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S. B.

is.
IDEOLOGIA

LOGICA

VOLUME l.
5t m <i> 3iV(Q(BaD

auiV

OKIGENE DELLE IDEE

DI

ANTONIO ROSMINI-SERBATI

SACERDOTE KOVERETANO

f O L U ME PRIMO

E,A PREFAZIONE, I PRINCIPI DSL METODO,


LO STATO DELLA QUESTIONE, K LE OSSERVAZIONI
BUI SISTEMI PRECEDUTI A QUELLO DELL' AUTORE

MILANO,

DALLA TIPOGRAFIA POGLIANI


Contr- di sant'Alessandro vicino al Ginnasio

MDCCCXXXVI
Quest* Opera fu itaippata per la prima volla in Roma
l'anno i83o dalla Tipografia Salviucci, in quattro
■volumi.

Gli Opuscoli Filosofici vengono in essa citati secondo


l'edizione fatta in Milano dalla Tipografia Poglia-
ni 1827-56.
QUESTO SAGGIO
SUL PRINCIPIO DELL' UMANA COGNIZIONE
CHE A TE IO DEDICO RICONOSCENTE
- O VENERATO MAESTRO MIO

PIETRO ORSI SACERDOTE

PERENNI
LA MEMORIA DEGLI ANNI MDCCCXV E MDCCCXVl

QUANDO COLLA POTENZA DEL VERO


E COLLA DOLCEZZA DELL' AMICIZIA
INSEGNANDOMI FILOSOFIA
M' INNAMORAVI DELLA VIRTÙ
E MI STRINGEVI CON DE' BENEFIZI
PARI ALL'ANIMA RAGIONEVOLE
IMMORTALI

ANTONIO ROSMINI-SERBATI SACERDOTE

ROMA HI MAGGIO MDCCCXXVlTU


PREFAZIONE

Principium, qui et loquor vobis.


Jo. XXV.

•1
opera presente non appartiene alla filosofia in
quisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere
che travaglia di aggiungere chiarezza e sviluppamento a
delle verità già universalmente conosciute. E di vero, in
lavorando il presente Saggio, non fu altro il mio inten
dimento, se non di richiamare gli uomini ad osservare
ciò che hanno in se medesimi, ciò che già sanno per
natura, senza però aver contratta l'abitudine di riflet
terci i in somma io non intesi che di fare il commento
di una sentenza del senso comune, e di rispondere a
questa semplice dimanda « che cosa è il lume della ra
gione? y> quel lume che è un vocabolo di tutti gl'idiomi
e di tutti, i tempi, che è pronunziato da tutte le scuole
e da tutti i volghi, la cui esistenza nell'uomo è conte
stata perciò da un'autorità piena, ed è il fatto più di
tutti evidente e cospicuo, il fatto dal quale solo trae
origine ogn* altra specie di evidenza.
A por mano a questa materia mi condusse l'essermi
richiesto schiarimento di alcune parole da me in altra
opera scritte, nelle quali accennava la mia opinione sul-
V origine delle umane cognizioni. Le quali parole furono
le seguenti: » Secondo noi, » diceva io colà, « V in-
» tendimento puro dell'uomo non è ristretto, non è limi-
« tato; ammettiamo in lui una sola forma che chiamiamo
u la forma della VERITÀ' , la quale non restringe
« punto l' intendimento , non essendo essa forma parti-
« colare , ma bensì universale, generalissimo, che ab-
» braccia tutte le forme possibili e che misura tutto ciò
Vili
u che e limitato; e con questa sola forma , con questa
« sola misura noi spieghiamo tutto ciò che trascende
« nelle operazioni dello spirito umano i sensi e V espe
ti rienza (i) ». Io non poteva rendere di questa mia af
fermazione ragione piena e convincente, se non mi fossi
messo dentro- nell'esame della natura dell' umano inten
dimento, di che tratta tutta quest' opera , e non mi fossi
fatto a dichiarare, lungo lavoro per certo, l'indole di
quella idea o forma prima, per dirlo con Dante,

Che lume fia tra '1 vero e l' intelletto (2).

Egli è questo lume mediatore, come accenna Dante;


fra lo spirito e le cose, che costituisce e crea la natura
dello stesso intelletto; la quale ne' nostri tempi venne
confusa con quella del senso sì fattamente, che la filo-
sqfia, si voglia o no, parve arretrarsi (3) fino nella sua

(1) Vedi il Voi. 1 degli Opuscoli Filosofici, face. 98.


(a) Purg. VI.
(3) Si osservi che ne' tempi moderni la filosofia si volle far rinascere ;
poiché la vanità e l'amor proprio degli uomini era cresciuto a segno, mas
sime nella seconda metà del secolo scorso, che si disdegnò e rinunziò so
lennemente tutta l'eredità de' maggiori: e i sofisti che hanno preceduto a
accompagnato la rivoluzione francese, presero un tuono ne' loro scritti così
alto ed insolente, da mostrar di credere e fare altrui credere che prima
d'essi gli uomini tutti fossero scemi di mente e da innnmerevoli pregiudizi
straziati e guasti. Quindi quell'immenso disprezzo di cui aggravarono tutti
gli scrittori antichi, massime quelli che contenevano le dottrine tradizionali
del cristianesimo; il qual disprezzo, gittato sull'antica filosofia e molto più
su i Padri e gli airi scrittori di Chiesa, s' introdusse nell'opinione pubblica,
c ne nacque una prevenzione che non va scemando se non lentamente, e non
è ancora tolta del tutto , con danno delle vere e salutari dottrine, lo perì)
voglio avvertir qui una volta per sempre, che ove mi venga di citare qualche
autore che attesti la tradizione delle verità che sono per esporre in que
st'opera, io non mancherò di farlo j e tuttavia non intendo di troncar punto
le questioni colle autorità; ma anzi consento assai volentieri, che gli uomini
d"ingegno , i quali a queste autorità fossero avversi , o contro esse avessero
presi i comuni pregiudizi e in poco o niun conto le tenessero, vogliano pure
aver la cortesia di mettere solo attenzione alle ragioni delle cose'; e secondo
infanzia , cioè fino al tempo de' filosofi che hanno pre
ceduto Aristotele e Platone (i); conciossiache in tutta
la storia della filosofia , da que1 tempi antichissimi ai
nostri, non è a mia notizia che fosse mai fatta una
confusione così bassa e così umiliante per l'umana na
tura, siccome quella che Jecero i sensisti dello scorso
secolo, i quali racchiusero e spensero la divina luce
dell' intendimento umano tutta nelle sensazioni che co*
bruti F uomo ha comuni. Nè della vera distinzione fra
il senso e V intelletto, fra la sensazione e /'idea, s'ac
corsero pur quelli che a" altro lato pofessavano di rico
noscer nell'uomo uno spirito immortale, siccome Locke

queste puramente giudichino della trattazione. Perocché non pub esservi


altra via per la quale vengano a deporre le loro false prevenzioni e il con
cetto di nessuna estimazione in che hanno i predetti autori. E veramente ,
come si può venir mai a conoscere che un uomo merita stima t eh' egli è
perciò di grave autorità , se non per V esperienza che si Ita tolto sopra di
lui, per aver da lui udite delle sensate cose e de' ragionamenti veri e pro
fondi ? In questo modo è dunque necessario che si venga riformando il
guidato sui nostri maggiori, non rivoltandosi d'un tratto e senza alcuna
buona ragione ad essi , ma ricuperando loro la riputazione col metter fuori
le loro beile e fine investigazioni, le loro nobili sentenze, i loro solidi ra
gionari, e mostrando che quelle questioni e quelle difficoltà nella scienza
dell' uomo , che si credono nuovo e tutte de' tempi nostri , non isfuggirono
punto agli antichi j ciò che si crede unicamente perchè poco questi si cono -
scono, perchè s' ha abbandonato il loro studio, e spezzato cosi il filo della
tradizione, condotti essendo gli uomini a ciò da uno stemperato amore di
essere indipendenti e di costituirsi da sè su tutti i rispetti. Certo gli uomini
àe" secoli che hanno preceduto il XflII, sono nati anch'essi cogli occhi ,
e cogli orecchi, e colia lingua, co' piedi e colle mani e colla testa altresì
siccome noi: bisogna crederlo assolutamente: nè per avventura il pensiero
è un ritrovato moderno s nè alcuna macchina, fra tante che i moderni
n' hanno inventate, ha insegnato recentemente a renderlo più efficace, più
pronto, più sicuro e meno soggetto agi' inganni delle passioni umane e ulte
seduzioni delf umana malizia.
(\) Questi due filosofi hanno notato e rifiutato come error capitale de'
loro predecessori il non aver essi saputo distinguere il senso e t intelletto ,
ita t averfatto di queste due facoltà essenzialmente distinte una facoltà
*ola: il che attribuivano alla rozzezza della ancor cominciantc e materiale
onervazione de' primi che ti diedero a filosofare sulla natura umana.
Bojmihj, Orig delle Idee, Fol. I. \>
X
e Condillac ; a sfavore de quali io non ho potuto scri
vere, non ha molto, alcune vere parole, senza esserne
rampognato agramente da alcuno di que' superficiali della
mia nazione, i quali, invecchiati nella servitù delle opi
nioni del secolo trapassato , non si stancano di farne
sentire ancora un eco fioco ed evanescente.
Ma a difesa a" Italia, giusto è che io qui dica, come
questa nazione, in tempi di servitù filosofica, conservò
il suo pensare libero meglio di tutte l'altre, o certo meno
fu macchiata di quella vile debilezza che si prostra in
nanzi al sofista cerretano che l'ultimo con più magistrale
e sonora voce chiami a sè la moltitudine. Ed il Condil-
lachismo medesimo da' più solidi fra gV italici ingegni fu
per tempo conosciuto e francamente giudicato; di che
sono prova le Memorie dell'Istituto nazionale Italiano,
dove i giovani nostri furono avvisati di non lasciarsi co
gliere e ingannare dalla singolare franchezza e presun
zione di cui va tinto lo stile di quell' autore che ha si
gnoreggiato tanto tempo in Francia con assoluto e ti
rannesco dominio. Al quale proposito non vuol essere
inutile ch'io qui rechi le parole di Michele Araldi, il
quale ammonendo l'italiana gioventù del non arrendersi
Jacilmente ne lasciarsi imporre da una cotale alterigia o
burbanza degli scrittori del tempo, la quale annunzi su
periorità e diritto d'ammaestrare il mondo, così corag
giosamente per quella età disse : « Intorno a che , il pe-
« ricolo a cui preveggo di espormi d'esserne ripreso da
« molti, non mi tratterrà dall' addurre l'esempio di un
« solenne maestro di questi ultimi tempi e di nominare
« Condillac. Direbbesi che per grande nostra ventura è
* desso comparso nel mondo scientifico ad illuminare le
* carte; per tal modo comunemente gli si aggiunge fede
« e ogni suo detto passa per quello di un oracolo. E
« pure non e improbabile che abbia egli levato sì alto
« grido di sè a motivo anche della franchezza con cui
u dogmatizza, contento delle semplici affermazioni, cui
« per solito lascia nude di prove. Chi sa che a crescergli
presso molti concetto non sia concorsa eziandio la maniera
un po' disinvolta e inurbana quasi da lui usata verso i
filosofi eh? ei chiama dinanzi al suo tribunale , e nella
sua Logica e nella sua Grammatica rampogna acerba
mente, e loro, fra le altre accuse e colpe, rinfaccia
■ di avere, sviando con certe loro sottilità fuori di strada
- la moltitudine, contribuito al danno sommo, a suo
* avviso, per cui le lingue, quali corrono per le boc-
* che degli uomini, non /tanno il carattere da lui in
» esse richiesto di metodi analitici? Per altro, riguardo
* a questa pretensione di Condillac — osserverò soltanto,
* che il nostro metafìsico , nella sua Opera postuma in-
* titolata con nome specioso II linguaggio del calcolo,
« rinfresca le stesse idee, e le allarga e comenta copio-
» samente o almeno delusamente, tenendo anche in
» questa sua ultima fatica lo stile e il vezzo per cui
* nella più parte delle sue opere mai non si stanca di
» ricalcare le proprie orme e chiosare se stesso. Potrei
« aggiungere che le sue do'trine, mettendo anche da
« parte le proposizioni o dubbie od erronee, debbono le
« sembianze di nuove all' abbigliamento metafisico che
a le adorna o le adombra. Ove se ne spoglino, il pre-
* stigio dilegua, e rimangono esse note e ricantate da
e gran tempo e anzi volgari. Bastino questi pochi cenni
■ a porre in mano alla gioventù a cui s"1 indirizzano ,
■ qualche mezzo onde rimpicciolire il gigante e ridurne
« la misura entro più giusti confini (i) ».
Così V Araldi, circa veni anni or sono passati (2); il

(1) Saggio di un' errata di cuisembrano bisognosi alcuni libri elementari


delle naturali scienze ecc. Milano , dalla Stamperia reale MDCCCXll,
Voi. I , face. 3i 1 e segg.
(?) Oggidì anche la Francia riconosce e sdegna quel tuono prosuntuoso
che avea tolto il Condillac e la sua scuola la quale si metteva con gran
dispetto sotto i piedi tutti gli altri filosofi ; e gioverà vedere nelle seguenti
parole dì Jouffroy , come, cessato ilfanatismo , ora si vegga chiaro anche
colà quella verità che tanto tempo prima avea veduto il nostro Araldi ed
altri Italiani. «Al tempo, dice Jouffroy , nel quale il signor Royer- Collard
che non gli dee fruttar poca lode appresso quelli che
sappiano quanto il Condillac era esclusivamente riverito,
e con quale insulso dileggio si ricevevano le parole di
coloro che osassero dubitare alcun poco della purissima
luce che quell'autore tramandava, o di metter fuori
qualche nome di men fresca data, quando tuttavia fra
noi non mancano le reliquie di coloro che nella condii'
lachiana superficialità tutta V umana sapienza racchiu
dono, perchè quella è appunto Punica tinta di sapienza
di che essi possano mostrarsi , quasi direi , colorati e
dipinti.
E per tal modo V opera presente si continua agli altri
piccoli lavori da me innanzi ora pubblicati, e si vede
non essere che un nuovo passo a quelV unico intendi
mento a cui ho rivolte le poche mie forze, cioè di con
tribuire , com' io potessi il meglio, alla ristorazione di
quella vera filosofia che ha tanto sofferto ne' tempi mo
derni da quegli stessi che più suoi divoti e affezionati
cultori si dichiaravano, sicché si può dire ch'ella sia

« cominciò le sue lezioni (1811), la sola filosofia che vi avea in Francia


« era quella di Condittac. Che questa filosofia sia buona o cattiva , non è
« questione che noi vogliamo agitare. Noi ci contentiamo di affermare
« eh' essa aveva acquistato in quel tempo V autorità di un dogma : si co
li mentava , svilluppava , s'attendeva a presentarla sotto leforme più pre
ti cise e più ciliare ; ma non v' avea uomo che tentasse mettere i principi
t di essa in questione s sartbbtsi detto che Condillac avesse tracciati sì
« esattamente i contorni dello spirito umano, che era fatto oggimai inutile
« lo studio deW originale , e sufficiente a' bisogni dell'intelligenza il trarre
» delle nuove copie da quelf ammirabile immagine ch'egli n aveaformata,
a Condillac non avea fatto cosa, che potesse guardare i suoi discepoli da un
« simigliante accecamento. Non solamente egli non avea loro dato t avviso
a die abbiamo detto, ma la sua pretensione era stata a dirittura questa ,
a die il suo sistema siili' umana intelligenza traducesse e spiegasse compita
li mente tutti i fenomeni ch'ella può mai contenere. Per tal modo non po
ti levasi più essere suo discepolo a mezzo; era un rinnegare la sua dottrina
« (7 pur metterla in dubbio sopra un solo punto, era un rinnegarla il solo
a cercar di completarla. Convenivaformare i propri passi con lui, o dichia-
t rarsi suo avversario ». (Oeuvres complèles de Th. Rckl publiées par
H. Th. Jouffroy. Introduci ion ).
XIII
nmasta avvitila e dimentica ; nel che V umanità dee co
noscere una cagione de* gravissimi mali da' quali fa
tanto sbattuta a' tempi nostri e con estreme sofferenze
travagliata, e da' quali nell'assenza della vera filosofia
m potrà, a mio credere, rimettersi mai, nè trovare o
fermezta alle sue infinite agitazioni, o efficace rimedio ,
od un conforto almeno a' suoi perpetui dolori.
Egli è vero che l'argomento di quest'opera è molto
astratto, e lontanissimo in apparenza dalle più vicine e
più pratiche necessità degli uomini ; ma quando i mali
sono profondi , conviene cercarne profondamente le ra-
£ci. Il pervertimento e la dissoluzione non è già più
F effetto di una fragilità e di una fiacchezza deplorabile
delle forze morali dell'uomo; egli si è insinuato assai
dentro ed ha viaggiato, per così dire, le immense regioni
degli animi, è salito alla mente , si è cangiato in una
malizia appensata e fredda: quivi ha guerreggiata la ve-
rità, e dopo avere assaliti i veri di conseguenza e quelli
direi che formano le prime file, ha portato innanzi gli
assalii: ciò che non si poteva distruggere , si è discono
sciuto, negato, deriso, e non s1 è ristato dall' opera di
mettere in ischerno e dinegare le verità, fino che d'una
alT altra non si è pervenuto a conculcar l'ultima, a ne
gare e bestemmiare l'essenza stessa della verità, e nello
scetticismo cioè nelF assoluto idiotismo dell'uomo ha final
mente trovato il Genio del male un luogo acconcio da
riporre la prima pietra dell'edificio della umana malizia
e idt umana corruzione. Conviene adunque oggimai non
trattenersi nella superficie , ne con de' rimedj palliativi
coprire a noi medesimi /' enormità delle nostre piaghe ;
ma in quella vece è necessario che tutti i buoni, i quali
possono e sanno, diano mano pronta e concorde a ri
costruire la scienza stessa, per ricostruire quindi la mo
rale, per ricostruire finalmente la società scomposta e
scommessa; e che nel ricostruire la scienza, incomincino
P opera da' veri più elementari, da' quali tutti gli altri
dipendono insieme co' beni figliuoli tutti della verità; e
xir
costringano gli scettici a confessare la loro assoluta ini'
potenza di annullare V intendimento umano e di estin
guerne la luce; siccome pure convincano gf indifferenti
pubblicamente della menzogna che dicono altrui ed a
sè medesimi, quando si spacciano o si persuadono di
non curar punto quel vero indelebile che è vita degli
esseri razionali , e quel bene eterno a cui sono stati or
dinati da Dio e a cui tendono perciò necessariamente ed
essenzialmente.
Egli è dunque intenzione di quest' opera , risalire ,
quanto si può, fino aW origine in noi della verità, ove
sono le sorgenti del fiume della vita ; e da quelV origine
prima , derivare tutte le umane cognizioni ad un tempo
e l'umana certezza; discoprendo così un unico seme,
dal quale germogli quella vera filosofia di cui il genere
umano abbisogna, la quale mostri in sè i due caratteri
da me altrove fermati alla medesima, della unita' e
della totalità' (i) , col primo de' quali ella dia
consistenza e pace alle cognizioni , col secondo dia quel
l'immenso pascolo allo spirito umano, del quale egli è
famelico , e senza il quale non può reggere, e cader
deve necessariamente , come ogni qual volta è sottratto
aW uomo un bene essenziale al suo spirito, in una spe
cie a" intellettuale frenesia. La prima verità , forma della
ragione, essendo unica e semplicissima in sè medesima ,
dà necessariamente la più perfetta unita' a tutto quel
sapere che da lei si deriva; e non essendovi alcun sapere
che da lei non si derivi e non si parta , necessariamente
ella abbraccia il tutto in una fecondità immensa, e quindi
è subietto di una filosofia die ha il carattere della to
talità'.
Conviene dunque giugnere all'essenza della verità quale

(i) In prego il lettore di vedere ciò che io dissi intorno all'indole della
filosofia che io mi propongo di seguitare , e a' due caratteri che la contrad
distinguono , nelle due Prefazioni premesse al Voi. I., ed al Voi. II degli
Ojmsroli Filosofici.
XV
ì a noi cognita in questa vita , ed è questo che prende
a fare l'opera presente. Nella qual' opera cominciandosi
dal toccare le cose più ovvie, e narrare i sistemi più
facili concepiti sull'origine delle idee, quindi mostran
dosi le difficoltà da quelli lasciate insolute, poi indicando
i mezzi tentati inutilmente da più valentuomini per su
perarle, e finalmente dandone la vera soluzione, si pro
cura di venir mano mano intro ducendosi nelle conclu
sioni più rilevanti, e nel fine di render aperto e mani
festo appunto quel pensiero che io toccava; sicché, co'
nosciuto che cosa sia la verità , si conosca pure com' ella
àa f unità essenziale di tutte le cose, e quindi come
non da altro principio se non da essa possa scaturire
la filosofia una che noi cerchiamo; come d'altra parte
quella filosofia una abbracci essenzialmente il tutto, poi
ché la verità non essendo che /'essere possibile, ella è
tale che fuori di lei, fuori dell'essere possibile non si
ritrova che il nulla.
L'uomo veramente ha in sè medesimo due bisogni es
tenuali da soddisfare; l'uno"appartiene alla vastità del
tuo cuore, F altro, per dir così, alla profondità. Egli
d'una parte non si sazia ne pure cibando l'universo, e,
per quanti esseri contingenti voi gli diate, egli ancora
ha un'altra esigenza. La moltitudine degli oggetti , nello
stesso tempo che lo incanta e seduce , lo a/fatica ed op
prime; ed è impossibile che l' uomo si sazj di una mol
titudine qualunque di oggetti ch'egli non può abbrac
ciare, e dai quali tuttavia non può esser empito. Final
mente egli vi dimanderà un ordine nella stessa moltitu
dine; egli cercherà in quella, qualche cosa di necessario
e di uno; e non sarà a pieno mai soddisfatto , fino che
non abbia ridotto e sottomesso la immensa varietà ed
universalità delle cose a un principio solo, nella cui im
mutabilità egli ritrovi un riposo e una quiete mentale,
dove più altro non gli resti a cercare e desiderare, per
chè altro non esiste, dove egli sia empito e non affati
XVI
caio, dove non manchi nulla, e non manchi nè pure
la più assoluta semplicità.
Venuto l'uomo in questo assoluto, venuto nel cono
scimento di una verità nella quale il tutto si semplifica
e si risolve , oltre a cui non ha inquietezza di ricerche,
è calmo, è soddisfatto; egli può vedere tranquillamente
altresì qual sia il posto che occupa egli medesimo nel
tutto, e come egli debba guardare quel posto, per non
violare un ordine che tanto ha cercato, e sottomettersi
al principio che unizza tutte le cose, acciocché anch' egli
entri nella grande unità e non la turbi, in quella unità
che ha conosciuto per V estremo voto di sua natura e
per il termine de' suoi supremi bisogni. E dunque da
quell' unità che abbraccia il tutto che viene un solido
fondamento alla morale, e fino a tanto che le scienze
s' insegneranno V una daW altra spartita, e quasi fram
menti sconnessi di grande tempio scrollato o da barbare
invasioni diruto, non sarà mai possibile che il sapere
umano vada di un passo pari colla morale virtù, e che
gli uomini colf aumento de' lumi si ammigliorino ; e se
non si animigli orano , come si pub riordinare la società
senza i costumi?
Ho già detto ancora, che credo questa essere la teo
ria dell' Evangelio , e perciò la filosofia del Cristianesimo.
Nè fa meraviglia che una filosofia divina per l'uomo
mostri aver le sue basi nella natura umana, e corrispon
dere alle essenziali leggi di questa natura per la quale
è data. Conciossiachè veramente io non saprei trovare
altra dottrina che meglio della cristiana congiunga in
se medesima I'vkita' più perfetta colla totalità' più
assoluta. Se non che, il Cristianesimo non è semplice
mente una teoria che additi all' intendimento umano il
metodo della verità, o la verità stessa, come può addi
tarla l'uomo all'uomo in parole; ma egli è una virtù
altresì invisibile che rende possente neW uomo la stessa
verità: che la rende possente nella mente , ove manifesta
ed emette nuova luce e discuopre di se medesima altre
XVII
parti prima al vedere umano celate e contese dalla li
mitazione delP umana natura; possente nel cuore, a ri-
mutarlo e convertirlo dall' apparenza del bene corruttibile
al desiderio e alP amore di quel bene sommo che nella
verità stessa gli si è reso più manifesto e più attraente ;
possente nella vita, che si rinnovelta e riconforma al
cuore ed alla mente rinnovellati ; e nello stesso universo
possente, il quale attempera le sue leggi, anzi ha le
/fg§i già temperate ab eterno in ossequio e servigio della
verità ingrandita e trionfante nella specie umana.
Quindi le divine Scritture nominano i Cristiani quasi
con loro proprio nome quelli che hanno conosciuto la
Verità (i). Ma perchè questa verità, di cui parlano le
Scritture, che è il principio di tutto il Cristianesimo,
dalla cui parola esse ci dicono generati (2), non è più
solo, come io diceva, il lume naturai della mente, la
vtrità iniziale, ma sì la verità compita ed assoluta, la
verità prima e sussistente, e non quindi una fredda idea
nostra, ma una virtù onnipossente, il Verbo stesso di
Dio (3),- perciò in quanto noi partecipiamo in questa
vita di cotesta verità divina fondamento del Cristianesi
mo, e ny esperimentiamo la virtù confortatrice dell' in
telletto e reggitrice dell'animo nostro, in tanto le divine
Scritture ci dicono che nella verità sta la grazia di
Dio (4), e che in virtù -di lei l'uomo cammina nel
chiaro lume della verità (5). E perciocché ancora questa
Verità compiuta , che pur adopera in noi con somma
tfjicacia e nelle nostre menti risplende, non ci si dà però
tutta a vedere sveltamente nella sua propria essenza
che è r essenza di Dio ; quindi noi quaggiù dobbiamo
credere alla sua virtù ciò che non possiamo esperimen-

\
(1) Qui cognoverunt veriutcm. Jo. Ep. Il, c. I.
(1) Geouit dos verbo veritatis. Jac. I.
(5) Ego som — veritas. Jo. XIF.
(4) Graliam Dei in verilatc. Coloss- I.
(5) la ventate ambulare. Jo. Ep. III.
Bossf/wr, Orig. delle Idee, Voi L c
XYIll
tare, ed in questo senso la Fede è la virtù primaria del
Cristianesimo, la Fede, come dicono le Scritture, che
si presta alla stessa Veri là , alla quale chi nega fede
è essenzialmente nella dannazione della menzogna (i).
Quindi non altra ragione assegna il Vangelo del non
riconoscere la parola di Cristo se non l'amore della
menzogna e il precedente rifiuto della verità (2).
Unico dunque è il principio del Cristianesimo, la
verità'; e la verità' pure è il principio della Filosofia;
se non che, come in questa la verità si mostra solo per
una regola della mente, così in quello ella ci si porge
compiuta e intera in se medesima sussistente siccome
una persona divina , la quale parte luce in noi ed opera
efficacissima nell'essenza del nostro spirito, e parte ve
lata ed occulta si Ja oggetto venerando alla nostra Fede
e argomento infinito di tutta nostra speranza. Di che la
Filosofia, se pur vuol esser vera, non dee voler essera
che una propedeutica alla vera Religione: conciossiachà
tuomo sarà più preparato alf adorazione e alla fede,
più ch'egli si sarà allontanato dall' errore ed occupato
a riconoscere e ad amare anche quell' abbozzo , per così
dire, di naturai Cristianesimo , che è nell' uomo la na
turale verità, un crepuscolo sarei per chiamarlo del
Verbo divino (3).
Questo principio semplicissimo che dà tanta uhita'
alla teoria cristiana, è pure quel principio sommamente
fecondo onde nella teorìa cristiana nascono tutti i beni;
e le stesse scienze umane non prosperano felicemente e
con non interrotto progredimento se non quando sono fatte
germogli di quel seme, e tralci di quella salda radice-
Quindi è che il Cristianesimo portò in sulla terra la ci-

(1) — elegerit vos Deus — in fide veritatis. Thessat. Ep. Il, c. II. — Ut
judieentur ornaci qui non crediderunt Tentati. Ivi.
(a) Qtiare loquelam meara non cognoscitis? — Quia non potestis audire
lermoncin mcum- Vos ex patre Diabolo eslis — quia non est verità* in eo.
Jo. Vili.
0) Quac illurainat omnera hominem veuientem in faune mundum. Jo, l.
Xlt
viltà, conseguenza naturale di lui, e la rese indistrutti'-
bile come se stesso ; e che introducendosi continuamente
più addentro nella società, mette in quella un germe di
perfettibilità indefinita, la quale l'orgoglio umano, che
ignora sempre i beneficj ed usurpa la gloria altrui, at
tribuisce a sè medesimo , quella perfettibilità che era in-
cognita alle nazioni che hanno preceduta la venuta di
Gesù Cristo, il quale solo, secondo l'ardita frase dì Isaia,
tolse via il freno dell'errore che era nelle mascelle de'
popoli (i). Quindi la stessa baldanza umana, che pur
può nuocere a de1 singoli uomini, è oggimai impotente a
imbarbarire Finterà umanità; e tutti gli sforzi dell'in
ferno nel secolo scorso non hanno giovato che a dar
nuova prova del nulla degli uomini, e della onnipotenza
di quel Redentore che ha rese sanabili le nazioni (a)>
a cu/ ogni ostacolo è mezzo, e mezzo necessario e cal
colato, che aiuta a compire gV indeclinabili destini della
parola evangelica. Sicché a malgrado dell'1 apparenze mo
mentaneamente contrarie, si può però dire sicuramente
che nulla arresta , nulla trattiene il passo del Cristiane
simo ; ed all' opposto si può ripetere anche a' dì nostri
quello che diceva s. Atanasio, che « oggimai non ha
« piò progressi la gentilesca sapienza ; ma più tosto
« quella che prima era , a gradi a gradi di continuo
« svanisce » (3). Nella quale efficacia e sicuro effetto
della parola di Dio, i Padri della Chiesa additarono la
riprova e quasi il suggello della sua divinità; percioc
ché la parola divina è d'un effetto certo; e a questo
segno chiamava Cristo medesimo quando diceva « Tutti
* quanti vennero sono ladri e assassini, e le pecore non
" hanno loro dato ascolto. — Io sono il buon pastore,
« e conosco le mie pecore, e quelle che son mie cono-

(1) li. XXX. — fraenura erroris quod erat in maxillis populorum.


(i) Sap. I.
(3) Nullos itera progressus habet Gcntilium sapientia: sed potius qua*
aotea crat sensim evaDescit. S. Athan. De Iucaroat. Verbi Dei, n. 55.
XX
« scotio me » (i); e ancora « Di quelTi che hai dato
* a me non ho perduto nessuno » (2).
Ma perciocché tutti gli effetti del Cristianesimo ( e
quando dico gli effètti del Cristianesimo dico tutti i beni
possibili dell'uomo) escono e pullulano di quell' unica
radice della ferità sussistente, perciò la natura di questa
sublime istituzione che Cristianesimo si appella è tale
che non ha bisogno d? altro travaglio che di coltivare
la sua radice percK ella da se medesima poi produca i
mirabili effetti suoi; e di qui la semplicità del Cristiano,
che non sembra inteso che ad una sola cosa, e questa
pure fuori di tutti i confini della terra, e tuttavia per
una ri/lessa e inaspettata conseguenza essa produce fuori
di sè anche la felicità degli uomini nella vita presente ,
e la perfezione sociale inattesa comparisce sulla terra da
sè medesima. Di che il Vangelo dice , che Gesù Cristo,
sebbene non abbia insegnato ne le arti meccaniche nò
le scienze naturali, tuttavia ha insegnata ogni verità (3);
e fu la possanza feconda di questa virtù radioale del
Cristianesimo che condusse i Padri della Chiesa ad esor
tar gli uomini a rinunziare alle profane cognizioni, onde
il filosofo e martire s. Giustino esortava i Greci alla
cristiana sapienza descrivendone l'indole genuina colle
seguenti parole: « Quel nostro capitano, il Inerbo di-
« vino, che a noi assiduamente presiede, non vuole de~
« sterilà di corpo, o bellezza di volto, o alti spiriti di
« nobile sangue : ma sì un-1 anima pura e munita di
« santimonia. Imperciocché per lo Verbo una cotal
« forza ci pervade tutti (ed oh stromento acconcissimo
« a fugare i gravi affètti! oh magisterio opportuno ad
« estinguere l'insito fuoco dell'anima! ) ; la qual forza

(1) Omnes quotquot venerunt fures sunt et latroncs, et non audierunt


cos oves. — Ego sum pastor bonus, et coguosco otes meas, et cognoscunt
me meae. Jo. X.
(a) Jo. XVII.
(3) jo. xn.
xxr
* non ci rende già poeti, non filosofi, ne oratori eccel-
* lenti, ma sì con uno interiore ammaestramento da
« soggetti alla morte ci rende immortali , e da uomini
e Idiiii. Accostatevi , o Greci, imparate, fatevi come son
* io, poiché anch' io m'era siccome voi. Me ha preso
« e la forza invitta della dottrina, e V efficacia del
* Verbo; poiché siccome incantatore perito fuga un for-
* midabil serpente dopo averlo tratto dal suo nascondi-
* gi'o, così il Verbo dagl'intimi penetrali dell' animo
« caccia gli affètti de' sensi , e massime la cupidigia ,
* della quale ha origine ogni più pauroso effètto, le
« inimicizie, le risse, l'invidia, le emulazioni, le ire, e
« r altre passioni simili a queste. Il perchè, espulsa la
* cupidigia, V anima consegue tranquillità e serenità » (i).
Egli è dunque colla riforma dell'uomo, col rinnovarlo,
col ricongiungerlo a Dio, col renderlo immortale e di
vino , che il Cristianesimo V ha reso , quasi piccola giunta
aW immenso beneficio, fortunato autore dell'arti umane,
e felice cultore delle scienze, e atto a formare una so
cietà libera, pacifica, felice, quale può avervi in terra,
simile in qualche cosa ad una società di celesti, in una
parola la società cristiana che abbraccia il mondo, e
che si perfeziona co' secoli che dura il mondo.
E i Padri della Chiesa , nello stesso tempo che di
mostravano questa unita' del Cristianesimo nel suo prin
cipio, la Verità increata, e che dicevano, la forza del
Verbo, entrando in noi, non mirare a formarci poeti,
fiasofi, oratori eccellenti; sentivano però ancora la to
talità' de' suoi effetti, ne' quali tutte abbracciava ne
cessariamente le conseguenti verità, nè aver vi poteva
verità alcuna, che proprietà de' Cristiani non fosse, cioè
di quegli uomini che professano un culto alla sussistente
Verità. Il perchè non era che s'escludesse nulla della
vera sapienza ; ma tutte le arti e le scienze gentilesche
dovean perire naturalmente , perchè rami d' un ceppo gua-

(1) Oralio ad Graecos, n. 5.


XXII
sto e non durevole, V ingegno umano abbandonato a sè
stesso; e compir così doveano la profezia di Gesù Cri-
sto - Ogni piantagione che non fu piantata dal Padre
u mio celeste, sarà diradicata » (i); tutte si dovevano
T'innovellare uscendo da radice cristiana , e dovevano an
ch' esse farsi cristiane. Il perche lo stesso s. Giustino
scrivea d'avere abbandonatigli autori profani m non per
ai che le istituzioni di Platone sieno aliene da Cristo,
a ma perchè al tutto non sono simili, siccome pure
« quelle degli altri, degli stoici, e de' poeti e degl' istO'
« rici. Poiché ciascuno , ove vedeva alcuna parte della
« divina ragione disseminata a sè stessa consenziente,
« parlava in un modo preclaro. Ma quando poi in cose
u al tutto gravissime battagliavano insieme, mostravano
« con ciò nè di aver conseguita una scienza più sublime
« degli altri uomini, nè una cognizione ben munita con
ni tro gli assalti. Tutte le cose adunque, quali elle sieno ,
* che eccellentemente si trovano dette appo gli altri ,
« appartengono a noi Cristiani. Imperciocché noi ado
ni riamo ed amiamo secondo Dio il Verbo nato dall' in-
« genito e inenarrabile Dio, mentre per noi s' è egli
« umanato acciocché reso partecipe de' nostri patimenti
« porgesse a questi rimedio. Conciossiachè tutti gli scrit-
« tori per lo seme della ragione in essi inserito poterono
« vedere pure il vero, ma alquanto oscuramente. Che
« altro è il seme (a) di alcuna cosa e V imitazione con
ti cessa a tenor delle forze; altro la cosa stessa di cui
« è conceduta la comunicazione e l'imitazione secondo
« la grazia » (3).
E che di tutte le verità e di tutte le buone dottrine i
Cristiani abbiano una lor peculiar proprietà e diritto
conseguente alla natura della loro professione di Cri-

(i) Malth. XV.


(a) Questo seme di s. Giustino che è il lume della ragione, risponde alla
espressione che noi usiamoper indicare il lume della ragione,di essere iniziale.
(5) Apologia sccunda , n. 1 3.
XXIII
stórni , questa è dottrina comune de' Padri, i quali di
fesero questo diritto e quasi come un punto d' onore
cristiano il sostennero; giacché, dice s. Agostino, « se
■ per avventura quelli che si chiamano filosofi dissero
« alcune cose vere e alla nostra fede accomodate, da
• essi si debbono torre e siccome da ingiusti possessori
« in nostro uso vendicare » (i).
Il perchè Clemente Alessandrino, conoscendo que-
sf efficacia e fecondità del Vangelo , diceva che , pre
dicandosi questo già in tutto il mondo, non era più
Grecia sola ed Atene la terra destinata al magisterio
della sapienza , ma oggimai tutto il mondo era fatto una
Grecia e un? Atene; e non più alle scuole profane con
veniva recarsi, ma sì udire lo stesso Verbo venuto tra
noi (a),- poiché le arti e le scienze gentilesche erano
senza radice , ma quelle che dal Verbo divino germina
vano erano anch' esse divinizzate e fatte parti della scienza
della verità (3). Per tal modo non pure V biuta' e nel-
T unità la totalità' delle cognizioni richiede e mostra
in se il Cristianesimo , ma F ordine ancora e la loro le
gittima generazione, senza la quale ne la totalità è piena,
nè la scienza può essere permanente e nel genere umano
efficace. E di vero se la gentilesca civiltà fu racchiusa
quasi nella sola Grecia, ed ebbe un periodo di piccola
durata; la civiltà rinata figlia del Cristianesimo pervase
ben presto F Europa tutta , e già il dirla europea è poco;

(\) Qui Philosophi vocaotur si qua forte vera et fidei nostrae accomoda
djienjDt, ab eis tanquara ab injustis possessoribus iu usum nostrum vin-
dicanda sunt. De Doetr. Christ. llt Xt.
(a) Quam ob rem, ut mihi videtur, cum ipsum verbum ad nos venit
eaelitus, non sunt nobis amplius frequentandae hominum scholae, nec
Atbenae, reliqua Graecia, aut etiam Jonia studiorum causa adeundne. Nam
si hoc utamur roagistro qui sanctis virlulibus, opifìcio, salute, beneficio,
legislalione, vaticinio, doctrinà compievi! omnia; nulla est doctriua quam
is non tradii, ipsique, hoc est verbo, uuiversus iam orbis lerrarum Alhe-
nae atque Graecia factus est - CohorUitio ad Gentes , il. II.
(3) Scientia veritatis, così sera' altro è chiamalo il Cristianesimo nelle
dtvinc Scritture- fed- *■ Pool. Ep. Il ad Timpth. c, ///.
XXIV
perciocché la sua contìnua tendenza a diffondersi in
tutte le parti del mondo è così manifesta , che non si
può a meno di dare a lei anche il titolo di cattolica,
che caratterizza e segna la religione che la produce.
Ella fu questa Religione sublime che abolì la schia
vitù, e che compose la grande società di uomini liberi
la quale si chiama Chiesa cattolica, e che ciò fece
senza alcuno sforzo violento , ma solo comunicando agli
uomini la cognizione della divina verità, secondo la pre
dizione del fondator della Chiesa il quale avea detto
« E conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi «
vera libertà, figlia primogenita della virtù secondo l'am
maestramento del medesimo divin fondatore: « In verità
« vi dico , che ciascuno che fa il peccato è servo del
« peccato » (2). E veramente la sola servitù a Dio è
quella che può sottrarre /' uomo dalla servitù deW uomo;
e il decreto dell' emancipazione del genere umano per
questo è coevo e immedesimato col primo precetto del
decalogo dell' adorazione divina , avendo Iddio ad un
tempo e stabilito nel suo popolo il culto, e promulgata
la libertà in quelle solenni parole: Dominum Deum tuum
adorabia, et ilia soli servies (3). La ferità dunque è
il principio della giustizia .• giacché in essa l'uomo sì
santifica (4) : e V effetto della giustizia , che nelV adora
zione di Dio massimamente consiste , è la libertà, la
pace, la felicità della società umana. La società adun
que formata dalla verità, la Chiesa cattolica, è essen
zialmente libera, sebbene il mondo ingiusto non cessa
dì tentare quanti è da se di aggravarla di catene, quel
mondo che ritien sempre la verità di Dio nella ingiu
stizia (5) j e questa libertà essenziale è V effetto neces-

(1) Et cognoscelis veritatem, et veritas liberabit vos. Jo. Vili.


(2) Amen, amen dico vobis, quia oninis qui facit peccai uni, servus est
peccati. Jo. Vili.
(3) Lue. IV.
(4) Sanclificali in vcritate. Jo. XVII.
(5) Qui veritatem Dei in iujustilia dcliueut. Rum. 1.
XXV
sano del principio del Cristianesimo che è la verità: e
come il progresso della verità fra gli uomini non può
più essere fermato ne rallentato dagli sforzi dell' umana
e della infernale perversità, così non può essere a meno
che anche i progressi della libertà della Chiesa cattolica
non sieno continui e sempre più luminosi. Infelici quelli
che, dominati da amore di una fragile e transitoria po
tenza su questa terra , pensano di potere assuddittare a
se medesimi quella Chiesa che non è soggetta che al
solo Dio! e beati qué1 generosi che per la libertà della
Chiesa combattono le guerre del Signore, il nome di
quali fia sempre onorato e rammemorato con infinito
amore nella società, che non può giammai venir meno,
de giusti!
Tali sono gli effetti della verità, principio della Re
ligione in quant1 è completa e divina ed all'uomo natu
ralmente celata , ma per opera di Dio resa fonte di grazia
ad un tempo ed oggetto di fede; e principio della Filo
sofia in quanto nella nostra intelligenza naturalmente ri
fulge siccome un lume, o idea prima , o una regola de'
giudizi : di che si vede come la Filosofia non si può
confondere colla Religione , e tuttavia dee con essa esser
mirabilmente d'accordo, e ad essa utilmente servire.
Questa è la relazione che ha la Filosofìa contenuta
neWopera die io presento al pubblico col Cristianesimo ;
e nell'esporla io ho creduto di soddisfare a un debito che
hanno gli autori di aprire e manifestare candidamente
fino dai principio il proprio carattere , e farsi da' loro
lettori, chiaramente conoscere perciocché mi è sempre
panilo ignobile vizio quel tenersi celati, ciò che affettano
alcuni o troppo timidi fra' buoni, o insidiosi e perfidi
fra i malvagi, ai quali solo veramente il nascondere e
dissimulare e disguisare i proprj sentimenti è in qualche
modo da consentire. Ma {"additare il nesso pel quale si
attiene la mia colla filosofia del Cristianesimo , ho cre
duto die fosse da me dovuto massimamente alla grande
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. 1. d
XXVI
società cristiana, alla quale i miei lettori nella massima
loro parte apparterranno. Conciossiachh e ben conveniente
che i Cristiani, ove venga loro un nuovo libro filosofico
presentato , dimandino incontanente qual è la connessione
che ha quel libro colla Religione eh' essi professano ,
giacche in questa essi ripongono le loro supreme speranze
e i loro beni essenziali: ed hanno diritto di esser in ciò
informati accuratamente; e per quanta sia l'indifferenza
de' tempi nostri, per quanto sia intepidito il fervore della
pietà , è cosa però certa che i battezzati, presi nella grande
loro massa , la prima cosa fanno quella ricerca , e se
non espressamente , almeno tacitamente in fondo de' loro
cuori Essi la fanno talora senza volerlo , senza accor
gersene , senza saperlo essi medesimi: tanto intima è
l'azione della religione negli uomini! tanto profonda è
l'impressione che lascia nell'umana natura il Cristiane
simo! Io dovea dunque alla grande società de' Cristiani
tale dichiarazione; io la dovea poi ancora peculiarmente
a questa mia diletta Italia ona" ho la vita e la favella ,
a questa Italia mantenitrice devota della fede de' veri suoi
padri, e che di tanta fedeltà fa la sua gloria più bella
ed a questa eterna città dov' io scrìvo, nella quale è la
pietra fondamentale dell'edificio della Chiesa , ove di tutte
le nazioni concorrono gli uomini siccome alla loro patria ,
e si mescolano insieme siccome in una medesima citta
dinanza , ove i credenti sparsi per l'universo si ricongiun
gono, si riabbracciano a' piedi di un padre comune, nel
volto del quale mirano l'immagine viva di Gesù Cristo.
Soddisfatto adunque a questo mio dovere, di mostrare
quale sia lo spirito della filosofia da me professata e
creduta l'unica vera, runica salutare agli uomini, noti
sarà inutile l'accennare ancora gli ostacoli maggiori ch'io
veggo contrapporsi ai progressi della medesima ; il che
io farò qui brevemente.
E non intendo io già di favellare della continua op
posizione che fa l'uomo malvagio ai progressi della Ve
XXVII
rifà, o della continua persecuzione che tiene accesa e
rinfiamma il mondo contro alla Chiesa. Questi ostacoli
non soggiacciono al nostro volere , ma sono in mano
della divina Providenza , la quale li guida con inenar
rabile sapienza a produrre e compire la massima gloria
e il preordinato trionfa di Cristo. Io intendo parlare di
quegli ostacoli che poniamo noi stessi agli avanzamenti
della Filosofia di cui il mondo sente il maggior bisogno
e che la Religione dimanda e chiede oggidì con istanza,
acciocché sieno rimossi dalle mani degli uomini tanti li
tri pieni di dottrine pericolose e false ed ancora sovente
scopertamente irreligiose ed empie.
Questi ostacoli che talora pongono i buoni senza sapere
che male si facciano, nascono da poca cognizione del-
Fintima natura della Religione e della Filosofia , e da
nulla cognizione dello stato e de' bisogni della presente
società. Questi vi diranno non essere necessario di met
tere in mezzo delle questioni difficili, perchè alla felicità
degli uomini basta la semplicità del Vangelo. Io ho già
risposto a questo colla dottrina di Padri di sopra recata :
i Padri conoscevano nel Vangelo la pienezza della ve
rità , e sapevano che le scuole gentilesche dopo di hd
erano inutili, ch'egli aveva in se onde soddisfare a tutti
i bisogni dell'1uomo. Ma. perchè ciò? in che senso dice
vano essi questo ? Essi voleano dire , che il Vangelo con
teneva una dottrina la quale nobilitava e rialzava essen
zialmente lo stato morale e intellettuale dell'uomo; e
Tuono nobilitato dal Vangelo, e fino congiunto stretta
mente con Dio, l'uomo cristiano in una parola, era fatto
idoneo a ricreare da se medesimo tutte le arti e le scienze
più veramente e più nobilmente , e a riformare la società;
sicché non era a lui più necessario il mendicare a' Gen
tili la loro affettata ed impura sapienza piena di fuco e
d'errore' di che, Vavanzamento delle cognizioni, non che
contrario è anzi il naturale effetto dell'Evangelio, ed è
pe' suoi effètti che l'Evangelio soddisfa a tutti gli umani
XXVIII
bisogni. E Dio medesimo ajutò il progresso delle dottrine
col permettere che insorgessero gì' increduli e gli eretici
a contraddire ed oppugnare la verità, e così mettessero
in necessità i buoni di renderla più manifesta e di scuo-
prirne la fecondità. Perocché il più delle volte non siamo
già noi di nostra spontanea volontà ; sono i nostri avver
sar/, più inquieti e più prudenti di noi (i), che ci trag
gono in mezzo alle più ardue questioni della natura
umana e di Dio, e con queste trattazioni a cui ci co
stringono ci danno occasione di guadagnare un immenso
tesoro di vera e inestimabil dottrina. Io porrò dunque
contro questa specie di ostacolo le parole di sant'Ilario,
che se a' suoi tempi convenivano, molto più a1 nostri
convengono: « E uopo guardarsi, egli diceva, dalla Jilo-
* sofia; e non tanto evitar gli studj delle umane tradi-
« zioni (2), quanto confutarli. — Poiché non essendovi
« cosa che non possa la sapienza di Dio, e potendo
« Iddio tutte le cose in essa sapienza , ne la ragione op-
« ponendosi alla sua possanza, nò la sua possanza alla
« ragione, Conviene che quelli che predicano Cristo, con-
u traddicano alle irreligiose e imperfette dottrine del mondo
« colla scienza della onnipotenza sapiente, secondo il
« detto del beato Apostolo: Le nostre anni non sono
« carnali , ma è la potenza di Dio atta a struggere le
u difese e annullare le ragioni contrapposte e ogni al
ci terezza che si levi contro la scienza di Dio. Non la
ti sciò dunque la Fede nuda e povera di ragioni ; la
« quale, sebbene sia principalissima cosa per la salute,
« tuttavia non essendo munita di dottrina, avrà sì nelle
« battaglie un recesso sicuro ove rifuggiarsi , ma non

(1) Lue. XVl.


(1) Ecco come anche V errore ha le sue tradizioni. E come sono caratte
rizzate queste tradizioni dell'errore da' Padri ì Con dar loro semplicemente
il nome di umane. Tanto poco V uman genere, ove si consideri da se solo,
è atto ad essere il giudice della verità !
XXIX
» potrà mantenere una sicurtà ferma facendo fronte; e
» sarà come sono gli accampamenti agi' infermi dopo la
» fuga, non come sono gli accampamenti a quelli che,
- oltre ad essi , hanno ancora una non iscossa ne punto
« atterrita fortezza (i) ».
V^e un altro genere dì que' buoni che mettono osta
colo al progresso della filosofia; e sono quelli che, ai-
lassati da molti tentativi mal riusciti, o con esito incerto
per la disparità delle opinioni, abbandonano per eccesso
t£ stanchezza ogni studio filosofico, e, senza accorgersi
che è sola pochezza di loro forze particolari quella che
vien meno alla fatica, vogliono erigere in regola univer
sale quella loro inerzia alla quale essi si son lasciati ca
dere: conciossiachè difficile cosa è all'uomo di attribuire
a proprio difetto ciò che gV interviene ; ma più tosto è
presto di giustificare sè medesimo , facendo dipendere ciò
che è suo proprio vizio, da una legge universale della
natura umana e delta stessa verità , e la impone altrui
anche talvolta scortesemente, pretendendo che gli altri
tutti lo somiglino in ciò che è difettoso , dando colpa
agii altri se non lo assomigliano. Ne fa meraviglia che
«' nostri tempi nasca il fastidio delle filosofiche disputa-
zioni , quando già s. Gregorio Nazianzeno così scriveva
nel quarto secolo della Chiesa: « Noi, lassi dalla mol-
« ùtudine delle questioni, siamo fatti simili a quelli che
« patiscono no/a de' cibi: poiché come quelli che hanno
• a schifo una vivanda, tutte te rifiutano; così noi at-
» tediati da una disputazione, ci vengono a nausea egual-
« mente tutte le dispute » (2). Costoro pertanto declamano
ingiustamente contro la filosofa, e pretendono di poter
mettere da parte tutte quelle questioni imbarazzanti , come

(1) Lib XII. Db Trinit. n. 10. Cavendimi igilur ndversus pliilosophiam


tK-et aroanararn tradilionum non tara evitanda sunt studia quam refu-
tiada tic
(i) Oratio XXXI-
XXX
essi dicono ; le quali non sono, a parer loro, che cagioni
d'interminabili liti, e che niuna vera edificazione appor
tano. Ma oh quanto sono costoro lontani dal conoscere
la natura umana ! quanto dall' aver misurate le proprie
forze! Essi presumono di tirare una linea di separazione
fra verità e verità, e dichiarar quelle utili, queste super
flue; e intanto non sanno che la verità, tutta quanta
ella è, è un bisogno essenziale della nostra natura ; che
questa natura aspira con tanto più di ardore alle cogni
zioni, quanto queste sono più ardue, più peregrine, più
arcane; e che le forze de' singoli uomini sono così limi
tate, ch'essi non possono giugnere a contendere e vietare
all'umanità ne pure la più piccola particella di verità;
perocché l'umanità non si lascierà impor mai questo li
mite arbitrario ed ingiusto, e Vinquisizione del vero sarà
sempre all' uman genere tanto libera quanto Varia e la
luce, tanta aperta quanto aperta l'ha fatta per esso Iddio.
La stanchezza nella ricerca del vero produce diversi
effetti nelle varie maniere di uomini , e tutti nocevoli al
progresso della buona filosofia.
In alcuni produce il pronto acconciarsi alle prime opi
nioni che odono, non pensando, che ove le verità eterne
alle umane cose vengono applicale , sono soggette alla,
fallacia di queste, e qual pereto cautela e diligenza si
richieda innanzi di credere fermamente che le applica
zioni fatte sieno riuscite certe e sicure. Di questa lassa
maniera di pensare già parlava Minuzio Felice, scrivendo
« Non è difficile a mostrare che nelle cose umane tutto
« è dubbio, incerto, sospeso, e anzi verisimile che vero.
« Tanto maggiormente egli fa maraviglia , come alcuni,
« vinti dal tedio d' investigare perfettamente la verità ,
« succombono con temerità di giudizio ad ogni opinione,
u anziché perseverare esplorando con pertinace dili-
« genza » (i).

()) Nullum negotium est patefacere omnia in rebus liumanis dul>iu , in.
XXXI
Altri poi di maggiora ■ ingegno forniti presumono, con
non poco a dir vero di baldanzosa confidenza , di poter
metter termine a tutte le questioni, inventando essi stessi
e foggiando de* sistemi semplici ed universali , cioè com
posti di poche idee; i quali però non sono punto più
felici dé sistemi di quelli che li hanno preceduti, e non
possono meglio soddisfare alle difficili questioni che pre
senta la natura umana , perocché arbitrariamente esclu
dono molte ricerche , e si racchiudono in un breve cir
colo di cognizioni e sommamente incompleto , da essi ,
giusta il proprio comodo, misurato e delineato. Questi
nuocono assai al progresso del vero, sì perchè rivestono
talora di splendida eloquenza i loro errori ( i ) , e lusin
gano altrui colla facilità, colla semplicità, e collo splen
dore di poche e talor vere e sante sentenze; e massime
poi col disprezzo profondo di che ricuoprono tutti quelli
che non senton con essi; imperocché sono essi entrati in
sì miserabile persuasione, che tutto ciò che v'ha d'im
portante per gli uomini sia già compreso nel descritto
giro di loro dottrine ; e per uno zelo inordinato predi
cono le più triste conseguenze di tutto ciò che non è
auanto dicon essi, e dichiarano ben sovente eterodosse
0 ancora atee tutte V altre opinioni dalle loro non tanto
forse contrarie quanto diverse. E troppi sono costoro ,
tirati in errore dalla specie del bene che di far si pro
pongono, e che tanto poco prudentemente sanno fare;
1 «/ de' quali conviene diligentemente come scogli evi
tati : e per questo appunto io ho tolto a farne con pochi
cenni il ritratto, perchè nella rettitudine delle loro inten
zioni forse altro non si richiede ad essi , acciocché si

ftrta, dispensa, magisque omnia verisimilia quam vera. Quo magis miruin
<>t Donnullos taedio investigandae poeuitus veritatis cuilibet opinioni te
mere suceumbere, quam io ezplorando pertinaci diligeutia perseverare. In
Octavio.
(1) De la Mennais.
XXXII
emendino , che di abbattersi a vedere come in lucido
specchio ri/lessa la fedele loro immagine.
Questo genere però , come gli altri accennati , non
vuoisi credere che sìa nuovo de' nostri tempi ; perocché
qual cosa v' ha di nuovo sotto al sole ? o quali sono i
difetti della natura umana, che solo a' nostri tempi sieno
cominciati?
Il seme del difetto che ho descritto, e al quale anche
i buoni per infermità soggiacciono , è tutto in una so
verchia fidanza che prende l'uomo di sè medesimo, e in
una speranza esagerata di potere assai facilmente metter
rimedio a' disordini, e condurre gli uomini per una via
regia a toccare su questa terra un termine di perfezione,
alla quale o mai o solo coli' opera di lunghi secoli po
tranno pervenire. Si presenta alla mente cosa , che par
rebbe dover essere utile a conseguire questo ottimo fine,
s'ella fosse nella natura umana e nell'ordine delle cose?
E bene; non si guarda già più se quella cosa sia nella
natura umana, se sia nell'ordine delle cose.- ma inescati
quelli che la vagheggiano dal vantaggio ch'ella presenta
al loro pensiero , affermano sicuramente che quella è
legge della natura , che quella è già nell' ordine delle
cose. E onde mosse la teoria che pose il supremo ed
unico criterio di certezza nel consentimento del genere
umano, se non dal pensiero, che sarebbe pur utile che
gli uomini avessero un criterio facile , universale, il quale,
senza le spine che si trovano nell'applicazione degli altri
criterj, desse le singole verità belle ed espresse (i)? Parve

(i) Quando si ricorre ad un' autorità per conoscere il vero , se f autorità


è infallibile , s' Ita il vero messo in termini per così dire. All' incontro un
principio o criterio di ragione, non dà il vero a dirittura, ma solo la via
per trovarlo, o dedurlo ragionando. Perciò, posta un autorità infallibile ,
non s' ha più bisogno di altro ragionamento per rinvenire la verità. Quindi
si sperò di potere eliminare tutti i siitemi filosofici, e far di meno di tante:
intricate questioni , col dichiarare il genere umano giudice infallibile di tutte
XXXMI
ad alcuno che sarebbe stato utile se Jbsse esistito un cri'
terio della verità così pronto, così facile; gli parve al
tresì che tale facilità si trovava, se il consentimento del
genere umano fosse stato il criterio. Dunque egli è il cri
terio, si conchinse: non si esaminò più s'egli è in fatto;
ma il desiderio della grande utilità aspettatane bastò a
proclamarlo per tale. E onde venne la confidenza clic
metteva Leibnizio nelle regole logiche , per non nominare
FJrte magna dì /Raimondo Lullo, o di Giordano Bruno?
onde la speranza di rinvenire quella lingua o scrittura
universale, colla quale agevolmente si potesse condurre
una disputa zione al suo termine e trovarne il vero risul-
tamento? Non dall'esame intimo, io credo, della natura
della cosa , la quale avrebbe a questi valenti ingegni mo
strato fino a qual segno V autore della natura giudicò
bene di fornir l'uomo di stromenti acconci al scioglimento
dille più intricate questioni; ma sì bene dal vivo pensiero
«Iella grande utilità che al loro giudizio si affacciava,
dove quell'arte de' segni universale si fosse trovata ; quasi
così ragionassero: un mezzo tanto utile dee trovarsi ili
necessità nella natura delle cose. E quale è poi il fonte
di tante teorie contrarie fra loro e stranissime che fecero
i pubblicisti, sull'origine e sulla natura della società ? Essi
si dispensarono veramente il più delle volte dal conside
rare il fatto della cosa; ma si appagarono d'ideare ciò
ch'essi credettero più vantaggioso, e tale descrissero la
natura della società umana, non quale era, ma quale
essi volevano risolutamente che fosse. Perchè il tragico
(f Asti con tanta sicurtà e confidenza giunse a scrivere
che la società si dovea ridurre a tali ordini che l'uomo
non fosse più in potestà di nuocere all' altr' uomo , ve
nendo con ciò in un medesimo concetto in cui era ve

le questioni nelle quali l'uomo può conseguire certezza. Il genere umano


però dopo una tale dichiarazione restò nè più nè meno quello die era prima ,
e la sua autorità nè crebbe nè scemò punto.
Rosmini, Orìg. delle Idee, Voi. I. e
XXXIV
nulo il sofista di Koenisberga col suo slato giuridica?
Certamente perchè gli parve che ciò dovesse essere som
mamente utile: del ricercar poi s'egli era possibile, non
si diede pensiero alcuno, perciocché non gli cadde ne
pure nell'animo di sospettare che la natura degli uomini
ricusasse di ricevere quel regolamento che la mente di
lui voleva pure imporle siccome di tutti savissimo e gio
vevolissimo. E onde finalmente le leggi arbitrarie che
tanti scrittori di diritto naturale come leggi proprie della
natura ci spacciano, se non da ciò, che a loro giudizio
giova ch'esse sieno tali? onde tanti arbitrj , non dirò io
anche nelle società civili, ma mi contenterò di dire nella
legislazione delle arti belle , giacche anche la bellezza
stessa per esser bella dovea prestare il suo ossequio alle
regole deWarti, e vedere se a quelle era sì o no con
forme? Tutti questi scorsi de' savj umani, i quali tras
vanno nel cercare il bene, prefiggendosi d'ottenerlo là
dov egli non è, ma dove pensano ch'egli debba essere,
nascono per questo, ch'essi da una parte presumono bene
della natura delle cose, e giudicano che questa natura
non sia formata a caso, e con istoltezza, ma sì con legge
di sapienza 'e di sovrana bontà, e in questo a dir vero
ottimamente giudicano; ma dall'altra poi presumono an
cor meglio di se stessi, e non cade loro ne pure in so
spetto che quella legge, ch'essi considerano siccome sa
pientissima ed ottima, non sia appunto quella della na
tura; di che bene spesso rimangono ingannati; perocché
talora, contro il loro avviso, le leggi della natura sono
più sapienti e più buone di quelle ch'essi aveano imma
ginate, e che avevano desiderato che fosser leggi della
natura, e per questo desiderio le avevano altresì dichia
rate tali, e tali fors' anche accanitamente difese. Che in
vero, oh quanto il senno infinito della natura vince il
senno limitato dell'uomo! e quanto spesso quella legge
che l'uomo vuole imporre alla natura siccome savissima
ed ottima, è non dirò solo stolta e trista, ma dirò an~
XXXV
cora assurda ! Non basta dunque che V uomo nutra in
ih un principio di benevolenza, se questo principio non
è ancora o infrenato da una giusta modestia, o guidato
da un senno acquisito con umile studio sulla natura
delle cose. A IV uomo non resta in somma , che di farsi
discepolo alla natura; di scrutarla, e non prevenirla ; di
rilevarne le leggi, e non formargliele: non isbigottendosi
poi se quelle leggi ch'egli rileva essere nella natura si
fisica come intellettuale o morale, sieno altre da quelle
che gli mostravano dover essere le vane sue prevenzioni ,
ma rimanendo sempre fedele alla credenza viva di una
sapienza altissima che il tutto corregge e governa, e, là
dove gli resta occulto il vantaggio della legge osservata,
prolungandone pazientemente lo studio: perciocché colla
meditazione più profonda di quella legge, o vi scuoprirà
una sapienza che gli sarà di stupendo ammaestramento ,
o, se si rimarrà nel bufo tuttavia, egli nel bufo stesso
godrà di una luce maggiore che dolcemente F opprime :
e così perverrà al conseguimento di una Filosofia non
irosa agli uomini, non dura dominatrice , e concorde
col Cristianesimo, giacche l'autore della natura è l'au
tore altresì del Vangelo.
Ma il libro presente non presume che di tracciare le
prime linee di questa desiderabile Filosofia. Che se que
ste prime e poche linee sono tirate fedelmente dietro alla
norma della natura, se i miei voti sono retti, se lo spi
rito della filosofia ch'io propongo ai popoli civili con
suona allo spirito della loro Religione; che i buoni dieno
mano alla stessa opera/ che ammendino fraternamente
i mei falli, ed aggiungano ciò che manca al mio difetto!
SULL'

ORIGINE DELLE IDEE

SEZIONE PRIMA
PRINCIPI DA SEGUIRSI IN QUESTE RICERCHE

CAPITOLO I.

DK DUE PRINCIPI DEL METODO FILOSOFICO.

1. principi cbe noi vogliamo tenere innanzi agli occhi


iti questi nostri ragionamenti, sono due.
YV primo: « nella spiegazione de' fatti dello spirito
« umano non si dee assumere meno di quanto fa bi-
■ sogno a spiegarli ». «
Di ciò evidente è la ragione: fino che non assumi
tutto ciò che è necessario, tu non puoi mai dire d'es
sere pervenuto ad assegnar loro una sufficiente cagione ;
ii che torna al medesimo che una ragion che li spieghi.
Così, poniamo, chi osserva questi due fatti dell'umana
sensibilità, la sensazione de' colori e quella de' suoni,
e pretende di render ragione d'amendue dando all'uomo
un solo senso, cioè il solo udito od il solo vedere ; que
sti non rende punto la ragione completa di que' due
latti: perocché se vuol ridurli tutti e due al vedere,
non potrà egli mai fare intendere come l'occhio senta
i suoni; e se vorrà ridurli tutti e due all'udito, egli non
potrà mai spiegare, in modo che valga, la sensazion
de' colori.
JJ secondo principio si è: « non si dee assumere più
• di ciò che è necessario a render ragione de' fatti (i) ».

(i) È facile accorgersi, che questi due principi, presi insieme , non sono
che il principio delia ragion sufficiente diviso nelle due parti delle quali si
compone.
Zs„>«<, Ong- delle Idee, Foli.
a
Tutto ciò che si assume più che non è necessario alla
detta spiegazione, riesce superfluo ed al tutto gratuito;
il che è quanto a dir cosa che, come gratuitamente si
afferma, così gratuitamente si può rifiutare e negare. A
ragione d'esempio, chi pigliasse due sensi, e li desse
all'uomo unicamente per impiegare con essi una sola spe
cie di sensazioni ; questi si renderebbe ridicolo , asse
gnando ad un genere solo di fatti due cagioni , 1' una
delle quali riesce evidentemente superflua , e perciò
senza senno introdotta.
Perciò chi medita sulla natura dello spirito umano ,
dee riconoscere ed ammettere i.° tutto ciò che è ne
cessario a render ragione di tutti que' fatti caratteristici
che si posson raccorre con una diligente e completa os
servazione; a.* non dee riconoscere ed ammettere nulla
di più, per guisa che quanto egli ammette sia sempre
il menomo possibile, o sia, « di tutte le complete spie
di gazioni de' fatti dello spirito umano egli preferisca
u quella che è la più semplice, e che esige meno sup-
* posizioni dell'altre ».

CAPITOLO IL

DI DUE TILOSOFIE, l'oNA VOLGARE B L*ALTRA DOTTA,


E de' dce mahcamenti delle medesime.

Ora come sono due i principi che prescrivono un me


todo esatto e genuino nelle filosofiche investigazioni ,
cosi parimente i difetti delle teorie che si sono formale
intorno allo spirito umano non possono esser che due:
perocché altre sogliono offendere contro il primo prin
cipio, non assumendo quanto basta a spiegare tutti i
fatti: altre all'incontro peccano nel secondo principio,
ammettendo assai agevolmente nello spirito delle cose
non necessarie alla spiegazione de' fatti che l'osserva
zione presenta, e immaginando alcune ipolesi al tutto
superflue al fine che si propongono.
Malagevole cosa è cansare questi due scogli : e quando
allu scienza filosofica, sicuramente procedendo, non in
contrasse di rompere nè all'uno nè all'altro di essi, ella
si potrebbe con ragione affermare prossima alla sua per
fezione. Conciossiachè non si può toccare un tal termine,
ansi che j,". non aia stata resa già piena e compiei*
l'osservazione de' fatti ; a.0 non si abbiano con quella
finezza e sagaci tà clie è necessaria a così arduo lavoro,
distinti accuratamente e separati i fatti caratteristici o
sia gli specifici da tutti gli altri che non presentano se
non varietà accidentali, o ripetizioni infeconde di fatti
uguali; 3.' finalmente, non si abbia conosciuta e pesata
da una parte la forza delle ragioni che si assumono alla
spiegazione di quelle varie specie di fatti , dall'altra la
vera difficoltà che hanno i fatti medesimi a ricevere una
spiegazione; perciocché se queste due cose non furono
misurate accuratamente e pesate colla perspicacia di un
filosofico intendimento, o le ragioni offerte saranno in
valide, o ci avrà in esse qualche cosa d'avanzo, senza
che noi punto ce ne avvediamo.
Gli errori ne' quali incappa una volgare filosofia, na
scono dalla mancanza di alcuna o di tutte queste tre
parti, e sogliono essere contro il primo de' due principj
da me sopra indicati.
La filosofia volgare (i) non si appoggia mai sopra una
osservazione completa; non sa classificare i fatti osser
vali, o sia distinguere dentro ad essi i caratteristici dai
non caratteristici; ma tosto ch'ella abbiane raccolto un
gran numero, si crede già molto ricca; ignorando che
ia ricchezza delle osservazioni non dipende punto dal
numero de' fatti comuni e simili , ma dal numero de'
caratteristici , o sia di quelli che contrassegnano una
specie: e finalmente essa non penetra nell'interiore na-

(1) Chiamo filosofia volgare quella filosofia imperfetta che rimane nel
«cjgo de' filosofi tuttavia , in un tempo , nel quale il mondo possiede già
<tóle grandi e profonde cognizioni filosofiche, come pur sono quelle de
filate in tanti libri tramandatici dall'antichità e da' secoli posteriori fino
» «el fliel secolo scorso si è voluto rinunziare a tutta l'eredità de' nostri
f*àri: la filosofia ricominciò allora a comparir bambina: in questo stato
io tao dirla volgare ; perchè è l'uso del volgo quello di toglier le questioni
**' primo aspetto eh' elle presentano , anche quando esse hanno già mu
tato stato e natura, come avviene quando sono state segno ed oggetto d'una
filosofia più matura e profonda. Cartesio diede lo scandalo di accingersi
ejh solo, si può dire, e con pochissimo studio di quelli che il precedet
tero, all'edilizio filosofico , al quale avevano posto mano e già alto levatolo
'■fi i secoli precedenti : la sua gran niente, e le poche idee ricevute dalle
tegole, e messe a profitto senza confessarlo, fors'anco senza accorgersene^
lo ialró da molti errori; e se l'opera sua fu imperfetta, fu tuttavia por
tentosa considerata come l'opera sarei per dire di una sola mente. Locke
the dotato di tanto meno ingegno di Cartesio, volle usare la stessa fran
chezza confidando nella sua povera ragione individuale, segnò la ver»
epoca della filosofia volgare o bambina di cui favello.
tura del fatto medesimo, e non coglie in che consista
la difficoltà di esser prodotto , nè sente di che forza
debba essere la ragione che lo spieghi: in tutte queste
parti riesce imperfetta e manchevole la volgare filosofia.
L'imperfezione di un pensar volgare è facile a sentirsi
da ciascuno avvezzo un poco a riflettere; giacché non
v' ha uomo che non abbia poco od assai trattata la
plebe, e che non abbia potuto osservare la maniera
del suo pensare.
Nella maniera del pensare plebeo noi troviamo due
cose in apparenza opposte tra loro, e che dipendono
dalla stessa cagione, cioè dalla mancanza delle tre con
dizioni di sopra accennate come necessarie al pensar
filosofico. Osservale da una parte, che la plebe non si
fa punto maraviglia di cose che sono in se stesse le più
maravigliose, unicamente perchè quelle passano tutto
giorno sotto i suoi sguardi; e se voi dimanderete di esse
ragione, ella crederà di potervi soddisfare immediata
mente, rendendovene alcuna che a lei torna naturalis
sima e facilissima ; e mancherà poco che non sorrida
alla vostra semplicità , perchè non la sapevate quella
ragione , o che faceste mostra di non saperla. Quindi
accade che tutti gl'idioti hanno pochissime interroga
zioni da fare a se stessi : non vedono che pochissime
difficoltà, cioè le difficoltà straordinarie: e queste poche
le si sanno sciorre immantinente con ragioni o più ve
ramente con supposizioni grossolane, delle quali non è
ad essi la menoma cagione di dubitare. Ma fate nascere
nel loro capo qualche dubbio sulla soluzione da lor data:
aprite loro qualche nodo della questione, in modo che
bene il sentano. Là dove voi siate riuscito a far loro
concepire un tal nodo, il primo loro moto sarà quello
che li porterà all'estremo opposto. E mentre, prima di
fermarsi al difficile, risolvevano la questione senza scon
trarci il più piccolo intoppo, di poi, capita in essi l'ob
biezione, penerete assaissimo a far loro entrare la ra
gion vera altresì e adatta a spiegare quel fatto; e ve li
avrete altrettanto difficili a concedervi l'efficacia della
ragione da voi suggerita, quanto erano prima indulgenti
ad ammettere la ragione trovata da essi.
Ciò che voglio con ciò osservare si è, che il difetto
di quelle teorie, le quali nella spiegazione de' fatti dello
spirito umano assumono una ragione insufficiente per
5
: tetto, si attiene alla maniera de' volgari ragionamenti;
e all'incontro il difetto di quelle teorie, che per ispie-
«are i fatti dello spirito umano assumono più del ne
cessario, di coloro suol essere , che non sono nuovi al
tatto e pur ora accostati alla filosofia , ma che hanno
già fatto entro ad essa qualche progresso , e vi hanno
già vedute delle difficoltà con filosofica penetrazione ,
sebbene non hanno poi saputo trovare alle medesime la
ragion più semplice che le spieghi, la quale non occorre
mai alla mente se non dopo assai lungo tempo: peroc
ché le prime ragioni sono sempre ipotetiche e molto
complicate e ingroppate, le quali si ricevono e si am
mettono tuttavia dall'impazienza della mente umana che
non sa averne all'istante delle migliori alle mani, nè
soffre di restarne priva intieramente.
Di che si possono distinguere quasi tre periodi della
filosofia: nel primo periodo v'ha una filosofia volgare,
indulgente con se medesima , che o non vede o vede
oscuramente le difficoltà , e che perciò le spiega con
delle ipotesi grossamente o almeno confusamente da lei
immaginate: nel secondo periodo la filosofia si è resa
dotta, e ha già ben sentite le difficoltà che si attraver
sino aJle prime sue ipotesi; quindi disdegna le antiche
e rolgari teorie; e questo è il tempo nel quale si fab
bricano de' sistemi ingegnosi e difficili , ma che solita
mente peccano per eccesso, come i primi peccavano per
difetto. In questi due periodi la filosofia è difettosa: il
difetto del primo nasce perchè ella è nuova alle diffi
coltà; il difetto del secondo nasce perchè ella è nuova
allo scioglimento delle difficoltà. Quando ella, perfezio
nandosi via più, corregge questi difetti e rende le teorie
semplici ad un tempo e complete, allora ella è entrata
nel terzo periodo, che è quello della sua perfezione.

CAPITOLO III.

DEL MARCAMENTO DELLA FILOSOFIA LUCKIANA.

Il rivolgimento delle idee operato da Locke e da' suoi


partigiani, non consistette propriamente in qualche grande
ristorazione operata nella filosofia: consistette nell'averla
tratta fuori da' chiusi recinti delle scuole, e fatta riso
nare agli orecchi del volgo.
6
Io riconosoo in questo non tanto un merito di quel
l'uomo, quanto un bisogno di tutto il suo secolo, che,
fosse per questo solo, sarà sempre mai memorabile.
A me in vero non è pensiero tanto lieto, nè imma
ginazione tanto giuliva quanto quella di poter chiamar
gli uomini tutti a parte delle più sublimi dottrine che
tanto elevano la mente e nobilitano i cuori.
Al contrario, mi è triste e angustioso il vedere rin
serrate le dottrine più eccellenti e più care all' umana
intelligenza, in un piccolo numero di mortali quasi di-
rebbesi privilegiati : e vederle possedute da essi come
una proprietà esclusiva, dalla quale sembri che, per un
non so quale arbitrario diritto di conquista, si escluda
tutta intera l'umanità. Non ha egli qualche cosa di odioso,
di urtante, questa scienza ombratile e scolastica, che
pare inimica alla pubblica luce, e che si mostra ne' suoi
modi , volea dire, simile ad una setta , che fa uso di
una lingua, o anzi di un gergo suo proprio, vietato alla
comunanza umana, che si presenta in atteggiamento am
bizioso, o almeno strano, almeno singolare, e che pare
nascondere qualche secreto, qualche misterioso suo scopo?
Così sfugge cotesta scienza, ravvolta in se medesima, e
che pur si vanta generatrice di tutte le arti, la umana
società? così abborrisce selvatica il domestico conversare,
e il trattare amico coll'umana famiglia? Ha dunque essa,
fiera di nuova specie, de' covili irreperibili , delle soli
tudini sue proprie, ove proveda a' suoi proprj interessi,
cauta di non mescolarli con quelli del genere umano?
O fu data dal cielo solo a pochissimi la ragione , e ,
quasi un branco di pecore, l'umana specie andrà sempre
dopo la voce o la verga individuale) non potrà mai opi
nare in corpo, mai pronunciare in ciò onde la nobiltà
sua propria e la felicità dipende?
Questi pensieri, che sì facilmente si svegliano in un
animo non pervertito, eccitano alla più viva gratitudine
verso di quelli che s'affaticano a far partecipe il maggior
numero possibile d'uomini delle alte cognizioni, che si
ingegnano di svilupparle e porle nel modo più facile e
più evidente, acconciandole al pensare più comune; ac
ciocché il medesimo volgo possa in qualche modo go
dersi l'amabile aspetto di quelle verità; e sia sollevato
ad una condizione migliore , alla qual prima si ersero
soli i pochi individui più sottili, più curiosi o più for
tonati : e massimamente acciocché l'uman genere, colla
ma maggiorità , portando il senso comune nelle inter
minabili questioni de' dotti , li richiami forse , giudice
severo ed udito, a migliori occupazioni ed a più sani
pensieri, quando li vede aspirare ad una celebrità vana,
perchè consistente in vittorie vane e momentanee sulla
opinione , anziché in veri vantaggi recati allo spirito
dell'uomo ed alla società.
Ma nel medesimo tempo che una forza irresistibile
della buona natura ci spinge ad applaudire a così umani
consigli, non tentiamo pur noi qualche cosa in ciò di
difficile? qualche molesto dubbio non ci trattien forse
dall'accordare liberamente a noi stessi delle troppo am
pie e generose speranze? non è egli evidente che, se noi
non vogliamo ciecamente ingannarci rendendoci facile
ciò che ci piace, dobbiamo vedere in quest'opera delle
grandi difficoltà? non pare egli un assurdo tentativo,
una credulità filosofica quella , che in poco tempo si
possa insegnare a filosofare a tutti gli uomini? dico a
filosofare sopra le materie più ardue , sulle quali non
sono giammai potuti ancora convenire i pochi dotti, e
molte Tolte si sono scambievolmente accusati di non
intendere nè manco il punto della questione agitata? Se
tante sollecitudini e tante pene costò il generalizzare la
sola istituzione delle scuole elementari, ove si tratta di
insegnare solo a leggere e scrivere ( istituzione che non
è però ancora generale ) , onde si potrà sperare che la
filosofia, presentata al volgo in una lingua acconcia alla
sua intelligenza, sia da lui intesa, e sanamente intesa?
Perocché non parlo della forsennatezza di chi volesse
che fosse dal volgo altresì ( quasi causa de' principj delle
lettere recata da giudicarsi in cospetto del popolo ) giu
dicata (i). Se mai noi possiamo erigere l' animo nostro

(i) C'è una ripugnanza c contraddizione nei termini tanto nella opinione
che il Tolgo giudichi i suoi reggitori, quanto in quella che la plebe giudichi
i suoi maestri. Il voler mettere in alto la più bassa parte della umanità c
una manifesta pazzia, è un voler capovolgere l'ordine di tutte le cose. Con
queste assurdità non si dee confondere il sistema di quelli che in tutte le
cose predicano doversi appellare, come a gran giudice, al senso comune.
Inteso ragionevolmente il sistema di questi ultimi , egli non tende se non
a reprimere la temerità e la baldanza individuale degli uomini; e a mettere
in Irono, per cosi dire, la società, l'umanità tutta intera; lasciando però
odia società e nella umanità l'ordine, che n'è il legame e la forma stabili.
Uti idla divma prgvidvuza, Nello stesso tempo elio faccio notare la difl»«
8
ad una speranza così ridente, così lusinghevole, di ve
dere un giorno nel genere umano un assembramento
mirabile di sapienti; se questo non è un vano sogno ,
fors' anche un sogno dell'umana baldanza; egli è certo
però, che tanto non si può che rimettere ad un tempo
così lontano e così indeterminato, che nè anche L'occhio
della mente più perspicace il può torre e segnare nel
l'avvenire; e anche questa estrema età, che noi pur la
sciamo cara lusinga all'animo degli amici degli uomini,
non ci lice lasciarla che qual tenue possibilità, per non
metter confini arbitrarj alla perfettibilità umana, o via
meglio alla divina providenza.
Intanto era ben naturale, che chi traeva tostamente
in cospetto del volgo, non apparecchiato ancora a ri
ceverla, la filosofia, e dava alla medesima l'idioma vol
gare, le avrebbe dato altresì un portamento ed una
maniera di ragionare alquanto simile a quella de' suoi
uditori.
Egli è per questo che la filosofia lockiana i.* dà a
vedere ovecchessia una osservazione incompleta , e spe
cialmente di que' fatti , cui per cogliere coli' atto del
l' a ttenzion nostra, fa bisogno che noi abbiam questa
assai desta e sempre riflessa su noi medesimi, e talora
anche riflessa di più riflessioni: cosa a che fare il co
mune degli uomini è interamente inetto; 2* dà a ve
dere leggerissimo discernimento in distinguere e fermare
i fatti caratteristici , cioè quelli che formano una nuova
specie, da' fatti simili e variati solo accidentalmente.
Universale vizio è degli scrittori di questa scuola la
scrupolosa esattezza ed attività di raccorre e di ammas
sare fatti simili, e moltiplicare esempj; e la maggiore
negligenza nell' indicare le varie specie de' medesimi;
3.* finalmente questa scuola non vede quasi mai dove
stia il forte della questione , e perciò sprezza agevol
mente i lavori de' filosofi precessori, rinunziando così
all'eredità delle dottrine che ci hanno lasciata i secoli
precedenti. Quand' ella ragiona de' grandi filosofi che si
sono assottigliati a trovare una conveniente soluzione

renza di questi due sistemi, « che dichiaro il primo assurdo e ripugnante ,


noti intendo di attribuire l'interpretazione che io do del secondo, a questo
o a quello scrittore: non parlo io qui che delle dottrine, senza alludere ad
opinioni personali di alcuno.
iHe più diffìcili questioni , li dichiara autorevolmente
sognatori ; giacché non capisce la ragione de' loro sforzi,
non vede la necessità de' partiti da loro presi per sod
disfare agli offerti quesiti : e mette da banda le loro
teorie con poche e dignitose parole, fors' anche con un
sorriso, beata di trovarsi immune da quel cattivo gusto
in filosofia.
Quindi il difetto di questa scuola fdosofica, special
mente nel suo primo stadio, consiste assai più in dar
ciano a spiegare i fatti dello spirito con troppa confi
denza e con ragioni insufficienti, che nel contrario di
fetto, di torli a spiegar con ragioni che in sè tengano
di superfluo, cioè più che la spiegazione medesima non
esige. Ma quindi appresso, tali scrittori, fatti accorti
di alcune difficoltà non vedute da' primi loro maestri,
si assottigliarono quanto poterono il più a risolverle,
ed allora parvero incontentabili di tutte le soluzioni.
Questo mancamento della lockiana filosofìa , la fece
poco stimala ad alcuni grandi uomini del tempo suo (i);
ma avendo ella ottenuto l'aura popolare, e il favore
di una setta che pur allora rendeasi potente spaccian
dosi T amica del popolo , riuscì a portare un breve
trionfo, quasi direi, nella universaleopinione.il tempo
nei quale ella venne alla luce, portava delle circostanze
a lei favorevolissime: la filosofia delle scuole era, si
può dire, infracidila; e Cartesio vi avea già dato il
crollo, sostituendo solo alcuni pensieri profondi, ma
troppo pochi per tenere il luogo di un completo si
stema di filosofìa, del quale il mondo abbisognava. Era
dunque naturale che, spandendosi vie più nel popolo
U coltura delle lettere, e acquistando questo nella so
cietà un peso maggiore che non aveva per innanzi , egli
venisse a prevalere colla opinione sua non solo in ciò

(i) Leibnizio giudicò la filosofiii di Locke una filosofia meschina ; ma


scrivendone egli contro, s'accorse del vantaggio che quella avea dall'es
sere popolare , e il fece notare a' lettori suoi nella prefa7.ione de' Nuovi
sóli' Intendimento umano » « Egli è più popolare di me (dice, par-
■ landò di Locke) ed io sono forzato ad essere alcuna volta un poco più
* acroamatico e più astratto; ciò che non è punto un vantaggio per me,
■ massimamente scrivendo iu una lingua vivente.» Fu tuttavia per quesio
che Leibnizio tolse a scrivere i detti Saggi in lingua francese, per poter
renderli in qualche modo volgari: ma era tropp' arduo render volgare ciò
che è sublime.
KosmiwIj Orìg delle Idee, Voi. I. a
IO
che atteneva a' proprj interessi, ma ben anco nel giu
dicare intorno alle filosofie.
Di questo difetto che io assegno alla scuola lockiana ,
potrà aversi un piccolo cenno nella questione che son
per trattare; perciocché dovendo -io giustificarmi del
dare che fo alla ragione umana una unica forma che
chiamo la forma della verità (i), per far questo io
debbo dimostrare che solo con tale sistema si possono
evitare i due scogli ne' quali ruppero fin qui le diverse
teorie che ne' moderni tempi apparirono. E primiera
mente debbo parlare del sistema di quelli che non as
sumono abbastanza a spiegare Y origine delle idee; di
poi del sistema di quelli che ammettono troppo più
che non ci bisogna: finalmente sono in dovere di pro
vare che la teoria dell' unica forma della ragione ,
tenendo il mezzo fra questi due scogli, evita sì l'uno
che l'altro: e che di tutte le spiegazioni complete del
fatto di cui parlo, essa é la più semplice, quella cioè
che assume e suppone meno dell'altre.
Ma perchè questo mio assunto non si estende a dare
una teoria di tutto ciò che si osserva nello spirito
umano, ma solo a spiegare l'origine delle idee, con
verrà innanzi tratto, che io mi faccia a sporre breve
mente e chiaramente, il più che per me si possa, la
natura intima di cotal fatto, e porre così sott' occhio
de' miei lettori lo stalo della questione, e il nodo pel
quale ella non sia veramente di troppo agevole scio
glimento.

(0 Ved. il Voi. I. degli Opuscoli Filosofici, face. 98 , e segg.


SEZIONE SECONDA
DIFFICOLTA CHE S'INCONTRA NELLO SPIEGARE
L' ORIGINE DELLE IDEE

CAPITOLO UNICO.

ESPOSIZIONE DELLA. DIFFICOLTA'.

11 fatto adunque che io mi propongo spiegare, si è


quello dell' esistenza delle idee , o sia delle cognizioni
umane: espressioni che voglio prendere come equiva
lenti (i).
L'uomo possiede delle cognizioni, pensa a varie cose,
ha in somma delle idee. Io non cerco ora che cosa
sieno queste idee; ma, checché si sieno, io dimando:
onde queste si producono, per quale cagione si trovano
nello spirito suo? Ecco la dimanda che ciascuno può
tate a sè stesso, ma alla quale ciascuno non può egual
mente rispondere^ ecco la celebre questione dell'origine
delle idee, che divise fra loro le scuole e i filosofi di
tutti i secoli.
Per indicare, il più brevemente che si possa , dove
stia la difficolta, facciamo il seguente ragionamento.
Quando noi formiamo un giudizio, abbiamo bisogno
di possedere già nella nostra niente delle nozioni ge
nerali.
A ragione d'esempio, quando diciamo «questo foglio
di carta è bianco, » o pure «quest'uomo è sapiente»
noi dobbiamo avere precedentemente l'idea generale
della bianchezza e della sapienza ; perocché altrimenti
non potremmo attribuire questi predicati a questi piut
tosto che a quei soggetti.
Sarebbe lungo dimostrar ciò per induzione in tutte
le specie di giudizj; tuttavia questo si può sempre fare
esattamente; e in conseguenza di ciò dimostrare che un

(i) Di vero ogni idea dà qualche cognizione; potrebbe però negarsi che
le idee pare od astrane , non presentando per sè alcuna nolizia di cose
reali /ormino la cognizione propriamente detta : qualche cosa di simile a
foe'la distinzione si trova in Aristotele; ma ella non è necessaria al mio
intendimento presente : e d'altro Iato si può sempre, in un senso Iato, dare
il Moto di cognizione ad ogni maniera d'idee.
J2
giudizio non è se non quell'operazione colla quale noi
uniamo un dato predicato ad un dato soggetto; e quindi
che in questa operazione della nostra mente i.* noi per
cepiamo il soggetto ed il predicato a parte come due
cose mentalmente distinte, cioè tali, nell'una delle
quali noi possiamo fissare la nostra attenzione esclusi
vamente, e così distinguerla dall'altra; 2.* noi uniamo
queste due cose, o sia riconosciamo che sono unite in
natura, cioè noi fissiamo la nostra attenzione non già
nell'uno de' due termini in separato, ma nel loro rap
porto d'unione nel soggetto.
Essendo questa l'analisi del giudizio, si vede per
essa, che noi in sì fatta operazione primieramente con
cepiamo un predicato distinto dal soggetto, senza di
che non potremmo fare il giudizio; ed un predicato di
stinto dal soggetto contiene sempre una nozione gene
rale, giacché fino che non è ad un soggetto congiunto,
egli si può congiungere a più soggetti, anzi ad un nu
mero infinito di soggetti possibili; il che è appunto ciò
che significa la parola « generale » applicata alle no
zioni od idee.
Ma se l'umana mente non può fare quella operazione
che si chiama giudizio, senz'essere prima in possesso
di qualche nozione od idea generale ; come poi avviene
che l'umana mente si formi le idee generali?
L. facile eosa osservare che la mente umana non può
formarsi un' idea generale se non in uno di questi due
modi, i.° o coli' astrazione, a.° o con un giudizio.
Coli' astrazione noi possiamo trarre una idea generale
da una idea particolare, facendo col nostro spirito so
pra questa idea particolare le seguenti operazioni : 1.* la
scomposizione di lei nei due elementi de' quali ella si
compone, cioè a) nel comune b) e nel proprio; 2.* l'ab
bandono del proprio; 3." la fissazione della nostra at
tenzione sopra le sole note comuni, le quali sono ap
punto le idee generali che noi cerchiamo.
Ora si osservi i.* che tutte queste tre operazioni del
nostro spirito, facendosi da noi sopra una idea parti
colare, si esercitano sopra un'idea che già è in noi,
ondecchè l'abbiamo acquistata; 2.0 quindi esse non sono
rivolte ad altro fine che ad osservare la nota, o idea
comune sola ed isolata, non già a farla esistere 0 in
generarla nello spirilo nostro.
i3
Ala per osservare l1 idea comune e generale che si
afferma contenersi nelle nostre idee particolari (i), bi
sogna supporre che in esse idee particolari ella già si
contenga: perciocché altrimenti noi non la ci potremmo
osservare giammai , nè fermare in essa la nostra atten
zione, ov'ella già non ci fosse.
La via dunque dell1 astrazione non vale punto a spie
gare il modo onde noi ci t'ormiamo le idee comuni e
generai/, come si è creduto da certe scuole di filosofi:
vale solo a farcele osservare là dov'elle già sono pre
cedentemente formate; vale ad appurarcele, a divider
cele da ogni altro elemento eterogeneo, cioè che a loro
non appartiene, acciocché noi le abbiamo presenti alla
nostra attenzione pure e perfettamente isolale.
Non resta adunque, che noi ci formiamo le idee co
muni o generali se non col giudizio.
Ma noi abbiamo veduto che ogni giudizio suppone
che in noi abbiamo già precedentemente formata qual
che idea generale : perciocché il giudizio non è che una
operazione della mente che fa uso appunto di una idea
generale, cioè che la applica ad un soggetto, e così
ripone questo soggetto in qualche classe di cose che
riene determinata dall'idea generale : per esempio, giu
dicando che un uomo è buono, io ripongo quell'uomo
nella classe di cose formala dall'idea generale della
bontà: e il medesimo si può dire di qualunque altro
giudizio.
Pertanto, se l'uomo non può cominciare a giudicare
che mediante un'idea generale, è manifestamente im
possibile spiegare la formazione di tutte le idee gene
rali mediante de' giudizf; ma egli fa bisogno al tutto
di supporre che nell'uomo preesista, innanzi a tutti i
giudizj suoi , una qualche idea generale, colla quale a

(i) Conviene qui dire un* parola sulla denominazione d' « idea partico
lare ». Particolare non è un'idea, se non in quanto, nel mio spirito, ella,
si su allaccila ad un individuo: tostochè poi dall'oggetto individuale si
stecchi, ella acquista della generalità: imperciocché, fatta libera, può ap
plicarsi da me a piacere ad un infinito numero d'individui uguali. Ciò che
v'ha adunque di assolutamente proprio in un'idea, è solo l'individuo a
ori Hla aderisce, e che non forma veramente parte dell'idea stessa, ma è
qualche cosa di eterogeneo dall' idea congiuntale non per natura , ma per
opera dello spirito intelligente. Perciò idea « pura •> equivale per noi a
«tea u generale ». Tutto ciò riceverà piena luce nel progresso di quest'opera.
i4
bel principio egli possa giudicare, e in tal modo venirsi
roano mano formando tutte le altre idee.
Tale è la difficoltà brevemente esposta che si presenta
a chi si accinge di spiegare, senza pregiudizj di scuola
e senza arbitrj volgari, l'origine delle idee: difficoltà
che in progresso di queste ricerche verrà facendosi via
più manifesta, e che dura troppo vorrà parere a' que'
filosofi che si avvisano di potere da1 soli sensi dedurre
tutte quelle idee che V osservazione e la coscienza at
testano essere dall' uom possedute.
i5
SUZIONE TERZA
TEORIE FALSE PER DIFETTO,
CIOÈ PERCHÈ NON ASSEGNANO ALLE IDEE
UNA SUFFICIENTE CAGIONE

La difficolta da me ora esposta si è offerta sotto di


versi aspetti alla mente di tutti i grandi filosofi, i
quali hanno immaginalo delle ingegnose ipolesi per ri
solverla . Esaminiamo, prima di aprire la noslra opi
nione, i principali sistemi da loro inventali: il primo
che ci si affaccia è quello di Locke.

CAPITOLO I.

LOCKE.

ARTICOLO I.
SISTEMA LOC. MANO.

Convien confessare, che il celebre Locke vide meno


degli altri la difficolta di cui favelliamo, o certo, egli
non la considerò : tuttavia noi la vedremo venire ali
ene a lai tosto tra' piedi nel suo cammino.
Questo filosofo, senza trovare la menoma difficoltà,
tì fa uscire a bella prima tutte le idee dalla sensazione
e dalla riflessione, quasi, sarei per dire, come sgorga
da due ampj fori l'acqua d'un fonte.

ARTICOLO IL
LOCU VENENDO A SPIEGARE l'origine Dell'idea DI SOSTANZA,
SI AFFACCIA ALLA DIFFICOLTA' E NON LA RAVVISA.

Stabilito così da lui un sistema , fino dal principio


de' suoi ragionamenti (i) egli passa ad applicarlo ; passa

(1) Tale è il metodo di Locke: non dee credersi che parta da' falli e
« stabilire i principi : egli veramente parte da' principj, e poi
•Wide a dar con essi la spiegazione de' falli. Più o meno questo metodo
Ha» hanno lutti quelli della scuola sua fino a Cabanis, a Deslult-Traty,
' Gioja ecc. Che merito resta dunque ad essi rispetto al metodo iilosofiso ?
Quello di gridar sempre che si dee fare il contrario , che si dee coniin-
o*r da' fatti ed ascendere passo passo a' principj. Non è picciol merito
ricalcare ciò che va bene; prendiamo da tutti il buono, e il resto la-
ióamiAo andare.
i6
a riandare tutte le varie specie d'idee, e a mostrare
come dalla sensazione e dalla riflessione vengano tutte
formandosi agevolmente.
Quest' applicazione è troppo lodevole , perocché è
quella sola che potea dar la ripruova del sistema ab
bracciato, e mostrarlo veramente soddisfacente se era
tale in fatto; e se non era, scoprirne i difetti.
E veramente in essa fu che gli corse il nodo sotto
la mano: fra le varie specie d'idee gli venne ancora
innanzi l'idea di sostanza; ed invano egli si assottigliò
per ispiegare sì come si poteva ella prodursi dal solo
sentire e riflettere.
Ma fatto accorto di tale impedimento, piuttosto che
riconoscere qualche difetto nel principio del sistema,
e confessare che i due fonti da lui stabiliti della sen
sazione e riflessione non bastavano a produrre tutte le
nostre idee, egli trovò un'altra via a cessare la diffi
coltà 7 cioè quella di pur negare che esista l'idea di
sostanza. «Io confesso, egli dice, che v' ha un' idea (i)
« che sarebbe generalmente utile agli uomini, peroc-
« chè essa è il soggetto generale de' loro discorsi (a),
« ov'essi introducono quest'idea come se la conosces-
« sero effettivamente (3): io voglio parlare dell'idea di
« sostanza, che non abbiamo, nè possiamo avere per via
« di sensazione o di riflessione ».
11 ragionamento di Locke, messo in dialogo, riesce
a questo.
Locke. L'origine delle idee, come ogni altra parie,
si dee trattare per via de' fatti.
Obbiettatore. Io sono al tutto con voi: ma da quai
fatti, di grazia, movete, per ispiegare l'origine delle
idee?
Locke. Dalla sensazione e dalla riflessione.

(1) Singolare contraddizione 1 v'ha un'idea, la quale non v'ha punto! !


(2) Come può esser soggetto generale de' discorsi ciò che non è un'idea ?
Che possa essere soggetto di discorso una cosa che non esiste, s'intende;
ina che possa essere soggetto di discorso ciò che nè pure si pensa, ciò
che nè pure è un'idea , questo mi è affatto inintelligibile I è un misterio
metafisico del lockismo !
(3) Di nuovo, gli uomini usano di una idea, la introducono in tutti i
loro discorsi, ma fanno tutto ciò senz'averla! Come questo possa essere,
lascio a spiegarlo a questa classe di filosofi che si piccano di più chiarezza,
e di più rigore ne' ragionamenti.
Obbiettatore. Or come deducete poi da queste due
facoltà l'idea di sostanza ?
Locke. Ella non si può dedurre; dunque non esiste.
Obbiettatore. Amico, in questo vostro ragionamento
voi partiste certo da due fatti, cioè dall'esistenza della
sensazione e della riflessione ; ma voi escludete poi un
altro fatto quale è quello dell' idea di sostanza, perchè
non ri riesce di dedurlo dai fatti primitivi e soli da
voi stabiliti (i). Ora poi vi credete in diritto di negare
nn fatto, solo pershè egli non discende da' quei fatti
che voi avete prescelto? La maniera di provare o di
negare i fatti è V osservazione , e non il ragionamento:
voi partite dal ragionamento, e con esso è che esclu
dete un fatto: questo non è un conservare il metodo
ottimamente da voi stabilito. Il dire: l'idea di sostanza
non esiste, perchè non può esistere, perchè non di
scende dalla sensazione e dalla riflessione; è appunto
uno sragionare tutto a ritroso del buon metodo. Se-
eondo questo metodo voi dovete prima eercare se l'idea
ài sostanza esiste, ed assicurarvene bene $ e se trovate
vero questo fatto , voi dovete dire: dunque può esi
stere. All'incontro voi cominciate a cercare, se può
esistere: cioè se si può comporre insieme con alcuni
vostri principi arbitrarj: e perchè non vel sapete con
ciliare colla teoria da voi prima abbracciata, perciò è
che voi la negate al tutto. Non è egli questo un abu
sare di alcuni fatti a danno di altri fatti? Ogni siste
ma, per ipotetico che sia, si appoggia sempre su alcuni
fatti: il difetto di ogni sistema è nel trascegliere aleuni
fatti particolari fra tutti, e volere ridurre ad essi soli
o^ni cosa : il vero merito del metodo che parte dai
fatti, non istà dunque in porre a base delle proprie
dottrine qualche fatto staccato; sta nell' ammetterli
tutti insieme, non rifiutandone alcuno; sta, breve
mente, in una osservazione piena, imparziale, e non
prevenuta: da qualche ipotesi ciecamente diletta.
Io non so che potesse rispondere a queste osserva
zioni il partigiano della lockiana filosofìa.

(1) Questa esclusione sistematica non è già un fatto; è un principio: fu


per questo che io diceva che Locke comincia da' principj e scende a
spiegare i fatti. Il dire « non esistono che questi due l'atti, la sensazione
e la riflessione » non è un fatto; è un principio che ammette de' fatti, e
tbe ne esclude arbitrariamente degli altri.
Bosnia,, Ong. delle Lice, Voi. I. 3
i8
ARTICOLO III.
li NOSTRO SPIRITO NON PUÒ FARK A MENO DILl' IDEA DI SOSTANZA.

Che se Locke, in vece di osservare se l' idea di so


stanza veramente esiste, volea pur dimandare se può
esistere, egli si sarebbe avveduto, per poco che avesse
riflettuto alla cosa, che anzi ella non poteva non esi
stere.
Senza di essa gli uomini non possono ragionare nà
colla mente nè col discorso : egli medesimo riconosce
ch'ella forma l'argomento generale degli umani ragio
namenti. Senza di essa gli uomini non possono conce
pire l'esistenza di qualche cosa o corporea o spirituale,
qualunque sia: ma tuttavia la concepiscono: dunque'
1 idea di sostanza è percepita, è posseduta dall'uomo:
Un rispettabile filosofo italiano fa al proposito no
stro l'osservazione medesima. « La nozione della so
li stanza doveva molto imbarazzare gl' ideologi , die' egli,
« qualora vi avessero di buona fede meditato. Essi in-
« segnavano, che noi non percepiamo altra cosa, se
« non che le nostre modificazioni; da questo principio
« segue, che o noi non abbiamo alcun' idea della so
ie stanza , o che questa idea debba esser in noi indipen-
• dente da' sentimenti. La prima supposizione è snien-
« tita dall'intimo senso, e dallo stesso linguaggio di
u Locke e di Condillac: questi filosofi contessano, che
« noi siamo obbligati d'immaginare un sostegno inco-
« gnito alle qualità; ciò è lo stesso che ammettere nello
« spirito una certa nozione quale che siasi della so
ie stanza, indipendentemente da' sentimenti. Si dica
« quanto si vuole, che questa idea è un'idea vaga,
i oscura ; è necessario convenire, che essa è il centro
« a cui si riferiscono le qualità , e che senza di essa
« non possiamo formarci 1' idea di un oggetto sensi-
« bile (i) ».

(i) Lettere filosofiche ecc. del Barone Pasquale Galluppi da Tropea.


Messina, presso Giuseppe Pappalardo 1837.
'9
ARTICOLO IV.
miai DILLE SOLE SENSAZIONI NOW FOSSI VZN1ME l'iDEA DI SOSTANZA.

Ha onà' è questa difficoltà insuperabile, trovata da


Locke medesimo , nello spiegare come ci possa nascere
l'idea di sostanza dalle sole sensazioni esterne od interne?
A. me rincresce di dover qui quasi a principio di
fresie ricerche sottoporre all'analisi l'idea di sostanza:
giacché questo argomento difficile molto più agevol
mente io l'avrei potuto trattare in sulla fine, comin
ciando cioè da cose più facili: ma perocché pur debbo,
tenterò di farlo nel modo il più chiaro che per me si
possa.
La difficolta adunque sta in questo. Una sensazione
che noi proviamo, esterna ovvero interna, è tutta unita
con noi: non è che una modificazione del nostro natu
rai sentimento ; noi sentiamo in un modo passivo; e
nulla nel ricevere le sensazioni ha che fare il nostro
intendimento. All'incontro, possiamo noi pensare ad
nna sostanza senza che la consideriamo come una cosa
che sassiste in sè, che è soggetto di modificazioni ella
medesima e non è punto una modificazione , una cosa
perciò che non si può percepire da' sensi , ma solo dal
l'attività dell' intelletto? L'idea adunque di sostanza è
interamente diversa da qualunque sensazione : ella ha
delle altre qualità che nulla hanno che fare co' sensi:
dunque non può essere racchiusa nella sensazione , nè
si paò in essa rinvenire. Ma ecco alcune differenze es
senziali fra l'idea di sensazione e l'idea di sostanza.
Prima differenza : la sensazione è soggettiva , cioè
nna modificazione di noi, soggetto: la sostanza, noi la
percepiamo come oggettiva , cioè come un oggetto del
nostro pensiero, una cosa presente a noi, che non
forma parte di noi stessi.
Seconda differenza: la sensazione è un accidente che
non sussiste in sè, ma in noi: la sostanza, come noi
la concepiamo, sussiste in sè.
Terza differenza: la sensazione è la passione del sog
getto, mentre la sostanza può essere il soggetto slesso
senziente.
Quarta differenza: la sensazione è l'effetto di ciò che
cade sotto i sensi ; mentre la sostanza rimane nel pen
30
siero, rimosse tutte le qualità sensibili: sicché è qual
che cosa che non è nel sensibile, perchè tutto ciò che
è nel sensibile si suppone già rimosso per opera della
nostra mente.
La sostanza in somma noi la pensiamo mediante il
seguente ragionamento: « Le qualità sensibili non po
li trebberò essere senza un sostegno. Ma le qualità sen-
« sibili sono; la sensazione è quella die ee ne avvisa.
« Dunque c'è pure il sostegno, il soggetto di queste
« qualità sensibili , che si chiama sostanza. »
Tutto ciò che fa la sensazione è avvisarci dell' esi
stenza delle qualità sensibili: essa non va più in là.
Il dedurre da quelle la necessità di una sostanza, è
l'opera del pensiero: e questo la deduce dal principio
seguente : « Le qualità sensibili non possono esistere
senza un sostegno ».
Ma onde il pensiero nostro trae un tal principio?
dall'esperienza delle sensibili qualità? non già: peroc
ché l'esperienza non ha mai mostrato questo sostegno,
essendo al tutto insensibile. Se questo sostegno non è
mai caduto sotto i sensi , nè può cadere, onde adun
que si argomenta ch'egli esista? onde si dice ch'egli
deve esistere?
Il nostro intelletto non può giudicare così afferma-
tamente eh' egli esiste e die deve esistere , s'egli
i." non ne ha l'idea, a.* se non ha in sè una regola,
dietro la quale discerna ciò che non può esistere senza
un sostegno, da ciò che può esistere, 3. s'egli non ap
plica questa regola alle qualità sensibili, e non rileva
eh' esse sono di quelle cose che non possono esistere
senza un sostegno (un soggetto a cui appartengano).
Di qui tutta la difficoltà che si rinviene nello spie
gare l'origine dell'idea di sostanza (difficoltà che si
affacciò a Locke e si sentì incapace di superarla), con
siste nel non veder modo come l' intelletto nostro
faccia un giudizio, cioè il giudizio seguente « Le qua
lità sensibili hanno bisogno di un sostegno ».
Se noi esaminiamo le tre cose che abbiamo detto es
sere necessarie all' intelletto perchè egli possa pronun
ziare un sì fatto giudizio, vedremo che si può ridurre
ad una sola quella che non vieue somministrala dai
sensi.
In fatti, la terza cosa da noi accennata si è l'atto
ai
dell'intelletto, eoi quale egli applica la regola alle qua
lità sensibili, e giudica ch'esse abbisognano di soste
gno: ora questo giudizio l'intelletto il fa immantinente
ch'egli abbia i." la detta regola, a.* l'idea di sostegno.
Ma l'idea di un sostegno, idea generale e indeter
minata, è già compresa nella regola.
In fatti , poniamo che il nostro intelletto abbia in
sé qualche principio, ond' egli intenda che le qualità
sennbili non possono sussistersele: da questo principio
gli è facile di cavare immantinente l' idea del sostegno,
perocché ne deduce il bisogno di qualche altra cosa,
checché questa sia, che stia alle qualità sensibili unita,
e che dia loro la possibilità di sussistere.
Tutto dunque si riduce a cercare come l'intelletto
nostro possa avere o formarsi una regola od un prin
cipio dietro il quale egli sia autorizzato di giudicare
che le qualità sensibili non possono esister sole.
Ora una tal regola è la maggiore di un sillogismo:
e si potrebbe esprimer così « Gli accidenti non pos
sono esister soli » : regola che si riduce a trovar ripu
gnante l'idea di una certa specie di cose percepite che
si chiamano accidenti considerati da sè soli, coli' idea
di esistenza.
AelJ' analisi adunque d'una tal regola si trovano due
cose: i.* gli accidenti divisi o soli, e a." l'idea di
esistenza.
Gli accidenti soli ci sono dati dalle sensazioni, pe
rocché essi non sono che le qualità sensibili.
Ciò adunque che non ci vien dato dalle sensazioni
in nessun modo, in una sì fatta regola, è l'idea gene
rale e pura delia esistenza, la quale si mescola appunto
m tutti i nostri ragionamenti: questa idea di esistenza,
colla quale ripugnano gli accidenti precisi e soli.
Riassumendo quanto abbiam detto,
L'idea della sostanza non si può avere che mediante
nn giudizio dell'intelletto.
Questo giudizio dell'intelletto vien formato mediante
una regola.
Questa regola analizzata si rinviene risultare e com
porsi di due elementi, cioè i.* degli accidenti a." e
dell'idea di esistenza.
Gli accidenti si hannp dalle sensazioni.
Airiocontro l'idea di esistenza è un'idea generale la
21
quale non ci può venire in nessuna maniera da' sensi:
e perniò l'idea di sostanza non si può spiegare ponendo
che dalle sole sensazioni ci vengano tutte le nostre idee.

ARTICOLO V.
COME LA DIFFICOLTA' CHE SI TROTA NELL* ASSECNARE l' ORIGINE DELl'iDEA
DI SOSTANZA, SIA LA MEDESIMA DA ME TROFOSTA SOTTO ALTRA FORMA.

La difficoltà che si trova nel dedurre l'idea di so


stanza, nasce dal bisogno che ci ha di un giudizio per
dedurla: e di un giudizio di tal natura, che per farlo è
necessario di possedere una idea generale tale che non
si può avere da1 sensi; l'idea di esistenza.
Ora la difficoltà da me indicata nello spiegare l'origine
delle idee, veniva appunto a questo medesimo, chi ben
riflette: perocché io feci consistere tutta la questione
in questa domanda : « come sia possibile il primo no
stro giudizio » , supponendo che noi non abbiamo pre
cedentemente ingenita qualche idea generale.
E di vero, è egli possihile che noi cominciamo a
giudicare senza possedere pur un'idea generale, mentre
ogni giudizio è un'operazione dell'intelletto, nella quale
si fa uso di un'idea generale, e perciò si suppone
d'averla, mentre non si può far uso di ciò che non
si ha ?
Prima dunque che noi abbiamo delle idee generali,
è impossibile che noi giudichiamo di qualunque nostra
sensazione o di qualunque oggetto che ce la produca.
Ma se Io spirito nostro, privo al tutto d'idee gene
rali, non può fare nessun giudizio nè delle sue sensa
zioni nè degli oggetti che le sensazioni producono; egli
non potrà, in questo stato, fare un passo innanzi e recarsi
una sola linea più là delle sensazioni stesse: perchè tolto
allo spirito il giudicare, gli si toglie tutta la sua atti
vità, e fora' è ch'egli si rimanga perfettamente inerte.
Lo spirito umano adunque non potendo giudicare delle
sue sensazioni e degli oggetti ad esse corrispondenti,
non può nè pure formarsi alcuna idea generale: peroc
ché un'idea generale che lo spirito formi a sè mede
simo, non è che l'effetto di un giudizio.
Per illustrare la cosa con un esempio, poniamo che
colpisca i miei sensi un ente sensibile qualunque , un
albero, un sasso, una bestia ecc. Io avrò primieramente
23
tutte le sensazioni che quell'ente sensibile produce ne'
miei lensi, la sensazione del colore, della grandezza,
della figura, del moto ecc. Ora fino che io ho tutte
queste sensazioni passivamente, e senza alcuna opera-
rione del mio intelletto , quali modificazioni in somma
della mia sensibilità ; io non ho ancora concepito quel
l'ente in un modo intellettuale. Perchè io lo concepi
sca intellettualmente , il mio spirito deve pronunziare
un giudizio sopra di lui, cioè dire a sè stesso « esiste
* gualche cosa dotata delle qualità sensibili, tali e
« tali ecc.» (cioè delle qualità percepite da' miei sensi).
Ora pronunciando un tal giudizio, io non faccio che
attribuir V esistenza a uu essere di cui io ho percepite
co' «usi Ve sole sensibili qualità; e così percepisco l'es
tere slesso intellettualmente. L'idea generale di cui io
faccio uso in questo giudizio, è l'idea di esistenza: e
se io non avessi precedentemente questa idea nel mio
spirito, egli sarebbe impossibile che io la applicassi alle
mie sensazioni : quindi non potrei pronunciare il giu
dico interiore « esiste l'ente dotato delle qualità sen
sibili da me percepite » : quindi non potrei nè pure
percepir cosa alcuna col mio intelletto, perocché il
percepire qualche cosa col mio intelletto non è altro
che giudicar qualche cosa esistente.
Ma questa idea generale di esistenza o di ente io
non posso averla dalle sole sensazioni, perocché esse
non la contengono in sè medesime , non essendo che
modificazioni dell'ente e non avendo perciò in sè l'e
sistenza : sicché sole non si possono percepire coli' in
telletto, ma in un altro essere fuori e interamente di
verso da esse. Qui è tutta la difficoltà trovata da Locke
medesimo in volendo dedurre dalle sensazioni la idea
di sostanza.
Ma la difficoltà , a quel modo che da me fu propo
sta, non si ferma ancora qui, e spinge il ragionamento
più innanzi.
È certo per l'osservazione, che l'intendimento non
percepisce cosa alcuna se non mediante un interiore
giudizio col quale dice a sè stesso « la tal cosa esiste » :
è certo pure che per pronunziare un sì fatto giudizio
teli dev'essere fornito dell'idea di esistenza, che l'ag
re alle sensibili qualità che il nostro spirito per-
cepitee co1 sensi.
Questo solo primieramente è un nodo insolubile a
quelli che tutte dai sensi vogliono dedurre le idee: e
questo nodo si trova nella formazione di qualunque
idea anche particolare , nella formazione dell' idea di
un albero, di un sasso, di un animale particolare ecc.
Poiché nella formazione di queste idee o percezioni in
tellettive, s'addi manda sempre un giudizio nel quale
si faccia uso dell' idea generale di esistenza : giacché
in esse idee si pone qualche cosa come esistente. Ma
l'idea di esistenza non si può avere dalle sensibili qua
lità, perchè queste non si possono intendere esistenti
senza pensare all' esistenza, la quale non si può predi
care delle qualità sensibili se non concependole in qual
che altra cosa che non cade sotto i sensi.
Dunque anche la formazione delle idee particolari è
inesplicabile, senza supporre preesistente in noi l'idea
generale di esistenza , colla quale possiamo solo for
marci le idee particolari : idea di tal natura , che da'
sensi non si può in nessuna maniera dedurre.
Laonde possiamo dire a tutta ragione, che i filosofi
della scuola lockiana non hanno fatto un'analisi delle
idee abbastanza fina da pervenire a conoscere la verità
da me tocca, cioè che non si dà veruna idea, sebbene
idea di oggetto particolare, che non contenga in sé al
tresì un' idea generale e almeno l' idea di esistenza ;
perocché l'avere l'idea di un albero, è lo stesso che
il percepire coli' intendimento un albero; e il percepire
un albero coli' intendimento, è quanto giudicare che un
albero esiste o può esistere ; e il giudicar ciò, è il me
desimo che il classificare l'albero fra le cose esistenti
o possibili : sicché una percezione de' sensi non è idea
se non quando l'oggetto de' medesimi è classificato ,
per così dire, fra le cose esistenti o possibili ; al che
fare si richiede l'idea della esistenza, cioè della classe
nella quale si ripone. Ma questo vero sfuggì intera
mente a' filosofi di cui parlo: essi supposero che un'idea
particolare non contenesse nessuna nozione generale e
comune.
Ragionando io dunque con tali filosofi , dico che ,
partendo dalla loro supposizione , cioè che le idee par
ticolari non contengono nulla di generale e di comune,
è impossibile poi il dedurre da quelle coli' astrazione
le idee generali.
25
la fatti, come farò io a cavare le idee generali da
idee meramente particolari che nulla di generale si sup
pongono contenere? si potrà cavare indi una cosa, ove
ella non è? non ci ha qui una contraddizione manifesta ?
Ma i nostri filosofi ce ne insegnano il modo assai fa
cilmente. « Le idee generali, essi dicono, si eslraggono
« dalle idee particolari mediante l'astrazione. Quando
«voi avete l'idea di un albero, di un sasso, di un
« animale o di altra cosa singolare, voi osservate ciò
• che v' ha in esse cose di comune e ciò che v' ha di
« proprio. Fermando la vostra attenzione in ciò che
■ V ha di comune , e astenendola da tutto ci che v' ha
«di proprio*, voi vi formale l'idea della sola qualità
• comune, e questa è l'idea generale. Volete voi for
mularvi Videa dell'esistenza? non badate a tutte le
«altre qualità , e fermatevi solo a quella qualità che
• negli oggetti da voi conosciuti trovate essere la co-
« munissi ma di tutte: eccovi l' idea dell'esistenza bella
« e formata » .
lo non voglio fermarmi ad esaminare le infinite ine
sattezze che contiene questo discorso: ma mi tratterò
solo a ciò che basta per mettere in piena luce la dilli-
collà di cui parliamo.
E rispondo: voi volete che io, riflettendo sopra le
mie idee particolari di un albero, di un sasso ecc.,
fissi l'attenzione alle loro qualità comuni, e le separi
dalle qualità proprie. Voi dunque supponete che l'idea
di albero ecc. che io m' ho nella mente, sia un' idea
composta i.° di idee di qualità comuni e generali, a." e
d'idee di qualità proprie. In fatti, se quella idea non
contenesse questi due elementi, io non potrei scomporla
come voi volete ch'io faccia, non potrei trovarveli se
non vi fossero, nè fissare la mia attenzione sull' uno
elemento a preferenza dell'altro. Voi dunque con ciò
venite a contraddire con voi medesimi; giacché siete
partiti dalla supposizione, che le idee particolari non
contenessero idee generali; e che la mia mente , essendo
di queste seconde interamente sprovveduta, potesse col-
l'ajuto di quelle prime formarsele.
Questi filosofi adunque sragionano nel modo seguente.
È facilissimo, vengono essi a dire, formarsi le idee par
ticolari; sono le sensazioni quelle che le somministrano.
Questa facilità la deducono appunto dalla supposizione
BoSKist, Orrg. delle Idee, Voi. I. 4
36
che le idee particolari non contengano nulla di gene
rale e di comune. Fatto questo passo, deducono poi
dalle idee particolari le idee comuni e generali assai
facilmente nel modo che abbiam detto. Ma egli è facile
altresì di risponder loro: « Deducendo voi le idee ge
nerali e comuni dalle idee particolari, supponeste che
le prime sieno una parte, un elemento delle seconde.
All'incontro quando avete dedotto le idee particolari
dalle sensazioni, avete supposto il contrario: poiché se
aveste supposto che nelle idee particolari si contenesse
qualche nozione comune e generale, voi avreste dovuto
assegnare un'origine a questa, diversa dalle sensazioni,
le quali nulla hanno che non sia interamente parti
colare ».
E cercando più alto l'origine di una tale illusione
de' Lockiaui , io credo ch'ella si trovi nel non avere
essi bastevolmente osservato, come le sensazioni e gli
oggetti sensibili sieno per sè medesimi, ed indipenden»
temente dall'intelletto nostro, così particolari, che al
tro che qualità particolari non contengono realmente;
perocché una qualità comune e generale non ha esi
stenza che nella mente nostra. Non avendo essi adun
que osservalo questo vero, il quale ci verrà altrove oc
casione di recare a maggior luce, attribuirono alle cose
quello che non istava che nella loro mente, cioè le
qualità comuni; e, sbagliato questo primo passo, gli
altri sbàgli vennero da sè medesimi: perocché l'errore
fu recato dal principio del calcolo giù giù fino alla Gne
ed all'ultimo risultato.
Ed ecco come il falso, introdotto nella prima no
zione, si venne comunicando d'una ad altra, quasi
per anelli , fino ali* estrema.
La prima nozione falsa fu quella delle cose perce
pite da' sensi ; l'errore messosi in essa senza che se no
avvedessero si fu « che gli esseri corporei abbiano in
« sè realmente gualche cosa di comune indipendente-
« mente dalla maniera di percepirli ». Ora, se ciò die
è comune sta realmente negli esseri stessi , e non nel-
l' intelletto; è dunque superfluo il cercare l'origine del
comune nell'intelletto umano: egli è un fatto: una
qualità reale delle cose.
Secondo passo: questi elementi onde risultano le cose,
cioè i." il comune a." e il proprio, passano nelle sen
azioni sì lotto che le cose vongono percepite da' .sensi.
Di vero, ammettendosi per un fatto, che i nostri sensi
percepiscono le qualità sensibili de1 corpi, e nelle qua
lità sensibili esistendo il comune, perchè alcune qualità
sensibili sono comuni e altre proprie; quindi anche la
sensazione percepisce sì il comune che il proprio.
Terzo passo: se il senso riceve in sè , e percepisce
ciò che v1 ha di comune nelle cose, egli è facile a spie
gare l'origine delle idee particolari.' giacché sebbene
queste idee sieno composte i .* di nozioni comuni a.* e
di nozioni proprie, tuttavia sì le une che l'altre sono
somministrate dalle sensazioni; e quindi non c'è biso
gno ricorrere ad altro principio per ispiegare 1' origine
delle idee particolari , mentre tutti gli elementi di cui
esse sono composte, vengono somministrati da' sensi (i).
Finalmente ( e questo è il quarto passo del ragiona
mento lockiano ) da queste idee particolari è facilissimo
astrarre le generali: perocché contenendosi già nelle
idee particolari due elementi, cioè i." il comune a." ed
\\ proprio, non c'è altro da fare per avere il comune
o il generale, che di scomporli colla nostra attenzione,
attendendo noi solo esclusivamente a quella parte che
nelle nostre idee è una qualità comune, e non badando
alle qualità proprie.
Ora tutte le conseguenze di questo ragionamento sono
fuori di dubbio dirittamente dedotte, s' egli è vero il
principio. Se la prima nozione delle cose esterne com
poste come di due reali elementi, i.° di comune e a.* di
proprio, è retta, tutte le altre sono rette. In fatti
E indubitato che le idee generali si possono cavare dalle
idee particolari coll'analisi o sia scomposizione di que
ste ^ s'egli è vero che in queste quelle si contengano.
E indubitato che le idee particolari risultanti da due
specie di nozioni, i.* comuni e a." proprie, si possono
arere dalle sole sensazioni, s'egli è vero che le sensa
zioni stesse risultino da due elementi, cioè il comune
ed il proprio, e come tali percepiscano sì l'uno che
l'altro.
È indubitalo finalmente, che il senso percepisce il

(i) La contraddizione però sopra notata non si sfugge mai da'LiOckia-


ni, «iandiochè fosse giusto tutto questo ragionamento che innalzano »o-
pr» una base mal ferma i
38
comune ed il proprio, s' egli è vero che questi sieno
due elementi reali che entrino a comporre le cose esterne
e le loro sensibili qualità.
Ora di tutto questo discorso il falso giace nell'ultima
proposizione.
Il comune non ha nessuna esistenza fuori dell'intel
letto: egli è bensì un elemento delle nostre idee, ma
non è un elemento reale delle cose esterne. Le cose ester
ne non hanno realmente che un' esistenza individuale;
non hanno che qualità particolari, e niente può esistere
al di fuori dell'intelletto di comune: perocché la pa
rola comune implica un rapporto fra più oggetti, os
servato dall'intelletto: ed un rapporto non è nè pure
una qualità di qualsiasi specie, sicché possa esistere in
un oggetto; ma è fuori al tutto di qualunque oggetto,
e solo nel pensiero ha la sua esistenza.
Se dunque nelle sole idee vi è la nozione di comune,
e nelle cose esterne non v' è nulla che non abbia una
esistenza meramente particolare e sua propria , si do
manda onde nelle idee nostre sia venuta quella nozione
di qualità comune?
Il senso percependo le cose esterne non può perce
pire ciò che in esse non v' è, cioè la nozione di qua
lità comune: il senso adunque non avendo nelle sue
percezioni una tale nozione, non può somministrarla
alle idee. Ma nelle idee una tale nozione di qualità co
mune si trova ; dunque ella non può venire dalle sen
sazioni esterne, ma debb' essere qualche cosa che si
trovi o che esca dallo stesso intelletto. Egli è impos
sibile di rispondere, come a me pare, a questo ragio
namento. ","
Ora la difficoltà da me proposta si riduceva appunto
a questo, a sapere cioè in che modo l'intelletto può
ricevere la nozione comune. -''i
Egli è un fatto, io diceva, che una persona adulta
e già sviluppata nelle sue facoltà intellettuali, giudica.
Dunque ella ha cominciato a giudicare.
Qui non ci ha mezzo alcuno, non ci ha gradazione;
è un sogno dell' immaginazione il volercela trovare senza
saperla indicare: oltreché i due termini escludono al
tutto un termine medio ; perocché fra il dire a me
slesso di qualche cosa che mi ferisca gli organi corpo
rei « questo è un ente » , e il non dirlo, non si può
pensare niente che stia in mezzo.
... .a9
Retrocediamo dunque fino al primo nostro giudizio:
L'uomo nel far questo, ebbe bisogno di possedere già
una nozione comune : ma questa idea generale, neces
saria alla formazione del giudizio, non la potea cavare
che i.* dalle sensazioni 3.* o dalle idee particolari, per
la riflessione. Dalle sensazioni non potea, perocché elle
non contengono nessuna nozione di comunità: dunque
dalle idee particolari. Conviene adunque supporre che
l'uomo comincia a giudicare dopo l'acquisto di alcune
idee particolari. Ma di nuovo, o in queste idee parti
colari si contiene una nozione comune, o no. Se nelle
idee particolari la si contiene una tal nozione, egli ri
mane a spiegare come 1' uomo siasi formato queste idee
particolari , le quali senza una nozione comune sussister
non possono. S'ella non ci si contiene, torna la diffi
coltà, onde, giudicando delle idee particolari, tragga
V intelletto nostro la nozione di comune. Io non vedo
mezzo a spacciarsi da sì fatta difficoltà, senza il sup
porre che l' intelletto supplisca egli medesimo la no
zione comune, e quindi abbia in sè qualche cosa d'innato.
Così sarebbe risoluta la prima parte del quesito che
ci proponemmo in quest'opera; cioè « se l'intelletto
ornano abbia qualche cosa d' innato » : ci rimarrebbe
solo li seconda parte, cioè « se ba qualche cosa d'in
nato, che cosa ciò sia ». Ma di questo non è ancora
tempo a parlare : ci bisogna prima soddisfare all'ob
bligazione cbe abbiamo contratta, di passare in esame
i principali sistemi de' filosofi sopra la prima parte delle
nostre ricerche.
ARTICOLO VI.
CONCLUSIONE SOI*' IWEBFXZIOME DEL SISTEMA LOCHINO
Riassumendo intanto con poche parole quanto ab
biamo detto fin qui ,
i.* Le idee particolari contengono sempre per lo
meno una idea comune o generale, che è l'idea di esi
stenza perocché non v' ha idea d'alcuna Cosa fino che
lo spirito non pronunzia internamente questo giudizio:
« la tal cosa è ».
a.' La formazione delle idee particolari primiera
mente si forma dallo spirito umano paragonando il
•ensibiie , o ciò che è percepito da' sensi, colla nozione
comune di esistenza , e mettendo quell' ente sensibile
3o
nella classe delle cose esistenti. L'idea particolare dun
que d* un oggetto sensibile è la percezione di un tal
oggetto fatta dall' intendimento, cioè « la percezione di
un tal oggetto considerato nella classe degli esistenti » ,
o sia « un oggetto a cui si attribuisce la qualità co
mune e universale di esistenza » , o sia » un oggetto
percepito come esistente (i) ».
3.* Quindi l'idea particolare non si può formare senza
che l'intendimento non vi metta una nozione comune
dell'esistenza; e questa aggiunta che egli ci fa poten
dosi chiamare sintesi, l'idea particolare non si forma
senza una sintesi dell'intendimento.
4° La nozione comune l'intendimento non può ca
varla dalle sensazioni, perchè in esse non si contiene,
e perciò dee recarla ingenita con sè medesimo. -
5." Dall'idea particolare si può cavare l'idea gene
rale per astrazione, perocché questa idea generale e
comune in quella già si contiene ; e questa operazione
si chiama analisi.
6." Locke non sospettando che esistesse alcuna diffi
coltà a spiegare la formazione delle idee particolari , le
suppose venienti immediatamente dalle sensazioni nel
modo che abbiamo detto. Quindi pensò che con tutta
facilità si potesse poi cavare le idee generali e comuni
coll'analisi di quelle: perchè in fatti nelle idee parti
colari , le idee comuni e generali si contengono.
L'imperfezione adunque di Locke consiste nell'avere
supposta esistente realmente nelle cose sensibili la qua
lità comune , e quindi nel non essersi accorto della
difficoltà che si rinviene in cercare l'origine d'una! tale
nozione.
Da questo errore nacque a lui, che non vide il bi
sogno di una sintesi precedente a\V analisi , cioè di quella
operazione dell'intendimento colla quale si uniscono le
sensazioni COÌV idea comune di esistenza preesistente nel
l'intelletto, e così si giudicano, e da questo giudiziosi
formano le idee delle cose particolari.
Egli suppose la sintesi già formala da sè nella na-

(i) Si vedrà però altrove, che vi ha per noi qualche differenza fra la
percezione e 1' idea particolare di un oggetto. Tuttavia qui non istimiamo
necessario il farla osservare, e il farlo complicherebbe troppo, senza biso
gno, il ragionamento.
3i
tara delle cose esterne : e quindi cominciò la sua teoria
analisi delle idee; e da questa dedusse con una
templice separazione le idee generali nella loro forma
di astraiti: egli non ispiegò la formazione di queste
idee, ma la suppose; cioè egli le suppose in noi me
scolate colle sensazioni: e non pensò che a separarle,
e ad appurarle dalle qualità particolari che ad esse non
appartengono.
Finirò questo articolo recando un passo di un filo
sofo nostro, che, con accuratezza e chiarezza veramente
italiana, tocca l'imperfezione della teoria lockiana in
queste parole : « Nel sapere umano fa d'uopo distin-
- goere due epoche: la prima consiste nella sintesi,
■ che forma gli oggetti dell'esperienza e compone il
« gran libro della natura sensibile. — Neil' epoca di
• cui parliamo, la prima operazione dell'intelletto dee
■ esser la sintesi. La seconda epoca incomincia dalla
■ lettura del libro della natura; in questa seconda epoca
• lo spirito rivede la sua propria opera, e l'analisi è
■ \a tua prima azione. Locke si occupa della seconda
• epoca i egli suppone formato il gran libro della na-
• tnra, ed introduce lo spirito per leggerlo e compren-
• derlo: egli parte da questo fatto, che i sensi ci danno
• le idee complete degli individui, che sono gli oggetti
■ deir esperienza : egli suppone come dati l'esteriorità
• delle sensazioni, e la loro unione in un oggetto (ed
■ io aggiungerò la nozione comune dell' esistenza ) ; ed
■ egli fa, in conseguenza, derivare per mezzo dell' ana-
■ lisi, dall'esperienza tutte le idee semplici ». E più
innanzi così si esprime: « Che cosa fa di fatti il filo-
• »fo inglese? egli esponendo alla meditazione dello
• irrito umano il gran libro della natura, fa che lo
• spirito per mezzo dell'analisi ne ritragga tutte le no-
« noni semplici (i). Ora da ciò non può concludersi
• che tutte le nozioni semplici così derivate sieno de'
• dati della sensibilità, o de' sentimenti distinti e svi-

(') Il &V nozioni semplici non fa vedere la difficoltà tanto quanto il


totnouoni comuni o generali; perocché bisognerebbe prima provare che
iieopÌKe non si può trovare dalla risoluzione del composto; ed allora
«Ufflen/e s' intenderebbe la difficoltà di cavar le nozioni semplici dello
ipnto di' fenomeni delle sensazioni. AH' incontro dicendo nozioni comuni
iftt chiaro che questa non si possono trovare nel particolare, giacchi
I articolare escluda esseuiwlracnte il comune come suo contrario.
33
« luppati dagli altri sentimenti. Se fra queste nozioni
« semplici si troveranno alcuni elementi soggettivi (i),
« questi possono ben dedursi per via di analisi dal-
« 1 esperienza, ma lo possono appunto perchè lo spirito
• li ha posti colla sintesi, colla quale ha formato gli
« oggetti dell'esperienza. La questione fondamentale
« consiste a determinare, se l'operazione primitiva del-
« l'attività del pensiere sia l'analisi, o pure la sin-
« tesi » (a).

CAPITOLO IL

CONDIIXAC.

ARTICOLO I.
d'aLIMBUT Tk ALCUHK OPPOSIZIONI AL SISTEMA LOCHAMO.

Le prime idee che si presentano all'analisi sono le


idee degli oggetti corporei ; e queste occuparono la filo
sofia moderna di Locke. La difficoltà più elevata che
s'incontra ove si voglia spiegare l'origine dell'idea di i
sostanza, Locke non appena la vide che anche la tra
passò, negandone a dirittura l'esistenza: non poteva
accordarsi col suo sistema, dunque non era.
Egli non s'era accorto, che senz'essa noi non avremmo
alcun modo di formarci l'idea de' corpi esteriori; né
conobbe, che in qualunque idea nostra di corpo c'entra
necessariamente l'idea di sostanza, o sia di una esi
stenza prouria in sè e non in altri, di un soggetto io
somma delle qualità sensibili.
Intanto però l'osservazione di Locke sull' impossibi
lità di dedurre dai sensi l' idea di sostanza , era una
osservazione buona: ma isolata com'era, rimase per
molto tempo infeconda.

(i) Soggettivi, cioè posti dal soggetto intelligente, e per conseguente


innati, almeno virtualmente, nel medesimo. Questa parola però di sogget
tivi non è esatta; e vedremo ch'ella introdusse l'errore colla sua inesat
tezza nella kanziana dottrina : in fatti Io spirito può avere in se stesso in
genita qualche nozione comune senza ch'egli la cavi per questo da se stes
so , ma anzi ricevendola dal di fuori di sè : una tale nozione sarebbe inna
ta, ma non soggettiva. Questa osservazione è di gran momento per ben
intendere la teoria che verremo a suo luogo esponendo.
(a) Galluppi, Lettere filosofiche ecc. Leu. 7.
L'idea di sostanza gli s'era presentata in un modo
astratto, e quindi non avea veduto il nesso di quell'idea
con tant'altre idee più particolari: ciò fu cagione che
ne parlò in teoria come d'un ente immaginario, di cui
a poterà per avventura far senza in filosofìa.
Nè pure i filosofi che vennero dopo Locke sentirono
tosto la forza della osservazione lockiana, nè le diedero
quella importanza che s' avea realmente.
In luogo di farsi conto di quella osservazione, s'oc
cuparono di esaminare in particolare il modo onde
Locke deduceva le idee de' corpi; e fu in questo esame
ch'essi trovarono com' egli nel descrivere la via onde
noi ci formiamo le idee de' corpi, dava de' passi arbi-
trarj, e saltava a piè pari le difficoltà che pure l'avreb
bero dovuto arrestare.
Locke non s' era avvisato che bisognasse fermarsi a
spiegare come noi possiamo formarci le idee di cose che
sono pur fuori di noi, più che se n'avvisi un uomo
qualunque del volgo. Egli era partito, come da un fatto
primitivo, da questo principio «Le sensazioni ci danno
« immediata mente le idee dei corpi al di fuori di noi ».
Egli non pensò che fosse necessario di occuparsi a ren
dere ragione d'un fatto sì ovvio.
D'Alembert osservò che questo non si poteva am
mettere come un fatto primitivo, e ch'egli presentava
delle difficoltà a cui bisognava rispondere. Le difficoltà
vedute da d'Alembert furon queste (i):
i." Le sensazioni non sono che modificazioni interne
del nostro spirito: esse esistono meramente in noi:
come dunque noi possiamo uscire di noi stessi, e for-
marci l'idea di qualche cosa che sta al di fuori di noi,
*e non abbiamo altro fonte d'idee che le sensazioni
'le quali sono tutte dentro di noi?
a." Le sensazioni sono tutte staccate e indipendenti
i'una dall'altra: la sensazione dell'odore non ha che
fare, a ragione d'esempio, colla sensazione del colore;
nè quella del colore ha qualche cosa di simile a quella

(i) E tuttavia d'Alembert parla del Saggio sull' Intelletto umano deli' in
fletè filosofo , come di ua trattato completo di metafisica. Si voleva allora
che fosse il libro di moda. Le esagerazioni di quel tempo sopra Locke
sono divenute insoffribili: ciò mostra il progresso che indi a noi fece lo
Spirito umano.
Rosmini ^ Orig. delle Idee, Voi I. 5
del sapore o del suono; o queste a quelle del tatto.
Ora l'idea che noi abbiamo di un corpo è il complesso
di tutte queste qualità sensibili di loro natura essen
zialmente distinte fra loro. Ma nell'idea nostra di uu
corpo tutte queste qualità sensibili sono legale insieme,
tutte attribuite ad un solo soggetto che è appunto il
corpo, di cui abbiamo l'idea. Come avviene dunque che
l'anima nostra leghi insieme queste sensazioni e le at
tribuisca ad un soggetto unico ? Se i soli sensi ci pro
ducono le idee de' corpi, ciò a primo aspetto non s'in
tende come possa avvenire, perocché i sensi non ci
danno che le sensazioni così staccate, essenzialmente
distinte fra loro, e senz'aldina unità.
Queste difficoltà che d'Alembert fece alla teoria ta
citiana, non erano in fine che la difficoltà stessa che
vide Locke di spiegare l'origine dell'idea di sostanza:
se non che, come dicevo, Locke la si propose consi
derando l'idea di sostanza in generale: e d'Alembert
venne alla difficoltà stessa sotto una forma più par
ziale, cioè considerando l'idea sostanziale de' corpi.
In fatti il pensare un corpo fuori di noi come un
soggetto unico a cui si riferiscono le qualità sensibili
co' nostri sensi percepite; non è che il pensare un so
stegno, un centro necessario alle sensibili qualità, in
una parola la sostanza corporea.
Ma il filosofo francese fu ben lontano dal conoscere
che le due difficoltà s'adunavano in una sola (i): anzi
egli si mostrò consentire al tutto con Locke in negando
l'idea di sostanza (a), mentre poponeva d'altro lato

(i) Una delle maniere di semplificare le questioni filolofiche, è di chiarire


le idee , • di ridurre a poche le difficoltà come pure le questioni filosofi
che. Perocché troppe sono le forme sotto cui si possono presentare, ed
ogni nuova forma si toglie per una nuova questione , sebbene ella sia la
medesima. Ciò nasce massimamente dalla natura della lingua clic sommi
nistra innumerevoli maniere e forme al pensiero slesso. Quelli che vo
gliono lare una pompa vana ed inutile di dottrina, cercano anzi di molti
plicare a centinaja le questioni, gli argomenti, e le obbiezioni. Meschina
pompa I non può cagionare stupore che agi' idioti : è peggiore della pompa
di quel pazzo che spezzava tutto ciò che gli veniva alle mani in minuti
pezzi dicendo di moltiplicare cosi il numero degli oggetti da lui posseduti.
(a) Si negò a mio parere Videa di sostanza per un equivoco: cioè sì
credette che per poter dire di aver l' idea di sostanza si richiedesse di
più , che veramente non si richieda. In latti per avere 1' idea di sostanza
rosta conoscere che la modificaiione dimanda un soggetto modificato: que
sto soggetto è l' idea di sostanza. Se voi mi dite « ina questo soggetto io
* 55
iftn' avvedersi il quesito «onde caviamo l'idea sostan
ziale che noi abbiamo de' corpi ». Tanto è pigro il
pensare umano ! tanto le menti anche più perspicaci
vanno lungamente tentone cercando il vero sotto un
crepuscolo d'incerta luce!

ARTICOLO IL
CSNSC**. CHE COND1LI.1C FA DI LOCKE.
D'Alembert propose le due difficoltà surriferite; ma
non le sciolse : Gondillac venne appresso e ne tentò lo
scioglimento.
Il proporre bene una questione è già far fare un
passo alla filosofia: questo è il merito di d'Alembert.
Egli era per altro ben lungi da 11' abbandona re il prin
cipio lockiano, che tutte le idee vengono dai sensi: un
tale principio si teneva per ostinazione : in tal caso era
impossibile l'abbandonarlo.
11 domandare come noi possiamo dalle sensazioni che
sono interne nel nostro spirito, trasportarci fuori di
noi e formarci le idee de' corpi, veniva al medesimo
che domandare « come noi possiamo formare un giu-
« diao prima d'essere forniti d'idee ». Di vero, per
chè noi abbiamo l'idea di qualche cosa fuori di noi,
dobbiamo formare i seguenti giudizj nel nostro spirito:
l* esiste qualche cosa, a." questa cosa che esiste è
fnori di me , 3.* questa cosa che esi>le è soggetto delle
qualità sensibili da me percepite. Per formare tutti
questi giudizj non debbo io già possedere delle idee
generali ? la formazione adunque delle idee esige delle
idee precedenti in me formate: le prime idee adunque
àe io mi formo, quali sono quelle de' corpi, sono
inesplicabili , se non suppongo qualche cosa d' innato
in me medesimo.

"Boa so che sia certamente voi noi sapete: io vi vorrei anzi accor
dare eh' egli è essenzialmente un incognita per voi, una x. Voi sapete solo
ch'egli è il soggetto di queste e quelle modificazioni, eh' egli è causa di questi
equrglì effetti. Che volete sapere di più? Se voi lo spogliate delle sue mo
dificazioni, delle sue proprietà, de' suoi effetti, egli vi rimane una perfetta
•r, una perfetta incognita: in tal caso voi ne avreste ancora l' idea , perchè
sapreste le relazioni che questa incognita ha con ciò che conoscete; questa
è la cognizione che s'ha delle sostanze, nè di più si può esigere: questo
basta perchè l'idea se n'abbia. Se si potesse negare un'idea, ogni qual
volta non si conosce in essa ciò che s'immagina di dovervi conoscere, si
potrebbero facilmente negare tutte le idee.

-
3G
Tale era la questione, ove si proponga in tulta la
sua estensione: ma Condillac non vide che la prima
parte. S'accorse eh1 erano necessarj de' giudizj a for
mare le idee de' corpi: ma non si accorse che questi
giudizj presupponevano delle idee generali anteriori :
questo secondo passo era pur breve e facile dopo il
primo: tuttavia egli noi fece: tale è il cammino lento
e indugiatore dello spirito umano.
Trovandosi egli adunque collocato dai tempo suo in
un punto più eminente, potè rimproverare a Locke di
non essersi accorto de' giudizj che si mescolano fra le
nostre sensazioni.
« Noi vedremo, » dice Condillac parlando di Locke
in principio del suo Trattato delle sensazioni « che la
u più parte de' giudizj che si mescolano a tutte le no-
« stre sensazioni, gli sono sfuggiti ». E poco appresso:
« Egli era sì lontano d'abbracciare in tutta la sua
« estensione il sistema dell'uomo, che senza Molineux
« non avrebbe forse avuto nè pure occasione di osser-
« vare che alle sensazioni della vista si mescolano de'
« giuditj. Nega egli espressamente che accada questo
« medesimo nelle sensazioni degli altri sensi. Egli cre-
« deva dunque che noi ci servissimo di questi per una
« specie d'istinto senza che la riflessione contribuisse
« punto a darcene 1' uso ».

ARTICOLO III.
SISTEMA CONDILLACHIAMO.

E non sembrerebbe da questo passo , che Condillac


avesse sentito pur bene la differenza sfuggita a Locke fra
le sensazioni esterne e i giudizj che si mescolano alle
medesime? Non sembrerebbe ch'egli avesse perciò do
vuto porre due facoltà essenzialmente distinte, 1' una
quella che ci fa sentire le sensazioni, e l'altra quella
che ci fa fare i giudizj sulle medesime?
Sembrerebbe; ma l'amor di sistema il conduce a
fare il contrario, cioè a ridur tutto a una sola facoltà,
alla sola sensazione: e così in vece d' aggiungere qual
che cosa ai due principj di Locke, la sensazione e la
riflessione; egli anzi si sforza di semplificarli, ritraen-
doli alla sola sensazione. Questo errore sistematico è si
mile a quello , di sopra toccato , di colui che pretende
render ragione delle varie specie di sensazioni che noi
proviamo, con un solo senso. Chi togliesse a dimostrare
che quella facoltà -visiva che ci fa percepire i colori ,
è quella medesima che ci fa percepire i suoni, e i sa
pori, non assumerebbe una proposizione meno difficile
e meno assurda di quest'altra, che forma tutta l'es
senza della teoria condillachiana : • quello stesso senso
« che percepisce la sensazione del tatto, è quello che
« giudica della medesima (i) ».
Ma perchè vediamo meglio gli sbagli di questo filo
sofo, seguitiamo i suoi passi, ed osserviamo tutto l'an
damento de' suoi ragionamenti.
Ecco primieramente com'egli pone l'argomento della
seconda parte del Trattato delle sensazioni: « La se-
« conda parte, dice, tratta del tatto, o del solo senso
« che giudica da sé stesso degli oggetti esteriori ».
Una sola facoltà, un solo senso fa due operazioni così
distinte, che sono chiamate con diversi nomi e ricono
sciute per diverse dallo stesso Condillac: i." sentire le
cose esteriori , e a.* giudicare delle medesime (2).
Anche agli altri sensi questo autore attribuisce due
operazioni di specie diversa, cioè il sentire ed il giu
dicare; ma egli pretende, che il giudicare quelli non
V abbiano da sè slessi, ma sia una virtù che viene loro
comunicata dal senso del tatto (comunicazione a dir
vero assai misteriosa), il quale solo da sè stesso è anche
giudice: e, la terza parte è quella che ciò si propone di

(1) S. Agostino nota accuratamente la differenza fra il sentire ed il gin-


care in più luoghi delle sue opere, e trova una distanza immensa fra
I' una e l' altra di queste due operazioni dello spirito. Egli dice ancora ,
che la mente propriamente parlando consiste nella facoltà di giudicare:
servai aliquid (così parla della mente) quo libere de specie lalium ima.
ginum ( cioè delle cose corporali ) judicet , et hoc est magis mens, id
est rationalis inlelìigentia QUAE &ERFATUR UT JVDICET. De Tri
na., L. IX, c. V.
fa) Si trova anche in Aristotele e negli Scolastici insegnato che il senso
pudica. Egli sembra verisimile però che la parola giudicare s'intendesse
io un senso traslato per una qualche similitudine che si nota fra gli efletti
del senio e del giudizio. Ciò mi fanno credere alcuni passi di Aristotele ,
dorè spiega il giocl'2'0 da lui attribuito al senso , in modo assai diverso da
vi udizio eoe attribuisce all'intelletto. Ad ogni modo mi sembra diffi
de/' «/vare questo filosofo dall' errore che attribuisco a Condillac, senza
'l g /ncsallezza e improprietà nelle espressioni.
38
dimostrare: « la terza parte, dice, tratta come il tatto
« insegna agli altri sensi a giudicare gli oggetti este
riori » (i).
ARTICOLO IV.
INIIATTEZZA DELL'ANALISI CONDILLACWANA.

Leggendo con attenzione Condillac, si vede un uomo


che propone bensì a sè stesso di spiegare il successivo
sviluppo delle facoltà con un' analisi accurata , senza
dare pur un passo arbitrariamente; un uomo che è per
suaso di riuscire a far ciò a preferenza di tutti quelli
che il precedettero; ma nello stesso tempo si vede,
che questo procedere del discorso rigoroso e sicuro, è
un'arte nelle sue mani ancor bambina: e volendo se
guire i passi suoi colla stessa intenzione di essere esatto,
e coli' arte, nel nostro tempo più raffinata , di osser
vare, e di non lasciar passar nulla nel ragionamento
che non sia stato giustificato, si trova ovecchessia ,
ch'egli analizza le operazioni dell'anima molto grossa
mente, e inframmette e suppone fra i ragionamenti
suoi i fatti più rilevanti senza darne spiegazione alcuna,
anzi pure senza ch'egli gli osservi distintamente, o al
meno senza ch'egli osservi che hanno bisogno di spie
gazione.
Perchè ciò si vegga più manifesto, e perchè appari
sca com'egli non abbia nè pur sentita la difficoltà che
si trova in render ragione dell'atto del giudicare senza
supporre qualche cosa d'innato in noi, fermiamoci ad
osservare quanto sia volgare e poco ingegnoso il modo
onde alla sola sensazione riduce tutte le altre facoltà (3).

(1) Quando mi si dice che un uomo comunica all' nitro uomo la scienza
ammaestrandolo, io intendo benissimo che voglia dire la voce comunicare}
ina quando mi si dice che un senso comunica all'altro senso la facoltà di
giudicare che per sé nou ha, allora non ne intendo più niente: la parola
comunicare mi diventa una voce inintelligibile, inesplicabile.
(a) Più altre osservazioni sul sistema della sensazione trasformata potrai
vedere nell'operetta Breve esposizione della filosofia di M. Gioja, inserita
nel II volume degli Opuscoli filosofici, e massimamente nelle note alle
face. 358-365, dov' io mi sono ingegnato di mettere brevemente sott oc
chio gli assurdi di una sì fatta filosofia.
39
ARTICOLO Y.
1' ai unzioni bu' montniarto son su, medesimo che li jjnsttititi'.

Primamente si sforza di ridurre l'attenzione alla sen


sazione in questo modo: « Se l'uomo ha una nioltitu-
• dine di sensazioni , egli dice, nello stesso tempo,
« collo stesso grado di vivacità, o presso a poco, egli
« non è ancora che un animale che sente — - ma se
« noi non lasciamo sussistere che una sensazione sola,
« 0 pare senza torre le altre , ne scemiamo la forza ,
• lo spirito è tantosto occupato più particolarmente
■ della sensazione che conserva tutta la vivacità sua,
■ e questa sensazione diventa attenzione senza che sia
■ necessario supporre alcun'ultra cosa nell'animo ».
Ma era pur facile di vedere , che l' azione degli og
getti esterni sui nostri organi, e la sensazione che l' ac
compagna , è una cosa diversa da quell' attività dello
spirito intellettivo che particolarmente si occupa nella
della sensazione (1).
La semplice sensazione può essere ricevuta da noi
senza nessuna volontaria attività dello spirito nostro:
purché questo si presti a riceverla passivamente. Ma
i attenzione sopra una nostra sensazione dev'essere un'at
tività volontaria, non una semplice passività. Poniamo
che ricevessimo contemporaneamente quattro sensazioni:
e che rimanendo noi in uno stato passivo, o per dir
meglio inerte, elle fossero per noi tutte, presso a poco,

(■) Il ConiMlac medesimo distingue nello spirito umano una passività


ed uoa attività. Se questi due termini danno un concetto opposto fra loro ,
conte non saranno diversi? Come dunque si potrà ridurre ad un solo prin
cipio passivo , qual è la semplice sensazione, tutte le potenze più attive
dell' anima ? Nessuno ba rilevato meglio, per quanto a me è noto, questo
errore di Condillac, del Barone Galluppi, nei suoi Elementi di Filosofia
(Messina 1830), T. II, face, 191 e segg. In Francia, nel paese ove il Con-
dillachismo é indigeno, ora si scrive cosi « Sia che Condillac sia stato per
• trent'anni nell'illusione, sia che non abbia mai enunciato con chiarezza
- sufficiente il suo pensiero, sia che io non abbia avuta la dovuta pene-
• trazione, mi fu sempre impossibile concepire non già che la sensazione
"preceda l'attenzione, ma che la sensazione si cambi in attenzione; non
• già che nell'anima uno stalo attivo succeda immediatamente ad uno sialo
«passivo, ma che siavi identità di natura fra questi due stati, di modo
" che l'attirila, sia una trasformazione della passivila ; e sono cosi lontano
• dal prestare il consenso a questa proposizione , che so appeua che cosa
• li possa intendere coli' avvicinamento de' termini de' quali è composta ».
Ltromiguiere. Parte 1, Lez. V.
4° , . .
dello stesso grado di vivacità. Or poi, in luogo di ri
manerci così uguali ed indifferenti a quelle quattro sen
sazioni, poniamo che noi concentrassimo la nostra at
tenzione quanto più ci fosse possibile in una sola: egli
è certo, che per questa nostra attività concentrata,
noi riceveremmo con più vivezza quella sensazione a
cui attendiamo, e tuttavia non potremmo forse a meno
di percepire, sebbene più tenuamente, anche le altre
tre. Or dunque nel nostro spirito avvi un' attività vo
lontaria; una forza per la quale noi attendiamo, fra
quattro sensazioni uguali, a quella che più vogliamo,
e rendiamo così l'impressione sua più forte sopra di
noi. Questa osservazione mostra evidentemente che la
forza del nostro spirito, mossa dalla nostra volontà
colla quale attendiamo alle sensazioni, e fra esse sce
gliamo l'una a preferenza dell'altra, è lutt'altra cosa
dalle sensazioni medesime, mentre queste esistono an
che sema che quella forza si muova, e questa forza
interiore, ove si fpieghi, cpera sulle sensazioni stesse,
ed è un principio a noi intrinseco che ci dispone a
farle più o meno presenti per dir così alla nostra co
scienza.
Questo fatto si può sperimentare in un quartetto mu
sicale. Lasciandoci noi ferir 1* orecchio da suoni senza
che lo spirilo nostro faccia uso di sua particolare atti
vità, noi accoglieremmo il concerto, ed avremmo tutte
le sensazioni che ci producono i quattro stromenli :
ma ben tosto ci apparrà che nel nostro spirito v' ha
un'attività volontaria, diversa da questo passivo sen
tire, allorquando noi attueremo volontariamente lo spi
rito in un modo particolare a nostro grado, sia per
assorbire più a pieno tutta intera l'armonia del con
certo , sia per attendere ad un solo strumento, e gu
starne la modulazione o ammirar la maestrevolezza del
l' abilissimo sonatore. La sensazione dunque è una fa
coltà passiva, tale cioè, per la quale non ha bisogno
lo spirito dell'uomo, a cui vien tocco l'organo corpo
rale, di una particolare e quasi semovente attività;
l'attenzione all'incontro è una facoltà attiva, per la
quale V uomo mette volontariamente in moto la forza
dello spirito suo: in questo senso è vero che colla sola
sensazione • 1' uomo non è ancora clie un animale che
sente > ; ma 1' uomo non è mai colla sola sensazione ;
fgli ha sempre, oltre la potenza di sentire, un'altra
potenza ancora in sè medesimo, sia che ne usi attual
mente o no, la potenza voglio dire di rivolgere la pro
pria attività intellettiva sopra una cosa sentita anzi che
sopra un' altra : e questa fino da' primi momenti della
sua esistenza lo parte dagli altri animali e lo colloca
io nna classe essenzialmente superiore a quella de'
bruii (i).
ARTICOLO VI.
LA HIMOMt NON E LÀ SENSIBILITÀ'.
Non è più felice Condillac quando si sforza di mo
strare che anche la memoria è una sensazione. « La
* nostra capacità di sentire si divide , egli dice, fra la
- sensazione che noi abbiamo avuta, e quella che noi
» abbiamo. Noi le percepiamo tutte due ad un tempo.
* Ma le percepiamo differentemente: 1' una ci pare pas-
- sata, l'altra ci pare attuale.
* Percepire o sentire queste due sensazioni , è la
- stessa cosa (a): ora questo sentimento prende il nome
« di sensazione quando l'impressione si fa attualmente
« sai sensi ; e prende quello di memoria quando questa
« se/nazione, che non si fa attualmente, si porge a
« noi come una sensazione che è slata fatta ».
Sembra impossibile ingannarsi a tal segno da poter
affermare che il percepire una sensazione presente o il
percepire una sensazione passata sieno atti della slessa
natura.
Quando la sensazione è passata , ella non è più.
L'esistere suo nella nostra memoria non si può già
<kre un esistere come sensazione: come tale è passata,
siccome esprime la frase « noi ci ricordiamo le sensa-

(i) Con ciò che ho detto in questo articolo dell' attenzione, facoltà di
(fingere la forza intellettiva , non escludo mica una attività sensitiva ue-
eewjrii al sentire. Questa attività sensitiva, io l'ammetto anzi sempre ni
alto nell'uomo vivo, che sente il proprio corpo, ed ella è modificata dalle
impressioni esterne , e or s' espande equabile , or si concentra in una sen-
saiioue a preferenza d'un' altra , secondo certe leggi dell' istinto.
()) Sì può egli dare affermazione più gratuita di questa ? La menoma
prova non adduce di essa il Couddlac. Il provare de' filosofi di questa
scuola non è che un asserire francamente le proprie opinioni: le asserzioni
(ranche impongono al lettore inavveduto , e questi sono i principi della
scienza; le conseguenze che ne deducono vengono in tal modo assai facil
mente consentanee ai sistemi da loro preconcepiti.
Rosmim, Orig. delle Lice, Voi. I. G
42. .
« zioni passate ». L'esistere come sensazione suppone
che i nostri sensi corporei sieno attualmente tocchi , e
la sensazione comincia in essi quando cominciano ad
esser tocchi in quel modo che è necessario al nostro
spirilo perdi' egli senta: la sensazione rimane fino che
essi continuano ad esser tocchi, e tostochè il tocca
mente o l'impressione ne' sensi è cessata , anche la sen
sazione viene a cessare. All'incontro la memoria rimane,
o per dir meglio ella comincia appunto allorquando la
sensazione non è più : essa non è dunque sensazione.
La maniera volgare di parlare , « nella memoria si
« conservano le sensazioni passate » ; sembra esser ciò
che condusse in errore il nostro filosofo. Egli non ci
sarebbe caduto , osservando, che quella maniera di par
lare comune era rigorosamente parlando inesatta, pe
rocché la parola sensazione , in quel detto * le sensa
ti zioni si conservano nella memoria » , ha un valore
essenzialmente diverso da quello che si dà al nome di
sensazione quando parlasi di vere sensazioni. Non sono
già le sensazioni vere che si conservano nella memoria
nostra; è la ricordanza delle sensazioni vere: la quale
ricordanza è ciò che forma la stessa memoria. Chi mai
non vede, che ricordarsi di un dolore è tutto al di
verso dal sentire un dolore; che il rammentare un pia
cere sensibile, è lati' altro che il sentire il piacere at
tualmente coi nostri sensi ?
L' errore nato dal doppio significato della parola
sensazione applicata ai sensi ed applicata alla memoria,
è simile all' errore di quelli che sentendo dire ad alcuno
che mostra un ritratto « Questi è l'Imperatore » pren
desse quel ritratto per l'Imperatore vero e vivo, inten
dendo letteralmente quella espressione. Certo, quell'Im
peratore dipinto è essenzialmente diverso dall'Impera
tore vero, il quale non è una soltil tela impiastricciala
d'olio e di colori, ma è bensì un corpo formato di
carne e d'ossa. Nè pur bene direbbe chi affermasse quel
ritratto essere lo stesso Imperator trasformato; percioc
ché l'Imperatore negherebbe d'essersi trasformato giam
mai in una tela ed intonaco di colori, e poco starebbe
che non mandasse colui al collegio de' pazzi. La sensa
zione adunque che dicesi stare in noi quando noi ci
ricordiamo d'una sensazione passata, non è punto quella
sensazione che ci ha fatto, a ragion d'esempio, tanto
43
forte dolere il braccio o la gamba forata da uno stec
co^ la quale non si sente altrove che nel braccio o nel
piede, e non punto nella memoria; quella non è che
una pura reminiscenza, o se si vuol dire impropriamente,
un1 immagine di quella, cioè adire una cosa di essenza
diversa , e interamente da quella prima disparata (i).
11 perchè la sensazione, e la memoria della sensazione,
non si possono confondere insieme, eziandiochè si chia
mino con una medesima voce di sensazione: l'uno di
qat^li oggetti non ha che fare coli' altro: e qualun
que dipendenza o relazione abbiano insieme , non pos
sono giammai confondersi, nè dirsi l'uno trasformazione
dell' altro. Il senso adunque e la memoria sono due fa
coltà essenzialmente distinte, che non si possono in una
sola mescolare per amore d'una semplicità sistematica
contraria al fatto della natura (2).

ARTICOLO VII.
I>' ATTEW7.I0NE t DIVERSA DELLA MEMORIA.
Dopo avere fi Condillac creduto di dimostrare sic
come la facoltà di ricordarsi non differisce essenzial
mente dalla facoltà di sentire, prosegue francamente così:
* Laonde noi siamo capaci di due attenzioni: l' una
« s'esercita dalla memoria, e l'altra da' sensi.
« Avendovi doppia attenzione, v'ha paragone; giac-
- chè essere attento a due idee, o paragonarle, è il
« medesimo. Ora non si può paragonarle senza percepir
« tra esse qualche differenza o qualche rassomiglianza:
« percepire cosi fatti rapporti, è giudicare».
E questo un percorrere di volo un tratto immenso
di terreno : davanti a questo corridore sembra che gli
ostacoli spariscano per qualche incanto.

(1) Non si può propriamente dire che l'idea sia un' immagine: questa
parola d' immagine si può, in qualche modo, applicare ai fantasmi delle cose
corporee, quando noi lo immaginiamo presenti tali quali ci cadono sotto
gli occhi stessi; e non all'idea: per hen conoscere l'idea conviene anzi av
vezzarsi a considerarla in sé, tale qiial è ella medesima, senza mescolarvi
comparazioni e metafore tratte da cose materiali. L'idea ha un essere suo
proprio, spirituale , e affatto estraneo alla corporea sensazione-
fa) Condillac slesso distingue l'attenzione della memoria, dall' attenzione
del senso caratterizzando la prima per attiva e la seconda per passiva. Si
può dare una differenza più essenziale di questa, che le fa V una all' altra
direttamente confane?
44
Primieramente , basta assai poco di meditazione a co
noscere, che quell'atto onde noi raccogliamo la nostra
attenzione, sia in sugli oggetti della memoria , sia in
sugli oggetti del senso, non è nè la memoria nè il senso.
L'attenzione è una forza, come vedemmo, che viene
diretta dall'attività dello spirito nostro, o piuttosto è
la stessa attività volontaria del nostro spirito. Noi at
tendiamo per un atto della nostra volontà , ed in que
sto attendere ci sono più o meno gradi d' intensità a
nostro volere.
Come la sensazione per la sua passività si distingue
dall' attenzione , e come si distingue dalla memoria per
lo diverso suo oggetto, l'abbiamo già sopra veduto.
Che l'attenzione si distingua anche dalla memoria, è
facile pure vederlo. La memoria viene formata dalle
ricordanze delle cose passate, e in questo consiste la
sua propria natura: l'atto onde noi attendiamo si può
portare tanto sulle cose passate quanto sulle presenti.
V'hanno dunque in noi tre principj o tre facoltà es
senzialmente diverse: i.' la facoltà di sentire le presenti
impressioni; a." quella di ritenere le ricordanze delle
medesime dopo che sono già trapassate ; 3. finalmente
quella di fermare a nostro talento, o sopra alcuna delle
nostre sensazioni presenti o sopra alcuna delle passate,
l' attività intellettiva del nostro spirito in un grado
più o meno intenso.

ARTICOLO Vili.
IL GIUDIZIO NON SI DEE CONFONDERE COLLi SEMPLICE ATTENZIONE.

Proseguiamo :
« Avendovi doppia attenzione; vi è paragone (i),
« poiché essere attento a due idee e paragonarle, è il
« medesimo ».
Questo modo di ragionare è al tutto inesatto. Un
poco di diligente considerazione fa ben conoscere che
l'essere attento a due idee non è ancora un parago
narle, lo posso benissimo restringere l'attenzione mia

(i) Non è una doppia attenzione che fa il paragone, ma un doppio


oggetto : anzi paragone non vi ha se non quando con una sola attenzione
si prendano due oggetti simultaneamente.
45
prima su d'una idea sola, e poscia metterla in sull'al
tra, senza però ch'io necessariamente ne faccia il pa
ragone e ne trovi le differenze.
E quand'ancora il mettere l'attenzione sopra due
idee portasse di necessità il paragonarle insieme ed il
conoscerne la differenza, in tal caso si dovrebbe tutta
via distinguere tre atti, sebbene contemporanei , del no
stro spirito; cioè i.* l'attenzione che si mette in una
idea, a.* l'attenzione che si mette nell'altra idea,
V F attenzione che si mette nella differenza delle due
idee: e resterebbe a vedere se questi tre atti sono della
flessa natura , sicché si possano attribuire alla stessa
facoltà: poiché potrebbero essere atti contemporanei, e
tuttavia di diverse potenze; giacché l'essere contempo
ranei non basta per doverli attribuire alla potenza
medesima ; se non sono ancora della stessa natura.
Ma egli v'ha qui di più: questi tre atti non sono
sempre necessariamente contemporanei. Di vero, io
posso prima dare la mia attenzione ad un' idea ed ap
presso darla all'altra, e tutto questo senza aver io
ancora fissala la mia attenzione sulla differenza delle
medesime.
Per accorgersi più patentemente, che il dare l'atten
zione a due idee non è lo stesso che il paragonarle e
il trovare la loro differenza, e per conoscere che né
pure quel l' attenzione da me posta sulle due idee mi
tira necessariamente a fare il paragone e a coglier la
differenza delle medesime; basta che diamo uno sguardo
a ciò che succede coli' idee de' numeri.
Poniamo che io abbia l'idea del numero trenlacin-
qoe. e quella del numero quarantanove. Non posso io
fissare la mia attenzione sull'uno e sull'altro numero,
senza che necessariamente io li paragoni insieme e ne
conosca la differenza? La cognizione ch'io ho di questi
due nnmeri , è una cosa al tutto diversa dalla cogni
zione della differenza che hanno fra loro. Questa dif
ferenza sarebbe, nel taso nostro, quattordici, cioè un
terzo numero che non è né il 35 né il 49 un terzo og
getto del mio pensiero, differente da' due primi, e che
io produco a me medesimo mediante un' operazione
dello spirito mio di un genere particolare e suo pro
prio, eseguita sui due numeri che mi sono dati e che
tengo presenti allo spirito.
46
Non solo io posso fissare la mia attenzione su tutti
e due que' numeri, senza ch'io faccia quella operazione
o quell atto dello spirito onde rilevo la loro differenza;
ma ben anche io posso fare sopra i medesimi molte
operazioni d'altro genere, senza che mi sia necessario
di far quella proprio che mi dia la loro differenza.
Ma la ragione onde il Condillac fu tratto a credere
che non si potesse fermar 1' attenzione sopra due cose
senza scoprire la differenza loro , sembra essere stato
l'aver egli osservato solo ciò che suol nascere le più
volte pensando noi a cose , il confronto delle quali è
facilissimo a farsi , e di cui si presenta la differenza
all' attenzione nostra senza fatica.
Tuttavia fa ben maraviglia, ch'egli non abbia osser
vato, come l'atto dello spirilo, onde l'uomo paragona
due idee e ne cerca e scopre la differenza, sia di na
tura diversa dal semplice collocare l'attenzione sull'una
e sull'altra delle medesime. Quand'anche, ogni volta
che noi attendiamo a due idee, fossimo trascinati a
paragonarle insieme, per una forza a noi interiore, per
una legge della nostra natura , e a trovare la differenza
loro; ancora potrebbesi per noi vedere, die l' atto di
questo paragone e la scoperta di quella differenza , è
essenzialmente diverso dal semplice appoggiare sull'una
e sull'altra l'attenzione: è qualche cosa di più: è un
atto dello spirito, degno d'essere analizzato a parte,
e non trasaltato sì lievemente.
Quand' io fisso l' attenzione semplicemente in due
idee, io non creo punto un nuovo oggetto alla mia
stessa attenzione , ma occupo questa de' due oggetti che
già preesistono nello spirito mio. Quando all' incontro
io paragono insieme quelle due idee, e divido ciò che
hanno di proprio, da ciò che hanno di comune, io
formo allora a me stesso un nuovo oggetto da conside
rare: io scopro la loro differenza; e questa differenza è
un oggetto nuovo del mio pensiero, giacché prima io
punto nè poco pensava ad essa in quanto sta così dagli
oggetti divisa e distinta.
47
ARTICOLO IX.
[Ì<H1UC SO> TUIE Là DIFFICOLTÀ', E v'iIICiPri, CIOÈ «rlEGi Li FOftMiZIOHE
DILLI IDtS COL SCPFOENE KELl' DOMO ALCUNE DI di'. FORMATE , CHE OLI
SUTOSO I DX.DCEEE LE ALTRE.

Se il Condillac non fosse passato con leggerezza sopra


tal alto di paragonare le idee e di trovare le lor dif
ferenze, ma lo avesse analizzato, com'è dovere d'un
filosofo che si propone render ragione di quanto avviene
nello spirito umano; egli si sarebbe per avventura ab
ballato a quella difficoltà ch'io ho più sopra proposta,
e che non si può superare, a mio avviso, senza am
mettere qualche cosa d'innato nel nostro spirito.
■ In fatti non si può paragonare due idee senza per-
• cepire fra esse qualche differenza o qualche rassomi
glianza : percepire simili rapporti è giudicare ».
Questo passo, in cui si parla del confronto delle idee,
«apporrebbe che il nostro autore avesse già spiegalo
che cosa egli intenda per la parola idea.
Ma egli non definisce l'idea se non molto più sotto:
e perciò era ben naturale che in quel passo, ove toglie
a spiegare come si formi il giudizio col confronto delle
idee fra loro, non incontrasse alcuna difficoltà; giacché,
non essendo queste idee spiegate, non s'intende nè pur
bene che cosa ivi si dica; ed è appunto allora, che sono
più indulgenti i lettori coll'errore, quando si presenta
ad essi in un ragionamento che è giusto nella forma ,
restando ad un tempo indeterminato il valore delle pa
role ond' esso è composto.
1. perchè ciò non accada anche a noi, cerchiamo un
poro il valore che Condillac dà al vocabolo idea,- e po
tai reggiamo se il suo ragionamento resta al lutto privo
di difficoltà , siccome pare nel primo aspetto, veduto
solo in generale ed abbracciatane più la forma che la
so»tanza.
li Condillac distingue la sensazione dall'idea, ed ec-
cone il modo.
■ Una sensazione non è ancora un' idea fino che la
■ si considera come un sentimento che si limita a mo-
« dificare l'anima. Se io provo attualmente un dolore,
« io non dirò che ho l'idea del dolore, ma dirò che
« lo sento.
« Se io mi rammemoro un dolore avuto, il risovve-
« Dimenio e l'idea sono allora la cosa stessa.
48
Da questo passo apparisce che Condillac nega il vo
cabolo d'idea alla sensazione in quanto è da noi pro
vata attualmente negli organi nostri corporei: e all'in
contro egli l'accorda a quella sensazione ehe si conserva
puramente nella memoria. Ora noi abbiamo già fatto
osservare, che la sensazione, in quanto giace nella me
moria nostra , sebbene si chiami collo slesso nome di
sensazione, tuttavia è cosa interamente diversa dalla
sensazione propriamente delta , la natura della quale
consiste in quella passiva modificazione che soffre il no
stro spirito all'impressione delle cose esteriori sui sensi
nostri corporei. Dunque il nome d'idea è diverso essen
zialmente dal nome di sensazione, giacché si applica
alla ricordanza delle sensazioni , che non è punto le
sensazioni slesse, anzi quella esiste nell'assenza di queste.
Ma giova che noi vegliamo onde il Condillac sia li-
rato a siffatta distinzione.
Quanto soggiunge dimostra ch'egli non dà il titolo
d'idea alla sensazione propriamente detta , ma alle ri
cordanze della medesima; perchè la sensazione non rap
presenta nessuna cosa fuori di sè, mentre la ricordanza
rappresenta , o più tosto richiama qualche altra cosa
diversa da sè , cioè la sensazione di cui essa è ricor
danza. Ciò adunque che fa sì che una percezione del
nostro spirilo sia un'idea, si è, secondo il filosofo no
stro, la sua qualità di rappresentare qualche altra cosa
diversa da sè. Egli è per questo che attribuisce al senso
del tatto la potenza di cangiare le sensazioni in idee ,
perdi' egli suppone che il solo tatto, fra tutti i sensi,
sia quello che abbia la virtù di rendere rappresentative
le nostre sensazioni. Ma udiamo lui medesimo.
« Le sensazioni attuali dell'udito, del gusto, della
« vista e dell'odorato, non sono che de' sentimenti fino
« a che questi sensi non furono per ancora istruiti dal
« tatto; poiché l'anima fin qui non può prenderli che
u. per delle modificazioni di se medesima (i). Ma se
u questi sentimenti non esistono che nella memoria che

(i) Questa è una proposizione al tutto gratuita : il Condillac non ne reca


la menoma prova. Cilecche sia della cosa, la quale qui non importa di
scutere, è però da osservarsi, che sono queste proposizioni; che si ammet
tono senza alcuna prova, quelle che sogliono introdurre furtivamente gli
errori ne' sistemi.
li richiama, essi diventano idee. Non si dice più al
lora: Io ho il sentimento di ciò che sono stato; ina:
Io ho la ricordanza, o l'idea.
a La sensazione attuale, com'anche passata, della so
lidità è la sola che sia per se stessa ad un tempo
sentimento ed idea. Ella è sentimento per Io rispetto
die ha col Pan ima che modifica, ed è idea per lo ri-
« spetto che ha con qualche cosa di esterno.
« Questa sensazione ci sforza ben tosto a giudicare
<« lucri di noi tutte le modificazioni che l'anima riceve
» dal tatto: ed è per ciò, che ogni modificazione del
« tatto si trova essere rappresentativa degli oggetti che
« la mano tocca.
« Il tatto, accostumato a riportare le sue sensazioni
« al di fuori, fa contrarre la stessa abitudine agli altri
» sensi. Tutte le nostre sensazioni ci sembrano le qua-
« lita degli oggetti che ci circondano : dunque esse le
« rappresentano, esse sono idee ».
Ora io prego il lettor di osservare sopra questo passo,
che V abate di Condillac dà in esso la potenza di mu
tare le sensazioni in idee, cioè di rendere le sensazioni,
rappresentative di qualche altra cosa fuori di sè , a
quello stesso senso a cui prima egli avea attribuito la
potenza di giudicare gli oggetti esterni.
Tutta la sua teoria delle sensazioni è rivolta, si può
dire, a dimostrare pur questo, « che il solo tatto è
quello che giudica degli oggetti esterni per se slesso, e
quello che insegna agli altri sensi a giudicare de' me
desimi ». Ora medesimamente, il tatto è quello le cui
sensazioni sono ad un tempo idee , e che trasforma le
sensazioni degli altri sensi in idee.
Egli pare adunque, che le sensazioni, secondo il Con-
dillac, si trasformino in idee mediante un giudizio.
Ma non pare; egli è certo, questa esser sentenza del
Condillac, il quale insegna nello stesso passo sopracci
tato, che il tatto non ha la potenza di trasformare le
sensazioni in idee se non perchè ha quella di giudicare
degli oggetti esterni. Egli è dunque mediante un giu
dizio, ciie il tatto trasforma le sensazioni in idee: me
diante cioè quel giudizio, oud'egli giudica che esse hanno
iegìi oggetti fuori di noi.
Vero è che io ho dimostrato prima d' ora , essere
cosa assurda l'attribuire al latto la facoltà di giudicare,
Kosxiai, Orig' delle Idee, Voi L 7
5o.
almeno altrettanlo assurda quanto il dare all'occhio,
oltre la facoltà di vedere i colori, quella ancora di udire
i suoni: vero è altresì, che basta un po' d'attenzione a
riconoscere siccome Patto del giudicare è tutto interno
e dello spirito solo (i) , senza bisogno d'alcuna esterna
attuale impressione sugli organi: mentre l'azione del
tatto nasce mediante la modificazione attuale degli or
gani esterni e corporei. Ma io non voglio per ora far
conto di questa distinzione: e voglio ragionare sui soli
principj del Condillac, e ragiono in questo modo.
Voi dite, che l'atto del giudicare consiste nel para
gonare insieme due idee, e nel trovarne le differenze.
In altro luogo, voi venite spiegando che cosa inten
diate sotto il vocabolo idea.
In questa spiegazione delle idee , insegnate che le idee
sono tali, che l'uomo non può averle senza un giudizio:
di che traete che è il solo senso del tatto che vale a
trasformare le sensazioni in idee, perchè è sol esso che
ha l'abilità di giudicare per sè delle sensazioni.
Ora si sta qui appunto la diflicollà ; si chiede come
ai possano accordare assieme queste due proposizioni:
i.* il giudizio si fa col paragone delle idee; a.* le idee
si fanno mediante un giudizio. Qual è dunque primo a
formarsi nello spirito nostro? il giudizio o l'idea?
Se ogni idea ha bisogno d'un giudizio ad esser for
mata, egli sembra che il giudizio preceda la formazione
delle idee: ma se il giudizio non nasce che dal para
gone delle idee, sembra che ci debbano esser le idee
anzi che noi possiamo formare i giudizj (a).

(i) I sensi non somministrano che la materia del giudizio; l'alio dui
giudizio si fa tutto dentro allo spirito, e non' si riferisce a nessun punto
del corpo nostro o dello spazio fuori di noi.
(a) Egli è un misero efTugio della difficoltà quello di Fortunato da Brescia,
che alla definizione che dava 1' Heineccio dell'idea, cioè, objecti alicuju»
genuina imago quam mens immediate contemplatur eie. , pensò di appiccarvi,
quia tamen de re ipsd quidquam a nobis ajjirmelur veì negetur. Tut
tavia questo stesso appicco mostra che egli travide la difficolta, perchè
senti il Insogno di un'aggiunta così stentata ed assurda. Se mediante Videa
è, che io mi accorgo che gli oggetti sono fuori di me, posso io accorgermi
di ciò senza che io l'abbia detto internamente a me stesso? e il dire a
me stesso internamente che gli oggetti mi sono al di' fuori , non è egli un
affermare qualche cosa, un giudicare che esistono fuor di me? Io stimo
bene di recare in mezzo questi inloppi scontratti in sulla via da quasi tulli
gli autori che han preso a spiegare l origine delle idee, e i varj ripieghi
che hanno immaginalo per superarli, poiché per essi si vede che 1' esistenza
5i
ARTICOLO X.
OSSI PEBCEZIONE RAPPRESENTATIVA È GENERALE: INDI LA DIFFICOLTÀ' VIE Fili*
SI MOSTRA m CONDILLAC, I VI EESTA INSOLUTA.

Ella è questa precisamente la difficoltà ch'io ho sposi*


di sopra, e che si tratta di sciorre: ella apparisce qui
in tutta la sua generalità.
^ou si presenta più per una classe particolare d'idee,
cioè per le idee comuni o generali, ma per tutte le idee
senza distinzione alcuna: non dice: « A fare un giudi
zio si richiede qualche astratto, e a fare un astratto si
richiede un giudizio ; quale dunque de' due sarà prima,
l'astratto o il giudizio » ? ma ella dice: « A fare un giu
dizio si richiedono delle idee che vogliono essere con
frontate insieme: ma a fare le idee si richiede un giu
dizio: quale sarà dunque anteriore nello spirito umano,
il giudizio o l'idea » ?
Tale quesito, mutato in forma di un problema filo
sofico, si può esprimer così: « Assegnare alle idee ed
ai giudizj tali origini, le quali possano stare insieme,
sicché le une non presuppongano scambievolmente l'esi
stenza delle altre, e quindi non avvenga l'assurdo, che
l'effetto si faccia causa della sua causa ». Di vero così
avrerreSbe se tutte le idee fossero effetto de'giudizj, e
tutti i giudizj fossero effetto delle idee.
Prima di passare a vedere se a qualche altro filosofo
riuseì di cavarsi di questo imbarazzo, di sciorre questo
problema, gioverà che io mi fermi ancora un poco sulla
teoria condillachiana , e sul concetto che la medesima
ci dà dell'idea.
Il concetto che il Condillac ci dà dell'idea, si è quello
d'una percezione rappresentativa di qualche altra cosa
diversa da sè: ed egli sembra evidente, che si richieda
un giudizio a riconoscere che una percezione ha una

di ona difficoltà in tale spiegazione è contestata da una autorità universale :


potili stessi che hanno voluto dissimularla il più che poterono, non man
carono poi di palesarla coli' imbarazzo in cui si mostrarono , coli' incertezza
e eoli'incoerenza di ìor parlare, e colla povertà delle invenzioni e de' parliti
Hodiali onde nasconderla a se stessi ed a' loro lettori.
Mi riserbo altrove (Sex. V.) a mostrare lo sforzo d'ingegno che fece
il Wultio per torsi d' innanzi la difficoltà di che noi parliamo , e quanto
volt sia iu ciò riuscito.
relazione con qualche altra cosa diversa da sè, tale che
sia atta a rappresentarla (i).
Una modificazione semplice dell'anima , come un do
lore, un piacere, cerio è sentita senza bisogno d'alcun
giudizio: ma per riconoscere che una modificazione rap
presenti qualch'altra cosa, l'anima dee fare un giudizio
sulla medesima. Egli è per ciò, che il Condillac attri
buisce al tatto la formazione delle idee: perchè dà a
questo senso, come dicevamo, la facoltà di giudicare
che le sensazioni, o sue proprie ovvero degli altri sensi,
sono rappresentative di oggetti esteriori.
La differenza fra me e lui non voglio che consista ,
per ora, se non in questo, che io affermo , contro di
lui, il latto ed il giudizio esser due potenze diverse,
la prima delle quali sta nell'impressione degli oggetti
esterni sentita dall'anima, mentre la seconda è tutta
propria dello spirito indipendente dall'attuale modifica
zione degli organi corporei. Al tatto io non do il giu
dicare; do bensì la proprietà di somministrare allo spi
rito l'occasione, e la materia del giudicare.
Ma questa differenza fra me e il Condillac, non in
fluisce punto nell'obbjezione che io qui gli fo; percioc
ché sia che il giudicare s'identifichi col tatto, siccome
fa egli, sia che si dichiari una potenza separata dal
tatto, siccome fo io, rimaniamo ad ogni modo in que
sto accordo, che a formare le idee si richiede un giudizio.
Or qui si parrà via più manifesto quel vero che ho
toccato nella esposizione della nostra difficoltà (2), cioè
che non v'ha alcuna idea, quantunque particolare, che
non contenga in sè un elemento generale o comune ;
giacché noi possiamo sempre nelle idee delle cose anche
particolari separare il comune dal proprio, e perciò pos-
siam trovare in esse il comune, il che non potremmo

(1) S. Agostino notò assai bene, come abbiamo veduto, la distinzione


fra In facoltà di sentire e quella di giudicare. Egli ci fa osservare ancora
in più luoghi delle sue opere, che se noi fossimo forniti di soli sensi e
privi della facoltà di giudicare, non potremmo aver l'uso de' segni, per
ciocché ci mancherebbe il modo di distinguere il segno dalla cosa segnata :
questa osservazione è di molta rilevanza, e se fosse stata messa a profitto
da' filosofi, poteva condurli molto innanzi nella cognizione del modo, onde
opera lo spirilo nostro. V.fra gli altri luoghi il libro delle 85 questioni, q. g-
(i) Scz. IL
53
lire se in esse non fosse. Veggiamo questo vero nella
siesta dottrina condillachiana.
L'avere una idea condillachiana, o sia una concezione
rappresentativa (i), viene al medesimo che l'avere un
modello in noi, al quale riportare gli oggetti ch'egli ci
rappresenta e ci esprime (2).
Un ritratto è rappresentativo di colui che il pittore
ha dipinto. Ma con questa immagine, con questo ritratto,
la persona dipinta, come più sopra dicevamo, non ha
clie una relazione di simigliarla, e non punto la natura
0 la sostanza comune. Quindi a quello stesso ritratto
si possono rassomigliare altre persone diverse da quella
che il pittore ritrasse, giacche quella che ritrasse non
ha una così esclusiva relazione coli' effigie dipinta , che
possa assorbirne per così dire tutta a sè sola la simi
glianza, ed impedire che v'abbiano forse moll'altre per
sone, le quali più o meno a quello stesso ritratto ras
somiglino. Laonde una percezione, all'istante che è di
renata rappresentativa di qualche cosa diversa da sè,
è medesimamente divenuta generale nel senso ch'ella,
olire al rappresentare quella cosa di cui fu tratta, come
il ritrailo di peculiar persona, può egualmente rappre
sentare ed esprimere tutte le cose simili a lei; giacché
l'essere rappresentativo d'una cosa , non è che una re
lazione di simiglianza colla cosa ; ed una relazione di
simiglianza non esclude altre tali relazioni colle infinite
cose che sono o possono esser simili a quella. La rela
zione di simiglianza fra due cose non le compenetra in
sieme, non fa che abbiano un'egual natura, non le ma
nia per così dire con vincolo indissolubile; ma le lascia
libere , le lascia somigliare a tulte cose, a cui somigliano:
Tana simiglianza non impedisce nè turba l'altra simi
gliano. Egli è per questo, che dall'istante che il Con-
diìlìe afferma che tutte le idee sono percezioni, o più

(1) Già ho toccato più sopra in che senso limitato si debbano prendere
le voci di modelli* tipi, immagini, applicate alle idee.
•al Io dico, concezione; Condillac direbbe sensazione; ma coqvien os
servare, che questo autore, come vivemmo, estende il vocabolo di sensa
zione, con da n doso equivoco, a significare «la ricordanza della sensazio
ne», tratto in errore dall'inesattezza del parlar volgare. Orla sensazione
propriamente delta, cioè attuale, niente rappresenta, come toccammo;
>i bène la ricordatila di lei uella mente, alla «male conviene anco il nome
di concezione.
54 . .
tosto concezioni rappresentative, dee affermare altresì,
che in tutte v'ha un elemento generale: perchè è solo
l'elemento generale che le può rendere rappresentative
ovvero simili a più cose, giacché più cose simigliatiti
non sono tali , se non perchè hanno qualche cosa di
comune: ed è questa essenza comune presa a parte che
si può considerare come il tipo di tutte, tutte a lei ri
ferendole. «Il tipo adunque è sempre generale; ed ove
vogliasi parlicolarizzare , riferendolo ad una cosa sola,
per esempio a quella da cui fu cavalo, ella non è che
una particolarizzazione arbitraria e positiva , non già
una particolarizzazione naturale e necessaria.
Se il Condillac avesse fatto questa osservazione, egli
non avrebbe parlato, in un luogo, delle idee, e in un
altro molto discosto, delle idee generali: non avrebbe
parlato di quelle, senza mostrarne la generalità che tutte
contengono; e altrove poi avrebbe potuto parlare delle
diverse specie di generalità.
Ma perchè non resti dubbio sul vero che ora abbiamo
noi dimostrato, cioè che ogni percezione, dal momento
che è fatta rappresentativa, è altresì generale, udiamo
di nuovo il Condillac medesimo, là dove spiega il modo
onde un1 idea particolare passa a diventar generale. « Noi
« non abbiamo alcuna idea generale che non sia stata
« particolare. Un primo oggetto che noi abbiamo avuto
« occasione di osservare , è un modello a cui noi ri-
« portiamo tutto ciò che gli si rassomiglia ; e questa
« idea che non è stata a principio che singolare, di-
« venta tanto più generale , quanto il nostro discerni-
« mento è meno formato » (i).

(i) Ciò che accenna qui Condillac è un fatto somministratoci dall' e-


sperienza: « quando l' intendimento è meno educato, allora appunto l'uomo
« generalizza maggiormente le sue idee». Ora non conveniva solamente
accennar questo fatto importaute; bisognava ancora spiegarlo. Come mai,
se la generalità delle idee è una operazione dello spirilo nostro, saranno
più idonei a far questa operazione quelli che sono 1 meno formati , i più
rozzi? Se si va in questa operazione della generalizzazione delle idee dal
particolare al generale, in che modo corrono più rapidamente per questa
scala quelli che sono meno esercitali? è egli più facile generalizzar molto,
che poco? perchè nel primo sviluppo dell'uomo in questa sola cosa si tra-
sall.-ino i gradini intermedii? E impossibile, pare a me, render conto di
ciò nel sistema lockiano, e condillachiano: facilissima tornerà la ragione
di questo fallo , dopo che avremo provato come 1' idea più universale di
tulle (quella dell'essere) sia data a ogni uomo the nasce, da natura.
55
Dunque esser generale un' idea viene a dire, esser
modello di più oggetti, e dire esser modello di più
oggetti vale, aver la proprietà di rappresentarli: ina
ogni idea è una percezione che ha la facoltà rappre
sentativa, è un modello: dunque ogui idea ha in sè un
elemento generale. Ora ciò che ha impedito al Condil-
lac di conoscere questa verità, si fu, per mio avviso,
V avere egli confuso l'attitudine che ha un'idea di rap
presentare infiniti oggetti, coli' uso che noi facciamo di
una tale attitudine, cioè coll'atto onde noi esplicita
mente riconosciamo nella idea tale attitudine.
Se noi abbiamo in casa il ritratto dell'avo nostro,
tutti quei della casa non pensano probabilmente che
alla particolare relazione ch'egli ha colla venerata per
sona ond' egli fu tolto, e cui ci mantiene ancor viva
agli occhi nostri e presente in mezzo di noi; e questa
relazione particolare dà a quel ritratto una determina
zione , certa e lo fissa a significare quell' antico della
famiglia.
"Ma resta a vedere se questa determinazione risulti
dalla natura propria del quadro, e da una esclusiva
relazione ch'egli ha colla persona dipinta; o pure se
dipenda dall' accidentale disposizione di coloro che ri
guardano questo quadro non già nelle sole sue rela
zioni naturali, ma in una relazione, per così dire, con
venuta, per la quale si sa e si rammenta ch'egli fu di
pinto a dimostrare le sembianze desiderate di quel solo,
e di nessun altro. Ora egli è evidente, che la cosa sta
in questo secondo modo, e non nel primo: e di più,
che sebbene delie cagioni accidentali conducano l'at
tenzione di quelli della famiglia a pensar sempre alla
relazione di simiglianza particolare che quel quadro ha
col vecchio di casa , tuttavia questo non fa mutar punto
natura all'immagine, nè toglie ch'ella rassomigli real
mente e rappresenti tutti quelli ai quali rassomiglia e
i quali realmente rappresenta, siccome pure quegl' infi
niti che si possono immaginare forniti delle stesse fat
tezze. Or parimente , dall' istante che una nostra per
cezione è rappresentativa, essa ha un rapporto neces-
sario e generale con tutto ciò che può rappresentare ;
e questo è indipendente dall' uso che noi facciamo di
ìei e dall''attenzione che noi poniamo ne' diversi og
getti ch'ella veramente in sè esprime e rappresenta.
56
Potrà essere che noi la consideriamo come rappresen
tativa di un soggetto solo, o pure di due o di tre; ma
ciò non fa eh1 ella per questo non sia atta di sua na
tura a rappresentarne infiniti altri, sebbene ad essi noi
punto non badiamo; e giacché questi oggetti ch'ella
rappresenta possono essere immaginati innumerevoli ,
egli è anche impossibile che noi tutti li percorriamo,
e a tutti lei applichiamo. Adunque quando avviene che
noi abbiamo una percezione rappresentativa, allora re
sta a noi 1' ufficio d' applicarla agli oggetti ; e questa
diventa quasi un' arte che noi impariamo a grado a
grado, quasi uno studio che noi facciamo siili' uso di
quella percezione nostra : ma 1' essere noi o bene in
nanzi o pure indietro in sì fatto studio ed arie , non
toglie punto uè muta la natura della percezione; ma
ella rimane sempre qual è, atta a rappresentare infiniti
oggetti , ancoraché noi a ciò non poniamo attenzione.
Pure facciam di credere, che quella percezione rappre
senti un oggetto solo; siccome que' di casa non sogliono
pensare, veggendo il ritratto dell'avo, che all'avo solo.
Non cessa egli per questo quel ritratto di rassomigliare
a quelli a cui rassomiglia. Al modo stesso, la nostra
percezione rappresentativa rappresenta veramente tutto
ciò che rappresenta , e noi la percepiamo tale quale è,
perciò fornita altresì di quella sua proprietà rappresen
tativa.
Quando dunque il Condillac vuole che sia necessario
alla sua statua ( dopo aver questa già ottenuta l' idea
dell'arancio) di vedere non un arancio solo, o più
aranci simili successivamente , ma due o più aranci
contemporaneamente, perch'ella possa, riportando que
sti all'idea che n' ha in sé, riconoscere questa idea sic
come modello o tipo di tutti gli altri aranci (i) ; egli
con ciò non viene a dimostrar già il modo, com' egli
s'avvisa, onde l'idea passa ad esser modello, ossia ad
essere generale; ma dimostra solo il modo onde noi co
minciamo ad usarla siccome modello di più aranci. Ella
è già un modello per sé : il cominciare noi ad usare que
sto modello , suppone che già sia tale in sé stesso. Se
noi riportiamo i diversi aranci che contemporaneamente

(i) Traitè des sensations , P. IV, C. 6.


57
vaiamo, all' idea dell'arancio che è in noi, non alte-
riimo con questo la natura di quell'idea; noi non fac
cialo che applicarla siccome un tipo generale- e se noi
possiamo applicarla siccome un tipo generale , dunque
ella è tale da sè , e così sta nella nostra mente fino al
principio che ci s'è messa: nè si potrebbe prestare a
tal uso, s'ella tale non fosse. Che se altri considera il
ritratto di che abbiano, parlato, nella relazione sua ge
nerale con tutte le persone che a lui somigliano, e che
somigliar gli possono*, crea forse questi una relazione
nuova fra il ritratto e quelle persone, o anzi ve la scuo-
pre come già prima in esso esistente? Medesimamente
quando noi portiamo più aranci al tipo che abbiamo
in noi dell'arancio, noi non mutiamo la natura di que
sto tipo : egli era atto a rappresentare tutti gli aranci
anche se noi non avessimo rivolta esclusivamente la
nostra attenzione sopra di questa sua attitudine e pro
prietà, se avessimo invece creduto ch'egli non ne rappre
sentasse che un solo. Il Condillac dunque crede di spie
garci il modo , onde le nostre idee diventano modelli
di molti oggetti , là dove non fa che indicarci la via ,
per la quale noi veniamo successivamente usando di
guesti modelli , e riconoscendo in essi quella qualità
pà preesistente per cui quelle son tali; la quale consi
ate nell'essere rappresentative d'innumerevoli oggetti, o
sia, che è il medesimo, d'avere in sè delle qualità che
sono o possono esser comuni ad oggetti innumerevoli.
Sicché supponendo che noi abbiamo già sì fatte perce-
lioni ottenute, supponiamo con ciò stesso che noi ab
biamo ottenute le idee generali e comuni: quindi queste
u sono introdotte nella nostra mente in un modo furtivo
ed occulto: elle sfuggirono alla vigilanza del filosofo
nostro, il quale non osservò com' esse entrino nella sua
statua, ma in quella ve le trovò, e trovatevele, non
ebbe più nulla di difficile nelle sue investigazioni, pe
rocché quanto era difficile gli scappò dalla vista , lo
suppose gratuitamente spiegato, senza avvedersene.
E adunque diverso avere un'idea, e conoscer l'uso
che di essa può farsi. La nostra mente , che procede
sempre per gradi, non perviene a conoscere tutti gli
usi delle sue idee se non mediante molte riflessioni ed
un'analisi fina delle medesime : con essa ella viene a
scoprire sempre de' nuovi rispetti che hanno le sue idee
floswisi, Orig. delie Idee, Voi I. 8
58
fra sè e colle cose esterne, e in conseguenza di questi
rispetti, trova de' nuovi usi di quelle. E non è già per
questo, ch'ella non posseda a pieno l'idea su cui fa
tutte queste diverse operazioni; mentre, se già non la
possedesse, non potrebbe farle sopra di lei, né potrebbe
scoprire le relazioni e gli usi suoi di che parliamo*, ma
eli' è questa condizione della mente umana, che con
altro atto essa riceva in sè l'idea delle cose, e con al
tro conosca gli usi della medesima. Ora l' uso che la
nostra mente fa dell'idee sue è principalmente quello
che a lei servano, come dice il Condillac, di modello
alle cose: così l'idea dell'arancio le serve di modello
col quale giudicare tutti gli aranci. Quando adunque
la nostra mente ha più aranci presenti, e vien tratta
a giudicarli tutti colla medesima idea, usandola con, e
loro comune tipo e modello, ella non acquista con ciò
un'idea di nuova specie, siccome sembra pretendere il
Condillac, cioè un'idea generale- ma si dee dire che
l'idea sua era generale di sua nalura, o sia era alta a
servir di modello o tipo comune a tutti gli aranci) e
solo allora che la mente ne vide più insieme, si mosse
a far uso di questo tipo per portare di quelli giudizio.

ARTICOLO XI.
CONTINUAZIONI.

La qual dottrina è sì vera, che il Condillac slesso,


a suo malgrado, mostra talora d'intravvederla: siccome
là dov'egli parla de' giudizj.
Ivi egli non ci dà altro concetto del giudizio, se non
quello di un'operazione, onde l'uomo riporta l'oggetto
o la sensazione attuale, cui giudica, al modello o tipo
della stessa che ha precedentemente nella memoria.
Egli distingue due attenzioni, come abbiam veduto:
l'una propria della memoria, l'altra propria de' sensi :
la prima è attiva, l'altra passiva. È mediante queste due
attenzioni che spiega il giudizio , cioè mediante quel
l'attenzione onde abbiamo la reminiscenza delle cose
altra volta vedute, le quali si conservano nella memo
ria, e quell'attenzione onde percepiamo attualmente un
oggetto individuale co' nostri sensi. Paragonare l'oggetto
che attualmante percepiamo, coli' oggetto che abbiamo
percepito altre volte, l'immagine del quale si conserva
nella memoria, è ciò che ci somministra un giudizio.
Oi-a questo non è altro che riportare l'oggetto attual
mente percepito , al tipo o modello che abbiamo nella
memoria precedentemente ricevuto. S'oda su di ciò l'au
tore stessoi « Se dopo aver sentito più volte una rosa
«ed un garofano, ella (la statua) fiuta di nuovo una
« rosa, l'attenzione passiva che si fa dall'odorato, sarà
» tutta occupata nell'odore presente della rosa; e l'at-
« teozione attiva che si mette dalla memoria, sarà di-
« visa tra la ricordanza che resta degli odori della rosa
« e del garofano. Ora le maniere di essere non possono
■ dividersi, tirandola a sè, la capacità di sentire senza
« che si paragonino fra loro (1): poiché paragonare non
« è altro che dare nel tempo slesso la sua attenzione
« a due idee. E dove vi ha comparazione ivi v'ha giti-
« dizio. — Un giudizio non è dunque che la percezione
« di un rapporto fra due idee che si paragonano » (a).
Quando si paragona una cosa coli' altra per portare di
«sa giudizio , allora quella delle due cose, a cui si ri
porta l'altra da giudicare, riguardasi come modello, e
col ^indizio non si cerca che di conoscere se la cosa da
^indicarsi abbia simiglianza con quel modello o no. Di
vero questa è la natura di tutti i giudizj. Secondo il
Condilhc, il modello è l'idea che si ha nella memoria,

(lì To ho già dimostrato che altro è sentir due cose nello stesso tempo ,
ni altro paragonarle fra loro. Ciascuna di queste rapisce a sè parte del
l' attrazione ; e perciò appunto cerca di sottrarla ali altra, perchè noi ci
occupiamo esclusivamente di lei. Lo spirito all' incontro, coli' atto del giu
dicare fa per così dire lo sforzo contrario, cioè egli dà la sua attenzione
a tutti e due gli oggetti contemporaneamente senza consentire di renderla
esclusiva ad un solo , nel qua! caso sarebbe impossibile il giudizio. Di che
apparisce come sia al tutto assurdo di attribuire il giudicare alle sensazioni,
essendo un atto contrario a quella qualunque azione eh' elle possano con
tenere od esercitare sull' anima nostra. La sensazione cerca di rapire ogni
attrazione tutta a sè; la facoltà di giudicare cerca di distribuirla quasi di
rei con equità sopra le diverse cose che dee confrontare per cavarne un
giudizio. D'altro lato, 1' espressione, che le sensazioni giudicano, ha qual
che cosa di cosi inesatto , che sembrerebbe impossibile che fosse caduta
giù dalla penna di un filosofo: poiché se la sensazione giudica, ossia, se
U senso giudica, o pure , se il giudizio è una sensazione; ne avviene che
Dna sensazione senta un' altra sensazione, giacché non si dà giudizio senza
eon/ronto; o che il senso di una sensazione sia quello stesso che ne sente
cootemporaneamevte un* altra; o che il rapporto sentito fra due idee, che
è il termine del giudizio, sia lo stesso giudizio. Le quali cose tutte sono
ernieotemente assurde,
(t) Trattalo delle senaationx , P. I, c. a , \. i4 e i5.
60
e la coea da giudicarsi è ciò che si peroepisce attual
mente dal senso.
Ma se l'idea che ho nella memoria , e colla quale
raffronto le cose che mi cadono sotto i sensi per giu
dicarle, fa in questi giudizj l'ufficio di modello, essa è
dunque generale nel senso stesso che il Coudillac attri
buisce a questa parola generalità , giacche , come ab
biamo veduto, la generalità dell'idea consiste nel servir
di modello ad un gran numero di oggetti. Noi dunque
dimandiamo al Gondillac com'egli, nell'opera sua, parli
de' giudizj assai prima che della generalità delle idee;
giacché egli parla delle idee generali nella Parte quarta
del Trattato delle sensazioni, mentre tratta de' giudizj
nella seconda (1). Se a formare il giudizio si richiedono
delle idee generali, come la teoria stessa del Condillac
conduce ad affermare, egli è impossibile di spiegar la .
natura de' giudizj senza prima avere spiegata quella
delle idee generali. Ma egli non parlò delle idee gene
rali dopo i giudizj, se non perchè s'accorse che tal ma
niera d'idee non si potevano formare nel suo sistema
se non mediante i giudizj.
« L'idea particolare, die' egli, d'un cavallo e quella
« d'un uccello diverranno egualmente generali quando
« le circostanze faranno paragonare insieme più cavalli
« e più uccelli; e così si dica di tutti gli oggetti sen- ,
« sibili r> (2).
Ora ritengasi, che nel sistema di Condillac non v'ha
paragone senza giudizio. Se dunque a trasformare una
idea da particolare in generale fa bisogno la compara
zione d'idee, certo ci fa bisogno il giudizio. Ma ogni
giudizio, viceversa, ha bisogno di un'idea generale per
formarsi. La formazione dunque de' giudizj presuppone
la formazione dell'idee generali, 0 semplicemente delle
idee, perchè tutte le idee hanno in sè del generale: e
viceversa, la formazione delle idee generali presuppone
de' giudizj, secondo l'autore che esaminiamo. La teoria
condillachiana dunque non risponde a questa difficoltà,

(1) Tocca bensì le idee generali anche nella Parte prima , coli' occasione
che insegna come la statua, fornita del solo senso dell'odorato, comincia
a formare delle astrazioni; ma ciò lo fa nel c. IV, mentre de'giudizj ave»
già parlato al c. II.
(a) Traile des sensations, P. IV, c. 6.
6i
eia trapassa senza vederla: il suo autore discorre delle
idee, de giudiz) e delle idee generali, in tre luoghi di
versi, quasi fossero argomenti fra loro indipendenti , e
non avessero fra loro quella così stretta relazione , che
rende impossìbile parlar dell'uno, senza bene conoscer
l'altro: ed in fine, dopo avere spiegato a suo agio le
idee generali, si felicita d'esserci riuscito senza difficoltà
alcuna, dicendo:* « si vede da ciò quanto sia facile il
■ tarsi delle idee generali » (i).

ARTICOLO XII.
CMCICSIONI «CTI DUETTO INTRINSECO DEL SISTEMA CONDILLACBIANO.

Fino a qui noi non abbiam voluto che rivolgere il


nostro ragionamento al Condillac, e recar in mezzo quel
genere di argomenti che si sogliono chiamare ad hominem.
Per altro, quest'ultima osservazione che ho fatto contro
il Condillac, non vuol giustizia ch'io la presenti in un
aspetto più grave ch'ella non merita. Ed io stesso ho
già detto cosa, che diminuisce l'errore del Condillac:
ecco in che modo.
Condillac, dove spiega la formazione delle idee gene
rali, mette due specie d'idee, le une particolari, le altre
generali: quelle prime passano a diventar generali me
diante l'usarle che lo spirito nostro fa all'ufficio di mo
dello, quando paragona ad esse degli oggetti che a lui
si vengono presentando , e mediante questo paragone
li giudica.
Ora io ho osservato, ch'egli non è questo il punto in
cui le idee diventano generali , ma che hanno in sè un
dementa generale fin dal momento che cominciano ad
essere idee; e ciò secondo le definizioni dello stesso Con
dillac; perocché egli chiama idea una sensazione rap
presentativa di qualche cosa , come son quelle che si
conservano nella memoria; e chiama generali le idee che
servono di modello a cui raffrontare le altre idee. Ora
Tessere un' idea rappresentativa, è il medesimo che l'es
ser modello : il perchè, secondo il Condillac stesso, nel
l'essere idea, c'è compreso ch'ella abbia in sè qualche
nozione generale. Egli è per questa osservazione , che

(i) Traili (ics scnsations, P. IV, c. 6, g G.


62
l'errore del Condillac sulla formazione delle idee gene
rali consiste, piuttosto che in altro, nella mala app/i-
cazione di queste parole: « formazione d'idee generali »>
in luogo delle quali avrebbe dovuto dire : « riconosci-
« mento ed uso che fa l'anima nostra della generalità
« inerente a tutte le idee ».
Se dunque il seguace di Condillac riconosce questa
inesattezza di parlare, egli mi toglie il diritto di fargli
quell'argomentazione che gli faceva, cioè la seguente:
« Voi avete bisogno di un giudizio a formare le idee
generali; avete bisogno deile idee generali a formare un
giudizio; questo è un circolo vizioso, ove, per la natura
del vostro sistema, vi raggirate senza trovare giammai
un capo da uscire ». Perciocché egli mi risponderà:
« Riconosco che è inesatto il dire che noi ci formiamo
delle idee generali solo allora che noi le riconosciamo
e le usiamo come modelli: esse erano generali già prima,
e tosto che furono idee; ed i giudizj che noi facciamo
con esse, non ce le rendono punto generali, ce le fanno
solo riconoscer per tali. Esse sono dunque generali in
dipendentemente da questi giudizj, e perciò non è ne
cessario che prima d'esse noi facciamo i giudizj di cui
si parla ».
Ma se i seguaci di Condillac col rettificare il modo del
parlare possono evitare la forza dell'ultimo nostro ar
gomento, che è tutto relativo all'uomo con cui dispu
tavamo, e si fonda sulla maniera inesatta del suo par
lare; rimane tuttavia intera e salda la difficoltà in quel
modo che noi l'abbiamo più sopra proposta, cavandola
da' visceri del sistema condillachiano; perciocché né si
può formare un'idea senza che si mescoli in tale ope
razione un giudizio (i), né si può formare un giudizio
senza che si abbiano già formate delle idee: il che viene

(i) Chi vuol convincersi via più di ciò, ponga attenzione a tutto intero
il passo di Condillac, del quale più sopra abbiamo recate alcune linee.
•< Se io mi richiamo, egli dice, un dolore che ho avuto, la ricordanza e
•< l'idea sono allora una cosa medesima; e s' io dico che mi faccio l'idea
« di un dolore di che mi si parla, che io non ho mai sentito, nasce ciò
« da questo , che IO GIUDICO sopra un dolore che soffersi o sopra un
« dolore che soffro attualmente. Nel primo caso, V idea eia ricordanza non
m differiscono punto. Nel secondo, l' idea è il sentimento di un dolore »l-
« tuale, MODIFICATA. PE' GIUDICI che io porto al fine di rappresen-
- tarmi il dolore di un altro ». Exlrait raisonni da Traile de» sensations.


63
a lasciare la questione in una perfetta ambiguità, anzi
dichiara o falso il sistema di Condii lac, o inesplicabile
si la formazione de1 giudizj che delle idee.

CAPITOLO III.
REI D.

ARTICOLO I.
ORIGINE DELLA SCUOLA SCOZZESE.

Ho creduto di dovermi trattener un po' a lungo sul


sistema di Condillac, come quello che conserva ancora
in Italia del favore: sebbene non si possa dir certamente
il più conforme alla maniera di pensare di questa na
zione, che si è conservala, a preferenza dell'altre, esente
da uno spirito sistematico ed esageralo (i).
La filosofia condillachiana non è, a volerla definire,
che il lockismo naturalizzato in Francia. Quelle leggiere
mocYtficazioni che il lockismo può aver sofferto in Fran
cia dopo Condillac, quella giunta di materie eterogenee
che confonde e travisa le ricerche sulle operazioni del
l'anima, inviluppandole di medicina, di anatomia e di
chimica, non merita che noi punto ce ne occupiamo,
giacché non danno nessuna nuova spiegazione dell'ori
gine delle idee.
In Inghilterra, la filosofia lockiana venne trattata da
spiriti mollo più acuti che in Francia , quali furono
Berkeley e Hume, che la spinsero con un coraggio mi

ti) Neil' Italia bassa vi è ancora alquanto d' inclinazione al cartesianismo


e malebranchismo, specialmente nello stato romano} il che è (la attribuirsi
io credo alle opere ai Gerdil, di Falletti e di altri acuti filosofi che hanno
Modificalo e perfezionato que' sistemi. Nella patria del Viro fioriscono
de' pensatori valenti, come Miceli, Galluppi ecc. Per altro sembra che ge
neralmente regni in Italia una specie di ecletticismo. Nel Regno Lombardo
Veneto, il P. Soave, fornito delle più pure intenzioni, ha fatto un gran
danno col diffondervi per tutto il Condillachi.smo, e ridurre la filosofia ad
una tenuità compassionevole , che mentre adesca il volgo coli' apparente
facilità, ingenera la presunzione e la vana credenza d'esser filosofi a quelli
cbe noi possono escere nè saranno giammai , e fa nascere il disprezzo per
le grmdi questioni superiori alla loro mediocrità loquace e sentenziosa.
Per litro non mancarono nè pure in questa parte d' Italia de' pensatori forti
* eoa infiacchiti nella comune lassezza, i quali si sollevarono, con una
eoereia tutta lor propri» , alle questioni più alte della grande filosofìa; e
fui ralgarod il »ome <W P. Erraen. Pini , autore della Prolologin,
04. ,
rabile all'ultime sue conseguenze, cioè all'idealismo ed
allo scetticismo, smossero i fondamenti di tutte le scienze,
e proposero alla natura umana se volesse contentarsi di
dubitare della propria esistenza.
Solo quando il sistema della sensazione videsi riuscire
a sì imprevedute conseguenze, e aprir dinanzi all'uomo
l'abisso del nulla, ove prima il mondo materiale, e poi
ancora lo spirituale insieme coli' uomo stesso inghiolti-
vasi; talun si riscosse, e cominciò a dubitare non forse
quel sistema, ammesso con tanta facilità, e ricevuto con
favor popolare, contenesse qualche errore intimo ne'
suoi visceri, sfuggito all'occhio di tutti, per troppa
fretta, onde i suoi principj come provati o piuttosto
evidenti si ammisero; e allora si stimò bene di tornare
indietro, di richiamare a rigoroso esame tutte le pre
messe, sottomettendo a prova minuta e sottile quelle
che, senz'essere necessariamente evidenti, sembravano
tuttavia vere nel primo aspetto, giacché in una di esse
poteva appiattarsi più facilmente quell' error funesto,
che recava poi irrepugnabilmente a sì terribili risultati.
Era in somma la natura umana che protestava contro
alla filosofia , e che , condotta sull' orlo dell' abisso da
una guida fallace, rifuggiva inorridita non per altra ra
gione, se non perchè le era essenzialmente impossibile
d'andare più innanzi.
Quando adunque la forza della natura e i suggeri
menti del senso comune ammonirono gli uomini che
quella filosofia non poteva esser vera, perchè non po
teva essere umana (i); allora in Iscozia sorse una nuova
scuola, che, prendendo a guida il senso comune, pre-
figgevasi di non deviare da quello, e di non usare la
ragione individuale che a spiegare le dottrine da lui
ammesse.
Questi nuovi filosofi videro impossibile attaccare le
conseguenze che Berkeley e Hume traevano da' principj
lockiani: quelle eran dedotte con ragionamento serralo
e difeso: non rimaneva che di salire a' primi principj
della dottrina, e investigare in essi il capo dell'errore

(i) li bisogno di ciò dovea sentirsi in Iscozia più die altrove, percioc
ché lo Stewart ci assicura che l'idealismo di Berkeley e di Hume era en
trato generalmente ed ammesso in tutte le scuole di quel paese. Histotre
abregée des sciences métaphysique etc, III, p. 191.
65
nascosto. Avendo a far dunque con avversarj sottili, e
costretti di procedere severi nel ragionare , non è ma
raviglia se i riformatori scozzesi dimostrarono far sì poco
conto della dottrina rimasta tuttavia popolare di Con-
dillac.
Re'vd non cita forse mai quest'autore. Dugald Stewart
parla di lui generalmente con isprezzo, chiamandolo un
cementatore di Locke non arrivato ad intendere il suo
maestro (i). Fra l'altre cose, così egli descrive il suo
stile filosofico: « La chiarezza e la semplicità dello stile
b di Condillac accrescono ancora l'illusione, e condu-
* cendo con mólta facilità il lettore a traverso de' più
« oscuri labirinti della metafìsica, lo lusinga coll'aggra-
» devole sentimento della sua forza intellettuale. Ecco
« a che debbesi attribuire la grande popolarità del-
■ l'opera sua. Si fa, in leggendola, così poca fatica come
* a leggere una storia o un romanzo: e solo dopo che
» s'ha chiuso il libro, e che si cerca alla propria foggia
« di pensare di render ragione a se stessi di ciò che
« &\ia di lui tratto, provasi la mortificazione di vedersi
« svanire tutta la scienza che altri credeva avere acqui-
" stata » (a).

(i) D. Stewart mostrasi assai propenso a Locke, e ne parla coli' amore


ci»e a lui inspira la nazionalità. Tuttavia egli riconosce in più luoghi che
li sistema di Locke è insufficiente e contiene depravi errori. Egli dice « che
• repula tempo gittato ragionare con quelli che s attaccano ai passi di questo
m autore come ad una guida infallibile in metafisica »(Histoire abrégée tic.,
J*art. III). Ciò eh' è ancor più notabile, conoscendo il favore che questo
autore manifesta in tanti luoghi per Locke, ed il disprezzo per Condillac,
» é che in un luogo confessa chiaramente « che la differenza fra la teoria
— di Locke e quella che deriva tutte le nostre idee dalla sensazione sola
m (di Condillac), é meno reale che apparente » ( Elémens de la Philosophie
de f Esprit humain eie., T. I, Sect. IV). Per quest'ultima ragione mas-
kinumenle io ho creduto che intrattenendomi alquanto su Condillac, come
autore che ha più influito immediatamente sopra di noi, io poteva trapassar
Locke più speditamente per non ripetere le osservazioni medesime. Senza
di che, quanto mi poteva rimanere a dire di ciò che v'è di particolare al
proposito nostro nella teoria di Locke, io vengo già a toccarlo parlando
àelh dottrina dei dottor Reid che confuta alcune proposizioni fondamentali
di Locke siccome pure di Berkeley e di Buine.
{ì)ffistoire abrégéedes sciences mélaphysiuues , morales etpolitiques etc.,

Rotmimts orìS ddk Idee> VoL L 9


66
ARTICOLO II.
SISTEMA DI REID SULLA DISTINZIONE DELLE FACOLTÀ*.

La difficoltà da noi proposta circa l'origine delle idee,


non si è presentala nello spirito del dottor Reid fornita
di quella generalità, nella quale io ho cercato di sporta.
Egli non ha mai avuto l'occasione di considerarla sotto
un aspetto sì ampio; ed è forse per ciò che non ab
biamo sopra questo argomento quanto potevamo atten
dere dalla solidità dell'ingegno di Reid.
Tuttavia la vide egli parzialmente; e s'ingegnò di ri
solverla in quella parte che di lei vide, giacché non si i
potea rispondere a1 ragionamenti degli idealisti e degli
scettici ch'egli assumea di combattere, senza entrare,
almeno in parte, in quella difficoltà. i
E perchè veggiamo fin dove sia arrivato a vederla
lo scozzese filosofo, conosciam prima le opinioni ch'egli
prese a impugnare.
Come abbiam detto, Condillac, ingannato dal doppio *
senso che attribuiva alla parola sensazione , sostenne che
l'oggetto del senso (t) e quello della memoria sono es- 5
senzialmente una cosa medesima, cioè il primo una sen- '
sazione presente, il secondo pure una sensazione, ina
passata. In tal modo egli ha creduto poter ridurre quelle
due facoltà ad una sola, cioè alla facoltà di sentire: e
con un ragionamento simile egli vien conducendo al solo
sentire tutte le altre facoltà dello spirito umano, giac
ché tutte, secondo lui, hanno oggetti che non differi
scono essenzialmente fra loro: questi sono sempre, come
egli s'esprime, la sensazion trasformata.
Locke avea conosciuto che l'oggetto della memoria
era essenzialmente diverso da quello del senso ; avea
posto una distinzione specifica fra la potenza del sen-

(i) L'oggetto del senso non è una espressione esatta: anzi l'inesattezza
contenuta in questa maniera di parlare, fu madre di molti errori. Egli può
essere manifesto a tutti , che almeno una grande serie di sensazioni , tutte
quelle cioè che consistono nel solo piacere o dolore , non hanno oggetto
alcuno; esse sono semplici, e (se si può dir così) sono l'oggetto di se
stesse ; esse hanno bensì una cagione fuori di sé , ma non un oggetto. Tut
tavia fino che non mi è data occasione di chiarire questo argomento , io
son costretto di usare il parlar comune per farmi intendere, specialmenlo
nell'esposizione degli altrui sistemi, gli autori de' quali usano tali frasi li-
beraroeote.
lire e quella del ricordarsi. Affermava che l'oggetto im-
mfdiato della memoria non era la sensazione, p. es.
della rosa odorata ]eri, ma un'idea, un modello, un
fantasma, qualche cosa in somma di quella sensazione
rimastasi nei nostro spirito.
Berkeley e Hume, che perfezionarono in Inghilterra
il sistema di Locke, siccome fece Condillac in Francia ,
si sforzarono anch' essi di ridurre , al modo stesso del
filosofo francese , i due oggetti del senso e della memo
ria ad un solo-, e credettero riuscire a ciò supponendo
che gli oggetti della sensazione e della memoria non
differissero che nel grado della loro vivacità.
Singolare cosa è che il dottor Reid, il quale rivolse
pur l'acume del suo bell'ingegno a ribattere l'idealismo
e lo scetticismo di questi due filosofi , siasi appigliato
al partito di rigettare la distinzione che faceva Locke
fra l'oggetto del senso e dell'idea (i).

li\Tt dottor Reid non pare che conservi sempre tulla l'esattezza nel
riferire i Molimenti de' filosofi eh' egli confuta. Nelle sue Ricerche suW in*
df<ti>*ato amano ( Sez. HI, V) sembra che attribuisca egualmente a
Locke, Berkeley ed Hume, due opinioni fra loro contradditorie. La prima,
cb* I affetto immediato della memoria non sia che una idea della sen
sazione, una immagine, un modello di questa , distinta perciò essenzial
mente dalla sensazione stessa. Questa distinzione essenziale fra 1' oggetto
dei scaso e della memoria conduce a stabilire una distinzione pure essen
ziale fra quelle due potenze. La seconda , che la sensazione e 1' oggetto
delia memoria non differiscano che nel grado di forza e di vivacità onde
Io spirito li percepisce. Questa distinzione del semplice grado di forza
lo spirito percepisce , non lorrebbe che I' oggetto delle due facoltà
■e il medesimo ; di che perciò verrebbe che quelle due facoltà non
essenzialmente distinte. Può ben essere, anzi è di fatto , che questi
i non sieno coerenti a sè slessi nel modo di esprimersi, e che men
tre in un luogo non distinguono la sensazione dall' oggetto della memoria
se non dal grado di forza dello spirito percipiente , in altri mostrino di
tenere che l'oggetto della memoria non sia punto una sensazione più de
bole, ma un'idea di sensazione. Certo è, che la maniera onde si esprime
Hume, cel può far credere a buon diritto incoerente con sè stesso. Per
esempio, nel Saggio sull'origine delle idee talora dice che l' idea non è che
ma sensazione più debole j talora la descrive come una percezione del
l'anima che riflette in sulle sue sensazioni: ora la riflessione dell' anima
io sulle sue sensazioni non <t semplicemente una sensazione più debole :
in queste riflessione c'è più di attività che in qualunque semplice sensa-
«ooe. Tuttavia io ho creduto di dover attribuire a Locke il primo senti-
"xnto, e a Berkeley ed Hume il secondo , perchè sembra quello che più
domini nelle loro scritture, che è preso da essi direttamente di mirai
mentre aliando esprimono la contraria opinione, pare che loro esca quasi
non volendo di hocca , e per non avere alle mani più esatte maniere di
68
« Per me, egli dice, io domando la permissione di
« pensare coll'uom del volgo, che quando io mi sov-
« vengo dell'odore di una tuberosa, questa sensazione
« che io ho provata jeri, e che attualmente non ha più
« esistenza, è l'oggetto immediato della mia memoria;
« e che quando io l'immagino attualmente presente, è
u la sensazione ella stessa , e non già l' idea di questa
« sensazione l'oggetlo del mio immaginare » (i).
Son per dire che riuscirà difficile a capire come l'umana
mente possa pensare attualmente ad una cosa la quale
in nessuna maniera le è presente; cioè non per una
idea, giacché Reid esclude qualunque idea, tipo o segno
della medesima ; e non per la cosa stessa , giacché si
suppone che l'oggetto non sia presente. Io non credo
uè pure che l'uomo volgare pensi in ciò come il dottor
Reid; ma panni che qualunque uomo del volgo, il quale
si ricorda d'una cosa già veduta o sentita , creda d'aver
presente al suo spirito la cosa veduta o sentita, ma non
già in se stessa, bensì nella sua idea, oggetto presente
de' suoi pensieri (2).

(1) Recherches sur tentendemenl humain, Sect. III.


(a) Il dottor Reid vorrebbe eliminare le idee dalla filosofia , perchè le
trova alquanto imbarazzanti. In tal caso bisognerebbe trovare il modo di
radere il vocabolo idea da tutti i vocabolari sperderlo da tulli gì' idiomi,
proibire al senso comune di pronunciarlo , di pensarlo. In fatti questo è
un vocabolo usalo sì dal volgo die dai filosofi, tanto ne' scientifici die ne
sociali ragionamenti. Ora che si propone il Dr. Reid ? il titolo della sua
opera mi assicura che lo scopo suo non è che quello di difendere i prin
cipi del senso comune, contro la filosofia che li vuol distruggere. Sarchile
egli forse un di coloro che prendono a fare 1* apologia del senso comune
cominciando però dall' opporvisi ? Il dichiarare la propria filosofia per
quella che s'attiene al senso comune, può esser uu annunzio veritiero
quando con ciò non si esprime che una semplice intenzione, ma egli è un
assunto almeno prosuntuoso , quando con ciò s' intende di esprimere che
la propria filosofia realmente al senso comune si accorda. Qualunque di
chiarazione vi faccia il filosofo, egli non cessa per questa sua dichiarazione
d'essere quegli che è, un pover'uomo fallìbile, un semplicissimo individuo.
Egli vi dirà seriamente - La mia filosofia è quella del senso comune »• i
niente affatto ; ella non è più che la filosofia vostra. Un altro griderà.
«« Tutti gli altri seguono i loro pregiudizi ; bisogna seguire la ragione sola,
« siccome fo io. » Vane parole e temerarie; 1' uomo seguirà al più ciò
che crede ragionevole ; ma egli non può porsi nel posto della ragione ;
non è egli la ragione in persona. Se anco tutto il genere umano ( lolla dal
medesimo la verità rivelata ) vi dicesse ad una voce sola: « Questa è la
« verità >»; voi sareste in diritto di non credere punto a sì enfatica dichia
razione, e potreste rispondere francamente; •» Umanità corrotta! tu men
tisci fino dalla prima parola. Qual baldanza ti porta a dichiarare venia
ciò che tu pensi? Dì: questa è la mia opinione; non dire: questa <i 1»
69
Tuttavia il dottor Reid non riduce le facoltà dell'uo
mo ad una sola , sebbene riduca ad un solo gli oggetti
delle medesime-, nel che il suo sistema si parte intera-

verità : tal parola è riserbata alla divinità ». Ma 1' uomo o isolato o in


corpo aspira sempre a dichiararsi più che non è : allo stesso modo il po
litico raggiratore vi parla in nome della nazione; ogni giornale vi assicura
sempre d' esser 1* interprete della opinione pubblica; e in ogni demagogo
è i\ popolo stesso che parla, che difende i suoi diritti contro i suoi disu
nivi oppressori. Fino a quando si continueranno queste viete millanterie!
fco a quando troveranno esse degli uomini creduli che ne rimangono cor-
brikliì quando cesserà il mondo d' esser bambino? Io ho voluto osservar
<jae»o all' occasione che mi si dà di parlare della filosofìa del dottor Reid,
perocché essendo questi uno de' filosofi piti modesti e più circospetti che
v' abbiano, 1* osservazione mia riesce più calzante, e mostra quanto facil
cosa è al filosofo promettere più eh' egli non possa attenere , quanto è
questo un vizio comune di quelli che ragionano abbandonati a sè stessi.
1 Padri, e tanti scrittori della chiesa cattolica, couvien dar luogo alla giu-
diio ì soli la cui modestia sincera e profonda sia uniforme, sia
, sia tanto quanto è necessario che sia uell' uomo perch' ella rag-
_ i la verità. *
Yer altro la questione dell' esistenza delle idee , che sollevò il dottor
^*id,è della più alta importanza, come altresì della più alta difficoltà; ed
A kAo nerla tratta in mezzo è un merito incalcolabile di questo grau-
d' uomo.
GS Scolastici però f avevano già veduta : essi bene s' accorsero che
I ometto del nostro pensiero non poteva essere 1' idea, ma la cosa stessa.
Dissero adunque « che noi pensavamo alla cosa , ma che essendo questa
fuori di noi , avevamo bisogno per pensare ad essa di una idea ( o imma
gine) cLe ce la rendesse presente allo spirito nostro m. Confesso che que
sta spiegazione presa nel senso più ovvio non può soddisfare. Perciocché
resta sempre a rispondere - Noi dunque mediante 1' idea pensiamo alla
cesa che sta fuori di noi. L' oggetto adunque del nostro pensiero è final
mente qualche cosa a noi non presente. Egli non è adunque assurdo che
F intelletto mio quasi uscendo di sè vada a cogliere un oggetto da lui
lontano. Ma se questo non è punto assurdo ed impossibile, giacché real
mente si fa da noi mediante l'idea ; dunque che bisogno ho io dell' idea
stessa? La ragione che m' ha indotto ad ammettere 1' idea, non era altra
se non la necessità credula di trattenere l' intelletto dentro di sè, per cosi
dire: ma ora anzi l'idea stessa è un mezzo mediante il quale l'intelletto
se ne va a coglier 1' oggetto esterno diverso e lontano da sè. La questione
aon consisteva nel sapere per quai mezzi l' intelletto nostro potesse far
termine ed oggetto suo la cosa esteriore , ma tutta consisteva a sapere se
rgli era possibile che la cosa esteriore essa stessa fosse il detto termine ed
oggetto del mio intelletto. Se questo non involge contraddizione, io non
ho più bisogno dell' idea ; basta che io all' occasione delle sensazioni fac
cia uscire J' intelletto mio a spaziare e cogliere gli oggetti esteriori per sè
stessi e coni percepirli «•. Questo è ciò che si può ripetere alla soluzione
suddetta degli Scolastici , quand' ella si prenda nel senso che primo ci
prtseota. A mio parere però la detta soluzione scolastica o aristotelica
ammette una interpretazione che la rende più plausibile e che mi riseibo
di presentare in altro luogo quando_avrò premesse altre nozioni necessarie
Schiara intell'^»™ della medesima,

mente dal condillachiano. « Quantunque, egli segue
« dire dopo le parole da noi sopra recate , l'oggetti
« della mia sensazione, della mia memoria e della mi;

Più sotto ancora darò quel scioglimento eh' io credo ammettere I;


difficoltà del dottor Reid intorno alle idee. Ivi dimostrerò che una tali
difficolta nasce in parte dalla maniera di esprimersi poco chiara de' filo
Kofi , o certo dalla falsa maniera d' intendere certe espressioni filosofiche
Per esempio, quando io dico che l'idea esprime la cosa, è di questa come
un' immagine, un ritratto, un tipo, un segno, un indizio; io uso delle
espressioni che vanno inlese con grande circospezione , e che ammettono
senza di ciò, i maggiori equivoci. Vegliamolo brevemente.
Si richiami alla mente ciò che ho dimostrato più sopra, cioè che l'essere
un'idea rappresentativa e l'essere comune viene al medesimo, e s'intenderà
in che senso io dica l'idea essere qualche cosa di rappresentativo. Vediamo
questa proposizione da tutti e due i suoi lati.
i . Ciò che è rappresentativo è comune o generale. In fatti ciò che é rap
presentativo di qualche cosa, s'estende ad essere rappresentativo di tutte
le cose simili a quella, perchè piò cose simili ad una terza sono simili tra
di sè. Non ci sarebbe che un caso solo d'eccezione , nel quale ciò che è
rappresentativo non fosse comune o generale, cioè se non vi potesse avere
nessuna cosa simile a lui fuori d'una sola.
a. Ciò che è comune o generale ft rappresentativo: si può anzi dire che
una cosa è rappresentativa di un'altra solamente in quanto ha qualche
qualità comune con quella. Così un ritratto è rappresentativo ài quelle per
sone che a lui rassomigliano, non già in quanto egli è un quadro indivi
duale; in quanto a questo, egli è quella po' di tela, quella imprimitura,
quell'olio, que' colori particolari nell'olio mescolati e stemprati; e in que
ste cose tutte, che formano l'esistenza sua propria, individuale e reale, egli
non può simigliare a cosa del mondo; considerato in questa sola sua parte,
egli non esiste che in sè, non ha relazione con cosa alcuna ( perchè ap
punto da queste relazioni si astrae), e nulla perciò rappresenta. Egli non
ha dunque l'attitudine di rappresentare le persone, che in virtù di ciò che
ha comune con esse; cioè in virtù che rimette nello spirito nostro un'im
pressione simile a quella che rimettono i volti di quelle persone. La simi
gliarla allora fra il ritratto e quelle persone la troviamo noi stessi , pe
rocché compariamo l'impressione ricevuta dal quadro e l'impressione rice
vuta da quelle persone, e le veggiamo simili. Ritrovar queste impressioni
simili altro non significa che notare in esse qualche qualità comune, sup
ponete l'incarnato del colorito, o l'aria del volto, o l'incurvatura delle
labbra, o il giro delle pupille, od altre simigliatiti fattezze. Ora qualità co
mune non dice altro se non , che ciò che è in un soggetto è anche nell'al
tro; questa qualità comune è aduuque una cosa sola che si vede da noi in
più soggetti. Ma se ella è una cosa sola in noi, noi però la riferiamo a
due o più soggetti determinati e individuale dalle qualità loro proprie e
dalla reale loro esistenza mediante alti diversi del nostro spirito. Questa
cnsa unica adunque è una sola specie in noi colla quale veggiamo più cose,
all'occasione che queste agiscono individualmente sopra i nostri sensi. Egli
è per questo che noi riconosciamo , che queste cose sono simili tra di
loro: il vedere due o più cose simili non viene a dir altro se non se il ve
dere più cose mediante una specie sola, la quale ci mostra le cose in quella
parte che sono simili , più mediante 1.^ impressioni particolari e proprie
che ciascuna produce iu noi , le quali ci mostrano le cose in quella parie
• immaginazione sia il medesimo, tuttavia queste ope-
• razioni dello spirito sono così differenti e così facili
» a distinguersi, come l'odorato ed il gusto ed il buono.
i Io sento che v* ha una differenza specifica fra la aeu-
• sazione e la memoria , e fra questa e la irumagina-
■ zione » (i). Ed altrove: « Se alcuno volesse sostenere
■ che il circolo, il quadrato e il triangolo non differir
li sera che in lunghezza o in larghezza, e non in figura,
■ io non credo potersi dare persona così semplice che
■ il credesse o che pigliasse a refutarlo. Or non è meno
«irragionevole, secondo me, il pretendere che la sen-
« sazione, la memoria e l' immaginazione non differi-
• «ano che in gradi, e non in ispecie » (2).

ARTICOLO HI.
IS CBS JUODO IUD SENTISSE Li PREDETTA DIFFICOLTA'.

Ma perchè noi veniamo alla nostra difficoltà, dub


biamo dire che cosa intenda il dottor Reid con queste
Ire parole: sensazione, memoria e immaginazione.
«Una sensazione, egli dice, come sarebbe l'odore,
■ può presentarsi allo spirito sotto tre forme differenti (3).

Ae sano io se individualmente esistenti, senza rapporto alcuno di similitu-


4ne. Ora per poco che si osservino le cose io quanto hanno una esistenza
Inori di noi ed in sè, si vede che in tale statd non sono punto simili, pe
rocché ognuna non esce di sé, ed alla propria esistenza é interamente limi»
tata. Se dunque noi le veggiamo simili , se ( il che è il medesimo ) veg
giimo le loro qualità simili con una specie sola; forz'è dire che in quanto
> questo non le veggiamo in se stesse, nella loro esistenza propria ; le veg-
pao» adunque mediante una specie che è in noi , e questa è appunto ciò
cb« si chiama idea, ed è rappresentativa in questo senso che è una quo
ti replicata in molti soggetti.
Sto è qui il luogo nel quale io possa trattenermi più a lungo, e chiarire
«pesa materia, che appartiene al trattato della natura delle idee, anziché
a qndSa della loro erigine. Tuttavia era mio dovere di dimostrar l'esi-
ftecza delle idee , attaccata con tanta forza dal filosofo scozzese j giacché
per dimostrare l'orìgine delle idee convien prima assicurarsi che veramente
esistano, per non fabbricare una teoria sopra un fatto non esistente, come
più volle avvenne ai poveri savj di questo basso mondo,
(t) Recherehes sur tentendement humain, Sect. HI.
(a) Recherehes sur tentendement humain, Sect. V.
(3) Si osservi quanto questa maniera di dire si mostri prossima alla
teoria della sensazion trasformata : Y opinione tuttavia di Reid mette, come
dicevamo, una distinzione delle facoltà, intrinseca alle medesime. Ad ogni
modo, vale anche per essa 1' osservazione che abbiamo fatta sull' espres
sione condillachiana di sensaiion» trasformata, cioè eh' ella non è uu'espres»
«ione filosofica, perchè involge in una metafora 1' idea principale, e cosi la
rende indistinta e ingannatrice.
72 .
« Si può provarla: si può richiamarlasi o sovvenirsene*
u la si può immaginare o averne un'idea (i). Nel primo
« caso ella è necessariamente accompagnata dalla per-
« suasione che si ha della sua esistenza attuale. Nel se
ti condo caso ella è necessariamente accompagnala dalla
« persuasione che si ha della sua esistenza passata. Nel
« terzo caso ella non è assolutamente accompagnata da
« persuasione alcuna nè da alcuna idea di esistenza, ed
« è precisamente ciò ché i logici chiamano semplice
« apprensione » (a).
Non nuocendo punto alla giustezza del ragionamento
l'adoperar parole in un senso piuttosto che in altro,
quando si ha l'avvertenza precedentemente di ben de
finirle, e poi non si prendono che nel significato che
vi si ha annesso; io non esaminerò se il senso dato dal
dottor Beid alle tre parole inglesi, che sono da noi tra
dotte cor, quelle di sensazione, memòria, immaginazione,
sia quello stesso che alle medesime nel comune discorso
s'attribuisce. In luogo di ciò preghiamo il lettore a ben
fissare le differenze delle idee che con queste voci egli
vuole significare.
E primamente si fermi la differenza che passa fin
le due prime e la terza. Colle due prime, sensazione e
memoria, egli non solo vuol significare la percezione di
un oggetto, ma vi annette ancora la persuasione del
l'esistenza reale dell'oggetto, sia l'esistenza presente an
nessa alla sensazione, sia l'esistenza passata annessa
alla memoria. All'incontro per immaginazione egli in
tende la facoltà di solo percepir l'oggetto, senza che
alla detta percezione s'aggiunga persuasione alcuna della
sua esistenza presente o passata j il che chiamavano le
scuole, e pare a me con più proprietà, semplice ap
prensione.
Si tratta ora di sapere se la semplice apprensione del
l'oggetto, o sia l'alto della immaginazione, presa nel
senso di Reid , preceda la sensazione e la memoria ,

(i) Immaginare una cosa sensibile, o averne un'idea, è cosa assai di


versa, confusa qui insieme da Reid. L' immagina o il fantasma appartiene
all'animale, l'idea all'essere intelligente: Questa seconda è la semplit*
apprensione degli scolastici. Tuttavia 1' immagine forma In parte positiva
delle idee di cose corporee, il che altrove meglio dichiareremo.
(a) Recherchcs sur fentendement humain, Sect. V.
?3
come sembra che sostengano Locke ed Hume ; o pure
se queste precedano la semplice apprensione , come vuole
il Reid.
Egli è appunto coli* esporre la lotta che vengono ad
avere insieme Reid da una parte, e Locke ed Hume
dall' altra, che esce in gran luce la difficoltà da me pro
posta*, difficolta che è pur sempre la slessa, ma che
apparisce sotto tanti aspetti diversi, secondo i lati da1
quali gl' ingegni de* filosofi si scontrarono in essa; e ve
diamo se ad una o all'altra di queste due parti riesca
sviluppar la matassa, e trovare il filo col quale uscire
dal labirinto. »
Il sistema degli avversarj del dottor Reid, ossia il
sistema delle idee, come egli lo chiama, è il seguente.
- Que1 filosofi c'insegnano, che la prima operazione
» dello spirito non è - che una semplice apprensione,
« cioè a dire un concetto puro, un'idea nuda, senza
« alcun giudizio interiore. Essi c'insegnano ancora , che
• tenendo in tal modo a rendersi presenti allo spirito
« mostro molte di queste idee, egli le paragona fra loro,
* e seme, mediante un tal paragone ch'egli ne fa, in
• che si rassomiglino e in che differiscano. Ed è questa
« percezione della convenienza o sconvenienza delle idee
« tra /oro, che noi chiamiamo giudizio, persuasione o
« cognizione » (i).' /
Questa si può dire l'ultima espressione del sistema
lockiano, e de' suoi settatori sì in Francia che in In
ghilterra.
Analizzando io il sistema di Condillac, ho fatto ve
dere come tutta l'essenza sua in questo solo consiste,
nel fabbricar prima le idee, e poscia col confronto delle
medesime comporre i giudizj. Ma egli fu appunto in ciò
che mi venne notata e scoperta la difficoltà ch'egli con
tiene in se medesimo, difficoltà che non ha nessun modo
da superare. Poiché egli stesso venne a somministrarci
gU argomenti che ci recarono necessariamente a con
chiudere, non poterci noi formare nessuna idea se non
mediante un interno giudizio; e perciò non potersi trattar
delle idee in separato da' giudizj, ma doversi ammettere
m giudizio onde formare le nostre idee. Or poi, come

(,) Rcctxrc/** -V renlende,n,nt h„muin Sccl. IV.


Lmm, Ong delle Idee, Voi. I. io
un giudizio non si fa che coi mezzo di qualche idea
rimane il dehito di render ragione , come sia possibile
un giudizio anteriore alle idee , nell' ipotesi lokiana <
condillachiana che queste sieno tutte fattizie.
Egli fu questa appunto la difficoltà che vide e noli
il dottor Reid, sebbene più parzialmente; di che egl
seppe assai bene confutare i sistemi avversarj, ma nor
dare, pare a me, un sistema egli stesso, che appiem
soddisfacesse alla difficoltà.

ARTICOLO IV.
LA difficolta' di reid contro il sistema lociuko
FU PRESENTITA DA LOCKE MEDESIMO.

Se gli scrittori attentamente ascoltassero la voce dell;


propria coscienza, eviterebbero probabilmente molte cen
aure del pubblico: perciocché rare volle avviene, che 1;
critica pubblica ferisca negli scritti e castighi alcun lorc
vero mancamento, senza che gli autori medesimi noi
n'abbiano avuto già prima un secreto timore, un so
spetto, che non osarono mal consigliati aprire e mani
festare interamente a se medesimi.
Locke ebbe un sentore, per mio avviso, della oppo
sizione che incontrar dovea il suo sistema , della dilli
colta che Reid più tardi obbjettò al medesimo. Abbianic
già toccato il suo parlare incerto sull'idea di sostanza
egli si mostra egualmente imbarazzato allora quando,
definendo la cognizione, ricusa questo nome a tutto eie
che nella mente umana è sprovveduto di un giudizio (i)
sicché egli stesso viene con ciò a stabilire, che non s
conosce veruna cosa se non mediante un giudizio.
Io non desidero in vero istituire questioni di parole
ma mi pare di poter dire a fidanza, che o il Locke noi
è coerente con se medesimo, o pure attribuisce alla pa
rola idea un senso diverso da quello che le attribuisc
il comune degli uomini. Il comune degli uomini die

(i) Lib. II, c. il. Il Signor Laromiguiere , nelle sue Lezioni di Filo
sofia , P. II , Lez. I , enumerando i diversi sinonimi che si sono usai
della parola idea , nota anche la parola cognizione , la quale egli osserv
riuscir barbara nella lingua francese. E infatti, il senso che questo filosof
attribuisce alla parola idea , corrisponde perfettamente a ciò che Lock
chiama cognizione , come si può vedere raifrontando i due autori ne' luo
ghi che ho sopra citati.
... ..75
fralmente avere idea a una cosa, e avere cognizione di
uns cosa; e nessuno può intendere come si possa avere
idea d'una cosa, senza avere almeno qualche cognizione
della medesima. Se adunque è contradditorio il dire ,
nel significato comune delle parole: « Io ho idea di una
< cosa, ma non la conosco punto nè poco » ; conviene
concedere come sentenza dagli uomini generalmente am
messa, che nell'idea di una cosa v'abbia sempre com
presa qualche cognizione della medesima. Di che sembra
potersi inferire, che se il Locke giunse a conoscere che
noi non possiamo avere cognizione alcuna senza un giu
dizio, egli travedesse ancora, che noi non possiamo senza
un giudizio avere nessuna idea; ma che tuttavia, non
sapendo trovar poi modo onde spiegare a se medesimo
la formazione delle prime idee, giacché non era possibile
avanti di quelle un giudizio, il quale suppone qualche
idea precedente; per evitare questa importuna difficoltà,
ricorresse alla immaginaria distinzione fra cognizione e
idea, e all'assurdo di supporre delle idee che non con
tenessero in sè alcuna cognizione, pel bisogno che avea
che non esigessero nessun giudizio.
Fu dunque l'amor di sistema, come a me pare, che
a ciò il condusse^ giacché non avrebb'egli potuto evi
tare tal sottigliezza, ripugnante al senso comune e al
suo stesso buon senso , per altro retto e schivo di fri
volezze, senza dovere abbandonare al tutto il sistema
soo, che consiste nella sentenza « nulla avervi d'innato
nella mente umana, ma tutto ciò che v'ha in essa acqui
starsi per la sensazione e per la riflessione ».

ARTICOLO V.
OBBIEZIONI FATTA DA BEID AL LOC1USMO.

Reid adunque s'accorse, che il sistema loekiano era


difettoso : e sebbene non comprendesse chiaramente in
che consistesse il difetto, tuttavia fu in caso di fargli
delle forti opposizioni.
Egli presentò tutto il problema dell'origine delle idee
sotto questa espressione: « La semplice apprensione delle
cose precede il giudizio della loro esistenza, come vo
gliono i Lockiani, o il giudizio precede la semplice ap
prensione? »
Egli negò al Locke ed a' seguaci suoi , che la sem
plice apprensione preceda l'operazione del giudizio.
76
u Tutto il mondo, egli disse, riconosce che la sen
te sazione dee precedere la memoria e l'immaginazione (i):
« quindi necessariamente consegue, che un'apprensione
« o percezione accompagnata da persuasione o cono-
« scenza interna della esistenza dell'oggetto, dee prece-
« dere una semplice apprensione. Così in luogo di dire
« che la conoscenza intima e la persuasione sono a noi
« venule da ciò , che si sono paragonate tra esse le
« percezioni semplici , bisognerà dire che il concetto ,
« puro venga in noi formato per la riduzione e l'ana-
« Hsi di un giudizio naturale e primitivo » (2).

ARTICOLO VI.
UID FA PRECEDERE IL GIUDIZIO ALLE IDEE.
Certo in queste parole si contiene un lampo di luce.
Il dottor Reid vede che non si può supporre , come ,
fanno i suoi avversarj, che ci sia nell'uomo prima la
percezione semplice della cosa, e senza persuasione della
sua esistenza; e che solo appresso, mediante compara- ,j

(1) Stin attento il lettore al valore che attribuisce il dottor Reid alla
parola immaginazione. Intendi; qui la facoltà della semplice apprensione ,
cioè la facoltà onde noi concepiamo una cosa come possibile, senza attac
carvi 1' idea di esistenza , a differenza della sensazione e della memoria :
poiché la sensazione attacca alla cosa percepita la persuasione della esi
stenza presente , e la memoria vi attacca quella dell' esistenza passai».
Certamente un simile modo di parlare non è esatto , come notammo già
prima. E questa inesattezza somministrò occasione a D. Stewart di fare
una lunga discussione nel C. HI. de' suoi Eltmenti di Flosofia per sapere
se si possa dire che t immaginazione non abbia congiuula la persuasione
della esistenza della cosa. Tanto è vero che le inesattezze nell'uso delle parole
moltiplicano inutilmente le questioni! Il sig. Stewart osserva con ragione,
che se 1' immaginazione di una cosa è assai viva, noi concepiamo la cosa
come presente, sebbene sapessimo speculativamente eh' ella non abbia nes
suna esistenza. Ora è appunto da fermarsi in questa speculativa cognizione
della non esistenza della cosa ; ed è di questa apprensione della cosa spe
culativa, se cosi si vuol chiamarla, di cui qui si parla. Per essa si contempla
freddamente la cosa in sé slessa, senza viva immaginazione per esaminarne
la sua natura, senza aver noi interesse nessuno circa la sua esistenza o non
esistenza. Questo è quello che si chiama semplice apprensione della cosa ,
alla facoltà della quale si dà impropriamente il nome d' immaginazione.
Esattamente parlando., non si può oè pur dire che nella semplice appren
sione della cosa noi conosciamo che non esiste : è che non pensiamo né
alla sua esistenza nò alla sua non esistenza: la consideriamo solo in sè
come rosa possibile. La facoltà della medesima propriameute si chiama
nlellrltn.
(2) Recherchcs sur l'enlendcmeiit humain , Sect. IV.
none e giudizj, venga l'uomo acquistando la persuasione
dell'esistenza della medesima. Vedevano i suoi avversarj,
che l'uomo non può essere intimamente persuaso che
nna cosa qualunque, esista , s'egli non fa un giudizio
della sua esistenza. Or non sapevano essi come supporre
di) giudizio in un uomo, che consideravano al tutto
sprovveduto d'idee: immaginarono adunque che questa
persuasione dell'esistenza delle cose percepite non fosse
punto contemporanea alla percezione delle cose mede
sime, ma che venisse acquistata di poi, allorquando
avendo già l'uomo percepite le cose, ha in sè le idee
delie medesime da confrontare insieme, e può, mediante
un tal confronto, giudicare della loro reale esistenza,
e cosi a se stesso persuaderla.
Ma il dottor Reid trova tutto ciò un puro frutto
dell'amore al sistema abbracciato ; non già quanto ci
porge la diligente osservazione del fatto.
11 fatto osservato senza alcuno spirito di sistema ci
dice, secondo il dottor Reid, che noi percepiamo co'
matti sensi gli oggetti esterni , e che noi immediata
mente cos vh giudizio naturale b primitivo ci rendiamo
persuasi della loro reale esistenza. Percepiti così gli es
seri come esistenti, noi, mediante un'astrazione sepa
riamo da essi l'esistenza loro presente e passata, e ve
niamo a contemplarli siccome cose meramente possibili;
di che nasce ciò che si chiama apprensione pura, o
concetto puro della cosa , cioè il concetto della cosa
spogliato della persuasione e del pensiero della sua reale
esistenza.
ARTICOLO VII.
I WHH STABILISCE , CONTRO LOCKE, CHE LA PRIMA OPERAZIONE DELI,' INTELLETTO
UMANO È LA SINTESI, E NON l' ANALISI.

Egli crede che in questo modo solamente si giunga


a trovare i primi rudimenti delle umane cognizioni ; e
vuole perciò che le operazioni dell'intelletto umano co
mincino con una sintesi, non già con un'analisi: di
che soggiunge tosto così:
• Coli' esposto progresso ci accade osservare delle
« operazioni dello spirito, quello stesso che osserviamo
« de' corpi naturali che sono composti d'elementi o
« principj semplici. La natura non ci mostra già questi
- elementi separati , sicché di essi noi possiamo fare
78
« un composto; ma ella ce li fa vedere mescolati e
« composti ne' corpi concreti, e non è che mediante
« l'analisi chimica che se ne può fare la separazione » .

ARTICOLO Vili.
IL SISTEMI PROPOSTO DA REID NON PUÒ SODDISFARE.

E certo nulla possono rispondere gli avversarj del


dottor Reid alla osservazione esatta de' fatti a cui egli
li richiama: certo l'apprensione semplice dell'oggetto,
o sia il concetto di lui spoglio della persuasione della
sua esistenza (i), non si ha da noi prima che non ab
biamo percepito l'oggetto come esistente, e che poi con
una operazione dello spirito nostro non abbiamo diviso
dal medesimo la persuasione dell'esistenza reale, e con
templatolo solo come possibile.
Ma se gli avversarj non possono fuggire dinanzi al
l'osservazione a cui il dottor Reid li richiama e colla
quale egli rovina il loro sistema; non è loro egualmente
impossibile di prendere alla lor volta le parti di assa
litori anch'essi, e di richiamare il dottor Reid altresì
ad esaminar meglio se sia privo d'ogni difficoltà quel
sistema ch'egli al loro sostituisce.
E in vero, essi possono a lui rivolgersi con queste o
simili parole: « Noi vogliamo supporre con voi , che
la persuasione intima dell'esistenza degli oggetti perce
piti non sia punto posteriore all'apprensione semplice
de' medesimi, e che questa sia una specie d'astrazione
che si fa dal giudizio portato da noi sulla loro esi
stenza; ma noi non vediamo tuttavia come sia ragio
nevole il vanto che voi vi date d'essere con ciò salito
fino al fatto primigenio dello spirito nostro nell'origine
delle idee, al fatto più alto a cui possa salire l'osser
vazione. Voi credete che la prima cosa che si possa
osservare nello spirito nostro sia qualche cosa di com
posto: voi fate precedere la persuasione dell'esistenza
degli oggetti esterni, alla apprensione semplice de' me
desimi : voi cominciate insomma a descrivere lo sviluppo
dello spirito non dalle idee, ma da' giudizj. Ora ciò è

(i) Il discorso è particolarmente rivolto agli oggetti corporei, che sono


i primi oggetti reali, diversi da noi , che noi nefl' ordine naturale per
cepiamo.
appunto che a noi sembra contradditorio che il com
posto sia anteriore al semplice, il giudizio anteriore
alle idee. Soffrile un poco che noi spieghiamo più lar
gamente il nostro pensiero.
Primieramente voi stabilite che la prima operazione
del nostro spirito è un giudizio: questo è il primo fatto
che nel nostro spirito si possa osservare.
Ciò posto, voi dovete convenire altresì che questo
giudizio abbia tutti que' costitutivi che formano l' es
sena di quella operazione dello spirito che si chiama
giudizio: e cbe questi elementi costitutivi dimostrano
che il giudizio non è mai una operazione semplice, ma
composta, cioè risultante da più elementi.
E vero che voi chiamate questo giudizio cogli epiteti
di naturale e di primitivo; il che viene a dire che l'uomo
lo fa necessariamente, e per una forza intrinseca di
soa natura, per una certa suggestione, così v'esprimete,
della medesima • ma questo non toglie a lui l'essere un
vero giudizio, e così voi medesimo l'appellate. Di vero,
Yuorao non comincia ad essere persuaso intimamente
deìT esistenza di un oggetto, fino che non dice a sè
•tesso « Esiste quest'oggetto » : o per dir meglio, la
persuasione dell' esistenza di un oggetto non è che un
interno parlare a sè slesso e un dire « Questo oggetto
esiste ». Ora il dire a se stesso intimamente « Questo
oggetto esiste » , certamente è fare un interno giudizio,
mediante il quale si attribuisce a quell'oggetto l'esistenza.
Indifferente è che noi diciamo a noi stessi « Questo
oggetto esiste »; mossi a ciò da una mozione interna,
e naturale, per la quale noi siamo necessitati di con-
gmogere questo giudizio colle sensazioni, cioè di farlo
susseguire immediatamente alle medesime; o pure che
noi lo formiamo liberamente: egli è dico indifferente
alia natura sua di giudizio, cioè tanto nell'un caso come
ne/f altro egli si rimane un vero e completo giudizio.
Sembra che fin qui noi siamo d'accordo. E ci resta la
stessa idea d'un vero e completo giudizio anche se noi
mutiamo l'espressione, ed in vece di esprimerlo così
• Giudico ehe questo oggetto esiste », l'esprimiamo
» Sento che questo oggetto esiste », o pure « Ho l'in
terno sentimento dell'esistenza di questo oggetto di cui
provo la sensazione * , o con altra espressione ancora
8o
più accurata (i). Egli è sempre vero, che io senio un
rapporto fra il sensibile e resistenza: e il sentire un
rapporto è Io stesso che sentire un giudizio: e sentire
internamente un giudizio vale quanto formare un giu
dizio. Non si può dunque evitare di far precedere la
persuasione dell'esistenza dell'oggetto esterno da un vero
e completo giudizio; il che voi venite a stabilire ap
punto coli' introdurre un giudizio primitivo e naturale.
Or s'ella è così, vero è che voi cominciate a descri
vere lo sviluppo dello spirito umano da una operazione
non semplice , ma complicata e composta : perocché
non può darsi un giudizio che non sia composto di più
elementi. Il concetto del giudizio , da' filosofi lutti e
da voi stesso recato, si è di una congiunzione che si
fa d'un predicato con un soggetto: quello in somma di
trovare un rapporto fra due percezioni. Così nel caso
nostro, il giudizio interno che noi facciamo, « L'og
getto esiste » , non è che il rapporto da noi sentito tra
l'esistenza, che viene ad essere il predicato, e l'oggetto
in quanto è sentito, che viene ad essere il soggetto. Doman
diamo adunque: perchè P uomo congiunga l'esistenza colla
sensazione, e in tal modo formi l'interno giudizio «Esi
ste un oggetto sensibile »; non dev' egli necessariamente
posseder prima le due percezioni elementari del sensi
bile e dell'esistenza, percezioni quindi precedenti a
quel giudizio primitivo che voi introducete per ispiegare
come noi acquistiamo la persuasione dell'esistenza degli
oggetti? Se al giudizio in discorso è necessaria la sen
sazione da un lato intorno alla quale l'uom giudica,
e l'idea dell' esistenza dall'altro che a lui aggiunge,
convien dire assolutamente, che il giudizio vostro non
sia qualche cosa di primitivo al tutto nello spirito no
stro, ma che prima di lui sieno quelle due più sem
plici percezioni. Supponete pure che il giudizio istanta-

(i) La vera ed accurata espressione di questo giudizio primitivo sarebbe


questa « La sensazione eh' io provo suppone una qualche cosa esistente
— diversa da me - ; ma a questa accurata espressione ridurremo il giudizio
primitivo più sotto. Qui ci basti osservare, che il dire « Questo oggetto
« esiste m è un ripetere due volte l'idea dell' esistenza ; perocché quando
io dico oggetto, dico già qualche cosa di esistente : sicché quell' espres
sione non iudica già un semplice giudizio, e perciò un giudizio primitivo,
mentre nel solo pronunciare la parola di oggetto , si suppone un giudizio
l'ormato.
8i
reamente consegua a quelle: non resta per ciò che da
quelle non debba essere preceduto.
Gò posto , nè si può ripugnare, esaminiamo quelle
kt percezioni elementari del giudizio nella loro pro
pri» natura. « L'idea dell'esistenza è un'idea generale,
e dell1 origine di questa voi col vostro giudizio non
rendete ragione alcuna, ma la supponete. Eli' è un ele
mento che entra a formare il giudizio; è più semplice
del giudizio , e il dee necessariamente precedere. Voi
dunque a torto censurate il metodo, onde noi spieghiamo
lo sviluppo dello spirilo umano, in questo, che noi lo
facciam cominciare dalle idee; perocché è impossibile
cominciare , come voi vorreste, da un giudizio primiti-
to, senza supporre precedentemente l'esistenza di al
cuna idea ■ (i).

(i) Sono degni di considerazione gli sforzi che fan gli uomini stretti in
caa ({ustione da tutte parti: essi tentano ogn' adito, muovono ogni pio
to per ispscciarsi , ed uscir dell' intrico. Essi vi giungono ad alterare le
iBsissn cìkle cose : vi negano le definizioni le più ricevute : mettono in
oabbn U lare del sole. Si rendono allora oculatissimi : e se c' è qualche
fìccob lestezza nelle parole, che a lor giovi scoprire, è probabile assai
fot la scoprano, per quella stessa attività per la quale contraffanno il senso
di tinte altre parole e snaturano tnnte idee.
Fra «li altri tentativi fatti da' filosofi per evitare la difficoltà che qui io
la atti i50ria di Reid , v'ha quello di negare la definizione del giudizio.
I"e*f-raDdo ci dice che il giudizio non può essere il paragone delle idee, per
ete se ciò fosse, sarebbe necessario che le idee preesistcssero al giudizio ;
all' incontro il ragionamento di Ried dimostra necessario che sia il giudi-
tao rraello che preceda.
Questa riflessione di Degerando rileva veramente una inesattezza nella
àefcuziooe comune del giudizio , sebbene sia ben lontana da rispondere
•il wijezione che noi facciamo a Reid. Credo necessario di far qui rile
vale tote stia il merito della riflessione di Degerando , e dove stia il suo
Deprando fa questo argomento. « Quando noi affermiamo a noi stessi
*» resistenza di un oggetto esterno, noi formiamo un giudizio. Ora questo
« emiiio sull' esistenza delle cose esteriori non può nascere dal paragone
• dt due idee ; perciocché col paragone delle idee io trovo bensì le rela-
» zioni ebe le idee hanno fra loro , ma non esco per questo dalla inente
• mia , nou pervengo mai con questo a giudicare che esista realmente
« qualche oggetto fuori di me. Dunque il giudizio col quale all'ermo a me
• slesso 1' esistenza reale di qualche oggetto esteriore, non può consistere
• semplicemente nel paragone delle mie idee ». Questo argomeuto ( sup
ponendo che si parli dell'esistenza reale degli oggetti corporei) è cosi so
ldo, che non lascia nulla, eh' io vegga, da replicare. Fin qui dunque la
riflessione di Degerando è vera, e degna che se n'approfitti.
Ma quale é la conseguenza che da quella riflessione si può dedurre ?
fletta, m che dunque la definizione chi: fa consistere il giudizio nel sciu-
Hoi«iifTi, Orig. delle Idee, Voi. I. n
82
ARTICOLO IX.
DIFETTO COMUNL AL DOTTO» RUD X Al (COI AVYXBSABJ.

Gli avversarj di Reid conducono, a dir vero, questa


risposta loro con forza, fino che si tratta di dimostrare
eh1 egli è impossibile concepire un primo giudizio se
non si suppone ch'egli sia preceduto da qualche idea
generale; ma essi non possono poi difendersi con feli
cità eguale a quella ond' assalgono : perocché essi nou
hanno alcun modo da sostenere la sentenza « che l'ap-

m plice confronto delle idee, è manchevole »: nuli' altro si cava da quel-


1' argomento : esso non va un passo più in la.
Resta dunque in salvo quest' altra definizione del giudizio , che io sono
solito usare - Il giudizio e una operazione dello spirito colla quale noi
attribuiamo un predicato ad un soggetto »: definizione più larga di qucl-
1' altra - Il giudizio è il paragone delle idee •». La definizione mia non
parla d' idee , parla di predicato e di soggetto; e per ridurla alla defini
zione censurata dal Degcrando, bisognerebbe prima dimostrare che il pre
dicato ed il soggetto fossero sempre necessariamente due idee. Ora egli è
questo appunto che io dimostro non essere. Io sostengo in quella vece ,
die il predicato solo dev' esser sempre un'idea, ma che non cosi avviene del
soggetto: dico che il soggetto può essere un complesso di sensazioni , ov
vero di qualità sensibili. È con questa dottrina che io spiego il giudizio
primitivo, quel giudizio onde noi giudichiamo 1' esistenza reale delle cose
fuori di noi: io mostro ch'esso nasce non già colf accoppiamento di due
idee , ma coli' accoppiamento dell'oggetto sentito puramente co' sensi (nel
quale stalo non è ancora un' idea, ma un complesso di sensazioni ) , col-
l'idea di esistenza; mediante il quale accoppiamento noi ad un tempo
medesimo e giudichiamo l' esistenza reale delle cose esteriori , e ci for
miamo l' idea delle medesime.
Degerando però non vide questo anello di mezzo fra il dire - il g>
w zio consiste nel paragone di due idee « e il dire « il giudizio si a
« senza bisogno d'idee » : non vide , dico , che in mezzo a queste due
proposizioni estreme vi avea quest' altra w il giudizio si fa talora unendo
m una idea con delle sensazioni ». Avendo dunque egli dimostrato con
un solido argomento, che il far consistere il giudizio unicamente imi pa
ragone delle idee era insufficiente, si credette in diritto di potere stabilire
che dunque si facciano de' giudizj anche indipendentemente dalle idee, cioè
con un atto semplice, e senza bisogno di due elementi (predicato e sog
getto ) dall' accozzamento de' quali egli risulti.
S' ingegna egli dunque di stabilire che « vi sono de' giudizj elementari
« che consistono nella semplice percezione degli oggetti », e che comin
cia da questi la nostra conoscenza. « La prima nostra cognizione, cosi egli,
m è tutt' insieme percezione e giudizio; percezione perchè il suo oggetto
«r è veduto; giudizio perchè è veduto come reale ». ( Histoire comparee,
T. II , eh. X ).
Io farò la censura di questa strana sentenza colle parole stesse del Ba
rone Gulluppi, cioè di tale che nel fondo della cosa è col francese filosofo
d'accoido. « Se la semplice percezione degli oggetti (cosi col suo solito
- h buon senio il Gallnppi ) nou è che percezione, a che fine dar due no""
83
prensione semplice ossia la pura idea dell'oggetto pre
nda il giudizio della sua reale esistenza ».
Questa proposizione da una parte sembra dovere esser
«era-, perciocché come posso io giudicare che esiste un
oggetto di cui non ho l'idea? L'idea dell'oggetto, ossia
la semplice apprensione del medesimo, sembrerebbe dun
que, veduta la cosa da questo lato, che dovesse pre
cedere all'operazione del giudizio che noi facciamo sulla
sua reale esistenza.
Ma d'un altro lato, l'esperienza è interamente con-

* sd ima stessa operazione dello spirito ? ciò non serve che a far nascere
« degli equivoci. Dall' altra parte , non si farebbe che muovere una lite
■ di parole » —
« La conoscenza primitiva , egli dice ( Degerando ) , è un giudizio, poi-
« cbè l'oggetto è veduto come reale; lo spirito dunque, io ripiglio, uoi-
« sce all' idea dell' oggetto , l' idea della realtà o dell' esistenza ; egli dice
« io se : l* oggetto eh' io veggo è reale ; ma questa operazione suppone le
« idee dell' oggetto e della realtà o dell' esistenza , ed in conseguenza è
« on operazione secondaria in ordine alla percezione, o all' idea; il ebe
« djftrajge 1' ipotesi dell' autore. Egli non v' ha mezzo ; o lo spirito si ar-
« resta alla semplice veduta dell' oggetto , ed egli ha una percezione ; o
* pere ritolge la sua attenzione alla realità dell oggetto , e tosto unisce
* dot (dee e forma un giudizio : operazione che viene in seguito alla per-
* ceooBt e la suppone » ( Saggio filotof. sulla Critica della Conoscenza
di Pasq. Galluppi, Napoli 1819, T. I, c. I. )
11 Galoppi adunque torna all' opinione che la percezione semplice sia
la prima operazione dello spirito nostro, e quindi che la semplice appren-
fsme ( r idea ) degli oggetti preceda il giudizio sulla reale esistenza de'me-
desura. Ma questo sistema non si può più sostenere dopo le osservazioni
che ha fatto sopra di quello Reid.
Reid dall' aver dimostrato che la prima operazione dello spirito non
prò essere una semplice percezione intellettuale ( idea ), conchiuse: « dun-
<t>* la prima operazione dello spirito è un giudizio » ; ma quella conclu-
era affrettata , e non potea essere ricevuta , giacché era inconcepibile
il paiaio senza qualche idea precedente.
iterando veggendo questo incaglio disse: « E bene, mutiamo la deli-
m roiKsae del giudizio : facciamone una che ci accomodi, cioè che abbracci
« timi e due i sistemi in sé stessa. Altri vogliono ebe la prima operazione
* deflo spirito sia una percezione, ma l' osservazione sembra evidenle-
« mente contraria a questa ipotesi. Altri vogliono che la prima operazione
* sia un giudizio, ma non s' intende un giudizio senza percezioni. Diciamo
* dunque che lo spirito cominci da una operazione singolare che è in-
* sterne giudizio e percezione : immaginiamo un giudizio semplice come
" semplice è la percezione *.
Galluppi viene appresso e trova contradditoria la proposta di Degerando.
Infatti ne una percezione semplice può esser mai un giudizio, perchè nella
percezione semplice non si possono notare i due termini del giudizio; né
il giudizio può esser mai una percezione semplice, perchè se io potessi ri-
àatre i due termini ad un solo , avrei con ciò distrutto , anzi reso impos
sibile il giudizio. Il sistema medio adunque di "Degerando è così puguaute


84 .
Ira ria a sì fatta dottrina ; ed essa ci assicura che noi
prima ci formiamo l'idea concreta della cosa realmente
esistente, e che solo appresso ne caviamo l'idea astratta
e divisa dalla persuasione della sua reale esistenza, che
è ciò che si chiama semplice apprensione della cosa. E
in fatti, pensiamo noi ad un cavallo possibile, se non
abbiamo percepito prima coi sensi nostri qualche ca
vallo esistente?
Questo nodo della questione non fu veduto bene nè
da Reid uè dagli avversarj suoi: e perciò ciascuna parte
valse ad abbatter l'altra, senza trovar la via di soste
nere se medesima.
Reid confuse due questioni in una sola. Poiché altra
cosa è dimandare « Il giudizio dell'esistenza delle cose
esterne si può egli fare, senza che preesista nella mente
nostra qualche idea generale » ? ed altro è il dimandare
« Il giudizio dell'esistenza delle cose esterne ha egli bi
sogno, per poter farsi, di essere preceduto dalla sem
plice apprensione, ossia dalle idee delle cose stesse » ?
Questa seconda questione la scioglievano affermativa
mente gli avversarj di Reid, e in questo avevano il torto.
Ora Reid, loro opponendosi, non si contentava di
dimostrar loro a che il giudizio dell'esistenza delle cose
esterne non ha bisogno, per farsi, di essere preceduto
dalla semplice apprensione delle cose stesse » ; ciò che
bastava per abbattere il loro sistema , essendo questa
propriamente la proposizione contraria a quella ch'essi

con sè medesimo, come è pugnante il dire che il due sia 1' uno , o die
1' uno sia nel medesimo tempo il due.
Di questo involto laberinto si trae chi ponga con noi i.° che innata è
nell' uomo la percezione semplice dell' ente, 2." che quindi la prima ope
razione dello spirito è un giudizio il quale unisce le sensazioni coli' idea
dell'ente e così formansi le idee de* corpi.
In tale sistema il giudizio non è 1' uuione di due idee , ma di un predi
cato e di un soggetto, ed il soggetto è la sensazione: quindi è un' unione
d' idea e di sensazione. Prima di questo giudizio noi non attuiamo la sem
plice apprensione o sia l' idea delle cose, ma solo la sensazione delle me
desime: giudichiamo della reale esistenza d' esse, e da questo giudizio e
conseguente persuasione della reale loro esistenza , noi caviamo la semplice
apprensione foro, coli' astrarre o sia prescindere al lutto dalla persuasione
di detta esistenza.
O conviene confessare pertanto che il problema dell'origine delle idoe
non si sa spiegare , ovvero convien venire a quella sentenza , dalla quale
pur tanto si ripugna, che v'ha in noi qualche cosa d'innato. Io confido
che nel progresso di quest* opera tale verità acquisterà una luce chia
rissima. »
85
sostenevano; ma Reid tolse di più a provar loro « che
noi facevamo un giudizio primitivo anteriore a tutte le
idee, inesplicabile e misterioso ». Questa risposta, più
estesa di quella ch'era necessaria ad abbattere gli av-
Tersarj suoi, conduceva il ragionamento da una questione
più stretta ad una più larga, dalla seconda delle due
questioni enunciate alla prima, e decideva che « il giu
dizio dell'esistenza delle cose esterne si potea fare non
solo senza le idee delle cose stesse, ma ben anco senza
cbe preesistesse alcuna idea generale nello spirito nostro ».
Ora fu questo allargamento della questione primitiva
latto da Reid, che gli nocque per modo, ch'egli, dopo
avere abbattuti gli avversarj suoi, andò da se slesso a
mettersi, per così dire, sul territorio dell'errore; e in
tal guisa diede l'adito ad essi, che non si potean pur
difendere, di assalire assai vantaggiosamente.
In fatti egli è per poco evidente che un giudizio non
si può formare se non da chi possiede qualche idea ge
nerale; e perciò la proposizione che Reid tolse a difen
dere, mosso da un giusto zelo, fu esagerata ed insoste
nibile.
Oltracciò il dimostrare agli avversarj suoi , che il giu
dico sulla esistenza reale delle cose esterne dovea pre
cedere la semplice idea delle medesime, era facile, ap
pigliandosi alla via piana della esperienza; ma non era
si facile trovar poi una risposta soddisfacente a quella
terribile obbjezione « Come posso io giudicare che esi
ste realmente ciò di cui non ho alcuna idea » ?
La risposta a questa obbjezione avrebbe condotto lo
scozzese filosofo molto innanzi nelle sue ricerche; ma
o che disperasse di rinvenirla , o che non ne sentisse
bene la forza, nè pure la ricercò, contentandosi d'in
volgere in nube misteriosa quel suo giudizio primitivo
che cercava di stabilire, per difenderlo, almeno con una
rispettabile caligine, da ogni indagine ulteriore degli
uomini sempre un po' curiosi.
La maniera di sciorre quella obbjezione non potea
esser che questa: conveniva escogitare « un sistema, ove
l'oggetto che si giudica esistente, fosse l'effetto dello
stesso giudizio, cioè nel quale l'oggetto non ci fosse se
non* in virtù del giudizio che si porta di lui ». Tutto
adunque il difficile consisteva a trovare un giudizio di
lai natura, che desse l'esistenza all'oggetto suo, ossia
86
all'idea nostra della cosa giudicata, ovvero (che è il
medesimo ) che producesse in noi l'idee delle cose.
Ora ripassando noi in rivista tutte le specie di giu-
dizj che portiamo in sulle cose, veggiam chiaramente,
che fino che il giudizio cade sopra qualche qualità della
cosa giudicata, la cosa preesiste necessariamente nel no
stro spirito al giudizio ed alla qualità che a lei col no
stro giudizio attribuiamo. Ma all'incontro quando il giu
dizio è tale, che cade sull'esistenza stessa della cosa,
allora la cosa giudicata non esiste prima di questo giu
dizio, ma in virtù di lui, perciocché fino che la cosa
non la pensiamo noi come esistente (cioè come avente
un'esistenza o possibile o reale), ella è nulla, ella non
è un oggetto del nostro pensiero, un'idea. Il giudizio
adunque sull'esistenza delle cose, a differenza di tutti
gli altri giudizj , produce egli medesimo il proprio og
getto; e mostra con ciò di avere una energia sua prò-'
pria, quasi un'energia creatrice, che merita tutta la
meditazione del filosofo (i): questo oggetto, che non esi
ste precedentemente a un tal giudizio su di lui portato,
esiste poi in virtù, e perciò, al più, contemporaneamente
del giudizio stesso. Somigliante giudizio è dunque una
virtù, una potenza singolare dell'intendimento nostro,
che pensa una cosa attualmente esistente.
Le questioni che si possono muover sopra questa po
tenza sono tre: i.° com'ella si muova a pensare una
cosa attualmente esistente; 2." onde cavi l'idea univer
sale di esistenza, di che in tal pensiero ella abbisogna;
3.* come ella restringa l'idea dell'esistenza, idea univer
sale , ad una cosa determinata , e così pensi esistente
questo determinato oggetto anzi che quello.
Alla prima ed alla terza di queste di ma ode è facile
rispondere coll'ajuto dell'esperienza.
Noi siamo eccitati a pensare un oggetto esistente dalle
sensazioni; e sono pure le sensazioni quelle che deter
minano questo oggetto esistente del nostro pensiero. Noi

(1) S. Tommaso disse qualche cosa di simile; egli riconobbe •» che


v' ha sempre una primitiva operazione dello spirito nostro, che produce a
sè stessa il proprio oggetto ». Ecco le sue parole: — Prima actio ejus
( intellcctus) per ipeciem est formalio sui objecti, quo formato, inteltigit -"
simul lumen tempore ipse format etformalum est, et simul inteltigit. De na
tura verbi inlcllcclus.
87
abbiamo le sensazioni : a tale modificazione che noi pro
viamo, il nostro spirito si eccita e dice a se stesso :
• questa estensione, questo colore, questo sapore, que
sta ruvidezza di superficie ecc. , esistono, e non sono
IO tutte queste cose : è dunque una cosa a quelle cor
rispondente diversa da me ».
Si può dire che questo giudizio sia composto di due
giudizj elementari, indisgiungibili però fra loro, e che
si fanno con un atto solo; l'uno negativo ohe dice « que
sto colore , questo sapore ecc. non sono io » ; 1' altro
positivo: « è qualche cos'altro diverso da me ».
Il giudizio in quanto è negativo si porta sulle sen
sazioni; le sensazioni sole perciò sono il suo oggetto;
ciò che si giudica di esse , è che non possono esister
sole. Un simile giudizio negativo implica o produce ne
cessariamente in noi il pensiero di una qualche cosa
fuori di noi esistente, il qual pensiero è la parte posi
tiva del detto giudizio. Io non ho bisogno di entrare
via più innanzi nell'analisi ed esame del detto giudizio
primitivo e subitaneo col quale pensiamo una cosa come
esiliente; ma bastami di poter fare osservare, che io
non potrei mai giudicare che le sensazioni non possano
esister sole e che chiamino qualche cosa di esistente
cfjrerso dall' IO, se non avessi in me l'idea universale
dell'ente, e non trovassi una ripugnanza fra le sensa
zioni supponendole sole, e l'esistenza. Io dico, « è as
sordo che le sensazioni esistano senza una causa , o le
qualità sensibili senza un soggetto ». Questa proposizione
non esprime se non la ripugnanza fra la sensazione sola
e l'esistenza: per conoscere questa ripugnanza, io debbo
aver l'idea dell'esistenza, ossia dell'ente in universale,
ed accorgermi, che non si può accordare l'esistenza colle
sensazioni sole, senza che fossero di qualche altra cosa ,
diversa da me, accompagnate.
Ora la difficoltà non istarebbe adunque se non a sa
pere onde noi attingiamo l'idea dell'esistenza, necessaria
al primitivo di lutti i nostri giudizj , a quel giudizio
cioè coi quale conosciamo die qualche cosa esiste di
diverso da noi. Ecco il grande problema della filosofìa.
Riassumendo in altre parole ; alla difficoltà « come
posso io giudicare che esista una cosa di cui non ho
idea » così si risponde: Il giudicare che « esiste una
cosa de!erminata ■ racchiude due parti. Con quest'atto
88
i.* si pensa ad una qualche cosa che può esistere in
universale, a.° si pensa a questa cosa presente e deter
minata da tutte le sue proprietà.
Fino che io penso ad un ente universale ed al tutto
indeterminato, nulla ancora io giudico (i); il mio giu
dizio comincia allora quando il pensiero dell'ente in uni
versale o dell'esistenza l'applico e lo determino mediante
particolari qualità.
Ora supponete che il pensiero dell'ente in universale
io già me l'avessi.
Fatta questa supposizione , per formare il giudizio
« esiste la tal cosa », io non ho più bisogno che delle
sole sensazioni: perocché elle mi danno la determina
zione dell'ente che suppongo aver io già presente. Tutta
la difficoltà dunque si riduce a spiegare l'origine del
l'idea di ente in universale, perocché questa dee neces
sariamente precedere in ogni giudizio primitivo.
In qualsiasi modo però abbiam noi l'idea dell'ente in
universale, seguitiam per ora a parlare nella supposi
zione fatta, che uoi l'avessimo prima d'ogni nostro giu
dizio sull'esistenza attuale di questa o di quella cosa
determinata e sensibile.
Il giudizio in detto caso sull' esistenza di questa o
quella cosa sensibilmente determinata, di questo corpo
che mi cade pur ora sotto i sensi, si può spiegare as
sai facilmente, ed analizzare nel modo seguente.
Noi abbiamo uno spirito ad un tempo sensitivo e in-
telletivo, cioè siamo dotati del senso e dell'intendimento.
Il senso è la potenza di percepire le qualità sensibili;
l'intendimento è la facoltà di percepire le cose come
esistenti in se stesse.
Ora tutto ciò che cade nel nostro senso , è oggetto
anche del nostro intendimento, perocché NOI che sen
tiamo, siamo quegli stessi che possediamo l'intendimento.
Percepito adunque che noi avremo le qualità sensi
bili, quale sarà l'operazione che eserciterà sopra di esse
lo spirito nostro ?
L'intendimento consiste, come dicevamo, nel vedere
le cose come sono in sé esistenti: l'operazione adunque

(i) Questa proposizione viene a lungo dimostrata nella Sezione V


89
dell'intendi mento nostro consisterà nel percepire le qua
lità sensibili come sono in sè esistenti, non più nella
relazione che hanno con noi in quanto sono sensa
zioni (i).
Ora percepire le qualità sensibili come sono esistenti
in se stesse, indipendentemente da noi, non è altro che
aggiudicare alle slesse una esistenza diversa dalla no
stra: il che viene al medesimo che giudicare esister un
ente fuor di noi, nel quale le qualità sensibili sono,
in qualunque modo esse vi sieno , certo in quel modo
ch'esser vi possono; sul qual modo nulla determina
questo nostro giudizio primitivo.
Si fermi adunque la differenza fra le due specie di
giudizj che noi facciamo.
Talora noi col nostro giudizio non facciamo che pen
sare una qualità come esistente in un ente già da noi
prima concepito : così quando dico « quest' uomo è
cieco » , io penso la cecità come esistente in quell' uo
mo di cui ho già l'idea ed è il soggetto del mio giudizio.
Talora all' incontro col giudizio nostro pensiamo un
ente come aderente a delle qualità sensibili; e questo
è il giudizio che formiamo giudicando « esiste un ente
determinato da queste qualità sensibili che attualmente
co' sensi miei percepisco». ,

(i) Io adopero la parola sensazione «• per esprimere la modificazione


cbe soffre il nostro spirilo quando percepisce le qualità sensibili, e adopero
li frase ■ qualità sensibili «• quando le considero nel rapporto che hanno
cai corpi a' quali si riferiscono.
Questa distinzioni; è fondata nell'analisi della sensazione. In falli quando
il Mitro organo corporale e sensitivo patisce una modificazione, e quindi
qaaacV) lo spirito nostro ha una sensazione, il nostro spirito è consapevole
» k stesso di due cose: i.* di ciò che prova, piacere dolore ecc., a." della
sua passività. Esser consapevole delia propria passivila, implica necessaria-
sente I idea di un'azione che viene fatta in noi, senza di noi; e un'azione
che réne fatta in noi senza di noi , comprende una qualche «lira cosa
the sia da noi diversa. Se dunque quest' azione da noi diversa che in noi
vieti fatta , non siamo noi, nè è un elfetto dell'attivila nostra; e noi con
cependo un' azione determinata concepiamo tutto ciò che è uecessario per
concepire un' azione; forz' è dire che concepiamo ancora un agente da
noi diverso. Questo agente che noi concepiamo non ci resta già indeter
minato, ma determinato dall' elfelto suo che in noi opera: quest' effetto ,
quest' azione come sta in noi sono appunto le qualità sensibili, le quali ,
10 quanto in noi sono e noi modificano, diciamo sensazioni.
Ma questa distinzione importante esigerehhc via più lungo discorso :
lasli qui t'averla toccala, perchè al lettore serva di lume a bene intendere
11 ragionamento che noi facciamo.
Kosmiwi, Orig. delle idee, Voi. I. 13

Nella prima specie di giudizj preesiste al giudizio
l'oggetto del medesimo: nella seconda specie noti pree
siste al giudizio il suo intero oggetto, ma solamente
gli elementi del medesimo, cioè i." le sensazioni 2.* l'i
dea dell' esistenza.
Concludiamo: « Il giudizio non è una operazione che
si esercita sempre sopra un oggetto pensalo, ma talora
sopra le qualità sensibili di un oggetto il quale col giu
dizio stesso si pone, e diventa termine del nostro pen
siero ».
Da tutto questo ragionamento si potrà agevolmente
conoscere la risoluzione delle due questioni che formano
la controversia del dottor Reid e de' 6uoi avversar).
I. Questione. « È egli necessario che preesista la sem
plice apprensione degli oggetti esterni al giudizio che
si fa sulla attuale esistenza de' medesimi? »
Ciò non è punto necessario. Necessario è solo che
preesista la sensazione , percezione delle loro qualità
sensibili.
Gli avversaij di Reid vennero a quella loro sentenza,
che prima in noi fosse l'idea della cosa, e poi che for
massimo il giudizio della sua reale esistenza, perchè non
erano arrivali a ben distinguere la sensazione dall'idea.
Essi confusero l'una di queste due cose coll'allra: e ve
dendo che era necessario che la sensazione preesistesse
perchè noi pensassimo all'esistenza di un corpo, deci
sero che era necessario che preesistesse Videa del mede
simo. Se si fossero avveduti che la sensazione non som
ministra al nostro spirito che le qualità sensibili par
ticolari della cosa, e che l'idea della cosa all'incontro
suppone il pensiero dell'ente fornito di quelle sensibili
qualità, avrebbero agevolmente veduto altresì, che l'idea
di un corpo non si poteva avere senza un giudizio pre
cedente che alle qualità sensibili particolari sommini
strale dalla sensazione unisse il pensiero dell'ente, e così
formasse l'idea del corpo particolare e determinato da
quelle sensibili qualità che attualmente si percepiscono.
Quest'idea del corpo particolare era l'oggetto dell'inten-
dimenlo dal giudizio nostro formato, dal quale poi to
gliendo via la persuasione dell'esistenza , e lasciando a
lui la semplice possibilità, si forma quella specie di
astrazione che apprensione semplice chiamavano gli Sco
lastici.
gc
II. Questione. « E egli necessario che al giudizio pri
mitivo dell1 esistenza de' corpi preesista in noi qualche
idea generale » ?
Senza alcun dubbio: perocché un giudizio senza che
sia preceduto da un'idea generale è impossibile; l'aver
negletto questa idea è il torlo di Reid. Egli ammise un
giudizio primitivo, misterioso, com'egli disse, ed ine
splicabile. Non è cerio vietato ad un filosofo d'ammet
tere qualche principio, e dichiararlo misterioso, e, se
vuoisi , anche al tutto inesplicabile: ma non si confà
coll'ufficio del filosofo ammettere un principio assurdo.
E in fatti un giudizio che nasce in noi senza nessuna
idea generale, è una contraddizione ne' termini. Né meno
è consentaneo all'ufficio del filosofo l'ammettere un prin
cipio, e non entrare nell'esame o nella ricerca di quelle
condizioni che il rendano possibile; perciocché in tal
caso, se il principio non sarà dimostrato assurdo, al
meno resterà dubbioso se sia, o non sia tale, non aven
dosi fallo di lui alcun esame. L'esistenza di un'idea ge
nerale in noi, anteriore a quel primitivo giudizio col
ornale affermiamo a noi stessi l'esistenza di qualche cor
po, è una condizione necessaria al giudizio di Reid: non
troarrnivA dunque sospendere l'esame del fatto preso ad
analizzare, cioè del giudizio onde noi giudichiamo avervi
un fuori di noi; ma sì protrarlo a tutto ciò che questo
giudizio suppone innanzi di sé, perch'egli sia possibile,
percb'egli possa essere atto a venir concepito e pensalo.

