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RIDUZIONE DALLA FILOSOFIA DEL DIRITTO

ALLA FILOSOFIA DELL’ECONOMIA

INTRODUZIONE:
La “Riduzione” è una memoria Pontaniana, cioè una relazione che Croce ha
tenuto all’ Accademia Pontaniana di Napoli che è una delle più antiche
accademie scientifiche italiane nella primavera del 1907 e pubblicata nello
stesso anno negli atti dell’Accademia stessa. Questa viene indicata da
Croce come parte dei lavori preparatori di un libro che Croce aveva in
preparazione in quel periodo dedicato alla filosofia della pratica.
L’Accademia Pontaniana rappresenta per Croce un banco di prova, dove
questo studioso a messo alla prova il proprio pensiero in vista della
scrittura di libri importanti come lo è “La Filosofia della pratica”.
La prima edizione del libro appare nel 1907, dopo di che, accade che
essendo la “Riduzione” parte dei lavori preparatori della “Filosofia della
pratica” la cui pubblicazione è avvenuta nel 1909, Croce ritiene che non sia
più necessario ripubblicare la memoria Pontaniana del 1907, poiché questa
è inclusa all’interno della “Filosofia della Pratica”, quindi questo libro non
entra a far parte del “corpus” delle opere di Benedetto Croce. Il filosofo è
stato un attentissimo editore delle proprie opere, egli stesso infatti, ha
progettato una articolata sistemazione della propria produzione
scientifica. Ciascuna di queste opere ha avuto una nuova edizione, la quale
aveva la funzione di correggere errori presenti nelle precedenti edizioni o
semplicemente per aggiornarli. Agli inizi degli anni 80, un gruppo di studiosi
ha messo in piedi una impresa scientifica che è “L’edizione Nazionale delle
opere di Benedetto Croce”, la quale, cosi come tutte le altre edizioni
Nazionali, è approvata e poi sostenuta dalla Presidenza della Repubblica; si
tratta di una nuova edizione critica delle opere di Croce, che tiene conto
del disegno che l’autore stesso aveva fatto della sua opera. Ma neanche
all’interno dell’edizione Nazionale l’opera ha trovato fortuna. E’ successo
invece che nel 1926
servendosi della collaborazione del giovane studioso Adelchi Attisani,
Salentino di nascita ma Siciliano di formazione, Croce decide di pubblicare
una nuova edizione, sostanzialmente una ristampa della Riduzione,
all’interno di un volumetto èdito da un editore Napoletano che si chiamava
Ricciardi, con una piccola nota di lettura scritta da Attisani e una piccola
appendice di alcuni saggi che secondo Croce e Attisani avrebbero
opportunamente accompagnato la “Riduzione”. L’ipotesi del perché Croce
volle ripubblicare la “Riduzione” nel 26 trova probabilmente il suo
fondamento nella rottura dei rapporti con Giovanni Gentile, quando alcuni
allievi di quest’ultimo iniziano ad attaccare Croce, mettendo in circolazione
una voce, quasi certamente senza alcun fondamento, ovvero che ciò che
Croce sapeva di Filosofia lo aveva imparato da Gentile e il suo
allontanamento proprio da Gentile avrebbe causato una sorta di
corruzione della sua filosofia. Di fronte a queste accuse, decide di rimettere
quindi in circolazione le opere che erano state preparatorie dei grandi
volumi che costituiscono la “Filosofia dello Spirito”, cioè del suo sistema
filosofico. Queste opere preparatorie sono tutte memorie Pontaniane:
“Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione linguistica
generale” (1900), “I lineamenti di una logica come scienza del concetto
pure” (1905), “Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia
dell’economia”(1907). La ripubblicazione negli anni 20 di queste opere
avviene in questo modo: nel 1925 vengono pubblicate insieme le prime
due, in un unico libro èdito da un editore Messinese, che ha per titolo: “La
prima forma dell’estetica e della logica, memorie accademiche del 1900 e
del 1904/05”. Nel 1926 invece, viene ripubblicata la “Riduzione”.
Il rapporto tra la “Riduzione” e la “Filosofia della pratica” è molto
problematico, a differenza delle “Tesi fondamentali di estetica” che se
confrontato con “Il grande libro sull’estetica”, la cui prima edizione è del
1902, si può ravvisare una grande somiglianza tra le due opere. Lo stesso
può dirsi per quanto riguarda “I lineamenti di logica” e “Il libro sulla logica”,
la parte teoretica è infatti anticipata nella memoria preparatoria a cui si
aggiunge una parte storica contenuta nel “Libro sulla logica”. Confrontando
invece la “Riduzione” con “La Filosofia della Pratica”, è possibile accorgersi
che le due opere si somigliano molto poco, soprattutto nella terza parte
della “Filosofia della Pratica” che è una parte dedicata alle leggi, e anche
nelle parti in cui le due opere si somigliano, Croce ha sostanzialmente
riconfigurato e riscritto le pagine che aveva già precedentemente
approntato per la riduzione. Questo libro viene pensato e scritto nei primi
mesi del 1907, periodo per Croce di importante riflessione Filosofica sul
suo sistema di pensiero.
La Filosofia dello spirito si articola in due grandi dominii: 1) Dominio
Teoretico e cioè il campo della conoscenza;2) Dominio pratico e cioè il
campo della volontà e dell’azione. Ogni dominio si divide a sua volta in due
forme dette anche gradi, perché queste due forme sono in una
connessione graduata tra loro. Il dominio teoretico si articola e distingue in
un primo grado della conoscenza che croce denomina estetica e in un
secondo grado della conoscenza che Croce denomina logica; il primo grado
della conoscenza ha a che fare con l’intuizione e con l’espressione ed è una
forma di conoscenza preconcettuale che ha a che fare con l’intuizione,
mediante la quale percepiamo per esempio la bellezza di un’opera d’arte;
il secondo grado della conoscenza è il grado della logica, ed è questa invece
la conoscenza concettuale, propria della storia e della filosofia che ci
consente di operare in modo critico e concettuale, capendo il significato di
un’opera ad esempio. Questa medesima articolazione si trova anche
all’interno dello spirito pratico, quindi del dominio pratico della filosofia di
Croce, con un primo grado che Croce denomina dell’economica e un
secondo grado dell’etica. Il primo grado è della volizione, cioè della volontà
tesa a conseguire da parte del soggetto che agisce una convenienza per
soddisfare il suo utile individuale; il secondo grado, cioè il grado dell’etica
è invece volto a conseguire un risultato universale poiché questa azione
non consegue come nel primo grado solo la convenienza per il soggetto
che agisce ma produce il bene, la quale è un’azione conforme ai princìpi
dell’etica e della morale.
Il 1907 è un momento in cui “Il forno di cottura della filosofia dello spirito
è alla sua massima temperatura”, Croce sta progettando la terza edizione
dell’estetica del1908 che costituirà il primo volume della “Filosofia dello
spirito”, sta pensando di dover fare una seconda edizione della logica nel
1909 che costituirà il secondo volume e ha nel 1907, appena iniziato a
progettare ed elaborare la “Filosofia della pratica”; questo libro che a
differenza dei libri dell’Estetica e della Logica contiene in se la Filosofia
della pratica, sia le pagine relative al primo grado pratico e cioè all’azione
economica, sia le pagine relative al secondo grado pratico e cioè l’azione
etica. Sono questi allora i mesi e gli anni in cui Croce sta pensando con
grande impegno alla struttura del suo sistema filosofico e ciò si riversa sulle
pagine della “Riduzione”.
Croce nel periodo di composizione delle sue opere più importanti vi dedica
molto tempo e l’inizio del 1907 è dedicato alla “Filosofia della pratica”,
precisamente croce inizia gli studi per la Filosofia della pratica il 16
Febbraio 1907; a partire da questa data quindi Croce è impegnato nelle
letture filosofiche che gli servono a preparare quest’opera. Accade però
molto presto che la sua attenzione inizi a riorientarsi verso gli studi della
Filosofia del diritto i quali hanno a che fare con il volere con l’agire e quindi
sono assolutamente parte della “Filosofia della Pratica”. Inizia quindi a
leggere libri e a riflettere sui problemi della Filosofia del diritto. Da un certo
momento in poi, precisamente il 30 Marzo, Croce inizia a pensare che
questi appunti che stava prendendo sulla filosofia del diritto li avrebbe fatti
convergere in uno scritto da presentare all’ Accademia Pontaniana. Questa
presentazione si avrà di lì a breve, il 21 Aprile dello stesso anno legge la
prima parte della Riduzione e il 5 Maggio la seconda, chiudendo la
presentazione. Parte degli studiosi è stata indotta a pensare alla
“Riduzione” come una specie di divagazione su un tema specifico, quello
del diritto, che Croce si sarebbe concesso per animare una sorta di
polemica contro la Filosofia del diritto e i Filosofi del diritto; Questa lettura
ha di fatto accreditato un’interpretazione, forse errata, della “Riduzione”,
come di un testo vivace, essenzialmente polemico, di battaglia contro la
Filosofia e i Filosofi del diritto. In realtà la “Riduzione” si presenta come un
vero e proprio libro di Filosofia del diritto in cui vengono tematizzati i
problemi centrali ed essenziali della Filosofia del diritto.
Questa tesi è sostenuta dal fatto che Croce non si sarebbe mai consentito
nei giorni di preparazione di Filosofia della pratica una divagazione
polemica, a meno che questa non fosse indispensabile per cogliere alcuni
aspetti centrali della “Filosofia della pratica”.

I PARTE
LA CONTRADDIZIONE INTERNA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO

Pagg.7 – 10
“Come filosofia” vuol dire che l’oggetto di riflessione è propriamente il
carattere filosofico della conoscenza veicolata da queste trattazioni, da
questi libri, un carattere filosofico che va rivendicato e difeso nei confronti
di ipotesi differenti di Riduzione. Quando queste trattazioni vengono fatte
oggetto di esame come filosofia la specificità del problema gnoseologico
riguarda l’autonomia della conoscenza filosofica rispetto ad altre forme
della conoscenza; quando invece le trattazioni di filosofia del diritto siano
fatte oggetto di esame dal punto di vista della filosofia del diritto, questo
significa che l’oggetto di riflessione è questa volta il modo in cui queste
trattazioni abbiano affrontato e risolto il loro particolare problema.
Secondo Croce questo problema è quello della natura del diritto, in questo
caso quindi la specificità del problema gnoseologico riguarda l’autonomia
dell’oggetto della conoscenza filosofico-giuridica rispetto ad altri oggetti
differenti.
Alla base di queste trattazioni Croce riscontrava una serie di affermazioni
corrette e condivisibili, ma sostanzialmente inutili, una serie di osservazioni
attraverso le quali – dice Croce – non ci siamo neanche avvicinati al
problema vero e proprio della filosofia del diritto.
“Funzione pratica della filosofia del diritto” è una concezione molto
radicata negli studi di Filosofia del diritto di fine 800 e inizi 900, un’opera
di uno studioso importante di filosofia del diritto, Icilio Vanni, si intitola
proprio “Funzione pratica della filosofia del diritto”. Il problema che Croce
sta affrontando quindi è che i libri di filosofia del diritto, le trattazioni a cui
ha volto le sue attenzioni gli appaiono sterili, vuote, come se i filosofi del
diritto si stessero occupando di essenzialmente di problemi marginali,
senza che si siano realmente occupati di quello che secondo Croce è il vero
tema della filosofia del diritto e cioè la natura del diritto. Queste tesi
relative al carattere antiempirico e antigiusnaturalista della filosofia del
diritto, sono tesi che Croce condivide ma che ci mantengono ancora fuori
dal dominio vero della filosofia del diritto, per entrare in questo dominio
infatti, occorre cambiare prospettiva e andare invece ad osservare il
problema specifico della natura del diritto. Questo problema non è
affrontato nei libri che Croce ha letto, o per lo meno questo è affrontato
dall’autore in maniera superficiale, mentre proprio questo dovrebbe
essere il tema centrale del libro. Questi libri contengono una serie di dati
storici, schematismi giuridici quindi, sembrano libri di Storia Universale, di
teoria del diritto, di politica del diritto o del diritto naturale, magari gli sessi
libri che contengono anche le affermazioni per cui la filosofia non deve
ridursi a questi atteggiamenti. Ma quello che realmente a Croce interessa
sono quelle poche pagine, talvolta nascoste vergognose nella selva delle
discussioni estranee, che hanno come oggetto la natura, il concetto e il
fondamento del diritto. Il problema quindi a cui Croce rivolge il problema
è quello della definizione del diritto, che i giuristi cercano da sempre e che
non sono mai riusciti a trovare. Questo problema viene riconfigurato da
Croce nei termini del problema della distinzione del diritto dalla morale. Da
un certo punto di vista queste affermazioni di Croce, e cioè definire la
natura del diritto un problema filosofico e che storicamente questa natura
del diritto si è definita distinguendo il diritto dalla morale, si identificano
nel pensiero di Croce, poiché per Croce storia e filosofia devono
identificarsi, a maggior ragione la filosofia e la storia della filosofia. Questo
rapporto tra diritto e morale, che lo studioso von Jhering chiamava il capo
Horn, il capo delle tempeste, un posto in cui è difficile navigare, cioè un
posto in cui coloro i quali hanno provato a navigare hanno fatto naufragio;
questa metafora serve a far comprendere che l’indole, il carattere
dell’attività giuridica rimane ancora oscura, questa distinzione del diritto
dalla morale non ha conseguito ancora la necessaria chiarezza, il carattere
giuridico è rimasto oscuro e non si è riuscito a distinguerlo ancora da quello
dell’etica. Proprio per la natura cosi insidiosa di capo Horn dove coloro i
quali si sono avventurati hanno fatto naufragio, la distinzione non è stata
ancora conseguita non si è riusciti ancora a distinguere il diritto dalla
morale, e ci hanno provato un po' i grandi nomi della filosofia, ci ha provato
Cristiano Tomasius, ci ha provato Kant, Hegel, ma se nessuno di questi è
riuscito a trovare questa distinzione – dice Croce- probabilmente questa
non esiste e, se la distinzione non esiste, allora bisogna rassegnarsi e
ridurre la filosofia del diritto all’interno dell’etica, lasciando che questa
assorba al suo interno la filosofia del diritto. I filosofi del diritto non ci
stanno a questa conclusione, ma non riescono a dire secondo Croce in cosa
consiste la distinzione, e questo è il motivo per cui resistono
ostinatamente, ma quello che resiste ostinatamente non è una precisa
coscienza di come il problema debba risolversi. Secondo Croce la storia
della filosofia del diritto è la storia dei tentativi di distinguere il diritto dalla
morale, e questo è il motivo per cui la storia della filosofia del diritto è una
storia ormai recente che comincia solo nel momento in cui con rigore di
pensiero il filosofo è stato capace di porre, affrontare e a suo modo
risolvere – in modo insoddisfacente secondo Croce – il problema della
distinzione del diritto dalla morale. Questa tesi rappresenta uno dei punti
essenziali di continuità tra la riduzione e la filosofia della pratica. La storia
della filosofia del diritto potrebbe sembrare per come Croce ce l’ha
proposta, la storia dei continui e ripetuti fallimenti nel tentativo di
distinguere il diritto dalla morale, ma questa in realtà è una storia che come
Croce stesso afferma nella seconda parte ha in realtà portato un contributo
decisivo non solo alla chiarificazione del problema specifico della filosofia
del diritto, e dunque al problema della definizione del diritto mediante la
distinzione del diritto dalla morale, ma questo ostinato atteggiamento del
filosofo del diritto di fronte al suo problema centrale, ha prodotto un
risultato importantissimo per l’intera storia del diritto occidentale.

