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INTRODUZIONE:
La “Riduzione” è una memoria Pontaniana, cioè una relazione che Croce ha
tenuto all’ Accademia Pontaniana di Napoli che è una delle più antiche
accademie scientifiche italiane nella primavera del 1907 e pubblicata nello
stesso anno negli atti dell’Accademia stessa. Questa viene indicata da
Croce come parte dei lavori preparatori di un libro che Croce aveva in
preparazione in quel periodo dedicato alla filosofia della pratica.
L’Accademia Pontaniana rappresenta per Croce un banco di prova, dove
questo studioso a messo alla prova il proprio pensiero in vista della
scrittura di libri importanti come lo è “La Filosofia della pratica”.
La prima edizione del libro appare nel 1907, dopo di che, accade che
essendo la “Riduzione” parte dei lavori preparatori della “Filosofia della
pratica” la cui pubblicazione è avvenuta nel 1909, Croce ritiene che non sia
più necessario ripubblicare la memoria Pontaniana del 1907, poiché questa
è inclusa all’interno della “Filosofia della Pratica”, quindi questo libro non
entra a far parte del “corpus” delle opere di Benedetto Croce. Il filosofo è
stato un attentissimo editore delle proprie opere, egli stesso infatti, ha
progettato una articolata sistemazione della propria produzione
scientifica. Ciascuna di queste opere ha avuto una nuova edizione, la quale
aveva la funzione di correggere errori presenti nelle precedenti edizioni o
semplicemente per aggiornarli. Agli inizi degli anni 80, un gruppo di studiosi
ha messo in piedi una impresa scientifica che è “L’edizione Nazionale delle
opere di Benedetto Croce”, la quale, cosi come tutte le altre edizioni
Nazionali, è approvata e poi sostenuta dalla Presidenza della Repubblica; si
tratta di una nuova edizione critica delle opere di Croce, che tiene conto
del disegno che l’autore stesso aveva fatto della sua opera. Ma neanche
all’interno dell’edizione Nazionale l’opera ha trovato fortuna. E’ successo
invece che nel 1926
servendosi della collaborazione del giovane studioso Adelchi Attisani,
Salentino di nascita ma Siciliano di formazione, Croce decide di pubblicare
una nuova edizione, sostanzialmente una ristampa della Riduzione,
all’interno di un volumetto èdito da un editore Napoletano che si chiamava
Ricciardi, con una piccola nota di lettura scritta da Attisani e una piccola
appendice di alcuni saggi che secondo Croce e Attisani avrebbero
opportunamente accompagnato la “Riduzione”. L’ipotesi del perché Croce
volle ripubblicare la “Riduzione” nel 26 trova probabilmente il suo
fondamento nella rottura dei rapporti con Giovanni Gentile, quando alcuni
allievi di quest’ultimo iniziano ad attaccare Croce, mettendo in circolazione
una voce, quasi certamente senza alcun fondamento, ovvero che ciò che
Croce sapeva di Filosofia lo aveva imparato da Gentile e il suo
allontanamento proprio da Gentile avrebbe causato una sorta di
corruzione della sua filosofia. Di fronte a queste accuse, decide di rimettere
quindi in circolazione le opere che erano state preparatorie dei grandi
volumi che costituiscono la “Filosofia dello Spirito”, cioè del suo sistema
filosofico. Queste opere preparatorie sono tutte memorie Pontaniane:
“Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione linguistica
generale” (1900), “I lineamenti di una logica come scienza del concetto
pure” (1905), “Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia
dell’economia”(1907). La ripubblicazione negli anni 20 di queste opere
avviene in questo modo: nel 1925 vengono pubblicate insieme le prime
due, in un unico libro èdito da un editore Messinese, che ha per titolo: “La
prima forma dell’estetica e della logica, memorie accademiche del 1900 e
del 1904/05”. Nel 1926 invece, viene ripubblicata la “Riduzione”.
Il rapporto tra la “Riduzione” e la “Filosofia della pratica” è molto
problematico, a differenza delle “Tesi fondamentali di estetica” che se
confrontato con “Il grande libro sull’estetica”, la cui prima edizione è del
1902, si può ravvisare una grande somiglianza tra le due opere. Lo stesso
può dirsi per quanto riguarda “I lineamenti di logica” e “Il libro sulla logica”,
la parte teoretica è infatti anticipata nella memoria preparatoria a cui si
aggiunge una parte storica contenuta nel “Libro sulla logica”. Confrontando
invece la “Riduzione” con “La Filosofia della Pratica”, è possibile accorgersi
che le due opere si somigliano molto poco, soprattutto nella terza parte
della “Filosofia della Pratica” che è una parte dedicata alle leggi, e anche
nelle parti in cui le due opere si somigliano, Croce ha sostanzialmente
riconfigurato e riscritto le pagine che aveva già precedentemente
approntato per la riduzione. Questo libro viene pensato e scritto nei primi
mesi del 1907, periodo per Croce di importante riflessione Filosofica sul
suo sistema di pensiero.
La Filosofia dello spirito si articola in due grandi dominii: 1) Dominio
Teoretico e cioè il campo della conoscenza;2) Dominio pratico e cioè il
campo della volontà e dell’azione. Ogni dominio si divide a sua volta in due
forme dette anche gradi, perché queste due forme sono in una
connessione graduata tra loro. Il dominio teoretico si articola e distingue in
un primo grado della conoscenza che croce denomina estetica e in un
secondo grado della conoscenza che Croce denomina logica; il primo grado
della conoscenza ha a che fare con l’intuizione e con l’espressione ed è una
forma di conoscenza preconcettuale che ha a che fare con l’intuizione,
mediante la quale percepiamo per esempio la bellezza di un’opera d’arte;
il secondo grado della conoscenza è il grado della logica, ed è questa invece
la conoscenza concettuale, propria della storia e della filosofia che ci
consente di operare in modo critico e concettuale, capendo il significato di
un’opera ad esempio. Questa medesima articolazione si trova anche
all’interno dello spirito pratico, quindi del dominio pratico della filosofia di
Croce, con un primo grado che Croce denomina dell’economica e un
secondo grado dell’etica. Il primo grado è della volizione, cioè della volontà
tesa a conseguire da parte del soggetto che agisce una convenienza per
soddisfare il suo utile individuale; il secondo grado, cioè il grado dell’etica
è invece volto a conseguire un risultato universale poiché questa azione
non consegue come nel primo grado solo la convenienza per il soggetto
che agisce ma produce il bene, la quale è un’azione conforme ai princìpi
dell’etica e della morale.
Il 1907 è un momento in cui “Il forno di cottura della filosofia dello spirito
è alla sua massima temperatura”, Croce sta progettando la terza edizione
dell’estetica del1908 che costituirà il primo volume della “Filosofia dello
spirito”, sta pensando di dover fare una seconda edizione della logica nel
1909 che costituirà il secondo volume e ha nel 1907, appena iniziato a
progettare ed elaborare la “Filosofia della pratica”; questo libro che a
differenza dei libri dell’Estetica e della Logica contiene in se la Filosofia
della pratica, sia le pagine relative al primo grado pratico e cioè all’azione
economica, sia le pagine relative al secondo grado pratico e cioè l’azione
etica. Sono questi allora i mesi e gli anni in cui Croce sta pensando con
grande impegno alla struttura del suo sistema filosofico e ciò si riversa sulle
pagine della “Riduzione”.
