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TESI DI SPECIALIZZAZIONE
Relatore:
Chiar.ma dott.ssa Maria Carolina Marchesi
Candidato:
Giancarlo Memmo
INDICE
- PREFAZIONE
1. PRESENTAZIONE DEL CASO SU CUI SI E’ SVOLTA L’ATTIVITA’ DI TIROCINIO. pag. 1
a) diagnosi funzionale, pei e pdf pag. 1
b) la classe, i docenti curricolari. pag. 3
c) il progetto di vita pag. 3
2. DIDATTICA. pag. 5
a) programmazione didattica modulare pag. 5
- i moduli didattici e l’unitarietà all’interno delle singole discipline pag. 6
- le unità didattiche pag. 9
- i percorsi didattici e la loro personalizzazione pag. 10
- la struttura delle unità didattiche pag. 12
- l’analisi della situazione pag. 15
- la specificazione e la definizione degli obiettivi pag. 16
- le metodologie e le tecnologie pag. 17
- criteri e strumenti di valutazione pag. 19
- i momenti delle unità didattiche pag. 19
- la personalizzazione delle unità didattiche pag. 20
b) progettazione didattica per obiettivi, contenuti e per concetti pag. 20
- progettare per obiettivi: la tecnologia dell’insegnamento pag. 21
- progettare per contenuti: l’essenzialità della conoscenza pag. 22
- progettare per concetti: l’epistemologia clinica pag. 23
c) unità didattica di Geografia/Scienze della Terra pag. 24
3. APPROFONDIMENTO SULLA PATOLOGIA. pag. 26
a) Generalità: inquadramento nosografico e tassonomia. pag. 26
- la classificazione americana del DSM IV pag. 28
- la classificazione dell’organizzazione mondiale della sanità (ICDC10) pag. 30
- la classificazione francese (CFTMEA) pag. 31
b) Approfondimenti neuropsichiatrici e contestualizzazione della patologia: i pag. 33
disturbi generalizzati dello sviluppo
- autismo e sindromi autistiche pag. 34
- (Autismo indicatori) compromissione qualitativa dell’interazione sociale pag. 40
- (Autismo indicatori) compromissione qualitativa della comunicazione pag. 40
- (Autismo indicatori) modalità di comportamenti, interessi, attività ristretti, ripetitivi, pag. 40
stereotipati
- trattamento educativo pag. 42
- trattamento “logopedico” pag. 43
- trattamento farmacologico pag. 44
- terapia dietetica pag. 44
- disturbo di Rett pag. 44
- disturbo di Asperger pag. 45
- disturbo disintegrativi della fanciullezza pag. 46
- disturbo generalizzato dello sviluppo non altrimenti specificato (NAS) o sindrome da pag. 46
alterazione globale dello sviluppo psicologico
c) il ritardo mentale (RM) pag. 47
- caratteristiche diagnostiche pag. 47
- gradi di gravità del RM pag. 48
- fattori predisponenti pag. 48
- reperti dell’esame fisico e condizioni mediche generali associate pag. 49
- prevalenza pag. 49
- decorso pag. 49
- familiarità pag. 50
- diagnosi differenziale pag. 50
- RM lieve pag. 50
- RM moderato pag. 51
- RM grave pag. 51
- RM gravissimo pag. 52
- RM gravità non specificata pag. 52
d) Generalità sui disturbi dell’apprendimento pag. 52
- l’apprendimento pag. 52
- i disturbi dell’apprendimento pag. 53
- disturbi dell’apprendimento legati a sindromi neurologiche pag. 54
- disturbi evolutivi specifici dell’apprendimento pag. 54
- disturbi aspecifici dell’apprendimento pag. 55
4. CONCLUSIONI: IL RUOLO DELL’INSEGNANTE DI SOSTEGNO. pag. 58
5. ALLEGATI.
- OMS ICD-10
- SCHEMA CERTIFICAZIONE E DIAGNOSI FUNZIONALE
- SCHEDA RILEVAZIONE AUTONOMIA
- ESTRATTO POF
- CD/DVD CONTENENTE ESERCIZIO IN POWER POINT E FILMATO “ESAGRAMMA
ORCHESTRA E PICCOLI CANTORI DEL CORO DI MILANO”
(*) Bibliografia e sitografia citate nelle note
PREFAZIONE
La parola “disabilità”, evoca generalmente qualcosa di negativo, qualcosa
collegato a una mancanza a un deficit, ma si tratta di una riduzione, una
semplificazione semplicistica, in realtà il concetto è più fecondo: basterebbe
pensare ai bambini “iperintelligenti”, anche loro sono considerati “disabili” ancorché
privi di deficit.
Una analisi linguistica non superficiale, e non solo da un punto di vista
semantico, ci mostra che la parola è formata dall’unione di due parole: “dis” e
“abilità”.
L’insegnante di sostegno è chiamato a ad occuparsi dell’abilità, questo è il
suo grande compito, celebrare le abilità della persona h in tutte le circostanze.
La scommessa che mette in gioco la professionalità dell’insegnante di
sostegno è proprio quella di celebrare le abilità personali di tutti come insieme di
“abilità diverse”.
Sono proprio le “abilità diverse” che esaltano le abilità dell’uomo, dell’uomo
completo: anche le persone h hanno un cervello e un cuore, quindi una sensibilità
coniugata a un’intelligenza e naturalmente delle emozioni coniugate a dei
sentimenti.
Occorre superare la cultura strisciante della segregazione, dei mondi protetti
e “speciali”, mondi solo per i dis-abili, questa infatti non è vera integrazione, ma
spesso è pietismo di maniera, ed è molto più presente nell’opinione pubblica e
soprattutto negli operatori scolastici, di quanto si possa immaginare.
Al contrario si devono evidenziare le “potenzialità” che sono insite in ogni dis-
abile e nella dis-abilità in genere.
L’handicap è una questione che riguarda tutta la società: un mondo a misura
di dis-abili è infatti un mondo dove tutti potremmo vivere meglio.
In altri termini non è difficile scoprire che gli handicaps che ostacolano
l’integrazione dei disabili, spesso ostacolano l’integrazione di tutte le persone.
L’approccio all’handicap non si deve risolvere in una operazione di quantità,
ma deve essere qualcosa che recupera la qualità della vita, non può e non deve
essere ridotto a una mera questione di assistenzialismo che al più nasconde un
inserimento più che una vera integrazione.
Decisivo a tale proposito, per poter parlare di integrazione, è accettare la
visione dell’handicap come connotato socialmente: la lettura che ne fa la società è
decisiva per l’handicap, questa è la vera sfida. In altri termini dalla dimensione
“verticale” dell’handicap (religiosa, divina, magica) a quella “orizzontale”, quella
dell’ottica positivistica dell’Illuminismo (piena fiducia nella Scienza, che presto
sconfiggerà questa “malattia”, troverà la soluzione…), dobbiamo passare a quella
sociale.
Quindi possiamo affermare che solo una società che possa tenere conto dei
suoi figli più deboli, potrà essere considerata una “buona” società per tutti: è qui,
nello spazio sociale, che è lo spazio scolastico del bene comune, che si gioca la
partita professionale, umana e morale, dell’insegnante di sostegno.
In questo “spazio”, il dis-abile otterrà il beneficio e lo stimolo derivante dalla
ricchezza delle relazioni che scaturiscono dall’essere inserito in una classe: 20-25
rapporti intessuti in una ragnatela di scambi e interazioni, che spesso saranno
l’unico momento della sua vita in cui sarà “meno solo” e in ogni caso l’unico
momento ad alto livello di socializzazione.
L’insegnante di sostegno, con il suo lavoro quotidiano, ascrivendo nel tessuto
sociale i valori della solidarietà e dell’integrazione delle diverse abilità, è chiamato a
un compito molto alto:….. rendere un po’ migliore questo nostro mondo.
In estrema ratio possiamo dire che l’insegnante di sostegno è di sostegno
alla classe, ma soprattutto alla società: aiuta la società a non avere paura della
diversità (iper o ipo che sia) e a farne una risorsa.
Questo compito, per l’insegnante di sostegno, è sempre più spesso
asimmetrico: riceve dal dis-abile, molto di più di quanto abbia dato.
Di questo dobbiamo essere grati al nostro dis-abile.
G.M.
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"I Disturbi Generalizzati dello Sviluppo sono caratterizzati da compromissione grave e generalizzata in
diverse aree dello sviluppo: capacità di interazione sociale reciproca, capacità di comunicazione, o presenza
di comportamenti, interessi, e attività stereotipate. Le compromissioni qualitative che definiscono queste
condizioni sono nettamente anomale rispetto al livello di sviluppo o all'età mentale del soggetto. Questa
sezione contiene il Disturbo Autistico, il Disturbo di Rett, il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza, il
Disturbo di Asperger, e il Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato. Questi disturbi
sono di solito evidenti nei primi anni di vita e sono spesso associati con un certo grado di Ritardo Mentale,
che, se presente, dovrebbe essere codificato sull'Asse II. I Disturbi Generalizzati dello Sviluppo si osservano
talvolta con un gruppo vario di condizioni mediche generali (per es., anomalie cromosomiche, infezioni
congenite, anomalie strutturali del sistema nervoso centrale). Se queste condizioni sono presenti, dovrebbero
essere codificate sull'Asse III. Sebbene termini come "psicosi" o "schizofrenia infantile" siano stati usati in
passato in riferimento ai soggetti affetti da queste condizioni, vi sono considerevoli prove a favore
dell'opinione che i Disturbi Generalizzati dello Sviluppo siano diversi dalla Schizofrenia (per quanto un
soggetto con un Disturbo Generalizzato dello Sviluppo possa occasionalmente sviluppare in seguito una
Schizofrenia)" (DSM IV). In generale si tratta dei “disturbi generalizzati dello sviluppo” (PDD, Pervasive
Developmental Disorders”). Cfr. http://www.gli-argonauti.org/bma/def/pdd.htm
1
AREA SENSORIALE
Non risultano problemi.
AREA MOTORIO-PRASSICA
Non si evidenziano particolari problemi, anche se siamo presenti di fronte a
una situazione di goffa motricità fine che potrebbe comunque essere limitata con
l’esercizio sportivo.
AREA NEURO-PSICOLOGICA
La memoria è buona, ma l’attenzione risulta labile in quanto si distrae
facilmente.
AREA DELL’AUTONOMIA
Sono presenti difficoltà nell’ambito della autonomie relazionali, cognitive,
sociali inoltre l’allievo è dipendente dall’adulto nel rapporto “uno a uno”.
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facendogliela toccare abbiamo discusso cercando di capire chi è che le stampa,
poi ci siamo chiesti chi è che attribuisce valore alle regole di attraversamento
pedonale, che Sergio non rispetta, infine abbiamo riflettuto sulla necessità di
chiedere un’autorizzazione al Sindaco del Comune per posizionare una gabbia per
le galline nell’orto che lo zio e il papa’ di Sergio coltivano vicino a casa, ecc.);
-una seconda fase in cui sono stati fissati i concetti giuridici relativi agli
elementi costitutivi dello Stato nel suo quaderno degli appunti, avendo cura che
ogni concetto derivasse da un fatto presente nell’esperienza di Sergio e discusso
con lui e accettato (passato) nella prima fase.
L’esperienza è stata molto gratificante.
Il rapporto con la classe risulta buono, Sergio è collocato nella prima fila
insieme ad altri allievi che entrano in relazione con lui.
Dal colloquio con i docenti della classe, nel mio periodo di presenza, ho
rilevato un notevole coinvolgimento dell’insegnante di Disegno Grafico che
prevede appositi esercizi per Sergio (costruzione di semplici parole in una griglia
determinata con l’ausilio di squadre e compasso). L’Assistente Educatore ha
confermato che Sergio ha avuto un notevole beneficio, nella prassia fine,
dall’attivita’ di disegno grafico
Anche l’insegnante di Italiano coinvolge Sergio nella sua attività. L’allievo
ha partecipato durante le settimane del mio tirocinio ad una gita di istruzione a
Venezia, le consegne assegnate prevedevano per i compagni la realizzazione di
una relazione scritta sulla gita, Sergio invece è stato coinvolto in una realizzazione
fotografica della sua esperienza, aveva infatti il compito di commentare con
didascalie le foto che avrebbe scattato.
L’insegnante di Educazione Fisica invece mi ha evidenziato come spesso
Sergio abbia difficoltà in palestra ad integrarsi nelle dinamiche di squadra o a
coppia, l’insegnante sopperisce inserendosi in prima persona nel gioco sportivo
con Sergio. In effetti cio’ confermerebbe la necessita’ comunque per Sergio di un
sostegno o meglio di un “mediatore” nelle relazioni.
c) il progetto di vita.
3
CSE
SFA
UFFICIO H
PERSONA ASL
CSA H SIL
FAMIGLIA H
SINDACATI
SCUOLA
COOPERATIVE
UNIONE
INDUSTRIALI
F
O
PROVINCIA
R
M
ORIENTALAVORO API
A
Z
I CFP
O
N
E ASSOCIAZIONE
ENAIP ARTIGIANI
P
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O
F
E
S
S
I
O
N
A
L
E
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2. DIDATTICA.
2
Cfr. Umberto Tenuta su www.edscuola.it.
3
AA.VV., Dizionario di Scienze dell’educazione, ELLE DI CI – L.A.S. . S.E.I., 1997, pp. 708-709
5
In tal senso, ad esempio, costituiscono una unità didattica le specifiche attività
programmate per far acquisire agli alunni la capacità di calcolare le aree dei
rettangoli, così come un’altra unità didattica potrebbe riguardare le attività per far
acquisire la capacità di calcolare le aree dei triangoli, aree dei trapezi, aree dei
cerchi ecc.
Rimanendo nell’esempio, tutte queste unità didattiche potrebbero essere
considerate come costitutive di un modulo didattico finalizzato all’acquisizione
della capacità di calcolare le aree delle figure piane (modulo didattico "aree").
Peraltro, il modulo didattico "aree", a sua volta, potrebbe far parte di un modulo
didattico più ampio, quale quello della misura in generale, relativa sia alla
Geometria piana che alla Geometria solida, ai fenomeni fisici, chimici, termici ecc.
(modulo didattico "misure in generale"): in questo senso, mentre l’unità didattica,
mirata al perseguimento di obiettivi specifici (obiettivi formativi a breve termine),
assume il significato di ultimo livello della programmazione didattica, cioè di
microunità curricolare, il modulo didattico invece assume il significato di unità della
programmazione didattica annuale, mirata al perseguimento di obiettivi a medio
termine o addirittura di obiettivi a lungo termine.
In questa prospettiva, il modulo didattico dovrebbe avere per oggetto obiettivi di
più ampio respiro delle unità didattiche , anche se circoscritti a determinati ambiti
disciplinari o interdisciplinari e comunque costituiti da conoscenze, capacità,
atteggiamenti omologhi, affini, se non equivalenti.
Il modulo didattico assume così una grande portata innovativa sul piano educativo
e didattico, in quanto consente di uscire dal frammentarismo didattico, che non di
rado caratterizza le attività educative e didattiche svolte quotidianamente nelle
classi,nelle quali le attività spesso si susseguono senza una coerenza logica, per
cui, ad esempio, alla lezione sulla Rivoluzione francese fanno seguito una lezione
sui fiumi dell’Africa ed una lezione sui perissodattili.
Il modulo didattico, invece, mirato al perseguimento di un obiettivo di medio
termine, assicura l’unitarietà dei singoli interventi didattici (unità didattiche) dei
docenti delle singole discipline ovvero, auspicabilmente, dei docenti di discipline
diverse, impegnati nel perseguimento di obiettivi interdisciplinari o transdisciplinari.
In tale prospettiva, infatti, si può pensare a una organizzazione modulare della
didattica che assicuri l’unitarietà educativa e didattica all’interno delle stesse
discipline e tra le diverse discipline.
Nel passato, quando l’attenzione era rivolta ai saperi disciplinari così come
risultavano sistemati nei trattati e nei manuali scolastici, le singole lezioni si
susseguivano secondo una logica analitica che molto spesso risultava priva di
senso per gli alunni, impegnati nell’apprendimento dei singoli aspetti della
disciplina. Infatti, i capitoli si susseguivano ai capitoli o i paragrafi si susseguivano
ai paragrafi della stessa disciplina; le diverse discipline si ponevano l’una di
seguito all’altra, senza alcun collegamento; ogni docente seguiva la logica della
propria disciplina, indipendentemente dagli altri docenti.
Le diverse discipline si svolgevano separatamente, anche quando i collegamenti
erano estremamente forti. Si pensi, ad esempio, alla nascita di Gesù presentata
dal docente di Religione come evento religioso, dal docente di Storia come evento
storico, dal docente di Lingua italiana attraverso le poesie, dal docente di
Educazione all’immagine attraverso il disegno, la plastica, la costruzione ecc.