Pag.8
Croce fa riferimento all’estetica poiché questa è il primo grado della
conoscenza e quindi occupa all’interno dello spirito teoretico, la posizione
corrispondente a quella che il diritto, l’economia, la politica, l’economica
occupa all’interno dello spirito pratico. Quindi Croce ci sta mostrando
un’analogia fatta in questo modo: fino al momento in cui non si è pervenuti
quanto meno a tematizzare il problema della distinzione, l’etica aveva
assorbito in se il problema del diritto, e ciò è esattamente quello che nel
campo della teoria della conoscenza è accaduto nel rapporto tra la logica e
l’estetica, cioè fino al momento in cui la filosofia occidentale non è stat in
grado di determinare il campo dell’estetica come campo autonomo della
conoscenza, i problemi dell’estetica erano stati sostanzialmente assorbiti
dalla logica. Via via, l’estetica dal lato teoretico e l’economica dal lato
pratico, hanno cominciato a guadagnare progressivamente un’autonomia
rispetto a quello che era il nucleo fondante della teoria della conoscenza,
la logica, della teoria del volere e dell’agire, l’etica. Croce quindi in poche
righe ci sta spiegando che anche l’estetica all’interno del proprio dominio
ha sofferto dei tentativi di riduzione del tutto identici corrispondenti a
quelli che avrebbe subito la filosofia del diritto ( tentativi di riduzione a
storia dell’arte, a sociologia estetica, a semplice dottrina generale dei
concetti letterari e artistici, a costruzione di modelli e tipi di bellezza).
Questione della funzione pratica: la filosofia del diritto e della pratica, non
possono avere una funzione pratica. (Pag. 52) Il fatto che la filosofia della
pratica e dunque anche la filosofia del diritto abbia come proprio oggetto
di studio una modalità dell’agire dell’uomo, ha creato questa confusione
che la filosofia della pratica, diversamente dal altri campi della filosofia,
come la logica per esempio, possa essa stessa direttamente essere
normativa, cioè prescrivere un dovere e questo dubbio Croce intende
fugarlo in modo netto e categorico: la filosofia della pratica è come ogni
altro campo della filosofia, e cioè pura conoscenza e non ha non può avere
alcuna funzione pratica. La questione è interessante dal punto dal punto di
vista concettuale e storico, perché riflettendo proprio sulla filosofia del
diritto, Croce ha messo definitivamente in chiaro nella sua riflessione
questo punto e quindi anche in questo senso la Riduzione, mostra il suo
carattere preparatorio rispetto alla filosofia della pratica.

Pag.10
Il problema della distinzione tra diritto e morale è un problema che ha una
storia un po' più complessa e può essere rappresentata in questi termini:
la filosofia del diritto comincia quando viene presa sul serio la distinzione,
non c’è filosofia del diritto quando la distinzione non viene presa sul serio;
non prendere sul serio la distinzione significa in modi diversi ridurre un
termine all’altro e quindi far scomparire la distinzione dei termini, perché
non sussistono più uno accanto all’altro distinti, ma uno ha assorbito
l’altro. Evidentemente se due sono i termini di cui stiamo discutendo, due
sono le possibilità che storicamente si danno: in un caso l’assorbimento del
diritto nell’etica e, nell’altro caso l’assorbimento dell’etica nel diritto. Il
problema della distinzione è rimasto – secondo Croce – ignoto, tanto alla
filosofia greca, con Aristotele e della sua riflessione sulla giustizia nelle
pagine del V libro dell’etica nicomachea, tanto nella tradizione della
giurisprudenza romana. La riflessione filosofica classica avrebbe tenuto
come ignorato il problema della distinzione; appena un barlume di questa
distinzione – dice – si può rintracciare nella distinzione rozza di un diritto
naturale e un diritto positivo. Questa distinzione è “rozza” perché è una
distinzione per un verso ingenua e per un verso ingannevole poichè
confonde, infatti all’interno di una filosofia rigorosa o il diritto è uno o non
è, se nel sistema filosofico della filosofia del diritto due sono i concetti del
diritto, naturale e positivo, è come se non avessimo nessun concetto del
diritto. Lo stesso problema e cioè la mancanza di una vera e propria
distinzione, avrebbe caratterizzato anche la tradizionale riflessione
filosofica sulla forza e sull’utilità tra i cui iniziatori Croce annovera i nomi di
Protagora e Carneide mentre tra i massimi esponenti della filosofia
moderna indica i nomi di Hobbes e Spinoza. Dunque se i termini che
dobbiamo distinguere, diritto e morale, cadono, perché ne resta solo uno
che assorbe in se l’altro, cade il problema della distinzione e se cade il
problema della distinzione, cade il problema stesso della filosofia del
diritto, ecco quindi cosa significa che la filosofia del diritto ha una storia
recente la quale coincide con la rigorosa concettualizzazione del problema
della distinzione e comincerebbe con Cristiano Thomasius, perché egli
avrebbe avuto la forza di tematizzare in modo rigoroso il problema della
distinzione e non di risolverlo. Croce infatti non è assolutamente persuaso
dalla soluzione che Thomasius prospetta circa il problema della distinzione
perché è una soluzione non rigorosa dal punto di vista filosofico, gli
riconosce però il merito di aver visto questo problema, di averlo affrontato
con rigore di pensiero e di averlo imposto alla filosofia del diritto,
costringendo quindi i filosofi del diritto che sono venuti dopo di lui a
confrontarsi con questo problema, dei quali nessuno è riuscito a trovare la
soluzione. Cristiano Thomasius era un giurista e filosofo tedesco nato a
Lipsia nel 1655. Ha studiato prima la filosofia e poi il diritto e dopo la laurea
per un certo periodo di tempo si dedicò alla professione di avvocato,
parallelamente tenendo degli insegnamenti presso l’Università di Lipsia e
qui per esempio, uno degli aneddoti più noti è la sua ferma convinzione
della necessità di tenere i propri corsi in tedesco e non in latino,
probabilmente per raggiungere un pubblico più vasto. Nel 1690 si
trasferisce a Berlino e comincia a insegnare la filosofia del diritto, che allora
si chiamava il diritto di natura e delle genti e, negli anni ultimi del 600 e
primissimi del 700, scrisse le sue più importanti opere giuridiche, tra cui i
“Fundamenta iuris naturae et gentium”; è un’opera che va in prima
edizione nel 1705 e che diede grande fama e prestigio a questo studioso.
All’interno dell’opera vi è la prospettazione sistematica della distinzione
del diritto dalla morale. Per la verità il discorso di Thomasius è più
articolato, infatti ritiene che per esplicitare nel modo più corretto possibile
il rapporto tra il diritto e la morale occorra articolare questa distinzione
all’interno di una più complessa determinazione delle forme della vita
pratica, e cioè distinguendo il diritto la morale e il costume. I campi quindi
del normativo che per Thomasius occorre distinguere non sono due, ma
tre, occorrono quindi due elementi differenziali. Per Thomasius l’uomo
ricerca la felicità e per conseguirla deve procurare la pace, inducendo
l’uomo a vivere in conformità dei principi dell’honestum, del decorum e del
iustum. Se ognuna di queste qualificazione del comportamento umano non
esclude le altre, il fatto che non siano in cottraddizione non significa che
non siano puntualmente distinti. Thomasius li distingue individuando il
principio che orienta l’agire dell’uomo se vuole vivere in conformità
dell’onestum, del decorum o del iustum. L’honestum: quello che vuoi che
gli altri facciano a se stessi fai a te stesso. L’honestum è il principio che
governa la sfera della morale, la regola fondamentale nell’ambito della
morale è la regola del pentimento, la presa di coscienza della propria
stoltezza, quindi questo principio procura una pace interna, consentendo
all’uomo di stare bene con se stesso. Particolarmente efficace a sostegno
di questo principio è l’esempio, dare l’esempio agli altri, quindi il modo in
cui si induce l’uomo a comportarsi in conformità con il principio
dell’honestum è in via privilegiata il buon esempio. Di fronte ad ognuno dei
principi del normativo, Thomasius fa anche un’altra riflessione, e cioè
riflette sul modo in cui conformare la propria vita ad un principio consenta
di evitare il male e produrre il bene; nel caso dell’honestum, il male che
viene evitato è minimo, l’inosservanza di questa regola di condotta infatti,
non coinvolge in nessun modo gli altri uomini e non nuoce che al soggetto
stesso; invece il bene che viene prodotto da questo orientamento del
comportamento umano, è un bene massimo esso mostra infatti la via per
il raggiungimento della saggezza, della pace interiore, della realizzazione
dell’individuo nel suo autentico essere. Il decorum: quello che vuoi che gli
altri facciano a te fai a loro. La regola fondamentale nell’ambito
dell’opportunità, del costume, della convenienza sociale è quella della
spontanea remissione dei debiti e cioè dare agli altri anche ciò che non si è
costretti giuridicamente a dare. Questo principio del decorum, promuove
la socialità ma non garantisce la pace esterna, a sostegno del decorum è
particolarmente efficace il premio, quindi io posso indurre gli altri a
comportarsi secondo questo principio premiandoli; in questo caso il male
evitato è medio, non è sufficiente e neanche strettamente necessario
osservare il principio del decorum per evitare la guerra e l’odio; anche il
bene prodotto è medio, esso mostra infatti il modo in cui ci si possa
procurare degli amici, guadagnare la loro gratitudine, la loro riconoscenza.
Il iustum: quello che non vuoi sia fatto a te non fare all’altro. Dunque la
regola fondamentale nell’ambito del iustum e quindi nell’ambito della
giuridicità, è il rispetto degli altri, il non impedimento del godimento da
parte degli altri dei loro diritti. Questo principio non promuove la socialità,
ma evita che sia turbata la pace esterna. Particolarmente efficace a
sostegno di questo principio è la sanzione, quindi, per indurre un soggetto
a comportarsi in modo conforme al principio del iustum bisogna minacciare
una sanzione per il comportamento contrario. Il male evitato è massimo,
perché solo l’osservanza di questo principio, consente di evitare ciò che è
causa della guerra e dell’odio; il bene prodotto da questo peculiare
orientamento del comportamento umano invece è minimo, perché non c’è
alcun lavoro del soggetto su sè stesso e non c’è alcuna apertura verso
l’altro e quindi il comportarsi secondo il principio del iustum non agevola il
procurarsi degli amici. E’ chiaro che a conclusione di questa articolata
costruzione prospettata da Thomasius, quello che rileva è la
determinazione del iustum come categoria della giuridicità autonoma
rispetto alle altre forme della vita pratica. Quella di Thomasius non è una
novità assoluta nella tradizione del pensiero occidentale, ma certamente
rappresenta la più compiuta, coerente e sistematica distinzione tra diritto
morale e costume. La novità essenziale è la determinazione del iustum
come categoria autonoma della giuridicità, e vi sono dei caratteri di questa
autonomia, degli elementi che contraddistinguono la natura del diritto. Il
primo di questi elementi è l’esteriorità o si può anche dire
l’intersoggettività del comportamento giuridico che comporta il
riferimento dell’azione umana ad almeno due persone e quindi la
produzione di un’ obbligazione esterna al soggetto; si è visto infatti che la
massima dell’honestum invita ciascuno a lavorare su se stesso, avendo
certamente presenti gli altri, ma l’attenzione è focalizzata su se stesso,
quindi gli altri non sono che un inerte termine di paragone, con i quali non
c’è relazione. Questo distingue il diritto dalla morale, ma non ancora il
diritto dal costume, perché l’elemento della socialità, della
intersoggettività, dell’esteriorità è un elemento che caratterizza tanto il
principio del decorum quanto il principio del iustum. Dunque
l’intersoggettività è insufficiente come carattere saliente dell’autonomia
del giuridico, perché appunto non lo distingue dal decorum, e perché
invece questa autonomia del giuridico sia data è necessario che accanto
all’intersoggettività vi sia anche il carattere della coercibilità del
comportamento giuridico, che comporta il riferimento dell’obbligazione
giuridica, un dovere esterno al soggetto e coinvolgente almeno un’altra
persona, al timore della coazione esercitata dagli altri uomini, occorre
appunto la minaccia della sanzione. Questo distingue il diritto non solo
dalla morale ma anche dal costume, perché l’elemento della coercibilità si
manifesta in esplicita opposizione al comportamento socialmente
conveniente tipico del decorum al quale nessuno può essere costretto
(dono), pena il venir meno del valore intrinseco del decorum. Thomasius
non lo dice ma potrebbe essere interessante osservare che un ulteriore
carattere differenziale specificativo del carattere dell’esteriorità e
complementare rispetto a esso, si può ravvisare anche nel dovere di non
fare distinto dal dovere di fare, quindi la differenza tra la prescrizione di
una condotta omissiva (non fare all’altro) e la prescrizione di una condotta
attiva (fai all’altro). Rapporto tra bene prodotto e male evitato: c’è
sostanzialmente una sorta di polarizzazione, da una parte c’è la morale
dove il male evitato è minimo e il bene prodotto è massimo, dall’altra parte
si trova il diritto dove il bene prodotto è minimo e il male evitato è massimo
e al centro di questa polarità si trova il decorum che esprime valori medi
rispetto a entrambi i parametri. E’ chiaro che per intenderlo a pieno
bisogna collocarsi nella prospettiva di Thomasius, dove il bene massimo
che si possa garantire alla vita di un uomo, è quella di vivere secondo i
dettami della saggezza, di conseguire la pace interiore, di realizzarsi come
uomo, ed è chiaro che invece la questione del male evitato al suo livello
massimo è la garanzia della pace sociale, cioè garantire che non co siano
termini di conflitto, di odio, di guerra. Si può quindi dire che l’honestum ha
una proiezione tutta interiore, invece il decorum e il iustum hanno una
proiezione esteriore.
Pag.13
Il problema della distinzione: “il diritto è qualcosa di più o qualcosa di meno
rispetto alla morale”, sembra un modo approssimativo di dire la cosa, che
fa tornare alla mente l’altra espressione utilizzata “una certa confusa
coscienza”, ed è proprio questo che Croce sta dicendo, il filosofo del diritto
ha una certa confusa coscienza e cioè riconoscere il diritto è qualcosa di più
o qualcosa di meno rispetto alla morale, riconosce che c’è il problema della
distinzione anche se la coscienza è ancora confusa perché non sa risolverlo
e che perciò non riesce a farlo coincidere con questa, come due figure
diverse, un triangolo e un quadrato non combaceranno mai tra loro.
Termine significativo nel lessico filosofico di Croce: distinzione. Distinguere
per Croce significa differenziare da un certo punto di vista, ma anche
coordinare. Questo esercizio di pensiero presuppone necessariamente da
parte di chi voglia compierlo, una qualche intelligenza del rapporto latu
sensu analogico tra i due oggetti o concetti che si vogliono distinguere. Si
ha difficoltà a distinguere due cose che sembrano non avere nulla in
comune, che non hanno niente a che fare l’una con l’altra, perché non
capiamo il senso della distinzione e nella filosofia Crociana questo è un
problema centrale. Le forme dello spirito seno distinte, non separate; ciò
significa che la loro autonomia è quella di due gradi che sono
contemporaneamente distinti e uniti tra loro. Questo essere uniti e distinti
insieme, nello specifico significa che il primo grado può essere concepito
come indipendente dal secondo, ad esempio l’economica può essere
concepita come indipendente dall’etica, mentre invece il secondo grado
non è concepibile senza il primo, e questo è il momento dell’unità. Se
mancasse quindi la prima determinazione, cioè se mancasse il momento
della distinzione si avrebbe l’identità delle forme dello spirito, se mancasse
invece la seconda determinazione, ovvero il momento dell’unità, si
avrebbe una astratta separazione di esse, invece le forme dello spirito non
sono separate, ma distinte tra loro e questo per Croce significa che sono
sempre contemporaneamente unite tra loro.
Pag.14
Croce ci propone un’altra immagine, che si può coordinare con quella del
capo Horn. Croce sta dicendo che nel momento in cui Thomasius propone
alla cultura filosofica moderna, questa rappresentazione così articolata
della distinzione tra diritto e morale individuando l’esistenza di un quid
distintivo, di caratteri che distinguerebbero il diritto dalla morale, succede
che da questo momento in poi il filosofo del diritto non può far altro che
confrontarsi con questo problema anche se non sa ancora risolverlo.
Questa volta lo dice con una metafora meno avventurosa e più fastidiosa,
perché descrive una sensazione che tutti provano almeno una volta,
ovvero l’ingestione di qualcosa che pesa sullo stomaco che per un verso
non siamo in grado di digerire ed è per questo che da fastidio che la sua
presenza dà fastidio, e dell’altro verso è una cosa che non si può espellere,
tramite il vomito, cosa che in genere da una sensazione di liberazione e
questo è esattamente secondo Croce quello che accade con la
proposizione da parte di Thomasius di questo problema, che va a collocarsi
sullo stomaco del filosofo del diritto, il quale non è in grado di eliminarlo
perché significherebbe ritornare ad una innocenza antica che ormai si è
perduta; cioè che questo problema è centrale il filosofo del diritto ne ha
consapevolezza, sia pure una certa confusa consapevolezza, ma del resto
non è in grado di dominarlo perché non lo sa ancora risolverlo, perché per
farlo bisogna intendere il problema nella sua precisa consistenza filosofica
e averne quindi una reale conoscenza che non si è ancora però raggiunta.
Questa è la condizione in cui secondo Croce si trova la filosofia del diritto,
che è una condizione morbosa.
Formola: è un’espressione tipica che Croce adopera con il senso di uno
schema, di una rappresentazione di un concetto empirico o uno
pseudoconcetto, cioè un falso concetto, un qualcosa che imita le
sembianze del concetto, rispetto al quale ha un carattere pratico e cioè ha
una funzione mnemonica per mettere in ordine le conoscenze che si sono
diversamente conseguite. Perché il concetto empirico viene adoperato
all’interno del giudizio empirico (pseudogiudizio), che è sostanzialmente un
giudizio classificatorio che colloca un elemento empirico all’interno di una
classe e questo è il modo in cui funzionano tutte le scienze empiriche e tra
queste la scienza giuridica, che è una scienza classificatoria e proprio per
questo motivo per Croce non ha carattere filosofico, cioè non consegue
una conoscenza filosofica, ma serve ad ordinare il sapere. Nella domanda
di par.6 a pag. 14 c’è già la risposta del perché Croce non è soddisfatto della
soluzione offerta da Thomasius: perché secondo Croce, la soluzione offerta
dal filosofo tedesco è una soluzione empirica, che si serve di formole e non
di concetti, quindi molto interessante e utile nel campo delle scienze
empiriche ma è una soluzione che non ha una reale dignità filosofica.
Anzitutto Croce denuncia il carattere empirico del concetto di coazione,
che quindi non è un vero concetto, ma uno pseudoconcetto, una formola,
dice che ha un carattere irrazionale, ovvero diverso dal carattere razionale
che è proprio del pensiero filosofico. Quello di coazione non è dunque un
concetto rigoroso e quindi non è un concetto che può appartenere al
dominio della filosofia e quindi alla filosofia del diritto. Questo carattere
empirico, non rigoroso del concetto di coazione sarebbe provato,
testimoniato, da alcune tra le più consuete obiezioni che sono state
sollevate dal concetto di coazione.
pag.15-16-17
Se si osservano queste obiezioni, sostanzialmente si vede che il concetto di
coazione non regge, e che per provare a reggere viene dai suoi sostenitori
smussato, rielaborato nel concetto di coazione psicologica, e cioè di
condizionamento, di induzione, di persuasione di un soggetto rispetto ad
un altro quindi ci si può rendere conto che si va sempre più vicini al
concetto di azione, perché la coazione, in qualsiasi sua accezione,
non esclude l’iniziativa del soggetto, non esclude la sua volontà, agisce
quindi sempre libero. Se un uomo si piega alla volontà di un altro uomo, lo
fa solo perché in quelle particolari circostanze date, sempre condizionato
dalla realtà storica che lo circonda, dunque sempre coatto, egli riconosce
che comportarsi in questo modo gli è utile, gli consente di massimizzare i
vantaggi o quantomeno di minimizzare gli svantaggi, in ogni caso questo
soggetto fa propria la volontà altrui e cioè vuole per suo conto. L’azione
quindi è sempre libera e coatta, spontanea e costretta. E’ sempre forza tra
le forze delle circostanze date, l’uomo agisce sempre come forza e quindi
liberamente, ma condizionato dalle forze che ha intorno. Questa duplicità
qualche rigo più avanti viene riformulata, sintetizzando i due elementi una
volta ponendo a capo uno, una volta l’altro. L’azione non è quindi un
carattere differenziale tra diritto e morale ma è il loro più profondo
elemento comune: la filosofia della pratica è la filosofia dell’azione, è la
conoscenza dei modi, delle forme, delle determinazioni dell’agire umano.
Croce passa quindi ad esaminare la seconda formola, il secondo concetto
empirico che Thomasius ha prospettato come differenziale del diritto
rispetto alla morale e che invece secondo Croce non ha dignità filosofica
(esteriorità). La parte critica consiste nel sottolineare il carattere empirico
e dunque irrazionale, non filosofico del concetto per dire che anche questo
elemento distintivo in realtà non lo è, è un tratto comune tanto al diritto
quanto alla morale perché interno ed esterno sono astrazioni, non ci
aiutano a conseguire una reale conoscenza. Un’azione coincide con la
volizione che l’ha messa in moto, volere ed agire sono la stessa cosa,
l’azione è la volizione stessa; volere senza agire non è davvero volere, ma
una sorta di sogno del cassetto, qualcosa di irrealizzato o irrealizzabile, per
essere un vero volere quello deve essere tradotto in un’azione. Agire senza
volere non è veramente agire, cioè l’azione è quel comportamento umano
che realizza la sua volizione. Nella “Filosofia della pratica” viene spiegato
che l’intenzione, la volizione e l’azione coincidono perfettamente, ognuno
di questi momenti è tutti gli altri o non è. In queste pagine Croce spiega che
la volizione, e quindi il volere in una certa direzione, non è seguita
dall’azione, la volizione è l’azione stessa e l’azione stessa non può che
essere la volizione, viene conservata questa pluralità di concetti per
osservare l’atto spirituale da diversi punti di vista: se ci si concentra sul suo
“innesco” parliamo propriamente della volizione, se ci si concentra sulla
sua realizzazione si fa riferimento all’azione, ma comunque azione e
volizione filosoficamente coincidono.