Croce nel periodo di composizione delle sue opere più importanti vi dedica
molto tempo e l’inizio del 1907 è dedicato alla “Filosofia della pratica”,
precisamente croce inizia gli studi per la Filosofia della pratica il 16
Febbraio 1907; a partire da questa data quindi Croce è impegnato nelle
letture filosofiche che gli servono a preparare quest’opera. Accade però
molto presto che la sua attenzione inizi a riorientarsi verso gli studi della
Filosofia del diritto i quali hanno a che fare con il volere con l’agire e quindi
sono assolutamente parte della “Filosofia della Pratica”. Inizia quindi a
leggere libri e a riflettere sui problemi della Filosofia del diritto. Da un certo
momento in poi, precisamente il 30 Marzo, Croce inizia a pensare che
questi appunti che stava prendendo sulla filosofia del diritto li avrebbe fatti
convergere in uno scritto da presentare all’ Accademia Pontaniana. Questa
presentazione si avrà di lì a breve, il 21 Aprile dello stesso anno legge la
prima parte della Riduzione e il 5 Maggio la seconda, chiudendo la
presentazione. Parte degli studiosi è stata indotta a pensare alla
“Riduzione” come una specie di divagazione su un tema specifico, quello
del diritto, che Croce si sarebbe concesso per animare una sorta di
polemica contro la Filosofia del diritto e i Filosofi del diritto; Questa lettura
ha di fatto accreditato un’interpretazione, forse errata, della “Riduzione”,
come di un testo vivace, essenzialmente polemico, di battaglia contro la
Filosofia e i Filosofi del diritto. In realtà la “Riduzione” si presenta come un
vero e proprio libro di Filosofia del diritto in cui vengono tematizzati i
problemi centrali ed essenziali della Filosofia del diritto.
Questa tesi è sostenuta dal fatto che Croce non si sarebbe mai consentito
nei giorni di preparazione di Filosofia della pratica una divagazione
polemica, a meno che questa non fosse indispensabile per cogliere alcuni
aspetti centrali della “Filosofia della pratica”.
I PARTE
LA CONTRADDIZIONE INTERNA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
Pagg.7 – 10
“Come filosofia” vuol dire che l’oggetto di riflessione è propriamente il
carattere filosofico della conoscenza veicolata da queste trattazioni, da
questi libri, un carattere filosofico che va rivendicato e difeso nei confronti
di ipotesi differenti di Riduzione. Quando queste trattazioni vengono fatte
oggetto di esame come filosofia la specificità del problema gnoseologico
riguarda l’autonomia della conoscenza filosofica rispetto ad altre forme
della conoscenza; quando invece le trattazioni di filosofia del diritto siano
fatte oggetto di esame dal punto di vista della filosofia del diritto, questo
significa che l’oggetto di riflessione è questa volta il modo in cui queste
trattazioni abbiano affrontato e risolto il loro particolare problema.
Secondo Croce questo problema è quello della natura del diritto, in questo
caso quindi la specificità del problema gnoseologico riguarda l’autonomia
dell’oggetto della conoscenza filosofico-giuridica rispetto ad altri oggetti
differenti.
Alla base di queste trattazioni Croce riscontrava una serie di affermazioni
corrette e condivisibili, ma sostanzialmente inutili, una serie di osservazioni
attraverso le quali – dice Croce – non ci siamo neanche avvicinati al
problema vero e proprio della filosofia del diritto.
“Funzione pratica della filosofia del diritto” è una concezione molto
radicata negli studi di Filosofia del diritto di fine 800 e inizi 900, un’opera
di uno studioso importante di filosofia del diritto, Icilio Vanni, si intitola
proprio “Funzione pratica della filosofia del diritto”. Il problema che Croce
sta affrontando quindi è che i libri di filosofia del diritto, le trattazioni a cui
ha volto le sue attenzioni gli appaiono sterili, vuote, come se i filosofi del
diritto si stessero occupando di essenzialmente di problemi marginali,
senza che si siano realmente occupati di quello che secondo Croce è il vero
tema della filosofia del diritto e cioè la natura del diritto. Queste tesi
relative al carattere antiempirico e antigiusnaturalista della filosofia del
diritto, sono tesi che Croce condivide ma che ci mantengono ancora fuori
dal dominio vero della filosofia del diritto, per entrare in questo dominio
infatti, occorre cambiare prospettiva e andare invece ad osservare il
problema specifico della natura del diritto. Questo problema non è
affrontato nei libri che Croce ha letto, o per lo meno questo è affrontato
dall’autore in maniera superficiale, mentre proprio questo dovrebbe
essere il tema centrale del libro. Questi libri contengono una serie di dati
storici, schematismi giuridici quindi, sembrano libri di Storia Universale, di
teoria del diritto, di politica del diritto o del diritto naturale, magari gli sessi
libri che contengono anche le affermazioni per cui la filosofia non deve
ridursi a questi atteggiamenti. Ma quello che realmente a Croce interessa
sono quelle poche pagine, talvolta nascoste vergognose nella selva delle
discussioni estranee, che hanno come oggetto la natura, il concetto e il
fondamento del diritto. Il problema quindi a cui Croce rivolge il problema
è quello della definizione del diritto, che i giuristi cercano da sempre e che
non sono mai riusciti a trovare. Questo problema viene riconfigurato da
Croce nei termini del problema della distinzione del diritto dalla morale. Da
un certo punto di vista queste affermazioni di Croce, e cioè definire la
natura del diritto un problema filosofico e che storicamente questa natura
del diritto si è definita distinguendo il diritto dalla morale, si identificano
nel pensiero di Croce, poiché per Croce storia e filosofia devono
identificarsi, a maggior ragione la filosofia e la storia della filosofia. Questo
rapporto tra diritto e morale, che lo studioso von Jhering chiamava il capo
Horn, il capo delle tempeste, un posto in cui è difficile navigare, cioè un
posto in cui coloro i quali hanno provato a navigare hanno fatto naufragio;
questa metafora serve a far comprendere che l’indole, il carattere
dell’attività giuridica rimane ancora oscura, questa distinzione del diritto
dalla morale non ha conseguito ancora la necessaria chiarezza, il carattere
giuridico è rimasto oscuro e non si è riuscito a distinguerlo ancora da quello
dell’etica. Proprio per la natura cosi insidiosa di capo Horn dove coloro i
quali si sono avventurati hanno fatto naufragio, la distinzione non è stata
ancora conseguita non si è riusciti ancora a distinguere il diritto dalla
morale, e ci hanno provato un po' i grandi nomi della filosofia, ci ha provato
Cristiano Tomasius, ci ha provato Kant, Hegel, ma se nessuno di questi è
riuscito a trovare questa distinzione – dice Croce- probabilmente questa
non esiste e, se la distinzione non esiste, allora bisogna rassegnarsi e
ridurre la filosofia del diritto all’interno dell’etica, lasciando che questa
assorba al suo interno la filosofia del diritto. I filosofi del diritto non ci
stanno a questa conclusione, ma non riescono a dire secondo Croce in cosa
consiste la distinzione, e questo è il motivo per cui resistono
ostinatamente, ma quello che resiste ostinatamente non è una precisa
coscienza di come il problema debba risolversi. Secondo Croce la storia
della filosofia del diritto è la storia dei tentativi di distinguere il diritto dalla
morale, e questo è il motivo per cui la storia della filosofia del diritto è una
storia ormai recente che comincia solo nel momento in cui con rigore di
pensiero il filosofo è stato capace di porre, affrontare e a suo modo
risolvere – in modo insoddisfacente secondo Croce – il problema della
distinzione del diritto dalla morale. Questa tesi rappresenta uno dei punti
essenziali di continuità tra la riduzione e la filosofia della pratica. La storia
della filosofia del diritto potrebbe sembrare per come Croce ce l’ha
proposta, la storia dei continui e ripetuti fallimenti nel tentativo di
distinguere il diritto dalla morale, ma questa in realtà è una storia che come
Croce stesso afferma nella seconda parte ha in realtà portato un contributo
decisivo non solo alla chiarificazione del problema specifico della filosofia
del diritto, e dunque al problema della definizione del diritto mediante la
distinzione del diritto dalla morale, ma questo ostinato atteggiamento del
filosofo del diritto di fronte al suo problema centrale, ha prodotto un
risultato importantissimo per l’intera storia del diritto occidentale.