ARTICOLO X.
CIÒ CHE IL SISTEMA DI REID HA DI SOLIDO CONTRO I SDOl AVVERSARE

E nondimeno da tutto ciò che fino a qui si è per noi


ragionato apparisce, che nel sistema di Reid rimane
sempre qualche cosa di solido e di concludente contro
i suoi avversar].
E poniamo che Reid fosse stato da qualche suo amico
avvertito della estensione soverchia ch'egli dava al suo
assunto, e ch'egli si fosse in questo corretto. La sua
ragionevole docilità l'avrebbe messo in diritto di parlar
con forza agli avversarj suoi in questo modo: « Io vo-
glio concedere che quell'interno giudizio che noi fac-
ciamo sulla reale esistenza delle cose che feriscono i
nostri sensi compongasi di due percezioni elementari,
cioè dell'idea di esistenza e della sensazione. Ma dopo
ciò, voi dovete concedere a me, che pure al primo ri
cevere che noi facciamo delle sensazioni, la nostra na
tura intelligente ci sforza ad ammettere un ente, cioè
a fare quel giudizio che io chiamo primitivo e naturale,
perchè precede, se non posso dire tutte l'idee, giacché
mi si mostra che sarebbe contradditorio, almeno tutti
gli altri giudizj ».
E di vero, tutto il nerbo del sistema reidiano con
siste pure in questo, in ben rilevare il fatto, che lo
spirito umano, non appena riceve la sensazione degli
oggetti esterni, che anche necessariamente pronunzia il
giudizio della loro esistenza « con un atto semplice » ,
come egli dice, ma non com'egli aggiunge « con un atto
al tutto indefinibile » (i).
Ciò che ho ragionato nell'articolo precedente dimostra
non avervi bisogno alcuno d'ammettere un principio
d'un genere tutto suo, inesplicabile, una specie di qua
lità occulta, un mistero filosofico.
Reid, ove avesse veduto a fondo in che consisteva
l'insufficienza del sistema de' filosofi che il precedettero,
in vece d'insistere in questo, che le idee non debbano
precedere i giudizj, avrebbe potuto salire più su, e ana
lizzare con una chimica, per usare la sua frase, ancor
più raffinata l'apprensione semplice dell'oggetto che i
suoi avversarj supponevano precedere la persuasione e
il giudizio dell'esistenza del medesimo.
Anche per questa via egli li avrebbe stretti con una
argomentazione assai forte nel modo seguente : « Voi
pretendete, così avrebbe potuto favellar loro, che l'ap
prensione semplice d'un oggetto preceda il giudizio che
noi facciamo sulla sua reale esistenza; descrivete perciò
l'andamento dello spirito umano supponendo che prima
esistano le idee degli oggetti , e poscia si formino con
esse i giudizj.
Ora in questo andamento della intelligenza nostra io
trovo una grande difficoltà: cioè, io pretendo che voi
non possiate avere l'idea di un oggetto se non mediante
un giudizio.
Perchè noi veg'giamo se è vero ciò che io dico, di-

(i) Recita dia sur T enlendement humain , Scct. V.


93
scendiamo a' particolari: prendiamo l'idea o l'appren
sione semplice d'un cavallo. In die modo posso io pen
sare ad un cavallo indipendentemente dalla presente sua
o passata esistenza , giacché questa non entra nella sem
plice apprensione-, in qual maniera, dico, posso io pen
sarci? Se voi mi dite che mi formo l'idea del cavallo
attratta dalla sua attuale o passata esistenza, mediante
quell'operazione della mente che si chiama astrazione;
in la\ caso voi supporreste che io abbia avuto già pre
cedentemente la percezione di questo o di quel cavallo
attualmente esistente, e che io abbia eseguita l'astra
zione su questa mia percezione della cosa in concreto.
Con questo voi verreste a concedermi ch'io, prima d'a
vere l'apprensione semplice del cavallo, ho avuto la
persuasione della sua attuale esistenza; il che è quanto
dire che io, innanzi avere l'idea semplice del cavallo,
ho fatto quel giudizio onde l'ho affermato a me me
desimo sussistente. E ne' vostri libri non ricorrete voi
appunto all'astrazione quando cercate di spiegare le sem
plici idee delle cose? siete dunque in contraddizione con
voi medesimi, mentre ciò che dite in una parte, for
marci noi le idee semplici delle cose mediante l'astra
zione, pugna direttamente con ciò che dite in altra, le
idee delle cose precedere tutti i giudizj sulle medesime:
chi di vero, l'astrazione non si può esercitare se non
sopra la percezione di una cosa individuale esistente,
per aver la quale fa bisogno un giudizio, cioè il giu
dizio che la cosa esiste ».
E poteva rinforzare vie più il suo discorso aggiun
gendo ancora: « Voi dite che l'idea semplice precede
i nostri giudizj; io vi rispondo che se voi analizzate
l'idea semplice della cosa, troverete ch'essa slessa con
tiene in sè un giudizio. Teniamo l'idea del cavallo.
Quando voi pensate un cavallo, sebbene prescindiate
intieramente dalla sua presente o passata esistenza, al
lora che cosa pensa la mente vostra? pensa ella una
cosa sì semplice che non possa scomporsi in più altre
idee, ovvero l'idea del cavallo risulta da più idee che
si possono distinguer fra loro? Certo s'io penso l'idea
del cavallo, io penso i." un ente, a.* penso tutti i co-
ttilutivi di quest'ente, i quali non mi lasciano vaga e
indeterminata l'idea dell'ente, ma me la precisano e
fissano a quell'ente particolare che si chiama cavallo.
La mia idea adunque del cavallo, ove io l'analizzi,
scopro che non è che il risultato di due maniere d'idee,
cioè i." dell'idea universale di un ente, a." delle idee
de' costitutivi del cavallo, i quali formano insieme l'idea
della natura del cavallo, idea più particolare della pri
ma. L'idea del cavallo adunque risulta da un'idea uni
versale, e da un'idea più particolare.
Veggiamo ora come queste due idee si trovino legate
insieme nella nostra idea del cavallo, cioè come for
mino insieme congiunte un' idea sola.
Per poco che si rifletta, si scopre, che l'idea più par
ticolare si concepisce da noi come esistente nell' idea
universale; ossia, che l'idea della natura del cavallo si
pensa da noi nell'idea dell'ente; ossia (che è il mede
simo) noi concepiamo il cavallo nella classe degli enti;
ovvero sia di nuovo, avere l'idea del cavallo è lo stesso
che pensare un ente fornito di quelle determinazioni
che lo costituiscono cavallo.
Ora in quest'analisi dell'idea del cavallo, noi veniamo
ad aver trovato ch'ella racchiude e tiene in sè tutto
ciò che si richiede ad un compiuto giudizio.
Ad un giudizio richiedonsi due termini, l'uno più
esteso e l'altro meno; e nell'idea del cavallo noi abbiam
trovato appunto l'idea universale di ente, termine più
esteso, e l'idea più particolare de' costitutivi del cavallo,
termine meno esteso.
Richiedesi ancora che il termine meno esteso sia pen
sato nel termine più esteso; e noi abbiamo veduto, che
noi pensiamo la natura del cavallo, idea più partico
lare, nell'idea di ente, idea universale.
La semplice apprensione d'una cosa adunque è ella
stessa un'idea complessa, e tale che nasconde in se
stessa un giudizio, una idea di quelle che noi non pos-
siam render presenti alla mente nostra, se non mediante
il confronto ed il nesso di altre idee o percezioni.
Egli è dunque insostenibile la proposizione, che l'ap
prensione semplice delle cose preceda i giudizj sulle me
desime, giacché l'apprensione stessa non è che il frutto
di un giudizio ».
ARTICOLO XL
CONCLUSIONI.
Manifesta cosa è adunque, che gli autori della con
troversia che abbiamo esposta, quanto sono forti a di
struggere, tanto sono inetti ad edificare.
Ridotta la questione che hanno insieme agli ultimi
termini, ella riesce pure a questo:
Locke dice a Reid « Le idee debbono esser prima de'
giudizj, Perchè è assurdo ammettere il confronto tra due
cose prima che esistano le cose da confrontarsi » ; e la
sua ragione sembra evidente. Reid risponde a Locke « I
giudizj precedono le idee, perchè è impossibile formarsi
l'idea d'una cosa prima di giudicare ch'ella esista n ; e
la sua ragione sembra pure evidente. Che adunque con-
ciliera queste due proposizioni che sembrano insieme e
giuste e contrarie?
La difficoltà ch'esse racchiudono, noi vedemmo più
sopra ridursi tutta, in ultima analisi, a trovare l'ori
gine dell'idea di esistenza. Speriamo che il nostro si
stema, che più sotto noi dimostreremo, sciorrà una si
mile questione , che forma tutto l'argomento di questo
Stgpa.
CAPITOLO IV.

DUGALD STEWART.

ARTICOLO I.
VABJ ASPETTI DELLA DIFFICOLTA'.

L'ho già toccato: tutti i filosofi principali sonosi ab


battuti alla difficoltà proposta, quasi a scoglio scontrato
in sulla via della filosofica loro navigazione.
Egli avvenne sempre così nella soluzione de' grandi
problemi: un gran problema non è che una grande dif
ficoltà da superare. Or non si dee già credere che il
\ filosofo proponga a se stesso le difficoltà con libera scelta,
quasi tutte egli già prima le conoscesse o le intravve-
km; e stesse in lui d'occuparsi anzi d'una che d'altra,
■ di fare argomento delle sue meditazioni anzi questo che
/ <jael problema. Se i problemi difficili non furono sciolti
/ che dopo un lungo corso di secoli, ciò non fu tanto
jtr i'eatrenja dilliooUk che quelli in sè contenessero,
s6
quanto perchè non erano conosciuti. Una difficoltà pro
posta alla meditazione degli uomini si può dire mezzo
già superata; e talora l'essere stata proposta e fatta se
gno dell'attenzione de' dotti si deve a de' casi affatto
fortuiti; come all'oscillare d'una lampada veduta da
Galileo debbono le matematiche scienze la teoria degli
archi isocroni, e la dottrina della gravitazione univer
sale al pomo caduto in sulla testa di Newton.
Non basta però che le difficoltà sieno poste in qua
lunque modo innanzi all'attenzione dell'uomo, perchè
sieno risolute ; bisogna che ci sieno poste bene. Il ri
tardo della loro soluzione è da attribuirsi appunto in
gran parte al tempo che dee trascorrere anzi che lo stato
della questione sia presentato alle menti con semplicità
e con pienezza, sicché s'offrano in direzione diretta al
l'intendimento, e questo non ci rifletta sol di traverso,
all'occasione ch'egli pensa a qualche altro oggetto.
Il che accadde appunto della nostra difficoltà; scon
trata da quasi tutti i filosofi; quasi da tutti trapassata
leggermente, perch'ella non era l'oggetto diretto della
loro meditazione; da' più non veduta che in confuso,
e sotto una forma accidentale.
E questo notiamo, perchè torni ad onesta scusa e di
fesa loro: mentre certissimamente è da credere, che
s'essi avesser potuto proporlasi così chiaramente come noi
possiamo, mediante i lavori per essi fatti e di cui noi
approfittiamo, l'avrebbero essi, altrettanto bene che noi,
risoluta.
Riassumendo adunqne i varj accidenti da noi fin qui
toccati, che posero la difficoltà nostra dinanzi agli oc
chi de' filosofi moderni :
Locke venne condotto ad essa quando fu necessitato di
parlare dell'idea di sostanza, e quando, volendo definire
il vocabolo cognizione, s'accorse che doveva ricorrere
a de' giudizj : Condillac le andò vicinissimo ov' ebbe a
distinguere le idee dalle sensazioni, e a parlare delle
idee generali: Reid cercando di render ragione della per
suasione che noi abbiamo dell'esistenza de' corpi, s av
vide che Locke errava cominciando lo sviluppo dello
spirilo dalle idee acquisite, ma che antecedentemente
all'acquisizione delle idee bisognava supporre un giudi
zio primitivo e naturale. Come la vide Dugald Stewart,
poco fa sostegno della benemerita scuola scozzese? An«
ch'egli va prossimo alla diflicollà e non la vince: l'oc
casione eh' ad essa lo porta, è il ragionamento nel quale
»'era impegnato di spiegare come l'uomo possa formarsi
le idee generali mediante l'imposizione de' nomi alle
coje. Veggiamo attentamente come questo gli avvenga.

ARTICOLO II.
STEWART APPOGGIA LA SUA TEORIA AD UN FISSO DI SMITH.
In quel capitolo de' suoi Elementi di Filosofia dello
spirito umano , ove prende a parlare della facoltà di
ajirarre, reca un passo tolto dalla dissertazione sull'on-
gine delle lingue di Smith ; il quale, perchè contiene
J'idea principale della sua teoria dell'astrazione, io qui
riferirò.
« L'invenzione di certi nomi particolari per segnare
• degli oggetti particolari, cioè a dire la creazione de'
« nomi sostantivi, ha dovuto essere uno de' primi passi
• verso la formazione del linguaggio. La caverna par-
• lieoWe, che serviva di schermo al selvaggio contro
■ all' intemperie dell'aria; l'alhero particolare, del cui
■ fratto saziava la fame sua; il fonte particolare, della
- cai acqua spegneva la sete; furono certo i primi og-
« getti clfegli segnò colle parole caverna, arbore, fonte;
• o con altro vocaholo ch'egli trovò bene d'usare, nel
• primitivo suo gergo, per esprimere quelle idee. Come
■ questo selvaggio acquistò in appresso più d'esperienza,
» ed ebbe occasione d'osservare, e specialmente di no-
• minare altre caverne, altri alberi, altre fonti ; egli
\ • dovette naturalmente (i) dare a ciascuno di questi

(i) Tatto questo discorso di Smith , vero o falso eh' egli sia, non è però
■ca narrazione di falli : egli è un puro lavoro della immaginazione , col
T»»le si cerca ciò die sembra alla slessa verisimile nella ipotesi d'un uomo
staggio. >on dee credersi adunque che tulla la filosofia di Smith , di Ste
wart e di altri tali filosofi moderni si appoggi unicamente sopra le osser-
"tkmi e sopra i fatti: V immaginazione trova anche in questi autori il suo
kofo, anzi ti occupa uno spazio grandissimo, come qui appare. L1 argo
mento è d'una questione capitale in filosofìa, d'una questione dalla quale
I /, filosofia intera. Ora quale è il metodo che tiene lo Smith e lo
*Vwjrf per risolvere questa importante questione ? Essi cominciano a sta-
>lire delie Itasi svile quali debba reggersi tutto il loro futuro ragionamento:
l queste basi sono tolte dalla immaginazione. Cioè, essi cominciano dal ri-
eJore come secondo V immaginazione loro, sarebbe più verisimile che un
éncno (d.» l'ipotesi che fosse sprovveduto a principio d'idee e di pa-
W/, Orig. delle Idee, Voi. I. ,3
98
« nuovi oggetti quello slesso nome, che avea fatto gi
« l'abitudine di congiungere ad un oggetto simile e
« lui noto da lungo tempo. Cosi gli avvenne che quell
« parole, che originariamente erano de' nomi proprj
« segnavano degli oggetti individuali, divenissero inserì
a sibilmente de' nomi comuni, e segnasse ciascuno un
« collezione d'individui.
« Egli è, « continua lo Smith, » questa applicazion
« del nome di un individuo ad un gran numero di og
« getti simili, che dee aver suggerito la prima idea d
u queste classi o collezioni che sono indicate co' noni
« di generi e di specie; e de' quali l'ingegnoso Rousseai
a pena tanto a concepire l'origine. Ciò che costituisci
« una specie non è che un certo numero d'oggetti le-
« gati insieme da una mutua simiglianza, e che perciò
« sono segnati con un nome stesso egualmente adatta-
u bile a tutti (i) ».
Egli sembra a primo aspetto che la maniera onde in
questo passo si spiega la formazione delle idee di genere
e di specie, sia molto facile e naturale. E in fatti, non
si trova l'errore e l'insufficienza di questa spiegazione
se non si prende ad esaminare con diligenza. Egli è
quando la si disamina con rigore, che si scuopre essere

role) veniste poi formandosi insieme delle parole e delle idee. Esposto ele
gantemente il romanzetto di questo selvaggio, essi ne tirano le conseguenze:
ecco qual sia il metodo filosofico degli autori di che parliamo. È vero che
nel racconto che vi fanno a quando a quando intromettono delle espressioni
che v' incoraggiano, un la cosa è certa, un naturalmente deve avvenire cosi,
e tali altri modi : e come dopo ciò non crederete loro ? essi ve lo affermano
mila fede e sulla autorità della loro propria immaginazione.
Tutto questo però non crediamo che ci vieti di esaminare i.°seció che
dovrebbe avvenire di certo , e naturalmente , secondo la loro immaginazione,
sia d'accordo coi fatti reali, con ciò che s'è osservato avvenire in casi si
mili] 3.° se quindi sia possibile 1' ipotesi che stabiliscono di un selvaggio
privo al tutto di voci e d' idee: ipotesi nella quale consiste finalmente tutto
il loro sistema. Questo è quanto noi cerchiamo di fare colle diverse osserva
zioni seguenti sul passo di Smith , e sulle teorie di Stewart.
(i) Lo Stewart confessa che il Coudillac accenna sotto lo stesso aspetto
i progressi dello spirilo umano nella formazione de' generi e delle specie.
È noto il merito di Condillac nell' aver chiamata l' attenzione de' filosoli
sulla mutua relazione della favella e del pensiero. Perciò io avrei potuto ,
parlando del sistema condillachiano, fare alcune di quelle riflessioni chequi
faccio sopra il sistema di Stewart, circa il modo di spiegare la formazione
de' generi e delle specie; ma ho creduto bene di riservarle a quest'articolo
per non riuscir troppo lungo parlando di Condillac. Il lettore potrà riferire
da se stesso alla teoria coiidiUachiuna più cose clic qui osservo sulle
triue di Smith e di Stewart.
99
speciosa ed illusoria , e non solida e vera. Ella si dee
mettere, per mio avviso, fra il numero di quelle spie-
carioni, che presentando alle menti de' lettori poco cir
cospetti una bella forma di ragionare, li ritraggono in
grazia di questa bella forma dall'esame delle singole
parti ond'ella è composta: i lettori di cui parliamo,
veggendo giusto tutto l'andamento del discorso, non
dubitano della verità delle cose in esso contenute; e senza
darsi la cura di rendersi distinte le idee, le ammettono
a fidanza, per una cotal prevenzione a favor d'esse die
le fa loro suppor giuste ed accurate. Ma noi, preavver
titi dall'esperienza, la quale tante volte a nostro mal
grado ci ha mostrato, sotto ragionamenti in apparenza
assai plausibili star nascosti degli errori fatali produttori
di lunga serie di parimente erronee conseguenze, ci cre
diamo in diritto e in dovere di esaminare bene adden
tro, prima d'ammetterlo, il sopra addotto ragionamento.

ARTICOLO III.
PRIMO MANCAMENTO NEI, PASSO DI SMITB :
*>* TCttKG£ LE DIVERSE SPECIE DI NUMI INDICANTI COLLEZIONI d'iNDIVIDDI.

E primamente io osservo, che nel passo addotto di


Smith, si parla de' nomi comuni come fossero tutti di
nna sola maniera. Ora essendo noto che vi sono de'
nomi comuni di più maniere , io debbo esaminare se
forse ci sia qualche inesattezza nel parlar di essi senza
indicare le diverse loro specie , e se il ragionamento
convenga egualmente a tutte le specie, o ad una specie
particolare.
La nozione del nome comune che ivi si dà, è ch'egli
significhi una collezione d'individui: veggiamo adunque
<ia prima se ciò convenga a tutte le specie di nomi co
muni , o se , secondo la proprietà del parlare , tutti i
nomi ch'indicano una collezione d'individui sieno comuni.
La prima specie di nomi usati ad indicare una col-
Sezione d'individui , sono i numerali, due, tre, quattro,
cinque ecc. Lasciando l'astrazione ch'essi contengono,
per la quale avviene che non si possano applicare ad
ima specie d'individui senza nominare di che specie si
tratti/ ^7. e. due, tre, quattro, cinque uomini ecc., con-
nJeriamoli solo in quanto hanno virtù di rappresentarci
«« collezione d'individui.
lOO
Ora quando io dico dieci uomini, dieci città ecc., i
dico certamente una collezione d'individui, ma non
potrà dire per questo che il numero dieci sia corniti
a ciascuna città, o a ciascun uomo. Non è dunque ve
che tutti i nomi i quali indicano una collezione d'ii
dividili , si possano chiamar comuni ; giacché cornai
non viene a dire se non applicabile a ciascuno di p
individui (i).
I nomi adunque de' numeri sono una specie ch'esprin
non pure una collezione d'individui, ma ben ancoi
quanto questa collezione sia numerosa; o per dir m
glio, esprimono questa sua numerosità. In tal modo
numero non esprime una collezione d'individui indete
minata, ma la determina, giacché ne fissa il numero
Una seconda specie di nomi ch'indicano una coli
zione d'individui, sono quelli che nominando una co
lezione non determinano precisamente i confini del!
medesima, ma però in generale tracciano la sua a a
piezza , come i nomi pochi, alcuni, molti, troppi ecc.
i quali tutti a collezioni d'individui si applicano senz
•però potersi ancor dire nomi comuni, giacché a ciascun
individuo della collezione non si possono accomunare
V'ha una terza specie di nomi che rappresentano dell
collezioni, i quali né esprimono il numero degl'individu
di che si compongono, né la quantità loro relativa a
molto e al poco, ma solo relativa a qualche idea an
nessa, come sarebbe popolo, tribù, assemblea, fami
glia ecc.; i quali nomi sono tutti di collezioni d'indi
vidui; e sebbene non esprimano la numerosità delle m<
desime, fanno però intendere una numerosità relativ
per le varie idee che congiungono e a cui si riferisco^
Così sebbene famiglia non ci dica né il numero precis
de' membri che la compongono, né se quelli sono moli
o pochi; tuttavia la natura della cosa presenta una col
lezione d'individui minore di quella che si direbbe ce
vocabolo di nazione. E anche questi nomi, sebbene s<
gnino una collezione d'individui, non possono chiamar;

(i) Il vocabolo dieci è comune a tutte le specie di cose che sono (firn
ma questa comunanza non fa die sia meno vera la nostra osservazione
cioè ch'egli non sia un nome comune a ciascuno oggetto della colleziou
da esso indicala. S' egli è comune a tulle le cose che sono dieci, è perei)
egli contiene un' astrazione, da cui abbiamo già dello di prescindere i
questo ragionamento, per uou renderlo sovercliianieutc iulralciato.
101
nomi comuni, perchè non sono applicabili a quegl' in
dividui che nella collezione si racchiudono.
Tutti i nomi plurali sono nomi significanti collezioni
d'individui, e formano una quarta classe che nulla de
termina sulla numerosità di quelli. Così dicendo noi
uomini, animali, case, ecc., intendiamo bensì una col
lezione di queste diverse specie di cose, ma senza nulla
accennare del numero d'individui che quelle collezioni
contengono. Nè pur questi nomi sono comuni a più in
dividui, ma esprimono delle collezioni di un numero
al tatto indeterminato.
Su questa indeterminazione noi dovremmo alquanto
fermarci a riflettere: ma per non interromper la serie,
de' nomi, proseguiam per ora ad enumerare le loro di-
Terse classi, e a vedere quali sien quelle che col genere
de' nomi comuni si possono facilmente confondere.

ARTICOLO IV.
tuono MANCAMENTO : ITO!» DISTINGUE I NOMI INDICANTI COLLEZIONI d'iNDIVIDDT,
E 1 NOMI INDICANTI QBALITa' ASTRATTE.

Vi sono de' nomi i quali non indicano individui, ma


toh qualità essenziali o accidentali degli stessi, consi
derate a parte, senza riflettere su tutto il resto che com
pone l'individuo; egli è impossibile di negare o di dis
simular questo fatto. A ragione d'esempio; umanità, ani
malità ecc. indicano qualità essenziali; bianchezza, du
rezza , fluidità ecc. indicano qualità accidentali.
Questi nomi si possono bensì chiamare generali, per
chè non esprimono individui, ma qualità a molti in
dividui comuni; e tuttavia non si possono ancora con
proprietà chiamare nomi comuni, perchè non sono nomi
comuni a più individui, ma nomi di singole qualità
che in molti individui si rinvengono.
£ tanto è vero ch'essi a diritta ragione non si pos
sono chiamar comuni, che anzi essi hanno una proprietà
singolare che li distingue e parte da tulli gli altri nomi,
la quale si è di non potersi usar mai in numero plu
rale. Ciascuno di questi nomi esprime una cosa sola,
astratta, e tutta semplice (i), la quale non può esser

(i) Non è che con ciò io affermi non potersi analizzare queste idee
u tratle e risolverle in idee più semplici; anzi tulle quelle che esprimono
ioa
confusa con nessun' altra , e la quale perciò è unica e
indivisibile. Così sarebbe una maniera impropria e ine
satta il dire le umanità , le animalità , le vegetalità , le
bianchezze ecc.; ma si dice l'umanità , ranimalità, la ve
getalità , la bianchezza ecc. Questi nomi adunque non
si danno a più individui , ma solo ad una singolare
proprietà di molli individui. Perciò tali nomi non rap
presentano nessuna collezione d'individui, uè si possono
dir comuni, ma solo si possono dire generali od astratti.

ARTICOLO V.
TERZO MANCAMENTO: CONFONDE I NOMI INDICANTI COLLEZIONI D'iNDIVIDCI,
E QUELLI INDICANTI QUALITÀ* GENERALI, Co' NOMI COMUNI.

Da questi, o per dir meglio dall' idea che questi se


gnano nascono que'nomi, i quali a tutta ragione
si chiamano comuni, perchè sono nomi che apparten
gono a ciascuno di molti individui 5 e questi sono, a
ragione d'esempio, uomo, animale, vegetale, caverna,

le specie delle cose, come albero ecc. , non sono per me che un complesso
di qualità semplici unizzate; ma dico che noi le uniamo insieme ( non è
il luogo di parlare qui del modo) e le consideriamo come una cosa sola
e indivisibile. Di questa operazione d'unire più qualità in un solo concetto,
noi abbiamo bisogno', per inventar poi i nomi comuni.
(1) E di vero, non è necessario che esista il nome che segna l'idea
astratta, perchè v' abbia il nome comune che segna Y ente che possiede la
proprietà astratta. Vi sono molli nomi comuni nelle lingue , de' quali
manca I* astratto corrispondente; cosi i nomi albero, caverna, fonte, nno
hanno nella nostra lingua gli astratti corrispondenti che sarebbero alte
rità, cavernilà ecc.
L'esistenza di questi nomi, come di tutti gli altri, dipende dal bisogno
che hanno avuto gli uomini d'usarli; giacché il solo bisogno d' usare il
nome, fa sì eh' egli s' inventi. Ma se nelle lingue non è sempre indicalo
tutto il processo delle idee, perchè talora questo non è necessario general
mente agli uomini che per significare i loro concetti fanno uso delle lin
gue; tuttavia non segue che il processo delle idee nella mente non sia
contìnuo e completo. Se nella mente fosse interrotto il processo delle idee,
ue verrebbe che la mente andasse per salto , e senza discorso interiore ;
il che è assurdo. E tanto più è assurdo il supporre che esistano le idee
composte , senza che esistano le semplici da cui sono composte. Egli è
aduDqoe necessario di ammettere che, dovunque è stato inventalo il nome
comune, per esempio il nome albero , v'abbia avuto nella mente altresì
l'idea astratta che a quello corrisponde, e che se s'esprimesse nell'esempio
posto, sarebbe alberila. Il non essere espressa questa idea con un nome ,
non fa eh' ella non fosse necessaria per formare il vocabolo albero ; glae"
cbè questo concetto, risoluto ne' suoi elementi , non indica se non se « un
quali lie cosa dotato di quelle proprietà che espresse iu uu vocabolo si do
vrebbero dire alberila ».
io3
altero , forile, ecc. , come anche gli aggettivi bianco ,
duro ecc. , sia che si prendano come puri aggettivi, sia
che mediante una elissi , per la quale si sottintende il
sostantivo, si usino in luogo de' sostantivi.
Ora neW analizzare il valore di questi nomi, se non
useremo mollo di circospezione, noi saremo tratti in
errore dalla somma perfezione del linguaggio che da noi
oggidì s'adopera. Noi siamo sempre inclinati a credere
che ad una sola parola corrisponda una sola idea; ma
ciò non è punto: anzi sono rarissime quelle parole che
più tosto un' idea sola , che un complesso d'idee espri
mano. La natura della lingua, e massimamente delle
lingue nostre, è tale, che con una sola parola noi ve
niamo a manifestar talora un' idea sommamente com
plessa, cioè composta di molte altre; nè solo manife
stiamo tutte quelle idee, ma anche il loro nesso che
le lega insieme e congiunge in una unità. Per il che,
il valore d'una parola, quando noi l'abbiamo analizzato,
possiamo sovente risolverlo in una ed anche più pro
posizioni.
t. così appunto avviene de' nomi di cui parliamo: il
oome di uomo, per esempio, equivale a questa pro
posizione « un ente che ha l'umanità » ; il nome di
albero « un ente il quale ha quelle proprietà che costi
tuiscono l'albero, e che, se si dovessero legare ad una
parola che la lingua nostra non possiede, si dovrebbero
esprimere col vocabolo di alberità » . E puoi fare il di
scorso medesimo di tutti gli altri nomi di simil genere.
Questi nomi son tali, mediante i quali s'attribuisce a
degli enti una qualità che si trova loro appartenere;
essi perciò contengono nascosto in se medesimi un giu
dizio, col quale noi, proferendoli o pensandoli, attri
buiamo un predicato ad un soggetto, e per brevità
esprimiamo quest'operazione nostra con una sola voce,
la quale ci dà il risultato di tale operazione, presen
tandoci espresso il rapporto rinvenuto da noi fra quel
predicato e quel soggetto. Ora solo questi con proprietà
si dicono nomi comuni; perciocché convengono a cia
scuno individuo di una certa classe. Cosi, la parola
v>mo conviene a ciascuno degli uomini; la parola al
bero conviene ad uno, qualunque egli sia, fra tutti gli
alberi; la parola caverna ad una delle caverne indistin-
' mente- e vengasi dicendo il medesimo di tutti gli altri.
io4
Ma se l'essere comune di un nome non vuol dir altro
se non la proprietà ch'egli ha d'esprimere un individuo
per volta, ma qualunque poi sia questo individuo, cioè
l'uno o l'altro a piacimento, di tutti quelli che hanno
la qualità nel nome indicala; non si può dire menoma
mente esatta nè vera la sentenza dello Smith, quand'egli
afferma che ciascuno di questi nomi comuni segna una
collezion d'individui: anzi ogni nome comune segna sem
pre un individuo solo, ma lo segua mediante una pro
prietà comune a molti; ed è per ciò che lo stesso nome
si può attribuire ad un individuo, e poi ad altro, e
poi ad altro ancora, e così successivamente a ciascun
di quelli che hanno la qualità nel nome indicata. Se
fosse vero che la parola albero indicasse una collezione
di alberi, noi coll'usarla in plurale, cioè col dire alberi,
avremmo ad esprimere molte collezioni di alberi; ma
col detto plurale nessuno ha mai creduto d'esprimere
più collezioni di alberi, ma semplicemente più alberi
individuali.
ARTICOLO VI.
QOAKTO MANCAMENTO :
NON CONOSCE QDAL SIA LA VERA DISTINZIONE FRA I NOMI COMUNI, E I PBOFKJ.

Laonde si osservi quanto si dee già cominciare a du


bitare del ragionamento che fa lo Smith, mentre in
poche frasi contiene tante inesattezze (i): di quel ra
gionamento, dico, che nel primo aspetto era così spe
cioso, e che provocava il nostro subito assenso; poiché
sembrava non volesse far altro, che pure descriverci
un fatto assai naturale a dovere avvenire.
Egli dice che i nomi comuni non fanno che espri
mere collezioni di oggetti; e noi abbiamo enumerato

(i) Ho creduto bene di analizzare un po' attentamente questo passo di


Smith, trascelto e riferito da Stewart come un pezzo singolarmente pregevole
per disingannare tanti nostri giovani, e uomini superficiali, i quali s'im
maginano che la prerogativa di pensare filosoficamente sia esclusivamente
riserbata alle genti eh' abitano oltre l'alpe e i mari che il bel paese cir
condano.
L'amore del vero mi sforza a dire, che nello siile e nel tuono filosofico
ci vincono gli stranieri , assai più che nelle cose : e ciò sia detto non a
sprezzo di questi, ma ad incoraggiamento ed eccitamento de' nostri, i quali
sappiano che è poi dallo stile e dal metodo singolarmente , che si fauno
celebrati e chiari libri e scrittori.
io5
tulle le quattro specie di nomi che esprimono collezioni
di oggetti, e nessuno di questi abbiain trovalo essere a
più individui comune.
Abbiamo quindi esaminati i nomi generali ed astratti,
indicanti qualità singole o essenziali o accidentali; e ab
biamo trovalo che nè pur questi si possono dir comuni,
ma bensì proprj d'una qualità comune.
Da tali nomi astratti finalmente, o per dir meglio,
dalle idee ch'essi ci rappresentano, abbiamo veduto de
rivare i nomi comuni; ed abbiamo scoperta la loro na
tura, che tutta consiste nell' esprimere un giudizio pel
quale s'attribuisce una qualità ad un soggetto, ossia nel
segnare un oggetto mediante una qualità sua, la quale
lo indica o il fa riconoscere, ed essendo comune a molli
oggetti, fa sì che quel nome stesso possa convenire a
ciascuno di essi possedenti la stessa qualità. Ma proce
diamo innanzi.
Conosciuta la natura de' nomi comuni, veggiarao
qual sia quella de' nomi proprj.
Si $h uni che gli altri esprimono individui, e non
coUenoni d'individui; ma con questa differenza. Quando
il nome comune esprime un individuo, egli lo segna e
distingue mediante una sua qualità; mentre il nome pro
prio non segna già e distingue l'individuo mediante una
*oa qualità, ma a dirittura nomina espressamente l'in-
diridno stesso, e per dir così, la sua individualità. Ora
l'individualità di un oggetto non è mai comunicabile
ad un altro oggetto; perciocché colla parola individuo
&i esprìme appunto ciò che un ente ha di così proprio
ed esclusivo, che lo fa essere quello che è, e nessun' al
tra cosa. Quindi il nome proprio non può convenire che
ad un oggetto solo, perchè esprime, come diceva, ciò
che lo fa essere solo ed unico. All'incontro il nome co
rnane, contrassegnando Tenie mediante una qualità che
paò rinvenirsi egualmente in molti altri enti , egli noi
segna con tal precisione die da tutti gli altri lo con
traddistingua e io parta: di che nasce che il nome co
mune, nel mentre che s'applica a un individuo, si può
applicare altresì a ciascun altro, purché questo abbia
quella stessa qualità a cui il nome si riferisce e rap
porta. Così uomo segna un uomo solo, e non molti; ma
legnandolo mediante una qualità comune, l'umanità,
non lo contrassegna però in modo ch'egli mi .sia, eoa
Rumai, Orig. delle Idee, Voi I. i.\
io6
questo solo segno, da tulli gli altri uomini distinto e
partito; ma anzi per la natura di quel nome io posso
essere condotto a pensare indifferentemente a questo
uomo, siccome a qualunque altro. All' incontro se io
noto questo uomo col nome di Pietro, io l'ho contrad
distinto, mediante tal segno, fuori da tutti gli altri uo
mini: e ciò, perchè il nome Pietro non l'ho io già de
dotto da una qualità comune, ma bensì l'ho tolto a
significare direttamente quella individualità, per la quale
Pietro ha un essere suo proprio , distinto e incomuni
cabile agli altri tutti.

ARTICOLO VII.
QCIltTO MANCAMENTO :
IONOEA LA BAOIONE PEB LA QUALE I NOMI 81 DICONO COMUNI I PEONU.

Chiarite così le idee annesse a' vocaboli di nome pro


prio e di nome comune, consideriamo più addentro il
ragionamento di Smith.
Il nome proprio io lo metto uà un ente per indicare
la sua individualità. Ma non avendo questo nome una
relazion necessaria con questa individualità, rimane in
mio arbitrio di applicare lo stesso nome proprio ad in
dicare l'individualità di un altro ente, diverso da quel
primo che pure colla stessa voce io ho nominato.
E così talora avviene veramente. Un padre , a cui
nascano dodici figli, può imporre a tutti successivamente
il nome proprio di Pietro. Io voglio supporre di più ,
che si accogliessero in un'adunanza tutti quelli che vi
vono presentemente al mondo, a' quali è stato imposto
nella nascita il nome di Pietro. Noi avremmo in tal
caso non pur dodici persone col nome di Pietro, ma
forse molte migliaja di Pietri. Ora io domando, perchè
questo nome di Pietro si trova essere applicato a così
gran numero di persone, consegue forse ch'egli si possa
chiamare un nome comune? non mai. Egli è rimasto
quel nome proprio ch'egli era; sebbene nel fatto egli
via stato reso comune a tante persone ; e la ragione è
chiara. L'essere nome proprio, o comune, non dipende
da questo, che si nomini per esso un solo oggetto, o
più; dipende dalla maniera ond' esso li nomina. Se li
nomina contrassegnandoli con una qualità comune, come
fa la parola uomo , che contrassegna gli uomini colla
107
umanità; esso è nome comune. Se poi li nomina senza
contrassegnarli con una qualità comune, ma a dirittura
come individui, senz' altra relazione fra il nome ed essi,
che quella posta dall' arbitrio di chi ha inventato il
nome; questo nome è proprio. Così quando gli uomini
tutti si chiamassero del nome di Pietro, non seguirebbe
altro da ciò, se non che ciascuno avrebbe due nomi,
cioè quello di uomo che sarebbe comune, e quello di
Pietro che sarebbe proprio. E in vero anche presente
mente ciascuno suole aver due nomi, il comune ed il
proprio-, ed è un puro accidente che i nomi proprj
sieno diversi od uguali; perciocché potrebbe anche es
servi un nome solo; e in falli i nomi proprj sono assai
pochi verso al numero di tutti gli uomini.
Di che si scuopre una nuova fallacia nel discorso di
Smith, ove dice che il selvaggio cangia i nomi proprj
in comuni col solo applicarli a più oggetti , senza ren
dere altra ragione di ciò; quasiché il nome proprio di
ventasse immantinente comune col solo applicarlo che
li fa a più individui. Tanto è lungi che il nome pro
prio applicandolo a più individui diventi comune, che
ami, quand'anche il nome Pietro, come dicevamo, fosse
applicato a tutti gli uomini di una provincia, o d'un
regno, o di tutto il mondo, egli non cesserebbe d'es
sere un puro nome proprio, perciocché non indicherebbe
gli uomini per la qualità loro comune, ma per la in
dividualità di ciascuno.
Poniamo adunque, che il selvaggio avesse imposto un
nome proprio alla prima caverna da lui conosciuta ,
ov'egli si ripara dall'intemperie dell'aria; n'avesse dato
uno al primo albero, de' cui frutti satolla la sua fame;
ed uno n'avesse parimente messo al primo fonte a cui
spegne la sua sete. Poniamo ancora , che poi vedesse
una, due, tre simili caverne, uno, due, tre alberi e
fonti simili; e che Analmente egli avesse imposto a que
ste nuove caverne, alberi e fonti da lui veduti, lo stesso
nome che ai primi. Noi avremmo quattro caverne, quat
tro alberi, e quattro fonti denominate col medesimo
nome.
Ora dopo ciò, ci resta ancora a vedere f<e il selvaggio
che applicò questo solo nome a quattro cose simili, l'ab
bia loro applicato come nome proprio, o come comune.
Rè io uno, uè nell'altro caso può dirsi che il nome
io8
ond1 lia chiamato ciascuna delle quattro caverne, de'
uattro alberi, o de' quattro fonti, segni delle collezioni
'individui, come dice lo Smith ; poiché que1 nomi non
segnerebbero pur mai altro che una delle quattro ca
verne , de' quattro alberi, de' quattro fonti in partico
lare, e non sarebbevi per questo ancora un nome col
lettivo , quando non si rendano que' nomi plurali , e
invece di dire caverna, albero, fonte, non si dica ca
verne, alberi, fonti. Una differenza sola passerebbe tra
l'essere que' nomi imposti dal selvaggio a que' quattro
oggetti come comuni, o come proprj; cioè, che essendo :
comuni, contrassegnerebbero gli oggetti dalle loro qua- ;
lilà comuni , vale a dire dalle qualità che racchiude
l'idea di caverna, albero, fonte, mentre essendo proprj,
segnerebbero ciascuna delle quattro caverne , alberi e
fonti, non per le qualità loro, ma in se stesse come
cose individuali, e i nomi sarebbero scelti dall'arbitrio
senza che vi avesse relazione alcuna fra il nome e la
natura della cosa.

ARTICOLO Vili.
SESTO M1KCAMEKTO :
NON OSSERVA CHE t PRIMI NOMI IMPOSTI ALLE COSE FURONO NOMI COMUNI.

Per me, credo più verisimile che i nomi imposti dal


selvaggio al suo albero, alla sua caverna, al suo fonte,
dovessero esser comuni fino al cominciamento.
Si osservi , che non si suole generalmente porre de'
nomi proprj ad oggetti del genere di quelli di che par
liamo, cioè caverne, alberi, fonti ecc.; ma che piuttosto
si suol mettere i nomi proprj alle persone, a' luoghi,
a' fiumi ecc., poiché è necessario che queste cose non
si confondano insieme. Non v'ha per solito la stessa ne
cessità d'individuare con un nome proprio un albero,
una caverna, un fonte; e se v'ha, ciò suol farsi me
diante le adjacenti circostanze.
Si dirà, a ragion di esempio, la caverna di Polifemo,
dall'uomo che l'abita; o la caverna di Ebron, dal paese
ov'ella si trova: il cedro del Libano; la rosa di Gerico;
hi palma di Cades, da' luoghi ne' quali germogliano tali
piante: il fonte di Jacob, da colui che l'apri o lo sco
perse o l'adoperò; il fonte dell'acqua salutare, dalla
qualità del liquore salubre, e così via. Egli non c'è
io9
mai tal bisogno, che stringa gli uomini ad inventare
per tutte queste cose de' nomi proprj.
Di qui possiamo conoscere perchè i nomi proprj, cioè
que' nomi che s'applicano a notare la sostanza indivi
duale della cosa , non sieno già i più frequenti , ma in
tulle le lingue, eziandio le più ricche e lussureggianti,
manchino ad un infinito numero d'oggetti 5 là dove non
Vha cosa del mondo, che di qualche nome comune sia
sprovveduta. Egli è più necessario il nome comune, del
proprio-, ed è verisimile che gli nomini non inventassero
i ooroi propr] se non allora, che s'avvidero confondersi
insieme, senza dì quelli, le cose simili; dico quelle sole
cose cimili , che loro distinguere bisognava , e ciascuna
da sè nominare: il che non poteano essi fare, senza
fermare a ciascuna un suo nome, il quale segnasse quella
propria e individuale natura che sola segrega un oggetto
particolare da tutti gli altri della slessa specie per modo
che cogli altri non si possa confondere e accomunare.
E ciò che in questo discorso merita ogni attenzione
n è, che l'imporre un nome a quella proprietà singo
lare d'un ente che lo individua e discerne fuori da tutti
gli altri della medesima specie, esige mollo più fatica
<i astrazione che l'imporre un nome che l'appelli per
una sua qualità comune; perciocché, parlando de' corpi,
le qualità comuni degli esseri corporei son quelle che
prime feriscono i sensi nostri, e che prime da noi si
conoscono: sicché egli è assai più verisimile che noi no
miniamo un ente da queste sue qualità, che non dalla
sua propria individuai sostanza, la quale non ci cade
■otto i sensi, e con una astrazione, o piuttosto con un
seguito di astrazioni noi la separiamo da tutte le altre
sue qualità. Io credo pertanto, e creder credo il vero,
che nello sviluppo dello spirito umano, sia solamente
dopo assai lungo tratto di tempo e dopo che l'uomo
già molti confronti fece fra le cose d'una specie, ch'egli
s'accorge distintamente ed espressamente, oltre alle qua
lità comuni che cadono sotto i suoi sensi, avervi qual
che cosa di così proprio nell'ente, di così unico, per
la quale, sebbene esso rassomiglia moltissimo ad altri
enti, pure con essi non si confonde giammai, e qual
che cosa ha in sè che da tutli il segrega, e quella cosa
è egli medesimo.
lì selvaggio adunque immaginatoci , non sarà punto
I 10
indotto, per mio avviso, a dare un nome proprio al
suo albero, alla sua caverna, al suo fonte nel primo
principio ; ma solo assai più tardi; allora che, avendo
già veduto molte caverne, molti alberi e fonti , giunge
colla sua mente a separare l'individualità di ciascuno,
e più ancora a sentire uno stretto bisogno di segnare
con nome proprio la loro individualità, perdi' egli, par
lando alla femmina sua od a' figliuoli , valga forse ad
indicar loro precisamente quella caverna, quell'albero,
quel fonte, sicché quelli non li possano cogli altri al
beri, caverne e fonti confondere: la quale necessità io
credo però che nello stato selvaggio non gli debba venir
mai, e nè pur molto appresso, quand'abbia cominciato
ad incivilirsi, e fatti nella civiltà più passi; perciocché
ove il bisogno gli venga di segnare quegli oggetti indi
vidualmente, egli fuor di dubbio il farà prima per altra
più facil maniera che per quella difficilissima dell'in
venzione de' nomi proprj, ed anzi co' cenni, col contesto
del discorso, o cogli aggiunti accidentali di cui abbiamo
toccato, o con altra qualsiasi più agevole industria.
Come poi non si può conoscere se un nome sia co
mune, dal solo esaminare se con quel nome s'appellano
più individui; perocché si potrebbero appellar più in
dividui con un medesimo nome proprio; così viceversa
non si può accertarsi se un nome è proprio , dal solo
sapere che con esso si nomina un solo individuo; poi
ché anche un solo individuo può nominarsi con un
nome comune. Così se di tutto l'uman genere soprastesse
un uomo solo, quest'uomo non avrebbe bisogno alcuno
del nome proprio, ma a lui basterebbe il comune di
uomo, perciocché non potrebb' egli esser confuso con
altri: e quel nome non si rimarrebbe però dall' esser
comune, giacché esso non indicherebbe un individuo
mediante la sua propria individualità , ma mediante
l'umanità da lui posseduta; qualità che possiede bensì
egli solo, perchè altri uomini non ci vivono, ma che
potrebbe da infiniti altri individui egualmente essere
posseduta, a' quali tutti converrebbe lo slesso nome; il
che fa sì che la natura del nome sia d'esser comune.
E questo è tuttavia più di una semplice conghiettura
cavata per lavoro d'immaginazione, siccome è il rac
conto di Smith: egli è pure il fatto medesimo che noi
veggiamo descritto nelle sacre carte, le quali ci parlano
11 I
di nn tempo, ove un solo uomo era sopra la terra. E
ci dicono, che a quest'uomo non fu già dato un nome
proprio , del quale non avea alcun bisogno , ma gli fu
imposto il nome comune di uomo, giacché Adamo in
ebraico non vuol dire che uomo. E acciocché si veda
meglio come un tal nome era comune veramente, guar
disi all'origine sua : perciocché egli veniva dalla parola
terra, di cui le sacre carte ci dicono composto l'uomo;
ed era ordinato a significare « un ente composto di
terra ». Adunque la prima persona nominata al mondo
non fa già chiamata col nome della sua individualità,
ma col nome d'una qualità comune a tutti gli uomini
che dovean venire dopo di lui ; e ciò il rendeva ; se-
condo l'esposta dottrina, un nome comune.
In luogo dunque di ricorrere ad un selvaggio imma
ginario, in luogo di perdersi nella formazione di alcune
ipotesi, che è metodo di consenso comune antifilosofico;
io avrei desiderato e aspettato dalla sagacità de' nostri
filosofi, che avessero consultali un po' i monumenti
dell'antichità, che danno i fatti reali.
Mediante l'indagazione di questi fatti, essi sarebbero
venuti a dubitare di quella loro sentenza , che pure a
prima vista sembra certissima, cioè che « i nomi pro-
prj jieno stati inventati prima de5 nomi comuni ».
Egli è appunto .in simiglianti proposizioni, le quali
hanno in sè una specie di evidenza, che giacciono oc-
calli gli errori più perniciosi ; e di là è più difficile a
trarli in piena luce: quella falsa evidenza conduce ad
abbracciar gratuitamente quelle proposizioni anche uo
mini per altro circospetti, uno de' quali a' nostri tempi
si reputa il signor Stewart, e fa che si credano dispen
sati dal diligente e faticoso studio de' fatti.
Se questi rispettabili filosofi nostri avessero, come
dissi, esaminato onde i primi uomini abbiano veramente
imposti i nomi alle cose, essi avrebbero riconosciuto,
a non più dubitarne, che que' nomi antichissimi non
erano mai arbitrarj, siccome sono i nomi proprj , cioè
non indicavano l'individualità della cosa, ma sempre
una proprietà comune della medesima. Caino, volea dire
possessione, cosa acquistata, posseduta; e Adamo gl' im-
ponea questo nome, dicendo « Ho posseduto coll'ajuto
divino una nuova cosa. » Egli è chiaro che questo è
nome comune ; perchè conviene egualmente a tutte le
11a
cose acquistale o nuovamente possedute. Abele, vuol dire
vanità; Eva, cosa vivente; Set, ente sostituito; Enoch ,
dedicato; Lamech, povero, umiliato: tutti nomi comuni:
e così dicasi di tutti gli altri nomi ebraici di persone
o cose, i quali son lutti formati a questa guisa, che
l'individuo vi è significato mediante una qualità comune,
e perciò sono tutti veri nomi comuni (1). La stessa os-

(i) La piò antica notizia che porga la storia circa l' imposizione de'noml,
è il celebre passo del Genesi ( Cap. II), nel quale si narra che Adamo
impose a tutti gli animali creati da Dio il nome loro; dopo la quale nar
razione il sacro storico aggiunge » omne enim , quod vocavit Adam anima
« viventi*, ipsum est nomea cjus ». Eusebio, spiegando questo passo, dice
che Mosè volea con ciò significare come i nomi imposti da Adamo agli
animali esprimevano la loro natura; «t'unì ait , ipsum erat nomen ejus,
•< quid ulani quam appetìationes , idi natura postulabat , ìriditas este signi-
« ficai? n ( Prmp. Evangel. , lib. XI , cap. VI). Ora questi nomi imposti
alle specie diverse degli animali da Dio creati , in tal modo che significa
vano la natura loro, non sono altro che appunto de' nomi comuni : sicché
il più antico e sacro documento che ci rimanga sulla prima formazione
del linguaggio, ci dimostra manifestamente che i primi nomi dati alle cose
non furono proprj, ina si bene comuni. Coli' opinione di Eusebio concor
dano ad una voce le ebraiche tradizioni e le sentenze, de' rabbini; e chi
fosse vago di vederle raccolte, egli non avrebbe che a leggere Giovanni
Buxtortio il figlio ( Dissert. philologico-theolog. I, § XXIV), o Giulio
Bartolocci (Bibliolh. magna rabbin. tom. I ), o altro tale scrittore.
Per altro non sono le sole antichità ebraiche che ci assicurano, i pruni
e antichissimi essere stali i nomi comuni, cioè significanti la natura o le
qualità delle cose uominate , e non l'individualità loro; questa è l'opi
nione di tutta 1' antichità , ed il fatto delle lingue antiche. Io non ho qui
tempo di estendermi a recar di ciò quelle innumerevoli prove che io Del
ire!; ma mi basta osservare, che il Cratilo di Platone è iu sostanza ri
volto a provare pur questo medesimo , cioè che i nomi furono anticbissi-
inameule imposti alle cose non per arbitrio ma per ragione; che doven
dosene imporre di nuovi, si dee parimente cercare, siili esempio de' pruni
che hanno nominate le cose, di trovare ed imporre nomi tali che espri
mano le qualità, la natura delle cose che si vogliono nominare; e che
finalmente, dovendo noi usare i nomi già imposti, si vogliono usare con
tutta la proprietà, perchè rispondano appunto al loro significato.
Egli è in gran parte per questo medesimo , cioè perchè i nomi anti
chissimi erano comuni, o sia indicanti le qualità comuni, le specie, le es
senze (il che è lutto il medesimo) , che s' avea' come ferma sentenza e
universale appresso gli antichi , nella scienza de' nomi consistere tutta la
sapienza, doversi i nomi gelosamente ed immutabili custodire, e traman
dare a' figliuoli come s'erano ricevuti da' padri, qual preziosa e sacra ere
dità, che rinserrava il deposito della religione e del sapere, e il segreto
dell' umana felicità.
Del medesimo fonte vennero ancora le superstizioni poste nell'uso di
certi nomi ; perciocché quella riverenza che loro s' avea , e quell' impor
tanza che loro davasi da' vecchi nel doverli custodire intani e tramandarli
a' posteri, si mutò appresso in una venerazione cieca e Confusa , e passo
cosi u quell'eccesso, al quale sempre mai è inclinata di rovesciare ogni
passione dell' uomo, eccesso nel quale la fantasia trovasi come iu suo le
gno, e vi produce i più capricciosi elicili,
1,3
seriazione può farsi de' nomi greci, e di quelli di tutta
intera l'antichità; nella quale si può dire con ragione,
eoe non sì è mai conosciuto il modo di creare de' nomi
veramente proprj , cioè non indicanti una qualità co-
mane, ma la slessa individualità della cosa, come nelle
lingue moderne vengono ad essere Pietro, Paolo ecc.,
Italia, Francia, Inghilterra ecc., Adige, Tevere, Po ecc.,
i quali nomi stessi sono divenuti proprj veramente dal
momento che si sono perdute le loro etimologie, o che
alle medesime non si pose più attenzione in proferendoli.
Per altro questi medesimi nomi proprj delle lingue
moderne tramandatici dall'antichità, sono argomento
di ciò che dico; perciocché ciò che ci rimane delle loro
etimologie manifesta che nell' antichità tutti avevano
un loro significato , e non erano punto de' suoni arhi-
trarj (i) : il che è quanto dire che l'antichità avea
nominato queste persone, questi paesi, questi fiumi in
dividuali con de' nomi comuni , cioè con nomi che li
contrassegnavano non già mediante le note lor proprie,
ma mediante le note comuni a più altri esseri della
medesima specie.

(i) Di qui gli antichi trovavausi iu acconcio di fare 1' osservazione dulia
priorità de' nomi comuni sui nomi proprj, assai più che noi non siamo.
Aristotele la fece nel libro I , c. i , delle cose fisiche. Ivi egli osserva
cbiiraraeule , che 1' uomo inventa prima dei nomi comuni , e poi de' nomi
E poi singolare il vedere come Aristotele appoggia la sua opinione ad
no latto similissimo a quello che riporta lo Smith , per dimostrare appunto
il contrario : tanto è vero che i falli , ove non sieuo accompagnati da un
buono e retto intendimento in chi ne fa uso, non valgono a condurre per
sé medesimi alla verità, ma sono anch' essi occasione d'abuso e d' errore.
Lo Smith vi dice « Il Selvaggio chiama col nome imposto alla sua ca
verna tutte le caverne che vede, dunque egli inventò prima il nome pro
prio e poscia lo rt-se comune » .
Aristotele vi dice « Il fanciullo chiama col nome di padre tutti gli
nomini che vede, fino che non ha imparato a discernere il padre suo dagli
altri uomini ; dunque il nome eh' egli dà a suo padre , per lui è un nome
comune, e non ristringe il significato di questo nome comune, a segnar
con esso il solo suo padre, fino che non s' accorge delle differenze, e perciò
dell' error suo nel prendere il padre per un uomo qualunque. Quindi il suo
intelletto procede dal generale al particolare, dal genere alle differenze che
gli fanno conoscere la specie «•.
Io non voglio decidere se questa osservazione di Aristotele, che suppone
che il fanciullo conosca prima nel padre suo l'uomo, che il padre, sia vera.
Ella mi vale però a provare che 1' opinione di Aristotele nell' invenzione
ile' nomi é questa, che prima si nominino le cose con voci più generali,
e poi con voci via meno generali.
Rosami, Orìg. delle idee, Voi. I. i5
ARTICOLO IX.
SETTIMO MANCAMENTO : IGNORA CKE fc PIO* FACILE CONOSCERE NELLE COSE
CIÒ CHE È COMUNE, DI Ciò CHE È FROFRIO.

1/ antichità ci mostra adunque che l'invenzione de'


nomi comuni è assai anteriore di tempo a quella de1
nomi proprj ; che le lingue antiche solevano adoperare
de' nomi comuni anche allorquando avevano necessità di
nominare de' particolari individui; e che non si trovano
nomi veramente proprj, se non nelle lingue moderne.
E dietro a questo fatto esaminando noi meglio la
natura della cosa, troviamo, che un tale andamento
dello spirito nella formazione delle lingue , strano nel
primo aspetto, è pur naturale, e l'unico che far possa
lo spirito umano ; conciossiachè una maggior forza di
astrazione ci bisogna a notare e nominare l'individua
lità stessa degli esseri, che non a dar attenzione alle
loro qualità comuni e imporre un nome che me
diante di queste li esprima. Egli è ancora naturale e
necessario , che il primo bisogno degli uomini sia
quello di chiamare gli esseri colle loro qualità più ge
nerali; che appresso si manifesti la necessità di no
minarli con delle qualità più speciali, quando cioè
incontra che senza questa specificazione essi li confon
dano insieme, risentendo l'uomo danno o molestia di
questa confusione : che procedendo via più innanzi l'e
sperienza e l'uso che l'uom fa delle cose, egli esperimenti
la necessità di distinguerle in fra loro per classi via
minori, e di nominarle con nomi via meno comuni; e
finalmente che in ultimo, in uno stato di società già
molto avanzata , sorga a lui il bisogno di segnar con
de' nomi proprj gli slessi individui , i quali nomi pro
prj perciò sono gli ultimi che vengono inventati , e po
sti , e quelli che danno 1' ultimo compimento e perfe
zione alla favella.
Di qui è che nessuna cosa manca del nome comune}
non tutte hanno quello del genere ; un minor numero
hanno anche quello della specie; e finalmente troppo
meno di un millesimo delle cose sono di nome proprio
nominate , e queste pochissime ancora solo nelle lin
gue moderne: e di qui medesimamente apparisce che i
rispettabili filosofi di cui parliamo, abbandonando i fatti
per seguir dietro le loro speculazioni ipotetiche, inde
nS
scrivendo il progresso dello spirilo umano nella forma
zione delle lingue e de' pensieri, abbiano cominciato là
dove avrebbero dovuto appunto finire; abbiano suppo
sto che il primo passo dello spirito umano sia 1' ulti
mo; che la prima operazione sia l'imposizione de' nomi
proprj, mentre questa non si fa che alla fine: percioc
ché ella suppone la più bene avanzata coltura sociale:
a tale, che anche nelle lingue moderne d'Europa, pur
Unto perfezionate, e frutto di uno sviluppamelo di
miglia ja d'anni felici dell'influenza del cristianesimo,
si ravvisa ne' nomi proprj 1' origine loro, ed il loro
primitivo stato di nomi comuni.

ARTICOLO X.
OTTAVO MANCAMENTO :
IGWOKA COMI I NOMf COMUNI FASSINO AD ESSE* TBOPRJ.

Laonde quando lo Smith pronunciò con tanta sicur


tà, che la caverna, l'albero, il fonte particolare di cui
\\ suo selvaggio ebbe la prima notizia, furono senza
dubbio i primi oggetti ch'egli segnò con de' nomi pro
pri, i quali trapassarono ad esser poscia comuni quan
d'egli ad altri individui li accomunò, allora disse ap
punto il contrario di ciò che avvenne: egli disse che
tatti i nomi che abbia ni ora comuni , furono nomi
p'oprj a principio; ed in quella vece tutti i nomi pro
prj che noi abbiamo furono al principio comuni.
E gli avvenne questo errore dall'idea inesatta di ciò
che costituisce i{ nome proprio ed il nome comune.
Egli credette, e sembra vero nel primo aspetto , che
nome proprio sia quello onde un solo oggetto è nomi
nalo , e nome comune quello onde sono nominati più-
oggetti. Ma in questo concetto egli prendeva ciò che
accidentalmente succede de' nomi proprj e de' nomi co
muni , per ciò che costituisce propriamente la loro na
tura. E di vero egli suole avvenire, che il nome comune
s'applichi a più oggetti, e il nome proprio ad un og
getto solo; ma questo avviene solo accidentalmente;
mentre, come abbiamo veduto, potrebbe darsi il contra
rio, e talora si dà, che il nome comune s'applica ad
un oggetto solo, non restandosi dall' esser comune, ed
e converso il nome proprio s'applica a più oggetti , non
rimanendosi dall' esser proprio: conciossiachè veramente
j.6
sì il nome proprio che il comune non s' applica giam
mai che ad un individuo solo alla volta , e non v' ha
tra loro se non questa differenza, che quando l'indivi
duo è chiamato pel nome comune, egli allor viene
chiamato e contraddistinto per una certa qualità sua,
della quale medesima più altri oggetti partecipano , o
possono partecipare ; mentre quand'egli è chiamato pel
suo nome proprio, viene con ciò segnato nella sua stessa
individualità, cioè in quello ch'egli ha di proprio o
d'incomunicabile con qualsiasi altro.
In luogo dunque di dire che i nomi proprj sono pas
sati ad essere nomi comuni , conviene anzi dire che si
sono presi i nomi comuni e fatti servire da nomi pro
prj, trasportandoli ad esprimere quell'individualità degli
oggetti, che dinanzi non era espressa, ma sottintesa.
E per chiarir meglio come ciò possa essere avvenuto,
ci bisogna riflettere, che un nome comune, indicando
un oggetto mediante una qualità ch'esso possiede in
comune con altri (i), non determina punto l'oggetto
per sì fatto modo, che lo divida dagli altri tutti che
la qualità stessa partecipano: un tal nome adunque di
sua natura non è proprio, cioè non è di un oggetto
unico e determinato. Ora egli non diventa proprio che
mediante una tacita convenzione (a), o per dir meglio,

(1) Si parla sempre dell' oggetto in quanto è da noi concepito: perocché


in sè, non ha, come si diceva , il comune , giacché ciò che nella mente no
stra è comune, ivi è appropriato e individualizzato.
(2) Anche prima che il nome comune passi a divenir nome proprio per
convenzione, egli s'usa talora ad indicare degl'individui. Quando ciò av
viene, si suol supplire alla indeterminazione del nome colle circostante
esterne che accompagnano l'atto nel quale egli si pronuncia. Così trapas
sando un uomo solo per via, e volendo io con lui parlare, grido alla sua
volta, o uomo, ascoltami ; ed egli a questa voce si ferma e volge a me
il volto, applicando a sè quel nome comune di uomo che ha sentito da me
proferire, nè egli può sbagliare applicandolo a se stesso, perocché non sono
altri uomini nella via. Che se altri uomini v'avessero, potrebb' essere che
al grido mio, o uomo, molli si voltassero a me nel medesimo tempo, ap
punto perchè il nome è a tutti loro comune; ma dove ciò avvenisse, io de
terminerei tantosto qucll' uomo a cui io parlo , col gesto della mano , o colla
ìsola direzione delle parole, o con altri cenni acconci a determinare ad un
individuo la voce comune che adopero.
Ora i primi nomi dati alle cose debbono essere stati appunto comuni in
se stessi, ma adoperati e considerati nell'animo degli uomini che li usavano
come nomi proprj: cioè a dire, sebbene il nome non esprimesse che una
qualità comune, tuttavia essi v'intendevano sempre unito l'individuo, e a
questo sempre lo riferivano col loro pensiero tacitamente. In fatti h< mente
"7
una convenzione espressa pur col fatto, per la quale gli
nomini affigono quel nome, di natura sua comune , a
segnare un essere particolare. Sicché il nome comune
vale a nominare un individuo: ma questa sua attitudine

nostra nel primo suo stalo, mentre non è avvezza ancora a fermarsi nelle
astrazioni, corre sempre alla realtà degli oggetti.
lo farò jedere in quest'opera stessa 1* ordine delle idee a cui la mente
amaca riflette , il quale è il seguente : i .* prima di tutto la mente umana
Vu l'idea dell'ente in universale, ma in questa non riflette nè mette atten
uo» se no a in fine di tutte le altre, si può dire: non comincia adunque
da (first» la serie delle idee riflesse; a.0 poi acquista le idee p più tosto
pera-coni degl' individui mediante i sensi , e queste idee sono composte a)
di celioni comuni b) e del proprio o individuale, e queste sono le prime
iJte nelle quali 1' attenzione umana si ferma ed occupa ; 3.° appresso sola
ndole cominciano le astrazioni, mediante le quaW I umana attenzione si
pose nelle sole nozioni comuni, abbandonando le note proprie degli oggetti.
Ora l'uomo non nomina se non l'idea sopra la quale riflette l'attenzione; non
cwlh a cui punto non bada , a cui punto non attende. Le prime idee no
nirate sono adunque idee applicate ad individui. Questo fu che condusse
io errore, a mio parere, lo Smith. Egli da ciò dedusse, che dunque i voca
li primi dovessero essere de' nomi proprj; ciò che è contro la storia, e
•siadi anche contro la ragione. Non aveva egli osservato la natura delle
Vist implicale ad individui ; egli aveva credulo che fossero idee semplici ,
ene s pensasse con esse la individualità, senz'allro. In vece di ciò, tali idee
• perosoni sono composte di nozioni comuni , e del proprio dell'oggetto ,
™»w a tutta quest' opera si dimostra. Ora noi diciamo che , .sebbene le
p™» idee nominate non sieno semplici idee , ma coli' applicazione loro ad
ain-.Am; tuttavia questa nominazione si fa dalla parte delle nozioni comuni
^caprese in tali idee, e quindi hannosi de' nomi comuni, che l'intenzioue
A coi li usa e le circostanze esterne li rendono atti a nomiuare cose indi
viduali.
Se le prime idee nominate, sono le idee individuale; le seconda idee sono
le astrazioni, cioè le idee delle nozioni comuni comprese nelle idee indivi»
tate. 11 separare queste nozioni comuni, l'affissarle in uuo stato d'isola
mento , e finalmente il nominarle, questa è la susseguente operazione dello
spirito umano.
Abbiamo detto, che le idee individuate si nominano da ciò che hanno
ài comune; e che questi nomi comuni indicano individui, unicamente per
ciò che vi sottintende lo spirito di chi li usa, che non li adopera senza
riferirli col pensiero ad individui. Questo è vedere il comune negl individui:
ora si tratta di vedere il comune in separalo dagl' individui, e in questo
stato nominarlo.
Quindi le due questioni» come lo spirito può fare le prime astrazioni »
e« come può nominarle» .
Per dir prima di questa seconda, egli è evidente, che, supponendo nello
spinto umano in movimento la sua facoltà di astrarre, supponendo cioè la
prima questione risoluta, è facile conoscere com'egli possa uomiuare gli
astratti già concepiti.
Egli può nominarli tanto coi nomi comuni, coma uomo, animale ecc.,
quanto coi sostantivi indicanti astrazioni, come umanità, animalità ecc.
Riguardo ai nomi comuni, egli li possiede già; tutto si riduce a sapere,
aspetto a questi , com' egli cominci ad adoperarli come nomi meramcutc
1 18
d'indicare e nominare l'individuo, noYi ^ espressa nel
nome stesso, ma vi rimane sottintesa e nascosta nello
spirito di quelli che ad indicare l'oggetto pur quel nome
particolare adoperano. Ed avviene questo fatto, che l'in
dividualità non si esprima direttamente, ma solo si sot
tintenda nell'uso de' nomi comuni ove s'applicano ad
individui, appunto per quella difficoltà che incontra la
mente umana in astrarre l'individualità dagli oggetti,
la quale astrazione è una delle ultime che si suol fare
e delle più malagevoli.
Riassumendo adunque: ritengasi, che il primo passo
che dà lo spirito umano verso la conoscenza dell'indi
vidualità, si è quello di percepirla accompagnata e rav
volta con tutte l'altre qualità delle cose comuni , e di
affissarla coli' intelletto meno distintamente delle qua
lità comuni:
Che quindi Io spirito, al cominciamento , segna co'
nomi le qualità comuni : e quindi appresso si giova di
questi nomi per indicare la stessa individualità : l'idea
però di questa non è ancora in lui netta e distinta, e
perciò non è atta d'essere espressa essa stessa, essa sola
con un nome proprio. Il che, come dicevamo, è cosi
difficile, che appena nelle lingue moderne qualche esem
pio se ne ritrova.
Adunque, se noi vogliam ritornare al nostro selvag
gio, e siam vaghi di farlo inventore de' nomi della sua
caverna; del suo albero, del suo fonte, conveniam dire

comuni, senza riferirli ad individui determinati: il sapere come lo spinto


possa far ciò, è sapere com'egli venga mosso alle prime sue astrazioni; di
pende perciò interamente dalla prima delle due proposte questioni.
Riguardo poi ai nomi indicanti astratti, non è parimente più difficile
1' inventarli, quando si supponga che lo spirito sia giunto a riflettere sulle
qualità astratte delle cose esclusivamente prese ed in separalo dalle qualità
proprie: perocché l'uomo può nominare qualunque idea, purché però la
fissi, riflettendo sopra di essa la sua attenzione. Tutto dipende adunque
dalla prima questione « come lo spirito umano venga mosso alte prime astra
zioni ».
Ora la mia opinione sopra di ciò fu espressa già nel Saggio sui confini
della ragione umana ( Opuscoli Filosofici , Voi. I , face. Gì e segg. ). Io di
mostrai in quel luogo, che l'uomo avea bisogno d'essere ajutato e mosio
a ciò da qualche segno esterno (lingua), che segnasse la cosa astratta, da
se sola; e tale, che fosse atto a eccitare e tirare la sua attenzione, e nella
sola qualità astratta concentrarla. E fu di qui che io dedussi l'impossibilita
che aveva l'uomo d'inventare da se stesso un linguaggio completo e ac
comodato a' suoi bisogni.
1 19
cosa più verisimile eh' egli tenesse il seguente procedi
mento nei suo lavoro.
Egli osserverà a prima giunta, nella sua caverna, nel
l'albero suo, nel suo fonte, qualche qualità delle più
appariscenti e che più prontamente e vivamente i suoi
sensi feriscono; sì come nella caverna sua, la qualità
d'esser cava; nell' albero suo, la qualità d'essere forse
uoderuto e robusto , o di rilevarsi dal suolo e cimeg-
gi are alto sopra il suo capo; nel fonte, la qualità di
esser profondo, o quella del salire dell'acqua, od altra
Ule: poi, mediante queste qualità comuni, egli inven
terà de' nomi veramente comuni, i quali equivarranno,
uelf io tenore della sua mente, a queste proposizioni:
- ciò che è cavo » ; « ciò che è robusto » ; « ciò che
è sublime, profondo, o sagliente ».
Fatto ciò , egli usurperà questi nomi comuni , a in
dicare la parlicolar sua caverna , il suo particolare al
bero e fonte; perocché l'uso del nome comune è quello
d'essere applicato, egualmente che il proprio, ad oggetti
individuali, e non differisce, come diceva, dal proprio,
da nel poter essere applicato egualmente a tutti quegli
oggetti che posseggono le qualità da lui segnate ed
espresse: la quale accomunabilità, per così esprimermi,
viene ristretta e tolta dall'intenzione di lui che l'usa,
e dalle circostanze nelle quali lo usa.
Io voglio porre dunque collo Smith, giacché egli ci
trae in queste supposizioni, che nel principio il selvaggio
non conosca che una caverna sola, un albero solo, un
fonte solo. E ciò posto, egli non può applicare i nomi
da lui inventati che a quella caverna, a quell'albero,
a quel fonte che solo conosce. Ma ov egli viene a sco
prire altre caverne^ altri alberi e altri fonti, dico ch'egli
immediatamente s'avvede, che ciò che è cavo, ciò che
è robusto, ciò che è sagliente, non è cosa unica al
mondo, ma che troppe ve n'hanno di quelle cose cave,
di quelle robuste e di quelle saglienti , e che quindi i
nomi da lui trovati ad esprimer cosa a cui convengono
queste varie qualità, segnano già da se stessi ed espri
mono ciascuna di quelle caverne egualmente che la
pritna, ciascuno di quegli alberi e di que' fonti.
il nostro selvaggio applicherebbe adunque, e questo
sarebbe un secondo passo, i suoi nomi comuni, a più
caverne a più alberi, a più fonti; e così quel nome che
iao
era comune fino a principio, non soffrirebbe altra mu
tazione, se non quella di esser adoprato realmente a
nominar più oggetti, tutti per altro presi singolarmente,
mentre prima non l'adoperava che per un solo.
Ma allorquando il selvaggio nostro riconoscesse il bi
sogno di distinguere la caverna sua du tutte le altre,
egli farebbe un terzo passo; e non sarebbe ancor quello
dell'invenzione de' nomi proprj; ma probabilmente di
stinguerebbe le diverse caverne della sua foresta con
qualche aggiunto, come co' pronomi possessivi mio, tuo,
suo, dicendo, la caverna mia, la caverna tua, la caverna
sua, ecc. (i); o in qualunque maniera fosse questa frase
composta, ella sarebbe sempre tale che indicherebbe la
caverna a lui appartenente, o la caverna appartenente
a quello con cui parla, ovvero la caverna appartenente
ad un terzo.
E così innanzi di pervenire all' invenzione di nomi
veramente proprj , a lui converrebbe di fare ancora una
lunga via; converrebbe ch'egli si cessasse dall' esser sel
vaggio*, che si aggregasse in società; che la società nata
nelle sue selve, prima ristretta e domestica, poi si ral-
largasse, facesse degli avanzamenti molti verso una col
tura e una civiltà , e che finalmente ella aggiungesse
lo stalo della perfezione : uno stato di tale e tanto in
civilimento , ove gli uomini si fanno capaci delle più
fine e delle più protratte astrazioni , e di fermarsi in
esse : ove si formano e moltiplicano i bisogni fattizj :
ove i bisogni morali si sviluppano, si diramano, si raf<
finano : que' bisogni che sospingono gli uomini a distin
guere continuamente via più le cose in fra loro (2) , e

(1) Cerchisi il fatto: nelle lingue antiche si trovano molti nomi veramente
composti del nome comune, e del pronome possessivo affissovi; p. e. in
ebreo Sarai significa» la signora mia», e cosi dicasi di tanl'altri, che
terminano colla lettera £ indicante il pronome possessivo mio.
(2) L' osservaziouc che fece il capitano Cook, e che Dugald Stewart reca
in argomento della dottrina di Smith , serve piuttosto a provare mirabil
mente il contrario; e nel mentre che d' una parte viene in conferma della
dottrina da me esposta, dall'altra vi dà un esempio della grande differenza
che passa fra 1' allegare de' fatti e 1' allegarli a proposito.
Lo Smith e lo Stewart vogliono che il selvaggio inventasse prima i nomi
proprj} che quindi li rendesse comuni coli' applicarli a più cose simili, e
che questi nomi applicati a più cose simili tenessero luogo di specie e di
generi : così essi descrivono il progresso onde gli uomini pervennero alla
formazione de' generi e delle specie.
Ecco qual sia l' osservazione che fece il capitano Cook approdato alla
I 2I
partire le classi più generali in classi minori , e dise
rbar le specie più ristrette e più vicine all' individuo ;
i classificarle in tutti i modi possibili , necessarj ed ar
bitrar/, e finalmente fissare anche gli individui stessi
con de' nomi che segnino esclusivamente la loro indivi
dualità , ultima e più raffinata operazione prodotta non
da' bisogni dell' uomo isolato ma dall' uomo perfetta
mente sociale.

pitto!» isola di Wateeoo eli' egli visitò Tenendo dalln Nuova Zelanda alle
i»fe drjli Amici. •« Oli abitatori di quest'isola, egli dice , non osavano
• accciUrsi alle nostre vacche ed a' nostri cavalli, e non si facevano alcuna
• idra della natura di questi animali. Ma i montoni e le capre non supe-
■ mano la loro levatura. Essi ci fecero intendere , che ben sapevano che
■ enno degli uccelli ». Dopo questo racconto, il viaggiatore aggiunge :« Sem
brerà furse incredibile, che l'ignoranza possa andar tanl' oltre da com-
• mettere un simile errore, poiché né il montone nè la capra rassembra
• punto a un animale alato. Ma bisogna osservare , che questi popoli non
• conoscevano altri animali terrestri che il porco, il cane e gli uccelli. Essi
- ledevano assai bene, che le nostre capre e i nostri montoni erano al
• Mio differenti da quelle due prime classi da lor conosciute , e quindi
« tOTictiudevano ch'essi appartenessero alla terza, nella quale essi sapevano
» iieni grande varietà di specie»
Pcraeio credo più facile che il nostro viaggiatore, mal conoscente della
hrpi di quegli isolani , abbia preso sbaglio noli' intendere ciò eh' essi di-
Cerino, auzicbè io mi persuada che quegli isolani, i quali eran pur forniti
di itosi, non abbiano veduto che i montoni e le capre rassomigliano più ai
fora e ai cani , che non sia agli uccelli.
Mi giacché il signor Stewart non fa difficoltà a prestar fede a questo
racconto, mi contenterò di osservare, che tanto è lungi che col medesimo
ti possa provare il passaggio da' nomi proprj ai nomi comuni, che anzi iu
oso non si parla se non di nomi comuni. Quegli isolani avevano i nomi
delle specie , e Don i nomi degli individui , e li applicavano a quegl' individui
ebe nella loro specie si contenevano , o che potevano in qualche modo farsi
contenere nella medesima. Coli' applicare un nome comune a più individui ,
non si estende il suo significato; ma volendo anche supporre che quegl' iso
lani estendessero il significato della paiola uccelli, V estensione sarebbe da
Dna specie di cose meno estesa ad una più estesa , e però sarebbe sempre
da specie a specie, e non da individuo a specie: il che è dove sta il diffì
cile a spiegare, e alla cui spiegazione indarno si reca il racconto suddetto.
Oltre a ciò, quando si ha un vocabolo, ricevuto nell' uso comune a si
gnificare una specie di cose; se v'ha alcuno che usurpi lo stesso vocabolo
ad indicare un oggetto che in quella specie nou si contiene, egli è più giusto
i dire che colui commette errore nel significato del vocabolo, o nel giudizio
ebe fa su quell'oggetto a cui applica il vocabolo, facendolo entrare in una
specie di cose alla quale non appartiene; anzi che il dire che il vocabolo
tesso abbia ricevuto un'estensione maggiore di significato. Cosi se vedendo
W Cimelio, io dirò, egli è un cavallo, si dirà ch'io ho preso un errore
sulla specie dell'animale, o sul valore della parola cavallo, e nou già che
li carola abbia ricevuto un significato più esteso; un taJe significito non può
rcevcrlo fino che non concorra a darglielo l'uso Cumuuc degli uomini.
Boimihi, Orig- delle Idee, Fol I. iG
I 22
ARTICOLO XI.
HOMO MANCAMENTO: NEL PASSO SI SMITU, COL ODALI SI VUOLE SriICAW:
L£ IDEE ASTEATTS, NULLA DI CIÒ SI «ACCHIUDE.

Fino a qui non abbiamo fatto altro che considerare


il progresso della lingua che abbiam supposto formarsi
dall' uomo : non abbiamo esaminato che il prodotto
esterno dell'interna operazione dello spirito formatore
di questa lingua: non siamo ancora entrali nello spirito
slesso, e non abbiamo scrutato qual sia questo travaglio
nascosto, e quali facoltà debbono concorrervi, perchè
aver si possa il detto esterno prodotto della lingua.
Quando noi avessimo descritte, e dimostrate esistenti
in noi le facoltà ad un tale lavoro necessarie , allora
solo i progressi sopra descritti nella formazione della
lingua verrebbero ad essere spiegati; perciocché ci sa
rebbe indicata una ragione sufficiente de' medesimi, ed
assegnale le cause che li possono produrre.
Il più degli uomini si appaga ove vegga bene descritto
il processo dello spirito esteriormente; perocché si trat
tiene nell'esterior discorso : e lo stesso Stewart, volendo
spiegare la maniera nella quale l'uomo forma i generi
e le specie, si contenta di ciò che è racchiuso nel passo
recato dello Smith, e dice che « quella spiegazione gli
sembra altrettanto semplice che soddisfacente ».
Or io voglio anche ammettere un poco, che sia tutto
vero ciò che quivi ci dice lo Smith, e che veramente
da' nomi proprj l'uomo sia passato ai nomi comuni e
appellativi. Ma dopo ciò, io ancora confesso, che non
veggo come nel passo dello Smith si racchiuda una
spiegazione di sorte alcuna, del modo, onde lo spirito
umano forma quelle classi d'oggetti ch'egli nomina poi
generi e specie. 11 dirmi che l'uomo da' nomi proprj
passa ai comuni, non è ancora il dirmi che cosa, fa
cendo egli ciò, nasca nel suo spirito; non è un esami
nare l'operazione interna che, nello spirito suo, corri
sponde a quel passaggio de' nomi; né un cercare quali
facoltà si debbano supporre per simile operazione; quali
sieno quelle difficoltà le quali hanno fatto considerare
ad alcuni filosofi la formazione de' generi e delle specie,
al dire dello stesso Stewart, come uno dei più difficili
problemi della metafìsica.
123
ARTICOLO XII.
DECIMO MINCAMETTTO : LO SMITH CELA STODIOSAMENTE LA DIFFICOLTÀ*
CB£ 5 I.VCONTa*. NELLO SPIEGARE l' ORIGINE DELLE IDEE ASTRATTI.

E si osservi primieramente come lo Smith veli in


certo modo, e nasconda a se medesimo e a' suoi lettori
\e ÀiSicoUà che si contengono nello spiegare la forma-
none de' generi e delle specie, ossia delle idee astratte
e generali.
Egli fa ciò col somministrare a' lettori delle idee ine
satte; giacché l'inesattezza delle idee trae fuor di via
lo spinto e lo impedisce dal trovare il vero nodo della
questione.
In prima ci ha fatto supporre che i nomi comuni
non segnino che una collezione d'individui. Io ho già
mostrato ch'essi non segnano collezione, ma ch'essi si
applicano a ciascuno individuo d'una data collezione
o specie.
Poi , nell' uso della parola collezione in luogo della
parola specie, celasi un'altra fallacia. Una collezione
d'individui è sempre un numero determinato o almeno
finito d'individui. All'incontro il nome specie non indica
do nomerò determinato, ma bensì tutti gl'individui pos-
sibili forniti di quel carattere o sia qualità assunta a
determinare la specie. Questa differenza rileva somma
mente alla nostra questione, ed ecco in che modo.
Se si tratta di spiegare, come l'uomo, avendo posto
on nome ad un oggetto, dia il medesimo nome a cinque
oggetti ; e se si suppone che con quel nome egli non
roglia indicare se non un singolo oggetto per volta ,
senza considerare la simiglianza che l'uno ha coli' altro;
non fa bisogno ch'io supponga nell'uomo altra facoltà,
se non se queste: t.° di percepire gli oggetti singoli,
a.* di applicare a ciascun d'essi un segno arbitrario. Egli
ebbe qui cinque oggetti, e cinque segni ; ma essendo
indipendenti i segni fra loro, come pure gli oggetti ,
egli ha potuto, in vece di prendere cinque segni, ripe
tere cinque volte lo stesso segno, che in tal modo se
gna ciascuno de' cinque oggetti. Ma se air incontro si
tratta di spiegare come un nome proprio sia passato ad
essere un nome comune, o in generale, come l'uomo
abbia potuto inventare i nomi comuni , allora il pro
blema si riduce a quest' altro : « In che modo 1' uomo
I 24
abbia potuto nominare gli oggetti mediante una loro
qualità comune ». E per rispondere a questo quesito,
bisogna supporre nell'uomo le seguenti facoltà: i.* di
concepire gli oggetti individuali , a." di fissare la sua
attenzione sopra le loro qualità comuni , ossia di for
marsi le idee astratte, 3." di considerare gli oggetti in
quanto sono dotali di queste qualità comuni , 4-* di
esprimere co' suoni tutte e tre queste cose conosciute,
cioè gl'individui come tali, le qualità comuni degl'in
dividui, e gl'individui in quanto di qualità comuni
sono forniti. Quest'ultimo modo di nominare gl'indivi
dui, è ciò die corrisponde all'invenzione de' nomi comuni.
Quando dunque l'uomo forma un nome comune, egli
allora non impone già un nome proprio ad un numero
determinato d'individui j bensì egli segna con un nome
tutti quegli individui che hanno una qualità comune.
Non cerca quanti sieno quegli individui che posseg
gono questa qualità comune, perch'egli impone il nome
in generale a tutti quelli che hanno quella qualità,
sieno questi pochi o molti , o per dir meglio , a tulli
quelli che la possono avere, i quali sono sempre infi
niti. All'incontro quand'egli pone lo stesso nome pro
prio a più individui, a lui fa bisogno di conoscere tutti
questi individui, a' quali pone il nome particolarmente,
l uno dopo l' altro. In questo secondo caso , nessuno
degli oggetti individuali, non presenti a quello che pone
il nome, può dirsi nominato dal nome stesso: all'in
contro col nome comune, vengono abbracciati anche
tutti quegli oggetti che non sono individualmente pre
senti alla mente di colui che inventa il nome, anzi che
sono puramente possibili, e non verranno ad esser mai.
Così, poniamo, un padre imporrà il nome Pietro a nove
figliuoli che gli nascono successivamente: non viene mica
di questo, che il decimo figlio, che appresso gli nasce,
abbia già il nome Pietro; ma il padre dee fare, perchè
ciò sia, un decreto nuovo; e sta in lui o ripetere quel
nome, o variarlo; e così quantunque volle gli nasca un
nuovo figliuolo; perocché egli può a ciascuno metter
nome Paolo, o Antonio, o Andrea, e quale altro nome
gli aggrada. Al contrario avviene ov' altri inventa un
nome comune, per esempio il nome uomo: questi non
nomina con tale denominazione un uomo solo, o soli
quegli uomini ch'egli conosce, e intende peculiarmente
di nominare -, ma a dirittura per sè tutti quelli che hanno
o aver possono V umanità, vale à dire le date proprietà
comuni cVie formano insieme l'essere di uomo; e ciò egli
non fa con molli decreti, ma pur con quell'uno, con
queUa so\a imposizione di nome; perocché questa im
posizione è un decreto generale che dice tacitamente :
« ciascuno di quelli che hanno queste qualità io lo
chiamo uomo ».
k formar dunque questo decreto , è necessaria una
idea generale ed astratta, cioè non determinata a nu
mero particolare, com'è quella che si usa nell'imposi
zione de' nomi proprj.
Concludiamo: se si pretende che un nome proprio sia
trapassalo ad esser comune, pur coli' essersi applicato
saccessi va mente a più individui, io distinguerò in que
sto modo: O quel nome s'è applicato a più individui,
Tendendosi proprio di ciascuno; e in tal caso non s'è for
mato con ciò un nome comune, e quindi non si è an
cora spiegata la formazione de' nomi comuni: ovvero il
nome proprio, applicandosi a più individui, ha cangiato
«^viAcato, e in luogo di significar l'individuo stesso,
come faceva a principio, egli è passalo ad indicare la
specie iua, cioè gl'individui, mediante una comune loro
qualità; e in tal caso resta a spiegare come questo pas
saggio sia avvenuto; come lo spirilo umano abbia mu
tala l'idea che prima annetteva a quel vocabolo , ed
a/f 'idea d'individuo sia venuto sostituendo l'idea di una
qualità comune a molli individui; e quindi com'egli
abbia polulo trovare questa qualità comune; che sia
questa qualità dalla mente pure allor percepita o no
minata; in somma si rimettono in campo tutti que' pro
blemi antichi della metafisica, i quali colla narrazion-
eella elegante dello Smith e dello Stewart si ricopriano
bensì di un velo, e rimuoveansi dall'attenzione de' gio
vanetti lettori , ma non si rendeano per questo meno
necessarj in se stessi alla spiegazione delle idee, meno
difficili , nè si presentava di essi alcuna soddisfacente
soluzione.
Laonde è impossibile spiegare la formazione de' nomi
comuni, e render ragione delle idee di genere e specie,
col supporre che nell'uomo non v'abbia altra facoltà che
quella di percepire gl'individui; come procaccia di fare
lo Smith e lo Stewart; tutti affaccendati a far credere,
126
che il nome proprio si cangi in un nome comune da
sè, quando si applica successivamente ad un certo nu
mero d'individui , e che il nome comune non rappre
senti per tal modo che una pura collezion d'individui,
non so poi di qual numero, se basti di due o di tre
o di quattro, o se ce ne voglian di più; perciocché di
questo non parlano; e di ciò fanno bene; conciossiachè
il nome comune è pur da sè applicabile a tutti gl' in
dividui possibili di una data specie, senza numero al
cuno; chè gl'individui di una data specie, cioè forniti
di una data qualità , possono sempre indefinitamente
aumentare, e non trovar fine il loro aumento.
E perchè s'intenda via meglio a quanto falsa suppo
sizione (i) s'appoggia lo Smith, quand'egli s' avvi'ja
che un nome proprio diventi comune immantinente che
s'applica a più individui, si osservi anche questo as
surdo che di ciò consegue. Se, applicando un nome
proprio a più individui, egli diventa con ciò comune;
ogniqualvolta s' applichi ad un individuo di più , a cui
innanzi non era applicato , egli diventerà più comune:
che è quanto dire, segnerà una specie più estesa di co
se : il che si vede a principio falsissimo. Così se il nome
Pietro sarà imposto a due figli, egli, secondo lo Smith,
sarà già forse divenuto un nome comune ; ma se sarà
imposto a tre o quattro, sarà ancora più comune; e
se a cinque , sei , sette e via così , più ancora.
Certo , chi voglia abusare del significato di nome co
mune, la cosa può esser come si afferma: può benissimo
dirsi , in un senso, comune a quel nome proprio che

(i) Questa sentenza i nostri filosofi non si danno punto cura di pro
varla: essi la suppongono ammessa da' loro lettori. Il loro ragionamento è
il seguente. « Il nome comune è quel nome che s'applica a più individui.
« Dunque per inventare un nome comune , basta che un nome proprio
« s imponga a più individui: egli è fatto comune »>. La prima supposi
zione è quella che tragettano come certa : il resto è tutto provato , se ta
maggiore è certa. Con questo loro metodo si può ir molto innanzi ; si nuo
giungere dove si vuole. Volete voi provare qualche vostra strana teoria ?
abbiate 1' avvertenza di formare a principio una proposizione che implici
tamente contenga quella vostra teoria: poi dichiaratela cosa certa, O sup
ponetela ammessa, o se vi vien meglio, sottintendetela nel vostro ragiona
mento. Indi analizzatela, tirale da essa espressamente la vostra dottrin» di
cui ella è già gravida : voi avrete provato facilmente in tal modo l'assunto :
poiché fino dal principio avete destramente fatto suppor vero ciò che v im
portava di provare. Il metodo è comodissimo.
1 27
s'applica ad. una collezion d'individui singolarmente
presi, cioè a quei tre, quattro o più, che vengono ad
aver comune il nome di Pietro ; ma quel nome non è
comune nel senso che segni una specie od un genere
di cose ; nel qual senso lo prendono i grammatici , e
tratta il nostro discorso; perciocché noi cerchiam di
«piegare in che modo si formino le idee di specie e di
genere. Il nome comune, nel primo significato, certo si
fa più comune, più che sono gl'individui a cui si ap
plica successivamente: ma il nome comune preso nel
significato in cui lo piglia il nostro ragionamento, è
cornane fino a principio, e non si rende più comune
colf applicarlo ad un maggior numero d'individui; per
ciocché egli di sua natura appartiene già a tutti gl'in
dividui possibili di quella specie, nè più nè meno. Pren
dasi il nome uomo; s'applichi successivamente ad uno,
due, tre, dieci, cento, mille uomini: significa egli per
questo, altro che uomo? diventa egli perciò più comune
che dinanzi non era? già innanzi egli segnava non una
collezione limitata, ma tutti gli uomini che sono e che
sanano o che esser mai possano singolarmente presi,
cioè latti quegli enti a cui conviene l'umanità, quan
tunque sieno questi in qualunque luogo , in qualunque
tempo, anche nella sola mente concepiti.
■Dall'ingegno de' filosofi io appello al huon senso di
chicchessia: perocché i primi, impegnati in un sistema,
negano veder ciò che tutti veggono, temendo troppo la
conseguenza d'una ingenua confessione, il rovesciamento
delie loro opinioni; e qualsiasi persona anche volgare,
» cui sovvenga il huon senso, può pronunciare in una
materia di suo diritto e di sua capacità, cioè nel senso
annesso alle parole, che non è proprietà de' filosofi, e
fortunatamente non può esser tosto da' loro cavilli al
terato. Scelgo la parola uomo: qualunque altro nome
comune sarebbe il medesimo. E dimando: colla parola
uomo, dicesi forse un determinato numero d'individui?
ovvero, ha ella questa parola congiunto un valore ap
plicabile ad un numero d'individui indeterminato e in
definito, a tutti gli enti che hanno l'umanità, che si
pensano poterla avere?
Ora se il nome comune, nel significato che a lui dà
l'aio racchiude l'idea della possibilità di altri indivi*
dai resta a spiegarsi che cosa sia questa indeterminata
t
128
possibilità che si annette a' nomi comuni : come in noi
nasca una sì fatta idea, che tanto estende il significato
della parola, quanto è esteso questo nostro concetto di
possibilità.
E che noi annettiamo al significato de' nomi comuni
l'idea della possibilità degl'individui di quella specie
che il nome esprime, è un fatto: e quest'idea di pos
sibilità è un' idea generale , anzi di tutte la più gene
rale; non ha essa che fare cogl'individni; essa è quella
che rende noi atti a pensarne un numero sempre maggiore.
Immaginiamo degli enti a* quali mancasse la potenza
di pensare questa possibilità di che noi parliamo, e che
perciò non fossero atti a percepire se non un dato nu
mero d'individui. In questa specie singolare di enti,
noi potremmo immaginare una gradazione lunghissima
nella loro forza di percepire : giacché potremmo sup
porre , che alcuni di essi non fossero atti a percepire
che cinque individui; altri giungessero a dieci, ma non
a più; altri ancora a cento, altri a mille, a mille mi
lioni , e così discorrendo. Tutti questi nulladimeno sa
rebbero determinati a percepire un determinato numero
d'individui esistenti, ma nessuno sarebbe pur capace di
estendersi alla possibilità d' altri individui sopra qnel
numero. Confrontiamo ora a cotale specie di enti, l'in
telligenza umana. L' uomo non percepisce solo un nu
mero determinato d'individui esistenti, cinque, dieci,
cento, mille ecc.; al numero d'individui ch'egli perce
pisce, sa sempre aggiungere, con una intellezione a lui
naturale, il concetto di tutti gl'individui possibili, il
che è troppo più. Ora quella specie di esseri che ab
biamo immaginata, non potrebbe mai altro, che inven
tare nomi proprj : l'uomo all'incontro può inventare
nomi comuni, perdi' egli può pensare in generale agl'in
dividui anche meramente possibili. Se quella prima spe
cie di esseri volesse segnare con un solo nome ciascuno
di quel numero determinato d'individui ch'ella conosce,
potrebbe farlo; ma non avrebbe con ciò che accomunato
a molti individui un nome proprio; nessun nome co
mune avrebbe formato: l'uomo all'opposto può formare
un nome comune; perciocché egli può dare un nome a
degli esseri, in quanto egli li ravvisa dotati d'una qua
lità comune ; egli può impor loro questo nome , come
dicevamo, perchè 1.° egli ha la facoltà di fissare la sua
I29
attenzione sopra una qualità dell'individuo di tal natura,
che pub essere partecipata da altri individui; 2." perchè
«li ha la facoltà di conoscere questa possibilità: la pos
sibilità cioè die quella qualità sia partecipala da altri
individui indefiniti di numero, di luogo e di tempo.
Al nome comune adunque si aggiungono le seguenti
idee: 1.* l'idea di una qualità, a." l'idea dell' attitudine
che ha questa qualità d'esser partecipata da un indivi
duo, 3.* l'idea della possibilità che questa qualità sia
partecipa la da individui di un numero indefinito. Tulle
queste idee sono comprese nell'idea di specie e di genere
che è dal nome comune supposta; perchè il nome co
mune esprime la specie od il genere che si forma me
diante una qualità che si conosce poter esser comune
a più individui di numero indefinito.
Che resta a dire? che il ragionamento di Smith non
rende alcuna ragione del modo onde l'uomo si forma
le idee di genere e di specie. Ridotto a poche e chiare
espressioni, quel ragionamento si riduce al seguente :
» L'uomo rende comuni i nomi pioprj applicandoli suc-
ceummente a più individui. Questi nomi applicati a
più individui, sono quelli che formano nella sua mente
le specie ed i generi ».
Sebbene nel fatto stesso ci abbia del falso , tuttavia
concediamo il fatto. Rispondiamo: Il semplice applicare
il nome proprio a più individui non è ciò che lo rende
nome comune. Per cominciare ad esser comune , egli
dee cangiare il suo valore, cioè dee cessare dal segnare
gì" individui con ciò che forma la loro individualità, e
cominciare a significarli per qualche loro qualità co
mune. A questo richiedesi una operazione interna dello
ipirìto; perchè non è se non lo spirilo che possa can
giare il significato d'una parola. Ma lo spirito non può
cangiare il significato di quel nome, se non 1.* rivol
gendolo ad indicare una qualità comune, mentre prima
indicava l'individualità; 2.* annettendo a quella qualità
l'idea, che quella qualità possa parteciparsi dagli indi
vidui indefinitamente.
Non è adunque il nome comune che tien luogo di
tali idee nella nostra mente; sono queste idee che fanno
I il valore del nome, 0 sia è per queste idee che lo spi-
rito trasforma il nome da proprio in comune.
Dunque quando s'è raccontato che l'uomo ha prima
BoSBiiti, Orrg. delle Idee, Voi I. 17
i3o
i nomi proprjj e che poscia questi diventati comuni ,
non s'è ancora spiegato come l'uomo forma i generi e
le specie 5 perocché i nomi non diventano comuni se
non per un atto dello spirito che li ordina a significar
cosa di cui egli ha idea : egli non può adunque inventar
de' nomi comuni senza ch'egli abbia già formati i ge
neri e le specie delle cose.

ARTICOLO XIII.
CHE FORMA PHEKDA LA DIFFICOLTA* DA NOI PROPOSTA
NE* RAGIONAMENTI DI SMITH £ DI STEWART.

E se vero è quanto fin qui fu per noi ragionato, ri


mane salda, nella teoria di Smith e di Stewart, e non
punto vinta la difficoltà che noi abbiam proposta a
principio.
Neil' argomento presente , in cui cerchiamo in qual
modo lo spirito si formi le idee generali, ossia le idee
di specie e di genere, ella prende questa forma: « l'uomo
non può formare un genere od una specie senza l'idea
di una qualità comune; e l'idea di una qualità comune
non può formarlasi senza un giudizio. Ma un giudizio
suppone l'idea di una qualità comune, l'idea di una di
quelle classi che si chiamano generi o specie. Come dun
que è possibile che noi formiamo un primo giudizio,
se tutte le idee delle qualità comuni, che è quanto a
dire le idee generali, sono acquisite, e non ce n'ha
alcuna d'ingenita nel nostro spirito » ?

ARTICOLO XIV.
IL SISTEMA DE* NOMINALI NON SODDISFA ILLA PREDETTI DIFFICOLTA'.
Lo Smith e lo Stewart, come tutti i Nominali, sono
ricorsi a negare l'esistenza delle idee generali, e a so
stenere che le idee generali non sono che delle parole,
per non sapere in che modo strigare questa matassa ,
cioè per non saper definire che altro esser possano que
ste misteriose idee generali, e come lo spirito le si formi.
Veramente quando si cerca di spiegare la formazione
delle idee generali, si dà sempre dentro in quella dif
ficoltà che noi abbiam presentata. Molti de' moderni
filosofi, non veggendo come salvarsi da questa specie di
sirte della filosofia , cercarono persuadere a se slessi ,
131
ch'ella non fosse che una chimera; e quindi , come dice
lo Stewart, « ciò che gli antichi «povera gente!» hanno
« riputalo uno de' più diffìcili problemi della metafisica,
• avea una soluzione semplice, come quella data dallo
« Smith ».
Ma questa maniera di declinare la forza della diffi
coltà, non è un trionfare della medesima; perciocché
le parole non possono tener giammai il luogo delle cose,
nè i nomi comuni supplire alle idee generali; anzi lo
spinto amano non può formare una parola generale ,
ossia on nome comune, se non avendo già prima in se
sta» l'idea generale a quel nome rispondente.
li che sembra così manifesto, che nulla più: ma qual
cosa è così manifesta, che non sia negata apertamente
da' filosofi, se a loro non piace?
E poiché il numero de' Nominali moltiplica oggidì ,
losingando se stessi d'aver trovato un effugio così facile
ad una difficoltà così grave; non saranno gittate quelle
parole che io qui aggiungerò a dimostrar più chiara
mente, come le ragioni onde lo Stewart cerca di corro-
Vrnre la opinione sua, sono pure fallacie, e tutte pec
canti di petizion di principio.

ARTICOLO XV.
ONDE SIA VENUTO L* ABBAGLIO PRESO DA STEWART.

Parole che non abbiano al tutto nessun significato ,


sono nudi suoni ed inutili; non possono servire di alcun
mezzo o istrumeuto al discorso: questa proposizione sem
bra chiara come il sole.
Ora le parole generali, o i nomi comuni, non signi
ficano individui determinati : dunque o debbono signi
ficar nulla, o debbono significar delle idee generali.
Questa sola ragione avrebbe potuto condurre il sig. Ste
wart a vedere, com'ella sia cosa al tutto impossibile il
supporre che non esistano idee generali, e che le pure
voci tengano il luogo di quelle, sicché ciò che comune
mente si chiama idea generale, altro non sia che una
parola. Questo argomento è così semplice e così con
cludente, che è difficile a comprendere come sia sfug
gito al professore scozzese.
E volendo poi conghietturare come gli possa essere
ciò avvenuto, parmi di vederlo in questo. Egli trovò
1 01
un modo di parlare, col quale descriver l'uso che noi
facciamo delle parole generali, senza pronunziar mai
questi vocaboli genere, Specie, idee generali: ed essen
dogli così riuscito di eliminare dal discorso questi vo
caboli, diedesi a credere che gli sia riuscito altresì di
render superflue e inutili le idee che a que' vocaboli si
congiungono.
Ecco com'egli spiega l'oso de' termini generali t «Quando
« noi parliamo di concepire o di comprendere una pro-
« posizione generale, noi con ciò non intendiamo dir
« altro, se non che per l'abitudine del linguaggio noi
« sappiamo che ci è possibile di sostituire a nostra vo-
« lontà ai termini generali della proposizione, i nomi
a di certi individui che questi termini segnano (i) ».
Con che ci sembra che volesse dire: Non è necessario
che noi ai termini abbiamo annesse delle idee generali;
ma basta che abbiamo contratta l'abitudine di sosti
tuire a' medesimi que' dati individui. Per ispiegare adun
que come noi formiamo i ragionamenti generali , basta
che noi i." sappiamo concepire degl'individui, a." ab
biamo delle parole, alle quali siamo abituati di sosti
tuire a nostro grado certi individui. Ecco , diss' egli ,
come le parole tengono luogo delle pretese idee generali.

ARTICOLO XVI.
PETIZIONE DI PRINCIPIO CB£ SI TROVA NEL SISTEMA DI STEWART.
Ma in questo discorso s'inchiude, come diceva , una
pelizion di principio.
E per dimostrarlo, così ragiono : In che modo potete
voi contrarre sì fatta abitudine? Onde derivate voi l'abi
tudine di sostituire a quel dato termine generale non
già qualsiasi individuo, ma pur certi, disegnati e de
terminati da quel termine? Per esempio, al termine
uomo voi non sostituite mai il significato di bestie, o
di pietre, ma sempre quello unicamente d'individui della
specie umana. Onde avviene, che la vostra abitudine
d'usare la parola uomo, sia determinata a quella classe
di cose, e non ad altre? È forse ciò per una virtù in
trinseca della parola materiale, la quale non vi per-

(>) Èlcmcns de la Phiìosophie , Ch. IV , Sect. III.


i33
metta di applicarla se non a certi e determinati indi
vidui? Mai no; poiché fra la parola materialmente presa,
e gl'individui ch'ella significa, non si dà alcuna neces
saria connessione. La parola è un puro suono : ella ci
richiama ben sovente alla memoria cose che non sono
suoni, e che non hanno a far nulla co' suoni. Vorrei
sapere qnal relazione abbia quel suono che costituisce
la parola uomo, con quest'essere ch'ella segna. Un tale
rapporto non può esser che quello che stabilisce il no
stro spirito fra la parola e la cosa.
Rapporto arbitrario, direte voi. Siamo d'accordo sotto
un aspetto : se col nome uomo piacesse significare gli
animali in genere, e a dargli questo significato conve
nne insieme una società qualsiasi, que' sozj s'intende
rebbero fra loro, usando la parola uomo a significar ciò
che noi chiamiamo ora animale, come noi c'intendiamo
orandola in senso più ristretto.
Or bene: l'arbitrio sia quello che stabilisce e ferma
che ad un dato nome comune si possano sostituire certi
individui, e non altri, ma pur quelli. Qui sta il nodo:
vo domando , in che modo l'arbitrio può stabilire che
ad tra termine generale si possano sostituire questi in
dividui anzi che quelli, nè si possano sostituire altri
ai questi soli? Forse determinando e assegnando a quel
fermine un numero fisso d' individui? Certo che ciò può
essere , se si facesse la convenzione , che tre uomini ,
Pietro, Paolo, Andrea, sieno chiamati con un nome sì
fatto , che ad esso non si possa sostituire se non uno
di questi tre individui. Ma o questo nome non sarebbe
generale, ma un mero nome proprio, come dando a
ciascuno de' tre un nome intieramente arbitrario; ov
vero s'egli fosse un nome comune, per esempio conve
nendo che s'intenderà un d'essi quando diciamo Vomico,
questo nome si usurperebbe in luogo del proprió per un
patto; e in tal caso resterebbe a spiegare due cose in
vece d'una, cioè i.° com'egli sia nome comune, a.* com'egli
si possa usare in luogo d' un nome proprio. In somma
si tratta d'indicare il modo, onde lo spirito umano an
nette certi individui ad uno di que' nomi che si dicono
nomi comuni; e questa difficoltà , qualunque supposi
zione si faccia, non si può evitar mai. Ai nomi comuni,
come abbia m detto più sopra, non si , tratta di sosti
tuire certi individui numerati e determinali innanzi.
i34
Se di ciò solo si trattasse, noi non avremmo bisogne
che d'una associazione d'idee, o di una semplice remi
niscenza, la quale, all'udire di quel suono, risvegliasse
in noi l'uno di que'due, tre, cinque, dieci individui
determinati, a contrassegnare i quali noi l'abbiamo di
segnato. Tutto all'opposto di ciò è ne' nomi comuni :
perocché a questi non si tratta già di sostituir colla
nostra mente un individuo a noi noto e da noi pecu
liarmente distinto e preso in mira, un individuo scelto
precedentemente fuor da un numero determinato di cose
cognite; trattasi anzi di sostituire un individuo preso
da un numero indefinito di cose a noi non cognite per
esperienza che di quelle abhiam fatto, anzi nè pure da
individui esistenti, ma da individui possibili.
E fate ragione: al termine generale di cavallo, non
è già necessario che noi sostituiamo uno de' cavalli da
noi veduti, nè anche uno de' cavalli esistenti; possiamo
sostituire a nostro grado un cavallo che non esiste, com
posto dalla immaginazione nostra colle forme de' cavalli
veduti. Ma quando anche noi fossimo pur costretti di
sostituire al vocabolo cavallo uno de' cavalli esistenti,
non sarebb'egli indifferente che noi sostituissimo al me
desimo l'uno o l'altro di essi? Ora se ciò è indifferente,
perchè è egli indifferente? Forse che noi abbiam veduti
l'un dopo l'altro individualmente tutti i cavalli che esi
stono, e relativamente ad ognun di essi abbiam fatto
una particolare convenzione di chiamarlo cavallo? Non
per questo certamente: che se ciò fosse, troppo noi
avremmo avuto che fare nell' imporre a tante bestie il
nome; nè gli altri uomini avrebbero avuto il tempo o
la pazienza di stringer con noi tante convenzioni: mas
sime che non il solo vocabolo di cavallo è lor neces
sario, ma il conversare umano esige altri innumerevoli
nomi che segnino le differenti specie delle cose; e troppo
gran noja e fastidio sarebbe il dover nominar gl'indi
vidui uno ad uno, per poter avere un nome comune,
sicché al suono di esso si potesse nella mente nostra
sostituire uno di quegli individui. Senza di che, grande
sciagura sarebbe pur questa, che, nascendo o forman
dosi de' nuovi individui , non si potrebbero nominare
co' nomi dati ai primi : e gli uomini non potrebbero
far altro al mondo, che dare il nome alle individue
cose, delle quali vorrebbe riuscire loro pur forte e lunga
faccenda a farne un perfetto inventario.
i35
Laonde egli è al tutto da dire, che i nomi comuni
non sono fatli in questo modo; e che lo spirito umano
non annette punto ad essi un dato numero d'individui
passati in revista 1* un dopo l'altro, ma bensì che an
nette a' medesimi una specie d'individui, cioè a dire
Vaiti gl'individui possibili aventi una qualità comune;
e perciò, che al nome comune, ov'egli si usa, vengono
sostituiti individui, ma i." non presi a caso, perciocché
in u\ modo non ci sarebbe più distinzione di specie e
di genere; a.° non per fatte convenzioni risguardanti
particolari individui, il che sarebbe un andare nell'in
finito: sì bene vengono sostituiti gl'individui al nome
comnne i* dietro il tenore d'una regola generale con
sistente in vedere se gl'individui posseggano quella qua
lità comune a cui quel nome comune si riporta; a." e
non già individui noti, o individui esistenti, ma indi
vidui puramente possibili , cioè qualunque individuo
pensar si possa fornito di quella qualità comune.
Di che avviene, che al solo presentarsi innanzi quel-
Iìndividuo, sebbene prima noi punto noi conoscessimo,
VulUvia di subito ci accorgiamo ch'egli ha il suo nome
stabilito e fermato dagli uomini, avanti ch'egli pur sia
renato ad esistere; perciocché egli ha quella qualità
che il mette fra quegli individui a cui è stato quel
nome assegnato.
È vano adunque quel ripiego dell'abitudine di sosti-
taire, a cui ricorre lo Stewart; perciocché l'abitudine
di sostituire a que' tali nomi quelle date cose , è nulla
per le cose meramente possibili, e per quelle che an
cora non sono individualmente note, a cui pure la mente
dell'uomo si distende. ^
Il perchè , quando lo Stewart •afferma non esser bi
sogno delle idee generali, e bastare che noi sappiamo
sostituire que' dati individui a'nomi comuni ov'essi ven
gono proferiti, altro non fa che pugnare seco medesimo,
affermando ciò che ha negato: perciocché saper sosti
tuire qne'dati individui a'nomi comuni, viene al me
desimo che aver le idee generali ; non potendosi far
quello, senza aver queste; poiché non saprebbesi, senza
di queste, quali fra tutti gl'individui sostituir si deb
bano ai nomi comuni. Bisogna dunque che prima la
mente distingua le specie ed i generi degl' individui ,
perchè poi ella sappia a quel dato termine sostituire
i36
gì1 individui di quella data specie, e non altri; e a
quell'altro termine sostituire gl'individui di quell'altra
specie, senza più; e perchè questi individui di diverse
specie ella sappia distinguere sì come appartenenti anzi
ad una che ad altra, e ciò sappia fare prima ancora
eh' ella sappia nominarli : conciossiachè ella saprà come
si chiamino allora solo eh' ella saprà a che specie ap
partengano. Se un fiore mi rimane coperto dall' erba,
io non so ancora applicargli la parola fiore', ma lostochè
egli mi si scopre, io il veggo e so che appartiene a quella
specie di cose che chiamansi fiori.

ARTICOLO XVII. i
ÀLIDO ABBIGLIO FUSO DA STEWART.
)
Lo Stewart prese un abbaglio simile a quello che ve
niamo or ora di notare , là ove espone in quest' altro
modo il suo pensiero. « Considerando sotto questo punto
« di vista il processo della generalizzazione, si vede ad
« un tratto che l' idea considerata dagli antichi filosofi
u come formante 1' essenza di un individuo, non è al-
« Irò che la qualità particolare (o una collezione di
« qualità) per la quale egli somiglia ad altri individui
m della stessa classe, e in virtù della quale a lui si ap-
* plica il nome generico. Egli è perchè possiede que-
« sta qualità, che l'individuo porta il nome del genere,
« e per.ciò è questa qualità che si può dire essere a lui
u essenziale nella classificazione che lo comprende sotto
« un certo genere particolare. Ma come ogni classifica-
« zione è fino a un certo punto arbitraria, non si può
■ conchiudere da tutto ciò, che questa qualità generica
« sia più essenziale all'esistenza d'un individuo di molte
« altre qualità riputate accidentali. In altre parole, e per
m parlare la lingua della filosofia moderna (i), questa
« qualità costituisce la sua essenza nominale e non già
« la sua essenza reale (3). »
Chi esamina questo passo , facilmente vi conosce lo
stile d'un uomo dubbioso di ciò che dice, e titubante
ne' passi suoi; d'un uomo che, non avendo chiara prova

(1) Povera filosofìa moderna se questa é la sua lingua!


(a) Élimens de la PlulosoplUc de C esprit humain, Cu. IV , Sccl. II.
,37
del suo sistema , cerca di sostenerlo con un ragionamento
tutto pieno di presso a poco, perchè al lettore dieno
modo di credere avervi una connessione fra le idee an
che dov' ella non V è.
Diam mano alle ultime parole del passo citato: os
servo, che il dire « quella qualità costituisce la sua es-
« senza nominale e non la sua essenza reale » suppone
àe Vv sieno due essenze in luogo d' una, e perciò am
mette più di quello che vuole negare.
Ma non sarò troppo sottile esattore dell'uso delle pa
iole: dimanderò , se per essenza nominale egli intenda
una parola, come pare al modo di esprimersi in altri
luoghi, ed allo scopo del suo ragionamento, che è quello
di mostrare esser nulle le idee generali.
Se colla espressione essenza nominale non intende una
mera parola, ma qualche cosa di reale, tutto il suo ra
gionamento è vano; poiché in tale caso i termini ge
nerali esprimerebbero qualche cosa di reale, e non sa
rebbero mere parole.
Ora nel passo che noi abbia in riferito egli stesso ce
\o confessa ; perciocché chiama essenza nominale una
qualità posseduta realmente dall'individuo, e ci sog-
giuoge; « egli è perchè possiede questa qualità , che
• T individuo porta il nome del genere ». Se questa
qoalità fosse nulla, l'individuo non potrebbe possederla,
nè ricever da lei il nome del genere. Di più, lo Stewart
stesso accorda allo spirilo umano la facoltà di pensare
una qualità d' un individuo senza pensare alle altre che
par entrano a formar l'individuo. Ecco il luogo. « La
< classificazione dei differenti oggetti suppone la facoltà
• di fare attenzione ad alcuna delle loro qualità senza
• fare attenzione a tutte le altre (i) » .
Dunque egli ammette i.* che le singole qualità de-
gl' individui sieno qualche cosa di reale; a.* che noi
abbiamo la facoltà di considerarle sole, e divise per
ciò dagl'individui stessi, giacché il considerarle sole non
è altro che il considerarle prescindendo da tutto ciò con
che esse coesistono; 3.* che lo spirito nostro , quando
considera queste qualità sole ed isolate, ha un oggetto
reale della sua azione, perchè queste qualità sono reali.

(i) Éémens de la Philotophie de V esprit humain , Gli. IV , Sud. I.


Hosxmi , On'g. delle Idee, Voi. 1. 18
i36 '
Pigliamo a considerare le qualità dei corpi: queste
qualità sono il colore, il sapore, l'odore, la sonorità,
1' estensione, la durezza , la fluidità ecc. Ora, non en
trando noi per ora nella questione dell'esistenza de'corpi,
ma supponendoli, collo Stewart medesimo, reali, ab
biamo qui altrettante qualità reali, altrettanti oggetti
reali del nostro pensiero, secondo i principj stessi dello
Stewart. Dunque i nomi di queste qualità, cioè le pa
role di colore, sapore ecc., tutti nomi astratti, espri
mono anch'essi qualche cosa di reale: non sono dun
que meri nomi, ma hanno qualche cosa che realmente
loro corrisponde, hanno eioè queste qualità, checché
esse sieno nelle cose. Se le parole astratte, come il co
lore, il sapore ecc. de'corpi, non sono meri nomi, ma
hanno qualche cosa di reale ehe significano , viene di
ciò , che qualche cosa di reale significhino anche i
nomi «comuni, e appellativi, quali sarebbero colorato,
saporito ecc., corpo, uomo ecc.; perciocché questi non
sono che de'nomi significanti « ciò che ha il colore »,
■ ciò che ha il sapore ecc. » , «ciò che ha la corpo-
« reità », « ciò che ha l'umanità ecc. » I nomi co
muni adunque non sono mere parole prive di ogni og
getto reale che a loro risponda, ma , secondo gli stessi
principj dello Stewart, significano qualche cosa di reale.

ARTICOLO XVIII.
SI NOTINO ALTRI ABBAGLJ DELLO STEWART, E SI MOSTRA VIE Ho' l' INSCmCIEKZl
DEL SUO SISTEMA A SCIOGLIERE LA DIFFICOLTA* PROPOSTA.

Lo Stewart qui ci può soggiungere : io non posso ne


gare, che gli astratti ed i nomi comuni non indichino
qualche cosa di reale; e se l'ho detto in qualche luogo,
fu una mera inesattezza di parlare; ma sostengo che
questa cosa reale che indicano, non è che « la qualità
« particolare, o una collezione di qualità, per la quale
« un individuo somiglia ad altri individui » : dunque
essa è nulla di generale; è tutta cosa particolare : quella
ualità non è che negli individui; ed essendo negl'in-
ividui , è sempre individuale.
Io certo non rimetterò in campo la questione che
faceva Platone, se le qualità astratte avessero un'esi
stenza fuori delle menti , distinta dagli oggetti stessi :
ciò non servirebbe nulla al mio scopo. Accordo di buon
animo al signor Stewart, die le qualità di cui parliamo,
non hanno esistenza fuori dello spirito nostro se non
negli stessi individui. Ma egli parimente a me accordò,
che il nostro spirito può considerarle e le considera
separate dagli individui, e come se queste qualità sole
esistessero : egli è un fatto, su cui non può cadere al
cali dubbio.
Ora di qui io così conciando : se il nostro spirito
considera le qualità in separato dagl' individui, egli ha
un oggetto immediato generale della sua attenzione,
poiché una qualità separata dall' individuo è un oggetto
generale indipendentemente al tutto dal vocabolo onde
li esprime.
Se mi riuscirà di dimostrare quest1 ultima asserzione,
10 credo che ne verranno le seguenti conseguenze: i." che
11 nostro spirito può avere un oggetto generale, a.* che
a questo oggetto generale può imporre un nome, e
3.* che quindi vi sono de' nomi i quali esprimono idee
generali, e non sono mere parole vote di senso, o pur
paiole a cui per una cieca abitudine noi sostituiamo
certi individui.
Quando io dico che una qualità, considerata in quel
modo che può considerarla il nostro spirito, cioè in se
parato dall' essere, è generale, non voglio dir altro se
non eh' io la posso concepire in un indefinito numero
d'individui: e il poter da noi pensarsi in un indefinito
numero d'individui, o l'esser essa generale, o l'esser
cornane , è il medesimo nel senso in cui si sogliono
adoperare dai metafisici queste p;irole.
All'essere generale di una qualità corrisponde l'es
sere particolare: il che non vuol dir altro se non il non
potersi pensare comune a più individui, ma fìssa e pro
pria di un individuo solo. L'individualità dell'ente a
cui s' applica, è poi ciò che rende particolare la qua
lità comune : e per questo, fino che le qualità non si
pensano da noi cotne esistenti in un individuo deter
minato, esse ci rimangono comuni; cioè noi le pensiamo
per sì fatto modo, che rimane in nostro arbitrio imma
ginarle annesse ad uno o ad altro individuo, fino che
con uno individuo non le abbiamo congiunte: congiunte
poi coli' individuo, sono individualizzate anch' esse per
lui, e quindi si dicono particolari : sicché la bianchezza,
la grandezza ecc. di un corpo, non è la bianchezza, la
grandezza di un altro corpo.
i4o
Laonde se una qualità è particolare solamente in
quanto realmente esiste in un individuo ; e se, come
abbiam detto, il nostro spirito ha la facoltà di con
siderarla , senza considerarle aggiunto un individuo
a cui appartenga ; ciò che è conceduto dallo stesso
Stewart; quindi io concili u do , il nostro spirilo ha la
facoltà di considerarla come meramente possibile, senza
pensar pure, ch'eli' abbia una reale esistenza in qual- :
che individuo; ciò che il dottor Reid chiama semplice
apprensione , e il professor Stewart sembra chiamare
concepimento. Il che se è indubitato; se il nostro spi
rito può pensare alla bianchezza, non già come cosa
realmente esistente, ma come meramente possibile; dico ;
che l'oggetto del nostro spirito in tal caso è generale: i
nel senso che i metafisici danno a questa parola ; per
ciocché questa bianchezza non è annessa a verun indi
viduo, ma è una bianchezza che noi concepiamo tale ,
che può essere ricevuta da un numero indefinito d'in
dividui : per sì fatto modo, che, se noi avessimo la fa- (
col là di creare, potremmo realizzare quella bianchezza,
dietro l' idea che n' abbiamo, in un numero indefinito
di corpi tutti di color bianco.
E perciò questa bianchezza , concepita nella nostra
mente, non è già un mero nome , come sembra volere
10 Stewart, e nè pure ella è alcuna di quelle bianchezze
che noi abbiamo veduto esistere realmente ne' corpi bian
chi caduti sotto i nostri sguardi.
Non è alcuna di quelle bianchezze realmente esistenli
ne' corpi bianchi da noi veduti; perciocché tutte quelle
bianchezze erano bianchezze particolari; e le bianchezze
particolari, come abbiamo detto, sono nell' individuo per
sì fatto modo , che non si possono trasportare da un
individuo all'altro, o per dir meglio, accomunare a più
individui nè pur col pensiero.
Perocché come potrei io concepire un modo di tras
portar la bianchezza di un corpo bianco in un altro
corpo bianco , senza privare il primo della sua bian
chezza? Il corpo bianco di cui parliamo, o ha una sola
superficie bianca, ed il resto è tutto d'altro colore; o
è tutto bianco, come il gesso, il quale anche per esser
friabile lascia la propria bianchezza sugli oggetti co'quali
si soflrega. Or si consideri la differenza che passa fra
11 render bianchi i corpi mediante quella bianchezza
«4'
realmente esistente in un individuo, e il renderli bian
chi mediante 1* idea della bianchezza generale che è ,
come io sostengo, nella nostra mente.
In primo luogo, un corpo non può comunicare altrui la
bianchezza propria, quantunque sia bianco , s1 egli non
è friabile, ma ha le parli sì dure che non possano la
sciar andare facilmente que'briecioli bianchi che vanno
a coprire d' un velo bianco la superfìcie del corpo da
colorire. Ali1 incontro quegli che, avendo la possa di
create, crea de' corpi forniti della bianchezza, dando
loro questa qualità, non la trae egli che dall'idea del
bianco che nel suo spirito ha presente, la quale idea
oon abbisogna d' esser friabile nè d' avere altra qualità
per essere comunicata a' corpi.
2.' Se il corpo bianco che vuol dar della sua bian
chezza altrui, non ha che un po' di superficie di bianco ,
egli priverà sè stesso di quella leggera intonacatura di
colore, dandola altrui: all'incontro ove In spirito intel
ligente , di cui parliamo, possa crear d'un tratto de'
corpi bianchi quali egli li concepisce possibili, egli non
«cerna o distrugge con ciò quella nozione che in sè ha
della bianchezza generale.
3.' Ove anche il corpo colorante sia friabile e bianco
tatto, come il gesso, tuttavia egli non può render bianco
on altro corpo senza ch'egli perda un legger velo bianco,
che, staccato da lui, viene soprappeso all' altro corpo
che imbianca col suo contatto. Nella perdita di questo
legger velo avviene, che il corpo imbiancatore, sebbene
resti bianco siccome prima agli occhi de' riguardanti ,
tuttavia non presenti loro quella bianchezza medesima
che prima presentava; giacché quella bianca superfìcie
che prima vedevano i riguardanti, è passata in sull'al
tro corpo , ed il primo corpo ha scoperto un' altra su
perficie, candida siccome la prima, ma che pure non è
la prima.
Di che si può cavare la conseguenza, che non si paria
rigorosamente ove si dice che la bianchezza realmente
esistente in un individuo si comunichi ad un altro;
conciossiachè quando un corpo bianco imbianca col suo
toccamento un altro corpo, non è punto una stessa
bianchezza che a due corpi si comunica, nè una bian
chezza che passa d'un corpo in altro, ma essendo quel
primo corpo un aggregato di moltissime particelle , o
i4>
corpicciuoli bianchi, questi si staccano o tolgono dulie pa
reti del primo corpo, e vanno a posarsi alle pareti del se
condo, e così 1' imbiancano, portando seco e non comu
nicando altrui la propria bianchezza: son essi che mutan
di posto ; non è un corpo che muta colore, come mostra
nell' apparenza.
'Di che è manifesto, che la bianchezza realmente esi
stente negli individui è per si fatto modo particolare
in quelli, eh1 ella è al tutto incomunicabile; e sebbene
i corpi che la posseggono, possano tritarsi e polveriz
zarsi, e il polverìo che si stacca e parte da essi, mutar
luogo, tuttavia non avviene mai che la bianchezza sola
identicamente trapassi d' un corpo in altro.
AH1 incontro immaginando noi uno spirito capace di
crear de' corpi bianchi, noi non lo possiamo già imma
ginare per forma , eh' egli tolga e rada la bianchezza
reale da' corpi, e quella comunichi ad altri corpi ch'egli
vuol produrre; perciocché quella particolar bianchezza
è incomunicabile ; ma noi non potremmo pensarlo se
non immaginando ch'egli desse l'esistenza a quelle bian
chezze particolari sulla norma della bianchezza generale
che nella sua mente contempla.
4." Finalmente quand' anco un corpo bianco si sup
ponesse comunicare con un altro la sua bianchezza, egli
non potrebbe comunicarla con un numero infinito di
corpi; perciocché con questa comunicazione di sé egli
verrebbe sempre più attenuandosi, e perdendo, per ogni
corpo che imbianca, un leggero strato della sua so
stanza , fino a tanto che egli medesimo svanirebbe in
tieramente.
La qualità all' incontro della bianchezza che nella
mente intelligente è percepita in un modo generale,
rende atto questo spirito, che noi pensiamo, a creare
infiniti corpi bianchi, senza ch'ella venga mai meno in
lui, o senza ch'ella per questo si renda meno atta ad
essere di bel nuovo realizzata in altri innumerevoli corpi.
Laonde la qualità della bianchezza che fa sì che uno
spirito, pensandolo noi come fornito d'una forza crea-
trice, possa realizzarla in un numero indefinito di corpi
bianchi, non è la qualità particolare ricevuta in un in
dividuo: poiché dall'istante ch'ella si considera in uno
individuo ricevuta, è di sua natura incomunicabile agli
altri individui.
i43
si può già dire che uno spirito, da noi immagi
nalo fornito della facoltà di creare , dia a' corpi che
crea, la bianchezza, senza bisogno ch'egli abbia in ,se
stesso l'idea della bianchezza, bastandogli pure la forza
creatrice; perciocché la forza creatrice non lo determina
a creare de1 corpi piuttosto di un colore che d'altro;
edanzi essa non può pensarsi determinata a nulla creare,
senza che l'intendimento non le presenti gli oggetti, i
qiali ella crei.
Medesimamente irragionevole cosa sarebbe il rispon
dere, che ove noi andiamo nell'ipotesi d'un ente crea
tore, non siamo più in caso di ragionare, perchè l'idea
della creazione trascende il modo del nostro concepire
e le regole del nostro pensare; conciossiachè io non ho
introdotto l'idea di uno spirito creatore se non per ren
dere la cosa più evidente, non perchè in questa sup
posizione insista il mio argomento. Al mio argomento
è sufficiente trarre in mezzo un uomo che immagina
de' corpi bianchi quant'egli vuole; io posso dimandare
egualmente, se la bianchezza immaginata da lui, sia la
bianchezza da lui veduta negl'individui; e parmi evi
dente, non esser quella , siccome è evidente non esser
quella la bianchezza che un ente creatore comuniche-
rebbe a de' corpi ch'egli creasse. La bianchezza veduta
negl'individui è indivisibile da essi, ed è d'una natura
individuale e incomunicabile; mentre la bianchezza che
noi diamo colla immaginazione nostra a de' corpi pos
sibili, è comunicabile indefinitamente.
L'evidente ragione che l'una di queste bianchezze non
è l'altra, si è, che mentre l'uomo sa d'un canto di per
cepire la bianchezza de' corpi bianchi, ogni qual volta
li vede, e intende che quella bianchezza aderente a que'
corpi è da essi inseparabile; egli è tuttavia conscio a
se medesimo di poter immaginare altri ed altri corpi
simili a quelli ch'egli ha veduto, bianchi pur essi.
Poniamo che un uomo avesse schierati innanzi alla
eoa immaginazione tutti i corpi bianchi da lui veduti
nella sua vita. Or non potrebbe quest'uomo a tutti que
sti corpi bianchi veduti aggiungere colla immaginazione
ma altrettanti corpi possibili, bianchi al paro di quelli
di egli ha veduto? La bianchezza di questa schiera di
corpi da lui immaginati e pensati aggiunti alla schiera
ili tutti quelli ch'egli ha realmente veduto, è ella, do
*44
mando io, la bianchezza de' corpi veduti , o è un'altra
bianchezza? La bianchezza de' corpi veduti non può es
sere, perch'essa è individuale; e abbiain supposto che
tutti i corpi veduti sieno già presenti agli occhi inte
riori di quest'uomo: oltre dunque tutta la bianchezza
veduta, il nostro spirito può concepir dell'altra bian
chezza senza fine alcuno, e della bianchezza che non è
reale, ma solo immaginaria, solo pensata, giacché qui
non parliamo ( si noti bene ) che dell'oggetto del pensiero.
Se il nostro spirito fosse limitalo a concepire o ri
chiamare la bianchezza veduta da lui ne' corpi, egli non
avrebbe, si può dire, altra facoltà, oltre il senso, che
la reminiscenza de' fantasmi. Ma oltre la reminiscenza,
ha, come tutti accordano, la concezione e l'immagina
zione: e per fermarmi a questa seconda, ha la facoltà
di moltiplicare al suo spirito degli esseri simili a' veduti
in infinito a tutto suo grado. Egli è di queste facoltà
che si dee render ragione; e non la si può rendere in
alcun modo, ove suppongasi, collo Stewart, che il no
stro spirito sia privo delle idee generali, cioè d'idee che
rappresentano qualità isolale dagl'individui, e della fa
coltà di poter attribuire queste qualità ad un numero
indefinito d'individui possibili o sia pensabili (i).

(t) Il Galluppi e il Degerando, dopo le osservazioni di Reid, hanno


cercato di combattere le idee prese nel senso in cui le prendevano gli an
tichi , cioè come rappresentazioni degli oggetti. Essi dissero che , ammet
tendo questa definizione delle idee, non resterebbe nessun mezzo a cono
scere la verità di esse, cioè la conformità fra 1' idea e 1' oggetto rappre
sentato, e quindi lo scetticismo sarebbe inevitabile. « Le idee sono vere ,
dice Galluppi , non perchè son di accordo cogli oggetti , ma perché el-
m leno agiscono immediatamente sugli oggetti e li prendono. — — - Nelle
» verità primitive, dice il sig. Degerando, le idee investono, prendono
m immediatamente gli oggetti: io gli accordo questa dottrina - (Critica
della Conoscenza, T. l,facc. 38, 3i.)
Gli scolastici ( l'ho toccato più sopra ) avevano veduta la difficoltà, ed
avevano detto che 1' idea non era punto l'oggetto del nostro pensiero, ma
solo il mezzo, pel quale la nostra mente pensava l'oggetto ( ved. la nota a
alla face. 68 ); ma la soluzione degli scolastici, come ivi ho provalo,
presa nel senso più ovvio , non faceva che allontanar d' un passo la diffi
coltà, e non superarla. Lo slesso si può dire della teoria di Galluppi e
degli altri che ho accennato.
Per quanto sembri strana questa frase , che le idee prendono ed inve
stono gli oggetti esteriori , io non vorrei rifiutarla dove io la trovassi ne
cessaria.
Ma osservo in quella vece, che non basta sapere se le idee investono e
prendono gli oggetti sles6Ì , come si esprimono i nostri filosofi ; bisogna
i45
Ora se il nostro spirito può pensare la bianchezza
«la, come possibile in un indefinito numero d'individui
possibili, e non è obbligato a pensare anche l'individuo
ileterminato nel quale essa esista ; e se perciò questa
bianchezza possibile non è la bianchezza esistente ne*

saper* di più, se questo è solo accidentale di alcune idee, o se è ciò che


ct^Hiùsct la natura stessa dello idee.
Se V «wslire ed il prendere gli oggetti realmenle esistenti è essenziale
acuire, ciò dovrà dirsi delle idee lulle : perocché, data una cosa, non
poi aui mancarle ciò che le è essenziale , mentre ciò che e essenziale a
lei, e dò ebe forma la cosa stessa.
Se poi questo involgere e prendere che fa l' idea il suo oggetto real
mente esistente, non è a lei che accidentale; in tal Caso torna la questione
di prima: perciocché è necessario di dimostrare i.° che cosa è idea,
l 0 come succeda a questa di prendere e involgere l' oggetto esistente :
pacche ella può essere senza di ciò, poiché questo è ad essa una cosa
accidentale.
Ora io sostengo, che le idee che abbiamo noi uomini, e delle quali solo
fan tengo discorso, non possono esser tuli che tutte almeno involgano e
prendano 1' oggetto loro realmente esistente, e che questa loro unione col
i*H'& ossei lo sia loro essenziale per modo ch'esse non possano esistere
iena di essa.
i trovar ciò io adopero tutti quegli argomenti co' quali si mostra la
diviàa e indipendenza della nostra idea dalla cosa reale: per esempio ,
il iliaco clie io penso, è diverso e indipendente dui bianco reale d'un
n*-o; e non solo 1' idea di bianchezza in genere , ma anche 1' idea di
laamiiezza applicata ad un muro individuale, è diversa dal muro bianco
reale e sussistente.
.Sani' Agostino stabilisce questa distinzione fra 1' idea , e la cosa reale
prosila colla mia idea , in un modo simile. Egli osserva , che se la mia
idea involgesse e prendesse la cosa, ne verrebbe necessariamente che la
co» non si potrebbe mutare senza che si mutasse altresì I' idea che io ho
della cosa. Così, io amo Paolo perchè lo credo virtuoso: egli potrebbe
Bufarsi senza che io lo sapessi e divenir malvagio , ed io continuare ad
«urlo come prima. Io amo adunque Paolo qual è pensato dalla mia
mente, e non Paolo qual è realmente esistente, o sia, che è il medesimo,
amo questo Paolo in quel modo eh' egli è nella mia idea , e non come è
io s£: io non prendo dunque colla mia idea ed involgo lui stesso: se nella
mia idea egli fosse sempre come è in sé stesso, io non lo amerei più per
la sua virtù, dopo che egli si e reso realmente vizioso Medesimamente
all'opposto , io posso mutar l'idea che io ho d'un uomo, senza eh' egli
muti punto; e crederlo tristo, mentre prima io per buono I' avea. lu tal
caso, in ilio /minine ni/til mutatum est ; — in niente autem mea mutala est
utujue ipsa cxistimalio, gius de ilio «/iter se liabebat , et alitcr hnbet ( De
Tnnilate Lib. IX, C. VI), lu somma, se le nostre idee prendessero ed
involgessero l'oggetto realmente esistente, esse avrebbero con lui una con
formità necessaria : noi iu tal caso saremmo infallibili; e per evitare lo
scoglio del scetticismo, percoleremmo nel suo contrario, daudo alla niente
umana l'infallibilità.
Ciò che si può dire adunque delle nostre idee , non è che esse invol
gano e prendano per sé 1' oggetto realmente esisteute. ; ma solo che imi
KosMiju, Orig. dalle JtLe, fai. I. 19
i46
singoli individui da noi veduti ( perocché per la defi
nizione ella è una bianchezza pensata, rimovendo dal
nostro pensier gl'individui a' quali appartiene realmen
te ); io dico che questa bianchezza non è nè pure un
mero nome. Sebbene ciò che prima ho detto relativa
mente a' nomi comuni, sembri suflìciente a dimostrar
uesto ; tuttavia io credo prezzo dell'opera il provarlo -i
i bel nuovo, giacché la moderna filosofìa pare tanto z
prona al nominalismo. ci
Se fosse un mero nome la bianchezza pensata e non
esistente in nessuno degli enti da noi veduti, noi, qua
lunque volta colla mente immaginiamo de' corpi bianchi .
senza nominarli, faremmo precisamente nulla: e pure,
chi si vorrà persuadere che il nostro spirito , ove im- ;
magina cose che non ha mai individualmente vedute ;
nè sentite nè nominate, non faccia nessuna azione? Qual ;
è quell'uomo che con dolci immaginazioni, benché vane
e chimeriche, non siasi alcuna volta confortato ne' mali
suoi? E qual è, a cui talora non piaccia di seguir die
tro a de' vaghi sogni che nell'ore sue più liete a lui in t
perfetta veglia pinge d'innanzi quella sua mira hi I po
tenza della immaginazione intellettiva? Chi persuaderà
all'amatore, che le sue giornaliere illusioni non sieno

con esse crediamo di prenderlo e d' involgerlo, quando a degli esseri real
mente esistenti le riferiamo per mezzo delle sensazioni; per esser poi
certi, elle noi non c' inganniamo cosi credendo , abbiamo bisogno di una
dimostrazione o ragionamento; il quale qual sia, m' ingegnerò altrove di
esporre.
Ora qui non aggiungerò che un' altra osservazione a chiarimento della
questione che tocchiamo. Io domando: - il riferire che noi facciamo le
idee nostre a cose realmente esistenti , ossia questa credenza che la nostra
idea involga e prenda qualche cosa di realmente esistente, è ella cosa che
appartiene all' idea? è un elemento che entra a formare V idea stessa t »
Io mi riserbo altrove a mostrare che 1' idea è al tutto diversa dalla
credenza che esista un ente reale rispondente all' idea: per modo, che
l'idea è perfetta ed intera anche senza questa credenza; nè questa credenza
aggiunge nulla all'idea della cosa, ma solo aggiunge allo spirilo nostro
una credenza che non è uu' idea ; sicché questo viene in cognizione del
l' esistenza reale di un oggetto con un atto essenzialmente diverso da
quello col quale egli ha l* idea. Per tal modo le operazioni dello spirito
iiilt-lligeiile vengono ad esser due essenzialmente diverse : i " quella colla
quale egli ha 1' idea di una cosa, a." quella colla quale egli ila la credenza
che a quella idea della cosa corrisponda una cosa realmente ed in sè
esistente. Questa distinzione delle due operazioni principali dell' iDtclli-
geuza e di sommo rilievo.
ne pur care illusioni? che non abbiano realtà di sorte
alcuna? che non esistano nè anche nella sua mente e
nell'animo suo? Chi persuaderà ai poeta, che quand'egli
non esprime ne' versi suoi gli oggetti individuali da lui
veduti e tocchi e palpati, i suoi bei canti sono vane e
perdute parole? Se quelle parole che non segnano og
getti individuali realmente esistenti , son vacui suoni
nulla significanti, onde avvien dunque, che, s'è sublime
il poeta, egli incanti coll'arte sua tutti i suoi contem
poranei, ed i posteri meravigli, ed egli solo abbia il
dono di ritrovar que' magici suoni così potenti, e che
pur nulla significano? Ma ond'egli trae tali suoni? qual
dio glieli inspira? che spirito muove macchinalmente le
sue labbra a proferirli? Innanzi che pronunci quelle pa
role, non ha egli dunque nessun concetto , nessun pen
siero, nessuna immaginazione presente allo spirito suo:
quando pur tutto il suo canto si diparte dal mondo
sensibile, e levasi a volo fuor dell'angustie di queste
cose individuali, e spazia pe' campi interminabili di una
immaginazione inesausta? Finalmente che direbbe un
uomo originale per iscoprimeuti e imprese nuove, ad
un ùlosofo che gli dicesse magramente così: « Sappi che
la non puoi concepir nulla, se non individui che esi
stono già: indarno tu mediti giovare il mondo di qual
che tua bella e nuova invenzione, di qualche scritto
originale, o di qualche impresa generosa: quando tu
pensi a tai cose che ancor non esistono, sei simile allo
stupido che non fa nulla, che non pensa a nulla: quando
di quelle tue cose tu parli, nulla più dei essere d'un
ciarlone; meno ancora d'assai, perciocché le tue non
sono che vane voci, vani suoni, siccome strepito di più
pietre fregate o battute insieme; conciossiachè non espri
mono nulla di esistente, nissun individuo particolare;
e non e' è pensier che di questi » .
Chi pone che l' uomo non abbia idee delle qualità
singole degli enti, se non considerate negli individui a
lui noti, e che tali qualità, quando si considerano fuori
degl'individui come meramente possibili, sieno meri
nomi, siccome fa lo Stewart; questi rinunzia e rinnega,
non sapendolo e non volendolo, tutte le arti e tutte le
scienze: non ha alcuna ragione colla quale spiegare l'im
maginazione intellettuale: l'uomo ragionevole di tali filo
sofi, non può avere che la povera reminiscenza delle
i48
cose vedute (i), non può immaginare enti possibili: €
così serrasi il fonte di tutto l' operare ragionevole ed
umano; giacché l'operare umano scaturisce dalla potenza
di fare e di ottenere de1 beni futuri e possibili; e per

(i) Di questo si vede corno il nominalismo sia un sistema che isterilisce


l'umanità: egli dichiara vane essenzialmente tutte le scienze morali e me
tafìsiche , le quali sono edificale sopra principi generali. Ma quale è la
specie del sapere che di priucipj generali non abbisogni? Ogni sapere è
impossibile nel nominalismo ; ogni nobile impresa, ogni bene della soeielà
è tolto da questo sistema , è dichiarato assurdo e chimerico. Tanto lon
tano vanno le conseguenze di certe dottrine che in sè considerate sem
brano puri giochi d' ingegno riserbati a pochi speculatori che escono colle
loro acutezze dal mondo reale ! IVon già : non escono : nessuno può uscire
dal mondo reale, rispetto all'effetto de' suoi pensieri : e quel falso ch'egli
inette in una teoria che non pare che astratta e meramente speculativa ,
dategli tempo, ed egli vi discenderà giù nella pratica , si svilupperà colle
sue conseguenze, s'intrometterà negli affari della vita umana , nell'ordine
della società : e con vostra sorpresa vi insozzerà quella , vi turberà que
sto j e spargerà de' mali per tutto; perocché egli per lutto trapasserà,
dalle aeree menti de' più assorti metafisici fino agi' illitterati sudori del
rustico e alle rozze fatiche dell' artigiano, per tutto lascia udo i suoi segni,
guaslamcnlo e corruzione.
Il nominalismo moderno trae origine dal materialismo. I nominali sono
stali sempre, generalmente parlando , de' materialisti : Hobbes mise ni
campo il nominalismo con molta forza. Dopo di Hobbes, quelli che ne
garono I' esistenza delle idee astratte con più impegno furono La Meline
( L'Homme machine), Elvczio ( L'Homme, T. I , Sect. II, eh. V ) , 1' au
tore del Sistema della natura (c. X), e gli altri di tal farina.
Locke all' incontro ripose la differenza fra 1' uomo e la bestia nppunto
nella facoltà che ha il primo delle astrazioni ( L. II , eh. XI, g io ).
La ragione per la quale Locke ammise le astrazioni e le ideo genera/i,
è quella medesima per la quale i materialisti le negarono ; cioè percfic in
esse consiste il gran divario che passa fra la bestia e l'uomo: i primi vo
levano torle via ; Locke le riconosceva, e aveva almeno 1' intenzioue di
stabilirle.
Data all' uomo la sola facoltà di percepire gì' individui sensibili , egli è
ridotto tulio al senso, perciocché è il senso quello che alla percezione de-
gì' individui presiede : quindi la ragione non è più. Qualunque sia il prin
cipio del senso corporeo, egli però è sempre tale , che il senso stesso dee
cessare colla dissoluzione dell' organo materiale : quindi V mais intentili
Iiominis et jumentorum.
Lo Stewart non ha certo veduto questa stretta connessione fra il nomi
nalismo , un sistema così astratto e teoretico, e il materialismo , un sistema
cosi pratico ; altrimenti egli non sarebbe stato nominale. Così mi giova di
credere; mi giova fargli questo onore rincrescevole di averlo per uomo
poco avveduto questa volta , per uomo che ha calcolato poco le conse
guenze de' suoi principj : perocché questo è un onore che gli si fa Viro
in generale, che v' hanno oggidì tali scrittori di filosofia , che dovrebbero
aver vicino qualche amico, che li sconsigliasse dallo scrivere contro lo scet
ticismo, che è poi l'ultimo effetto dello stesso materialismo; o almeno die
li scaltrisse a scriverne un po' meglio: il migliore amico sarebbe lo stuiiio
rispettoso ed attento de* grandi maestri, che in tutte queste materie pos-
siedala Chiesa, de' suoi padri e de' suoi dottori.
*4i>
iumaginar cose possibili, dee aversi prima nella mente
k lor qualità considerate come possibili, cioè come qua
lità partecipabili da esseri ancora non sussistenti , in-
definiti.
ARTICOLO XIX.
IL NOMINALISMO DI STEWABT DISCENDE DAI FBINClrj DI REID.

Ciò che io ho fatto osservare fin qui , ha una parti-


co\ar forza contro il sistema di Stewart, per la circo
stanza ch'egli segue i principj del dottor Reid sulla na
tura delle idee.
/I Reid nega l'esistenza delle idee considerate come
dd cotale intermezzo fra gli oggetti dello spirito e lo
spirito stesso. Locke cogli antichi distingueva l'idea dalla
cosa- quella considerava, non questa, siccome termine
prossimo dell'intelligenza: ma Reid non volle che esi
stesse nulla in tra l'oggetto percepito e lo spirito per-
cipiente; e questa è pure l'opinione di Stewart.
Ora, rispetto agl'individui, l'oggetto veramente esiste;
\*rchè gl'individui stessi esistono: ma rispetto alle idee
gennai i. non avendo queste fuori dello spirito una esi
genza, non reslava, nel sistema di Reid, modo alcun
di spiegarle. Quindi lo Stewart prese il partito di ne-
prle al tutto, affermando ch'elle non sono che meris-
sirni nomi (i).

(i) Lo Stewart parlando dell' opinione del dottor Reid sugli universali ,
cosi parla : « Io direi francamente che in questa materia non mi sembra
• essersi espresso in modo sì chiaro e soddisfacente come ha il costume di
■ fare» ( Élémens de la Philosophie de f esprit humain , Ch. IV, Sect. III).
A me sembra di più, eh' egli voglia esser difficile a conciliare in questo
jrgomento il dottor Reid con se medesimo. Certo lo Stewart cercando di
eonghielturare qual fosse su di ciò l'opinione di quell'eccellente filosofo, si
trova imbarazzalo a renderla consentanea co' suoi principj sulle idee. Ecco
qual è d passo nel quale il dottor Reid manifesta la sua opinione sugli
universali: « Una cosa universale non è l'oggetto d'alcuno de' sensi cste-
m riori , e perciò non può essere immaginata. Ma ella può essere concepita
« distintamente. Quando Pope dice : Lo studio che conviene all' uomo è V uo-
•< mo ; io concepisco chiaramente il suo pensiero , Quantunque lamia imma-
« ginazione non mi presenti nè un bianco nè un nero, nè un uomo ben
m fatto nè un uomo mal fatto. — Io posso concepire, ma non immaginare
" una proposizione o una dimostrazione. Io posso concepire e non posso
« immaginare 1' intelletto e la volontà , la virtù e il vizio, e tutti gli altri
« attributi dello spirilo. Medesimamente io posso concepire gli universali,
t ma non posso immaginarli ••. Interpretando questo passo nella maniera
ovvi» e naturale , ne verrebbe che il dottor Ueid riconoscesse gli universali
pei uu oggetto del pensiero , c uou per meri uomi. Ma ciò comi addii ebbe
i5o
Io non entrerò qui a cercare se il sistema di Reid
sia in questa parte vero o falso, il che ho toccato già
più sopra; non esaminerò nò pure se lo Stewart l'abbia
bene inteso, e se sia una conseguenza necessaria di quel
sistema, non ammettere al tutto le idee generali, e sup
porre in quella vece eh1 esse sieno meri nomi.
A me basta di fare osservare, che lo Stewart credette
d'essere obbligato a ciò dalla stretta necessità del siste
ma; perciocché fu per aver egli già ammesso il princi
pio che non esistono delle idee intermedie fra gli og
getti realmente esistenti fuor di noi , e noi stessi che
li percepiamo, che si condusse altresì a negare intera
mente l'esistenza delle idee generali; giacché in queste
concezioni generali lo spirito non ha nessuno oggetto
esterno realmente esistente.
Ora avendo io provato i.° che i nomi non bastano
ad ispiegare quell' atto col quale lo spirito immagina
degli esseri possibili , ed in numero maggiore di lutti
gì' individui da lui percepiti co' sensi , a." che non ba
stano nè pur le idee delle qualità, percepite negl'indi
vidui stessi in quanto stanno ad essi aderenti , 3." ma
che di più è necessario che la mente nostra percepisca
queste qualità in sè, cioè staccate dagl'individui, e quindi
come puramente possibili ; egli appar manifestamente

poi alla sua teoria delle idee, giacché egli ha negato che il nostro pensiero
abbia degli oggetti distinti da se e distinti dalle cose esterne. Quindi lo
Stewart s'industria, con molta sottigliezza a dir vero, di dare al passo di
Rcid un senso che lo concilj cogli altri passi del medesimo autore : ma mi
sembra che la sua interpretazione non possa menomamente soddisfare. Ella
è la seguente:» Pare, die' egli, che per questa espressione, concepire gli
« universali, il dottor Reid non intenda altra cosa se non comprender il
tt senso delle proposizioni in cui si trovano de' termini generali »» . Ma per
conoscere che questa interpretazione non risponde alla mente di Reid,
basta osservare che, nel passo di lui quivi sopra recato, egli distingue il
concepire una proposizioue e il concepire gli universali; e dice, che come
noi concepiamo le proposizioni , così medesimamente concepiamo anche
gli universali. Oltre di ciò abbiamo già dimostrato che i termini generali
non potrebbero essere a noi di alcun uso , se non annettessimo ad essi delle
vere idee generali ( face. i3i e segg. ). Egli è dunque necessario o di cer
care un'altra via migliore di conciliare la teoria del dottor Reid sugli uni
versali colla teoria del medesimo sulle idee, o di convenire che 1' una o
1' altra delle stesse è falsa. D' altro lato mi sembra cosa evidente ebe non
si possa stabilire una vera teoria sulle idee prima di aver sciolto il quesito
clic presentano gli universali, e che ha occupato tanto tutti i filosofi del
l' antichità: la quale osservazione dee porlo meno far dubitare della Icona
del dottor Reid.
che il sistema di Stewart è manchevole e insufficiente ;
giacché con esso non si può render ragione di quest'ul
timo modo di concepire, che è quello col quale si for
mano ed hanno presenti le idee generali.

ABTICOLO XX.
USUO SFIXOABX COMI SI PERCEPISCA LI SIMILITUDINE DBOLI OGGETTI ,
SI TB.OVA Là STESSA DIFFICOLTA' SOTTO ALTRO ASPETTO.

lo ho ancora molte riflessioni da fare sul passo rife


rito di Stewart.
£ primamente io prego il lettore di considerare quella
frase colla quale egli dichiara che cosa intenda per es
senza di un individuo. « L'essenza di un individuo,
« son sue parole, è null'altro, fuor che la qualità par-
« ticolare per la quale egli somiglia ad altri individui
■ della stessa classe, e in virtù della quale gli si ap-
« plica il suo nome generico ».
Ciò che v'ha di singolare in questo passo si è, che
Dentano può sconvenire da lui rispetto a tale definizione
«ii dà ; ed io sono ben certo , che Platone stesso
nonaTrebbe nulla ad aggiungere alla medesima. Ciò vuol
dire che il passo di Stewart lascia intatta la questione
della quale si parla.
£j»li è vero che in quel passo non cade di pronun
ciare le parole universali, e idee generali , ed altre simili:
ma ciò che io sostengo si è, che in quel passo si rac
chiude appunto il senso di queste stesse parole indu
striosamente evitate, e che perciò con esse non si Bono
dà eliminati dalla metafisica scienza gli universali, ma
si è puramente sfuggito d' esprimerli col loro nome
proprio.
E per vedere come ciò sia , io prego il lettor mio a
dirmi che cosa gli sembri che venga poi a dire quella
frase del nostro filosofo « la qualità per la quale un in
dividuo somiglia ad altri individui ».
Può essere eh' egli mi risponda non esser necessario
ricercar che sia la simiglianza che una cosa ha con altra:
latti intendono il detto, che un individuo somiglia ad
im altro. Ed anch' io credo con lui, che tutti l' inten
dono, e credo perciò che si possa facilmente definire.
Quando altri dice « due o più individui rassomi-
iìiansi » , ciascuno intende qualche cosa di meno che
i5a
quando dice « due o più individui sono uguali ». Con-
ciossiachè non si possono dire uguali più individui,
senza che sieno uguali in tutte loro parti e qualità: al- .
rincontro perchè sieno simili basta che sieno uguali in
qualche qualità particolare. Non si dà dunque simiglianza
fra più oggetti , se quelli non hanno qualche qualità
sotto alcuno aspetto uguale e comune. Ora non voglio
io fermarmi qui a cercare la conseguenza che' io potrei
dedurre da ciò sulla natura di questa qualità uguale o :
comune; osservo in quella vece, che io non posso co- ,
noscer mai la simiglianza o l' uguaglianza di più og- :
getti, ove nella mia mente io non abbia che l'idea in
dividuale di quelli, o Y idea delle loro individuali qua
lità. E di vero, le qualità di due oggetti, in quanto
sono individuali, cioè attaccate all'individuo, non si
possono in modo alcuno raffrontare fra loro ; percioc
ché le qualità che sono in uno individuo , sono in un
luogo diverso da quelle che stanno in un altro; e fino
che le due cose che raffrontar si vogliono, trovatisi in
luogo diverso, non possono giammai esser messe insieme
a confronto. Per confrontare insieme più cose o qua
lità, e scoprire ciò in che sono uguali e ciò in che sono
disuguali, egli fa bisogno che v'abbia uno spirito intel
ligente, il quale non abbia solo la facoltà di percepirle
individualmente , ma ancora abbia quella di staccarle
mentalmente (i) dagl'individui, e unirle insieme, e così
ritrovare ciò che è in esse di comune, e ciò che è in ,
esse di proprio.
Il geometra vuol vedere se due triangoli sono ugnali;
egli s'immagina di soprapporli l'uno all' altro, e di os
servare se quelli si combaciano perfettamente. Simil
mente, il falegname soprappone una tavola all'altra
quando gli è uopo vedere se due tavole sono della stessa
grandezza. Ma l' operazione del falegname è ben altra
da quella del geometra. Ciò che v' ha di osservabile si
è, che nulla varrebbe a questo, che quelle due tavole

(i) Rispondere: — lo staccarle mentalmente, non è uno staccarle real


mente, c quindi si ragiona in sul falso»; sarebbe un non avere inteso la
questione di che si tratta. Noi parliamo delle operazioni dello spirilo umano;
di ciò che avviene nella mente, e nun fuori di lei. Nella mente, staccar»
ed unire significa concepire a parte a parte, ovvero uel tutto , 1' oggetto ;i
cui si pensa.

i53
si ponessero l' una aderente slrettamenle coll'altra, senza
più: con quella sola materiale collocuzione egli non ve
drebbe se le due, tavole sieno uguali, ove non possedesse
oltracciò in sè medesimo uno spirito intelligente, atto
a concepirle coro penetrate appunto insieme, cioè a dire,
tutte e due occupanti lo spazio medesimo. Se lo spirito
vuol raffrontar due linee, egli dee mettere una linea nel
posto dell* altra : se vuol raffrontar due superficie, egli
dee immaginare 1' una dentro nell'altra: se vuol con
frontar due solidi, è a lui necessario di concepirli l'un
l'altro interamente penetrati': è così ch'egli vede se
sono oguali o se son disuguali, quale ecceda de' due ,
e quale manchi. Per quanto i due solidi materiali si
facciano vicini e coerenti, rimangono sempre Pun fuor
dell' altro, e perciò in sè stessi non si confrontano ve
ramente. L'uno esiste, e non ha un riguardo di sorte
all'esistenza dell' altro.
Ora mi si dirà; se il falegname, accostando due so
lidi insieme per vedere quale soperchi, non ottiene fuori
della sua mente nessun confronto, perchè dunque egli
li accosta? Rispondo, che li accosta non perchè fuori
della sua mente succeda un confronto, ma perchè con
9seu"atto esteriore egli ajuta la mente sua, e dirò an-
che la sua immaginazione, a fare il vero confronto den
tro di sè. E sopra tutto ciò, egli semhra che non possa
cader dubbio a colui che mette attenzione a conoscere
come avvenga il confronto che lo spirito nostro fa di
due o più cose.
Solamente io debbo osservare, che ciò che per uno
esempio ho qui detto de' corpi e dell'estensione, si dee
dire egualmente di due cose individuali qualunque sieno.
Due individui non si possono mai mescolare insieme :
hanno, come individui, due esistenze separate, indipen
denti. Può dunque affermarsi , che se non v' avessero
che soli individui , questi non si potrebbero confron
tare giammai ; perciocché non potrebber consistere in
un luogo slesso, o per dirlo più generalmente, in una
stessa esistenza.
Che fa dunque bisogno alla mente acciocché ella
possa confrontare fra loro due o più individui, e rico
noscere in che sono uguali, in che sono disuguali, in
che sono simili e in che dissimili? Secondo lo Stewart,
e. innanzi lui, secondo .Reid, la mente non ha idee che
Rosami, Orig. delle Idee, Voi. 1. ao
i54
puramente individuali, idee non diverse dagl' individi
stessi. Ma le idee individuali non bastano a formare u
confronto, come non bastano gl'individui, da' quali qui
ate, in quanto alla distinzione e indipendenza fra lorc
punto non differiscono. Di vero, 1' idea di una qualil
cesserebbe di essere individuale, ove questa qualità d
noi pensata, in virtù del nostro pensiero potesse essei
trasportata da un individuo all'altro; giaccbè una qui
iilà è particolare o individuale per questa sola cond
zione , eh' ella si concepisce siccome aderente ad un
individuo. Laonde siccome non si dà confronto fra du
individui, rimossa la niente ebe li confronti insieme
così non si dà confronto fra due idee individuali, l'un;
delle quali non può mai (appunto per l'ipotesi ch'eli»
sono meramente individuali ) esser confusa od immede
simala coli' altra. Perchè adunque lo spirito trovi eh
due individui sono simili o sono dissimili , è necessari
al tutto ch'esso, oltre le idee individuali, abbia altre;
delle idee generali: ed ecco come ciò avviene.
Si tratti di conoscere la simiglianza di due paret
bianche, l'una più, e 1' altra meno.
Le pareti slesse, nè la bianchezza individuale dell
f»areti non si può, come dicevamo, trasportare una nel
'altra; e se si potesse, di quelle due bianchezze n
riuscirebbe una terza , la qual non darebbe ancora i
confronto delle due bianchezze prime, come cercavasi
Nè pure l' idea della bianchezza individuale della pa
rete può confrontarsi coli' idea della bianchezza indivi
duale dell'altra parete senz'altro ajuto di mezzo; per
ciocché quando io dico bianchezza individuale, intendi
bianchezza che ha una esistenza così sua propria , chi
non può uscire di sè, nè andare in altra, nè riceverm
alcun' altra in sè , anzi che è straniera a qualunqui
altra , e che qualunque altra da sè ignora ed esclude
Ciò adunque che nella mente nostra rende possibile i
confronto delle due bianchezze di che parliamo, con
viene che sia una potenza per la quale noi abbiamo
una nozione della bianchezza generale , e non la pura
vista della bianchezza esistente e individuale ; perocché
ove si supponga che noi siamo atti di formarci e d'avere
una nozione generale di bianchezza, immediatamente
noi potremo confrontar con essa le bianchezze indivi
duali percepite co' sensi, e vedere quanto queste bian
chezze partecipino della nozione di bianco.
i55
E veramente , poniamo che noi abbiam formato nella
mente nostra ( non cerco ora il modo ) l' idea di una
bianchezza generale, cioè di una bianchezza non già ri
cevuta in un individuo esistente, ma isolata e sola, sic
ché noi la consideriamo possibile di attuarsi in un numero
infinito d' individui; perciocché non essendo ella legata
a nessuno, sta in noi a congiungerla e legarla con quali
e quanti vogliamo, mediante gli atti del nostro pensiero.
tJna sì fatta idea, libera dalla prigione, per così dire,
dell1 individuo nella nostra mente, è di sua natura un
tipo, un esemplare, una regola, per la quale noi tosta
mente giudichiamo della simiglianza degli individui che
anzi gli occhi nostri trapassano; ed ecco in qual modo.
Sapponendo in noi quella idea generale, al vedere che
facciamo una parete bianca, noi abbiamo nella niente
nostra i.* la percezione della bianchezza di quella pa
rete, a." r idea generale della bianchezza possibile. Al
lora confrontiamo questa seconda bianchezza con quella
prima, e così la giudichiamo. Un tal confronto è pos
sibile: perocché l'idea generale della bianchezza, ap
punto perchè non è ristretta entro a nessuno individuo,
pròda noi essere concepita in tutti gl'individui pos
tuli, e perciò anche in quello della cui bianchezza
togliamo a giudicare. In tal modo la bianchezza indivi
duale sentita e la bianchezza generale nel nostro spirito
si compenetrano, cioè si trovano insieme, senza confon
dersi , giacché è impossibile che si confonda ciò che è
generale con ciò che è particolare, ma il particolare si
cape nel generale, e si può in quello vedere senza pure
eh1 egli perda la sua determinazione che particolare
il rende.
Or facendo noi un simigliante giudizio sopra un'altra
parete, noi abbiamo due pareti individuali, giudicale
tutte due bianche d'un certo grado. ■
Quindi, per l'assioma che due cose simili ad una terza
sono simili in fra loro, noi scopriamo la simiglianza
delle due pareti bianche.
Per trovare adunque che due o più individui si ras
somigliali tra loro, noi abbiamo d'uopo supporre che
nella mente nostra v'abbia un tipo o esemplare comune
di quella qualità in virtù della quale quell'individui
sono simili: e questo tipo o esemplare non è poi altro
che la qualità stessa considerata dalla mente nostra
1 56
fuori di tutti gì' individui, e perciò in modo generale;
non è in somma che quella qualità slessa, ma non più
come esistente realmente, ma come possibile di venir,
ricevuta in un indefinito numero d'individui.
A chi non piacesse questa maniera di spiegare come
l'uomo ritrova le simiglianze che hanno le cose in fra
loro, io sono ben conlento che egli proponga un'altra
più soddisfacente spiegazione.
Ma mi sembrerà sempre strano, che in un discorso,
nel quale si tratta di cercare che cosa sia un' idea ge- i
nerale, e come lo spirito la si formi, altri si contenti ■
dire, non esser ella che « la qualità particolare onde ;
un individuo somiglia ad altri individui della stessa
classe » ; mostrando con ciò di riputare inutile cosa :
e superflua lo spiegare il modo onde le simiglianze degli ,
individui si conoscono. Se inutile è render ragione del
modo onde lo spirito conosce le simiglianze e dissimi-
glianze, è parimente inutile l'instituir ricerca sulle idee
generali; perciocché queste non sono due, ma una sola ,
e identica questione espressa in diverse parole. Per me,
come diceva, non concepisco possibile un giudizio sul- (
l'eguaglianza o simiglianza di due oggetti, senza che
v'abbia una misura comune; misura, che appunto perchè
è comune, non può essere individuale, ma vuol essere .
generale. {
Se queste misure, se queste qualità comuni, se questi
universali ( poiché tali parole vengono tutte nel nostro
discorso ad esser sinonimi ) non. si possono bene inten
dere , se hanno forse in se stessi qualche cosa di mi
sterioso e di recondito, ne verrà per ciò che si debbano
negare a dirittura? Tale è pur troppo la prosontuosa
tendenza dell'umana filosofia. Vi ha cosa ch'ella non
sappia bene intendere? che abbia del misterioso? la nega
direttamente: la dichiara una chimera: un sogno della
rozza antichità: o al più la pronunzia inesplicabile -, mi
surando ciascun filosofo l'ingegno umano dalle forze del
suo particolare: e questo è l'estremo della modestia di
che si vanti una sì falla filosofia.
Ma, checché si dica degli scrittori di questo o di quel
tempo, sarà sempre dovere del vero amatore della sa
pienza, di non negare l'esistenza di cosa che è ben com
provata , per questo solo ch'egli non la comprende; e
di preferire il confessar piuttosto ingenuamente ch'egli
,57
non ne intende ancor la natura, anziché dichiarare ch'ella
non è intelligibile a nessun de' mortali , e che perciò
non dee essere oggetto di umane investigazioni.

ARTICOLO XXI.
STELLO SPIEGARE COME SI POSSONO CLASSIFICAR* Gl' INDIVIDUI
TOBI! A A PRESENTARSI LA MEDESIMA DIFFICOLTA'.

Mia conceda un'osservazione ancora sul tratto rife


rito di Stewart. « È dunque, egli dice, questa qualità
■ quella che si può dire essenziale all' individuo nella
« classificazione che lo ripone sotto un certo genere par
li titolare. Ma come ogni classificazione è fino a un certo
• punto arbitraria, non si può conchiudere da ciò, che
■ questa qualità generica sia più essenziale all'esistenza
■ dell'individuo, che una moltitudine di altre qualità
• accidentali » .
Quando si toglie a render ragione di qualche fatto
sol quale si agitino disputazioni gravissime, conviene, a
mio parere, non permettersi l'uso d'alcun vocabolo equi
voco che faccia nascer dubbio e incertezza , e procac-
òart altresì con particolar cura, che le idee annesse a
latte le voci sieno rigorosamente esaminate. Ora l'idea
di classificazione in un genere usata dallo Stewart, certo
non pare che sia stata da lui esaminata ; poiché dove
i'avesse egli esaminata, avrebbe leggermente veduto
eh' ella non si fa che mediante uif idea comune , cioè
mediante quella qualità per la quale gl'individui si ras
somigliano fra loro appunto perdi' ella è loro comune.
Come adunque nell' uso della parola simiglianza , così
qui nell'uso della parola classificazione lo Stewart cadde
nell'errore logico che del circolo . s'appella : a dar ra
gione di un fatto, egli assunse il fatto stesso come spie
gato: pose che non ci abbia difficoltà nel classificare
gli oggetti, e nel trovare le loro simiglianzc ; e questa
è la difficolta appunto che si cercava di superare : in
somma ha definito una cosa colla cosa medesima, idem
per idem.
ARTICOLO XXII.
INCERTEZZA CHE DA' A VEDEBE LO STEWART NELLE ESPRESSIONI DA LDI ADOFEBATE.

Ella è anche singolare quella maniera da lui usata ,


« come ogni classificazione è fino a certo punto arbi
traria ». fc questo il linguaggio esalto della filosofia?
i58
Io gli soggiungerò: Dicendo voi che ogni classifica
zione è arbitraria fino a certo punto, confessate mani
festamente che non è arbitraria in tutto. Non era dun
que dover vostro di esaminare ciò che nelle classifica
zioni di che parliamo v'ha d'arbitrario, e ciò che non
v'ha d'arbitrario? Avendo voi ommessa questa ricerca,
il vostro lettore ha il diritto di sospettare, che ciò che
non è arbitrario nella classificazione, sia appunto ove
consista il nodo della questione, che voi frettolosamente
passate. Egli vi dirà, che non formandosi le classifica
zioni delle cose se non, come voi dite, sopra alcune
qualità, per le quali esse sono simili, o come altri s'espri
me, sopra alcune loro qualità comuni (e con questi due
modi si dice il medesimo); forz'è ritenere, che non sono
arbitrarie tutte quelle classificazioni che si chiamano
generi e specie; poiché le qualità comuni non sono ar
bitrarie, nè sono meri nomi, ma sono qualità realmente
esistenti negl'individui. Per quanto dunque sfuggevol
mente voi confessiate che in formare quelle classi d'in
dividui possibili, che si chiamano generi e specie, v'ha
qualche cosa che non è punto arbitrario, ma necessario
e reale; ella è al tutto sufficiente quella confessione che
sì vi sfugge da' labbri, perchè un avveduto sia tratto
da quella a dubitare di tutto il vostro sistema, e giunga
ben anco, seco medesimo ragionando, a trovare com'egli
ve lo rovini.
ARTICOLO XXIII.
LO STEWABT CONFONDE INSIEME DDE QUESTIONI DISTINTE.
Finalmente io osservo, che lo Stewart nel breve passo
sopra indicato ravvolge e confonde insieme due que
stioni totalmente distinte.
La prima è questa: esistono nello spirilo umano delle
idee generali, o sia, pensa l'uomo a delle qualità co
muni delle cose come meramente possibili?
La seconda è: che sono queste idee generali, o queste
qualità comuni delle cose fuori dello spirito umano?
Queste due questioni non si vogliono confondere e
avviluppare in una sola : e la seconda si dee suddivi
dere in altre, come appresso io dirò.
La questione, se una qualità comune esista fuor della
mente, nel suo stato di qualità comune, come afferma
Platone, e s'ella sia ciò che forma l'essenza delle cose,
è una ricerca al tutto inutile al nostro argomento.
Tutti siam d'accordo in questa seconda questione :
fuori delia mente, la qualità comune o generale non
iia esistenza isolata, e da se; ella realmente non esiste
se non fatta individuale, cioè negli individui a cui ap
partiene: ma è dopo di questo nostro accordo, che ci
resta ancora a sapere la risoluzione della prima que
stione, cioè se la qualità comune esista nel nostro spi
rilo e sia un oggetto del nostro pensiero.
Questa ultima ricerca certo eli' è tale, che dee riu
scire facilissima ed evidente, ove non s'abbia l'animo
preoccupato dalle sottigliezze nelle quali ci hanno tirato
coti filosofi che per troppa confidenza d'ingegno hanno
iaitricato delle tele di ragno per prendere in esse più
tosto gli uomini che la verità.
Il buon senso è sufficientissimo a conoscere che le
qualità delle cose sono oggetti del nostro pensiero non
pure in quanto sono individuali, ma ancora in quanto
sono comuni. Chi un poco rifletter vuole sopra di se
medesimo, s'accorge tosto, i." che il suo spirito sa co
noscere quelle qualità in quanto stanno in questo ed
in quello oggetto, il che è conoscere le qualità indivi
duali; a." che sa considerarle prescindendo dall'oggetto
in rai le vide prima e percepì, il che è un pensarle
cerne comuni ; 3.° che quindi egli sà vedere , che certe
qualità vengono contemporaneamente partecipate da più
oggetti, e che potrebbero essere in egual modo parte
cipate da un infinito numero d'oggetti possibili. Se così
non fosse, sarebbe impossibile che io pur qui ciò pen
sassi, e lo mettessi in parole.

ARTICOLO XXIV.
LO STEWART IGNORA LI DOTTRINE DEGLI ANTICHI FILOSOFI Ch'xCLI CENSURA,
SULLA FORMAZIONE DE* GENERI E DELLE SPECIE.

Non voglio andarmene più innanzi su di ciò, prima


d'aver fatto osservare, come l'altra questione intorno
alle qualità comuni considerate siccome essenze delle
cose, sia introdotta dallo Stewart senza un bisogno del
mondo nel ragionamento suo. Così sogliono fare altri
filosofi (i) : confondono quella questione platonica con

(i) Tale confusione si può dir comune a' filosofi moderni. Non sapendo
rome risolvere la prima, introducono la seconda, e gettano l'assurdità ed
il ridicolo di essa sopra la prima.
i6o
quella che noi trattiamo : e di più la pongono ancora
in una maniera assai inesatta e falsa.
Io vorrei dimandar allo Stewart, ove, di grazia, ab
bia egli trovato che gli antichi filosofi facessero consi
stere l'essenza delle cose nelle loro qualità comuni e
generali. Più tosto io ritrovo che distinguevano anch'essi
le qualità comuni , in quelle che sono essenziali e in
quelle che sono accidentali: ritrovo ancora, ch'essi for
mavano i generi e le specie sì mediante quelle , che
mediante queste. E di vero, ogni qualità comune, sia
accidentale sia essenziale, può esser fondamento alla
formazione di un genere o di una specie. Così , se io
dico: la specie degli uomini; ho preso a fondamento di
questa specie una qualità comune essenziale, cioè l'uma
nità. Ma se io dico : la specie degli uomini bianchi e
la specie degli uomini neri, o pure se, come fa Aristo
tele, io classifico gli animali dal numero delle gambe;
io ho preso a fondamento di quelle specie una qualità
accidentale, cioè a dire il color bianco o nero, ed il
numero delle gambe. E fu sempre distinta, per quanto
a me pare, questa doppia maniera di formare i generi
e le specie. E fu attribuita solamente a' generi ed alle
specie formate nel primo modo , cioè col fondamento
d'una qualità essenziale, la proprietà di contenere la vera
essenza degl'individui (i). All'incontro i generi e le specie
formati nel secondo modo , aventi a fondamento una
qualità accidentale, non si reputaron mai contenere la
vera essenza degl'individui, ma solo la essenza loro in
quanto a quella specie accidentale e arbitraria appar
tenevano.
Questa seconda specie potrebbesi in certo senso ( seb
bene ancora con qualche improprietà ) chiamar nomi
nale (a). Ma lo Stewart non potrà mai chiamare, con

(i) Per tal modo è l' essenza della cosa che forma il genere o la specie ;
non é il genere o la specie che forma l'essenza. L' idea del genere o della
specie ci porta ad una collezione, sebbene indeterminata, indefinita , di og
getti almeno possibili ; 1' essenza della cosa è al tutto semplice ed una.
(1) Con proprietà essenta nominale direbbesi quella, ove il solo nome
formasse il genere: per esempio u il genere dei Pietri, de' Paoli "
sarebbe un genere che avrebbe per fondamento il solo nome della cosa. '
paragoni questa essenza nominale coli' altre essenze , questo genere cog '
altri generi , e si vedrà quanto quella sia diversa da tutte le altre essenze,
e quello da lutti gli altri generi , e che perciò uon puossi , come teul»
(ars-Io Stewart, confondere tutte queste cose insieme.
iCt
proprietà, nominale la prima. Quella ha qualche cosa
di arbitrario* poiché ove si tratta di formar delle spe
cie aventi a fondamento delle qualità comuni acciden
tali, può stare in mio arbitrio il prender una o l'altra
di queste accidentali qualità 5 ma nelle specie della prima
maniera, fondate in una qualità essenziale, non v' fla
nulla d'arbitrario, perocché l'essenza della cosa essendo
unica, io non posso che prenderla a formare il genere,
0 lasciarla.
Dissi però che anche una tale denominazione non si
darebbe con proprietà; perchè chiamando quella qualità
estenza nominale, potrebbe credersi ch'ella fosse un
mero Dome; il che abbiamo dimostrato esser falso; giac
ché le qualità comuni delle cose, sieno accidentali o
sieno essenziali, hanno un'esistenza per lo meno come
oggetti del nostro spirito.

ARTICOLO XXV.
STEWART KOB INTENDE LA QUESTIONE AGITATA FRA I REALISTI,
1 CONCETTUALISTI E I NOMINALI.

Riesce inconcepibile a Stewart l'immaginare che vi


possa essere nel nostro spirito un oggetto senza che
rabbia cosa al di fuori : quindi dopo aver esposte le
opinioni delle due scuole, de' Realisti e de' Nominali,
ed essersi dichiaralo per questi ultimi, passando a toc
care della setta intermedia de' Concettualisti , confessa
ingenuamente di non potersene formare una chiara idea:
e va conghietlurando o piuttosto indovinando la loro
teoria.
Egli non sa trovarla se non in due proposizioni ch'egli
accenna in questo modo. « La maniera indistinta e
«inesatta onde s'esprimono (i Concettualisti), rende
< assai difficile cosa il corre la loro opinione. Io final-
« mente pendo a credere eh' ella riesca a sostenere le
« due seguenti proposizioni. La prima, che noi non ab-
« biamo nessuna ragione da credere alla esistenza delle
« essenze o idee universali (1) quali si pretende corri-

(1) Qui si fanno sinonimi essenze e idee universali; ma le essenze sono


Beile cose, mentre le idee universali sono nella mente. Questo e quanto dire
eb; si confondono di nuovo le due questioni: « se esista un oggetto gene
rale del nostro pensiero»; e«»se questo oggetto generale sia fuori di noi».
Io dou cerco ora quale stretta a dinila abbiano queste due questioni: dico
Rosami, Orig. delle Idee, Voi 1. 21
i6a
« spondere «'termini generali. La seconda, che lo spi-
« rito ha il potere di ragionare sui generi o classi d'iii-
« dividili senza l'uso del linguaggio » (i). Dopo di ciò,
immediatamente soggiunge: « E di vero, io non saprei
« qual altra ipotesisi potesse immaginare su questo sog-
« getto, volendo allontanarsi dalle due celebri sette (de'
« Realisti e de' Nominali ) di cui fin qui mi sono esclu-
« sivamenle occupalo. Noi sappiamo che i Concettua-
« listi s'accordavano coi Nominali in negare l'esistenza
a degli universali. Su che adunque potremmo noi sup-
u porre ch'essi differissero dalle opinioni di questi , se
« non fosse nella necessità del linguaggio considerato
« come strumento del pensiero e mezzo a seguire ogni
« specie di meditazione o ragionamento relativo a degli
u oggetti generali » (2)?
I Concettualisti s'accordavano co' Nominali nel negare
la sussistenza delle essenze universali, ma non s'accor
davano con essi nel negare l'esistenza delle idee uni'
versali (3).

solo che , confondendo queste due ricerche in una sola , era "veramente
impossibile non confondere poi i Concettualisti coi Realisti, e perciò non
parlar de' primi senza oscurità e confusione.
(1) Élémens de la Philosophie de f esprit humain, Ch. IV, Sect. III.
(a) Élémens de la Philosophie de f esprit humain, Ch. IV, Sect. III.
(3) 11 lettore allento s' avviserà facilmente che nel mentre che io riguarda
come lontanissimo dal vero il sistema de' Nominali , non aderisco meglio
al sistema de' Concettualisti. Non amo né pure di dirmi realista, perciocché
con questa parola, come colle altre due de' Nominali e de' Concettualisti ,
non vengono espresse delle sentenze sole e precise, ma più tosto tre corpi
di varie sentenze. E di fatto, i Realisti, secondo Giovanni di Salisbury,
li partivano insieme in sei classi diverse, e i Concettualisti ed i Nominali
altresì avevano le loro diverse sette. Il prendere adunque un nome così in
determinato sarebbe un nulla, ovvero sarebbe mettersi iu una fazione e
parteggiare senza cognizione chiara di causa: è per questo che, come ho
osservato altrove , la storia della filosofia non verrà mai alla sua perfezione,
lino che non si cominci a classificare i sistemi filosofici con la esatta descri
zione delle opinioni, e non co' nomi de' loro autori, o delle sette. (Fram
mento di lettera sulla classificazione de' sistemi filosofici ecc., negli Opusc.
Filos. Voi. II, face. 4g3 e segg. )
Ma per accennar brevemente in che senso io dissi che non aderisco
a' Concettualisti , si osservi che con questo nome si può acconciamente chia
mar quelli che dichiarano Y universale un concetto della mente per sì fatto
modo, che fuor della mepte non esista nulla di ciò che la mente pensa
coli' universale. Ora questo è lontanissimo dalla mia opinione.
Io piglio un idea universale o generale, e la sottometto all' analisi. Que
st'analisi mi dà due elementi, da' quali la mia idea risulta: i.° la qualità
pensata , a* 1' universalità della medesima , che s. Tommaso pure distingue
a chiama intentio universalilatii.
i63
In altre parole, essi ammettevano che lo spirito no
stro avesse bensì dei concetti universali, ma che questi
concetti o idee non avessero un'esistenza reale fuori del
nostro spiritòr fossero in somma delle idee fabbricate
da lui, all'occasione delle percezioni particolari delle
cose ricevute co' sensi.
In questo sistema lo spirito veniva ad avere i." le
percezioni particolari, a.° la facoltà di lavorare sopra
\e percezioni particolari, e di aggiunger loro una nuova
forma per la quale si rendevano generali.

AÌT idea della qualità io dico che corrisponde nella cosa individua una
realità: all' universalità della idea della qualità dico che nrlla cosa non cor-
nspoode nulla di reale, ma che questa universalità è solo proveniente dalla
mente mia.
L' universalità non è la qualità pensata , ina è un modo eh' ella prende
daìla mia mente: egli è necessario di fermar bene questa distinzione.
Ora come avviene che la qualità pensata sia in me universale? per una
potenza che ha il mio spirito. Quando il mio spirito ha percepito una qua
lità qualunque , egli ha la potenza di replicare questa qualità in un numero
««Wunto d'individui , mediante altrettanti atti del suo pensiero co' quali
t& fresa quella qualità esistente successivamente o contemporaneamente
m un mostro indefinito d' individui: e questa potenza risulla da due prin
cipi, aoe j.° dalla idea del possibile inerente allo spirilo, e a.* dalla ile-
nbsliti degli atti dello spirito in generale.
0r2 questa potenza di replicare questi atti del pensipro, e quindi d'im-
magmar replicata indefinitamente la qualità, è una proprietà e facoltà uni
camente dello spirito. Dunque è lo spirito che, mediante questa sua facoltà,
aggiunge a quella qualità ch'egli percepisce, il carattere della universalità t
perocché questa universalità non vuol poi dir altro, se non se u la possi-
Mita che ha una qualità d'essere da noi pensata in un numero indefinito
<f individui ».
Ciò adunque che é unicamente nella mente, è l'universalità delle idee
miversali ; non le idee stesse : perocché in quanto queste esprimono qua-
tea, esse hanno qualche cosa di corrispondente realmente negli individui.
L' universalità adunque nasce dalla relazione che le cose reali hanno Colin
mente, ed è la mente che la produce: e poiché molte di queste cose reali
hanno la relazione medesima, cioè sono repliche della stessa idea, quindi
diconsi che sono simili. Il fondamento adunque della simigliama che hanno
le cose fre loro, non istà che nell'identità della idea a cui le cose si rife
riscono: é dunque dalla mente, che anch'esso procede. Ma di tutto ciò
ragionerò più distesamente, ove esporrò il mio sistema.
Ciò che qui non posso a meno d' aggiungere si è, che se Deaerando
avesse bene osservato la differenza che passa fra il porre che le idee uni
versali sono puri concelti, e l'ammettere che solo P universalità delle idee
e quella che dalla meute deriva , mentre le idee stesse in quanto alle qualità
che esprimono hanno nelle cose una reale corrispondenza , non avrebbe
detto che s. Tommaso sia nn vero concettualista (Hintoire comparée. ecc., a.
edit, T. IV, pag. 498), titolo ch'egli pretende convenire parimente ad
Odiamo ( ivi , pag. 59i ) , che pur mi sembra un poco lontano dalle idee
tilcsofìche del dottore d'Aquino.
iC4
E non ha forse il nostro spirito la potenza di far
alcune operazioni sulle proprie idee e di far mutar loro
forma (i)? Tutti gl'idoli della fantasia non sono forse
meri parli dell'attività del nostro spirito, che non hanno,
come tali, cioè in quella lor forma, nessuna realtà fuori
di lui? non sono lavori da lui formati mediante le ope
razioni sulle sensazioni e sulle idee delle cose sensibili?

ARTICOLO XXVI.
STEWART CONFONDE LA QUESTIONE SULLA NECESSITA' DEL LINGUAGGIO,
CON QUELLA SULl' ESISTENZA DELLE IDEE UNIVERSALI.

Per l'opposto lo Stewart riguarda la questione sulla


necessità del linguaggio come cosa che entra essenzial
mente a caratterizzare le opinioni delle tre sette di cui
parliamo, cioè de' Realisti, de' Concettualisti e de' No
minali. Egli riguarda questa questione come una parte
essenziale di quella, sulla soluzione della quale si divi
devano questi filosofi , e suppone che i Realisti sieno
necessitati dal loro sistema di credere che i vocaboli
non sieno necessarj a concepire gli universali. Dopo aver
«letto che la differenza fra gl'individui ed i generi ri
guardo all'uso del linguaggio consiste in questo, che
noi possiamo ragionare sui primi senza linguaggio, men
tre noi possiamo sui secondi, così prosegue: « Questa
« osservazione è tanto più importante, ch'ella tocca,
« s'io non m'inganno, una circostanza che ha servito
« a sviare i Realisti dal vero. Essi hanno creduto, che
« come i vocaboli non sono necessarj a pensare gl ta-
u dividui, così noi dovessero essere a pensare gli uni-
« versali » (2).
Ma mi si permetta una osservazione: la questione sulla
necessità del linguaggio è al tutto indipendente dalla
questione che divideva quelle tre-.scuole de' filosofi , e
confondendo tali questioni insieme, non sì può che ren
dere estremamente difficile e inestricabile la questione
principale.

(1 ) È assurdo il dire che uua sensazione ti trasforma ; perchè ella è feio


plice , e particolare , e per trasformarsi converrebbe che prima si distrug
gesse. Il pensiero all'incontro ha un oggetto, o idea fornita di elementi ge
nerali e particolari: in quanto l'idea è generale, si può determinare e par-
licolarizzare variamente, e questo può dirsi che sia premiere uu' altra lo"
(a) Elémens de la Philosophie de l'esprit humain, Ch. IV> Sect.
i65
Io, che non intendo d'essere punto nominale, ho
d'altra parte la ferma persuasione della necessità de' vo
caboli, acciocché l'uomo da prima sia tratto a riflettere
sogli universali; ed è ciò che credo esser io anche riu
scito a dimostrare nel Saggio sui cori/ini dell'umana
ragione (i).
Grande differenza è fra il supporre che gli universali
sieno meri nomi a cui non rispondano nè cose nè idee;
e il supporre che sieno delle cose in sè realmente esi
stenti, o almeno delle idee esistenti nel nostro spirito,
ina però tali che noi non possiamo conoscer quelle o
aver queste la prima volta, senza ajuto di vocaboli.
Tanto quelli che seguissero la prima opinione, come
«pelli che seguissero l'una o l'altra di queste ultime,
cioè a dire, tanto i Nominali, come i Realisti e i Con
cettualisti, possono riconoscere necessario il linguaggio
acciocché V uomo cominci a pensare gli universali. Su
di ciò non v'ha che una differenza sola fra loro. I No
minali debbono creder necessario il linguaggio; e l'altre
àae scuole possono solo crederlo tale, cioè a dire, non
*w astrette a crederlo necessario in virtù dell'opinione
che professano sulla natura degli universali. I Nominali
deiibono creder necessario il linguaggio a poter avere
f'i universali, poiché sostengono che gli universali non
sono appunto altro che parole; all'incontro, se i Con
cettualisti ed i Realisti lo tengono necessario, essi opi
nano così , non già considerando i vocaboli come quelli
che tengano il luogo delle idee, ma come de' mezzi atti
e necessarj a scuotere e trarre l'attenzione dello spirito
nostro, per sè inerte, sulle proprietà comuni (2), o a

(0 Negli Opuscoli Filosofici, Voi. I, face. 6a e segg.


(a) Sceverala la questione della necessità del linguaggio dalla questione
sulla natura degli universali, non sarà tanto difficile il conoscere l'opinione
di Locke su questo argomento , dome fa vista di credere il professor Ste
wart. Egli lo accusa di avere adoperate delle espressioni slrane * poco usate
in questa materia, e con ciò d'aver data occasione che gli si attribuissero
delle opinioni contraddittorie. Concedo che ciò sia vero; ma non mi par che
v'abbia contraddizione là dove ce la trova lo Stewart. Lo Stewart trova
contraddittorio che il Locke in alcuni passi non giudichi il linguaggio in
dispensabile alle operazioni dell'intelligenza, e che tuttavia non sia realista.
Locke ammette che le idee universali sieno qualche cosa nella mente di
quelli che le pensano, e questa opinione è aifato indipendente da quella
sulla necessità del linguaggio ; giacché si può tenere che gli univer°ili sieno
ugelli della mente (enlia rationis ), e insieme tenere indifferentemente
i66
formare quelle operazioni sulle percezioni nostre, me
diante le quali queste nella mente nostra universali di
ventano.
ARTICOLO XXVII.
MUOVA PETIZION DI PRINCIPIO:
STEWART VOLENDO SPIEGARE COME L* INTELLETTO SI FORMA LE IDEE DI GINERE
I DI SPECIE, COMINCIA DAL SUPPORRE TALI IDEE OIa' FORMATE.

Io mi sono riserbato consigliatamente qui in fine di


queste osservazioni sulla dottrina di Stewart relativa
mente agli universali, di riferire il passo più forte di
questo autore in favore della sua causa , acciocché sia
più facile ad intenderne ben la forza, e la forza altresì
della confutazione che io sono per farne: le nozioni die
fin qui son venuto sponendo coli1 occasione dell'esame
di più luoghi del nostro filosofo , debbono poter esser
d'ajuto a' lettori.
Nel passo seguente s' assottiglia qnant' egli può per
ispiegare siccome l'uomo possa ragionar sulle verità ge
nerali coli' ajuto de' soli vocaboli , senza che a questi
vocaboli egli aggiunga stabilmente delle idee: e il re
cherò tutto intero, sebbene sia alquanto lungo, perchè
non possa cader dubbio in alcuno, ch'io travisi forse
i suoi sentimenti. Ecco le vie, onde noi veniamo, se
condo lui , alle verità generali. « Si vede chiaramente
« che v'hanno due maniere di pervenire alle verità ge-
« nerali. L'attenzione può fissarsi sopra un solo indi
ce viduo, avendo cura di non far entrare in tutti i no-
« stri ragionamenti, che le circostanze comuni al genere.
u, O ancora, mettendo da parte le cose stesse, si pos-
« sono adoperare unicamente i termini generali che il
« linguaggio ci fornisce ».
Egli crede dunque che noi possiamo ragionare sulle
verità generali, mettendoci solo davanti o degl'indivi
dui o de' vocaboli. E prosegue a dar luce alla sua idea
in questo modo: « Nel primo caso, poiché la nostra

tanto che il linguaggio sia necessario , come che il linguaggio non sia ne
cessario allo spirito per formarsi questi oggetti ossia queste idee di una
natura tutta loro particolare. Ciò che mi sembra di poter dire con ragione
relativamente a Locke, si è, ch'egli non abbia veduto il fondo nè dell' u"*
nè dell' altra questione , e che non sia stato al tutto senza cagione il ridi
colo che sparse sulla sua filosofìa Doria, Martino Scriblcro, e molt'»llr'
appresso.
. attenzione non si ferma che in quelle circostanze per
i le quali il soggetto de' nostri ragionamenti somiglia
* a lutti gli altri individui dello stesso genere , tutto
* ciò che noi dimostriamo esser vero di questo sog-
» getto , non può mancare d'esser vero di tutti gì' in-
« dividui dotati della qualità comune (i) che si ha sola
« considerata. Nel secondo caso, poiché il soggetto de'
* nostri ragionamenti è espresso da una parola generica,
« che s'applica egualmente ad una moltitudine d'indi
ti ridai, la conclusione che noi ne tiriamo dee avere
« la stessa estensione , e applicarsi a tutto ciò che è
• compreso sotto il nome del soggetto in discorso (a) » .
Qui io vorrei interrompere un poco il signor Stewart
nel suo ragionamento, per dimandargli che cosa egli
cerca di fare col medesimo.
Mi risponderà, eh' egli cerca di render ragione delle
verità generali, ossia ch'egli cerca di spiegare la forma
zione de1 generi e delle specie. Ora in questo caso io
non posso a meno di richiamarlo a fare un po' d'at-
lenrione alle seguenti espressioni da lui adoperate nel
»o discorso : « Le circostanze comuni al genere » « le
ànostanze per le quali il soggetto de' nostri argomenti
tomaia agli altri individui dello stesso genere » . Queste
due espressioni, per fermarmi solo a queste, certo sup
pongono i generi già formati , e suppongono che noi
facciamo uso de' medesimi. Come dunque introduce egli
i generi e le specie già formale in un discorso, lo scopo
del quale è appunto quello di render ragione della for
mazione de' generi e delle specie? Non v'ha qui nuova
mente un'aperta petizione di principio?

ARTICOLO XXVIII.
ALTRA PETIZION DI PRINCIPIO :
ITIWAST SUPPONE CHE LE IDEE GENERALI SONO QUALCHE COSA, IN QUEL RAGIONAMENTO
STESSO COL QUALE VUOL PROVARE CHE NON SONO CHE MERI NOMI.

Ma questa osservazione sia per non fatta. Prosegue


Stewart: « Il primo di questi due processi è analogo
■ alla pratica de' geometri , che ne'loro ragionamenti

(1) Ma se questa qualità comune non è che un vocabolo!


(2) aémens de la Philosophie de l'esprit humain, Ch. IV, Secl. II,
168
« più generali fissano la loro attenzione sopra una figura
« particolare. Il secondo processo somiglia a quello de-
« gli algebristi , che eseguiscono tutte le loro operazioni
« coir ajuto de' loro simboli ».
Noi non abbiamo che opporre a questo fatto ; egli
avviene appunto così. Ma sta poi a vedere se , avve
nendo così il fatto , si riesca a questo, che gli univer
sali debbansi avere in conto di nuli' altro che di meri
nomi; o pure se risulti anzi il contrario.* e ciò si farà
manifesto dalla sola esposizione della teoria del nostro
autore.
L'osservazione che lo Stewart stesso ci soggiunge sulle
due maniere da lui stabilite di pervenire alle verità ge
nerali , quanto mi sembra bella e fina , altrettanto mi
pare atta a sparger luce sull'argomento. « Questi due
« metodi di pervenire alle verità generali, così egli,
« sono fondati sugli stessi principj , e sono men diffe-
« renti fra loro che non mostrino nel primo aspetto.
« Quando noi facciamo una serie di ragionamenti ge-
« nerali fissando la nostra attenzione sopra di un in-
« dividuo particolare di un genere , questo individuo
« dee essere considerato come un semplice segnoj o come
« una rappresentazione della qualità costitutiva dello
« slesso genere. Egli non differisce dagli altri segni se
« non per un certo carattere di simiglianza (i) colla
« cosa significata. Le linee diritte adoperate nel quinto
■ libro di Euclide per disegnare certe grandezze in ge-
« nerale, non differiscono dall' espressione algebrica di
« queste stesse grandezze , che come la scrittura che
« pinge gli oggetti differisce da quella che adopera de'
« caratteri arbitrarj ».
Nulla più vero di ciò: per questa bella osservazione
i due modi di pervenire alle verità generali si riducono
ad un solo. Lo spirito umano arriva alle verità gene
rali mediante de'segni : son poi questi che possono es
ser di due maniere: perocché v'hanno de'segni che hanno
della simiglianza colla cosa significata, e v'hanno de'se
gni che non hanno alcuna simiglianza con essa, e che
sono veramente arbitrarj: la pittura che ritrae le cose,

(i) È egli nulla questo? Nello spiegar che sia questo carattare (li simigli»""
za, sta appunto tutto il nodo della questione. Vedi sopra l'articolo XX.
l60
appartiene a' primi ; le lettere del nostro alfabeto sono
segni della seconda specie ; la geometria che usa le
figure , ha de' segni simiglianti colla cosa significata ;
l'algebra che usa le lettere, ha de' segni privi al tutto
di similitudine colle cose segnate.
Ora io dico, che l'uso appunto di questi segni sup
pone l'esistenza delle idee generali : tanto è lungi, come
pretende lo Stewart, ch'essi bastino da sè soli a dar
tastone de* nostri ragionamenti intorno alle verità ge
nerali.
Lo Stewart adopera la frase, che questi segni ci fanno
pervenire alle verità generali : ora se queste verità fos-
seio un niente, o non differissero dai segni stessi, qual
senso avrebbe un simil modo di favellare? Esso equi
varrebbe a quest' altro j « mediante i segni noi perve
niamo ai segni} e non ad altri segni, ma a quelli pro
prio di cui ci serviamo ». Qual vana e strana maniera
di filosofia sarebbe cotesta ? che verità importante con
terrebbe una simile proposizione ? Di vero io dimando
allo Stewart, e a qualunque altro s'abbia fiordi senno:
la sola parola segno non fa subito correre la nostra
mente alla cosa segnata ? v' ha alcuno che possa coll
ocare ciò che esprime la parola segno, o la parola cosa
segnata, senza che concepisca ad un tempo l'idea di
tutte e due queste cose, come di due cose relative, l'una
delle quali chiama necessariamente a sè l'altra?

ARTICOLO XXIX.
I SIGITI NON BASTANO A SPIEGARE LZ IDEE OENERAM.

Laonde i segni non bastano a spiegare come si per


venga alle verità generali, senza porre che anche queste
verità generali sien pur qualche cosa.
Il dire che questi segni dirigono la nostra mente a
pensare agl'individui, non basta ancora, come ho già
dimostrato (i).
E veramente, quando mi si dice che un segno dee
condurre la mia attenzione ad un individuo solo e de
terminato, io intendo forse come a tal uopo io non
abbia bisogno se non di- concepire due cose, il segno e

(i) Articolo XVI.


Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. I. 22
l'individuo segnato. Ma quando mi si dice che un se
gno mi dee condurre a pensare ad un individuo non
già solo e determinato, ma sì ad un individuo qualun
que, di un dato genere o d'una data specie, e a nes
suno degli altri che stanno fuori di quel dato genere o
di quella data specie; io non posso più intendere come
ciò avvenga, se non concepisco tre cose, i." il se
gno, a.° 1' individuo segnato, 3.* qualche cosa che mi
determini a conoscere di qual genere o di quale specie
sia quell' individuo a cui io debbo pensare , il che ò
un* idea del genere e della specie a cui s' appartiene
quell'individuo segnato con quel segno.
E v' ha di più. Co' vocaboli , o più generalmente co'
segni che mi esprimono gli universali, io faccio due cose.
i.° La prima, mediante que' segni io sono condotto
e scosso a pensare un individuo qualunque di quel dato
genere o di quella data specie: per esempio, colla pa
rola uomo, indicandomi ella un individuo della specie
umana, io posso discendere colla mia mente a pensare
un uomo particolare qualunque egli sia, vero o imma
ginario, ovvero posso applicare la parola uomo a qua
lunque mi piaccia degli uomini particolari.
E questo è il primo servigio che mi prestano i ter
mini generali, il primo progresso dello spirito che con-
sisle nel discendere dalla specie all' individuo. Ora ciò
che ho dello già dimostra suflicientemente, che io non
posso far questo primo uso de' termini generali con una
sola ed unica idea, cioè coli' idea degl'individui, ma
che io debbo avere due idee , cioè l'idea degl'individui
e l'idea della specie a cui quelli appartengono, e che
perciò quest'idea della specie non può essere un mero
nome. Ma lo stesso dimostrasi ove consideriamo il se
condo uso che noi facciamo de' termini generali.
a." La seconda cosa che io fo co' termini generali, si
è di formarmi delle teorie , o sia di ragionare in un
modo astratto e generale senza discender punto agl'in
dividui.
In questo secondo uso de' termini generali gl'indivi
dui sono interamente esclusi e abbandonali , od essi
stessi non fanno che servirmi di segni per ajutare il
mio spirito a ragionare, senza eh' essi però sieno punto
uè poco la materia sulla quale io ragiono. L' esempio
di ciò è toccato da Stewart, ed è l'uso che fanno i
geometri delle figure. Quando il geometra disegna sulla
sua tavoletta un triangolo per dimostrare una proposi-
lione generale , come quella, che i tre angoli presi in
sieme formano 180 gradi, o sia due retti; egli non fa
uso allora di quel triangolo individuale che come di
un puro segno, coli' ajuto del quale egli si agevola
V astratto ragionamento: e la dimostrazione eh' egli dà
non riguarda già quel triangolo individuale meglio che
un altro, ma sì tutti i triangoli in genere Non è dun
que quel singolare individuo l'oggetto de' suoi pensieri;
perciocché quell' individuo non è che un segno , un
esempio , un ajuto in somma de' pensieri suoi : v' ha
dunque qualch'altra cosa a cui egli pensa , e questa cosa
è quella verità generale che si propone di ritrovare, e
che ritrova bensì coli' ajuto de' segni, ma che è d' una
natura interamente diversa da quella dei segni.
Lo Stewart va così vicino al vero e lo evita , che
pare l'auriga d'Orazio che rasenta la meta senza toc
carla; e certo al toccar quella meta, il suo sistema sa-
rtbbesi rovesciato. Dice che ne' ragionamenti generali
|\' individui non entran per nulla; che se vi s' intro-
meltono, non fanno bene spesso che impedire e tur-
ban il corso dello stesso ragionamento : e tutto ciò egli
ci dice in questa stessa lezione della sua opera , nella
quale tratta degli universali; e dicendo ciò, egli non
mostra punto di accorgersi, che solo un tal fatto è ba
stevole a rovinare tutta la sua teoria da' fondamenti.
« In questo ultimo caso * (sono sue parole , e vuol dire
quando s'adoperano i segni arbitrarj per ajuto de' no
stri ragionamenti , come fa 1' algebrista ) « in questo
m ultimo caso può sovente avvenire, per effetto di qual-
« che associazione d'idee, che una parola generale ri-
ai chiami l' attenzione sopra uno degli individui a cui
• essa si applica. Ma lungi che ciò sia necessario per
« la forza del ragionamento ; al contrario egli è sem-
■ pre una circostanza che tende a farci uscire di stra-
■ da » (1). E la stessa osservazione aveva fatto all' oc
casione di ripetere la sua sentenza sugli universali :
« Quando dunque noi ragioniamo sulle classi o generi,
" gh °ggett* ae' nostri pensieri sono de' semplici segni.

(1) Élémens de la Philosophie de l'esprit humain , Cn. IV, Sect. II.


172
« O se in qualche cosa la parola generica ci richiama
« alla mente degl'individui, questa circostanza dev'es-
« sere considerata come l' effetto di una associazioue
« accidentale , e vale piuttosto a turbare il ragiona-
« mento che ad agevolarlo » (1).
Quando un' autore s' è impegnato in una dottrina
falsa , è incredibile in quante contraddizioni egli sia co
stretto d' avvolgersi, quante inesattezze gli sia uopo di
perdonarsi, per dare una qualche speciosità a' suoi ra
gionamenti : e più lo scrittore è ingegnoso , più egli
conduce da lungi il suo errore. É allora prezzo del
l' opera seguirlo con diligenza ne' suoi errori , guardar
la traccia per la quale suol sì tortuosamente traviare
in vastissimo laberinto: acciocché noi in tal modo fac
ciamo esperienza cogli altrui pericoli: è perciò che mi
prendo la libertà di notare ancora una singolare falla
cia di ragionamento in un passo del signor Stewart.

ARTICOLO XXX.
ALTRA FALLACIA NELLA MANIERA DI RAGIONARE CSI CSA LO STEWART.
Egli sostiene che « oggetto del nostro pensare non
possano essere che individui , e che ciò che noi chia
miamo idee generali non sieno che pure parole o se
gni ». Ma proponendo a sè stesso la dillicoltà: « come,
dato ciò , si rendano possibili de' ragionamenti gene
rali n • egli, per ispacciarsene, s'impegna a provare la
strana proposizione: « che noi possiamo ragionare con
« delle parole senza aver nessun riguardo alle cose che
* quelle parole esprimono. »
Tale proposizione è necessaria in fatti, s'ella è vera
la sua teoria : giacché non facendosi uso , ne' ragiona
menti generali, di parole che esprimono individui, bi
sognava sostenere 1' una di queste due cose, o che le
parole generali non significhino nulla, o pure che v'ab
bia qualche cosa di generale, oggetto de' nostri pensieri
da quelle parole significato : esclusa questa seconda ,
doveasi mantenere la prima.
E per dimostrarla con uno esempio , bisognava , a
mio parere, prendere un ragionamento generale, e ai

(1) Élèmens de la Philosophie de V esprit humain, Ch, IV, Scct. HI-


termini generali di cui egli è composto sostituire degli
litri termini generali a caso , e così vedere s'egli rite
neva ancora un senso ; giacché se i termini generali di
cai è composto un ragionamento, son meri segni per
modo che noi non vi attacchiamo un valore, come vuole
Stewart , dee essere al tutto indifferente che noi ado
periamo piuttosto que' segni che altri , giacché noi non
poniamo nessuna attenzione alla relazione eh' essi aver
possano colle cose significate.
Ma lo Stewart non fa ciò : chè fare non l' avrebbe
potato. E eome in quel cambio si consiglia egli di ra
gionare ? Ecco il modo ; e prego ogni uomo sensato a
dirmi s' egli è giusto. Piglia un ragionamento particolare;
da esso trae fuori i nomi degl'individui, e sostituisce a
quelli, altri nomi o segni d' individui ; quindi si volge
e dice -. «or vedete, io ho mutati que' nomi, e il ragio
namento conserva tuttavia il senso di prima » . Che
cosa trae egli da ciò? Egli trae, che dunque si può
ragionare coli* uso di meri segni, senza attaccare a' me
desimi nessun valore. È ella retta questa sua conse
guenti. ì L' unica conseguenza retta che si può cavare
di là, si è, che in un ragionamento particolare i nomi
degHodividui nominati possono esser cangiati a piaci-
mento, e possono anche essere sostituiti , in luogo de'
medesimi , de' nomi comuni.* nuli' altro che questo prova
il fatto di Stewart.
ila ecco l'esempio da lui introdotto. « Se il giudice
« non conosce delle parti che le relazioni loro al pro-
• cesso, s'egli ignora i loro nomi, se egli li segna colle
• lettere dell'alfabeto o coi nomi finti di Tizio, Cajo,
• Sempronio, egli è necessariamente imparziale. Così nel
• seguito di cin ragionamento, noi corriamo meno rischio
« di violare le regole della logica, quando la nostra at-
» tenzione si fissa sopra de' semplici segni, e l'immagi-
« naz/one, offerendoci degli oggetti individuali, non eser-
« cita influenza sul nostro giudizio, e non viene sedu-
• cendoci con qualche associazione accidentale »
Quello che noi neghiamo al signor Stewart primie
ramente sì è, che la nostra attenzione, nel caso da lui
proposto, si fissi sopra de' semplici segni.

(0 Élèmens de la Philosophie de V esprit humain, Ch. IV, Sect. III.


»74
Concediamo che le parti che piatiscono dinanzi a un
giudice, possono essere a lui significate o con de' nomi
veri, o con de' nomi finti, o colle lettere dell'alfabeto;
ma tutto questo non vuol dir altro se non che, trat
tandosi di nomi arbitrarj , come sono i nomi proprj ,
egli è al tutto indifferente che s'adoperi l'uno piuttosto
che l'altro. Questa indifferenza cade sopra i segni, e non
sopra le idee; e ciò mostra che il pensiero del giudice
si rivolge e fissa sull'idea segnata, e non si ferma al
segno medesimo; anzi del segno egli non sa che farne;
ed è al tutto indifferente per lui che gli venga rimu
tato-, purché però, mutandoglisi il segno, non gli si
muti altresì l'idea, e quindi purché al primo segno si .
sostituisca un altro tale, che valga a rappresentare quel
l'idea medesima di cui si abbisogna. E ciò rendesi più
facile ne' nomi proprj; poiché avendo questi un legame
interamente arbitrario colla cosa nominata, la cosa ai
può denominare con una piuttosto che con altra voce
a piacimento, con una lettera, con una sillaba, con un ,
vocabolo di più sillabe, con un segno qualunque. Al
l'incontro non istà così pe' nomi comuni o termini ge
nerali : o almeno il fatto medesimo non ha luogo con
tanta estensione; ma si avvera però quantunque volte ,
si può rinvenire un sinonimo, cioè una voce che espri
ma la stessa nozione comune. Il che prova che si può ,
bensì sostituire uno all'altro segno ne' ragionamenti,
ma solo allora che sono tenute ferme le idee; perocché
i ragionamenti si formano sulle idee, e non sui segni;
ed i segni non valgono a nulla , se non in quanto ci
significano e suggeriscono le idee. Tanto è lungi adun
que che si possa ragionar con de' semplici segni senza
che si annetta a' medesimi veruna idea , che anzi i se
gni ammettono dell'arbitrio, mentre nelle idee non può
esservi arbitrio alcuno, ed i segni possono mutarsi pur
ché le idee si conservino: l'esempio adunque di Stewart
prova appunto tutto il contrario di ciò ch'egli con esso
argomentavasi di provare.
Il che si farà vie più manifesto, più che quell'esem
pio si considererà. Se non è necessario che il giudice
sappia i nomi veri de' litiganti, ciò non è per altro, se
non perchè non è necessario ch'egli conosca gl'individui
stessi, e le relazioni private e straniere alla causa de
medesimi; ma basta che conosca quelli in relazione alla
rausa ch'essi trattano innanzi a lui. Il lor nome vero
Li fa conoscere come individui: il lor nome finto, o le
lettere dell' alfabeto colle quali si notano , li fa cono
scere come appartenenti ad un genere di cose, cioè come
« uomini aventi fra loro quelle relazioni che risultano
dalla causa che trattano e nulla più ». Per conoscerli
in questo secondo modo , il giudice dee avere le idee
g»neia\i ed astratte; giacché le relazioni di un indivi
duo coU'allro non sono che idee generali e astratte dal
l'individualità, e gli uomini che hanno queste anzi che
quelle relazioni appartengono ad una specie accidentale
formata appunto dalle dette relazioni. Adunque col so-
sfiiaire a1 nomi veri delle parti que' nomi finti, nell'idea
ód giudice non è avvenuta alcun' altra mutazione se
ma solo questa, che in essa si è sostituita un'idea ge
nerica ad una idea individuale. Or che dunque è ciò
che vuol provare lo Stewart col suo esempio? che non
v'ha bisogno delle idee di genere? egli anzi ci ha posto
innanzi la miglior dimostrazione dell'opposto. Propone
ssi di dimostrare che si può fare un ragionamento senza
idee generali; e in vece è riuscito a dimostrarci, che si
può tre un ragionamento senza idee individuali , ma
por con solo le generali. Ecco l'esito di quel suo discorso.
Gl'individui adunque non sono i soli oggetti del-
/'umano pensiero, nè i segni possono supplire alle idee
generali. La mente, se dee ragionare, ha bisogno di
possedere queste più ancora che le individuali: poiché
si può dare un discorso ove si prescinda interamente
dagl'individui, come nell'esempio dallo Stewart arreca
toci (i); ma è impossibile concepir modo, onde senza

(i) Ciò che condusse in errore lo Stewart sull' esistenza delle ideo ge
nerali , sembra essere anche slato il non avere egli osservato che le rela
zioni o rapporti delle cose si risolvono pure in altrettante idee genernli , e
sono il fondamento de' nomi comuni come quelle che si dicono qualità
comuni. Infatti un nome comune designa un ente sì per una qualità comune,
che per una sua relazione. Quand' io pronunzio, a ragion d'esempio, il
nome comune uomo , accenno l'individuo d' un genere che è formato dalla
qualità comune umanità: quando all'incontro nomino figlio, io accenno
l'individuo del genere formalo dulia relazione di fìgliuolanza , comune pure
a molti individui. Concepire adunque un rapporto , è avere un' idea gene
rale , una di quelle idee che formano i generi e che danno luogo ai nomi
comuni. Se lo Stewart avesse osservato ciò, non avrebbe creduto di aver
dimostrata la non esistenza delle idee generali, col sostituir ad esse le idee
di rapporto; nè di aver diinoltrato che un ragionamento s'intende senza
176
le idee generali si componga un ragionamento qualsias
perciocché quand'anche un ragionamento si rivolga si
pra meri individui, non può evitarsi di considerarli sii
come forniti di comuni qualità o di comuni relazioni

ARTICOLO XXXI.
conclusione: la filosofia scozzese, conscia della propria insufficienza
superare la difficolta* proposta, ha tentato in vano di eliminasi
dalla filosofia. •

È dunque impossibile anche all'industria e all'inge


gno della scozzese filosofia il distruggere l'esistenza teli
idee generali: delle quali d'altro lato non si potrebbe
parlare, nè s'avrebbe mai parlato, se non esistessero.
Sicché non si può felicitare questa scuola di avere eli
minato, come ella si lusinga, quel problema che lo Ste
wart confessa essere stato sempre considerato come une
de' più difficili della metafisica, il problema cioè del
l'origine dell'idee universali, quel problema che, pei
riassumerlo di nuovo sotto la sua più semplice forma ,
così si presenta: « La mente umana non può formare
a se stessa delle idee universali senza un giudizio. Ma
ella non può formare un giudizio senza aver preceden
temente delle idee universali. È dunque necessario ili
ammettere nell'uomo qualche idea universale innata, e
perciò preesistente a tutti i suoi giudizj ; o se non si

bisogno d'idee generali, ma sole mediante delle idee di rapporto. Ecco le


sue parole: - Egli segue da ciò che abbiam detto, che l'assenso dato
« alla conclusione di un sillogismo non risulta punto dall' esame delle no-
- zioni espresse nelle proposizioni di cui è composto, ma unicamente dai
« rapporti che legano fra loro le parole che le esprimono - . Il fallo è
che» in un sillogismo «• ( questo è ciò che è ammesso da tutte e due le
parti e che prova appunto In necessità delle idee generali ) « la conclusione
« non è che un caso particolare di UN ASSIOMA GENERALE» ( non
dunque di semplici segni) « che si può enunciar cosi: ciò che è vero uni
re versalmente d' un certo segno, è vero di tulli gl' individui che si possono
«« disegnare per questo segno » (del segno non si predica nulla nel sillo
gismo, ma sempre della cosa segnata ) . E da ciò ecco la straua conseguenza
che cava lo Stewart: « Ammettendo adunque che il processo del rsgio-
« namento si possa sempre risolvere in una serie di sillogismi, consegue
« che questa operazione dell'intelligenza non fornisce nessun argomento in
« favore dell' esistenza di qualche cosa che corrisponda ai termini generali ,
n e die sia disliuto dagl'individui ai quali questi termini sono applicabili"-
(Élémcns de la Philosophie ile l' esj>ril fumati» , Ch. IV, Scct. II.)
ruol nulla d'innato, è necessario di render ragione in
litro modo di una si fatta difficoltà ».
Nell'uno o nell'altro modo è uopo che una vera, filo
sofia sciolga il detto problema : e l'esame che abbiam
fatto fin qui di que' sistemi, ne' quali si vuol render ra
gione delle operazioni dello spirito senza ammetter nulla
o quasi nulla (t) d'innato nel medesimo, dimostra ch'essi
non possono sciorre il nodo della questione , e che i
loto autori non l'hanno nè pure bastevolmente sentito.

CAPITOLO V.

QUALI PASSI FECE LA. FILOSOFIA PER OPERA


DE' FILOSOFI FIN QUI ESAMINATI.

Io non porrò la questione, se Locke, e i filosofi che


dopo lui seguirono e che fin qui io ho esaminati , ab
biano fatto far degli avanzamenti alla filosofia.
Per conoscere la superfluità di una tale questione ,
basta osservare che gli errori stessi degli uomini ser
pono, nel grand'ordine della Provvidenza, ai progredi
menti dello spirito umano ; danno occasione di trarre
le rerità importanti in una luce più manifesta ; eccitano
/amore verso lei del genere umano, il quale, agitato
lungamente dall'errore, giunge in fine a riconoscer quella
per la più preziosa cosa di tutte e la più salutare.
Quand'anco adunque i filosofi, de' quali noi abbiam
parlato, fosser caduti in gravi errori, essi non sareb
bero slati per questo meo di vantaggio all'umanità: la
quale già sente, appunto per le loro esitazioni e per le
loro imperfette dottrine, il bisogno ed il prezzo inesti
mabile d'una solida e verace filosofia.
Laonde qui alla fine della presente Sezione fia prezzo
dell' opera ehe noi soffermandoci volgiamo un poco lo

(■) Dico quasi nulla, perchè ammettendo la scuola scozzese che l'uomo
venga alta cognizione de'corpi non perchè le sensazioni ne presentino l'im
magine, ma per una quasi inspirazione o facoltà di un genere tutto suo,
che all'occasione delle sensazioni fa sì che 1' uomo percepisca il corpo;
Tiene con ciò stesso ad ammetter d' innato più che il sistema di Locke o di
Coudillac: ammette una potenza nuova, e singolare, perchè oscura e al
tutto mitteriosa.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi I. 23
178
sguardo addietro, sopra il tratto di terreno da noi corso
sponendo i pensieri della moderna filosofìa ; ed osser
viamo in quale stato ella trovavasi al tempo di Locke,
che è il punto di partenza del cammin da noi fatto,
e quale vicenda soffersero per questa nuova scuola le
dottrine principali intorno l'argomento che noi trattiamo.
E a far questo, penso che ci gioverà che noi diam
mano e ci poniamo innanzi un libretto elementare,
scritto da un contemporaneo di Locke ; il quale rac
chiudendo le idee principali della filosofìa di quel tempo
nel quale fu scritto , esposte con semplicità , ci darà
modo a conoscere le modificazioni che quelle vennero
sofFerendo da poi: e questo libretto è il Trattato della
cognizione di Dio e di se stesso, scritto tla Bossuet (1)
pel Delfino di Francia , cioè per un giovanetto reale ,
al quale non poteva essere troppo agio di mettersi den
tro ne' profondi misterj de' metafisici, ma al quale con
vengasi tuttavia di presentar la sostanza delle dottrine
appianate e agevolate meglio che si potesse.
Veggiamo adunque che si sapeva nel tempo di questo
libretto, e paragoniamo le verità principali in quel tempo
conosciute, colle opinioni che in tutta questa Sezione
noi siam venuti traendo fuori de' filosofi della nuova
scuola , che da Locke ebbe il suo primo principio e
movimento.
Noi abbiam primieramente veduto, che dal tempo di
Locke fino a noi, una numerosa schiera di filosofi ha
tentato tutto per confondere insieme il senso e l'intel
letto, di queste due facoltà facendo una sola (2): egli
scritti di questi autori sono così diffusi oggidì , così
letti , e così avviluppati di materiali sofismi , che non
è poco riuscire di fare intendere in che stia la distin
zione di queste due facoltà a persone che si sogliono
trovare già preoccupate da quelli e confuse.
Presso i contemporanei di Locke la distinzione fra
il senso e l'intelletto era conosciuta pienamente, e te
nuta per cosa da non dubitarsene; e nel libretto citato

(j) Bossuet nacque nel 1627, e Locke cinque anni appresso, cioè nel i63j.
Morirono tutti e due nell'anno stesso 1704»
(U) Faco. 77 e scg.
di Bossuet vi è stabilita a lungo. Ivi si definisce l'in
telletto « la facoltà di conoscere il vero ed il falso » ;
il che si nega interamente al senso (i).
Condillac ha particolarmente confuso insieme il sen
tire ed il giudicare (a). Al tempo di Bossuet, queste due
operazioni dello spirito erano esattamente distinte; e
di più s'era giunto a vedere, che è nel giudicare che
precisamente consiste l'intender le cose.
■ l sensi, dice Bossuet, non ci apportano che le loro
«proprie sensazioni, e lasciano all'intelletto il giudi-
■ care delle disposizioni che notano negli oggetti.
« La vera perfezione dell'intendimento è di ben giu-
• dicare.

(i) Cbap. I , vn. Ove al tempo di Bossuet fosse uscito un uomo di genio ,
3 quale, io vece di mutar la via nella quale la filosofia era avviata per
opera di Cartesio, avesse prescelto unicamente di farla avanzare per la
sessi strada, di ricevere di buon animo e conservare le verità che erano
nate illustrale, di appurarle, di accrescerne il numero; questi poteva a ra-
tjaaffesempio qui dare uno sviluppamelo di questa sentenza, che, senza
&prtsrlo gran fatto da ciò che si sapeva allora , ma solo collegaudo me
si*; e rischiarando quel sapere, molto incremento avrebbe apportato alla
Bastiti ed ecco qual potea essere questo sviluppamento.
Si definiva 1' intelletto « la facoltà di conoscere il vero ed il falso * : e
itene; Don restava se non a cercare, che cosa fosse il vero ed il falso: il
bea chiarir ciò che fosse questo, era un arrecare un vantaggio infinito alla
cognizione filosofica, e ciò far si poteva senza allontanarsi gran fatto, colile
dissi, dalle idee già possedute. In fatti come definiva Bossuet il vero ed il
falso? « Il vero, die' egli in questo stesso libretto, è ciò che è; il falso è
ciò che non è » (Ch. I, xvi ). Il vero adunque, secondo Bossuet, è l'ente.
L'intelletto dunque non è che la facoltà di percepir l'ente, secondo Bos
suet medesimo : e tale è la definizione che io uso frequente. Su questa traccia
era necessario occuparsi a dimostrare diligentemente che il senso non po
teva in nessuna maniera percepir 1' ente ( Ved. face. 19 e segg. di quuslo
voi.), ma sole le cose che sono all'ente accidentali; che quindi questa idea
dovea essere in noi inserita naturalmente (face. 18 e segg.) ; che per la
percezione dell'ente stesso è che si percepiscono le sostanze; che quindi
te sostanze si percepiscono dal solo nostro intelletto ( face. i5 e segg. ) ;
che l' idea dell' ente spoglio di tutte le determinazioni sue che si ricevuti
pe' sensi, è l'idea universalissiraa; che da questa idea è che ricevono tutte
le altre idee il carattere di universalità; che tutte le idee sono fornite di
questo carattere , e che l' universalità costituisce la natura delle idee ( fac
cia 5i e segg. ). Dopo di tutto ciò si sarebbe arrivato a conoscere e a
stabilire che l'intelletto non solo é « la facoltà del vero e del falso », ma
ài più ancora , eh' egli solo è « la facoltà delle idee » , le quali al senso non
possono appartenere. In somma si poteva perveuire gradatamente a trarre
io luce tutte quelle verità die io ho desiderato e cercato di presentare iti
guest* operetta,
(a) Face 56 • segg-
i8o
« Giudicare è pronunciare dentro di noi sul vero e
« sul falso; e ben giudicare, è pronunciare su di ciò
« con ragione e cognizione » (i).
Il Reid e lo Stewart hanno talor confuso l'immagi
nazione coll'intelletlo (3). Prima di essi, queste facoltà
erano così distinte, che non si potevano confondere in
sieme. « Come egli è molto da temere , dice Bossuet ,
« che non si confonda l'immaginazione coll'intelligenza,
« convien notare i caratteri proprj dell'una e dell'altra.
« Vi è, per esempio, grande differenza tra l'itnina-
« ginare il triangolo e l'intendere il triangolo. Imma-
« ginare il triangolo si è rappresentarsene uno d'una
« misura determinata , e con una certa grandezza de'
« suoi angoli e de' suoi lati; in luogo di che l' inten
ti dere è conoscerne la natura, e sapere in generale elio
« cos'è una figura di tre lati, senza determinare alcuna
u grandezza nè proporzione particolare. Così, quando
« s'intende un triangolo, l'idea che se n'ha conviene
« a tutti i triangoli equilateri, isosceli, o altri di qual-
« siasi proporzione; in luogo di che il triangolo che
« s'immagina è ristretto a certa specie di triangolo, e
« ad una grandezza determinata.
« Ma la differenza essenziale fra l'immaginare e l'in-
« tendere è quella che viene espressa nella definizione:
« è, che intendere non è se non conoscere e discernere
« il vero ed il falso; il che non può fare l'immagina-
« zione, la qual segue i sensi » (3).
Alcuni de' filosofi che hanno ridotto l'intelligenza al

(1) Chap. I , xvi. Quant'era faruV da questa dottrina di Bossuet passare


a mostrare che tutte le idee hanno bisogno di un giudizio per acquistar*
(ove non sieno ingenite in noi)! che quindi conviene che la prima opera
zione dell'intelletto sia il giudizio, ma conviene d'altro lato che a questo
giudizio preceda un'idea generale a noi nota naturalmente, perocché non
si dà giudizio senza un'idea generale I Questo sviluppo, che a quel tempo
nasceva spontaneo dalle idee che si possedevano, riuscirà forse difficile in
questo tempo: ad ogni modo questo è ciò che lo mi sono ingegnato di farP
nel corso di questo volume, e particolarmente face 1 1 e segg. , 78 e segg-
(a) Face. 77 e seg.
(3) Gh. I, iz. Lo sviluppo di cui qui era suscettibile la dottrina di Bos
suet, sarebbe stato di mostrare come l'intelletto, cioè la facoltà del vere
e del falso, era perciò stesso la sola facoltà degli universali; che il senso
all'incontro e l'immaginazione non potevano che percepire degli individui
in istretto senso, e quindi nessuna (dazione generale fra loro, ecc. Ypl'-
face. Ia5. e segg. di questo volume.
iSi
jenso e all'immaginazione, hanno fatto questo argo
mento: « la tal cosa non si può sentire co' nostri sensi,
ovvero non si può immaginare; dunque ella non si può
pensare od intendere » (i). In questo modo escludevano
dalle cognizioni umane tutte quelle che si rivolgevano
sopra esseri spirituali.
La dottrina del tempo di Bossuet all' incontro era
questa. * Vi è ancora un'altra differenza fra l'immagi-
• nare e V intendere. Ed è, che l' intendere si allarga
« molto più che l' immaginare. Poiché non si possono
■ immaginare che le cose corporali e sensibili; e all'in-
■ contro si possono intendere tanto le cose corporali
« die le spirituali, quelle che sono sensibili e quelle che
'non sono tali altresì, per esempio, Dio e 1 anima.
« Per tal modo quelli che vogliono immaginare Iddio
«e l'anima, cadono in un grande errore; poiché essi
• vogliono immaginare ciò che non è immaginabile,
» cioè a dire, ciò che non ha né corpo né figura, nulla
« in somma di sensibile » (2).
La sostanza e la natura delle cose non si può sen
tire, perchè non cade sotto i sensi o l'immaginazione.
Quindi i filosofi che ridussero l'intelletto al senso, dis
sero eoe noi non avevamo le idee di queste cose (3) ;
mentre prima di essi ci sapeva, che le idee di queste
cose noi le abbiamo, ma non le immagini o le sensa
zioni; perchè si distingueva fra il sentire e l'immagi
nare, e l'intendere; e Bossuet pone in questo il carat
tere distintivo dell'intelletto, «nel conoscere, cioè, la
■ natura delle cose » (4).
Noi abbiamo veduto come d'Alembert riconobbe che
la filosofia di Locke aveva ommesse due ricerche im
portanti, cioè 1." in che modo noi pensiamo un fuori
di noi, a." e in che modo noi uniamo in un soggetto
solo le varie qualità sensibili da noi percepite (5). Que
st'era un fare progredire d'un passo la filosofia di Locke,

(1) È in sostanza l'argomento de' Nominali moderni, per negare l' esi
genza degli universali. Ved. face. 148 e segg.
(2) Cbap. I, ìx.
(5) Ved. face. i5 e segg.
(i) Chap. I, Vii-
(5) Face. 5a.
i8a
mostrandone il mancamento; e non è piccolo il merito
di d'Alembert nell' indicare quelle questioni.
Prima però di lui, e prima di Locke, quelle due que
stioni, da quest'ultimo dimenticate, erano state trattate
bene o male da Cartesio, il che vuol dire che si cono
scevano. Bossuet le conobbe pure , e propone la seconda
espressamente in questo modo: « Comechè le sensazioni
« sieno differenti fra loro, avvi però nell'anima una fa-
« coltà che le unisce. Perciocché l'esperienza c'insegna,
« che non si forma che un oggetto sensibile di tutto ciò
m che ci colpisce insieme, eziandio in sensi diversi, mas-
« simamente quando l'impressione ci viene dall' istessa
« parte. Così quando io veggo il fuoco d' un certo co-
« loie, e sento il caldo che mi cagiona, e odo il rombo
« dell'aria, non pure io veggo questo colore, provo quel
« caldo, odo quel suono, ma io sento queste sensazioni
« differenti come venienti d' un medesimo fuoco.
« Questa facoltà dell'anima, che unisce le sensazioni,
« od ella sia solamente una sequela delle sensazioni
« che s'uniscono naturalmente quand'elle s'avvengono
« insieme, od ella faccia parte dell' immaginativa, —
<« questa facoltà, io dico, checché ella sia, in quanto
« ella forma un solo oggetto di tutto ciò che colpisce
« ad un tempo i nostri sensi, è appellata senso comune;
h vocabolo che si trasporta alle operazioni dello spi-
« rito , ma del quale la significazion propria è quella
« che pur ora abbiamo accennata » (i).
Stewart non s'accorse che la percezione de' rapporti
delle cose, come delle loro simiglianze, non erano che
delle idee generali , e quindi queste non potevano appar
tenere ai sensi, che non s'estendono fuori delle sensa
zioni corporee ed individuali, ma all'intendimento (2):
mentre al tempo di Bossuet già si conosceva perfetta
mente che la cognizione de' rapporti e dell'ordine delle
cose non poteva essere che operazione dell' intelletto.

(1) Cli. I,iv. Questa parte poteva ricevere un bellissimo sviluppo


è ragione di dire che in questo argomento i filosofi moderni hanno
de' nobili sforzi; da' quali non poco vantaggio trarremo nel secondo to'
di quest'opera.
(2) Face. i5i e segg.
i83
Eccone il documento: « Vi sono degli atti dell' intel-
t letto, che seguono sì da pressoio sensazioni, che noi
• le confondiamo con esse , se non istiamo assai bene
• avvisati sopra di noi.
« Il giudizio che noi facciamo naturalmente delle
« proposizioni e dell' ordine che ne risulta , è di que-
• sta sorte.
* Conoscere le proposizioni e l'ordine, è l'opera della
« ragione, che paragona una cosa con un' altra, o ne
• scopre i rapporti » (i).
Dì tutto ciò adunque che delle opinioni de'filosofi po-
jtfriori a Locke noi abbiamo in tutto il corso di que
sta Sezione riandato, che cosa v'ha di solido, e che si
possa dire veramente un' aggiunta alle cognizioni filoso
fiche che già si possedevano a quel tempo?
Non trovo cosa che sia degna di mettere in questo
posto ( parlando del solo argomento che noi trattiamo),
« non i dubbj mossi da Reid sulla dottrina di quelli
che ammettevano la semplice apprensione per la prima
operazione dell' anima. Bossuet l' ammette pur egli senza
ài&coltà.
• Intendere i termini (così egli) : per esempio» (nelle
proposizioni , Dio è eterno , 1' uomo non è eterno ),
• intendere che Dio vuol dire la prima causa , che
• nomo vuol dire animale ragionevole, che eterno vuol
• dire ciò che non ha cominciamcnto nè fine: questo
■ è quanto si appella concezione, semplice apprensione,
« ed è la prima operazione dello spirito.
« Può essere ch'ella non si faccia mai al tutto sola ,
• e questo è ciò che fa dire ad alcuno ch'ella non sia
« tale (a). Ma essi non badano, che intendere i termini,
« è una cosa che precede naturalmente l'unirli: altri-
» menti non si saprebbe che unire » (3).
Al tempo di Locke adunque si possedevano delle co
gnizioni che non furono dalla nuova scuola bastevol-
raente apprezzate; e quindi venner neglette: ed avendo

(i) Chap. I, vtn.


(i) Vedesi però da questo passo, che anche prima di Reid s'aveva
Motore di una tale difficoltà.
(3) Ch. I, xm.
i84
questa nuova dottrina prevalso, quelle cognizioni vii
più si perdettero e scancellarono dalla memoria degl
uomini, sicché presentemente il rivocarle in luce e i
persuaderle nuovamente non è piccola fatica , e hannc
per avventura faccia di scoprimenti quelle cose che pu:
sono assai antiche.
Ma onde poi l'incremento della nuova filosofia, onde
la dimenticanza di quelle verità che pure allora si co
noscevano?
In gran parte dalla negligenza di quegli stessi che
quelle cognizioni possedevano: i quali non posero ba
stevole studio nella nuova filosofìa, ed alteramente la
disprezzarono: questi furono i Cartesiani, i soli atti ad
intendere e giudicare la nuova filosofia di Locke; ma
professavano la propria dottrina con ispirilo di sistema:
quindi la non curanza del crescente lockismo ; quindi
il propagamento continuo di questo, che presentava pur
tanti allettamenti all'amor proprio colla sua superficia
lità, e alle passioni colla sua sensualità, e tanta forza
avea nella gente del mondo che pur allora cominciava
a impacciarsi di filosofia , e medesimamente tanta in
fluenza in sulla gioventù, generazione che sopravveniva
all'antica, la quale mancava, e mancavan con essa le
dottrine che possedeva.
Non sono io solo che traccio questa storia della ca
duta del cartesianismo in molte buone cose che pur egli
insegnava, e più ancora in tante sue buone intenzioni;
la cosa si comincia già a conoscere di questi dì: ed
ecco come in Francia si descrive quel tra muta mento
avvenuto in filosofia ; e come il lockismo che soprav
venne, si prese e continuò all'addentellato di una filo
sofia antica de' sensi, che era già prima stata vinta dal
cartesianismo stesso, ma che pur conservava e conserva
mai sempre nella umana società più che non sarebbe
bisogno de' pratici suoi seguitatori.
« Nella lotta che si levò, così scrive il Globo, tra
« il materialismo e lo spiritualismo al tempo di Carte-
« sio e di Gassendi, lo spiritualismo trionfò in questo
« senso, che, dopo Cartesio, la dottrina sua continuo
« ad essere rappresentata in Francia da una serie non
u interrotta di filosofi fino alla metà del secolo deci-
« moltavo, mentre quella di Gassendi fu abbandonata
i85
• da' metafìsici. Ma quest' ultima (i) conservò de' par
migiani fra gli uomini di mondo, e, dopo Bernier ,
Molière e Glia pelle, può seguirsi la traccia sua fino
• a Voltaire. In questa scuola di uomini piacenti e vo
luttuosi , le tradizioni d'epicureismo pratico e d'in-
■ credulità religiosa si custodirono meglio che i dogmi
« metafìsici del materialismo: non facevasi caso del prin-
« c\p>o della sensazione appresso Ninon de l' Enclos; e
■ già da troppo tempo la filosofìa di Gassendi era morta
■ in Francia fra' suoi stessi discepoli, quando la tradii -
» none del libro di Locke venne a ravvivarla. In quel
« tempo non v' avea in questo paese altro quasi che
■ Cartesiani che fosser capaci d'intendere il Saggio sul-
- 1Intelletto ; ma preoccupati essi delle loro vecchie
« idee , furono appunto i soli che non consentirono
• d'esaminare quel libro. Quelli che abbracciarono la
• novella dottrina, gente poco al fatto delle metafìsiche
• questioni, sbagliarono il vero spirito di quella; e men-
< tre Berkeley ed Hume deducevano da essa in Ingliil-
« terra con rigoroso ragionamento lo spiritualismo,
• Coudillac in Francia vi trovava il materialismo » (a).
Il disprezzo che mostrò Locke per Cartesio , l' avea
■Oliato Cartesio pe' suoi predecessori (3): con questo
disprezzo orgoglioso, i filosofi non fanno che un far per
dere al genere umano delle preziose cognizioni ch'egli

(i) Ancor meglio s' avrebbe potuto dire ciò della filosofia di Hobbes, che
■eque prima , e morì dopo Gassendi , e visse molto in Francia.
(a) 3 geunajo 1829. Per altro la filosofia di Locke doveva necessaria-
aenle produrre questi due opposti sistemi; perocché ella contiene tanto i
temi del materialismo, che quelli dell' idealismo. La riflessione, facoltà am
messa da Locke , che avrebbe potuto salvare la sua dottrina dal degenerare
Bel materialismo, vi è troppo superficialmente introdotta; vi è introdotta
senza che Locke medesimo ne intendesse la natura, come ho fatto vedere
più sopra.
(3) Corjvien confessare, che la nazione dove meno rimase spezzato il filo
delle idee tradizionali si fu l'italiana , mercè i grandi principj del Cristia
nesimo che vi si sono, per cosi dire, inviscerati. Quindi noi vedemmo, le
novità di Locke aver trovato subito in Italia una dignitosa opposizione in
Paolo Dori», quelle di Cartesio una simigliarne in Giovabmattista Vico.
Questi due grand' uomini avrebbero salvata l'Italia da molti traviamenti ,
m non si fosse messo in lei l'amore non tanto del nuovo quanto dello
straniero: non una filosofia, ma un partito prevalse: sciaguratamente fu un
partito anti-sociale e anti-religioso. Ma il secolo XVI II è passato; e il pre-
lente gli ha cominciato un severo giudizio.
Hosmihi, Ong. delle Idee , Voi. I, 2<{
i86
possiede, un farlo sempre rimbambire, e ricominciare
lavori a cui avea già posto mano e molto innanzi por
tatili, un fargli quindi gittare tempo infinito, ed uno
stancar finalmente la sua pazienza infastidendolo della
stessa filosofia che i filosofi rappresentano. Veramente
lo spirito filosofico non può esser giammai esclusivo ed
individuale; egli è uno spirito conservatore, imparziale
e pieno: egli riceve con rispetto le tradizioni del genere
umano, e de' particolari sapienti: egli non è, in una
parola, lo spirito vano del mondo; è lo spirito stesso
del Cristianesimo, applicato allo studio e alla medita
zione delle naturali verità.
SEZIONE QUARTA l8?

TEORIE FALSE PER ECCESSO , CIOÈ PERCHÈ ASSEGNANO


ALLE IDEE UNA CAGIONE SOVERCHIA.
'i i
Fin qui io ho favellato de' sistemi di que' filosofi che
non ci hanno saputo indicare una cagion sufficiente del
fallo de\le idee. Ora debbo parlare di quelli che hanno
assegnato alla spiegazione di questo fatto rilevantissimo
una cagione soverchia. I primi , avvisandosi di spiegare
Vertenza delle idee troppo più agevolmente che fare
non si poteva , hanno dato a vedere manifestamente di
bod esser penetrati abbastanza dentro a quella difficoltà
che rende questo problema filosofico tanto difficile e
Arte (i): i secondi, traendo fuori delle laboriose inven
zioni per superarla, mostrarono certo d'averla assai bene
Tedula, ma non furono così felici, che riuscissero a rin
venirne la più semplice e più naturale soluzione. Sì l'una
che l'altra di queste due classi di filosofi mancarono nel
metodo; i primi contro l'uno de' due principj da me as
segnali al medesimo, i secondi contro l'altro (2); cioè i
primi mancarono di difetto, di eccesso i secondi. Tra
(piati, innanzi a tutti gli altri, mi si offre un rarissimo
«Jgegno , Platone.

CAPITOLO I.

PLATONE E ARISTOTELE.

ARTICOLO I.
mtticolta' dil problema dell' origine dell' idee PROPOSTA DA PLATONE.

Platone vide e sentì bene addentro la difficoltà che


incontra chi prende a spiegare con un ragionamento esatto
la generazione delle nostre idee.
Per accertarcene , basta richiamarci alcuno de' molti
passi che si trovano ne' suoi bellissimi dialoghi , ne'
quali la difficoltà da me proposta circa l'origine delle
idee viene presentata in modo luminoso, e poco dissi
mile in sostanza da quello, nel qual io la ho esposta.

(1) Sezione IL
W Sezione I, cap. L
i88
Ecco uno de' passi più celebri al nostro uopo.
Menone di Tessalia, amico di Aristippo larisseo, e
seguace della filosofia prosoutuosa de' sofisti tessali , si
fa a ragionare con Socrate, che professava di non saper
nulla, fuori per avventura questo solo, di far osservare
altrui le difficoltà che contenevano in sè le questioni
filosofiche anche più ovvie ; e qui ben presto corre in
mezzo il nodo della difficoltà di che favelliamo. Il dia
logo che succede fra Menone e Socrate è il seguente.
Avendo questi detto di non sapere la definizione
della virtù, ma di volerla investigare, Menone gli fa la
seguente obbjezione : « In che modo vorrai tu , o So
li crate, ricercare ciò che al tutto ignori ? come ti puoi
« tu rappresentar ciò che ricerchi , se al tutto noi co
li nosci ì o se tu ti abbatti per avventura in questa cosa
« da te cercata , onde riconoscerai esser dessa quella
« appunto che cerchi , perfettamente sconoscendola » i
A cui Socrate rispondendo , fa rilevare Lutta la forza
dell' obbjezione , probabilmente non sentita da Menone
stesso: « Intendo il tuo pensiero, o Menone, egli sog
li giunge. Ma t' accorgi , di grazia, che argomentazione
« pervicace abbi tu pur ora recato in mezzo ? cioè, tu
« vieni con questo a dire, che l'uomo non può far ri
ti cerca nè di ciò che conosce, nè di ciò che ignora. Di
« vero , se già lo conosce , non ci ha uopo ricerca. Se
« non lo conosce, noi potrà investigare giammai, per
ii eh' egli pur non sa che cosa si voglia investigare » (0'
Questa difficoltà in fatti era fortissima: e a chi con'
sideravala con attenzione, essa dovea mostrar la neces
sità che v'è, in qualunque ricerca, di conoscere in par»
la cosa cercata, ed in parte di non conoscerla : giacchi
se non la si conoscesse menomamente, non si potrebb*
far di lei veruna ricerca ; couciossiachè è assurdo, eh

(i) S. Agostino tratta sottilmente questa difficoltà nel lib. X della Trinil
e conchiude : « Quilibet igitur studiosus t quilibet curìosus non amai ina
finita eliam cum ardentissimo appetiti! instai scire quod nescit. Aut enim jai
genere notum habet quod amai, idque nasse expedit etiam in aliqua re su
gula i vel in singulis rebus qua; itti uondum notaforte laudantur, fingitqh
animo imaginariam formam qua excitetur in amorem. - Questa second
via , per la quale desideriamo talora di conoscere ciò che è incognito, sur
pone in noi sviluppo di facoltà e cognizioni acquistate. Ma la prima via
per la quale desideriamo di conoscere in particolare ciò che conosciamo i
genere, può condurci fino all'origine di tutte le nostre cognizioni; il che
farà chiaro più innanzi.
altri cerchi e non sappia punto nè poco che cerchi; nè
il nostro deaiderio può recarsi in un oggetto compiuta
mente ignorato ; nè la nostra azione può tendere in un
oggetto di tal fatta, che per noi non esiste, poiché ci
è intieramente incognito. D'altro lato, se si conoscesse
pienamente quel vero che si ricerca, noi si cercherebbe
in «nodo alcuno , perocché la nostra mente già lo pos
sederebbe.
La riflessione adunque che faceva Menone , e di cui
Socrate volle rilevare avvedutamente tutta la forza, era
solida, e conduceva a questo risultato: «L'uomo colla
sua mente non può ricercare nessuna cosa, la quale non
gli sia parte incognita, e parte cognita. »
Si osservi prima di tutto la diversità che passa fra
il cercare qualche cosa reale per averla , e il cercare
qualche verità per conoscerla.
Quando si cerca un amico smarrito in fra la calca
del popolo, od un arredo dimenticato in qualche angolo
della casa ; allora la difficoltà proposta non ha luogo.
L* amico o V arredo si può conoscere perfettamente , e
Valimi ricercarlo. Il discorso di Menone cade sopra le
verità che si investigano , che è quanto dire , che si
cerano per conoscerle : il possederle , qui non è cosa
distinta dallo stesso conoscerle, ma è il conoscerle me
desimo : quindi ha origine la difficoltà di spiegare come
si possano cercar quelle verità senza conoscerle , o co
noscendole , a qual fine si cerchino.
In somma, un simigliante discorso conduceva ad am
mettere qualche cosa in mezzo , fra il conoscere per
fettamente, e il perfettamente ignorare: e in questa co
gnizione media della cosa cercata, in questa cognizione
mista di luce e d'oscurità, di tanta luce che basta a far
riconoscere ciò che si cerca, e ravvisare la cosa cercala
quando ad essa l'uomo si scontra, e di tanta oscurità
che rende necessario di ricercar la cosa per poler dire
con verità di conoscerla, doveva consistere la soluzione
di tale difficoltà.
ARTICOLO IL
SOLUZIONE PLATONICA DILLA DIFFICOLTA'.
Socrate in falli, per trarsi d'impaccio, ricorse ap
punto ad una scienza di mezzo, e la trovò in una co
gnizione da noi dimenticata nascendo.
igo
Per render probabile la sua dottrina , egli si appog
giava ad un fatto: cioè al fatto, che esiste talora nel-
1' uomo una cognizione , senza eh' egli se ne ricordi , e
quasi direbbesi assopita: la quale si sveglia e si richiama
in atto, immantinente che gli oggetti della medesima
sieno presentati di nuovo alla nostra attenzione. Allora
l'uomo si risovviene di averli altre volte conosciuti, il
che è un dire, che li riconosce per quelli appunto che
aveva smarriti nella memoria , nella quale altre volte
erano stati ricevuti. Ora Socrate applicò 1' osservazione
di questo fatto, che accade giornalmente a ciascuno,
alla difficoltà propostagli ; e credette di aver con esso
trovata una sufficiente spiegazione della medesima. Il suo
ragionamento per tal modo riducevasi a questo : « Io
osservo che v'ha una scienza nell'uomo obliterata), ed
una scienza attualmente presente nella memoria. Di que
sta non si può dare ricerca alcuna , perchè attualmente
la conosciamo: ma possiamo bene investigar quella prima,
perchè ci rimane una rimembranza generale di essa, la
quale, se non ci appaga, ci basta però per guidarci ad
investigare più pienamente ciò che dalla nostra memoria
fu scancellato, e a far risuscitare in essa quegli spenti
vestigi. Se adunque questo ci avviene giornalmente; or
supponiamo di portar con noi fino dalla nostra nascita,
una cognizion delle cose non attuale, ma solo in po
tenza , simile a quella che ha l' uomo allorché , dopo
avere appreso alcuna cosa, l'ebbe dimenticata, ma non
tanto che, rappresentandogliela , non gli sovvenga d' a-
verla pur altra volta avuta. Con questa sola supposi
zione , la quale s'appoggia ad un fatto della comune
esperienza , si rende chiaro siccome l'uomo fino dai suoi
primi momenti dimostri un desiderio vivissimo che lo
sospinge dietro alla ricerca delle verità, e com'egli ri
trovandole, le riconosca per quelle ch'egli avidamente
ricerca, e se n'appaghi siccome dell'oggetto appunto de
suoi desiderj ».
Questa ipotesi che proponeva Socrate, era, non ha
dubbio, ingegnosamente trovata, e soddisfaceva a pieno
alla difficoltà recata in mezzo da Menone. Ma non si
fermava qui quel solenne dialettico : e la spiegazione
proposta, veniva da lui rinforzata con delle altre osser
vazioni , con degli altri fatti.
Una di queste osservazioni era quella del giovanetto
19'
non ancora istruito dagli uomini in qualche disciplina.
Egli taceva venire a sè un di questi giovanetti, e av-
redutamente V interrogava per modo, che quella serie
<T interrogazioni ben connesse insieme , traeva natural
mente dalla bocca di lui delle verità geometriche, prima
facili, e poi anche difficili. Con questo metodo , tenen
dosi Socrate al semplice interrogare, poteva dir con ve
rità di non insegnar mai nulla al giovanetto ; perocché
veramente egli non gli diceva mai: la cosa è così ; ma
ciò lasciava dire a lui medesimo; ed egli si contentava
ài fargli 1' interrogazione senza più. Del quale esperi
mento conchiudeva che, traendo in tal modo dalla hocca
del giovane delle verità che quegli non avea pur mai
udite da uomo alcuno, conveniva dire, che quel fan
ciullo aveva quelle verità in sè medesimo: ma che, es
sendo in lui da prima in un cotale stato di assopimento,
nuli' altro si richiedeva, fuor solo che alcuno lo scuo
tesse, e conducesse la sua attenzione di bel nuovo in
sa quelle verità quasi abbandonate e dimentiche, e così
\o aitasse a rivocarlesi nella memoria.
ù fatto che Socrate proponea da spiegare , certo
non poteasi negare da chicchessia; perocché i." era
Teniamo che il giovanetto non avea imparato da alcun
uomo quelle verità che proferiva, a." ed era altresì ve-
hifimo ch'egli, venendo interrogato in acconcio modo,
japea trovar da sè quelle verità, senza che nessuno del
mondo gli dicesse affermatamente , che quelle cose sta
vano così.
Ora poi chi attentamente considera il fatto che pro
pose Socrate da spiegare, vedrà che, in altre parole,
si riduce al seguente.
11 giovanetto , quand' io lo interrogo con una serie
d'interrogazioni acconce all'uopo, mi risponde bene an
che sopra ciò che non gli fu detto da uomo vivente :
dunque questo giovanetto possiede (ecco l'unica conse
guenza rigorosa che indi si potea cavare ) la facoltà di
giudicare. Il fatto di Socrate si riduce dunque a spie
gare come 1' uomo abbia in sè la facoltà di giudicare ,
cioè la facoltà d'aver de' giudizj anche sopra ciò che
viene a cader per la prima volta sotto i suoi sensi ,
sopra ciò che mai egli pria non conobbe.
Per ispiegar questo fatto, o convien dire, che i giu-
dhj sopra quelle cose sieno stati a lui comunicati da
,9a
altri uomini , il che è escluso dall' ipotesi ; o pure che
egli ha, nascendo, qualche cosa dentro di sè , ond' egli
può attignere que' giudizj (t) , e in somma, secondo la
frase di Agostino , ha un naturale giudicatorio (2). Ora
Socrate, per ispiegar questo fatto, pone che que' giudizj
o quelle verità sieno esse medesime innate , ma oblite
rate: ed in questo modo, coll'ammettere innate le idee
a cui que' giudizj si riferiscono, spiegava, se non vera,
certo pienamente, un fatto così singolare.

ARTICOLO HI.
LA DIFFICOLTA' VEDUTA DA PLATONE, È NELLA SOSTANZA
LA DIFFICOLTA' STESSA DA ME PROPOSTA.

Or bada : la difficoltà incontrata da Platone nello


spiegare l'origine delle idee, non è essa appunto la mede
sima che fu da me proposta, e che, ridotta agli ultimi
suoi termini, si riduce a dimandar finalmente, «come
sia possibile nell'uomo la facoltà di giudicare, giacché le
idee acquisite non s'acquistano che mediante un giudizio?»
La differenza sola fra il modo ond' io ho proposta la
difficoltà, e il modo onde l'ha proposta Platone, sta
nell'essermi io ristretto a dimandare la spiegazione del
primo fra tutti i giudizj, che fa 1' uomo quando prima
adopera le sue facoltà intellettuali j mentre Platone
propose la difficoltà troppo più estesamente, sembrando
a lui che la difficoltà stessa sussista per tutti i giudizj
anche posteriori al primo.
E ciò nacque , per non aver Platone bene osservato
la connessione che hanno in fra loro le idee, 0 le verità,
e perciò slesso i giudizj. Io fo osservare, che questa con
nessione è cotale, che, quando altri sia giunto a spie
gare il primo de' giudizj che 1' uomo fa , tutti gli altri
da quello dipendono interamente, e non ammettono più
difficoltà alcuna. In fatti, il nodo della questione sta
tutto in sapere , come si può fare quel primo giudizio col
quale s' acquista la prima idea ( giacché ogni idea acqui
sita è l'effetto d' un giudizio), ove non s' abbia qual
che idea precedente non acquisita. Ma dove supponiamo
un'idea sola precedente e innata, la possibilità del primo

(1) Un giudizio noD è che una proposizione interiore, una affermaiione.


(3) De libero arb. II, x.
giudizio è spiegata : e medesimamente rimane spiegata
la possibilità d'acquistare altre idee, le quali servono
ad altri giudizi , e via così: in somma, allora si vede
nell'uomo come esista la facoltà di giudicare, che è una
medesima colla facoltà di ragionare.
Ma di questo difetto nel ragionamento di Platone ,
più ampiamente ragioneremo. Or mi cale che il lettore
osservi , quanto bene Platone s' accorse, come tutta la
difficoltà nello spiegar l'origine delle idee consiste alla
line in ispiegare l'esistenza in noi di una potenza ca
pace di produrle , cioè nell' impossibilità d' immaginare
la ragione priva l' idee.
Per convincersi maggiormente, che l' ateniese filosofo
«enti assai bene quueta difficoltà , si consideri coni' egli
seppe conoscere la natura del pensiero. Il faceva con
sister tutto in far de' giudizj o de' ragionamenti con noi
medesimi : « Per me, il pensiero, egli dice nel Teeteto ,
t è il discorso che lo spirito tiene a sè slesso ». Per
questo la ragione , o la facoltà di pensare , veniva da
VVatoue chiamata anche discorso o parola nè solo in
Palone, ma questo valore della parola greca kóyoQ era
intimo nella greca favella ; e sembra essere un senti-
nseato del senso comune il concepir in tal modo il pen
derò amano j e se fosse necessario, non sarebbe difficile
a dimostrare, che tal maniera di concepirlo non pur era
de' popoli greci quando cominciarono a filosofare , ma
veniva da una tradizione antichissima, e comune a tutti
gli orientali. Nè v'è cosa più vera e più naturale, che
il concepir l'uomo che pensa, come quello che dice qual
che cosa a sè stesso, che pronuncia una parola. Il dire poi
qualche cosa a sè slesso, il pronunciare una parola inte
riore, non è che fare un giudizio, non è che un affermare
o un negare a sè slesso qualche cosa. 11 pensiero adunque
comincia con un giudizio : un giudizio è il primo atto
che fa 1' uomo colla sua facoltà di pensare: con un giu-
dtzio è che l'uso della ragione si schiude; e l'errore
fondamentale delle Logiche e delle Psicologie moderne
è di mettere nel primo luogo le idee acquisite, e di
parlare della facoltà di formarsi le idee come anteriore,
e indipendente dalla facoltà di giudicare (j).

(«) Un sintomo dell'errore che talor s' asconde iu una dottrina ricevuta,
«• è l' incertezza del parlare degli scrittori , e la sollecitudine eccessiva di
Boshiki, Orrg. delle hkc7 Voi I. a5
Che se il giudizio è la prima operazione dello spirito
nostro, e se perciò questa operazione non fu preceduta
da un1 altra colla quale noi ci siamo potuti acquistar ~

giustificnrla mediante alcune sottilità d' ingegno. Ciò mostra la ior titubanza,
e come nel fondo della loro coscienza mormori una voce che li avvisa del
l' errore nascosto , il quale , se a lei avessero cuore di porger gli orecchi ,
ritroverebbero.
Non c'è forse dottrina filosofici più ricevuta di quella che mette le ope
razioni dell'intelletto umano nell'ordine seguente: i.°idea, a.0 giudizio, 3." ra- 15
ziocinio; e non ce n'è forse altra, nell' esposizione della quale si trovi, leg
gendo gli autori, il sintomo indicato più manifesto.
Ho fatto già osservare , come al tempo di Bossuet vi erano alcuni che
dubitavano della giustezza di quell'ordine (face. i83 ); e come Fortunato 1
da Brescia ( face. 5o 5i), per evitare la difficoltà che pur sentiva averci in
tal dottrina, ebbe la prudenza d' aggiungere alla definizione dell' idea espres- ,J'>
samente la clausola, « ch'essa, per esser tale, non dovea contenere a/euo r'
giudizio »»: quasiché l'idea potesse cessare dal racchiudere ciò che real- ' J'i
mente racchiude , perchè un filosofo caccia quanto racchiude fuor dalla
definizione eh' egli ne dà.
Poiché tutti questi segni che danno gli autori d' essersi accorti degli er
rori, sono preziosi; coneiossiachè convertono i filosofi che hanno sbagliato
in altrettanti teslimonj della verità, e fanno vedere quanto esteso sia lido- i'j
minio di questa sopra gli uomini; gioverà ch'io accenni qui lo sforzo che fece
il Wolfio per conservare alle nozioni il posto che vien loro comunemente as
segnato, facendole costituire la prima operazione dell'umano intelletto.
Il Wolfio non sentì la forza della sentenza di Platone, che « il pensiero
non è che un discorso interiore. »
Egli duuque distinse fra la nozione pensata solamente dall'intelletto, che
chiamò cognizione intuitiva , e la nozione stessa espressa con parole o con >
segni, che chiamò cognizione simbolica. E disse, che, « nella cognizione sim-
m boìica, la prima operazione dell'intelletto (la nozione colla semplice ap-
« prensione) si confondeva colla seconda " (PsycoL Ration. g 3g8); ma
che cosi non avveniva nella cognizione puramente intuitila. Questa distin
zione non è che uu effugio della difficoltà. Poiché , quando io esprimo in . ,
parole una nozione, ond' è che io debbo esprimerla colla forma di un giu
dizio? Sono io costretto ad esprimere nelle parole più che non si contenga
nelle idee? In tal caso, se nelle parole io metto qualche cosa che nelle idee
non si contiene , io vengo ad adoperar de' vocaboli privi di significato (cioè
di corrispondenza nella mente); e questo sarebbe cadere in un assurdo
nominalismo. A ragion d' esempio, volendo io esprimere la mia nozione del -
triangolo, dirò: k il triangolo È una figura di tre lati. >• Ora il verbo t,
che esprime l'esistenza possibile del triangolo, non è già una mera parola,
ma ha qualche cosa di corrispondente nella mia mente, la nozione stessa
percepita come cosa diversa da me.
Ma, dire il Wolfio, «< il vocabolo È non indica solamente che si riguarda
«« il triangolo come un colai soggetto, ma ben ancora esprime la inesistenza
« de' Ire lati in questo soggetto. Ora la cognizione semplicemente intuitiva
non considora questo nesso: con essa si rappreseutauo quello qualità che
« in qualche cosa si trovano, come diverse fra sé, e diverse dalla cosa nella
« quale stanno (Psyc. empir. Q 53 1 ). All'incontro nella cognizione simbolica
« forz' è esprimerle congiunte ed inesistenti nel soggetto : questa dunque
k i richiude un giudizio, ma non quella. »
Su questo ragionamento di Wolfio mi si permetta di fare le seguenti os
servazioni ;
delle \dee-, forx* è convenire, die è necessario d'ammettere
precederne al giudizio qualche cosa d' innato che renda

i.° Nego che il vocabolo e abbia, nella proposizione arrecata, quella forza
che gli attribuisce. La proposizione « il triangolo è una figura di tre lati »
equivale perfettamente a quest'altra « ciò che io concepisco e che chiamo
« colla parola triangolo è una figura di tre lati n. Il verbo È adunque non
«prime che 1' esistenza della nozione del triangolo nella mia mente, senza
portare la menoma alterazione nella stessa nozione che è espressa tutta tale
e quale sta Della mia mente colle parole « figura di tre lati. » Se all'in
contro io dicessi: « questa figura che penso ha tre lati »; in tal caso il
Trrbo ha esprimerebbe l'inesistenza de' tre lati nella figura pensala; ma il
terho È a questa inesistenza punto non si riferisce.
3." Wollio dice che nella cognizione intuitiva si percepiscono le qualità
lidia cosa tutte in separato fra loro c in separato dalla cosa stessa. E egli
dò possibile"/ avvien egli cosi nella prima nostra cognizione delle cose ? non
sembra anzi il contrario , cioè che prima noi percepiamo la cosa fornita
ielle sue qualità, e poi coll'astrazione dividiamo tulle queste cose e le con
feriamo a parte a parte ? L' esperienza mi sembra che attesti essere in
questo .«econefo modo la nostra cognizione prima delle cose. Ma di più, io
la già dimostrato (face. 22 e segg. ) , che non sarebbe possibile il contra
ria; perciocché nella nostra prima cognizione è al tutto impossibile che
o^i percepiamo intellettualmente gli accidenti senza il soggetto nel quale
efeHooo. Altro è del scuso, il quale percepisce i soli accidenti ; e forse è
^eaA» io questo errore il Wolfio per non avere abbastanza distinti i ca
ratteri d«k sensazione dai caratteri dell' idea, sebbene egli stabilisca l'uni-
vo-ndìta deUe riozioni , che sono l'oggetto, secondo lui, della prima opera-
wk ictedctluale ; dalla quale nota di universalità gli dovea certo esser
feiif 3 /irmarsi il più esatto concetto della cognizione intellettiva, e di-
swueria egregiamente dalla sensibile. Ma rispetto alla cognizione intcllct-
u*a, <£ che parliamo, dico che è impossibile che prima noi concepiamo l'ac-
adetrte in separato dal soggetto, e che poi ad essa l'uniamo, come vuote
il ttoluo. In fatti, percependo noi l'accidente di un soggetto, o noi sappiamo
pi fino dal primo istante, ch'egli è un accidente, e iu tal caso lo conce
ttino in relazione col suo soggetto ; ovvero non lo sappiamo, ed in tal
esso noi formiamo un soggetto dell' accidente stesso, cioè lo concepiamo
come cosa che sta da sè, e che ha perciò un essere ed un modo di essere;
che è tuttavia pensare un soggetto (ente), ed un predicalo (modo di
^aett'ente immaginato). E dunque impossibile ciò che il Wolfio mette per
bue della sua dottrina. '
Ma io posso provare la stessa cosa pur coli' esame delle parole del Wollio.
Come definisce egli la prima operazione dell'intelletto? * Prima inltllectus
« operatiti, dice , est plurium IN RE UNA singillatim facto reprmsentalin »
{Ptyx. Empir. 33o). Ora egli ci mette quel singillatim per indicarci che noi
percepiamo parte a parte tutte le qualità della cosa della quale abbiamo
T idea. Lasciamo Stare che questa percezione successiva di più qualità che
Isella cosa si trovano , non può essere la prima operazione intellettiva , pe
rocché è piuttosto una serie di operazioni intellettive. Dico solo, queste va
ne qualità dove le percepiamo noi 7 In re una , ci dice il nostro filosofo:
Slitte nella cosa della quale abbiamo l'idea. Dunque, dico io, non le per
cepiamo in sé, dalla cosa divise, ma bensì come qualità o parti alla cosa
appartenenti, e che nella cosa esistono, e non fuor della cosa. Non è questo
*■ ittrihuirle tutte alla cosa stessa? non è un implicito giudicare, eh:: a lei
>pptrleo"oao ? II percepir noi quelle condizioni, o parli, o qualità per sin-
t-Joj tome vuole «I Wolfio, non farebbe che rendere ciò che dico più
possibile il giudicare, questa prima operazione del nov
slro spirito.
ARTICOLO IV.-
IL SISTEMA DI PLATONE VALE A SCIORBE LA DIFFICOLTA' PROPOSTA ,
MA INSIEME PECCA DI SUPERFLUO.

Platone adunque avea sposta la difficoltà di cui par


liamo , in un modo troppo esteso, come accennammo.
Egli dovea star contento a dimostrare , die il primo
alto della facoltà di ragionare era un giudizio ; perchè
l'acquisto di un' idea qualunque non è una semplice pas*
sione de' nostri sensi, ma è un'azione della nostra mente; '
è una parola che diciamo a noi stessi; è il giudizio in 15
somma che formiamo sopra le nostre sensazioni , col G
quale pronunciamo che cosa sia la sensazione sofferta,
e la cagione prossima della medesima. In tal caso egli
poteva poscia provare, che a formare quel primo atto, *
mediante il quale acquistiamo la prima idea, ci era ne- •(
cessano d'avere anteriormente qualche prenozione, della «
quale noi ci servissimo quasi di regola in quel giudizio;
giacché il giudicare non è che 1' applicare una qualche ;
regola alla cosa che si giudica.
Ma in vece di ciò , Platone spinse più in là del giusto
la difficoltà ; ed in luogo di ascendere al primo giudi
zio , che fa l'uomo nello sviluppo delle sue facoltà in
tellettive, e cercar la ragione di quello; giacché gli al- ìì
tri tutti , quello posto , sono facilmente spiegati ; egli
s' avvisò che in lutti i giudizj la medesima difficoltà tro- '

manifesto; perciocché vorrebbe dire, che di ciascuna noi facciamo un parti-


colar giudizio interno , col quale alla cosa a cui appartiene noi la altri- s
bui amo.
Ma io non dimando tanto al VVolfio; né ricevo ciò ch'egli mi largheggia
con tanto favore della mia causa. Io mi ristringo a dire, che tutte le qua
lità qualunque sieno , o percepiscausi unite o pur divise fra loro, esse si
percepiscono sempre colla prima operazione del nostro intelletto , in un
soggetto o reale, o immaginario , o meramente possibile , e quindi che in
quella prima operazione intellettiva, noi percepiamo sempre due cose, l. un
essere (soggetto), a.0 un modo di essere (predicato): e queste due cose
le percepiamo insieme. Avvi dunque sempre in questa prima operazione
compreso uu giudizio.
Per le quali cose la distinzione inventata dal Wolfio fra la cognizione in
tuitiva e la cognizione simbolica, per difendere l'ordine ricevuto delle ope
razioni iutclletliiali , nou è putito solida ; ma è una di quelle sottigliezze ebe
mostrano, per la loro vanità, la debolezza della dottrina che ii è credulo
abbisognare di loro per sostenersi.
rar si dovesse : giacché egli diceva : « Quando 1' uomo
(iodica da sè medesimo d'una cosa , egli viene a cono
scere col suo solo giudizio una verità che prima non
conosceva. Ora se quella verità, che prima non cono-
weva , da sè medesimo egli ritrova ; come la riconosce
egli per verità, come la distingue dalla falsità? Ciò non
può avvenire se non per questo, eh' egli abbia già pre-
cedenlemente in sè medesimo il tipo di quella verità
da \ui ricercata , al qual tipo raffrontando quella che
incontra, la riconosca per quella verità ch'egli ricerca. »
In tal modo ammetteva ingeniti i tipi di tutte le ve
rità; il che è quanto dire, ammetteva le idee innate
in noi stessi, ma offuscate, come dissi , e coll'ajuto de'
sari, che percepiscono le cose esterne quasi copia e si-
silitudine di quelle idee, poscia ravvivate e rischiarale.
11 difetto pertanto di un tale ragionamento , per
dirlo con altre parole, ma che vengono a quel mede-
amo che di sopra ho notato, consisteva a non osser
vare, che quando io giudico di una cosa, è bensì vero
che io acquisto col mio giudizio una nuova verità; ma
perchè ciò io consegua , non è necessario che io abbia
i\ tipo particolare in me stesso pur di quella verità che
in Radicando mi procaccio, ma basta che io m' abbia
va tipo, a cui raffrontando le varie sentenze che posso
portar sulla cosa , distingua fra tutte quale sia la vera
e quale la falsa. Non ho bisogno di riconoscer quella
verità nuova, che col giudizio io scopro, per una par-
ticolar verità da me precedentemente segnata; ma per
verità : perocché altro non cerco , in qualunque cosa ,
che di giudicar ciò che è vero (i).; Non ho adunque

(1) Quando io cerco, a ragion d'esempio, le proprietà del fluido elet


trico o magnetico , io non so, a dir vero, quali saranno ; ma per conoscere
(quando io le avrò trovate) che sono quelle che io cerco , basta che io ,
trovandole, sappia assicurarmi eh' esse sono le vere; perchè io so, all'istante
che le conosco vere , che sono appunto quelle che io cerco , giacché io
non cerco che la verità , qualunque questa si sia. Debbo dunque avere in
me la facoltà di distinguere il vero dal falso, o sia debbo preconoscere la
verità, per conoscerla ne' suoi atti particolari, ovecchè io la trovi ; e il pre
conoscere la verità è il medesimo , che l'averne l'esemplare in me medesimo,
» cui raffrontando le diverse opinioni, io possa conoscere quale ira tulle
sia conforme ad esso e perciò sia vera , quale sia difforme e perciò sia
falsa. Di vero , se io non avessi in me stesso già precogniti i caratteri di
stintivi della verità; quand'ella mi si presentasse, io non la potrei mai co-
ooxere per verità ; e perciò mi mancherebbe la facoltà di discernerc la ve
bisogno d'aver in me ingeniti tanti tipi quante sono le
idee che giudicando io mi procaccio : ho bisogno solo

rità dalla falsità. Ora il possedere io nella mia mente i caratteri distintivi
della verità, non è altro che il conoscere coni' ella sia, 1' averne in somma
presente, per così dire, la fUonomia, un qualche tipo, in una parola, l'e
semplare, la prenozione, la forma. Egli è a questo solo che riesce conclu
dente la osservazione di Platone: conclude a dover ammettere presente al
l' uomo la faccia genuina della verità , perchè altrimenti egli non potrelibc
fare nessun giudizio ( e io dimostrerò che questa faccia o tipo primitivo
non è altro che l'idea innata dell'ente, UNICA FORMA DELLA RA
GIONE): ma non conclude punto a dover ammettere nell'uomo tanti tipi,
quanti sono i giudizj, o le idee che acquista con que' giudizj : giacché una
volta eh' egli abbia in sé stesso il segno al quale conoscer possa la verità
e l'errore, sta in lui poi l'applicarlo ad infinite cose, a tutte le cose ch'egli
vuole ; egli ha da quel punto la facoltà di giudicare , la potenza di discer
nere e di godere il vero, che dovunque ha un medesimo volto : in una pa
rola , allora è in suo potere il giudicare delle cose, perchè n'ha la regola:
una regola sola basta per tutte , perchè in tutte egli non cerca mai che una
cosa sola , ciò eh' è vero, e ciò eh' è falso.
E se vogliamo analizzare via meglio l'osservazione del greco filosofo, le
ricerche che noi possiamo istituire son di tre specie. i.° Talora noi cer
chiamo e apprendiamo delle verità , qualunque sieno, secondo l'occasione
che ci viene di usare della ragione; i." talora noi cerchiamo delle verità
nuove, appartenenti ad una cosa già da noi sotto altro aspetto conosciuta;
3 0 talora finalmente noi cerchiamo delle verità che sono già inchiusc in
qualche idea, senza che noi ci abbiamo fatto riflessione, nè che le abbiamo
percepite distintamente ed isolatamente.
Noi facciamo questa terza specie di ricerche ogni qual volta prendiamo
ad analizzare qualche idea: allora noi non aggiungiamo nulla alla materia
delle nostre cognizioni : noi non facciamo che cercare di possedere scom
posto e diviso quello che già possedevamo prima composto ed unito: noi
aumentiamo solo la cognizione ri/lessa, mentre avevamo la cognizione intui
tiva e spontanea. In questo genere di ricerche noi indaghiamo quello eliti
sappiamo in un modo, per saperlo in un altro modo: giacché il sapere ni
questa seconda maniera, il sapere analizzato e distinto, ci giova a diversi
usi, a' quali non ci può giovare il sapere sintetico ed indiviso. Sopra questo
genere di ricerche non può cadere adunque il ragionamento istituito da
Platone, perocché non si tratta di scuoprire una verità interamente nuova,
ina di trovar le parli , per cosi dire , di un lutto già conosciuto.
Che se vogliamo considerar le parti di questo tutto come delle verità
nuove nella loro forma di parti, in tal caso questa terza specie di ricerche
si può ridurre e classificare sotto la seconda.
La seconda specie di ricerche è quando cerchiamo utàa cosa perfettamente
da noi ignorata in sè stessa, ma che si riferisce però ad un altra da noi
conosciuta. Se io, a ragione d'esempio, voglio misurare la gravità specifica
di diversi corpi, io vado a ricercare una cosa che ignoro perfettamente;
ma non ignoro mica i corpi , a cui appartiene questa gravità , e non ignoro
che cosa sia la gravità in genere. Quando adunque io ritrovo con degli espe
rimenti la gravità che ricerco, allora, sebbene io non conosceva prima quanta
ella fosse , tuttavia ho benissimo il modo di conoscere eh' essa gravità è quel
vero che io ricercava, perchè io conosceva i corpi a cui quella gravità doveva
appartenere. Questa relazione della gravità ricercata co' corpi, mi determina
e fissa per si fatto modo ciò che ricerco , che quand' anche io noi conosca
'99
di avere il tipo della verità in genere, tipo, a cui con
frontando qualunque sentenza sopra qualunque cosa, io
possa discernere in tutte la verità dall'errore, la verità,
dico, che in quanto è tale, ha una stessa faccia dovun-

prima , appena però che io il ritrovo, riconosco esser desso quello che cerco.
Orti,, si danno più determinazioni esterne che segnano ed indicano la cosa
per sì fatto modo, che non si può scambiarla con altre, quando si trova,
»oche senza conoscerla. Poniamo, se uno mi dice: l'uomo che io saluterò è
Tirilo che voi dovete prendere ; io non ho più bisogno di conoscer colui di
betìa, per non isbagliare, ma basta che lo riconosca col segno datomi, perchè
il segno lo determina indubitatamente. In questo genere adunque di ricerche,
qaand'io cerco una verità, e la ritrovo, io la riconosco per quella che viene
<k me cercata , non perchè io conoscessi lei stessa già prima , ma perchè
io conosceva una relazione eh' ella avea con qualche cosa già prima a me
cognita, la quale relazione mi vale d'un segno a riconoscerla, purché sia
usa relazione bene determinante. Così tutti i problemi d' algebra che si
icooo determinati, mi conducono a trovare un risultato per me interamente
nuovo, e ciò unicamente avviene perchè mi sono date delle condizioni che
valgono a determinar pienamente quel risultato. L'argomentazione adunque
da Platone non può nè pur cadere sopra questa specie di ricerche; perchè
a conoscere che la verità che mi si presenta sia quella che cerco, non ho
tacine di preconoscer punto lei , bastando ch'io conosca solo qualche re
tatone alla a determinarla con altra cosa a me precedentemente nota.
UatiVii prima delle tre specie di ricerche che ho di sopra distinte, l'uomo
neo nrma certe verità determinate eh' egli s'è proposto di ricercare, ma
snie nroo o piuttosto ritrova quelle verità che gli si presentano secondo
Jr «taami che occorrono a lui nel primo sviluppo delle sue facoltà intel-
Insnt. Cosi , per esempio , appena venuto 1' uomo in questo mondo , egli
rvrve un gran numero di sensazioni dagli oggetti che lo circondano. Essendo
e»d suscettivo di queste sensazioni, ed essendo insieme dotalo di ragione,
circe qualche cosa a sé stesso in occasione d'essere così affetto ne' suoi sensi:
per esempio , egli dice a sé stesso : « c' è qualche cosa fuori di me » ; o
uzzi, particolarmente quando viene affetto, forz'èche cominci internamente
a prosare, e a dire ad ogni sensazione; « qui c'è qualche cosa, la tal cosa,
b tal altra, ecc. «•; il quale interno discorso non è espresso ancora in pa
role , ma è un assentimento a ciò che alla sua mente si offerisce : assente
41' esistenza degli oggetti esterni , e questo interno assenso è un giudizio.
Egli con esso conosce l'esistenza degli oggetti fuori di lui; o, che è il mc-
attrìbuisce loro l' esistenza, come anche attribuisce l' esistenza a sé
Ora egli è in questi giudizj primitivi che fa bisogno che I' uomo
qualche prenozione, la prenozione dell' esistenza ; egli è necessario che
qualche segno od indizio, a cui conoscere che l' esistenza de' corpi è
i verità. Qui adunque è Solido il ragionamento di Platone: in questo terzo
di ricerche, o più tosto in questi ritrovamenti della verità, si rende
ariv qualche cosa d'innato in noi, onde distinguere la verità slessa, o
distinguerla intuitivamente e quasi all'aspetto; giacché non si può cono-
v rria per la relazione sua con altre verità, che si suppone di non averne
ancora l'uomo nessuna acquistata.
E in vero, supponendo solo che l'uomo porli seco fin dall'origine impressa
■a iota distintiva e comune delle verità ( la qual noia vedremo a suo luogo
appunto l'idea dell'esistenza ), tulle le difficoltà di cui parliamo sva-
rocooo. Con questa nata, egli percepisce le prime verità che ^li si presene
téop non iicercuuàv propiiamenle quelle , ma ricercando iti genere lune le
300
que. E così Platone venia conciotto ad una soluzione
troppo estesa, e ad ammettere d'innato nell'uomo più che
non si richiedesse per ispiegare il fatto dell' origine delle
idee, contro la seconda delle regole da noi stabilite (i).

