel tempo si diversifica nello spazio: a un induismo che, a motivo
del prestigio e del potere delle classi che se ne sono fatte portatrici si chiama ‘’alto’’ o per sua estensione lungo
il paese (panindiano) meglio documentato dalle fonti letterarie classiche, si affiancano tradizioni regionali
divergenti anche fra di loro. L’induismo è un insieme di forze in varia tensione. È merito della cultura indiana e
dell’induismo se queste tensioni e i contrasti ideologici non hanno impedito, almeno fino a tempi recenti la
tolleranza e il rispetto nei rapporti interconfessionali dando vita a un laboratorio sperimentale di coesistenza e
dialogo sul piano dottrinale e rituale. Eterogenee e numerose sono le forze concorrenti e presenti sul campo:
gruppi di seguaci di qualche maestro, pellegrini, ritualisti, per i quali la corretta esecuzione del sacrificio è tutto
e mistici appassionati. Non violenti e seguaci di una sacralità violenta fino al sacrificio umano, saggi distaccati,
asceti casti e asceti orgiasti. Le varie forme e correnti dell’induismo si sono diffuse nei modi più vari con grande
forza dinamica grazie anche alla predicazione di maestri itineranti o mediante conversione da una corrente
spirituale all’altra. Si sono propagate attraverso feste, pellegrinaggi, mezzi di comunicazione di massa, canti,
danze, discussioni, insegnamenti dei filosofi etc.

1- IL ‘’DHARMA’’ SENZA TEMPO E NEL TEMPO

Proprio per questi suoi caratteri è necessario prestare attenzione alle differenziazioni dell’induismo nel tempo
partendo dalle fasi più antiche, anche se potrebbero apparire troppo lontane per avere effettiva influenza.

Un’alba dimenticata → il subcontinente indiano è stato abitato sin dai tempi più antichi. Sulla base di reperti di
cultura materiale possiamo ipotizzare in modo generico le condizioni di vita ma è difficile definire sulla base di
reperti ossei, le idee, le credenze e i valori allora predominanti. Gli specialisti concordano nella probabilità che
ci fossero rapporti spirituali con cose ritenute sacre. Davanti alla più grande manifestazione della protostoria, la
cosiddetta cultura dell’Indo (Harappàa o Mohenjo-daro) si dissolvono le incertezze: è una grande civiltà urbana
scoperta negli anni 20 del nostro secolo, fiorita fra il 2500 e il 1800 a.C. per poi decadere a causa del clima.
All’inizio questa civiltà si estendeva su una vasta area con numerosi centri cittadini edificati secondo il modello
delle città più importanti con strade che si incontravano ad angolo retto, costruzioni in mattoni, facendo
pensare all’esistenza di un gruppo dirigente (forse di sacerdoti) preposto al suo controllo. Sulla lingua usata
sappiamo ancora molto poco, quindi dobbiamo basarci su testimonianze materiali come il grande bagno di
Mohenjo-daro usato forse per abitudini rituali a scopo purificatorio o le raffigurazioni di personaggi femminili
associati ad animali fecondi. Due immagini meritano segnalazione:

- uomo con la barba (cosa insolita) che indossa un abito decorato con una fantasia a trifogli, tiene gli
occhi socchiusi come tipico dei seguaci dello yoga: siamo di fronte alla prima immagine di meditante
della storia.
- Un sigillo rappresenta uno strano personaggio circondato da animali, vere e proprie fiere. Siede con le
gambe aperte e con le ginocchia volte all’esterno in direzione opposta e i calcagni che si toccano (un
modo di sedere non facile) e forse ha tre facce. Porta uno strano copricapo costituito da due mezzelune
che hanno una parte comune al centro. Rimane tranquillo in mezzo ad elefanti e tigri e il suo modo
insolito di sedere fa pensare che sia una raffigurazione arcaica del dio induista Sìva considerato un
grande cultore, anzi il signore dello Yoga. Egli è chiamato anche Pasupati cioè ‘’signore degli animali’’
(pasu: animale domestico) e questo epiteto significa che è il signore delle anime ancora legate
all’ignoranza e al peccato. Sembra di sesso maschile ad alcuni, ad altri neutro, ad altri un toro.

La civiltà implose su sé stessa per ragioni incerte tutt’ora. Quando giunsero in India le genti cui è attribuito il
Veda, la sua decadenza era già avvenuta.

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La confluenza dei fiumi: àrya e non àrya → l’induismo è come un grande fiume nato dalla confluenza di fiumi
minori di diversa origine. Fra le sue componenti non vanno dimenticate quelle di origine straniera, di cui spesso
è difficile valutare l’importanza. Gli stranieri sono generalmente considerati barbari (mleccha o barbara) impuri
rispetto alla società induistica, ma la storia dev’essere stata più complessa permettendo a più riprese
l’inserimento nell’induismo di popoli esterni: tra gli antenati dei guerrieri ràjpùt dal leggendario valore figurano
persino gli invasori unni. Le idee si mescolano più rapidamente degli uomini grazie ai rapporti commerciali e ai
viaggi. L’induismo è un processo di sintesi sempre in fieri. Gli indiani che avevano scarso interesse per la storia
precisa dei singoli avvenimenti hanno dimenticato l’origine extra-indiana e la storia remota di coloro che si
definivano àrya (nobili, nel senso di ospitali), mentre gli altri erano i non àrya, chiaramente disistimati. Ma chi
erano gli àrya? Nell’800 si è potuta ricostruire meglio la famiglia linguistica Indoeuropea che prima dell’epoca
delle scoperte geografiche che l’avrebbero portata in tutto il mondo si estendeva dall’India e dall’Asia in Oriente,
fino alla Islanda e alla Groenlandia. Il passo dal riconoscimento della parentela linguistica all’ipotesi di una
parentela etnica era logico. Si delinea il quadro di popoli indoeuropei che dalla patria originale (Russia
mediorientale) si diffondono grazie a una forte superiorità militare fino alle sedi in cui sono attestati fin dai
tempi storici. Mettendo a confronto gli elementi comuni o paragonabili nella fase arcaica delle lingue più antiche
si sono individuati i tratti principali della cultura indoeuropea, la vita sociale, le idee, i riti. Tra le lingue
indoeuropee antiche quelle degli indiani e degli iranici sono strettamente legate. Un’identificazione etnica di
coloro che le parlavano (gli arya) appare legittima in ragione dei documenti più antichi: i testi del Veda sono
composti con una lingua imparentata con lingue indoeuropee extraindiane. Una notevole massa di dati
consente di cogliere elementi delle concezioni indoeuropee:

- Idea del divino come realtà celeste: la sua massima manifestazione è rappresentata dal cielo luminoso
sentito come sovrana potenza paterna
- Linguaggio poetico-sacrale: pantheon indoeuropeo esprime un’ideologia di trasposizione verso il cielo
di una tripartizione della società: il sacerdozio e la regalità sacro-magica, la funzione guerriera, quella
produttiva di beni (ricchezza, fortuna).

Da queste origini la cultura indiana arcaica ha tratto semi importantissimi. Dopo la separazione dagli altri popoli
indoeuropei, gli antenati di indiani e iranici devono aver trascorso un lungo periodo insieme, perché troviamo
una certa qual continuità fra lingua, rituali, miti. Il mondo iranico fu poi permeato dalla predicazione di
Zarathustra che introdusse un rovesciamento di rapporti per cui gli dei (deva) decaddero a esseri demoniaci.

I primi testi → l’induismo si basa sul Veda (‘’sapere’’), un corpus articolato di testi, connesso con la ‘’visione’’ e
che rappresenta la scienza sacra, di origine non umana. Si tratta di una vasta produzione letteraria orale e
tramandata oralmente per più millenni, attraverso una catena di maestri e discepoli che si facevano a loro volta
maestri con dedizione e fedeltà incomparabili. Non sappiamo se all’epoca la scrittura fosse ignota, ma la
trasmissione orale ha continuato ha continuato anche dopo l’avvento della scrittura, perché garantisce meglio
la riservatezza del messaggio. Il Veda è appannaggio esclusivo delle classi alte, soprattutto dei sacerdoti. Il Veda
consta di 4 sottocorpora che rappresentano il sapere di altrettante categorie sacerdotali:

- Scienza degli inni (Rgveda)


- Scienza dei canti (Samaveda)
- Scienza delle formule sacrificali (Yajurveda)
- Scienza dei maghi e degli stregoni (Atharvaveda) →

Si usava parlare di triplice scienza (trayi vidya) perché il riconoscimento dell’Atharvaveda deve essere stato più
tardo a causa dei suoi contenuti e del livello meno raffinato. Ciascuno di questi gruppi di testi è ordinato in 4
diversi livelli, cronologicamente successivi: le raccolte di base (Samhita), i testi brahmanici (Brahmana),ilibri
silvestri (Aranyaka) così detti perché destinati ad una recitazione fuori dall’abitato, perché utilizzati da asceti
usciti dal consorzio sociale o perché la loro grande potenza sacra ne sconsigliava la recitazione tra la gente e
infine le Upanisad (sessioni) che contengono tra materiali eterogenei, dottrine di straordinaria importanza ma
anche resoconti di discussioni, trasmessi con un insegnamento riservato a discepoli selezionati.

