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Fabio Celi La psicoterapia

in età evolutiva

100 domande
ebookecm.it
100 domande
Collana diretta da Daniele Berto
La psicoterapia
in età evolutiva

Fabio Celi
100 domande

La psicoterapia
in età evolutiva
Fabio Celi

Edizione eBook
ISBN: 978-88-98542-79-6

Come utilizzare questo libro


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© 2018, 2022, Hogrefe Editore, Firenze


Viale Antonio Gramsci 42, 50132 Firenze
www.hogrefe.it

Coordinamento editoriale: Jacopo Tarantino


Redazione: Alessandra Galeotti
Impaginazione: Stefania Laudisa
Copertina: Stefania Laudisa

Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa con qualsiasi
mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non
espressamente autorizzata dall’Editore.
V

Presentazione
La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) ha avuto un’evoluzione naturale che
ha visto il superamento dell’approccio dogmatico proprio della prima generazione
per evolversi e dare sempre maggiore rilievo alla relazione terapeuta-paziente.
Il focus dell’approccio è andato oltre la “soluzione” di problemi specifici ed il tratta-
mento dei sintomi, obiettivi che caratterizzavano la CBT di prima generazione. La
CBT di terza generazione impiega strategie di cambiamento dove il contesto, l’e-
sperienza e la relazione terapeuta-paziente assumono una grande rilevanza per il
cambiamento stesso.
Fabio Celi, con la propria esperienza didattica e di terapeuta, rende evidente questa
nuova impostazione e ha la capacità di rendere facili argomenti ed operazioni in re-
altà complesse. Se da una parte questa è una qualità, dall’altra facilita l’illusione che
tali operazioni siano facilmente agibili. Infatti, dietro a questa apparente semplicità
c’è un costrutto epistemologico forte, evoluto. Tuttavia, questo ancora non basta:
per un approccio psicoterapico nell’infanzia e nell’adolescenza sono necessarie an-
che una particolare sensibilità e la capacità di adattare gli schemi teorici alle situa-
zioni e alle persone che si affrontano.
Gli schemi si modificano quindi in base alla persona che si ha di fronte, rendendo
necessaria una forma di creatività che avvicina la figura dello psicoterapeuta a quella
di un “artista”.
Un modo di lavorare che una geniale e giovane psicologa, che ringrazio, un giorno
mi fece vedere dimostrando, prima di tutto a se stessa, come l’approccio cognitivo-
comportamentale applicato in età evolutiva possieda una componente di empatia,
di vicinanza e creatività che prima difficilmente veniva riconosciuta alla CBT. Esse-
re per il paziente un ponte sicuro, “a bridge over trouble water”, essere una persona
che aiuta ad attraversare momenti e situazioni difficili favorendo il cambiamento
attraverso la tecnica ma anche la creatività, la riflessione e la vicinanza emotiva è
l’essenza della CBT di terza generazione.
100 domande su La psicoterapia in età evolutiva rappresenta veramente un esem-
pio di psicologia pratica, solida, (apparentemente) semplice. Fabio Celi lo dimostra
unendo l’approccio cognitivo-comportamentale di terza generazione all’esperienza
e a tutta la passione per il proprio lavoro. Un libro che si legge tutto d’un fiato, ritro-
vandosi poi a scoprire sempre nuove idee e nuove “visioni operative” ad ogni rilet-
tura. Un libro che non si finisce mai di leggere perché arricchito dai numerosi link
cui Celi rimanda per approfondire e spiegare a voce, quasi volendo continuare il suo
personale dialogo con ogni singolo lettore.

Daniele Berto
VI 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

L’autore
Fabio Celi
Psicologo psicoterapeuta, già Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Psicolo-
gia della Salute Mentale Adulti, Infanzia e Adolescenza e Dipendenze dell’ASL To-
scana nord ovest area nord, è professore a contratto di Psicologia clinica presso le
Università di Parma e di Pisa.
Docente nelle Scuole di specializzazione in Psicoterapia cognitivo-comportamenta-
le ASCCO di Parma e IPSICO di Firenze e nei Master in Psicopatologia dell’appren-
dimento e Psicopatologie dello sviluppo dell’Università di Padova, in Psicoterapia
cognitivo-comportamentale in età evolutiva dell’IPSICO di Firenze e in Disturbi
specifici dell’apprendimento di Erickson, Trento, è membro del comitato scientifi-
co delle riviste Handicap grave, Autismo e disturbi dello sviluppo, Giornale Italiano dei
Disturbi del Neurosviluppo, Disturbi di Attenzione e Iperattività, Difficoltà di Apprendi-
mento e Didattica Inclusiva e della collana “Pratiche comportamentali e cognitive”
di Franco Angeli.
È autore di oltre 150 pubblicazioni scientifiche fra articoli e capitoli di libri sui temi
della psicopatologia dello sviluppo. Nel 2017 ha pubblicato per Erickson Talvolta i
fiumi straripano, in cui racconta di bambini che non sono “arginabili” dalle certifica-
zioni BES o DSA e per questo corrono il rischio dell’emarginazione.

Clara Gemo ha curato le voci del glossario.


Jole Scotto ha curato la ricerca dei materiali video citati nel testo, tratti da YouTube
e da alcuni film.

Ringraziamenti
Ringrazio gli studenti, gli specializzandi e i collaboratori che mi hanno suggerito alcune
delle domande di questo libro:
Paolo Bersani, Melania Rossetti, Alberto Schiatti, Alessandra Chiarelli, Alessia Medioli,
Annalisa Garioni, Consuelo Silva Ricci, Elena Tioli, Federica Chiellino, Francesca Fortenio,
Francesco Rossi, Giulia Castelnuovo, Laura Colombo, Martina Rota, Rossana Giglitto,
Sara Lampronti, Sara Romano, Stefania Campestrini, Teresa Agnello, Agnese Novelli,
Alessandra Russo, Carlotta Oggioni, Costanza Mascolo , Giuseppina Sinigaglia, Grazia
Ferramosca, Ilaria Chiari, Laura Bardetti, Maria Assunta Margini, Maria Chiara Campo,
Massimo Cesareo, Melania Rossetti, Sara Zignego, Simona Porfilio, Valentina Serena,
Daniela Fontana, Chiara Musetti.
VII

INDICE
PARTE I
Questioni introduttive e preliminari
Primo colloquio con i genitori (1-3) 1
Primo colloquio con il bambino (4-10) 5
Difficoltà e organizzazione (11-15) 14
box 1. 15
L’alleanza terapeutica (16-17) 23

PARTE II
Aspetti diagnostici
Definizioni (18-20) 29
box 2. 31
L’analisi funzionale (21-24) 33
box 3. 34
box 4. 39
box 5. 40
Restituzione e contratto terapeutico (25-26) 42
Il sintomo (27-28) 47

PARTE III
Tecniche e strategie di intervento
Controllo dello stimolo (29) 50
Apprendimento senza errori (30) 52
Analisi del compito (31) 53
Modellamento (32) 54
Role playing (33) 55
Esposizione e rilassamento (34-35) 58
Compiti a casa (36) 62
Assertività (37) 64
Uso dei conseguenti (38) 67
Uso dei rinforzatori (39-49) 68
Ristrutturazione cognitiva (50) 90
Terapia razionale (51) 93
Autostima e autoefficacia (52-54) 100
Strategie di autoistruzione (55) 105
Il lavoro con le emozioni (56) 107
Differenze fra bambini e adolescenti (57) 111
La famiglia (58-59) 113
La scuola (60) 116
VIII 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

Altri specialisti (61) 117


Le strutture esterne (62) 119

PARTE IV
Trattamento di disturbi specifici
Disabilità intellettiva (63) 122
Disturbo del linguaggio e balbuzie (65) 127
Autismo (66) 128
box 6. 129
DSA (67) 132
box 7. 135
ADHD e DOP (68-69) 136
Disturbo della condotta (70) 154
box 8. 158
Tic (71) 160
Disturbo bipolare (72) 161
Disturbi depressivi (73-74) 163
Ansie, fobie e panico (75-80) 176
DOC (81) 196
PTSD (82) 200
Disturbo dell’adattamento (83) 201
Disturbo da sintomi somatici (84) 202
Disturbo dell’alimentazione (85) 204
Enuresi notturna (86) 207
Disforia di genere (87) 209

Parte V
Intervento su comportamenti disfunzionali
Lutto e difficoltà fra i genitori (88-90) 211
box 9. La storia di Viola 214
L’arrivo di un fratellino (91-92) 220
Ritardo nel linguaggio (93) 224
Dolore, bugie, paure, “dipendenze” e bullismo (94-98) 225
box 10. La storia di Alexandra 226