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Croce fa riferimento all’estetica poiché questa è il primo grado della
conoscenza e quindi occupa all’interno dello spirito teoretico, la posizione
corrispondente a quella che il diritto, l’economia, la politica, l’economica
occupa all’interno dello spirito pratico. Quindi Croce ci sta mostrando
un’analogia fatta in questo modo: fino al momento in cui non si è pervenuti
quanto meno a tematizzare il problema della distinzione, l’etica aveva
assorbito in se il problema del diritto, e ciò è esattamente quello che nel
campo della teoria della conoscenza è accaduto nel rapporto tra la logica e
l’estetica, cioè fino al momento in cui la filosofia occidentale non è stat in
grado di determinare il campo dell’estetica come campo autonomo della
conoscenza, i problemi dell’estetica erano stati sostanzialmente assorbiti
dalla logica. Via via, l’estetica dal lato teoretico e l’economica dal lato
pratico, hanno cominciato a guadagnare progressivamente un’autonomia
rispetto a quello che era il nucleo fondante della teoria della conoscenza,
la logica, della teoria del volere e dell’agire, l’etica. Croce quindi in poche
righe ci sta spiegando che anche l’estetica all’interno del proprio dominio
ha sofferto dei tentativi di riduzione del tutto identici corrispondenti a
quelli che avrebbe subito la filosofia del diritto ( tentativi di riduzione a
storia dell’arte, a sociologia estetica, a semplice dottrina generale dei
concetti letterari e artistici, a costruzione di modelli e tipi di bellezza).
Questione della funzione pratica: la filosofia del diritto e della pratica, non
possono avere una funzione pratica. (Pag. 52) Il fatto che la filosofia della
pratica e dunque anche la filosofia del diritto abbia come proprio oggetto
di studio una modalità dell’agire dell’uomo, ha creato questa confusione
che la filosofia della pratica, diversamente dal altri campi della filosofia,
come la logica per esempio, possa essa stessa direttamente essere
normativa, cioè prescrivere un dovere e questo dubbio Croce intende
fugarlo in modo netto e categorico: la filosofia della pratica è come ogni
altro campo della filosofia, e cioè pura conoscenza e non ha non può avere
alcuna funzione pratica. La questione è interessante dal punto dal punto di
vista concettuale e storico, perché riflettendo proprio sulla filosofia del
diritto, Croce ha messo definitivamente in chiaro nella sua riflessione
questo punto e quindi anche in questo senso la Riduzione, mostra il suo
carattere preparatorio rispetto alla filosofia della pratica.
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Il problema della distinzione tra diritto e morale è un problema che ha una
storia un po' più complessa e può essere rappresentata in questi termini:
la filosofia del diritto comincia quando viene presa sul serio la distinzione,
non c’è filosofia del diritto quando la distinzione non viene presa sul serio;
non prendere sul serio la distinzione significa in modi diversi ridurre un
termine all’altro e quindi far scomparire la distinzione dei termini, perché
non sussistono più uno accanto all’altro distinti, ma uno ha assorbito
l’altro. Evidentemente se due sono i termini di cui stiamo discutendo, due
sono le possibilità che storicamente si danno: in un caso l’assorbimento del
diritto nell’etica e, nell’altro caso l’assorbimento dell’etica nel diritto. Il
problema della distinzione è rimasto – secondo Croce – ignoto, tanto alla
filosofia greca, con Aristotele e della sua riflessione sulla giustizia nelle
pagine del V libro dell’etica nicomachea, tanto nella tradizione della
giurisprudenza romana. La riflessione filosofica classica avrebbe tenuto
come ignorato il problema della distinzione; appena un barlume di questa
distinzione – dice – si può rintracciare nella distinzione rozza di un diritto
naturale e un diritto positivo. Questa distinzione è “rozza” perché è una
distinzione per un verso ingenua e per un verso ingannevole poichè
confonde, infatti all’interno di una filosofia rigorosa o il diritto è uno o non
è, se nel sistema filosofico della filosofia del diritto due sono i concetti del
diritto, naturale e positivo, è come se non avessimo nessun concetto del
diritto. Lo stesso problema e cioè la mancanza di una vera e propria
distinzione, avrebbe caratterizzato anche la tradizionale riflessione
filosofica sulla forza e sull’utilità tra i cui iniziatori Croce annovera i nomi di
Protagora e Carneide mentre tra i massimi esponenti della filosofia
moderna indica i nomi di Hobbes e Spinoza. Dunque se i termini che
dobbiamo distinguere, diritto e morale, cadono, perché ne resta solo uno
che assorbe in se l’altro, cade il problema della distinzione e se cade il
problema della distinzione, cade il problema stesso della filosofia del
diritto, ecco quindi cosa significa che la filosofia del diritto ha una storia
recente la quale coincide con la rigorosa concettualizzazione del problema
della distinzione e comincerebbe con Cristiano Thomasius, perché egli
avrebbe avuto la forza di tematizzare in modo rigoroso il problema della
distinzione e non di risolverlo. Croce infatti non è assolutamente persuaso
dalla soluzione che Thomasius prospetta circa il problema della distinzione
perché è una soluzione non rigorosa dal punto di vista filosofico, gli
riconosce però il merito di aver visto questo problema, di averlo affrontato
con rigore di pensiero e di averlo imposto alla filosofia del diritto,
costringendo quindi i filosofi del diritto che sono venuti dopo di lui a
confrontarsi con questo problema, dei quali nessuno è riuscito a trovare la
soluzione. Cristiano Thomasius era un giurista e filosofo tedesco nato a
Lipsia nel 1655. Ha studiato prima la filosofia e poi il diritto e dopo la laurea
per un certo periodo di tempo si dedicò alla professione di avvocato,
parallelamente tenendo degli insegnamenti presso l’Università di Lipsia e
qui per esempio, uno degli aneddoti più noti è la sua ferma convinzione
della necessità di tenere i propri corsi in tedesco e non in latino,
probabilmente per raggiungere un pubblico più vasto. Nel 1690 si
trasferisce a Berlino e comincia a insegnare la filosofia del diritto, che allora
si chiamava il diritto di natura e delle genti e, negli anni ultimi del 600 e
primissimi del 700, scrisse le sue più importanti opere giuridiche, tra cui i
“Fundamenta iuris naturae et gentium”; è un’opera che va in prima
edizione nel 1705 e che diede grande fama e prestigio a questo studioso.