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Un corpus di questo genere non è stato composto in breve tempo, e neppure raccolto in tempi corti. Gli inni
più antichi della prima raccolta hanno accompagnato probabilmente gli arya al loro ingresso in India,
costituendone il sapere tradizionale: non era poesia spontanea ma scienza trasmessa e difesa gelosamente. Si
pensa che questa raccolta sia la più importante in quanto base per gli adattamenti musicali del Samaveda e per
lo Yajurveda, e viene fatta risalire alla II metà del 2 millennio a.C.

I Brahmana si occupano del rituale ma presentano anche miti cosmogonici e leggende, la dottrina del sacrificio
e della sua forza suprema, cui corrisponde sul piano sociale l’affermazione, non senza contrasti, della potente
classe di specialisti del sacro, verso i quali la comunità doveva la garanzia della sicurezza e della prosperità. La
parte finale di un Brahmana può essere costituita da un Aranyaka a sua volta completato da un’Upanisad. Le
Upanisad hanno contenuto metafisico, filosofico e sono sezione conoscitiva più che rituale, del Veda. Sono un
genere letterario ancora non del tutto estinto. Quelle canoniche sono 108 ma le vediche, del primo millennio
a.C. sono 14. Con le Upanisad si conclude la rivelazione vedica cioè un insieme di testi che visti dai veggenti (rsi)
ma non attribuibili a opera umana in quanto superiori, sono stati continuamente trasmessi da un maestro a
discepoli in ascolto (sruti: rivelazione). La tradizione considera questi testi infallibili e concordi, anche se fornisce
interpretazioni differenti che non stanno solo nella mente degli interpreti ma nei testi stessi. Si collegano al
Veda ma non fanno parte della sruti ma della tradizione autorevole. I Vedanga (le membra accessorie del Veda)
sono testi di integrazione specialistici e primo avvio delle scienze indiane, per la corretta esecuzione testuale e
rituale.

La fase vedica → soprattutto il Rgveda ci fa conoscere un ricco pantheon. Il mondo divino non è strutturato
secondo modalità analoghe alla religione greca dove prevale una visione dicasteriale. Gli dei vedici non solo si
sovrappongono nelle loro funzioni ma possono essere oggetto e agenti di assimilazione. Fra tutte le divinità,
quella a cui è rivolto il maggior numero di inni è Indra, poi Agni.

- Indra è il dio nazionale, un gigante fulvo, giovane, forte e audace e dalla parvenza ubriaca, armato di un
martello è benevolo ma ostile alle popolazioni indigene, quindi viene celebrato come distruttore delle
loro città. Attorno a lui un grumo di miti relativi alla liberazione delle vacche e all’uccisione del demone
Vrta (demone della siccità). Indra è il dio del temporale e del fulmine e le sue imprese simboleggiano la
vittoria primordiale del cosmo sul caos.
- Agni è fuoco e dio del fuoco, multiforme: fuoco sacrificale, intermediario fra uomini e dei, prototipo
celeste del sacerdote, dio atmosferico, ecc. ma anche fuoco che nasce dalle acque. Se ne descrivono la
chioma bionda, le molte lingue, le differenti origini.
- Varuna sorveglia dall’alto del cielo con i suoi numerosi occhi (le stelle) quello che accade sulla Terra. Chi
non rispetta le sue leggi è affetto dall’idropisia. Chi, ignaro di colpa, sa di esservi incorso, è punito col
ventre che scoppia.
- Mitra (Amico) è l’aspetto chiaro e luminoso della potenza celeste. Le leggi dei sovrani del cielo e ogni
altra legge e comportamento vanno inquadrate nell’ordine cosmico più alto: rta
- Usas è una dea femminile, l’Aurora, apprezzata dopo le tenebre della notte.
- Vayu è il dio del vento, Parjanya dea della pioggia, Yama primo uomo che ha trovato la via della morte
ed è diventato in una lontana regione sperduta il sovrano del regno dei morti.
- Rudra ha un aspetto minaccioso, divinizzazione del tifone, dio distruttore, blandito con l’epiteto di Siva
(benevolo) che compare accanto ad un dio minore, ma che nel periodo postvedico sarà il nome del Dio
Sommo
- Visnu amichevole dio alleato di Indra ma destinato come Siva ad un grandissimo futuro

Spesso gli dei compaiono a gruppi come i Marut (compagni di Indra), Aditya (figli di Aditi, fra cui compare Visnu).
Tutto può essere divino: ci sono inni rivolti a piante, a un carro, etc. soprattutto è celebrata la bevanda sacra,
detta soma identificata con la luna perché di colore giallo, ma non sappiamo ancora oggi da quale pianta derivi.
Qualcuno ha pensato si trattasse di un fungo tossico ma non mortale (amanita muscaria) mangiato da un
maestro (il cui corpo fece da filtro) che emise urina sacra che se ingerita avrebbe causato fenomeni psichici
speciali. L’offerta del soma (corrispondente iranico haoma) può essere stato tratto da piante differenti nel corso

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del tempo, ma rimane il fatto che è centrale nel vedismo. Il sacrificio, cruento e non cruento, è il centro
dell’esperienza spirituale dell’uomo vedico: sacrificio solenne, celebrato con grande pompa e con la
partecipazione di numerosi sacerdoti e anche sacrificio domestico, compiuto senza necessità del sacerdote nella
famiglia. Accanto al sacrificio, lo scongiuro, l’incantesimo, la fattura magica come ci attesta l’Atharvaveda.

Nell’ultimo libro del Rgveda un inno pone il problema di chi sia il dio signore e origine del tutto al quale rendere
omaggio con offerte. Un altro inno ci porta a pensare che all’origine non esistesse proprio niente, né di animato
né di inanimato. Un altro inno celebra il sacrificio di un uomo primordiale, che aveva mille teste, mille occhi e
mille piedi, e dal suo smembramento nascono gli uccelli, le raccolte vediche, i cavalli, i bovini, le capre, le pecore,
la luna, il sole, le direzioni dello spazio, le suddivisioni fondamentali della società: dalla bocca i sacerdoti, dalle
braccia i nobili guerrieri, dai fianchi gli uomini dediti ad attività produttive, dai piedi i servi. Si consacra così la
disuguaglianza sociale come espressione di un ordine immutabile, mentre su un piano più alto un rapporto
diretto uomo-cosmo simile a certe concezioni occidentali, ma inverso: c’è l’idea in India di un universo-grande
uomo, dove l’uomo si può estendere all’infinito. Si usa classificare il contenuto del Brahmana in nome e
spiegazioni: ci sono opinioni teologiche, etimologie più o meno fantasiose ma importanti perché ritenute vere
(storia del diluvio, storia dell’eroina Sakuntala). I Brahmana si incentrano sulla dottrina del sacrificio come
origine e forza suprema dell’universo, anche se in essi compare, come dio cosmogonico Prajapati (signore della
progenie), mentre gli altri dei perdono importanza. Questo processo che caratterizza la seconda fase
dell’induismo (Brahmanesimo) è importante perché diventa centrale la figura del dio Prajapati identificato con
il Brahman.

Gli Aranyaka continuano lo stile del Brahmana lungo un’interiorizzazione meditativa del sacrificio.

È difficile ricostruire con sicurezza le fasi della storia spirituale indiana più antica, al di là di questi libri preziosi
infatti c’è stato sicuramente altro: persone che preferivano approfondire interessi più meditativi rivolgendo la
loro attenzione al respiro come forza vitale del singolo e dell’universo e anche nel senso di ‘’spirito’’ (atman) di
ciascun essere:

- Respiro come soffio vitale → prana


- Respiro come spirito, come ‘’io’’ di ciascuno → atman

Nelle Upanisad respiro brahman e atman si identificano. Questa tendenza all’unità è presente in nuce
nell’affermazione rgvedica secondo la quale ‘’ ciò che è uno, i sacerdoti lo esprimono in molti modi’’. Nella
galassia upanisadica di idee molteplici e varie compaiono diverse dottrine, da quelle dello yoga (come insieme
di pratiche psico-fisiche tese a controllare ciò che in noi non è spirito), della bhakti (devozione amorosa alla
divinità). Altrettanto importanti:

- dottrina del samsara → l’idea che la vita di tutti e del tutto è un divenire continuo nel quale a chiunque
può venire a trovarsi in qualsiasi stato dell’essere in un divenire infinito.
- dottrina del karman → secondo la quale la rinascita non è casuale ma dipende dal frutto delle opere
compiute.

Dalle imperfezioni e dai dolori del samsara ci si può liberare, ponendosi al punto di identificazione del brahman-
atman. Il tutto è espresso in modi di grande equilibrio ma non mancano differenze individuali nei
comportamenti sia nelle dottrine.

