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INDUISMO

1.1. Note introduttive alla religiosità indù

Per una definizione di induismo


Quello che gli occidentali denominano
induismo dagli indù viene rappresentato con
un termine che meglio ne coglie l’essenza:
sanāthana dharma.
Il termine induismo, infatti, è un neologismo
creato dagli inglesi riprendendo una
tradizione terminologica antica che
semplicemente voleva indicare il fiume Indo.
Applicata alle fedi religiose dell’India,
inoltre, il termine risulta inadeguato anche
perché richiama un insieme di religioni
piuttosto diverse fra di loro, ed è a motivo di
ciò che molti studiosi parlano preferibilmente
di sanātana dharma. L’espressione dovrebbe
essere tradotta con norma eterna, là dove,
appunto, sanāthana è l’aggettivo e dharma un
sostantivo che possiede una pluralità di
significati che vanno da quello di etica o
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legge a quello di religione. Il suo senso
profondo, comunque, è sempre connesso
all’ordine dell’universo e al suo
mantenimento, e concerne, quindi, sia la vita
degli individui che quella del cosmo. Al di là
della polivalenza di significato, quello di
dharma è un termine chiave dell’induismo, e
viene usato come sinonimo di una verità
superiore a quella delle religioni stesse, in
quanto capace, in un certo senso, di
ricomprenderle al suo interno.
Il dharma, in ultima analisi, è una sorta di
regola cosmica superiore ad ogni altra legge,
che da un lato permette una corretta fruizione
delle risorse della vita, e dall’altro conduce al
traguardo escatologico della liberazione dal
mondo del divenire (moksa). Il concetto di
dharma, infatti, deve leggersi parallelamente
ad altre due fondamentali dottrine indiane:
quella del samsāra e quella del karma. Con il
primo termine si intende la convinzione che
ogni essere non vive una sola esistenza, ma
innumerevoli vite. Mentre il secondo sta ad
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indicare che il destino di ogni vita è il
prodotto delle azioni compiute in quella
precedente. Il dharma va quindi a coincidere
con il carattere fondamentale della spiritualità
indiana, che è appunto la ricerca di una via di
uscita (mārga) alla perennità contingente
dell’esistere. L’induismo, da questo punto di
vista, riconosce tre fini all’esistenza umana: il
piacere (kāma), l’affermazione sociale (artha)
e la moralità (dharma), a dimostrazione di
quanto si ritenga indispensabile, ai fini della
realizzazione spirituale, anche la maturazione
come uomini. Al di sopra di questi tre scopi,
infatti, ve ne è un quarto che contiene il senso
ultimo dei precedenti: moksa, ovverosia la
liberazione dal ciclo del rinascite e la
reintegrazione nell’Uno.
Sotto questo aspetto, per realizzare tale scopo
ultimo e finale della vita, l’induismo
riconosce come valide diverse “vie” di
liberazione. In primo luogo quella del rito
(karma-mārga), che con la Bhagavad-gītā, un
testo su cui ci soffermeremo, attraverso una
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profonda rielaborazione del vedismo antico, è
divenuta la via dell’azione etica
disinteressata, e come tale è stata la via di
santificazione eletta da Gandhi nel suo
impegno politico e sociale; poi quella della
conoscenza introspettiva ed intuitiva di Dio
(jñana-mārga); ed infine quella della
devozione (bhakti-mārga). Una particolarità
dell’induismo, infatti, come vedremo meglio,
è che all’interno di esso non solo sono
praticabili vie spirituali diverse, ma anche
differenti convinzioni metafisiche e fedi
religiose.

Le scritture indù
Questa grande flessibilità e varietà del mondo
religioso indiano, la si può comprendere solo
alla luce della complessità delle sue scritture
che, non a caso, sono il prodotto del
convergere di due culture profondamente
differenti.
La società e la religione indiana sono infatti il
risultato di un’emigrazione avvenuta nel
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secondo millennio a.C. da parte di una
popolazione di razza nordica e di lingua indo-
europea che denominava se stessa Ārya. Nel
giungere nell’attuale India dall’Asia centrale,
questi popoli nomadi hanno però incontrato
una civiltà urbana antichissima di lingua
dravidica, probabilmente in quel periodo in
una fase di profonda crisi. La spiritualità indù
che conosciamo è dunque, in ultima analisi,
una sintesi tra la cultura religiosa Ārya, a cui
si devono gli inni più antichi dei testi sacri
indiani, e quella dravidica a cui sembrano
collegarsi vari elementi, tra cui lo yoga, il
culto di Śiva e della Dea, e anche la sacralità
della vacca. Le popolazioni Ārya, comunque,
tramandavano, a livello orale, una serie di
testi, poi redatti tra il 1200 e il 500 a.C., che
presero il nome complessivo di Veda, termine
la cui radice significa vedere, conoscere.
L’importanza di questa collezione di testi, e
quindi della “Scrittura”, è un elemento
fondamentale dell’induismo. Sotto tale
profilo, quest’ultimo, in modo abbastanza
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simile al cristianesimo, distingue una
Rivelazione (śruti), termine sanscrito che
vuol appunto indicare qualcosa che uno ha
semplicemente udito, ed una Tradizione
(smrti).
La Rivelazione indiana è appunto interamente
costituita dai Veda. Questo testo è in realtà un
insieme di libri di cui la parte più corposa è
composta da quattro raccolte che si chiamano
Samhitā. Si distinguono, a questo proposito, il
Rg-veda, il Sāma-veda, lo Yajur-veda e
l’Atharva-veda. Queste raccolte sono poi state
arricchite da altri gruppi di testi come i
Brāhmana, che sono prevalentemente testi
liturgici, e gli Āranyaka, testi destinati ad
essere meditati nelle selve dagli eremiti. A
chiusura della raccolta vedica ci sono infine le
Upanisad, che sono appunto i libri finali del
Veda, i quali, proprio a motivo di ciò,
vengono anche detti Vedanta. Questi testi
sono particolarmente celebri perché
esprimono la parte più metafisica e mistica
dell’intera collezione.
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Accanto ai libri citati, che costituiscono la
“Rivelazione” (śruti), ci sono poi, come si
diceva, tutta una serie di altre opere che
costituiscono la “Tradizione”(smrti). Si
distinguono così all’interno di quest’ultima i
Vedānga, che sono testi ausiliari dei Veda e si
occupano delle scienze ausiliari indispensabili
alla conoscenza di esso, i Dharmaśāstra che
sono i codici legali che regolano la vita
religiosa e sociale degli indù, di cui
fondamentale è la Manusmrti, e i Sūtra, cioè
brevi aforismi sia di argomento vario che
specifici delle scuole filosofiche. Soprattutto,
però, fanno parte della “Tradizione” i Purāna
e il Mahābhārata. Il primo è un’opera
voluminosa frutto della volontà di mettere
ordine all’immensa congerie di miti e
leggende, contenente diciotto libri maggiori
ed altri minori. Esso è considerato il Veda
della gente comune, dal momento che la
lettura dei testi vedici era un privilegio
esclusivo dei brahmani. Il secondo è
un’immensa opera, certamente la più
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importante della cultura indiana. I testi che la
compongono, redatti in un arco di tempo che
va dal quarto secolo a.C. al quarto secolo
d.C., sono in fondo una sorta di enciclopedia
del sapere tradizionale brahmanico. Esso
narra per lo più miti e gesta di eroi passati; di
fondamentale importanza, al suo interno, è la
già citata Bhagavd-gītā. Composta attorno al
II secolo a.C., essa è considerata da molti il
“Vangelo” dell’induismo, essendo un
insegnamento impartito da Dio in persona ad
un devoto. La sua importanza è legata al fatto
che il messaggio centrale di questo testo
permette di superare uno dei dilemmi
fondamentali del pensiero religioso indiano:
quello della scelta fra azione e rinuncia. È
questo, sotto diversi aspetti, il problema
filosofico più sottile dell’induismo. Da un
lato, infatti, l’azione, e in particolare la
necessità di agire in base alla propria
condizione di nascita, è una necessità
imprescindibile, al tempo stesso però ogni
genere di azione nel mondo produce karma
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perpetuando così quel circolo vizioso che
produce in eterno il ciclo delle rinascite.
Krsna, un’incarnazione divina (avatāra),
nella Bhagavad-gītā insegna precisamente
che c’è un tipo di azione che non produce
karma e che anzi conduce alla liberazione: è
l’azione disinteressata, quella compiuta senza
ego ed offerta al Signore.
Altro testo importante della Tradizione è il
Rāmāyana, che narra le gesta di Ramā,
un’altra incarnazione divina, dal momento
che per l’induismo la discesa del divino in
terra è una cosa piuttosto comune. È
importante sottolineare come il Rāmāyana
non parli affatto di moksa, la liberazione, ma
esclusivamente della vita terrena e
dell’importanza della famiglia e del dharma,
cioè di ciò che è giusto ed opportuno, che
viene qui definito come sommamente difficile
a conoscersi. In ogni caso Ramā è oggi
significativamente il nome di Dio più
popolare in India. L’epica è così alla base del
nuovo brahmanesimo, e sia i Purāna che il
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Mahābhārata rivestono un’importanza
fondamentale nell’induismo moderno. Questi
testi, sviluppando alcune delle intuizioni più
profonde delle Upanisad, sono alla base sia
delle successive scuole filosofiche sia delle
principali figure divine dell’induismo.
La religiosità indiana, quindi, pur nella sua
varia complessità, è interpretabile attraverso
delle fasi storiche. Il momento più antico è il
vedismo, che si fondava sul rito sacrificale
eseguito in onore di molteplici figure divine,
poi il brahmanesimo antico, che indagando il
significato profondo del sacrificio ha avviato
la riflessione introspettiva poi culminata nel
Vedānta (Upanisad), ed infine il
brahmanesimo recente o induismo, nel quale
svolge un ruolo centrale la devozione
religiosa e i cui testi di riferimento sono
appunto nei Purāna e nell’epica. Questo
schema, che naturalmente semplifica non
poco la complessità della religiosità indiana,
riassume quindi i tre momenti fondamentali,
non necessariamente successivi, della
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spiritualità indiana: il rito, l’introspezione
meditativa e la devozione.