All’interno dell’opera vi è la prospettazione sistematica della distinzione
del diritto dalla morale. Per la verità il discorso di Thomasius è più
articolato, infatti ritiene che per esplicitare nel modo più corretto possibile
il rapporto tra il diritto e la morale occorra articolare questa distinzione
all’interno di una più complessa determinazione delle forme della vita
pratica, e cioè distinguendo il diritto la morale e il costume. I campi quindi
del normativo che per Thomasius occorre distinguere non sono due, ma
tre, occorrono quindi due elementi differenziali. Per Thomasius l’uomo
ricerca la felicità e per conseguirla deve procurare la pace, inducendo
l’uomo a vivere in conformità dei principi dell’honestum, del decorum e del
iustum. Se ognuna di queste qualificazione del comportamento umano non
esclude le altre, il fatto che non siano in cottraddizione non significa che
non siano puntualmente distinti. Thomasius li distingue individuando il
principio che orienta l’agire dell’uomo se vuole vivere in conformità
dell’onestum, del decorum o del iustum. L’honestum: quello che vuoi che
gli altri facciano a se stessi fai a te stesso. L’honestum è il principio che
governa la sfera della morale, la regola fondamentale nell’ambito della
morale è la regola del pentimento, la presa di coscienza della propria
stoltezza, quindi questo principio procura una pace interna, consentendo
all’uomo di stare bene con se stesso. Particolarmente efficace a sostegno
di questo principio è l’esempio, dare l’esempio agli altri, quindi il modo in
cui si induce l’uomo a comportarsi in conformità con il principio
dell’honestum è in via privilegiata il buon esempio. Di fronte ad ognuno dei
principi del normativo, Thomasius fa anche un’altra riflessione, e cioè
riflette sul modo in cui conformare la propria vita ad un principio consenta
di evitare il male e produrre il bene; nel caso dell’honestum, il male che
viene evitato è minimo, l’inosservanza di questa regola di condotta infatti,
non coinvolge in nessun modo gli altri uomini e non nuoce che al soggetto
stesso; invece il bene che viene prodotto da questo orientamento del
comportamento umano, è un bene massimo esso mostra infatti la via per
il raggiungimento della saggezza, della pace interiore, della realizzazione
dell’individuo nel suo autentico essere. Il decorum: quello che vuoi che gli
altri facciano a te fai a loro. La regola fondamentale nell’ambito
dell’opportunità, del costume, della convenienza sociale è quella della
spontanea remissione dei debiti e cioè dare agli altri anche ciò che non si è
costretti giuridicamente a dare. Questo principio del decorum, promuove
la socialità ma non garantisce la pace esterna, a sostegno del decorum è
particolarmente efficace il premio, quindi io posso indurre gli altri a
comportarsi secondo questo principio premiandoli; in questo caso il male
evitato è medio, non è sufficiente e neanche strettamente necessario
osservare il principio del decorum per evitare la guerra e l’odio; anche il
bene prodotto è medio, esso mostra infatti il modo in cui ci si possa
procurare degli amici, guadagnare la loro gratitudine, la loro riconoscenza.
Il iustum: quello che non vuoi sia fatto a te non fare all’altro. Dunque la
regola fondamentale nell’ambito del iustum e quindi nell’ambito della
giuridicità, è il rispetto degli altri, il non impedimento del godimento da
parte degli altri dei loro diritti. Questo principio non promuove la socialità,
ma evita che sia turbata la pace esterna. Particolarmente efficace a
sostegno di questo principio è la sanzione, quindi, per indurre un soggetto
a comportarsi in modo conforme al principio del iustum bisogna minacciare
una sanzione per il comportamento contrario. Il male evitato è massimo,
perché solo l’osservanza di questo principio, consente di evitare ciò che è
causa della guerra e dell’odio; il bene prodotto da questo peculiare
orientamento del comportamento umano invece è minimo, perché non c’è
alcun lavoro del soggetto su sè stesso e non c’è alcuna apertura verso
l’altro e quindi il comportarsi secondo il principio del iustum non agevola il
procurarsi degli amici. E’ chiaro che a conclusione di questa articolata
costruzione prospettata da Thomasius, quello che rileva è la
determinazione del iustum come categoria della giuridicità autonoma
rispetto alle altre forme della vita pratica. Quella di Thomasius non è una
novità assoluta nella tradizione del pensiero occidentale, ma certamente
rappresenta la più compiuta, coerente e sistematica distinzione tra diritto
morale e costume. La novità essenziale è la determinazione del iustum
come categoria autonoma della giuridicità, e vi sono dei caratteri di questa
autonomia, degli elementi che contraddistinguono la natura del diritto. Il
primo di questi elementi è l’esteriorità o si può anche dire
l’intersoggettività del comportamento giuridico che comporta il
riferimento dell’azione umana ad almeno due persone e quindi la
produzione di un’ obbligazione esterna al soggetto; si è visto infatti che la
massima dell’honestum invita ciascuno a lavorare su se stesso, avendo
certamente presenti gli altri, ma l’attenzione è focalizzata su se stesso,
quindi gli altri non sono che un inerte termine di paragone, con i quali non
c’è relazione. Questo distingue il diritto dalla morale, ma non ancora il
diritto dal costume, perché l’elemento della socialità, della
intersoggettività, dell’esteriorità è un elemento che caratterizza tanto il
principio del decorum quanto il principio del iustum. Dunque
l’intersoggettività è insufficiente come carattere saliente dell’autonomia
del giuridico, perché appunto non lo distingue dal decorum, e perché
invece questa autonomia del giuridico sia data è necessario che accanto
all’intersoggettività vi sia anche il carattere della coercibilità del
comportamento giuridico, che comporta il riferimento dell’obbligazione
giuridica, un dovere esterno al soggetto e coinvolgente almeno un’altra
persona, al timore della coazione esercitata dagli altri uomini, occorre
appunto la minaccia della sanzione. Questo distingue il diritto non solo
dalla morale ma anche dal costume, perché l’elemento della coercibilità si
manifesta in esplicita opposizione al comportamento socialmente
conveniente tipico del decorum al quale nessuno può essere costretto
(dono), pena il venir meno del valore intrinseco del decorum. Thomasius
non lo dice ma potrebbe essere interessante osservare che un ulteriore
carattere differenziale specificativo del carattere dell’esteriorità e
complementare rispetto a esso, si può ravvisare anche nel dovere di non
fare distinto dal dovere di fare, quindi la differenza tra la prescrizione di
una condotta omissiva (non fare all’altro) e la prescrizione di una condotta
attiva (fai all’altro). Rapporto tra bene prodotto e male evitato: c’è
sostanzialmente una sorta di polarizzazione, da una parte c’è la morale
dove il male evitato è minimo e il bene prodotto è massimo, dall’altra parte
si trova il diritto dove il bene prodotto è minimo e il male evitato è massimo
e al centro di questa polarità si trova il decorum che esprime valori medi
rispetto a entrambi i parametri. E’ chiaro che per intenderlo a pieno
bisogna collocarsi nella prospettiva di Thomasius, dove il bene massimo
che si possa garantire alla vita di un uomo, è quella di vivere secondo i
dettami della saggezza, di conseguire la pace interiore, di realizzarsi come
uomo, ed è chiaro che invece la questione del male evitato al suo livello
massimo è la garanzia della pace sociale, cioè garantire che non co siano
termini di conflitto, di odio, di guerra. Si può quindi dire che l’honestum ha
una proiezione tutta interiore, invece il decorum e il iustum hanno una
proiezione esteriore.
Pag.13
Il problema della distinzione: “il diritto è qualcosa di più o qualcosa di meno
rispetto alla morale”, sembra un modo approssimativo di dire la cosa, che
fa tornare alla mente l’altra espressione utilizzata “una certa confusa
coscienza”, ed è proprio questo che Croce sta dicendo, il filosofo del diritto
ha una certa confusa coscienza e cioè riconoscere il diritto è qualcosa di più
o qualcosa di meno rispetto alla morale, riconosce che c’è il problema della
distinzione anche se la coscienza è ancora confusa perché non sa risolverlo
e che perciò non riesce a farlo coincidere con questa, come due figure
diverse, un triangolo e un quadrato non combaceranno mai tra loro.