L’induismo postvedico → Le Upanisad, con l’apertura degli interessi e delle prospettive dei loro maestri non
sintetizzano il pensiero indiano dall’8 al 5 secolo: un periodo che rientra in quell’età fondante, di straordinari
rivolgimenti e personalità creative che viene chiamato dal filosofo Jaspers periodo assiale. Da un insieme
complesso di testimonianze possiamo ricostruire il quadro di un’epoca di crisi politica e sociale con forti
trasformazioni anche al livello statuale, con incertezze di vita e fughe dal mondo, ricerca di maestri e linee di
pensiero più personali. Si affermano anche tendenze materialistiche, ordini di monaci fatalisti ma soprattutto
due grandi tradizioni divergenti ma extra-vediche: il buddhismo e il jainismo che sono stati uno stimolo e

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un’ispirazione forte per il pensiero induista, dato che divergevano nei nodi centrali. Anche gli avversari hanno
contribuito a plasmare l’induismo post-vedico che rispetto al vedismo è un complesso molteplice di fenomeni
di carattere panindiano. La documentazione è più ricca ed eterogenea: molte lingue, molti generi letterari ma
anche al livello figurativo (templi, immagini divine, durevoli o effimere). Centro del culto non è più il sacrificio
ma la pùjà (adorazione dell’idolo), con cui si ha un rapporto quotidiano di devozione e cura: la presenza
costante, il rapporto diretto di cura affettuosa predispone a sentimenti di familiarità e persino di amore (bhakti)
cioè amore mistico fondato su una partecipazione reciproca. La Bhakti ha molti elementi in comune con la
mistica occidentale di carattere sentimentale affettivo come la compresenza di uno sforzo umano di
purificazione e un avvicinamento del dio con la sua grazia, fasi di separazione, crisi e disperazione, la beatitudine
finale, con esperienza di un sentimento oceanico, a seconda dei casi, nell’identità o nell’unione o nella vicinanza
con la divinità. La Bhakti di solito si incentra su una figura divina con cui intratteniamo una relazione intensa che
in certi casi può assumere le sembianze di una passione totale. C’è nella bhakti un’apertura universalistica che
ne fa la via più idonea per i reietti e gli esclusi ispirando anche iniziative di rinnovamento sociale, o almeno una
minor insistenza sulla rigidità delle norme castali, trovando la sua espressione più chiara nella pratica di
abbandonarsi a dio, di rifugiarsi presso di lui.

Principali fonti letterarie del periodo post-vedico → alcune opere sono considerate di grandissima autorità,
anche se nessuna dovrebbe poter competee con l’autorità del Veda, che viene seguito in modo molto selettivo
e i testi di base delle singole scuole sono più autorevoli. La composizione di Upanisad le presenta come vediche
per godere del prestigio della sruti (rivelazione) ma sono invece testi di devoti. Fonti principali:

- due vasti poemi Mahabharata (la grande storia dei discendenti di Bharata) → attribuito a Vyasa è una
specie di enciclopedia di tradizioni, leggende, istruzioni morali, raccolte attorno alla storia della lotta
per il dominio sull’India settentrionale fra due fazioni di guerrieri i cui capi sono imparentati, dove si
inserisce la battaglia decisiva di Bhagavadgita, il poemetto che deve risolvere problemi morali
sull’azione, la violenza, la nonviolenza, i doveri castali, le vie spirituali.
- ramayana (marcia di Rama) → attribuito a Valmiki narra del rapimento ad opera del demone Ravana,
di sìtà (moglie dell’eroe divino Ràma) e della guerra che ne seguì, vinta con l’aiuto di un esercito di
scimmie guidate dal fedele Hanumant.
Molto importanti sono anche i trattati sul dharma (dharmasastra) il cui più antico è attribuito a Manu; e i Purana
(antichi) 18 maggiori e altri minori che presentano tradizioni relative all’origine del mondo, alle genealogie degli
dei e alle diverse epoche, quindi pur nell’eterogeneità dei contenuti sono testi di singole correnti devozionali.
Importanti anche le composizioni musicali, le danze, utilizzate nei riti.

Dei Tantra (tessere, tessuto, trama, libro) che trattano di dottrine, yoga, ritualistica, ed altro si parlerà
presentando le vie di realizzazione spirituale.

2- IL DHARMA E IL MONDO

L’induismo non ha vocazione missionaria ma si espande nel mondo (sanscritizzazione). La spinta ad esetendersi
anche al di fuori dei confini dell’India è forte soprattutto in alcune fasi storiche

1. Fase di espansione verso il Sudest asiatico (1 millennio)


2. Dall’800 ad oggi fase di diffusione nel mondo culturale euroamericano (consistenti flussi
migratori)

Per molti secoli ebbe influsso anche sull’Asia centrale e orientale, dovuto al buddhismo, quindi non ci interessa.

India maior → termine usato per mettere in rilievo l’importanza dell’influenza della cultura indiana su quella
del sudest asiatico (Indocina e Indonesia), che non si ebbe a causa di guerre, ma come fenomeno pacifico
(navigatori, specialisti del sapere sacro) di cui intellettuali indocinesi e indonesiani sentirono il fascino
producendo non una cultura satellite ma un vero e proprio meticciato culturale complesso.

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- In Indocina si mescolano la cultura indiana e quella cinese, dove la cultura indiana prevale ma senza
cancellare quella cinese. Oggi in Vietnam gli induisti sono delle minoranze ridotte rispetto alla
maggioranza buddhista e musulmana, anche se in passato era importantissimo l’induismo nella
penisola nella forma del culto di Siva e altre divinità induistiche.
- In Indonesia l’influenza indiana permane fino al 16 secolo con l’avvento dell’Islam. Permangono la
letteratura indiana, l’arte e molti vocaboli indiani, le credenze (come quella del rsi), o nelle divinità
centrali dell’Induismo. È riconosciuta la suddivisione dell’esistenza in fasi ordinate mentre più labile è il
sistema castale. Dopo l’islamismo nel 16 secolo l’induismo si è conservato soprattutto nell’isola di Bali
(induista), dove permane il culto della montagna sacra. Bali è celebre per le sue danze.
L’incontro con l’Islam → le capacità ricettive della cultura indiana (dai greci, unni, iranici, centroasiatici) non fu
messa a dura prova dal cristianesimo ma dall’Islam. A parte una prima fase pacifica dovuta agli scambi mercantili
si ebbero forti occupazioni militari accompagnate da distruzioni e spoliazioni (grandi centri monastici
buddhistici, che si usa chiamare università indiane antiche). La necessità di mantenere gli invasori con il surplus
della produzione o spesso con il sacrificio personale redeva difficilel’impegno ad aiutare i monaci dediti alle
attività di dottrina e pietà ma non autosufficienti sul piano economico. L’induismo viene disprezzato dai nuovi
dominatori per la numerosità delle divinità spesso rappresentate mediante animali e comportamenti che agli
occhi dei musulmani apparivano blasfemi (venerazione della vacca). Vennero imposte tasse per gli infedeli e
discriminazioni, mentre si vedevano privare dei loro principi di sacralità e di organizzazione sociale.
Ci sono elementi che attenuano la durezza del quadro: forme civili di convivenza e tregua. Bisogna anche tener
presente che ci furono numerose conversioni per motivi di convenienza e interesse personale, ma anche altre
per motivi nobili attratti dall’interiorità della dottrina islamica che non prevedeva la mediazione del sacerdote.
L’incontro induismo-islam avvenne in tutti e due i sensi:
- I musulmani avevano sia figure ostili all’induismo, come i sovrani intolleranti ma anche principi e
imperatori sensibili, appassionati e rispettosi, come Akbar di origini moghul che cercò di dar vita a una
religione sincretica ma senza successo.
- Induisti danno vita a movimenti come quello di Ramananda che dava poco valore al sistema castale e
proponeva una visione della divinità monoteistica, con scarso peso dei riti, della tradizione dell’Uno-
tutto Upanisadico.
Fra i movimenti ispirati da una tensione verso l’incontro con l’islam sono soprattutto importanti quelli che fanno
capo a Kabir e Nanak.
- Kabir è di incerta datazione, ma comunque fra il 14-16 secolo; probabilmente era figlio illegittimo di
una vedova brahmanica fu allevato da un tessitore musulmano (nome Kabir è un appellativo di Allah).
Poeta popolare nell’India, diviene un’etichetta per versi e poemi nemmeno suoi, cercando di conciliare
l’induismo e l’islamismo sul piano della mistica, dell’adorazione interiorizzata di un dio unico,
respingendo il culto degli idoli e le pratiche esteriori e raccomandando una bhakti incentrata sulla
recitazione e sulla lode del nome di Dio (che chiama Ràm). La base è induistica perché mantiene il
karman, il samsàra, la liberazione, e include molto meno dell’islam il pellegrinaggio (pilastro della fede
per l’islam). I suoi seguaci sono i Kabirpanthin (quelli che vanno per il sentiero di Kabir), alcuni milioni,
considerati induisti. L’influenza di questo santo-poeta si estende ad altri movimenti come quello dei
seguaci di Dàdù che vedeva nel dio degli induisti e degli islamici un unico dio cui ci si deve unire in
amore, e si estende anche alla religione dei Sikh.
- I Sikh (allievi, discepoli) sono i seguaci del maestro Nanak (14 secolo) e della linea dei guru che ne è
derivata. Nànak fu un esponente della bhakti rivolta al dio unico e inconoscibile, trascendente ma anche
immanente, privo di qualificazioni sul piano della realtà assoluta appare all’esperienza devota come
dotato di tutti gli attributi che lo rivelano: vera realtà, ordine divino del cosmo, parola sacra che risuona
nel cuore dell’uomo, che spesso prigioniero del peccato e dell’egoismo, non ascolta. Invocato nella
pratica devota con i nomi più svariati e privo di nome, può essere chiamato Nome per eccellenza:
Nome-Verità. La pratica consiste nella ripetizione costante del Nome: pratica che mette in sintonia il
cuore del devoto con l’ordine divino e gli permette di superare i condizionamenti psichici costituiti da
forme varie di attaccamento (avarizia, ira, lussuria) e di giungere attraverso un’elevazione progressiva
alla corte del sovrano divino. Gli succedettero altri 9 guru, dando vita ad una vera e propria Chiesa, con