ARTICOLO V.
ARISTOTELE FA OSSERVARE l' INESATTEZZA DEL RAGIONAMENTO DI PLATONE.
Questa inesattezza che si conteneva nel ragionamento
platonico, sembra essere stata la causa della defezione
di Aristotele dalla scuola del suo maestro.

verità , o più tosto stando desto e vigilante a riceverle ondechè gli avven
gano , giacché la ragione nulla più avidamente aspetta di queste; egli le
percepisce naturalmente come cose alla sua mente acconciate ; ed il perce
pire delle verità detcrminate, non è altro, io dicevo, che il giudicar vera
qualche cosa ; il percepire colla ragione i corpi , non è altro che giudicar
vero, che esistono i corpi, o (che è il medesimo) l'assentire internamente
alla loro esistenza. Quando l'uomo ha fatto questo passo., ed è per tal modo
venuto in possesso di più verità, allora non è guari difficile lo spiegare come
sia possibile il secondo genere di ricerche; giacché le verità conosciute hanno
delle relazioni che valgono a determinare delle verità ancora sconosciute,
le quali possono in tal modo divenire oggetto peculiare della nostra curio
sità e delle ricerche nostre; e qui propriamente cominciano le ricerche della
verità, perchè quelle della prima specie meglio dir si potrebbero perce
zioni o ritrovamenti, che ricerche. Medesimamente non contengono più al
cun che di difficile da spiegare le ricerche della terza specie; giacché si è
già trovato il modo di avere le idee che in quelle si prendono ad analizzai;
Per non aver Platone fatta la distinzione di queste tre maniere colle quali
noi investighiamo, o almeno troviamo la verità; gli accadde di estendere la
difficoltà, di cui parliamo, ad ogni ricerca di verità : mentre la difficoltà non
esiste che nella prima maniera : quindi né anche la soluzione da lui data
potè esser vera e perfetta.
(i) Non si può esigere da un uomo che il primo spinse il guardo tanto
addentro quanto Platone circa l'origine delle idee, eh' egli rendesse le tro
vate dottrine all'ultima esattezza d'espressione. Succede agli uomini origi
nali che veggono i primi le cose , che sieno così presi dalle verità che si
presentano alle lor menti, che già paghi ed esultanti per tale conquista, non
s'affatichino maggiormente a sccvrarla da tutto ciò che di falso o di ine
satto quelle possouo avere attorno ed hanno comunemente nella prima ap
parizione che fauno agli uomini. Quelli non sanno più dubitare delle Pr0'
prie idee; e quasi rapiti alla inaspettata loro bellezza, non han più 'ena
né da lavorare d' intorno ad esse, né da dubitare della lor perfezione ; le
prendono quali sono, e le idolatrano: cosi nascono i sistemi; e parmi clic a
Platone, circa l'origine delle idee, sia succeduto qualche cosa di simile.
Nulladimeno la ragione di questi uomini , in qualche momento pm tran
quillo, li conduce., senza che essi si accorgano, più vicino ni vero. Platone,
per esempio, in certi luoghi lo va così rasentando, che se non esistessero
di lui che quelli soli , si direbbe forse ch'egli l'avesse assegnilo. , .
Nel Tectcto , per ispiegare il modo onde portiam con noi le cogii'Z""11'
c tuttavia dobbiamo investigarle , dice che queste si possono possedere seuz
averle, come chi serba uccelli in camerino, che li possiede senza pur aVer
301
la moltissimi luoghi delle sue opere Aristotele fa osser
vare, che Platone usa una improprietà di parlare, quando

in mano. Pensale , egli viene a dire, un uomo che sa l'aritmetica o l'arte


di calcolare. Quest' arte comprende sotto di sè tutte le cognizioni de* nu-
neri-, essa è per dir cosi l'uccellagione di tali notizie. Quegli adunque che
solo possiede I' arte aritmetica , possiede con ciò stesso tutti i risultati che
àa' nnmeri aver si possono, ma non li ha tuttavia in mano ; egli li possiede
come coki che nutre uccelli in camerino, i quali liberamente svolazzano,
c doo sodo suoi se non perchè egli ha il potere di pigliarseli quand' egli
vuole. Ma udiamo Platone stesso :
Scerete, Togliamo in esempio 1' arte aritmetica.
Ttckkt. Togliamola.
Sec Poni che questa sia l'uccellagione delle coguizioni intorno ad ogui
seswo pari e dispari.
Tal Pongolo.
Stc. Con quest'arte l'aritmetico ha sotto di sè, quasi mancipj, le notizie
latte de' numeri, e altrui le comunica.
Teel. Al tutto.
Soe. E colui che le comunica, noi diciamo insegnarle; colui che le riceve,
impararle: colui poi che le possiede come in serbatojo, saperle.
Tot Nulla di meglio.
Soc. Or attendi , che quinci consegua. Quegli che è perfetto aritmetico
«ob la egli tutti i numeri ? puossi egli negarlo, mentre possiede nell'animo
suo tane le cognizioni de' numeri?
Tal Non c' é che dire. <-
Soc E tuttavia non viene egli questi talora seco medesimo conteggiando
«s» degli oggetti interni o esterni che hanno numero ?
Tot. Perchè no ?
Soc. Ma conteggiare non è poi altro che rilevare quanto sia alcun numero.
Tal. Altro.
Soc. Sembra adunque , che cerchi ciò che già sa , come se noi sapesse,
aritmetico che abbiam pur conlessalo sapere tutte le ragioni de' numeri,
tu la contraddizione ?
E col suo sistema Socrate rendeva ragione di una tale contraddizione ,
* mostrava non essere che apparente. L' aritmetico sa tutti i risultati del
l'arte sua, ma solo in potenza: attualmerde non li sa, e quindi, ove li vo
glia, bisogna a lui di ricercarli, usando dell'arte eh' egli possiede.
L'ambiguità sta tutta nella parola sapere: il dire che 1' aritmetico sa
tatti i risultati dell' arte sua, non è una maniera propria di parlare, come
poi riflettè Aristotele : parlando propriamente, non si può dire se non che
può saperli, cioè che possiede il mezzo di venirli a conoscere, l'arte di ri
trovarli. Questa improprietà di parlare costò a Platone l'erroneità del suo
sistema. L'aver voluto attribuire alla paiola sapere, il senso che attribuisce
al possedere fa scienza, cioè il poterla avere a suo grado; in vece di attri
buirle il senso di avere la scienza, che è il suo proprio e vero significato ;
il portò a dire che l'uomo sapeva nascendo, cioè aveva le idee innaie.
Prescindendo però da una simile improprietà , e dall' errore in cui essa
trasse Platone , e cogliendo solo lo spirito del discorso sopra recato che
lengono insieme Socrate e Teetelo , ognuno vede quanto Platone andasse
presso al segno della verità. In quel discorso si dimostra irrepugnabilmente,
dover essere connata all' nomo una cognizione la quale virtualmente com
prenda in sé tutte le altre cognizioni, come l'aritmetica comprende tutte le
weoze de' numeri : una cognizione che sia , in una parola, 1' arte di di-
Bosmisi, Orig. delle Idee, Voi- /• 26
30 3
egli chiama sapere quello del fanciullo che, interrogato
da Socrate, risponde ciò che nessuno gli ebbe insegnato,
e trae da sè Messo la soluzione di qualche problema di
matematica. Certamente il giovanetto sapeva i principj
del ragionamento, dai quali qnella soluzione dipendeva:
ma in quanto a questa soluzione, egli non la sapeva
già, propriamente parlando; egli la dedusse come si
deducono le conclusioni da' principj conosciuti. È vero,
dice Aristotele, che, se si vuol così, le conclusioni si
possono dire virtualmente contenute ne' principj; e che
perciò quegli che sa questi, egli conosce in potenza an
che quelle. Ma che vuol dire conoscere qualche cosa in
potenza? Null'altro se non, potersi conoscere. Ora il po
tersi conoscere qualche cosa, non è ancora un conoscerla
veramente: non si può adunque dire che il giovanetto
sapesse quelle verità matematiche; perchè il dire chele
sapeva, così semplicemente, supporrebbe che l'avesse sa
pute in se stesse, e non solo ne' lor principj ne' quali
come in fonte sono contenute : ma se si vuol dire che
il giovanetto le sapeva, conviene aggiungere, « sotto un
certo rispetto », cioè in potenza, in quanto virtualmente
si contengono in quello che già sapeva. Di che svanisce
l'apparente contraddizione che Platone propone, cioè

stingueie e riconoscere il vero ovunque all'uom si presenta: perocché allora


è interamente spiegata la facoltà di conoscere, o la ragione: giacché che
cosa £ la ragione se non \ arte di ritrovare, le diverse cognizioni ?
Giunto a questo punto, che cosa sarebbe rimasto da fare a Platone per
portare la teoria dell'origine delle idee alla sua perfezione ?
Nuli' altro che cercare quale poteva esser questJ arte primitiva, o questa
cognizione originaria che comprende in sé virtualmente tutte le altre cogni
zioni, come l'aritmetica comprende tutte le notizie de" numeri. Egli aveva
conosciuto egregiamente, che per ritrovare qualche cognizione intorno ai
numeri, per isciogliere qualche problema aritmetico, era necessario posse
dere l'arte di ciò ; il che é quanto dire, era necessario possedere de' prin
cipj , e conoscere il processo di questi principj alle conseguenze ricercate.
Ora quello che si verificava ne' ragionamenti risguardanti 1' argomento li
mitato de' numeri , si verificava egualmente in ragionando intorno a Tla-
lunque altra cosa : qualunque ragionamento adunque, qualunque uso della
ragione, non era che l'esercizio d' un' arie primitiva ed innata; giacche
imparare non si poteva , mentre le arti non s'imparano che ragionando.
Supponendo adunque che nulla ragionar si sapesse, sarebbe impossibile al
tutto d'apprendere l'arte di ragionare. Era arrivato adunque Platone « c0~
nnscere eccellentemente, che anteriormente a qualunque cognizione acquisita
col ragionamento, si dovea avere una cognizione innata . e quest' era quella
del modo di ragionare: l'investigazione di questa primitiva cognizione CT*
la via che reslava a percorrere al filosofo nostro, e per la quale egli sa
rebbe pervenuti' alla intera scoperta della verità.
ao3
the s* impari ciò che già si sapeva; perchè volendola
enunciare con proprietà di parlare, e non con maniere
sofistiche, ella riesce a questo, u che s'impari veramente
ciò che prima s'ignorava, giacché non se n'avea che una
cognizione virtuale, quale era necessaria per poter esser
condotti alla cognizione propria e attuale » (i).

ARTICOLO VI.
m BAGIONAMLNTO DI PLATONE BIMANI! QUALCHE COSA DI SOLIDO.
L'osservazione di Aristotele era giusta , ma non ab
batterà che una parte del ragionamento di Platone, cioè
enfila parte nella quale il detto ragionamento era ine
satto. All'incontro essa non penetrava nel fondo del me
desimo, e non distruggeva ciò che v'avea in esso di solido.
Sembra che sia avvenuto al grande Aristotele ciò che
suole accadere a tanti altri uomini minori di lui. Chi
giunge a discoprire in una dottrina qualche cosa di
falso, non si dà poi cura di formarne un maggior esame,
ma la ricetta d'avanzo, supponendola interamente falsa,
senta riflettere che quell'error ch'egli ha in essa trovato,
non è forse che una piccola parte della medesima, o
per avventura una mancanza di esposizione e di perfe-
2'one in qualche parte del concetto. Per il che, conside
rando io l'esame che Aristotele fa di Platone, e Com'egli
sembra che si sia fermato, quasi direi, nella corteccia,
non mi torna difficile a concepire, siccome i Platonici,
che pur sentivano nel discorso di Platone rimaner tut
tavia un fondo di verità (benché né pur essi il sapes
sero appurare e nettamente indicare; di che avveniva
loro il contrario sbaglio, di abbracciare la dottrina pla
tonica tutta intera ), dicessero che la dottrina delle idee
stava troppo più su dell'intendimento d'Aristotele, per
chè questi corre ed abbracciar la potesse (2).
E di vero, l'inesattezza del ragionamento di Platone
consisteva nell'averlo egli applicato alle verità di conse
guenza, come è appunto la soluzione di un problema
di matematica: mentre la forza sua e la sua solidità si

(1) Pnsteriarum Lib. I.


(a) V<>di il passo di Attilio } riferito da Eusebio , Prttpur. Evang.
L.b. XV, c. i3.
manifesta solamente allora che s'applica a' principi in
dimostrabili della ragione, e a questi soli.
Applicando Platone quella sua maniera di ragionare
ad una verità dedotta, cioè a dimostrar che quel vero
matematico, che Socrate cavava dalla bocca di un fan
ciullo imperito di quella scienza, dovea esser da lui
preconosciuto; lasciava 1' adito alla risposta che gli fece
Aristotele, «non esser necessario che il fanciullo preco
nosca quella verità, bastando ch'egli preconosca i prin-
cipj da' quali quella verità si può dedurre, e che abbia
la ragione o sia la facoltà di fare simile deduzione ».
Tale risposta non ammetteva replica: l'assunto partico
lare di Platone era confutato, giacché quest'assunto par
ticolare si ristringeva a dimostrare « che quella verità
geometrica, cavata dalla bocca al fanciullo, era da lui
conosciuta avanti d'essere interrogato »: colla risposta
d'Aristotele in vece si dimostra quest'altra: «Non era
punto conosciuta quella verità geometrica da quel fan
ciullo ; ciò che egli conosceva prima , erano i principi
generali da' quali essa si deriva ».
Ma se era confutato in tal modo l'assunto particolare
di Platone, non cadeva per questo l'assunto di lui ge
nerale; lo spirito del suo ragionamento non era cassato:
quel ragionamento riteneva in sè una forza: tutto stara
a farla sentire; e la si fa sentire tostochè invece d'ap
plicarlo alle verità derivate, s'applica alle verità prime
e indimostrabili, a quelle che contengono in se stesse
virtualmente tutte l'altre verità, e che non sono con
tenute da altre anteriori , perchè sono le prime e più
universali.
ARTICOLO VII.
UW CRI ARISTOTELE NOI» DIA UNA SPIEGAZIONE SUFFICIENTE DECLI ONIVEMAM-
Avendo io letto con attenzione Aristotele ( quale è a
noi pervenuto), mi sono convinto, che qui è dove que
sto celebre filosofo lascia una lacuna, o per lo meno
dell'oscurità.
Egli giunse benissimo a distinguere le verità prime,
e le derivate: e sembra anche pervenuto a ridur quelle
ad una sola, cioè al principio di contraddizione (i).

(i) Melnph. Uh. IV.


ao5
Egli spiega l'origine delle verità derivate, nel modo
cfae abbiam veduto, cioè mediante la dimostrazione , o
deduzione dalle verità prime, e dimostra benissimo,
contro Platone, che quelle non sono innate.
Ma quando egli s'accinge a spiegar l'origine delle ve
rità prime , allora non mostra più sentir la forza del
ra^onamento platonico; senza dubbio perchè Platone
stesso non l'applicò più a queste che a tutte l'altre, e,
riuuUto Platone rispetto ad alcune verità, cioè alla spe
cie delle derivate, egli riputò che fosse già con lui finita
ogni causa.
Le verità prime adunque Aristotele pensò di farle
nascere in questo modo.
Esse sono tali, così ragionò seco medesimo, che non
s posson dedurre da altre verità ad esse anteriori; pe
rocché ove ciò si potesse, non sarebber prime: forz'è
dunque che sieno altresì indimostrabili. Si dee dunque
ad esse crederi senza dimostrazione alcuna (i); e nel

dimostrazione s'intende la deduzione ben fatta di una verità da


akn verità già ammessa per indubitata.
Ora se alle prime verità si crede senza dimostrazione , cioè senza dedu-
tiene di altre verità , vuol egli dire per questo , che si creda loro senza
ngstmt?
Gài risponde di si , distrugge l' umana intelligenza , e pianta uno scetti-
cjcdo profondo. A questo tristo termine viene il sistema di quelli che
UBisetlono per criterio della verità il senso comune cieco, cioè un autorità
priva di una ragione che la giustifichi. Di questo scetticismo di nuova spe
ne, il più funesto di tutti , mise, senza volerlo, i semi Reid, i quali ri
cevettero da Kant il loro pieno sviluppamento.
Chi risponde all'incontro, che alle prime verità non si crede da noi
per pura necessità, ma perchè esse stesse sono ragioni, sono luce che
Brilla, e che vince e quasi crea il nostro assenso; questi durerà fatica a
conciliare il sistema aristotelico (siccome viene comunemente inteso) con
questa fede , che Aristotele dice dar noi alle prime verità, senza più.
Poiché se queste prime verità sono ragioni , come si potranno mai de
durre da' sensi esterni?
Nelle cose esterne da noi percepite pe' sensi, quelle ragioni non si ri
trovano ; perocché le cose esterne non sono ragioni, ma sono fatti; i fatti
Bono particolari, e le ragioni generali.
Queste ragioni o verità prime a cui si crede, devono adunque o venir
in noi comunicate all'istante delle sensazioni da delle intelligenze separate,
come dicevano gli Arabi; ed in tal caso non si mettono innate in noi, per
metterle innate in intelligenze fuori di noi: nè questo è uno spiegare come
noi le abbiamo da' sensi . Ovvero devono in qualche modo in noi esistere
da sè, acciocché credendo primieramente ad esse , possiamo poi per esse
dar fede a tutte l'altre idee derivate, che in esse hanno la ragione della
loro credibilità ; e questo è un riconoscerle innaie. In una parola , o conviene
•«mettere lo scetticismo • o accordare che v' ha in noi qualche cosa
d innaio.
ao6
fatto ad esse si chede da ciascun uomo, h adunque fìp-
cessario l'ammetter nell'uomo una cotal potenza che sia
capace d'intuire queste verità immediatamente, qssia di
dar loro l'assenso (i).
Questa è in sostanza la maniera onde Aristotele spiega
la formazione delle prime nozioni: ammettendo nell'uomo
una facoltà capace di formarle, molto simile alla rifles
sione di Locke.
Questi filosofi, come ho osservato ancora, sembra che
ci dican cosi : « Che cosa trovate voi che manchi alla
spiegazion nostra dell'origine delle idee? che volete di
più di quello che ammetliam noi nell'uomo? Noi am
mettiamo una potenza capace di formar queste idee: e
non vi basta? e quando avete la potenza di formar que
ste idee, non sono esse pienamente spiegate »? Il ra
gionamento è rettissimo: ma d'altra parte è tale che
non può soddisfare alcuno, poiché non risponde meno
mamente alla questione che eccita la nostra curiosità,
e che si agita intorno all'origine delle idee. Tutti siam
d'accordo in questo, che, supponendo nell'anima una
potenza capace di formar le idee, purché questa sia ve
ramente tale, nulla si cerchi d'avvantaggio. La difficoltà
però sta a sapere com' ella debb' esser fatta questa po
tenza perchè serva a un tal uso, perchè serva a formare
o intuire (che viene al medesimo) le idee prime. Ari
stotele, dopo aver detto, che l'anima dalla memoria di
molte sensazioni forma un'idea generale , soggiunse im
mediatamente, u ma l'anima sia tale che possa in se ciò
« patire » (2). Ognuno vede che in questo modo ogni

(1) Posterior. L. I. Il percepire la verità e il darle l'assenso, è una cosa


medesima. Perocché che cosa vuol dire percepire la verità , se non cono'
scere una cosa per vera? Ma questa osservazione è più manifesta nella
percezione della prima verità , cioè di quella verità per la quale si giudicane
tutte le cose vere: perocché quella non si può giudicare; giudicando pei
essa tutto il resto: il percepir quella, contiene essenzialmente l'assenso date
a quella; costituisce la possibilità d'ogni altro nostro assenso e giudizio
Ma queste cose sono qui dette di passaggio solamente , e se le abbia il let
tore come d'avanzo.
(2) Posterior. L. II , c. ult. L'espressione che adopera Aristotele di pa
tire , per esprimere 1J intuire dell' intelletto , e che ripete in tanti altri
luoghi, mostra ch'egli concepiva l'intuizione intellettuale come una pas
sione al tutto simile a quella del senso. E in fatti egli mette per principio
talora, che per ispiegare le operazioni dell' intelletto giovi procedere dietro
l'analogia delle operazioni de' sensi. Vedi ne' libri de Anima, massima
mente nel III. E converso, per ispiegare le operazioni de' sensi, ricerrf
'difficoltà può spacciarsi assai leggermente .* egli è come
sn rispondere a chi ci propone qualche difficoltà: « ci
la qualche cosa che faccia dileguare simigliante diffi
coltà la qual voi mi proponete » ; e pretendere, coll'ani-
missione di questo chb incognito, d'avere la difficoltà
stessa dileguata.
Resta sempre dunque a risponder ragionevolmente ,
per quanto a me pare, tanto ad Aristotele che a Locke :
s "Voi altri ammettete una potenza di pensare, o sia un
qualche cosa nell'anima umana, onde a lei provenir pos
sano le sue cognizioni : benissimo; fin qui noi siamo
perfèttamente in uno stesso pensiero. Permettete però
a noi d'innoltrare più innanzi le ricerche nostre, e di
«aminare se possa esistere una tal potenza di pensare,
che non abbia punto in sè alcuna nozion primitiva; o
pare, se quella potenza di pensare fors' altro per avven-
tora non sia , che la potenza di usare di una qualche
nozione primitiva che porta lo spirito umano con sè me
desimo: se in somma si possa concepire un pensiero
qualunque, il quale sia cosa diversa dalla vista, o
da\Y applicazione di una norma, di un'idea ». Or qui,
se i nostri due filosofi ci negano la loro buona licenza
di protrarre per questa via le indagini nostre, essi ci
n'escono, a dir vero, alcun poco illiberali: colla intol-
/eranza loro, comincia, a mio parere, il loro errore: nè
egli sembra probabile che gli uomini vogliano credere
che solamente dentro alla limitazione che essi stabili
scono consista la perfetta sapienza.

ARTICOLO Vili.
ARISTOTILE NON SEMBRA AVER MARCATO ABBASTANZA , IN ALCCNI LUOGRI
DELLE SUE OPERE , LA DISTINZIONE l'RA IL SE/tSO E L INTELLETTO.

Sicché 1' essersi Aristotele fermato a confutare le


idee innate di Platone relativamente alle idee dedotte

sovente alle operazioni dell'intelletto: quindi avviene che dia a' sensi ciò
che spetta al solo intelletto (come il giudicare), e dia all' intelletto ciò che
spetta a' sensi (come il percepire passivamente le impressioni de' parti
colari): o per dir meglio, che accomuni le operazioni degli uni e dell'olirò
a tutte e due queste distinte potenze. In questo modo non è più difficile
spiegare gli atti dell'intelletto, giacché a spiegarli s'adopera il senso, e
nel senso gli alti stessi intellettuali si assumono come supposti: manifesta
pelatoa di principio.
ao8
ed evidentemente acquisite, e nulla più e V aver
creduto di sbrigarsi facilmente rispetto alle prime e im
mediate (com'egli le chiama), dicendo che queste trag
gono l' origine loro da' sensi mediante una potenza par
ticolare ordinata a ciò , ed avente tutto ciò che si
richiede al suo fine, la quale si appi '.la intelletto; fa
ragionevolmente sospettare eh' egli non abbia sentito
abbastanza intimamente la difficoltà che si trova nel
problema dell' origine delle idee, e che si manifesta a
pieno allorquando si toglie a spiegare l' origine delle
idee primitive e universa lissi me, idee che non si posson
dedurre, sillogizzando, da altre idee precedenti, per
ciocché di precedenti ad esse non ve n' ha , e da esse
tutte 1' altre si deducono.
Ciò che mi conferma in questa opinione si è il ve
dere, com' egli sembra che in alcuni luoghi delle sue
opere non tocchi abbastanza la distinzione fra l'operare
del senso che riceve le sensazioni , e l' operare dell' in
telletto che pensa.

(i) Un' altra parte della dottrina platonica fermò l' attenzione di Aristote
le, e avendola trovata falsa, fu cagione eh' egli si disgustasse di tutta la pla
tonica filosofia , e fu quella delle idee separate. Platone insegnò che le idee
che noi abbiamo fossero veri enti fuori di noi , e che 1' aver le idee non
fosse che un contemplare questi enti. Era un' ipotesi che Platone assumeva
per ispiegare il modo, come noi avevamo queste idee: di che (per dirlo di
passaggio ) non sembra che abbiano bene inteso Platone quelli , che hanno
a lui rimproverato di aver colle sue idee innate fatta retrocedere di un
passo la difficoltà della formazione delle idee, senza averla spiegata. In
tanto ad Aristotele non fu difficile il sentire quanto una simile ipotesi fosse
gratuita, e da rigettarsi. Ma non sembra essersi poi accorto eh' essa non
era la sostanza della teoria platonica , ma solo un cotal sostegno laterale che
metteva Platone alla sua teoria per sostenerla ; quindi Aristotele si sbraccia
in tanti luoghi a dimostrare che non v' hanno queste idee od essenze delle
cose sussistenti per sè in separato dallo cose stesse e dalla mente, e dimo
strato questo , fa vista di credere che ne venga per conseguenza non es
servi nell' uomo idee innate di sorte. Ma volendo procedere con distinzione,
la questione delle idee innate non ha che fare colla questione delle idee se
parate: o almeno, non è essenzialmente congiunta con questa; quelle pos
sono essere senza di queste : e v' ebbero non pochi filosofi che ammisero
le idee innate, seuza sognarsi né pure di ammettere le idee separate di Pla
tone, come, fra' moderni, Cartesio e Leibnizio. Ma Aristotele ragionava
sulle vestigia di Platone presso a poco in questo modo : - Le idee separate
sono un sogno: dunque V uomo non può avere in sè stesso le idee a quella
guisa che le mette Platone, cioè come una speculazione delle idee sepa
rate: dunque non le può avere in alcun modo. IVon si può adunque farle
nascere in lui se non mediante i sensi , ed una potenza che sia capace di
eavare dalle scnsazioui le idee ». Ciascuno sente come questa argomenta»
zioue sia manchevole e inconcludente.
2ViJ
Certo egli era arrivato a vedere che queste son dun
potenze diverse, nè le confuse insieme siccome a1 nostri
tempi fece il Condillac (i): ma egli le distinse solo pe"
loro oggetti, e non s'accorse di una differenza essenziale
anche nel modo del loro operare. Assegnò ai sensi esterni
per oggetti i particolari, ali1 intelletto gli universali (2) .

(1) la distinzione che poneva Aristotele fra il scuso e 1* intelletto , vieue


accaraUmente descritta da Sesto Empirico nel Lib. VII contro i logici ,
\ aij e segg. Ivi si dice , spiegando la dottrina di Aristotele e di Teofra-
sto, de T nomo da' sensi riceve le similitudini delle cose esterne nel suo
spinto: na che queste similitudini non sono ancora il pensiero dell' anima.
Peni* questo nasca , bisogna supporre 1' anima dotata di una eerta energia
o Cam fatta sua propria, mediante la quale, da quella fantasia delle cosa
«Benfari ella possa volontariamente pingersi e ritrarsi I' idea , come sa-
ratie 1* uomo in genere. Senza di questa interna virtù dell'anima, un es
sere potrebbe esser dotato di senso , potrebbe ricevere delle sensazioni ,
svere anche memoria e fantasia , ma egli rimarrebbesi sempre senza alcun
pensiero. La parola volontariamente , adoperata per caratterizzare l' opera-
cete della mente nella formazione delle sue idee, mostra che Aristotele
non supponeva questa operazione cieca, ma fatta con lume interiore, come
sono (atti tutti gli atti della volontà: chi ne dubitasse, basterebbe che os-
serosse in che modo Sesto Empirico poco prima aveva espresso la stessa
ieW. egli avea detto che l'intelletto nella formazione delle idee operava in
vini di on giudizio , e di una elezione nostra. Questo mostrerebbe altresì
ebe Aristotele avesse per lo meno traveduto questo vero cosi importante ,
rie sei cioè non ci possiamo formare un'idea di qualche cosa determinata,
bob passiamo in una parola pensare menomamente, se non mediante uh
pattizio: che il formarsi le idee non è che un giudicare sulle sensazioni.
Che se egli sembra che Aristotele in altri luoghi descriva la formazione
delle nostre idee in altro modo , converrà dire eh' egli non sia stato sempre
coerente con sè stesso, e che avendo veduto una volta la verità suddetta ,
aoo abbia poi conosciuta la sua importanza, e seguitala costantemente nelle
sue applicazioni.
Io unirò in altro luogo tutti i tratti di Aristotele che accennano la ver*
dottrina sull'origine delle idee, e mostrerò che, volendo badare a questi
s->li , direbbesi ch'egli la raggiungesse, oscuramente però ed ambiguamente
esprimendola. Ma chi potrà conciliare con que' passi , altri che mostrano ni
tutto lor contraddire?
io) Sesto Empirico, nel passo citato più sopra, esponendo la dottrina
« di Aristotele, dice che « la natura delle cose generalraautc parlando è
•» duplice, poiché altre sono cose sensibili, altre tali che colla mente si
i percepiscono ». Questa maniera di parlare si trova soveute auche nelle
opere di Aristotele. Ma se queste cose sono di natura diverse , qual è
adunque il passaggio dall'una natura all'altra? Aristotele mette questo
passaggio in ciò, che i fantasmi delle cose' singolari, com'egli dice, sono
in potenza universali (De Anima Lib. II, Lect. xn ).
Che volete dire, io dimando, con questa vostra maniera di parlare? o
sia , come sapete voi che i fantasmi singolari sono in potenza universali ?
Certo dal fatto: perciocché voi supponete che l'intelletto cavi d«i quelli
gli universali : e quindi voi dite « Se l' intelletto cava da quelli gli univer
sali, forz' è eh' essi sieno alti a ricevere questa operazione; e l'essere alti
a venire dall'intelletto trattati per modo che escano da loro gli uuivei-
Bosmihi, Orig. delle Idee, Voi. I. 27
3 jO
diede anche a questo la virtù di astrarre gli universali
da' particolari (intelletto agente), e di percepirli dopo
astratti ( intelletto possibile ) : ma ciò non era ancora
un vedere quella intrinseca differenza fra l'operare del
l'intelletto e del senso , di che . noi qui tocchiamo.
Ciò che rende difficile il veder questa , si è che fa
cendo noi uso, in tutti i momenti, dell' intelletto no
stro , le operazioni di questo e quelle del senso sono
in noi sempre mescolate e intimamente fuse insieme,
e perciò ci è tanto difficile a separarle : indi ancora
avviene che noi , senza accorgercene, attribuiamo al
senso ciò che appartiene solamente all'intelletto; diche
non ci formiamo mai di questo un concetto rigoroso e
preciso.
Dalla stessa cagione nasce quell' inclinazione che noi
abbiamo di attribuire alle bestie il nostro ragionare,
immaginandoci che quelle procedano nelle loro opera
zioni allo stesso modo siccome noi; e di attribuir pure
le nostre affezioni e i pensieri agli esseri inanimati : pe
rocché ci è cosa ardua oltremodo il formarci l' idea
separata e pura dell' mere al tutto inanimato, ovvero
quella dell'edere puramente sensitivo) mentre noi non
siamo solamente materiali, nè solo sensitivi, ma siamo
tali che partecipiamo ad un tempo di materia, di senso,
e d'intelletto.
E quindi par che accadesse ad Aristotele di peccar
in questo al modo stesso di Condillac, attribuendo an
che al senso la facoltà di giudicare (i) ; cosa assurdis-

aali , è appunto ciò che vuol dire quella espressici] nostra : essere universa'
(n potenza ». Ma con vostra buona pace , in tal caso l'essere essi universa
in potenza non può spiegare come succeda l'operazione dell' intelletto sopr
di essi , perciocché questa viene unicamente enunciata con tale espi pssìodi
anziché spiegata. Il pretendere adunque di render ragione del modo ood
i fantasmi singolari comunichino colle idee, cioè cogli universali, dicetit1
phe da quelli vengono questi, perchè quelli sono universali in potenza;
un circolo vizioso. Egli è appunto come se voi diceste : «« dai fantasmi vei
gono tratti gli universali: e la ragione di ciò si è, che dai fantasmi P°
fono venir tratti gli universali ». In fatti , il dire che i fantasmi sono un
versali in potenza, è un affermare unicamente che da essi possono ess
cavatele idee (sinonimo di universali): è un affermare ciò di che si ceri
la ragione: un affermare con parole misteriose ed oscure, quanto in p
role chiare e comuni si propone perchè sia spiegato e dimostrato.
(i) De Anima, Lib. Ili, c. 9, ed in molti altri luoghi delle sue ppei
Vedi però più innanzi alla face ?|6 la nota <},
2» I
sima : eonciossiacliè questa facoltà non può essere che
nel solo intelletto.
E nel vero io ragiono così: o il giudicare è precisa
mente lo stesso che il sentire; ed in tal caso, che mai
significano queste parole « la facoltà di sentire è atta
a giudicare », se non una ripetizione vana di senso ,
equivalente a quest' altra proposizione « la facoltà di
sentire è atta a sentire « ? — ovvero il giudicare è una
operazione diversa da quella di sentire ; e in tal caso ,
come mai si può attribuire ad una facoltà , operazioni
essenzialmente diverse , e dire « il senso giudica » ; con
un assurdo , come abbiamo anche più sopra osservato,
amile a quell'altro, « gli orecchi parlano, o il naso guar
ii, o le mani starnutano », od altro concetto mostruo
so, ove una potenza è maritata cogli atti non suoi?
Veramente , allorché si spoglia il senso esterno da
tatto ciò che non gli appartiene, e perciò da qualsiasi
giudizio, egli si rimane una potenza passiva, mediante
la quale 1* Io, soggetto senziente, riceve certe modifica-
noni; il che è quanto dire, sente sè stesso come prima,
ma in altro modo diverso da prima , e sente altro di
verso da sè. Qui non e' è ancora alcun pensiero , non
c'è ancora alcun atto, onde il soggetto abbia detto seco
medesimo « esiste la tal cosa » , cioè abbia attribuito
l'esistenza (questa idea così universale) o a sè , o a
qualche cosa fuori di sè.
L' immaginare un essere dotato del solo senso, è ope
razione difficilissima, come dissi , a noi che non abbiamo
di ciò esperienza, ma solo di un soggetto dotato ad un
tempo di senso e d' intelligenza, quali siamo noi stessi :
bisogna giungere , per una astrazione , ad immaginare
un soggetto il quale certamente esiste, e sente sè stesso,
ma non ha concepito V esistenza, e non 1' ha attribuita
a sè stesso; la quale attribuzione è la formazione del
giudizio, è il pensiero stesso. Noi uomini siamo soliti
di sentire noi stessi, e di attribuirci contemporaneamente
col pensiero l'esistenza: quindi il pensare d'esistere, e il
sentire noi slessi, sono per noi cose così congiunte, mas
simamente dalla continua abitudine, che le rifondiamo
insieme; indi ci bisogna poi una operazione della più
fina chimica intellettuale, che ce le divida. Egli è ri
flettendo su ciò lungamente, che veniamo a conoscer
chiarissimo, siccome il sentir noi stessi semplicemente ,
e il giudicar d'esistere, son due cose assai lontane fra
loro: come è lontano quell'atto onde tutto l'/o inse
parabilmente sente sè medesimo, senza più, in quel
modo nel quale egli esiste; da queU' altro atto, col quale
non già tutto Y Io, ma una sua parte, una sua potenza,
l'intendimento, riflettendo sopra l'/o stesso, e avendo
in sè per sua natura l'idea di esistenza, cougiunge que-
sC Io sentito, coli' idea d' esistenza, e dice: Io ho esi
stenza. In questo detto , Io ho esistenza. , l'/o viene
giudicato, è 1' oggetto del giudizio : all'incontro l'/o
anche modificato dalla sensazione, non è giudicato, non
è l' oggetto di alcun giudizio; è semplicemente un sog
getto unico , indiviso , senza composizione o scom
posizione d' idee, in uno stato privo di movimento e
d'azione, eccetto quella dell'atto ond'è, e onde immobil
mente sente. Per tal guisa 1' attribuire a' sensi il giu
dicare, siccome sembra fare Aristotele in alcuni luoghi,
è confondere due potenze assai distinte, e dare al senso
ciò che non appartiene che all' intelletto.
Egli non par dunque che sia bastevole la distinzione
che mise Aristotele tra il senso e l' intelletto. « Secondo
a la sentenza d' Aristotele ( così un uomo che profon-
« damente studiato l'aveva), fra il senso e l1 intelletto
u non v' ha se non quest' una differenza , che la cosa
u si sente con quella medesima disposizione eh' essa ha
« fuor dell'anima nella sua particolarità; là dove la na-
« tura della cosa che s' intende è bensì fuor dell'anima,
« ma non ha quel modo di essere fuor dell' anima se-
« concio il quale s' intende la natura comune, esclusi i
« principj che la individuano : e questa maniera d'es-
« sere essa non 1' ha fuor dell' anima » .
Questo verrebbe a dire che il senso e l' intelletto non
differissero che da' loro oggetti immediati : il primo per
cepisce la cosa esteriore colle sue particolarità ; il se
condo ciò solo percepisce, che nella cosa esteriore v' ha
di comune, avendo in sè tale virtù di limitarsi a que
sto nella sua considerazione , astraendo da tutto il re
sto (i).

(i) Che virtù sarebbe questa? Il senso varrebbe assai più percependo
-lue il generale anche il proprio: l'intelletto non sarebbe in tal caso che
;:a senso limitalo! Aristotele che in tanti l.mghi mostra <!.' conoscere assai
lune 1 eccellenza dell intelletto sopra il senso, convien dire che o non vide
ai3
Primieramente, tutto ciò posto, la difficoltà starebbe
sempre a sapere come l'intelletto possa fare questa astra
tone , senza aver prima un astratto che gli serva di
jaida in tale operazione; giacche quando un uomo prende
a separare in due classi diverse un ammasso qualunque
d'oggetti, egli dee aver l' idea distintiva che costituisce
qnesle due classi , dee conoscere precedentemente quella
qualità che le differenzia. Laonde, perchè l'intelletto
agente possa distinguere e separare il comune dal pro
prio, fora' è al tutto eh' egli abbia in sè qualche idea che
gli serra di norma in simile separazione, mediante la quale
idea egli possa conoscere i gradi di universalità mag
giori o minori che hanno le parti dell' oggetto intorno
a eoi egli lavora per appurarlo, se mi si concede que
sto traslato di cui hanno fatto tanto uso gli antichi.
Ma lasciando questo e tornando al nostro proposito,
non bastava osservare che è proprio del senso perce
pire la cosa esterna individualizzata colle sue partico
larità tale qual è; bisognava di più dimandare, se in
una tale percezione l'uomo dice qualche cosa a sè stesso,
se dice per esempio, « la tal cosa che io sento esiste ».
Perocché s'egli tien questo discorso a sè stesso, s'egli
assente a questa proposizione, nel suo interno egli pro-
nancia nn giudizio. Ma è egli solo contemporaneo que
sto giudizio alla sensazione, o è la sensazione stessa?
Qui sta tutto il nodo.
Per poco che l'uomo rifletta sopra sè medesimo, si
accorgerà ch'egli sente la sensazione in qualche parte
esteriore del suo corpo, o almeno a quella la riferisce :
mentre il giudizio che fa in conseguenza di quella sen
sazione, è una parola interna che dice a sè stesso,
e che non riporta punto al suo corpo, nè ad una
mano, nè ad un piede, nè ad altra parte, come fa ri
spetto alla sensazione. Forz'è adunque dire, che il giu-

k conseguenze di questa sua teorìa, e fu inconseguente con sè medesimo;


» pure che tutta questa dottrina aristotelica dee ricevere un' altra interpre
tinone più recondita e più profonda. Quindi il lettor mio qui avverta bene,
the io non intendo di censurare direttamente la mente di Aristotele , ma
>1 significato più ovvio che presentano- alcune sue espressioni , o almeno il
sanificato nel quale furono intese da tanti commentatori: in qualche altre
luogo procurerò di cercare, se mi riesce, quale sia l' interpretazion favore
vole, che la dottrina aristotelica intorno l'origine delle idee sembra po
ter ricevere.
a>4
dizio non ha da far nulla colla sensazione organica : eh
il senso solo sente, ma non aggiunge alcun giudizi'
alle sue sensazioni (i): che quest'atto, tutto diverso da
sentire, viene aggiunto dal nostro intendimento: e eh
perciò la differenza fra il senso e l'in tendi mento no
istà solo nel percepire la cosa particolare e la cosa g<
nerale, ma altresì, e sopra tutto, nel percepir quell
semplicemente, e giudicarla: il senso percepisce ciò eh
sente, ma l'intendimento giudica ciò che è sentito,
così V intende: percepire è semplicemente sentire; inter
dere è giudicare.

ARTICOLO IX.
«RISTA LA PAHAFRASI DI TEMISTIO , ARISTOTELE
NON AVREBBE CONOSCIUTA ABBASTANZA LA NATURA DELL* CHIV'USUÉ.

Non avendo adunque il filosofo di Stagira bastevo


mente distinto fra il percepire semplice e passivo, e
giudicare, che è attivo, e che suppone non una co;
semplice, un soggetto percipìente modificato, ma set
pre due percezioni distinte, una delle quali almeno un
versale, dal paragone delle quali si trae un'altra co
cezione , un' idea che è il prodotto del giudizio ; e;
riputò che per ispiegare l'origine delle idee prime basta;
supporre un intelletto che fosse'una specie di senso,
quale, affetto dalle nature universali, dovesse percepì
queste nature universali per una passione (2) simile

(1) Il senso produce tuttavia l'istinto di seguire una cosa e di fugs


un'altra; ma ciò non é un giudizio; é. una inclinazione passiva: é un fi
spontaneo bensì , ma non volontario. Noi però siamo sempre disposti a s
porre che ciò che la bestia fa per istinto, lo faccia in conseguenza di
cognizione e di un giudizio: appunto perchè noi siamo soliti di non opi
mai o quasi mai senz'aggiungere alle operazioni nostre altresì un giudi
essendo noi ragionevoli : il che talora facciamo con tanta celerità , che sfi
quel giudizio alla nostra osservazione, sicché non lo avvertiamo.
(a) Egli attribuì , come ho già notato , al senso il giudicare , come
l'intelletto attribuì il sentire. Quindi nelle opere d'Aristotele si trova i
a ciascuna di queste potenze , cioè tanto al senso che all' intendimento ,
operazioni essenzialmente diverse (Ved. de Anima Lib. Ili , Lect, Xr
percepire ed il giudicare. Come rispetto all' intendimento egli travet
con ciò una verità feconda, vorrei qui dimostrare, se non mi conduc
troppo a lungo un simigliante argomento. Mi basterà perciò di fare oi
vare in che modo Aristotele veniva con ciò a .saltare a piè pari la diffi*
che si tratta di superare nella questione delle idee. Dall' istante che si
pone congiunto sempre alla sensazione il giudizio , si rende il senso un
colo intelletto: quindi non è più difficile spiegare la comuuicazioue
3l5
quella onde il senso percepisce i sensibili oggetti. Sola
mente veggendo pure che' queste nature universali non
esistevano al di fuori dell'anima, egli immaginò una
potenza interna, a cui attribuì la virtù di rendere uni
versali i particolari, mediante l'astrazione; cioè pren
dendo dagli oggetti particolari ciò che vi si trovava di
comune, e lasciando il resto; senza darsi poi cura di
esanimare come questa operazione far si potesse, e s'ell'era
puT possibile, non presupponendo nello spirito umano
qualche cosa d' innato.
E «e di questo fosse stato pago il filosofo nostro, non
ci -arebbe stato pur molto che dire.
Ma egli sembra, da un passo di Temistio, che l' ope
rasene che attribuiva all'intelletto agente, la riducesse
(atta a trovare nelle cose particolari quello che in esse
già c'era, cioè il comune, senza aggiunger nulla da sè
stesso: il che a dir vero costringerebbe a credere, ch'egli
non avesse ben sentita la nozione dell'universale, o della
natura comune; la quale, in quanto è universale e co
rnane, non è punto nelle cose particolari, ma in esse è
scio un suo atto, per così esprimermi, il quale non è
punto comune. Ed il passo toccato del filosofo para
gono è il seguente : « Tale vigoria dell'anima con-
* aite in questo, che quand'anco i generi che cadono
« sotto i sensi subitamente manchino e si dileguino, tut-
• tavia ella può ritrarne le loro similitudini , e ritenerle
«nella memoria , e scoprire e notare ciò che ne'singo-
« lari v'ha di comune e di universale. Poiché anche il
> naso ciò' percepisce. Conciossiachè qualunque volta
« alcuno conosca Socrate col senso, egli conosce insieme
■ anche l'uomo in Socrate. E chi vede questa cosa rossa,
« o questa bianca, egli vede insieme il rosso ed il can-
■ dido. Nè v'ha alcuno che creda, Callia e l'uomo essere

coli' intelletto, che è il passo difficile. In fatti la difficoltà sta tutta nel pass
aggio dalla sensazione al giudizio: ma dall'istante che di queste due cose
si forma una potenza sola , d' un simile passaggio non resta più a dir nulla :
egli si suppone : e tutta la questione si trasporta dal passaggio fra la sen
sazione e il giudizio, al passaggio fra un giudizio ed un altro giudizio: da
un nodo difficile, ad un argomento facile, e nè pur degno, direi quasi, di
proporsi in forma di grave questione. Succede in una simile soluzione pre
tesa dell'origine delle idee, come a chi dimandando in che modo si valichi
un fiume a nuoto, altri rispondesse: è facilissimo, hasta valicarlo iu barca:
dove la risposta non si affa punto colla proposta,
ai6
u una medesima cosa: altramente, come non v'ha che
u un Callia , così non potrebbe vedersi che un uomo. Ma
u chi vede Socrate, vede in Socrate ciò che v'è di si-
« mile e di comune anche negli altri uomini. Laonde
« in qualche modo l' universale si percepisce col sehso,
« non tuttavia spartito dal singolare , ma ad una, e per
« conseguenza » (i).
ARTICOLO X.
GIUDICASI È FID* CHE PERCEPIRE L* UNIVERSALE.
Né mi fa maraviglia che Aristotele concedesse al senso
di percepire nelle cose singolari anche la natura comune,
dappoiché egli avea conceduto ad esso la forza di giu
dicare.
Non si può giudicare senza la nozione comune; pe
rocché giudicare, non è che classificare, o riporre in
qualche classe degli oggetti; ed una classe non si forma
che mediante qualche cosa che sia comune agli oggetti
classificati.
Sicché l'attribuire al senso il giudicare, sembra an
che più che il dare al medesimo la percezione di ciò
che è comune ne' particolari, al modo che questa per
cezione gli dà Aristotele, siccome viene qui spiegato da
Temistio, cioè non mai sola, ma sempre co' particolari
individuamente unita; perocché a giudicare si richiede,
di più, che s'abbia l'idea di ciò che è comune, in se
parato da tutto ciò ch'è particolare, sicché ella si possa
applicare a' diversi particolari, e così quelli si classifi
chino o si giudichino (a).

(i) Themistii paraphrasis in Aristotelis Posteriorum Lib. II, cap. XXXT.


Il vero si è, che il senso non sente l'universale, e perciò il dire che lo per
cepisce è assurdo : in fatti la parola universale indica il prodotto dell' ope
razione dell'intelletto, anche nel sistema di Aristotele. Come adunque il
senso percepirà ciò che non ha ancora alcuna esistenza? perchè 1' universale
nou ha alcuna esistenza quando si prescinda dall'intelletto che gliela dà.
(a) Ho già notato che l'errore di Aristotele in tal fatto può forse consi
stere in una improprietà di parlare, peccando egli di quella colpa di che
rampogna si volontieri Platone : cioè che alla parola giudicare attribuisca
un senso più largo che non le si conviene; ovvero che l'adoperi in due si
gnificati essenzialmente distinti fra loro, cioè i.°nel significato di produrre
un istinto nell'animale di portarsi verso certe cose che per questo vengono
denominate buone, ovvero di allontanarsi da altre che per questo sono poi
nominate male: il che forma una specie di discernimento di fatto fra il
bene e il nude, discernimento che facilmente si può scambiare e confon
ARTICOLO XI. 3 17
ASSCUMTA* DELLA DOTTRINA ESPOSTA DA TCMISTIO.
Ancora un poco fissiamo l'attenzione in questa pro
posizione: « il senso percepisce il comune, ma unito co'
particolari » .

Aere col giudizio della ragione; 2 ° nel significato di quella congiunzione


che fi T intelletto nostro di un predicato (negativo o positivo), cioè di un
universale, a qualche soggetto individuale o certo meno generale di quel
predato
Sofc guest' ultima operazione è veramente intellettuale, questa congiun-
tua di od predicato e di un soggetto ; quella prima inclinazione verso
arie cose, o avversione da certe altre, può essere scompagnata da qua-
haqvt giudizio , ed è l'effetto dell'istinto il quale si trova ne' bruti, e
«irat benissimo eccitato dal senso. Per altro le cose che vengono cercale
itKisùnlo, o da questo fuggite, non sono già buone o cattive per sè, an-
Seriormente e indipendentemente da quell'istinto: ma unicamente in consc-
fiienza di quello, sono, o per dir meglio si dicono buone, colla quale de
nominazione uon si viene a significar altro se non che quell'istinto le
cerca; sono, o per dir meglio si dicono male , significando che quell' istinto
fe %ge: il che viene a dire una bontà o malvagità relativa alla voglia di
p&> istinto. Mediante questa osservazione, non sarà diffìcile sentire la
àiScTema infinita fra il discernimento istintivo, e il giudizio: il discerni-
<*&tto istintivo è la cagione per la quale si dà il titolo di buone o di cai-
lite aie cose, sicché si può dire che la bontà di quelle cose è uu effetto
dik:: i giudizio all' incontro non precede alla bontà delle cose, ma le
«sa?jue; egli non è cagione della bontà delle cose che egli giudica , ma la
isoli di queste è la cagione del giudizio che le dichiara buone, sicché il
|tefcù> è un effetto egli della bontà delle cose: iu somma il giudizio av-
iiea« con ragione; l'istinto opera ciecamente e senza veder ragione: il
giudizio dee uniformarsi alle cose quali sono, buone o cattive; l'istinto
aon si uniforma alle cose, ma bensì le cose all' istinto, e questa accon
cezza accidentale è ciò che si chiama la loro boutà. Ma noi , quando diciamo
lacne alle cose dall'istinto cercate, allora formiamo un giudizio; allora noi
uniamo al discernimento istintivo un giudizio della ragiona ed essendo ra
gionevoli , non possiamo a meno di far sempre o quasi sempre cosi : però
atti' uomo queste due cose sono unite: e indi la difficoltà di spartirle e se
pararle; e la facilità di errare, facendo di esse una sola cosa. Propriamente
parlando adunque, fino che consideriamo il solo istinto, non ci sono cose
né buone nè cattive: c'è un'inclinazione verso certe cose, un'avversione da
altre: questo fatto non ha una ragione in sè stesso: stando la sua ragione
nella niente divina che lo ha così stabilito.
Ha ciò che io proposi come una conghiettura circa 1' abuso della parola
giudicare che faceva Aristotele, si renderà certo e dimostrato confrontando
altri passi di questo filosofo. Egli stabilisce, a ragione d'esempio, nel
Lib. Ili de Ànima (Lect XI, XII), che l' affermare e il negare è proprio
del solo intelletto: egli dice che il senso, nell' apprendere l'oggetto sensi
bile, lo giudica al suo modo; ma quando lo Sente dilettevole o doloroso,
allora lo cerca o lo fugge come se l'affermasse buono o cattivo : non dice
che {'affermi tale, poiché ciò (così s. Tommaso nel suo commento) è pro
prio del solo intelletto; ma fa una operazione che rassomiglia, ne' suoi ef
fetti della 'se^ue/a e della fuga, all' affermazione intellettuale: Jaccrc affìr-
Rosmisi, Orig. delle Idee, Voi. I. 28
*j8
Ella è questa una contraddizione, o pure nulla significa.
Il comune ne'particolari ! che maniera di parlare è co-
lesta? non equivale ella a quest'altra: il comune in ciò

mationem et negationem est proprium inlelleclus / —■ sed sensus facit aliquid


simile link , quando apprchendil aliquid ut dclcctabile et triste. Poco più
oltre, sebbene avesse già prima attribuito il giudicare anche alla fantasia
(de Anima L. Ili, Lect. V, VI), tuttavia poi le toglie l'affermare ed il
negare , e perciò pure il conoscere il vero , il che è solo proprio dell' intel
letto; nam cognoscere verum et falsum est solius intellectus, come spiega
il dottore d'Aquino. Conviene dire adunque che Aristotele immaginasse
una specie di giudicare che non affermasse e che non negasse: questo giu
dicare non era un dare 1' assenso o negarlo: si formava questa specie di giu
dizio , senza che con esso si portasse sentenza intorno al vero ed al falso:
in somma egli riteneva la parola giudizio , ma le toglieva poi ciò che é es
senziale al concetto , che quella parola esprime nel senso comune degli uo
mini. Di vero io non credo conforme al significalo comune della parola
l'adoperare il vocabolo giudicare per indicare una operazione in cui non si
faccia nessuna affermazione o negazione, nè abbia per oggetto il vero ed
il falso: questa operazione io la chiamerò, col rimanente del genere umano,
per quanto mi sembra, o meramente sentire, o sofTerire una mozione istin
tiva, e nulla più: questa sensazione e questa mozione porterà benissimo l'a
nimale bruto agli stessi fatti, a' quali il giudizio della ragione porta l' uomo;
senza però che l'uguaglianza degli effetti valga questa volta a provare l'u
guaglianza della causa prossima che li ha prodotti : e riserbero la parola
giudizio per indicar questa causa nuli' uomo ; la parola senso od istinto per
significare questa causa nell'animale.
Che più? Aristotele stesso in qualche altro luogo, dove torna all'uso co
mune di parlare, prende per la cosa stessa il giudicare, e il dire vera o
falsa una cosa (De Anima L. Ili, Lect. V): sicché egli sembra che cosi
intendesse la parola giudicare, quando l'adoperava in senso proprio e
l'attribuiva all'intelletto; all'incontro, quando l'attribuiva al senso od
alla fantasia, egli intendeva adoperarla, come è ragion di credere, in
senso traslato o metaforico.
Checché sia di ciò, una si fatta incertezza di parlare fu cagione, quanto
a me ne pare, che il filosofo di cui parliamo non riuscisse a spiegare in un
modo perfetto e lucido la formazione delle idee.
Abusando egli della parola giudicare, tolse dall'occhio de' suoi discepoli
e dal suo proprio la difficoltà che si dovea vincere nella questione. Es
sendo già noi avvezzi ad attribuire alla parola giudizio il significato di af
fermare e di negare di un soggetto un predicato, succede che, sentendo
attribuita al senso quella parola, ci scordiamo di negare al medesimo una
simile operazione ; e basta che noi concepiamo il senso come una facoltà di
giudicare, acciocché poscia non ci sia più difficile lo spiegare gli alt' l'e''
l'intelletto: ci si assicura che la difficoltà di che si parla, ò tutta nell'in
telletto; dunque diciamo a noi stessi, non istà nel senso, dunque non istà
uri giudicare, mentre il senso giudica : ecco la difficoltà svanita dagli ocelli.
All'incontro la difficoltà è nell'intelletto, perché nell'intelletto è il g'«*
dicare t se trasportate il giudicare al senso, la difficoltà non c'è più: 1 j0-
telletto giudicherà senza difficoltà, perchè riceve i giudizj dal senso belli e
formati: egli non farà forse che perfezionarli, che dar loro una forma ,
che renderli più espliciti e manifesti, e questo sarà il suo affermare ed il
suo negare, a lui solo esclusivamente riserbato: la cognizione del vero e del
falso in tal caso comincerà qui per convenzione; ppn è questo uu vince»
la questione, ma uno sfuggirla, un occultarla.
mg
che non è comune? Io dico: racchiuso ne1 singolari può
tgli starsi il comune? Comune, non altro significa che
3 non essere particolarizzato, il non essere limitato ad
un individuo. Se mi si facessero passare sotto i sensi
diecimila individui 1' un dopo l'altro, certo io avrei l'im
pressione di tanti oggetti particolari; ma avrei io per
cepito ancora nulla di comune? Nulla affatto. Brevemente,
il comune non è che un rapporto di più individui colla
mìa mente: io li confronto insieme dopo averli percepiti,
e noto ciò che hanno di simile, ciò che hanno di dis
simile, sempre in quanto sono in me percepiti} il che è
(punto di re , noto ciò che nella percezione di più indi-
nini costituisce in me una stessa idea, e ciò che in me
costituisce idee diverse. Ciò che hanno di simile, que
sto rapporto di similitudine, si chiama la loro natura
comune. Ora un rapporto di più individui colle mie idee
non si trova menomamente in ciascuno di essi conside
rato in sè, e perciò fuori della mia mente: è neces
sario di vederli in una sola concezione della mente min:
notici hanno qui che fare i sensi, i quali percepiscono
solo gV individui singolarmente, cioè uno alla volta, in
separato dagli altri (i)t ci vuole insomma una interior

(i) La dottrina aristotelica era questa. Nell'interno dell'uomo v'ha qual-


du cosa che giudica delle sensazioni, e questo si chiama senso comune ,
perchè , dice , non può giudicarne se non sente egli solo ciò che sentono
i gli altri sensi. Ma anche il senso particolare seute e giudica : questo è
in una sfera più ristretta , cioè giudica le varie cose sensibili che
tossono essere percepite ; e quindi la sentenza composta di parole
indeterminate, sensus proprius participat aliquid de viriate sensus
Come poi questa partecipazione di virtù seguisse, era un mi-
Ma era parimente un non piccolo intrico , nel sistema di Aristotele , lo
spiegare come il senso io „
comune , unico com' è , ^potesse aver più potenze, ed
«vesie più operazioni essenzialmente diverse. Per ispiegar questo con delle
ragioni lucide e solide, ci volea pur molto I ed air incontro era facile uscirne
con qualche similitudine, e pensò il filosofo nostro d'appigliarsi appunto
a questa seconda via molto più piana della prima. A tal uopo trovò egli
acconcia la similitudine del centro e de' raggi che terminano tutti nel cen
tro. Il centro nel circolo è unico e semplicissimo, e tuttavia è il termine di
Bolli raggi. Così il senso comune è nnico in sè stesso , ma riceve le
sensazioni de' diversi sensi : in quanto riceve molte immutazioni , egli
sente; ed in quanto egli è uno, egli giudica ( De Ànima L. Ili, Lect.
m, IV ). Di questa soluzione sembra che i filosofi si contentassero per
mollo tempo. Ed egli non sarebbe stato tuttavia difficile 1' osservare
qualche non leggier differenza fra il centro del circolo ed il senso co
mune ; perciocché il centro non opera nulla ; e sebbene egli sia il ter-
mine di molti raggi, egli non li giudica, non agisce sopra loro; final'
220
facoltà, totalmente diversa da1 cinque sensi corporei, la
quale , facendo il paragone degl' individui , o più tosto
delle concezioni di questi , assegni qualche cosa di co

niente non è centro per sè stesso, ma solo perchè noi colla nostra mente
riferiamo a quel punto i raggi; egli, per sè, non è che una cosa semplice,
un punto; tulle le relazioni delle linee le acquista egli per opera del no
stro stesso pensiero , non per qualche suo fatto.
Resta dunque a spiegarsi anche nel concetto del circolo , del centro e
de' raggi, come il pensiero sia atto a dare origine a questa moltiplicilà di
relazioni in cosa unica com'è il centro. Sicché la similitudine stessa del
centro, che si assume per ispiegare coli' analogia il pensiero degli univer
sali o sia delle relazioni delle cose, non è più chiara nè più spiegata del
pensiero stesso, perocché non è che un caso particolare del pensiero:
spiegato che sia come noi percepiamo i rapporti e gli universali, è spie
gato come il centro sia il termine di più linee; questo all' incontro non é
spiegabile senza supporre già data quella prima spiegazione. L' esempio
adunque è illusorio: non rischiara la difficoltà che apparentemente: non
giova nulla a spiegare siccome una potenza unica possa e sentire gli og
getti di più sensi, e giudicarli, cioè paragonarli insieme, notando in essi ciò
che v' ha di simile e ciò che v* ha di dissimile, giudicarli anche piacevoli
o dispiacevoli. Tutte queste operazioni sono reali; non sono mere relazioni
che aggiungiamo noi al senso comune col nostro intelletto, come avviene
del centro , quando noi Io consideriamo siccome il termine di molle linee.
E quand' anche fosse facile a intendere come una cosa sola possa aver
molle relazioni con altre cose; riman tuttavia difficile a concepirsi come
una potenza possa aver molti oggetti , e formar molte operazioni essenzial
mente distinte, rimanendo una potenza unica; se pure è vero che potenza
intendiamo ima forza particolare dell'anima, specificata e distinta dall'unita
dell' oggetto suo, o della sua operazione. Di vero il dire che il se/m'/* e il
giudicare sono due operazioni essenzialmente diverse, come Aristotele me
desimo pur coirviene, non è egli il medesimo che il dire che esse appar
tengono a dne diverse potenze? dall'atto del sentire non si denomina li
potenza di sentire, come dall' atto del giudicare non riceve il suo nome la
potenza di giudicare ? che se il sentire e il giudicare sono essenzialmente
la slessa cosa., perchè adunque attribuir al senso il giudizio? questa frase
non sarebbe, come dicon gl'inglesi, un non-senso? sarebbe come un dire:
attribuire al senso il senso: la parola giudizio in tal caso dovrehbesi poter
abolire dall'umano idioma, senza per questo accorgersi punto d'una man
canza , sostituendo la parola senso o sensazione : il che è evidentemente
impossibile. Ma vogliamo noi vedere da quale argomento Aristotele venia
condotto a dare ai senso stesso la facoltà di giudicare ? - Noi » ( ecco
com'egli ragiona) « noi non solo sentiamo, ma ben anco sentiamo df
«* sentire ; e sentendo di sentire , giudichiamo ciò che sentiamo. Ori
« noi o sentiamo di sentire con quello stesso senso onde sentiamo , o
« con un altro senso. Se con un altro senso , allora io vi ripeto 1*
« stessa interrogazione: com' è che noi sentiamo di sentire ciò che sen-
« tiamo per questo setiso ? forse con un terzo senso? in tal caso wit
n procederemmo all' infinito colla serie di questi sensi , perche si dovrebbe
•< sempre rinnovare lo stesso discorso. Forz' è dunque dire che noi
" sentiamo di sentire con quello stesso senso onde sentiamo: e perno
- con questo stesso giudichiamo » ( De Anima Lib. Ili , Lect. H )• Que"
sta argomentazione è ingegnosa, a dir vero; ma per non toccare che un
solo de' suoi difetti, ella si fonda tutta sopra un fclso supposto , cioè che
mane ad essi egualmente.' cioè trovi un' idea che a più
di essi convenga , che valga a noi perchè con essa sola
a molti di quelli pensar possiamo; solo dopo questa ope
razione comincia la parola comune ad avere un valore ,
e ad essere adoprata con proprietà. Il dire che i sensi
percepiscono il comune, è un supporre fatta quest'ope-
Taxione dell' intelletto , colla quale l' uomo trova nelle
cose che hanno acquistato un essere mentale, ciò che è
comune.- ed un supporre ancora , che questa cosa tro
vala da] l'intelletto e nell'intelletto sia l'oggetto de' sensi.
Così si viene nell'assurdo singolare di ammettere che
oggetto de' sensi sia una produzione dell'intelletto : e che
boa più il senso somministri all'intelletto la materia del

k1 senso sia necessariamente racchiuso il senso del senso. Che cosa vuol
(fir questa espressione , sentire di sentire? ella non può voler dir nulla,
se non significa una riflessione dell' anima sopra la propria sensazione.
Qorado 1' anima si rivolge sopra sè stessa per conoscere il proprio stato,
e trota d' avere una sensazione, allora si suol dire che sente di sentire.
Ma questa riflessione dell' attenzione dell' anima sopra sè stessa , è pro-
prawnte il pensiero : ella dunque , propriamente parlando , pensa di sen-
tòt , e non sente di sentire : ella pensa alla sua sensazione : la sensazione
•» tal caso è 1' oggetto di questo pensiero; all' incontro il pensiero stesso
«Patto: non si confonda adunque 1' oggetto dell'alto , coli' alto stesso :
i> Jessazionc che è Y oggetto, è esterna e passiva : il pensiero onde si ri-
Stite a questa sensazione, è interno, attivo e volontario. Quando adunque
Bei diciamo che sentiamo di sentire, usiamola parola sentiamo in senso
(ristato , in luego di pensiamo, e usiamo la parola sentire in senso proprio,
cioè per esprimere propriamente la sensazione. II puro senso, non sente
di sentire ; ma sente e nulla più ; la sensazione nasce contemporanea al
l' immutazione di un organo corporale, e non ha riflessione sopra di sè :
poiché se un organo sensibile toccato da un oggetto , viene ritoccato
dal medesimo o da un altro oggetto , non nasce in esso niente di si
mile alla riflessione , ma nasce solo una nuova impressione e sensa
zione simile alla prima , e distinta intieramente nell' esser suo dalla
prima. Ma l'uomo, com' è fornito anche della facoltà di pensare, non può
quasi mai avere una sensazione senza che abbia contemporaneamente il pen
siero della medesima , o almeno non se ne accorga , noi dica a sè stesso :
indi avviene che, ogni qualvolta noi ci accorgiamo delle sensazioni, non
ci sia mai in noi il solo sentire, ma sempre anche il pensare di sentire,
che per traslato si può dire (sebbene equivocamente) sentire di sentire.
Oia egli è ben facire, che noi attribuiamo agli esseri dotati del solo senso,
quello che esperimentiamo in noi stessi : e questo mi pare che sia avvenuto
nell' argomentare di Aristotele. Avendo egli osservato che 1' uomo , ogni
qual volta s'accorge di sentire, pensa altresì cioè riflette di sentire; sup
pose che quella fosse proprietà essenziale del senso , il riflettersi sopra sè
stesso : ed in tal modo fu condotto a dare al senso una rotai riflessione
sopra sè stesso , la quale è indivisibile dal giudizio; perchè eoi riflettere
cb io sento, non faccio che un giudizio sopra me stesso , o sia pronunzio
e dico a me slesso : « provo una sensazione » ; il ehe è fare un giudizio >
ossia è pensare.
223
pensare, ma pur l'intelletto al senso ! In tal modo il mal
uso che fa Aristotele della parola comune, lo sbalte da
un estremo nel suo contrario, recandolo a dover assen*
tire tale proposizione che è in opposizion diretta col
principio fondamentale del suo sistema , onde moveva
tutto il suo ragionamento , cioè che il senso sommini
strasse la materia all' intelletto.

ARTICOLO XII.
CONTRADDIZIONE IN LUE SENTENZE SI ARISTOTELE.
Il comune, astratto da ciò che è particolare, dice Ari
stotele stesso, non è che l'oggetto dell'intelletto.
Esaminiamo ancor meglio che coerenza s'abbia questa
proposizione colla precedente dottrina del filosofo nostro.
Il comune non può esistere prima che sia astratto:
è l'astrazione che dà a lui l'esistenza (non supponen
dolo innato). Questa parola, comune, non significa che
ciò che è simile in più individui; e ciò che è simile in
più individui, è un astratto, cioè è diviso da ciò che
è dissimile, come una natura è divisa dall'altra , e mas
simamente dalla sua contraria.
Quando dunque Aristotele dice che il comune non è
che l'oggetto dell'intelletto; quando afferma che gli uni
versali non esistono che nell' anima ; quando scrive con
tro Platone: «l'animale universale o è nulla, o è poste
li riore all'animale individuale, ed egualmente si dica
« di ogni comune » (r); allora egli si accosta a sentire tutta
la difficoltà che si rinviene nello spiegare il modo, onde
ci formiamo gli universali ; ed egli si divide in tal modo
da sè medesimo. Il dire da una parte : l' oggetto dell'in
telletto sono gli universali in quanto sono universali, e
per dirlo in altre parole: l'oggetto dell'intelletto sono
i rapporti degli enti esistenti e possibili ; ed il dire dal
l'altra : gli universali in quanto sono universali non esi
stono nelle cose singolari, ma solo nella mente; è una
cosa medesima.
Ma se ciò è vero, e s'è vero che il senso percepisca
i singolari e non gli universali in quanto sono tali ; è
adunque vero che il senso non percepisce l'oggetto del-

(i) De Ànima Lib, I, cap. I.


aa3
l'intelletto, ma che l'oggetto del senso e quello dell'intel
letto sono oggetti totalmente differenti , quel del primo
essenzialmente singolare, quel del secondo essenzialmente
aniveraale. Ora se il singolare è l'opposto dell'universale ,•
se nel singolare, in quanto è tale, non può esservi nulla
di universale, perchè sono nozioni che essenzialmente si
escludono; come adunque può l'intelletto ricever la ma
teria delle sue operazioni dal senso, mentre tutto ciò che
può dare il senso è d'una natura essenzialmente diversa
e contraria a ciò , che può percepir l' intelletto ?
La difficoltà stava tutta qui ; ed è la medesima , chi
ben la considera, che quella di che continuamente ra
gioniamo , la quale si presenta in tal modo sotto un
aaoro aspetto (i).
ARTICOLO XIII.
«ORBASI CHE «LI SCOLASTICI SENTIRONO LA DIFFICOLTA* ACCENNATA,
SA USA DISTINZIONE CHE INVENTARONO PER ISCDERMIRSENE :
ESAME DELLA MEDESIMA.

Gli Scolastici , accorgendosi di qualche imbarazzo in


questa parte della filosofia aristotelica , sforzaronsi di

U) Dico che è la medesima difficoltà di cui continuamente parliamo


Poiché la difficoltà proposta di sopra era questa : « Come può 1' uomo co<
a giudicare, senza un' idea o sia un universale , mentre i sensi
iva gli somministrano che pure sensazioni particolari»? La difficoltà che
osi ci si presenta all' incontro è questa : - L' intelletto non ha per oggetto
che delle idee, cioè degli universali. Ma i sensi non gli somministrano che
sensazioni, le quali sono puramente particolari. Le formerà egli a se stesso
queste idee, cioè quelle percezioni particolari le renderà egli universali ?
la Lai caso egli ha bisogno di avere qualche universale in sè: altrimenti
non potrà mai aggiungere alle percezioni de' sensi quella universalità
che loro manca interamente » . Dico che questi non sono che due modi
di presentare la stessa difficoltà. Nel primo modo, la difficoltà consiste
o spiegare come l'intelletto possa giudicare senza qualche idea innata;
secondo modo, la difficoltà consiste nello spiegare come 1' intelletto
possa cominciare a percepire qualche verità, senza aver seco un universale ,
o un' idea. Che la difficoltà sia la medesima , s' intenderà chiaramente ove
si abbia bene osservato, che il percepire dell' intelletto è lo stesso che il
giudicare , trattandosi di verità determinate , come sarebbe 1' esistenza de'
corpi. Ciò che l' intendimento percepisce è un oggetto da lui giudicato : in
quanto quest' oggetto è giudicato , in tanto è oggetto dell' intendimento :
questa potenza fa un giudizio, e in tal modo ciò che non era suo oggetto,
lo si rende tale. Io non posso fermarmi a dimostrare come questo giudizio
sia talora più e talora meno espresso, e talora più talora meno avvertito,
giacché questo mi condurrebbe troppo a lungo : ma basta per lo scopo
presente , che ben si comprenda come è giudicando , che Y intendimento
percepisce delle nuove verità.
334
presentare nell1 aspetto più favorevole il pensiero del
greco filosofo.
A tal fine essi trassero in mezzo questa sottile distin
zione: « La parola universale si prende in due sensi,
• cioè o per significare la stessa natura comune in quanto
« è soggetta all'intenzione dell'universalità, o per signi-
« ficare l'universale in sè stesso » (i). Diche avveniva,

(i) Per altro nelle parole di s. Tommaso la difficoltà si preseuta in tutta


la sua forza. « La natura , egli dice, a cui avviene 1' intenzione di uni-
« versalità, poniamo la natura dell' uomo, ha un essere duplice, cioè uno
>• materiale secondo ciò che essa è nella materia naturale, ed un altro im-
« materiale secondo ciò eh' essa è nell' intelletto. Ora in quanto, prose-
or gue egli , la detta natura ha 1' essere nella naturai materia , non le può
k avvenire l' intenzione di universalità , perchè dalla materia è individuala.
» L' intenzione adunque di universalità le avviene solo in quanto ella si
« astrae dalla materia individuale. Ma (- egli osserva ) è impossibile che
« dalla materia individuale si astragga realmente , come voleano i Platc-
- nici. Poiché non v* ha 1' uomo naturale , cioè reale , se nou in queste
k carni e in quest'ossa. — Egli rimane dunque che la natura umana ,
m fuori dai principj individuanti, non ha alcuna esistenza se non che nel
« puro intelletto » (De Anima L. II , Lect. XII ). Questo passo viene
a dire così : « Voi altri dite, che quando l' intelletto percepisce qualche og
getto particolare, egli non fa che percepire la stessa cosa che percepivano
i sensi; solamente che egli divide nell' oggetto particolare ciò che v' ha di
comune e ciò che v' ha di proprio , e , mettendo questo da parte , cioè
astraendolo, percepisce quello solamente, cioè il comune. Or bene; questa
maniera di spiegare come l'oggetto del, senso diventi oggetto dell' intelletto,
non avrebbe alcuua difficoltà, se questa divisione, che supponete faccia 1 in
telletto, fosse una divisione reale ; se, in un qualche oggetto, si potesse di
videre il comune ed il proprio, come «i taglia una torta od un pasticcio
per mezzo, e la metà gettatasi d'un canto, e l'altra la si piglia a farne chec
ché ne piace. Ma la divisione, che fa l'intelletto del proprio e del comune,
bassi a sapere, che non è punto una divisione reale , ma una divisione cosi
delta in senso metaforico. L'intelletto non astrae già il proprio dall'oggetto
lasciandovi solo il comune , a quel modo che si estrae la feccia dal viua
lasciandovi il puro vino , o d'altra simile vera astrazione e divisione : nulla
di questo. L'oggetto particolare, quando viene percepito dall'intelletto , non
soffre alcuna alterazione »... . ',
Chi dunque crede d'avere spiegato come l'intelletto percepisca ciò che
il seuso gli somministra, col dire, semplicemente ch'egli astrae da' partico
lari il generale; questi si contenta, per ispiegazione , d' una analogia o si
militudine; e anche questa tale, che assai poco quadra all'uopo; ma non
ha veramente presentalo nessuna, vera spiegazione delle percezioni intellet
tuali. La parola adunque astrazione , è un traslato che può contentare i
superficiali : ma non contiene in sè stessa nuova luce atta a rischiarare le
operazioni dell'inteUftUo. Quando si vpglia abbandonare quest' analogia del
l'astrarre e del dividere, che non si può applicare propriamente all'oggetto
particolare, perchè da, lui non si astrae nulla, non si divide nulla; che ci
resta a dire sulla maniera onde l'intelletto percepisce le cose ? Ciò che noi
possiamo avere di cerio supra ciò , sono primieramente i punti seguenti:
i." che l'oggetto reale e particolare nou soffre alcuna alterazione né divi
3 25
che Vuniversale nel primo senso, cioè la natura stessa non
già universale attualmente, ma che va soggetta all'in
tenzione d'universalità, cioè che è atta d' essere consi
derata come comune, fosse l'oggetto del senso: all'in
contro V universale nel secondo senso, in quanto è tale
attualmente, non fosse che l'oggetto dell'intelletto: e così
egli sembrava che si potesse spiegar il passaggio dal
senso all'intelletto, cioè dimostrare siccome avvenia , chè
Y ometto del senso si rendesse oggetto all' intelletto ;
condussi a eh è sebbene l'intelletto non percepiva che V u-
niversale , tuttavia parea vedersi un modo onde il senso
medesimo glielo somministrasse, potendosi dire, mediante
quella distinzione, che percepiva l'universale anche il
senso, purché però si pigliasse questa parola, universale,
io on significato alquanto diverso da quello nel quale
all'intelletto s'attribuiva, cioè universale in potenza, e
non in atto: condizione, a dir vero, che toglie tutto l'ef
fetto e l'utilità sperata da quella distinzione.
E veramente, esaminandola con accuratezza, ripullulano
di continuo le stesse difficoltà.
Primieramente soffermiamoci a questa espressione :
■ in un modo si dice universale la stessa natura co-

sooe di aorte, quando viene percepito dall'intelletto: che dunque la parola


estrazione , noti aggiunge verun nuovo lume alla spiegazione degli atti del
l'intelletto, qua ud' ella s' intende per una operazione che nell'oggetto parti
colare divide il comune e lo scevera dal proprio ; i.° che un oggetto , in
quanto è Dell'intelletto, ha una esistenza totalmente diversa, e non solo in
p-rte, da quella che ha nella sua propria natura; 5." che quest'esistenza che
ha un oggetto nell' intelletto, è universale, mentre nella sua propria natura
ha un* esistenza particolare ; 4 0 perciò, che un oggetto qualunque, in quanto
é universale, non esiste che nell'intelletto: e quindi che l'oggetto dell'in
telletto, cioè questa universalità è interamente diversa e non ha che fare
cogli oggetti del senso , che sono le particolarità. In tal modo si sente in
tutta la sua forza la difficoltà di spiegare come l' intelletto possa ricevere
i suoi oggetti dal senso, al modo che ciò intende Locke od il Condillac.
E s. Tommaso vide la differenza fra gli oggetti del senso c quelli dell' in
telletto a tale, che confutando l'errore di quelli che ammettevano fuori del
l'uomo l' intelletto agente, e dicevano che questo comunicava coli' uomo per
mezzo de' fantasmi sensibili; risponde che ciò è impossibile; perchè l'vg-
getlo dell'intelletto nou è mica una parte di questi fantasmi, come potrebbe
indicare la parola astrazione , cioè qualche parte da essi astratta , ma egli
è un oggetto totalmente dai fantasmi immune, e totalmente perciò da essi
inverso : onde non si dà fra Videa di questo intelletto ed il fantasma sen
sibile alcuna vera comunicazione: dal che si vede come 1' acutezza del santo
Dottore non si lasciò illudere , come gli Arabi , dal senso metaforico della
parola astrazione ( Vcd. il commento di s. Tommaso sopra il Lib. de Anima,
Lea. VII, x.)
RoMiiu, Orig. delle Idee, Voi. I. 29
326
« mune, in quanto va soggetta all'intenzione di univer-
« salita ».
Io domando: questa natura si può dir ella comune,
anche prescindendo dal rispetto di universalità a cui
soggiace? Niuno il dirà; poiché se prescindiamo dal ri'
spetto di universalità, ella non ci si presenta più col
predicato di comune, ma ci rimane una natura singo
iare: è quando noi nel nostro pensiero confrontiamo
questa natura singolare con altre nature pure singolari ,
ma sempre nel pensiero nostro esistenti , e non in sè
stesse, che troviamo il rapporto eh1 ella ha di simigliali-
za: e volendo significare che noi la guardiamo sotto
questo rispetto, le aggiungiamo il predicato di comune;
e questa natura, colf aggiunta di questo rispetto in cui
la percepiamo , è Yuniversale.
Nessuna natura adunque si può chiamar comune, se
non dopo che 1' intelletto fece sopra lei questa opera
zione, cioè che scoperse questa relazione che passa fra
essa concepita ed altre nature possibili (i),la quale re
lazione non è finalmente che in un concetto dell' intel
letto: giacché la relazione non istà né nell'uno né nel
l'altro degli oggetti singolari fra' quali passa la relazio
ne, ma solo nella loro unione e confronto ; unione che
non si avvera altrove, ma unicamente nell'intelletto,
dove le due o più cose trovano una specie comune.
Se dunque una natura resta sempre singolare , cioè
resta tale quale ella è in sè stessa (3) prima che venga
dall'intelletto considerata e percepita; egli sarebbe un'im
proprietà di parlare il chiamarla comune od universale,
fino che la si considera indipendentemente dal rapporto
ch'ella ha coli' intelletto. Quando adunque noi ci pro
poniamo di prescindere al lutto dall'intelletto, e non
vogliamo considerare le cose esteriori che unicamente in
relazione col senso , egli è impossibile che noi le cliia-

(t) Dico /tossibili , perchè noi non potremmo mai universalizzare un og


getto paragonandolo a degli altri oggetti sussistenti, come suppongono gra
tuitamente gì' ideologi moderni , ma è necessario che lo confrontiamo ad
oggetti possibili cioè pensabili , o almeno ad oggetti pensati dalla mente. 1>>
possibilità è il principio di universalizzazione, come vedremo, ed esso non
è che nell' intelletto.
(a) In molti luoghi m'è forza di adoperare la maniera di parlare più ma
ta, sebbene men rigorosa; perchè non bo potuto ancora presentare quelle
idee che valgano a giustificare la maniera che io giudico più esatta e più vera.
»27
miamo universali : mentre questo predicato viene loro
posteriormente, cioè solo dal momento in cui noi le sup
poniamo concepite ancora dall'intelletto. Ma da questo
noi dobbiam prescindere intieramente , quando ci pro
poniamo di esaminare le forze del solo senso : sino che
ci troviamo in questo proponimento , dobbiamo consi
derare le cose esterne senza aggiunger loro nulla di ciò
che l'intelletto ci aggiunge, percependole: e s'egli è vero,
come accorda lo stesso Aristotele , che l' intenzione dì
universalità l'aggiunge loro l'intelletto; forz1 è che noi
prescindiamo al tutto da questo rispetto , il quale si
esprime coli' aggiungere alla natura il predicato di co
mune o di universale ; di che ne viene , che noi non
riamo punto autorizzati a dire che « il senso percepisce
la natura* comune , od universale ».
Che cosa vorrebbe mai dire, « il senso percepisce la
natura comune? »
Vorrebbe dire: « il senso percepisce una natura sin-
golare, la quale di poi, quando viene percepita dall'in
telletto, sotto un certo rispetto acquista il predicato di
comune, predicato che le si dà appunto per esprimere
questo rispetto sotto cui l'intelletto la percepisce ».
Se dunque il predicato comune non esprime che ciò
che aggiunge 1' intelletto alla natura da lui percepita ;
egli è facile di vedere che la distinzione .sopraccennata
non reca alcun servigio all'uopo di spiegare in che modo
1 oggetto del senso possa divenire anche oggetto dell' in
telletto : giacché ciò , a cui quella distinzione intendeva,
era di mostrare, che anche l'oggetto del senso si potea
in certo modo chiamare universale come quello dell'in-
telletto : e che quindi non dovea riuscire strano se que
sto potesse ricevere gli oggetti suoi dal senso , sebbene
egli non fosse atto, che alla percezione degli universali.
Mediante l'osservazione da noi fatta all'incontro appa
risce, che se si può dire in qualche modo universale
l'oggetto del senso, ciò non nasce se non perchè noi
consideriamo quell'oggetto in relazione coli' atto futuro
dell'intelletto: ma che prescindendo da quest'atto fu»
loro, e volendo denominare l' oggetto solo come sta ri
spetto al senso, noi non possiamo dirlo che singolare ,
nè egli ha cosa in sè , che al senso sia o possa esser
comune.
2u8
ARTICOLO XIV.
COME L'INTELLETTO AGENTE d'àBISTOTELE SPIECBI l'ORIGINE DEGLI UNTVEKSALI.
L'oggetto adunque del senso e dell'intelletto sono di
versi e contrarj essenzialmente: il primo non percepisce
che singolari; il secondo non percepisce die universali (1).
Volendo adunque supporre con Aristotele , che tutte
le idee dell'intelletto vengan da' sensi, resta sempre in
tatta la difficoltà proposta, che consiste a sapere come
il senso possa presentare all'intelletto l'oggetto a questo
adattato e proporzionato, mentre il senso non ha nulla
che sia comune coll'oggetto proporzionato all' intelletto.
Aristotele in tale impaccio stabilisce , come abbiam
veduto, un intelletto agente.- e lo costituisce mediatore

(i) Tn un passo , nel quale Aristotele spiega la formazione degli optili


dell' intelletto , nomina alla sfuggita un UNIVERSALE QUIESCENTE
NELL'ANIMA. Volendo mostrare come dai sensi procedano tutte ìe idee
dell'uomo , dopo aver egli detto che dalle sensazioni che lasciano impressi
de' vestigi, nasce la memoria, e da molte memorie raffrontate insieme, l'e-
sperimento , onde si deducono i principi o le idee; quasi poco contento di
questo esperimento , che non è che di cose particolari , aggiunge « dall' e-
u sperimento , o da ogni universale quiescente nell'anima n (Poster. L. I ,
c. ult. ). Egli ha bisogno qui il nostro filosofò , contro alle premesse , di
unire all'esperimento qualche altra cosa che sia nell'anima stessa. Qualun
que però sia la mente di Aristotele in questo passo alquanto oscuro, é certo
che s. Tommaso, spiegandolo, non poteva descrivere il fatto dell'origine
delle idee in una maniera più esatta e precisa. Il saper descrivere esatta
mente come questo fatto succede , è già un essere mollo innanzi nella via
della sua spiegazione. Egli osserva che l'esperimento non può essere clic
di cose particolari ; che bisogna adunque proceder oltre, e cavare i prin
cipi da un universale, ULTERIUS EX UNIVERSALI QUIESCENTE
IN ANIMA: che questo universale si fa per una operazione dell'anima,
mediante la quale questa riceve come fosse universale , ciò che realmente
è particolare : « quod scilicel accipitur ac si in omnibus ita sit , sicut est
experimentum in quibusdam n. Fuori dell'anima adunque non c' è nulla di
universale: è l'anima quella che aggiunge 1* universalita t ella riceve come
universale ciò che in sè è particolare. Ancora, questo oggetto universale-
-alo lo chiama Aristo^e UNUM PRMTER MULTA. E s. Tommaso ri
flette , che è il solo intelletto che aggiunge questa unità specifica ai molti
indivìdui: unità che non ha da far niente con essi, che è fuori di essi, PR&
TER MULTA. Quindi non è questo universale una parte di essi indivi
dui, una cosa da essi realmente cavata; ma -è indipendente da essi, è un'idea
in somma di tuli' altra natura da quella degl'individui sussistenti, che souo
sostanze particolari. Mi sembra adunque probabile, che quando s. Tom
maso diceva che niente è nell'intelletto che non venisse dal senso , egli non
escludesse però dall'intelletto quella forma di universalità , che questo ag
giunge alle cose , tr.-iendola di sè stesse , per la quale ha la virtù d essi '1-1
intelletto, e che vedremo a suo luogo che cosa ciò sia : e la cosa si fa efria
e lin anco evidente, ove si considera il lume, che dà s. Tommaso ali
tclletlo per potere esistere, del quale altrove ragioneremo.
fra il senso e Vintelletto : è incumbenza di lui il pren
dere i fantasmi sensibili e singolari , e trasformarli in
universali: 1* incumbenza gliela dà proprio Aristotele j e
tocca poi ad un tale intelletto di trovare il modo, on-
d'egli compia un' incumbenza così rilevante ed orrevole,
che dal filosofo gli viene affidata. Bene sta però , che
questa misteriosa potenza che si chiama intelletto , con
tinua in noi placidamente le sue funzioni indipenden
temente dalle speculazioni de* filosofi, e dalle leggi che
questi le impongono.
lo confesso che non piccolo sarebbe il mio imbarazzo,
ove a me si desse il carico d' ammaestrare l' intelletto
agate ad adempire la funzione , che il filosofo nostro
gi' ingiunge, sotto l'espressa condizione di non portar
seco nessuna idea di sorte , ma di doverle cavar tutte
da1 fantasmi sensibili.
Primieramente, questo intelletto dev' egli percepire i
fantasmi sensibili e singolari, o non dee percepirli?
Se non li percepisce , egli sembra che non possa ope
rare sopra i medesimi , nè perciò distinguere dentro a1
loto oggetti ciò che v1 ha di proprio e ciò che v' ha di
cornane.
Se li percepisce , è adunque una facoltà quest' intel
letto agente, che percepisce i singolari come il senso (i).

(1) Per superare questa difficoltà gli Scolastici sono ricorsi a dire , che
fmtelletto percepisce i particolari per quondam rejlexionem. Ma ognuno vede
die il pronome quidam , quaderni , quoddam, per quanto sia rispettabile,
■ —o adoperato come una tavola nel naufragio de' filosofi, tuttavia non
opre acquietare l'umano intelletto curioso d'investigare delle migliori
ai. La difficoltà, a mio parere, è quella stessa che più sopra ci cadde
di osservare relativamente al senso comune. La soluzione n' è la seguente :
Tanto il senso, come l'intelletto ha un soggetto solo : quell' lo stesso che è
modificato mediante le sensazioni, è quegli che pensa ad esse. Io non ho adun
que bisogno di supporre che l'intelletto, questa potenza particolare, perce-
le sensazioni, quasiché le sensazioni fossero percepite da due potenze:
quindi nou bo bisogno di supporre due specie di fantasmi l'uno simile al
l' altro; il che è un moltiplicar gli enti senza necessità, e mi condurrebbe
all'infinito. Ciò di ebe io bo bisogno, è di fissarmi colla mia attenzione
nel!' unità del su , nella quale uuilà si trovano tanto le sensazioni , come i
pensieri e le idee. Aristotele supponeva che altra fosse la sensazione nel-
t organo esterno, altra fosse la sensazione portata al centro comune: indi
due potenze , il senso proprio , ed il senso comune. Il vero si è , che nel-
l'orgino esterno diviso dall'anima non è alcuna sensazione; e che è sempre
/'anima quella che sente : non c' è dunque che un genere di sensazioni , e
non ci sono altri sensi corporei che i sensi organici. Ma giacché per tutti
questi sensi è sempre l'auima quella che unicamente sente ; quindi è l'aninw»
a3o
Ma se egli percepisce i singolari come il senso , in che
modo poi troverà in essi gli universali ?
Noi abbiam già osservato, che ne' singolari, . fino che
sono tali, nessuno universale si contiene: mentre questa
parola, universale, non esprime che una relazione che ha
una cosa con altre cose simili possibili ; e però è tale
oggetto che il solo intelletto percepisce , e del quale
il senso nulla ne sa. Ma se questo attributo di univer
sale l'aggiunge da sè l'intelletto, se non è punto negli
oggetti del senso, ove mai l'intelletto lo trova?
Platone supponeva, che l'avesse innato, cioè che l'in
telletto, allorché il senso percepiva gli oggetti singolari ,
aggiungesse a loro l'idea di essi universale.- ovvero, che
è il medesimo, supponeva che l'intelletto portasse con sè
gli esemplari delle cose, i possibili, secondo i quali esem
plari , come secondo norme distintive, classificasse gli og
getti de' sensi : e con ciò il nodo era sciolto , o cerio
almeno tagliato.
Avicenna ricorse ad un intelletto separato al tutto dal
l'uomo, dal quale l'uom ricevesse belle e formate queste
idee, sotto cui divider poi egli gli oggetti da' sensi per
cepiti: questo sistema pure soddisfaceva in qualche modo
alla difficoltà.
Ma Aristotele, inteso secondo i posteriori Scolastici,
nulla di questo (i) : egli pretende che l' intelletto agente
aggiunga l'idea di universalità agli oggetti singolari per
cepiti da' sensi (giacché è poi questo in ogni sistema
ciò che fa l'intelletto), senza che questi abbiano in sè
stessi quest'idea, e senza che la porti seco né pure l'in
telletto agente !

che diviene conscia contemporaneamente di più sensazioni ( sotto il quale


aspetto ella stessa si potrebbe chiamare un senso comune ) , ed è 1' anima
che riflette sulle medesime, e così pensa. L'intelletto, o intendimento *
la facoltà di riflettere o di pensare: egli non percepisce adunque le sensa
zioni particolari : ma è l' anima , nella quale v è l'intelletto , che le percepi
sce: non esse, mail giudizio che fa l'anima sopra di esse, è l' unico oggetio
dell' intelletto; e in quanto l'anima fa un tal giudizio, si dice dotata della
potenza della ragione.
(i) Nelle opere di Aristotele vi sono de' passi che il mostrano poco sod
disfatto del suo sistema e sul limitare di un altro : i quali noi non trascu
riamo di trar fuori, ove l'occasione ce ne venga, come il lettor vedrà an
che ncll' articolo seguente.
ARTÌCOLO XV.
ItlSTOTELX VCOLE CHI L'iNTELLETTO DIA LA^PROPRIA I ORMA A Ciò CHE PERCEPISCE:
QCESTO, RIMOSSA DALL'INTELLETTO OGNI IDEA INNATA, È IL FONDAMENTO DELLO
SCETTICISMO MODERNO.

Talora fa i maggiori sforzi per superare una difficoltà


che gli si presenta con forza, ma direi quasi più al sen
timento , che alla mente.
Egli vi dirà, a ragion d'esempio, «ciò che si riceve,
ricevesi a guisa d'un recipiente: quindi siccome quando
mettete una materia liquida in più vasi, ella vi riceve
la conformazione de' vasi diversi , così dee avvenire al
tresì di ciò che riceve il nostro senso ed il nostro spi
rito: sono come due vasi, che danno diversa forma al
l'oggetto stesso: la forma che gli concede il senso, è
che l'oggetto rimangasi singolare com'è: la forma che
gli dà l'intelletto, è quella della universalità , sotto cui
aolo, egli può percepire ».
Facil cosa è vedere in tale dottrina la traccia del
tantumo: secondo la medesima, converrebbe ammet
tere nello spirito umano una certa forma, alla quale gli
oggetti percepiti si conformassero.
Ora, o questa forma è il tipo della verità; e in tal
caso convien porre innato questo tipo , cioè la nozione,
/'essenza della verità: o non si ammette nulla di ciò
nello spirito; e in tal caso lo spirito, limitato e deter
minato corri1 è, darà alle cose percepite una forma pu
ramente soggettiva, ciò che costituisce tutto il fonda
mento su cui s' innalza il moderno scetticismo, e la filo
sofìa critica.
Ma egli non è difficile a vedere, che in questa se
conda supposizione tutto l'immenso lavoro della filosofia
critica non s'appoggerebbe che sopra l'analogia materiale
del recipiente.
Io bene intendo, come nel vaso possa essere introdotto
no liquore senz'aver prima quella forma, ch'egli va ri
cevendo a mano a mano che viene in esso infuso : ma
non intendo poi come avvenga, che i singolari possano
entrare nell'intelletto, ammesso il principio che l'inlel-
ktlo non percepisca che gli universali: e se vi entrano,
perchè poi debbano necessariamente esservi cangiati in
universali.
Se i singolari non entrano nell'intelletto, essi non
a3a
possono ricevere la configurazione ch'egli vorrà loro dare:
a quel modo che il liquore, se non entra nel vaso, non
può nel vaso figurarsi.
Se poi c' entrano: dunque non è più tale la natura
dell'intelletto , eh' egli non possa percepir nulla se non
sotto la forma di universale. Se l'intelletto ha necessa
riamente questa forma, egli è condizionato ad essa; ed
in tal caso, il singolare in esso è inconcepibile.
Nel vaso si distinguono i due istanti, cioè il liquore
preesistente all' infusione, ed il liquore già infuso: quindi
ancora si distingue il liquore dalla sua forma acciden
tale: quello può esistere senza di questa.
All'incontro la natura comune non ritiene più nulla
di singolare: è un oggetto totalmente diverso da quello
che ebbe percepito il senso: egli non esisteva per noi
prima che l'intelletto lo percepisse: ha cominciato ad
esistere coli' atto medesimo col quale 1' intelletto 1' ha
conosciuto.
D'altro lato, se V oggetto dell'intelletto avesse una
tal forma perchè il soggettivo intelletto gliela dà di iè
stesso , lo scetticismo , come dicevamo , sarebbe al tutto
inevitabile, e non vi avrebbe che verità soggettiva, cioè
a dire non-verità ( perocché la verità è essenzialmente
oggettiva ed assoluta): e tal è nel sistema di Kant;
il quale non è veramente altro che l'analogia aristote
lica del recipiente, sviluppata, e seguita ingegnosamente
nel suo sviluppo.
ARTICOLO XVI.
CONTRADDIZIONE ARISTOTELICA.

Per evitare questo scoglio dello scetticismo , cessa ta


lora Aristotele dal presentarci questo recipiente che al
tera tatto ciò che riceve e lo assetta a se stesso.
Egli vi dice: l' intelletto agente non altera nulla: egli
non fa che separare; egli divide ciò che è comune e
ciò che è proprio nelle cose. Fatta questa separazione.
V intelletto passivo percepisce solo ciò che in esse cose
comune; e il percepire solo una parte di una cosa, non
è un percepire la cosa in modo alterato e falso, ma e
un percepirla parzialmente, sebbene ad un tempo vera
cemente.
Quando Aristotele presenta cosi il suo pensiero, sem
a33
bra ch'egli s'immagini il suo intelletto agente siccome
fosse un prisma che per sua natura spezza la luce e
divide i colori in fra loro: come a dire, questa sepa
razione egli la fa non per volontà, ma per una colai
sua cieca necessità.
Paragonandolo ai sensi, si potrebbe dire, ch'egli se
para ciò che nelle cose v' ha di comune e di proprio ,
come l'occhio e l'orecchio separano la luce ed il suono
dalla stessa aria che a questi organi trasmette ciò che
i ciascuno di loro conviene. Questa maniera di spiegare
una tale separazione fra ciò che nelle cose v'ha di co
mune e ciò che v' ha di proprio, per quanto possa pa
rere apparentemente ingegnosa , non è meno vana e ili-
sussistente di tutte l'altre. »
Primieramente ella si appoggia sopra una base evi
dentemente falsa; cioè sulla supposizione che il proprio
ed il comune sieno due elementi che entrano a formare
una cosa sola , a quella guisa che i colori entrano a for
mare un solo fascicolo di luce, o a quella guisa che la
luce ed il suono nascono collo stesso mezzo dell' aria.
Soi jiV incontro abbiamo osservato, che il comune non
esiste nelle cose, prima che l'intelletto ve lo metta ;
•oq esprimendo quella parola che un'affezione, una vi-
sU intellettuale.
il dire adunque, che l'intelletto percepisce V univer
sale, o sia il comune, separando questo dal proprio, è
un supporre l' universale o il comune preesistente al
l'atto dell'intelletto. La questione all' incontro consiste
latta a sapere come V universale nasca; mentre egli non
si trova nella natura delle cose ; nelle quali non si rin
aie che individui.
Io vi domando come V universale abbia l'origine, e
VOI mi rispondete, col separarlo da ciò che v' è di pro
prio? Questo non è uno spiegarmi l'origine dell'univer
sale, ma è un suppormi ch'egli già esista: è un sup
porre quello che è in questione.

ARTICOLO XVII.
Bit SISTEMA ESPOSTO , l' INTELLETTO OFEREAEBBE CIECAMENTE :
assordita' 01 CIÒ.

Di poi, è egli possibile immaginare nell'intelletto un'o


perazione cieca , come le operazioni fisiche, per esempio
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi I. 3o
a34
)a digestione che fa lo stomaco, o la divisione de' co
lori operata dal prisma ?
Questo si può ben credere per un momento: cioè fino
che si parla in un modo astratto e generale, e non si
riflette alla natura propria dell' intelletto : ma non più
ove a questa si riflette e pensa.
L'intelletto è la facoltà conoscitiva: dunque i suoi
atti non possono esser ciechi: debbono essere essenzial
mente conoscenti : giacché parliamo appunto del fonte
della nostra luce e della nostra conoscenza.
E per venire via più presso alla cosa , io seguirò a
dimandare: V intelletto agente, quando fa questa suppo
sta separazione di ciò che v' ha di proprio e di ciò che
v'ha di comune nelle cose, conosce egli il proprio ed
il comune? Se conosce queste due cose, egli non opera
alla cieca, ma mette d'un canto il proprio, dall'altro
il comune , perchè ne vede la differenza. In tal caso poi
(1' unico caso in cui si possa una simile separazione fatta
dall'intelletto umano concepire) egli dee avere in sè
delle idee precedenti a questa separazione: delle idee
che lo dirigano in essa: giacché il pensare « questa na
tura è comune », è il medesimo che il pensare « pos
sono esistere infinite nature simili a questa » ; ed il
pensar ciò, suppone Videa, o sia la semplice apprensione
di quella natura; e l'idea, ossia la semplice apprensione
di quella natura, non è determinata nè a tempo, né a
luogo, nè ad altre circostanze individuali; è una mera
possibilità; in una parola, è un universale.
Per quanto io pensi adunque l' incumbenza che Ari
stotele diede al suo intelletto agente, di trasformar cioè
le sensazioni singolari in idee, colla condizione di non
avere in sè nulla d'innato , non riesco a trovarla in al»
cun modo possibile.

ARTICOLO XVIII.
CENNO IN ARISTOTELE DELLA VEBA BOTTRINA.

Ma Aristotele stesso, in qualche momento più felice,


e nel quale il pensier forse di combatter Platone men
l'occupava, sospettò o travide che la condizione da lui
posta al suo intelletto agente era dura ed ingiusta, e
che questo avrebbe seguitato le funzioni sue senza os
servarla, s' egli clementemente rilasciata non gliel' avesse.
a35
Perciò talor sembra inclinarsi a concedergli qualche
maniera d1 universale, al qual riferendo le percezioni de'
sensi , le renda con ciò universali; perciocché la loro
universalità, come più volte toccai, non consiste che
nella relazione loro con un universale, o sia con un' idea
dell' intelletto.
Ma egli tocca questo punto così alla sfuggevole, che
non so se noi ci possiamo formare della sua mente un
ben chiaro concetto : giacché egli si restringe ad aprire
il suo pensiero con due parole (i) : colle quali vien a
dire, che l'intelletto agente, cavando dalle cose partico-
liri percepite da' sensi gli universali , dee avere in sé
un atto, e quest'atto dee essere a lui sostanziale: giac
ché altrimenti non potrebbe egli fare 1' operazione in
dicala , cioè dalle sensazioni trar le idee delle cose.
Il qual concetto di Aristotele , insistendo sopra i so
liti suoi principj, sembra ridursi e terminarsi in questo
argomento; « Le sensazioni, o a dir meglio, i fantasmi
che le sensazioni lasciano nell'anima nostra, non sono,
cmm lali, gli oggetti proprj dell'intelletto, cioè non
khv idee se non in potenza, poiché essi sono par
ticolari, e l1 intelletto non può percepire che gli uni
versa/i. Bisogna dunque ammettere nell' anima una fa-
eollà C qualunque questa poi sia), che abbia virtù di
rendere questi fantasmi, ossia idee in potenza, idee in
ilio; e tale facoltà è ciò che si chiama intelletto agente.
Ma perchè una cosa riduca un'altra di potenza in alto,
insogna che sia in atto ella stessa; così un corpo, se
condo i principj d'Aristotele, non può muoverne un
altro , se egli stesso non è già in moto. Dunque que-
it' intelletto agente ( conchiude Aristotele ) dev' essere di
sua natura in atto, per ridurre allo stato d' attuale co
gnizione i fantasmi ricevuti dal senso » (2).
Aristotele si ferma qui; e non so, che spieghi più
chiaramente in nessun luogo ciò eh' egli intenda per
l1 atto di questo intelletto.
Si può tuttavia affermare, che coli' aver egli stabilita
«pesta proposizione, fece un passo più innanzi di Locke,
e de' moderni sensisti usciti dalla scuola di questo.

(1) Die dell'intelletto ngente , che est ACTU ENS.


(1) De Anima , Lib. Ili, Lcct. X.
23G
Perocché cotesti , ammessa una facoltà di pensare nel-
1' uomo , non toccano nè pure coli' estremo del lor pen
siero la ricerca spinosa della natura di questa potenza,
contentandosi di supporta tale, che basti al suo fine.
Aristotele all' incontro , dopo aver detto « avervi una
« facoltà nell'uomo, capace di astrarre i generali dai
particolari», aggiungendo, che questa facoltà dee essere
in atto già fino dal primo istante di sua esistenza , per
di' ella possa rendere i fantasmi particolari , idee attual
mente universali; giunge almeno sul limitare della grande
e difficile questione intorno a ciò che v' ha nella niente
umana d'innato. Veniamo almeno ad avere, secondo que
sta dottrina d'Aristotele , nella potenza di conoscere, un
atto sostanziale e perciò innato. Per quanto resti misteriosa
questa maniera di parlare , e per quanto sia indeter
minata e concisa; è però vero ch'ella dimostra il pro
gresso della mente d1 Aristotele nelle sue ricerche, e che
giustifica a credere, ch'egli abbia almeno a fior di lab
bra assaggiata la difficoltà dì che noi parliamo, circa
1' origine delle idee.

ARTICOLO XIX.

SPIEGAZIONE DEL CENNO CHE Di' ARISTOTELE DELLA VEKA •OTTMM.

E se noi vogliamo spiegare in un modo ragionevole


il parlar generico e chiuso di Aristotele , noi saremo per
avventura portati assai vicino alla verità.
Perciocché che cosa può esser 1' atto di una facoltà
conoscitiva? L'atto di una facoltà conoscitiva è incon
cepibile, se non s'intende per esso qualche maniera di
attuale cognizione.
Laonde dicendo Aristotele che l'intelletto agente, per
formare gli universali, cioè le cognizioni intellettive,
dee essere in atto egli stesso ; sembra ch'egli abbia vo
luto dire che quest'intelletto possegga già fino dal prin
cipio e per sua propria natura, qualche specie di cogni
zione, colla quale egli possa produrre le altre cognizioni
attuali, all'occasione datagli da' fantasmi sensibili: e che
il filosofo siasi ritenuto per avventura dall'entrare più
addentro nell'esame di questa specie di cognizione innata,
o impaurito dalla difficoltà che s'incontra in volerla de
terminare, senza cadere in conlraddizion con sè stesso,
o pur temendo che n' uscisser cose favorevoli troppo al
combattuto sistema di Platone.
Potrebbe anch'essere, come talora succede, che dopo
avere Aristotele avuto casualmente questo lampo passag-
gero, che il portò a conoscere la necessità di un atto
innato nella facoltà conoscitiva (il che equivale alla ne
cessità di qualche specie innata); egli fosse da altri pen
sieri distolto dall' inseguire un'idea così felice, che potea
divenir fecondissima nella mente di un uomo così ma-
raviglioso.
ARTICOLO XX.
1IJSTOTELE RICONOSCE CDE l' INTELLETTO PORTA SECO INNATO CN LUME ,
COME ATTESTA IL SENSO COMUNE.

I commentatori hanno dato poco sviluppo a questo


passo di Aristotele, che, brevissimo com'è, è tuttavia
ddo de' più osservabili.
Nulladimeno le osservazioni che ci fa sopra 8. Tom
maso, mi confermano nel mio parere.
Cercando il santo Dottore in che modo Aristotele
ammetta nell' uomo un intelletto sostanzialmente attuato,
primieramente osserva , che Aristotele non potea voler
dire eoa ciò, che quest'intelletto avesse innate le idee
«V fotte le cose, perchè questa sarebbe appunto la dot
trina platonica da Aristotele in tanti luoghi rifiutata, e
perchè se quell'intelletto fosse già determinato a cono
scer le cose tutte da sè medesimo , rumerebbe un altro
principio da Aristotele costantemente insegnato e con
fi rinato dall'esperienza, che l'intelletto nostro, per pen
are , ha bisogno di ricevere i fantasmi delle cose esterne
da' sensi.
Esclusa questa interpretazione, cerca che cosa può es
sere una facoltà intellettiva , la quale non abbia in sè
attualmente le idee tutte delle cose, e nondimeno sia
in atto.
Sembra che ciò non possa essere se non uno stato di
mezzo fra l'essere in atto per modo di aver le idee di
tolte le cose, e 1' aver alcuna di queste idee.
Ma ecco le parole dell'acutissimo commentatore.
« L'intelletto agente si considera come atto rispetti-
« vamente alle cose da intendersi , in quanto che egli
« è una virtù immateriale , attiva , capace di render
« l'altre cose simili a sè, cioè immateriali : e per questo
a33
« modo le cose che sono intelligibili solo in potenza, egli
« le rende intelligibili in atto »: ed ecco con quale simi
litudine egli ciò spiega: « poiché nel modo stesso anche
« il lume fa i colori essere in atto , non già. per cagione
« che abbia già in sè la distinzione di tutti i colorì » (i).
La qual similitudine aristotelica quadra mirabilmente
all'argomento, e più ancora nella teoria moderna della
luce.
Perciocché sebbene la luce non abbia, in sè i colori
già divisi e separati , tuttavia è suscettibile d' una tal
divisione mediante qualche corpo che abbia la proprietà
di rifrangere, e di riflettere il fascicolo della candida luce.
Perciò secondo questa similitudine, avrebbesi a dire
della teoria delle idee, tutto il contrario di ciò die fa
di sopra da noi toccato. Quivi dicevasi che l'azione del
l' intelletto agente consisteva in separare nelle cose ciò
che v'ha di comune da ciò che v'ha di proprio, sup
ponendo falsamente che v' avesse in esse qualche cosa
di comune per sè e indipendentemente dall'operazione
dell'intelletto. In tale ipotesi abbiamo paragonate le
cose esterne al fascicolo della luce che contiene in
sè più colori, cioè il comune ed il proprio; e l'intel
letto ad un prisma capace di farne la separazione. Nel
luogo presente all' incontro non sono più le cose sen
sibili che paragoniamo alla lucei paragoniamo alla luce
l'intelletto agente, o sia l'atto a lui sostanziale, c me
glio ancora, ciò in cui termina quest'atto; ed il prisma,
quello che sparte questa luce ne' suoi raggi elementari,
quello che determina i varj colorj , sono le cose sensi
bili. In tal modo il comune sarebbe nella mente, e non
nelle cose stesse : e questo comune si particolaregge-
rebbe , e s'individuerebbe mediante le cose : queste par-
ticolarizzazioni e individuazioni risponderebbero appunto
ai colori , mentre il comune corrisponderebbe alla luce
che è nell'intelletto preesistente.
In questa supposizione molte difficoltà sarebbero su
perate t e sebbene l'intelletto non vedrebbe nessun colore

(i) Questa similitudine del lume, tanto adattata a spiegare ciò che 1 in
telletto nostro ha d' innato , fu adoperata sempre : è una voce di <u"e ,r
scuole, una parola di tutti gì' idiomi. E la teoria che io presento in quest"
Saggio, non è, come ho già detto, che il commento di questa verità indicata
e pronunziata così bene dal senso comune.
a3o
separato, senza il prisma esterno de' corpi sensibili che
•partisse e determinasse la luce sua, tuttavia egli avrebbe
innata la luce : sebbene non avesse nessuna scienza di
dò che è particolare e determinato (i), tuttavia si con
cederebbe a lui qualche idea comune , qualche forma
non determinata a nulla prima delle sensazioni: in una
parola, sebbene egli non avesse in sè nessuna delle idee
derivate, come pretendeva Platone, avrebbe però innata
l'idea prima e universalissima : non avrebbe innate le
conseguenze, ma avrebbe innato, in certo modo, il prin
cipio inpremo; giacché l'idea di ciò che è comunissimo,
è (palla ( come vedremo a suo luogo ) che, applicata alle
cor meno comuni , prende il nome di princìpio : ed i
pnocipj sono riconosciuti da Aristotele stesso per indi
mostrabili .
Qaindi s. Tommaso conchiude, spiegando onde possa
lenire all'intelletto questo suo lume ingenito, con queste
parole: «Una virtù attiva sì fatta, è una cotale parte-
• cipazione di lume intellettuale dalle sostanze sepa
rate s {2), cioè, giusta la dottrina dell'Aquinate, da Dio
medesimo (3).
ARTICOLO XXI.
«O UUI , VOLENDO RIGOROSAMENTE SOSTENERE CHE NULLA V* AVE* d' INNATO
OU' COIIO , CADDERO NELl' ERROR d' AMMETTERE l' INTELLETTO AGENTE FOOS
WU.' ANIMA DMANA.

E un tal passo è indiretto contro altri commentatori


dello Stagirita.
I quali leggendo in alcuni luoghi d'Aristotele , che
l'uomo non ha cognizione innata, e che il suo intelletto
è una mera potenza ; non seppero poscia conciliarlo con
»è medesimo, là ov'egli dice, che l'intelletto agente non

(i) Leggeodo attentamente s. Tommaso, si trova, che ov'egli nega le idee


iaoate, non intende mai di parlare che di idee o specie determinate: Anima
Mtelleetiva , egli dice , est quidem actu immaterialis , sed est in potentia ad
DETERMINATAS SPEC1ES rerum. (P. I, Q. LXXIX, art. iv, ad 4).
£ questa è appunto la nostra dottrina : noi neghiamo che I' anima umana
abbia in nascendo idee o specie determinate : gliene concediamo sol una
perfettamente indeterminata, che è ciò che s. Tommaso chiama non idea,
roa luce, e che la rende actu immaterialem/
(*) De Anima , L. HI, Lect. X.
(3) Intellectus separatus secundum nostree Jidei documenta est ipse Deus.
*• h Quaest. LXXIX, art. tv.
a4°
è una mera potenza di conoscere, ma è in atto sostan
zialmente , conciossiachè altramente egli non potrebbe
ridurre in attuali cognizioni le cose percepite da1 sensi,
o sia fornire all' intelletto possibile le idee , che tutte
di loro natura sono universali. Di che ricorsero al par
tito di supporre, che quando Aristotele parlava dell' in
telletto agente, volesse parlare di qualche intelletto in
teramente separato dall'uomo, cioè o dell'intelletto divino,
o dell'intelletto di qualche angelo, il quale essendo in
atto , cioè possedendo attualmente le idee di tutte le
cose , potesse esercitare qualche influenza sull' intelletto
possibile, cioè sull'intelletto dell'uomo, semplice potenza
di conoscere, e comunicare a questo, all'occasione delle
sensazioni, quella universalità che, unita ai fantasmi de'
sensi, forniva Videe delle cose esteriori.
Ma s. Tommaso riprova e cassa questa interpreta
zione , come mala in sè stessa , e come contraria alla
mente d'Aristotele; e vuole che Aristotele, quando parla
dell'intelletto umano come d'una facoltà di pensare me
ramente in potenza, si debba intendere deWintelletto pos
sibile; e quando all'opposto vuole che l'intelletto non sia
meramente in potenza, ma gli dà un atto, debbasi intendere
d'un' altra facoltà intellettiva che trovasi pure nell'uomo e
che chiamasi intelletto agente, il quale agisce continuamente
non eccitato da' fantasmi, ma per la propria natura at
tiva. E certo se io dovessi dare ad Aristotele l'inter
pretazione più benigna , restringendomi ad alcuni suoi
passi de' più felici, a me sembrerebbe di non andar forse
lontano da ciò ch'egli vide di passaggio, esponendo la
sua mente nel modo seguente: « L'esperienza dimostra
che noi non abbiam le idee delle cose esterne prima
di ricevere le sensazioni : non dobbiam adunque ammet
tere gratuitamente innate nel nostro spirito tali idee,
perchè se noi le avessimo innate, sapremmo altresì da-
verle (i). D'altro lato è vero che le sensazioni non sono
le idee : poiché le sensazioni sono essenzialmente par
ticolari, riferendosi a quell'unico individuo che le ha
prodotte; e le idee sono essenzialmente universali, cs-

(i) Questa non è conseguenza giusta : si possono aver delle idee :


sapere di averle, come ha osservato tanlo bene Leibuizio, cioè scoia
riflettuto sulle medesime. Tuttavia questo è l'argomento comuue a tulli <
che negano le idee innate; Aristotele ne fa uso Poster. L. II, cap. <


34»
sendo il tipo di tutti gl' individui simili. Fa dunque
bisogno supporre che 1' uomo , che riceve le sensazioni
particolari , abbia in sè una potenza di universalizzarle.
Ma poiché la universalità non si trova nelle sensazioni ,
quindi per attribuirla loro, conviene che questa potenza
capace di generalizzare abbia già precedentemente in
sé stessa questa universalità. Coli' aggiungere alle cose
sentile dai nostri sensi una veduta universale, esse di
ventano idee attuali, mentre prima non erano che in
potenza (i). Rendere adunque idee attuali i fantasmi
riceruti co' sensi del corpo, non è altro che universa
lizzarli : giacché coli' universalizzarli si dà loro quel
l'alto, per lo quale si possono dire, semplicemente par
lando, idee. E poiché niente può ridurre qualche cosa
inatto, se non ciò che è già in alto egli slesso; quindi
•pesta potenza , che ha virtù di rendere in alto le co
gnizioni , dee avere in sè quest'atto, ossia dee aver ciò
che costituisce l'universalità, che aggiunge a' fantasmi
da' nostri sensi percepiti » (a).

(i) Chiama ifantasmi cognizioni In potenza, nel de Anima Lib.II, Lect.XII:


uu dire , che non sono cognizioni , e perciò si dee spiegare con
<jssfc operazione dell'intelletto esse diventano idee, cognizioni, in uni pa
rai, come diventano concezioni universali. In questo stesso luogo però Ari
stotele tocca molto vicino alla verità , perciocché volendo far rilevare la
difèrenza fra il senso e l'intelletto, in queslo la ripone, che <« la parte at-
• tiva della sensitiva operazione è fuori dell'anima, mentre la parte attiva
• della operazione intellettiva è nell'anima slessa »: colle quali parole vuol
dire, che Te sensazioni nascono per una azione de' corpi che sono fuori di
noi, sopra di noi; ma che le percezioni universali, che noi chiamiamo ideo,
nascono per una attività interna ed essenziale dell'anima nostra. Voleudo
adunque spingere questa osservazione di Aristotele più avanti eh' egli non
léce , cosi si può ragionare sopra di essa. Questa universalità delle conce
zioni intellettuali o viene creata dall' intelletto, o viene solo aggiunta ai fan
tasmi , avendola egli già in sè. Il dare all' intelletto una forza che la crei,
certo è troppo più die il dare al medesimo la potenza di aggiungerla sem
plicemente; e questa sola ragione basterebbe pur attenerci al secondo par
tito. Ma oltracciò, osservando e analizzando l'operazione intellettuale, essa
non si presenta menomamente come una operazione che produce qualche
cosa, ma come una semplice visione di ciò che è già prodotto. L'intendere
non è che un vedere interiore; e il vedere non è un produrre: l'intelletto
adunque nou può creare le specie universali delle cose; egli le vede. .
(3) Riflettendo sopra la storia de' pensieri nella mente di Aristotele, mi
par verisimile , che trattando egli delle idee dell'intelletto umano, abbia ri
stretta sovente la sua attenzione alle idee delle cose esterne. Quindi nou
potea riconoscere alcuna idea nell' uomo, prima che le cose seiisibdi deter
minassero il suo pensiero a qualche cosa di reale. L'immaginarsi che nella
mente umana potesse esjstere l'idea dell'ente perfettamente indeterminato ,
era per lui inconcepibile: era per lui un lume, nou ancora un'idea. E quaudo
Rosili ni , Orig. delle Lice. Voi I. 3i
ARTICOLO XXII.
f. Tommaso confota l'errori dxgli arabi.

Ma tornando all'angelico Dottore, egli prova che non


si può supporre che l'intelletto agente sia un essere fuori
di noi. Perocché, egli dice, è assurdo il supporre che la
natura dell'uomo non abbia in sè ciò che le fa bisogno
per conoscere, che vuol dire, per esercitare quell'atto a
cui è ella essenzialmente destinata.
« Non sarebbe l'uomo, così il Santo, dalla natura
« sufficientemente istituito, se non avesse in sè slesso
« i principj, onde potesse compire l'operazione sua pro
ti pria, che è quella d'intendere; nè questa la potrebbe
u compire in sè stesso, se non mediante tutti e due que-
« sti intelletti, il possibile e Vagente» (i), un intelletto
cioè in potenza, ed un intelletto in atto.
Per provare poi che Aristotele parla dell'intelletto agente
come d'una facoltà che trovasi nello spirito umano, egli
fa osservare che il filosofo chiama questo suo intelletto
agente « siccome un abito, ovvero un lume » ; la quale
espressione, dice il santo Dottore, non converrebbe al
l'intelletto agente, se egli fosse qualche sostanza dall'uomo
separata. S. Tommaso adunque concede bensì, che que
sta attuazione , che ha in sè essenzialmente l' intelletto
agente, venga da qualche intelligenza superiore che in
esso influisca; ma non mai che l'intelletto agente sia
fuori dell' uomo come una sostanza separata,

ARTICOLO XXIII.
mino 01 uinomi nu' ivu conosciuto che | necessario oh atto
PRIMITIVO INNATO NEL NOSTRO INTELLETTO.
Per altro a me sembra pure assai questo solo, che
Aristotele sia venuto a tale scoperta, cioè a riconoscer
nell'uomo una facoltà conoscitiva non meramente in po
tenza, ma essenzialmente in atto, sebbene egli non siasi

fi voglia riserbare la parola idea a significare qualche concezione universa»


determinata in qualche maniera, anche noi siamo d'avviso che nessuna KM*
innata si trovi nella mente dell'uomo; ma solo un lume, e come la chiami»»
più sovente, UNA FORMA: non si vuol disputare di parole, ma le coi*
sole ci debbono interessare. .
(i) De Anima Uh. Ili , Lect. X.
a43
poscia innoltrato a ricercare la natura e l'estensione di
quest* atto.
Io dubito, non forse Aristotele, essendosi a principio
rifiutato d'aderire al sistema platonico perchè vedea in
esso degli errori manifesti , abbia preso un' attitudine
tutta a quello contraria , ed abbia a prima giunta spe
rato, siccome accade a chi non ha ancora meditato
troppo addentro nelle quistioni , di potere spiegar gli
itti della mente non ammettendo in essa nulla affatto
d'innato: ma che entrato poscia colle meditazioni sue
ne* penetrali di questa spinosa questione, sia pervenuto
a conoscere egli medesimo, che era pur forza in qual
che parte transigere, ed ammettere che quella facoltà
che producea le idee, tenesse in sè stessa connaturato
ed ingenito qualche lume, il che è veramente un dire,
qualche idea primitiva, che a lei servisse d'istrumento
e di norma a formare tutte le altre.
Ciò che mi muove a questa opinione, si è il vedere
la titubanza del favellare aristotelico in tanti luoghi
àe\\e opere sue, e quelle continue particelle correttive
che uilToduce nel ragionamento come puntelli del me
desimo; le quali mezze espressioni , nel tempo che nulla
dicono di determinato e di franco, assai però dicono e
troppo più, che il dicitor medesimo non vorrebbe; poi*
chè esse dimostrano che 1' autore , quasi sospeso in tra
due, vuole e non osa di proferire una sentenza piena e
assolata, temendone la conseguenza ; ovvero almeno ma
nifestano, che nella mente sua, nella sua coscienza, qual
che dubbio o qualche eccezione ancor giace oscura ed
indeterminata contro la dottrina che espone.
Nel passo , a ragion d'esempio, di che noi favelliamo ,
egli , parlando dell' atto dell' intelletto agente , dice
aperto che l'intelletto in atto non è già come l'intelletto
io potenza, « che talora intende e talora non intende »:
e poi dice che è « come un abito ed un lume» (i), senza
osare di dire a dirittura eh' egli è un abito , eh' egli è
un lame.
A maggiore conferma del mio pensiero, mi si conceda
di recare un altro passo, dove si vede l'esitazione del
parlare d'Aristotele sopra questa materia.

(>) De Anima Lib. Ili , I<ect. X.


Sulla fine del secondo libro de' Posteriori Aristotele si
fa la questione, come noi veniamo alla cognizione de'
primi principj i e dopo avere stabilito che nè li possi a in
noi dedurre per dimostrazione , nè li abbiamo innati ,
si accinge a spiegare l'origine loro da' sensi : egli vi dice
che dalle sensazioni restano i fantasmi, e formano la
memoria , e che mediante molte di queste memorie noi
formiamo l' esperimento, osservando ciò che v'ha in esse
di costante e di comune : il che diventa il principio della
scienza e dell'arte (i).

(1) Ciò che impedisce di trovare la verità nelle questioni , sono le idee
confuse che talora in esse si mescolano : e per conoscere ben a fondo la
storia degli errori , ne' quali un autore venne a cadere , conviene appunto
conoscere dove sta di casa l' oscurità e la confusione delle sue idee. Egli
è per questo , che noi abbiam notato più volte ne' ragionamenti di Ari
stotele i luoghi dov' egli sembra che non concepisca troppo nettamente e
semplicemente ciò di cui ragionava. Qui ne darò un nuovo esempio. La
questione intorno 1' origine delle idee consiste tutta a spiegare come noi
possiamo avere delle concezioni universali, mentre tutto ciò che ci pre
sentano i sensi sono concezioni particolari. Se noi possiamo trovare il modo
di avere una sola idea universale, la questione è risoluta. Ora convien sa
pere, che noi abbiamo bisogno di un universale fino dal primo giudizio che
noi facciamo colla nostra mente; perchè senza una tale idea non si dì
alcun giudizio. Il nodo dunque della questione sta tutto nel primo passo che
fu la nostra meute nel suo primo e più semplice giudizio. I filosofi all'in
contro, che non hanno troppo ben sentito, che la difficoltà stava tutta qui.
stava nel render ragione del primo passo della ragione ; che hanno essi
fatto ? Sui primi passi della ragione son trascorsi con tutta facilità , non
sospettando puulo , che in essi potesse trovarsi il nodo , e sono venuti agli
ultimi passi e ragionamenti che fa la ragione quando stabilisce de' prin
cipi scientifici. Essi allora si sono sbracciati a spiegare la formazione di
questi principi scentilìci ; e ci sono a dir vero pienamente riusciti ; con-
ciossiacbè tutto ciò che era difficile , cioè il primo passo del ragionamento,
1' hanno supposto , c non ispiegato. Ora alcune volte incappa in questo in
ganno appunto Aristotele: cioè, anche a lui si preseuta il nodo della que
stione fuori di luogo; negli ultimi passi, in vece che nel primo. Il luogo
di Aristotele che qui sopra ho citato, lo mostra apertamente. Egli quivi fa
ogni sforzo per ispiegare l'origine de' principi oelle scienze e delle arti,
rome se nella formazione di questi stesse la difficoltà, e non nella forma
zione delle prime idee volgari e comuni , dalle quali muove il ragionamenlo.
Ciò che osservo si vede più mauifeslamente nella parafrasi che fa Tcmi-
slio del succitato luogo di Aristotele. « L'universale, dice, è 1' opera della
« mente , e da essa si forma ». E come si forma? questo è il problema
che si propone. Risponde: « per una induzione; poiché è proprio della
<« meute di unire , e di raccogliere insieme , e , come dice Platone , di
« mettere un fine alle cose indefinite « ( Su questo passo mi sia permesso
■ li osservare di passaggio , come egli sembra che Aristotele convenga qui
con Platone nelì' ammettere che operazione propria dell' intelletto sia de
terminare ciò che precsisteva nello spirito d' indeterminato, il che confer
merebbe le mie conghicllure sull' intelletto agente di Aristotele ). Ora
questa induzione, colla quale la mente dai particolari raccoglie ed unisce
a45
Or dopo avere spiegata con tanta facilità la cogni
zione de' primi e più generali principj , voi vi aspette-

g!i universali, come la descrive Aristotele, secondo la parafrasi che ne fa


Temistio ? Sentasi tutto il luogo, m Questa induzione non si compie in
« poco tempo, ma corre non picciolo tratto tra le percezioni ricevute da'
« sensi , ed il loro connettimento. Poiché il senso comincia immantinente
•> a formare i fantasmi ; ma solo allora che molto si è in questo esercitate
• manifestasi quella forza dell' anima che si chiama intelletto e che sog-
• giunge la conclusione (l'universale). In questo poi ha bisogno di lunga
« eia e di molla cognizione: poiché quello che é effuso e sparso, non si
« può radunare e restringere in uno , se non con un sufficiente spazio di
« tempo » ( Poster. Lib. II, c. XXXVI ). In tal modo tutto il difficile che
ri trova nello spiegare come la mente formi 1' universale, qui il nostro filo
sofo pensa che consista nella formazione de' principj scientifici ; i quali
certamente si formano mediante delle ripetute osservazioni collo spazio di
Bollo tempo. Per esempio, acciocché gli uomini giungessero a formare
questo principio universale, « la corteccia peruviana caccia la febbre»,
t'ebbe bisogno i.° che quelli che si sono adoperati intorno a questa sco
perta fossero già arrivati all' uso della ragione , a.0 che questi ripetessero
W esperienze un grandissimo numero di volle, e quindi conchiudessero per
adozione la proposizione generale « che la corteccia peruviana caccia la
■ febbre ». Aristotele illustra il suo pensiero con uno esempio simile a
questa , tolto dalla medicina.
Ha & tutto un si fatto discorso non c' é nulla che venga contrastato da
quelli òt ammettono le idee innate : anzi lutto il passo é fuori d' argo-
Berte- » cerca in esso di spiegare la formazione die' principi scientifici ,
tasse se io questi consistesse il difficile di cui parliamo ; il difficile all' op>
foste, e tutta la questione consiste non nello spiegare questa specie di uni
versali scientifici , ma nello spiegare 1' universale stesso, anche il più vol
gare ed ovvio in apparenza. In fatti , prima che 1' uomo possa conchiudere
nei modo detto questa proposizione universale « la corteccia peruviana caccia
»!a febbre », che cosa gli fa bisogno? Di aver già nella mente formati molti
altri universali. In fatti, tutti i termini di questa proposizione esprimono
idee universali. La parola corteccia peruviana non esprime già questo pezzo
materiale o quell' altro di corteccia: ma esprime la specie: esprime con
esse tutte le eorteccie possibili di quella specie, ed è perciò un idea, un
universale , perchè è d' una specie, non d' un sussistente. Cosi
te , la parola febbre non significa né questa febbre pigliata a Sem-
nè quella pigliata a Cajo: ma significa qualunque febbre: questa
di malattie che si denomina febbre. Ora la questione « quale sia la
one fra queste due idee generali : la corteccia pcruviaaa , e la feb
bre • , è una questione interamente diversa da quell'altra, « come noi pos
siamo avere l' idee universali della corteccia peruviana e della febbre ».
prima é una questione medica che si scioglie dopo molta espe-
j mediante un' induzione più o meno protratta e perciò più o
meno assicurata. Questa seconda è una questione metafisica la quale ha
per oggetto di spiegare un fatto non punto scientifico , ma volgare , il
fatto dell' esistenza nella mente degli uomini di quelle idee generali della
corteccia peruviana , e della febbre. Queste idee universali si trovano nella
taente degli uomini non dopo molto tempo , e per mezzo di lunga espe
rienza e di lunghe induzioni, ma tostocbè 1* uomo comincia a fare il primo
«so della ragione: perocché un bambino, per lo meno tostochè comincia
» parlare, nomina febbre, corteccia, o dei sostantivi in somma, che espri
246
reste ch'egli couchiudesse, che dunque non v'ha nessuna
scienza nè pure abituale nata con noi. Non già : egli
trepida nella conclusione: mostra che la sua spiegazione
data precedentemente non gli toglie tutte le dubbiezze
dall'animo: egli non vi conchiude già che nell'uomo
non sieno abiti innati assolutamente , ma si limita a
dirvi u che non vi sono innati nell' uomo degli abiti
DETERMINATI » (i).

mono delle specie di cose, e non de' meri sussistenti. Si vuol dunque sa
pere come questo fanciullo dalle cose particolari, individuali e sussistenti
che co' suoi sensi percepisce, passi cosi celeramente alle specie, cioè alle
idee, senza le quali non si può fare venia discorso. La questione è que
sta. All' incontro Aristotele , o Temistio , sfugge da questa questione che
intende a spiegare 1' origine de' primi universali , per portare la questione
alla formazione de' principi scientifici, che sono le ultime idee, e che sup
pongono quelle prime già formate, poiché non sono che un connetlimento
di quelle. A torto adunque conchiude la spiegazione della questione che s' era
proposta, di trovar cioè come l'uomo si forma l'universale, con queste
parole: « Ma cosi poco a poco ed insensibilmente si forma questa induzione*
( dalla quale i principj scientifici si cavano ), «che è nascosto, per la sua
•> medesima continuità , dov'ella cominci c dov ella arrivi. Di che avviene che
« molti credano , che la stessa natura dell' uomo abbia ingenite delle no~
m tizie , senza alcuno studio , ovvero un intelletto che le produca e le ec-
m citi; il che è falso ». Nelle quali parole si vede il solito stile di coloro,
che tutto vogliono dedurre da' sensi : i quali non potendo spiegare il modo
onde l'universale possa dal particolare procedere, ricorrono a dire che
questo lavoro si fa per un passaggio cosi lento ed insensibile, che sfugge
alla vista dell' osservatore : e che quindi altri s'immagina , che l'univer
sale sia innato nell'uomo. Essi cercano in tal modo di stabilire il loro si
stema, spargendo delle tenebre. Tutte le idee vengono da' sensi : ma ìi
che modo ? in modo impercettibile, per una progressione che sfuggi
allo sguardo. In tanto però io dico: questa progressione dee esser infinita
poiché dal particolare all' universale ci ha una progressione infinita > noi
avendo l'universale limite alcuno, come tale; gl'individui poi per quanto s
moltiplichino, non possono mai formare nè esaurire una specie , nè pur
se procedessero indefinitamente. Convien dunque supporre, per ispiegar
rome le idee vengano dalle sensazioni, che sia possibile attualmente un
progressione infinita, l' ultimo termine della quale dovrebbero esser le idee
ma questo termine non verrebbe mai; poiché se venisse, la progressi orv
finirebbe, contro il supposto: le idee adunque non sarebbero mai prodotte
In somma fra le sensazioni e le idee non si dà una differenza di sola gra
dazione, ma di essenza: ed è impossibile il passaggio graduale delle un
alle altre. E tornando al nostro proposito , è irragionevole il discorso d
Aristotele, il quale è il seguente: « Non si danno idee innate, perchè
principi scentifici vengono dalle idee mediante un' induzione » ; il che
come dire: « i macigni non sono opera della natura, perchè è 1* uorr»
che costruisce con essi le case »> Senza eh' io tenga dunque I' esistenz
delle idee innate al modo di Platone , non posso non riconoscere 1' inesat
tezza del ragionamento aristotelico; la quale inesattezza però a me pare c
ravvisarla in Aristotele come in germe, e nel suo parafraste in una (or m
più sviluppata.
(i) PosUrior. L. II in f.
a47
Ed osservi il lettore quanto questa espressione , che
esclude dalle cose innate nell' uomo solamente gli abiti
Iderminati , convenga a capello colla mia maniera di
pensare, o di parlare (i).
Io trovo l'errore di Platone nell' aver egli supposto
che 1' uomo abbia innate le idee degli oggetti partico
lari, cioè le idee determinate e conformi in tutto agli
esseri-, dico all'incontro, che si trova nel suo sistema
una narte vera , se esso si restringe ad ammettere nel
l'uomo innata qualche idea non di oggetti particolari ,
ma di qualche essenza universale , qualche idea perfet
tamente indeterminata, e di quest'idee universali ed
indeterminate non più , ma solo tante quante son ne-
cesane a spiegare la formazione delle altre idee (2): la
necessita di che sembra pure da Aristotele esser sentita
allorquando non si fidò di escludere gli abiti indetermi
nati dall'essere innati, ma solo gli abiti determinati: non
escluse la luce , ma la luce già divisa in colori.

\ due sistemi opposti, ove sieno moderati, possono avvicinarsi assai.


Qui Aristotele non vuole innate le idee; ma pur qualche specie di abiti
matti e?ìi ammette. Ora alcuni Cartesiani ammettono innate le idee; ma
àiMzesdo che cosa per queste intendono , dicono che sono come abiti in-
Bstifcco i due sistemi molto appressati. Il Gallnppi così espone il pen
sa» de' Cartesiani : w Alcuni di essi li paragonavano (i concetti innati)
■ cogli abiti della volontà. Allorché una passione dominante, risiede nel
« cuore umano , anche ne' momenti , ne* quali non abbiamo alcuna co-
■ scienza degli atti di essa, non lascia, dicono i filosofi di cui parliamo,
• di essere reale nello spirito. Un ambizioso, per esempio, il quale ha con-
« cepito una forte passione di ottenere un posto , anche ne' momenti in
» coi non ba alcun pensiero di questo posto, accompagnato dalla coscienza,
' oon lascia di avere nel suo spirito la forte passione di cui si fa parola ,
• di modo tale, che in questi stessi momenti si può dire con verità di lui ,
■ ch'egli ambisce il posto. Ora, dicono questi Cartesiani , che cosa é egli
' mai 1' amore abituale, vivente nel cuore dell' ambizioso, anche ne' mo-
■ meati ne' quali egli non ha coscienza di alcun atto d' ambizione ? sera-
• bra , continuano questi filosofi, non potersi dire altra cosa se non che
« questo amore abituale sia l'atto stesso dell' amore continuato, e perenne,
■ privo però di coscienza. La privazione del sentimento di questo amore
« lo distingue appunto dall'amore attuale, di cui l'ambizioso ha coscienza.
« Nello slesso modo le nozioni a priori ed innate sono nozioni reali e pe-
■ reo ni nel nostro spirito, ma disgiunte dall'atto dellj coscienza, prima che
« le nozioni sensibili le rendano alla coscienza presenti. Così fra gli altri
■ 1' autore anonimo del trattato della natura dell' anima contro di Locke
« ed i suoi discepoli, determina la natura delle idee innate. » Saggio Filo-
«fico sulla Critica della Conoscenza, T. IV, face, a e 3.
(a) Or non é necessaria che una sola idea a spiegare la generazione di
tane le altre, come a suo luogo dimostrerò, nè ve ne può aver parimente
che una sola di perfettamente indeterminate.
248
ARTICOLO XXIV.
SPIEGAZIONE DI «OIDIO DEGLI ABITI INDETERMINATI ACCENNATI DA ARISTOTELI
SICCOME INNATI NELl' UOMO.

Conchiuderò queste osservazioni sopra Aristotele, re


cando un passo notabile di Egidio sopra il luogo di
Aristotele surriferito.
Dico un passo che mi sembra notabile, perchè in esso
si vede come questo acuto commentatore abbia ricono
sciuto che Aristotele ammette veramente (o volendo o
non volendo ) degli abiti innati nello spirito umano, ma
indeterminati, e di più che questi abiti indeterminati,
che sono innati nell'uomo, formano appunto l' intelletto
agente, e così spiegano in qualche modo che cosa fosse
ciò che passò per la mente d' Aristotele quando gli si
presentò quell'atto, di cui dovea esser fornito essenzial
mente lo spirito umano acciocché potesse procacciarsi
degli abiti o delle idee determinate : queir atto erano
degli abiti o delle idee indeterminate.
Ecco il luogo d'Egidio sopra quell' espressione di Ari
stotele, « abiti determinati ».
« Si dee ancora considerare, che gli abiti de' principi
« non sono in noi determinati, cioè completamente innati.
« Si dice determinato ciò che è terminato , e ciò che
» perviene al perfetto suo termine. Ora la cognizione
« de' principj non è in noi inserita naturalmente in uno
« stato completo e formalmente. Tuttavia abbiamo qual-
« che cosa che si riferisce alla cognizione de' principj
<t effettivamente, come anche in modo finale e disposi-
« tivo in quanto abbiamo naturalmente inserito in noi
« il lume dell'intelletto agente, per la virtù del quale
« sì fatti principj si fanno a noi noti immediatamente,
« conosciuti i termini della proposizione » (i).
ARTICOLO XXV.
CONCLUSIONE SOPRA ARISTOTELE.
L' interpretazione favorevole che mi sono ingegnato
di dare ad alcuni passi di Aristotele, potrebbesi recare
ancora più innanzi.

(i) Questo passo trovasi riferito da Domenico di Fiandra nelle quesUo^'


che scrisso sopra i Commentari di s. Tommaso ne' libri de' PosUiton
Aristotele.
Ma a ciò è necessario di premettere l' esposizione di
tutto quel sistema , che io credo esser la vera dottrina
lall'origine delle idee, per mostrar poscia quanto al me
desimo siasi avvicinato quest'uomo, che fu tanto tempo
tenuto e dichiarato pel maestro di color che sanno.
Riserboini dunque a proporre le conghietture che mi
rimangono a fare sopra il Filosofo della Scuola , dopo
che avrò presentata e sposta ampiamente la mia opi
nione sull' argomento che ahhiam fra mano.

ARTICOLO XXVI.
DDE SPECIE DI DOTTRINA IN PLATONE.

Ora tempo egli è pure, che noi torniamo a Platone.


Welle osservazioni fin qui fatte sulla defezione dalla
jcaola platonica di Aristotele, cercai di mostrare, siccome
uà delle cagioni di quella fu l'imperfezione onde Pla
tone medesimo presentava le ragioni che il conducevano
ad ammetter naturali all'uomo le idee, e la troppa esten-
none che dava alla sua dottrina.
Ora presenterò un' altra cagione di quella costante op
posizione che il sistema platonico trovò in tutti i tem
pi, jenza che però una opposizione così lunga e così
opinata il potesse giammai fiaccare, e torre interamente
dalle memorie degli uomini , come si posson torre le
opinioni già dimostrate false, e al tutto vane.
Questo fatto del platonismo ha due parli : da un canto
ana continua oppugnazione contro il medesimo, cresciuta
bene spesso a segno, da sembrare che quello dovesse in
tieramente rimanersi prostrato e dimentico : e dall'altro
una continua reazione di questa filosofia, mostrante
una vita tenace ed inestinguibile. Anche nei secoli, quando
i nemici del platonismo furono più accaniti, questo corpo
di dottrina non si potè dire che venisse mai condannato
con un voto veramente unanime dagli uomini. Mentre
molti lo condannavano , si vedeva qualcheesitazione nella
loro stessa sentenza : non la pronunciavano mai con quella
sicurezza, onde si pronuncia un giudizio di cui non re
sta più alcun seme di dubbio : appariva una incertezza
anche in fondo alla coscienza di quelli che lo dichia
ravano una ridicola follia: e quando meno s'aspettava,
rinascevano dei difensori caldissimi della dottrina derisa;
contro a' quali alcuni altri s'indegnavano , perebè il mon-
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. I. 3a
a5o
do, a parer loro, ritornava indietro, invece di ubbidire
ad essi , e andar innanzi. Questa costante protesta di
alcuni, che durò nel mondo contro la turba che beffeg
giava il platonismo, non si può spiegare, se non suppo
nendo in esso un fondo di verità : come non si può
spiegare l'opposizione costante contro il medesimo, senza
supporre nel medesimo qualche parte falsa od inesatta,
qualche oscurità, qualche errore.
L'oscurità fu rimproverata a Platone (i); e molti di
chiarano falso ii suo sistema, assicurandovi seriamente
di non intenderlo. Ciò che si può asserir con franchezza,
è questo solo, che l'opposizione maggiore ch'ebbe Pla
tone, venne da un volgo di filosofi che lo dipinsero ad
un volgo di lettori in quel modo che la lor povera mente
se 1' era immaginato.
Ma fra questi solenni filosofi di che parliamo, de' quali
la Francia sola nell'ultimo secolo diede al mondo forse
alcune centina ja , non è certo da annoverarsi Aristotele;
il quale se si mise dalla parte opposta al maestro suo,
per un po' d' ambizione e d'emulazione, avea però alto
ingegno da poter notare, come abbiam detto, nelle pla
toniche dottrine veramente degli errori.
Or senza questa parte erronea che esiste nel sistema
platonico, concorre a render ragione delle sue varie vi
cende anche la seguente osservazione.
Distinguonsi negli scritti di Platone due dottrine insieme
commiste : una positiva e tradizionale , e una razionale.
La distinzione di queste dottrine ravvisasi in tutta
l'antichità, ed è come chiave, che apre l'intelligenza
dell'antica filosofia. Aristotele stesso la osserva assai chia
ramente; e fa cenno di una divisione di sapienti in due
classi , come universalmente ricevuta ; alcuni de' quali
s' appellavan teologi, ed altri filosofi si nominavano (2).

(1) Laerzio dice di Platone, che - suole adoperare varietà di voci , ac-
m ciocché le sue opere non sieno intelligibili agi' imperiti ed ai rozzi ~.
Non credo però d' una eguale verità , sebbene né pure al tutto falsa , 1' al -
tra osservazione di Laerzio , cioè che Platone - usa le voci stesse con
» significazioni diverse: e di più adopera voci contrarie per significare la
<• cosa medesima » ; perocché questo avviene più in apparenza che in
realtà , quand' altri si mette dentro nelle più riposte parli della platonica
filosofi».
(2) Metaph. Lib. Ili , c. II. Aristotele si mostrò' quasi sempre poco cu
rante della filosofia tradizionale, e de' maestri di quella, eh' egli metteva
in ridicolo, come si può vedere da questo luogo della sua metafisica. Quindi
a5i
I teologi doveano esser quelli che s' occupavano in rac-
corre ed intendere le verità, che, comunicate ne' pri
missimi tempi del mondo da Dio agli uomini, non fur
inai interamente perdute, ma tramandate tradizional
mente di generazione in generazione. I filosofi all'incon
tro doveano esser quelli che non istavan contenti alla
tradizione e all'autorità, e spesso poco a queste atten
devano, ma s'applicavano allo studio delle verità dietro
la scorta del proprio individuale ragionamento (i).
Avendo io posto qualche attenzione ai caratteri di
stintivi delle due celebri scuole dell'antichità, l'italica
e la jonica, mi parve d'aver rilevato, a non dubitarne,
che ciò che fondamentalmente distingue l'una dall' al
tra , si è l'aver posto l'autor della prima, cioè Pitta-
gora, per base della sua filosofia la dottrina tradizionale;
e all' incontro l'avere l'autore dell'altra, cioè Talete,
messo a base di tutte le sue ricerche il solo raziocinio,
e fattene quindi una dottrina razionale ed esclusiva. Per
ciò al primo convenia 1' analisi , come al secondo la sin
tesi: \\ primo partiva dal tutto, e scomponendo veniva alle
parti, per ritornar sempre al tutto, oggetto de' suoi pen
sieri: il secondo partia dalle parti, e componendo volea
por salire al tutto ; ma nell'infinito viaggio egli venia
meno, e ricadea sempre alle parti , ed eran queste lo

può dirsi, che da Anassagora a Platone, la filosofia razionale ebbe una


tendenza a congiuogersi colla tradizionale , la quale si manifestò più che
mai in Socrate, e in Platone ricevette il suo ultima compimento. Aristo
tele prese il movimento contrario , ritornando un passo verso Talete, ma rite
nendo 1* influenza della tradizione già ricevuta come ospite dalla filosofia.
(i) Val meglio dire del proprio ragionamento , che della propria ra
gione s poiché la parola ragione viene usata in due sensi , da' quali nasce
in questo argomento un equivoco dannoso. Ragione si usa rare volte nelle
lingue moderne per ragionamento ; più spesso vuol dire la facoltà stessa
di conoscere, o l'intelligenza. In questo secondo senso non sarebbe giusta
T espressione; poiché la intelligenza individuale ( né può essere altro che
individuale) é necessaria tanto nel seguire 1' autorità, come nel seguire il
ragionamento. Questa osservazione può servire a causare di molti equivoci
assai dannosi; e ad interpretar in buon senso le declamazioni di alcuni
filosofi recenti contro la ragione: quelle declamazioni avranno per lo meno
un gran fondo di verità, ove per ragione non s'intenda intelligenza, ma
ragionamento, o sia quell'operazione particolare dell'intelligenza che deduce
l'una dall'altra le verità, non quella che le prime verità medesime conce
pisce: il rinunziare a questa seconda, che coli' autorità si nutre, e ridurre
V intelligenza tutta al ragionamento, è un rinunziare alla più bella parte
dell' intelligenza , è un errore dell' umana baldanza che acceca sè Slessa,
f si fi fonte di tulli gli errori.

<
a5a
scopo solo di sua attenzione che altro non percepiva: il
primo cominciava da Dio, e il secondo dalla Natura-, il
primo viaggiava nelle pure regioni dello spirito, e il se
condo in vano facea tutti gli sforzi per uscire dalla
materia.
Platone congiunse in sè tutte e due queste maniere
di- dottrina. Egli può dirsi discendente da Pittagora per
la via di Archita, e discendente ad un tempo da Talete
per la via di Socrate.
Ciò che v'avea di buono nella tendenza della scuola
pittagorica, era l'intenzione di raccogliere le dottrine
salutari conservate dalla società, che Dio nell' origine
aveva agli uomini consegnate (i). Ciò che v'avea di
buono nella scuola di Talete, era l'esercizio attivo della
umana ragione.
I viaggi di Platone per raccorre i pittagorici insegna
menti son troppo noti. Da Socrate all' incontro egli avea
appreso il metodo di filosofare, ossia di far uso del
proprio ragionamento. E in vero può dirsi che tutta la
dottrina socratica non sia finalmente che un metodo di
ben ragionare su tutte cose, che si presentano alla con-
siderazione nostra : in tal modo eli' era un perfeziona
mento della intehzion di Talete, il primo , si può dire,
che in Grecia abbia preso a pensar da sè stesso (a)-

(i) Negli Opuscoli Filosofici Tom. I, face. 61 e segg. , già feci osservare
che due cose diede Iddio agli uomini recentemente creali: i.° delle verità
positive; 2." mise in movimento, mediante la favella, la loro ragione, che
Don avea modo di muoversi liberamente da sè medesima, ma dovea esser
mossa da qualche principio esterno, ond'avea pur ricevuto 1* esistenza. Io
spero che chi avrà letto quel brano degli Opuscoli, e bene inteso la dimo
strazione che ivi presentasi dell'impossibilità, in cui era l'umana ragione
di dare un libero movimento a sé stessa, senza quell' eccitamento esteriore
della lingua, non dirà che io affermi qui delle cose gratuitamente. Da que
ste due prime cose adunque, ricevute dall'uomo fino da' primi istanti di
sua esistenz1», come da' lor proprj fonti , le due dottrine che ho distinta
procedono. Dalle verità positive nacque la dottrina tradizionale, che gli
uomini dovean conservare nella loro memoria con fedeltà : dal movimento
della laro ragione nacque la scienza razionale, che l' uomo dovea sviluppare
col ragionamento, o coli' applicazione de' prìncipi astratti ricevuti nella
favella , sia ai dati positivi della rivelazione , sia alle sensazioni che sopra
lui faceano gli esseri che compongono l' universo materiale. Così ambiaue
i rami dell' umano sapere si riducono finalmente alla prima causa ; vengono
da Dio; e l'uomo non vi aggiunge sovente che i proprj traviamenti.
(a) Cioè che abbia dato a' suoi studj un ardimento simile a quello ebe
uè' tempi moderni mostrò di dare Cartesio; formandosi la legge, di non
voler ricevere nessuna verità dagli altri uomini , prima d'averla egli stesso
Socra'e però non erasi contentato di ridurre a per
fezione il metodo di Talete (i): egli fede anche un passo,
innanzi nell' applicazione del medesimo. Fino ad Acche-,
Ijo, maestro di Socrate, il raziocinio filosofico non sup
plicava quasi che alle cose fisiche (a):, ci volle più di
nn secolo ( poiché tanto tempo corre dalla .filosofia: dì
Talete a quella di Socrate ), prima che questi, lo tras
portasse dalle fìsiche cose alle morali. Per altro quando
Socrate proferia quella sentenza « le cose che sono so-
« pia di noi nulla hanno a fare con noi » (3), mO-

; ■• ■ .._w tK.il '■'<;■. ji Ji 'i/i-i


t.-:. Tessa ad un rigoroso ragionamento. Indi le sue cadute, indi l'imper-
tcsmì della sua materiale filosofia. Infelice ed' impotente umanità! questo
aii piò nobile sforzo eh' ella faceva colla ragione che la costituisce sìj
non dell' universo.- ma questo sì nobile sforzo non le giovava che a ro-
Meiiila in errori , o a costringerla di confessare in sè un* infinita igno
ranza! Cosi I' Eternò avea stabilito di punire e di confondere J' originaria
tuperbia 1 • . i ■ '. ■ i.: :
(i) Si osservi , che il metodo di Socrate è propriamente quello che si
conviene all' investigazione della verità , scopo di tutta la filosofia jonica ,
cioè di una filosofia essenzialmente indagatrice e sagace. Un tal metodo
parte dall' osservazione, e dai particolari ascende agli universali. Quelli
«ae hanno bevuto fiuo dall' infanzia i pregiudizj contro alla filosofia di
Pla<«, perseguitala in tempi prossimi ai nostri, non perchè falsa, ma
padié i è creduto di vedere ad essa congiunto qualche cosa di elevalo e
2j ipu-ituale; s' immaginano eh' ella segua un metodo di ragionare tutto
nutrano, e che cominciando dalle ipotesi discenda alla spiegazione de*
fitti. Per verità, dopo avere anch' io esaminata questa bisogna , mi son con
nato, che la cosa sta appunto in ragione opposta di ciò che ci predicano
i filosofi sensisti. Sono questi quelli che dimostrano sempre d' avere, pre
cedentemente a tutti i loro ragionamenti sopra i fatti , concepita in mente
una loro ipotesi , e di usar di essa a direzione della loro mente nell' esame
de* fatti. Oso dire, senza temere di errare, che, quanto al metodo di ra
gionare, quello che si trova ne' dialoghi di Platone , è d' una forma infi
nitamente più rigorosa ed esatta di quella che usa Aristotele. Resterebbe
perciò a spiegare onde sia, che ai sensisti sembri di aver solo essi il di
ritto di osservare la natura e di ragionar bene. Troverebbesi la ragione di
ciò in questo, eh' essi hanno prima di tutto preso in mira i risultati delle
due filosofie. La filosofia loro non esce dalla materia; la filosofia contraria al-
fìncootro riesce allo spirito. Ma nella mente de' sensisti è precedentemente
stabilita l' ipotesi , che lo spirito non sia che un puro sogno, o almeno che
ad esso non si possa ragionando pervenire giammai : basta cosi : ciascuno
che ad esso perviene , ha per conseguente il torto , ha un metodo cattivo
di ragionare.
(a) Tuttavia il progresso era evidente. Sebbene i discendenti di Talete
non professassero, che la scienza della natura; il terzo di essi, cioè Anassa
gora , già s* era scostato dalla materialità del suo maestro Anassimene , e
ave» sentilo il bisogno di porre uuo spirito con esisteuza da sè: e Socrate
giovane avea ascoltalo il vecchio Anassagora. , • i . ,. • .
(3) Socrate medesimo si lagnava di Platone come di quello che introducea
B«na sua filosofia delle dottrine straniere , e volea dir quelle che venian da
Pittigora. Vedi il Bruckero, Hist. Pkil. Part. II, c. II. Senofonte altresì ac
a54
strava la provenienza delle sue idee: eli' era pur una
traccia della scuola jonica, che, imponendo all' uomo
di trovare la verità solo col proprio pensiero, lo co
stringeva a muover dalla considerazione delle cose sen
sibili e naturali , e gli metteva avanti un cammino
lento, faticosissimo , pien di pericoli ; sicché il solo
passaggio dalle cose fisiche alle morali fu riguardato per
un miracolo , e avuto per fondazione di una nuova
scuola; perchè in fatti questo passaggio non s'era fatto,
nè si potea fare per gradi, ma si fece per salto, cioè
mediante un uomo al tutto straordinario, come fu So
crate; il quale non venia condotto a ciò dal suo con
siglio, ma trascinatovi dagli evidenti bisogni della so
cietà più adulta: per la quale, troppo povera e fredda
era ormai resa la jonica filosofia; giacché più cresce la
società, e più ella manifesta il bisogno di verità mo
rali perchè esista: e dopo un tanto sforzo di un tanto
ingegno, quale fu Socrate, per passar nella sfera delle
morali dottrine, si mostrò egli medesimo, son per dire,
così lasso e così spossalo, che si fermò nel cammino:
e per non formare una filosofia di un peso insopporta
bile alle forze umane, si consigliò di cacciarne le ricer
che fisiche, e di tener lontane da quella, il più che
per lui si poteva , le speculazioni metafisiche , che oltre
i bisogni della presente vita a lui parean sollevarsi.
Platone adunque pose ne' suoi libri de' ragionamenti
filosofici, e loro aggiunse delle dottrine positive e tra-

cusa Platone « perchè, lasciata la sobria filosofia di Socrate, indagando


« troppo curiosamente la natura degli Dei , ambiva gloria di molte cogoi-
« zioni intempestive ed inani, e, preso dall'amore della rf£«T*k«>/* , e
« della prodigiosa sapienza dell' Egitto , e di Pittagora, si rovesciava a cose
« ridicole quesl' accigliato professor di sapienza w.
Tal era la confessione che i più graudi filosofi dell' antichità , come So
crate e Senofonte, facevano dell'assoluta impotenza dell'umanità decaduta I Ciò
che avea di più grande questa creatura, era l'intelligenza: ma questa intel
ligenza, giunta all'apice di sua perfezione, limitava sè stessa , e si proibiva di
indagar ciò , che vi avea di più eccellente e di più sublime. E perchè un
lai limite? perchè il risultata ch'essa avrebbe prodotto da colali indagini,
prevedeva essa medesima dover esser probabilmente assai più funesto della
flessa ignoranza: giacché l'errore è della ignoranza più tristo. Or questo,
che Senofonte chiamava sobrietà della filosofia di Socrate , è pure una
grande umiliazione per 1' umanità! la ribellione dell' uomo dal Creatore ha
ridotto non solo 1' individuo, ma la specie medesima a tale, che tutto ciò
che potè il suo genio abbandonato a sè stesso in tutta l' antichità , si fu di
convertire V ignoranza in una virtù , e di racchiudere 1" universa sapienti
nel detto « Questo io sò , di nulla sapere » !
a55
dizionali. Ma queste seconde non poteano essere che al
terate : il popolo, nel quale si trovavano sparse, non è
giammai il custode fedele di una dottrina; giacché non
può far due volte la narrazione di uno avvenimento,
senza che v'aggiunga o sottragga, esageri o impiccoli
sca, secondo lo stato della sua fantasia mobilissima e
delle sue passioni troppo incostanti.
Tuttavia queste popolari dottrine, rese strane e ma-
ravigliose mediante gli assurdi , giovavano ancora a Pla
tone per adornare la sua eloquenza impareggiabile, a
cai ponea tanto studio, e con essa ad insinuarsi via più
facilmente dentro agli animi stessi de' molti. Ma intanto
le favole, mescolate co'raziocinj filosofici, e quasi chia
mate malavvedutamente in soccorso di questi, furono
una cagione della guerra sollevata contro al platonismo;
e diedero occasione di credere , che tutto quel sistema
fosse atterrato , per chi potea mostrare assurdi e falsi
«pesti accessori appoggi, di cui Platone, umano menzo
gnero anch' egli, lo fiancheggiò e fornì, confidente pur
iroopo di far l'impossibile, cioè di piacere nel mede
simo tempo a' savj , ed alla società corrotta nella quale
egli wea.
la distinzione fra queste due specie di dottrina mo
strasi assai manifesta nel Menane appunto, e néll' ar
gomento nostro dell'origine delle idee. Perciocché pre
sentata la difficoltà che abbiam tocca di sopra circa
l'origine delle idee, cioè che, per trovare qualche Ve
rità che uom cerca, conveniva averne qualche nozione
preconcepita; chè altramente non si potrebbe riconoscer
per quella che si ricerca, in essa abbattendosi; Platone
non si contenta di sciorla pure col ragionamento, ma
chiama in soccorso la dottrina positiva e favolosa.
La separazione di questa seconda specie di dottrina
da quella prima, si ha manifesta nelle parole stesse di
Platone. Mentre egli spone la prima dottrina, al suo
.«olito vien ragionando; quando entra nella seconda,
ferma di subito il ragionamento, e ricorre a delle au
torità d' un ordine più elevato.
« Questo, dice Socrate, io l'ho inteso, tempo fa,
■ da uomini, e da donne perite delle cose divine ».
A. cui Menone: « Quale fu il loro sermone?
Socrate: « Vero, per quanto a me sembra, e molto
eccellente ».
a56
Menone: « Dimmelo, io te ne prego; e chi mai fur
costoro » ?
Socrate: « Quelli che afferai a ron tal cosa furono uo-
« mini santi, e donne sante, e tutti quelli che diedera
« mai cura di saper render buona ragione delle profes-
« sate dottrine. Oltre di questo, Pindaro, e tutti gli
« altri quanti ve n' ha di divini poeti , ci tramandarono
« alcune altre cose, le quali, attendi di grazia se a te
« sembrino vere. Sostengono essi, che l' animo dell'uomo
« sia immortale; e talora egli partirsi di qui, il che
« vien detto morire; talora qui di nuovo tornarsi; ma
« perire non mai. Il che è cagione ch'essi ci avvertano
« di dover noi menare una vita santissima. Perciocché
'« a quelli che pagarono già le pene dell'antica miseria
« a Proserpina, questa ridà l'anima ogni nov' anni, e
« su al sole li rimanda, fino a che diventano re forti
« per gloria , per sagacità , per sapienza. Appresso poi
« quelli s'appellano fra gli uomini, eroi santi. Percioc-
« chè essendo immortale l'animo, e andato e tornato
« più volte di questa ed in questa vita, e avendo per
« tal modo iteratamente vedute le cose che sono di
« qua e di là oltre, e tutte percepitele, nuli' altro final-
« mente ad imparare loro rimane. Il perchè non fa ma-
« raviglia se 1' uom si possa risovvenire di tutto ciò che
« appartiene alla virtù, e ad altre cose, giacché un
« tempo l'ebbe conosciute. Conciossiachè la natura tutta
« è congiunta seco medesima, e a sè consuonante; ed
« avendo l'animo tutte cose apparate, niente gl'impe-
« disce che, conducendo noi nella memoria dell'uomo
« una qualche cosa (il che chiamiam disciplina), an-
« che 1 altre cose tutte egli richiami, se pure egli e
« così costante nelle sue indagini, che non s' affatichi
« nè stanchi. Il perchè, cercare ed imparare è una re
te miniscenza » (i).
Nel qual passo è chiaro, come Platone chiamasse

(i) Ho osservato più sopra , che Platone credette esser necessario di


ammettere innate nell'uomo tuUe le idee, perchè egli non s'era arredato
del nesso loro, e come l'una s'ingenera, e fluisce dall'altra. In questo passo
di Platone sembra ch'egli abbia veduto nn collegamento delle idee, ed un»
loro dipendenza scambievole; ma se egli conobbe avervi fra le idee ow
qualche colleganza, che gli bastò a spiegare \'associazione delle medesime,
non conobbe quella colleganza però abbastanza da poter dedurne la forni»-
zione di tutte da una sola prima idea madre.
la scienza tradizionale, guasta coro' era dalle favole po
polari e poetiche, in sostegno del suo sistema sulle idee:
picchè ammettendo egli queste innate, la maggior parte
non giungeva a concepire un modo nel quale potessero
esistere nella mente degli uomini prima dell'esperienza
de1 sensi, e d'onde fosser venute. Fu ad agevolare l'in
telligenza popolare, che Platone usò una favola adattata
alla popolare intelligenza ; e questa favola , di cui vestì
i\ suo sistema per renderlo più ricevuto , fece il con
trario effetto, e nocque sommamente al medesimo in
altri tempi; giacché i tempi distruggono le falsità, e
insieme con queste cadon talora per alcuno spazio le ve
nti medesime, che a quelle con un provvedimento fal
be; si sono congiunte, in fino che queste da quelle non
rendano interamente divise e fatte stare da sè: peroc
ché è quando la verità si trova priva di tutt' altri so
stegni, che dura immobile.
Veramente altro è la spiegazione favolosa , che dà Pla
tone del modo onde nell'anima umana sono introdotte
le idee; e altro è il suo sistema filosofico condotto e
stabilito mediante ragionamenti ( non cerco ora se veri,
o fabi ) puramente razionali. All'incontro i maggiori
arrenar) di Platone soglion muovere il campo contro
b parte favolosa del platonismo, e dimostrar gratuito,
£1*0 ed empio, che le anime umane, anzi d'entrar ne'
corpi, sieno state nelle stelle, ed indi più volte venute
quaggiù, e colassù tornate, dove pur, morendo i corpi,
scarcerate ritornino: e di ciò conchiudono, il sistema
di Platone essere un vano sogno, ed una irreligion da
fuggirsi (i) : quasiché quel sistema consistesse in quel
l'accessorio, che Platone v'aggiunse per adornarlo, a
suo credere, e renderlo più attraente alla immaginazione
del popolo, e principalmente di quel fantastico, in
mezzo del quale scrivea.

(i) Non cosi i padri della Chiesa , massimamente s. Agostino. Questi


separa ciò che è erroneo in Platone, e favoloso, da ciò che è filosofico, ed
anche vero. Solamente la prima parte da s. Agostino è combattuta col-
l'autorità della fede cristiana ; sulla parte filosofica egli ragiona. Oppone
anni eguali ad armi eguali: abbatte la favola colla rivelazione, e tratta la
parte razionale col ragionamento.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. I. 33
a58
CAPITOLO II.
i
LEIBNIZIO

ARTICOLO I.
LA DIFFICOLTA' NELLA SPIEGAZIONE DELLE IDEE FD VEDUTA DA LEIBNIZIO.

Leibnizio, uomo fornito d'animo bello e ragionevole,


e di uno spinto pien di conciliazione , trovandosi dis
senziente da Locke, in vece di accrescere ed esagerare
la divergenza di loro opinioni , prese anzi coli' avversa
rio l'atteggiamento il più amichevole e generoso; ed
accostandosi a lui il più che potè, gli si trovò a fronte
in quella posizione, nella quale due uomini di sentir
diverso dovrebbero sempre trovarsi , ove non occupasse
il loro animo l' ostilissima vanità, ma unicamente un
sincero desiderio d'intendersi, e di conseguire insieme
il vero:
E di fatto feci già osservare (i), che fino che Locke ci
dice; « Io ammetto nell'uomo una facoltà di pensare,
una facoltà di passare dalle sensazioni alle* idee astratte,
e quindi di formar de' giudizj e de' raziocinj » • egli non
può essere ragionevolmente contraddetto da persona, se
non fosse per picca, o per gara di contraddirgli. Biso
gna adunque partire da questa sua opinione, come da
un punto di comune consentimento accordato: e quindi
condurre l'avversario ad una ricorca più innoltrata; cioè
a cercare, « in che modo questa facoltà di pensare debba
esser formata , acciocché ella eseguir possa le opera
zioni che Locke medesimo le attribuisce » ; e a vedere,
se sia forse necessario l' ammettere come essenziale a
una tal facoltà qualche cosa d'innato per guisa, che
da ciò quella facoltà appunto debba ricevere l'esser suo.
In tal modo , in luogo di ribatter Locke nel principio
generale del suo sistema, non si fa che invitarlo a trar
via più innanzi le indagini sue sull'umano intelletto: e
di questo lato lo tolse Leibnizio , con una gentilezza
pari alla verità ed alla forza.
Ne' Nuovi Saggi ch'egli scrisse stili'Intendimento umano,
e che furono pubblicati solo dopo la sua morte , Filalete,

(i) Yed. face. 304 e segg. di questo Volume


che difende il sentimento di Locke, concede a Teofilo,
sotto il (jual nome si nasconde lo stesso Leibnizio, che in
nata sia nell'uomo la potenza di pensare: al che questi
non oppone nulla , ma gli fa solo osservare, che « le vere
• potenze non sono giammai delle semplici possibilità,
« e che v' ha sempre in quelle della tendenza e del-
• l' azione » ( i).
E perchè Locke riponeva la potenza di pensare in
una facoltà di riflettere sulle proprie sensazioni, Leib
nizio si fa con lui . ed entra bellamente ad analizzare que
sta facoltà della riflessione; e analizzandola, trova che
l'ammetterla non era ancora un contraddire alla teoria
delie idee innate sanamente intesa, ma ad essa un molto
amcinarsi.
« Forse che il valoroso nostro autore » ( così Leibni-
oo, parlando di Locke) « non si allontana gran fatto
« dal mio sentimento. Perciocché dopo aver egli ado-
« perato tutto il primo libro dell' opera sua a rifiutare
« i lami innati, presi in un certo senso; egli confessa
« poi, al cominciamento del secondo e in progresso,
« che le idee che non hanno l'origine loro dalla sen-
1 Kaone, venir devono dalla riflessione. Ed ora la ri-
« Cessione non è poi altro che un'attenzione data a
« ciò che è già in noi , ed i sensi non ci danno punto
• ciò che noi portiamo con noi. Ciò posto, non si può
• egli affermare, che nello spirito nostro v' ha molto
•d'innato, giacché noi siamo innati a noi stessi, per
«così dire? e che in noi v' ha essere, unità, sostanza,
'durata, cangiamento, azione, percezione, piacere, e
• mille altri oggetti delle nostre idee intellettuali? Ora
« essendo questi oggetti immediali e presenti sempre al
« nostro intelletto ; sebbene non possano essere ogni
«stante appercepiti (2), a cagione de' nostri bisogni;
« perchè maravigliarsi che noi diciamo queste idee es-
■ sere in noi innate con tutto ciò 'che da esse di pen

ti) Lìt. II , cb. 1. Questa osservazione di Leibnizio è qualche cosa ; ma


■on è però bastevole: la tendenza all'azione non esce dal soggettivo: il
grand' uomo non pervenne veramente fino all' oggettivo.
(j) Leibnizio distingueva la percezione dall'appercezione: colla prima voce
esprimeva una modificazione dell'anima nostra , di cui non siam consape
voli a noi medesimi; e colla seconda esprimeva una percezione di cui
siam consapevoli.
i

260
« de (1)? Io feci uso anche del paragone tolto da un
« pezzo di marmo venato, anziché d'un pezzo di marmo
u netto, o delle tavole vuote, che si suol dire tabula
u rasa appresso i filosofi; perchè se l'anima simigliasse
« a queste tavole vuote, le verità starebbero in noi come
« la statua d' Ercole sta in un marmo che fosse al tutto
- indifferente a ricever questa od un'altra figura. Ma
h dove nel marmo v' avessero delle vene che vi trac-
« ciassero la statua d'Ercole meglio che altre forme,
« quel marmo sarebbe a quella figura determinato, ed
« Ercole potrebbe dirsi trovarsi in esso siccome in-
« nato, in qualche modo, sebbene egli bisognerebbe pur
« del travaglio a discuoprir quelle vene, e nettarle, e
« scagliar via tutto il superfluo che impedisce di riuscir
« fuori la statua. Ed è così, che le idee e le verità sono
« innate in noi, siccome inclinazioni, disposizioni, abi-
« tudini, o virtualità naturali, e non già siccome azioni;
« quantunque queste virtualità sien pur sempre accora-
« pagnate di qualche azione, sovente insensibile, che a
« quelle risponde » (2).

(1) In questo passo di Leibnizio io voglio unicamente far vedere da che


lato il filosofo tedesco pigliò il suo avversario. Per altro parmi che Leibni
zio pecchi in questo, eh egli usa in diversi significati l'espressione d'idee
innate. In fatti, uel passo che qui riferisco, per idee innaie si verrebbe uni
camente ad intendere idee acquisite dal nostro intelletto fino dal primo
istante della nostra esistenza; giacché viene a dire Leibnizio: i.° questi
oggetti delle nostre idee li portiamo con noi , 2.0 portiamo pure coti noi
fino dal primo istante del nostro esistere l'intelletto, 3.° questo non può
stare inattivo, avendo manifestamente gli oggetti suoi presenti. Forz'è dun
que che dal primo istante nel quale egli esiste , riceva ancora tutte queste
idee. Ma all'incontro in molt' altri luoghi Leibnizio per idee innate sembra
intendere idee essenziali all'intelletto medesimo, senza le quali non si po
trebbe avere pure il concetto dell'intelletto; e qui medesimo poi le descrive
come virtualità attive dell' intelletto. Ora il non iscambiare questi diversi
significati è pur necessario: perocché si confondono più questioni insieme
coll'adoperare i vocaboli presi in più sensi. Di vero è una questione ben
diversa il cercare se v'abbiano delle idee innate in un senso, o se v'abbiano
delle idee innate in un altro senso. Il cercare se, appena esiste l'intelletto
nostro, egli abbia altresì degli oggetti sui quali esercitarsi , e così formarsi
tosto delle idee; sebbene non ci sia assurdo nell'immaginario anche privo
di questi oggetti, e perciò di queste idee, almeuo per una astrazione; ella
è una questione che riguarda più il fatto che altro: il cercare all'incontro,
se l'intelletto non sia che l'intuizione di qualche idea egli medesimo, e li
potenza di far uso di essa idea per ragionare , sicché il negar le idee sia
un negar l'intelletto; ella è una questione che non versa sul fatto, ma sulla
natura dell' intelletto.
(a) Nouveaux Essais eie, Avant-propos.
26 I
E più innanzi tocca il medesimo suo sentimento con
quest'altre parole: « Mi si obbjetterà questo assioma
■ ricevuto da' filosofi, che niente v'ha nell'anima, che
« non venga da' sensi. Ma bisogna eccettuarne l'anima
« stessa, e le sue affezioni : Nihil est in intellectu , quod
« non fuerit in sensu; excìpe: nisi ipse intellectus. Ora
«T anima racchiude in sè l'essere, la sostanza, l'uno,
a U medesimo, la causa, la percezione, il ragionamento,
« e Unt' altre nozioni che i sensi non avrebbero potuto
«somministrare (i). Ciò s'accorda assai coli' autor no-
• stro del Saggio (Locke), che cerca dedurre buona
« parte delle idee dalla riflessione che fa lo spirito sulla
• ma propria natura » (2).
Da' quali luoghi vedesi assai bene , come Leibnizio
senti in un modo generale e alquanto confuso la pro
posta difficoltà, cioè che una facoltà di pensare priva
al tutto di qualunque nozione , dovea essere una con
traddizione, come a dire una facoltà senza facoltà, una
potenza che non è potenza. Il solo ammettere una po
tenzi di pensare innata, un intelletto innato (egli viene
a dire a Locke ) , è già un ammettere , intendendo ben
addentro ciò che sia un intelletto , qualche nozione o
idra innata , mediante la quale 1' anima intellettiva
possa esercitare il poter suo sulle ricevute sensazioni (3).

ARTICOLO II.
l' ANALISI BELLE POTENZE IN GENERE, E NON l' ANALISI PARTICOLABE DELLA
roTEHZA INTELLETTIVA CONDUSSE LEIBNIZIO ALLA COGNIZIONE DELLA DIFFICOLTA'.

Ma sebbene Leibnizio coli' acutezza della sua mente


siasi avveduto, che non sarebbe possibile di spiegare in

(1) Né pur questo ragionamento di Leibnizio é abbastanza esatto: pe


rocché se qui parla dell'idea dell' efiere, della sostanza ecc. in universale,
l'anima nostra non potea punto somministrarla al nostro intelletto meglio
de' sensi; giacché anche l'anima nostra é un essere, una sostanza ecc.
particolare, come particolari esseri e sostanze sono i corpi: quindi la so
stanza in universale, oggetto dell' intelletto , ha qualche cosa che non si
trova né nei corpi né nell'anima come sostanza, e questa cosa è la sua uni
versalità.
(2) Nouveaux Essais etc. , Liv. II, eh. I.
Ne* passi recati di Leibnizio c' é anche questo sentimento da noi tra-
cotne il meglio di essi, sebbene egli vi sia confusamente espresso,
poiché mescolato con altri concelti da' quali Leibnizio non- ha saputo al
tutto sceverarlo.
aGa
che modo 1' anima pensar potesse , se non s1 ammetteva
in essa qualche cosa d' innato ; , tuttavia egli non era
venuto alla cognizione di questa verità da una accurata
analisi da lui fatta sulla natura della potenza intellet
tuale; ma deducea questo da un principio assai specula
tivo, dalla natura cioè comune di tutte le potenze ch'egli
s'avvisava d'aver ben conosciuto.
« Mi si risponderà » , egli dice in un luogo, « che
« questa tavola rasa de' filosofi viene a dire che l'anima
« non ha naturalmente e originariamente che delle fa
ti collh nude. Ma le facoltà senza qualche atto, in una
« parola, le pure potenze della scuola, non sono che fin-
u zioni, che la natura non conosce punto, e che non
« s' ottengono se non mediante delle astrazioni che fa
u la mente. Poiché dove si troverà mai nell' universo
« una facoltà che restringasi nella potenza sola , senza
« esercitar mai verun atto (i)? egli vi è sempre una

(i) L'alta stima che ho di Leibnizio mi fa essere con lui severo: ogni
negligenza del suo ragionamento merita di notarsi, acciocché apparisca per
quanto poco d'inavvertenza s'introduce l'errore, e come l'errore, per pic
colo che sia ed appena percettibile, è fecondo sempre d'una prole simile
a lui, che in una mente più conseguente, più celere si sviluppa.
Qui adunque Leibnizio , dopo aver detto che le facoltà nude non sono
che un'astrazione, egli ricorre al fatto, dicendo, che in tutto l'universo
non v'ha una potenza oziosa, cioè che senz' alcun atto rimanga, e in istato
di nuda e pura potenza. Questo è un passaggio troppo rovinoso : sembrava
ch'egli parlasse della natura delle potenze considerate in sè stesse , e che
affermasse la loro natura esser tate da dovere aver sempre congiunto un
qualche atto: è una speculazione metafìsica; trattasi di sapere se sia possi
bile una potenza priva di qualunque atto; siamo nel mondo delle mere pos
sibilità. Ora, a provare che non è possibile, l'appellarsi al fatto, chiedendo
« in che parte dell'universo mi si mostrerà una potenza priva di atto » , è
un trarsi fuori del primo discorso , un discendere nel mondo delle realità ,
un appellarsi all'esperienza per provare ciò che è possibile e ciò che non
è possibile. Ma l'esperienza non attesta se non ciò che è, e non è, non
addita che i fatti : ella non vale perciò a determinare ciò che può essere.
£ quand' anche valesse a ciò , chi potrà veramente affermare o negare per
via di osservazione, che iu lutto 1 universo non si trovi uua pura potenza,
la qual non si resti in questo stato di pura potenza almeno un solo istante?
chi potrà esaminarle tutte, sottometterle tutte all'osservazione, in tulli
gì' istanti di loro esistenza ? Dalle osservazioni che si facessero intorno a
ciò, non s'indurrebbe al più, che un argomento conghietturale d'analogia,
e questo a provare un fatto generale sì, ma uon per questo ancora d'as
soluta necessità. Ora il mescolare appunto i due mondi, il reale e il possi
bile , è frequente in Leibnizio. E perchè una tale confusione è di gran
conseguenza nella sua filosofia , non rincresca che io rechi un altro suo
passo , dove si scòrge la stessa congiunzione di ciò che è di fallo con ciò
che è possibile, e chiamato quello a provar questo. Iu un luogo adunque
a63
> disposizione peculiare all'azione, e ad una azione me-
« glio che ad un' altra. E oltre la disposizione, v' ha
- una tendenza all' azione , anzi un numero infinito
» di tendenze in ogni momento, in ciascun soggetto,
« e queste tendenze non sono giammai senza qualche
* loro effetto. L'esperienza è necessaria, io lo confesso,
« perchè 1' anima venga determinata a tale o a tal pen-
o siero, e perch'ella si accorga delle idee che sono in
» noi: ma io non veggo punto, come l'esperienza ed i
» sensi possano darci delle idee. L'anima ha essa delle
- finestre? rassomiglia essa a delle tavolette? è ella come
• della cera ? egli è chiaro che tutti quelli che pensano
»■ tal modo dell'anima, la rendono in fondo corpo-
• in » (i).
Così Leibnizio nota il pericolo di tutte queste ana
logie colle quali si suol favellare tuttavia dell'anima;
ed è appunto mediante tali similitudini, che i Lockiani
s' ingegnano di spiegare il loro sistema : sebbene dopo
di ciò pretendano seriamente d' essere sol essi quelli che
serbano un metodo di ragionare severo e rigoroso; e
tutù i loro avversarj all'incontro sostituire P immagi
nazione al ragionamento; e questo non per altro, se

(gli dice: - Io sostengo che naturalmente una sostanza non potrebb' essere
• senza azione »>; e dopo ciò immantinente soggiunge: « e che non ci hanno
• né pur dei corpi senza movimento » ( N. Essais etc, Avant-propos ). Ora
la prima di queste due proposizioni è astratta; ma la seconda, parlando
de' corpi , Tassi concreta , e quindi non è una proposizione necessaria coni' è
la prima. S'egli si fosse accontentato di dire, che i corpi devono agire
perché sono sostanze ; provato che sono sostanze, e che ogni sostanza deve
agire, tutto sarebbe stato provato. Ma dire che tutti i corpi si muovono,
soggiungendo « L'esperienza già mi favorisce, e non è d'uopo che coll
ii sullare il libro dell'illustre signor Boyle contro il riposo assoluto, per es-
« seme persuasi » ( ivi ) ; questo è un ricorrere a ciò che si fa nel inondo
reale, per determinare i rapporti stabili ed eterni del mondo ideale.
Tanto più ciò è osservabile , quanto che talora nelle idee di Leibnizio
si manifesta un circolo vizioso. Cosi per provare il fatto che l'intelletto
pensi sempre, ricorre alla necessità che ogni potenza abbia un qualche
suo atto; e per provar poi il principio che ogni potenza abbia un qualche
suo alto, ricorre al fatto, e dice: I esperienza mostra che non vi son po
tenze nella natura senza azione: quando la questione « se l'intelletto pensi
sempre », così posta, è appunto la questione se ci sia nel fatto una po.
tenza priva talora d'ogni suo atto.
Onde nasca che nella mente di Leibnizio il mondo ideale ed il mondo
reale non sieno abbastanza distinti, noi lo vedremo in progresso; vedremo
che la natura stessa della sua filosofìa lo portava a non fermare bastevol»
mente una si importante distinzione,
(t) Nouveaiix Essais etc., Liv. II, eh. I.
a64
non perchè dissentono da essi , e perchè non vogliono
starsi contenti a quelle analogie sensibili di cui i Loc-
kiani fanno uso, senza inquietarsene. E pure, escluse cotali
grosse analogie ( così viene a dire Leibnizio ) delle fine
stre dell'anima, della cera, della tavoletta rasa, e con
siderata l'anima qual'è, come una mera potenza di
pensare; voi, badando attentamente, vedrete, che forz' è
dare ad essa un qualche atto, perciocché non v' ha po
tenza di sorte senza un suo atto; ed ora se quest'atto
dee esser conforme alla potenza ond' egli è, conviene
che T atto della facoltà di conoscere abbia seco qualche
specie di cognizione , qualche nozione o idea innata che
formi di quello il termine e l'oggetto, in tal modo l'ar
gomento, pel quale Leibnizio riconoscea la necessità di
ammettere qualche cosa d'innato nello spirito umano,
somigliava a quello onde Aristotele provava, che nel-
1' uomo, a volere spiegare 1' origine delle cognizioni , era
necessario ammettere un intelletto agente, cioè un intel
letto che fosse originariamente e naturalmente in atto.
« Una percezione non nasce naturalmente che da un'al-
« tra percezione, come il moto non nasce naturalmente
u che dal moto » : così il Bruckero espone la dottrina
leibniziana, con parole che parrebbero uscite dalla bocca
stessa di Aristotele (i).

ARTICOLO HI.
LEIBNIZIO VEDE IMPERFETTAMENTE LA DIFFICOLTA', PERCHÈ LA DEDUCI
DA PRINCIPI TROPPO GENERALI.

Tuttavia questa differenza corre fra Aristotele e Leib


nizio, che il primo pervenne a conoscere la necessità
del suo intelletto agente , dall' avere scrutato la potenza
particolare di conoscere^ e non aver saputo trovar modo
da spiegare com'ella formi le idee attuali, s'ella me
desima non fosse in alto fino a principio: mentre il
secondo conobbe la necessità di dar qualche atto primitivo
all'intelletto, dall'avere esaminalo la natura delle po
tenze in genere; le quali, secondo lui, doveano trovarsi
sempre fornite di un qualche atto, acciocché fosser po
tenze, altramente esse nulla sarebbero , e questo alto in-

(i) Period. Ili, Pari. II, Lib. I, c. Vili.


aG5
terno, a parer suo, era l'unico modo di spiegare le mu
tazioni a cui esse poscia soggiaceano.
Ma il dedurre la necessità d'ammettere qualche no
zione innata , dalla natura della potenza in generale,
come fece Leibnizio; è un prender la cosa da tropp'alto,
e non un farsi da vicino alla questione « se la forma
zione delle umane cognizioni esiga qualche cosa d' in
nato per potersi concepire e spiegare » ; nè un entrarvi
dentro ne' visceri, ma un volerla superare con un prin
cipio estrinseco ad essa , senza vedervi il fondo; il che
è maniera assai pericolosa, e fu cagione, come vedremo,
delle imperfezioni del sistema leibniziano. Leibnizio adun
que vide la difficoltà, ma solo in un modo generale:
fide che la formazione delle idee esigeva qualche idea
precedente; ma non vide ciò in quella maniera propria
e particolare , nella quale io ho presentata questa esi
genza: non vide, almeno chiaramente , che la facoltà di
formare le idee dovea essere una facoltà che presuppo
nesse antecedentemente qualche idea , coli' ajuto della
anale ella si formasse i giudizj, e mediante i giudizj ,
tulle Y altre idee.

ARTICOLO IV.
SOLUZIONE LEIBHIZIANA DELLA DIFFICOLTA'.

Ma or ecco i placiti leibniziani:


I sensi non possono produrre le percezioni primitive
dell'anima: impossibile cosa è, che il corpo abbia qual
che azione sull'anima (i): è impossibile che un ente
creato qualunque operi con una vera azione in altro ente
creato: e che la potenza di questi enti esca dalla pro
pria sfera , cioè colla sua azione esca di sè , ed entri
in altri enti: tutte le mutazioni alle quali un ente sog-

(i) E ciò non per la natura diversa essenzialmente del corpo e dell'ani
mi, mentre il corpo non era per Leibnizio che una unione di monadi
•empiici aventi ciascuna le lor percezioni, sicché in un senso le chiama
talora altrettante anime. La ragione perchè escluse l'impulso fisico, non
fu altra che lo «tesso principio generale da lui fermato, che « nessun esser
creato poteva avere un' azione reale sopra qualche altro essere e produrvi
ma mutazione », e che tutte le mutazioni doveano nascere in ogni essere
un principio interiore al medesimo : quest' era il concetto della potenza
4 agircene s'era formato Leibnizio. Tuttavia egli pare dimenticarsi talora
di questo suo principio generale, fondamento di tutto il sistema, e fermarsi
nrlu disparata natura del corpo e dello spirito.
Renivi, Orig- delle Idee, Voi. I. 34
266
giace, non procedono dunque che da un principio in
teriore a lui, il quale contiene l'efficacia di svolgersi in
quell' ente , portando in esso una serie determinata di
mutazioni : queste essendo dall' ente supremo armoneg-
giate per certe leggi stabili fatte consuonanti alle muta
zioni degli altri enti, credesi dagli uomini che le une
sieno cagion delle altre acuì precedono stabilmente, ed
effetti di quelle a cui stabilmente succedono; mentre
non sono realmente che coesistenti : cotal era la dottrina
della celebre armonia prestabilita.
Il principio, che tutte le mutazioni a cui un ente
soggiace non vengono che da una forza interiore al me
desimo, che si sviluppa e si spiega in una serie deter
minala di movimenti, applicavalo Leibnizio a dichiarar
1' origine delle idee, le quali alla nostra mente succes
sivamente si rappresentano siccome una serie di modi
ficazioni o mutamenti che in essa avvengono.
Il nostro filosofo immaginò dunque , che le idee tulle
fossero già nella mente nostra ab origine, e per natura
. della medesima, ma in un modo insensibile, sicché noi
non n'avessimo coscienza alcuna; e le chiamò general
mente percezioni (i), distinguendole dalle appercezioni,
che erano pur le idee, ma dopo già sorta la coscienza
delle medesime,
Egli adunque dicea , che l' idea è cosa dal pensiero
diversa, e quindi ch'ella può trovarsi nell'anima senza
un attuale pensiero, o sia senza un atto dell'attenzione
dell' anima su di essa idea ; « Perchè le cognizioni ,
« idee, o verità sieno nel nostro spirilo, egli dice, non
« è già necessario che noi abbiamo alcuna volta attual-
« mente pensato ad esse: non sono che abitudini nalu-
« rali, cioè a dire, disposizioni e altitudini attive e
u passive , e più che tabula rasa » (2). A cui il lockiano
Filalele facendo la solita obbjezione: « Ma non è egli
« vero, che l'idea è l'oggetto del pensiero »? così ri
sponde il nostro Teofilo : « Io l'accordo, purché voi ag-
« giungiate ch'egli è un oggetto immediato, interno, e che
« quest'oggetto è un'espressione della natura o delle qua-

(1) A me sembra, a dir vero, contradditoria la nozione di percezioni in


sensibili. Sembrami in vece più proprio il dire, percezioni sulle quali no:
riflettiamo, e perciò nou ce ne accorgiamo,
(aj Jf. gssais eie. , L. I.
a(>7
* lità delle cose. Se l' idea fosse la forma del pensiero,
- essa nascerebbe e cesserebbe col pensiero attuale che
« a lei corrisponde; ma essendo 1' oggetto di lui, ella
a potrà essere anteriore e posteriore ai pensieri (i). Gli
« oggetti esterni sensibili non sono che mediati, perchè
- essi non saprebbero agire immediatamente sull'anima.
« Si potrebbe dire che l'anima stessa è il suo oggetto
« immediato interno : ma ciò è in quanto ella contiene
« le idee, ovvero ciò che corrisponde in essa alle cose:
■ poiché Y anima è un piccolo mondo, dove le idee di-
« stinte sono una rappresentazione di Dio , e dove le
« confuse sono una rappresentazione dell'Universo » (a).
In tal modo Leibnizio ammetteva due cose innate
nell' anima: i." le idee insensibili di tutte le cose, 2.* certi
istinti annessi alle idee, mediante i quali noi venivamo
mossi a riflettere sulle idee stesse, a pensare attual
mente quelle, e così a ricevere la coscienza o l'apper
cezione delle medesime; e questi istinti essendo diversi
in ciascun uomo lino dalla sua origine, erano quelli
che producevano in ciascun uomo una serie di pensieri
diversa , giacché servivano a determinar ciascun uomo
a riflettere anzi su queste che su quelle fra tutte le idee
fonate che nel fondo del suo spirito si ritrovavano :
« egli è ben necessario , diceva , che in questa molli-
« tudine delle cognizioni nostre noi siamo determinati
« da qualche cosa a richiamar 1' una idea più tosto che
« l'altra, perocché egli è impossibile di pensare disti 11-
■ tamenle in una sola volta a tutto ciò che noi sap-
« piamo » (3). Insomma egli immaginava ciascuna idea
quasi direi come una piccola potenza a parte, come un
enle fornito della virtù di inclinare la mente a sè : e
per questo spesso chiama le idee anche istinti , attitu-

(1) Io dubito forte se nell'uomo v'abbia mai Videa senza il pensiero; ma


concepisco beosì l'idea senza un pensiero riflesso sopra di lei.
(a) y. Essais etc. L. II, c. I. In questo luogo Leibnizio dice che l'anima
è oggetto dell' intelletto in quanto contiene le idee , perchè le idee sono
l'oggetto prossimo dell'intelletto. D'accordo: ma questo è ben altro, che il
dire, come dice altrove, che l' intelletto si forma le idee dell'essere, della
sostanza ree, perchè percepisce l'anima che è tutte queste cose. In questo
secondo caso l'anima è l'oggetto dell'intelletto, come sono suo oggetto tulle
le cose delle quali egli ha cognizione. Il mescolare queste cose diverse è
uiu inesattezza frequente nel nostro filosofo.
(5) N. Essais etc. , L. I, c. I. 1
a68
dini , disposizioni ecc. , quasi a gara volessero acquistare
nella mente uno stato più lucido, e risvegliarsi produ
cendo di sè nell' uomo un' attuale coscienza : il perchè
variando l'attività di questi istinti ne' varj uomini , suc
ceder dovea, ch'essi venissero internamente incitati ad
un pensiero anziché a tult' altri, cioè a riflettere at
tualmente anzi ad una, che a tutt' altre idee (i).*
Così Leibnizio faceva uscir le idee dal fondo dello
spirito nostro. Ma veggiamo ancora com' egli spiegava
che le une s' incili udessero nell'altre, e come avvenia
che noi potevamo passare alla coscienza distinta di nuove
idee col solo sviluppamento d'una idea sola.

ARTICOLO V.
COME LE IDEE INNATE DI LEIBNIZIO POSSANO VENI» TUTTE SUCCESSIVAMENTE
AD DNO STATO LUMINOSO.

Primieramente richiamisi un altro principio leibni-


ziano , tratto dalle meditazioni sue sulla natura delle
potenze in genere. Egli non sapea concepire altre po
tenze nè altri enti, che al tutto semplici, cioè privi di
parti.
Ma dovendo esser questi tutti diversi fra loro , egli
non potea immaginare in esseri semplici altra diversità
fuori che di percezioni.
Dava adunque a tutti questi suoi enti semplici, ch'e
gli chiamava monadi, delle percezioni, sebbene non a
tutti dava l'aver coscienza delle medesime.
Ciò premesso , ecco il nesso originario delle idee in
un' anima umana.
A prima giunta ella avea le idee di quegli enti sem
plici , o monadi, onde si componeva e risultava il suo
corpo, e le quali noi possiam nominare A , B , C, D ecc.
Ma come 1' anima può avere l'idea di A , se non rappre
sentandosi tutte le percezioni dell' A medesima, giacche
queste percezioni sono quelle che determinano ed indi
vidualizzano V A stessa? L'anima dunque percependo Ai
percepiva tutte le percezioni di A.
Ora supponiamo che le percezioni di A sieno quelle

(i) - Ogni sentimento è la percezione di una verità, e il sentimento na-


- turale è la percezione di una verità inuata ben sovente confusa ». N.
sais etc., L. I, c. IL
2^9
delle monadi a , b, c , d ecc. Dunque quell'anima che
ha la rappresentazione di A , ha inchiusa ancora ne
cessariamente la rappresentazione dell'altra serie di mo
nadi a, b, c, d ecc. Si faccia lo stesso ragionamento
di B, C, D ecc. in particolare. Dopo di ciò, ripetasi il
discorso stesso rispetto ad a , b, c, d ecc. in partico
lare. In vero ciascuna di queste monadi ha la perce
zione ella pure di altre monadi; dunque percependo a,
bt c, d ecc., si percepiscono altresì chiuse in esse quelle
monadi delle quali esse hanno la rappresentazione. È
facile dopo ciò di vedere, che con sì fatta maniera di
ragionare si può pervenire a trascorrere le monadi tutte
dell'universo/ e che le percezioni di queste monadi son
racchiuse le une nell' altre, a quella guisa che i semi
sembrano star gli uni negli altri ravvolti e incartoc
ciati indefinitamente. Quindi 1' anima che percepisce A ,
B, Ceca, percepisce in queste tutto l'universo; e que-
st' è la rappresentazione dell'universo che Leibnizio at
tribuiva a tutte le monadi sue, dalla quale rappresen
tazione emergevano poi a maggior luce quelle percezioni
che avevan più d' efficacia istintiva, o di forza di ra
pire a sè l'attenzione dell'anima, e farsi, quasi direi,
àt essa singolarmente osservare (i). E una tale rappre
sentazione dell'universo, che Leibnizio chiamava lo
schema della monade, dovea (come s'intende da quanto
l'è detto) esser varia in ogni monade, perchè varia-
Tano le prime percezioni in tutte, e l'ordine onde in
quelle prime le altre si racchiudevano ed involgevano.
Quindi « come la stessa città osservata da differenti
« luoghi, non sembra la stessa, e si moltiplica, per
« dir così, coi differenti punti di veduta; egli avviene
« ancora, che per cagione della moltitudine infinita delle
« sostanze semplici, vi sieno in qualche maniera altret-
■ tanti universi , i quali non sono pertanto che rap-
« presentazioni diverse dello stesso universo, secondo
» i differenti punti di veduta di ciascuna monade » .

(i) Ved. le Tesi pel principe Eugenio pubblicate da Leibnizio nel 1714-
ARTICOLO VI.
V MERITO DI LEIBNIZIO IN QUESTA QUESTIONE.

Un fatto sfuggito all' osservazione di Locke si è quello


delle piccole percezioni, o per dir meglio, delle perce
zioni non riflettute.
Questo fatto fu osservato con attenzione da Leibni-
zio, e divenne nell'alta sua mente fecondissimo: ed in
ciò parmi consista il suo maggior merito, nella questione
di che parliamo.
Locke dimentica a tal segno il fatto delle percezioni
che sono in noi senza nostra riflessione, che vorrebbe
escludere dall'anima fino qualunque cognizione virtuale.
« Questo è untai paradosso », osserva Leibnizio, «che
a non si dee credere aver voluto il Locke medesimo
« pigliar la cosa a rigore; giacché il risovvenirsi, a
« qualche leggera occasione, di cose da noi dimentiche,
« è questo solo un avvenimento giornaliero che prova
« quelleldee essere state prima in noi virtualmente » (i).
Il filosofo tedesco stabilisce questo fatto delle perce
zioni non riflettute, dicendo: « Oltreché i nostri sv-
« versarj, sebbene assai valenti, non recano la menoma
u prova di quanto asseriscono sì frequente e sì positi-
« vamente; egli è altresì facile dimostrar loro il con-
« tra rio , cioè a dire, ch'egli non è possibile in modo
« alcuno che noi riflettiamo sempre espressamente su
« tutti i nostri pensieri: altramente lo spirito farebbe
a riflessione sopra ciascuna sua riflessione all' infinito ,
« senza poter giammai pervenire a qualche nuovo pen
ti siero. Per esempio: accorgendomi io di qualche mio
•c sentimento presente, che è quanto dire, pensandolo
» ad esso, io dovrei sempre ancora pensare che io penso
u a quel sentimento, e così via, all'infinito. Ma egli
u è pur necessario che io cessi dal riflettere su tutte
« queste riflessioni, e che in fine io m'abbia qualche
« pensiero e il lasci passare in me senza pensarvi: per-
« ciocché altramente torneremmo continuamente al me-
« desimo » (3).
Questo argomento non solo prova il fatto, ma ancora
la necessità del fatto, perchè noi possiamo venir pure

(1) 19. Essati etc. , L. I, c. I. (a) N. Essais eie., Liv- H, c


a capo di qualche pensiero. Leibnizio reca altresì l'os
servazione a conferma di sua dottrina, e la rinforza di
alcune riflessioni che io stimo bene di riferire; poiché
on tal fatto sfugge assai facilmente, ed è di somma im
portanza in tutta la filosofia dello spirito umano , e
quindi non è mai fermato abbastanza.
« Ci hanno mille indizj », egli dice in un luogo (i),
« a' quali noi possiamo giudicare avervi in noi a cia-
« trono istante un infinito numero di percezioni (2),
» ma senza appercezione e senza riflessione delle mede-
« urne: cioè avervi de' cangiamenti nell'anima stessa,
*de' quali noi non ci addiamo, per ragione che queste
«impressioni son troppo piccole (3), o in troppo gran
• numero, o troppo unite, di maniera ch'esse non
« ianno in sè nulla di ben distinto che da sè solo carn-
• peggi, ma ciascuna è legata ad altre, nè per questo
• ciascuna lascia di fare l'effetto suo, e di farsi sentire
< neh" insieme almeno confusamente. Quindi è che noi
« non badiam più al movimento di un mulino, o di
1 una caduta d'acqua, a cui siamo accostumati per abi-
• tarvi presso da buon tratto di tempo ». « Per giù-
• dicare ancor meglio » , aggiunge in un altro luogo,
• dell' esistenza in noi di queste piccole percezioni che
« noi non sappiam distinguere pel loro affollamento,
« io soglio servirmi dell'esempio dei mugghiamento del
- mare, o di quel fragore di che noi siam colpiti tro-
* vandoci in sulle sue spiagge. Perchè si possa da noi
• sentir quel fragore, siccom1 egli si sente, egli è pur
« necessario sentir le parti (4) che compongono quel

(1) N. Essai* etc. , L. I , c. I.


(?) La parola percezione ha un senso ampissimo nella filosofia leibniziana,
e abbraccia altresì tutti i pensieri.
(5) Io non credo che sia perchè sono troppo piccole ( parlando d'idee ) ,
ma perchè non sono riflesse. Le sensazioni possono esser piccole ; le idee
non possono esser piccole, ma bensì non riflesse.
(4) Leibnizio suppone dunque che si sentano i piccoli romorii , pe' quali
Teniamo all' appercezione del complesso di molti romorii. Sembra che Leib
nizio, qui e in altri luoghi ove descrive la percezione come una vera sensa*
itone , sia in aperta contraddizion con sè stesso. Ma ammesso che la per»
celione sia veramente da noi sentita , senza riflettervi; dico che talora
questa percezione può benissimo risultare da un numero grande di minori
percezioni , ma non mai però infinite , come apparisce dalle osservazioni
ebe metterò alla nota qui appresso. In tal caso 1 alto dello spirito sarebbe
tenplice , ma terminerebbe nel niolliplice , o sia il moltiplico sarebbe per»
37 3
« lutto, cioè a dire il romorio di ciascuna onda, sebbene
« ciascuno di questi piccoli romorii non si lasci sentire
« che nell'insieme confuso cogli altri tutti, e eli' egli non
« si osserverebbe punto , se 1' onda che lo produce fosse
a sola. Poiché, egli è pur necessario che siamo alcun
u poco affetti dal movimento d' una tal onda , e che
u noi abbiamo qualche percezion di ciascuno di questi
u romorii, comechè piccoli sieno: altramente non avrem-
u mo mai la percezione di centomila onde, perocché
u centomila nienti non potrebber fare un qualche co-
u sa (1). D' altra parte, non si dorme giammai così

cepito nel semplice, o ancora, molti sarebber percepiti da uno. Non si


può trovare maggior difficoltà in ammettere questo fatto , che in ammet
tere quello dell unione de' due termini nel giudizio.
(i) Questo ragionamento di Leibnizio non mi sembra esatto. In fatti
non è assurdo il supporre che per produrre in noi una sensazione gli or-
gaui nostri debbano esser tocchi con un certo grado di forza, e che se
questo grado di forza non c' è , la sensazione non nasca , e che perciò ella
cominci quando l'impressione esterna è arrivata a quel grado di forza ne
cessario a produrre nell'organo la sensazione. Iu fatti 1' impressione sul-
1' organo corporeo, e la corrispondente sensazione o percezione, che suc
cede neh" anima, non si vogliono punto confondere insieme. Che qualunque
l'orza esterna , applicata a' sensi nostri corporei , per piccola eh' ella sia ,
produca in essi qualche impressione, ciò sembra indubitato; perocché
quando si dice forza esterna, si dice una cosa che agisce poco o mollo, se
condo che è forte o debile, e però quando questa cosa che agisce si applica
a ciò sopra di che deve agire , opererà qualche effetto senza alcun dubbio.
Ma che a questa leggera azione fatta sugli organi esteriori del nostro corpo
corrisponda sempre nell' anima una sensazione , che necessità induce
a crederlo? Che ogni onda mossa nel mare, muova leggermente 1' aria,
e che l'aria mossa dall'onda tocchi a me gli orecchi; di questo io non
dubito: dirò di più; non solo ogni onda, ma ogni gocciola altresì di cui
I' onda si compone, io crederò volentieri che , movendosi, mova propor
zionatamente 1 aria , e che la piccola ondulazione si comunichi per lutto
intero il corpo dell' aria atmosferica, sicché ella non venga solamente a
lambire gli orecchi a me, ma in una proporzione sempre decrescente anche
gli orecchi degli uomini più lontani. Ma che perciò t sarà ella questa af
fezione del mio orecchio a me sensibile? sarà ella per questo una perce
zione dell' anima mia ? L' esperienza dimostra che l' impressione delle
cose esterne sulle parti sensibili del nostro corpo non basta che sia fatta
al di fuori , ne' capezzoli de' nervicciuoli; ma conviene che a tutto il nervo
sia in su comunicato il tremolamento o la scossa qualsiasi fino al cervello ,
perocché interrotta la comunicazione del nervo col cervello non si dà sen
sazione. Ora ogni impulso dato nei nervi esteriori, per piccolo eh' egli sia,
basterà egli a produrre la quantità di movimento necessaria in tutta la lun
ghezza del nervo al suscilaraento della sensazione ? non potrebb' essere
che 1' impressione de' sensi esterni dovesse aver certo grado di forza
per questo solo , perch' ella sia atta ad essere portata e sospinta fino al
cervello ?


2j3
u profondamente, che non a* abbia qualche sentimento
u debile e confuso : e altri non si scoterebbe del sonno
« al più gran fracasso del mondo , se non avesse qual-

Ma senza di ciò , onde mai Lcibnizio venne a questa sua opinione da


noi confutata ? Da un' applicazione della legge di continuità , legge di cui
egli faceva grande uso. Noi non vogliam certo mettere qui ad esame que
sta legge, nè assegnare i confini della medesima. Basti la seguente osser
vazione , a mettere in chiaro l'applicazione falsa che qui ne fece il grande
filosofo di che parliamo. Quale relazione vi ha mai , io dimando , fra l' im
pressione prodotta negli organi corporei, e la corrispondente percezione del
l' anima ? Secondo la filosofia lebniziana, queste sono cose di natura al tutto
diverse : nè l' una può essere cagione dell' altra : 1' una sussegue bensì al-
1' altra , ma questa è una coesistenza , non è punto uua relazione di causa
e di effetto. Or dunque perchè mai io dovrò percepire ogni menoma im
pressione formata ne miei organi esterni ? Non già per la legge di conti
nuità , giacché fra 1' impressione e la percezione non si dà nessuna scala :
sono cose di natura diversa: la percezione nasce da tuli' ali ro fonte che
dalla impressione. La legge adunque di continuità quand' anco potesse aver
luogo in questa materia, ella non vi avrà luogo che quanto alla serie delle
impressioni da una parte, c quanto alla serie delle percezioni dall' altra :
cioè per la delta legge si dovrà stabilire, che non si possa dare nessuna
impressione forte se non mediante una serie d' impressioni più leggere
precedenti; e medesimamente, che non si possa dare una percezione forte
se non essendo preceduta da tutti i gradi minori dalla stessa percezione
percorsi prima a essere arrivata a quel grado di fortezza. La legge di con-
tuuulÀ adunque tutto al più potrà applicarsi in separato, da una parte alla
ferie delle impressioni fatte negli organi corporei , e dall' altra alla serie
delle percezioni dell'anima: ma ella non potrà mai essere applicata al pas
teggio dall' una all' altra di queste due serie di natura interamente diversa :
e perciò non sarà niente assurdo il supporre che la serie delle percezioni
incominci quando la serie de' gradi d impressione è già avanzata : cioè
he non nasca percezione nel nostro spirito , se non quando i nostri organi
sieno mossi con un certo dato grado di forza : questa è una legge della na
tura, che non si può indovinare , nè dedurre a priori , ma che solo per la
via dell'esperienza, se pur si può, fa d' uopo avvicinarsi a rilevarla. E
1' esperienza appunto, per quanto io la consulti, mi persuade, che non
già ad ogui menomo impulso che ricovano dalle cose esterne gli organi del
mio corpo, corrisponda nel mio spirito una percezione; ma che questa
non vi sia , se non allora che quclì' impulso è di qualche vigore ; e forse
o meno dee esser questo grado di forza, secondo la diversa delicatezza
■li organi , della quale i varj uomini sono forniti. Concedo sì , che accioc
ché vi sia la percezione , non è necessario 1' avvertirla ; unzi vi sono conti
nuamente in noi delle percezioni, alle quali non avvertiamo punto , avendo
'ioi 1' attenzione altrove rivolta c distratta : ina tuttavia è necessario che
io possa avvertirle , quando la mia attenzione rivolgo ad esse : perocché
se io , dirigendo ad esse la mia attenzione, in nessun modo sapessi avver
tirle, dovrei dire ch'esse iu me non esistono, non potrei almeno dire che esi.
slessero. Cosi, avvenendo che, per quanto io intenda a sentir I' odore di
un fiore, punto noi sciita; non posso dir altro se nou, che o quel fiore non
lu odore, o se l'ha, il mio naso è infreddato o intorpidito, sicché sebbene
Ma sempre allo il mio organo a ricevere l' impulsione esterna, tuttavia egli
non é sempre atto a riceverla in modo che risponda Ih percezion dell' odore
neIJu spirilo mio. Dico, che ciò m dee da ine diro almeno con molta pro«
Rosami, Orig. delle Idee. Voi 1. 35
274
« che percezione del primo suo e piccolo cominciamento:
« come non si spezzerebbe mai una corda tirandola col
« più grande sforzo, s'ella prima non si tendesse e al-

Labilità: perciocché potrebbe si avvenire, ch'io non sapessi dirigere la


mia attenzione a quella percezione j mostrandomi 1' esperienza , che per
dirigere la mia attenzione ad osservar qualche cosa che succede in me , io
debbo averne V abilità acquistata: e perchè questa abilità di rivolgere I at
tenzione sopra sè slessi, e dirigerla ove più ne piace, varia assai negli uo
mini, quindi avviene che non tutti sappiano osservare la natura umana , e
che solamente pochi stieno svegliati e pronti a riflettere sopra tutto ciò che
in sè talora sfuggevolissimamente avviene; mentre la maggior parte noi
sanno fare: di che la differenza de' filosofi dal volgo; e la differenza de
varj filosofi fra loro. Or poi egli è vero ancora, che fra l' altre circostanze
che rendon difficile all' uomo il volger la propria attenzione a ciò che più
gli aggrada di quanto nel suo individuo succede , una delle più importanti è
la piccolezza e tenuità appunto della sensazione : perocché le sensazioni
molto vive tirano a sè quasi con violenza la nostra attenzione , e la tolgono
e rapiscono da quelle che sono men vive e naen forti : e all' incontro, per
chè noi a queste propriamente ci rivolgiamo, dobbiamo mettere tanto più
di nostra spontanea vigoria interiore, quanto meno forza hanno esse ad
incitarci e tirarci a sè : sicché le sensazioni minutissime certo è difficile ,
per questo appunto, osservarle in noi medesimi : e s' elle si osservano ,
ciò più facilmente ci riesce assentandoci da tutte 1' altre impressioni forti ,
e ritirandoci in parte oscura e tacita , dove nulla da noi stessi ci tolga e
divella. Sicché 1 affermare assolutamente , che noi non abbiamo qui ora
le piccole sensazioni, a ragione d'esempio, di suoni lontanissimi, de' quali,
per quanto attendiamo , né noi, né gli uomini circostanti sannosi accor
gere; è cosa che non si può fare senza porre qualche dubbio in mezzo.
Concludiamo adunque: tutto lo scopo di questa lunga nota si è di fare os
servare la differenza i.° fra le sensazioni non riflesse, a.° fra le sensazioni
piccole. Leibnizio le confonde, ora parlando delle une, ora delle altre, come
l'ossero una cosa medesima : elle però debbono esser distinte con tutta at
tenzione; giacché da questa distinzione procedono nobilissime conseguenze
nella filosofia dello spirito umano , che ini menerebbero troppo a lungo
volendole io qui esporre.
Sicché la ragione onde noi non ci accorgiamo delle nostre sensazioni, sieno
queste grandi o piccole , è perchè noi non riflettiamo alle medesime, non
volgiamo ad esse la nostra attenzione , non ci pensiamo : perciò le perce
zioni non riflesse sono tutte quelle di cui noi non ci accorgiamo , e perciò non
sappiamo né pure d' averle, e interrogati se le abbiamo , saremmo acconci
a negare; sebbene pur noi le abbiamo.
La piccolezza poi delle sensazioni non è che una delle molte circostanze,
per le quali avviene bene spesso, che noi non riflettiamo sulle medesime.
Quindi ci possono avprp ftallo -—

aupia se medesimi, e d' osservare ciò


che in sè stessi avviene. Le sensazioni piccole non sempre nè necessaria
mente entrano nel numero delle non riflesse, che è quanto dire, nel nu
mero di quelle delle quali noi non ci accorgiamo , e non ne possiamo par
lare: ma tuttavia ben sovente restano in noi non osservale, non riflesse.
Egli è per questo , cioè perchè le percezioni assai piccole sono in noi ben
sovente non riflesse, che si possono confondere colle non riflesse/ confu
sione che accadde appunto di lare al grande Leibnizio. Per altro fra le non
» lunga9se con uno sforzo minore, sebbene questa len-
u sione ed allungamenti successivi non si osservino » (i).
Sicché, l'obbjezione di Locke contro le idee innate,
che, ov' elle fossero, noi lo sapremmo fino da' primi
giorni della nostra esistenza, poiché non vi può aver
cosa nel nostro spirito virtualmente , e di cui noi non
ci accorgiam punto; è interamente frivola. A lei con
traddice il fatto più ovvio , da Leibnizio osservato e
messo a profitto, cioè l'esistenza di alcune percezioni ,
delle quali non abbiaci l'attuale avvertenza: tali son
quelle idee che esistono nella mente nostra, ma tutta
via non ci stanno attualmente presenti allo spirito; che
pure a piacer nostro le richiamiamo, ovvero ci si pre
sentati da sé, per l' associazion loro a qualche fortuita
occasione, che a quelle si leghi e si riferisca. Medesi
mamente, v'hanno in noi, e tuttodì riceviamo delle
percezioni che, o per la loro esilità e piccolezza, o per
la loro moltitudine, o per altra cagione qualunque, si
sottraggono alla nostra attenzione, e in noi, senza che
c\ badiamo, trapassano. In una parola, altro è 1' esister
nel nostro spirito una qualche idea o percezione, ed
altro è che noi attualmente a quella pensiamo e riflet
tiamo : essa può esistere, e noi non pensarci : avviene
allora , che noi l1 abbiamo e non sappiamo d' averla: e
non sapendo d'averla, non possiamo né anco parlarne:
possiam quindi credere e affermare di non averla, men
tre pnre 1' abbiamo.
È in questa maniera, dice Leibnizio, che io suppongo
esistere innate nell' anima umana tutte le idee delle
cose : esse sono in noi come percezioni insensibili (a) :

riflesse talora ve n' hanno di ben vive e forti : giacché ogni qualvolta tutta
la nostra attenzione viene raccolta in un oggetto ancora più interessante o
potente su noi , noi non badiamo agli altri tutti. Quindi Archimede non
si accorgeva del romore dell' esercito romano che entrava in Siracusa ,
trovandosi assorto nella soluzione d'un problema della scienza da lui alta
mente diletta.
(1) N. Essais etc. , Avant-propos.
(2) Questa frase di percezioni insensibili mi fa credere che Leibnizio non
sia stato coerente a sè stesso, mentre, come ho osservato di sopra, talora
egli descrive come da noi sentite le percezioni, sebbene prive di apperce
zione. Come che sia, notisi che la sensazione è tutt' altro dilla riflessione
<"he si fa su di lei : per questa riflessione è, che noi ci accorgiamo d' avere
la sensazione e pensiamo ad essa : senza questa riflessione , noi avremmo
la sensazione bensì nell' auiraa nostra ( diversa al tutto dall' impressione
Eterna fitta nei nostro corpo, la quale può essere non sentita dall' anima );
come la statua segnala in bianco marmo da tenuissime
vene rossigne o giallognole, o d'altro colore, che servir
possano di traccia allo scarpellino per cavarne la statua
stessa : egli avrebbe nel marmo la statua tutta , ideata
e disegnata da quello scherzo della natura. Quindi tutto
lo sviluppo delle facoltà intellettuali consisterebbe, se
condo Leibnizio, in un lavoro dell'anima di render via
più risentite e più forti le idee che sono in essa quasi
direbbesi abbozzate dalla natura , riflettendo su quelle
per accorgersene e averne 1' attuale intuizione, e poter
per essa altrui favellarne.
Grande è 1' uso che fa Leibnizio di questa moltitudine
di percezioni leggiere nate con noi : trae di esse la spie
gazione di quasi tutti i fatti dello spirito. « Son esse,
« egli dice, che formano questo non so che, questi gu-
u sti, queste immagini delle qualità sensibili, chiare nel
« loro tutto, confuse uelle lor parti; queste impressioni
« che i corpi che ne circondano fanno su noi, e che
« racchiudono l'infinito; questo legame che ciascun es-
« sere ha col resto dell' universo. Può anche dirsi che,
« in conseguenza di queste piccole percezioni , il pre-
« sente è gravido dell'avvenire e pieno del passato; che
« tutto è cospirante, av/invoia, cravra, come diceva Ip-
x pocrate ; e che nella minima delle sostanze, degli oc-
« chi penetranti siccome quelli di Dio, potrebber leg-
« gere tutta la serie delle cose dell'universo
- Qua sint, quee fuerint, quee moxfutura trahaniur (i).

ARTICOLO VII.
LEIBNIZIO AMMISE d' INNATO MENO DI PLATONE.

In qualche luogo Leibnizio ci dice, eh' egli ammette


d'innato nello spirilo qualche cosa più di Platone : cioè non
spio la reminiscenza platonica, ma ancora il presentimento.

ma non sapremmo d'averla, nè dire a noi stessi d'averla, nè potremmo


dirlo altrui. Se ciò avvien di rado nell'uomo, che, essendo ragionevole,
vuol avere la riflessione contemporanea alla sensazione; ciò non toglie che
quelle due cose non si possano concepir divise: e divisa realmente si trova
la prima nelle bestie, le quali hanno la sensazione senza la rillessione. Ciò
posto , si vedrà ragione , per la quale io dico che non vi possono esser
percezioni insensibili; mentre vi possono esser percezioni o sensazioni non
accompagnate da riflessione,
{i) !?. JSssais eie, Avant-propos.
Ma non bassi a prendere questo detto di Leibnizio
a rigore. In quanto al presentimento delle cose future,
non vien meno dalle piccole percezioni innate di Leib
nizio, cbe dalle idee di Platone : nè mancarono de' Pla
tonici die dedussero da queste non pure il presentimento
leibniziano, ma la profezia, la divinazione, l' entusiasmo.
Laonde considerando i due sistemi in sè stessi , e
mettendo a parte le conseguenze de' medesimi, sembrami
di poter dire che Leibnizio mise nella mente umana
d' innato men di Platone.
Perciocché questi volea che la mente nostra portasse
seco in questo mondo tutte le idee, a quella foggia che
le ha colui il quale, dopo averle apprese, le ha dimen
tiche ; il che è pure un averle tutte, intere e formate,
ma solo obbliate ; nè richiedesi intorno ad esse altro
lavoro, che quello di richiamarle alla memoria. All'in
contro Leibnizio le descrive siccome traccie leggerissime
d'idee, quasi vene di marmo, o sottilissime crepolature
di una tavoletta : sicché le idee innate di Leibnizio sono
Sottosto abbozzi d'idee, che perfette idee: ed è 1' at
tivila istintiva dell'anima quella che le trae in essere
e le perfeziona ; il che è qualche cosa di più che un
semplice ricordarsi (i).

ARTICOLO Vili.
CIÒ CHI LEIBNIZIO AMMETTE d' INNATO £ PIÙ CHE NON BISOGNA A SPIEGARE
IL FATTO DELLE IDEE.

Se Leibnizio avesse posta l'attenzion sua nel fatto


dell'idee, e si fosse contentato di presentare una spiega
zione del medesimo, io non dubito che la penetrazione
di quell'ingegno non l'avesse dovuto recare alla verità.
Ma in luogo di fermare la sua attenzione propriamente
sogli atti della potenza intellettiva, egli la pose, come
dissi, sulle potenze in genere; e questo il recò ad am-

(i) Filalele obbietta a Teofilo, uell' opera citata di Leibnizio, che per po
tere ammettere delle idee lunate converrebbe avere delle prove cavate dal
l' esperienza sensibile : a cui risponde Teofilo: t Si decide questa questione
« a quel modo onde si prova averci de' corpi impercettibili e de' movi-
* menù invisibili , quantunque certe persone li mettano in ridicolo. Così
" V hanno delle percezioni poco rilevate che non si distinguono già molto
" da poterle appercepire e sovvenirsene , ma esse si fanno conoscere me-
■ diante delle conseguenze certe ». N. Essais eia, L. II, c. L
a;8
mettere nella mente più che non bisognava d'innato.
Ecco come questo gli avvenne.
Non avendo fissata abbastanza la natura della potenza
intellettiva e delle idee , egli non potè far uso di quella
intima connessione che hanno le idee fra loro: per la
quale 1' una ingenera di sè l'altra: diche avviene, che
non sia necessario l'ammettere innati i vestigi di tutte
le idee, com'egli di fare è costretto, ma che sia suf
ficiente l'ammettere innata quell' una idea, che si fa
madre e generatrice di tutte 1' altre.
E veramente la difficoltà da me proposta consiste tutta
nello spiegare il modo, onde noi cominciamo a giudi
care. Che se una sola idea è innata , n' abbiamo già
abbastanza : perciocché col far uso di quest' idea noi
possiamo avere a nostro agio una serie di giudizj; e
questi giudizj darci delle altre idee; e quindi far con
esse altri ed altri giudizj , e cavarne altre ed altre idee.
Convien dunque esaminar bene la genealogia delle idee:
questo esame ci conduce a trovar di tutte un solo sti
pite, una idea prima, l'essenza delle idee, colla qual
sola noi veniamo ad aver perfetta la facoltà di giudi
care. Di questa indagine poco si curò Leibnizio : indi
non potè trovar modo di ridurre le idee innate ad una
sola primitiva, capo ed origine di tutte l'altre.
E non voglio io dire che Leibnizio non vedesse punto
siccome una idea si deduca dall'altra; dico che di que
sto principio non fece tutto 1' uso che far potea ; per
ciocché se fatto egli l'avesse, invece d'ammetter nel
l'anima la percezione dell'universo, e di tutte le sin
golari cose eh' esso comprende, le quali secondo Leib
nizio sono infinite, sarebbegli bastato pur una sola idea
pura, dalla quale, aggiunte le sensazioni, tutte l'altre
idee e cognizioni potevano provenire (i).

(i) Leibnizio, per esprimer ciò eh' egli ammette d' innato, adopera ta
lora l'espressione di cognizion virtuale: di che sembrerebbe eh' egli am
mettesse solamente una cognizione racchiusa in qualche principio : giacché
le conseguenze si dicono virtualmente ne' principj contenersi , perchè da
essi si posson dedurre. Ma più luoghi del nostro filosofo dimostrano che
tutte le cognizioni innate egli le ammetteva esistenti per sè , e non virtual
mente solo in altre comprese. Ecco in fatti un passo dov' egli spiega sè
stesso : « La conoscenza attuale ( delle scienze le più difficili ) non è punto
v innata, ma bensì ciò che si può chiamare la conoscenza virtuale ; come
■ la figura tracciata dalle vene del marmo, è nel marmo prima che la si
ARTICOLO IX.
ALTRI ERBOSI DELLA TEORIA LEIBNIZIANA.

Ma ciò che impedì questo a Leibnizio, si fu, di nuovo


ii dirò, l'essersi più occupato de' principj della metafi
sica generale, che dell'uomo stesso, a cui quei principj
doveano applicarsi.
Questo fece sì, a mio parere, ch'egli non intendesse
troppo a fondo la grande distinzione così, difficile a ben
intendersi , delle sensazioni dalle idee.
Fermato da lui il suo principio , che il corpo non
potea esercitare un'azion vera sullo spirito; egli dovea
far nascere tanto le idee come le sensazioni da una me'
lesi ma energia interiore dell'anima umana: e però fa
scaturire d'un medesimo fonte le idee e le sensazioni:
or dopo di questo, facil cosa era il confonderle insieme,
o il non darsi cura di fissar bene la loro interamente
distinta natura.
« La sensazione, egli dice, è allora in noi, quando
« noi appercepiamo un oggetto esterno » (i); cioè quando
noi non solo il percepiamo, secondo la distinzione ch'egli
fa di percepire e di appercepire, ma ben anco ci ac
corciamo di percepirlo.

m scopra lavorandolo m ( N. Essais etc. , L. I , ci). Ora si veda diffe


renza fra la conoscenza virtuale di Leibnizio, e quella che potrebbe inten
dersi a prima giunta con questa parola di virtuale. Se lo scarpellino, invece
d' aver tracciata tutta la statua dalle vene nel marmo stesso, avesse solo
una regola di meccanica, espressa supponiamo mediante una formola ma
tematica , seguendo la quale nel suo lavoro egli venisse a cavarne una sta
tua , senza saper pur egli medesimo che cosa gliene uscirà; in tal caso egli
avrebbe la cognizione virtuale di questa statua, perchè questa statua
è virtualmente compresa in quella regola : cioè quella regola usata dal
l' artista ha virtù di condurlo infallibilmente alla formazione della statua
desiderata; sebbene in quella regola la statua non esista punto , e non ci si
faccia conoscere: mentre la regola e la statua sono cose d' un genere inte
ramente diverso. Ora non è così, che Leibnizio intende la cognizion vir
tuale: con questa parola intende una cognizione abbozzata, come la statua
dalle vene del marmo disegnata in quello : egli è questa una pura analogia,
poco a dir vero adattata, e che traviò l'uomo grande. ,
(i) iV. Essais etc. , L. II, c. XIX. Con questa delinizione Leibnizio mo
stra che la percezioni sua è cosa priva di senso; il contrario di ciò che disse
iltrore : in questo io non potrei con esso lui accompagnarmi : una sensa
zione non riflessa o non avvertile: ( le quali due parole le prendo come si-
uvoime salvochè 1' una mi accenna meglio la causa dell' avvertenza , la ri-
tkssiooé- l'altra l'effetto della riflessione, cioè 1' avverteuza stessa della
mente) è per me una percezione; s' è avvertila ossia riflettuta, chiainola
appercezione.
a8o
Ora in che modo ci accorgiam noi di una nostra per
cezione, se non pensando alla medesima? Se la sensa
zione adunque non è pur la percezione, ma è Vaccor-
gerci della medesima; ella viene ad essere il pensiero
stesso: e questa confusione fra la sensazione e il pen
siero mena a confondere insieme l' ordine delle cose reali ,
e l' ordine delle cose astratte.
Di vero la sensazione si riferisce ad una cosa reale;
il pensiero all'opposto riflette sopra quella cosa reale,
paragonandola ad un'ideale (i) : quindi in ogni pensiero
v' ha sempre mescolato qualche cosa di universale ; men
tre nella sensazione non v' ha nulla di universale, e
tutto è particolare e reale.
Quindi si vede ragione perchè Leibnizio in tanti luo
ghi mescoli insieme, senz'avvedersi, il mondo degli og
getti reali col mondo delle astrazioni , e trapassi col
discorso dall'uno all'altro senza ben avvertirne l'infinita
distanza.
Recherò qualche esempio di una tale inesattezza (a).
Leibnizio, fatta la distinzione fra le verità necessarie

(i) Leibnizio medesimo dice sensazione è allora, che noi appercepiamo


« un oggetto esterno Or si rammenti ciò che abbiamo già osservato. Se
noi ci accorgiamo di percepire un oggetto esterno, noi non facciamo che
un giudizio interno: noi giudichiamo che esiste un oggetto distinto da noi;
proferiamo una parola interiore , come sarebbe: è la tal cosa. Giudicar poi
interiormente, che un oggetto fuori di noi esiste, non è altro che collocare
quell'oggetto percepito nella classe degli esseri; che attribuire in somma a
lui l'esistenza: e l'attribuire ad un oggetto percepito da' scusi l'esistenza ,
non e che un paragonarlo ad un universale., giacché l'esistenza è uu' idea ,
l'uiiiversalissima di tutte le idee. Fino che io non giudico che l'oggetto da
me percepito esiste fuori di me; fino che non so, che quanto percepisco
di particolare co' sensi appartiene alla classe universale degli esseri: huo
che in somma non considero me e il detto oggetto come due enti o cose
distinte, ma comunicanti nell'esistenza: io non posso accorgermi di perce
pire un oggetto esterno: poiché l'accorgermi di percepirlo, suppone ch'io
sappia ch'egli è qualche cosa: e il sapere ch'egli e qualche cosa, è lo stesso
din considerarlo si come uno (ditale e tal natura) degli enti possibili.
Senza di ciò, io non avrei che la percezione; ma non mi accorgerei d'averla ;
poiché non saprei che cosa io mi sia , che sia la percezioue , che l' oggetto
«Iella medesima. È bensì difficile immaginare uno stato dello spirito colla
sola percezione senza più, senza una rillessiouc del pensiero che ce ne faccia
accorti, che ce la faccia conoscere; perchè uoi uomini essendo dolali di
ragione, facciamo spesso contemporaneamente un alto conoscitivo sulle no
stre sensazioni: ma pure il separare l'una dall'altra è lo stretto passo, die
valicar deve chi aspira a fare qualche progresso iu questa filosofia dello
spirilo umano.
(a) Ne ho recali degli altri più sopra, alla uoU della fate. 2C2.
a8f
e le non necessarie, non s'avvede poi che quelle prime
non possono essere che verità universali od astratte (cioè
che riguardano la mera possibilità delle cose, fatta ec
cezione a Dio che è il solo ente necessario ) : quindi
provar volendo che le verità necessarie non possono
dedursi dall'esperienza de' sensi, egli così prende a fa
gliare: « Se alcuni avvenimenti possono esser preve-
- doti innanzi a qualunque prova che s'abbia fatto di
e tsa, è manifesto, che a preveder quelle verità noi
« mettiamo qualche cosa da parte nostra » (i). Notisi
qui Terrore. Non ignorava già Leibnizio, che l' imma
ginazione nostra non può estendersi a cosa non perce
pii prima co' sensi; questo il sapea bene quel valen-
ioomo; e tantosto soggiunge « che i sensi sono neces-
« sarj a tutte le cognizioni nostre attuali, sebbene non
« sieno sufficienti a darcele tutte » (2). Ma egli dimanda :
fra le cose, di cui noi abbiamo attualmente idea all'oc-
casion de' sensi eccitata, dassi egli il caso che noi pos
sala prevedere, con una vera sicurezza e necessità, che
quella cosa , quell' avvenimento, avverrà ? Così pone la
soa questione. Se noi possiamo avere una simile previ
sione, non è possibile, dice, che questa ci sia data da'
«osi, i quali non somministran che esempj, e casi, e
ira argomentò d'induzione e d'analogia che non cosli-
tiii-ce mai necessità.
Ora certo è, così egli ragiona, che quella facoltà di
prevedere talvolta degli avvenimenti noi ce l'abbiamo:
dunque dobbiamo avere altresì qualche cosa d'innato
che ci dia questa necessità che da' sensi non ci deriva.
Bene; come ci prova, che noi abbiam questa facoltà di
prevedere con certezza degli avvenimenti? (3). Egli ci

(1) N. Essais eie. , Avant-propos. Per altro anche la previsione di mera


conghiettura esige degli universali nello spirito umano , come qualuuque
[•aragone di cosa con cosa: perocché ciò che è comune in più cose, è sem
pre un universale, un'idea.
(1) N. Essais eie. , ivi.
(3) Lcibnizio a questo proposito osserva, i.° che le bestie si prendono
facilmente perchè non hanno questa facoltà di cavar conseguenze generali
e necessarie dalle cose; i.° che gli empirici sono soggetti a molli sbagli
perchè si fidano alla sola esperienza; che a simili errori sono stati soggetti
uomini di stato e capitani, per essersi troppo della loro esperienza fidali;
the i più savj , oltre far uso dell'esperienza, cercano sempre di penetrare,
»' egli è possibili-, nella ragione del fatto, per giudicare quando cada di
dover fare delle eccezioni. Egli poi così soggiunge; «Poiché Sola la ragione
Rosmini. Ong. delle Idee, Voi. 1. 3G
282
arreca F esempio <T Euclide, che da principj posli induce
conseguenze necessarie. Non è egli, in questo ragiona

ta è capace di stabilire delle regole sicure, e di supplire a ciò che manca


« a quelle che sicure non sono, facendo loro delle eccezioni, e finalmente
« di trovare de' legami certi nella forza delle conseguenze necessarie; ciò
» che presta ben sovente il mezzo di prevedere l'avvenimento senza aver
« bisogno di sperimentare il nesso sensibile delle immagini, al che le be-
» stie sono ridotte, per forma, che ciò che giustifica i principi interni
•< delle verità necessarie, distingue altresì l'uomo dalla bestia » (N. Es-
sais eie., Avant-propos ). Sopra tutto questo ragionamento di Leibnizio mi
si permetta di fare le seguenti osservazioni.
Primieramente, i principj di prudenza, che servono di norma nell' ope
rare ad un savio, si fondano bensì sulla previsione di certi avvenimenti,
ma non già sopra una previsione assolutamente , o come dicono i filosofi,
apoditticamente necessaria, ma necessaria solo relativamente o ipotetica
mente. Per esempio, conoscendo io la natura del sole, che è quella di ri-
splendere, io prevedo che all'indomani risplenderà: ma questa mia previ
sione, sebbene fondata sulla cognizione della natura del sole, tuttavia non
ha una necessità intcriore; è certa solamente, data l'ipotesi che il sole
continui il suo giro ; il che potrebbe anche non avvenire , perocché non
involge contraddizione. Sembra adunque che Leibnizio confonda la neces
sità apodittica colla necessità ipotetica: ora la necessità apodittica è sola
quella che dimostra tutta la forza della ragione : perciocché di questa sua
necessità fermissima ed assoluta, nulla va debitrice la ragione ai sensi, ma
tutta la dee ( per dirlo di passaggio ) alla forza infinita d'una incircoscritta
e soprasensibile verità. Pascal cadeva in un errore alquanto simile a questo
di Leibnizio, quando, come ho già osservato altrove ( Opusc. Filos., Voi. I,
face. o5 ), ammetteva fra i primi principj della ragione lo spazio, il tempo,
il movimento, il numero, la materia, affermando, contro i Pirronisti, che
la cognizione di queste cose è così ferma come qualunque altra di quelle |
rhe ci danno i nostri ragionamenti. Lo spazio , il tempo ecc., non sodo
principj della ragione: sono meramente dei dati positivi della sperienza: 1
principj della ragione hanno una interiore necessità ; mentre i dati hanno
dell'arbitrario, dipendono in gran parte dalla volontà del creatore, se non ;
iiercbè sieno in un modo anziché in un altro, certo perchè sieno questi 0
pur quelli alla nostra esperienza sottomessi : i principj della ragione in
uua parola sono di una necessità apodittica; i dati primi dell' esperienza
sono di una necessità ipotetica , cioè sono gli elementi de' ragionamenti
che facciamo sopra un certo genere di cose, perchè ci sono dati per tali,
e non per sè. Che se si volesse confrontare l'errore di Pascal con quello
di Leibnizio, ecco come questo sta a quello: '
I. Primieramente stabiliscasi quanto siegue:
i.° Vi sono i principj della ragione assoluti, come il principio di con
ti addizione ecc. , e questi sono di una apodittica certezza.
2.0 Questi principj della ragione, applicati a qualche genere di cose par
ticolari , producono degli altri principj di una necessità ipotetica, che meglio \
s! chiamerebbero primi dati. Così , applicati i principj della ragioue ai
corpi, noi per astrazione caviamo le nozioni dello spazio , del tempo , del
movimento ecc. Queste nozioni perchè noi le abbiamo, esigono una ipotesi ,
astratta, cioè sono dati astratti.
5 0 Mediante i principj ed i primi dati, si deducono delle conseguenze
relative alle cose reali, come ai corpi reali: queste conseguenze sono di una
necessità doppiamente ipotetica ; cioè csicouo due ipotesi, o due specie di
283
mento, confuso il mondo delle astrazioni col mondo
delle realità? L'esempio di Euclide vale pel mondo delle
astrazioni ; che quel Geometra non facea che dedur ve
rità astratte da principj astratti. All' incontro il predire
avvenimenti futuri, è appartenente al mondo delle rea
lità; e la possibilità di far ciò, non puossi indurre dalla
possibilità di trar le verità della geometria pura da' loro
principj.
Leibnizio adunque stende soverchiamente la potenza
della ragione a priori: cioè non si contenta di stabilire
i confini del suo dominio entro il regno delle verità
astratte, ossia delle mere possibilità, le quali son tutte
immutabili e necessarie: ma le concede di discendere

dati , t." una ipotesi astratta , quali sono i dati dello spazio , tempo ecc. ,
a* una ipotesi concreta , cioè i corpi ecc.
Ora Pascal confuse la necessità apodittica de' principj della ragione colla
necessità ipotetica de* dati primi. Leibnizio poi discese un passo più giù,
e confuse la necessità apodittica de' principi colla necessità doppiamente
ipotetica quale è quella delle conseguenze che si deducono rispetto alle
cose ieL mondo reale.
IL Oltracciò il discorso che fa Leibnizio è rivolto a provare, che noi
eoo possiamo ripeter da' sensi tutte le nostre cognizioni , giacché i sensi
ara ci danno mai cognizioni necessarie e generali , le quali forz' è che noi
k caviamo dal fóndo della nostra propria ragione. Ora vale a provar ciò
non solo qualsivoglia necessità , che si mescoli nei nostri ragionamenti ,
cioè non solo la necessità apodittica, ma ben anco la necessità ipotetica ,
di qualunque grado ella. sia: perchè i sensi non possono dar giammai ne
cessità di qualsiasi maniera. Il ragionamento leibniziano adunque procede
rettamente nel suo tutto; ma si può notare in esso una inesattezza parziale,
che è la seguente. Egli confonde l'operare delle bestie, coli' operare degli
empirici: io affermo che ciò è inesatto; e che anche l'operare degli empi
rici mostra una ragione , un principio che ha la sua generalità e necessità,
e che per ciò in questa parte non può essere dedotto dai sensi. In fatti gli
empirici nel loro operare si dirigono dietro i casi simili; essi dunque par
tono dal principio generale dell'analogia, il quale sebbene gì' inganni fre
quentemente, tuttavia non si rimane dall'essere generale, od almeno essi
lo prendon per tale: essi errano perchè danno troppa fede all'esperienza,
ralla rgano troppo le sue applicazioni: fu cosi, dunque sarà così. Questa
stessa estensione soverchia che danno ai risultati della esperienza, questa
nni versalizzazione de' casi simili , non la potrebber fare limitandosi a' scusi ;
essi usano della loro ragione a far ciò, aggiungono ai fatti una universalità,
ed una necessità che cavano da sé stessi; e sebbene in ciò errano, errano
perù uscendo dal confine de' sensi, e mostrando di avere iu sé stessi la
eoDcezione de\Vuniversale e del necessario. All' incontro non così fanno le
bestie; perocché queste seuza alcuna regola seguono l'istinto loro, o la
loro abitudine: dalle quali cose ricevono una inclinazione e pendenza a
ripetere certe azioni, a preferirne alcune, e fuggirne altre. L'operare adun
que dell'uomo anche empirico, non può confondersi coli' operare dell' ani-
■asle privo di ragione.
a84
nel mondo delle cose reali (i), e di poter ella esser alta
a prevedere alcuni avvenimenti, sebben non sieno questi
forniti che di una necessità meramente ipotetica.
Il che dovea nascere a Leibnizio, come dicea, dalla
natura del suo sistema. Ammettendo egli nello spirito
innata Ja rappresentazione di tutte cose dell'universo,
supponeva nella natura di un tale spirito esser non solo
le idee pure, ma altresì quelle di tutte cose reali che
l'universo intero compongono. Quindi naturai cosa era
per lui l'ammettere, che lo spirito umano traesse di
sè, e, com'egli esprime, dal proprio fondo, non pur
delle verità astratte, ma delle concrete ancora, cioè delle
verità risguardanli le cose reali: e quest'è l'origine del
presentimento leibniziano , cioè della facoltà di preve
dere, ragionando, degli avvenimenti.

ARTICOLO X.
CONCLUSIONE SULLA TEORIA LEIBNIZIANA.
Da tutto ciò che noi abbiam detto può rilevarsi che
Leibnizio
i.° Ammise troppo d'innato, ammettendo innate tutte
l'idee; mentre non è necessario d' ammettere innata che
un'idea sola; bastando quell'una a spiegare la forma
zione di tutte l'altre, date che sieno allo spirito le sen
sazioni , come noi vedremo meglio a suo luogo (2).
a." Troppo estese la forza della ragione a priori, non
contentandosi di concederle i campi astratti della pos
sibilità, ma dandole ancora il diritto di scendere alle

(1) Se si fosse ristretto a concedere alla ragione a priori la dimostrazione


dell'esistenza di Dio, sarebbe stato entro i giusti confini : essendo Iddio la
realità necessaria, non è assurdo che si trovi nella ragione un principio
necessario, onde dedurla. Leibnizio all'incontro deduceva da una applica
zione troppo estesi del principio della ragione sufficiente, la necessità del
l'ottimismo; e quindi dava altresì una certa necessità a tutte le cose, »
tutti gli avvenimenti; giacché tutti "doveano essere quelli fra i possibili, che
mservissero meglio a l'are uscire un mondo ottimo: nò se ne davano due,
secondo lui, che egualmente a ciò servissero; egli escludevali con un prin
cipio da lui chiamalo degl' indiscernibili , principio (per quanto a me pare)
egli stesso arbitrario, sebbene tendente ad escluder l'arbitrio.
(2) La sensazione per Leibnizio sembra che non fosse se non Fa'10
onde noi ci accorgevamo dell'idea di un oggetto esteriore che avevamo in
noi stessi : era l'aito , si può dire, di quell'energia istintiva che il nostro
filosofo aggiungeva alle idee, come abbiamo più sopra toccato.
285
cose reali e contingenti , prevedendole con certezza ta
lora senza bisogno d'esperimento.
Il sistema adunque leibniziano eccede in tutti e due
i suoi capi , che sono la reminiscenza ed il presentimento.
Eccede la reminiscenza leibniziana ; poiché sebbene ella
non consista, come la platonica, nel semplice richiamo
delle idee, ma di più in una attività d'aggiungere alle
medesime luce maggiore che le perfeziona e le compie;
Villana ella si riman sempre una potenza che non fa
«e non dare maggior risalto a quanto preesiste nell'a
nima: mentre all'incontro sembra manifesto anche a
prima veduta, e meglio appare analizzandola, che la
potenza di ragionare consiste altresì in generare delle
More idee, mediante giudizj ch'ella fasulle sensazioni:
t riudizj far può incontanente cbe le si dia una sola
idea al tutto universale, della quale ella si serva come
di esemplare o di norma a giudicare quanto le sensa
zioni lo rappresentano; nè di più quindi si esige perchè
rimanga spiegato un fatto dello spirito così ammirabile
come è il ragionare.
Eccede il presentimento leibniziano; perocché la mente
non può mai dedurre qualche avvenimento futuro, se
non per via di conghiettura , ovvero sotto certe condi
zioni : per esempio, se domani sorgerà il sole, e nulla
d'impedisca l'azione sua, io prevedo che spanderà la
lua luce.

CAPITOLO III.

KANT. .

ARTICOLO I.
KANT IMMETTE SENZA ESAME IL PRINCIPIO LOCX1ANO DELL'ESPERIENZA.

Kant entrò sul campo filosofico in tempo che la filo


sofia moderna avea già fatto de' progressi.
Unì ad un ingegno penetrantissimo, uno studio in
tenso de' filosofi che 1' avevano preceduto; e in parte
s'oppose a tutti, in parte accordo a tutti qualche cosa.
Tuttavia egli vestì il suo eclettkismo di una tale ori
ginalità d'espressioni e regolarità di forme, ch'egli com
parve un sistema nuovo, bene unito insieme, e conge
gnato con mirabile diligenza.
a8G
Lo spirito del suo secolo tendeva al lockismo, ed egli
ne provò tutta l'influenza. Questa filosofia avea sofferte
già diverse modificazioni ed opposizioni : egli marciò col
suo tempo, e fece un passo più innanzi sulla linea me
desima.
Per cominciare la breve esposizione che io sono te
nuto di fare del suo sistema, osserverò primieramente,
ch'egli accordò a Locke, senza esame, il principio, che
tutte le nostre cognizioni vengono dall' esperienza (i);

(i) È pur singolare il vedere siccome Kant ammette questa proposiiione


gratuitamente , e crede ch'essa non abbia bisogno di dimostrazione alcuna.
Egli comincia tutto l'edificio della sua filosofia da questa prima base , ed
ecco come la enuncia: « Non vi è nè pur dubbio , che ogni nostro sapere
m incominci colla sperienza ». Queste sono le prime parole colle quali apre
la Crìtica della ragione pura, secondo la traduzione italiana del Cav. Man
tovani. In tutta l'opera di Kant non si rinviene addotta altra ragione di
questo principio fondamentale , che quella che immantinente segue a quelle
parole, che, come ognun vede, son tutt' altro che critiche, ma bensì as
sai dogmatiche ; ed ella è espressa nella seguente interrogazione : « Da clic
« altro in fatti potrebb' essere al proprio esercizio eccitata la facoltà di
« conoscere , ove noi fosse dagli oggetti che i nostri sensi affettano , e
« parte producono rappresentazioni per sè stessi, parte mettono in azione
« l'attitudine del nostro intendimento a confrontare, accoppiare o dividere
« quelle rappresentazioni, e cosi lavorare la materia bruta delle iraprcs-
•» sioni sensitive, e ridurle a quella tal cognizione degli oggetti, che si
«« chiama sperienza » ? Dopo la quale interrogazione sicuramente conchiude
cosi : « Niuna cognizione adunque precede in noi , risguardo al tempo , la
« sperienza , ed ogni cognizione incomincia colla medesima —. Egli sembra
adunque che tutto il principio della filosofia critica sia stato ricevuto dal
suo autore come una verità comunemente ammessa dal suo tempo, e che
la riguardasse come già passata in giudicato, per così esprimermi, e p<TÒ
non bisognevole di fornirla di solide prove. Il perchè tutta la filosofia cri
tica muove da un principio che non fu sottomesso a critica alcuna, e che
fu ricevuto come un mero pregiudizio f Che se questa prima proposizione,
chiamata ad esame, si ritrovasse manchevole di solidità, ella trarrebbe con
sè la ruina di tutta l'immensa fabbrica del nostro filosofo. Ciò che si può
dire intanto si è, che la ragione addotta da Kant per provare un simile
principio , non è sufficiente a provarlo. In fatti egli domanda : « È egli pos-
« sibile che la nostra facoltà di conoscere sia eccitata al proprio esercizio
« da altro che dagli oggetti esterni »? Ora con questa interrogazione egli
suppone innanzi tratto , che tutte le nostre cognizioni , noi ce le formiamo
dall esercizio della nostra facoltà di conoscere: perciocché se ve n'avessero
d'innate , non sarebbe bisogno che la facoltà di conoscere fosse eccitata .1
formarsele. Questa prova dunque suppone vero ciò ch'ella intende provare.
Ancora , una simile supposizione gli viene negata immantinente da molti ,
e in primo luogo da Cartesio. Questi ammettendo, che l'intendimento sia
in una sua attività essenziale, in un continuo pensiero, nega certo ch'egli
abbia bisogno, per pensare, d'essere eccitato dalle cose esteriori. Iu se
condo luogo, Leibnizio gliela negherà pure a spada tratta : questi gli dirà
di più, ch'egli è impossibile, che gli oggetti scusibili cccitiuo l'intelligenza
a pensare, perocché non possono avere nessuna vera comunicazione con
a87
« ma , egli soggiunse , se tutte le nostre cognizioni ci
t vengono dall' esperienza , egli è necessario che noi
esaminiamo la natura e le diverse specie delle no-
■ stre cognizioni, 2.* vediamo in che modo l'esperienza
« ce le possa somministrar tutte ».
E cih a diritto: Locke prese immediatamente a spie
gar l'origine delle nostre cognizioni : quest'era uno sgar
rare dal metodo legittimo di filosofare, un correre alla
causa, prima d'aver conosciuti ed esaminati i fatti. I
(alti erano le cognizioni umane: egli dovea prima esa
minar bene queste cognizioni, conoscerne intimamente
la oatura, analizzarle, rilevare di quali elementi esse si
compongono, classificarle e distinguerle in tutte le loro
specie. Perciocché spiegare l' origine delle cognizioni
Binane non vuol dir altro, che assegnar loro una causa
proporzionata, dalla quale esse vengano, o certo venir
possano. Ma per potere assegnare una causa idonea e
proporzionata, anzi ogn'altra cosa conviene occuparsi
dell'effetto: nè si può cominciare la ricerca di quella, se
non dopo aver rilevato le qualità e le parti di questo. Per
tale errore di metodo, Locke, in vece di cominciar le ri
cerche sue dal loro naturai principio, saltò dentro nel
mesco: e tolse a far l'impossibile, cioè a dar ragione di ciò
che non conosceva ancora, perchè non l'avea esaminato.

■ '3 ; che ogni azione dello spirito procede da una attività interiore al me-
codino , da degli istinti che vanno soggetti da per sè ad un determinato
sviluppo. Gliela negherà Malebranche, e tutti quelli che da una azione
■rame-aiata di Dio sullo spirito umano deducono le idee del medesimo. Il
pretendere che lutti questi oppositori non si debbano curare, è troppo; nè
n afta al metodo che suol tenere l' autore del criticismo , il quale nelle
opere sue discende a ribattere delle opinioni di questi filosofi assai meno
importanti di quella di cui parliamo. D'altro lato, se quella prima propo
sizione non ha bisogno di esser provata, cònvien dire che tutta la filosofia
critica non ne ha pure bisogno; perciocché in quella proposizione si con
tiene tutto in germe il criticismo. In fatti quella proposizione viene a dire
così: «È certo che Cartesio, Leibnizio, Malebranche ecc., e tutti quelli che
ammettono delle nozioni innate, o venienti da qualche essere diverso da'
corpi , hanno il torto ». Ammessa come certa una tale proposizione , con
viene ricorrere al kantismo per rendere ragione delle cognizioni nostre.
Kant adunque comincia dal porre come certo un principio che rende ne
cessario il suo sistema: non è egli questo un ammettere il sistema mede
simo come certo fino dal principio c avanti ogni prova? Egli è pur questo
un errore frequentissimo de' filosofi : cominciano essi col piantare una pro
posizione che sembra evidente e che implicitamente contiene la loro teo
ria , e questa proposizione si dispensano dal provarla : poscia deducouo
dalU medesima la lor teoria , e la dichiarano bella e provata , giacché è
'1. (lotta da un principio che hanno supposto c fallo passare come ammesso.
a88
ARTICOLO II.
URI NELL' OPPOSIZIONE CHE FECE * LOCKE IMITÒ LEIBNIZIO.

Assalendo Locke da questo lato, Kant avea imitato


Leibnizio.
Questi avea preso Locke dalla parte delle facoltà dello
spirito; Kant dalla parte delle cognizioni che da quelle
facoltà vengon prodotte: facendo però tutti e due un
ragionamento assai simile. Leibnizio aveva detto: « Io
v'accordo, che concedendo allo spirito umano una fa
coltà di riflettóre, oltre la sensibilità, si spiegano tutte
le cognizioni umane: tutto sta poi a vedere se questa
facoltà di riflettere possa esistere senza ammettere eh' ella
sia fornita di qualche nozione innata ». Kant disse a
Locke: « Io v'accordo, che tutte le cognizioni umane
vengano dall'esperienza; tutto sta a vedere se un'espe
rienza che ci produca tutte le cognizioni che abbiamo,
sia possibile, dando allo spirito le sole sensazioni ».
In tal modo Kant veniva facendo osservare che è ben
altro il dire « Tutte le nostre cognizioni vengono dal
l' esperienza » ; ed altro è il dire « Tutte le nostre co
gnizioni vengon dai sensi » (i). Non c' è dubbio, egli
dice, che innanzi che noi facciamo esperienza , cioè in
nanzi che usiamo le facoltà nostre, noi non abbiamo
alcuna cognizione: ma ciò vuol forse egli dire, che l'espe
rienza nostra si faccia mediante la sola nostra sensibi
lità? Ecco una questione ben diversa: per deciderla,
bisogna conoscere quale sia il frutto della nostra espe
rienza (le cognizioni umane ), e vedere se questo fruito
possa dalla sola sensibilità prodursi.

(1) Kant non pare sempre coerente a sè stesso nel valore che attribuisce
alla parola sperienza. Quand'egli dice « ogni nostra cognizione incomincia
u colla sperienza, ma non ogni nostra cognizione nasce dalla sperienza »
( Crii, della R. P., Introd., I), egli prende la parola sperienza per l'uso
de' nostri sensi. All'incontro quando egli domanda « come sia possibile
« l'esperienza » (Ivi, II), pare ch'egli prenda la sperienza come il fonte
di tutte le nostre cognizioni , e che la distingua da' sensi: egli allora prende
la parola sperienza per gli atti del nostro spirito , che sono misti di sensi
bilità e d'intelligenza. Generalmente però è il primo significato ch'egli at
tribuisce alla parola sperienza j ma io amo meglio di prenderla nel secondo,
perchè mi sembra che ciò faccia sentir meglio il fondo della riflessione kan
tiana. Mi allontano dunque alquanto qui dalla sua maniera più comune di
esprimersi , ma non dalla sostanza della sua filosofia : che se questo non
piace , il lettore n'è già avvertito, ed egli può correggere da sè le mio
espressioni.
28g
ARTICOLO III.
cognizione , l'uni a priori, l'altra a postbriori ,
. da tutte le scuole filosofiche.

La prima ricerca dunque che dee fare il filosofo, è


d1 indagare le diverse specie di cognizione umana : la
seconda , supposto che tutte procedano dall'esperienza,
è d' indagare quali siano le condizioni necessarie perchè
sia possibile un'esperienza di tal natura (i) che ci pro
duca tu' te quelle diverse specie di cognizioni che noi
abbiamo. Cominciam dalla prima.
Innanzi Kant, tutti i filosofi avevano concordemente
osservato e ammesso come un fatto patente, che le co-
gnóioni nostre son di due specie; e per distinguerle ,
jppellaronle altre a priori, altre a posteriori. Questa di

ti) I filosofi moderni ammettono generalmente , che tutto il sapere umano


Tenga dall'esperienza; ma non s'impacciano poi a dimandare « che cosa
fta l'esperienza
Vtspcrienza son forse i fatti? I fatti soli non possono formare l'espe-
nesa; poiché fiuo che i fatti non sono da me conosciuti, essi sono rispetta
il su sapere come se non esistessero.
Pfr esperienza s'intendono adunque i fatti da me conosciuti? Se questo è
3 nlsre della parola esperienza, convien cercare inoltre di qual cognizione
èàtli si parli. Intendesi che l'esperienza sieno i fatti conosciuti col solo
lesso? È al tutto falso che col solo senso possano essere veramente cono
sciuti. Quando io dico che un fatto lo conosco pel solo senso, io ho ri
ssoso da questo fatto ogni riflessione della mia mente, ogni mio pensiero
-:pra di lui: in tale stato i fatti sono sensazioni, e non più; nessun con
fronto fra loro , nessuna relazione di sorta. Questi fatti , conosciuti , come
Unto impropriamente si dice, dal solo senso, non possono essere né scritti,
aé parlati , perchè la lingua non ha parole individuali atte ad esprimerli, e
perchè se io li unissi a qualche segno sensibile, col quale renderli parla -
bili, io dovrei far sopra di essi qualche riflessione, il che è contro l'ipotesi
ch'essi mi sieno noti pel solo senso e nulla più.
L'esperienza dunque saranno i fatti conosciuti veramente; or qui entra
necessariamente l' intelligenza s la qual mette in essi una qualche univer
salità, considerando i fatti individuali in relazione coli' essere, e nell'es
sere in relazione fra loro , e quindi formanti delle classi , delle specie ;
questa è certamente quella esperienza che può produrre e produce le no
stre cognizioni. Ma quando questa sia V esperienza di cui s'intende parlare
dicendo che tutte le nostre cognizioni vengono dall' esperienza , in tal caso
si dee prima di lutto cercare che cosa sia la cognizione intellettuale de'
fatti: chf sia questo intelletto , col quale formiamo o almeno completiamo
qoesta esperienza; come debba esser fatta una simigliantc facoltà di cono
scere , acciocché ella sia atta a fare quell'esperienza; e il cercare come
questa facoltà sia fatta, è il medesimo che cercare se , e che cosa ella debba
jver seco d' innato; e questo di nuovo è il medesimo che cercare quali
sieno le condizioni, date le quali , sia possibile l'esperienza di che par
liamo.
Rosmiiu, Or/g delle Idee, Voi. I. 37
. , „
visione è venuta a noi dalle scuole, che la tolsero da'
filosofi antichi: sicché ella conta, si può dire, il suf
fragio di tutte le età.
Limitiamoci a mostrarla ammessa da' filosofi moderni,
i più opposti fra loro in altri punti.
Cartesio ammetteva una cognizione a priori, e in que
sta sola trovava il fonte della certezza.
Locke riconosce la distinzione di cui parliamo. « Quan-
« do le idee, così egli, delle quali noi percepiamo la
« convenienza o la ripugnanza, sono astratte, la nostra
« conoscenza è universale: perocché ciò che di questa
« specie d' idee universali si conosce , è sempre vero di
u ciascuna cosa particolare in cui questa essenza ( i) cioè
« questa idea astratta si trova racchiusa; e ciò che è
« una volta conosciuto di queste idee , dee essere con-
« tinuamente ed eternamente vero ». Ed è osservabile
la conseguenza che di ciò immediatamente ritrae : « Noi
« non dobbiamo adunque cercare le conoscenze generali
« altrove, né altrove possiamo trovarle, che nel nostro
« spirito, e la sola considerazione delle nostre proprie
u idee è quella che ce le somministra » (a). Egli sem
bra impossibile che, avendo osservata l'universalità di
alcune delle nostre idee, avendo osservato altresì che
questa universalità è impossibile che si trovi fuori dello
spirito nostro , egli non siasi poi avveduto della neces
sità d'ammettere, il nostro spirito fornito di qualche
cos'altro oltre a ciò che u lui somministravano i sensi:
ma l'uomo non è talora più lontano dal vero, che di
una linea impercettibile, e pure egli non sa valicare un
così breve intervallo (3),

(1) Locke fa uso della parola essenza, mentre in altri luoghi sostiene che
dell'essenza noi non abbiamo la menoma cognizione. È questa la contraddi
zione perpetua in cui son costretti di avvolgersi que' filosofi tutti , che vo
gliono eliminare dal sapere umano qualche cosa di ciò, di cui l'uomo non
può far senza : ciò che direttamente escludono , dichiarandolo oggetto estra
neo alle ricerche filosofiche, lo introducono poi indirettamente e inavvertita
mente ne' ragionamenti loro, e suppongono quello che prima aveano per
tinacemente negato: ed essi sono necessitati a far cosi: altramente non
potrebbero nè ragionare, né favellare : je essenze delle cose sono elementi
di tutti gli umani pensieri: e la loquela, che è formata sui primi principi
del senso comune, coutien per tutto r espressione delle essenze, c uon si
può proferir parola senza esprimer queste, o a queste alludere.
(2) Lib. IV, cap. ni.
(3) Locke dice , «e Le idee universali non possono essere che od nostro
« spirilo, e In riflessione è quella che glivlv somministra n. Ora iu che
2QI
Condillac, nel suo Corso degli sturi/, afferma che
questa distinzione fra le verità a priori , e le verità
sperimentali , esiste realmente : dalle prime egli fa na-
were V evidenza di ragione, dalle seconde Y evidenza di
sentimento e di fatto.
Leibnizio osserva il medesimo ; se non che dimostra
incora , che la certezza delle cognizioni nostre non può
venirci in alcun modo dalle sensazioni, ma dalla slessa
mente.
Laonde, che la nostra cognizione sia di due specie,
sembra un fatto riconosciuto egualmente da tutte le
scuole contrarie, un fatto, onde si può a buon diritto
partire siccome da un punto bene assicurato , e innol-
trarai in queste ricerche.

nodo la riflessione può somministrargliele? Coli' astrazione, rispoude Locke,


die fa sopra le idee particolari ricevute da' sensi. Ma che cosa è l'astra
sene? L'astrazione non è che una operazione che separa e scompone:
eBa non aggiunge, non crea nulla. Se dunque l'astrazione non fa clic
prendere un idea particolare, ed in essa trovare ciò che v' ha di proprio
e aò che v* ha di comune, ritener questo solo presente all'attenzione , e
abbandonar quello; in tal caso si suppone ch'entri già in quell'idea partico
lare, come un elemento, la nozione comune ed universale, e coli' operazione
detti non fo che separarla per averla sola e pura, e poterla così semplice
cocaderare ed usare a mio agio. Resta dunque a spiegare come questa
aabone universale si trovi nella mente nostra fino dal primo momento che
la mente percepisce un oggetto. Dalla riflessione lockiana ella non viene ,
come vedemmo; perchè la riflessione, ristretta alla potenza di osservare le
idee che già nella mente esistono , e di analizzarle , non vi crea nulla ,
e non fa che rimirarle a parte a parte. Dalla sensazione né pure , per
affermazione di Locke medesimo, che riconosce il senso non poter dare
che percezioni particolari, le quali non hanno in sé alcuna verità univer
sale. Fora' è dunque convenire che fra la sensazione e la riflessione loc
kiana deve esistere una percezione intellettuale, cioè una maniera di per
cepire non meramente passiva com' è quella del senso , ma fornita di una
particolare sua attività, che non riceva meramente la sensazione , ma v'ag
giunga qualche cosa altresì, cioè vi aggiunga la universalità, e così com
ponga le idee particolari da due elementi, cioè i.° dall' elemento indi
viduale offerto dalla sensazione, a.0 e dall' elemento universale aggiunto
dall' attività intellettuale. Composte cosi le idee particolari ( cioè le idee
specifiche riferite ad oggetti reali e particolari ), sopravviene la riflessione
lockiana, e scompone queste idee ne' loro elementi, vi trova 1' astratto, ed
il sensibilej le ricompone, le unisce in quante più maniere a lei piace. Ma
senza ammettere questa percezione intellettuale , la riflessione lockiana non
avrebbe la materia sopra cui esercitar la sua forza, la qual materia sono le
idee particolari composte di universali e di particolari ; nè le sensazioni sole
potrebbero somministrare la detta materia , perocché esse sono semplici, in
teramente particolari, e perciò non possono essere scomposte; e l'una esclude
essenzialmente l' altra , e perciò non possono essere composte ; è dunque
tuia espressione assurda quella di modificare o di trasformare la semplice
modificazione.
ARTICOLO IV.
CARATTERI DELLA COGNIZIONE A PRIORI (l),
E DELLA COGNIZIONE A POSTERIORI.

I caratteri della cognizione a priori fermati da Leib-


nizio e da Kant (2), sono la necessità e 1' universalità.
La sperienza de1 sensi mostra ciò che è, ma non può
mostrare ciò che dee essere. Non v' ha ragione assolu
tamente necessaria di dire che un fatto, perchè avvenne
una, due, o cento volte in un modo, debba avvenire
nel modo stesso anche la centesimaprima volta. Se
dunque i sensi ci danno cognizione delle cose che av
vengono , questa cognizione non è necessaria. La cogni
zione a posteriori è dunque sempre di cosa accidentale:
e la cognizione necessaria non può essere che a priori,
cioè non veniente da' sensi , ma da una intrinseca ne
cessità veduta dalla mente: questo sembra così evidente,
che non se ne possa dubitare (3).
Noi veggiamo levare il sole ogni mattina; e noi pre-
vediam da ciò, che anche all'indomani il sole leverà,

(1) Kant si diede cura di stabilire precisamente il significato di questa


denominazione di cognizione a priori, acciocché non nascano equivoci nel
progresso del ragionamento.
Egli osserva che una tale denominazione viene usata in due sensi.
1. Talora si dice un giudizio a priori quello che si fa prima che nasca
1' avvenimento, sebbene questo giudizio dipenda da una regola sommini
strala dalla sperienza. Veggo scavarsi i fondamenti di una casa j io giudico
eh' essa cadrà, anche prima cha cada realmente. Ma secondo qual regola
giudico io ciò ? secondo una regola somministratami dalla sperienza , qual
è questa! « un corpo senza sostegno cade ».
2.0 Talora poi si dice giudizio a priori quello che dipende da una re
gola che non ci fu somministrata dall' esperienza, ma che ha una necessità
di ragione : per esempio , avviene un fatto ; io giudico che qualche cagione
1' abbia prodotto, senza vedere questa cagione : e ciò non già perchè altre
volte io trovai che ogni fatto ebbe la sua cagione; ma perchè io so che
non può esistere un fatto senza la cagione sua.
Ora in questo secondo significato solamente è che noi parliamo della
cognizione a priori.
(a) Non è che altri filosofi non li vedessero: ma questi fra' moderni si
fermarono più attentamente su tali caratteri , e ne sentirono 1* importanza.
Quasi sempre a questa sola parte si riduce il merito de' grandi uomini in
filosofia : le verità metafisiche sono conosciute , ma non sono distinte e fer
male per modo che apparisca la loro grande fecondità, e occupino il posto
a lor conveniente nt ll albero genealogico delle idee, Bell' animo umano, e
nel conto che di esse si fa. /
(3) Lo stesso scettico Hume riconosce che le verità che consistono ne
rapporti delle idee, sono necessarie.
ma ciò non facciamo che per una semplice conghiet-
tura d'analogia, e non possiamo mostrar di questo nes
suna intrinseca ragione. Di vero non è ripugnanza nel-
l'immaginare che il sole all'indomani non levi,. potendolo
Iddio arrestare nèl mezzo del suo cammino. All' incon
tro il dire , che « la parte può essere maggiore del
tutto » , è così ripugnante, che è impossibile che alcun
uomo 1' ammetta ; non già perchè quegli non abbia mai
veduto avvenir ciò nella sperienza, ma perchè egli vi
sente una interiore impossibilità. Parlisi di una cosa/
che noi non abbiamo mai sperimentata: al più diciamo
non saper noi s' ella avverrà, o in qual modo ella av
verrà; ma per questo solo, che noi non 1' abbiam mai
veduta avvenire, noi non diciamo già ch'essa sia im
possibile; che a dir ciò ci bisogna trovarci una ripu
gnanza intrinseca alla cosa, intuita dalla nostra mente.
La cognizione dunque a posteriori, quale è quella che
ci è somministrata da' sensi, è una cognizione acciden
tale; e oltre di essa, v'ha in noi una cognizione ne
cessaria che si denomina a priori per questo appunto,
che dalla sola mente può essere percepita e sommini
strata , e in nessun modo da' sensi.
L'esperienza de' sensi, oltre il porgerci una cogni
zione priva di necessità, ci porge ancora una cognizione
priva di universalità.
Noi non possiamo levare esperienza , che di un nu
mero di casi determinato. Vogliamo sapere se tutti i
fiori di gelsomino olezzano egualmente ? Rechiamoci nel
giardino: cominciamo a spiccarne uno, due, tre, dieci,
venti, cinquanta: abbiam la pazienza di sottometterli
tutti 1' un dopo l'altro alle nostre narici: da questo,
che pur sappiamo? Se noi non vogliamo estenderci più
là della cognizione che ci ha somministrata l'esperienza,
noi da quelle prove non dobbiamo saper altro, nè più
nè manco, se non che, quell'uno, due, tre, dieci,
venti, o cinquanta fiorellini , di cui abbiam fiutato l'o
dore, tramandaronci l'odor medesimo soave ed acuto:
oltre di qua non possiam andare; qualunque passo che
noi faccia m colla mente nostra fuori di questo termine,
noi il poniamo oltre il limite della sperienza.
Dire che i fiori da noi spiccati, ove li accostassimo
di nuovo al naso, tramanderebbero lo stesso odore, noi
noi possiamo per esperienza ; è solo per una legge di
a94
analogia, che il diciamo ; colla qual legge la mente no
stra trapassa i brevi limiti della sperienza da lei fatta.
Se dopo quelle cinquanta prove, veggendo noi che i
fiorellini rimasti in sul pergolato rassomigliano nella can
didezza, nella forma, in tutto, a quelli da noi spiccati
e fiutati, immaginiamo e conghietturiamo che anch' essi,
dove noi li spiccassimo e li accostassimo al naso , ci
renderebbero lo stesso odor grato ; noi con ciò , lungi
dal tenerci entro i limiti della sperienza, anzi ci esten
diamo analogicamente al di fuori ; cioè, per una simi
litudine, quanto abbiam provato avvenir di cinquanta,
1* applichiamo a delle migliaja , de' quali noi non ab
biam fatto veruna prova. E noi sogliamo fare anche
più : da que' gelsomini accostatici alle narici , noi argo
mentiamo che similmente olezzino gli altri tutti anche
fuori di quel giardino; e trascorrendo coli' immagina
zione per tutti gli altri giardini, e a tutte le piante del
medesimo fiore che son fiorenti nel mondo, noi esten
diamo a tutte il risultato della picciola nostra sperienza.
Nè qui si arresta la mente: essa trapassa i confini
dell'esperienza assai più liberamente (i) : perciocché essa
pensa altresì tutti i gelsomini possibili, e a tutti ap
plica e attribuisce lo stesso odore ; e quindi, scrivendo
in un libro di botanica, assegna quest'odore a dirittura
alla specie di piante che del gelsomino si chiamano.
In tal modo apparisce che la sola cognizione sommi
nistrata dall'esperienza sensibile, non è mai, nè può
essere universale: ma particolare solamente, e più o
meno estesa, secando che io ho avuto il comodo e l'in
contro di farla : sempre però infinitamente ristretta,
verso ad una cognizione universale; la quale, per esser
veramente tale , dee applicarsi e s' applica a tutte cose
possibili d'una specie, le quali sono infinite.
L* universalità della cognizione a priori viene dalla sua
necessità.
Di vero, ciò che è necessario, dee essere sempre cosi
com'è. All'incontro, se io rendo universale una mia
osservazione, per la legge di analogia, questa universa-

(i) L' esperienza nostra sopra qualsiasi cosa , quantunque volte ripetuta ,
é sempre piccolissima, anzi infinitamente piccola, verso i casi possibili: cua
è nulla, in relazione ad un'idèa universale e necessaria, che abbraccia tutto
ti possibile.
ag5
liti noo è al tutto reale e rigorosa: non è, secondo
1* espressione di Kant, che « un aumento spontaneo di
» prezzo, dal valere il più delle volte, al valere per
- tutte » (i).
Ciò però che merita somma attenzione si è, che noi,
e ci limitassimo a' soli sensi, non potremmo nè pur dare
questa universalità di analogia, sebbene imperfetta , alle
nostre cognizioni.
Per vero , se noi ci limitassimo rigorosamente a ciò
m\o che ci somministrano i sensi , noi non avremmo nè
par mai l'idea di una universalità possibile.
ilbiam noi percepiti sei oggetti? noi non potremmo
etili» mente nostra estenderci al settimo, perchè non
l'ibbiam percepito: molto meno potremmo estenderci
i tutti gli esistenti , rispetto a' quali il numero di quelli
che abbiam percepito sarà forse una menoma parte ;
meno ancora a tutti assolutamente i possibili. E per
questa ultima estensione, che si richiede sempre una

(i) Critica della ragione pura, Inlrod., II.