Termine significativo nel lessico filosofico di Croce: distinzione. Distinguere
per Croce significa differenziare da un certo punto di vista, ma anche
coordinare. Questo esercizio di pensiero presuppone necessariamente da
parte di chi voglia compierlo, una qualche intelligenza del rapporto latu
sensu analogico tra i due oggetti o concetti che si vogliono distinguere. Si
ha difficoltà a distinguere due cose che sembrano non avere nulla in
comune, che non hanno niente a che fare l’una con l’altra, perché non
capiamo il senso della distinzione e nella filosofia Crociana questo è un
problema centrale. Le forme dello spirito seno distinte, non separate; ciò
significa che la loro autonomia è quella di due gradi che sono
contemporaneamente distinti e uniti tra loro. Questo essere uniti e distinti
insieme, nello specifico significa che il primo grado può essere concepito
come indipendente dal secondo, ad esempio l’economica può essere
concepita come indipendente dall’etica, mentre invece il secondo grado
non è concepibile senza il primo, e questo è il momento dell’unità. Se
mancasse quindi la prima determinazione, cioè se mancasse il momento
della distinzione si avrebbe l’identità delle forme dello spirito, se mancasse
invece la seconda determinazione, ovvero il momento dell’unità, si
avrebbe una astratta separazione di esse, invece le forme dello spirito non
sono separate, ma distinte tra loro e questo per Croce significa che sono
sempre contemporaneamente unite tra loro.
Pag.14
Croce ci propone un’altra immagine, che si può coordinare con quella del
capo Horn. Croce sta dicendo che nel momento in cui Thomasius propone
alla cultura filosofica moderna, questa rappresentazione così articolata
della distinzione tra diritto e morale individuando l’esistenza di un quid
distintivo, di caratteri che distinguerebbero il diritto dalla morale, succede
che da questo momento in poi il filosofo del diritto non può far altro che
confrontarsi con questo problema anche se non sa ancora risolverlo.
Questa volta lo dice con una metafora meno avventurosa e più fastidiosa,
perché descrive una sensazione che tutti provano almeno una volta,
ovvero l’ingestione di qualcosa che pesa sullo stomaco che per un verso
non siamo in grado di digerire ed è per questo che da fastidio che la sua
presenza dà fastidio, e dell’altro verso è una cosa che non si può espellere,
tramite il vomito, cosa che in genere da una sensazione di liberazione e
questo è esattamente secondo Croce quello che accade con la
proposizione da parte di Thomasius di questo problema, che va a collocarsi
sullo stomaco del filosofo del diritto, il quale non è in grado di eliminarlo
perché significherebbe ritornare ad una innocenza antica che ormai si è
perduta; cioè che questo problema è centrale il filosofo del diritto ne ha
consapevolezza, sia pure una certa confusa consapevolezza, ma del resto
non è in grado di dominarlo perché non lo sa ancora risolverlo, perché per
farlo bisogna intendere il problema nella sua precisa consistenza filosofica
e averne quindi una reale conoscenza che non si è ancora però raggiunta.
Questa è la condizione in cui secondo Croce si trova la filosofia del diritto,
che è una condizione morbosa.
Formola: è un’espressione tipica che Croce adopera con il senso di uno
schema, di una rappresentazione di un concetto empirico o uno
pseudoconcetto, cioè un falso concetto, un qualcosa che imita le
sembianze del concetto, rispetto al quale ha un carattere pratico e cioè ha
una funzione mnemonica per mettere in ordine le conoscenze che si sono
diversamente conseguite. Perché il concetto empirico viene adoperato
all’interno del giudizio empirico (pseudogiudizio), che è sostanzialmente un
giudizio classificatorio che colloca un elemento empirico all’interno di una
classe e questo è il modo in cui funzionano tutte le scienze empiriche e tra
queste la scienza giuridica, che è una scienza classificatoria e proprio per
questo motivo per Croce non ha carattere filosofico, cioè non consegue
una conoscenza filosofica, ma serve ad ordinare il sapere. Nella domanda
di par.6 a pag. 14 c’è già la risposta del perché Croce non è soddisfatto della
soluzione offerta da Thomasius: perché secondo Croce, la soluzione offerta
dal filosofo tedesco è una soluzione empirica, che si serve di formole e non
di concetti, quindi molto interessante e utile nel campo delle scienze
empiriche ma è una soluzione che non ha una reale dignità filosofica.
Anzitutto Croce denuncia il carattere empirico del concetto di coazione,
che quindi non è un vero concetto, ma uno pseudoconcetto, una formola,
dice che ha un carattere irrazionale, ovvero diverso dal carattere razionale
che è proprio del pensiero filosofico. Quello di coazione non è dunque un
concetto rigoroso e quindi non è un concetto che può appartenere al
dominio della filosofia e quindi alla filosofia del diritto. Questo carattere
empirico, non rigoroso del concetto di coazione sarebbe provato,
testimoniato, da alcune tra le più consuete obiezioni che sono state
sollevate dal concetto di coazione.
pag.15-16-17
Se si osservano queste obiezioni, sostanzialmente si vede che il concetto di
coazione non regge, e che per provare a reggere viene dai suoi sostenitori
smussato, rielaborato nel concetto di coazione psicologica, e cioè di
condizionamento, di induzione, di persuasione di un soggetto rispetto ad
un altro quindi ci si può rendere conto che si va sempre più vicini al
concetto di azione, perché la coazione, in qualsiasi sua accezione,
non esclude l’iniziativa del soggetto, non esclude la sua volontà, agisce
quindi sempre libero. Se un uomo si piega alla volontà di un altro uomo, lo
fa solo perché in quelle particolari circostanze date, sempre condizionato
dalla realtà storica che lo circonda, dunque sempre coatto, egli riconosce
che comportarsi in questo modo gli è utile, gli consente di massimizzare i
vantaggi o quantomeno di minimizzare gli svantaggi, in ogni caso questo
soggetto fa propria la volontà altrui e cioè vuole per suo conto. L’azione
quindi è sempre libera e coatta, spontanea e costretta. E’ sempre forza tra
le forze delle circostanze date, l’uomo agisce sempre come forza e quindi
liberamente, ma condizionato dalle forze che ha intorno. Questa duplicità
qualche rigo più avanti viene riformulata, sintetizzando i due elementi una
volta ponendo a capo uno, una volta l’altro. L’azione non è quindi un
carattere differenziale tra diritto e morale ma è il loro più profondo
elemento comune: la filosofia della pratica è la filosofia dell’azione, è la
conoscenza dei modi, delle forme, delle determinazioni dell’agire umano.