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un proprio scritto di riferimento (Adi granth). Mentre il movimento si istituzionalizzava si radicalizza lo
scontro con i musulmani e i guru ne rimasero vittime; al posto loro viene installato l’Adi granth (1 libro)
che viene adorato nei templi e nei luoghi sacri come unica immagine divina; dall’altro trasforma la
comunità creando una sorta di casta militare (Khalsa: purezza), i cui membri (chiamati singh: leoni) sono
obbligati a portare i segni della loro fedeltà: barba e capelli lunghi, un pettine per raccogliere i capelli
in una crocchia e avvolgerli nel turbante, calzoni corti, braccialetto metallico, spada. Molti Sikh
divennero Singh. Una comunità che nasceva nella speranza di un incontro con l’islam si è votata a una
risposta bellica all’islam diventando un vero e proprio gruppo etnico tra i più marziali dell’India, spesso
con forti contrasti interni. Ci si può chiedere se i Sikh (2% degli indiani) sono induisti, ma la risposta
dipende dalla soggettività, anche se le idee di base sono induistiche e pare difficile pensare che
nell’induismo, aperto a tutti, non ci sia posto per loro.
L’incontro con l’Occidente → il dominio coloniale inglese si afferma nel 18 secolo debellando i rivali francesi e
affiancandosi all’impero moghul, per poi sostituirlo gradualmente. La grandezza culturale dell’India nonpoteva
sfuggire alla potenza coloniale per eccellenza, la GB. Si avviò un processo complesso fatto di influenze
reciproche (politiche, culturali e religiose). Per esigenze soprattutto amministrative si sviluppa una classe media
di formazione mista plasmata dallo studio della cultura inglese e della cultura europea generale. I giovani con
questo tipo di cultura non volendo rinunciare alle loro radici ma collegarsi alla cultura britannica in modo critico,
diedero vita al Rinascimento induista. Questa espressione sta a significare che i musulmani ne presero parte in
misura ridotta e che questo Rinascimento di un paese coloniale condivide con il nostro la tensione verso la
riscoperta e la riappropriazione del passato. Sorsero vari samàj (società) che invece di raccogliere i fedeli attorno
ad un santo carismatico si raccoglievano attorno ad intellettuali con interessi religiosi per ricerche di interesse
spirituale e per una vita conseguente. Il primo di questi sàmaj fu l’Atmiyasabha (assemblea spirituale) del
brahmano bengalese Ràm Mohan Roy che diede poi vita al Brahmasamaj (società dei devoti di Brahman).
Traumatizzato per aver assistito al rogo di una vedova cercò di depurare l’induismo dagli aspetti crudi come: il
rogo delle vedove, il culto degli idoli, poligamia, aspetti costrittivi del costume sociale. Fervente monoteista
simpatizzava per il cristianesimo, tranne per la dottrina cristiana della reincarnazione. La storia del Brahmasamaj
è fatta di oscillazioni (avvicinamento-allontanamento dall’induismo). Debendranath Thakur ne segnò la fase di
maggior vicinanza alla tradizione, Candra Sen provocò invece una scissione. Queste società elitarie nel corso
del tempo perdono molta forza e i loro aderenti, malvisti negli ambienti conservatori sono ridotti a una
condizione castale separata. In questo ambiente si forma anche il Devsamaj (società divina) di ispirazione
positivista, e l’Aryasamaj (società degli arya) di carattere puristico e con la necessità di tornare al Veda liberando
l’induismo dalle incrostazioni successive cioè dagli apporti della tradizione postvedica degenerativa. Con
Ramakrsna ci si trova in un mondo mistico, era un brahmano addetto a un tempio povero e poco colto con un
equilibrio instabile. Dapprima tormentato dal desiderio di incontro con la divinità, poi pervenuto a una
molteplice realizzazione spirituale giungendo alla meta suprema dell’induismo, in varie forme verificando
l’unicità della meta. Il suo insegnamento insiste sulla purezza interiore, il ritorno in noi stessi, sull’esperienza
diretta. È un insegnamento tollerante e rispettoso verso le altre religioni. In un’India pervasa dal colonialismo
britannico, si voleva sottolineare che non c’era bisogno di convertirsi. Il suo discepolo prediletto continua su
questa linea: è Narendranath Dutt (nome mistico: Svami). La differenza fra loro è innegabile: il maestro insisteva
sull’esigenza di vivere intensamente la propria religione mentre il suo discepolo insiste sull’esigenza di vivere
intensamente la propria religione. Vivekanda si è fatto maestro di un messaggio missionario. Nel 1893 si reca a
Chicago al Parlamento mondiale delle religioni, come rappresentante dell’induismo. Da allora si può datare
l’inizio dell’espansione dell’induismo in Occidente con fondazione di templi, conventi e centri vari in America ed
Europa. Era un induismo consapevole della sua forza, convinto di voler diffondere questi valori fino al limite
massimo della capacità di accoglierli da parte dei non indiani.
Delle grandi personalità dell’India fra 800-900 merita un cenno la figura di Rabindranath Thakur generalmente
conosciuto in occidente come Tagore , esponente di una ricca famiglia di intellettuali. La sua arte, soprattutto
la lirica, nasce dalle passioni di un amore che contempla la spiritualità della bhakti.
Una forte dimensione spirituale ha ispirato il pensiero e l’opera di Ghandi che ha portato nell’azione politica e
sociale idee e pratiche proprie degli asceti della tradizione classica, che però rifuggivano da impegni mondani.
Egli invece risaltava i valori della rinuncia e della castità, e l’ideale della nonviolenza come norma suprema, come
arma non dei deboli, ma dei forti davvero. La verità come forza (satyagraha). Il nucleo fondamentale delle

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dottrine di Ghandi è induistico: l’identificazione tra verità e realtà, fra verità e dio, la fede intensa in un dio
personale (Ram). Su un fondo dottrinale non dualistico egli segue la bhakti, un induista senza complessi di
inferiorità che può permettersi di nutrire simpatie anche per altre religioni, che ammira il Discorso della
montagna, che accetta l’idea che Gesù sia figlio di Dio, ma rifiuta la pretesa esclusiva che solo lui lo sia, perché
lo siamo tutti. Egli vuole un induismo aperto e libero dagli elementi negativi. Era favorevole al mantenimento
delle caste, a patto che non comportassero sofferenze per i ‘’fuoricasta’’, ma che rappresentassero solo una
diversità naturale fra uomini, connessa al karman e alla rinascita. Era contrario ad ogni forma di discriminazione
contro gli ‘’intoccabili’’ (i fuoricasta, considerati contagiosi), scontrandosi con il loro leader, che sosteneva al
contrario la necessità non di una fratellanza, ma di una separazione netta dagli induisti, costituendosi come
società a parte con propri diritti. Poco prima di morire, il leader degli intoccabili si converte al buddhismo,
seguito da milioni di confratelli.
Fra le figure spirituali induistiche più note dei nostri tempi c’è Aurobindo (Aravinda Ghos), fatto educare
all’occidentale per volere del padre, ma divenendo un esponente dell’opposizione anti-inglese radicale e
accusato di terrorismo fugge in una colonia inglese dove si dedica alla ricerca spirituale dove reinterpreta le
parti più antiche del Veda, insegnando lo Yoga integrale. L’esigenza di una sintesi fra Oriente e Occidente spinge
Aurobindo ad una nuova metafisica ed etica. Le sue posizioni si ricollegano alle religioni ottocentesche europee
del progresso.
Ramana detto Maharsi (Grande veggente) nato nel 1879 fu sconvolto, da piccolo, da un’improvvisa esperienza
di morte, ma chi in lui conosceva l’atman non ne era toccato. Autentico fossile vivente non aggiunge nula alla
tradizione non dualistica delle Upanisad, solo qualche irrilevante innovazione formale. Affascina la purezza del
richiamo costante al vero io, la cui ricerca è il solo scopo sensato della vita. L’incontro con l’io, da ritrovare
negando tutte le identificazioni erronee è la riscoperta di una realtà sempre esistente della nostra essenziale
beatitudine.
L’induismo in occidente → dopo la grande espansione dell’induismo nell’Asia sudorientale, e dopo la diffusione
in quelle stesse regioni e nell’Asia centrale e orientale del buddhismo (che ha portato con sé diversi elementi
induisti), alla fine dell’800 abbiamo una nuova fase dell’induismo. È sempre stato presente nell’immaginario
occidentale, sin dai tempi dell’antica Grecia, ma anche dai tempi della Divina Commedia in cui Dante colloca nel
Paradiso un indiano virtuoso come esempio per aprire il tema della giustizia divina e la salvezza. Ma l’interesse
per la spiritualità induista era più che altro una simpatia intellettuale che si limitava a questo senza conversioni.
Da alcuni decenni non è più così, anche in ragione del fatto che l’induismo accoglie fra le sue fila anche non-
indiani: sono scelte di vita significative per chi decide di compierle. Esistono diversi neo-induisti italiani, grazie
anche a movimenti legati al magistero di Vivekananda, Aurobindo e Ghandi, caratterizzati da un impegno di
perfezionamento interiore, solidarietà sociale. Sempre più centrale la pratica dello yoga ridotto a moda e fitness
nel mondo occidentale, ma talvolta vero e proprio stile di vita se collegato a pratiche meditative.
- Krishnamuti è una specie di messia del nostro tempo, per la sua lotta contro i condizionamenti della
nostra mente (a cominciare dalle tradizioni spirituali) sottolineando la necessità di una pura esperienza
coscienziale. Maestro paradossale che da sempre sottolinea la necessità di ‘’liberarsi dai maestri’’.
- Maharsi Mahes Yogi è un maestro della meditazione trascendentale, una tecnica trasmessa attraverso
iniziazioni. Uno stile molto discusso per la sua impronta manageriale-tecnologica ma anche per questo
seguito dalle molte persone che non hanno tempo da dedicare alla ricerca spirituale.
- Rajnees esibisce ricchezze e il culto monolatrico della sua persona. Ibrido di idee occidentali ed orientali
al contempo, presentato con tecniche del venditore. È la figura di un bizzarro guru-trickster, che porta
l’idea di libertà totale, apparentemente regredita verso una naturalità irresponsabile
- Movimento induista degli Hare Krinsha (ispirato a Caitanya) proponendo una disciplina religiosa
intensiva, puritana, che deve diventare il centro della vita dei devoti, con un impegno durissimo e
totalizzante, a partire da ben prima dell’alba in un’esistenza che deve trascorrere tra invocazioni del
nome divino, canti di lode, attività varie a favore e in propaganda del gruppo devozionale.
Per molti giovani di sensibilità non ancora attutita, l’Occidente vive una grave crisi di valori, religiosi e sociali. Il
mondo dello sfruttamento intensivo e del consumismo ipertrofico appare in contrasto con l’esigenza di una
vera interiorità, incapace di proporre un rapporto non predatorio con la natura e l’ambiente. L’India e l’induismo