Le religioni dell’induismo
La devozione verso varie figure religiose è
certamente un aspetto importante
dell’induismo moderno. Prima di presentare
le varie confessioni di fede, però, è opportuno
ricostruire brevemente il percorso che ha
condotto il pensiero religioso indiano dal
politeismo dei testi più antichi all’idea di un
Dio unico e supremo. È questo un processo
che, presente in potenza nelle raccolte
(samhitā) più antiche, si è sviluppato nei
Brāhmana e soprattutto in alcune Upanisad.
A partire da questi testi nell’induismo si è
così cominciato a parlare di tre principali
divinità: Visnu, Śiva e Brahmā, che sono
comunque considerate una triplice
manifestazione dell’Unico Essere Supremo.
Non a caso queste figure, secondo la
tradizione, interagiscono rispettivamente nella
creazione, nella conservazione e nella
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distruzione ciclica del cosmo. La prima di
queste figure, Visnu, si ispira ad una divinità
solare del Veda, e viene anche detta
Nārāyana. Fondamentali sono le sue discese
nel mondo per ristabilire il dharma, Rāma e
Krsna sono appunto sue incarnazioni che
diventano altrettanti nomi divini. Śiva, è
invece, una divinità conosciuta nel pantheon
vedico col nome di Rudra, che significa
“benefico”, ma è una figura non a caso ricca
di contraddizioni, proprio in virtù della sua
funzione di “distruttore”. Bramhā - da non
confondere con il Bráhman neutro - ha un
solo centro importante di adorazione a lui
dedicato, ed è comunque una divinità diversa
dalle altre due, perché nasce e muore. La sua
caratteristica fondamentale, secondo la
tradizione, è quella di cantare il Veda appena
nasce, all’inizio di ogni era cosmica.
Queste figure religiose, a cui dovrebbero
essere affiancate numerose altre, dimostrano
al tempo stesso la continuità, ma anche
l’evoluzione che ha avuto il vedismo antico.
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Come abbiamo detto, infatti, sulla scia
dell’epica e dei Purāna, la sensibilità
religiosa del così detto nuovo brahmanesimo
si è tinteggiata sempre più dei colori della
grazia e della devozione. Questa nuova
espressione religiosa, si è così andata ad
affiancare all’antico rito vedico e soprattutto
alla pura ascesi yogica delle Upanisad. Lo
yoga, da questo punto di vista, non deve
essere identificato semplicisticamente con
delle posture ginniche, ma come una
disciplina più ampia e complessa che
comprende diversi passaggi morali ed
ascetici. L’ascesi praticata con lo yoga, sotto
questo aspetto, al di là del fatto che di esso ne
esistano diverse tipologie, sostituisce il
sacrificio esterno e rituale con quello
interiore. Risultato principale di questo nuovo
tipo di sacrificio, o meglio di questo nuovo
modo di impostare la vita religiosa, fu la
scoperta più importante del pensiero indù,
quella del Sé o ātman. Sebbene sconfessato
dal buddhismo, infatti, l’induismo professa in
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genere fede cieca in un puro soggetto di
coscienza, essenza ultima dell’uomo, che
definisce appunto attraverso i termini che
abbiamo citato e con altri ancora che vogliono
appunto distinguere l’“io” fenomenico da
quello reale e senza forma al di sotto di esso.
Alla luce di tale convinzione, l’obiettivo
fondamentale della vita spirituale indù
diventa appunto la realizzazione dell’identità
tra ātman e Bráhman, ovvero tra questa
essenza ultima dell’uomo e il divino. Siffatta
fusione o identificazione con la divinità, viene
espressa con il termine sanscrito advaita,
dove la a iniziale, che svolge una funzione
privativa, sta ad indicare una dottrina che
esclude una vera dualità (dvaita), cioè una
vera differenza tra l’essenza dell’uomo e Dio.
Questa dottrina, sebbene non universalmente
accettata anche all’interno dello stesso
induismo, almeno in una forma così radicale,
permette di comprendere come la divinità in
questa religione sia al tempo stesso
assolutamente trascendente ed assolutamente
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immanente. Dio, infatti, o meglio il Bráhman,
viene concepito come l’unica Realtà
concretamente presente nel cosmo e tuttavia
inesprimibile con la parola ed inafferrabile
col pensiero.
Sotto questo aspetto l’induismo pensa che ci
siano due livelli di verità, o meglio ritiene che
il Bráhman abbia una duplice forma: una
trascendente, senza qualificazioni, eterna e
non manifestata; ed un’altra che invece entra
in relazione col mondo, svelandosi quindi nel
tempo e nello spazio. Proprio questa
distinzione è alla base del relativismo indiano,
nel quale ciascun fedele, come vedremo, è
lasciato libero di scegliere la propria divinità
di elezione, essendo la fede religiosa
semplicemente un mezzo per arrivare ad una
Verità ulteriore che trascende tutto. Questa
grande flessibilità del mosaico religioso
indiano, comunque, non deve sorprendere.
Ciò, anzi, è persino scontato perché l’India
non conosce e non ha mai conosciuto l’idea di
un’autorità centrale, come per esempio in
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Occidente la Chiesa, che salvaguardi e
trasmetta la dottrina della tradizione. In
assenza di tale centralizzazione si sono così
moltiplicate religioni e scuole filosofiche
diverse con differenti consuetudini ascetiche e
monastiche. Sebbene, infatti, quasi tutti gli
indù facciano un comune riferimento ai Veda,
è altrettanto vero che le diverse sette lo
interpretano in maniera anche opposta. Se tali
differenze, in genere, non comportano
conflitti è proprio perché la Verità ultima,
come si diceva, viene concepita come
assolutamente trascendente, al di là delle
religioni stesse, dei riti e dei dogmi.