Coazione, Filosofia della pratica p.131-132


Necessità e libertà dell’azione: La volizione è sempre storicamente
condizionata dagli accadimenti a partire dai quali l’individuo vuole e agisce.
La volizione è quindi radicata in una certa situazione di fatto, ma non è
questa situazione di fatto, ne è una ripetizione, un duplicato di questa
situazione di fatto, quella situazione di fatto rappresenta la condizione e la
volizione rappresenta il condizionato.
L’analogia con l’attività estetica non solo ha restituito un’immagine
efficace degli elementi cui si è fatto riferimento, ovvero all’elemento della
necessità e della libertà, ma ha aggiunto una riflessione in conclusione:
Croce ha detto infatti che c’è un dato storico ineludibile di partenza, ogni
attività pratica e teoretica muove da questo dato storico ineludibile, è una
condizione di luogo e di tempo determinata. Su questa condizione però il
condizionato interviene con un moto di libertà, e costruisce qualcosa di
nuovo che prima non c’era e la conseguenza è che le condizioni storiche si
modificano continuamente; ogni azione è condizionata da un dato storico,
ma il suo intervento come qualcosa di condizionato ma nuovo, non può che
modificare quel dato, e quindi le condizioni di partenza sono date ma come
continuamente cangianti, sempre nuove.
Nella prima parte della Filosofia della pratica Croce spiega che l’attività
pratica presuppone un’attività teoretica e quindi senza conoscenza non è
possibile la volontà. Ma se il volere presuppone il conoscere la situazione,
modificandola, anche la conoscenza deve modificarsi ed appunto per
questo il rapporto tra volontà e conoscenza è ciclico. La conoscenza
richiesta per l’atto pratico non è quella dell’artista o del filosofo, ma la
conoscenza storica, chiamata da Croce percezione, la quale è il risultato di
una particolare combinazione dell’intuizione quindi della conoscenza di
primo grado e del concetto, della conoscenza di secondo grado, che Croce
definisce l’intuizione penetrata dal concetto e cioè l’individuale penetrato
dall’universale. La condizione necessaria e sufficiente della volizione quindi
è la percezione. Secondo Croce questo problema del rapporto tra la
conoscenza e l’azione e quindi tra attività teoretica e pratica è alla base
della difficoltà che ha di fatto prodotto la formola dell’esteriorità.

Esteriorità, Filosofia della pratica pag.66-130-68-132


Il riferimento all’espressione artistica, le parole della poesia, l’espressione
della pittura per spiegare il rapporto tra volizione e azione.
Qualche pagina più avanti, Croce si serve di un’immagine un po' meno
allegra ma comunque efficace, che ha a che fare di nuovo con l’identità di
volizione e azione, nel senso che questa volta vuole far capire attraverso
questa metafora che non si dà la possibilità di un momento del volere
disgiunto dal momento dell’agire. Quello del paralitico è infatti un falso
volere che non può tradursi in azione, e ciò conferma l’identità di volizione
e azione.

L’altro testo affronta un problema che nella filosofia crociana è un


problema complesso: Croce dice che c’è un altro aspetto che può produrre
confusione intorno al concetto dell’azione e che potrebbe indurre a
distinguere l’azione dalla volizione, ovvero la confusione che alcuni
farebbero tra l’azione e l’accadimento. Il testo spiega che qualcuno
confondendo l’azione dell’individuo con ciò che si produce nella realtà
storica, chiama volizione la prima e azione la seconda e questo secondo
Croce è sbagliato perché la volizione e l’azione sono ciò che l’individuo fa
l’opera del singolo, ma l’individuo agisce sempre come forza tra le forze
delle circostanze date e dunque ciò che si determina nella realtà è sempre
la combinazione dell’azione dell’individuo con le azioni di tutti gli altri
individui e con il farsi di tutti gli enti che sono intorno a lui. L’accadimento
quindi è il prodotto di questa complicatissima interazione e combinazione,
sfuggendo almeno in parte al controllo dell’individuo.

E’ un testo in cui Croce facendo riferimento all’esteriorità afferma che la


determinazione dell’esteriorità ci ricorda che c’è un problema ma non lo
risolve.
pag.19-20-21
Ci sono altre formole, la prima delle quali è la liceità che non deriva dal
pensiero di Thomasius, ma da un’altra corrente di pensiero nei confronti
della quale Croce è critico. Questa formola ha avuto una fortuna anche
minore rispetto a quelle di Thomasius e non ne meritava una maggiore
secondo Croce. Le azioni lecite sarebbero secondo fautori di questa tesi
che Croce critica, sarebbero azioni moralmente indifferenti e quindi ci
sarebbe un campo dell’agire lecito, affidato al diritto, nel quale la morale
non entrerebbe, ci sarebbe un campo di indifferenza morale. Rispetto alle
azioni lecite, le azioni morali prenderebbero l’aspetto di azioni
obbligatorie, supererogatorie. Croce dice che questo non funziona perché
Non esistono azioni moralmente indifferenti, non esiste un campo
dell’agire umano indifferente alla morale; concepire l’esistenza di azioni
moralmente indifferenti equivarrebbe ad annullare la moralità.La moralità
non accorda permessi di non fare e non riconosce il campo delle azioni
meritorie, supererogatorie. Anche in questo caso il riferimento alla liceità
come carattere differenziale del diritto dalla morale, non risolve il
problema, dà conferma ancora una volta che il problema esiste ma lo lascia
irrisolto. Le formule ulteriori che sono state adoperate per distinguere il
diritto dalla morale sarebbero riconducibili alle precedenti.
A pag.21 Croce esprime la tesi del minimo etico o del minimo morale, cioè
giuridiche sarebbero le azioni che l’individuo compie nel rispetto delle
regole dell’ordine dell’uguaglianza, del diritto, morali invece quelle che lo
stesso individuo compie come un di più rispetto a quanto stabilito dalle
regole giuridiche, mettendo generosamente da parte la giustizia,
l’eguaglianza, superando l’ordine con la benevolenza, con il sacrificio, con
l’eroismo. Quella filosofica è una distinzione qualitativa, quella quantitativa
è una distinzione empirica, che non ha il rigore della distinzione filosofica.
Da un certo punto di vista Croce in queste pagine ci sta facendo vedere
tutti i tentativi falliti di distinguere il diritto dalla morale e la reiterazione di
questi tentativi. Da un lato reitera il fallimento, non è individuato infatti il
modo in cui distinguere filosoficamente il diritto dalla morale e dall’altro ci
dice che il problema non può essere abbandonato.
Nei paragrafi 11-12-13, Croce verifica tutto quello che ha affermato circa
le forme della distinzione del diritto dalla morale, e cioè i tentativi di
identificare diritto e morale e distinguerli tra loro, ripercorrendo
brevemente per autori quella che è una sorta di storia della disciplina, che
comincia con Thomasius e continua con i tentativi successivi.
Pag.32
In questa pagina Croce sta tirando le fila del discorso che ha svolto fino a
quel momento. Il problema è che il filosofo del diritto riconosce che il
diritto ha a che fare con la morale, ma non sa spiegare in che modo. Il
filosofo del diritto sente che c’è un rapporto con la morale, ma sente che
questo non è un rapporto d’identità e quindi non sa stabilire in cosa il
diritto sia identico alla morale e in cosa diverso, posto che la sua confusa
coscienza gli dice che non è del tutto identico e non è del tutto diverso,
“sembra identico e diverso insieme”. Croce ha un atteggiamento quasi
diagnostico, che individua infatti tra le manifestazioni del “morbo” un
sintomo che si è già preso in considerazione, cioè l’antico dualismo di
diritto naturale e diritto positivo, che è proprio della filosofia del diritto e
non trova infatti riscontro nelle altre scienze filosofiche. Quindi dice che se
il problema fosse solo un problema di parole, cioè se si sta parlando di
diritto e di giustizia chiamandoli rispettivamente diritto positivo e diritto
naturale semplicemente vuol dire che nell’ambito del discorso si sta
passando da una considerazione propriamente giuridica ad una
considerazione propriamente morale adoperando forse parole non
particolarmente precise. Ma se si sta facendo filosofia del diritto questi
concetti devono essere due concetti del diritto e questo non è possibile,
salvo il caso di trovarci in una contraddizione logica, perché o è diritto l’uno
o l’altro e per stabilire quale dei due lo è, bisogna ritenere risolta la
questione della definizione del diritto che però non è stata ancora risolta
perché non ancora risolta è stata la distinzione del diritto dalla morale.
La prima parte della riduzione si chiude quindi con l’immagine della
malattia, del morbo, rispetto al quale l’atteggiamento di Croce nella prima
parte è un atteggiamento diagnostico.

II PARTE
IL DIRITTO COME PURA ECONOMIA

Questo titolo comincia a chiarire il significato del titolo dell’intera memoria


pontaniana, perché se il diritto è pura economia, allora la filosofia del
diritto deve essere ridotta a filosofia dell’economia.
Pag.35
Il problema, i filosofi del diritto non sono riusciti a risolverlo, hanno
prospettato soluzioni sempre contraddittorie e tuttavia il problema
rimane, poiché il filosofo diritto non aveva fino a quel momento i principi
necessari per risolverlo. E che cosa Croce avrebbe mostrato in altri suoi
lavori a proposito di questo principio di essenziale importanza che sarebbe
finora mancato? Innanzitutto dice qual è questo principio, cioè il principio
economico. Il punto di partenza di questo rinvio di Croce sono le pagine
che dedica al principio economico nelle lettere indirizzate ad un
importante esponente della nuova scuola economica che è Vilfredo Pareto,
che è un interlocutore privilegiato di Croce su un tema delicato come
quello della definizione del fatto economico.