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hanno molto da dare a questi campi soprattutto con le discipline meditative e di perfezionamento interiore,
anche favorendo la riscoperta di valori e arti dello spirito che sono in parte nel nostro passato.
L’induismo oggi → la situazione attuale è estremamente variegata. Molta parte dell’induismo rimane invariata,
ma sarà sempre così? I mezzi di trasporto, il lavoro, la città, uniscono persone di caste diverse. La casta ha ancora
oggi molto peso nelle scelte matrimoniali. L’india affronta la modernità come una sfida complessa. Per molti il
richiamo al passato à una salda ancora di salvezza e tutela della propria identità. L’Aryasamaj rappresenta un
revivalismo integralista, e non mancano altri casi di asceti guerrieri in lotta contro i musulmani ma anche tra di
loro. L’augurio dell’autore è che l’India, davanti al bivio di una scelta decisiva, sappia scegliere la via giusta,
riesponendo in modi civili e nobili alle sfide del nostro tempo.
3- LA REALTA NON UMANA
Il cosmo dell’uomo indiano → per gli indiani l’universo non esiste grazie ad un dio creatore ma è senza principio
e senza fine, in un perpetuo divenire, in un susseguirsi di cicli cosmici. Gli indiani hanno avuto scarso interesse
per la cronologia e la misurazione precisa del tempo, ma se ne sono preoccupati come forza suprema
nell’universale caducità. La loro concezione del tempo e del suo articolarsi nel divenire ciclico risulta al meglio
nei Purana che ne disegnano un insieme di grandezza annichilente. Le ere (yuga) del ciclo cominciano durante
un’età della perfezione (satyayuga), prendendo nome dai colpi del gioco dei dadi, tenendo dietro altre tre ere
di decadenza progressiva: treta, duapara e kaliyuga (la nostra) ‘’età della discordia’’. Le ere sono di durata
decrescente, in parallelo alla decadenza morale. Calcolando anche i crepuscoli precedenti e seguenti, la prima
dura 4.800 anni divini (un anno divino equivale a 360 anni umani, la seconda 3.600 e la terza 2.400, mentre la
quarta 1.200 anni divini). L’insieme degli yuga costituisce un mahayuga (grande yuga), per un totale di 1.200
anni divini. Mille mahayuga costituiscono un kalpa, cioè un giorno del dio cosmico Brahman, la cui vita è di 100
anni, la progressiva decadenza va intesa cum grano salis, infatti nella prima età esistevano personaggi tutt’altro
che pacifici, ma nemmeno possiamo avere una visione tragica della nostra era. La concezione indiana
dell’universo è improntata alla grandiosità: è una specie di uovo noto come brahamanda (uovo di Brahaman)
formato da strati concentrici , alcuni celesti (il mondo delle vacche, dei cieli, della verità, degli dei), scendendo
fino al mondo della terra e alle regioni sotterranee, la più bassa delle quali è costituita dai naraka, gli inferni,
luoghi di punizione e di pena, peraltro generalmente considerate temporanee, anche se di durata lunghissima.
La terra è suddivisa in 7 parti concentriche duipa (isole) separate fra loro da 7 oceani (di vino, di latte, di rose).

Dio, gli dei → le concezioni induistiche della divinità possono sembrare perfino contraddittorie: si parla del
numero degli dei con cifre contraddittorie. Una divinità, inoltre, può assumere funzioni o aspetti di un’altra.
Nell’induismo postvedico la divinità suprema ha il nome generico di Isvara (signore potente), senza una
necessaria identificazione con qualche figura precisa del pantheon induista. La lettura devota di Isvara come
sommo dio, spirito supremo, lo identifica con dei come Siva, Visnu. La considerazione del dio supremo varia a
seconda delle dottrine:

- nelle concezioni nondualistiche Isvara non combacia con il Brahman (realtà infinita) ma ne è una
proiezione personale, illusoria, in un mondo sostanzialmente illusorio.
- Nelle concezioni teistiche non c’è differenza fra il dio supremo e il brahman che è solo una sua
denominazione filosofica, meno emotivamente impegnativa.

Col dio supremo si può identificare la divinità di elezione (dio con cui abbiamo un rapporto preferenziale di
devozione e affetto). Da esso si distinguono le divinità alle quali compete la funzione particolare di amministrare
il mondo o gli dei mitologici che vivono fra piaceri eccellenti nei loro cieli o paradisi. Queste divinità, decadute
dal rango elevato del periodo vedico fruiscono di una condizione che finirà quando si esauriranno i fruttidelle
opere che le hanno portate a tale posizione. Ad esse succederanno altre divinità con lo stesso nome e funzioni.

▪ Importante la figura di Brahman (dio perdonale maschile) non eterno, diversamente dal brahman
infinito, ma di vita lunghissima, è il dio cosmogonico che nasce al principio di ogni grande era in un fiore
di loto spuntato dall’ombelico di Visnu addormentato sul serpente divino di Sesa. Molto popolare in
passato ma ormai il suo culto si concentra in un solo tempio.

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▪ Trimurti: immagine della divinità in tre forme rappresentative della attività di origine, conservazione e
distruzione del mondo espresse da Brahman, Visnu, e Siva. Non c’entra con la Trinità cristiana ma è il
risultato di un lavorio teologico a tendenza sincretistica e riprende atteggiamenti noti verso
l’identificazione o la correlazione delle divinità. È attestata in documenti letterari fin dai primi secoli,
ma sono rare le rappresentazioni iconografiche: la più famosa è quella di Ellora.

Dei grandi e piccoli → tre divinità sono soprattutto popolari nell’induismo: Siva, Visnu e la dea Madre. A loro si
richiamano diverse correnti devozionali, secondo alcuni, raggruppabili in tre vere e proprie religioni.