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Ora, in una scuola che si pone in una preminente prospettiva formativa, nel
rispetto della concezione integrata della personalità, non si può non cercare in tutti
i modi di far convergere i diversi interventi educativi e didattici al perseguimento di
obiettivi formativi unitari, ricercando tutti i possibili collegamenti fra le discipline e le
singole unità didattiche.
In tale prospettiva, si pongono gli obiettivi formativi trasversali, che sono comuni a
diverse discipline (interdisciplinarità), come ad esempio il concetto di misura che
viene trattato in Matematica e nelle Scienze, dall’altra l’esigenza di collegare i
diversi obiettivi formativi in quanto mirati alla comprensione di uno stesso
fenomeno da diverse angolazioni disciplinari (multidisciplinarità).
E, quindi, si pone innanzitutto l’esigenza di moduli didattici all’interno delle singole
discipline, per cui ad esempio, nella Geografia, un modulo didattico può riguardare
il ciclo delle acque o gli insediamenti umani oppure i fenomeni sismici. Nel campo
della Lingua italiana, ad esempio, un modulo didattico può riguardare la flessione
dei verbi, dei nomi e degli aggettivi; un altro l’ortografia; altri la sintassi.
Tuttavia, i moduli didattici disciplinari possono essere collegati in moduli didattici
interdisciplinari, per cui l’attività didattica dei diversi docenti risulta collegata,
coordinata, finalizzata al perseguimento degli stessi obiettivi formativi (obiettivi
formativi trasversali).
Al riguardo, è appena il caso di evidenziare che doveva essere questa la logica
dell’organizzazione modulare della scuola elementare prevista della L. 148/1990,
fondata sull’assegnazione di alcune discipline agli stessi docenti sulla base delle
loro affinità. Il significato del modulo didattico della L. 148/1990 discendeva, non
tanto dall’aggregazione delle due/tre classi, quanto dalla ripartizione delle
discipline in tre o quattro ambiti disciplinari. L’ambito disciplinare, in quanto
costituito da discipline affini, avrebbe dovuto rappresentare, secondo la L.
148/1990, e dovrebbe rappresentare, secondo il Regolamento dell’autonomia
scolastica (art. 4.2e), una possibilità di modularizzare l’attività educativa e didattica
sulla base di obiettivi formativi comuni a più discipline (obiettivi trasversali). Si
pensi, in questo senso, agli obiettivi comuni ai diversi linguaggi per l’ambito
linguistico, agli obiettivi comuni alla matematica ed alle scienze per l’ambito
matematico-scientifico ecc.
Tuttavia, al riguardo vanno prese in considerazione anche gli altri aspetti della
modularità che riguardano l’articolazione modulare del monte ore annuale delle
singole discipline e l’articolazione modulare dei raggruppamenti degli alunni.
La "modularità" in questione è collegata non solo all’affinità disciplinare degli
obiettivi formativi ma soprattutto alla loro affinità didattica, in quanto mirate a
soddisfare specifiche esigenze didattiche. Ad esempio, nel caso dell’articolazione
modulare del monte ore annuale, si pone l’esigenza dell’articolazione del
calendario scolastico in riferimento alle esigenze dei singoli alunni, che potrebbero
richiedere maggiori spazi temporali in determinati periodi dell’anno scolastico
(attività compensative, attività di recupero…).
Più coerentemente con la logica modulare sembra essere la prevista
“aggregazione delle discipline in aree e ambiti disciplinari” che, come era previsto
anche dalla L. 148/1990 per la scuola elementare , mira a costituire ambiti o aree
disciplinari affini e quindi funzionali al perseguimento di obiettivi formativi comuni,
in tutti gli ordini di scuola .
Al riguardo, appare opportuno evidenziare che non basta aggregare le discipline
affini, ma ciò che importa è l’individuazione ed il perseguimento di obiettivi
educativi e didattici comuni (obiettivi trasversali), attraverso la progettazione di
appositi moduli didattici. L’aggregazione di più discipline consente al docente cui
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sono affidate di organizzare le unità didattiche, seppure distinte per discipline,
nell’ambito di moduli didattici finalizzati al perseguimento degli stessi obiettivi
formativi (obiettivi transdisciplinari). Ma le discipline possono restare affidate a
docenti diversi, che però debbono impegnarsi a individuare gli obiettivi trasversali,
i quali si configurano in una logica diversa da quella dei centri di interesse o centri
di argomenti.
Non importano gli interessi per determinate attività o i contenuti, ma l’obiettivo
formativo che si vuole che l’alunno persegua e che deve costituire l’oggetto del
suo interesse. Ciò che deve interessare gli alunni non sono i trapezi, i triangoli, i
cerchi, i fenomeni elettrici, acustici ecc., quanto la "misura", la possibilità di
effettuare comparazioni, confronti, misure.
In fondo, al bambino impegnato ad approfondire la sua capacità di contare, non
importano gli oggetti da contare, che possono essere le automobili che transitano
sulla strada, gli alberi del viale, le caramelle, le stelle nel cielo. Agli alunni importa
approfondire la capacità di contare attraverso la conta degli oggetti più diversi.
Peraltro, anche nel caso dell’articolazione modulare del monte ore annuale,
finalizzato al recupero, alle attività compensative, alla funzionalità didattica in
genere, ciò che caratterizza i moduli è l’affinità degli obiettivi formativi. La cosa
risulta più evidente in riferimento all’articolazione modulare dei gruppi di alunni.
Gli alunni vengono raggruppati secondo una scansione modulare, cioè flessibile,
articolabile secondo le esigenze specifiche dei singoli alunni.
In particolare, si può ritenere che i moduli didattici si configurano come percorsi
didattici che consentono di perseguire gli obiettivi formativi a medio termine
indicati nella programmazione educativa contenuta nel POF .
Poiché gli obiettivi a medio termine sono funzionali al perseguimento degli obiettivi
a lungo termine che attengono alla formazione complessiva della personalità,
considerata nella molteplicità integrata delle sue dimensioni costitutive, è
necessario che gli interventi dei singoli docenti convergano tutti al perseguimento
degli obiettivi a lungo termine secondo la loro scansione in obiettivi a medio
termine relativi alle singole annualità (o altre scansioni temporali del singolo ciclo
scolastico) ed alle singole discipline o attività.
Al riguardo, è opportuno evidenziare che ciò che deve prevalere, non è la logica
disciplinare, ma la logica formativa, in quanto i contenuti disciplinari assumono
rilevanza non in se stessi ma in quanto funzionali al perseguimento degli obiettivi
formativi, in termini di conoscenze, capacità ed atteggiamenti.
Occorre impegnarsi seriamente ad operare questa inversione di prospettiva,
superando la logica epistemocentrica che portava ad accentuare l’importanza dei
contenuti disciplinari e privilegiando la logica formativa, attenta agli obiettivi
formativi, considerati unitariamente, nella prospettiva della formazione integrale ed
integrata della personalità.
Ed allora, gli obiettivi formativi vanno considerati non solo nella loro accezione
disciplinare ma anche nella loro prospettiva interdisciplinare e transdisciplinare.
Si esaltano così le interrelazioni, i collegamenti, i motivi della unitarietà dei diversi
obiettivi all’interno delle singole discipline e tra le diverse discipline. Anche
nell’ambito della stessa disciplina, è possibile coglier collegamenti e
corrispondenze, connettivi unificanti, per cui è opportuno che la programmazione
didattica sia effettuata, anziché in una prospettiva atomistica di specifiche unità
didattiche, in una prospettiva unitaria di moduli didattici quanto più possibile
multidisciplinari, interdisciplinari, transdisciplinari.
Nasce da questa esigenza la programmazione modulare degli interventi didattici
dei docenti.
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I moduli didattici si riferiscono ad obiettivi a medio termine relativi alla stessa o a
diverse discipline e saranno poi articolati in unità didattiche.
L’attività didattica si struttura non più sulla base della logica delle singole
discipline, e quindi nella forma analitica, atomistica, molecolare delle unità
didattiche , ma nella forma molare dei moduli didattici.
Pertanto, la Programmazione didattica annuale può risultare articolata in moduli
didattici relativi alle singole discipline (moduli didattici disciplinari) e in moduli
didattici relativi alle diverse discipline (moduli didattici interdisciplinari).
Al riguardo, è opportuno evidenziare che la interdisciplinarità può essere intesa,
sia nel senso della multi-pluridisciplinarità, che si riferisce al perseguimento di
obiettivi formativi che richiedono il concorso di diverse discipline, sia nel senso
della transdisciplinarità, che si riferisce al perseguimento di obiettivi formativi
trasversali, comuni a più discipline.
In sintesi, si può ritenere che i momenti programmatori sono due, distinti ma
interconnessi:
LE UNITA’DIDATTICHE
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le teorie vengono riscoperti, ricostruiti, reinventati dai singoli alunni, per cui occorre
programmare soprattutto i percorsi apprenditivi, i percorsi formativi.
In tale prospettiva, le unità didattiche si configurano come percorsi formativi.
Le unità didattiche assumono effettivo significato soprattutto se in esse vengono
delineati i percorsi e le procedure più idonee per lo svolgimento dell'insegnamento,
cioè le modalità concrete per mezzo delle quali conseguire gli obiettivi formativi,
tenendo però presente che, in una prospettiva costruttivistica ed operativa,
fondata soprattutto sul metodo della ricerca, essi vanno in modo prevalente intesi
come attività che gli alunni debbono svolgere, di norma, prima a livello concreto,
poi a livello iconico ed infine anche a livello simbolico.
Le unità didattiche si identificano spesso con i percorsi didattici, con gli itinerari
didattici. Se i percorsi didattici e gli itinerari didattici vengono assunti nel significato
generale di un percorso che ha un inizio e una meta, che segue una determinata
strada e che si avvale di determinati strumenti, può valere l’identificazione.
Ma forse è opportuno distinguere tra unità didattica (o unità di lavoro) e itinerario o
percorso didattico, intendendo con quest’ultimo specificamente le strategie di
insegnamento/apprendimento che vengono previste ai fini del perseguimento degli
obiettivi formativi.
Una volta fissate le mete (obiettivi) da perseguire ed effettuata l’analisi della
situazione, occorre ricercare, individuare e mettere a punto i percorsi didattici, i
percorsi di apprendimento dei singoli alunni: come i singoli alunni pervengono al
conseguimento degli obiettivi?
Si tratta di un problema che molto spesso i docenti si pongono specificamente
solo per gli alunni portatori di handicap, per i quali elaborano i Piani educativi
personalizzati , mentre per gli altri alunni, di solito, si procede secondo la
consolidata prassi didattica, prevalentemente fondata sulla lezione frontale. È
infatti frequente che si contrapponga al lavoro collettivo della classe il lavoro di
gruppo o individuale degli alunni portatori di handicap o svantaggiati.
Il problema dei percorsi didattici stenta a porsi. Le riviste e le guide didattiche
offrono percorsi di apprendimento ma non sempre si valorizza no al massimo i
processi di apprendimento degli alunni attraverso le attività di
ricerca/riscoperta/ricostruzione/reinvenzione ed in forma individualizzata.
Anche quando vengono descritti i percorsi didattici, essi risultano quasi sempre
collettivi, di tutta la scolaresca. Si verifica al riguardo una situazione schizofrenica.
Mentre sul piano teorico si riconosce l’esigenza della personalizzazione educativa,
poi sul piano pratico si continua ad avere come riferimento dell’attività educativa e
didattica l’intera classe.
È pertanto opportuno porre maggiore attenzione alle due esigenze sopra richieste.
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4) la ricerca avviene sempre secondo i ritmi e gli stili di apprendimento dei singoli
alunni (individualizzazione dell’insegnamento).
Occorre perciò impegnarsi a prevedere, progettare e predisporre i percorsi
formativi individualizzati.
Una volta previsti gli obiettivi, i docenti debbono individuare i percorsi didattici, le
strategie di apprendimento più adeguate ai singoli alunni .
Al riguardo, non basta utilizzare gli schemi operativi routinari, consolidati dalla
comune prassi didattica , perché occorre che i percorsi didattici siano adeguati alle
specifiche situazioni di apprendimento dei singoli alunni, dei loro livelli, dei loro stili
e dei loro ritmi di apprendimento, tenendo conto delle loro situazioni particolari.
Pertanto, occorre effettuare una vera e propria ricerca, che muova dalla
definizione del problema, dalla ricognizione degli elementi che si ritiene possano
essere utili e dal loro confronto per cercare di individuare quelli che si ritengono
più adeguati.
Occorre impegnarsi a scegliere le strade: non si può imboccare la prima strada
che si affaccia alla mente.
Forse, al riguardo, potrebbe essere utilizzata l’analogia dell’intervento chirurgico.
L’intervento chirurgico viene progettato sulla base dell’analisi del quadro
clinico,costituito da tutti i più diversi accertamenti diagnostici, ipotizzando le
diverse modalità di intervento, per scegliere quella più adeguata.
Un chirurgo si pone il problema se è necessario amputare un arto oppure se si
può intervenire solo sui muscoli, sui vasi sanguigni, sulle ossa, riducendo al
minimo possibile il danno.
Forse si è portati a riconoscere legittimo un tale responsabile comportamento,
trattandosi di organi del corpo, la cui amputazione peraltro potrebbe far ricadere
sul chirurgo delle responsabilità ove egli operasse senza adeguata
consapevolezza, adottando una soluzione inadeguata.
Ma non si considera abbastanza che i danni prodotti dall’attività educativa e
didattica possono risultare molto più gravi dei danni fisici.
Non si riflette abbastanza sui danni meno vistosi, meno eclatanti, che i mancati
apprendimenti possono produrre nella vita degli individui, decretandone il destino,
non solo professionale, ma anche umano ed esistenziale.
Occorre perciò riflettere sulla grande responsabilità che il docente ha nel momento
in cui si accinge a proporre agli alunni determinati percorsi formativi .
E perciò l’individuazione dei percorsi didattici si configura come un’attività di
grande responsabilità, alla quale occorre riservare maggiore attenzione e
maggiore spazio, anche temporale.
Non si vede la ragione perché le due ore della programmazione didattica siano
state previste solo per i docenti della scuola elementare e non anche per i docenti
della scuola dell’infanzia e della scuola secondaria. Non solo occorre estendere le
due ore della programmazione didattica ai docenti delle altre scuole, ma occorre
aumentarle, nella consapevolezza che l’attività programmatoria costituisce un
momento non accessorio, e come tale di secondaria importanza, ma fondante
dell’attività educativa e didattica. Insegnare diventa sempre più un impegno di
programmazione, come d’altra parte avviene anche nel mondo della produzione
industriale, nel quale la progettazione costituisce ormai l’aspetto più significativo
ed impegnativo: una volta progettata, la costruzione delle macchine viene affidata
agli automi.
Nell’attività educativa e didattica non è possibile affidare l’esecuzione di tutta
l’attività educativa e didattica agli automi, anche se essi possono svolgere un ruolo
estremamente significativo, se adeguatamente programmati.
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Tuttavia, resta il fatto che l’attività di programmazione è fondamentale, decisiva.
L’intervento della scuola è intenzionale e programmatico: Solo così offre garanzie
di validità, di efficacia, di qualità.
E, perciò, i docenti debbono essere messi nella condizione di studiare e di mettere
a punto i percorsi didattici, le strategie di apprendimento, le attività che gli alunni
debbono effettuare.
Non si tratta di preparare la lezione, (ri)studiando l’argomento, magari con grande
senso di responsabilità e quindi anche con grande impegno: questo lavoro è
prezioso, importante, necessario, ma non basta.
Non basta nemmeno per la lezione frontale, che va progettata in riferimento ai
livelli di apprendimento della scolaresca, al particolare contesto ecc.; ma non
basta soprattutto nel momento in cui si riconosce che gli interventi didattici
debbono essere individualizzati e debbono fondarsi soprattutto sull’attività di
ricerca/riscoperta/ricostruzione/reinvenzione da parte dei singoli alunni.
Occorre che il materiale che si offre agli alunni, sia esso costituito da parole,
immagini, oggetti concreti, risulti adeguato ai loro livelli, ai loro stili ed ai loro ritmi
di apprendimento, ma occorre soprattutto che gli alunni siano messi nella
condizione di volerlo e di poterlo utilizzare per scoprire i concetti, le idee, le teorie.
Occorre delineare, più che i percorsi didattici del docente che insegna, i percorsi
dei singoli alunni che apprendono, impegnandosi a ricercare quali possano essere
gli itinerari più adeguati che ciascun di essi può seguire per perseguire gli obiettivi,
per apprendere, per formarsi.
