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LE BASI TEORICO-PRATICHE
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GLOTTODIDATTICA 1 “Principi di base della glottodidattica” Luca Di Dio – Giorgio Massei
INDICE
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GLOTTODIDATTICA 1 “Principi di base della glottodidattica” Luca Di Dio – Giorgio Massei
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Ascoltato più volte e dai più autorevoli studiosi della materia, il paragone è presente anche nel “Nozionario
di glottodidattica” dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. http://www.itals.it/nozion/nozg-h.htm.
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Tratto da Balboni 2012: 61.
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Lo schema indica che il contenuto disciplinare (il “che cosa”) della glottodidattica, intesa
come la scienza dell’educazione linguistica, è dato 1) dalle scienze che studiano il
linguaggio e la lingua e 2) dalle scienze che ne definiscono l’uso della lingua in contesto
socio-culturale.
Il processo dell’educazione linguistica si attua solo in funzione del discente (il “chi”) che
acquisisce, quindi il contenuto disciplinare della glottodidattica non può prescindere dallo
studio delle scienze del cervello, né dalle modalità dei processi di apprendimento (il
“come”), attraverso lo studio delle scienze dell’educazione e dell’insegnamento, anche
con l’uso delle tecnologie.
Forse ora è più chiaro che insegnare l’italiano non significa spiegare in classe le regole
linguistiche: cosa è e come funziona l’articolo, l’ausiliare, ecc.
È vero, l’insegnante fa anche questo, ma per aiutare lo studente a ‘verificare’ le proprie
ipotesi linguistiche… è il punto di arrivo del processo di apprendimento, non l’inizio.
Per iniziare “a comprendere fino in fondo i reali meccanismi di tale processo, sarebbe
opportuno invece partire dal “chi” (cfr. schema), dalla persona che impara, apprende (o
acquisisce). Ecco perché la glottodidattica deve anzitutto avere una dimensione
psicologica, neurolinguistica, psicolinguistica (Balboni).
Occorre poi avere in mente che il “cosa”, la lingua, che – come vedremo – non è
rappresentata solo da grammatica e morfosintassi! Ma anche tutti gli aspetti
sociolinguistici e culturali che permettono allo studente di conoscere una lingua viva e
vera… non quella del libro, ma quella che usa chi in Italia ci vive.
Al di là dello schema presentato, altrettanto importante è lavorare sul perché di
studia/insegna l’italiano: dunque non solo “la motivazione” degli studenti (che può
cambiare da persona a persona), ma anche ciò che spinge noi insegnanti a fere questo
lavoro e come farlo al meglio.
«Definito il “chi”, il “cosa” e il “perché” si giunge al “come”, alla progettazione
curricolare, alla metodologia-didattica, alle tecniche di valutazione, alla riflessione sul
ruolo delle nuove tecnologie applicate all’acquisizione linguistica» (Balboni 2006: 9).
Ecco che allora diventa utile, magari sotto la forma di una piccola attività, conoscere quali
sono e di cosa si occupano le varie scienze, che studiano principi teorici che la
glottodidattica traduce in pratiche quotidiane di insegnamento (didassi).
Prima attività:
- Abbina il nome della scienza alla sua breve descrizione scrivendo la lettera corrispondente
(accanto al numero, come nell’esempio).
1 F Linguistica 2 Sociolinguistica
3 Pragmalinguistica 4 Antropologia culturale
5 Psicolinguistica e psicodidattica 6 Neurolinguistica e psicolinguistica
7 Scienze dell’educazione 8 Metodologia e didattica
9 Docimologia 10 Glottotecnologia
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è una branca nuova delle scienze dell’educazione, ma che ormai da anni si occupa di come le risorse tecnologiche
A. favoriscono l’apprendimento linguistico.
sono le scienze che si occupano del progresso educativo dello studente (anche adulto), la sua autopromozione, la sua
B. culturizzazione, la sua crescita e/o la sua realizzazione come persona.
è la scienza che vede la lingua nel suo variare da nord a sud, da situazione formale e informale, a seconda dei media che la
C. veicolano, a seconda dell’argomento, a seconda del contesto dei parlanti.
è la disciplina che, analizzando l’impegno, il metodo, la produzione dello studente, indica come valutare in modo affidabile i
D. risultati ottenuti.
sono le scienze che insegnano che una persona ha suoi ‘filtri affettivi’, le sue motivazioni, i suoi modi di apprendere e di
E. relazionarsi.
è la scienza che studia la lingua in quanto tale e le varie lingue naturali; è il fulcro delle “scienze del linguaggio”, tutte le