Qual è il percorso di formazione per diventare uno psicoterapeuta


dell’età evolutiva? (99) 240
Quando si dimette un piccolo paziente? (100) 243

Bibliografia 246

Glossario 251
1

PARTE I

parte I
Questioni introduttive e
preliminari

1. D
 a dove si comincia quando vogliamo
aiutare un bambino?

La risposta a questa prima domanda è facile: si comincia dalla


famiglia.
Prima di tutto perché il bambino non può chiedere aiuto da
solo né può prendere autonomamente un appuntamento.
Sono i genitori che possono notare un problema e cercare so-
luzioni per risolverlo.
Poi, perché il primo colloquio si fa con i genitori senza il bam-
bino. Questo permette di parlare liberamente delle difficoltà,
delle preoccupazioni, delle emozioni anche negative di un
papà o di una mamma.
La presenza del figlio durante il primo colloquio può generare
molti problemi. Può succedere che i genitori non dicano quello
che hanno in mente e talvolta nel cuore. Oppure può succede-
re che lo dicano in modo allusivo o, in alcuni casi, persino a
bassa voce, nell’illusione che in questo modo il bambino non
capisca. Può anche darsi, al contrario, che parlino liberamente
(“Dottore non ne possiamo più, non sappiamo più che pesci
prendere con Nicola…”), mettendo il figlio in allarme, in ansia
e, nei casi peggiori, rischiando di minare fin dall’inizio l’allean-
za tra lo psicoterapeuta e il bambino. 11, 17
C’è un altro motivo molto pratico per cui è importante iniziare
con un colloquio con i genitori senza il figlio presente. Si può
discutere con loro come preparare il bambino alla visita, come
presentargliela, cosa dirgli. Se il bambino è presente fin dal
2 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

primo incontro l’eventuale errore del genitore (“Ti portiamo


parte I

a fare due chiacchiere con un nostro vecchio amico”, oppu-


re: “Il pediatra è malato, andiamo a fare una visita da un suo
collega”) non è più correggibile e la frittata è fatta: il rapporto
con il piccolo paziente inizia in una situazione già falsata da un
inganno.
Attenzione. Si comincia dalla famiglia è una risposta pratica
a una serie di questioni pratiche. Non è una risposta teorica.
Non significa in alcun modo pensare pregiudizialmente che il
problema sono il papà e la mamma. Ancora meno significa dar
loro la colpa di tutti i guai del bambino. Il senso di colpa è di
rado un alleato della psicoterapia. Molto spesso è un grande
nemico. In ogni caso, anche quando dovesse apparire eviden-
te (non certo durante un colloquio preliminare!) che sarà ne-
cessario lavorare sulle responsabilità dei genitori, questo resta
sempre un aspetto delicato e potenzialmente pericoloso. Lo
psicoterapeuta dovrebbe maneggiare il senso di colpa dei ge-
nitori con molta cura, come un chirurgo farebbe con un bisturi
affilatissimo e il farmacista con un potente veleno.

2. C ome si apre il primo colloquio con i


genitori?
Si cerca di mettere il papà e la mamma a proprio agio perché
possano esprimersi il più liberamente possibile. Il termine tec-
nico di questa prima delicatissima fase è manovra di apertura.
Manovre di Nelle manovre di apertura non ci sono regole rigide. Se è esta-
apertura te e nello studio c’è l’aria condizionata accesa, si può chiedere
ai genitori se dà loro fastidio e hanno piacere che venga spenta
o abbassata. Se è inverno e il papà entra con l’ombrello goc-
ciolante, gli si può indicare dove può lasciarlo. Molte manovre
di apertura dipendono dal contesto, dalla situazione, persino
dal tempo atmosferico. A volte le manovre di apertura ini-
ziano molto prima della prima seduta, fuori dallo studio, per
esempio con una telefonata. In ogni caso lo psicoterapeuta do-
vrebbe tenere dritta la barra del timone verso l’obiettivo: met-
tere l’altro nelle migliori condizioni perché possa esprimersi
serenamente e con la maggior sincerità possibile. Tutti gli
altri obiettivi verranno in un secondo momento. Tutti gli altri
obiettivi (l’anamnesi, l’assessment, la diagnosi, la parcella…)
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 3

verranno in un secondo momento perché adesso sarebbero

parte I
una barriera alla relazione.
Lo psicoterapeuta guarderà i genitori negli occhi, stringerà
loro la mano, si presenterà, li inviterà a sedersi. Eviterà atteg-
giamenti burocratico-polizieschi come quello di chiedere, lo
sguardo fisso sui suoi fogli, nome, cognome, data di nascita e
nome del pediatra. Potrà dare un’occhiata alla cartella ancora
quasi del tutto bianca, dove forse c’è il nome del bambino pre-
so durante una telefonata o comunicato dalla segreteria e poi,
togliendo gli occhi dalle carte e volgendoli di nuovo agli esseri
umani che ha di fronte, potrà dire, per esempio:
“Allora, se non sbaglio, siamo qui per parlare di Andrea”.
Anche domande troppo aperte (del tipo “Ditemi...”) possono
essere pericolose. Possono creare disorientamento. Pensate al
professore che, senza preavviso, apriva l’esame chiedendovi
un argomento a piacere. Invece Andrea è il nome del loro bam-
bino. I genitori lo riconosceranno e si sentiranno riconosciuti.
Inoltre, indipendentemente dal fatto che siano venuti perché
c’è un problema, o perché sono stati consigliati (talvolta spinti)
da altri a questo colloquio, quasi sicuramente sono qui per par-
lare di loro figlio. Questo dovrebbe essere sufficiente per to-
gliere il tappo e far fluire le prime notizie e le prime emozioni.
A volte, ad un genitore che dice imbarazzato di non sapere da
che parte cominciare si può rispondere accogliendo serena-
mente questa difficoltà. Lo si può rassicurare del fatto che può
cominciare da dove vuole; che se preferisce possiamo noi far-
gli qualche domanda; che in ogni caso se ci sarà qualcosa che
non capiremo cercheremo poi con calma di approfondirla. Ac-
cettare fin da subito la difficoltà di un genitore aiuta a costruire
un rapporto basato sull’empatia e la comprensione piuttosto
che sul giudizio.

3. Q
 uali sono gli elementi fondamentali
del primo colloquio con i genitori?

Un colloquio ben condotto, preparatorio all’incontro con il


bambino, dovrebbe contenere almeno tre elementi: l’apertura,
la messa a fuoco del problema e la chiusura. 2
La messa a fuoco del problema è il cuore del primo colloquio e
dovrebbe cercare di rispondere alla domanda: perché i genito-
4 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

ri sono venuti? Ovviamente i problemi psicologici di un figlio


parte I

possono essere molti ed è probabile che in un primo colloquio


La messa a fuoco non vengano fuori tutti. L’importante è che almeno uno, me-
del problema glio se il più importante, emerga con chiarezza. Questo servi-
rà allo psicoterapeuta per sapere quali manovre iniziali dovrà
fare con il suo piccolo paziente, quando lo conoscerà.
Spesso, la messa a fuoco del problema viene fuori in modo
quasi automatico, spontaneo, durante le manovre di apertura.
Succede in questi casi che i genitori arrivino, si sentano accol-
ti, comincino a parlare e raccontino cosa li preoccupa del loro
figlio e perché sono venuti. Quando questo non succede, c’è un
momento durante il primo colloquio nel quale lo psicoterapeu-
ta deve fare in modo diretto la domanda. Un colloquio è tanto
meglio condotto quanto meno appare e si nota questa diretti-
vità e quanto più la conversazione si snoda in modo naturale.
In ogni caso, l’ora – che di solito rappresenta l’unità di misura
di un colloquio – non dovrebbe passare senza che lo psicote-
rapeuta abbia capito con sufficiente chiarezza cosa i genitori
vorrebbero da lui.
Spesso, dopo le manovre di apertura e la messa a fuoco del
problema, rimane ancora del tempo per raccogliere altre in-
formazioni. In questi casi, ulteriori informazioni importanti
possono essere: l’anamnesi, la storia del bambino, le sue capa-
cità di relazione con gli adulti e soprattutto con i compagni, il
suo comportamento e il suo rendimento scolastico, le attività
extrascolastiche (sportive e no) che il bambino svolge, la com-
posizione del nucleo familiare.
Queste informazioni aggiuntive sono utili ma non fondamen-
tali in un primo colloquio, perché possono sempre essere re-
cuperate in momenti successivi. Mentre le raccoglie, è impor-
tante che lo psicoterapeuta tenga d’occhio l’orologio. È infatti
necessario che questo colloquio, come è stato aperto con le
manovre iniziali, venga correttamente chiuso.
La chiusura La chiusura dovrebbe contenere una breve restituzione degli
aspetti essenziali emersi fino a quel momento (“Allora, mi
sembra di avere capito che Andrea...”), la spiegazione di cosa
il terapeuta intende fare quando vedrà il bambino e tutta una
serie di accordi conclusivi di ordine pratico. Questi ultimi sono
molto importanti: l’orario; le modalità di pagamento; il fatto
che all’inizio, se il bambino ha bisogno di un genitore nello stu-
dio ovviamente il genitore potrà entrare, ma che appena pos-
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 5

sibile uscirà lasciando il bambino da solo; il numero di sedute

parte I
che approssimativamente saranno necessarie per farsi un’idea
della situazione (di solito, da tre a cinque); le modalità con le
quali, a conclusione di questa prima fase di inquadramento, lo
specialista spiegherà ai genitori (di regola senza la presenza
del bambino) quello che ha visto, quello che pensa di aver ca-
pito e quello che crede si potrebbe provare a fare.
Il primo colloquio con i genitori dovrebbe includere, in
quest’ultima fase, un’esplicitazione chiara su come preparare
il bambino alla prima visita. L’argomento è talmente delicato
e importante che credo sia meglio trattarlo nella prossima do- 4
manda, dedicata solo a questo aspetto.

4. C ome preparare il bambino al primo


incontro con lo psicoterapeuta?