I darśana filosofici
In India questo pluralismo religioso si
accompagna necessariamente ad una
molteplicità di metafisiche. Tra gli aspetti che
caratterizzano il nuovo brahmanesimo, infatti,
c’è il fiorire di tutta una serie di scuole
filosofiche tra i cui scopi fondamentali c’era
appunto quello di dare sistematicità a questa
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nuova fase religiosa. Esse, inoltre,
intendevano anche rispondere alle nuove sfide
lanciate dal buddhismo e dal gianismo che,
misconoscendo il ruolo dei brahmani,
minacciavano di sovvertire l’intero ordine
sociale.
In realtà, però, sia queste scuole filosofiche
che queste nuove correnti religiose, avevano
forse un’origine comune in una serie di
sconvolgimenti storici, sociali e religiosi
verificatesi intorno alla metà del primo
millennio a.C. Per varie ragioni, infatti, di
contro alla tradizionale visione vedica del
mondo, che era sostanzialmente armoniosa e
positiva, fondata com’era sull’esattezza del
rito e sul merito che ne conseguiva, si affermò
una sensibilità spirituale nuova,
maggiormente consapevole della contingenza
del mondo e quindi del dolore
intrinsecamente connesso all’esistere. Anche
Patañjali, da questo punto di vista, il
protagonista di una delle scuole filosofiche
nate in questo periodo ed autore degli Yoga-
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sūtra, con una forza non inferiore a quella del
Buddha, affermava che ‹‹tutto è dolore per
chi ha discernimento›› (II, 15). Questa nuova
consapevolezza del “male di vivere”, in
generale, rese più ascetica la religiosità
indiana, e non solo molti brahmani non
aspettarono più la vecchiaia per divenire
asceti, com’era consuetudine, ma sostituirono
il rito vedico con l’ascesi yogica, come se
solo quest’ultima, conducendo l’asceta in uno
stato di coscienza superiore, potesse far
sperimentare all’uomo quell’appagamento
completo e quella beatitudine impossibile
nell’esistenza ordinaria. È questa, appunto,
l’epoca del passaggio dai testi rituali più
antichi dei Veda a quelli maggiormente
speculativi ed ascetici delle Upanisad.
In ogni caso le principali scuole filosofiche
(darśana) sorte in questo periodo sono sei,
sebbene sia possibile contarne molte altre: il
Nyāya, scuola logica di Gautama Aksapāda; il
Sāmkhya, scuola scientifica di Kapila che
dualisticamente assegna piena realtà allo
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spirito (purusa) come alla materia (prakrti); il
Vaiśesika, corrente analitica di Kanāda; lo
Yoga di Patañjali; la Mīmāmsā di Jaimini
incentrata sull’importanza del rito e il
Vedānta di Bādarāyana. Tra queste visioni
sistematiche della realtà (darśana) quelle più
importanti da ricordare sono sicuramente lo
Yoga, che attraverso otto “passi” proponeva
un percorso per raggiungere la realizzazione,
e il Vedānta o Uttara-Mīmāmsā. Quest’ultima
si basa su un triplice sistema di testi di cui le
Upanisad, essendo l’ultimo testo dei Veda, ne
rappresenta la fonte principale. Gli altri due
testi sono invece la già menzionata
Bhagavad-gītā e i Brahma-sūtra di
Bādarāyana. Tale darśana è importante
perché se all’interno dell’induismo
cercassimo una convinzione religiosa più
universalmente considerata autorevole, e
dunque riconosciuta ortodossa dalla
maggioranza degli indiani, dovremmo proprio
far riferimento al Vedānta, il cui massimo

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rappresentante, non a caso, fu Śankara, il
maggiore pensatore dell’induismo.
Di questo autore, tuttavia, non possiamo
riassumere qui la biografia, peraltro non
esente da mitizzazioni leggendarie, né la
storiografia bibliografica che discute
l’autenticità di gran parte delle opere a lui
attribuite. Ci limitiamo perciò a menzionare la
doppia chiave dell’ideologia śankariana: il
Bráhman-nirguna (l’Assoluto visto come
privo di attributi) e la māyā-avidyā (il mondo
visto come illusoriamente reale a causa
dell’ignoranza). Egli, infatti, attraverso i suoi
commenti alle Scritture, rilesse in questi
termini gli scritti dei suoi predecessori nel
Vedānta Bādarāyana e Gaudapāda.
Precocissimo e di vastissima cultura, ha
dedicato gran parte della sua breve esistenza
alla promozione delle proprie idee, che
passano sotto il nome dottrinale di
kevalādvaita, impegno che lo portò ad
intavolare celebri dibattiti in tutta l’India. In
questo senso è il massimo responsabile del
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rinascimento brāhmanico e celebri sono le sue
dispute con i buddhisti, con la scuola rivale
del Sāmkhya e con il ritualismo della
Mīmāmsā. Egli operò una relativizzazione del
rito che lo condusse ad essere in aperto
contrasto anche con tutti i movimenti
devozionali del tempo. Il Dio personale
(Īśvara o Apara Bráhman), infatti, è da lui
considerato, alla stregua del cosmo, come una
mera emissione di un Essere transempirico e
trascendentale, il Para Bráhman. Da questo
punto di vista, sebbene ci sembrino
condivisibili le osservazioni di chi giudica
troppo sbrigative le accuse rivolte a Śankara
di aver sfigurato l’Īśvara-dio-persona
conferendogli gli attributi della māyā
(illusione) e dei tre guna (qualità), è tuttavia
indubbio che nella sua teologia non c’è vera
salvezza per chi cerca la comunione con
questo Dio inferiore, che rappresenta solo uno
scalino verso l’eterno annullamento.

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È questa, in ogni caso, come si diceva, tra le
molte convinzioni religiose dell’induismo,
quella che riscuote maggiori consensi.

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1.2. La vita monastica nell’induismo

Gli inizi
La vita monastica nell’induismo è stata
avviata solo nel IX secolo d.C., con Śankara,
e come reazione al successo che stava
riscuotendo il cenobio buddhista.
L’India, tuttavia, conosceva già forme di vita
comunitaria impostate sul rapporto maestro-
discepolo e forme di ascetismo eremitico sin
dai tempi vedici. Si potrebbe citare, a questo
proposito, uno degli inni più antichi del Rg-
Veda, che disegna appunto il ritratto mitico
dell’asceta, e rappresenta perciò, in un certo
senso, il prototipo del monaco. Tale inno, in
attesa di analisi filologiche che possa
precisare meglio la datazione, dimostra che
circa 3.500 anni fa l’India conosceva già una
tradizione ascetica consolidata.

Inno del Rg-Veda (X, 136) [ca. 1200 a.C.].


Il prototipo del monaco

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In lui c’è il fuoco, in lui l’acqua,
la terra e il cielo sono in lui.
Egli è il sole che il mondo intero contempla,
la luce stessa, l’asceta dai lunghi capelli.
Cinti di vento, fango d’ocra è il loro vestito.
Da quando dei sono in essi penetrati
vanno seguendo le ali del vento
gli asceti del silenzio.
Inebriati, essi dicono, dalle nostre austerità,
i venti abbiamo soggiogato come destrieri.
E voi, comuni mortali, quaggiù,
non potete vedere oltre i nostri corpi.
Fra cielo e terra, librandosi nell’aria,
dall’alto egli mira la forma di ogni cosa.
Si è fatto, l’asceta silenzioso,
amico e collaboratore di tutti gli dei.
Cavalca i venti, compagno del loro soffio,
dagli dei inspirato.
Sta nei due mari,
a oriente e a occidente, il silenzioso asceta.
L’orma segue di tutti gli spiriti,
delle ninfe e degli animali della foresta.

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I pensieri loro conosce e, con l’estasi
innalzato,
ne diviene dolce amico, l’asceta dai lunghi
capelli.

Come si diceva, però, tale ricerca ascetica non


era compresa all’interno di una vera e propria
organizzazione monastica. Una prima
caratteristica di fondo del monachesimo
indiano, sottolineata per esempio da Henri Le
Saux, un monaco benedettino pioniere del
dialogo con l’induismo, è che per tremila anni
esso ha vissuto, dal punto di vista
amministrativo, in uno stato informe, un po’
come quello cristiano prima del Concilio di
Calcedonia (451). La mancanza di un’autorità
centrale che in qualche modo disciplinasse la
condotta religiosa, così come la trasmissione
delle dottrine, ha fatto sì che in India lungo i
secoli si siano moltiplicate, come già abbiamo
detto, concezioni spirituali e filosofiche anche
radicalmente diverse. Il risultato, visibile
ancora oggi, è che la vita religiosa e quella
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monastica presentano importanti differenze di
fondo. Sebbene, infatti, corrisponda al vero
che tutti gli indù facciano un comune
riferimento ai Veda - sebbene si professi indù
anche l’indiano che, trascurando la tradizione
vedica, si rifà invece alla rivelazione āgamica
(testi considerati rivelazione alla stregua del
Veda) - è altrettanto certo che le varie scuole
filosofiche interpretano questo testo in
maniera spesso opposta, senza che ciò
comporti conflitto o volontà di eliminare le
convinzioni altrui.