MATERIALISMO STORICO ED ECONOMIA MARXISTICA


Pag.222-223
Croce quindi dice che nello sforzo per enucleare il principio economico
nella sua autonomia, si sarebbero presentate quattro strade erronee
Che avrebbero equiparato il principio economico al principio della
meccanica, dell’edonistica, della tecnologica e dell’egoistica.
Le osservazioni di pag. 222 anticipano quelle che è possibile leggere nella
Riduzione e qui si può cogliere la prova forse più eloquente di quella
identificazione di diritto ed economia che sta alla base della memoria
pontaniana, cioè il medesimo problema che Croce in generale considera in
riferimento alla filosofia dell’economia, è il problema che in particolare si
trova discusso con riferimento alla filosofia del diritto nelle prime pagine
della riduzione. Croce considera il principio economico come il riferimento
categoriale del suo sistema filosofico, ed è al principio economico che
riduce il diritto, al quale non riconosce una propria autonomia categoriale
ed ecco perché lo riduce ad economia, lo riconduce nell’ambito
dell’economia. L’economia non è intesa come disciplina, ma come una
categoria, ha individuato un momento categoriale comune e ha pensato di
denominare il principio che individua la categoria e il primo grado pratico,
principio economico. Scienza: è una parola con cui Croce fa riferimento a
due realtà differenti, in un caso preferisce utilizzare il singolare scienza e in
altri casi il plurale scienze, in questo caso utilizza il singolare per parlare in
realtà della conoscenza, quindi questo vocabolo in questa pagina è
sinonimo di filosofia, cioè sta parlando del livello più elevato della
conoscenza, qui sta parlando della scienza economica e delle tendenze
antiscientifiche immaginando la conoscenza nella sua forma più alta. In
altri casi invece, Croce fa riferimento alle scienze per descrivere un livello
della conoscenza che è assolutamente diverso da quello della filosofia, e
che è proprio delle scienze empiriche, e cioè di quelle pseudo conoscenze
che si servono di concetti rappresentativi, di formole e la scienza del diritto
ne è un esempio. In questa pagina dell’estetica l’Economia è scienza
propria che ha un principio proprio, ovvero il principio economico, nella
parte iniziale della riduzione invece questa affermazione ha ancora una
forma interrogativa, cioè per capire se la filosofia del diritto ha una sua
autonomia, bisogna capire se questa ha un oggetto specifico che può
essere considerato un principio autonomo e la risposta a questo quesito è
nel titolo dell’opera e cioè secondo Croce l’oggetto di studio della filosofia
del diritto e cioè il diritto, non ha un’ autonoma consistenza categoriale ma
deve essere ricondotto al principio economico e di conseguenza la filosofia
del diritto deve essere ridotta alla filosofia dell’economia. A quattro si
potrebbero ridurre le principali concezioni che a lui sembrano erronee del
principio economico: meccanica, edonistica, tecnologica e l’egoistica.

Pag.225-226-227
Il fatto economico, che Pareto denomina scelta, nel momento in cui ci si
rende conto che questa scelta è una scelta consapevole, significa che
questa è contemporaneamente necessitata e libera, è una volizione.
All’interno della prima lettera di Croce a Pareto, questo passaggio segna la
prima scansione alla quale si deve pervenire e questa scansione è: “il fatto
economico è atto dell’uomo”. L’azione economica che è azione che ha
come proprio fine l’utile, è un’azione che se raggiunge questo fine produce
piacere, se non lo raggiunge produce dispiacere. Questo giudizio però non
è possibile invertirlo e cioè se il conseguimento dell’utile produce sempre
piacere, e dunque si può dire che l’utile economico è insieme piacere, non
si può dire che il piacere sia l’utile economico, non possiamo dire che il
piacevole si riduca all’utile economico, e cioè ci sono moltissime altre
opportunità che l’uomo ha per provare piacere e solo una di queste ha a
che fare con l’utile economico, cioè con il raggiungimento del fine che egli
si è prefissato come obbiettivo della propria azione e questo secondo Croce
è l’errore della teoria edonistica e in ciò risiede la distinzione profonda tra
il piacere e la scelta. Quindi la prima critica, quella rivolta al carattere
tecnico del principio economico, ha a che fare con la precisazione che il
fatto economico è un fatto di valutazione, e quindi erronea è la sua
concezione meccanica perché nel fatto economico entrano gli oggetti fisici,
ovvero quelli misurabili, entra questa componente materiale e meccanica
ma come un elemento che può condizionare il fatto economico, quindi la
volontà (lessico crociano), o la scelta (lessico di Pareto).
Pag.228
La seconda scansione della definizione è: il fatto economico è un atto di
volontà, il fatto economico è un atto pratico. Volere sempre qualcosa
significa volere sempre in concreto, raggiungere un fine determinato
poiché non si può volere in astratto. Croce viene ad irrigidire il proprio
linguaggio quando fa riferimento alle azioni logiche ed illogiche prese in
considerazione da Pareto. Quest’ultimo parlando di azioni logiche e
illogiche vuole dire che l’azione è economicamente ben condotta in vista
del fine che si è prefissato. Questo è uno di quei punti in cui Croce ci tiene
a mettere rigorosamente ordine perché potrebbe apparire in contrasto con
il disegno generale del suo sistema filosofico, dove quello della logica è
sempre un fatto teoretico, i problemi della logica hanno a che fare con la
conoscenza, quindi l’idea di accostare l’aggettivo logico al sostantivo
azione crea per Croce un cortocircuito tra le forme dello spirito e quindi
rischia di mettere disordine tra le sue idee e questo lo preoccupa.

Pag.229-230
Il fatto economico secondo Croce quindi dato quello che è scritto in questa
pagina è un fatto di attività pratica. Lo scoglio maggiore però è considerare
il fatto economico come fatto egoistico. Subordinare l’economia alla
morale, considerando il fatto economico come fatto egoistico e dunque
immorale, fa cadere i termini della distinzione. Il fatto economico e il fatto
morale non sono tra loro in contraddizione, l’economico non è l’immorale
perché se l’economico fosse l’immorale cadrebbero i termini della
distinzione, perché non avremmo un’autonomia di giudizio del fatto
economico, staremmo giudicando il fatto economico a partire dal principio
morale e in tal caso lo staremmo giudicando negativamente e quindi la
categoria di giudizio resta una, la moralità, cadono dunque i termini della
distinzione. Il rapporto dunque non è di antitesi ma di distinzione, e un
rapporto di distinzione significa che il fatto economico e il fatto morale
sono distinti e uniti insieme, il rapporto è di condizione (utile) a
condizionato (etico), il fatto economico è la condizione generale che rende
possibile il sorgere del fatto morale e cioè dell’attività etica. Da questa
pagina raccogliamo la terza scansione che ci riconduce alla definizione del
fatto economico: il fatto economico è un atto di volontà, considerato in
astratto privo di contenuto morale. Non si danno secondo Croce azioni
moralmente indifferenti, significa che quando l’uomo agisce, il fine del suo
agire può essere indicato sempre come morale o immorale, perché quello
della moralità è universale e non c’è azione umana che si sottragga a
questo giudizio. Ma perché si possa giudicare il fine di un’azione come
morale o immorale occorre che questa sia innanzitutto un’azione e cioè
che questa sia un’azione tesa al conseguimento dell’utile e solo quando
l’azione è un’azione economica ha senso far intervenire il giudizio morale.
Per fare ciò bisogna tenere sospeso il giudizio morale per valutare l’azione
economicamente, quindi considerare l’azione solo tramite l’aspetto
economico e quindi per il conseguimento dell’utile, ma tutto ciò è stato
fatto per astrazione, poiché come già detto non vi sono azioni moralmente
indifferenti e quindi quell’indifferenza viene costruita appunto per
astrazione sospendendo il giudizio morale. L’azione economica è la fonte
elementare dell’agire, quindi agire economicamente per Croce equivale a
dire agire, perché solo se consapevolmente indirizzo i mezzi adeguati al
soddisfacimento di uno scopo solo se consapevolmente miro allora questa
è un’azione economica e solo di un’azione che è tale è possibile dire se sia
morale o immorale. La terza scansione quindi può essere intesa anche in
questo modo: il fatto economico è un atto di volontà considerato in
astratto come privo del suo contenuto morale e cioè considerato in
astratto esclusivamente come la volizione di un fine individuale che è l’utile
e cioè conviene all’individuo che agisce.

Pag.235-236
Teoretica e Pratica sono le forme dell’attività spirituale. La prima è volta
alla conoscenza, la seconda è propria dell’azione e ciascuna di queste
forme ha al suo interno due gradi: la forma teoretica conosce il primo grado
che è proprio dell’estetica e il secondo che è proprio della logica; la forma
pratica conosce due gradi: il primo grado che è quello dell’azione
economica e il secondo grado che è quello dell’azione morale. Li definisce
gradi perché l’idea della gradazione sottintende secondo Croce che il primo
grado è condizione del secondo e cioè che per arrivare al secondo devo
passare per il primo. Il primo grado è quello dell’intuizione e
dell’espressione, e la forma prima che deve venirci in mente quando si fa
riferimento all’estetica si deve pensare al linguaggio. L’opera logica è
linguaggio che veicola concetti, pensiero e non è possibile formulare un
concetto logico senza servirsi del linguaggio ed ecco che anche nella forma
teoretica il secondo grado presuppone il primo, il linguaggio è la condizione
del concetto, non è possibile intendere il concetto se non in una
formulazione linguistica.

ESTETICA

PAG.92-93
Croce in questa pagina dice esattamente quello che dice nella pagina 35
della riduzione, cioè che i filosofi che si sono occupati del volere dell’azione
e cioè i filosofi della pratica non hanno risolto il loro problema perché
ancora mancavano dell’adeguata conoscenza del principio che starebbe
alla base di questa soluzione. Questo modo di pensare il rapporto tra
l’economica e l’etica è ispirato agli studi che Croce ha dedicato al pensiero
di Machiavelli e per l’altro verso al pensiero di Marx.
Che cosa significa l’espressione che più volte si è sentita riferire al pensiero
da Machiavelli espresso ne “Il Principe” che “il fine giustifica i mezzi”;
questa espressione viene adoperata spesso dal punto di vista filosofico in
modo errato, cioè come se il principe potesse fare qualunque cosa pur di
raggiungere i propri fini, ma se pensiamo questa tesi in modo più rigoroso,
nel momento in cui ci poniamo a giudicare la condotta del principe dal
punto di vista politico dobbiamo valutare i mezzi che questi ha impiegato
tenendo presenti i fini che voleva conseguire e quindi sostanzialmente per
valutare politicamente la condotta del principe si deve sospendere il
giudizio morale sulla sua attività e valutare i mezzi che ha impiegato in
relazione al fine che voleva conseguire, e il pensiero di Croce riprende un
po' questo concetto appunto.

Pag.96
Croce spiega al primo capoverso la fortuna che ha avuto e che ha ancora la
teoria utilitaria dell’etica. Il riferimento essenziale della logica si è detto è
la conoscenza del concetto, che presuppone la possibilità di esprimerlo
linguisticamente, non è possibile pensare il concetto se non intuirlo ed
esprimerlo linguisticamente. Questo significa che il secondo grado, il
momento logico, presuppone il primo grado, l’estetica, non si da infatti un
concetto logico se non espresso in una forma linguistica qualunque essa
sia, anche un linguaggio simbolico. Il problema dell’unità e cioè il problema
del coordinamento dell’economia con la morale ha due aspetti che sono
connessi l’uno con l’altro ma che può essere utile osservare distinti. Il primo
è che l’utile è la condizione e l’etico il condizionato, quando si osserva in
questo modo si può immaginare questo movimento nell’attività spirituale
dell’uomo, per cui il primo grado si innalza al secondo e cioè la volizione
dell’individuale si innalza alla volizione dell’universale. Il secondo aspetto è
che la morale non può apparire in concreto se non in forma economica,
l’universale quindi per venire nel concreto deve sempre ridiscendere nel
primo grado dell’azione pratica, quindi la volizione dell’universale per
concretizzarsi deve sempre incarnarsi in una volizione dell’individuale.
FILOSOFIA DELLA PRATICA PAG.219
L’attività etica è per un verso attività economica e quindi è corrispettiva
alle condizioni di fatto e vuole un fine individuale ma
contemporaneamente vuole un fine universale coincidente con il bene e
quindi vuole anche qualcosa che trascende le condizioni che sono
storicamente determinate. Se si vuole dare un giudizio su un’azione
politica, per capire se ad esempio Il principe di Machiavelli ha agito in modo
politicamente efficace o inefficace osserviamo la coerenza dell’azione per
sé presa e cioè ponendo in relazione i mezzi e fini politici, sospendiamo
quindi il giudizio morale; quando invece vogliamo giudicare dal punto di
vista morale questa azione andiamo a valutare la maggiore o minore
coerenza dell’azione del soggetto rispetto al fine universale, cioè il bene,
che trascende l’individuo, va al di là di esso e dei suoi fini particolari.
Quando Croce dice che la moralità, ovvero l’etica, domina l’attività pratica
dell’individuo vuole dire che la condizione ideale dell’azione pratica
dell’individuo, è quella di un individuo che agisce in vista del proprio scopo
individuale, e quindi in modo utile ed economico ma che auspicabilmente
volendo l’individuale e quindi il proprio utile voglia insieme anche
l’universale e quindi il bene. Se questa è la condizione ideale la stessa cosa
può anche dirsi così: che l’uomo morale che si affaccia all’esistenza volendo
l’individuale, poi giunge in qualche modo a negare la propria vita
individuale perché trascende l’individualità nell’universalità e cioè giunge
a negare il proprio utile particolare perché trascende questo nel fine
universale, che è il bene.
Pag.35 Riduzione
Se il problema della filosofia delcdiritto non è stato risolto questo è
accadtuto perché è mancato ai filosofi la conoscenza del principio che è
indispensabile a distinguere il diritto dalla morale, e quindi il principio
economico. Ma poi Croce rovescia questo ragionamento perché dice che
la mancanza del principio economico ha danneggiato più di tutti proprio la
filosofia etica, perché la mancanza di una adeguata conoscenza del
principio dell’utile non ha consentito all’etica di criticare nel modo
filosoficamente più adeguato l’utilitarismo e cioè questa dottrina che ha
creato confusione nella filosofia della pratica, perché – dice Croce – l’unico
modo per criticare l’utilitarismo è riconoscere le giuste esigenze che
l’utilitarismo cerca di veicolare. Quindi la mancanza di un principio
economico ha impedito da un lato la costruzione di una filosofia
dell’economia e di conseguenza ha impedito di risolvere il problema della
filosofia del diritto, dall’altro lato ha creato un problema alla stessa filosofia
della morale, cioè all’etica, perché non ha consentito alla stessa di liberarsi
dall’utilitarismo. Utilitarismo: è un indirizzo del pensiero etico, politico,
economico, affermatosi in Inghilterra tra 18 e il 19 secolo, i suoi maggiori
esponenti furono Jermy Bentham e John Stuart Mill. Le tesi
dell’utilitarismo: pretende di trasformare l’etica in una scienza della
condotta umana, e che questa sia calcolabile, che sia esatta e pretende di
fare ciò sostituendo il riferimento al fine dell’uomo che nell’etica
tendenzialmente coincide con il bene, con un riferimento che sia il
movente dell’agire umano, cioè il piacere, riconoscendo questo, appunto,
come il motivo per cui l’uomo agisce e ritiene che il piacere privato, quindi
l’utilità privata, coincida con quella pubblica. Quindi l’utilitarismo riconosce
un carattere super individuale al piacere come movente dell’agire. In
questa tesi sull’utilitarismo ci si può accorgere di due cose: la prima è che
l’utilitarismo fagocita l’etica e quindi cadono i termini della distinzione,
perché l’utile ha fagocitato il bene e questo è il problema che Croce
denuncia; oltre questo però vi è un altro aspetto e cioè in questa dottrina
propria dell’utilitarismo si riconoscono degli elementi a cui Croce stesso ha
fatto riferimento parlando del fatto economico. In questa pagina della
riduzione quindi Croce afferma che solo se noi riconosciamo all’interno
dell’utilitarismo quegli elementi di verità che la dottrina ha intravisto,
possiamo allora riconoscere la falsità complessiva dell’utilitarismo che ha
fagocitato l’etica facendo cadere i termini della distinzione e rimettere
finalmente a posto il rapporto tra l’economica e l’etica e quindi riordinare
la filosofia della pratica.
Pag.37
Il problema quindi non è stato risolto perché mancava ai filosofi la
conoscenza del principio economico. Così come hanno avuto problemi i
filosofi del diritto, hanno avuto problemi forse maggiori i filosofi della
morale, perché mancando una esatta conoscenza del valore filosofico
dell’utile, della sua posizione filosofica all’interno del sistema dello spirito
pratico, non sono riusciti a contrastare l’utilitarismo perché ci sono degli
elementi di verità che l’utilitarismo porta avanti e, se uno non è in grado di
discernere gli elementi di verità dagli errori dell’utilitarismo, non è in grado
di confutare questa dottrina e allora solo la piena consapevolezza di che
cos’è il momento economico dell’agire e quindi in cosa consiste l’utile e il
principio economico, consente di chiarire simultaneamente da un lato la
filosofia dell’economia e dall’altro la filosofia della morale e quindi l’etica.