Quando, durante il primo colloquio con i genitori, arriviamo a


questo punto, si verificano di solito tre casi.
Il primo è il caso facile. Il terapeuta affronta il tema della pre- Il caso più facile
parazione del bambino alla prima visita e i genitori rispondo-
no che ci hanno già pensato: per esempio, gli hanno detto di
volerlo aiutare perché vedono che fatica ad addormentarsi da
solo nel suo lettino e quindi hanno pensato di chiedere il consi-
glio ad un dottore che si occupa di queste cose.
Il secondo è il caso più comune. I genitori dicono che non han- Il caso più comune
no detto niente al figlio, non sanno bene cosa dirgli e aspet-
tavano un suggerimento dallo psicoterapeuta. Quando si ve-
rifica questa situazione, premetto che loro conoscono Andrea
da otto anni mentre io non l’ho mai visto e dunque spetterà
a loro cercare le parole, il tono, il momento. Fatta questa pre-
cisazione, mi capita spesso di parafrasare la frase classica del
giuramento in tribunale che si sente spesso nei film e nei tele-
film americani: è necessario dire al bambino la verità, ma non
necessariamente tutta la verità. In pratica, non si dirà al figlio
che lo portano da un amico, o dall’oculista, o dal sostituto del
pediatra. Gli si potrà dire che lo portano da un dottore, o da
uno psicologo, o da uno specialista, o da un esperto, oppure da
un signore che si occupa di bambini e cerca di aiutarli quan-
do, per esempio, fanno fatica ad addormentarsi da soli nel
proprio letto. Tutte queste cose sono vere, anche se con sfu-
6 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

mature diverse, e dunque vanno bene. Non ha invece senso


parte I

entrare in particolari del tipo: “Siamo molto preoccupati per il


tuo comportamento e per i tuoi problemi e non sappiamo più
come fare. Le abbiamo provate tutte senza combinare niente
di buono. A questo punto l’ultima possibilità è portarti da uno
psicologo, uno psicoterapeuta ad indirizzo cognitivo-compor-
tamentale, e sperare che riesca lui a rimetterti a posto…”. Una
comunicazione chiara, serena per quanto possibile, con spie-
gazioni semplici rispetto a quello che il dottore probabilmente
gli farà fare (un disegno, quattro chiacchiere, qualche gioco)
è la cosa migliore. Spesso è utile anche dire al bambino che i
genitori sono già stati da questo specialista, che l’hanno cono-
sciuto e gli hanno parlato. Così saranno pronti a rispondere a
domande o a curiosità del figlio su questa persona che tra qual-
che giorno lo incontrerà.
Il caso più difficile Il terzo è il caso più difficile. Io lo chiamo la “proposta inde-
cente”. I genitori tentano di convincere lo psicoterapeuta ad
incontrare il figlio al bar sotto lo studio, oppure a casa, oppure
a fingere un incontro casuale da qualche parte. Ovviamente è
necessario rifiutare questa proposta, con profonda compren-
sione e con ferma assertività. Lo psicoterapeuta potrà dire che
si rende conto dell’ansia che questo primo incontro procura
(forse più a loro che al figlio), ma che quest’ansia non giustifica
l’idea di iniziare il lavoro in un modo così falso, così inautenti-
co. Se necessario, potrà aggiungere che questo creerebbe an-
che a lui delle difficoltà: il terapeuta ha bisogno del suo studio,
dei suoi strumenti, dei giocattoli e dei test. Il risultato di questa
risposta assertiva dovrebbe essere che i genitori percepiscono
di essere stati compresi, ma comprendono a loro volta i motivi
del rifiuto dello psicoterapeuta.

5. C ome si disinnesca la bomba


dell’ultimo minuto?

Di solito arriva improvvisa, inattesa, come a tradimento.


State facendo una breve restituzione di quello che vi ha lascia-
to il primo colloquio. Può addirittura succedere che la “bom-
ba” arrivi quando siete già in piedi, di fronte alla porta, e state
salutando il papà e la mamma dopo aver preso gli accordi ne-
cessari per vedere il figlio la prossima settimana. È in questo
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 7

momento, quando ormai non ve lo aspettavate più, che il geni-

parte I
tore vi racconta in modo rapido, come se dovesse all’improv-
viso scaricarsi di un peso, un particolare importante, a volte
drammatico, che aveva omesso durante tutto il colloquio:
“Sa dottore, ho pensato che forse è utile che sappia anche che
la maestra dello scorso anno lo picchiava e spesso, per punizio-
ne, lo chiudeva dentro l’armadio”.
Oppure:
“Mi è venuta in mente un’altra cosa. Con noi vive uno zio alco-
lizzato, molto violento...”
Il pensiero dello psicoterapeuta sarà: “Potevi dirmelo prima”.
Le sue parole, invece, dovranno essere molto diverse.
In queste situazioni difficili ci sono due cose che non si posso- Cosa non va fatto
no fare.
La prima è pensare che l’ora è scaduta, scrollare le spalle e con-
cludere i saluti.
La seconda è sgranare gli occhi, tornare a sedersi e dedicare
una mezz’ora aggiuntiva a questo argomento.
Sarà quindi necessario barcamenarsi. Comunicare con chia-
rezza che si comprende l’importanza di questa notizia ma, con
altrettanta chiarezza, che non c’è il tempo per trattarla adesso.
Credo che un modo accettabile per uscire da questo passaggio
stretto sia dire che è stato molto giusto raccontare questo fatto.
Che per me è utile saperlo e dunque sarebbe stato un errore
ometterlo. E poi aggiungere che l’argomento è così importante
che non è una buona idea discuterlo frettolosamente adesso
che non ci sarebbe il tempo per approfondirlo. Ormai andia-
mo avanti nel nostro programma appena concordato. Martedì
prossimo vedrò Andrea e poi decideremo quando fissare un
nuovo appuntamento solo per noi adulti, per parlare meglio
della cosa.

6. E quando un genitore non viene?


Intanto prendiamo quello che viene.
Non è l’ideale, ma nel nostro mestiere è molto frequente che
non si presentino situazioni ideali. La mamma viene da sola?
Qualunque sia il motivo, intanto parliamo con lei. Un compor-
tamentista classico chiamerebbe questo approccio shaping¸ o 48
modellaggio. Invece che buttare via tutto ci si accontenta, per
8 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

ora, di quello che si ha. Il colloquio si può svolgere con modali-


parte I

tà analoghe a quelle di un primo colloquio con entrambi i geni-


tori. Poi, ovviamente, a meno che la questione non sia venuta
fuori prima, durante gli accordi conclusivi dovremo discutere
del problema della mancanza del papà.
A volte il problema è banale. Il padre lavora tutto il giorno tutti
i giorni fino a tardi e allora cercheremo un orario in cui pos-
sa fare un salto. Oppure la mamma vive in un’altra città e sarà
necessario accordarsi per un giorno in cui possa venire da noi.
Altre volte è grave. Il padre, per esempio, è contrario a queste
consulenze. Allora spiegheremo alla mamma che non possia-
mo vedere un minorenne senza il consenso di entrambi i geni-
tori (salvo il caso rarissimo di affidamento esclusivo). Cerche-
remo di discutere insieme quali passi potremo cercare di fare.
Ovviamente, se la mamma si sentisse rassicurata dal fatto di
poter parlare, almeno lei, dei problemi del figlio, possiamo
fissare con lei un appuntamento successivo. L’importante,
in questi casi, è irrigidirsi il meno possibile in atteggiamenti
Per i minorenni burocratici. Un certo irrigidimento è imposto dalla legge: per
occorre il consenso vedere un minorenne è necessario il consenso di entrambi i
di entrambi i genitori. Tutto il resto dovrebbe essere flessibile, accogliente.
genitori
Il consenso può essere acquisito durante un primo colloquio
congiunto, ma anche in due colloqui separati. Può essere ac-
quisito attraverso un lungo colloquio formale con uno solo dei
due genitori, mentre l’altro può fare un salto veloce in un mo-
mento per lui comodo, stringere la mano allo psicoterapeuta e
firmare un foglio.
Dovremmo cercare di fornire un aiuto anche se non ci sono le
condizioni ideali per poterlo dare. Cominciamo a giocare con
le carte che abbiamo. Spesso, da cosa nasce cosa. Per oggi la-
voriamo così.
Domani è un altro giorno.

7. C ome si prepara il primo colloquio con il


bambino?

Si studia la cartella dove è riportato il primo colloquio con i


genitori. Si formulano delle ipotesi. Si prepara il materiale che
sulla base di queste prime ipotesi pensiamo potrebbe rivelarsi
utile. Ci si prepara anche mentalmente, emotivamente, all’i-
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 9

dea di accogliere un bambino che probabilmente ci metterà in

parte I
difficoltà per il suo comportamento troppo esuberante, oppu-
re che ci creerà problemi perché tenderà a rimanere attaccato
alla mamma per tutta l’ora, dipendente da lei, incapace di ri-
spondere anche alla più semplice delle domande senza il suo
aiuto e il suo appoggio.
Sebbene i test vadano usati con molta cautela nel primo in-
contro con un nuovo piccolo paziente, si può anche iniziare a
preparare e a tenere sotto mano quelli che probabilmente, o
prima o dopo, potranno essere utili.
Poi basta.
Un eccesso di programmazione rischia di irrigidire la relazio-
ne prima ancora di cominciare ed espone lo psicoterapeuta a
sorprese che poi avrà più difficoltà a gestire. L’atteggiamento
migliore, come spesso succede nel nostro lavoro, è quello im-
prontato ad un’apertura mentale che comunichi accettazione
e empatia. Quello peggiore è caratterizzato da una specie di
astio per una sorpresa che in qualche modo ci infastidisce
o ci turba. Un dialogo interno del tipo “Ma come? I genitori
mi avevano descritto un bambino timido e ipercontrollato e www.
questo si permette di buttarmi all’aria lo studio?” non aiuterà youtube.com/
nessuno. watch?v=
Regola d’oro: stai pronto a prendere quello che verrà. LgRap4efb6g