Perciò quando noi rendiamo universale qualche proposizione particolari'
wsotaci dall' esperienza sensibile, non possiamo esser veramente certi di
*5«ta universalità.
Esaminiamo coli' esperienza qualche parte del corpo umano. La "sezione
i innumerevoli cadaveri ci somministra questo risultato, « che il fegato è
ojtioeato alla parte destra del cuore ». Ora proviamoci a generalizzare que
sto iatto mostratoci replicatamele dall' esperienza, dicendo: « Tutti i corpi
■"nani hanno il cuore alla sinistra ed il fegato alla destra - ; saremmo noi
arti assolutamente d' una tale proposizione ? Non già , perdi' ella non ha
nessuna necessità intrinseca: e che so io se possa darsi qualche caso in
contrario ? Indipendentemente dall'esperienza in contrario, io posso sapere
di doverne dubitare. La sperienza può venire in conferma del mio dubbio,
come avvenne nella sezione fatta a Parigi .del corpo di quell' uomo , uei
quale racconta Leibnizio essersi trovato il cuore a destra, ed il fegato po
sto a sinistra.
Ma perché in ciò non nascano equivoci , si osservi , che quando io ge
neralizzo l'esperienza , allora il risultato dell'esperienza io lo concepisco o
come accidentale, o come essenziale alla cosa. È essenziale quando esso ri
guarda ciò che forma e costituisce il concetto sostanziale della cosa : per
esempio, il dire: « l'uomo è un essere fornito di ragione » ; questa è una
proposizione che esprime l' essenza dell'uomo. Quindi quando l'esperienza
ne la dà , io la ricevo come necessaria, in quanto che io non concepisco
l' uomo che mediante 1' elemento della ragione che entra a formarlo : non
potrei dunque pis concepirlo senza ragione; ogni uomo adunque dee aver
la ragione per l'ipotesi; altrimenti non sarebbe più ciò che io chiamo uomo.
Quindi la necessità e 1' universalità sono fondate nella cognizione delle es
senze; e Locke fu di nuovo in contraddizion con sè stesso, quando ammise
Una cognizione veramente universale , e ci negò il conoscer noi le essenze
delle cose. Ma la cognizione delle essenze uon ci è data dall' esperienza
de' sensi di cui qui parliamo.
396
universalità da noi concepita , cioè la concezione della
possibilità indefinita di oggetti che non possono cadere
sotto i sensi , perchè non esistono , ma solo possono
esistere.
Quindi anche questa universalità di analogia, sebbene
non necessaria, sebbene incerta, suppone nella nostra
niente una cognizione a priori non venuta in alcun
modo da' sensi. Se la necessità porta in conseguenza
una universalità di fatto , l'analogia suppone il concetto
in noi di una universalità possibile. Necessità, univer
salità di fatto , universalità possibile , sono concetti che
trascendono ogni esperienza de' sensi, e che non si pos
sono spiegare, se non deducendoli dall'interiore virtù
della nostra mente medesima (1).

(1) Mi si permetta un'osservazione sull'astrazione lockiana. Quest» è


una operazione che Locke attribuisce alla riflessione , e per mezzo della
quale quest'ultima fabbrica le idee generali. Io osservo adunque, che
Locke non analizzò e non descrisse abbastanza esattamente l'astrazione : e
di questa inesattezza nacquero i suoi errori. Supponiamo ( ecco come egli
descrive questa operazione ) che io vegga un oggetto : sia questo un pero
del mio giardino. Io m'affisso in lui a considerarlo: Io paragono attenta
mente cogli altri alberi che si trovano nel giardino medesimo , ed ecco
quali osservazioni io cavo da questo paragone che io fo: i.° primieramente
osservo qualche cosa che l'albero, oggetto delle mie osservazioni, badi
comune con tutti gli altri alberi a cui io lo paragono : questa cosa comune
mi dà l'idea del genere, e volendo esprimerla con una parola, dico: alberai
a.0 in secondo luogo , io osservo che l'albero da me preso in vista, ha qualche
cosa di comune con certi alberi determinati : da questo elemento comune
non a tutti gli alberi, ma ad una classe determinata, io mi formo l'idea
della specie* e nominandola, dico: peroi 3." finalmente io osservo che ol
tre le note comuni a tutti gli alberi , oltre le note comuni a tutti i peri ,
l'albero mio tiene qualche cosa di proprio , a nessun altro comune , e da
questo ho Videa individuale di quell'albero , alla quale non impougo nome
alcuno perchè non ho bisogno di nominarlo individualmente. Ora se io mi
formassi V idea del genere degli alberi , trascegliendo le note comuni sola
mente di tutti gli alberi sottomessi alla mia esperienza , e nel caso nostro,
di tutti gli alberi piantati nel mio giardino, ne verrebbe che questa idea
di genere, questo nome di albero non conterrebbe nulla di più di ciò che
è comune ai detti alberi da me esaminati : quindi io non potrei applicare il
nome albero, se non a quel numero determinato di alberi, ed a quelli iden
ticamente che io ho percepiti co* miei sensi ed esaminati : quindi il nome
di albero non mi servirebbe giammai ad indicare un albero possibile, ov
vero sussistente non da me veduto , e solamente udito altrui a rammentare.
Ma questo è contro l'uso della parola che esprime il genere, nè dà ragione
del servigio che mi presta una simile idea generica: la parola albero assai
più largamente si stende. È facile di osservare che colla parola albero io
segno qualche cosa di comune non già a dieci o dodici alberi particolari ,
non già a tutti gli alberi esistenti , ma bensì a tutti gli alberi immagina
bili t e perciò a tulli gli alberi possibili: quindi nell'idea del genere, espressa
297
ARTICOLO V.
HCME TOCLIE VIA INA PARTE DELLE COGNIZIONI A PRIORI,
E TBAE DI CIÒ LO SCETTICISMO.
Locke avea piantato questo principio: « tutte le idee
vengono dulie sensazioni , e dalla riflessione sulle me
desime ».
Locke avea contemporaneamente riconosciuto questo
fallo: « la cognizione umana è di due specie, 1' una a
priori, l'altra a posteriori ».
Egli non s'era avveduto che queste due proposizioni
non potevano sussistere insieme, ma pugnavano fra loro,
;è V una dovea infallibilmente portar la distruzione
altra.
Se egli si fosse accorto di ciò, senza dubbio egli o
avrebbe riformato il suo principio « tutte le cognizioni
umane vengono dalla sensazione e dalla riflessione» (i);

nedtante un nome comune, si comprende sempre l'idea di una nozione


•pplicabile ad infiniti esseri , l'idea della possibilità di questi esseri : la quale
iJés della possibilità trascende tutti i limiti dell' esperienza , che non s' e-
Stnde fuori di ciò che realmente sussiste, e rare volte 1' adegua. Di più ,
l'idea di genere che io ho, non ha già una estensione dipendente dal nu»
nero degli oggetti che sono stati sottomessi all' esperienza de' miei sensi.
Te uomo che avesse esaminati l'un dopo l'altro tutti gli alberi del mondo,
avrebbe un'idea del genere degli alberi forse più esatta , ma non certo più
tsirsa di quella che avrebbe chi non fosse mai partito da casa sua od uscito
lilla piccola cinta del suo giardino : l' uno e l' altro parlerebbe dell'albero
io genere, annettendo a questa parola un' idea tanto estesa quanto è quella
'iella possibilità che non ha confini di sorte : l'uno e l' altro applicherebbe
questa parola albero a tutti quelli che Iddio potrebbe creare , egualmente
che a quelli ch'egli ha già creato. Ripetolo : io non voglio dire, che chi non
ha fatto delle osservazioni molte sugli alberi, avesse una nozione di questo
genere perfetta come quello che ci avesse molto osservato e sperimentalo :
dico solo, che la nozione di albero di queste due persone, sebbene la prima
forse meno completa ed esatta , tuttavia avrebbe una estensione medesima ,
perocché s' estenderebbe indefinitamente come è indefinito il concetto dei
possibili. Si applichi la stessa osservazione all'idea di specie; e per essa ap
parirà , che queste idee contengono una estensione infinitamente maggiore
di quella che potrebbe somministrare ogni sperienza de' sensi : e che quindi
conviene ricorrere ad un altro fonte per esse: conviene ricorrere ad un
ionie che sia sufficiente a spiegare l'idea di possibilità, la quale in ogni
idea comune si mescola, e ne costituisce la grande estensione, e che non
trova menomamente ne' sensi l'origine.
(i) La riflessione di Locke non è che un' applicazione dell' attenzione
nostra alle sensazioni ricevute o ai nostri interni sentimenti: sicché ella
non aggiunge niente; non fa che avvertire, che trovar ciò che già lo spi
rilo nostro ha percepito. Sta qui 1' errore di Locke. Se Locke avesse posta
la riflessione e non definitola, sarebbesi potuto salvare prendendolo dal
lato suo più favorevole, come io ho già osservato, e come ha tentato di
fare Leibnizio.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. I. 38
298
ovvero avrebbe negato il fatto, che esista una (sogni*
dionea priori, necessaria, universale; come negò l'altro
fatto, che noi possediamo qualche idea di sostanza (i),
perchè il vide macchiato della colpa di non poter sus
sistere con buona pace della sua teoria.
Ma non v' ha errore, celato in una dottrina filosofica,
così picciolo e invisibile nel suo principio, che vi possa
a lungo star senza aumento : 1' errore sviluppasi come
la verità; e sviluppato e ingrandito, mostra tutta la
sua bruttezza e spiega la sua pernicie : non v' ha nulla
d' occulto che non si riveli : e questo fruttificamento ,
questa rivelazion dell'errore è necessaria, perchè si vinca
e svella , com' è necessario che i mali umori traggano
in un tumore, che s'apre deforme, a purgazione e sa
lute del corpo umano.
Hume assorbì la filosofia lockiana coli' educazione;
era divenuta la filosofia del suo tempo: e anche glruo-i
mini che sembrano più indipendenti, sentono l'in
fluenza delle opinioni nelle quali vivono. Ammise dun
que, senza troppe ricerche, come cosa ferma, veniente
a lui dalla tradizion de' maestri, il placito lockiano « noi
non abbiam cognizioni se non quelle che ci vengon da'
sensi ».
Ritenuto questo principio , cominciò ad esaminare
l'altra proposizione pure di Locke, «esiste una cogni
zione a priori » (2) : e ben si avvide tosta , eh' essa

(1) Neil' analisi da me fatta dell'idea di sostanza , ho dimostrato, che la


difficoltà eh' essa presenta a venir dedotta dalle sensazioni , nou nasce che
dall' idea di esistenza che in essa s' inchiude ; giacché noi non potremmo
giammai dalle qualità sensibili trapassare ad un loro sostegno, se noi non
avessimo il concetto dell' ente in universale, e mediante questo concetto ,
pome mediante una regola, non venissimo a conoscere che ripugna imma
ginare le qualità sensibili sole, e che non possono esistere se non in un
soggetto. Ma 1' idea dell' ente è idea di cosa comunissima. Dunque la dif
ficoltà che si trova a spiegare 1' origine di sostanza volendola dedurre da
sensi , è quella stessa che si< trova volendo dedur da questi le idee uni
versali o comuni. Di più, sono le idee di essenza e di sostanza quelle che
producono la necessità delle proposizioni, come ho già osservato (Ved. la
nota i , alla face. 390). Ma Locke, non avendo osservato nulla di tutto ciò ,
negò 1' esistenza dell' idea di sostanza , perchè gli parve ripugnante al sua
principio dell' origine delle idee , e riconobbe 1' esistenza delle nozioni ne
cessarie e universali , e della cognizione a priori , perchè si avvisò che
l'origine di questa si potesse ben comporre col medesimo suo principio.
(a) Egli però esaminò parzialmente quesla proposizione parlando di sola
una parte della cognizione a priori, cioè del principio di causa: ciò fu una
sua inconseguenza} se fosse stato coerente, egli non potea salvarne la più
piccola parte ; il suo discorso 1' annientava tutta (ino all' ultimo atomo.
299
èra inconciliabile col principio ammesso da quella filo
sofia.
Prendiamo, disse Hume, una delle più celebri propo
sizioni a priori : « Ogni effetto dee aver la sua causa » .
Questa necessità, che ogni effetto debba aver la sua
causa, la possiamo noi dedurre dall' esperienza de' sensi?
In verun modo.
In prima , la sperienza sensibile non ci presenta che
fatti, V uno al tutto distinto dall'altro: può essere che
un fatto si veda succedere ad un altro fatto replicata-
mente , come la sensazion del calore succede costante
mente alla sensazione della luce, quando si leva il sole.
Ma questo che è ? una semplice congiunzione di due
fatti, una distribuzion di essi nell'ordine del tempo.
Ma chi mi accerta ch'essi abbiano insieme una connes
sione, qual sarebbe quella di causa e di effetto? Debbo
io dire che un fatto sia cagione dell'altro, unicamente
perchè uno precede, l'altro sussegue? evidente cosa è,
che l'ordine successivo di due cose non mi dà diritto
alcuno a giudicarle necessariamente connesse siccome
causa ed effetto (1).
Pi poi , poniamo che io potessi co' sensi miei perce
pire fra due fatti la connessione di causa e d'effetto
(cosa assolutamente impossibile; mentre i sensi non mi
danno che una congiunzione di tempo); or che diritto
avre* io per questo a conchiudere, che la cosa dee essér
così, che non può essere altramente? I sensi mi direb-
ber sempre quello che è ; non potrebber mai dirmi
quello che dovrebb' essere, cioè questa nécessità che
esprime la proposizione « ogni effetto deb aver la sua
causa ».
In terzo luogo, ov' io potessi pur rilevar da' sensi
i." le cause di molti fatti da me veduti, e 2.* che que'
fatti doveano necessariamente aver le lor cause: quando
anche tutto ciò io percepissi sensibilmente: mi saprei io
per questo ancora, che la cosa dovrebbe seguir cosi sempre,
anche in tutti que' fatti da me non esperimentati punto,
anche in tutti i fatti possibili? Una tale universalità di
cui è vestila quella proposizione « ogni effetto dee aver
la sua causa » , non mi potrebbe in nessun modo ve-

(t) Si può dire che qualunque fallo non è che un effetto : la causa
dunque, come tale, è essenzialmente insensibile, come la sostanza.
3oo
nire da' sensi, perocché l'universalità non si esperimenta,
tutti i fatti esistenti non si esaminano, i possibili non
cadono sotto i sensi, mentre ancora non sono (i).
Da lutto questo Hume conchiuse che la proposizione
u ogni effetto dee aver la sua causa » non si potea de
durre in nessun modo dalle sensazioni.
Ma il principio « che ogni nostra cognizione traeva
l5 origine dalle sensazioni » , era già ammesso irrevoca
bilmente, e circa questo non si potea transigere. Che
dunque restava a fare?
Nuli' altro, che ad usare quel metodo di ragionamento
che avea usato Locke medesimo relativamente all'idea
di sostanza. Un tal metodo consisteva in rigettare come
non esistente tutto ciò che cozzava col principio del
sistema.
L'idea di sostanza Locke la trovò ripugnante col
detto principio: dunque la negò. Hume scoperse una
medesima ripugnanza, non osservata da Locke, della
cognizione a priori: bisognava dunque negare che esi
stesse questa specie di cognizione, ed Hume scelse questo
partito.
Negò adunque che il principio « ogni effetto dee aver
la sua causa » fosse necessario ed universale; in una
parola , affermò che questa enunciazione del senso co
mune degli uomini era falsa.
Ma onde avvien adunque che gli uomini così s' in
gannino? che la suppongano sempre vera, che ne fac-
cian uso continuo in tutti i loro ragionamenti?
Questo fatto, per Hume, era un error di abitudine.
È tanto facile a passare dall' idea di congiunzione a
quella di connessione , è tanto facile considerare l' un
fatto come causa e l'altro come effetto, quando l'uno
costantemente precede e l'altro costantemente sussegue,
che gli uomini scambiano l'una cosa coli' altra, e nomi
nano causa ed effetto tutti que' fatti che vedono con
certa costanza succedersi. Di più, se questo loro erro
neo giudizio si ristringesse a quelle cose che cadono
sotto la loro sperienza , non potrebb' egli mai essere una
proposizione universale: è adunque un loro arbitrio

(i) Io presento il pensiero di Hume con delle ragioni fors' anco più
forti di quelle eh' egli stesso propose ; ma il fondo del ragionamento è il
medesimo.
3oi
quello che la rende universale ; essi estendono l' espe
rienza oltre i limiti a lei prefìssi : dall' esperimentar che
fanno molte volte la successione ed apparente dipen
denza di due fatti , concludono che così sarà sempre,
die così è anche di que' fatti che non esperimentano ,
anche di quelli che non esistono, ma che sono mera
mente possibili , ed inventano in tal modo la proposi
none generale, a cui prestano poi credenza, «tutti gli
effetti hanno una causa ».
Ma questa proposizione , resa dall'immaginazione uni'
versale, non sarebbe ancora necessaria : gli uomini im
maginano dunque ancora , e perfezionano 1' assioma: im
maginano cioè che non possa essere altrimenti, ma che
fatti gli effetti debbano avere una causa di necessità, e
riducono la proposizione a questa solenne sentenza « tutti
|li effetti debbono avere una causa ».
Per tal modo una proposizione necessaria ed universale ,
una proposizione ammessa sempre da tutto il genere
amano, la proposizione « non può esistere un effetto senza
una causa » , sulla quale si fondano quasi tutti gli umani
ragionamenti, che è la base di tutte le verità più ele
vate , di tutte le credenze , e di tutte le dottrine mo
rali , rimase nella filosofia moderna senza alcuna rea
lità ; e si cangiò in un'illusione, in un errore dell'im-
maginazion troppo celere dell'umanità tutta intera; chè
tatta intera l'umanità si convince d'errore dal princi
pio lockiano « che tutte le cognizioni umane hanno
1' origine da' soli sensi! » Così i pochi filosofi de' tempi
prossimi a' nostri , che si sollevarono sopra il senso co
mune, e che lo abbandonarono agl'innumerevoli vol
ghi e alle innumerevoli scuole , hanno trovato e pro
clamato una teoria tanto semplice, un principio tanto
fecondo, che, attribuendo alle sensazioni sole il diritto
di produr le idee , dichiara una vana chimera tutto ciò
che è ragionevole , solo per questo eh' egli non è sen
sibile.
ARTICOLO VI.
■anu paste dilla cognizione a priori si può spiegare co' sensi.

Manifesta cosa è, che Hume non era obbligato a fer


marsi qui: egli dovea estendere assai più le conseguenze
della lockiana teoria.
Lo stesso ragionamento che Hùme fece per abbatter
3oa
la proposizione riguardata da tutti gli uomini per evi
dente « ogni effetto dee aver la sua causa » , si può ap
plicare a distruggere qualunque altro assioma. Ecco la
formola generale di questa distruzione. « Un assioma è
una proposizione necessaria ed universale. Dunque egli
non può venire dai sensi , perchè i sensi non ci som
ministrano nulla di necessario e di universale. Ma noi
non abbiamo altre cognizioni se non quelle che ci ven
gono da' sensi. Dunque noi non possediamo veramente
nessun assioma : noi non possiamo esser certi di nessuna
proposizione necessaria ed universale: in una parola, i
nostri ragionamenti non hanno nessun principio fisso
onde partire » (i).

(i) Hume distinse le cognizioni umane in due classi : cioè in quelle che
consistono in semplici relazioni d' idee , come sono tutti i ragionamenti
della matematica pura; e in quelle che discendono ai fatti , come sarebbe
la proposizione « non si dà effetto senza causa m . Egli si occupò a distrug
gere questa seconda specie di cognizioni a priori , lasciando sussister la
prima. Ma , supposta anche una tale distinzione , questa non poteva sus-
stere meglio dell'altra: la dialettica di Hume, appoggiata al principio loc-
kiano , è un umore corrosivo atto a discioglier tutto , e fin l' ombra di
ogni cognizione a priori, e poi anche di ogni cognizione a posteriori che
si raggiunge alla prima. Il ragionamento che io feci, lo prova : mi sembra
che non si possa replicar nulla solidamente. La distinzione di Hume fra la
cognizione a priori che consiste nella semplice relazione fra le idee , e
quella che discende ai fatti, quand'anche fosse reale, nulla influirebbe nel
l'argomento; si l'una che l' altra verrebbero medesimamente involte nella
mina. Di più , la proposizione * non si dà effetto senza causa » , fino che
si considera in generale, non è altro che una semplice relazione di idee,
come qualunque proposizione della matematica pura , per esempio , « due
cose eguali ad una tena sono eguali fra di loro ». Se poi applicate quella
proposizione a qualche effetto o causa particolare , ella passa ai fatti; ma
ciò conviene pure ugualmente alle proposizioni della matematica pura ,
quando s' applicano ai corpi e se ne trae la matenlatica applicata. La pro
posizione che è vera in teoria , è sempre vera anche nell' applicazione
pratica, quando s'abbia l'avvertenza di calcolare tutti gli elementi che entrano
nella pratica a modificare il risultato della proposizione puramente teoretica.
Quando io voglio calcolare la spinta di una volta che intendo di costruire ,
per conoscere la solidità de* fianchi di che io debbo fornirla , non faccio
che partire da delle proposizioni teoretiche, da delle semplici relazioni d'i
dee circa la natura degli archi, la gravità, il moto ecc.; e prima ancora
di tutto ciò, da delle semplici ragioni numeriche, in somma dalle propo
sizioni di un'algebra e di una geometria pura. La certezza adunque di
quelle proposizioni universali e necessarie che non sono che semplici rcla-
zioni a idee , e di quelle altre che discendono al fatto , è connessa intima
mente insieme: se quella esiste, questa pure esiste: non sono che una cer
tezza sola: le proposizioni che discendono al fatto, non sono che applica
zioni delle proposizioni teoretiche che non presentano che una semplice
relazione d'idee: sono queste che comunicano la forza a quelle; nè la cer
tezza di auelle si può distru?<rere . non si distrugge la certezza di queste
3o3
Il principio adunque di Locke « ogni nostra cogni
zione viene dai sensi » è in contraddizione con questo
fatto « esiste una cognizione a priori » : e chi lo ab
braccia, se vuole esser coerente con sè medesimo , dee
negare ali1 uomo la cognizione di qualunque proposizione
universale « necessaria.
Per sapere che cosa voglia dire, negare qualunque
proposizione universale e necessaria, si osservi che, tolta
via cpialunque proposizione universale e necessaria, è
lolla via la possibilità di qualunque certezza, ed è sta
bilito il perfetto scetticismo.

cifiienea quelle comunicata. Supposta adunque ben divisa la nostra cogni-


nmta priori in proposizioni che non sono che semplici relazioni d' idee,
i a proposizioni che discendono al fatto; egU è manifesto che Humc non
irrebbe esaminato abbastanza il nesso che queste due serie di proposizioni
lamio fra loro ; le suppose indipendenti, mentre le une non sono che de-
Hraiom delle altre. Egli suppose avervi delle proposizioni a priori che
dueendano al fatto senza che sieno applicazioni di proposizioni antecedenti
ftr o sia significanti semplici relazioni d' idee, il che è falso. Fu tratto
in questo errore dall' apparenza che ha la proposizione « non si dà ef
fetto senza causa »: ella parla di effetto, e sembra perciò discendere al
fitto. Ha attentamente considerandola si vede eh' ella non parla di effetti
ra genere, di effetti che sono semplici idee: non parla di questo o quel-
f effetto reale , nel qual caso solo discenderebbe al fatto. In una parola ,
esprime semplicemente una relazione fra due idee , cioè fra l' idea di causa
e P idea di effètto, allo stesso modo come esprime una simile relazione
quest" altra m il numero due è minore del numero dieci », ovvero « i tre
angoli di un triangolo sono eguali a due retti » : proposizioni espri
menti la relazione fra le idee del numero due e del numero dieci, e fra
q-ielle della somma di tre angoli in un triangolo, e di due retti. Quando
poi applichiamo queste proposizioni matematiche ad un numero di cose
reali, per esempio, ad un numero di persone e ad un triangolo particolare
e corporeo ; in tal caso quelle proposizioni discendono al fatto , al modo
stesso ne più nè meno come discende al fatto la proposizione - ogni effetto
dee avere la sua cagione » quando si applica ad un effetto particolare e
reale.
Finalmente la distinzione di Huroe è falsa.
In queste proposizioni concrete o sia che attingono il fatto , il principio
jrenerale onde si deducano vi è mescolato : quindi hanno anch' esse qual
che cosa a priori ; ma la scienza a priori è sempre nel principio stesso ,
nelle proposizioni cioè che esprimono una semplice relazione d idee, seb
bene applicabili al fatto; proposizioni necessarie ed universali. Le cogni
zioni umane adunque si dividono bensì in cognizioni a priori, ed a poste
riori : ma le prime non si possono dividere, come Hume si sforza di fare,
in i.* proposizioni che esprimono una semplice relazione d'idee, a.0 e
proposizioni che discendono al fatto. Queste seconde sono sempre a
posteriori ; sebbene abbiano bisogno delle prime, ond* esser dedotte , al
l' occasione dell' esperienza esterna che presenta de* fatili particolari , a'
quali le proposizioni generali applicar si possono , e con queste portar
di quelli giudizio.
3o4
Primieramente, l'uomo non ha sperimento di tutto
ciò che non cade sotto i suoi sensi.
Tolte via tutte le proposizioni universali e necessa
rie, egli è evidente che noi non abbiamo più alcun
principio, onde dedurre le verità insensibili.
Ciò die non cade sotto i nostri sensi , non si può
che dedurre da ciò che cade sotto i sensi, mediante un
principio: per esempio, io deduco che dee esservi stato
qualche uomo sopra quella spiaggia che vedo segnata
da figure geometriche, sebbene quest'uomo io noi vegga,
coli' ajuto del principio « non si dà effetto senza una
cagione corrispondente ». Ma tolto via questo principio,
io non ho più il mezzo di dedurre da quelle figure geo
metriche esistenza di uomo che le abbia tracciate su
quelle arene; e tutti i principj sono necessarj ed uni
versali di loro naturai altramente non indurrebbero ne
cessità nella conseguenza (i).
Onde deduco l'esistenza dell'anime altrui, onde l'e
sistenza di una sostanza ne' corpi, onde l'esistenza di
Dio? Dagli effetti: dal principio di causalità.
Distrutta adunque la cognizione a priori, distrutta la
certezza di tutto ciò che non mi cade sotto i sensi, di
strutta ben anche la possibilità di conoscere tutto ciò}
che mi resterà? Niente altro che le apparenze de' sensi;
tutto il mondo mi si riduce un ammasso di apparenze,
io stesso non sono a me che una apparenza: un idea
lismo universale, illimitato, scettico, è la conseguenza
di un tale ragionamento: tale è il prodotto inevitabile
del principio lockiano « ogni nostra cognizione deriva
dai sensi » .
Di più, non mi resteranno nè pure le apparenze sen
sibili; io non sarò certo nè pur di queste.
Perchè io sia certo di qualsiasi cosa, mi si esige sem
pre un principio necessario: la certezza non è che una
giusta necessità a cui il mio intelletto si piega : io non
posso aver la certezza de* semplici fenomeni sensibili,

(i) Una proposizione che induca probabilità , anch' essa può contenere
una sua propria universalità e necessità: per esempio, quando d* un sacco
di palle tutte nere, eccetto una bianca, io dico « è più probabile che esca
una nera anziché la bianca «•} questa proposizione è universale e necessa
ria : cioè è necessario non che esca una palla nera , ma che sia piò pro
babile 1' uscita di questa ; sicché anche in tali proposizioni é mescolata
l'idea 4i necessità e di universalità.
3o5
se non m' abbia prima un principio necessario nella
mente, che me ne assicuri l'autorità.
Quando io dicessi a me stesso: « sono certo di venir
modificato, di percepire ne' miei sensi delle sensazioni » ;
in tal caso la mia ragione, ripiegandosi sopra di questa
mia presunzione di certezza, mi dimanderebbe incon
tanente: u e perchè sei tu certo di percepire qualche
cosa? » Rispondendo io: « perchè ciò che sento, è im
possibile che io non lo senta » ; ella immantinente ri-
pi»l\erebbe: « questo è un principio universale, un prin
cipio a. priori, è il principio di contraddizione. Ora chi
mai te ne assicura? egli non ti viene dai sensi, poiché
di' sensi non ti viene nulla che abbia in sè necessità,
come ha pure questo principio, nè universalità, di cui
è pare fornito il principio da te adoperato. Perchè adun
que tu creda immobilmente ai sensi, è necessario che
tu ricorra ad un principio necessario ed universale, ad
un principio a priori, al principio di contraddizione , a
me in una parola. I sensi hanno bisogno d'esser dichia
rati autorevoli dalla ragione ».
La ragione adunque non vien dai sensi: ella dee es
sere necessaria e universale, mentre i sensi sono parti
colari e contingenti. Non si dà dunque veruna certezza,
se non mediante un principio che non vien dai sensi,
e che è necessario, cioè che non può esser altrimenti,
e perciò ancora universale. Bella certezzt sarebbe quella
che non inducesse necessità ! Son certo che la cosa sta
così, ma potrebbe anco stare in altra maniera! Non è
questa una contraddizione? Perchè dunque noi crediamo
ragionevolmente ai sensi, dobbiamo avere una ragione
di creder loro: e questa ragione non può venir dai
sensi, perchè ci smarriremmo, se ciò fosse, in un ri
corso di ragioni all'infinito.
La distruzione adunque della cognizione a priori, trae
seco di naturai conseguenza anche la distruzione della
cognizione a posteriori: la cognizione a posteriori non
esiste se non mediante un principio di ragione il quale
sia necessario ed universale, ed il quale perciò non venga
dai sensi : il principio dunque di Locke « ogni, cogni
zione umana non ha V origine che da' soli sensi » va a
finire in un dubbio assoluto, universale; che dico io in
un dubbio ? il dubbio stesso non potrebb' essere senza
un principio di ragione indipendente dai sensi; che ci
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. I. òg
3oG
costringesse di dubitare (i): va a finir dunque nella di
struzione piena, assoluta, di qualunque nostra cogni
zione: non è già solo impossibile che l'uomo sia certo}
è impossibile ch'egli dubiti: è impossibile la ragione:
l'uomo adunque è spogliato, per questo principio loc-
kiano , della sua prerogativa speciale, dell' intelligenza.
0 convien dunque negare un fatto così luminoso, qual
è quello, che l'uomo è un essere ragionevole; o con
vien rinunziare al funesto principio « ogni cognizione
umana viene dai sensi » (2).
Queste ultime conseguenze, non tirate nè pure da
Hume, non vengono men necessarie dal principio loc-
kiano: non si può fermarsi, quando il principio è
ammesso; tutte le conseguenze ne debbono da quello sca
turire inesorabilmente; la sua fecondità dee essere inte
ramente esausta; e s'egli è un principio erroneo, questa
fecondità partorisce finalmente la distruzione di tutto
ciò che è vero , di tutto ciò che è : siate coerente al
più piccolo degli errori, e lasciatel produrre tutta la
prole di cui è gravido ; voi non finirete a raccogliere

(1) Il dubbio suppone sempre una certezza , perchè è una negazione di


questa : dubbio e certezza sono idee relative : non si può concepir la prima
senza 1' altra: dire, io dubito, è un affermare qualche cosa: perchè la cer
tezza e l' affermazione fosse intieramente esclusa , bisognerebbe nè pur du
bitare, cioè a dire, non pensare. Qualunque atto del pensiero afferma
qualche cosa : anche 1' atto onde tutto si nega : perchè non si può com
prendere , in questo tutto , l' atto stesso col quale si nega.
(a) Cartesio adunque usa una frase impropria, quando dice : « i sensi
non sono che fonti a errori «». Egli avrebbe dovuto dire « i sensi non
sono fonti nè d' errori , nè di verità , nè di dubbj - : i sensi non sono ,
per sè soli, atti a produrre il pensiero, il quale si manifesta sempre sotto
uno di questi tre modi, cioè di certezza , o di falsità , o di dubbio. Questi
sono modi del pensiero , e non delle sensazioni : il dire, i sensi c' ingan
nano , è un attribuire ad essi uno de' modi del pensiero: se i sensi po
tessero avere una delle forme del pensiero, potrebbero avere anche tutte
le altre ; sarebbe un assurdo 1' affermare che la facoltà colla quale noi
cadiamo in errore , fosse una facoltà diversa da quella colla quale noi per
cepiamo la verità. L'errore non è altro, che uno sbaglio di quella facoltà
nostra che , essendo formata per la verità , pur non la coglie. Una facoltà
formata per 1* errore , è un assurdo : non sarebbe più errore ciò che è
conforme alla potenza: una potenza che s'unisce al suo oggetto, non isba-
glia, ma coglie bene. Vero adunque è, che i sensi nè sono i fonti dell'er
rore, come vuole Cartesio, nè sono i fonti della cognizione, come vuole
Locke ; essi soli non producono nessuna cognizione , nessuna idea , nessun
vero , somministrano solamente allo spirilo nostro la materia della cogui-
zioue, e il nostro spirilo coli' ajuto di questa materia fa un giudizio, e
a far questo giudizio forz' è eh' esso possegga qualche idea geuerale , la
qual .sia forma (li tulle le altre coguizioui.
questi suoi figli, fitto che non avrete consumata la di
struzione dell' universo intero, della sua slessa possibi
lità , e in questa distruzione universale non avrete rav
volto il principio medesimo che vi portò ad annullar
tutto, l'esistenza, la possibilità, il pensiero di quella
e di questa , e voi medesimo con esso.

ARTICOLO VII.
COHB fi TESTÒ DI CONFUTARE LO SCETTICISMO DI HUME.

Hume negava un fatto ammesso da Locke, « ci ha


una cognizione a priori » cioè una cognizione necessaria
ed universale , perchè trovò che ripugnava alla lockiana
teoria che si ricapitola in questa proposizione « tutte le
nostre cognizioni traggono l'origine loro dai sensi » (i).
Sarebbesi potuto confutare provando, che la cogni
zione a priori esiste, a quel modo che si provano tutti
i fatti ; e tolsero a battere questa via Reid e Kant.
Ci potrebbero però avere delle difficoltà a far con
venire uno scettico, come Hume, prevenuto infinitamente
a favore delle proprie idee, che le proposizioni univer
sali e necessarie esistono, e non sono solo apparenti o
supposte dalla immaginazione.
Quantunque volte voi diceste ad un simile filosofo:
« Vedete, che queste proposizioni sono ammesse come
assolutamente necessarie ed universali da tutti gli uo
mini » ; lo trovereste probabilmente presto a risponder
così: « Non è questo il fatto che io nego, anzi è il
fatto che io cerco di spiegare. Dico che questo fatto
nasce per un errore in cui cadono tutti gli uomini inav-
vertenlemente, per l' estrema affinità e vicinanza che
hanno le idee di congiunzione di tempo , e di connes
sione di causa ed effetto; per la quale vicinanza fa uopo
un* estrema attenzione a separarle, e di questa non
fu il mondo fin ora capace; il volgo massimamente,
che è la grande maggiorità dell' uman genere, non può
sostenersi nella prima idea, senza sdrucciolare alla se
conda, a quella maniera come vi ha una estrema diffi
coltà pel volgo a ritenersi di passare dalla sensazione
che produce il sole ne' suoi diversi punti del cielo ne'

(i) Egli negò, come già notai , una sola parte delle cognizioni a priori}
fa il suo ragionamento distrugge ogni cognizione.
3o8
quali appare, alla credenza che il sole si muova; seb
bene la sensazione del moto sia diversa dal moto reale,
e non sia che un moto apparente. Il genere umano adun
que confonde facilmente insieme l'apparenza colla realtà,
e precipita i giudizj suoi nell'errore : così avviene circa
il principio di causalità: egli lo piglia per necessario ed
universale, ma non è tale che in apparenza ».
Sarebbesi potuto replicare che 1' esperienza sola non
ha nè pure alcuna similitudine colla necessità : quan
d'anche io veda sorgere il sole ogni giorno tutta la mia
vita, io però non concepisco mai come impossibile il
contrario, come m'avviene pure della proposizione « non
si dà effetto senza causa ». L'esperienza adunque quan-
d' anco mi si replicasse indefinitamente, quand' anco
mi facesse nascer la persuasione, che la cosa conti
nuerà sempre così ; tuttavia non potrebbe giammai
farmi sentire l'impossibilità del contrario, farmi nascere
in capo la credenza , che v' abbia una ripugnanza, una
contraddizione intrinseca nel suo contrario. L' analisi
adunque di quelle proposizioni contingenti che può som
ministrare una lunga e sempre uniforme esperienza , e
l'analisi delle proposizioni necessarie come sarebbe que
sta « non si dà effetto senza causa » , è sufficiente a far
distinguere queste due serie di proposizioni per sì fatto
modo, da non poter confonder l'una coli' altra, e scam
biare l'universalità e la necessità supposta di quelle, col-
l'universalità vera eia necessità intrinseca di cui queste
si manifestano chiaramente fornite.

ARTICOLO VIIL
COME SI AVBEBBE POTOTO CONFUTARE PIO* EFFICACEMENTE LO SCETTICISMO DI HCME.

Ma una via più breve e più convincente contro questa


specie di filosofi, sarebbe stata quella di seguirli ne' loro
ragionamenti, e partir da ciò ch'essi stessi concedono e
riconoscono come innegabile.
Il fatto ch'essi concedono è questo: tutti gli uomini
ammettono la proposizione « non si dà effetto senza cau
sa », e la riconoscono ed usano come necessaria ed univer
sale. Ciò che i filosofi negano si è, che quella proposi
zione sia tale: la dicono tale solo in apparenza.
Ora partendo dal fatto che accordano, si sarebbe po
tuto far loro questo ragionamento :
Voi ammettete che la proposizione « ogni effetto dee
aver la sua causa » sia necessaria ed universale solo
apparentemente. Ora io vi dimostrerò, ch'essa non po
trebbe nè pure apparir tale agli uomini , se questi non
avessero una cognizione a priori e non proveniente da'
sensi , una cognizione cioè veramente necessaria ed uni
versale. Ed in vero, poniamo che la detta proposizione
« ogni effetto dee aver la sua causa » non sia che un
risultalo limitato della esperienza, che espresso rigoro
samente suoni così : « certi avvenimenti precedono re-
plicatamente a certi altri ». Ora io dimando: perchè
gli nomini colla loro immaginazione avessero trasformata
funesta proposizione empirica in quell'altra razionale « ogni
effetto dee avere la sua causa », che idee dovevano essi
/wssedere ? Egli è evidente , che non si sarebbe potuto
fare un simile scambio senza avere i." l'idea della pos
sibilità , a.° l'idea di causa , 3.* V idea della necessità ,
4-* l'idea della universalità. Ora tutte queste sono idee
impossibili a venir dai sensi , come ci accordano gli stessi
arversarj; cioè, è impossibile avere i.° l'idea della pos
sibilità , perchè 1' esser possibile di una cosa non cade
sotto i sensi; a.* l'idea di causa, perocché sotto i sensi
non cadono mai se non gli effetti ; 3.* l' idea di neces
sità , perchè i sensi mostrano quello che è , e non quello
che dee essere; e 4-* l'idea di universalità, perchè l'e
sperienza de' sensi non può esser che limitata ad un dato
numero di oggetti , nè replicata se non un dato numero
di volte. La difficoltà adunque, che si trova nell'ammettere
il principio di causalità come vero, si trova ugualmente
ad ammetterlo come apparente: data agli uomini la sola
esperienza de' sensi, noi si sarebbero potuti formare real
mente ; ma essi non sei sarebber potuti nè anco sup
porre ed immaginare. Ciò che sfuggì all'Hume in questo
ragionamento , si fu l'osservazione , che è necessario di
uscire dai sensi" non solo per immaginare necessario il
detto « ogni effetto dee avere la sua cagione », ma ben
anco semplicemente per immaginarlo possibile; per solo
concepirlo. Ora non avendo ciò veduto, Hume accorda
che il genere umano lo s'immagini come vero , sebbene
tale non sia : e questa concessione basta ad atterrare tutta
la sua teoria. Per avere Y idea di una cosa , non è ne
cessario che corrisponda a questa idea la cosa reale, ma
basta che io la pensi. Il genere umano pensa la neces
3io
sità e V universalità ; dunque, eia che queste idee sieno
applicabili alle cose esterne, o non sieno, esse perù sono
in noi; bisogna spiegarne l'origine: i sensi non la danno:
bisogna dunque o negare il principio lockiano « tutte le
idee vengono dai sensi », o negare non solo che il prin
cipio di causalità sia vero, ma ancora che sia tenuto
per vero da alcuno, che sia pensato da mente umana,
dire che nessuno lo s'immaginò mai, nessuno ne parlò
al mondo. Ora come vorrete voi escludere un princi
pio senza pensarlo , senza nominarlo? egli è dunque
essenzialmente contraddicente con sè stesso il ragiona
mento scettico che parte dal celebre detto « ogni co
gnizione nostra viene dai sensi » .

ARTICOLO IX.
REID RICETTA IL fHWClPIO LOCX11WO , E RICONOSCE tt FATTO
DELLE COGNIZIONI A PRIORI.

Queste due proposizioni ammesse da Locke, « tutte le


cognizioni umane vengono da' sensi », ed « esiste una
cognizione a priori, cioè necessaria ed universale » , coz
zavano insieme, come vedemmo, eia prima distrusse la
seconda.
La prima era la teoria di un filosofo , cioè era una
spiegazione del fatto delle cognizioni umane; la seconda
era un fatto della natura.
Con quella distruzione, la teoria lockiana avea esau
rita tutta la sua trista fecondità. I filosofi che la tro
varono a questo termine, furono in istato di giudicarla :
uno di questi filosofi, lo scozzese Reid, non dubitò, come
già vedemmo (i), che la strada presa fosse falsa , con
ducendo ella gli uomini al nulla assoluto, col quale ogni
essere ha un' essenziale ripugnanza ; e che però biso
gnasse oggimai, voglia o non voglia, tornare indietro.
Questi dunque, al contrario di Hume, si appigliò alla
seconda proposizione , e disse con tutti i secoli , e con
tutti i filosofi che furono : « una cognizione a priori ,
cioè necessaria ed universale , è un fatto che nessuno
può negarej dunque la teoria lockiana , che ogni nostra
cognizione venga da' sensi, è falsa, perchè non può con
quel fatto luminoso in alcun modo conciliarsi ».

(i) Vedi add. pag. G3 e scg.


Rigettato il principio lockiano , bisognava sostituire
gualche cosa che mostrasse come fosse possibile la co
gnizione a priori.
Reid non si occupò troppo a mostrare la possibilità
della cognizione a priori in generale : si ristrinse a spie*
gare come noi acquistiamo la cognizione dell' esistenza
de' corpi , clie appartiene pure alla cognizione a priori,
e che Berkeley ed Hume negarono percb' ella non ca
deva sotto i sensi (i).

(i) Hume avea divise le verità generali in due classi , cioè i .° in quelle
ck ewsstono in pure relazioni fra le idee , come i teoremi della mate-
■Btb para, a.° in quelle che discendono alle cose reali, come » non si
i detto senza causa Vedemmo eh' egli tolse a combattere queste se-
<Mde , lasciando sussistere in qualche modo le prime.
lo ho già dimostrato che questa classificazione di Hume è falsa , e
ch'egli, nel combatter le seconde, ha involto anche le prime nella distru
zione medesima.
Reid si occupò a dimostrare in particolare que* principi che ci assicu
rano dell' esistenza reale delle cose; i quali, più tosto che principi, chia
mar si possono applicazioni de' principi , che facciamo all' esistenza reale
«ielle cose; le quali applicazioni hanno la forma di altrettanti giudizj.
Di più, tali giudizj che noi facciamo sull'esistenza reale delle cose, egli
con li considerò già come applicazioni de' principi della ragione , ma come
istinti necessari e ciechi della natura.
Quindi la dottrina di Reid non ascese punto a difendere e propugnare
veramente i principi della ragione, e la inconcussa autorità de medesimi.
Ma poiché i principi della ragione sono di un' assoluta necessità , perciò
«-gli fu costretto di cadere in molte contraddizioni : veggiamolo breve
mente.
Prima contraddizione. Ho fatto vedere che i principi generali dipendono
dall' idea che noi abbiamo delle essenze delle cose ( face. ag5 , nota ) , e
che, negata all'uomo ogni cognizione di queste, son tolti via anche quelli.
Reid non accorgendosi di ciò , si accompagnò in questo con Locke , e
disse che 1' uomo non avea alcuna idea delle essenze delle cose (Essays on
the powers of the human mind ecc. , Essay I , eh. I ). Ma quando poi
parla del modo onde noi percepiamo l'esistenza de' corpi , allora dice che,
per una legge stabilita dal creatore alla nostra natura , noi siamo necessi
tati d' aggiungere agli attributi un soggetto ( una sostanza ), e quiudi con
fessa che noi della natura delle cose , o delle loro essenze , abbiamo una
oscura nozione (Essays on the powers of the human mind ecc. , Essay V,
eh. II). E la stessa incongruenza che abbiamo notato iu Locke.
Seconda contraddizione. Reid tolse via le idee : non ammise che le ope
razioni dello spirilo che concepisce , secondo lui , immediatamente gli og
getti reali: questo era un distruggere le idee universali non solo, ma an
che le concezioni universali : era un ridurre la cognizione della mente ai
Ci oggetti sussistenti , individuali. Egli dice espressamente in qualche
go, che la mera possibilità è nulla : poiché, die' egli , ciò che è mera
mente possibile , non esiste , e ciò che non esiste è nulla. Non potea fare
«he questo ragionamento , dall' istante che tolse via le idee e non lasciò
clic gli oggetti reali: ciò era quanto lor via le possibilità, perciocché le pos
tulila, uou Simo the idee. Ma poteva egli esser coerente a sè stesso in si
3l3
A tal fine egli tolse ad analizzare il modo, onde noi
ci formiamo l' idea de' corpi , e gli parve di dovere di
stinguere questi tre passi che succedono nell'acquisto di
quella cognizione: i." l' impressione che viene fatta sugli
organi de' nostri sensi dagli oggetti esteriori; a.* la sensa
zione che immantinente sorge nell' anima nostra , data
quella impressione meccanica ; 3." finalmente la perce
zione dell'esistenza e delle qualità sensibili de' corpi, che
nel nostro spirito si suscita contemporanea alla sensazione.
Ora la sensazione non ha cosa , che la renda simile
all' impressione esterna: come la percezione dell' esistenza
de' corpi non ha nulla di simile colla sensazione : queste
tre cose si succedono , ecco il fatto : 1' una non si può
dir causa dell'altra, perchè sono tre cose interamente
diverse fra loro : la ragione per la quale si succedono
queste tre cose, è irreperibile, rimane occulta.
Ciò che si può dire si è , che non potendo la sensa
zione esser causa della percezione dell'esistenza de' corpi,
forz' è ammettere innato nello spirito stesso una cotale
attività, un cotale istinto che il porti tantosto dietro la
sensazione a giudicare l'esistenza de' corpi : questo giu-

fatto sistema ? ciò è superiore alle forze dell' uomo , che ha bisogno di
pensare il possibile in tutte le sue concezioni, per modo che non si può
uè pur dare un atto intellettivo . senza che si mescoli in esso 1' idea del
possibile. Il seguente passo del filosofo scozzese basta a mostrarlo in aperta
contraddizione con tutto ciò eh' egli ebbe altrove insegnato sulle essenze ,
sul possibile, e sugli oggetti della mente.
« Noi conosciamo (egli parla cosi apertamente) i' ESSENZA, di un
« triangolo , e da quell' essenza possiam dedurre le sue proprietà : ella è
■» uu UNIVERSALE , e poteva esser concepita dalla mente umana benché
h nessun triangolo individuale avesse mai esistito ( siamo nel regno del
k possibile ) : ha solamente ciò che Locke chiama essenza nominale che è
« espressa nella sua definizione. Ma ogni cosa che esiste ha una essenza
h reale che è superiore alla comprensione nostra, e perciò non possiam
« dedurre le sue poprietà e attributi dalla sua natura, come noi facciamo
i rispetto al triangolo «• ( Essays on the powers of the human mind ecc. ,
Essay V , eh. II ).
Si osscrvuoltre di ciò, che ['essenza nominale di Locke, Reid non la
intendeva già come una pura parola, poiché dice espressamente che le pa
role se non esprimono de' pensieri , son meri suoni , e a nulla servono
( Ivi , Essay V , eh. I ).
Egli dice , che si danno concezioni generali : che questa generalità non
istà già nella concezione stessa o sia nell' atto della mente, ma nel suo og
getto ( Ivi , Essay V, eh. II ).
V hanno dunque per Reid degli oggetti universali , che non sono idee
né mere possibilità, non sono cose esistenti, e tuttavia non sono nulla; che
cosa dunque saranno ?
3i3
disio istintivo che non è effetto delle sensazioni, le quali
non hanno con esso che una congiunzione di tempo, è
quello che fa trovarsi all'istante nel nostro spirito la co
gnizione ossia il pensiero che i corpi sieno qualche cosa,
che esistano , forniti di certe loro qualità.

ARTICOLO X.
LA. TEOBIA DI BEID NON EVITA LO SCETTICISMO.

Reid s' avvisò di aver abbattuto colla sua teoria l'i-


dealismo e lo scetticismo: veramente egli non evitò nè
l'uno nè l'altro: ecco la ragione di questa mia censura.
Si gl' idealisti che gli scettici partono dal principio
«noi non possiamo conoscer nulla di là dalla sensa
zione». Gl'idealisti da ciò conchiudono: « dunque il dire
che esistan de' corpi è un'affermazione gratuita.- tutto
ciò che sappiamo esistere, non sono nè possono essere
che sensazioni ». Gli scettici più conseguenti vanno ol
tre: u dunque, conchiudono, noi non abbiamo alcun
principio di ragionamento , che dalle sensazioni ci au
torizzi a passare alla cognizione di qualunque altra cosa
o corporea o spirituale ».
Reid , che prese di mira particolarmente gl'idealisti,
sembrandogli che ove fosse distrutto l'idealismo, lo scet
ticismo pure sarebbe vinto, disse: « Egli è un fatto in
negabile, che tutto il mondo ha la cognizione de' corpi:
questa cognizione non ci può venire dalle sensazioni :
dunque forz'è che ci venga da una facoltà interiore allo
spirito, da un istinto che all'occasione delle sensazioni
immediatamente lo porti ad avere in sè anche la per
cezione de' corpi ».
Ma dall'istante eh' egli accorda , e anzi mette per base
del suo sistema , che la sensazione non ha da far nulla
colla percezione dell' esistenza de' corpi : che queste due
cose, sensazione e percezione, sono così distinte, che
non hanno insieme la più piccola somiglianza ; chi l'as
sicura che questa percezione immediata de' corpi non lo
inganni? chi l'assicura, che la percezione degli oggetti
corporei sia conforme agli oggetti stessi ? Non sarebb' e-
gli questa una affermazione gratuita? I ragionamenti che
si facevano sulla sensazione, non hanno la stessa forza
trasportati alla percezione di Reid ?
La ragione onde gl' idealisti e gli sceltici conchiude-
Rosmini, Orig. deUe Idee, Voi. I. 4°
3.4
vano che gli uomini non si possono assicurare che i
corpi esistano, altra non era che questa: « la sensa
zione non ha a far nulla coli' esistenza reale de' corpi ,
perciocché essa è meramente soggettiva : dunque non ha
alcun valore la comune opinione che suppone esistere
delle sostanze corporee fuori di noi, ed aventi una loro
esistenza indipendente dalle nostre modificazioni , og
gettiva ».
Reid risponde : « i corpi non si percepiscono per le
sensazioni , ma per una percezione che nasce istantanea
mente nello spirito all'occasione delle sensazioni ; queste
poi non hanno niente dì simile con quella percezione ».
Posto ciò , avete voi dimostrato che quella percezione
immediata de' corpi sia degna di fede ? non sembra egli
che voi vi siale occupato più tosto a spiegare via me
glio come nasca l'error comune? gli uomini sono spinti
a percepire i corpi per un istinto cieco , per una legge
di loro natura ; nessuna ragione a ciò li scorge e con
duce , ma una mera, una inevitabile necessità. Dopo ciò,
è ben chiaro, si può rispondere, onde avvenga che gli
uomini tutti ammettono l'esistenza dei corpi : non pos
sono farne a meno: la natura, e non la ragione a ciò
li costringe : ed il senso comune non è che una fede
cieca , una illusione universale , che 1' uman genere ri
ceve passivamente, senza sapere quale autorità gliela pre
senti ed imponga. Non è dunque vinta la diflicoltà del
l'idealismo e dello scetticismo col sistema di Reid; non
s' è fatto che allontanarla d'un passo < la diflicoltà che
sorgeva rispetto alla sensazione, si è trasportata alla per
cezione immediata : ed il senso comune resta sempre
involto nel dubbio, e privo di autorità (i).

(i) La critica che io fo a Reid è generalmente ammessa per solida. Io


Germania si osservò quello stesso eh' io osservo : ecco come ne scrive
Buhle : - Il principal difetto della filosofia di Reid è l' idea vaga e inde-
•» terminata di veritàfondamentale. A detta di Reid, una verità fondamen-
t tale è quella, secondo la quale I' uomo ragiona ed opera prima ancora
« di aver raccolte osservazioni, dalle quali dedurla per astrazione, per guisa
« che, senza averne chiara coscienza, egli il più delle volte opera quasi
n per un istinto secondo quella. L' idea rigorosa e la sola certa , come
« Feder ha detto nella sua eccellente critica del sistema filosofico teoretico
« di Reid , è eh' ella sia un GIUDIZIO che nasca necessariamente dalle
«• semplici idee del soggetto e dell' attrihuto « . L' osservazione di Feder
è quella medesima, sulla quale io ho insistito più sopra, face. 780 segg
3,5
Ciò che Reid disse della percezione immediata de'
corpi, volle pur dirlo di alcuni principj di ragione,
come è quello della causalità: noi li percepiamo imme
diatamente per una visione inesplicabile , per un istinto
naturale che ce li presenta, e ci fa dispoticamente dare
ad essi V assenso : se con ciò egli pervenne a spiegarne
l'origine , non pervenne però a rivestirli d' alcuna auto
rità ragionevole a cui dobbiamo piegare noi uomini il
nostro libero assenso.

fn Germania adunque non mancò chi s'accorse che Reid « non contribuì
» ponto a migliorar la causa del dommatismo filosofico, e in particolare
quella del realismo empirico »• ( Buhle. Histoire de la philosophie moderne.
T.V.c. XII.)
In Italia , il valentissimo Galluppi mostrò evidentemente, che Reid non
potè metter riparo allo scetticismo col suo sistema , anzi larga strada gli
aperse: e credette che la cagione di ciò, fosse l'aver egli distinta la sen
sazione dalla percezione de' corpi, e non voluto, che fra V una e 1' altra
ci avesse simiglianza di sorte alcuna , sicché que' due falli sorgessero in
noi contemporanei , da se , senza che si vedesse di essi una ragione al
mondo. Per riparare a questo difettto, Galluppi tolse via quella distin
zione, e trasportò alla sensazione tutto ciò che Reid avea detto della per
cezione. Reid avea supposto , che colla percezione noi immediatamente per
cepissimo i corpi come esseri esistenti : Galluppi disse che questa imme
diata comunicazione del nostro spirito colle cose esteriori si l'arca dalla
sensazione stessa, senz' altro: che la sensazione, lungi dall' essere mera
mente soggettiva, come l'avea fatta Reid, era essenzialmente oggettiva,
come Reid avea fatta la percezione: in tal modo Galluppi diede ai sensi
F attitudine di percepire 1' esistenza de' corpi.
Ma è impossibile 1' accordare ai soli sensi la percezione dell' esistenza
de' corpi. Conviene osservare , che io non posso dire in modo alcuno di
aver percepito i corpi come esseri esistenti , fino che io non ho detto a
me stesso « questi tali esseri esistono ». Or per questo è assolutamente
necessario che io m' abbia prima l'idea universale dell' esistenza , la qual
Galluppi vorrebbe farla venire dopo percepiti i corpi , per una operazione
della mente nostra sopra le percezioni di quelli. Ma queste percezioni di
esseri esistenti , la suppongono; né ella, universale com' è, si può cavar
mai da' particolari. Io concedo adunque al Galluppi la comunicazione im
mediata dello spirito nostro col corpo , intendo col corpo nostro , concedo
che colle sensazioni acquisite noi proviamo in noi slessi, indirettamente
però, un' azione de' corpi esteriori, ma non già che esse bastino a farci^
percepire degli esseri in sè esistenti.- le sensazioni de' corpi non si devono
confondere colle idee; noi percepiamo i corpi veramente mediante un'ope
razione dell' intelletto , che aggiunge all' azione de' corpi ricevuta in noi
per le sensazioni, 1' esistenza , e considera i corpi come agenti su di noi
in un modo dalle sensazioni stesse determinato.
3.6
ARTICOLO XI.
KANT DAL PRINCIPIO DI REID CÀA IL SUO SCETTICISMO , COME SOME
AEA CAVATO IL SCO DAL PRINCIPIO DI LOCKE.

Locke avea posto nella sua dottrina il principio dello


scetticismo, nè se n'era accorto: egli si sviluppò nelle
mani di Hume.
Beid, come vedemmo , volendo confutare lo scettici
smo di Hume, che avea l'origine dal principio lockiano,
negò questo principio, ma ne sostituì un altro che con
teneva il germe del male stesso , e più profondo, senza
ch'egli punto se n'avvedesse: egli si dovea sviluppare;
e si sviluppò nelle mani di Kant.
Il fatto, « esiste una cognizione a priori » , negalo da
Hume,, e rivendicato da Beid , fu ammesso da Kant.
Quésto fatto è attestato da tutto il genere umano. Ma
il senso comune, autorevole a deporre un simile fatto,
non sa darne però nessuna spiegazione. Tutti gli uomini
dicono « Noi conosciamo delle proposizioni necessarie
ed universali »; ma non dicono onde le conoscano, e da
qual ragione sien mossi a prestar loro 1' assenso.
Beid avea detto : « Questo assenso , pel quale gli uo
mini tutti affermano a sè stessi delle proposizioni ne
cessarie ed universali , è un giudizio naturale, istintivo,
di cui non si può dar ragione veruna, ma conviene li
mitarsi ad affermar semplicemente un tal fatto miste
rioso ».
Già vedemmo, che questo era un ammetter nell'uomo
la cognizione a priori, ma un negare insieme alla me
desima la sua autorità e realità : e questa fu la strada
per la quale si mise Kant.

ARTICOLO XII.
DOTTRINA DI KANT : DISTINZIONE FRA LA FORMA
E LA MATERIA DELLE NOSTRE COGNIZIONI.

Biassumendo la dottrina di Kant , ella riesce alla se


guente.
Non v'ha cognizione che cominci in noi prima della
sperienza ; ma Locke non disse però hene , affermando
che ogni nostra cognizione venga da' sensi.
La cognizione nostra i.* parte è a priori, cioè neces
saria ed universale, 2.° parte a posteriori, cioè conlin
3l7
gente e particolare. Noi dobbiamo adunque spiegare come
sia possibile una esperienza che ci somministri sì 1' una
che F altra di queste due cognizioni.
La cognizione a priori , cioè la cognizione necessaria
ed universale , non ha che fare colle sensazioni : ella si
suscita adunque in noi, come disse Reid, e si sviluppa
dal fondo stesso del nostro spirito, all' occasione delle
sensazioni.
Resta però ad esaminare come sia possibile quest'ultimo
fatto, cioè come avvenga, che la cognizione a priori si
susciti da sè nel nostro spirito all' occasione delle sen
sazioni : Reid si accontentò di osservare il fatto : si dee
però anche analizzarlo : e ricercarne le condizioni, dalle
quali egli viene, così com'è, determinato: ecco il punto
onde comincia propriamente ad entrar Kant; questo
punto è l'analisi della percezione immediata che il no
stro spirito fa della cognizione a priori, ammessa già
precedentemente dallo scozzese, ma non da lui a lungo
descritta , nè applicata a tutte le specie di cognizioni
a priori.
Kant tolse a mostrare che lo spirito umano all'occa
sione delle sensazioni percepisce bensì gli oggetti este
riori , ma questi oggetti non gli vengono però offerti
semplicemente dalle sensazioni : essi non sono sempli
cemente , come voleano i sensisti, un aggregato di sensa-
tioni; sono degli enti , e risultano da due elementi distinti
fra loro, cioè 1.* dalle sensazioni a.* e da delle qualità
poste dallo spirito stesso: e queste qualità Kant chiamolle
forme , come chiamò materia le sensazioni.
Quindi gli oggetti del mondo sensibile, in quanto da
noi son percepiti, compongonsi di materia e di format
la materia ci è somministrata dal senso , ed è tutto ciò
che v'ha in essi di contingente e particolare j la forma
è supplita dall'intendimento , ed è tutto ciò che negli
oggetti si percepisce di necessario e di universale : in una
parola, la cognizione a priori mette la forma, la cogni
zione a posteriori mette la materia delle nostre idee.
Percepisco un albero: in tale percezione io non sof
fro solamente le modificazioni sensibili ne' miei organi
corporei , le quali modificazioni soggettive o sensazioni
nulla pongono fuori di me ; ma oltre queste passioni
che soflre il mio senso corporeo, io ammetto , coll'atti-
vità del mio intendimento, qualche cosa di oggettivo
3i8
fuori di me, che ha un'esistenza propria, indipendente
da me e dalle mie modificazioni. Ora perchè io possa
ammettere , o sia percepire questo oggetto fuori di me,
quest'albero , perchè me lo rappresenti , me lo formi in
una parola , io, dice Kant, debbo coli' attività del mio
spirito aggiungere alla sensazione delle nozioni necessa
rie ed universali. A questa proposizione veramente non
si può opporre cosa alcuna di solido : perciocché , rite
nendoci anche dall'entrare nelle forme della sensibilità,
lo spazio ed il tempo, per lo meno è necessario che io
aggiunga, coli' attività del mio intendimento, la nozione
universale di esistenza , o quella di possibilità ; mentre
io non ho percepito col mio intendimento un albero,
fino che non ho giudicato eh' egli esista, o almeno che
possa esistere.
Ora Kant si occupò a ricercare e descrivere con di
ligenza filosofica tutte le nozioni universali che entrano
nella formazione di un oggetto corporeo da noi perce*
pito : e le ridusse a quattordici ; due delle quali no
minò forme del senso esterno e interno , e furono lo
spazio ed il tempo; chiamò le altre dodici, forme del
l'intelletto o categorie, il che è quanto dire, dodici idee
molto generali , nelle quali è sempre necessario di ri
porre, come in altrettante classi, gli oggetti che si per
cepiscono ; anzi il percepire coll'intendimento nostro gli
oggetti , non è che il riporli nell' una o nell' altra di
quelle classi; il percepire un oggetto coll'intendimento,
è un classificarlo, un giudicarlo.
Le quattro classi generali, ciascuna delle quali sud
divide in altre tre minori, sono la quantità, la qualità,
la relazione e la modalità.
Egli è impossibile, dice Kant, che voi percepiate uri
oggetto senza percepirlo fornito di certa quantità e di
certa qualità, senza percepire qualche relazione, come
sarebbe di sostanza o di accidente, ed altresì qualche
modo di esistere, come sarebbe la contingenza o la ne
cessità.
Sicché ripor l'oggetto percepito dall' intendimento in
queste quattro classi, è una condizione necessaria, senza
la quale noi si può percepire; quindi è una condizione
dell'esperienza; di quella esperienza, dico, che è idonea
a darci le cognizioni che noi abbiamo: l'esperienza non
è possibile, non si può nè pur pensare, se non suppon
3tg
gasi che P intelletto nostro, in percependo gli oggetti,
faccia la detta classificazione.
Ora il fare la detta classificazione, non è che un giu
dicarli sotto quel quadruplice rispetto : e il giudicarli ,
non è che un fornirli di que* quattro predicati , quan
tità , qualità, relazione e modalità: questi quattro pre
dicati essendo generali, non possono venir dai sensi,
ma son posti dall'intelletto negli oggetti all'atto della
detta percezione : per questi quattro predicati che ven
gono dall'intelletto posti negli oggetti, questi acquistano
il loro essere di Oggetti pensabili: e si posson chia
mare la forma de' medesimi, come la sensazione si può
chiamare la loro materia (i).

ARTICOLO XIII.
IH CHS MODO KANT CERCI d'eVITARE LA TACCIA DI IDEALISTA.

Kant pretende di avere in tal modo confutato l'idea


lismo e lo scetticismo: ma non l'ha confutato che in
un senso, cioè dichiarando l'idealismo di Berkeley, e lo
scetticismo di Hume troppo ristretto.
Egli trasportò l'idealismo del primo, dai sensi allo
$lesso intendimento.
Berkeley aveva detto: i corpi non sono nulla di reale
fuori di noi; non sono che mere nostre sensazioni. Que
st'era conseguenza della teoria di Locke: non possedendo
noi che sensazioni, non si potea definire l'idea che noi
abbiam de' corpi , se non: un aggregato di sensazioni.
Kant definisce i corpi: « un'unione ( una sintesi ) di
forme intellettuali e di sensazioni ».

(i) Non si creda che la distinzione fra la materia e' la forma delle no
stre cognizioni fosse un trovato di Kant: ella è antica, e in Italia ben co
nosciuta : il Genovesi 1' insegnava nella sua lettera ad Antonio Conti, nella
quale, dopo «ver esaminato se le idee sono il medesimo che le percezioni,
cosi coocbiude: n Queste ragioni ne fan comprendere facilmente che l'idee
« sieno le forme delle nostre percezioni, la cui maggior parte cioè le prime
- e semplici che sono gli elementi della sua scienza la mente riceva , non
» si crei. Via su abbandoniamoci a questo sentimento: dove pare che la
« più verisimile ragione ci porti ». Ciò che trovo inesatto nella dottrina
del Genovesi, si è il non aver distinto le idee pure, che sono propriamente
forme, dalle concretate , e il chiamarle forme delle percezioni anzi che
delle sensazioni. Le idee unite mediante il giudizio colle sensazioni for
mano /e percezioni de' corpi, le quali risultano da due elementi , i.° da
idee pure, semplice apprensione della cosa , e a.0 dal giudizio della attuale
esistenza della medesima. Ma di tutto ciò più a lungo altrove.
I
3ao
Sì le une che le altre vengono da noi; le prime dal
l' attività del nostro intelletto, le seconde dalla suscet
tività del nostro senso: nulla di reale è veramente per
noi conosciuto: non sappiamo nè pure se qualche cosa
di reale sia in sè e fuori di noi possibile.
Tal conseguenza venia dirittissima dalla teoria di Reid. j
Questi aveva detto : « I corpi che noi percepiamo non
sono le sole nostre sensazioni; un istinto del nostro in
telletto ci reca ad aggiungere alle medesime un oggetto ». i
Ammettendo che questo oggetto si percepisce da noi per
una attività cieca del nostro spirito, egli somministrò ;
a Kant l'occasione di conchiudere: dunque egli non è
che un parto del nostro spirito. I
Kant dice : Io non sono idealista , perchè non am- •
metto che i corpi sieno mere sensazioni, come Berkeley.
Egli accetta il titolo in un senso più sublime , cioè -
vuol essere idealista trascendentale: è il medesimo che
dire: Io non sono tanto poco idealista, quanto è Ber
keley (i).

ARTICOLO XIV.
DI CHE MODO KANT CEBCA d'eVITARE LA TACCIA DI SCETTICO.

Io non sono scettico, dice Kant. In che consiste lo


scetticismo? Nel negare la corrispondenza delle nostre
idee cogli oggetti fuori di noi. Ora io non nego questa
corrispondenza: io analizzo gli oggetti da noi pensati,
e trovo che risultano da due elementi, cioè da un ele
mento empirico, che sono le sensazioni, e da un ele
mento razionale, che sono i concetti dell'intelletto: se
queste due cose non si uniscono insieme, l'oggetto pen
sato non è. Ora di che possiamo parlare noi se non di
oggetti pensati? Non ci sono dunque due cose, l'oggetto
pensato e il concetto del medesimo, fra cui si possa
disputare se passi corrispondenza; ma non ce n' è che
una sola, di cui il mio concetto è una parte, l'altra
parte è la mia sensazione. Reid disse, « non ci sono che
oggetti esterni, e non idee de' medesimi »: egli dovea
dire il contrario, se fosse stato fedele a' suoi principj ,
« non ci sono oggetti che non siano idee ».

(i) Critica della ragione pura, Crii, elementare, P. I, e P. II , Divis. I,


Lib. II, c. II, scas. III.
3ai
Percepire una cosa, è quanto dire che il mio intelletto
la vede fornita di certa quantità, qualità, relazione e
modalità : il mio intelletto non la potrebbe vedere se
non collocandola con un suo giudizio in queste quattro
classi, cioè attribuendole un quanto, un quale, qualche
relazione almen con sè stessa, e un modo di essere.
Ora egli non può attribuire alla medesima queste no
zioni generali, senza averle in sè; ed esse non vengono
da1 sensi. Il nostro intelletto adunque è quello che si
crea di sè stesso in parte l'oggetto suo, cioè che dà a
lui la forma, mentre la materia è data dai sensi.
In questo rispetto è, che Kant dice « Le categorie
« costituiscono concetti, dettano legge a priori ai feno
li meni, e con essi la dettano alla natura, quale unione
« di tutti, ov1 ella si consideri materialmente, naturò.
« materialiter spectatd ».
E altrove: «Generalmente parlando, la sintesi consi-
« ste, siccome vedremo più avanti, in un mero effetto
■ dell'immaginazione; di una cieca, tuttoché indispen-
• «abile funzione dell'animo, senza la quale non è cosa
• onde ne fosse concesso aver cognizione; quantunque
■ egli è ben raro che siamo consapevoli a noi stessi di
« siffatta funzione. E considerando questa sintesi rela-
• (ivamente ai concetti, ella è funzione che appartiene
« all'intelletto : ed è quella, per mezzo e non prima
• della quale ci procura esso, in istretto senso, il sa-
» pere » (i).
La questione adunque dello scettico è eliminata in
teramente dalla filosofìa critica; perciocché lo scettico
dimanda « come ci possiamo accertare che gli oggetti
corrispondano ai concetti che noi abbiamo de' mede
simi » : mentre la filosofia critica dice « i concetti non
sono già una rappresenlazion degli oggetti, ma una
parte, cioè la parte formale de' medesimi ».
Sembra però che Kant con questa giustificazione abusi
soverchiamente de' suoi lettori, spiegando quell'aria a
lui solita di un volerla dare ad intendere, e con una
buffonesca gravità altrui corbellare.
Perocché chi non sa che lo scetticismo consiste nel
negare la certezza delle cose in sè, indipendentemente
dalle modificazioni dello spirito nostro? Ridurre adunque

(O Logica Trasc. Analitica L. I. Cap. I. Sez. III.


Rosmini. Orig. delle Idee, Voi. I. 41
3aa
il sistema degli scettici alla semplice questione « se gli
oggetti percepiti corrispondano ai nostri concetti » , è
un appigliarsi ad una questione secondaria e parziale,
dissimulando la primaria e generale.
Ora, dall'istante che Kant ci dice, che noi non siamo
certi che de' fenomeni; che gli oggetti de' nostri pensieri
emanano, rispetto alla forma, dal nostro spirito limi
talo; che noi non ahbiam nè pure l'idea delle cose, che
hanno una esistenza in sè e non in noi, cioè de' nou
meni; che non sappiamo se sien possibili: egli ci involge
in un idealismo così universale, in una illusione sog
gettiva così profonda: egli ci rinserra in un tal cerchio
di sogni, da cui non ci è mai dato di trascendere per
aggiungere a qualche realtà; che non rende già incerto
l'uomo di ciò che sa, e per questo non si potrà dire
scettico, ma lo dichiara di qualunque sapere incapace:
e rendendo impossibile ed assurda ogni cognizione reale,
è via più tristo che lo scettico comune: è io scetticismo
perfezionato, consumato: il quale sotto un tal nuovo
nome di criticismo, viene menando guasti ampiamente,
annullando l'umanità stessa , che solo pel conoscere esi
ste; e compie l'opera della filosofia, che dal capo dell'uomo
strappa la corona di re dell'universo, e, per così dire,
democratizza la società generale degli esseri, dopo aver
democratizzato la società umana.
Kant medesimo confessa, che il criticismo è una dot
trina essenzialmente negativa ; ma paragona la filosofia
che lo precedette, all'opera temeraria e impossibile della
torre di Babel! tale e tanta è l'umiliazione dello spirito
umano: sì miserabile è 1' ultimo risultato della sua sa
pienza abbandonata a sè stessa, che, dopo tanti secoli
di meditazioni, di lusinghe e di vanti , procedendo sem
pre baldanzosa al conquisto della verità, in sul fine della
via, quando sperava di cogliere immenso il frutto de'
suoi travagli , concluda colla confessione della propria
impotenza e nullità: e di questa insuperbisca come della
massima e dell'ultima delle sue scoperte!

ARTICOLO XV.
ERRORE FONDAMENTALE DEL CRITICISMO.
L'errore fondamentale del criticismo consiste nell'aver
fatto delle idee nostre e delle cose esterne una cosa sola-
Una cosa sola avea, di quelle due, fatto Reid; ma Reid
avea detto: questa cosa sola sono gli oggetti esterni; le
idee non esistono.
Kant disse: questa cosa sola sono le idee,son queste
gli oggetti; altri oggetti esterni non esistono.
I concetti sono generali, osservò Kant: dunque non
possono esistere nelle cose, ma solo nella mente.
Questo era vero; ma di questo non veniva, che i con
cetti nostri entrino, come un elemento, nella cosa esterna
a comporla e costruirla: egli è necessario distinguere
quel concetto o idea onde noi percepiamo la cosa, dal
l'elemento che è nella cosa esterna, e che assai facil
mente confondesi.
Prendiamo in esempio un'idea, V esistenza : bisogna
distinguere due esistenze, cioè i.* l'esistenza possibile o
ideale, la quale è solamente nel nostro intelletto, a.* l'e
sistenza sussistente e reale, che è nell'oggetto stesso.
Vero è che noi percepiamo la cosa , quasi con uno
stromento acconcio a ciò, coli' idea generale dell'esistenza
Ae abbiamo in noi : giacché quando formiamo questo
giudizio * Il tal oggetto esiste » ( ciò che equivale a
percepire quel tal oggetto), allora noi applichiamo il
predicato universale di esistenza al soggetto particolare,
cioè all' azione sensibile da noi sperimentata ; ma non
ne viene mica di ciò, che con questa nostra operazione
noi poniamo nella cosa percepita 1' esistenza in univer
sale.- anzi non facciamo che trovarvi Vesistenza sua par
ticolare.- e metter questa, non punto creata da noi, ma
riconosciuta, nella esistenza universale, cioè metter la
cosa nella classe universale degli esseri esistenti.
Se l'esistenza che noi percepiamo in un dato oggetto
affermandolo, fosse quella medesima nè più nè meno,
che noi abbiamo nel nostro intelletto; in tal caso, quando
noi percepiamo un oggetto, dovremmo mettere in esso
un'esistenza universale, perciocché l'esistenza nell'intel
letto nostro è universale: ma la cosa non va così: anzi
noi ravvisiamo, non mettiamo, nell'oggetto un'esistenza
particolare e a lui solo determinata.
Laonde il non aver distinto fra il concetto anteriore
della mente, che è sempre universale, e la cosa perce
pita mediante questo concetto, che è particolare, con
dusse in errore l'autore della filosofia critica: perciocché
3,4
riguardò come una cosa stessa il concetto intellettuale,
e la cosa a lui rispondente nell'oggetto percepito: e quindi
formò dell'universo intero una produzione dell'umano
intendimento e della umana sensibilità: mettendo quello
la forma, e questa la materia, come due ingredienti
necessarj a comporre gli oggetti tutti del mondo.
Questa osservazione fatta in particolare rispetto al
l'idea universale di esistenza, dee farsi medesimamente
rispetto a qualunque altra idea, e massimamente alle
dodici idee o categorie kantiane, alle quali Kant credette
che tutte le idee generali si riducessero.
E perchè meglio la verità di quanto osserviamo veder
si possa , applichiamo il ragionamento esposto ad una
delle quattro idee o categorie principali , cioè a quella
di quantità.
L'idea di quantità, che io ho nella mia mente, non
è già la quantità stessa che io percepisco coll'ajuto de1
sensi in un oggetto materiale, per esempio in una casa:
ma queste son due quantità interamente distinte.
Evidente è questa distinzione: perocché sebbene que
ste due quantità, cioè quella che ho nella mente mia,
e quella che percepisco nella casa, si chiamino col solo
vocabolo di quantità, tuttavia esse hanno caratteri e
distinti e contràrj. La quantità che ho nella mente, è
un'idea, una quantità che ha il carattere di universa
lità: nella casa all'opposto io non percepisco già la quan
tità universale, o la quantità possibile e applicabile ad
altri oggetti, ma una quantità propria e individua della
casa slessa, inamovibile dalla medesima, e contraria
perciò all'idea del mio intelletto, com'è contrario il par
ticolare al generale, che l'uno esclude l'altro. Quella
quantità dunque, che è concetto nella mia mente, non
è quella che io percepisco coll'ajuto del senso nella casa;
quindi erra la critica filosofia , dicendo che nella per
cezione degli oggetti esterni noi riferiamo ad essi quel
l'idea di quantità che è in noi, con un discorso simile
a quello che fa Condillac dove osserva che noi riferiamo
e apponiamo ai corpi quella sensazione di colore che
non è che in noi. Checché sia del ragionamento condil-
lachiano; quello foggiato dà Kant all'istesso modo, ma
applicato alle idee invece che alle sensazioni, si scorge
subito esser falso, dall'istante che si giunge a distinguere
3aS
il concetto universale , dall'attributo particolare , cioè reso
particolare dalle delerminazioni sensibili, dell'oggetto
percepito.
Il medesimo discorso è da farsi relativamente all'idea
di qualità, a quella di relazione, e a quella di modalità;
come pure alle idee a queste subordinate: anzi a qua
lunque idea si voglia , della quale noi ci serviamo per
giudicare una cosa reale, attribuendole la qualità coti
essa espressa. Converrà sempre distinguere fra Videa che
è in noi, e la qualità particolare nella cosa riconosciuta:
l'idea è la. regola, dietro la quale noi formiamo il no
stro giudizio; la qualità particolare nella cosa esterna
riconosciuta è l' effetto del nostro giudizio, è ciò che
mediante il detto giudizio noi siam pervenuti a cono
scere: non è dunque vero che l'intelletto nostro pone
nella cosa la sua idea : ma egli si serve della sua idea
per conoscer ciò che già è nella cosa : egli pone al con
trario la cosa nella sua idea, e così rende la cosa esterna
«ro e compito oggetto della cognizione (i).
La verità di questa distinzione apparisce via più ma
nifesta considerando che cosa noi facciamo quando pro
nunziamo un giudizio sulle cose: noi, per esempio, di
ciamo <* questa casa è grande ».
Analizziamo questa proposizione: in essa non c'è nulla
che esprima una nostra creazione della casa: nulla che
esprima che la grandezza la mettiam noi nella casa. 11
senso di quelle parole non presenta se non una opera
zione del nostro spirito, colla quale egli riconosce la
grandezza di quella casa.
Esaminiamo meglio tale operazione: ella suppone Videa
di grandezza in noi, che ci serve per riconoscere la gran
dezza reale nella casa: l'idea di grandezza in noi non
è dunque la grandezza della casa, perchè l'una è ideale,
e l'altra reale: la prima è quasi un istromento mediante
il quale conosciamo la seconda: le grandezze partico
lari e reali sono infinite; la grandezza ideale e univer
sale è una e immutabile.

(i) Dimostrerò a suo luogo , che la comunicazione nostra reale colle


cote esterne si fa colle sensazioni: questo , Kant lo ignorò, come sem
bra , perfettamente; e iodi fu eh' egli non potè conciliare queste due ve
nta, t* che noi conosciamo le cose mediante concetti, a.0 che le cose son
diverse dalla nostra cognizione de' medesimi. Non potendole conciliare,
sacrificò la seconda alla prima.
3a6
Questo è almeno ciò che il senso comune depone. Tutto
il genere umano, tutte le scuole, tutte le plebi distin
sero fra Videa di una qualità, e la qualità sussistente
nella cosa; la prima riconobbero esser nella mente no
stra, l'altra fuori della mente, nella cosa. Ora se Kant,
quando ammise la cognizione a priori, cioè necessaria
ed universale, partì dal senso comune; e disse a Locke;
« L'esistenza di una tale cognizione è innegabile, perchè
tutti gli uomini l'ammettono »; io prego Kant di
voler qui riconoscere, che è parimente una deposizione
del senso comune questa distinzione di cui parlo , fra
l'idea di una qualità, e la qualità particolare dalla cosa
partecipata (i). Se egli intraprese una teoria per ispie-
gare un fatto dal senso comune deposto, a lui è ugual
mente necessario di fare entrare nella teoria ancbe gli
altri fatti che alla stessa materia si riferiscono, dal senso
comune degli uomini parimente deposti e fermati.
Finalmente se non esistesse una differenza verissima
fra la mia idea e la parte corrispondente ad essa della
cosa, potrei io distinguere l'una dall'altra? Perchè dun
que fu da tutti distinta? quale è il fondamento di una
tale distinzione?

ARTICOLO XVI.
ALTRO ERRORE DEL CRITICISMO.

Altro errore della filosofia critica è questo. Kant sup


pone gratuitamente che noi, quantunque volte percepiamo
una cosa esterna coli' intelletto, siamo obbligati di per
cepire intellettualmente altresì la sua quantità , la sua
qualità, e la sua relazione. In questo egli mostra di non
avere abbastanza approfondito, quanto a me pare, la
natura di quell' atto intellettuale, onde noi percepiamo
le cose.
Infatti, acciocché io possa col mio intelletto percepire
una cosa, una realità, è bensì necessario ch'io la giudi
chi esistente ; ma su tutto il resto, non è necessario ch'io

(i) Reid è acconcio di negarmi, che questa sia la deposizione del senso
comune : ogni lettore imparziale giudicherà di questa coutroversia. La dis
parità però di opinione fra me e Reid intorno a ciò che depone il senso
comune, dimostra ancora, che l'autorità di questo non è sempre così
evidente per sè, che debba convincere egualmente tutti gli uomini indi
viduali.
pronunzj giudizio: non è necessario eh1 io attribuisca alla
medesima espressamente una quantità, qualità e rela
zione. Sopra tutte queste cose io posso sospendere il mio
giudizio, e tuttavia percepire intellettualmente la cosa:
purché io dica a me stesso: «esiste ».
Questo giudizio che io faccio nel primo alto della per
cezione intellettuale, si potrebbe esprimere così « Esiste
qualche cosa che modifica i miei sensi, fornita certo di
tutte le condizioni dell'esistenza ».
Son è però necessario che col mio intelletto mi fermi
a percepire queste condizioni dell'esistenza : il complesso
delle sensazioni offerisce al mio spirito il mezzo di de
terminare abbastanza il suo oggetto, perchè io possa
terminare in esso il giudizio «esiste», senza che mi sia
necessario di ricercare anche coll'intelletto il modo o le
determinazioni particolari di questa esistenza. Anzi posso
Bn anco prescindere dalle sensazioni particolari , o dalle
sensazioni d'ogni fatta, come allorquando concepisco un
oggetto sensibile in genere, o pure un oggetto senza più.
L'errore kantiano adunque qui consiste, nell'aver egli
supposto che le quattro categorie, cioè la quantità, la
qualità , la relazione e la modalità , sieno condizioni
della percezione intellettuale, o com' egli dice, dell' espe
rienza j mentre non sono che condizioni dell' esistenza
delle cose esterne.
Certo, nessuna cosa limitata può esistere senza una
quantità, delle qualità e delle relazioni : ma tutte que
ste cose, che pure in lei sono, non è necessario che
sieno da me intellettualmente percepite, perchè io possa
dire d'aver percepita o almeno concepita la cosa. E in
ogni cosa ci rimangono sempre occulte molte proprietà,
che ci si scuoprono poscia col tratto del tempo , e col
lungo esame della cosa ; e pure la cosasi potè benissimo
aver percepita da noi intellettualmente, senza che ab
biaci percepite quelle proprietà o qualità.
In somma esaminando che cosa esiga l'atto che fa il
nostro intelletto quando percepisce una cosa corporea ,
si trova che non esige se non queste due cose: J." che
questa cosa esterna abbia affetti i nostri sensi corporei,
2.' che l'intelletto pronunzj il giudizio sulla sua esistenza.
Il giudizio che pronunzia l' intelletto sulla esistenza
della cosa, e che si riferisce ad essa come produttrice
delie sensazioni, è l'atto onde l'intelletto percepisce.
328
Ma l'intelletto non ha bisogno di pronunziare altret
tanti giudizj sulla quantità , qualità , e relazioni della
cosa, per percepirla, meno ancora per solo concepirla .-
dunque l'intelletto può concepire e percepire la cosa an
che senza bisogno ch'egli concepisca o percepisca la sua
quantità , le sue qualità, e le sue relazioni. Dunque que
ste quantità generali sono bensì condizioni dell'esistenza
delle cose fuor della mente nella loro esistenza parti
colare e reale ; ma non sono , come pretende Kant ,
condizioni della percezione intellettuale ; e anche senza
l'uso delle idee di quantità, qualità e relazione, l'in
telletto può percepire le cose : sebbene non possa per
cepirle, senza l'uso dell'idea di esistenza.
Quando poi l'intelletto ha percepito una cosa offerta
da' sensi , egli può anche esaminarla, e percepire a mano
a mano la sua quantità, le sue qualità, e le sue rela
zioni. Ed è così, che si perfeziona la nostra cognizione
intellettiva. Ella esiste mediante il giudiz-'o sulla sussi
stenza delle cose; ella si perfeziona mediante altri giu
dizj più particolari , portati sopra di esse divenute già
oggetti del nostro spirito.
Kant dovea cadere necessariamente nell'errore che stiam
facendo osservare : questo non è che una conseguenza
dell'errore fondamentale esposto nell'articolo precedente.
Non avendo egli osservato, che esiste nella cosa reale
delle qualità pure, reali e particolari, rispondenti a quelle
quattro idee di quantità, qualità, relazione e modalità;
immaginò una quantità, qualità, relazione e modalità
uscente dalla mente, e nello stesso tempo tale che en
trasse a formar parte della cosa ( non distinguendola più
dall' oggetto della mente) per una nostra illusione, at
tribuendo noi ad essa ciò che è nostro.
Tolta questa distinzione di mezzo, egli non potea più
distinguere le condizioni dell' esistenza delle cose este
riori, dalle condizioni della percezione delle medesime.
Colla percezione, secondo Kant, le cose, almeno in
gran parte, non si conoscono solo; si creano: quindi le
stesse dovevano essere le condizioni di queste per esi
stere e per essere percepite. All'incontro il vero è, che
noi non possiamo niente nelle cose} ma che coll'atto del
percepirle noi aggiungiamo loro ciò che le rende oggetti
del nostro spirito. Altro è dunque la cosa come sta in
sè, altro è la cosa divenuta oggetto allo spirito nostro.
—'
Rimosso poi l' equivoco delle parole, risulta che avvi
una quantità , e delle qualità e relazioni particolari nelle
cose: ed una quantità, e delle qualità e relazioni gene
rali nella mente. Le prime sono qualche cosa di reale,
e dehbono trovarsi nelle cose, altramente esse non po
trebbero esistere , sono condizioni della loro esistenza :
le seconde sono qualche cosa d' ideale, si trovano nella
mente , e sono la conoscibilità delle qualità reali , le
regole per giudicare delle cose dopo averle percepite ,
ma non le condizioni necessarie a percepirle.

ARTICOLO XVII.
OBBIEZIONI D1SCIOLTA.
Ciò che ho detto sulla maniera ond' avviene la per
cezione intellettuale , può muovere in altrui un dubbio,
che qui debbo sciogliere. Questo scioglimento mi con
durrà a chiarir meglio la natura della percezione intel
lettuale , dalla cognizione chiara della quale percezione
dipende finalmente tutta la questione che noi trattiamo
delVorigine delle idee.
H dubbio, di che parlo, non è al tutto nuovo, e n'ab
biamo fatto cenno esponendo le opinioni di Aristotele
sopra la. questione presente; e fu il seguente.
Io dissi, che la percezione intellettuale delle cose esterne
e materiali consiste in un giudizio , mediante il quale
lo spirito nostro dice a sè stesso « esiste un oggetto
rispondente alle mie sensazioni ». Or altri può rispon
dere : questo giudizio o è pronunciato dall'intelletto, o
no. Se non è dall'intelletto pronunciato', l'intelletto nulla
ancor percepisce : poiché la percezione intellettuale non
è che questo giudizio. Se è pronunciato dall'intelletto ,
forz' è che l'intelletto percepisca le sensazioni sulle quali,
o almeno in occasione delle quali pronuncia il suo in
teriore giudizio dell' esistenza di qualche cosa a quelle
corrispondente. Ora se l' intelletto percepisce le sensa
zioni , non è dunque bisogno del giudizio per la perce
zione intellettuale, mentre l'intelletto percepisce prima
le sensazioni, e poi le giudica.
Questa obbjezione non ha origine, che da un po' di
confusione d'idee sulle facoltà dello spirito, e dalla man
canza di distinzione ne' nomi che alle medesime appli
cano comunemente i filosoG. Ella si dissipa pur colla
Rosmwi, Orig. delle Idee, Voi. I. \i
33o
chiara descrizione della percezione intellettuale, che io
son per fare, e colla enumerazione delle facoltà nostre
che concorrono a produrla.
Richiamisi di nuovo la definizione data della perce
zione intellettuale per le cose corporee : « è un giudizio
mediante il quale lo spirito afferma sussistente qualche
cosa percepita da' sensi » .
Analizzando quest'atto dello spirito, noi troviamo che,
acciocché egli si operi,
1." È necessario che il corpo, che trattasi di per
cepire, operi in su' nostri sensi, e quindi ci occasioni
delle sensazioni ; giacché questo corpo sensibile è quello,
che dee essere giudicato esistente.
2.' Per giudicarlo esistente, noi dobbiamo avere in
noi l'idea di esistenza, che è quell'universale che al
detto corpo viene applicato, dicendo « esiste »; uni
versale, che non vien percepito da' sensi.
3." Finalmente fa bisogno un atto, nel quale noi con
sideriamo l'azione de' corpi su di noi dalia parte del
principio operante; e questo principio lo riguardiamo
come in sé esistente, diverso da noi; il che è un clas
sificarlo nella classe delle cose esistenti, e un chiudere
il giudizio a Esiste ciò che ferisce i miei sensi ».
Or da questa analisi della percezione vedesi, che alla
medesima concorrono e cooperano tre facoltà distinte
del nostro spirito, cioè
i.* La facoltà di sentire il corpo sensibile;
a.* La facoltà che possiede l'idea di esistenza , o sia
che intuisce l'essere, il quale somministra il predicato
del giudizio;
3.* Finalmente la facoltà che unisce il predicato al
soggetto, e che così mette nel giudizio la copula, o sia
forma il giudizio stesso.
E in qualunque maniera si vogliano nominare queste
facoltà, egli è però sempre necessario tenerle distinte,
e non confonderle insieme giammai.
Se noi vorremo chiamare la prima col nome di sen
sibilità corporea, la seconda col nome d' intelletto, e la
terza col nome di ragione o di facoltà dì giudicare, e
non confonderemo mai fra loro queste denominazioni
così stabilite; in tal cac.o le osservazioni seguenti var
ranno a sciorre pienamente, come a me sembra, la pro
posta obbjezione.
33i
La sensibilità percepisce l' azione del corpo sensibil
mente e passivamente (sensazioni): V intelletto possiede
iu sè Videa di esistenza ( ondecchessia egli l'abbia, la
dee avere, come vedemmo, prima die segua il giudizio
di cui parliamo). Ora egli è certo, che fino che l'una
potenza ha in separato il complesso delle sensazioni o
la passione ricevuta, e l'altra potenza ha solo l'idea di
esistenza, non è possibile che segua giudizio alcuno: si
hanno bensì due elementi del giudizio, cioè il soggetto
ed u predicato ; ma fino che l'uno sta separato dall'al
tro, il giudizio non è formato: la loro sintesi o unione
è quella che costituisce il giudizio. Ora ecco come ciò
awiene.
la sensibilità e l'intelletto sono due facoltà d'uno stesso
soggetto: d' un Io perfettamente semplice. Questo sog
getto unisce, nella semplicità dell'intimo suo sentimento,
que' due elementi distinti, che quelle sue due distinte
facoltà a lui somministrano. Cioè quell'/o che da una
parie vengo modificato dalla sensibilità, e sento per essa
il sensibile agente sopra di me, sono quel medesimo die
dall'altra possiedo Videa di esistenza nel mio intelletto.
Questo però ancora non basterebbe; perocché queste due
cose, cioè il corpo esterno in quanto agisce ne' sensi, e
l'idea di esistenza, potrebbero esistere in un soggetto
semplice l'una a canto l'altra senza però unirsi, senza
raffrontarsi l'una coll'allra. Egli è dunque necessario di
più, che questo soggetto semplice , che possiede in sè
questi elementi del suo giudizio, cioè il sensibile (ma
teria) e l'idea di esistenza (forma del giudizio), abbia
una virtù od efficacia per la quale possa rivolgere la sua
attenzione, ossia riflettere sopra di sè , sopra tutto ciò
che patisce o che ha in sè stesso. Questo soggetto adun
que i." riflette d'avere contemporaneamente ciò che prova
nella sensibilità, e ciò che luce nell'intelletto, cioè l'idea
di esistenza; 2.* paragona il sensibile all'esistenza; 3.° e
ravvisa in esso una esistenza, che non è se non una rea
lizzazione particolare di quella esistenza ideale ch'egli
prima concepiva solo come possibile. Queste tre opera
zioni, che vengono fatte rapidamente nel fondo dell'in
timo sentimento di un ente sensitivo e ad un tempo in
telligente, sono quelle che costituiscono la terza delle
facoltà enunciate, cioè la facoltà di giudicare, che è una
funzione della ragione.

333
Venendo or dunque a rispondere all' obbjezione che
fu proposta , dico che , secondo la denominazione data
a queste tre facoltà , non è già l' intelletto quello che
giudica , e perciò egli non è la facoltà che percepisce ,
ma egli è solo la facoltà che somministra alla ragione
il mezzo di percepire , che è quanto dire la regola di
giudicare, mezzo che consiste nell'idea che serve di
predicato nella formazione del giudizio. Sebbene perù
non sia V intelletto quello che propriamente percepisce, i
tuttavia si chiama percezione intellettuale quella che de
scriviamo, perocché l' intelletto fornisce alla medesima
la parte principale e formale. i
E da quanto abbiamo fino a qui ragionato, egli non
sarà difficile a ritrarre una definizione esatta della per
cezione intellettuale , che sarebbe la seguente: « La per
cezione intellettuale è quella che fa il nostro spirito di
una cosa sentita, quando la vede (i) contenersi nella
nozione universale di esistenza ». i

ARTICOLO XVIII.
MERITO FILOSOFICO DI KANT : EGLI VIDE CHE IL PENSARE
NON EU* CHE CN GIUDICARE.

Il merito principale di Kant sembrami quello di es


sersi avveduto meglio d'ogni altro filosofo moderno, della
essenziale differenza fra le due operazioni del nostro spi
rilo, il sentire, e l' intendere (a).
Dalla distinzione esatta di queste due operazioni egli

(1) I termini tolti dal senso della vista, ed applicati in un senso tras
lato a significare le. operazioni degli altri sensi, si fanno fonti inesausti
d' equivoci e di errori , come avremo occasione più volte di osservare. Non
credo però che il medesimo dir si possa della parola vedere applicai»
alla mente: oltreché può dirsi, che questa parola sia divenuta propria,
da traslala che era al principio, per 1' uso comune della medesima.
(2) Egli conobbe che 1' intendere era essenzialmente diverso dal sentire ;
ma non pervenne per questo a conoscere l' intima natura dell' operazione
intellettuale. Ciò che vide si fu, che l' intendere era qualche cosa di attivo ,
il sentire qualche cosa di passivo: « Tutte le visioni, egli dice, perchè
« sensitive, sono fondate sopra affezioni; i concetti sopra funzioni » ( Log-
trascendent. Analit. L. I , cap. I, Sez. I).
Egli chiamò visioni tutto ciò che il senso presenta : così generalizzò que
sta parola, il significato proprio della quale non si può riferire che alla
vista : mostrerò altrove quanti errori abbia prodotto questo vezzo comune
de' filosofi di parlare degli altri sensi con parole traslala tolte dal senso
particolare della vista.
333
fu poslo in istalo di potere analizzare questa seconda
operazione, cioè l' intendere la quale operazione non si
poteva giammai sottomettere ad un'analisi accurata, se
non si fosse prima isolata, o sia separata da ogn' altra
facoltà a quella affine ed aderente.
L'analisi accurata dell' intendere fruttò a Kant la co
gnizione di una verità assai rilevante, qual è quella, che
tutte le operazioni della mente nostra si riducano final
mente a de' giudizj: « Noi possiamo, egli dice, ridurre
« a giudizj tutte le operazioni dell'intendimento, in modo
« che sia lecito rappresentarcelo in generale come una
« facoltà di giudicare » (i).

ARTICOLO XIX.
KANT VIDE ASSAI IENE LA DIFFICOLTA' DI ASSEGNAR
L' ORIGINE DELLE COGNIZIONI DMANE.

Essendo Kant pervenuto a conoscere, che qualunque


funzione del nostro intendimento si riduceva finalmente
ad un giudizio; egli potè vedere, in un modo più ge
nerale e più profondo di tutti gli altri moderni filosofi
che l'hanno preceduto, dove giacevasi la difficoltà nello
spiegare 1' origine delle umane cognizioni.
S'avvide egli subito, che l'intelletto nostro non potea
giudicare se non possedendo delle nozioni , o de' con
cetti, com'egli li chiama, perciocché il giudizio non è
che il mettere un oggetto particolare sotto un concetto
universale. Ora diss'egli seco medesimo: io vedo benis
simo come noi possiamo avere, mediante i sensi, la rap
presentazione (?) di un particolare; ma non vedo modo
alcuno onde noi possiamo avere i concetti, cioè le no
zioni universali che ci debbon servire di attributo o di
predicato all'oggetto rappresentatoci. La difficoltà dun
que non può consistere che nello spiegare questi concetti
anticipati , cioè supposti di necessità precedenti alle
sensazioni.
Di ciò conchiuse, che prima di tutto convenivasi ana
lizzare la funzione del giudizio, e indicare tutti i con
celli de' quali esso abbisognava; ciò ch'egli si propose di
fare nella parte, ch'egli intitolò Analitica trascendentale.

(i) Crii, della R. P. , Log. irose. Div. I, L. I, Sez. I.


(aj Veramente i sensi niente rappresentano.
334
« Pensare » , ecco le sue parole, « è sapere per mezzo
« di concetti: e questi concetti , nella loro qualità di
u attributi di giudizj possibili , si riferiscono ad una rap-
« presentazione di qualche oggetto indeterminato. Per
« esempio, il concetto di corpo dinota qualche cosa (sup-
« poni metallo) che può essere conosciuta mediante il
« detto concetto. Non è dunque concetto per altro, se
« non perchè in esso comprendonsi altre rappresenla-
« zioni, o sia perchè può riferirsi ad altri oggetti. Laonde
« il concetto è l'attributo in un giudizio possibile ; per
« esempio, il concetto corpo, è l'attributo in questo
« giudizio : il metallo è un corpo. Noi dunque potremo
« trovare tutte le funzioni dell'intelletto, coli' indicare
« semplicemente le funzioni dell'unità ne' giudizj » (i).

ARTICOLO XX.
DISTINZIONE FRA* GIUDIZJ ANALITICI E SINTETICI.

Kant avea conosciuto meglio d'ogn' altro fra' moderni


filosofi, che il modo generale di tutte le operazioni in
tellettive, e perciò anche della percezione intellettuale ,
è il giudizio.
Questa verità luminosa l'avrebbe potuto condurre di
rittamente alla piena cognizione della percezione intel
lettiva, s'egli l'avesse seguita con diligenza, e senza
amore soverchio di regolarità e di sistema. Vediamo in
quella vece a che lo scorsero i suoi pensieri.
Afferrato il principio « pensare è giudicare » , egli
mosse il suo viaggio filosofico da questo punto certo: e
cominciò ad investigare la natura del giudizio.
Tale investigazione gli diede per risultato, che tutte
le specie possibili de' giudizj son due : giacché in due
modi opera la mente nostra: o essa divide una idea in
più parti , il che dicesi analisi ; o congiunge più parti
in una idea, il che si appella sintesi (a): quindi ali ri
giudizj sono analitici, altri sintetici.

(0 Crit. della Rag. Pura, Logica, Div. I, Lib. I, Sez. I.


(a) Kant dice che non corse inai al pensiero di alcun filosofo prima di
lui , la divisione fra i rtiudizj sintetici ei analitici ( Crii, della Rag. Pura ,
lntrod. VI.): ma qu. o non è che uno de' soliti vanti de' filosofi: cia
scuno pretende d'aver veduto egli solo il primo le più importanti verità ,
gettando nel fango i suoi predecessori. Le pretensioni di Kant a questo
proposito superano ogni misura. In quanto a me , io vedo le due opera-
335
I giudizj analitici sono quelli , mediante i quali noi
attribuiamo al soggetto un predicato che è essenzialmente
inerente al medesimo, sicché si confonde in una cosa
identica con lui, come sarebbe, « il triangolo è una figura
di tre lati » 3 nel quale giudizio non si fa che spiegare
la parola triangolo, affermando ciò che questo è, nò
più nè manco, cioè « una figura fornita di tre lati ».
I giudizj sintetici sono quelli ne' quali il predicalo non
è contenuto nel concetto del soggetto, ma è qualche
cosa di più di ciò che esprime questo concetto : per
esempio, quando io dico « quest'uomo è bianco », io
aggiungo il predicato di bianco, al soggetto uomo, che
eoo lo racchiude in sè stesso, perciocché vi sono anche
nomini neri e d'altro colore.
Kant osservò la diversa proprietà e il diverso ufficio
di queste due specie di giudizj che fa la mente umana,
eoo queste parole: « Si potrebbero chiamare giudizj ri-
« schiaranti i primi (cioè gli analitici), ed amplificanti
h i secondi (cioè i sintetici): stantechè negli analitici
• non si aggiunge nulla col predicato all'idea del sog-
* getto, ma essi non fanno che dividerlo e notomizzarlo,
■ dirò così, nelle sue proprie idee parziali, come quelle
« che già nel medesimo si pensano sebbene oscuramente.
k All'opposto i sintetici aggiungono all'idea del soggetto
« un attributo che non era punto immaginato in essa
« idea , e che non sarebbe potuto indi emergere , nè
« ricavarsi, per qualunque notomia fare se ne volesse».

ARTICOLO XXI.
COME KANT FOSE IL FK0BLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.

Stabilita la distinzione fra i giudizj analitici e sintetici,


le due specie di operazioni del nostro spirito intelligente,
bisognava spiegare siccome questi giudizj potessero co
minciare a formarsi nella mente nostra: perciocché messa
in 'chiaro** la generazione di questi giudizj, era pure &pie-

róni della intelligenza nostra, cioè quella di comporre, e quella di di-


\idere (sintesi ed analisi ), eccellentemente descritte da Aristotele; e dopo
lui , conosciute più o meno da tutti i filosofi : e queste due maniere di
operare sono appunto le due specie di giudizj kantiani. Ciò che non vide
altri prima di Kant, si è I' esistenza di giudizj sintetici a priori , intesi nel
senso kantiano : ma questi io li credo un bel sogno del nostro filosofo cri
tico 1 come più innanzi dimostrerò (Art. XXII).
336
gato l'acquisto delle idee e di qualunque altra funzione
della niente.
Egli adunque cominciò dall' osservare, che ogni giu
dizio analitico ne supponea fatto già precedentemente un
sintetico: perciocché io non posso scomporre se non ciò
che io ho già prima composto. Quando io faccio il giù-
dizio analitico surriferito, « il triangolo è una figura di
tre lati », io debbo sapere già il valore della parola
triangolo, altramente io non potrei definirla siccome fo
col detto giudizio. Ora per conoscere il valore della pa
rola triangolo, io debbo i." aver nella mente mia il
concetto di triangolo , a.0 sapere che a questo concetto
fu imposto quel nome.
Ma come posso io avere il concetto del triangolo (i),
se nella mia mente non ho unito insieme l'idea di figura
coll'idea de' tre lati, cioè se non ho detto prima a me
stesso « è possibile una figura con tre lati »? Ora il dire
« è possibile una figura con tre lati » , non è che pro
nunciare un giudizio sintetico, perciocché nel concetto
di figura non è già compresa la determinazione ossia il
predicato dei tre lati: sicché si danno figure con vario
numero di lati. Non si può dunque formar un giudizio
analitico, senza supporre d'aver prima fatto un giudizio
sintetico: non si può scomporre un concetto, senza sup
porre che noi abbiamo intinto quel concetto unito eoa
tutte sue parti, il che è fare il giudizio sintetico.
D'altro lato, ponendo che io possieda già, mediante
questi giudizj sintetici, dei concetti, non v'ha più diffi
coltà nell'intendere siccome si possano que' concetti scom
porre nelle lor parti elementari e far de' giudizj anali
tici: perciocché a tal fine non mi bisogna se non fissare
la mia attenzione esclusivamente sopra qualche elemento
di quelli, onde il detto concetto risulta, e d'uno in al
tro elemento successivamente trasportarla (2).

(t) Il concetto di triangolo in genere, di cui qui si parla, non si dee


già confondere colla mera sensazione di un triangolo particolare, fisicamente
esistente.
(a) Questo è ciò, a cui può estendersi la riflessione lockiana : per altro,
quando io concepisco in separato le singole parti ossia i singoli elementi
di un concetto che analizzo, io debbo poter concepire anche queste singole
parti intellettualmente , ossia con quella esistenza che hanno in se : e
per far ciò, ho bisogno di fare una sintesi; l'analisi adunque suppone
sempre la sintesi.
337
Se v' ha dunque qualche diflioollà nello spiegare le
operazioni della mente umana, ella non può consistere
che nell' assegnare una cagione sufficiente a' giudizi sin
tetici.
Kant adunque si raccoglie tutto nell' esame de1 giu-
dizj sintetici , e prima si fa a rilevare quali essi sieno.
Egli pretende di aver trovalo che ve n' abbiano di
due maniere-, altri son quelli che si riferiscono all'e
sperienza , altri sono quelli che si fauno a priori.
I giudizj empirici , o provenienti dall' esperienza de'
semi, sono tulli sintetici (i).
Io Tatti l' esperienza sensibile mi somministra degli
accidenti , i quali non si racchiudono necessariamente
nei nostri concetti primitivi: per esempio, l'esperienza
ai mostra che certi uomini sono bianchi : questo pre
dicato di bianco io non l'avea inchiuso nel mio concetto,
di uomo: ma a questo lo sopraggiungo dal di fuori : e
perciò io formo con ciò un giudizio sintetico.
Ora nella formazione di questi giudizj sintetici non
trova Kant ancora alcuna difficoltà, poiché, egli dice,

(i) Crit. della Rag. Pura, Introd. IV. Kant chiama sintetici questi giudizj,
perchè i predicati ne' medesimi sono dati, parlando degli empirici, dall' espe
rienza, e non contenuti nel concetto della cosa : per esempio, quando io
vedo un cavallo bianco, aggiudico a quel cavallo la bianchezza, che non si
contiene punto nel concetto cavallo , ma che mi è data dalla sensazione
della vista. Ma se il predicato m* è dato in questo stato dall' esperienza ,
onde ho io il soggetto ( cavallo ) a cui aggiudicarlo? Il soggetto cavallo è
un concetto astratto, che io pur non avrei mai, se non avessi veduti de'
cavalli. Ora quel concetto d' altra parte essendo astratto e generale , non
mi può essere dato da' sensi. Sta qui la vera difficoltà: non consiste nello
spiegare onde noi troviamo i predicati de' soggetti già da noi concepiti col-
1* intelletto; ma ella sta unicamente a spiegare come noi concepiamo i
soggetti , ossia come ce ne formiamo i concetti. È questa operazione che ,
analizzata attentamente , somministra il seguente progresso nell' origine
delle nostre idee.
i." Noi ci formiamo il concetto di un soggetto concreto : questo concedo
è composto a ) di qualche cosa di generico che non ci possono «lare i
sensi, il che, analizzato, si trova essere 1' idea di esistenza, b) e di una
parte sensibile.
a.0 Dal concetto del soggetto in concreto noi astraiamo l' esistenza attuale,
e quelle qualità sensibili che vogliamo; e cosi ci restano i concetti astratti,
come sarebbe il concetto di cavallo in genere.
3.° Avendoli noi formati questi concetti astratti , noi , all' occasione di
nuove sensazioni, aggiungiamo a' medesimi de' predicati sensibili a nostro
grado: ovvero ciò facciamo anche colla immaginazione sola. In tal modo
il concetto generale del soggetto è come uno scheletro , che noi vestiamo
ora di un abito ora d' un altro a tutto nostro piacere: e ne facciamo riu
scire un soggetto concreto.
RoSBiifi, Orig. delle Idee, Voi I. 43
,338
abbiamo in essi 1' appoggio della sperienza « che è già
u per sè stessa un accoppiamento sintetico (i) di visioni».
Ma « tale appoggio (della esperienza) manca del tutto
« ue'giudizj sintetici per anticipazione (o sia a priori).
« Se io debbo in fatti partirmi dal concetto del sog-
« getto Aì e trasferirmi ad un predicato B che in esso
« non è contenuto, e che tuttavia ad esso giudico unito,
« a che cosa potrò, di grazia, appoggiarmi per questo
« passaggio, o per qual mezzo accadrà che possa la sia-
« tesi aver luogo, se mi è qui precluso il campo della
« sperienza ove poter trovare il detto predicato » (2) 2
Or qui è dove Kant ritrovò il nodo della questione che
stiamo rivolgendo.
Perchè la s' intenda chiaramente, riepilogando ciò che
abbiamo detto fin qui, ecco siccome Kant si argomenta
di ragionare.
1.° Giudizj sintetici diconsi quelli , mediante i quali
noi attribuiamo ad un soggetto un predicato che non
è contenuto nel concetto del soggetto stesso.
a.* Supponendo che noi abbiamo già in noi il con
cetto del soggetto, noi non possiamo cavare dal mede
simo concetto il predicato che gli vogliamo aggiungere,
perchè in esso non è contenuto: dunque il detto pre
dicato ci dee essere somministrato d' altra fonte.
3." Questa fonte può essere l'esperienza sensibile.- quan
do adunque il predicato è tale che ci possa essere dato
dall'esperienza sensibile , allora è manifesta la possibilità
de' nostri giudizj sintetici: questi sono i giudizj sintetici
empirici.
4.* Ma vi hanno certi predicati in questa specie di
giudizj, che non ci possono esser somministrati da' sensi.
5.* Dunque la difficoltà consiste a mostrare, onde a
noi vengano dati questi predicati, mentre essi sono tali,

(1) Lasciando di notare 1* improprietà della parola visione , applicata a


significar tutto ciò che i cinque sensi ci somministrano di reale, noto solo,
che questa proposizione meriterebbe che Kant si fosse esteso a provarla.
Tuttavia ella può avere un senso vero, fino che quesl' accoppiamento di
visioni non si estende a produrre l'idea dell'esistenza. Ma tolta via questa
idea, è impossibile che noi abbiamo un giudizio sintetico atto ad essere
analizzato; anzi è impossibile un giudizio di sorte alcuna. Kant adunque
dà alla sensibilità più di quello che le si competa , secondo un accurato
esame della medesima , mostrando il Iato debole e la provenienza sensista
della sua filosofia.
(a) CrU. della R. P. , Introd. IV.
che Jair una parte non ce li dà l'esperienza, dall'altra
non sono compresi nel concetto che noi abhiamo del
soggetto, a cui que' predicati attribuiamo. Senza questi
predicati noi non possiamo formare i giudizj sintetici a
priori: dunque il problema generale della filosofia, secondo
Kant, dev'esser posto cosi: "Come si possano presu
mere o preconcepire i giudizj sintetici » ; o sia «Come
si possano formare i giudizj sintetici a priori".
Ognuno vede, che se nella serie delle cinque propo
sizioni enunciate ve ji' ha una che meriti d' essere con
tutta diligenza verificata e solidamente stabilita , è la
quarta , cioè l'esistenza di predicati a priori non conte
nuta nel concetto del soggetto, ovvero, che è il mede
simo, l'esistenza de1 giudizj sintetici a priori.
Formiamo noi veramente de' giudizj sintetici a priori?
Ecco una delle questioni fondamentali di tutto l'edificio
kantiano: è un fatto che dev'esser provato: egli ben
merita che ci tratteniamo un poco sopra di lui, mentre
è il piccolo punto , si può dire, che dimanda il Criti
cismo per mettere a leva 1' universo.

ARTICOLO XXII.
E EGM VERO CHE l'uOMO FA De' C1UDIZJ SINTETICI A PRIORI?

Kant , che ha preteso che l' uomo faccia de' giudizj


sintetici a priori, recò a prova della sua asserzione dpgli
esempj : nè in altro modo potea provare una proposi
zione di fatto.
Io metterò dunque ad esame tutti gli esempj di giu
dizj sintetici a priori prodotti da Kant ; e se mi verrà
fatto di dimostrare ch'essi non sono punto tali, risul
terà da ciò , che i giudizj sintetici a priori sono male
annoverati da Kant, e ch'egli perciò ha fabbricato il
suo sistema sopra l'arena, fece un sogno colla sua im
maginativa.
Per intendere quanto io dirò , bene ritengasi quali
sieno i pretesi giudizj sintetici a priori di Kant che io
nego: sono de' giudizj, ne' quali si tratta di aggiungere
al soggetto un predicato che nè è contenuto nel con
cetto che abbiamo del soggetto , nè ci viene sommini
strato dalla sperienza de' sensi.
l.* I giudizj della matematica pura, secondo Kant,
sono lutti sintetici a priori; e reca primieramente in
3/|0
esempio la proposizione 7 + 5 = 12 , la quale egli pre
tende che sia un giudizio sintetico a priori.
Ma quale ragione di ciò adduce ?
Non altra che questa : il concetto di 12, egli dice ,
non si può trarre dalla somma de' due numeri 7 e 5,
se non coll'ajuto di qualche segno esterno , come quello
delle dita della mano ; il qual bisogno di segni esterni
per eseguire le somme de' numeri, si vede via meglio,
die' egli, pigliando delle somme maggiori.
Ora questa ragione nulla conchiude al suo uopo: l'a
ver noi bisogno di un qualche segno esterno per cavare
mediante la somma di 7 e di 5 il numero 12, non
prova già che il concetto di 12 non sia compreso nel
concetto della somma di que' due numeri ; anzi prova
ch'egli v'è sicuramente compreso, perciocché altramente
noi noi potremmo dedurre nè pure coli' ajuto di segni,
i quali non aggiungono niente nel concetto , ma solo
ajutano noi a riconoscere la slessa cosa sotto due forme
od espressioni diverse. In una parola , o i sensi ci sono
necessarj per concepire in separato il numero 7 e il nu
mero 5, ovvero non c'è una assoluta necessità de' me
desimi nè pure per sommarli insieme e cavarne il 12.
Il concetto adunque di dodici unità , ed il concetto di
sette più cinque unità , non è che la stessa cosa per
cepita con atti della mente diversi , nell' uno de' quali
però esiste la cosa stessa nè più nè meno che nell al
tro (1).
2.0 La geometria pure per Kant è piena di giudizj sin
tetici a priori, e l'esempio che ne adduce è la propo
sizione u La linea retta è la più breve fra due punti
dati ».

(1) Egli è vero bensì , che in natura non si dà alcuna collezione , ma


solo degl' individui separati: perciò il concetto di un numero qualsiasi sup
pone qualche cosa di più di quello che è in natura, o nella sensazione ,
perché è concetto di una collezione. Di qui apparisce , che in ogni con
cetto di qualsivoglia numero la mente aggiunge veramente del suo l'unii,
onde unisce gl'individui separati, e ne fa una collezione. Può adunque
dirsi giustamente , che nel coucetto di un numero v' ha sempre un cotal
giudizio sintetico a priori ; ina 1' errore di Kant sta in cercare questo giu
dizio sintetico nella somma del S col 7 , in vece di cercarla e trovarla nel
concetto del 5, del 7, del 12, e di ogni altro numero, come dicevamo. Ol
tracciò nel genere di giudizj sintetici a priori, di cui ci parla, non preesi
ste un soggetto intellettivo, ma vien dall' operazione stessa del giudizio co
stituito : U che si conviene attentamente notare.
34i
Egli pretende che nell'idea di linea retta non sia in
chiusa la qualità di essere la più breve , e che la sola
visione non possa somministrare questa proposizione.
Ma ciò non gli si può accordare in alcun modo : e
sia che la visione ci bisogni , o che non ci bisogni a
dedurre la brevità della via retta , egli sembra però evi
dente, che questa qualità è necessariamente inchiusa nella
condizione dell'essere retta: nè si richiede altro, se non
il concetto puro della rettezza e della curvezza, per tro
vare nel primo di questi due concetti , scomponendolo,
la qualità della maggior brevità possibile relativamente
a tutte le curve che terminano a' medesimi punti (i).
3." Kant pretende che anche nella fisica ci sieno de'
giudizj sintetici a priori, e ne dà esempio in questa pro
posizione: «In tutte le mutazioni del mondo corporeo
« rimane sempre immutabile la quantità della materia ».
Ma questa proposizione non è punto necessaria se non
nell'ipotesi, che per mutazioni del mondo corporeo s'in
tendano mutazioni di forme e di composti , com' è in
fatto. Ora aggiunto alla espressione «mutazione del mondo
corporeo » un simile concetto , egli è evidente che il
detto giudizio è analitico : perocché l'immutabilità della
rantità della materia è un concetto compreso nell'idea
quelle specie di mutazioni di cui si parla nella detta
proposizione.
4-c Finalmente pretende che anche la metafisica ( se
pure esiste ) non possa essere che composta di giudizj
sintetici a priori ; e l'esempio di cui egli fa più uso, si
è la celebre proposizione « Tutto ciò che avviene dee
« avere una causa », che sostiene essere uno di que'suoi
giudizj sintetici a priori. Ora la cosa , per mio avviso non
è così; ma meritando questa proposizione ogni attenzione,
io mi occuperò ad esaminarla in particolare nell'articolo
seguente.

(t) All'incontro nel concetto di ogni linea può trovarsi un giudizio sin
tetico a priori; perocché avere il concetto di una linea, è pensare una li
nea possibile; e la possibilità non istà nella linea fisica , ma è un predicato
inesso dalla niente.
34a
ARTICOLO XXIII.
LA PROPOSIZIONE « Ciò CHE AVVIENE DEE AVEItE LA .SITA CAUSA » ,
È ELLA UN GIUDIZIO SINTETICO A PRIORI , NEL SENSO DI KANT ?

Kant pretende che « l'idea di una causa giaccia as-


« solutamente fuori del concetto di ciò che avviene, e
« dinoti cosa allatto diversa da esso, e che non sia quindi
« menomamente contenuta nel concetto di ciò che av-
« viene (c) ». Quindi in un tale giudizio, secondo Kant,
al soggetto ( ciò che accade ) si aggiunge un predicato F
(l'avere una causa) che nè può esser dato dall' espe- a
rienza , perchè 1' esperienza non mostra cause ma solo
fatti successivi , nè si trova esser contenuto nel concetto
del soggetto: e quindi qui abbiamo, egli conchiude, un -\
giudizio sintetico a priori. H
10 vorrei richiamar Kant ad un' analisi più paziente
del giudizio « ciò che avviene deve avere la sua cagione ». m
E sostengo, che nel concetto «ciò che avviene » si
racchiude il concetto di « causa » : perciocché il con- !
cetto di effetto e quello di causa a me sembrano per sì i
fatto modo relativi, che l'uno dee esser inchiuso neces
sariamente nell'altro, nè si può posseder l'uno senza
possedere ancora implicitamente 1' altro.
E veramente , effetto vuol dire « ciò che è prodotto i
da una causa »; causa vuol dire « ciò che produce un :
effetto ». Nella definizione adunque dell'uso di questi
due concetti , entra necessariamente 1' altro concetto ; e
senza di questo, non si può definire nè intendere quello.
Ora io dico , voi supponete che io abbia già il con
cetto del soggetto, cioè dell' effetto : ma con questa sup
posizione voi venite altresì a supporre ch'io abbia im
plicitamente il concetto del predicato .- perciocché all'e
sistenza dell'uno, l'altro è richiesto per assoluta necessità.
11 giudizio adunque che fa il senso comune degli uo
mini , dicendo « Ogni effetto dee avere la sua cagione",
non è punto sintetico : perchè è un giudizio che ha il
predicato (causa) racchiuso già nel soggetto (effetto).
Prevedo io bene l'obbjezione che qui mi si farà. Si
dirà che quel giudizio si fa dagli uomini indipendente
mente dall'idea di effetto, ma solo coli' idea di ciò
che avviene; e che il giudizio proposto come sintetico

(i) Crìi, della R, P. , Introd. IV.


343
a priori, non fu « ogni effetto dee avere la sua causa »,
ma « tutto ciò che avviene dee avere la sua causa ».
Sento la forza della obbjezione , e rispondo : allor
quando l'uomo percepisce qualche cosa di ciò che accade
di nuovo, per esempio , quando nell'autunno egli vede
un albero curvo sotto il peso delle frutta, delle quali lo
avea veduto spoglio il verno precedente; allora o egli
percepisce la nuova produzione nel suo essere senza più,
ed in tal caso nella semplice idea della cosa esistente
pensata priva di tutte sue relazioni esteriori non v' ha
certo alcuna idea nè di effetto nè di causa; ovvero con
sidera il suo cominciare ad esistere , e sì perviene ( in
qualunque maniera ciò faccia ) a considerarla siccome un
effetto di qualche cagione: è solamente in questo se
condo tempo che si dice « quelle frutta debbono avere
una cagione »: ma ciò si dice perchè si sono concepite
appunto come un effetto. In questo secondo caso si usa
del principio generale « ogni effetto dee avere la sua
causa » . Non si può adunque applicare questo principio
prima che si abbia concepito la nuova produzione come
un effetto, cioè fino che non la si abbia pensata con un
concetto sì fatto , che racchiuda in sè il concetto della
canaa. Il concetto adunque di effètto ( soggetto ) non pre
cede, ossia non è mai indipendente da quello di causa
(predicato): ma toslochè noi abbiam quello, abbiamo
già anche questo in quello contenuto.
La difficoltà adunque non può consistere, come vuole
Kant, a spiegare come passiamo all'idea del predicato,
perchè non contenuta nell' idea del soggetto : ma con
siste a formarci l'idea del soggetto stesso (effetto), nel
quale è contenuta l'idea del predicato (causa) (i).
In altre parole: la proposizione universale e necessa
ria, e perciò il giudizio a priori non è se non questo:
« ogni effetto dee avere la sua cagione ». Questo non
è un giudizio sintetico a priori, nel senso di Kant, pe
rocché il concetto del predicato (causa) è contenuto già
nel concetto del soggetto ( effetto ).
Ora applichiamo questa proposizione a priori « ogni
effetto dee avere la sua causa ».

(i) Kant avrebbe potuto riconoscere un giudizio sintetico a priori non


già nella proposizione « ciò che avviene dee avere una causa — \ ma bensì
nella concezione intellettiva di « ciò che avviene ».
344
Come succede quest' applicazione ?
In questo modo: i.° noi percepiamo un avvenimento;
2.0 noi lo riconosciamo come un effetto 3." quindi con
chiudiamo ch'egli dee avere una causa, perchè quest'i
dea è chiamata e richiesta da quella di effetto.
In questa progressione, dove sta la difficoltà da spie
gare ?
Non nel primo passo ; perciocché noi percepiamo un
avvenimento sensibile mediante i sensi. Non nel terzo
passo, cioè nel trovare il predicato del nostro giudizio,
come pretende Kant ; perciocché avendo concepito l'av
venimento come un effètto, già inclusivamente noi abbiam
posta una causa. Tutta la difficoltà adunque consiste a
spiegare in che modo noi possiamo fare il secondo
passo, in che modo noi possiam percepire un avveni
mento sotto il concetto di effetto, cioè trovare il sog'
getto del giudizio « ogni effetto dee avere la sua causa»,
applicato ad un particolare avvenimento.
Indipendentemente però dalla sua spiegazione, si può
riconoscere siccome un fatto il seguente: « Qualunque
avvenimento gli uomini lo concepiscono come un effet
to ». Io per ora non ne cerco la spiegazione ; ma il fatto
è indubitato.
Ora mediante questo fatto siamo in caso di vedere
che posto occupa, nelle proposizioni filosofiche, quella di
Kant « lutto ciò che avviene dee avere la sua causa ».
Questa proposizione così enunciata non dice un giù-
dizio a priori, ma dice I' applicazione di un giudizio a
priori.- e l'applicazione che si fa generalmente del giu
dizio a priori, è solo un fatto, e non è punto un principio.
Ecco dunque l' ordine in cui stanno queste diverse
proposizioni intorno la causalità.
Principio a priori: ogni effetto dee avere la sua ca
gione.
Fatto generale: ogni avvenimento gli uomini lo con
siderano come un effetto.
Applicazione generale del principio a priori: tutto ciò
che avviene dee avere la sua cagione.
Ciò adunque che si dee qui spiegare si è il fatto ge
nerale, « come, cioè, succeda che l'uomo percepisca ogni
nuovo avvenimento non solo in sè, ma ben anco nel
suo concetto di effetto » : perciocché quando fosse chia
ramente data ragione , perchè l' uomo consideri ogni
cosa nuova che avvenga , sotto questa relazione; è an
che spiegato bastevolmenle perchè egli attribuisca a
queir avvenimento una causa; giacché nel concetto di
effetto , quello di causa si contiene, o , per dirlo in al
tre parole, non si può percepire i termini di questo
principio «ogni effetto dee avere la sua causa», se non
mediante la preconcezione almeno implicita del princi
pio s lesso.
Si vorrebbe forse, che io qui mostrassi come avvenga
realmente che l'uomo concepisce ogni avvenimento come
un effetto; e sebbene ciò io mi riserbi di fare più sotto,
dove io esporrò la mia opinione sull'origine delle idee,
tuttavia non sarà inutile che anche qui io analizzi bre
vemente questo giudizio universale « ogni avvenimento
è un effetto », per ridurlo alle sue elementari proposizioni.
Quando accade un nuovo avvenimento, comincia ad
essere qualche cosa che prima non era. Io percepisco
adunque due tempi successivi: nel primo, la cosa non
era-, nel secondo, ella è (i).
Partendo da questa osservazione, io ragiono così:
fcg\i è impossibile concepire l'operazione, se prima
non si concepisce l'esistenza.
L'esistenza stessa è una operazione ( un atto): adunque
quando l' esistenza di una cosa comincia, considerando
io questa esistenza come una operazione, forz'è che im
magini una esistenza precedente alla cosa, che è quella
appunto a cui si dà il nome di causa.
Quindi si vede che un avvenimento si percepisce come
effetto allora quando egli si considera come cominciante
ad esistere: ossia allora quando si pensa la sua nuova
esistenza come una mutazione, o di nuovo, come una
operazione: la quale non si può immaginar sola ; ma ha
uopo, per esser pensata, di riguardarsi come preceduta
da un'altra esistenza.
Ecco pertanto il progresso delle nostre idee:
Noi percepiamo il cominciare ad esistere. Nel con
cetto di cominciare ad esistere contiensi il concetto di
mutazione;
a.* Nel concetto di mutazione si contiene quello di
nuova operazione

(i) È I' unilà dell' intimo senso quella che mi fa avere contemporauea-
mtnie presenti e paragonare insieme questi due tempi.
Bosmm, Orig, delle Idee, Voi. 1. 44
346
3.* Nel concetto di nuova operazione sta quello di una
esistenza precedente;
4-* Nel concetto di un' esistenza precedente giace il
concetto della causa.
Laonde
1.* Il concetto della causa è compreso nel concetto
di una esistenza precedente all' operazione
2." Il concetto delfo/jeraz/orce è compreso nel concetto
della mutazione;
3.* Il concetto della mutazione è compreso nel con
cetto del cominciare ad esistere.
Tutta la difficoltà adunque non può starsi se non
nello spiegare il modo, onde noi ci formiamo il concetto
del cominciare ad esistere, ossia del passaggio dal non
esistere all' esistere: perciocché avendo noi .già il con
cetto di questo passaggio, noi abbiamo altresì in esso
contenuto il concetto della mutazione ; e nel concetto
della mutazione, quello della operazione; e nel concetto
della operazione , quello di una esistenza a lei prece
dente; e nel concetto di una esistenza che preceder deve
alla prima operazione di un oggetto , che è quella ap
punto di esistere, il concetto della causa.
In che modo adunque possiamo noi concepire il pas
saggio che fa una cosa dal non esistere all'esistere?
Supponendo che noi possiamo concepire l'esistenza
degli oggetti che ci cadono sotto i sensi , il passaggio
di una cosa dalla non esistenza alla esistenza non ha
più difficoltà alcuna: egli ci viene somministralo dai
sensi col giudizio: noi vediamo, tocchiamo, sentiamo
in una parola quello che prima non vedevamo , non
trovavamo, non sentivamo.
Il paragone di questi due tempi, che noi facciamo,
è appunto la percezione del detto passaggio di un og
getto dal non esistere al suo esistere. Ma ciò suppone,
come diceva, che noi abbiamo la facoltà di percepire
l'esistenza di quell'oggetto (ossia di quello avvenimento);
perocché se noi non avessimo, di quell'oggetto, che le
sole sensazioni, senza il potere di immaginarci qualche
cosa di esistente fuori di noi, noi non potremmo mai
percepire intellettualmente il detto passaggio.
Da tutta questa analisi si conchiuda, che Punica dif
ficoltà che soprastà nella spiegazione dell' idea causa,
viene espressa nella domanda « Come si percepiscono
347
gli oggetti forniti di una esistenza? » Questo è vera
mente il problema generale della filosofìa.

ARTICOLO XXIV.
MANCAMENTI NELLA MANIERA ONDE KANT PROPOSE
IL PROBLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.

Kant proponeva il problema generale della filosofia


« Come sono possibili i giudizj sintetici a priori »? e
questi giudizj, secondo Kant, erano quelli ne' quali il
predicato nè era contenuto nel concetto del soggetto,
nè venia somministrato dalla sperienza: sicché il detto
problema si poteva anche esprimer così « Come sia pos
sibile che noi talora attribuiamo ad un dato soggetto
un predicato che non abbiamo dalla sperienza, e che
non è contenuto nel concetto del soggetto medesimo ».
Nel presentare in questo modo il problema, sembrerebbe
che, se noi potessimo trovare il predicato o nel concetto
del soggetto, ovvero nell'esperienza , non ci avesse più
difficoltà alcuna a superare.
Ma primieramente, se noi potessimo trovare il predi'
tato nel concetto del soggetto, in tal caso si supporrebbe
eie noi avessimo già il concetto del soggetto.
All'incontro il difficile consiste appunto a formarci
il conretto del soggetto, a pensare cioè il soggetto come
esistente.
Quando noi supponiamo d'averci formati i concetti
delle cose, che difficoltà ci può essere ad analizzarli o
connetterli in ogni maniera? Tutto il nodo adunque
consiste nel mettere in piena luce il modo onde noi ci
formiamo i concetti delle cose: perocché noi non ci pos
siamo formare i concetti delle cose, se non pensiamo in
esse Vesistenza; il che suppone che noi abbiamo Videa
di esistenza; e quest'idea non ci può venire dalle mere
sensazioni, perchè particolari , nè da' concetti delle cose
prima che ce li abbiamo appunto formati.
In secondo luogo, la maniera onde Kant presenta il
problema generale della filosofia, suppone che, ove noi
possiamo trovare coli' esperienza de' sensi il predicato ,
non resti più alcuna difficoltà.
Ma egli è ben vero che la sperienza de' sensi ci può,
in un certo senso, somministrare un predicato: cosi
quando io giudico bianca una parete , io sono indotto
348
ad applicarle un tat predicato di bianco dal)1 esperienza
de' sensi. Ma prima però io debbo avere il concetto di
questo soggetto particolare a cui applico la bianchez
za , cioè io debbo averlo pensato come una cosa esistente.
Ritorna adunque la difficoltà sopra toccata « come
posso io pensare un soggetto particolare, o sia conce
pirlo come cosa esistente ». L'idea di esistenza, che
mi fa sempre bisogno per formarmi il concetto di qua
lunque cosa, io non posso cavarla per astrazione dal
concetto stesso, perchè non posso astrar nulla da un con
cetto che ancora non mi sono formato.
Riassumendo; quand' anco io potessi trovare un pre
dicato coll'esperienza de' sensi, ovvero il potessi trovare
nel concetto del soggetto, tuttavia la difficoltà che s'in
contra nello spiegare gli atti del nostro intendimento ,
durerebbe ngualmente, s'egli è necessario che io del sog
getto, a cui aggiungo il predicato, abbia prima un con
cetto già formato: perocché rimarrebbe sempre a diman
darsi, come m'abbia io composto e formato il concetto
del soggetto. La difficoltà dunque non può consistere nel
trovar l'origine di un predicato da attribuirsi ad un sog
getto del quale il concetto sia già formato, ma bensì
nel trovar l'origine del concetto del soggetto.

ARTICOLO XXV.
ST PROSEGUE * METTERE IN CHIARO IL PROBLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.

Il problema « come noi ci formiamo il concetto di


un soggetto » , ovvero senza più, « come noi ci formiamo
i concetti », è quello adunque che esprime tutta la que
stione che noi trattiamo. Facciamoci ad analizzarlo an
che setto questa forma, come abbiano fatto già fino a
qui sotto altre.
Nel concetto dj una cosa esiste un giudizio intrinse
co, mediante il quale noi consideriamo quella cosa og
gettivamente, o sia in sè; non come una nostra modi
ficazione; in una parola, la consideriamo nella sua
esistenza possibile.
Ora, come in ogni giudizio vi dee avere un predicato
ed un soggetto, resta a cercare primieramente , quale ,
nel giudizio accennato, sia il predicato e quale il sog
getto; in secondo luogo, onde noi troviamo il soggetto,
onde troviamo il predicato.
Ora il predicato non è che Vesistenza ; perciocché per
cepire una cosa oggettivamente , non è che percepirla
in sè, ossia nella esistenza ch'ella può avere: il soggetto
poi è la cosa cadutaci sotto i sensi , cioè che ha agito
sopra i sensi nostri.
Ciò posto , si consideri, che il soggetto in questo giu
dizio non è qualche cosa che sia già percepito da noi
intellettivamente; quando anzi il giudizio stesso è l'atto
della nostra percezione intellettuale: il soggetto adunque,
se si vuol così chiamare anteriormente al giudizio, non
è che la cosa meramente in quanto è percepita da' sensi:
e perciò è una cosa di cui noi non abbiamoli concetto,
ma solo sensazione.
Egli è da mettersi somma attenzione nell'osservar bene
questa distinzione di fatto , cioè che primieramente vi
sono de1 soggetti de' nostri giudizj , di cui non abbia m
punto il concetto, ma la sensazione solamente : perocché
in questa così semplice osservazione sta la chiave d'oro
di tutta la filosofia dello spirito umano.
In fatti se noi vogliamo esprimere sì fatti giudizj ,
che sono i primi che fa il nostro intendimento, diremo
« esiste ciò ch'io sento». Ciò che io sento, io lo per
cepisco intellettualmente coll'aggiungervi il predicato del-
I esistenza; se io prendo adunque per soggetto di questo
giudizio, cièche ini rimane, rimosso quel predicato ; che
cosa ho io, tolta la parola esiste? non altro che « ciò
che io sento »: vale a dire, ciò che io sento e non per
cepisco ancora come avente un'esistenza in sè, cioè non
come cosa che sta nella immensa categoria degli esseri
esistenti.
Egli è questa analisi del giudizio primitivo del nostro
intendimento nella formazione de' concetti , questa di
visione del predicato « esistenza » dal soggetto « ciò
che io sento », che svela il segreto delle operazioni del
nostro spirito intelligente.
Nell'analisi adunque di quel primitivo giudizio onde
noi ci formiamo i concetti delle cose, ossia le idee, sì
trova un soggetto, se così diviso vuol dirsi tale, dato
meramente dai sensi, e del quale non abbiamo .incora
concetto alcuno intellettuale; ed un predicato (l'idea di
esistenza) il quale non può essere dato dai sensi in modo
veruno, e del quale perciò non possono rendere alcuna
35o
spiegazione tutti quelli che da' soli sensi assumono di
fare uscire tutto il sapere umano.
11 problema adunque generale della filosofia consiste
a sapere « come sieno possibili quei giudizj primitivi
mediante i quali noi ci formiamo le idee, ossia i con
cetti delle cose ».

ARTICOLO XXVI.
SE I GIDOIZJ FRINITITI MEDIANTE 1 QUALI SI FORMANO LE IDEE
SIENO SINTETICI NEL SENSO DI KANT.

I giudizj primitivi onde noi formiamo le idee, si ope


rano mediante una sintesi fra il predicato non sommi
nistrato dai sensi (esistenza), e il soggetto dato da1 sensi
( complesso di sensazioni ).
In un senso dunque questi giudizj primitivi e sono
sintetici, e sono quelli che rendono poi possibili i giudizj
analitici; perciocché questi non si occupano che di scom
porre i concetti delle cose , che noi ci siamo formati
colla detta sintesi.
Ma non è in questo senso legittimo che usa Kant la
parola sintetico: egli è dunque necessario ch'io additi,
prima di proceder oltre, il germe dell'errore che si giace
nella significazione equivoca di questa parola.
La parola sintesi vuol dire unione; e quindi l'espres
sione « giudizio sintetico » non vuol dir altro se non
« giudizio che unisce qualche cosa ad un soggetto senza
trovarla nel soggetto stesso » (i).
Ma i vocaboli unione, unire, essendo metaforici, o
almeno facendo ricorrere al pensiero l'immagine di unioni
fisiche^ bisogna prima di tutto spiegare in che senso
queste unioni sieno applicabili ad esprimere il congiun
gimento delle idee applicabili a delle operazioni mera
mente spirituali.
Dicendo, « unisco un predicato ad un soggetto »; io
posso intendere che questo predicato lo metto nel sog-

(i) Non dico nel concetto del soggetto, ma nel soggetto stesso: perocché
noi possiamo avere il soggetto senza che ce ne ahbinmo formato per anco
il concetto. Ciò che percepiamo co' sensi, può essere benissimo ed è talora
soggetto de' nostri giudizj ; e pure non ne abbiamo il concetto fino che
non l'abbiamo altresì percepito coli' intelletto.
35i
getto come metto una gemma in un anello, o come
metto una trave nella casa che costruisco, in modo in
somma che io considero ciò che metto, come una parte
integrante del medesimo soggetto ; ed in questo senso
è che lo prende Kant.
Ora Kant suppone ancora, come vedemmo, che in
certi giudizj il predicato, che io metto e considero nel
soggetto qual parte integrante del medesimo, non emani
dal concetto del soggetto, nè mi sia dato dall'esperienza.
Dunque, egli conchiuse, « sono io stesso, è il mio
spirito quegli che mette nel soggetto ciò che nel soggetto
per sè non è: il mio spirito adunque, quasi emanandolo
da sè, crea in parte a sè stesso questo soggetto: cioè
crea in esso quel predicato: e considerandolo io talora
come una parte necessaria al soggetto, son io quegli,
per l'attività del mio spirilo, che formo, o costruisco a
me slesso il soggetto a cui penso, anche in ciò che al
medesimo mi sembra poi essere necessario ed essenziale,
per una illusione ed inganno della mia natura (i) ».
Tutto questo ragionamento è coerente, a dir vero ,
ma u appoggia sgraziatamente sopra due supposizioni
gratuite e false, le quali sono le seguenti:
Prima supposizione falsa, che l'attributo che noi diamo
ad un soggetto non si trovi talora nè nell1 esperienza ,
nè nel concetto del soggetto medesimo. All'incontro quando
noi diamo un attributo ad un soggetto, se non ci vien
dato dall' esperienza, si trova sempre nel concetto del
«oggetto medesimo.
Seconda supposizione falsa, che quando noi formiamo
un giudizio sintetico, uniamo il predicato al soggetto *
in questo senso, che il predicato stesso entri a formar
parte integrante del soggetto; quando egli non forma
parte integrante che del concetto del soggetto.
Se dunque non si può attribuire alla parola 'sintesi
questo senso materiale che gli attribuisce Kant, quando
noi formiamo un giudizio, vediamo qual senso possa
convenire alla detta parola quand'ella si vuole applicare

(i) È pure umiliante per 1' uomo una dottrina , che vuol persuadergli
tempre eh' egli è ingannato necessariamente , essenzialmente, non da' suoi
simili, ma dalla sua natura, e dall' autore della sua natura, se questi pur
rimane in tale sistema 1 Può essere più grande l'umiltà della filosofia I non
umilia solamente 1' uomo ; umilia coli' uomo la natura stessa , umilia Dio.
35a
alle operazioni dello spirito nostro. Ciò servirà a chiarir
maggiormente come avvenga in noi la percezione intel
lettuale, dall'esatta descrizione ed analisi della quale
tutto dipende l1 esito di queste ricerche.
Quando noi pensiamo , ossia concepiamo intellettual
mente un corpo, noi attribuiamo al medesimo l'esistenza,
o per dir meglio, lo concepiamo in sè, in quell'esistenza
ch'egli ha , non già nella relazione sua verso di noi.
Ora gli elementi di questo concetto che noi ci for
miamo di una cosa materiale sono tre :
1.* elemento, tatto ciò che di lui ci danno i sensi,
2.* elemento, l'idea dell'esistenza in universale,
3." elemento, quell'esistenza particolare e reale che in
lui noi ravvisiamo, che perciò a lui attribuiamo con un
giudizio.
L'idea dell'esistenza presa in universale che è in noi,
noi la possiamo chiamare predicato, e l' esistenza partico
lare e reale che è in esso oggetto noi la possiamo chia
mare attributo.
Ora Kant confuse, come già mostrai (i), il predicato
coli' attributo ; confuse quell'idea che noi predichiamo di
più cose, siccome nell'esempio recato Videa dell'esistenza in
universale, con quella qualità particolare e reale che noi at
tribuiamo al soggetto, siccome nel detto esempio quell'esi
stenza particolare e reale di cui l'oggetto corporeo è fornito:
egli di queste due cose ne fece una sola: ossia suppose che
fosse una cosa identica V esistenza-idea , e V esistenza-cosa,
che noi chiamiamo sussistenza per distinguerla da quella
prima', senza accorgersi che l' esistenza dell'oggetto è parti
colare a lui, e non applicabile punto ad altri oggetti ; men
tre l'esistenza nell'idea universale e non applicata è univer
sale ed applicabile ad infiniti oggetti, a tutti quelli cioè
che possono essere da noi pensali: l'esistenza particolare
è moltiplice, cioè sono tante esistenze diverse quante sono
le cose che esistono, nè si può chiamare rigorosamente
esistenza, perchè è inseparabile dall'ente esistente, sicché
questa sola parola di ente propriamente parlando si appro
pria a significarla: mentre l'esistenza in universale come
è nel nostro intelletto, è una e immutabile , ed è quella
sola a cui spetta propriamente il vocabolo di esistenza.

(i) Art. X e XI.


353
Ma si dirà, l'esistenza che è nell'oggetto che perce
piamo, ella pure o si percepisce dall'intelletto nostro,
ovvero non si percepisce: se non si percepisce, non se ne
può parlare in modo alcuno; s'ella si percepisce, avremo
in tal caso due idee, l'ima dell'esistenza in universale (pre
dicato ), l'altra dell'esistenza particolare (attributo).
Questa obbjezione fu da me già dissipata precedente
mente (i); tuttavia egli è così importante il ben affer
rarne lo scioglimento, che stimo bene di ripeterne qui
la soluzione in altre parole: questa ripetizione faciliterà,
spero, l'intelligenza dell'intima natura dell'atto che fa
il nostro spirito quando percepisce intellettualmente.
Prima di tutto stabiliamo la proprietà del parlare :
dopo di ciò la difficoltà si appianerà tostamente.
La parola esistenza, presa senz'altro aggiunto, non in
dica che un' idea. Un ente qualunque non si dice che
ha esistenza se non dopo averlo concepito : prima adun
que che noi concepiamo un ente materiale, quest'ente
esiste, ma noi noi sappiamo: egli uon ha dunque, ri
spetto a noi, espressione alcuna.
Quando quest'ente materiale ferisce i nostri sensi, sup
ponendo che il nostro spirito intelligente nulla agisca,
ma che non sussistano in noi se non sensazioni , quel
corpo affettandoci comincerebbe ad avere una relazione
con noi : noi affettati potremmo pronunciare un accento,
che non sarebbe però mai una parola, esprimente la no
stra affezione tutt' insieme e la causa che la produce. Ma
quest' accento , questo suono non sarebbe punto un giu
dizio, non esprimerebbe punto un ente come è verso
di sèj sarebbe l' effetto involontario di un' affezione, l'ef
fetto del sentimento prodotto in me da quell'ente:
questo ancora non sarebbe certo concepire quest' ente
intellettualmente, concepirlo come uno degli enti, lo
non posso addurre in esempio di questo accento se non
i suoni inarticolati delle bestie, o le interjezioni di pia
cere e di dolore, che, senza esprimer nulla come pa
role, sono però effetti istintivi della passione sofferta dal
l'animale: tutte le parole articolate che potessi addurre,
per esempio, ente, corpo, mente ecc., esprimono concetti
intellettuali già formati, e sono tutt' altro. In questo stalo
adunque io non avrei punto percepito l1 esistenza dell'ente,

(;) Art. XII.


R os hi iti. Orig. delle Idee, Voi. I. 45
354
ma la passione prodotta in me dall'ente stesso, che agi
sce come egli sta nel suo essere particolare e limitato.
Or poi mettendo in moto anche la mia facoltà di co
noscere (la ragione), suppongo che quest'ente, perce
pito passivamente da' miei sensi nel suo essere partico
lare, io il venga a conoscere in sè, ossia intellettualmente.
Che cosa succede in tale atto intellettivo dello spirito mio?
Non altro, se non un interno paragone che io faccio fra
la passione ricevuta da' miei sensi in particolare, e l'i
dea di esistenza : allora io trovo un rapporto fra la pas
sione particolare ( percepita dal senso ) e V esistenza di
un agente diverso da me , e dico a me stesso « ciò che
sento è un agente che ha l'esistenza ( in un dato grado
e modo assegnatomi dai sensi) ». Così io fermo il giu
dizio, nel quale consiste la mia percezione intellettuale
di quell'ente corporeo: mediante questo giudizio io con
sidero quell'ente corporeo come nella classe universalis-
sima degli enti, se così lice esprimersi ; e però lo con
templo sotto un aspetto universale- lo contemplo come
avente una esistenza in sè, indipendentemente al tutto
da me e da qualunque altro ente.
Da quesla analisi che io ho fatto della nostra perce
zione intellettuale risulta che « la percezione intellet
tuale, ossia l'idea di un ente corporeo, non è che la vi
sione del rapporto che passa fra la passione ( effetto di
un ente corporeo) e l'idea di esistenza».
Ora vengo alla soluzione della ohbjezione propostami.
L'intelletto, definendolo come la facoltà dell'esistenza
universale, non percepisce che quesla, e non ha altre
idee che questa.
La ragione, definendola per la facoltà che applica
l'idea universale agli enti esterni in quanto agiscon ne'
sensi, non è che la facoltà che ha il nostro spirito di
vedere la relazione fra ciò che somministra il senso , e
l'idea dell'esistenza che è nell' intelletto.
Quindi non si dà l'idea di nessun oggetto corporeo,
se non si verificano questi tre elementi :
i.° un'idea universale (l'esistenza) nell' intelletto (i),

(i) Chi toglie di mezzo 1' idea , e non lascia che I' oggetto reale, come
Reid , viene ad un medesimo. Reid tolse 1' idea dell' oggetto; Kant tolse
via l'oggetto, e lasciò l'idea. Tutti e due convengono che gli oggetti sieno
immediatamente percepiti dal nostro spirito : ma Reid dice , gli oggetti
immediati del nostro spirito sono oggetti reali ; Kant dice, sono idee,
355
a." effetto dell'ente percepito in particolare nel senso,
3." visione del rapporto fra l'ente agente percepito
(passivamente) dal senso, e l'idea universale dell'intel
letto, atto della ragione, percezione.
Se manca uno solo di questi tre elementi , non può
esistere in noi il concetto di un ente corporeo. Or
dunque supponendo che noi avessimo percepito col no
stro senso l'azione dell'ente corporeo particolare, e im
propriamente parlando, « l'esistenza particolare di quel
l'ente», noi non avremmo per questo ancora il concetto,
ossia l'idea di quell'ente} ne avremmo solamente la sen
sazione, l'azione. L'ente particolare adunque, ossia (im
propriamente) l'esistenza particolare non è conoscibile
perse, cioè non è mai un' idea $ ella non è che un
elemento sensibile onde risulta l'idea concreta, o sia la
percezione ; giacché l'idea concreta, o sia la percezione
è i la visione del rapporto fra quest'ente particolare o
sua esistenza particolare (impropriamente), e l'idea
universale di esistenza ».
Conchiudiamo da tutto ciò: Non esistono punto due
idee di esistenza, 1' una particolare , e l'altra generale.
Ma esistono solamente le seguenti idee :
i.* una sola idea di esistenza, che è l'esistenza in
universale,
a." molte idee di enti esistenti, che consistono, come
dicevamo, « nella visione che fa il nostro spirito del
rapporto fra gli enti percepiti in particolare dal senso,
e l' idea di esistenza » .
Appianata la difficoltà propostaci in questo modo, e
analizzato via meglio l'alto del nostro intendere , si ve
drà ora in qual senso io possa applicare la parola sin
tesi, o sia unione , ad un atto tutto spirituale.
L'atto dell'intendere o concepire intellettualmente un
oggetto corporeo, consiste « nel vedere il rapporto fra
l'agente particolare com'è percepito da' sensi, e l'idea
generale di esistenza ».
Egli non consiste adunque nel porre, che noi faccia
mo, ed unire nell'oggetto la nostra idea (per esempio
resistenza); ma consiste nel percepire semplicemente,
mediante l'unità del nostro intimo senso, il rapporto
ch'egli ha colla nostra idea di esistenza: il percepire un
rapporto, non è già un confondere ed immedesimare i
due termini del rapporto insieme in una sola cosa: que
356
sta specie d'unione è tutta materiale; è quella die si fa
di due liquori che si mescono insieme in un vaso, odi
due ingredienti che entrano in una vivanda: all'incontro
percependo un rapporto, si tengono ben distinti i due
termini; e si uniscono solamente insieme mediante l'atto
dello spirito, che ad un tempo li considera l'uno ri
spetto all'altro, e così ne trova una relazione fra loro,
che è un essere mentale, che non va niente a turbarli
o ad alterarli, ma che serve solamente di lume allo
spirito stesso , che forma anzi ciò che si chiama sua
cognizione o suo concetto.
In questo senso i giudizj primitivi del nostro spirito,
que' giudizj mediante i quali nasce la percezione intel
lettuale e l'idea, io li chiamo sintetici; perchè nasce una
unione fra una cosa data dai sensi (soggetto), ed una
che non entra nel soggetto dato dai sensi , ma che si
trova solo nell'intelletto ( predicato ).
Si osservi, che nello stesso tempo che dico che que
sto predicato non esiste nel soggetto , non dico , come
Kant, che non esiste nel concetto del soggetto.
In fatti nel concetto del soggetto esiste certo il pre
dicato: perocché che cosa è il concetto già formato del
soggetto, se non l'idea stessa di esso soggetto, se non,
in una parola, il soggetto sensibile a cui è già applicato
il predicalo intelligibile?
È cosa dunque interamente diversa il dire « il pre
dicato non esiste nel concetto del soggetto », e il dire
« il predicato non esiste nel soggetto ». Questa prima
è l'espressione di Kant, nella quale giace l'errore o l'equi
voco; e questa seconda solamente è quella che io am
metto e riconosco per esatta.
In una parola : i soggetti de' nostri giudizi sono o so
lamente dati dal senso, o già percepiti dall'intelletto:
in questo secondo caso,. del soggetto del nostro giudizio
abbiamo anche il concetto: ma nel primo caso, noi ab
biamo bensì il soggetto del nostro giudizio, ma non ne
abbiamo il concetto: solamente quando noi aggiungiamo
il predicato a quel soggetto, e formiamo così il giudizio,
solamente allora noi veniamo ad acquistarci, mediante
questo giudizio appunto, il concetto di quel soggetto.
E questi sono i giudizj primitivi , i quali formano i
nostri concetti, ossia le nostre idee.
Se noi diciamo, a ragione di esempio, « quest'uomo
è sapiente » ; noi formiamo un giudizio, nel quale ab
biamo già il concetto del soggetto (quest'uomo), e perciò
non è un giudizio primitivo: ma se io dico « ciò die
io sento in questo momento co' miei sensi, esiste »; in
tal caso « ciò che io sento co' miei sensi » è un sog
getto bensì del mio giudizio, ma che non mi è dato se
non da' sensi ; di cui perciò non ho il concetto , fino
che non ho perfezionato il giudizio, ed ho detto a me
stesso « esiste » ; perocché allora solo ho cominciato a
percepirlo intellettualmente.
1 giudizj adunque co' quali noi ci formiamo i concetti
ossia le idee delle cose, sono primitivi, perchè sono i
primi che noi facciamo su quelle cose: sono * sintetici ,
perchè noi aggiungiamo al soggello qualche cosa che in
lui non è , o per dir meglio , consideriamo il soggetto
in relazione con qualche cosa fuori di lui, con una idea
cioè del nostro intelletto; e si possono ancora chiamare
giustamente a priori, in quanto che , sebbene abbiamo
bisogno che la materia di essi giudizj ci sia sommini
strala da' sensi , tuttavia la forma di essi non la tro
viamo che nel nostro intelletto.

ARTICOLO XXVII.
IH CHE MODO KANT SCIOLSE IL PROBLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.

Forse ogni errore de' filosofi ha l'origine dallo stato


della questione mal posto. Più facile mi sembra sci orre
la questione, che presentarla bene: perocché non si può
presentar bene la questione, se non si conosce intima
mente; nè ella si conosce intimamente, se non la si
abbia prima seco medesimo risoluta.
Abbiamo veduto che Kant propose il problema gene
rale della filosofia nel modo seguente, « Come sieno pos
sibili i giudizj sintetici a priori », intendendo sotto la
denominazione di « giudizj sintetici a priori » de' giu
dizj, ne' quali poniamo noi stessi il predicato nel sog
getto, senza eh egli sia compreso nel concetto di questo,
nè che il caviamo dall'esperienza.
Egli partiva da una supposizione falsa , cioè dall'esi
stenza di sì fatti giudizi; e sbagliato questo primo passo,
egli non polea che fabbricare il sistema della critica
filosofia mediante il ragionamento che fece , e che si
può compendiare nel modo seguente:
358
Se si danno de' giudizj sintetici a priori, cioè de1 giu
dizi ne' quali il predicato non si cava dall'esperienza ,
nè si trova nel concetto del soggetto, fora' è che questo
predicato noi lo caviamo da noi stessi.
Esiste adunque nel fondo del nostro spirito una ener
gia portentosa, dalla quale emanano i predicati della
specie delle cose, all' occasione delle sensazioni che ri
ceviamo.
La natura di questi predicati, non essendoci dati dal
l'esperienza ed essendo in noi a priori, forz' è che sia
fornita de' due caratteri assegnati alla cognizione a priori,
cioè la necessità e la universalità.
Questi predicati debbono avere la necessità, perchè
senz'essi è impossibile che noi percepiamo gli oggetti:
e debbono avere la universalità, perchè tutti gli oggetti
percepiti forz'è che ci appariscano forniti di detti predicati.
Se dunque gli oggetti da noi non si possono percepire
se non forniti dei detti predicati, è necessario che que
sti predicati ci appariscano come parti integranti ed es
senziali degli oggetti da noi percepiti: è dunque l'energia
del nostro spirito quella che, supplendo dal proprio
fondo questi predicati negli oggetti, in parie costruisce
e forma a noi gli oggetti percepiti: cioè trasfonde da
sè in essi ciò che è necessario alla loro sussistenza : e
vede ne' medesimi non ciò che v' è di sua natura , ma
ciò ch'ella stessa vi ha posto traendolo di sè, e veg-
gendo in essi sè stessa.
Ammessi questi principj, in che si dovea occupare la
filosofìa? In questi due punti principali:
i.* In cercare tutti questi predicati, cioè in cercare
ed enumerare tutti que' predicali necessarj ed universali
senza i quali gli oggetti da noi percepiti non esistereb
bero: perocché questi predicati per gli loro caratteri di
necessità e di universalità non possono esserci dati dal
l'esperienza (i), e quindi sono a priori; nè si trovano
nel concetto del soggetto (2), e quindi appartengono ai
giudizj sintetici.

(t) Questo ragionamento che fa Kant non è esatto. Non è già che tutte
le cognizioni necessarie ed universali sieno a priori ; a priori non è che
la necessità e la universalità di tali cognizioni.
(a) Si noti in Kant la seguente contraddizione. Egli sostiene che questi
predicati entrano a formar parte dell' oggetto da noi percepito. Ma come
descrive egli l'oggetto in quanto è da noi percepito? Come risultante da
359
2.* Nel descrivere il modo onde la nostra mente ap
plica e trasmette negli oggetti questi predicati, e quindi
costruisce a sè stessa gli oggetti delle sue cognizioni.
La prima di queste due ricerche da Kant è chiamata
« Analitica de' concetti » ; la seconda « Analitica dei
giudizj » ; e tutte e due insieme formano la parte ana
litica della Logica trascendentale.
Procacciando adunque in primo luogo di venir cer
cando e traendo fuori a mano a mano tutti i concetti
(o sieno predicati) che servono a formare i sopra de
scritti giudizj sintetici a priori, Kant crede di poter per
venire a stabilire ch'essi sono dodici^ ai quali egli man
tice il nome aristotelico di categorie. La intelligenza
nostra adunque, all'occasione delle sensazioni, pone fuori
di sè questi dodici predicati o categorie, quali ingre
dienti negli oggetti stessi: sicché gli oggetti risultano
come da due elementi, i.* da questi concetti puri,
a." dalle visioni della sensibilità, com'egli le chiama, o
sia dalle sensazioni.
In secondo luogo si dovea ricercare come nasce que
sta composizione de' concetti puri (categorie) e delle
visioni della sensibilità (sensazioni), sicché entrino que
sti due elementi a comporre un medesimo oggetto.
Kant in questa ricerca credette di stabilire la neces
sità di un mediatore fra le categorie ( al tutto pure ) e
le sensazioni ( al tutto empiriche ), per far sì che queste
si potessero vedere in quelle: e questo mediatore trovò
che era il tempo , che si unisce tanto ai concetti puri
dell'intelletto (categorie) quanto alle sensazioni.
Egli suppose che il tempo, unendosi alle categorie o
predicati, produca certe nozioni più vicine alle cose sen
sibili, sebbene ancora pure, le quali egli chiamò schemi,
che tengono un luogo di mezzo fra i predicati generali
e interamente puri, e gli oggetti già interamente costruiti.

due elementi , i ." dai concetti intellettuali , a." dalla visione empirica :
m Senza visione manca ogni nostro sapere intorno gli oggetti , ed esso ri-
ir mane vuoto del tutto n ( Logica trascendent. , Inlrod. Ora quei con
cetti intellettuali sono concetti puri, i predicati in una parola de' giudizj
sintetici. Ma se i concetti puri sono i predicati de' giudizj sintetici a priori,
come poi afferma che i predicati de' giudizj sintetici a priori non si tro
vino nel concetto dell' oggetto percepito? si può egli avere questo con
cetto, senza che vi sieno in essi i concetti puri che sono le condizioni
della esperienza e di ogni nostro percepimento ?
30o
Quindi egli distinse questi diversi passi che fa il no
stro intelletto puro nell'applicarsi alla sensibilità:
i.* Vi sono primieramente nell'intelletto le categorìe,
o sieno dei predicati al tutto generali.
a* Quando queste categorìe si considerano unite al
tempo ( che è la forma del senso intimo, o la condizione
secondo la quale intimamente si sente), allora da que
st'unione nascono nella nostra mente gli schemi, che
sono in sostanza de' predicati meno generali delle ca
tegorie.
3.° Che se noi uniamo questi schemi alle sensazioni,
in tal caso succede che l'unione di questi schemi colle
dette sensazioni (che Kant chiama visioni empiriche)
producano gli oggetti reali da noi pensati, ossia il mondo
esteriore.
Così Kant sciolse il problema della filosofia coerente
mente al modo nel quale egli lo si avea proposto; ri
spose cioè alla questione da lui fattasi, u come sieno
possibili i giudizj sintetici a priori » , o sia, come noi
costruiamo a noi stessi gli oggetti del pensar nostro.

ARTICOLO XXVIII.
KANT NON CONOBBE TUTTAVIA LA NATURA DELLA PERCEZIONE INTELLETTUALE.

Da ciò che abbiam detto sul modo onde Kant pro


pose il problema generale della filosofia , e per conse
guente ancora sul modo di scioglierlo (i), apparisce che
quel filosofo si formò una idea inesatta e materiale della
percezione intellettiva. N
Tn fatti la percezione intellettiva, secondo l'analisi
che di sopra n'abbiamo fatto, non è che u la visione
della relazione che passa fra un' idea che è in noi (l'e
sistenza ), e ciò che percepiamo co' sensi*».
In questa operazione , 1' idea ( l'esistenza ) non si me
scola punto con ciò che noi percepiamo co' sensi ; nè
con esso si confonde o s'immedesima; anzi se ne resta
interamente distinta : ciò che si apprende, è la relazione
sua con quest' idea ; e questa relazione ( come vedremo
meglio altrove ) forma il lume della nostra mente ; è
ciò onde noi diciamo di conoscere gli oggetti sensibili;
è ciò, mediante di che noi possiamo far uso di essi.

(i) Art. XXVII.


36i
AH1 incontro Kant suppose che l'idea generale (le ca
tegorie ) si mescoli e meriti per sì fatto modo con ciò
che noi percepiamo co' sensi , che da quella e da que
sto risulti e si formi l'oggetto esterno del nostro pen
siero : errore venutogli per non avere distinto il predi
cato dall' attributo (1); cioè ciò che di particolare v' è
realmente nell' oggetto (a) , da ciò che v' è nella nostra
mente di universale; ciò che è tipo, e ciò che è realiz-
lamento del tipo; per esempio, la quantità in genere
che è solo nella nostra mente qual tipo, non ha che fare,
cioè non è la medesima della quantità di un oggetto esi
stente che è nell'oggetto reale; sebbene sia una singo
lare relazione d'identità ch'essa ha colla prima, quella
che la rende conoscibile, anzi che costituisce sua cogni
zione. « Come sia possibile una tale relazione d'identità
fra la cosa particolare nell'oggetto, e la cosa universale
nella mente » ; ecco il vero problema della filosofìa , che
Kant si doveva proporre , e che egli non è giunto a
conoscere.
ARTICOLO XXIX.
EANT AMMETTI NELLO STESSO TEMPO TROPPO POCO,
E TROPPO D'iNNATO NELLA MENTE UMANA.

Kant non è che la teoria di Reid sviluppata (3).


Lo spirito nostro, secondo Kant, nulla ha d'innato,
nel senso che preceda alla sperienza de' sensi: ma que
sto spirito, quando riceve dai sensi la materia delle sue
cognizioni, allora egli è soggetto a riceverla secondo
certe leggi, cioè a rivestire questa materia di certe for-

(i) Art. XV.


(a) Ciò che v' è di particolare nell' oggetto, non è intelligibile se non
per mezzo di ciò che v' ha di universale nella mente nostra : egli non ò
oggetto di un' idea particolare, ma d' un giudizio che all' idea universale
lo congiunge.
(5) 11 pensiero di Reid, che non v' abbiano idee nel nostro spirilo , ma
solo percezioni degli oggetti, sicché il nostro spirito percepisca gli oggetti
stessi immediatamente , si trovava già nel libro delle vere e delle false idee
di Arnaldo. Ma in questo avversario di Malebranche si vede forse ancor
meglio 1' affinità del sistema che toglie di mezzo le idee , col kantismo ;
perciocché Arnaldo , dicendo che non vi sono idee fra gli oggetti e aa\ t
ma che noi percepiamo immediatamente gli oggetti stessi, disse che queste
percezioni nostre sono di sua natura rappresentative , e clic sono modalità
dell'anima stessa. E dunque I' anima che ha i modi ( le forme ) di tutti
gli oggelli; il che ognun vede quanto sia prossimo al sistema della lilusolia
trascendentale.
Rosmisi, Orig. delle Idee, Voi. I. 4^
36a
me: la materia de' sensi, e le forme che il nostro api-
rito vi aggiunge, formano insieme gli oggetti esterni.
Queste forme, rispetto all'intelletto, sono le dodici
categorie o concetti puri da noi accennati, o predicati
che vengono aggiunti necessariamente ed universalmente
dal nostro spirito agli oggetti della sperienza.
Niente più rassomiglia allo spirito umano nel suo ope
rare, come il concepì Kant, che l' immagine /del prisma
che scompone la luce, più sopra da noi toccata (i): il
color bianco riceve dalla forma del prisma quella scom
posizione che lo sparte in sette colori: così le sensazioni
nel nostro spirito prendono tutte le forme dello spirito
stesso, e si cangiano in oggetti esterni, che ci sembrano
poi cose da noi diverse ed al tutto indipendenti.
Questa maniera di vedere lo spirito umano, da un
lato concede troppo poco d'innato, come abbiamo ve
duto parlando di Reid; ma dall'altro dà al medesimo
spirito innata una energia creatrice del mondo esteriore,
soggetta però a leggi inesorabili, colle quali, nello stesso
tempo ch'ella emana continuamente da sè il mondo,
involge iusieme se medesima in una profonda, inestri
cabile, necessaria illusione, ed in una fatalità orrenda,
onde non può più uscire che mediante una illusione
nuova, la filosofia pratica, pur necessaria, pure fatale (a).

(i) Face. a3a.


(3) Se si unirà insieme questo risultato ultimo della filosofìa kantiana
co' sistemi che ho confutati nel Saggio sulla Speranza ( Opuscoli FU-
Voi. II), e nella Breve esposizione della Filosofia di M. Gioia ( ivi ) ; sistemi
che mettevano per base della felicità umana una continua illusione; si vedrà
quanto è degna di riflessione la storia, della sapienza dell' uomo abbandonato
a sè stesso ! L' uomo comincia pieno di confidenza , promettendo a sè slesso
la scoperta della verità : non c' è vero recondito , che alle sue investiga
zioni non si riveli. Intanto mormorano le passioni , timorose non forse loro
sia vietata la dolcezza inehbriante de' sensi. L' uomo le rassicura; pro
mette loro che la verità stessa, che se ne va a scoprire, autenticherà tulli
i sensibili godimenti: s'affida, cosi promettendo, ad un risultato che an
cora non conosce, ma che tiene in vista come quello, che dee dirigere
costantemente tutte le sue investigazioni. Intanto la verità non si piega alle
intenzioni interessate di una tale filosofìa. Questa allora se ne sdegna:
fatti tulli gli sforzi per persuadere la verità a servire al suo scopo, usate
con lei tutte le destrezze e le lusinghe, minacciatala di dichiararla iuu-
mana , barbara , crudele , se non si riconcilia cogl' impeti e cogli istinti
dell' umana natura degenerata, che pur ricusa riconoscersi tale ; che fa ul
timamente la filosofia ? torna seriamente sopra sè stessa , e medita a' casi
suoi, trista di non aver potuto espugnare la verità, di non aver potuto cor
romperla , o trovare un sistema vero che escludesse 1' ordine de godimenti
e sostituisse alla giustizia la voluttà. Ella si ridice allora : non vania più ,
3G3
ARTICOLO XXX.
CONCLUSIONE.
Noi abbiamo posto Reid nel novero di quelli che mi
sero troppo poco d'innato nello spirito umano; Kant
nel novero di quelli che ammisero troppo, sebbene il
sistema di questo sia uno sviluppo del sistema di quello.
La ragione di ciò si è, che Reid effettivamente non
sì avvide delle conseguenze kantiane, e pose d'innato
un solo istinto a giudicare l'esistenza de' corpi: non
accorgendosi che, ciò accordato , non si potea più fer
marsi qui: convenia venire a ciò, a cui Kant venne certo
coraggiosamente; perchè l'uomo ha bisogno di coraggio
ad assumere di convincere di menzogna la natura stessa
delle cose.

come a principio, di andare al sicuro conquisto della verità : 1' invenzione


della verità non doveva essere il suo scopo : si era ingannata a proporsi ciò :
ella torce la sua strada: si compiace d'essersi fatta più accorta e più prudente,
e confessa che prima inesperta peccava di temerità : tutta modesta ella
non ha oggimai altro scopo che quello d'insegnare agli uomini a dubitare;
confida che il dubbio così sostituito alla verità tranquillerà le passioni som
mosse contro l' impresa temeraria , a cui prima la filosofia proclamava di
dedicarsi. Per la nuova strada del dubbio, più felice a dir vero è il suo
vaglio. In vece di occuparsi a edificare, intende a distruggere quanto mai
po*u turbare i desiderj del cuore insaziabile delle voluttà della vita : e coi
progressi del dubbio, vanno d'un passo quelli della libertà disfrenata ove
s' allarga 1' umana concupiscenza. La filosofia del dubbio , esitante essen
zialmente ed irrequieta come la concupiscen2.1t medesima, a nulla più tende
che alla piena sua perfezione : essa consiste nel passare dal dubbio alla il
lusione : questa è priva dell' incerto , che si mescola sempre al dubbio :
non la verità, nè più il dubbio, ma 1' illusione che rende 1' uomo beato
wU' abbondanza di quanto brama il suo cuore , tale dee essere lo scopo
vero di una umana e tutta soave filosofia : ecco il progresso. Ma 1' illu
sione non l'appaga ancora interamente: unisce un secreto rimprovero con
tro all' uomo che cerca d' illudersi fatto essendo pel vero. Seguitano per
ciò i progressi della filosofìa : eli» già si volge a torre all' uomo anche que
sta molestia : e 1' ultimo suo risultato dice, che l'illusione non è 1' effetto
della volontà dell'uomo, sicché questi aver ne debba rimorso; l'illusione stessa
è un nobile e felice effetto necessario della umana natura: non è l'uomo;
è la natura del cuore dell'uomo che cerca necessariamente e providamente
d' illudersi , perchè vuole in tal modo bearsi : è la natura della meule
umana che è costruita tutta per forma, ch'ella sia il fonte d' una univer
sale, d'una irreparabile illusione: nè la verità, che non esiste più per lei,
Hee trattenerla : la sola illusione è l' eccelso oggetto della stessa intelligenza.
Così la filosofia non può sciogliere il gran problema che sempre si propone,
« come l'uomo può da sé felicitarsi in questa terra», senza terminare ad un
risultato tanto tristo, tanto assurdo, tanto furioso quale è quello di dichia
rare menzognera la propria natura, la natura di tutte le cose, menzognero
tutto ciò che esiste, impossibile perciò stesso che esista. Convien pervenire
al aulL perfetto, anziché la umana temerità consegua di soddisfare ai suoi
Insogni essenziali senza di Dio.
364
CAPITOLO IV.

QUALI PASSI FECE. LA FILOSOFIA


PER OPERA DI PLATONE, LEIBN1ZI0 E KANT,
E QUALI A FARE LE RIMANGONO.

ARTICOLO I.
EPILOGO DE' TRE SISTEMI.

Piatone, Leibnizio e Kant hanno conosciuto, più o


meno , la difficoltà che si trova nello spiegare il fatto
delle idee.
Quelli a cui questa difficoltà rimase occulta , de' quali
ho parlalo nella Sezione precedente, quanti meriti ab
biano in tutte l'altre parti della filosofia, non possono
però giammai aspirare ad un posto fra coloro che ten
tarono e produssero innanzi la soluzione di questo pro
blema particolare dell'origine delle idee. Bensì nella sto
ria della soluzione di un problema così importante e capi
tale, hanno seggio cospicuo i tre filosofi soprannominati,
che posero il nerbo del loro ingegno a spingere innanzi
la scoperta di tale nobilissima verità.
Si può anche dire che la questione, passando dalle
mani dell' uno alle mani dell'altro, abbia fatto un pro
gresso continuo; ed ecco in che modo.
Abbiamo veduto che, quando altri cerca di assegnare
una cagione a de' fatti somministrati dalla sperienza,
egli non dee recare in mezzo una cagione maggior del
l'effetto; perocché ella terrebbe in sè del soverchio: e
che, ove più cagioni si rappresentino allo spirito come
atte ugualmente a spiegare l'effetto che ci è proposto,
hassi a riguardare per più verisimile quella che, idonea
a spiegare l'effetto, è insieme minore o più semplice
di tutte l'altre.
Ora i tre filosofi summentovati , a spiegare il fatto
dell' origine delle idee misero tutti qualche cosa d'in
nato ; e bastava alla spiegazione che dare intendevano;
ma nello stesso tempo anche del troppo ci misero e
dell' arbitrario.
Ma i susseguenti vantaggiarono i primi in questo,
che ciascuno restrinse il superflue del suo predecessore ;
sicché essi procedevano in sulla buona via, e s'avvicina
vano di mano in mano ai giusti limiti; e tutto mostrava
365
che la filosofìa nelle loro mani prendeva un avviamento
verso la perfezione e la verità, cui ella avrebbe final-
mente raggiunto, se in sul cammino, prima di toccare
il suo termine, oppressa da estranee e fatali sventure,
non periva , non annullava se stessa (i).
Leibnizio mise d'innato meno di Platone: poiché Pla
tone mise innate le idee in uno stato di assopimento;
e Leibnizio non volle che de' piccoli vestigi d'idee , i
quali avessero, secondo certa armonia , virtù di rilevarsi
e rinforzarsi da se s lessi (a).
Io ho già osservato che queste tracce d'idee non pre
sentano alcun senso chiaro; e che lutto ciò che si può
ammettere circa i diversi stati ne' quali le idee già for
mate sono in noi, non può essere che lo stato d'idee
non riflesse, e d'idee riflesse (3).
Per altro il pensiero di Leibnizio, che immagina delle
piccole ed insensibili percezioni dello spirito nostro, mo
stra assai chiaramente il bisogno ch'egli sentiva di trarre
il troppo d'entro alla teoria di Platone, ammettendo
d'innato meno di lui e di Cartesio; solo che non gli
sovvenne poi altra maniera di scomporre le idee, e scer
nere la parte innata di esse, se non quella di immagi
narle siccome prive di luce e di senso nel fondo del
l'anima nostra.
Kant venne appresso, e fu più felice: egli mise a pro
fitto una divisione che, sebbene antichissima, pure era
troppo negletta da' moderni: voglio dire la divisione
delle idee nella loro parte formale, e nella loro parte
materiale.
Sentita che Kant ebbe l'importanza di questa distin
zione, egli ritenne siccome innate (4) 'e s°le forme delle
idee, e lasciò all'esperienza de' sensi l'offerire la mate
ria delle medesime. Questo pensiero fu ottimo; e quando
lo si considera in relazione collo spirito della platonica
filosofia , egli sembra esser la chiave colla quale pene
trare nella intenzion di Platone , non saputa forse da

(1) Il kantismo è 1' ultima linea degli umani studj , come la morte de
scritta da Orazio.
(2) Face. 376.
(5) Face. 271.
(4) Face. 3 16 e segg.
3GG
lui medesimo distintamente aprire e comunicare con
esatte e coerenti espressioni (i).
In tal modo riducendo Kant ciò che v' a vea d' innato
nell'uomo alle pure forme delle cognizioni, egli venia
a mettere nello spirito dell'uomo d'innato meno di
tutti quelli che lo precedettero in aver inteso la neces
sità di ammettere qualche cosa d'innato nella mente,
ed abbastanza tuttavia per una spiegazione completa del
fatto delle idee e delle cognizioni umane (2).

(1) Kant stesso prende il tuono d' interprete di Platone là dove traiti
delle sue tre idee o concetti della ragione, e rispetto all' intelligenza della
platonica filosofia fa l'osservazione seguente : « Piacerai solamente riflettere,
» qualmente non è punto strano , sia neh" ordinario linguaggio , sia negli
« scritti, che, paragonando fra loro i pensieri stessi emessi da qualche au-
■» tore sul proprio argomento , lo si comprenda anche meglio di quanto
« egli comprendeva sé medesimo , per non aver esso determinato baste-
•< volmente il suo concetto, e quindi ragionato più volte , se non anche
n pensato , in opposizione al proprio scopo ». Crit. della Ragion Pura ,
Logica, Diaìett. irascend. Lib. I, Sez. I, secondo il volgarizzamento del
Cav. Mantovani.
(2) Il sistema delleforme innate ( lasciando or qui la ricerca storica del
modo onde le intendeva Kant, intorno a che io ho già esposto la mia opi
nione nel Capitolo dove ho esaminata la dottrina di questo autore) può
essere concepito in due modi: i.° o in tal modo, che lo spirito abbia in
nate le forme ( che alla line non sono che delle idee generali ed astratte ,
alle quali si dà il nome di forme in relazione all' uso che se ne fa nelT in
telligenza degli oggetti reali ) , a quel modo che Cartesio o Platone mise
innate le idee; a.° o in tal modo , che lo spirito possieda una tale virtù
radicale, e così determinata, che, all'occasione di concepire gli oggetti
dell'esperienza de' sensi, egli emetta da sè e dia esistenza alle forme che
prima non esistevano , congiungendole colla materia dall' esperienza sensi
bile somministrata : sicché in tal modo egli generi di sè , senza seme per
così dire , od anzi crei il proprio sapere intellettuale , e con ciò lo stesso
mondo. Ora io qui non voglio fare osservare se non, che ove s'intendessero
le forme in questo secondo modo, si metterebbe nello spirito nostro assai
più che intendendole nel primo; e che perciò in questo secondo modo il
sistema delle forme peccherebbe di superfluo, più che non farebbe inteso
nel primo.
E non posso a meno di riferire, circa il sistema delle forme inteso in
questo secondo modo , alcune riflessioni di Antonio Genovesi in una sua
lettera al Conti, dalle quali riflessioni si può vedere che il sistema di Kant
iu sostanza fu pensato in Italia, e confutato prima ancora che fossevi portalo
da olire 1' alpi. « Io concedo volentieri, dice il filosofo italiano, questa
« produzione di forme di cose meramente possibili potersi fare dalla sola
« natura dell' animo; ma niuu uomo intenderà giammai , che la mente , la
* quale affatto ignora le cose esistenti, che non ne trova in sè verun orma,
« che non ne riceve vestigio da cagioni esterne , se ne possa fare dille
- immagini o delle forme corrispondenti ad esse cose. No, io mi ci perdo.
- Questa forza è ancora maggiore della creatrice : finalmente la crealnce
- non produce che ciò eh' ella intende : questa produce forme di cose che
«« non intende; né le produce di cose come possibili , ma come esistenti-
Le forme messe da Kant nello spirito umano a spie
gare il fatto delle cognizioni umane , furono diciassette :
due del senso (interno ed esterno), dodici dell'intel
letto da lui chiamate concelti puri o categorie, e tre
della ragione a cui diede il nome d'idee.
Tutto questo novero di forme era troppo : il formale
della ragione è molto più semplice: egli non era giunto
a far abbastanza bene la sottil divisione della materia
dalla forma del sapere, e ad estrarre il puro formale
senza lasciarvi annesso alcun che di materiale.
Ora questa specie di chimica metafisica da me tentata
mi dà per risultato , che quelle forme kantiane non
sodo meglio gli elementi formali del sapere umano, che
i patirò elementi d' Empedocle non sieno le sostanze
«empiici di cui tutti i varj corpi risultano: se non che,
carne la chimica perfezionandosi ridusse l'acqua, la ter
ra, il fuoco e l'aria, antichi elementi, ad un numero
maggior di principj ; così e converso la metafisica più
felice porge in ultimo risultato delle sue analisi un nu
mero assai minore degli elementi formali del sapere
umano , anzi li riduce finalmente alla massima sempli
cità , ad un solo, forma della ragione insieme e della
cognizione (i).
Kant adunque ammise ancor troppo d'innato: e come

• Questo è un bello indovinare, pare a me, non altrimenti che un pit-


« tore , che pretende di averci fatto de' ritratti di cose, di cui egli non
» ebbe giammai idea. Più; questo è un rivoltarci nel più tenebroso scet-
« ticismo che si possa fingere circa 1' esistenza delle cose corporee : è rin-
• negare tutta 1' evidenza de' sensi: è tradire il chiaro sentimento della
« coscienza ».
(i) La moltiplicità delle forme dell'intelligenza e della scienza ha qual
che cosa di assurdo in sè stessa e di contraddicenle. In vero se colla pa
rola intelligenza io indico una cosa determinata , e non è un vocabolo in
certo, e che nulla di definito significhi ; se colla parola di scienza io esprimo
qualche cosa che ha una essenza unica per modo che si possa distinguere
da ogn' altra cosa; forz' è che 1' intelligenza e la scienza non abbiano che
unaforma sola : poiché è appunto quest'unica forma che determina queste
cose ad essere ciò ch'elle sono. La forma di una cosa è ciò che ne costi
tuisce V essenza, ciò che la fa essere ciò che è: ora una cosa non può aver
più essenze, e perciò non può avere più forme : ciò sarebbe tanto contrad
ditorio, quanto il dire che una cosa può essere molte cose , che una cosa
può essere ciò che non è. Quello adunque a cut Kant dà il nome diforma,
convien che sia qualche cosa di subordinato alla prima e vera forma del-
V intelligenza e della scienza; saranno quelle di Kant delle forme relative
e parziali; ma nou quella forma che uoi cerchiamo, che costituisce la na
tura della intelligenza , e che, essendo forma pura, non si moltiplica sa
tutu per l'unione cou qualche cosa di uslraneo e di materiale.
368
ciò gli sia avvenuto , veggiamolo un po' più distesamen
te ; acciocché questo ci prepari quel cammino , nel qual
noi dovremo entrare nella Sezione s> pente, ove, la
sciato il ragionare delle altrui sentenze, dovremo por
mano a sciorre l'altro obbligo che ci rimane col lettore,
quello di presentare a dirittura la Teoria dell' origine
delle idee, che a noi sembra conforme alla verità.

ARTICOLO li.
CHI COSA HANNO DI SUPERFLUO LE FORME DI KANT, E COMI gf RIDUCONO
TUTTE AD UNA FORMA SOLA.

Kant descrive ed espone le sue forme dell' intelligenza


umana colla più grande regolarità: una pel senso ester
no , una pel senso interno : l' intelletto ne ha quattro
precise, ma ciascuna si suddivide in tre: la ragione final
mente ne ha appunto tre,nè più nè meno.
La regolarità che presenta la filosofia di Kant in tutte
sue parti, sicché sembra fatta colla squadra e col filo
della sinopia alla mano, dee ragionevolmente chiamure
1' attenzione dello studioso ad esaminare con maggior di
ligenza, se quell'ordine così simmetrico, così ristretto,
sia conforme in questa parte alla natura , la quale suol
esser nelle altre sue opere semplice e feconda in un
modo tanto più liberale e grandioso della povera e pre
suntuosa immaginazione umana.
Io non pretendo di far qui un esame minuto delle
forme kantiane; sebbene egli abbia detto di dedurre le
categorie rigorosamente dalle forme de' giudizj ( il qual
pensiero è sempre assai felice), tuttavia egli non attenne
punto la sua parola: ma ci presentò la tavola delle ca
tegorie bella e fatta , dandocela per cosa perfetta sulla
sua autorità: conciossiachè in nessun luogo, che mi
rammenti, egli toglie a dimostrare che dalle forme de' giu
dizj riesca il numero di quelle categorie a dodici appunto
appunto, e assegnale a tre per tre con perfetta giustizia
distributiva a ciascuna delle quattro forme fondamen
tali. Non avendo adunque Kant giustificata la deduzione
simmetrica delle categorie, egli ci lasciò in dubbio, al
trettanto che Aristotele ch'egli a ragione censura (i),

(i) NeW Analitica trascendentale Lib. I, cap. 1, parla del filo di guida
per la scoperta di tulli i concetti puri dell' intelletto, e lo assegna alla ua
36g
se quelle sieno perfettamente dedotte ed enumerate sì, o
no, cioè se sieno le uniche dodici classi del sapere umano,
sicché nulla di questo sfugga, che in alcuna di quelle non
dehbasi necessariamente collocare e dividere. Perciò egli
sarebbe un discorso lungo ed inopportuno il fare una cri
tica minuta di questa divisione, non meno arbitraria che
le antiche , delle idee generali dell'umano intelletto.
Ciò che si vede a prima vista si è, ch'egli confonde
talora la veste che le nostre idee ricevono dalla paro
la, colle idee stesse; e la medesima idea, perchè vestita
diversamente, la raccoglie e classifica come fosse un'al
tra idea; il che gli serve alla simmetrica regolarità della
divisione , come nella forma della qualità trovò la sot
todivisione de' giudizj infiniti , i quali non sono già
qualche cosa di diverso dai giudizj a/fermativi o nega
tivi , se non nella veste della parola (i).
Medesimamente, egli sembra che ommetta delle idee,
che determinano le classi del sapere umano e che po
trebbero aver posto nelle categorie, unicamente pel ti
more che queste non s'accrescano più del numero sta
bilito, e non gli rompano la regolarità vagheggiata.
Così la quantità continua o intensiva dovrebbe ri porsi
sotto Ja categoria di quantità, sotto cui non pone che
Ja quantità discreta , come quella che gli somministra
appunto tre belle classi, dell'unità, pluralità e totalità.

tara del giudizio: ma dopo di ciò, egli non deduce già le forme da' giu
dizi, ma le presenta in una tavola senza più ; nè s' occupa a far vedere la
tità che sieno dodici, e che non possano essere nè più nè raeuo , nè
nè in altro ordine da quello in che egli le presenta.
(i) Egli reca in esempio de' giudizj infiniti « V anima non è mortale »;
e pretende che questo giudizio differisca nella forma da quest' altro <> l'auima
è immortale m. Ora se per forma s'intende la veste esterna delle parole,
glielo concedo; ma in sè stessa la parola immortale è perfettamente sitio-
nima di non mortale ; e perciò non punto differisce nella Jorma interiore
e concetti va di cui parliamo; perocché le forme che nascono dall'uso delle
parole, troppe sono, e nuli' altro son che apparenti, perciocché è una forma
sola della mente, in più modi esterni manifestata e vestita. Che se si prende
un esempio in cui 1 attributo negato non abbia un solo opposto, siccome
è mortale, che ba il solo opposto immortale; ma abbia più opposti, come
i colori ( affermando per esempio che un oggetto non è verde, non vengo
ponto ad affermar eh' egli è rosso ) ; questo caso è complesso , e racchiude
due coppie di giudizj : prima coppia « non è verde « e il suo contrario « è
verde m; seconda coppia « è rosso » e il suo contrario » non è rosso ».
Ridotti adunque i giudizj complessi ai semplici , non si possono dare che
giudizj affermativi o negativi ( sia che si affermi e neghi con probabilità o
con certezza); e la classe de' giudizj injiniti non é che mia mistura ili
quelle due forme di giudizi , uè presenta alcuna forma nuova ed originale.
Rosmiui. Orig delle Idee, Voi. I. 47
370
Talora studia di conservare l'ordinata simmetria col
far violenza a delle idee, per ridurle a quelle che hanno
sortito l'onore di essere dichiarate categorie; come quando
vuol ridurre la verità alla pluralità, e la bontà alla to
talità} quasiché l'idea astratta del numero plurale po
tesse contenere in sè la nozione del vero, e l'idea astratta
del tutto potesse contenere la nozione del buono (1).
In quelle ch'egli chiama idee della ragione, e che
sono le forme dell'assoluto, egli confonde ciò che è

(1) Analit. trascend. Lib. I, c. I, sez. III. Ecco come pretende che il
detto scolastico, quotilibet ens est unum, veruni et bonum, sia già compreso
Delle sue categorie di unità, pluralità, totalità : « Questi pretesi predicati
« trascendentali delle cose non siao altro che requisiti logici e note di
« qualsiasi nostra cognizione , a cui sian fondamento le categorie di quan
ti tità, cioè dell' unità , della moltitudine , e della università. Solo che tali
« categorie, che dovrebbonsi prendere materialmente , come quelle che ap-
« partengono alla possibilità delle cose stesse , furori prese solo in una si
ti gnifìcazioneformale, come appartenenti a requisiti logici della cognizione,
« e incautamente si fecero altrettante proprietà delle cose stesse per sè
«r considerate, mentre non erano che note di ogni cognizione 1.
In questo passo si può osservare, cerne Kant stesso viene a confessare
che le sue categorie non sono pureJorme, ma hanno del materiale annesso.
Ciò che gl* impedi di fare la giusta divisione della forma dalla materia
del pensare, si fu l'aver presi gli oggetti del pensiero ( in generale ) come
cose puramente soggettive, e in tal modo confusili coi modi dell'essere
pensante. Avendo dunque ammessi gli oggetti del pensiero come una ema
nazione del medesimo pensiero e nulla più, egli prese ciò che apparteneva
a' modi del pensiero appunto per forme del pensiero : a quella guisa che
fu tratto in errore Leibuizio , quando avendo fatto emanar dal fondo
dello spinto tanto la cognizione degli universali , quanto quella delle cose
reali , mescolò e confuse il mondo delle astrazioni con quello delle realtà
( face. 280 e segg. ). Molto più accadde questo a Kant, che degli oggetti
del pensiero e delle forme di esso fece una cosa sola , e volle che uscisse
dall' animo nostro non pur ogni cognizione, come Leibuizio , ma il mondo
stesso , almeno in gran parte.
Per altro quanto è misero il modo ond' egli pretende che nella pluralità
stia il concetto della verità! Quest' è, egli dice, perchè « quante più sono
« le conseguenze vere di un dato concetto , taute più sono le Dote della
« verità sua oggettiva »> ( Anal. trasc. Lib. I, c. I., sez. Ili): quasiché le
note della verità sieno lo stesso della verità stessa , ovvero la pluralità non
possa trovarsi altresì nel numero delle conseguenze false. La pluralità è un
loculo, per così dire, privo di contenuto; mentre la verità determina e lissa
pur qualche oggetto reale fra tutte le cose ( vere e immaginarie) che sono
più. Parimente è troppo meschina stiracchiatura quel voler ridurre il
buono alla totalità; quasiché I' idea di un tutto offerisse ancora l' idea della
bontà di questo tutto. Ma quando anche l'offerisse, le due idee di lutto e
di buono diverserebbero in fra loro sempre come due enti di ragione , e
non converrebbe confonderli insieme e farne un solo. Non è cosa che fac
cia sragionare si bassamente quanto I' amore stemperato di sistema: questo
panni che renda talora 1' ingegno lotte di Kant più lìacco e povero di
quel d' un fanciullo.
assoluto veramente, come è Dio, con ciò che è assoluto
relativamente, come è l1 anima umana e l' universo: sic
ché tutte le idee dell' assoluto si debbono ridurre final
mente ad una sola , indivisibile , cioè all' idea dell' ente
degli enti, a Dio.
In tal modo le tre idee, o forme della ragione di
Kant, si riducono ad una, all'idea di Dio.
Ma l'idea stessa di Dio , considerata come forma della
ragione siccome Kant la presenta, rimanesi equivoci.
Perciocché Iddio o si prende per un essere sussistente,
o unicamente per una pura idea della mente nostra che
immagina come possibile ed altresì necessaria, per soddi
sfare se stessa , una specie d'ipotesi della causa ultima.
Questa causa ultima, come una pura idea necessaria
alla mente per soddisfarsi, non è punto ciò che si chiama
Dio; e quindi Kant parlando di Dio nella Critica della
Ragione pura, come un prestigiatore, adopera un vocabolo
venerando al genere umano in un senso diverso dal co
mune, per ingannare il suo lettore coli1 abuso delle pa
role, e cansare da sè il titolo obbrobrioso di Ateo (r).
E. \eramente, ove si pigliasse Iddio come un essere
Teale, egli non polrebb1 essere forma naturale, quaggiù
in (pesta vita, della nostra ragione, senza essere insieme
materia del nostro pensare; perciocché noi non possiamo
che pensare Dio secondo le similitudini tolte dagli es
seri finiti che noi sperimentiamo; e la forma della no
stra ragione quaggiù è un essere, una regola astratta,
per la quale perveniamo, giudicando, a conoscer gli
esseri reali. La forma adunque del saper nostro acco
munar si dee a tutti gli oggetti della cognizione, e non
può essere uno di essi.
Ciò posto, veggiamo che cosa v'ha di universale e
di formale nell'idea di una prima causa, che è l'idea
kantiana di Dio.
Nell'idea della prima causa, analizzandola, si trovano
due altre idee più elementari , che entrano a formarla;
cioè i.* l'idea di causa in generale, 2." 1 idea della causa
di tutte le cause, o del tutto.
Ora la causa del tutto non si ritrova se non mediante
l'applicazione dell'idea di causa in generale al tutto.
(1) Dio nella Ragion pura di Knnt non si prende che come un tipo nella
niente nostra di un essere perfettissimo ; un ideale, un esemplare, sènza
che ouìk possiamo conchiudere circa la sua reale ed oggettiva esistenza.
3^2
L' idea di causa contiene il principio, « ogni avveni
mento dee aver la sua causa ».
L' applicazione di questo principio al complesso di
tutti gli avvenimenti ( all' universo ), porta la proposi
zione » il complesso del tutto finito (l'universo) dee
aver la sua causa ».
Questa proposizione non è che una conseguenza del
principio: nel principio si contiene come in germe:
questa conseguenza non presenta adunque nessuna nuova
nozione che informi la nostra mente, diversa dalla
nozione di causa in generale : l' idea dunque di una
causa prima non può essere una forma originaria della
umana mente, diversa dalla nozione di causa in generale.
Ma 1' idea di causa in generale è già annoverata da
Kant fra le dodici categorie.
Nessuna adunque delle tre idee della ragione di Kant
può chiamarsi veramente forma della nostra intelligenza.
Kant confuse in esse ciò che appartiene all'oggetto del pen
sare , con ciò che appartiene alla forma del pensare stesso.
Mettiamo ora ad esame le dodici categorie che Kant
chiama forme dell'intelletto, e le due forme del senso
interno ed esterno, e veggiamo se tutte sieno veramente
forme primitive ed originarie della nostra intelligenza,
come il filosofo critico pretende.
Io osservo primieramente, che le dodici categorie di
Kant non possono aspirare tutte allo stesso posto, per
modo che ciascuna sia indipendente dall'altre, e così
di suo genere proprio, sicché ridur non si possano e
schierare le une sotto le altre , come classi minori sotto
classi maggiori.
Togliamo la forma di modalità; ella ha subordinate
le tre categorie di possibilità, esistenza e necessità.
Ora mettiamo con questa forma a confronto l' altre
tre, cioè le forme di quantità, qualità e relazione.
10 concepisco benissimo un ente possibile, od esistente,
senza che io sia obbligato di sapere quanto sia, quale
sia , e che relazioni egli abbia.
11 mio intelletto in questo caso è condizionato dalla
legge di dover pensare un tale ente o come possibile,
o come esistente , o come necessario : ma non è punto
necessitato, dopo di ciò, di vestire l'oggetto del pensiero
delle forme di quantità, qualità e relazione.
Se dunque si può dare un atto del mio intelletto sen»
bisogno delle Ire forme di quantità, qualità e relazione ;
vuol dire che queste non sono le forme essenziali e
necessarie del mio intelletto: non sono quelle forme
che informano e costituiscono nella sua propria natura
l'operazione intellettuale: e quindi esse non sono le
forme dell' intelletto che noi cerchiamo ; perciocché noi
cerchiamo quelle forme, per le quali l' intelletto è intel
letto, e per le quali 1' operazione intellettuale esiste , le
forme insomma che formano il termine prossimo, essen
te, necessario dell' atto intellettuale.
Laonde la forma della modalità è indipendente dalle
foncé di quantità , qualità e relazione : sicché l'intelletto
con quella sola forma della modalità può fare qualche
atto suo anche senza bisogno di queste.
Air incontro noi non possiamo pensare il quanto, il
quale, o le relazioni di un oggetto, se questo oggetto
noi non 1' abbiamo pensato prima o come possibile o
come esistente.
Quindi tutte le tre forme della quantità, qualità e
relazione, dipendono dalla forma della modalità, che è
superiore a quelle tre, le quali solo mediante questa e
dopo questa possono aver luogo nel nostro intelletto.
Noi possiamo adunque conchiudere con sicurezza , che
le tre prime forme di Kant, cioè la quantità, qualità e
relazione, non possono considerarsi siccome forme ori
ginarie ed essenziali del nostro intelletto; perciocché si
può concepire l'esistenza e l'operazione dell'intelletto
senza bisogno alcuno di esse.
Il medesimo si vede ancora per un' altra ragione. E
egli necessario, che ogni oggetto abbia un quanto ed
un quale determinato?
L affermarlo risolutamente, come fa Kant, è per lo
meno far fare alla ragione critica un atto di baldanza
e di temerità più che dogmatico, e attribuirle di poter
decidere in questo modo una questione che è impossi
bile di definire a priori all' umana ragione.
Se Kant ci avesse detto « Il dire che ogni oggetto
possibile dee esser fornito di un quanto e di un quale
determinato, soverchia le forze della ragione, perchè
a dir ciò si converrebbe di esaminare tutti gli oggetti
possibili, e dovremmo altresì entrare in investigazioni
intorno all' essere infinito, di cui noi non abbiamo una
positiva e adeguata idea » ; egli avrebbe con questo
374
mostrato almeno un po' di modestia filosofica, vera o
certo apparente : avrebbe mostrato qualche coerenza con
sé medesimo, cbe nulla ha, che più gli garbeggi ed
arrida, quanto il poter criticare la ragione, e l'inveire
contro i filosofi chiamati da lui dogmatici per ischerno,
cioè contro tutti quelli che qualche cosa ammetton di
certo oggettivamente. Ma avendo egli proferita sentenza
sull'argomento di cui parliamo; avendo posto la quantità,
e qualità, fra le forme primigenie dell' umano intelletto ,
quasiché egli nulla pensar possa senza di queste; venne
con ciò a dar prova di manifesta temerità, e a mostrare
ignudo il volto della critica dottrina, trattale incauta
mente la maschera della filosofica bacchettoneria.
Conchiudasi adunque, che se fra le forme kantiane se
ne può ritrovare alcuna che meriti il titolo di forma
originaria dell'intendimento umano, sicché lo informi,
ed informi la cognizione che dall' intelletto procede,
questa non può cercarsi che nella modalità: veggiamo
dunque se in questa nulla si contiene di ciò che cerchiamo.
Primieramente osservo, che ov' io penso e giudico che
qualche cosa esiste, io non vengo con quest'atto neces
sariamente a perfezionare la mia idea della cosa esistente.
E veramente io posso avere un' idea perfetta quanto
si voglia di un oggetto, senza che necessariamente l'og
getto esista. , ,
Adunque il giudicare che esista la cosa di cui io ho
V idea, è un atto essenzialmente diverso da quello col
quale il mio intelletto ha e contempla 1' idea della cosa :
quel giudizio non aggiunge nulla alla mia idea , nessuna
nozione nuova infirma per essa la mia mente.
Adunque V esistenza reale ed esterna, oggetto del mio
giudizio, non può essere nessuna forma originaria del
mio intelletto: poiché nel mio intelletto, della cosa non
c'è che Videa, e questa non si accresce nè diminuisce,
nè soffre alcuna alterazione dalla sussistenza o non sus
sistenza della cosa medesima. , . ■ ,. '
La forma dunque dell'intelletto non può essere che
uri idea, e non. la sussistenza della cosa: quindi delle
tre, categorie, di possibilità esistenza e necessità, quella
di esistenza, considerata come cosa a parte dalle altre
due, non può essere in alcun modo una forma originaria
ed essenziale del nostro intendimento. ,
: Veggia,m adunque se abbiali ;ij carattere di forme
3?5
originarie ed essenziali dell' intendimento le due altre di
possibilità e di necessità.
L'idea di una cosa qualunque ( in quanto non ha
ripugnanza interna) è ciò che si chiama la possibilità
logica della cosa.
Or certo è impossibile fare un atto qualunque del
l' intelletto senza la forma della possibilità.
Ma quando io penso la possibilità di una cosa, sono
io anche obbligato a pensare esplicitamente la necessità
assoluta della medesima? No certamente.
La necessità dunque non può essere forma originaria e
primitiva del mio intendimento, perchè essa non è l'og
getto e termine suo universale e immutabile.
Resta dunque a conchiudersi che, di tutte le dodici
forme kantiane, il carattere di forma dell' umano intel
letto non l'ha se non una sola, la possibilità. Perciò
veggiamo un poco questa che cosa sia.
Abbiamo detto che la possibilità di cui parliamo è
Videa di una cosa qualunque. In vero la possibilità dee
esser sempre pensata di una qualche cosa 3 perciocché
non si pensa la possibilità di un nulla.
La possibilità dunque è indisgiungibile da un qualche
cosa ; sebbene però ella trovar si possa unita a un qualche
cosa qualunque.
Perchè dunque noi pensiamo la possibilità, non è ne
cessario che questo qualche cosa sia determinato ad un
genere, ad una specie, o ad uno individuo ; ma basta che
sia un qualche cosa, un ente indeterminato perfèttamente.
Videa dunque (la possibilità) dell'eie indeterminato è
l'unica forma dell'umano intelletto originaria ed essenziale.
Ora veggiamo come tutte le nove prime forme del
l'intelletto di Kant a questa sola, come a loro princi
pio formale, si riducono, e come le altre due categorie
della modalità, la esistenza e la necessità, non hanno
nulla di formale, o sono elementi in questa già con
tenuti : cominciamo da queste.
Se per esistenza s'intende l'idea dell'esistenza della
cosa in universale, questa è racchiusa nel!' idea dell' ente
indeterminato.
Se per esistenza s' intende l' attuale sussistenza del
l' oggetto, questa non è che l'oggetto della facoltà di
giudicare, e non aggiunge nessuna forma all' intelletto.
La necessità si trova analizzando la possibilità ; peroc«
376
chè ciò che è possibile, è tale necessariamente. In lai
senso la necessità è compresa pure, come in germe,
nell' idea dell' ente in universale.
Ma se per necessità s' intende un ente necessario ,
conviene dir di questo ciò che si è detto dell' attuale
sussistenza degli oggetti in generale.
Ridotte alla sola forma dell' idea dell' ente in univer
sale le tre categorie della modalità, veggiamo come si
riducano a quella stessa forma le tre che si compren
dono sotto il titolo della relazione, cioè quelle di so
stanza, di causa e di azione.
10 ho già dimostrato che tutto ciò che v'ha d'intel
lettuale nelle idee di sostanza e di causa, non è ap
punto che l'idea di esistenza, o dell'ente in universale (i).
Se dunque Kant ripose la sostanza e la causa fra le
categorie o forme essenziali ed originarie dell' umano
intelletto, non fu se non perchè non ispinse abbastanza
avanti l'analisi di queste, da scoprire ciò che in esse
era pura forma.
Rispetto poi all' idea di azione, conviene osservare che
non solo l'intelletto percepisce V azione, ma ancora il
senso la percepisce, esperimentandola.
Or non può mettersi già fra le categorie l' azione par
ticolare in quanto è percepita dal senso; ma solo l' azione
percepita dall' intelletto, o, che è il medesimo, il con
cetto dell'azione.
Ma come egli avviene che l' azione particolare percepita
dal senso si fa universale quando ella diventa l'oggetto
dell'intelletto? Ciò avviene per la virtù che ha l'intelletto
di considerare l'azione particolare sperimentata dal senso,
come possibile a ripetersi un numero indefinito di volte.
È dunque l' aggiunta della possibilità quella che rende
l'azione un concetto universale. Il medesimo dite quando
io astraggo ciò che costituisce la natura dell' azione in
generale, e lascio di considerare le particolarità delle
diverse specie di azione.
11 concetto adunque di azione, sottomesso all'analisi,
trovasi che non è tutto pura forma dell'intelletto, ma
ch'egli è composto i.* d'un elemento materiale, in quanto
si riferisce alle azioni sperimentate dal nostro senso j

(i) L' analisi dell' idea di sostanza è alla face. 19 e segg. ; l'analisi del
l' idea di causa alla face. 54a e segg.
Ii
%.' e d' un elemento formale, in quanto il nostro in
telletto aggiunge la forma della possibilità, e così astrae
ed universalizza le azioni particolari.
Adunque ciò che v' ha di formale nell' idea di azione,
non è che la possibilità , o sia l'idea dell'entein universale.
Con una simile analisi noi potremo ridurre alla forma
dell'ente in universale la quantità e la qualità di Kant;
col separare cioè da esse ciò che v'ha di materiale, e
ritenere solo ciò che v' ha di formale.- ma sì fatta ana
lisi à dà per ultimo risultalo, che niente hanno in sè
^ue' concetti di formale, se non l'idea di possibilità,
o, che è il medesimo, dell'ente in universale.
£ in vero, anche gli oggetti del mio senso hanno una
arta quantità ed una certa qualità. Ora la qiantità e hi
qualità, percepita dal mio senso, non è menomamente
la forma del mio intelletto. La quantità adunque e la
qualità che è concetto, e, secondo Kant, anche forma
del mio intelletto, non è la quantità e qualità partico
lare, ma la quantità e la qualità considerata in universale.
Ora, ripetendo lo stesso discorso fatto relativamente
al concetto di azione, onde si forma la quantità e la
qualità in universale? Quando io penso una quantità
particolare, e la penso insieme come puramente possi
bile, io con ciò solo la ho resa universale. Che se da
questa idea di quella quantità possibile, io astraggo i
caratteri che la specificano, e così la universalizzo, ho
in questa idea la quantità in genere.
La quantità dunque o la qualità non è oggetto del
mio intelletto di natura sua, come fosse da sè forma
del medesimo-, ma eli' ha bisogno, per divenir tale, d'es
sere informata da un'altra forma: e la forma che l'in
telletto mio le aggiunge è appunto !a possibilità.
La quantità e la qualità sono adunque per sè materia;
ed è il mio intelletto che, informandole, le rende un
suo concetto.
Questo concetto adunque della quantità e della qua
lità, analizzato, non ha nuli' altro di formale in sè, se
non Videa di possibilità, o di ente in universale.
Così le dodici forme di Kant ad una sola pura e vera
forma si riducono.
Ma a questa unica forma si riducono finalmente an
che quelle che Kant chiama forme del senso esterno ed
interno, cioè lo spazio ed il tempo.
Rosmini , Orig. delle Idee; Voi. I.

i
378
In vero lo spazio ed il tempo, che Kant dichiara per
forme , non è già lo spazio ed il tempo soggetto all' e-
sperienza; è quello spazio e quel tempo indeterminato
e puro, che noi possiamo sempre immaginare uniforme
e senza limite alcuno.
Ora coli1 analisi di queste idee dello spazio e del
tempo, esse si risolvono finalmente in due elementi,
cioè i." nello spazio e tempo sperimentato, a.° e nel
pensiero della possibilità di uno spazio e di un tempo,
ripetuto ed ampliato indefinitamente, vuoto di cose e
di avvenimenti: possibilità che di natura sua è uniforme
e priva di limiti.
Ciò che v' ha di formale adunque anche in queste
due forme del senso interno e del senso esterno, non
è che la possibilità , o sia l'idea dell'ente indeterminato.
Concludiamo : la mente umana non ha nessuna forma
determinata innata j e le diciassette forme di Kant non
hanno alcun vero fondamento , e sono interamente su
perflue a spiegar l'origine delle idee.
All'incontro la mente umana ha una sola forma in
determinala, e questa è Videa dell'ente in universale.
L'idea dell'ente in universale è pura forma, e non
ha seco congiunto nessun elemento materiale: essa è
così semplice e poca cosa , che non si può semplificare
più oltre, nè immaginare nulla di meno che possa es
ser alto a informare le nostre cognizioni.
E veramente egli è impossibile immaginare un alto
qualunque della mente, che di questa forma non abbi
sogni, e per essa non si naturi e s'informi; sicché, tolta
via Videa di un ente in universale, è reso impossibile
il sapere umano e la mente stessa.
Laonde, ridotto in tal modo quanto vi può esser d'in
nato nella mente dell' uomo al menomo possibile, non
mi resta ora che a mostrare come questo poco sia tut
tavia sufficiente a spiegare completamente l' origine di
tutte le nostre idee: il che vorrà essere l' argomento della
Sezione seguente.

FINE DEL VOLUME PRIMO.


INDICE

Prefazione face, vu

SEZIONE PRIMA.. Principi da seguirsi ut


QUESTE RICERCHE.
CAPIT. I. De' due phincipj del metodo filosofico » i
CAPIT- EC Di due filosofie , l'uva folgabe e l'altea dotta, e
db' due mancamenti delle medesime n 3
CAPIT. m. Del. MANCAMESTO DELLA FILOSOFIA LOCKlAUtA • * • m H 5
SEZIONE SECONDA. Difficoltà che s'incon
tra NELLO SPIEGARE l' ORIGINE DELLE IDEE.
CAPIT. UNICO. Esposizione della difficolta' » n
SEZIONE TERZA. Teorie false per difetto,
CIOÈ PERCHÈ NON ASSEGNANO ALLE IDEE
UNA SUFFICIENTE CAGIONE.
CAPIT- I. Locke.
une. I. Sistema lockiano » i5
une II. Locke venendo a spiegare V origine dell' idea di sostanza, si
affaccia alla difficoltà e non la ravvisa » iri
ime IIL II nostro spirito non può fare a meno dell'idea di sostanza » 18
urne. IV. Perchè dalle sole sensazioni non possa venire l'idea di sostanza » 19
ime. V. Come la difficoltà che si trova nell'assegnare l'origine dell'idea
di sostanza , sia la medesima da me proposta sotto altra forma » aa
aime. VI. Conclusione sull'imperfezione del sistema lockiano ...» 39
CAPIT. H. Condillac.
une I. D'Alembert fa alcune opposizioni al sistema lockiano ...» 34
une II. Censura che Condillac fa di Locke » 35
une. III. Sistema condillachiano » 36
une. IV. Inesattezza dell'analisi condiUachiana » 38
une. V. L'attenzione dell'intendimento non è il medesimo che la sensitività » 3g
une VI. La memoria non è la sensibilità » 4'
une. VII. L'attenzione è diversa dalla memoria » 43
une. VIII. Il giudizio non si dee confondere colla semplice attenzione » 44
IX. Condillac non vede la difficoltà, e v'incappa, cioè spiega la
formazione delle idee col supporrle nell'uomo alcune di già for
mate , che gli servono a dedurre le altre "47
X. Ogni percezione rappresentativa è generale: indi la difficoltà vie
più si mostra in Condillac , e vi resta insoluta » 5i
une. XI. Continuazione » 58
une. XII. Conclusione sul difetto intrinseco del sistema condillachiano » 61
CAPIT. HI- Beid.
une I. Origine della scuola scozzese » 63
une II. Sistema di Reid sulla distinzione delle facoltà » 66
une III. In c/ie modo Reid sentisse la predetta difficoltà . ...» 7'

33o
abtic. IV. La difficoltà di Reid contro il sistema Incidanofu presentita da
Locke medesimo face, -i
ai tic. V. Obbiezione fatta da Reid al Iodismo « --5
Artic. VI. Reid fa precedere il giudizio alle idee » -6
aiitic. VII. E quindi stabilisce , contro Locke _, che la prima operazione
dell' intelletto umano è la sintesi, e non V analisi . . . . » y\
artic. Vili. // sistema proposto ila Reid non può soddisfare. . . . » r8
artic. IX. Difetto comune al dottor Reid e ai suoi avversar}'. . . . » 8a
artic. X. Ciò che il sistema di Reid ha di solido contro i suoi avversari n gì
artic. XJ. Conclusione "95
CAPIT. IV. Dvgaid Stettart.
abtic. I. Varj aspetti della difficoltà » iri
Anne. II. Stewart appoggia la sua teoria ad un passo di Smith . . » 97
artic. III. Primo mancamento nel passo di Smith: non distingue le di
verse specie di nomi -indicanti collezioni cT individui ...» 99
abtic. IV. Secondo mancamento : non distingue i nomi indicanti collezioni
d'individui, e i nomi indicanti qualità astratte . . -. . . » 101
aiitic. V. Terzo mancamento: confonde i nomi indicanti collezioni d'in
dividui , e quelli indicanti qualità generali, co* nomi comuni. » 102
abtic. VI. Quarto mancamento: non conosce qual sia la vera distinzione
fra i nomi comuni, e i propri » n>4
abtic. Vii. Quinto mancamento: ignorala ragione perla quale i nomi si
dicono comuni e propri » 106
abtic. Vili. Sesto mancamento : non osserva die i primi nomi imposti alle
cose furono nomi comuni . » 1 08
abtic. IX. Settimo mancamento : ignora die è più facile conoscere nelle
cose ciò che è comune, di ciò clic è proprio . • . . . n II 4
artic. X. Ottavo mancamento: ignora come i nomi comuni passino ad es
ser propij » Ii5
ARTIC XI. Nono mancamento: nel passo di Smith, col quale si vuole spie
gare le idee astratte, nulla di ciò si racchiude » \11
artic. XII. Decimo mancamento: lo Smith cela studiosamente la difficoltà
che s'incontra nello spiegare l'origine delle idee astratte . . >f iq3
artic. XIII. Che forma prenda la difficoltà da noi proposta ne' ragiona
menti di Smith e di Stewart » l3o
abtic. XIV. // sistema de' Nominali non soddisfa alla predetta difficoltà » ivi
artic. XV. Onde sia venuto l'abbaglio preso da Stewart » i3i
abtic. XVI. Petizione di principio che si trova nel sistema di Stewart. » l iJ
ABTIC. XVII. Altro abbaglio preso da Stewart • . . » |3G
Artic. XVIII. Si notano altri abbaglj dello Stewart, e si mostra viepiù
V insufficienza del suo sistema a sciogliere la difficoltà proposta " 1 38
Ar.Tic XIX. Il nominalismo di Stewart discende dai principj di Reid. » 1 49
abtic. XX. Nello spiegare come si percepisca la similitudine degli oggetti,
si trova la stessa difficoltà sotto altro aspetto » idi
ài.tic. XXI. 'Nello spiegare come si possono classificare gl' individui torna
a presentarsi la medesima difficoltà » l5;
Anne. XXII. Incertezza che dà a vedere lo Stewart nelle espressioni da
lui adoperate >j ivi
artic. XXIII. So Stewart confonde insieme due questioni distinte . » 1 58
abtic. XXI V. Lo Stewart ignora le dottrine degli antichi filosofi ch'egli
censura, sulla formazione de' generi e delle specie .... » 119
abtic. XXV. Stewart non intende la questione agitata fra i Realisti, i
Concettualisti e i Nominali » 161
ARTIC. XXVI. Stewart confonde la questione sulla necessità del linguaggio,
con quella sull'esistenza delle idee universali >■ i6i
abtic. XXVII. Nuova peti: imi di principio : Stevart volendo spiegare come
l'intelletto si fonila le idee di genere e di specie, comincia dal sup
pone tali idee già formate r
artic. XXVIII. Altra petizion di principio : Stewart suppone che le idee
generali sono qualche cosa , in quel ragionamento stesso col quale
vuol provare che non sono che meri nomi »
artic. XXIX. / segni non bastano a spiegare le idee generali. ..." '^9
ai, ric. XXX. Altra fallacia nella maniera di ragionare che usa lo Stewart » 'j1
38i
ime. XXXI. Conclusione : la filosofia scozzese, conscìa della propria in
sufficienza a superare la difficoltà proposta, ha tentato in vano di
eliminarla dalla filosofia face. 176
CAPIT. V. QvjLl PASSI FECE LA FILOSOFIA PEH OPEKA Da' FILOSOFI
FIX QUI ESAMINATI " '77

SEZIONE QUARTA. Teorie false per eccesso,


CIOÈ PERCHÈ ASSEGNANO ALLE IDEE UNA
CAGIONE SOVEPCBIA.
CAPIT • I. Platone e Aristotele.
axtic \. Difficoltà del problema dell'origine dell'idee proposta da Platone » 187
ahk. 11 Soluzione platonica della difficoltà » 189
irne UL La difficoltà veduta da Platone, è nella sostanza la difficoltà
stessa da me proposta » ìga
une. IV. // sistema di Platone vale a sciorre la difficoltà proposta, ma
insieme pecca di superfluo "196
ime V. Aristotele fa osservare l'inesattezza del ragionamento di Platone » 200
une VI. Nel ragionamento di Platone rimane qualche cosa di solido » ao3
une VII. Sembra che Aristotele non dia una spiegazione sufficiente de
gli universali ao4
Vili. Aristotele non sembra aver marcalo abbastanza , in alcuni
luoghi delle sue opere, la distinzione fra il senso e l'intelletto » 207
IX. Giusta la parafrasi di Temistio, Aristotele non avrebbe cono
sciuta abbastanza la natura dell' universale » 2i4
aitic. X. Giudicare è più che percepire l' universale ... . » 216
Ai- tic. XI. Assurdità della dottrina esposta da Temistio » 217
aitic. XII. Contraddizione in due sentenze di Aristotele » 222
XIII. Mostrasi che gli scolastici sentirono la difficoltà accennata ,
da una distinzione che inventarono per ischermirsene : esame della
medesima » 223
XIV. Come l'intelletto agente d' Aristotele spieghi V origine degli
universali. » 228
ime. XV. Aristotele vuole che l'intelletto dia la propria forma a ciò die
percepisce : questo , rimossa dall' intelletto ogni idea innata , è il
fondamento dello scetticismo moderno » 23 1
ime XVI. Contraddizione aristotelica »> 232
a«tic XVII. Nel sistema esposto, l'intelletto opererebbe ciecamente: as
surdità di ciò » a33
aitic XVIII. Cenno in Aristotele della vera dottrina » 234
aitic. XIX. Spiegazione del cenno che dà Aristotele della vera dottrina » a30
aine XX. Aristotele riconosce che V intelletto porta seco innato un lume,
come attesta il senso comune » 237
une. XXI. Gli Arabi, volendo rigorosamente sostenere che nulla v avea
d'innato nell'uomo, caddei-o nell'errar d'ammettere V intelletto
agente fuor dell' anima umana » 23g
Arno XXII. iS. Tammaro confuta l' erróre degli Arabi. i .... ss 242
Anne XXIII. Merito di Aristotele nell'aver conosciuto che è necessario un
atto primitivo innato nel nostro intelletto » ivi
une. XXIV. Spiegazione di Egidio degli abiti indeterminati accennati da
Aristotele siccome innati nell' uomo » 248
aitic. XXV. Conclusione sopra Aristotele » ivi
aitic. XXVI. Due specie di dottrina in Platone , n 249
CAPIT. II. Leibniz/o.
aitic. I. La difficoltà nella spiegazione delle idee fu veduta da Leibnizio » 258
a*tic. II. L' analisi delle potenze in genere , e non V analisi particolaiv
della potenza intellettiva condusse Leibnizio alla cognizione della
difficoltà » 261
aitic III. Leibnizio vede imperfettamente la difficoltà, perchè la deduce
da principi troppo generali . . . • » a64
38 a
ir.no. IV. Soluzione leibniziana della difficoltà fare. i65
Aimo. V. Come le idee innate di Leibnizio possano venir tutte successi
vamente ad uno staio luminoso » a68
Anne. VI. Merito di Leibnizio in questa questione » v^o
artic. VII. Leibnizio ammise d'innato meno di Platone » 176
Anne. Vili. Ciò che Leibnizio ammette d' innato è più che non bisogna a
spiegare il fatto delle idee » s^j
Anno. IX. Altri errori della teoria leibniziana » 379
Aimo. X. Conclusione sulla teoria leibniziana » a84
CAPIT. HI. Kast.
artic. I. Kant ammette senza esame il principio lockiano dell'esperienza n i85
artic. II. Kant nell' opposizione che fece a Locke imitò Leibnizio . . » ìSÌ
artic. III. Due specie di cognizione , V una a priori, l'altra a posteriori,
ammesse da tutte le scuole filosofiche n a8g
Artic. IV. Caratteri della cognizione a prióri, e della cognizione a posteriori » ags
artic. V. Hume toglie via una parte delle cognizioni a priori , e trae di
ciò lo scetticismo » 397
artic. VI. Nessuna parte della cognizione a priori ri può spiegare co' sensi » 3o«
artic. VII. Come si tentò di confutare lo scetticismo di Hume ...» 307
artic. Vili. Come si avrebbe potuto confutare più. efficacemente lo scetti
cismo di Hume » 3o8
artic. IX. Reid rigetta il principio lockiano, e riconosce il fatto delle co
gnizioni a priori » 3io
artic. X. La teoria di Reid non evita lo scetticismo » 3i3
artic. XI. Kant dal principio di Reid cava il suo scetticismo, come Hume
avea cavato il suo dal principio di Locke » 3i6
artic. XII. Dottrina di Kant: distinzione fra la forma e la materia delle
nostre cognizioni » ivi
artic. XIII. In cfie modo Kant cerca d'evitare la taccia di idealista . » 3 19
artic. XIV. In che modo Kant cerca d'evitare la taccia di scettico . » 3io
artic. XV. Errore fondamentale del criticismo » 3m
artic. XVI. Altro errore del criticismo » 3s6
artic. XVII. Obbjezione disciolta » 3ig
artic. XVIII. Merito filosofico di Kant: egli vide che il pensare non era
che un giudicare » 33l
artic. XIX. Kant vide assai bene la difficoltà di assegnar V origine delle
cognizioni umane n 333
artic XX. Distinzione fra' giudizj analitici e sintetici » 334
artic XXI. Come Kant pose il problema generale della filosofia . . t> 335
artic XXII. È egli vero che V uomo fa de' giudizj sintetici a priori ? » 339
Artic. XXIII. La proposizione « ciò che avviene dee avere la sua causa »,
è ella un giudizio sintetico a priori, nel senso di Kant? . . » 34*
artic XXIV. Mancamenti nella maniera onde Kant propose il problema
generale della filosofia n 347
artic XXV. Si prosegue a mettere in chiaro il problema generale della
filosofia » 348
artic. XXVI. Se i giudizi primitivi mediante i quali si formano le idee
sieno sintetici nel senso di Kant » 35o
artic XXVII. In che modo Kant sciolse il problema generale della filo
sofia » 357
artic. XXVIII. Kant non conobbe tuttavia la natura della percezione in
tellettuale » 36o
artic XXIX. Kant ammette nello stesso tempo troppo poco, e troppo
d'innato nella mente umana » 36"
artic XXX. Conclusione » 363
CAJPIT. IV. Qpali passi fece la rir.osoriA per opera di Platone,
Leibnizio e Kant, e qvali a tare le rimaxgoho.
artic I. Epilogo de' tre sistemi » 364
artic. II. Che cosa hanno di superfluo le forme di Kant, e conte si
riducono tutte ad una forma sola » 368
Pag. a5 straziati straziati
38 airi altri
8 assuddittare assudditare
XXX » I tanta aperta tanto aperta
— ni. perciò perciò
scrivendone scrivendole
10 »» come si poterà come poteva
q5 » tratterò tratterrò
34 » poponeva proponeva
4a » e tutto al diverso e al tutto diverso
43 '» diversa della memoria diversa dalla memoria
5o » 43 scontratti scontrati
69 » 1 sia tanto guanto sia tanta quanta
il determinati e individuai* determinati e individuati
Flosofia Filosofia
3 ntelUtta intellètto
NUOVO SAGGIO

ORIGINE DELLE IDEE

i
ORIGINE DELLE IDEE

DI

ANTONIO ROSMINI-SERBATI

SACERDOTE ROVERETANO

VOLUME SECONDO

cfie contiene

la teoria dell'autori.

MI L ANO,

DALLA TIPOGRAFIA POGLIANI


Contrada di sant'Alessandro vicino al Ginnasio

MDCCCXXXVI
I

Commonebo , si poterò, ut videre te videas.


S. Aug. De Trin. XI, n.
SEZIONE QUINTA

TEORIA DELL'ORIGINE DELLE IDEE

Objectum ititelicclus est ens vel veruni commune


S. Thum. S. I, lv, i.

Fin qui io ho recati in mezzo i principali sistemi


sull'origine delle idee, in cerca fra tutti di queir uno
che mi porgesse una spiegazione soddisfacente delle me
desime. Ma indarno: altri ho trovato peccar di difetto (i),
altri di eccesso (2): chi ammetter troppo poco d'innato
nella mente, chi troppo più che all'uopo non bisognasse.
Conviene adunque mettersi già più dentro nella spinosa
ricerca, e tentar di cogliere quell'aureo mezzo che fra
i due estremi consiste: sicché nè s'ammetta d'innato in
noi cosa alcuna senza necessità, ne, per una cotal ripu
gnanza preconcepita forse solo contro a questa innocente
parola innato, si rigetti quel poco che è pur provato,
e che è condizione necessaria del fatto delle nostre idee.
Ma per conoscere qual parte di viaggio ci rimanga a
fare, e per che strada dobbiamo avviarci a compirlo ,
veniamo prima riassumendo noi stessi, e volgiamo uno
sguardo al cammino fin qui percorso.
Abbiam dato principio col porre innanzi la difficoltà
della questione, collocandola in quella chiarezza e ge
neralità maggiore che per noi s'è saputo: di che prese
questa forma : « Nel sistema di quelli che dichiarano
tulle le idee fattizie , forz' è di stabilire un ordine fra

(1) Selione III. (a) Serione IV.


6
le operazioni necessarie a formarcele. Ma in guest' or
dine , o convien porre che il giudizio preceda V idea, o
die l'idea preceda il giudizio: non vi ha strada in mezzo.
Or l'una e l'altra di queste due cose è ugualmente
impossibile. Dunque non e' è verso di poter supporre
che tutte le idee nostre sieno fattizie » (i).
1 sensisti, e generalmente quelli che pretendono esser
tutte le idee , niuna eccettuata, formate da noi stessi ,
non videro mai la faccia di questa difficoltà; quindi è
ragione, perchè s'attengano fidatamente a quella loro sen
tenza. Chè certo, in quanto il forte di quella [difficoltà
è ben veduto e sentito , in tanto è forza che gli uomini
si dipartano dal credere fatture nostre tutte le idee :
uè altronde nasce la discordia , che divide le scuole
filosofiche intorno all' origine delle cognizioni , se non
dal vedersi o non vedersi chiaramente la sopra da noi
toccata difficoltà.
Tuttavia anche quelli che non la videro con chia
rezza ed in faccia , talora la travidero oscuramente e
di profilo: o se non la videro al tutto, ella non mostrasi
meno salda, a chi ha gli occhi, nel mezzo de' loro ragio
namenti 5 e col rimanersene colà dentro insoluta, ren-
deli inconcludenti e inefficaci.
Cosi noi vedemmo Locke, a ragion d'esempio, descri
vere lo sviluppo della sensibilità introducendovi incessan
temente de' giudizj , de' quali non s'avvede, nè però si
crede obbligato di spiegarci onde nascano, e come sieno
possibili (a). Simigliantemente altrove il vedemmo porre,
che le idee sono indubitatamente anteriori a' giudizj,
senza esaminare, senza nè pur sospettare che l'opera
zione con cui si formano le idee sia per avventura un
giudizio, e che questa funzione del giudizio debba pre
cedere come causa, le idee come effetti (3).
Ma se qui Locke mostra di non vedere punto nè poco
la difficoltà da noi esposta; in altri luoghi, sebben con
debolissimo raggio, pure gli balena alla mente: per esem
pio, là dove viene accorgendosi, che cognizione non può
darsi senza giudizio (4); e più ancora dove s' abbatte
all'idea di sostanza , e la trova così forte, da doverla con

ti) Sez. TI. (3) Scz. Ili, c. II, art. il.


(a) Scz. III, c. III , art. in. (4) Sez. Ili, c. IH, art. it.
fessare inesplicabile nel suo sistema. Tuttavia l'imperfetta
e parzial vista della difficoltà toglie a Locke il sentirne
l'importanza ; e però, dopo avere sentenziato che ogni
cognizione è preceduta da un giudizio, non ne cava
altra conseguenza ; e quanto alla molestissima idea di so
stanza, se ne spaccia dichiarando ch'ella non esiste (i).
Talora i filosofi giunsero ad osservare questa diffi
coltà ( sempre sotto qualche forma particolare ) negli
altrui discorsi, non osservandola ne' proprj. Condillac,
a ragion d'esempio, rimprovera giustamente a Locke,
che nello spiegare le operazioni della sensibilità intro
metta de' giudizj che rimangono inesplicati (2): ma poi
10 stesso Condillac , per ispacciarsi di questa facoltà
del giudizio, l'attribuisce anche ar sensi, confondendo
così mostruosamente il principio che sente, col princi
pio che giudica della cosa sentita (3).
All'opposto Condillac stesso non vede l'altro errore
di Locke, di supporre che si formino4 da prima in noi
le idee senza giudizj ed egli comincia pure dalle idee,
non accorgendosi d'introdurre nella loro formazione l'atto
del giudizio. Né si rinviene nel suo sistema alcuna buona
ragione che spieghi l'origine dell' universalità delle idee:
sebbene questa sia dote essenziale alle idee tutte, senza
la quale non potrebbesi formare giudizio alcuno (4).
Reid vede più di Condillac; perocché s'accorse, che
Locke diceva cosa impossibile, quando volea che prima
ci formassimo le idee , e poi coll'ajuto delle idee i giu
dizj, giacché non si può formarsi nessuna idea senza
giudicare : e però stabilì , che la prima operazione fosse
11 giudizio, e non l' idea (5). — Ma come concepire la
possibilità di fare de' giudizj senza avere alcuna idea? —
Reid risponde che questi giudizj si fanno istintivamente.
Ma prima, questa non può essere se non un'ipotesi, o
piuttosto un' affermazione gratuita; di poi non soddisfa
in modo alcuno alla difficoltà. Perocché l'istinto non può
muovere a fare l' impossibile, come sarebbe se movesse
a far de* giudizj colui che non possiede ancora delle
idee, le quali idee sono pure i mezzi] e gli elementi de'
giudizj. Laonde l'istinto può spiegare ottimamente il per-

(1) Sez. Ili, c. I, art. n. (4) Sez. III. c. II, art. ix-xi.
(3) Sez. Ili, C. II, art. 11. (5) Sez. Ili, c. IH, art. v-vu.
(3) Sez. Ili , c. Il , art. in.
8
che io mi muova ad usare la mia potenza di giudicare ,
anzi che a lasciarla inoperosa ; ma non può spiegare
giammai l'origine della mia potenza di giudicare; esso
non può costituire in me questa potenza, ma solo muo
verla: nè questa potenza del giudicare si può muovere
senza eh' eli' abbia che giudicare, e secondo che giudi
care, cioè senza avere le idee, condizioni indispensabili
dello stesso giudicare (i).
Reid e il suo discepolo Stewart andarono ancora più
avanti, cacciati dalla difficoltà, che vedevano, sebbene
imperfettamente. I giudizj istintivi, per quanto loro
s' attribuisse di virtù , non potevano mai produrre
delle idee veramente universali. Che fecero que' filosofi?
S'appresero al partito più breve, ma insieme più di
sperato: negarono l'esistenza delle idee (a). Questa spe
cie di giustizia turca, che esercitavano colle povere idee,
ree non d' altro che di non lasciar lor vedere il mistero
di loro origine, 1' avea insegnata loro a fare già Locke,
quando decretò, come vedemmo, che non esistesse più
d'allora in avanti l'idea di sostanza , perchè era refrat
taria al suo sistema.
Tutti questi ideologi non furono adunque tanto scossi
dalla difficoltà, che si persuadessero essere impossibile al
tutto lo spiegare la produzione di tutte le idee mediante
operazioni del nostro spirito; e ciò perchè o non vi
dero, o videro parzialmente e sotto dubbia luce la dif
ficoltà.
Ma v'ebbero altri più perspicaci, i quali videro pie
namente come fosse difficile anzi impossibile 1' ammet
tere che le idee tutte si formassero colla sensazione e
colla riflessione, o più generalmente con delle operazioni
dello spirito nostro; conciossiachè intesero cotesti, che
quelle stesse operazioni onde si vogliono fatte le idee,
non possono effettuarsi senza le idee. Fra costoro noi
annoverammo i più alti e peregrini intelletti, Platone,
Leibnizio , e Kant (3).
Tutti questi grand' uomini furono unanimi : conven
nero tutti in questa sentenza , « che senz' ammettere
che lo spirito umano possegga da sè qualche elemento

(f) Sei. Ili, c. Ili, art. ix, m.


(a) Sei. Ili, c. Ili, ari. uj e c. IV, art. xiv. (3) Sei. IV.
intellettivo ingenito e naturale , distinto da una nuda
e semplice facoltà, egli non comincerebbe mai a pensa
re, e perciò non perverrebbe mai a formarsi le idee».
Ecco una opinione costante e fermissima de' più pro
fondi e de' più addottrinali pensatori delle nazioni (i).
Ma se troviamo una perfetta consensione tra i più acuti
ingegni nella parte negativa di questa questione, cioè
in dichiarare impossibile che tutte e intere le idee siano
fatture nostre; quando poi veniamo alla parte positiva,
cioè a definire che sia questo elemento necessario, con
nesso al nostro spirito per natura , che il fa atto alle
intellettive sue operazioni, noi li troviamo divisi fra di
loro in varie sentenze.
Di che ragione è questa: alcuni di essi pensarono che
P elemento ingenito necessario all'intelletto nostro do
vesse esser maggiore , quando altri giudicarono bastare
che fosse minore. Conciossiachè a nessuno di questi
valent' uomini era ignoto il principio di metodo da noi
posto a principio, che « nella spiegazione de' fatti dello
spirito umano non si dee assumere più che non sia
necessario a render di essi ragione » (2). Ma la diffi
coltà consisteva in trovare quel minimo, che d'una parte
instasse a spiegare le idee, e dall'altra non fosse su
perfluo: alla soluzione del qual problema più appressossi
la filosofia, più che venne diminuendo l'elemento in
genito, e dimostrando in pari tempo, che così dimi
nuito bastava; essendo indubitato quello che ponemmo,
cioè che «di tutte le complete spiegazioni de' fatti dello
spirito umano si dee preferir la più semplice, e che
esige meno supposizioni dell'altre » (3).
E in fatti , tra que' filosofi che convennero in doversi
ammettere qualche cosa d'innato, al fine di spiegare

(1) La Francia, che poco fa non si conosceva che pei condillachismo ,


fu pure patria di Cartesio c di Malebranche, ed ora accoglie favorevol
mente molle dottrine della scuola d' Alessandria. La Germania, tanto labo
riosa e tanto pensatrice, raostrossi consenziente in affermare l' impossibilità
che le idee tutte in tutti i loro elementi sieno fattizie. E 1' Italia ? Con-
▼ien rammentarsi , che innanzi che l' altre nazioni balbettassero in filosofia,
questa poneva le basi immobili della dottrina che da lei si chiamò italica:
doUrina volta tutta a spiegare l'alta e recondita natura delle idee, dimo
strandole infinitamente superiori a' sensi ed all'uomo, e non da quelli,
non da questo potute procedere. Nè v' ha secolo , in cui sia stata intera
mente dimentica presso noi questa patria eredità.
(2) Sez. I, c. I. (3) Ivi.
iiosMiKi. Orig- della Idee, V~ol. Il- 2
IO
l'origine delle idee, noi osservammo una progressione;
i posteriori cercarono di tor via il superfluo de' primi,
dimostrando che le idee si potevano originare anche
ammettendo d'innato meno che non facevano questi (i).
Platone, a ragion d'esempio, s'appigliò al partito di
ammettere tutte le idee innate, sebbene assopite , non
sapendo egli vedere altra via da render ragione del per
chè un ragazzo, interrogato, risponda il vero sopra
molte cose che non gli furon mai dette , e che pure
col suo intelletto par vedere allora come se gli stesser
presenti: sicché diceva il grand' uomo, questo fanciullo
avea sempre presenti allo spirito quelle idee, ma non
ci dava attenzione , non volgea loro gli occhi della
mente ; e coli' interrogarlo, senza tuttavia dirgli come
stanno le cose, lo si eccita e scuole a mirare in que' veri,
che avea innanzi in sè stesso, ma non sapea , i quali
veri nessuno a lui ebbe mai comunicati.
Or Leibnizio s'accorse che qui c'era del troppo, e
che non era uopo di tanto a spiegare le idee che l'uomo
viene acquistandosi da sè stesso ; e considerò, poter ba
stare se, in vece delle idee, fossero nello spirito delle leg
gerissime traccie di esse; come una statua sarebbe trac
ciata in un pezzo rozzo di marmo, ove questo fosse sì
fattamente venato, che le vene di colore disegnassero
appunto la statua nel mezzo di lui (a).
Ma Kant, che venne appresso, aggiunse un'analisi pi"
accurata e più profonda delle cognizioni, e trovò ch'esse
risultano da due elementi , 1' uno de' quali si riduce al
sensibile, e quanto a questo disse che non era punto
bisogno di porlo innato , l' altro al sensibile non si può
ridurre in modo alcuno, e di questo conviene cercar
l' origine in ciò che portiamo dentro di noi. Chiamò
acconciamente il primo elemento materia della cogni
zione, e il secondo forma. Sicché non pose le idee in
nate nè in sè, come Platone, nè ne' loro vestigi, come
Leibnizio; ma pose innata una parte delle idee, la
parte formale } e però, secondo Kant, tutte ma non
interamente sono fattizie. Questo fu un passo notabile*
che diede innanzi la filosofica scienza (3).

(i) Sei. IV, c. IV, art. i. (3) Scz. IV, c. HI, art. x» e «gS-
\i) Se?, IV , c. II, ari. !.
11
Restava però a semplificare ancora : restava a ridurre
ai menomo possibile questa parte formale della cogni
zione, che s'era conosciuto dover esser data dalla natura
e non formata da noi , dover essere il seme seminato
ne' nostri animi dal Creatore, acciocché indi si svilup
passe l'immensa pianta della umana cognizione.
E i nostri maggiori avevano veduto, che questa por
zione essenziale allo spirito intellettivo non potea esser
che pochissima cosa, e con una leggiadra espressione
avean detto, che « Dio, nell'atto ch'egli crea le no-
«• str' anime, lascia loro così a un tratto dare un' oc-
« chiata, per così dire, all'immenso tesoro della sua
« eterna sapienza » (i).
A questo dunque riesce il problema che rimane alla filo
sofia dopo gli sforzi di Kant : « determinare quel mi
nimo di cognizione, o sia quella luce che rende l'anima
intelligente, e perciò idonea alle operazioni intellettive » :
il qual minimo è veramente appena una scintilla celeste
rubata al sole; è tanto, quanto può rubarsi di verità,
per così dire, mediante un' occhiata a lei data furtiva,
istantanea.
Veramente Kant non trovò questo minimo: egli avea
steso il formale del conoscimento a molto più che real
mente non vada ; e in vece di muovere da un princi-

(i) Queste parole appartengono a un libro classico e veramente ita


liano , potendo ognuno leggerle ne' » Saggi di Naturali Esperienze fatte
m nell' Accademia del Cimento sotto la protezione del Serenissimo Principe
m Leopoldo di Toscana, e descritte dal Segretario di essa Accademia.
« In Firenze , nella nuova stamperia di Gio. Filippo Cecchi , MDCXCI ».
E perchè meglio s'intenda come pensavano coloro che fur maestri al
l' Europa dell' arte di sperimentare , e che tanto adularono i progressi
delle scienze fisiche, riferirò tutto intero quel periodo onde ho preso le
poche parole citate , il qual dice così : « Non è però , che la sovrana be
ar uencenza di Dio, nell'atto ch'egli crea le nostr' anime, per avventura
« non lasci loro così a un tratto dare un' occhiala , per così dire, all'im-
m menso tesoro della sua eterna sapienza, adornandole, come di preziose
«• gemme, de' primi lumi della verità: e eh' e' sia '1 vero, noi le veggiaino
■ delle notizie serbare in loro , che , non potendole aver apprese di qua ,
- fori' è pur dire eh' elle ce 1' abbiano arrecate d' altronde «• ( Proemio ).
Nelle qualii parole del Sccretario dell'Accademia del Cimento, lasciando
da parte l'immaginazione platonica, introdotta per dar vaghezza al dire e
nulla più, e tenendo il fondo della dottrina, si vede come i.° si conosceva
avervi qualche parte di cognizione che in nessun modo può esser di no
stra formazione, e che peiò dee esserci data da natura, 1.° clic questa non
può essere che una particella piccolissima , quanta se ne può ottenere, per
un colai modo di dire, mediante uno sguardo rapido dato all' eterna sapienza.
I3
pio semplice ed uno, squarciò la parte formale in più
forme indipendenti, due delle quali ne diede, come ve
demmo, al senso interno ed esterno, quattro, ciascuna
delle quali avente tre modi, all'intelletto, e tre alla ra
gione (i). Non s'avvide, che il senso non ha cosa, che
appartenga alla cognizione formale; e che tutte le forme
da lui attribuite all'intelletto ed alla ragione, si riducono
ad una sola e semplicissima, cioè a quella di possibilità,
o d' idealità , che è il medesimo ; dalla quale come da
minimo seme tutte 1' altre germinano agevolmente; di
maniera che era superfluo il porne tante; perocché data
quell' una forma al nostro spirito, ella agevolmente pro
duce l' altre , non già pari con essa , ma ad essa poste
riori e sottordinate (2).
E dal non esser pervenuto a questa grande semplifi
cazione, accadde al filosofo di Koenisberg un gravissimo
danno; perocché egli fu privato di conoscere la natura
dell'unica vera fi* ma, la quale è oggettiva , eccelsa,
indipendente dall'anima stessa, immune da ogni modo,
e perciò da ogni contraffazione, giacché ciò che non
può ricevere varietà di modi, non può né manco essere
contraffatto. Indi Kant non potè dare una solida base
alla verità, ed all'umana certezza (3).
Questo è ciò che crediamo aver dimostrato. Ed era
vamo obbligati di farlo. Perocché volendoci noi conti
nuare all'opera de' filosofi che fin qui fiorirono, appren
dendoci all'addentellato da lor lasciato; conveniva che
da prima noi ricevessimo per nostri i due veri da lor
posti in luce, cioè
1." doversi distinguere la parte formale dalla parte
materiale del sapere,
2.* la sola parte formale esser quella concedutaci da
natura.
Ricchi di questa eredità, conveniva di poi, che,
non avendo essi trovata l' incognita che contiene la se
conda di queste due proposizioni, cioè la parte formale
del sapere, noi ci occupassimo a determinarla, provvedendo
vigilantissimamente di non prendere insiem con essa
forse qualche parte della materia del sapere; e che la

(1) Scz. IV , c. Ili , art. xxvii, XZVm.


(1) Set. IV, c. IV, art. n.
(7>) Scz. IV, c. III, ari. xiv.
i3
stessa parte formale cercassimo d' averla nel suo modo
di essere più semplice e primitivo; non in que' modi, de'
quali ella si veste quando viene applicata : ricerca da
noi fatta, e che ci diede per risultamento, « la parte for
male del sapere nello stato suo primitivo ed originario
consistere nell' unica intuizione naturale e in noi per
manente dell'edere possibile » (i).
Ecco pertanto l'impresa da noi tentata nel primo
volume: ci rimane ora a indicar brevemente lo scopo
del volume presente.
Esporre per ordine tutta difilata la nostra teoria del
l'origine delle idee, è ciò che noi in esso ci proponiamo.
E il cominciamento si prenderà dall' esame appunto del
l' intuizione dell'essere possibile. Questa intuizione, per le
cose ragionate, divenne la più solenne, la più importante
di tutte le idee : e ad essa viene a parare finalmente tutta
la difficoltà che in tanti diversi modi noi presentammo.
E veramente nessuno de' filosofi sensisti fu mai ca
pace di spiegare in un modo soddisfacente l'origine di
quest' idea, la quale si stette sempre innanzi ad essi
siccome scoglio in cui ruppero miseramente: conciossia*
cbè tutte le operazioni dello spirito, colle quali questi
fiJosofi pretendono che si producan le idee, nessuna ec
cettuata, hanno bisogno continuo di quella idea: come
all'opposto, data quell'idea, l'operare intellettivo può
cominciare e proseguire i suoi lavori senza ostacolo alcuno.
Ci è dunque impossibile cominciar da altro capo, che
da questa singolare idea: la quale non ispiegata, è im
possibile la spiegazione dell'altre; giacché l'uomo for
mar non le può senza ch'egli faccia qualche atto intel
lettivo, e ogni atto intellettivo, come dicemmo, sup
pone sempre quell'idea, e fa uso sempre di essa.
Or poi, se ci riesce di superare felicemente quest'ar
duo passo, avremo il varco dischiuso ed ampissimo ,
ove passare a trovar l'origine di tutti i principj delle
cognizioni umane, e di tutte l'altre idee, che coll'ajuto
di quella prima agevolmente son generate.
Laonde mostreremo primieramente, l' essere risplendere
per natura siccome lume dell'anime nostre: trapasseremo
poscia alla spiegazione de' primi principj del ragiona

ti) Scz. IV, c. IV, art. 11. Vedi ancora Sez. Ili, ci, ari. iv; c. Ili,
art. v—vii.
mento, i quali, mediante una diligente analisi, si Te*
dranno non esser altro che altrettanti modi di appli
care queir unica idea dell'essere a noi immobilmente
aderente. Sarà allora spiegato, come l' uomo possa ragio
nare; perocché il principio di cognizione, il principio
di contraddizione, e gli altri primi principj , sono gli
stranienti del ragionamento, senza i quali l'intendimento
umano non muove un passo.
Veduto in tal modo come l'uomo si fa intelligente e
ragionante , non è più difficile a mostrarlo autore delle
altre sue idee • perocché coli' uso del ragionamento age
volmente si posson formare.
Fra queste però, ci vengono innanzi alle mani quelle
che più stanno prossime al fonte onde derivano; le quali
sono le idee pure, e che nulla ricevono dal sentimento
reale, ma scaturiscono dalla sola idea primitiva e con
genita.
Discenderemo quinci da tanta altezza, deducendo le
idee non-pure , le quali prendono più o men di materia
dal sentimento. Dove dimostreremo prima come si for
mino i concetti delle due specie di sostanze, l'una cor
porea , 1' altra spirituale.
Appresso ci si presenterà a dichiarare 1' origine della
idea di corpo: e questa stessa presentandosi al nostro
intelletto in due modi, cioè come corpo animato dal
nostro spirito, e come corpo inanimato, faremo prima
l'analisi dell'idea del corpo nostro; nò potremo poscia
passare all' idea di corpo al nostro esteriore , se non
fermandoci alquanto in sulla via nell'investigazione di
quelle tre difficili idee di tempo , di moto e di spazio,
necessarie a favellarsi compiutamente del corpo esterno,
all' analisi del quale in fine discenderemo. Laonde tutta
la Sezione presente verrà partita nelle seguenti parli :
Parte I. Origine dell'idea dell'essere.
II. Origine di tutte le idee in generale per mezzo
dell'idea dell' essere.
III. Origine de' primi principj del ragionamento.
IV. Origine delle idee pure, cioè di quelle che
nulla prendono dal sentimento.
V. Origine delle idee non pure, cioè di quelle
che prendono , a formarsi , qualche cosa
dal sentimento.
VI. Conclusione.
i5
PARTE PRIMA.
ORIGINE DELL' IDEA DELL' ESSERE.

CAPITOLO I.
fatto: noi pensiamo l'essere in universale.

10 parto da un fatto il più ovvio, e lo studio di


questo fatto è ciò che forma tutta la teoria che sono
per esporre.
11 fatto ovvio e semplicissimo da cui parto , è che
V uomo pensa 1' essere in un modo universale.
Qualunque spiegazione si voglia dare di questo fatto,
il fatto stesso non può mettersi in controversia.
Pensare 1' essere in un modo universale non vuol dir
altro, se non pensare quella qualità che e comune a
tutte le cose , senza badar punto a tutte le altre qua
lità generiche o specifiche di esse cose. E in mio ar
bìtrio il porre la mia attenzione più tosto in una che
in un'altra qualità delle cose : ora quando io metto l'at
tenzione mia esclusivamente in quella qualità che è a
tutte cose comune, cioè nell'edere, allora suol dirsi
che io penso l'essere, o l'ente (che è qui per noi il me
desimo ) in universale.
Il negare che noi poniamo , volendolo, la nostra at
tenzione sull'essere comune delle cose, senza badare, ed
anzi astraendo da tutte l'altre qualità loro; sarebbe un
opporsi a ciò che la più facile osservazione sopra il
proprio spirito ci attesta , un contraddire al senso co
mune, un rinnegare il linguaggio.
E di vero , quando io faccio questo usuale discorso :
u la ragione è propria dell' uomo , il sentire è comune
colle bestie, il vegetare colle piante, ma l'essere è co
mune con tutte le cose » ; io considero V essere comune,
indipendentemente da tutto il resto. Se l' uomo non
avesse la facoltà di considerare 1' essere in separato da
tutto il resto, questo discorso consueto sarebbe impos
sibile.
Il fatto di che parliamo ò così evidente, che non fa
rebbe uopo di spenderci una parola, bastando solo ac
cennarlo, se gli uomini de' tempi nostri non si fossero
«forzati di mettere in dubbio tutto. Ora un fatto così
i6
evidente è il punto semplicissimo dove tutta insiste la
teoria dell' origine delle idee.
Pensar l'essere in un modo universale, equivale a dire
« aver l' idea dell' essere in universale » .
Conviene adunque che assegniamo l'origine di questa.
Ma dobbiamo prima investigarne la natura e l'indole,
acciocché tale notizia ci faccia via a rilevare ond'essa
provenga.
CAPITOLO II.

NATURA DELL'IDEA DELl' ESSERE.

ARTICOLO L
l'idea poba dell'essere non è un'immagine sensibili.

E per allontanare, quanto ci è possibile, dal nostro


discorso ogni equivoco, faccio innanzi tratto osservare,
che quando io dico che l'uomo può aver V idea dell'es
sere sola e spoglia di tutte le altre idee (i) , non voglio
già dire con questo, che noi ci possiamo formare di
quell'idea una qualche immagine sensibile: mentre di
nessuna cosa ci possiamo formare immagine sensibile,
se la cosa stessa i." non sia determinata ed individua
lizzata , a.* se non sia corporea, e percepita co' nostri
sensi.
Alcuni moderni sonosi appigliati al partito di negare
le idee universali, non per altra ragione se non perchè
non si polea aver di esse delle immagini.
Questa ragione è materiale , ed ignota a' veri filo
sofi. Conviene osservare la natura, e riconoscer tutto
ciò che v'ha in essa: nè hassi a negare l'esistenza di
alcuna cosa , perchè ella non è conforme alle leggi della
fantasia nostra, leggi che noia priori vogliamo imporre
alla natura delle cose. Se que' cotali avessero osservato
con semplicità e senza prevenzioni lo spirito umano,
avrebbero facilmente riconosciuto in esso tre serie di
pensieri, cioè
i* de' pensieri (o idee) universali, che sono inetti a
venirci rappresentati in aspetto d' immagini materiali ,

(i) Cap. I.
e gli oggetti de' quali non possono esistere soli, ma pos
sono tuttavia esser pensati soli ;
a.* de' pensieri particolari di enti spirituali, che seb
bene abbiano tutto ciò che si richiede perchè sussistano,
tuttavia non ammettono essi pure immagini sensibili ;
3.* de' pensieri di oggetti corporei, i quali soli noi
ci possiamo coli' immaginazione sensibile rappresentare.
L'esistenza di queste tre serie di pensieri è un fatto:
ed è un fatto indipendente da ogni sistema : anche
quelli che negano l'esistenza degli spiriti debbono am
metterlo; giacché la questione sull' esistenza di esseri spi
rituali, è una questione diversa da quella sull'idee di es
seri spirituali.
Lo stabilire adunque gratuitamente il principio, « ciò
che non possiamo immaginare sensibilmente non pos
siamo nè pur pensare », e da questa ipolesi gratuita
cavarne la conseguenza « dunque le idee universali non
esistono » ; è un metodo al tutto falso ; è un partire
da un pregiudizio, e voler sottomettere al medesimo i
fatti; è un voler dettar leggi alla natura, anziché un
ascoltarla e interpretarla con sagacità.

ARTICOLO IL
l' IDEA DI UNA COSA SI DEE DISTINGUERE DAt GIUDIZIO
SULLA SUSSISTENZA DELLA COSA MEDESIMA.

Si dee ancora distinguere Videa dal giudizio sulla


sussistenza delle cose.
E per accorgersi che quando lo spirito nostro intui
sce semplicemente un'idea, fa un'operazione totalmente
distinta d' allora che giudica che un ente qualsivoglia sus
sista, conviene osservare, che quando io mi formo Videa
di qualche essere, io posso aver quest'idea in un modo
perfetto, cioè quest'idea può comprendere tutte le qua
lità tanto essenziali che accidentali dell'ente a cui io
penso, senza però che io ancora giudichi che quell'es
sere realmente esista.
Poniamo l'idea di un cavallo: io posso avere l'idea
non solo di un cavallo in genere , ma di un cavallo
fornito di tutte quelle particolarità che sono necessarie
a quest'essere per l'esistenza: in questa mia idea io
penso il pelo nero, i brevi orecchi, i lunghi crini, la
piccola testa, l'eretta cervice, gli occhi ardenti, la
Rosmini. Orig. delle Idee, Voi. II. 3
i8
bocca spumosa, il dosso pieno, l'asciutto ventre e le
gambe snelle, e di più tutte le particolarità del cavallo
individuo interne ed esterne; sicché, ov'io creator fossi,
potrei questa mia idea mettere in essere , e fare il ca
vallo pensato esister realmente, ove non sarebbe nessuna
particolarità più di quelle che io concepite mi avessi,
o sia che nella mia idea quasi in esemplare e tipo si
contenessero.
Se io potessi e volessi fare quest' opera del cavallo al
di fuori di me , e 1' idea mia non fosse così perfetta
che contenesse tutte le più minute particolarità del ca
vallo individuale che fabbricar debbo, io sarei costretto
di pensare le parti che mancano in quella mia idea, a
mano a mano in sul lavoro; perciocché non potrei espri
mere nessuna particolarità, senza prima averla conce
pita; e in cotale operazione io verrei perfezionando l'idea
del mio cavallo, a un tempo coli' opera stessa del cavallo
esterno.
Or poniam pure, che un tal lavoro fosse bello e con
cepito, e il cavallo fosse messo in essere, e materiato
in modo perfettamente rispondente all' idea che m' ha
servito di norma nel metterlo in istato e farlo esistere.
Non sarebb' egli vero , che quel cavallo fu copiato e ri
tratto da quella mia idea, da quel cavallo ch'io m'avea
prima ideato e immaginato ? Fuor di dubbio, il cavallo
materiale ebbe una dipendenza dal mio pensiero di lui,
dalla mia idea.
Or s' egli è così , dimando ancora : quella mia idea
completa del cavallo individuale, ricevette ella viceversa
qualche cosa dalla reale sussistenza di quel cavallo 1
Nulla al tutto. Quella idea dovea esser perfetta innanzi
all'esistenza del cavallo, per servirmi di norma od esem
plare a produrlo e foggiarlo: e dopo che il cavallo fu
bello e perfetto, l'idea non guadagnò più nulla da lui;
né guadagnar poteva cosa alcuna, perch' ella era, come
dicevamo , perfetta , e in essa si comprendevano tutte
le particolarità del cavallo, senza che una sola ve n'a
vesse che in quell'idea non sj ritrovasse prima: la cosa
pare così evidente, che nulla più.
Or di qui viene un lume a conoscere meglio la na
tura delle idee: le idee sono indipendenti (in quanto
alla lor natura) dalla reale esistenza degl' individui : sic
ché esse possono esser perfette innanzi all'esistenza reale
'9
eli questi: e ore questi vengono ad esistere, questa loro
sussistenza non aggiunge nulla all'idea della cosa, non
apporta a questa il più piccolo grado di maggior per
fezione da quella che prima ella si avesse.
Trovata questa verità della indipendenza dell'idea
(rispetto alla sua natura, e non alla sua origine in noi)
dalla cosa esterna, si viene a conoscere la differenza
che passa fra 1' avere un' idea , e il giudicare che la cosa
di cui ho l'idea realmente esista.
Questa operazione seconda del mio pensiero, la quale
è un giudizio sulla sussistenza della cosa pensata, è in
teramente diversa dal pensiero della cosa, o sia dal-
Xiiea sua.
Cioè la mia idea di una cosa, come dicevo, è egual
mente perfetta ed intera tanto se la cosa sussiste come
j'ella non sussiste, tanto se io giudico come se non
giudico sulla sua reale esistenza , o se porto questo giu
dizio nell'uno o nell'altro modo.
Il giudizio adunque sulla sussistenza di una cosa sup
pone bensì l' idea, ma non è Videa della cosa, nè nulla
aggiunge alla medesima.
Questo giudizio non fa che portare in noi una per
suasione della sussistenza della cosa che giudichiamo
esistente in modo reale: persuasione che non è che un
assenso: un' operazione di genere suo proprio, che non si
dee in nessun modo confondere colla intuizion della idea.

ARTICOLO III.
NELLE IDEE DELLE COSE NON SI CONTIENE MAI LA SUSSISTENZA
DELLE MEDESIME.

Io chiamo sussistenza di una cosa la reale e attuale


esistenza della medesima.
Ciò dichiarato , la proposizione enunciata è un corol
lario dell'articolo precedente, che 1' idea è essenzialmente
distinta dal giudizio che noi facciamo sulla reale esi
stenza delle cose.
E di vero, l'idea, abbiam detto, è perfetta ed in
tera senza che in essa si comprenda nessun pensiero della
reale e attuale esistenza delle cose.
Videa dunque non ci serve nulla a farci conoscere
le cose come sussistenti : essa non ce le presenta che
come possibili: noi conosciamo la sussistenza delle cose
20
con un'altra operazione del nostro spirito essenzialmente
diversa dalla intuizion dell'idea, la quale chiamiamo
giudizio (i).
ARTICOLO IV.
l' IDEA DELL'ESÌME NON PRESENTA CHE LA SEMPLICE POSSIBILITÀ*.

Laonde dicendo idea dell'essere, non si dice il pen


siero di un qualche essere particolare sussistente , del
quale sieno incognite o astratte tutte le altre qualità ,
fuori quella dell'esistenza attuale, come sarebbero le
quantità x, y, z nell'algebra. Non s'intende il giudizio
o la persuasione di un ente sussistente, eziandiochè
per noi indeterminato, ma Videa dell' essere ; una mera
possibilità: è un corollario dell'articolo precedente (a).
La possibilità è 1' astrazione ultima che possiam fare
in qualunque nostro pensiero : se noi pensian.o un ente
sussistente, noi possiamo da un tal pensiero astrarre
ancora qualche cosa, cioè la persuasione della sua sus
sistenza , senza che ci svanisca al tutto dalla mente :
perocché rimarrà ancora il pensiero della possibilità di
quell' ente.
L'idea dunque generalissima di tutte , e l'ultima delle
astrazioni, è tessere possibile, che si esprime sempli
cemente nominandolo idea dell'ente o dell'essere.

ARTICOLO V.
li' DOMO NON PUÒ PENSARE A NULLA SENZA L* IDEA DELL* ESSERE.
DIMOSTRAZIONE.
Per poco che si consideri questa proposizione, ella si
dee trovar evidente da chicchessia; tuttavia pochi V ha:ino
bene considerata.

(i) Ci verrà occasione di far l'analisi dell' operazion del giudizio, quando
ci faremo a spiegare 1' origine della nostra idea di corpo.
Per altro 1 osservazione che ho qui fatta intorno la distinzione delle
idee dalla persuasione della sussistenza della cosa , conferma ciò che ho
detto nel Voi. I (face. i44, nota) intorno la falsità della dottrina di alcuni
che vogliono che le idee prendano ed involgano le cose slesse sussistenti ,
mentre le idee non presentano che mere possibilità di cose.
La dottrina di questi filosofi ha però un fondo di verità , in quanto che
v' ha realmente una facoltà in noi che prende ed involge , per cosi dire , le
cose sussistenti; ina questa non è la facoltà delle idee; è la facoltà del
senso unitamente all'operazione razionale del giudizio , che noi distinguiamo
interamente dalla facoltà d'intuire le idee.
(a) Art. III.
21
I moderni filosofi, come ho già toccato (i) , si occu
parono tutti ad analizzare le facoltà dello spirito, e poco
si trattennero ad analizzare il prodotto delle medesime,
cioè le umane cognizioni. All' incontro l'analisi di que
ste ultime dee precedere 1' analisi delle facoltà: percioc
ché queste non si conoscono che da' loro effetti , che
sono le cognizioni umane. Conviene adunque dall'esame
delle cognizioni salire all'investigazione delle facoltà; il
contrario di quanto fecero Locke, Condillac, e in ge
nerale tutta quella scuola che mette mano subitamente
a ragionare delle facoltà, e da quelle discende alle co
gnizioni.
Questa inversione nel metodo è forse il fonte princi
pale de* loro errori.
Pigliando io dunque il cammino contrario, mossi da
gli effetti , e tolsi ad analizzare ciò che si conosce come
un fatto, tentando la via di salir da quello alla causa,
cioè a fermare le facoltà atte e necessarie a produrre
in tutte le sue parti la nostra cognizione.
Ora V analisi di qualunque nostra cognizione ci dà
per risultamento costante la proposizione sopra posta,
che « l'uomo non può pensare a nulla senza l'idea
dell'essere ».
E veramente non v' ha cognizione , nè pensiero che
possa da noi concepirsi, senza che si trovi in esso me
scolata l'idea dell'essere.
Inesistenza è di tutte le qualità generali delle cose la
generalissima.
Pigliate qualunque oggetto vi piaccia, cavate da lui
coll'astrazione le sue qualità proprie, poi rimovete an
cora le qualità meno comuni, e via via le più comuni
ancora: nella fine di tutta questa operazione, ciò che
vi rimarrà per ultima qualità di tutte, sarà l'esistenza:
e voi per essa potrete ancora pensare qualche cosa,
penserete un ente, sebbene sospenderete il pensiero dal
suo modo d'esistere. Questo vostro pensiero concepirà
un essere perfettamente indeterminato, perfettamente
incognito nelle qualità sue, una X} ma questo sarà tut
tavia un pensar qualche cosa, perchè l'esistenza, seb
bene indeterminata, vi rimane: non è in tal caso il

(i) Sez. IV, c. I, art. i.



nulla l'oggetto del vostro pensiero; perchè nel nulla
non si concepisce nessuna esistenza; e voi pensale che
esiste o può esistere un ente, il quale avrà certo tutte
quelle qualità che a lui sono necessarie perch' egli esi
sta, sebbene queste qualità a voi sieno incognite, o non
ci pensiate individualmente: e questo è pure un pen
siero, un' idea, sebbene al tutto indeterminata, al tutto
generale.
Ma all'incontro, se dopo aver tolte via da un ente
tutte le altre qualità, sì le proprie che le comuni, to
gliete via ancora la più generale di tutte, l' essere; al
lora non vi rimane più nulla nella vostra mente, ogni
vostro pensiero è spento, è impossibile che voi più ab
biate idea alcuna di quell'ente.
Togliamo in esempio l'idea concreta di Maurizio no
stro amico. Quando dall'idea concreta di questo amico
voglio rimuovere ciò che v' ha di proprio e d'individuale,
egli non mi resta più l'idea di Maurizio, non più l'idea
del mio amico; la parte più cara è rimossa dalla mia
niente; non mi resta più in quella, che l'idea comune
di un uomo. Ma dopo questa prima astrazione se ne
faccia un'altra, cioè si astraggano tutte le qualità pro
prie dell'uomo. Per questa seconda operazione del mio
pensiero, l'ente a cui io penso già non è più un uomo:
in esso non c'è più nè ragione nè libertà, costitutivi
dell'uomo: l'idea che mi resta è un'idea più generale,
è l'idea di un'animale. Procedendo a notomizzare e re
scindere da questa idea altre qualità, io posso allo stesso
modo astrarre colla mia mente dalle qualità proprie
dell'animale: che mi resta allora? l'idea di un puro
corpo privo di sensitività, dotato solo di vegetazione.
Voglio ancora colla mente mia tagliar da lui ogni or
ganizzazione, ogni vegetazione, e fissare la mia atten
zione unicamente sopra ciò che questo corpo ha di co
mune co' minerali: 1? mia idea è divenuta in tal modo
l'idea di un corpo in genere : tuttavia ella è ancora.
Voglia io finalmente non badare coli' attenzione mia nè
pure a ciò che ha di proprio il corpo : allora quell'idea
di corpo mi si cangerà nell'idea di un ente in univer
sale: in tutte queste diverse astrazioni la mente mia si
è sempre occupata di qualche cosa , ella ha sempre pen
sato, ella ha avuto sempre un' azione, e un'idea oggetto
della sua azione, sebbene un' idea sempre più generale,
a3
fino che è pervenuta ad avere la idea più generale di
tutte, cioè l'idea di un ente, senza ch'egli nel mio pen
siero sia da nessuna qualità cognita o da me fissata de
terminato e limitato. Recata pertanto a questo estremo
punto, l'astrazione non può più proceder oltre senza
che le sfugga d' innanzi ogni oggetto del pensiero , senza
ch'ella distrugga in somma ogni idea nella mente. L'idea
dunque dell'essere è l'idea generalissima , è l'ultima
astrazione possibile, è quella idea, tolta la quale è tolto
interamente il pensare, ed è resa impossibile qualsiasi
altra idea.
ARTICOLO VI.
l'idea dal'esseri non u bisogno d'alcun' altea idea ad essa aggiunta
FU essere concepita.

La verità di questa proposizione è conseguenza di


quanto abbiam detto fin qui (i).
Abbiamo veduto, che prendendo una nostra idea di
qualsiasi oggetto vogliamo, e cominciando per così dire
a. notomizzarla , noi possiamo tagliar da lei prima le
parli sue più proprie e individuali, ed appresso le meno
comuni , appresso ancora le più comuni ; e che quando
noi 1' abbiamo così spolpata e scarnata, l'ultima cosa
eie pur ci rimane, e quasi direbbesi l'ossatura comune
di tutte le altre qualità che abbiam rimosse, è l' idea
dell' essere, la più generale e la più astratta di tutte le
idee: e tolta via la quale, ogni altra idea, ed ogni pen
siero ci è reso impossibile: mentre ella soprastà nella
mente, anche tutta sola e nuda come la si giunge a
contemplare a forza di astrazioni.

CAPITOLO III.
ORIGINE DELL' IDEA DELL1 ESSERE.
Stabilita l'esistenza, e conosciuta la natura dell'idea
dell'essere, or noi dobbiamo investigare com' ella sia
data alla nostra mente : il che è quanto dire cercarne
1' origine.
£ primieramente diremo ond' ella non proceda, po
scia ond' ella proceda.

(i) Ari. V.
ARTICOLO I.
L'iDll DELL'ESSERE NOI* VtEHB DALLE SENSAZIONI COETOEBE.

Per ben sentire la verità di questa proposizione, bi


sogna considerare que' caratteri proprj dell'idea dell'es
sere, i quali 8' allontanano da tutto ciò che ci possono
somministrare le sensazioni corporee.
Ciascuno di questi caratteri essendo inesplicabile nel
sistema che vuol trarre l'idea dell'essere dalle sensa
zioni, costituisce una dimostrazione irrepugnabile, che
dalle sensazioni essa non viene.

§ ..
DIMOSTRAZIONE I,
cavata dal primo elemento dell'idea dell'essere, che costituUcc
il suo primo carattere, V oggettività.

Quando noi pensiamo un ente in universale, od an


che qualche ente particolare , allora noi non facciamo
che considerare quella data cosa in sè stessa, cioè co
ni' ella è, o com' ella sussiste.
In tale considerazione di una cosa qualunque, non
entra alcuna relazione ch'ella s'abbia con noi (1), anzi
non entra alcuna relazione ch'ella s' abbia con qualsi
voglia altra cosa.
Questa maniera di percepire le cose come sono in
sè, prescindendo al tutto da ciò con cui potessero aver
relazione, è comune alle cose tutte che noi possiamo
concepire nella mente nostra; noi le percepiamo in tal
modo quasi direi imparzialmente , tali quali sono, con

(i) Quando questa nostra maniera di concepire le cose non fosse che
apparente , cioè quando noi credessimo di concepir la cosa in sè , ma la
cosa da noi concepita pur non avesse mai che un' esistenza a noi relativa ,
il mio ragionamento non avrebbe un valor minore. Si tratterebbe allora di
spiegare quest'apparenza: in una parola, apparente o reale che sia, si tratta
di spiegare il fatto della percezione delle cose in sè, oggettiva. D'altro lato
non parlandosi qui che della maniera onde noi percepiamo le cose, la di
stinzione fra l'apparente e il reale non può aver luogo. Non ci possiamo
ingannare circa il modo di concepire; poiché il dire: io concepisco l'og
getto in questo modo ; non è che un dire, che io concepisco a quel modo
che concepisco , e nulla più. Non c* entra qui la questione se la cosa esterna
corrisponda al mio concetto di lei: questa altrove da noi si tratterà. Valga
questa nula a levare i dubbj che potesse sommovere il mio ragionamento
ue' seguaci dell' idealismo trascendentale.
25
quei gradi di essere ch'esse hanno. Percependole sì fat
tamente, la forinola a cui si può ridurre il nostro pen
siero delle medesime , sarebbe : « la tal cosa ( che conce
pisco) ha il tal grado, o modo di esistenza ». L'esi
stenza è l'unico termine a cui si riferisce un tale nostro
concepimento; e questo termine a cui ha relazione l'agente
da noi sentito , è comune egualmente a tutti gli og
getti , perchè tutti li concepiamo come enti , come
aventi l'esistenza in tal grado o modo indicatoci, po
niamo, da' nostri sensi.
Ora io dico, che tutte le sensazioni nostre sono inelle
a farci percepire in tal maniera, che è propriamente
oggettiva.
E per vero, le sensazioni non sono che pure modifi
cazioni o passioni particolari del nostro composto; esse
non esistono che relativamente a noi.
Dunque tutto ciò che le sensazioni ci fanno sentire,
non può essere che una relazione delle cose esteriori
con noi , una loro potenza di modificarci ; ma il sog
getto di questa potenza, noi noi potremmo aver mai
presente come sta in se, limitandoci alle sensazioni sole :
perocché l'esistere in sò non può essere da noi sentito:
giacché queste due espressioni, «esistere in sò«, ed «es
sere sentito », esprimono due concetti contrarj , l'asso
luto e il relativo, l'uno de' quali esclude l'altro dilet
tamente.
In fatti la mera esistenza in sè di una cosa, non im
porta ed implica alcuna sensazione prodotta in un'altra
cosa : mentre all' incontro la sensazione non racchiude
nessuna idea di cosa che esiste in sè , ma solamente
quella pur di una passione nostra.
Dunque le sensazioni non ci possono far percepire la
cosa come sta in sè, ma solo in relazione con noi: sen
sazione non vuol dire che modificazione nostra ; idea di
un ente vuol dire percezione di una cosa che esiste in
dipendentemente da qualunque modificazione o passione
di altra cosa.

Rosmini, Orig. delle idee, Voi. II. 4


26
OSSERVAZIONI
sulla difficoltà di distinguere la sensazione dalla percezione intellettiva (i).

Ciò che rende difficile a separare queste due specie


di nostre percezioni, cioè i? la percezione del senso
e 2.* la percezione dell' intelletto , si è 1' abitudine che
noi abbiamo, come esseri ragionevoli, di far susseguire
alla percezione del senso quella dell'intelletto: sicché
stando elle così naturalmente congiunte queste due cose,
le prendiamo per una cosa sola ; e a veder che son due,
ci bisogna uno sguardo acutissimo.
V'ha poi anco un'altra ragione, per la quale ci si
rende estremamente difficile separare le sensazioni dalle
idee, e formarci il concetto di quelle prime veramente
esatto, senza mescolarvi nulla di ciò che appartiene alle
seconde ; la qual è la seguente.
Qualunque cosa noi conosciamo, e su cui ragioniamo,
ella ci dee sempre esser nota mediante una percezione
intellettiva, o un'idea. Quindi è, che di ciò di che non
abbiamo idea, o sia di ciò che non percepiamo intel
lettualmente , noi non abbiamo notizia, nè possiamo
discorrerne o colla mente o colle parole.
Ciò considerato, s'intende, che anche della sensazione
medesima (perchè noi possiam dire di conoscerla, pos-
siam considerarla, ed esprimere in parole le considera
zioni nostre sopra di essa) ci è forza di aver l'idea, o
sia la percezione intellettuale: però la sensazione sola,
senz'essere accompagnata d'alcuna idea, rimane inintel
ligibile, e non può essere oggetto di nostre cogitazioni,
e di nostri ragionamenti.
Ogni qual volta adunque noi volgiamo la nostra at
tenzione alle sensazioni per ragionare di esse, noi uniamo
loro necessariamente un' idea.
Da questa necessità pertanto di considerare le sensa
zioni mediante un'idea, nasce l'estrema difficoltà di ca
pire il bisogno che ci ha di separare l'idea stessa, per
chè rimangasi la sensazione perfettamente isolata, e
quindi perchè di essa sola e pura abbiamo il concetto.

(i) Tra la percezione intellettiva e V idea non pongo che questa diffe
renza : percezione intellettiva chiamo il pensiero di un cute sussistente:
quindi la percezione intellettiva risulla i.° da un'idea, a." da un giudizio,
associati ( V. c. II, art. u—iv).
Ad una così ardua operazione della nostra niente,
mediante la quale noi separiamo dalla sensazione tutto
ciò che non le appartiene, e fino quell'idea medesima
onde noi la concepiamo, troviamo una ripugnanza par
ticolare per questo, che dopo isolata in tal modo la
sensazione, e separatala dalla stessa nostra cogitazione
di lei, ella ci rimane un'oggetto per sè non intelligi
bile, o per dir meglio, non inteso.
£ la difficoltà medesima , poco o nulla osservata , si
tma nella nostra cognizione degli oggetti materiali, e
di tutti quegli oggetti che, non essendo idee essi mede
simi, sono perciò, quanto è da sè, oscuri, cioè non
intesi, hanno una esistenza impossibile ad essere intesa
s'ella non viene unita ad una idea.
Il che se fosse stato osservato da' moderni, sarebbe
loro giovato sommamente a conoscere l'indole delle co
gnizioni che noi aver possiamo delle cose. Perciocché
essi si sarebbero accorti, che la cognizione delle cose, che
noi abbiamo, ritiene sempre qualche cosa di soggettivo,
e quindi d'inesatto, fino che noi non abbiamo osser
vato delle cose esterne conosciute la natura , incognita
perse stessa, e resa solo cognita dalle nostre idee che
ad esse noi aggiungiamo. Ma questo argomento qui non
posso che toccarlo leggermente, sebbene egli sia gra
vissimo, e fecondo di conseguenze.
Oltre poi a questa difficoltà che noi incontriamo a
formarci un concetto veramente oggettivo de' corpi, e
che è comune al concetto delle sensazioni , v' ha rispetto
a queste una difficoltà particolare che è la seguente.
Quando noi abbiamo tolto dalle sensazioni fino l'idea
colla quale le concepiamo, esse ci restano un oggetto
incognito, come dicevamo: ora a noi riesce estremamente
difficile il pensare che le sensazioni sieno per sè sole
un soggetto incognito; perocché ci pare, che essendo esse
modificazioni del nostro spinto, accompagnate forse sem
pre da piacere o da dolore, e sempre essenzialmente da
lui sentite, non possano essere qualche cosa d' ignoto: la
quale estrema difficoltà viene appunto da ciò che dice
vamo di sopra, cioè dall'abitudine di percepire le sen
sazioni, tosto che noi le abbiamo, intellettualmente $
perocché essendo noi esseri forniti d' intelletto e di
ragione , ciò che sentiamo lo avvertiamo altresì coll'in-
telligente potenza.
28
E si osservi bene oltracciò, che quand'anco in noi
ci fosse sensazione pura, scompagnata al tutto da idea;
come lalor sembra che avvenga, quando noi sentiamo
pure qualche cosa, e non ci badiamo, avendo l'atten-
zion della mente in altro occupata: quand'anco, dico, in
noi si desse sensazione senza idea; questa sensazione non
potrebbe in nessun modo giovarci a formar poi un esatto
concetto della sensazione, perciocché ella non sarebbe
da noi intesa, nè considerata, sarebbe come se non fosse
rispetto al nostro intendimento, e quindi noi non po
tremmo in modo alcuno nè pensare nè ragionar sopra lei.
Sicché il concetto della sensazione sola, e scompagnata
da ogni idea , noi non possiamo farcelo che nel modo
seguente : i.* Noi percepiamo intellettualmente la sensa
zione nostra, per esempio la sensazione del color rosso,
a." In questa sensazione così a noi cognita noi abbiamo
congiunto insieme intimamente l'idea e la sensazione, que
sta come cosa cognita , quella come cognizione ( in quant' è
intuita). 3.* Noi analizzando quest'atto del nostro intellet
tuale percepimento, analizzando in una parola questa idea
della sensazione del color rosso , separiamo Videa che ci fa
conoscere la sensazione, dalla sensazione che è la cosa co
nosciuta mediante l'idea. 4-° Quindi concludiamo, che
la sensazione priva dell' idea non può che essere un og
getto incognito: perchè ella ci era nota per Videa sola,
e togliendo via l'idea della medesima, abbiamo tolto ciò
che la illuminava, ciò che la faceva risplendere alla no
stra mente, abbiamo tolto in una parola la forma di
quella cognizione, rimastaci solo la materia della me
desima. 5." Mettendo finalmente l' attenzione nostra so
pra di questa materia, noi veggiamo ch'ella è sensa
zione, cioè che è modificazione del nostro spirito ; a dif
ferenza de' corpi esterni, che, in quanto tali, non pure
per sè stessi sono non cogniti , ma ben anco non sentiti.
DIMOSTRAZIONE II,
cavata dal secondo elemento dell'idea dell'essere,
che ne costituisce il secondo carattere, la possibilità o idealità.
La semplice idea dell'essere non è percezione di qual
che cosa di sussistente (i), ma intuizione di qualche cosa
possibile: non è che l'idea della possibilità della cosa.
Ora le nostre sensazioni non ci danno che delle mo
dificazioni dello spirito nostro, venienti da cose sussi
stenti; poiché le cose meramente possibili non hanno
forza nessuna di agire sopra de1 nostri organi, e produrci
le sensazioni. Dunque le sensazioni non hanno nulla che
fare colla nostra idea dell'essere, e non ce la possono
in nessun modo somministrare.