CARATTERE PREPARATORIO DELLA RIDUZIONE PER LA FILOSOFIA DLLA


PRATICA
In cosa consiste questo carattere preparatorio della Riduzione per la
filosofia della pratica? E’ servita solo a scrivere alcuni tratti della 3^ parte
della filosofia della pratica per altro rivisitate e rielaborate da Croce? La
risposta si trova nelle pagine introduttive della seconda parte della
Riduzione.
Pag.36
(§2) La prima è un’affermazione di cui ormai si comprende il significato e
cioè il fatto che ci sia voluto così tanto tempo a chiarire il principio
economico e quindi ad elevare la scienza economica a scienza filosofica, ha
prodotto una serie di conseguenze e la più rilevante l’abbiamo davanti agli
occhi considerando proprio la contraddizione, il groviglio di difficoltà in cui
si avvolge la filosofia del diritto. Ma non è questo il punto centrale, bensì
quello che segue. L’uso delle locuzioni filosofia pratica e filosofia morale,
vanno intese come filosofia della pratica e filosofia della morale. Questa
esigenza di individuare il momento dell’agire economico accanto e
precedente rispetto al momento dell’agire etico è definito da Croce in
questa pagina come una esigenza irrefrenabile e uno dei sintomi di questa
esigenza deve essere rinvenuto nell’essere stato nei tempi moderni (
appunto perché la storia della filosofia del diritto è una storia recente,
perché non comincia prima che con Thomasius) ed è dato dal fatto che si
sia ricercata così tenacemente la differenza della filosofia del diritto
rispetto alla filosofia della morale attraverso la riflessione circa la
distinzione del diritto dalla morale. Quando Croce dice che. “nei tempi
moderni è stata riconosciuta in qualche modo…una filosofia del diritto”
sembra riecheggiare quel senso di non chiara coscienza, di incerta
determinazione del rapporto tra la filosofia del diritto e della morale che si
sono già incontrate precedentemente nelle pagine della riduzione, come
ad esempio a pag. 13, quando si riconosce che “il diritto è qualcosa di più
o qualcosa di meno rispetto alla morale”, oppure a pag. 10 “se non si è
riusciti a trovare la distinzione probabilmente questa non esiste e che allora
la filosofia del diritto deve essere semplicemente assorbita nell’etica” ma
a proposito di quest’ultima affermazione Croce scrive che a questa
conclusione resiste “una certa confusa coscienza” che è in tutti
dell’elemento differenziale che il diritto contiene rispetto alla morale. Che
la contraddizione alla base della filosofia del diritto sarebbe una
conseguenza della tardiva determinazione dello spirito pratico è ormai un
risultato acquisito. L’elemento di novità è reso esplicito nella notazione che
si è letta a pag. 37 della posizione accanto alla filosofia morale, “prima o
dopo, sopra o sotto di una filosofia del diritto”. La tematizzazione della
differenza tra diritto e morale in altre parole, sarebbe l’effetto della
percezione diffusa nella coscienza filosofica moderna ma non ancora
metabolizzata dell’esistenza di un momento premorale dello spirito
pratico. Questa interpretazione ripropone su un piano diverso e più
articolato la questione storiografica alla base della ricostruzione della
recente affermazione di una filosofia del diritto. Interessa però adesso
soffermarsi sull’affermazione secondo la quale nello sforzo intellettuale
volto a intendere lo specifico rapporto tra l’attività giuridica e l’attività
etica, sarebbe possibile riconoscere la peculiare fisionomia assunta nei
tempi moderni dal problema pratico. Croce quindi ci sta dicendo che se c’è
stata nella filosofia moderna una irrefrenabile esigenza di porre accanto
alla filosofia morale una filosofia dell’economia, e quindi di riconoscere un
momento premorale dello spirito pratico, il sintomo di questa esigenza
appunto è proprio la ricerca da parte dei filosofi del diritto la ricerca della
distinzione che corre tra diritto e morale. In questa pagina Croce ci sta
dicendo che se nella filosofia moderna si è avvertita l’esigenza addirittura
irrefrenabile di concettualizzare un momento premorale dello spirito
pratico, il luogo culturale in cui questa esigenza ha dato la prova più
evidente di sé è proprio la storia della filosofia del diritto, ed è proprio il
filosofo del diritto che con maggiore tenacia ha cercato ostinatamente di
distinguere il diritto dalla morale, sentendo che il diritto ha qualcosa a che
fare con la morale e condivide con la morale la consistenza dello spirito
pratico, ma da essa si distingue allo stesso tempo, cioè rappresenta un
momento premorale dell’agire umano. Inquadrata in questa prospettiva la
storia della filosofia del diritto ci appare in altro modo, perché sarà stata
anche la storia dei reiterati tentativi falliti di distinguere il diritto dalla
morale ma diventa una storia importantissima, perché diventa il
laboratorio in cui è stato per la prima volta con la maggiore continuità
tematizzato, il problema del doppio aspetto del problema pratico e cioè la
questione dell’esistenza di un momento premorale dello spirito pratico. Da
qui è possibile trarre una conclusione e cioè che se il problema del doppio
aspetto del problema pratico, se la questione della ricerca di un momento
premorale dello spirito pratico è il problema di fondo della filosofia della
pratica, dov’è che questo viene concettualizzato per la prima volta con
tanta profondità se non nelle pagine della Riduzione. Quindi la risposta alla
domanda è proprio questa, la Riduzione in realtà è un momento
preparatorio di tutta la filosofia della pratica, e non solo della terza parte
della stessa peraltro riscritta da Croce stesso, perché nelle pagine della
riduzione viene affrontato il momento storicamente determinante per la
filosofia moderna, della ricerca di un momento premorale dello spirito
pratico. Il rapporto tra la riduzione e la filosofia della pratica allora, se
inquadrato in questo modo assume tutta un’altra luce. Preparando la
filosofia della pratica Croce ha rivolto la sua attenzione a quello che è il
laboratorio di concettualizzazione del problema sotteso alla filosofia della
pratica, della questione che sta alla base di questo libro, cioè il doppio
aspetto del problema pratico, il fatto che la forma pratica dell’attività
spirituale sia articolata in due momenti: uno economico che è quello
dell’azione individuale e uno etico-morale che è quello dell’azione
universale, non è quindi una digressione polemica come si poteva pensare.
La pag.366 della filosofia della pratica ritrascrivono le righe che si è lette
del paragrafo 2 della 2^ parte della Riduzione, trovando nella pagina della
filosofia della pratica una più chiara immediatezza di quello che Croce
vuole dire.
Pag.38-39
E’ proprio così scontata la domanda che Croce pone in questa pagina? La
domanda precedente circa la natura del diritto si traduce nella domanda
“è il diritto mera attività economica o attività morale”, solo se
presupponiamo che lo spirito pratico si distingua in economica ed etica,
azione volta all’individuale e azione volta all’universale e che non ci sia altro
spazio all’interno dello spirito pratico fuori dalla distinzione di economica
ed etica. Detto in altri termini, possiamo porre questa domanda solo se
poniamo filosoficamente la premessa che non esiste una terza forma di
attività pratica, né etica, né economica e che non esiste alcuna forma di
ibridismo tra le due forme. A pag. 251 della filosofia della pratica Croce fa
riferimento alle classi, a ripartizioni classificatorie che non sono rigorose
categorie filosofiche, questo è proprio quello che vuole escludere con
riferimento al diritto, cioè che il diritto che potrebbe somigliare ad una
sottoclasse dell’economia e che queste sottoclassi abbiano una legittimità
filosofica all’interno dello spirito pratico, non ci sono altre categorie se non
i due gradi dell’economica e dell’etica.
Quel ‘mera’ a pag. 38 della Riduzione si riferisce sempre alla questione
filosofica secondo la quale non si danno azioni moralmente indifferenti,
quindi quel mera vuol dire: quando guardiamo l’azione giuridica e vogliamo
interpretarla, valutarla come tale, dobbiamo considerarla mera attività
economica? Per rispondere a questa domanda sarebbe sufficiente
dimostrare o l’una o l’altra, quindi che il diritto si identifica con l’economia
o che questo si distingue dalla morale. Nelle pagine seguenti Croce ci darà
entrambe le dimostrazioni, quindi ci troveremo di fronte alla dimostrazione
che l’attività giuridica non è attività morale e che l’attività giuridica è quindi
attività economica, anche se da un punto di vista logico sarebbe stato
sufficiente dimostrare solo una di queste due ipotesi.
Il diritto può apparire a qualcuno prodotto dell’attività teoretica dell’uomo,
dal momento che questo qualcuno potrebbe credere che l’attività giuridica
ha a che fare con la conoscenza delle regole, piuttosto che con l’azione
pratica, invece Croce dice che finché siamo alla mera conoscenza delle
regole non siamo ancora al fatto giuridico, il quale è quell’agire dell’uomo
che segue la conoscenza delle regole ed è dunque sempre un fatto pratico
o di volontà. A pag. 39 vi è una opposizione tra due avverbi: praticamente
e scientificamente. Ciò vuol die che dal punto di vista scientifico e quindi
dal punto di vista filosofico, è necessario riconoscere e tollerare l’esistenza
di diritti immorali perché in se considerata l’attività giuridica deve essere
riconosciuta nel suo carattere non etico e possiamo quindi sospendere il
giudizio morale e riconoscere scientificamente l’esistenza tanto di diritti,
fatti giuridici, ordinamenti, regole morali e di, diritti fatti giuridici,
ordinamenti e regole immorali. E’ chiaro che praticamente quindi dal punto
di vista di una considerazione politica, non si debba tollerare l’esistenza di
regole giuridiche contrarie alla moralità, quindi è come se Croce stesse in
questo caso distinguendo la posizione scientifica del filosofo dalla
posizione politica del qualunque cittadino; è chiaro che nei panni di
cittadino bisogna contrastare con tutti gli strumenti a disposizione
l’esistenza di regole giuridiche che siano contrarie alla morale, ma dal
punto di vista della conoscenza del filosofo dobbiamo riconoscere che la
moralità non è una componente della giuridicità.
Pag.40
Croce sta dicendo che se accettiamo la tesi per cui la moralità non è un
carattere necessario della giuridicità, allora questo significa che dobbiamo
riconoscere carattere giuridico anche agli statuti, ai complessi di regole
delle associazioni a delinquere, le quali si troveranno contrapposto una
società più vasta(Stato)e questi si troveranno a confliggere tra loro e
probabilmente e sperabilmente l’ordinamento dello Stato avrà la meglio
rispetto all’ordinamento delle associazioni a delinquere, in ogni caso
quest’ultimo finché vivrà lo farà come diritto e, quando invece sconfitto
dall’ordinamento Statale soggiacerà come diritto. L’affermazione di Croce
a piè di pag. 40 ha almeno due lati dai quali può essere osservata: uno
filosofico e l’altro storico-sociale e analizziamo quest’ultimo. Non si fa
alcuna fatica a rendersi conto che se dal punto di vista teorico,
distinguendo il diritto dalla morale, si può affermare che si danno
esperienze giuridiche anche di carattere non morale e che quindi la
moralità non sia un carattere necessario della giuridicità, è evidente dal
punto di vista della vita materiale degli ordinamenti che tendenzialmente
diritto e morale vanno in accordo tra loro. Una società che registrasse una
dissonanza tra diritto e morale avrebbe vita breve, perché i conflitti
esploderebbero in ogni momento poiché di fronte ad ogni regola il
cittadino si troverebbe nella posizione difficilissima se seguire la regola
morale o la regola giuridica. La seconda osservazione ha a che fare con la
parte conclusiva di questo testo e cioè: stiamo discutendo della prima delle
due dimostrazioni che Croce ci vuole offrire quindi della distinzione tra
diritto e morale, che l’attività giuridica non sia di necessità per se presa,
attività morale. Ciononostante già nell’ambito di questo discorso, viene
naturale cominciare a riconoscere l’identità dell’attività giuridica con
l’attività economica perché nel momento in cui si è letto che “l’attività
giuridica si rivela come un’attività pratica… che per sé presa è amorale o
aetica”, si è riconosciuto immediatamente quel discorso che identico Croce
ha fatto ad esempio nelle lettere a Pareto con riferimento alla
determinazione dell’attività economica. Questo consente di affermare che
quella che nella parte conclusiva di questo testo Croce denomina Identità
dell’attività giuridica con l’economica, finora consiste in questi tre punti: 1)
Il fatto giuridico è un fatto di volontà cioè è un fatto pratico, relativo al
volere e all’agire dell’uomo non è quindi un fatto teoretico e quindi relativo
alla sua conoscenza. 2) L’azione giuridica è dunque quell’azione dell’uomo
volta al conseguimento dell’utile, è la volizione di un fine particolare, non
di un fine universale o razionale perché altrimenti andrebbe a coincidere
con l’azione morale. 3) Il fatto giuridico non si trova in antitesi con il fatto
morale, quindi questo non è un fatto egoistico o immorale, ma è un fatto
amorale cioè un fatto che in sé considerato per astrazione, è indifferente
rispetto al giudizio morale. Queste pagine lette vogliono spiegare che tra le
difficoltà, che in qualche modo sarebbero di ostacolo alla perfetta
identificazione di diritto ed economia, rileva in primo luogo la tenacia e
resistenza, largamente diffusa anche tra gli studiosi nei confronti di una
connotazione amorale del diritto.
Pag.46
Il problema filosofico qui è che Croce intende dimostrare la perfetta
identificazione di diritto ed economia dalla quale derivare la Riduzione
della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia. In queste pagine si
pone analiticamente ad esaminare gli ostacoli che si incontrano sul terreno
di diritto ed economia e uno di questi è il concetto troppo stretto che si ha
dei fatti giuridici, e ciò significa che un errore ricorrente anche da parte
degli studiosi è quello di non considerare il diritto in tutta la sua estensione
perché indebitamente si viene indotti a circoscrivere il concetto di azione
giuridica solo alle azioni giuridiche che sono anche morali. Croce infatti
afferma che devono esser3 considerate azioni giuridiche non solo quelle
azioni che si compiono in conformità delle leggi dello stato, ma anche
quelle che si compiono in conformità di qualsiasi altra regola anche se
queste non hanno lo stesso “peso” all’interno della società (ad es. codice
civile e penale e regole del galateo). Lo stesso vale per gli ordinamenti
minori rispetto a quello dello Stato ma che convivono con esso, in una
pluralità di ordinamenti giuridici, che questi siano leciti (Chiesa e
massoneria) o illeciti (mafia e camorra). Queste pagine trovano riscontro in
alcune pagine della Filosofia della Pratica, rielaborate.
Azioni: la prospettiva dell’azione Crociana nella Riduzione è incentrata
proprio sull’azione.

FILOSOFIA DELLA PRATICA PAG.324 SS.