8. C ome si prepara l’ambiente?


Ci sono alcune regole generali. Lo studio dove il bambino
verrà accolto dovrebbe in qualche modo essere a misura di
bambino, o quanto meno non a misura di adulto. Quindi non Lo studio del
uno studio paludato con i diplomi alle pareti, le foto della fa- terapeuta deve
miglia in cornici d’argento e un set da scrivania in pelle uma- essere a misura
di bambino
na. Piuttosto disegni, fotografie che i piccoli pazienti ci hanno
regalato e che li rappresentano in un momento di gioia o nel
gruppo della squadra di calcio dove giocano (ovviamente con
l’autorizzazione dei genitori ad esporle), cartelloni colorati di
token economy completati appesi alle pareti, armadi con gio-
chi e puzzle (all’occorrenza, come vedremo subito, facilmente
chiudibili a chiave), fogli, matite, gomme, colori di tanti tipi.
Tuttavia, la grande quantità di oggetti non dovrebbe essere in
contrasto con una sostanziale idea di ordine che lo studio do-
10 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

vrebbe dare. Per quanto possibile, all’inizio di ogni colloquio lo


parte I

studio dovrebbe apparire pulito e con le cose al loro posto. So


bene che se in un pomeriggio si hanno appuntamenti dalle 14
alle 20 senza interruzione questo non sarà possibile: si cerche-
rà di fare per il meglio.
Poi ci sono regole specifiche. Se aspettiamo un bambino con
un grave disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, la
scrivania dovrà contenere solo gli oggetti indispensabili: le
eventuali penne stilografiche con il pennino d’oro dello psico-
terapeuta dovranno sparire, armadi e schedari dovranno esse-
re chiusi a chiave. Il termine tecnico per quello che sto dicendo
è controllo dello stimolo: la situazione ambientale dovrà es-
29 sere tale da rendere meno probabile l’emissione dei sintomi
e meno gravi le conseguenze di quei sintomi che comunque
si manifesteranno. Se, al contrario, aspettiamo una bambina
depressa, o anche solo molto timida e chiusa, le cose dovranno
essere completamente diverse. Tutto aperto, tutto in vista, tut-
to a sua disposizione. È chiaro che anche in questo caso stiamo
cercando di utilizzare il controllo dello stimolo, ma con finalità
opposte. Adesso la speranza è che di fonte a tanti giochi, a tanti
fogli di carta e a tanti pennarelli di mille colori alla bambina
venga il desiderio di fare qualcosa con noi.

9. C ome si inizia (e come prosegue) il


primo colloquio con il bambino?

Paradossalmente, il primo colloquio con un bambino comincia


spesso evitando di fare un colloquio. Capita che le parole sia-
Iniziare con un no l’ultimo strumento da usare, non il primo. I primi strumen-
gioco o un disegno ti possono essere un disegno o un gioco. Quando poi arriva il
momento di usare le parole, sono io di solito che do inizio al
dialogo, cercando di renderlo quanto più facile possibile. Piut-
tosto che domande aperte, o troppo personali, meglio doman-
de delle quali io stesso conosco la risposta e che talvolta mi do
per primo, senza aspettare che sia il bambino a darmela. In
questi casi gioco un po’ a fare il mago:
“Allora, vediamo un po’ se indovino, tu ti chiami Marco e fai la
terza elementare a Ricortola...”
Lui mi guarda, a volte con gli occhi sgranati. A volte sorride. A
volte mi chiede:
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 11

“E tu come fai a saperlo?” e così il ghiaccio comincia a scio-

parte I
gliersi.

Questi ovviamente sono trucchi del mestiere che si usano


quando il bambino appare particolarmente chiuso e in difficol-
tà. Quanto più, al contrario, è in grado di parlare e di raccon-
tarsi (alcuni esternalizzati lo sono anche troppo!) tanto più lo si
lascerà libero di farlo.
Arriverà poi il delicato momento in cui si chiede al piccolo Domande delicate
paziente se sa perché è qui, che mestiere faccio e come pensa
che potrò aiutarlo. Le risposte possono essere le più varie e tal-
volta le più imprevedibili: piene di consapevolezza oppure, al
contrario, bizzarre e fuori dalla realtà. In questa fase iniziale si
accettano tutte, ovviamente, senza giudicarne nessuna. Si ap-
puntano in cartella perché potranno darci indicazioni preziose
e poi, quando sono risposte palesemente errate, si comincia un
lento e graduale lavoro di correzione, fatto più con la pratica
che con le parole. Se, per esempio, un bambino con difficoltà
di apprendimento dice che crede di essere qui per diventare
più ubbidiente, si sposterà l’accento sull’apprendimento pro-
ponendogli un test di lettura o di scrittura piuttosto che una
lezione sui suoi reali problemi.
Spesso a queste delicate domande i bambini rispondono di
non sapere. In questo caso si possono riprendere in modo cau-
to, chiaro ma non dettagliato, gli accordi presi con i genitori
nella fase conclusiva del primo colloquio. Avevamo concor-
dato che i genitori avrebbero detto al figlio che lo portavano
da me perché a volte è un po’ ansioso, un po’ spaventato, per
esempio al momento di andare a letto? In seduta col bambino
si tornerà in modo caldo e non giudicante, interattivo e non di-
rettivo, su questo argomento:
“A volte ti capita di sentirti un po’ teso? Un po’ spaventato da
qualcosa?”

Quasi sempre il primo test che uso, spessissimo già in prima


seduta, sono le CPM, le matrici progressive colorate di Raven.
Si tratta di una scelta strategica. Al di là del fatto che di ogni
paziente, indipendentemente dai motivi per cui è venuto, è
utile avere una misura per lo meno generale dell’intelligen-
za, le CPM sono facili da somministrare, veloci, divertenti,
quasi sempre percepite come una specie di gioco. Tendono
12 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

ad attenuare l’ansia relazionale dei bambini internalizzati e i


parte I

comportamenti iperattivi e disattenti degli esternalizzati. Tec-


nicamente, come è ben noto, sono uno strumento per misura-
re l’intelligenza generale, così come prendere il polso del pa-
ziente tra le dita è, per un medico, tecnicamente, un modo per
iniziare a valutare le pulsazioni cardiache. Ma, esattamente
come prendere la mano del paziente nella propria, sono anche
L’obiettivo del uno strumento di relazione. D’altra parte, qual è l’obiettivo del
primo colloquio primo colloquio? Conoscere il QI? Valutare il numero di pulsa-
zioni al minuto o il numero di sillabe al secondo? Arrivare ad
una diagnosi o fare un corretto assessment comportamentale
dei principali sintomi del paziente, supportato da un’attenta
osservazione sistematica?
No.
L’obiettivo del primo colloquio è fare in modo che il nostro
bambino abbia piacere di tornare al secondo.

10. C i sono differenze importanti tra il


primo approccio con il bambino e il
primo approccio con l’adolescente?

Penso che, in linea di massima, anche con l’adolescente sia


utile iniziare dalla famiglia. I vantaggi di raccogliere prima una
serie di notizie dai genitori e poi concordare con loro la prepa-
razione alla prima visita con il ragazzo sono abbastanza simili
a quelli che abbiamo visto per il bambino. Se l’adolescente è
piuttosto grande e particolarmente autonomo o maturo, si può
anche decidere di fissare subito un appuntamento con lui. In
questi casi il ragazzo entrerà da solo nello studio dello psico-
terapeuta, parlerà con lui e soltanto in un secondo momento
si potrà concordare che lo psicoterapeuta conosca i genitori ed
ascolti anche il loro punto di vista.
Se si decide invece per un colloquio preliminare con il papà e
2, 3 la mamma, questo si svolgerà in modo simile a quello che ho
proposto nel caso di un bambino. Tuttavia, spesso è poi neces-
saria una particolare cautela nella preparazione alla prima vi-
sita. Quando si ha a che fare con adolescenti la regola di dire
al figlio la verità è ancora più importante. Certe mezze verità
come: “È un signore che si occupa dei problemi di ragazzi...”
andranno evitate. Con l’adolescente è meglio andare dritti al
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 13

punto e spiegare che i genitori hanno deciso di portarlo da uno

parte I
psicoterapeuta per questi e questi motivi. Nel caso, piuttosto
frequente, che il ragazzo abbia dei pregiudizi nei confronti del-
lo “strizzacervelli” (dove vanno gli scemi, gli handicappati e i
pazzi) sarà bene suggerire ai genitori di ascoltare questi punti
di vista del figlio, accoglierli senza giudicarli e poi provare a
spiegare pazientemente che non è sempre necessario essere
scemi o pazzi per aver bisogno di un aiuto psicologico o anche
solo di un consiglio.
Il primo colloquio con l’adolescente può essere preparato in Con l’adolescente
modo analogo a quanto abbiamo visto per il bambino. Si studia
la cartella, si ripassano le cose essenziali che i genitori ci hanno
detto, si formula mentalmente qualche ipotesi iniziale e poi si
rimane in una posizione aperta di ascolto e di accettazione. In
questi casi l’accettazione potrà riguardare – invece che la chiu-
sura, l’imbarazzo, l’inibizione e la timidezza del bambino –
l’aggressività e l’oppositività. La rabbia per essere stati portati
controvoglia a fare non si sa cosa. Sebbene questa situazione
possa rappresentare una sfida per lo psicoterapeuta e metter-
lo in difficoltà, può anche essere un’occasione per mostrarsi
disponibili e capaci di ascolto. In nessun caso, ovviamente,
comunicazioni ostili andranno accolte con atteggiamenti sim-
metrici di aggressività, con giudizi negativi su quanto l’adole-
scente ci sta dicendo e, meno ancora, interpretate come offese
personali.
L’ambiente può essere preparato fino ad un certo punto, per-
ché non si può certo cambiare studio o arredamento in fun-
zione dell’età del paziente. Tuttavia, i riferimenti più espliciti
al fatto che di solito ci occupiamo di bambini (come giocattoli
ben in vista) andrebbero evitati per quanto possibile.
Infine, contrariamente a quanto suggerito per il primo approc-
cio con il bambino, più il paziente è grande e più saranno fin
da subito necessarie le parole. Si potrà allora chiedere in modo
esplicito cosa ne pensa del fatto di essere lì e come vede lui la
cosa. Oppure, se il ragazzo sembra in difficoltà, si può parti-
re con domande conoscitive più semplici e più neutre come la
scuola frequentata, i compagni, gli eventuali sport praticati, gli
hobby e i modi preferiti di passare il tempo libero. Chiedere ad
un adolescente di fare un disegno o un gioco può infatti essere
molto pericoloso perché può dare al ragazzo la sensazione che
lo stiamo trattando come un bambino piccolo.
14 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