OSSERVAZIONI
sul nesso delle due prove generali che abhiam dato dell' incapacità
delle sensazioni a somministrarci l' idea dell' essere.
L'idea dell'essere comprende due cose, che sono così
umle fra loro, che senza l'una di esse quell'idea non
esiste, cioè i." la possibilità, e a.* un qualche cosa in
determinato a cui la possibilità si riferisce.
Egli è impossibile pensare alla possibilità sola, senza
intendere la possibilità di un qualche cosa indetermi
nato: come è impossibile pensare ad un qualche cosa ,
senza che sia logicamente possibile.
L' idea adunque dell' essere, sebbene perfettamente
semplice e indivisibile in sè stessaj tuttavia risulta per
noi da due elementi mentali, voglio dire dalla sola
mente assegnabili.
Ora l' esame della natura del primo di questi due
elementi (esistenza, o sia cosa indeterminata) ci ha
somministrato la prima dimostrazione: l'esame della na
tura del secondo (possibilità) ci ha somministrato la
dimostrazione seconda.
Il primo elemento, cioè V esistenza o una cosa qua
lunque in quanto ha un modo di esistere in sè, non
può percepirsi dal senso, perchè il senso non percepi
sce nulla in quanto esiste, ma solo in quanto agisce: il

(i) Cap. II , art. m e iv.


3o
secondo elemento, la possibilità, non può percepirsi
dal senso, perchè ciò che è meramente possibile non
può produrre sensazioni, giacché ciò che non esiste an
cora attualmente non può agire.

§3.
DIMOSTRAZIONE III,
cavata dal terzo carattere dell' essere possibile, la semplicità.
Or si consideri colla mente V essere possibile da una
parte, e una reale sensazione dall'altra.
Si troverà che ogni sensazione organica ha qualche
estensione, avendo sua sede nell'organo esteso; all'op
posto un possibile intuito dalla mente, non ha certo seco
alcuna concrezione corporea, egli è perfettamente semplice.
Questo carattere adunque di semplicità , consistente in
non avere nulla di materiale, nulla che abbia qualche
analogia colla materia, nulla di esteso, nulla che ab
bia qualche analogia coli' estensione, è tale che costi
tuisce una diritta opposizione alla natura della sensa
zione reale: e però da questa non può in alcun modo
esser dato quel semplicissimo lume alla mente.

§ 4-
DIMOSTRAZIONE IV,
cavata dal quarto carattere dell'essere possibile,
la sua unità o identità.
Si continui questo confronto fra V essere possibile eie
sensazioni concrete.
Ciascuna di queste è in un luogo solo, divisa dal
l'altra, incomunicabile all'altra; a ragion d' esempio,
il dolore che io provo in un dito, non ha che fare
con un simile dolore che un altr'uomo prova pure nello
stesso dito, per la limitazione del luogo e della sussi
stenza reale, che separano queste due sensazioni.
All' incontro un ente che luce alla mente nel suo
stato di mera possibilità, non è più in un luogo che in
un altro; e può realizzarsi in molti luoghi, se è tale da oc
cupar luoghi, o può moltiplicarsi indefinitamente anche
se non soggiace di sua natura alla limitazione del luogo.
La mente contempli il corpo umano nella sua pos
sibilità: questo corpo possibile è sempre desso, ov' anco
3i
in varj luoghi venga a sussistere realizzandosi , e mol
tiplicandosi quanto si voglia. I corpi reali diventati
molti, il concetto o l'idea del corpo rimane uno sempre:
la mente , e ove si voglia anche più menti il veggono
identico in tutti gl'infiniti corpi umani ch'elleno pen
sino sussistenti.
E dunque opposta la natura delle cose reali, alle
quali appartengono le sensazioni) e la natura di una
semplice idea : questa adunque non può trovarsi in
quelle, nè esser prodotta da quelle.

§ 5.
DIMOSTRAZIONE V e VI,
cavate dal quinto e sesto carattere dell' essere possibile ,
1' universalità e la necessità.

Ogni ente, quando si considera nella sua possibilità


logica , è universale e necessario.
E -veramente, niente ripugna che sussistano indefiniti
esseri reali tutti conformi ad una mia idea qualsiasi :
dunque ogni mia idea è un lume, ond' io posso conoscere
quanti enti a lei rispondenti sussistono o sussisteranno:
ella è dunque universale, infinita.
All' incontro ogni singola sensazione è particolare: tutto
ciò che sento in essa, è limitato ad essa : 1 universale adun
que è impossibile trovarsi, o ritrarsi dalle sensazioni.
Il simigliante dicasi del carattere di necessità. Ciò che
io contemplo come possibile, intendo assai bene che è
necessario; perocché non c'è via nè verso da pensare
che il possibile sia mai stato impossibile.
La sensazione, per lo contrario, può essere e non es
sere; eli1 è accidentale, contingente: non è dunque nulla
in essa, che risvegliar possa nella mia mente il pensiero
di una necessità assoluta. Dunque l'idea dell'ente pos
sibile non può trarsi dalle sensazioni.
OSSERVAZIONE I.
L'ente è il fonie della cognizione a priori.
Quindi i due caratteri della universalità e della ne
cessità, stabiliti da Kant, e prima di lui dagli antichi,
come i criterj della cognizione a priori (i), cioè di quella

(i) Vedi Sl-z. IV, art m, iv mi.


3a
cognizione che non può scaturire dai nostri sensi, non
sono i criterj ultimi di detta cognizione, ma de' cri terj
parziali, e derivati con una esatta analisi dall' idea del-
V ente, forma unica della cognizione, e sorgente di ogni
cognizione a priori.
OSSERVAZIONE U.
Non solo V idea dell' essere in universale Ita in sè i caratteri accennati , e
segnatamente quelli di universalità e di necessità, ma anche tutte l' altre
idee senza eccezione alcuna.

Questa proposizione, che vale assaissimo a far nota


la natura delle idee, non è più che un corollario delle
precedenti.
E di vero, noi abbiamo dimostrato, che nell' idea pura
non si pensa che la possibilità della cosa , senza che
nulla vi si comprenda della sussistenza di essa cosa, la
quale appartiene ad un'altra facoltà dello spirito, non
a quella delle idee (i): abbiamo dimostrato ancora, che
la possibilità di una cosa s' estende alla ripetizione illi
mitata di quella cosa , e non può pensarsi che non
aiaj il che è quanto dire, che nella possibilità si con
tengono i caratteri di universalità e di necessità (2).
Dunque ogni idea è universale e necessaria.
E veramente, è sempre l'idea dell'ente possibile quella
che, vestita di qualità determinanti cavate dall' espe
rienza, mi somministra una quantità d'idee più o meno
determinate, ma che non rappresentano che oggetti me
ramente possibili, e non ancora sussistenti.
A ragione d'esempio, le idee di genere e di specie,
le idee di uomo, animale, albero, pietra ecc., che non
indicano punto degli individui, non sono che la idea
dell'ente possibile vestita delle determinazioni o qualità
comuni degli uomini, degli animali, degli alberi, delle
pietre ecc. , somministratemi dall'esperienza, e foss' anco
di qualità speciali, come sarebbe l'idea di un albero
fornito di tutte sue particolarità ; ma priva però ancora
dell'ultima che determina l'ente a sussistere, dell'atto
dell' esistenza , o della sussistenza come abbiam detto
di nominarla.
Ciò posto, tutte queste idee più o meno generali, non

(1) V. add. c. II, art. 11 e 111. (>) l 5.


33
rappresentando nessun oggetto realmente esistente, ma
ancora oggetti meramente possibili, partecipano de' ca
ratteri della possibilità, i quali sono i.° la universalità
a." e la necessità.
In fatti ogni idea è universale agli infiniti individui
possibili che possono su quell' idea come sopra modello
conformarsi; ed ò necessaria a quel genere, cioè non può
esistere nessuno individuo di quel genere senza ciò che
rappresenta quella idea, perocché sarebbe assurdo im
maginare un individuo come compreso in un dato ge
nere, e non attribuire al medesimo le qualità costitu
tive del genere slesso.
OSSERVAZIONE III.
Origine del sistema platonico delle idee innate.
Da questa osservazione si vede più manifesta l'ori
gine del sistema delle idee innate di Platone.
Questi aveva osservato, che le idee che noi abbiamo
delle cose hanno in sè una necessità ed una universa
lità.. Quindi conchiuse eh' elle dovevano essere in noi
innate, perchè nulla di ciò ci somministra la sensazione.
Ma questo ragionamento nasceva dal non aver egli
trovata la maniera di scomporre le idee, e separare ciò
che in esse vi ha di formale, da ciò che vi ha di ma
teriale. Questa gli avrebbe fatto conoscere, che tutte le
nostre idee sono bensì fornite di una necessità e di una
universalità , ma di una necessità e di una universalità
partecipata.
E innoltrandosi nella ricerca, egli avrebbe riconosciuto
che questi due caratteri della necessità e della univer
salità sono partecipati da una idea unica, superiore a
tutte le altre; e che questa idea unica è quella che contiene
in sè i due caratteri della necessità e della universalità,
senza parteciparli da altre idee, essenzialmente: che questa
idea è l'idea dell' ente possibile; e che tutte le idee
di genere e di specie non sono se non questa stessa
idea rivestita di varie determinazioni tolte dalla espe
rienza del nostro senso interno od esterno. In tal modo
avreòb' egli scoperto
i." Che tutte le idee sono composte di due elementi;
cioè a) di un elemento invariabile, comune a tutte,
l'idea dell'ente possibile; b) e di un elemento variabile^
le determinazioni aggiunte all'idea dell'ente.
Kos.niNi, Orig. delle Idee , Voi. II. 5
34
2." Che ciò che non ci poteva venire dall' esperienza
de' sensi, non erano tutte intere le idee, ma solamente
il primo loro elemento, cioè la parte invariabile; e che
perciò bastava ammettere innata nello spirito dell'uomo
una idea sola, perchè l'origine di tutte le nostre idee
fosse pienamente spiegata.
3." Che la parte variabile nelle idee (i) poteva es
serci occasionata da' sensi, e quindi non occorreva esten
dere anche a questa la qualificazione d'innata, come egli
sembra di fare nel suo sistema.
E dico, sembra di fare; perocché in alcuni luoghi vien
presso a questa nostra dottrina.
Il perchè l'osservazione che noi facciamo sul sistema
platonico o varrà a mostrarne l'esagerato e l'erroneo,
o varrà almeno a somministrare un filo di guida (se ad
altri ciò pare ) per interpretare questo gran filosofo più
sanamente che fin qui non sia stato fatto.

§ 6.
DIMOSTRAZIONE VII e Vili,
cavate dal settimo e ottavo carattere dell'essere possibile,
l' immutabilità e l' eternità.

La mente che contempla un ente possibile, non può


in alcun modo pensare che nasca in esso qualche mu
tazione , ma può solo torre la sua attenzione ad un es
sere possibile, e darla ad un altro: però ogni ente pos
sibile si presenta alla mente come al tutto immutabile.
Conseguenza di questo fatto si è quell' altro, che la
niente non può pensare che v'avesse alcun tempo, in
cui un ente possibile non fosse ciò che ò al presente
e sempre sarà.,
Questa impossibilità che ha la mente di pensare a
mutazione o limitazione di tempo in unente possibile,
è ciò che si chiama l' immutabilità e l'eternità dell'end
possibile.

(i) Non è già die dall'idea sola dell'ente possibile, ove perfettamente
fosse compresa , non dovessero emanare necessariamente tutti i modi e le
determinazioni possibili degli enti reali ; ma la mente nostra non conce
pendo l' elite possibile in un modo perfetto , ba bisogno dell' esperienza per
rilevare o conci pire le determinazioni dell' cale, e però a noi si prcseiilauo
conio qualche iosa di arbitrario e ili positivo, e più ci uwicuc ciò, pi"
clic siamo rozzi e nuovi alle Meditazioni lilosoliclic.
35
Niente di ciò trova la mente nelle sensazioni muta
bili e periture: dunque le sensazioni non possono in
alcun modo scorgere la mente a pensare que' caratteri
dell'ente possibile.
§ 7-
DIMOSTRAZIONE IX ,
cavata dal terzo demento dell'essere possibile in universale, ehc costituisce
il nono carattere di quest idea, l' indeterminazione.
Fin qui ho dimostrato che l'idea dell'essere in uni
versale non può venire da' sensi, analizzandola e scom
ponendola in due elementi, i quali sono le nozioni che
ella racchiude i.'di un qualche cosa, 2.° e della idealità
o possibilità di questo qualche cosa (i).
Da questi due elementi coll'analisi io trassi i carat
teri della semplicità, dell' identità , dell' universalità, della
necessità, della immutabilità e della eternità di cui è
fornita l'idea dell'ente; da ciascuno de' quali argomentai
all'impossibilità ch'ella sia a noi somministrata dalle
sensazioni (3).
Ora si può arguire il medesimo dal terzo elemento
che costituisce l'idea dell'essere in universale, il quale
si é la sua pienissima indeterminazione.
E veramente gli argomenti fin qui arrecati valgono
ugualmente per tutte le idee: valgono a dimostrare, che
nessuna delle idee , considerata nella sua purità , può
venire dalle sensazioni ; perocché ogni idea non è che
il pensiero della possibilità di un ente, cosa di una na
tura tutta particolare, senza concrezionè (3); e che perciò
è fornita di tutti i caratteri da noi indicati e distinti (4).
Ma per l'idea dell'ente in universale v' ha di più la
prova che dedur si può dalla sua indeterminazione.
Di vero, ciò che costituisce un'idea pura è quell'ente
ideale dove non entra niuna concrezione, e per dirlo in
una parola, dove niente si trova di ciò che appartiene
alla sussistenza; sebbene aver vi possano quelle qualità
che costituiscono i generi e le specie stesse più finite.
All'incontro dall'edere in universale non solo è esclusa

(il J i ( i. (3) Cap. IT , art.' n e ni.


(i) $ 5—6. (4) Cap. IN, art. i, J 5, osserv. I.
3G
la sussistenza, ma ben anco ogni differenza e determi
nazione di specie e di generi: di guisa che se l'altre idee
sono universali perclx": rispondono ad un numero infi
nito d'individui possibili, uguali; l'essere in universale
è universale di più , perchè s' estende a tutti i generi
e a tutte le specie possibili , non essendo limitato da
veruna di queste determinazioni.
Or v' ha egli nulla che abbia la più lontana somi
glianza con un tale essere ideale nelle nostre reali sen
sazioni?
Anzi la loro natura consiste nell'opposto: esse sono
tutte perfettamente determinate.
Ferocchè venendo prodotte da oggetti realmente esi
stenti; questi oggetti, come pure gli effetti loro, devono
esser forniti di tutte le determinazioni e qualità parti
colari colle quali solo possono realmente e attualmente
esistere.
Quindi fra 1' idea dell'ente possibile universale, e la
sensazione, v'ha una vera contrarietà, sicché l'una esclude
l'altra; essendo essenziale all'idea dell'ente universale e
meramenle possibile, la perfetta indeterminazione; ed es
sendo all'incontro essenziale alle sensazioni, ed agli og
getti che le producono , la perfetta determinazione che
li individui e faccia sussistere.
Per esempio, non può esistere una pietra se non è
fornita di una certa determinata grandezza, di una de
terminata forma , di un peso, di un colore, di un sa
pore, della potenza di rendere un determinato suono,
e di produrre, messa in certe circostanze, certi de
terminati effetti o su di noi, o sulle cose in che ella
agisce realmente od anco solo apparentemente. All'in
contro quando io penso all'ente possibile in univer
sale, prescindo da tutte queste qualità o essenziali o
accidentali ond' è forza che sia fornito un ente partico
lare qualsiasi, per esempio cotesta pietra. L'ente a cui
io penso, non è punto particolare,, ma sommamente uni
versale : in una parola , non è che la possibilità degli
enti diversi, la possibilità degli infiniti modi e gradi
della reale esistenza, senza che io m1 innoltri punto a
questi, e vadali meco medesimo enumerando o ferman
domi in alcuno, ma io penso semplicemente alla possi
bilità di tutti in monte, ariti penso all'esistenza senza
darmi pensiero de' suoi modi, bastandomi di sapore che
questi modi, quanti e quali dovranno essere, tali sa
ranno negli enti che realmente esisteranno.
Nè si può già dire, che se io dall'oggetto particolare,
e individualizzato dalle sue peculiari qualità, e percepito
co' miei sensi solamente, astrarrò le sue determinazioni
che lo individuano, mi rimarrà Venie indeterminato;
perciocché, come abbiamo veduto tante volte, ciò che
mi fanno percepire le sensazioni non è se non il parti
colare stesso, l'individuale degli oggetti e nulla più.
Le sensazioni cioè non mi fanno mica conoscere gli
oggetti sensibili come enti , cioè non me li fanno co
noscere in quanto essi esistono in sè , in quanto hanno
un tal grado di esistenza, non me li fanno conoscere
in una parola tutti egualmente riferiti alla esistenza co
mune di cui partecipano; ma nella sola relazione ch'essi
hanno con me, nella loro qualità sensibile o potenza
di modificarmi, e l'uno in separato al tutto dall'altro.
Sicché supponendo che io non avessi, degli oggetti sen
sibili, che le mere sensazioni, e che non li percepissi
anche contemporaneamente col mio intelletto, e quindi
che io volessi astrarre dalle sensazioni tutto ciò che ci
ha di particolare; quando io avessi cavato tutto questo
dalle sensazioni, io non mi troverei già avere per resi
duo l'ente indeterminato, ma il nulla perfetto ; mi sa
rebbero sparite d'innanzi sì le sensazioni, che gli oggetti
di queste, senza restarmene nessuno avanzo. Egli è que
sto che bisogna ben intendere, e con diligenza pensare,
per formarsi una giusta idea dello spirito umano e del
modo del suo operare.
Ma questo ci suol essere estremamente difficile, come
dissi, perchè non abbiamo mai la sensazione sola (i),
ma contemporaneamente percepiamo gli oggetti esterni
sì col senso, che coli' intelletto ; e quindi poi scompo
nendo non già le nostre sensazioni, ma bensì le nostre
idee de' corpi , troviamo in queste per astrazione l'esi
stenza, la possibilità, l'indeterminazione dell'ente pos
sibile ecc., e crediamo che tutte queste cose si trovino
nelle pure sensazioni, mentre esse si trovano nelle no
stre idee; nelle quali noi non ci accorgiamo che l'intel-

(i) V. a<ld. face a6 c srgg.


38
letto nostro le ha poste egli ; giacchi: l'intelletto nostro,
come abbiamo altrove toccato, percepisce gli oggetti sen
sibili e tutti gli altri oggetti in sè, o sia in relazione
alla esistenza di cui tutti partecipano , cosa che non
può fare il. senso. Ma di ciò, come la cosa più di tutte
rilevante, toccheremo ancora più abbasso (i).

§ 8.
Riassunto delle prove date, e cenno di altre prove particolari dell' impossibili^
di dedurre dalle sensazioni la cognizione a priori.

Riassumendo l' analisi da noi fin qui fatta di que-


s l'idea, noi abbiamo trovato che questa idea contiene
tre elementi indivisibili fra loro e connessi per sì stretlo
nodo, che l'uno sta dentro l'altro, nè l'uno si può pen
sare senza pensare ad un tempo l'altro, cioè i.° un qual
che cosa (ente), a." la semplice idealità di questo qual
che cosa, di quest'ente, 3.* Y indeterminazione.
Abbiamo veduto che niuna di queste idee elementari,
o elementi di una idea sola, ci può esser data dalle
sensazioni , perocché esse sono d' una natura essenzial
mente diversa dalla sensazione, come la sensazione è
di una natura essenzialmente diversa dalla loro, sicclu'
l'una esclude l'altra necessariamente. Quindi abbiam ca
vato tre fondamentali dimostrazioni della proposizione
proposta « L'idea dell'ente non ci può venire sommi
nistrata dalle sensazioni » (2).
Analizzando via più sottilmente i due primi elementi,
e massimamente quello dell'idealità o possibilità, ab
biam trovato ch'egli contiene diversi altri caratteri, tulli
egualmente impossibili a dedursi dalle sensazioni (3).
Or se noi volessimo qui spingere più oltre l'analisi del
l'ente possibile, giungeremmo a ravvisare in esso più altre
cose incompatibili colla sensazione, e ad aver così delle
altre prove, che quell' idea dalla sensazione non si può
derivare o in essa rinvenire.
In tal caso noi ci abbatteremmo a tutte quelle diffi
coltà particolari, alle quali si sono abbattuti i diversi
filosofi che hanno cercato l'origine delle idee, e che io

(1) Si noti qui l>enc, che 1* indeterminazione non è cosa inerente »ll es
sere slesso , ma procede dall' imperfezione del veder uoslro.
(a) ? i , s e 7. (3) g 5—6.
ho trattale a lungo nelle due Sezioni precedenti, dove
ho esposto la storia di questa questione: dico alle diffi
coltà di assegnar l'origine dell'idea di sostanza, dell'idea
di causa, dell' idea di rapporto ecc.; le quali idee tutte,
bene esaminale ed analizzate, non presentano ultima
mente altra difficoltà che quella stessa che v' ha nel
l'idea dell'ente possibile, dalla quale quelle altre idee
dipendono e si derivano (i).
Ma dovendo io trattare più sotto di tutte queste idee,
che hanno dato tanto da pensare a' filosofi, quando mi
converrà di mostrare appunto com' esse si originano in
noi dall'idea di ente e dall'esperienza sensibile unite in
sieme; perciò qui ommetto questi ulteriori sviluppamene
delle prove che confermar potrebbero la proposizione
sovra posta.
ARTICOLO II.
L* IDEA DELL' ENTE NON VIENE DAL SENTIMENTO DELLA PROPRIA ESISTENZA.

La proposizione è una conseguenza delle dottrine esposte.


Se Videa dell'ente, nò per conseguente alcuna idea
nostra (2) può venirci dalle sensazioni esterne, consegue
che non possa venire nè pure dal sentimento; perocché
questo non è altro che una sensazione interna, perma
nente, che sebbene dotata di qualità particolari, tutta
via è tale, che si può alla stessa applicare gli stessi ra
gionamenti co' quali abbiamo provato fin qui che Videa
dell'ente non ci può venire dalle corporee sensazioni (3).

(1) Questa derivazione nasce mediante le diverse applicazioni e i diversi


usi de' quali l' idea dell' ente è capace. Ved. Sez. Ili , c. I , art. v ; c. II,
art. ix—si ; c. Ili, art. m, iv; c. IV, art. i, ira, xx, xxi — Sez- IV, c. I,
art. m , xm; c. II, art. i—ai; c. III, art. xix. — Sez. V, Introduz.
(a) Art. I.
(3) D' Alembert in Francia, e Falletti in Italia hanno creduto di poter
dedurre l'idea dell'esistenza in universale dal sentimento dell' Io, della
esistenza cioè di noi stessi. « La nozione astratta di esistenza , dice d' Alcni-
« bert, si forma tantosto in noi per mezzo del sentimento dell' lo, che
>< risulta dalle nostre sensazioni e da' nostri pensieri; quindi noi riguar-
i diamo questo sentimento dell' lo come possibile a separarsi dal soggetto
« nel quale egli si trova, senza che (mesto soggetto sia annientato , e per
'< questo mezzo ci resta l'idea astratta di esistenza, che noi applichiamo
- quindi appresso agli esseri diversi da noi , che ci sembrano cagiona-
« re le uosUc àeusazioui » (Mèlanges, eclaiivissemens sur ses élcmcits

Distinzione fra il sentimento e l'idea dell'io.

Quindi il sentimento interno dell' Io, hassi a distin


guere dalla idea o percezione intellettuale dell' Io.

de philosophie, § 1 1 ). Le inesattezze che contiene questo passo è quasi


impossibile enumerarle in una nota. Toccherò le principali alla sfuggitta:
elle sono le seguenti: i.° Si confonde il sentimento dell' Io coli' idea del
l' lo, cose al tutto diverse, come sono per dimostrare nel paragrafo seguente.
2.° Il sentimento dell' Io si dice acquisito colle sensazioni e co' pensieri j
il che se fosse vero, NOI cominceremmo ad esistere solo quando comin
ciamo ad essere modificati. 3.° Il soggetto nel quale si trova il sentimento
dell' Io, si afferma distinto dall' Io, e dicesi che si possa dividere dal
l'/o, mentre lo , e non altra cosa, sono il soggetto stesso. 4° Dopo avere
di una cosa sola fatte due, cioè dell' Io soggetto fatto l'Io che non è sog
getto, e il soggetto unito all'io, si vuole che il soggetto staccato cosi dal
l'/o, o più tosto creato dall' immaginazione , sia il medesimo dell' idea di
esistenza in universale, mentre il soggetto e l'esistenza sono due cose al
tutto distinte fra loro. 5." Finalmente si suppone al tutto gratuitamente
possibile una contraddizione , cioè che da un ente particolare ( come sono Io )
si cavi V idea delt ente in universale, mentre ciò che è particolare è oppo
sto a ciò che è universale , e ciò che è non racchiude in nessun modo ciò
che non è se non- possibile.
Il filosofo italiano più sopra citato, sebbene tentasse anch' egli di dedurre
l'idea dell'esistenza in universale dal sentimento dell'io, tuttavia nel modo
col quale il fa , mostrasi un po' più avveduto e sagace di d' Alembert. Egli
si accorse assai bene, che V lo, questo sentimento fondamentale, doveva
essere in noi essenzialmeute lino dal primo istante della nostra esistenza ,
giacché noi nou possiamo mai essere senza di noi. S'accorse oltracciò, che
doveva essere <« sempre mai all'anima presentissima (sono sue parole)
w l'idea dell'essere in generale » (Saggio sopra l'origine delle umane co
gnizioni dell' Ab. Condillac, tradotto — colle osservazioni critiche di Tom
maso Vincenzo Fallctli, Roma 1784, T. I, face. 4): e quindi egli sup
pose che l'anima cavasse di sè quest' idea con un atto primitivo e naturale;
il che sebbene sia insostenibile, perocché è impossibile che l'anima, non
avendo in sè l'idea dell'esistenza in universale, la cavi da sè che non è che
un ente particolare ; tuttavia si vede quanto il Folletti rasentasse la verità
che in quest'Opera io ho preso ad esporre distesamente.
Tra i filosofi italiani viventi, il Galluppi mostra d' essere dell'opinione
de' due citati; ma la sua penetrazione il conduce a tale talora, da sentirne
una ripugnanza , c da spargere il dubbio sulla dottrina ohe pur professa;
ccune là dove dice; « lo spirito, sebbene incominci le sue operazioni, dalla
« percezione dell' esistenze individuali, non può dire, Io esisto, se non
« dopo di aver acquistata l'idea universalissima di esistenza; siccome ve
ti deudo un lieo, un arancio, non dirà è un albero, se nou dopo di aver
« acquistato l'idea generale di albero, SE PURE DIRE NON SI V0-
« GLIA CHE L'IDEA DI ESISTENZA SIA INNATA IN NOI; ma
« anche in questa ipotesi, egli ha bisogno della coscienza di riflessione,
« di cui ho parlato di sopra , per poter dire lo esisto » ( Saggio sulla Cri
tica della Conoscenza, Napoli 181;), T. I, face. 5i ).
In questo passo eccellente giunge 1' acuto Calabrese a toccare il vero si
stema i uou gli inauca che il coraggio di ulfcnuilu.
Il sentimento dell' Io è semplice; ali1 incontro l'idea
dell' Io è composta r.'del sentimento dell'/o, che èia
materia della cognizione, a* e dell'idea dell'ente, la
forma, a cui io riporto quel sentimento o quell'/o, e
in tal modo lo conosco; il che vuol dire, considero V Io
come un ente, lo penso oggettivamente , lo penso in sè.
L'/o è il soggetto; è tutto particolare; non ha re
lazione che a sè, ente determinato, reale, peculiare.
Perchè io conosca questo soggetto, perchè io n'abbia
V'idea, debbo concepirlo oggettivamente, come qualun
que eoa che a me non si riferisce , in relazione insomma
coll'ente, come in relazione colf ente stesso considero
qualunque altro oggetto particolare sensibile: l'ente è
dunque come la misura comune; quando io ho riferito
ciò che sento a questo modulo, allora non solo sento,
ma ancora conosco ciò ohe sento.

§ 3.
L'/o non mi dà che la sensazione della mia esistenza particolare.

Il sentimento dell' Io mi dà dunque la sensazione


della mia esistenza, ma non l'idea della medesima: di
più, quel sentimento è la mia esistenza stessa: ma non
è per questo Videa della mia esistenza.
L' idea della mia esistenza nasce bensì per tempo in
me; ma nasce con un atto, mediante il quale io consi
dero me stesso come un ente, mi considero imparzial
mente, per dir così, come qualunque altra cosa, e clas
sificandomi fra gli enti, io mi trovo fra tutti, e mi di
stinguo con quel sentimento dell' Io che mi segna , e al
quale l'idea dell'esistenza col giudizio della mia ragione
io riferisco.
§ 4-
11 sentimento della mia esistenza è innato ; 1' idea della mia esistenza
è acquisita.

Quindi avviene che, se il sentimento che si esprime


col monosillabo Io è innato, perocché io debbo essere
innato a me stesso, tuttavia l'idea di me stesso sia
acquisita, nè si possa confondere colla mia sussistenza,
o col sentimento che la costituisce.

Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. lì '■


42 .
« 5.
L'idea dell' onte preeode l'idea dell' Io.

Quindi, nell'ordine delle idee, l'idea dell'ente precede


l'idea dell' Io; perocché quella è necessaria acciocché
io mi formi questa.
Un tal corollario discende anco immediatamente da
ciòche già prima abbiamo stabilito, che, in qualunque
oggetto, la prima cosa che il nostro intelletto intende
non può essere che V ente (i).

(i) Tutta questa dottrina trovasi già nel deposito del sapere che hanno
a noi tramandato i padri nostri. San Tommaso, nel libro III contro i Gen
tili, cap. XLVI, insegna che l'anima nostra per conoscer sè stessa ha biso
gno di una specie intelligibile come tutte l'altre cose, per la quale specie
intelligibile nuli' altro si dee inlendere , come più sotto avrò occasione di
dimostrare, se non un' idea universale, alla quale l'anima (quest'essere par
ticolare) appartenga come a suo genere, o per dir meglio, a suo predicalo
maggiore. L'anima dunque non si conosce in un modo diverso da tulle
l'altre cose, ma mediatile quel lume dell' intelletto agente (1* idea dell'ente
in universale) col quale tulle l'altre cose si conoscono. San Tommaso in tal
modo viene a distìnguere anche qui fra la materia e la forma della nostra
cognizione. L' anima col sentimento di se somministra la materia della co
gnizione., ma nulla più; è solamente mediante un lume innato, che questa
materia s' informa e diventa cognizione vera. Ecco le parole di s. Tommaso:
« Cognizione naturale è quella che si fa per qualche cosa che sia in noi
« inserito da natura (naiuraliter nobis inditum): e tali sono i principi »>-
« dimostrabili che si conoscono pel lume dell' intelletto agente. Se dunque
« noi sapessimo che cosa sia I' anima per 1' anima stessa, ciò sarebbe co-
« gnizion naturale. Ma in quelle cose che ci sono note da natura , non può
« darsi errore: chè nella cognizione de' principi non è uomo che erri:
•< dunque nessuno errerebbe intorno alla sostanza dell'anima, se perse
« fosse nota; il che manifestamente è falso ». E poco dopo: « Cip clic e
« noto per sè , dee esser noto prima di tutto ciò che è noto mediante al-
« Irò, e quello è il principio della cognizione di questo. Tali sono le prime
« proposizioni rispetto alle conclusioni. Sicché se 1' anima conosce per se
« medesima la propria sostanza, questa le sarebbe per sè nota, e per cou-
« seguente sarebbe il primo nolo, e il principio della cognizione di tulle
« P altre cose : il che è falso manifestamente : perocché nelle scienze non
- si ammette già e suppone come cosa nota la sostanza dell'anima ; ma ciò
u si propone da indagare e dedurre da' principi ».
In questi luoghi vedesi, i.° siccome s. Tommaso ammetteva la cognizione
de' primi principi come anteriore alla cognizione particolare dell'anima no
stra: a.0 come questa non si polea aver che da quelli. 3.° I primi principi
poi secondo s. Tommaso si conoscono a prima giunta e immediatamente pel
lume innato, che, come noi abbiam mostrato altrove e mostriamo continua
mente, i'On può esser altro che ! idea dell' ente in universale. 4." L ;"1""'l>
conosciuta per li medesimi principi pe' quali si conoscono l'altre cose, nou
è essa il primo noto, e il principio della cognizione delle altre cose, e per*
ciò non è da essa che si possano dedurre le idee e i principi generali,
Errore di Malebranche, il quale pronuncia , che noi percepiamo intellettivamente
noi stessi immediatamente, senza il mezzo d'un' idea.

Perciò quelli che antepongono l'idea dell' Io all'idea


dell' ente in genere, sembra che confondano l'idea dell' Io
col sentimento Io.
Questo precede alle idee acquisite, ma a queste pre
cede pure necessariamente l'idea dell' ente.
Malebranche adunque erra, quando all'anima nostra
non dà il conoscersi per idea , ma solamente per senti
mento.
Egli ha tutta la ragione nel sostenere che altro è il
sentimento ed altro l'idea: ma poi non s' accorge, che
il sentimento solo non forma ancora una cognizione in
tellettuale; ch'egli non somministra se non la materia
d'una tal cognizione, la quale s'informa dall' «tea del
l'ente in universale (i).
Se noi non conoscessimo noi stessi che per sentimento,
non potremmo ragionare sull'anima nostra, e conside
rarla come un ente, come un oggetto del nostro pensiero.

ARTICOLO III.
l'idea dell'ente non viene dalla riflessione lockiana.
*
§ I.
Definizione.-

Per riflessione lockiana io intendo quella facoltà che


ha il nostro spirito di fissare la sua attenzione sulle
sensazioni esterne, o sul sentimento interno (e nel sen
timento si comprendono ancora tutte le operazioni dello
spirito nostro, di cui abbiam sentimento), cioè o sopra
il tutto, ovvero sopra qualunque parte della sensazione
e del sentimento: senza però aggiungervi essa nulla,
quindi senza creare a se stessa un nuovo oggetto, ma

come vuole qualche scuola moderna; ma è dai principj generali che


dedur si vuole la cognizione dell'anima.
Aristotele conobbe questa stessa verità là dove dice che l'intelletto pos
sibile intende sè stesso a quei modo che intende l'altre cose ( De anima ,
Uh. IH, testo i5).
(i) Recherche de la viriló, L. III.
44
avendo per oggetto unicamente, come dicevo, le sensa
zioni esterne ed il sentimento interno o nel loro tutto
o nelle loro parti.
E io credo dover definire in questo modo la rifles
sione lockiana, non tanto per ciò solo che dice il Locke
intorno alla medesima , quanto confrontando insieme ciò
ch'egli dice intorno ad essa, con ciò che dice circa le
idee innate, e così spiegando Locke con Locke medesimo.
E veramente, pigliando sola la definizione che dà Locke
della sua riflessione, « la percezione delle operazioni del
« nostro spirito sopra le idee dai sensi ricevute » (i),
nulla di huono se ne caverehhe.
Ella è così equivoca, che non esprime alcun sistema.
S'ella non è che la percezione delle operazioni del no
stro spirilo sulle idee venute dai sensi, in essa si sup
pongono già le idee formate: e giacché non si può dare
idea di cosa alcuna senza che v' abbia dentro l'idea
dell' ente ; in essa si suppone già formata questa idea
terribile, che è tutto il nodo della nostra questione.
Quindi la difficoltà si suppone superata: essa non si
tocca; non si vede: la riflessione adunque di Locke po
teva procedere francamente, perocché non cominciava il
viaggio che nel cammino piano ed agevole; i dossi e le
valli se l'avea poste dopo le spalle. Ma ritrocedendo noi
un poco sui rapidi passi di questo filosofo, sguardiamo
un tratto a questi passi difficili. Le idee prime furono
formate dalla sensazione. In che modo? questo è quello
che Locke non dice,,nè si dà briga di spiegare: a lui
basta dirvi che « i nostri sensi fan penetrare tutte que-
« ste idee nel nostro spirito, » e « con ciò ( ecco Tuniche
« parole di spiegazione) m'intendo che i nostri sensi
« dagli oggetti fanno passare nello spirito quell'atto che
« produce queste percezioni » (2). Se questa sia una spie
gazione soddisfacente, ognuno il vede: ella non è nò pure
una sufficiente descrizione del fatto della sensazione. L'ar
gomento adunque di Locke non fu di render ragione
come il senso potesse far passare allo spirito l'atto onde
questo percepisce prima sensibilmente , e poscia intellet
tivamente: di questo non curasi l'inglese filosofo. Egli

(1) Saggio stili' Intel!, umano, Lib. II, c. I, j 4-


(2) Ivi , l 5.
45
è come un dirvi: TI senso produce l'atto dello spirito
ond'egli sente; di più, l'atto dello spirito ond' egli in
tende, on d'egli si forma le idee: io non m'imbarazzo a
mostrarvi o la differenza che passa fra il sentire e l'in-
tendere, od a cercare che cosa si richieda perchè succeda
il primo, e susseguentemente il secondo di questi due
fatti dello spirito umano. Checché si richieda alla pro
duzione di questi due fatti, e qualsiasi la differenza che
covre fra loro, io parto dal principio, che tutte le idee
vengono dalla sensazione e dalla riflessione. — Questo
principio è come il postulato fondamentale di tutta la
filosofia lockiana. Domando, par che dica, che voi mi la
sciate adoperare queste due parole, sensazione e riflessione,
senza che mi bisogni darvi di esse una accurata defini
zione: ma in tal modo, ch'io possa con tali parole espri
mere le cagioni tutte delle idee, supponendo ad esse quel
significato (qualunque sia) che è necessario che abbiano
per esser tali. Ora, partendo da questo postulato, fac
ciamo l'enumerazione di tutte le idee che l'uomo ha, e
richiamiamole tutte alla sensazione ed alla riflessione,
siccome a fonti.
Questa enumerazione è l'assunto dell'opera di Locke:
ed ecco in breve la genuina analisi di tutta quest'opera/
che ha commosso tanto rumore nel mondo.
Ora da quest'analisi del libro di Locke si vede, che la
questione dell'idee innate è eliminata dal suo argomento :
e così si sarebbe potuto giudicare della mente di questo
autore, s'egli, quasi per una giunta eterogenea ed im
pertinente al suo soggetto, non avesse adoperato tutto
il primo libro a rifiutare ogni idea ed ogni principio
innato.
E questo suo sentimento espresso sì a lungo nel primo
libro, che ci dà il diritto di determinare il senso della
definizione data da Locke alla sua' riflessione: definizione
per sè stessa equivoca, e dalla quale nulla si potrebbe
conchiudere ali uopo nostro.
In vero, se nessuna idea nè principio si trova ingenito
nello spirito umano; dunque la riflessione non può ag
giungere nulla alle sensazioni , ma in queste sole affissarsi,
per trovar in esse ciò che già vi è; nel che consiste il
carattere che assegna a questa facoltà nella sopra recata
definizione.
46
§ 2.
DIMOSTRAZIONE I.

Ora tutto ciò che io ho detto di sopra, rende evidente


la sovra posta proposizione.
Perciocché ho già dimostrato, i.* che l'idea dell'ente
non si contiene in nessun modo nelle sensazioni ester
ne (i); 2.* che l'idea dell'ente non si trova nò pure nel
sentimento interno (2); 3." che la riflessione lockiana è
una facoltà che osserva, e trova ciò che è nelle sensa
zioni o nel sentimento, senza aggiunger niente a quelle
od a questo (3).
Da queste tre proposizioni consegue, che dunque la
riflessione lockiana, non potendo trovar nelle sensazioni
o nel sentimento ciò che non v'è, non può nò pure tro
varvi Videa dell'ente; ma questa idea dee procedere da
qualche altro fonte. .
§ 3.
DIMOSTRAZIONE II.
Sarà dimostrato che la nostra idea dell' ente non ci
può esser somministrata dalla riflessione lockiana, se di
mostrerò che la riflessione lockiana è impossibile.
Ora, che la riflessione lockiana sia impossibile, non è
difficile a provare, ove si richiami la definizione che
n' abbiam data.
Abbiam veduto ch'ella è « la facoltà del nostro spinto
di fissare l'attenzione sua sopra le sensazioni esterne od
interne, nel tutto o nelle parti, senza però aggiunger
nulla alle medesime, e quindi senza creare a sè stessa
un nuovo oggetto, ma avendo per suo oggetto unicamente
quelle sensazioni, e le scomposizioni e composizioni delle
medesime » (4).
Ora l'attenzione nostra può essere determinata a fer
marsi qua o colà, dal piacere che sta nelle sensazioni, 0
in un diverso complesso di esse o delle loro parti: e in
questo caso, tale attenzione non è la riflessione lockiana:
perocché quella non ha altro fine che di acquetarsi nel
piacere, o sia nel ricevere il piacere più agevolmente;
mentre la riflessione lockiana ha per iscopo 1' acquisto

(1) Art. I. (2) Art. II. (3) g precedente. (4) g precedente.


47
delle idee, ed è una forza dello spirito che si rivolge
e fissa sopra queste o quelle parti de' sentimenti e loro
complessi, ad intendimento di cavar da ciò nuove idee.
Ora si può egli pensare che il nostro spirito possa
venire riflettendo in tal modo sopra le sue sensazioni
interne ed esterne, senza ch'egli sia fornito prima di quelle
idee ch'egli appunto cerca, cioè d'idee astratte?
Con una simigliante riflessione, che ha per iscopo di
analizzare le sensazioni e cavarne delle idee, si tratta
di dividere e di comporre, di trovare le parti simili e
le parti dissimili; di classificare, in una parola; nè si
può classificar nulla, se non si suppone di possedere pre
cedentemente l'idea generale che costituisce la classe:
non si può paragonare, e conoscere ciò che è simile e
ciò che è dissimile in due individui, se non si possiede
innanzi quell'idea astratta nella quale i due individui
convengono; perocché altrimenti si percepirebbero i due
individui simili, per esempio, i due panni rossi, ma non
si penserebbe punto, non si rifletterebbe alla loro simi-
g\ianza: le due sensazioni rosse, percepite co' nostri sensi,
resterebbero così divise, come divise sono veramente fino
che restano sensazioni, divise almeno di 'tempo o di
Juogo, per la quale divisione l'una ha un'esistenza di
stinta ed anche incognita all'altra , ed all'altra incomu
nicabile (i). La riflessione lockrana adunque, la riflessione
sulle sensazioni nostre a intendimento di cavar da esse
delle idee generali senza possederne alcuna precedente
mente, è impossibile; perciocché sono anzi le idee ge
nerali quelle che dirigono lo spirito nelle sue riflessioni,
e che danno a questo la possibilità di unire e scomporre
le sensazioni, e di trasportare liberamente dall'una al
l'altra la sua attenzione.
La riflessione che può esistere in uno spirito privo
d'idee generali e fornito di sole sensazioni, è unicamente
quella che dicevo, prodotta non dalla volontà di cono
scere (giacche il conoscere è impossibile), ma dall'istinto
di fermarsi in una o in altra sensazione per godere mag
giormente il piacere che in essa giace. Questa riflessione
non è la lockiana, nè ell'è propriamente riflessione: ella
non è che un rinforzo di attenzione ; non dell'attenzione

(i) VeJi adii. Scz. Ili , c. IV, ait. xx u xxi.


*8
dell'intelletto, ma del senso: più propriamente che at
tenzione, si chiamerebbe un1 applicazione della forza istin
tiva dell'animale, richiamata naturalmeule e tenuta dalla
sensazione piacevole, a sè. Io non ho qui agio di descri
vere più a lungo questo fatto: bastami indicarlo, per-
ch'egli non si confonda co\Vattenzione intellettuale, dalla
quale solo s'ingenera la riflessione che ci produce delle
idee. Aggiungerò di passaggio, che quella attenzione sen
sibile non differisce punto dalla facoltà di sentire: ma
non è che un'attuazione naturale di questa, che avviene
secondo certa legge della natura animale; e può essere
stata cagione all'errore di Condillac, che tentò di ridurre
V attenzione alla sensazione (i).
Egli sembra non essersi accorto questo scrittore, che
le attenzioni sono due, l'una sensitiva (cioè istintiva),
e l'altra intellettiva (cioè volontaria): e avendo trapas
sata questa osservazione, venne nella sentenza, che ogni
attenzione si potesse riguardare siccome mi modo della
sensazione.
La riflessione lockiana adunque, cioè una riflessione
i.° che da una parte sia rivolta alla formazione delle
idee massimamente astratte, a.* che dall' altra cominci
ad operare prima di qualunque idea che la indirizzi e
la regoli, è impossibile a concepirsi; perciocché contiene
in sè due elementi pugnanti, il doversi formare delle
idee astratte, e il non possederne ancora veruna.
Se dunque la riflessione lockiana è cosa impossibile
ed assurda , non si può ripetere da essa la nostra idea
dell'ente, nè verun'altra (e in qualsiasi idea quella del
l'ente trovasi mescolata): il che mi era proposto da di
mostrare.
ARTICOLO IV.
l'idea dell'ente non comincia ad ESISTERE NEL NOSTBO SPIiilTO
NELL* ATTO DELLA PEiCLZIONE.

5 «•
DIMOSTRAZIONE 1,
dalla osservazione del fatto.
La sensazione corporea non contiene l'idea dell'ente (2):
quindi non si può trovare in essa, per riflettervi sopra;

(i) Vedi a«ld. Scz. Ili, c. II, art. v. (q) Art. I c II.
concio'ssiachè la riflessione non aggiunge nulla alla sen
sazione, ma non fa che notare ciò che in essa è (i).
Rimane a vedere, se forse in quell'atto onde noi ab
biamo la sensazione, o in quello onde noi riflettiamo
sulla medesima, l'idea dell'ente si presenti da sè allo
spirito nostro per modo, che noi pur allora , quasi d'im
provviso, per una cotale apparizione che la medesima
Fa nella mente nostra, la concepiamo, e così avvenga
che noi acquistiamo simigliante idea.
E prima, messo da parte il ragionare della possibilità
di un tale fenomeno singolare, convien darsi ogni cura
di veriGcare se sì o no egli avvenga.
Reid, che protesta non voler entrare nella spiegazione
del fatto della cognizione umana , e solo occuparsi in
descriverlo accuratamente , divisandone tutti! le parti
sue e rilevandone tutte le circostanze, sembra non du
bitar punto, che il fatto, rispetto all'esistenza de' corpi,
sia composto delle tre parti prive di ogni legame fra
loro, i .° impressione sui nostri organi corporei, a." se?isa-
sione, 3.* percezione della esistenza de' corpi succedente
di tratto alla sensazione (2). E crede avere osservato, che
l'uno di questi tre avvenimenti succede all'altro per ferma
legge; sicché, dato il primo, si manifesti il secondo, dato
il secondo , si manifesti il terzo costantemente; ma il
primo non rassomiglia al secondo, nè il secondo al terzo,
nè fra l'uno e l'altro v'è la menoma connessione di causa
ed effetto. Descritto il fatto, ve lo asserisce inesplicabile,
e in tulle sue parti misterioso. E questa descrizione della
percezione de' corpi mostra certo, in chi la fece, una in
tenzione e uno sforzo filosofico; ma è ella riuscita rigo
rosa e completa? Di lauto si può dubitate; vediamolo
brevemente.
Che i tre avvenimenti indicali si debbano l'uno dal
l'altro distinguere (3), e che l'uno succeda all'altro, mi

(1) Art. IH. (a) Vidi add. Scz. 111,0. Ili, art. il.
(5) Secondo me, si debbono distinguere questi Ire avvenimenti; ma in quanto
al secondo (la sensazione), non panni sufficientemente descritto da Reid;
perciocché questo filosofo non considera la sensazione che come ima mo-
>b(ii azione dello spirito, tanto semplice, che non dia ultra nozione che quella
d'una relazione dello spirito con sè slesso, o per meglio dire, «die non sia
altro che uno stato diverso dello spirilo. All'incontro l'analisi che io fo
della sensazione, mi somministra un altro risnllainenlo. La sensazione è
uua passione , e l'analisi d'Un passione dà sempre tre elementi; i." ciò che
Rosami, Or:-, dette Idee, Voi II. 7
5o
par vero, e rilevato dallo Scozzese in modo chiaro a
non lasciarne il menomo dubbio.
Che l'uno non abbia vera similitudine coll'altro, e che
l'uno non possa essere quasi direbbesi stampato dall'ai-

patisce, a." ciò che fa patire, 3.' e la passione stessa. Ora primieramente
osservisi, che ciò che si chiama passione, e la cosa identica con ciò che si
chiama azione: solamente che quella cosa è passione relativamente al pa
ziente, che è azione relativamente all'agente. Questa diversa relazione col
paziente e coli' agente fa sì, che quella cosa che in sè è una, diventi due
aHa mente , per la diversa relazione che ad essa si aggiunge. E questa cosa
unica diventa due cose realmente diverse rispetto ai termini a cui si rife
risce : sicché pel paziente quella è una cosa interamente diversa e contraria
a rio ch'ella medesima è all'agente.
Ciò veduto, la sensazione essendo passiva, con essa non si percepisce
quella cosa unica in sè slessa e priva di relazioni , ma anzi sotto la sola
relazione col paziente ( cioè come passione), senza concepir nulla del suo
essere di azione, che è il suo esser proprio, Nella sensazione adunque , il
soggetto che la riceve, oltre di sentire sè stesso, prova in sè un avve
nimento che non viene da sè (la passione che soffre), ma che termina, come
in causa, in qualche altro essere. È bensì vero, che il soggetto puramente
senziente non percepisce a parte a parte sè stesso e ciò che agisce in sè,
e che queste due cose sono iu lui indivisibili; ma ciò non toglie che, me
diante la riflessione sopra la sensazione, noi non possiamo poi distinguere
in questa i.° una relazione col soggetto senziente, o sia il soggetto sen
ziente in quanto sente, a.0 una relazione che non termina nel soggetto sen
ziente, e perciò iu qualche altro essere diverso da lui.
Noi riserberemo la parola sensazione per segnar con essa unicamente il
soggetto senziente in quanto sente sè stesso; e useremo la frase di perfe
zione sensitiva de' corpi per segnare la sensazione medesima in quanto essa
è una passione, che , come tale , ha necessariamente una relazione con qual
che cosa di estraneo e diverso dal soggetto senziente.
Ciò posto, le percezioni de' corpi sarebber due; cioè i.° vi avrebbe una
percezione sensitiva de' corpi , c 2.° una percezione intellettiva.
Or della percezione sensitiva de' corpi si avvera ciò che ho più volle
dello, cioè che lo spirilo nostro prende ed involge i corpi stessi; e della
percezione intellettiva questa frase non ha luogo, se non in quanto questa
suppone quella, che le serve di materia.
Dove questa maniera ili parlare si ritenga, l'errore di Reid consiste
nell' aver egli distinte solo tre cose nel fatto della percezione intellettiva
de' corpi; quando egli avrebbe dovuto distinguerne quattro, cioè I. """
pressione meccanica sugli organi, 2." sensazione (presa nella sua unica re
lazione col soggetto), 3." percezione sensitiva de' corpi (cioè ricevimento io
noi della passioue cagionala da qualche cosa fuori di noi ) , 4-° percezione
intellettiva de' corpi (cioè conoscimento di agenti in un dato modo sopra
di noi ).
Questa mancanza di distinzione precisa portò Reid a confondere I» re
cezione sensitiva de' corpi , colla percezione intellettiva, e a dir di quella no
che avrebbe dovuto dire di questa.
Facendo della percezione intellettiva e della percezione sensitiva una cosa
sola, egli venne a negar le idee: perocché nella pereezion sensitiva non vi
trovò idee, e vi trovò percezione de' corpi; quindi disse, che la pcrCtUO**
de' corpi non avea bisogno d'idee. ' *
5i
tro, questo io l'accordo: certo Vimpressione sugli organi
corporei è di natura essenzialmente diversa dalla sensa
zione; e la sensazione non ha la più piccola simiglianza
colla percezione dell'esistenza che fa il nostro intelletto (1):

Rispondo : la percezione de' corpi sensitiva non ha bisogno d' idee , Io


concedo; ma la percezione intellettiva de' corpi non si può avere senza
l'idea almeno della esistenza.
Egli avrebbe evitato questo errore , se si fosse formato una chiara idea
della percezione sensitiva de' corpi: perocché egli avrebbe allora veduto
che questa non bastava , e che in essa nou v' era nulla d' intellettuale. E
certo riesce difficile soprammodo a farsi una nozione chiara della percezione
sensitiva de' corpi; perciocché in questa percezione noi non percepiamo
già i corpi in sé, ma unicamente relativamente a noi, non già come
agenti, ma come termini della nostra passione, senza più: di che avviene
che io non ritrovo né pure pienamente rigorosa la espressione, percezione
sensitiva de' corpi; conciossiaché in questa espressione, la parola corpo se
gna una cosa percepita già intellettivamente; e certo sarebbe più rigorosa
quest'altra , se non paresse un po' strana, percezione sensitiva corporea.
(i) Non solo la percezione intellettiva de' corpi nou ha simiglianza colla
sensazione, ma né pure la percezione sensitiva (Vedi la nota precedente). ,
Ma la percezione sensitiva corporea ha ella qualcho simiglianza colla perce
zione intellettiva de' corpi? Rispondo, che fra queste due percezioni vi ò un
rapporto strettissimo, ma non un rapporto di simiglianza.
É in vero, nella percezione sensitiva corporea non si percepisce il corpo
propriamente , ma una passione che nel corpo si riferisce e termina come
in causa : nella percezione intellettiva de' corpi all' opposto si percepisce il
corpo stesso come un oggetto, un agente in noi. Queste due percezioni
adunque sono opposte fra loro, come sono opposte la passione e l'astone.
Ma la passione e l' azione, sebbene opposte come tali, tuttavia sono la
cosa medesima quando quelle si considerano prive delle relazioni partico
lari e contrarie col paziente e coli' agente ; e questo fa l'intelletto.
L' intelletto , la cui natura consiste a percepire la cosa non in modo li
mitato ad una relazione sua, ma in sè stessa, come suscettiva di varie re
lazioni, quando ha percepito iu tal modo quella cosa unica di cui parliamo
(quella mutazione che avviene in noi), egli trova allora altresì un rapporto
fra la passione e ['azione; giacché ha percepito l'anello di mezzo, cioè
la cosa suscettibile di due relazioni contrarie: tale è il rapporto fra la per
cezione sensitiva corporea , e la percezione intellettiva de' corpi.
li» percezione sensitiva è un elemento ( cioè la materia) che entra nella
percezione intellettiva.
La percezione intellettiva dunque, composta ili materia e di forma, non
si può dire che rassomigli alla percezione sensitiva; perciocché questa non
è cosa a quella coordinata, ma subordinata, è un elemento, e -non una
copia di quella. Cosi non si suol dire che una data bocca rassomigli ad
una data testa , che ha pur quella bocca; come non si suol dire che la figura
quadrata rassomigli alla sostanza di un dato corpo, sebbene questo sia
quadrato di figura.
Tuttavia il rapporto è così stretto fra la percezione sensitiva corporea e
la percezione intellettiva del corpo, che coll'una e coll'altra si percepisce
la cosa medesima identicamente , ma in una relazione contraria : colla in
tellettiva cognizione però si percepisce in un modo generale ciò che colla
sensitiva si percepiva particolarmente , e l' intelletto aggiunge una causa
(un ente) all' effetto percepito col senso.
52
ripugna dunque a supporre clie l'uno di questi avveni
menti cagioni l'altro, quasi per un'impressione o copia.
Ma si dee dire perciò, che in tutte le dette tre parti,
il fatto di cui parliamo sia interamente inesplicabile ,
sia un vero mistero (i)?
Questa proposizione non sembra che l'effetto di una
osservazione imperfetta. Non parlerò di ciò che si può
osservare sul modo onde avviene in noi la sensazione

(i) Talora la filosofia ci ritrae dai misteri , talora vi ci conduce. Che è ciò ?
La filosofia non è dunque nemica di tutti i misteri, ma solo di alcuni! K
qui si badi: io non parlo qui che della tendenza che dimostra una specie
di filosofia ; il che in gran parte è indipendente dagl' individui che la pro
fessano. Se io m'appiglio a caso ad una scuola, o ad un metodo di filoso
fare, io ne suggo lo spirito, senza discernere io stesso chiaramente la na
tura di quello ; cammino sopra una strada, che ignoro io medesimo dov'ella
mi conduca, e, quanto a me, spero che mi conduca a buon termine. Ciò
dichiaro, acciocché non sembri eh' io voglia essere ingiurioso ad alcuno,
descrivendo l'indole e la tendenza di certa filosofìa , ed affermando che la
specie di cui parlo abborrisce certi misteri , e con parzialità degli altri ne
ama e propone. Or cercate voi quali sieno i primi, quali i secondi: trove
rete eh' ella abbon isce que' misteri che suppongono qualche cosa di spi
rituale. Supponete all'incontro, ch'ella co' suoi ragionamenti giunga a tal
passo, che non può valicare senza ricorrere a qualche essere spirituale.
Allora essa si ferma, e vi dice: questo passo è insuperabile: più là non
può andarsi; e cosi vi crea un mistero , cioè vi afferma esser lì appunto
no nodo inesplicabile. Il filosofo coglie poi occasione da ciò d'applaudirsi,
un po' immodestamente, della sua modestia , e di sclamare contro all' al
trui presunzione. Onde ini sì fatto modo di ragionare? Da questo pregiudizio
segreto: « lutto dee ridursi alla materia , lo spirito non dee essere necessa
rio ». Quando si parte da una proposizione non provata, supponendola
yera , o amandola in modo da volerla assolutamente vera ed esclusa la sua
contraria, allora che accade? questo: fino a dove si crede di potere inol
trale il ragionamento senza ricorrere a nozioni elevale, si va, e si spazia
in esso liberamente; arrivati al confine, quando non si può più avanzare
senza venire a qualche cosa di spirituale, allora si ferma il passo: il filo-
solo d'un tratto s'umilia: dichiara temerità il passar oltre, sobrietà filoso
fica l'arrestarsi. Questo limite arbitrario messo alla filosofia, questa umilia
zione volontaria, questa fede cicca nella incomprensibilità di ciò che non
piace, prima limila la scienza umana, e liranneggia l'umana famiglia, vie
tandole il libero uso della più sublime delle sue facoltà, la ragione; poi fini
sce col distruggere la filosofia intera , V intera scienza , col rendere impos
sibile il sapere umano: giacché più si medila, e più si vede che ogni
sapere umano si rende nullo ed assurdo, ove si elimini lo spirilo dall'uni
verso . e le cose divine dalla umana intelligenza, dalle quali ricevono il
loro esser le umane. Lo scetticismo, l'indifferentismo, l'egoismo , 1 epicu
reismo de' nostri tempi è il fruito della filosofia di cui tocchiamo : ma Io
sce lieo ragiona, sente l'indifferente, l'egoista ama, e l'epicureo si sulleva
dal suo lungo allorché vantasi d'esser tale: e così contraddicendosi perpe
tuamene, l'uomo pronunzia una condanna essenziale di sé medesimo; per
ei occhè è impossibile all'uomo cassare la propria natura, e la verità che
colla sua natura si mesce.
53
all'occasione della impressione eslerna: questo non fa al
mio scopo presente: mi fermerò sull' ultima parte del
fatto, cioè sul modo onde, all'occasione della sensazione,
sorge nell'anima la percezione de' corpi come cose esi
stenti. Dico che quest'ultima parte fu dichiarata ines
plicabile da Reid, perchè non la sottomise ad un'analisi
abbastanza fina: ed è ciò che ci proponiamo di tentar
qui noi.
Reid dice: data la sensazione, io ho la percezione de'
corpi esistenti, quantunque questa sia cosa interamente
diversa da quella.
In questa maniera di annunziare il fatto è una ine
sattezza.
Che Vesistenia in universale sia diversa e anzi contra
ria alla sensazione, questo l'abbiamo anche noi osser
vato (i).
Ma che la percezione intellettiva de' corpi esistenti sia
cosa interamente diversa dalle sensazioni (2), questo si
conosce inesatto ove si richiami alla mente l'analisi per
noi fatta di quella percezione (3).
Manca in Reid appunto l'analisi accurata della me
desima.
Tale analisi dimostra, ch'essa non è semplice come la
sensazione, ma che risulta di più parti distinte. Suppo
nendola semplice, certo non s'intenderebbe come nel
l'anima nostra venisse, se non per un'apparizione ines
plicabile: sarebbe una creazione che d'un trattosi ope
rerebbe nel nostro spirito in occasione della sensazione.
Ma s'ella è di più parti, in luogo di fermarsi ad essa
e dichiararla inesplicabile, si deve andar oltre; e pri
mieramente scomporla nelle parti ond' essa risulta; poi
esaminare la relazione di queste parli fra loro, se sono
contemporanee, o se ve n'ha alcuna di precedente, ed
alcuna di susseguente, e in che modo fra lor si connet
tano, e così sorga in noi la percezione de' corpi.
I. E veramente, vedemmo già assai , la percezione in
tellettiva comporsi di tre parti, cioè i.° sensazione, che
fa percepire al nostro senso le qualità sensibili in par-

(1) Art. L *
[1) Nella sensazione comprendo qui ciò che ho chiamalo pacchione sen-
tiliva de corpi. Ved i la nota , face. Si.
(5) Art. I, 2 •> Osservazioni.
54
ticolare. cioè tali coin'elle esistono, non col predicato
di qualità ; e queste qualità sensibili fissano il segno a
cui si volge l'intenzione del nostro pensiero: 2.' idea di
esistenza in universale; poiché concepire un corpo come
esistente, non è che classificarlo fra le cose esistenti; e
il far ciò presuppone l'idea di esistenza in universale,
quella idea che forma la classe ( per così dire ) di ciò
che esiste: 3.° rapporto fra la sensazione e l'idea di esi
stenza, o sia giudizio, nel quale s'attribuisce l'idea di esi
stenza ( predicato) al complesso delle sensazioni ricevute
e legate fra loro insieme in un dato modo (soggetto),
nel qual atto dello spirito sta propriamente la produ
zione della percezione intellettiva de' corpi. Vedemmo an
cora, che lo spirito nostro fa ciò in virtù di sua per
fetta unità, cioè dell'unità identità del soggetto senziente
coli' intelligente: il che viene a dire, che quegli mede
simo che riceve le sensazioni, è quegli ancora che vede
l'esistenza degli oggetti; ed ha l'energia, tornando sopra
di sè, di riguardare ciò che patisce sentendo, in rela
zione colla detta esistenza; nel quale riguardamento egli
vede la cosa in sè, oggettivamente.
II. Cercando ora se queste parti sono di lor natura
contemporanee, ovvero se alcuna goda qualche prece
denza sulle altre, può osservarsi, ch'esse e per natura e
per tempo debbon trovarsi nell'ordine seguente fra loro:
primo, dee esser l'idea dell'ente; poi, dee venire la sen
sazione; in terzo luogo, il giudizio, che le congiunge, e
così genera la percezione dell'esistenza de' corpi, la quale
non è altro finalmente, che l'applicazione dell'esistenza
in genere ( come predicato ) a' corpi sentiti ( come sog
getto ).
E di vero, che il giudizio non si possa chiudere se
non precedono i due termini (predicato e soggetto),
sembra cosa manifesta.
Che poi l'idea dell'ente debba precedere nell'uomo la
sensazione, questo si conoscerà mediante un' attenta os
servazione su que' due termini del giudizio.
Primieramente riflettasi, che l'idea dell'ente entra
egualmente in tutte le nostre idee, e perciò ancora in
tutti i nostri giudizj (1). Posto adunque che noi abbiamo

(1) Vedi add. c. II , art. v.


55
fatto un giudizio, ó procacciataci un'idea, è posto anche
che noi abbiamo fatto uso dell'idea di esistenza, e perciò
che l'avevamo prima.
E chi vuol meglio venir in chiaro della cosa coll'os-
servazione, prenda quest'altra via. Il dubbio, « se l'idea
dell'ente preceda o no le sensazioni » , non può cadere
che sul primo giudizio che noi facciamo usciti alla luce.
A chiarircene, si osservino le leggi essenziali del giudizio:
perocché queste, se sono essenziali, debbono essere man
tenute anche nel primo di lutti i giudizj. Ora, in qual
sivoglia giudizio, nell'atto del sentir qualche cosa , noi
pensiamo all'esistenza di un oggetto particolare: questa
è legge costitutiva del giudizio. Ma che è pensare all'esi
stenza di un oggetto? Non già ricevere l'idea di esistenza,
ma farne uso. E il farne uso suppone l'idea: perocché
non si può usare una cosa, se non esiste.
E oltracciò, chi sceglie l'osservazione come sicura guida
a rilevare i fatti della natura, osservi all'uopo nostro su
di sè il modo ond'egli passa a fare uso dell'idea di esi
stenza. Certo io non sono conscio a me stesso di rice
verla in me all'improvviso; non sono conscio del pas
saggio dal non averla all' averla : l'unica cosa di che io
sono conscio si è, che ne fo uso, e ne fo uso come di
cosa che è già in me, e che all'occasione della sensa
zione io cavo quasi direi da un ripostiglio, e l'adopero:
io non mi fo alcuna maraviglia di questa idea; non ci
bado nò pure, usandola; ella passa dinanzi agli occhi
miei come cosa precognita, comune, vecchia, che già
s'intende, che va per sè: tale è il risultato di una di
ligente osservazione sopra noi stessi, nell' atto onde af
fermiamo a noi l'esistenza di oggetti esterni (i). In questa
affermazione, l'esistenza che aggiungiamo alle sensazioni
ci è così famigliare, così nota, che non trattiene punto
la nostra attenzione : ed è questo che ci rende tanto
difficile l'osservarla.
Il dire adunque, che alla sensazione sussegue la per
cezione degli oggetti esterni in un modo misterioso e
inesplicabile, parmi una modestia alquanto temeraria.

(i) Questa osservazione noti isfuggì ngli auliclii. San Bonaventura, parlando
de' primi principi della ragione , diceva , che è forza clic la mente eh
assenlial, non lanquam DE NOVO percipiat, seti tant/tiam sibi innaia et
FA311L1AR1A B.ECOGNOSCAT. lliner. mentis eie. c. III.
56
Voi volele che i confini di ciò che è esplicabile, sieno
quelli della vostra osservazione. Non è dunque possibile
osservare un passo più innanzi di quello che avete os
servato voi? Non si dee dunque sempre credere a' filo
sofi , quando ci dicono autorevolmente, che l'uomo nelle
ricerche filosofiche non può proceder olire, unicamente
perchè più oltre non sono proceduti essi. Il mistero nelle
percezioni intellettive v'avrà, io lo credo: ma non là,
dove Reid l'ha collocato.
La percezione intellettiva de1 corpi non è che un'ap
plicazione d'una idea precedente alle corporee sensazioni.
Ciò viene confermalo dalle stesse parole colle quali
s'esprime, e che sono, dice il Conditine (i), un'analisi
de' pensieri. Le parole « idea ( o percezione ) dell' esi
stenza de' corpi » , non comprendono esse e non espri
mono Videa dell'esistenza applicala ai corpi? L'idea dun
que dell' esistenza de' corpi è generata dall'idea dell'esi
stenza che a quella precede, e che all'occasione delle seri-
suzioni viene applicata alle medesime, e quindi s'impone
all'oggetto dell'idea che ne risulla, il nome di corpo.
Concludendo: L'idea dell'ente non comincia ad esistere
nel nostro spirito nell'atto della percezione: poiché l'os
servazione sopra di noi non ci dà nessuna consapevo
lezza, che questa idea venga così d'improvviso in noi
e in noi così subitanea si accenda; non ci dà nessuna
consapevolezza di quel grande passaggio che il nostro

(i) Conilillac definisce le lingue, dei melodi aniditici , cioè de' metodi di
scomporre le idee. Certo, che così si posson chiamare: ma ciò che è sfug
gito a Coudillac si è, che come ogni analisi suppone una sintesi precedente- ,
così pure le lingue seno prima melodi sintetici e poscia analitici* cioè
prima uniscono e poscia scompongono. Quando io dico un sostantivo,
per es. corpo, io pronuncio un nome che mi unisce insieme più idee, tulle
legale a questo segno unico , corpo. Su io dico ima proposizione, per cs.
esiste il corpo, io ho scomposto l'idea di corpo: ili fatti nella parola corpo
io esprimo già l'esistenza ; ma dicendo esiste, la divido altresì; e quindi ho
l'idea dell'esistenza unita nella parola corpo, ed anche separata nella parola
esiste: la p.irola corpo è una sintesi, la proposizione esiste il corpo è
un'analisi. Universalmente tulli i sostantivi non sono che altrettante tin
tesi, e le proposizioni nelle quali entrano i sostantivi sono delle analisi.
Ora come le pai ole singole precedono le proposizioni, che ili singole pa
role si compongono, cosi appunto la sintesi precede 1' analisi. Ciò è lauto
vero nel discorso meramente intellettuale, come nel discorso vocale. Si
può dunque dire che le lingue sieno fedeli rapprescnlatrici dei pensieri
(come in gran parie ne son r ajuto) , e «he perciò non sicuo meramente
melodi analitici, ma bensì « melodi siutelico-analitici ». Tale denomina-
zioae abbiacela tutto, ed evita il parziale ed il sistematico.
spirito farebbe dal non averla all'averla, se così la ri
cevesse: nessuna memoria di un tempo in cui non l'ab
biamo, e di un tempo in cui l'abbiamo: e all'incontro
siaru consapevoli a noi slessi di un continuo uso clic
noi sempre facemmo di questa idea , die ab immemo
rabili, per così dire, abbiam considerato qual cosa no
stra: nè, senza consapevolezza averne nè altra prova,
siamo in diritto di affermare un fatto sì strano, qual è
quello della creazione istantanea ed interiore a noi di
un idea, che non ha da far nulla con tutte le cose este
riori e corporee.
§ 2.
DIMOSTRAZIONE II,
dall'assurdo.
Or poniamo, che nell'atto della sensazione, o immedia
tamente appresso a quella, fosse il punto nel quale l'idea
dell'ente cadesse nella nostra mente} e che d'una idea
comparsale così improvvisa , usasse questa a percepire
l'esistenza de' corpi, applicandola alle sensazioni.
Primieramente, questo sarebbe un prodigio : il com
parire nell'interno della nostra mente un'idea, che non
ha che fare colle sensazioni, è una creazione, o certo
è un avvenimento interamente isolato, che non si ran
noda a nulla, che non ha nessuna analogia col solilo
operare della natura. Tanto basterebbe ad escludere una
simigliante ipolesi, non essendo necessaria, giacché ci
ha un mezzo assai più facile e assai meno maraviglioso
a spiegare l'origine delle nostre idee.
Ma di più, questa idea dell'ente, che si crea istanta
neamente nell'anima nostra, non può avere che una di
queste due cagioni: o un enle fuori di noi (Dio), che
all' occasione delle sensazioni la produce} o la natura
dell'anima stessa, che per una legge fìsica e necessaria
la manda fuori di sè, e di sè la crea.
La prima di queste ipotesi reincide nel sistema degli
Arabi, rifiutato più sopra (i); la seconda si riduce al
kantismo (2).
In falli, gli Arabi dicevano che l'intelletto agente di

(1) Sez. IV, c. I, ari. xx, xxi.


(1) Sez. IV, c. HI, art. xv.
Rosmini, Orig. delle Idce^ Voi. 11. 3
58
Aristotele era separato da noi, era Dio. Ora l'intelletto
agente di Aristotele , quella potenza mediante la quale
vengono prodotte in noi le idee delle cose, non è che
la rappresentazione dell'ente: dicendo dunque che ciò
che ci fa veder l'ente nelle cose (cioè l'intelletto agente)
sia Dio, viensi a dire che Iddio sia quegli che ci fa ap
parire, all'occasione de' fantasmi sensibili, l'ente innanzi
al veder della mente.
Medesimamente, sebbene a Kant sia sfuggita la con
siderazione dell' ente in universale, essendosi occupato
più tosto dell'ente già vestito di alcune forme (1); tut
tavia la tendenza delia sua filosofia è tutta volta a far
riuscir fuori dell'intimo fondo.dello spirito nostro quanto
percepiamo, e perciò anche l'ente, quasi direbbesi come
esce la radice, il tronco, i rami, le frondi , i fiori, i
frutti dal seme della pianta.
Il supporre cogli Arabi, che l'uomo non tenga in sè
la facoltà di pensare compiuta, ma che debba Dio me
desimo, con un alto dipendente dall'eventualità delle
sensazioni, crear nella mente sua l'idea dell'ente, me
diante la quale far l'atto del pensiere ; è una ipotesi
così strana e così mal difesa , che non sembra dover
poter rinvenire, massime nel nostro tempo , troppi se
guitatoti.
Ma sarà più vero il principio kantiano, che l'anima
abbia in sè una efficacia, per la quale, all'occasione della
sensazione, tragga di sè medesima l'idea dell'ente? Un
fenomeno così singolare non potrebb' essere che una ema
nazione, o una creazione} sì l'una che l'altra inesplica
bile, gratuita.
Ancora; se fosse un'emanazione, si supporrebbe l'idea
dell'ente già esser prima nel fondo dell'anima: e sarebbe
innata: non si tratterebbe che di una specie di rivela
zione, per così dire , che l'anima farebbe a sè stessa al
l'occasione della sensazione: l'anima non comincerebbe
allora ad averla, ma quella in germe preesisterebbe. Non
voglio entrare nell'esame de' modi possibili di tale ema
nazione: dico che i.° o non trattasi che di una idea
preesistente, e perciò innata; e avvicinerebbesi alla vera
sentenza: a.° o trattasi d'una vera produzione che l'anima

(i) Svi. TV, ri-p IV, ari. iu


farebbe di quella idea; e questa ipotesi, non sostenuta
da nessuna osservazione , ridonda di assurdi.
Se l'idea dell'ente è interamente diversa dalla sensa
zione, come può ella sorgere in noi all'occasione di questa?
Convien ricadere nel sistema dell'armonia prestabilita,
o delle cause occasionali: sistemi che corrono ad un
agente fuori della natura , cosa tanto ripugnante alla
kantiana filosofia.
Ma via, poniamo che, se la sensazione non può dare
Videa dell'ente, tuttavia possa dare tal moto al soggetto,
che il rechi, secondo le leggi di sua natura, a vedere im
mediatamente innanzi a sè l'idea dell'ente. Di tutta que
sta operazione non ci direbbe adunque nulla la coscienza?
Più di tutto però, mostra la fallacia dell'ipotesi di
che parliamo, la seguente riflessione.
Se l'idea dell'ente non preesiste nel soggetto , questo
non può produrla di sè : poiché egli non ha nulla che
si rassomigli coll'idea delFente. 11 soggetto è particolare,
come sono particolari i corpi, e le sensazioni che vengon
da questi; e l'idea dell'ente è universale. Il soggetto è
contingente, e l'idea dell'ente è necessaria. Il soggetto
è esistente, e l'idea dell'ente non è che ciò che. è pos
sibile. Egli è finalmente soggetto, e l'idea dell'ente è
tutto l'opposto, perocché è ciò che forma Soggetto (1).
Soffermiamoci in quesl' ultima circostanza. L'/o, .sog
getto, vede l'idea dell'ente, oggetto: l'osservazione ci dà
questo, e nulla più.
L'osservazione adunque, la quale non si può smentire
senza temerità, che» depone? Depone che la mente è
conscia di vedere, e in nessun modo di produrre ciò
che vede.
Quando noi produciamo qualche cosa, noi siamo conscii
dello sforzo che facciamo in producendola-, ma quando
noi semplicemente veggiamo, allora noi siamo conscii di
non fare, e che l'oggetto rispetto al nostro occhio è af
fatto indipendente per cotal modo, ch'egli è messo a
tiro dell'occhio non già dall'occhio stesso, ma da qual
che cosa di distinto affatto dall'occhio. E così l'idea
dell'ente ci sta dinanzi per vederla , e non per lavorarla
e produrla: la sua essenza è così indipendente dal no

li) Art. IL
6o
st.ro spirito che la contempla , come una stella del fir
mamento è indipendente dallo sguardo di chi la mira.
Finalmente non è difficile a dimostrare, coli' analisi
accurata che abbiam fatto dell'idea di ente, dove ab
biaci distinti i suoi sublimi caratteri (i), ch'ella è co
tale, che la sua produzione supera le forze di qualunque
essere finito, non che della mente umana. Ma parendomi
bastare il detto , a conferma della proposizione propo
stami, riserbomi di tornare su quest'altra dimostrazione,
più intrinseca e più rigorosa , ad un altro luogo , dove
mi cadrà in taglio di trattarla diffusamente.

ARTICOLO V.
L* IDEA DELL' ENTE È INNATA.

S I.
DIMOSTRAZIONE.
Questa proposizione segue alle precedenti. Poiché,
1.°Se l'idea dell'ente è così necessaria, ch'entra essen
zialmente nella formazione di tutte le nostre idee, sicché
noi non abbiamo la facoltà di pensare (o di avere, e
unire e disunire le idee) se non mediante l'idea del
l' ente (a) ;
2.* Se questa idea non si trova nelle sensazioni (3);
3.* S'ella non si può cavare dalle sensazioni esterne
o interne per la riflessione (4);
4-" Se non è creata in noi da Dio all'atto della per
cezione (5) ;
5." Finalmente se è assurdo il dire che l'idea dell'ente
emani da noi stessi (G) ;
Bimane che l'idea dell'ente sia innata nell'anima no
stra : sicché noi nasciamo colla presenza e colla visione
dell'ente possibile, sebbene non ci badiamo se non assai
tardi.
Questa dimostrazione per esclusione è irrepugnabile,
dove sia dimostrato che l'enumerazione de' casi possibili
è completa.
Ora , che sia completa , vedesi in questo modo.

(i) Ved. add. art. i. (4) Cap. Ili, art. in.


(a) Cap. II , art. h. (5) Cap. Ili, art. ìy.
(5) Cap. HI , art. 1 c li, (6) Ivi.

L'idea dell'ente in universale esiste: questo è il fatto
da spiegare (i).
Se esiste, ella o ha incominciato ad esister con noi
( è innata), o fu prodotta di poi: fra questi due termini
non c'è mezzo.
Se fu prodotta di poi , ella non può esser prodotta
che o da noi slessi , o da qualche cosa diversa da noi
stessi : nè pur qui c' è mezzo.
Escluso il primo; se fu prodotta da qualche cagione
diversa da noi , questa cagione non può essfere che o
qualche cosa sensibile (l'azione de' corpi), o qualche
cosa d'insensibile (un essere intelligente fuori di noi,
Iddio, ecc.). Nè pur qui ci ha mezzo.
» Ora questi due casi furono pure esclusi.
Dunque l'enumerazione de' casi fu completa , perchè
ridotta a tale alternativa, che ricusa sempre come as
surdo un termine medio.
Dunque l'idea dell'ente è innata: ciò che si dovea
dimostrare. , '
§ 2.
Hjgiooe perchè con difficolti noi riflettiamo sull'idea dell'ente a noi innata,
e perciò difficilmente che sia innata noi ci accorgiamo.

Quelli che non sanno riflettere gran fatto sopra di sè,


muoveranno tosto la solita obbiezione: « come noi pos
siamo avere l'intuizione di questa idea dell'ente, senza
che ce ne accorgiamo, lo sappiamo, e lo possiamo an
nunziare » ?
L'obbiezione fu già sciolta da Leibnizio, all'occasione
del libro di Locke, al quale quell'obbiezione era l'Achille
degli argomenti contro le idee innate; e ne parlammo
nel capitolo sul sistema leibniziano (a).
Aggiungerò solo qui alcune riflessioni.
Chi fa la sopra esposta obbiezione , osservi un poco,
io ne lo prego, se mentre egli ragiona di una cosa qua
lunque, ed è tutto occupato in essa, soglia rifletter punto
e attualmente accorgersi d'aver tutte l'altre cognizioni
da lui nel corso di sua vita acquistate, che pur riposano
nella sua memoria. Mi risponderà , credo , che mentre
pensa una cosa, non può pensare un'altra; che mentre

(1) C»p. I. (a) Sez. IV, c. II.


62
parla d'un argomento, non può badare a tant'altrì. Or
bene, nella sua mente però stanno cose e argomenti di
ragionare diversi, siccome in un ripostiglio chiuso, da trar
fuori a suo tempo. Questo è un fatto: ed io il prego a
considerar qui queste due cose.
1 ." Possono essere nella mente più idee , alle quali
attualmente non badiamo, delle quali perciò non abbiamo
attuale coscienza, come s'elle pur non vi fossero.
2." Acciocché noi badiamo ad un'idea diversa da quella
che forma il soggetto del nostro attuale ragionamento,
richiedesi un atto della nostra attenzione, col quale noi
trasforiamo l'attività del nostro spirito da ciò a cui pen
savamo attualmente, a ciò a cui non pensavamo, che
tuttavia nella mente nostra serba vasi, sebbene quasi vi
stesse negletto e inosservato dall'attual nostro pensiero.
E qui non è necessario che io mi fermi a investigare
come ciò sia possibile; mentre l'osservazione ci dice che
così è: ciò basta al mio intendimento. Nò pure è neces
sario ch'io cerchi ora quale sia lo stalo di una scienza
o di una idea che giace inerte e non attualmente attesa
nella memoria : questo è superfluo al ragionamento pre
sente: l'osservazione più ovvia dimostra i due punti so
pra toccati: ecco il tutto per me.
Poiché, se fa bisogno un nuovo atto di attenzione
sulle nostre idee, affinchè noi ci formiamo la coscienza
di esse e le possiamo annunziare; consegue, che dunque
lino a che la nostra attenzione non sia stimolata da
qualche cosa a muoversi e recarsi su questa o su quella
idea, questa o quella idea dovrà giacersi nel nostro spi
rito al tutto inosservata, e senza che noi siamo di lei
punto nè poco accorti.
Non è dunque assurdo nè strano che anche Videa del
l'ente si giaccia ne' primi istanti di nostra esistenza nel
l'anima nostra inosservata, e in tal modo che noi non
possiamo annunziarla: che anzi ciò dee necessariamente
avvenire; e così starsi nascosta fino a quel tempo, che,
sviluppandosi l'uomo, la sua riflessione riceva degli ec
citamenti; e questa, eccitata e scossa, si converta a quel
l'idea, e così la trovi e la contempli; e finalmente, suf
ficientemente distinta, l'annunzi e appalesi, e ragioni
di lei con ogni sicurezza.
E questo è veramente ciò che avviene.
Ne' primi momenti di nostra esistenza, il nostro spi
63
rito nulla ha che Io ecciti e diriga a riflettere sopra sè
stesso; egli non ha interesse di ciò, ne stimolo che a
tornare dentro di se il conduca. Anzi tutto quello che
l'affetta e tocca d'intorno, non fa che trarlo di sè, e fargli
adoperare la sua attenzione fuori, sopra gli oggetti sen
sibili. I suoi organi sono percossi da tutte parti da im
pressioni innumerevoli, nuove per lui: i suoi occhi sono
lusingati e incantati da' raggi della luce; il suo palato e
gli stimoli del suo stomaco lo sospingono al dolce ali
mento del seno materno : nulla egli cura dello spirito
suo: quanto egli è lungi ancora dal sapere egli stesso
che pensier s'abbia, e quale sia la sua parie migliore!
non comincia' sì presto'a filosofare, ed a viaggiare le
profondità del suo cuore e del suo intelletto; ignora pure
«ante cose del suo corpo; sebbene egli s'abbia l'intelletto
ed il cuore, come altresì il corpo.
Ma quando il bambino si fa uomo, e qualche cagione
lo porta a meditare sè medesimo, allora il suo filosofare
incomincia. E basta osservare la fatica che dee fare colui
che filosofa, volendo discoprire ciò che passa in sè, per
accertarsi del fatto che io cerco qui di additare, del
fatto cioè, che nell'animo nostro e nel nostro intelletto
passano inosservati degli affetti e delle idee, e quelli e
queste esistono sebbene l'uomo non le noti in sè stesso,
e non le annunzi altrui.
Di vero, perchè noi ci accorgiamo d'una idea che esi
ste nella nostra mente, non solo fa bisogno che la nostra
attenzione si rechi in su quella, e la noli e fissi; ma
di più uopo è, che ci abbia un qualche bisogno, una
qualche curiosità: e sebbene stimolata questa, tuttavia
nò incontanente, nè senza fatica, nè sempre, riesce a
trovare e fermare quelle idee ch'ella cerca, eziandiochè
pur nella mente si stieno. Se noi avessimo ognor presente
alla nostra attenzione tutto che nella mente nostra si
trova e accade nel nostro spirito, lo studio della filo
sofia dell'uomo sarebbe al tutto inutile: ciascuno trove-
rebbesi da sè filosofo, o meglio, egli saprebbe lutto che
riguarda lo spirito, senza tante meditazioni e osserva
zioni filosofiche, quante pure si richiedono acciocché noi
discuopriamo e sappiamo accuratamente distinguere ciò
che è in noi: molto meno avverrebbe che un filosofo
sapesse men di un altro; che uno rettificasse le osserva-
zioni d'un altro; che fosse chi affermasse di vedere nello
c,4
spirilo ciò che non v' è, e chi non giungesse a vedere
ciò che vi è. Insomma, per singolare che sembrili fatlo,
non è manco irrepugnabile, e formato da troppe e sicure
osservazioni, che altro è un'idea esistere nella mento
nostra, ed altro è l'avvertirla, l'averne attuale coscienza,
il poter dire d'averla a noi stessi ed altrui.
Onde, nulla di ciò ci rimuove dal mettere innata l'idea
dell'ente; ed è certo, che ne' primi momenti di nostra
esistenza, e molto di poi, noi non siamo atti ad osser
varla ed avvisarla in noi, i.* perchè alla nostra attenzione
manca una ragione, uno stimolo di concentrarsi dentro
lo spirito anziché divagar fuori, e fissarsi in ciò che in
esso avviene quando tutto la tira negli oggetti esterni;
a.* perchè anche quando la nostra attenzione, o mossa
da curiosità, o da qualunque altro eccitamento nel gio
vane adulto, si muove a cercar ciò che è , e che avviene
dentro lo spirilo: anche allora, dico, non le è sì facile
a discoprire questa idea dell'ente: conciossiachè sé la si
vuole vedere immediatamente in sè, non c'è nulla che
diriga a ciò l'attenzione; e se la si vuol trovare nelle
altre idee già acquistate, siccome sarebber quelle de'
corpi, e cernire in esse l'idea pura dell'ente, troppo dif
ficile astrazione si convien fare: conciossiachè, l'idea del
l'ente si trova per questa via coll'ultima di tutte le astra
zioni; nè ella perciò si ha, innanzi che non sien divisi
e rimossi dall'oggetto su cui s'esercita l'astrazione, tulli
gli accidenti, le forme, i modi di essere (i).
E perchè lo spirito acquisti tanta abilità di astrarre,
che valga a compire tutta la serie delle astrazioni , c
arrivi all'ullima, colla quale discuopre l'idea dell'ente,
richiedesi per lo manco un lungo esercizio; il che può
esser di pochi, e s'acquista solo per lungo tempo (:».)•
Por questo i più mostrano tanto di lassezza, e voglia

(i) Vedi add. Cap. II, art. il.


(a) Queste osscrvazioui non sono sfuggile a Platone. Eyli , che s' era al
zato latito di sopra il comune degli uomini colla sua mente nobilissima,
osserva di più (ed ebbe occasione di sperimentarlo egli), che o parlar delle
cose che sono nello spirilo umano a chi non è pervenuto a ravvisarle n»
sè, è un cercar risa, e grido di sognatore. Indi la dottrina esoterica o se
creta sua, e degli antichi prima di lui , che a' pochi iniziati comunicava» ,
perchè esposta alla moltitudine non (osse inutilmente schernita, I/ide»
ilell' «file, l.i più astratta di tulle, è altresì l'ultima e la più difficile ad os
servarsi; e alcuui passi di Platone mi l'anno coiighicthiiiire cu" cyli la *«
65
di fermarsi in sulla via , che pur li condurrebbe alla
scoperta dell'idea dell'ente, ove continuassero coraggiosi
a batterla. Kant, uno di quelli che più si esercitò nel-
V astrarre, indugiò egli medesimo a mezzo il cammino,
cioè nelle forme dello spazio e del tempo, nelle dodici
categorie, e suoi schemi} le quali cose non sono, come

desse, ma la celasse, siccome cosa difficile ai più, o la presentasse involta


d'immagini e sfuggevolmente, dietro alla sentenza del Poeta, che
« Sempre a quel ver eh' ha faccia di menzogna ,
« De' i'uom chiuder le labbra quant' ei puote;
i Però che senza colpa fa vergogna ».
In/, xvi.
Noi che volgiamo il discorso ad un Universo cristiano, é ragione che
presumiamo bene degli uomini, e che parliamo loro apertamente queste
cose difficili. Ma perchè la conghiettura che io fo circa Platone non sia
sfornila di prove, addurrò in mezzo qualche passo di questo valeute a
conlirmarla. Platone paragona in più luoghi la mente all' occhio, che non
vede se non mediante i raggi del sole. Ora che è per Platone questa luce
che illumina la mente , della quale i sensi son privi ? L' idea dell' ente. E
dico 1' idea dell' ente : poiché sebbene questa luce Platone la faccia venir
da Dio (PENTE) , tuttavia egli dice chiaro, che non è Dio stesso, nel VI
della Repubblica; distinzione parmi da' Platonici trascurata. «Il sole veduto
« non è il sole »; così egli. E segue a ragionare in questo modo:
« Socrate. Gli occhi , ove si volgano a quelle cose, i colori delle quali
* sodo illustrati e manifeslati dal fulgor diurno, veggono j ma ove a
« quelle, cui investono i notturni raggi, incaliginano e traveggono, e sem-
« bran quasi ciechi del tutto, come se il puro vedere in essi non fosse ».
- Glauco. Cosi accade ».
«Socrate. E ove sguardano alle cose illustrate dal sole, in quere
li desimi occhi appare essere il vedere ».
» Glauco. Cosi sta ».
- Socrate. Il medesimo dico io dello spirito. Quando egli s' applica a
« ciò, ove splende la verità e lo stesso ENTE » ( alle cose intelligibili) ,
« lo spirito intende e conosce, e mostra avere intelletto. Ma ove vien tratto
« a ciò che è meschiato di tenebre , che genera e si corrompe » (così Pla
tone caratterizza le cose sensibili), « il suo sguardo si rintuzza, e ravvolge
« varie opinioni , e sembra privo di niente ». — Egli toglie poi , nel dialogo
susseguente (il VII della Repubblica), a fare intendere con una immagine,
quanto sia difficile agli uomini rilevarsi alla vista delle cose intelligibili , e
all'ente, togliendosi alle sensibili. Finge un antro profoudo, ma dirittis
simo, nel quale una grande face lontana, ma in dirittura con lui, manda
■ suoi raggi, e ne illumina tutto il fondo. Laggiù abitano uomini , e vi son
tenuti così legati , che non possono voltar mai le schiene e le teste a veder
l'apertura e la face, ma debbono guardar solo la parete opposta della
spelonca. Intanto, in sulla bocca di essa spelonca vengono recati vasi , e
statue d'uomini e d' animali, le quali ombreggiano nel lor passaggio la pa
rete di contro; e gli uomini di colaggiù veggou l'ombre di tutti questi
oggetti che passano dietro i loro dossi sull'imboccatura dell'antro. Non veg-
gendo che l'ombre di quelle statue e vasi ed altri oggetti, quegl' infelici
ooo crederebbero che altro esistesse se non ombre; e ove sentisser par»
Bosm/ni , Orig. delle Idee, Pol. IL . 9
66
vedemmo (i) , che determinazioni alquanto generali , e
modi dell'idea dell'ente, che stava un po' più là di esse,
come più astrat ta e perfettamente immune da tutte de
terminazioni.

lare , crederebber forse che V ombre parlassero. Ma via, sieno slegali e


condotti fuori. Al lume insolito, si lagnerebbero della novità e del bagliore;
fino che dopo qualche tempo assuefatti, intenderebbero il pregio del nuovo
loro stalo , e della vista delle cose vere, e del lume; nè vorrebbero più
tornar giù a sotterrarsi in quel carcere. Che se alcuno pur discendesse
(il che far non potrebbe senza grave sua molestia, rientrando in quelle te
nebre), e colaggiù « cominciasse a parlar di quell'ombre che trapassan sul
« muro, con quelli che da'perpetui vincoli sono stretti , e dicesse sua sen-
« lenza pur in quell'alto eh' egli si senle acceca lo., prima di riavvezzarsi
«t a quel cupo (il che non può avvenir cosi in breve), non ecciterebbe egli
« le loro risa ? e nou sarebbe dato a lui smacco da tutti, siccome a quello
« che, asceso sopra, se n'è tornato giù con guasto il vedere? e nou diret
te besi da tutti, non doversi giammai tentare di uscir sopra; e colui che
«r s'argomentasse di sciorre i legami, e condur sopra altrui, scoperta che
« fosse la trama , doversi immantinente uccidere » ? Tale è la sorte di
que' savj che aprono agli uomini delle verità che questi non possono beo
percepire! Di che conchiude Platone: « Che se alcuno avrà senno, e si
« rammenterà , in due modi e per due cause avvenire negli occhi altera-
« zione, cioè quando dalla luce discendiamo all'ombra, e quando dalle
« tenebre alla luce ritorniamo; per eguali maniere si accorgerà lo spirito
« umano poter essere affetto, ov'egli lo scorga turbato , e al discernere
« più offuscalo. E perciò non riderà leggermente ; ma cercherà bene prima,
« s'altri, venendo a una vita più luminosa, dalle tenebre nuove si opprima:
« ovvero se sorgendo dalla somma sua ignoranza ad uno spettacolo lumi-
•» noso , venga meno pel soverchianle splendore. Ed egli approverà 1* a(I<'-
« zione di questo secondo uomo, e riputerà dover esser beata la vita sua:
« di quel primo avrà compassione. O se vorrà ridere, non irriderà Uolo
« .scioccamente questo, ma si colui che dal lume superno in giù ricadde ».
E dopo tutto ciò , Platone conchiude con un passo al mio uopo notabilis
simo, dicendo, che * come non può l'occhio rivolgersi addietro dal bujn
« al chiaro oggetto, se lutto il corpo non si rivolge insieme con lui; cosi
« si dee con tutta la mente nostra rivoltarsi dalla generazione» (cioè dalle
cose de' sensi ) •» a ciò che si dice 1' ENTE , acciocché si possa, specu
li laudo, trascendere fino a quello che è luminosissimo »,. L' ente duuque,
secondo Platone, è l'ultima cosa che speculando troviam colla mente, e
la più luminosa di tutte, è la face che illumina tutte l'altre cose.
Or va , e paragona, se ti dà l'animo, la caverna di Platone col gabi
netto oscuro di Locke , siccome fa Reid e Stewart ! ( Eleméns de la Pl'i-
ìosophie eie. t. I , eh. 1 , sect. i ). Locke introduce il gabinetto oscuro
per ispiegarc le idee, che confonde colle sensazioni : Platone introduce la
caverna per far notare la differenza fra 1' ombre e la realtà , le sensazioni
e le idee. Trovare il gabinetto di Locke una cosa colla caverna di Platone,
è mettere insieme una testa viva con un ceppo di legno, per la ragione
che anche questo è ritornici!
(i)Srz. IV, e. IV, ait. n.
67
§ 3.
La teoria esposta fu conosciuta da' l'adri della Chiesa.
II perchè, Tesser la teoria dell' ente conosciuta e messa
in vista sì tardi, nasce dalla natura della cosa.
Sebbene noi usiamo quell'idea in tutti i nostri pen
sieri, tuttavia non vi badiamo punto: e ci riesce oltre
misura difficile il mettercela innanzi netta e pura da
ogn' altro involucro, e di poi l'osservare e percepire la
stretta relazione eh' eli' ha con tutte l'altre idee- le quali
da lei e per lei cominciano ad essere; anzi in verità ,
come abbiamo toccato più sopra, e come risulta da un
intimo esame della cosa , non sono che la stessa idea
dell'ente venuta in relazione colle passioni che noi sof
friamo ne' sensi nostri (interni ed esterni), e general
mente, con alcune determinazioni più o meno larghe,
fino alle determinazioni più strette, che pe' corpi sono
le sensibili qualità.
E tuttavia quest' idea prima e innata , questo fonte
dell'altre idee, che luce in tutte le menti, si rilevò già
manifestamente a de' nobili spiriti dell'antichità: parti
colarmente poi possiede da tanto tempo queste dottrine
la cristiana società, e ne1 libri de' suoi sapienti si con
tengono.
A provar poi ciò, valgami il solo passo seguente di
s. Bonaventura , ov' egli nota sì ben« la distinzione fra
il vedere che fa l'intelletto un'idea, e il considerarla,
cioè rivolgere ad essa l'attenzione per modo d'accorgersi
di vederla; ed il santo Dottore applica questa distinzione
appunto alla teoria dell'idea dell'ente, .siccome a quella
idea madre, di che noi usiamo a formarci tutte le altre,
e a cui tuttavia più tardi, e più difficilmente che al
l'altre badiamo.
« È mirabile (queste sono le sue parole) la cecità
« dell'intelletto (i), che non considera quella cosa che è
* la prima che vede, e senza di che egli null'allro può

(i) L'intelletto nostro ha bisogno di una riflessione sopra di sè, per ac


corgersi di ciò che vede: questo proviene dalla ualura stessa limitata del
l'intelletto umano. Il degradandolo dell'uomo fece però, che il nostro spi
rito sia inerte, c lardo a ripiegarsi su di sè, ed incerto nelle sue rillcssioui.
a questo difetto convito propriamente il titolo di cecità.


G8
« conoscere. Ma siccome l'occhio, quando attende alle
« varie differenze de' colori , non vede il lume pel quale
« vede l'altre cose (i); o se lo vede, non lo avverte
« punto; così l'occhio della mente nostra, atteso agli
« enti particolari e universali (2), non vede 1' ente
u stesso fuori di ogni genere; benché egli occorra alla
« mente prima di tutte 1' altre cose , e per esso occor-
u rano l1 altre cose alla mente, tuttavia non l' avverte.
« Sicché verissimamente apparisce, che come sta l'occhio
« della nottola alla luce , così sta l'occhio della mente
« nostra alle più manifeste cose di natura » (3).

(1) Sponendo la dottrina di Aristotele, io ho mostrato che il filosofo di


Sta gira era pervenuto a conoscere che l'intelletto umano, sebbene non
portasse con sé nessuna cognizione, tuttavia doveva avere innato un lume
che lo rendesse atto a illuminare le cose sensibili, e così conoscerle. Ora
volendo tener la traccia de' pensieri di Aristptele , e sospingere innanzi
quella progressione di che a spiegare in termini
proprj, che cosa s'intendesse per quel misterioso lume innato. Io mi sono
messo in questa ricerca, sul limine della quale Aristotele s'è fermato, e ho
conghietturato , che altro esser non potesse quel lume, se non Videa del
l' ente in universale , dimostrando che questa idea è il vero lume della,
mente, e quella onde tutte le cose sensibili s'illuminano, cioè si percepi
scono (Vedi la Sez. IY , c. I , art. xix e segg. ).
Óra questa mia conghiettura, ond'io cercava di far dure un passo in
nanzi al sistema di Aristotele, qui viene da s. Bonaventura, già sei secoli
sono , insegnata , e come cosa, fuor di ogni dubbio presentata.
(2) Gli universali, cioè i generi e le specie. L'ente all'incontro è l'idea
universalissima; ed è eccellentemente delta fuori di ogni genere, perchè
l'idea dell'ente pura non è fornita di alcuna differenza nè di alcuna de
terminazione di sorte alcuna, che la costituisca idea di un qualche genere
peculiare.
(3) Mira igitur est caentas inlellectus, qui non considerat illud quod
prius videt , et sine quo nihil palesi cognoscere. Sed sicut oculus inlentus
in varias colorum differentias , lumen , per quod videt caetera , non videt M
et si videi, non tamen advertit: sic oculus mentis nostrae inlentus in ista
entia particularia et universalia , 1PSUM ESSE EXTRA OMNE GE-
NUS j licei primo occurral menti, et per ipsum alia , tamen non advertit.
Unde verissime apparet, quod sicut oculus vcspcrtilionis se habel ad lucem :
ita se habet oculus mentis nostrae ad manifestissima nalurae. Itiner. mentis
in Dcum, cap. V.
69
PARTE SECONDA
ORIGINE DI TUTTE LE IDEE IN GENERALE PER MEZZO DELLIDEA
DELL' ESSERE.

CAPITOLO I.
data l'idea deh' essere, l'origine dell'altre idee
si spiega mediante l'analisi de1 loro elementi.

ARTICOLO I.
NESSO DELLA DOTTRINA ESPOSTA COLLA SEGUENTE.
Movendo io dall'idea dell'ente in universale innata, a
spiegare l'origine delle idee acquisite, io non formo già
Dna vana ipotesi; perciocché io assumo a tale spiegazione
cosa, di cui prima provai l'esistenza (i).
Mi resta dunque a mostrare, siccome tutte le idee
dall'idea dell'ente si derivano, sicché, posta la idea
dell'ente , tutte si spieghino senza più.
La quale spiegazione si parrà via più vera, osservando,
ch'essa è la più semplice di tutte le possibili; percioc
ché non si può ammettere meno d'innato, di ciò che
poniam noi, ponendo innata la semplicissima idea del
l' ente in universale (2).

ARTICOLO II.
ANALISI DI TUTTE LE IDEE ACQUISITE.

Una diligente analisi delle nostre idee ci ha condotti


a questo risultato :

(1) Newton osserva, che non si dee fare alcuna ipotesi per ispiegare i
(atti , ov'ella non abbia queste due condizioni:
i.° Che la cosa che si assume come cagione de' fatti, sia realmente esi
stente, e non essa stessa ipotetica;
3." Che sia atta a produrre que' fatti che si vogliono per essa spiegare.
La maniera ond' io spiego 1' origine delle idee, non pure ha questi due
caratteri , ma ne ha un terzo altresì , pel quale ella esce dalla classe delle
ipotesi , e passa in quella delle teorie, siccome a me sembra, bene assicurate.
Il terzo carattere sta in questo, che io non provo solo che l'idea del
l'ente, della quale è stato provato prima di tutto 1' esistenza anche come
innata (Parte I. ), è atta a generar di sé tulle l'altre idee; ma che le ge
nera veramente : perciocché tutto il formale delle idee bene analizzate si
rinviene non esser altro che la stessa idea dell'ente. Dunque nel tempo
che a tutte le idee assegno l' idea dell' ente come loro causa (formale), io
dimostro ancora, che questa causa è un fatto: é in tal modo, che la dot
trina dell'origine delle idee può aspirare ad un posto fra le scienze rigorose.
(•2) Sez. IV, c. IV, art. ii.

i.* Tulle hanno essenzialmente in sè la concezione
dell'ente, per modo, che noi non possiamo aver idea
di veruna cosa, senza che noi concepiamo prima di tulio
l'esistenza possibile (i), che costituisce la parte a priori,
e la forma delle nostre cognizioni (2).
2.* Se v'ha nell'idea qualche altra cosa olire la con
cezione dell'ente , quest' altra cosa non è che un modo
dell'ente stesso : sicché si può dir veramente, che qualun
que idea non è mai altro, che o Tenie concepito .senza
alcun modo, o l'ente più o meno determinato da' suoi
modi ; determinazione che forma la cognizione a poste
riori , o la materia della cognizione.

ARTICOLO III.
CONSTANDO TDTTE LE IDEE ACQUISITE DI DUE ELEMENTI, FORMA E MATERIA ,
È NECESSARIA DNA DOri'IA CAUSA l'ER ISP1EG ARLK.

Volendo adunque spiegare l'origine delle idee, si dovea


rendere ragione di due cose: 1.* del modo onde noi ab
biamo la concezione dell'ente, 2.0 e del modo onde noi
percepiamo le diverse determinazioni di cui l'ente è su
scettivo.
ARTICOLO IV.
LA DOPPIA CAUSA DELLE IDEE ACQUISITE È L* IDEA DELL' ENTE
E LA SENSAZIONE.

Or avendo noi dimostrato che la concezione dell'ente


è innata nello spirito nostro (3), non ci resta più diffi
coltà alcuna : perciocché le sue diverse determinazioni
ci sono suggerite manifestamente dal senso.
Togliamo un esempio: trattisi di spiegare come noi
pensiamo un essere corporeo di una dala grandezza ,
forma, colore: sia una palla d'avorio.
Quand' io penso la palla d'avorio, penso due cose nella

(1) Parie I, cap. II, art.v. (a) Sez. IV, c. Ili, art. xn.
(3) Parte I. — Udiamo anche su ciò S. Tommaso : Remanet igitur, cosi rpi ì
scrive, ipsa anima intellectiva in potentia ad DETERMINATAS similitu
dine! rerum cognoscibilium a nobis (qune tunl naturae rerum sensibilium ):
et has quidem delcrminalas naturas rerum sensibilium praesentant nobis
PHANTASMATA. Conlra Gent. II, lxxvii.
Io soglio attribuire alle sensazioni il suggerirci le determinazioni delle
cose presenti ; alle immagini quelle delle cose non presenti : la parola Jan-
tasmi, nel scuso di s. Tommaso abbraccia le une c le altre.
mia idea: i.° un qualche cosa che può esistere, percioc
ché io non potrei inai pensare una palla d' avorio se non
pensassi insieme l'esistenza possibile di un qualche cosa -,
2° e che questo qualche cosa è di tal grandezza , di tal
peso, sferico, levigato, bianco.
Ora, fermato che l'idea dell'esistenza possibile sta in
me, che mi resta per ispiegare il modo ond'io pervengo
a pensar quella palla?
Nuli' altro fuor solo questo, di mostrare quale sia la
via ond'io pervenga a determinare in me quell'idea di
un essere mediatile i caratteri del peso, della forma,
della grandezza, del colore ecc.
Ora ciò mi è assai facile: perocché egli è evidente, che
tutte le predette determinazioni della mia idea dell'ente
vengono suggerite al mio spirito da' miei sensi esteriori
die le percepiscono.
ARTICOLO V.
DOTTRINA 01 S. TOMMASO SULLA CAUSA DELLE NOSTRE IDEE.

San Tommaso è molto lontano dal dichiarare il solo


senso la cagione delle umane cognizioni.
Distingue anch'egli fra la cagion materiale e la cagion
/ormale delle idee: ed al senso concede di essere la ma
teria della causa, mentre riserba all'intelletto la qualità
d'essere veramente la loro causa formale.
« Non può dirsi (tali sono le sue parole), che la co-
« gnizione sensibile sia la totale causa e perfetta della
« cognizione intellettuale, ma più tosto è in certo modo
« materia della causa » (i).

(i) Non potest dici, quod sensibilis cognitio sii totalis et perfecla causa
intellectualis cognitionis , sed magis quodammodo est MATERIA CACI-
SAE ( S. I, LXXXIV, vi). Il perchè nel sistema di s. Tommaso non è già
il senso il principale agente nella formazione delle idee , ma questo non
£ che un agente secondario: ecco le parole stesse del Santo: In recepitone
qua inteìleclus possibilis species rerum ( cioè le idee ) accipit a phantnsma-
tibus , se liabtnl phantasmata ut agens instrumentale et SECUSDARIUM ,
mtellccius vero agens ut agens PRINCIPALE ET PRIMVM ( De Ferit.
Q. X, art. VI, ad 7). E nel riconoscere una doppia cagione delle idee, col
iJoltore aquinale conviene il grande suo contemporaneo ed amico s. Bonaven
tura, che così le due cause lucidamente distingue: Non solum habel (me
moria ) ab esteriori Jbrmari per phantasmata , verum etiam a superiori
suscipiendo et IN SE HABENDO simpìices formai , (pine non possimi in-
troire per poruts scnsuum et sensibilium phantasias. Itili, mentis iu tlcum,'
cap HI.
7a
ARTICOLO VI.
VERA INTERPRETAZIONE DEL DETTO SCOLASTICO :
M NIENTE T' È NELl' INTELLETTO , CHE PRIMA NON SIA STATO NEL SENSO ».

Se adunque il senso non somministra che un elemento


delle cognizioni umane, secondo la dottrina dell' Aqui-
nate (i), cioè la materia} mentre l'altro elemento, cioè
la forma, non può esser messo che dall'intelletto; con
segue, che il detto scolastico, «niente v'è nell'intelletto
che prima non sia stato nel senso » , è inleso assai male
da quelli che s' avvisano che con quella sentenza si vo
lesse dichiarare il senso 1' unico fonte delle umane co
gnizioni, siccome fanno i moderni scnsisti.
Il vero significato di quel celebre detto, siccome do
vette essere inteso dai sommi uomini della Scuola, non
potè esser che questo: « tutto giò che v'è di materiale
nell'umane cognizioni, vien suggerito dal senso » (2).
10 ho già spiegato che cosa intender si debba per
questa frase, « tutto ciò che v'è di materiale ».
Ho detto che in tutte le nostre idee si pensa i.* un
essere, e questo è ciò che v'è di formale nelle medesime,
a.* ed un modo determinato di essere , ed è ciò che v'ha
di materiale.
11 senso adunque nel quale intender si dee il detto
scolastico di che parliamo, viene ad essere il seguente:

(1) Art. precedente.


(a) E tuttavia questa parola senso qui riesce ancora incompleta, se eoo
quella parola s'intende solo il senso esterno (i cinque organi), e non vi si
comprenda anche il sentimento interiore che ha l'anima di se stessa. In fatti
come potremmo noi formarci le idee di un essere intellettivo, e delle sue
operazioni , se non ce le somministra il sentimento di noi medesimi? San
Tommaso lo insegna espressamente nell'opera contro i Gentili (L. III.c.xlvi).
« Noi non potremmo conoscere, die' egli, che lo sostanze separate sieno
« delle sostanze intellettuali , per dimostrazioni! nè per fede, se prima
u 1 anima nostra non conoscesse da sè stessa clic cosa sia 1' essere iotel-
« lettualc. Laonde dobbiamo partire, come da uu principio, dalla Scienza
« dell'intelletto dell'anima nostra, per arrivare a ciò che conoscer possiamo
« delle sostanze separate ». Secondo s. Tommaso adunque, ì fonti che ci
somministrano la materia delle cognizioni nostre in questa vita son due,
i.° i sensi esteriori, a.0 e il sentimento interiore di noi slessi.
La sensazione e riflessione lockiana per l'angelico Dottore non sono
punto i fonti della cognizione stessa, come volle Locke,, ma unicamente i
fonti di ciò che la cognizione nostra ha in sè di materiale: e la dottrina <ii
s. Tommaso è derivata da s. Agostino ( Ved. s. Tommaso, 1. c. ) ; sicché di' è
pur dottrina antica , e assicurata da lunga e rispettabile tradizione.
* . 73
o L'intelletto non può pensare nessun modo determinato
dell'ente, se non gli venga somministrato dal senso ».
Ora fino che noi pensiamo solo un ente indeterminato,
noi non pensiamo nulla che sussista, quindi niente di
ciò che meriti il nome di cosa reale: perciò ogni per
cezione di cosa reale viene somministrata da' sensi, per
ciocché la sussistenza è ciò che determina 1' ente per
forma, ch'egli meriti il nome di cosa reale (i).

CAPITOLO II.

ALTRO MODO DI SPIEGARE L'ORIGINE DELLE IDEE ACQUISITE:


MEDIANTE LA FORMAZIONE DELLA RAGIONE UMANA.

ARTICOLO l.
L* IDEA DELL* ENTE PnESENTE AL NOSTRO SPIRITO È CIÒ CHE FORMA
L'INTELLETTO E LA r.AGIONE UMANA.

Noi riceviamo la materia delle nostre cognizioni in


tellettive dalle sensazioni (2).
La materia delle nostre cognizioni intellettive non ò
ancora cognizione.
Quella materia diventa cognizione intellettiva, quando
?i s'aggiunge la forma, cioè l'ente: o sia, che è il me
desimo, quando il nostro spirito, sensitivo ad un tempo
ed intellettivo, considera ciò che sente col senso, in
relazione coll'ente che vede coli' intelletto , e trova in
ciò che sente, qualche cosa (un ente cioè) ehe agisce
sopra di lui. .
Or chiamo intelletto la facoltà di veder V ente inde
terminato.
Ragione poi chiamo la facoltà di ragionare , e però
primieramente di applicar l'ente alle sensazioni, di ve-

(1) È il senso esterno ed interno adunque quello che completa le idee


delle cose, somministrando alle medesime la materia, la quale le rende
idee veramente determinate.
In tutto questo discorso facciasi eccezione a quel modo di essere, che non
essendo determinato nel senso di limitato, come tutte le cose create, è de
terminato nel senso di non essere incerto e incompleto.
Il modo di essere di quest' ente ( Dio) non essendo limitato a cosa al
cuna , si può dedurre , come vedremo, dalla stessa idea dell'ente, come da
una nozione primitiva di lui : perciocché quel modo di essere è ideptico
coli' essere stesso : insomma TESSERE COMPLETO non ha modi.
(2) Csp. L
Kos mi ni, Orig. delle Idee , Voi. IL 10
der l' ente determinato ad un modo dalle sensazioni
offerto, quindi di cangiare le sensazioni in cognizioni
intellettive, in una parola, di formare le idee, aggiun
gendo la forma alla materia delle medesime.
Ora se V ente è l'oggetto essenziale dell'intelletto e
della ragione, vuol dire che queste due facoltà, (intel
letto e ragione) non esistono in noi, se non perchè in
noi v' ha la vista dell' ente immobilmente congiunto col
nostro spirito.
È dunque V ente che trae, come suo oggetto, il no
stro spirito in quell'atto essenziale che si chiama po
scia intelletto, e che lo rende idoneo a veder quest'ente
in relazione co' modi particolari dalle sensazioni sommi
nistrati, idoneità che si chiama poscia ragione- in una
parola, l'idea dell'ente congiunta col nostro spirito è
ciò che forma il nostro intelletto e la nostra ragione.rb
ciò che ci rende esseri intelligenti , animali ragionevoli.

ARTICOLO II.
DOTTRINA DI S. TOMMASO E DI S. IONAVENTC**
SOLLA FORMAZIONE DELL' INTELLETTO E DELLA RAGIONE.

Le dottrine che s. Tommaso e s. Bonaventura deri


varono dalla tradizione dell'antichità, mi sembrano con
sentanee a quelle che io vengo di esporre.
San Tommaso, parmi, ha conosciuto assai chiaramente,
come l'intelligenza non era poi altro che la potenza di
veder l'ente: questo è il medesimo che conoscere sic
come l'ente era ciò che formava l'intelligenza.
Egli dice espressamente, che l'oggetto proprio del
l'intelletto è l'ente o il vero comune: objectum intelle-
ctus est ens , vel veruni commune (i).
Ora s. Tommaso insegna che l'oggetto è ciò che de
termina la facoltà: l'ente dunque dovea esser ciò che
costituiva la facoltà intellettiva.
Ancora si osservi, che s. Tommaso non trascurò punto
di far l'analisi delle ideej e fu questa analisi che il
condusse a conoscere, siccome la prima cosa che noi con
cepivamo in qualunque idea era l'ente, per modo ch'egli
denomina l'ente il primo intelligibile.

(i) S. I, LV, i.
E qui badisi ali argomento che io fo, tutto appoggialo
sulle dottrine del grande Dottore di cui parliamo.
San Tommaso ci descrive la forma di una cosa come
quell'elemento, che si può colla mente nostra discernere
in essa, pel quale nel primo momento la cosa è in atto (i).
Ora se l'ente è la prima cosa che l'intelletto nostro
intende in qualunque sua intellezione; dunque convien
dire, che avanti che noi in una cosa veggiam l'ente,
nulla intendiamo: non è dunque essa ancora per noi
intellezione. All'incontro, tosto che abbiamo in checches
sia inlesovi l'ente, l'intellezione è in atto; perciocché
qualche cosa vi abbiamo inteso : l'ente dunque è la
forma della cognizione intellettiva, perciocché è ciò che
fino dal primo suo istante la mette in atto, che è quanto
dire la fa esistere.
Ora se l'intelletto è la facoltà di metter la forma
delle cognizioni, e se questa forma non può essere, se
condo la dottrina del grand' uomo di cui parliamo, se
non r ente, la prima cosa die vede l'intelletto, la prima
cosa che il fa essere in alto; forz' è dire che è l'idea
dell'ente quella che forma l'umana intelligenza (2).
San Bonaventura era pervenuto a trovare il medesimo
vero. E perciò egli insegna, che « l'essere è ciò che cade
« a prima giunta nella mente, e quell'essere che è puro
« atto » (3), sicché rende in atto o sia informa la mente
stessa. ,
E perchè l'essere nella mente é la. verità, egli dice
espressamente che « la mente dalla verità è formala» (4).

(1) La definizione scolastica della forma è questa: Quod in unaquaque


re primo "gii.
(?) Aristotele chiama l'intelletto species specierum. I commentatori di
Aristotele, solleciti di allontanare dalla mente de' lettori di Aristotele ogni
sospetto di cose innate, sono presti d'interpretare quella espressione ari
stotelica come detta di quell'intelletto che è abito de' principi ed acquisito.
Certo, io non voglio entrare in una questione filologica con que' valenti
interpreti. Bastami solo di osservare, che la denominazione di specie di tutte
le specie sarebbe assai bene accomodata aWidea dell'ente in universale , che è
quell' idea universalissima che rappresenta in sè net nostro spirilo tutte le
altre.
(3) Esse igilur est quod primo cadit in intellectum , et illud esse est quod
est purus aclus: eia ragione che addotto n'avea era il fatto della cosa ma
nifesto.- Si non ens, diceva , non potest intelligi nisi per ENS... (Ilin. men
tis eie, Cap. V).
(4) Cam ipso mens nostra IMMEDIATE AB IPSA VERITATF. FOR-
METUR tic. {Itili, meni. etc. , Cap. V). E questa dottrina è dulia cristiana
76
ARTICOLO III.
COROLLARIO S TUTTE LE IDEE ACQUISITE PROCEDONO DALL'lBEA INNATA DtLl' IKTX.

Tutti i filosofi convengono in questo, che le idee ap


partengano alla facoltà di conoscere.
Ma la facoltà di conoscere riceve l'esistenza dall'unione
dell'idea dell'ente col nostro spirito (i).
Dunque l'idea dell'ente, che è il principio della fa
coltà di conoscere, è altresì il principio di tutte le idee
che può acquistare la detta facoltà: il che si dovea di
mostrare.
CAPITOLO IH

TEnZO MODO DI SPIEGARE l'oRIGINE DELLE IDEE ACQUISITE


IN generale: mediante le potenze che le produco.no.

ARTICOLO I.
LA RIFLESSIONE.

Ho già distinta la riflessione, che può esser atta a


produrci delle idee, da quell'istinto sensitivo che an
che nell'animale irragionevole si trova, pel quale egli
assetta la sua potenza di sentire alle sensazioni, e trae
là, dove la sensazione è piacevole, ed in quella, per
goderlasi pienamente, s'accoglie e s'addentra (3).
La riflessione, che. può esser atta a produrre in noi
delle idee, è una funzione rMla ragione.
La differenza fra la semplice percezione (3) e la rifles
sione è questa,
La percezione è limitata all'oggetto percepito; non va
fuori di questo: io, in quanto percepisco unii cosa, non
so nulla di ciò che sta fuori di quell' una cosa che per-

antichità quasi a verbo ripetuta. Sani' Agostiuo scrive appunto della


meote umana, che, nulla substantia inlerposita* ab IPSA FORMATUR
PERITATE (Ved. il l.bro delle 83 Questioni, Q. XLI ). Io mostrerò
via più chiaramente, nella Sez. VI, che Videa dell'ente in universale è
appunto ciò che gli uomini tutti chiamano verità, dalla congiunzione colla
quale vien creata l'umana intelligenza.
(1) Art.prec. — La maniera onde l'idea dell'ente in universale aderisce al
nostro spirito, riceverà molta luce da ciò che sono per dire più sotto , al
Cap. IVdi questa II Parte, art. iv, Osserv. n, e art. v.
(•>.) Parte I, c. Ili, art. ni, 2 3.
(3) La percezione , secondo me, è di due generi, la sensitiva (sensazione)
e la intellettiva. Yed. add. la nota 3, face. 49 e segg.
ccpisco. La riflessiene all' incontro ò un ripiegamento
della mia attenzione sulle cose percepite: quindi essa
non è limitata agli oggetti delle singole percezioni, ma
può diffondersi sopra più percezioni insieme, e di più
percezioni eo' loro rapporti fare a sè un solo oggetto.
La riflessione adunque rispetto alla percezione è gene
rale, perchè ha per oggetto quante percezioni ella vuole;
mentre la percezione rispetto alla sua riflessione corri
spondente è particolare. La riflessione dunque si potrebbe
chiamare una percezione generale, cioè una percezione
di più percezioni. Laonde in quanto io rifletto , mi trovo
collocato una sfera più su di me stesso in quanto per
cepisco, e da questo punto, come da luogo eminente
s'osservano i sottoposti oggetti, io contemplo le varie
mie percezioni, le confronto fra loro, le unisco a mio
grado, e disunisco, e ne fo que' varj raggiungimenti o
naturali od anche mostruosi che più mi aggrada (i).
Quando io penso lo stato della mia mente, e passo a
rassegna le idee che in essa sono; quando io dico a me
stesso : « possiedo queste cognizioni » ; quando io dis
pongo di queste mie cognizioni col ragionamento, le or
dino, le deduco le une dalle altre, ecc. ; allora è ch'io
rifletto.
Se io mi affissassi in una sola delle mie idee, sareb-
Fegli questo un atto di riflessione?
Distinguo. Mi fisso io iu quella mia idea volontaria
mente? cioè a dire, ho io qualche fine dell'affissarmi
in quella idea, e mi vi affisso appunto perchè ho de
liberato di conseguire quel fine? In tal caso questo
affissamento è un atto di riflessione: ma si attenda, che
il caso è contro l'ipotesi; perciocché l'ipotesi dice, «se
io mi fisso in una sola idea ». Ora non è già più vero
ch'io m'affisso in una sola idea, quand' io mi vi affisso
per un fine; perciocché ho presente anche questo fine;
io dunque ho anche l'idea del fine; io considero quel
l'idea in cui mi affisso, non sola, ma in quanto è or

ti) Tutta questa dottrina si può dire racchiusa nel seguente passo di
s. Tommaso d'Aquino: fntellectus enim UNICA VIRTUTE cognoscit omnia
quae pars sensitiva diversis polenliis apprehendil (percepisce) , et etiam ALIA
MULTA; intellecttis etinm quanto fucril altior (cioè quanto s'eleva aduna
riflessione maggiore), tanto ALIQUO UNO plura cognosccre potest, ad
nuac cognosccnda intellectus inferior (la riflessione minore) non pcrtirigit
per multa. Coutia Geniilcs I, xrn.
78
dinata al mio fine: considero dunque quell'idea, più un
suo rapporto col fine che mi sono proposto.
All' incontro : mi fisso io in quell' idea involontaria
mente , e senza che io il voglia? son tenuto in essa da
un1 azione piacevole eh' essa fa in me colla sua luce, a
quello stesso modo come il diletto della sensazione rapisce
e tiene a sè istintivamente l'attività mia di sentire? la
tal caso questa mia a (fissazione non è riflessione , ma è
puramente attenzione diretta , che viene tratta in un
alto intenso, e tenutavi naturalmente: e questo rinforzo di
attività conviene assai ben distinguerlo dalla riflessione.
u La riflessione adunque è un1 attenzione volontaria
data alle nostre percezioni », un'attenzione cioè diretta
da un fine} ciò che suppone un essere intelligente, atto
a conoscere il fine, perch' egli il possa a sò proporre (i).
Colla riflessione adunque si formano le idee di rap
porto, si raggruppano le idee (sintesi), o si dividono
( analisi).
E quando io adopero la riflessione per analizzare un'idea,
e separare ciò che è comune in essa da ciò che è proprio,
allora formo quella operazione che si chiama astrazione.
Tutte queste sono funzioni della riflessione.

ARTICOLO II.
LA UNIVERSALIZZAZIONE E l' ASTRAZIONE.
L' astrazione si dee dividere dalla universalizzazione ;
e l'averla confusa fu cagione di molti errori.
CoW astrazione si toglie via qualche cosa alla cogni
zione (le note proprie); colla universalizzazione si ag
giunge (3), s'ingrandisce, in una parola si universalizza:
sottrarre ed aggiungere sono operazioni contrarie.

(1) Vedi la Sez. UT, c. II, art. v, dove ho descritto più a luogo la diffe
renza fra Vattenzione dell'intelletto necessaria alla riflessione, e la sensibili
tà, confuse insieme da Condillac.
(a) Chi sottilmente considererà la dottrina di s. Tommaso , parmi che la
troverà con questa consentanea. Ma conviene ben intendere la sua ma
niera di parlare. E in vero, s. Tommaso insegna , i." che i fantasmi sen
sibili non sono che similitudini degli oggetti; 2.0 che l'intelletto percepisce
gli oggetti stessi: quidditas rei est proprium objectum intellectus {S. I.LXXXV,
v). Or dunque se l'intelletto non trova ne' fantasmi che delle similitudini delle
cose, e s'egli tuttavia percepisce non le similitudini ma le cose stesse, secondo
s. Tommaso, come può egli far ciò, se non supplendo egli le cose, gli enti •
L'intelletto adunque pone l'eute; quaudo il senso uou pone, secondo lAu
«

Che cosasi aggiunge colla universalizzazione ? L'uni


versalità (intentio universalitatis , per dirlo colla frase

«elico, che la similitudine dell'ente. Leggasi attentamente il brano seguente del


santo Dottore, e poi dicasi.se l'interpretazione che io gli do non sia vera.
« Conciossiachè i fantasmi sieuo SIMILITUDINI degl'individui, — non
« hanno quel modo di essere che ha l'intelletto umano, — e perciò essi non
« possono imprimere per lor virtù nulla nell' intelletto possibile ». I fan
tasmi dunque soli non possono comunicar di sè nulla all'intelletto. Com'è
dunque ch'assi diventano atti a ciò fare? Prosegue S. Touimaso cosi; « Ma
PtR VIRTÙ' DELL' INTELLETTO AGENTE risulta una colai si-
u militigli ne nell' intelletto possibile dal rivolgersi che fa l' intelletto agente
« sopra i fantasmi (ex conversione inlelleclus agenti* supra phantasmata) ,
« la qual similitudine è rappresentativa DI QUELLE COSE , DELLE
- QUALI ESSI SONO FANTASMI, solo quanto alla natura della specie.»
La specie (idea) dunque che produce l' intelletto" agente non rappresenta
già i fantasmi, similitudini o sia edotti delle cose; rappresenta leeone slesse.
Se. dunque le cose stesse ne' fantasmi non sono, onde l'intelletto agente
all'occasione de' fantasmi formale idee pur delle slesse cose? per virtù sua
(virtute intellectus ), pel lume innato, in una parola perch' egli vede l'ente
{la natura della cosa) la dove sono i fantasmi, e cosi vede la cosa. Che
adunque significa quella frase, tr il rivolgersi dell'intelletto sopra i fanta
smi », converti supra phantasmata? uou può significar altro se non, ag
giungere a'fantasmi, che lo spirito umano riceve , l'ente. L'uomo ha le sen
sazioni: conscio di queste, egli tosto dice a sè stesso, qui ci ha un ente
che mi ha prodotto queste passioni; ecco l'uomo rivolto a' fantasmi, e
formala con ciò la similitudine, la specie, non de' fantasmi, ma pur del
l'ente che ha prodotto i fantasmi. Una osservazione si opporrà, cioè, che
si dice da s. Tommaso, esser l'intelletto agente, e non lo spirilo dell'uomo
quello che si converte a' fantasmi. Rispondo, che questa maniera di dire
trae l'origine da ciò, che è l'intelletto agente quello che somministra V es
tere, e per esso quindi si fauno le specie delle cose; ma più esattamente questa
operazione si dee atliibuire all'uomo medesimo. San Tommaso, a cui la
proprietà del parlare fu sempre carissima, ne avverte di ciò espressamente
dicendo, che « propriamente parlando l' intendere uou è dell' intelletto , ma
» dell'anima per I intelletto » ; intelligere proprie loquendo, non est intelle
ctus , sed animae per inlellcctum (De Verit., Q. X, ìx, ad 3 in contrai:) :
e generalmente vale questa bella osservazione per tutte le operazioni che fanno
le diverse potenze dell'anima. Il perchè sarà meglio il dire, che lo spirilo
nostro è quello che si converte a' fautasmi che sente in sè, e vede là ov'essi
sono, un'ente (somministralo dall'intelletto agente) ; e cosi si forma la specie
o idea della cosa; il che è il primo passo della ragione, la sintesi primi
tiva. Ora avvertasi, che questo convertirsi a' fantasmi dell' intelletto ageulc,
equivale all'altra frase di s. Tommaso, illuminare phanlasnuita, il che viene
a dire, sparger sopra di essi il lame dell' intelletto agente , che, come ve
demmo, è Venie. Ma questa maniera la dichiareremo via meglio nella nota 3
face. 8i. Intanto qui odasi come s. Tommaso all'uopo nostro coochiuda
il luogo sopraccitato: * E per tal modo dicesi astran e da' fantasmi la specie
« intelligibile, non perchè qualche forma che fu prima ue'fantasmi si formi
« poscia la stessa numericamente nell'intelletto possibile, a quel modo che
«< pigliasi un corpo da un luogo e trasportasi in altro ( S. I, LXXXV,
i, ad 3). Da' fantasmi adunque non si trasporta nulla, secondo s. Tommaso,
ntU'iutelletlo, ma solo all'occasione de' fantasmi l'intelletto forma in sé le
specie, cioè vede gli esseri da cui i fantasmi vengou prodotti.
8o
scolastica): e l'universalità non è (l1 ho mostrato) che
la possibilità della cosa (i). Succintamente ecco descritta
l' universalizznzione. Io ricevo la sensazione: aggiungo
l'idea d'un ente, causa della sensazione: considero que
st'ente, causa della sensazione, come possibile: eccolo
universalizzato.
Sia quest' ente un uccello, un colombo. Col l'avere uni
versalizzata l'idea del colombo, ho io levato nulla dalla
mia rappresentazione di quel colombo? Nulla: io posso
averne anche l' immagine corporea viva e presente ,
l'argento delle penne, il cangiante del collo, gli occhi,
i piedi, le forme, i movimenti, e tuttavia posso avere
unito a lutto questo il pensiero della possibilità d'altri
colombi reali, che a quella rappresentazione a capello
rispondano: in tal caso certo è, che quella mia rappre
sentazione sarebbe già universale, sebbene ella fosse ri
masta così intera com' era prima ch'io la universalizzassi,
e fornita non solo delle note essenziali de' colombi, ma
ancora di tutte le note accidentali.
All'incontro, ov' io dalla rappresentazione del mio
colombo traessi fuori il colore, le forme, i moti parti
colari, lutti insomma "gli accidenti, e ponessi per og
getto del mio pensiero solamente ciò che forma l'essen
ziale del genere de' colombi , in tal caso io avrei fatto
un'astrazione; perciocché la mia rappresentazione di
quell'uccello non mi rimarrebbe già più intatta e per
fetta come prima, ma d' una parte mancante : io non
potrei aver più 1' immagine del colombo, ma solo un
pensiero puro, astratto.
Ritenendo questa distinzione fra 1' universalizzare e
l' astrarre, si può dire che tutte le idee sono univer
sali , ma non che tutte le idee sono astratte : sì fatta
denominazione giova assai tenerla; che giova sempre
avere de' termini precisi, pe' quali si distinguano in fra
loro quelle idee che per la loro allinità facilmente con*
fonder si possono.

(i) Parte I, c. Ili, ari. i.


8i
OSSERVAZIONE l.
Pei-chè la facoltà di astrarre sia stata confusa colla facoltà
di universalizzare.
La ragione di tal confusione fu questa. In ogni itni-
versalizzazione avvi un cotale stato di nostra mente,
nel quale noi prescindiamo, e non badiamo punto ai
giudizio sulla sussistenza della cosa, il che sembra una
specie di astrazione.
A me pare tuttavia più conveniente il non adoperare
questo nome di astrazione per indicar ciò; conciossiachè
noi coll'operazione dell'universalizzare non togliamo cosa
alcuna dalla slessa rappresentazione: il che gioverà che
io chiarisca più largamente.
Il lettore avrà già fermala la differenza fra Videa
di una cosa, e il giudizio della sua sussistenza (i): io
posso avere l'idea completa di una cosa, e non giudicar
di' ella sussista.
Ma quando io giudico una cosa sussistente, allora ho
contemporaneamente l'idea della cosa, e il giudizio della
Elia sussistenza.
Videa della cosa accompagnata da quel giudizio è ciò
che io chiamo percezione intellettuale della cosa (2).
La percezione intellettuale adunque è bensì l' idea di
una cosa, ma determinata e fissa ad un individuo per
le sensazioni: quell'idea applicata a quel complesso di
sensazioni è ciò che le illustra (3), ciò che fa percepire

(ì) P. I , e. IT, art. n.


(a) Non isfuggi al gran s. Tommaso la distinzione fra queste due ope
razioni della mente, idea, e giudizio. Nel passo seguente, ov'egli le di
stingue, chiama cognizione ciò che io nomino percezione , e apprensione
ciò che io chiamo idea: Ad cognitionem duo conctirrere oporlet , scilicet
APPREHENSIONEM, et JUDICIUM de re apprehensa {De Peritate
QuaesL X, art. vi»), E tali passi dell'Aquinale, e d'altri, io reco assai di
buon grado, ov' io possa, perchè apparisca, che nell'Opera presente a me
non incontra bene spesso di far altro, che di tradurre nella lingua moderna
le dottrine dell' antichità. Per altro il giudizio di che si parla da s. Tom
maso dod è solo delle cose sussistenti , ma di qualsiasi cosa che dopo per
cepita si affermi esser tale. Questa estensione ba pure il verbo della inente;
e la ragione di ciò si è, che ogni cosa che si afferma, si considera come
un essere reale, per la legge a che noi vedemmo esser la mente soggetta.
(3) San Tommaso ha queste frasi , illuslrari phantasmata , abstrahere
phantasmata , colle quali indica spesso due operazioni dell''intelletto agente
(Ved. S. I, LXXIX, ìv, e LXXXV, 1 , ad 4). Ora che significa in senso pro
prio questa espressione metaforica illuslrari phantasmata? Credo di non er
rare pigliandola, come ho accennato, per ciò che corrisponde alla universa'
IIosuijvi , Orig. delle Idee, Vol. II. 11
82
in esse un enle, che fa conoscere insomma il corpo che
quelle sensazioni produce.
Ora se noi pigliamo a considerar Videa ,sola (uno
degli elementi della percezione ) , essa è universale , e
questa universalità esiste in essa anche considerata come
elemento della percezione. Ma nella percezione quella
universalità non s' attende , perchè si considera nel rap
porto particolare eh' ella ha coli' oggetto percepito dal
senso.
Perciò, ov' io slacco Videa dalla percezione per consi
derarla separatamente, semhra che io l'abbia astraila,
perchè ho tolto via il legame particolare col fantasma
o colla sensazione individuale, n'ho cacciata la sussistenza

lizzazione, che èl'operazioDe colla quale all' occasione de' fantasmi si formano
k idee, e s'intendono le cose sensibili. Certo è che l'aggiunta che fa la nostra
intelligenza alle sensazioni dell'idea dell'ente si può chiamare molto ragione
volmente illustrarle; perciocché è solo per questa giunta che si fanno intelligi-
Jiili , che è quanto dire, lucide all'intelletto. Tuttavia alcuni passi de' filosofi
aristotelici farebbero dubitare di ciò, e tirerebbero a dire, che non aggiun-
gesser sempre un senso preciso e netto a quelle due maniere di dire, che
anzi si adoperasse sovente la parola astrarre per significare la universali!'
lozione delie idee. Ove però si consideri sottilmente la loro dottrina, parai
che si possano ridurre que'passi a buon senso. Ecco, a ragione d'esempio,
come s. Tommaso descrive le due operazioni dell' illustrare , e dell'astrarrti
« I fantasmi, egliJ~ii*
dice,
:_.«M„..~
e s'illuminano
— dall'intelletto agente,
' -e di• nuovo■■ ■■■da

cquista
.. l'intelletto agente si rendono atti da cui si astraggano le intenzioni >u"
« telligibili. Astrae poi l'intelletto agente le specie intelligibili da' fantasmi ,
« in quanto che noi possiamo, per virtù dell'intelletto agente, mettere sotto
v la considerazione nostra le nature delle specie senza le condizioni indivi-
« duali , secondo le similitudini delle quali s'informa l' intelletto possibile »
(S. I , LXXXV, i , ad 4)- Or clic può voler significare quell' espressione, che
la parte sensitiva acquista maggior virtù ( ejficilur virtuosior), per la con
giunzione sua coli' intelletto agente? che acquista quella virtù, per la quale
si rendono alti i fantasmi a subire un' astrazione , e dar per questa le specie
intelligibili delle cose, le idee? Egli sarà facile a saper che virtù sia questa,
quando si sappia ond'avvenga che uoi possiamo astrarre le nature specifiche
delle cose (le idee). Ora parmi di aver già dimostrato chiaramente che ciò
nasca in questo modo. Le sensazioni o immagini (plianUismata) vengono
unite coli' idea dell' enle e col giudizio della sussistenza della cosa : quiudi
si fa la percezione intellettuale determinata agl'individui percepiti appunto
mediante le sensazioni ( plitintasmata ) : ora è da questa percezione intel
lettiva che si può cavare l' idee specifiche delle cose (colla doppia specie di
astrazione; colla prima si astrae il giudizio che si riferisce agl'individui, colla
seconda am be le condizioni individuali), e si hanno così le idee universali
pure ed isolale. Sembra dunque evidente che ifantasmi illustrati di s. Tom
maso corrispondano perfettamente a ciò ch.e io chiamo percezioni i/Ottlellivt»
83
della cosa. Sembra dunque che in quesla operazione
v'abbia una specie di astrazione, die si può specificare
nominandola astrazione dalla sussistenza o dal giudizio.
Ma pure si osservi , che quando io nella percezione
intellettuale separo il giudizio sulla sussistenza, e ritengo
solo così divisa l'idea, non cavo con ciò nulla da' vi
sceri , per così esprimermi, dell'idea stessa: le tolgo
solo d'attorno ciò che non è suo, che le sta aderente
senza entrare a formare la sua natura; perocché la per
suasione della sussistenza della cosa dall'idea rappresen
tatami non è l'idea, nè cosa che le appartenga. Laonde
V idea stessa non soffrì la menoma astrazione o muta
zione in sè , e si rimase perfettamente quella che era
prima, quand'era congiunta colla persuasione della sus
sistenza de'la cosa.
Non fu adunque adoperata in essa propriamente astra
zione; e l'astrazione che v'ebbe, cadde tutta sulla per
cezione intellettuale , e non sull'idea, elemento di quella.
Ove adunque vogliasi tenere il vocabolo di astrazione
nel fatto nostro, convien dire tult' al più, che l'idea si
è ottenuta per una astrazione operata sulla percezione;
e perciò Videa si può chiamare una percezione astratta.
Di più: se l'idea è un elemento della percezione in
tellettiva , e se su quell'elemento non venne falla al
cuna astrazione, ma fu solamente considerato da sè, il
che non muta la sua natura; forz' è dire che, essendo
il detto elemento universale quando si contempla di
viso dalla percezione, universale era pure nella perce
zione, e che non si universalizzò già coli' astrailo, ma
la universalizzazione fu operata prima di questa guisa
di astrazione, e propriamente coli' atto della percezione
intellettuale (i).
Descrivendo adunque il processo di questa astrazione,
che cade sulla percezione e non sull'idea, convien no
tare i seguenti tre passi:
i.° Sensazione corporea, o fantasma (percezione sen
sitiva).
a.0 Unione della sensazione corporea coli' idea del
l' ente in universale, che avviene nell'unità della nostra
coscienza (percezione intellettiva).

(i) Vedi ciò che fu dello alFoccasioue di confutare Condillac, Scz. Ili,
tip. II , art. x.
84
(E in questa percezione intellettiva si fa contempo
raneamente, e in una operazione medesima, a) un giu
dizio della sussistenza della cosa, b) Videa della cosa,
mediante la universalizzazione).
3.° Astrazione o divisione del giudizio dall' idea, colla
quale divisione si ha l'idea sola e puraj la quale seb-
ben era universale fino dal suo primo essere nella per
cezione, tuttavia ella si consideravi legata colf oggetto
individuale e sussistente; ma spacciata da somigliante
vincolo, si vede sola , nella sua universalità.
L' universalizzazione adunque è la facoltà che produce
propriamente le idee (i): mentre V astrazione è una fa
coltà che solamente muta loro forma e modo di essere.

OSSERVAZIONE II.
L' universalizzazione produce le specie s V astrazione i generi.

Tutta l'antichità ha distinto due maniere di classifi


car le cose , i generi e le specie.
Un consenso sì universale fa credere, che queste due
maniere di classificare non sieno arbitrarie, ed abbiano
una reale distinzione fra loro nelle stesse facoltà dello
•spirilo umano.
E così è: perciocché sottilmente considerando, si trova,
che le specie ed i generi rispondono alle due facoltà ili
universalizzare e di astrarre.
La facoltà di universalizzare, che è la facoltà di for
mare le idee, è la facoltà delle specie ( quindi le specie
si chiamano anche idee (2)): all'incontro per formare
i generi fa bisogno altresì la facoltà di astrarre.

(1) Merila clie si osservi , come tulli i maggiori filosofi defl* •litichiti si
sono accorti clie il conoscere dell' uomo non era che un percepire l'iwi-
versale. Non solo Platone, ma Aristotele medesimo lo dice espressamente
in tanti luoghi : basti il seguente della Metafisica (Lib. Ili, lez. ijc): Qua-
leiius universale quid est , ealenus omnia cognoscimus ; sopra il qual passo
s. Tommaso : Sic igitur sciintia de rebus singularibus non Imbellir nisi in-
quantum sciimtur universalia. Conviene adunque avere qualche universale
in noi, perchè possiamo conoscere i singolari che sono fuori di noi; ed è,
si può dire, col consenso unanime dell'antichità, che io stabilisco la facoltà
di universalizzare come il fonie della conoscenza.
(a) Specie, nell'origine della parola, èaspitto, cosa veduta, rappresenta
zione, idea ere. Come dunque fu applicata a significare certe classi di cose?
Appunto perche ogni idea essendo universale, c il fondamento di una
classificazione.
OSSERVA7AONE Ut.
Dottrina di Platone circa i generi e le specie.

E questo vero ci sarà chiave ad aprire ed intendere


una grave dottrina di Platone sulle idee.
Le idee che Platone pose come sostanze separate dalle
cose e per sè sussistenti, furono le specie ( si badi bene)
non i generi ( i).

(1) Certo è però, che Platone parla in molti luoghi dubbiosamente delle
sue idee; ed egli sembra che le sue idee sieno astratti, cioè idee delle cose
spoglie degli accidenti. Ma questa maniera di parlare (che ha però una ca
gione, la quale io darò più sotto) non fa disconoscere il fondo del suo
pensiero. San Tommaso spiegando questo pensiero di Platone adopera parole
the accennano l'interpretazione ch'io do a sì fatta platonica sentenza, come
là dove dice che Platone fa che le specie sieno sostanze delle cose singolari
(Nella Meta/, di Arist. Lib. Vll.lez. xvi ). A ciascuna dunque delle sin
golari cose che abbiano qualche differenza fra loro (considerate però nella
lor perfezione), corrisponde un'idea, un esemplare , dal quale l'autore della
cosa la ritrasse e formò: e dal quale egli può sempre ritrarre e foggiare
nuovi individui, purché sieno riducibili al tipo unico loro comune. Questa
interpretazione di Platone parmi che sia confìrmala da tutto ciò che dice
Aristotele, intorno si modo onde Platone venne a simil dottrinatici Lib. Vili
della Melaf., lezione xvi. Anche una dichiarazione che dà Platone circa
le specie ed i generi, mi rende probabile il sentimento che io gli attribuisco.
Platone dice, che quando qualche cosa di comune si predica di più esseri,
ma in modo che convenga meglio ad uno che ad un altro (la frase antica
dice secundum prius et posterius), allora quella cosa comune non può esser
che esista per sè, e separatamente dagli esseri ai quali si attribuisce; e ciò
s' avvera nel genere : ma che quella cosa comune esiste per sè, fuori degli
enti ai quali si attribuisce, s'ella si predica di più esseri egualmente; e ciò
s'avvera nella specie. Gl'individui adunque di una specie, secondo Platone,
non debbono aver differenze, uè gradi fra loro, ma esser uguali perfetta
mente, almeno in ciò che hanno di positivo. Platone adunque per le sue
specie, io concludo, non intendeva che le idee non astratte, ma solamente
universali , nelle quali entrasse bensì tutto quello che si percepisce in un
indi viduo , ma non l'individuo slesso, la materia, e più generalmente la
sussistenza , che non entra mai nelle idee, come di sopra ho mostralo (P. I,
c. II, art. in). Intese in questo modo le specie di Platone, mi sembra che
svaniscano alcune obbiezioni che Aristotele fa alla sua dottrina. E a ra
gione d'esempio, là dove Aristotele dà mano a provare, contro Platone,
che la materia dee entrare a formare la specie delle cose (Mctaph. Lib. Vili),
a me par di vedere un puro equivoco, una mala intelligenza. Certo, che
quando io penso una cosa corporea, penso altresì la materia della quale la
cosa dee esser composta , ma questa mia idea della materia non è la ma
teria stessa: ora se per ispecie s'intende l'idea, nella specie non entra la
materia. Quindi s. Tommaso, per torre l'equivoco, e difendete in qualche
modo il filosofo al suo tempo si veneralo, disse che la materia che entrava
a formar parte della specie, non era già questa materia che è il proprio
principio dell'individuo , ma una materia in generale (il che viene a din-,
l'idea della materia): « sì come entra nel concello della specie uomo, carni
- ed ossa, ma non queste carni e queste ossa che sono i principi di Sorte
86
Questo m'induce a pensare che il filosofo ateniese abbia
traveduta la distinzione fra le due operazioni dello spi
rito che accennammo, l'universalizzare e l' astrarre.
Di vero, le idee platoniche erano i tipi delle cose sin-
golari. Ora il tipo, secondo il quale l'artefice fa un'opera,
dee essere intero in tutte sue parti, siccome altrove ho
fatto osservare (i); dee esser fornito non pure di ciò che
è essenziale alla cosa singolare, ma sì ancora di tutti
quegli accidenti che ad essasi avvengono: conciossiachì-
se gli accidenti posson variare, tuttavia egli è essen
ziale alla cosa, eh' ella n'abbia alcuno di tutti quegli ac
cidenti che a lei appartengono: sicché ove l'artefice avesse
solo l'idea di una cosa astratta, e nulla più potesse
concepirne, egli non verrebbe mai a mettere la cosa
in essere, e produrla.
Ma questo non basterebbe tuttavia a bene intendere
le idee di Platone, nè a formarsi un vero concetto della
natura delle specie: ecco pertanto che cosa conviene
oltracciò sapere.
Platone aveva osservato, che qualsivoglia essere di questo
universo è suscettivo di maggiore o minor perfezione.
Io posso dunque spingere, egli disse seco medesimo,
col mio pensiero un essere qualunque fino alla sua compila
ed ultima perfezione; o certo ciò non è assurdo, che io
od altri fare il possa. Havvi dunque un concetto di ogni
essere tale, nel quale quest'essere viene rappresentalo
nello stato di tutta sua naturai perfezione senza difetto
alcuno.
Platone ammetteva, che di qualunque essere questo
concetto assoluto e compito non potesse esser che uno:
cioè che un essere non si potesse pensar fornito di UM
sua ultima perfezione, se non in un modo solo: e questa
specie di ottimismo intellettuale mi pare, a dir vero, pro
babile. Tuttavia io mi contento di lasciare in dubbio
la verità di un tal placito di Platone, per non avanzar
cosa che provata non sia: ma così rifletto:

« e di Platone » {Cantra Geni. II, xcn). Per allro pare che anche Aristo
tele in iiltri luoghi vedesse, il principio della specie esser V universalizia-
zione di un individuo (e già ancora il notai), e non l'astrazione; come nel
libro Vili della Metafisica , ove paragona le specie a' numeri, c dice, che
ad ogni unità di che s'accresce il numero, egli di tratto muta specie
(1) P. I, c. II, art. ii.
Se un oggetto ha due modi di sua naturai perfezione,
egli ha due concetti primitivi, due tipi, due idee: e queste
formano due specie di cose. Dunque torna vera , purché
s'intenda in questo senso, la sentenza, che l'individuo
d1 una specie non ha che un modo di sua naturai per
fezione: perciocché se n'avesse due, egli costituirebbe due
specie, o a due specie apparterrebbe.
Or poi a questa idea dell'oggetto ( che costituisce la
ideal perfezione del medesimo ) si riducono tutte quel
l'altre idee che rappresentano l'oggetto di qualche difetto
accompagnato: perciocché queste tutte sono quella me
desima idea, detratta solo da lei alcuna cosa} il qual
mancamento la rende imperfetta.
Laonde, se nella mente di un artefice fosse l'idea
perfetta della cosa, non solo con quella potrebbe eseguire
un perfetto lavoro, ma ancora tutti i lavori imperfetti,
che a quel primo, come cose imperfette alla perfetta,
si riducono.
Di che si vede onde nasce la specie delle cose: la specie
è costituita da quell'idea perfettissima, la quale, sebbene
tutti gli accidenti della cosa contenga, come quella che
essendo tipo di perfezione richiede anche questi e li
determina, ricevendo fra tutti, quelli che più le conven
gano e più perfetti sono, cioè che la perfezione sua esi-
jjej tuttavia ell'ha infinito numero d'altre idee a sé sogget
te, cioè tutte quelle che rappresentano l'oggetto ne' suoi
varj stati d'imperfezione; le quali però non formano
nuova specie, poiché non sono veramente altre idee, ma
sono pur quella stessa idea perfettissima, come dicevo,
meno qualche parte o pregio suo, il che toglie da lei
qualche cosa, ma non la muta.

ARTICOLO IH
SINTESI DELLE IDEE.

Oltre le facoltà enumerate, noi abbiamo la potenza di


dare la nostra attenzione a più idee contemporaneamente,
riducendole ad unità mediante qualche relazione fra loro.
Questo è quanto dire che siamo atti a formarci delle
idee complesse.
CAPITOLO IV.

QUARTO MODO DI SPIEGARE l'oMGINE DELLE IDEE ACQUISITE


IN generale: mediante una classificazione sommaria
DELLE STESSE IDÈE.
ARTICOLO I.
CLASSIFICAZIONE DELLE NOSTRE INTELLEZIONI.

In/eUezìone chiamo ogni atto della mente, che abbia a


termine un'idea o parte d'idea, o sola o con altra cosa
congiunta.
Or ecco tutte le classi delle nostre intellezioni.
I. Classe. Le percezioni intellettive.
II. Classe. Le idee propriamente dette.
III. Classe. I modi delle idee (i).
La percezione intellettiva ho detto essere il giudizio
che fo d'una cosa sussistente, il quale genera in me la
persuasione della sussistenza delia cosa ; e risulla dai
due elementi, giudizio sulla sussistenza, e idea della cosa.
Gioverebbe forse (e così fo io qui) il distinguere i modi
delle idee dalle idee , e riserbare questo nume d'idea,
siccome fece Platone (a),- alla specie completa, dando
quello di modi d'idee alle astrazioni o ai complessi d'idee.

(i) Di tulle queste intellezioni vi è poi la memoria, se si hanno avtile i»


passato, e ['immaginazione sa si foggiano all'esempio di altre (la no'
avute ecc. Ma di queste potenze non parliamo, per non render troppo com
plicato il discorso.
(a) Per confìrmare la spiegazione che io do delle idee di Platone, e dar
qualche lume ad un punto importante della storia filosolica antica, ini si per
metta d' aggiungere un' osservazione. Si è disputato tanto da' moderni per
sapere se i numeri di Pittagora fossero un medesimo colle idee di Platone.
Or bastava riflettere che i numeri sono idea astratte, mentre le idee ài
Platone sono idee specifiche, e non astraile , per conoscere che queste due
cose sono fra loro mollo lontane. In vero, Videa (nos recte specictn possu-
mits (licere, scrive Cicerone Acadein, Lib. I) è per Platone l'esemplare sol
quale sono fatte le cose : ora i puri numeri nou possono giammai essere
esemplari di cose; come non può essere usato per esemplare, su cui un ar
tefice foggi una statua od altro lavoro, un puro astratto. Platone adunque,
sostituendo le idee ai numeri, perfezionò la dottrina da Pittagora intrave
duta, e, se non altro, certo nell'espressioni; quando non abbiano già prilli»
fatto il miglioramento i Pittagorici stessi , come può far credere qualche
passo di Timeo. È singolare poi che i moderni scrittori (il Bruckero mas
simamente) ni) n abbiano sentila quella diifereuza , che da Platone slesso
non oscuramente vien posta. La sentenza platonica cosi ò riferita da quel
nubilissimo lilnsofo toscano di Marsilio Ficino : «Egli (cioè Plaloue) vuole,
« avervi uu iulellijjibile primo c uu sccoudo: iu quello mette le idee, cioè le
Ma comunemente le astrazioni si dicono idee Attratte,
e i complessi d'idee idee complesse.
Secondo questa denominazione, le classi delle idee
sarebbero tre, cioè i.° le idee propriamente dette, 2.° le
idfe astratte, 3." e le idee complesse.
I fonti di queste tre classi d'idee sono le tre facoltà
annoverate, di universalizzare che produce le idee pro
priamente «lette, di astrarre che produce le idee astratte,
e la sintesi delle idee che produce le idee complesse.
Le idee astratte e le idee complesse sono modi d'idee
anziché idee, perchè non racchiudono nulla di più che
le idee stesse propriamente dette; si distinguono spio
per la diversa maniera onde l' attenzione delta me.it e
nostra le considera : se le considera come stanno appena
generate, o come specie compite (1), sono le idee pro
priamente dette; se le considera in alcune loro parti,
negligentando le altre (astrazione, analisi), prendono il
nome d' idee astratte; se le considera legate insieme con
altre (sintesi), prendono il nome di complesse. Questi
nomi indicano tre modi della nostra attenzione intellet
tuale , e tre modi perciò delle idee, oggetto di quella:
ni* non rigorosamente tre classi CCidee.

ARTICOLO IL
1
uTk giaccia l\ dii'iicolta* ni spiegare le tre classi
li' INTELLEZIONI ENUMERATE.

Tre operazioni successive fa la mente nostra: i.° per


cepisce intellettivamente ; 3.0 astrae dalla percezione
l'idea ; 3.* astrae dall' idea gli astratti propriamente
detti, che sono anche i vincoli ne' quali si legano in
sieme le idee e si fanno le idee complesse (j)..

■ specie e mozioni dell» divina mente, e a lue menti,, ed anime: iu questo i


« numeri e le figure »> (Neil' argomento lATeeteio, e Vedi d liue del VI dia
logo delta Repubb. ). Ecco pertanto divise le idee esemplali da' numeri:
quelle messe innanzi a quesl», poiché questi si cavau da quelle per astra
zione, esono una parte di quelle, come tulli gli astratti sono paiji, .delle idee.
(1) Conviene però notarsi , «-he appena generale, le idee dell; cose sono
specie compite (cioè hanno tutti, a costitutivi anche accidentali delle cose),
ma non sono specie perfette, perocché le cose stesse chele produssero non
sono perfette. A renderle perfette la uopo un' altra operazione dello spiiilv,
eli' io chiamo integrazione. .
(?) Le idee complesse si fanne colla riflessione dopo (e astratte-- Quando
su spiegata la riflessione e le, idee astraile, non è più difficile, ialeudere
come si fanno le idee complesse: perciò sopra di queste nou mi trattando.
tfosanni, Orig. delle Idee, Poi. il. 12 '

La prima di queste tre operazioni vieti fatta mediatiti
V universalizzazione , la seconda mediante un' astrazione
che si esercita sulle percezioni, e la terza mediante un'
astrazione che si esercita sulle idee già formate.
L' universalizzazione non ha bisogno della facoltà di
ri/lettere (i): essa è un' azione diretta e naturale del
nostro spirito; è quella stessa che altrove abbiam no
minata sintesi primitiva , e che consiste in queir unione
fra il complesso delle sensazioni di un corpo e l' idea
dell'ente in universale, che si opera in noi per l1 unità
del soggetto che percepisce le sensazioni ed ha ad uno
l'idea dell'ente: sicché quell'io che vede l'ente, è que
gli che riceve le sensazioni: sensazioni e idea dell'ente
sono due elementi che, trovandosi in un medesimo sog
getto semplicissimo , vengono da sè a trovarsi insieme,
e dall'identità, per così dire, del luogo son congiunti
e rannodati.

(1) Chiamo riflettere quella attitudine che ha /'intelletto di ripiegarti so


pra i prodotti delle proprie operazioni: in questo senso V universalizzazione
non ha bisogno di alcuna riflessione: c'è da una parte la sensazione , cbe
è un atto diretto del nostro spirito; c'è dall' altra parte la intuizione del
l' essere, che è un altro alto diretto : c' è in fra essi l' unità del soggetto
couscio ad un tempo della sensazione e dell'idea : questa consapevolezza è
V universalizzazione quasi bella e fatta. Per altro, se per riflessione s'in
tendesse un' attitudine dello spirito a ripiegarsi sopra le proprie operazioni,
potrebbe dirsi che c'è una riflessione nella sintesi primitiva, o universaliz
zazione. Perciocché lo spirito, che per l'unità del sentimento annette alle
sensazioni l'idea dell'essere, si ripiega, cioè ritorna sopra le proprie sen
sazioni, sebbene ritorni su questa sua prima operazione con una opera
zione di altro genere, che in sè è diretta. Potrebbe dunque distinguersi
una riflessione sopra le sensazioni , ed una riflessione sopra le idee. La ri
flessione sulle sensazioni è un atto diretto rispetto all' intelletto , a cui solo
appartiene, riflesso rispetto a'io spirito a cui appartiene ugualmente esso
atto, e le sensazioni sopra cui si ripiega. Ciò voglio aver notato per can-
sare ogni equivoco: per altro io uso la parola riflessione generalmente nel
secondo significato, cioè intendendo una riflessione non dello spirito, ma
dell' intelletto. Nel primo senso è , che conviene intendere la riflessione degli
Scolastici, quando vi dicono che «l'intelletto conosce gli uniyersali per
quondam reflexiònent » (Vedi la nota, pag. 299 del voi. I). Tutto il difetto
di questa maniera di esprimersi consiste nell' aver detto l' intelletto, in vece
di aver detto lo spirito umano, che percepisce tanto le sensazioni singolari
(pel senso) che gli universali (per f intelletto), e che per l'unione che
fa di questi due elementi produce a sè una percezione sola, nella quale s»
dice che conosce tanto i singolari (le sensazioni), per una riflessione so
pra di essi, che gli universali, con quell'atto diretto onde vede l'ente.
San Tommaso ci mette sulla strada per trovare questa interpretazione del
detto scolastico, dove avverte, che talora s'attribuisce all' intelletto, impro
priamente parlando, ciò che con proprietà- si dovrebbe attribuire allo spi
nto (Vcd. De Ferii. Q. X, ari. ix« ad J>}.-
L' astrazione all'incontro è un'operazione che appar
tiene alla facoltà di riflettere: perciocché io non posso
astrarre nulla dalla mia percezione, se. sopra la mia
percezione non mi ripiego ; nè posso astrar nulla dalla
mia idea, se non mi ritorco sopra di questa.
Ora l' universalizzazione, o sintesi primitiva, non è de
liberata; poiché è fatta, o certo almeno ajutala dalia
stessa natura, che ha messo in me un intendimento vi
gilante, quasi come occhio sbarrato a vedere tutto ciò
che gli si fa dinanzi, un intendimento che vede essen
zialmente l'ente. E però non è guari diilicile a intendere
che, date le sensazioni, l'operazione della sintesi pri
mitiva si faccia dall'anima spontaneamente: perciocché
l'anima nostra rispetto a questa operazione è già attiva,
è già in moto per la sua propria virtù. Non è necessario
che io mi occupi nello spiegare come lo spirito si muova
dalla sua quiete ove si tratta dell' universalizzazione, di
mostrata e fermala essendo la prima ed essenziale sua
attività; siccome non è necessario ch'io faccia un lungo
discorso a dimostrare come il sole illumini un oggetto
cije gli si presenta, quand'egli è noto il sole essere in
un alto continuo di vibrar raggi su tutti gli oggetti
d'intorno. Ma ciò che da farmi resta, rispetto all' uni
versalizzazione, si è il descrivere accuratamente come
si eseguisca questa operazione, e l'analizzarla in tulle le
parti sue : ma quanto al primo moto dello spirito, non
ho a cercare altra ragione di lui, perciocché questo
moto è già nella natura spirituale che vede l'ente.
All'incontro l'astrarre, dissi, appartiene alla riflessione;
e la riflessione è una facoltà volontaria, come vedemmo
Non é dunque la natura che la muove: non è in moto
per sé: ma sono io colla volontà mia, che cagiono quel
movimento. Qui convien dunque assegnare una ragione
sufficiente, per la quale la volontà si tragga a muoversi,
cioè a riflettere sulle percezioni e sulle idee, e ad astrarre
da quelle queste, e da queste quelle che si dicono
idee astratte.
Se non si assegna questa ragione atta a dar moto alla
riflessione, non si potrebbe dir mai di avere spiegati
gli atti delle facoltà, e dimostrata l'origine delle idee
astratte, e delle complesse altresì che da quelle derivano.

(i) Art. I, § i.
92
Laonde diam mano ora a far questo: supponendo le
percezioni già formate in noi : e poi riverremo a queste;
e descriveremo il modo onde, mediante V universalizza -
zione o sintesi primitiva, esse in noi si possan formare.

ARTICOLO III.
NECESSITA* DEL LINGUAGGIO PER MUOVERE LA NOSTRA INTELLIGENZA
A FORMARE OLI ASTRATTI.

La nostra facoltà di ragionare non ha un'energia in


sè indipendente dagli stimoli esteriori.
Questo vero ci è somministralo dall'esperienza, e dalla
natura della intelligenza umana.
« Se noi fossimo abbandonati puramente a noi stessi,
« alle nostre forze interne onde la nostra natura risulta;
« se da nessuna delle forze che stanno fuori di noi , noi
« venissimo tocchi od affetti; giammai noi non potremmo
« cominciare a muoverci, a fare il menomo atto di
« nostra mente, giammai non daremmo un passo, non
« concepiremmo un pensiero, ancorché fossimo conservati
« dall'Onnipotente migliaja d'anni in uno stato così
« isolato dagli esseri tutti. Tutto in perfetta quiete ri-
« marrebbesi in noij il più piccolo molo nella nostra
a mente sarebbe impossibile; ci mancherebbero i moventi,
u ci mancherebbon gli oggetti ; una vita priva di moto,
a simile perciò alla non-esistenza sarebbe la nostra ; una
k vita la cui considerazione è l'oggetto di una profonda
« filosofia, e una chiave che spiega i più maravigliosi
« segreti dello studio dell'uomo » (i).
Vediamo dunque quale stimolo si richieda a ciascuno
degli atti principali della ragione. Questi atti sono , se
condo ciò che n' abbiam ragionato, i." la percezione,
2." l'idea, 3.° e l'idea astratta. Però cerchiamo onde la
ragione sia mossa a ciascuno di questi suoi atti.

(i) Saggio sui confini dell'umana ragione, negli Opusc. Filos., Voi. I,
face. 5g.
93
§ li- . . -..
Ci4 rlie tira il UnstrA ipirito all'atto del percepire, sono gli oggetti sensibili
•bc a lui si prrtentano.

Perchè il nostro spirito percepisca una cosa, è ne


cessario ch'egli abbia questa cosa d'innanzi, poiché per
cepirla è un averla innanzi (i).
In tal modo, senza un oggetto presentatogli, l'uomo
non può sentire nè pensare: senza un oggetto, l'uomo
rimanesi in quella immobilità prima, che fu or ora de
scritta, e che forma una delle limitazioni della umana
intelligenza.
L' oggetto dunque è quello che tira le nostre facoltà
nel loro atto: il quale atto termina appunto e si quieta
nel suo oggetto.
Ma l'azione dello spirito nostro è dal suo oggetto limitata.
Se V oggetto è ciò che tira lo spirito nostro intelli
gente nel suo atto, e se nell'oggetto suo termina e si
quieta l' azione del nostro spirito , convien dire che
l'esistenza dell'oggetto non dà ragione se non di quella
speciale attività dello spirito che al medesimo si riferi
sce e in quello finisce.
L'oggetto adunque non è atto a spiegare un'attività
di altra natura o di maggior grado da quella che nel
l'oggetto stesso si assolve.
Ora io dico, secondo questi principi, che gli oggetti
corporei cadenti sotto i nostri sensi non possono già
muover lo spirito all'astrazione, o ad altro atto, ma
solo a quello della percezione.
E veramente le sensazioni presentano al nostro spirito
degli oggetti sensibili nuovi , e questi rendono ragione
di una nuova attività, oltre quella innata di veder l'ente;
secondo quella sentenza da noi fermata, che «sono gli
oggetti quelli che tirano il nostro spirito ne' suoi atti».
Ma ancora , « gli oggetti limitano e finiscono in sè
l'attività dello spirito nostro » .
Dunque quell'attività dello spirito che viene messa in
movimento dagli oggetti sensibili, non può eccedere ed
uscire di questi. Questi oggetti adunque non rendono ra-

(t) ATon come i corpi stanno gli uni alla presenza degli altri , ma come
i pensieri sono presenti allo spirito.
gione di quella attività, per la quale lo spirito si forma gli
astratti ; conciossiaohè gli astratti sono oggetti insensibili.
E veramente, quando il senso mi presenta un oggetto
corporeo, io intendo assai bene come la mia intelligenza
possa essere da quello tirata e mossa, e vegga quell'og
getto corporeo. Perciocché la mia intelligenza «essendo
naturalmente desta e attiva, basta che le si presenti un
essere, perch'ella lo tolga e veda. 0
Ora, che è questo presentarsi alla intelligenza umana
un essere in tal modo, ch'essa il vegga? qual cosa presenta
questo essere alla intelligenza ? Ciò che presenta que
st'essere all'intelligenza, non è, nè può essere altro che
il senso originalmente. Noi come esseri sensitivi ricevia
mo, mediante il senso nostro, l'azione degli oggetti in
noi, e quindi, si può dire, gli oggetti stessi ( siccome
agenti ). Di che l'oggetto agente essendo, per la sua opera
zione, in noi, egli è in luogo atto ad esser veduto: chè
non è difficile intendere, come ciò che è in noi, noi lo
veggiamo; perciocché, il dico di nuovo, siamo veggenti,
e abbiamo l'occhio aperto dell' intelletto appunto a veder
ogni essere, purché su di noi operi, a vederlo dico in
quanto egli opera.
Ciò fermato, intendesi che gli oggetti del senso pos
sono trarre lo spirito a sé: noi possiamo dunque gli
oggetti sentiti altresì intenderli, senz'altro: perciocché
c'è tutto ciò che si richiede per ispiegare questa opera
zione della mente nostra, colla quale intellettivamente
quegli oggetti si percepiscono, cioè t.' c'è la facoltà,
1 intelligenza, 2.° ci sono gli oggetti a noi presentati,
che tirano la nostra intelligenza nel suo atto, in quel
l'atto che in essi finisce.
Date adunque le sensazioni, senza più, vedesi che
l'intelligenza può formarsi le percezioni degli oggetti
individuali corporei (1); o sia, questi oggetti sentiti da
noi non hanno bisogno d'altro, per essere da noi intel
lettivamente percepiti.
Ora, se l'uomo non prende sempre le immagini corporee
delle cose vedute per le cose sussistènti, se egli nota
fra le une e le altre una differenza ( qualunque ella
sia); egli è almeno probabile, che l'uomo possa essor

(1) Parliamo di sensazioni esterne : la slessa dottrina si può applicare al


sentimento interno dell' te.
mosso da queste immagini a formarsi delle idee pure,
spoglie della persuasione dell' attuai presenza e sussi
stenza degli oggetti : di che, come le sensazioni occasior
nano le percezioni intellettuali, così le immagini più tenui
occasionano le idee degli oggetti corporei, prive della
persuasione e del giudizio sulla sussistenza di questi; e
perciò tale specie di astrazione, che divide le idee dalle
percezioni , sembra che possa aver la sua ragion suffi
ciente ne'fantasmi , o immagini corporee, come nelle sen'
sazioni hanno la ragione sufficiente le percezioni nostre
de' corpi. . ■ -, ,
OSSERrAZIONI
mi Vaiti dello sviluppo a cui potrebber giungere degli uomini fuori della
società che non avessero altri stimoli moventi la loro ragione\, fuor solo le
sensazioni e le immagini corporee.
Al senso risponde la fantasia; all'uno ed all'altra
V istinto (i); alle sensazioni e a fantasmi le percezioni
intellettive e le idee individuali (2). .
Quindi, supponendo dati all' uomo gli oggetti della
natura percepiti dal senso, quegli oggetti sono una ra
gione sufficiente 1* di tutta quella attività che si spiega
nell'uomo coli' atto del sentire e dell' immaginare corpo
reo, a.* di quella che si manifesta in esso mediante le
leggi dell' istinto animale che a quelle due facoltà rispon
de, 3.* finalmente di quella attività che consiste nel
formarsi le percezioni e le idee delle cose corporee.
Ora si consideri la natura e la limitazione di questa
terza specie di attività che si sviluppa nello spirito :
dico l'attività di formarsi le percezioni intellettive , o
anche le idee individuali delle cose materiali.
Le percezioni intellettive, e le idee delle cose materiali
sono tali, che seguono e sono congiunte indivisibilmente
colla cosa sentita, o immaginata (complesso di sensa
zioni o immagini).

(1) Le ricerche da me falle sulle facoltà dello spirilo umano mi hanno


coudollo ad osservare una legge singolare in esse, ed è questa, che « ad
ogni facoltà passiva ne corrisponde un' altra attiva »: sicché vanno abbi
nate. Il senso è una facoltà passiva; la facoltà attiva che al senso risponde
è l'istinto. ■ .. 1 • ■ , ,m: ■ • : . i ..,
(a) Idee individuali chiamo quelle che rappresentano, nn individuo com
pleto j (ebbene l' idea non sia mai cosa concreta, perch'eli» è un puro tipo
nella mente, dal quale si possono ritrarre quanti individui uguali si vogKdno;
purché non manchi la fèria di metterli iu -essere, l' esemplare c'c«
Colla percezione intellettiva si giudica bensì che la
cosa sentita sussiste; ma non si va più in la: tutto Iter-
mina nell'oggetto particolare da noi sentito: fuori di
quello non si può ire una sola linea.
Quindi la percezione intellettiva è un' idea accoppiata
(Solla sensazione della cosa : idea e sensazione in tal
modo sono una coppia di passioni dello spirito, obbligate
a seguirsi l'una all'altra, perchè legate indivisibilmente
insieme, e a muoversi di concordia, quasi direi come
i due occhi della fronte, o meglio, come un cavallo
generoso impedito nel suo moto da un bue col quale è
aggiogato, e al passo del quale de v' egli ubbidire.
IL1 idea dunque legata colia sensazione non può ir lon
tana una linea da questa: e perciò con tal genere d'i
dee gli uomini non possono uscire da quella sfera di
movimenti ed azioni, che la bestia, condotta dal solo
senso e dal solo istinto, farebbe. Quindi, ove si sono
trovati degli uomini perduti nelle selve fino dalla loro
infanzia, privati del consorzio degli altri uomini e del-
l'ajuto della favella, e dalle sole sensazioni naturali sli
molati, essi non hanno dato alcun buono indizio di «è;
ma bensì mostrarono evidentemenle, non essersi potuti
sollevare un po'su dalle sensibili cose, e partire dalla
vita animalesca; ma, guidali da'movimenti dell' istinto
( eziandiochè vogliam dire accompagnato fosse da ra
gione, ma da ragione pedissequa dell'istinto, e che non
progrediva una linea innanzi a lui, anzi più tosto il
seguiva), non vennero mai alla condizione dui vivere
veracemente umano, che i nati e cresciuti nella società
sogliono usare.
E veramente così trovar si dovea, secondo quella sen
tenza di sopra da noi fermata, che» l'azione dello spi
rito nostro è dal suo oggetto terminata ».
Fino adunque che l' oggetto dello spirito non sono
che cose corporee e individue, egli non può metter fuori
altra attività che quella che in queste termina e si com
pisce : egli non può dunque pensare che cose corporee,
individue ; nè aver le percezioni od idee che di queste
sole, della sussistenza delie quali ha ben anco le sensa
zioni. Tali idee pertanto sono sempre colle sensazioni od
immagini congiugale; nè disgiunger si possono da quelle
o da queste.
Lo spirito adunque per tali idee non può andarsi troppo
tiù olfr» di quello a che le sensazioni sole e gl'istinti
da -sé il condii i rebbero.

Le immagini corporee sono ragione sufficiente di queir attività


onde lo spirito si forma le idee divise dalle percezioni.

L' astrazione si fa sopra ciò che è già nella nostra in


telligenza , ed è di due maniere.
La prima (se pure si vuol chiamar astrazione) è quella
che si esercita sulle nostre percezioni , onde si segre
gano le idee.
La .seconda è quella che si esercita sulle idee, e con
questa si formano le idee astratte.
Sì I' una che l'altra astrazione può esser fatta dalla
riflessione^, ma per la seconda la riflessione è indispen
sabile.
L'astrazione che si esercita sopra le percezioni no
stre consiste nel riflettere sopra di quelle, nell' affissarsi
coli' attenzione nella sola apprensione della cosa ( idea ),
lasciando da parte il giudizio onde giudichiamo della
sussistenza della medesima.
L'astrazione che si esercita sopra le idee consiste nel
riflettere sopra di quelle, e affissarsi coli' attenzione sopra
una parte di ciò che coli' idea si pensa, sia questa parte
qualche cosa di essenziale, o qualche cosa di acciden
tale dell'ente pensalo in quella idea.
Nella prima maniera di astrazione l'idea della cosa
rimane intera , rappresenta un oggetto ancora con tutte
sue parti; non manca che la persuasione della sussi
stenza del medesimo.
Ora questa persuasione della sassistenza della cosa si
può staccare non solo per opera della riflessione, ma
ancora naturalmente, mediante le immagini corporee
che restano in noi, e si suscitano secondo ceFte leggi
animali nella nostra sensitività interna; poiché esse non
sono sempre cosi vive , così complete^ così coerenti e
ferme, che l'uomo non possa conoscerle siccome cosa
diversa dagli oggetti presenti e impellenti attualmente i
sensi.

Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. II. i3


Il linguaggio c una ragione sufficiente di quella attività


onde il nostro spirito si forma le idee astratte.

Or noi dobbiam vedere come la ragione si muova


anche a formarsi gli astratti. Se le sensazioni e le im
magini non valgono punto a muoverla a tale operazio
ne , quale altro stimolo sarà che la riduce a questo
più ampio suo sviluppo, nel quale ella giunge agli astratti?
In prima, a fine di rimuovere ogni opposizione che far
si potesse, deesi osservare, che «Patto naturale dello
spirito intelligente, onde questo s'affissa nell' ente , non
può in alcun modo dar moto alla mente e spingerla ad
occuparsi delle astrazioni ».
Vero è che lo spirito intelligente ha un oggetto sem
pre presente, connaturale, ed essenziale a lui, il quale
è V essère.
Vero è per conseguente , che questo oggetto tien lo
spirito nostro in un atto primo, costituendo così l'u
mana intelligenza.
Ma poiché l'attività dello spirito nostro non esce dal
suo oggetto, sicché l'oggetto è quello che determina e
limita la sua attività, la quale nell'oggetto stesso, e
non punto fuori del medesimo, finisce e riposa; quindi
l'oggetto naturale di che parliamo, cioè l'ente in uni
versale, non ispiega altra attività dello spirito, che quella
che si termina in esso ed ivi si quieta.
L'attività dunque primitiva del nostro spirito , ter
minala nell'ente in universale, è un atto immobile, cioè
che non si muove punto accidentalmente, non si muove
fuori dell' ente a far la menoma cosa : è una visione
ferma, uniforme, continua, e nulla più: quest'alto im
mobile, immanente e diretto, non è adunque alto a
spiegare quell' attività colla quale lo spirito s' applica
ancora, oltre all'ente in universale e indeterminato, a
degli enti particolari, e a de' modi (astratti) di questi.
Onde riman dunque che sia mossa la ragion nostra
ad astrarre?
Dal linguaggio: veggiamolo.
Un' idea astratta non è che una parte di un' idea.
Per ispiegare adunque quell'attività colla quale il
nostro spirito si forma le idee astratte, bisogna addi
tare cotal ragione , per la quale lo spirito nostro sia
mosso a torre e sospendere la sua attenzione dal tutto
della idea, e deliberatamente la limiti e concentri in
fina parte sola della detta idea , escludendo a dirittura
le altre parti. Quest'attività, colla quale lo spirito nostro
presceglie da una sua idea un qualche elemento della
medesima, e lo considera a parte, ha bisogno di una
ragione, cioè di una causa, dalla quale esso spirito sia
mosso e condotto.
Pigliamo in esempio l'idea astratta di umanità.
H mio senso non mi fa percepire che uomini; V uma
nità, questa nozion generale, priva di tutti gli accidenti
degli uomini singoli, mai non cade sotto i miei sensi.
Dalla percezione sensitiva sarà bensì tirata l1 intelligenza
mia, e così nascerà in me la percezione intellettiva di
quegli uomini individuali.
Di più, mi rimarranno in mente le immagini di questi
uomini più languide, le quali a quando a quando per
accidente d'altre sensazioni allìni o per un movimento
interno delle parti nervee si risusciteranno in me più o
nv io vivacemente. Da queste immagini sarà tirata di
nuovo la mia intelligenza, ed essa si formerà Videa di
quegli uomini particolari come possibili: qui tutto al
più tiniscono come in termine loro le azioni della mente.
Ma l'idea di umanità? Ella è altro da tutto questo:
ella non è sensazione, ella non può essere immagine
corporea: ella non rappresenta un oggetto sussistente,
che possa tirare a sè la mente nostra e di sè occuparla.
Coni' ella dunque nascerà in noi?
La legge che abbiam trovata e stabilita circa le ca
gioni onde nascono i movimenti dello spirito, fu la se
guente: « Ciò che tira il nostro spirilo all' alto del per
cepire, sono gli oggetti che a lui si presentano». Or si
può presentare V umanità in persona, per così dire, che
non esiste punto? che non è un oggetto reale?
Qui entra la necessità di un segno vicario dell'ogget
to: l'umanità non è fuori della mente; non può dun
que tirare a sè la mente, se non in un suo segno, il
quale sia al di fuori della mente, e tenga' luogo di quella
idea, facendola in certo modo sussistere, pd operare
sull' attenzione della mente. È dunque impossibile che
la mente sia tratta a pensare le idee astratte, i cui og
getti non sono, prima ch'ella stessa gli-abbia concepiti ,
lOO
.senza de' segni .il di fuori che tengano le veci di quegli
oggetti, e ii rappresentino alla mente: ed ecco qual sia il
modo, onde i segni possono avere idoneità a tant' uffizio.
I segni convenzionali esprimono checché un tacito od
espresso consentimento loro aggiunge. Essi dunque sono
idonei a significare egualmente uh oggetto che sussiste
lutto intero, come una pura sensazione, una immagine,
una idea completa, e ancora una parte d'idea, una sola
qualità comune di più oggetti isolata da essi, sebbene
questa qualità isolata e precisa da essi non sussista fuor
della mente, e solo nella mente esser possa. Ora, se a
tutto ciò valgono i vocaboli, come nel fatto si veggon
valere, egli è evidente , che per quella stessa maniera
ond1 essi traggono la nostra attenzione alle cose sussi
stenti, ove significano ed esprimono queste, così varranno
altresì a tirar l'attenzione ad ogni altro loro significato:
e perciò quando essi saranno ordinali a significare idee
astratte, varranno a muovere l'attenzione nostra agli
astratti, sì fattamente che questa attenzione, diretta da
que' vocaboli, si limiti e concentri in quelle sole qualità
astratte che sono il significato del vocabolo, e non Vó/fa
oltre: conciossiachè ella vuole intendere ciò che il vo
cabolo le dice, e nulla più.
Avvertasi, che qui non ò mio intendimento d'investi
gare se il linguaggio sia d'origine divina od umana -
avvegnaché da quanto fin qui ho ragionato la cosa ma
nifestamente apparisca (i). Io piglio il linguaggio come
nella società, nella quale nasciamo, ci viene trasmesso:
e da questo fatto movendo, affermo, che un sì fatto
mezzo è idoneo ad eccitare
i l'attenzione del fanciulletto,

(i) È impossibile inventare il linguaggio da una mente umana che non


possegga delle idee astratte; perciocché nessuno può mai dare un segno ad
idee che Don ha. Quindi è vera e bella la sentenza di Rousseau, che «non
si poteva inventare il linguaggio senza il linguaggio » ; se non che con
veniva restringerla entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee
astratte riguarda, la quale è la più nobile, e formale parte delle lingue.
Non essendo stata fatta questa divisione, Rousseau fiotè intravedere una ve
rità rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è. boto che alcuno n'ab
bia , nopq di lui (né pure il sig. Donald), data una rigorosa dimostrazione.
Ma restringendo la proposizione di Rousseau alle idee, e vocaboli astratti,
io credo che ini sia riuscito di dare quella dimostrazione rigorosa che può
tor via ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da sé ravvisarla
e comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul linguaggio,
e da ciò clic ho scritto nel Saggio sui confini dell' umana ragione ( Opusc.
FU. voi. I, face. 6ii srgg.)
lor
ne" eni orecchi fino da' primi istanti del vivere suonan
le voci de' genitori e de' famigliari che lo circondano, a
trovare il significalo di tutti que' suoni, e, in fra i varj
significati , a trovare anche le idee di qualità separate
o relazioni delle cose, che vengon pure continuamente
da quelle voci nominate ed espresse.
Nè parimente è qui mio intendimento descriver mi
nutamente il fatto che adduco, e mostrare com'egli
avvenga, che il linguaggio naturale sia la prima chiave
al fanciullo, e il mediatore per così dire all'intelligenza del
linguaggio artificiale e convenzionale ; perciocché è suf
ficiente al mio uopo starmene al puro fatto, il quale
negare non mi si può. Conciossiachè il fatto della gior
naliera esperienza dimostra manifestamente, che i fan-
ciulletti prima intendono i vocaboli che esprimono le cose
sussistenti e reali, ed appartengono a' lor bisogni, istinti,
affetti 5 ma che dopo pervengono a intendere anche il
linguaggio tutto perfettamente, e a parlarlo altresì. Il
che non lascia dubbio sull'attitudine del linguaggio a
chiamare l'attenzione dell'uomo nelle idee astratte, ciò
che equivale a un formarsele : conciossiachè in ogni
linguaggio, in ogni ragionamento, in ogni giudizio, la
più nobile e importante parte è formata dalle astrazioni.
Se dunque il linguaggio è atto a questo, e a questo
giovar non possono nè le sensazioni, nè le immagini,
nò la sola idea dell'ente; forz'è il dire, che lo sviluppo
del giovinetto onde alle astrazioni perviene , tutto al
l' a julo del linguaggio si dee attribuire e concedere: nè
diversamente dover essere, dimostrano, come dicevo,
gli esempj de' bambini perduti, e trovati poi uomini
adulti senza linguaggio carponi nelle foreste, i quali nè
pure un minimo indizio diedero mai riè d' avere nella
loro mente delle astrazioni concepite, nè di essersi una
linea sola sollevati di sopra gli oggetti materiali e in
dividuali, ai quali giungono anche i bruti co' sensi.

OSSERVAZIONE I.
Sopra un' nbhiezinne che ti pttA .fare alle cose delte,
i cavala dalla libertà umana.
Si risponderà, che è nell' uomo un' attività libera, per
la quale egli è signore di sue potenze, e può dirigere
la sua attenzione, ove il voglia, sia sul tutto dell'idee,
sia sulle parli, cioè sulle qualità comuni; e per questa
102
intrinseca attività, colla quale egli deliberatamente con
tiene 1' attenzione dal tutto dell' idea , e la applica a
mirare in una sola parte, in una sola qualità comune,
egli può formarsi le idee astratte, senza bisogno di ri
correre ai segni che determinino e fissino queste qualità
e parti, dal tutto rimovendole e segregandole.
Questa obbiezione si scioglie con una attenta osser
vazione sulle leggi o condizioni secondo le quali la no
stra libera attività si adopera.
E primieramente, certo io confesso che vi hanno due
modi ne' quali l'umana attività viene condotta al suo
movimento: il primo è istintivo (i) e spontaneo, il secondo
volontario e riflesso.
distintivo è quello di che abbiamo parlalo sin qui;
questo è tirato quasi direi fisicamente e necessariamente
dall'oggetto suo: la impressione dell'oggetto trae la fa
coltà del senso a sentire, e la sensazione muove la
fantasia; questo è l' istinto sensitivo. Avvi oltracciò l'i
ntinto intellettivo (2), il quale dall'oggetto della sensa
zione è naturalmente tirato alla vista o percezione del
l'oggetto corporeo; e dal fantasma è pur tratto allWea,
colla quale vede l'oggetto intellettivamente, senza che
vi congiunga persuasione di sua sussistenza. Un istinto
altresì porta l'uomo, io lo concedo, ad esprimere fuori
ciò che dentro egli sente ed intende, con movimenti,
e gesti, e con suoni ancora; e in tal modo questo istinto
in quanto ò sensitivo sarà il generatore delle voci inar
ticolate e delle interjezioni , espressioni del senso; e in
quanto è intellettivo proferirà alcune parole articolate,
segni delle percezioni e delle idee dell'intelletto suo;
ma tali istinti però non porteranno mai l'uomo ad espri-

(1) Io non posso trattenermi qui a parlare sull'esistenza, sulla natura,


e sulle specie diverse degl'istinti. Ben so che cosa fu scritto contro di essi.
Io qui li suppongo, e parlo secondo quelle opinioni che io ho abbracciate,
dopo un esame diligente u maturo, quarti' io ne fui capace, dell'argomento:
chè troppo a luogo ini menerebbe l' entrar di proposito in questa materia
non necessaria al mio scopo. Il lettore perciò supplisca egli , ove gli na
scano dubbj , col suo intendimento : perocché ove io volessi tutte le cose
dire distesamente , forse a lui non basterebbe il tempo di leggere , né a
me quello di scrivere.
(a) Alla facoltà passiva dell'ente ( intelletto ) corrisponde la facoltà at
tiva dell'intinto intellettivo. La parola spontaneità , che più propriamente
significa l' intclleliivo . talora si usa a significare ogni maniera d'istinto,
ogni principio di movimento spuuluueo.
mere ciò che egli coll'intellello ancora non concepisce,
quali sodo le astrazioni. Fin qui dunque va V istinto
sensitivo ed intellettivo, ma non più oltre. Può ora pro
seguir l' opera degli istinti la libera volontà da sè me
desima? Questo è ciò che mi si oppone: e veggiamolo.
La volontà libera è condizionata a questa legge, di
avere un fine, una ragione sufficiente de' suoi atti.
La volontà intelligente e libera non può dunque fare
il menomo suo atto e movimento, s'ella non si propone
di ottener con questo uno scopo: senza di ciò ella ò
inattiva, immobile.
Ora , perchè io deliberatamente muova la mia intelli
genza a questo, di restringersi a mirare in una qualità
comune a molti oggetti, trascurando tutte l'altre, debbo
avere un fine; e qual potrà essere? il desiderio di pro
durmi appunto in tal modo delle idee astratte.
Ma posso io proporre di formare a me slesso delle
idee astratte, se io non ho ancora nessuna idea astratta
in me stesso? e se, non conoscendone veruna, io non veggo
nè a che ella mi potesse giovare , nè che pregio per
rue s'avesse? Certo no; conciossiachè nessuno si può pre»-
figgere uno scopo che non conosce, e del quale non vede
nessun vantaggio, nessun bisogno.
Manca dunque la condizione necessaria per la quale
la mia libera volontà possa muovere sè medesima al
travamento delle idee astratte: manca la cognizione del
/ine, ragione sufficiente, pel quale solo io mi muovo; la
cognizione di un bene che io posso cavare da questo
fine, che solo mi può interessare e scuotere a fare libe
ramente l'operazione di che parliamo.
La libera mia volontà adunque non può muovere e
dirigere la mia intelligenza alle concezioni astratte, senza
possedere già prima delle concezioni astratte.
Ella non può muoverla all'idea astratta, perchè non
conosce nessuna idea astratta; secondo l'assioma, che
voluntas non fertur in incognitum; non ha dunque un
movente.' non può dirigerla, perchè non ha una nozione
dell'oggetto che si propone, la qual sia regola secondo
la quale guidarla.
Se dunque, acciocché la libera volontà nostra si formi
le idee astratte, ha bisogno di averne già prima alcuna
formala; è a conchiudersi, impossibile cosa essere a spie
io4
gare la formazione di queste colla sola attirila libera
dell'uomo senza il linguaggio.
OSSERVAZIONE IL • *v

Sullo sviluppo a cui giungono gli uomini mediante la società ed il linguaggior


e come questo sia necessario perchè noi ci facciamo arbitri delle nostre-
potenze.
Ma di più, non solo la nostra libera attività non può
muoversi alla formazione delle idee astratte, senza pos
seder prima alcuna di queste idee; ma oltracciò le idee
astratte sono sempre necessarie alla nostra volontà, per-
ch' ella possa muovere deliberatamente le altre potenze.
In vero, la volontà non delibera di muovere le sue
potenze, per esempio l'attenzione intellettiva, se uoit
per un fine di' ella conosce e die giudica buono.
Ora un fine conosciuto suppone sempre qualche astra
zione, cioè una relazione col suo mezzo, la quale è di
sua natura un'idea astratta.
Di più, in qual maniera posso io trasportare delibe
ratamente la mia attenzione da una all'altra idea, se
non mediante una relazione che leghi insieme (in qual
siasi modo) queste idee sulle quali io trasporto succes
sivamente la mia attenzione? Ora ogni relazione fra due
cose o idee è un astratto, cioè non è nè l'una idea
nè l'altra, ma un particola!' nesso che hanno ambedue
colla mia mente che le percepisce: ogni relazione è dunque
un' astrazione.
Poniamo che io deliberi di fare un viaggio in luogo
di bagni, per cagion di salute. Io penso in questa de
liberazione astrattamente l' attitudine di quell'acque mi
nerali a sanarmi del mio male; penso a' mezzi di fare
il viaggio, ecc. : quest' attitudine e questi mezzi sono tutte
idee astratte.
Poniamo che io mi raccolga a passare in revista col
mio pensiero tutte le cognizioni nuove da me acquistate
nella conversazion tenuta con un uomo dotto. Tutta quella
serie di cognizioni come stanno legale insieme? come
formano una serie a parte? com'è ch'io so distinguerle
da tutte l'altre, e riguardarle siccome una classe di cose
da sèi Mediante un'idea astratta, cioè la relazione co
mune a tutte quelle cognizioni dell'essermi venute pe'
ragionamenti tenuti con quel valent'uomo. E per questa
qualità o relazione comune, che io trasporto il mio pen-
IO
siero dall' una nll' altra, e percorro tutta quella serie senza
passar oltre.
Se io ini muovo a pensare, e delibero di occuparmi
di questo o di quell'altro argomento, fra tanti die po
trebbero trattenere ed esercitare in presente la mia in
telligenza ; ciò faccio per un fine, per una ragione, per
un'idea insomma legata con quell'argomento: e questo
legame è un astratto.
Senza gli astratti adunque io non posso far uso della
mia libera volontà: non posso dirigere l'intelligenza più
tosto sopra un argomento che sopra un altro. Gli astratti
legano insieme le idee mie particolari , e forman la via
perla quale io passo dall'una all'altra. Senza gli astraili
le idee individuali sarebber divise e slegate interamente
fra loro: la mia attenzione finirebbe in ciascuna di esse:
non potrebbe ripiegarsi su loro, nò considerarne molle
collettivamente con uno sguardo generale: non si da
rebbe raziocinio: tutta l'operazione dell'intelletto fini
rebbe lì appunto, dove lo slesso senso finisce. Tanta e
tale è l'importanza delle astrazioni !
Or poi noi vedemmo, che gli astratti non si hanno
se non coll'ajuto della lingua che noi riceviamo dalla
società degli altri uomini.
É dunque vera e irrepugnabile la proposizione che io
toglieva a dimostrare, che « il linguaggio è necessario
perchè noi ci facciamo arbitri delle nostre potenze »,
e che a questo immenso benefizio che riceviamo dalla
società de nostri simili son dovuti tutti i grandi pro
gressi dell'umanità.
ARTICOLO IV.
5H£G AZIONI DELLA PERCEZIONE IKTELLETT1TA.

§ I.
Noi non abbiamo altra percezione inteHettita, che di noi stessi e eie' corpi.
Nello stato ove la natura ci pone nascendo quaggiù,
noi non abbiamo altra percezione intellettiva, che di
noi stessi e de' corpi.
in vero noi non possiamo percepire (i) la sussistenza

(i) Possiamo bensì avere la credenza e la persuasione della sussistenza


d'altri esseri, che non si dee confondere colla percezione! la quale si fa
immediate pe' sensi esterni od interni.
Rosmini, Orig. delle Idee , Poi. II. »4
jo6
di un essere, se quest'essere non opera in noi, e se
noi non sentiamo la sua azione.
Il sentimento adunque è necessario alla percezione in
tellettiva di un oggetto sussistente.
Or noi non abbiamo che i.* il sentimento di noi stessi,
2.* fi il sentimento o le sensazioni esterne de1 corpi.
Dunque solo di noi (i) e de' corpi possiamo avere per
cezione intellettiva. .

(1) Sono alcuni luoghi in s. Tommaso, da' quali potrebbe sembrare che
la materia delle nostre cognizioni venisse somministrata da' soli sensi este
riori , e non anco dal sentimento interno dell' Io. Mettendo però insieme
lutte le diverse riflessioni che fa su di ciò l'Aquinate, parmi che liquida
mele apparisca esser sur mente, che la materia delle cognizioni nostre
■venga da due fonti, cioè i.° dalle sensazioni esterne, e 2.° dal sentimento
interno dell' anima stessa. Che l'anima abbia un sentimento , o più tosto
ch'ella stessa sia questo sentimento sostanziale, quindi ch'ella somministri
all' intelletto una materia di cognizione che i sensi corporei in nessun
modo dar gli possono, è chiaramente insegnato da s. Agostino là dove
dice: « La mente conosce se stessa per sè slessa , poiché ella è incorporea
(De Trin. Lib. IX, cui). Contro a questa dottrina però stava una sen
tenza del Filosofo, che le scuole avean prescelto per loro stella (dove non
fosse opposto alla fede cristiana), la qual diceva che « l'intelletto niente
t intende senza fantasma corporeo » (Lib. Ili De Anima, coni. xxx). Al
sottilissimo ingegno di s. Tommaso parve che sotto un rispetto fosse vero
ciò che insegnava il gran vescovo d'Jppona, e sotto un altro ciò che la
sentenza aristotelica conteneva: ed egli s'ingegnò di conciliare insieme le
due dottrine; e il fede in questo modo.
Primieramente stabilì, che da' fantasmi non si polca trarre nessun
la quale fosse una similitudine dell'anima; e perciò, che da' fantasmi
porei non si potea astrarre nessuna idea dell' anima nostra , la quale è in
teramente diversa dalla corporea natura: Anima non cognoscitur per speciem
a sensibus abatraclam, quasi inlellieatur species illa esse animae similUudo
(De yerit. Q. X, viri).
Di poi considerò seco medesimo, che a trovare il modo onde noi cono
sciamo la natura dell'anima, non ci dovea esser via migliore, che l'esami
nare come i ragionamenti de' filosofi sulle diverse proprietà dell'anima pro-
c-erlossero. I filosofi che meditarono sulla natura dell'anima, egli osserva,
tolsero ad esaminar prima gli alti di lei, e massimamente le idee. « Da ciò,
•« cosi egli, che l'anima umana conosce le nature universali delle cose, s'ac-
corsero che la specie (idea) colla quale l'uomo intende è immateriale.
Dall' esser poi la specie intelligibile immateriale, compresero che l'in-
« lellello dovea esser cosa indipendente dalla materia, e di qui progredi-
.< rono innanzi a conoscere l'altre proprietà dell'intellettiva potenza » (Ivi).
Or da questa osservazione conchiude il santo Dottore, che le specie (idee)
astratte dalle cose materiali furono necessarie a'Iilosofi per conoscere la na
tura dell' anima, non già perchè somministrar ne potessero la simigliali/. > ,
sed quia naturarli spteiei considerando , quae a sensibdibus abstrahUur, in-
venitur natura animae, in qua liujusmodi species recipitur (Ivi). Sicché non
erano i fantasmi sensibili che davano la notizia dell' anima, ma la s/iecie
formata in noi dall'intelletto agente (come vedemmo). Essa, d'una ualuia
107
§ a.
Clie si richiede a spiegare la percezione.
Dove avremo spiegato l1 una di queste due specie di
percezione, l'altra rimane pure spiegala con un ragio
namento simile al primo.

. 7
interamente diversa da' fantasmi , diede un principio , dal quale movendo
trovar si potè la natura dell'anima.
Oltracciò, questa era la cognizione scientifica sull'anima, quella cogni
zione che poteva esser ridotta in definizione. Ora , oltre questa , v' ha una
cognizione sull'anima naturale, la quale, se non si vuol degnare del noni*
di cognizione , certo merita quello di percezione. E non è egli ciascun di
noi conscio di percepire sè medesimo col suo interior sentimento , cui
esprime colla parola Io, sentimento di che non si trova la più piccola traccia
nelle proprietà corporee dell' estensione ecc. , chesou tutte oggettive, mentri;
V Io è una percezione essenzialmente soggettiva? Non mi sembra già che
sia sfuggita questa specie di cognizione a s. Tommaso; ina per hen inten
dere la sua mente conviene prima mettersi innanzi le espressioni ch'egli
adopera a significare le due specie di cognizione di che io parlo, la scien
tifica e la volgare, quella fondata su de' sottili ragionamenti, e questa sopra
una percezione immediata.
San Tommaso dunque osserva, che non si può propriamente dire di co
noscere la natura di una cosa , se non si conosci: la sua differenza specifica,
■ america . mediante la quale si può formare una proposizione che con
tiene la definizione della cosa (cum (res) speciali ani generali cogniliime.
definilur). La sola cognizione scientifica è dunque quella che fa conoscere
la natura dell'anima.
Ha la cognizione che io direi \-olgarc o naturale, cosi la descrive s. Tom
maso: « quella onde l'anima si conosce individualmente » (cioè quantum ad
id quod est ei proprium). Questa specie di cognizione corrisponde a capello
con ciò che io dico anco percezione dell'anima nostra: conciossiachè questa
percezione dell'anima si fa pur la prima volta che noi abbiamo interna
mente detto: NOI SIAMO; e si compone i.° del sentimento dell' lo (ma
teria), a.0 e dell'idea dell'essere in universale (forma), senza più; cioè senza
conoscere espressamente differenze ch'ella s'abbia con altre cose, uè aver
fatto paragone di essa ton nitri oggetti. Ora questa maniera di cognizione
secondo s. Tommaso non è tale , che si possa dire di conoscere per essa
V essenza dell'anima, ma più tosto la sola esistenza ( per Itane cognilionem
cognoscitur an est anima; — per aliam vero — scilur quid est anima).
Prima di proceder oltre, mi si conceda ili fare una osservazione sopra que
sta maniera di denominare la percezione chiamandola cognato qua cognosalur
an est anima. L' Aquinate medesimo si fa questa obbiezione: « Non si può
« sapere di qualche cosa, s'ella sia, quando non si sappia prima, che sia »
{De ferii. Q. X, art. su). Alla quale obbiezione egli risponde così: « Perchè
" si conosca che una cosa sia , non è necessario che si sappia di lei che cosa,
« sia per definizione (cioè che se n'abbia una cognizione scientifica ), ma
•< sì che cosa venga significato pel nome »: il che viene a un dire, die s'abbia
di lei quella cognizione che hanno i volgari delle cose , quando co' loro
nomi le chiamano: la quale, io dico (nel caso nostro), riducesi ad una per
cezione della cosa in totale , senza averla paragonata cou altre cose , nè av
vertite di lei le differenze necessarie per comporre una perfetta definizione.
L'intendimento che io ho nel fare questa osservazione si è di chiamare il
io8
Ponendo dunque mano a spiegar quella de' corpi, rias
sumiamo innanzi trailo il falto.
i." Noi siamo affetti dalle sensazioni; 2" tosto diciamo
a noi stessi: esiste un qualche cosa fgiudizio J\ 3." questo
qualche cosa è determinato dalla natura dell'affezione in
noi prodotta ( idea de' corpi).
Di questo avvenimento or non si tratta di spiegare la
sensazione (prima parte): da essa partiamo siccome à*
un fatto semplice e primigenio nel presente trattato.

lettore a riflettere, che la cognizione di s. Tommaso, qua scilur aliquid esse,


non esprime la pura esistenza della cosa; perciocché ella non si potrebbe
avere senza qualche altra notizia della cosa, che la segnasse fuor, di tutte,
giacché con tutte quell'altre che esistono essa ha l'esistenza comune.
Ora, ciò premesso, ecco quali sono le dottrine dell'Angelico, e quanto
colle mie consentanee, su quella cognizione che io chiamo percezione o
cognizione naturale e volgare, ed egli chiama coguizioue, qua cognoscitur an
est anima.
Egli stabilisce , sulla dottrina di s. Agostino, che » l'essenza dell'anima
« sta sempre presente al nostro intelletto » (ipsa ejus essenlia inteUecuù
nostro est praesens). Or dunque che si richiede perchè il Dostro intelletto
la percepisca? Null'altro, so non ch'egli faccia l'alto necessario per per
cepirla: di che conchiude, che anima per essentiam suam se videi, id est
ex hoc ipso quod essentia sita est sibi praesens, est potens exire in aduni
cognitionis sui ipsius (De ferii. X, vm)j e fa la similitudine di tal cogni
zione, colle cognizioni che conserviamo nella memoria : sicut aliquis ex hoc
quod habet alieujus scientiae liabitum , ex ipsa praesentia habitus est poteiis
perciperc iìla quae subsunt UH habitui (Ivi). E perciò questa cognizione che
ha 1' anima di sè stessa immediatamente, senza fantasmi , egli la chiama
abituale.
Ma perchè (cosi prosegue s. Tommaso a ragionare) l' intelletto esra in
un' attuai cognizione dell'anima, ci dee essere qualche ragion sufficiente di
rio ; e questa non. può essere data che dagli alti dell'anima stessa : « Quindi
» io dico (sono sue parole), che, rispetto a quell' attuai cognizione, onde
« alcuno considera di avere in atto l'anima sua, l'anima non si conosce
•< che per gli atti suoi. Conciossiachè altri percepisce di aver l'anima, e di
f< vivere, e d'essere, in questo, che s'avvede di sentire, e d'intendere, c
« d'esercitare altrettali operazioni della vita » (Ivi). Nel che non si può
menomamente dissentire.
Chiuderò con una osservazione. Rimuovasi in prima la cognizione riflessa
di noi stessi, e rammentisi, che qui si parla della cognizione diretta, im
mediata, della percezione in una parola di NOI; chè l'anima nostra non é
poi altro che questo NOI; e poi si rifletta quanto segue:
Certo è che noi non possiamo percepire intellettivamente noi stessi , se
non per gli atti nostri. Ma badisi: v'hanno in noi degli alti essenziali, quali
sono i.° il sentimento, a.0 l'atto dell'intelletto agente (col quale percepiam
)' essere), alto che è ammesso anco da s. Tommaso e dal filosofo di Stagiia.
Egli non sarebbe dunque impossibile che noi avessimo l'attuale percezione
di noi stessi anche ne' primi istanti di nostra esistenza, quando qualche
cosa vi avesse che dirigesse su di noi la nostra attenzione: ma fino a che
un tale stimolo ci manca , nulla più abbiamo che il potere di acquistar
questa cognizione, al polens (anima) exire in actum cognitionis sui ipsiui.
Non si tratta nè pure di spiegare la natura dell'idea
de' corpi (terza parte), cioè il modo onde quel qualche
cosa, che giudichiamo esistente, venga limitato e deter
minato dalle sensazioni. Questo è ciò che tenteremo di
fare in altro capitolo, dove piglieremo appunto l'idea
de' corpi, tale quale noi l' abbiamo, in esame.
Ciò che dobbiamo fare qui si è dunque questo solo,
di dare una spiegazione sufficiente di quel giudizio col
quale diciamo, in conseguenza delle sensazioni, « esiste
un qualche cosa diverso da noi ».- giudizio che genera
la percezione de' corpi , cioè la persuasione della loro
attuale e particolare esistenza (sussistenza).

§ 3.
Spiegazione del giudizio che genera in noi la percezione de' corpi.

Per riuscire a questo, richiamiamo le cose dette.


Noi abbiamo innata l'idea dell'ente in universale: que
st'idea non ci f<t conoscere nessun ente particolare, ma
solo ci mostra la possibile esistenza di checchessia: quindi
essa è l'idea dell'ente possibile, e non dell'attuale (i). Or
quest'ultima espressione ha qui bisogno di spiegazione.
Dicendo esistenza, dico un'attualità; perciocché il con
cetto di esistenza non è che il concetto di una prima
azione (a). È impossibile adunque che io concepisca l'esi
stenza, senza un atto di esistere, poiché queste due espres
sioni significano perfettamente la stessa cosa.
Ma qtiest' atto di esistere ha due modi : io lo posso
pensare non applicandolo a nessun ente reale, o appli
candolo ad un ente reale.
Se penso V attualità dell'esistenza senza ch'ella sia
applicata ad un ente reale, io penso la possibilità di
enti, e nulla più: ed è questa l'idea innata.
Se penso l'attualità dell'esistenza in un ente reale,
penso ciò che soglio chiamare la sussistenza dell'ente: .
e questo pensiero è appunto il giudizio, che sono por
ispiegare in questo paragrafo, e che produce in noi la
percezione intellettiva, e persuasione dell' esistenza reale
e particolare della cosa.

(«) Parte I, c. IL
(a) Vedine l'analisi, alla Sez. IV, cap. Ili, art. xxm.
I IO
Or, quando io faccio un tale giudizio, io non ag
giungo nulla, come ho osservato altrove (i), alla mia
idea di esistenza : ma non faccio che (issare ciò che pen
sava di checchessia, di qualunque ente possibile, in un
ente reale e sussistente. Come può avvenire una sì fatta
operazione del mio spirito? In questo modo:
Jo penso l'attuale esistenza in universale (idea innata).
Pensare l'attuale esistenza è pensare un' azion prima (i).
Ora le sensazioni sono azioni fatte in noi, di cui noi
non siamo gli autori.
Dunque le sensazioni, essendo azioni, suppongono un'a
zione prima, un'esistenza.
Le sensazioni sono anche azioni determinale: suppon
gono adunque un'azione prima determinata: un'azione
prima determinata è un ente esistente in un modo de
terminato.
Ma noi che abbiamo le sensazioni, siamo quegli stessi
che abbiamo 1' idea dell' attuale esistenza. «
Confrontando adunque noi la passione che proviamo
in noi stessi (le sensazioni), coWidea attuale di esistenza ,
troviamo che quella passione è un caso particolare di
ciò che pensavamo già prima coli' idea generale di esi
stenza; perciocché coli' idea generale di esistenza pen
savamo un' azione, e la sensazione è appunto un'azione
che vien fatta in noi (3).
Pensando adunque noi per natura l' azione in sè
(l'esistenza); quando poi un'azione sperimentiamo in noi
(una sensazione), allora col nostro spirito la notiamo
limitata dov'ella è, e la riconosciamo per ciò appunto
che prima dentro di noi pensavamo, dicendo a noi stessi:
« ecco una di quelle azioni ( o sia un grado e modo
d'azione) che col mio spirito io pensavo».
Il notare questo caso particolare, il riconoscere quella
cosa che passa in noi come appartenente a quanto pen-

(i) Parte I, cap. II, art. li.


(a) Sez. IV, cap. Ili, art. ETITI.
(5) Quindi al fanciullo è sommamente facile dalle sensazioni passare a for
mare il giudizio di esseri sussistenti, poiché non è questo giudizio che un»
percezione intellettiva, a far la quale è la natura stessa della sua intelligenza
che il porta. In tant* altri sistemi sono inesplicabili i giudiz) sull'esistenza
delle sostanze e dulie cause, che fanno i fanciulli ( aj mali però dal linguag
gio) nella prima loro età.
111
savamo gii prima, è ciò che costituisce la percezione
della cosa reale, è il giudizio di cui parliamo.
In un sì fatto giudizio, noi raccogliamo, per così dire,
il nostro spirito (che prima, senza un punto ove con
centrarsi, stava espanso immobilmente sull'essere pos
sibile vacuo, uniforme) , lo raccogliamo, dico, nell'essere
particolare e limitalo, come in quello ove trova l'essere
possibile realizzato, e ravvisa ciò che conosceva, e quasi
direi cercava.
Così si spiega il modo, come succeda un vero con
fronto, e un vero giudizio in noi, fra la sensazione e
Videa dell'ente in universale; e come la prima diventi
il soggetto, in quanto si riconosce contenuta nella seconda,
che è il predicato.
E per acquistar di questo un più chiaro intendimento,
si riducano ai medesimi termini le due cose da con
frontarsi, la sensazione e Videa dell'ente. Esse sono
due azioni: ma Videa è V azione priva di condizioni reali;
la sensazione è V azione medesima limitata da reali e
particolari condizioni. Ora qual meraviglia che io ravvisi
e riconosca un' azione particolare, quando ho già in me
la nozione dell' azione generale?
Dall' azione poi è facile ascendere all'ente, perciocché
«jueslo non è che la prima azione: ora se v'ha un'azio
ne, vi dee sempre avere la prima, perciocché è assurdo
che esista la seconda senza la prima (i).
OSSERVAZIONE I.
Dottrina degli antichi sul verbo della mente.
Dopo aver io meditato quanto fu scritto dagli anti
chi sul verbo della mente, mi sono persuaso, che que
sto misterioso verbo dee intendersi nel. modo seguente.
Quand'io ho l'idea di una cosa, non so ancora se
sussista la cosa di cui ho l' idea (2).

(1) Vedi come si deduce la necessità di una causa da ogni avvenimento,


S<z. IV, cap. Ili, art. xxni.
(•i) Dicendo Y idea di una cosa, sembra che io mclla due elementi, i.° l'i
dea, 1° e la cosa. Non è cosi. Un oggetto solo c' è nel pensiero d' una rosa
possibile, ma con due relazioni. Se considero 1' oggetto pensalo in sè, dicolo
cosa pensata, o essenza; se il considero rispello alla mente, dicolo idea.
Nella semplice idea (specie ) dunque non c'ò il verbo, che è la cosa sussi
stente in quanto è pensata, o pensala come tale. La cosa pensata si può con
siderare in sè , non già perchè esista indipendentemente dalla mente , ina
perchè serve di esemplare, secondo il quale l'essere iuttlligenlc immagina,
11a
Ora diamo che io faccia il giudìzio, col quale io pongo
ed affermo a me stesso quella cosa sussistente : quesl' atto,
ond'io ho posto e affermato la sussistenza, è il verbo
della mia mente (i).
Il verbo della mia mente adunque vien prodotto me
diante un' efficacia della mia volontà, che fissa e deter
mina la cosa pensata, assentendo a credere che quella
cosa sussiste.
Non è adunque il verbo (Mia mente una semplice
idea o specie: ma è V afférmazione di una cosa determi
nata rispondente ad un' idea come a suo tipo od esem
plare (a).
Se la mia mente non possedesse che pure idee o spe
cie, non avrebbe che pure possibilità ; non affermerebbe
ancor nulla, non direbbe nulla. Questa proposizione ri
ceverà maggior luce in progresso, dove farò vedere lo
stalo della mente rispetto alla mera possibilità delle cose.
Il linguaggio adunque esteriore, siccome pure il lin-

o anco produce. Idea dunque di una cosa non vuol dire se non cosa possi
bile, esemplare , secondo il quale l'essere intelligente pensa ed opera.
(i) Perchè il verbo della mia ménte ci sia , basta che colla mia incute
mi fìssi in una cosa sussistente, dando l'assenso alla sussistenza della mede
sima. Quindi io posso pensare i.° ad una cosa attualmente sussistente (per
cezione), a.0 ad una cosa che fu già sussistente e da me percepita (memoria
della percezione), 3.° ad una cosa che non percepisco come sussistente, aia
credo sull' autorità altrui (fede circa la sussistenza ) : in tutte queste tre ope
razioni mentali , sia che io m' inganni o uo , io formo sempre un verbo della
mente, cioè dico una cosa sussistente: 4.°di più, io pronuncio un verbo anco
quando considero come sussistente ciò che non è tale in sè stesso , o per
errore, o per immaginazione , o per ajuto dato al ragionamento mediante
supposizioni .
(a) Il perchè s. Tommaso: * Sebbene tanto la specie come il verbo dalla
« specie generalo sia un accidente, poiché sono nell'anima come iu sog-
m getto, tuttavia il vei-bo prende più della similitudine della sostanza, che
- la specie stessa » (cosi dee essere, sapendo che il verbo è l'assenso alla
« sostanza determinata realmente esistente). « Poiché l'intelletto si sforza di
k pervenire alla quiddità della cosa , e perciò nella specie v'ha virtualmente
» in un modo spirituale (cioè come possibile) la quiddità della sostanza
•> (la sussistenza della cosa), ed essendovi virtualmente, si può da essa
« specie rettamente formare (il pensiero della sussistenza): — sicché il verbo,
« che è appunto questa cosa che si può mediante la specie interiormente
— formare, più s'accosta a rappresentare la cosa (sussistente), che non fac-
« eia la nuda specie delia medesima » ( Opusc. XIV). E certo , della
sola specie e idea di una cosa si può formare il verbo; perocché si può
immaginare una cosa corrispondente a quell'idea individualmente presente :
e così lo statuario immagina la statua nel pezzo di marmo che ha dinanzi:
sicché anche l' immaginazione umana ha il suo verbo, ed è tutto ciò ebe di
potenza creatrice ha l'uomo nelle sensitive potenze.
n3
guaggio interiore della menle, non comincia se non al
lora che la menle s'accorge di qualche essere sussi
stente: fino ch'ella non pensa sussistere un essere, non
dice nulla, non proferisce un verbo: contempla, ma quasi
direi in perfetto silenzio: ella è ancora perfettamente
muta.
La mente poi da questa sua quiete non è mossa a
consentire che qualche cosa sussista, se non per l'im
pulso delle sensazioni interne ed esterno. Da queste dun
que comincia ogni discorso e panila della mente (i).
OSSERVAZIONE U.
. RelazioneJra V idea e il yerbo JMa mente.
Col verbo si pronuncia interiormente la cosa sussi
stente, quella cosa che coW idea si concepiva unicamente
come possibile (3).
La cosa pensata dunque ( idea ) sta alla cosa reale
(espressa dal verbo), come la potenza al suo atto.
Perciò dissi, che queste due cose si riducono in una
sola natura (3): la cosa sussistente è quell'azione prima

(?) Dico comincia , poiché Ih mente riflettendo sopra se stessa e sopra


qualunque sua idea anche astratta , la riconosce sussistente al modo suo
proprio, e quindi forma altrettanti verbi o parole. Fa dunque bisogno una
riflessione sopra l'idea, perchè V idea diventi uu verbo della mente. L'Aqui-
oaie, seguendo s. Agostino, definisce il verbo « una cotale emanazione del-
" l'intelletto» (S. I, XXXIV, 11): e altrove: « Verbo propriamente si chiama
- ciò che V intelligeute intendendo forma « ( Opusc. XIII); il che è la defi
nizione, o una enunciazione qualunque intorno a qualche cosa.
(2) Questa stessa osservazione ecco come nella lingua scientifica delle
scuole venne espressa : « Colla cognizione universale (cioè colla specie, che è
« sempre universale) si conosce la cosa più tosto in potenza che in atto ».
(S. Thoui. Contro Gentiles I, l). Dicendo conoscere I» cosa in potenza, non si
v.l ti dir altro che pensare la cosa come possibile meramente. E cosi av
viene che molte espressioni della scuola, che or presentano una certa oscurità,
t talor anche una goffezza o storpiatura , cavate di quella forma antiquata
si trovino contenere cose piane ed eccellenti. È per questo, che ove mi si
Hi innanzi l'occasione, io vengo dilucidando quando l'ima e quando l'altra
di quelle frasi ; perciocché io crederci di assai ben meritare della filosofia,
ove questo solo mi riuscisse, d'indicare cioè il modo d'intender bene e di
scretamente i libri di un s. Tommaso, e di altrettali, che Leibuizio non si
stancava di chiamar sommi, e che formano il gran nodo che cougiuuge i
tempi moderni colla cristiana antichità.
(3) J 3 — Si potrebbe dimandare , in che modo sia questa unione fra l'idea
dell' ente e il nostro spirito. Sembra da alcuni luoghi di s. Tommaso, clic
questo grand' uomo opinasse per una unione simile a quella delle idee, che
RosMitri, Ort'g. delle Idee, Voi. II. i5
,i4
(esistenza), che si concepiva già da noi (coli' idea),
ma che pur avea bisogno di operare anche su di noi,

si giacciono nella nostra memoria senz' essere attualmente presenti al nostro


pensiero, e che formano ciò ch'egli chiama la scienza abituale (Vcd. De
Verit. Quaest. X, art. vm et ix). Allo stesso modo i principi ÌDnati di
8. Tommaso speculativi e pratici sono abitualmente in noi inseriti (habitus pria-
cipiorum), e all'occasione poi delle sensazioni (phantasmala) tostamente dal-
' intelletto agente si traggono in atto, e quasi direi si rammemorano. Ma è
'da osservare, che il dottore d'Aquino, oltre queste nozioni innate in abito,
e non in atto, mette un intelletto agente, che è veramente in alio, e che
rende attualmente presente al pensiero col suo lume ogni cosa. Ora io ho
conghietturato , che questo colai lume dell'intelletto agente, che si tiene
sotto la coperta della metafora, e dal quale negli scrittori antichi non si
trova o mai, o certo di rado ed alla sfuggevole, levato quel velo, sia pure
l'idea dell'ente; e mi compiacqui di trovarmi in ciò nel sentimento di s. Bo
naventura. TJn luogo però di s. Tommaso a prima giunta potrebbe far dubita-,
re, se questa foss* anche la mente sua , ovvero se in ciò dal suo grande amico
un poco si scompagnasse; ma parmi che si possa conciliare que'due insigni
uomini, discretamente intendendo le parole dell'Aquinate. 11 passo del quale io
parlo è il seguente : m Similmente hassi a dire (così egli) dell'acquisto della scien-
« za, che succede in questo modo. Preesislono in noi certi ertali semi delle scien-
« ze, .cioè a dire le prime concezioni dell'intelletto, le quali immantinente pel
k lume dell'intelletto agente si conoscono mediante le specie astratte da' fan-
« tasmi, o sieno queste complesse, come gli assiomi, osieno incomplesse, come
« il concetto dell' ENTE (ratio entis) , e dell'uno, e simigliami, cui l'intel-
« letto tosto apprende. Da questi principj universali poi tutti gli altri priu-
k cipj conseguono, siccome da cotali ragioni seminali» (De Verit. Q. XI,
art. i ). Ora ecco il dubbio che questo passo ingenera circa la mente
dell' angelico Dottore. Egli mette il concetto delt ente fra quelle cose che
l'intelletto agente vede immediatamente, ma all'occasion de' fantasmi. Or
dunque egli nou fa che 1' ente sia ciò che forma , secondo la nostra con-
ghiettura, lo stesso intelletto agente. L' interpretazione che io propongo, e
che mi sembra alquanto probabile si è questa, che altro è avere il conceUo
dell'ente (ratio entis), e altro è aver presente semplicemente Y ente senza più-
Vedere la nozione o il concetto dell'ente, è intenderne la forza, cioè inten
dere com'egli sia suscettivo di applicazione, e di produrre a noi da' suoi
visceri diverse cognizioni. Anch' io dico, che noi non possiamo conoscere
la forza, la fecondità, e anche la virtù che ha l'idea dell'ente di essere
applicata, fino a tanto che all'occasione delle sensazioni ( fantasmi) noi non
l' applichiamo : allora quella idea non isla più solitaria, scioperala ; diventa
operativa ; noi allora miriamo in essa con una attenzione ed intenzione
nuova , e vi scorgiamo la sua nozione, o intima natura (ratio entis) . Comec-
chpssia, necessaria cosa è ammettere aderente allo spirito nostro l'idea
dell'ente o attualmente o abitualmente: perciocché da questa idea io potrò
bensì dedurre, ov'io l'abbia, tutti i principj speculativi e pratici, e potrò
spiegar quindi il fatto dell'umana cognizione; ma, ov'io noi» l'abbia, con
viene che o Iddio la crei in me, o io la crei a me stesso nell'atto delle sensa
zioni: due sistemi egualmente da rifiutarsi. Finalmente osservo, che s. Tom
maso medesimo adopera quelle espressioni che io pure adopero, e quiudi
vere le riconosce; come, che il lume dell'intelletto agente formaliter inhatret
inlelleclui ( S. I, LXX1X, iv); e parlando della cognizione abitualeche ha
1' anima di se stessa, dice che ipso ejus cssenlia inlelleclui nostro est prauciu,
u5
acciocché noi pronunciassimo che realmente e partico
larmente sussisto ciò che pure concepivamo (i).

ARTICOLO V.
NECESSITA* DELLA PERCEZIONE INTELLETTIVA.

Lo spirito nostro, ricevendo delle sensazioni, è egli


necessitato per sua natura a percepire immediatamente
qualche essere?
Questa questione di fatto non appartiene al mio pre
sente intendimento. Ma la necessità della percezione, di
che intendo nell'articolo presente parlàVe, è d'altra guisa.
Dico, che se lo spirito nostro intende qualche cosa, egli
è necessitato d'intendere al modo che ho fino a qui
descritto, cioè mediante il giudizio primitivo, onde l'ente
che già egli pensa lo riconosce sussistente in quel dato
modo particolare, al quale le sensazioni ricevute glielo
determinano e limitano.
E il detto fin qui dimostra questa necessità. Goncios-

tche mima per essentiam suam se videi (De Veril. Q. X, art. vm), ecc.
quantunque questo vedere non sia per s. Tommaso cognizione attuale, ma
abituale. Che se pur io potessi qui stabilire una verità, che troppe parola
esigerebbe a rendere ai più manifesta, ma che a chi ebbe Inngo uso di os
servare e riflettere sopra se stesso dee sembrare manifestissima, cioè « che
ogni alto dello spirito nostro è essenzialmente incognito a se stesso»; io mi
affido a credere, che quel duro e malagevole che altrui presenta la sen
tenza» aver noi un'attuale visione dell' ente(in universale) in ogni momento
della nostra esistenza», ed anche in que* primi istanti de' quali nulla noi ri
cordiamo, svanirebbesi interamente, e con una certa maraviglia beasi, ma
pur tuttavia facilmente quella sentenza si accetterebbe, senza darsi solleci
tudine di ricorrere ad una abituale od assopita cognizione. Ma perciocché
non molto rileva il modo di concepire l'unione dell'idea dell' ente con noi,
purché questa unione si riconosca, io non aggiungo altre parole a questa
lunga annotazione.
(1) Chi baderà a questa distinzione fra la idea (specie) ed il verbo , in
tenderà per mio avviso la distinzione che Platone faceva fra I* opinione vera
eia scienza. Questa era delle idee, de' possibili ; quella delle cose particolari
esistenti (verbo), perciocché è .incrinando qualche cosa che si dice il vero
»-d il falso, attributi dell' opinione, e non della scienza, che è sempre vera
Secondo Platone e s. Agostino ( De Trin. L. XV). Nel Timeo Platone di
stinse la scienza dall' orunione vera, dicendo che «la prima è insinuata da
«* una dottrina, la seconda dal prendere che noi facciamo una persuasione ».
In fatti, giudicando una cosa sussistente, noi non acquistiamo una dottrina
nuova , perocché quella cosa la conoscevamo, avendone l'idea; ma acqui
stiamo una persuasione della sua sussistenza col prestare il nostro assenso
per l'efficacia del nostro intelletto. Tuttavia v'ha un'eccezione a fare ciré»
l'essere necessariamente sussistente, l'essere per essenza, uella percezione
del quale il verbo e l'idea s' un mede si ma no.
i i6
siachè mostrai, che l'essenza dell'intendere le cose sus
sistenti (il percepire intellettivo) non è altra cosa che
il dare quell'assenso, il formare quel giudizio che ho
descritto.
E veramente, dato che il nostro spirilo abbia con
giunta a sè per congiunzion naturale l'idea dell'ente; che
la vegga sempre necessariamente; dato che quest'idea,
aderente con una unione immobile al nostro spirito ,
sia ciò che forma in lui l'intelletto e la ragione (i);
dato per conseguente, che la natura dello spirito intel
ligente e ragionevole consista nell' intuire questa idea: è
dunque questa la legge della intelligenza, di non concepir
nulla, se non come un ente, come un qualche cosa (2).
Ma questa legge della intelligenza non è soggettiva, o
arbitraria; ella è necessaria, sicché egli è impossibile
pur pensare il contrario.
In vero, non sarebb'ella una contraddizione ne'termini
il dire che il nostro spirito conosce le cose che a lui
si presentano, senza concepire un qualche cosa? e con
cepire un qualche cosa non è il medesimo che concepire
un essere?
La formola generale adunque che esprime la natura
necessaria della percezione intellettuale è la seguente :
o giudicare un ente (sussistente) fornito di alcune sue
determinazioni ».
Ma a chiarimento maggiore, poniamo che noi rice
vessimo le sensazioni da' corpi, ma che non avessimo la
potenza interiore di veder l'ente; quindi che quelle sensa
zioni non potessero essere da noi considerate in relazione
coli' ente. Ciò posto, sarebbesi modificalo il nostro spirito
dalle sensazioni corporee; ma queste non ci apparirebbero
punto siccome determinazioni di un qualche cosa: quindi
noi non percepiremmo mai per esse un ente determinato,
una cosa sussistente, un corpo; chè percepire un corpo
è percepire un ente determinato. Le sensazioni (e V Io
da esse modificato) non sarebber allora percepite dal-

(1) Cap. n.
(?) In questa dottrina conviene il celebre detto delle scuole, Intellectns liabet
operationem circa ens in universali (Ved. s. Torniti. S.l, LXXIX, ni,- o
quell'altro di s. Tommaso, ìnteUectus respicit rationem entis (S. I, LXXIX,
>Jt ). Quindi ancora la scuola insegnava, che Quod non est, non intclligilur
itisi per id quod est.
V intelletto nostro: solo nel senso rimarrebbero : quindi
nulla conosceremmo; solo saremmo modificati passiva
mente, sentiremmo, e nulla più. Acciocché, oltre sentire
il corpo (e questo nome è inventato solo in conseguenza
della percezione intellettiva del medesimo), anche lo co
nosciamo, fa bisogno avervi in noi la potenza di veder
ivi un'ente determinato, dov'è la sensazione.
Lo spirito intelligente non conosce dunque se non
mediante l'idea dell'ente, che in sè possiede; giacché
conoscere non è che percepire una cosa, come un grado,
un modo, una determinazione dell'essere meramente
possibile o comune.
OSSERVAZIONE I.
Sulla questione, se V anima pensi sempre.
Dalla teoria fin qui esposta viene la soluzione della
questione cartesiana, «se l'anima pensi sempre ».
L' anima è intelligente, perchè ha continuamente la
visione dell'ente (i).
Quindi 1' intelligenza è una facoltà essenzialmente at
tiva (3) e pensante : ma ciò non già perdi' ella s' abbia
presenti tutte le possibili idee , ma unicamente perchè
«'ha presente una sola idea, l'ente; e con questa idea,
che è suo lume (3), vede e distingue ciò che i sensi le

(1) Parte I.
(3) San Tommaso sull'orme di Aristotele dà la stessa soluzione all'accennata
questione. Applica, come toccammo, allo spirito intelligente il celebre prin
cipio « Nihil agii, nisi secundum quoti est actu»(S. I, LXXVI, l), e di esso
deduce la necessità che lo spirito sia in atto essenzialmente; nè l'uomo
avrebbe potenza da intendere, se ciò non fosse. E non vedo perchè inten
dere non si possa dell' intelletto agente, anziché dell'intelletto acquisito
( intellecfus adeptus), il detto di Aristotele, che «non accade d'un tale in-
« telletto, che talora intenda e talora non intenda», volendo dire che sempre
intende (De Anima IH). San Tommaso non niega che un tal detto si possa
intendere dell'intelletto agente, poiché dice:« In qualsiasi allo col quale
«• l'uomo intende, concorre l'operazione dell'intelletto agente e dell'intelletto
« possibile. — Ora quanto a ciò che si richiede perché noi considerar pos-
« siamo, da parte dell' intelletto agente niente manca a far sì, che noi sem-
« pre intendiamo ; ma manca quanto a ciò che è necessario da parte del-
« l'intelletto possibile, che non s'empie se non per le specie intelligibili
- astratte da' fantasmi » (De Verit. Q. X,art. vili). E la ragione per la quale
rispetto all'intelletto agente non ci restiamo dall' intendere , si è che l'in-
telletto agente « nulla riceve dal di fuori », ma trae tulio da sè, cioè la forma
della cognizione, l'essere in universale.
(3) Morris , scrittore che ha sviluppalo in Inghilterra il sistema di Male
branche j nell'opera sua Essoy towards the Theoiy of the ideal or iiitel
n8
somministrano nel modo spiegato, e intende quanto altri
esseri ragionevoli parlano.
La ragione poi ond' avviene che essendo l' idea del
l' ente fino dal primo istante della nostra esistenza con
noi indivisibilmente congiunta , tuttavia noi non ce ne
accorgiamo per molto tempo, fu da noi altrove di
chiarata (i).
OSSERVAZIONE II.
In che senso l'intelligenza sia una tavola rata.

Qui pure si parrà chiaro perchè io altrove (2) usassi


la similitudine antica della tavola rasa (3) per descrivere
lo stato nel quale è la nostra intelligenza all'istante che
cominciamo ad essere.
Questa similitudine è acconcia all'argomento, intesa
in questo modo.
La tavola rasa è l'idea indeterminata dell'ente, che
è in noi dalla nascita.
Quest'ente, che concepiamo essenzialmente, non avendo
alcuna determinazione, è come una tavola perfettamente
uniforme, non ancora tracciata o scritta da carattere
alcuno. Ella perciò riceve in sè qualunque segno e im
pressione che in lei si faccia ; il che vuol dire , che
r idea dell'ente comune si determina ed applica egual
mente a qualunque oggetto, forma, o modo ci si pre
senti mediante i sensi esterni od interni. Adunque ciò
che veggiamo fin dal primo nostro essere, non sono ca
ratteri; è un foglio di carta bianco, ove nulla era scritto,
e nulla quindi leggervi potevamo : questo foglio bianco
ha la sola suscettibilità (potenza) di ricevere qualunque
scrittura, cioè qualunque determinazione di esistenza par
ticolare (4).

lectual IVorld, fra l'altre proposizioni, si propone a difendere la seguente,


« che se le cose materiali fossero percepite per sè stesse, sarebbero un vero
« lume alle menti, poiché verrebbero ad essere la forma intelligibile de'
« nostri intelletti, e per conseguente sarebbero perfettive di essi, e ad essi
k superiori « : proposizione nella quale egli trova , con ragione , falsità e
ripugnanza.
(i) Parte I, c. ITI, art. v, { 2.
(a) Nel Saggio sui confini dell' umana ragione ( Opusc. Filos. Voi. I ,
face. 5g).
(3) Aristotele la rese celebre usandola nel lib. Iti De Anima.
(4) Io conghietturo che questa sia la vera interpretazione che dar si dee
alla tavola rasa degli antichi; e credo che i moderni, per la gran- voglia di
"9
CAPITOLO V.

l'idea dell' ente innata scioglie la difficoltà' generale


del problema dell' origine delle idee (i).

ARTICOLO L
SOLUZIONE DELLA DIFFICOLTA'.

La difficolta che conteneva il problema dell'origine delle


idee, è stata da me ridotta in questa semplice dimanda :
■ come sia possibile il primo giudizio ».
Neil' ipotesi lockiana , che tutte le idee venisser da'
sensi, la difficoltà era insolubile.
Avendo io conceduto, e provato, che un'idea uni ver
dissima preesiste in noi naturalmente a tutte le nostre
sensazioni, la difficoltà che impediva d'intendere come
si formasse il primo giudizio è interamente rimossa.

ridersi di tutta l'antichità, non l'abbiano putto intesa. Ecco quali sono le
ragioni che confortano la mia opinione, i .° La similitudine della tavola
rasa dice cbe non v' è nessun carattere particolare scritto nell'anima nostra,
ma ammette però una tavola su cui si possa scrivere checché si voglia.
Che cos'è dunque questa tavola piana e liscia, innata nell'anima nostra?
Questa, io dico, è appunto Venie universalissimo, atto a ricevere qualunque
determinazione, a.0 La similitudine della tavola rasa si può spiegare col-
l'altra che usa Aristotele della luce e de' colori. Non vi sono colori, dice
Aristotele, ma c'è luce innata, la quale per sè è uniforme ( la spianatura
■Iella tavola), e atta a far vedere tutti egualmente i colori delle cose.
3." Perchè intendendo nel modo detto la tavola rasa, si conciliano molti
passi d'Aristotele, altramente inconciliabili. 4-° Perchè negli antichi si trova
usata la similitudine della tavola rasa , e in certj luoghi è dagli autori me
desimi espressamente detta innata l'idea dell'ente. Valgami per tutti il
solo s. Bonaventura. Egli usa di quella similitudine aristotelica nel suo Com-
pendium Theologicae veritatis , Lib. II, Cap. XLVI; e nel Cap. XLV del
medesimo dice, che tutte le cognizioni vengono dal senso. Or tutta
via non è dubbio, che questo sommo uomo, non dirò italiano, perchè del
mondo, pone essere uell' uomo innata l'idea dell'essere attualissimo ( Itili,
mentis in Deum ) ; cioè più di me ; perciocché io pongo innata solo l' idea
dell' «sere comune e peritamente indeterminato. Che dire adunque? Che
quella similitudine della tavola non era intesa dal santo Dottore in quel
misero modo nel quale i moderni sogliono adoperarla,
(i) Sei. IL
120
ARTICOLO n.
OBBIEZIONI , E 1IWOUTB.

5 I.
Obbiezione prima.

Pur tuttavia si presentano dello obbiezioni; ed ecco la


prima.
Il giudizio, detto necessario a formarci le idee, fu de
scritto per modo, ch'egli viene ad un medesimo colla
concezione dell'idea, sicché le idee non si concepiscono
se non mediante un giudizio.
Se questo è vero, nulla fa che l'idea universalissima
sia innata in noi: ella è un'idea; basta ciò perchè abbia
bisogno anch'essa d'un giudizio per essere concepita.
L'essere innata non esclude il concepimento suo; altro
non dice, se non ch'ella è concepita da noi fino dal
primo istante della nostra esistenza, è concepita per na
turai virtù.
Se dunque non si concepiscono le idee che mediante
un giudizio, ritorna la medesima difficoltà che si volea
prima evitare, e ci si dimanda di nuovo, « come sia
possibile quel giudizio mediante il quale noi percepiamo
l'idea universalissima ».
Risposta all' obbiezioni prima.
L'obbiezione tutta s'aggira sopra una falsa supposi
zione, cioè « che un giudizio sia necessario alla conce
zione di qualunque idea ».
All'incontro vero è, che un giudizio è necessario solo
alle idee che si suppongono di nostra formazione; è ne
cessario nella concezione solo di quelle idee che con
giungono in sè un predicato ed un soggetto, che risul
tano quindi da due elementi, siccome le idee de' corpi,
l'uno generale (il predicato), e l'altro particolare o certo
men generale (il soggetto). Ma se v'avesse un'idea la
quale non constasse di questi due elementi, e fosse un
solo di essi, ella non avrebbe bisogno di alcun giudizio
per essere da noi avuta e concepita: conciossiachè il
giudizio è sempre una operazione della mente, colla quale
si concepiscono due termini colla relazione in fra loro:
sicché ove non fossero due i termini, ma un solo fosse,
non s'esigerebbe un giudizio di sorte a percepirla; anzi
lai
il giudizio sarebbe impossibile; e una intuizione dareb-
besi immediata, e da nessun giudizio prevenuta.
Ora di tutte le idee della mente umana trovasi die
ve n'ha una appunto, ed è Videa dell'ente, quell'uria
che di questa singolare proprietà è fornita, cioè d'essere
semplicissima e non comporsi di un predicato e di un
soggetto, e quella sola perciò che non ha bisogno d'i
uni giudizio per essere concepita.
Dunque l'idea dell'ente non si può formare con una
nostra operazione: non si può che semplicemente in
tuire s e per intuirla, conviene che sia presente al nostro
spirito.
§ 2.
Nuoto rincalzo all'obbiezione prima.
E nondimeno non posso dissimulare di sentire , che
non è poco difficile a ben intendere come egli avvenga
che noi concepiamo l'idea dell'ente, senza mescolare in
questa concezione nessun giudizio.
Anzi a prima giunta egli pare, che l'idea dell'ente
s'\ possa esprimere in una proposizione così: « può esi
stere un qualche cosa ». Ora una proposizione è un
giudizio. Se noi concepiamo quella proposizione, giudi
chiamo con essa che « un qualche cosa è possibile ». E
che questo giudizio s' inchiuda nell'idea dell'ente, con
fermasi dall'analisi stessa da noi fatta di questa idea (i).
Per quell'analisi noi abbiam trovato, che l'idea del
l'ente risulta veramente da tre elementi, due de' quali
sono I." l'idea di un qualche cosa, a." e l'idea della
possibilità di questo qualche cosa. Ecco pertanto un pre
dicato e un soggetto: quel predicato e quel soggetto che
vengono pure espressi nella proposizione « un qualche
rosa è possibile ». La possibilità dunque è l'elemento
che forma il predicato, e il gualche cosa indeterminato
è l'elemento che forma il soggetto, Noi dobbiamo ac
cingerci a trattare diligentemente di questa difficoltà.

(i) Parte I, c. III.


Rosmini, Orig. delle Idee, Vol. II.
I 22
Continiuaiont della risposta.

Nasce questa difficoltà dall'incertezza che presenta il


concetto di mera possibilità. Occupiamoci a fame una
più accurata analisi.
Da prima si noti, che qui si parla di possibilità logica:
non si confonda colla probabilità; che queste due cose
sono adatto disparale infra loro. Che cosa è dunque la
possibilità logica ?
La mera possibilità è un'idea negativa: con essa»
esprime che nella mente nostra non v' ha nulla che renda
ripugnante (il che equivale a inconcepibile) la cosa di
che si parla, eziandio ch'ella si ripeta indefinitamente.
Tutto dunque ciò che non involge contraddizione, si
dice possibile: e vuol dire, che la mente può pensar
sempre che esista; può immaginarlosi come esistente quante
volte le aggrada ; ella non ha nulla ragione in sè che
lo dichiari assurdo, cioè contradditorio.
Perchè una cosa sia dalla mente dichiarala impossibile,
è bisogno che questa possieda una ragion necessaria,
colla quale non possa stare la esistenza di quella cosa;
sicché o quella ragione debba dichiararsi falsa, o pure
la cosa debba dichiararsi impossibile. Riconosciuta neces
saria quella ragione, ella non si può più dichiarar falsa;
dunque si dichiara impossibile la cosa di che si parla.
Il contrario dell''impossibile è il possibile. Come dunque
noi, per dichiarare impossibile alcuna cosa, dobbiamo
avere un concetto positivo e necessario col quale coni
la cosa in discorso; così per l'opposto la possibilità della
cosa non richiede che l' assenza di un tal concetto che
la renda ripugnante e contradditoria.
La ragione poi ond' avvien che alla voce possibilità
s'aggiunge un significato positivo, è l'indole della mente
nostra e del linguaggio. Il linguaggio esprime tanto gli
esseri positivi e reali, come i negativi, egualmente con
una parola, cioè con un segno positivo. Quindi la facilita
di confonderli insieme. Così quando noi nominiamo ij
nulla, noi non facciamo che escludere l'esistenza di
qualsiasi cosa con tal vocabolo; e tuttavia ci sembra di
dir pure una cosa, perchè segnamo il nulla con una parola.
Ciò che dico della possibilità non può già applicarsi
alla probabilità. Se la possibilità dice un' assenza di con
123
tracldizione; la probabilità dine di più qualche cosa di
positivo, una ragione insomma della mente, che rende
la cosa probabile ad essere o ad avvenire: cioè o de'
casi ne' quali la cosa sia altra volta avvenuta, o pure
la cognizione di una potenza sussistente atta a produrla.
Quinci ognun vede che noi prendiamo la possibilità
in senso logico ed assoluto, e non in senso approssima
tivo, siccome si suol prendere ne' comuni ragionamenti.
« E impossibile, si dice, che quest'albero si trovi qui
nel giardino senza che sia stato il seme onde uscisse » .
Ecco un'impossibilità fisica, cioè ripugnante alla legge
fisica che ogni pianta esce dal seme.
u È impossibile che non incappiale in qualche grave
danno, esponendovi come voi fate a tanti pericoli ».
Questa impossibilità non è che improbabilità, cioè ri
pugna il conservarsi incolume coll'ordine comune degli
avvenimenti. L'impossibilità di cui parliam noi non è
quella che pugna con delle leggi fisiche, o col solito
corso delle cose, o nè anco con leggi morali: è quella
che pugna colle leggi del pensiero: sicché messo l'uno
de' due termini della proposizione, l'altro non si può
concepire contemporaneamente esistente. Tutto che non
involge sì fatta contraddizione è ciò che noi diciamo
possibile (i).

(i) Talora certe rose hanno in sè una impossibilità logica nascosta, la


quale non ci apparisce tosto, e dobhiam molto cercarla. Questo nasce perchè
l'idea clic noi abbiamo di tali cose non è perfetta; è troppo generale; non
discende alla cosa in sè, ma la pensa come formante parte di un genere o
di una specie, senza imbarazzarsi di penetrarne per cosi dire il fondo indi
viduale. Quindi è necessario pensare alla cosa stessa ed alle sue proprietà,
non solo alle sue qualità generali , prima di potere assicurarci eh' ella sia
possibile. Prendiamo un esempio dalla matematica. « Si voglia la radice
quadrata del numero a , espressa in una serie finita di numeri ». Questo
problema, prima che i matematici si accingessero a risolverlo, poteva sem
brare possibilissimo. Venuti alla prova , trovarono che non è. Allora s' in
ventò anche una dimostrazione dell'impossibilità di avere espressa in una
"i-rie finita di numeri interi e fratti la radice del a , come di qualunque
altro di que' numeri che perciò chiamarono incommensurabili. Qui era ne
cessaria una dimostrazione dell' impossibilità del detto problema: appunto
perchè l'impossibilità era nascosta, e non si offeriva subito agli occhi da sè
medesima.
La ragione di questa imperfezione della mente nostra, che non vede di
tratto l'impossibilità di certe cose, e per conseguente non può assicurarsi
della loro possibilità , si trova in ciò che abbiam detto più sopra circa la
indeterminazione dell'idea dell'ente: quest'idea innata è una tavola rasi,
cerne vedemmo, non iscritta ancora da carattere particolare; in somma è
124
La possibilità dunque di una cosa, e nulla di positivo:
è un essere mentale, come suol dirsi: cioè una osser
vazione che fa la mente, osservazione che nel caso no
stro consiste in non trovare nella tale o tal altra cosa
( in quanto è da noi concepita) intrinseca ripugnanza.
Questa mancanza di ripugnanza ideale noi la espri
miamo col vocabolo di possibilità.
Tutti gli esseri mentali poi sono il frutto dell' osser
vazione, colla quale uom s'accorge mancare la tale o tal
ultra cosa : quindi essi non possono essere cose presenti
alia mente nostra fino dal principio della nostra esistenza,
separatamente presi ed in sè , ma solo noi li notiamo, e
ce li mettiamo dinanzi di poi nello sviluppo successivo
del nostro intendimento.
Concludiamo: la possibilità delle cose, in quanto è
un essere mentale atto ad essere espresso con un vo
cabolo, non è in noi innata, ma noi la osserviamo con
un alto della mente: all'incontro la possibilità, in quanto
è una mera mancanza di ripugnanza fra le idee, non è
nulla di positivo, e nuli' altro viene a dire, se non, nel
l'idea dell'ente indeterminato non avervi ripugnanza, e
perciò non potervi esser nè pure in qualunque altra cosa
che noi in essa vediamo.
Or di questo la conseguenza è manifesta : in noi non
è di positivo innato, che la semplicissima idea dell'ente.-
la possibilità non è un predicalo del medesimo che ag
giunga a lui qualche cosa, ma esso esclude da lui qualche
cosa ( la ripugnanza), e serve a semplificarlo.
Posti questi principj, la proposizione « può esistere

in mera potenza verso lutti gli esseri determinali: quindi la mente non può
giudicare di essi, nè della loro possibilità, senza i.° pensare alle loro deter
minazioni, a* e confrontar queste coli' idea dell' ente, come regola suprema.
K dunque innaia la regola per giudicare della possibilità delle cose ; ma
non è innato il giudizio, nè la materia di questo giudizio: e quindi quel giu
dizio conviene cercarlo, e talora con fatica.
Se Kant avesse osservato, che la possibilità non è che un concetto ne
gativo, che esprime «non avervi alcuna ripugnanza colle leggi del pensare
ad esistere la cosa di che si parla » ; e di più, se non avesse confuso la
possibilità slessa col pericolo in cui talora siamo di giudicare tortamente
della medesima; egli non avrebbe negato che per poter noi giudicare die
una cosa sia possi In le basti dimostrare non avervi in essa (nella sua irle»)
ripugnanza , nè avrebbe dimandato qualche cosa di più pel concetto della
possibilità, siccome fa nella Critica della ragione pura, il che lo dilungò via
più da cogliere il vero. Ved. Parte I, Lib. II, Cap. II, Sez. Ili j tv.
I 25
qualche cosa » se s'adopera a significare ciò che v' ha
d'innato è inesatta. Quella proposizione suppone che Videa
della possibilità, quest'essere puramente mentale, noi l'ab
biamo già estratto colla nostra mente dalla semplicissima
idea dell'ente 5 e che abbiam così vestito di una forma
positiva, cioè di un pensiero e di un vocabolo, ciò che
è negativo di sua natura; che l'abbiamo, in una parola,
convertito in un predicato apparentemente positivo.
Volendo dunque entrare ad analizzare e conoscere ciò
che v'ha d'innato in questa proposizione «può esistere
un qualche cosa », conviene che togliam via da essa tutto
ciò che ci viene aggiunto apparentemente per la forma
del concepire e dell'esprimere nostro. A tal fine questa
proposizione, «noi abbiamo innato che un qualche cosa
è possibile » , conviene tradurla in quest'altra: «noi ab
biamo d' innato (cioè abbiamo presente al nostro spirito)
l'idea dell'ente priva di ripugnanza » ; ovvero in questa:
« noi abbiamo d'innato l'idea dell'ente, e riflettendo poi
mi di quella, si osserva esser priva di ripugnanza». E
poiché l'idea dell'ente costituisce la nostra intelligenza,
si può definire l'intelligenza nostra la facoltà di veder
l'ente; e riflettendo sudicio, si conchiude, che toltaci
la vista dell'ente, la intelligenza nostra è pur tolta. Quindi
J'enle non ci può esser tolto, cioè rimosso dalla mente.
Ora il rimuover l'ente, ed il lasciar l'ente, è ciò che si
chiama contraddizione. Nella nostra intelligenza adunque
non può esistere contraddizione. Quindi 1' intelligenza
non intende , ovvero (il che è lo stesso) non è intelli
gibile, non è pensabile, se non ciò che non involge con
traddizione.
Laonde egli è posteriormente, che noi osserviamo l'ente
prendere quelle molte determinazioni che ravvisar si
possono negli esseri reali. Quindi noi diciamo, che in
quella essenza dell'ente si contiene la possibilità delle
cose; il che non vuol dire altro, se non che «non v'ha
ripugnanza fra quell'idea dell'ente indeterminato, e le
sue determinazioni e realizzazioni».
In somma, dall' osservare che V ente è privo di deter
minazione (il che è una negazione, e non un predicato posi
tivo), noi poscia concludiamo (quando giungiamo, riflet
tendo colla nostra mente, a simile considerazione) esser
possibili (pensabili) una quantità indeterminata di esseri
ideali e reali, cioè di determinazioni e realizzazioni dèlia
i a6
nostra idea; o sia, non involgere ripugnanza eoli' idea
stessa; o anzi, ammetter questa senza ripugnanza tutte
quelle determinazioni e realizzazioni : il quale concetto
di mera possibilità è un concetto perciò acquisito all'oc
casione dello sviluppamelo di nostre facoltà ; non avendo
d'innato altro che il fondamento suo, cioè l'idealità e
indeterminazione dell'ente: la quale indeterminazione
non è punto un predicato, ma una negazione di predicalo,
che conferma e fa semplicissima d'ogni giunta quell'idea.
L'idea dell'ente adunque com'è innata senza predicato
alcuno, è essa medesima predicato universale. All'incontro
essendo essa priva di qualunque determinazione e azione
reale, queste determinazioni e azioni diventano il soggetto,
a cui essa si unisce od applica siccome predicato. L'idea
dell'ente dunque non racchiude un giudizio, ma costi
tuisce la possibilità di tutti i giudizj, in quanto die
ove ci si presenti un soggetto, noi possiamo coll'idea
dell'ente che è in noi, siccome con predicato comune,
giudicarlo (i). . .
§3.
Obbieiione seconda.
La obbiezione che mi sono occupato di sciorre, era
tratta dall'uno de' due primi elementi dell'idea dell'ente,
cioè la possibilità (2) . La soluzione mi venne trovata
dimostrando che questo elemento è negativo, e che perciò
non toglie, anzi esprime la semplicità dell'idea dell'ente.
Ma il secondo elemento, cioè il qualche cosa, l'esi
stenza, l'ente indeterminato in una parola, porge un'altra
difficoltà a concepire come l'idea dell'ente può essere
in noi senza bisogno di alcun giudizio primitivo, e la
difficoltà è la seguente. « Quando io concepisco l'idea
dell'ente, in questa concezione aver si debbono due
termini, l'io che percepisce, e l'idea dell'ente percepita.
In quest'atto adunque la mia coscienza mi dice: « io per
cepisco l'ente ». Questo è un giudizio: sembra dunque
che in ogni percezione oggettiva (cioè che non sia una

(1) La cognizione anche secondo s. Tommaso suppone una misura, un»


regola, poiché dice: Ititelicetu* accipit cognitionem de rebus MENSURANDO
eas quasi ad sua principia. De Verit. Q. X, art. 1.
(*) Pari* I, c. IH, art. l
1 27
mera modificazione indivisibile del soggetto principale)
debba entrare necessariamente il giudizio».
Risposta alla seconda obbiezione.
La risposta giace in una osservazione, clic, per essere
alquanto lina, non è tuttavia a noi lecito il trascurar
la (i): ed ecco qual sia. *«
L'atto ond'io concepisco l'idea dell'ente, siccome l'atto
ond'io coli' occhio corporale vedo un oggetto visibile,

( i ) Farebbe egli secondo il buon metodo, chi portando l'occhio osservatore


sulla natura , si facesse poi una legge di non osservar che i fatti più ovvii e
manifesti? echi, quantunque volte s'abbattesse ad un avvenimento singolare,
a qualche cosa di recondito e di misterioso, dicesse : « oh , questo trascuria
molo, poiché osservar questi fatti è troppo difficile, verificarli con ripetute
osservazioni ed esperienze troppo laborioso, ed avremo sempre de' risultati
oscuri ed incerti»? Non sarebb'egli ciò, per chi professa filosofìa, un bef
farsi della natura, e degli uomini a cui pretende farsi maestro? non sarebbe
un' incredibile presunzion questa , il voler comporre delle teorie, dispensan
dosi insieme dal cavarne le basi dalle cose su cui queste si fanno? quasi
ché sia in arbitrio dell' uomo dichiarare un fatto della natura non neces
sario alla scienza, solo perchè è difficile ed oscuro; o quasi si trovi in potere
loo il far sì, che la natura delle cose non sia cosi coni' è , in tutte quelle
parti che riescono troppo per lui difficili da esaminare ed osservare? E
pure questo è il metodo di que' minuti filosofi che si sono addietrati a
Locke, i sensisti e i materialisti. I valentuomini stessi hanno preso una tinta
di questa matta presunzione, ed hanno dato segno di questo cattivo metodo
quelli che si piccavano più di metodo buono e rigoroso. A ragion d'esem
pio, Bonnet, che vai pur molti altri, ove si fa a dimandare se vi abbia in
noi per natura un sentimento della nostra esistenza, lo esclude; ed eccovi
tutta ragione di ciò: « non è bene, egli dice, l'ammettere un certo senti -
« mento dell'esistenza, di cui noi non sapremmo formarci alcuna idea: egli
m è meglio senza dubbio di non ricevere che DELLE COSE CHIARE, e
- sulle quali si possa ragionare » ( Anaìyse abré^ée de f Essay analjrti-
que, II). Ora, se non si vogliono ricevere che delle cose al tutto chiare,
poco a dir vero si riceverà: chè la natura è piena di oscurità e di misteri.
Se si vuol cercare ciò che è bene d'ammettere, e non ciò che è vero; chi
potrà sapere, che mai ciascun filosofo sia per far materia della sua filosofia?
che cosa riputerà bene di ammettere? Ufficio del filosofo è quello di osservar
la natura tutta intera siccome sta: non voler ricevere solo ciò che è chiaro,
ma affaticarsi per render chiaro coli' osservazione e riflessione ciò che è
oscuro: dove il vero filosofo troverà del misterioso, ivi più si occuperà a
penetrare, a dicifrare i segni arcani co' quali la natura presenta i suoi se
greti; e dov'egli non possa dicifrarli, si goderà in ammirare la profondità
della sapienza di colui che ha fatto questa sì grave , sì immensa e sì su
blime natura. Certe questioni non si possono dunque eliminare, checché si
faccia , dalla filosofia ; si deve anzi mettersi in esse coraggiosamente ; per
ciocché è la buona audacia, che mai sempre si accompagna colla modestia:
e in particolare il sentimento fondamentale è un fatto di tal importanza ,
esriuso il quale dalla osservazione filosofica, o dichiarato inosservabile, di
tutta la cognizione dell'uomo acturn est.
128
è interamente diverso dall'alto onde dico a me stesso;
« io percepisco, io vedo l'oggetto».
Questa distinzione, difficile da concepirsi, è nondimeno
verissima. È dunque mio dovere di rendere manifesta
questa distinzione fra Tallo onde io percepisco una cosa,
e Tatto onde io giudico di percepirla.
Innanzi tratto si badi bene a questo, che non è già
qui mio scopo di esaminare se questo secondo atto segua
sempre o debba seguire necessariamente dietro al primo:
ciò all'intendimento presente niente rileva : tutto ciò
che qui rileva si è, che il percepire una cosa, e il giu
dicare di percepirla , sieno due atti dello spirito essenzial
mente diversi.
Percependo una cosa, io fìsso la mia attenzione nella
cosa percepita. Se la mia attenzione è debole; se questa
attenzione, mirando una cosa , non è fìssa, ma vacilla,
e sparpaglia per così dire le sue forze sopra altri og
getti; questo non muta la natura di quell'atto onde
io fìsso coli' attenzióne un oggetto particolare. Ora im
porta di osservare, che quest' atto è essenzialmente uni
co, come è unico l'oggetto; e che lo svagarsi dell'atten
zione sopra altri oggetti quasi contemporaneamente,
non toglie la sua unicità , ma non fa che associare al
medesimo degli altri atti interamente da lui distinti e
separati, ciascuno de' quali in sè preso è unico. Ora è
quest'atto unico e semplice, onde l'attenzione nostra
si posa sopra un oggetto (sia egli semplice o comples
so), che si dee mettere qui in esame: dico che si dee
mettere in esame quest'atto isolato da tutti gli altri
atti co' quali egli potrebbe per avventura trovarsi me
scolato.
Or di quest' atto, col quale io metto la mia atten
zione in un oggetto, è propria essenza di essere unica
mente a quell' oggetto ristretto, e di finire in esso. Per
capir meglio la cosa , e perchè ci sia più facile consi
derare un atto dell'attenzione in separato da tutti gli
altri, cerchiamo uno stato del nostro spirito, nel quale
tutta la forza dell' attenzione sia concentrata possibil
mente in un solo.
Immaginiamo che l' oggetto della nostra attenzione
sia quello ancora di tutto il nostro amore, e bellissi
mo, perfettissimo in sè medesimo: egli colla sua va
ghezza maravigliosa rapisce a sè con via maggior forza

>
la nostra attenzione; questa vie più s'addentra in esso
innamorala e perduta. Se questa interna visione o con
templazione cresce al segno necessario, allora succede un
fatto singolare: a noi, immersi unicamente nell'oggetto
vagheggialo, non avanza più forza ad altro: in uno stalo
di estasi, siamo assorbiti nell'unico oggetto della nostra
vista; e dimentichi di noi slessi, non che d'altra cosa ,
il resto che ci circonda è come se non fosse: non pen
siamo più a nulla; non sentiamo più nulla; quell'unico
oggetto lega e consuma tutta la forza pensante del no
stro spirito e dell' amor nostro. Questo, è stato di alie
nazione, ed è un fatto; nè v'ha forse uomo, che in qual
che suo grado non l'abbia alcuna volta provato, e che
da ciò che ha esperimentato in se stesso con forza mi
nore, non possa argomentare a quel di più a cui un si
mile accesso di mente può aggiungere. Ora io dico: ove
l'uomo è in questo stalo, si reca egli colla sua atten
zione sopra se stesso? è egli capace di fare delle rifles
sioni sopra lo stato suo? Non più che un bambino che
succhia il latte, ed è tutto in quello. Egli non può fare que
ste riflessioni su di sè, e su quello stato di dimenticanza di
«è medesimo, se non allora che da quello stato è già rive
nuto, e rivenendo, s'è quasi dissi desto da un sonno pro
fondo: egli ripiega allora sopra sè le forze prima occupate
della sua attenzione, e quasi smarrite da sè stesso lontano.
Ma se quell'immersione della mente o dell' affetto fu
completa e piena, nè anche si rannoda quell'atto collo
stato successivo; perocché sono in quello tutte le forze
esauste; e dee succedere un riposo; quindi un ri pristi
na mento di azione, tutta senza legame con quella in
tensissima, della quale perciò è smarrita fin la memoria:
singolare fatto, accennalo dall'Alighièri in quo' versi:

« Perchè appressando sè al suo desire


« Nostro intelletto si profonda tanto,
« Che retro la memoria non può ire » (i).

Tutte queste osservazioni sono atte a far conoscere,


che il riflettere su noi medesimi , sulle operazioni del

(i) Par. I.
Kusaum, Orig. delle Idee , Folli. 17
i3o
nostro spirito, è un atto interamente diverso dalle ope
razioni stesse alle quali pensiamo.
Di qui deducasi, che io posso pensare un oggetto, per
esempio l'ente, senza però che io rifletta sopra di me
medesimo, e mi ravvisi così pensante.
Ed ora (per ravvicinarmi all'assunto) io non posso
pronunciare il giudizio « percepisco l'ente», se non in
conseguenza di una riflessione che fo su di me stesso,
per la quale riflessione io rivolgo la mia attenzione allo
slato mio, e formo questo stato oggetto di mia atten
zione. Ma lo stato di me è un oggetto interamente di
verso dall' ente. Dunque io debbo percepire lo stato mio
con un atto diverso da quello onde percepisco l'ente:
percepisco l'ente con un atto dell'attenzione che al
l' ente si volge; percepisco me con un atto dell'attenzione
che si rivolge in me: percependo l'ente, la mia atten
zione ha dinanzi un oggetto al tutto dal me diverso ,
mero oggetto; percependo il me, la mia attenzione ha di
nanzi per oggetto il soggetto medesimo che percepisce.
L' atto adunque ond'io percepisco l'ente, è. un atto sem
plice, primo, spontaneo; l'atto ond'io giudico me per-
cipiente l'ente, è un atto composto (un giudizio) e susse
guente: il primo adunque può essere innato, e non il
secondo; sebbene nulla osti, che il secondo sussegua al
primo più o meno prossimamente: il primo è a noi in
trinseco e necessario, il secondo può essere puramente
acquisito e volontario.
Nel distinguere questi due atti, io ho introdotto lo
stato dell'uomo occupato tutto in un solo oggetto (i).
Sono ricorso a questo fatto, non per appoggiare al me
desimo la distinzione di que' due atti , ma per ajutarne
l'intelligenza. Nello stato di concentrazione della nostra
mente in un oggetto, le forze dell'attenzione sono tutte
ridotte ad un solo punto (a): quindi si vede come un

(i) Succede veramente sempre cosi: perocché in ogni tempo l'atto della
mente è un solo : ma l' oggetto è il più delle volte complesso , e oltracciò
e prossimo il passaggio ad altri oggetti, e le riflessioni sopra di sè stessi
sono continue per l'abitudine contratta.
(a) Il fatto dell'uomo assorto nella conleraplazione di un oggetto mi da
campo di fare un'osservazione, colla quale si svela un falso giudizio solito
a farsi. Quando poco di una cosa altri si ricorda , ovvero quando alcuno
soffrì qualche sensazione seuia accorgersi punto, o con accorgersi pochi*
i3i
atto possa sussistere talora scompagnato da quegli altri,
onde suole essere ordinariamente accompagnato. Per lo
scopo però di questo ragionamento, io non lio bisogno
di far vedere l'uno atto dell'attenzione distinto anche
di tempo da tutti gli altri: basta per me di far osservare,
che l'uno atto non è l'altro. Perocché di questo ne
viene, che l'uno può essere innato, e l'altro no.
E quanto più di forza non piglierebbe il mio ragiona
mento , ov' io volessi qui torre a dimostrare quel vero
conosciuto dagli antichi, che l'intelletto non può fare
nello stesso tempo che un atto solo? e che 1' essere
(in generale qualunque cosa si percepisca) e l'io perei-
piente sono necessariamente due oggetti , e perciò ri
chieggono due alti dell'intelletto ad essere percepiti?
sicché tornerebbe cosa assurda il pensare che fossero
concepiti contemporaneamente? e quindi cosa assurda
immaginare, che nel tempo che io pecepisco un oggetto,
percepisca, ciò che vale un dire, conosca di percepirlo?
Che? se poi io togliessi a mostrar, sopra ciò, quello che
è pure evidente, cioè che il secondo atto, avendo per
oggetto il primo atto, non può cominciare ad esistere
senza supporre che il primo sia già bello e compito? e
però, che ripugna il concepire i due atti contemporanei,
cioè concepire contemporaneo il conoscere qualche cosa,
e il sapere che lo conosciamo?
Restami in fine a chiarire una cosa. Neil' intendere
l'atto della percezione, l'uomo nuovo nelle meditazioni
filosofiche, e non abbastanza esercitato, trova pur sempre
diflìcile a concepire come con quest'atto stesso noi non
percepiamo noi percipienti: quale è dunque la ragione
di sì fatta difficoltà? Questa:
Abbiamo distinto il sentimento di noi, che si esprimi

simo, si è presto a dire, che l'impressione, la sensazione dee essere stala


fievole e tenue al tutto. Può essere anzi il contrario : la sensazione può es
sere stata fortissima , e non accorgercene noi, cioè non riflettervi; e cosi pure
la contemplazione: anzi quando la sensazione o la contemplazione perviene
al suo massimo, allora, penso io, nulla sappiamo noi della medesima , nulla
ce ne accorgiamo con riflessione, nessuna memoria di quella ci resta: allora
siam vinti in essa , non siamo più a noi stessi presenti. Di quanta rilevanza
sia questa riflessione per intendere bene ciò che nello spirito umano avviene,
quegli è piò atto a dirlo e a comprenderlo, che in questi studj vede più ad
dentro, ed ha iu costume di su meditarvi.
nella parola Io, dall' idea di noi, idea dell' Io. Nel sen
timento Io noi sentiamo noi stessi soggettivamente, cioè
esiste un soggetto senzientesi. L'idea dell'/o all'incontro
è la percezione di questo soggetto ( Io ) oggettiva , cioè
come oggetto proposto all'intelletto da contemplare (i).
Ora il sentimento di noi (V Io, soggetto percipiente) non
ci manca giammai: è innato con noi; perocché quel
sentimento siamo noi stessi. Ma Videa (che forma la cogni
zione dell' Io), questa è acquisita nel modo più sopra
indicato. Nell'atto adunque della percezione di una cosa ,
per esempio, nella percezione dell'ente, si trovano in
noi innate queste due cose, i.* il sentimento dell' Io
percipiente, 2." l'idea dell'ente. Verissimo è questo. Tut
tavia non viene da ciò , che in noi sia innato il giu
dizio « io percepisco l'ente »; conciossiachè per formare
questo giudizio richiedersi i.' Videa acquisita dell' Io, non
bastando il sentimento; 2° che in questo Io da me
percepito oggettivamente ( ciò che è quanto dire nel-
l' idea dell' Io ) io distingua il percipiente, dalla cosa
percepita mediante l'osservazione; 3." che io unisca questi
due termini, formando il giudizio espresso nella propo
sizione « io percepisco l'ente ». Queste tre operazioni
si fanno rapidamente; sia pure : ma elle si debbono pur
fare, perchè noi aver possiamo il detto giudizio: e se
noi dobbiamo dar tre passi per averlo, dunque non è
innato, ma solo acquisito.
OSSERVAZIONE I.
Vha un'idea che precede qualunque giudizio.
Una prima concezione adunque in noi naturale pre
cede qualunque giudizio: e questa concezione, che ci rende
esseri intelligenti, forma la nostra facoltà di conoscere.

OSSERVAZIONE II.
V ha nell' uomo un senso intellettuale.
L' ente adunque è percepito dallo spirito nostro come
da un senso che riceve immediatamente l'impressione
dell' oggetto sensibile : egli è rispettivamente a questa

(1) Parte. I, c. Ili, ari. n.


i33
azione dell'ente sullo spirito, che si può dire esser noi
forniti di un senso intellettuale.
La nostra intelligenza adunque, in quanto percepisce
l'ente comunissimo, si può chiamare un senso (d'altro
genere però de' corporei ) : ma in quanto il nostro spi
rito giudica, o sia avvisa il rapporto fra le qualità sen
sibili e l'ente in universale , fa una operazione intera
mente diversa dal senso; egli non riceve già sensazioni,
ma produce a sé mere idee (i).

OSSERVAZIONE IH.
In che differiscano il senso corporeo ed il senso intellettuale.

La differenza fra il senso corporeo ed il senso intel


lettuale consiste nella diversità de' loro termini.
11 senso corporeo ha dei termini corporei determi
nati all' estensione , ed altre proprietà: il senso intellet
tuale percepisce un termine puramente spirituale e per
fettamente indeterminato.
Da questa differenza essenziale fra i termini del senso
corporeo e del senso intellettuale ne nasce un'altra, cioè,
che sebbene la natura di senso importi sempre un'azione
fatta nel soggetto, una cotal modificazione di questo, tut
tavia nel senso corporeo non si comunica l' oggetto come

(i) V"ha Videa, e v'ha il sentimento. Ma fra i sentimenti ve n'hanno


d'intellettuali, e ve 11' hanno di corporei, i quali se sono acquisiti ed esterni,
si sogliono chiamare sensazioni: vocabolo che può essere adoperalo anche
nel suo significato più generale. Ora egli è necessario di ben distinguere
i.° V idea dal sentimento , e notare accuratamente in che consista la diffe
renza ; a.° il sentimento intellettivo dal sentimento corporeo. Il carattere
distintivo di questi due sentimenti lo esporremo nell'Osservazione seguente.
Ecco in che consista la differenza fra l' idea e il sentimento , ossia fra
V intendere e il sentire in generale. i.° Il sentire è immediato , come suc
cede a noi rispetto alla specie : la specie si sente ; l'oggetto sussistente della
specie, mediante la specie sentita si conosce. a." Il sentire è passivo; l'in
tendere, che si fa col mezzo del sentire, è attivo: la specie dunque pri
mitiva (l'ente in universale) è ricevuta passivamente dal nostro spirito, come
tutte le sensazioni; e con questo s'intende quella sentenza di s. Tommaso,
Intellectus est vis passiva , respectu totius entis universaìis (S. I, LXXIX, il).
£ finalmente parmi che si possa applicare a quest'idea innata dell'ente,
ebe ci fa conoscere tulle cose ed anco sè stessa, quella sentenza di Ari
stotele, che « in quello che è separato da materia (vale a dire, che è pura
mente forma, com'è appunto l'idea dell'ente) , ciò che s'intende è ciò con
cui s' intende è il medesimo » (De Anima III, com. xv).
i34
oggetto, ma come forza agente; là dove nel senso intel
lettivo si manifesta un oggetto , anziché un agente, e
l1 azione di questo oggetto non precede , ma sussegue
alla sua manifestazione: sicché il senso intellettivo a
prima giunta non sente sè stesso, ma immediatamente
intende l'ente; e poscia sente diletto da questa intelli-
genza dell'ente. Il senso intellettivo adunque sussegue,
e non precede l'intelligenza.
Quindi l'ente in universale è idea; ma da questa idea,
il soggetto che la intuisce produce a sè stesso delle sen
sazioni intellettuali (i).

(t) Se fosse alcuno il quale negasse il nome di cognizione a quell' unici


idea che è in noi da natura inserita, e che è intuita dallo spirito immediati-
mente, senza giudizio alcuno, io non vorrei contendere con costui ili parole.
E sembra chetai fosse la sentenza dell' Aquinate. Del quale non debbo trascu
rare di sporre la dottrina , giacché spero di potere, con quello che sonper
dire, spargere qualche lume sulla medesima. Insegna il santo Dottore, che la
mente nulla intende e conosce, se non mediante i fantasmi. Egli è impor
tante assai il vedere che cosa veniva a dire una tal dottrina, secondo la
mente del gran maestro. Adunque egli osserva, esser proprio dell'intelletto
umano il conoscere le cose stesse {quiddità* rei est objectum intellectut)-
Ma con qual mezzo l'intelletto nostro conosce le cose stesse? coli' idea o
specie delle cose. Ciò dunque che l'intelletto conosce non è l'idea, oli
specie, ma la cosa stessa: e l'idea non è che il mezzo onde conosce (non
i/itod c.ognoscit, sed quo cognoscit). Quindi la sentenza, che ad co°nitiont"t
duo concurrere oportet, scilicet appreliensionem (l'idea), et jiulicium , cui
quale si termina nell'oggetto dell'idea (verbo della mente). Dunque ove
in noi fosse la semplice apprensione, cioè la pura idea, e non vi avesse
oggetto alcuno , non direbbesi ancora che la mente nostra intenda, ma solo
che abbia il mezzo d'intendere. E tale è la condizione della mente che ha
sola l'idea innata dell'ente, e non ancora verun fantasma ricevuto dal senso.
Questa non si direbbe che ancora conosca nulla, che ancor nulla intenda:
ma solo che abbia la potenza di conoscere e d'intendere. Ecco un passo ove
il Santo presenta egli medesimo tale dottrina. « Nessuna potenza può co-
« noscere qualche cosa uon rivolgendosi all' oggetto suo, come il vedere
« niente conosce se non si volge al colore. Laonde stando i fantasmi al
te l'intelletto possibile, come le sensibili cose al senso; l'intelletto, comecché
« si abbia qualche specie intelligibile appresso di sè, tuttavia egli non cou
rt sidera attualmente cosa veruua secondo quella specie, se non si converte
« ai fantasmi. Ed è perciò (egli conchiude), che l'intelletto nostro nello stalo
ti della vita presente ha bisogno de' fantasmi per considerare attualmente»
(De feriti X, n , ad 7). Ammette adunque s. Tommaso , che l'intelletto
possa avere qualche idea o specie anteriore a tutti i fantasmi, e che tutta
via di questi abbia bisogno la mente per conoscere, nel senso ristretto di
questa parola.
i35
OSSERVAZIONE IV.
Natura delV riterc ideale.

E chi tutto ciò avrà bene inteso, si sarà facilmente


persuaso , che oltre quel modo di essere che hanno le
cose sussistenti, e che chiamammo reale, ve n'ha un
altro interamente distinto , che chiamammo ideale.
Sì ; 1' essere ideale è una cotale entità di una na
tura tutta particolare , che non si può confondere nè
collo spirito nostro, nè co' corpi, nè con alcun' altra cosa
che appartenga all' essere reale.
Quindi un gravissimo errore sarebbe il credere che
1' essere ideale, o 1' idea , fosse nulla, perchè non ap
partiene a quel genere di cose che entrano ne' nostri
sentimenti.
Anzi V essere ideale, Videa, è un'entità verissima e
nobilissima; e noi abbiam veduto di quai sublimi ca
ratteri ella vada fornita. Vero è che non si può definire;
ma si può analizzare, o dire di essa quello che speri
mentiamo, cioè, che è il lume dello spirito. Che può
esser più chiaro del lume? Spento questo lume, non si
trovan che tenebre.
Finalmente da ciò che abbiamo detto si può formare
il concetto del modo onde l'idea dell'ente in universale
aderisce al nostro spirito; cioè si può conoscere, ch'ella
non domanda, non esige nessun nostro assenso o dis
senso, ma ci sta presente come un puro fatto.
La ragione di ciò è questa: tale idea dell'ente non
afferma, e non niega; ella solo costituisce la nostra pos
sibilità tanto di affermare che di negare.
i36
PARTE TERZA

ORIGINE DE' PRIMI PRINCIPJ DEL RAGIONAMENTO.

Fin qui noi abbiamo veduto, come l'intuizione del


l'essere ideale sia propria dello spirito intelligente, e a
lui necessaria per esser tale (i).
Abbiamo veduto altresì, come, dato V essere ideale allo
spirito, torna subitamente agevole lo spiegare l'origine
dell'altre idee, mediante la sensazione, e la riflessione;
eabbiam tolto anche a dimostrare questa origine rispetto
a tutte le idee prese in corpo , e rispetto a certe loro
classi più ampie (2).
Però or ci rimane a dedurre di nuovo le varie idee,
e cognizioni principali singolarmente prese, per dar com
pimento al nostro lavoro.
Ma a fine che non manchi ordine e lucidezza al no
stro ragionamento, ci converrà cominciare da quelle co
gnizioni che sono via e condizione al nascimento del
l'altre; le quali sono:
i.° I primi principj del ragionamento;
a.* Certe idee elementari e astrattissime, che sempre
ne' ragionamenti umani si suppongono, e tolte le quali
dalle menti, questi non si potrebbero formare nè intendere.
Fornita poi la mente de' primi principi , e di quelle
idee elementari, come di altrettanti suoi istrumenti, ella
è atta alle sue nobili operazioni , e allor produce a sè
stessa nuove idee e nuovi conoscimenti.
Diam mano adunque tosto alla dichiarazione de' su
premi principj di ogni umano ragionamento.

CAPITOLO I.

PRINCIPIO PIUMO, DI COGNIZIONE,


E PRINCIPIO SECONDO, DI CONTRADDIZIONE.

I principj si esprimono con proposizioni.