Tenendo presente il concetto che gli alunni debbono acquisire , i docenti
delineano le attività che i singoli alunni debbono effettuare a livello concreto,
iconico o simbolico, a seconda dei loro livelli di sviluppo, per pervenire alla
scoperta, alla costruzione, alla invenzione delle conoscenze, dei concetti, delle
teorie (perseguimento dell’obiettivo).
Al riguardo, è opportuno tenere presente quanto afferma Tommaso D’Aquino: la
scoperta (inventio) consiste nel mettere colui che deve apprendere nelle stesse
condizioni di colui che per primo ha effettuato la costruzione del concetto (la
scoperta).
Qual è questa situazione? Qual è la situazione didattica più favorevole alla
riscoperta/ricostruzione/reinvenzione dei concetti, delle regole, delle teorie che
costituiscono l’obiettivo dell’apprendimento?
Oggi si ritiene che sia una situazione problematica, analoga a quella che all’origine
ha portato all’invenzione dei concetti.
I docenti debbono creare situazioni problematiche che possano portare gli alunni
alla scoperta..
Non si tratta di proporre rigidi procedimenti esecutivi, ma vere e proprie situazioni
problematiche nelle loro linee essenziali (modelli di situazioni problematiche).
L’unità didattica può essere fatta corrispondere alla scansione degli obiettivi
formativi da far perseguire agli alunni.
Il concetto di unità didattica è stato introdotto soprattutto nell’ambito del Piano di
Winnetka (1919) ed è stato poi precisato dal Bloom nell’ambito della teoria del
Mastery learning.
La predisposizione delle unità didattiche è stata gradualmente introdotta nelle
scuole, anche in riferimento all’affermarsi dell’Istruzione Programmata.
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Un particolare impulso, almeno a livello di scuola elementare, alla elaborazione
delle unità didattiche è venuto dalla programmazione didattica prevista dalla
Legge 148/1990, la quale, non solo ha disciplinato la “programmazione dell'attività
didattica”, affermando, in particolare, che essa si propone “il perseguimento degli
obiettivi stabiliti dai programmi vigenti predisponendo un'organizzazione didattica
adeguata alle effettive capacità ed esigenze di apprendimento degli alunni”, ma ha
assegnato due ore dell'orario settimanale di insegnamento alla elaborazione della
“programmazione didattica da attuarsi in incontri collegiali dei docenti di ciascun
modulo, in tempi non coincidenti con l'orario delle lezioni”.
La programmazione didattica periodica è stata così finalmente definita nei suoi
compiti e nei suoi tempi: accanto alla programmazione educativa ed alla
programmazione didattica annuale si colloca la programmazione didattica
periodica che delinea i percorsi e le procedure più idonee dell'attività educativa e
didattica, cioè le unità didattiche.
Tale orientamento troverà poi piena conferma nella Relazione Zoso e negli
Orientamenti per la scuola materna del 1991 che conservano il loro valore di
documenti pedagogici. Anche se nel testo degli Orientamenti del 1991 non si
ritrova più la precisa affermazione, contenuta nella precedente Relazione Zoso,
che la scuola deve “divenire luogo educativamente pregnante, dove nulla è
lasciato alla casualità ed all'improvvisazione, ma tutto è predisposto in modo
flessibile con intelligenza educativa”, tuttavia le sottolineature dell'importanza di
una puntuale programmazione didattica ritornano insistenti. Innanzitutto, si
afferma che “L'approccio intenzionale e programmatico alle finalità e allo sviluppo
dei campi di esperienza propri della scuola materna richiede una organizzazione
didattica intesa come predisposizione di un accogliente e motivante ambiente di
vita, di relazioni e di apprendimenti che, escludendo impostazioni precocemente
disciplinaristiche e trasmissive, favorisca una pratica basata sulla articolazione di
attività, sia strutturate che libere, differenziate, progressive e mediate”. Poi, nel
mentre si fa preciso riferimento alla “elaborazione di itinerari di lavoro” e si afferma
che “Le esperienze formative... sebbene possano essere stimolate dal gioco, dalle
attività ricorrenti oppure prendere spunto da eventi occasionali, vanno
adeguatamente previste”, si arriva perfino a prevedere una opportuna disciplina
delle attività ludiche: “L'insegnante svolgerà compiti di regia educativa,
predisponendo ambienti stimolanti e ricchi di opportunità diversificate di esercizio;
inoltre programmerà con cura la scelta, l'ordine di successione e le modalità di
svolgimento dei giochi di regole”.
Comunque, per fugare ogni dubbio sul riconoscimento della necessità della
programmazione didattica periodica, anche nella forma delle unità didattiche, basti
riflettere sulla circostanza che la L. 148/1990, anche se limitatamente alla scuola
elementare, ha destinato due ore dell'orario settimanale di insegnamento alla
elaborazione della “programmazione didattica”: non sembra sia necessario
evidenziare che le due ore settimanali non sono destinate all'adeguamento o alla
regolazione continua della programmazione didattica annuale, ma alla
elaborazione della programmazione didattica periodica.
Evidentemente, così come si precisa nei Programmi didattici del 1985, la
programmazione didattica prevista dalla L. 148/1990 deve delineare “i percorsi e
le procedure più idonee per lo svolgimento dell'insegnamento”, cioè le “modalità
concrete per mezzo delle quali conseguire le mete fissate dal programma”.
In tal senso si sono mossi gli insegnanti della scuola elementare , che nelle due
ore settimanali destinate alla programmazione didattica si sono impegnati ad
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elaborare gli itinerari dell'attività educativa e didattica (unità didattiche), dando ad
essi la scansione ritenuta più opportuna, settimanale o quindicinale.
In siffatto impegno dei docenti si invera il valore della loro attività programmatoria,
che, ove si limitasse all'elaborazione del POF e della programmazione didattica
annuale, avrebbe scarso significato. Anche se l’attività programmatoria annuale
costituisce la premessa indispensabile della programmazione didattica periodica,
che senza quella finirebbe col fare assumere carattere di episodicità all'attività
educativa e didattica, tuttavia la programmazione didattica periodica costituisce
momento fondante dell'attività programmatoria.
Diverse possono essere le forme in cui può tradursi la programmazione didattica
periodica. Comunque, in linea di massima, si può ritenere che essa possa
consistere nella predisposizione di unità didattiche, cioè di momenti di attività
educativa e didattica che, pur collegandosi ai momenti precedenti ed a quelli
successivi, senza necessariamente assumere sempre carattere esaustivo, tuttavia
delineano un complesso unitario di interventi finalizzato al perseguimento di
precisi obiettivi educativi e didattici, in termini di primo approccio oppure di pieno
conseguimento, di consolidamento oppure di approfondimento.
Così come nella Programmazione didattica annuale si integrano i Piani educativi
personalizzati, anche la programmazione didattica periodica deve tradursi nella
elaborazione di percorsi formativi ed apprenditivi che debbono essere sempre
personalizzati, cioè adeguati ai livelli di sviluppo e di apprendimento, oltre che ai
ritmi ed agli stili di apprendimento dei singoli alunni, anche se realizzati attraverso
momenti comuni all’intera scolaresca e momenti specifici di lavoro di gruppo e/o di
lavoro individuale.
Così come i Piani educativi personalizzati, anche le unità didattiche debbono
essere personalizzate.
Se si vuole assicurare il successo dei singoli alunni nei processi di apprendimento
nei quali vengono impegnati, occorre che questi siano adeguati ai livelli di sviluppo
e di apprendimento , oltre che ai ritmi ed agli stili di apprendimento dei singoli
alunni.
Questa esigenza va tenuta effettivamente presente eliminando finalmente dalla
scuola gli interventi didattici uguali per tutti gli alunni, i quali, mentre mortificano le
possibilità apprenditive di alcuni alunni, rendono impossibile ad altri
l’apprendimento, in quanto le attività didattiche non risultano adeguate alle loro
caratteristiche personali.
Tutti i discorsi sulla individualizzazione dell’insegnamento, sulla personalizzazione
educativa, sui ritmi e sugli stili di apprendimento acquistano senso solo nella
misura in cui risulta personalizzata la concreta attività didattica che si svolge
quotidianamente nelle aule.
Tuttavia, ciò non significa che ogni alunno debba procedere individualmente,
perché nelle singole classi sono sempre presenti gruppi di alunni che hanno
analoghi livelli di sviluppo e di apprendimento, analoghi stili e ritmi di
apprendimento, per cui essi possono lavorare assieme.
Peraltro, occorre tenere presente che a volte risulta opportuno anche una certa
eterogeneità di gruppi di lavoro.
Inoltre, l’individualizzazione dell’insegnamento va riferita ai diversi momenti in cui
si articola l’attuazione delle singole unità didattiche, momenti che in linea di
massima sono i seguenti:
In linea di massima, ogni unità didattica:
14
1. muove dall'analisi della situazione, cioè “dalle effettive capacità ed esigenze di
apprendimento degli alunni”.
2. precisa gli obiettivi, cioè gli atteggiamenti, le capacità e le conoscenze che gli
alunni debbono perseguire;
3. delinea “i percorsi e le procedure più idonee”, cioè le “modalità concrete” delle
attività che, secondo un'impostazione didattica prevalentemente fondata sulla
ricerca, gli alunni sono chiamati a svolgere, collettivamente, in gruppo o
individualmente;
4. indica le tecnologie educative da utilizzare, assicurando adeguato spazio, sia
all'utilizzazione di materiali concreti, comuni e strutturati, sia alle “tecnologie
innovative”;
5. stabilisce i criteri e gli strumenti di valutazione dei risultati conseguiti,
considerando la valutazione come strumento per la continua regolazione della
programmazione, cioè per introdurre per tempo quelle modificazioni o
integrazioni che risultassero opportune.
Perché risulti efficace, l'azione educativa e didattica deve essere, non solo ispirata
a validi criteri metodologico-didattici , ma anche personalizzata, cioè adeguata alle
esigenze formative ed alle “caratteristiche personali”( ritmi, stili, livelli di sviluppo e
di apprendimento) dei singoli alunni.
La ricerca sociopsicopedagogica ha confermato, come era stato già intuito dai
grandi pedagogisti del passato, dal Rousseau al Claparède, che i fanciulli sono
diversi l'uno dall'altro per le loro caratteristiche non solo fisiche ma anche cognitive
ed affettive. Essi hanno stili e ritmi di apprendimento diversi, che occorre tener ben
presenti nell'impostazione dell'azione educativa e didattica, come viene in modo
particolare sottolineato dalla metodologia del Mastery learning.
Come si afferma nella relazione fassino, che conserva il valore di documento
pedagogico, “ciascun fanciullo viene a scuola con un patrimonio variamente
sviluppato di esperienze, che possono avere sollecitato in misura pur varia le sue
capacità... La scuola deve prendere atto di queste diversità e inserirle in un
programma didattico che tenga conto dei diversi punti di partenza, delle diverse
capacità di trar profitto dalla scuola, dei diversi stili di apprendimento”.
Oltre che per gli stili ed i ritmi di apprendimento, i fanciulli si diversificano per i
livelli di sviluppo e di apprendimento, per le motivazioni (atteggiamenti, interessi,
predilezioni…) ecc. Come si legge nella bozza dei Programmi didattici del 1985, di
cui alcune indicazioni metodologico-didattiche posso essere assunte come valide
anche per gli altri ordini di scuola, “per assicurare la continuità dello sviluppo
individuale in rapporto alle esperienze educative precedenti, la scuola elementare,
anche in assenza degli auspicati raccordi istituzionali, si propone in primo luogo di
conoscere e valorizzare le esperienze che ciascun bambino ha fatto e continua a
fare al di fuori della scuola, le conoscenze che ha già acquisito (anche attraverso i
mezzi di comunicazione di massa) e le sicurezze raggiunte sul piano affettivo e
sociale”.
Poiché gli alunni possono essere produttivamente impegnati in un'attività di
apprendimento solo se possiedono i relativi prerequisiti cognitivi ed affettivi, gli
insegnanti debbono individuare, sia le conoscenze, le abilità e le capacità, sia le
motivazioni specifiche, che gli alunni possiedono in riferimento agli obiettivi da
perseguire.
15
In effetti, l'elaborazione delle unità didattiche deve realizzare un opportuno
equilibrio tra la struttura logica delle discipline, che richiede il rispetto della
progressione degli obiettivi e dei contenuti, e le caratteristiche evolutive degli
alunni, le quali non vanno misconosciute, ma sollecitate, stimolate, promosse,
nella prospettiva del raggiungimento di più avanzati livelli di sviluppo e di
apprendimento.
Ove dovessero accertare carenze nello sviluppo e mancato possesso dei
prerequisiti, gli insegnanti debbono programmare ed attuare appositi interventi
compensativi e di recupero, al fine di assicurarne comunque il possesso da parte
di tutti gli alunni all'inizio delle attività di apprendimento relativi ai singoli obiettivi
programmati.
Nelle unità didattiche gli obiettivi formativi a medio termine della Programmazione
didattica annuale vengono specificati e definiti, per quanto possibile, in termini di
obiettivi a breve termine.
Nella individuazione di tali obiettivi occorre sempre tener presente l'orientamento
formativo che, in prospettiva educativa e culturale, emerge chiaramente dal
Regolamento dell’autonomia scolastica.
Pertanto, è necessario che nella predisposizione delle specifiche unità didattiche
vengano di volta in volta esplicitati, sia gli obiettivi disciplinari specifici (linguaggi,
quadri concettuali, modalità di indagine delle singole discipline), sia gli obiettivi
formativi relativi formazione complessiva della personalità (formazione cognitiva,
affettiva, sociale, morale ecc.).
Al riguardo, si ritiene estremamente utile evidenziare che in ogni unità didattica, in
ogni processo di apprendimento, si perseguono molteplici obiettivi formativi.
Anche se mirata al perseguimento di uno specifico obiettivo disciplinare, le attività
svolte dagli alunni consentono di perseguire obiettivi formativi relativi a diverse
dimensioni della personalità. In particolare, è opportuno evidenziare che gli
obiettivi che di fatto vengono conseguiti si riferiscono, non solo a conoscenze ed a
capacità, ma anche ad atteggiamenti. A volte questo avviene involontariamente,
anche se non previsto dai docenti, come capita spesso, quando, ad esempio,
costretti ad apprendere determinate discipline, gli alunni maturano atteggiamenti
negativi nei confronti di tali discipline.
Nell’organizzazione didattica tradizionale il docente seguiva la logica della
disciplina di studio, alla quale gli alunni dovevano adeguarsi. Chi non ci riusciva
"restava indietro" ed era lasciata a lui la responsabilità di "recuperare" il gap, di
"mettersi al passo", fuori della scuola .
Nella scuola dell’autonomia, l’attività educativa e didattica deve essere
personalizzata. Il che significa che anche gli obiettivi formativi debbono essere
sempre personalizzati.
La personalizzazione degli obiettivi formativi significa che:
tutti gli alunni perseguano determinati obiettivi formativi (obiettivi formativi
standard) ma attraverso la loro modulazione in obiettivi a medio termine e
soprattutto in obiettivi a breve termine adeguati ai suoi livelli ed ai suoi ritmi
di apprendimento
ogni alunno persegue obiettivi formativi integrativi (ed eventuali obiettivi
formativi aggiuntivi), rispondenti alle sue specifiche essere formative, cioè
nel rispetto dellea sua identità personale, sociale, culturale e professionale
16
Pertanto, le unità didattiche possono riguardare sia obiettivi generali o standard
che obiettivi formativi integrativi e gli eventuali obiettivi formativi aggiuntivi.
Nell’un caso e nell’altro, gli obiettivi formativi vanno commisurati ai livelli di
sviluppo e di apprendimento dei singoli alunni , nel senso che si possono
prevedere diversi livelli di conseguimento, sia degli obiettivi formativi generali o
standard che degli obiettivi integrativi.
Pertanto, precisare gli obiettivi formativi significa anche individuare i livelli di
conseguimento per i singoli alunni o per gruppi di alunni.
In tale prospettiva, pur essendo tutti gli alunni impegnati nel perseguimento dello
stesso obiettivo formativo, vengono previsti livelli diversi di perseguimento e quindi
anche itinerari diversificati.
È comunque opportuno che gli obiettivi formativi siano precisati in termini quanto
più possibile puntuali e chiari, accessibili ai singoli alunni, in modo che essi
sappiano precisamente quali siano precisamente le conoscenze, le capacità e gli
atteggiamenti da perseguire.
In una prospettiva didattica metacognitiva, la conoscenza degli obiettivi, cioè delle
mete, costituisce un utile strumento per governare i processi apprenditivi, per
controllare se ci si sta movendo o meno nella loro direzione.
Al riguardo, è opportuno che siano precisati, definiti e descritti, non solo gli obiettivi
a breve termine, ma anche gli obiettivi a medio termine che si intendono
perseguire relativamente alle singole discipline e alle singole dimensioni della
personalità.