Più ancora di quanto già visto per il primo colloquio con il bam-
parte I

bino, con l’adolescente è importante la costruzione di un’ini-


ziale alleanza terapeutica (cerco di stare dalla tua parte e di
evitare di giudicarti) e l’obiettivo fondamentale resta quello di
fare in modo che il ragazzo torni al secondo colloquio.

11. Q
 uali sono le principali difficoltà che
si incontrano quando si inizia una
psicoterapia con un bambino?

Probabilmente sono due. La prima è la costruzione di una rela-


zione terapeutica e la seconda è la condivisione degli obiettivi del
lavoro che dovremmo fare insieme. Il problema è che si trat-
ta di due difficoltà che possono potenziarsi a vicenda. Per la
costruzione di una buona relazione terapeutica sarebbe infatti
necessario andare in certo senso a ruota libera, far giocare il
bambino con i giochi che mostra di gradire di più, farlo chiac-
chierare delle cose di cui preferisce parlare. Per la condivisio-
ne degli obiettivi, al contrario, sarebbe in teoria necessario
essere più direttivi. Spiegare al bambino le cose che sarebbe
bene provare a fare insieme e perché sarebbe bene provare a
farle. Provo a dirlo in altri termini, un po’ estremi ma spero
chiarificatori. In una seduta condotta per affrontare il proble-
ma della relazione lo psicoterapeuta sembra un compagno e
un coetaneo del paziente. In una seduta condotta per affron-
tare il problema della condivisione degli obiettivi lo psicotera-
peuta sembra un maestro.
Ovviante, nessuna delle due cose va bene ed è necessario
Dare la precedenza trovare un compromesso, una via mediana. Personalmente
alla relazione tendo a dare la precedenza alla relazione terapeutica, perché
terapeutica una buona relazione rappresenta un prerequisito. Se il bambi-
no non viene volentieri, non si sente accolto e, arriverei a dire,
non si diverte, il resto è perduto in partenza. C’è un segnale,
che talvolta ricevo, che mi indica che per quanto riguarda il pri-
mo problema siamo sulla strada giusta. È quando un genitore
mi dice che il figlio parla di me a casa chiamandomi “il mio
amico Fabio”.
Purtroppo non sempre le cose vanno così, ma quando vanno
così, allora, all’interno di una relazione calda e significativa,
cerco di affrontare la seconda difficoltà. Cerco di farlo in modo
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 15

cauto e graduale. Provo ad introdurre il tema del perché siamo

parte I
qui. Di cosa potremmo provare a fare insieme per migliorare in
qualche punto (box 1).

box 1

·  In cosa pensi che potresti provare a migliorare?


·  La tua mamma e il tuo papà, quando sono venuti a prendere
l’appuntamento, mi hanno detto che a volte sei un po’ solo.
A te sembra di avere pochi amici?
·  Ti annoi, a casa, il pomeriggio, quando non hai qualcuno con
cui giocare oppure ti va bene così?
·  In classe c’è qualche compagno che ti è più simpatico, con
cui ti trovi meglio?
·  A ricreazione giochi con lui o preferisci giocare da solo?
·  Prova ad immaginare questa situazione. Solo ad immaginar-
la, non sto certo dicendoti cosa dovresti fare. Immagina che
sia ricreazione e che ti venga in mente di chiedere ad un tuo
compagno se vuole giocare con te. Chi sceglieresti?
·  E come ti sentiresti se tu facessi questa prova?
·  Provo con un altro gioco di immaginazione: se invece tu vo-
lessi chiedere a un compagno se nel pomeriggio viene a gio-
care a casa tua?

Naturalmente sono solo esempi. Tra l’altro, messi così uno


sotto l’altro e letti di seguito potrebbero dare l’impressione
di una sventagliata di mitragliatrice. Niente di peggio di una
sventagliata di mitragliatrice per conservare una buona rela-
zione terapeutica. Si tratta di frasi che andrebbero usate con Domande per
cautela; quando il tema della conversazione le rende coerenti avviare un dialogo
con quello che il bambino ci sta raccontando; una alla volta e
certo non tutte insieme; intervallate da pause, silenzi, attesa
paziente delle risposte del bambino; con l’accettazione delle
sue risposte qualunque esse siano. Credo che sia anche impor-
tante notare, a questo proposito, che tutte le frasi finiscono con
un punto interrogativo. Dovrebbero infatti servire ad introdur-
re un dialogo, non un monologo; uno scambio di punti di vista
e, se ci riusciamo, di emozioni, non una lezione ex cathedra.
Quando il bambino accetta di seguirci su questa strada, co-
mincia a parlare di possibili obiettivi, svolge – magari con fati-
ca – un esercizio di lettura, parla – magari con un po’ di dolore
16 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

– delle sue difficoltà emotive o relazionali, cerchiamo di prose-


parte I

guire in questa direzione perché stiamo affrontando piuttosto


bene una delle principali difficoltà iniziali del lavoro psicote-
rapeutico. Ma questo cosa significa? Che andremo avanti su
questa strada, finiremo così la seduta e daremo al paziente un
nuovo appuntamento per la settimana successiva?
Direi di no.
Passare i successi sotto silenzio è un grave errore. Se le cose,
spesso con un certo sforzo da parte del bambino, sono andate
nella direzione giusta glielo dovremo dire. Lo dovremo rin-
forzare per questo. È vero che ci sono anche casi in cui, una
volta tolto il tappo, il bambino ha voglia di parlare, di sfogarsi,
di chiedere aiuto e di andare avanti spontaneamente su que-
sta linea per tutta l’ora. Sono casi nei quali non c’è bisogno di
rinforzatori estrinseci perché il bambino è intrinsecamente
rinforzato da quello che sta facendo, lo fa volentieri, soddisfa
in questo modo un suo bisogno, ma in tutte le altre situazioni
una forma di rinforzamento alla fine della seduta è utile per-
ché aumenta la probabilità che la prossima volta il bambino
prosegua ancora in questa direzione e, di nuovo, consolida la
relazione terapeutica. Talvolta il rinforzatore può essere ero-
gato in modo estemporaneo, anche solo con un “Bravissimo!
Mi hai raccontato un sacco di cose utili, ti sei spiegato benis-
simo e secondo me abbiamo proprio lavorato bene insieme!”.
Atre volte, soprattutto quando si vede il bambino faticare nel
venir dietro alle nostre proposte, il rinforzatore può essere pro-
www. grammato e condiviso: “Andiamo avanti così ancora un po’,
youtube.com/ poi, quando mancano venti minuti alla fine della nostra ora,
watch?v= facciamo uno di quei puzzle che l’altra volta ti erano tanto pia-
jZRFpwsTdd4 ciuti, va bene?”. Un mio intervento a un congresso riassume un
po’ questi principi, cercando di “umanizzarli”.

12. C osa facciamo quando l’adolescente


non vuole venire?

Per definizione, se l’adolescente non vuole venire non possia-


mo fare altro che tentare di lavorare con i genitori. Può darsi
che questa difficoltà venga fuori durante il primo colloquio
con loro. In questo caso si potrà suggerire di non presentare
la visita come un obbligo, ma solo come un’opportunità che
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 17