La condizione monastica come fine e


compimento del sistema socio-religioso indù
Prima di parlare del monachesimo in se
stesso, tuttavia, è necessario parlare della
società indiana, o meglio del sistema sociale
indiano; perché in esso l’ideale del monaco
non era affatto un’appendice esterna, una
realtà marginale estranea alla vita secolare.
Nell’India tradizionale, anzi, la dimensione
esistenziale del monaco rinunciante era il
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modello, la chiave interpretativa ed il
compimento non solo della vita religiosa, ma
anche di quella ordinaria. Tale prospettiva di
fondo emerge con chiarezza dalla divisione
tradizionale della società indù e dal suo
dinamismo interno. La struttura sociale
dell’India, infatti, era, ma in parte lo è tuttora,
notoriamente composta da quattro categorie o
classi (varna): i brāhmana (cioè i sacerdoti),
gli ksatriya, (cioè i principi e i guerrieri
nobili), i vaiśya, (cioè la gente del popolo), e
poi gli śūdra (il cui compito è servire le tre
categorie più elevate).
Il bramino era dunque in cima alla scala
sociale, e la sua vita quotidiana, sebbene
ricordi più quella di un sacerdote che quella
di un monaco, ha sicuramente rappresentato
un modello che ha poi influenzato la vita
monastica. Egli doveva alzarsi presto e, prima
di offrire al sole nascente le preghiere del
mattino, si doveva purificare con un bagno
nel fiume o nella vasca. Durante la mattinata,
poi, era suo compito mantenere acceso il
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fuoco sacro, insegnare le Scritture ed
adempiere agli altri doveri legati all’homa
(rito sacrificale). A mezzogiorno offriva altre
preghiere e consumava un semplice pasto
vegetariano preparato dalla moglie, che era
anche la sua cooperatrice in tutte le varie
cerimonie religiose. Nel pomeriggio, invece,
si riuniva con i membri della comunità per
una meditazione di gruppo sui Veda, o per
una ricerca di argomento filosofico, come si
usava al tempo delle Upanisad. Infine, al
tramonto, a conclusione delle pratiche
quotidiane, offriva le preghiere della sera.
Questa funzione sacerdotale metteva il
bramino al vertice della struttura sociale, alla
quale era connesso anche un dinamismo
legato agli stadi della vita, denominati
āśrama. Tale dinamismo riguardava appunto
la sola classe sacerdotale, ma venne poi
esteso alle altre due classi nobili. Il primo
stadio era quello del brahmacarya, durante il
quale il giovane doveva vivere come uno
studente religioso nella casa di un maestro.
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Successivamente si diveniva grhastha, fase
nella quale un uomo faceva l’esperienza della
vita di famiglia, terminata la quale si entrava
nella fase del vānaprastha; l’adulto, cioè, in
prossimità dell’anzianità, doveva ritirarsi dal
mondo e vivere nella selve, o comunque ai
margini del villaggio. Poteva fare questa
scelta anche con la moglie, ma era necessario
che si dedicasse alla lettura dei testi sacri (gli
Āranyaka) e alla meditazione.
Alcuni passi tratti dalla Manu-smrti, il testo
che compendia l’etica indiana, ci consente di
comprendere in quale misura la rinuncia fosse
legata a queste fasi della vita: ‹‹Allorché un
capo famiglia vede la pelle coprirsi di rughe e
i capelli incanutirsi, e si vede attorniato dai
nipoti, allora può ritirarsi nella foresta››
(Mānava-dharma-śāstra o Manu-smrti VI, 2)
Questa fase di ritiro nella foresta, tuttavia,
doveva essere solo la preparazione ed il
preludio ad un quarto ed ultimo stadio di vita,
quello del samnyāsa, in cui un uomo
diventava samnyāsin, cioè un rinunciante nel
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senso più vero e radicale del termine: ‹‹Dopo
aver trascorso la terza parte della sua vita in
eremitaggio nella foresta, egli può,
rinunciando ad ogni attaccamento, vivere da
asceta nel quarto periodo della sua esistenza››
(Mānava-dharma-śāstra o Manu-smrti VI,
33).
C’è da dire, tuttavia, che lungo i secoli questa
fase finale di vita è diventata una sorta di non-
stadio che, in virtù della sua natura radicale,
trascende ogni consuetudine. Una delle
caratteristiche precipue del monaco indiano,
sotto questo aspetto, è appunto quella di far
saltare tali ordini gerarchici. Del resto nel
sub-continente indiano, già dal VI secolo
a.C., erano apparse sette di asceti mendicanti
non brahmaniche. Inoltre, almeno per i
monaci visnuiti, chi sceglie di fare il
rinunciante non ha più casta e si mette al di
fuori delle leggi che determinano l’ordine
sociale.
In generale, tuttavia, nella gerarchia sociale
indù era previsto che solo le classi superiori
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potessero percorrere una via religiosa, mentre
a quelle inferiori era preclusa anche una vera
istruzione di questo tipo. Se da un punto di
vista occidentale una tale discriminazione
sembra un’intollerabile ingiustizia ed
un’offesa alla carità, non deve essere
dimenticato, però, essendo questo uno degli
aspetti chiave della spiritualità indù, che
l’India ragiona con schemi escatologici
diversi rispetto a quelli cristiani. Le legge del
karma, che almeno in parte giustifica tale
gerarchia, è in primo luogo una legge
evolutiva uguale per tutti che porterà
ciascuno, dopo un lunghissimo ciclo di
esistenze, ad una stessa meta ontologica, che
sarà appunto la medesima in ciascuno: la
fusione del proprio essere con quello divino.
Dietro l’immediata disuguaglianza di questo
sistema, c’è, potremmo dire, una democrazia
di fondo ed un egualitarismo assoluto. Del
resto per questa cultura religiosa le condizioni
sociali ed esistenziali sono un prodotto del
karma, cioè il risultato di quella legge
31
secondo la quale ad ogni azione corrisponde
oggettivamente un determinato effetto. Per un
indiano, di conseguenza, l’accettazione della
condizione di nascita rappresenta in assoluto
la scelta morale migliore, nella convinzione
che proprio e solo ubbidendo ad essa egli
potrà fare una vera evoluzione. In ogni caso
gli eccessi di rigidità ed alcune palesi
degenerazioni del sistema sociale indù hanno
trovato un grande ostracismo già in India.
Non deve essere dimenticato, a questo
riguardo, che tra i principi di fondo del
buddismo c’era appunto quello che la vita
monastica poteva e doveva essere di tutti e di
ciascuno.
La struttura sociale indiana, quindi, si
appoggia su di una interpretazione della
dottrina del karma più rigida di quella
buddhista, ed in base ad essa orienta le scelte
di natura spirituale e religiosa. L’induismo,
infatti, in base alla suddetta legge, ritiene in
fondo che ogni uomo incarni una via religiosa
diversa. L’individualità del karma, da questo
32
punto di vista, fa sì che ogni essere umano
abbia esigenze evolutive particolari e
differenti, e che in conseguenza di ciò non
possano darsi comportamenti religiosi troppo
rigidi che valgano indistintamente per tutti. In
generale, infatti, in base al principio che
abbiamo appena esposto, le regole
dell’ascetismo monastico non sono in
assoluto più opportune della vita familiare, se
il karma richiede, anzi, indirizza, verso
quest’ultima. È questo il motivo per cui
l’indù, in un certo senso, è lasciato libero di
scegliere – nei margini dello schema sociale
presentato – non solo la sua condizione
esistenziale, ma anche la prassi ascetica che
più si confà alle sue caratteristiche e al suo
temperamento. Anzi, la spiritualità indiana
lascia addirittura liberi di scegliere persino
una propria divinità d’adozione, perché il
nome divino è considerato un mezzo per
arrivare al Dio che è al di là di tutti nomi. Al
tempo stesso, però, il laico, cioè colui che non
si consacra integralmente alla rinuncia, non
33
può sperare di ottenere una definitiva
realizzazione, almeno in un’ottica
tradizionale.
Per l’induismo, comunque, ogni uomo è
destinato alla vita monastica. O meglio, ogni
uomo nella cultura vedica è destinato a
divenire brāhmana e quindi un samnyāsin. La
via del monaco, quindi, solo apparentemente
è il privilegio riservato ad un’elite di pochi
eletti, ma è in realtà l’estuario finale e
necessario di ogni esistenza umana. Già
l’induismo vedico, in altri termini, non solo
considerava indispensabile la condizione
monastica di ascesi e rinuncia, ma soprattutto
la riteneva un punto di arrivo nella catena
evolutiva. Anche lo śūdra, da questo punto di
vista, la cui condizione attuale non gli
consentiva di abbracciare la vita del
samnyāsin, era destinato pure lui,
inevitabilmente, a vestire l’abito arancione
del monaco.