Si è già detto che attraverso le singole unità didattiche si perseguono obiettivi
formativi diversi, anche se uno risulta dominante.
È opportuno che gli alunni conoscano, non solo l’obiettivo specifico, ma anche
quelli correlati. Ciò che importa non sono solo le cognizioni ma anche le
metacognizioni.
È altresì opportuno che di ogni obiettivo vengano esplicitate sia le conoscenze che
le capacità e gli atteggiamenti.
17
che abbia manipolato, è necessario che abbia agito, sperimentato non solo su
disegni ma su un materiale reale, su oggetti fisici”4.
Pertanto, anche a livello di scuola secondaria, quando gli alunni non abbiano già
una sufficiente base di esperienze concrete, è opportuno muovere da esse.
Questa precisazione è quanto mai opportuna oggi, nel momento in cui si fa
sempre maggiore spazio all’utilizzazione delle tecnologie multimediali. Le
esperienze realizzate a livello iconico, nella realtà virtuale, debbono fondarsi su
precedenti esperienze concrete realizzate dagli alunni nei vari laboratori fisici,
chimici, elettronici, musicali, pittorici, matematici ecc.
Pertanto, la previsione degli itinerari didattici non può evidentemente prescindere
dall'individuazione e dalla indicazione degli strumenti didattici, dei materiali comuni
e strutturati, delle apparecchiature, delle tecnologie anche multimediali, di cui gli
alunni debbono potersi avvalere nei diversi momenti delle loro attività apprenditive.
Nel momento in cui alla lezione espositiva, largamente fondata sulla parola orale e
scritta dell'insegnante, con qualche generosa concessione alle illustrazioni dei
cartelloni e degli audiovisivi, si sostituisce la didattica costruttivistica e l'operatività
degli alunni, da quella concreta a quella iconica e simbolica, si pone in modo
pressante un cambiamento di prospettiva. Dopo tanti discorsi sulle tecnologie
educative, occorre finalmente che nella scuola acquisiscano piena e concreta
cittadinanza i sussidi didattici, non solo simbolici ed iconici, quali i libri di testo, i
libri delle biblioteche scolastiche, i libri complementari, le schede, i cartelloni, ma
anche i materiali concreti, comuni e strutturati, recuperando così anche
l'impostazione didattica delle "cianfrusaglie" agazziane e dei materiali strutturati
montessoriani.
Se la scuola si deve configurare come ambiente di apprendimento educativo, non
si può più accettare che in esse si ritrovino solo i banchi, la cattedra, la lavagna ed
i cartelloni, strumenti esemplari della scuola della lezione espositiva: le aule
debbono presentarsi come laboratori opportunamente attrezzati.
Occorre attrezzare le aule e gli altri locali della scuola come contesti apprenditivi e
formativi, come ambienti di apprendimento, come laboratori nei quali gli alunni,
lavorando assieme, secondo le metodologie del lavoro di gruppo, possano
procedere alla riscoperta/reinvenzione/ricostruzione dei concetti, delle teorie, delle
procedure.
Il compito del docente non è tanto quello di fare lezione, di esporre, di dimostrare,
ma è soprattutto quello di approntare le condizioni che possano consentire agli
alunni di riscoprire i concetti.
In tale prospettiva, nella predisposizione delle unità didattiche vanno individuati ed
indicati i materiali didattici, anche multimediali, da approntare per il lavoro di
gruppo ed individuale degli alunni.
In effetti, la delineazione degli itinerari didattici consiste nella descrizione delle
attività che gli alunni debbono effettuare mediante l'utilizzazione di determinati
materiali didattici.
Nelle unità didattiche vanno precisati i percorsi di apprendimento degli alunni,
indicando le tecnologie educative e didattiche da utilizzare nelle singole fasi della
motivazione, della ricerca vera e propria, del consolidamento,dell’approfondimento
e dell’arricchimento, relativamente ai singoli alunni o ai gruppi di alunni costituiti
sulla base dei loro livelli di sviluppo o di apprendimento. Dei loro stili e dei loro
ritmi di apprendimento. Per ciascun gruppo di alunni vanno indicati le tecnologie
4
PIAGET J., Avviamento al calcolo, la Nuova Italia, Firenze, 1956, p. 31
18
educative e didattiche, e le modalità di reperimento e soprattutto le modalità di
utilizzazione.
Ciò che maggiormente importa nelle unità didattiche è la ricerca e la ipotizzazione
degli itinerari didattici, dei percorsi didattici, delle procedure (metodi) che i singoli
alunni debbono percorrere da soli o in gruppi più o meno numerosi. È difficile,
anche se possibile, che possano camminare sempre assieme.
Nella lezione frontale stavano sempre assieme, anche se non camminavano
sempre assieme, perché, pur vicini gli uni agli altri, ognuno procedeva per la sua
strada, anche quando ascoltava o seguiva la stessa lezione.
Era qui una delle ragioni fondamentali delle difficoltà e quindi degli insuccessi della
lezione frontale.
Nella scuola della ricerca ogni alunno deve poter seguire la sua strada, che può
corrispondere, in tutto o in parte, a quella di molti o di pochi altri compagni.
Ogni unità didattica deve comprendere, sia il percorso relativo alla riscoperta dei
concetti, sia i percorsi relativi alle eventuali attività di recupero e di
approfondimento, che peraltro vanno meglio definiti dopo le verifiche relative ai
percorsi di riscoperta.
LA PERSONALIZZAZIONE DELLE UNITA’ DIDATTICHE
19
Le unità didattiche non vanno concepite come attività educative e didattiche
comuni a tutti gli alunni, ma come percorsi formativi personalizzati, finalizzati al
perseguimento degli stessi obiettivi formativi da parte dei singoli alunni.
Precisato l’ obiettivo formativo che gli
alunni debbono perseguire, si mettono
a punto i diversi, articolati e
diversificati percorsi formativi che
possano consentire ai singoli alunni di
perseguirli.
Al riguardo, è opportuno tener
presente che, non solo sono diversi i livelli di partenza degli alunni ed i percorsi
formativi, ma anche gli obiettivi formativi vengono raggiunti a diversi livelli: chi si
fermerà al primo livello (globale, generale…), chi invece perverrà al livello
successivo, chi ancora perverrà ai più alti livelli di approfondimento e addirittura di
arricchimento.
Quindi, il primo impegno dei docenti nell’approntare le unità didattiche è quello di
sottoporre ad un preliminare esame i singoli alunni in riferimento allo specifico
obiettivo formativo per individuare quali sono i loro livelli di sviluppo e di
apprendimento (pre-conoscenze, pre-capacità…), i loro ritmi e stili di
apprendimento, le loro in ordine allo specifico obiettivo formativo. Questa
preliminare verifica dei prerequisiti cognitivi ed affettivi, consentirà ai docenti di
"tarare" gli obiettivi formativi, ipotizzando per i singoli alunni quali possano essere i
livelli di perseguimento degli obiettivi formativi e quali i percorsi formativi da
predisporre.
Su tale base i docenti individuano i "contenuti" disciplinari da offrire ai singoli
alunni perché essi possano perseguire l’obiettivo formativo.
Tali contenuti sono, in linea di massima, i contenuti delle singole discipline relative
all’obiettivo formativo.
Anche i contenuti vanno scelti in riferimento ai livelli di sviluppo e di
apprendimento, oltre che degli stili e dei ritmi di apprendimento dei singoli alunni.
Sulla base degli obiettivi formativi e dei contenuti disciplinari, i docenti individuano
i metodi, le strategie di approccio a tali contenuti, cioè le specifiche attività che gli
alunni dovranno effettuare.
Le attività degli alunni vanno programmate tenendo conto della possibilità che
alcune di essa possano essere effettuate collettivamente dagli alunni e che altre
invece debbano essere effettuate in gruppo oppure individualmente.
In tale prospettiva, possono essere previsti almeno tre tipologie di percorsi
formativi: percorsi formativi articolati, percorsi formativi differenziati e percorsi
formativi integrativi5.
5
Tali percorsi formativi riprendono gli analoghi percorsi di apprendimento già descritti nel volume:
UMBERTO TENUTA, Individualizzazione – Autonomia e flessibilità dell’azione educativa e didattica, La
Scuola, Brescia, 1998
6
Cfr. F. Tessaro, “Processi e metodologie dell’ insegnamento”
20
emanati dai governi nazionali, prescrittivi e vincolanti per ogni specifico corso di
studi, sono state accostate forme autonome di costruzione dei curricoli e di
progettazione degli interventi, più vicine alle situazioni e ai bisogni culturali e
formativi emergenti dal territorio.
La progressione delle programmazioni in ambito scolastico:
Programmazione unitaria europea (direttive)
Programmazione nazionale (programmi)
Programmazione regionale o sub-regionale (integrazione territoriale)
Programmazione scolastica, del singolo istituto (piano offerta formativa)
Programmazione di classe (trasversale)
Programmazione del docente (disciplinare)
21
Progettazione per … Obiettivi – risultati, osservabili e misurabili
Focus Unità didattica, progetto didattico
Azioni dell'allievo Rispondere agli stimoli proposti con comportamenti conformi, prestazioni
Azioni Predisporre procedure e routine di insegnamento.Condurre, guidare,
dell'insegnante somministrare, verificare
Processo formativo Insegnamento trasmissivo. Apprendimento riproduttivo
Obiettivi In scansione gerarchica. Predeterminati. Misurabili. Classificati in
tassonomie
Parametri valutativi Normativi (con elaborazioni statistiche)
Elementi critici Rigidità dell'offerta didattica. Prevalenza dell'obiettivo e del risultato,
inconsistenza dei processi. Anticipazionismo: il risultato dell'azione
didattica è definito a priori, e va comunque raggiunto
Elementi di interesse Efficienza e rapidità dell'acquisire conoscenze e abilità, comportamenti
“obbligati” (nell'addestramento), meccanismi necessari all'autonomia
della persona (con soggetti in situazione di handicap)
22
PROGETTARE PER CONCETTI. L’EPISTEMOLOGIA CLINICA.
23
Esempio di mappa concettuale di intergruppo costruita nell’ambito di un progetto
didattico trasversale7.
7
La mappa è stata costruita da e per gli studenti della II E dell’ITC “V. Bachelet” (prof.ssa Norma Casilio) nell’ambito
del progetto PALMIRA dell’IRRE Lazio.
24
CLASSE Prima, istituto professionale indirizzo
grafico pubblicitario
ALLIEVO Allievo h, anni 15
PERIODO Primo quadrimestre
PROGRAMMAZIONE/PEI Programmazione differenziata dagli
obiettivi curricolari della classe
METODOLOGIA
TEMPI
1 ora curricolare;
2 ore IDEI sostegno;
1 ora verifica
STRUMENTI
manuale;
atlante geografico e plastico;
orario dei treni;
orario degli autobus;
stradario “Tuttocittà”;
25
pc e internet;
quaderno/rubrica dei termini “difficili”.
CONTENUTI
VERIFICA
8
Cfr. Dott. G.M. Arduino, Dott.ssa E. Gonella
http://www.autismando.it/autsito/aut_class_tratt/autismoclassificazioni1.htm
26
Un momento particolarmente significativo per l'evoluzione della nosografia relativa
alle psicosi infantili è il 1943, anno in cui Leo Kanner descrive in undici bambini, 9
maschi e 2 femmine, il quadro da lui definito autismo infantile precoce, mutuando il
termine autismo da Bleuler che lo aveva utilizzato per indicare uno dei sintomi
della schizofrenia, ma riferendolo ad una ben precisa sindrome.
Caratteristica comune di questi bambini era l'incapacità di mettersi in rapporto con
l'ambiente, nei modi tipici dell'età, fin dai primi mesi di vita. Venivano descritti dai
genitori come bambini che erano sempre stati "auto - sufficienti", "felicissimi se
lasciati soli", "come in un guscio". Tipicamente questi bambini tendevano ad
isolarsi, a non recepire: segnali relazionali provenienti dall'esterno, tanto che
spesso la ragione della consultazione era il sospetto di sordità.
I bambini descritti inoltre non assumevano una adeguata postura preparatoria
all'essere presi in braccia, così come in genere facevano gli altri bambini intorno
all'età di 4 mesi.
Due terzi di questi bambini acquisirono il linguaggio, che non veniva però utilizzato
per comunicare con gli altri in modo adeguato; il restante terzo non aveva
sviluppato alcuna forma di linguaggio, anche se venivano segnalati bambini "muti"
che di tanto in tanto pronunciavano qualche parola:
I bambini parlanti erano spesso ecolalici e usavano i pronomi così come li
udivano, designandosi quindi con il tu piuttosto che con l' io (si parla in questo
caso di inversione pronominale).
Un' altra caratteristica descritta da Kanner era la preoccupazione ossessiva di
questi bambini per il mantenimento dell'immutabilità degli ambienti o delle abitudini
(Kanner parla di "Sameness"). Il bambino tende cioè a mantenere un certo ordine
delle cose, una certa sequenzialità nelle azioni, e a sviluppare rituali, per es. nel
vestire e nel mangiare.
A livello cognitivo i bambini descritti da Kanner presentavano prestazioni
particolarmente buone in alcuni campi specifici (per es. costruire puzzle, ricordare
sequenze di cifre o poesie) che contrastavano con il ritardo generale.
Kanner descrisse i genitori di questi bambini come freddi ed eccessivamente
intellettuali; ancora nel 1957 Kanner afferma che "vi sono pochi padri e madri
realmente e caldamente affettuosi ... fortemente preoccupati da astrazioni di
natura scientifica, letteraria od artistica, e limitati nel sincero interesse verso le
persone" (Kanner, 1979). Questa dato non è stato tuttavia confermato dagli studi
successivi e l'ipotesi si è rivelata priva di fondamento e non generalizzabile. Lo
stesso Kanner, nell'articolo del 1943 conclude peraltro che la natura di questo
disturbo é probabilmente di natura congenita.
Le attuali definizioni dell'autismo infantile riflettono solo in parte l'iniziale
descrizione di Kanner e tengono conto di una migliore conoscenza dello sviluppo
relazionale del bambino normale e degli studi recenti sulla "Teoria della mente"
(Frith, 1989).
Negli anni settanta M. Rutter (1978) specifica ulteriormente il quadro descritto da
Kanner, individuando, attraverso uno studio comparato di bambini autistici e
bambini con altri tipi di disturbo, alcuni sintomi tipici dell'autismo infantile. Questi
comprendono una incapacità a sviluppare rapporti sociali, una particolare forma di
ritardo del linguaggio con presenza di ecolalia e inversione pronominale e vari
fenomeni rituali e compulsivi. A questi si aggiunge un'insorgenza prima dei trenta
mesi. Rutter, inoltre, sottolinea come, a differenza di quanto era stato osservato da
Kanner, circa i tre quarti dei bambini con autismo hanno anche un ritardo mentale.
27
Attualmente, le classificazioni maggiormente utilizzate nella psichiatria dell'infanzia
e dell'adolescenza sono: quella americana del DSM IV, quella dell' ICD 10, curata
dallO.M.S. e quella francese (CFTMEA) sviluppata dal Centre A. Binet .
Citeremo inoltre alcune delle classificazioni dei disturbi dell'infanzia fatte all'interno
del modello psicoanalitico, in quanto seppur non sempre sistematizzate e
condivise, hanno spesso approfondito il tema delle psicosi dell'infanzia,
contribuendo a chiarirne gli aspetti psicopatologici.
Epidemiologia
Le ricerche epidemiologiche stimano una prevalenza dello 0.02-0.05 % del
Disturbo Autistico nella popolazione generale; ciò rappresenta circa un terzo del
totale dei Disturbi Generalizzati dello Sviluppo. Considerando la variabile sesso, i
maschi risultano più colpiti delle femmine (il rapporto è di 3 a 1).
La prognosi in genere è severa; in particolare, per il Disturbo Autistico si stima che
solo il solo l1-2% raggiungerà la normalità, mentre il 10-15 % riuscirà a progredire
e a raggiungere unautonomia dalla famiglia (Pazzagli, 1993); il 25-30%
mostreranno dei progressi ma avranno bisogno di essere sostenuti e controllati
mentre gli altri rimarranno gravemente handicappati e totalmente dipendenti
(Aarons, Gittens, 1990).
28
a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non
accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di
comunicazione come gesti o mimica)
b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di
iniziare o sostenere una conversazione con altri
c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico
d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione
sociale adeguati al livello di sviluppo;
3) modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati,
come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali
o per intensità o per focalizzazione
b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici
c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o
complessi movimenti di tutto il corpo)
d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti;
B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con
esordio prima dei 3 anni di età: 1) interazione sociale, 2) linguaggio usato nella
comunicazione sociale, o 3) gioco simbolico o di immaginazione.