F. discipline che oggi affrontano l’apprendimento delle lingue in tutti i suoi aspetti.
è la disciplina che studia la lingua non come ‘forma’ ma come ‘azione sociale’, analizzando le funzioni che essa svolge nei
G. vari contesti del reale.
sono le due scienze che studiano il modo in cui funzionano il cervello e la mente quando apprendono una lingua, in modo
H. che il nostro modo di insegnare l’italiano sia impostato nella maniera più ‘naturale’ possibile.
è la scienza che spiega come organizzare in classe il processo di acquisizione della lingua (per noi l’italiano) utilizzando
I. metodi, tecniche e strumenti adeguati.
studia l’espressione culturale di un popolo, le sue diversità, caratteristiche, modo di vivere; e con i problemi interculturali che
L. ne derivano nel momento in cui italiani e stranieri, anche se parlano l’italiano, devono interagire e collaborare.
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Interlingua: ______________________________________________________________________
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LS o LT: ________________________________________________________________________
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A lungo è stata considerata (per qualcuno ancora lo è) una branca della linguistica: linguistica applicata o linguistica
educativa. Cfr. Balboni 2011.
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Normalmente si pensa che conoscere una lingua sia al fondo, “sapere le parole di questa
lingua e sapere le regole per metterle insieme”. L’esperienza di chi ha insegnato una
lingua straniera conduce invece ad asserire che questa idea è quantomeno “limitata”.
Dell Hymes, negli anni sessanta definisce un nuovo concetto, quello di “competenza
comunicativa”, composta di una serie di ‘sottocompetenze’ (linguistica, extralinguistica e
sociopragmatica) e che consiste nella capacità di usare ogni codice – verbale e non – per
ottenere lo scopo principale: comunicare in un dato contesto o, come riporta l’immagine4,
agire socialmente.
Quindi tutto ciò che “impariamo” (nel senso tradizionale) di una lingua e su una lingua,
cioè gli elementi linguistici, extralinguistici e socio-culturali (ad esempio intonazioni,
gestualità, abitudini, comportamenti, ecc.), appartiene ad una nostra facoltà mentale
innata. Questa facoltà è definita come sapere la lingua. Nel momento in cui esprimiamo
tale facoltà mentale per “entrare nel mondo”, abbiamo necessità di sviluppare una serie di
abilità; queste possono essere ‘semplici’ (ascoltare, parlare, leggere, scrivere) o ‘integrate’
(dialogare, riassumere, tradurre, ecc.). La capacità di utilizzare queste abilità è definita
come saper fare lingua. Il passaggio da una facoltà mentale al mondo esterno si completa
quando la capacità si trasforma in competenza: essere in grado di usare efficacemente le
abilità linguistiche nelle varie situazioni sociali della vita significa saper fare con la
lingua.
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Tratta da Balboni 2012: 26 e riadattata.
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Il processo per cui il nostro cervello impara una lingua, dunque, segue dinamiche naturali
che – secondo quanto rivelano gli studi di neurolinguistica – attraversano dei passaggi
precisi che di seguito proviamo a sintetizzare.
1.1.1 Bimodalità
Com’è noto il nostro cervello è diviso in due emisferi e, sebbene le parti che controllano il
linguaggio verbale (aree di Broca e di Wernicke6) siano situate nell’emisfero sinistro, il
processo di apprendimento li coinvolge entrambi; in particolare all’emisfero destro
vengono attribuite le percezioni relative a:
- globalità del messaggio;
- simultaneità;
- aspetti analogici presenti nel
contesto;
- comprensione delle connotazioni,
delle metafore, dell’ironia.
Spesso in sede di divulgazione scientifica sono stati usate due facili immagini per
descrivere efficacemente le diverse funzionalità degli emisferi: l’emisfero destro è
paragonabile ad un ‘ingegnere’, propenso all’analisi dei meccanismi, dei dettagli, dei
processi causali; l’emisfero sinistro sarebbe invece un poeta, interessato alle forme
globali, estetiche, visive, metaforiche. Ognuno di noi sente una naturale propensione verso
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Per chi fosse interessato ad approfondire le dinamiche dell’immigrazione in Italia e dell’apprendimento
dell’italiano come L2 si consiglia la lettura di “L’Italiano L2 dopo la legge 94/2009” di Luca Di Dio
[http://hdl.handle.net/10579/4648].
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L’immagine è tratta da http://archivioscienze.scuola.zanichelli.it/2012/03/16/vorrei-diremi-si-spostato-il-
cervello/.
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una delle due parti, che spesso convivono senza escludersi a vicenda e dobbiamo tenerlo
sempre in considerazione rispetto allo stile di apprendimento dei nostri studenti e ai loro
bisogni.