Il monaco come rinunciante


34
In questo quadro sociale, la cui dinamica
spinge dalla vita familiare a quella ascetica, e
che va sempre, quindi, verso l’interiore e
l’essenziale, si può capire come il samnyāsin,
in quanto prototipo del monaco, sia prima di
ogni altra cosa un acosmico, un uomo cioè
che avendo compreso l’impermanenza o
l’illusione del mondo vi rinuncia quasi
attraverso un atto di logica deduttiva. Egli,
tuttavia, lo fa dopo aver appreso la lezione
esistenziale offerta dai precedenti stadi di
vita. Sotto questo aspetto il modello a quattro
stadi può forse leggersi come l’individuazione
di un modo di vivere ideale che permette
appunto una sicura e globale evoluzione
personale. Al tempo stesso, però, è innegabile
che questa crescita interiore sia legata al
distacco. Per comprendere, dunque, quali
sono le ragioni che fanno della rinuncia l’atto
fondamentale del monaco indù, è necessario
richiamare i testi sacri indiani in cui si parla
di essa.

35
L’India sotto questo aspetto, come già
abbiamo detto, ha un patrimonio di scritture
le cui radici si perdono letteralmente nella
notte dei tempi (almeno a livello orale), è
ovvio, quindi, che al suo interno, su molti
temi, ci siano mutamenti di prospettive e
grandi cambiamenti. Nei testi più antichi dei
Veda, da questo punto di vista, non si parla
che eccezionalmente di rinuncia, e, in modo
del tutto simile ai salmi della tradizione
ebraica, si chiede piuttosto una lunga vita
vissuta in prosperità e pienezza. Con la fine
dell’epoca vedica, però, con le Upaniṣad,
emerge con forza la figura dell’asceta
rinunciante, categoria che va ad assumere
quella centralità prima occupata dal rito
celebrato dai sacerdoti. L’ultimo libro dei
Veda tesse appunto l’elogio di questa nuova
figura religiosa, l’asceta, e da questi testi in
poi la categoria della rinuncia monastica e
dello yoga prevale su tutti gli altri vocaboli
del dizionario religioso indù. Risulta
significativo, da questo punto di vista,
36
elencare con quanti sostantivi e aggettivi
diversi è indicato il monaco, colui che, per
antonomasia, compie questa scelta. Nei vari
testi troviamo, infatti, termini generici come
parivrājaka (monaco errante) e sādhu (retto,
virtuoso, buono), ed altri più specifici, come
muni (colui che ha fatto voto di silenzio,
mauna), avadhūta (colui che ha rinunciato a
tutto), yati (colui che ha messo sotto controllo
le passioni), yogin (colui che segue lo yoga),
pātrin (colui che porta la tazza per le
elemosine), dandin (colui che porta un
bastone), tapasvin (colui che pratica il tapas
cioè l’ascesi che genera calore).
La rinuncia, quindi, in ultima analisi, risulta
essere l’imperativo massimo della vita
spirituale indù. Forse, da questo punto di
vista, non c’è un testo che ricapitoli in
maniera più sintetica questo principio della
Mahānārāyana Upanisad: ‹‹Rinuncia, così è
chiamata Bráhman da coloro che pensano››.
(Mahānārāyana Up., 530). Ad esso fa eco un
altro passo del Vedanta: ‹‹Conosci il bráhman
37
attraverso la fede, la devozione, la
concentrazione. Non è attraverso l’azione né
la progenie o la ricchezza, ma soltanto
attraverso la rinuncia che si raggiunge la vita
eterna›› (Kaivalya Up., 2). A questi testi della
Rivelazione si possono aggiungere anche
quelli più autorevoli della Tradizione, come la
Bhagavad gītā:

‹‹Distacco dagli oggetti del


senso, umiltà, percezione del male,
della nascita, della morte, della
vecchiaia, della malattia e del
dolore, distacco da ogni cosa, anche
dalla moglie, dai figli, dalla casa;
disposizione uguale e costante per
tutti gli avvenimenti sia desiderabili
che non desiderabili, devozione a
me (Signore Krsna) con sincerità e
disciplina; ritiro in luoghi solitari,
senza prendere alcun piacere dalla
compagnia degli uomini; costanza
nella conoscenza dello spirito; retta
38
visione dell’oggetto della vera
conoscenza: questa è vera
saggezza›› (Bhagavad gītā 13, 8-
11)

Il samnyāsin come parivrājaka (asceta


errante)
Il samnyāsin, dunque, è la figura che domina
il monachesimo indiano. Esso, tuttavia,
presenta non poche differenze rispetto alla
tradizione monastica cristiana. Uno dei più
importanti teologi del dialogo interreligioso,
da questo punto di vista, Raimon Panikkar, ha
scritto che l’India conosce due ideali legati al
monaco. Il primo è quello del monaco inteso
come uomo perfetto, pieno di compassione e
verità, capace di controllare pienamente le sue
passioni; ed un secondo ideale in cui il
monaco è l’uomo della trascendenza totale,
del superamento assoluto. Il primo ideale
Panikkar lo chiama umanesimo, il secondo
angelismo, affermando che nelle Upanisad
queste due correnti si fondano. Sotto questo
39
aspetto la “regola” del samnyāsin,
esprimendo proprio quel principio che il
teologo ispano-indiano chiama angelismo, è
alla base di una forma di rinuncia tanto
radicale da distinguersi profondamente da
quella cristiana. San Benedetto, da questo
punto di vista, ne avrebbe criticato uno dei
suoi principi fondamentali: la necessaria
dimensione itinerante. Leggendo la Regola
del Maestro e poi quella di San Benedetto,
infatti, sarebbe facile notare la diversa
sensibilità su questo punto. Nel primo
capitolo della regola benedettina, per
esempio, si dà una specie di classifica
meritoria alle varie forme di vita monastica,
elencando quattro diversi tipi di monaci. Al
primo posto egli mette i cenobiti, al secondo
gli eremiti, al terzo i sarabiti, definendoli
“tristissima specie di monaci”, e poi, al
quarto, i monaci girovaghi, che Benedetto
definisce peggiori dei sarabiti. L’India,
invece, non solo permette la coesistenza di
questi diversi stili monacali, ma, nel
40
samnyāsin, esalta piuttosto questa quarta
categoria aspramente criticata nella Regola.
Se l’induismo, tuttavia, ha maturato una
sensibilità così diversa, è perché la spiritualità
indiana possiede, in un certo senso, un’idea di
distacco più radicale di quella cristiana. Il
monaco, secondo questa tradizione religiosa,
deve liberarsi da ogni attaccamento, anche da
quello del luogo. Egli, cioè, deve cercare la
sua stabilitas non in un posto specifico ma, al
di là di esso, nell’interiore. Le regole del
samnyāsin, da questo punto di vista, puntano
effettivamente a quel distacco e a
quell’angelismo di cui diceva Pannikar.
Secondo i testi upanishadici il monaco deve
infatti essere colui che non ha più nulla a che
fare con la terra, colui, cioè, che non
appartiene più a questo mondo e vive già
sull’altra riva, oltre l’illusorietà del cosmo, in
uno spazio ontologico dove già si è realizzata
l’unione con la realtà ultima e con il divino. È
sufficiente menzionare, a questo proposito,
come la caratteristica precipua del monaco
41
indiano sia proprio la negazione assoluta
dell’ego e il superamento del concetto di
individualità fisica e mentale, limitazioni che
devono essere preliminarmente trascese
perché di impedimento alla realizzazione
della comunione del proprio essere con quello
divino.
La povertà estrema e il silenzio, da questo
punto di vista, sono i segni esteriori di tale
indispensabile acosmismo. Su di essi
insistono, ripetutamente, diversi testi: ‹‹Il
vero asceta sta sempre da solo; se due stanno
insieme, formano un paio; se tre stanno
insieme, sono come un villaggio; e se più (di
tre) diventano come una cittadina. Agendo
così si allontanano dal loro dharma, perché
cominciano a scambiarsi notizie del principe
attuale, delle elemosine ricevute e, tramite un
contatto intimo, si accrescono tra di loro
sentimenti di affetto, di gelosia o di
malvagità››1. Da questo punto di vista la
necessità della solitudine, del vagabondaggio
ascetico, e del silenzio, sono richiamati in
1
P.V. KANE, History of Dharmaśāstras, vol. II, Poona 1941, p. 933.