C. L'anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo
Disintegrativo della fanciullezza.
Un'altra condizione autistica, descritta nel 1944 dall'austriaco Hans Asperger, con
il nome di psicopatia autistica, viene classificata dal DSM IV con il nome di
Disturbo di Asperger . Nei bambini con questa patologia il comportamento
autistico viene osservato verso i 3-4 anni, dopo un periodo in cui lo sviluppo
psicomotorio, quello del linguaggio e il livello intellettivo sono sostanzialmente
adeguati. In questo disturbo ciò che risulta man mano più compromessa è la
capacità di relazione sociale e la varietà degli interessi sociali.
I bambini con Disturbo di Asperger difettano nello sviluppo di quella che è stata
chiamata teoria della mente, così come i bambini con Disturbo autistico. Ciò
nonostante i primi risultino in genere di intelligenza normale.
Il Disturbo disintegrativo della fanciullezza è una categoria diagnostica viene
denominata, all'interno di altre classificazioni, come Sindrome di Heller o psicosi
disintegrativa. Circa la prevalenza non ci sono dati epidemiologici chiari, anche se
si ritiene che questo disturbo sia molto raro e più presente nei maschi. A
differenza del Disturbo autistico, questo disturbo esordisce dopo un periodo di
sviluppo apparentemente normale nei primi due anni a cui segue (DSM IV, p 92):
B. Perdita clinicamente significativa di capacità di prestazione già acquisite in
precedenza (prima dei 10 anni) in almeno due delle seguenti aree:
1) espressione o ricezione del linguaggio
2) capacità sociali o comportamento adattivo
3) controllo della defecazione e della minzione
4) gioco
5) abilità motorie
C. Anomalie del funzionamento in almeno due delle seguenti aree:
1) compromissione qualitativa dell' interazione sociale (per es., compromissione
dei comportamenti non verbali, incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei,
mancanza di reciprocità sociale o emotiva)
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2) compromissioni qualitative della comunicazione (per es., ritardo o mancanza
del linguaggio parlato, incapacità di iniziare o sostenere una conversazione, uso
stereotipato e ripetitivo del linguaggio, mancanza di giochi vari di imitazione)
3) modalità di comportamento, interessi ed attività ristretti, ripetitivi e stereotipati,
incluse stereotipie motorie e manierismi.
Il Disturbo di Rett è una malattia neurologica che colpisce soltanto le bambine che
esordisce in genere verso la fine del primo anno, dopo un periodo in cui lo
sviluppo della bambina è apparentemente normale. Questo disturbo, descritto per
la prima volta dall'austriaco Andreas Rett nel 1966, comporta un ritardo dello
sviluppo e assume, nelle prime fasi della malattia, le caratteristiche tipiche del
comportamento autistico; gli aspetti autistici, tuttavia, in genere scompaiono con la
crescita. La caratteristica fondamentale di questo disturbo è l'aprassia,
particolarmente accentuata nelle mani, che la bambina muove continuamente in
modo stereotipato, come se le stesse lavando; questo comportamento è
permanente durante la veglia e scompare durante il sonno. In genere il linguaggio
è assente, la deambulazione difficoltosa, e spesso è presente l'epilessia. Non
esistono dati sulla prevalenza, anche se si evidenzia una frequenza molto più
bassa rispetto al Disturbo autistico. La presenza del disturbo nelle sole bambine,
insieme al tipo di esordio ed evoluzione e ai tipici movimenti stereotipati
consentono la diagnosi differenziale nei confronti di altri Disturbi generalizzati dello
sviluppo.
L'ultima categoria utilizzata dal DSM IV è quella del Disturbo Generalizzato dello
Sviluppo Non Altrimenti Specificato. Questa è una categoria residua con cui
andrebbero diagnosticati tutti quei bambini che pur presentando una grave e
generalizzata compromissione dello sviluppo sociale e relazionale, comportamenti
stereotipati e compromissione della comunicazione verbale e non verbale, non
rientrano in nessuna delle categorie specifiche descritte sopra. In questa categoria
viene compreso anche lAutismo Atipico dell'ICD 10.
Per gli altri disturbi psicotici dell'infanzia e dell'adolescenza, come quelli dell'umore
o la schizofrenia (che compaiono come vedremo nella classificazione francese),
non ci sono categorie specifiche separate da quelle valide per l' adulto.
30
dello Sviluppo descritte dal DSM IV. Ciò vale in particolare per l' Autismo Infantile
definito come il Disturbo autistico del DSM IV , la Sindrome di Rett (Disturbo di
Rett), la Sindrome disintegrativa dellinfanzia di altro tipo (Disturbo disintegrativo
della fanciullezza), Sindrome di Asperger (Disturbo di Asperger), la Sindrome non
specificata da alterazione globale dello sviluppo psicologico (sovrapponibile al
Disturbo generalizzato dello sviluppo N.A.S. del DSM IV, in cui però è compreso
anche il quadro dell Autismo atipico).
L’Autismo Atipico viene differenziato dall'Autismo infantile perché pur essendoci
una compromissione dello sviluppo, anomalie nell'interazione sociale e nella
comunicazione e stereotipie di comportamento, queste si evidenziano anche dopo
i tre anni (Atipicità nell'età di esordio), oppure, pur evidenziandosi prima dei tre
anni non soddisfano completamente tutti i tre gruppi di sintomi principali (Atipicità
nella sintomatologia), analoghi a quelli indicati al punto B. dei criteri per il Disturbo
Autistico del DSM IV .
Un’altra categoria che compare nell'ICD 10 e non nel DSM IV è quella della
Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati, che
descrive bambini con ritardo mentale grave e medio (Q.I. inferiore a 50), gravi
problemi di iperattività, deficit attentivo e, molto spesso, comportamenti
stereotipati. Questa sindrome si associa con vari deficit dello sviluppo, globali o
specifici. Viene tuttavia considerata dallo stesso ICD 10, come mal definita, di
incerta validità nosologica (ICD 10, p 250).
Per completezza, infine, bisogna accennare ad una ulteriore categoria diagnostica
residua proposta dall'ICD 10, quella di Altre sindromi da alterazione globale dello
sviluppo psicologico.
31
ritardo mentale di grado medio o grave con deficit nello sviluppo dell'acquisizione
del linguaggio. In queste forme i tratti e i meccanismi della psicosi sono presenti e
strettamente connessi ad un deficit cognitivo e linguistico, senza che si possa
chiaramente stabilire una prevalenza eziopatogenetica dei primi sul secondo o
viceversa.
Le disarmonie psicotiche sono state definite da altri autori come prepsicosi,
disturbi schizoidi, sindrome del bambino atipico. Sono caratterizzate dalla
presenza di elementi psicotici e da una sintomatologia variabile, che può
modificarsi nel corso dell'evoluzione e che può comprendere l'instabilità motoria,
manifestazioni fobiche, isteriche o ossessive, disarmonia nell'acquisizione del
linguaggio e dello sviluppo psicomotorio, senza tuttavia che il ritardo mentale
occupi un ruolo centrale, almeno all'inizio. Il bambino mostra tuttavia una capacità
di adattamento, un'organizzazione difensiva che gli consente di impedire una
disorganizzazione e una rottura piena con la realtà; può ,per esempio, manifestare
comportamenti patologici solo in certi contesti o in determinate fasi evolutive.
Le psicosi di tipo schizofrenico sono caratterizzate da un quadro evolutivo che
esordisce dopo i 4 anni, in cui predomina la dissociazione e la disorganizzazione
del pensiero, vi è una perdita rapida delle capacità adattive e sono presenti anche
manifestazioni deliranti. In questa categoria vengono comprese anche le psicosi
disorganizzatrici, di cui parlano Manzano e Palacio Espasa (1983). Queste forme,
come quelle a esordio nell'adolescenza, in genere, evolvono verso una forma di
schizofrenia dell'adulto.
La categoria delle psicosi distimiche comprende quelle manifestazioni in cui i
disturbi dell'umore occupano un posto centrale; queste psicosi possono esordire a
partire dai 3-4 anni sotto forma di eccitazione o di depressione.
Le psicosi acute comprendono quegli episodi acuti o subacuti in cui vi è una
rottuta del contatto con la realtà, che sono seguiti però da rapido ritorno alla
normalità.
Altre classificazioni in ambito psicodinamico
Le psicosi infantili sono stato oggetto di studio di molti autori di scuola
psicoanalitica, tra cui M. Klein, M. Mahler, F. Tustin e, più recentemente Manzano
e Palacio-Espasa.
In queste classificazioni l'aspetto descrittivo è secondario (mentre è prevalente per
DSM IV e ICD 10), ed è privilegiato un'approccio psicopatologico-dinamico.
Una delle classificazioni più citate in letteratura è quella fatta da Margareth Mahler
nel suo libro sulle psicosi infantili (Mahler M., 1980). L'autrice descrive due diversi
quadri, che implicano una fissazione in momenti differenti del processo, ipotizzato
dalla stessa autrice, di separazione-individuazione (Mahler M., 1978). Distingue
infatti:
- psicosi autistica primaria
- psicosi simbiotica
Va osservato che, mentre la definizione di psicosi autistica primaria è simile alle
definizioni di autismo delle classificazioni attuali, la psicosi simbiotica risulta una
categoria poco condivisa che, in genere, nelle classificazioni di tipo descrittivo
viene fatta confluire nel Disturbo Autistico
Più articolata, sempre all'interno di un quadro di riferimento psicodinamico, è la
proposta di classificazione che fanno Manzano J. e Palacio Espasa F. (1983), che
distinguono tra:
- autismo primario e secondario
- psicosi simbiotica della Mahler
- psicosi precocemente deficitaria
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- psicosi disorganizzatrice
La peculiarità di questa classificazione - che gli autori definiscono operazionale -
sta nel fatto che viene tenuto conto dell'evoluzione delle psicosi infantile, e del
passaggio da un quadro all'altro con il passare del tempo o nel corso del
trattamento. La psicosi disorganizzatrice è un quadro in cui il bambino mostra uno
sviluppo, pur disarmonico, delle funzioni dell'Io (linguaggio, intelligenza ecc..) , ma
il cui atteggiamento colpisce per la disorganizzazione, l'insensatezza e
l'incoerenza. Non condividono l'accostamento con il quadro della schizofrenia
dell'adulto in quanto non appare per regressione, ma piuttosto come una forma di
evoluzione a partire dalle psicosi autistiche e simbiotiche (ibid., p. 65.
Le psicosi precocemente deficitarie sono, secondo gli autori, una forma di
evoluzione dell'autismo precoce, in cui in genere vi è un'attenuazione dei
comportamenti di chiusura e di diniego della realtà, ma lo sviluppo prima
psicomotorio, poi intellettivo e del linguaggio risulta gravemente compromesso.
De Ajuriaguerra nel suo Manuale di psichiatria del bambino (1974) utilizza il
criterio dell'età d'esordio per classificare le forme di psicosi infantile. L'autore
distingue tra Disturbi psicotici precoci e Disturbi psicotici che appaiono in età
scolare.
Tra i Disturbi psicotici precoci vengono inseriti l'Autismo precoce di Kanner e
l'Autismo precoce nel senso più ampio del termine (De Ajuriaguerra J., 1974, p.
769). La seconda categoria viene ulteriormente suddivisa in forme deficitarie, in
cui è presente un ritardo mentale medio ( Q.I. inferiore a 50), e distorsioni precoci
della personalità , che hanno una manifestazione più tardiva rispetto all'autismo di
Kanner e sono sovrapponibili alle disarmonie evolutive precoci di Miséz e Moniot
e, in parte alle psicosi simbiotiche della Mahler.
I Disturbi psicotici che appaiono nell'età scolare rappresentano una molteplicità di
quadri, variamente denominati dai diversi autori. In questi disturbi in generale si
rilevano: distorsioni nel rapporto con l'ambiente e disturbi del comportamento;
disturbi del pensiero, che manca di fluidità ed è spesso incoerente; modificazioni
timiche, sia nel senso della depressione che in quello dell'eccitazione. Sono inoltre
presenti, e ciò in genere non si verifica per i disturbi ad esordio precoce, idee
deliranti e (anche se ciò è molto discusso) allucinazioni. Vi sono poi disordini della
sfera motoria (per es. atteggiamenti goffi o stereotipie motorie).
I disordini del linguaggio assumono caratteri diversi da quelli dei quadri più precoci
: è in genere assente l'inversione pronominale ed è rara l'ecolalia; è invece più
frequente l'incoerenza del discorso e a volte l'uso di linguaggio astratto o cifrato.
9
Un glossario interessante si trova ad esempio su:
http://gate.dongnocchi.it/guide/Guida_Handicap/Terminologia/terminprinc_tipologie_dis.htm
33
Tali disturbi rappresentano peraltro situazioni cliniche di grande impatto in tutti gli
ambiti della vita, sociale e di relazione (famiglia, scuola, lavoro), e pertanto
meritano di essere trattati in maniera specifica.
Attualmente i sistemi di classificazione più frequentemente utilizzati, su cui vi è un
diffuso
consenso sono DSM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) ed
ICD-10
(International Classification of Diseases).
I Disturbi generalizzati dello sviluppo rappresentano una distorsione dello sviluppo
di base che riguarda la comunicazione, verbale e non verbale, le capacità sociali e
l’attività immaginativa10. Sono inoltre compromesse funzioni psicologiche di base
quali l’attività motoria, l’attenzione, la percezione sensoriale, l’umore ed il
funzionamento intellettivo. Nel DSM viene precisato inoltre la frequente
associazione con ritardo mentale.
Secondo il DSM-IV si riconoscono all’interno di questo capitolo i seguenti distinti
disordini:
• Disturbo Autistico
• Disturbo di Rett
• Disturbo Disintegrativo della fanciullezza
• Disturbo di Asperger
• Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato (NAS)
L’ICD-10, che raggruppa questi disturbi sotto la dicitura di Sindromi da Alterazione
Globale dello Sviluppo Psicologico, oltre alle cinque sindromi elencate, inserisce
anche:
• Autismo atipico
• Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipi
Ora prenderemo in esame il disturbo di più frequente riscontro clinico (la Sindrome
Autistica) e solo brevemente accenneremo alla S. di Rett, alla S. di Asperger e al
Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza.
10
Cfr. Dott.ssa Valeria Fenzi.
34
Il bambino autistico potrebbe essere in grado di interagire da un punto di vista
fisico, in attività di gioco corporee, ma non essere in grado di entrare in un gioco
immaginativo o in cui gli venga richiesta la capacità di cooperare.
La menomazione qualitativa nella comunicazione interessa sia l’area verbale che
non verbale, in maniera diversa a seconda dell’età e della profondità del disturbo.
Si manifesta con un ritardo o la totale assenza del linguaggio, con linguaggi atipici
per tono, volume o estensione della voce, con comparsa di ecolalie e neologismi.
Dove è presente un linguaggio, esso è caratterizzato da ripetitività di contenuti,
incapacità di usare e comprendere un linguaggio metaforico, figurato, di tipo
simbolico. Il gioco immaginativo e simbolico, che si correla con la comparsa di una
comunicazione adeguata, appare anch’esso povero e ripetitivo.
Un elemento caratteristico della sindrome è la presenza di comportamenti
stereotipati che tendono a ripresentarsi frequentemente nel corso della giornata,
apparentemente non finalizzati, fino a divenire in alcuni casi l’unica attività
effettuata. Le stereotipie gestuali (es. movimento di sfarfallamento o di rotazione
con le mani, spesso in visione laterale) tendono a diminuire in frequenza nel corso
della vita e molto spesso si modificano, talora divenendo più complesse od inserite
in una attività rituale più articolata.
Accanto ai sintomi già descritti, che rappresentano gli elementi indispensabili per
poter formulare una diagnosi di autismo, sono frequentemente presenti una serie
di altri sintomi meno specifici, quali la presenza di posture anomale, deficit di
coordinazione e di organizzazione della motricità, alterazione della percezione (es.
uditiva con iperacusia), che determina risposte abnormi a stimoli sensoriali di
intensità normale, manierismi alimentari, che si manifestano sia nella modalità di
alimentarsi che nella qualità del cibo assunto (fino a giungere a restrizioni della
dieta a solo 2-3 alimenti), disturbi del sonno, ansia generalizzata che non sempre
è riconducibile ad una situazione scatenante, reazioni affettive bizzarre e tono
dell’umore labile.
Nella storia dei soggetti affetti da autismo si riscontra spesso una familiarità per
autismo, difficoltà di interazione sociale, ritardi o disturbi di linguaggio, disturbi
cognitivi, disturbi di apprendimento, disturbi maniaco-depressivi, schizofrenia,
disturbi ossessivo-compulsivi, S. di Tourette.