Per far l'analisi di una proposizione, convien ridurla
alla espressione più semplice: seguendo in ciò il costume
de' matematici, i quali, avendo a trattare una forinola,
dimandano licenza di ridurla nella espressione più ac-

(1) Parie L (a) Parte II.


l37
concia alla operazione che su quella di fire intendono:
il che, come cosa giusta, viene loro accordato, purché
mutando la veste non mutino alla formola il valore.
Ora la proposizione annunzia un giudizio.
Il giudizio è il rapporto fra due termini predicato e
soggetto.
I principi dunque della ragione essendo altrettanti
giudizj , risultano da un predicato e da un soggetto.
II perchè l'espressione più semplice e naturale nella
quale si possano porre i principj della ragione, è quella
nella quale viene espresso direttamente e distinto con
un rocabolo (o con una frase) il predicato, con un
altro il soggetto, e con un terzo il nesso fra loro: pi
gliamo in esempio il principio di contraddizione.
11 principio di contraddizione semplificato è il seguente:
« Ciò che è (l'essere) non può non essere ».
Ciò che è, è il soggetto: il non essere, è il predicato: non
può, è la copula che esprime la relazione fra i due termini.
In questo giudizio la relazione fra V essere e il non
essere qual è? quella d' impossibilità.
Abbiamo veduto che sia V impossibilità logica: è il non
potersi pensare; brevemente, il nulla.
Quel principio adunque dice, che l'essere ( ciò che è )
non si può pensare col non essere insieme: perciocché
messo insieme 1' essere col non essere, che n'abbiamo?
ima affermazione e una negazione, rimane nulla: col
no» essere si cassa e toglie l'essere messo prima, non
resta più cosa a pensarsi.
Perciò il principio di contraddizione non è altro che
la possibilità del pensare.
Non si può adunque fare alcuna ricerca sull'altre cose
senza di esso. Sopra di esso non si può mettere il dulv
bio se sia valido ed eflicace, o se non sia : perciocché
in questo dubbio, come in qualunque pensiero, si suppone
quel principio già efficace e valido; giacché non si co
mincia a pensare, a cercare, a ragionare, senza supporre
il pensare, il cercare, il ragionare. E adunque il prin
cipio di contraddizione in luogo sicurissimo da ogni as
salto di sofisti: conciossiaclié per potere assalirlo, con
viene pensare; e per pensare, conviene ammettere che si
può pensare, qualunque sia l'opinione che si ha pen
sando; e il principio di contraddizione nulla dice di più.
Vorreste voi pensare senza pensare? Non credo. Se voi
Rosmini, Orig. delle Idee, Vol. II. 18

-
i38
dunque pensate (qualunque opinione vi formiate pen
sando ), voi ammettete il principio di contraddizione, che
è l'enunciazione di questo fatto: « o pensale, o non
pensate: non c'è mezzo ; poiché pensare senza pensare
non si può ».
Quindi il principio di contraddizione è indipendente
da ogni pensiero umano, da Ogni opinione: precede i
pensieri e le opinioni, poiché costituisce la loro possi
bilità.
Voi direte: io nego la possibilità del pensiero. Potrei
rispondervi, che negando pensale; perocché il negare,
come l'affermare qualche cosa, è pensare. Ma non vo
glio io usare di questo vantaggio. Rispondo così: Negate
In possibilità del pensiero? Chi sa? forse avrete la ra
gione, e forse il torto: lasciam questo. Ditemi solo: pen
sate voi? Se è impossibile pensare, non penserete, proba
bilmente. Ma via, lasciovi in libertà di rispondere che
volete: pensale, o non pensate? Sia che mi rispondiate
una cosa, sia che mi rispondiate l'altra, il principio
di contraddizione l'avete messo in salvo; perocché il
principio di contraddizione non v'obbliga a pensare,
ma lasciavi fare a vostro grado. Che avreste dovuto ri
spondermi , perchè nella risposta aveste escluso e an
nullato il principio di contraddizione? Questo, c non altro:
« io pensando non penso»; ovvero: «io penso, sì, ma
non penso » . Or andate, e rispondete così, se vi dà l'animo
di far seriamente: voi non rispondereste con ciò; scher
nireste chi v'interroga, ovvero mandereste fuor de' suoni
senza valore.
Ma tornando all'analisi del principio di contraddi
zione, egli è una proposizione che esprime il fatto; « non
si può pensare l'essere insieme col non essere »;o sia:
« non si dà pensiero se non ha per oggetto l'essere «.
Or che cos'è questo fatto? egli è quel medesimo fatto
che io ho osservato, e provato, parmi, a non dubitarne:
l'idea dell'essere, che informa e produce la nostra in
telligenza (i): sicché questa sogliam definirla « la fa
coltà di veder ciò che è » ( V essere ). Questa frase ,
l'essere insieme col non essere, esprime il nulla: e il
nulla è il contrario del qualche cosa, dell'essere: col-

(«) Parte U, e. II.


i3()
P avere adunque io dimoslrato che l'intelletto e la ra
gione nostra è la facoltà di veder l'essere, ho dimo
strato e converso che il nulla non può esser veduto: il
che viene nel principio di contraddizione affermato.
Il principio di contraddizione adunque trae l'origine
dall'idea dell'essere, forma della nostra ragione: o sia,
non è che Videa stessa dell'essere appunto considerata
nella sua applicazione.
Si può dire adunque che il principio di contraddi
zione sia innato? Può dirsi in un senso, siccome l'hanno
detto que' due sommi, s. Bonaventura e s. Tommaso (i),
cioè intendendo che pur nel primo usare di nostra ra
gione il principio di contraddizione dal fondo dello spirito
umano si manifesta : ma a me sembra più rigorosamente
vero il dire, che del principio di contraddizione è in
nato in noi il fondamento, ma non il principio s lesso ;
ed ecco per qual ragione.
Il principio, come osservai, ha la forma di un giù-

(i) Retinet (memoria), così il santo Dottore Bonaventura, nihilominns scien-


tiarum principia et dignitates, ut sempiternalia etsempiternaliter,ijuin mtnquam
potest sic oblivisci eorum (dummodo ratione utalur), quin ea audita opprobe.1,
ti eis assential, non lanquam de novo percipiat, sed tanquam SIBI INNATA
etjamiliariarecognoscat (Itin.meitlis etc. CHI). Questo è un osservare final
mente la natura. Ora queste osservazioni del fatto sono appunto quelle clic i
sensisti del nostro tempo trascurano : e pur hanno sempre in bocca di voler
seguire i fatti. I fatti però, anche negletti dagli uomini, rimangono; e a chi
non li osserva , vengono poi osservati : non se ne può far senza, checché si
{accia. Al Dottore di Bagnarci consuona quel d'Aquino: Prima principia,
QUORUM COGN1TIO EST NOBIS INNATA, sunt quaedam simititu-
dines increatae veritatis (De ferii. Q. X,vi, ad 6): e nello stesso sentimento
parla spessissimo, siccome in questo passo: In eo qui docetur , cosi egli
scrive, scientia praeexistebat, non quidem in actu completo, sed quasi in ra-
lionibus seminalibus , secundum quod uiuversales conceptiones, quorum co -
gnilio est NOBIS NATURALITER INSITA, sunt quasi semina quaedam
omnium sequentium cognitorum (De Verit. Q. XI, i,ad5). E perchè, si
veda come l'interpretazione che io do ili questi passi sia vera, cioè che
V innato o il naturalmente inserito non si debbi intendere a rigore, par
lando de' primi principj, ma solo debba intendersi che que' principi in noi
si presentano co' primi alti che fa nostra ragione, o sia (che è il medesimo)
col primo uso che noi facciamo dell'idea dr/tente, della qual solo si può
rigorosamente affermare essere innata, e corrisponde al lume dell' intelletto
agente di s. Tommaso; basterà spiegare s. Tommaso con s. Tommaso, il che
si fa ove col passo surriferito si paragoni il seguente dello stesso santo
Dottore: In lamine inlellectus agenlis nobis est quodammodo omnis scientit
origina/iter indita, mediantibus universalibus conceptionibus , quae statini
LUMINE INTRLLECTUS AGENTIS cognosenntur , per quas stetti per
unii-crsalta principia judicamus de altis , et ea praecognoscimus in ipsis
(De fera. Q. X, vi).
i4<>
dizio , e si esprime con una proposizione. Talora sup
pone anche un raziocinio, se non è assolutamente il
principio primo; e tale non è quello di cui parliamo.
In fatti, il principio di contraddizione si può dedurre
da un principio antecedente, che io chiamo principio
di cognizione , ed esprimo in questa proposizione: « L'og
getto del pensiero è Tessere ». Or ecco il raziocinio
coi» cui si deduce. « L1 oggetto del pensiero è 1' essere.
Ma la frase essere e non essere esprime il nulla ; e il
nulla non è V essere. Dunque Y essere e il non essere
non è oggetto di pensiero ».
Perchè adunque l'idea innata dell'ente abbia preso
la forma di principio di contraddizione, è necessario
f che io abbia usato della medesima; abbia cominciato a
giudicare e a ragionare. Io debbo essermi formato un
essere mentale, il nulla. Io debbo avere acquistata un'idea
di affermazione e di negazione, che sono atti del pen
sare ; ed osservato, che la negazione unita coli' affer
mazione forma una equazione perfetta col nulla.
Ora, per quanto l'uomo faccia tutte queste opera
zioni, giudizj e raziocinj celeremenle; per quanto esse
nascano naturalmente , prossimamente dall idea dei-
Tenie; e anzi più, sebbene tutto ciò non sia che la
stessa idea dell'ente applicata, travestita, accompagnata
di relazioni ; tuttavia è necessario a tal fine , che la
ragione nostra si mova di quello stato primo di perfetta
quiete, nel quale ella è pure , quasi molla , lesa e fer
mata. Ma tutto ciò che è in noi in conseguenza di qual
che movimento della ragione non essenziale e innato
nella stessa, io amo di chiamarlo cosa acquisita; e tale
mi sembra , nella sua forma di principio, il principio
appunto di contraddizione.

CAPITOLO IL

PRINCIPIO TERZO, DI SOSTANZA.— PRINCIPIO QUARTO, D1CAVSA

Il principio di contraddizione dipende dal principio di


cognizione.
Il principio di cognizione è un fatto necessario espresso
così : « L' oggetto del pensiero è l'essere ». Tale è il
principio di tulli i piincipj , la legge della natura iu-
telljjjenle, T essenza della intelligenza.

i
Il secondo è quello di contraddizione, e discende im-
medialamente dal primo: « Non si può pensare l'essere
ad un tempo col non essere ».
Il terzo è quello di sostanza, che dice: a Non si può
pensare l'accidente senza la sostanza ».
Il quarto è-quello di causa, che dice: «Non si può
pensare un nuovo essere senza una causa ».
L' accidente noi lo percepiamo per un1 azione che vien
fatta sopra di noi: egli dunque si può chiamare col nome
generale di avvenimento. E tanto più può ricevere questo
nome, in quanto che sopravviene alla sostanza , e non
è necessario alla stessa. Non è altra differenza fra Yac-
cidente e V effetto, che 1' accidente si considera in quanto
termina e fa una cosa sola colia sostanza, mentre Veffetto
si considera Come separato al tutto dalla causa. Ciò
posto , il modo col quale noi deduciamo il principio di
causa , servirà d' esempio al lettore , perdi' egli possa
da sè medesimo dedurre il principio di sostanza.
Ecco come il principio di causa discende dal prin
cipio di contraddizione , e quindi dal principio di co
gnizione.
Il principio di causa si può esprimer così: « Ogni av
venimento ( tutto ciò che comincia ) ha una causa che
lo produce *. Noi abbiamo trovata questa forma in altro
luogo. L' abbiamo anche analizzata: qui è necessario ri
chiamarsi alla memoria quella analisi.
« Ogni avvenimento ha una causa che lo produce ».
Questa proposizione equivale perfettamente a quest'altra:
« E impossibile all'intelligenza di pensare un avveni
mento , senza pensare una causa altresì che lo abbia
prodotto ». Per dimostrare che «un avvenimento senza
nna causa non si può pensare » , convien dimostrare
che « il concetto di un avvenimento sfornito di una
causa involge contraddizione ». Quando ciò sia dimo
strato, allora s'avrà il principio di causa dedotto dal
principio di contraddizione.
Ecco come si dimostra. Dire che ciò che non esiste
opera, è contraddizione. Ma un avvenimento senza causa
equivale a un dire: ciò che non esiste, opera. Dunque
un avvenimento senza causa è contraddizione. Alle prove.
La maggiore si prova così. Concepire un' operazione
(una mutazione) senza unente, è concepire senza con
cepire: il che è contraddizione. In vero, il principio della
cognizione dice: « L'oggetto del pensiero è l'ente »;
dunque senza un enle non si può concepire. Concepire
adunque un' operazione senza concepire insieme un ente,
è concepire senza concepire. Dunque 1' applicare l'ope
razione a cosa che non esiste, è contraddizione ne' ter
mini : il che si dovea dimostrare.
La minore si prova così. Un avvenimento è una ope
razione (una mutazione). Se dunque questa operazione
non ha causa, si percepisce isolata, senza un ente a cui
appartenga; c'è dunque l'operazione senza l'ente, o,
che è il medesimo, opera ciò che non esiste. Così la
minore pur ha la sua prova.
Quindi il principio di causa discende dal principio di
contraddizione, come lutti e due questi principj discen
dono dal principio di cognizione: e questo non è che
Videa dell'ente applicata, la quale prende forma di
principio, e s'esprime in una proposizione, quand'olia
si considera in relazione col ragionamento dell'uomo,
del quale essa è la causa.

CAPITOLO HI.

CHE COSA SIENO 1 PRINCIPJ SCIENTIFICI IN GENERALE.

Come abbiam veduto, i principj fin qui accennati,


cioè i." il principio di cognizione, 2.° il principio di
contraddizione, 3.° il principio di sostanza, 4° il prin
cipio di causa , non sono che la medesima idea dell'ente
applicata, o la legge di applicazione espressa in una
proposizione. . .. ■
Questa osservazione ci scorge a conoscere la natura
di tutti i principj inferiori del ragionamento.
I principj in generale del ragionamento non sono che
altrettante idee, delle quali si fa uso per giudicare.
L'applicazione di queste idee si può sempre conce
pire come un giudizio, e mettere in una proposizione.
E poiché questa proposizione serve di norma, secondo
la quale formare una serie d'altri giudizj a quel primo
sottordinati, siccome più particolari, e in quello più
generale compresi ; perciò quel primo si chiama prin
cipio rispetto a questi secondi che da lui si deducono j
deduzione la quale chiamasi ragionamento.
A. ragione d esempio, Videa della giustizia diviene il

1
principio della morale, quando si ragiona raccogliendo
un complesso di applicazioni di essa : l' idea della bel
lezza si fa il principio dell'estetica, quando noi la ci
proponiamo perchè diriga e regoli, anzi pure ingeneri
lutti i ragionamenti che possiam fare sulle cose belle.
Quindi la definizione della bellezza, che non è altro
se non la proposizione in cui si cangia quell' idea, è il
primo principio di tutti i ragionamenti che intorno al
hello si possono fare.
Generalmente, l' essenza delle cose è il principio de'
ragionamenti che si fanno intorno le cose.
Di che , il principio di ciascuna scienza è la defini
zione , che esprime l'idea essenziale della cosa intorno
a cui la scienza si aggira: e di questo vero nasce l'arte
di dividere acconciamente le scienze in fra loro, e di
richiamarle ad una elegante unità ; acciocché esse non
sieno anzi collezioni di svariate notizie, che ben ordi
nati trattati, ove il principio unico signoreggi, e si veg
gano tutti gli altri veri da quel primo vero chiaramente
venire, siccome lumi da lume, ed ingenerarsi.

CAPITOLO IV.

ORIGINE DE' PRINC1PJ SCIENTIFICI IN GENERALE.

Abbiamo veduto, che i principj non sono che idee


applicate, o sia idee che servono di norma e di esem
plare secondo il quale portare altri giudizj più parti
colari.
L' origine dunque de' principj è ridotta in tal modo
all' origine delle idee: e spiegate queste, sono spiegati
naturalmente anche quelli.
PARTE QUARTA

ORIGINE DELLE IDEE PURE, CIOÈ DI QUELLE.


CHE NULLA PRENDONO DAL SENTIMENTO.

CAPITOLO L

ORIGINE DELLE IDEE ELEMENTARI DELL' ESSERE


SUPPOSTE NEGLI UMANI RAGIONAMENTI.

ARTICOLO L
ENUMERAZIONE DELLE IDEE ELEMENTARI DELL' ESSERE.

Queste idee elementari, condizioni di tutti gli umani


ragionamenti, sono principalmente le seguenti: i.* l'idea
di unità, a.* de1 numeri, 3.* di possibilità, 4-° di univer
salità, 5.° di necessità, 6.* d'immutabilità, 7.* e di as-
solutità.
ARTICOLO H.
ORIGINE DI QUESTE IDEE.

Tutte queste idee, che sono racchiuse nell'edere ideale,


sono suoi caratteri, sue naturali qualità (1). Esse sono
dunque date a noi con esso essere ; nè a noi resta al
tra fatica, se non quella di notarle in esso ad una ad
una, di distinguerle, e di segnare ciascuna con un nome;
il che si fa mediante il vario uso dell'idea dell'essere,
e la riflessione.
Indi appar cagione perchè queste idee sieno così fami
gliari a tutti gli uomini, e da tutti supposte; sebbene,
considerandole in sè, veggansi d'una natura astrattis
sima da ogni concrezion materiale , di guisa die sem
brerebbe a prima vista dover esse , a formarsi in noi ,
aver bisogno di un lungo processo di mentali opera
zioni. Pur ella non è così : ma sono anzi le nozioni piu
ovvie , più facilmente note , e alla mano di tutti gli
uomini.

(i) Vedi add. Parte I, c. Ili, art. 1.


1 45
OSSERV AZIONE.
Noterò solo , che queste idee astratte, ciascuna presa
da sé più tosto è un elemento d'idea, che un'idea; giac
ché esse sole niente fanno conoscere. Per questo anco
io le chiamo idee elementari dell'essere ideale; e iti
generale le idee astratte si possono dire idee elementari
di quella idea onde sono astratte.

ARTICOLO III.
RAGIONAMENTI DI ». AGOSTINO SELLE IDEE v'UHITà', 8 DI MIMERÒ,
ED ALTRETTALI , CHI CONFERMANO LA TEORIA DA NOI ESPOSTA.

§ l.

Or poiché le accennate idee elementari appartengono


all' essere ideale, non fa meraviglia, che ciascuna di esse
mostri in sè una fermissima ritrosia a lasciarsi cono
scere e spiegare mediante le sensazioni.
Anzi accadde sempre, che ove i grandi pensatori si
sono incontrali nell'una o nell'altra di esse, rimanessero
scossi alla lor vista ed alla loro singoiar natura ; che
quindi le facessero oggetto ove più internare profondo il
pensiero, come soglion fare quando vengon loro de' nodi
alla mano; ben accorgendosi, che non dovea esser si
agevole il render ragione di tali notizie, che nulla hanno
di somiglievole nel mondo sensibile. Quindi ciascuna di
quelle idee servì a qualche gran filosofo di scala a sol
levarsi via oltre la sfera delle visibili cose, e a trapassar
la natura, spingendosi col pensiero nell'infinito. Ma ben
ché questo accadesse loro, abbattendosi nell'una o nel
l'altra di tali idee, non veggo però che molti da que
sta parziale contemplazione giungessero a trovar la sede
di tutte le idee elementari dell'essere, e che ascesi al
l'ente ideale indeterminato potessero esprimere il gran
problema ideologico nella sua forma completa e generale.
Però non sarà inutile ch'io qui, all'occasione di trat
tare di questa maniera d'idee, rechi un qualche esempio
del modo, come una sola o l'altra di esse bastasse ta
lora alle gran menti di stimolo e di guida a dare un
volo sopra le più alle cime delle cose umane, onde molle
di quelle verità rinvenissero, che noi siamo venuti espo
nendo. E F idea elementare che presceglierò sarà quella
Rosmini, Orig. delle Idee , Folli. 19
i4G
dell'unità, e de' numeri; e la mente che si levò tani' alto
per la scala di tali idee , sarà quella di s. Agostino.
Disputando egli in Roma col suo amico Evodio, come
narra o finge nel secondo Libro del Libero Arbitrio, egli
venne recato a questa questione. Nella quale si mise, co
minciando dall' osservare la differenza che corre fra V in
dividualità delle nostre potenze, e V universalità della
verità che a tutti gli uomini ugualmente risplende: e così
egli dice:
« Agostino. Primieramente domando, se il mio senso
u del corpo sia il medesimo che il tuo , o pure , se il
« mio non sia che mio, e il tuo non sia che tuo ». —
« Evodio. lo concedo al tutto, che ciascun di noi ha
« particolari sensi di vedere, di udire, e d'altre operazioni
« sensibili, quantunque sieno della stessa specie ». —
« Agostino. E lo slesso tu risponderai anche di quel
« senso interiore, o risponderai diversamente? ■
« Evodio. Non diversamente». —
« Agostino. Che della stessa ragione? non ha forse
a ciascuno di noi la sua propria? chè certo può avve-
« nire, che io intenda qualche cosa che tu non intendi;
« nè tu puoi sapere se io intenda o no, quando all'op
ta posto se io intenda il so ben io ».
« Evodio. È manifesto, che anche ciascun di noi ha
« la sua mente propria e singolare ».
« Agostino. Ma potrai forse dire che ciascun di noi
u abbia anche il suo singoiar sole che vede, la sua sin-
« golar luna, la stella venere, e l'altre tali cose, seb-
« ben ciascuno le vegga col suo proprio senso? a
« Evodio. In nessun modo direi ciò ».
« Agostino Dunque molti insieme possiamo vedere
u una cosa sola, sebbene abbiamo de' sensi singolari
« ciascuno, co' quali tutti però sentiamo quella cosa
« stessa che ad un tempo vediamo; di guisa che seb-
« bene altro sia il mio senso, ed altro il tuo, ciò che
« vedo io però, non è altro da ciò che vedi tu: ma
« quel medesimo è presente all'uno e all'altro di noi,
« e dall'uno e dall'altro è in pari tempo veduto.
« Evodio. Niente di più manifesto ».
« Agostino. Possiamo anche insieme udire una slessa
« voce, di maniera che sebben sia diverso il mio senso
e dal tuo, tuttavia non sia diversa la voce che insieme
« udiamo, nè una parte ne prenda l'udito mio, un'ai-
u tra parte il tuo, ma checché suoni, si ascolti tutto
« e indiviso da entrambi ».
* Evodio. Anche questo è chiaro » (i).
« Agostino. — Or via, bada ora, e dimmi se v'abbia
« qualche cosa, che tutti quelli che ragionano veggano
« in comune (ciascuno però colla ragion sua propria) :
« giacché ciò che è veduto dagli occhi, come dicemmo,
» è presente a tutti, nè si trasmuta in uso di quelli a'
« quali è presente , come avviene del cibo o della be-
« vanda, ma rimane incorrotto e intero, o che sia ve-
* dulo, o che non sia : ovvero stimi tu , che niente vi
* abbia di cotal maniera ? »
« Evodio. Anzi io veggo avervi di tali cose molte ;
« delle quali basta commemorarne una, la ragione e la
* verità del numero, la quale è presente a tutti quelli
« che conteggiano (2), di guisa che ciascuno calcolatore
« sforzasi di apprenderla colla ragione ed intelligenza
« sua particolare: ed altri il fa più facilmente, altri
" più. difficilmente, altri non ci riesce al tutto: e pure
« ella si porge uguale innanzi a tutti quelli che sanno
" intenderla; nè, quando è intesa da chicchessia , ella
« si cangia quasi in alimento del suo percettore, nè si
« muta (3); nè. quando taluno prende abbaglio nel cal-

(1) L'analisi delle sensazioni non era spinta a' tempi rli s. Agostino tanto
innanzi, come fu ne' tempi moderni. Però non fa meraviglia se qui paja
che non ben si distingua fra il sole in quanto é percepito da'sensi nostri ,
e il sole in sé percepito coli' intelletto. I sensi nostri non percepiscono
propriamente il sole, ma l'azione parziale del sole; e l'azione clic fa il sole
in uomini diversi, è numericamente diversa, sebbene sia simile e della stessa
specie. Sicché si può dire che diversi sensi percepiscano in certa cotal ma
niera diversi soli; ma più accuratamente ancora direbbesi che il sole in sè
non è percepito propriamente che dall' intelletto , il quale percepisce l'atte
sole; quando il senso non percepisce che V agente nelle sue varie e se
parate azioni.
(2) Si consideri quanto diligentemente qui s. Agostino dislingua il sog
getto dall' oggetto, la ragione dalla verità percepita dalla ragione. Le diffe
renze ch'egli fa notare sono manifeste, innegabili. E pure udiamo tulio
giorno di quelli che pretendono di confondere la scienza e la verità colla
mente umana, e far quella un puro effetto o emanazione di questa 1
(5) Conviene ben considerarsi, siccome il soggeUo che intende sia vario,
mutabile, difettoso; e la verità (l'oggetto) non patisca nulla dalle varie con
dizioni del soggetto che si sforza di contemplarla. Con queste ultime parole
s. Agostino distrugge ogni sistema di quelli che pretendono che la scienza
venga informata dalle qualità del soggetto: ciò non può al tutto essere,
essendo ella di sua natura immutabile.
1 48
« colo, per questo ella vien meno; ma rimanendosi ella
« vera e integra, colui all'incontro è fitto tanto più
« addentro nell'errore, quanto meno la vede ».
« Agostino. Ben da vero! e veggo che tu, come non
« punto nuovo di queste materie, hai tosto avuto alle
« mani il bisognevole da rispondermi. Tuttavia se alcun
« ti dicesse , cotesti numeri non esserci impressi nel-
« l'animo in virtù di certa loro natura, ma da quelle
« cose che percepiamo col senso corporeo, quasi fossero
« certe immagini di visibili cose, e che risponderesti tu?
« Slimi che così possa essere? »
« Evodio. Noi crederei mai. Poiché ove anco col senso
«< corporeo io percepissi i numeri (i), non per questo
« potrei percepire con esso la ragione , secondo cui i
« numeri si partono o si congiungono. Conciossiachè è
« mediante questa luce della mente, che io correggo colui
« che sommando o sottraendo ci mette fuori un risulta-
« mento sbagliato. E tutto ciò ch'io percepisco col senso
« corporeo, siccome questo cielo, e questa terra, e tutti
« gli altri corpi in essi, non so fino a che tempo sa-
« ranno: ma che sette e tre facciano dieci , io so che è
« ora, e anche sempre; nè v'ebbe mai tempo in che
« sette e tre non fossero dieci , nè verrà mai (2). Or
« questa incorruttibile verità del numero dissi che è
« comune a me, e a qual altro si voglia ragionatore ».
« Agostino. Non ripugno alle cose verissime e certis-
« sime che tu mi rispondi. Ma io voglio farti osservare,
« che nè anco l'idee de' numeri s'attraggono da' sensi cor-
« poreij il che facilmente vedrai, se li piaccia conside-
« rare, che ogni numero è un composto di unità: pon
« caso, quel numero che avrà due volte l'unità, si chiama
« due; quel che tre, tre; quel che dieci, dieci : e in somma
« ciascun numero quante volte ha l'uno, quinci prende
« il nome, e tanti si chiama. Or chi con verità pensa
« che sia l'uno, trova per certo eh' esso non può esser
« sentilo da' sensi del corpo. Chè tutto ciò che vien per-
« cepito da tal senso, provasi non esser uno, ma molti:
« conciossiachè è corpo , e perciò ha parti innuinera-

(t) Qui concede la possibilità, che col senso si percepiscano i numeri :


ma tosto appresso s. Agostino rifiuta come impossibile anche questo.
(2) Ecco i caratteri d' immutabilità, necessità, eternità, osservali nelle pro
prietà de' numeri da s. Agostino.
« bili. Ma per non andar dietro alle parti de' corpi troppo
« minute e meno articolate, dico, che per picciol che
« sia un corpicciuolo , certo egli ha una parte destra ,
un'altra sinistra; una superiore, un'altra inferiore; o
« un'altra di là, un'altra di qua; o altre all'estremità,
« altra nel mezzo: poiché fa uopo confessare, che queste
« cose stanno in ogni misura di corpo per quantunque
« esigua ella sia : e però convien concedere, niun corpo
« esser veramente e puramente uno: sebbene non si po-
« trebber numerare quelle tante cose , se non le distin-
« guessimo mediante la cognizione che abbiamo dell'unità.
« Poiché quando io cerco l'uno nel corpo, e so certo che
« noi vi posso trovare, allora fuor di dubbio io so
• che sia ciò che cerco ivi, e non trovo, e che non vi
•posso trovare, o più tosto che al tutto non v' è.
« Sicché il sapere che Vuno non è corpo, suppone ch'io
« abbia l'idea dell'uno : poiché non conoscendo l'uno,
■ non potrei numerare le molte cose del corpo. E ovec-
« chessia io conosca l'uno, certo noi conosco pel senso
« del corpo; conciossiachè per questo non conosco che
« il corpo , che si dimostra non esser mai veramente
a e puramente uno (i). Che se pel senso del corpo non
" conosciamo l'unità, dunque con esso senso niuno de'
* numeri conosciamo, di que' numeri voglio dire, che
■ coll'inlendimento contempliamo (2). Poiché non avvi
« alcuno di questi, che non si chiami tanti, quante ha
" unità, la quale unità col senso corporeo non si per-
" cepisce ». —
E qui s. Agostino viene facendo un simigliatile discorso

(t) Dato anco che nel corpo vi avesse una qualche unità, come sarebbe
negli cslcsi continui , per conoscere 1' unità di un corpo conviene sempre
che io percepisca quel corpo prima come ente , e poi come uno, cioè og
gettivamente; ora ciò non può fare il senso , che non riceve se non Va-
iione delle cose , e non sente che questa nel proprio sentimento , non le
cose stesse fuori di sè, fuori del proprio sentimento. Per al'ro l'unità
dell' esteso non è perfetta in quanto non esclude mai la possibilità dell»
divisione e della moltiplicità.
(a) Quelli che non pensano profondamente, si persuadono che sia assai
facile concepire la moltiplicità. Ed è facile concepirla, ma diffìcile spiegare
come si concepisce : confondono la concezione di fallo, colla teoria dell'»
concezione della moltiplicità , e la facilità di quella colla difficoltà di questa.
Tutti quelli all'incontro che approfondiranno questa questione s'avvede
mmo i.°che io non posso concepire i molti, senza che preceda in me
l'idea dell'uno, a.0 e che io non posso concepire l'uno , senza che preceda
in me l' idea dell' ente. •,
i5o
circa le proprietà e le relazioni de' numeri in fra loro,
dimostrandocele eterne s e non dipendenti da alcuna
cosa temporale.
« Di poi (così egli prosegue), sguardando all'ordine
« de' numeri , veggiamo, che dopo l'uno viene il due, che
« paragonato all'uno è il doppio: ma il doppio di que-
« sto due non viene immediatamente appresso, ma è
« uopo vi s'interponga il numero ternario, perchè se-
« guiti poscia il quaternario, che è il doppio del due. E
« simigliante ragione si stende a tutti gli altri numeri
« con legge certissima ed immutabile — , che quanl' è
« un numero dato, altrettanto si debba numerare per
« trovar quel numero che sia doppio di esso. Or questa
« proprietà, che noi veggiamo valere immutabile, fer-
« ma, incorrotta per tutti i numeri, onde la veggiam
« noi? non da' sensi ; perocché non v'ha uomo, che
« col senso del corpo percepisca tutti i numeri; i quali
« sono innumerabili (i): onde dunque conosciamo quella
« legge valer per tutti, o in che fantasia, in che fan-
* tasma veggiamo una verità così certa del numero, ap-
« plicabile a innumerabili serie di cose , e con tanta
k sicurezza, se non nella luce interiore, sconosciuta al senso
« del corpo ? »
Di che conchiude:
« Per questi ed altrettali molti documenti, coloro che
« ebber da Dio ingegno alle disputazioni , e cui la per
le tinacia non cuopre di caligine, sono astretti di confes-
tt sare,chela ragione e la verità de' numeri non appar-
« tiene a' sensi del corpo, stare essa inflessibile e sent
ii pre sincera, ed esser comune oggetto che si dà a ve
« dere a tutti quelli che ragionano » (3). —
5 3.
E or qui sant' Agostino fa de' simiglianti ragionamenti
per tutte le verità inconcusse di qualsiasi condizione ,
e le dimostra al tutto aliene da' sensi , come quelle de'

(1) Ecco come sant' Agostino s' accorge che trapassa ogni sperienza quel
ragionamento che si volge intorno all'ordine delle cose possibili c necessarie.
(2) His et taìibus mullis documenlis cogtinUtrJateri , quibus dispulantibus
Deus donavit ingenium, et pertinacia caliginem non obducit , rationem ve-
ritalemque numerorum et ad sensus corporis non pertinere, et invertibiUm
sinceramque consistere, et omnibus ratiocinantibus ad videndum esse COI*'
munem. (Oc Lib. arbitrio II , vili).
i5i
numeri, e necessariamente da più alta fonie procedenti
che dalle sensibili e temporanee nature. De' quali ragio
namenti mi si permetta di soggiungere ancora alcun brano,
acciocché si renda più manifesta la mente di un uomo
sì autorevole, e il vero che noi amiamo di mettere al
sicuro in tutta quest'opera , cioè che la cognizione nella
sua parte formale non può venire da' sensi. Udiamo dunque
come ripiglia il suo dialogo con Evodio il grand' uomo,
Slargandolo da' numeri agli altri veri.
« Agostino. Noi teniamo che v'ha una sapienza, e che
« lutti gli uomini vogliono esser sapienti, ed esser beati.
« Ora dove vediam noi ciò ? Poiché certo non dubito
• punto, che tu vegga ciò , e vegga che ciò è vero. Vedi
• in dunque questo vero a quel modo che vedi il tuo
«pensiero, il quale, se tu non mi manifesti qual sia, io
• l'ignoro? o più tosto vedi quel vero per sì fatto modo,
« che in pari tempo ti accorgi assai bene, che quel vero
« che tu vedi può esser veduto anche da me , sebbene
« tu non mei dica? » (i).
« Evodio. Anzi così appunto, che io non dubito po-
« teT tu da te stesso vedere quel vero, anche s' io non
« volessi che tu '1 vegga ».
« Agostino. Ora, se vergiamo noi tutti e due colle
« menti nostre proprie e singolari quel medesimo vero,
• non è egli cosa all'uno e all'altro di noi comune? »
« Evodio. Manifestissimo ».
« Agostino. Prendi un'altra proposizione simigliante.
«Ad esempio, io credo che tu non negherai , doversi
« porre studio ed amore nella sapienza , e sentirai che
« questa è una proposizion vera ».
« Evodio. Non ne dubito affatto».
« Agostino. Potremo adunque anche qui negare, che
« questo vero è uno, e che è comune a vedersi a tutti
« quelli che lo sanno, sebben ciascuno noi miri nè colla
« mia mente, nè colla tua, nè coli' altrui, ma colla sua
« prepria, quando ciò che è veduto, è pur presente a
« tutti i risguardanti ? »
"Evodio. Per niuna guisa si può negare ».
« Agostino. Che si debba vivere giustamente, che le
« cose deteriori vadano posposte alle migliori , le pari

(i) Ossei v.-izione liuissima e giustissima , che vale mirabilmente a distin-


guert la cugiiizioue delle cose cuutiogenti, e quella ilelle cose necessarie.
i5a
« appareggiate , a ogni essere dato ciò che gli si spella,
« non confesserai tu esser verissime sentenze, e stare ili
ci nanzi comunemente tanto a me, che a te , e a tutti
« che quelle veggono? »
« Evodio. Di pieno accordo ».
« Agostino. Che? potrai negare, che ciò che è incor-
« rotto valga meglio di ciò che è corrotto, ciò che è
« eterno valga meglio di ciò che è temporaneo, e Tin
te violabile del violabile? »
« Evodio. Chi potrebbe farlo ? «
« Agostino. V ha dunque alcuno che possa dire suo
« proprio questo vero , quando si dà innanzi a contem-
« piare a tutti quelli che ne sono atti, splendido di una
« luce incommutabile ? »
« Evodio. Niuno dirà con verità, che sia suo proprio;
« conciossiachè tanto egli è uno, e tanto è comune a
« tutti, quanl'egli è vero ». —
u Jgostino Ora non più; bastandomi che tu meco
« vegga, e conceda per cerlissimo , che queste cotali
« quasi regole e lumi di virtù e son vere, e sono in-
u commutabili, e o singolarmente prese o tutte insieme
u stanno comunemente presenti, in acconcio di essere in-
« tui'te da quelli che valgono a intuirle, ciascuno colla
« sua ragione però, e mente propria. Però ti chiedo,
« se queste cose ti sembrano esse appartenere alla sa-
« pienza » . —
« Evodio. Così è fermamente
« Agostino. Dunque quanto vere e incommutabili sono
« le regole de' numeri, la ragione e la verità de' quali
« tu hai detto porgersi in un modo incommutabile e
« comune a tutti quelli che sguardano in essa , tanto
« altresì sono vere e incommutabili le regole della sa-
u pienza, di alcune poche delle quali singolarmente prese
« interrogandoti io, hai risposto esser vere e manifeste,
« e conceduto che son comuni a contemplare a tutti
« quelli che n'hanno idoneità » (i);
« Evodio. Non posso dubitarne ». —
« Agostino. Conchiudi , non poter tu dunque negare
« avervi una verilà incommutabile , che contiene tutte
« queste cose, le quali sono incommutabilmente vere,

(1) Ecco comes. Agostino [trova elicle scienze morali e metafisiche hanno
basi inconcusse al nuri di quelle che si chiamano scienze csalle « rigorose.
« a la guai non puoi tu dire nè tua, nè mia, nè di altro
« uomo singolo, ma solo puoi dire esser pronta e por
ti gersi ella in comune a vedere a tutti quelli che san
« mirare i veri immutabili, siccome un cotal lume segreto
« e pubblico a un tempo per modi maravigliosi ». —■
« Evodio. Tutto verissimo, ed apertissimo ».
« Agostino. Or ti vo' domandare una cosa. Questa
« verità, di cui sì a lungo parliamo, e nella quale veg-
<< giani tante cose, pensi tu che sia più eccellente della
« mente nostra, o eguale, o inferiore? »
u Evodio. Forse inferiore » (i).
« Agostino. Ma se fosse inferiore, non giudicheremmo
- noi secondo quella, ma di quella, siccome giudichiamo
«de' corpi che sono inferiori, e diciamo sovente non
« pur eh' essi sono così, o in altra guisa, ma ben anco
' ch'essi così o diversamente debbono essere: e dì il
« medesimo degli animi nostri, che non solo cono-
x sciamo quali siano, ma bene spesso conosciamo quali
« esser debbano. E quanto a' corpi , giudichiamo , dicen-
" do, Non è candido come sarebbe bisogno, o non è ben
« quadrato, e molt'altre cose simili. Degli animi poi, Non
u è disposto come converrebbe, o non abbastanza lene,
« o troppo poco veemente, come dimanda la ragion de'
« costumi. Le quali cose noi giudichiamo secondo quelle
« interiori regole della verità, che tutti comunemente
■ veggiamo: di esse poi nessuno giudica in alcun modo:
" perocché ove talun dica , che le cose eterne valgono
« più delle temporali, e che sette e tre fan dieci, niuuo
« dice che cosi dee essere, ma solo, conoscendo che la
« cosa sta così, non la corregge quasi facendola da esami-
« nalore, ma se ne rallegra come trovatore di quel vero ».
« Evodio. Se non è dunque la verità inferiore alla
« mente, poniamo che sia uguale ad essa ».
« Agostino. Quando tal fosse, la verità sarebbe muta-
« bile come la stessa mente (2). Conciossiachè le menti

(l) Per ajutare il lettore ad intender meglio il ragionamento , spezzai la-


risposta di Agostino, intromettendo questa dimanda di Evodio, e la seguente,
■1 che niente turba la sostanza della dottrina.
(a) Tutti questi argomenti sono efficacissimi a provare fino all'evidenza,
che la verità non è un prodotto della mente (del soggetto) , ma un' entità
superiore alla mente e al soggetto, e veniente a quella e a questo da un
foote infinitameote all' uom superiore.
Rossuhi, Orig. delle Idee , Voi. II. ao
i54
« nostre or veggono più ed ora meno , e di qui dcb-
« bono confessarsi mutabili : quando la verità in sè stessa
« è costante, nò fa progressi coll'essor meglio veduta da
« noi, nè vien meno a lei qualche cosa per vederla noi
« meno ; ma intera e incorrotta or fa lieti di suo lume
« quelli che a lei si convertono, or quelli che da lei si
« ritraggono punisce di cecità. E che? se noi giudi-
« chiamo secondo essa anche delle nostre stesse menti,
« quando all'incontro di essa non possiamo giudicare in
« alcun modo? Poiché diciam bene, Colui non intende, o
« intende quanto basta. E alla mente stessa è questa
« legge, che intenda tanto, e non più, quanto si può
« approssimare e attaccare all' incommutabile verità. Che
« è dunque a conchiudere? Che la verità, non essendo
« nè inferiore, nè uguale alla mente, sia superiore e di
« più eccellente natura » (i).
Fin qui s. Agostino.

CAPITOLO II.

ORIGINE DELL' IDEA. DI SOSTANZA.

Fin qui io ho dimostrato, come da una prima idea


presente per natura al nostro spirito provengano, al
l'occasione delle sensazioni, tutte l'altre idee prese nel
loro complesso, i principj del ragionamento, e in parti
colare quelle idee che ho chiamate elementari dell'essere,
e che sono condizioni di ogni uso di ragione (2).
Ed apparì, come mediante questa teoria si vinca quella
difficoltà dell'assegnare all'idee le loro origini, che fu
scoglio a tanti filosofi, e a tutta intera la filosofia (3).
E perchè ci fu dato occasion di vedere che quella
difficoltà esposta da me in modo generale , s' era pre
sentata sotto più forme particolari, a chi avea tentato
di spiegare la generazione di questa o di quella special
classe d'idee; però io penso esser convenevole e vantag
gioso, che dopo aver mostrato come la data teoria sod
disfi alla difficoltà in generale, mi continui a dimostrarlo

(1) De Libere arbitrio II, vii—XII. (5) P. II, c»p. V.


(a) P. II, Ilf, — IV, c. I.
anco in particolare: dissolvendo quella travagliosa dif
ficoltà anche in tutte le sue forme parziali , cui , simi
gliando al Proteo delle favole, ella prende incessante
mente: il die sarà compito, ove dalla somma idea del
l'ente si deducano per noi tutte quelle speciali idee,
nella dichiarazion delle quali hanno dato miseramente
in secco tanti filosofi.
E quanto alle idee elementari dell'essere, l' abbi ani
già fatto.
Or le idee di sostanza e di causa ci si offrono ap
presso quelle le prime, come le più difficili e le più
necessarie.
ARTICOLO I. !
STATO DELLA QUESTIONE INTORNO ALL' ORIGINE DELL* IDEA DI SOSTANZA.

Ciò che rende più arduo che non sarebbe , l' asse
gnare all'idea di sostanza la sua origine, si è il con
cetto inesatto e confuso che si fanno della sostanza i
filosofi che ne ragionano.
Generalmente, confondono l'idea di sostanza in ge
nere, coli' idee delle sostanze particolari. I nostri filo
sofi vi diranno, per esempio: « noi non possiamo conoscere
la sostanza de' corpi ecc. , dunque noi non abbiamo l'dea
di sostanza ». Vi par egli questo un ragionamento ri
goroso ?
Conviene in vero osservare, che noi potremmo avere
1' idea di sostanza in genere, e non conoscer intima
mente nessuna sostanza delle cose particolari: a quel
modo che noi potremmo conoscer benissimo, che un
masso, che noi veggiam sospeso ad un'alta colonna,
debba avere qualche congiunzion con essa , acciocché si
stia cosi penduto nell'aria, com'egli si sta; sebbene noi
non sappiamo la natura di quella congiunzione; e se
quel nesso del masso colla colonna onde penzola, sia
fatto d'una verga di ferro, o d'altro; ovvero se sia
a modo di ganghero, o di arpione; e in somma, di
che forma e di che materia sia l'appicco: tutto questo
noi possiamo ignorare , e intendere nulladimeno la ne
cessità d'una congiuntura qualunque del masso colla
cima della colonna.
Similmente, poniamo che noi potessimo conoscere,
che ci dee avere una sostanza , oltre alle qualità sen
sibili o ad altri accidenti: ne verrebbe di questo neces
i56
sanamente, che noi dovessimo saper anco che cosa sia
quella sostanza de' corpi, e conoscere pienamente la sua
natura? No, certamente. E converso, se non conosciamo
ciò che ne' corpi forma la sostanza, si dee conchiuder
di questo, che noi non abbiamo nè pure in generale la
nozion di sostanza ? No, per la stessa ragione: concios-
siachè senza la nozione di sostanza, noi non potevam
conoscere ch'ella fosse necessaria ne' corpi.
Or poi, il dimostrare che noi abbiam la nozion di
sostanza, sarebbe, com' altri poco fa osservava (i), una
pelizion di principio. A quelli che negano l' esistenza di
tal nozione, è da chiedersi: come possono negar l'idea
di sostanza, se non l'hanno, se non sanno che negano (2)?
Il perchè, come osservai altre volte, l'idea di sostanza
è un fatto contestato dal genere umano, compresi nel
genere umano quegli slessi che. tolgono a negarla in pa
role. Poiché quando anche il genere umano s'ingannasse,
e credesse d'aver un'idea che non ha, bisognerebbe
pure che gli sembrasse di aver quest'idea: e ora, sem
brargli di aver un'idea, è lo stesso che averla; perocché
un'idea apparente, non si rimane dall'essere un'idea
bella e buona, e reale siccome le altre: più oltre non
si può andare.
ARTICOLO IL
DESCRIZIONE ED ANALISI DI TCTTO CIÒ CHE NOI PENSIAMO INTORNO ALLE SOSTANZE.

§ I.
Onde debbisi cominciare la ricerca sulle idee di sostanza.
Il primo passo che dar dobbiamo è di appurare il
fatto; di verificar quali sieno le cognizioni nostre circa
la sostanza, o quai diversi pensieri la mente umana

(1) « Entrando in una sì fatta discussione, io sento me medesimo con


ce vinto di petizione di principio : io voglio cercare se le nozioni di sostanza
« e di causa si trovano nello spirito umano; ed io medesimo, spinto
n umano, suppongo innanzi queste nozioni; di più, io le pongo, dopo
« aver loro applicato una definizione; è chiaro ch'io oppugno me stesso
- con una petizion di principio ; è chiaro altresì che io non posso a meno
« d' oppugnare così me stesso; perocché, siccome ha molto bene detto
« Pascal, non si dee giammai voler provare l'evidenza». Cousin, Fragmais
Philosophiques , tace. 4^5.
(a) L'inganno degli scettici consiste nell* immaginarsi che l'idea sia
qualche cosa di esterno: all' incontro V idea è tutta interiore, e quindi nou
è materia di controversia : é il fatto.
,57
agita intorno ad essa; poiché di queste cognizioni o
pensieri è che cerchiamo spiegazione.
Un fatto è questo : la mente pensa alla sostanza. Non
giova dire: questo è illusione, o, è pensier falso. Ciò
non appartiene alla discussion presente. Sieno veri o
falsi, illusorj o reali i pensieri della mente sulla so
stanza, ella li fa: dobhiam dunque mostrarne l'origine,
renderne una ragione. Il filosofo non dee solo assegnar la
cagione di ciò che fa la mente, ma anche di ciò che
crede di fare. Trovata l'origine di fai pensieri, che cre
diamo di fare sulle sostanze, allora si potrà più age
volmente vedere il real valore di questi pensieri, e l'uso
legittimo che se ne dee fare ; perocché V origine stessa
è quella che può mostrare la legittimità o verità di essi,
o pure dichiararli spurj, illusorj e nulli, se non in sè,
il che è sempre impossibile, almeno nelle loro applica
zioni. Cominciamo dunque prima da un'analisi di tutto
ciò che intorno alla sostanza la mente umana concepisce.

§ 2.
Definizione della sostanza.

Sostanza è « quella energia per la quale gli esseri at


tualmente esistono », o sia « quella energia che costi
tuisce la loro attuale esistenza ».

§ 3.
Analisi del concetto di sostanza.

Or vediamo in quante maniere la mente concepisca


questa energia; e per veder ciò, analizziamone il concetto.
In questo concetto noi possiamo notare primieramente
due idee , i.* l'esistenza attuale, o sia quella energia per
la quale esiste un essere (i), a.* e l'essere stesso che
esiste (essenza ).
Questa distinzione non si fa che per una astrazione;
ma T astrazione è appunto ciò che fa al proposito no-

(i) L' energia che costituisce V esistenza attuale degli esseri, ovvero l'ener
gia per la quale esistono, è il medesimo. Questa seconda espressione viene
spiegata da quella prima. Conviene cioè avvertire di non fare due cose di
verse dell' energia di cui parliamo, e dell' esistema attuale degli esseri: pe
rocché l' esistenza attuale è V energia stessa.
i58
stro ; perocché noi siamo qui per favellare di ciò che
sta nella mente, e non fuori di essa. Ciò che sta nella
nostra mente , non si distingue realmente che mediante
1' astrazione; mentre l' astrazione non costituirebbe una
vera divisione delle cose sussistenti fuori del nostro spi
rito. L' astrazione è un fatto , un' operazione dello spi
rito. Un altro fatto è, che per l'astrazione d'un pen
siero solo, se ne fanno più: per l'astrazione succede,
che mentre la nostra attenzione si volgeva da prima so
pra un pensiero tutto intero, e faceva con ciò un solo
atto , di poi si fissi nelle diverse parti di quel pensiero,
e ciò faccia con molti e molti atti, quante sono le parli
nelle quali ella si fissa. Irragionevolmente ci si farebbe
qui quel rimprovero , che è divenuto un luogo comune
de' moderni sofisti , che non in altro modo sanno tro
vare onesta cagione del non entrar nel forte e nello
spinoso della questione , il rimprovero , dico , che noi
abusiamo dell'astrazione per creare degli esseri imma
ginar]. All'opposto, noi siamo obbligati di spiegare il
fatto della stessa astrazione, e de' suoi prodotti, nel ra
gionamento presente. Non possiam dunque prescindere
dall' astrazione, nò far a meno di notare e descrivere
tutti i diversi pensieri o concetti che nel nostro spirilo
ella forma ed origina; reali al di fuori della mente, o
no, non sono meno pensieri reali dentro nella mente,
non sono meno idee; e noi ci siamo impegnati di render
conto di tutte le idee in questo Saggio che ha il titolo
dell'origine delle idee.
Rimosso tal pregiudizio, che potea star contro noi ,
e confondere la mente ad un lettore inavveduto, dico
che nella data definizione , « l' energia che costituisce
l'essenza attuale degli esseri », la niente nostra distingue
e pensa due cose, i.° gli esseri, 2.* e l'energia per la
quale esistono: queste son due idee elementari, onde ri
sulta un'unica idea di sostanza.

§ 4-
Varj modi dell'idea di sostanza.

Quinci noi possiamo vedere quali sieno i modi che


può prendere la nostra idea di sostanza, i quali modi
sono detti comunemente altrettante idee. Perocché
1". Noi possiamo pensare V energia, per la quale esi
.stono gli esseri, in generale; cioè senza pensare nessun
essere particolare, ma un essere meramente possibile
qualunque, non fissandogli determinazione alcuna, e solo
avendo presente la possibilità che l'essere in universale
sia determinato in quel modo che è necessario perchè
egli esista: questa è l'idea di sostanza in universale.
a.* Noi possiamo pensare V energia non già di un es
sere sfornito di determinazione, ma di un essere for
nito di una qualche determinazione generica: e quest'è
l'idea di sostanza generica (i).
3.° Noi possiamo pensare V energia predetta, non già
di un essere determinato genericamente, ma specifica'
mente} cioè noi possiamo pensare l' esistenza attuale
che può avere l'individuo di una specie determinata,
pensando in tale idea l' individuo compito , fornito di
ciò che gli è bisogno ad esistere , cioè delle sue note
comuni , e ancora delle sue note proprie. Quando la
mente è pervenuta a pensare la possibilità che un tale
individuo attualmente esista, non sapendo però ancora
se realmente esista; ella ha l'idea della sostanza speci
fica, un'idea esemplare, o tale, che all'idea esemplare
si riduce.
Prima di proceder oltre, fermiamoci un po' a rico
noscere queste tre idee di sostanza, che talora noi con
cepiamo nella mente.
Noi abbiamo nominate queste idee, idea di sostanza
in universale , idea di sostanza generica , idea di sostanza
specifica.
Ora non è da credere, che in tutte e tre queste con
cezioni nostre noi non pensiamo un individuo , o sia
un essere unico e indiviso, fornito di tutto ciò che gli
è necessario ad esistere : questo in tutte e tre quelle
idee si pensa. La differenza è nel modo nel quale noi
lo pensiamo , o colle sue determinazioni, o senza di esse.
A dar maggior chiarezza alla cosa, io dimando: quando
penso la sostanza in universale, che penso io allora ?
che sta compreso in questa mia idea di sostanza in uni
versale ?
Penso un ente ( perciò un individuo) qualsiasi, il quale

(i) Conviene aver presente ciò che ho detto sui generi e sulle specie
(P. II, c. II), e quale sia la maniera nostra di concepire queste due ma
niere di classificazione.

i
i6o
abbia in se quella energia che si chiama attuale esi
stenza : non cerco punto a qual classe, o genere, o specie
egli appartenga: penso solo l'energia o esistenza at
tuale di lui, e implicitamente cou ciò penso, che que
st'ente sia determinato con tutto ciò ch'egli dee avere
in sè acciocché esista , ma non determino io però coi
mio pensiero, nè punto mi rappresento quali sieno le
determinazioni o proprietà sue, nè mi occupo a sapere
se sieno più tosto queste che quelle.
Nell'idea adunque di sostanza in universale i." c' è il
pensiero dell'esistenza attuale, a.* c'è il pensiero del
l'individuo che esiste,. 3.° c'è il pensiero iti universale
delle determinazioni che dee avere in sè quest' individuo
acciocché esista, cioè il pensiero della necessità ch'egli
sia compito, ed abbia tutto il suo necessario per esi
stere; senza cercar però io, che debba esser questo ne
cessario, che il fa essere un ente determinato, un tipo
compito.
Nell'idea di sostanza generica si possono distinguere
egualmente i tre pensieri elementari, cioè quello i.* di
una energia che costituisce l'esistenza, 2.* di un ente che
l'ha in sè questa energia, 3." e delle determinazioni
necessarie a quest'ente perch' egli sia compito all' esi
stenza, cioè perchè sia un individuo.
La parte variabile di queste due idee è la terza; il
diverso modo onde noi concepiamo il terzo elemento ,
fa la differenza delle due idee.
Nell'idea di sostanza in universale noi pensiamo, che
l'ente, di cui si pensa l'esistenza attuale, s'abbia in
sè tutte le determinazioni o proprietà necessarie ad esi
stere; ma non pensiamo tuttavia quali sieno, o s'elle
sieno più tosto queste che quelle. All'incontro nell'idea
di sostanza in genere, noi pensiamo altresì alcune de
terminazioni generiche dell'ente , la cui sostanza pen
siamo: per esempio, pensando io alla sostanza degli
spiriti, o de' corpi, io non penso solo all'esistenza at
tuale di un individuo in universale, ma penso all'indi
viduo d'un genere determinato, cioè del genere delle cose
corporee , o delle cose spirituali.
Finalmente nell'idea di sostanza specifica entra l'in
dividuo in tutto determinato tanto colle sue note gene
riche che proprie. Se io penso la sostanza di un albero
individuale, e non di un albero qualsiasi, io debbo peur
1G1
«ar l'albero fornito di tutti i suoi caratteri e note di
stintive (i).
Adunque in tutte le. tre idee di sostanza si pensa
sempre un individuo , perchè si pensa una cosa intera
mente determinata ad essere, una cosa compita in tutte
le sue parti, alla quale nulla manca fuori che la sus
sistenza, la qual cosa io chiamo individuo. Se l'archi
tetto immagina una casa, la disegna a sè stesso in tutte
le più minute sue parti, determinando altresì seco me
desimo i materiali necessarj a comporta ; questa casa
nella mente dell'architetto è perfetta: in edificandola ,
nulla cresce all'idea, che tutte le parti della casa già
abbraccia e tiene: ciò che si fa di nuovo è la casa
stessa , alla quale si dà un'esistenza in sè, non più una
esistenza ideale nella mente di chi la concepì e divisò
in tutte le sue più minute particolarità.
Si può dunque pensar l'individuo in universale: come
quando si pensa il complesso di ciò che è necessario
perchè l'ente esista, senza determinare nè pensar che
ciò sia.
Sì può pensar l' individuo in genere : come quando
non si pensa solo il complesso di ciò che è necessario
perchè l'ente esista, ma si comincia a determinar qual
che cosa dentro a questo complesso, cioè le qualità ge
neriche dell'individuo.
Si può finalmente pensar l' individuo in ispecie: come
quando nel complesso di ciò che è necessario acciocché
Tenie esista, si determinano le qualità generiche, e le
specifiche altresì.
In una parola, posso pensare un individuo qualsiasi,
un individuo d' un determinato genere, e finalmente un
individuo speciale.
S'io penso l'esistenza attuale di un individuo qual
siasi, penso la sostanza in universale; s'io penso 1 esi-

(i) Il lettor si ricordi ciò cKe ho dcWo sui generi e le specie, e capirà
flie non mi è necessario di far qui un'altra classe d'idee di sostanza per
gl'individui d'una specie distinti da qualche imperfezione; perocché le
idee di questi non sono che l'idea stessa dell'individuo perielio (idea speci
fica ) , tolto via da lei qualche pregio.
Oltracciò qui non si parla dell'affermazione degl'individui sussistenti,
poiché questi colle idee sole non si conoscono uè peusuuo, ro i col giudizio,
t altresì di essi parliamo più sollo.
Kosmimi, Urig. delle Idee , frolli. 21
i6a
s lenza attuale d1 un individuo d'un dato genere, penso
la sostanza in genere: s' io penso l'esistenza attuale d'un
individuo in sè stesso compito, penso con ciò alla so
stanza speciale. Idea di sostanza in universale , idea di
sostanza in generale, idea di sostanza specifica, sono
sempre idee dell'energia che costituisce l'esistenza at
tuale, la quale non può essere che d' individui , cioè di
enti perfettamente determinati all'esistenza ; se non che
noi o non pensiamo espressamente ciò che li determina,
o ci pensiamo solo in genere, o finalmente ci pensiamo
anche in tutte le loro note proprie le quali veramente
li costituiscono individui.

§ 5.
Origine dell' idea d'individuo.

Io non posso pensare 1' attuale esistenza dell' ente , se


non penso insieme che quest'ente riceva tutte le deter
minazioni che gli sono necessarie ad esistere.
L'idea dunque dell' individuo è intimamente connessa
e compresa nell'idea di sostanza: sicché spiegala l'ori
gine di questa , quella pure è spiegata.
Ora altre idee di sostanza nè d'individuo, che queste
tre, cioè universale, generica, speciale, essere non pos
sono nella mente nostra : converrà dunque che noi de
scriviamo l'origine di ciascuna di esse.

§ 6.
Giudizj *ulla sussistenza delle sostanze, e in che differiscano
dalle idee di sostanza.

Ma dopo ciò, noi non avremmo dato ancora spiega


zione di tutti i pensieri che noi facciamo sulle sostanze.
Oltre le idee, noi formiamo de' giudizj sulla sussi
stenza delle sostanze.
L'individuo che ci rappresentiamo nell'idea, cioè l'ente
fornito di tutte le note a lui necessarie, come fa l'ar
chitetto che 8' ha compitamente rappresentata la casa
da costruire, non è per noi ancora sussistente : pensando
anche la sussistenza del medesimo, noi la concepimmo
come possibile; nulla di realmente sussistente entra in
tale idea: ella è perfetta; ma è un tipo, non alcuna
iC3
cosa reale; e come un tipo, ei presenta la cosa possibile
a farsi, ma non veramente esistente.
Or poniamo che un individuo sussista realmente, in
modo rispondente alla nostra idea; e che noi il possiam
percepire. Che operazione farebbe a percepirlo lo spirito
nostro ? Un giudizio. Affermerebbe sussistente quell' in
dividuo da sè pensato.
L'atto duuque, tliciamol di nuovo, onde noi pronun
ciamo, « la tal cosa sussiste » , quando s'abbia già l'idea
della cosa, è un'operazione dello spirito essenzialmente
diversa dalla semplice concezione: è un pensiero diverso
dalle idee; un pensiero, un' operazione che alle idee
unisce una persuasione di nuova specie , una credenza
alla sussistenza di ciò che si pensava prima come pos
sibile (1).
Ci» posto , come noi abbiamo tre idee di sostanza ,
cosi sono pure tre i giudizj che noi possiamo fare sulla
sussistenza delle medesime. Perocché noi possiam giu
dicare i.° che sussista una sostanza in universale, 2." che
sussista una sostanza in genere, 3." e finalmente che
sussista una sostanza speciale, e individuale altresì (3).

§ 7-
Ricapitolazione di lutti i pensieri che la mente umana fa
intorno alle sostanze.

Riassumendo, i pensieri che noi formiamo sulle so


stanze sono idee e giudizj.
Tre sono le specie d'idee, e tre sono le specie di
giudizj: idea della sostanza in universale, idea della so
stanza generica , idea della sostanza speciale : giudizio
sulla sussistenza d'una sostanza in universale, giudizio
sulla sussistenza d'una sostanza d'un dato genere, giu-

(1) Non si dica già, che con ciò si acquista una nuova idea , l'idea di sus
sistenza: questa c'era, perdi' ella è necessaria a pensare « che un ente
possa sussisUre ». La persuasione adonque dell' esistenza reale è qualche
cosa interamente distinta dalla concezione; è di una natura al tutto diversa
dalle idee.
(1) Tanto al giudizio sopra una specie di sostanza , che al giudizio sopra
una sostanza individua presiede l' idea stessa specifica , o nella sua perfe
zione , o accompagnata da imperfezioni, o astratta (Vedi più avanti, Parie V,
cap. I, art. v, g i —5). I giudizj però si potrebbero veramelile dividere; e
iu tal caso le classi de' giudizj sarcliliero quattro.
i64
dizio sulla sussistenza d' una sostanza speciale e indi
viduale.
Di tutte queste idee e di tutti questi giudizj noi dob
biamo descriver l'origine, o sia mostrare il modo della
loro possibilità nella mente umana.

ARTICOLO III. .
lE TRE IDEE ENUMERATE DI SOSTANZA VERGONO L DNA DALL ALTRA.

Innanzi di metterci in questo pelago , veggiamo un


poco se ci riesce di restringerne alquanto i confini , e
se possiamo evitare di trattare a parte 1' origine di cia
scuna di quelle idee e di que' giudizj che noi sulle so
stanze* formiamo.
E primamente ci abbrevia il cammino la connessione
che lega quelle tre idee di sostanza.
Poiché elle sono congiunte in tra sè per modo, die
l'una s'ingenera dall'altra: di che succede, che ove noi
abbiamo spiegata l'origine di una, abbiamo con essa
spiegata ancora quella delle altre due.
A veder ciò, poniamo data l'idea di sostanza speciale.
A noi, per aver le idee di sostanza in genere, e in uni
versale, non bisogna altro che di astrarre queste da
quella. Nell'idea di sostanza speciale abbiamo l'idea
dell'esistenza attuale di un ente pienamente determi
nato tanto dalle sue note comuni, che proprie. Non
abbiamo dunque che ad abbandonare le note proprie e
speciali, ed ecco l'idea di sostanza generica; ovvero ab
bandonare altresì le note generiche, ed ecco l'idea fatta
universale. In una parola, le idee di sostanza universale
e generale non sono che astrazioni dell' idea di sostanza
speciale. Adunque spiegata questa , sono spiegate anche
quelle.
In somigliante modo si rappresenta il quesito della
spiegazione delle idee tutte (i): spiegata un'idea, tulle
le altre idee sono spiegale coli' astrazione. Ristretto alla
sostanza, il problema è questo: « spiegatemi l'idea di
sostanza specifica; che, spiegata questa, tntte l'altre
idee di sostanza non mi danno più alcuna difficoltà ».

(i) Sei. II.


i65
ARTICOLO IV.
1 GIUDIZJ SELLA SUSSISTENZA DELLE SOSTANZE SI SPIEGANO TUTTI
QUANDO SI GIUNGE A SUPERARE UNA SOLA DIFFICOLTA'.

Ond' è adunque l' idea di sostanza speciale ?


Cercando l'origine di quest'idea, noi troviamo ch'ella
è connessa co' giudizj che noi facciamo sulla sussistenza
delle sostanze: connessione che restringe via più il
campo delle nostre ricerche: perocché, ove avremo hen
percepita quella connessione, ci accorgeremo, che con
una spiegazione sola noi soddisfacciamo tanto alla di
manda « qual sia l'origine dell'idea di sostanza spe
ciale», quanto alla dimanda «qual sia l'origine de'
giudizi che noi facciamo sulla sussistenza delle sostanze».
I giudizj che noi facciamo sulla sussistenza delle so
stanze ahbiam detto esser tre: però conviene che noi
facciamo prima osservare il nesso fra loro, e come la
difficoltà in tutti tre si riduca ad una; '
In giudicando che sussiste i." un individuo qualsiasi,
a.* un individuo di un certo genere, 3.* o di una certa
specie, noi dobbiamo esser mossi da una ragione.
Questa ragione die ci determina ad affermare la sus
sistenza di tali individui, è la ragione della percezione
nostra de' medesimi: or trovata questa, sono spiegati
que' giudizj; cioè è fatto vedere, com' essi possano dal
nostro spirito esser formati.
Questo però dimostra, che in tutte e tre quelle spe
cie di giudizj la difficoltà da superare è una, e tutta
consiste nel mostrar ben chiaro quale sia la ragione
per la quale noi diciamo: «sussiste il tale individuo».

ARTICOLO V. ,
L.A SPIEGAZIONE DELL'lDEA SPECIFICA DI SOSTANZA PENDE DA QUELLA DIFFICOLTA'
CHE SI TROVA IN RENDER CONTO DE* GIUDIZJ SULLA SUSSISTENZA DELLE SOSTANZE.

Dobbiamo dunque solamente i.° indicare il modo


onde noi ci formiamo l'idea di sostanza specifica; 2." mo
strare quale sia la ragione che ci conduce a giudicare
sulla sussistenza delle sostanze: a questa semplicità ah
biam ridotto fin qui lo stato della nostra questione.
Ma ella si può semplificare via più. Esaminiamo il
nesso delle nostre due questioni.
iG6
Ci sia data la ragione, mediante la quale noi po
niamo la sussistenza di un individuo.
Con tal ragione noi diciamo a noi stessi: «sussiste il
tale individuo ». Ora nella percezione nostra di que
st'individuo ci è già racchiusa l' idea di sostanza. Per
ciocché non essendo la sostanza che l' energia di esi
stere , ossia l'attuale esistenza di unente, noi non pos-
siam concepire un ente sussistente, senza concepirlo in
sieme colla sua sussistenza , coli' energia in una parola
nella quale esiste; ciò che è la sua sostanza.
Le due questioni adunque si riducono in tal maniera
ad una sola, cioè a quella, « come io possa pronun
ciare giudizio sulla sussistenza di un ente »; perocché
ov'io faccia questo giudizio, e percepisca così quest'ente,
percepisco insieme la sostanza di lui , e me ne formo
quindi agevolmente, o più tpsto me n'ho già formata
V idea.
Noi siamo dunque tenuti solo a spiegare , come noi
formiamo un giudizio, pel quale noi affermiamo sussi
stere un individuo: perocché supponendo da noi fatto
quel giudizio, ci è poscia assai agevol cosa il trarne
l'idea di sostanza, badando in quell'individuo a ciò
che costituisce la sua esistenza attuale; il che è l'idea
di sostanza che coli' astrazione noi ricaviamo.

ARTICOLO VI.
SPIEGAZIONE DELLA PERCEZIONE DEGL'INDIVIDUI.

Ora noi abbiamo già spiegato innanzi diligentemente,


come avvenga la percezione intellettiva degl'individui,
e come noi ce ne formiamo le idee appunto con quello
stesso giudizio col quale affermiamo a noi stessi la loro
sussistenza (i).
Soluto questo nodo, nel quale abbiamo semplificata
tutta la questione dell'origine de' nostri pensieri sulle
sostanze, cioè tanto delle idee che abbiamo di esse,
come de'giudizj che sulla loro sussistenza pronunciamo ,
lutto è spiegato. E riassumendo,
i.° Noi con quel giudizio, onde giudichiamo della

(1) Face. io5 e segg.


167
sussistenza degl' individui , ce ne formiamo altresì le
idee (1) :
3.* Dalla percezione intellettiva degl' individui noi
possiamo cavare l'idea astratta di sostanza speciale, e
da questa l' idea più astratta di sostanza generica : da
questa finalmente l'idea della sostanza in universale (2):
3." La percezione intellettiva degl'individui fu già in
nanzi da noi spiegata:
Non resta più adunque alcuna difficoltà a spiegare
Unto l'origine delle tre idee, come l'origine de' giudizj
che noi facciamo sulle sostanze.

CAPITOLO III.

DICHIARAZIONE MAGGIORE DELL' IDEA DI SOSTANZA.

ARTICOLO I.
kecessita' di questa dicmarazione.

Sebbene ciò che ho detto fin qui potrà esser altrui


paruto anche soverchio, io slimo però ( per quanto mi
conosco del mio tempo) che non basterà tuttavia egual
mente per tutti. E non certo per quelli che alcuna
delle varie sentenze le quali corrono in siili' origine
dell1 idea di sostanza hanno già prima, e fors'anco ci
sono dentro invecchiati : la qual loro sentenza vorrà
essere più tenace, più ch'ella sarà ingegnosa 5 come appar
quella della scuola tedesca, che si va introducendo ogni
dì più in Francia e in Italia : di che potrebbe esten- .
dersi per tutto il mondo , s'ella metter potesse forti e
vigorose radici.
Chiarirò adunque maggiormente l' opinione esposta ,
'a qual sola reputo vera , e perciò sola salutare all' 11-
manità; e m'ingegnerò di renderla sì evidente, che anche
gli uomini prevenuti debbano sentirla, non dico già al
tutto vincitrice , il che è assai malagevole , ma munita
e inespugnabile.

(1) Art. VI. (a) Art. IV.


i68
ARTICOLO II.
ENUMERAZIONE Dt' SISTEMI SLLl' ORIGINI DELL* IDEA DI SOSTANZA.
I sistemi offerti da' filosofi contro la difficoltà che
presenta l'origine dell'idea di sostanza, e che fu r tocchi
nel corso di quest' opera , sono i quattro seguenti:
I. Alcuni, non sapendo come uscire del pecoreccio,
ne hanno negata V esistenza. Il loro argomento si riduce
al seguente: « io non so spiegare l'origine della nozione
di sostanza; dunque non esiste ». Di questi filosofi basti
ciò che il lettore può dire a sè stesso.
II. Alcuni tentarono di cavarla dalle sensazioni: questi
sono quelli che hanno maggior pretensione di seguire i
fatti. Il loro argomento è il seguente: « dalle sensazioni
debbono venire tutte le idee, poiché è il solo principio
di ogni cognizione che noi riconosciamo nell'uomo;
dunque dee venirci anche l'idea di sostanza ». E il
tipo più perfetto di un metodo rigorosamente filosofico
e seguitator fedele de' fatti!.'
III. Alcuni dissero che l'idea di sostanza doveva es
sere innata, giacché nè si poteva negare, nè venir potea
dalle sensazioni.
IV. Alcuni finalmente, veggendo che le idee innate
trovarono nei nostri tempi un'opposizione fortissima,
pensarono se mai, oltre il sistema che fa l'idea di so
stanza veniente da' sensi, e quello che la fa innata, si
potesse averne un terzo; e trovaron che sì. Essi dis
sero in prima, che fra l'idea di accidenti (o qualità
accidentali) e quella di sostanza passa un legame sì
stretto, che l'una è indivisibile dall akwft^Questo l'am
misero per un fatto primigenio. Lo spirito umano adunque
non può concepir gli uni senza l'altra. Ma onde tutto
ciò? Da una legge psicologica, cioè dello spirito stesso.
La connessione della sostanza e dell' accidente questi
filosofi la chiamano ontologica, cioè a parte sui; inten
dendo però, che tale apparisce allo spirito umano per
una necessità a lui intrinseca. Quando essi la considerano
rispetto allo spirito umano stesso da cui è concepita e
formata, questa connessione la chiamano psicologica. In
altre parole: « lo spirito umano emana da sè stesso
l' idea di sostanza all' occasione della percezione degli
accidenti ; ma la emana per modo , eh' ella apparisce
necessaria agli accidenti ». Questa necessità è oggettiva,
ma apparentemente, che vuol dire, non è oggettiva: cioè,
dicon essi, apparisce oggettiva allo spirito, che in tal
modo necessariamente la vede: è dunque una oggettività
soggettiva: più là, dicono essi, non si può andare. Un
recente seguace di questo sistema (che alla per fine, qua
lunque modificazione gli si faccia, è però sempre quello
trovato da Kant), parlando delle nozioni universali,
fra le quali mette la nozion di sostanza, dice, che « queste
« nozioni non hanno una origine logica, ma sì una origine
« psicologica »; che « se altri cerca la ragione di una
« di queste verità, noi potrà mai »; che « dall'istante
oche io la concepisco, la concepisco come immutabile,
« eterna, assoluta »: di che la descrive siccome veniente
dall'anima, senza che si possa dare ragione alcuna di
sua provenienza, altro che la necessità, il fatto: la na
tura dello spirito è sì fatta, ch'egli trae di sè tale
idea, o comecchessia la vede al vedere delle sensibili
qualità: tal fatalità misteriosa è il termine dell' umane
ricerche, secondo la critica filosofia. A parlar fuor di
ambagi e spiattellatamente, siccome fanno i galantuo
mini, questi voglion dire: « la nozione generale di so
stanza non vien da' sensi, non è innata, non si può dire
che sia nulla, dunque ella è un'apparenza (reale solo
in quanto a noi) che emana dalla natura del nostro
spirito ».
Questo sistema , comecché si disguisi e copra, è l'i
dealismo, e lo scetticismo in persona.
L'argomento in cui si appoggia , alla fine de' conti è
il seguente: «Non vi sono che quattro sistemi, atti a
spiegare l'idea di sostanza: ma i tre primi sono inso
stenibili: dunque l'ultimo è il vero».
L'argomentazione potrebbe esser buona; ma dovrebbe
prima dimostrarsi, che un quinto sistema è un assurdo:
malavventuratamente questo è ciò che non cade in pen
siero di dover fare a cotesti nostri filosofi. Or, non
dimostrando l'assurdità d'un quinto modo di spiegare
l'idea di sostanza, a che si riduce il metodo loro? Non
ad un esempio di modestia (sebbene par loro d'avere
i primi compressa la baldanza della filosofia, e resala
solida e cauta), ma sì di una presunzione inaudita. È
questa, che nella prima proposizione del loro argomen
to, « non vi sono che quattro sistemi atti a spiegar
Rosmiki, Orig. delle Idee, Voi. II. aa
170
l'idea di sostanza », fa loro dimenticare questa giunte-
rella necessaria: « per quanto a noi è noto »; giunta
che sarebbe sola bastata a far loro pigliare un tutto
diverso andamento.
Io credo che un modesto e ragionevol filosofo ragio
nerebbe con assai miglior senno così: «. V'hanno quattro
soli sistemi atti a spiegar l'idea di sostanza, per quanto
è a me noto. 1 tre primi incontrano tutti gravissime
difficoltà: al quarto seguita l'idealismo, e lo scetticismo:
queste conseguenze mi dimostrano, che il quarto ripugna
alla natura ragionevole: non può andar bene. Io debho
dunque confessare, che non conosco il modo di spiegare
l' idea di sostanza ».

ARTICOLO HI.
v' ha cn* altra strada da battersi , pia trovar
l 'origine dell' idea di sostanza.

Ma veramente egli v'ha un quinto sistema; e questo


evita tutte le difficoltà de' quattro già conosciuti ed
esauriti dalla moderna filosofia.
Questo è quello che deriva l'idea di sostanza dalla
forma delle cognizioni umane ( della quale fino a qui
abbiam mostrato l'esistenza innata), cioè dall'idea di
ente in universale.
In questo sistema l'idea di sostanza nè si nega, nè si
deduce dalle sensazioni , nè si ammette innata , nè si
dichiara apparente e soggettiva: ella si deduce dalla
prima ed essenziale di tutte le idee, che è la sola idea
innata, idea che, come vedremo meglio a suo luogo (1),
è tanto vera, che è giustificata per sè, è la stessa verità.
In questo sistema, l'idea di sostanza si concepisce in
quel momento appunto nel quale l'uomo ha 1' occasion
di dedurla dall'idea prima; e questa occasione gli vien
data sin dalle prime sensazioni.
Egli non la percepisce però allora in uno stato di
astrazione, sola, pura d'ogn'altra giunta: l'averla astratta
e pura succede all'uomo troppo più tardi, quand'egli
comincia a filosofare, e ad operare delle astrazioni sulle
sue proprie concezioni.

(1) Sei. VI.


■71
Intanto però quell'idea ha degli antecedenti logici $
uon de' soli antecedenti psicologici, giusta la maniera di
parlare del sig. Cousin. Quest' idea non emana quasi
per fatalità cieca dall'anima; ella viene dedotta: si può
assegnarle una ragione che la giustifica , che la prova
vera: sua ragione è l'idea dell'ente in universale: idea,
come dicevamo, giustificata per sé, perciocché ella co
stituisce ciò che gli uomini tutti chiamano verità. E queste
proposizioni riceveranno via maggior lume in tutto il
corso di qucsl'opera. Intanto poniam mano alla spiega
zione più circostanziata della nostra terribile idea di
sostanza.
ARTICOLO IV.
PRIMA PROPOSIZIONE ; SE IL NOSTRO INTELLETTO CONCEPISCE ,
CONCEPISCE UN QUALCHE COSA.

La proposizione fu dimostrata prima : il concepire


affatto niente, e il non concepire, sono due espressioni
sinonime.
E se il nostro intelletto, per concepire e per operare,
dee avere un oggetto, convien dire ch'egli dee conce
pire un qualche ente (pel principio di cognizione) (i),
o un qualche cosa: poiché queste sono parole univer-
salissime di tutte, in contrario alle quali sta solo il
nulla. Quindi anco vedemmo, che l'intelletto è « la fa
coltà di concepire l'ente, cioè un qualche cosa avente
una sua propria esistenza » (a).

ARTICOLO V.
SECONDA PROPOSIZIONE : OCNI COSA PUÒ ESSERE OGGETTO DELI.' INTELLETTO.

5 I.
Dimostrazione.
Ciò posto, « ogni cosa può essere oggetto dell'intel
letto »; perocché ogni cosa ha una specie d'esistenza
sua propria.

(1) Parte in.


(2) Parte II, c. II. L' intelletto è la facoltà di concepir le cose come aventi
un'esistenza propria; non è però ch'egli non possa ingannarsi sull'esistenza
delle cose; ma anche quando s'inganna, egli le concepisce come aveuti
un'esistenza lor propria.
172
Il dire, esiste una cosa, e non ha veruna esistenza,
fa contraddizione ne' termini (principio di contraddi
zione ) (1).
Quanto non ha esistenza nè in sè nè in altro , non
è pensabile, non è oggetto d'intelletto. Ma si può fran
camente dire, che non esiste; perocché aver nessuna
esistenza, e non esistere, è il medesimo-, egli dunque
è nulla.
§ 2.
Obbiezione contro il principio di contraddizione.
Ma qui sopra tutto importa che il lettor noli la le
gittimità del riostro ragionamento.
Quando noi ragioniamo così: « Il dire una cosa che
non ha veruna specie di esistenza, è ripugnanza; poiché
quando dico cosa, dico ente, dico esistente: dunque
ogni cosa può esser oggetto all'intelletto; conciossiachè
l'intelletto è la potenza di concepir ciò che in qual
siasi modo esiste »; non facciamo una petizione di prin
cipio, come può sembrare dando orecchio al modo onde
possono calunniare questo discorso certa maniera di
Mattici.
Poiché io mi so bene, che cosa i seguaci del quarto
fra' sistemi di sopra esposti sieno presti di dirmi. « Per
dimostrare che l' intelletto , facoltà dell'ente, può con
cepire ogni cosa, voi ricorrete, diranno essi, al prin
cipio di contraddizione. Ma come provale voi la forza
del principio di contraddizione? Gli antichi dicevano ,
che la dimostrazione, recata che fosse al principio di
contraddizione, era compita, nè si poteva andare più
innanzi: ciò dicevano, perchè ammettevan la forza del
principio di contraddizione : noi la troviamo gratuita ,
e la neghiamo a parte sui. D'altro lato, la natura del
l'argomento vi obbliga strettamenle a giustificare il prin
cipio di contraddizione. Perciocché voi trattate di ab-
• battere gli scettici : trattate di dimostrare, che l'idea di
sostanza non è meramente soggettiva e apparente, non
è una emanazione cieca e fatale della natura spirituale,
ma è qualche cosa di oggettivamente vero. Se nella vostra

(1) Parte 111, c. L


argomentazione voi cominciate ad introdurre il prin
cipio di contraddizione come oggettivamente vero, in
tal caso voi cominciate a supporre che esista il vero
oggettivo. Noi sosteniamo che l' idea di sostanza sia in
ultimo soggettiva e apparente; poiché, secondo noi,
è impossibile una cognizione qualsiasi nell'uomo, for
nita d' una verità realmente oggettiva. Se voi cominciate
a supporre ciò che è in questione, qual meraviglia che
giungiate poscia, partendo da tale supposizione, a dare
anche all'idea di sostanza la stessa oggettiva verità che
gratuitamente largheggiate al principio di contraddizione »?

§ 3.
Risposta. — Difesa del principio di contraddizione.

Rispondo: Chi mi fa l'obbiezione predetta contro il


principio di contraddizione, non dee aver certamente
inteso il modo ond' io dedussi quel principio dall'idea
dell'essere in universale, dimostrandolo una cosa con
quella idea: nè dee avere sentita la forza di quella idea,
ond' ella si giustifica manifestamente da sè, ed appaga
e vince di sua luce tutti i dubbj di quelli che in lei
direttamente riguardano. Perciò non volendo ora io
tornare a dire il detto, nè quel più che mi riserbo a
dire nella Sezione VI volendo qui prevenire, torrò ora
più tosto a battere una via più piana , ma egualmente
atta e sicura a condurre alla persuasione, s'egli è pur
possibile, lo scettico nostro; il che vorrà essere alla ve
rità stessa, che stiam difendendo, di non poco rinforzo
e vantaggio; conciossiachè ella si fa più manifesta, e
vie più lucente agli uomini, quanti più sono lati e
aspetti in che si offra e rappresenti loro da rimirare.
Io non ho bisogno dunque al presente che del postu
lato «dell'uso del linguaggio»; perocché se mi si vie
tasse quest'uso, io non potrei più aggiunger verbo;
mi si chiuderebbe un po' sgarbatamente la bocca, e
così rimanendomi io a bocca turata, i miei avversa rj
a piena gola gridar potrebbero d'aver ragione, siccome
quelli che hanno riserbato a sè soli il favellare, o cerio
lo strillare.
Ora, se si concede anche a me, come lo si permet
tono i miei avversarj, l'uso del linguaggio, quando io
dico « una cosa », ho diritto che s'intenda « una cosa»:

-
perocché se s'intende allora «una non-cosa, un nulla »,
il linguaggio mi sarebbe stato conceduto solo per cor
bellarmi.
È dunque 1' uso del linguaggio che esige che si dica
ciò che si dice; che quando io dico pane, dica pane;
e quando dico sasso, dica sasso.
Se io dico una parola , ed immantinente la ritratto
e la nego , io non ho detto ancora nulla , perciocché
ciò che avea detto , io l' ho richiamato e cassato. Se
io fo un segno colla matita in sulla carta, e poi lo ra
do, che restami nella carta? un bel bianco, siccome
prima di fare il segno. Se mi si accordasse disegnare
colla matita , ma a patto che ogni linea tirata inconta
nente cancellar dovessi, si direbbe che mi fu accordato
veramente il disegnare? In nessun modo; perocché io
avrei innanzi la carta sempre netta come prima ; nè
verrei mai a capo di vedervi sopra una testa, o una
mano, e nè pure un dito. Nella stessa guisa, se mi si
concede l'uso del linguaggio, ma mi si mette il patto,
che appena proferita una parola , io la richiami incon
tanente appresso e l'annulli, sarebbe egli questo un con
cedermi l'uso del linguaggio veramente? Linguaggio non
è un accozzamento casuale di suoni, ma un ordine di
suoni che significano delle idee: la possibilità adunque
che io usi del linguaggio, esige che nel linguaggio che
io uso eviti le espressioni ripugnanti e contradditorie;
perocché un linguaggio composto di esse , non è altri
menti linguaggio, di che 1' uso mi è conceduto.
Ora veniamo a noi. Quando io pronunzio questa fra
se, « una cosa che non ha nessuna maniera di esisten
za » , io non cerco già se vada bene o no in logica ;
dico che quella espressione non è linguaggio, perchè
non dice nulla; dico che l'uomo che la usa manda bensì
fuori de' rumorìi , non delle parole, punto meglio di co
lui che dopo la parola pronunziata, la ritrae e smenti
sce. E in vero, il significato che sta aggiunto alla voce
u cosa » , è appunto l' idea di una qualche esistenza :
quando dico adunque « cosa » , esprimo l'idea di una
qualche esistenza; e quando soggiungo, « che non ba
nessuna maniera di esistenza » , distruggo e tolgo via quel-
l' idea che prima ponevo, e la parola «cosa» si resta
siccome mai detta io non l'avessi: è la mia espressione
simile alla forinola algebrica a — a; che equivale a zero.
i75
§ 4-
Condottone della dimostrazione.
Ciò posto , la proposizione mia , che « ogni cosa può
essere l'oggetto dell'intelletto» (i), paruri al tutto evidente
in ogni sistema: perocché esige solo un postulato, che
non possono non accordarmi tutti quelli che parlano ;
nè gli scettici si sono mai mostrati disposti a tacere ,
meglio che tutte le altre sette e maniere di filosofi.

ARTICOLO VI.
IBU p»oposizione : l'intelletto non può perch'ire le qualità',
SENZA PERCEPIRLE IN UN SOGGETTO NEL QUALE ESISTANO.

La ragione di ciò si è, che il modo di percepire,


proprio dell' intelletto , è di percepire le cose nella esi
stenza di cui sono fornite (a).
Ma le qualità sensibili non hanno una esistenza in sè,
ma in un soggetto diverso da noi.
Dunque l'intelletto, che può percepire qualunque og
getto, perciocché qualunque oggetto ha qualche specie
di esistenza (3), quando percepisce le qualità sensibili,
dee percepire insieme altresì il soggetto nel quale esi
stono: altrimenti egli non le percepirebbe: elle sareb
bero impercepibili all'intelletto nostro; conciossiachè esse
non sono percepibili se non perchè è percepibile il loro
soggetto.
Poniamo in contrario, che l'intelletto le percepisca:
egli percepirà con ciò qualche cosa (4). Se percepisce un
qualche cosa, già percepisce una esistenza, un ente esi
stente; ora un ente esistente è il medesimo che dire
una sostanza, conciossiachè la sostanza è l'atto onde
un essere esiste (5).

(i) Io credo che a quegli stessi che negano la verità oggettiva , debba
sembrare di poter ammettere benissimo la definizione da me data dell' in
telletto , e la proposizione, ch'egli può concepire ogni cosa: solamente che
essi debbono dare a queste due proposizioni una verità intieramente sog
gettiva , cioè apparente al soggetto.
(7) Art. iv.
(3) Art. v.
(4) Art. tv.
(5) Cap. II, art. », ? a.
176
ARTICOLO VII.
DISTINZIONE MA l' IDEALISMO DI OCHE, I QOEUO DI WUUI.

Questa maniera di argomentare va contro gì' idealisti


della scuola di Hume.
Home non istette contento a mettere il dubbio, non
forse i corpi sieno mere idee, come Berkeley ; andò più
innanzi: pose il dubbio, non forse le idee medesime po
tessero esister sole, senza soggetto, in modo che tutto
l'universo altro non fosse che un infinito numero d'idee,
vaganti a caso, e fluttuanti siccome onde inquiete in
mare immenso, o come atomi nell' immenso vuoto.
Sono adunque due questioni: la prima, se le qualità
sensibili (sieno idee, od altro checchessia) si possano
concepire senza un soggetto ; la seconda, se le qualità
sensibili abbiano per soggetto lo spirito umano ( sieno
mere idee di questo), ovvero altra cosa diversa dallo
spirito ( i corpi ).
Berkeley si ristrinse a dire , che le qualità sensibili ,
per lui sinonimo di sensazioni, non esistevano che nello
spirilo ; il nostro spirito esser dunque il solo soggetto
delle sensibili qualità, e non altro avervene fuori di lui.
E così dicendo, questo filosofo riconoscea però la ne
cessità di un soggetto, e che le qualità sensibili erano
tali, da non potere .esister sole, e perciò da non potere
esser pensate che in qualche cosa, ciò che è quanto
dire in una sostanza.
Ma Hume negava decisamente questo bisogno della
sostanza, conosciuto da Berkeley.
Qui dunque noi dobbiamo prima d' ogni altra cosa
rifiutare l'idealismo di Hume; e dimostrare a lui, che
è una contraddizion manifesta , dire che esistano delle
qualità sensibili, e non un soggetto o sostanza ov' esistano.

ARTICOLO Vili.
CONFUTAZIONE DELL* IDEALISMO DI HUME.

A veder ciò, poniamo vera la tesi dell' avversario, che


le qualità sensibili possano concepirsi sole, senza soggetto.
Che concepiremmo noi in tale ipotesi, pensando tali
qualità sensibili sole nell'universo? Certo una cosa che
esiste; queste qualità sensibili stesse, esistenti sole, sa
rebbero T oggetto del nostro intelletto.
Ma or ecco come il seguace di Hume potrebbe venire
alle mani con qualche partigiano de1 vecchi filosofi. Quegli,
già pieno del gusto della vittoria, fino dalle prime pa
role probabilmente conchiuderebbe, e direbbe così : Non
è dunque vero, che queste sensibili qualità abbiano bi
sogno , per esistere , d' un soggetto nel quale esistano :
egli è un pregiudizio degli antichi filosofi questo; un tal
soggetto , una tale sostanza non è che parto di loro im
maginazione. E perchè mai le qualità sensibili non po
tranno esister sole , ed avere l' esistenza non in altra
cosa, ma in sè stesse?
A cui il partigiano de' vecchi filosofi non si terrebbe
che per avventura così non rispondesse :
Partigiano de' vecchi filosofi. Io voglio concedervi , che
voi, spogliatovi , siccome solete vantarvi, de' vecchi pre
giudizi , siate arrivato a formarvi l'idea delle sensibili
qualità sole esistenti, e di esse sole risultante questo
intero universo. Pure permettetemi che una così nuova
e così preziosa idea della sensibili qualità io pure con
voi la analizzi un poco, perchè la conosca ed intenda
anch'io meglio 5 giacché, come voi stesso converrete, è
l'analisi, o la scomposizione delle nostre idee, quella
operazione onde noi veniamo a conoscerle intimamente.
Or queste qualità sensibili, da voi concepite senz'ombra
di sostanza annessa, esistono, n' è egli vero?
Seguace di Hume. Anzi sono le sole cose che esistono
nell' universo.
Partigiano de' veccia filosofi. Il che è quanto dire,
che esistono in sè stesse; perciocché voi avete sepa
rato qualunque soggetto, qualunque sostanza nella quale
esistano.
Seguace di Hume. In sè stesse; è questa appunto la
scoperta della nuova filosofia, la scoperta di Hume.
Partigiano de' vecchifilosofi. Or prima di procedere in
nanzi nell'analisi di questa idea, permettetemi in grazia
di richiamare , che cosa gli antichi intendessero per so
stanza : la definizione di questo ente, parto forse, come
voi dite, dell'immaginazione di que' vecchi filosofi, ci
si potrà rendere necessaria in progresso del nostro ra
gionamento. La vi sapete voi?
Seguace di Hume. Gli scolastici la definivano « ciò

Rosmini. Orig. delle Idee, Voi. IL a3


j78
che per sè sussiste » (i) (ens quod per se subsistit); cioè
non per qualche altra cosa, come gli accidenti, che
sussistono (secondo le loro frasi) nella sostanza, e perciò
per la sostanza
Partigiano de' vecchi filosofi. Amico, quando ciò sia ,
voi stesso ammettete la sostanza.
Seguace di Hume. In che modo?
Partigiano de' vecchi filosofi. Considerate, di grazia,
che, come voi medesimo avete detto, queste qualità
sensibili, alle quali fu preleso di tor via ogni sostanza,
voi le fa l e sussistere in sè stesse e per sè stesse ; ora
questa appunto è la definizione della sostanza. Voi dun
que non avete fallo con ciò, che cangiare le sensibili
qualità in altrettante sostanze; perciocché avete supposto
che esistessero in sè e per sè, indipendenti cioè da qua
lunque allra cosa. Io ben credo che questo argomento
eia una rete, onde vi sarà difficile uscire, ove vogliate
entrarvi, com'egli pare che vogliale. E in vero, voi
non negate le qualità sensibili; voi ne riconoscete l'esi
stenza; di più , questa esistenza loro voi volete che s'in
tenda sola, senz' altra aggiunta, che voi dichiarale ar
bitraria e sognata: tutto ciò è quanto dire, « io dichiaro
che le qualità sensibili sono sostanze , perciocché la so
stanza è ciò che esiste in sè e per sè, senza che sia bi
sogno pensarla in qualche altra cosa e per qualche altra
cosa; ed io immagino appunto le qualità sensibili esi
stenti in questo modo, e non esistenti in qualche altra
cosa e per qualche altra cosa ». Egli è dunque mani
festamente impossibile ammettere l'esistenza di una cosa
qualunque, e negar la sostanza; e questa proposizione,
« le qualità sensibili sole esistono, e non esiste sostanza
alcuna », è una contraddizione manifesta ne' termini ;
perocché viene a dire, « le qualità sensibili sono so
stanze esistenti, e non esiste sostanza alcuna ». Questo
è il gran pensiero del vostro maestro Hume, messo a
nudo, e spogliato degl'involucri delle parole troppo va
riate e moltiplicate, che impediscono vedere sovente le
nascoste contraddizioni che giacciono per entro ai ra
gionamenti. Certo io non vedo alcuna via dalla quale

(i) Il sussistere per sè si dee intendere come soggetto. Questa defini


zione verrà più sotto sposta in termini più espressi e chiarì.
voi sfuggiate. E vedete, di grazia, dov'egli vi mena' e
vi colloca: vi mena per un corso tutto a ritroso della
posizione che voi volevate prendere a principio. Voi vi
eravate dichiarato nemico della sostanza, come di un
colai terminaccio vieto e vuoto di senso, e sostenitore
delle sole qualità sensibili, o, come si chiamai! dagli
antichi, degli accidenti. Che ve ne avvenne? Quello che
avviene spessissimo a' poveri uomini di sotto alla luna,
cioè, che volendo fare una cosa, riescano a fare, senza
saper come, la sua contraria. Voi avete voluto mettere
in trono, per così dire, le sensibili qualità; per innal
zare queste vostre patrocinate, avete voluto che regnas
sero sole al mondo: così, senza avvedervene, ve le avete
trovate in mano mutate in altrettante sostanze. E avete
ottenuto, che le sostanze sole finalmente esistessero, di
strutte quelle sensibili qualità che vi stavano tanto sul
cuore, mutando loro natura, e così, per troppo onorarle,
annichilandole. In fatti, se le qualità sensibili sono so
stanze, come voi venite a pretendere colla vostra filosofia,
voi siete riuscito alla tesi opposta dirittamente di quella
che vi avevate tolto a difendere. La qual tesi era, a non
e, istorio che qualità sensibili »; e la tesi che avete di
mostrato, all'incontro è quest'altra, « non esistono che
sostanze ». Poiché veramente, se le qualità sensibili esi
stono in sè e per sè, altro che sostanze non sono nel-
V universo. Gonchiuderò questo mio discorso, dicendovi ,
che io credo di poter veder V origine del vostro abba
glio. Voi, in vece di ritenere la semplice definizione che
gli antichi davano della sostanza , avete preso a com
battere un'idea imperfetta e volgare di sostanza, che
vi siete lasciato indurre nella mente : voi avevate cre
duto, che per costituire una sostanza si esigesse qualche
cosa più di ciò che realmente si esige, qualche cosa di
materiale , di solido, o insomma una qualche natura
supposta , ad idear la quale scorge e conduce 1' uso di
certe parole traslate e metaforiche che si sogliono avere,
e che vanno inlese assai caulimente; siccome le parole
di fondamento, di sostrato, e di sostanza slessa, presa
nella sua etimologia , che viene a dir cosa che sta col
locata feQtto d'un' altra; quasiché ciò che forma la so
stanza, slesse accovacciato in un luogo più interno e
più inlimo del luogo degli accidenti; tutte maniere ed
i8o
idee pericolose, ed atte a portar confusione nelle menti ,
dove non sieno con ogni diligenza dichiarate ed intese.

ARTICOLO IX.
ORIGINI DELL* IDE* DI ACCIDENTI.

Questo discorso è tale , a cai io non saprei che re


plicar potesse il seguace di Hume.
Un simigliante discorso prova rigorosamente, per mio
avviso, che, se qualche cosa esiste, necessario è che
esista una sostanza, e che se noi pensiamo l'esistenza
di qualche cosa, pensiamo con ciò stesso una sostanza.
Poniamo però che il seguace di Hume , uomo ragio
nevole e discreto fosse, e sì s' arrendesse alle osserva
zioni che quel partigiano- de' vecchi filosofi gli venne
traendo fuori; e che, superata la prima antipatia che
que' due dialogizzanti si avevano in principio, e li divi
deva pria di parlarsi, credendosi forse a vicenda più
intrattabili che per avventura non erano , venissero a
frequenti colloqui ed amichevoli tra di loro.
Che crederemo noi che restasse a dire al seguace di
Hume ? e come que' due potrebbero a mano a mano
esser essi condotti dall'evidenza della verità, che ne'
ragionamenti amichevoli fuor scintilla , siccome fuoco
da esca e fucile , in una dottrina medesima, dopo es
sersi legati pe' sentimenti di stima e di amicizia? Ecco
il progresso che io immagino de'lor discorsi brevemente
raccolto, e la via per la quale potrebbero in una con
formità piena di opinioni riuscire. Segnando i loro nomi,
per maggior brevità, colle due prime lettere dell'alfa
beto, ragionerebbero forse fra loro così:
Seguace di Hume, A. Io vi sono ben grato di ciò
che mi avete fatto osservare sulla filosofia di Hume,
che avea scelto a mia guida ; e non trovo che replicare
al vostro argomento. Ma tuttavia io vi prego di lasciarmi
proseguire a ragionar con voi; perocché mi pare che noi
siamo ancora lontani dall' aver toccato il fondo della
questione, e ci siam trattenuti forse nella scorza, anzi
ché nel midollo entrati. Vi accordo adunque, che non
si possa negare l'esistenza delle sostanze, intese nel
modo che abbiam definito e spiegato. Ciò che io nego
tuttavia si è la distinzione delle sostanze da' così detti
accidenti. Voi mi avete condotto a conoscere, che è im-
i8i
possibile negar le sostanze; ma non mi avete mica di
mostrato, che sia impossibile negar gli accidenti. In
fatti , chi vieta che gli accidenti sieno essi stessi so
stanze; che insomma fra accidente e sostanza non vi
abbia quella distinzione che fanno le antiche scuole, le
quali alla definizione della sostanza , « ciò che esiste
per sè » , aggiungevano , •« e che sostiene gli accidenti »
(ens quod per se subsistit, et sustinet accidentiaj in una
parola, che le qualità sensibili sieno sole esistenti , si
chiamino poi sostanze, o con altro nome, poco impor
ta -, perciocché alla fine egli è questo il fondo della filo
sofia di Piume?
Partigiano ecc., B. La soluzione del dubbio vostro
ci verrà dall' analisi che noi avevamo cominciato a fa
re, e poi interrotta , del concetto che nel sistema di
Hume voi vi siete formato delle sensibili qualità. Segui
tiamo adunque a notomizzare quel concetto. Per esso voi
immaginate le qualità sensibili come aventi una esistenza
indipendente da qualsiasi altra cosa , e perciò come so
stanze. Or ditemi, è solamente l'una o l'altra qualità,
che esiste in tal modo, o tutte esistono nel modo stesso?
A. Tutte ; imperocché se io dicessi che solo alcune ,
io verrei a riammettere la distinzione della sostanza e
degli accidenti, che mi studio, quanto posso, di elimi
nare , siccome una cosa incomoda , dalla filosofia.
B. Conveniam adunque , che queste vostre qualità
sensibili han tutte qualche cosa di comune, cioè 1' at
tuale loro esistenza, l'esistere in sè e per se, l'esser
sostanze in una parola.
A. Conveniamo.
B. Ora io vi cerco, s'esse però si distinguano le une
dalle altre.
A. Non può dubitarsene: e le note proprie di cia
scheduna sensibile qualità sono quelle che le distinguono.
B. Come a dire t
A. Il color rosso, a ragion d'esempio, è cosa diversa
dal color giallo, cioè è un altro colore; il suono è di
verso dal colore ; e così voi dite di tutte le altre qua
lità delle cose: queste differenze sono evidenti, nò si
possono meglio dichiarare che pure indicandole sempli
cemente alla immaginazione.
B. Bene sta. Nelle qualità, che dite sole esistere nel
i8a
P universo , v'ha perciò qualche cosa di comune, e qual
che cosa di proprio.
A. Sì.
B. Adunque il color rosso, il giallo ecc. , i varj suoni,
i varj sapori ecc., e l'altre qualità tutte convengono
in questo, eh' esse hanno in sè una energia, una forza,
per la quale esistono. E in vero, quando noi diciamo,
una cosa esiste, noi veniamo ad esprimere un atto, un'a
zione , una forza: mentre all'incontro il non esistere
esprime la mancanza di ogni azione, e di ogni forza di
qualunque maniera ....
A. Un'osservazione però fate qui, vi prego. Esistere,
esprime una energia ; o per dir meglio, l'esistenza è
sinonimo di una certa energia. Ma non vorrei che voi
dell' esistenza e di questa energia tentaste di farmi due
cose diverse: l'energia di cui noi parliamo, e l'esistere,
è una sola identica cosa: badate a ciò, e poi seguite.
B. Io non voglio altro; e ragiono così : Se tutte le
qualità hanno egualmente questa energia che costituisce
la loro esistenza, e se essa, permettetemi di replicarlo
un'altra volta, non è ciò che le distingue fra loro, ma
le distinguono fra loro quelle note proprie che voi avete
indicate; non si può, non si dee dire che queste note
proprie e diverse, per le quali avviene che 1' una qua
lità si distingua dall' altra , esistano per quella energia
che hanno tutte egualmente comune, come voi mede
simo avete riconosciuto?
A. Nulla veramente il vieta. Ma voi con questo di
scorso non venite a dire se non che esistono perchè
esistono , perchè hanno quell' energia che si chiama esi
stenza: non dite dunque ancor nulla.
B. Se non dico nulla di nuovo, dico però cosa evi
dente: dico, che dopo che noi abbiamo ammesso a prin
cipio che esistano, non dobbiamo più negare nel pro
gresso del ragionamento eh' elle esistano; perciocché così
facendo, sarebbe impossibile il ragionare; noi non ra
gioneremmo, ma proferiremmo de'suoni a caso senz' al
cuna significazione; giocheremmo a dire e ridire, ad
edificare e distruggere. Or, s'egli è vero che queste qua
lità sensibili esistono, è vero altresì che hanno una ener
gia per la quale esistono: perciocché avere questa ener
gia, è sinonimo, come voi osservaste, di esistere; e
i83
dicendo che hanno l'energia di esistere, non dico nulla
di più di ciò che dicevate voi medesimo, cioè eh' esse
esistono. Ma l'energia per la quale esistono, noi abbiamo
\edulo , e voi stesso l'avete accordato, che è qual
che cosa che hanno tutte comune; mentre all'incontro
l'essere più tosto il color giallo che il verde ecc. ,
l'essere più tosto questa che quella, è ciò che hanno
di proprio. Io vi dimando pertanto, se ciò che è pro
prio , può essere nello stesso tempo comune, e se ciò
che è comune, può essere nello slesso tempo proprio.
jt. Mainò.
B. Ora sapreste voi che cosa intendessero i vecchi
filosofi per accidente?
A' . Come definivano la sostanza « ciò che per sè sus
siste e sostiene gli accidenti » , così definivano l' acci
dente « ciò che sussiste in altro o per altro » (quoti
in alio subsistit tanquam in subjecto).
B. Or non abbiamo noi veduto, che quelle note pro
prie , che distinguono le qualità sensibili in fra loro,
esistono per una energia che le fa esistere , e che costi
tuisce la loro esistenza ?
A. L' abbiam veduto.
B. Chi dunque ci proibisce, che a quella, per la
qaale sussistono le note proprie delle qualità di cui
parliamo, noi diamo il nome di sostanza, ed all'incon
tro diamo il nome di accidenti alle qualità stesse sen
sibili, in quanto 1' una si mostra diversa dall'altra, ed
ha un altro modo di esistere?
A. Quando non intendeste che questo solo, per la
distinzione fra la sostanza e gli accidenti, non saprei
ripugnare. Ma chi è mai che intenda per questa distin
zione unicamente un'astrazione, quale è quella che avete
voi indicata?
B. Ogni buon filosofo: togliete degli antichi qual vo
lete: io non feci che richiamarvi alle definizioni vecchie
che voi stesso mi avete riferite; e panni che, attenen
domi strettamente a queste, io possa ora conchiuder
così: Fora' è riconoscere in quelle stesse qualità che voi
avete immaginate per sè esistenti, due cose: 1* una
forza che costituisce la loro esistenza; questa dev'esser
comune a tutte ; 2.0 le note proprie a ciascuna , che
hanno l'esistenza per quella forza. Questo è un distin
guere in esse appunto , ciò che distinguevano gli anti
i84
chi, que'due elementi, al primo de' quali essi davano
il nome di sostanza , al secondo quello di accidenti. Vo
lendo voi essere coerente con voi medesimo, voi dovete
venire a differir da quelli anzi nella maniera di espri
mervi, che nelle dottrine slesse. La proposizione adun
que che voi ponete, « le sole qualità sensibili esistono » ,
importa necessariamente una contraddizione in sè; per
ciocché supponendola noi vera, siccome abhiam fatto,
supponendo le sole qualità sensibili esistenti, e facen
doci poi ad analizzare queste sensibili qualità così im
maginate, noi veniamo a trovare, in esse medesime
avervi di necessità due elementi ond'esse risultano, cioè
qualche cosa che le fa esistere (che dà l'atto dell'esi
stere), e qualche cosa che esiste (che riceve l'esisten
za); qualche cosa che è l'esistenza slessa, l'energia di
esistere, e che perciò esiste in sè e per sè (sostanza),
e qualche cosa che ha, e non è l'esistenza, e che per
ciò esiste per l'energia che la fa esistere, esiste per essa
ed in essa ( accidenti ). La proposizione adunque da voi
stabilita , « le sole qualità esistono » , non è meno as
surda di quest'altra, « esistono le qualità, ma non
hanno l'esistenza ». E pigliate, se vi aggrada, la cosa
anche per un'altra via. Il discorso fa il ritratto delle
idee. Analizzate adunque la proposizione da voi proferta,
nelle parole ond' essa si compone. Quando voi dite le
qualità, voi dite una cosa che non sapete ancora se esiste
o no ; quando voi dite esistono, voi esprimete e date
loro l'energia e le fate esistere. Queste due cose sono
adunque distinte fra loro anche nelle parole; sicché voi
potete benissimo pensare e nominare le qualità , senza
pensare per questo che esistano realmente; in tal caso
non pensereste ancora alla loro sostanza: ma quando voi
pensaste a quelle qualità esistenti , o all' energia per la
quale esistono, voi pensereste anche alla loro sostanza,
nella quale solo esistono.
Ora io credo di potervi spiegare altresì, perchè la
filosofia moderna sia venuta ad un così strano e mostruoso
pensamento, di confondere insieme la sostanza e gli ac
cidenti, e di negare la loro distinzione.
A. Spiegatemelo, ve ne prego, siccome avete fatto
rendendomi la ragione dell'aver Hume voluto annullar
le sostanze.
B. Io avviso che ciò avvenisse per una mala inlelli
i85
genza dell' antica dottrina. Non si può dissimulare, che
negli ultimi tempi la filosofia delle scuole s'insegnava
in modo assai materiale, e vi si apprendeva anzi il lin
guaggio, o, se si vuole, il gergo dell'antica filosofìa, che
la stessa filosofia. D' altro lato, il mondo era mal di
sposto per troppi altri titoli contro di lei : sicché i nuovi
filosofi pigliandola, per buon tuono, come dicrono i
Francesi, a scherno e a strazio, non si diedero alcuna
cura d'intenderla; ma ove un senso goffo e ridicolo loro
s\ presentasse alla mente , pur nel primo udire gli sco
lastici detti od assiomi , essi avidamente e senza alcuno
esame, come ottimo al loro intendimento l'accettavano
e l'ammettevano; godendosi d' aver trovata, così , bella
occasion di mordere , o di volgere in riso quella dot
trina invizzita; e di poter, spenta quella , spacciare loro
nuove scoperte, trionfando sull'antica autorità; e di
nuova luce far pompa; trasmutandosi dall' umile luogo
di discepoli, a quello ambito di maestri dell' universo
quasi d' un bello e maestrevole salto. Applicate il vezzo
generale a quelli che tentarono di tor via l'antica di
stinzione fra la sostanza e gli accidenti; e troverete
ch'osi combattevano una distinzione foggiata nel loro
capo, anziché la distinzion vera. Immaginarono, che per
accidente e per sostanza s'intendessero cose separate al
tutto fra loro, come due elementi uguali e reali entranti
a comporre una terza cosa; due elementi, che fossero
esisi stessi due cose, e perciò due sostanze; senz'avve
dersi che ciò era contro la definizione che di que' due
elementi dava la scuola. Poiché ov'io penso una cosa
esistente, io ho l'idea di una cosa indivisibile: ma io
posso tuttavia eoliamente mia analizzare l'idea che io
ho di quella cosa. E analizzando, cioè scomponendo
questa idea , non iscompongo già per questo la cosa
stessa. Scomporre un'idea, non vuol dire che fermare
l'attenzione in qualche parte dell'idea, non badando a
tutto il resto di quella : quando io trovo più parti nel
l'idea, non viene mica che queste parti sieno anche cose
separabili in sé, non ne viene che sieno parti di egual
natura fra loro; possono essere semplici rispetti, o re
lazioni interne od esterne contenute nell'idea della cosa.
Così la distinzione fra la sostanza e 1' accidente non si
la che per astrazione della mente, che considera la cosa
Rosmini, Orig. delle Idee , Polli. 24
i86
óra sotto il solo rispello dell'energia di esistere, ora
sotto il rispetto del modo della esistenza , prescindendo
(non già distruggendo) dall'energia per la quale e nella
quale quel modo esiste. E già chiudendo , dico: è ini-
possibile pensare un ente (i) attuale, senza distinguere
in esso i." l'energia di esistere, 2." e il modo di esi
stere o gli accidenti : perocché pensare un ente attuale
equivale ad avere idea di un ente attuale; e nell'idea
di un ente attuale la mente distingue sempre, ove il
voglia, il concetto dell'attività che il fa esistere senza
più, ed il concetto del modo di esistere di lui: quindi
si forma così due concetti, 1.* della sostanza , 2.° e de
gli accidenti, o più generalmente del modo di esiste
re (2). E questa distinzione che fa la mente è realmente
contenuta nell'idea della cosa stessa: quindi è anche
vera e reale.

ARTICOLO X.
i
CENNO SCLL* BIVAMAIIUTa' DELLA SOSTANZA.

Con questo ragionamento mi sembra resa innegabile la


distinzione fra ciò che esiste in sè e per sè , e ciò che
esiste per altro ed in altro ; il che è quanto dire , fra
la sostanza e gli accidenti.
Tutta la forza di un tal discorso consiste nella sem
plice dichiarazione delle nozioni di queste due cose, e
nel far sì che chi parla di esse non c'introduca colla
immaginazione qualche elemento straniero che turbi la
chiara contezza delle medesime.
Ove 1' uomo consideri l'idea di sostanza e quella di
accidente come due astratti, ne' quali si pensa la cosa
stessa, ma ora dal lato di quella forza che la fa esi
stere, ora, prescindendo da questa forza, dal Iato del
modo nel quale esiste ; la distinzione di che parliamo

(1) Si parla sempre di enti limitati.


(2) Il modo di esistere non abbraccia solo gli accidenti, ma anche 1 es
senza: -può dirsi quindi che le cose finite abbiano un modo di esistere parie
essenziale e parte accidentale. Il modo di esistere in quanto è essenziale,
è determinato da tutto ciò che entra nella nozione della cosa; in quanto po'
non entra nella nozione della cosa, si dice accidentale.
i8'
non ha più nulla di difficile, di misterioso, di ripu
gnante.
Tuttavia è ben facile all'immaginazione, che sempre
opera intorno alle nostre idee, e con esse quasi direi si
trastulla , di unire a quelle nozioni sì semplici qualche
suo ornamentuccio, che sa tutte confondere le nozioni
prime e nette della sostanza e dell'accidente; mescolando
con loro delle proprietà , che sono forse conseguenti a
quelle, ma non sono quelle. E una di queste è V inva
riabilità della sostanza, e la variabilità dell'accidente;
che vanno intese con grande senno ed avvedimento; e
delle quali noi non abbiamo bisogno; chò anzi la chia
rezza e semplicità delle nozioni nostre meglio si con
serva , quanto più da ciò che non è ad esse necessario
al tutto si segregano nel principio de' ragionamenti.
Perciò, se il ragionamento de' due amici che han più
sopra parlalo, cadesse sopra questa proprietà secondaria,
per dir così, della sostanza e degli accidenti; ecco il
modo ond' io vorrei che il dialogo dal partigiano de'
vecchi filosofi si conducesse.
Poniamo che il seguace di Hume, continuandosi al
ragionamento col quale 1' altro ebbe coucluso il dialogo
precedente, in questo modo prendesse il suo amico nuova
mente ad interpellare :
A. La sostanza, secondo le dottrine antiche, è qualche
cosa d'invariabile; gli accidenti, di variabile. Ora, iteI-
I ipotesi che le qualità sensibili es-istesser per sè, non
sarebbe in esse cosa alcuna variabile; chò il color rosso
non potrebbe mutarsi nel giallo, senza distruggersi; e
così dite dell'altre qualità tutte. Non può dirsi adunque,
che queste qualità sensibili sieuo accidenti, nell'ipotesi
di Hume; giacché, sebbene potessero essere e cessar di
essere, tuttavia variare non polrebber giammai.
B. Prima ch'io vi risponda, richiamate la definizione
della sostanza e dell'accidente.
A. La sostanza è ciò che esiste per se; l'accidente
ciò che esiste in altro e per altro.
B. Or qui badate: la definizione non dice più di
questo : non aggiungete voi dunque a queste nozioni
cosa che nella definizione loro non si contiene. Gonvieu
ritenere, che la prima nota della sostanza, la nota che
forma la sua essenza , è l' esistere per sè ; il che vuol
dire, che per noi si pensa esistente senza altro soggetto,
i88
poiché è l'attivila slessa dell'esistere (1): e all'incontro
l'essenza dell'accidente consiste nell' esistere in altro
come in soggetto, il che vuol dire che l'accidente è un
concetto astratto, nel quale pensiamo il modo di esi
stere di una cosa, e prescindiamo dall'attività che la
fu esistere: quindi noi non possiamo pensare che real
mente l'accidente esista, senza che pensiamo questo modo
di esistere congiunto coll'attività che il fa esistere, cioè
colla sua sostanza, o (comechè si chiami) col soggetto
nel quale esiste. Avendovi dimostrato io dunque, che la
qualità sensibile, come è immaginata da Hume, non
può essere che una cosa nella quale si pensa i.* un'at
tività che costituisce l'attuale esistenza, 2.* un modo
più tosto che un altro d'esistere, il qual modo non
esiste che per quella attività ; io sono venuto a dimo
strarvi, che in quell'idea di Hume, analizzata, si acco
glie una sostanza ed un accidente, l'attività slessa del
l'esistenza ed il termine di questa attività, il qual ter
mine non esiste se non per l'attività ed in essa at
tività. Dopo di ciò, se vennero date alla sostanza ed
all'accidente altre ed altre proprietà, converrà parlar di
esse a parte, e vedere se da quella proprietà, essenziale,
e primitiva nota discendano, o pure se da quella non
discendano. Perocché se queste proprietà attribuite alla
sostanza ed all'accidente, sono implicitamente nella pro
prietà primitiva ed essenziale contenute, convien dire
che anch'esse sono essenziali alla sostanza o all'acci
dente; ma se da quella non vengono, esse non possono
essere alla nozione di sostanza e di accidente assoluta
mente necessarie. E pigliate, se così vi piace, la varia'
bilità: dovete esaminare, se ciò che esiste in altro come
in soggetto, sia necessariamente variabile: se voi trovate
ciò necessario, bene sta; e voi avrete in tal caso trovala

(1) La definizione che io do della sostanza è la seguente; « l' attivila del


l'esistenza di qualche essere »; ovvero: « una cosa, di cui noi ci possiamo
formare il primo concetto senza bisogno di pensare a cosa diversa da quella ».
Dico il primo concetto, pe rocché dove noi veniamo approfondendo una so
stanza creata qualunque, troviamo ch'ella è impossibile a pensarsi indi
pendentemente da una causa primitiva: ma nel concetto primo che uoi ci
formiamo delle cose, non pensiamo tuttavia che all'essenza delle medesime,
e non alle coudizioni per le quali esse esistono: quindi nel concetto primo ,
che é come una cognizione delle cose in abbozzo, noi non concepiamo
espressamente il legame necessario delle medesime colla causa prima.

c
una proprietà necessaria dell'accidente, la variabilità:
se noi trovate necessario, voi non potrete conchiudere,
la variabilità esser necessaria al concetto dell'accidente.
Che se talora v'hanno degli accidenti variabili, e ciò
conoscete per esperienza, voi direte che ciò accade per
qualche circostanza particolare, e non già perchè così
debba di necessità e sempre avvenire. Ma io , ad ana
lizzare il concetto delle qualità esistenti per sè di Hnme,
e mostrarvi come quell'analisi dava per risultamenlo
che quel concetto componevasi dell'idea di sostanza e
dell' idea di accidenti , non ebbi bisogno se non di mo
strarvi che i due elementi, ne' quali quell' idea si scom
pone, hanno la nozione il primo di sostanza, il secondo
d'accidente, giusta la definizione delle dette nozioni: e
con ciò fu soddisfatto al mio assunto.

. ARTICOLO XI.
li qualità' sensibili non esistono Fra si Stesse ( non sono sostanze ).

Un solo dubbio sopraslà: cioè, che forse, a malgrado


di tutto che venne fin qui ragionato , le speculazioni
dell'inglese sofista vengano a migliorare le antiche no
zioni di sostanza e d'accidente in questo, che, mentre
gli antichi supponevano alle qualità sensibili sottostar
qualche forza che le reggesse e le sostenesse, tutta invi
sibile, all'opposto dir si debba più esattamente, che le
qualità sensibili esistano per sè, e che sebbene in questo
concetto delle sensibili qualità si possa notar coll'ana-
lisi qualche cosa di esistente in sè ( l'energia di esistere,
sostanza ) e qualche cosa di esistente in altro ( modo di
esistere, accidenti), tuttavia nulla di nascosto v'abbia
in esse e di misterioso , ma tutto sia palese c visibile,
come palesi e visibili sono le stesse sensibili qualità.
Un tal dubbio svanirà pur egli, osservando come
quell'energia per la quale esistono le sensibili qualità
non è visibile , nò può cader sotto i sensi , ma è cosa
che si nota ed astrae puramente colla virtù della mente.
In fatti l'amico del seguace di Hume potrebbe di ciò
convincer questo assai facilmente, parlandogli presso a
poco così :
B. Non siamo noi convenuti , che le sensibili qualità
hanno delle note proprie, mediante le quali coli' ajulo
de' sensi noi le distinguiamo insieme, e conosciamo che
T una non è 1' altra ì
A. Vero è. . .
B. E non fu anche detto, che queste note proprie,
per le quali noi distinguiamo in fra loro le sensibili
qualità, sono gli accidenti , perciocché hanno bisogno
d'una energia per esistere, energia che nel semplice loro
concetto non si trova? .;i ,
A. Fu dettQ..,; .- I, !
B. Ora, quando io vi domandai che mi enumeraste
queste note proprie , vi sovvenite voi che mi abbiale
dato in risposta? . ■...•:•!• . . • : .
A. Io mi appellai ai sensi : dissi che i sensi nostri
vedevano , senza più , che il color giallo non era il
verde ecc. , nò il colore era il suono , nè il suono era il
sapore.
B. Non potevate risponder meglio. Ma il color giallo,
verde, rosso ecc. , i suoni, i sapori, gli odori ecc., non
sono essi queste sensibili qualità appunto? o le sensibili
qualità sono altra cosa fuori di queste?
A. Sono queste, e nessun' altra cosa.
B. E si può egli chiamare dirittamente sensibile qua
lità ciò che non cade sotto i sensi ?
A. Mainò.
B. Raccogliete dunque da tutto il nostro ragiona
mento così : Le note onde le sensibili qualità si dislm-
sjuon fra loro, sono ciò che si soglion chiamare acci
denti. Ma queste note proprie souo tutto ciò che nelle
sensibili qualità cade sotto i nostri sensi. E converso,
lutto ciò che cade sotto i nostri sensi si chiama sen
sibile qualità : nè vi ha cosa a cui si possa dar questo
titolo , se non cade sotto i sensi. Che ne conchiudiamo
di ciò? Che alle sensibili qualità spetta il nome di ac
cidenti, e che sarebbe un parlare contro senso il chia
marle sostanze. Abbiamo bensì veduto ch'elle esistono,
ch'esse hanno una forza ohe le fa esistere. Oltre alle
sensibili qualità dunque ( accidenti ) avvi una sostanza,
la quale non cade sotto i sensi, ma eli' è quell'energia
che ci produce le sensazioni o le percezioni delle sen
sibili qualità: questa sostanza non si nota che colla
mente, analizzando il concello di « qualilà sensibili esi
stenti »; poiché la mente sola ha quest' attitudine di per
cepir 1' essere, e non i sensi. E dunque il concetto della
mente analizzato, che dà qualche cosa di sensibile esi
stente: quindi dividendo da ciò che è sensibile la forza
di esistere, e considerandola a parte, le si dà il nome
di sostanza.
Di qui evidentemente apparisce che questa forza
non può cader sotto i sensi, giacché ella è un'astra
zione, ed io la ho dedotta coli' astrarre da lei tutto ciò
che sotto i miei sensi cadeva: e se dopo questa astra
zione io dicessi che la sostanza è sensibile, tuttavia
contraddirei a me stesso : distruggerei quel pensiero che
prima mi era di lei formato : quindi non più penserei;
poiché fare un pensiero, e immediatamente cassarlo, non
è pensare, come a tutte l'ore diciamo, ma è far nulla.
All'incontro ov' io raccolgo la mia attenzione nelle qua
lità sensibili, prescindendo al tutto dalia forza che le fa
esistere, penso allora a cose essenzialmente sensibili , ad
accidenti , e non più alla sostanza.

CAPITOLO IV.

ORIGINE DELLE IDEE DI CAUSA E DI EFFETTO.

ARTICOLO I.
ASSUNTO DEL PRESENTE CAPITOLO.

Essendo questa idea di causa, coli1 idea di sostanza,


base a tutto l' edilìzio delle cognizioni umane, io giudico
bene spese alcune altre parole, oltre alle dette, a via
meglio chiarir l'origine di tale idea, e mostrarne la le
gittimità per modo, che nessuno, se non è impudentis
simo , osi di por mano a rovinare un sì fatto fonda
mento di quanto ha di più nobile 1' uomo , il sapere.
« Ciò che avviene dee aver la sua causa » : ecco l'as
sioma del senso comune.
Noi vogliam cercare perchè gli uomini tutti d'accordo
convengano in simile sentenza : perchè l'ammettano come
proposizione evidente: perchè ella sia regola , che viene
da loro usata fin da' primi momenti che incominciano
a ragionare , sebbene solo assai tardi essi se ne formino
espressamente la proposizione astratta, e fissino in essa
sola ed isolata un'attenzione filosofica.
Conviene dunque allegare un'origine dell'idea di causa,
tale, clic sia sufficiente non solo a dimostrarci come
questa idea possa esser nata nella mente nostra, ma clic
spieghi ancora i fatti accennati; cioè in che modo l'i
dea di causa sia tanto facile ad essere concepita , e
tutti gli uomini i più, rozzi, i bambini slessi abbiano
una simile idea , siccome dimostrano fino i loro balbet
tamenti , ne' quali talvolta fanno uso della medesima,
e là loro avidità di sapere il perchè di tutte cose, e i
loro atti di maraviglia , e le lor dimande , talora im
portune , volte sempre a conoscere la cagione di ciò che
passa, in un modo straordinario per essi, sotto i lor sensi.
A tal fine, i.* mettiamoci innanzi la proposizione die
noi togliamo a dimostrare; a.* rendiamocela chiara;
3." analizziamola, per conoscere qual sia hi parte dilli-
cile, e quale la parte facile a dimostrare; 4-* e final
mente dimostriamone la parte difficile.
E senza più , la proposizione da dimostrare è la se
guente : « ogni fatto ( mutazione) chiama necessaria
mente una cagione atta a produrlo ».

ARTICOLO IL
mcnuMzioKK dilla proposizioni.

Per fatto io intendo un'azione qualunque; o che passi


il suo effetto fuori di sè, o che in sè rimanga; purché
sia congiunta con mutazione, o (in senso universalis-
simo) con movimento (1).
Io non ho bisogno di descrivere tutte le varie specie
di azioni possibili: ma dichiaro, che io comprendo in
questa parola ogni specie di azione che v'abbia.
Ora io dico, che ogni qualvolta noi percepiamo un'a-
zione, noi percepiamo altresì un agente o causa della
medesima : il rendere ragione di questo fatto , il descri
verlo come in noi avvenga appunto , il mostrare il
modo onde noi dall'idea di fatto ( avvenimento, azione)
cagliamo all'idea di causa, è uno spiegar l'origine del
l'idea di causa.

(1) Se fosse un'azione permanente , immutabile, necessaria, sareblie lo


slesso essere eterno: in lai caso quell* azione sarebbe la causa di tulle le
cose, la prima ed essenziale azione, onde tutte le azioni traggono origine
e sussistenza.
ARTICOLO IH.
ANALISI BELLI PROPOSIZIONE , RIVOLTA AD ASSEGNARE IL NODO DELLA. DIFFICOLTA*.

La proposizione che ci siamo proposti di dimostrare


è un giudizio composto di tre parti: i." c'è il fatto,
l'avvenimento, o l'azione che dee esser da noi conce-
pila; a.* c'è il nesso di quest'azione coli' agente o cau
sa; 3." e c'è l'idea di questo agente, o di questa causa.
Perchè noi possiamo spiegare il modo onde noi con
cepiamo un sì fatto giudizio, ci è uopo mostrare come
noi veniamo a concepire ciascuna delle tre parti delle
quali si compone e risulta.
Ora V azione o l'avvenimento noi primieramente lo
percepiamo mediante la nostra sensitività interna ed
esterna.
La nostra coscienza sente d'esser passiva quando gli
oggetti corporei ci feriscono i nervi del corpo (i); ella
Beate d' essere attiva quando noi vogliamo, e dietro il
voler nostro pensiamo, ci moviamo ecc. Nell'uno e nel-
V altro caso la nostra coscienza percepisce e sente un'a
zione o che ella riceve e patisce, o che emette e fa.
Pensando noi sulla coscienza nostra, ci formiamo
quindi (sempre mediante l' idea dell'ente ) l' idea dell' a-
zione, sì di quella che da noi vien prodotta, come di
quella che avviene in noi senza di noi.
Quando noi in tal modo abbiamo l'idea di azione
acquistata, e concepite anche più maniere d'azioni, noi
possiamo altresì conoscere l'esistenza di certe azioni reali
mediante il testimonio degli altri uomini (2), o imma
ginarcene a nostro grado di simili.
Il modo aduoque onde noi percepiamo l' azione e ci
formiamo le idee di diverse azioni , non è a spiegare

(1) Dico così, per determinare in qualche modo quest'azione: per altro la
cognizione che il nostro corpo sia tocco da oggetti esterni, è posteriore alla
consapevolezza della nostra passività ; sicché l'espressione è tolta da ciò che
vien dopo alla nostra passione.
(1) Il linguaggio non ci potrebbe giovare a nulla, se noi non avessimo già
in noi le idee dal linguaggio significate, o non avessimo la facoltà di for
marcele all'occasione de' suoni che udiamo. Quemadmodum potest quivi*,
osserva elegantemente s. Agostino, digilum movere ut aliquid ostendat, non
autem videndifacultalem conferre, ila potest homo exterius verbi proferre,
quae veritalis tigna suiti, non autem veri intelligendi virtutem, quae a solo
Deo est, impertiri.
Rosmirj, Orìg. delle Idee, Voi. II. a5
J94
difficile; perciocché V azione la conosciamo primieramente
per ciò che avviene in noi stessi (data l'idea dell'ente),
e di poi per quello che noi pensiamo di simile a quanto
in noi medesimi abbiamo sperimentato.
Di più, di tutte quelle azioni delle quali noi siamo
autori e cause, la nostra consapevolezza pure ci avvisa.
Noi siamo consapevoli a noi stessi d'esser pur noi
che vogliamo, che pensiamo ecc. Noi conosciamo dun
que la cagione di tutta questa specie di azioni ; cioè
sappiamo, che siamo noi quelli che le facciamo. E per
ciò possiamo analizzare ciò che noi facciamo; e nell'a
nalisi di queste nostre azioni distinguere il noi che opera
(cagione), da ciò che opera ( azione operata); e così for
marci l'idea della causa rispettivamente alle azioni fatte
da noi.
Anche questo non mostra difficoltà : e tuttavia è un
passo che ci è già molto utile; conciossiachò noi ab
biamo in ciò la sorgente di un'idea qualsiasi di causa.
Dico un'idea qualsiasi; perocché egli non sembra a
primo aspetto, che una tale nozione di causa, cavata
dalla cognizion di noi stessi, autori e cause delle nostre
azioni, sia al tutto completa, generale e necessaria.
E di vero, nell'idea di causa dee contenersi qualche
cosa , per la quale ella si veda manifestamente necessa
ria ad ogni avvenimento od azione Poiché la proposi
zione tolta da noi a dimostrare è la seguente : « ogni
nuovo fatto cliiama una cagione ». In questa proposi
zione si esprime un nesso necessario fra ciò che è pro
dotto e ciò che produce , fra V azione e 1' agente. Ora
xin nesso necessario fra- due idee deve uscire dalla na
tura stessa delle idee, che si chiamino e rabbraccino
insieme a vicenda per modo, che come due termini re
lativi, non si possa pensar 1' una senza pensar in qual
che modo altresì 1' altra ; sicché nel pensiero e nella
definizione dell'una, l'altra implicitamente si contenga,
e per forma, che analizzando l'uno de'due concelti, ci
si trovi dentro l'altro contenersi come in seme, dal
quale sbuccia , e così viceversa dell' altro.
Ora in questo appunto 6ta tutta la difficoltà, e tutto
il lavoro che noi dobbiam fare. Noi dobbiamo sotto
mettere ad un' analisi accurata i due termini della no
stra proposizione, i* azione , a." e causa che la produce;
195
e dimostrare, che nella nozione dell'una si giace e com
prende , e per noi già si pensa la nozione dell' altra.
E quando noi fossimo riusciti a ciò dimostrare, noi
saremmo altresì venuti ad aver dimostrato i.* che non
si può concepire un fatto o avvenimento senza pensare
una causa , a.* e che non si può concepire nessuna causa
senza dover pensare un effetto almeno possibile.
E dove fossimo a far questo pervenuti, cioè a dimo
strare, che supponendo in noi l'idea della causa , noi
abbiamo già e pensiamo implicitamente l'effetto; ed e
converso, che avendo in noi 1' idea dell'effetto (avveni
mento, azione), noi abbiamo in essa rinchiusa e ravvolta
l'idea della causa; non ci resterebbe che a spiegare il
modo, come noi acquistiamo l' una 0 l'altra di queste
idee; perciocché l'una delle due spiegata, è spiegata an
che l'altra; giacché l'analisi fa trovar l'una nell'altra.
Ma quanto all'idea dell'azione, o all'idea pura e
semplice d'una causa possibile, nessuna difficoltà s'in
contra , come abbiamo veduto : quelle idee sono date
dalla nostra esperienza ed interiore consapevolezza; giac
che noi siamo conscii a noi stessi delle nostre azioni, e
d'esser cause delle medesime.
La difficoltà dunque si riduce tutta a dimostrare que
sto solo, che noi, pensando all'azione, pensiamo impli
citamente alla causa, o viceversa. E poiché il progresso
naturale delle nostre idee è il primo, io mi applicherò
a descriver quello nell'articolo seguente.

ARTICOLO IV.
SPIEGAZIONE DI CIÒ CHE v'hA DI DIFFICILE IN ASSEGNABE
l' origine dell'idea DI CAUSA. ., ,

Ogni cosa può essere oggetto all'intelletto (1) : perciò


anche le azioni.
Ma, pel principio di cognizione (2), qualunque per
cezione intellettuale ha per oggetto l'ente: perciocché
il percepire intellettivo non è che il veder qualche cosa
nell'ente, cioè percepire un ente fornito più 0 meno di
sue determinazioni.

(0 Cap. HI, art. V.


(*) Parte III.
i()6
Dunque lutto ciò che appartiene all'ente, e lo deter
mina, l'intelletto non lo percepisce per sè, ma solo come
determinazione dell'ente.
Dunque per percepire ciò che appartiene all'ente, ma
che non è l'ente esso medesimo, l'intelletto dee per
cepir prima l'ente; e mediante la percezione dell'ente,
e non senza di questa, percepisce poi ed intende quelle
determinazioni dell'ente (i).
E sebben tutto ciò risulti da quanto ho a lungo pro
vato in tutto il corso di quest'opera; tuttavia, perchè
ciò non trovi difficoltà (e presso i veri intendenti trovar
non ne può), stimo bene di avvisare i lettori tutti,
che non si lascino per avventura sgomentare dalle espres
sioni un po' astratte in cui la detta dottrina si porge,
ma che la considerino in sè, nuda dall'espressioni. E
acciocché più facilmente fare il possano , qui voglio io
medesimo presentarla più pianamente ed alla mano che
mi sia possibile.
Mi dicano in prima, se col loro intelletto essi, qua
lunque cosa pensino, possano pensar mai altro final
mente, se non se una di queste due specie di cose, i.° o
un qualche essere, a.0 o una qualche qualità, o attri
buto , o cosa in somma che appartenga ad un essere.
Io credo bene, che fra queste due specie di cose non
potranno trovarne alcuna in mezzo ; ma riandando essi
minutamente tutti gli oggetti possibili de' loro pensieri,
non troveranno finalmente altro, se non ciò che nell'una
o nell' altra di quelle due classi di cose ricade; perocché
checchessia, se non è un ente, forz'è che sia pur qual
che cosa che ad un ente appartenga , o che abbia re
lazione con un ente ; mentre quello che un ente non
fosse, nè ad un ente appartenesse, un puro nulla sa
rebbe, cioè non sarebbe.
E non s' ingannino per avventura male intendendo la
parola ente, e supponendo ch'ella abbia un significato
più ristretto di quello eh' ella s'abbia veramente.

(1) È facile di vedere, che questa non è già una legge soggettiva dell'in
telletto, ma una necessità che nasce dalla natura della cosa che l'intelletto
Percepisce, perciò una necessità oggettiva: perocché la determinazione del
ente non esiste che per l'ente: e poiché solo in quanto esiste può conce
pirsi, quindi sarebbe assurdo il dire ch'ella si potesse percepire prima o
indipendentemente dall'ente a cui appartiene c per cui i qualche cosa.
Quando w dico ente, intendo ciò che è: ciò che non
è, è un nulla. Dunque ciò che non è un ente, o sia
qualche cosa nell'ente racchiuso, è un nulla. Colla pa
rola ente adunque s'abbraccia tutto; niente s'esclude;
c non può dirsi che v'abbia alcuna cosa fuori del lutto.
Se noi dunque concepiam qualche cosa, o dobbiam con
cepir l'ente, o qualche cosa che nell'ente si contenga.
Dire il contrario, è un contraddirsi manifesto; è un
dire, e poi cassare il detto; cioè non favellare, ma mandar
fuori de' suoni, che insieme non hanno il minimo si
gnificato.
Laonde se, per la natura della cosa, il dire che l'in
telletto nostro pensa qualche cosa, è il medesimo che
il dire ch'egli concepisce o l'ente o qualche cosa nel
l'ente contenuto; veggiamo che relazione s' hanno in fra
sè queste due specie d'oggetti del nostro pensiero.
Ciò che appartiene all'ente o che nell'ente è racchiuso,
come qualità, relazione ecc., è impossibile che noi lo
percepiamo intellettualmente senza l'ente.
È bensì vero , che noi possiamo considerarlo in
separato dall'ente mediante un'astrazione; ma quando
noi facciamo questa operazione, per la quale sepa
riamo mentalmente dall'ente qualche cosa che a lui
appartiene, non formiamo però della cosa separata un
ente da sè; e noi dobbiamo aver già prima pensato l'ente
tutto intero; poiché è sull'idea di questo, che noi
facciamo l'astrazione; chè astrarre, o separare qualche
cosa da un tutto non si può, se non si possiede prima
il tutto , dal quale si separa e recide la parte che si
vuole.
Le cose dunque che non sono da sò enti (sostanze),
ma che appartengono a qualche ente e in esso si per
cepiscono , non sono che pure astrazioni del nostro in
tendimento; e le astrazioni suppongono dinanzi a sè
l'idea intera della cosa^ fuor della quale si tolse a con
siderare alcuna parte: di che avviene, che « l'ente 6Ì
percepisca per sè ; e mediante l'ente poi si percepiscano
le cose che nell'ente sono contenute, od all'ente co
mecchessia appartengono e si riferiscono, in virtù della
facoltà che noi abbiamo di astrarre ».
La verità di questo principio s'intende medesima
mente ove d'altro lato lo si riguardi, cioè ove si ponga
attenzione alla natura dell'idea astratta.
!98 .
Noi, quando coll'intendimenlo nostro separiamo da un
ente una sua qualità, o relazione, o qualsiasi sua parte,
è vero che l'abbiamo separata e precisa dal tutto; ma
questo non ci può mica ingannare: e sappiam bene tut
tavia, che una tale separazione non è fatta che per poter
da noi considerare quella parte da se sola; e non già
perchè ignorar possiamo, ch'ella si stia attaccata ed
appartenente veramente al suo tutto, al suo ente. Egli
è dunque impossibile che l'intelletto percepisca qual
siasi apparenza dell'ente, senza che percepisca e pensi
prima l'ente stesso; ma egli percepisce prima l'ente,
e, percepito questo, poi fissa in esso l'attenzione, e in
quella parte singolare che a lui piace , e tutto in essa
intende (il che è astrarre), non ignorando però egli mai
(se non s'illude da sè medesimo) che quella parte è
inseparabile dall' ente nel quale egli esister la vede.
Bene afferrati e intesi questi semplicissimi principj ,
non è più difficile a vedere per qual via l'intelletto no
stro si formi l'idea di causa.
Nelle nostre percezioni passive, come abbiam detto,
siamo conscii d'una azione fatta in noi, e della quale
non siamo noi stessi gli autori.
Ora se fossimo noi stessi gli autori , percepiremmo
quest'azione come cosa a noi appartenente, cioè perce
piremmo l'azione (cosa appartenente ad un ente) nel
l'essere nostro. La percezione intellettiva in tal caso
avrebbe tutte le condizioni a lei necessarie per avverarsi.
Ma ove la nostra coscienza somministra al nostro in
tendimento un' azione, e non gli porge l'autore della
medesima ; allora in che modo può egli percepirla ed
intenderla?
Un'azione non è un ente (sostanza); è una cosa ap
partenente ad un ente (i).
Abbiam veduto, che l'intelletto non può percepir cosa
alcuna , se non mediante la percezione di un ente, nel
quale percepisce la cosa.
Dunque l'intelletto non percepisce V azione, se non
riferendola ad un ente, che non conosce particolarmente,
ma di cui sente la necessità, a cui ella appartenga o

(i) Questa proposizione è provata dalla definizione dell'azione di die


parliamo: non si parla dell'azione immanente, che è la stessa esistenza, ma
dell'azione che a quell'alto primo e immanente sussegue.
dal quale sia prodotta; e quest'iute è ciò che poi ai
chiama causa.
Tutte queste proposizioni sono innegabili: e perciò
sembra irrepugnabile la dimostrazione, che l'intelletto,
insieme coli' idea di azione della quale noi non siamo
gli autori, debba pensare un ente diverso da noi, autore
di quella azione; il che viene a dire, debba pensare
una causa.
Tutto ciò che resta a spiegarsi si è, « in che modo
V inlendimenlo nostro possa pensar quest'ente (causa),
mentre la coscienza o sentimento interno non glielo pre
senta ». È provata dal ragionamento precedente la ne
cessità ch'egli ha di far ciò; ma non il modo.
Il modo però è anch' egli manifesto, ove si raccolga
tutto ciò che in questa Sezione fu detto.
L' idea di una causa è l'idea di un ente che produce
un'azione. L'analisi di questa idea ci dà le tre parti,
i." ¥ azione, a* l'ente, 3." e il nesso loro.
Ma V azione è data dalla coscienza nostra : 1' ente l'ab
biamo innato (i): il nesso sorge dalla necessità già sopra
dimostrata, e veniente dalla natura dell'intelletto, o
anzi propriamente de' suoi oggetti, i quali non possono
essere percepiti senz'essere; sicché l'ente è la prima cosa
che l'intelletto percepisce, perchè è la prima che esiste,
e quella mediante la quale percepisce tutte le altre ,
perchè tutte le altre esiston per 1' ente.

(i) San Tommaso deduce allo stesso modo come fo io l'idea di sostaDza.
Egli stabilisce in prima, che l'oggetto proprio dell'intelletto è l'ente, o il
vero comune (objeclum intellectus est ens, vel veruni communc). Quindi cava
la sentenza, che ogni cosa è conoscibile in quanto è, in quanto ha un'esi
stenza sua propria: che è ciò che io pure ho fermalo: essendo manifesta
mente assurdo, che quanto non è possa essere inteso : Unumquodt/ue aulem
inquantum habet DE ESSE, intantum est cognoscibile (S. I, XVI, ili ).
Di qui la naturai conseguenza, che non essendo la sostanza delle cose che il
loro essere particolare, forz'è che le cose s'intendano per la loro sostanza;
di che l'altra sentenza del santo Dottore , che la sostanza è l'oggetto del
l'intelletto, appunto perchè l'oggetto intelletto è l'eute, quidditas rei
est proprium objeclum intellectus ( S. I , LXXXV, v ). Di ciò poi medesi
mamente egli cava un'altra fina conseguenza, cioè cjie il vero, considerata
nelle cose, è la stessa loro sostanza, lo stesso loro essere; verum aulem quod
est in rebus, convertilur cum ente secundum subslanttam ( S. I , XVI, in);
perciocché essendo il vero delle cose la relazione eh' esse hanno colle idee
dell' intelletto , e queste idee non potendo essere che del loro essere , della
loro sostanza, perchè è questo l'oggetto dell'intelletto ; derivasi, che la verità,
■u quanto è nelle cose partecipata, sia appunto la loro eulilà, ovvero la loro
sostanza.
200
ARTICOLO V.
DISTINZIONE FRA SOSTANZA * CAUSA.

Quando noi, esseri intelligenti, suppliamo Pente nella


percezione delle sensazioni, ci formiamo con ciò l'idea
di sostanza, cioè di un ente che si concepisce da noi
esistente in sè, e non in altro.
Quando noi suppliamo l'ente nella percezione di un'a
zione, allora ci formiamo l'idea di causa: cioè di una
sostanza che fa un'azione (i).
L'atto dell'intendimento nostro è simile tanto nella
formazione dell'idea di sostanza, come nella formazione
dell' idea di causa; 1' una è 1' altra operazione consiste
nel supplir l'ente (2) a ciò che ci somministra la co
scienza: e ciò nasce per l'identità del soggetto (noi),
che percepisce sensitivamente e intellettivamente. Noi,
che abbiamo il senso esterno ed interno , siamo quelli
che abbiamo anche l'idea dell'ente, che costituisce il
nostro intelletto (3). Percepita co' sensi la sensazione,

(1) Dopo di ciò, possiamo anche immaginare qualche altra cosa che operi,
diversa dalle sostanze: per esempio, un pensiero ne produce un altro; ma
questo è solo per astrazione, poiché la vera cagione di tutti i pensieri è
sempre la sostanza dello spirito.
(a) Supplendo quest'ente, noi non lo creiamo già, nè Io emaniamo da
noi; ma ci è dato: lo riceviamo fino dal primo momento del nostro essere,
come una visioue, verso alla quale noi siamo passivi, come fu già da noi
dimostrato.
(3) Dimando licenza al mio lettore di aggiungere altre poche parole sulla
dottrina di s. Tommaso: perciocché io reputo dover sommamente rilevare,
che si chiarisca il più che si possa. Conciossiaché appoggiando quel graude
maestro a' suoi principi filosofici delle sublimi dottrine riguardanti le cose
della religione, le quali interessano sopra tutte l' altre 1* umana natura, dee
importare assai che a queste s'aggiunga luce; il che dee avvenire, ove i
principj della filosofìa su' quali s'erigono, sieno perfettamente conosciuti.
Io dissi in qualche luogo, che non potea essere l'intelletto quella virtù
ohe universalizzava le sensazioni, ma che quella dovea esser l'anima stessa,
la quale per la sua unità e semplicità, sofferendo d'una parte le sensazioni,
dall'altra fornita essendo della visione dell'ente, congiungeva in sè queste due
cose, e in tal modo universalizzava le sensazioni, o sia formava le idee. Or
badando io attentamente all'uso che s. Tommaso fa dell' intelletto agente, mi
sono convinto, che quella virtù dell'anima che unisce le due cose, è ciò che
intelletto agente viene chiamato. Quindi l'intelletto agente corrisponde a ciò
che io chiamava la facoltà della sintesi primitiva, ola ragione in quanto fa
la prima sua operazione, che in quella sintesi primitiva feci consistere. E
s. Tommaso altresì nota una ragione particolare, che chiama anche forza,
cogitativa, la quale ha virtù di discendere alle cose particolari e di ordinarle.
mais, cosi egli, regil wfcrioves v'irei* et sic singulaj-ibus se inuniscet movente
201
noi la riferiamo all'ente, la consideriamo come una de
terminazione dell'ente: quindi è che pensiamo un ente

ratione particulari, quae est potentia quaedam individualis quae alio nomine
dicitur cogitativa (De Verit. X, v). Or, secondo me, la ragione, come di-
cea, è quella virtù dell'anima, per la quale, essendo essa anima in possesso
d'una parte delle sue sensazioni e fantasmi, dall'altra dell'ente , perchè
intellettiva, congiunge queste due cose, e produce la prima Sua operazione
detta da me sintesi primitiva. Il perchè questa forza dell' anima cbe abbrac
cia i due estremi, diventa la ragione particolare o la forza cogitativa di san
Tommaso, ove dalla parte de' particolari ch'ella regolar può si considera.
Ma dove si considera come una virtù di formar le idee nel modo detto,
o sia di universalizzare i fantasmi , allora corrisponde all' intelletto agente
del santo Dottore , il quale acconciamente viene da lui chiamato virlus
quaedam animae noslrae (S. I, LXXXIX , iv). E perchè si vegga più
manifesta la mente del santo Dottore sopra di ciò, si facciano le seguenti
osservazioni.
San Tommaso primieramente stabilisce, che le sensazioui come tali, o le
immagini corporee (phantasmata) non sono idee, ma per divenir tali è ne
cessario che l'intelletto agente le illustri; la quale illustrazione io ho mo
stralo non esser altro che l'universalizzazione delle medesime, la quale egli
fa aggiungendo loro il suo lume, che è la possibilità , o l'ente possibile. In
una parola, l'anima che prova una sensazione, considera quella sua sen
sazione come possibile a ripetersi un infinito numero di volte, e quindi
con la considera più nella sua individuale esistenza, ma nella sua esistenza
possibj/eo generale. Formae sensibile*, sono parole del sauto Dottore, — non
possimi agere in mentem nostrani , nisi quatenus per lumen inlellectus agentis
immalerialcs redduntur, et sic efficiuntur quodammodo homogeneae. inUlleclui
postlùdi, in quem agunt (De Verit. X, ti). Di che conchiude, che il principale
agente nella formazione delle idee non è già il senso o i fantasmi, ma bensì
é l'intelletto agente col suo lume innato. Ora io dico, se l'intelletto agente rende
immateriali i fantasmi (li universalizza), egli dee agire sopra di essi, e,
secondo la frase di s. Tommaso, convertirsi ad essi. Dunque quest'intelletto
agente non può esser che quella virtù cbe ha l'anima di veder nell'ente
che intuisce le sensazioni che soffre. Ma che la natura dell' intelletto agente sia
quella che qui io descrivo, s'intenderà meglio dal passo seguente, nel quale
s. Tommaso rende conto come sia possibile che l' intelletto agente faccia im
materiali £ universali ) i fantasmi j e tale possibilità egli la deduce appunto
dall'unità adel soggetto, o sia dell'anima, la quale d'una parte hn i fantasmi,
dall'altra la virtù intellettiva. Ecco le sue proprie: parole : « L'anima in-
« tellcttiva certo e immateriale in atto, ma è inpoteuza alle specie. DE-
« TERMINATE delle cose ».. Quell' invnaterialità in atto, dell'anima intel
lettiva significa appunto l'essere in un atto universale, l' essere sgombro
da limitazioni e determinazioni corporee : tapto è vero, che il santo Dottore
insegna, che noi conosciamo l'immaterialità dell'anima dalle sue idee, le quali
troviamo essere universali (De Verit. X, vm) e perciò immateriali.- Or egli
seguila in questo modo: » Ma i fantasmi per l'opposto sono certamente si-
« militudini di alcune specie in alto, ma immateriali pon sono, che in po-
•< lenza », cioè non sono universali, ma possono essere dallo spirito nostro
universalizzati. « Or dunque niente vieta che QUELL'UJVA E MEDE-
« SIMA ANIMA, in quanto è immateriale in allo », cioè in quanto ha
l'idea dell'essere possibile, « abbia certa virtù, per la quale renda jm-
« materiali in atto (universalizzi) i fantasmi, astraendo dalle condizioni* in-
Rosmiwi, Orig. delle Idee, Voi. II. 26
202
determinato (ecco l'idea di sostanza). Percepita colla
coscienza un'azione, noi la riferiamo pure all'ente, la
consideriamo come una sua determinazione: allora perce
piamo l'ente operante, cioè l'ente (che è già prima ve
duto da noi) unitamente all'azione che a lui si applica
(percezione acquisita): ecco l'idea di causa: la sostanza
è unente che produce un'azione che noi consideriamo come
immanente nella sostanza medesima (gli accidenti) (i): la
causa è un ente che produce un' azione fuori di sè
(l'effetto ).
Il bisogno di un ente che precede gli accidenti ci dà
propriamente l'idea di sostanza ; il bisogno di un ente
che precede l'ente cominciante ad esistere ci dà l'idea
di un altro ente che propriamente si chiama causa.

« dividuali della materia, LA QUAL VIRTÙ' SI DICE INTELLETTO


« AGENTE: ed abbia poi un'altra virtù ricettiva di tali specie, che chia
re masi intelletto possibile , perchè è in potenza a simigliami specie » (S. I,
LXXIX, iv). Ora chiarissimo parmi questo luogo, a dovere per esso conoscere
ebe l'intelletto agente di s. Tommaso è quella virtù che ha l'anima di ap-
licar l'ente alle sensazioni , e quindi che l'intelletto agente è proprio dei-
anima, in quanto questa sente ad un tempo e le sensazioni sue, e l'idea
universalissima dell'ente.
E dopo di ciò così sembrami di poter conchiuderc sulla natura de' due in
telletti , f agente e il possibile. L'anima umana ha un lame innato , che è
l'idea dell'ente in universale. Or questa idea si può considerare in due
relazioni: o come quella che l'anima usa ed applica ad universalizzare le
sensazioni ; e in quanto serve a questo uffizio torma l'intelletto agente: o
come quella che si vede sempre dallo spirito intelligente, e che si trasforma
quindi in tutte le altre idee, perciocché tutte le idee possibili dell'intelletto
non sono mai altro che l'idea dell'ente fornita di varie determinazioni;
e per tale attitudine di trasformarsi quest' idea dell'ente forma l'intelletto
possibile. Di qui pertanto riceve tutta la sua chiarezza, e si mostra in tutta
la sua verità quella sentenza colla quale Aristotele distingue due intelletti,
la quale così dice: « Nell'anima v'ha un intelletto tale che diventa
« tutte le cose ( intelletto possibile ) , e un intelletto tale che fa tutte le
« cose » ( intelletto agente ) : est quidam inlellectus talis qui omnia fiat ,
et quidam qui omniaJaciat ( De anima L. Ili, Lect. X). L' idea dell'ente,
come dicevamo , diventa tutte le idee, ecco l' intelletto possibile; e per Videa
dell' ente I' anima forma tutte le idee , ecco l' intelletto agente.
(i) Quindi la sostanza è causa rispetto agli accidenti; ma quando si dice
sostanza, non si considera sotto il concetto di produttrice, ma sotto il con
cetto di atto di essere , relativamente a' suoi termini , che per esso atto e
in esso esistono. Non bisogna dimenticare che tutti questi concetti sono
astrazioni.
ARTICOLO VJ.
L'INTELLETTO COMPLETI LE PEBCBZIONT DELLA COSCIENZA.

La sensazione non può stare senza una sostanza; l'a


zione non può stare senza una causa.
Il senso esterno percepisce la pura sensazione ; il sen
timento interno l'azione passiva: ma essendo noi dotati
d'intelligenza, cioè veggendo noi in tutte le percezioni
V ente , noi aggiungiamo 1' ente alle sensazioni ed alle
azioni.
In tal modo l'intelletto, mediante l'idea dell'ente,
ha una tendenza a completare le percezioni tutte.
Ciò nasce, come si vede, dalla natura di quell'idea
che il forma, cioè dell'idea dell'ente.
Di vero, dall' istante che l'intelletto ha a sè presen
tissimo l'ente, e questa visione dell'ente è ciò che lo
costituisce; ciò che vede, dee esser 1' ente, e non altro.
Dunque primieramente non può vedere che l'ente:
in secondo luogo, veggendo l'ente, dee veder ciò che
e della ragione dell'ente (de ratione entis); perocché se
non vedesse tutto ciò che è della ragione dell'ente, egli
non vedrebbe l'ente in universale, come vede; l'am
mettere che veda l'ente in universale, e il negare che
veda ciò che è della ragione dell'ente, è un affermare e
negare la medesima cosa.
E ciò perfettamente s' intenderà, ove si comprenda ,
la ragione dell'ente e l'ente stesso essere nel fatto la
cosa medesima : ciò che massimamente si conferma dal
sapere, che l'idea dell' ente è 1' universalissima di tutte,
come abbiamo veduto, e perciò di tutte semplicissima.
Di che avviene, che percependo noi col senso nostro
qualche appartenenza dell'ente, qualche cosa che è della
ragione dell'ente, come le sensazioni, o l'azione che ci
fa passivi, e veggendo noi già per una visione continua,
fondamentale e naturale l'ente, noi percepiamo imme
diatamente la sostanza e la causa: perciocché all'occa
sione delle modificazioni da noi ricevute nel nostro sen
timento, tutto è in noi ciò che è necessario a per
cepirla.
Conciossiachè la percezione della sostanza e della causa
non è altro che « la percezione d'un ente, al quale ap
partengono le qualità sensibili e l'azione che in noi sof
friamo ».
I
La quale operazione del nostro spirito, perchè via me
glio la concepiamo, nel seguente modo possiamo imma
ginarla: non è vietato usare qualche immagine al filo
sofo , dopo eh1 egli ha premessa la dimostrazione di sua
dottrina.
Noi veggiamo coli' occhio della mente nostra 1' ente
indeterminato continuamente ed immobilmente.
Ora quest' oggetto che a noi sta ognor presente , e
che è come la carta bianca ove continuamente il nostro
spirito mira e riguarda , può ricevere delle determina
zioni; le quali non sono che una aggiunta accidentale
al medesimo , una scrittura sulla carta nominata.
Questa scrittura, o determinazione dell'oggetto, in cui
sempre abbiamo rivolto il guardo interiore, guardo in
cui consiste l'attività intellettuale, che è sempre attuato
e vigilante, è appunto ciò che si chiama sensazione, o
sentimento , noi stessi , o modificazione di noi stessi.
Quindi con quell'atto medesimo onde noi veggiam
l'ente, veggiamo ancora in lui, e giammai senza lui, le
sue determinazioni: a quella guisa che mirando noi cogli
occhi aperti e sani intentamente una parete, noi veg
giamo la parete , e tutto quello che in sulla parete viene
successivamente a rappresentarsi e figurarsi; o mirando
in una camera ottica , veggiamo le figure varie che in
essa trapassano; o in una scena teatrale, le diverse tras
mutazioni che vi si fanno, con quell'uno eguardo col
quale veggiam la parete, la camera e il scenario.
E dunque ferma legge dell'intelletto, ch'egli riceve
dalla natura del suo oggetto, questa, di dover comple
tare la percezione della coscienza.
Perocché la natura sua consiste in uno sguardo con
tinuo che mira l'ente, e che vede in lui tutto ciò che
spetta alla ragione dell' ente , come sono le determina
zioni dell'ente stesso. Ove dunque la particolare potenza
del senso esterno od interno somministra le determina
zioni dell'ente, queste percezioni vengono in noi inte
grate e completate naturalmente; perocché colla visione
interna aggiungiamo sempre a loro l'ente, e tutto ciò
che all' ente necessariamente si spetta.
E questa attitudine intellettiva si può chiamare « la
facoltà integratrice dell' intendimento n .
ao5
ARTICOLO VII.
AHUJCAZIONE DELLA DOTTRINA ESPOSTA SOLLA SOSTANZA
AL SENTIMENTO INTERNO.

Il ragionamento col quale noi abbiam dimostrato che


l'inlelletto non può percepire le sensibili qualità senza
pensare una sostanza, non dee credersi applicabile solo
alle qualità esterne de' corpi : è generale ; e perciò vale
anche pe' fatti del senso interno.
Noi abbiamo detto, l'uomo pensare alle qualità sen
sibili; ma pensandole, pensarle in un soggetto; quindi
formarsi in quell'atto stesso col quale pensa le sensi
bili qualità, l'idea di sostanza nel modo spiegato.
Applichiamo lo stesso ragionamento a' fatti del senso
interno , a' sentimenti.
L* uomo ha de' sentimenti interiori: è consapevole di
possedere delle idee, de' piaceri e de' dolori spirituali:
egli concepisce anche intellettivamente questi sentimenti
suoi; ma ciò fa , riferendo queste sue modificazioni ad
un ente esistente , a sè; ed è anche in questo modo
ch'egli si forma l' idea della propria sostanza.
Se non che, l' idea della propria sostanza è sommi
nistrata all' intendimento in un modo anteriore, e più
spedito ed immediato: poiché il sentimento stesso del
noi è un sentimento sostanziale: la propria sostanza
adunque l'intelletto non la supplisce, ma la percepisce
immediatamente nel sentimento che gliela somministra;
ed è con questa percezione d' una propria sostanza ,
ch'egli poi, astraendo dal giudizio sempre unito alla per
cezione intellettiva, acquista da principio l'idea stessa
positiva di sostanza.

CAPITOLO V.
CEimo sull'origine delle idee di verità' , DI GIUSTIZIA
E DI BELLEZZA.

Alle idee pure, oltre quelle fin qui enumerate, ap


partengono ancora le idee importantissime di verità, di
giustizia e di bellezza; e però or qui cadrebbe in accon
cio il parlar di esse.
Ma io mi astengo dal farlo in questo trattato d'Ideo
logia , bastandomi di accennarne il fonte, che è sempre
1' essere. Perocché considero , che quelle tre idee costi
ao6
tuiscono i principj supremi di tre scienze nobilissime:
cioè l'idea di verità costituisce il principio della logica,
l'idea di giustizia quello della morale, e l'idea di bel
lezza quel della scienza del bello o callologia. Ora io
reputo conveniente, non volendo ripetere le cose stesse
in più luoghi, il rimettere a ciascuna di queste scienze
l'analizzare l'idea principale che le dà suo proprio
fondamento, dimostrando che sempre l'idea dell'es
sere è quella che sotto diverse relazioni piglia or nome
di verità, or di giustizia, ed or di bellezza, e fassi così
criterio supremo o regola prima e certa a giudicare di
tutti i veri, di tutte le azioni, e di tutte le specie di
bello.
Anche , essendomi venuto il bisogno di trattare alcuna
volta cotali scienze , non ho trascurato io medesimo di
far l'analisi e la deduzione di quelle idee; diche, quando
piaccia al lettor di conoscere com' io assegni a quelle
l'origine, egli potrà agevolmente soddisfare al suo de
siderio , volgendo l' occhio a que'luoghi o a que' trat
tati, dove già ne tenni ragionamento (i).

(i) Dell' idea di VERITÀ' come fondamento della logica, si parla in que
st'opera stessa, alla Sezione VI; l' idea di GIUSTIZIA come fondamento
della morale, fu trattata ne Principj della scienza morale (Milano, i83i);
e 1' idea di BELLEZZA come principio della callologia, nel Saggio sulf /-
dillio e sulla nuova letteratura italiana (Voi. I degli Opuscoli Filosofici,
Milano, 1827 ).
PARTE QUINTA

ORIGINE DELLE IDEE NON -PURE, CIOÈ DI QUELLE CHE


PRENDONO, A FORMARSI, QUALCHE COSA DAL SENTIMENTO.

Fin qui abbiam parlato di quelle idee che si ca


vano da' proprj -visceri , per così dire, dell'edere, o col-
l' analisi di questa idea-forma, o considerandola in qual
che sua relazione , senza che il sentimento suggerisca
allo spirito alcuna determinazione di essa: le quali idee
noi abbiamo chiamate pure, cioè scevre d'ogni altro prin
cipio, che quel semplicissimo dell'ente in universale.
Conviene ora che noi applichiamo qiv1 ta parte pura
della nostra cognizione gradatamente a' sentimenti, e che
così spieghiamo l'origine delle idee non-pure, cioè non
procedenti dal solo principio formale , ma da un altro
principio altresì con quello associato nell'unità nastra
soggettiva , dal sentimento spirituale e animale.
E da prima prenderemo l'idea pura di sostanza; e ve
dremo , com' essa si specifichi mediante il sentimento;
come ci si cangi , per così dire , in idea di sostanza di
spirito (mediante il sentimento spirituale), e in idea di
sostanza di materia e di corpo ( mediante il sentimento
materiale e corporeo).

CAPITOLO I.

ORIGINE DELLA DISTINZIONE FRA LE IDEE DI SOSTANZA


CORPOAEA E DI SPIRITUALE.

ARTICOLO I.
IRU DOTTRINA ESPOSTA INTORNO ALLA SOSTANZA I ALLA CAUSA.

Ne' Capitoli precedenti (i) ho dimostrato, come l'in


telletto concepisca naturalmente, all'occasione delle sen
sazioni esterne ed interne, le idee di sostanza e di cau
sa; e ciò a confutazione del sistema di Hume, che af
fermava possibile non esistere in tutto l'universo che
pure idee, puri accidenti, puri fatti, senza soggetto e
senza cagione.

(i) HI e IV_ della Parte IV.


ao8
In quello strano sistema si ravvisa un uomo che pro
fonde tutta la forza dell'umano ingegno a crearsi una
grande dottrina, un idolo ove adorar sè medesimo, e
che lascia al mondo uno de' più memorabili eserapj della
infinita impotenza e nullità della saviezza umana.
Tutto ciò che quel raro ingegno di Hume colle più
ardite sue e più profonde meditazioni produsse, si fu un
mostro « meraviglioso ad ogni cuor sicuro » . Ivi un uomo,
assiso in sull' apice di quella coltura onde il secolo in
superbisce , ci si presenta ignaro di ciò che il più me
schino e volgare conosce, e che chiaramente intende il
selvaggio abbrutito. Le idee più semplici, più elemen
tari e più lucie alle menti degli altri uomini, si smar
riscono nella mente di Hume, visi offuscano, vi per
dono tutta la luce onde quai fidissime stelle risplen
dono all'umana famiglia: e quel savio abbarbagliato,
non veggendole oggimai più , le cerca tentone ; nè le
ritrova; le immagina dunque, le ricrea egli medesimo;
ma le falsifica, ricreandole senza un tipo ; e clii hà per
duto il senno interamente, proferirebbe intorno adesse
sentenze migliori. ' • "
E per conchiudere da ciò che è detto : i.° Hume non
sa che sia sostanza nò causa, che sia accidente nè ef
fetto; delle quali cose egli parla: egli non si ferma a
pur cercare che il mondo intenda per quelle parole, ac
cidenti, sostanza, cagioni, effetti: sono nomi a cui egli
aggiunge un significato arbitrario: gli sono venuti in
dispetto quei nomi; e guai a ciò che viene in dispetto
al filosofo: combatte allora non le idee da' nomi espres
se, ma le proprie creazioni. Egli raggruppa e rav
volge in un'idea tre idee distinte, di qualità sensi
bili, di sensazioni, ed idee; 3.° e con questa sua idea,
con questo mostro di tre capi, egli ha già ristretto il
numero delle cose onde l'universo risulta; giacché di tre
specie ne ha fatto una: povero universo, se tu divenissi
veramente ciò che la mente iraconda dell' uomo ti vuole!
4." Pur le qualità sensibili , le sensazioni e le idee in
una cosa ridotte , cioè in pure idee , lasciavano ancora
all' universo due elementi, le idee, e un soggetto di esse.
Non era dunque ancora il mondo ridotto ad una rego
larità abbastanza filosofica; e il genio dell'uomo decre
tava già eh' egli fosse una sola ed unica cosa , e che il
soggetto e l'idea s' idenlificassero,'CÌoè a dire, si distrug
gesse il soggetto , e rimanesse la pura idea. Così l'uni
verso per decreto di Hurae fu richiamato alla perfetta
semplicità ; non v'ebbe già più in esso nulla di baroccoj
e il buon gusto dell'uomo emendò finalmente le imper
fezioni del Creatore!
Ma se noi abbiamo dimostrato che è assurdo l'am
mettere l'esistenza delle qualità sensibili, senza una so
stanza o sia un atto pel quale esistano; se abbiam di
mostrato che quindi il nostro concetto dell'universo
non è di soli accidenti nè di sole sostanze, ma è com
posto di accidenti e di sostanze; noi non abbiamo però
ancora esaminato quale sia questa sostanza, per la quale
esistono le sensibili qualità; non abbiamo risposto a Ber
keley, che sostiene il soggetto delle sensibili qualità non
essere qualche cosa di diverso da noi stessi , ma esser
pur noi; sicché egli fa che esister debba la sola sostanza
del nostro spirito, e che quella sia soggetto egualmente
alle sensibili qualità e agl'interni nostri sentimenti.
Ora certo è , che il senso comune degli uomini ri
prova questo sistema, e che gli uomini generalmente si
formano un'idea diversa del soggetto delle qualità sen
sibili corporee, e del soggetto degl'interni nostri senti
menti: essendo questo un fatto, noi dobbiamo renderne
ragione: veggiamo dunque quale sia l'origine della di
stinzione fra l'idea di sostanza corporea e l'idea di
sostanza spirituale.

ARTICOLO IL
ARGOMENTO DELLA SEGUENTE TRATTAZIONE.

Berkeley adunque non niega, siccome Hume, alle qua


lità sensibili un soggetto; dice solo che questo soggetto
siamo noi stessi, uè altro ve n'ha fuori di noi.
11 senso comune concede a Berkeley , che noi siamo
soggetto alle sensazioni; ma aggiunge che queste sensa
zioni ci vengono da una cagione esteriore , nella quale
alle diverse specie di sensazioni che noi proviamo ri
sponder debbono altrettante virtù di produrre quelle
sensazioni, le quali virtù si possono chiamare qualità
sensibili, e dice che quella causa è il soggetto di que
ste qualità.
Neil' idealismo di Berkeley si descrive adunque il fatto
Rosmini, Orig. delle Idee } Voi. IL 27
!

310
delle sensazioni mettendo due sole cose, i." le sensa
zioni, 2.* un soggetto delle medesime (il noi), e
nulla più.
Nel realismo del senso comune si descrive il detto
fatto distinguendo quattro cose: i." le sensazioni, 2.* il
soggetto delle medesime ( noi stessi), 3." le qualità sen
sibili , 4-" e il soggetto delle qualità sensibili che vien
chiamato corpo: due soggetti e loro qualità in luogo
d' un solo.
Or noi dobbiam vedere quale de' due sistemi sia più
fedele seguace della natura : se nell' idealismo di Ber
keley si omtnettano forse de' fatti reali, e degni d'os
servazione ; o pure se nel realismo del senso comune
s'introducano per avventura dall'immaginazion popolare
de' fatti che non esistono.
Ma innanzi di procedere in questo esame, aggiungiamo
chiarezza maggiore alle nozioni di soggetto e di causa;
perciocché è dalla chiara intelligenza delle nozioni delle
quali si tratta , che dipende il veder chiaro, e trovare il
fermo ne1 dubbiosi argomenti.

ARTICOLO III.
DIFFERENZA FRA t' IDEA DI CAUSA E l'iDEA DI SOGGETTO.

Una cosa che ne produce un'altra, è causa di questa;


ma non è sempre anche il soggetto di essa.
La cosa che vien prodotta può avere un'esistenza sua
propria, cioè un'esistenza che da noi si concepisce in se
parato dalla cosa producente; ovvero può esser priva di
una esistenza sua propria, sicché noi non la possiamo
sola concepire, ma unita coli' attività slessa ond' esiste
la causa.
Nel primo caso la cosa producente è solo causa della
cosa prodotta; e nel secondo , ella é insieme causa e
soggetto.
Il padre è solo causa del figliuolo (1), perocché il fi
gliuolo è un essere che ha un' esistenza propria e sepa
rata. All'incontro Io spirito intelligente non è solo causa

(1) Non é necessario di osservare, che il padre non è causa intera del fi
gliuolo, poiché 1' uomo nè può fare esistere la materia, nè creare lo spi
rito umano. Tuttavia l'esempio può in qualche maniera servire a fare in
tendere ciò che vogliamo spiegare.
de' pensieri; egli è anche il loro soggetto: perciocché i
pensieri non hanno alcuna esistenza diversa dall'esistenza
dello spirito stesso, ma sì quella medesima : e perciò
non si possono concepire esistenti, se non si concepi
scono nello spirito che li produce e li tiene in essere;
quindi lo spirito è la loro causa, e nel medesimo tempo
il loro soggetto.
Quando dunque la causa produce una cosa interiore
a sè stessa, che non precide nè manda fuori di sè, sic
come accade de' nostri pensieri , che tutti si ritengono
nello spirito, nè possono da quello dividersi, perocché
sono certe sue modificazioni; allora la causa si dice esser
anche soggetto della cosa prodotta : mentre quando la
causa opera esteriormente , e manda la cosa prodotta
fuori di sè, sicché questa acquista una sua propria at
tività d'esistere, e perciò si concepisce da noi in sè
stessa, senza bisogno di concepir insieme la causa sua;
allora questa non è il soggetto della cosa prodotta , ma
solo la cagione.
La distinzione è vera e importante. Una sola osser
vazione si dee fare, ed è di non intendere tortamente
questa espressione : « quando la cosa prodotta sta nella
causa, e non esce di lei, allora la causa è anche sog
getto » .
Il vocabolo cosa, adoperato in questa proposizione,
può ingenerare equivoco.
Esso si usa più generalmente a significare quello che
esiste in sè: perocché ciò che viene prodotto in una
cosa, propriamente non è una cosa, ina è una modi
ficazione, o checchessia d1 una cosa. Ora avvertasi dun
que , che in quella proposizione , la parola cosa ha un
senso lalissimo ; ed indica tutto ciò che noi pensiamo
con una concezion nostra qualunque , sia che l' oggetto
di essa concezione abbia un'esistenza sua, o non l'abbia.
In questo secondo caso la concezione è una pura
astrazione: nè noi potremmo a prima giunta pensare la
sola cosa prodotta, senza la producente (soggetto); ma
noi il facciamo da poi, mediante l'astrazione: per la
quale noi scomponiamo il nostro primo concetto, e se
pariamo l'accidente dal soggetto , da cui non è per sè
separabile, e gli diamo un nome siccome fosse una cosa
per sè, sebbene tale egli non sia, che inquanto il fac
312
ciam noi un oggetto mentale della nostra esclusiva at
tenzione.
Presa quest'avvertenza , la distinzione fatta tra una
pura causa , e quella causa che è insieme soggetto alla
cosa prodotta , si troverà solida e necessaria.

ARTICOLO IV.
ULTERIORE INALISI DELL! SENSAZIONI.

5 I.
A che tende quest' nudili.

Distinto così il soggetto dalla causa, conviene ora che


un passo dopo l'altro noi ci conduciamo al trovamento
della verità che investighiamo. - -
E per procedere sicuramente, qui da prima ci limi
teremo a questo, cioè a provare, che in ambedue que'
soggetti (spirito e corpo), su' quali si dividono il senso
comune da una parte e la filosofìa di Berkeley dall'altra,
si può e si dee distinguere coli' astrazione della mente
una terza cosa media fra le sensazioni o qualità sensi
bili, e il puro atto col quale esse esistono: sicché sia
impossibile e contradditorio l'immaginare, che l'atto
onde le sensazioni o le qualità sensibili esistono s'estenda
ad esse sole, e null'altro v'abbia ad esse congiunto.
Ciò sarà quanto un dimostrare, che quel soggetto,
che noi abbiam provalo dover esser congiunto colle sen
sazioni o qualità sensibili (i) (sia poi solo spirito, come
sostien Berkeley, o sia doppio, cioè oltre allo spirito
(soggetto delle sensazioni) v'abbia anche un corpo
(soggetto delle sensibili qualità)), non può essere uni
camente quell'atto e nulla più, pel quale le sensazioni
o le qualità sensibili s'intendono esistere'; ma un tal
atto suppone un essere, il quale, oltre formare sostegno
alle sensazioni o qualità sensibili, sia anche qualche cosa
verso di sè , cioè abbia qualche altra proprietà non re
lativa a cose da sè straniere, ma assoluta.
E prima parliam del soggetto delle sensazioni, am
messo egualmente dai due sistemi ; poi parleremo del
soggetto corpo, ammesso dai soli realisti, e negato da
gli idealisti seguaci di Berkeley.

(0 Parte IV, c. II e III.


Nel soggetto letiziente, olire quell'atto onde esistono le sensazioni,
v' ha qualche altra cosa.
10 ho distinto le sensazioni da quell' atto ond1 esistono,
che è la loro sostanza : questa è l'idea che ora io debbo
analizzare.
Dico, che ov' io prenda ad analizzare l'energia onde
esistono le sensazioni , il suo concetto non racchiude
semplicemente quell' atto onde le sensazioni esistono,
ma qualche cosa di più. Tengasi bene la supposizione,
nella quale muove tutto il mio ragionamento, e si ve
drà la verità della mia affermazione.
11 ragionamento fu mosso nella supposizione di non
sapere se esista sì o no la sostanza corporea , nè la
spirituale: io sapea solo questo, che esistono le sensa
zioni.
Partendo da questa sola cognizione che m'era data,
io dimostrai che l'idea di una sostanza era necessaria,
perocché si comprendeva nella cognizione datami , e
'l'analisi della medesima il dimostrò (i).
Ora ( ed ecco il secondo passo del ragionamento )
dico di più, che procedendo ad analizzare la sostanza
trovata nel modo detto , si rinviene nel suo concetto
non pure un' energia atta a far sussistere le sensazioni,
ma qualche cosa di più ancora ; ed ecco come il di
mostro.
Le sensazioni esistono: dunque v' ha una energia
che le fa esistere. Ora che sono le sensazioni? che sono
i colori, i suoni, i sapori, gli odori, la morbidezza, o
la ruvidezza ecc. ? e come avvengono ? Se io osservo il,
fatto come avvengono queste sensazioni, trovo primie
ramente che avvengono (è questo attestato dalla co
scienza) tutte in me: cioè i colori, i suoni ecc. sono
tutte sensazioni mie proprie per cotal modo, che se
io non esistessi, o se non avessi la facoltà di sentire,
non solo io ne resterei privo , ma quelle al tutto non.
esisterebbero. E parlo di tutte quelle sensazioni che
provo io; le quali sono interamente diverse da quelle
che prova qualsiasi altro uomo. Le sensazioni adunque

(i) Parte IV, c. II e III.


3l4
che provo io fiatando questa tuberosa, ascoltando que
sto violino, assaggiando questa melarancia ecc., non esi
sterebbero più ov1 io non le sentissi. Ma ciò che dico
delle sensazioni mie proprie, posso dirlo egualmente
delle sensazioni di un altr' uomo: perocché s' elle sono
sensazioni , come sono le mie , da cui io traggo il con
cetto e ne intendo la parola , certo ove 1' uomo che le
prova non vi avesse, o fosse privo di sensitività, o pure
non le provasse attualmente, le sensazioni sue cessereb
bero interamente di essere. Ora non v'ha sensazione,
non odore , non sapore , non colore ecc. , che di qual
che uomo non sia: perciocché ogni odore, o colore , o
sapore ecc. dee, per esistere, esser pure una modificazione
del senso di qualche essere sensitivo. Laonde se io ri
muovo colla mente ogni uomo , ed ogni soggetto sen
ziente, manifesta cosa è che più sensazione alcuna non
esiste: né può esistere da vero sensazione ove non vi
abbia il senso , di cui ella è una passione e non altro.
Osservata bene questa natura delle sensazioni , dico,
dovervi aver nel soggetto senziente, oltre le sensazioni
e l'atto ond' esistono, qualche altra cosa in cui termini
quell' atto della esistenza ; e ciò dee esser cosa così ma
nifesta, da aver bisogno appena di alcuna prova.
E veramente, dicendo io: « sento i tali odori, veggo i
tali colori ecc. » ; oltre le sensazioni , metto l' Io che
le percepisce , e che è il loro soggetto. L' Io poi non
è semplicemente l'atto onde le sensazioni esistono: pe
rocché nella pura idea di sensazione esistente non trovo
ancora VIo: anzi, senza l'Io, pensar dovrei nelle sen
sazioni altrettanti esseri esistenti per sé, quante le sen
sazioni sono; là dove pensando all'esistenza delle sen
sazioni tali quali sono, io trovo che molte si riferiscono
egualmente ad un solo Io che le prova. IT Io adunque
che prova molte sensazioni é unico, e le sensazioni pro
vate dall' Io sono molte: VIo è dunque diverso dalle
sensazioni, come il soggetto é diverso dalle modificazioni
a cui soggiace.
Ancora: VIo prova molte sensazioni attuali, e molte
sensazioni cessano all'/o, altre sopravvengono. L' Io
però non resta dall' essersi quell'istesso, sebbene fornito
di sensazioni diverse: egli ha dunque la potenza d'esser
modificato, la potenza di sentire; e la potenza di sen
tire è cosa al tutto diversa dalla sensazione attuale.
ai5
Finalmente, la sensazione è sentila dall' io, e l' Io
è il senziente. Questi, non pure diversi, ma contrarj
caratteri dimostrano manifesto, che non si possono con
cepire le sensazioni, e l'atto che le fa esistere, senza
un soggetto di mezzo, cioè senza che quell'atto dell'esi
stenza delle sensazioni, prima che in esse, termini in
qualche altra cosa, ove le sensazioni ricevano ed abbiano
pur l'esistenza.
E ciò che in tutto questo discorso importa conoscere
si e, come il soggetto senziente, di che parliamo, non
si deduca già mediante un ragionamento, ma si trovi
mediante una semplice analisi di questa idea , sensa
zione esistente.
Siccome dunque più sopra fu mostrato, contro Hume,
che il pur concepire una sensazione esistente ( la quale
Hume ci accordava ) era concepire una sostanza , e ciò
per V analisi dell' idea di sensazione esistente ; così qui
si mostrò che il solo concepire una sostanza è conce
pire un qualche cosa di esistente diverso dalle sensa
zioni ( un loro soggetto), e ciò mediante l'analisi del
l' idea di sostanza.
E veramente, egli è impossibile che io immagini una
sensazione realmente esistente, senza pensare un qualche
cosa che sente: perocché quando dico sensazione, non
dico altro che « modificazione di un essere senziente » :
dico il termine, e l'atto di questa potenza: nè posso
immaginare una potenza , senza l'essere a cui appartiene.

§ 3.
Nella sostanza corporea de' realisti non può concepirsi il solo atto
onde esistono le qualità sensibili, senza qualche cos'altro.
Un simile ragionamento prova, nel sistema de' reali
sti, che non si possono pensare qualità sensibili che
esistano per un atto che in esse puramente termini; ina
che quell'atto che le fa esistere, di necessità dee fare
esistere qualche altra cosa diversa da esse.
E di vero , le sensibili qualità de' realisti sono virtù
di produrre sensazioni nel soggetto senziente.
Ora egli è assurdo immaginare che queste virtù esi
stano, e nulla esista che si possa colla mente distinguer
da esse.
Analizziamo 1' idea di sensibili qualità esistenti , cioè
di quelle virtù che eccitano in noi le sensazioni.
2l6
Le sensibili qualità, secondo il concetto de' realisti ,
tutte emanano da una specie di centro , clic chiamiamo
corpo , e che si suppone il soggetto di quelle.
Ora se queste qualità sensibili così si uniscono, e ri
feriscono tutte ad un essere dal quale par torio, forz' è
che nella idea di. sensibili qualità entri quest'essere,
checché egli sia, il quale le unisce, e le fa riuscire in
sè, siccome in foco comune , per così dire: in tal caso
quella idea, oltre l'esistenza delle sensibili qualità, in
chiude l'esistenza di un'altra cosa necessaria alle me
desime perchè esistano a quel modo che noi le conce
piamo.
Alcuno risponderà , che questo ragionamento non è
fondato nella pura idea di qualità sensibili, ma nell'idea
di esse quale ci viene dall' esperienza: e che nella sola
e pura, idea di sensibili qualità , o di virtù atte a pro
durre in noi le sensazioni, non entra punto il centro,
il nesso che queste virtù fra loro congiunge. Esaminiamo
dunque anche le qualità sensibili per sè stesse : una qua
lità sensibile isolata. E dico, che anche in tale idea noi
pensiamo qualche altra cosa , oltre la sensibile qualità.
E in vero, questa sensibile qualità è una virtù di
produrre in noi una data specie di sensazioni.
Ora se questa virtù realmente esiste, noi dobbiamo
pensare, e pensiamo realmente, che oltre la relazione
eh' ella ha con noi , debba essere qualche cosa in sè
slessa. Questa sussistenza in sè stessa è diversa dalla
relazione che ha con noi , o sia dall' azione che in noi
esercita; poiché è impossibile pensare una pura rela
zione, o azione d'un ente, senza pensare l'ente stesso;
è impossibile che v' abbia fra due esseri relazione ed
azione, senza che v'abbiano i due esseri. Adunque se
quando io concepisco una potenza di modificar me, con
cepisco la relazione d'una cosa con me; forz' è dire,
che sia la cosa che ha questa potenza in su me. Sicché in
una potenza che mi modifica io penso i* qualche cosa che
esiste indipendentemente da me , a." una relazione ed
azione che questo qualche cosa in me manifesta.
Laonde l'analisi di questo concetto, « qualità sensibili
esistenti, o potenze di produrre in me le sensazioni »,
dà per risultameli Lo due idee, cioè i.* l'idea d'un ente
realmente esistente in sè, 2.* e l'idea di relazione con
noi, o azione produttrice delle sensazioni.
2I7
Le quali cose tutte fin qui ragionate, fur volte a
dichiarar il concetto di soggetto e di sostanza. Nè
dee rincrescere al lettore, che per tali dichiarazioni gli
si tardi la confutazione promessa di Berkeley; concios-
siachè solo dopo che il concetto di sostanza sarà a pieno
inteso , quella confutazione' gli potrà nascere spontanea,
e d' invitta forza fornita a piegare la sua persuasione.
Il perchè io dimando che mi si conceda, come è neces
sario , di continuarmi ancora un poco a perfezionare la
sposizione di quel concetto.

ARTICOLO V.
DISTRUZIONE FRA l' IDEA DI SOSTANZA E li' IDEA DI ESSÈNZA.

§ I.
Definizione dell' essenza.
Essenza chiamo ciò che si comprende nell' idea di
una qualche cosa.
L' idea è la cosa in quanto è da me pensata : ma que
sta cosa da me pensata, ov'io mi tolga dal conside
rarla in relazione colla mente che la pensa , e la con
sideri in sè medesima siccome possibile , è l' essenza
della cosa: questa dunque è tutto ciò che io penso nel
l'idea della cosa.

§ 2.
Essenza specifica, generica, c universale.
Le idee fornite di qualche determinazione sono di
due maniere, specifiche e generiche (i).
A queste corrispondono due specie di essenze; ciò che
penso coli' idea specifica di una cosa , è l' essenza spe
cifica; ciò che penso coli' idea generica, è l'essenza ge
nerica.
Oltre queste due alassi d'idee, fornite più o meno
di determinazioni, vi è un'idea universale, Videa del-
F essere ; ciò che penso coli' idea dell' essere si può
chiamare essenza universale.

(i) Ved. add. Parie II, c. III.


Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. II. 38
2l8
§ 3.
Dell'essenza specifica.
Ho già osservato , che una cosa può essere conside
rata ne' suoi varj stati, di natura intera e compita, e
di maggiore e minore guasto o difetto. Il guasto o di
fetto di una cosa non è che mancanza, privazione; es
sendo un vero già fuori di controversia quella sentenza,
che il male non è che privazione di bene.
L'idea dunque colla quale s'intende una cosa piena,
e priva di ogni suo guasto , è la sola idea interamente
positiva della cosa ; le idee poi colle quali si pensano
gli stali scadenti della medesima , non sono che quella
stessa prima idea , vero tipo ed esemplare della cosa ,
a cui si è detratto qualche perfezione: sono modi di
quella idea (i).
Il perchè l' essenza specifica di una cosa è propria
mente ciò che si pensa nell'idea compita e perfetta della
medesima, a cui si riducono *tutte quell'altre idee che
rappresentano la cosa ne' suoi stati d'imperfezione ac
cidentale.
Ma perchè bene s' intenda la natura dell' idea speci
fica , deesi fare un'altra considerazione.
I modi detti nascono da' guasti e difetti a cui sog
giace la cosa da noi pensata.
Ma olire a questi modi, nascenti da' difetti e guasti
della cosa pensata, v'hanno altri modi dell'idea stessa,
procedenti non da' difetti di essa cosa, ma dalla maniera
dell'esser suo; ed ecco quali questi sieno.
L'oggetto della mente nostra in qualsiasi concezione
è l'essere (la realità possibile) (2).
L'essere di una cosa nella sua realità è il primo atto (3)
della medesima, immutabile, immanente.
Ora quest'atto primo della cosa (sussistenza) ne pro
duce degli altri, e sono le operazioni dell'essere reale,
le quali dir si possono atti secondi, perchè dopo a quel
primo conseguono.
Queste operazioni dell'ente reale , e medesimamente
quegli effetti o termini di dette operazioni che nell'ente

fi) Ved. add. Parte II, cap. Ili, art. ti, Osserv. ni.
(a) Parte III, c. 1.
(3) Parte IV, c. III.
stesso rimangono (i) e susseguono a quell'atto primo,
non sono già tutte e sempre e necessariamente con quel
l'atto primo congiunte: ma posson talora mancare: od
essendo necessario che ve n' abbiano, non è però ne
cessario che v' abbiano queste anziché quelle. Così ne'
corpi sebbene sia necessario che v'abbia un colore (in
quanto è qualità sensibile ) , non è però necessario che
sia l'azzurro anziché il rosso od il giallo.
Or dunque, fino che io penso quell'atto primo (esi
stenza attuale dell'ente) con tutto ciò a cui egli si estende
come a suo termine, io penso quell'ente.
Ma quell'otto non è connesso necessariamente con
molle operazioni che a quello susseguono , e co' loro
termini, come dicevamo: e non estendendosi a quelle
e questi, quelle e questi posson mancare o variare, e
tuttavia l'ente sussistere ed esser pensato.
Così, se quest'ente che io penso è l'uomo, perchè
io lo pensi, basta che pensi ciò che si comprende in
questa definizione: « un animale ragionevole » (a); poiché
a questo si stende l'atto primo onde l'uomo sussiste;
senza che io pensi le sue determinazioni ulteriori : pe
rocché o non sono al tutto necessarie, come sarebbe ch'egli
8' abbia questo grado di scienza , un corpo di questo
peso e di questa estensione ; ovvero, se sono necessarie
prese in genere, per esempio ch'egli s'abbia nell'or
dine presente un peso, e una estensione ecc., sono già
comprese nella definizione.
Se io penso dunque tutto ciò a cui si stende 1' atto
primo dell'ente, penso l'ente.
Se non penso tutto ciò a cui si stende quell' atto
primo , non è più 1' ente l' oggetto del mio pensiero ,
della mia idea.
Mediante queste osservazioni sulla natura di molti es
seri, si conchiude, i.° che v'ha qualche cosa di neces
sario nell'essere perdi' egli sia pensato, 2.0 che v'ha
qualche cosa di non necessario nell'essere perch' egli sia
da noi pensato, 3.° e che questa necessità viene dall'or-
dme intrinseco dell'essere stesso.

(1) Supponi le idee, oggetti e termini del pensiero.


(a) Non vogliam qui giudicare il merito di questa definizione; ci basta
eh' ella sia abbracciata comunemente, perchè valga a noi d'uu cotale esem
pio a illustrare il nostro concetto.
320
Or mettiamoci dinanzi un ente. V hanno in lui delle
cose non necessarie alla sua esistenza , le quali sono
però necessarie alla sua perfezione.
Oltracciò, le cose necessarie alla sua perfezione, e
non alla sua esistenza, non sono necessarie nè pure alla
mia concezione dell' ente ; nella qual basta che io pensi
quell'atto onde l'ente sussiste , perciocché l'oggetto della
conoscenza è l' essere.
Se dunque nella mia idea io penso l' ente fornito di
tutte le cose che sono necessarie alla sua sussistenza,
ma non come fornito delle cose necessarie alla sua per
fezione-, ho in tal caso que' modi dell'idea completa toc
cati più sopra, i quali nascono da' difetti della cosa
pensata.
Se non penso l'atto onde l'ente esiste, io al tutto
non penso l' ente.
Se poi penso 1' atto onde l'ente esiste, e non penso
espressamente quelle cose che sono necessarie alla sua
perfezione, ma nè pure le nego ed escludo, anzi in
tendo più tosto di averle virtualmente inchiuse nel
pensiero di quell'atto che costituisce l'esistenza del
l'ente; in tal caso io ho desmodi dell'idea specifica,
che non dipendono dai difetti della cosa pensata, ma
dalla particolar natura della mia concezione e del pro
prio essere della cosa; il quale è tale, che pensando io
quell'atto che forma per così dire la radice di essa cosa,
basta perchè io m' abbia la cosa stessa pensata. Questi
modi pertanto dell'idea specifica completa sono formati
da una specie di astrazione, per la quale io non penso
già 1' ente difettoso , come ne' primi modi , nè l' ente
perfetto, come nell'idea completa; ma prescindo al tutto
da ciò che appartiene alla perfezione dell'ente; restrin
gendomi a pensar ciò che il fa sussistere; ed anzi sot
tintendendo, quasi direi , ciò che alla sua perfezione
appartiene, siccome quello che aggiunge alla concezione
dell'ente predetto tutta la sua perfezione e pienezza.
E di più; l'uomo per l'imperfezione del suo inten
dimento è ben rado che delle cose si possa formare
quella piena e compita idea, della quale quel modo che
ultimamente abbiamo descritto è quasi direi un disegno
a contorni, o un seme che inizialmente la racchiude.
Quindi non avendo l'uomo alla mano l'idea specifica
completa delle cose (il tipo, o anzi l' archetipo delle
221
medesime), egli fa fondamento della specie quella idea
astratta , che non è propriamente che un modo dell'idea
intera ed assoluta (i).
E quest1 idea specifica astratta è quella che con
tiene ciò a cui si suol dare semplicemente il nome di
essenza; sicché quando si nomina V essenza delle cose,
senza più, hassi ad intendere ciò che in detta idea viene
pensato e dinanzi al nostro spirito rappresentato.
Nel che osservo, che nella formazione di detta idea
specifica, oltre dell' universalizzazione , si fa uso di una
specie di astrazione. Ma questa non è queir operazione
che forma propriamente la specie; ma sola la specie
astratta t conciossiachè nella specie completa già l'astratta
si comprende. Che se nè pure la specie completa per la
sola universalizzazione ci viene , ma ci bisogna ancora
Y integrazione dell'idea imperfetta della cosa che prima
riceviamo; ciò non dipende dalla natura dell'idea, ma
dall'accidentale difetto degli esseri che noi percepiamo,
e dalla percezione de' quali noi abbiamo la prima idea

(i) Voleudo fissare l'ordine delle idee specifiche qui sopra distinte, se
condo il tempo nel quale noi le riceviamo, esse tengono l'ordine seguente:
1.° Primieramente noi acquistiamo V idea piena di un essere imperfetto,
come sono gli esseri tutti nella natura; nè solo imperfetto, ma talora an
che guasto; conciossiachè è raro che gli esseri in natura non abbiano an
che qualche guasto, piccolo o grande.
2.° Di poi da quest idea piena, ina di un essere imperfetto, noi formiamo
Videa specifica astratta, e ciò facciamo astraendo da' guasti, e dalle imper
fezioni dell'essere, senza aggiungere perfezioni, in una parola da tutto ciò
che non è necessariamente connesso colla concezione del suo esistere. Que
sta astrazione è quella che ci dà l'essenza specifica dell'essere abbozzata per
così dire, quell'idea che noi uomini sogliamo più comunemente usare.
3.° In ultimo solamente , noi cerchiamo di ascendere all' idea specifica
completa dell'essere ( archetipo dell'essere); alla quale idea però noi as
sai di rado e assai malagevolmente pervenir possiamo ; perciocché troppo
difficil cosa è il poter conoscere tutto ciò che appartiene alla somma perfe
zione naturale o soprannaturale di un ente. Tuttavia noi tentiamo conti
nuamente di avvicinarsi a questa idea, per quella virtù del nostro spirito
che fu da noi nominata facoltà integratrice deW intendimento umano. E quan-
d' anco non perveniamo a quella idea , pure sappiamo eh' ella ci dee es
sere, e che ci potremmo pervenire, se a tanto valessimo ; e quindi almeno
come a termine possibile de' nostri pensieri a lei ci volgiamo.
Questo è l'orbine cronologico delle nostre idee specifiche; ma l'ordine
che hanno queste tre maniere d'idee giusta la loro natura è tutto il con
trario : l' idea specifica completa è la prima ; la specifica astratta è la se
conda ; la specifica imperfetta la terza. Anzi queste due seconde meglio chia
mar si possono , come dicevamo , modi di quella prima idea , anziché idee
da quella diverse.
222
di essi, la qùal noi ci formiamo staccandola dal giu
dizio sulla loro sussistenza.

§ 4-
Essenze generiche.
Le idee generiche si formano coW astrazione (i); mentre
noi abbiamo delle idee specifiche colla sola universaliz-
zazione (2).
L1 astrazione è una operazione moltiplice: si astrae in
diversi modi e in diversi gradi : quindi ella dà diverse
maniere di generi; e queste noi dobbiamo qui enumerare.
Tre sono i modi di astrarre, mediante i quali si for
mano tre maniere di idee generiche, e di essenze ge
neriche: queste chiamar si possono co' nomi di generi
reali, mentali, e nominali.
Ecco in che modo queste tre maniere di generi na
scono e si distinguon fra loro.
Io prendo 1' essenza specifica ( astratta ) , ed esercito
sopra di lei Yastrazione.
Quest'astrazione a prima giunta io posso farla in due
modi : poiché io posso astrarre qualche cosa da quel
l'essenza specifica, in modo che nell'idea astratta che
mi rimane io pensi però ancora un essere reale; ovvero
in modo, che io astragga ogni essere reale, e non pensi
più nell' idea che mi rimane , se non qualche cosa di
ideale, come l1 accidente. Se mi resta nella detta idea
un essere reale, quell'idea ( rispettivamente all'idea spe
cifica su cui ho fatto l'astrazione) è un'idea generica
reale. Se nell'idea non mi resla'più che un essere men
tale , in questo caso l'idea è generica mentale, poiché
non esprime e rappresenta se non un essere astratto ,
che non esiste fuor della mia mente.
Togliamo un esempio. L'idea di uomo è un'idea spe
cifica astratta.
Io posso esercitare sopra questa idea l' astrazione in
due modi.

(1) Parte II, c. III.


(a) Le idee specifiche che noi ci facciamo colla sola universalizzazione ,
sono quelle che abbiamo chiamato idee specifiche imperfette: dalle quali poi
formiamo coli' astrazione le specifiche astratte , e coli' integrazione le speri-
ficlie complete.
aa3
Nel primo, io astraggo la differenza specifica della ra
gione: in tal caso l'idea che mi resta è l'idea d'ani
male, e l'idea d'animale rispettivamente alla specie
uomo (i) è un'idea generica reale, e inchiude un'es
senza generica reale.
Nel secondo, io posso astrarre tutto ciò che costituisce
un essere reale, e ritener solo un accidente; poniamo
il colore : l' idea de' colori in tal caso è un' idea gene"
rica mentale, e V essenza del colore però dicesi mentale,
poiché il colore così astratto non è che puramente un
essere della mente.
E si noti anche qui ciò che più altre volte ho fatto
osservare, che quand'io penso i soli accidenti, astratti
per la legge della mia intelligenza che non può pensare
che V essere , io considero quelle mie idee astratle come
altrettante cose reali ( esseri ), sebbene però io mi sappia
nello stesso tempo, che non sono tali. Sapendo io dunque
che non sono tali , e che non è che un modo della
mente che come tali li vede, chiamoli esseri mentali.
Finalmente, oltre i due detti modi di astrazione, io
ne ho un terzo; ed è allorquando io astraggo e pre
scindo sì dall'essere, che dalle qualità accidentali del
l'essere, e ritengo solo una relazione, come sarebbe un
segno. E veramente, io posso imporre de* nomi arbitra
riamente, e posso prendere questi nomi imposti a fon
damento de' generi. Se io dicessi , verbigrazia , il ge
nere de' Maurizj , o il genere de' Niccolò ; in tal caso
questi generi li direi nominali , e 1' essenza rispondente
essenza generica nominale.

§ 5.\
Definizione più perfetta"della sostanza.

Quindi si può cavare una definizione più perfetta della


sostanza in generale.
« La sostanza è l' atto onde sussiste 1' essenza della
cosa », cioè l' essenza specifica (astratta). L' idea di so
stanza adunque è composta da due elementi, i.° dal
l'essenza della cosa, 2." e dall'alto pel quale essa esiste
realmente ( sussiste ).

(i) Rispettivamente all' animale bruto, quella stessa idea è specifica.


224
L'alto del sussistere è sempre comune alle sostanze.
La varietà poi delle essenze e ciò che varia le sostanze;
e volendo quindi ridurre quella formola generale ad
esprimere delle sostanze speciali, conviene nella detta
formola , alla voce di « essenza della cosa », sostituire
quella essenza peculiare che specifica la sostanza vo
luta (i).
ARTICOLO VI.
RAVVIAMENTO DEL PRESENTE DISCORSO.

Ora riassumiamo il discorso, e riappicchiamo il filo


del nostro ragionamento.
Tutto ciò che abbiamo detto fin qui, fu vólto ad ana
lizzare il concetto di soggetto e di sostanza; acciocché
noi l'abbiamo così chiaro e distinto, che con alcun altro
elemento mescolar noi possiamo.
Abbiam veduto, che se esiste un soggetto delle sensa
zioni ( e 1' esistenza di un soggetto fu provata nel capi-

(i) L'aver confuso l'essere delle cose colle cose stesse, cioè colle loro «-
senze, o anzi 1' aver ommesso uno di questi due elementi , produsse due
false nozioni di sostanza, che ingenerarono due opposti errori in filosofia,
voglio dire l'errore di Platone e l'errore di Spinoza.
Platone tolse l' essenza della cosa per la sostanza, e non avvertì che l'a
menza della cosa non è ancora che la cosa possibile , e nulla più , la cosa
pensata, ma non la cosa reale e sussistente. ludi rovesciò nell' errore, die
tutte le essenze fossero sostanze: di che i suoi Eoni, o Dei minori. Egli
non avea bene distinto l'essere possibile delle cose, dall'essere reale e svi-
sistente : il primo è l' atto dell' essere solamente pensato ; il secondo è la
sussistenza stessa dell' essere, la quale non si percepisce con uua idea, che
mostra la sola essenza , ma si con un giudizio , onde si produce il verbo
della mente.
Spinoza all'incontro tolse Y essere sussistente, per la sostanza: e quindi
credette che sostanza non fosse se non ciò che essenzialmente sussiste ,
1' essere necessario.
Ma il vero concetto della sostanza dovea esser formato da tutti e due
gli elementi indicati , i quali non si possono insieme confondere, cioè i ° dal
l' essenza della cosa ( cosa possi bi le , cosa pensata nell'idea ), a." e dallauo
dell' essere onde quella essenza sussiste ( percepito nel verbo ).
Quindi le essenze sole non sono sostanze sussistenti., come volea Plato
ne : né l' essere solo è l' unica sostanza, come volea Spinoza. Ma bensì tutte
quelle essenze le quali hanno 1' atto reale dell' essere sono sostanze : 1 es
senza poi che non ha , ma che è lo slesso atto sussistente dell' essere, è la
sostanza necessaria: la quale non appartiene propriamente al genere (men
tale ) delle sostanze; appunto perchè non avendo in sè distinzione tra
l'essenza e l'essere, non ha nessuna differenza onde dalle altre specie si
possa distinguere e specificare, è interamente dall'altre diversa e separala,
e quindi fuori del genere in cui l' altre convengono.
aa5
tolo precedente), questo non può avere un'esistenza pu
ramente relativa alle sensazioni stesse, ma dee essere an
cora qualche cosa che in sè prima sussista , e quindi
poi valga altresì a ricevere e sostenere le esterne sen
sazioni (i).
Similmente, se esiste un soggetto delle sensibili qua
lità, diverso dal soggetto delle sensazioni (siccome vo
gliono i realisti), questo dee essere un'attività che non
s'estenda solo a dar l'essere e la sussistenza alle sensi
bili qualità, ma prima di ciò dee essere qualche cosa
egli slesso, e quindi poi aver quelle attitudini che sen
sibili qualità si chiamano, come sue potenze Dell'esser
suo radicate.
Ma non conlento io di avere in tal modo dimostralo
che la sostanza, o il soggetto degli accidenti, era qual
che cosa di esistente in sè, poiché era l'atto dell'esistere;
ho voluto ricercare di più, onde avvenisse che le di
verse sostanze si specificassero, e l'una dall'altra si di
stinguessero.
E trovai ciò ne' termini a cui finiva quell'atto del
l' essere.
Di che ho perfezionato maggiormente la definizione
della sostanza , riducendola alla seguente formola uni
versale: « la sostanza è l'atto onde sussiste l'essenza
della cosa ».
E per rimuovere ogni equivoco, ho spiegato a lungo
che cosa era V essenza della cosa: e secondo i varj si
gnificati ch'ella riceve, i varj usi della parola sostanza :
fra' quali tutti, ho fatto scernere quello che è il proprio
della voce sostanza , determinato dall' essenza specifica.
Dalle quali dottrine seguitò, che di due elementi, di
visibili coli' astrazione della mente, si componea la so
stanza, cioè i." dell' atto di essere, a.* e dell'essenza che è.
Ed ora, spianata innanzi la via, ripigliando il corso
del ragionamento, io debbo tornare al mio assunto, quello
di ragionare delle sostanze speciali, e di rifiutare Berkeley,
siccome ho fatto di Hume.
Al qual fine ci giova l'aver dimostrato, che una so
stanza soggetto delie sensazioni ( uu noi ) esiste. Rimane

(i) Art. IV.


lIoSMim, Orig. delle Idee, Voi IL 29
aa6
a dimostrare, i.° che nel soggetto di questa sostanza
non entra nulla di ciò che si comprende nel concetto
di sostanza corporea, a.* e che esiste una sostanza cor
porea ; il qual secondo punto però vorrà essere argo
mento al capitolo che seguirà.

ARTICOLO VII.
ESISTE UN NOI SOGGETTO PERCIPIENTE.

Sono delle sensazioni esterne ed interne: dunque è il


soggetto delle medesime: e la coscienza ci dice che siamo
noi medesimi quel soggetto.
Questo abbiamo veduto ne* ragionamenti precedenti.

ARTICOLO Vili.
IL CONCETTO DEL NOI, SOGGETTO PERCIFIENTE, X INTESAMENTE DIVERSO
DAL CONCETTO DI SOSTANZA CORPOREA.
•3 i.
Si danno in noi due serie di fatti, l'una attiri
e l' altra passivi rispetto a noi.
Questo vero ognuno può osservarlo in sè stesso. Na
scono in noi certi effetti senza di noi, nascono degli ef
fetti di che siamo noi stessi la causa.
Quando io deliberatamente voglio, e dietro la mia
volontà fo quello che voglio ; sento di muovermi per
una forza mia propria, interiore alla mia natura: per
ciò allora son io la cagione di quelle azioni; in esse io
faccio, e non patisco.
Quando succede in me qualche effetto senza che io il
voglia, e in contrario ancora talvolta alla mia vulontà,
allora io patisco, e non faccio.
Non è già, che quando io patisco , non sia io quegli
che patisce; nè che nel mio patire non ci abbia veruna
rooperazione da parte mia: ma certo è, che sebbene
Tazione si faccia in me, ed io da parte mia metta tutta
quella disposizione che è necessaria perdi' io la riceva;
tuttavia quella attività che produce la delta azione in
me, non è mia; nè posso dire a buona ragione, che al
lutto io medesimo agisco. Nè questo è il luogo d'inda
gare più addentro la natura della passione a cui e noi
ed aliti esseri van soggetti) basta qui di rilevare il fallo,
il quale è indubitato, cioè che questa passione esiste,

i
e che è diversa dall'azione fatta per nostra spontanea vo
lontà; ciò è sufficiente all'uopo nostro, cioè a dover ri
conoscere in noi due serie di avvenimenti, nell' una de'
quali noi ci diciam con ragione attivi, nell' allea ci di
ciamo con ragione passivi.
Fra gli avvenimenti passivi sono le sensazioni, clie
ci vengono dal di fuori di noi; e queste son quelle che
principalmente noi abbiamo ora in mira.
Convien dunque riconoscere le sensazioni corporee
come fatti che avvengono nel nostro spirito, ne' quali
esso è principalmente passivo, cioè soffre, e non fa.
Così se io mi sto cogli occhi aperti e volti rincontro
al sole, egli è per poco impossibile ch'io non vegga l'ab-
iagliante splendore, e non senta i raggi acuti ch'entrano
nelle mie pupille: in mezzo di una strepitosa banda mi
litare, io udrò anche contro mia voglia il suono delle
trombe e de' tamburi, ove pure non m'abbia gli orec
chi otturati: punto da un ferro o da uno slecco, io ad
doloro, sebben non piacciami addolorare, poiché a nes
suno è grato il dolore: e per dir tutto in un molto,
ov' io non fossi passivo nelle sensazioni che nel mio
corpo si suscitano, io potrei a mio grado cacciar da me
tutte le sensazioni moleste, aver tutte le dilettevoli, non
sofferir mai, non morir mai.
E reco quésti esempj estremi, sebbene anche di men
forti potesser bastare , contro coloro che fossero presti
di rispondermi, poter 1' uomo per forza di astrazione o
alienazion di mente fuggire dall' esser presente al dolore
e all'altre non volute sensazioni: di che conchiudono,
dover avvenir queste mediante un'azione dell'uomo stesso,
il quale assetta sè stesso di sua volontà a ricevere quelle
modificazioni sensitive.
Io rispondo prima, che 1' uomo non può torsi ad ogni
dolore, poiché se ciò fosse, sarebbe atto a farsi immor
tale, o a morire senza un affanno al mondo, ov'anche
una palla d'archibugio gli passasse il cuore; il che è
smentito dalla sperienza.
Di poi, 1' astrazione e alienazion di mente è mai sem
pre un cotale sforzo da parte noslra ; è un' azion fa
ticosa e violenta: talora essa è di tal travaglio, che ci
è impossibile il reggervi. Ora a die mai tanta fatica ?
certo a ritirarci, e fuggire dall'azion del dolore , o di
alcun' al Ira sensazione che non vogliamo.'
228
Dunque usiamo in questo sforzo 1' attivila nostra a
sottrarci da una forza che ci vien contro e ci vuol far
«offerire. Ma dov'è bisogno d' una forza a impedire un
effetto, ivi è manifestamente la forza in contrario che
tenta produrlo: imperocché la reazione suppone l'azione,
e la forza che elide suppone quella che viene elisa. L'at
tività dunque colla quale noi evitiamo tiilora l'esser pas
sivi, è prova^della nostra passività.
Finalmente rimane anco a vedere, se Io sforzo che
noi facciamo per torre noi slessi d'innanzi all'impres
sioni sensibili, impedisca veracemente in noi la sensa
zione: ovvero se non sia per avventura che una rimo
zione dell' attenzione intellettiva da ciò che noi pur pa
tiamo, sicché sebben noi patiamo nel senso, tuttavia noi
non ce ne accorgiamo nell'intelletto (non percependola
nostra passione intellettivamente), e quindi noi sappiam
dire a noi stessi; perocché sospesa l'attenzione, noi non
pensiam* più, né giudichiamo, di ciò che sentiamo; e
questo è ciò eh' io credo, sebben sia duro ad intendersi a
tutti coloro che non sono pervenuti a ben discernere le
modificazioni del senso dalle intuizioni dell' intelletto
che in noi sono intimamente congiunte.

§.a.
Della serie de' fatti attiTi noi siamo la causa c il soggetto,
de' passivi il soggetto e non la causa.

Tutti i fatti che in noi avvengono non sono che mo


dificazioni dello spirito nostro. Il nostro spirito adun
que è il soggetto di tutti que' fatti: la coscienza cene
accerta, poiché con essa dico: « io sono quegli che
sente, che gode, che addolora, che pensa, che vuole ecc. " j
il che è un affermare, che sono io il soggetto di tulli
questi avvenimenti.
Pure, de' fatti passivi, se siamo il soggetto, non siamo
la cagione; poiché non avvengono, come abbiamo dello,
per l'azione nostra, ma noi li soffriamo e li riceviamo
da checchessia in noi prodotti contro o almeno senza
nostra volontà. :. ■ •
E questa distinzione tra i fatti che in noi avvengono
in due serie, dell'una delle quali noi siamo causa e sog
getto, dell' aitra solo soggetto e non causa, non è diversa
dall'altea sposta nell'articolo precedente, fra le serie de
fatti attivi e passivi: ma l'analisi di ciò che è in noi
attivo e di ciò che è in noi passivo dà questo risulta-
merito, che nell'idea di attività si contiene quella di
causa e soggetto, e nell'idea di passività solo quella di
soggetto e non di causa.
Questa proposizione è dunque contenuta nella prima :
e la prima è il fatto.

§ 3.
Gò die ti chiama corpo è la cagione prossima delle nostre sensazioni esterne.
Qui non ci bisogna una completa e finita definizione
del corpo: ci basta conoscere qualche sua proprietà es
senziale per modo, ch'egli non si possa cqnfondere con
altra cosa.
Ora a questo fine provvede sufficientemente la defini
zione che dalle cose dette deriva.
Chiamo dunque col vocabolo corpo « il soggetto delle
sensibili qualità », cioè di quelle virtù che producono
in noi le sensazioni; quindi corpo è il soggetto dell'esten
sione, della figura, della solidità, del colore, del sa
pore ecc., in quanto queste qualità sensibili trovansi ne'
corpi e non in noi, e perciò nelle virtù di produrre in
noi le sensazioni corrispondenti (i).

(i) Reid ha osservato e cercato di spiegare a lungo, che nel linguaggio


comune le parole odore, colore , sapore ecc. hanno due significati al tutto
distinti ; col primo que' nomi segnano le sensazioni in noi , col secondo
le percezioni dulie corrispondenti virtù di produrle che stanno ne* corpi.
Egli trovasi però imbarazzato a dar ragione di questo doppio significalo j t
poiché è il consenso generale degli uomini quello che assegna il valore alle
parole, e questo consenso o mai o ben di rado può tassarsi d' errore. Ecco
pertanto con qual' ragione tenta di spiegare un simile equivoco, ch'egli
trova nei delti vocaboli: « Non possiamo sperare, egli dice, che le sensa
ti zioni e le loro corrispondenti percezioni vengano mai distinte nel linguaggio
« comune; poiché le esigenze della vita comune non l'addimandano. Il liu-
- guaggio fu fatto a provvedere a' bisogni della conservazione ordinaria; e
« noi non abbiam ragione di sperare eh' egli faccia distinzioni che di uso
« comune non sono; di qui una qualità percepita, e la sensazione a lei ri-
t spondente , spesse volle vien posta sotto lo stesso nome » ( Essays on
the povvers of the human mind, T. I ). Ma questa ragione può quietare di
primo tratto; esaminata meglio non appaga al tutto. Perciocché i.° gli uo
mini nel porre i vocaboli non seguoho solo i bisogni loro , ma più assai se
guono la cognizione eh' essi han delle cose. Così se veggono due cose fra
loro distinte, essi le segnano immantinente con due nomi, senza pensar né
cercar oltre; essendo loro naturale, che ciò che pensano distinto e separa
to, distintamente altresì con parole esprimano e significhino. Iit parole
fanno ritratto de' lor pensieri; e il primo loro biwgno in questo fatto é op-
3o
Ora queste virtù, o qualità sensibili, sono la causa pros
sima delie nostre sensazioni. Possiamo dunque definire il

punto la naturale veracità delle loro parole, cioè che i vocaboli sien fedeli
espressioni di quanto nella loro mente concepiscono, a.0 Se la distinzione
che fa Reid realmente esiste fra sensazioni e percezioni delle sensibili qua
lità, come può egli provare che agli uomini sia inutile 1' esprimerla in pa
role? e che nulla loro noccia il confondere quelle due cose insieme? Una
tale confusione ingenererebbe infinito numero di equivoci ; perciocché ogni
qualvolta si parlasse di ciò che noi soffriamo, potrebbe intendersi dei
corpi , e non di noi, e viceversa: ciò che dovrebbe poter essere di grande
sconcio all'intelligenza, e alla mutua conversazion degli uomiui fra loro.
Nel sistema di Galluppi si trova una ragione più solida di quelPacco-
munamento di un nome solo a due idee. L'italiano filosofo sostiene, che
ogni sensazione sia di natura sua oggettiva; e che quindi noi non passiamo
già dalla sensazione a pensare alla qualità sensibile corrispondente nel corpo
esterno per un salto, e come dice Reid, per una suggestione della natura;
ma egli , negando a Reid questo passaggio arbitrario , stabilisce una con
nessione essenziale fra la sensazione e la qualità sensibile, sicché queste
due cose sieno in sè indivisibili, formino una cosa sola, quella eh' egli
chiama sensazione oggettiva. Una simile teoria è molto ingegnosa , e come
dicevo, spiega eccellentemente l' accomiroamento del vocabolo alle due cose,
sensazione , e qualità sensibile; o a dir meglio , quel vocabolo noti segne
rebbe che una cosa sola , e una cosa sola sarebbe in natura , che noi per
l'analisi e astrazione poi divideremmo e scomporremmo in due.
Per altro io oso dire, che il valentissimo Galluppi, rilenendo il linguag
gio di Reid sull' ambiguità de' vocaboli in discorso, non mautienc latta la
proprietà di espressione che far il, potrebbe coerente col suo sistema.
- Questa difficoltà nasce, cos'i egli, — dall' ambiguità del vocabolo sapore.
« Un tal vocabolo può denotare una sensazione dell' anima , e l'oggetto di
x questa sensazione, il quale è una qualità del corpo saporoso : è impossi-
i bile che preso per sensazione denoti una qualità esterna , nell' atto che
« il corpo saporoso si riguarda come privo di sensibilità ( Saggio filns,
sulla critica della conoscenza , L. II. c. vi, 2 r»3 ). Oia a me pare , che
avendo egli molto ingegnosamente stabilita la sensazione oggettiva, cioè una
sensazione composta ad un tempo di soggettivo e di oggettivo ( meglio sa
rebbe, in vece che oggettivo , dire estraneo al soggetto ) egli avrebbe po
tuto negare a Reid , che in que' vocaboli vi avesse alcuna ambiguità , c
affermare in vece, che la loro natura è di significare quell'unica sensa
zione che è insieme soggettiva e oggettiva: di che viene, che ora acconcia
mente applicar si possano al soggetto, ora all' oggetto.
Un' altra osservazione non posso tacer qui sul sistema di Galluppi , ed
è questa. Io ammetto la sensazione oggettiva di Galluppi ( sebbene la pa
rola oggettiva non sia esatta ) , accompagnandola però di alcune dichiara
zioni, come si vedrà nel progresso di questa Sezione. Ma pai mi che il
Galluppi, nello stabilire quella *ua opinione , sia trascorso un passo, al
quale io con lui non mi accompagno , ed ecco qual è.
La teoria intera di Galluppi pone due proposizioni.
La prima: « tutte le sensazioni sono' oggettive », cioè io percepisco un
fuori di me, ma lo percepisco intimamente unito col ME, nè diviso dal MG
il posso percepire.
La seconda: « la percezione del ME è simultanea a quella delle sue ma-
di Reazioni » , cioè io noti posso percepire me stesso isolatamente dalle mo-
diiicazioui mie ( le sensazioni esterne )., ■• - .
aSi
corpo « la causa prossima delle sensazioni, e il soggetto
delle qualità sensibili ».

Ora di queste due proposizioni io ammetto la prima, cioè che le qualità


de' corpi non si possano da me percepire senza la percezione del ME, e
che quindi s'abbia un fatto soggettivo ed extra-soggettivo ad un tempo.
Bla la seconda , che il ME non si possa percepire diviso dalle sue sensa
zioni esterne, io non l'ammetto, nè è necessaria a quella prima: io am
metto nel ME un sentimento fondamentale (il quale, per essere naturale e
abituale , è difficile ad osservarsi ) che costituisce 1' essenza stessa del ME.
Finalmente osserverò, che quell'unione inlima della sostanza straniera col
soggetto, dalla quale di due una cosa sola risulta , fu già acutamente ve
duta e notata da s. Tommaso. Egli del corpo sensibile e dell' organo sen
ziente fa una cosa sola, e dice che 1' organo è la potenza, e il corpo è
l'affo della potenza : Corpus sensibile est nobilius organo animalis, secundum
toc quoti comparatur ad ipsum , ut ens in actu ad ens in potentia : sicut co-
loralum in actu ad pupillam,quae colorata est in potentia (S. I, LXXXIV,
n, ad a). E altrove dice, che il sensibile attuale non è che lo stesso senso
in atto : sensibile in actu est sensus in actu ( C. Geni. I , li ). Questa dot
trina però non ha luogo , secondo s. Tommaso, se non nell'atto stesso della
sensazione: perciocché è in quell'atto che la sostanza straniera sentita e il
soggetto senziente si uniscono per modo, che diventano una cosa sola; sicché
ove il corpo sensibile e l'organo senziente si considerano separati fra loro,
sono tosto due cose distinte. Ecco le parole del santo Dottore: «Il sensibile
« attuale è il senso in atto » ; ma se si considerano divisi fra loro, •« 1' uno
« e 1' altro è in potenza — : poiché l'organo visivo non è veggente in atto,
« nè il visibile è attualmente veduto, se non allora che il vedere s' informa
u della specie visibile , e così del visibile e del vedere si faccia una cosa
«• sola » ; Sensibile in actu est sensus in actu ; secundum vero quod (sensibile)
ab (sensu) distinguilo/-, est utrumque in potentia — ; ncque enim visus est
videns actu , ncque visibile videtur actu, nisi cum visus in/ormatur visibili
specie , ut sic EX VISIBILI ET F1SV UNUM FUT(C. Geni. I, li).
Ora questa unione fra il senziente (soggetto) e ciò che si sente ( so
stanza straniera ) è certo misteriosa ed oscura. Perciò, se fosse slata pro
posta quaranta o cinquantanni addietro, quando la filosofia moderna era
ancora fra noi e in Francia bambina, sarebbe stala per avventura ricevuta
colle risa , e come una vieta scolasticheria rifiutata.
Ma dopo questo tempo la filosofia moderna fece de' progressi in Fran
cia e in Italia: vi fu conosciuto ciò che in Iscozia avea pensato Reid, e ciò
che in Germania avea pensato Kant: queste serie meditazioni, sebbene
un po' tardi, attrassero l'attenzione de' nostri : e finalmente cominciossi a
sentire tutta l' imperfezione della dottrina vigente, la condillachiana. Di
quelle nuove meditazioni vennero altre meditazioni, e s'aggiunsero incre
menti e miglioramenti alla filosofìa, fra' quali uno de' più nobili vuol es
ser quello che in Italia fece Galluppi , stabilendo 1' oggettività della sensa
zione, che con maggior proprietà direbbesi extra-soggettiva. Or bene ; questo
corso di meditazioni faticose, tanti anni dati al travaglio per tirare innanzi
la filosofia moderna e renderla adulta , dove finalmente ci condussero ? Ad
una osservazione difficile, misteriosa, ma pur necessaria; ad una osserva
zione già fatta da' padri nostri sei secoli prima di noi , e non curata e
spregiata nel secolo scorso da quella filosofia fanciulla , ma accolla poscia
e trovala necessaria dalla filosofìa stessa o^e s'ingrandì e maturò. Ben è
vero, che certe verità difficili ci ripellono da sé coli' aspetto loro severo ;
ma ciò fanno solo per un cerio periodo di tempo. E noi, dopo averle ne
a3a
E quand' anco i corpi non esistessero, è però sempre

glette, ricorriamo ad esse, quando veggiam finalmente il bisogno assoluto


che di esse abbiamo; ed è allora, che con coraggio in esse altresì ci pro
fondiamo.
Per toccare qualche cosa di quella verità difficile, che diede occasione a
queste osservazioni, la quale consiste nell' unità perfetta dell' essere senti
to coli' essere senziente, io voglio qui fare osservare ancora una cosa so
pra di lei.
Quell' unità misteriosa non si avvera già solo fra l'essere sentito e l'es
sere senziente, ma in qualunque altra azione che un essere faccia sopra un
altro essere , de' quali P uno sia passivo, 1' altro attivo. Qui avvertite bene
il puro fatto; perocché non voglio io cercarne spiegazione; e voi troverete
che il fatto avviene come segue.
La passione che un essere prova, è il termine dell' azione dell'altro.
Ora quella passione , in quanto è passione, trovasi nell' essere passivo; nu
ella stessa è anco termine dell'azione. Ora in quanto é termine delazione,
essa è nell'essere attivo. Non si possono già stabilire due termini di azione,
l'uno fuori, e l'altro dentro l'agente: questo non è osservare il fatto, è
un immaginare. La passione è V effètto prodotto dall'agente: ora ivi dove
è l'effetto, ivi appunto dee aver operato l'agente, e non altrove, nè pure
una linea indietro: dunque 1' azione dell'agente termina propriamente in
quell' effetto ; e il termine dell' azione è congiunto necessariamente col-
1' azione stessa , a quello stesso modo che il termine o limite di una vere?
è nella verga stessa. L'essere agente viene bensì staccato dall' effetto che
egli produsse nell' essere paziente; ma ciò nasce quando la sua azione
cessa. Or noi lo consideriamo nell' istante in cui 1' azione vige : e in questo
istante convien dire assolutamente, che ciò stesso che per un essere (il
paziente ) è passione , per l' altro è termine dell' azione : sicché la stessa
cosa è congiunta ed appartiene a due esseri in quell'alto, all' uno sotto
una relazione , all' altro sotto un' altra : nè v' ha nulla di mezzo: tale è l'idea
del toccamento vero, per cosi dire, di due esseri: idea difficile e singo
lare, ma vera come è vero un fatto , clic per esser difficile non couviea
però mai né dissimulare, nè disprezzare, nè molto meno uegare ; anzi cou
maggior cura avverare, e rilevare, e addentro studiare.
É tornando in particolare al fatto della sensazione, che il Galluppi trova
composto di due elementi ; 1' uno soggettivo e 1' altro oggettivo ( extra-sog
gettivo ) , non posso a meno di fare avvertire il senso nel quale io ricevo
e ammetto la fusione di questi due elementi in un fatto solo.
A tal fine prego il lettore di rileggere quanto ho scritto nelle note po
ste alle face. ìq-5u del presente volume.
Ivi ho mostrato, come la sensazione si 'può scomporre colla riflessioni
della mente ne' due elementi , il soggettivo e V extra-soggettivo , e come a
lei in quanto è soggettiva si può riserbare propriamente il nome di sensa
zione; chiamandola percezione sensitiva corporea in quanto ella è extra
soggettiva , o sia in quanto è termine dell' azione d' un fuori di noi..
E tutto questo però dimostra, come non si debba mai confondere la sen
sazione extra-soggettiva da me ammessa, colla percezione intellettiva o cot-
1' idea de' corpi ; la quale non pel solo senso , ma si per 1' intelletto cn*
possiede 1' idea dell' essere veramente si forma. . , ,
Finalmente io osserverò, che le parole odore , sapore, suono ecc. si£ni
cano principalmente 1' elemento soggettivo; mentre i nomi delle qiw"
prime de' corpi, come 1' estensione, significano a dirittura l'elemento extra-
soggettivo. Ma di tutto ciò più a lungo mi verrà V occasione di ragionai*
in progresso.
a33
vero che questa definizione contiene l' idea die gli uo
mini hanno del corpo, e questo è ciò che noi cercavamo.

§4-
Il nostro spirito non e corpo.
Egli è un corollario delle proposizioni precedenti.
Poiché se il corpo è la causa prossima delle nostre
sensazioni esterne (1), e se le nostre sensazioni esterne
sono di que' fatti che avvengono in noi senza di noi,
cioè di quelli di cui la causa non siamo noi , ina noi
siamo solo il soggetto paziente (2); forz'è conchiudere,
che noi non siamo corpo.
E poiché ciò che esprime la parola noi è il sog
getto senziente e pensante, perciò questo soggetto è una
costanza interamente diversa dalla sostanza corporea.
Per un tale progredimento d' idee noi ci formiamo
Videa distinta del soggetto noi, diverso al tutto dal
corpo, e gli diamo quindi la denominazione di spirito»

ARTICOLO IX.
SEMI-LICITA* DELLO SPIRITO.

Ho dimostrato che lo spirito è cosa diversa al lutto


dal corpo, dalla diversità ed anzi contrarietà che passa
fra un essere che patisce ed un essere che fa patire.
Questo è quanto aver dimostrato che lo spirito è in»
corporeo.
Tuttavia, a rìpruova di ciò, soggiungerò altri argo
menti della medesima verità, recandoli colle parole dì
un filosofo italiano vivente.
« Io sento il fuor di me come un multi plice (3). Cia«
«scuna parte di questo multiplice si sente da me come
« distinta dalle altre, e le modificazioni di una parte
« non sono, nel mio sentimento, le modificazioni delle
« altre. Il tronco di un arbore è distinto da' rami : cia-
» scun ramo è distinto da un altro: il moto di un ramo

(3) Che io senta più cose fuori di me, questo è un fatto, eiianHiochè
non si faccia nella molliplicilà consistere la natura del corpo j la quale dove
cuusista, non fu ancora da noi trovato, nè investigalo.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. ILt 3o
a34
« può slare senza il moto di un altro, e di tutto l'ar-
« bore. Tale è il sentimento di un fuor di me.
« Ma vediamo quale è il sentimento del me, che
« percepisce il fuor di me. La coscienza del raziocinio
« è la percezione del me che ragiona (i): la percezione
« del me che ragiona è la percezione del me che dice
« dunque: la percezione del me che dice dunque, è la
« percezione del me che giudica nell' illazione e nelle
« premesse; l'io dunque percepito o sentito dalla co-
« scienza nel raziocinio, è l'istesso io in ciascuno de'
« tre giudizj di cui si compone il raziocinio. L'io che
« ragiona è dunque nel sentimento lo stesso io che giu-
« dica. Ma l'io che giudica è l'io che dice è, o non è;
u in conseguenza è l'io che percepisce il soggetto ed
« il predicato del giudizio. L1 io è dunque uno nella
« nozione , nel giudizio, e nel raziocinio.
« 11 soggetto di un giudizio può avere una composi-
« zione fisica , ed una unità logica : per esempio, allora
« che dico : il circolo ha i raggi uguali , il soggetto ha
u una composizione fisica , poiché il circolo è un mul-
« tiplice (a),- ma ha un'unità logica, perchè il soggetto
« del giudizio è uno , ed il pensiere che giudica dee
« abbracciare tutto il circolo; il pensiere è dunque quello
u che rende uno il circolo; io chiamo questa unità del
« pensiere unità sintetica , cioè unità della sintesi. I*
« coscienza percepisce dunque l'unità sintetica. Ma per*
« cepire l'unità sintetica è percepire il me che sinU-
« sizza (3) ; percepire il me che sintesizza si è perce-
« pire il me che riunisce la varietà delle percezioni del
« soggetto logico (4). L'io dunque sentito nell'unità sin-
a tetica della percezione è uno , malgrado la varietà
« delle percezioni che esso riunisce. L'io dunque che

(i) La coscienza del raziocinio non è propriamente la percezione del


me che ragiona ; ma la percezione del me che ragiona contiene la co
scienza del raziocinio come sua parte.
(a) È moltiplire in potenza, cioè può essere distinto in parti. Ma se 5'
intenda d' un circolo non matematico , ma fisico, il ragionamento procede
rigorosamente giusto.
(3) Ved. qui sopra, la nota i.
(4) Il soggetto unifica, è vero, le esse moliìplici, ma non per la propria
natura , ma per l'unità dell'oggetto logico in cui le contempla. Da questa
unità però dell' oggetto logico ( ente ) s' induce necessariamente l'unità del
soggetto.
^35
« incomincia un raziocinio , una dimostrazione , una
u scienza quale che siasi, è V istesso io che la termina.
« Procuriamo di rendere vieppiù chiara questa im-
« portante verità : = « Se una sostanza che pensa, dice
« Bayle, non fosse una, che come un globo è uno,
« essa non vedrebbe mai un albero intiero, non senti-
« rebbe mai il dolore eccitato da un, colpo di bastone.
« Ecco un mezzo onde convincersi di ciò. Considerate
« la figura delle quattro parti del mondo su di un globo;
« voi non vedrete in questo globo cosa alcuna che con
fi tenga tutta l'Asia, o anche un fiume intiero, il luogo
u che rappresenta il regno di Siam, e voi distinguete
« un lato dritto, ed un lato sinistro nel luogo che rap-
« presenta l'Eufrate. Nasce da ciò, che se questo globo
« fosse capace di conoscere le figure di cui è stato ador-
u nato, non conterrebbe cosa alcuna, la quale potesse
« dire: io conosco tutta l'Europa, tutta la Francia,
« tutta la città di Amsterdam, tutta la Vistola: cia-
« scuna parte del globo potrebbe solamente conoscere
«la parte della figura che gli sarebbe caduta in sorte :
« e come questa parte sarebbe sì piccola, che non rap-
« presenterebbe luogo alcuno per intiero , sarebbe asso-
« iutamente inutile che il globo fosse capace di cono-
« scere ; da questa capacità non ne risulterebbe alcun
u atto di conoscenza, o per lo meno sarebbero atti di
« conoscenza molto diversi da quelli che noi sperimen-
* tiamo, poiché i nostri ci rappresentano un albero in-
« tiero , un intiero cavallo. Pruova evidente, che il
« soggetto colpito da tutta l'immagine di questi oggetti,
<* non ù divisibile in molle parti , e perciò che l'uomo
« in quanto pensa non è corporeo o materiale, o com-
« posto di molli esseri » = (a).
u. La coscienza dell' unità sintetica della percezione
« comprende dunque la percezione dell'unità, o della
« semplicità del me che sintesizza. Meditando sul para-
u gonc che noi facciamo degli oggetti che agiscono su
« dei nostri sensi, sui giudizj a' quali danno luogo le
■ loro impressioni, il sentimento dell' unità semplice,
« indivisibile, immateriale dell'essere pensante risulterà
« luminosamente. Quando voi vi riscaldate la mano, è

(a) Diet, ari. Leucippe.


a 36
k sicuro che provate una sorte di piacere: se nel tempo
u medesimo venga avvicinalo al vostro naso un odor
« piacevole, sentirete un'altra specie di piacere. Se io
« vi domando quale di questi due piaceri maggiormente
te vi piaccia, voi mi risponderete quello o questo; voi
« dunque paragonate insieme questi due piaceri, e giu-
« dica te di essi net tempo medesimo. Se dopo di es-
« servi riscaldalo, e di avere odorato, io vi faccia gu-
« stare una vivanda, voi potrete certamente dire quale
« di questi due piaceri sia il maggiore; bisogna dunque
« che ciò che in voi giudica abbia sentito tutto ciò.
« Questo stesso <b che giudica, conosce se un piacere
« de' sensi sia maggiore del piacere della scoverta di
u una verità, odi quello che reca l'esercizio della virtù,
« e sceglie fra queste due cose; il medesimo soggetto
« dunque il quale prova i piaceri sensibili , prova altresì
u gli spirituali, e giudica e vuole: è questa una prova,
« che la coscienza del me , che sentite affetto da tutte
u queste sensazioni, e che opera in seguilo, non è mica
« la coscienza del vostro naso che sente gli odori, nè
u della vostra mano che sente il calore; poiché come
« la mano ed il naso sono due cose assolutamente di-
« stinte, egli è tanto possibile che l'una senta ciò che
u sente l'altra, quanto è possibile che noi sentiamo in
« questa camera il piacere che ora sentono quelli i
« quali sono al teatro; bisogna dunque che la coscienza
u che avete del me, il quale sente 1' odore ed il calore
u nello stesso tempo, non solo non sia la percezione
« del naso e della mano; ma bisogna altresì che sia
u la percezione di un soggetto unico, semplice, e privo
« di parti; perchè se avesse parti, l'una sentirebbe
a l'odore, mentre l'altra sentirebbe il calore, e non vi
h sarebbe giammai il sentimento di una cosa, la quale
u sentisse insieme 1' odore ed il calore, li paragonasse,
k e giudicasse che l'uno è più piacevole dell'altro.
« 11 sentimento del corpo è dunque il sentimento ili
« un mulliplice, di un composto (i); il sentimento del
« me è il sentimento dell' «no, del semplice, dell/»'
« divisibile. L' un sentimento è dunque distinto dai
ni l' altro.

(i) O almeno cerio è che noi percepiamo de* corpi molliplici ; q""1»
basta per provare 1' unilk dello spirilo che li percepiste.
« — Una scienza è una catena di raziocinj diretti a darci
« la cognizione la più distinta che sia possibile di un
« oggetto quale che siasi: i raziocinj sono una serie di
« giudizj: senza la sintesi immediata del giudizio, eia
u mediata del raziocinio, la scienza umana non sarebbe
« possibile: ora è necessaria l'unità sintetica nel razio-
« cinio: senza il dunque non vi sarebbe raziocinio, come
« senza l'è, o non è, non vi sarebbe giudizio: il dunque
« in un raziocinio lega in un'unità di pensiere le di-
« verse parti di un raziocinio, e l'è o non è lega nel
« giudizio in un'unità di pensiere le sue diverse parti.
« Ora la coscienza dell'unità sintetica del pensiere com-
u prende, come abbiamo spiegato, la coscienza dell'unità
« del soggetto pensante: quest'unità del soggetto pen
ti sante io la chiamo l' unità metafisica del me. L'unità
* sintetica del pensiere suppone dunque necessariamente
«l'unità metafisica del me- La prima non potrebbe
« aver esistenza senza la seconda. Questa unilà meta-
« fisica del me è la semplicità o spiritualità del prin-
« cipio pensante. Senza di essa non sarebbe possibile
« la scienza , poiché la scienza suppone la riunione
«di tutti i pensieri da' quali si compone; ed essendo
« un pensiere distinto dall'altro, come si farebbe l'unione
« di questi pensieri senza un centro di unione (i)? Ove
« s' incontrerebbero i diversi raggi del sapere , senza
«un centro che li riunisca? L'agente che costruisce è
« necessario che abbia tult' i materiali della costruzione.
« Vio di Newton che ritrova il calcolo sublime, è lo stesso
« io che ha appreso la numerazione aritmetica. Senza
« r unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità
« sintetica del pensiere, e senza l' unità sintetica del pen-
* siere non sarebbe possibile alcuna scienza per l'uomo» (2).

(1) Questo centro d' unione è però anche un oggetto logico, fondamenta
della stessa semplicità del me che l'intuisce.
(2) Galluppi, Ulcmenli di Fthiofia, T. lJI,Cap. IIf; g xxiy-iutY.
a38
CAPITOLO «...

ORIGINE DILLA NOSTRA IDEA Di SOSTANZA CORPOREA.

ARTICOLO I.
VIA DI MOSTRARE h' ISISTENZA Di' CORPI.

Dopo aver noi dimostrato, che il soggetto senziente


(lo spirito, noi stessi) non può esser ciò che viene in
teso colla parola corpo; esaminiamo se ciò che colla pa
rola corpo s'intende esista veramente, o sia un concetto
immaginario e vuoto di senso. Questo ò un cercare se
v' ha la sostanza corporea, come il senso comune attesta,
e onde ci avviene l'idea che noi abbiamo della medesima.
Quando noi avessimo trovato il modo onde noi ci
formiamo l'idea di corpo, e ci persuadessimo, in for
mandoci tale idea, che veramente i corpi esistono, noi
avremmo anche dimostrata con ciò 1' esistenza de' corpi
stessi.
Ma questa dimostrazione, tratta dall' origine della
nostra persuasione , o sia dal ragionamento che noi fac
ciamo in persuadendoci che esistano i corpi , ha tulio
il suo vigore nella supposizione che il ragionamento
nostro sia valido a trovare o provare la verità.
Il comune degli uomini l'accorda, come la cosa più
icerta di tutte , onde ogni certezza deriva : ma de' nuovi
scettici tentano di mettere in dubbio la forza dello stesso
ragionamento. '
Rispetto a questi, noi siamo obbligati a rifiutare le
obbiezioni contro la validità del ragionamento; il che
facciamo nella Sezione seguente. E perciò quanto di
remo in quella Sezione, metterà il suggello alla dimo
strazione che qui diamo dell'esistenza de' corpi; la quale
prenderà tal forza , che ognuno dovrà ammetterla , chi
vorrà esser uomo.
Or noi abbiam detto, che il concetto del vocabolo
corpo è di « una causa prossima delle nostre sensazioni-,
e di « un soggetto delle sensibili qualità » (i).
Dobbiamo dunque dimostrare, come noi acquistiamo
una ragionevole persuasione che esista « una causa di"

(i) Cap. I , art. vin , 2 3.


a3y
Tersa da noi delle nostre sensazioni », e che « questa
causa sia il soggetto delle sensibili qualità » (i).
Dimostrando l' esistenza della detta causa , noi dimo
striamo avervi un qualche cosa diverso da noi ; dimo
strando che noi concepiamo questa causa come soggetto
delle sensibili qualità, noi veniamo a dimostrare anche
che questa causa ha la proprietà essenziale del corpo,
e a spiegar quindi l'origine delle idee che de' corpi noi
ci formiamo.

ARTICOLO 0.
V'iti UNA CASSA PROSSIMI DELLE NOSTRE SENSAZIONI.

Le sensazioni suppongono una causa diversa da noi.


Le sensazioni esterne sono de' fatti rispetto a noi
passivi (a).
I fatti passivi sono azioni fatte in noi, delle quali noi
non siamo la causa (3).
Le azioni fatte in noi, delle quali noi non siamo la
c.iusa, suppongono una causa diversa da noi, pel princi
pio di causa (4)-
Quindi le sensazioni suppongono una causa diversa
da noi: ciò che era da dimostrarsi.

ARTICOLO IH.
LA CAUSA DIVERSA DA NOI È UNA SOSTANZA.

Fu dimostrato che le sensazioni suppongono una causa


diversa da noi (5).
Fu dimostrato altresì, che la causa propriamente è
sempre una sostanza (6).
La causa dunque delle nostre sensazioni è una so
stanza.
ARTICOLO IV.
LA SOSTANZA CHI È CAUSA DELLE NOSTRE SENSAZIONI, È IMMEDIATAMENTE
CON ESSE CONGIUNTA.
Le nostre sensazioni sono azioni fatte in noi, delle
quali noi non siamo la cagione (7).

(1) Queste definizioni son tolte, come dicevamo, dal significalo che l'uso
comune aggiunge alla voce corpo.
(5). Cap. 1, art. vili. (5) Art. II.
(3) Ivi. (6) Parte IV, c. IV.
(4) Parte III , c. II. 1 (7) Cap. I, art. vai.
a4o
Lo sperimentare in noi una azione della quale noi non
siamo la cagione, è il medesimo che Io sperimentare
una energia che ha virtù di modificarci.
Questa energia è una sostanza operante che si chiama
corpo (i).
L'azione dunque che noi proviamo dal corpo su noi,
non è l' effetto di una potenza particolare del corpo,
ma del corpo stesso; poiché appelliamo corpo ciò che
appunto così ci modifica; nè riconosciamo altre potenze
coordinate in questo agente: e quindi quel!' azione è
della stessa sostanza corporea.
Ma l' azione di una sostanza operante è sempre inti
mamente congiunta colla sostanza , perchè la forza o
energia di un ente è inseparabile e indivisibile dall'ente
stesso: giacché la forza che ha un ente di agire, non è
che Io stesso ente considerato nell'azione che esercita.
Dunque la sostanza cagione delle nostre sensazioni,
è immediatamente con esse congiunta (2).

ARTICOLO V.
Là CkVSK DELLE NOSTRE SENSAZIONI È CN ESSERE LIMITATO,
L'energia o forza che produce in noi le sensazioni, e
che noi proviamo in noi slessi, è limitata: poiché l'a
zione che fa in noi, della quale noi non siamo la causa,
è limitata.
Ora questa energia è quella che 'dà l'idea della so
stanza: o sia, che è il medesimo, noi percepiamo in
quella energia o forza, l'ente distinto da noi, cagione
delle sensazioni.
Quindi come è limitata quella energia che noi espe
rimentiamo, così è limitato l'ente nel quale noi la
concepiamo: perocché quest' ente per noi non è che
quella stessa energia pensata come esistente.
L* ente dunque pensato da noi come sostanza e causa
prossima delle sensazioni , è limitato.

(1) Cap. I, art. vm, ? 3.


(q) Vedi , a maggior chiarimento di ciò , la nota alla face. 229.
ARTICOLO VI.
KOI IMPONIAMO I HOMI ALLE COSE IN QUELLA MANIERA CHE LE CONCEPIAMO
INTELLETTUALMENTE.

Questa proposizione è evidente.


Noi non possiamo nominare alcuna cosa, se non la
conosciamo.
Perciò non possiamo nominarla se non in quanto
la conosciamo.

ARTICOLO VII.
IE60M DA TUIE»SI NEIL* USABE Ds' VOCABOLI, PER NON CADERE IN ERRORE.

I vocaboli adunque esprimono gli enti in quanto li


concepiamo intellettualmente.
Ciò dunque che viene espresso dal vocabolo, è limi
tato dalla nostra cognizione.
Se dunque vogliamo adoperare i vocaboli in un senso
più esteso ; se pretendiamo di volgerli a significare non
ciò che concepiamo in un ente , ma ciò che solo po
trebbe essere in un ente, senza averne noi cognizione
di sorte alcuna; noi abusiamo delle parole, e cadiamo
ragionando negli equivoci e ne' sofismi , conciossiachè
così facendo, il vocabolo si trae a significar ciò che con
esso il genere umano non significa e non intende.

ARTICOLO Vili.
IL CORPO È OR ESSERE LIMITATO.

Definire il corpo è lo slesso che dichiarare qual sia


la cosa a cui fu imposto il vocabolo corpo.
Ora volendo noi dichiarare questa parola . possiamo
far ciò in due modi; cioè o analizzando tutte le idee
che entrano a formarne il significato, ovvero indicandone
solamente alcuna , la quale sia così caratteristica e pro
pria, che con essa non si possa sbagliare, cercando die
tro lei queir ente che colla parola viene nominato.
Ora, per l'uopo nostro presente, basta che dichia
riamo il vocabolo corpo in questa seconda maniera : più.
innanzi definiremo il corpo in modo pieno e più cir
costanziato.
Abbiam veduto che noi ci formiamo l'idea di corpo
Rosmini, Orig. della Idee, fol. II. 3i
242
dagli effetti eh' egli produce in noi, i quali sono le sen
sazioni (1).
Ma questi effetti essendo limitati , noi non possiamo
ritrarre da essi che il concetto di una cagione limitata,
qual è quella energia che in noi passivamente sentiamo,
considerata in sù medesima sussistente (a).
Ogni nostra cognizione del corpo è dunque di un es
sere limitato.
Ma i vocaboli esprimono gli enti in quel modo onde
noi li conosciamo (3).
Dunque il vocabolo corpo fu inventato a significare
un essere limitato: e chi lo adoperasse in altro senso,
abuserebbe del medesimo (4).

ARTICOLO IX.
LA CASSA PROSSIMA DELLB NOSTRE SENSAZIONI NON É DIO.

La causa prossima delle nostre sensazioni è il corpo (5)


Il corpo è un essere limitato (6).
Iddio non è un essere limitalo.
Dunque non è Iddio la causa prossima delle nostre
.sensazioni.

ARTICOLO X.
I CORPI ESISTONO, E NON SI TOSSONO CONFONDERE CON DIO.
La causa prossima delle nostre sensazioni è una so
stanza esistente (7).
Questa sostanza si chiama corpo , e non è Dio (8).
Dunque esistono i corpi, e non si possono confonder
con Dio.

ARTICOLO XI.
CONFUTAZIONE DELI.' IDEALISMO DI BERKELEY.
Questa dimostrazione dell'esistenza de' corpi è contro
Berkeley.
11 sofisma di questo scrittore cominciò nell' aver fal
sala l'idea che viene significata col nome corpo.

(1) Cap. I. (5) Cap. I.


(2) Art. V. (6) Art. Vili.
(3) Ari. Vr. (7) Art. IH.
(4) Art. VII. (8) Art. IX.
(Quando questa idea si abbia "teTtnata , è impossibile
confonderla con Dio : poiché essa è l' idea di una cosa
al tutto limitata, cioè di quell' energia che noi sentiamo
operare in noi quando siamo modificati dalle sensazio
ni, pensata dal nostro intelletto in sè slessa.
Quando l'intelletto pensa questa forzn che in noi
sperimentiamo , egli non supplisce che l' esistenza , nò
ha diritto o ragione di aggiunger altro: perciò quella
forza rimane limitata com' ella è.
A confutazione dell'idealismo di Berkeley questa di
mostrazione dell'esistenza de' corpi è bastevole; la qual
riassumendo noi , e presentandola sotto altra forma , si
contiene nella serie delle seguenti proposizioni :
1.° Tutto ciò che passa nel nostro sentimento è un
fatto.
2.' Nelle sensazioni e sentimenti corporei ( con questo
nome li chiamo per determinarli: egli si prenda intanto
come un segno al tutto arbitrario) noi proviamo nel
nostro sentimento nn' azione di cui non siamo noi me
desimi la cagione , una energia , una forza diversa da
noi in noi operante.
3.* Questa energia o forza sentita concependola noi
intellettivamente, è l'idea di unente: o sia l'intelletto
concepisce quell' energia come realmente esistente ; e ciò
mediante un principio necessario, cioè il principio di
sostanza (i).
4.* Quell'energia è reale e limitata, e perciò l'ente
concepito dall' intelletto è reale e limitato; poiché que
st'ente non òche quella energia considerata in se stessa,
cioè in quella qualunque esistenza ch'essa, sola cosi
precisa ed isolata quale da noi si concepisce, possiede.
5.* Quest'ente reale e limitato, che non è il soggetto
senziente ( il noi ), e che si chiama corpo, meno an
cora può esser Iddio, l'idea del quale è d' un essere
infinito.
6." Jl corpo dunque, sostanza limitala, causa prossima
delle nostre sensazioni , esisle.
Tutte queste proposizioni mi pajono irrepugnabili, e
per quanto io credo, appartengono al senso comune de
gli uomini.

(1) A lungo fu mostrala la necessità di questo principio ue' capitoli 11


e 111 della Parte IV.
a44
E qui sembrami prezzo dell'opera additar meglio il
modo onde il senso individuale di Berkeley da quella
larga via del comun senso si tolse e traviò negli errori.
A ciò , trasportiamoci nel tempo di Berkeley. Locke
aveva stabilito i fonti delle idee nella sensazione e nella
riflessione; ma non aveva conosciuta la natura di que
sta seconda facoltà, e V avea descritta per modo, che
facilmente potè esser con quella prima confusa (i): di-
chiarolla egli stesso inetta a darci 1' idea di sostanza.
Quinci in Inghilterra e in Francia il primo passo
della filosofìa lockiana fu quello di sopprimer la rifles
sione, e ridur tutte le idee ad una sola origine , il
senso (2).

(1) S. Tommaso all' incontro , il quale si confonde tanto ingiustamente


co' moderni sensisti, pose tutta la cura a distinguere la facoltà di riflette
re dalla facoltà di sentire. Egli spogliò il senso di ogni riflessione sopra
di sè , e questa concesse all' intelletto : il che solo mette una divisione fra
le due facoltà , per la quale non si possono più mescolare insieme. « Nes-
« sun senso, dice il santo Dottore, conosce sè stesso, nè la sua operazione:
« perciocché il vedere uon vede mica sè stesso, nè vede di vedere ; ma ciò
m è proprio di una potenza superiore. — L'intelletto poi conosce sè slesso,
« e conosce di conoscere : il perchè non è già la stessa cosa l' intelletto e il
« senso» (C. Geni. II, lxvi ). E questa dottrina che s. Tommaso insegni,
e che procede da Aristotele ( De An. L. Ili ) , conferma l' interpretazione
che (nel Voi. I, face. 216) io ho data di quel giudizio che Aristotele attribuisce
impropriamente al senso 1 poiché se il senso non può ritorcersi sopra se
stesso, molto meno può giudicare, propriamente parlando, di ciò chcseole.
Locke tuttavia distinse in qualche modo la riflessione; uè fu coerente» se
stesso in negare 1' idea di sostanza , poiché talora si sentì necessitato di
ammetterne una oscura nozione : quelli che vennero dopo di lui confusero
tutto; e la riflessione vollero rifondere nella sensazione. In Italia, Gallim,
professore di Fisiologia uell' Università di Padova , sembra non riconoscere
altra differenza fral le idee dirette e le idee riflesse, che un grado mi
nore di intensione Dell' attenzione che si dà alle impressioni fatte sui sen
si ; di che solo la maggior chiarezza od oscurità nelle idee: senz' accor
gersi , che l'atto della riflessione è un altro atto, inconfusi bile coli' allo
dell' attenzione diretta i come 1' attenzione diretta dell' intelletto è poi cosa
essenzialmente diversa dall' attenzione sensitiva o istintiva. ( V. la Memo
ria del Dottor Stefano Galliui intitolata Considerazioni filosofiche sul senso
del Bello ecc. , inserita nelle Esercitazioni dell'Ateneo di Vtnezia, T. I).
(2) Sia ne' principi di un sistema un piccolo e quasi impercettibile er
rore. Il tempo lo svilupperà iudubitataniente : e di quel germe usciranno
lutti gli errori anche contrarj fra loro, e cresceranno fino che ingigantì»
metteranno orrore del sistema che gli ha prodotti : e dietro al lume delle
conseguenze , trovato in quello il minuto seme fatale , e cavatolne fuora ,
verrà in tal modo sanato il sistema , e perfezionata la filosofia. La storia
del Lockismo dà luogo a questa osservazione.
Locke' non assicurò 1' esistenza della riflessione, proponendo questa M-
colta vagamente ; ecco il piccolo suo difetto.
a45
Fatta la sensazione solo fonte delle idee , la sostanza
• è un'illusione: Hume ne tirò la conseguenza generale:

Bastò , perchè quella vaga facoltà fosse espulsa , e l'origine delle cogni
zioni si rivocasse alla facoltà più positiva , la sensazione. Questa mutazione
parve nulla , e tale che il sistema di Locke medesimo la dimandasse. Che
ne fu ? Un rovesciamento totale : un sistema nuovo. Poiché Locke ammet
tendo in qualche modo la riflessione , movea da un interno testimonio ;
tolta questa , e tenuta sola la sensazione, movea la filosofia tutta dall'ester
no, e Dell'esterno finiva. Quindi non seppe che si facea Condillac, ridu
cendo la filosofia alla sensazione : si credea l' interprete di Locke , e mu
tava interamente 1' indole e la natura del sistema lockiano senza avve
dersene.
A' nostri giorni, che si guardano le dottrine di Locke e di Condillac
no po' più di lontano , e perciò non con quella specie di miopia colla
qtaìe si guardavano trenta o quarantanni fa, apparisce tutta la differenza
che parte que' due autori in fra loro.
■ Basta riscontrare le prime faccie del Trattato delle sensazioni ( ecco
m come si scrive in Francia ) col principio del secondo libro del Saggio
m sult Intelletto umano, per convincersi dell' illusione singolare che pali
« Condillac in credendosi il discepolo di Locke. Certo nelle due opere si
« trovano spesso le stesse forinole; né Locke malgrado del suo buon
■ senso , né Condillac malgrado del suo amore per la chiarezza, si sono
m bene intesi ; ma il loro punto di veduta è al tutto diverso. Locke si
m serra in sé stesso, e lascia venire a sé le immagini dal mondo esteriore ;
« Condillac si colloca al di fuori al fianco della sua statua, e le compone
« un'anima colle sensazioni che le dà successivamente. Ciò che è certo per
h Locke , che non ammette discussione , di che egli nè pur parla, è l'io;
« ciò che è incontrastabile per Condillac, ch'egli non mette al lutto in
« questione , è il mondo esteriore. L' uno s' occupa tutto a sapere come
•> P lo conosce il mondo esteriore; 1' altro a scuoprire come il mondo
■ esteriore operando sugli organi, sviluppa nel senso della statua ciò che
« egli chiama i fenomeni dell' intelletto e della volontà. Locke sciogliendo
« la sua questione dichiara die noi non conosciamo il mondo esteriore se
i non per le idee di questo mondo che i sensi ci trasmettono s Condillac
« risolvendo la sua, protesta che non v' è nulla nella statua che non sia
« una trasformazione della sensazione. L' uuo è sempre di dentro , l'altro
i sempre di fuori , rome al cominciamento del loro viaggio. Locke non
• consente di sortire per vedere i corpi: vuole al tutto trovarli nel fallo
« interiore delle idee ; Condillac non consente di entrare , a fine di pi-
« gliare conoscenza de' fenomeni dell'anima : egli s' ostina a dedurli dal
« fatto esterno della sensazione » ( Le Globe , 3 Janvier 1839 ).
Il difetto della dottrina lockiana diede occasione a Condillac di perfezio
narla , cioè di perfezionare quel difetto; e quel difetto perfezionato rovesciò
da capo a piedi la dottrina lockiana. E si noti , che .vedesi manifestamente
come la dottrina lockiana invitava al pensiero di ridurre tutte le idee alla
sensazione in queslo, che lo sviluppo della medesima fu uno stesso tanto
io Inghilterra che in Francia, sebbene si lavorasse senza inlelligeuza scam
bievole , e in Inghilterra comparve la filosofia della sensazione allo stes.su
modo e allo slesso tempo che comparve in Francia.
Quali furono le conseguenze della filosofia della sensazione?
In Inghilterra ed in Francia si operava senza scambievole intelligenza ,
come dicevo: e conferma di ciò sarà questo, che venuti là e qua allo slesso
risullato , alla filosofia della sensazione , di questo puuto coinuuc partendo
si divisero e s' allontanarono per due opposte vie.
a46
l'attenzione di Berkeley si restrinse in sulle sostanze
corporee.
Ma qual poteva essere l' idea che Berkeley avea de'
corpi , se nel suo animo non eran presenti che i soli
sensi?
Ecco la sua definizione : « Le cose sensibili non sono
« altro ch« delle qualità sensibili, o sia un accozza-
u mento di qualità sensibili » (i).
Ora per qualità sensibili egli intendeva le stesse sen
sazioni. Dopo ciò era facile dimostrare , che « le cose
sensibili sono in noi » ; poiché certo le sensazioni sono
in noi.
L'idealismo di Berkeley negava adunque le sostanze
corporee , poiché partiva da una filosofia , che avendo
tolto dall'uomo l'intelletto, e lasciati i soli sensi, avea
da lui cacciata quella facoltà appunto che le sostanze
percepiva. Non era dunque l'idealismo, che involgeva
lo scetticismo; era il principio onde l' idealismo di Ber
keley nascea, che producea contemporaneamente lo scet
ticismo di Hume: di che se Berkeley ammetteva altre
sostanze, questo era un resto dell'antico buon senso,
che non si distrugge interamente d' un tratto.
Le sostanze c le cause però doveano trovarsi nella
niente di Berkeley isolate , siccome i pregiudizj che
stanno in noi senza prova né legame cogli altri nosl"

La teoria della sensazione si sviluppò io -Francia nel malerialismo di Ca-


hnnis e di Tracy.
La teoria della sensazione si sviluppò in Inghilterra nell* idealismo ai
Berkeley e di Hume.
E come sistemi così opposti da uno stesso principio ? La ragione e
quella che ho dello : un errore propaga di sè altri errori i più contrari
fra loro.
E veramente, ridotto l'uomo tulio al puro sentire corporeo, egli è una
facoltà corporea , perchè al sentire è necessario il corpo : facile era adunqoe
passare a credere altresì, essere il corpo l'unica cagione di quella facoltà
che col corpo perisce: recovi nel puro materialismo.
Prendete la cosa d'altro lato: la sensazione non è che nel soggetto sen
ziente: se non v'è che pure sensazioni, nulla vi è al di fuori del sogge""
senziente: eccovi nell'idealismo. Quindi quel valentuomo italiano di Pasquale
Galluppi mostrò il nesso del Condillachismo collo stesso idealismo trascen
dentale, e facendo partire Kant dalle basi poste dal filosofo francese»
scuoprì il suo corso nascosto , e al suo strano sistema manifeslainrnte il
condusse (Vedi la IV delle Lettere filosofiche del Barone Galluppi. Mes
sina i8uy).
(i) Dial. I. — Conci illac dù la definizione medesima.
2/*7
principi; perchè quesle non potevano spiegarsi in alcun
modo colla filosofia da lui professata.
Checché di ciò sia , Berkeley negò la sostanza de'
corpi; e tuttavia pel principio di causa conobbe che
Insognava pur dare una causa alle sensazioni , e però
disse che questa causa era Dio. La sostanza e la causa
nella filosofia stanno in una medesima condizione: e
come dicevo, questa era una incongruenza del filosofo
irlandese.
L' errore di Berkeley era dunque quello di lor di
mezzo la causa prossima delle sensazioni , e ricorrere a
dirittura alla causa ultima.
E certo Iddio è finalmente cagione ultima di tutto
quello che è e che avviene, e in questo senso, delle
sensazioni altresì ; ma la parola corpo non è inventata
a significare quella causa ultima : e il filosofo cerca di
sapere qual è la causa prossima, e non l'ultima, delle
sensazioni.
Ristringendo il nostro esame a questa peculiar que
stione filosofica , si perviene ai due risultameuti dati
disopra, i.* che esistono i corpi, 2.0 che i corpi sono
la causa prossima delle nostre sensazioni. E ciò ricoverà
Wa maggior lume dalle riflessioni seguenti.

ARTtCOLO XII.
EU LESSIONI SULLA DATA DIMOSTRAZIONE DELL* ESISTENZA DE* CORPI.

Per sapere se esistono le sostanze corporee, conviene in


primo luogo mettersi bene innanzi, che s'intenda per
sostanza.
Eccone la definizione data: « una cosa che è atta ad
essere concepita intellettivamente con una prima nostra
concezione » (1).
Su questa definizione si notino le cose seguenti.
1.* Perchè una cosa sia sostanza, non è necessario che
esista assolutamente e indipendentemente da qualsiasi
altra cosa. Se ciò fosse , non esisterebbero più le so
stanze create: poiché queste non esistono che dipenden

ti) Tal carallere è relativo alla nostra mente, ma è fondalo nella natura
(Itila cosa. L' altra definizione da me data riguarda la cosa stessa : « l'atto
oidc sussiste l'essenza della cosa », che si può anco cosi presentare:
« l'essenza della cosa fornita dell'atto d' esistere ».
248
temente dalla prima causa (i). È necessario solo, perchè
una cosa si dica sostanza, che noi possiamo concepirla
da sè , in separalo dalla prima sua causa : siccome cosa
che non può, è vero, esister ai tutto per sè, ma che
ha però una cotale esistenza sua propria , per la quale
si fa atta ad esser da noi pensata isolatamente, senza che
nel suo primo concetto entri qualche altro elemento, da
essa distinto.
2.* Parimente, perchè una cosa s'appelli sostanza,
non è necessario ch'ella sia tale, che riflettendo io sopra
lei, e formandomene un concetto più pieno, più accu
rato e profondo, io trovi ch'ella non possa esistere, e
quindi che non possa comprendersi interamente, senza
ricorrere alla cognizione di qualche altra cosa , come sa
rebbe della sua causa. Certo, non v'ha cosa, come dissi,
che si possa comprendere senza la cognizione della sua
causa ultima : ma ciò non le toglie che gli uomini non
la chiamino sostanza: poiché noi possiamo formarci di
essa « una prima concezione », senza bisogno d'altro
fuori di essa stessa, e col primo intuito del nostro pen
siero possi a m vederla pur sola siccome un essere: in
una parola, il primo suo concetto è indipendente da
ogn' altro concetto; ci si presenta come un' essenza in
comunicabile, per così esprimermi, e dall'altre mental
mente distinta.
Or non dobbiamo noi aggiungere al vocabolo sostanti
un valore più esteso di quello che vi aggiunge il co
mune uso del favellare, poiché con ciò noi apriremmo
la via a falsi ragionamenti ed errori infiniti.
I corpi dunque sono sostanze, dall'istante ch'essi
sono cose atte ad essere da noi concepite colla prima
nostra concezione sole , isolate , e per modo che con
nessun' altra cosa, cioè nè col nostro spirito nè con Dio
si possan confondere.
Gli accidenti all'opposto non sono sostanze; poiché
noi colla prima nostra concezione intellettuale non li
possiamo concepir soli, ma li concepiamo dopo aver con

fi) Quando si dice che solo Dio veramente esiste , che l' altre cose non
esistono, si viene a dire che Dio è la sola sostanza; ina il dello sarebbe
empio , se non si desse un altro senso in tale proposizione alla parola so
stanza i cioè se non s* intendesse tal sostanza , dove l' alto dell' essere e
l'essenza sono la medesima cosa.
cepito altra cosa a quelli congiunta nella quale esistano,
un ente a cui s'appartengano. Or tutto questo non ci
avviene de' corpi: giacché la loro percezione abbiatn ve
duto che finisce in essi , e non chiama altro.
Ecco pertanto dove sta il difetto di Berkeley.
In prima egli non ha fatto un'analisi diligente della
sensazione : e perciò non ha distinto in essa que' due
elementi, i." la forza che agisce in noi (verso la quale
noi siamo passivi), comune a tutte le specie di sensa
zioni, a.# i varj termini o effetti di quella forza , le
varie sensazioni.
Noi proviamo e sperimentiamo l' una e l' altra di
queste cose, la forza, e i suoi diversi effetti; e mentre
sentiamo quella la medesima in tutte le sensazioni, sen
tiamo pure diversi questi , a tenore della varietà de'
mezzi ed organi ne' quali e pe' quali quella forza opera
su di noi.
Ora se la varietà de' termini ed effetti di questa forza
(le sensazioni in quanto variano runa dall'altra) non
si può concepire intellettivamente senza la forza mede
sima che li produce, questa forza poi non si pensa senza
l'ente operante (pel principio di sostanza (t) ); noi
siamo già pervenuti alla sostanza, poiché dire un ente,
è dire una sostanza.
Riducendo dunque a poco tutto ciò che abbiam ve
duto circa l'origine delle nostre idee de' corpi,
l.* Noi ci procacciamo la percezione de' corpi con
quell'atto col quale noi giudichiamo ch'essi sussistono (a).
a." Analizzando questa percezione , noi troviamo ch'ella
si compone di due elementi, che sono
a) giudizio sulla sussistenza del corpo, e
b) idea del medesimo corpo.
3.* Analizzando l' idea del corpo, troviamo che in tre
elementi si dislingue, cioè
a) idea di esistenza , poiché noi non possiamo con
cepir nulla, e perciò né pure i corpi, se non pensiamo
la loro esistenza;
b) determinazione primaria dell'idea di esistenza, che
è ciò che si chiama essenza della cosa; sicché nell'idea

(i) Parte III , c. II. (a) Parte II, c. IV, art. tv.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi IL 3a
a5o
di corpo, oltre l'idea di esistenza, è necessario pensare
il termine a cui Tatto dell'esistenza necessariamente
termina, e questa è quella forza o energia che opera
in tulle le varie nostre sensazioni;
c) determinazioni secondarie, o qualità sensibili, che
sono altrettante attitudini, nelle quali quell'unica forza
si risolve , di produrci le varie sensazioni.
4-* 1 tre elementi dell' idea del corpo nel modo se
guente da noi si concepiscono:
a) L' idea dell'essere è nel nostro spirito naturalmente.
b) L'energia che in me opera e vi produce le sensa
zioni , considerala isolata dalla varietà delle sensazioni,
è una astrazione della mia mente (essenza specifica
astratla ) : ma in quanto ella in me agisce, mi è nota
per l'interiore coscienza : la quale chiamar potrebbesi
senso comune sotto questo rispetto, ch'ella attestala
propria passività egualmente in tutte le varie sensazioni.
c) Finalmente le sensazioni mi sono somministrali?
da' sensi esteriori.
In me adunque sono tutte le facoltà necessarie a spie
gare l'origine della percezione e dell'idea di corpo;
perciocché avvi. in me 1." la facoltà che vede conti
nuamente l'ente (intelletto), primo elemento dell' idea
di corpo; 2." la facoltà che percepisce una forza che
opera in me , senza che questa forza sia io medesimo,
e che è perciò ciò che forma l'essenza del corpo (co
scienza , senso comune) , secondo elemento dell' idea di
corpo; 3." i cinque sensi esteriori che percepiscono le sen
sazioni, terzo elemento dell'idea di corpo; 4-° finalmente
la facoltà della sintesi primitiva, o del giudizio, col
quale giudichiamo sussistente ciò che nell'idea di corpo
pensiamo. ,
Fermale poi le facoltà onde noi percepiamo i singoli
elementi, de' quali la nostra percezione intellettuale de
corpi si compone, resta a spiegare il modo onde noi
insieme li congiungiamo,
E primieramente le sensazioni in quanto sono varie,
e V energia che opera in noi, sono legate insieme di
loro propria natura per forma , che noi , ad avere e
pensare quell'energia in separato dal suo termine par
ticolare, cioè da questa o quella sensazione, dobbiamo
usare l'astrazione: nè l'energia sola senza la sensazione
si può percepire, ma quell'energia è la stessa sensazione
25!
considerala nel suo concetto generale di azione fatta in
noi e non da noi. La sensazione poi, presa tutta intera
come sta nel senso nostro, cioè come un'azione deter
minala, è ciò che altrove abbiam chiamalo percezione
sensitiva de' corpi.
Or noi uniamo la percezione sensitiva de' corpi col-
l'idea dell'ente in universale pel principio di sostanza:
e ciò facciamo la prima volta con quell'atto stesso onde
giudichiamo che il corpo sussiste, cioè coli' alto della
percezione intellettiva del corpo: la quale, brevemente,
così si fa :
Noi siamo esseri intelligenti.
Come tali percepiamo tutte le cose come sono, cioè
come enti , quando agiscono in noi.
La forza corporea che risponde all'essenza de' corpi,
agisce in noi (i): dunque la percepiamo come sussistente:
e tale è la percezion de' corpi.
Per tal modo è dichiarata generalmente la forma
zione delle idee di corpo: rimane che anche in parti
colare descriviamo il modo onde noi percepiamo il corpo
nostro, e quello dal nostro diverso.

CAPITOLO in.
ORIGINE DELL' IDEA DEL COIIPO NOSTRO , IN QUANTO SI
DISTINGUE DA.' CORPI ESTERIORI, MEDIANTE IL SENTIMENTO
FONDAMENTALE.
Esistono i corpi: essi sono sostanze diverse da Dio e
da noi: cagionano, siccome causa prossima, le nostre
sensazioni: l'essenza loro consiste in una certa energia
che opera su di -noi, verso la quale noi siam passivi:
un'attività diversa dalla nostra costituisce una diversa
esistenza : quindi il torto di Berkeley che nega le so
stanze corporee (2).
Or gli uomini non pensano il corpo solo come una
sostanza che cagiona le sensazioni corporee. Essi danno

(1) Per questo il sentimeuto che proviatn de' corpi è un sentimento es


senziale o sostanziale, cioè a dire un'azione immediata de' corpi stessi su
di noi : quindi alla prima cognizione che uoi acquisliam de' corpi conviene
il nome di pcrdezioitc.
(a) Cap. II.
a5a
a questa sostanza delle altre qualità: l'estensione, la
figura, la solidità, la mobilità, la divisibilità; in una
parola, tutte le proprietà fisiche e chimiche che i corpi
manifestano nel rispetto fra loro e nel rispetto con
noi; siccome principalmente l'attitudine alla vita, quando
il porpo collo spirito (i) nel debito modo si unisce;
V attitudine alle modificazioni che gli fanno perder la
vita, staccandolo dallo spirito, o che cagionauo.in noi
piacere, dolore, sensazioni di colori, sapori, suoni ecc.
Abbiamo dunque debito di mostrare ancora, come il
corpo venga da noi conosciuto qual soggetto di tutte
queste proprietà ed attitudini: e mostrando questo, se
ci riesce, noi veniamo a dar ragione altresì delle idee
delle varie qualità che al corpo si attribuiscono.
Dove già vede il lettore, come ci troviam discesi alla
natura fisica, e qual ampio campo ci si pari innanzi;
dovendo noi or trattare della vita , del sentimento, e
delle varie maniere di sensazioni, e compier così la dot
trina risguardante le idee di materia e di corpo.

ARTICOLO I.
MIMA CLASSIFICAZIONE DKLLE QUALITÀ* CHE Ht' COMI SI OSSERVAVO.

I corpi hanno un rapporto fisico fra loro, e un rap


porto collo spirito nostro : 1' osservazione ci fa cono
scere i fatti che costituiscono e determinano questi due
rapporti.
Rispetto al rapporto fisico de' corpi fra loro, ecco che
dice l' osservazione. Trovandosi i corpi in certe posi
zioni rispettive, succedono in essi certe trasmutazioni,
secondo leggi stabili. Quest'attitudine di ricevere mo
dificazioni e alterazioni corrispondenti alle loro posizioni
rispettive, si chiamano le proprietà meccaniche , fisiche
e chimiche de' corpi.
Le proprietà meccaniche, fìsiche e chimiche, l'im
pulsione, 1' attrazione, l'affinità ecc., sono esse vere virtù
appartenenti a' corpi , sicché i corpi sieno vere cagioni
di tutte queste modificazioni a cui essi soggiacciono?
Questa questione è al tutto aliena dal mio argomento:

(i) L'esistenza dello spirito, e l'essenziale differenza di lui dal corpo


mostrata da noi nel Cap. I di questa V Parte.
a53
e per questo appunto ho voluto toccarla ; acciocché ella
non corra alla niente del mio lettore, e noi turbi in pro
gresso, traendolo fuor di via : ella qui non cade diret
tamente. Non cerchiamo se l'impulsione, l'attrazione,
l'affinità ecc. sieno vere forze; a noi importa solo di
conoscere con tutta l'esattezza i semplici fatti , quali ci
sono presentati da una vigile osservazione (i).
Or tutti questi fatti si possono ridurre in una sola
forinola, che è la seguente; « Quando i corpi sono messi
in certe posizioni rispettive fra loro, succedono in essi
delle alterazioni, le quali sono costantemente uguali ,
dati gli stessi corpi e le stesse posizioni » (2).
Ora qual è il modo onde noi ci formiamo le idee
di queste alterazioni? tali alterazioni che idee presentano
al nostro spirito ?
Noi non concepiamo alterazione o mutazione che av
venga ne' corpi, meccanica, o fisica, o chimica, per la
rispettiva loro presenza in certe posizioni , se non con
sistente 1." o nell'avere il corpo modificato acquistato
un'attitudine diversa di agire sopra di noi, cioè di ca
gionarci sensazioni interne od esterne diverse da quelle
che ci cagionava prima; a.* o di nuovo, nell'avere il
corpo modificato acquistato un' attitudine diversa di mo
dificare un altro corpo (la qual modificazione si riduce
finalmente all' attitudine diversa del corpo modificato
di operar su di noi ).
Quando un corpo muta colore, sapore, durezza, esten
sione, forza, in somma tutte le sue sensibili qualità,
allora rispetto a noi questo corpo non ha mutato che
l'attitudine di produrci le sensazioni, producendocene
in questo suo nuovo stato una serie diversa da quella
di prima.
Quando poi il corpo non muta le sue qualità sensibili,
e tuttavia riceve o perde qualche proprietà 0 virtù che
prima si aveva, in che modo allora possiam noi cono-

(1) Quanto siam per dire però darà qualche luce anche à questa que
stione.
(a) Se entrasse qualche nuova condizioue a mutare l'uguaglianza del ri
sultato, questa non potrebbe essere che un qualche corpo avvicinato o al
lontanato, il che è escluso dalla forinola. S'intende poi che sia rimossa l'a-
zioue degli spiriti, e sieno considerati i corpi soli nelle scambievoli loro
relazioni.
a54
scere la mutazione in lui avvenuta? Non in altro modo,
die ancora mediante i nostri sensi : perciocché se po
tesse avvenire una mutazione in un corpo di tal natura,
che nè mediatamente né immediatamente desse di se
segno ai sensi nostri, noi nè la percepiremmo co' me
desimi, nè la potremmo al tutto pensare, uè immagi
nare, nè asserire (i).
Convien dire adunque, non iscostandoci noi dalla pura
osservazione, che qualunque mutazione avvenga in un
corpo, acciocché sia qualche cosa per noi, è necessario
che sia sensibile a' sensi nostri, che produca finalmente
qualche effetto, qualche azione su questi: e tutta la dif
ferenza che può trovarsi in tali mutazioni de' corpi non
è, nè può esser altra se non questa, che o essa si
manifesti immediatamente sui nostri sensi, o solo me
diatamente. Se un corpo alla presenza di altro corpo
muta colore, come l'erba e le foglie degli alberi che
inverdiscono alla presenza e al contatto della luce, quel
corpo ha sofferto una mutazione che immediatamente si
discuopre ai sensi nostri.
Se io magnetizzo un ago di ferro , la mutazione av
venuta in quell' ago non si mostra immediatamente a1
miei sensi; poiché io nè col tatto, nè colla vista posso
distinguere alcun cangiamento in quel ferro avvenuto;
o se il potessi , non indovinerei mai da quello la pro
prietà ch'egli ha ricevuto di rivolgersi, messo in bilico
sopra una punta, a settentrione, o di attrarre il ferro
a sò. Ma queste proprietà io le scuopro quando ne veggo gli
effetti del volgersi al polo e dell' attrarre il ferro. Ora
il veder che io fo quell'ago così rivolgersi, o in mezzo
alla polvere di ferro appiccatasi tutta, non è a me
che un ricevere certa serie di sensazioni che non rice-
vea prima da quell' ago non magnetizzato: sicché io
posso dire a ragione , che la virtù da quell' ago acqui
stata, a rispetto mio riducesi finalmente in certe nuove
attitudini avvenute in lui di produrmi nuove sensazio
ni : il che si avvera sempre, qualsiasi azione d'un corpo

(i) Quando ci fosse narrata, ella o sarebbe cosa che noi co' sensi ab
biamo già sperimentata, ed allora n'avremmo insiem colla fede una co
gnizion positiva ; o sarebbe cosa non mai da noi sperimentata , e non po
tremmo allora avere che la fede in una colui mutazione, della quale la co
gnizione nostra sarebbe puramente negativa.
o55
sull'altro io prenda ad esaminare; perocché quand'an
che, in una serie di corpi l'uno sull'altro operanti,
tutti successivamente venissero immutali e alterati, tut
tavia quelle immutazioni e alterazioni che in loro io
concepisco non sarebbero che attitudini di agire final
mente su di me. Diamo , che solo 1' ultimo di questi
corpi sopra di me agisca: or per questo solo io cono
scerei le immutazioni avvenute negii altri. E veggasi
per qual modo. Sieno que' corpi denominati colle let
tere dell'alfabeto A , B , C , D , E , F, Z.
Ora la mutazione che ha sofferto l' ultimo Z, il quale
per quella mutazione ha cangiata, come fu supposto,
frizione sua su di me, così la definirei: «L'altera
zione di Z consiste nell' attitudine da lui perduta di
produrmi questa serie, e nell'attitudine da lui acqui
stata di produrmi quest'altra serie di sensazioni».
All'incontro come definirei io l'alterazione sofferta
da F? Non potrei altramente che così* «L'alterazione
di F consiste nell' altitudine da lui acquistata di por
tare l'alterazione descritta in Z ». L'alterazione di Z
mi è nota, come quella che co' miei sensi esperimento:
l'alterazione di F la conosco solo mediante l'altera
zione di Z: sicché volendo sostituire il valore noto di
Z nella definizione dell'alterazione di F, io m'avrei una
definizione alquanto incomoda a proferirsi , ma l'unica
però che aver potessi, cioè questa: « L'alterazione di
F consiste nell' attitudine acquistata di portare in Z
tale alterazione, che Z perdette per essa l'attitudine
di produrmi questa serie di sensazioni, e acquistò l'al
titudine di produrmene quest'altra serie ».
Al modo stesso , io non posso definire 1' alterazione
di E, se non riportandomi a quella di F; riè l'alte
razione di D, se non mediante quella di E ; nè l'alte
razione di C} se non riferendola a quella di D; nè
l'alterazione di B, se non con quella di C; nè final
mente quella di Aì se non a quella di B riducendola.
Ora, fra le alterazioni tutte di questi corpi, quella
di Z sola mi è nota per sè stessa : le altre non mi
sono note che come cause o prime, o seconde , o ter
ze ecc. di questa di Z : sicché lutto finalmente ciò che
v ha per me di noto nelle proprietà che hanno i corpi
di modificarsi scambievolmente, è l'attitudine acqui
stala di modificar me. Conoscendo la modificazione che
a56
io soffro, conosco l'altitudine che me la produce;
e conoscendo quell' attitudine , conosco altresì d' una
cognizion relativa le cause più o meno rimote della
medesima (i).
Per le quali osservazioni s' intende manifestamente ,
che tutte le qualità o proprietà corporee meccaniche,
fisiche e chimiche che costituiscono il rapporto che
hanno i corpi fra loro, non sono finalmente (limitan
doci or noi alla sola osservazione ) che pure potenze di
modificar noi stessi, di produrci delle sensazioni (2):
perocché tutte le idee che noi abbiamo , o aver pos
siamo di quelle proprietà, in ultima analisi si riducono
a diverse impressioni che i corpi fanno su noi , e ai di
versi sentimenti che in noi cagionano : conciossiachè noi
non concepiamo altre potenze meccaniche, fisiche e chi
miche ne' corpi, se non di modificar noi, o di modifi
care e mutar le potenze di modificar noi.
Nella question nostra adunque tutto si riduce ad esa
minar bene il rapporto che i corpi hanno con noi,
nello spiegar l'origine delle loro qualità sensibili; giac
che a queste sole tutte le altre si riferiscono.