poi toccherà al ragazzo decidere se cogliere o meno. Anche

parte I
da un punto di vista pratico-organizzativo si dovrebbe evitare
di prendere un appuntamento con il giorno e l’orario già fissa-
ti, come si farebbe con un bambino. Si dirà allora al ragazzo
che, se decide, poi si potrà prendere l’appuntamento. Inoltre,
i genitori potranno spiegare al figlio che non si tratta di una
decisione irreversibile. Il ragazzo potrà andare ad una prima
seduta e poi farsi una sua idea personale e decidere se prose-
guire. Sarà importante anche chiarirgli che in ogni caso lo psi-
coterapeuta è tenuto al segreto professionale. Questo significa
che se il ragazzo deciderà di fare delle sedute con lui, da quel
momento le cose che eventualmente si diranno resteranno tra
il ragazzo e lo specialista.
È possibile che la resistenza del figlio sia dovuta ad idee più
o meno distorte sul significato dell’andare dallo psicologo. 10
I genitori, in questi casi, potranno provare a spiegargli che è
vero che a volte lo psicologo si occupa di un ragazzo disabile
o con gravi disturbi psichici (non ha senso nascondere la veri-
tà), ma che non sempre è così. Al contrario, spesso non è così.
Spesso uno psicologo vede un ragazzo che ha qualche difficoltà
emotiva o che non riesce ad andare d’accordo con i compagni.
A volte vede anche ragazzi che non hanno nessun problema,
ma che alla fine della terza media, per esempio, vogliono un
consiglio su quale scuola superiore frequentare… Queste sono
considerazioni che, fin dalla prima seduta, può fare anche lo
psicoterapeuta con il ragazzo che è venuto ma appare riluttan-
te a proseguire gli incontri a causa di questi pregiudizi.
In alcuni casi io trovo utile suggerire ai genitori di dire al figlio
che loro sono venuti da me perché sono in difficoltà. Perché
non sanno come comportarsi con il figlio. Mi hanno chiesto
aiuto, hanno parlato a lungo e si sono trovati piuttosto bene.
Tuttavia, alla fine della seduta, io ho detto che se riterranno
utile venire di nuovo e approfondire questi temi con me la mia
porta è sempre aperta, ma che a questo punto a me piacereb-
be conoscere anche il figlio, per evitare che loro continuino a
parlare di una persona che conoscono bene da anni mentre io
non ho potuto farmi un’idea diretta di lui nemmeno parlando-
gli un’ora. Tutto questo ovviamente può essere fatto solo se è
vero. Se i genitori stessi sono in qualche modo in crisi con il fi-
glio e nel chiedere aiuto a me sono anche loro pronti a mettersi
in discussione. In questi casi spostare l’accento da “Secondo
18 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

noi sei tu il problema” a “Ci piacerebbe provare a cercare insie-


parte I

me di affrontare il problema” può sbloccare la situazione.

13. C osa facciamo quando il bambino non


vuole restare da solo nello studio con
lo psicoterapeuta?

Uno dei principi cardine della psicoterapia cognitivo-compor-


tamentale è la gradualità. Applicare il principio a questo proble-
ma significa accontentarsi del fatto che il bambino è entrato nel
nostro studio e rinforzarlo per questo: con la nostra attenzione
o proponendogli un gioco che gli piaccia o lo diverta.
Gradualità e È entrato con la mamma? Non importa. Per ora prendiamo
accettazione quello che viene, quello che il paziente ci può dare. La graduali-
tà è un principio cardine del comportamentismo classico, oggi
detto anche “di prima generazione”. Poi l’approccio cognitivo-
comportamentale è andato avanti e oggi il comportamentismo
è arrivato alla cosiddetta “terza generazione” che ha, tra i suoi
principi, quello dell’accettazione. Credo che in questo contesto
i due principi non siano molto diversi. Il bambino non riesce
a staccarsi dalla mamma? Va bene lo stesso. Per ora lo pren-
diamo così com’è, con i suoi limiti e le sue sofferenze. D’altra
parte quale sarebbe l’alternativa? Rifiutarlo? Sgridarlo? Obbli-
garlo a restare solo con noi? La cosa quasi sicuramente non fun-
zionerebbe ma, anche nell’improbabile caso che funzionasse,
nell’improbabile caso che il piccolo malcapitato paziente rima-
nesse nello studio con noi dopo che la mamma ne è stata scac-
ciata, che fine farebbe la relazione terapeutica?
Invece lo accettiamo. Giochiamo con lui. Gli sorridiamo. Gli
proponiamo un disegno, se ha voglia di farlo, o un puzzle alla
sua portata, oppure, se gli va, andiamo a cercare in internet i
suoi personaggi preferiti, qualche filmato che lo diverta e attiri
il suo interesse.
Attenzione. Gradualità e accettazione non vogliono dire rasse-
gnarsi a lasciare le cose come sono. Nella mente dello psico-
terapeuta l’obiettivo è chiaro. L’obiettivo è portare il bambino,
piano piano, a sentirsi abbastanza sicuro di sé da riuscire ad
allontanare la mamma. La gradualità sta tutta in quell’inci-
so: “piano piano”. Il bambino comincia ad esser catturato da
qualcuna delle nostre proposte? Comincia ad essere contento
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 19

di qualcuno dei nostri rinforzatori? Bene, allora forse possiamo

parte I
cautamente proporre alla madre di allontanarsi un po’, chie-
dendo a lui se è d’accordo. A volte è prudente che questo “un
po’” sia veramente poco: la sedia della mamma un metro più
indietro della sua. A volte è necessario investire in questa gra-
dualità molto tempo: se il bambino ha un disturbo d’ansia da
separazione, forse non raggiungeremo l’obiettivo in prima se-
duta e purtroppo talvolta nemmeno nella seconda o nella terza.
Pazienza. Ci prenderemo il tempo che è necessario e appena
il bambino appare pronto, decentrato rispetto al suo problema
perché si è appassionato ad un gioco e vuole arrivarci in fondo,
oppure abituato alla nuova situazione e per questo più calmo,
inviteremo la mamma ad allontanarsi ancora un po’. Allora po-
trà stare in piedi sullo stipite della porta. E poi, magari, potrà
sedersi nel corridoio lasciando la porta dello studio aperta in
modo che, se il bambino lo desidera, le possa parlare alzando
un po’ la voce. Questi progressi, per quanto piccoli, dovranno
naturalmente essere rinforzati. A seconda della situazione,
del temperamento e dell’eventuale patologia del bambino lo si 39
potrà rinforzare comunicandogli la nostra soddisfazione per i
suoi progressi oppure proponendogli di fare di nuovo un gioco
che ha mostrato di gradire. I rinforzatori, come vedremo, sono
infiniti. Ne troveremo uno giusto per lui.

14. Q
 uali sono le prime cose da fare e da
osservare in un nuovo paziente?

Le prime cose da fare sono tutte legate alla costruzione di una


relazione terapeutica: mettere il bambino a suo agio, non chie- 1, 11
dergli cose che lo possano mettere in difficoltà, proporgli ma
non imporgli giochi, attività, argomenti di conversazione. Poi,
sempre per l’obiettivo prioritario della qualità della relazione,
cercare di mettersi in sintonia con lui. Cosa starà provando in
questo momento? Di cosa potrebbe avere bisogno?
Le cose da osservare, invece, sono virtualmente infinite. Al- Cosa osservare
cune sono molto generali. È collaborativo o tende ad opporsi in generale
alle mie richieste? È complessivamente tranquillo oppure è
carico di ansia? Il suo comportamento è controllato, rispetto
all’età e alla situazione, oppure appare agitato, iperattivo, di-
stratto? È orientato e consapevole o dà l’impressione di essere
20 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

immaturo se non francamente deficitario? Com’è la qualità


parte I

della sua relazione con me e il suo contatto con la realtà? C’è, è


qui, o sembra in un altro mondo o dentro una sua bolla, isolato
e lontano? E l’umore? È capace di sorridere e di divertirsi di
fronte a proposte che dovrebbero interessarlo e piacergli? L’e-
spressione del volto comunica allegria, piacere per le cose che
sta facendo, gioia, oppure è triste, cupo, disinteressato a tutto,
chiuso, angosciato?
Cosa osservare Poi ci sono le osservazioni più specifiche, che ci verranno quasi
di specifico automatiche da quello che abbiamo appreso durante il primo
colloquio con i genitori. Se il papà e la mamma sono venuti per
un sospetto disturbo d’ansia, inevitabilmente anche le più pic-
cole manifestazioni di tensione emotiva colpiranno in modo
particolare la nostra attenzione. Se sono venuti per difficoltà
scolastiche, tenderemo automaticamente a concentrarci su
tutti i possibili segnali di deficit. Questo è allo stesso tempo
inevitabile, giusto, e pericoloso. Non credo sia necessario di-
scutere degli aspetti positivi di un’attenzione concentrata sui
possibili problemi del paziente. Credo invece che meriti met-
tere in guardia lo psicoterapeuta dai pericoli di un’attenzione
eccessivamente selettiva, pregiudiziale e alle fine non suffi-
cientemente aperta ma troppo giudicante.
Arrivato a questo punto, alla domanda su cosa osservare in un
bambino che viene da noi per la prima volta mi verrebbe voglia
di rispondere: tutto e niente. Mi verrebbe voglia di rispondere:
non preoccuparti troppo di questo. Stai con lui. Stai dentro la
relazione con lui. Guardalo, ascoltalo e ascoltati. Il resto verrà
da sé.

15. S i possono prendere appunti in


seduta?