42
numerosi altri brani che appunto descrivono
le modalità di questo costume itinerante:
‹‹Vada in giro in silenzio assoluto, non
interessandosi affatto dei divertimenti che gli
possono venire offerti›› (Mānava-dharma-
śāstra o Manu-smrti, VI 6,39). Una delle
descrizioni classiche del samnyāsa, infatti, è
che: ‹‹Egli non deve più dire alcunché
suo…Non deve né desiderare di vivere, né
desiderare di morire, deve attendere il tempo
giusto, come un salariato attende il suo
salario. Deve peregrinare sempre solo, sempre
tacere… Non ripagare mai l’ira con l’ira, ma
benedire piuttosto coloro che lo maledicono.
Veritiero quando parla, deve trovare la gioia
nell’assoluto›› (Jābala Up., 5 e Manu-smrti,
VI, 45-49).
Già l’etimologia di samnyāsin, in ogni caso,
riassume questo ascetismo radicale. Essa
deriva dal prefisso “sam”, perfettamente,
unito a “nyāsa” che vuol dire abbandono,
lasciar cadere, depositare sul suolo; quindi il
samnyāsin è esattamente colui che ha
43
abbandonato ogni cosa, che è oramai fuori da
tutto: ‹‹Coloro che sono giunti alla
conoscenza dell’ātman superano il desiderio
di avere dei figli, il desiderio delle ricchezze,
il desiderio dei beni di questo mondo e
conducono una vita da asceti mendicanti. In
effetti, il desiderio di avere figli è un
desiderio di ricchezza e il desiderio di
ricchezza è desiderio dei beni di questo
mondo; tutto ciò non è che desiderio. Che il
brahmano dunque vada oltre il sapere e che
conduca una vita da bambino. Quando è al di
là tanto del sapere che dello stato d’infanzia,
egli diviene un asceta silenzioso. È soltanto
quando è giunto al di là dell’ascesi e della
non-ascesi che egli conosce veramente il
bráhman…›› (Brhadāranyaka Up., III, 5)
Quando muore un monaco, in virtù
dell’esemplarità della vita, cosa eccezionale
per l’India, non se ne brucia il corpo come
avviene per tutti gli altri mortali, ma viene
sepolto o abbandonato alla corrente del fiume.
Perché il monaco, pur essendo ancora in
44
questo mondo, si è reso estraneo ad ogni sorta
di convenzione relativa e condizionata, ed
appartiene già alla Realtà assoluta. È questo il
motivo per cui tra le cose che il rinunciante
abbandona c’è persino il rito. Esso, infatti,
almeno per un certo induismo, mantiene il
suo senso solo fin tanto che si resta in quella
sfera della dualità in cui si sente la necessità
di chiedere qualcosa ad una divinità percepita
come altra ed esterna da sé, ma che perde
ogni ragion d’essere quando il monaco
partecipa della stessa dimensione divina.
Secondo la tradizione Vedānta, infatti, il
rinunciante al termine dei suoi sforzi, ottiene
la fusione col divino e quindi l’immortalità:
‹‹In verità coloro che nella foresta vivono
nell’ascesi e nella fede, pacificati, sapienti e
nutrendosi delle offerte, privi di passioni,
vanno per la porta del sole, là dov’è l’ātman
imperituro…›› (Mundaka Up., I, 2, 11).

Il rito di iniziazione

45
Rappresentativo di questa condizione
esistenziale estranea all’esistenza comune e
interamente rapita nella dimensione spirituale,
è il rito con cui si diventa samnyāsin. Esso
inizia con una cerimonia funebre, per
simboleggiare la sua morte al mondo. Poi
vengono fatte varie offerte sacrificali al fuoco
sacro, per assicurare una protezione divina e
per la purificazione. Successivamente, con
l’intenzione, l’aspirante colloca questo fuoco
sacrificale dentro di sé, proprio per ricordarsi
che da allora in poi non è più obbligato a
nessun sacrificio esterno, perché tutti i
sacrifici devono essere interiori. Da quel
momento dà l’addio per sempre a tutti i suoi
parenti ed amici, e rinuncia ad ogni suo bene
materiale. Alla presenza di tutti fa un
giuramento solenne di rinuncia perpetua, e
per tre volte ripete: ‹‹Ho lasciato tutto››.
Immediatamente gli vengono tolti i segni di
casta (la corda sacra e la ciocca di capelli),
perché da quel momento non fa più parte di
alcuna casta. Successivamente si spoglia
46
dell’abito secolare e viene vestito con la veste
ocra; di seguito, poi, gli vengono dati un
bastone e il vaso dell’elemosina, simboli del
suo pellegrinare. In ultimo fa un atto di
completa sottomissione ed obbedienza al
guru, che gli comunica un mantra specifico
per le sue necessità. Nessuno, infatti, può
divenire o definire se stesso samnyāsin se non
è iniziato da un altro samnyāsin. Riceve
quindi un nome nuovo e il rito si conclude
quando gli viene conferito il potere di iniziare
al samnyāsa altri aspiranti.
Dopo la consacrazione la vita che aspetta il
rinunciante è, non diversamente dalla
tradizione cristiana, legata a dei voti, sebbene
la cultura occidentale sia maggiormente
impregnata di legalismo. Le liste di questi
voti variano, ma in genere contemplano
povertà assoluta, solitudine, silenzio,
segretezza (per quanto riguarda le formule),
preghiera, contemplazione, amore universale.
Quest’ultimo, in particolare, implica che la
vita del samnyāsin non sia improntata
47
semplicemente alla non-violenza e al
vegetarianesimo, ma alla massima attenzione
per non uccidere, anche inavvertitamente,
degli animali. Se questo accadesse, persino al
samnyāsin sono prescritti degli atti di
espiazione (cfr. Manu-smrti 6, 69-71). Con la
sua specifica veste ocra, la kāvi, il monaco
diventava immediatamente riconoscibile nel
pur variegato e colorito mosaico religioso
indù, ed iniziava, all’insegna di un’estrema
visibilità, la sua vita itinerante. Il saṃnyāsin,
infatti, dopo la consacrazione, non poteva
avere casa, dimora o protettore, e non gli era
consentito dormire nello stesso luogo per più
di tre notti. La sua vita, da questo punto di
vista, era una sorta di estremizzazione del
modello brahmanico che abbiamo richiamato:
doveva alzarsi presto il mattino, fare il bagno
e lavare il proprio abito, rispettare i tre tempi
di preghiera giornalieri (sandhya), rinunciare
ai cibi non vegetariani, ma anche alle spezie,
all’aglio, alle cipolle e agli alcolici, compreso
il vino. Egli, inoltre, non doveva partecipare a
48
musiche o danze che potessero eccitare i
sensi, e tanto meno frequentare la compagnia
di donne o guardare immagini che le
raffigurassero, non doveva mai offendere
nessuno, nemmeno col pensiero, e non
doveva diffondere malevolenze o
mormorazioni. Degli obblighi rituali
indispensabili nelle altre fasce di vita doveva
conservare solo la triplice abluzione
quotidiana, mentre il culto del fuoco sacro
venne rimpiazzato, come si diceva, da
pratiche interiori di tipo yogico, ma anche da
cerimonie religiose denominate pūjā, che
sostituirono gradualmente il sacrificio
vedico.2 Nei loro pellegrinaggi i monaci
potevano portare con sé solo un fagottino, che
poteva anche contenere dei libri, tuttavia la
tendenza spirituale era quella di superare
anche la dipendenza dalla Scrittura. Gli unici
2
Puja è il nome della cerimonia indù – dal semplice rito domestico all’elaborata festa pubblica – con la quale vengono
adorate le immagini degli dei. Sotto questo aspetto rappresenta una trasformazione del rito sacrificale vedico in seguito
all’affermazione dei movimenti devozionali. Al di là delle differenziazioni in base al luogo e alla setta, questa cerimonia
è comunque antichissima e le sue procedure sono contenute all’interno di alcuni tra i più importanti testi della
“Tradizione”. La divinità viene trattata come un ospite di riguardo e, dopo aver consacrato l’immagine con dei mantra
(formule rituali), viene svegliata battendo le mani e suonando una campana, viene lavata, unta con oli, canfora e pasta di
sandalo, e rivestita di stoffe e ghirlande. Molto diffusa, inoltre, è una rappresentazione della divinità a forma di fallo,
simbolo del potere creativo, denominato linga. In particolare si usa muovere circolarmente un piatto di metallo con
degli stoppini accesi di fronte ad esso e davanti ai fedeli, i quali passando le mani sulla fiamma ricevono la benedizione
(darśana) della divinità.