Croce passa quindi ad esaminare la seconda formola, il secondo concetto
empirico che Thomasius ha prospettato come differenziale del diritto
rispetto alla morale e che invece secondo Croce non ha dignità filosofica
(esteriorità). La parte critica consiste nel sottolineare il carattere empirico
e dunque irrazionale, non filosofico del concetto per dire che anche questo
elemento distintivo in realtà non lo è, è un tratto comune tanto al diritto
quanto alla morale perché interno ed esterno sono astrazioni, non ci
aiutano a conseguire una reale conoscenza. Un’azione coincide con la
volizione che l’ha messa in moto, volere ed agire sono la stessa cosa,
l’azione è la volizione stessa; volere senza agire non è davvero volere, ma
una sorta di sogno del cassetto, qualcosa di irrealizzato o irrealizzabile, per
essere un vero volere quello deve essere tradotto in un’azione. Agire senza
volere non è veramente agire, cioè l’azione è quel comportamento umano
che realizza la sua volizione. Nella “Filosofia della pratica” viene spiegato
che l’intenzione, la volizione e l’azione coincidono perfettamente, ognuno
di questi momenti è tutti gli altri o non è. In queste pagine Croce spiega che
la volizione, e quindi il volere in una certa direzione, non è seguita
dall’azione, la volizione è l’azione stessa e l’azione stessa non può che
essere la volizione, viene conservata questa pluralità di concetti per
osservare l’atto spirituale da diversi punti di vista: se ci si concentra sul suo
“innesco” parliamo propriamente della volizione, se ci si concentra sulla
sua realizzazione si fa riferimento all’azione, ma comunque azione e
volizione filosoficamente coincidono.
II PARTE
IL DIRITTO COME PURA ECONOMIA
Pag.225-226-227
Il fatto economico, che Pareto denomina scelta, nel momento in cui ci si
rende conto che questa scelta è una scelta consapevole, significa che
questa è contemporaneamente necessitata e libera, è una volizione.
All’interno della prima lettera di Croce a Pareto, questo passaggio segna la
prima scansione alla quale si deve pervenire e questa scansione è: “il fatto
economico è atto dell’uomo”. L’azione economica che è azione che ha
come proprio fine l’utile, è un’azione che se raggiunge questo fine produce
piacere, se non lo raggiunge produce dispiacere. Questo giudizio però non
è possibile invertirlo e cioè se il conseguimento dell’utile produce sempre
piacere, e dunque si può dire che l’utile economico è insieme piacere, non
si può dire che il piacere sia l’utile economico, non possiamo dire che il
piacevole si riduca all’utile economico, e cioè ci sono moltissime altre
opportunità che l’uomo ha per provare piacere e solo una di queste ha a
che fare con l’utile economico, cioè con il raggiungimento del fine che egli
si è prefissato come obbiettivo della propria azione e questo secondo Croce
è l’errore della teoria edonistica e in ciò risiede la distinzione profonda tra
il piacere e la scelta. Quindi la prima critica, quella rivolta al carattere
tecnico del principio economico, ha a che fare con la precisazione che il
fatto economico è un fatto di valutazione, e quindi erronea è la sua
concezione meccanica perché nel fatto economico entrano gli oggetti fisici,
ovvero quelli misurabili, entra questa componente materiale e meccanica
ma come un elemento che può condizionare il fatto economico, quindi la
volontà (lessico crociano), o la scelta (lessico di Pareto).
Pag.228
La seconda scansione della definizione è: il fatto economico è un atto di
volontà, il fatto economico è un atto pratico. Volere sempre qualcosa
significa volere sempre in concreto, raggiungere un fine determinato
poiché non si può volere in astratto. Croce viene ad irrigidire il proprio
linguaggio quando fa riferimento alle azioni logiche ed illogiche prese in
considerazione da Pareto. Quest’ultimo parlando di azioni logiche e
illogiche vuole dire che l’azione è economicamente ben condotta in vista
del fine che si è prefissato. Questo è uno di quei punti in cui Croce ci tiene
a mettere rigorosamente ordine perché potrebbe apparire in contrasto con
il disegno generale del suo sistema filosofico, dove quello della logica è
sempre un fatto teoretico, i problemi della logica hanno a che fare con la
conoscenza, quindi l’idea di accostare l’aggettivo logico al sostantivo
azione crea per Croce un cortocircuito tra le forme dello spirito e quindi
rischia di mettere disordine tra le sue idee e questo lo preoccupa.
Pag.229-230
Il fatto economico secondo Croce quindi dato quello che è scritto in questa
pagina è un fatto di attività pratica. Lo scoglio maggiore però è considerare
il fatto economico come fatto egoistico. Subordinare l’economia alla
morale, considerando il fatto economico come fatto egoistico e dunque
immorale, fa cadere i termini della distinzione. Il fatto economico e il fatto
morale non sono tra loro in contraddizione, l’economico non è l’immorale
perché se l’economico fosse l’immorale cadrebbero i termini della
distinzione, perché non avremmo un’autonomia di giudizio del fatto
economico, staremmo giudicando il fatto economico a partire dal principio
morale e in tal caso lo staremmo giudicando negativamente e quindi la
categoria di giudizio resta una, la moralità, cadono dunque i termini della
distinzione. Il rapporto dunque non è di antitesi ma di distinzione, e un
rapporto di distinzione significa che il fatto economico e il fatto morale
sono distinti e uniti insieme, il rapporto è di condizione (utile) a
condizionato (etico), il fatto economico è la condizione generale che rende
possibile il sorgere del fatto morale e cioè dell’attività etica. Da questa
pagina raccogliamo la terza scansione che ci riconduce alla definizione del
fatto economico: il fatto economico è un atto di volontà, considerato in
astratto privo di contenuto morale. Non si danno secondo Croce azioni
moralmente indifferenti, significa che quando l’uomo agisce, il fine del suo
agire può essere indicato sempre come morale o immorale, perché quello
della moralità è universale e non c’è azione umana che si sottragga a
questo giudizio. Ma perché si possa giudicare il fine di un’azione come
morale o immorale occorre che questa sia innanzitutto un’azione e cioè
che questa sia un’azione tesa al conseguimento dell’utile e solo quando
l’azione è un’azione economica ha senso far intervenire il giudizio morale.
Per fare ciò bisogna tenere sospeso il giudizio morale per valutare l’azione
economicamente, quindi considerare l’azione solo tramite l’aspetto
economico e quindi per il conseguimento dell’utile, ma tutto ciò è stato
fatto per astrazione, poiché come già detto non vi sono azioni moralmente
indifferenti e quindi quell’indifferenza viene costruita appunto per
astrazione sospendendo il giudizio morale. L’azione economica è la fonte
elementare dell’agire, quindi agire economicamente per Croce equivale a
dire agire, perché solo se consapevolmente indirizzo i mezzi adeguati al
soddisfacimento di uno scopo solo se consapevolmente miro allora questa
è un’azione economica e solo di un’azione che è tale è possibile dire se sia
morale o immorale. La terza scansione quindi può essere intesa anche in
questo modo: il fatto economico è un atto di volontà considerato in
astratto come privo del suo contenuto morale e cioè considerato in
astratto esclusivamente come la volizione di un fine individuale che è l’utile
e cioè conviene all’individuo che agisce.
Pag.235-236
Teoretica e Pratica sono le forme dell’attività spirituale. La prima è volta
alla conoscenza, la seconda è propria dell’azione e ciascuna di queste
forme ha al suo interno due gradi: la forma teoretica conosce il primo grado
che è proprio dell’estetica e il secondo che è proprio della logica; la forma
pratica conosce due gradi: il primo grado che è quello dell’azione
economica e il secondo grado che è quello dell’azione morale. Li definisce
gradi perché l’idea della gradazione sottintende secondo Croce che il primo
grado è condizione del secondo e cioè che per arrivare al secondo devo
passare per il primo. Il primo grado è quello dell’intuizione e
dell’espressione, e la forma prima che deve venirci in mente quando si fa
riferimento all’estetica si deve pensare al linguaggio. L’opera logica è
linguaggio che veicola concetti, pensiero e non è possibile formulare un
concetto logico senza servirsi del linguaggio ed ecco che anche nella forma
teoretica il secondo grado presuppone il primo, il linguaggio è la condizione
del concetto, non è possibile intendere il concetto se non in una
formulazione linguistica.