Detto ciò le implicazioni che possiamo trarre in contesto di insegnamento sono che
l’apprendimento avviene secondo modalità più vicine a quelle naturali e con risultati
migliori solo quando vengono attivate entrambe le modalità del cervello, in modo da
sfruttare a pieno la potenzialità di acquisizione della persona. Il termine “bimodalità”
indica, così, il necessario coinvolgimento dei due emisferi nell’apprendimento, secondo le
rispettive caratteristiche.
1.1.2 Direzionalità
In sintesi, Krashen sostiene che si genera acquisizione quando ci si focalizza sul compito
che si sta svolgendo, più che sullo strumento utilizzato (in questo caso la lingua e le sue
funzioni); in tal modo, per ottenere il risultato (una comunicazione efficace) ci si serve
spontaneamente della lingua.
È altrettanto vero, però, che per ottenere risultati in termini di accuratezza, oltreché di
efficacia, lo studio di una lingua in modo sistematico è indispensabile: è quel che, sempre
Krashen, chiama apprendimento. Più lento, più complesso in fase di riutilizzo, più facile
da dimenticare, ma altrettanto importante.
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Krashen sostiene che, uno studente impara in maniera efficace quando l’input linguistico
presentato – sia di tipo orale che scritto – non è troppo complesso. Deve poterlo
comprendere quantomeno nel suo aspetto globale.
Tale input deve altresì seguire un principio di graduazione del materiale che è, anche solo
a livello pratico, conosciuto molto bene da chi insegna una lingua (si comincia con il
presente e non con il passato, l'affermativo prima del negativo, l'aggettivo di grado base e
poi il comparativo, ecc.).
Si tratta, facendo riferimento anche da quanto emerge dagli studi di linguistica
acquisizionale (Giacalone Ramat 2003), di seguire un ordine naturale che Krashen
rappresenta con la formula “i + 1”: chiamiamo "i" l'input linguistico che è già stato
acquisito (in inglese intake), mentre con “+1” indichiamo la necessità presentare agli
studenti un’unità linguistica nuova di ordine minimamente superiore, appena più
complessa. Se si insegna una nuova nozione “i+3”, che quindi nell’ordine naturale si
colloca 3 passi avanti rispetto a quanto già appreso (i), essa non sarà acquisita stabilmente,
ma solo appresa e collocata nella memoria a medio termine e poi perduta; a meno che, nei
giorni successivi, il docente presenti anche "i+1" e "i+2", allora lo studente acquisirà
automaticamente anche "i+3".
Primo controllo:
- Nel testo, a proposito delle caratteristiche cerebrali di bimodalità e direzionalità, si afferma
che è importante a livello didattico proporre attività che coinvolgano entrambe le modalità
del cervello, in modo da sfruttare a pieno la potenzialità di acquisizione della persona…
concordi con l’affermazione? Puoi fare qualche esempio? In cosa consiste, a tuo giudizio,
una didattica di «tipo induttivo»?
- Il filtro affettivo è una difesa psicologica incredibile. Ti è mai capitato di trovare in aula
studenti con un filtro affettivo molto facile da ‘innescare’? Come ti sei comportato/a? È
stato efficace il ‘rimedio didattico’ che hai proposto per limitare lo stato d’ansia? Perché?
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Se il cuore di quanto abbiamo detto sinora sono stati i processi di apprendimento, è bene
ora dedicare alcuni brevi passaggi all’aspetto dell’insegnamento.
Von Humboldt diceva che “Non si può insegnare una lingua, si possono solo creare le
condizioni perché una lingua possa essere acquisita”. Vediamo dunque alcuni concetti
fondamentali.
2.1 Il docente
Un concetto fondamentale che, oggi, ogni bravo dovente deve aver chiaro è il suo ruolo
all’interno del processo della didassi. Volendo rappresentare graficamente7 questa
dinamica risulta evidente che il docente altro non è che un “regista” all’interno di quella
che è l’azione didattica.
Quindi, se appare chiaro ai più come sia superata l’immagine del ‘maestro’ che ex
cathedra impartisce la sua lezione in maniera puramente frontale, resta quanto mai aperta
la discussione sui tanti e vari ruoli che il docente oggi può rivestire, a patto di rifuggire da
alcune mitizzazioni del formatore spesso così in voga, soprattutto in ambito aziendale8.
Molto più interessante, invece, il percorso che, all’interno della glottodidattica dagli anni
settanta ad oggi, ha visto il docente ora come facilitatore, come consigliere, come
maieuta, tutore e regista (Balboni 2012: 110).
2.2 Lo studente
Se tanti sono i ‘possibili docenti’, altrettanti sono i ‘possibili studenti’ in primo luogo
rispetto all’età anagrafica di chi impara. Già negli anni ’70 gli studi di Titone (1971) e di
Freddi (1971, 1973, 1974) aprirono un fronte ancora oggi al centro dell’interesse degli
studiosi: la ‘classica’ asserzione che da bambini si apprendono meglio le lingue trovava
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L’immagine è tratta da Balboni 2012: 108.