Riparto dalle ultime parole del punto precedente: guardalo,


ascoltalo e ascoltati. Il resto verrà da sé. Poi, a queste parole,
aggiungo: e prendi appunti.
Certo che si possono prendere appunti in seduta! Dirò di più:
si devono prendere appunti. Potrei anche mettermi a discutere
questo punto di vista che esprimo in modo così rigido se siete
molto giovani e se avete un paziente solo. Ma in tutti gli altri
casi come fate, altrimenti, a ricordarvi le cose?
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 21

Certo: prendere appunti ha delle controindicazioni, come tut-

parte I
te le azioni che producono un risultato. Il problema è sempre
quello di valutare i pro e i contro di un’azione e, dove possibile,
attenuarne gli effetti negativi. A me i pro sembrano difficil-
mente contestabili. Prendere appunti in seduta permette allo L’importanza di
psicoterapeuta di ricordare gli aspetti essenziali del caso; di ri- prendere appunti
studiarli prima di una seduta successiva; di preparare materia-
li, argomenti per il colloquio, test specifici e obiettivi di lavoro
basandosi sulle cose scritte in cartella piuttosto che sulla me-
moria. Le controindicazioni, di solito, si riferiscono al fatto che
prendere appunti può rallentare un po’ il flusso del colloquio e
può lasciare dei dubbi, soprattutto nei genitori e nei ragazzi più
grandi, sulla riservatezza di quello che stanno raccontando. Si
tratta di problemi rilevanti che possono tuttavia essere affron-
tati grazie ad alcune cautele. Per quanto riguarda la fluidità del
dialogo è chiaro che lo psicoterapeuta non può pensare agli
appunti come a un trascritto della seduta, non può chiedere
di continuo al paziente di fermarsi perché è rimasto indietro,
non può pretendere di avere appunti ordinati e in bella gra-
fia. Gli appunti dovranno riassumere gli aspetti essenziali ed
essere scritti in modo veloce, alla meglio, quasi in una forma
stenografica sulla quale lo psicoterapeuta, se ne avrà il tempo
e la voglia, potrà tornare in un secondo momento per fare più
ordine e più chiarezza. Come succede in quasi tutte le attività
umane, questa capacità si acquisisce con l’allenamento e l’e-
sperienza. Prendete appunti in modo sistematico e prendere
appunti diventerà un’attività automatica e poco interferente
con il colloquio.
Capita tuttavia che, nonostante queste cautele, talvolta i ge-
nitori o il ragazzo adolescente (con i bambini è molto raro)
interrompano spontaneamente il colloquio perché, vedendo
che sto scrivendo, vogliono lasciarmi il tempo per finire di ap-
puntare una frase prima di iniziare la successiva. Io in questi
casi ringrazio per la cortesia, ma faccio presente che non serve.
Dico che di solito sono abituato ad appuntare velocemente e
alla meglio le cose essenziali senza bisogno che l’altro inter-
rompa o rallenti il suo discorso. Questa rappresenta anche
un’occasione per spiegare brevemente il significato di quello
che sto facendo. Altre occasioni si presentano quando il pa-
ziente sembra infastidito dal fatto che scriva o comunque mo-
stra di aver notato la cosa. In tutti questi casi credo che sia utile
22 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

spiegare il significato di quello che faccio e riconoscere che in


parte I

certi momenti può essere un po’ fastidioso e può distrarre, ma


che questo per me è molto importante perché mi permette di
ricordare le cose essenziali di quello che ci diciamo e studiarle
quando lo riterrò utile. In queste condizioni può capitare che
un apparente svantaggio del prendere appunti si trasformi in
un punto di forza. Prendere appunti può comunicare che le
cose che il paziente mi sta dicendo sono così importanti per
me che non voglio rischiare di perderle.
Garantire la Il discorso della riservatezza è diverso. È necessario chiarire
riservatezza che gli appunti non potranno essere letti da nessuno. Io lo fac-
cio subito se il paziente mi manifesta in qualche modo, anche
non verbale, questo suo disagio, cosa che mi capita talvolta an-
che con i bambini e non solo con genitori e ragazzi più grandi.
Altrimenti lo faccio alla fine della prima seduta, quando i geni-
tori firmano un modulo per la privacy. Chiarisco che le cartelle
vengono messe in uno schedario chiuso a chiave e che anche
la porta del mio studio è sempre chiusa a chiave. Se credo che
la relazione che si è instaurata tra di noi me lo consenta, faccio
anche scherzosamente notare che queste precauzioni sono do-
vute per legge, ma nel mio caso sono inutili: io scrivo talmente
male che sfido chiunque a decifrare i miei appunti. Talvolta
mostro anche, con un sorriso, i geroglifici che caratterizzano
la mia cartella e spesso vengo ripagato con la restituzione di
un sorriso.
Quando non Ci sono dei casi molto particolari ma molto significativi nei
prendere appunti quali non prendo appunti. Ad un certo punto del colloquio un
genitore o un ragazzo cambia la postura, il tono di voce. È in
imbarazzo o in ansia. In qualche modo mi comunica che quello
che mi sta per dire è molto importante, o molto intimo, o molto
doloroso. Poi inizia a parlare. Anch’io io cambio postura. Mi
sporgo in avanti. Lo guardo negli occhi. Cerco di dare tutta la
mia attenzione a quello che mi sta dicendo. Il foglio di carta e
la penna tra me e lui in questo momento sono di troppo. Po-
trebbero diventare un ostacolo alla relazione. Li sposto da un
lato della scrivania. Adesso siamo solo noi due, le sue parole e
la mia capacità di ascoltarle e di comprenderle. In questi casi
per annotare qualcosa in cartella troverò un altro momento,
spesso dopo che il paziente se ne sarà andato.
Audio e Gli appunti su carta possono essere sostituiti da audio e video-
videoregistrazioni registrazioni. I vantaggi di queste procedure sono eviden-
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 23

ti: tutto avviene in modo automatico, lo psicoterapeuta può

parte I
dedicarsi solo alla relazione con il paziente e resta un docu-
mento prezioso dal quale ricevere feedback, da studiare, da
riascoltare o rivedere con un supervisore, un collega, un grup-
po di ricerca. Le difficoltà nell’uso delle registrazioni audio o
video sono di ordine pratico: la procedura è per certi aspetti
complessa, presuppone che in un secondo momento lo psico-
terapeuta trovi il tempo per sbobinare quello che ha registra-
to e trasformarlo in appunti scritti, necessita ovviamente di
un’autorizzazione formale e questo può dare fastidio a molti
pazienti. Quando queste difficoltà sono superabili le audio e
le videoregistrazioni sono un’alternativa agli appunti cartacei
tradizionali da tenere presente.

16. Cos’è la relazione di aiuto?


Paziente: Sono stanca, Fabio. Non ho più voglia di fare tutti quei Esempio di
compiti di pomeriggio. A volte mi verrebbe voglia di non andare colloquio direttivo
più nemmeno a scuola.

Terapeuta: Aurora, ma perché dici così? Non mi piace quando


parli in questo modo e sai benissimo che i compiti sono importanti.

[Aurora fa un cenno di assenso appena percettibile.]

Terapeuta: Bene, vedo che sei d’accordo con me. Mi raccoman-


do, questa settimana impegnati, anche perché ho controllato il tuo
diario e non mi sembra proprio che ti carichino di compiti, vero?

[Al secondo cenno di assenso il capo di Aurora si abbassa e la


bambina interrompe il contatto oculare.]

Questo è un frammento di colloquio sicuramente non basa-


to sulla relazione di aiuto. Il terapeuta è direttivo, monodire-
zionale, giudicante, interessato al suo punto di vista anziché
all’ascolto del punto di vista di Aurora, delle difficoltà e della
sofferenza della bambina. Sebbene qui la situazione sia rap-
presentata in modo un po’ caricaturale per accentuarne gli
aspetti negativi, spesso il risultato di colloqui di questo gene-
re è la chiusura della comunicazione. In questi casi il rischio è
24 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

che il terapeuta metta al centro della relazione, in modo trop-


parte I

po precipitoso e dunque prematuro, l’analisi oggettiva della si-


tuazione e il consiglio invece che l’empatia, intesa come capa-
cità – letteralmente – di soffrire insieme al paziente o quando
meno di mettersi nei suoi panni e in qualche modo sentire le
sue emozioni.
La relazione di aiuto si basa su principi opposti. Come è ben
noto, nasce dai lavori di Rogers sulla cosiddetta terapia centra-
ta sul paziente e credo che potrebbe essere riassunta nel rove-
www.
sciamento della formula che i poliziotti americani pronuncia-
youtube.com/
watch?v=
no durante l’arresto di un sospetto: “Niente di quello che dirai
_noyj8z81ss potrà essere usato contro di te”.
Parla. Racconta quello che vuoi. Apriti, se e quando ti senti di
farlo. Butta fuori quello che in questo momento ti va di buttar
fuori. Io cercherò di comprenderti anziché giudicarti. Cerche-
rò di rimandarti indietro quello che mi sembra di aver capito:
la tua storia, le tue emozioni, il significato profondo di quello
che stai cercando di raccontami. Nei limiti delle mie capaci-
tà non mi scandalizzerò delle tue parole, non mi spaventerò,
non le userò per formulare una diagnosi o per darti delle pre-
scrizioni. Per ora mi limiterò ad accettarti. La sola cosa che mi
aspetto è che se ti sentirai accettato ti sarà più facile aprirti.
Poi, se ti sarà più facile aprirti, per me sarà un po’ meno diffici-
le comprenderti. Poi, forse tu starai un po’ meglio. Poi, quan-
do avremo cominciato a capire qualcosa insieme, a condividere
un’idea, un bisogno, un desiderio, una speranza o una paura,
cercheremo, sempre insieme, qualche possibile soluzione ai
tuoi problemi.

Vorrei che il lettore concentrasse la sua attenzione su questa


sequenza di “poi” che ho scritto per legare insieme le ultime
La relazione d’aiuto frasi. La relazione di aiuto non esclude un progetto e nemme-
non esclude un no l’utilizzo di tecniche per il cambiamento, ma lo fa con cal-
progetto per il
ma, con comodo, con prudenza e solo dopo che il paziente si
cambiamento
è sentito compreso e sente che i nostri obiettivi sono i suoi.
Forse avrei fatto meglio a scrivere: riconosce i suoi obiettivi e
sente che sono anche i nostri.

Paziente: Sono stanca, Fabio. Non ho più voglia di fare tutti quei
compiti di pomeriggio. A volte mi verrebbe voglia di non andare
più nemmeno a scuola.
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 25

Terapeuta: Ti vedo proprio stanca, Aurora, sfiduciata. Risposta riflessa

parte I
Paziente: Sì, è vero, non ne posso più. Io li facevo i compiti, ma
non andavano mai bene, la maestra aveva sempre qualcosa da ri-
dire.