Mentre a pag. 46 Croce guarda all’azione giuridica, nella Filosofia della
Pratica volge lo sguardo alle leggi, e quindi il concetto di azione preso in
considerazione in tutta la sua estensione. Questo appunto fa capire la
rielaborazione che Croce ha messo in atto tra le pagine della Riduzione e
quelle della Filosofia della Pratica.
Queste pagine della filosofia della Pratica hanno avuto una grande
influenza, diretta e determinante, sulla riflessione del giusnaturalista e
giuspubblicista Santi Romano che ha pubblicato, nel 1918, un’opera
intitolata “L’ordinamento giuridico”, libro che ha esercitato un’influenza
molto forte sulla tradizione del pensiero giuridico italiano. A più riprese
nelle pagine di questo libro, Santi Romano si sofferma sulla giuridicità delle
associazioni a delinquere in quanto organizzazioni sociali e dunque,
secondo il suo lessico, istituzioni e ordinamenti. Una giuridicità che non è
riconosciuta dallo Stato, al quale queste associazioni si contrappongono,
che quindi vengono riconosciute come illecite. La tesi di Santi Romano è la
seguente: il mondo giuridico è un mondo in cui interagiscono diversi
ordinamenti, (o istituzioni utilizzando il lessico di Santi Romano) che
naturalmente non hanno stesse dimensioni ma ciononostante
interagiscono tra loro come ordinamenti giuridici, come istituzioni. Ciò vale
per le organizzazioni lecite ma anche per quelle illecite, queste però sono
riconosciute come tali solo di fronte all’ordinamento statuale, dal punto di
vista scientifico infatti entrambi sono semplici ordinamenti, lo Stato può
quindi fronteggiare queste associazioni con tutti gli strumenti a sua
disposizione e quindi determinarne anche la fine, ma finché esse vivono
avranno sempre un ordinamento che verrà qualificato come ordinamento
giuridico (richiamo a pag. 40 della Riduzione).
Pag.42-43
Esaminare il fatto nella sua universale ed eterna natura significa intendere
filosoficamente il concetto e non osservarlo nelle sue contingenze storiche,
laddove lo si trova sempre determinato empiricamente con alcune
circostanze specifiche.
Il caso tipico è la relazione tra due individui, cioè tra due volontà, i quali in
qualunque modo vengano immaginati, istituiscono tra loro un rapporto tra
dominatore e dominato, poiché nel rapporto tra due volontà sembra
sempre di riconoscerne una più forte che detta le regole alla più debole che
è obbligata ad osservarle. Si è già detto a pag. 15 che la coazione non
esclude l’iniziativa o la volontà del soggetto, e proprio in riferimento al
concetto di coazione è la critica che Croce presuppone a pag. 42.
[Quando Croce scrive coacti tamen volunt sta ricordando che l’individuo
agisce sempre in modo libero, anche se questa è una libertà condizionata
poiché l’uomo agisce sempre come forza tra le forze delle circostanze date
e quindi è libero sì ma deve sempre tener conto della realtà storica che lo
circonda. Pag. 15]
Croce ci sta mostrando una sorta di tacito negoziato: i Romani, ormai
disabituati all’uso delle armi, ridotti di numero e spaventati dall’arrivo dei
Longobardi armati, si fanno due calcoli, ragionano tenendo presento l’utile,
non in astratto, ma in concreto e quindi nelle circostanze storicamente
date; infatti capiscono di essere inferiori ai Longobardi ma potrebbero
comunque tentare di ostacolarli anche se in futuro potrebbe arrivare
qualcuno di ancora più forte e pericoloso, quindi pensano che convenga
loro di adeguarsi alle condizioni proposte dai Longobardi. D’altra parte
anche i Longobardi si fanno due conti: potrebbero chiedere più di 1/3 delle
terre, ma così facendo potrebbe darsi che i Romani decidano di combattere
dinanzi a questa richiesta troppo onerosa, oppure potrebbe darsi che i
Romani scelgano la via della morte, e quindi di suicidarsi in massa e a quel
punto i Longobardi non avrebbero più i Romani che coltiverebbero la terra.
Quindi nel concreto delle circostanze determinate può darsi che chiedendo
troppo non si ottiene nulla.
Croce arriva alla conclusione che le due parti dipendono l’una dall’altra e
devono intendersela l’una con l’altra, quindi devono trovare un punto di
incontro tra le due volontà (“le due volontà possono coincidere”), oppure
queste volontà possono continuare ad essere contrastanti tra loro,
portando le parti ad una lotta che secondo Croce è “la gestazione laboriosa
di un futuro accordo”. La lotta quindi non è un momento che sta fuori dalla
relazione giuridica che è una relazione economica, infatti queste parti
stanno negoziando calcolando ciascuna per se il proprio utile individuale;
la lotta non è un momento eterogeneo, la lotta è un momento interno alla
definizione dell’accordo, alla determinazione delle forze delle circostanze
date.
Due punti interessanti a pag.44: 1) alla base del ragionamento di Croce
potrebbe darsi che una delle difficoltà che incontriamo nel pervenire alla
corretta identificazione di diritto ed economia, del fatto giuridico con il
fatto economico, potrebbe dipendere dalla circostanza che confondiamo
la realtà empirica dei fatti giuridici e dei fatti economici con il concetto
rigoroso di questi fatti. Siamo abituati a pensare al fatto economico come
lo scambio di sodi contro un bene, e pensiamo al fatto giuridico quando lo
tipizziamo come un nomen iuris ecc. ma se da queste contingenze
empiriche risaliamo al concetto rigoroso, ci accorgiamo in entrambi i casi
che ci troviamo dinanzi ad azioni che sono tese a conseguire l’utile, a
volizioni che vogliono conseguire la convenienza individuale. 2) Croce dice
che non c’è nessuna differenza tra chi vende 8 ore di lavoro per avere in
cambio i mezzi di sussistenza per una giornata e chi diventa suddito di un
potente. E’ chiaro che il primo esempio è uno scambio tra soggetti che sono
liberi, mentre il secondo è l’esempio di un potente che impone la sua forza
su un altro soggetto rendendolo schiavo. Croce si rende certamente conto
della differenza sostanziale che corre tra queste realtà, ma questa ha a che
fare con il carattere empirico delle stesse, e non ha a che fare con la
determinazione del concetto rigoroso e cioè se ci sembra che ci sia
coazione da un lato c’è la stessa coazione dall’altro, e se ci rendiamo conto
che da un lato c’è libero consenso questo ci sarà anche dall’altro lato.
Questo è un discorso fatto da Croce per liberare il concetto di fatto
giuridico ed economico dalle determinazioni empiriche anche
rilevantissime che sono anche storicamente mutevoli. Questo appena letto
e commentato è il punto in cui matura la dimostrazione della perfetta
identità di diritto ed economia. Questa è una pagina molto efficace, che ha
consentito a Croce di spiegare in cosa diritto ed economia si identificano.
Questa pagina nella Filosofia della Pratica non è presente, e questo perché
il tema che Croce affronta nelle pagine della terza parte della Filosofia della
Pratica ha a che fare con ciò che accade a partire dal giorno dopo
dell’accordo avvenuto tra Romani e Longobardi cioè nel momento in cui
viene fissata la regola, quindi a Croce interessa riflettere sul modo in cui le
regole condizionano l’agire libero dell’uomo.
Pag.44 § 6 – 45
Dire che il fatto giuridico è anch’esso un fatto economico cioè un’azione
volta all’utile, è un genere prossimo del fatto giuridico che poi occorre
specificare e quindi distinguere in questo modo il fatto giuridico dal fatto
economico. Questi caratteri differenziali si chiarirebbero in ultima analisi
come illusori significa che provando a cercare caratteri differenziali si
troveranno sempre concetti empirici, mutevoli nel tempo e nello spazio,
che possono darsi in un caso e non nell’altro; quindi non si può far altro che
convenire con Croce che una tale differenza specifica, che sarebbe
giustissimo ricercare non esiste e che pertanto la filosofia del diritto la
cercherebbe invano. Nella scienza economica di Pareto si consolida una
idea che è sostanzialmente questa: il calcolo economico, da un punto di
vista puramente teorico non ha bisogno della premessa della socialità, cioè
per calcolare la convenienza economica non occorre immaginare un
contesto in cui il soggetto calcolante interagisca con altri soggetti e questa
è una tesi che si è consolidata in quegli anni. L’esempio della gens
Langobardorum però, ha svelato che per immaginare il fatto giuridico
occorre immaginare un rapporto sociale. Questa caratteristica sarebbe
identificabile proprio come quell’elemento differenziale che si stava
cercando, appunto tutti calcolano l’utile economico sia che si stia
descrivendo un fatto economico sia che si stia descrivendo un fatto
giuridico ma il fatto economico può aver luogo anche nel contesto
dell’individuo isolato, mentre il fatto giuridico presuppone una relazione
tra più individui.
Per Croce la volontà e l’azione economica e di conseguenza la volizione e
l’azione giuridica è forza tra le forze delle circostanze date. Quello che dice
Croce è che o si interagisce con altri soggetti o con le forze della natura,
quello che caratterizza la volizione economica e di conseguenza la volizione
giuridica è che il soggetto agisce sempre come forza tra le forze delle
circostanze date.
Nelle ultime righe di pag.45 Croce fa un’affermazione e cioè che la
deliberazione utilitaria, il calcolo dell’utile, è la forma dell’azione giuridica
come dell’azione economica, tutto il resto è contingenza. La forma
dell’azione è la deliberazione utilitaria, volere l’utile individuale, volere la
propria specifica convenienza.
Pag.47 – 48
Alla base di questo discorso c’è una distinzione tra la scienza rigorosa e cioè
il pensiero filosofico e le scienze empiriche cioè il pensiero scientifico. La
filosofia del diritto, se tale vuole essere, deve essere scienza rigorosa e
dunque deve pensare il concetto nell’unica forma in cui è dato pensarlo
cioè nella sua forma propriamente filosofica. Altro rispetto alla filosofia del
diritto è la giurisprudenza, intesa come scienza empirica del diritto,
tipicamente classificatoria che si serve di concetti rappresentativi e
nell’ambito di questa scienza è assolutamente utile operare queste
distinzioni di carattere empirico, costruire delle classificazioni, dei generi
sotto i quali ricomprendere delle specie. E’ importante quindi non
confondere il sapere rigoroso della filosofia, dal sapere classificatorio e
rappresentativo delle scienze empiriche. Questa proposta di Croce di
pensare in modo più rigoroso e filosofico il diritto, è una proposta che si
rivolge alla filosofia del diritto e ai suoi cultori e non ha niente a che fare
con la giurisprudenza, all’interno della quale ben vengano le distinzioni,
finchè siano utili, tra diritto civile e penale, nazionale e internazionale ecc.
Pag.48 § 8 – 49
La linea di continuità è chiara: Croce sta esplorando delle obiezioni e
perplessità che impedirebbero la corretta identificazione di diritto ed
economia e tra queste un idolo dell’immaginazione nasce dal paragone che
si sarebbe portati a fare tra leggi giuridiche ed economiche, e dal fatto che
dall’esito di questo paragone ci si accorge che leggi giuridiche e leggi
economiche sono diverse.
Le leggi economiche di cui Croce parla a pag. 49 sono un modello
descrittivo, che serve ad evidenziare il rapporto tra variabili che si
condizionano tra loro a differenza delle leggi giuridiche che invece
presentano un modello prescrittivo. La legge economica della domanda e
dell’offerta ad esempio è frutto di un lavorio conoscitivo è un’opera di
teoria, cioè gli economisti hanno osservato la realtà dei rapporti economici
in un libero mercato e da ciò hanno tratto le osservazioni necessarie a
costruire un modello teorico che rappresenti queste relazioni. Questa
legge economica è un fatto mediato e riflesso, cioè che questo modello
astratto è un fatto mediato rispetto al fatto immediato che consiste nella
realtà dei comportamenti umani; quindi l’economista osserva il fatto
immediato (comportamento umano) e costruisce sulla base di queste
osservazioni un fatto mediato (una teoria).
La legge giuridica e la legge economica non sono distinguibili tra loro ma
disparate, poiché non si lasciano coordinare come gruppi diversi di attività
pratica e la legge economica infatti non è un’attività pratica bensì teoretica,
di conoscenza, ecco perché non è possibile distinguere tra loro leggi
giuridiche ed economiche.
A piè di pag. 49 vi è un passaggio fondamentale e drammatico perché Croce
afferma l’esistenza di un momento differenziale autentico che potrebbe
insidiare la coerenza logica del suo ragionamento e dunque il rigore
filosofico di quest’ultimo, perché se diritto o fatto giuridico, fosse sia la
legge giuridica sia l’azione giuridica, una volta che abbiamo specificato che
tra legge e azione vi è una differenza autentica, ci troveremmo nella
condizione di riconoscere due differenti concetti che si presentano
entrambi come concetti del diritto, che per Croce è una mostruosità logica.
Diritto e fatto giuridico quindi non possono essere sia legge sia azione
giuridica, ma solo una di queste mentre l’altra non è diritto, non è fatto
giuridico, non è azione economica.
In questa pagina si trova la prima definizione di legge della Riduzione, la
quale è intesa come un comando che ha un carattere di generalità e che si
serve perciò di concetti rappresentativi e tipi, che non sono altro che
forme, concetti empirici che intervengono nei giudizi di classificazione tipici
delle scienze empiriche. Questa è una definizione che si trova
perfettamente in linea con la definizione di legge che apre la parte III della
Filosofia della Pratica dedicata alle leggi. La discontinuità quindi tra la
Riduzione e la Filosofia della Pratica non riguarda la definizione di legge,
guardando questa da una diversa prospettiva, ponendosi domande
differenti, studiando problemi diversi ma non cambiando idea su ciò che la
legge sia.
Pag.50
Le prime righe di questa pagina contengono un grande problema, che poi
esploderà nelle pagine della filosofia della Pratica. Ma da queste righe può
essere tratta almeno una indicazione cioè torna il riferimento da parte di
Croce alle formole generali, all’interno dei quali vengono riassunti i modi
dell’azione per tenerli a mente e di conseguenza per orientarsi nella vita
concreta. Il procedimento di astrazione e di generalizzazione fa sì che da
quelle circostanze di fatto così dettagliate che sono proprie dell’attività
pratica economica si costruisca mediante un procedimento di astrazione e
generalizzazione un tipo generale, uno pseudoconcetto ovvero la permuta.
Ci troviamo di fronte al grande problema Crociano del rapporto tra l’azione
(libera) e la legge, cioè quel momento delle forze tra le circostanze date
che è invece coattivo. Croce in queste righe fa riferimento al procedimento
di generalizzazione, che invita a riconoscere come diffuso in molte altre
attività dell’uomo, il cui campo di studio specifico non sarebbe la filosofia
del diritto ma la logica. Quel procedimento di generalizzazione visto prima,
adoperato nell’elaborazione della legge giuridica, è adoperato in modo
analogo nella elaborazione della legge economica così come in ogni altra
legge conoscitiva che descrive attraverso un modello teorico la relazione
tra due fenomeni che possono influenzarsi reciprocamente. La legge
giuridica è una legge prescrittiva, ma una componente della stessa legge
giuridica, legato al processo di generalizzazione che abbiamo riconosciuto
identica nella costruzione della legge economica e quindi è il caso di
riconsiderare l’affermazione di Croce secondo la quale le leggi giuridiche
ed economiche non avrebbero altro in comune se non il mero nome di
legge. Nonostante ciò però legge giuridica ed economica rimangono due
fatti assolutamente disparati tra loro. Vale la pena però osservare che
anche la legge giuridica ha in sé quel procedimento di generalizzazione che
costruisce il tipo, il modello che è un procedimento di astrazione dai fatti
concreti e contingenti. Croce quando dice che l’elemento astratto è
inessenziale al diritto parla del fatto che se c’è un momento differenziale
tra la legge e l’azione giuridica, questo non tocca l’essenza del fatto
giuridico perché il fatto giuridico è l’azione giuridica, la legge è qualche altra
cosa, qualcosa che si differenzia dall’azione giuridica ma quando pensiamo
al fatto giuridico e vogliamo definire il diritto bisogna guardare non alla
legge ma all’azione giuridica concreta, quindi non al momento della
generalità della volizione, ma al momento della sua individualità. Il
rapporto tra l’individualità del fatto concreto e la generalità delle norme
che ad esso devono applicarsi è il problema centrale non solo di Croce, ma
del giurista. Che il procedimento astrattivo e generalizzante ha il suo
indubbio vantaggio vuol dire che questa è la via che gli uomini hanno scelto
per disciplinare le loro condotte e i loro rapporti sociali. A noi che siamo
abituati a riconoscere questa disciplina dei rapporti sociali, ciò ci sembra
scontato, ma così non è. In una piccola comunità ad esempio, i componenti
riconoscendo nel “capo” una maggiore saggezza e quindi della capacità di
questo soggetto di dirimere ogni controversia, potrebbero ritenere non
necessario fissare in regole generali ed astratte i principi che devono
governare la loro vita associata e quindi qualora dovesse sorgere un
conflitto tra due consociati questi si affideranno al capo che dirimerà il
conflitto. O ancora più paradossale sarebbe la risoluzione della
controversia tramite un lancio di dadi, ma anche questo sarebbe un modo
appunto per risolvere il problema. In entrambi i casi però verrebbero meno
la certezza e la prevedibilità, che si conseguono nel modo vantaggioso cui
si è fatto riferimento, le società quindi hanno affidato la gestione dei
conflitti alla risoluzione mediante regole che sono generali ed astratte. Il
pericolo è che però le regole generali e astratte non possono tenere conto
dei singoli casi concreti, ed è proprio quello che non devono fare, devono
cioè riconoscere nella concretezza dei casi la ricorrenza di alcuni elementi
tipizzati e disinteressarsi di tutti gli altri aspetti. Il procedimento astrattivo
e generalizzante ha quindi un suo vantaggio e cioè che tutte le società
hanno adottato questo procedimento, ma questo non deve farci
sottovalutare il pericolo legato al fatto che pensare in modo rigoroso e
filosofico la generalità della regola significa avere chiara consapevolezza
del fatto che la generalità e l’individualità non sono in grado di comunicare
tra loro, se non attraverso un’operazione ermeneutica, interpretativa che
comporta margini non piccoli di arbitrio. Riconosciuti i pericoli a cui si è
fatto riferimento ai quali si dovrebbe riuscire ad ovviare con quel continuo
lavoro, che è la vita effettuale del diritto, di rimettere continuamente in
armonia le leggi astratte e i bisogni concreti, che è un lavoro che va in tutte
e due le direzioni cioè nella fase di applicazione bisogna portare il generale
verso l’individuale cercando il più possibile di concretizzarlo anche se
questi non combaceranno mai; al contrario poi, se ci si accorge che in fase
di applicazione ci sono problemi di cui la legge non ha potuto tenere conto,
è la legge che in questo caso deve essere modificata perché il suo rapporto
con la concretezza del fatto presenta delle difficoltà.
La Riduzione è stata scritta nel 1907; tra la fine dell’800 e gli inizi del’900 in
alcuni dei principali Paesi Europei in modo molto forte, specialmente in
Germania e in Francia, iniziano a svilupparsi dei movimenti critici nei
confronti del sistema del diritto positivo de dei dogmi del positivismo
giuridico così come si sono consolidati. Questi movimenti dicono che la
presunta o pretesa generalità della legge nasconderebbe in realtà i rapporti
di forza tra governanti e governati, la presunta generalità della legge non
sarebbe garanzia di neutralità, ma sarebbe una sorta di maschera dietro la
quale si nasconderebbero i rapporti di forza. Se è così dicono alcuni dei
principali esponenti di questi movimenti strappiamo la maschera così che
questi rapporti siano immediatamente percepibili e non siano celati da
queste finzioni giuridiche, della legge generale che si applica al caso
particolare. Uno di questi studiosi è Hermann Cantorovic che ha scritto nel
1906 un saggio polemico intitolato “La battaglia per la scienza del diritto”;
Croce lo conosce molto bene questo scritto perché lo legge, lo studia, lo
recensisce nel 1908 nella critica. Cantorovic è considerato uno dei grandi
esponenti di quel movimento che in Germania prendeva il nome di
“movimento del diritto libero”. Croce si occupa di questo problema perché
è molto preoccupato dal fatto che la sua tesi filosofica possa essere confusa
con queste posizioni politiche avanzate da studiosi diversi. Se i leggono gli
scritti dei principali autori del movimento del diritto libero, come ad
esempio Cantorovic, (sulla generalità della legge che è inapplicabile
all’individualità del caso, sul fatto che l’applicazione è sempre una finzione,
cioè è sempre un procedimento interpretativo all’interno del quale
interviene un momento di arbitrio, non è un movimento meccanico
oggettivo certo), è possibile accorgersi che ci può essere un margine di
confusione tra queste tesi e quella di Croce, il quale avverte questo pericolo
che non vuole assolutamente correre perché intende rivendicare il