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Cfr. Mottana 1993, che identifica fino a 9 ‘funzioni’ del formatore, tra cui il formatore terapeuta,
interpretante, militante, trasgressore, tecnocrate, ecc.
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che si insedia nel cervello come un fitto reticolo di associazioni percettivo-motorie (audio-
motorie, oculo-motorie e più tardi grafo-motorie) e concettuali-motorie – poggia su una realtà
anatomo-funzionale. Man mano che l’esperienza e l’età avanzano, i circuiti della madrelingua
si fissano sempre più saldamente; in linguaggio figurato diremo che si abituano a funzionare
meccanicamente in determinate direzioni lasciando «tracce» profonde nella sostanza
cerebrale. Si potrebbe quasi parlare di circuiti «stampati» nella corteccia cerebrale. Qui va
ricercata una delle ragioni per le quali il soggetto adulto trova maggior difficoltà del soggetto
giovane ad apprendere una seconda lingua (Freddi 1973: 55-56).
La differenza principale, come già detto, risiede nel fattore età, sebbene la discussione
sull’esistenza dell’andragogia come vera e propria scienza a sé resta ancora in piedi (cfr.
Di Dio 2014).
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- variabili individuali
- variabili sociali
- variabili naturali
2.3 Il setting
Primo controllo:
- Insegni a bambini, adolescenti o adulti? Puoi fare uno schema o una tabella di quelle che
secondo te sono le differenze con cui confrontarsi rispetto a:
o Attività da proporre;
o Setting;
o Momenti di ludicità;
o Riflessione sulla lingua (competenza linguistica);
o …
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Se pensiamo che una delle caratteristiche più note degli italiani nel mondo è l’incredibile
gestualità, non sarà difficile comprendere che noi non comunichiamo solo con la lingua,
ma con il tono di voce, con i gesti delle mani, con le espressioni del viso, e via dicendo.
Per insegnare una competenza comunicativa, quindi, è fondamentale conoscere e – per
quanto possibile – fare oggetto di insegnamento anche tutta una serie di
(sotto)competenze o fattori quali:
Ø paralinguistica, ad esempio lavorando sul corretto uso del tono di voce e della
velocità di eloquio nei differenti contesti;
Ø cinesica, e cioè la capacità di usare il linguaggio dei gesti (mani e braccia), del viso
(smorfie, ammiccamenti, ecc.) e degli atteggiamenti del corpo;
Ø oggettistica e vestemica, cioè un’analisi e una competenza d’uso riguardo al modo
in cui ci si veste in Italia nelle varie situazioni (un appuntamento di lavoro, una
serata tra amici, una cena di gala).
Ø prossemica, in questo caso con forte variabilità tra nord e sud, quest’ultimo molto
più propenso a ridurre le distanze fin quasi all’invadenza.
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Anche in questo caso si tratta di comprendere l’esistenza di tutta una serie di aspetti,
(sotto)competenze che contribuiscono a formare la capacità di comunicare efficacemente
in un dato contesto.
Di per sé la sociolinguistica è una scienza, figlia della linguistica, che si occupa delle
variazioni della lingua a diversi livelli:
Ø di registro (formale o informale, colloquiale o aulico, ecc.);
Ø di zona (variazione di provenienza geografica, in Italia tra nord e sud);
Ø di medium (linguaggio giornalistico, televisivo, dei social, ecc.)
L’Italia ha vissuto una storia che ha – nei secoli – prodotto delle differenze tra nord e
sud, tra una regione e l’altra, che non possono non trovare spazio all’interno
dell’insegnamento della competenza comunicativa.
Anche i cambiamenti sociali che avvengono con una rapidità incredibile (l’Italia dei
nostri nonni non esiste più!) devono trovare adeguato spazio di analisi.
Se, dunque, da un punto teorico sappiamo che “cultura” è tutto quanto non è “natura”
(Lévy Strauss), allora l’analisi dei vari modelli culturali e di come cambiano nel
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tempo e nello spazio deve entrare a far parte del curricolo di un corso di lingua.
L’idea di insegnare una “cultura italiana standard” è – come abbiamo visto per la
competenza sociolinguistica – del tutto velleitaria.
La concezione di famiglia (tra nord e sud, ieri e oggi), la puntualità, l’organizzazione
scolastica, la cura del proprio corpo o dell’estetica in generale sono tutti aspetti che
meritano attenzione.
Primo controllo:
- Il lavoro del docente si concentra, dunque, su una didattica per competenze; puoi fare un
esempio di attività da proporre in aula per proporre/consolidare la:
o competenza fonologica;
o competenza cinesica;
o competenza sociolinguistica;
o competenza culturale;
o …
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