La prevalenza del disturbo è di 0.7-15/10.000 soggetti, a seconda dei diversi studi,
con una distribuzione rispetto al sesso che indica una netta prevalenza a carico
del sesso maschile (M:F=2-4:1).
Sono inoltre frequentemente associate patologie neurologiche e dello sviluppo
psichico :
• Ritardo mentale (il 70-90% dei soggetti presenta un QI inferiore a 70, limite
stabilito tra
intelligenza nei limiti di norma e ritardo mentale, nei test intellettivi standardizzati,
di cui il
40% si colloca nel ritardo mentale medio-grave, cioè con un QI inferiore a 50).
• Manifestazioni convulsive ed Epilessia (presente con ampia variabilità
percentuale a
seconda degli studi, dal 4 al 42%, ed in particolare le convulsioni febbrili sono
rilevate nel
32% dei casi mentre l’epilessia parziale è presente quasi nella metà dei casi).
• Macrocefalia (Circonferenza cranica superiore al 97°P, cioè superiore al limite tra
normalità, per sesso ed età, ed abnorme sviluppo cranico, presente nel 20-40%
dei soggetti).
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Dopo aver presentato questa breve descrizione della modalità di presentazione
clinica e la
sintomatologia prenderemo ora in rassegna le principali ipotesi etiopatogenetiche
(causali).
Ancora oggi rimane solo ipotizzata la causa che determina l’insorgenza del
disturbo autistico, così come rimane da studiare la concatenazione di eventi
patologici che determinano l’insorgenza di un quadro sintomatologico così
complesso e variegato, che si correla con il non corretto funzionamento di strutture
distinte, sia dal punto di vista anatomico che funzionale, conducendo quindi ad
ipotizzare una compromissione multisistemica, di origine verosimilmente
multifattoriale.
La maggior parte degli autori concorda sulla presenza di una causa biologica del
disturbo, anche se alterazioni chiare risultano identificabili solo nel 10% dei casi
esaminati, e di queste in particolare sono descritte:
• Alterazioni genetiche
Sono stati effettuati numerosi studi epidemiologici (su ampie popolazioni) che
confermano la presenza di una familiarità per tale disturbo con uno spettro di
presentazione molto vario nel gentilizio. Il rischio di ricorrenza è del 2.2% nei
fratelli per arrivare al 60% nei gemelli
monozigoti (gemelli che condividono lo stesso patrimonio genetico), sottolineando
il forte
legame con il substrato genetico anche se, non trovando una concordanza del
100% appunto nei gemelli omozigoti, si deve ipotizzare la presenza di concause
differenti, verosimilmente di natura ambientale. Il rischio di ricorrenza della
diagnosi di autismo o di deficit cognitivo o del comportamento sociale di grado
lieve nei parenti di I° è del 20%.
Va sottolineato inoltre il riscontro di aberrazioni cromosomiche a carico dei
cromosomi 7, 13,15,16 (in particolare sembrano promettenti le ricerche a carico
del cromosoma 7).
• Alterazioni morfostrutturali
Sono state identificate alterazioni anatomiche e ultrastrutturali a carico delle
seguenti aree cerebrali: tronco
dell’encefalo, cervelletto e sistema libico, anche grazie all’introduzione delle
recenti metodiche di neuroimaging (risonanza magnetica standard e funzionale)
che hanno talora evidenziato, come descritto, una riduzione volumetrica del lobo
parietale, del corpo calloso, del tronco cerebrale e del cervelletto.
• Alterazioni del sistema endrocrino ed immunologico
Sono stati riscontrate alterazioni bioumorali con aumento dei livelli di serotonina,
riduzione di quelli ossitocinici, alterazioni dei mediatori chimici del sistema
endocrino. Sono stati inoltre identificate complesse anomalie del sistema
immunitario.
I dati della ricerca anatomo-funzionale non sono ad oggi riusciti a sostenere o
accreditare una teoria rispetto ad un’altra in quanto nella maggior parte dei casi
non sono riconoscibili alterazioni di rilievo e, qualora esistano, esse sono a carico
di strutture, anatomicamente e funzionalmente distinte (sistema limbico,
cervelletto, lobo frontale, ...). Rimane affascinante l’ipotesi di una alterazione della
rete di connessione tra strutture cerebrali differenti, ma funzionalmente integrate,
che renderebbe ragione della molteplicità di funzioni neuropsicologiche e
comportamentali compromesse e la difficoltà di localizzare in un’unica struttura
l’alterazione di base.
36
Sopravvive peraltro, accanto a questo approccio neurobiologico, una corrente di
pensiero, che ha rappresentato nel passato l’interpretazione dominante, che tenta
di interpretare il disturbo artistico in chiave psicodinamica, come conseguenza di
un alterato sviluppo della personalità e disturbo precoce della prime relazioni del
bambino, in particolare con la madre.
Ora prenderemo in esame più in dettaglio gli aspetti cognitivi e neuropsicologici.
Gli studi effettuati hanno condotto alla formulazione di differenti teorie riguardo alla
modalità di funzionamento cognitivo e neuropsicologico dei soggetti autistici.
Ora prenderemo in esame i dati della letteratura sull’argomento ed i Modelli
Teorici attualmente più accreditati.
Innanzi tutto va ancora una volta ricordato che la presenza di differenti modelli
nasce dalla
disomogeneità di presentazione del disturbo autistico e dalla compromissione di
diverse aree, che rende il problema estremamente complesso e difficilmente
riconducibile ad un’unica alterazione o percorso patogenetico.
Le teorie più accreditate partono dal presupposto che la maggior parte dei soggetti
autistici (dal 65 all’85% nella maggioranza degli studi, per arrivare però anche al
99% in alcuni lavori) presenti un ritardo mentale, caratterizzato da un QI, ottenuto
mediante test standardizzati, < 70.
Già in passato però veniva segnalato che il disturbo autistico presentava alcune
caratteristiche di funzionamento che differivano da quanto osservato nei soggetti
affetti da ritardo mentale.
I soggetti autistici presentavano prestazioni nettamente più favorevoli in compiti
visuo-spaziali che in quelli a mediazione verbale. Colpivano inoltre le segnalazioni
di persone autistiche, che rappresentano invero meno del 5% della popolazione
studiata, con isolate abilità superiori alla norma (es. nel calcolo aritmetico o nelle
capacità mnemoniche).
Va sottolineato che i soggetti che presentano un QI superiore a 65-70 (15-35%)
sono descritti come autistici ad alto funzionamento ed hanno in generale una
prognosi più favorevole.
In realtà il problema nosologico appare piuttosto controverso ed attualmente per
esempio si dibatte sull’opportunità di mantenere o meno la distinzione tra l’autismo
ad alto funzionamento cognitivo e la S. di Asperger, in cui lo sviluppo del
linguaggio e le funzione cognitive risultano nei limiti di norma. Alcuni autori
tendono inoltre a definire tali situazioni cliniche Sindromi borderline psicotiche,
Disturbi schizoidi di personalità e Disturbi della Comunicazione.
Nelle situazioni più deficitarie (i soggetti con QI<50 rappresentano, secondo la
maggior parte degli studi, il 40% della popolazione studiata, per raggiungere la
quasi totalità del campione) diviene difficile la distinzione con il ritardo mentale
vero e proprio e pertanto, secondo alcuni, dovrebbe essere utilizzato un criterio di
inclusione più restrittivo, escludendo appunto gli estremi della popolazione per
quel che concerne il funzionamento cognitivo, identificando nella fascia intermedia
la popolazione autistica vera e propria, o per lo meno la popolazione in cui diviene
meno problematica la diagnosi differenziale con altre situazioni cliniche.
Esistono inoltre pazienti che presentano una sintomatologia autistica ma non
soddisfano pienamente i criteri diagnostici, per l’età d’esordio (dopo i 3 anni) e/o
per la sintomatologia (mancato riscontro di una anomalia sufficientemente
dimostrabile in una o due delle tre aree richieste per la diagnosi) In questo caso si
parla di autismo atipico.
L’eterogeneità clinica è ulteriormente complicata dalla presenza all’interno del
quadro autistico di autismi secondari o autismi associati ad una alterazione
37
organica riconoscibile (x-fragile, rosolia congenita,...), il cui impatto sull’evoluzione,
intesa come risposta ai trattamenti e prognosi a distanza, appare frequentemente
non trascurabile.
Non entreremo ora in discussione sull’opinabilità delle definizioni di intelligenza e
di ritardo mentale né sulle ben note controversie sull’uso dei test per la valutare
delle competenze cognitive di un soggetto, anche al di fuori della problematica
autistica. Sicuramente risulta molto spesso difficile stabilire, nei soggetti affetti
d’autismo, l’attendibilità della risposta data per la presenza del disturbo
comportamentale e d’interazione, la frequente facile esauribilità e saturazione
dell’attenzione.
Per quanto concerne la valutazione cognitiva sono ben note le segnalazioni di un
profilo caratteristico utilizzando la scala di intelligenza WISC-R: discrepanza
significativa tra QIV (quoziente intellettivo verbale) e QIP(quoziente intellettivo non
verbale o di performances) a favore di quest’ultimo, picchi positivi nei subtest
Disegno con i Cubi e Ricostruzione di Oggetti e negativi nei subtest Comprensione
e Storie Figurate, che sono interpretabili in accordo con il rilievo di un disturbo
prevalente a carico delle abilità verbali (sia nel versante recettivo che espressivo
e, quando relativamente preservate, più a carico della categorizzazione semantica
che della competenza lessicale) ed ad una relativa integrità delle funzioni visuo-
spaziali.
Vanno peraltro segnalati i risultati di studi che tendono a non confermare tali
osservazioni.
Anche ad una valutazione dello sviluppo, mediante la scala Griffiths, emerge un
profilo caratteristico con picchi nelle abilità motorie e visuo-spaziali e cadute
nell’area verbale e del ragionamento pratico.
La scala di performances Leiter-r rappresenta un’ottima possibilità di valutazione
cognitiva laddove la funzione comunicativa risulta largamente compromessa,
come si realizza nell’autismo.
Essa peraltro sembra presentare un’alta correlazione positiva tra scala intera, QIP
della WISC-R e il QI della Leiter.
Sono inoltre ben note le peculiari alterazioni d’alcune funzioni neuropsicologiche:
Memoria: ottima memoria a breve termine ma deficit della memoria categoriale,
per fatti recenti ed episodica.
Attenzione: deficit di attenzione escluso per ristretti campi d’interesse dove risulta
invece molto difficile distogliere il soggetto dal focus attentivo.
Linguaggio: rovesciamento nell’uso dei pronomi, incapacità di comprendere ed
utilizzare gli aspetti pragmatici del linguaggio, incomprensione delle figure
retoriche e del linguaggio figurato, presenza di neologismi ed utilizzo di vocaboli
ricercati o inusuali, sottolineando comunque l’assenza totale del linguaggio nel
25% dei casi.
Motricità: compromissione maggiore a carico della motricità globale rispetto a
quella fine.
Va inoltre sottolineato che il QI rappresenta, secondo alcuni studi uno tra gli
indicatori prognostici più favorevoli, accanto ad un trattamento istituito
precocemente (< 4 anni d’età), da cui si deduce la necessità di effettuare una
diagnosi sempre più precoce (l’obiettivo individuato sarebbe entro i 24mesi), al
sesso maschile, ad una buona memoria verbale.
Un alto quoziente intellettivo si correla inoltre ad un’evoluzione favorevole delle
competenze comunicative, degli apprendimenti scolastici e del comportamento
sociale, così che in età adulta non sussistono più, per alcuni di questi soggetti, i
criteri minimi per mantenere una diagnosi di autismo.
38
Sono stati elaborati nel tempo alcuni modelli interpretativi che tentano di spiegare
la presenza nel disturbo autistico di tre aree deficitarie nelle fasi precoci dello
sviluppo sociale; ora citeremo i più conosciuti ed accreditati:
1) Teoria del deficit della “cognizione” sociale considera centrali nella patogenesi
del disturbo alcuni elementi comportamentali, riconoscibili fin dalle più tenere età:
la mancanza di contatto affettivo già presente nella relazione precoce madre-
bambino con incapacità di riconoscere le emozioni e di rispondervi in maniera
adeguata ed adattiva; mancanza d’attenzione condivisa e deficit dell’imitazione.
2) Teoria della Mente considera centrale l’incapacità dei soggetti affetti da autismo
di rappresentarsi lo stato mentale altrui e di se stessi, per la quale non sarebbero
in grado di raffigurarsi un agire che tenga conto delle credenze e dei pensieri
soggettivi. Gli autistici sarebbero pertanto in grado di rispondere agli stimoli
ambientali solo dentro un rapporto oggettuale, vissuto ed esperito nel concreto.
Tale teoria spiegherebbe il deficit di gioco simbolico frequentemente osservato.
3) Teoria dell’alterazione delle funzioni esecutive (pianificazione,
categorizzazione) rende ragione dei comportamenti rigidi e stereotipati e del
ristretto campo di interessi, con un deficit delle funzioni frontali ed in particolare
nella capacità di pianificare una sequenza e di monitorarne lo svolgimento con
attività di feed-back, nella capacità di spostare l’attenzione su diversi stimoli,
distogliendola da quelli catturanti, o su più stimoli contemporaneamente.
4) Teoria della debole coerenza centrale considera infine centrale la caratteristica
dei soggetti affetti da autismo di non attribuire diverso valore a stimoli con
significato da quelli senza significato e/o random e quindi di non riuscire ad
astrarre da uno stimolo complesso gli elementi significativi ed unitari rispetto a
quelli privi di significato, per cui pertanto ricordano maggiormente gli aspetti
formali che il contenuto di un discorso.
Come è possibile dedurre da questa rapida carrellata, nessuno dei modelli
formulati è in grado di rappresentare in maniera convincente ed unitaria la realtà
autistica, in tutta la sua complessa sintomatologia e multiformità di presentazione.
I modelli teorici sono tuttavia necessari per guidare la ricerca futura con la
consapevolezza della necessità di modificarli o sostituirli, alla luce dei progressi
ottenuti.
Da quanto presentato fino ad ora appare chiaro che la diagnosi di Autismo è di
tipo puramente descrittivo, sulla base della presenza o assenza di sintomi clinici
(manifestazioni comportamentali osservabili), senza il supporto o la conferma nei
dati strumentali.
I Sistemi Internazionali di Classificazione stabiliscono che la diagnosi può essere
formulata solo in
presenza di almeno 6 sintomi, di cui:
• almeno 2 a carico dell’interazione sociale
• almeno 1 a carico di comunicazione
• almeno 1 a carico del comportamento
Inoltre l’esordio dei sintomi deve avvenire prima dell’età di 3 anni e l’anomalia non
deve essere riconducibile al Disturbo di Rett o a Disturbo Disintegrativo della
Fanciullezza.
Sempre per tali sistemi classificativi deve inoltre essere condotta una diagnosi
differenziale con la Schizofrenia, in cui sono presenti in maniera patognomonica
allucinazioni, deliri, incoerenza, allentamenti nei nessi logici ed associativi, e con il
Disturbo Schizotipico di personalità in cui invece manca l’alterazione gravissima
delle funzioni sociali e del linguaggio.
39
DSM ed ICD-10 specificano ulteriormente i sintomi riscontrabili nelle tre aree come
segue:
L’Autismo Atipico (categoria presente solo nell’ICD-10) presenta gli stessi sintomi
descritti per l’autismo, differenziandosi per l’età di insorgenza dei sintomi, che si
situa sopra i 3 anni, e per la mancanza di una compromissione sufficientemente
dimostrabile in una o due delle tre aree, richiesta per la diagnosi di autismo.
Talvolta tale situazione clinica viene descritta come presenza di tratti autistici.
40
Nell’autismo atipico si associa più frequentemente il ritardo mentale e la
compromissione della comprensione verbale.
Nell’ambito delle Sindromi Autistiche sono possibili differenti tipi di intervento, che
si articolano su più livelli (terapeutici, riabilitativi, educativi e sociali) e che vanno
scelti in funzione dell’età del soggetto, del livello di compromissione generale, del
bilancio delle potenzialità e delle abilità raggiunte nonché del livello intellettivo,
dell’ambiente in cui il soggetto autistico vive (famiglia, scuola, istituto), nonché
delle risorse socio-sanitarie disponibili nel territorio.
La terapia deve essere preceduta da una valutazione prolungata che esplori tutte
le aree dello sviluppo del bambino (comunicativa, interattiva, cognitiva,
neuropsicologica).
Il progetto terapeutico è fondato sul concetto di sviluppo per cui le acquisizioni
raggiunte devono essere integrate nel processo di sviluppo stesso per contribuire
alla crescita mentale del bambino.