49
oggetti che egli era consentito legittimamente
possedere erano quelli, come si diceva, che
contraddistinguevano la sua condizione di
rinunciante: la ciotola per le elemosine
(kamandalu), il bastone (danda), che viene
usato anche per il prānāyāma, e un rasoio con
il quale doveva estirpare ogni pelo del corpo.
Di norma il monaco era tenuto ad osservare il
silenzio assoluto, poteva, tuttavia, tenendo i
denti stretti, conversare con maestri ed asceti
di argomenti spirituali. Particolarmente
stretto, come si diceva, era il divieto di
rivolgersi a delle donne, a meno che non
glielo fosse ordinato dal maestro. Per quanto
riguarda la sua sussistenza, invece, doveva
esclusivamente vivere di quello che trovava
nella terra, oppure di questua, che però aveva
delle norme molto rigide. Per esempio poteva
mendicare fino ad un massimo di sette case, e
solo dopo che i capifamiglia avessero preso il
loro pasto e fatto le offerte. Il tempo che
doveva spendere ad elemosinare, inoltre, non
doveva essere superiore a quello necessario a
50
mungere una vacca. Durante la questua, però,
poteva eccezionalmente interrompere il
silenzio per dire la parola “bhavat”, che era
appunto un epiteto rispettoso verso la persona
a cui chiedeva il cibo. Il rinunciante, in ogni
caso, poteva ricevere solo riso già cotto, dolci
all’olio, pappa d’orzo, latte e cagliata. Se non
riceveva nulla doveva accontentarsi di acqua
e radici. Per consumare il suo eventuale pasto
il monaco era inoltre costretto ad uscire dal
villaggio e compiere altri gesti, come deporre
il cibo in un luogo puro, lavarsi mani e piedi e
annunciare al sole quanto gli era stato dato.
Prima di mangiare, infine, cosa che poteva
fare solo all’ora quarta, sesta od ottava del
giorno, era tenuto ad offrire un po’ di cibo
agli animali e a spruzzarlo con acqua;
solamente dopo poteva consumarlo, ma solo
con otto boccate. Accanto a questo schema
rigidamente ideale, c’erano naturalmente
costumi ascetici meno radicali, ed in genere
era concesso di cibarsi di frutta e latte due
volte al giorno, al mattino e alla sera. Più
51
severo era il divieto di danneggiare qualunque
essere vivente. Il monaco rinunciante, anzi,
non poteva cogliere nemmeno un fiore e non
poteva toccare metalli, considerati,
evidentemente, impuri.

Śankara come ordinatore del monachesimo


L’ascetismo itinerante del samnyāsin aveva
delle regole precise, ma non si appoggiava
certamente, come già abbiamo detto, su una
struttura monastica così come la intendiamo
oggi. A partire dall’800, invece,
probabilmente per reazione al successo che
stava avendo il monachesimo buddista, questa
tradizione di ascesi e di rinuncia è stata
organizzata in Ordini e cenobi. Anche l’India,
da questo punto di vista, ha il suo San
Benedetto – al di là del fatto che anche
Buddha era un indiano - o forse sarebbe
meglio dire che in lui la religione indù ha
trovato un vero e proprio San Tommaso; il
suo nome era Śankara, ed è appunto
unanimemente ricordato come la più grande
52
figura religiosa dell’India. Egli, come si
diceva, è stato in primo luogo il pensatore a
cui si deve la sistematizzazione della più
celebre visione filosofica indù, ma è anche
stato il primo riformatore degli ordini ascetici.
È questo il motivo per cui Śankara lo si trova
comunemente indicato anche con il termine di
Śankarācārya, che sta ad indicare, almeno in
questo caso, maestro e fondatore.
Le novità che egli ha apportato sono
fondamentalmente due: la prima di esse
consisteva nell’invito a non aspettare la
vecchiaia per diventare samnyāsin. Per
Śankara, infatti, fin da giovani, si poteva e si
doveva rinunciare a tutto. La seconda
principale innovazione è che egli ha creato
dei cenobi che sono ancora oggi il fulcro della
religione indiana, sebbene un certo ideale
peripatetico non sia mai stato completamente
abbandonato. L’affiliazione ad un monastero,
infatti, è in genere solo nominale, e c’è
libertà, dopo aver completato il corso di
studio e di istruzione, di lasciare il monastero.
53
Śaṅkara ha fondato un insieme di ordini che
si chiamavano daśanāmin, perché ogni
monaco aggiungeva al nome che assumeva
una parola tra dieci sostantivi possibili. Questi
dieci Ordini, da cui le dieci diverse
denominazioni, si attribuiscono un titolo in
base alla loro collocazione geografica. Si
distinguono: i Daśnāmi-purī, che vivono sulle
coste; i Giri, che vivono sulle montagne; gli
Aranyam, che vivono nelle foreste; i
Parvatam, i Vanam, i Tīrtham, mete di
pellegrinaggi sulle rive dei fiumi; gli
Āśraman e gli Swarupam, che all’interno dei
Saraswatī, studiano ed interpretano le
Scritture; ed i Bhārati. In India, in senso
stretto, il titolo di samnyāsin si attribuisce
solo ai monaci di questi dieci ordini o agli
asceti śaiva. Śankara ha anche fondato, come
si diceva, quattro monasteri (matha), nei
quattro punti cardinali dell’India, che sono
ancora oggi i maggiori centri religiosi della
religione indù. I quattro monasteri si trovano
a: Dvārakā (ovest), Badarīnātha (nord), Purī
54
(est) e Śrngeri (sud). Vi è, in verità, anche un
quinto monastero śankariano a Kancī, che
sarebbe stato formato per ultimo come sintesi
ideale dei quattro già esistenti. Il capo di un
monastero si chiama in genere mathapati o
swāmī (uno che ha il dominio di sé), ma
quelli di questi cinque monasteri si chiamano
Śankarācārya (cioè maestri nella linea di
Śankarā). Per non fare confusione il primo
fondatore viene così chiamato Adi-Śankara,
comunemente, però, è anche definito Jagad-
guru, cioè guru dell’universo.
Questi “Abati” sono considerati oggetti di
culto dai novizi (brahmacārin) che si ritirano
nei monasteri per studiare il sanscrito, i Veda
e i classici della scuola Vedānta, i quali,
comunque, per aspirare al samnyāsin, devono
rispondere a taluni requisiti qualificanti, come
per sempre aver trascorso dodici anni di
celibato o, con il permesso dei maestri,
almeno tre. Gli Śankarācārya sono
considerati la massima autorità spirituale
dell’India, almeno dagli indù smārta (cioè gli
55
ortodossi, che si rifanno alla tradizione
ufficiale), ed universalmente ci si rivolge a
loro con il rispetto che un cristiano
occidentale riserverebbe al Pontefice. I
monasteri dove essi risiedono hanno ciascuno
una grande autonomia, e possiedono tutti
delle caratteristiche proprie: ognuno, per
esempio, ha una sua diversa divinità tutelare,
ognuno è connesso con uno dei quattro Veda,
ed ognuno dà un particolare rilievo ad uno dei
quattro mahāvākya (cioè grandi detti) delle
Upanisad.3
Naturalmente, però, al di là degli Ordini
śankariani, esiste in India un numero così alto
di sette ascetiche che non è possibile
menzionarle tutte. Per importanza dovremmo
distinguere in primo luogo gli asceti che si
rifanno a Śiva e quelli che si rifanno a Visnu.
I primi vestono di ocra mentre gli asceti
vaisnava di bianco, questo è anche il motivo
per cui gli śaiva sono detti questuanti rossi e i
3
Il Kevalādvaita-vāda śaṅkariano, cioè la sua particolare scuola filosofica, interpreta in senso rigidamente non-
dualistico le quattro grandi sentenze (mahāvākya) delle Upaniṣad: a) ‹‹Il Bráhman è coscienza›› (Aitareya Up., III,1).
b) ‹‹Questo sé è Bráhman›› (Māṇḍukya Up., 2). c) ‹‹Tu sei quello›› (Chāndogya Up., VI. 8.7). d) ‹‹Io sono Bráhman››
(Bṛhadāraṇyaka Up., 1.4.10). Si afferma, cioè, che l’essenza dell’uomo è identica al divino.