ESTETICA
PAG.92-93
Croce in questa pagina dice esattamente quello che dice nella pagina 35
della riduzione, cioè che i filosofi che si sono occupati del volere dell’azione
e cioè i filosofi della pratica non hanno risolto il loro problema perché
ancora mancavano dell’adeguata conoscenza del principio che starebbe
alla base di questa soluzione. Questo modo di pensare il rapporto tra
l’economica e l’etica è ispirato agli studi che Croce ha dedicato al pensiero
di Machiavelli e per l’altro verso al pensiero di Marx.
Che cosa significa l’espressione che più volte si è sentita riferire al pensiero
da Machiavelli espresso ne “Il Principe” che “il fine giustifica i mezzi”;
questa espressione viene adoperata spesso dal punto di vista filosofico in
modo errato, cioè come se il principe potesse fare qualunque cosa pur di
raggiungere i propri fini, ma se pensiamo questa tesi in modo più rigoroso,
nel momento in cui ci poniamo a giudicare la condotta del principe dal
punto di vista politico dobbiamo valutare i mezzi che questi ha impiegato
tenendo presenti i fini che voleva conseguire e quindi sostanzialmente per
valutare politicamente la condotta del principe si deve sospendere il
giudizio morale sulla sua attività e valutare i mezzi che ha impiegato in
relazione al fine che voleva conseguire, e il pensiero di Croce riprende un
po' questo concetto appunto.
Pag.96
Croce spiega al primo capoverso la fortuna che ha avuto e che ha ancora la
teoria utilitaria dell’etica. Il riferimento essenziale della logica si è detto è
la conoscenza del concetto, che presuppone la possibilità di esprimerlo
linguisticamente, non è possibile pensare il concetto se non intuirlo ed
esprimerlo linguisticamente. Questo significa che il secondo grado, il
momento logico, presuppone il primo grado, l’estetica, non si da infatti un
concetto logico se non espresso in una forma linguistica qualunque essa
sia, anche un linguaggio simbolico. Il problema dell’unità e cioè il problema
del coordinamento dell’economia con la morale ha due aspetti che sono
connessi l’uno con l’altro ma che può essere utile osservare distinti. Il primo
è che l’utile è la condizione e l’etico il condizionato, quando si osserva in
questo modo si può immaginare questo movimento nell’attività spirituale
dell’uomo, per cui il primo grado si innalza al secondo e cioè la volizione
dell’individuale si innalza alla volizione dell’universale. Il secondo aspetto è
che la morale non può apparire in concreto se non in forma economica,
l’universale quindi per venire nel concreto deve sempre ridiscendere nel
primo grado dell’azione pratica, quindi la volizione dell’universale per
concretizzarsi deve sempre incarnarsi in una volizione dell’individuale.
FILOSOFIA DELLA PRATICA PAG.219
L’attività etica è per un verso attività economica e quindi è corrispettiva
alle condizioni di fatto e vuole un fine individuale ma
contemporaneamente vuole un fine universale coincidente con il bene e
quindi vuole anche qualcosa che trascende le condizioni che sono
storicamente determinate. Se si vuole dare un giudizio su un’azione
politica, per capire se ad esempio Il principe di Machiavelli ha agito in modo
politicamente efficace o inefficace osserviamo la coerenza dell’azione per
sé presa e cioè ponendo in relazione i mezzi e fini politici, sospendiamo
quindi il giudizio morale; quando invece vogliamo giudicare dal punto di
vista morale questa azione andiamo a valutare la maggiore o minore
coerenza dell’azione del soggetto rispetto al fine universale, cioè il bene,
che trascende l’individuo, va al di là di esso e dei suoi fini particolari.
Quando Croce dice che la moralità, ovvero l’etica, domina l’attività pratica
dell’individuo vuole dire che la condizione ideale dell’azione pratica
dell’individuo, è quella di un individuo che agisce in vista del proprio scopo
individuale, e quindi in modo utile ed economico ma che auspicabilmente
volendo l’individuale e quindi il proprio utile voglia insieme anche
l’universale e quindi il bene. Se questa è la condizione ideale la stessa cosa
può anche dirsi così: che l’uomo morale che si affaccia all’esistenza volendo
l’individuale, poi giunge in qualche modo a negare la propria vita
individuale perché trascende l’individualità nell’universalità e cioè giunge
a negare il proprio utile particolare perché trascende questo nel fine
universale, che è il bene.
Pag.35 Riduzione
Se il problema della filosofia delcdiritto non è stato risolto questo è
accadtuto perché è mancato ai filosofi la conoscenza del principio che è
indispensabile a distinguere il diritto dalla morale, e quindi il principio
economico. Ma poi Croce rovescia questo ragionamento perché dice che
la mancanza del principio economico ha danneggiato più di tutti proprio la
filosofia etica, perché la mancanza di una adeguata conoscenza del
principio dell’utile non ha consentito all’etica di criticare nel modo
filosoficamente più adeguato l’utilitarismo e cioè questa dottrina che ha
creato confusione nella filosofia della pratica, perché – dice Croce – l’unico
modo per criticare l’utilitarismo è riconoscere le giuste esigenze che
l’utilitarismo cerca di veicolare. Quindi la mancanza di un principio
economico ha impedito da un lato la costruzione di una filosofia
dell’economia e di conseguenza ha impedito di risolvere il problema della
filosofia del diritto, dall’altro lato ha creato un problema alla stessa filosofia
della morale, cioè all’etica, perché non ha consentito alla stessa di liberarsi
dall’utilitarismo. Utilitarismo: è un indirizzo del pensiero etico, politico,
economico, affermatosi in Inghilterra tra 18 e il 19 secolo, i suoi maggiori
esponenti furono Jermy Bentham e John Stuart Mill. Le tesi
dell’utilitarismo: pretende di trasformare l’etica in una scienza della
condotta umana, e che questa sia calcolabile, che sia esatta e pretende di
fare ciò sostituendo il riferimento al fine dell’uomo che nell’etica
tendenzialmente coincide con il bene, con un riferimento che sia il
movente dell’agire umano, cioè il piacere, riconoscendo questo, appunto,
come il motivo per cui l’uomo agisce e ritiene che il piacere privato, quindi
l’utilità privata, coincida con quella pubblica. Quindi l’utilitarismo riconosce
un carattere super individuale al piacere come movente dell’agire. In
questa tesi sull’utilitarismo ci si può accorgere di due cose: la prima è che
l’utilitarismo fagocita l’etica e quindi cadono i termini della distinzione,
perché l’utile ha fagocitato il bene e questo è il problema che Croce
denuncia; oltre questo però vi è un altro aspetto e cioè in questa dottrina
propria dell’utilitarismo si riconoscono degli elementi a cui Croce stesso ha
fatto riferimento parlando del fatto economico. In questa pagina della
riduzione quindi Croce afferma che solo se noi riconosciamo all’interno
dell’utilitarismo quegli elementi di verità che la dottrina ha intravisto,
possiamo allora riconoscere la falsità complessiva dell’utilitarismo che ha
fagocitato l’etica facendo cadere i termini della distinzione e rimettere
finalmente a posto il rapporto tra l’economica e l’etica e quindi riordinare
la filosofia della pratica.