L’intervento riabilitativo deve essere modulato sulla fase di sviluppo attraversata
dal bambino, sulle connessioni tra i diversi nuclei patogenetici e sulle strategie di
processamento dei dati interni ed esterni.
Il punto fondamentale da raggiungere è la “socializzazione” delle acquisizioni, cioè
la capacità di esportarle fuori dalla stanza di terapia e dal rapporto paziente-
terapeuta all’interno del maggior numero di interazioni.
Nessun intervento fin qui proposto si è peraltro rivelato risolutivo o migliore in
assoluto rispetto agli altri e pertanto vanno contenute le attese miracolistiche dei
genitori di una completa guarigione.
I percorsi terapeutici sono sempre lunghi ed articolati, modificati nel corso degli
anni, per adattarsi alle tappe evolutive raggiunte.
Un approccio terapeutico risulta tanto più efficace tanto più globale, integrato ed
individualizzato, condotto da personale sensibile e formato sulla problematica
specifica, organizzato in una equipe multiprofessionale, capace quindi di offrire
una proposta articolata ma integrata, attivabile nei diversi ambiti e contesti di vita.
Il lavoro d’equippe consente inoltre il supporto degli operatori più direttamente
coinvolti nella presa in carico, che rischiano, per il tipo di impegno richiesto ed i
risultati non sempre incoraggianti, il “burnt out” (il bruciare le proprie possibilità di
prendersi cura).
In particolare le caratteristiche dell’intervento devono tener conto dei livelli diversi
di gravità:
Nell’autismo con grave compromissione cognitiva, sarà utile un intervento
terapeutico e sociale stabile per tutta l’età evolutiva, un’integrazione dell’intervento
sugli aspetti affettivi e cognitivi, un sostegno intensivo alla famiglia, un controllo
dell’iter scolastico con permanenze protratte nel tempo ed inserimento sociale
protetto.
Nell’autismo con lieve compromissione cognitiva risulterà più utile l’attuazione di
cicli terapeutici di volta in volta focalizzati su aspetti prevalenti del disturbo, in
gruppo o individuali, un aiuto alla costruzione di una rete sociale, un controllo
dell’iter scolastico e dei processi di apprendimento, un inserimento parzialmente
protetto ed un sostegno comunque alla famiglia.
Infine nell’autismo con organizzazione cognitiva adeguata andrà pensato piuttosto
ad un intervento basato su cicli terapeutici focalizzati sugli aspetti cognitivi del
disturbo, interventi psicoterapeutici sugli aspetti affettivi, un appoggio all’ambiente
famigliare e sociale, un controllo del processo di apprendimento scolastico ed un
sostegno nell’inserimento sociale autonomo.
Passeremo ora in rassegna gli interventi più frequentemente adottati:
41
TRATTAMENTO EDUCATIVO
42
separatezza anatomica da sua madre. I bambini autistici sono considerati, in un
ottica psicodinamica, come avvolti nelle proprie sensazioni corporee in un
tentativo di respingere le esperienze che inducono terrore, cosi che la qualità del
legame madre-bambino non è emotivo ma basato su sensazioni corporee.
Il lavoro psicanalitico mira quindi a restituire a questi pazienti la capacità di
tollerare la tristezza e la frustrazione e godere della profondità del rapporto con gli
altri, focalizzando sulla capacità di riconoscere gli stati emotivi propri ed altrui ed
iniziare ad esprimerli.
Altri autori sottolineano come il lavoro psicanalitico debba inoltre dedicare
attenzione alla difficoltà di introiezione, creando un ambiente che consenta al
paziente di accettare variazioni di stimoli e loro combinazioni, modulando così
l’eccitazione.
In molti casi il terapeuta deve divenire un oggetto quasi inanimato affinché il
soggetto possa inglobarlo nella propria esperienza, senza dovervi controreagire.
Un percorso psicanalitico richiede un grande lavoro emozionale per mantenere
vive le capacità di pensiero e gli affetti, affinché il bambino possa immaginare,
incontrandoli, di averli egli stesso creati e non li avverta come ripetuta esperienza
traumatica, a cui dover reagire.
Il lavoro psicanalitico diretto sul paziente deve essere poi affiancato, secondo
alcuni terapeuti, da uno analogo di supporto ai genitori, che devono sentirsi
compresi nella loro angoscia. Se la relazione di coppia non è riuscita a svolgere
una funzione curativa del trauma inconscio personale e reciproco dei genitori, il
bambino è incastrato nel terreno delle proiezioni che ne derivano ed i genitori non
possono essere per lui quel ambiente di cui ha bisogno per crescere.
Il disinvestimento genitoriale, ed in particolare della madre, è vissuto da bambino
come una catastrofe che produce insieme una perdita d’amore e una perdita di
senso. Il lavorare sui livelli di collusione della coppia genitoriale permette di
liberare quanto è rimasto bloccato, per metterlo a disposizione dei genitori,
favorendo una possibilità di sviluppo del loro bimbo.
TRATTAMENTO “LOGOPEDICO”
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influenzamento diretto e pertanto le produzioni scritte non rappresenterebbero i
contenuti del soggetto ma del facilitatore.
TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
TERAPIA DIETETICA
DISTURBO DI RETT
44
successivo sviluppo di movimenti stereotipati delle mani (es. torcersi o lavarsi le
mani o “hand washing”), associato all’insorgenza di una andatura atassica, di una
spasticità a carico degli arti e di movimenti del tronco, scarsamente coordinati. Lo
sviluppo del linguaggio, sia sul versante espressivo che di comprensione, risulta
gravemente compromesso. In realtà una forma di comunicazione non verbale è
garantita dal perdurare di uno sguardo estremamente comunicativo.
Vi è una perdita, seppur non assoluta, dell’interesse sociale. La regressione
osservata si associa tipicamente a ritardo mentale grave e sintomatologia simil-
autistica. Possono associarsi crisi epilettiche di vario tipo. Frequente è il rilievo di
disturbi del sonno, irregolarità respiratorie, iperventilazione intermittente,
sospensione breve della respirazione, espulsione forzata di aria ed apnea, che
compaiono esclusivamente durante la veglia, accentuate dalle emozioni. Sono la
norma stipsi, aerofagia e bruxismo. Nel 75-80% dei casi compare tra 8 e 11 anni
una scoliosi neurogena, evolutiva, che conduce alla riduzione delle abilità motorie
fino alla perdita della deambulazione.
Gli ultimi studi di genetica confermano il riscontro di una mutazione a carico del
cromosoma X (gene MECP2).
Il trattamento prevede un intervento farmacologico in relazione ai sintomi motori,
all’epilessia, al disturbo del sonno. Sono inoltre utili la fisioterapia tradizionale,
l’idroterapia, l’ippoterapia, la musicoterapica, la comunicazione aumentativa e
alternativa. Talora si rende necessario l’uso di tutori per le mani al fine di inibire
“l’hand washing”.
DISTURBO DI ASPERGER
45
Non vi è mai un ritardo clinicamente significativo del linguaggio e neppure un
ritardo dello
sviluppo cognitivo, del comportamento adattivo e dell’acquisizione delle autonomie
fondamentali o dell’interesse per l’ambiente. Tale manifestazione sindromica
differisce dall’autismo ad alto funzionamento cognitivo unicamente per lo sviluppo
del linguaggio e pertanto in questi ultimi tempi si dibatte molto sull’utilità di
mantenere distinte queste due evenienze cliniche.
46
E' una categoria residua nella quale rientrano quei disturbi di tipo relazionale e
comunicativo ma che, per qualche ragione specifica, non rientrano nei criteri di
diagnosi di disturbo autistico (di solito a causa dell'esordio posteriore al terzo anno
di vita), ne di schizofrenia o di disturbo schizotipico o schizoide di personalità.
C) il ritardo mentale11
CARATTERISTICHE DIAGNOSTICHE
11
Cfr. http://www.ipsiasar.it/h/dgs.htm
47
previsti per la loro particolare fascia di età, retroterra socioculturale, e contesto
ambientale. Il funzionamento adattivo può essere influenzato da vari fattori, che
includono l'istruzione, la motivazione, le caratteristiche di personalità, le
prospettive sociali e professionali, e i disturbi mentali e le condizioni mediche
generali che possono coesistere col Ritardo Mentale. I problemi di adattamento
sono più suscettibili di miglioramento con tentativi di riabilitazione di quanto non
sia il QI cognitivo, che tende a rimanere un attributo più stabile.
E' utile evidenziare i deficit del funzionamento adattivo da una o più fonti
indipendenti affidabili (per es. valutazione da parte degli insegnanti e storia
scolastica, dello sviluppo e medica). Sono state predisposte anche diverse scale
per misurare il funzionamento o il comportamento adattivo (per es., le Scale
Vineland per il Comportamento Adattivo, e la Scala per il Comportamento Adattivo
dell'Associazione Americana per il Ritardo Mentale). Queste scale generalmente
forniscono un punteggio clinico limite che tiene conto delle prestazioni in diversi
ambiti di capacità adattive.
Si deve notare che alcuni di questi strumenti non misurano certe aree adattive, e
che a loro volta i punteggi riguardanti le singole aree adattive variano
considerevolmente per quanto riguarda l'attendibilità. Come nella valutazione del
funzionamento intellettivo, si dovrebbe considerare l'adeguatezza dello strumento
rispetto al retroterra socioculturale del soggetto, alla sua istruzione, agli handicap
associati, alla motivazione e alla collaborazione. Per esempio, la presenza di
handicap significativi invalida molti degli standard delle scale adattive. Inoltre, i
comportamenti che normalmente potrebbero essere considerati di disadattamento
(per es. dipendenza, passività) possono dar prova di buon adattamento nel
contesto di una particolare situazione di vita del soggetto (per es., in alcuni
ambienti istituzionali).
FATTORI PREDISPONENTI.
PREVALENZA.
DECORSO.
La diagnosi di Ritardo Mentale richiede che l'insorgenza del disturbo sia avvenuta
prima dei 18 anni di età. L'età e le modalità di esordio dipendono dall'etiologia e
dalla gravità del Ritardo Mentale. Il ritardo più grave, specie quando è associato
ad una sindrome con fenotipo caratteristico, tende ad essere riconosciuto più
precocemente (per es., la sindrome di Down è di solito diagnosticata alla nascita).
Al contrario, il Ritardo Lieve di origine sconosciuta è generalmente individuato più
tardi. Nei casi più gravi di ritardo dovuto a cause acquisite, la compromissione
intellettiva si svilupperà più bruscamente (per es., ritardo a seguito di
un'encefalite).
Il decorso del Ritardo Mentale è influenzato dal decorso delle condizioni mediche
generali sottostanti e da fattori ambientali (per es., opportunità scolastiche e altre
opportunità, stimolazione ambientale e adeguatezza della gestione). Se la
condizione medica generale sottostante è statica, è più probabile che il decorso
sia variabile e dipendente da fattori ambientali.
Il Ritardo Mentale non dura necessariamente tutta la vita. Soggetti che erano
affetti da un Ritardo Mentale Lieve nei primi anni di vita, manifestato con
incapacità nei compiti di apprendimento scolastico, con un training e opportunità
adeguati sviluppano buone capacità adattive in altri ambiti, e possono non
49
presentare più il livello di compromissione richiesto per la diagnosi di Ritardo
Mentale.
FAMILIARITÀ.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE.
Il Ritardo Mentale Lieve equivale all'incirca a ciò a cui si faceva riferimento con la
categoria educazionale di "educabili". Questo gruppo costituisce la parte più
ampia (circa l'85%) dei soggetti affetti da questo disturbo. Come categoria, i
50
soggetti con questo livello di Ritardo Mentale tipicamente sviluppano capacità
sociali e comunicative negli anni prescolastici (da 0 a 5 anni di età), hanno una
compromissione minima nelle aree sensomotorie, e spesso non sono distinguibili
dai bambini senza Ritardo Mentale fino ad un'età più avanzata. Prima dei 20 anni,
possono acquisire capacità scolastiche corrispondenti all'incirca alla quinta
elementare. Durante l'età adulta, essi di solito acquisiscono capacità sociali e
occupazionali adeguate per un livello minimo di autosostentamento, ma possono
aver bisogno di appoggio, di guida, e di assistenza, specie quando sono sottoposti
a stress sociali o economici inusuali. Con i sostegni adeguati, i soggetti con
Ritardo Mentale Lieve possono di solito vivere con successo nella comunità, o da
soli o in ambienti protetti .
Il gruppo con Ritardo Mentale Grave costituisce il 3-4% dei soggetti con Ritardo
Mentale. Durante la prima fanciullezza essi acquisiscono un livello minimo di
linguaggio comunicativo, o non lo acquisiscono affatto. Durante il periodo
scolastico possono imparare a parlare e possono essere addestrati alle attività
elementari di cura della propria persona. Essi traggono un beneficio limitato
dall'insegnamento delle materie prescolastiche, come familiarizzarsi con l'alfabeto
e svolgere semplici operazioni aritmetiche, ma possono acquisire capacità come
l'imparare a riconoscere a vista alcune parole per le necessità elementari. Nell'età
adulta, possono essere in grado di svolgere compiti semplici in ambienti altamente
protetti. La maggior parte di essi si adatta bene alla vita in comunità, in comunità
alloggio o con la propria famiglia, a meno che abbiano un handicap associato che
richieda assistenza specializzata o altre cure.
51
RITARDO MENTALE GRAVISSIMO
Il gruppo con Ritardo Mentale Gravissimo costituisce circa un 1-2% dei soggetti
con Ritardo Mentale. La maggior parte dei soggetti con questa diagnosi ha una
condizione neurologica diagnosticata che spiega il Ritardo Mentale. Durante la
prima infanzia, essi mostrano considerevole compromissione del funzionamento
sensomotorio. Uno sviluppo ottimale può verificarsi in un ambiente altamente
specializzato con assistenza e supervisione costanti, e con una relazione
personalizzata con la figura che si occupa di loro. Lo sviluppo motorio e le
capacità di cura della propria persona e di comunicazione possono migliorare se
viene fornito un adeguato addestramento. Alcuni possono svolgere compiti
semplici in ambienti altamente controllati e protetti.
L’APPRENDIMENTO
12
I processi di apprendimento possono organizzarsi e svilupparsi in modo armonico solo all’interno di una
relazione percepita come significativa, sicura e contenitiva.
In contesti connotati da insicurezza, distanza affettiva o addirittura pericolo il deficit si inserisce in un circolo
vizioso di progressivo aggravamento delle performance linguistiche o di apprendimento del bambino.
Ogni persona è un esperimento unico della natura e quindi ha una modalità assolutamente peculiare di
articolare sia la sua dimensione di significato personale che i processi di ri-ordinamento che si
verificano(Guidano 1991).
Lo sforzo del clinico (ma anche, per quello che lo compete, dell’insegnante) è approssimarsi, per
formulazioni successive di ipotesi, alla realtà affettiva di quel bambino specifico nella relazione con quei
genitori specifici, in quel particolare momento e contesto di vita. (a cura della dott.ssa. Maria Grazia
Strepparava, corso di psicopatologia dello sviluppo a.a. 2003/2004)
52
classico", Skinner "condizionamento operante", Thorndike "l'apprendimento per
prove ed errori", Hull "apprendimento basato sul principio del rinforzo", inteso
come riduzione di uno stato di necessità).
Secondo questi Autori l'attenzione risulta focalizzata esclusivamente sulla
relazione tra la ricezione dello stimolo e la risposta, sottolineando come il
comportamento è il risultato di abitudini e di associazioni. Secondo le teorie
cognitive l'apprendimento è un processo tra lo stimolo e la risposta appresa, in cui
un ruolo determinante è svolto dalla percezione e dalla conoscenza. Secondo
Tolman, l'apprendimento non è una serie di abitudini motorie rinforzate, ma si
apprende attraverso l'esperienza e secondo aspettative e mete. La costruzione
della mappa cognitiva è il risultato del rapporto tra gli elementi legati all'ambiente e
le esperienze dell'organismo. Per Kohler la soluzione dei problemi avviene
attraverso un meccanismo intuitivo ed implica una riorganizzazione e/o
ristrutturazione del campo percettivo. Ciò che viene appreso non è un'abitudine
motoria, ma un rapporto cognitivo tra un mezzo ed un fine.
Infine, secondo le teorie della personalità l'apprendimento è legato alla dimensione
motivazionale e alle variabili relative alle differenze individuali. Murray sottolinea
come gli elementi presenti nella situazione esterna sono in grado di influenzare il
soggetto, ma ogni individuo li elabora e li percepisce in modo individuale, questa
modalità soggettiva e peculiare di recepire gli avvenimenti dipende dai bisogni
attivi nel soggetto nel momento in cui l'evento si verifica. Secondo Maslow
l'individuo apprende per soddisfare le mancanze che derivano da bisogni
insoddisfatti. Ottenuta soddisfazione l'individuo raggiunge una condizione di
equilibrio solo temporanea, perché nuove pressioni esterne ed interne lo
indurranno ad agire nuovamente.