carattere rigorosamente filosofico ddella propria tesi e in nessun modo
vuole che questa tesi sia interpretata come una proposta di riforma della
giurisprudenza, della vita del diritto, il superamento della legge a vantaggio
della decisione immediata e concreta di un despota geniale, di un giudice
illuminato. Il modo in cui Croce pensa il rapporto tra la legge e l’azione
giuridica, il rapporto tra la generalità e la regola, è un modo destabilizzante
che se si pensa in modo conforme all’insegnamento di Croce può
spaventare perché di fatto Croce ci dice che l’individualità e la generalità
non coincideranno mai, e che quindi quella regola generale precipita
sull’individualità del caso concreto sempre tramite un arbitrio, sempre
mediante un piccolo accomodamento. Ma questa è una tesi filosofica
relativa all’incomunicabilità del generale e dell’individuale, all’impossibilità
di assumere la concretezza del caso storico, così e così fatto, nella
generalità astratta del provvedimento, dopodiché la vita reale del diritto
non può essere governata in modo diverso che servendosi di leggi generali
ed astratte che il giudice applicherà con la massima prudenza, che il
legislatore sarà chiamato a rivedere di volta in volta sulla base della
trasformazione degli scenari sociali rispetto ai quali queste leggi dovranno
essere applicate.
Rispetto al tema del diritto e della legge Croce ha approntato nella
Riduzione un lavoro preparatorio, non solo avviato ma che ha dato risultati
pregevoli, ma nel momento in cui deve riversare nella Filosofia della Pratica
quanto già anticipato incontra delle difficoltà consistenti di fatto nel
risultato di insoddisfazione cui questo tentativo approda. Non è possibile
riversare le pagine della Riduzione nella Filosofia della Pratica non perché
siano mutati i concetti fondamentali che vengono consolidati già nella
Riduzione, ma la prospettiva a partire dal quale il problema giuridico viene
inquadrato nelle pagine della Filosofia della Pratica. Di questo
cambiamento vi è una testimonianza se si prova a seguire per esempio le
indicazioni che Croce dà in merito all’intitolazione delle pagine della terza
parte. La prima parte si intitola l’attività pratica, la seconda si intitola
l’attività pratica nelle sue forme speciali; la terza parte si intitola le leggi
essa è intitolata cpsì in maniera definitiva ma non è questo il titolo a partire
dal quale Croce si mette a lavorare su queste pagine. Nell’Ottobre del 1907
ad esempio, le pagine relative al diritto avrebbero dovuto intitolarsi
l’attività giuridica e la legge, a Marzo del 1908 queste pagine hanno un
titolo diverso nei programmi di Croce e dovrebbero intitolarsi l’attività
legislatrice, appena un mese dopo il ritolo però è mutato in le leggi. La
differenza tra questi titoli: il primo è un titolo che nella sua articolazione
proviene da un pensiero ancora molto vicino alle pagine della riduzione, il
titolo definitivo invece cerca di porre al centro di queste pagine, in primo
piano per il lettore, il concetto chiave su cui ruotano queste pagine ovvero
il concetto di legge. Intorno a questo concetto si costruisce proprio il nodo
che le pagine della terza parte provano a sciogliere e cioè il rapporto tra
l’attività pratica e le leggi che la governano e quindi il rapporto tra la libertà
dell’agire individuale e l’esigenza di un ordine sociale, la libertà di poter
decidere in ogni attimo, da capo, come agire e condurre la propria vita e
dall’ esigenza di porre un argine a questo arbitrio, di fermare questa
possibilità di scelta cristallizzando un ordine della vita sociale.
Il 19 aprile del 1908 Croce ha completato la revisione del manoscritto della
Filosofia della Pratica e che in quella data avrebbe scritto la breve
conclusione del volume e l’avvertenza di cui si è parlato per metterla in
relazione con l’avvertenza della Riduzione ma quando Croce scrive
l’avvertenza della Pratica non sta pensando in quelle poche righe di
risolvere il problema del rapporto tra la Filosofia della Pratica e la
Riduzione. Croce, nel momento in cui scrive l’avvertenza della Pratica,
porta ancora nella testa la fatica che ha fatto nelle ultime settimane nel
pensare di riversare le pagine della Riduzione all’interno della Pratica
quando appunto decise di non fare più questo, ma di riscrivere quasi
completamente quello che aveva già affrontato nella memoria pontaniana.
FILOSOFIA DELLA PRATICA PARTE III
L’incipit della III parte, ovvero questa definizione della legge così efficace si
ripete più volte all’interno di questa sezione dell’opera e questa è
decisamente più incisiva rispetto a quella che si trova all’interno della
Riduzione, pur avendo sostanzialmente lo stesso significato. Presentata
questa definizione del concetto di legge Croce, si trova a riflettere su una
serie di aspetti dove la sua riflessione somiglia molto a quella incontrata
nella Riduzione ma con uno slittamento di prospettiva: nella Riduzione il
concetto centrale del discorso di Croce è il concetto di azione, e intorno
alla determinazione della natura di questo concetto ha lavorato per
mostrare il carattere empirico di riferimento alla coazione, all’esteriorità,
alla socialità dell’azione giuridica e, in questa III parte si trova qualcosa di
molto simile e cioè Croce ci mostra una serie di caratteri che vengono
riferiti al concetto di legge, il primo fra tutti quello della socialità, devono
intendersi come caratteri empirici. L’attenzione va focalizzata però
sull’indagine di quelli che sono i caratteri essenziali della legge.
Pag. 327
Ciò che Croce afferma in questa pagina, fa desumere che non sono leggi ad
esempio le leggi economiche, poiché manca l’atto volitivo, infatti, anche se
in queste si fa riferimento a serie o classi di azioni ma in modo descrittivo
e non prescrittivo. Non sono leggi altresì le leggi morali, che sono princìpi
universali e, avendo proprio il carattere dell’universalità questi difettano
del riferimento a serie o classi di azioni, così come non sono leggi gli atti
volitivi singoli perché sono azioni individuali in cui però manca l’elemento
delle serie o classi di azioni che appunto sono i caratteri fondamentali
(insieme alla volizione) della legge. Il problema quindi è la qualificazione di
questa volontà, che vuole una classe di azioni e che vuole quindi la volizione
di un astratto porta in evidenza la natura altamente problematica della
riflessione sulla legge e sull’utilità della legge nello spirito pratico.
Pag. 337
La legge è un atto volitivo che ha per contenuto serie o classi di azioni, ma
è realmente così? Qui Croce pone un dubbio e lo argomenta, affermando
che volere un astratto tanto vale quanto astrattamente volere e in
definitiva questo volere sembra essere un volere irreale, una pretesa
volizione. Qualcuno degli interpreti Crociani ha considerato questa
locuzione “pretesa volizione” come una sorta di traduzione, nell’ambito
dello spirito pratico, di quello che nell’ambito dello spirito teoretico si
definisce pseudo – concetto, ovvero un finto concetto che non ha
veramente un potenziale conoscitivo. La definizione della legge, che apre
la filosofia della pratica, sembra una definizione auto – confutatoria, una
definizione che nega sé stessa, e lo fa nel momento in cui la legge è detta
essere “un atto volitivo che ha un certo contenuto e la natura di questo
contenuto mette in discussione la natura dell’atto volitivo che l’ha voluta”,
la seconda parte di questa definizione sembra mettere in questione la
prima parte. La legge è presa quindi come un atto volitivo avente un
proprio contenuto che sono serie o classi di azioni, la cui natura è un
astratto, mette in discussione la consistenza del volere che lo vuole. In
definitiva la definizione della legge nel discorso Crociano risulta quindi
contraddittoria. Ciò va in contraddizione con quanto scritto dallo stesso
Croce a pag. 49 in cui la legge è descritta come la realtà, come il fatto
immediato, mentre in questa pagina della Filosofia della pratica la legge
risulta addirittura come un atto volitivo irreale, e questa irrealtà
consisterebbe nell’essere non la legge ciò che realmente si vuole, ma l’atto
singolo che sotto la legge si compie e cioè la sua esecuzione, quindi la legge
sarebbe irreale e reale sarebbe invece la sua concreta applicazione. Ma
attenzione, perché appena Croce dice questo si corregge, si accorge che
questo non può essere, attesa infatti l’incapacità di prevedere attraverso
la legge l’indeterminata pluralità delle situazioni in cui gli uomini
concretamente agiscono, l’irrealtà non riguarda solo la legge ma questo
investe anche la pretesa ingenua di applicare la legge nelle particolari
circostanze del caso, di dare completa attuazione a quanto previsto e
disposto dalla legge, di applicare la legge nel concreto perché il generale
non può mai riversarsi nell’individuale. Queste pagine parlano al giurista
non per dirgli che il suo lavoro è arbitrario, una finzione, ma se
filosoficamente inteso il problema è qual è appena determinato e se
questo è davvero il problema, l’attività del giurista è delicatissima e di
grande responsabilità. Pensato con rigore filosofico il rapporto tra la regola
e il caso, tra la generalità della previsione astratta e la concreta
individualità del fatto è un pensiero che può destabilizzare poiché il caso
reale è sempre una sorpresa, posto allora che ciascun singolo evento
presenta per Croce un irriducibile carattere di novità per ogni fatto nuovo
occorrerebbe una nuova misura e invece la misura della legge per il fatto
di essere astratta oscilla tra l’universale e l’individuale e non ha la virtù né
dell’uno né dell’altro. Posta questa consapevolezza Croce si dispone a
svolgere una riflessione: queste riflessioni sul fatto di applicare la legge nel
caso concreto non sono nuove, si sono già formulate in diversi tempi e in
diversi luoghi da parte di diversi studiosi i quali hanno vagheggiato,
sognato, fantasticato società senza leggi, governi assoluti retti da un
despota di buon cuore o da un despota geniale. Queste dottrine per Croce
sono assolutamente insostenibili, perché vogliono maldestramente
riversare questa idea in un programma politico che praticamente è
inapplicabile. Quando Croce dice che la legge può fungere da aiuto e
preparazione per l’azione individuale prospetta una analogia tra la
costituzione dello spirito pratico e la costituzione dello spirito teoretico ma
questa volta l’analogia presentata è molto problematica perché questa
volta essa è falsa perché Croce dice che questa idea della legge come aiuto
o preparazione dell’azione concreta presenterebbe un’analogia con la
funzione che nello spirito teoretico eserciterebbero gli pseudo – concetti
rispetto ai concetti. Croce continua col dire che il fatto che la legge sarebbe
preparazione dell’azione individuale e cioè che per volere in concreto
l’individuo dovrebbe prima guardare la legge, volere l’astratto e poi far
precipitare nel concreto questa sua volizione, quindi deve servirsi dell’aiuto
della volizione astratta per volere in concreto e questo verifica
perfettamente l’analogia con quello che accade nello spirito teoretico,
poiché anche in esso dice Croce lo pseudo – concetto è un punto di
passaggio per arrivare al concetto, il filosofo guarda prima al generale pero
poter raggiungere l’universale, l’artista guarda prima al generale per poter
cogliere l’individuale e così lo pseudo – concetto è un ausilio nella
conoscenza sia del pensiero, della conoscenza logica, filosofica del
concetto, sia della conoscenza artistica, estetica dell’individualità, ma ciò
non è assolutamente vero. Nella logica questo sarà spiegato molto
chiaramente ovvero che gli pseudo – concetti non hanno una funzione
ausiliaria rispetto alla conoscenza, questi vengono dopo la conoscenza,
imitano la conoscenza, imitano le sembianze della conoscenza, non sono,
non preparano e non conducono conoscenza. Questo Croce già lo aveva
scritto nei lineamenti di logica del 1905, ovvero la memoria pontaniana che
aveva preparato la logica, quindi che non sapesse questo al momento della
stesura della Pratica è impossibile, eppure questo è stato scritto proprio da
lui, ma perché questa incoerenza? Su questo si possono formulare solo
delle ipotesi: forse ha avuto paura di quello che ha visto nello spirito
pratico, di pensare fino in fondo che l’astrattezza non può mai diventare
concretezza, ha avuto paura forse nello spirito pratico che questa tesi,
l’impossibilità di riversare l’astratto nel concreto, di assorbire nell’astratto
il concreto, di applicare la legge al caso individuale, ha avuto paura che la
sua tesi, strettamente filosofica, potesse essere confusa con le tesi di altri
studiosi che hanno invece un’indole politica. A queste domande non è
possibile rispondere ma ci avvicinano alla comprensione di un grande
problema della III parte della filosofia della pratica, cioè l’impossibilità di
pensare filosoficamente una traduzione dell’astratto in concreto, che non
deve far scivolare nel relativismo, se non è possibile dare esecuzione in
concreto a un comando astratto allora libri tutti, no, e Croce lo ha detto più
volte, questa è una tesi strettamente filosofica che va pensata con rigore,
sapendo che poi la vita pratica è fatta di pratiche soluzioni, di pratici
accomodamenti che chiamano in causa la responsabilità del giurista. Può
darsi quindi che in queste ultime pagine le sue idee potevano essere
confuse con le tesi politiche e quindi ha cercato un’altra strada,
abbandonando il terreno del pensiero rigoroso, filosofico, percorrendo una
strada differente che ha a che fare più con il buon senso che con il pensiero
filosofico, cercando un’utilità della legge e cercando a partire da questa
utilità di verificare le analogie tra spirito pratico e teoretico, ma proprio
questa analogia ha mostrato invece il limite di questa tesi. Resta
un’incoerenza, un problema aperto all’interno del pensiero Crociano, ma
la filosofia fa i conti con questo genere di problemi, i sistemi non sono mai
perfettamente coerenti, altrimenti sarebbero definitivi e il pensiero
sarebbe finito, invece il pensiero ripensa sé stesso riaprendo le domande
che le risposte sembravano aver chiuso.
Pag.51 § 9
Nella fase discendente del suo discorso Croce affronta e precisa una serie
di questioni precedentemente da lui un po' tralasciate e la prima di queste
è quello che Croce dice “rendere giustizia ai concetti di coazione, di forza,
di esteriorità e simili”, già incontrati nella prima parte della Riduzione come
formole a partire dalle quali si sarebbe preteso di distinguere il diritto dalla
morale. Questi pur essendo concetti empirici, hanno una loro utilità
pratica, poiché hanno consentito praticamente, per secoli, di impedire la
totale confusione del diritto con l’etica. “Tutti caratteri veri; ma tutti
caratteri vaghi” è una espressione molto efficace, dal punto di vista della
loro utilità pratica poiché il riferimento a queste formole ha svolto una
funzione positiva, ha consentito di vedere sia pur in modo improprio, quel
che poi è vero e cioè che il diritto e la morale sono tra loro distinti. Adesso
che è arrivato alla rigorosa determinazione del concetto di diritto recupera
dalle pagine precedenti per risolverlo. Il primo problema è quello del valore
dei concetti di coazione, forza ed esteriorità.
Pag.53 § 10
In questa pagina riprende ciò che ha scritto già a pag. 35 affermando
sostanzialmente che se noi questo problema della distinzione del diritto
dalla morale si è inquadrato a partire da una prospettiva che ci interessa,
ma questo è un problema anche per la filosofia della morale, questo è un
problema anche dell’etica perché se non viene correttamente distinto l
diritto dalla morale e possiamo quindi ritenere che la morale sia un
elemento così dell’etica come del diritto non abbiamo neanche conseguito
una effettiva autonomia dell’etica, quindi anche la filosofia della morale
soffre della mancata concettualizzazione del principio economico, e
dunque della mancata realizzazione di una mancata distinzione tra diritto
e morale. Anche questo risultato dunque appare decisivo per comprendere
il valore della riflessione Crociana svolta nella Riduzione nel percorso di
preparazione della Filosofia della Pratica. Ogni volta che Croce torna a far
vedere così come alla fine della II parte l’importanza strategica della
risoluzione del problema della distinzione, si comprende fino in fondo di
come la Riduzione sia un lavoro preparatorio per la Filosofia della Pratica.
Nella prospettiva della filosofia crociana perché la moralità si realizzi nella
realtà della vita, si concretizzi nelle relazioni umane, l’etica deve servirsi
ogni volta dell’azione individuale, la moralità deve tradursi ogni volta in
un’azione che è innanzitutto economica e giuridica, il principio universale
del bene deve quindi ogni volta concretizzarsi nella realtà dell’attività
pratica elementare ed è in questo modo che la moralità cerca di imprimere
una forma etica a tutta la vita umana. Il principio del bene è molto potente,
ma per attuarsi deve concretizzarsi, incarnarsi in ogni momento
nell’attività pratica, che è attività economica e giuridica, ma non riesce
sempre in questo tuttavia l’assenza di moralità, appunto, non fa di
un’azione economica un’azione antieconomica.
Il problema quindi consiste in questo: la morale cerca di orientare l’agire
degli uomini, ma non riesce sempre e ciò genera un senso di frustrazione,
poiché la morale appare in questo senso impotente ma quando riesce si
osserva la forza che questa ha nel formare la coscienza degli uomini,
proporre continuamente agli uomini dei bisogni morali, che attivano nella
dinamica dello spirito pratico un movimento virtuoso per cui l’azione
economica è anche azione etica, per cui il primo grado si innalza al secondo
grado, per cui l’uomo che vuole l’individuale vuole contestualmente anche
l’universale.
Pag.54
Il problema delle norme religiose che di tanto in tanto si riaffaccia nel
dibattito della filosofia del diritto è un falso problema; o si pensa la
religione alla stregua della morale e in al caso il problema tra diritto e
religione è lo stesso che corre tra diritto e morale e quindi è un rapporto di
distinzione, oppure se invece questa autorità religiosa è un’autorità da cui
promanano comandi che sono di una volontà antropomorfica allora non
siamo fuori dalla sfera propriamente giuridica economica e quindi non si
ha rapporto di distinzione.
§ 11
Dietro questo dualismo che infinite volte si è riproposto nella storia del
pensiero, c’è un problema vero che ormai si conosce in modo rigoroso, cioè
la distinzione tra diritto e morale e non poteva che essere così, perché
ancora una volta, se quella distinzione fosse stata una sciocchezza sarebbe
stata superata quindi o risolta o abbandonata, se invece ha seguitato a
riproporsi nella storia del pensiero umano è segno che sotto vi è un
problema vero e il problema è lo stesso che ha agitato il filosofo del diritto
per secoli cioè riuscire a distinguere il diritto dalla morale, distinguere
filosoficamente quindi cogliere le differenze ma anche il principio di unità,
differenziare ma anche coordinare. Ecco perché questo dualismo si
ripropone innumerevoli volte, perché evidentemente alla base della
moralità che nelle trattazioni di filosofia del diritto è parso come un
inconciliabile dualismo di termini si agitava quello che per Croce è il
problema capitale della filosofia del diritto quando il filosofo del diritto
parla del diritto naturale sta parlando del valore universale del bene al
quale contrappone l’individualità del diritto positivo.
Da un certo punto di vista la parabola della Riduzione sembra concludersi
qui, in quest’ultimo riferimento tra diritto positivo e diritto naturale. In
realtà è presente un ultimo paragrafo sul linguaggio, il quale sembra quasi
estrinseco ma in realtà non lo è.
§ 12
In queste righe introduttive Croce dice che questo paragone tra la vita del
diritto e la vita del linguaggio è un paragone classico, è un paragone
radicato nella storia del pensiero giuridico, che però appare a Croce
argomentato sempre in un modo superficiale, e invece questo paragone
consegue proprio nel sistema della filosofia dello spirito proprio il suo
significato più profondo perché è in grado di verificare la perfetta analogia
tra spirito pratico e spirito teoretico. Questo paragone tra diritto e
linguaggio ha una storia importante ma non soddisfacente cioè dice Croce
sebbene i romantici abbiano posto giustamente questo paragone perché
molto raffinata nella scuola del romanticismo è la riflessione intorno al
linguaggio e nella filosofia dello spirito questo paragone consegue il suo
valore principale. Il diritto, non è la legge non è la pretesa volizione e non
è nemmeno la classificazione dogmatica elaborata dal giurista, proprio
come la vita del linguaggio non si trova nel vocabolario, questa è altrove,
quelle sono costruzioni pseudo – concettuali, sono rappresentazioni, sono
l’empiria, sono l’astrazione, proprio come la legge che è pretesa volizione,
proprio come i concetti giuridici che sono pseudo – concetti, la realtà del
diritto è l’attività giuridica completa, così come la realtà del linguaggio è
tutta nell’opera poetica, nell’espressione linguistica.
Per distinguere il diritto dalla morale si deve pensare il diritto in modo