- Šiva → a parte i possibili antecedenti nella civiltà di Mohenjo-daro e di Hàrappa e la presenza nella fase
più antica del vedismo, acquista vita propria alla fine di questo periodo, continuando in sé tratti
caratteristici di Rudra ma incorporandone vari di altre figure. È multiforme e agisce in molti campi nella
fase matura dell’induismo. C’è uno Siva violento e terribile, identificato con il tempo distruttore e con
la morte. La famosa danza tandaua con cui viene spesso rappresentato rappresenta il suo potere di
distruttore del mondo (ma anche signore del processo cosimico intero). È anche il dio degli asceti, che
cercano la vittoria sul tempo, è il signore dello Yoga, il primo yogin. Viene rappresentato come un asceta
seminudo, col corpo cosparso di cenere, cinto di teschi, adorno di serpenti, assiso in meditazione. Ma
è anche molto meno tremendo di quanto lasci pensare l’autoviolenza che si infligge: è il dio della
fecondità e della generazione, adorato sotto il simbolo del linga e ha come controparte femminile la
yoni (matrice). Suo animale connesso è il toro Nandin, padre del dio della guerra, e il signore degli
ostacoli Ganes(h)a. A S(h)iva si richiamano diverse correnti religiose: lo sivaismo è un insieme molteplice
di credenze, culti, dottrine. Sappiamo qualcosa dei suoi devoti quando sono confluiti in gruppi, mentre
dei suoi devoti singoli non sappiamo niente, tranne che per i personaggi eccezionali che hanno lasciato
memoria di sé. La diffusione dello sivaismo fu favorita da dinastie regali, come i Cola nell’India
meridionale, da dove lo sivaismo si diffuse nel sudest asiatico. Una delle correnti più antiche è quella
dei Pasupata (seguaci del signore degli animali), asceti dediti a una vita volutamente indecorosa: erano
sporchi, russavano e facendosi deridere credevano di acquisire merito spirituale. I seguaci dello Siva
terrifico si dedicavano a sacrifici umani. Sivaita è la tradizione nondualistica, attestata in Kashmir che
insiste sull’identità con Shiva, identità reale, ma che dobbiamo saper riconoscere. Altre forme di
shivaismo sono dualistiche, come lo saivasiddhanta, che insegnava le vie per unirsi a dio, con la purezza,
le preghiere e la meditazione. Il movimento dei Virasaiva infine (portatori del linga al collo o al braccio)
portarono una fonte carica di innovazione sociale, criticando il sistema delle caste, finendo poi per
dividersi loro in caste: per loro Shiva è l’assoluto eterno, perfetto, beato, un dio personale da
raggiungere grazie alla mistica dedizione, con la liberazione dalla catena delle rinascite.
- Culto della madre divina → le prime testimonianze di un culto di una divinità femminile, risale alla civiltà
vallinda, le cui immagini ci inducono a pensare a un culto di una signora della fecondità, della vita e
forse della morte e della rinascita. Molto poco evidente nel periodo vedico, che conosce solo divinità
femminili minori, la sacralità femminile riemerge come fenomeno centrale nell’induismo: sia grandi dee
conosciute e cantate nella tradizione dell’induismo alto, sia piccole dee di villaggio, e dei crocicchi,
figure sia benefiche che tremende. La sposa di Šiva ha una posizione di assoluta eccellenza, viene
chiamata in diversi modi, a seconda del luogo del culto: Kali (Nera), Durga (inaccessibile), Parvati
(Montanara),Uma, Annapurna (piena di cibo),Kamaksi (occhi pieni di amore), Minaksi (occhi di pesce).
Dietro ogni nome c’è un’intuizione numinosa delle storie sacre, uno stile di devozione. Kali è adorata
nell’India nordorientale, rappresentata nuda e con sguardo minaccioso, con la lingua in fuori, adorna di
teschi e mani mozzate, braccia armate. Un tempo per lei si compivano sacrifici umani, oggi continuano
(anche se spesso malvisti) solo quelli animali. Si ricorda di lei che ha ucciso un demone-bufalo, e il
sacrificio riattualizza quel fatto critico. Terribile con i nemici, ma piena d’amore verso i fedeli. Un poeta
bengalese di nome Ramprad Sen parlando dell’orrida Kali la chiama ‘’pazza’’, ne lamenta la durezza,
talora canta estasiato la dolcezza del suo amore materno. È possibile anche una lettura di alto livello
metafisico che vede in lei la sacra potenza del dio. Alcune tradizioni mettono in primo piano il dio Siva,
altre lei perché senza essa il dio non vivrebbe. C’è una immagine bella e popolare della Dea che danza

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sul cadavere del marito (Šava Šiva: cadavere di Šiva), rappresentando che senza l’eccitazione prodotta
dalla polarità femminile, la realtà sarebbe un oceano immoto. La dea è il principio di ogni divenire, la
natura madre uniersale, l’rigine della maya, l’illusione, il potere magico che fa vedere i mondi, la potenza
interiore, che ci permette di liberarci: kundalini (serpente arrotolato che preclude l’accessoai livelli più
alti della coscienza, ma che anche, una volta risvegliato, apre la via verso la perfezione e la beatitudine.
Anche la sposa di Visnu può in certi casi fungere da sakti. È una figura divina che solo di rado è assurta
al primato; più spesso appare felice del suo ruolo coniugale e materno, ma è popolare per la sua natura
e funzione. Si chiama Laksmi o Sri (prefisso per ‘’fortuna’’). È la dea della fortuna, della ricchezza, della
bellezza, dell’amore, ma senza le tonalità dell’erotismo più o meno scandaloso che gli antichi
collegavano con Venere Pandemia.
- Visnu → condivide con Šiva il primato di dio unico. Nella fase vedica più antica è addirittura più
importante di Šiva: dio vero, alleato, e amico di Indra. Amico di uomini o di gruppi particolari e si parla
di tre suoi passi per dimostrare il carattere al contempo immanente e trascendente del dio. In seguito
egli raggiunse la condizione suprema di cui gode ormai da circa due millenni: elemento essenziale di
questo processo è stata l’incorporazione nella sua storia sacra di figure divine in origine indipendenti
poi considerate sue manifestazioni o discese, alcune delle quali sono in realtà dei supremi ancora più
popolari di lui. Egli ha vari nomi ed epiteti. Viene raffigurato come un giovane quadrumane, con le
braccia che reggono una clava, un disco, un fiore di loto, una conchiglia e ha il corpo blu, porta un
gioiello Kausthuba e i suoi peli del petto formano un ricciolo, lo srivatsa.
- Raggruppamento divino riconosciuto dagli smarta i tradizionalisti continuatori del rituale domestico
vedico che cercano una qualche forma di contemperamento fra le diverse correnti teistiche. Di solito
adorano Visnu, Šiva, Durga, Surya (il sole), Ganesa, riconoscendo anche altri dei. Nel culto smarta
qualche figura divina è sostituita da un’altra e altre se ne possono aggiungere. I poteri e le funzioni delle
altre divinità di origine vedica sono molto ridotti, alcune ormai sono solo figure mitiche: Indra, Agni,
Varuna, Yama, Kubera (nano pasciuto signore delle ricchezze e dei tesori), Kama (amore).

Nell’induismo tutto può essere divinizzato. Tra gli animali la vacca, i cui prodotti (escrementi ed urina) possono
essere usati per riti e cure, il toro, il serpente, avvoltoio, oca selvatica. Anche molte piante vengono investite di
valori e funzioni sacrali: pianta da cui si ricava il soma è uscita dal culto, ma gli alberi sono venerati e qua e là si
celebrano ancora matrimoni fra essi. Venerati sono il fico, il basilico, loto. Sono sacri anche i monti Meru,
l’Himalaya, i fiumi, le sorgenti, le pietre. Il divino è una presenza molteplice e costante.

Le discese (auatara) → gli dei induisti possono manifestarsi in diverse forme, fondando la credenza negli auatara
(‘’discesa’’ di un dio) indicando la forma che assume il dio. Non si tratta di incarnazione, ma di manifestazioni in
forme umane, animali e vegetali. È una concezione grandiosa che esprime il perpetuo fluire della sacralità nelle
diverse forme. Visnu è il dio che discende per eccellenza. La sua natura benigna e propensa ad aiutare lo
predispone a questa connessione particolare: gli auatara hanno in genere una finalità benefica. I teologi ne
hanno distinto livelli e gradi di completezza ma è importante prestare attenzione alle forme principali. Degli
auatara sono state redatte varie liste, ma ce n’è una che prevale. I 10 auatara della lista più prestigiosa sono:

1- Matsya (‘’pesce’’) → forma in cui Visnu salvò dal diluvio universale Manu, progenitore dell’umanità nel
7 ciclo cosmico, salvando la sua imbarcazione.
2- Kurma (‘’Tartaruga’’) → Visnu si posa sul fondo dell’oceano come una tartaruga servendo da piedistallo
al Monte Mandara con il quale dei e demoni dopo aver legato attorno al monte il serpente Vasuki
frullarono il mare per ottenere la bevanda dell’immortalità
3- Varaha (‘’cinghiale’’) → visnu trasse dal fondo dell’Oceano, la Terra che era stata scaraventata da un
demonio.
4- Narasimha (‘’uomo-leone’’) → un demonio aveva ottenuto il dominio sul mondo e la promessa di essere
invulnerabile sia di giorno che di notte, da parte di dei, uomini e animali tormentando i viventi. L’uomo-
leone, essere misto, lo uccise al crepuscolo.

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5- Vamana (‘’nano’’) →Visnu si presenta con l’aspetto di un nano a un demonio che aveva conquistato la
signoria universale, ne ottenne tanta terra quanta avrebbe potuto percorrere in tre passi, poi,
ritornando normale, occupa tutto l’universo fino al cielo più alto, lasciando al demonio l’inferno.
6- Parasurama (‘’Rama con le scure’’) in questa forma Visnu ha fatto strage di guerrieri che ambivano al
primato, a danno dei brahmani
7- Rama è la forma in cui Visnu si presenta per poter uccidere Ravana, il mostro a 10 teste. Rama diventa
sempre più sommo, dio unico, amato da coloro che vedono in dio la somma dei valori morali e sociali.
8- Krsna (‘’il nero’’) → Visnu nasce come tale in una famiglia principesca spodestata dall’usurpatore
Kamsa. Fu fatto crescere di nascosto, per sfuggirgli, da coetanee vaccare, delle quali fu l’amante. Ucciso
Kamsa, prese parte alla guerra cantata.
9- Buddha → forma con la quale, Visnu spinge l’umanità ormai decaduta ad abbandonarsi ai riti vedici,
affrettandone la rovina.
10- Kalkin → l’auatara del cavallo bianco, rappresentato anche con testa equina e corpo umano (concezioni
escatologiche) con cui Visnu alla fine della nostra era premierà i buoni e punirà i cattivi.

Tra questi auatara soltanto Rama e Krsna sono oggetto di vero culto. Sono due fra gli dei più importanti
dell’induismo.