Secondo teorie più recenti (Bieckel, 1982), l'apprendimento è un processo
dinamico di rapporti tra il Sistema Nervoso Centrale (S.N.C.) ed il comportamento.
La realtà fisica viene "mappata" nella mente attraverso un processo di
trasformazione, che implica una continua interazione tra gli stimoli che giungono
all'organismo attraverso le vie sensoriali, la loro interpretazione in base
all'esperienza precedente e la successiva rappresentazione attraverso processi di
analisi e di sintesi, di differenziazione e di associazione, in base ai quali
l'organismo comincia a costruire categorie di pensiero che gli consentono di
organizzare i dati percettivi.
Proprio queste competenze di organizzazione e di categorizzazione degli stimoli
sono particolarmente deficitarie tanto in alcuni quadri clinici legati al Disturbo
d'Apprendimento che nel Ritardo Mentale.
I DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO.
53
DISTURBI DELL'APPRENDIMENTO LEGATI A SINDROMI NEUROLOGICHE:
Nella maggior parte dei casi solo il primo e l'ultimo di questi passaggi sono visibili
dall'esterno, sono quindi lo stimolo e la risposta a costituire gli indicatori più
54
utilizzati per osservare e valutare i processi di apprendimento. E' dunque il
concetto di prestazione ad essere segnale dell'apprendimento, ciò che interessa
analizzare è in che modo vengono affrontati compiti con caratteristiche di
"problemi", compiti, cioè, nuovi non automatizzati, che richiedono l'ideazione e la
messa in atto di un progetto di soluzione, in altri termini ci interessano le strategie,
in particolare i bambini con D.S.A. mostrano soprattutto atipie nell'uso di strategie
e pertanto hanno bisogno di interventi mirati. In questo senso il supporto
informatico deve essere rivolto al bambino non in modo da proporre esercizi
ripetitivi, con il rischio di perpetuare strategie rigide, ma aiutandolo a potenziare
strategie alternative. Parlando di questi bambini sembra abbastanza corretto
descriverli non come bambini che non apprendono, ma come bambini che non
sanno utilizzare ciò che sembra abbiano appreso.
55
affrontare i compiti, inducendo il bisogno di ricerca immediata di gratificazione,
determina incapacità a tollerare situazioni frustrazioni. Un altro caso potrebbe
essere quello relativo all'aggressività. Anche se non è possibile determinare una
relazione causale di tipo lineare tra difficoltà di apprendimento e aggressività, pure
è intuibile come la condizione di difficoltà di apprendimento può determinare
complicazioni a livello emotivo - relazionale e quindi provocare un aumento del
comportamento aggressivo.
IL RITARDO MENTALE
Lo sviluppo intellettivo della maggior parte delle persone con R.M. non va oltre la
"preoperatorietà" del pensiero; presentano notevoli difficoltà a comprendere le
interconnessioni causa ed effetto, e ad anticipare le conseguenze delle azioni. Alla
base dei loro deficit sembrano risiedere problemi relativi ad una scarsa capacità di
esplorazione.
E' stata opinione diffusa che le persone con R.M. avessero carenze in termini di
plasticità cerebrale, tali da impedire l'integrazione di nuove informazioni nelle
strutture già esistenti. B. Inhelder, ritenne che lo sviluppo intellettivo fosse
caratterizzato da un fenomeno di "fissazione" che ostacola l'accesso ai processi
operatori.
Altri studi condotti da Grubar (1985) hanno sottolineato come, (partendo dal fatto
che l'intelligenza può essere considerata come capacità di ricevere, organizzare e
utilizzare le informazioni), le persone con ritardo mentale registrano meno
informazioni provenienti dall'ambiente e presentano notevoli difficoltà ad
organizzare le poche informazioni che riescono a filtrare. D'altro canto filtrare le
informazioni significa che gli stimoli sensoriali assumono significato quando
l'individuo ha la motivazione ad imparare. Nel R.M. questa motivazione è carente,
è come se non fosse possibile cogliere nell'ambiente gli stimoli che provocano la
motivazione e di conseguenza danno vita ai comportamenti esploratori.
Anche carenti risultano le abilità di organizzazione e di classificazione degli stimoli
in categorie. Il pensiero logico implica la continua coordinazione dei concetti
appartenenti a diverse categorie, esso si basa sulle continue trasformazioni della
realtà, trasformazioni che richiedono spostamenti repentini all'interno del sistema
di classificazione e la coordinazione di concetti appartenenti alle diverse categorie.
Se si analizzano le verbalizzazioni di persone con R.M. si nota che non utilizzano
mai termini come "più", "meno" proprio perché non disponendo di sistemi di
classificazione non sono in grado di effettuare operazioni di comparazione, e
quindi, di orientamento in sequenze. Si potrebbe dire che essi hanno un modo
assolutistico di pensare, che li porta ad esibire condotte stereotipate.
Di fronte al R.M. si ha spesso l'impressione di affrontare una serie di problemi
singoli senza che si riesca ad individuare una gerarchia di difficoltà e/o di nodi
cruciali che permettano di affrontare i diversi problemi in modo efficace.
Sul piano teorico un dato ormai acquisito è che il R.M. non va affrontato in termini
di deficit: non si tratta di persone a cui manca qualcosa, ma di persone che
funzionano in modo diverso dagli altri. Pertanto, non solo sul piano teorico, ma
anche su quello operativo è più corretto definire il R.M. in termini di
funzionamento, osservare come affrontano, con gli strumenti e con l'intelligenza
che hanno, i problemi. I bambini con R.M. hanno da un lato difficoltà a maturare in
modo compiuto numerose abilità; dall'altro anche quando si sono specializzati in
una singola abilità mostrano una notevole difficoltà nell'utilizzarla in modo duttile
ed interattivo rispetto alle altre abilità. Sono bambini che hanno inizialmente molta
difficoltà ad acquisire una nuova competenza e che quando la hanno acquisita
tendono ad utilizzarla in modo indiscriminato. In termini di strategie controllano
56
poche e povere strategie globali, dalla difficoltà a generalizzare ciò che hanno
appreso a situazioni anche di poco diverse da quelle di partenza, alla difficoltà ad
automatizzare nuovi apprendimenti, alla difficoltà a sganciarsi da strategie
apprese anche quando esse risultano inefficaci. Con queste persone è, dunque,
importante che il lavoro terapeutico non venga centrato sull'apprendimento di una
tecnica, ma deve cercare di fornire al bambino con R.M. degli strumenti che gli
permettano di riflettere su ciò che sta facendo e lo aiutino nell'individuare modalità
e strategie diverse per affrontare situazioni problematiche. In particolare, per
questi soggetti apprendere procedure con un personal computer (che chiede di
riflettere e aiuta a riflettere) può aiutarli a stimolare capacità metacognitive, di
identificazione del problema, di previsione della strategia, di generalizzazione.
Come già sottolineato non si tratta di insegnare dei comportamenti o di addestrare
all'uso di particolari strategie, ma di modificare le modalità di comprensione e di
organizzazione del mondo. L'obiettivo, secondo l'approccio piagettiano allo studio
e all'analisi dell'intelligenza e della sua evoluzione, con la possibilità di organizzare
strutture cognitive qualitativamente distinte e via via sempre più evolute, è quello
di sviluppare strutture mentali di tipo operatorio in soggetti con R.M. che si trovano
di solito nello stadio di pensiero intuitivo-preoperatorio. Proprio questo passaggio
dalla "pre" alla "operatività" del pensiero è estremamente importante: il fatto di
poter compiere delle operazioni mentali reversibili consente al soggetto di poter
trasformare nella sua mente "uno stato A in uno stato B, lasciando nel corso della
trasformazione almeno una proprietà invariata, con la possibilità di tornare da B ad
A annullando la trasformazione" (Piaget, Inhelder, 1977).
L’AUSILIO INFORMATICO
In considerazione di quanto finora esposto, vediamo di quali parametri un prodotto
informatico dovrebbe essere dotato perché possa considerarsi un ausilio. La
proposta informatica rivolta a persone con D.A. e /o con R.M. deve tenere in
considerazione alcuni aspetti:
Da un punto di vista cognitivo richiede che ogni concetto sia proposto
attraverso una opportuna sequenza di passaggi, che ne aumentino la
comprensibilità, ed un approccio concreto e operativo.
Da un punto di vista affettivo-relazionale, vanno privilegiate modalità e
situazioni coinvolgenti, rassicuranti, che aiutino la persona ad avere fiducia
nelle sue capacità e ad esprimere in tal modo il meglio di sé, si sa bene,
infatti, quanto gli aspetti legati all'emotività influiscano sulla prestazione, e
come spesso accade che la persona in situazioni emozionalmente diverse
fornisca risultati anche molto diversi. Un'attenzione quindi agli aspetti
emotivi e di coinvolgimento permetterà di migliorare l'apprendimento.
D'altra parte le potenzialità dell'elaboratore consentono una serie di opportunità:
Una personalizzazione del compito, grazie alla possibilità di poter programmare
compiti con la frequenza, i ritmi, le facilitazioni opportune.
Lo sviluppo dell'autonomia nell'apprendere attraverso il monitoraggio dei risultati e
la possibilità di feedback immediato.
Una ottimizzazione del conflitto cognitivo mediante la proposta di esercizi che
presentino diversi gradi di difficoltà secondo un criterio di sfida ottimale, il cui
scopo è incrementare l'autonomia cognitiva: si tratta di intervenire innescando il
conflitto cognitivo, con proposte appena al di sopra del livello in cui sembra
trovarsi l'individuo, difficili quel tanto da stimolare la curiosità senza mettere in
gioco il senso di frustrazione che potrebbe derivare.
La suddivisione degli apprendimenti su livelli successivi, cosicché ci sia una
progressione graduale nell'apprendimento e al tempo stesso la possibilità di
57
inserirsi ad un certo livello di difficoltà quando alcune competenze sono già
acquisite.
Il coinvolgimento ad eseguire il compito, che questo strumento crea proponendosi
con una veste sostanzialmente ludica.
L'uso del computer, dunque, offre di adattare l'ambiente di apprendimento alle
necessità, ai livelli di conoscenza e ai ritmi d'apprendimento di questi individui.
Infine, accanto alla possibilità di migliorare l'iter riabilitativo, l'informatica risulta
innovativa anche su un piano teorico. Creare un compito (diagnostico e/o
riabilitativo) da utilizzare con un personal computer implica una riflessione sulle
componenti percettive, la temporizzazione delle risposte, la complessità delle
azioni da compiere, che normalmente non vengono considerate con tanta
precisione. Attraverso l'uso del mezzo informatico a livello di diagnosi è più
puntuale la comprensione dei meccanismi sottostanti al disturbo, e dunque, più
precisi gli interventi da programmare all'interno dell'iter rieducativo.
Si cita dalla C.M. n.199/79 (v. anche l'ultimo comma dell'art. 9 del D.P.R.
31/10/1975 n . 970) la seguente definizione : L'insegnante di sostegno è
"assegnanto a scuole normali per interventi individualizzati di natura integrativa in
favore della generalità degli alunni e in particolare di quelli che presentano
specifiche difficoltà di apprendimento".
Un'accurata lettura della suddetta definizione permette di presentare alcune
considerazioni :
1) L'insegnante di sostegno opera :
- nelle classi comuni in cui sono inseriti soggetti portatori di handicaps ;
- collegialmente con i docenti assegnati alla classe in tutti i momenti della vita
scolastica : conoscenza degli allievi, rapporto con le famiglie, programmazione e
verifica di obiettivi, contenuti, strumenti, metodi, tempi di realizzazione dell'attività
scolastica ;
- con interventi individualizzati.
Tali interventi (da non confondersi con gli interventi individuali, pure necessari e/o
indispensabili in certi casi) sono richiesti a tutti i docenti e per tutti gli alunni e
presuppongono la conoscenza e la padronanza di metodologie e tecniche di
individualizzazione dell'insegnamento, cioè la capacità di condurre un gruppo i cui
componenti si trovino a livelli diversi di formazione e di informazione.
2) La "natura integrativa" degli interventi dell'insegnante di sostegno deriva dalla
riconosciuta "caratterizzazione educativa" della scuola dell'obbligo. Tale
caratterizzazione è confermata anche dai nuovi programmi per la scuola media
(D.M. 19/2/1979) e dai " criteri orientativi per le prove di esame di stato per il
conseguimento del diploma di licenza della scuola media" (D.M. 10-12-84).
Ne consegue la necessità di superare la tradizionale concezione
dell'apprendimento come frutto di preponderante e/o esclusiva attività intellettuale,
per considerare come autentici momenti e processi di apprendimento anche quelle
attività che stimolano la crescita corporea e psicoaffettiva della persona.
13 Cfr. http://www.bergamo.istruzione.lombardia.it/docenti1.htm
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Queste attività, mentre consentono ad ogni alunno di raggiungere un'equilibrata e
completa formazione, sono spesso le sole che permettono all'handicappato di
progredire in rapporto alle sue potenziali attitudini e al suo livello di partenza.
L'adesione a tale concezione comporta, sul piano programmatico, un "Progetto
formativo" a lunga scadenza, il cui obiettivo finale è il risultato di un percorso
capace di previsioni flessibili e di ottimizzazione delle risorse scolastiche ed
extrascolastiche in rapporto al soggetto.
3) Gli interventi degli insegnanti di sostegno, secondo la C.M. citata, sono rivolti
alla generalità degli alunni della classe in cui è inserito l'handicappato perché ne
sia favorita l'integrazione attraverso la realizzazione di situazioni educative
(V.517/77) commisurate al tipo di handicap.
Tale affermazione, avvalorata dal fatto che l'insegnante è assegnato alla classe e
non all'alunno, sottolinea l'opportunità di mettere in atto forme di collaborazione e
"strutture organizzative non rigide, ma flessibili" (C.M. 169/1978) tali da consentire
che l'insegnante di sostegno non venga utilizzato per operare sempre da solo con
il soggetto portatore di handicap.
E' così possibile, in sede di valutazione, godere del contributo motivato
dell'insegnante di sostegno.
Le modalità di intervento che più frequentemente risultano funzionali sono :
Intervento "in classe" in situazione di lavoro diretto con l'alunno o a
"distanza" ; in questo secondo caso si cerca di evitare o disincentivare la
dipendenza dell'alunno dall'insegnante e stimolare momenti di lavoro
autonomo, quando l'alunno sia in grado di gestirli. Tale situazione può
inoltre incentivare la comunicazione anche in alunni che ne possiedono
appieno gli strumenti verbali.
Intervento su un piccolo gruppo di alunni (tra i quali anche l'alunno portatore
di handicap) finalizzata ad obiettivi sia comuni al gruppo sia differenziati per
i diversi componenti del gruppo.
Interventi individuali, anche esternamente alla classe, finalizzati ad obiettivi
connessi all'acquisizione di strumentalità scolastiche o allo sviluppo
dell'autonomia, che necessitino di attenzione e concentrazione difficili da
ottenere in una situazione con numerose presenze.
L'intervento individuale può assumere diverse connotazioni in relazione alle
modalità di relazione instaurate dall'alunno.
Deve comunque costituire uno dei diversi modi di organizzare il tempo-scuola
dell'alunno handicappato, ma non il solo.
Intervento su due-tre alunni con handicap, finalizzati ad attività che possono
essere svolte insieme.
E' fondamentale comunque che :
- tutti gli insegnanti della scuola siano coinvolti nella programmazione e nella
organizzazione degli interventi.
- tutte le possibili risorse della scuola siano utilizzate : in questo senso possono e
devono essere previsti inserimenti in attività gestite anche in classi diverse da
quelle di appartenenza giuridica dell'alunno, quando l'attività programmata
costituisca un'utile proposta per l'alunno.
- la scuola con tutte le sue componenti è responsabile dell'integrazione dell'alunno
handicappato.
- l'insegnante di sostegno svolga funzione di coordinamento degli interventi, fatte
salve le competenze dei coordinatori di classe e dei capi di Istituto.
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5. ALLEGATI.
1) OMS ICD-1014;
2) SCHEMA CERTIFICAZIONE E DIAGNOSI FUNZIONALE15
3) SCHEDA RILEVAZIONE AUTONOMIA
4) ESTRATTO POF
5) CD CONTENENTE ESERCIZIO IN POWER POINT E FILMATO IN DIVX “ESAGRAMMA
ORCHESTRA E PICCOLI CANTORI DEL CORO DI MILANO)
14
http://www.moiseitalia.it/davide/servizi/CORSI/BASE/MONDOVI/ASSI%20ICD10.pdf
15
http://www.disabili.com/
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