ARTICOLO IL
CLASSIFICAZIONE DELLE QUALITÀ* CORPOREE CHE COSTITUISCONO IMMEDIATiMOITS
IL RAPPORTO DE* CORPI COL MOSTRO SPIRITO.

In narrando il rapporto de' corpi fra loro , io non


sono entrato in questioni difficili : mi sono tenuto al
puro fatto. Or qui in narrando il rapporto che i corpi
lianno con noi, non intendo passare i limiti della os
servazione , ma questa sola prender per guida: al qual
mio intendimento il lettor badi, acciocché non gli av
venga di cercare nel mio discorso ciò eh' esso non dee
contenere.

(1) Questa mia cognizione dell» attitudini 0 forze corporee, desunta


dalle operazioni loro sopra di me, è la prima cognizione ch'io mi possi
avere delle medesime. Non viene mica da ciò, che io poi ragionando sa
tale mia prima cognizione, non possa dedurre altre verità intorno ai corpi.
Ciò che dico è solo questo , che quella prima mia cognizione sperimentale
è la base di tutti gli altri miei ragionamenti intorno alle corporee qualità.
(a) Questo nou toglie già alla sensazione quell' extra-soggettività di cui
ablnam parlato, e che meglio dichiareremo io appresso.
L' osservazione però in questa parte mi conduce più
innanzi, che discorrendo il rapporto de' corpi fra loro:
poiché nell'argomento presente, l'uno de' termini del
rapporto siamo noi stessi ; e su noi possiamo osservare
più intimamente, giacché la coscienza ci manifesta i
fatti che avvengono .nello spirito nostro. Quindi se l'os
servazione non ci potè dire se i corpi sieno vere ca»
pioni di quelle modificazioni che, date certe posizioni
fra loro, in essi avvenir si osservano, noi possiamo al
l' opposto discernere in noi , colla semplice osservazio
ne, le azioni nostre dalle azioni che nostre non sono.
L'osservazione adunque intorno al rapporto de' corpi
con noi , ci dà tre relazioni distinte, che giova qui di
chiarare.
Prima relazione: una cotal cogiunzione di noi con
un corpo ( materia ), che è ciò che io chiamo vita (t).
Seconda relazione: un sentimento fondamentale (a) che
dalla vita procedo, cioè da quella prima congiunzione,
pel quale sentimento noi sentiamo abitualmente tutte
le parti nostre materiali sensitive (3).

(i) Intendi vita animale.


(i) Sostenga solamente il lettore un poco, e troverà prove di quanto
qui si asserisce: cbè non si può dir tutto in un solo fiato. ,
(5) Ciascuno sa che il nostro corpo è composto di parti sensitive e di in
sensitive. Le parti sensitive diciamo che sono i nervi. Son troppo note le
sperienze di Alberto Haller sulle parti sensitive ed insensitive, rinnovale
e confermate in Italia da Leopoldo Caldani. Questi valentuomini ebbero la
pazienza e il coraggio di martoriare un gran numero di cani, c d'altri ani*
nuli , per mettere a prova tutte le parti del corpo, e trovare quali erano
fornite di senso e quali non erano: e fu amore dell'umanità che li rese
crudeli a tanti esseri senzienti. Dopo il tempo di que' veri dotti, successe
alleilo de' novatori anche nella fisiologia : i quali, forse non perchè scopri
tori di nuovi secreti di natura , ma , come sembra , per grande ambizione
di parer tali , tentarono di perturbare la distinzione delle parti del corpo,
fermata da que' primi fisiologi immortali.
Essi mutarono i nomi alle cose : introdussero i vocaboli di contrattilità
vitale* di forza vitale* ecc., dando loro de' sensi oscuri e misteriosi: vol
lero assicurare , insieme colla vita , una certa sensitività latente a tutte le
parli del corpo. Meglio però che a' vani tentativi e alle ipotesi, io mi at
tengo alla sentenza di quel nobile lìlosofo italiano, Michele Araldi, il quale
della distinzione Halleriana fra le parti sensitive ed insensitive così dices
•» Chi non tien ferma questa distinzione, e ascolta in vece la vanità de'
« sistemi, è irreparabilmente strascinato in mezzo alle tenebre, donde un
w passo solo lo ravvolge irreparabilmente pure negli errori». Vedi il Saggio
di un errala di cui sembrano bisognosi alcuni libri elementari delle natu
rali scienze ecc. Milano, dalla Stamperia reale mdcccxii, face. 53. In questo
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. II. 33
a58
La terza relazione è I' atlitudine che hanno le parti
sensitive del corpo nostro ad essere modificate in certe
. maniere: modificazioni a cui rispondono in noi varie
specie di sensazioni esterne, e in quelle, la percezione
de1 corpi esteriori al nostro.
Ora il nesso o rapporto de' corpi esteriori con noi ,
secondo l' idea che noi ce ne siamo formata , consiste
appunto in considerare questi corpi esteriori siccome
atti a modificar le parti sensitive del nostro corpo , e
quindi a recare al nostro spirito variate sensazioni.

ARTICOLO 1IL
DISTINZIONI H* LA VITA X IL SENTIMENTO rOVDAIUKTALS.

Primieramente dobbiamo chiarire le sentenze propo


ste : poscia provarle.
A chiarirle , cominciamo dal fermar bene la diffe
renza fra la vita , e quel sentimento abituale e fonda
mentale cui la vita cagiona.
La vita dicemmo essere un cotal congiungimento, di
un modo tutto suo proprio, che lo spirito ha colla ma
teria : sicché di quelle due cose si fa un supposito, una
persona sola (i).
Questo congiungimento di noi (spirito) con un cor
po, è ciò che produce in noi la potenza di sentire cor
poralmente, ma non è ancora il sentire stesso.
Per accorgersi che la vita non è il sentimento, ma
che questo è un effetto della vita ( a quel modo che
noi prendiamo il vocabolo vita), basta avvertire, che
le parti tutte del corpo, fino che noi siamo vivi e sa
ni , godono della vita, e sono congiunte, secondo la
lor condizione , a noi in quella guisa che è necessario
perchè tale congiunzione si chiami vita : e quindi tutte
le parti animate godono della vita, e degli effetti vitali
loro convenienti, i principali de' quali sono la nulri-

volumc metlonsi in aperto, con logica veramente italiana, gli errori di eco
nomia «mimale e di fisica, de' quali soprabbondavano i Nuovi elementi di
Fisiologia di Antelmo Richerand.
(i) Questa uniche è cosi espressa anche dall'uso comune: un uomo
chiamasi nel linguaggio comune una persona. Noi non vogliamo entrare a
descrivere questa unione : ci basta qui di segnarla con un vocabolo proprio,
sicché uou si possa confondere con vcrun' altra maniera di unione.
a5c)
zione, il calore, il movimento vitale, e quindi l'incor
ruzione, e l'attitudine a diversi ufficj accomodati a cia
scuna delle varie parti del corpo.
All'incontro, sede del sentimento sono certe parti,
e non tutte, che noi sotto il nome di nervi racchiu
diamo: senza volere entrare con ciò in dispule fisiolo
giche, aliene dal nostro argomento (i).
Che «e noi sentiamo anco le parti insensitive del
corpo nostro, ciò avviene perchè elle* sono aderenti alle
sensitive, e premono, o pungono, o comecchessia toc-
cano queste: le sentiamo in somma al modo de' corpi
esteriori; nè l'esser vive, le fa perciò sensitive meglio
di quelle che sono divise al tutto dal corpo nostro e
non animate.
E perchè noi ci formiamo un chiaro concetto del corpo
sensitivo, ci giova usare una immaginazione. Anatomiz
zato il corpo umano, e tolte da lui le ossa, i tendini,
le membrane, le cartilagini, il tessuto celluioso , in una
parola le parti ^sensitive, e non lasciatagli che quella
mirabile rete di filamenti nervosi , che serpeggia per
esso intrecciandosi variamente , e n'avvolge tutto il vo
lume, attenendosi poi al cervello e alla midolla spinale
probabilmente siccome in suo termine , annodandosi n«'
plessi e ne' glanglj; tutto questo viluppo e andirivieni
di nervi immaginarlo ci conviene solo e ignudo, stan
dosi così in piede secondo la forma dell'uomo, senza
che cordicella o filo esca di luogo , per qualche virtù
divina, o anzi per virtù della fantasia nostra che così
il si ritrae e forma dinanzi, come se que' nervicelli fos-
ser di rigido e non pieghevole ferro. Ora questo corpo
umano, fatto tutto e implicato di tali funicelle mira
bili, è il corpo sensitivo, col 'quale noi sentiamo, quando
ci è aggiunto vitalmente, e cui pure per mio avviso noi
abitualmente ed uniformemente percepiamo con un sen
timento fondamentale e innato, sebbene , per esser con
tinuo e uniforme, non è tale di che noi ci possiamo

(i) Alcuni fìsiotogi hanno preteso di poter notare qualche anomalia in


questa legge: tali anomalie però non sono ancora provate bostevolroenlc.
Pure, comecché stia Ja cosa, a noi basta che nel corpo umano v'abbiano,
delle parti sensitive e delle insensitive; non essendo officio nostro il dif-
finir quali sieno le tuie e quali le altre, ina si officio de' tisiologi, ai
quali noi rimettiamo tutta la controversia.
260
accorgere agevolmente , accorgendoci bensì delle muta
zioni che in esso avvengono al tocco dell' uno o del
l' altro di que' nervicciuoli ; chè al vellicamelo di
quelli risponde una più viva sensazione , non universale
uè costante, ma parziale, insolita e passaggera , facile
perciò ad essere avvertita e da noi considerata. All'in
contro quel primo e stabile sentimento in tutte le vie
de' nervi diffuso, connaturale e permanente, ai filosofi
stessi riman sovente inosservato, siccome non fosse.
Noi dobbiamo or dunque vedere peculiarmente, inco
ine percepiamo il corpo nostro sensitivo, nel quale è il
dello sentimento, 2." e come percepiamo i corpi este
riori,! quali non fanno che toccare e solleticare il corpo
sensitivo.
E perchè i corpi, come abbiam detto, si percepiscono
da noi siccome sostanze cagioni delle sensazioni, e come
soggetti delle qualità corporee ; gioverà, che quanto ab
biam ragionato sulla maniera di percepire i corpi in
generale, qui l'applichiamo peculiarmr ^ le a' corpi sen
sitivi, e poi a' corpi non sensitivi ma solo sensibili; e
quindi passiamo a ragionare dell'una e dell'altra ma
niera di corpi considerati come soggetto delle qualità
in essi accennate, le quali o sono sensibili, o alle sen
sibili si riducono (1).

ARTICOLO IV.
DEE MINIERE DI FEECEFIBE IL COIIPO NOSTKO ,
SOGGETTIVA , ED EXTBA-SOGGETTIVA.
In primo luogo io osservo, che il corpo nostro (e
quando dico il corpo nostro, s'intenda sempre la parte
sensitiva ) si percepisce in due modi:
1* Come ogni allro corpo esteriore, cioè co' guardi,
co' toccamenli , co' cinque sensi in una parola. Allor
quando io percepisco questo mio corpo sensitivo qual
agente ne1 miei cinque sensi, io noi percepisco allora
propriamente come fornito della sensitività ( e questo si
vuol ben capire, poiché è di somma importanza ), ma
sì come qualsiasi altro corpo esteriore che mi cade sotto
i sensi e vi produce sensazioni. In lai caso un organo
del mio corpo ne percepisce un altro. E il medesimo

(») Art. I.
a6i
come se altri anatomizzasse e percepisse i nervi d' un
altro essere sensitivo vivente, i quali nervi non sono
perciò senzienti a me che li anatomizzo , ma a lui del
quale sono: cioè non li percepisco io in tale operazione
come sensitivi, ma puramente come sentiti, cioè ca
denti sotto a' miei sensi , alla guisa di ogni altro corpo
al mio esteriore.
a.* Per quel sentimento fondamentale ed universale
pel quale noi sentiamo la vita essere in noi ( sentimento
contestato dalla coscienza , come meglio farò veder poi ),
e per le modificazioni che soffre il medesimo sentimento
mediante le sensazioni avventizie e particolari.
Queste due maniere colle quali noi percepiamo il
corpo nostro sensitivo, si possono appellare acconcia
mente e distinguere co' nomi di extra-soggettiva e sog
gettiva-
Quando noi percepiamo il corpo nostro nella seconda
maniera, cioè per quel sentimento fondamentale cui dà
a noi V esser vivi, noi percepiamo il nostro corpo come
una cosa con noi ; egli diventa in tal modo , per l'in
dividua unione collo spirito nostro, soggetto anch' egli
senziente; e con verità si può dire ch'egli è da noi
sentito come senziente.
Quando all' incontro noi percepiamo il nostro corpo
nella prima maniera , cioè nella maniera medesima
onde percepiam gli altri corpi esterni pe' nostri cinque
sensi , allora il corpo nostro come tutti gli altri è fuori
del soggetto , è un diversò dalle nostre potenze sensi
tive: non lo sentiam più in quanto è anch' egli sen
ziente, ma puramente ne' suoi dati esteriori, in quanto
è atto ad esser sentito , ad eccitare in noi le sensazio
ni, e non a riceverle. .
E si noti bene la distinzione fra la maniera sogget
tiva e 1' extra- soggettiva di percepire il corpo nostro :
poiché da questa distinzione dipendono in gran parte
le dottrine che seguiranno.

ARTICOLO V.
LA MANIERA SOGGETTIVA DI PERCEPIRE IL CORPO NOSTRO SI SUDDIVIDE IN DUE;
l' UNA E IL SENTIMENTO FONDAMENTALE, L* ALTRA LE MODIFICAZIONI
DI QUEL SENTIMENTO.
Ancora, la maniera soggettiva di percepire il corpo
nostro si suddivide in due.

*
aGa
Conciossiachè noi percepiamo le parli sensitive del
nostro corpo soggettiva mente i.# tanto col sentimento
fondamentale, di cui abbiamo toccato, a.* quanto colle
modificazioni che quel sentimento soffre all'occasione
delle impressioni sui nervi. .. ■
Questo secondo modo soggettivo di percepire il corpo
nostro rilevasi da un' accurata analisi delle sensazioni
esteriori : questa ci fa trovare in ogni sensazione le due
cose seguenti :
i." L'immutazione che nasce nell' organo corporale
sensitivo, il quale per tale immutazione viene da noi
sentito in altro modo; ciò che è quanto dire che il
sentimento fondamentale soffre modificazione.
a.*. La percezione sensitiva del corpo esterno che ha
agito sopra di noi.
Veggasi questo nel tatto.
Ove con una superficie ruvida noi freghiamo il dosso
della mano, sentiam due cose: la mano, e la superfi
cie colla quale freghiam la mano: e la prima di queste
cose è ciò che dissi modificazione del sentimento del
corpo nostro -, la seconda è la percezione sensitiva di
quella ruvida superficie.
Questa duplicità della sensazione non è mai notata
abbastanza. M:i qui mi è solo necessario di additare il
rapporto che han fra loro questi due contemporanei e
sempre abbinati sentimenti racchiusi nel fatto deli'
sensazione.
Dico adunque, che se il sentimento che noi provia
mo per la pura immutazione che succede nel nostro
organo corporale (i) , è il fondamental sentimento che
subì una modificazione: all' incontro la percezione sen
sitiva del corpo esteriore, che l'accompagna, è cosa di
tutt' altro genere; è un fatto che succede in noi all'oc
casione di quella prima immutazione e di quel primo
sentimento , senza però che si possa trovare ( per quanto
a me sembra ) una connessione necessaria di causa e

(i) L' immutazione del nostro organo sensitivo non è ancora il sentii
mento : ma data quella immutazione , noi sentiamo, perchè I' organo è abi
tualmente da noi sentito in quello stato qualunque nel quale esso Si 'f0**-
quindi sono sentile ancora le mutazioni che succedono io lui. fon si ote
adunque confondere 1' impressione fisica sull' organo t° eoa qu»<»
primo nostro sentimento della detta impressione*
a63
d' effetto fra queste due cose; sebbene, come vedremo,
si possa notare la presenza di un' unica cagione tanto
del sentimento soggettivo, come dell' extra-soggettiva
percezione che ricevono i sensi.
ARTICOLO VI.
SPUGAZIONS CELIA SENSAZIONE IN QUANTO È MODIFICAZIONE DEL SENTIMENTO
FONDAMENTALE DEL COMO NOSTRO.
Ma che vogliam dire , dicendo che quel primo sen
timento dell'immutazione dell'organo corporale è un
semplice modo del sentimento fondamentale che ab
biamo in noi della vita ?
Ecco la mia maniera di concepir questo fatto.
Io ammetto, come dissi, un fondamental sentimento
della vita, pel quale noi sentiamo tutte le parti del
corpo nostro fornite di sensitività: sentimento che colla
vita comincia e finisce, o certo colla sensitività de' no
stri organi Censitivi.
Ora che è che noi sentiamo con questo sentimento?
qual è di questo sentimento la materia?
Le parti sensitive del corpo nostro sono materia a
questo sentimento ; e sentendo noi queste parli , na
turai cosa è che in quello stato nel quale elle sono le
sentiamo.
Ora se quelle parti noi le sentiamo nello stato nel
quale sono, avvenir dee naturalmente, che ove quelle
parti mutino stalo, muli altresì quel sentimento di es
se; perocché egli viene allora ad avere per sua materia
quelle parti in altro stalo da quello nel quale aveale
prima.
Dunque l'attività di quel sentimento fondamentale in
noi è una, sempre quella medesima, sempre vigile e
attuata a sentire lo stato qualunque egli sia del corpo
nostro sensitivo. Tutle le immutazioni adunque che ne- •
gli organi corporali succedono , si debbono da noi per
cepire pur con quell'atto del sentimenlo fondamentale
e primitivo : e le modificazioni del sentimento all'occa
sione delle mutazioni che nascono nel corpo , costitui
scono il primo di que' due elementi da' quali risultano,
come detto abbiamo , !e nostre sensazioni avventizie ,
le quali si suscitano in noi per irruzione (ora il sup
pongo coli' opinion comune ) Lde' corpi stranieri sul corpo
nostro.
364
Uno e il medesimo atto adunque percepisce il corno
nostro nella prima e sostanziai maniera , e il percepi
sce nella seconda ed accidentale. E tanto il sentimento
primitivo, come la modificazion eh' egli soffre, son due
fatti: di che io traggo, che lo spirito, col primo con
giungersi individualmente con un corpo animale, dee
pur mandar fuori una cotale sua attività, per la quale
egli quasi direi s'abbraccia col suo corpo, e con esso
si mescola, e mescolandosi il percepisce, nè più il la
scia , nè lascia perciò di percepirlo permanentemente
( fin che dura 1' union vitale ) in qualsiasi stato nel quale
egli si trovi. Il perchè se quel corpo, col quale lo spi
rito- è così stretto , per forza esteriore gli vien mutato,
succede necessariamente in quella immutazione, che sia
sottratta all'attività sensitiva dello spirito una forma,
e sostituitane un'altra; e quindi l'attività di quel sen
timento soffre pur essa una modificazione di necessità,
non per sè , ma per la materia sua, che gli è scam
biata senza sua voglia nè opera. A.lla stessa guisa, ore
io tenga gli occhi sbarrati a vedere una scena, efe
sia mi si muti dinanzi, non ho mutato io già l at
tività mia del continuo sguardare in quello spazio ove
la rappresentazione si fa , ma veggo altro ivi , poiché
mi fu mutato V oggetto. E così l' atto del mio senti
mento è quel medesimo , tanto nel primo stato del cor
po , come in tutti gli altri stati che succedono al primo,
e in tutte le parziali modificazioni degli organi sensitivi.

ARTICOLO VII.

SPIEGAZIONE DELLA SENSAZIONE IN QUANTO È PERCETTIVA De' CORPI ESTUIMI.

Quando i nervi hanno tutte le condizioni necessarie


perchè sieno sensitivi (i), sentono, in qualunque parte
vengano tocchi od affetti da' corpi esteriori.
Or, dicendo che la facoltà sensitiva dell' anima è
sparsa per tutto il corpo sensitivo, e che perciò l'anima
con questa sua potenza di sentire è presente a tutte le
parti del corpo, non voglio che esprimere puramente

(i) Una di queste è la comunicazione col cervello , interrotta la 1"»'' >


P organo nulla più sente.
a65
l'osservazione del fatto, e non istabilire alcuna teo
ria (i).
Ora però, se la facoltà di sentire ha un atto primi
tivo ed essenziale (sentimento fondamentale) il quale
si stende a tutte le parti sensitive del corpo, forz1 è che
questa facoltà, o a dir meglio, l'anima ivi presente
senta una violenza (una passività voglio dire), quando
le parli sensitive vengono mutate per forza di un corpo
esterno.
La percezione di questa passività , che fa V anima
sensitiva in un dato modo determinato dalla qualità
della sensazione, è appunto la percezione sensitiva dei
corpi, come ho già a suo luogo dichiarato (2).

ARTICOLO Vili.
diversità' del corto nostro da' curi ESTERIORI.

Se le osservazioni fatte fin qui sono esatte , apparisce


per esse , che vi hanno due forze diverse che affettano
Io spirito nostro ; cioè quella che cagiona in noi il sen
timento fondamentale e vitale, e quella che modifica
e cangia la materia di questo sentimento, e produce la
sensazione soggettiva, e contemporaneamente la rappre
sentazione o percezion corporea. , ,
Ora io ho fatto consistere l'essenza del corpo in una
cotale azione che noi sentiamo esser fatta in noi stessi,
in una energia che ci fa passivi, e che l' intelletto no
stro percepisce come un ente che opera in noi diverso
da noi (3).
Se dunque noi proviamo due specie di sentimenti, se
soffriamo due azioni, se sentiamo due energie diverse;
manifesta cosa è che esistono altresì due specie ! di
corpi , cioè il corpo nostro ed i corpi esteriori.

(0 Così anche Galluppi descrive questo fatto: •« Dico che Io spirilo è


" intimamente unito a tutto il corpo, e presente a tutto il corpo » (Saggio
Fdos. sulla critica della conoscenza ecc., li. II, c. VI 112). Soggiunge
poi, che il modo di questa unione è incomprensibile. Rispetto a questa de
cisione del Galluppi , noi diciamo che la cognizione esatta del fatto è una
sufficiente cognizione dell'unione medesima, come si vedrà da tutto ciò che
siamo per dire nella descrizione di esso fatto: conciossiachè tulio ciò che
diremo' non è rivolto che a chiarire come il dettò fatto avvenga, e nulla più.
(2) Parte V, C. IT. (3) Ivi.
Rosmini. Orig. delle Idee, Voi IL 34
a6G
L' esistenza di queste due maniere di corpi in tal
modo è provata pel fatto della coscienza (i); ella è

(i) Io ho voluto stabilire qual sia la prima e sostanziai differenza fra il


corpo nostro e gli altri corpi diversi dal nostro, e la trovai nell'essere il
corpo nostro percepito come soggetto senziente insieme con noi, mentre
il corpo esteriore non è percepito che come una forza diversa dal soggetta.
Per giustificare questa differenza io non ho avuto bisogno che i.° di ap
pellarmi al fatto della coscienza, il quale è giustificato per sè stesso, poiché
dire fatto, è dire cosa certa ; i* di usare della teoria della percezione di
chiarata nel Cap. IV della Parte II, e del principio di causa giustificato
nel Gap. Il della Parte III.
Ma il corpo nostro, altrettanto quanto il corpo esterno, può essere per
cepito anche come un extra-soggetto. Ora se noi percepiamo il corpo no
stro come un termine extra-soggettivo della nostra facoltà di sentire, trovar
possiamo delle altre differenze secondarie, ma però importanti, per le quali
noi pure distinguiamo da' corpi esteriori il nostro. Questa maniera però
di distinguere il corpo nostro dagli esteriori considerato come diverso dal
soggetto , suppone provala innanzi la veracità di un termine extra-sogget
tivo della nostra facoltà di sentire; del qual vero noi non avevamo bi
sogno, distinguendo il nostro corpo dagli altri mediante quella distinzione
sostanziale fra soggetto ed extra-soggetto.
Nella percezione extra-soggettiva del corpo nostro e de' corpi esteriori
furono notate tre differenze , le quali dimostrano quello esser un altro
corpo da questi ; ed ecco come espone queste tre differenze il valentissimo
Galluppi.
Prima differenza. « Se colla mano destra calda toccate la mano sinistri
« fredda , voi sentirete lo stesso me nella mano destra e nella mano sim-
« slra: voi sentile che l'io il quale sente il caldo nella mano destra, é
«« l'istesso io che sente il freddo nella sinistra; l'io vi sembra dunque
« esistere tanto nella mano destra che nella sinistra. Ma se con una delle
« vostre due mani toccate un globo di ferro per esempio, voi sentirete 1 io
« nella mano , ma non lo sentirete mica nel globo ; esso non vi sembra
a dunque esistere nel globo, e questo corpo sembra estraneo al me: il con-
« latto delle due mani vi dà due sensazioni , il contatto del globo ve ne dà
« una. L'io riguarda come parti del corpo suo tanto la mano destra che I»
« sinistra , poiché egli ha il sentimento di sentire tanto uell' una che nel-
« l'altra; ed egli riguarderà come corpo esterno il globo di ferro, perche
«« ha il sentimento di sentire il globo, ma non già di sentire nel globo.
» L'io riguarda dunque come suo quel corpo che egli sente , ed in cui gli
« sembr' ancora di sentire, o di esistere: riguarda come esterno quel corpo
« che egli sento , ma in cui non gli sembra di sentire o di esistere ».
Seconda differenza. •« Se voi volete che si muova il vostro braccio, ti
u vostro braccio si muove immantinente. Ma se volete che il globo di ferro
«si muova, questo corpo non si muoverà immediatamente di seguilo al
« vostro volere : è necessario che voi moviate prima la vostra mano ver50
>< di esso, e che per mezzo del molo della vostra mano moviate il globo
« di cui è parola. L' io riguarda dunque come suo quel corpo in cui egli
« può produrre immediatamente de' moti col solo volere; riguarderà come
•< esterno quel corpo in cui egli non può produrre del moto immediatamente
« col suo volere ».
Terza differenza. « Voi potete allontanarvi dal globo di ferro di cui par-
m baino, in modo che esso si sottragga alla vostra vista, e non agisca p"1
•« sui vostri sensi. Ma voi non potete giammai allontanarvi da quel corpo
I
267
certa come il fatto; e nessuno, nè pur gli scettici, che
io sappia , negò il fatto della coscienza veramente par
lando; perciocché essi negarono bensì la realtà, matita
già 1' apparenza , la soggettiva percezione.
L1 esistenza adunque di questi due corpi è provata
coli' osservazione , e non col ragionamento; e a definii ne
la loro natura parimente non usciamo da' limiti del
l' osservazione, contentandoci noi di farla consistere in
una certa energia (1) che sentiamo operare in noi me
desimi, e della quale noi siamo conscii di non esser
noi stessi gli autori.
Ora ciò che il processo di questo discorso potrebbe
esigere d'avvantaggio, sarebbe questo solo, per mio av
viso, che essendo assai diincile il riflettere sopra il sen
timento fondamentale del nostro corpo sensitivo, noi
e' ingegnassimo non già di dimostrarne V esistenza con

■ che chiamale vostro : vi é impossibile, almeno durante la veglia , di sol-


« trarvi alla sua azione. L' io riguarda dunque come suo quel corpo che
« gli è incessantemente presente , come esterno quel corpo che può cessare
« di essergli presente e modificarlo - (Elementi di Filosofia ecc., Tom. Ili,
Cap. HI. g xxix). *
U /ilosolò di Tropea conchiutle da queste osservazioni , che tanto per
IWMO della vista che per mezzo del tatto noi possiamo distinguere il' nostro-
rorpo da' corpi esteriori. Ma il senso della vista e quello del tatto perce
piscono exlra-soggettivamente. Noi non ci contentiamo di mostrare che fra
questi due oggetti della vista e del tatto, il corpo nostro e i corpi esteriori,
» ha differenza; ina mostriamo di più, che il primo è anche soggetto, e r
secondi puramente extra-soggetti; questa è ìa differenza massima e cardi
nale fra l'uno e gli altri.
Per altro i tre Talli arrecati da Galluppi servir possono assai bene anche
a marcare fa distinzione fra soggetto ed un diverso dal soggetto , purché a-
tal fine peculiarmente si ordinino ed analizzino.
E io vero, nel primo la mano sente sé slessa senziente, ecco il soggetto ;
mentre il globo di ferro non sente sé stesso, ma purameute è sentito, ecco
un diverso dal soggetto.
Nel secondo , il moto- che io dò alla- mia roano eoli' atto della mia vo
lontà, posso rilevarlo- non pure per la vista o pel latto, ma ancora pel sen
timento o consapevolezza interiore, ecco il soggetto: io non rilevo all' in
contro chiaramente il moto che cagiono nel gioito di ferro, se ooa per la.
vista e pel tatto, ecco uti diverso dal soggetto.
Nel terzo, io sento il corpo mio uuito con ine oveecliè io- vada- e k> tras
poni, non perchè il vegga od il tocchi, ma ancora per una interna consa
pevolezza, ecco il soggetto: all'incontro l'allontanamento degli oggetti este
riori da me, io non lo rilevo se non pel tatto o per gli altri seusi , il che
ni fa conoscere ch'essi sono pact ternwii extra-soggettivi delle mie potenze
di sentire.
(1) Dico una certa energia, e non qualunque energia ; poiché questa energia
i suoi caratteri proprj, come ho gii anche prima notato, i quali la de
terminano e specificano, e che più sotto ricercheremo.
aG8
j>rincipj , il che sarebbe contrario al metodo da noi in
queste ricerche abbracciato , ma di ajulare il lettore
con alcune considerazioni, perch' egli valga da sè a fare
l1 osservazione necessaria sopra di sè medesimo , e ad
avvertire così questo sentimento, che è sfuggito ali1 os
servazione di tanti filosofi.

ARTICOLO IX.
DESCRIZIONE DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE.

E da prima è necessario ( ciò che non è giammai in


culcato abbastanza ) che si distingua l' esistenza di un
sentimento in noi, dall'avvertenza che noi diamo al
dello sentimento.
Perocché noi possiamo provar benissimo una sensa
zione o sentimento , e tuttavia non rifletter sopra di
lui, non averne coscienza: ora, senza riflettere sopra
di lui, e senz' acquistarne con ciò la coscienza, noi noti
saremmo in caso di dire a noi stessi , che noi abbiamo
e patiamo quel sentimento; anzi, se avvertir noi sapes
simo , potremmp negarlo pertinacemente. Questo fu no
talo da Leibnizio , ed è sfuggito a Locke e a tanti
altri (i).
Ciò veduto, il dire: « io non m'accorsi ne' primi
istanti della mia vita , nè m' accorgo presentemente di
quel sentimenlo universale del mio corpo che voi p>
nete » , non basta a condii uderc ch'egli realmente nonè.
Voi potreste averlo provalo , e provarlo tuttavia, e
non accorgervene, per isvagala e non ferma attenzione.
I filosofi, più si sono occupati a stare bene attenti
ed avvisati sopra di ciò che passava nella loro coscien
za , e più sono arrivati ad osservare cose che succedono
nell' animo umano al tutto ignorate dal volgo , perchè
questo non ha l'abitudine di badare intensamente so
pra sè slesso. Per simigliante ragione il gran precetto:
a Conosci te stesso »: e per questo il discernere il fondo
delle proprie passioni, i varj affetti e movimenti che in
noi per esse si suscitano , il notare le abituali nostre
inclinazioni , le intenzioni nostre, pur si reputa un'arte
tanto difficile , tanto meritevole, e solo propria di quei

(i) Sa. IV . Cap. n.


269
generosi che mettono tutte le loro forze e i loro pen
sieri in conseguire la perfezione della virtù.
Chi adunque non ha mai ancora avvisato in sè me
desimo quel sentimento di che tocchiamo , questi dee
occuparsi a rifletter meglio e più tranquillamente sopra
sè stesso , anziché a rigettarlo a dirittura.
Chi non ha potuto distinguere il sentire dall' accor
gersi di sentire, questi non è mai venuto a percepire
in che consista la differenza essenziale tra la sensazione
e V idea. La sensazione non può accorgersi mai di sè
stessa: è l'intelletto quegli che s'accorge della sensazio
ne; e V idea della sensazione è appunto l'accorgimento
clie noi della sensazione prendiamo: e quest'atto col
quale V intelletto percepisce la sensazione, è tutto di
verso da quello col quale è la sensazione stessa , cioè
col quale noi sentiamo. Di che nasce una singoiar con
seguenza , che ove un essere fosse fornito di pure sen
sazioni , non rifletterebbe d' averle , non potrebbe dirlo
altrui nè a sè stesso; e per questo è che i bruti non
hanno la loquela, perchè non hanno la ragione.
Ma se all'incontro ad alcun altro de' nostri lettori
sembrasse assai facile 1' avvertire in sè l' esistenza di
quel sentimento fondamentale di che parliamo , questi
potrebbe per avventura ingannarsi per altro verso sulla
natura di questo sentimento.
E a lui bisogna considerare, che questo sentimento è
colale, che sempre si resta in noi, anche rimosse tutte
le sensazioni acquisite dall'esterno.
Se io mi colloco in luogo di perfetta oscurità, e me
ne sto perfettamente immobile lungo tempo; se cerco
ancora di lor via dalla mia fantasia ogni immagine sen
sibile ricevuta-, io mi troverò finalmente in lale stato,
nel quale mi sembrerà di non aver più cognizione dei
confini dello slesso mio corpo , della collocazione delle
mie mani e de' miei piedi, e di tutte l'altre parti. Fa
cendo questa astrazione nel modo più perfetto che si
possa, e riportandosi così in uno stato, per quanto è
possibile, anteriore a tutte le sensazioni ricevute; io
dico che soprastà in me tuttavia un sentimento vitale
di tutto il mio corpo.
Dal qual concetto apparisce , che sebbene quel sen
timento esista , dee estere nondimeno assai difficile a
poterlo ora riconoscere e fermare: conciossiachè noi non
270
sogliamo badare a nulla di ciò che è in noi , se non
per occasione di una mutazione die proviamo: e dove
nessuna mutazione avvenga, ivi nessuna avvertenza, nes
sun confronto, nessuna riflessione.
Tuttavia se la necessità di mutazione è legge fermis
sima che regola la nostra avvertenza , non è però ne
cessaria una mutazione acciocché noi sentiamo.
Pongasi di passare da una temperatura d'aria ad
un' altra di alcuni gradi più calda: in questo passaggio
ci accorgiam tosto del calore maggiore dell' atmosfera ,
che ci vien forse molesto. All' opposto è delle persone
che stanno in quell'atmosfera abitualmente; non s'ac
corgono del soverchio calore, anzi il giudicano sofferi-
bile e naturale. E forse che quelle persone non sen
tano il grado di calore nel quale respirano? Nò; è che
non l' avvertono , perchè nessuna mutazione le eccita
ad avvertirlo. Ora, acciocché si possa credere che al
cuna cosa sia da noi sentita, dee bastare il sapere,
eh' eli' opera veramente su' nostri sensi: quindi si dee
argomentare così : « il calore di quell' atmosfera opera
fisicamente sui sensi : dunque è sentito anche allora
che non è avvertito. »
Taluno qui dira: « or via, acconsento d'aver sem
pre un certo sentimento della mia vita; sento d'esser
vivo; non posso negarlo; e in qualsiasi stalo in cui»
viva, un simigliante sentimento non può abbandonar
mi, se non per morte. Ma quello che io non intendo
si è, in che modo questo sentimento della vita si estenda
alle parti tutte sensitive del mio corpo. Ove ciò fosse
vero, io percepirei la grandezza e la figura del mio corpo
per un sentimento , senza bisogno della vista e degli
altri sensi ».
Chi dice così , s' immagina che io dica ciò che non
dico.
La grandezza e la figura del corpo nostro, quale si
percepisce per la vista e pel tatto , certo non è com
presa in quel sentimento vitale di che parliamo. Voglio
dire che noi , mediante questo solo sentimento, non
potremmo mai formarci l' immagine visibile o tattile
del corpo nostro ; e per formarcela , avremmo al tutto
bisogno di averlo veduto cogli occhi nostri, o toccato
colle nostre mani ; conciossiachè V operazione che f»
con ciò la fantasia, non è altro che un simulare ts
imitare la rappresentazione ricevuta per gli occhi e per
le mani. Nulla di ciò contiene il sentimento primitivo:
la rappresentazione visiva o il toccamento non è dun
que la materia di quel fondamental sentimento: chè
anzi già noi abbiamo veduto e distinto il percepire i
corpi colle rappresentazioni ( supposte ) de' sensi esterni,
e il percepire il corpo nostro col sentimento fondamen
tale. Non si confondano adunque , ma ben si tengano
distinte e separate le due, anzi tre maniere onde noi
percepiamo il nostro proprio corpo (i); nè si dica :
« quando io percepisco il corpo colla prima maniera
(col sentimento fondamentale), io noi percepisco colla
terza maniera (colle rappresentazioni sensitive ): dunque
non lo percepisco al tutto ». Questo sarebbe uno sra
gionare: un pretendere che la prima maniera di per
cepire debba avere i caratteri della terza maniera.
E veramente tutto il difficile qui consiste nel farsi
il concetto preciso c netto, quant' è possibile, di quel
sentimento fondamentale : poiché ove da lui si esiga
ciò eh' egli non può dare , conseguirà tosto eh' egli
sembri un assurdo, e che si neghi recisamente.
E nel fatto nostro si trova anche quest' altro impe
dimento da vincere. Gli uomini sono assuefatti a ba
dare unicamente alla terza maniera di percepire i cor
pi, cioè alla rappresentazione sensibile de' corpi : con-
ciossiachè la rappresentazione sensibile occupa e trattiene
tutta l' attenzione degli uomini naturalmente per più
ragioni, cioè i.* perchè la sensazione esteriore è assai
più vivace, e quasi splendida, sicché le due altre ma
niere di percepire il corpo nostro a suo confronto scom
pagno; a.0 perchè la sensazione è continuamente mu
tabile, e come abbiam detto , la mutazione è quella che
scuole e tira 1' attenzione, che fa confrontare, e cono
scer le differenze per modo, che solo mediante di lei
ci pare d'aver capita e conosciuta la cosa; 3." perchè
l'atto diretto dell'intendimento è il primo, il più fa
cile, il più naturale; ed è coli' atto diretto che l'in
tendimento nostro percepisce i corpi esteriori come og
getti, mentre a percepire intellettualmente il nostro
corpo soggettivo dobbiamo ripiegarci sopra di noi, tor

ti) Art. IV, e VI.


a; 2
nare in noi slessi ; e la riflessione sopra di noi , que
sto riconcentrarci di dentro, mentre il movimento na
turale ci porta fuori, è non poco difficile, ed è l'ultima
cosa che noi facciamo: di che forse conviene anche de
rivare la mancanza di luce che sembra avere la rifles
sione sopra di noi, verso la percezione sopra ciò che
è fuor di noi (i).

(i) Quindi l'ordine cronologico de' sentimenti è inverso dall'ordine del


l' avvertenze sopra i medesimi.
Prillo, abbiamo il sentimento di noi slessi; secondo, abbiamo le sensa
zioni esteriori.
All' incontro primo , avvertiamo le sensazioni esteriori ; secondo , il sen
timento di noi stessi.
Di più, perchè noi avvertiamo il sentimento di noi stessi, abbiamo bi
sogno d' esser divenuti signori della nostra volontà : poiché non è che li
beramente che noi riflettiamo e avvertiamo il nostro interno sentimento.
Ora io ho dimostrato , che noi non acquistiamo la libera signoria de' no
stri pensieri, se non dopo che ci siam formati delle idee astratte (V. Parie il,
cap. II, art. in). Prima dunque che noi avvertiamo il sentimento interiore, é
necessario che abbiamo i .° avvertite coli' intelletto nostro le sensazioni
esterne e percepiti i corpi, a* da queste percezioni cavate le idee, 3." e ài
queste idee cavati gli astratti (generici). Sviluppalo con qu-.-sti Ire passilo
Spirito nostro, e mediante quest'ultimo, che solo coli' ajuto del linguaggi0
si può fare ( Ved. il 1. cit. ) , acquistata la signoria de' nostri pensieri , Mi
siamo in caso d'addirizzare il pcusier nostro sopra il sentimento interiore'
fondamentale. Quindi vedesi che nell' ordine cronologico questo pensiero*
l' ultimo, e dee esser preceduto da tutti i lavori della ineute in sulle
sazioni esterne.
Con questa dichiarazione si conciliano più passi dell' Aquinate sulla ne
cessità Ae'fantasmi a pensare alcuna cosa. Poiché talora egli afferma il bisogno
risolutamente Ae'fantasmi acciocché noi pensiamo ( S. I, lxxxiv, f)'
e si esprime altresì con questa frase , che quiddilas rei materiali! esl p™'
prium objeclum intelleclus (S. I, lxxxv,v), ovvero con quest'altra,
tura rei materialis est objeclum intelleclus ( S. I , Lxxxvti , n ) ; di
conchiude, che gli abili non sono presenti all' intelletto come oggetti, ma
ut quibus intelleclus inlelligit. Questa dottrina presa cosi nuda, sembra tu"0
1' opposto di quella che io ho attribuito al sauto Dottore, e che mi
A' avere colle sue proprie parole provata in questo volume (Vedi noia 3 >
alla face. 72, e nota 1, alla face. 106), cioè che la materia delle nostre
cognizioni non viene solo somministrata da' sensi esteriori , ina altresì dal
sentimento interiore: il perchè gioverà qui maggiormente appianar tale oil-
iìcollà : essendo la dottrina de' due fonti, anziché dell' un solo , di sommo
momento. Spieghiamo dunque s. Tommaso cou s. Tommaso. Secondo lui>
la cosa materiale non è già l'unico oggetto dell'intelletto, ma solamente il
primo nell'ordine cronologico 1 il che conviene a capello colla dottrina1 da
me esposta'. In un luogo della Somma (I, Mjcxvn, ni) egli cerca « ** ''*"
« tellelto conosca il proprio alto », il qual certo non è cosa materiale; e
dice di al; solamente aggiunge ch'egli il conosce posteriormente alle cost
materiali, a differenza dell'ungelo che pur col primo allo suo intende se
Messo ad un tempo, e intende l'atto col qual s'intende. Ma ecco le sue
iarole: « V' ha un altro iulellelto, cioè l'umano, che non è il proprio in-
27^
Il sentimento primitivo adunque non ci fa conoscere
la figura, nè la grandezza visibile del corpo nostro:

« tendere (rome l'intelletto divino), e del quale l'essenza non è l'oggetto


« primo dell'intendere » (come avviene nell'intelletto angelico , secondo
la dottrina del sauto Dottore); « ma il suo oggetto primo è qualche cosa
» di esterno , cioè la natura della cosa materiale. E perciò quello che dtt
« prima si conosce dall'intelletto umano, è un oggetto materiale, e secon-
* (buiamente si conosce lo stesso atto, col quale si conosce l'oggetto: e me-
« diante la cognizion di quest'atto si conosce lo stesso intelletto »: Est
tiutcm alias inlellectus, sciliect humanns . qui nec est suum inlelligere , ncc
sui inlelligere est OBJECTUM PRIMUM ipsa ejus essentia , sed aliquid
extrinsccum , scilicet natura materialis rei. Et ideo id quod PRIMO co
gnoscilur ab irttelìectu humano, est '•ujusmodi objectum , et SECVNDARIO
cognoscilur ipse actus , qiio cognoscilur objectum ■• et per actum cognoscilur
ìpst inicìleclus. E più manifestamente ancora apre questa dottrina poco dopo
il luogo citato, ove la riassume così: « L'oggetto dell'intelletto è qualche
« cosa di comune, cioè l' ENTE e il VERO: sotto al quale si comprende
» anco lo stesso atto d'intendere. Laonde l'intelletto può conoscere il suo
« atto, ma non DA. PRIMA: poiché il PRIMO oggetto dell'intelletto no-
« Siro, secóndo il preseute stato, non è qualsiasi ente e vero, ma l'ente
* e il vero considerato nelle cose materiali « (Le, ad i). E a confìrmazione
di tutta questa dottrina induce una sentenza del filosofo di Stagira. il qual
fa che « gli oggetti si conoscono PRIMA degli alti ( PRAECOGNO-
» SCUNTUR) , e gli atti PRIMA delle potenze ». (Lib. II de Anima,
•est. 35): onde appar manifesto, che si tratta d'una priorità di tempo, e
"OD altro. È questa la dottrina nostra altresì ; se non che noi osserviamo
oltracciò, che a venire in tale Stato di sviluppo intellettuale, nel quale l'uomo
rifletta sopra il proprio sentimento interiore, non basta ch'egli conosca
prima gli oggetti corporei, ma di pii'i è necessario ch'egli cavi da tal sua
cognizione gli astratti (il che far non può senza la favella), e per gli
astratti venga in signoria della propria attenzione , e sappia deliberarsi a
dirigerla ov egli vuole. Allora solo è 1' uomo acconcio a riflettere sopra sè
Medesimo, e ad avvertire in sè gli atti suoi interiori. Fra quegli atti poi
poniamo come il primo quel sentimento fondamentale, e diciamo che a
uesto riflette solo in ultimo, dopo eh' egli ha riflettuto agli atti suoi acci*
entali : sicché l'ordine cronologico delle avvertenze nostre cosi espouiamo :
'■' l'uomo avverte l'oggetto corporeo, a.0 forma gli astraili, 5.° avverte
'otto del sentire (le sensazioni) e l'atto dell'intendere, 4° finalmente av
verte il sentimento fondamentale, atto primo e radice comune sì del senso
conie della intelligenza.
Dopo il detto pertanto si conciliano assai facilmente alcuni altri passi di
'• Tommaso, ne' quali egli dice manifesto, che i fonti delle nostre cogni
zioni non sono i soli sensi ; e qui non sarà inutile recarne alcuui.
« La sensitiva cognizione, così egli, non è tutta la causa (TOTA CAUSA)
" della cognizione intellettiva : e perciò non è maraviglia se l' intellettiva
« cognizione si stende oltre la sensitiva, ultra sensilivam se extendit » (S. I,
LXXXrV, vi). Fra queste cose, a cui si stende la cognizione intellettiva, e
che sono oltre ogni cognizione sensibile, v'è in primo luogo tutto ciò che
SU nell'intelletto nostro (dentro di noi); quindi il santo Dottore: Quod in-
bUecutaliter cognoscilur, per se est notum, et ad ipsum cognoscendum natura
Mgnoscentis sufficit ABSQUE EXTERIORI MEDIO (C. Geni. I, lvii).
E come si possono conoscere gli affetti nostri, se non consultando il nostro
Rosmiki, Orìg. delle Idee , Volli. 35
ma ci fa percepire il corpo nostro in tutt' altro modo:
nè c' è altra via di formarsi un' idea di questo modo ,
fuor solamente quella di concentrarsi appunto dentro
noi stessi , e stare attenti a quel sentimento della vita
che ci anima tutti. E in questo atto medesimo, convien
badare di non cercar già speculativamente che sia que
sto sentimento , ma solo di attendere ad avvertirlo , chec
ché poi egli sia; stando contenti a quello che la detta
attenzione od osservazione su noi ci presenta , senz'al
tro cercare nè aggiungere colla fantasia o col ragiona
mento.
ARTICOLO X.
ESISTENZA DEL SENTIMENTO rONIUMENTÀLE.
Che poi questo sentimento debba estendersi alle parti
tutte sensitive del corpo nostro, polrebbesi anche co
noscere osservando i movimenti che nell' interno del
nostro corpo continuamente avvengono: giacché la cir
colazione del sangue, il giro continuo degli umori, le
assimilazioni , la vegetazione universale a cui egli sog
giace , forz' è che esercitino un' azione continua sui
sensi nostri; i quali vengono incessantemente titillati,
e leggermente tocchi o premuti da tutti i lati: e questo
dovrebbe torci via ogni dubbio sull' esistenza di una
quantità di piccole sensazioni abituali e inavvertite che
in noi succedonsi senza posa; giacché manifesto è, che
« ove sia provato , una fibra sensitiva esser tocca e mo
dificata , è provata in essa la sensazione » , quando an
che 1' abitudine che noi abbiamo di esserne affetti ci
tolga la capacità di avvertirla distintamente.

cuore? Le cose esterne e materiali interrogate di ciò, nulla ci direbbero:


di che il Santo : Etsi fides non cognoscalur per EXTERIORES COR-
PORIS MOTUS, percipitur tamen eliam ab eo in quo est per IRTE-
RIOREM ACTUM CORD1S (S. I, LXXXVII, n ). Ancora, se noi non
avessimo altra cognizione che delle cose materiali, non potremmo formarci
alcuna idea degli spiriti: la nozione di questi dunque conviene che dal sen
timento dell'anima nostra noi la caviamo, siccome dice s. Agostino, e dietro
a lui s. Tommaso così : Ex illa auctorilatc Augastini haberi potest quod illud,
quod mens nostra de cognitione incorporaiium rerum accipit, PER SEIP
SAM cognoscere possit. Et hoc adeo verum est, ut eliam apud Philosophiut
dicatur, quod scientia de anima est PR1NCIPIUM quoddam ad copto-
scendum subsUintias separatas ( Lib. I de Anima, test. 1 ). Per hoc enim
quod anima nostra cognoscit seipsam, pertingit ad cognilioncm aliquam ha-
bendam de substanliis incorporcis , qualein Cam contineit habere ( *t
LXXXVHI, ad i ).
E qui io eono ben lungi dal voler farmi ad inda
gare i misteri della vita ; come sorga questa , e come
«ia in quel suo atto continuo. Ma mi limito a dir que
sto, che ove si potesse credere essere essenziale alla
vita un qualche interior movimento delle parti corpo
ree ( come certo qui in terra questo movimento è per
lo meno sua condizion necessaria ) , la sensazione abi
tuale e fondamentale verrebbe più facile ad intendersi;
poiché non è difficile a concepire, che dove vi ha mu
tazione , ivi v' abbia sensazione.
E che noi sentiamo continuamente il corpo nostro ,
con delle particolari osservazioni si può conoscere: ed
eccone alcune.
i .* L' aria atmosferica ci pesa c preme addosso in
tutte parti: pressione che in sull'esteriore superfìcie
del corpo umano, ponendo questa superficie di i5
piedi quadrati, fu trovata montare al peso di ben
3a,5o5 libbre. Ora di tutta questa veste , sì greve via
più che cappe di piombo , la qual e' involge e circonda
dentro e fuori , e fin nelle parti più delicate, noi non
ci accorgiam punto: e il far credere ad uom vol
gare eh' egli si porta tal soma addosso, non sarebbe
legper fatica : il quale ci schernirebbe per avventura col-
l' argomento appunto che è sì frequente in bocca dei
filosofi superficiali: « Se io portassi tanto carico indos
so, bene il sentire' io: o voi siete pazzo, o volete cor
bellar me». A cui risponderemmo: «E pure, fìgliuol
mio caro , la cosa è così: e voi lo sentite quel carico,
ma non vi accorgete di quella sensazione , poiché ella
si diffonde equabilmente, siccome un velo, sulla su
perficie tutta del corpo vostro, e vi sta continua ed
abituale , ed è come cosa vostra , come vostra sostan
za : così il pesce, premuto d'intorno tutto dall'acqua,
direbbe il medesimo di voi , e negherebbe d1 esser pre
muto se favellasse. Ma via , volete voi accorgervi di
quell'aria che vi stringe e pesa addosso da tutte parti?
Fate succedere mutazione nell' aria , tale che voi pos
siate fare il confronto fra i due stati; e voi tosto vi
accorgerete di sentir ciò che or negate. Recatevi in alta
montagna (i), ove l'aria più rarefatta e leggiera vi pre

ti) La variazione d'una sola linea nell'altezza del mercurio nel baronie»
Irò, suppone uno diminuzione del peso dell'aria di i38 libbre di pressione.
276
ma meno; e voi proverete vomiti, nausee, vertigini; e
le vene vostre lascieranno fino schizzar fuori il sangue,
tolto da esse il carico che le comprimeva, e reagiva
contro la spinta continua del sangue stesso ».
a.° E questo stesso muover del sangue , che corre
impetuoso pel corpo tutto in tanti canali implicati e
ravvolti variamente, spinto da maravigliosa forza, non
darà egli nessuna sensazione abituale ? Questo liquor vi
tale, così cacciato e serrato ne1 vasi suoi , preme natu
ralmente le pareti de' medesimi , e nelle piegature urta,
e per reazione che soffre muta di via. Pur tutto que
sto movimento non sembra che si senta , o che si senta
appena. Ma succeda mutazione : acceleri il sangue più
dell'usato, per ira che v'infiammi, o per ispavento che
vi raggeli; e voi sentirete ben allora martellare il cuo
re , e tremar le vene e i polsi. Non era prima, che vi
mancasse sensazione di quel discorrimento del sangue:
era che non ci potevate dare attenzione , perchè non
succedeva in voi novità che 1' attenzion vostra attirasse
e dirigesse.
3.* Il corpo umano tiene certo grado di calore; e il
calore è cosa che si sente : e pure, appena che l'uom
se n' accorga ; se pur qualche alterazione di grado non
ci avvenga. Poniamo che tutti i gradi di calore, dal
zero all' ottantesimo, venissero applicati successivamente
in una parte» del corpo nostro : noi li sentiremmo tutti,
e ci accorgeremmo altresì di sentirli. Prima la sensazione
del gelo ci abbrividirebbe ; poi, ascendendo di grado
in grado , ci giungerebbe a scottarci la sensazione del
l' acqua bollente. Ora fra tutti questi gradi successivi
di calore c'è pur quello che prima avea il corpo no
stro: anche prima adunque sentivamo quel grado, ma
non ce ne accorgevamo: nella mutazione ce ne accor
giamo, poiché applicato al corpo nostro dopo un calor
minore , succede un passaggio d'una sensazione ad un'al
tra, e quindi ha luogo il confronto fra le due sensa
zioni. E pure le sensazioni non sono già sentite da noi
perchè facciamo di esse il confronto; ma facciamo di
esse il confronto perchè esse sono da noi sentite. Delle
sensazioni ciascuna è sentita indipendentemente dall'al
tra, e indipendentemente dal paragone che ne facciamo,
il quale è pur necessario ad avvertirle; e queste esi
stono anche ove non è confronto, ove non è passaggio
d'una all' altra. È adunque da porre , che noi sentiamo
abitualmente quel grado di calore qualsiasi che al nostro
corpo umano è connaturale, eziandiochè noi non ci ac
corgiamo di questa abituale nostra sensazione.
4-* Le particelle tutte del nostro corpo tendono verso
la terra su cui camminiamo, per l'attrazione, checché
poi siasi quest' attrazione. Or qui avvi un' azione con
tinua fatta su ciascuna molecola del corpo nostro, della
quale pur noi non ci accorgiamo punto. E pure un sen
timento da quell'azione ci dee venire: cioè quel senti
mento stesso che fa parer greve il corpo a que' che
sono assai pingui, e che genera la stanchezza ne' cam- '
minanti : e noi siamo avvezzi di sentirlo ; ma quel sen
timento del peso del corpo, e dAle varie sue parti l'una
in sull' altra aggravantisi , è tutto equabile lino dai pri
mi momenti dell' esistenza ; e nè quel peso ci cresce
addosso, rendendoci adulti, che per insensibili aumen
ti ; nè v1 ebbe mai salto , o passaggio così celere , da
dovere poter farci avvertire una straordinaria gravita
zione delle parti corporee pesanti e prementi l'una sul
l'altra. Che se di repente l'attrazione cessasse, o si
niinuisse d'assai, noi proveremmo allora una nuova sen
sazione universale, la quale, per venirci istantaneamente
e fuor dell'usato, chiamerebbe la riflessione nostra;
ed osserveremmo allora in noi il senso di una leggerez
za, agilità e mobilità non mai sperimentata, o degli
sconcerti nella salute non preveduti. E converso, au
mentandosi repentinamente la forza attrattiva , ci sen
tiremmo aggravati ed affaticati d'insopportabile carico:
e il corpo che ci si accorcerebbe indosso , sicché la
forma stessa ne verrebbe mutata , ben ci farebbe av
vertiti della novità. E così all' opposto,» tolta via 1' at
trazione , il corpo acquisterebbe ( ove altro male non
gl' incogliesse ) una lunghezza maggiore; giacché tutte le
Earti , in luogo di aggravarsi le une sull'altre, stareb-
ero naturalmente distese là dove fosser poste, nè indi
tenterebbero di abbassarsi. Se dunque quelle 'muta
zioni di attrazione darebbero un sentimento al corpo
nostro, manifesto ò che ciò avverrebbe perchè l'attra
zione produce veramente un effetto sul corpo nostro
sensitivo, ed ivi eccita un sentimento: il che ella dee
fare medesimamente anco con quel grado che s' ha nel
fatto; sebben di questo 1' uomo non si accorge , perchè
378
è passato in assuefazione, nè tira più a sè 6 ferma la
sua attenzione.
Io potrei fare simigliante discorso sulla coesione, e
su' movimenti e alterazioni continue che nascono nel
corpo nostro per la respirazione , e la digestione, e la
perpetua vegetazione , e le operazioni chimiche infinite
che nascono dentro di noi. In somma tutto dà a vedere
che il nostro corpo dee esser da noi sentito con un
sentimento suo proprio , composto di tant' altri piccoli
sentimenti particolari e abituali, fino da' primi momenti
della congiunzione nostra con esso.
Ma oltre tutto questo complesso d' innumerevoli sen
timenti particolari , che si fondono in un sentimento
universale e costante in noi ( i quali io non so deci
dere, come dicevo, se entrino propriamente a formar
parte della vita, ma so questo solo, che nello stato
presente sono condizioni alla vita necessarie ) , oltre tutto
questo complesso di particolari sentimenti, io credo
avervi nello spirito stesso, congiunto alla materia ed
all'ente, un sentimento unico, fondamento di tutti gli
altri, che cogli altri tutti si mescola, e di tutti un in
cognito indistinto risulta, pel quale sentiamo lo spirito
col suo corpo: puro sentimento semplicissimo, e non idea,
secondo la distinzione che fra le idee ed i sentimeli!!
ho già stabilita, sicché questi non sono che il realizza
meli lo di quelle.

ARTICOLO XI.

L* OMC1NE DELIE SENSAZIONI CONFERMA, l' ESISTENZA DEI. SENTIMENTO


rONDlMENTALE.

La sensazione adunque è data originalmente.


Non si tratta più di sapere come nasca la sensazio
ne; il che è impossibile; trattasi di sapere com' ella si
modifichi.
I filosofi che immaginano l'uomo a principio privo
di un sentimento di sè stesso , lo fanno veramente una
statua : e quando in questa statua, che non è un sog
getto sensitivo, perchè non è un Io ( sentimento fon
damentale ) , pretendono die al toccamento degli oggetti
esterni nascano le sensazioni , sebbene nella statua nulla
v'era di simile, descrivono allora un procedimento ines
plicabile, un mistero, contrario all'ordine consueto
della natura.
Dico un procedimento inesplicabile; poiché sì fatta
origine delle sensazioni , che cominciano di tratto a tro
varsi là dove punto non sono, è altrettanto superiore
alla intelligenza nostra , quant' è la creazione dal nulla.
Questa sensazione, che sorge e si crea nella statua di
repente all'occasione dell'impulso de' corpi esteriori, è
quella , secondo essi, che ci avvisa altresì della nostra
esistenza : essi suppongono adunque con ciò , che noi
possiam sentire una cosa diversa da noi , e che non
possiam sentire noi stessi.
Tale ipotesi ( perocché non è poi alla fine che una
mera ipotesi) è altresì contro l'ordine costante della na
tura , che non opera per salto : e certo vi sarebbe un
salto , ove noi passassimo, al tocco che di noi fa un
corpo esterno, dal non sentir punto noi stessi , a sentir
di repente e noi stessi e qualche cosa fuori di noi. Con
temporaneo a quel movimento esterno ( che non ha
nulla di simile colla sensazione ) si sarebbe per così
dire acceso in noi e creato uno spirito; conciossiachè
quale idea ci possiam noi formar di uno spirito privo al
tutto di qualunque sentimento e di qualunque pensiero ?
Lo spirito non ha estensione, nè altre qualità di cor
po: togliete a lui anche le qualità dello spirito, che
«ino il sentire e l'intendere, e voi l'avete annul
lato; o certo nella vostra mente 1' idea di uno spi
rito è al tutto svanita ; purché, supplendo voi a quella
con un gioco della vostra immaginazione, non v'imma
giniate poi , o non fìngiate d' immaginarvi uno spirito
d'una specie quale non v' è data nè dall'osservazione
uè dalla coscienza , e noi mettiate nel luogo dello spi
rito vero, del quale avete l'idea cancellata.
Tutte queste riflessioni confermano 1' esistenza di un
sentimento fondamentale in noi : esistenza che si po
trebbe anche scorgere con un po' di seria attenzione
solla natura del noi; perocché il noi, chi riflette sopra
se stesso, trova che è essenzialmente un sentimento ,
quel sentimento che io chiamo primitivo , fondamen
tale , e che forma il soggetto senziente ed intelligente.
a8o
ARTICOLO Xtt.
SmCAZl jVE OILlà SENTENZI DI S. TOMMASO, CHI IL COUfO ■ MLk' MIMI.

Quindi si chiarisce quella bella sentenza di s. Tom


maso , che « 1' anima è nel corpo come quella che con
te tiene, non come quella che è contenuta » (i).
Abbiamo detto che colla parola corpo significhiamo
una cosa da noi conosciuta, poiché noi imponiamo le
parole alle cose in quanto noi le conosciamo (3).
Quindi , che a sapere che valga questa parola corpo,
noi non dobbiam procedere per via di ragionamenti
speculativi , nè dedurne la nozione a priori , ma dob
biam consultare unicamente la sperienza (3).
Il fatto somministrato dall' esperienza è una certa
azione fatta in noi, della quale non siamo noi la ca
gione (4).
Indi 1' essenza del corpo fu trovata essere una certa (5)
forza che ci modifica (G).
Questa forza noi la sentiamo fino da' primi istauri di
nostra esistenza, sebbene tosto non la avvertiamo: la
sentiamo (7) in modo costante e uniforme. E questa
forza o energia, che ci affetta costantemente e unifor
memente in un determinato modo , è ciò che chiamia
mo il corpo nostro. Or sebbene questa forza, come ab
biamo veduto, sia sostanzialmente diversa dal nostro
spirito (dall'/o) (8), tuttavia è in noi ch'ella agisce,
è nel nostro spirito; e quindi si può dire a ragione,
esser maniera di parlare più esatta quella che «il corpo
nostro sia nel nostro spirilo » , anziché quella che
« lo spirito nostro sia nel nostro corpo ».
Mostreremo poi assai manifestamente più sotto, qual
sia la ragione onde noi usiamo più tosto questa seconda
frase che la prima.

(1) S. I, LII, 1.
(2) Parte. V, c. II, art. VI.
(3) Art. I. **■
(4) Parte V, c. II.
(5) Il determinare di valore di questo vocabolo certa, che è come uu in
cognita, e costituirlo in quella forinola che presenta la definizione del corpo,
sarà ciò che faremo più innanzi, c che perfezionerà la della definiti»*
del corpo.
(6) Parte V, c. II.
(7) Art. X.
(9) Parte V, c. I.
ARTICOLO XIII.
INFLUSSO FISICO F»A t' ANIMA E IL COVO.

Quindi ancora apparisce, che io non ho bisogno di


trattare con ardui ragionamenti la questione dell' armo
nia dell' anima col corpo.
Nel fatto della coscienza è eh' io prendo la soluzione
di questa celebre questione. Rilevando bene questo fatto,
io trovo spirito e corpo, paziente ed agente: il corpo
mio dunque è , pel fatto, una sostanza agente sullo spi
rito in un modo peculiare; il qual modo dee essere poi
descritto ed analizzato da' filosofi che più addentro vo
gliono penetrare.

CAPITOLO IV.

ORIGINE DELL'IDEA DEL CORPO NOSTRO,


«tDIANTE LE MODIFICAZIONI DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE.

ARTICOLO I.
SI 1USSOME L' ANALISI DILLA SENSAZIONE.

Per formarsi un'idea precisa della sensazione (i) ,


allontaniam pur da noi l'idea de' corpi esteriori , che
sogliamo sempre immaginare come irruenti su' nostri
organi, ed ivi producenti o eccitanti le sensazioni.
Or non dobbiamo noi pensare a questa cagione, più
che s' ella non esistesse: dobbiamo chiuderci nella sola
sensazione, che è il fatto della coscienza: in questo è
che noi dobbiamo rigorosamente tenerci.
L'analisi della sensazione particolare ci dà per risul-
tamento due elementi.' i.° un sentimento in noi, che
abb'iam veduto esser modificazione del sentimento fon
damentale (2), e aver per sua materia 1' organo modi
ficato (3); 2/ e una creduta rappresentazione, o come

(1) Generalmente la parola sensazione vale a sigiiilicare propriamente la


la sensazione acquisita particolare.
(1) Cap. HI.
(3) Il sentimento fondamentale ba per sua materia tutto il nostro corpo
sensitivo: quando una parte di questo corpo sensitivo viene modificata,
quel sentimento si modifica pure, perchè la sua materia ha subito uu can
giamento, e la modificazione che soffre è la sensazione.
Rosmihi, Orig. delle Idee, Voi II. 36
a8a
che si voglia chiamare, una percezione di altra cosa di
versa dal corpo nostro (i).
Il primo di questi due elementi è soggettivo { modi-
ficazion del soggetto ); il secondo 1' abbiam chiamato
extra-soggettivo (percezione di cosa dal soggetto diversa).
Dalla distinzione accurata di questi due elementi di
pende l'esatta notizia dell'indole de' corpi, e della ma
niera di percepirli. Occupiamoci dunque in prima a
ben distinguere questi due elementi, i quali sono sem
pre congiunti e fusi insieme, e però son dilucili assai
a partirsi ; ed è il primo di essi, cioè il sentimento del
noi, che per essere di solito il men forte, suol restarsi
occulto all'osservazione, la quale non giunge a notare
comunemente che il secondo, e a crederlo semplice al
tutto.

ARTICOLO II.
DEFINIZIONE DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE, E DISTINZIONE DI LUI
DALLA FUCEZIONE SENSITIVA Db' COMI.

In ogni sensazione corporea noi percepiamo in nuovo


modo il nostro organo sensitivo.
Oltracciò , ad ogni modificazione che soffre il nostro
organo sensitivo, sorge in noi una percezione di qualche
agente diverso da noi.
La percezione particolare che noi abbiamo del nostro
stesso organo percipiente , è la modificazione del senti
mento fondamentale. Il sentimento fondamentale fu
detto essere una percezione costante delle parti sensitive
del nostro corpo nel loro stato naturale e primo. Il
sentimento fondamentale modificato è la percezione di
qualche parte del nostro corpo modificata, cioè che vien
mutata in qualsiasi modo da quel suo primo stato equa
bile e naturale (a).
Per conoscere dunque e avvisar bene la percezione
particolare dell' organo nostro modificato , e distinguerla

(0 Cap. ni.
(a) Descrivendo noi in tal modo la percezione particolare de' nostri or
gani sensitivi, nulla supponiamo di gratuito. È vero che in questa defini-
, zione entra la modificazione deli' organo ; ma questa non è gratuita , dal
l' istante che l'organo stesso (il corpo) è l'energia operante in noi, e pr°-
ducente il sentimento fondamentale in quanto si estende al corpo, ciò che
fu dimostrato più sopra.
a83
dalla percezione di qualche agente diverso da esso che
r accompagna , noi dobbiamo osservare un po' meglio
la natura di quel sentimento fondamentale, di cui la
percezione particolare non è che un nuovo modo.
11 sentimento fondamentale che vien dalla vita, è
un sentimento di piacere, supponendo la vita nello
stato suo naturale., e non guasta.
Egli si estende equabilmente e blandamente in tutte
le parti sensitive del corpoj ma egli non pare però che
abbia nulla di diverso da sè medesimo (i). E perciò
sarebbe certo impossibile, a chi non avesse mai provate
sensazioni particolari, ma solo quel sentimento fonda
mentale, formarsi quell' immagine o rappresentazione
del proprio corpo, di sua forma, di sua grandezza ecc.,
che a noi la vista e gli altri sensi esteriori sommini
strano*.
11 sentimento fondamentale adunque non è che pia
cere diffuso in determinala maniera (a): e quindi le
modificazioni di quel sentimento non sono che piacere
e dolore sensibile con un modo loro proprio.
Dalle quali osservazioni volendo noi raccogliere una
definizione più completa del sentimento fondamentale,
questa potrebbe esser la seguente : « un' azione fonda
mentale che sentiamo venire esercitata in noi necessa
riamente ed equabilmente da una energia che non siamo
noi stessi, la quale azione è naturalmente a noi piacevole,
ma può essere variata , secondo certe leggi , e rendersi
successivamente più o meno piacevole, o anche dolo
rosa r> .

(i) Quindi io soglio chiamare le parti sensitive del corpo, materia di


questo sentimento , anziché oggetto, denominazione che conviene più al
corpo.
(a) Sebbene il piacer della vita sia veramente diffuso per tutte le parti del
corpo nostro sensitivo , tuttavia non è che si possa usare con eguale esat
tezza , e senza uu avviso al lettore, quest'altra espressione, che « noi ri
feriamo quel sentimento primitivo a' diversi punti dell' estensione del nostro
corpo — : perocché questa maniera di dire suol essere applicata dall'uso co
mune al corpo conosciuto esteriormente; e noi in quel primitivo sentimento
cosi non lo conosciain punto, e quindi non veggìam l'estensione extra-sog
gettiva, ed oggettiva, e molto meno le parti di essa: quella maniera dun
que può essere equivoca. Quando parliamo adunque del sentimento di lutto
il corpo nostro sensitivo, rammentiamoci sempre che ciò altro non signi
fica se non un modo di quel piacere, e nulla più : il qual modo poi viene
rivestito, per così dire, dell'estensione esterna e figurativa, allorquando noi
riceviamo la percezione del corpo co' sensi esterni ; delle quali cose tutte più
innanzi terremo ragionamento.
384
ARTICOLO III.
ORIGINE £ NATURA DEL PIACERE E DEL DOLORE CORPOREO.

Questa azione da noi provata è la stessa essenza del


piacere e del dolore corporeo.
Le modificazioni particolari che soffre questa azione
( secondo una legge che qui non abbiamo bisogno inda
gare ) sono le percezioni particolari degli organi nostri
quand' essi ci si rendono più piacevoli o dolorosi.
Per tal modo il piacere e il dolore sono sentimenti
che convien distinguere da ciò che nella sensazione vi
è di esterno e figurativo.
Noi descriverem poi questo secondo elemento delle
sensazioni, quando ci saremo formati del primo un'idea
così accurata , se ci è possibile, da non doverla poter
confondere con nessun' altra.
Il piacere e il dolore corporeo è una affezione sem
plice dello spirito nostro: non rappresenta nulla, non
figura nulla: è un fatto: è quel che è: e chi noi prova
non può intenderlo> quell'affezione nulla ha di comune
con ciò che non è essa: e quindi è indefinibile, come
è inintelligibile a cui noi fa intendere la sperienza.
E tuttavia il piacere e il dolore corporeo i." termina
nell'estensione soggettiva del corpo (la quale perciò io
chiamo materia del corporeo sentimento) , a.* ed ha i
suoi gradi di più o meno intensità.

ARTICOLO IV.
RELAZIONE DEL PIACERE E DOLORE CORPOREO COLL* ESTENSIONE.
E in quanto all' estensione soggettiva corporea , non è
difficile a provare che in ossa il piacere e dolore cor
poreo si termini (i).

(i ) Il piacere e il dolore corporeo , nello stesso tempo che è una passione


dello spirito, non è privo di qualche attività dalla parte dello spirito. Q««
non posso trattenermi a descrivere come queste due condizioni si uniscano;
delle quali però ho toccato altrove. Basti osservare, che in quanto il piacere
e il dolore sono atti dello spirito, si può dire che terminino nell'estensione;
in quanto poi Sono passioni, più propriamente si dice che l'estensione
porea termina colla sua azione in que' sentimenti. La ragione della verità
di queste due maniere di parlare, che sembrano opposte, si dee trovare in
quell' unità perfetta e misteriosa, ma verissima, che nasce fra il soletto «
J extra-soggetto, fra l'agente e il paziente ncH'istaple dell'azione.
a85
Poniamo che sulla mia mano si metta una piastra qua
drata di ferro: io sento il tocca mento di quella piastra
in tutti i punti della mia pelle tocchi dalla medesima : e
s'ella fosse maggiore, o d'altra forma, come ri tonda ,
o comecchessia angolata, io proverei un'altra forma di
sensazione; perciocché mi renderebbero la sensazione
del freddo a ragion d'esempio, i punti d' un' altra su
perficie del mio corpo, diversa dalla superfìcie prima,
maggiore o minore, o d' altra forma.
Medesimamente, avendo noi posto che il sentimento
fondamentale occupi le parti tutte sensitive del corpo,
couvien dire eh' egli a queste si estenda e riferisca , e
questo sia il suo modo di essere.
Il che non vuol già dire, lo ripeto, che perciò noi
conosciamo anche cogli occhi nostri la forma e la gran
dezza delle parti occupate dal nostro piacere o dal no
stro dolore: nulla di ciò; non si mescoli tale immagi
nazione col discorso che noi facciamo: è col puro sen
timento , privo al tutto delle immagini che ci potrebbe
somministrar la vista, che noi percepiamo quella esten
sione, cui perciò, a distinguerla da quella chela vista
o gli altri sensi ci somministrano ne' corpi esterni, de-
nominiaiDO soggettiva.
Né ciò incontrerà difficoltà, ove ben si rifletta, come
dissi, che quella estensione non si dee prendere che
come un modo del sentimento: sicché da lui non può
essere mai interamente disgiunta , ma solo mutata.
Qui dunque il lettore non dee pensare che quel
sentimento e quella estensione soggettiva sieno due cose
per sé disgiunte: o che quel sentimento, prima accen
trato, poi vada da sé a distendersi per quella esten
sione presentita, come in cosa da sé diversa. Questo im
maginare è falso, e non dato dalla attenta osservazione.
In una sì fatta immaginazione si mescolano le imma
gini tolte dal senso della vista : e all' incontro convien
tutte queste cacciare, per ben intendere ciò che qui
diciamo; e ristringersi al puro sentimento soggettivo di
cui favelliamo. Ove il lettore non si lasci distrarre da
tali immagini , e si concentri bene in sé medesimo ,
nell'osservazione del proprio sentimento ( dell' Io), egli
si accorgerà assai bene, che in tale stato di puro sen
timento soggettivo, è impossibile che l'anima possa per»
i
a86
cepire una estensione diversa dal sentimento medesimo
onde la percepisce (i).
Chi vuol dunque osservar la natura di questo senti
mento fondamentale di cui parliamo, e delle sue mo
dificazioni , rimuova da sè ogni figura ed ogni oggetto
sensibile: si spogli diligentemente dell' idea di estensione
esterna che gli ha data la vista, o altro senso: si rinserri
in sè medesimo; ed ivi stia attento ai dolori e ai pia
ceri che nelle diverse parti del corpo suo o equabilmente
o variamente provar può : e troverà che que sentimenti
non hanno alcuna estensione figurativa od oggettiva , cioè
simile a quella che è presente a' nostri occhi ed altri
sensi esterni, e che ne corpi esteriori percepiamo; ma
che hanno però una certa limitazione , un modo, il
quale poi astratto da quelle sensazioni , e paragonato
all' estensione percepita ne' corpi esterni colla vista e
cogli altri sensi, troviamo convenire coli' estensione, ed
estensione pure denominiamo.
E sebbene questa parola estensione sia trovata a si
gnificare un oggetto (a), come tutte l'altre parole, e non
un soggetto, tuttavia noi possiamo chiamare estensione
soggettiva quella in cui si spandono i piaceri nostri e
dolori corporei; poiché sebbene soggettiva in sè , noi
riflettendo sopra di essa la facciamo oggetto del nostro
pensiero , e quindi la rendiamo atta ad essere così dt-
nominata.

ARTICOLO V.
CONFUTAZIONI DI QUELLA SENTENZA DEGL'IDEOLOGI, CHE • WOt SENTIAMO T0TTO W
CERVELLO, E RIFERIAMO POI LA SENSAZIONE ALLE DIVERSE PARTI DEL CORPO »•

Per accorgersi che il sentimento del nostro proprio


corpo dee stendersi e diffondersi a tutti i punti sensi
tivi del medesimo, basta considerar quanto segue.
Gl'ideologi dicono: « è per mezzo del tatto che voi
portate gli oggetti della vista fuori di voi ; altrimenti
essi vi starebbero aderenti all' occhio siccome un velo
disteso sopra di lui » .

(1) E perciò l' estensione non e oggetto di quel sentimento, ma materia


di lui , come dissi.
(1) Perchè ella significa Ma' idea ; e un'idea ò sempre un oggetto. L'in
telletto solo ha oggetti; il senso ha agenti diversi da sè (extra soggetti) , ed
ha materia, e nuli' altro.
287
Ottimamente: io qui sono d' accordo (1).
Ma poi soggiungono : « medesimamente la sensazione
succede nel vostro cervello ; poiché interrotta la comu
nicazione dell' organo col cervello , nulla sentite. Voi
dunque riferite all' organo affetto le sensazioni mediante
de' giudizj abituali » .
Io qui mi parto al tutto da essi. Rifletto, che sarebbe
impossibile che, tastando io colla mano gli oggetti che
vedo , li portassi fuori di me , se io prima non ri
ferissi la sensazione che provo mediante il toccamento
detta mia mano, all' estremità della mano stessa , in
vece di tenerla fuori dell'estensione, o di riferirla solo
a qualche centro del mio cervello.
E veramente , se 1' oggetto della vista io lo riferisco
fuor di me mediante il tocco della mano , ond' è poi
che io riferisco fuor di me la mano stessa ? e che la
sensazione provata in quel toccamento, fatto col polpa
strello , a ragion d'esempio, delle mie dita, non la
sento già io nel mio capo , ove si crede rispondere il
nervo sensitivo, nè puramente nel mio spirito, nè lungo
il braccio , nè in altro luogo della mano, ma pur nella

(1) Mi parto qui dal valentissimo Galluppi, il quale giudica che 1' oc
chio veda i corpi lontani da sé immediatamente, e paragona i globicini di
luce che dal corpo illuminato vengono 1' uno appresso 1 altro a percuoter
la retina, alle varie parti di una canna tastate successivamente dalla mano
che scorre in sulla canna dal pomo alla punta. La differenza ne' due fatti è
questa : la mano si muove, e l'occhio sta fermò: ora è il moto, dico io,
quello che fa conoscere alla mano la lunghezza della canna. E se la canna
strisciasse sulla mano ferma, io mi credo ehe per la sola mano non si po
trebbe mai percepire la lunghezza della canna , se non forse per le abitu
dini e le memorie. All'occhio concedo bensì di conoscere il fuor di sè, ma
in quanto è anche tatto, e nulla più: quindi non mai la lontananza: ma
semplicemente uu diverso da sè, o se si vuole, anche un fuori di sè, come
dicevo ( giacché I' occhio suppongolo sentito pel sentimento fondamentale ):
questo fuor di sè però non sarebbe che qualche cosa diversa dall' occhio,
aderente all'occhio. Favorevole alla opinione di Galluppi tornerebbe quanto
si narra di quella giovane, a cui levò le cateratte congenite l'oculista Gio
vanni Janin; come pure di que' ciechi nati, a cui il Professore Luigi de'
Gregoris restituì in parte la vista ; a' quali tutti dicesi che non venisse so
spetto che i corpi fòsser cose aderenti a' loro occhi , ma che tostamente
fuori di sè li vedessero (Ved. l'opuscolo Delle cateratte de' cicchi nati, os
servazioni teorico-chimiche del Professore di chimica e di oftalmia Luigi de
Gregoris romano. Roma 1826 ). Ma l'esperimento di Cheseldcn è troppo
solenne e troppo accertato, perchè, a malgrado di tutto ciò, possa tostamente
rifiutarsi : tanto più ch'egli fu rinnovato in Italia dal Prof. Jacobi di Pavia,
con ogni diligenza, c couiermalo dall' evento iu tulle sue parti.
388
sommità appunto delle dita colle quali ho tastato quel
corpo ? Dico , che questo non può avvenire per abitu
dine contratta : perocché a sostener ciò dovrebbesi di
mostrare che fu un tempo nella vita nostra, quando
le sensazioni tutte non si riferivano a' varj punti del
corpo; e poi che v' ebbe un mezzo pel quale s' imparò
a riferirle di fuori a que' varj punti : il qual mezzo
nessuno 1' ha mai indicato , nè può indicarlo.
Poiché se 1' occhio ha bisogno del tatto, perchè por
tiamo le cose vedute al di fuori di esso occhio, e da
ciò si vuole inferirne il medesimo dover avvenire delle
parti del corpo che si senton col tatto; converrà inven
tare, io dico, un altro tatto nell'anima, il quale porti
le parti del corpo nostro al di fuori dell' anima : il che
è assurdo , e negato dall' esperienza.
V'ha dunque una potenza nell'anima, che immedia
tamente, e non per abitudine contratta, riferisce le sen
sazioni alle varie parti del corpo, ed in quelle le sente.

ARTICOLO VI.
PARAGONE Dt' DDE MODI SOGGETTIVI DI FERCEPIRE t,' ESTENSIONE (l)
DEL PROPRIO CORPO.

L' estensione del proprio corpo adunque è un modo


del sentimento fondamentale.
E come questo fondamental sentimento o è nel suo
slato primo e naturale , o nel suo stato di modifica
zione avventizia e accidentale, ed egli ha sempre quel
modo dell1 estensione in qualunque stato si trovi; così
P estensióne del corpo si sente da noi soggettivamente
in due modi, cioè
i:* mediante il sentimento fondamentale, e
a.* mediante le modificazioni di quel sentimento, o
le sensazioni parziali che sofferiamo negli organi nostri.
La differenza che si dee notare fra queste due ma
niere di sentire soggettivamente 1' estensione del corpo
nostro si riduce ai seguenti capi:
i.° Col sentimento fondamentale si percepisce l'esten
sione tutta intera del corpo nostro sensitivo; colla mo

li) Non si dimentichi mai, die questa estensione soggettiva non ci è nota
già rome quella de' corpi esterni figurativamente , ina come un modo del
sentimento di noi slessi.
a89
dificazione del medesimo, cioè colla sensazione esterna,
si sente solo una parte di quella estensione, cioè la
parte affetta dalla sensazione.
3.* Col sentimento fondamentale si sente l'estensione
del corpo nostro in un modo tutto costante ; colla sen
sazione sopravveniente si sente la parte affetta in un
modo nuovo, più vivamente delle altre parti del corpo,
o certo in modo diverso da esse; a tale che la parte
così sentita spicca per così dire dalle altre, e si pre
senta fuor di tutte sola ed isolata nel sentimento che
soffre il nostro spirito.
3* Col sentimento fondamentale si sente in un modo
necessario, supposta la vita; colla sensazione l'organo
affetto si sente in un modo accidentale ed avventizio.
4-* Col sentimento fondamentale l'estensione si sente
quasi invariabilmente uguale; colla sensazione l'organo
si sente in modi assai diversi, pe' gradi diversi di pia
cere o di dolore , e pe' fenomeni de' colori , suoni , sa*
pori ed odori.
Ora queste quattro differenze bastano a veder chia
ramente, come il sentimento fondamentale non è atto a
scuoterci e a farsi da noi osservare. Egli è connatu
rale a noi, e così uno colla nostra natura , che forma
in parie la nostra natura stessa; quindi non ci dà nè mara
viglia , nè curiosità che ci renda intenti a lui , poiché
egli sta in noi come noi slessi.
Ma all' incontro la sensazione del nostro proprio or
gano non è a noi essenziale; essa è parziale, nuova e
viwx , accidentale e varia : quindi è tutta atta a muo
vere la nostra curiosità e 1' attenzione nostra sopra di
lei ; ed a sè attraendoci , ci fa così accorgere che noi
percepiamo le singole parti del corpo nostro con una
percezion soggettiva.
Di che si conchiuda , che delle due maniere sogget
tive di sentire il nostro corpo e la sua estensione, la
prima, cioè quel sentimento fondamentale, è assai fa
cile che sfugga all' osservazione ; mentre la seconda si
porge a questa assai agevolmente.
Di che non fa maraviglia se questo sentimento pochi
sappian d' averlo; quando la sensazione de' proprj organi
a tutti è palese.

Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. II. 37


ARTICOLO VII.
«COVA. MOTA DILL* ESISTENZA DEL SENTIMENTO FONDA «ERTALI.

Ma la sensazione del proprio organo, quand'egli è


affetto, è nuova conferma dell'esistenza del fondamental
sentimento che la precede.
Poiché come potremmo noi riferire ad una data parte
del corpo la sensazione, senza avere nessun sentore di
quella parte?
Si attenda bene: il dire che all'occasione della sen
sazione, noi sentiamo la parte ad un tempo che pro
viamo la sensazione, non è sufficiente; poiché il sentir
la parte, non è che un riferire la sensazione a quella
parte; e quindi verrebbe a un dire, che senza aver noi
prima sentore alcuno di quella parte, a quella parte la
sensazione ricevuta riferiamo: sarebbe un fatto che non
avrebbe spiegazione.
E medesimamente può dirsi della facoltà di muovere
le parti del corpo nostro. Se queste di loro natura non
fossero abitualmente da noi sentite, esse sarebbero estra
nee affatto a noi ; e quindi la nostra volontà non po
trebbe con un suo atto interno portare il movimento
in quella parte che più le aggrada.
Senza il sentimento fondamentale adunque rimarrei-
bero inesplicabili e fors'anco assurde quelle due specie
di alti dello spirito nostro, la prima quella per la quale
esso riferisce alle diverse parti del corpo le sensazioni
che riceve, e la seconda quella che comunica loro a suo
grado il movimento (i): conciossiachè si dee bene in
tendere, che siamo noi quelli che riferiamo la sensazione,
e produciamo il movimento: questo non è un fatto privo
della nostra propria attività (2).

(1) L'osservazione dimostra, che gli Stessi organi (i nervi) che sono i
ministri della sensazione, sono anco i ministri de' movimenti volonlarj.
Questo sembra confirmare, che è perla sensazione che l'anima, cioè la vo
lontà e la spontaneità , ha potere ed esercita l' imperio suo sopra il corpo ,
perciocché è per la sensazione che l'anima percepisce il corpo, e quindi ha
con lui una comunicazione non cieca , ma fornita di qualche maniera di
lume, del quale ha sempre bisogno la volontà e anco la spontaneità per co
mandare e per operare.
(3) Se fosse lecito fare qualche conghiettura sulla natura di quel senti
mento sostanziale che esprimiamo colla voce lo, ceco che cosa in argomento
tauto difficile opinerei:
ani
ARTICOLO Vili.
OGNI NOSTRA SENSAZIONE È SOGGETTIVA LI) EXTRA-SOGGETTIVA AD CN TEMro.

Chiamo soggettiva la sensazione in quanto in essa senio


l'organo mio stesso senziente, e la chiamo extra-sog
gettiva in quanto sento contemporaneamente un agente
estraneo al mio organo senziente.
E dico, che ove osserveremo attentamente il fatto della
sensazione, troveremo che non v'ha specie di sensazione
nella quale noi non sentiamo il nostro organo senziente;
e che contemporaneamente, e all'occasione cho il detto
organo è modificato e da noi sentito, succede nello spi
rito nostro una percezione altresì di altra cosa estranea
all'organo nostro, che è ciò che chiamo propriamente
la percezione sensitiva corporea. E questa percezione è
bene spesso sì forte e vivace, che trae a sè sola tutta
la nostra attenzione: sicché noi ci dimentichiamo inte»
i amen te l'organo nostro, e non ci accorgiamo punto della
sensazione del medesimo.
Ma pure la distinzione fra la percezione sensitiva corporea
e la sensazione dell'organo senziente è di tale rilevanza,
die non v' ha cura soverchia posta a hen /issarla: e dal
l'avere bene analizzata e veduta questa distinzione, di
pende la soluzione d'un gran numero di problemi psi
cologici; e vorrei quasi dirla il filo del labirinto, ove
i sensi smarriscono e perdono il nostro intelletto.
A far notar la coesistenza di queste due percezioni,
comincerò dalla vista.
Ognuno vede, in questo senso della vista, che altro
è il sentire il proprio occhio, organo percipienle, altro
è il vedere gli oggetti che all' occhio si presentano.

Va' azione primitiva dello spirito ci porta a sentire il modo del nostro
essere: quell'adone primitiva è necessaria ad un tempo e spontanea. In quanto
essa è necessaria, è l'obbligazione fìsica impostaci dal Creatore: essa costi
tuisce la nostra natura, e per essa lo spirito pone il NOI. Quest'astone che
termina nel modo dell' esser nostro , che è la sensazione del modo del
l'essere, è Vallo primo, essenziale del senso, quell'ut iu virtù del quale
noi sentiamo tutto ciò che sentiamo. Poiché il modo del nostro essere ve-
Deudo mutato, tutte in queste mutazioni si succedono le vane sensazioni.
Questo senso primo ci porta fuori di noi, cioè a sentire il motto dell'esser
□ostro: quindi quella dualità in noi lauto essenziale, cioè l'azione, e il ter-
mine dell'azione (materia della sensazioue).
Ma tutte queste cose io voglio averle qui accennale siccome coughictturo,
le quali nou l'orinano la parte essenziale dell'opera presente.
292
Questo secondo è la percezione corporea del senso della
vista.
Gli oggetti che il nostro occhio percepisce danno una
rappresentazione così vivace e vaga, che tira a sè tutta
la nostra curiosità, e muove in noi ammirazione, mas
sime quando l'occhio è già educato ed ammaestrato per
così dire dal tatto. Quindi mentre che noi curiosamente
stiam riguardando le varie scene di natura o i lavori
dell'arte, non ci cade il menomo pensiero sull'occhio
nostro, nel quale proviamo una leggiera sensazione pro
dotta dalla luce che lo ferisce, e che passa inavvertita.
Questa sensazione però non è men reale , per essere
inavvertita. Immaginate che venga a colpire l' occhio
vostro di repente un fascicolo condensato di viva luce,
a tale che superi la forza della pupilla. Immantinente
sentirete allora, e v'accorgerete di sentire una spiace
vole sensazione nell'occhio stesso, offeso da un lume
soverchio: ed è in tali casi, che noi poniamo attenzione
anche all'organo nostro affetto da notami dolore. Per
chè dunque noi ci accorgiamo di sentir 1' organo per-
ci piente, è necessario che in esso si metta un grado di
piacere o di dolore insolito e vivo, il quale raccolga a
sè l'attenzione sviata dietro all' agente esteriore dall'or
gano percepito.
Intanto questo che ho detto dell'occhio dimostrasi
evidenza il fatto, sfuggevole sì, ma vero, che data una
modificazione acconcia nell'organo sensitivo, noi pro
viamo le due cose accennate, cioè i.° sentiam l'organo
sensitivo modificato, 2.* e percepiam Vagente esteriore a
quel modo che il senso può percepirlo. E questa per
cezione non ha che far nulla colla sensazione dell'or
gano , colla quale sensazione è però indivisibilmente
unita a tale, che forma con essa una cosa, nè senza
questa quella esiste.
Ora il medesimo si trova nel fatto della sensazione
dell'udito, dell'odorato e del gusto.
L'udito fa sentire il suono; ma il suono non è la
sensazione dell'organo acustico col quale lo percepiamo:
è un fenomeno che sorge in noi quando quell' organo
viene modificalo, senza che si possa confondere nè ab
bia simiglianza colla sensazione dell' organo. In questo
fenomeno del suono è un'azione che io sento fatta M
ag3
me, diversa da quella che mi ò fatta dall'organo mo
dificato.
Quest' azione col fenomeno del suono da cui è accom
pagnata, è assai più forte del sentimento del mio organo,
e vale assai a tirarmi a sè, massime dov' ella s'abbia
delle particolari qualità. Perciocché se io sento una grata
modulazione di flauto, o il tintinnio di un'arpa tocca
maestrevolmente, vengo tratto nella soavità di que' suoni,
uè di stare punto attento al mio orecchio mi viene in
capo. E perchè da' suoni eh' io sento , io rimuova la
mia attenzione a riflettere sul senso dell' organo mio col
quale io gli odo, necessario è che qualche modificazione
dolorosa nell'orecchio mi vi richiami : come avverrebbe
allo scoppio di cannoni, che scotesser l'aria in tant' im
peto, che molestia mi dessero all'organo dell'udito; a
cui soglion correr le mani, in tali accidenti, subitamente
a difenderlo ed otturarlo , dando manifesto segno con
ciò della percezione dell' organo.
E dell' odore e del sapore è il medesimo, che son la
parte fenomenale della sensazione che si prova ove l'or
gano dell' odorato o del palato vien modificato dagli
agenti alla loro natura convenienti.
Afeli' odore di un garofano e nel sapore del miele si
possono notare quelle due cose.
In prima le particelle odorifere del garofano, recate
dall'aria alle mie narici, titillano in esse le fibre che
presiedono alla sensazione dell'odoralo. Quel titillamento
delle fibre sarà forse un leggero tremolamento in quelle
promosso, ovvero una piccola ferita o impronta che in
quelle fibre si rimarrà : io non cerco. Che cosa è egli
poi ehe noi percepiam coli' odore? forse quel movimento?
forse quella piccola puntura, o quella forma di stampo
che le molecole odorose debbono avere impresso in que'
nervicciuoli del naso? Nulla di ciò: non ha con ciò
similitudine del mondo la sensazion dell' odore: non
rappresenta nè richiama o movimento o forma che ab-
bian ricevuto le parti olfattorie: è cosa al tutto da sè,
che solo all' occasione di quelle modificazioni minute e
fors' anco impercettibili delle narici, sorge di repente
nello spirito nostro: il che io chiamo il fenomeno del
l' odoralo. Certo però è, che se i corpicciuoli odoriferi,
che percotono nelle nostre narici, fossero di tal forza e
vigore che a ciò bastassero, ecciterebbero un dolore nelle
294
stesse narici, che di questa parte ci farebbe risentire:
come avviene allora che l'odor dell' assa-felida ci fa rag
grinzare il naso spiacevolmente. Il che se non sempre
avviene, per la leggerezza del toccamento, non è però
che il fenomeno dell' odore ( nel quale è il termine di
un' azione esterna ) non sia interamente distinto dalla
sensazione dell' organo dell' odorato.
Del sapore il medesimo dir si dee: perocché quella
diversa forma che le papille del palato ricevono al tocco
del miele, non è già quella che noi sentiam col sapore:
ma il sapore è la parte fenomenale di questa sensazione,
e indipendente al tutto dalla percezion del palato.

ARTICOLO IX.
DESCRIZIONI DEI TATTO, SENSO UFIVMS ÌLI.

Il tatto è il senso universale: egli è ugualmente in


tutte le parti sensitive del nostro corpo (i).
Gli altri quattro sensi sono il tatto medesimo. Onde
adunque si distinguon dal tatto?
Dal fatto della sensazione fenomenale.
Quando que' quattro sensi si toccano , sono soggetti
alla percezione generale del tatto, e in questa col tatto
convengono (2). Ma insieme con questa, tocchi in un de
terminato modo, danno allo spirito quattro specie di
fenomeni, cioè il colore, il suono, l'odore e il sapore.
Questi fenomeni distinguono fra loro quegli organi, e
tutti insieme dal tatto universale.
ARTICOLO X.
ORIGINI PARTICOLARE DEL TATTO.
Da quanto fu detto si vede, che il sentimento fonda
mentale del corpo nostro non è che un tatto interiore,

(1) Anche gli antichi avevano osservato, che tulli i sensi sono latto fi
nalmente : quindi s. Tommaso: Omnes aulem ala seiisus /umlantur supra
factum (S. I , lxxvi , v ).
(a) La percezione del tatto abbiam veduto esser duplice , cioè di uni
natura soggettiva ed extra-soggettiva ad uu tempo, in lauto che odia sen
sazione del tatto si percepisce ad un tempo I.° l'organo senziente (parte
soggettiva), a.0 e l'agente esterno che tocca (parte extra-soggettiva). Io »'
riserbo più sotto a mostrare coli' analisi, come questa duplicità di stns*-
zione sia tu-' .piatta, sensi particolari di cui oui parliamo, e oltre a ciò coinè
iu essi sieno i quattro fenomeni indicali.
a9s
naturale; sicché per un atto primo tutto il nostro corpo
è dallo spirito nostro sentito.
All' incontro quello che si dice il senso esteriore del
tatto, non è (nel suo elemento soggettivo) che la capa
cità che ha il sentimento fondamentale di sofferire una
modificazione.
E poiché il fondamental sentimento si stende a tutte
le parti sensitive del corpo; o sia, questa estensione non
è che il modo di essere di quel sentimento; quindi mu
tandosi questo modo di essere, mutasi quel sentimento.
È per questo, che nascendo qualche moto nel corpo no
stro, e sofferendo quest'alterazione nella sua forma, noi
proviamo le sensazioni del tatto.

ARTICOLO XI.
RELAZIONE IU U DOS HMOHI SOGGETTIVE DI PERCEPIRE IL CORPO ROSTRO.

In tutte le maniere adunque di sensazioni v'ha sem


pre a fondamento la sensazione del tatto : e perciò v'ha
altresì una modificazione dell' organo senziente, la quale
da noi è sentita, almeno dov'.ella sia di un grado suffi
ciente per essere; sebbene non sempre da noi è avver
tita. Anzi ella è avvertita assai raramente ne' quattro
sensi a' quali appartengono i 'quattro fenomeni sensibili :
poiché la vivacità e singolarità di que' fenomeni , come
pure il loro vantaggio e necessità , tirano e tengono a
«è tutta la nostra attenzione, e la distolgono dalla sen
sazione a noi sterile dell' organo stesso.
Ma questo non avvien tanto nel tatto, senso meno
fenomenale, e che tien più raccolta la nostra attenzione
nell' organo stesso.
Queóta seconda maniera pertanto, onde noi perce
piamo il corpo nostro , non differisce dalla prima es
senzialmente.
Ella poi è soggettiva in questo senso , che noi per
cepiamo gli organi nostri come senzienti, e non come
solo sentiti : come formanti, in una parola, una cosa con
noi, in quanto noi siamo il soggetto senziente.
Ma in queste due maniere di percepire il corpo no
stro, la materia della sensazione ( il corpo stesso) è sem
pre la stessa. Quindi non può esser contraddizione
fra loro.
Laonde ciò che rende 1' una all'altra coerenti ed eguali

v
39G
queste due maniere di sentire , si è il riferire che fac
ciamo il sentimento e la sensazione agli stessi punti
dello spazio.

CAPITOLO V.

CRITERIO DELL' ESISTENZA De' CORPI.

ARTICOLO I.
DEFINIZIONE DE* CORPI ALQUANTO PERFEZIONATA.

Dojjo 1' analisi falla del sentimento fondamentale , e


delle sensazioni acquisite ( nella parte lor soggettiva ),
noi possiamo perfezionare alquanto la definizione del
corpo.
E per veder prima le più celebri definizioni che ne
han dato i moderni ,
I. Berkeley e Condillac definirono il corpo un com
plesso di sensazioni. Ma la sensazione non può essere,
come abbia in veduto, che un effetto dell'azione del corpo
sullo spirito: e quindi in una tale definizione mancava
l'agente, mancava la sostanza del corpo, e non si rite
neva che un suo accidentale effetto. Ora la sostanza del
corpo è il corpo. Quella definizione adunque escludeva
il corpo, e conteneva l'idealismo, cioè la negazione
de' corpi.
II. Cartesio e Malebranche riposero l'essenza del corpo
nella estensione. Ma il concetto dell'estensione non
presenta alcuna attività, alcuna forza : ella è più tosto
il termine di una azione: l'osservazione ci dice, che la
prima cosa che noi sofferiamo da' corpi, è il sentimento
che in noi producono con una certa azione; e troviamo
poi, analizzando questo sentimento, che egli si riferisce
a certi punti nella estensione, eh' egli si espande e ter
mina nell'esteso: quindi l'estensione la scuopriamo a
principio come un modo di quel sentimento che in noi
producono i corpi. Vero è che noi analizzando, come
facciam più sotto, questo modo di sentire ( effetto del
l' azione de' corpi), troviam anco ch'egli dee pur es
ser reale nella causa che l'ha prodotto, e che perciò i
corpi dovranno essere estesi : ma questa è una scoperta
secondaria: e l' essenza della cosa, secondo Cartesio, è
ciò che da prima noi concepiamo nella cosa pensata.
297
Or nos non potremmo pensare all'estensione, se non pen
sassimo prima ad una azione che vien fatta in noi, e che
ci mostra l'estensione stessa.
III. Leibnizio s'accorse che l'essenza del corpo dovea
porsi in una forza; ma egli non mosse i suoi ragiona
menti dalla osservazione, dalla qual sola, per esser so
lidi, debbono cominciare. Pertanto in luogo di accon
tentarsi dell' idea di una forza che agisce in noi , e ci
fa passivi nel tempo della sensazione corporea, il quale
è un fatto della coscienza ; egli anzi immaginò che il
corpo dovesse essere una forza che in noi punto non
operasse , ma solo in sè medesima (comé tutte l'altre sue
monadi), per una interiore energia, ed operasse armonica
mente bensì con noi, ma non su noi. Egli tolse con ciò
a sè stesso l'unico mezzo col quale conoscer potea quella
forza : perocché l'uomo altramente conoscere non la può,
che per 1' osservazione di quanto avviene in sè stesso.
L'ipotesi, che dal nostro interno si euodi e sviluppi
una cognizione della medesima, è immaginazione gra
tuita, non sorretta in alcun modo nè dall' osservazione,
nò dall' analogia, nè da veri argomenti intrinseci. Or,
se si doveano concepire i corpi non per quello che l'os-
wazion di essi ci porge, ma secondo l' immaginazion
nostra; naturai cosa era che quelle forze, che corpi vo-
gliam chiamare, si dovessero come meglio piaceva fog
giare: quindi potevasi e supporle semplici (i) , e dare
ad esse la percezione: il che è quanto dire idearle non
come sostanze che fan sentire , ma come sostanze che
sentono- L' idea dunque leibniziana de' corpi è diversa
al tutto da quella che noi presentiamo.
Noi moviamo ogni discorso dalla osservazione: e la
descrizione che noi diamo de' corpi vogliamo che sia il
risultamento di questa. Se v'abbia nel corpo tal cosa, che
sotto la nostra sperienza non cada , o non entri in ciò
che esige la concezione intellettiva de' medesimi , noi
non cerchiamo punto: sarebbe una ricerca tutto stra
niera al nostro divisamento, e impossibile all' uomo.
L' osservazione adunque assicurò , che noi nelle sen

ti) Più sotto ci verrà l'occasione di confutare direttamente i punti sem


plici di Leibnizio e di Boscovicli.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. II. 38
2()8
sazioni eravamo passivi. L'esser passivi vuol dire sof
ferire un' azione della quale non siamo noi gli autori.
La coscienza di un' azione fatta in noi , di cui noi non
siamo gli autori , è la coscienza di una energia ope
rante in noi: e una energia operante in noi, concepita
dal nostro intelletto, è un ente, una sostanza. Quiudi
la prima definizione, ancora imperfetta, che abbiamo
usata del corpo: « il corpo è una sostanza che agisce
in noi in un dato modo ».
A. perfezionare questa definizione, conveniva cercare il
modo dell' operare di questa sostanza ; e trovato il ?a-
lore di quella incognita, « in un dato modo», sosti
tuirlo nella nostra formola.
La sensazione o sentimento corporeo era 1' azione di
questa sostanza : conveniva adunque analizzare questa
sensazione o sentimento.
Tentammo l'analisi, e trovammo che v'ha un senti
mento fondamentale e uniforme, e che v' ha un'azione
che modifica quel sentimento fondamentale parzialmen
te : quindi due azioni, due energie, due sostanze, due
corpi: il corpo nostro che produce in noi il senttruento
fondamentale, e il corpo esterno che modifica il corpo
nostro : il corpo che oltre esser sentito è senziente, e
il corpo che è puramente sentilo.
Il sentimento fondamentale, che è 1' azione del corpo
nostro, non è solamente un piacere; è un piacere che
ha un modo e una limitazione sua propria , modo e
limitazione che non iscaturisce dalla semplice nozione
di piacere, e che si chiama estensione.
Le sensazioni acquisite sono tutte una specie di tatto (1).
Il tatto è una sensazione soggettiva insieme ed extra-
soggettiva : cioè nella sensazione del tatto si sentono due
cose:
Si sente 1' organo senziente, e questa è la parie sog
gettiva; e si sente Vagente esterno che ha prodotto in
noi col suo loccamento la sensazione del tatto, e que
sta è la sua parte extra-soggettiva.
La parte soggettiva è una modificazione del senti
mento fondamentale, e con essa si sente quella parte

(i) Col crescere naturale del corpo umano il sentimento fondamcutale si


modifica: questa specie però di modificazioni acquisite sono puramente
soggettive.
29?
che venne affetta nel corpo nostro, con un senso più
vivo e nuovo, ma che si riferisce agli stessi punti ai
quali pure il sentimento fondamentale si riferisce.
Vi sono però quattro classi o specie di sensazioni,
proprie di quattro parti od organi del corpo nostro ,
le quali hanno congiunte a sè quattro specie di feno
meni , che sono le superficie colorite, i suoni, i sapori,
e gli odori.
Analizzata così l' azione che esereita in noi la so
stanza corporea, dico che l'essenza del corpo dee con
sistere in ciò che questa azione ha di comune, d' inva
riabile, cioè ne' due elementi, i.'del piacere o dolore,
%' e dell' estensione in cui questo si prova. Quindi la
(fefinizione del corpo da noi sopra toccata si può per
fezionare in questo modo: « Il corpo è una sostanza
che produce in noi un' azione , che è un sentimento di
piacere o di dolore, avente un modo costante che noi
chiamiamo» estensione».
E si può aggiungere ancora: « e che può essere ac
compagnato dalle quattro specie di feuomeni che si
chiamano colore, suono, odore, e sapore »; avvertendo,
che con questa giunta non si esprime la necessità di
questi fenomeni attuali, ma solo l'attitudine nel corpo
a suscitarli in noi , date tutte le condizioni a ciò ne
cessarie.
Per la qnal cosa, se una tale sostanza è congiunta
con noi stabilmente con quel nesso che dicesi della
vita (qualunque questo sia, non è del mio scopo inve
stigarlo), una tale sostanza ù il corpo mio soggettivo, ed
esercita nel mio spirito un'azione costante e uniforme
die io chiamo sentimento fondamentale. Se manca que
sto nesso , egli è per me un corpo straniero, e non può
produrre in me che delle sensazioni parziali e pas-
saggere.
ARTICOLO li.
CRITERIO GENERALE T-e' GIUDIZI INTORNO ALl' ESISTENZA de' CORPI.

Trovata la definizione del corpo (1), è trovato altresì


il criterio secondo il quale giudicate della sua esistenza.
« Allora io potrò dire d'esser certo dell'esistenza di

(i) Art. .precedeute.


3oo
un corpo, quando io sono certo che esiste ciò che for
ma V essenza sua e che viene espresso nella defini
zione ».
ARTICOLO HI.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO GENERALE.

Nella prima percezione del corpo noi esperimentiamo


una sensazione fondamentale, che è il piacere della
vita o sia dell'individua congiunzione del corpo nostro
con noi.
Questa sensazione fondamentale ha congiunta a tè
come un suo modo 1' estensione, conciossiachè a di
versi punti dello spazio si riferisce (i).
Questi due elementi, i.* piacere o dolore, 2.* esten
sione , costituiscono la natura del sentimento corporeo:
sono due elementi della percezione sostanziale de' corpi.
Or poi 1' estensione primitiva a cui si riferisce il sen
timento nostro, soffre delle modificazioni da una causa
esteriore ( corpi esteriori ) : e in questa modificazione
succede in noi
i.° la sensazione del piacere o del dolore parziale e
avventizio;
2/ la sensazione in una estensione diversa dalla pri
ma; poiché ad altri punti riferiamo il nostro piacere 0
dolore, in quanto che il corpo nostro ha ricevuto qu^
che movimento nelle sue parti, qualche alterazione di
forma.
Al che s1 aggiungono talora i quattro fenomeni dei
quattro organi particolari, l'occhio, 1' orecchio, le na
rici e il palato, cioè se questi sono gli organi affetti.
La sola sensazione di piacere o dolore che in noi
proviamo non indica ancora per sè la presenza di un
corpo: ci avvisa bensì che in noi vien fatta un'azione,
e che ci dee essere una causa che la fa , da noi diver
sa; ma non ci direbbe mai, ove sola esistesse, che
questa causa sia un corpo , perchè mancherebbe un
elemento essenziale al corpo, 1' estensione. Conviene che

(1) Il dire che il sentimento si riferisce a diversi punti dello spazio, «


maniera che più facilmente richiama lo spazio figurativamente percepii" •
il chiamare all'incontro l'estensione puramente modo del sentimento,
nicra che non esce dalla sensazione soggettiva della medesima.
3oi
quella sensazione sia atta a farci percepire un' esten
sione, perchè noi in essa abbiamo una sensazione cor
porea: l'estensione determina la nostra sensazione, cioè
fa sì eh7 ella sia una di quelle che si chiamano corpo
ree o materiali.
Viceversa, l'estensione sola non è il corpo; poiché
il primo elemento essenziale al corpo è la forza di
produrre in noi un sentimento.
Acciocché dunque noi non cadiamo in errore sull'e
sistenza del corpo , uopo è che ci accertiamo delle due
condizioni o elementi che formano 1' essenza di lui ,
i.' il sentimento ( passività nostra , azione del corpo ),
%' e l'estensione a cui il sentimento si riferisce (modo
del sentimento ).
V ha un' azione fatta in noi che costituisce il senti
mento fondamentale : questo sentimento ha congiunto il
modo dell' estensione.
Dunque esiste un corpo a noi stabilmente congiunto.
L' esistenza del corpo nostro non è soggetta più a dub
bio; poiché non è possibile ingannarci su 11' esser noi
vivi o morti : giacché i due elementi costitutivi il corpo
in questo caso sono due fatti della coscienza.
Nelle sensazioni poi avventizie si distinguono i due
elementi 9
i.* una modificazione del sentimento fondamentale,
la quale è una sensazione più viva e nuova di qualche
parte del corpo nostro ,
a.* una percezione di un agente esteriore all' esten
sione, abbracciata dal sentimento fondamentale.
Il primo elemento è la seconda maniera soggettiva
di percepire il corpo nostro: il secondo elemento co
stituisce la percezione extra-soggettiva de' corpi esteriori.
L' esistenza adunque del corpo nostro si fonda sem
pre nel testimonio del sentimento fondamentale.
Rispetto poi a' corpi esteriori , la certezza della loro
esistenza al sentimento fondamentale pure si rapporta ,
perchè l'azione ch'essi fanno su noi è indivisibilmente
congiunta colle modificazioni dello stesso sentimento
fondamentale, e la loro estensione è misurala con quella
stessa che prima dal sentimento fondamentale viene
occupala.
302
, ARTICOLO IV.
■ •• i i
LA CUTEZZA DEL CORPO NOSTRO I 11 CRITERIO DELL ESISTENZA
DEGLI ALTRI CORPI.

Quindi il corpo nostro, percepito nel primo modo,


è on criterio dell'esistenza di tutti gli altri corpi.
E al primo modo di percepire il corpo, cioè col
sentimento fondamentale, conviene di ridurre gli altri
modi : cioè il secondo soggettivo , poiché è una modifi
cazione del fondamenta! sentimento; e il terzo, extra
soggettivo ( pe'corpi esterni), poiché l'estensione extra
soggettiva si rileva, come meglio vedremo, per un con
fronto che nasce colla soggettiva.

ARTICOLO T. .
APPLICAZIONE DEL CRITERIO ACLI ERBORI CHE SI POSSO» PRO.'DEIE
SULL* ESISTENZA DI QUALCHE MEMBRO DEL CORPO NOSTRO.

Sull' esistenza del corpo nostro non può cadere er


rore, quaudo nel primo modo , cioè col sentimento fon
damentale si percepisce (i).
Ma quando si percepisce colla sensazione acquisita
(nella quale sono gli altri due modi da noi distinti,
l'uno soggettivo, l'altro extra-soggettivo) (2) , allora può
essere che c' inganniamo sull' esistenza di qualche parte
del corpo nostro.
Quanto all' error che può nascere nel percepire il no
stro corpo nel terzo modo , cioè qual agente straniero,
e non qual soggetto, noi non parliamo qui: perocché
quest' errore è comune alla percezione di tutti gli altri
corpi fuori di noi, e di questo parliamo più sotto.
Ma circa 1' errore che può nascerci sull' esistenza di
qualche parte del corpo nostro percepita nel secondo
modo soggettivo, ecco il caso ed il suo scioglimento.
Quegli a cui fu amputata una mano od un piede,
e poi guarito, sente talora fortemente dolere non i mon
cherini o gli stinchi , ma pur la mano o il piede che
egli non ha, sicché gli pare d'avere ancora que' mem
bri che gli furon mozzati. Per tal modo riferisce egli il
suo dolore all' estensione in un modo ingannevole e
falso.

(1) Art. III. (2) Ait, IV.


3o3
Questo è il caso dell1 errore (1); ecco il modo onde
coli' applicazione del criterio accennato si scnopre. ,, .
La mano o il piede mozzo non lo sente egli già per
quel sentimento fondamentale, ma per la sensazione
avventizia di que' dolori. A veder dunque se questa sen
sazione e' inganna , abbiam detto che convien ridurla ,
come a suo criterio e prova, al sentimento fondamentale*
La sensazione acquisita del corpo si riduce al senti
mento fondamentale, quando uora s'accerta eh' es.sa è una
modificazione di esso sentimento. Veggiarao adunque
come ciò si faccia nel caso proposto, i , • .
La sensazione del dolore nel braccio o nella gamba
recisa è fuor di dubbio modificazione del sentimento
fondamentale; ma questo non prova ancora, come di
cevo, l'esistenza del corpo (2).
Convien adunque die si possa ridurre anche l'esten
sione sentita colla sensazione , all' estensione stessa del
sentimento, fondamentale. ,
Ora quali sono i caratteri dell'estensione del senti
mento fondamentale ?
Due ne abbiam veduto: 1." l'esistenza sua uniforme
e costante , 3.0 l'attitudine a subire delle modificazio
ni. Prendiamo questo secondo carattere , e vediamo se
regge al suo confronto l'estensione sentita della mano
e del piede mozzo,
Il piede o la mano così percepita, è quella stessa del
sentimento fondamentale? S'ella è la stessa, dovrà es
sere soggetta a più modificazioni; giacché l' estensione
fondamentale ( la mano percepita col sentimento fonda
mentale ) ha questo di esseuzial carattere, d' esser atta
a subire modificazioni. La mano dunque, se esisterà ,
potrà esser toccata , veduta , mossa ecc. , che sono le
modificazioni dell' estensione fondamentale. Ma la man

(1) Io metto la cagione di questo errore, anziché nella sensazione, in un


giudizio abituale. Noi eravamo solili, avendo il piede o la mano, di rife
rire a queste parti il dolore: questo noi facevamo per necessità di natura,
poiché eran quelle parti che ci dolevano. Or di questa necessità si è fatta
m noi un'abitudine di riferirlo colà; c questa ci è restata, anche tolta
quella necessità. Sentendo dunque noi una sensazion dolorosa poco dissi
mile da quella che sentivamo prima nella mano o nel piede, con questa
la confondiamo, e le diamo anche lo stesso luogo, non avvertendo il luogo
the le spetta veramente.
(1) Art. III.
3o4
del mozzo non si presta a questo : ella è sentita , ma
non col sentimento fondamentale : è dunque un feno
meno ingannevole, perocché non si può ridurre all'e
stensione fondamentale, nè dimostrare che non è se
non la fondamentale estensione modificata. E veramente,
quando io sento una mano pel dolore che in essa pro
vo, il modo di questa sensazione, cioè l'estensione sua
dee essere identica con quella del sentimento fonda
mentale : nè può esserci altra differenza se non questa
sola, che nel sentimento fondamentale la sensazione è
men viva, e continua; mentre 1' acquisita o avventizia
è viva assai più, parziale e temporanea.

ARTICOLO VI.
ARGOMENTO DECb' IDEALISTI TRATTO DA* SOGNI , RIFIUTATO.

Quindi apparisce la vanità dell' argomento degli idea


listi, tratto dalle visioni che noi abbiamo ne' sogni.
Essi dicono: non potrebb' esser la vita un continuo
sogno ?
E non osservano, che quelle rappresentazioni de1 so
gni e' ingannano sull'esistenza de' corpi esterni, ma non
sull'esistenza del nostro proprio corpo; anzi questa la
contestano.
Noi non potremmo avere quelle illusioni de1 sogni,
se non fossimo forniti di un corpo che , stimolato io
un dato modo , ci presentasse quella specie di fenomeni.
Tanto è lungi adunque che i sogni ci possano far
dubitare dell' esistenza de' corpi in generale, che anzi
essi ce la provano e confermano : conciossiachè quelle
illusioni non ci nascono se non perchè il corpo nostro
soffre in un dato modo; non si sognerebbe, se non si
avesse corpo.
Più a basso vedremo per qual via noi possiamo di
stinguere la falsità dalla veracità ne' fenomeni esteriori.
\
3o5
CAPITOLO VI.

i origine dell' idea di tempo.

ARTICOLO I. ".
i
NESSO DELLE DOTTRINE ESPOSTE CON QUELLE CHE SEGUONO.

Abbiam veduto come da noi si percepisca i! corpo


nelle due prime maniere soggettive, cioè che valgono
pel corpo nostro: ora ci rimane a parlare della terza,
che è extra-soggettiva, cioè che vale per tutti i corpi
che sono agenti stranieri applicati alla nostra facoltà
di sentire ; colla quale possiamo anche percepire il corpo
nostro, ma non come nostro, sì bene come qualsiasi
altro corpo esteriore.
Prima tuttavia di venire a questa terza maniera ,
gioverà che spieghiamo alcune idee astratte, le quali
anche dal corpo percepito soggettivamente si posson
cavare e queste sono le idee di tempo, di movi'
mento e di spazio.
In vero, il tempo è connesso con tutte le azioni o
passioni che dalla nostra coscienza si attestano: il roo-
vimento non ha alcun bisogno de' sensi esteriori a per
cepirsi da noi , essendo la facoltà nostra locomotrice
una facoltà interna e soggettiva , di cui la coscienza
medesima ci afferma l'esistenza; e finalmente lo spazio
o estensione è pure un modo del nostro sentimento
corporeo soggettivo (2), dal quale sebbene non si possa
divider nel fatto, tuttavia si può distinguere nel sen
timento stesso colla mente , siccome in qualsiasi essere
si può notare il suo modo di essere , benché coll'aysere
stesso per sè indivisibilmente congiunto.
Di queste idee adunque, di tempo, di movimento e
di spazio, noi abbiamo già un fonte in quelle idee che

(1) La mente nostra però non fa quest'astrazione , se non quand' ella è


gii sufficientemente sviluppata : nè sufficientemente si sviluppa , se non per
l'uso de' sensi esteriori. Ciò non toglie, che il corpo soggettivamente per»
cepilo sia il fondamento delle astrazioni di cui parliamo.
(2) Fino a qui nulla di più abbiamo scoperto intorno all' estensione : più,
"manzi conosceremo meglio la sua natura, e vedremo ch'ella nou ha so
lamente un'esistenza nel soggetto, ma nell'agente altresì.
Rosmuh, Orig. delle Idee, Poi IL Z.j
3o6
fino a qui abhiam dichiarate: ci gioverà tuttavia l'usar
anche della percezione extra-soggettiva de' corpi , e del
l' uso de' sensi esteriori , per non disgiungere quello che
troppo suol essere nella mente nostra congiunto. Po-
niam dunque mano alla deduzione di queste idee.

ARTICOLO IL
IDEA DI TEMPO ACQUISTATA DALLA COSCIENZA DELLE PROPRIE AZIONI.

In facendo un'azione, noi siamo limitati in due


modi (i): e quel sentimento interiore e immediato, pel
quale siamo conscii a noi stessi di far quell'azione,
egli medesimo ci avvisa della doppia limitazione.
La prima di queste limitazioni è ciò che si chiama
un grado d' intensità nell' azione; la seconda è ciò che
si chiama una certa durata dell' azione: ma questi vo
caboli d' intensità e di durata significano quelle due li
mitazioni nello stato di astrazione, cioè dopo che noi
le abbiam divise colla mente dalle azioni stesse interne
ed esterne cui limitano, e fatte così divenire due esseri
mentali, isolati, a cui s'impongono distinti vocaboli.
Fino a certo punto noi possiam crescere la intensità
e la durata delle nostre azioni, e noi possiamo imma
ginarci che cresca indefinitamente. Or la durata succes
siva è 1' idea del tempo. v
Come la mia azione presente ha una durata succes
siva , così una durata successiva ha pure qualunque
altra azione o mia od altrui , o reale o possibile.
Quindi la durata di un* azione paragonata colla du
rata dell'altre azioni dà un certo rapporto: e questo si
dice la misura del tempo.
Comunemente per misura del tempo si prende una
azione patente, solenne, uniforme, costante: e tale è il
moto della tèrra che si gira intorno al proprio asse e
intorno al sole; e le parti di questa azione formano le
parti del tempo, gli anni, i mesi, i giorni, le ore ecc.

(i) La prima azione che noi sentiamo di fare è quella della vita : I»
qual pure ha la limitazione della durata. Nel sentimento fondamentale «dun
que è compreso anche il sentimento del tempo. Ma V aoalisi del sentimento
fondamentale richiede troppo lavoro: ed io mi limito in quest'opera ele
mentare ad accennare di questo sentimento ciò che è necessario per 1 as
sunto tolto dalla medesima,
3c>7
Si sarebbe potuto prendere a misura del tempo qual
sivoglia altra azione , purché alla durata di essa si
rapportasse la durata di tutte le altre azioni.
Sebbene io possa diminuire ed accrescere la durata'
d1 una mia azione, tuttavia quando io voglia conservare
la stessa quantità d' azione, ciò far non posso senza
compensare coli' intensità ciò che perdo nella durata
accorciata ; o se accresco la durata, debbo scemare altret
tanto l' intensità. Si dà dunque un rapporto invaria
bile fra la durata e V intensità dell' azione.
La costanza di questo rapporto è fondata in due dati
costanti, cioè i.° nella quantità costante di effetto o
di azione che si vuole ottenere, 2." e nella quantità li
mitala delle forze operanti, la quale pure è data e
costante.
E dunque per legge, che esce dalla natura delle cose,
fissato , che volendo una data quantità d' azione entro
una certa durata , non possa essere che una certa e
fissa intensità d'azione quella che. la ottenga.
Di più,, poniamo la quantità d'azione, che si esige,
non determinata; e l'intensità dell'azione poter varia
re. Mettiamo costante la durata. Applicando poi a que
sta durata una serie di gradi d' intensità d' azione,
noi avremo una serie che ci esprimerà altrettante quan
tità d'azioni o d'effetti, tutte proporzionate alla serie
de' gradi d' intensità , nè più nè meno. Io posso dun
que stabilire in generale, che dentro una durata qual
siasi, la quantità d' azione sarà proporzionata all' in
tensità dell'azione, e nulla più: quindi l'idea della
equabilità del tempo. Checché si faccia entro una certa
durata , io ho un rapporto costante fra P intensità del
l'azione, e la quantità di questa: sicché ov' io vedessi
farsi poco entro quella durata, potrò bensì immaginar
sempre che di più si facesse , ma a condizion di sup
porre un aumento ncll' intensità dell' azione: in una
parola, io posso pensare la possibilità di fare una cosa
entro certa durata, ma mediante una tale intensità
d'azione determinata; e lo stesso posso pensare di qua
lunque durata a quella uguale.

>
3o8
. . .. t I i ARTICOLO III.
..•!,.:•..
IDEA DI 'TEMPO , SUGGERITA DALLE AZIONI A LUCI.
| .. ! . :
Ciò che fu detto rispettò alle azioni di cui la co
scienza ci dice d' esser noi gli autori , possiamo dir si
milmente di quelle azioni che noi percepiamo e delle
quali gli autori non siam noi.
Per tal modo il tempo non solo è limitazione del
l' azione, ma ancora della passione: e ciò perchè pas
sione ed azione non sono ben sovente che lo stesso
fatto considerato sotto due rispetti diversi e contrarj.

• ARTICOLO IV.
• . ■ !.. . •,' ' I
IDEA PERA DEL TEMPO.
.1 . 1 , t
In tutte le azioni e passioni degli esseri finiti , noi
possiamo astrarre quella loro limitazione , che abbia m
chiamato durata successiva , e poi aggiungere 1' idea di
possibilità ( cioè dell' azione possibile ), che è in noi
ingenita, come si disse: allora noi abbiam l'idea pura
del tempo, cioè del tempo non in un' azione reale, ma
in un'azione possibile.

ARTICOLO V.
IDEA DEL TEMPO PORO' INDEFINITAMENTE LUNGO.

Noi percepiamo la durata successiva siccome « una


possibilità, che mediante un dato grado d'intensità
ncir azione, si ottenga una data quantità della mede
sima ».
Tale è 1' idea del tempo in generale, dataci dalla
osservazione, o sia l'idea pura del tempo.
Data dunque l'intensità costante, la quantità d'a
zione è la misura del tempo: e 1' equabilità del tempo
non vuol dir altro se non « la medesima quantità d'a
zione ottenuta con un grado costante d'intensità ».
Ma questa quantità d'azione data (qualsiasi), otte
nuta con un grado costante d' intensità ( qualsiasi ), noi
possiam concepirla coli' idea della possibilità eh' ella si
replichi un numero indefinito di volte. Indi l' idea del
tempo puro indefinitamente lungo. Quest' idea dunque,
analizzata, è composta (.* dell'idea di possibilità (in
3o9
definita per sè stossa ) , a.' e dell' idea ( astratta ) di una
delie due limitazioni a cui vanno soggette le azioni che
si fanno successivamente. • . '" •"■
i «
; \ ARTICOLO VI.
t
sulla continuità' nel tempo.

§ I.
Tutto ciò che avviene , avviene per istanti.
In qualunque istante si osservi una cosa qualsiasi
che abbia in sè successione , cioè che nasca , cresca , si
perfezioni, invecchi e- perisca; in qualunque istante,
dico, si osservi tal cosa; trovasi in essa uno stalo de
terminato.
Conciossiachò , pel principio di contraddizione, non
può esser in lei parte, o perfezione , la qual sia e non
sia nel medesimo tempo.
A dichiarar quest' idea, osserviamo il dente che mette
in un bambino, o il tempo quando muta in barba la
lanuggine d'un giovinetto. A chi dimanda: E nato il
dente? è venuta la barba? rispondesi: Non ancora, ma
comincia. Questa parola, comincia, racchiude una rela
zione mentale col futuro stato della cosa, cioè col dente
già nato e venuto, e colla barba cresciuta. Ma certo è
che quella nascenza di dente che si mosse a venire, e
quelle cime de' crini spuntate, considerate in sè stesse,
sono già , e non è il loro stato alcuna cosa di mezzo
fra 1' essere e il non essere.
Questa semplice osservazione del fatto ci dà una con
seguenza singolare , ma vera, cioè che tutto ciò che
avviene, avviene in uno istante: quando però s'intenda
quel tutto ciò che avviene non per cosa complessa, cioè
per una natura già formata ( e l'uomo suol sempre aver
V occhio suo a questa ), ma per quella cosa qualsiasi
( parte di natura , elemento di un oggetto complesso )
che in ciascuno istante è : conciossiachè quella cosa ,
checché sia , la quale in un dato istante si trova es
sere , è perfetta verso di sè, verso dell' esistenza sua ;
sebbene sia imperfetta considerata qual parte di cosa
maggiore, di cui ella è elemento, o abbozzo, o principio.
E quinci una grave diflicoltà.
Se, in questo senso, tutto ciò che si fa, si fa in
3ro
uno istante, ond' è dunque il tempo continuo? Questa
idea di tempo la caviam pure per astrazione da ciò die
si fa, dalle azioni. Pensando una serie di cose che av
vengono , delle quali ciascuna avviene in uno istante ,
noi percepiam , sì, una serie di punti, una successione
d'istanti; ma un tempo continuato, non mai.

§ 3.
Neil' idea di tempo data dalla sola osservazione, non si può trovare la soluzione
della predetta difficoltà.
Ripigliamo l'esempio de' peli nascenti, eveggiamose
l'osservazióne sola ci somministra primieramente talt
idea del tempo, nella quale entri il carattere di una
vera continuità.
Un capello lungo un palmo abbia messo due mesi a
venire.
Questo moto del capello fu un' azione , che noi dire
mo complessa ,• perciocché ci appar composta di molle
piccole azioni , ciascuna di minor durata.
E simigliantemente sarebbe della produzione di qua
lunque altra natura : poiché il nascimento di un fiore,
l' incisione di un basso rilievo , o qualunque altro avve
nimento il qual diede o mutò l'essere a checchessia,
noi lo chiameremo un'azione complessa, perciocché pos-
siam sempre col nostro pensiero suddividerla in più
parli, le quali sarebbero altrettante azioni o avvenimenti
minori.
Ora badisi primieramente, che il tempo messo da
quel capello a venire, conserva una ragione costante
con tutte le altre azioni che fatte si sono entro i due
mesi, a quel modo che l'abbiamo dichiarata di sopra (i),
cioè fatta ragione all'intensità dell'operazione.
Fissata così la intensità dell' operazione entro i due
mesi , ogni essere in essi operante non può dare che
una quantità di azione, o sia un effetto determinato.
Veggiamo or dunque come quest'azione complessa e
successiva, o questo effetto totale si possa pensare di
viso in istanti nella durata de' due mesi.
Facciamo una distribuzione arbitraria qualsiasi di
questi istanti. Il capello si supponga cresciuto un palmo

(i) Art. L
• 3n
in 5,i84,ooo istanti , in ciascuno de' quali egli acquistò
il suo piccolo aumento corrispondente. Io dico : se in
capo a due mesi la sua lunghezza dee esser d' un pal
mo e nulla più, è necessario che l'intervallo d'uno
all'altro di quegli istanti, ne' quali egli è cresciuto,
sia determinato; sicché, supposto sempre uguale l'inter
vallo d' uno air altro, sarà nè più né meno un minuto
secondo.
Questi intervalli così minuti e più ancora ? sfuggireb
bero interamente all'osservazione: quindi essi non po
trebbero esser da noi misurati nò percepiti colla osser
vazione, ma solo col ragionamento : cioè noi li potremmo
misurare dalla cognizione dell'effetto totale, o sia della
quantità d' azione avvenuta in un dato tempo notabile
(la qual cade sotto l'osservazione), come sarebbero i
due mesi , o anche meno , qualunque sia il tempo, pur
ché notare da noi si possa ; e la misura di quella quan
tità cV azione è il rapporto di tutte le altre quantità
d' azioni entro lo stesso tratto di tempo ottenute.
Tuttavia seguitiamo un poco nella supposizione del
l' esistenza di questi piccoli intervalli. Se essi fosser tali
che potessero esser da noi osservati, in che modo po
trebbero essi cadere sotto la nostra osservazione?
Non per sè; perciocché in quanto a sé sono una ne
gazione , una cessazione di azione : solo dunque per la
relazione della diversa frequenza degl' istanti in azioni
diverse. Se dunque noi potessimo osservare que' succes
sivi crescimenti istantanei che abbiam supposto avve
nir nel capello ogni minuto secondo, noi , guardando
quest' azione sola , non avremmo nessuna misura del
minuto, se pure a ciò che avviene in noi in un corri
spondente intervallo, come il battito del cuore, o un
grado di stanchezza ecc., noi paragonassimo. All'incon
tro raffrontando più azioni insieme, osservando per esem
pio gli accrescimenti del capello d' un vecchio in con
fronto cogli accrescimenti del capello d'un giovane,
rileveremmo, che mentre il primo dà un aumento, il se
condo ne dà due o tre: indi la misura di quel piccolo
intervallo, tolta sempre dalla quantità d'azione (fatta
uguale l'intensità) che si ha per risultato entro due
istanti. La misura dunque di quegl' intervalli piccolis
simi, dove aver si potesse colla osservazione, non sa
rebbe altro che il rapporto della quantità o effetto lo
3l2 •
tale, che ài. rileverebbe io più cause operanti entro due
medesimi istanti. Quindi la misura di quegli interTalli
piccolissimi non potrebb1 essere d'altra natura da quel
la che si ha di una serie d'istanti, o sia d'una du
rata notabile, in fine alla quale si mettono a confronto
delle quantità d'azioni maggiori, o degli effetti totali che
per la loro grandezza cader possono sotto la nostra os
servazione.
Conchiudiamo adunque, che posti i veri fin qui di
mostrati, cioè posto i.° che tutto ciò che avviene, avviene
per istanti, 2.0 e che 1' idea cui l'osservazione ci può dare
del tempo non è che un rapporto degli avvenimenti in
fra loro, cioè delle quantità d'azioni entro i mede
simi istanti, consegue che
« Qualsiasi osservazione, quand' anco fosse un'osser
vazione indefinitamente più fina e più penetrante di
quella della qual l'uomo è capace, non potrebbe mai
somministrare immediatamente all' intendimento l'idea
di un tempo continuo, cioè di una successione conti
nua; ma non somministrerebbe se non l'idea di una
serie d'istanti più o meno prossimi fra loro, edil rap
porto fra i medesimi ».
A malgrado di tutto questo però noi abbiamo l' idea
di un tempo continuo. Dobbiamo dunque rendere una
ragione sufficiente , che spieghi il fatto di questa idea.
Tentata la via della sola osservazione, e trovatala inetta
a tal fine, dobbiamo cercare un altro fonte, onde quelli
idea possa esserci derivata.

§ 3.
Necessità di ricorrere alle possibilità semplici delle cose, e aVYcrtenza
di non confonderle colle cose reali.
Nelle concezioni nostre intorno al tempo, separiamo
dunque quelle che ci son date immediatamente dall'os
servazione, da quelle che noi formiamo col ragiona
mento astratto , che muova però sempre dall' osserva
zione.
L' osservazione presenta al nostro intendimento, cioè
alla nostra facoltà di giudicare, cose di fatto. Le idee
esprimono pure possibilità, e non cose di fatto.
Ora non si hanno già a spregiare le pure idee che
esprimono semplici possibilità, siccome la frettolosa te
merità del secolo trapassato facea ; ma ciò di cliedob
3i3
biamo sommamente guardarci si è di non confondere
giammai le possibilità colle cognizioni delle cose reali
e de' fatti.
Le idee o le possibilità sono rispettabili altamente
per due ragioni , cioè i.° poiché senza quelle non pos
siamo fare il menomo ragionamento, nè anco in sulle
cose di fatto, siccome risulta da tutta la teoria del
l' origine delle idee , la qual dimostra che in ogni idea
la possibilità si mescola necessariamente (i) ; a." poiché
fra tutte le cose possibili contrarie, le quali d'una cosa
si pensano, ve n'ha pur una di vere, e può anco es
sere talora che col ragionamento si trovi la via di fer
mar fra le due quale ella sia.
Ma dopo ciò, il ravvolgere insieme ciò che è possibile
d' una cosa , con ciò eh' è di fatto, è 1' error capo di
tutti gli errori; perciocché corrompe il metodo stesso,
o sia il mezzo di trovare la verità.
Occupiamoci adunque con diligenza a sceverare le co
gnizioni che intorno al tempo ci vengono immediata
mente dalla osservazione, e ci additan de' fatti (a) , da
quelle che non esprimono che semplici possibilità.

§ 4.
L' osservazione non ci fa conoscere il tempo che come un rapporto fra la
quantità delle azioni, data la medesima intensità nell'opcrarc.
L' osservazione adunque non ci mostra che azioni
grandi', perciocché un'azione quand'é semplificata, o
sia diminuita oltre a certo termine, si sottrae a qual
siasi nostra osservazione.
Il rapporto della quantità di queste azioni grandi
( fatta però ragione all' intensità dell' operare ), è ciò
che ci dà la pura osservazione (3).
Ora, data sempre uguale l'intensità dell'operare,
alla diversa quantità dell' azione seguita una circostan-

(1) Parte II.


(a) Queste cognizioni sono le percezioni stesse delle cose, le qunli A' idea
e di giudizi si compongono: le idee divise da questi giudizj, e ad altra ope
razione non soggiaciute, esprimono sì AeUe possibilità, ma delle quali v'hanno
i casi di realizzamene nel fatto.
(3) S' intende già concepita dall' intelletto, perciocchè-ù il solo intelletto
che osserva i rapporti, come ho dimostralo nella Sez. IV, cap. IV, art. xx.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. II. 4U
3i4
za , che è quella per la quale 1' osservazione ci porge
la cognizione del tempo.
L'azione di minor quantità ( data l'intensità uguale),
è finita, e la possiamo osservare a tale istante, nel
quale l'azione di quantità maggiore, cioè l'effetto tota
le , ancora osservar non possiamo ; perciocché non è in
quello istante ancora finita.
Quindi 1' attitudine che ha l'azione minore ( una parte
dell'azione grande ) di esser da noi osservata a quel
tempo in cui 1' altra totale non è ancora presente a
noi , per modo che il suo comporsi successivo è d'una
successione più o meno lunga, è ciò che chiamiamo la
durata successiva dell' azione, la quale viene ad un me
desimo coli' idea nostra del tempo quale l'osservazion ci
presenta.

§ 5.
L' idea del tempo puro , e della indefinita sua lunghezza e divisibilili ,
sono mere possibilità o concetti della niente.
Fin qui il fatto. Veggiamo ora quali sieno quelle
possibilità, che, posto questo fatto, si presentano alla
mente nostra. E riflettasi , che nella deduzione delle
possibilità, la mente procede innanzi fino ch'ella può;
cioè fino che non venga a cosa , nella quale vegga im
plicarsi una contraddizione.
I. In primo luogo, la mente , osservando che entro
due medesimi istanti, quali sieno, molte azioni realisi
fanno, di quantità fra loro varia, ma che mantiene certo
rapporto ; ella astrae da quelle azioni reali , e pensa a
quelle azioni siccome meramente possibili. Così ella si
forma Videa pura del tempo (ì); cioè ella pensa che fra
due istanti dati (a) possano aver luogo certe quantità
d' azione, aventi un certo rapporto colle loro intensità
rispettive, e fra loro.
II. Dopo ciò, la mente riflette, che fra le diverse azioni
grandi , che 1' osservazione ci ha presentato, ve n'hanno
di più lunghe, e di meno; osia, che entro due istanti
dati, si replica talora, e triplica, e s' ini mi la talvolta
un' azione: ella pensa quindi la possibilità, che 1 «-

(i) Art. V.
(a) Questi istanli non sono che il principio e il termine d' un'azione com
plessa possibile, clic si prende per norma.
3,5
zione medesima sia iterata un indefinito numero di
volte, ritenendo quell'azione non più come reale, ma
sempre come possibile : indi la lunghezza indefinita
del tempo puro. Quest'idea dunque della indefinita
lunghezza del tempo, non è che una mera possibilità
pensata dalla mente; la quale non trova mai contraddi
zione nel pensare che un'azione qualunque si rinnovi
ancora , quantunque volte ella siasi rinnovata per lo
tempo passalo.
IH. Di più, dall' accorgersi che fra le azioni alte ad
essere osservate ve n' hanno di più lunghe, e di meno,
sicché mentre si fa un' azione, tal altra azione si ripete
più volte; così la mente ragiona : L'azione più breve ripetesi,
a ragione d'esempio, due, tre, quattro, mille volte,
in quello che l'azione più lunga una volta sola si com
pie : nell'istante adunque che l'azione più breve s'as
solve la prima volta, 1 azione più lunga non si può
fare che in alcuna sua parte. Quindi la mente consi
dera un'azione come un risultato di più parti, o sia
un complesso di tante azioni minori. Egli è vero che
venuti ad un'azione brevissima, l'osservazion ci vieu
meno: ma la mente pensa la possibilità di una osser
vazione più fina, e poi via più fina ancora, di quella
che. s' abbia 1' uomo; perocché in questo pensiero non
trova contraddizione. Indi conchiude, che con quell'os
servazione sottilissima sarebbe possibile di rilevare un'a
zione più breve ancora della minima, fra quelle che
sono a noi osservabili. La mente adunque riconosce la
possibilità d'azioni sempre più brevi indefinitamente:
perocché per quanto accorci quest' azione , non trova
mai una contraddizione nell' accorciarla via più colla
mente. Indi l' idea della divisibilità indefinita del tempo.
IV. La divisibilità indefinita del tempo nou è che la
possibilità che dà la mente di assegnare una serie d' i-
stanti sempre più vicini fra loro , cioè di pensare delle
azioni sempre più brevi , il principio ed il fine delle
quali sono appunto gl'istanti di questa serie, come i
termini di una linea sono i punti. Ma qui non abbia
mo ancora l' idea della continuità , che con questo di
scorso cerchiamo: veggiamo adunque come anche questa
idea sia una possibilità della mente; ed occupiamoci di
lei con ispecial diligenza , come di una idea , quanto
difficile, tanto importante.
i
§ 6. \
L' idea fenomenale della continuità del tempo è fallace.

I minutissimi interstizj che dividono 1' una dall'altra


quelle piccole azioni, nelle quali abbia m veduto doversi
scomporre le azioni grandi producenti un qualche cosa,
si tolgono interamente dalla nostra osservazione. Quindi
ci si presentano le nuove esistenze , cioè l' effetto to
tale di quelle piccole azioni innumerevoli , siccome un
prodotto di un' azione sola e veramente continua (i).
Ma ciò non è che una pura apparenza. Quindi Y osser
vazione ci dà un' idea fenomenale della continuità del
tempo.
E che una tale idea sia puramente fenomenale e ap
parente, il mostra la dimostrazione per noi data della
necessità, che tutto ciò che avviene, avvenga per istan
ti (a): conciossiachè una serie d'istanti non si può for
mar giammai in un tempo continuo, per vicini che que
gli istanti si rendano.
Ma poiché questo vero è rilevantissimo, voglio rin
forzarlo di altra dimostrazione, la quale fino al principio
di contraddizion ci conduca , e mostri nell' idea di una
continuità perfetta di tempo , o nella produzione con
tinua di un effetto grande, cioè atto ad esser da noi
osservato, una interior ripugnanza.
Dissi che la mente nel suo mondo delle possibilità
spazia senza ristarsi, fino a che non si abbatta in cosa
contradditoria con sè medesima; perciocché la contrad
dizione non può ella pensarla, essendo la slessa impos
sibilità.
Ora io dico, che la continuità nella successione è
appunto una contraddizione; quindi la mente non può
vederla come possibile ; ed ecco con quale serie di pro
posizioni il dimostro.
, ,Prima proposizione. « Pensare che esista un numero
indeterminato, è contraddizione».
Nell'idea di un numero esistente s' inchiude la con
dizione eh' egli debba essere determinato. Se io penso
un numero, questo, appunto perchè il penso, è deter
minato: se non fosse determinato, noi potre' io pen

to? 4 « 5. (a) l ..
sare : egli non sarebbe più un numero particolare, ma
il numero in genere , essere puramente mentale. A ve
der ciò più manifesto, si consideri, che se io scrivo
la serie de1 numeri naturali i, a, 3, 4> 5 ecc., e la
suppongo protratta a piacimento , questa serie è la for
inola che esprime ed annovera tutti i numeri partico
lari possibili. Se io dunque penso ad un numero par
ticolare , debbo necessariamente pensare un numero che
possa essere contenuto in detta formola. Ora tutti i
numeri contenuti in quella serie , sono determinati ,
cioè ciascuno è egli, e non è un altro: il 3, per esem
pio, è il 3, nè più nè meno, e non è il 4, nè il 2 ,
nè alcun altro. È dunque dell'essenza specifica del nu
mero, di essere determinato. Un numero dunque inde
terminato non esiste , nè può esistere.
Seconda proposizione. « Se un numero di cose, per
chè possa esistere, dee essere determinato, egli dee essere
altresì finito ».
La ragione di ciò si è, che l'essere un numero determi
nato , inchiude già l'idea dell'essere finito. Poiché deter
minato vuol dire, come dissi, ch'egli sia egli, e non più
e non manco ; che la sua esistenza quindi non si con
fonda nè col numero che lo precede nella serie, nè col
numero che lo sussegue. E standoci alla serie nostra ,
che tutti i numeri particolari inchiude, via, scelgasi
qual più si voglia fuori di tutti gli altri: poiché se si
vuole un numero , conviene pur sceglierlo fra tutti , e
non lasciare indeciso qual sia. Ora, qualunque si scel
ga, che sarà finalmente il numero che si sceglie? Sarà
sempre il numero precedente aumentato di una unità,
fifa il numero precedente è pur finito; poiché facendosi
lo stesso discorso di lui, egli è quello che lo precede,
più una unità; per modo, che venendo indietro al prin
cipio, si trova che qualunque numero particolare è
1* unità, più delle altre unità: è dunque una somma di
numeri finiti : qualunque numero adunque particolare
dee essere finito per modo, che l'idea di numero par
ticolare inchiude quella di numero finito. È adunque
assurdo che esista un numero di cose veramente infinito.
Terza proposizione. « Una successione di cose infinite
di numero, è contraddizione».
Questa proposizione ha la sua ragione nelle due pre
cedenti.
3i8
Una successione di cose infinite di numero non po
trebbe esser pensata , perchè il numero infinito non può
essere pensato, giacche involge contraddizione.
Ciò che non può pensarsi perchè involge contraddi
zione, non è possibile.
Dunque una successione di cose infinite di numero
è impossibile, o sia , è cosa che involge contraddizione.
Quarta proposizione. <* La produzione d1 un essere
mediante un'azione successiva e continua, dà una suc
cessione di cose infinite di numero».
In una successione continua io posso assegnare un
indefinito numero d' istanti.
Ma io ben capisco , che questo numero d' istanti ,
quantunque grande egli sia a mio piacimento , non per
viene mai a formare il continuo , anzi nè pure a di
minuirlo nella più piccola parte ; perciocché un istante
non avendo lunghezza alcuna , ma essendo un perfetto
punto, non può coprire la menoma lunghezza continua.
Quindi per quantunque istanti io segni col mio pensiero
in un tempo continuo e da lui li sottragga, io non Ito
diminuito la lunghezza di questo tempo nella più pic
cola parte , conciossiachè non ho sottratto da lui al
cuna lunghezza, ma ho segnato in lui un numero di
punti privi al tutto di lunghezza. Mediante questo ra
gionamento io concludo , che restandomi sempre la
lunghezza medesima continua ( sebbene divisa in mi
nute parti, ciascuna però continua ), io non potrei giun
gere ad esaurire questa lunghezza nè anco se io potessi
moltiplicare gl'istanti all'infinito: giacché un infinito
numero di non-lunghezze non possono giammai fare
una lunghezza. Questa natura del continuo però non è
quella che involge alcuna contraddizione; perocché non
è già essa che abbia in sè un numero infinito di punti,
ma sono io che gli immagino, o mi sforzo d' immagi
narli in essa (i). Per quanto sia misteriosa questa na
tura del continuo, ella non è però ripugnante ed in
trinsecamente contraddiente^ >
All'incontro supponendo noi, coni' è nel caso nostro,
una successione continua , dico che in questa succes-

(i) Che il concetto del continuo nulla abbia di ripugnante in sè stesso ,


più manifestamente apparrà di sotto , dove parliamo del continuo nello
spazio.
sione, s'ella si desse, non tratlerebbesi già di questo,
die noi colla mente notar potessimo in essa un numero
infinito d' istanti ; ma n'avverrebbe che un numero infi
nito d' istanti dovrebbero realmente in essa distinguer
si, e venire con essa ad esistere.
E in vero, l'istante in cui una cosa è, è distinto
realmente dall' istante precedente in cui la cosa ancora
non è.
Ora immaginiamo che il capello , di cui abbiam co
mincialo a prender l' esempio, venisse alla lunghezza
d'un palmo con un movimento continuo. Io posso di
videre tutto il tempo db' egli occupa a fare questa ope
razione , in 'un numero d'istanti qual più mi aggrada.
Ora si osservi , che notando nel tempo di cotal cre-
scimento un numero dato d'istanti qualunque sia, an
che sterminato, io non segno già semplicemente colla
immaginazione de' punti in un continuo; ma a quella
mia divisione corrisponde una divisione reale nel fallo.
E veramente, nella serie d'istanti da me segnala toglia
mo a considerare il secondo, il terzo, e il quarto istan
te; dico che il capello nel quarto istante era più lungo
che nel terzo, e nel terzo era più lungo che nel secondo.
Questa differenza del capello, per minuta che sia, è reale
(dato il crescimento continuo): sicché nel secondo
istante la differenza del terzo ancora non esisteva, e nel
terzo non esisteva quella differenza che alla lunghezza
del quarto istante il produsse. Queste piccole lunghezze
adunque o differenze esistono in istanti diversi, e quindi
sono realmente 1' una dall'altra distinte e diverse. Ora
se il crescimento del capello è continuo, non solo io
posso accrescere indefinitamente il numero degl'istanti,
ma ben anco io veggo che questi, ove fossero cresciuti
all' infinito, non esaurirebbero quel continuo. Ma quello
che prova la nostra tesi si è , che dato il crescimento
successivo continuo , quella divisione che io non giungo
a fare coli' assegnare un numero infinito d'istanti, ver*
rebbe ad esser fatta dalla natura stessa della cosa. In
fatti vedemmo , che quand' io segno e nolo in quel
continuo crescimento un gran numero, a mio piacimen
to, d'istanti, a questi corrisponde una divisione reale
nella natura della cosa , un numero reale di differenze
nel capello crescente, quindi un numero reale di stati,
diversi, cioè di lunghezze diverse nel capello medesimo.
3ao
Ora non sono già io quegli che, fissando quel numero
d' istanti , abbia diviso, e crealo realmente quelle dif
ferenze nel capello : ma quelle differenze sono per sè ,
indipendentemente dall' opera del mio pensiero. Or io
vedo, che io posso moltiplicare a piacimento il numero
d' istanti , e trovo altrettante differenze realmente di
stinte di tempo fra loro. Di più veggo, che per la stessa
ragione per la quale il numero degl'istanti, foss'anco
infinito , non adegua il continuo , per essa stessa ra
gione anche a questo numero infinito corrisponder do
vrebbero un infinito numero di differenze realmente di
stinte , e ciascuna farebbe ancora una piccola lunghezza
continua. Quindi se v' ha un crescimento successivo e
continuo , fora' è che vi sieno realmente distinte di
tempo un infinito numero di differenze, un infinito nu
mero di stati diversi , o sia di diverse lunghezze avute
da quel capello in un infinito numero d'istanti diversi pei
quali è successivamente passato. Si rifletta, che se questa
conseguenza involge contraddizione, questa contraddi
zione non viene che dal numero infinito, ma non dalle
premesse: sicché, date le premesse, il numero infinito
è necessario: e se il numero infinito è assurdo, com1 è;
convien dire che assurdità si contenga nelle premesse.
Quinta proposizione. «La produzione di un essere con
successione continua, è assurda ».
Questa proposizione è un corollario della quatta e
terza proposizione, ed è ciò che volevasi dimostrare.
Conchiudasi adunque , che la continuità del tempo,
quale ci viene data dalla osservazione, è puramente fe
nomenale ed illusoria, perchè la ragione la prova im
possibile.

§ 7-
La continuità del tempo è una mera possibilità,
o sia un concetto della mente.
Se noi non abbiamo un' idea di continuità reale nel
tempo dall'osservazione, abbiamo però un'idea di con
tinuità astratta, e col ragionamento sulle possibilità delle
cose in noi venuta nel modo seguente.
Entro due istanti dati, cioè entro la spazio di tempo
in cui si assolve un'azione grande o sia osservabile,
veggiamo farsi medesimamente un gran numero d altre
3ai,
azioni, o almen cominciare, meno o più lunghe di
quella. Or consideriamo i principj di queste azioni: l'i
stante nel quale cominciano non è punto dalla loro natura
determinato. Noi pensiamo adunque alla possibilità, che
in qualunque istante, assegnabile entro lo spazio di
tempo predetto, possa cadere il cominciamento di un'a
zione. Quindi tutto quello spazio di tempo non ha, ri
spetto a questo, particella che sia diversa dall'altra,
non ha intervallo di sorta; ma, ovecchè si voglia, in
lui si può assegnare un punto , ed ivi far cominciare
un1 azione. Quest'attitudine adunque che ha quello spazio
di tempo, questa uguaglianza perfetta e indifferenza a
ricevere in qualsivoglia sua parte un principio di azione,
questo nessuno intervallo , nessuna esclusione in qua
lunque suo istante ; è appunto ciò che ci dà quell'idea
astratta che noi abbiamo della continuità del tempo;
la quale si riduce alla possibilità di assegnare il prin
cipio o il fine di un' azione egualmente in tutti i punti
da me pensabili in un certo spazio di tempo.

§ 8. " •
Distinzione fra ciò che è assurdo e ciò che è misterioso.
Assurdo è ciò che involge contraddizione.
Misterioso è ciò che è inesplicabile. *
Invano i sofisti hanno tentato di confondere questi
due distinti concetti : essi rimarran sempre distinti.
Ciò che è assurdo, si dee rigettare siccome falso.
Ciò. che è misterioso , tanto è lungi che rigettar si
debba, che anzi spesso rigettare al tutto non si può.
Bene spesso ciò che è misterioso, è un fatto : ed i fatti
non si posson negare.
Innumerevoli sono i fatti misteriosi nella natura ma
teriale : si vorrà pretendere che non debba essere nes
sun mistero nella natura dello spirito, in questa na
tura tanto più sublime, più attiva, immensa , profonda?
Noi crediamo assurdo il continuo nella successione. .
Ma il concetto del continuo semplice il crediamo
bensì misterioso, e non assurdo: il crediamo anche ma
nifestamente esser nel fatto. Quindi nel mentre che ab
biamo rigettato il continuo nella successione, non ci
crediamo in diritto nè in potere di rifiutare il continuo
Rosmiiw, Orig. delle Idee, Voi. II. 4'
322
dalla natura delle cose , siccome un concetto ove non
reggiamo alcuna contraddizione.

§9-
Nella durata delle azioni compite non c'è successione,
e pereiò non c'è idea del tempo, ma continuo.

Un' azione, un ente, l'essenza d' un ente dura, e talor


dura immutabile.
Hell'esistenza di una essenza qualunque, la quale
non mula , e' è durazione ; ma non si può assegnare
successione alcuna , come si può assegnare in quelle
azioni ed esseri eh* si producono e generano, e che Don
sono ancora perfettamente prodotti e generati.
Ora nella durata di un essere compito non avendovi
successione, nulla ripugna che v'abbia il continuo; con-
ciossiachè l'unica ragione che rende impossibile il con
tinuo nella successione, è quella , come abbi ara veduto,
che se in questa egli si desse, si darebbe un numero
di cose infinito realmente distinte fra loro, ciò che im
plica un' assurdità.
L'esistenza dunque di Dio, dell'anima nostra, e di
tutte le cose che durano, è continua.
La successione all' incontro che si trova nella gene
ration delle cose, non è continua: ed è questa che dà
l'idea del tempo, e che lo misura.
A noi però è sommamente difficile il pensare durata
senza successione: perciocché noi sogliamo sempre, come
abbiam detto tante volte , cercar luce a' nostri pensieri
dalle mutazioni e da' confini.

§ io.
L'idea dell'essere che forma il nostro intelletto, « immune da tempo-

L' idea di tempo è l' idea di una successione.


La successione non si trova che nelle azioni passaggi
o transeunti, cioè nella produzione e generazione, o in
somma nelle mutazioni delle cose.
L'idea dell'essere che forma il nostro intelletto, per
sè sola considerata è immutabile, semplice, uguale.
Ella dunque è al tutto immune da tempo.
Quindi l'idea del tempo non è a priori, come Kant
opinava , ma solamente si può cavare a posteriori, cioè
3a3
dalle cose finite che si percepiscono siccome mutabili ,
onde quella idea da noi si trae mediante l'uso della
ragione.
Quindi ancora si fa chiaro quel vero veduto dagli
antichi, che l' intelletto colla sua parte più elevata è
fuori del tempo (i): ch'egli, quando ragiona a priori,
astrae dal tempo: conciossiachè egli non trova il tempo
in sè stesso, voglio dire in quell' idea prima che il
forma, e nell'analisi della quale senza più il suo ra
gionamento a priori consiste (a).

CAPITOLO VII.

ORIGINE DELL' IDEA DEL MOTO.

ARTICOLO I.
Il MOTO SI PERCEPISCE DA HOT IN T»K MODI.
\
Una delle grandi azioni che si fanno con successione,
e che formano e misurano (3) il tempo, è il moto: di
questa idea del moto dobbiamo ora parlare.
Il moto è attivo e passivo rispetto a noi.
jéttivo chiamo quel movimento de' nostri corpi , di
cui siamo noi stessi cagione quando camminiamo, o tras
portiamo in qualunque modo il corpo nostro per la fa
coltà locomotrice di che siamo forniti. .
Passivo chiamo quel movimento che riceve il corpo
nostro da una forza esteriore che gli fa mutare di luogo.
Oltre al moto nostro, e' è poi il moto de' corpi che

(i) Questa parte più elevata é ciò che si chiama , propriamente par
lando, intelletto: Supremum, dice s. Tommaso, in nostra cognitione non est
ratio, sed in!elice tus, qui est rationit origo (C. Gent. I, mi).
(a) S. Tommaso pure deduce l'idea del tempo a posteriori, cioè da' fan
tasmi: Ex ea parte, così egli, qua se ( intellectus ) ad phantasmala con-
veriil, compositioni et divisioni intellectus, adjungitur tempus. Quindi quella
elevatezza di maniere che usano i Padri della Chiesa quando parlano della
parte più nobile della mente umana; quelle espressioni, consacrate da una
costantissima tradizione, che gli uni appo gli altri ripetono di secolo in se
colo, colle quali asseriscono che la mente nostra è alle eterne ed immuta'
bili cose congiunta , che gode la vista di una verità incommutabile, e che,
come dice s. Bonaventura , vede sempiternalia et sempiternaliter ( Ititi,
mentis, etc. )
(3) La successione in generale forma il tempo; ma ciascuna successione
particolare si dice misura del tempo quando si prende per norma a cui
confrontare le altre successioni.
3a4
ci circondano, il quale noi proviamo noi stessi nè atti»
va mente nè passivamente.
Ora essendo il moto un' affezione tanto del corpo no»
stro come de* corpi esteriori , quindi avviene che noi lo
percepiamo insieme co' corpi de' quali egli è in qualche
modo un' affezione; e quindi che noi lo percepiamo in
tanti modi , quanti sono i modi della percezione de'
corpi; i quali, come abbiamo veduto, sono i tre già
annoverati. , . - • •' : <■ '• ' ! < .
Quindi il moto da noi pure si percepisce
i* soggettivamente, mediante il sentimento fondamen
tale; e questo vale pel moto- attivo , del quale la co
scienza nostra ci avvisa di esser noi stessi cagione;
a." soggettivamente ancora , mediante la sensazione
acquisita, che ci fa sentire il movimento delle parti nel-
1' organo sensitivo affètto ; e quindi in questo modo
percepiamo soggettivamente una specie di moto passivo;
3.' extra-soggettivamente , mediante i sensi, i quali
come ci fanno percepire alla lor foggia i corpi nostri
sì bène che gli esteriori , così percepir ci fanno pure i
movimenti che né' còrpi tutti avvengono , sia il molo
rispetto a noi attivo o passivo; lè quali affezioni di at
tività o passività del moto, extra-soggettivamente di-
stinguère e percepii1 non si possono , ma solo soggitò'
vomente.
Ora io non dovrei, a dir vero1, ragionare che de1
modi Soggettivi di percepire il moto: conciossiachè ho
trattato fin qui solò de modi : soggettivi di percepirei
corpi, e mr rimane a trattar del modo extra-soggettivo-
Tuttavia questa separazione renderebbe mozza la pre
sente trattazione sulla percezione del movimento: il per
chè non istimo convenevole di disgiungere al tutto il
modo extra-soggettivo di percepire il moto de' corpi ,
da' modi soggettivi.

.1 ARTICOLO IL
4t DESCRIZIONE DEL MOTO ATTIVO.
Non è però mio intendimento di mettermi in troppo
difficili investigazioni intorno alla natura del moto: mio
ufficio è solò di additar l'origine dell' idee del moto.
L'osservazione anche qui dee esser mia guida, e il
fatto in prima della coscienza.
3a5
Parlerò del moto attivo, e poi del moto passivo.
Noi abbiamo la facoltà di muovere il corpo nostro (i).
Che è questa facoltà? come ci vien presentata dall'osser
vazione?
Abbiam veduto, il sentimento fondamentale che ci fa
percepire immediatamente il corpo esser fornito di un
suo modo , cui abbiamo chiamato estensione (a).
Or la facoltà di muovere il corpo nostro , siccome
ce la presenta immediatamente l'osservazione, è un po
tere dell'anima sul suo sentimento fondamentale; e que
sto potere consiste nel mutare in una data maniera il
modo di quel sentimento.
Il nuovo modo (3) che prende quel sentimento, si
chiama nuovo spazio.
Mutare il modo di quel sentimento fondamentale, si
dice quindi mutare lo spazio o il luogo.
E poiché l' anima ha virtù di mutare il modo del
sentimento fondamentale, per questo si dice ch'ella ha
potere sul proprio corpo, il potere di muoverlo.
E veramente^ se il corpo è quell'agente che produce
sull'anima il sentimento fondamentale, termine al quale
è l'estensione; l'anima dunque dee avere un'attività su
quell'agente, quando il fatto dimostra ch'ella può far
sì che muti in un dato modo la sua azione.

ARTICOLO III.
' DESC&I1I0NE DEL MOTO PASSIVO.

Ma noi non abbiamo solo 1' energia di muoverci ; pos


siamo anche esser mossi.
Quando moviamo noi stessi, allora dalla quantità di
sforzo che noi facciamo in movendoci, abbiamo la per
cezione e una certa misura del moto.
Ma quando noi siamo mossi da una forza esteriore ,
allora non sempre percepiamo noi il nostro movimento.
Poiché o la forza che ci trasporta produce una mu

li) Noi non potremmo cominciare a muovere spontaneamente qualche


parte del nostro corpo, se non avessimo il sentimento di poterlo fare, Nel
sentimento fondamentale adunque dèi corpo nostro si dee racchiudere an
cora la potenza che noi abbiamo sopra il medesimo.
(1) Cap. nj.
(3) Ma questo modo nuovo, quaudo non sia diverso dal primo, non
puossi da noi discernere.
3a6
tazione ne1 nostri organi sensitivi, siccome avviene quando
per ispirila e violenza esterna e parziale noi siam tratti
d'un luogo in un altro, ed allora sentiamo una pas
sione, e percepiamo altresì il moto nostro, al quale ri
cusano di secondare tutte l'altre parti del corpo inerti ,
che immediatamente non sono affette dalla forza mo
trice: o pure noi siamo mossi da tal forza esteriore,
che facendo cangiar di luogo a tutto il corpo nostro
contemporaneamente, non muta nulla in esso, non trae
del suo luogo rispettivo nessuna menoma particella sen
sitiva del medesimo; e in questo caso noi col solo sen
timento interiore percepir non possiamo nè la quantità
del moto , nè il moto stesso.
Indi è, che sebbene noi siam rapiti tuttodì insieme
colla terra in un velocissimo movimento, che ci raggira
intorno all'asse di questo pianeta e ci fa percorrer più
centinaja di miglia ciascun' ora, verso a cui è nulla la
prestezza di qualsivoglia celerissimo corridore; tutta
via non ci accorgiamo di rimoverci un punto ; e ciò
perchè non moviam noi stessi , ma altri ci muove e
porla equabilmente così , che non ci è data in moven
doci nessuna specie d' interiore od esteriore sensazione
uè degli occhi nè del tatto nè degli altri sensi, dalla
quale siamo avvisati di quel nostro movimento.
Il moto nostro attivo adunque in due guise noi per
cepir lo possiamo; pel sentimento interiore della co
scienza, e per le sensazioni esteriori: ma il moto pas
sivo non lo percepiamo bene spesso che mediante le
sensazioni esterne.

ARTICOLO IV.

IL MOTO KRH PER SÌ STESSO NON E SENSIBILE.

Corollario dell'osservazione fatta nell'articolo prece


dente, è questo, che il moto nostro non è a noi sensibile
per sè stesso.
Perciocché 1' osservazione mostra, che noi possiamo
esser mossi, e non punto sentirlo.
Noi conosciamo bensì il movimeli lo, come abbiamo
detto, per la sua causa soggettivamente , e pe' suoi ef
fetti, oggettivamente.
Conciossiachè se siamo noi quelli che ci moviamo ,
3^7
conosciamo il moto per la causa sua, cioè per la con
sapevolezza dello sforzo che noi facciamo in movendoci.
Se siamo trasportati da una forza esteriore tutti di
peso senza mutazione negli organi nostri sensitivi, non
possiamo conoscere questo moto se non pe' suoi effetti ,
cioè per la mutazione che succede nelle sensazioni che
noi riceviamo dagli oggetti circostanti (i).

(i) A questo luogo, dove mostro che il moto non si percepisce da noi
per sè stesso, stimo di non perdere l' occasione di sciorre un soitil dubbia
che altrui venire potrebbe, non nella presente materia, ma tuttavia in ma
teria di sommo momento, e che si fa necessaria ad ogni capitolo quasi
direi di quest'opera. Il dubbio cade sulla distinzione fra 1* idea, e il giu
dizio in sulla sussistenza delle cose da me stabilita nella Parte I , c. II. Dissi
che ov'anco un oggetto qualunque si concepisse dalla mente fornito di tutti
i suoi caratteri essenziali e accidentali, non è tuttavia necessario ch'egli
sussista; e che perciò, giudicando che sussista, non abbiamo con questo nulla
aggiunto alla sua idea, la quale era pur in noi così compita e perfetta per
lo innanzi siccome da poi, nè poteva esser più. Or si dimanderà (ecco il
dubbio): Il luogo e il tempo non son essi caratteri accidentali sì, ma pur
caratteri della cosa? giudicando che una cosa sussista, voi aggiungete all'idea
della cosa il luogo e il tempo , caratteri che a lei mancavan da prima.
A cui io oppongo la seguente osservazione. Il luogo e il tempo per sé
Don sono caratteri della cosa: in qualunque luogo e in qualunque tempo la
cosa sussista , ella è la medesima nè più nè meno; nessuna giunta , nessuna
'Iterazione nella sua natura. Questo è da considerarsi attentamente. Prova
di ciò può essere l'esperienza che accenno in un essere sensitivo. Un es
sere sensitivo può esser trasportato ovecchessia, anche le mille miglia lon
tano, senza eh egli n'abbia il minimo sentore: perchè ciò? perchè il tro
varsi in questo o quel luogo (e dite lo stesso del tempo) è nulla per lui, non
cangia in lui nulla, la sua natura resta quella stessa identica nè più nè
manco di prima , senza alterazione di sorta: nell'idea dunque di una cosa
non entra il luogo. All'opposto il giudiiio sulla sussistenza di una cosa cor
porea, quando si fa per la percezione sensitiva, determina il luogo: poiché
se io percepisco co' sensi miei un corpo, debbo percepirlo in luogo deter
minato. Ma che è questo luogo, questa estensione che occupa il corpo per
cepito? Il luogo determinato (l'Aie et nunc degli scolastici) è un'astrazione
del corpo sussistente: egli non cade dunque nell'idea, ma cade sotto al
giudizio insieme colla sussistenza della cosa della quale forma , nelle cose
corporee, un elemento. Si replicherà : non ho io dunque l' idea del luogo?
Sì, io rispondo; ma a quello stesso modo com'avete Videa della sussistenza.
L'idea della sussistenza è universale come tutte le altre idee, cioè quella
nostra idea non è che la possibilità che un essere sussista. Ove si tratti
all' incontro della par'ticolar sussistenza di un essere, questa sussistenza par
ticolare che voi pensate è 1* idea medesima della sussistenza determinata con
un giudizio ad un oggetto particolare. Medesimamente voi avete l' idea di
m luogo: questa idea è la possibilità che un essere esteso eaista. Quando
voi percepite un essere esteso sussistente, determinate con un giudizio l' idea
di quell'esteso, affermandone a voi stesso la sussistenza, e con esso il luogo
empito. Se non che il luogo è un astratto, la sussistenza è l'atto stesso di
Un ente: il luogo è il modo della sussistenza di quell'ente che corpo chia
miamo. Questa distinzione fra ciò che si comprende nell' idea (il possibile ,
3a8
ARTICOLO V.
u MOTO hi' nostri organi sbasitivi è SENSIBILI.

Vero è, che quando un movimento ai produce nel


nostro organo sensitivo , noi sentiamo le particelle sen
sitive di esso organo in altra figura da quella a cui
prima riferivamo il sentimento fondamentale , e quindi
il sentimento stesso fu mosso , o sia insieme colla mo
dificazione di quel fondamenlal sentimento noi abbiam
percepito un moto , in quanto che la materia da noi
sentita cangiando forma è mossa.
Ma questo movimento non è sentito per sè stesso,
cioè per conseguenza di sua natura; ma bensì per la
peculiar circostanza , eh' egli altera lo stato dell' organo
sensitivo, il quale è sempre da noi sentito in quello
stato nel quale egli è (i).
Questo moto pertanto è alterazione della rispettiva

l'universale) e ciò che è oggetto dui giudizio (il particolare, la sussistenza),


fu nota all'antichità; ma molte volte altresì ( coni' è difficile assai a tenerla
presente) dagli antichi venne dimenticata. Indi avvenne, che ove si abbat
terono a questioni che erano insolubili senza lei , ricorsero a delle altre
distinzioni, che hanno grande analogia con essa, ma che non mancano tut
tavia di imbarazzare la scienza, col moltiplicare gli enti senza necessiti,
quando si presentano come distinzioni diverse. L'una di queste distimiooi
è quella che abbiamo toccata, fra la materia generale, e la materia parico-
lare: quella necessaria dicevano nelle idee delle cose corporee, questa nou
necessaria. Ma non è che esistano due materie ; è che esiste i la sola ma
teria particolare , a." e 1* idea della materia particolare. L' idea della ma
teria particolare non è che la stessa materia particolare in quant' è pensata
come possibile: indi sembra che sia una materia universale, perchè il pos
sibile è universale. Una distinzione similmente fecero gli antichi fra la
quantità universale e la particolare, sulla quale si può fare la stessa osser
vazione : la quautità universale non è che l' idea della quantità. E ciò tra
videro anch' «ssi quando la chiamarono altresì quantità intelligibile. Ecco
con quali maniere di parlare presenta quella distinzione Simplicio (Nel IV
della Fisica di Aristotele): « Meglio io credo il dire avervi una estensione
- specifica » (il greco dice xctr' uJo(, cioè secondo l'idea, che tocca appunto
il concetto mio) « quale negli esemplari si vede , — e uu' altra che si con-
« capisce per un discernimento passivo di una indivisibil sostanza e priva
« di parti ». La quantità dunque intelligibile vien descritta siccome quella
che è secondo l' idea che si vede negli esemplari , i quali sono pur le idee
prime. Che altro dunque è essa se non l' idea della quantità , o se più si
vuole, la quautità in quanto coli' idea si pensa , che viene al medesimo colla
quantità possibile od universale?
(i) E sebbene s'intenda dover essere un tal moto da noi sentito, tuttavia
1' avvertirlo dee essere assai difficile, per la tenuità del medesimo, e perchè
accompagnato da percezioni più vive che ha contemporaneamente fu spi
rilo nostro.
posizione delle molecole (i) che compongono l'organo
sensitivo. Perciocchà qnell' organo è da noi sentito se
condo certa legge che determina la posizione delle mo
lecole che il compongono; e se la posizione richiesta
ad uno stato dell organo ( relativamente al sentimento )
viene alterata, l'organo piglia un altro stato sensibile ,
e quindi vien sentito in modo ed in luogo nuovo , se
condo la natura dell'alterazione sofferta.
L' organo sensitivo adunque potrebb' essere traspor
tato di un luogo in altro lontanissimo (e ciò avviene
di tutti noi stessi nel moto diurno della terra ) , e non
risentirsene menomamente.
Non è adunque il moto dell'organo che noi propria
mente sentiamo, ma il suo stato sensibile.
Cioè a dire , le particelle sensitive e sensibili che
compongono l'organo, legate insieme in modi diversi,
in diverse proporzioni e posizioni rispettive, avvicinate
per esempio colla compressione , allontanate colla di
stensione , danno un' altra formi a tutto V organo sen
tilo ; e quest' organo in altra forma , si sente da noi
in altro modo , cioè si sente con vario piacere o dolore.
Ora questo nuovo piacere o dolore si riferisce a tutti i
punti sensibili entro quella nuova forma ove ha operato
la forza. E perchè la forma era prima diversa, il pia
cere o dolor diverso col quale si sentiva l'organo, ri-
ferivasi a puuti diversi. Non è la mutazione di luogo
propriamente fatta da ciascuna molecola sensitiva , che
da noi si senta (il moto assoluto delle molecole); è bensì

(') Nominando molecole, o particelle elementari dell'organo sensitivo, io


wq intendo perciò di dichiararmi favorevole al sistema di que' fisiologiche
ammettono una vitalità originaria nelle prime molecole del corpo animato.
Queste questioni sono tutte aliene dal presente trattato. Qui io mi limito a
oo che mi presenta la più ovvia osservazione. Questa mi dà tre fatti. i.° Le
particelle sensitive hanno bisogno d' essere congiunte insieme in una de-
•ermiusta maniera perchè dieuo uno strumento atto alla sensazione : quindi
se il nervo non è continuato (ino al cervello, la sensazione non si dà più.
2- Quando la detta congiunzione armonica nelle particelle che compongono
l' organo sensitivo esiste , allora succede che il sentimento si spanda per
tutto I' orgauo, sicché ciascuna particella (non definisco io la grandezza di
ebc ella debba a ciò esser fornita) è sentita dal nostro spirito. 3.° Il con
trario avviene nella sensazione avventizia , la quale , dopo che l' organo è
fatto atto a riceverla, non si spande già per tutto l' organo, ma si ferina al
luogo particolare dell'organo dove la forza è applicata.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. II. 42

i
33o
la mutazione della forma totale dell' organo , cioè la
mutazione di luogo di più molecole ad un tempo (il
moto relativo delle molecole), quella che fa sensibili
in altri luoghi le parti individuali dell' organo stesso.
Volendo dunque analizzare quel sentimento soggettivo
col quale noi percepiamo le parti sensitive del nostro
corpo , veggiamo
1.° che questo sentimento è vario piacere o dolore
diffuso in una data estensione limitata o figurata ;
2." che la /ìgura di questa esleusione sentita può
mutarsi mediante un molo relativo delle sue parli, e
che il sentimento si diffonde tuttavia sempre nella esleu
sione compresa in tutte le figure successive che prende;
3. * che quindi il sentimento soggettivo percepisce il
movimento particolare che succede nella figura dell'or
gano, in quella parte sola però dell'organo slesso o\e
la l'orza applicata opera in quel modo che è necessario
perchè ivi produca sensazione.
Il sentimento soggettivo adunque percepisce il movi
mento in quanto è alterazione che soffre la sua materia.

ARTICOLO VI.
BELAZ10NE fiu il moto e la sensazione.

Quindi il moto in universale e assoluto è cosa al


tutto diversa dalla sensazione.
Il molo poi relativo, che succede nelle parli dell'or
gano sensitivo all' occasione che questo cangia di figura
sensibile , è « un' affezione della materia della sensa
zione » , ed è sentito come è la materia affetta.

ARTICOLO VII.
DEL MOTO RELATIVAMENTP ALLA PERCEZIONE (l) DEI TATTO.
Il tatto percepisce la durezza e la superficie de' corpi.
Ma quando un corpo, poniamo una punta, striscia
in sul nostro braccio fermo , correndone la lunghezza ,
percepiamo noi allora il moto col tatto ?

(i) Ne' sensi esterni abbiniti distinto I* la sensazione dell' organo, a* "
percezione di cosa diversa dall' organo. Abbia m parlato del moto relatiw
menie alla sensazione (Art. IV); ora parliamo del moto relativamente «B»
percezione corporea.
33c
Sembra a prima giunta di sì; e certo noi percepiamo
qualche cosa di simile al moto,
Tuttavia una difficoltà non leggera nasce in questo ,
che sebbene noi sentiamo nel braccio nostro una sen
sazione, che si muove, quasi direi, allungandosi secondo
il braccio stesso , e con essa percepiamo il corpo che
produce la sensazione; tuttavia pare che noi non ci
possiamo bene accertare dell'identità del corpo che ci
produce quelle sensazioni; perocché in luogo d' un corpo
chi- scorre il braccio, potrebbero essere altrettanti corpi
l'uno all'altro successivamente senza notabile inter
vallo sostituiti (l).

(0 In generali: si può stabilire, che quando noi tocchiamo (logli oggetti


cou parti diverse del nostro corpo, noi noti percepiamo la loro identità :
perciocché a diverse parti affette del nostro corpo corrispondono diverse
percezioni di cose esterne: quindi il tatto per sè solo ci dice che tanti sono
! corP' (gl' agenti su di noi) quante sono le percezioni che noi abbiamo,
'n diverse parti del nostro corpo, massime quando sono contemporanee.
Tuttavia quando noi siamo tocchi in uno spazio continuo (fenomenalmente),
allora il tatto ci avvisa di più corpi, che formano però un continuo fra loro,
come avviene ne' solidi. Ma se abbiamo più sensazioni non continue, come
*e da un corpo siamo tocchi in una mano e anco in un piede, noi non pos-
siara pensare se non, che due sieno i corpi che ci toccano. È solamente col-
l'ajuto della vista, o della continuità del tatto, come dicevo, che giudichiamo
dell'unità del corpo. Quindi il giudizio •all' identità del corpo che ci tocca
in diverse parli contemporaneamente , è un giudizio abituale, proveniente
«all'esperienza : il che lo rende talora ingannevole. A ragion d'esempio, se
Stoccate un bottoncino con due dila accavallate l'uno sull'altro, voj sell
ale due bottoncini. Perchè ciò? perchè voi seutito due sensazioni in due
parti diverse delle dita vostre , e in tali parti nelle quali non _ siete usato
a sentirvi toccare contemporaneamente da un corpo solo : perciocché non
emendo la posizion naturale delle dita quella di essere accavallale, ma di
fille e piane, quando due dita toccano un corpo stesso , avete le sensazioni,
the vi produce il medesimo, prossime fra loro; quando all'incontro toc
cate colle due dita accavallate , una sensazione si slonlana dall'altra, e vien
formata nella parte della punta del dito opposta o quella dove suol comu
nemente avvenire. Nel caso nostro della punta che striscia sul braccio, avvi
la continuità (fenomenale) della sensazione scorrente, e questa fa credere
il corpo stesso , sebbene le parti tocche del braccio sieno diverse : ma ve
ramente il puro tatto non attesta che varie sensazioni simili succedenlisi
senza notabile interruzione; il che non varrebbe a provare indubilatanieute
'I moto del corpo esteriore. All'opposto ove la mia mano dà di piglio ad
nn corpo, e lo trasporta da un luogo in un altro, allora l'identità del corpo
<' provata dalla continuità della percezione del medesimo, immobile rispetto
"Ila mia mano che lo stringe: in tal caso io percepirei bensì il movimento,
ina non col puro tatto , ma col tatto ajutato dalla consapevolezza interiore
fbe ho di muovere il braccio.
33a
ARTICOLO Vili.
DEL MOTO RELATIVAMENTE ALLA FERCEZIOK DELLA VISTA.

Se noi ci moviamo, cangia la scena delle cose visi


bili d' intorno a noi ; e questi cangiamenti diventano
indizj a conoscere il moto e nostro ed altresì delle cose
circostanti : il che come avvenga spiegherò di proposito
trattando della terza maniera di percepire i corpi.
Ma se si muovono le cose vedute , 1' occhio nostro
restando fermo , percepiam noi coli' occhio un movi
mento ì
Un punto nero corrente sopra una superficie bianca,
ci dà il concetto di un movimento : non è però di
questo , che noi possiam conoscere sicuramente il moto
della cosa esterna (i): ma il concetto del moto 1' ab-
biam qui tuttavia.
Ma la difficoltà circa l'identità dell'oggetto nella
gensazion della vista è simile, ma minore che nella sen
sazione del latto; poiché i caratteri di un oggetto ve
duto , sono troppi più che i caratteri d' un oggetto
toccato; sicché 1' unione di quelli in diversi oggetti è
assai difficile , mentre la medesima sensazione del tatto
può essere prodotta agevolmente da più oggetti diversi.

ARTICOLO IX.
DEL MOTO RELATIVAMENTE ALLE PERCEZIONI DELl' COITO,
DELL' ODORATO E DEL COSTO.

In quanto questi sensi convengono col tatto, è a dirsi


di essi , circa la percezione del movimento, quello slesso
che del tatto fu detto (a).
In quanto dal tatto si distinguono, ed hanno con
giunti i fenomeni del suono, dell' odore e del sapore ,
essi non percepiscono il moto, ma si fanno bensì di
lui misura, siccome tutti gli altri sensi, pel tempo.
Conciossiachè dal tempo di cui è bisogno perchè si
accosti a noi un corpo , sicché toccare o vedere il pos
siamo , o fiutare, o assaporare, o udirne il suono, noi
argomentiamo alla lunghezza del movimento da noi al
corpo , o dal corpo a noi fatto.

(i) Poiché possono avervi de' moli apparenti e illusori,


(a) Art. VII.
333
E di questa misura del movimento anche i ciechi
nati, e tutti quelli che di qualche senso son privi ,
purché non di tutti , posson far uso.

ARTICOLO X.
DBL1A CONTINUITÀ' NEI. MOTO.

5 i.

L' osservazione non percepisce le astensioni piccolissime.

11 fatto ci dice che la nostra osservazione non coglie


le estensioni piccolissime.
L' invenzione del microscopio ha dato alla nostra
osservazione un mondo che prima stavale interamente
celato.
Ma quantunque s'accrescano gli stranienti di osservare
la natura, evidente cosa è ch'essa ci vince in sottilità: la
finissima orditura de' corpi è tale, da farci credere che
debba esser sottratta e velata sempre a' sensi nostri : o
certo, almeno ne' gradi di una estensione che diminui
sce continuamente, si dee venire ad una sì fatta picco
lezza , la quale si tolga interamente da qualunque no
stra avvertenza.

§ 2.
V osserrazione non ci dà die una continuità fenomenale nel moto.

Quindi tutto ciò che ci dice 1' osservazione intorno


alla continuità del moto, non ha" valore che ad atte
stare una continuità fenomenale, cioè apparente all'os-
servazion nostra.
Ma potendovi esser de' minutissimi intervalli i quali
sfuggano al tutto dall'osservazione, fon1 è il dire che
dall' osservazione non possi a m cavare nessuna vera prova
sulla reale continuità del movimento.

§ 3.
La continuità reale del morimento è assurda.
Se l' osservazione non può dirci nulla di certo sulla
continuità reale del movimento , rimane a tentare la
via del ragionamento.
Il ragionamento non ci può accertare de' falli, ma
334
può però pronunziare sull'intrinseca possibilità o im
possibilità de1 medesimi.
Or noi abbia m dimostrato già sopra , che la conti
nuità nella successione è assurda (i).
Ma nel movimento, come in ogni azione che cresce
e minuisce , avvi successione.
Dunque nel movimento è assurda una vera e reale
continuità.
In tal modo è che il ragionamento dal discorso delle
mere possibilità conchiude talora ai fatti : egli può ne
garli, ove scopra in essi intrinseca ripugnanza: ove non
possa notarvi ripugnanza, egli non può asserirli, ma
solamente dichiararli possibili,

§4-
Obbiezione tratta dal salto, ruotata.
Se nel movimento non può ammettersi vera continui
tà, dunque egli si fa per salti. Ma essere il salto escluso
dalla natura, è sentenza comunissima ed antica.
E certo il salto nella natura è assurdo.
Ma il non essere vera continuità nel movimento, af
fermo che non v' induce il salto.
L'idea del salto non è, nè può essere in ciò che av
viene in uno istante.
Perciocché il salto suppone due punti , dall' uno al
l' altro de' quali si passi senza toccare il mezzo. Ora
iteli' idea di passaggio si comprende quella di toccare
il mezzo: perciocché il passare d'un luogo all'altro
senza toccare il mezzo, è passare senza passare. E dun
que assurdo il concetto del salto nella natura in questo
senso, che si mettono di mezzo degli anelli, e poi si
fanno trapassare senza toccarli: il mettere degli anelli
in mezzo ( cioè de' passi necessarj ), e poi il farli tra
salire, è contraddizion manifesta.
Il movimento all'incontro, ove non si aggiunga cosa
alcuna al suo concetto colla immaginazione , non pre
senta altro che l' esistenza di un oggetto successiva in
più luoghi , senza bisogno di pensare che salti d' mi
luogo ad un altro. Non inchiude dunque questo concetto

(1) Cap. VI, art. vi.


335
un salto , perchè non inchinile un necessario passaggio
d'un luogo vicinissimo ad un altro. Ma noi aggiungiamo
la necessità di questo passaggio colla immaginazione ;
perciocché siamo avvezzi di aver presente la continuità
fenomenale del movimento: nella quale osserviamo un
passaggio continuo, in luogo di osservar solo l'esistenza
del corpo successiva in più luoghi così vicini fra loro,
che la loro distanza è al tutto inavvertibile.
A facilitare l' intelligenza di ciò eh' io dico, conviene
osservare, che l'estensione non è che il termine di una
forza, secondo la spiegazione per noi data del concetto
della estensione. Ora la forza può variare il suo termi
ne, può estendersi in uno spazio anziché in un altro ,
senza che vi sia bisogno di supporre un vero passaggio
continuo dall'uno all'altro; perciocché ella può con
somma celerità ritirarsi da un luogo, e spandersi in un
altro contemporaneamente a sì fatta ritirata. Certo que
sto concetto non implica alcuna contraddizione.
Ma io ben sento quanto sarà difficile a concepirsi
dagli uomini , 1' intelletto de' quali è sempre colla im
maginazione implicalo e confuso. Or non v' ha espe
rienza del fatto accennato*, e gli spazj diversi in cui la
forza corporea a mano a mano s' estende sono ( per
una legge dell'autore della natura ) così prossimi, che
nessuna divisione fra essi è percettibile: quindi la con
tinua vista di un continuo, e la difficoltà a pensare che
in altro modo il movimento possa avvenire.
Ma a' filosofi fra' miei lettori io appello di buon grado
la causa di questo mio ragionamento, col quale tolgo
al moto locale la perfetta e vera continuità.

§ 5.
Continuità mentale del moto.
E ciò che rende via più difficile sentir la forza del
detto ragionamento si è, che v' ha nella nostra mente,
come del tempo, così pure del moto V idea di una certa
continuità mentale.
Questa continuità mentale ed astratta consiste nella
possibilità (che noi concepiamo uguale e indifferente),
che in qualunque punto di tempo e di spazio cominci
o termini il movimento.
Non essendo un punto del tempo e dello spazio più
336
atto dell' altro a ricevere il principio o il termine del
movimento, quindi un'uguaglianza di possibilità che
produce o più tosto è l' idea di una continuità astratta
nel movimento di un oggetto che scorre fra due istanti
o due punti qualunque sieno.

CAPITOLO Vili.

ORIGINE DELL1 IDEA DI SPAZIO.

ARTICOLO L
distinzione nk l' idea di stazio e di conto.

Il corpo fu da me definito « una sostanza atta a pro


durre in noi un' azione che è un sentimento di piacere
o dolore avente un modo costante che noi chiamiamo
estensione ». (i).
L' estensione dunque, ove si divida dal corpo, è una
astrazione della mente , siccome il tempo ed il moto
puro: è il modo particolare di quel sentimento che ii
corpo cagiona nel nostro spirito.
Quando poi quest' astrazione è formata, ella può esi
stere in noi indipendentemente da' corpi, siccome tutte
le altre idee astratte.

ARTICOLO IL
l' estensione o lo spazio è interminabile.
L' estensione o lo spazio, preso in questo modo astrat
to, e interminabile e continuo.
Or come avviene che il nostro concetto di spazio
acquisti que' due caratteri innegabili della interminati-
lità e della continuità?
Veggiamolo, cominciando dal primo.
In noi è una potenza di muovere il corpo nostro (a)
Muovere il nostro corpo non è che rimutare, cioè
replicare il modo del sentimento del nostro corpo, ossia
replicare 1' estensione di esso corpo nostro.
Ora gli atti delle nostre potenze noi possiamo repli
carli indefinitamente: e quando nel fatto noi non pos-

(i) Cap. V, art. i. (!) Cap. II.


siamo più replicarli, per la limitazione di nostre forze ,
allora possiamo ancora immaginarli e pensarli replicati
a nostro grado indefinitamente, per quella idea di pos
sibilità che abbiamo in noi , e che possiamo aggiungere
a tutto ciò che noi concepiamo (i).
Questa operazione del nostro spirito , colla quale egli
aggiunge a qualsivoglia avvenimento od oggetto da lui
concepito V idea del possibile, e in tal modo l' imma
gina replicato indefinitamente, noi l'abbiamo già più
sopra spiegata per 1' idea dell* ente (2).
Ora potendo noi immaginare e pensare replicata in*
definitamente l'estensione del corpo nostro, noi acqui
stiamo con ciò l'idea di una estensione interminabile.
L'idea dell'estensione interminabile non è dunque
a principio altro che «la possibilità di replicare indefi
nitamente il modo del nostro sentimento, che chiamasi
estensione del corpo nostro: astraendo poi in tal pen
siero e immaginazione dal corpo stesso ».
Così dall' estensione percepita soggettivamente si trae
1 interminabilità ideale della medesima (3). Ma questa
stessa estensione che noi percepiamo soggettivamente ,
possiamo altresi percepirla extra-soggettivamente: il che
equivale a un dire, percepirla ne'corpi esterni» percioc
ché l'esteriorità del corpo non è che il modo extra
soggettivo, col quale noi percepiamo quel corpo.
Data in tal modo la percezione del corpo, abbiamo,
per la virtù d'astrarre, quella dell'estensione del corpo.
Indi l' interminabilità della estensione, che in gene
re si può definire « la possibilità di pensare replicata
'"definitamente l'estensione de' corpi ».

(0 Parte I. (1) Parie IL


(3) L' estensione é qualche cosa di oggettivo , cioè negli oggetti esteriori
»IM0I. Dicendo dunque che nel sentimento fondamentale percepiam l' èslen*
''one, sembrerebbe che noi ponessimo qualche cosa di oggettivo nuche net
Sfnlimeuto fondamentale. Propriamente parlando però il sentimento fonda-
"«male ha una materia, e non un Oggetto. Questa maniera di esprimerci
"inverà maggior luce in altro luogo. Intanto ci basti osservare the l'esten-
"""e , oggetto de* scusi esteriori, ove si percepisca soggettivamente, noi 1*
'immiamo materia. La materia dunque del sentimento fondamentale si pud
Sfinire « un oggetto percepito soggettivamente ». In fatto l'estensione è
limine alle nostre sensazioni ed a' corpi esteriori : in quanto è neMe no-
>' re sensazioni l'appelliam materia del sentimento; in quanto è ne carpi
esteriori l'appelliamo oggetto.
RoSMiiu, Orig. delle Idee, Voi IL 43
338
ARTICOLO III.
LO SPAZIO o l' estensione i continoa.
L'idea dello spazio è dunque un'idea astratta; l'idea
della possibilità che 1' estensione di un corpo si rimuti
successivamente senza fine, è la sua interminabilità.
Ma noi , più che del corpo esteriore, occupiamoci del
corpo nostro : perciocché non abbiamo ancora parlato
di proposito che della soggettiva percezione de' corpi ,
il che viene a un dire, della percezione de' corpi nostri.
Quanto però diremo dello spazio percepito soggettiva
mente , tanto può il lettore da sè applicare al corpo
esteriore, cioè a dire al corpo extra-soggettivamente da
noi percepito.
Ora in questa ricerca , « se nel concetto di spazio
contengasi la continuità perfetta » , badisi prima di non
confondere il sentimento di fatto colla possibilità di
altri suoi stati.
Circa il sentimento com'è nel fatto, potrebbesi , a
dir vero, muovere una questione assai difficile, la quale
c questa: Il sentimento attuale del corpo nostro con
tiene il sentimento della perfetta continuità del mede
simo ?
La soluzione di questa questione , ove si volesse ten
tarla per la via dell'esperienza , esigerebbe non solo le
più diligenti osservazioni e le più sagaci avvertenze*,
ma finalmente sarebbe impossibile : e si converrebbe ri
correre, quant' io credo, a delle conghietture o a dei
ragionamenti filosofici fini ed ingegnosi. Perciocché qui
trattasi di sapere se, lungo i filamenti nervosi, in ogni
punto si possa eccitar sensazione, sicché veramente le
parti sensitive sien poste matematicamente contigue: su
di che l'osservazione nulla dice né può dire, percioc
ché a tanta sottigliezza non giunge (i).
Né questa ricerca è a me qui necessaria.
Poiché a spiegare la continuità dell'estensione, non
rileva il sapere se lutti i punti matematici che notar si
possono nel corso d' un nervo , sieno veramente sensi
tivi • conciossiachè non ei tratta d'un vero di fatto,

(i) La ragione non trova in ciò alcuna ripugnanza: io sarò costretto più
sotto dui mio argomento a rifarmi su questa questione , c tentarne il guado.
ma di astrazione, d'una idea che risulta alla mente
'lai concetto applicato della possibilità. E in vero, noi
concepiamo assai bene la possibilità di riferire a qua
lunque di que1 punti la sensazione che noi proviamo.
Conciossiachè se il nervo sentito ha i suoi pori e i suoi
piccioli vani nella finissima sua tessitura, egli è poi al
tutto accidentale che questi forellini cadano anzi dove
sono che tutt' altrove : e nulla ripugna che noi pen
siamo un nervo aver là il pieno, ove di presente ha il
vuoto*, siccbè almeno colla mente nostra noi possiamo
tramutar luogo a tutte le particelle sensitive del nervo
nostro , come pure agli spazj vacui che nel medesimo
qua e là si rinvengono : e questa potenza della imma
ginazione intellettiva basta perchè noi concepiamo a
pieno « la possibilità di riferire un sentimento a qua
lunque punto assegnabile», il che è l'idea della con
tinuità.
Tale possibilità che abbiamo di riferire il sentimento
a qualsiasi punto assegnabile in uno spazio , nasce dal
l' indifferenza che v' ha nella natura dello spazio a ri
cevere anzi in un punto che in un altro quel senti
mento. Non essendo determinazione alcuna in ciò, resta
possibile che in qualunque punto entro i confini del
corpo termini la sensazione: e questa indeterminazione
de' luoghi , questa possibilità di riferire il - sentimento
indifferentemente ad ogni punto, racchiude ed è l' idea
stessa del continuo nello spazio puro ed astratto.
La potenza di muoverci n' agevola l' acquisto di tale
idea*, perocché ci dimostra pur col fatto l' indifferenza
che ha ogni parte di spazio ad esser quella ove il sen
timento nostro si espande.
Notomizziam coli' immaginazione una mano : disco
priamone i nervi tutti in essa serpeggianti, e poniam
di scoprire con acutissimo microscopio il lor finissimo
tessuto. Mediante tale stromento noi veggiam 1' aderenza
delle molecole di cui sono composti , e i piccolissimi
loro interstizj. In questi interstizj , dove il nervo va
neggia , non è sentimento; perocché non è parte sensi
tiva. Or usiamo della facoltà motrice. Un piccolissimo
movimento dato alla mano, che fa? il luogo occupato
prima dalle molecole nervee è tosto lasciato libero , e
quelle han preso posto là ove prima era il vacuo. In
questa nuova posizion della mano, a che luoghi rife
34o
riamo noi il sentimento ? a' luoghi vacui prima. Col
moto dunque succede di fatto, che noi possiamo recare
in qualunque punto matematico dello spazio il senti
mento nostro: questa possibilità ci fa concepir lo spa
zio di una continuità assoluta e perfetta.
Vero è che il sentimento dell' organo pel moto ac
quistato non è mutato un punto: conciossiachè il moto
per sè stesso è insensibile (i). Ma ciò non toglie che
la mente nostra , ajutata massimamente dalla sensazione
oggettiva de' corpi, non tragga nel modo detto l'idea
della continuità della estensione.

ARTICOLO IV.
SSL CONTINUO BEALE.

Questa è l' idea del continuo veniente da un accoz


zamento mentale di possibilità. Ma v' ha egli il conti
nuo realmente nella estensione corporea?
Questo è ciò che ci riserbiamo di ricercare dove par
leremo della percezione oggettiva de' corpi, siccome
quella percezione che a noi pare più aperta , e che ci
darà più manifesta luce in tale ricerca. Qui stiamo con
tenti a sapere che la continuità del corpo e dello spa
zio non ha interior ripugnanza.

ARTICOLO V.
IL CONTINUO NON HA FAETL

Continuo vuol dire ciò che non ha veruno interval


lo , veruna divisione , dove nulla è staccato.
Il continuo adunque non può aver parti, perocché le
parti suppongono alcuna separazione in fra loro.

ARTICOLO VI.
IL CONTINUO ?UÒ AVE» DE* LIMITI.

L' idea del continuo è « la possibilità che un corpo


termini contemporaneamente colla sua azione in qualun
que punto assegnabile d' una data estensione ».
L' idea dello spazio continuo interminabile è « la

(0 Cap. YH, art. i\.


34i
possibilità che ha un corpo di replicare indefinitamente'
V estensione sua continua ».
Vero è che noi possiamo pensare tutte queste muta
zioni possibili, e che questa possibilità universale e il
limitata è 1' idea, come vedemmo, dell' interminabilità
dello spazio.
Nulladimeno noi possiamo anco restringere il nostro
pensiero, e pensare non tutte quelle mutazioni possibi
li , ma solo la possibilità di alcune.
In questo modo nasce a noi l' idea di un continuo
limitato; per esempio, di un'area di mille palmi qua
drati , o altra di simigliamo misura.
Quest' area però non ha parti in sè , ed essa quindi
è continua , ma limitata.
Ora di questi spazj continui e limitati io posso im
maginarne quant'io voglio a tutto mio piacimento ; ma
ciascuno di questi , piccolo o grande eh' egli sia , si
riman sempre continuo, cioè senza parti.
Tutte queste idee pertanto di continue limitazioni
sono comprese, come a dire in potenza (i), nel conti
nuo illimitato, cioè nell' idea dello spazio intermina
bile; e di più ciascuna ha un rapporto di grandezza
con ciascun' altra , sicché è il doppio o il triplo ecc. di
un'altra, ovvero ha un'altra ragione qualsiasi di tutte
le ragioni che assegnano i matematici.
Ciò fa sì , che noi consideriamo i minori continui
siccome parti de' maggiori; sebbene quelli non sieno
vere parti, se non ideali: vale a dire parti formate
dagli atti diversi della mente nostra che è atta a limi
tare variamente la sua concezion del continuo, cioè a
considerare un continuo a grado suo limitato.
Per le quali cose, tutte queste parti ideali ravvicinate

(i) L'esser in potenza, non è un essere veramente: quindi realmente non


sono nel continuo se non quelle limitazioni che noi ci poniamo , e nulla
più. E anche quel realmente intendasi come può intendersi il reale nelle
idee, in quanto che cioè le idee nostre sono realmente distinte le une dulie
altre. Quindi è uua chimera quell'infinito numero d'idee che Malebranche
immagina possedere la nostra mente nella concezione dello spazio e delle
li ture, anzi quell' infinito numero d'infiniti (Lib. III).
L'idea del continuo è una sola; il limitarla che noi facciamo ci produce
delle altre idee, ma sempre in numero finito, perchè questo lavoro nostro
di limitare si arresta finalmente, e non perviene mai a porre un iutiuila
numero di limitazioni.

i
342
non fanno già un sol continuo, fino a tanto che si con
cepiscono come parti; ma esse fanno più continui mi
nori , e non altro, per sì fatto modo , che ove noi le
vogliamo considerar tutte insieme siccome un continuo
solo, dobbiamo rimuover da esse l'idea di parti, e
ogni divisione qualsiasi, e accostandole insieme coli1 im
maginazione, tor via ogni confine loro, anche ideale pu
ramente; conciossiachè il concetto di continuo ripudia
come suo contrario il concetto di parte.

ARTICOLO VII.
IN QOAL MODO SI PUÒ DIRI CBE IL CONTINUO È DIVISIBILE ALl' INFINITO.
Il perchè non può dirsi il continuo divisibile all'in
finito, se non nel senso eh' egli è limitabile da noi in
definitamente (i).
E questa indefinita limitazione di cui egli è suscetti
vo , nasce dalla sua natura non solo, ma ben anco da
quella delle facoltà nostre, che possono sempre iterare
il loro atto, e massimamente dalla nostra facoltà di
pensare , che mediante il concetto di possibilità può
immaginare e pensar possibile tutto ciò che non è in
sè ripugnante e contradditorio.
La divisibilità adunque all'infinito non è che la pos
sibilità di ripetere indefinitamente la limitazione dello
spazio da noi pensato: quindi la sentenza di s. Tom
maso, che « il continuo ha infinite parti in potenza ,
e nessuna in atto » •

CAPITOLO IX.

ORIGINE DELL' IDEA De' CORPI MEDIANTE LA PERCEZIONE


EXTRA-SOGGETTIVA DEL TATTO.
ARTICOLO I.
SEGUITA L'ANALISI DELLA PERCEZIONI EXTRA-SOGGETTIVA De' CORPI IN GENERALE.
Nella sensazione acquisita due elementi abbiam trovato:
i.° la modificazione del sentimento fondamentale,
per la quale sentiamo in una maniera nuova la parte
affetta dell'organo nostro sensitivo ;

(i) Il continuo non si dice con proprietà divisibile, per questa ragione,
ch'egli diviso, non è più continuo.
343
a.* la percezione sensitiva del corpo esteriore , la
qual dobbiamo noi ora diligentemente analizzare.
La percezione extra-soggettiva di un corpo, analiz
zata, ci dà pure due elementi :
a) la coscienza dell' azione cbe noi patiamo ,
b) Y estensione , nella quale riferiamo la coscienza di
quella specie di violenza che ci vien fatta, la quale
estensione comprende un fuori di noi esteso.
Di qui può conchiudersi, che noi allora possiam dire
d' avere la percezione di un corpo mediante la sensa
zione acquisita, quando abbiamo percepito un distinto
da noi , un fuori di noi, e un esteso.
Sponiamo adunque come i sensi esteriori ci dieno un
soggetto a cui convengano queste tre qualità, e comin
ciamo dal tatto.

ARTICOLO II.
TUTTI I SENSI CI DANNO Là PERCEZIONE D* OR DIVERSO DI NOI.

Ogni senso riceve un' azione.


Un' azione fatta in noi , della quale noi non siamo
gli autori, suppone un diverso da noi (i).
Dunque ogni senso percepisce un diverso da noi.

ARTICOLO III.
TU'llI I SENSI CI DANNO LA PEBCEZIONE D* UN FUORI DI NOI.

In prima si osservi, esser necessario alla chiarezza


delle idee distinguere ciò che è diverso da noi, da ciò
che è fuori di noi.
Cosa diversa da noi non vuol dire, che cosa diversa
dall' Io.
Il concetto di diversità non racchiude alcuna idea
di estensione , nè alcuna relazione coli1 estensione. Al
l' opposto la parola fuori, ha, nel suo senso proprio,
una relazione coli1 estensione. Una cosa fuori di un'al

ti) Capo II. Quindi non si può ammettere la distinzione che cercò di
stabilire fra' sensi Royer-Collard , alcuni de' quali fece meramente stro-
mniti di sensazioni , e alcuni di sensazioni e di percezioni ad un tempo
( Vedi i frammenti delle Lezioni di Royer-Collard, stampati da Jouffroy ) :
perciocché tulli percepiscono, tutti hanno la loro parte extra-soggettiva ,
sebbene in alcuni questa parte sia più distinta e tu altri meno, come ve*
dremo.
344
tra, è una cosa che non occupa i! luogo di un'altra.
Quindi fuori di me, viene a dire fuori delle parti ed
organi senzienti del corpo mio (i).
Se dunque il diverso da me indica una relazione di
distinzione dal mio spirito; il fuori di me indica una
distinzione dal mio corpo in quanto egli è senziente,
per l' intima unione eh' egli ha col mio spirito, nel
quale è come un agente, nel modo che ho sopra toccato.
A dimostrar dunque che ogni senso percepisce il fuor
di noi , dobbiam dimostrare che ogni senso percepisce
un diverso dal nostro corpo soggettivamente percepito.
Ora, che ciò avvenga, manifesto è per le cose dette.
Fu detto che il sentimento fondamentale è prodotto
da un'attività diversa da quella che il cangia: indi de
ducemmo due specie di attività, o sia i.° il corpo mio,
a.* ed i corpi esteriori che agiscono sul corpo mio.
In ogni sensazione adunque noi percepiamo un prin
cipio attivo , o sia un corpo diverso dal corpo mio :
conciossiachè ogni sensazione è passione che noi sof
friamo d' altro che dal corpo nostro. Dunque ogni senso
ci dà un fuori di noi , come dicevamo da principio.
E perchè non s'abbia dubbio di ciò, gioverà, a ri
badir questa prova, alcuna riflessione.
Il corpo mio è sentito nel sentimento fondamentale:
ciò che si sente fuor di quel sentimento, non è mio
corpo.
Or si figga l'attenzione ne' quattro fenomeni, de' co
lori, suoni, odori e sapori, e nella durezza altresì,
ed altrettali qualità tattili de' corpi; e vengasi interro
gando la propria coscienza, se tutte quelle cose non
sono forse altro che i proprj organi sensitivi: facilmente
si vedrà , che quelle sensazioni hanno qualche cosa di
diverso da' proprj organi , a tale che si può dire più
agevolmente che 1' odore non ha la minima similitudini!
col naso nostro , nè il sapore colla lingua o col pala
to , nè il suono cogli orecchi , e così dicasi dell' altre
qualità tutte. Quelle sensazioni adunque non possono

(i) Ciascuna parte anche senziente del mio corpo si può dire fuori di
noi in quanto ella si percepisce extra-soggettivamerUe , nella qual percctione
essa si considera in ciò che ha di comune co' corpi esteriori tutti; eli è
allora fuori del soggetto , cioè la parte che è percepita è fuori della porte
percipiente ( soggetto ).
avere per sola materia il corpo nostro ; e se v' ha an
che la sensazione del corpo nostro in esse, certo tutto
ciò che con esse noi percepiamo , non è il corpo no
stro. Esse provano adunque un principio esteriore al
nostro corpo , un termine diverso da quello del senti
mento fondamentale.

ARTICOLO IV.
IL TATTO SOLO NON PERCEPISCE CHE DELLE SUPERFICIE CORPOREE.

Quando noi siamo tocchi in parte sensitiva del corpo


nostro, sentiamo il nostro corpo , cioè piacere o dolore
alla parte tocca (i), e ancora un'azione fatta in noi da
qualche cosa di estraneo al corpo nostro: il che viene
a dire, percepiamo un agente fuori di noi (2).
E l'azione che viene fatta in noi, diversa dalla sen
sazione del membro affetto , è un sentimento che ha
un termine esteso , e si diffonde, in una estensione su
perficiale.
E veramente, ove siamo feriti da una pulita, il do
lor nostro si riferisce ad una putita , cioè occupa una
piccolissima superficie 5 ma se noi veniamo tocchi da
una superfìcie maggiore , per esempio dalla superficie
circolare di una moneta, noi riferiamo il dolore ai
punti compresi dentro quella superficie, e nulla fuori
di essa sentiamo. Immaginiamo che venga calcata ed
impressa nel braccio nostro una lamina di acciajo for
mata a croce; la sensazione nostra termina anch'essa
m quella figura : cioè la sensazione si versa per lutto
ouel piano che venne dalla detta lamina ricalcato, e si
ritiene dentro a' limiti nè più nò manco di quello (3).

(1) V ha de* sentimenti essenzialmente diversi dal piacere e dal dolore,


"solletico, a ragion d'esempio, non sembra d'un genere lutto suo pro
prio? e cosi può dirsi di moli' altri sentimenti. Io non intendo mettermi
ln questa ricerca: solamente io dico, parermi fuori di dubbio, che o
,u"i i sentimenti che noi proviamo vengono accompagnati da un qualche
grado di piacere o di dolore , ovvero che essi stessi sono altrettanti modi
di piacere o di dolore.
(2) Art. precedente.
(3) In somma l'estremità de' nervi son quelle che vengono tocche , e
quindi il toccamente non si fa che in auperlicie. Questo mi par verissimo
'a quanto al tatto esteriore.
Rosmini, Orig. delle Idee, Polli. 44
346
ARTICOLO V.
IL TATTO CSITO AL MOVIMENTO DA* L* IDEA DI SfAZIO FOSNITO DI TUE DIMENSIONI.

Tocchi in alcuna superfìcie del corpo , riceviamo una


sensazione finienle in uno spazio superficiale (i).
Aggiungiamo con ciò la facoltà locomotrice.
Questa è un poter che abbiamo di replicare a piaci
mento lo spazio in che termina il sentimento fonda
mentale (2).
Medesimamente per tale facoltà noi possiam ripetere
a nostro grado la superficie sentita col tatto.
Or movendo una superficie d' un moto che non sia
nel piano della medesima, ella traccia uno spazio soli
do , cioè fornito di tre dimensioni, larghezza, lunghezza
e profondità.
Adunque la facoltà di muover noi stessi , e con noi
l' altre cose , fa sì , che la sensazione nostra del tallo
ci sia possibile in qualunque superficie dello spazio so
lido (3): e quindi noi abbiamo 1' idea di questa possi
bilità.
L'idea della possibilità di mutare e ripetere indefi
nitamente le superficie che sono termine delle nostre
sensazioni del tatto , è 1' idea dello spazio solido inde
finito, acquisita mediante il tatto associalo col movi
mento (4).

(1) Radisi però che qui parlasi delle sensazioni avventizie , e non ari
sentimento fondamentale, nel quale io son convinto che V abbia il conti
nuo nelle parti a cui egli termina.
(2) Cap. VII , art. n.
(3) Non è già che questa solidità possa esser nota al senso, poiché »
moto non è sensibile per sé stesso, come abbiamo osservato, ma è una
via per la quale noi formiamo il pensiero della solidità sensibile.
(4) Il movimento spontaneo <> la principal cagione delle notizie che noi
acquistiamo delle distanze e degli spazj ; il tatto ( mediante il tempo ) e ■»
vista non servono che a far percepire esaltamente il termine della distani».
Quindi non è necessario un latto finissimo a misurare le grandi distanze,
siccome veggiam negli uccelli , che percorrono gl'immensi campi dell aria,
e li misurano senza aver più che 1* ottusissimo tatto delle loro zampette-
li' avoltojo , a ragione d esempio , misura lo spazio , il tempo e la cele
rità necessaria a calare e raggiungere la sua preda : a cui gli basta il poco
tatto di cui è fornito , e la molla vista congiuntamente alla molta po
tenza locomotrice.
347
ARTICOLO VI.
RIASSUNTO DE* MODI ONDE KOI PERCEPIAMO LO SPAZIO SOLIDO.

Ciò che abbiamo detto fa manifesto, che noi ci for


miamo l' idea di estensione o spazio in due modi ;
i.° mediante il sentimento fondamentale accompagnato
dalla facoltà del movimento spontaneo del corpo no
stro, a." e mediante le sensazioni del tatto ajulate pure
dulia detta facoltà.
Lo spazio indefinito nel primo modo è prodotto da
un movimento in tutte le direzioni di uno spazio so
lido sentito da noi, cioè dello spazio del nostro corpo',
movimento che noi concepiamo siccome possibile inde
finitamente.
Lo spazio indefinito nel secondo modo è prodotto dal
movimento possibile di una superficie sentita in tutte
le direzioni fuor del piano della medesima superficie.
E quindi è dichiarata la maniera onde i ciechi nati
percepiscono lo spazio indefinito, e possono intendere
le matematiche.

ARTICOLO VII.
ì PIÙ* FACILE RIFLETTERE SULL* IDEA DELLO SPAZIO ACQUISTATA PEL TATTO
E PEL MOTO , CHE PEL SENTIMENTO FONDAMENTALE E PEL MOTO.

Quanto sia malagevole a riflettere in sul sentimento


fondamentale e avvertirlo , fu dichiarato; e fu pure,
quanto sia facile ad avvertire la sensazione acquisita (i).
Per la medesima ragione lo spazio indefinito, perce
pito dalla possibilità de' movimenti del corpo nostro ,
è meno atto a soggiacere alla nostra riflessione: là dove
la sensazione del tatto essendo acquisita , richiama più
agevolmente sopra di sù e sopra del suo movimento la
nostra attenzione.

ARTICOLO Vili.
><0 SPAZIO PERCEPITO COL MOVIMENTO DELLA SENSAZIONE DEL TATTO , È IDENTICO
COLLO SPAZIO PERCEPITO COL MOVIMENTO DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE.
Il termine della sensazione esteriore del tatto è quello
di una superficie più o meno estesa (a).

(i) C. HI, art. u e segg. (3) Art. IV.


è
348
Ora questa superficie è identica colla superficie esterna
del corpo nostro: perocché noi non sentiamo la sensa
zione se non nell' estremità de' capezzoli de' nervicelli
nostri dove siam tocchi (i).
E quest' unica superficie (2) per tal modo è dove ter
mina egualmente la sensazione soggettiva dell' organo
nostro toccato, come altresì dove termina 1' azione che
da di fuori viene in noi fatta , e • la coscienza della
quale costituisce ciò che abhiam detto la percezioni
extra-soggettiva de' sensi.
E poiché 1' agente esteriore si chiama corpo esterno,
quindi quell' unica superficie nell' atto del toccamento
non è solo termine del corpo nostro, ma ancora del
corpo esteriore.
Ora lo spazio indefinito è questa superficie da noi
sentita e percepita, ove si concepisca siccome comune
al corpo nostro e al corpo esteriore, in movimento pei
tutte le direzioni (3).
Quindi lo spazio indefinito , o si percepisca da noi
mediante il movimento dell'organo nostro da noi sen
tito per la modificazione del fondamental sentimento,
o si percepisca mediante il movimento della superficie
percepita nell' agente esteriore , egli è sempre uno ed
identico'.
E poichc: la modificazione del sentimento fondamen
tale (sensazione acquisita; dell'organo nostro ) non Ita
altra estensione, diversa dà quella del sentimento fon
damentale quindi lo spHzio è uno ed identico, si>
che si percepisca ne' due modi soggettivi, o nel modo
extra-soggettivo (5),

(1) Conviene però sempre nella stessa superfìcie dis'iuguere la sena-


zione del corpo nostro , dalla sensazione della cosa esterna. Sebbene noi
sentiamo la stessa superficie , tuttavia noi sentiamo ivi due cose; !•*■
nostro corpo, soggetto senziente e sentilo , a.0 un agente esteriore sentilo
e non senziente. Questa distinzione è difficile a cogliersi, e però avvisi»»»
il lettore di mettere ogni attenzione ad avvenirla.
(2) Neil' unità di questa superficie consiste la natura del toccanjenlo , e
quell' unità misteriosa che fa l'agente col paziente, siccome abbiamo osser
vato , in qualunque maniera di azione. Vedi la nota alla face. 229 di quc'
sto Volume.
(3) Art. VI.
(4) Art. VIH. , ,
(5) Dico che è identica quando effettivamente si percepisce ne' due mo
di ; ma lo spazio puramente soggettivo riraau però rispettivamente a boi
cosa diversa dall' altra , sicché può avervi il soggettivo (che è l' essen
ziale ) senza I' extra-soggettivo c figurativo.
ARTICOLO IX.
t' identità' dell' estensione del corto nostro e del corpo esterno forma
LA COMUNICA /.ione fra l' idea dell' uno e l' idea dell' altro.

II corpo nostro adunque , considerato come soggetto


senziente, ha una stessa estensione col corpo esterno
che è puramente agente sentito.
La comunione che questi due corpi hanno nella esten
sione, è il passaggio dall'idea dell'uno, all'idea del
l' altro: è il ponte di comunicazione, per così dire,
tra loro : conciossiachè con quello stesso atto col quale
noi percepiamo il modo d' esistere dell' uno , corpo no
stro , percepiamo anche il modo d' esistere dell'altro,
corpo esteriore.

ARTICOLO X.
contindazione.

Questa conseguenza è di grande importanza.


In fatti noi abbiamo posto a costituir 1' essenza del
corpo i due elementi, i.' di un'azione fatta su noi,
2.° e di una estensione ove quell' azione si diffonda e
si termini.
Ora il nostro corpo esercita un" azione continua in
su di noi, cioè occasiona il sentimento fondamentale;
e questo effetto di questo agente chiamato corpo, si
spande i«i una estensione. Qui dunque abbiamo tutti e
due gli elementi dell' essenza del corpo, sicché la per
cezione del corpo nostro è indubitata, e l'essenza del
corpo nostro e certa com' è il fatto della coscienza.
All'opposto, rispetto alla percezione del corpo este
riore , noi sentiamo bensì un' azione fatta in noi ; ma
l'effetto di quest'azione da noi sentito , non è poiché
una modificazione del sentimento fondamentale.
Per questo solo effetto adunque noi non usciamo di
noi stessi, noi non sentiamo che il nostro stesso corpo
siccome prima , sebbene in un modo nuovo.
Quinci adunque noi possiamo bensì argomentare una
causa, ed esserne quasi consapevoli : ma una causa in
cognita: perciocché noi non abbiamo sentito lei, ma un
effetto di lei. Ciò dunque non basterebbe a farci per
cepire un corpo fuori di noi. Che di più chiedevasi ad
un tal fine?
35o *
Richiedeva»! che queir effetto del corpo esteriore fosse
egli pure esteso. Perciocché allora avremmo percepito
uh agente neW estensione, che è la nozione del corpo.
Or come potevamo noi percepire 1 estensione del corpo
esteriore?
Ecco la via che a ciò trovò nella sua sapienza l'au
tore della natura nostra sensitiva.
Noi sentiamo 1' estensione abitualmente, cioè l'espan
sione del sentimento fondamentale.
Ora noi potevamo sentire anche l'estensione dell'a
gente esteriore , quando questo agente diffondesse la sua
azione nell' estensione medesima del sentimento fonda
mentale.
A tal Gne fu ordinato, che la superfìcie dell' esten
sione del sentimento fondamentale e la superficie del
l' estensione del corpo esteriore si combaciassero , cioè
si unissero a formare insieme la medesima superfìcie,
c in una superficie due sentimenti mirabilmente provas
simo. Quindi in quella superficie nella quale si effonde
e termina il sentimento fondamentale, in quella medesi
ma viene esercitandosi ed estendendosi l' azione del corpo
esteriore; sicché una coscienza medesima ci attesta, quel-
1' azione venire da di fuori in noi fatta , e venir falla
altresì in una estensione che già prima da noi era na
turalmente sentita.
Quindi noi percepiamo i.° un'azione esterna, a.* e la
superficie in cui opera o sia termina quest'azione ester
na : e in tal modo percepiamo le due proprietà essen
ziali al corpo, comuni al nostro ed all'esteriore altre
sì , sicché ci accertiamo esser due corpi , o sia aver tutu
e due la stessa natura corporea, quantunque esercitino
sopra di noi tant' altri diversi effetti.

ARTICOLO XI.
LA SENSAZIONE SOGGETTIVA DEL CORPO NOSTRO È IL MEZZO DELLA PERCEZIONE
EXTRA-SOGGETTIVA CORPOREA.

Quindi si scorge come la percezione extra-soggettiva


de' corpi é fondata nella soggettiva.
Il primo elemento nella percezione extra-soggettiva e
una forza che ci modifica ; ma questa forza noi la per
cepiamo pel suo effetto , cioè per la modificazione sog
gettiva del sentimento fondamentale, o sia per quella
35 1
specie di violenza che in quella modificazione ci vien
fatta.
Il secondo elemento è l'estensione, ma una esten
sione che noi naturalmente sentiamo, quella del senti
mento fondamentale. Ma perciocché questo si muta nella
estensione , mediante una forza esterna applicata in cia
scun punto della medesima; quindi questa forza noi la
percepiamo siccome estesa nel termine suo.
Perciò dicemmo che il criterio della percezione del
corpo esteriore è finalmente la percezione del nostro
proprio corpo (i).
ARTICOLO XII.
dell'estensione del CORPO.
Prima di proceder oltre, conviene ch'io indugi un
poco sull'estensione reale che ho talora attribuita al
corpo, come questione gravissima e quinci e quindi di
battuta. Or io dimostrerò che 1' estensione che noi per
cepiamo nel corpo è reale, e non apparente e illu
soria (3).

(1) Art. X
{?) La filosofia non per un solo, ma per molti canali discendendo, venne
a meltersi e perdersi quasi in oceano interminabile nel moderno scettici
smo. Io ho accennato la storia di questo sistema, anzi negazion di sistema,
per Locke , Berkeley, Hume, Reid e Kant, come pure per Locke, Con-
dillac, e gli scettici di Francia: un'altra via per la quale venne a noi
quella distruzion filosofica, fu per Cartesio, Bayle e Kant; ed ecco quali
De furono i passi. Cartesio avea resa celebre , e fatta abbracciare univer
salmente la sentenza del Galilei sulle proprietà secondarie de' corpi , che
non fossero che nel soggetto ; e ripose 1' essenza de' corpi nella estensione.
Il suo errore consisteva nel non avere osservato, che in tutte le sensazioni
nostre, sebben soggettive , come ne' colori, sapori, suoni, odori ecc., v'ha
sempre necessariamente una parte extra-soggettiva. Dimenticala questa
parte e negletta , e fatte passare quelle sensazioni tutte per soggettive ,
venne Bayle , il quale applicò gli stessi argomenti che avea Cartesio usati
per le qualità secondarie, a mostrar soggettive le primarie, fra le quali la
estensione. L'argomento era semplicissimo, e ad hominem. L' estensione
non è percepita da noi che mediante una sensazione: le sensazioni sono
soggettive: dunque 1' estensione è soggettiva. Di questo punto partendo,
bastò a Kant l'inventare il nome di forma del senso estemo, per esprimere
quell' attitudine che ha il soggetto di avere la percezion dello spazio : ed
ecco messo il piede in sul suolo dulia critica filosofica. Kant fece più
passi entro una terra a cui si trovò sbalzato dal naufragio, quasi direi ,
ilei suo tempo, e scoperse un tristo paese, la filosofia trascendentale. L'e-
sttnsione non si potè più difendere , dopo il piccolo crror di Cartesio ,
cioè quello di aver trasandato I' elemento extra-soggettivo , che è pur in
tulle le noslre sensazioni soggettive.
35?.

La moltiplicità non è essenziale alla natura corporea.


Furono alcuni, a' quali parve la moltiplicità essen
ziale alla natura corporea.
Ma facil còsa è vedere , e 1' ha già osservato Leibni-
zio , che il concetto di moltiplicità non può essere il
concetto di alcuna natura, ma della coesistenza di più
nature: è un concetto relativo, che suppone e si fonda
in un concetto assoluto : in somma là dove v'hanno i
molti , vi dee esser 1' uno, perciocché il moltiplice non
è che il complesso di più unità-' convien dunque nel
l'unità (i) cercare la natura delle cose, e non nella
moltitudine, che non è se non più nature insieme rac
colte.
Il perchè nè 1' essenza del corpo nè quella di veru-
n'altra cosa sarà mai la moltiplicità , la quale è un essere
puramente mentale: e solo agl'idealisti, massime tra
scendentali, sta bene di mettere la corporea natura nel
moltiplice , siccome quelli che suppongono i corpi una
colale emanazion della mente (2).

§ 2.
Unità complessa del nostro corpo sensitivo.
I nostri organi, acciocché abbiano la facoltà sensiti
va , debbono avere certe condizioni.
Una fra queste è la comunicazion col cervello.
Questa fa conchiudere, che la sensitività di ciascuna
parte del nostro organo sensitivo dipende dalla forma
di tutto il sistema senziente, cioè da un acconcio com
partimento ed organizzazion di parti: le quali, messe
così armonicamente, danno un tutto, che in ogni sua
parte è sensitivo.
Dal tutto adunque, o a dir meglio , da una cotale
unità che in qu-esto tutto ha sede , vien V essere sensi-

(1) Se si couvien mettere la natura corporea negli elementi , de' quali


corpi composti risultano, non è già per questo che si debbano questi el
menti fare inestesi; basta che abbiano una estensione continua, poiché
continuo è uno, come vedemmo Cap. Vili, art. v.
(2) Qui parlo della moltiplicità attuale; all'incontro vero è che la n
tura dell'esteso involge sempre l'idea di una moltiplicità potenziale, ci
non è però ancora moltiplicità.
353
tive alle particelle onde l'organo è composto, e cosà
può dirsi che il corpo nostro in quanto è sensitivo gode
d'una certa unità complessa, che il rende uno, per
ciocché ha in sè un ordine o armonia di parti.
E questo vero rimane evidente, eziandiochè non si
possa definir la questione , se un centro v' abbia nel
cervello, e quale; se compongasi d'una unica corporea
particella a cui tutte le linee de' nervi si rappicchino,
e di più : perciocché 1' unità del corpo umano è suffi
cientemente stabilita , anche fuor dallo spirito intelli
gente , dal bisogno di una certa disposizione per essere
dallo spirito avvivato e abitato, e perchè le varie po
tenze , come dice Dante, sieno organate.

§3.
Sull' unicità del nostro corpo non può cadere errore.
A. veder ciò, diamo che i nostri corpi fossero due.
Converrebbe che noi avessimo due sentimenti fonda
mentali, con due estensioni: perciocché questi sono i
due elementi essenziali del corpo nostro. La coscienza
dunque, che attesta un solo sentimento fondamentale
esteso in una data estensione , attesta pure 1' unicità
del corpo nostro.
Diamo che sentissimo aver due corpi. Non potremmo
averne un solo; se pur nella sensazion de' due corpi noi
percepissimo duplicati i due elementi costitutivi, poiché
questi due elementi formano appunto il corpo (ì).

(l) A cui sarà beu entrato nell' animo il concetto che io diedi del cor
po, riusciranno irragionevoli le seguenti pai ole di Reid : « Noi non dob-
« biamo di ciò conchiudere, che tali organi corporali sieno di lor natura
• necessarj alla percezione , ma più tosto che per voler di Dio il nostro
■ potere di percepire aggetti esterni è limitato e circoscritto dagli organi
" del senso, conciossiachè noi percepiamo questi oggetti irt una certa ma-
» niera e in certe circostanze, e non in altre ( Essnys ori the Powers, eie,
T. I, f. 71 ). Che una cognizione de* corpi possa darsi più perfetta della
nostra in altri esseri privi degli organi corporei , è verissimo. Ma che la
percezione sensitiva de' corpi si possa aver migliore senza gli organi, que
sta è uua sentenza che non può dirsi se non da tale a cui manca una per
fetta analisi di detta percezione. Io ho mostrato, che ciò che noi chiamia
mo corpo, è appunto ciò che percepiamo cogli organi; sicché sono cosi
necessarj gli organi a percepire sensitivamente la natura corporea, come
e necessaria la stessa natura corporea, nè più né meno. Il detto di Rrid
manifestamente dimostra , eh' egli si era formato de' corpi 1' idea di una
Kosmihi, Orig. delle Idee , Voi II. l\ 5
35/,
§ 4-
Moltiplicità del sentimento del nostro corpo.
Or sebbene il corpo nostro sia uno per l'armonia
delle parli, e perciò noi ne percepiamo altresì l'unici
tà, e tutto ciò die è fuori di quell' armonia noi sen
tiamo, ed è alieno da noi ; tuttavia quell' unità uè quella
unicità non esclude la molli plici là sua; e di quesla
dobbiam ora toccare.
E dico, ebe per 1' organizzazion del mio corpo, lo
spirito mio col senlimento fondamentale sente lulle le
parti sensitive, e colla sensazione avventizia in luttele
parti sensitive, il ebe dà una colale molliplicilà per
lo meno possibile a concepirsi coli' intelletto.
E fermiamoci alla sensazione, cbè facil cosa è poi
applicare il ragionamento medesimo al senlimento fon
damentale.
Che possiamo noi affermare sulla moltiplicità della
sensazione, e che cosa non possiamo?
Noi possiamo affermar questo, che quando proviamo
una sensazione nel talto, se la impressione è di una
certa estensione ( data un' intension sufficiente ) noi la
sentiamo, e il più delle volle altresì l'avvertiamo.
Ma se quell' estensione è piccola oltre a certo segno,
sfugge da ogni avvertenza.
Possi a m chiamar minima quell' estensione della sen
sazione, che fatta più piccola , si rende inetta ad es
sere avvertita.
Ora questa minima estensione riguardisi qui come
1' elemento della sensazione estesa.
Cerio, che uno di questi elementi non è l'allro; pe-

cerla cosa incognita e misteriosa, come tutti i filosofi moderni che 1' Jiaim"
preceduto. Di ima idea cosi vaga, confusa, anzi al tutto misteriosa de' cor
pi , la qual da luogo ad almanaccare quanto alìrui piaccia, sortirono tulle
le stranezze, si può dire, della moderna filosofia, e massime l' idealismo-
In quella vece convien dire, clie la voce corjw non esprime nè può espri
mere se non ciò clic noi conosciamo e percepiamo sensitivamente : quindi
la nozione nostra de' corpi è condizionata e legata strettamente cogli organi
slessi. L' errore in questa parte di Reid, è il contrario di quello di New
ton, che giudicò necessario di dare a Dio per sensorio lo spazio infinito.
Reid giudicò gli organi eslesi non necessarj alla percezione sensitiva cor
porea , Newton I' estensione necessaria alla cognizione divina. La più parip
di qucsli incagli si rimuovono, ove s' abbia ben concepita la distinzione
della sensazione e percezione sensitiva, dall' idea e verbo dell' inlellello.
355
rocchè in ciascuno di essi noi abbiamo in separato que
ste due cose , i.° sensazione, 2" estensione 5 e queste
sono i due costitutivi del corpo.
Quindi noi possiam considerare questi elementi sicco
me rispondenti ad altrettanti corpicciuoli sussistenti in
separato 1' uno dall'altro , cioè V uno fuori dell'altro 5
ed è impossibile che l'uno coli' altro si confonda, o
che l'uno faccia le veci dell' nitro. Quindi noi perce
piamo nel corpo nostro con altrettanta certezza la mol-
tiplicilà, quanl' è la certezza della percezione di cia
scuna unità.

§ 5.
Mofciplicità da noi percepita nel corpo esteriori-.

E un ragionamento simiglianle noi possiamo appli


care al corpo esteriore. Ove il corpo esteriore sia te
ntassimo, sicché abbracci una estensione piccola sotto
a certo segno, va questa fuori d'ogni avvertenza.
Pigliando or noi questo minimo ( cioè il più piccolo
corpicello avvertibile) per elemento, noi possiam dirti
con sicurezza , che la percezione di un corpo grande
non è che un'unione di quelle minime percezioni, o
per dir meglio , che nella percezione d' un corpo gran
de , noi possiamo distinguere e separar colla mente quelle
uiinime percezioni , siccome possibili ad essere anche
realmente distinte ove a parte a parte si prendano.
E poiché in ciascuna di quelle minime percezioni si
ritrovano i due elementi costitutivi il corpo; quindi
altrettanti sono i minimi corpicelli , o divisi od uniti
fra loro , non rileva.
E che «' abbiano una sussistenza l'un dall' altro in
dipendente, si vede da questo, ch'essi hanno un' azione
separata e incomunicabile. Conciossiachè in ognuno di
questi spazietti minimi che ahbiamo distinti, v'ha un
sentire distinto dall' altro , ed una estensione fuori del
l' altra. Quindi l'uno agente è fuori dell'altro, ed è
una sostanza, che potrà essere all'altra contigua, ma
nella sua esistenza appar dall'altra separata e da sé.
Noi percepiamo dunque la moltiplicità anche ne' corpi
esteriori.
356
§ 6.
Distinzione del corpo dal principio corporeo.

Noi « imponiamo i nomi alle cose in quella maniera


che intellettualmente le percepiamo (i) ».
Quindi cercar che sia il corpo , è un cercare quale
nozione gli nomini abbiano imposto al vocabolo corpo (2).
Noi abbiamo trovato risultare questa nozione di due
elementi, cioè di un agente su noi, e di una estensione
in cui 1' azione di quell' agente e la corrispondente
passione nostra si spande.
Ora avvertasi, che se quell'agente nulla in noi ope
rasse, noi noi potremmo conoscere nè nominare. Noi lo
conosciamo adunque e lo nominiamo in quanto egli
opera in noi: il vocabolo dunque di corpo è deter
minato dagli effetti che in noi quell'agente produce,
e dalle leggi secondo le quali egli li produce.
Ma quell' agente medesimo che quegli effetti produce
in noi, potrebbe avere delle leggi a noi occulte e a noi
non manifeste nelle sue azioni costanti sopra di noi ;
le quali, diverse sì, ma non contrarie a quelle da noi
sperimentate esser potrebbero. Se ciò fosse rispetto a
tutti questi effetti o possibili meramente od occulti, e
a tutte le loro leggi , egli non sarebbe da noi conosciuto
nè nominalo. Il nome di corpo adunque non si può ap
plicare a queste qualità , fino che incognite ci riman
gono ; perciocché « non si debbono usare i vocaboli io
un senso più lato di quello al quale furono istituiti » (3).
Tuttavia, se de' nuovi effetti, e con nuove leggi, mu
tandosi 1' ordine presente delle cose , si discoprissero
appartenere a quello stesso principio a cui appartengono
i presenti effetti che determinano il valore del voca
bolo corpo; in tal caso con verrebbesi dagli uomini stes
si , fatti accorti di ciò , rallargare al medesimo il signi
ficato»
Ma fino a che quel vocabolo noi lo adoperiamo nella
presente condizion delle cose , egli ha un senso limitato
dagli effetti e dalle leggi colle quali a noi il corpo si
manifesta.
Quindi io stimo bene distinguere il principio corpo-

(1) Cap. I, ari. v, 2 2. (2) Ivi, g 4. (5) Ivi, ? 1


reo dal corpo: e comprendere nella definizione di que
sto quel principio solamente in quanto egli è accompa
gnalo da quegli effetti e da quelle leggi per le quali a
noi è noto : e di lasciare nulladimeno al principio cor
poreo lutto ciò che potesse avere in sè stesso di più o
di diverso da quello , pel quale la sua natura a noi
fuor manifesta.
Ora egli è parlando del corpo preso in questo senso,
che io non ho dubitato affermare , conoscere noi con
certezza la moltiplicità de' corpi (i).

§ 7-
Dato che la sensazione corporea termini in un esteso continuo , è necessario
ammettere una estensione reale continua anche ne' corpi che la producono.
Poniamo che noi, tocchi nella superficie del corpo
nostro , avessimo tal sensazione , la qual non solo si
diffondesse in quella superficie, ma ben anco quella
superficie in cui si diffonde fosse continua, ovvero fosse
in essa qualche spazietto veramente continuo (2).
Dico che il corpo che ci produce quella sensazione
estesa e continua, dee essere anch' egli esteso e conti
nuo : e questo è corollario alle cose in altri luoghi ed
ultimamente dette.
In altri luoghi abbiamo detto, che « il corpo è la
causa prossima delle nostre sensazioni » (3). Abbiamo
spiegato che s'intenda per causa prossima: cioè tal ente,
che ha il suo nome dall'effetto che costantemente pro
duce, e non da altro (4).
Quindi abbiamo conchiuso , che le sensazioni costan
ti, cioè il sentimento fondamentale e le sue modifica
zioni, non eran prodotte da una potenza del corpo, ma
dalla sostanza stessa del corpo, dal corpo stesso; per
ciocché questo vocabolo corpo non s' intendeva se non
per quegli effetti, i quali venivano in tal modo ad esau
rire tutto il significato del vocabolo (5).

(1) Qualunque cosa si scuoprisse ne' corpi, o qualunque mutazione essi


potessero sostenere da una forza sopra natura , non potrebhcr però mai le
nuove proprietà render false le antiche; e quindi le qualità extra-soggettivo
che noi percepiamo ne* corpi, non c'ingannano, e son vere eziaudiochc
potessero esser mutate.
(2) Il medesimo sarebbe pouendo clic il sentimento fondamentale si
diffondesse in qualche superficie, o solido continuo, cioè senza alcuna io»
terruzione.
13) Cap. I, art. iv. (4) Ivi. (5) Ivi.
358
Su queste dottrine trovammo , die in ciascuno spa
zio ove noi proviamo una sen.say.ione che si dill'onda
nella estensione, ivi dobbiamo riconoscere un «gente
fornito di tutti i caratteri necessari ad esser dello un
corpo : quindi la moltiplicità de' corpi desunta dalla
moltiplicità delle sensazioni nella moltiplicità degli spazj.
E veramente, ciò che opera in un piccolo spazio, a
noi si presenta come interamente diverso e fuor di ciò
che opera in un altro piccolo spazio, eziandiochè con
tiguo: poiché quivi gli effetti sono due, diversi essen
zialmente fra loro e indipendenti ; conciossiachè i." uno
spazietto è fuor dell'altro; ed egli vien ripugnatile alla
natura degli spazj il confonderli insieme, giacché la
natura dello spazio è appunto quella di non poler aver
una parte nell' altra racchiusa ; i.° la sensazione pure
è distinta per sè, e distinta anche per la diversità de
gli spazj. E io posso sempre immaginare che la sensa
zione in uno spazietto sia più o meno forte che in altro
spazietto; posso immaginare che in uno spazietto cessi,
quando nell'altro continua; e qui riprenda, e là venga
meno : sicché tutto ciò che noi conosciamo di queste
sensazioni in diversi spazj si è , che sieno al tutto in
dipendenti fra loro a tale, che 1' una possa star senza
1' altra.
Questa essenziale differenza di effetti autorizza esfona
ad ammettere una sostanziai differenza di cause, e quindi
la moltiplicità di queste; ciò che ci appiana la via a
dimostrare, che data la sensazione continua , dee avervi
una continuità di estensione anche nel corpo che 1' ba
prodotta.
E veramente , noi avevamo immaginato diversi spa-
zietti , ne' quali fosse partito uno spazio grande, ove
si spandesse la sensazione; e vedemmo, come ad ogni
spazietto era presente necessariamente una forza , un
corpicciuolo ivi operante e producente in esso la sen
sazione.
Ora accostiamo insieme questi spazietti , togliamo lor
di mezzo ogni divisione; essi son resi uno spazio grande
continuo. Or, per averli così accostati insieme, cesserà
1' argomento di sopra esposto? .Non mai; perocché nulla
ha in essi alterato e mutalo: sarà dunque egualmente
necessario che ad ognun d'essi, sieno lontani , prossimi
o contigui , un corpicciuol coiiispouda. Quindi la loro
359
contiguità , ond' è riuscita una sensazione grande, con
tinuala , dee pur dare un corpo continuato.
E veramente tutta la forza dell' argomento sta in
questo solo principio, che ovunque vi ha effetto , cioè
la sensazione, ivi vi è forza operante. Ora se la sen
sazione è continua e uguale in ogni punto assegnabile
di uno spazio, v' è l'effetto; per tutto dunque v' è
corpo, la causa operante. Laonde se non si trova un
minimo intervallo nella sensazione, non può trovarsi
un minimo intervallo nel corpo. Data dunque la sen
sazione continua , continuo è il corpo che la produce.
La necessità di ciò è la natura mirabile e misteriosa,
ma però innegabile, dell'estensione continua. Voi non
potete in essa assegnare un minimo spazietto doveches-
sia, che non abbia un essere proprio, cioè fuori , e al
tutto indipendente dagli altri spazietti ; sicché ogni spa-.
/-ietto può esser preciso dal tutto colla mente; e indi
la limilabilità indefinita che nel continuo abbiamo os
servata. E quell' essere ogni spazietto assegnabile fuori
di tutti gli altri, fa sì che in uno non possa operaie
queir azione che è limitala e chiusa entro un altro spa
zietto: sicché ogni minimo spazietto suppone un ope
rante fuori di quello che opera a lato di lui in altro
spazietto. Nel corpo esteriore adunque debbono essere
assegnabili tante particelle contigue operanti sul corpo
nostro, quanti sono gli spazietti contigui assegnabili
nello stesso corpo nostro da noi sentito.
A questo ragionamento fors'altri così risponder?».: Un
corpo esteriore ferendo una parte del corpo nostro,
produce un dolore più esteso di sè -, poiché quel dolor
si comunica largamente, per consenso , a più parti.
A cui do più risposte.
1. Osservo che in tutti que' luoghi, a' quali il dolore si
estende per un cotal consenso , son delle parti sensitive.
Or si dee applicare a queste il ragionamento fatto di
sopra. Se quel dolore si estende in uno spazio conti
nuo, forz1 è che le parti che molestate il producono
sieno continue (i). Se le parti del corpo nostro sono

(i) V ha talora inganno nel riferire la sensazione 3 come nel inrml>ro


reciso che duole ; ma non è: il senso che in quel fallo s'inganna , è il giu
dizio abituale.
3Go
continue, dunque v'ha il continuo nel corpo; ciò die
si dovea dimostrare.
II. La sensazione propagata per consenso, tiene una
stessa legge con tutte le altre sensazioni, la quale è
questa, che «ove opera una forza, ivi si sente». E
veramente, perchè si propaga la sensazione, se non per
chè si propaga la forza che immuta Io stato delle parti
nell'organo sensitivo? Poniamo che il moto dell'or
gano, a cui seguita il dolore (sia prodotto da forza
meccanica, fìsica o chimica, io non cerco), vada co
municandosi di parte in parte nel membro , e diciamo
da uno strato all' altro. Or il terzo strato riceve quel
movimento dal secondo. Che corpo adunque dovrà egli
sentire? il corpo esteriore ? non già , ma la parte in
terna , lo strato secondo del membro che su lui preme,
o tira, od opera insomma. Il dolore diffuso nella fibra
sensitiva, per consenso o comunicazione, non accusa
un corpo esteriore ; egli ci fa solo percepire più viva
mente il membro stesso affetto, cioè le parti che agendo
immediatamente cagionali dolore, le quali parti sono del
membro stesso. Si discerna dunque la sensazione pro
dotta immediatamente dal corpo esterno , la quale e
quella che accusa 1' esistenza di esso corpo , sentendo
la coscienza nostra ivi una violenza dove il corpo este
riore adopera. Per il che il principio da cui sono par
tito a dimostrare la continuità del corpo , vale ancbe
per la sensazione diffusa per consenso; e riman sempre
vero , che « in ogni parte ove noi sentiamo prodursi
una sensazione , ivi è presente una forza in atto , cioè
un corpo che opera ».

§ 8.
Le parti sensitive del corpo nostro non producono un sentimento più e«te»
di quello che sieno esse stesse.
Ciò è manifesto dal paragrafo precedente; ma oltrac
ciò la definizione delle parti sensitive del corpo nostro
può far questo vero evidente.
Poiché , come le conosciam noi ? Ivi sentiamo una
parte sensitiva, dove sentiamo la sensazione.
Dunque la sensazione non è più estesa della parie
sensitiva, nè la parte sentila della sensazione.
36 1
§ 9-
L'estensione de' corpi esterni non è maggiore né minore di quella
delle sensazioni che producono in noi.

Alla stessa guisa della precedente si prova questa


proposizione.
Ond' è che noi misuriamo la grandezza de' corpi
esterni 1
Dalle sensazioni del tatto massimamente : l'estensione
del nostro corpo, percepita soggettivamente, è misura
dell' estensione extra-soggettiva de' corpi esteriori , come
abbiamo altrove ritrovato (i).
Dunque 1' estensione de' corpi esteriori non è maggiore
nè minore dell' estensione delle sensazioni che col loro
contatto in noi producono.

§ io.
Nelle sensazioni nostre del tatto t' ha una continuità fenomenale.

Cerio è , che quando noi tocchiamo una superfìcie


bea levigata , noi non siamo in caso di avvertire nella
nostra sensazione alcun vano.
Quindi la sensazione sparsa in superfìcie, che pro
viamo nella mano e nel membro col quale tocchiamo ,
a noi appare continua; il che equivale a un dire che
quella continuità è fenomenale.
Ma se guardiamo col microscopio, quella superficie,
che noi abbiamo col tasto della mano trovata conti
nua, ci apparisce tutta porosa e groppolosa. Questo
fatto sembrerebbe contraddire a ciò che abbiamo tro
vato , che la sensazione del tatto prodotta in noi dal
corpo esteriore non si dilata più là della grandezza del
corpo medesimo. Ma convien sempre aver presente quella

(i) Abbiamo distinto più volte il sentire , dall' avvertir di sentire. Certis
simo mi sembra , e quanto diremo il dimostrerà , che P oggetto corporeo
che opera sullo spirito nostro , lia bisogno di essere più grande acciocché
produca una sensazione atta ad essere avvertila, almeno con mediocre fa
cilità , che non acciocché produca una sensazione semplicemente. Voglio
dire che la sensazione, quant' è più ristretta e tenue, tanto è più difficile
ad avvertirsi in noi eziandiochè ella esista. Quindi una sensazione ristret
tissima dee esser sommamente malagevole a potere avvertirsi, o almeno ad
avvertire la sua estensione.
Roswist, Orig. delle Idee , Voi. II. 4^
36a
verissima e necessarissima distinzione fra la sensazione
e Y avvertenza ; e convincersi per via di osservazione,
che minutissime sensazioni si hanno, le quali scappano
interamente al nostro avvertire: il perchè non avver
tendo noi qne' sottilissimi meati e interpolamenti che
nella sensazione della detta superficie si trovano, noi
la nrediam tutta uguale, e senza fili o punti vaneggianti.
Laonde non è propriamente la sensazione grande
quella che sia continua ; ma noi quella supponiamo
tale, perchè non avvertiamo i suoi minutissimi inter
rompi menti.

§ 1 1.
Le sensazioni elementari sono continue.

Non v' è dunque in una sensazion grande, cioè estesa


notabilmente ( siccome la superficie di che abbi ara par
lato ), perfetta continuità; ma le parti sue hanno pei
tutto de' tramezzi e degl'intercettamenti.
Questi tramezzi ed intercettamenti spezzano in parte
la sensazione grande in altrettante sensazioni piccole ed
elementari, vicinissime fra loro , ma non contigue da
tutti i lati.
Ora io dico, che queste piccole ed elementari sensa
zioni si spandono in una estensione veramente conti
nua; e così lo provo.
Supponiamo il contrario, cioè ch'esse non avessero
alcuna continuità: quelle sensazioni non sarebbero che
de' punti matematici.
Or questi punti matematici lascierebber necessaria
mente fra loro degli spazietti più o meno minuti; ma
sempre degli spazietti continui , e contigui altresì, per
ciocché il punto matematico non rompe la contiguità.
Ora si osservi, che v'ha una legge ebe goverua le
nostre sensazioni , ed è questa : ove due o più sensa
zioni sono nel corpo nostro notabilmente divise di luo
go , noi ci accorgiamo che v' ha uno spazio in mezzo
a loro che le divide: perciocché noi le riferiamo a punti
diversi: questi spazj adunque sono da noi sentiti ove
sieno d'una notabile estensione, massime pel paragone
fra il luogo alleilo da sensazione e il non affetto.
Ora diasi, che noi non sentiamo la sensazione che
in molti punti inestesi: sarebb' egli possibile che la
363
sensazione di molti punti inestesi ci desse una sensa
zione fenomenalmente continua, quale è di fatlo (i)?
Impossibile : imperciocché ,
I. Dato che noi avessimo 1' altitudine di avvertire le
sensazioni che non hanno alcuna estensione, troppo più
noi avremmo quella di avvertir gli spazietti che le di
vidono, i quali sono infinitamente più estesi de' punti
matematici. La sensazione dunque totale non ci potrebbe
giammai apparir continua; ma noi dovremmo avvertir
la, se fosse tale, come composta di punti ineslesi, lon
tani P uno dall'altro: quindi il fenomeno della conti
nuila nelle sensazioni nostre sarebbe impossibile ad
avvenirci.
II. I punti matematici, sieno quanti si vogliano ,
anche un numero infinito, messi tutti insieme, coprir
non possono il più piccolo pezzuolo d'una linea, non
che la più piccola superficie: perciocché privi di ogni
estensione, non possono inai dar ciò che non hanno.
Or dunque se noi mettiamo insieme tulli i punii ine
stesi da noi sentiti nella fatta supposizione , essi non
scemano ne la più piccola particella alla grandezza di
quella superficie nella quale sono dispersi. Dunque noi
dovremmo sentire da una parte la sensazion de' punii
inestesi, dall'altra la sensazion della superficie lui la
siccome prima , massime pel sentimento fondamentale :
poiché tutti gli spazietti che non soffrirebbero alcuna
sensazione, farebbero, insieme presi, appunto tanta esten
sione, quant' era prima che fosse la sensazion de' punii.
Se dunque tutta P estensione che noi sentiremmo ne'
punti sarebbe nulla, rimane che noi dovremmo occor-
gerci della estensione che fra' punti rimane, siccome
quella che è tanto grande né più uè meno quant'era
innanzi che venisse in noi cagionata quella sensazione
che in alcuna estensione non termina, ma in soli punii
ineslesi.
III. Di più , se de' punti semplici si sentissero, sen-
tirebbesi un complesso di sensazioni, le quali non avendo
alcuna estensione , non sarebbero mai sensazioni corpo
ree (2) ; poiché essenziale a queste è appunto che termi
nino in estensione 3 né darebber materia all' idea di corpo.

(>) l 10. (a) Cap. V, art. 11.


364
IV. Finalmente diamo che non sentissimo che punii
inestesi. Come potremmo riferirli noi a' diversi luoghi
entro la periferia del corpo nostro? e il fatto ci dice
che noi riferiamo a' diversi luoghi del corpo le sensa
zioni corporee. Ciò far non potremmo se non misurando
in qualche modo le distanze dall' uno all' altro. Ora
sentendo noi queste distanze, noi sentiremmo il continuo;
o non sentendole al tutto, non avremmo modo di ri
ferire quo1 punti a1 luoghi a' quali noi li riferiamo, ma
essi sarebbero sensazioni fuori del luogo , sentiti per
avventura nella semplicità del nostro spirito, e non
altrove. Perciocché veramente il solo continuo può es
serci misura della distanza ; conciossiachè il punto sem
plice non è alcuna misura , giacché è privo di qualsi
voglia estensione. Dato che noi percepiamo il continuo,
nbi possiamo misurare altresì gì' intervalli d1 un punto
all' altro ; poiché la misura rilevata di questi intervalli
non è che un rilievo che noi facciamo della possibilità
eh' essi hanno di ammettere un certo numero di volte
quel continuo che noi togliamo per unità misuratrice.
E dunque necessario di riconoscere, che le piccole
sensazioni elementari , sieno acquisite, sieno componenti
il sentimento fondamentale, sono estese, cioè terminano
nella estensione continua.

5 ia-

I corpi elementari hanno una estentione continua.

Che il principio corporeo possa esser semplice, questo


noi noi possiamo afFermare né negare: conciossiachè quel
principio può essere (i) in parte ignoto.
Ma che i corpi sieno un complesso di punti sempli
ci, come pose Leihnizio, questo è manifestamente falso (a)
Noi abbiamo veduto i* che le sensazioni elementari
sono eslese e continue, a.* che la grandezza de' corpi ,
cagioni prossime delle sensazioni , è uguale alla gran
dezza delle sensazioni.

(i) 36.
(a) L' errore leibniziano sembra appunto consistere nell'aver egli voluto
parlare del principio corporeo anziché de' corpi, dell'ignoto anziché del
noto. E chi può parlar* francamente e senza errore di ciò che ignora ?
365
Conchiudasi : dunque i corpi" elementari hanno una
estensione continua (i).

§ i3.
Confutazione de' punti semplici.
E veramente , i punti scappano da' nostri sensi : ab
bi a m noi mai la percezione di punti inestesi? Se non
1' abbiamo , dunque non sono corpi. Possiamo noi aver
messo un nome a ciò che non conosciamo? o non è
anzi fermato, che noi mettiamo i nomi alle cose cono
sciate , e li togliamo a significar le cose solo in quanto
le conosciamo (2)? II vocabolo corpo adunque dee si
gnificarci delle cose note, delle cose che cadono sotto
i nostri sensi, che noi tastiamo colle mani , e veggia-
mo cogli occhi , e percepiamo cogli altri organi nostri 5
e non de' punti inestesi, de' quali non abbiamo alcuna
esperienza.
Ov' è una sensazione, ivi è una passione rispetto a
noi: un'azione rispetto all'agente: una forza in atto,
che si chiama corpo. Ora se in certi spazietti v' hanno
delle sensazioni continue , vuol dire che quella forza
si espande in tutto quello spazietto, che è presente in
ogni suo punto , che è estesa e continua : i corpi adun
que elementari debbono avere una vera continuità , e
non esser de' semplici punti; ove pur sui dati dell'os
servazione si ragioni , e non su quelli della vana im
maginativa (3).

(1) A me sembra che si possa conghielturare con molta verisimiglianza,


cbe i corpi elementari, oltre avere una certa estensione continua, abbiano
certe forme regolari, come i cristalli, e sieno perfettameute duri e immu
tabili. Ma queste conghietture, a cut mi conduce il ragionamento dell'intima
natura delle cose corporee (alle quali non punto ripugnano le osservazioni
de' moderni naturalisti , che per la lor via vennero pur essi alle medesime
conghietture), non voglio che si credano formare una parte essenziale di
quesl' opera.
(1) Cap. I, art. v, | 2 e 3. Tuttavia deesi avvertire, che co' vocaboli noi
seguiamo la cosa vera, sebbene in quel rispetto limitato nel quale la cono
sciamo. Quinci scoprendo noi nella cosa delle altre qualità, il vocabolo può
sussistere, ma egli mula signiCcato, ricevendolo più ampio e completo. Fino
però che quelle qualità ignote non sono a noi note, ci è vietato d'usurpare
il vocabolo a significare imprudentemente una creatura della nostra imma
ginazione, un ignoto.
(3) Se i punti semplici operassero con un'azione terminante in punto ,
questi agenti passerebbero d' una parte all'altra del nostro corpo, senza ca
366
ARTICOLO XIII.
DEFINIZIONE DEL COMO PESrEZlONATÀ.

Trovata l'estensione continua esser reale nel corpo,


noi possiamo perfeziunare la definizione del medesimo (i)
colf esprimere nella stessa questa qualità.
« Il corpo è dunque una (3) sostanza fornita di esten
sione, che produce in noi un sentimento piacevole 0
doloroso, il qual termina nella estensione medesima » (3).

ARTICOLO XIV.

COL TATTO E COL MOVIMENTO NOI PERCEPIAMO IL COUFO ESTIMO».

Se il corpo è una forza che termina coli' allo suo in


una estensione solida continua, dobbiamo or vedere
come noi col tallo lo percepiamo.
L' estensione è fornita di tre dimensioni , lunghezza,
larghezza e profondità.

gionarci il minimo disturbo. Se si dà loro intorno una sfericciuola in cui li


loro forza si estenda , essi non sono più forze semplici : questa sfericciuola
di forza è appunto il corpo esteso. Per affermarli poi costruiti cosi, conter
rebbe dimostrare che la forza de' corpi elementari opera in direzione de
raggi che parton da un centro; la qual ricerca sarà forse uno de' (/uatrtndn,
ma non si è per anco fatta. Se ciò non provasi , differenza non vi avrebbe
fra il centro e la sfera, perciocché forza è nell'uno e in ogni punto dell'al
tra. Se il centro è ideale nell'esteso, non costituisce allora alcuna natura,
ma è un postulato della mente. Ancora, le forme de' corpi primitivi dovreb
bero essere sferiche, nella supposizione del centro che emette una forza; il
che non pare a* naturalisti probabile. Se poi non sono sferiche, la legge
del ceutro di gravità viene a pugnare col centro della forza. Ma come che
sia di tutto ciò , la parola corpo non può avere altro valore che quello di
una forza fornita di uu' esteusione.
(1) Io ho dato prima una definizione rozza del corpo, togliendola dal senso
comune, Cap. I, art. II. Dico rozza , e non falsa, poiché conteneva I es
senza del corpo intera, ma non era analizzala ne' suoi elementi. L'analisi
di ciò che si conteneva in quella definizione mi diede il modo di perfezio
narla al Cap. V, art. i, e via più qui. Or questo credo io che debba es
sere il progresso della scienza; comincia dalle idee naturali e sintetiche,
scienza volgare : 1' analisi di esse forma tutta la scienza filosofica. Quelli
dunque che negano doversi cominciare dalle definizioni, vogliono correg
gere un errore buttandosi nell'errore opposto. Cominciare dalle definizioni
é necessario, chi vuol farsi intendere; ma v'hanno delle defìuizioni volgari
e delle definizioni filosofiche, e tutt' e due queste maniere di definizioni sou
vere. Si dee cominciar da quelle per venire e terminare in queste.
(2) Una si dice perché é continua, nulla più.
(5) Come ciò avvenga fu mostrato innanzi.
367
Queste ire dimensioni nel corpo nostro noi da prima
le percepiamo pel sentimento fondamentale (i).
Quando i corpi esteriori agiscono sulla superficie del
nostro corpo, non possiamo , in questa azione loro , sen
tire e percepir altro che una superficie, cioè due di
mensioni, di lunghezza e larghezza: la profondità nel
corpo esteriore noi non abbiam modo con questo solo
di percepirla (2).
Ora , ove questa superficie esterna che noi percepiamo
col tatto , la consideriamo in relazione colla facoltà che
abbiam di muoverla , ella ci dà l'idea di un corpo solido.
Siccome l'idea di spazio solido ci viene in concependo
una superficie mobile in tutte le direzioni fuor del suo
piano; così 1' idea di corpo solido deriva dal molo che
in parte sperimentiamo, in parte aspettiamo , o pensia
mo come possibile, di una superficie corporea moven-
lesi fuori del proprio piano.
Dal pensiero di questo moto parte sperimentato e
parte pensato, noi concepiamo come possibile che tutte
le superficie assegnabili dentro uno spazio solido sieno
sensibili, cioè atte ad esser termini dell'azione die in
noi vien fatta dal corpo.
E perchè veggiamo come ci avvenga di formare si-
miglianle concetto, mettiamoci innanzi un corpo for
mato in cubo perfettamente duro.
Tastando colla mano quel cubo in tutte le sei sue
facce , e premendolo quanto a me piace più fortemen
te, io non percepisco mai altro col tatto mio, che i
limiti di uno spazio solido figurato a cubo, cioè super
ficie corporee.
Comincio con questa esperienza ad avere un' idea di
corpo; ma ella è ancor molto imperfetta, poiché tutto
ciò che ho percepito, non è poi altro ancora , che su

fi) Cap. ni.


(2) Pare che il corpo esterno talora agisca nel corpo nostro contempo
raneamente in tutti i punti di uno spazio solido, come nell'azione di un li
quore corrosivo e penetrante, od altro simile agente. Supponendo che cosi
fosse, come pare, noi percepiremmo bensì la solidità del corpo nostro, ma
non quella del corpo esteriore. Questa osservazione può ajutare a distin
guere fra l'estensione del corpo nostro, e quella del corpo esteriore, che
nella sensazione del tatto noi percepiamo uuite, e che facilmente si posson
confondere. E una diversa relazione a' due agenti quella che in tra sé le
distingue
368
perfide le quali chiudono e terminano uno spazio in
lido. Non ho dunque percepito fin qui 1' estensione so
lida del corpo , ma solo i suoi limiti.
Dopo ciò , piglio alle mani un cubo non duro ne
resistente, anzi molle e cedevole, o friabile, o fragile,
o comecchessia facile a mutar forma e dividersi in parti.
Se colla mano tocco questo corpo in lutti i suoi lati,
il comprimo , lo figuro a mia voglia , o lo spezzo, e
anche lo trito minutamente ; di tutte queste sperienze
che di quel corpo io prendo, ho questo risulla mente,
un grandissimo numero di superficie continuamene
nuove a me si discuoprono , le quali prima io sentir
non potevo , perchè stavano coperte ed occulte nell'in
terno, e al tutto non erano superficie.
E moltiplicando indefinitamente tali esperimenti, final
mente conchiudo , che quel cubo solido non presenta
solamente al di fuori una superficie corporea , ma ben
anco eh' egli dall' interno suo ha una singolare attitu
dine e potenza di far uscire di sè altre ed altre super
ficie sensibili, in tutte le direzioni secondo le quali a
me piaccia di aprirlo e dividerlo. E per tali esperimenti
e pensieri io vengo al concetto della solidità corporea,
e così completo l'idea di corpo solido, cioè di sostanza
che in estensione solida estende secondo certe leggi
la sua attività.

ARTICOLO XV.
ORIGINE DELL' IDEA DI CORPO MATEMATICO.
Coli' esperimento suddetto ho imparato a conoscere,
che entro quello spazio fornito di superficie corporee,
posso ottenere altre ed altre superficie pure corporee,
mediante l'applicazione di una forza a quel cubo, pos
sente a fargli mutar forma o spezzarlo.
Ora ripensando a questo fatto , io non posso colla
mia mente assegnare una ragione, per la quale le su
perficie che io scuopro occupino anzi una parte che l'al
tra del cubo solido.
Non ha dunque alcuna ripugnanza il pensare che le
dette superficie corporee si scuoprano egualmente 1»
tutte parti, cioè in qualunque piano assegnabile entro
quel cubo.
Ora questa possibilità di pensare delle superficie cor
369
poree che taglino quello spazio cubo in qualunque piano,
è l'idea di corpo matematico, il quale si concepisce sem
pre perfettamente continuo.
ARTICOLO XVI-
ORIGINE DELI.' IDEI DI CORPO FISICO.
Fino a tanto che io penso la possibilità di trovare
una superficie corporea entro un cubo limitato da su
perficie in qualunque piano assegnabile nel medesimo,
io ho l'idea di un corpo matematico (i).
Ma ov' io , in luogo di quella semplice possibililà
pensala secondo l'analogia degli esperimenti, mi do
a rilevare , quanto posso, col tatto e cogli altri miei
sensi , anche armati se si vuole di stromenti, le forme
di un corpo particolare e reale; e scuoprendo in esso
di nuove superfìcie sensibili , vi nolo anche le lacune
de' pori , e i piccoli dossi , e tutte le interpolalure fra
uno strato e l'altro, fra una e l'altra piccola parti
cella; allora io mi vengo formando l'idea di un aggre
galo di minimi variamente foggiati, non perfettamente
coerenti, ma con vacui e meati interposti, i quali però
in alcuni punti aderiscono e non lasciansi se non per
forza divellere, e chiamolo corpo fisico.
£ da tutto ciò si spiega come i ciechi nati possano
formarsi l'idea tanto de' corpi matematici, quanto de'
fisici, mediante il tatto e il movimento, e l'intelletto.

CAPITOLO X.

CRITERIO PARTICOLARE DELL.' ESISTENZA DEL CORPO ESTERNO.

ARTICOLO I.
IL CRITERIO DEL CORFO ESTERNO È Un' APPLICAZIONI DEL CRITERIO GENERALE
DELL' ESISTENZA DE* CORPI.
Vedemmo il criterio generale (3): applicandolo a' corpi
esteriori da noi ormai conosciuti, si ha il criterio del
l'esistenza de' medesimi.
Quest' applicazione ci dà, che ad accertarci della per
cezione del corpo esteriore

(1) Art. precedente. (2) Cap. V.


Rosmini, Orig. de Ih Idee, Voi. II. 47
370
1." conviene percepire una forza che ci modifica fuori
di noi;
2.° T azione di questa forza dee essere un sentimento
fornito di estensione $
3.° questa estensione dee essere stabile, cioè atta a ri
petere la sensazione, com'è necessario perchè sia una
sostanza operante;
4.0 questa estensione dee esser fornita di tre dimensioni.
Non basterà dunque che noi percepiamo delle super
ficie corporee; ma sì uno spazio solido dobbiam perce
pire, il quale, ove si spezzi, scuopra e presenti al senso
nostro nuove superfìcie sensibili.

ARTICOLO II.
APPLICAZIONI DEL CMTERIO DELlV.S1ST1.NZA DEL CORPO ESTERNO.

I. Bagnale una moneta, e calcatela nella fronte di un


uomo rozzo, facendo vista di volergliela ivi attaccare e
incollare in mezzo della fronte. Fatta quella impronta,
voi potrete torta via, non accorgendosene egli : anzi cre
derà d'averla fìtta in testa tuttavia, e scuoterà il capo
per farla slaccare e cadere. Ma accosti colui la mano
e palpi; non trova nulla. Egli s'accorge allora, 1.° che
c'è una passione fatta nella sua fronte; a.* che non
c'è però più presente la sostanza che la produsse; peroc
ché la presenza della sostanza porta seco la costanza
della passione, e la possibilità che si ripeta e rinforzi, ove si
rimettano le condizioni necessarie per farla succedere (i)-
li. Toccando noi una colonna d'argento, c'inganne
remmo credendola solida: ma per assicurarcene, do
vremmo corcarne l'interno, ove troveremmo il vuoto
o la diversa sostanza (2).

(1) La sensazione eccitata nel nervo dura qualche tempo, anche rimoss»
la causa della sensazione; siccome si vede nell'occhio per la striscia rossa
che fa la bragia girala con grande celerilà. La pura sensazione testimonia si
stessa, e la coscienza della passione testimonia una causa, ma uon la prese»'
attuale della medesima. Questa dunque si dee trarre mediante nn giudizio,
il quale se non ha tutte le condizioni necessarie, é fallace. Ciò però io fU1
non c'inganna la sensazione, si è nel deporci l'esistenza della parte allei in
del corpo nostro , in quanto è modificazione del sentimento fondamentali
come dicemmo.
(a) Anche qui è il giudizio che c'inganna, e non la sensazione: e il g1"-
dizio c'iuganna perchè s'innoltra là dove non l' accompagna alcuna sensa
zione , cioè nell' interno dellu colonna.
37,
CAPITOLO XI.

di ciò' che v'ha di soggettivo e di ciò' che v'ha


d' extra-soggettivo delle sensazioni esterne.

ARTICOLO I.
necessita' di questa trattazione.

Osservata e descritta la percezione extra-soggettiva de'


corpi mediante il tatto, ora dovremmo seguitare il tra
maglio dell' osservar nostro in sugli altri quattro sensi,
tentando di rilevar bene quanto innanzi ci scorga la per-
cezion di ciascuno.
Ma perciocché abbiamo veduto che in tutte le sen
sazioni la parte soggettiva è mescolata colla parte extra
soggettiva, il predetto lavoro che a far ci resta riducesi
finalmente a questo, di sceverare e distinguere con ogni
possibile diligenza la parte extra-soggettiva dalla sogget
tiva dentro alle sensazioni; perciocché quando noi avremo
questa da quella staccata per modo, che sia rimosso ogni
sospetto di esser rimasto in quella qualche soggettivo
elemento , allora la percezione extra-soggettiva appurata
ed isolata si porge chiara da sè, manifesta e autore
vole, e ci appalesa il valore extra-soggettivo di cia
scun scuso.

ARTICOLO li.
SI RICHIAMANO ALCUNE VERITÀ*.

Da noi fur dimostrale queste due cose:


1." La sensazione è in noi, e non negli agenti este
riori (i): questo è il fatto di cui abusarono gl'idealisti:
del qual fatto io accordo loro la verità; ma li richiamo
insieme a considerare, che badando essi in questo fatto,
altri fatti trapassarono e neglessero, e che quindi non
fu l'osservare, fu il loro osservare incompleto che li
travolse all' errore.
2.° La sensazione è in noi come termine di un' azione
che viene da un diverso da noi (2).
E questo è l'altro fatto trapassato appunto dagli idea

ti) Cap. I e II. (a) Ivi.


lisli, e pur non manco manifesto del primo: perciocché
è vero che in ogni sensazione noi proviamo una modi
ficazione; ma del genere di quelle che passive dicia
mo: è una specie di violenza, della quale, senz'altro
testimonio, siam conscii a noi stessi; e quella violenza
esprime il termine di un' azione esteriore. Quindi è la
singoiar natura propria della sensazione, che sebbene in
noi, ci avvisa tuttavia d'un fuori di noi. O convien ne
gare la differenza tra l'attività e la passività; o conviene
accordare, che l'esser conscii di una passione, è l'esser
conscii di un'azione fatta in noi non da noi.

ARTICOLO IH.
l' INTELLETTO ANALIZZA LA SENSAZIONE.

La coscienza ci dice i.° che siamo modificati, 2." che


questa modificazione è un'azione fatta in noi non da noi:
ma ci dice queste due cose ad un istante medesimo, e
quasi direi con una sola voce.
È la riflessione dell'intelletto, che sopravviene, e che
analizza quella così unita attestazione della coscienza,
che riconosce attestar essa due cose con un solo cenno,
e che considera l'una senza la compagnia fida dell'altra.
L' intelletto applica quindi al secondo elemento, cioè
alla consapevolezza dell azione fatta in noi non da noi,
il principio di causa; e così stacca, e fa oggetto suo
le cose esteriori, sulle quali poi medita e ragiona.

ARTICOLO IV.
PRINCIPIO GENERALB PER DISCERNERE CIÒ CHE V* HA DI SOGGETTIVO
E CIÒ CBS V* HA DI EXTRA-SOGGETTIVO NELLA SENSAZIONE.

Il principio che ci dee scorgere nell'operazione^


distinguere dentro alla sensazione 1' elemento soggettivo
dall'elemento extra-soggettivo, è il seguente: « Tutto
ciò che entra nella sensazione per sè considerata ( e
non nel modo onde viene prodotta ) è soggettivo : e
tutto ciò che entra nel concetto della nostra passività
(attestataci dalla coscienza) è extra-soggettivo».
373
ARTICOLO V.
APPLICAZIONE DEL PRIJCCtPIO GENERALE A TROVAR LA PARTE EXTRA-SOGGETTIVA
DELLA SENSAZIONE.
Applicando il suddetto principio , ecco quali parli
extra-soggettive ci vengono trovate nella sensazione.
i." Primieramente la coscienza ci attesta sofferir noi
nella sensazione una passività : questo è quanto dire per
cepire una forza in atto: nella quale, pel principio di
sostanza e di causa , l' intelletto vede un ente diverso
da se, cioè il corpo. La forza dunque è la prima parte
della percezione extra-soggettiva de' corpi.
a.* La coscienza ci attesta che le violenze o forze da
noi sentite sono più: quindi la moltiplicità de1 corpi è
la seconda parte della extra-soggettiva percezione de1
medesimi.
3." La coscienza, ed il ragionamento sopra di lei ci
attesta ancora, che questa moltiplicità di forza talora è
tale , che entro una data estensione non si può asse
gnare nessun punto ove una forza non si trovi operan
te; e quindi da quell'idea di moltiplicità noi siamo
condotti ad argomentare con sicurezza una estensione
continua, ed è la terza parte della percezione extra
soggettiva de' corpi.
E queste tre prime proprietà extra-soggettive dei
corpi analizzate, ne danno molt' altre: qui si osservi
solo quanto segue.
La forza, proprietà de' corpi, non è qualunque forza
acconcia di operare in sullo spirito nostro, ma sì quella
che opera in un dato modo. Questo modo è determi
nato dagli effetti soggettivi ch'essa in noi produce, cioè
dalla parte soggettiva della sensazione, i quali sono il
piacere, il dolore, il calore, la luce, i colori, i sa
pori', ecc. Or a tutte queste varie specie di sensazioni
od effetti di quell' unica forza , corrisponder debbono
nel corpo altrettante attitudini o potenze di produrle ;
le quali tutte procedono da quella forza nella quale è
1' essenza del corpo , il corpo stesso. La prima qualità
adunque del corpo ne figlia altre molte, cioè tulle
quelle attitudini nelle quali ella ne' varj suoi effetti
si varia.
La moltiplicità non è proprietà reale della natura
corporea, se non quant' è possibile immaginarla nell'eslen
374
sione continua di cui il corpo è fornito: la molliplicità
reale di fatto è accidentale, ed un rapporto di più
corpi concepiti nella mente.
Finalmente I' estensione dà origine ad ausissime no
tizie di proprietà corporee , massime unita colla forza:
perciocché in essa la mobilità, la figura , la divisibilità,
V impenetrabilità ecc. sono comprese, sicché tutte queste
proprietà sono reali egualmente ed extra-soggettive , cioè
ne1 corpi slessi, e non in noi soggetto si trovano (i).

ARTICOLO VI.
DELIA DISTINZIONI IRA LE PROPRIETÀ* PRIMARIE E SECONDARIE De' COMI.

Quindi la celebre distinzione fra le proprietà prima


rie e secondarie de' corpi ha il suo fondamento nella
natura.
Solo che le prime meglio appellar si converrebbero
extra-soggettive, soggettive le seconde.
Ma poiché colle prime noi ci formiamo l'idea di
corpo, le seconde poi le applichiamo al corpo quasi
come suoi accidenti; quindi non è al tutto fuor di ra
gione anche la denominazione di primarie e dì seco/i-
darie qualità.

ARTICOLO VII.
APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO GENERALE A TROVARE LA PARTE SOCOITTIVt
DELLA SENSAZIONE.