Terapeuta: Li facevi, ma adesso ti sei stufata.

Paziente: La mamma mi urla sempre. Mi dice che quando è il


momento di fare i compiti la faccio impazzire.

Terapeuta: I compiti ti fanno star male. La mamma ti sgrida,


la maestra non è mai contenta. Hanno finito per farti odiare la
scuola.

Paziente: Non ci voglio più andare a scuola. Aspetto solo che ar-
rivi l’estate.

La cosa che potrebbe colpire di più un occhio inesperto nel


confronto tra il primo e il secondo frammento di colloquio è
che il primo sembra molto più concreto e utile, mentre il se-
condo può apparire inconcludente. In fondo che cosa ha fatto
il terapeuta nel secondo frammento di colloquio? Quasi nien-
te. Ha ripetuto come un pappagallo le cose che Aurora gli ha
detto (il termine tecnico di questo metodo è “risposta rifles-
sa”) e le emozioni che gli ha comunicato.
Un occhio un po’ più allenato, invece, vedrà anche un’altra
cosa: nel primo frammento la bambina si è progressivamente
chiusa; nel secondo si è aperta un po’ di più. Se questa apertu-
ra significa che Aurora si sente compresa e percepisce che lo
scopo dell’altro è aiutarla, allora si sta instaurando, appunto,
una relazione di aiuto, prerequisito di qualunque relazione che
conduca da qualche parte anziché in un vicolo cieco.
Trovo molto interessante notare il rapporto che c’è tra la rela- Il ponte fra
zione di aiuto tipica delle psicoterapie centrate sul cliente e il psicoterapie
comportamentismo di terza generazione. Credo che ci sia un centrate sul
cliente e
ponte tra questi due mondi che potrebbero apparire lontanis- comportamentismo
simi sia per storia che per posizioni teoriche di base. Per storia, di terza
perché un secolo le separa. Per posizioni teoriche di base, per- generazione
ché il manifesto della psicoterapia centrata sul cliente è la non
direttività, mentre quello del comportamentismo è l’efficacia
26 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

delle tecniche. Eppure c’è un punto costituito dal concetto


parte I

centrale di accettazione. La relazione di aiuto presuppone l’ac-


cettazione di tutto ciò che l’altro ci dice. Il comportamentista
di terza generazione riprende questo concetto con alcune do-
mande chiave. Di cosa hai bisogno quando sei in difficoltà, in
ansia, in crisi? Di qualcuno che ti dica: “Non te la prendere”?
Di qualcuno che ti consigli: “Non ci pensare”? Di qualcuno che
ti faccia la diagnosi di disturbo ansioso-depressivo? Di qual-
cuno che sdrammatizzi il tuo problema e, frettolosamente e
superficialmente, ti garantisca che presto ti passerà?
No.
Queste cose probabilmente ti faranno stare ancora peggio.
Forse ti procureranno un iniziale, illusorio e transitorio sol-
lievo, ma poi? Pensaci, dice il comportamentista di terza ge-
nerazione. Ti sarà facile scoprire che in quei momenti avresti
bisogno di un abbraccio, anche metaforico; di qualcuno che ti
tenga la mano, anche se non necessariamente in senso pro-
prio; di sentirti riconosciuto nel tuo dolore. Talvolta avrai per-
sino bisogno del silenzio dell’altro, dentro il quale il tuo dolore
può respirare e trovare spazio; avrai bisogno di qualcuno che
ti permetta di piangere, che ti domandi come ti senti, se sei
triste, o arrabbiato, o spaventato o disperato e che, infine, ti
chieda se può fare qualcosa per te, e ti faccia sentire che è qui
per provare a dartela, questa mano, in modo incondizionato.
Mi sembra che fin qui sia esattamente quello che ci insegna la
relazione di aiuto. Il passo successivo, che fanno i comporta-
mentisti di terza generazione, è di provare ad estendere questi
atteggiamenti di accettazione dal rapporto con l’altro al rap-
porto con se stessi. L’accettazione, nel comportamentismo di
terza generazione, è una specie di relazione di aiuto applicata
ai nostri pensieri e alle nostre emozioni, che in questo modo
proviamo a prendere per quello che sono piuttosto che giudi-
carli e cercare di farli tacere.

La relazione di aiuto prevede di non replicare al paziente: “Io


www.
questa cosa non la voglio sentire”.
youtube.com/ Il comportamentismo di terza generazione prevede di non
watch?v= prescrivere a noi stessi: “Io questo pensiero non lo voglio pen-
nvqadHMettI sare”.
PARTE I - Questioni introduttive e preliminari 27

17. C os’è e come si costruisce l’alleanza

parte I
terapeutica?

I rapporti tra relazione di aiuto e alleanza terapeutica sono


molto stretti. Quando il paziente si sente compreso piuttosto
che giudicato, quando sente che siamo lì per dargli una mano,
allora arriva il momento di stabilire degli obiettivi condivisi.
L’alleanza terapeutica significa decidere di salire insieme sulla
stessa barca per dirigersi verso la stessa meta.
Ricordo i tempi bui nei quali la mamma di un bambino auti-
stico, durante il primo colloquio, piangeva due volte. La prima
volta piangeva raccontandomi il dramma di avere un bambi-
no autistico. La seconda volta piangeva raccontandomi della
neuropsichiatra che le aveva detto che il bambino era così per
colpa sua, per colpa della sua freddezza emotiva e relazionale.
Ricordo episodi purtroppo molto più recenti nei quali i genito-
ri di un bambino ansioso o iperattivo mi hanno raccontato con
infinita tristezza, o un’acredine più o meno repressa, di specia-
listi che hanno detto loro che non avrebbero dovuto compor-
tarsi in un certo modo, perché questo ha prodotto o peggiorato
la sintomatologia del figlio.
Tutto questo è il contrario dell’alleanza terapeutica. Nell’alle- È un’alleanza
anza terapeutica non c’è uno che sa le cose e le dice e l’altro fra pari
che non le sa e le ascolta. Nell’alleanza terapeutica c’è uno che
è esperto di autismo o di disturbi d’ansia o di comportamento
e l’altro che è esperto di Giacomo, o di Giovanni, o di Maria.
Siamo seduti attorno allo stesso tavolo per uno stesso scopo:
trovare insieme strategie per affrontare il problema nel modo
migliore; poi valutare insieme se queste strategie funzionano
e dunque merita di continuare su questa strada, oppure se non
funzionano e allora valutare non dove l’altro ha sbagliato, ma
dove possiamo provare a fare meglio.
Una precisazione: a volte il giudizio dello specialista è pale-
semente sbagliato se non, come nel caso dell’autismo che sa-
rebbe generato dalla madre fredda e anaffettiva, francamente
delirante. Altre volte, da un punto di vista tecnico, può anche
contenere una parte di verità, come nel caso di genitori che
hanno tenuto il figlio a dormire nel lettone fino a sette anni o
che gli hanno comprato il quarto gelato nello stesso pomerig-
gio perché il bambino pestava i piedi e lo pretendeva. Non è
28 100 DOMANDE · La psicoterapia in età evolutiva

questo il punto. Il punto è che un’alleanza terapeutica non può


parte I

partire da un giudizio, giusto o sbagliato che sia, ma deve sca-


turire dalla condivisione di un problema. A volte, durante un
colloquio, un genitore o un adolescente mi chiedono: “È colpa
mia, vero?”. Io di solito replico che faccio lo psicologo, non il
giudice. La colpa non mi serve.
A volte mi capita anche di chiedere ad un tirocinante:
“Ma tu ce l’hai la macchina del tempo?”
Faccio questa domanda quando, dopo un colloquio, il tiroci-
nante mi fa notare che se il papà, quando il bambino aveva tre
anni, non avesse fatto la tal cosa o la mamma avesse fatto la
tal altra adesso il bambino non starebbe così male, non sareb-
be così ansioso o così disregolato. Ovviamente, alla domanda
sulla macchina del tempo il tirocinante mi risponde scuoten-
do la testa. Allora aggiungo:
“Bene, ma se questa macchina non ce l’hai, a cosa ti serve far
notare gli errori che i genitori hanno commesso cinque anni
fa, o un mese fa, o ieri pomeriggio? Sei in grado di tornare
indietro e cancellare questi errori? No? Allora non ti serve a
niente”.
Non si lavora L’alleanza terapeutica non lavora sul passato, che nessuno è in
sul passato grado di cambiare. Lavora sul presente. Se stiamo costruendo
un’alleanza terapeutica non si dirà a un dodicenne che ha pre-
so un 4 in matematica perché non ha studiato, ma si cercherà
di riflettere insieme a lui su cosa può fare adesso per prendere
una sufficienza.
Poco fa parlavo della possibilità, piuttosto frequente, che un
genitore pianga durante una seduta. Capita spesso che, alle
prime lacrime, tenti di tirare su col naso, chieda scusa per que-
sta debolezza che non si aspettava di avere e cerchi di smette-
re. Io lo guardo, mi sporgo in avanti, abbozzo un sorriso, pren-
do la scatola di fazzoletti di carta che tengo sulla scrivania,
gliela porgo e lo rassicuro che non c’è davvero niente di strano
né tantomeno di male in quello che sta succedendo. Talvolta,
se la situazione e le circostanze me lo consigliano, aggiungo
che va bene così.
Una volta una mamma mi ha detto una frase che mi sembra
rappresenti bene cos’è l’alleanza terapeutica. Tra le lacrime,
guardando la scatola dei fazzoletti di carta che le porgevo, mi
ha detto:
“Vedo che questo è un posto dove si piange”.

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