Il gioco divino → molti auatara sono impegnati in grandi imprese, ma hanno da fare anche i grandi dei che non
‘’discendono’’ e molti dei vedici. Conducono anche una vita di eros, di gioco (lila), dove si apprezza la gioia, il
riso. Il gioco spiega anche le origini del mondo, infatti Dio non ha bisogno del gioco, in quanto origine, e l’origine
non ha bisogni. Il mondo nasce per una creatività divina, libera ed esuberante. Questo ha avuto grandi sviluppi
nella bhakti di Krsna come spiegazione della ‘’legge’’ della produzione dei mondi e come caratteristica di tutto
l’agire del dio, giovane appassionato ma capriccioso per gioco, e desiderato per questo, con struggimento. Per
i seguaci il lila è uno stile di vita e di amore che non deve mai finire.

Miti e leggente → le tradizioni induistiche brulicano di racconti di dei, di esseri non umani, santi, e tentano di
classificare queste storie nate da una possente fantasia mitica, ma è un’impresa difficile. Questi miti e leggende
sono patrimonio comune, quindi è importante almeno provarci. Molti miti raccontano delle origini, cercando di
riattualizzarla (di fronte all’azione delle donne di truccarsi, si invita a tornare alle origini dove le eroine non si
truccavano). Le origini del mondo avvengono secondo il mito dello smembramento dell’uomo (purusa) con la
vittoria di Indra su Vrta. Ci sono miti delle origini dei fiumi, dell’uomo, del linga, del cibo dell’immortalità, di certi
culti. Ricchi repertori di miti e legende sono i poemi epici e i Purana, la cui narrazione è spesso sommaria: erano
già molto conosciute, ma venivano riprese perché potevano dare conforto in certe situazioni. Il genio letterario
si è espresso con molta ricchezza in India nella leggenda e nella fiaba.

4- LE FORME DELLA VITA

L’uomo e il suo destino → di solito noi vediamo l’uomo come un insieme di corpo e anima, ma i materialisti, gli
esoteristi, la pensano diversamente. Per gli indiani esistono 5 involucri sempre più sottili che nascondono il
principio più autentico del nostro essere: cibo, soffi vitali, pensiero, coscienza e beatitudine. Altre concezioni in
ambienti yogici e tantrici distinguono oltre allo spirito e al corpo, il corpo sottile che appartenendo al mondo
della natura consta della parte meno grossolana di questa ed è percorso da migliaia di arterie, come una spina
dorsale non fisica: lungo la susumna sono collocati vari cerchi (chakra) che simboleggiano stati di coscienza
sempre più elevati, cui si può accedere in situazioni particolari. L’esperienza quotidiana dell’uomo secondo la
Mandukya -Upanisad, la sillaba sacra ‘’ om ’’ si svolge attraverso tre stati di coscienza: veglia (attraverso la quale
si conosce il mondo materiale), sogno (in cui si ha esperienza di un mondo separato), sonno profondo
(coscienza, infatti quando dormiamo e non sogniamo, siamo in uno stato di coscienza vigile), realtà infinita non
duale del brahman supremo (al di fuori della esperienza quotidiana). Quando si muore, il corpo fisico si dissolve
negli elementi di cui è composto, mentre il corpo sottile trasmette al nascituro caratteristiche e predisposizioni
secondo il maturare del karman.

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Quella del karman è una dottrina panindiana che solo i materialisti respingono. Karman significa ‘’azione’’ e nel
Veda è l’atto rituale e i suoi frutti, certi anche quando sono invisibili. Questo valore si mantiene anche in seguito,
ma diviene molto frequente l’uso di karman nel senso di ‘’legge di retribuzione degli atti compiuti’’.

La dottrina del karman è strettamente connessa con l’altra, pure panindiana, del samsara il processo indefinito
del divenire di tutta la realtà, la catena senza principio e senza fine, delle nascite e delle morti. Non è un
meccanismo casuale, ma governato dal karman. Le azioni sono sempre seme che fruttifica, soprattutto in altre
vite. Ma in ciascuna, si agirà, gettando altri semi di frutti futuri, ecco perché il processo è inesauribile. Si
riconoscono tre fasi di sviluppo del karman:

- Cominciato → giunto a maturazione sta già dando frutti dell’esistenza presente


- Accumulato → messo insieme nelle vite passate, sta ancora maturando i suoi frutti;
- Processo di accumulazione → si semina nell’attuale esistenza e darà frutto in vite future;

il karman è di colori diversi: nero per il malvagio, bianco per il virtuoso, bianco e nero per la gente comune.
Ognuno dà frutti corrispondenti. Il karman dell’adepto dello yoga non è né bianco né nero e non dà frutti. Si
possono avere rinascite diverse a seconda del karman che al momento della morte è più pronto per la piena
maturazione e che, essendo più forte, dà l’impronta dominante di predisposizioni, tendenze, tracce di memoria
che si aggregano in vari modi e si manifestano al momento opportuno. Purtroppo non in tutti i tipi di esistenza
si può accumulare merito spirituale come nella vita umana, che quindi ha una posizione di assoluta centralità
nel cammino del perfezionamento interiore ma vi si può giungere o tornare grazie allo sviluppo di semi remoti.
Il karman ha una forza insuperabile (no fatalismo) e può portare alla rassegnazione, ma senza escludere la
speranza. La dottrina del karman, risposta indiana al problema del determinismo e del libero arbitrio pone un
veicolo derivante dal passato per il presente, ma lascia libertà per il futuro. Esistono alcune possibilità di alleviare
o inaridire il karman. Ci sono rituali di espiazione per chi si è macchiato di colpe, soprattutto gravi. Alcune
dottrine riconoscono la possibilità di un trasferimento del merito da un maestro a un discepolo. Questo accade
anche nei riti per i defunti che grazie ai vivi ne migliorano le condizioni nell’aldilà. Nelle tradizioni dell’amor
mistico Dio è superiore al karman e può liberarne in tutto (o in parte) il devoto. La spiritualità indiana riconosce
alle discipline ascetiche e gnostiche la capacità di annullare trionfalmente il karman grazie alla liberazione
spirituale, che si raggiunge soltanto alla morte, altra volta ancora in vita quando il corpo resta vivo finché
permangono impulsi karmici, come la ruota del vasaio gira finché non si è esaurita la spinta.

L’organizzazione sociale: classi e caste, purezza e impurità → la società induistica è divisa in caste, cioè strutture
caratteristiche del mondo indiano che permeano tradizioni anche non induistiche. Nell’induismo però è una
forza pervasiva che induce alcuni ad identificarlo come componente essenziale dell’induismo stesso. Non è un
fenomeno facile da definire. Oggi si direbbe che la casta è un gruppo sociale ereditario chiuso prevalentemente
(ma non esclusivamente) di natura professionale legato a norme precise per il matrimonio e la commensalità,
praticati solo al suo interno, e si inquadra in un complesso sistema gerarchico diffuso, anche se non in modo
uniforme, attraverso tutta l’India: l’idea di una gerarchia degli esseri, dal dio Brahman ai più umili, è tipica
dell’induismo. La suddivisione della società in ceti diversi ordinati gerarchicamente risale almeno alle origini
indoeuropee ed è consacrata dall’infallibile validità del Rgveda nell’inno 90 del X libro che spiega i compiti dei i
singoli varna: i sacerdoti hanno compiti sapienziali e didattici nonché ritualistici, i nobili guerrieri devono
combattere per proteggere i sudditi e garantire l’ordine anche con la forza; la gente comune attende
all’allevamento del bestiame, all’agricoltura e all’artigianato, ma anche doveri di studio e rituali; i servi devono
servire le tre classi superiori. Accanto a queste 4 grandi classi (uarna) compare la parola jati (‘’nascita’’) usata
per le vere e proprie caste, che sono varie migliaia, una realtà complessa e intricata che deve la sua origine a
fattori molteplici (sono caste anche gruppi religiosi, gente tribale, etc.). le caste rispondono ad un’esigenza di
distribuzione nell’ordine sacro. Massimamente impuri (collocati quindi fuori dai uarna) sono i fuoricasta, gli
intoccabili, cioè coloro che nascono da rapporti sessuali in cui la donna è di casta più elevata dell’uomo, ma
anche coloro che si dedicano ad attività contaminanti cioè connesse alla morte e alle forme di impurità. Non
sono estranei al sistema, ma costituiscono caste anch’essi adempiendo a funzioni necessarie e ‘’sporche’’ che
contaminerebbero gli altri uomini, mentre per loro questo servizio infimo ma utile è il dharma che consentirà,

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se eseguito bene, una migliore rinascita. Sono intoccabili perché il contatto con loro è considerato contagioso,
quindi da evitare, anche solo guardandoli. Questa è stata una tragica piaga nella storia dell’induismo. Ma grazie
a Ghandi e ai suoi seguaci il quadro è migliorato.

I doveri specifici → il dharma costituisce il quadro di riferimento al quale deve far capo integralmente
l’esistenza, come ci insegna il Veda e la tradizione, l’esempio dei buoni. Se ne riconoscono diversi tipi:

- Dharma universale: vincola tutti gli induisti: è l’insieme delle norme che costituiscono i valori etici non
connesse con specifiche condizioni sociali anche se queste possono poi modificarne o ostacolarne
l’attuazione. Fra i più prestigiosi: l’autocontrollo, la purezza, la veridicità, fedeltà della parola data, la
nonviolenza.
- Dharma della condizione specifica cioè norme particolari relative a una certa casta, ad una professione,
ecc. il brahmano non può avere gli stessi doveri di un guerriero, inoltre cose vietate in una certa epoca
sono consentite in altre,
- Dharma specifico (varnasramadharma): non bisogna perdere di vista i principi del dharma universale,
ma quello particolare deve prevalere.