Pag.37
Il problema quindi non è stato risolto perché mancava ai filosofi la
conoscenza del principio economico. Così come hanno avuto problemi i
filosofi del diritto, hanno avuto problemi forse maggiori i filosofi della
morale, perché mancando una esatta conoscenza del valore filosofico
dell’utile, della sua posizione filosofica all’interno del sistema dello spirito
pratico, non sono riusciti a contrastare l’utilitarismo perché ci sono degli
elementi di verità che l’utilitarismo porta avanti e, se uno non è in grado di
discernere gli elementi di verità dagli errori dell’utilitarismo, non è in grado
di confutare questa dottrina e allora solo la piena consapevolezza di che
cos’è il momento economico dell’agire e quindi in cosa consiste l’utile e il
principio economico, consente di chiarire simultaneamente da un lato la
filosofia dell’economia e dall’altro la filosofia della morale e quindi l’etica.
SAGGI
Quando nel 1926 Croce facendosi aiutare da Adelchi Attisani, valuta di
integrare la Riduzione con dei saggi che hanno a che fare direttamente con
il testo e con i temi in esso trattati. Croce quindi pubblica questi tre
contenuti nel 1908, 1914 e nel 1916 all’interno della critica, ovvero la
rivista che a partire dal 1903 Croce pubblica per un lungo periodo
lavorando insieme a Giovanni Gentile, salvo poi interrompere i rapporti con
quest’ultimo continuando quindi da solo. I primi due scritti si riferiscono
direttamente alla teoria del diritto di Croce, quindi proprio alle pagine della
Riduzione, mentre il terzo scritto è legato più al concetto dell’utile.
SAGGIO 1
Questo viene pubblicato nel lasso di tempo intercorrente tra la
pubblicazione della Riduzione e della Filosofia della Pratica.
Nelle prime righe si può osservare l’utilizzo di una locuzione che
successivamente supererà ovvero l’espressione filosofia pratica per poi
utilizzare l’espressione filosofia della pratica, perché questa espressione
corrisponde in modo più corretto a quello che è effettivamente l’oggetto
di questa filosofia che è un compito conoscitivo ed è scienza della pratica,
cioè del volere e dell’agire degli uomini, non è filosofia pratica quindi non
ha e non può avere una funzione pratica.
In questo contributo Croce presenta una serie di obiezioni che servono a
chiarire il suo pensiero, in maniera anche discorsiva, ponendosi a
rispondere direttamente a queste obiezioni che viene formulando e quindi
il suo pensiero risulta molto più chiaro.
Questo è un discorso che Croce fa in riferimento all’agire economico e
giuridico dell’uomo per poi ribaltarlo sul piano della legge, mantenendo
sempre la stessa tesi cioè che non occorre vivere insieme con altri uomini
perché ci siano leggi o ordini, poiché l’uomo detta da ordini a se stesso e
poi deciderà se rispettarli o meno a seconda che questo gli convenga o non
gli convenga.
Il concetto che Croce ribadisce qui è innanzitutto la complessità del fatto
legge: la legge è un fatto complesso perché prevede prima un momento
teoretico e poi un momento pratico, cioè l’atto volitivo. Torna inoltre una
questione di diritto e linguaggio, perché solo considerando il diritto nella
sua forma primaria e semplice è possibile distinguerlo dalla morale perché
la distinzione è possibile solo tra due forme irriducibili di attività spirituale;
se invece si confonde il diritto con la legge non è più possibile la distinzione,
legge e morale non sono concetti distinti, poiché la legge non è una forma
irriducibile, quindi legge e morale sono concetti disparati e non distinti.
Al par. IV è chiaro il tema sintetizzato, ovvero il tema della gens
langobardorum. Forza maggiore e forza minore cosa significa nel concreto:
certo, se si guarda con occhio e attenzione empirica i Longobardi sembrano
essere più forti, mentre i Romani sembrano ormai remissivi, ma da un
punto di vista filosofico i rapporti sembrano addirittura rovesciati perché
sono i Longobardi che stanno chiedendo ai Romani, quindi in questo
accordo è colui che risponde che ha in mano la possibilità di chiudere o
meno l’accordo.
SAGGIO 2
E’ un testo importante per due ordini di problemi: Croce con una metafora
molto vivida fa capire uno scomposto agitarsi sulla sua teoria del diritto.
Questa grossa pietra però non ha giovato perché l’atteggiamento che
Croce assume nei confronti della filosofia del diritto come disciplina nel
1908 e nel 1914 è un atteggiamento che ha certamente contribuito al
successo immediato della riduzione in un modo distorto e cioè tutto in
chiave polemica, come se il libro di Croce fosse una polemica contro i
filosofi del diritto quando in realtà non è così ma che questo è una
riflessione profonda sulla filosofia del diritto. Di fatto la natura di questo
originario successo ha poi determinato una crescente, progressiva
disattenzione da parte dei filosofi del diritto nei confronti di Croce, che
veniva visto come una sorta di nemico e su questa distorta recezione della
memoria pontaniana Croce ha una responsabilità, dovuta soprattutto al
linguaggio duro utilizzato che sicuramente non ha giovato.
C’è poi un’altra questione che interessa, ovvero una questione di diritto
internazionale contenuta anche nelle “pagine sulla guerra” che sono una
serie di scritti che Croce pubblicò sulla guerra nel 1919. All’interno di
queste pagine vi è una postilla sul diritto internazionale che verifica
esattamente questo auspicio contenuto nelle prime righe di pag. 79.
Questa postilla è molto efficace perché il diritto internazionale è un
laboratorio perfetto per osservare le relazioni giuridiche nella loro forma
elementare, soprattutto nel diritto internazionale di quegli anni, degli anni
della crisi, era appunto un laboratorio perfetto per fare teoria o filosofia.
In queste pagine Croce spiega che il diritto è forza e non ci si deve aspettare
da questo un’abolizione delle guerre, poiché il diritto stesso è guerra e
quindi dovrebbe abolire prima se stesso per far cessare le guerre.
SAGGIO 3
In queste righe vi è la ripresa di un tema proposto nella parte iniziale del II
capitolo, ovvero la critica all’utilitarismo dicendo che questa critica non
può mai riuscire se prima non si riconosce l’elemento di verità
nell’utilitarismo che è l’attenzione portata per i concetti dell’utile, della
forza, solo che l’utilitarismo aveva creduto di assorbire al suo interno l’etica
e quindi aveva riprodotto sincretismo, confusione.
Il rigo segnalato a pag. 93 riporta alla mente ciò che si è letto nell’incipit del
par. 2 del II capitolo della Riduzione, sul modo in cui questo riconoscimento
dell’importanza della storia della filosofia del diritto rispetto all’intero
svolgimento della filosofia moderna, testimoni continuità tra la Riduzione
e la filosofia della pratica, e cos’è questo riferimento alla filosofa del diritto,
agli sforzi vani di risolvere il diritto della morale, i tentativi deboli di
differenziare il diritto dalla morale. Trascorsi non pochi anni Croce ha
comunque chiaro in mente l’importanza che la riflessione sulla filosofia del
diritto ha avuto nella determinazione del concetto dell’utile e quindi
dell’intera filosofia della pratica.
E’ molto interessante il fatto di poter riconoscere i precedenti storici di un
pensiero nel momento in cui questo pensiero si è formato; questa frase di
Croce si può leggere in due modi: o in maniera banale, nel senso che è
logico che non esistono precedenti di un pensiero se non esistono i
precedenti del pensiero stesso, oppure in maniera non banale, e quindi che
è chiaro che la lettura dei precedenti storici è una lettura introspettiva,
condotta a partire dalla specificità di questo pensiero, è il pensiero
filosofico che costruisce i suoi precedenti e non il contrario.