56
secondi questuanti bianchi. Le due tipologie
ascetiche sono distinguibili anche dal tilaka, il
segno che portano sulla fronte. Il tilaka dei
monaci śaiva si chiama tripundra ed è
costituito da tre linee orizzontali - ottenute
dalla cenere dello sterco di vacca o dei luoghi
di cremazione - simboli della triplice
disciplina del corpo, della parola e del
pensiero. Il tilaka dei monaci vaisnava è
invece ottenuto, in genere, con la pasta di
sandalo, ed è formato da due linee verticali
bianche che ne possono racchiudere una terza
bianca o rossa o anche un punto rosso o nero.
Per quanto riguarda l’aspetto i samnyāsin
portano sempre il capo rasato, mentre gli
asceti śaiva si tagliano i capelli solo al
momento dell’iniziazione e poi li tengono
molto lunghi, sciolti o raccolti in una crocchia
alla sommità del capo. Sempre i monaci śaiva
portano in mano un kamandalu, una sorta di
piccolo orcio per l’acqua e portano al collo
una collana-rosario con semi di una certa
pianta, di 32, 64 o 108 grani, mentre quelli
57
vaisnava, per distinguersi, usano grani di un
altro seme. I devoti di visnuti si dividono in
almeno quattro tendenze principali, e il loro
nome monastico termina con daśa (schiavo) o
śarana (rifugio), per essi, infatti, è
fondamentale la bhakti, cioè la devozione.
Anche le loro sedi hanno nomi particolari,
esse vengono denominate sthāna, mentre
l’abate è chiamato, in hindī, mahant. Questi
monaci, inoltre, gestiscono scuole tradizionali
e anche centri di assistenza per i bovini.
In India, comunque, come si diceva, ci sono
molte altre tradizioni monastiche settarie
diffuse solo in alcune aree. In questa terra,
infatti, proprio per la mancanza di una
organizzazione centralizzata, è sufficiente un
āśram ed un guru fondatore che si riferisca ad
una qualche divinità e ad una sampradāya
(tradizione di maestri), per avviare una “realtà
monastica”.

58
Ulteriori caratteristiche della vita monastica
indiana: la differenza tra matha ed āśram ed
il ruolo del guru
L’induismo, religione apparentemente
consacrata ad un ascetismo solitario ed
itinerante, conosce in verità già nel suo testo
fondamentale, il Veda, l’importanza della vita
comunitaria. Si legge nel Rg Veda (X – 191,
2-4): ‹‹Riunitevi, parlate fra di voi, siate uniti
nei vostri pensieri. Siano comuni le vostre
mete, comuni le vostre assemblee. Comuni le
menti e uniti i pensieri di queste. Metterò
davanti a voi un comune proposito: e
l’adorazione con la vostra comune oblazione.
Comune sia il vostro fine, ed uniti siano i
vostri cuori; la vostra mente sia una sola,
affinché tutti possano vivere felici insieme››.
È certamente sulla scia di queste indicazioni
vediche che in India sono nate due
tradizionali istituzioni comunitarie: l’āśram e
il matha, delle quali responsabile e guida era
sempre il guru. Le due tradizioni, sebbene
simili, non sono del tutto identiche. Si
59
dovrebbe distinguere il monastero vero e
proprio, che si indica appunto con il termine
matha, e l’eremitaggio (o comunque una
realtà comunitaria più raccolta), che si indica
invece con āśram. Anticamente, infatti,
l’āśram era proprio la capanna dell’eremita.4
L’uso del termine tuttavia, è ambiguo, perché
il sostantivo indica fatica, sforzo, da cui il
duplice senso che allude sia all’abitazione dei
religiosi sia agli stadi di vita dei brahmani. Di
esso un monaco camaldolese che vive
nell’āśram cristiano-indù di Śāntivanam, John
Martin Kuvarapu, ha dato un’interpretazione
forse discutibile sul piano filologico, ma
sicuramente significativa su quello
ermeneutico. Egli, infatti, riflettendo
sull’etimologia della parola, afferma che śram
vuol dire lavoro duro, lotta, ma che essa, una
volta unita alla a privativa, si trasforma e va
ad indicare un luogo quasi paradisiaco dove
divisioni e sofferenze scompaiono, in una
4
Con āśram si possono indicare anche veri e propri villaggi composti da delle famiglie, come quelli fondati da Gandhi,
dove, chi vuole entrare in modo definitivo, deve prendere dei voti. Comunità di questo tipo ci sono anche in Europa,
grazie all’opera di Giuseppe Lanza del Vasto, filosofo e vero continuatore occidentale della non-violenza gandhiana,
che ha appunto aperto in Francia e in Italia comunità-āśram in tutto simili a quelle indiane.

60
riconquistata armonia tra uomo e natura.
L’autore giunge così a proporre un originale
collegamento tra la vita nell’āśram e la vita
dell’uomo prima del peccato originale.5
Il concetto di āśram consente un richiamo
diretto anche all’altro elemento centrale della
cultura religiosa indiana: il guru. Se l’ āśram,
infatti, ha una caratteristica peculiare, è quella
di costituirsi attorno alla sua figura. Nella
cultura religiosa indiana, da questo punto di
vista, il guru svolge un ruolo indispensabile, e
si considera estremamente rara la possibilità
di fare progressi spirituali senza l’aiuto di un
maestro. Perché il guru è visto non solo come
colui che conduce a Dio, ma proprio come
colui attraverso il quale Dio si rivela.
Possiamo dire che se il monachesimo di
Benedetto valorizza la comunità e l’Abate,
l’India mette invece su un piedistallo il guru,
che viene adorato come un Dio, anzi come
Dio stesso avendolo realizzato dentro di sé. Il
termine, in ogni caso, corrisponde al latino
gravis, e significa pesante (di prestigio, di
5
Cfr. J.M. KUVARAPU, Sulle acque dell’Oceano infinito, Edizioni Appunti di Viaggio, Roma 2002, p. 225.

61
dignità), e a partire dalla Chāndogya-
Upanisad (VIII, 15,1) venne usato
esplicitamente nel senso di maestro.
L’etimologia dell’espressione, però, può
suggerire anche altri significati originari,
come “colui che indica al discepolo la parola
giusta” o “colui che distrugge l’ignoranza del
discepolo”.6 Si distingue, in ogni caso, il śiksā
guru dal dikśā guru, ovverosia il guru che
istruisce e quello che dà l’iniziazione.
Quest’ultimo è importante, perché si ritiene
che abbia la capacità di risvegliare i poteri
interni del discepolo e di accelerare il suo
progresso spirituale. L’iniziazione, infatti,
attestata dall’epoca vedica fino ai giorni
nostri, è particolarmente importante nella
tradizione tantrica, dove sancisce una sorta di
identificazione fra maestro e discepolo, al
quale egli trasferisce così la sua energia
vitale. Questa risulta quindi essere, a tutti gli
effetti, una “consacrazione” che apre ad un
contatto più stretto con Dio, ed in quanto tale

6
A. THOTTAKARA, Śaṅkara in, Aa.Vv., Le grandi figure dell’induismo, Cittadella editrice, Assisi 1991, p. 47.

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è intesa come una vera e propria nascita ad
una vita nuova.

La donna nel monachesimo indiano


È forse possibile sostenere che l’India
conosce una specie di involuzione per quanto
riguarda la figura e il ruolo della donna.
Perché sembra che durante il periodo vedico
le donne avessero gli stessi diritti e privilegi
degli uomini, mentre successivamente,
esattamente come gli śūdra, fu possibile per
loro farsi una formazione religiosa solo
attraverso i Purāna, o attraverso dei testi che
comunque non appartenevano alla
Rivelazione. Le donne, inoltre, non potevano
prendere il sacramento dell’iniziazione
(upanayana), e il loro ruolo era
esclusivamente relegato all’interno della
famiglia, nella quale dovevano stare
sottomesse ai mariti, anche se certamente
nelle case indiane la donna aveva ed ha una
grande importanza. Con queste premesse,
tuttavia, si capisce perché l’induismo non
63
abbia sviluppato una istituzione monastica
femminile. Ciò nondimeno, soprattutto in
epoca moderna e certamente anche per
influenza della cultura occidentale, è stato
possibile persino creare dei cenobi misti, né,
del resto, sono mai mancati esempi di donne
rinuncianti, come testimonia lo stesso Veda.7
Nell’immaginario religioso indiano, inoltre, ci
sono importanti figure di donne sante, come
Āntāl, unica femmina fra gli ālvār, cioè i
mistici vaisnava dell’India meridionale, o la
poetessa Lallā, e, per fare un nome della
nostra epoca, Ānandamayī Mā, considerata
una jīvan-muktī, cioè una liberata in vita.
Tuttavia è altrettanto vero che in molti casi
l’ascetismo femminile era legato alla
vedovanza, ed in molti casi rappresentava un
modo per liberarsi da una situazione
oppressiva. La cultura religiosa indiana
tradizionale, infatti, ritiene che le donne non
possano raggiungere direttamente moksa, la

7
Nella Bṛhadaraṇyaka Up., 2, 4, 1-14 c’è un dialogo tra Yājñavalkya che sta per lasciare la sua condizione di
capofamiglia, con la moglie Maitreyi, che presenta l’ideale della donna disposta a lasciare tutti i beni del mondo per
realizzarsi spiritualmente.

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liberazione, ma debbano prima rinascere
uomini.

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