Le fasi dell’esistenza ordinata → oltre alla casta, la vita dell’uomo è regolata da un insieme di norme che
scandiscono i diversi periodi dell’esistenza: il cosiddetto sistema degli asrama (‘’sforzo’’) e indica le fasi della
vita come tappe successive del perfezionamento spirituale, sia gli eremi nei quali si concludeva. Le prime
testimonianze delle 4 tappe dell’esistenza ordinata risalgono all’Upanisad (cioè al periodo vedico) per poi
raggiungere in seguito la completa organicità:

1- Brahmacarin: colui che praticava il brahman, il ragazzo delle prime tre classi, dopo aver ricevuto
l’iniziazione, va a vivere con un maestro, dal quale viene istruito per vari anni, in cambio lavorando per
lui e vivendo nella sua assoluta obbedienza e castità. Se il maestro è come un padre, sua moglie è madre,
le figlie sorelle, un rapporto sessuale con una di loro sarebbe incesto.
2- Grhastha (che sta in casa): è la condizione in cui si entra al termine dello studentato, dopo un’abluzione
rituale: varie volte però i brahmacarin restavano tali a vita. Il grhastha, sposo e padre, è tenuto a
dedicarsi alla continuità della famiglia, ai riti domestici, al lavoro, a un onesto interesse e ai piaceri
dell’esistenza in questo mondo.
3- Uanaprastha (che sta nella foresta): è la fase in cui si entra quando ormai sono nati i nipotini, che
assicurano la continuità nel tempo dei riti e può coinvolgere entrambi i coniugi
4- Sannyasin (‘’che getta via, abbandona, rinuncia’’): è colui che, troncato ogni residuo vincolo sociale,
sceglie di vivere senza dimora, nutrendosi di elemosine.

Uomo e donna→ le donne nell’India tradizionale sono collocate in un rapporto di dipendenza dai padri, dai
mariti e dai figli. L’eroina indiana tipica, mostra tutto il suo valore attraverso la completa dedizione al marito,
servendolo come un dio, fosse anche il peggiore degli uomini. Il diritto-dovere della donna di partecipare al
mondo delle relazioni con la realtà sacra le deriva dal vincolo coniugale, che, se si spezza (con la morte del
marito) per lei è una tragedia. Pratica del suicidio rituale delle vedove, che si uccidevano al rogo per raggiungere
il marito e poterlo ‘’servire nell’aldilà’’. Il loro valore sociale stava nella subordinazione, nell’essere una
proprietà del marito. La pratica del sacrificio della vedova indiana esalta questo come culmine di una condizione
esistenziale che senza il suo necessario punto di riferimento sarebbe acefala. Spesso erano anche i motivi
economici a spingerle a questo. Le donne erano ‘’troppo costose’’ anche in vista della dote matrimoniale, quindi
spesso si ricorreva all’infanticidio delle neonate. Ma il principio vero alla base del sacrificio delle vedove risiede
nel fatto che la donna non ha valore in quanto tale, ma ha una dimensione sacra solo in funzione del marito,
altrimenti vista come tentatrice, ostacolo alla moralità e al perfezionamento spirituale. Donne per eccellenza
sono le ninfe celesti (apsaras) usate dagli dei per indurre alcuni asceti (che utilizzano pratiche col fuoco) ad
abbandonare discipline così pericolose (unico caso di seduzione utile). Non appartengono al quadro generale
donne che hanno preso in mano il loro destino contro i condizionamenti sociali: monache buddhiste o la
poetessa Mira Bai rifiutatasi di uccidersi alla morte del marito, o le prostitute sacre dedicate per vari motivi al

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servizio di un tempio per attività di danza e prostituzione (un tempo stimata, ma poi entrata in crisi) per attacchi
degli esponenti di una moralità sessuale diversa, incurante delle radici arcaiche, di culto della fecondità e simili.
Ma la donna non è vista solo negativamente come tentatrice, ma anche colei che, appartenendo ad una casta
bassa, riproduce nelle pratiche tantriche la prassi del rapporto dea-dio: per questa capacità di eccitazione si
configura come evocatrice della potenza spirituale latente il cui risveglio consente di accedere alla coscienza
più alta, di cui l’accoppiamento è l’immagine più icastica. Il sogno è quello di un originario ermafrodismo.
All’altro estremo però troviamo la negazione del sesso mediante la castrazione che può avere dimensione sacra.

I valori della saggezza mondana → l’induismo è un’istituzione totale che pervade tanti campi del vivere e
dell’agire non spirituale. Ci sono aspetti della cultura e della vita sociale indiana premoderna che, pur
inquadrandosi con piena coerenza nella grande cornice dell’induismo, lo lasciano poi sullo sfondo:

- la tecnica amatoria → il Kamasutra fornisce il valore supremo della liberazione spirituale, ricercando il
piacere amoroso in quanto tale, attraverso tecniche amatorie. Sembra increspare la nitida esposizione
tecnica, sentita come pari a qualunque altra.
- La scienza politica → arte della vittoria senza remore morali, sopraffazione e inganno, sfruttamento
della credulità popolare

Sono due filosofie del successo che considerano come unica meta effettiva la perfetta realizzazione delle
ambizioni nel loro campo specifico.

5- LA DIMENSIONE CULTURALE

Il tempio → ormai, a seguito dell’Inserimento dell’India nel turismo, vari templi induisti sono noti, conservando
intatto il fascino esotico. Molti specialisti hanno familiarità con i grandi templi. Non sembra che le epoche più
antiche abbiano conosciuto templi, anche se crediamo che edifici adibiti al culto siano sicuramente esistiti e poi
deperiti a causa dei materiali, ma i riti sacrificali del vedismo non prevedevano l’uso del tempio. I primi sviluppi
probabilmente verso costruzioni per uso rituale avvennero in campo buddhistico, con l’edificazione di tumuli
contenenti reliquie del Buddha, mentre altri luoghi di culto erano forniti dalla natura, con grotte e altro. Il
tempio induista trova il suo fondamento ideologico nella grande trasformazione religiosa che porta a mettere
in primo piano il culto dell’immagine divina (dimora dell’idolo a cui è dedicato, forma di estensione fisica) dove
l’idolo sta al centro, in una piccola cella, paragonabile alla ‘’caverna del cuore’’ in cui dimora l’atman, cioè luogo
dell’incontro fra il mondo fenomenico e la realtà divina. Sopra di esso sta una copertura rotondeggiante (asse
del mondo, collegamento fra cielo e terra), e un ambulacro consente ai fedeli di fare il giro della cella. Solo il
sacerdote officiante (intermediario)può avvicinare l’idolo nel tempio. Chi vuole pregare, porre offerte, stanno
davanti alla porta della cella e il sacerdote fa intravedere l’idolo illuminandolo. A differenza dell’India del Nord,
nel Sud si è verificata una fioritura imponente di vere e proprie città-templi con più cerchia di mura, e con alte
torri. Fin dall’antichità i templi induisti sono decorati con fregi e pitture esterne, riguardanti leggende, simboli
religiosi vari, scene di vita quotidiana (erotiche). È diverso l’atteggiamento induista nei confronti del sesso,
rispetto al mondo cristiano. Centri di preghiera, sapere, danza e rituale, luogo attorno al quale si raccolgono
venditori di oggetti sacri e profani, mendicanti, hanno una grande importanza sociale: ricevono contributi in
denaro dagli abitanti della zona in cui sorgono, ma anche da benefattori lontani. La condizione più o meno
feconda dei templi può dipendere dai donatori, dalle proprietà acquisite in passato, dalla fortuna. Se i patroni
non hanno eredi che condividano il fervore del tempio e non subentrano altri, viene lasciato decadere. Sono
importanti ma la loro frequentazione non è obbligatoria, perché bastano le preghiere del mattino e della sera
per i credenti induisti e piccoli rituali domestici.

Le immagini sacre → prescindendo dalla fase vedica, l’induismo pratica il culto delle icone divine cioè l’idolatria
(non in senso dispregiativo), ma non tutti la praticano, non la pratica ad esempio chi preferisce un rapporto
interiore col dio. Sono immagini di vario genere, non solo idoli dei templi, possono essere molto schematiche,
abbozzi. Tradizionalmente le divinità sono rappresentate secondo modelli definiti, talvolta ci sono più modelli
per una singola divinità. È un’iconografia complessa dove niente è improvvisato. Gli dei sono rappresentati dalle
convenzioni di un linguaggio gestuale analogo ai segni della danza. Spesso hanno molte braccia, molte gambe,
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molte teste. A volte sono in piedi, altre seduti, immobili, soli, con altre divinità. Possono essere fatte con diversi
materiali: oltre alle sculture e ai fregi, che adornano la parte esterna dei templi, ci sono immagini divine di argilla
(della Dea). L’idolo viene installato nel tempio con un rituale preciso. La divinità deve prima entrare nell’oggetto
di culto.

I sacerdoti → fin dal periodo vedico l’induismo ha conosciuto una varietà di sacerdoti, professionisti del rituale,
conservatori e trasmettitori del sapere sacro del Veda.

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