categoriale, cioè pensare il diritto come l’azione economica, perché se si


guarda il diritto come la legge non si guarda “lo spettacolo della vita” ma
“le astrazioni dei legislatori”, non si è nemmeno in grado di distinguerlo
dalla morale.
L’attività giuridica non è attività morale, il diritto è amorale, ma non
significa che è in antitesi con il fatto morale, significa che è per astrazione
indipendente dalla morale. Il primo grado è indipendente dal secondo. Ma
la morale non può realizzarsi se non traducendosi in azioni pratiche –
elementari che sono tutte azioni economiche e giuridiche.
Quest’ultimo passaggio già notato a pag. 39, in cui Croce dice che la vera
storia del diritto non è solo la storia del diritto formulata nelle leggi, nei
codici e nelle astratte elaborazioni dei giuristi perché in questi casi quella
sarebbe la storia di un’astrazione la storia di qualcosa che è rimasta lettera
morta. La vera storia del diritto è sempre storia sociale e politica, è storia
degli appetiti economici degli uomini e dei contrasti per soddisfarli, questo
significa “storia di bisogni e di lavoro”. La storia del diritto è storia di lotte
che preparano accordi e di accordi che degenerano in nuove lotte, ecco
cosa significa che “la storia del diritto è la storia in cui la volontà spiega la
sua forza e si bagna di lagrime e di sangue” (pag.39).

SAGGI
Quando nel 1926 Croce facendosi aiutare da Adelchi Attisani, valuta di
integrare la Riduzione con dei saggi che hanno a che fare direttamente con
il testo e con i temi in esso trattati. Croce quindi pubblica questi tre
contenuti nel 1908, 1914 e nel 1916 all’interno della critica, ovvero la
rivista che a partire dal 1903 Croce pubblica per un lungo periodo
lavorando insieme a Giovanni Gentile, salvo poi interrompere i rapporti con
quest’ultimo continuando quindi da solo. I primi due scritti si riferiscono
direttamente alla teoria del diritto di Croce, quindi proprio alle pagine della
Riduzione, mentre il terzo scritto è legato più al concetto dell’utile.
SAGGIO 1
Questo viene pubblicato nel lasso di tempo intercorrente tra la
pubblicazione della Riduzione e della Filosofia della Pratica.
Nelle prime righe si può osservare l’utilizzo di una locuzione che
successivamente supererà ovvero l’espressione filosofia pratica per poi
utilizzare l’espressione filosofia della pratica, perché questa espressione
corrisponde in modo più corretto a quello che è effettivamente l’oggetto
di questa filosofia che è un compito conoscitivo ed è scienza della pratica,
cioè del volere e dell’agire degli uomini, non è filosofia pratica quindi non
ha e non può avere una funzione pratica.
In questo contributo Croce presenta una serie di obiezioni che servono a
chiarire il suo pensiero, in maniera anche discorsiva, ponendosi a
rispondere direttamente a queste obiezioni che viene formulando e quindi
il suo pensiero risulta molto più chiaro.
Questo è un discorso che Croce fa in riferimento all’agire economico e
giuridico dell’uomo per poi ribaltarlo sul piano della legge, mantenendo
sempre la stessa tesi cioè che non occorre vivere insieme con altri uomini
perché ci siano leggi o ordini, poiché l’uomo detta da ordini a se stesso e
poi deciderà se rispettarli o meno a seconda che questo gli convenga o non
gli convenga.
Il concetto che Croce ribadisce qui è innanzitutto la complessità del fatto
legge: la legge è un fatto complesso perché prevede prima un momento
teoretico e poi un momento pratico, cioè l’atto volitivo. Torna inoltre una
questione di diritto e linguaggio, perché solo considerando il diritto nella
sua forma primaria e semplice è possibile distinguerlo dalla morale perché
la distinzione è possibile solo tra due forme irriducibili di attività spirituale;
se invece si confonde il diritto con la legge non è più possibile la distinzione,
legge e morale non sono concetti distinti, poiché la legge non è una forma
irriducibile, quindi legge e morale sono concetti disparati e non distinti.
Al par. IV è chiaro il tema sintetizzato, ovvero il tema della gens
langobardorum. Forza maggiore e forza minore cosa significa nel concreto:
certo, se si guarda con occhio e attenzione empirica i Longobardi sembrano
essere più forti, mentre i Romani sembrano ormai remissivi, ma da un
punto di vista filosofico i rapporti sembrano addirittura rovesciati perché
sono i Longobardi che stanno chiedendo ai Romani, quindi in questo
accordo è colui che risponde che ha in mano la possibilità di chiudere o
meno l’accordo.
SAGGIO 2
E’ un testo importante per due ordini di problemi: Croce con una metafora
molto vivida fa capire uno scomposto agitarsi sulla sua teoria del diritto.
Questa grossa pietra però non ha giovato perché l’atteggiamento che
Croce assume nei confronti della filosofia del diritto come disciplina nel
1908 e nel 1914 è un atteggiamento che ha certamente contribuito al
successo immediato della riduzione in un modo distorto e cioè tutto in
chiave polemica, come se il libro di Croce fosse una polemica contro i
filosofi del diritto quando in realtà non è così ma che questo è una
riflessione profonda sulla filosofia del diritto. Di fatto la natura di questo
originario successo ha poi determinato una crescente, progressiva
disattenzione da parte dei filosofi del diritto nei confronti di Croce, che
veniva visto come una sorta di nemico e su questa distorta recezione della
memoria pontaniana Croce ha una responsabilità, dovuta soprattutto al
linguaggio duro utilizzato che sicuramente non ha giovato.
C’è poi un’altra questione che interessa, ovvero una questione di diritto
internazionale contenuta anche nelle “pagine sulla guerra” che sono una
serie di scritti che Croce pubblicò sulla guerra nel 1919. All’interno di
queste pagine vi è una postilla sul diritto internazionale che verifica
esattamente questo auspicio contenuto nelle prime righe di pag. 79.
Questa postilla è molto efficace perché il diritto internazionale è un
laboratorio perfetto per osservare le relazioni giuridiche nella loro forma
elementare, soprattutto nel diritto internazionale di quegli anni, degli anni
della crisi, era appunto un laboratorio perfetto per fare teoria o filosofia.
In queste pagine Croce spiega che il diritto è forza e non ci si deve aspettare
da questo un’abolizione delle guerre, poiché il diritto stesso è guerra e
quindi dovrebbe abolire prima se stesso per far cessare le guerre.
SAGGIO 3
In queste righe vi è la ripresa di un tema proposto nella parte iniziale del II
capitolo, ovvero la critica all’utilitarismo dicendo che questa critica non
può mai riuscire se prima non si riconosce l’elemento di verità
nell’utilitarismo che è l’attenzione portata per i concetti dell’utile, della
forza, solo che l’utilitarismo aveva creduto di assorbire al suo interno l’etica
e quindi aveva riprodotto sincretismo, confusione.
Il rigo segnalato a pag. 93 riporta alla mente ciò che si è letto nell’incipit del
par. 2 del II capitolo della Riduzione, sul modo in cui questo riconoscimento
dell’importanza della storia della filosofia del diritto rispetto all’intero
svolgimento della filosofia moderna, testimoni continuità tra la Riduzione
e la filosofia della pratica, e cos’è questo riferimento alla filosofa del diritto,
agli sforzi vani di risolvere il diritto della morale, i tentativi deboli di
differenziare il diritto dalla morale. Trascorsi non pochi anni Croce ha
comunque chiaro in mente l’importanza che la riflessione sulla filosofia del
diritto ha avuto nella determinazione del concetto dell’utile e quindi
dell’intera filosofia della pratica.
E’ molto interessante il fatto di poter riconoscere i precedenti storici di un
pensiero nel momento in cui questo pensiero si è formato; questa frase di
Croce si può leggere in due modi: o in maniera banale, nel senso che è
logico che non esistono precedenti di un pensiero se non esistono i
precedenti del pensiero stesso, oppure in maniera non banale, e quindi che
è chiaro che la lettura dei precedenti storici è una lettura introspettiva,
condotta a partire dalla specificità di questo pensiero, è il pensiero
filosofico che costruisce i suoi precedenti e non il contrario.

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