Tutto ciò che entra nella sensazione per sè conside


rata dicemmo essere soggettivo.
Quindi se noi rimoviam dalle sensazioni la forza che
le produce e fa sussistere, la molliplicità , ed estensione
di' quella forza, come pure tutto ciò che l'analisi di

(i) Quindi si vede in qual parte sia vera quella sentenza degli antichi,
che i fantasmi sieno similitudini o immagini de' corpi esteriori. La \>",c
vera di questa sentenza riguarda la parte extra-soggettiva de' fantasmi, e
non la soggettiva, ed è la parte extra-soggettiva quella colla quale perce-
piomo i corpi esteriori. Quindi vero è che la molliplicità e la continuità
de' fantasmi è simile a quella de' corpi esteriori. In quanto alla fona poi
propria de' corpi esteriori, ne' fantasmi noi l'abbiamo passivamente, mentre
è attiva ne' corpi ; ma si negli uni che negli altri è la stessa forza in «lt°>
perciocché le sensazioni sono il termine e l' effetto di essa.
queste tre parli ci scnopre; tutto il rimanente che in
esse notar possiamo è soggettivo.
È da osservarsi che il sentimento nostro sebbene ab
bia una unità, l'unità dell' Io , che tutta la varietà
delle modificazioni sue raccoglie ed unizza; e sebbene
sia ragionevole il credere che la natura stessa dell' Io
sia quella che generi que' varj sentimenti, e la loro di
versa indole ne stabilisca e determini; tuttavia noi non
conosciamo l' Io sotto questo rispetto, nò veggiam que
sto nesso; e quelle variatissime guise in cui il senti
mento si cangia e trasmuta, ci sembrano arbitrarie, e
siccome fatti staccati e indipendenti l'uno dall'altro.
Sia dunque che questo a me paja , pel mio poco sa
pere , o pure sia che veramente ci abbia qui dentro
qualche cosa di occulto e di misterioso per 1' uomo; io
mi contenterò di additare le variatissime specie di sen
sazioni siccome altrettanti fatti primigenii , senza occu
parmi a cercare in oltre, come, e secondo quali leggi
necessarie , da un solo e primo sentimento possano tutti
quegli altri così diversi e non prevedibili ingenerarsi
o scaturire.
Ciò che mi fa credere che nel fatto accennato ci ab
bia veramente qualche cosa di nascosto per l'uomo, si
è il vedere, come da una specie di sensazione non si
passa in modo alcuno coli' immaginazione ad un' altra
specie : sicché il cieco nato non giunge mai a farsi l'im
magine de' colori : e generalmente, a chi è venuto al
mondo privo d'un senso, riesce impossibile il condursi
dalle sensazioni degli altri sensi, che in lui fors' anco
som più valenti , a comporsi una immaginazione qua
lunque di quella specie di sensazioni eh' egli non ha
giammai sperimentato. Par dunque innegabile , che le
sensazioni esterne ed acquisite almeno abbiano qualche
cosa d' incomunicabile, e sieno interamente in fra lor
divise, siccome invita a credere altresì la loro grande
semplicità.
Premesso questo , dico che il primo elemento sogget
tivo è quel piacer diffuso nelle sensitive parli del corpo
animato pel sentimento fondamentale.
Questo è prodotto dal corpo nostro, e la sua natura
è determinala dallo siato del corpo slesso, data la vita.
E certo, dallo stato del corpo sono determinale le
modificazioni di quel sentimento; ma ciò secondo log
376
gi , delle quali , come dicea , non è carico adattato ai
miei omeri l' investigar la ragione e il principio.
Quindi le varie parti del corpo avendo uno stato
diverso, ricevono in diverso modo le impressioni, e in
diverso modo modificano il medesimo sentimento fon
damentale.
Questo stato diverso delle parti del corpo nostro fu
con somma sapienza ordinato dall'autore delle cose,
perchè ne uscissero conformali acconciamente i varj or
gani che alle varie specie di sensazioni doveano prese
dere. Quindi la costruzione mirabile dell' occhio è ac
comodata a ricevere in quella parte certe modificazioni
del sentimento, diverse da quelle che in sè ricevono gli
orecchi, le nari, il palato.
Nò solo questi sensi apportano diverse modificazioni
al sentimento fondamentale ; ma altre parti del corpo
sono suscettive di altre modificazioni, secondo !a loro
più grossa o fina sostanza e contestura , od una orga
nizzazione particolare: la sensazione della fame, della
sete, del sonno, e l'inclinazione sessuale sono d'un ge
nere fra loro diverso al tutto ; e se non si considerano
siccome altrettanti sensi, non è perchè esse noi sieno,
ma è perchè si riserba il nome di senso peculiare a
quello che ajula in un modo più speciale l' intelletto
ad acquistare le cognizioni delle cose.
Lo stato e l'organizzazione speciale dell'organo t
ciò che il fa atto a ricevere quella specie di modifica
zione del sentimento, alla quale egli fu ordinato e fog
giato. Ma perchè questa modificazione venga fatta, no
tisi , che oltre al buon sistema organico, è necessario lo
stimolo, e l'acconcia maniera dell'operare dello stimolo
o cagione.
Quindi sebbene l'occhio dia la sensazione de' colon,
tuttavia non la può dare egli solo, nè tocco da qual
siasi oggetto , ma pur dalla luce ; siccome 1' udito ha
bisogno del particolar corpo dell'aria, e le nari degli
effluvj odoriferi e non d'altro, e delle particelle sapo-
rose il palato. Dee adunque essere un' acconcia cagione
e conveniente sì rispetto alla materia che alla forma,
perchè 1' organo riceva 1' immutazion necessaria a por
tare nel fondamenta! senlimenlo una certa specie di
sensazioni.
Ma la cagione non basta: si conviene oltracciò che
essa operi nel dell'ito modo: siccliè V aria dee essere
increspala a quella guisa, la luce in quella foggia vi
brata, l'olezzo sparso per l'aria, e soluti e accostati
convenevolmente i corpi saporiti (i).
Adunque a produrre le speciali sensazioni concorre ,
olire la vita, i* la qualità, l1 organizzazione acconcia,
e lo stato dell'organo, a* Vagente conveniente, 3.* il
modo adattalo dell'operar dell'agente.
Indi si trae , che 1' effetto, cioè la sensazione sogget
tiva, venendo di tre principi che si consociano a pro
durlo, non è certo indizio dello stalo d'uno solo di
questi principe ed ove dalla detta soggettiva sensazione
si voglia indurre ed argomentare la qualità delia este
riore cagione , non possono mancare degli errori.
Quindi si vede, che la sensazione del calorico a ra
gion d' esempio, la quale è soggettiva , cioè è in noi
e non nel corpo esterno che la produsse (2), non è

(1) Anche nel tatto, quanta varietà di sensazioni dal solo modo diverso
de' toccamcnti ? Chi potrebbe immaginare; non avendolo provato mai , che
'I solleticar leggermente i nervi sottilissimi della cute, aver se ne dovesse
quel singolare mordicamento del pizzicore? Che ha ella a fare questa sen
sazione che vi fa ridere contro voglia, effetto singolare ed unico di suo ge
nere, con tutte 1* altre?
(1) Non si creda che prima di Cartesio non sia stata giammai osservata
al mondo la soggettività della sensazione. Tutta l'antichità l'ebbe conosciuta;
« non mancarono anche allora i solisti che n'abusarono, traendone occasione
di negare ogni verità altro che soggettiva o sia relativa all'uomo, e indtt-
criuloue uno scetticismo uuivcrsale. Lasciando gli scettici, e venendo agli
epicurei , Lucrezio nega a' corpi il colore , il freddo ed il caldo , il suono ,
I odore e il sapore :
Sed ne forte putes solo spollaia colore
' Corpora prima manere; etiam secreta tepori»
Sunt, ac Jrigoris omnino , calidique vaporisi
Et sonitu sterilii, et succo jejuna Jcruntur:
Nec jaciunl ullum proprio tic corpore odorem.
Lib. II, 841-845.
Li tradizione di questo vero non si perdette ne' tempi fiorenti degli scola
tici. San Tommaso insegna espressamente, che allorquando si usa l'espres
sione « il sole è caldo », non si dee intenderla cosi grossamente, da attri
buire al sole la sensazion del calore; ma vuoisi intendere per essa, che il
sole è cagione di questa sensazione ; usandosi quella maniera come quest'ai-
tra: Mia medicina è sana »; la quale non vuol già dire che la medicina abbia in
sé sanità o malattia, ma che in noi cagiona sanità ( C. Geni. I, xziz e xxxi ).
E questa dottrina di s. Tommaso sia conferma di que' due periodi , che io
soglio distinguere nella storia della scolastica filosofia : il primo, del suo bel
tempo, nel quale fiori il maestro d'Aquino con altri sommi : il secondo, del
l'ultima sua età, quand' ella, come tutte le cose umane, invecchiò e veniio
Rosmini , Orig. delle Idee, Fui. IL 4$
punto acconcia misura della quantità del calorp: rome
ciascuno può persuadersi, ove ponga iuta mano freddis
sima nell1 acqua fredda, die a lui parrà calda , e ponga
una mano caldissima nell'acqua calda, che a lui parrà
fredda , per la diversa disposizione della mano dove
avvenir dee l' immutazione del fondamental sentimento.
ARTICOLO Vili.
DELL* ESTENSIONE RESISTENTE SENTITA D1L TATTO.
Sebbene noi abbiam veduto che le sensazioni elemen
tari del tallo, siccome pure i corpicciuoli che a quelle
rispondono, sono estese e continue; tuttavia da ciò
non si può conchiudere con sicurezza, che la sensazione
del tatto possa percepire qualsivoglia piccolissima esten
sione.

meno. Allora la divina Previdenza confidò ad altro mani la causa della ve


ri!!) ; e il vero di che parliamo fu risuscitato e ripubblicalo dal Galilei- Del
qu;de non sarà inutile riportar cjui le eleganti parole, togliendole dall' open
sua, Jl Saggiatore. « Ma che ne' corpi esterni, cosi egli, per eccitarci»
«« noi i sapori, gli odori e i suoni , si richiegga altro che grandezze, fignrf,
<« moltitudini, e movimenti, tarili o veloci, io nonio credo; e stimo che. l0''j
« via gli orecchi, le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i
•« inoli, ma non già gli odori, ne i sapori, nè i suoni, li quali, fuor drJIt-
« nimal vivente, non credo che sieuo altro che ninni , come appunto litro
«« che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l'ascelle, e la pelle
a intorno al naso « (ove toccando si promove). E quindi appresso appi'"
la slessa dottrina al calore, favellando in questo modo: « Dico che intimo
« assai a credere, che il calore sia di questo genere, e che quelle materie
« che in noi producono e fauno sentire il caldo , le quali noi chiamiamo
« con ninne generale fuoco, sieno una moltitudine di corpicelli minimi m
« lai e tal modo figurati , mossi con tanta e tanta velocità , li quali incoi)-
« traudo il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il
« lor loccaniento, fatto nel lor passaggio perla nostra sostanza, e sentii" ■
•< noi, sia I' atìezione che noi chiamiamo caldo, grato o molesto, secondo I»
k moltitudine e velocità minore o maggiore d'essi minimi che ci vai"'"
«e pungendo e penetrando, sì che grata sia quella penetrazione per la qu"f
« si agevola la uosti a necessaria inseusibil traspirazione, molesta quella peri»
« quale si fa troppo gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza, sicché
<f in somma 1' operazion del fuoco per la parte sua uon sia altro, che mo
ti veudosi penetrare colla sua massima sottilità lutti i corpi, dissolvendo!1
« più presto o più tardi, secondo la moltitudine e velocità degl'ignicoli, e
«< densità o rarità della materia d' essi corpi; de' quali corpi molli ve ne
« sono, de' quali nel lor disfacimento la maggior parte trapassa in altri mi
re uimi ignei, e va seguitando la risoluzione finché incontra materie risolu
te bili Ma che oltre alla figura, moltitudine, molo, peuetrazione e toccamente,
•< sia nel fuoco altra qualità, e che questa sia caldo , io non lo credo altn-
« menu , e slimo che questo sia talmente nostro, che rimosso il corpo aei-
« malo e sensitivo, il calore uou resti altro che uu semplice vocabolo •».
Vero è che nella sensazione elementare continua non
può essere spazietto assegnabile non sentito j ma non si
può inferirne di ciascun minimo spazietto considerato
da sè solo , ciò che si dice di ciascuno spazietto consi
derato qual parte ideale del continuo stesso.
E non potrebb' essere questa legge, che il fatto della
sensazione non succedesse se non dato il toccamento
in una estensione di certa grandezzate non mai sotto
a quella? Vero è, che in un fatto di tal natura, dove
ogni osservazione si perde, nulla possiamo aflermare
con sicurezza, se non intorno alle possibilità. Il perchè
non avendovi ripugnanza uè nel pensiero della sensa
zione del tatto indefinitamente piccola , nè in 'quello
che assegna per legge alla medesima la necessità d'una
certa estensione, non possiamo escludere ragionevolmente
luna delle due sentenze, ma dobbiamo lasciarle incerte ,
e puramente possibili nella opinione.
Sia però che la sensazione abbia tal natura da po
tersi ristringere a qualunque piccolezza d' estensione f
sia che abbia anch'essa la sua estensione minima ; sem
bra hulladimeno fuor d'ogni dubbio, che la sensazione
c più sottile assai dell' avvertenza nostra sopra la me
desima: sicché la sensazione coglie degli spazietti sì mi-
nuli , che noi non avvertiamo di sentirli (i).
Come la finezza della sensazione del tatto vinca im
mensamente la finezza della nostra avvertenza su di lei,
si vede manifesto ne1 ciechi nati. Suol dirsi volgarmente^
che il latto in essi si raffina: è noto ch'essi col tatto
distinguono le monete, le carte da gioco, la qualità delle
stoffe, e giungono fino a distinguere col solo tatto i co
lori-, sentono il fiato o il movimento dell'aria di per
sona che viene in verso a loro tacita e piana, quando
essa è ancora a molla distanza : in somma fanno col

(0 Tutta questo gioverà a discernere sempre più, che distanza passi Ira
la sensazione e l' intellezione: V avvertenza è allo dell' intelletto, e uou del
«easo; perciocché l'avvertenza non è che un'attenzione intellettiva data a ciò
che seutiamo o intendiamo. Gli antichi avevano conosciuto sì bene che il
riflettere uou é allo del senso ina dell'intelletto, che dal rillettere caratteri*-
"vano talora la facoltà intellettiva: e cosila Dante in quel verso, dove, vo-
Wtido nominare le tre potenze, di vivere, seulire ed intendere, dice ;
« un' alni* sola
« Che vive, e sente, e tè in »è rigira.
l'ur^. XXV.
38o
tallo cose mirabili. Ma è egli esatto il dire che questo
senso in essi si raffini, o che il sortano da naturà più
acuto degli altri? Noi credo: ciò che in essj si avva
lora, ciò che in essi è più fino, si è V avvertenza sulle
sensazioni: il tatto è uguale in tutti; non ha differenza
da ciechi a non ciechi (i). Ma i ciechi non avendo le
distrazioni della vista , ed avendo gran bisogno di met
tere a profitto le sensazioni del tatto, come quelli che
della vista non si posson giovare, acquistano, vivendo
in perpetue tenebre, un tale raccoglimento , una sì ac
corta attenzione abitualmente pronta e presente a tutte
notare le impressioni che vengono cagionate nel loro
tatto, che imparano ad avvertire anche le minutissime
e a tutti gli altri uomini sfuggevoli, e a notarne le mi
nime differenze. Di che è lecito il credere, che se l'umana
avvertenza potesse procedere anche più oltre, 1' uomo
si accorgerebbe che il suo tatto è un senso, se non di
una finezza indefinita, cerio di una sottilità stupenda
ed incredibile (a).

(i) Non nego però, che vi possa avere nell'animale una colai potenia
sopra i suoi nervi, colla quale egli li protende e li applica a fine di coglier
meglio la sensazione. Or 1' uso di questa potenza può esser perfezionalo ptr
arte, e per abitudine d'adoperarla.
(a) A maggior conferma di quanto dico , cioè che ritolte cose s' attribui
scono alla maggiore o minore perfezione de' sensi, le quali -pure atlribuir"
dovrebbero alla maggiore o minore perfezione dell' avvertenza nostra o ti-
gilanza di attenzione sulle sensazioni, si facciano le osservazioni seguenti.
La mano è ella forse quella parte del corpo dove abbiamo il senso più
delicato ? L'osservazione ci dice di no; ma che altre parti sono molto più
fornite di nervi, e molto più sensitive della roano. Anzi pnò dirsi, che quasi
in ulte l'altre parli la cute del corpo è più sensitiva e delicata che non sia
nella mano, avendo la natura provveduto sapientemente di non porre nella
mano una soverchia finezza di sensitività, acciocché noi potessimo usarla li
beramente, senza lo sconcio di sentire ad ogn'ora in essa dolore. E il con
tinuo uso della mano la rende altresì più callosa ed ottusa : niun aumenlo
dunque di finezza acquista il tatto della mano dall'educazione; quando
però non yogliam supporre una maggior attuazione e protendimeoto M
nervicciuoli delle parti che più si usano, prodotto dalla volontà, del che io
ho fondato sospetto. Ma lasciando questo (che prova però il bisogno d'uu»
maggior attenzione, almeno sensitiva) , qual membro tuttavia è più atto a
farci percepire e distinguere le piccole ineguaglianze ne' corpi groppolos' e
ruvidi, le minutissime particelle, e tutte le differenze tattili de' corpi? Niun
altro meglio che la mano. E se non viene alla mano quest'attitudine dalla
maggior delicatezza del suo tallo, onde le viene? Dall'abitudine, io dico,
di usarla a ciò, dall'abitudine che abbiamo di avvertire le differenze mi
nime nelle sensazioni della mano, mentre non abbiamo imparato ad avver
tirle in altre parti. E non si vide forse fare alimi co' piedi delle cose mira
bili, a cui mancavau !« mani, quando una lunga educazione insegnò » *
38i
L' avvertire le sensazioni è più difficile ove la sensa
zione è immobile, ed ha men varietà, come abbiamo
osservato.

monchi di slarsi attenti alle Sensazioni che riceveano ne' piedi, a distin
guere ben tra loro e notare accuratamente le differenze? Forse è cresciuta
loro la sensitività ne' piedi ? Non credo io, almeno a tal segno. Bensì credo
che abbiano apparato a dirigere colaggiù la loro alterazione, e badare a
quello che nelle sensazioni de' piedi avviene, alle quali gli altri uomini o
punto, o così per minuto non badano.
E perchè mai un eccellente medico, pratico per lunga esperienza, nota
le minime differenze nel polso dell'ammalato, nel quale tutti gli altri non
sanno avvertir differenza ? Crederemo noi che il tatto del medico siasi raf
finato per toccar polsi? Non credo io: conciossiachè potrebbe alcun altro
averne toccati altrettanti, e non aver nulla imparato. 0 se il tatto è quello
che toccando spesso i polsi si raffina , io vorrei sapere perchè quel tocca-
mento, fatto proprio in quel luogo della vena , debba avere aggiunto tanto
di maggior finezza ai nervicciuoli della mano medica, anziché fatto tutt'al-
trove: o perchè il tallo del medico sia solo cosi fino pel polso , e sia grosso
all'opposto e rozzo forse a' minuti lavorìi di un orefice: poiché, se il sen
tire le differenze del polso dipendesse dalla sensitività fisica della pelle, e
nim dall' abilità acquistala d'avvertir ciò che nel tatto si sente, ogni tatto
lino servirebbe per ogni cosa; e il cieco nato non avrebbe bisogno d' im
parare a discernere i polsi coli' uso, avendo già finissimo il tatto. Il perchè
è "avvertenza sopra le sensazioni nostre che si educa di continuo, e si ac
cresce assai più che i sensi stèssi. Non voglio già dire che i sensi coll'a-
doperarsi anche fisicamente non si migliorino; ma non di molto, né tanto
da potere spiegare l'immensa differenza che passa fra i sensi in un uomo
che gli ha usati, ed in altro che usati non gli ha discretamente : percioc
ché la finezza fisica del senso dipendendo dalla tessitura dell'organo, questa
i data a principio dalla natura, nè si può grandemente cangiare. Nel senso
della vista sembra che 1' educazione più possa ad acuirlo e assottigliarlo. Ma
quando si rammenta che tutto ciò che questo senso ci dice degli oggetti
lontani, è dovuto, come proveremo poi, a dei giudizj abituali; si vedrà fa
cilmente, che, rispetto alle lontananze, è massimamente l'attitudine di far
qiiesti giudizj che in noi si perfeziona; e per le superficie, è dovuto all'e
ducazione dell'abilità d'osservare, in gran parte, il fino sguardo di un gio
ielliere, o pure il saper legger ne' volti le affezioni del corpo, siccome i
medici fanno, e quelle dell'animo, siccome fanno talora i moralisti, i politici,
>' in generale gli uomini avveduti. Non nomino le sottilissime differenze
cl'e veggono i pittori ne' colori e ne' dipinti: perchè qui entra evidenie-
ineute la perizia dell'arte, che gli ajuta a discernere quelle varielà che agli
altri sfuggono, non perchè non le veggano, ma perchè non sanno notarle,
'(inorandone l'importanza. E il medesimo dir si può degli orecchi esercitati
alle musiche , che troppe più cose sembrano sentire in un concerto , che
quelli degli altri uomini non fanno: quando e gli uni e gli altri percepi
scono pure gli slessi suoni, ma coli' attenzione dell'animo diversamente dis
posta: gli uni osservano più sagacemente degli altri, poiché hanno impa
ralo a dividerei suoni, e farne una naturale analisi, notandone le bellezze
t i difetti: e quindi pur tanta varielà nelle avvertenze loro, che sembra
ch'abbiano sensi diversi, mentre hanno pure i medesimi, o certo poco dif
ferenti, ed io credo che potrebbero essere talora anco meno attivi, siccome
ne vecchi. Que' selvaggi , de' quali si narra che distinguevano, fiutando in
lem, le orme degli Spaguuoli, fecer grati maraviglia per l' acutezza deli o-
332
Quindi ove vogliam noi »r.ol latto della mano untare
delle disuguaglianze e rilievi in superfìcie corporei), non
ci contentiamo di porci il dito calcandocel sopra fermo
in un luogó; cliè cosi, eziandiochè sentissimo que' minuti
risalti ed avvallamenti, tuttavia non avvertiremmo forse
mai di sentirli; ma per avvertirli, noi ci stropicciamo
sopra il dito, quinci e quindi d' ogni parte premendolo;
e questo stropiccio ci dà più varie e più acute le sen
sazioni di que1 piccolissimi fori ed angui uzzi sporgenti,
sicché ci sono facili ad avvertire in noi le sensazioni di
quelli, e per queste ad avvertir quelli atlresl.
Laonde un corpo solido , in quanto noi avvertiamo
di sentirlo, ù altro da quello cui noi tentiamo col lec
camento.
Il corpo, in quanto è avvertilo, sarà per avventura
tutto continuo e piano in ogni superficie perfettamente;
e intanto il corpo toccato è forse altrettanto scabroso
e perforato e pien d'interpolamenti, quanto è il corpo
veduto e avvertilo con finissimo microscopio, e pi"
ancora: conciossiacliè non sembra assegnabile, come di
cevo, il confine della sottigliezza del tatto.
Quel corpo però, eziandiochè, veduto con eccellente
microscopio, ci appaja, con grande maraviglia nostra ,
tutto bucato ed aspro; tuttavia noi il veggiaruo ancora,
col microscopio stesso, unito in più punti, e veggianio
in lui degli spazielti apparentemente continui. Or que
sta continuità osservabile in varie piazzuole della su
perficie del corpo veduto, non è già quella de' corpi
elementari de' quali abbiamo parlalo; la quale è d»

dorato; mentre assai più, a mio credere, dovea maravigliare quella perfetl»
attenzione che doveano aver posta nel sentire le minute sensazioni deg''
odori, e le lor differenze. Quale è l' immutazione che possou ricevere k
papille ncrvee di un palalo dal frequente luccaincnto di varj cibi? poa,
verso alla finezza mirabile che acquistano i ghiottoni, sugli altri uomioi,
nel giudicar de' sapori. £ forse da continue salse e mameari avea reso il
palato più ottuso degli altri uomini quel leccardo di Giovenale, che pur po
nendo somma attenzione ne'cibi, avea acquistato tanta pratica de' sapori delle
ostriche, da saper dire al primo morso, se venisser da Circia, o dal lago
Lucrino, o dal mare di Rutupe, e che disccrueva col primo sguardo di cb«
lido fosse un echino.
E di tutte queste osservazioni il maggior vantaggio che possa cavare il
mio lettore si è quello di ben convincersi della immensa differenza eli*
passa fra la sensazione e ['avvertenza: e l'esser persuaso, che v'hanno iu-
iiuitc cose da uoi sentile, delle quali pure uè puutu uc pocu ci accorgiamo
383.
credere esser sopra ogni avvertenza nostra più mimila.
Nè possiamo dire che la continuità di quelle piazzuole
che co' microscopi si scorgono, sia vera continuità} pe
rocché la vicinanza de1 corpi elementari può esser assai
maggiore di quella che è necessaria per venire osservata:
ma dico bensì, che la perfetta aderenza de' corpicciuoli
elementari non si può nè anco dichiarare impossibile ed
assurda. Conciossiachè nulla ha d' impossibile un vero
tocca mento.
Uscendo però noi di questo mondo riposto e inos
servabile , nel quale viaggiar si dee senza lume di os
servazione, e dove perciò si viaggia assai pericolosamente,
dico che il corpo solido percepito dal latto ed avvertito
da noi tiene una figura che noi assai ben distinguiamo;
perocché, trascurando le piccole disuguaglianze, noi per
forza d'immaginazione ce la accomodiamo e regolariz
ziamo, come ci è più d'agio e di necessita il concepirlo.
Indi quella regolarità di forme, che ci presenta il tatto;
le quali per la loro semplicità noi perccpiam facilmente,
e ci contentano e appagano , e sembrano piene di di
stinzione e di lume (i).

ARTICOLO IX.
DELLA SENSAZIONE EXTRA-SOGGETTIVA De' QUATTRO ORGANI.

Ciò che noi percepiamo immediatamente coli' occhio


è la luce, e la luce ci è nunzia delle cose esteriori (3).

(1) Le figure regolari , il (riangolo, il quadralo, o qualunque figura «li


un numero percettibile di loti , noi l'abbracciamo colla mente senza dif
ficoltà, perchè sono pochi gli elementi di cui si compone: moltiplichiamo
"II' opposto i lati in un poligono immensamente; non ne possiamo più
abbracciare coli' avvertenza il numero, sebbene col senso egualmente tutti
noi li percepiamo: facciamo que' lati disuguali; cresce la difficoltà di averne
una disfinta idea: immaginiamo rosi variali i piani di un solido; ancora
più vince quella moltiplicità e varietà la forza della nostra attenzione:
quella forma ci riesce confusa a pensare, perchè ella si concepisce solo me
diante la concezione del rapporto di unità che hanno quelle parti fra loro,
le quali per la loro moltiplicità e varietà non possiamo avere contemporanea
mente presenti alla mente , o certo non possiamo dare a ciascuna quel
grado di attenzione che dar potremmo ad uu numero minore.
(1) L' udito e l'odorato si fanno a noi indicatori di oggetti lontani. Sotto
questo aspetto però non li riguardiamo qui noi, ma solo come quelli che
l'immediata sensazione del suono e dell'odore ricevono.
l»el senso della vista, in quanto ci serve a indicare gli oggetti lontani,
parleremo nel capitolo seguente: e ium crediamo necessario il fare altret-
384
Or io non voglio parlar qui dell'occhio in quanto
egli è a noi indice degli oggetti lontani, che lui non
toccano: ma in quanto egli percepisce la luce, suo agente
immediato.
Vedemmo, le tre parti dell' extra-soggettività de1 sensi
essere la forza, la molti plicita e l'estensione.
La forza è da tutti i sensi egualmente sentita : ella
d'altro lato non è che un concetto generale di un agente,
e non presenta per sè sola nulla di determinato. Ci
riman dunque a vedere come percepiamo la moltiplichi
e l'estensione co' delti quattro sensi, che sono le parli
che determinano in qualche modo la natura dell'agente.
In quanto all'estensione, noi osserviamo che i delti
sensi sono tocchi ed affetti da corpicciuoli tenuissimi e
sottilissimi a tale , che ove un solo di quelli a' sen-i
nostri si presentasse, sarebbe impossibile il coglierlo e
1' osservarlo. E chi mai potè vedere o toccare uno de'

tanto dell'udito e dell'odorato, poiché non è difficile d'applicare adessi


le osservazioni medesime che al senso della visla appartengono. Ci basterà
qui di osservare, che uno de' maggiori fonti degli errori ne' ragionamenti
che intorno ai sensi si fanno, è il confondere la percezione mediata colla
immediata, e pretender da questa ciò che si ha solo da quella, come pure
il confondere la ccgnizione che de' corpi noi caviamo da' varj sensi. Per
esempio, volendo Reid abbattere il detto di Locke, che le qualità primarie
de' corpi da noi percepite sono similitudini de' corpi stessi, così ragiona:
« Queste qualità, die' egli, sono sensazioni: ora se la sensazione d'un suono
» è l'idea di quella vibrazione del corpo sonoro che la cagiona, una in-
« temperanza per la stessa ragione può esser l'idea di una fe»ta » (Essaj
on the Powers, eie). •
Noi non cerchiamo che cosa a queste parole sarebbe presto di risponder
Locke; ma rispetto a noi, troviamo quelle parole assai fuor di propositi'
proferite. Convien riflettere, i.'che la sensazione del suono è immediala i
là dove la vibrazione del corpo sonoro noi non la percepiamo punto col-
l'udito, se non per una associazione d'idee, per la quale all'udire il suono,
ci viene in mente l'oscillazione delle corde o del corpo sonoro percepite
altra volta da noi col tatto e cogli occhi. E dunque impossibile che il suono
rappresenti e imiti ciò eh' egli non fa che risvegliarci nella memoria no
stra: e quando io dico che le qualità primarie percepite rassomigliano al
corpo, nulla di quello intendo che qui Reid falsamente si avvisa. 3° Le
qualità primarie coli' udito, coli' odorato e col gusto non si percepiscono
che confusamente: non sono dunque questi i seosi a cui conviene ricorrere
per trovare la similitudine di cui si parla. 3.° Falso è che le qualità pri
marie percepite sieno sensazioni; sono una parte delle sensazioni , cioè la
sola parte extra-soggettiva. 4 ° Finalmente è al tutto inesatto e falso il dire
che una sensazione è un'idea di una cosa. Comecché questa maniera do
vesse poter essere tollerata da Locke, ella non può esser tollerata in sé
medesima; e noi abbiamo mostralo l'influita distanza che passa tra le ide«
e le sensazioni.
385
globicini della luce, o degl'ignicoli del fuoco, o una par
ticella dell'aria, od un elemento odorifero, o pure una
di quelle molecole che solute nella saliva fannosi alte a
muovere alla sensazion del sapore l'organo del palato}
Sono queste così esili grandezze, che non si possono per
noi notare ed avvertire.
Consideriamo la loro moltitudine : quelle particelle si
affollano in sull' organo nostro in tanta copia, che ove
anco distinguer potessimo la lor grandezza , mai non
giungeremmo a rilevarne il numero, e tenerlo all'animo
nostro presente e bene distinto.
Or queste due circostanze, cioè 1' essere le loro gran
dezze , e quindi le loro figure e i moti ed alterazioni
loro al tutto inosservabili, e sì grande la lor moltitu
dine che ci riescirebbe impossibile 1' annoverarle ezian-
diochè potessimo i' una dall'altra distinguere, dee ca
gionare in noi una percezione viva, ma assai confusa
di quella folla di globicini, e quindi la parte extra-sog
gettiva de' quattro sensi di cui parliamo dee essere priva
di distinzione, e come a dir cieca (i). Sebbene adunque

(i) Ouesla verità fu traveduti) da l\ei<l quando pose la differenza fra le


qualità primarie e secondarie do' corpi in questo, clic l<: primarie ci danno
noi ioni distinte, e le secondarie confuse. Vera è l'osservazione dello scozzese;
ina egli non ne vede spiegazione alcuna. « Io rispondo (rosi egli, cercando
« se la distinzione delle qualità primarie e secondarie sia reale) che tale
— distinzione sembra avere un buon fondamento, ed è, che i nostri sensi
<« ci danno una diretta e distinta nozione delle qualità primarie, e ci fan
— sapere che cosa sono in sè Stesse; mentre delle qualità secondarie i no-
<•' stri sensi ci danno solamente una nozione relativa ed oscura ; ci fanno
« sapere solamente esser esse qualità che ci allettano iti certa maniera ,
« cioè che producono in noi una certa sensazione ; ma in quanto a ciò che
« sono in se stesse, ci lasciali nel hujo » (Essay on the Powcrs, ctc.).
Locke avea posta la distinzione delle qualità primarie e secondarie nel-
I' esser le prime similitudini de' corpi, e nulla di ciò le seconde. Ora questa
sentenza di Locke viene interamente rifiutata da fteid; il che non avrebbe
egli fatto, se avesse ben conosciuto il vero principio onde trar si conviene
la distinzione delle qualità primarie e secondarie della materia : questo prin
cipio consiste nella duplicità della sensazione, la quale è insieme sogget
tiva ed extra-soggettiva. Or l'elemento cxlra-soggellivo è la percezione,
come vedemmo, delle qualità primarie, le quali sono veramente extra-sog
gettive; e quindi può dirsi che la nostra sensazione in questa parte sia una
similitudine degli agenti esterni, perciocché essa ha le qualità della niolti-
plicilà e della continuità comuni con essi, e l'aver delle quantità comuni
*• il medesimo che il rassomigliare. Io qui m'attengo dunque alla sentenza
ih Locke, ma la limito e la spiego. Anzi giudico, che ove si tolga via
ogni similitudine fra i corpi e le sensazioni, il pirronismo negli oggetti seu-
Iìosmini, Orig. delle Idee t Voi li. 4*9
386
vivace assai sia ia parte extra-soggelliva di queste sen
sazioni , tuttavia esse poco presentano di netto all'in
telletto circa i loro agenti immediati , e sembrano aver
qualche cosa di più misterioso della sensazione del
tatto: conciossiachè a noi appare essere del Jnisterioso
colà , onde l1 intelletto poche precise percezioni riceve:
e notisi, ch'egli toglie le sue percezioni dalla parte extra
soggettiva delle sensazioni , la quale se confusa gli viene,
le intellezioni pure rimangongli adombrate e confuse.
E badisi alla differenza che hanno questi quattro sensi
dal tatto, che percepisce le grandezze maggiori de' corpi
solidi (i). Le particelle di un solido che al latto sog
giace , sono aderenti tra loro, o per veri toccamenti, o
certo per grandissima prossimità ; ed io credo per l'ima
e l'altra cagione. Perciò presentano al tatto una figura
grande ed unica ; conciossiachè non si osservano gl'in
terposti vacui, e sfuggono dall' osservazione le asprezze
e le prominenze minutissime : quindi degli agenti granài
del latto si rileva chiaramente la estensione, e si con
cepisce con facilità la figura, che risulta sempre regolare.
All'opposto le particelle che feriscono e muovono i quat
tro sensi, sono disgregate e mobilissime, non istanno
mai in uno stato e luogo medesimo, nè formano insieme
una sola figura; ma in un continuo rimutamento, ven
gono e vannosi, volazzano, ondeggiano, risolvonsi , av
ventatisi, e permisle all'aria svaniscon con essa; in somma,
ov' anche fossero in picciolissimo numero , e non aves
sero quella tanta loro esilità che le rende inavvertibili,
sfuggirebbero tuttavia ancora alla osservazione, per la
somma celerità e instabilità de' lor perpetui rivolgimenti.
Ma un' altra osservazione dee farsi, la quale mostrerà
maggiormente, che i quattro organi non hanno tali
agenti immediati, de' quali noi possiamo osservar la
grandezza e la figura (2) , e quindi averne una distinta

sibili é inevitabile , nè si può rispondere alle obbiezioni di Bayle contro


alle qualità primarie, ebe nascon tutte dal non avere osservalo la l<>r0
extra-soggettività, e dall'avere perciò tentalo di farle passare per soggelt've
siccome l'altre.
(1) I liquidi pure in quanto sono agenti nel latto occupano un certo
spazio solido, e mostrano all'osservazione contorni finiti e precisi, perchè
Stabili, gsandi e regolari, sebbeu assai mobili.
(a) Sono la grandezza e la figura quelle che danno una percezione di
stinta dell' agente, come si disse, perchè quelle sono le parti extra-seggi*'
tivc della sensazione.
387
percezione: tolta la quale, tutte quelle sensazioni ci
debbono necessariamente riuscire, sebben gratissime e
vividissime (i) , tuttavia confuse, c per la stessa confu
sione maravigliose.
Noi abbiamo distinto nella sensazione avventizia due
parli, la soggettiva e la extra-soggettiva. Abbiamo ve
duto, die nell'impressione die fa il corpo esteriore in
alcuna delle nostre parti sensitive, ingenerandovi la
sensazione, deesi distinguere la parte tocca dal corpo,
dalle sue adjacenti , nelle quali per un cotale consenso
si diffonde talora il movimento, e con esso la sensazio
ne. Ma la sensazione che si diffonde per consenso di là
dalle parti toccate ■, non ha nulla di extra-soggettivo:
perocché la diffusione e comunicazione di quel movi
mento che il nervo sensitivo ha sofferto, è diversa d*
quell'impulso o da quella specie di violenza che il
nervo soffre nei suo principio , dove dallo stato di
quiete fu tratto, e mutato a quello di moto: ed ora
è questa prima impressione, questa violenza, che accusa
e manifesta una forza ivi applicata: mentre all'opposto
la comunicazione e continuazione del movimento non
porge nessuna nuova violenza o forza nuova, se non
quella delle parti stesse delle quali consta il nervo , le
quali partecipano le une alle altre il moto per una
cotal forza ricevuta e lor propria. Ma questa forza ve
nendo falla dalle parti slesse del nervo sopra altre
parti del medesimo, seguila che, come dicea, tutta la
sensazione propagata per via di consenso, non possa se

(i) La vivacità loro dipende dal produrle particelle Dell' organo un' assai
furie impressione per Ih loro moltitudine, velocità , e fors'anco elasticità
(rispetto alla luce, che tocca e risalta in un minimo di tempo, senza che la
sua impressione sia soverchia ). Una forte impressione di lai natura dee dat i:
un gran moto, forse un tremore a'nervi, e perciò cagionare una grande sen
sazione soggettiva, sentendo l'anima quel movimento celere e frequente del
nervo mosso. E generalmente si può stabilire questo fatto, che 1' osserva
zione somministra: « Trovando il modo di eccitare nel nervo un oltre e
frequente movimento , senza che le parti del nervo vengano disgregate e.
rotte, una piacevolissima sensazione per quelle oscillazioni vico nel nervo
eccitata »». Ora ogni qua! volta gli stimoli sieri pìccolissimi e molli, otten
gono questo line, purché la lor moltitudine non soperchi, e la percossa che
dà ciascuno sia udì' impeto suo moderata e gentile. Per questo un letto di
rose, o d' altra soffice materia , tanto aggradevole al fianco riesce, ed ogni
morbidezza di superficie piace al tallo, con una vivacità simile a quella ondi
vaghi colori piacciono alla pupilla, o i vaghi suoni agli orecchi.
388
non riferirsi al membro stesso sensitivo che in sè la
scia trascorrere il moto delle parti e il sentirete quindi
quell' aumento di sensazione consenziente non è se non
soggettivo, cioè non ha congiunta la percezione di un
corpo esteriore, ma riposa solo come in sua sede e
materia nel nervo stesso così mosso ed affetto.
Ora notisi la natura singolare delle sensazioni dei
quattro organi. Potrebb' ella una sola particella d'aria
vibrata nell' organo acustico produrvi la sensazione del
suono? Corto no: conciossiachè è solamente il corpo
intero dell' aria onduleggiante che vi cagiona quel sen
timento. Così io non so se un granello solo di luce
potesse muovere l'organo visivo; ma io credo necessa
rio, ad aver la sensazione de' colori, che si versi in
copia dentro agli occhi nostri, come già fu detto, il
dolce liquor della luce.
Medesimamente a me non par verisimile, che la sen
sazione de' sapori e degli odori si susciti in noi per le
virtù de' singoli corpicciuoli o saporosi od odoriferi; ma
sì perchè recandosi questi in gran moltitudine e (piasi
a tumulto ad assalire le papille e mammillule dell'organo
sensitivo, vi danno tale moto e scossa tutte congiun
tamente, che vi producono un frequente tremore uni
versale, il qual solo forse è ciò che quelle sensazioni
occasiona. 11 qual fatto se così avviene , come probabil
mi sembra, non potrebbesi già dire, che ciascuno dei
minimi impellenti, qualche sensazion di sapore, d'o
dore ecc. debba aver prodotto ; ma sì solamente , che
ciascuno di que' corpicciuoli, sebben minutissimo, vi
ha dato il suo colpo , che non è ancora la sensazione:
la qual sensazione saporosa, odorifera od altra, comin
cia allora che quel tremamento in tutta forse la mem
brana o cartilagine nervosa sia propagato, e g'uuto al
grado di scotimento necessario perchè la sensazion vi
si svegli.
Ora dove ciò creder si debba ( e quanto all' udito non
si può dubitarne), dico, che quelle quattro specie di
sensazioni nascerebbero in gran parie per consenso delle
parli, cioè per comunicazione di movimento: il che
renderebl>e ancora più nascosta e confusa la parte extra-
soggettiva di quelle sensazioni. Conciossiachè trallerebbesi
di parti inosservabili, e la sensazione non renderebbe
tanto l'impulso per esse dato, quanto tutta insieme
3»g
l' agitazione succeduta nel membro : o se 1' uno e l'al
tra rendesse , quello mescli iato a questa si farebbe per
avventura quasi indiscernibile.

CAPITOLO XII.

ORIGINE DELL'IDEA De' CORPI MEDIANTE LA PERCEZIONE


EXTRA-SOGGETTIVA DELLA VISTA.

ARTICOLO I.
l' occhio percepisce dna superficie colorata.

Supponiamo 1' uomo immoto, gli occhi aperti : egli


vede una superficie a varj colori, che non avendo al
cuno sfondo , alcuna prospettiva , è aderente al suo
occhio, e nulla più.

ARTICOLO IL
LA SUPERFICIE COLORATA È UNA SUPERFICIE CORPOREA .

Un sentimento che a' punti dello spazio si riferisce,


è un' azione corporea: poiché il corpo è un agente che
produce un sentimento che ha il modo della estensione.
Ora la superficie colorata è un sentimento che si
estende in superficie.
Dunque è corporea.

ARTICOLO III.
U SUPERFICIE COLORATA È IDENTICA COLLA SUPERFICIE DELLA RETINA DELl'oCCUIO
AFFETTA DALLA LUCE.

Tutti i sensi sono tatto (i): sono anche soggetti alle


leggi del tatto, e non differiscono che per de' fenomeni
accidentali.
Abbiamo cercato che cosa sono questi fenomeni , e
"trovammo consister essi nella molta soggettività che
tanno le sensazioni de' quattro organi , e nella loro
poca e confusa extra-soggettività (a).
Questi fenomeni adunque non sono che il modo di
quel le quattro specie di sensazioni : e il tatto stesso dà
do' fenomeni simili a quelli (3) , sebbene non si consi-

(i) Cap IV, art. ix. (a) Cap. preceif , art. vii. (3) Ivi.
39?
derino distintamente. Essi non aggiungono dunque nulla,
non alterano le leggi comuni a cui il tatto universale
è soggetto.
Ma nel tatto, la superficie toccante del corpo esteriore
s' immedesima colla toccata del corpo nostro : sicché
quella stessa superficie è sentita in due rispetti ad un
tempo, cioè è sentita come nel corpo nostro, soggetti
vamente, ed è percepita come termine dell' agente este
riore, extra-soggettivamente (i).
Ciò posto, manifesta cosa è, che «la superficie co
lorala percepita dall' occhio è identica colla superficie
della retina che viene toccata dalla luce».
Conviene bene considerare il fatto , che l'occhio per
cepisce la superficie colorala a quello stesso modo come
il tatto percepisce la durezza e resistenza di un corpo
esteso.
Anche nella visione corporea si dee perciò distinguere
i.° la sensazione della retina stessa, i* la percezione
confusa degl'innumerevoli globiciui della luce che sparsi
ingombrano tutta la retina.

ARTICOLO IV.
LA SUPERFICIE COLORATA DA NOI PERCEPITA È GRANDE NE PIÙ* HS MENO QMSTO
LA RETINA TOCCA DALLA LUCE ; MA IN QUELLA SUPERFICIE I COIVRI SSM
STR1BUIT1 CON CERTA STABILE PROPORZIONE.
Questo vero singolare, ma irrepugnabile, è corollario
della proposizione precedente.
Ciò che può tor fede al medesimo appo i poco at
tenti, si è l'abitudine che noi abbiamo di attribuire
agli oggetti percepiti coll'ajuto dell' occhio quella gran
dezza medesima che noi percepiamo in essi mediante il
tatto ed il movimento. Ma più sotto spiegheremo sic
come ci nasca questa abitudine; e apparta, ch'essa ap
partiene al giudizio che noi aggiungiamo alla sensazione
della vista, e non alla sensazione stessa.
Quindi cominciamo dall' osservare, che qualunque sia
la grandezza degli agenti percepita dall'occhio, egli e
sempre vero però che l'occhio li percepisce con certa
proporzione costante in fra loro. Per esempio, ricevendo

(i) Cap. IX, ari. vhl, ^


in sè i colori di tutti gli agenti circostanti, riceve an
cora quelli della pupilla di un altro uomo che gli sta
incontro : e quella pupilla egli la percepisce d' una
grandezza minore d'assai che non sia il corpo tutto
di quell'uomo che vede, siccome percepisce il corpo
di quell'uomo minore della stanza ov' egli è; poiché
quella pupilla occupa nella sua retina una parte assai
più piccola del corpo di quell' uomo, e questo una parte
assai più piccola dello spazio luminoso della stanza in
cui esso si trova.
L' occhio dunque percepisce le grandezze relative de
gli oggetti che stanno ad uguali distanze da sè, sebbene
non percepisca le loro grandezze assolute.
I ciechi nati a cui fu donato il vedere, confermano
le esposte osservazioni. Ne' primi momenti che fanno
uso della vista , provano una sensazione aderente alla
retina del loro occhio: nessuna distanza; nessuna di
stinzione reale di oggetti: una tela dipinta , cioè il
velo della retina loro coperto di varia luce, è il qua
dro che percepiscono (i).

ARTICOLO V.
LA StirF.RFir.IE COLORATA NON PUÒ DARCI l' IDEA DI SPAZIO SOLIDO
NE PUR MEDIANTE I MOVIMENTI DE* COLORI CHE IN LEI SUCCEDONO.

Abbiam toccata altrove la questione, se l'occhio per


cepisca il movimento; e ci parve esser probabile (2).
Ma qualunque mutazione avvenga nella superficie co
lorata che percepiamo, tutto però si riduce ad un can
giamento di superficie: tolta una superficie, ne viene
un'altra, e poi un'altra: questo succeder di scene non
dà nessuna idea di profondità o di distanza : sono qua
dri che vanno e procedono in cert' ordine nell'occhio ,
come i vetri colorati nella lanterna magica, e nulla più.
L' occhio solo adunque non può mai dare 1' idea di
spazio fornito delle tre dimensioni.

(1) l'annotazione alla face. ili questo Volume,


ej) Cip. VII, ari. vili.
ARTICOLO VI.
LE SENSAZIONI DE* COLORI SONO ALTRETTANTI SEGNI DELLA GRANDEZZA
DELLE COSE.
Fin qui noi abbiamo supposto che 1' uomo non fac
cia uso del tatto e del moto, ma usi solo gli occhi a
vedere quanto sta o passa in essi; poiché fu nostro in
tendimento di trovare a qual termine 1' occhio da «è
possa scorgerci.
Il risultamento che avemmo fu questo , che senza
moto nè tatto, l'uomo percepirebbe una superficie co
lorata aderente all'occhio, non maggiore della retina
ove percote la luce e ove suscita sensazione (i). Osser
vammo però, che in questa piccola superficie i colori
sono sparsi e compartiti non a caso, ma in cert' ordine,
siccome pure i movimenti che in essi avvengono; e che
tengono certe ragioni fra loro, alle quali rispondono le
ragioni medesime nelle grandezze delle cose esterne dal
tatto somministrateci (2).
Ora la costanza che si trova in queste proporzioni, e
l'ordine che si conserva ne' movimenti de' colori per
cepiti , dà un mirabil vantaggio, cioè fa sì che quei
colori si rendano atti a fare a noi l'ufficio d' altrettanti
segni, pe' quali conoscer possiamo le grandezze vere (3)
delle cose, e le distanze, e quantità di movimento nel
proprio corpo.
Veggiamo come ciò avvenga, prima rispetto alle gran
dezze delle cose esteriori , e poi rispetto alle distanze e
quantità di movimento.
Le cose esteriori rimbalzano la luce all' occhio no
stro da ogni lor punto: le più estese rimbalzano un
maggior numero di raggi luminosi ; i quali , quando le
varie cose si hanno alla stessa distanza dalla pupilli' ,
cuoprono uno spazio maggiore della medesima. Or dun
que le cose vedute, che sono alla stessa distanza, ven
gono dalla luce segnale e dipinte di una grandezza
proporzionata a quella che hanno veramente esse me
desime (4).

(1) Art. IV. (a) Ivi.


(3) Cioè quelle dateci dal latto, conio vedemmo, c vedrem mfgl'O
Capitolo seguente.
(4) Intesa bene questa teoria della visione, il celebre problema di '
lineux, « se colla sola vista si possa distinguere la sfera dal rubo puma

1
Il disegno adunque che fa In luce in snlln retina
nostra delle cose visibili , le quali sono ad una mede-
.sima distanza dall1 occhio, è simile a quello che fa
l'ingegnere quando ritrae la mappa di un tratto: di
paese; il quale sopra una carta il riporta , delineandolo
sotto una scala minore, ma le proporzioni delle parli
conserva perfettamente. Così nella retina nostra si de
lineano gli esterni oggetti , ad una scala assai minore
bensì, ma che mantiene accuratamente la proporzione.
E nel ritrarre d' un tratto la scena delle visibili cose
sotto una scala minore, ma in egual proporzione, la
luce e l'occhio operano così bene d' accordo , che quelle
macchinette trovate per recare appunto d' un tratto un
disegno da una scala maggiore ad una scala minor qual
sivoglia, non è poi che un'imitazione di ciò che vi-
desi far prima dalla natura.
E badisi attentamente quanto questa similitudine al
l'uopo nostro sia accurata. ■ -.
In una carta geografica o topografica non si bada
troppo a' colori, nè all'altre qualità degli oggetti ivi
ritratti: badasi il più alla grandezza de' medesimi , la
quale ottimamente, con una proporzione che dalla scala
piccola e» trasporta alla grande e naturale, si rileva e
conosce. Medesimamente nelle varietà che prende la-
sensazione de' colori percepiti dall'occhio, non è la
qualità de' colori quella che ci apporti cognizione vera
e immediata delle cose vedute; perciocché il colore,
come tale, è la parte soggettiva della sensazione (i),

« stinto col tatto », facilmente si risolve. L'occhio è pure tatto; egli per
cepisce le ligure egualmente che il tatto della mano, ma le percepisce di una
dimensione minore. De'segni dunque della sfera e del cubo, che la luce im
prime sulla retina, l'uno è circolare e l'altro rettilineo: cioè hanno una di
stinzione fra loro simile a quella che ha trovato il tatto della mano fra gli
aggetti. E dunque certa l'opinione di Leibnizio che risolveva quel problema
affermativamente.
' (i) I colori delle cose ci annunziano anch'essi le loro qualità; ma non
perchè questi colori abbiano con esse similitudine , essendo essi la parie
'oggettiva della sensazione; bensì perchè si fanno come altrettanti segni,
non però similitudini delle medesime, mediante l'esperienza. Così la parola
scrìtta è segno della parlala, senza aver similitudine con essa; mentre il ri
tratto è segno dell'uomo, avendo coll'uomo simiglianza. Ora in questo modo
quante cose non si conoscono pe' varj colori? Oudc si conosce che una
frulla è acerba , o matura , o mezza, se non in grau purle da' suoi co-
lios-.iiNi , Orig. delle idee , Vul. IL 5o
394
siccome vedemmo. All' opposto la grandezza e propor
zione de1 varj spazj colorati è la parte extra-soggettiva,
e quella che ci rende avvisati della grandezza delle cose
esteriori : colla estensione di queste ha vera similitudine;
conciossiachè un triangolo od un quadrato piccolo, ras
somiglia veramente ad un triangolo o ad un quadrato
grande ; e la ragione che passa fra una città ed una
casa, passa egualmente fra due macchiette , 1' una delle
quali è maggiore dell'altra quanl' è della casa la città (i).
Sicché è della grandezza delle cose ,. che 1' occhio ci
avvisa mediante una similitudine della sensazione con
esse, e non dell' altre lor proprietà.
Ora , perchè veggiamo come noi dalle sensazioni dei
colori sperimentale nell' occhio passiamo a conoscere le
grandezze delle cose, conviene aggiunger l'uso del tatto,
e supporre che con questo senso e col moto abbiamo
già percepiti i corpi esteriori , le loro estensioni asso
lute e proporzioni. Adoperando l'uomo il tatto, e con
temporaneamente l'occhio , succede eh' egli venga os
servando una singoiar relazione fra le parti de' corpi
percepiti dal tatto, e i colori dall' occhio. La mia mano
che si stende a toccare un corpo, toglie agli occhi miei
un colore ; ogni punto eh' ella tocca, è una niacchiuzza
che mi si celaj poiché veggo in luogo di quel puntola
mano che il cuopre. Replicando queste prove ed espe
rienze, finalmente imparasi, che son legate insieme sta-

lori ? Da' Colori si conosce la sanità e la malattia, te passioni onde l'animo


umano è agitato, la perfezione o imperfezione di quasi tutte le cose; e tut
tavia il colore non ha la più piccola simiglianza colla sanità, colla malattia,
e con tutte l'altre qualità ch'egli ci rivela. Ma questa rivelazione chea
fanno i colori, non avviene che mediante un'associazione d'idee. L'espf"
rienza ci ha mostrato quel colore congiunto, in quella data cosa, a quelle
sue qualità: ove veggiamo adunque quel colore in essa, subitamente inten
diamo le qualità di cui essa è fornita. La sensazione adunque in quanto e
soggettiva ci può esser segno, e non però similitudine delle cose esterne;
ina in quanto è extra-soggettiva, è un segno simile con esse.
(i) Voglio notar qui una volta per sempre, che io parlo qui, e PIU
innanzi, di macchiette formate sull'occhio da' colori, per un cotal modo
di dire. Or non si tratta già di vere macchie impresse sull' occhio, che po
tessero servir d'oggetto a chi le rimirasse: anzi trattasi di sensazioni sog-
ettnre , indicate per quelle macchie. Volendo io dire una sensazione gialla
i una tal grandezza, diro una macchia gialla ; e cosi degli altri colori- Ba
disi adunque di non pigliare equivoco dal modo del parlare, che qui usal
figurato per render più facile e spedito lo stile.
3g5
bilmente le sensazioni del tatto e della vista; e si per
viene a rilevare, che ad ogni punto colorato nel mio
occhio, risponde una sensazione di loccamento fuori di
me : sicché se una delle macchie lucide delle quali è
chiazzata la mia retina, è maggiore, maggiori tocca-
menti far si possono dalla mia mano : e questi tocca-
menti sono percezioni de' corpi esteriori, e misura,
come vedemmo , della loro grandezza. Se dunque ad
ogni punto colorito dell' occhio risponde nel tatto la
sua percezione d' un corpo , e se ad una macchia lucida
più o men grande corrisponde la percezion che fa il
tatto di un corpo più o men grande con proporzione
costante; avvenir dee, ed avviene, che le macchie git
tate sull' occhio variamente in tanti raggi di luce , ci
sieno indizj e segni sicari de' corpi esteriori e delle loro
grandezze che solo il tatto immediatamente percepisce;
di che noi acquistiam un'abitudine di passare cele-
rissimamente col pensiero dalla sensazion dell' occhio
alla persuasione di un corpo esteriore tangibile. La quale
abitudine, come- è in noi continua;, si fortifica e, cre
sce a tale , che finalmente confondiamo ed iscambiamo
il segno colla cosa segnata; e al primo percepire col-
l'occhio d'una macchiuzza lucida, non diciamo già
più: « io percepisco una macchia lucida , e perciò dee
averci fuori di me un oggetto tangibile » ; ma diciamo
immediatamente: « veggo un corpo, veggo un oggetto
tangibile» (t).- ■» :!'-'' -
Chi' guarda un disegno topografico , conosce la gran
dezza de' luoghi , se ha chiara idea della scala su cui
sono riportati, cioè della proporwione di questa colla
scala della grandezza naturale. Ma nel giudicare sopra
una carta , della grandezza di un tratto di terra quasi

, Xl) J?i osservi, clic quando il segno ci è notissimo, e 1' uso suo a noi abi
tuale , noi, non ci (enniam punto a lui: andiamo a dirittura alla cosa se
gnata, che ci pare di vedere e percepire nel segno slesso i ci pare che il
segno sia dessa medesima la cosa, a tale, che ci riesce difficilissimo discer
nere l'una dall'altro. Perciò noi diciamo <« d'avere udite le tali e tali ve
rità da un uomo dotto »j quasiché avessimo udite le verità stesse, é non
le parole che sole veramente udite «libiamo, le quali non hanno né manco
la più piccola similitudine colle venia udite. Diciamo d'una ii.nnagine, che
è la persona stessa dipinta : le attribuiamo lo slesso nome; perché non ci
tratteniamo punto al ritratto: insomma pensiamo, alla cosa nel suo segno:
questo è ciò che ci avviene universalmente fu tutte 'quasi le operazioni che
noi l'acciaino come csscn intelligenti. ' .':
3<jG
direi intuitivamente, non è sì agevole nè spellilo come
a misurar le grandezze delle cose sulla carta che ne
dà l1 occhio ; perchè questa carta dell'occhio ci è sem
pre presente , e nell' applicarla noi ci esercitiamo con
tinuamente, e il tatto con leggier fatica rettifica e ri-
pruova di continuo i rilievi nostri delle grandezze me
desime.
E di più avvi questa differenza fra il vedere un paese
ritratto in carta, e . il . percepire i corpi esteriori me
diante la percezione della retina nostra tempestata a
macchie di varj colori dalla luce che viene rotta varia
mente ne' corpi ed alla pupilla riflessa; che la carta è al
tutto staccata dal paese ch'ella porta su di sè disegnato,
e non ha de' fili , per dir così, che al paese stesso la con
giungano; mentre i lineamenti dipinti nell'occhio hanno
coi corpi percepiti dal tatto una connessione mirabile e
fisica: conciossiachè i raggi della luce partendo da' corpi,
congiungoho questi coli' impressioni che soffre l'occhio;
non già perchè 1' occhio per questi filamenti luminosi ,
che passano dal corpo a lui , esca di sè, o percepisca
altro che l'estremità di que'fili; ma bensì perchè que
ste estremità vengono alterate e mutate, stante tale
comunicazione, da ogni moto che succede nel corpose
massime dalla mano che tocca i corpi. Sicché* la spe-
rienza insegna al fanciulletto,. che di ogni punto toccato
dalla mano egli ha. una sensazione luminosa; e così i
punti di luce sentiti dall' occhio, sono commisurati ai
punti toccali dalla mano; ciò che il conduce a imme
desimare la misura dell'occhio e quella della mano,
quasi direi sopì apponendo 1' una all'altra, punto a
punto, linea a linea, e superficie a superficie: col qual
magistero mirabile la natura medesima conduce l'uomo
a trovare facilissimamente nelle macchie dell' occhio la
misura medesima degli oggetti , che percepisce col tatto.
E a meglio intendere questo fatto, conviene notare
un' altra differenza fra la carta topografica e il paese,
e la retina spruzzolata di colori ; che il paese e la carta
sono due oggetti dell'occhio, l'uno maggiore e l'altro
minore; mentre l'oggetto esterno e i colori sono due
oggetti bensì del tatto, ma del tatto in due parti di*
verse del corpo nostro, 1' una, cioè quella della pu
pilla, assai più .. delicata e di una complessione sua
propria, luti' ultra da quella del tatto comune.; dalla
qual differenza venne alla vista il nome d'un senso
particolare e diverso dal tatto. Ora fino che si tratta
di due oggetti dell'occhio medesimo, per esempio di
due triangoli l* uno immensamente più grande dell' al
tro, si può bene, per la loro similitudine, prender
l'uno come il segno dell' altro} ma le loro diverse gran
dezze non si possono così agevolmente perder di vista,
e se ne osserva la disuguaglianza manifesta. All' oppo
sto le superficie colorate percepite dall'occhio, e le su
perfìcie palpate dal tatto, sono di qualità sensibili som
mamente diverse fra loro: sicché la loro simiglianza di
forma, e disparita di grandezza non si rileva agevol
mente, se non quasi direi soprapponendole, come si
suol fare, 1' una all'altra. Ma la natura ha impedito
questo; ed anzi ha stabilito essa una specie di soprap
posizione singolare, la quale c' inganna; cioè ha fatto
sì, die, toccando noi colla mano gli oggetti veduti,
ci sembrasse di soprapporre la punta delle piramidi lu
minose , la qual entra nel nostro occhio, agli oggetti
del tatto ; mentre veramente soprapponiam loro sempre
la base che noi non percepiamo ; il che ci sembra fare
pel richiamo che ha questa base colla punta delle pi
ramidi da noi percepita.
Dalle quali cose avviene, che all' uomo sviluppato sia
più difficile riconoscere la differenza delle grandezze ve
dute e toccate, che di crederne l'uguaglianza.

ARTICOLO VII.
LA VISTA ASSOCIATA AL TATTO ED Al MOVIMENTO PERCEPISCE LE DISTANZE
E LE QUALITÀ' DEL MOTO DEL PROPRIO CORPO.

Consideriamo ora 1' uomo che veggendo si muove.


Quali mutazioni cagiona il suo movimento nelle sen
sazioni della sua vista?
Un mutar continuo di superficie colorate; un variar
di colori ; il chiaro là dov'era lo scuro; lo scuro do
v'era il chiaro. Se voi mirate il colore e la forma di
un grande edificio dalla lunga, questo edificio vi parrà
forse un punto invisibile biancheggiante in mezzo al
l'azzurrino d'una montagna alta di dietro a lui. Mo
vetevi , avvicinatevi ; il punto di color bianco si dila
ta , prende una forma , si precisano i suoi contorni ;
quando gli siete vicino, voi ne vedrete tutta la gran
dezza. Ora le mutazioni succedute in cotesta superficie
colorala, unica scena del vostro occhio, i punti, o gli
scacchi de' varj colorì, che a misura del vostro muovere
si dilatano, si distinguono, si figurano; tengono un
rapporto costante , come dicevamo , con tutta la va
rietà de1 movimenti che voi fate.
Il moto non ha alcuna simiglianza col colore: sono
cose diverse come il sapore ed il suono. Nulladimeno
quel rapporto costante che tengono i colori, e massi
mamente i chiari e gli scuri co' movimenti , fa sì che
la variazion de' colori ci sia indizio e segno certo a co
noscere e misurare lo stesso movimento.
I colori per tal modo si fanno, come una lingua, colla
quale la natura ci parla, e manifesta le lontananze e
le grandezze ; e questa lingua naturale è foggiata alla
stessa guisa della lingua artificiale.
Nella lingua artificiale noi usiamo parole ad espri
mere idee; ma le parole sono de' suoni materiali che
non hanno alcuna similitudine colle idee , le quali sono
pensieri dello spirito. Tuttavia le parole fanno 1' ufficio
di segni delle idee nostre: e incontanente che noi udiamo
proferir le parole, ci pare, per forza di abitudine, di
ricever pure le idee in uno colle parole : conciossiachè
noi le uniamo a quelle, facendo quasi di auelle due
cose l'oggetto di un sol pensiero. E le parole sono alle
a prestarci quest' ufficio per un rapporto, costante che
noi abbi a ni convenuto fra queste cose disparate, le
idee, e i suoni articolali. Medesimamente avviene nei
colorì pe' chiari e per gli scuri : questi sono , sarei per
dire, altrettante parole, che manifestano le lontananze
de' corpi da noi, e il movimento o fatto o necessario
a farsi per avvicinarsi a loro.
Se vogliamo facilitarci l'intelligenza della percezione
che fa l'occhio delle distanze, ricorriamo ad un'ahr»
similitudine ; rassomigliamo i varj colori di cui la no
stra retina è come petecchiata , alle lettere dell' alfabeto.
Le lettere che io formo coli' inchiostro sopra una carta,
non hanno alcuna similitudine, non che comunanza di
materia, colle parole, che sono suoni che io promuovo
per l'aria, facendola increspare in minutissime onde co
gli organi della mia gola allora eh' io parlo. E tutta
via gli apici e le aste e le curve e i punti che io traccio
sulla caria , hanno virtù di richiamare all' altrui mente
parole e idee, e fanno piangere e ridere a chi li mira,
come i più grandi infortunj , e le migliori avventure.
Or ciò fanno non per altro, che per un costante rap
porto posto arbitrariamente fra que' tratti d' inchiostro
e le voci che traggori seco le idee ; il qual rap
porto è regola, secondo la quale passasi rapidissima
mente dalla percezione de' segni neri in sulla carta ,
•Ila percezione di ciò che colui che li tracciò ci volle
comunicare.
Così è de* colori e del movimento: il movimento e
il colore non hanno simiglianza di natura. Tuttavia hanno
un rapporto: io uso perciò de' colori come di altrettanti
segni a conoscere e misurare i movimenti.
Siccome però noi dobbiamo imparare a parlare ed
a scrivere , così dobbiamo imparare a discerner coll'oc-
chio le distanze ed i movimenti: questo s' impara sotto
il magistero della natura, quello sotto il magistero della
società (i).
Quando poi noi abbiamo imparato 1' arte di leggete
coli' occhio le distanze, e di rilevare co1 segni de' colori
la quantità del moto, e qnell1 arte è fatta piena abi
tudine ; allora ci pare di veder pur coli' occhio la di
stanza, e di misurare il moto necessario a percorrerla:
sebbene veramente pur altro mai non veggiamo coll'oc-
chio , che una superficie: ma la rapidità onde ai colori
vaneggiati di questa superficie uniamo I' idea di esten
sione in profondità è tale , che sfugge in ultimo la no
stra stessa attenzione; e allora crediamo di vedere la
profondità stessa immediatamente : come a colui che

(i) Gioverebbe istituire delle osservazioni accurate sul tempo che i bam
bini mettono ad imparare questo riscontro delle grandezze dell'occhio colle
grandezze del tatto e colle distanze. Avvertasi però che un effetto simile
s< ottiene in due modi , istintivamente e intellettivamente. Cioè a perce
pire tali proporzioni si educa i.° la sensitività (e questo avviene anche ne'
bruti) j.° e l' intendimento. L» sensitività impara a fare quel riscontro
pravamente mediante «sedazioni di sensazioni, fantasmi, sentimenti, istinti,
e abitudini: 1' uomo accompagna tutto ciò con de' veri giudizj. L'esperienze
dunque dovrebbero tendere a distinguere ne' bambini anche i pro
fessi di queste due facoltà ; il che però è sommamente difficile. Gabanis
'ferma d'aver veduto un ragazzo stupido fornito di occhi sanissimi, che
non potè mai pervenire a conoscere col solo occhio le distanze (Rapporti
«» physique et du moral de l'homme, eie-, Meni. II). Se ciò è vero, quel ra
gazzo dovea esser dilettoso nou solo uella parte intellettiva , ma uiico nella
parte animale. . :
4oo
legge pare di percepire pur le parole immediatamente ,.
e a chi ascolta pare di ricever le idee con quegli stessi
orecchi co' quali nuli' altro riceve che le parole.

ARTICOLO Vili.
PARAGONE DELL* ODORATO, DELL* UDITO E DEL COSTO COLLA VISTA.

Gli odori , i sapori ed i suoni non possono esserci


segni così precisi e così universali come ci sono i co
lori , a conoscere la presenza e distanza de' corpi; poi
ché quelle tre specie di sensazioni non delincano in noi
immediatamente una superficie corporea bene distinta
insieme e continua , siccome fa 1' occhio , ma piuttosto
danno punti corporei non distinti, mutabili, perfetta
mente omogenei ed uniformi; e oltracciò perchè tali
sensazioni non si possono convalidare, per così dire,
col tatto, come avviene di quelle dell'occhio, non
avendo gli oggetti consueti del tatto quello stretto rap
porto cogli orecchi , il palato e le nari , che hanno
coli' occhio.
Tuttavia l' udito somministra una varietà di sensa
zioni , che sebbene non abbiano una connessione inti
ma con quelle del tatto , siccome quelle de' colori, tut
tavia sono governate da leggi stabili e semplici. Quindi
si prestano alla formazione delle favelle. Di che avviene,
che come 1' occhio mediante il tatto diventa una favella
naturale (giacché sono le cose che parlano a noi da sè
stesse coi colori ordinati ), ma una favella che si re
stringe a manifestarci le grandezze e distanze delle cose
corporee; così l'udito dia il mezzo all'invenzione d'una
favella universale.

CAPITOLO XIII.

CRITERIO DELLA GRANDEZZA E DELLA FIGURA De' CORPI.

ARTICOLO I.
IL CRITERIO DELLA GRANDEZZA Dt' CORPI È LA GRANDEZZA PERCEPITA COL TATTO.

Quando noi vogliamo conoscere se una cosa è vera


o falsa , dobbiamo raffrontarla alla nozione certa e ge
nuina della medesima.
Or quella potenza che percepisce la cosa immediata
4°>
mente, e non un segnò o immagine della cosa, è quella
che ci dà la nozione certa e genuina ( 1' essenza ) della
medesima.
Abbiamo veduto che 1' estensione è il modo del sen
timento fondamentale (i). Quindi il sentimento fonda
mentale è potenza che percepisce immediatamente l'esten
sione, giacché ella è il modo del suo esistere. Adunque
il sentimento fondamentale dà la genuina e certa esten
sione , o sia la grandezza.
Dopo di ciò abbiamo altresì veduto, che l'estensione
delle cose percepita dal tatto è identica coli' estensione
del sentimento fondamentale (2).
Quindi anche il tatto somministra la certa e genuina
grandezza delle cose.
L'occhio all'incontro e gli altri sensi in quanto sono
diversi dal latto, i." non percepiscono immediatamente
la grandezza delle cose lontane, a." non percepiscono
la distanza di esse, ma solamente i segni della medesima.
Quindi la grandezza delle cose rilevata per 1' occhio
dee confrontarsi con quella del tatto e con questa ret
tificarsi.
Perchè dunque la vista non e' induca in errore , noi
dobbiamo continuamente ridurre la grandezza dataci
dalla vista , alla grandezza rilevata pel tatto, dietro
l'avviamento della natura stessa, siccome a sua misura
fissa , e su questa riscontrarla ed emendarla.
ARTICOLO IL
APrLICAZION'E DEL CRITERIO All' ILLUSIONE CIRCA LA GRANDEZZA VISIBILE
DELLE COSE.
Abituati noi dunque a far susseguire alle sensazioni
dell'occhio de' giudizj rapidissimi, pe' quali riguardando
quelle sensazioni siccome segni , rilcviam da essi im
mantinente le grandezze de' corpi; ci sembra di perce
pir coli' occhio a prima giunta le stesse grandezze. .
Questo falso giudizio si fa comunemente da tutti gli

(1) Quel filosofo che diceva il corpo nostro esser Ir natura di tutte le
cose, avrebbe proferito una sentenza vera e bellissima, se l'avesse intesa nel
giusto sno significalo.
<a) Cap. IX, art. vm.
Kosmini, Orìg. delle Idee, Voi. II. 5i
403
uomini , e non è fuor di proposito il nominarlo un er
rore del senso comune (i).
Un tale errore dà luogo a delie indagini, che si ren
dono poi interamente superflue quando quell'errore è
dilegualo.
Ecco una questione vana, a cui dà luogo quell'errore.
Il mio occhio aperto, e intento , vede una scena in
nanzi di sè : gl'immensi spazj del cielo, la vasla estcn-

(i) Gli errori comuni al più degli uomini sono forse tulli di questa
folla ; dipendono da de* giudizj abituali, ne' quali cade il volgo quasi direi
involontariamente , irresistibilmente. I giudizj si fanno abituali allora clie
l'esperienza ha mostralo una connessione pressoché costante di due (atti:
il comune degli uomini non osserva le pochissime anomalie; egli acquista
allora una propensione a pronunziare il silo giudizio, estendendolo dalle /«ù
volte, al sempre , e non può avere tanta riserbatezza da tenerlo sospeso. E
qual volgo, qual comunanza d' uomini non ha giudicato che il sole girasse?
Le nazioni intere, l'intera umanità fece un tal giudizio: 1' occhio non dico
niente intorno al moto reale del sole: era il giudizio che gli uomini in corpo
aggiungevano a quella sensazione dell'occhio. Se non vi avessero aggiunto
il giudizio, uon sarebbero caduti in simigliante errore : ma come era pos
sibile di sospendere quel giudizio, fondalo in una esperienza quasi generile,
che al molo apparente si accompagni il moto reale dell'oggetto veduto?
Questa legge della esperienza avea, egli è vero, delle anomalie : l'uomo chr
dalla barca vede correre le rive del fiume, n'era una patente a tulli. Pure
troppo poco è un caso particolare, perchè i volghi , le nazioni , le masse
d'uomini il tengano bene a conto, e sappian giovarsene. Troppo grate è
agli uomini sospendere il giudizio ; gravissimo, importabile è, o almeno fu
sino ad ora, alle moltitudini. Le moltitudini giudicano senza ritegno: quii
forza potrebbe frenarle in questo? chi ha mai insegnato a sospendere il
giudizio ad un popolo ? quando mai , o in che luogo del mondo tanti
prudenza , tanta lentezza e considerazione di pensare, lauta sobrietà ,
alla quale i sommi filosofi rarissimamente pervengono , fu la dote comune
delle plebi intere? Ciò sarebbe un chieder troppo alla turba: quando que
sta è così all'error prossima, eh' esso non si possa cvilare se non per una
sospension di un giudizio che ha tutta l' apparenza di verità, che è fondalo
in una legge di comune esperienza accompagnala da pochissime anomalie,
che è solito farsi dal volgo e n'ha l'abitudine già contratta; qual nui
mortale può ritener questo o colla forza o colle parole perchè giù non pre
cipiti ? la caduta sua in quel giudizio, in quell' errore , é irreparabile : il
savio può sicuramente prevederla , predirla ; impedirla non mai. Sarebbe
più facile che alcuno sostenesse una rovina di vasti macigni che cìÒobo
d' una montagna, anziché egli solo tenesse indietro quell' inclinazione, quella
precipitanza, onde una moltitudine si dà a proferire un giudizio di tal na
tura. Solo dipoi, dopo lunghi anni, dopo secoli, quel giudizio si emenda.
Viene il tempo in cui un uomo straordinario sorge a dimostrarlo mendace:
da prima allora, questi è afflitto, è oppresso dal peso immenso del seoli-
nienlo comune ; ma nella sua oppressione non perisce il germe della »e-
rilà, della quale egli è martire ; rimane dopo di lui ; e con lenii progressi
s' insinua fra gli nomini, e perviene a signoreggiar finalmente la moltitudine
stessa , lardi pentita e vergognata della stolta sua presunzione e del!» su'
ignoranza orgogliosa e sempre crudele.
sione d'una pianura ubertosa, montagne, laghi, fiumi ,
animali , piante , erbe, infinita varietà il' oggetti. Fra
tante cose , vede un suo simile; ben piccola cosa, un
punto, verso alla grandezza di tutta l'altra sfera. Ora
nella front» di quest'uomo vede ancora i due occhi, mem
bri piccoli di piccolo oggetto. In mezzo degli occhi nota
un fiorellino nero, dentro a cui sta teso un pannicolo
sottilissimo e sensiti vissi rao che si chiama retina, ed ivi
la luce porta la sua mirabile irritazione.
Ora egli è appunto in questa angustissima parete del
l' ultima tunica dell' occhio, che quella persona vede me
e vede tutte 1' altre cose , siccome in uno simigliane
piccolissimo spazio nervoso io veggo lei, e terre e cieli
e l'interminato universo.
Ora il mio occhio, che vede l'occhio altrui, o sè in
uno specchio , mi dice che quella tela che riceve i co
lori in sè di tante cose , non è appena larga una pic
cola linea : e tuttavia le cose in essa dipinte mi appa
iono immensamente più grandi di lei. Come può ella
ricevere quella visione? m' inganna ella mostrandomi gli
oggetti sì grandi , quando la impressione che riceve è
si piccola ?
Ora tutta questa difficoltà, tutta questa maraviglia
svanisce , ove s' abbia conosciuto ed inteso il vero so
pra esposto, che l'occhio non percepisce le grandezze
nè le distanze, ma solo i segni di quelle, da' quali con
rapidità di giudizio passa la mente a concepir le distanze.
I segni non hanno bisogno d' essere d' una slessa na
tura o misura colla cosa segnala; e tuttavia ci possono
far conoscere la grandezza di lei, purché conosciamo la
ragione che tien la grandezza de' segni colla grandezza
della cosa. Nel caso dell'occhio, noi conosciamo que
sta ragione abitualmente ; perchè mediante il latto ap
prendiamo le grandezze vere delle cose, e formiamo
r abito di riscontrar le grandezze apparenti all' occhio,
colle vere delle cose toccate.
Una difficoltà però ancora si presenta , e merita ogni
attenzione. L'occhio è anch' egli un tatto, e la luce il
tocca veramente. Or perchè non potremo applicare la
legge del tatto all' occhio ? E la legge del tatto è que
sta ; quando con una mano noi tastiamo un oggetto ,
noi il misuriamo colla mano slessa , quasi con sesta o
modulo che soprappouiamo al medesimo per farne il
4o4
confronto. E in tale toccamente e soprapponimento ab*
biam distinto la sensazione nella mano, dalla percezione
dell' oggetto esteriore. Abbiam detto che l' estensione
della sensazione nella mano, è misura dell' estensione
dell' oggetto esteriore venuto al contatto della mano;
e quindi che la sensazione soggettiva, cioè del nostro
proprio corpo , è misura della percezione extra-sogget
tiva, cioè dell'agente esteriore che al nostro corpo in
tale operazione si raffronta. Applichiamo dunque all'oc
chio la stessa legge. Lui toccano i globicini della luce:
egli avrà dunque i.° una sensazione soggettiva delle di
verse parti della retina da diversi raggi di luce toccata
e con diversa spessezza de' medesimi, a.° la percezione
extra-soggettiva di que' globicini della luce. Pertanto
colla estensione della sensazion soggettiva misurerà egli
gli agenti, cioè se non i singoli minimi del raggio,
almeno 1' estensione de' fascicoli luminosi che quasi pen-
nellini frugano il panno dell' occhio. Ora restandoci
nella sola sensazion della vista considerata siccome un
tatto, noi dovremo in essa rilevare la piccolezza delle
immaginuzze dipinte, ed accorgerci che sono via più
piccole della piccola apertura dell'occhio, che è siccome
la scena o il quadro generale , del quale le singole parti
vogliono esser minori, giacché del tutto è minore la
parte. Noi dunque dovremo accorgerci della piccolezza
delle immaginette nell'occhio ricevute, e sentire la ragione
che quelle hanno coli' occhio stesso. Ben è vero , che
queste immaginette, aggiungendosi poi l'uso del tatto,
potranno fare a noi l'ufficio d'altrettanti segni delle
grandezze vere rilevale dal tatto , non altrimenti che
una carta topografica ci dà segno ed avviso della gran
dezza de' territorj in quella disegnali, mediante una
scala proporzionale ; ma questo non toglie però che a
noi non debba restar ferma la prima cognizione, per la
quale abbiamo confrontato le immaginette dell'occhio
coli' occhio stesso , e con esso , siccome ogni altro og
getto del tatto, nella loro propria e reale grandezza
misurate. E pure nulla di tutto ciò dà l'esperienza.
Ecco come si dissipa questa difficoltà.
Primieramente, non si vuol nominare immagini le
macchiette dell' occhio anziché noi abbiamo rilevato
mediante il tatto, che i colori gittati sull'occhio «
manifestano gli oggetti esteriori: è solo il tatto che ci
4«5
rende avvisali di ciò. I colori adunque di cui la retina
è spruzzata e tinta, non formano che altrettante mac-
chiuzze sentile, che nulla significano nè rappresentano
per sè sole, innanzi all'uso del tatto, e quindi non
sono per noi immagini, nè segni di sorle. L'uso del
tatto poi , contemporaneo all' uso dell' occhio, fa che
a noi si discuopra un rapporto costante fra le gran
dezze del tatlo e quelle delle macchie dell' occhio , pel
quale queste macchiette scorgendosi variare secondo che
varian gli oggetti del tatto , si fanno a noi segni , e
sembrano vere immagini di questi (i). Or se 1' occhio
per sè solo non percepisce che sensazioni , o come so-
gliam dire, imbeve cerle macchiuzze di colore, le quali
nella retina e non altrove sono sentite; convien dire
che allorquando si aggiunge il tallo, e per 1' uso di
questo senso quelle macchie o sensazioni nella retina
vengono a far l'ufficio di segni di cose lontane, acqui
stano un nuovo slato, o anzi meglio, una cotal nuova
relazione con noi , per la quale si cangiano nella no
stra considerazione interamente dall' esser loro di pri
ma , e ci sembrano cose al tulio diverse e d'altra natura.
Le macchiuzze adunque, sensazioni nella retina, e le
immagini visuali nel loro esser proprio , sono la cosa
medesima ; ma noi rispetto sotto cui noi le guardiamo ,
sono due cose affatto diverse ; conciossiachè nel consi
derare quella sensazione stessa siccome macchia sentita
dall'occhio, e siccome immagine di cosa esteriore, la
nostra attenzione si porta in due termini interamente
opposti; poiché considerandola come macchia sentila,
ella si ferma nella sensazione della retina ; consideran
dola poi come immagine, ella procede, senza fermarsi
nel segno, dirittamente alla cosa rappresentata, e a
questa sola bada come a suo solo termine. Così colui
che vede il ritratto d' un amico, pensa immediatamente
alla persona ritratta, e nulla si ferma ad esaminare il
3uadro nell' esser suo proprio, non la tela, nè il tessuto
i quella, nè la qua'ità de' colori, o l'olio ove furono
stemperati, o l' itupri ni luta ; nè sta facendo l'analisi
degli elementi chimici di cui quella tela e quella cro-

(i) Dico sembrano, perchè non hanno siniiglianza cogli oggetti e»lerior
>e uon nella parte extra- soggettiva.
4o6
sta clic la intonaca si compone. S' osservi dunque bene
a rilevar come succede un tal fatto. La maccltiuzza sen
tita nell'occhio, si cangia in immagine al sopravvenire
1' uso del tatto. Cangiata in immagine, l'attenzione no
stra parte di lei, piglia altra direzione, e si porta lon
tana al di fuori, cercando l'oggetto di cui la maccltiuzza
è immagine. E per intendere perfettamente questo rile
vante fatto, conviene rendersi pratichi di quella distin
zione importantissima , su cui si regge tutta si può
dire la cognizion filosofica dell'uomo, fra la sensazione,
e V avvertenza (i) della medesima. La legge dell'avver
tenza è la seguente : « Ciò che noi avvertiamo è il ter
mine delia nostra attenzione intellettiva ». L'avvertenza
di una cosa nasce in noi da questo, che la nostra at
tenzione si mette e termina in quella cosa per modo,
che in quella ultimamente si ferma e riposa. Tutti gli
anelli intermedj, pe' quali l'attenzione e il pensiero pas
sa , ma non si posa come a suo termine , sono perce
piti sfuggevolmente, ma non avvertiti da noi. Se vogliamo
avvertirli , dobbiamo tornare indietro, rifare il cammino
fatto col pensiero , e rendere quegli anelli , sorvolati
prima, proprj termini della nostra attenzione. Ciò dun
que a cui la nostra attenzione è volta, ed ove finisce,
è da noi avvertito, e nulla più si avverte, sebbene molte
altre cose si sentano e si percepiscano. Ora quando le
sensazioni provate nella retina dell'occhio hanno acqui
stalo qualità e stato d' immagini, esse tali sono fatte,
che non possono essere più il termine per sè medesime
dell' attenzion nostra: conciossiachè , secondo l'osser
vazione toccata, l'immagine per sua natura ci porta
fuori di sè, e non è che una regola, dietro la quale
noi dirigiamo la nostra attenzione a trovare con questa
un'altra cosa, cioè la cosa ritratta : conciossiachè il ve

ti) Talora io chiamo quest'avvertenza, osservazione, talora attenzione,


talora considerazione, talora accorgimento: tutte queste parole vengono ad
esprimere sempre un atto dell'intelletto, il quale si fissa sopra la sensa
zione, e col fissarvisi forma l'idea, ed avverte la sensazione. Il Gallnpi"
dice acconciamente, che le idee si formano colla meditazione dell' intelletti»
sulle sensazioni: ottimamente. Io dimando: che cos'è questa meditaw0* •
questa riflessione, questa operazione dell' intelletto, colla quale egli forma li-
idee? Io ho dimostralo che non può essere altro che un' applicazione di
un'idea universale alle sensazioni (Parte II), e che se non s' ammette ciò,
la meditazione non ha senso, la riflessione è inopinabile.
dere un'immagine, è il considerare quella cosa sotto
uno special rapporto ch'ella si ha con un'altra, a fine
ed intendimento di giovarsi della medesima siccome di
scala o di mezzo per trasportar nell'altra il nostro pen
siero. La proprietà dunque dell'immagine ricusa e ripelle
In nostra attenzione dalla natura propria di quella cosa
che fa ufficio d'immagine, per recarla e mandarla da
si: lontana a terminare e riposarsi nell' oggetto rappre
sentato. Quindi è che la sensazione che patisce l'occhio,
divenuta che sia segno e quasi immagine delle esterne
cose, acquista un tale stato rispetto alla nostra atten
zione, che anziché tenerla in se e farsi da lei avverti
re, fa un contrario ufficio, cioè avvia l'attenzione no
stra sopra altro termine, da sè stogliendola: sicché ella
si rimane da noi inosservala ed inavvertita, mentre fa
osservare ed avvertire le cose esteriori cui ella segna e
rappresenta.
Di poi aggiungete un'altra considerazione. «L'avver
tenza nostra cade più agevolmente sulle percezioni di
stinte, che sulle confuse». Ora che è ciò che rende
distinta o confusa la percezione sensibile? Tanto più
ella è distinta, quanto più gli oggetti percepiti da' sensi
i.* sono in minor numero, 2.* d'una sufficiente gran
dezza da dover poter essere interamente abbracciati ,
3" e più costanti nelle loro forme sottoposte a' sensi.
Ora i globicini di luce innumerabili di numero, d' una
piccolezza incalcolabile, d'una mobilità perpetua, smi
surata , non possono dare che una percezione vivace sì,
perchè tutti insieme in grand1 impeto e infinito numero
percotono di colpi istantanei, ma confusissima tuttavia.
Quando noi percepiamo adunque confusamente un og
getto, appena che ci paja di percepirlo; e per questo
diciamo di veder nulla , quando veggiamo solo spazj
d' aria illuminati da equabile luce. All'incontro la per
cezione del tatto è distintissima di sua natura, e di
stintissimi sono altresì i segni che porge 1' occhio della
medesima: i quali segni e son vividi, ed hanno una
mirabile dislinzion fra loro, ed una precision di con
torni in loro piccolezza meravigliosa. Quindi ci avviene,
die nella sensazione dell' occhio poco o nulla (1) av-

(') Dico poco o nulla, poiché veramente ognuno s'accorge alquanto drlla
'«osazion degli occhi. E non sente ognuno di ricever cogli occhi la luce ? e
4o8
verliamo la percezione immediata delle particelle di
luce e loro varietà, e siamo all'opposto tutti occupati
nell' osservare gli oggetti del tatto eh1 essa ci rappre
senta e ci annunzia; la quale osservazione d'altro iato
non è una speculazion vana , siccome sarebbe 1' osser
var le macchie nell' occhio, ma è sommamente utile, e
richiesta da' bisogni continui di nostra vita.
ARTICOLO HI
ArrucAZic-NE del criterio all'illusione visuale sulla lontanasza
DELLE COSE.
Gli oggetti delineati dalla luce nella pupilla , ove
non sono a una stessa distanza , non tengono la gran
dezza proporzionale: ma i più indietro mandano all'oc
chio un' immagine minore , ed una maggiore i più in
nanzi e più all' occhio vicini.
Questo effetto nasce da' raggi convergenti della luce,
i quali più partono di lontano, e più sono necessitati
di allungarsi in angolo acuto a toccar l'occhio, dove
suscitano la sensazione. Così portano al medesimo un
vestigio dell'oggetto, più piccolo di quello che esser
dovrebbe. E di questa specie d' inganno non si dee però
accagionare la sensazione, che nulla veramente ci dice
dell'oggetto: anzi è il giudizio della mente nostra clic
qui può ingannarci, inferendo la grandezza degli este
riori oggetti , dalla sensazion della luce tolta da lui
come segno.
Ma ben presto anche questo error si corregge: per
ciocché ,le immagini venienti a noi da varie distanze,
seguono un'altra specie di proporzione, che vale a con
trassegnare le distanze stesse.
Indi avviene, che la grandezza apparente si faccia a
noi indizio sicuro e misura anche delle distanze a cui
son posti gli oggetti , aumentandosi 1' immagine nell'oc
chio in ragione che la distanza diminuisce , e vicever
sa: sicché le grandezze apparenti, e le distanze loro,
vanno costantemente in una certa ragion contraria. La
costanza di questa ragione dà fondamento all'arte della
prospettiva.

chiudendogli occhi, non provieni noi che la natura non ci brilla più inoanii-
Ma, come dicevo, non si attende a ciò che avviene negli occhi nostri, quando
abbiamo si graziose cose da vedere fuor di essi.
Il movimento spontaneo e il tatto, come: vedemmo,
rilevano le vere distanze: l'abituale osservazione la co
noscere il rapporto fra la grandezza apparente degli
oggetti, e la distanza loro misurata dal tatto e dal no
stro movimento: indi apprendiamo a passar celerissi-
mamenle da quella a questa, e a rilevare all' istante la
distanza degli oggetti dall'apparente loro grandezza.
Poniamoci in capo di un lungo viale d'elei, o di
catalpe, o d'altre piante: di qui noi veggiamo declinare a
roano a mano le altezze apparenti d'ambo i filari; ora
tale declinazione appunto ci fa accorti della via mag
gior distanza delle succedenti piante, e finalmente del
l' ultime dalle prime.
Nè m'inganno io più, dopo quest' abitudine contralta
di far meco medesimo quella ragione, Circa la gran
dezza delle piante ; poiché in quel decrescere io leggo
già l'effetto delle distanze , e null'altro; e così emendo
la sproporzione dell'apparente grandezza, e riconduco
col mio pensiero tutti quegli alberi ad una medesima
vicinanza , nella quale io so vederli tutti sottosopra di
una stessa altezza.
i . i■
ARTICOLO IV.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO ALL' ILLUSIONE SULLA POSIZIONE DELLE COSE.

La luce delinea nell'occhio gli oggetti rovesci : or


come li veggiamo diritti, se li percepiam capovolti?
Ciò nasce perchè questo rovesciamento degli oggetti
nelle immaginette loro dipinte capovolte sull1 occhio
"ostro , non può menomamente essere in contraddizione
nè colle diverse parti di esse immaginette, nè colle
percezioni del tatto; ma solamente col sentimento fon
damentale col quale percepiamo l'occhio, e colla mo
dificazione del sentimento fondamentale colla quale pure
percepiamo l' occhio nostro soggettivamente.
Dico primieramente, che se l'immagine di un oggetto
io la percepisco capovolta, quésta non è in contraddi
zione colle diverse parti della stessa immaginctta ; e
quindi è impossibile che 1' occhio percepisca questa in
versa posizione.
E in vero, capovolgendo un oggetto, per esempio
una statuetta, perchè ci accorgiamo 'noi della nuova
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. II. 5a
4io
posizione presa dalla statuetta? Non per altro che per la
relazione eh' ella ha cogli oggetti circostanti, i quali
non si sono capovolti insieme con lei. Ma poniamo al
l' opposto, che lutti gli oggetti circostanti, e noi mede
simi ci fossimo capovolti insieme con quell'oggetto, né
fosse avvenuto in questo mezzo giro sconcerto alcuno
nò mutazione nella posizione relativa delle parti. In tal
caso, impossibil sarebbe che noi ci avvedessimo della
nuova posizione presa dall' oggetto, c da noi insieme con
lui; perocché tutto si è rivoltato, non egli solo ; e non
riman più alcun oggetto attorno a lui, che ci serva di
segno al cui confronto riconoscere la sua mutazione. Il
molo abbiam già veduto non essere sensibile per sè
stesso, ma per la relazione degli oggetti mossi e da noi
percepiti. E il fatto della rotazione giornaliera della terra
conferma questo vero; poiché tutte le cose, e noi stessi
con esse ci capovolgiamo ogni dì, nè possiamo ricono
scere nulladimeno co' sensi nostri questa inversione, per
chè la posizione relativa è conservata ; sicché ci bisogna
usare degli argomenti puramente intellettuali, e non
de' sensibili, a discoprirla. Così è rispetto a IT occhio no
stro. Qualunque sia la posizione che le immaginette
possano aver nell'occhio, o da capo in giù, o fosse da
traverso, essa non si potrebbe però mai riconoscere da
noi con quel senso: conciossiachè tulle quelle immagi
netle sono rivolte egualmente, e ritengono le propor
zioni naturali che hanno in fra loro nel fatto: e noi
stessi, in quanto siamo oggetto dell'occhio, nella pu
pilla siamo coli' altre cose tulle rivolli. Non essendovi
adunque mutazione o contraddizione fra una parie delle
immaginette dell'occhio, e l'altra; noi non possiamo
accorgerci dell' inversione degli oggetti, per l'inversione
delle loro immaginette: mentre se l'occhio rovescia in
noi gli oggetti , li rovescia tutti a quel modo medesimo
che il giro della terra fa ciò ogni notte, senza che noi
risentire ed accorgere ce ne possiamo.
Nè solamente 1' intuizione immediata dell' occhio non
può coglier le cose altro che diritte, cioè ordinate fra
loro nelle posizioni vere e naturali ; ma nè anche il
tatto può darci indizio di quel rovesciamento delle cose
che si fa nell' occhio : perocché la posizione delle im
maginette dell'occhio, qualunque sia, non può mai tro
varsi in contraddizione colla posizione degli oggetti aen
4» i 1
tita dal tallo. Conciossiacliè l1 occhio vede la posizione
relativa degli oggetti siccome sta ; e il tatto tasta la
slessa posizion relativa , e non allra. À ragion d' esem
pio , ciò che è sopra il mio capo ( ecco la relazione che
stabilisce la posizion delle cose ), è trovalo sopra il mio
capo non meno per l'occhio che pel tallo: ciò che è
di sotto i miei piedi , sta sotto per 1' un senso come
per P altro. Egli è al tutto indifferente che io me ne
stia ritto in una direzione assoluta, o in un' altra, che
sìa in questo punto del globo, o novanta gradi più là;
nel qua! caso avrei una posizione , relativamente alla
presente, orizzontale: resta sempre l' allo, il basso,
e l' intorno , ne1 punti medesimi tanto per l' occhio
che per la mano. Non può adunque cader contrad
dizione veruna fra la posizione indicata dalla vieta,
e quella indicata dal Ulto , qualunque sia là dire
zione delle immaginette tracciale sulla sensitiva tela
dell' occhio.
All'incontro il sentimento fondamentale, e l'acquisito
che ci fa percepire la tela sensitiva dell'occhio, questi
due sentimenti hanno una vera contraddizione colla
posizione delle immaginette degli oggetti nel mio occhio
impresse. Per intendere come ciò sia , supponiamo che
l' immagine si senta aderente all' occhio , sicché noi ab
biamo una percezione dell' immaginella congiunta colla
sensazione dell' occhio, e soprapposta all'occhio, a quel
modo che si fa nella sensazion del tatto, la quale è
duplice , sicché vieti soprapposla alla superficie sentila
nel mio organo la superficie del corpo esteriore, e Vana
all' allra commisurala. In tale supposizione io sentirei
che 1' immagine sia capovolta nel mio occhio, il che
non viene a dir altro se non che ella è in una posi
zione opposta alla posizione del mio occhio, sicché ove
nel mio occhio si ricevesse 1' immagine d' un altro oc
chio , questo occhietto dipinto iteli1 occhio mio sarebbe
appunto in posizione inversa, ed avrebbe le ciglia di
sotto , relativamente alle ciglia mie che han l' opposta
posizione , che per distinguerla chiamiamo di sopra. Se
dunque 1' occhietto dipinto nella mia pupilla fosse per
cepito da me immediatamente come con un latto, sa
rebbe una percezione extra-soggettiva opposta , in quante
alla posizione, alla soggettiva dell' occhio mio. Or per
che dunque non rilevo io questa contraddizione fra la
4> 3
parte soggettiva e la parte extra-soggettiva nella sen
sazione della vista?
Questa difficoltà viene rimossa interamente dalle os
servazioni da noi fatte sul senso della vista nell' arti
colo precedente.
Ivi abbiamo osservato, che quando si considera l'oc
chio come un tatto , cioè come un senso che percepi
sce immediatamente i colori, non è più buona proprietà
di parlare il dire ch'egli percepisce un' immagine; men
tre in questo modo egli non percepisce che delle mac-
chiuzze di colore, e nulla più. Ora fino che noi consi
deriamo i colori percepiti dall'occhio, in sè slessi,
senza il rispetto di segni, nulla ci può importare e trat
tenere la posizione di quelle macchie, che nulla signi
ficano, sull'occhio nostro: ed il paragonarle, colla ri
flessione della mente su di noi, alla posizione dell'oc
chio stesso, o dev' esserci di una estrema difficoltà, od
anco interamente impossibile.
Di poi, cangiate le macchiuzze in immagini, non
badiamo più ad èsse, come osservammo ; ma il nostro
continuo uso des^i occhi si riduce a quello di conoscer
per essi i corpi esteriori, e non ciò che negli occhi av
viene. Quindi quanto siamo abituati a riportare la no
stra attenzione agli oggetti esterni all' occasion delle
sensazioni della vista, altrettanto siamo incapaci di stare
attenti sul membretto percipiente dell' occhio e sull'af
fezione eh' egli patisce.
In terzo luogo, se la sensazione della luce,inquan-
t' è extra-soggettiva, è forte, sèbben confusa, tuttavia
non è così facile che noi misuriamo la grandezza della
sensazione soggettiva , perchè assai ristretta ; e la posi
zione poi della medesima rispetto al nostro occhio, mem
bro senziente, è impossibile l'avvertirla. In fatti, per
conoscere ed avvertire che la immaginetta ha una data
posizione rispetto al mio occhio anziché un'altra, io debbo
i.° notare la posizione della macchiuzza, a." notare ed
avvertire la posizione del mio occhio, 3.° paragonare in
sieme queste posizioni, 4 ° notare qual parte della mac
chiuzza mi rappresenti un estremo,qual parte l'altro della
cosa esteriore, 5." notare e avvertire, che quella parte
della macchiuzza che mi rappresenta V estremo alto della
cosa esteriore, risponde alla parte bassa dell' occhio, e
viceversa. Ora tutte queste operazioni sono d'una estrema
difficoltà , ed anzi probabilmente impossibili. Per non.
essere infinito, mi basterà di osservare la difficoltà d'un
solo di que' cinque passi accennati, cioè il terzo, che
è paragonare insieme la posizione della macchiuzza colla
posizion del mio occhio. Ora come sento io la posizion
del mio occhio? col sentimento fondamentale e non al
tro. Come sento la posizion della macchiuzza? colla sen
sazione acquisita. Ora fu veduto , qual difficoltà vi sia
nell'a wertire il sentimento fondamentale. Molto maggiore
adunque conviene che sia la difficoltà nell' avvertire in
esso la posizion relativa delle parti sentite , e nell' av
vertirla con tanta chiarezza, distinzione (i) e fermezza,
da potere paragonare alla medesima la posizione della
sensazione avventizia o delle macchiette di cui parliamo.
Per le quali cose io non convengo punto con quegli
ideologi che affermano veder noi le cose da prima ro
vescie, e sopravvenir poi il tatto a raddrizzarle. Anzi
noi le veggiam sempre diritte, nè in altro modo pos-
siara vederle. Ed è impossibile al tutto, io penso, an
che colla maggiore avvertenza sopra di noi stessi, di
poter giungere a notare mediante 1' uso del solo occhio
nostro questo fatto singolare , « che quando noi pren
diamo la figura di quelle sensazioni a segno degli og
getti esterni , noi togliamo a segno della parte supcriore
della cosa esterna , tal parte nella sensazione, che rispet
tivamente alla posizione dell' occhio è la più bassa» ; ed
all'incontro, che la parte nella sensazione più alta re
lativamente all'occhio che la percepisce, ci serve a con
trassegnare la parte più bassa dell' oggetto esteriore (2).

(1) Io credo anco del tutto impossibile avvertire distintamente nel sen
timento fondamentale la posizione relativa delle parli senza ajuto di sen
sazione acquisita.
(2) È singolare il vedere come l' uno scrittore dall' altro copia e ripete
questo pregiudizio, che il tatto raddirizzi gli oggetti veduti rovesci dall'oc
chio, dopo che Condillac e BulFon l'hanno detto. Hauy (Traile élémen-
'««•e de phystifue, tom. II), Foderé (PUysiologic positive, tom. Ili), per
tacer d'Algarotli e di tutta la schiera de' nostri più recenti, non hanno
saputo che ripeterci la cosa slessa. Tuttavia è da fare eccezione a Mel
chiorre Gioja, che, fra iunumerevoli errori., ha questa buona osservazione :
" Sembra assolutamente falso che le sensazioni, del tallo possano correggere
" le impressioni della vista. Intatti , il tallo ci accerta che il bastone, che
" piantato nel fungo sorge fuori dell'acqua, è diritto, e pure noi lo vc-
'•- 'liaino spezzalo, e continuiamo a vederlo tale, benché l' abbiamo, toccalo
" le mille volle. St-hhyne il tallO'Ct accerti che non esiste nell'uria l'iniina
4.4
ARTICOLO V.
IL CRITERIO DELLA FIGURA DB* CORFI E LA LOBO FIGO»» FERCEFITA DAL TATTO.

Il tatto unito col movimento spontaneo percepisce


immediatamente 1' estensione (i).
il perchè egli è quel senso che percepisce i limili
dell'estensione, la grandezza e la figura (3).
La figura adunque delle cose percepita dal tatto e
dal movimento , è il criterio a cui riscontrare la figura
somministrataci dalla vista.
ARTICOLO VI.
ERRORI OCCASIONATI DALLA VISTA CIRCA LA FIGURA E GRANDFZZA Di' COIH.

La luce ci presta 1' ufficio di farci percepire i corpi


lontani, perchè questi la rifrangono e riflettono a noi
con tal legge , che le modificazioni di lei tengono pro
porzione alla grandezza, forma , distanza ed altre qua
lità di essi corpi.
Ma ove i raggi della luce in questo loro viaggio dai
corpi a noi sien deviali o alterati, siccome avviene per
qualche nuovo mezzo che sconlran tra via , o riuniti
variamente da accidentali cagioni ; allora 1' impressione
loro non tiene più quella giusta ragione, proporzione,

« gine della nostra figura che ci viene trasmessa da uno specchio codcjw
« pure l'occhio s'ostina in contrario, e ci accerta che esiste, e la vede. l«
« pittore che ha dipinto un globo sopra una tela , é ben certo che quei»
« globo è steso sopra superficie piana : ciò nou ostante il suo occhio
« dice che una metà del globo o più esce dalla tela e s'avanza versoi-.'
« spettatore ». - ■
« Supponendo vera la spiegazione che ci danno i sullodati fisiologi^ .
« cioè che il tatto corregge o rettifica le impressioui della vista, gli ogge"1
- dovrebbero apparirci rovesciali finché il tatto non ci avesse disingann»".
« il che non è: coloro in fatti, cui venne tolta la cataratta che portarono
« seco riascendo, veggono gli oggetti non rovesciati ma diritti ».
« Finalmente apparir dovrebbero rovesciati gli oggetti a tanti animai'
« che mancano quasi interamente di tatto: e pure essi si dirigono in modo
« da farci credere che li veggono diritti come noi » (Esercizio logico sufi
errori a" Ideologia e Zoologia, ecc., face. g8 e segg.).
(1) Cap. IX.
(i) Lo spazio non muta figura, per la stessa ragione che non muta gran
dezza. Dote figure diverse, nou sono che due pezzi di spazio iudipen0*""
fra loro Uno spazio adunque non può mai trasformarsi in un altro. Un»
liguru nello spazio uoti si dice esattamente ch'eli» si muta in altra1
non è più quella , se ad essa1 ne succede un'altra: questa seconda non r U
prima trasformata ; è una figura al tutto diversa e indipendente da qw-Uj
4iS
o analogia a noi nota e da noi fissata , dalla quale come
da indizio o da caratteri fedeli giudichiamo del corpo;
e succede che il giudizio nostro sia indotto in errore
dalla infedeltà di questo segno della luce nunzialrice
de1 corpi. Quindi le illusioni ottiche del remo spezzato
nell'acqua, de' gran massi che appajono ne' climi fred
dissimi dove l'aria condensata fa l'ufficio di lente, ai
quali avvicinandosi trovasi in loro luogo de' ciottoli
piccolissimi, ed altri tali inganni che il senso del tatto
discuopre e corregge.

CAPITOLO XIV.
DELLA PERCEZIONE EXTRA-SOGGETTI VA De' CORPI MEDIANTE
I CINQUE SENSI CONSIDERATI IN RELAZIONE FRA LORO.

ARTICOLO I.
l* identità' dello spazio unisce le varie sensazioni
ed on solo corro fa pebcwiez.

Le sensazioni dell' odore e del sapore hanno una per


cezione extra-soggettiva assai confusa. E perciò non sono
alle a servir di segni rappresentativi de' corpi lontani.
Conciossiachc la pcrcezion distinta di questi ci viene
dalla distinzione onde percepiamo la grandezza loro e la
figura : e le particelle odorose e saporose che gittansi
sugli organi convenienti non serbano alcuna legge di
proporzione colla grandezza e figura delle cose esterio
ri. Nulladimeno giovano a ciò in qualche modo. Poiché
per l'abitudine di vedere che alla presenza d' un fiore
si sente un odore, il quale, rimosso il fiore, svanisce;
l'odore ci si fa indizio dell' oggetto odorifero , che dalla
sensazione odorósa ci è richiamato in mente, essendo
questa associata coli' idea di quel corpo noto pel tatto
e per 1' occhio. Se però il sapore e 1' odore non si fanno
naturalmente segni rappresentativi de' corpi soggiaciuti
al tatto, essi possono divenire artificialmente segni di
qualsiasi cosa e pensiero.
De' suoni si può dire altrettanto : se non che si pre
stano ancor più i suoni all' arie, che dottamente li
dispone , e ne trae i varj idiomi.
Ma le sensazioni della vista all'incontro abbiam ve
duto che sono già ordinate e disposta armonicamente
dalla natura stessa: per la quale ordinazione diventano
4>6
segni rappresentativi non di tutte le cose e pensieri ,■
che a ciò è bisogno dell' intervento dell' arte (i), mu
sì particolarmente de' corpi esteriori percepiti dal lec
camento.
Questo avviene per via del rapporto delle grandezze
e delle figure che hanno le varie sensazioni della vista,
cogli oggetti lontani del tatto e colle lontananze dei
medesimi. Le grandezze e figure di questi oggetti essertelo
rappresentate perfettamente dalle grandezze proporzio
nali e figure delle sensazioni della vista-, avviene, che
per lunga abitudine, le grandezze e figure delle sensa
zioni della vista non si riguardino più siccome segni
di altre grandezze e figure, ma s' immedesimino colle
grandezze stesse e colle stesse figure date dal tatto, e
per queste si prendano. In tal modo le grandezze e
figure della vista diventano lo stesso spazio occupato
dalle cose esteriori e lontane. Ma le grandezze e figure
della vista son dipinte a varj colori; tolte dunque que
ste grandezze e figure per quelle stesse de' corpi ester
ni, avviene ed avvenir dee che anche i loro colori si
trasportino di fuori , e agli oggetti esterni si appli
chino , e si credano a lor dovuti. Dacché adunque co
loriti sono i segni delle grandezze e figure che nel no
stro occhio si accolgono , e che per le stesse grandezze
e figure delle cose esterne si prendono, succede che le
grandezze e le figure di quelle cose esterne e lontane
che noi tocchiamo, s' abbiano da noi per variamente
colorite. ■ ' .. . • . ■
Indi poi non ci contentiamo di dire alle macchiette
dell'occhio segni delle cose esterne , o segni rappre
sentativi ; ma le vogliamo pur chiamare immagini di
esse: quasiché la luce nel mettere i colori nell'occhio
guardasse prima gli oggetti , e come pittore che fa ri
tratto, togliesse da loro le varie tinte e i varj compar
timenti, l'ombre e gU scuri , i crudi e le sfumature.
. : i>

. '.Ili
' ' 1... . '

(i) L' arte mediante la scrittura segna colle sensazioni della vista li
pensieri Umani, c cou tale ingegno dà l'udito per cosi dire ai sordi,
ìoquela ai rautii . ."
4.7
ARTICOLO II.
Li PERCEZIONE VISUALE De' CORPI £ QUELLA CHE FERMA DI Più'
LA NOSTRA ATTENZIONE.

Quando noi abbiam contratta quell1 abitudine di giu


dicare da1 colori i corpi lontani, e contratta a tale che
i corpi ed i colori si riducono nel medesimo spazio, e
così si fanno a noi una cosa medesima (1); allora la
percezion della vista ci si fa vaga e gradita, celere,
utile, agevole, netta, sottile (2) e precisa; sicché trae
a sè la nostra attenzione assai più che la percezione
immediata de' corpi , sia fatta pel sentimento , o pure
pel tatto ed il movimento. Noi siamo allora così occu
pati della nostra percezione visiva, che non pensiamo
più agli altri modi co' quali noi percepiamo i corpi,
ma ci persuadiamo che sia pur cogli occhi soli che
tutto si conosca da noi; e ciò che non veggiatno, ci
sembra di non conoscerlo punto: la percezione stessa
del latto ci riesce cieca , e come stupida.
Nò questo errore è solamente proprio del volgo: an
che i filosofi , che non disfanno mai in un tratto il
loro esser volgare, dalla chiarezza e vaghezza della vi
sta si lasciano trattenere e rapire per modo, da ridur
sempre ad essa ogni loro discorso in sulla percezione e
cognizione de1 corpi.
Questa osservazione non è mia: Stewart la propone
con queste parole:
« Conviene osserva*, che i filosofi considerando i
« fenomeni della percezione s' attaccarono naturalmente
« di tratto al senso della vista. Le istruzioni e i pia-
« ceri variali che noi riceviamo da questo senso, la
« celerità onde li riceviamo , sopra tutto la comunicà-
« zione che questo senso pone tra l'anima nostra e le
u regioni più lontane dell' universo, non possono a
« meno di non dare a lui , anche presso all'osservator
« meno attento , una osservabile preminenza sull' altre

(1) Articolo precedente.


(a) Talora ci da una sensazione più atta ad esser avvertita o distimia
che quella del tatto. Una sotlil foglia di rosa tenuta fra due dita dà al tallo
una sensazione che non si distingue da quella delle dita stesse : l'occhio fa
N che ci accorgiam subito della foglia di rosa.
Rosmini , Orig. delle Idee , Voi. II. 53
4 18
« facoltà che * noi procaccia la perenzione degli og-
« getti esteriori. Di qui è, che le diverse teorie inven-
« tate a spiegare 1' operazioni de' sensi , si rapportano
« il più immediatamente alla vista. Quindi ancora la
« lingua metafisica , in ciò che spella alla percezione
u in generale , addita evidentemente nelle sue etiraolo-
« gie , che è da' fenomeni della visione ch'ella fu tolta
« in prestito. E pure questa maniera di lingua, ove
« s' applichi a questo senso particolare della vista ,
« può a) più dilettare l' immaginazione nostra , ma non
« aggiungere alle nostre cognizioni. Ma quando prelen-
u desi d'applicarla agli altri sensi, ella è affatto as-
« surda e inintelligibile » (i).
Usando dunque le maniere tolte dal senso della vi
sta a descrivere le nostre percezioni de' corpi ? si va in
un linguaggio metaforico (2) , e non proprio : indi er
rori infiniti , ed una quantità di questioni inutili e
inesplicabili , le quali col rettificare le espressioni sva
niscono come le vane superstizioni nella mente di colui
che viene religiosamente istruito (3).

(1) Ele'mens de la Philosophie de l'Esprit humain, Chap. I, Sccl. I.


(a) Le espressioni metafisiche lolle dal senso della vista ed applicali-
agli altri sensi sono tanto universalmente usate, ed é così difficile il guar
darsi da questo vizio comune del parlar filosofico, che io non avrei coraggio
di asserire che a me medesimo in quest' opera non sia succeduto talora
d'incappare in una simigliatile inesattezza: sebbene or non m' abbia pre
sente alcun luogo dove ciò mi sia avvenuto. E prego perciò il lettore di voler
perdonare la mia distrazione, se in queste improprietà di parlare foss' io
caduto; e di rettificare quelle espressioni eh' egli rinvenisse di questo pa
cato macchiate. Dopo di ciò mi si conceda di uotare un' espressione di Gal-
lnppi , tanto onore dell'italiana filosofia, e al quale non era certo ignoto il
pericolo e la falsità delle maniere tolte alla vista e applicale alle operazioni
degli altri sensi. Egli chiama intuizione la percezione de' corpi falla egual
mente con lutti i sensi ( Critica della conoscenza ecc., T. II, 2 7 « ). La p-
rola intuizione per ispiegare l'immediata percezione de' corpi che si fa , w'
condo noi, con tutti i sensi nostri egualmente, sembra tanto meno felice 1
quanto che l'occhio percepisce i corpi mediante i raggi della luce.
(3) Di questa improprietà di parlare abusano massimamente gl'idealisli. Essi
trassero uno de' loro argomenti dalla grandezza de' corpi cangiante secondo
le distanze, come si può vedere in Hume.
Per mostrar poi quanto sia antico quest'inganno d'attribuire a tutti 1
sensi in generale ciò che appartiene alla sola vista, gioverà notarlo in Ari
stotele. Egli dice che le grandezze e il movimento sono qualità sensibili
comuni, e poi dice che intorno a queste il senso inganna troppo piò che
circa le allrc sensihili qualità proprie de' singoli sensi. E perchè ciò? perchè
le grandezze e i movimenti ululano al mutare delle distanze. Si attribuisce
adunque a' sensi in generale ciò che è proprio del solo occhio, chiamato
4-9
ARTICOLO III.
SE NELLA SENSAZIONE, NOI RICEVIAMO LE SPECIE DELLE COSE COtPOREt ,
O rrSCEPIAMO LE COSE STESSE.

Aristotele e la Scuola disse , che nella sensazione noi


non percepiamo le cose stesse, ma le loro similitudini,
le quali rimangonsi suggellate negli organi nostri , e per
quelli vengono nel nostro spirito ricevute.
Tali similitudini o specie sensibili io credo die ab
biano tratto la loro origine dal fonte d'errori pur ora
accennato , cioè dall' avere applicato quanto succede del
solo senso della vista, alla sensitività in generale.
Se questi filosofi si fossero dati cura di analizzare le
operazioni di ciascun senso singolare, non avrebbero
accomunalo ciò che è proprio del più nobile e vago fra
essi , agli altri tutti , ma avrebber parlato di ciasche
duno con parole proprie e adattate.
Dall'analisi che noi abbiamo fatta de' medesimi ab
biamo tratto questo risultamelo , che de' cinque sensi (i)
il solo tatto percepisce i corpi immediatamente.

da Aristotele il massimo senso ( Ved. L. Ili de An.). Avrebbe veramente


dovuto dire, die un errore assai più frequente cade ne' colori, i quali si ap
plicano a' corpi, quando non sono che sensazioni nel nervo ottico. Ma sem
bra che di ciò Aristotele non siasi accorto, e s'abbia auch1 egli bevuto l'er
rore comune. E con quest'occasione aggiungerò un'altra osservazione sui
mancamenti che si trovano, come a me pare, nell'analisi che fece Aristo-
■eie delle sensazioni. Pare eh' egli non abbia avvertito sempre a que' gl'a
lfe/ abituali che noi frammischiamo di continuo alle sensazioni, e che li
alihia talora , siccome suole il volgo, colle sensazioni slesse confusi. A ra
gione d'esempio, si osservi quel luogo dove dice: » Il senso non è fallace
* che rarissime volte circa gli oggetti suoi proprj ». Di quel rarissime volte
viene comunemente data questa ragioue (e il contesto e la maniera di par
lare del filosofo nostro non permette di dubitarne), che il senso è fallace
circa gli oggetti proprj quando è infermo ; il che è assai rado verso il tempo
'li egli è sano. Ma or qui è da avvertire, che il senso infermo non c'inganna
)*r se, ma è un giudizio che noi gli aggiungiamo quello che c'inganna;
sicché uè anco quando il senso è infermo, è fallace circa gli oggetti suoi pro-
|'rj, ma solo è occasione di errore al giudizio nostro, a cui dee ascriversi
°Kni errore. E dunque da anteporsi alla dottrina aristotelica , come assai
migliore, quella di s. Agostino, che assolutamente dice de' sensi cosi : « Si
omnes corporis sensus ita nuntiant ut afliciunlur, quid ab cis amplius exi-
Sere debeamus ignoro » (DeF. R. XXXIII ).
(■) Dico de' cinque sensi: perciocché la pereczion prima del corpo è
quella che da noi si fa col sentimento fondamentale , la quale non solo è
immediata, ina ci fa percepire più addentro che ogn' altra la corporea na-
"ttHi come fu dichiarato.
4ao
Ma abbiamo ancora veduto che i sensi della vista,
dell' udito , dell1 odoralo e del gusto ci presentano due
uflìcj assai diversi tra loro. Il primo, in quanto anch'
essi son tatto , e consiste nel farci percepire, siccome
il latto, immediatamente i corpi che li toccano, i quali
però minutissimi e innumerabili lasciano una percezione
di sè viva sì, ma confusa. Il secondo ufficio è tutt' al
tro: nasce da questo, che di quelle lor sensazioni che
come tatto ci apportano, noi ci serviamo per segni a
conoscere gli altri oggetti esteriori posti in lontananza
da quegli organi speciali. E questo secondo ufficio dal
senso della vista ci viene assai più che dagli altri natu
ralmente prestato.
I corpi lontani percepiti colla vista non sono perce
piti immediatamente , ma pur col mezzo de' segni, i
quali assai convenevolmente .si possono chiamare specie,
che in latino viene a dire ciò che noi italianamente di
ciamo vista, sguardo, aspetto.
Queste specie però , o aspetti de' corpi somministrati
dall' occhio, non sono piene similitudini de' corpi, come
dicevamo: perocché esse ci porgono bensì un elemento
del corpo ( le superficie), ma non il corpo stesso (la
solidità) (i): e in quanto al colore poi, esse ci sono,
come dicevamo, cagione d'inganno, facendoci apparir
colorate quelle superficie che non sono, di che tuttavia
ricevono volgarmente titol d' immagini. *
Se però la superficie de' corpi non è piena similitu
dine de' corpi stessi, ella non è tuttavia , come dissi,
un mero segno arbitrario, ma tiene un vestigio, eduna
vera (sebben parziale) similitudine co' corpi esteriori in

(i) La percezione de' corpi fatta colla vista viene sempre completata i>
noi mediante de'giudizj abituali o delle associazioni a"idee. Quana'io veg5°
un ritrailo, che cosa veggo io? Una pura superficie. Tuttavia qufsla su
perficie mi ricorda forse solo la superficie della persona ritratta? Non
A me par di vedere in quel dipiuto la persona slessa viva ed intera. Io m
richiamo tosto, a quel sembiante, V idea compita della medesima , e m f!
d'essere e di parlar con essa. Or tutto il solido per dir cosi della persona,
e il corpo, e l'anima, e il sapere, e i costumi, e la virtù, tutto io ramine-
moro con un solo atto, tutto aggiungo io, senza avvedermene, pur al primo
venirmi sotto l'occhio di quell aspetto, al quale ho sempre accostumalo *
associar tante idee. E queste associazioni anche all'uso del tatto, non pur
dell'occhio, si accompagnano; poiché un solo toccamento mi fa ben so
vente pensare tutto un solido, c compito delle sue qualità che a m(
son uolc.
queste parti : i nella percezione di una forza corporea
( primo elemento del corpo ), 3.* nella estensione ( se
condo elemento del corpo) proporzionale, 3.° nella figura
simile alla superfìcie de' corpi esteriori.
Oltracciò v" ha un legame fra la specie simile e il
corpo esterno, posto dalla natura e strettissimo, qual
è quello che formano i raggi continui della luce, e che
abbiam dichiarato.

ARTICOLO IV.
REID NEGA A TORTO OGNI SFECIE SENSIBILE NELLA PERCEZIONE DE* CORPI.

Aristotele errò dunque accomunando le specie sensi


bili , che sono proprie del senso della vista , a tutti gli
altri sensi (1).
Reid negò ogni specie sensibile, e andò nell'errore
opposto.
Aristotele accomunò a1 sensi tutti ciò che è proprio
della sola vista, il dar contezza de' corpi per via di
specie: Reid accomunò a tutti i sensi ciò che è proprio
dal tatto , il percepire i corpi senza specie nò similitu
dini , ma immediatamente.

(1) L'improprietà del vocabolo specie sensibile mi sembra inscusabile.


Ma tolta via questa improprietà, possono avere un senso vero tutte due
queste proposizioni, che semin ano opposte fra loro, «« il tatto percepisce im
mediatamente i corpi », e « noi percepiamo col tallo i corpi per via di
similitudini ». E veramente la prima è vera in questo senso, che i corpi
operano immediatamente sugli organi nostri; quindi percepiamo noi una
loro azione immediata , che forma quella essenza per la quale noi li cono
sciamo ( giacché non li conosciamo che per la loro azione ) : quindi perce
piamo immediatamente quell'essenza che chiamiamo corpo. La seconda è
pur vera in questo senso, che l'azione de' corpi esteriori in noi è una mo
dificazione del nostro proprio corpo: questa modificazione dà una seusa-
zione che termina in una estensione : ora in questa sensazione estesa noi
percepiamo il corpo esteriore come in sua similitudine. E una tale doppia
maniera che si può nsarc in favellando della perceziouc del tatto, ha il suo
fondamento nella duplicità accennata della sensazione (soggetliva-extra-sog-
gettiva): la quale duplicità però non esclude una congiunzione coslaute e
necessaria de' due elementi da' quali la scusa zione risulta. Ma tutte e due le
proposizioni riferite hunuo la loro verità; non potrebbe però la seconda
applicarsi alla percezione del corpo nostro per mezzo del sentimento fon
damentale : esso non è noto a noi per similitudine di sorta , ina egli beuìt
può farsi similitudine de' corpi esteriori nel modo spiegato.
422
ARTICOLO V.
DISTINZIONE HI KE1D MA LA SENSAZIONI E LA PERCEZIONE.
Reid tolse via ogni specie sensibile nella percezione
de' corpi.
In quella vece analizzando egli il fatto net quale noi
veniamo a conoscere sensibilmente i corpi , gli parve
di averne in risultato la distinzione fra la sensazione
e la percezione. Sebbene abbia ni toccalo più volte que
sta distinzione, tuttavia è qui solo che possiamo esa
minarla. Ecco come lo scozzese descrive la sensazione ,
in quanto .dalla percezione si dislingue: '
u Quando io odoro una rosa, io ho in questa opera
ta zione, sensazione e percezione. L'odore dilettevole
« eh' io sento senza relazione ad alcuno oggetto esterno
« è meramente sensazione. Questa sensazione non può
« esser altro che pur ciò che si sente, la sua stessa
« essenza consiste nel sentirsi, e non è più: è per que-
« sta cagione che noi abbiamo già osservalo che nella
u sensazione non v'ha oggetto distinto da quell'alto
« della mente colla quale si sente » (1).
Egli dice ancora, che allorquando considera la sen
sazione in questo modo separata dalla percezione del
l' oggetto esteriore , egli la considera astratta mente (2).
E questa maniera di parlare potrebbe far credere che
la sensazione non si dividesse realmente dalla percezione
di Reid, giacché coli1 astrazione si dividono in qualche
modo mentalmente anche quelle cose che è contraddi
zione a pensarle divise (3).

(1) Essays on t/tc powers of tlie human mind, etc. Essay II, eh. XIV.
(2) Recherclies sur /' Entendcmeiit humain, eie. Chap. II, Sect. I.
(3) A me sembra di trovare che qui Reid non sia perfettamente cocreoit
cod sè medesimo, od almeno che si spieghi con qualche oscurità. Da uw
parte ci dice che la percezione è di sua natura interamente diversa HalU
sensazione; che quella si fa per un giudizio naturale col quale si affermami
i corpi esterni, mentre questa non si estende fuori dell' anima che sciiti
sè slessa modificata : tutto ciò dee far crédere che la percezione e la sen
sazione sieno due potenze diverse. E sembra ch'egli affermi ciò ancora più
manifestamente là dove parla della percezione come di una facoltà miste
riosa ed interna allo spirito, il che è ben altro dalla sensazione. Ma d'uti'al-
tra parte ci dice, che non si dà senso senza giudizio; che la mauiera di
parlar comune, a cui egli. s'appella, colla parola senso esprime mai sempre
un'abilità di giudicare; che fu un guasto de' filosofi l'aver divise queste
due cose, il senso e il giudizio, e fattone due facoltà {Essays oh the powu*
oj the human mind, tic. T. II, p. 1 76 ).
4a3
Ma non è così. Reid fa presedere alla percezione una
potenza diversa da quella che presiede alla sensazione ,

Ciò che merita osservazione si è, come Reid trova in contraddizione i


filosofi, senza polere assegnar di ciò la cagione : ecco il modo.
Reid nota, che i filòsofi definiscono il senso come una potenza che ci dà
le idee senza giudizio, e il giudizio come una potenza di confrontare le idee
dateci dal senso. Ora egli riflette, che dopo di ciò, per far nascere le
idee dal senso, sono costretti a definire il senso allo slesso modo come de
scrivono i| giudizio; e reca in prova un esempio tolto dal Lib. IV, cap. II.,
di Locke, il quale chiama gli occhi giudici de' colori, e così dà al senso la
facoltà di giudicare.
Questa osservazione è verissima ; ma Reid vide l' inconseguenza de' filo
sofi» e non seppe allegar la causa di quella.
Una tale incongruenza proveniva dal non avere i filosofi distinto bene la
natura della sensazione da quella della intellezione od idea: cioè dal non
avere osservato, che le idee far non si possono se non col mezzo di - un
giudizio; mentre le sensazioni senza giudizio in noi si ricevono.
Essi adunque i .° d' una parte vedevano che il senso non è il giudizio ,
a* dall'altra stimando che sensazione e idea fossero sottosopra la cosa
slessa; e pure accorgendosi che senza un giudizio non si aveva un'idea, ri
corsero air espediente di descrivere il senso come foss' egli giudizio , non
accorgendosi di contraddire alla distinzione prima da essi stabilita fra la
farolià di sentire e quella di giudicare.
Reid tenta di tor via questa contraddizione; e per far ciò, opina che non
si debba definire il senso come cosa diversa dal giudizio, ma come un giu
dizio egli stesso.
'Egli s'appella, come dicevo, al senso comune; e crede di rilevare la dot
trina comune , ricercando l'uso delle parole, depositarie delle comuni cre
denze. Trovando adunque le parole senso, sentire, adoperate per signiliciir
m'ttdiiio, giudicare, egli conchiude che gli uomini generalmente tengano es
sere il giudicare uua cosa medesima col sentire.
Ma queste riflessioni di Reid fanno unicamente conoscere , che quando
un uomo ha detto a sè stesso : « io mi propongo di seguire il senso co
mune », non si è messo ancora in sicuro da tutti gli errori. Perciocché il
senso comune, a guisa di un- volume scritto da uom sapientissimo, dee es
sere con grande avvedimento letto, e con grande senno interpretato.
E veramente, se vero fosse che il comune degli uomini confonde insieme
il sentire ed il giudicare, a quel modo che Reid sostiene, io mi avviso che
ciò si dovrebbe chiamare un error comune , anziché una comune verità.
E le ragioni per le quali io ho mostrato doversi distinguere il senso dal
giudizio, parmi che non lascino luogo a muoverne il più piccolo dubbio su
ciò ( Ved. il Voi. I in più luoghi, e particolarmente face. 81 e segg. ).
Ma la frase che « il senso giudica », ove scusarla si voglia, conviene riguar
darla siccome una maniera compendiosa, in luogo di dire che « al senso
l!en dietro il giudizio »: la qual maniera però è intesa sovente, a mio cre
dere, più grossamente dalla moltitudine, che non ha analizzato mai le ope
razioni del proprio spirito, né distinte quelle due vicinissime e sempre con-
H'iinle, del senso, e del giudizio che l'accompagna; e però se viene a ri-
"etlervi , non ne vede la distinzione, e cade nell'errore di giudicarle una
rosa. Rispetto poi agli altri modi di dire: «« Colui ha questo sentimento »,
Io sento cosi », ecc., per esprimere operazioni appartenenti all'intelletto,
•o trovo questa maniera assai buoua e vera nella mia teoria: conciossiacliè
434
una potenza misteriosa e al tutto dalla sensitività di-<
versà\ È una cotal suggestione naturale, com'egli si
esprime descrivendo la percezione, clic pone l'esistenza
dell' oggetto esterno di cui abbiamo la sensazione. Sem
bra adunque fuor di dubbio ch'egli parli d'una distin
zione reale e possibile anche in fatto fra la sensazione
e la percezione.

ARTICOLO VI.
GALLCPPI MIGLIORA LA FILOSOFIA SCOZZESE.

Il barone Galluppi osservò, nella distinzione fatta da


Reid, un mancamento. Se fosse vero, siccome vuole
Reid, che noi percepissimo i corpi con una potenza di
versa da quella onde riceviamo le sensazioni, e che la
potenza della percezione non avesse nessun legame co
noscibile colla sensazione, lo scetticismo circa le cogni
zioni nostre intorno ai corpi sarebbe inevitabile. Poiché
se per una legge di natura, quando noi riceviamo le
sensazioni, ci viene imposta la necessità di persuaderci
dell' esistenza' de' corpi; questa nostra persuasione è
cieca: questa credenza è isolata, arbitraria ; non ci con
duce dunque a lei nessuna ragione, ma un puro fatto
da nulla giustificato.
Galluppi quindi tolse via quella distinzione reale po
sta da Reid fra la sensazione e la percezione , e la ri
guardò come una pura astrazione (i).
Egli disse, che la percezione de' corpi era inchiusa
nella sensazione. Egli ammise il rapporto diretto dello
spirito nostro cogli oggetti esterni : ma ne migliorò la
dottrina: negò che fosse arbitrario, come il facea Reid;
lo rese essenziale.

y' ha un senso intellettuale, principio e fonte di ogni intellettiva operazione


( Ved. Parte II, Cap. V, art. n, obbiez. n, osservaz. 11 ) ; est enim semi*»
et mentis, come dice s. Agostino (Retract. I, i ); il quale però non si
\uol confondere co' sensi del corpo.
(i) Nel Saggio filosofico sulla critica della Conoscenza, Tom. II, cap. VI,
2 li 4, dice: «L'alio di coscienza dislingue nella sensazione la modi-
« ficazione interna, dai soggetto sentito come un fuor di me. Una mollitu-
«< dine di soggetti che sono un fuor di me è dunque l' oggettivo che la co-
•< scienza isola, e distingue dal soggettivo. Le modificazioni poi delle
« realtà esterne non sono isolate uella coscienza dalla sensazione, e na-
•« scono perciò le a/'/mrenie »•
4*5?
Nel sistema di Galluppi , 1' oggettivo e il soggetti vo',
sono due relativi che nella sensazione formano una sola:
essenza. «L'oggetto della percezione, così egli, è una
« condizione senza di cui la percezione non può esistere.
« Gli oggetti delle nostre percezioni primitive sono i
« concreti , cioè i soggetti modificati. Ogni sensazione
« è di sua natura la percezione di un soggetto esterno.
« Il rapporto della sensazióne all' oggetto esterno non
« è il solo rapporto della causalità, ma il rapporto a n>
« cora della percezione al suo oggetto, rapporto essen-
« siale alla percezione. Più, questo rapporto non è
« quello della rappresentazione al rappresentalo. La
«sensazione è dunque, secondo- me, l' intuizione- (i)
« dell' oggetto (a). • • :; ».•;• . • , 'r o,,i .;

ARTigaw) yfl. ...... , hì


CBE COSA AGGYiJniJA" 'Atti TEORIA DI ÓAtLUrPI t' ANALISI OtlÀi SENSAZIONE
SOPRA ESPOSTA. . ' il)
■ i- ,:i .o.iliuMi :• .,i.:lr U 'i ,(••• <iì. ... ;> 1
Reid adunque Xe^niò la .comunicazione immediata del
nostro spirito co1 corpi esteriori (3), ma la dichiarò ines
plicabile.
Galluppi analizzando meglio la sensazione, trovò, clic
la perceziope, de', corpi era già in' quella, contenuti', sic
ché distrusse la , diflicullà che Reid avea preteso di ve
dere nel passaggio o comunicazione fra la sensazione e
la percezione de' corpi. \ \\t, , .;Vl.,, r~ ;v . , jf, ,.,-f
L'analisi da noi tentata della sensazione diede ■ que-
slft risultamenici, qlie se. Reid avea troppo disgiunte la
percezione de' corpi e la sensazione, Galluppi l'ebbe
troppo uni le , sostenendo che . nell1 intima natura stessa:
della sensazione si racchiudesse la . percezione di un
corpo esteriore. ( lir ,|,. - -, ;•,,,,» i •
Vero è, che 'fra la sensazione e la percezione di un
oggetto esterno v'ha uno stretto legame j ma esso non

(1) Vedi la noia i su questa parola intuizione, addietro, alla face. i.}8*
(2) Saggio filosofico sulla critica delia Conoscenza, Tomo il, ?;7«- ,
(3) Una mancanza grave di Reid consiste nel non aver veduto in; che
questa comunicazione immediata consistesse: noi l'alibiumo fatta consistere:
nelle sensazioni: egli parla di atli intellettivi che afferrano i corpi iirnne,-
diatameute. Non è nè pur Galluppi interamente esente da questo errore^ "
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi 11. . .. . ..t«V&4t
4a6
è proveniente dulia natura della sensazione o sentimento
in generale, ma sì dalla natura speciale -delle sensazioni
acquisite. • :» • M ' oi. --, o'.!
E di vero innanzi a tutte le sensazioni acquisite noi
abbiamo stabilito 1' esistenza dell' Io , sentimento fon
damentale (i), il quale essendo congiunto con un corpo
per un mirabile vincolo e quasi direi mescolamento
che vita si chiama , si estende nella estensione di lulto
ili corpo1 sensitivo, che diciamo perciò -uà materia.
- Sicché se ogni sensazione esterna non può 'pensarsi
senza il sentimento dell'/o, di cui è modificazione,
non è però vero il contrario, che l' Io non esista senza
qualche esterna sensazione. ■ i u ■■»
Rispetto alla sensazione esterna, ecco1 in che modo
e con quali limitazioni abbiamo trovato essere legata
con essa la percezion de' corpi.
Il tatto dà una immediata comunicazione co' corpi
esteriori. ..
I quattro sensi, della vista, dell'udito, dell'odorato
e del gusto, danno una comunicazione immediala coi
corpi esteriori in quanto sono tatto , cioè in quanto
sono da' corpicciuoli immediatamente toccati. •' •••
II senso della vista ( e con certa proporzione anche
gli allri'trè , nel modo spiegato ), in quàntò ci mostra
de' corpi lontani che' nói toccano, non ha una imme
diata comunicazione cori- essi, ma cé li fà conoscere per
via di segni o specie sensibili.
Non si può dire però, che i sensi, nò pur in quanto
sono tatto e perciò 'in quanto ci danno una comuni
cazione immediata Co' corpi , percepiscano pienamente
i corpi stessi; ma sì degli elementi corporei, cioè i due
clementi i.* di una forza esterna 2.° e di tìna estensione
in superfìcie (2). Ora per completare la percezione 1 del
• : 1 ■ • • : . . ■ ; . 1 ìi • . < ' . :.; , 1 1 .li' , < .< ;

(i) Potrebbe muoversi la questione, « se nell'io puro sì contenga ima


passivila », e quindi una percezione. Ma questa questione mi trarrebbe
nell'analisi dello slessò la 7 argorfieiilo d'un genere superiore d'assai a
quelli che ini sono proposto di trattare in questo Saggio. Basta però il
d?/^, thè òv' anco l'analisi del pitro lo' desse per risullamento una passi
vità , e quindi Tina percezione , questa non avrebbe' però a far nulla Colla
pèl-c'eiioritf'tìe'corpi esteriori ' della quale qui noi favelliamo. Il ragionamento
inósirb in sòmmà non è già Voltò a stabilire in generale «« che la sensa
zione ptìssa essére' priva di pèrcéiiòhe '»j ma si bene, che « si jpu'o dare
urti 1 sensazione o sentimento privo della percezióne de'corjji esteriori k>
(a) Il sentimentofondamentale del corpo nostro è quell'unico mezzo onde
corpo è necessario che si aggiunga la solidità, o sia
l' estensione fornita di tre dimensioni,, o certo la pos
sibilità o aspettazione di rinvenire, nuove superale tan
gibili , e di rinvenirle secondo certa legge. ■ r.
Ora il tatto unito al movimento scuopre e percepisce
nuove superficie entro quello spazio dato, e viene cosi
in noi un'aspettazione di seguitare a scuoprirne di nuove
secondo la stessa legge: indi si completa la percezione
sensitiva de' corpi esteriori.
La sensazione del tatto adunque per si": sola non ha
una intera e compita percezione del corpo; ma perce
pisce degli elementi corporei , e per questo, anziché
percezione del corpo, abbiamo detto che più propria
mente si dovrebbe chiamare percezione corporea. Ma per
una associazione di più sensazioni la percezione tattile
del corpo si completa. • "l; : •
In questo senso non sarebbe fuor di proposito' il dire
die noi percepiamo i corpi mediante certi loro vestigi
o impressioni che lasciano in noi, e che sono una per
cezione incoata de' medesimi. ' ,
Di più, sebbene questa percezione corporea ci venga
immediatamente da' corpi, tuttavia ella è in noi , cìrfè
è la nostra sensazione , 'effetto de' corpi su noi. La sen
sazione , abbiamo detto , ha in sè una passività , e que
sta passività si estende in tutta la supetficie che ab
braccia la sensazione immediata. La coscienza della
passività è la coscienza di un fuori di noi; la coscienza
della superficie in cui quella passività si estende è la
coscienza che questo fuori di noi è esteso. Ma finalmente
la sensazione, la quale è in noi, èquella dieci dà l'esten
sione del corpo esteriore. Vero è, che fino che si pensi*
il corpo esterno agente su di noi, l'estensione di lui- è l'e
stensione della nostra sensazione sono identiche, è quindi
v'ha una coniuriicdzione immediata fra il corpo e noi. Ma
staccato questo corpo da noi (almeno coli' astrazióne )j
finalmente I' estensione della sensazione quella che ci
dà l'estensione del corpo. Considerata così divisa, la
sensazione diventa una similitudine del corpo. In questo
senso adunque si può dire che noi conosciamo i corpi
per via di similitudini che lasciano ne' nostri sensi, o

noi stilliamo iti modo completo un corpo solido, cioè il nostro: nessuna
dille sensazioni esteriori per sé ci dà lauto.
4 23
certo nella nostra fantasia. E questa proposizione si
concilia per tal modo coli' altra, che noi pe' sensi co
munichiamo col mondo esteriore immediatamente: ma
ella è pericolosa assai ad usarsi, senza qualche sorta di
commento.

. : CAPITOLO XV.
.. .. ,.:
DELLE PERCEZIONI SENSITIVA E INTELLETTIVA DE CORPI
, ,j . ,. CONSIDERATE NELLA RELAZIONE FRA LORO.

V . •'.
•»i'.*>p . '»'■ i ••ARTICOLO
. : I. . ■ . .
DISTINZIONE DELIE DUE FEKGSZIONI SENSITIVA C INTELLETTIVA.
v. : i J/ ■ • •■ •
Non v'ha un solo filosofo moderno a me noto, il
quale non abbia , almeno qualche volta, confusa insieme
la percezione sensitiva de' corpi colla intellettiva.
Questo mi fa credere che sia molto difficile a farne
be,nc la distinzione, e che giovi metterla in molta luce:
il che io penso di fare, quanto io so, in questo capi
tolo : additando colla stessa occasione le dispute vane
che una tale confusione ha ingenerate , e che, tolta via
questa, svaniscono.
Vuoisi in prima considerare con ogni attenzione, che
il senso ha sempre per termine una cosa singolare. Que
sto è principio, che, ben ritenuto in mente, vale a farci
conoscere ciò che appartenga alla percezione sensitiva,
e ciò che appartenga alla intellettiva. Perciocché da
quel principio deriva questa conseguenza, « che lutto
ciò che noi troviamo fornito di qualche universalità
nella percezione de' corpi, si debba attribuire all' intel
letto,, e non al senso » (i).
I .Ora quando io percepisco un corpo col mio pensie
ro , .cioè quando penso un oggetto fornito della natura
di corpo, o quando il penso come una cosa esistente,
io ne ho la percezione intellettiva; perchè non posso
pensarlo.coM, s'io non m'abbia la nozione di esistenza,
che. è universale. ,
l . 1 , —
(i) Questa verità fu conosciuta e affermata da tutta l'antichità. Ann''
tredici secoli, Boezio scrivea rettamente così : Universale est dum inteU/gHv,
singultire dum sentilur (Sup. Porpliir. Provein. in Pradic); c così scri
vendo , egli ripelea una sentenza di Aristotele , che era vivulo nove secoli
prima di lui. »
Rinserriamoci donane nella percezione puramente sen
sitiva, e veggiamo ciò che questa comprenda.
Col sentimento fondamentale noi sentiamo il corpo
nostro come cosa indivisa da noi. Questa percezione è
completa, ma difficile ad essere osservata ed analizzata;
rivolgiamoci adunque al tatto, che è la seconda via
onde abbiamo la percezione sensitiva de1 corpi.
La sensazione del tatto, come tale, è soggettiva; ma
essa è percezione corporea i' in quanto è termine del
l' azione d' un fuori di noi , a.* e in quanto ci dà que
sto termine esteso in superfìcie.
Le sensazioni ripetute e variate del tatto, a cui molto
appresso vengono in soccorso quelle della vista , si as
sociano , e danno alla nostra sensitività l' aspettazione
di trovar nuove superfìcie col movimento e colla forza
sotto la superficie percepita. È una legge a cui è sog
getto anche il senso, quella dell' aspettazione de' casi si
mili , siccome ci mostra la sperienza. È il senso sog
getto ad essa in questo modo. Nasce in lui un' abitu
dine, un'inclinazione, una specie d'istinto a ripetere
degli atti simili a quelli che molte volte si sono fatti,
aspettandone simili risultamenti. Quest' aspettazione istin
tiva di nuòve superficie corporee, rimossa la prima, è
quella che perfeziona la percezione sensitiva.
Ora veggiamo che cosa faccia l' intelletto per comple
tare la percezione de' corpi.
Quando il nostro spirito ha ricevuto pe' sensi gli ele
menti corporei fin qui descritti , 1' intelletto ne compie
la percezione nel modo seguente.
La passione che noi sofferiamo nella sensazione ha
due rispetti: dalla parte del suo termine che siamo noi,
ed è passione, e dalla parte del suo principio, ed è
azione. Azione e passione sono due parole che indicano
la stessa cosa sotto due rispetti diversi e contrarj.
Ora il senso non percepisce la cosa di che parliamo,
che come, passione, e aspettazione di nuove passioni;
I' intelletto solo è quello che vale a percepirla come
azione.
L' intelletto con far ciò non aggiunge nulla alla co.sa,
ma solamente la considera in un modo assoluto) men
tre il senso non la percepisce che in un rispetto parti
colare, in un modo relativo; l'intelletto si parte da
noi, esseri particolari, e col suo vedere mira le. cose
43o
in sè ; laddove il senso non ai parte mai dal soggetto
particolare , di cui egli è , cioè da noi.
Il concepire un' azione altrui è dunque proprio del
l' intelletto. Ma il concepire uu1 azione racchiude il con
cepire un principio in atto: quindi l'intelletto perce
pendo un'azione, percepisce sempre un Agente inquanto
esiste in sè, cioè un essere inatto, pel principio di so
stanza e di causa.
L' intelletto fa tutto ciò mediante 1' idea dell' etile
eh' egli ha in sè medesimo.
Quando adunque l'intelletto percepisce Vagente di cui
noi parliamo, come un ente diverso da noi, fornito di
estensione, egli ha la percezione del corpo.
E da tutto ciò si vede, che l' intelletto a percepire
il corpo non fa che considerare quanto i sensi sommi
nistrano; ma non in modo a noi relativo, siccome il
senso, ma prescindendo e astraendo da noi , cioè ag
giungendo il concetto universale dell'essere della cosa.
La percezione intellettiva del corpo è dunque l'unione
dell'intuizione di un ente (causa, agente) colla per
cezione sensitiva ( effetto, passione ), o sia un giudizio ,
una sintesi primitiva.
Che se poi si astrae il giudizio dell' attuale presenza
del corpo, e si lascia la semplice possibilità sua, noi
abbiamo la pura idea o la semplice apprensione del corpo.

ARTICOLO IL
LOCKE CONFONDE LA PERCEZIONE SENSITIVA DE* CORPI COLLA INTELLETTIVA • ~~
CENSURE FATTE A LOCKE PEU QUESTA CAGIONE.
Locke fa che l'anima riceva le idee semplici pani-
vomente dall'impressioni delle cose esterne (i); questo
è un confondere non solo la percezione sensitiva, ina la
sensazione colle idee.
Tutta l'antichità avea riconosciuto questo vero, che
le pure sensazioni passive non sono idee, ma. che una
certa attività dell' intendimento è necessaria perchè dalle
sensazioni si avesser le idee (2).

(1) « L'anima uon passa al di là delle idee che la sensazione e la rifles;


•« sioue le porgono pur oggetti di sue coutemplazioui. Lo spirilo Co <JU*
« è semfilicemenle passivo » ( Lib. I, e. I ).
(a) Che uella formaiioue delle idee sia uecessaria uua qualche aiu»»
43 1
Questo errore di Locke finalmente fu notato. Si iri-
conobbe che una operazione dell1 intelletto sulle sensa
zioni era necessaria perchè si avessero delle idee. Dono
di ciò i filosofi moderni si suddivisero di opinione sulla
natura di questa operazione intellettiva. , "•' .
I ' V . ■ ... . . ■ • . •■ . >! :i; :■ - >

dell'intendimento, questo è un vero mandato a noi per una tradizione conti


nua dalia più rimota antichità. Platone trovò questa attività tanto grande,
che credette non poter capire in un essere finito come l'uomo : e la mise
nelle idee slesse fuori dell' uomo. Ad un pensiero simigliatile pervennero
gli Arabi col loro intelletto agente separalo. Aristotele la mise nell'uomo,
e da lui appunto viene il concetto di un intendimento ( ragione) che abhia
un allo primitivo ed essenziale. Ne' Padri della Chiesa questa attività del
l' intendimento necessaria a formarsi dalle sensazioni le idee, è manifesta
10 tutte le loro maniere di dire. Odasi con quale energìa esprima s. Ago
stino quest' attività dell' anima intelligente nel formarsi dalle sensazioni le
idee: Et quia ilìa corpora sunt, così il santo Dottore, quac forti per sensus
carni.s adamavil, eorumque diuturna quadam familiarilate implicala est, nec
munì potest inlrorsum lamquam in regionem incorporeae naturae ipsa cor
pora in/erre , imngines eorum convolvit , tt rapii factas in semntipsa de se-
>neliv.ta. Dai enim ElS FORM ANDIS QU1DDAM SUBSTANTIAE SUAE
(De Trinit. X, v). Nel qual passo si vede quanta attività conceda all'anima
11 gran vescovd rl'Ippona nelUi formazioue delle idee. Crederemo noi che
una tal verità ne' secoli barbari fosse ignorata? Non potea essere; percioc
ché è impossibile il non vedere , chi non sia guasto da falsi sistemi , come
l'intendimento operi pure nel formar le idee sue all'occasione delle sensa
zioni. Io addurrò ini testimonio 'dell' ottavo secolo. Udiamo dunque come
in descrivendo l' origine delle idee il maestro di Cariò Magno usi tali frasi,
che fanno sentire assai, bene l'attività intellettuale: jVunc autem. considtre-
mis ( scrive Alenino ) miram velocitatevi animar. àn formandti rebus quas
ptreipk per carnales sensus, a quibus quasi per quosdam nunlios quict/uid
niitm sensibiìinm ( non delle cose tutte, ma delle cose sensibili, ben si nv-
*«la ) cognitarum vel incognitarum percipit, mox in seipsa earum ineffabili ce-
ìcritate format Jiguras , informalasque in siuie thesauro memoriae recondit. E
poco dopo , questo celebre Abate dà la seguente definizione dell'anima :
Anima, seu animus , est spiritus intellectudlis, rationalls , SEMPElì IN
MOTU, semper vivens, bonae malaiquó volantatis cajmx. E dell'attività di
issa cosi dice : Nec edam aliquis potest salti admirari , quod sensus Ule
ki'uì atque cocleslti, qUi menS, vel animus nuncupatur, taiilae mobilitati* est,
"l ne tum quidem, Cum sopitus est, conquiescat (DeAnimae ratione adEula-
nato virgmem). Cinque secoli dopo, s. Tommaso e gli altri di quella schiera
insegnavano la slessa dottrina sulla necessità di un'attività intellettuale, per
chè Te cose sensibili fossero atte ad essere percepite dall' intendimento; di
che altrove ho recate prove manifeste. Ed è singolare, come il Dottore
«l'Aquino non purè tolga alle sensazioni V attitudine d'essere per sè perce-
apni dell» mente, ma né pure gli basti che siano astratte, se non sono uni-
'ersalit^ate dall' intelletto , come espressamele insegua in questo passo :
Formai, sensibile*, VEL ASENSÌBlLtBVS ABSTRÀCfÀZ, non possuht
"%erk inthenlènt nostrani, nisi quatemls perìumen intcllectùs agentis immateriale's
rtdduntur^ eljic .ejficiunlw quodammodo homogeucae iiitellectui possibili, in
qutm agunt(De ferit. X, vi, adi ).jSi può dir dunque che tutti |secoli hanno
"conosciuto questo.fatto, u che le idee si formano per uiià attività dell' "n-
43a
Laromiguiere riconobbe la necessità dell' operazione'
intellettiva. Quindi disse: le idee sono un prodotto della
meditazione dell'intelletto sui sentimenti. Quest'era un
passo innanzi: restava a definire che fosse questa medi
tazione dell'intelletto: egli la ridusse ad una semplice
analisi , e quindi definì l' idea « un sentimento distin
to , un sentimento sviluppalo da altri sentimenti » (i).
Galluppi anch' egli tenne quel vero , che le idee sono
un prodotto della meditazione sui sentimenti : ma trovò
che Laromiguiere non avea ben definita questa medita
zione , ristringendola nell'analisi. Egli osservò, che è
impossibile formar coli' analisi le idee di rapporto, le
quali idee, per consenso dello stesso Laromiguiere , di
mandano un paragone , e quindi una sintesi, ah hanno
un oggetto esterno dal quale potesse esser venuto a noi
il sentimento delle medesime. Egli dunque aggiunse la
sintesi all' analisi di Laromiguiere, e disse: « Altre idee
« semplici sono un prodotto dell' analisi degli oggetti
« sensibili, altre sono un prodotto della sintesi : — al-
« cune idee semplici sono oggettive , esse corrispondono
u ad alcune realità: altre idee semplici sono soggettive,
u esse non corrispondono ad alcun oggetto fuori dello
« spirito, esse sono semplici vedute dello spirito, le
u quali derivano dalla sua facoltà di sintesi » (3).
Questo fu un altro passo della moderna filosofia. Ma
esaminò poi bene Galluppi le condizioni, sotto le quali
solamente è possibile V analisi e la sintesi intellettiva?
Non credo: e questa ommissione impedì alla sua teoria
l'esser perfetta.
In fatti noi abbiamo osservato , che una riflessione
o meditazione, una sintesi ovvero un'analisi la quale
nulla aggiunga a' sentimenti , non può produrre giammai
un'idea; poiché non può fare un passo fuo<ri de' senti
menti stessi, in quelli termina e riposa, con essi s'in
dividualizza. È dunque necessaria a formare le idee una
tale meditazione intellettiva, la quale aggiunga ai senti
menti 1' universalità che in essi non è : una attenzione
che nulla ad essi aggiunge, finisce in essi e non pro
duce nulla di più. Ora 1' aggiungere ad un sentimento
l'universalità , non vuol dir altro se non guardarlo con

(1) Voi. II, cap. I.


(?) Saggio filosofico sulla critica della Conoscenza, TV IH, Cap. »■
433
una veduta universale, o sia guardarlo non nella sua
entità individuale , ma nella sua entità possibile. Ora
un sentimento che io considero non in quanto sta qui
e qua , ma in quanto egli è , e che potrebb' essere tut-
t1 altrove, è un considerarlo fuori della percezione no
stra attuale di quel sentimento, nella sua essenza od
idea. La meditazione adunque che da' sentimenti forma
le idee , dee essere una tale attività intellettiva , che
possa considerar le cose non' come attualmente esisten
ti, ma in sè , ma come possibili ad esistere ovecchessia.
Quest'attività, quest'astrazione, questa specie d'ana
lisi suppone l'idea di cosa in universale; suppone' la
percezione, o sia il pensiero antecedente, « che ogni
sentimento o percezione sensitiva , ogni cosa insomma
che cade nella nostra coscienza , oltre 1' esistenza indi
viduale, abbia 1' esistenza possibile » : insomma l' idea
dell' ente possibile è condizione , senza la quale la me
ditazione dell' intelletto sui sentimenti, atta a produrci
le idee, non può concepirsi.
Lo stesso si conosce osservando in particolare che
cosa esiga la operazione della sintesi. Noi abbiam dimo
stralo , che il confronto di due o più cose esige in noi
un' idea astratta precedente, a cui paragonar le due
cose. La sintesi adunque suppone delle idee universali
in noi già formate (i). Certo, se Galluppi si fosse pro
posta la questione, « quali condizioni sono necessarie
perchè sia possibile quella meditazione intellettiva sui
sentimenti che forma le idee» , egli avrebbe colla sua
naturai perspicacia assai ben conosciuto , che quella me
ditazione dovea essere di tal natura, da esigere qualche
idea universale precedente ; e non avrebbe negato al
l' intelletto umano ogni idea primitiva innata , nò data
per cagione delle idee un' attività intellettuale indeter
minata, inetta, inesplicabile.

(i) Vedi la So. IH, cap. IV, art. xx.


Rosmm, Orig. delle Idee, Voi. II. 55
434
ARTICOLO III.
HE1D ME OLIO DEGLI ALTRI CONOSCE L* ATTIVITÀ* DELLO SPIRITO NELLA rO«M»Z!(W
DELLE IDEE , E TUTTAVIA CADE NELLO STESSO FUSORI:.

Reid conosce meglio degli altri la natura di quell'(i<-


tìvità interiore dello spirito, per la quale all'occasione
delle sensazioni si formano le idee.
Egli giunge a trovar Locke in contraddizione con $è
stesso, e a dimostrare che Locke medesimo, il quale
dichiara la sensitività una potenza meramente passiva,
quando poi parla di essa come il fonte delle idee, vi
associa un giudizio , senza accorgersi che il giudizio se
condo la sua dottrina dovea essere operazione posteriore
alle idee, non anteriore e cagione di esse.
Reid adunque distinse dalla sensazione la percezione:
e disse clie quella era passiva, e non somministrava
punto le idee; e questa attiva, e consisteva in un giu
dizio spontaneo e naturale pel quale si acquista la per
suasione della esistenza de' corpi esteriori.
Egli pretese che la sensazione non si assimilasse
punto ne poco alla percezione, bensì che stesse sempre
unita con questa, cioè che questa immediatamente suc
cedesse a quella per una inesplicabile legge di natura,
e che per tal congiunzione strettissima di tempo avve
nisse che nel parlar comune si attribuisse al senso il
giudizio, maniera di parlare ch'egli loda e difende (i).
« Io non posso pretendere, così egli, di dar ragione
« perchè una parola che non è termine d' arte e che è
« famigliare nella conversazione comune, dovesse rice-
« vere un significato così diverso negli scritti filoso

fi) E pure secondo i suoi principj egli dovrebbe in questa manierai


parlare riconoscere un error comune ; perciocché dicendo che <« il senso
giudica »> , si viene a confondere insieme la sensazione colla perrexioof,
ch'egli tanto si affatica a distinguere, e che afferma in tanti luoghi non «»f
colla sensazione la minima simiglianza, e dipendere questi due fatti da prìn
cipi che l'osservazione non sa in alcun modo ridurre ad unità. E in vero
quella espressione ch'egli cita del parlar connine, attribuisce le due opera-
zioni del sentire e del percepire ( giudicare) ad una sola potenza, il senso.
La testimonianza adunque ch'egli adduce come a sé favorevole, sta tuli»
contro di lui. Tanto è difficile molte volle a rilevare ciò che gli uomini pe
sano tolti in massa ! tanto è difficile a conoscere s' essi pensano diritto ! •"—
di più,, s'essi hanno sopra certe cose una opinione!
435
a fici (i): osserverò solamente, che il significato filoso
fifico sta in relazione colla descrizione che Locke ed
« altri filosofi moderni danno del giudizio. Poiché se la
u sola provincia de' sensi esterni ed interni è di fornire
u la mente d'idee, intorno alle quali noi giudichiamo
« o ragioniamo, sembra essere una conseguenza naturale,
r> che la sola provincia del giudizio debba essere di
a paragonare queste idee a percepire le loro relazioni
« necessarie » .
« Queste due opinioni sembrano così connesse , che
« 1' una può avere cagionata l' altra. Io credo per al-
« Irò, che se tutte e due sono vere, non v' è più luogo
« a cognizione o giudizio della reale esistenza delle cose
u contingenti , o delle loro contingenti relazioni » (a).
Questa eccellente osservazione era un passo innanzi
della filosofia. Che dovea farsi appresso? Scoperta la
necessità del giudizio a formar le idee, doveasi cercare
le condizioni necessarie perchè il giudizio fosse possibi
le. L' ai' al isi del giudizio avrebbe data l'assoluta neces
sità di un* idea universale preesistente.
Ma a questo passo o mancò il coraggio , o venner
nieno le forze dello Scozzese; o l'orrore pigliato dal
l' educazion del suo tempo di ogni minimo elemento
congenito coli' anima umana, a cut quell'analisi l'avrebbe
irrepugnabilmente sospinto, 1' arrestò. Egli fu pago di
dire clic quel giudizio usciva per una colai legge inco
gnita dalla stessa natura umana.
Galluppi vide che questo era un parlare vago^ e che
non polea esser vero che hi percezion de' corpi fosse
cosa interamente diversa dalla sensazione, una potenza
di suo genere, che nulla a quella della sensazione si as-
simigliasse. Meditò adunque la relazione fra la sensazione
e la percezione , per ricongiungerle, se gli fosse riuscito;
e dalle sue meditazioni conchiuse che ogni sensazione di
sua natura era percezione, e che dell'essenza della per
cezione era il percepire un qualche cosa o sia 1' avere

(■) Il significalo filosofico di senso è « una poteuza che dà le idee senza


" giudizj »j il significato volgare, secondo Reid , - una potenza che ci dà
" le idee cou un giudizio ». Questa acuta osservazione di Reid conferma la
proposizione fondamentale di tutta quest'opera coli' autorità del genere
"mano, il quale nella sua maniera di parlare dimostra di credere che « a
'urinar le idee si esiga un giudizio della mente ».
(2) Essays on lite powers of the human mimi, eie, T, II, pag. 76.
43f>
ut) oggetto: quindi tolse via quella immensa distanza
onde Reid avea disgiunto la sensazione e la percezione.
Ma chi ben considera, vedrà, per mio avviso, che
il disparere fra questi due valent1 uomini nasce dal non
essere ancora stata cólta , e messa in aperta luce la di
stinzione fra la percezione sensitiva e la percezione intel
lettiva.
Corse all'occhio di Reid la percezione intellettiva,
e vide eh' ella dovea esser cosa al tutto diversa dalla
sensazione; ch'ella esigeva un giudizio, facoltà essen
zialmente attiva , mentre il senso considerato da sè
solo era potenza passiva.
Mirò Galluppi alla percezione sensitiva , e vide che
questa era interamente congiunta colla sensazione ; la
trovò nella sensazione stessa ; quindi negò a Reid quella
distanza eh' egli poneva fra la seirsazione e la percezione.
Fermatosi Galluppi a questa percezione sensitiva, non
giunse a calcolare tutto quel grado di attività intellet
tuale che era pur necessario alla formazion dsile idee.
Vide bensì che le idee erano formate dalla meditazione
dell' intelletto sui sentimenti : conobbe meglio di Laro-
miguiere la natura di questa meditazione, perchè men
tre il francese la restrinse all'analisi, l'italiano provò
la necessità altresì delia sintesi : ma qui egli fermò il
suo lavoro.
Se avesse continuato innanzi , se avesse messo sotto
1' analisi la sintesi stessa , avrebbe scoperto che questa
non potea aver luogo senza un giudizio : quindi sarebbe
pervenuto a conoscere , altrettanto di Reid, tutta la
forza dell' attività intellettuale che si richiede alla ge-
nerazion delle idee. Trovato così il bisogno del giudizio
primitivo, a Galluppi era facile di conoscere la neces
sità di un'idea universale precedente al giudizio: quindi
avrebbe scoperto e la natura della percezione intel
lettiva de' corpi, ed il fonte unico da cui questa può
derivarsi.
, I passi naturali adunque della filosofìa nella scoperta
dell' idea dell'essere innata, non secondo l'ordine dei
tempi, ma delle dottrine , sono i seguenti:
r.° Si comincia dal credere che le sensazioni sieno il
medesimo sostanzialmente che le idee ( Locke ).
a." Poi si conosce che le idee hanno bisogno della
meditazione dell' intelletto sulle sensazioni.
437
3.° Si analizza questa meditazione, e si crede eh' ella
consista in una pura analisi ( Laromiguiere ).
4-* Si va più addentro nell' esame di quella medita*
lione, e si trova eh' ella abbisogna ancora di una sintesi
( Galluppi ).
5.* Ma una sintesi non si può fare senza un giudizio,
quindi quella meditazione dell' intelletto dee essere un
atto della facoltà di giudicare (Reid.).
6.' L' analisi della facoltà di giudicare porta la ne
cessità di idee universali precedenti.
7.' Si classificano le idee universali, e si cerca il nesso
fra loro. Si trova una serie d' idee universali le une di
una sfera più estesa delle altre, e si scopre che quelle
di una sfera minore si deducono agevolmente da quelle
di una sfera maggiore.
8." Quindi si trae la conseguenza, che l'idea univer-
salissima, non avendo altra idea d' una sfera maggiore
innanzi di sè, non si può dedur da veruna. Ella è dun
que l' idea primitiva. Or trovata questa, essa rende pos
sibili anche i giudizj ( n." 5 ) che si scopersero neces-
»arj alla formazione di tutte le altre idee.

ARTICOLO IV.
CONTINUAZIONI.

Ciò che dissi di Reid, mostra eh' egli sentì la distin


zione fra la sensazione e la percezione intellettiva dei
corpi, ma ommise di considerare il termine medio, cioò
la percezione sensitiva, e quindi trovò una tale lonta
nanza fra que^ due termini estremi da lui osservati , che
come li congiunse di tempo, così li dissociò interamente
di natura.
In piò luoghi tuttavia Reid ci dà indizio assai chiaro
ch'egli non possedeva il concetto della percezione intel
lettiva e dell' idea de' corpi in uno stato di distinzione
e di chiarezza ; e che ritenne non poco de' pregiudizj
dell'educazione ricevuta dal suo tempo, nel quale si
considerava come degno di scherno il saper vedere un
nonnulla fuor de' limiti della sensazione acquisita (1).

(1) A conoscere quanto le menti dopo il tempo di Locke erapo general


mente confuse, né si avea più chiara la distinzione fra la sensazione e l'idea,
si osservi come generalmente invalse il nome d' idealisti a significate Ber-
438
Ciò si vede particolarmente ià , dove riferendo la
dottrina di Aristotele , confonde le specie sensibili di
quel filosofo colle idee.
Le specie sensibili non hanno a far nulla colle idee.
Quand' io ricevo negli occhi miei una sensazione, io ho
ricevuto una specie sensibile del corpo lontano. Il corpo
che io percepisco per essa non m' ha toccato , ma solo
la luce da quello rimandatami: questa specie dunque è
indubitatamente diversa dal corpo tangibile, al quale io
la riferisco per abitudine : ed è impossibile negare l'esi
stenza di questa specie intermedia fra me e la mia per
cezione del corpo.
Ora questa specie del corpo è luti' altro dall' idea
che io ho del corpo percepito.
idea è essenzialmente universale ; la specie è es
senzialmente particolare.
Neil' idea io trovo la definizione del corpo ; la specie
non è che un segno di lui.
Ad aver l' idea , o meglio la percezione intellettiva
del corpo, io debbo giudicare i." che esiste un essere;
2° che questo mi ha modificalo , e agito su me d'un
modo determinato dall'estensione e altre qnalità sensi
bili. Debbo, a fare questi giudizj, i." percepire le qua
lità sensibili; 2." percepire, mediante il tallo e la fona
locomotrice , il corpo particolare ( percezione sensitiva);
3." formare l'atto del giudizio su quest'essere partico
lare, pel quale io passo a riguardarlo siccome parteci
pante l'esistenza. In somma intellettivamente lo perce-

ktlcy, Ilumc- e seguaci. Questi scrittori avevano tolto in proposito a ridi'"'


tulle le cognizioni umane alla sola sensazione; e l'argomento che porta""»
in favore del loro sistema non era che questo: « le sensazioni sono in w".
dunque il mondo esteriore è in noi ». Quindi dando il nome d'idea
sensazioni , si chiamarono idealisti, ed ognuno così li chiamò; quand»1'
proprio lor nome avrebbe dovuto esser quel di sensisli. Questa osservatione
toglie via la maraviglia che nasce dal vedere come gì' idealisti e i maltru-
listi abbiano strettissima affinità fra loro: tal maraviglia ci nasce dal none
d' idealisti, clic è lutto contrario a quello di materialisti Ove all' incontro si
consideri che quel nome d' idealisti è loro dato impropriamente , e che
non vuol significare che sensisli, la maraviglia cessa: perciocché fra i >0'"
sisti e i materialisti nessuno trova un gran divario. Intanto però quella ia-
raviglia, che nasce universalmente dal vedere i filosofiche idealisti si chia
mano consociarsi si agevolmente co' materialisti , è un testimonio involon
tario della coscienza del genere umano, il quale dichiara di sentir assai bene
la differenza fra Videa e la sensazione, cziaudiochù quand' egli filosofa ma
stri di averla smarrita.
43g
pisco come uno degli esseri possibili, limitati in un
mòdo determinato da' miei sensi.
Ora ad aver la specie sensibile nulla m' abbisogna di
ciò : non è necessario che io m' abbia 1' intelletto ( fa
coltà che percepisce l'ente in universale), non il giudizio
( facoltà di applicare l'idea dell' ente in universale agli
esseri particolari percepiti dal senso), non la percezione
medesima sensitiva: basta che io m'abbia puramente
la Vista , la quale è comune a' bruti , senza che io as-
socj alla sensazione della vista altra sensazione.
11 parlare metaforico d'Aristotele può aver dato ori
gine allo sbaglio di Reid. Pare talora che il filosofo
greco descriva le specie sensibili, i fantasmi, e le specie
intelligibili 0 idee, come la cosa medesima sostanzial
mente, quasi immaginette o idoletti che trapassando
per tre potenze, il senso , la fantasia e V intelletto, ven
gono di mano in mano appurandosi e spiritualizzandosi,
siccome un liquore o polvere che si assottiglia trapas
sando per diversi stacci o vagli più e meno radi (i).
Reid prese adunque tutte queste affezioni sotto un
aspetto generale siccome un mezzo fra le cose e noi ,
e tutte le combattè, involgendo nella rovina delle Spe
cie sensibili e de'fantasmi ancora le idee.
Quindi anche egli parla delle idee di Platone allo
stesso modo come delle specie di Aristotele: quasiché
ammetter potessero lo, stesso discorso: e si fossero po
tute quelle tor via col ragionamento medesimo col quale
•si tolgon via queste: il che a dir vero è impossibile (2).

(1) Essays on the powers of the human minti, Essny I, eh. i, — Stewart,
discepolo di Reid, ripete lo stesso errore negli Éldmens de la philosopliie
de f Esprit humain, Ch. I, Scct. i.
(1) Reid pretende che la parola idea abbia due significali, l'uno de' filosofi
« l'allro del popolo. Egli dice di rigettare le idee nel significato de' filosofi, e
ritenerle nel significato popolare: giacché la sua filosofia si propone di seguire
■I scuso comune. È egli vero che in ciò egli segua il senso comune 1 Già dissi
die noi credo (Voi. I, face. 68 e segg. ). E in vero, quali sono i due pretesi
significati della parola ideai II primo, filosofico, si è di un mezzo fra noi e
gli oggetti, tale che per le idee noi conosciamo gli oggetti. Il secondo, popolare,
ti e di una operazione della nostra mente, colla quale operazione pensiamo
immediatamente gli oggetti slessi. Ora come Reid prova l'esistenza di questo
secondo significalo? Ecco il suo argomento: « Nel parlar comune queste
*' due frasi, pensare una cosa , ed avere idea di una cosa, sono perfella-
* mente d'ugual valore. Ora pensare è un verbo attivo, esprime Vopera-
" *}oae slessa della mente: dunque anche avere un'idea non esprime che
" " attivila della mente, e null'altro » (Essays on the powers of the human
4>
ARTICOLO V.
SE NOI PERCEPIMMO I CORPI Pe' PRINCIPI DI SOSTANZA E DI CAUSA.

Cartesio disse, che ciò che ci fa conoscere l'esistenza


de' corpi è il principio di causa; e questa sentenza fu
di assaissimi filosofi dopo Cartesio, ed ancora ( ciò è
un po' ridicolo ) di Destutt-Tracy.

mind, eie. London 1812, Voi. I, pag. io e segg.). '° osservo, che scegli
trae questa conseguenza dall' osservare che cosa esprime la frase pensare una
cosa , io posso trarre una conseguenza contraria coli' osservare che cosa
esprime la frase avere un' idea. Questa frase, avere un'idea, non mi esprime
che il possesso di una cosa; il verbo avere esprime possesso , e nulla più;
quindi la frase, avere un'idea, non esprime che uno stalo della mente li
quale ha l'idea, e non già un' operazione della medesima. Ora come io sta
glierei se da questo significato, che ha la frase avere un'idea, volessi ca
vare il significato di quest' altra frase , pensare una cosa j così parimente
non mi sembra ragionevole voler trovare il significato della frase a«re
un idea, mediante il significato dell'altra frase pensare una cosa. Io concedo
che il verbo pensare esprima l' operazione del nostro spirito ; ma perciò ap
punto nego che le due frasi accennate abbiano appunto lo stesso signifi
cato. Tanto è vero che si può avere un' idea, senza pensare attualmente alla
cosa di cui si ha idea: altro è adunque Y operazione deliamente die pensa
ad una cosa , altro è il semplicemente possedere V idea della cosa : il che
non vuol dire ancora che ci si pensi. Si osservi, che in tutte le lingue, per
quanto è a me noto, si trovano queste due frasi diverse, pensare una cosa,
e avere Videa di una cosa. Ora, secondo i principj di Reid, questo non sa
rebbe avvenuto, se il senso comune degli uomini non avesse veramente iu-
teso di esprimere due cose diverse: giacché ove il linguaggio segna costan
temente una distinzione mediante due parole o frasi diverse, ivi forz' è che
realmente la distinzione sia tenuta. E con questo argomento Reid confuta
altrove l'improprietà del parlare di Hume (Essays on the powersqflit
human mind, etc. Essay I, eh. I, p. 20 e segg-).
Ma la dottrina di Reid circa l'esclusione delle idee ha ella nessuna parte
solida? Io penso di si; ed ecco qua1 è questa parte che io ammetto. Accordu
a Reid, che i filosofi generalmente errassero, non già Dell' ammetter le idei
distinte AaW operazione che fa lo spirito quando pensa alle cose, ma nella
nozione che davano a queste idee.
Reid distingue tre cose nel pensiero umano: « t.° il soggetto pensante,
2.0 l'operazione della mente che pensa, 3." l'oggetto pensato ». Egli dice:
« Non esistono che questi tre elementi nel pensiero: i filosofi ne hanno in
trodotto un quarto, che fosse mezzo fra l'oggetto pensato e la mente pen
sante, e questo mezzo lo chiamarono idea. Ora è questa idea che io consi
dero come una chimera dell' immaginazione, che non ha punto esistenza ».
Ecco ciò che io ricevo di tutta questa dottrina de' filosofi. Alcuni filosofi
sembra che si sieno formati dèi' idea il concetto, ch'ella sia il solo e per
fetto mezzo per Io quale noi conosciamo le cose reali ; questo , secondo me,
è un errore. L' idea della cosa non ci fa conoscere ancora nulla di reale;
ella non ci presenta che la mera possibilità. L'idea dunque non è il *eao
perfetto ed adeguato per conoscerete cose reali, come osserva in tanti luoghi
s. Tommaso; si esige qualche cos'altro perchè noi abbiam di questo nolo"'
Per le cose corporee è dunque necessario il senso corporeo , col qu»'e 001
Galluppi negò che noi conosciamo i corpi pél prin
cipio di causa ; ed ebbe luogo di fare a Tracy questo
argomento invincibile e manifesto: « Se il principio di
causalità fa conoscere gli oggetti , esso nou viene dun
que dagli oggetti (1) » . Tracy non potò replicar verbo
a questa osservazione. Ma noi diciamo a Galluppi : No,

percepiamo immediatamente la passione prodottaci da quelle potenze esterne


die corpi si chiamano. La Sensazione de' corpi unita all'idea, ecco i due
elementi della nostra percezione'e cognizione de' corpi. .
Non si dee credere adunque che noi conosciamo i corpi sussistenti me
diante le idee quasi immagini perfette de'. corpi : questo è un concetto falso
delle idee. I corpi sono potenze che operano in noi immediatamente: e il
nostro senso riceve quest'azione; ma questa percezione particolare non è
ancora la cognizione intellettuale de' corpi. Noi formiamo, la percezióne in
tellettuale: da questa separiamo I idea: allora que^t' idea, eh ebbe a prin
cipio per elemento e materia il senso esperimentale de'corpj stessi, è ciò
che ce li fa conoscere in un modo universale o sia intellettuale. .
Io credo che questo volevano dire gli scolastici, quando nel 'loro gergo
(licevano che Videa astrae dalla materia: cioè l'idea non rappresenta la
cosa reale e sussistente; noli è un' immagine 'adeguala di questa , ma ha bi
sogno della sensazione per darci la coguizionè de' corpi reali. Anch'io in
questo senso ammetto che l'idea sia una specie d' immagine o similitudine ,
rome ho già spiegato meglio Voi. 1,-facC. 70 e seg.
Dove io differisco da Aristotele in questa parte «i è, che io, olire là sen-
suzione, non riconosco una Specie sensibile nel senso generale del tatto,
realmente distinta dalla sensazione, ma distinta, solo pel diverso rispetto nel
quale la sensazione stessa si considera.
Le osservazioni fatte fin qui dimostrano, che conviene con più diligenza
darsi a rilevare le bpinioni de' filosofi, di quello ché uon facesse Reid, ac
ciocché non si attribuiscano loro per avveutura. opinioni che non vorreb-
)>ero. Garve, ad esempio, studiando più nelle espressioni di Platone, crede
di avere conosciuto che la relazione fra le idee e gli oggetti, che stabilisce
questo filosofo., non sia punto come la descrive Reid, cioè facuudo dell'idea
"n termine medio rpale fra la mente e gli oggetti (Ved. Legendorum piti-
losophorum veterum praecepta nonnulla et e.rrmpla).
Checché sia di ciò, io accordo anche a Reid qualche cosa nel inerito
della questione ; cioè che il chiamare 1* idea un mezzo di conoscer le cose,
non sia maniera priva di equivoci. . '
In fatti io dico, egualmente come Reid, che la nostra percezione intel
lettuale de' corpi è immediata (cioè senza il mezzo di ràziocinj,' Coiti' egli si
esprime, Essays on the powers eie-, Essay II, p. 10O ); poiché tostochè il
fuso nostro percepì un corpo, anche V intelletto immediatamente lo per
cepisce, facendo un giudizio primo, senza nulla di mezzo: il scuso dunque
e l'intelletto sono due potenza che immediatamente e quasi di pari passo
cooperano alla percezione del corpo: l' idea pura del corpo suisvgue alU
percezione, in quanto che in quella si astrae dall'esistenza attuale del corpo;
là dove nella percezione si pensa ancora la presenza o sussistenza del corpo
rome ageute su di noi. In questo senso Videa del corpo non è un mezza,
h« è un elemento della percezione de' corpi.
(1) Saggio filosofico sulla ci iticn della Conoscenza, Lih. II, c. I.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. 11. 50
44«. . . .
il principio di causa non può venir dagli oggetti ; egli
Tiene dall' idea dell' ente.
Tutti gli altri argomenti di Galluppi contro il prin
cipio di causa applicato a conoscere l'esistenza de1 corpi
esteriori, riduconsi a questo : « Se il senso non ci mette
in comunicazione diretta cogli oggetti esteriori, il prin
cipio di causa non può che crearci un mondo esterno a
priori ; quindi l' idealismo è inevitabile » .
Questo argomento dimostra , che nel mentre eh' egli
era fortemente occupato della necessità di una percezione
sensitiva, trascurò di osservare la percezione intellettiva
de' corpi.
Noi accordiamo a Galluppi una comunicazione imme
diata del nostro spirilo col mondo esteriore, la neces
sità quindi di una percezione sensitiva. Altrimenti non
ci sarebbe materia, a cui applicare il principio di cau
sa : il quale da sè stesso non è punto fecondo: nulla
produce, senza avere a cui s'applichi. Ma dopo di ciù
noi osserviamo , che non abbiamo ancora la percezione
intellettiva, nella quale solo consiste la cognizione dei
corpi.
Or la percezione sensitiva de' corpi è immediata (i):
ella ò un fatto, e non ha bisogno di alcun principio
della menté perchè noi l'abbiamo. Analizzato poi quel
fatto, si può distinguer benissimo in esso, come fa Gal
luppi, l'atto della percezione e il suo oggetto (pren
dendo oggetto per termine, giacché il solo senso, secondo
noi, non ha vero oggetto), e l' intimo e necessario nesso
fra quello e questo.
Ma la percezióne intellettiva de' corpi è un giudizio;
e un giudizio ha bisogno di un principio intellettivo,
o sia d'una idea universale, che, come abbiam mostra
to, prende forma di principio quando si riduce in pro
posizione. Ora questa idea universale che ci fa perce
pire intellettivamente i corpi, è l'idea di esistenza, il
principio che s' applica è quello di sostanza e di causa,
come in tutta .quesl' opera abbiamo spiegato.
£ dico f non pure il principio di sostanza , ma an
cora quello di causa. Di che la ragione è la naturale im*

(0 La percezione intellettiva si può dire anch'essa immediata, in quaulo


si fa per uu giudizio primo.
443,
perfezione della percezione sensitiva, a cui conviene
più il titolo di percezione corporea che di percezione del
corpo.

ARTICOLO VI.
LA FLRCEZIONT. INTELLETTIVA FD CONFUSA COLLA SENSITIVA ANCHE M5FETTO
AL SENTIMENTO INTERNO, All' 70.

Rispetto alla sensitività esterna, confondendo i filo


sofi la percezione sensitiva colla intellettiva , di due
falli ne fecero un solo.
La medesima confusione, la medesima soppressione
di un elemento avvenne rispetto alla sensitività interna,
cioè alla percezione dell' Io; l'osservammo parlando di
Malebranche (i).
Acciocché veggiamo la cosa in maggiore evidenza,
consideiiamo questa confusione in Cartesio, e nel primo
fondamento di tutta la sua dottrina.
«Penso, dunque esisto». Ecco la prima pietra del
l' edificio cartesiano. Ma contro questo principio della
filosofia di Cartesio v' avea una obbiezione facile a ve
dersi e indissolubile. Ella fu tosto prodotta, ed era bei»
naturale che fosse. L' obbiezione è questa: « Dicendo :
Penso , dunque esisto, voi sottintendete la maggiore uni
versale : Ciò che pensa, esiste. Voi dunque non partite-
dalia proposizione particolare: Penso, dunque esisto» 5 ma -
sì bene da una universale, che ciò che pensa debba
esistere; voi partite dalla nozione dell' esistenza, e sup
ponete di saper prima che ogni operazione supponga
l' esistenza. Dovete dunque innanzi tratto render conto
di questa idea di esistenza, che sottintendete nelle prime
linee della vostra filosofia.
Se una simile obbiezione fosse stala accolla pacata
mente, e se pel cammino ch'ella additava si' fossero
messi gli uomini , di nuli' altro solleciti che della ve
rità, ella gli avrebbe scorti dirittamente al principio di
tutta la filosofia, cioè all'idea di esistenza.
Ma Cartesio si arrese egli a quella obbiezione? Non già:
dichiarò in quella vece, che colle prime parole della
sua filosofia , « Penso , dunque esisto » , non avea in-

W Parlu I, cap. HI, art. 11.


444
teso di annunziare un trovato per ragionamento, ma un
vero percepito immediatamente (i).
Non era forse atto Cartesio a sentir la forza della
obbiezione? Senza dubbio, era a ciò atto Tuoni grande.
Ma il suo pensiero conteneva una porzione di verità, e
questa porzione di verità il riteneva, e non gli dava
l'animo d'abbandonarla. Bisogna insomma distinguere
la percezione dell' Io sensitiva, dalla percezione dell' Io
intellettiva : quella era immediata e semplice, data dalla
natura : questa era immediata altresì, ma non semplice,
poiché supponeva un' idea universale, cioè l' idea di esi
stenza. Una tale distinzione mancava : quindi Cartesio
attribuiva alla percezione intellettiva ciò die non potea
esser proprio che della percezione sensitiva. Quindi mezza
ragione aveva egli , mezza i suoi avversarj.
E a conoscere eh' egli parlasse della percezione intel
lettiva , e a questa attribuisse ciò che alla sensitiva ap
parteneva, basta osservare la maniera del suo parlare;
eh è il parlare fa ritratto delle idee. « Penso, egli dice,
dunque esisto ». E egli possibile dissimulare che in
queste parole venga espresso un ragionamento ? E che
cosa indica la parola dunque, se non una conseguenza?
Il pensare è forse il medesimo che 1' esisterei nò certo.
Il pensare nel caso nostro è un attributo, un predicato
di un essere. E si può concepire intellettivamente on
essere, se non si sa che cosa sia essere in universale'
Tutto il lungo brano della prima Meditazione, dove
pianta il motto «Penso, dunque esisto», è un ragio
nar continuo.
Il Galluppi di questo principio dice: Cartesio con
quel ragionamento non vuol dir altro se non « che la
« nostra esistenza è una verità di tal natura, che si con
ce ferma col negarla o col porla in dubbio » (2). Ottima
mente ; ma il conoscere che tanto negando come du
bitando della nostra esistenza , questa si conferma , è
fare un vero ragionamento: è un rilevare il rapporto
dell'atto di negare e di dubitare, coli' esistere : con-
vien dunque conoscere l'esistere, in separato dall'alto
di negare o di dubitare, per formare questo giudizio,

(1) Vedi la Risposta da Ini fatta alle Seconde Obbiezioni.


Saggiofilolofico ecc.
- .445
questa sintesi. Se io percepissi il negare ed il dubitare
e nulla più, non potrei fare alcun atto mentale: poiché
in una percezione semplice, dove tutto è individuale ^
non si può far distinzioni ed analisi se non coli' ajuto
di qualche nozione universale (i).

(i) Tutti gli argomenti di Galluppi sono rivolti a provare, che la perce
zione deir Io è immediata. Ora ciò io gli accordo; ma aggiuugo, clic questa
percezione è sensitiva , cioè è il sentimento stesso fondamentale, e nulla più.
Ad avere all'incontro la percezione intellettiva dell'io, conviene che io fac
cia una sintesi, un giudizio fra l'idea di esistenza e l'7o sentimento, pro
nunciando : lo esisto. Allora ho la percezione intellettiva , perchè non ho
solamente percepito me in particolare , ma mi ho percepito come un ente,
in relazione in somma dell esistenza in universale. Quando io ho questa
percezione intellettiva dell' io, mi resta a fare un terzo passo, cioè ad av
vertire la medesima percezione. Ora onde sono io tratto a questa avvertenza,
che mi nasce mediante una riflessione su di me stesso? Da una modifica
zione della mia coscienza, insolita e viva, che trae a sè la mia attenzione
fortemente: insomma dagli atti miei. Qui comincia la filosofia di Cartesio:
« Penso , dunque esisto ». La forza di questa proposizione equivale a que-
sl'allra: « Mediante i miei pensieri io mi accorgo di esistere ». Vale l'ar
gomento per l'accorgersi, non pel semplice percepire intellettivamente, e
molto meno sensitivamente^ E solo da quel punto dovea e potea partire la
filosofia. Poiché quando è che l' uomo comincia a filosofare? forse quando
ancora uon ha che delle percezioni sensitive? fin qui non pensa. Quando è
venuto ad avere delle percezioni intellettive? qui pensa, ma non riflette di
pensare: è la vita intelligente del comune degli uomini. Viene il tempo
ch' egli riflette di pensare : e qui comincia la filosofia. Ora il punto di par
anza della nostra mente non può essere che lo stato nel quale ella si trova.
L'uomo che comincia a filosofare è nello stato della riflessione e dell'av
vertenza. Egli dunque parte da questo slato: e da questo movea Cartesio,
quando dicea « Io penso, dunque esisto ». Ma antecedente a questo slato
e è pur quello della cognizione diretta, e l'altro del sentimento. Quindi era
naturale, che dopo Cartesio venisse Locke, cioè che dall'esame del peti-
"ero, si rilrocedesse ad analizzare la sensazione dove il pensiero si fonda.
Ma in questo cammino era facile di saltare uu anello, poiché ve n'ha uno
die si presta assai difficilmente all'osservazione ed all'avvertenza, per più
cagioni da noi indicale; l'anello dico della cognizione prima e diretta del-
I uomo: questo in falli fu saltalo a pie pari. Cartesio adunque partì dalla
"flessione, Locke si occupò della sensazione : l' analisi della cognizione sem
plice che sta fra questa e quella, ed è la chiave dell'una e dell'altra, fu
dimenticata ; e a questa mancanza io mi sono ingegnato di supplire, come ho
potuto, coli' opera presente.
446
CAPITOLO XVI.

DELLE NATURALI DISARMOME FRA LA PERCEZIONE DEL CORPO


COME SOGGETTO, E COME UN AGENTE STRANIERO AL SOGGETTO.

ARTICOLO I.
DIMERENZA FRA I DDE MODI PRINCIPALI DI PERCEPIRE I CORPI, CIOÈ
COME SOGOETTI , E COME AGENTI STRANIERI AL SOGGETTO.

Il corpo nostro è sentilo soggettivamente ed ancora


extra-soggettiva mente siccome qualsiasi altro corpo.
Egli è sempre uno stesso essere che noi sentiamo in
questi due modi. Che cosa dunque distingue la perce
zione extra-soggettiva dalla soggettiva ?
Nella percezione di un essere come straniero al sog
getto (i) si sente 1' agente; ma nella percezione dell'ente
come ^oggetto si sente il paziente: il paziente sente sè
stesso.
Ora azione e passione sono cose direttamente contra
rie : dunque con que' due modi si percepisce bensì la
slessa natura, ma in un rispetto diverso e contrario:
nel primo modo come agente , che produce la sensa
zione e non la sente ; nel secondo modo come paziente,
che sente la sensazione e non la produce.
Questi sono due rispetti così conlrarj, che non hanno
nulla di simile fra loro: quindi ciò che si percepisce
si presenta alla percezione come due esseri , due nature
apparenti. Per il che le differenze non sono già grada
zioni della stessa specie, ma rispetti, de' quali l'uno
esclude 1' altro direttamente.
Nò solo qui si tratta dell' idea di un corpo agente,

(i) Mi astengo dal dire come oggetto, perocché il corpo non è vero oggeUi',
che relativamente alla percezione intellettiva, dove il corpo è appreso come
un ente : la percezione sensitiva all' incontro non percepisce che un'aiioiio
estranea al soggetto. E qui si noti, che l' oggetto di un' azione non è Io stesso
che V oggetto di una percezione intellettiva. Nell'azione l'oggetto è passivo,
nella percezione egli è attivo. Ben è vero che noi meniamo della uostro al-
lività intellettuale a percepire l'oggetto; ma quest'attività non produci;
nulla Dell' oggetto; produce solo l' atto col quale uoi lo percepiamo. AH' i»;
contro l' oggetto percepito che noi non possiamo mutare , e sul quale d<»
non abbiamo alcuna potenza, è ciò che forma la nostra cognizione: qumilt
il dello di s. Tommaso: « S/vcies intclligibifis principium formale est in-
tellcctualis opcrationis , sicut forma cujuslibet agentis principium est l"^-
priac opcrationis » ( C. Geni. I, savi ).
447
contraria ali1 idea di un corpo paziente; ma trattasi di
una particolare azione 3 passione quale è quella del
senso. Se noi consideriamo la passione nostra , cioè il
sentimento di piacere o dolore , nel principio che la
produce , noi abbiamo l' idea dell' agente : se nel suo
termine, cioè in sè stessa terminata e sofferta , abbiamo
noi slessi modificati e pazienti.

ARTICOLO IL
se l'impressione delle cose esterne sopri di noi abbia qualche
similitudine colla sensazione che sussegue a quella.

Un corpo esterno che tocca una parte sensitiva del


corpo nostro, produce in essa de' movimenti , una im
pressione.
Questa impressione cagionata dal corpo esteriore sul
nostro, o è percettibile mediante la vista e il tatto, o
si rileva col ragionamento. Ove un ago mi punzecchia
urta mano , io vedo cogli occhi miei la puntura , e posso
ancora toccare quella piccola ferita, e accorgermi della
mula/ione avvenuta nel mio corpo mediante il tatto. Se
poi l' impressione non è sì grande che veder si possa
0 toccare, io la deduco per un argomento di analogia.
Così 1' impressione che fa la luce nel mio occhio , o il
movimento del mio nervo ottico, è di tale piccolezza e
delicatezza , che io non posso nel senso del tatto avver
tirla (1). Medesimamente le tenuissime impressioni che
nelle mie nari 0 nella mia lingua o nella polpa del mio
nervo acustico fanno i corpicciuoli che vanno a eccitare
questi miei organi, non si posson notare co' sensi della
vista e del tatto, e sfuggono forse anche a qualunque
microscopio. Conoscendo però le azioni meccaniche dei
corpi, io argomento ragionevolmente, che que' minimi
corpicciuoli agiscono nell'occhio, nelle nari e nel pa
lato, e produr vi debbono delle piccole irritazioni e
alterazioni.
L' idea dunque che noi abbiamo dell' impressione dei
corpi esterni su di noi, è la medesima con quella di
una impressione fatta su qualunque altro corpo: per

(1) I movimenti che fa l'iride all'azion della luce, non sono puri effetti
della luce, ma dipendono altresì da altri principj , cioè dall'irritabilità di
>|uel muscolclto, c dalla spontaneità dell' anima.
448
esempio, d'una impronta sulla cera , ti' un vestigio la
sciato, d'un molo eccitato in qualsiasi corpo. Questi
effetti sono oggetti del tatto e dell'occhio nostro, come
le mutazioni del corpo nostro , a cui tengono dietro le
sensazioni.
Ora io dico, che sì fatte impressioni non hanno la
più piccola similitudine colla sensazione, considerata
nella sua parte soggettiva-, sebbene, date quelle, questa
si desti subitamente. Anzi quelle hanno con questa una
vera opposizione e contrarietà.
Un'impronta, un rilievo, un molo, mi corpo ogget
tivamente percepito (col tatto) , è un agente che pro
duce nel nostro organo la sensazione. La sensazione al
l' incontro è una passività, è il paziente sensibile a sè
slesso.
Ma 1' agente è il contrario del paziente (i).
Dunque l1 impressione fatta sul nostro corpo sensiti
vo , a cui tien dietro la sensazione, non ha alcuna si
militudine con questa nella sua parte soggettiva , ma i
di natura interamente a questa opposta e contraria ,
sicché l' una di queste due cose esclude l'altra, a
quel modo slesso che il sì esclude il no , e viceversa.
Bendiamo più chiara, se ci è possibile, questa di
stinzione. A far ciò, poniamoci ad osservare l'impres
sione di una piccola palla rotonda di metallo ricalcata
in un membro sensitivo del corpo , e internata la metà,
sicché ella formi in quella parte carnosa una pozzetta
circolare pari all'impressione di mezza quella sfericciuo-
la. In questa impressione dolorosa 1' uomo sente viva
mente due cose, i.° la parte del proprio organo nella
quale vien fatta quella piccola cavità , a." e la pallot
tola, ossia l'agente diverso al tutto dall' organo paziente.
Ora , il sentimento della parte offesa certo è cosa
diversa dalla percezione della palla medesima : sono due
sentimenti bensì contemporanei, e che allo stesso luogo
si riferiscono, ma tuttavia assai diversi.
Chi sente, a ragione d'esempio, il suo braccio leso,
sente ciò che patisce; quando percepisce In pallottola,
«etile ciò che agisce .- questi due sentimenti sono oppo
sti e inconfusibili.

(i) Art. precedente,


La parte del braccio sentita è quella superficie cori
cava ove viene compressa la palla: si sente adunque
un corpo di forma concava. La parte della palla per
cepita è tutta quella superficie convessa che preme la
carne: si sente dunque un corpo di forma convessa.
Nella superficie concava del braccio si riferisce un
sentimento: si sente adunque ivi un corpo che soffre.
Nella superfìcie convessa della palla non si riferisce nes
sun sentimento : non si sente ivi un corpo che soffre
punto , anzi un corpo insensitivo che fa sofferire.
Nella sensazione adunque il corpo esterno (extra-sog
getto ) ed il corpo nostro ( soggetto ) sono opposti e
contrarj, e non si può l'uno confondere menomamente
coli' altro: la percezione del corpo esterno è la stessa
sensazione , ma in quanto è termine d' un' azione che
viene dal di fuori.
Applichiamo ora la medesima distinzione alla sensa
zione ed alla impressione.
Che cosa significhiamo noi colla parola sensazione ,
e che cosa colla parola impressione?
Colla parola impressione significhiamo una cosa per
cepita da noi siccome agente esterno : colla parola sen
sazione significhiamo una cosa percepita da noi come
soggetto, in noi. Riprendiamo l'esperimento della palla.
In che modo si percepisce l' impressione fatta nel
braccio dalla palla ? Al modo stesso come si percepisce
la palla.
L uomo guarda la parte offesa del suo braccio, mette
il suo dito in quella fossetta scavata dalla palla: in tal
modo egli vede e tocca l' impressione fatta dalla palla
nel suo braccio.
Ora toccando egli e vedendo cogli occhi suoi quella
fossetta, quella impressione, tocca forse egli e vede al
tresì la sensazione che in conseguenza di quella fos
setta ha provato e prova nel suo braccio? Nulla di ciò.
La sensazione che accompagnava quella impressione non
è visibile nè tangibile : è solo sensibile per un senti
mento interiore dell'anima, è sensibile per sè stessa.
Ma quell' uomo , dopo aver veduto e toccato egli
stesso più volte quella piccola cavità: u Vedete, dice
agli astanti, quale impressione mi ha lasciato nel brac
cio l'azione di quella pallottola » ! Egli chiama impres-
R os >n ri, Orig. delle Idee, Voi. 11. 57
45o
sione ciò che vede e ciò che tocca : ciò che è oggetto
del suo tatto e del suo occhio: tale è il valore che dà
alla parola impressione : essa è una modificazione che
soffre un corpo nella disposizione delle sue parli, perce
pita da noi co' nostri sensi , massimamente della vista
e del tallo: non è sensazione, ma è oggetto esterno
de' sensi.
Ciò adunque che io vedo colla vista e sento col tatto,
l'impressione appunto che viene fatta .in un corpo per
Fazione di altro corpo, è ella qualche cosa di simile
alla sensazione del tatto o della vista con cui si per
cepisce ? Tutti gli astanti percepiscono col tatto e colla
vista queir impressione egualmente che 1' uomo che l'ha
ricevuta ; ma questi soffre anche la sensazione venuta
appresso di quella.
Ed osservisi bene : quando 1' uom percepisce col latto
e coli' occhio qucll' impressione lasciatagli dalla palla
nel braccio , succede in lui il fatto di nuove sensazioni,
che si possono analizzare a quel modo stesso che fu
analizzato il fallo della sensazione della palla.
In fatti, nel tastare colla punla del suo dito la bu
chetta aperta nel braccio dalla palla , egli ha contem
poraneamente un sentimento, nel quale si possou no
tare due parti o sentimenti elementari contrarj, cioè
i.° un sentimento del suo dito dove sente,
a.° il sentimento della piccola cavità che è ciò che
sente.
Dicasi di questi due sentimenti tutto ciò che prima
si disse del sentimento del braccio e della palla: sente
il dito come una parte senziente, sente la cavila come
una parte agente.
Il suo dito lo. sente con una sensazione che si rife
risce ad una estensione convessa ; la cavità del braccio
la sente con una sensazione che si riferisce ad una
estensione concava.
Non è in questa cavità, che il suo tatto che la (asta
riferisce la sensazione che ne riceve , ma nel dito con
cui la tasta : il dito percepisce quella cavila come in
sensitiva , e così pure il mio òcchio : quella cavità ri
spetto al mio latto ed al mio occhio non è che termine
di azione; il mio tatto e il mio occhio è il soggetto:
quella cavità nulla soffre, ma fa soffrire all'occhio mio
ed al tatto.
Ora impressione si chiama quella cavità in qttauto è
oggetto dell'occhio e del tatto esterno. Ella dunque
non ha nulla di sensitivo in sè; ella è perfettamente
straniera alla sensazione del tatto e dell' occhio : è ap
punto il contrario della sensazione : non si dà dunque
fra la sensazione in quanto è soggettiva, e V impres
sione nessuna similitudine, anzi una perfetta opposi
zione: perciò non si può immaginare in alcun modo
questa seconda come un grado della prima , o quella
prima come un grado o una specie della seconda.

ARTICOLO IU.
CONFUTAZIONE DEL MATERIALISMO

Tutti gli argomenti de' materialisti hanno il loro fon


damento nella confusione fra l' impressione e la seri'
sazione.
I loro sforzi tendono a trovare una qualche simili
tudine fra la prima e la seconda: a spiegare la seconda
colla prima, o piuttosto a trovare nella prima la se
conda.
Essi non badano al significato che sta annesso alla
parola impressione, movimento ecc. Tutte queste parole
sono extra-soggettive, cioè indicano agenti insensitivi :
esse sono state inventate per esprimere delle cose esterne
a' nostri sensi e percepite da essi, e non dello cose che
sentono: dalle cose adunque significate per quelle parole
la sensazione è esclusa per la definizione: cioè esse sono
tali in quanto non hanno nulla di senziente e di sog
gettivo in sè stesse, ma unicamente di esteriore e di
oggettivo.
E dunque un abuso di termini , un mescolamento
d' idee contrarie, una contraddizione manifestissima il
cercare, siccome fanno i materialisti, o quelli che incli
nano a questo errore, di spiegare la sensazione ridu
cendola ad un moto delle parti o ad una impressione;
mentre il molo delle parti , e l' impressione non è che
cosa esterna al tatto ed alla vista , termine posto a
questi sensi , e la sensazione è pur la cosa senziente ,
soggettiva, un sentimento interiore che non si può ve
dere nè toccare , nè paragonare a cosa alcuna di quelle
che si veggono e si toccano.
Epicuro credeva di spiegare il fatto della sensazione
45a
immaginando degl' idoletti uscenti da1 corpi, volazzanli
per l'aria e venienti a noi: queat' idoletti, immagini
perfette de7 corpi, costituivano le nostre sensazioni. Tal
maniera di spiegare la sensazione era un gioco della
sua fantasia , e nulla spiegava.
L' errore consisteva nel prendere ciò che noi non
conosciamo cbe come termine dell'azione de' sensi, per
la stessa sensazione soggettiva. La nozione di quegli
idoletti, creati dalla fantasia di Epicuro, onde venir
potea se non da ciò che conosciamo co' sensi? erano
cose perfettamente simili a quelle che veggiamo e che
tocchiamo: se non che , in vece di poterle toccare e
vedere realmente, la fantasia le immaginava d'una stessa
natura, ma d'una assai maggior piccolezza, sicché ino
stri sensi dovessero esser troppo grossi a poter perce
pirle, e ci bisognasse un tatto ed un occhio più fino.
Intanto però la sensazione non poteva essere nulla di
ciò: essa non era un corpicciuolo cadente sotto i nostri
sensi , o atto a vedersi col microscopio, o a toccarsi
con un tatto più sottile del nostro: essa non ave i nulla
di extra-soggettivo: era appunto l'atto stesso del senso,
il contrario dell' extra-soggettivo: era perfettamente sog
gettiva (i).
Aristotele descrisse la sensazioni; che in noi cagionano
i corpi esteriori, colla similitudine di un'impronta che
si fa sulla molle cera, la quale riceve in sè la forma
del suggello e nulla della sua materia. Questa similitu
dine è falsa e materiale. Quando noi parliamo dell' im-

(i) Sembrerebbe impossibile che si potesse arrivare a confondere insieme


la soggettiva percezione del corpo coli' extra-soggettiva in una maniera si
grossa, come si trova in certi materialisti che si lasciano illudere dalla fan
tasia, e sembra loro di avere spiegato qualche cosa, quando hanno mesco
lato insieme ciò che è essenzialmente contrario e inamicabile. Roberto Hook,
clic fu membro della società reale di Londra nella prima sua istituzione, e
vi lesse molte lezioni, in una di queste sulla Luce (Lez. 7) fa le idee es
sere sostanze materiali, e crede che il cervello sia composto d'una certa
materia atta a fabbricare le idee di ciascun senso. Le idee della vista, secondo
lui, sono formate d'una sorte di materia simile alla pietra di Bologna, o di
qualche specie di fosforo: le idee dell'udito d'una materia simile alle
corde da violino, o ai vetri, che pigliano un suono dalle vibrazioni dell'aria :
V anima può fabbricare delle centinaja di queste idee in un giorno, ciascuna
delle quali tosto che è formata viene respinta lontana dal centro: l'ultima è
quella che riman più vicina: esse sono incatenate insieme come altrettanti
anelli. Sembra impossibile, a dir vero, che un uomo sauo possa pensare di
si falle cose, degne di uu vaneggiatile e d'un pazzo!
453
pressione fatta nella cera, noi parliamo di cosa che
veggiamo cogli occhi nostri e tastiamo colle nostre
mani: parliamo adunque di cosa .esteriore a' nostri sensi.
Ma la sensazione non è nulla di tutto ciò : essa non è
r agente esterno; è la passione che soffrono i nostri
sensi , e che hanno in sè, o per dir meglio, è una pas
sione del nostro principio sensitivo. Perchè quell' im
pressione fatta nella cera potesse aver qualche cosa di
simile alla nostra sensazione , converrebbe eh' ella sen
tisse sè stessa: e in tal caso la sensazione non sarebbe
spiegata , ma sarebbe trasportata dalle carni nostre alla
cera: resterebbe sempre a sapere che cos'è: resterebbe
sempre l' impressione (extra-soggetto) e la sensazione,
(soggetto) unite bensì e contemporanee , ma 1' una stra
niera e incognita all'altra: l'una all'altra opposta, 1' una
all'altra incomunicabile: nessuna simiglianza, nessuna
analogia. <
Hume dà il nome d'impressioni alle sensazioni; e
Reid osserva giudiziosamente , eh' egli dovea dichia
rare se intendeva con questa voce l' operazione della
mente . o 1' oggetto della medesima (i). Intanto su
questa parola impropriamente adoperata edifica molti
sofismi. /
Darwin definisce 1' idea « una contrazione o movi-
« mento o configurazione delle fibre costituenti 1' irn-
« mediato organo del senso » (2): e la sensazione così:
B un'attuazione o cangiamento delle parti centrali del
u sensorio , o di tutto il sensorio intero, avente prin-
« cipio da alcuna di quelle estreme parti del sensorio
" stesso che risiedono nei muscoli o negli organi del
« senso» (3). Ora in quest'ultima definizione si vede chia
ramente, che il termine extra-soggettivo della percezione
è confuso colla sensazione soggettiva. Poiché i vocaboli
di contrazione, movimento , configurazione, a che signifi
care furon trovati? a significare termini della passione
del tatto e della vista ; poiché i vocaboli significano le
cose in quanto le percepiamo. All'opposto la sensazione

(1) Essnys on Oie powers, eie., Essay I, chap I.


(a) Sex. IV, m. -^A Darwin, come a tulli i materialisti, è ignota la vera
distinzione fra la sensazione e l' idea.
(3) Scz. V, i.
e Videa sono cose soggettive , esprimono cioè l'affezione
del soggetto slesso senziente , e non alcun suo termine.
Perciò una contrazione, un movimento, una configura
zione si può toccare e vedere ( almeno con un tatto ed
un occhio più fino del nostro , o producente sensazioni
più atte ad essere avvertite): ma non dà egli una sen
tenza assurda e ridicola il dire, che un' idea è una cosa
che può essere sottomessa all' osservazione del tatto o
della vista, sieno pure questi sensi quanto si voglia più
acuti che non sono?
Accostiamoci ad un altro materialista , Cabanis : per
tutto lo stesso equivoco , per tutto la stessa grossolana
confusione fra 1' extra-soggetto ed il soggetto. Questo
autore non fa al tutto identiche V impressione e la sen
sazione : ma aggiunge che l'impressione viene recata al
cervello, che questo viscere reagisce, e che questa rea
zione costituisce o compisce la sensazione. Egli non trova
niente strano lo stabilire un' analogia fra lo stomaco
ed il cervello, e nel definir questo un viscere che di
gerisce il pensiero. Ma a malgrado di ciò, egli non fini
sce mai di darsi il vanto della più grande esattezza
nelle espressioni filosofiche, e di seguire un metodo
sperimentale e preciso, e di mettere il nesso de' geome
tri nella serie delle proposizioni ch'egli stabilisce. Ma
leviamo un saggio del suo stile rigoroso e filosofico:
« Si dirà che i movimenti organici pe' quali si esegui-
« scono le funzioni del cervello ci sono incogniti. Ma
* V azione per la quale i nervi dello stomaco deterroi-
« nano le varie operazioni che costituiscono la dige-
« stione ; ma la maniera onde adoperano il sugo ga-
« strico, che ha un potere dissolvente sì attivo, non si
« tolgono punto alle nostre ricerche. Noi veggiamo gli ali-
« menti cadere in questo viscere e uscirne con qualità
« nuove: concludiamo di ciò, ch'egli ha fatto loro
« subire questa alterazione. Noi veggiamo egualmente^
« impressioni pervenire al cervello pel mezzo de' nervi:
« esse sono allora isolate e senza coerenza. Questo »>
« scere entra in azione, agisce sopra di esse: e ben
o tosto egli le rinvia cangiale in idee, che la lingua
« della fisionomia e del gesto, o i segni della parola e
« della scrittura manifestano al di fuori. Noi concla-
« diamo colla stessa certezza , che il cervello digerisce
« in qualche modo le impressioni , e eh' egli fa orga-
455
« nica metile la secrezion del pensiero » (i). Con quanta
sicurezza non parla quest' uomo ! non par egli impossi
bile, che chi ha le idee tanto confuse, possa credere di
veder tutto chiaro come la luce del sole!
Che contemporaneamente alla sensazione la quale noi
sentiamo nella nostra coscienza, il nostro occhio perce
pisca gli organi nostri in altra configurazione, delle im
pressioni avvenute in essi , de' movimenti ; questo è certo.
Ma questo vuol dire che l' ordine delle modificazioni
soggettive ( dell' Io ), e l'ordine delle modificazioni extra
soggettive (dell'agente esterno sui sensi), sebbene non
abbiano fra loro alcuna somiglianzà di natura, tuttavia
hanno una legge di rapporto, la quale conviene dili
gentemente osservare e rilevare. Gioverà dunque assais
simo lo stare attenti, e il notare quai movimenti e fi
gure si presentano al tatto ed all' occhio negli organi
affetti del corpo nostro , intanto che noi nel nostro in
terno proviamo questa o queir altra specie di sensazio
ni. Ma nello stesso tempo la sensazione che si percepi
sce da noi intimamente , c che non può mai vedersi o
toccarsi ( mentre col pur dir ciò si pronunzia una frase
assurda e inintelligibile ), converrà sempre distinguerla
dal moto, e dalle forme che si porgono benissimo al
l' osservazione del latto e della vista, se pur sono d'una
sufficiente grandezza , ed anzi hanno per noi l'esistenza
eu1 il nome unicamente perche sono i convenienti og
getti del tatto, della vista e degli altri sensi, nè da
altra facoltà si percepiscono.
Nè il medico che abbiaui citalo sarebbe caduto in così
strana confusione ed oscurità di mente , se avesse raf
frenata la sua immaginazione, e fosse stato contento ai
falli , i quali soli egli afferma sempre di seguitare. A
lui sembra cosa manifesta, che noi veggiamo le impres
sioni pervenire al cervello per la via de' nervi, allo stesso
modo come veggiamo i cibi cader nello stomaco: e che
veggiamo dal cervello renderci queste impressioni can
giale in idee, giudizj ecc., come veggiamo lo stomaco
renderci gli alimenti alterati. E a me sono ben note le
sperienze dello Spallanzani sulla digestione e forza dello
stomaco de' polli ed altri animali: so, che avendone aperti

(i) Rapporti du physique et du moral de V hommt eie, Mero. IL


450
un gran numero, ebbe campo di sottomettere all'osser
vazione de' sensi il cibo in tutti i diversi stati ne' quali
per T azione de1 visceri egli si va rimutando. Ma circa
la digestione del cervello , di cui il signor Cabanis fran
camente assicura che n'abbiamo egual certezza come di
quella dello stomaco, io confesso ingenuamente di non
aver mai letto le sperienze di alcun naturalista sulle
impressioni che vengono dai nervi trasmesse al cervello
e da questo digerite. Sarebbe pur bello che si potesse
ro, aprendo varj animali, cogliere in sulla via queste
impressioni , e cavarle fuori siccome i cibi da' lor cauali,
o trovarle nel cervello in varj stati di digestione, ora
pervenute allo stato d' idee, ora a quel di giudizj, ora
in quello di altre associazioni, e poterle quindi sotto
porre al microscopio, ed ogni altro esperimento che
piaccia prender di esse, non altrimenti che la pasta più
o men digesta che si estrae da' visceri ed intestini degli
animali. Il Cabanis n'accerta sulla sua fede, che queste
impressioni si veggono cader nel cervello altrettanto
quanto i cibi cader nello stomaco : e se l'ha vedute
egli , non dirò io ; ma certo nè io nè altri le vide mai
al mondo. Per altro io voglio osservare, che nelle sue
espressioni medesime vedesi il germe del suo errore.
Egli suppone che tutto ciò che noi conosciamo, il co
nosciamo per la vista e pel tatto e per gli altri sensi;
e che nulla esista, se non gli oggetti esterni di questi sen
si. In tale supposizione anche le idee si debbono vedere
e toccare, giacché noi le conosciamo. Le espressioni sue
tolte dal senso della vista, ed applicate ai sentimenti
ed alle idee egualmente che a' cibi dello stomaco, danno
di ciò prova manifesta. Ma eh' egli non conoscesse, o
non calcolasse punto 1' altro fonte delle nostre cogni
zioni , cioè 1' esperienza intema , e che riducesse tutto
alla sola sperienza esterna de' sensi , vedesi chiaramente
dal passo seguente: «Noi non abbiamo altre idee degli
u oggetti, egli dice, che pe' fenomeni osservabili chea
« noi presentano : la loro natura e la loro essenza non
« può essere per noi che il complesso di questi feno-
« meni» (i). Esclusa pertanto l'osservazione sopra i falli
interni del sentimento e della coscienza , egli dovea ca-

(i) Rapporti da phjrsique et du moral de V homme etc., Memoirt II.


dere nel sistematico: la parte soggettiva era interamente
ignorata, cioè snaturata, resa oggettiva: un gretto e
materiale empirismo è inevitabile conseguenza d' un'os
servazione così difettosa , la qtial dimentica ed esclude
la serie de' fatti più elevati e sublimi che la natura
contenga, e che il soggetto senziente e pensante, cioè Io
spirito, presenta a sè medesimo.
Conviene però confessare, che la distinzione fra il
soggettivo e 1' extra-soggettivo non è poco difficile: quindi
non fa maraviglia che anche scrittori di buona dottrina
usino delle espressioni inesatte che favoriscono il mate
rialismo , e sono di gravissimo danno, senza che punto
essi sei sappiano nè lo sospettino; perocché quelle ser
vono ad una sì trista ed ignobil dottrina come di tante
harbicciuole, colle quali ella si aggraticcia al suolo, onde
non può essere mai del tutto sbarbicata e svelta (i).

(i) Reid ha molto merito per avere censurate alcune maniere di dire in
valse nella filosofìa , le quali racchiudono nel loro seno una improprietà che
conduce al materialismo. A ragion d'esempio, il dire che la sensazione si
faccia per via A' impulso del nervo nello spirito, esprime una immaginazione
ipotetica e materiale. Egli la nota in Locke: « Il Signor Locke afferma con
" grande sicurtà che le idee degli oggetti esterni sono prodotte nelle no-
■ sire menti per impulso, essendo questa l'unica maniera iu che noi conce-
" piamo potere i corpi operare »; e mostra quanto sia questa ragione di
Locke gratuita. È però da osservarsi, rispetto all' opinione di Locke su ciò,
quanto Reid medesimo soggiunge, cioè ch'egli ritrattò questa sentenza nella
sua prima lettera al vescovo di Wocestcr, e che promise di rettilicarc il
passo Della prossima edizione del Saggio. « Ma o per dimenticanza dell' au-
" torc, così Reid, o per negligenza dello stampatore, il passo rimane in
" tulle le edizioni seguenti che io ho vedute» (Essays on the power.* eie,
T. Il, face. 88) Osserva lo stesso valente scozzese l'equivoco che danno
le maniere di dire, fuori o dentro della mente, presente idi' anima, ecc., le
quali sono tolte tutte dalla percezione oggettiva de' corpi esterni. Il dentro
«fuori deW anima, perchè abhia un valore esalto, non dee già voler signi
ficare idee di luogo , ma dee solamente esprimere che sono nel soggetto, o
non sono. Il presente alla mente, vuol dire dalla niente attualmente pensato.
Talora però sembrami che il dottor Reid censuri con troppa severità qual
che espressione , che tiene per mio avviso un senso vero anche tolta in
senso proprio: come quella di rappresentazione, applicata alla mente. È vero
die la parola rappresentazione si toglie il più a significare ciò che ci è posto
i' schierato dinanzi ai nostri occhi nello spazio. Ma io osservo, che quau;
il' anco io mi chiuda nel solo mio pensiero., io posso e debbo concepire,
che ciò che il mio spirito intelligente pensa, è a lui rappresentato .- percioc
ché in ciò cui pensa, il mio spirilo non ha alcuna potenza; non pervade 'la
cosa pensata, nè s' immcdrsiuia con essa, ma è da essa distinto: la co>.i è
nello spirito in modo che nou si può confonder con lui: e questa maniera
di essere nello spirito, panni che venga bene espressa colla p<r(.la ;Ii rap-
Rosmini, Orrg. delle Idee, Voi. IL 58
458
ARTICOLO IV.
LINEA DI CONFINE TEA LA FISIOLOGIA E MEDICINA , E LA PSICOLOGIA.

La distinzione fra la sensazione e la impressione , fra


il noslro sentire soggettivo e ciò che noi veggiamo e
tocchiamo, cioè che percepiamo extra-soggettivamente ,
stabilisce la linea di confine tra la fisiologia c medici
na, e la psicologia.
La fisiologia e la medicina non sono e non possono essere
che il prodotto della osservazione esterna, cioè della os
servazione che si fa mediante il tatto, la vista e gli altri
sensi : la psicologia all' incontro è il prodotto della os
servazione interna, cioè di tutto ciò che passa nella
nostra coscienza.
La fisiologia e la medicina riguardano il corpo come
oggetto esterno; la psicologia ha per iscopo io spirito,
ed il congiunto in quanto è soggetto.
La fisiologia cerca di conoscere lo slato naturale dei
corpo noslro, tutti i diversi effetti a cui egli soggiace,
la classificazione di questi effetti, la loro uni formi là, o
sia le leggi del suo operare. Ora tutti questi effetti ,
movimenti , modificazioni , leggi, a cui il corpo nr~'ro
soggiace, non sono che altrettanti termini del latto,
della vista e degli altri sensi, e quindi oggetti dell'in
tendimento : il corpo dunque in queste scie /e è consi
derato come cosa puramente esterna ed oggettiva.
Il medesimo si dica della medicina: ella nota le mu
tazioni o modificazioni morbose del corpo noslro , e i
rimedj che lo rimettono in istalo di salute, mediante
una continua osservazione estèrna.
È vero bensì, che anche in queste scienze aver si dee
riguardo a ciò che passa nella nostra coscienza ; ma non
è ciò lo scopo a cui tendono e in cui finiscono quesle
scienze. Se rivolgono l' attenzione loro alle passioni del
l' uomo, alla forza che esercita una intensa applicazione
dello spirito in sul corpo nostro; non è che per cono
scere gli effetti di quesle operazioni dello spirito; e questi
li trovano e conoscono sempre colla osservazione ester-

presentazione ecc. Allo slesso modo io credo che certe espressioni, che beve
si affanno al senso /Iella vista, si affacciano altresì all' intelletto, non già come
pure metafore , ma in senso proprio : poiché c' è una specie di analogia di
operare fra queste due nolenjc, sebbene di natura interamente diverse.
na. Se queste scienze tengono conto dell'effetto che le
diverse abitudini del corpo producono sull'animo e sulle
facoltà intellettuali; ciò fanno per rinvenire il modo di
far prendere al corpo quello slato di prosperità , che il
renda atto a servire allo spirito. In tutte queste ricer
che il fisiologo ed il medico osservano sempre il corpo
mediante 1' osservazione esterna , e però come puro og
getto.
Il psicologo all' opposto ha un' altra specie di osser
vazione, cioè l'osservazione interna: i fatti della co
scienza sono gli oggetti della sua osservazione: egli con
sidera l' Io , il soggetto : e se ha riguardo al corpo come
oggetto , ciò non fa se non per la relazione che questo
ha col soggetto: non si ferma perciò in questo secondo:
la cognizione del primo è lo scopo e l'argomento pro
prio della scienza : le altre cose tutte non sono a lei
che mezzi ed ajuti.
Quindi si può conchiudere , che ov' anche il coltello
anatomico giungesse a cercare ne' corpi degli animali
le minime fibre, e s'inventassero de' microscopj quanto
si può immaginare eccellenti che mostrassero addentro
l' intima tessitura de' corpi , e quando anche tutto ciò
riuscisse di fare in un modo più perfetto d' assai che
air uomo non è conceduto; tuttavia, rimossa la osser
vazione interiore de' fatti della coscienza , la scienza psi
cologica di tutte queste scoperte non profitterebbe un
punto, non farebbe con tutto ciò un picciol passo più
innanzi.
ARTICOLO
• ■ V. • .,. •. . . :i . ■ .
de' sistemi circa l'unione dell'anima col corpo.

Fino a tanto che si considera il corpo come ci appa


risce quando si fa termine esterno de' nostri sensi, è
impossibile ritrovare la più minima simigliauza di lui
collo spirito, e perciò nessuna possibilità di una comu
nicazione fra queste due cose. < ,
Anzi si può dimostrare, che parlando del corpo in
«luesto concetto, ogni comunicazione fra lui e lo spirilo
è ripugnante e impossibile.
Ora io osservo , che s' ebbe sempre in costume di
considerare il corpo sotto questo rispetto limitato: quindi
de' filosofi di gran mente , veggendo quella assurdità e
4Go
ripugnanza, che il corpo quale egli si presenta a' nostri
sensi esteriormente abbia comunicazione collo spirito,
rifuggirono dall' influsso fisico, e ricorsero ad altri si
stemi ; fra' quali sono celeberrimi quello delle cause oc
casionali di Malebranche , e quello dell'armonia presta
bilita di Leibnizio.
Ma la necessità di questi sistemi venne unicamente
prodotta da una osservazione incompleta del corpo, cioè
dall' aver considerato il corpo solamente coni' egli appa
risce a' sensi esteriormente, a' quali egli è noto solo par
zialmente e in quanto è fuori di noi (i): mentre la
questione esigeva eh' egli si considerasse come soggetto,
giacché non si trattava che di sapere com'egli fosse
insieme coli' anima un soggetto delle sensazioni.
S' immaginò falsamente che 1' unione del corpo col-
l'anima si potesse concepire siccome il mescolamento di
due fluidi , o l' intrusione e commettimento di due so
lidi insieme: cose che sottostanno all'esperienza ester
na , e possiamo esaminar cogli occhi nostri e toccar
colle mani, e far sopra di esse molti sensibili sperimenti.
Si aggiunse bensì in questo pensiero , che lo spirilo
fosse tanto sottile, che sfuggisse all'osservazione esterna
anche degli strumenti; ma s'immaginò nello stesso tem
po, ch'esso, e 1' unione sua col corpo fosse presso a
poco della natura delle cose visibili ma piccolissime,
e quindi che cader potesse sotto l' osservazione de' semi
quando questi fossero stati sì fini da potere alla finezza
degli oggetti convenire.
In vece di tutto ciò, conveniva conoscere, che non
è la sola via dell' osservazione esterna quella che ci
faccia conoscere il corpo; ma che v'ha una osservazione
interiore , che pure alla cognizione del corpo ci conduce,
ma colla quale il corpo ci apparisce assai diverso da
quello che i sensi esterni ce lo presentano ; e ci mo
stra nel corpo nuove proprietà più intime , più essen
ziali: egli insomma si rende a noi noto siccome la
materia del sentimento fondamentale, e concausa del
medesimo.

(i) Se tutto ciò «he si percepisce co' sensi è fuori di noi , come a po
terla spiegare un'azione fatta iu noi. con ciò che è fuori di noi esseuzi-'
metile, e per l' ipotesi t
46i
Conveniva adunque rientrare in sè stessi , consultare
la coscienza , e riflettere unicamente sul sentimento del
l'/o, esclusa ogni immaginazione esterna : e indi cavare
il concetto di quella congiunzione di che si trattava.
In tal modo è nell'/o stesso che si avrebbe potuto
trovare il corpo, secondo il pensiero di s. Tommaso,
perchè è nell' Io che sta quella azione che ha un modo
ed un termine che si chiama spazio.
Nell'/o, nello stalo della nostra presente natura,
trovasi adunque una forza diversa dall' Io, cui V Io sente,
e sentendola, stende la propria sensazione in un ter
mine esteso.
Questo sentimento che si trova nell'/o, al quale
l' Io è tratto da una forza naturale ( per la quale egli
è passivo ), è un fatto. Bisognava adunque considerare
F unione dell' anima al corpo come un fatto dato dalla
osservazione sopra di noi medesimi: come un fatto pri
mitivo, un fatto che è la nostra stessa natura: quindi
le difficoltà di questa unione non si possono nè pure
più concepire, non hanno più alcun senso.
ARTICOLO VL
RAPPORTO FRA IL CORPO ESTERNO SD IL CORPO SOGGETTO.

La maniera adunque soggettiva , e la maniera extra-


soggettiva di percepire, ci danno due concetti del corpo,
non solo diversi, ma in qualche modo contrarj : cioè il
concetto di soggetto, e il concetto di extra-soggetto.
E questa contrarietà nasce unicamente dalla limita
zione di questi due concetti , per la quale l' uno esclude
da sè ciò che forma V altro.
Quindi quando il corpo si considera in questi due
diversi concetti, si hanno delle proposizioni contrarie.
Fra queste posso addurre in esempio le due seguenti:
il corpo è nell'anima, e l'altra, l'anima è nel corpo.
Tutte due sono vere, ma si riferiscono ai due con
cetti opposti del corpo.
E vero che il corpo è nelV anima, nel concetto del
corpo soggettivo; poiché il corpo in tal caso non è che
un agente nell' Io ( nell' anima ).
E vero che l' anima è nel corpo, quando si consi
dera il corpo come straniero al soggetto, e si considera
l'anima negli effetti che produce in questo extra-soggetto.
46a
Dico negli effetti suoi: perocché ove si consideri l'a
nima in sè stessa , ella è un soggetto, e non può esser
mai oggetto sensibile , nè avere luogo perciò iu oggetto
alcuno corporeo.
Quindi ove si consideri 1' anima intelligente in sè
(come soggetto), e si paragoni al corpo come oggetto,
nasce una terza sentenza, che pure è vera, cioè che
V anima non è in alcun luogo, perch'ella è semplice.
Tutte queste distinzioni valgono ad annullare uu gran
numero di questioni diffìcili, che, senza correggere il
parlare e ridurlo ad una proprietà filosofica, non possono
essere giammai terminate.

ARTICOLO VII.
SULLA MATERIA DEL SENTIMENTO.
Nella sensazione eccitata in noi dall'azione de' corpi
esteriori, noi abbiamo distinta la parte extra-soggettiva
dalla parte soggettiva.
Ma favellando del sentimento fondamentale, siccome
pure della parte soggettiva della sensazione che è una
modificazione di lui, noi abbiamo detto non potersi
dire con proprietà che il detto sentimento abbia un
oggetto, ma bensì una materia ov' egli termina.
Data poi 1' operazione de' sensi , e aggiuntosi l' atto
dell' intendimento , noi percepiamo degli oggetti esterni
e imponiamo loro il nome di corpi. Ma ci accorgiamo
ben presto, che fra questi corpi percepiti ve n' ha uno
che è la materia del nostro sentimento , il quale perciò
lo chiamiamo corpo nostro. '
Ma qual differenza v' è mai fra oggetto e materia?
Questo è quello che giova 'diligentemente investigare:
diam mano, per quanto ci è possibile, a farlo.
Il nostro corpo , sia nello stato naturale , sia modi
ficato, in quanto è sentito dal nostro sentimento inte
riore , è materia di questo ; in quanto è percepito dai
sensi nostri od altrui , è termine de' medesimi, ed og
getto poi dell' intendimento. Questo fa conoscere, che la
materia del sentimento è qualche cosa di mezzo fra il
puro soggetto e il termine del senso : non è il soggetto
senziente, perch'ella anzi è sentita; ma nè anche è un
puro termine del senso, perciocché il senso non esiste
senza di lei. Ciò che dico del corpo come puro termine
463
del senso, vale anche poi corpo considerato come ter
mine percepito dall'intelletto, o sia oggetto: e vice
versa, ciò che dico del corpo come oggetto, s'inten
derà detto anco del corpo come termine.
La prima differenza adunque fra materia ed oggetto
d'una potenza è questa, che l'oggetto non è necessa
rio alla sussistenza della potenza; mentre la materia
entra a costituir la potenza in questo senso, che senza
essa, la potenza non si può più concepire. Vero è, che
l'uomo non vedrebbe, udirebbe , fiuterebbe, gusterebbe,
senza luce, aria, olezzo, particelle saporifere : ma tolti
questi oggetti , sussistono tuttavia e si possono pensare
occhi, orecchi, nasi, palati, cioè organi sensitivi sani
e perfetti. Non può intendere a fondo questa differenza
che qui espongo fra materia ed oggetto , colui che non
si è formato un giusto concetto delle potenze. Questi
dee sapere adunque, che ogni potenza è un atto primo,
il quale atto poi, date le condizioni necessarie, ne pro
duce degli altri , variati secondo la varietà delle condi
zioni. Or quest' atto primo e costante si dice potenza
rispettivamente agli atti secondi e passaggeri. In somma
ogni potenza dee essere una certa attività quasi direi
infrenata, la quale , tolto via il freno, come arco in
cordato scocca e ferisce. Or, fittasi bene in capo questa
nozione della potenza , si vedrà , che come ogni atto
secondo ha bisogno d' un termine perchè sia fatto, così
la potenza cioè V atto primo ha pure bisogno del suo
termine , senza il quale non può essere nè pensarsi. E
come la potenza ò qualche cosa di stabile, mentre l'o
perazione della potenza è passaggera ; così la potenza
dee avere a termine cosa stabile , perocché col suo ter
mine essa rimane o perisce. Tolto dunque il termine
dell' operazione , la potenza rimane; ma tolto il termine
della potenza, questa non riman più. Ora la materia è
appunto un termine slabile, un termine della potenza,
che forma quindi una cosa sola con essa. Ma poiché
questo termine è così congiunto colla potenza, né si
può pensare da essa staccato, quindi anziché chiamarsi
semplicemente termine (vocabolo che si riserba pel ter
mine esteriore dell' atto ) , riceve quello di materia. Tut
tavia non basta questo carattere della indivisibilità dalla
potenza , a formare la materia di una potenza.
La seconda differenza adunque fra l' oggetto e la
464
materia di una potenza è questa, die l'oggetto talora
può essere attivo, per modo che attivi la potenza, o può
essere almeno impassivo ; mentre la materia della potenza
si concepisce senza attività rispetto alla medesima. E qui
pure si distingua il termine dell'atto primo (potenza),
e i termini degli atti secondi od operazioni della po
tenza : gli oggetti delle mie cognizioni sono quelli che
traggono la mia mente a fare gli alti coi quali ella ce
nosce ; così pure V impression della luce esterna è unt
cotale azione violenta ( termine ) che trae la mia sensi
tività all'atto della percezione sensitiva. E generalmente
parlando , gli oggetti del conoscer nostro tengono, ri
spetto alle nostre potenze conoscitive, uno stato attivo,
o certo impassivo (come l'osservazione ce li presenta),
mentre i termini delle nostre potenze pratiche tengono
uno stato passivo. Ora se il termine dell' atto primo,
cioè quello che costituisce la stessa potenza, ci si pre
senta in uno stato attivo, o certo impassivo, noi al
lora non lo chiamiamo oggetto perchè riserbiamo que
sto vocabolo a significare cosa esteriore alla potenza
stessa, dove terminano le sue operazioni; e nè pure il
chiamiamo materia, poiché un tal nome esclude il con
cetto di attività; ma lo chiamiamo anzi forma della
potenza , cioè tale oggetto, che costantemente unito col
soggetto , trae questo in un atto primo, cagione poi di
molte operazioni , il qual atto si chiama potenza. Quindi
è che l' idea dell' essere universale noi la dicemmo forma
dell' intelletto : e all' opposto il corpo nostro sentito noi
lo chiamammo materia del sentimento, in quanto che
egli è « un Oggetto stabile dell' atto primo della nostra
sensitività , privo di attività rispetto all'atto stesso del
sentire » .
La materia però del sentimento fondamentale ha un
terzo carattere e notabilissimo. Non solo essa , rispetto
al sentimento , è un termine suo senza attività, e colla
capacità semplicemente di porgersi al medesimo in ter
mine passivo; ma questa stessa capacità o suscettività
passiva è assai imperfetta, poiché la materia resiste con una
cotale inerzia a ricevere quello stato che 1' attività del
sentimento dar le potrebbe, e quindi il sentimento slesso
trova un freno posto al suo perfetto operare. Nè dicasi
che questa inerzia dee essere pure una forza rispetto al
sentimento, giacchi- contrasta col sentimento. Prima os
servo, che il lasciarsi muovere agevolmente, appartiene
a perfezione, quando trattasi d' un moto che solleva a
condizione di natura migliore. La capacità di ricevere
miglioramento è una intrinseca attività. Al contrario
dunque , l' incapacità di ricevere miglioramento è man
canza di queir attività quasi direi seminale, di quella
recondita virtù, che se non è, sviluppar non si può;
quindi colla sua mancanza mette ostacolo alla perfezione
che all' ente potrebbe venire comunicata. Non è dun
que vera ed attiva resistenza quella che fa la materia
al sentimento, ma è incapacità, inerzia. Nè queste ri
flessioni vengono da speculazioni astratte, ma descri
vono la materia del sentimento siccome ella si porge
ad una attenta osservazione. Perciocché l'osservazione
ci mostra , che il sentimento fondamentale non si spande
già puramente in una estensione vuota ( per così dire ),
ma in una estensione dove prova certe resistenze, e se
vuoisi, anco mutazioni e violenze, secondo stabili leg
gi: le quali sono x.° quelle che costituiscono il rapporto
del corpo sensitivo co' corpi esteriori , a." e quelle che
costituiscono il rapporto del corpo sensitivo ( materia )
coli' Io $ cioè coli' atto del sentimento. Ma più ancora,
che alla perfezione del corpo, attendasi alla perfezione
del sentimento. Il sentimento sarebbe più perfetto, più
eh' egli potesse avere il corpo perfetto e a sua voglia
per così dire ubbidiente. Se dunque succedono delle
alterazioni dannose nel corpo , e il sentimento ne pati
sce; sia pure che ciò mostri una forza nel corpo; ma
s' ella è una forza , è però tale che rende il sentimento
imperfetto , e che , quando si confiderà come termine
del sentimento , è meno che una semplice inattività.
Ora il sentimento colla sua materia forma una cosa
sola, una sola potenza , come osservammo. Questa forza
adunque della sua materia è la parte passiva ed imper
fetta di questa potenza, non la formale e perfetta; ed
è perciò massimamente, che il corpo nostro in quanto
è da noi sentito chiamasi materia del sentimento fon
damentale (i).

(i) Conviene bene distinguere il principio dal termine dell'atto. Per


quanto sia ciò difficile a concepirsi, è però un fatto innegabile , che il prin
cipio può essere semplice, mentre il termine dell'atto è molliplicH o esteso.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. II. 5g
466
Dopo tulto ciò, si presenta una difficoltà assai grave,
ed è la seguente. Nel corso di qucst' opera io ho de
scritto il corpo come un agente sullo spirilo , e che
cagiona od eccita in lui il sentimento fondamentale.
Come dunque la materia del sentimento fondamentale,
che è pure il corpo stesso , si descrive qui come pas
siva e anche inci le rispetto all' azione di quel senti
mento ?
Ecco che cosa a questo io rispondo.
In primo luogo, la materia del sentimento fondamen
tale non è il corpo con tutte le sue qualità : poiché
nella materia .sua il sentimento fondamentale non per
cepisce il corpo ché imperfettamente, cioè in quanto
egli si porge a termine passivo e inerte dello stesso
sentimento : V attività adunque clic può avere il corpo
a produrre il sentimento, non è compresa nella materia
del sentimento : e per vedere come ciò possa essere,
si rifletta a quanto segue.
« Una forza la quale operi in un dato modo sopra
un ente , può trarre questo ente in cotale atto, che
termini appunto in quella forza che l'ha eccitato e

Quindi l'estensione , nella quale si diffonde col suo termine la sensazioni


non fa già ebe 1' Io, principio che sente, sia meno semplice j come le ra
gioni palmari da me accennale nel Cnp. II non lasciano dubitare. Questi
osservazione però sfuggi a Malebranche, e fu cagione eh' egli non vedesse
la possibilità della comunicazione dell' anima col corpo. Nella dispula eoa
Arnaldo, questi ebbe luogo di fargli la seguente bella osservazione, nella
quale però si vede la solita confusione di concetti fra le sensazioni e le
idee, o sia fra la percezione sensitiva c la intellettiva. Arnaldo dice così:
« Nulla per vero a me sembra tanto strano, quanto il dire che i corpi
a sono troppo grossi da potere esser veduti immediatamente dall'anima
a nostra. Poiché si avrebbe ragione dJ addurre la grossezza e imperfezione
tr de' corpi , ove si trattasse di renderli conoscenti. — Ma trattandosi solo
a d'essere conosciuti, che può nuocere a ciò l'imperfezione delle cose nu-
« teriali ? Conoscere è senza dubbio perfezion grande in colui che co-
a noscc; e quindi ciò che sta nel più basso gradino della intellettiva na-
a tura, è cosa senza confronto più grande e ammirabile di tutto ciò che
a v'ha di più perfetto nella natura corporea. Ma essere conosciuto non è
a che un semplice nome per l'oggetto conosciuto, e basta a ciò di non
« essere un puro nulla , poiché non v' ha che il nulla che sia inetto ad
« essere conosciuto. Essere conoscibile è proprietà inseparabile dell' esiste-
ii re, come l'esser uno, l'esser vero, l'esser buono; o anzi è la stessi
a cosa coli' esser vero » (Des vrais et des fnusses ide'es,C.X) . La difficolti
di Malebranche nel suo fondo consisteva più nella difficoltà di essere per
cepiti sensitivamente i corpi, che di essere conosciuti. Tuttavia quanto riflette
Arnaldo può valere in parte anche per la sensazione d' un essere sensitivo
e intelligente.
4G7
promosso; sicché questa forza diventi passiva rispetto
a quell'atto, del quale fu pur la prima cagione: e può
ancora eccitarvi un atto che termini fuori di essa». Con
sideriamo il primo di questi due casi.
Non posso io muovere una forza , che mossa ricada
sopra di me ? Trattando un archibugio, talora resta fe
rita la mano che ha messo in moto quella terribile
macchinetta. Ma questo via meglio si può applicare ad
un agente spirituale, il qual si muove per una mirabile
spontaneità, come l'esperienza mostra; sicché non ci ha
tanto bisogno, ad eccitare lo spirito, d'una vera cagione,
quanto di una occasione; perciocché quell'attività interiore
rompe in atti spontanei , ove l'occasione e le condizioni
richieste sien poste. Quindi nel corpo può essere una forza
che tragga lo spirilo all'atto del sentire, e può nello stesso
tempo quest'atto del sentire ( che è pur anco un'attività )
riversarsi sul corpo come sopra suo termine necessario.
E veramente, le leggi secondo le quali lo spirilo si muove
prima al sentire , a noi sono celate, od almeno a me.
Ma tuttavia non è assurdo il conghiellurare che ci sieno,
e che emanino dalla natura slessa dello spirito. Con-
ciossiachè in tutti gli esseri dell' universo, che cadono
sotto la nostra esperienza, noi troviamo costantemente
quelle due cose; i.° che seguono nel loro operare certe
leggi, 2.0 e che queste leggi non sono loro imposte arbi
trariamente , ma escono siccome conseguenze dalla loro
natura. Applicando la stessa osservazione allo spirito ,
non è fuor di ragione il pensare, che la natura attiva
di quest' essere sia quella di operare, ovechè certe con
dizioni del suo operare si trovino. Ora è condizione ne
cessaria del sentimento fondamentale l'esistenza del
corpo organizzato , come apparisce dall' analisi dello
stesso sentimento. Potrebbe dunque essere , che, dalo il
corpo così disposto, 1' unione ed il sentimento seguisse
per una legge della stessa natura dello spirito. Ma que
st' ultima riflessione non passa il termine di una con-
ghiettura. Quello però che riman certo di tutto questo
ragionamento si è , che il corpo può essere passivo ri
spetto al sentimento fondamentale, sebbene egli sia
quello che a principio originò e promosse quel sentimen
to , o certo ne fu condizion necessaria. Ora il corpo
solo, consideralo sotto questo rispetto, chiamasi materia
del sentimento. L' attività che muove lo spirilo a seu-
468
tire, è il principio del sentimento; la materia è il ter
mine del medesimo. Sebbene adunque noi, consultando
la nostra coscienza , possiamo assai bene accorgerci di
esser passivi nel sentire, cioè di un' attivila esterna
cbe agisce in noi; tuttavia questa attività non può mai
essere la materia del sentimento. Supposto adunque che
il corpo fosse quello cbe possedesse una tale attività,
il corpo non potrebbe essere, in quanto è attivo , ma
teria del sentimento. Il che può farci una strada ad in
tendere quella distinzione che gli antichi talor pone
vano tra materia e corpo.
In secondo luogo si osservi, cbe sebbene il corpo
possa ricevere quella attività sullo spirito, tuttavia si
suole osservare meno quella recondita attività sullo spi
rito, che l'altre qualità de' corpi , massime l'estensione
e l' inerzia.
E perchè maggiormente questo s'intenda , si richia
mino bene e ritengansi le seguenti verità da noi prima
dimostrate :
i." I varj modi di percepire i corpi ci danno perce
zioni diverse de' corpi per modo , che quelli sembrano
esseri diversi.
a.' Questi esseri diversi nascono a) parte perchè alla
percezione de' corpi si mescola molto del soggettivo, e
questo mescolandosi in varie forme, fa uscirne varj og
getti prossimi della nostra percezione; b) parte perchè
in un modo si scuoprono certe proprietà del corpo,
che in altro modo percepite rimangono occulte, il che
fa parere il corpo un essere diverso. Così percependo
il corpo esterno cogli organi nostri, noi non abbiamo
del corpo che certe qualità cieche per così dire, e non
percepiamo 1' attitudine del corpo ad esser materia del
sentimento , il che col solo sentimento stesso ricono
sciamo.
3.* Il vocabolo corpo viene quindi a variare di signi
ficalo, ora aggiungendosi colla mente, nel significato di
questo vocabolo, ciò che da noi si percepisce in un
modo , ora ciò che si percepisce in un altro.
4-° Il significato che più comunemente s'attribuisce
al vocabolo corpo, è ciò che percepiamo co' cinque or
gani ne' corpi esteriori , perchè questa percezione è fa
cile ad essere avvertita, mentre la percezione che si fa
col sentimento fondamentale, od anche colla sensazione
469
soggettiva , è assai difficile ad avvertirsi e ben distin
guersi (i).
Mediante tali osservazioni si può vedere ragione perchè
nel significato del vocabolo corpo non si soglia com
prendere comunemente quella forza intima colla quale
egli agisce sul nostro spirito , alla quale il nostro spi
rito reagendo produce l'unione. E per conoscere questo,
si osservi che cosa succede nella sensazione acquisita
dalla quale si trae il più l' idea di corpo , e per essa
se ne inventa il vocabolo.
Il corpo esterno che agisce sull'organo nostro, non
fa che mutare in esso la sua forma sensitiva, o per
dirlo in generale, produrvi un movimento. Lo spirito,
dato quel movimento, sente una sensazione. Ma sen
tendo una sensazione nuova , non manda fuori di sè
per questo nessuna nuova attività. La legge colla quale
sentiva il suo corpo, era « di sentirlo in quello stato
sensitivo (2) nel qual si trovava ». 11 corpo esterno agì
sul corpo vivoj emulò lo stato sensitivo; V Io adunque
seguitando la sua azione, e la legge della medesima,
sente il nuovo stato dell' organo. Ora in questo fatto
non vi fu alcuna nuova azione del corpo sullo spirito :
ma non ci fu che un' azione de' due corpi fra loro,
cioè del corpo nostro col corpo esterno ; i quali due
corpi nella loro mutua azione teanero non delle parti
colari leggi, ma le leggi meccaniche, fisiche, chimiche,
comuni a tutti i corpi anche inanimati. Lo spirito dun
que in questo fatto non si congiunse ad alcun nuovo
corpo : nessun nuovo corpo agì su di lui : 1' azione del
corpo proprio su lui era precedente: non si prese di
questa alcun nuovo sperimento. Da ciò si vede che nella
sensazione acquisita tutta 1' azione de' corpi che si può
notare e percepire non è che azione esterna , la quale
fanno i corpi esterni in fra di loro. Non essendo dun
que compresa nella sensazione l' azione ohe il corpo fa
sullo spirito, questa non viene associala generalmente
al vocabolo corpo, ma viene a lui bensì associala l'a
zione extra-soggetliva de' corpi in fra loro secondo le loro

(1) Oltracciò si rifletta che cogli orgaui esterni percepiamo delle qualità
assolute e necessarie al corpo , sebbene di poca luce per intendere la na
tura dfl principio corporeo.
(i) Face. 263 r srgg. >
47° ' . ..."
leggi meccaniche, fisiche e chimiche. Ora questa esclu
sione conferisce a far sì che nella paròla corpo non si
ravvisi alcuna attività sua sullo spirito , e che quindi
egli venga considerato come pura materia del medesimo.
In terzo luogo, quell' attività che noi abbiamo attri
buita al corpo, non è al corpo essenziale , nel senso più
comune di questa parola ; ma accidentale : essa non
emana dalla stessa natura del corpo volgarmente preso;
il che si dee molto attentamente considerare. Questa
ragione giustifica il senso comune, il quale non suole
racchiudere nel significato del vocabolo corpo quella ai-
tività di che favelliamo; poiché il nome corpo non se
gna che semplicemente l' idea di corpo in generale ; e
questa idea non presenta alcuna attività , massime in
sullo spirito . nostro.
E a veder ciò, esaminiamo l'indole dell'azione de'
corpi, sia fra loro, sia in sullo spirito nostro.
I. 11 movimento non è essenziale ai corpi; ma ciascun
corpo lo riceve dal di fuori di sè. Ora l' azione che
fanno i corpi esteriori sui nostri organi, è tutta, quanto
sembra, veniente dal movimento. La resistenza non è
altra cosa che il compartimento del moto nelle parti del
corpo. L' aderenza delle parti non presenta se non una
legge che determina il numero delle parti fra le quali
il moto dev'esser diviso. L'azione dunque de' corpi
esterni sul nostro, siccome noi siamo soliti di speri
mentarla, è una attività dal corpo ricevuta, e non pro
pria ed essenziale al corpo stesso. Quindi il corpo, ri
spetto a questa attività di muoversi, è veramente passivo,
in quanto egli non fa che ricevere, e lasciar partire di
sè ciò che ha ricevuto ( il moto ).
II. Veniamo all'azione del corpo nostro sullo spirito.
Egli sembra evidente, che anche quest' azione non è
compresa nella natura di corpo (extra-soggetto) , e che
il corpo la riceve da un principio fuori di lui. E ve
ramente, se fosse essenziale al corpo 1' altitudine di po
tere agire sullo spirito, ogni corpo dovrebbe essere ani
mato. All' opposto 1' osservazione dimostra , che ogni
corpo non è animato; anzi, che un corpo, a poleressere
animato, dee avere una certa configurazione od organiz
zazione, la quale non è essenziale, ma puramente acci
dentale al corpo. Quindi l' attitudine alla vita, anziché
risedere nelle singole particelle de' corpi, sembra dover
riponi in un certo loro complesso ed armonica dispo
sizione. Il corpo adunque sebbene agisca in sullo spi
rito, non agisce per un principio attivo che abbia in
sè per natura, ma per un'attività ricevuta. Quindi ri
spetto a questa attività il corpo è un essere passivo,
cioè un essere che riceve e non dà (i).
In quarto luogo , faccia il lettore la riflessione se
guente, che mi sembra più importante al uostro uopo
di tutte quelle che ho fatte fin qui.
Il corpo, abbiam detto, non ha nella sua natura
V attività d'agire sullo spirito, ma egli la riceve. Or non
potrebbe riceverla dallo spirito stesso? Non abbiamo noi
veduto, che « un essere può eccitare in un altro tale at
tività, che questo venga ad agire appunto su lui che
la eccitò? » Questa osservazione che abbiamo applicata
all'azione del corpo, non si può assai meglio applicare
all'azion dello spirito?
La meditazione che io ho fatta su questa questione
mi ha dato come probabile il seguente risuitamento :
I. Lo spirito umano nella sua azione è determinato
a certe condizioni: una di queste condizioni, per certa
specie di azioni, è quella dell'esistenza di un corpo
organizzalo e a lui accomodato. Tulio questo non ri
chiede ancora alcuna azione dalla parte del corpo , ma
solo un dato stato del medesimo, che non può dare a
si stesso, ma che riceve da fuori. È legge imposta dalla
natura allo spirito umano.
IL Accomodato lo spirito al corpo perfettamente or
ganizzato , sembra che lo spirito , avendo con ciò la
condizione necessaria per fare la specie di azione accen
nala , agisca con questo corpo, e lo metta in quella at
tività che si dice vita) per la quale il corpo acquista
le ultime proprietà de' corpi vivi.
III. Quest' attivila dal corpo ricevuta è tale, che alla
sua volta reagisce in sullo spirilo, e trae lo spirito al
l'atto del sentimento fondamentale.
IV. Il sentimento fondamentale pervade il corpo e il
fa sua materia, cioè sua sede, suo modo di essere, sua
estensione.

(i) Di qui s. Tommaso trac la dimostrazione che l'anima è cosa diversa


dal corpo j S. ì} iyx\, l.
472
V. Il corpo, in questo stato di materia del sentimento,
ritiene della sna inerzia, sicché rimane soggetto all'a
zione degli altri corpi esterni. AI mutarsi quindi della
materia sentita, mutasi il sentimento, non già per una
nuova azione della materia sullo spirito, ma per la
legge a cui è astretto lo spirilo di finire il suo alto
alla sua materia, che è termine passivo dell'alta
473
PARTE SESTA
CONCLUSIONE.

CAPITOLO I.

EPILOGO DELLA TEORIA.

Le potenze originali dell'anima sono due: un senso


per le cose particolari , ed un senso per le cose uni
versali (i).
11 senso per le cose particolari costituisce la potenza
che si chiama più comunemente sensitività , e il senso
per le cose universali costituisce la potenza che si chia
ma più comunemente intelletto (2).
Ogni potenza è un atto primo particolare, e viene
costituita da un termine inerente a lei essenzialmen
te , il quale si chiama materia se rispetto alla potenza
è passivo , e si chiama forma se rispetto alla potenza è
impassivo e attivo, sicché tragga il soggetto in quel-
l' atto che costituisce appunto la potenza (3).
Il termine essenziale della sensitività è sua materia ,

(1) Già ho (licbiaralo che si debba intendere per cosa universale, nel
Voi. I, face. 68 e segg. Non è che v'abbia cosa che possa essere univer
sale in se stessa; ogni cosa, in quanto è, è particolare, voglio dire deter
minala. Uno universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale
sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L'a-
mversalità adunque non è che un rapporto: nè può cadere propriamente
10 altro che nelle idee, perciocché le idee sono cose, siccome abbiamo ve
duto, con ciascuna delle quali noi conosciamo uu numero indefinito di cose,
11 qual numero si chiama specie. Vero è, che sembra a pTimo aspetto, che
oltre le idee, v'abbia qualche altra cosa che dir si possa in questo senso
universale: un riti-atto sembra universale perchè è rappresentativo di tulle
quelle persone ch'egli somiglia. Ma questo è un inganno: il ritratto nou
l>a questa proprietà dell' universalità , se non in quanto le idee gliela ag
giungono. È l' idea del ritratto quella che del ritratto e delle persone che
al ritratto somigliano fa una cosa sola, cioè paragona, e trova una simi-
glianza: questa siraiglianza non esiste già nel ritratto, ma inquell'una idea
colla quale fu pensalo il ritratto e le cose n questo simili. L'unità adunque
di quell' idea è ciò che costituisce la similitudine che possono avere le
cose fra loro, come nel caso nostro il ritratto colle persone. Vcd. Voi. I,
face, iji e segg.
(2) Noi abbiamo ridotto la potenza d'intendere ad un senso primitivo,
face. 1 5i-i 55.
(5) Face. 464.
R osmi ni, Orig. rielle Llee, Voi. TI. 60
mentre il termine essenziale dell1 intelletto è oggetto e
forma del medesimo (i).
La sensitività è esterna od intema : 1' esterna ha per
termine essenziale il corpo, materia corporea estesa;
l' interna ha per termine il soggetto puro [V Io) (a).
Ciò che costituisce adunque la potenza della sensiti
vità esterna è il sentimento fondamentale del proprio
corpo (3).
Ciò che costituisce la potenza della sensitività intenta
è il sentimento dell' Io semplicemente (4).
Ciò che costituisce la potenza dell' intelletto è il sen
timento che percepisce l' idea dell' essere universale (5).
Tolta via la materia della sensitività, non rimane più
V essere sensitivo: tolta via la forma dell' intelletto, è
tolta questa potenza , ma rimane ancora il concetto di
un essere sensitivo. Quindi 1' idea dell' essere in univer
sale è vero oggetto percepito , c distinto dall'essere sen
sitivo ; ma il termine della sensitività è un costitutivo
dell' essere sensitivo , e non potendosi da lui dividere,
non riceve propriamente il nome di oggetto (6).
La percezione esige qualche cosa di distinto dal sog
getto percipienle, e quindi è essenzialmente extra-sogget
tiva ; la sensazione non esige che una materia (7). Quindi
l'intelletto è una vera percezione primitiva, e più pro
priamente intuizione; ma la sensitività non è che un
primitivo sentimento.
Nel nostro fondamental sentimento esistono tulle
queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il senti
mento di me col mio corpo ( sensitività ), e l' intelletto.
Questo sentimento intimo, e perfettamente uno, uni
sce la sensitività e l' intelletto. Egli ha altresì un'atti
vità , quasi direi una vista spirituale, colla quale ne
vede il rapporto : quest' attività è ciò che costituisce la
sintesi primitiva (8).

(1) Face. 464 ; e stilla forma della ragione , face. 73-75.


(2) Face. 69-72. Della diversità del corpo dallo spirito, làcc. 207 358.
(3) Face. 281-296.
(4) Face. 25i-28i.
(5) Face. 73-75.
(6) Face. 464 e segg., e face. 24-33.
475
Se noi consideriamo più generalmente questa attività
nascente dall' unità intima del sentimento fondamen
tale , in quanto cioè 1' Io è atto a vedere i rapporti in
generale, ella è la ragione, eia sintesi primitiva diventa
la prima funzione della ragione (i).
E se la riguardiamo sotto il rispetto dell' unione die
ella fa d' un predicato con un soggetto, ella prende il
nome di facoltà di giudicare (a).
La sintesi primitiva è quel giudizio col quale la ragione
acquista la percezione intellettiva.
A niuna operazione noi non ci leviamo , se non da
toci un qualche stimolo o movente.
La sensitività esterna è la prima potenza che viene
tratta alle sue operazioni dagli stimoli de' corpi este
riori sui nostri organi (3).
La sensitività esterna eccitata dai detti stimoli, accusa
alla nostra coscienza una passività non veniente dal
corpo nostro , ma dal corpo staccato da noi. Allora il
nuovo sentimento, cioè la modificazione del sentimento
fondamentale fatta termine di un'azione esterna, di
venta percezione sensitiva, mentre prima era puramente
sensazione cioè affezione soggettiva (4).
Quindi la materia prima delle cognizioni umane som
ministrata dalla sensitività consiste
i.° in un sentimento dell1 Io percettivo del corpo
( sentimento fondamentale ), *
a." nelle sensazioni o modificazioni di questo senti
mento ,
3.° nelle percezioni sensitive de' corpi.
Quando la ragione considera queste cose in relazione
coli' essere in universale, e produce le percezioni intel
lettive, ella aggiunge a quelle particolari affezioni del
nostro spirito la universalità, e quindi sotto questo
aspetto si denomina la facoltà di universalizzare.' sono
proprj di questa pcculiar potenza tutti gli atti diretti
della ragione (5).
Gli atti ri/lessi appartengono alla riflessione , che è
un' altra funzione della ragione (6).

(1) Face, 200-203 , e 75-74- (4) Face. 207-251 .


(2) Voi. I , face. 532 e »c(5(j (5) Face. 78-84.
(3) Face f)2 C SCgg, (ti) Face, 76 78.
476
Gli oggetti della riflessione sono tutti gli atti del no
stro spirito in quanto egli è ragionevole: alquanto im
propriamente però si dice talora riflessione alla medita
zione diretta dello spirito sulle nostre sensazioni (i).
Quindi gli oggetti della riflessione consistono
i .* in un sentimento dell' Io percettivo dell' idea
dell' ente in universale,
a." negli atti della facoltà di universalizzare,
3.' negli atti della stessa riflessione.
La riflessione ha due operazioni, la sintesi e l'anali
si; scompone ed unisce (2).
All' analisi appartiene la facoltà di astrarre (3).
Gli stimoli esterni muovono la sensitività estema;
gl'istinti fisici muovono a principio la fantasia , e su
scitano la facoltà di universalizzare.
Le immagini corporee svegliano la potenza di divi
dere le idee dalle percezioni.
Il linguaggio solo, ricevuto dalla società, può trarre al
suo alto la facoltà delle idee astratte , e dar con essa
all'uomo il dominio delle proprie potenze, o sia l'uso
della propria libertà (4).
La libera attività , o sia il dominio delle proprie po
tenze acquistato dall' uomo mediante le idee astratte
somministrate dal linguaggio , vale a dar moto final
mente a tutte le sue potenze, e apre libero il campo
all' indefinito sviluppamefito delle varie facoltà umane.

CAPITOLO II.

in che stato fu trovata dall' autore la dottrina


dell' origine delle idee.

V ha una cognizione popolare ed una cognizione fi


losofica , come sì bene distingue s. Tommaso.
Ho già dimostrato la relazione che tiene quest' opera
colla cognizione popolare: ella non è , nè ha cura d'es
sere che lo sviluppamento di una popolare sentenza (5).
Ove mi si è data innanzi l'occasione, ho anche cer
ca to di mostrare la relazione eh' ella tiene colla cogni-

(1) Face. 90. (4) Face, ic-4 c seg.


(2) Face. 78. (5) Vedi la Prefazione.
(3) Face. 81.
zione filosofica : ho additato le buone cognizioni dei
filosofi che mi hanno preceduto, e delle quali io ho
approfittato. Ma per rendere maggiore giustizia ai me
desimi, voglio qui in fine aggiungere su di ciò alcune
iltre parole.
Molti savj, da me nominati nel corso di quest' opera,
hanno traveduto 1' importanza dell'oca del? essere in
universale , e l' intima ed essenziale congiunzione di
quest' idea colla nostra mente. Nella 'filosofia moderna
trovo che Malebranche fu uno di quelli che meglio videro
questo vero importante. « La presenza , egli scrive ,
« chiara , intima e necessaria — dell' ente, inteso in
« un modo indeterminato , dell' ente in genere innanzi
« alla mente umana , agisce in essa più fortemente che
« non sia la presenza di tutte le cose finite che a lei
« si otìfrono. Non può avvenir mai eh' ella cacci da sè
« quell'idea generale dell' ente » (i). E ciò che è singo
lare si è il vedere come questo insigne Cartesiano siasi
pure accorto che il pensare all' ente , è più essenziale
al nostro spirito che il pensare a noi stessi ; verità fug
gita a Cartesio (2), ed opposta a tutto il fondamento
della cartesiana filosofia ; conciossiachè egli soggiunse

(1) Lil>. HI, c. vili.


(2) Cartesio fu giustamente tassato di una petizione di principio nello
stabilire il criterio della certezza. Prima disse: « La percezione chiara è il
criterio della certezza » ; e con questo suo criterio trova l' esistenza di Dio.
Poi «lice: - La percezione chiara mi potrebbe ingannare, ma l'esistenza di
Pio è la ragione per In quali' quella non mi può ingannare, poiché ella
viene da Dio , e questi non mi può ingannare ». Sembra impossibile che
la mente mnravigliosa di Cartesio nou siasi accorta che qui v'ha un circolo
manifesto. Ma quanto l'errore è più aperto e necessario nel sistema carte-
siano, tanto « più valido argomento dell'erroneità del medesimo. Cartesio
conobbe che una percezione del soggetto avea bisogno di qualche altra cosa
per tssere autorevole , e che in sè non conteneva necessariamente l' infalli
bilità. Questo appoggio, ili che veramente abbisogna la percezione sogget
tiva, è V ii leu dell' essere, che ha essenzialmente in sè 1' oggettività e la ne-
fentità. Ma non conoscendo Cartesio questo vero, egli ricorse all'idea di
Dio. In questo fatto Cartesio errò in due modi ; 1 0 per avere dedotto dalla
percezione ciò che giustificar dovesse la percezione, il che forma un cir
colo, a." e per essere ricoiso all'idea dell' essere primo e sussistente, in luogo
che all' essere comune. Questo secondo errore avviò Cartesio sulla via della
Mia dimostrazione» priori dell' esistenza divina, che nel modo ond'egli la
presenta è un abbaglio, come dicevamo; poiché tutta si appoggia sopra l'e
quivoco del prendere un'idea dell' essere per l'essere stesso. Per aldo gli
slorzi e gli errori di Cartesio provano la necessità ilM'idca dell'essere da
noi messa, altrettanto quanto la proverebbe l'autorità di Cartesio s'egli
Avesse ciò asserito manifestamele.
47»
così : « Può in vero alcuno non pensar di ac qualche
a spazio di tempo ; ma non credo che alcuno possa
« stare un solo istante senza pensare dell' ente : anzi
« pure in quel tempo nel quale noi crediamo di non
« pensare a nulla, in quello appunto siam pieni del-
u l'idea vaga e generale dell'ente » (i). Nè a questo
valentuomo fu ignota la solita obbiezione che si suol
fare da' volgari e novizj in filosofia, i quali avendo an
cor poco riflettuto sopra di sè medesimi , sono presti di
dire, che « se noi pensassimo continuamente all'ente,
« il sapremmo pure » ; anzi a questi il Malebranche diede
quella «tessa risposta che noi abbiam data in sull'orme
di tutta l'antichità, dimostrando, che l' obbiezione na
sceva da poca osservazione, e dal confondere in un solo
due fatti ben distinti nella coscienza, cioè i.° l'atto del
nostro spirito, a.* e l'avvertire di quell'atto: il che
Malebranche dice con queste parole che seguitano alle
surriferite: « Ma perciocché le cose che a noi sono molto
« famigliari e poco c'importano, non eccitano con vi-
u vezza la nostra mente , nè la spingono a badarvi ; e
u quell'idea dell'ente, tuttoché grande, vasta e vera
« sia , a noi è sommamente famigliare, c sì poco ci
« tocca, che stimiamo di non percepirla; perciò a quella
« noi non rivolgiamo l'animo nostro, e lei appena esi
ti ster crediamo, nè trar l'orìgine altronde, che dal
« confuso ammassamento di tutte le idee speciali, bea»
• chè all' opposto in essa sola e per essa sola tutti gli
« enti specificamente noi percepiamo » (2). Quanto nou
sembra quest' uomo prossimo a cogliere quel filo eh*
trae dall intricatissimo labirinto delle idee ! egli l' ha
in mano , e non se n' avvede. In vece di dire , eoa
s. Tommaso , che quell' idea dell'ente è un lume creato,
egli vuole che sia Dio stesso: indi l'errore. Fino a que
sto passo egli era proceduto con una osservazione fina
della umana natura, con una logica accurata: qui il
suo metodo l'abbandona, e sull'ali dell' immaginazione
franca l' immenso spazio che corre fra la creatura e il
Creatore. Ma non avea detto egli medesimo, che quel-

(1) Ivi. Questa è l'osservaziouu medesima che fece s. Bonaventura, con*


yià sopra abbiam veduto.
(2) Ivi.
l'idea dell'ente è un'idea vaga? che è l'idea dell' ente
indeterminato? che è Y ente in genere (i)? Ora l'idea
di Dio non è vaga : questo ente è infinito bensì, ma
non indeterminato: finalmente egli non è V essere comune
delle cose, molto meno l'essere in genereì ma è l'essere
primo, certo, compito, fuori di tultfi generi questa
distinzione fra Tessere universale astratto, e l'essere sus
sistente , è una verità conservata nel deposito delle cri
stiane tradizioni , che non si dovea ignorare da un tan-
t' uomo nè trascurare.
È noto, che il Tommassini prevenne in Francia il
Malebranche nel suo sistema. Un italiano meditava con
temporaneamente le cose stesse , voglio dire il Padre
Giovenale dell' Anaunia , nel Tirolo italiano. Questo
cappuccino dottissimo, poco conosciuto (a), pubblicò un
libro scritto in latino, dove proponeva appunto il sistema,
che sotto la elegante penna di Malebranche levò sì grande
rumore pel mondo: e io debbo dire, per amore del
vero, che avendo io messe a confronto le due opere ,
ho ritrovato che in quella del P. Giovenale la dottrina
vi è presentala con assai maggiore ampiezza e modera
zione. L' autore non ignora e non trapassa le difficoltà
da me accennate contro il Malebranche : restringe ed
acconcia il significato delle sue espressioni per modo,
che nulla in quelle pugna colla grande tradizione della
cattolica verità, e procede per la via battuta da' Padri,

(i) San Tommaso e s. Bonaventura dicono con somma proprietà., clic


Iddio non è già V essere in genere , ma l' essere extra ornile genus. Leg
gendo attentamente le opere di Malebranche, è facile accorgersi ch'egli avea
ricevuto dal suo secolo un po' di disistima per gli autori di quella età, e
vorrei quasi dire per gli autori un po' più antichi di Cartesio, dove si
eccettui sani' Agostino.
(i) L'opera del cappuccino tirolese fu stampata in Augusta con questo
titolo ; Solis intelligcntiae, cui non succedit nox, lumen indeficiens ac inextin-
guibile illuminans omnem hominem venicntem in hunc mundum eie. , per
Juvenalem Annaniensem ord. capuccinorum. Augustae Vindelicorum ,
Typis Simonis Uzschneideri reverendiss. ac altiss. Principis et Episcopi
Augustani lypographi, Anno mdclxxivi. È singolare , che il P. Giovcualc è
morto nell'anno medesimo i^i3 nel quale mori il Malebranche. Quest'o
pera può essere stato il primo seme di quelle dottrine che poscia più tardi
svilupparono ed illustrarono i due Padri Minori Riformati Oberrauc e
Filibert. E chi volesse qualche maggiore notizia del Padre Giovenale , po
trebbe vedere la Biblioteca Tirolese di Jacopo Tartarolli accresciuta dal
Toòeschini e stampata iu Venezia l'anno 1755, o le Memorie storiche
della Città e territorio di Trento del Conte Francesco liurbacovi, Voi. I.
48o
cercando continuamente di conciliare ciò che insegna
sopra di ciò s. Agostino , co' sentimenti di s. Tommaso.
E prima di tutti questi, i Platonici rifiorenti in To
scana sotto la grand' ombra Medicea . s' erano sollevati
a sentire 1' importanza dell' idea dell ente dietro a' ve
stigi dell' antichissima filosofia. Marsiglio Ficino, che
può dirsi il loro capo, chiaramente insegna, che la
nozione dell' ente è inserita in tutti gli uomini; e ciò
che è notabile si è la ragione colla quale egli prova
questa verità; « poiché, egli dice, tutti gli uomini gòt
ti dicano quello non essere in modo alcuno, questo es-
u sere in modo più imperfetto, e quest'altro in modo
u meno imperfetto » (i). E il bisogno dell' idea del
l' ente per giudicare è appunto la via per la quale noi
siamo pervenuti a fermare la necessità di quella idea
concreata e all' altre tutte precedente. Se non che que
sto pensiero fecondo , Ficino noi prende a sviluppare,
e a lui dà quella stessa importanza che a tant' altri che
meno rilevano ; ed oltracciò i Platonici generalmente
corrono in quella stessa confusione che ho notata di
sopra, fra l'idea dell'esser comune o dell'esser in po
tenza, coll'idea dell'essere primo e attualissimo, e tras
formano la ragione umana nella essenza divina.
Agli Scolastici non furono già ignote le verità di che
noi parliamo; e i molti luoghi recati da me di autori
della Scuola lo dimostrano. Non sembra tuttavia che si

(i) Il Tommassini bevve al fonte del Ficino, e lo reca in prova dell*


sue opinioni. È comune a questi due valentuomini la dottrina seguente, che
conviene a capello con quella da me esposta. « L' essere talmente ri-
x splende, che non si può pensar che non sia. — PER L'ESSERE SI CO-
« NOSCONO L' ALTRE COSE, MA L' ESSERE SI CONOSCE PER
« SÈ STESSO » (Tommass. Traci, de Dco Deique propriei. L. I, e XIV,
art. i). Il Cardinale Gerdil manifestò la slessa opinione nella sua celebre
opera contro Locke, e in difesa del P. Malebranche. Ciò che è sfuggito a
tutti questi autori si fu, per quanto mi sembra, la grande distinzione fra
l' essere in potenza (idea, essenza dell'essere), e Y essere in atto (Ved.
face. log esegg.); mediante la quale distinzione s. Tommaso (S. I, II, i.)
dimostra che Iddio non è fra le cose note per sè stesse. Questi dicono:
« L'essere non si può pensare privo dell'essere: dunque l'essere esiste »
Qui c'è equivoco nella parola essere. Se per essere intendete Yesscre ideale.
certo non potete pensarlo senza che sia , e che sia necessariamente , ma
non dovete confondere 1' essere ideale coli' essere sussistente. Tuttavia nei
ragionamento di Ficino e di Tommassini, che è anche quello di Cartesi»
e di s. Anselmo, e del quale in s. Agostino e in moli' altri antichi sono \e
tracce, trovasi un elemento vero c profondo, che mi riserbo di dichiarare
in luogo opportuno.
sieno molto applicali nell' esaminare il nesso de' veri
che conoscevano , e quindi non riuscirono a dare al si
stema sull' origine delle idee tutta quella semplicità e
nettezza di cui egli era bisognevole. Quindi per molti
di essi le prime notizie uscivano da una sorgente recon
dita ed oscura, o che tult' al più vagamente e con
parole metaforiche descrivevano , o pure le dichiaravano
una specie d' istinto. E in questo modo Dante intese la
sentenza scolastica, e la riferì ne' seguenti versi:

« Ogni forma suslanzi'al , che setta


« È da materia , ed è con lei unita ,
« Specifica virtude ha in sè colletta ;
« La qual sanza operar non è sentita,
« Nè si dimostra mai che per effetto ,
u Come per verde fronda in pianta vita :
« Però, là onde vegna lo 'nlellelto
« Delle prime notizie, uomo non sape ,
« E de' primi appetibili 1' affetto ,
u Che sono in voi, sì come studio in ape
« Di far lo mele : e questa prima voglia
« Merto di lode, o di biasmo non cape » (i).

E questo far venire le prime notizie da un fonte oscu


ro, da un istinto cicco, da una legge della natura umana,
senza più , è quella dottrina a cui ricadde finalmente <
tutta la moderna filosofia da Reid a Galluppi: poiché
Reid introdusse una misteriosa suggestione della natura ;
Kant, tornando anche alla frase scolastica, delle forme
nella stessa natura : e queste due sentenze furono riav
vivate, poco tempo fa, in Francia, ove due opposte
parti sembrano intente a trar profitto da uno stesso
principio di fede cieca ed istintiva , onde tutte le prime
notizie all' uomo derivano: e finalmente in Italia, il
valente Galluppi, che confutò acutamente l'errore di
tutti questi , ritenne però la denominazione di soggettive
per le idee dell' unità, dell'identità e d'altre tali, quasi
ché dal soggetto medesimo uscissero e traessero l'esi
stenza. Ma se le prime notizie non sono al tutto in-

(i) Purg. XVIII.


Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. IL 61
48a
dipendenti dal soggetto, e non hanno una oggettiva
esistenza; tutta per mio avviso è scossa da' suoi fonda
menti la scienza umana , e la certezza non è più, e lo
scetticismo, sistema impossibile da una parie, dall'altra
è irreparabile. Il perchè a porre una base ferma alla
umana cognizione ed all' umana certezza , io non vedo
ebe quest'unica via, di stabilire, che un oggetto hanno
i nostri pensieri necessario , universale , dall' uomo e da
ogni creatura indipendente: e questa è la Teoria da noi
esposta dell' idea concreata dell' essere.

CAPITOLO HI.

VIA , ONDE LO STUDIOSO PUÒ VENIRE IN POSSESSO


DELLA TEORIA ESPOSTA DELL'ORIGINE DELLE IDEE.

Nulladimeno non è così agevole cosa a bene intendere


1' esposta Teoria: nè si può fare da chicchessia col puro
leggere il presente volume, non dandosi sollecitudine di
osservare in sè medesimo 1' umana natura. E senza que
sta osservazione avverrà altresì, che altrui paja di averne
perfettamente ottenuta la cognizione; quando non avrà
che frainteso le nostre opinioni, e formatosi di quelle
nn concetto tutto lontano dal vero.
Il perchè io credo non dover essere inutile che io
additi qui in sulla fine una via facile, per la quale
mettendosi, ciascuno, a cui un tale studio diletti, a
buon termine sicuramente potrà pervenire : e questa
consiste nel segnare quattro punti, ove tutto il nerbo
ed il valore del proprio ingegno si rivolga: perciocché
chi avrà espugnato per così dire questi soli quattro
punti, e se ne sarà fatto signore, troverà poi il cam
mino aperto e agevolissimo ad ispaziare sicuramente in
tutte 1' altre parti della dottrina.
E non si dee credere che questi quattro punti sieno
per avventura i più difficili nè i più misteriosi che
dentro allo studio della natura umana si scontrino; ma
bensì sono quelli che conducono a dar fede alle verità
più maravigliose. Ed ecco come ciò avvenga. Ad un
vero di fatto, non si rifiuta dagli uomini dar credenza
eziandiochè egli sia inesplicabile e misterioso: quando
pur essi n'abbiano conosciuto invittamente l'esistenza,
mediante una sicura e propria osservazione. Ora i quat
tro punti accennali sono verità che, ben comprese, pre
stano questo servigio, di render l' uomo atto a portare
la sua attenzione anche su di ciò che v' ha di più re
condito ed occulto nello spirito intelligente, e ad osser
varlo per modo che non ne possa più dubitare.
Questi quattro punti sono quattro distinzioni , le quali
vorrei che fossero segno di tutta F attenzione dello stu
dioso; poiché formano il sintomo a cui distinguere quelli
che hanno asscguito la nostra sentenza siili1 origine delle
idee, da quelli che non I1 hanno asseguila, ma forse
Irucorsa ; e sono le seguenti :
I. La prima è la distinzione fra la sensazione e la
percezione sensitiva (i).
II. La seconda , la distinzione fra l1 idea e il giudi-
dizio sulla sussistenza della cosa (2).
III. La terza, la distinzione fra la percezione sensitiva
e la percezione intellettiva (3).
IV. La quarta, la distinzione fra un atto dello spirito,
e V avvertenza dell'alto: per esempio, fra il sentire, e
l'avvertire di sentire (4).
Or colui che è giunto a notar bene seco medesimo
queste distinzioni, che sono altrettanti fatti dello spirito
umano, e a rendersene facile e pronto l1 uso e l'appli
cazione, ha certamente conseguito, o non può mancare
di conseguire la genuina intelligenza della Teoria , che
noi ci siamo affaticali , quanto più potemmo, di esporre
in chiare parole: le quali possono forse aver la virtù
di avviar 1' altrui mente alla verità, ma non mai quella
d' infondere la stessa verità.

FINE DEL VOLUME SECONDO.

(1) Face. 291-296 (3) Face. 428 e segg.


(a) Face. 13 -20. (4) Face. 127 e segg.
INDICE

Sezione quinta, teoria dell' origine delle


IDEE face. 5
PARTE PRIMA. Origine dell'idea dell' essere.
CAPIT. I. tatto: noi pensiamo l' «imi in universale . . . . » i5
CAPIT. tt. NATURA DELL'IDEA DELl' ESSERE.
une. I. L'idea pura dell' essere non è un'immagine sensibile . . . » ìG
Une. II. L'idea di una cosa si dee distinguere dal giudizio sulla sus
sistenza della cosa medesima » 17
mie. III. Nelle idee delle cose non si contiene mai la sussistenza delle
medesime " "J
aktic. IV. L' idea dell' essere non presenta clie la semplice possibilità. » 20
«tic. V. L'uomo non può pensare a nulla senza l'idea dell'essere. » ivi
une. VI. L'idea dell'essere non ha bisogno a" alcun' altra idea ad essa
aggiunta per essere concepita » 33
CAPIT. Ut. Origine dell'idea dell'essere « ivi
aktic. I. L'idea dell'essere non viene dalle sensazioni corporee. • » 24
§ 1. Dimostrazione I, cavata dal primo elemento dell' idea dell'essere,
che costituisce il suo primo carattere, l'oggettività . ...» ivi
osservazioni sulla difficoltà di distinguere la sensazione dalla perce
zione intellettiva » a6
§ 2. Dimostrazione II, cavata dal secondo elemento dell'idea dell' es
sere . che ne costituisce il secondo carattere , la possibilità o
idealità » 29,
osservazioni sul nesso delle due prove generali che ahbiam dato dell'in
capacità delle sensazioni a somministrarci l'idea dell'essere . « ivi
§ 3. Dimostrazione III cavata dal terzo carattere dell'essere possi
bile , la semplicità » 3o
§ 4- Dimostrazione IV, cavata dal quarto carattere dell'essere possi
bile, la sua unità o identità » ivi
§ 5. Dimostrazione V e VI\, cavate dal quinto e sesto carattere del
l'essere possibile, l'universalità e la necessità » 3i
osservazione I. L'ente è il fonte della cognizione a priori ...» ivi
osservazione II. Non solo l' idea dell'essere in universale ha(in sci
caratteri accennati, e segnatamente quelli di universalità e di
necessità, ma anche tutte l'altre idee senza eccezione alcuna. » 3a
nssERrazione III. Origine del sistema platonico delle idee innate . » 33
H 6- Dimostrazione VII e Vili, cavate dal settimo e ottavo carattere
dell' essere possibile , 1' immutabilità e l' eternità » 34
§ 7- Dimostrazione IX, cavala dal terzo elemento dell' essere possibile
in universale , clic costituisce il nono carattere di quest'idea,
l' indeterminazione > 3.1
X R. Riassunto delle piove date , e cenno di altre prove particolari
dell'impossibilità di dedurre dalle sensazioni la cognizione a
priori >• 38
artic II. L'idea dell'ente non viene dal sentimento della propria esi
stenza.
§ i. La proposizione è una conseguenza delle dottrine esposte . face. 3o,
§ 3. Distinzione fra il sentimento e l'idea dell' Io » io
§ 3. L'/o non mi dà che la sensazione della mia esistenza particolare. » (t
§ 4- Il sentimento della mia esistenza é innato; l'idea della mia esi
stenza è acquisita » iti
§ 5. L'idea dell'ente precede l'idea dell' Io « 41
§ 6. Errore di Malebranche, il quale pronuncia, che noi percepiamo
intellettivamente noi stessi immediatamente, senza il mezzo di
un'idea •> 43
a: ric. IH. L'idea dell'ente non viene dalla riflessione lockiana
5 i. Definizione » ivi
6 •>.. Dimostrazione I n Sfi
§ 3. Dimostrazione II. » iti
ARTic. IV. V idea dell' ente non comincia ad esistere nel nostro spirito
nell'atto della percezione
^ i. Dimostrazione 1 , dalla osservazione del fatto » (8
2. Dimostrazione II, dall'assurdo "^7
artic. V. L'idea dell'ente è innata
§ i. Dimostrazione m (v
§ a. Ragione perchè con difficoltà noi riflettiamo sull'idea dell' ente a
noi innata , e perciò difficilmente che sia innata noi ci accor
giamo m m
§ 3. La teoria esposta fu conosciuta da' Padri della Chiesa . . . » 67

PARTE SECONDA. Origine di tutte le idee is


GENERALE PER MEZZO DELL'IDEA DELL* ESSERE.
CAPIT- I. DATA I? IDEA DELL ESSERE , L ORIGINE DELL ALTRE IDEE SI
SPIEGA MEDIANTE l' ASALISI de' LORO ELEMENTI.
artic I. Nesso della dottrina esposta colla seguente »
artic. II. Analisi di tutte le idee acquisite » ■>''
artic. III. Constando tutte le idee acquisite di due elementi, forma e
materia , è necessaria una doppia causa per ispiegarle ..." J"
artic. IV. La doppia causa delle idee acquisite è l'idea dell'ente e la
sensazione » m
artic V. Dottrina di s. Tommaso sulla causa delle nostre idee . • »
artic VI. Vera interpretazione del detto scolastico : « Niente v'è nel
l'intelletto, che prima non sia stato nel senso > "7'
CAPIT H. ALTRO MOnO DI SPIEGARE l' ORIGINE DELLE IDEE ACOVISITE :
MEDIANTE LA FORMAZIOUE DELLA RAGIOSE VMAXA.
artic. I. L'idea dell' ente presente al nostro spirilo è ciò cheforma fin-
tellelto e la ragione umana ...» ?
artic II. Dottrina di s. Tommaso e di s. Bonaventura sulla forma
zione deli' intelletto e della ragione » **
ARTIC. 111. Corollario : Tutte le idee acquisite procedono dall' idea innata
dell'ente » 5*
CAPIT. IH. TERZO MODO DI SPIEGARE l' ORIGISE DELLE IDEE ACQUISITE
m generale: mediante le potenze CHE LE PROHVCONO.
artic I. La riflessione " JJ?
artic. II. La univcrsalizzazione e V astrazione " '
osservazione I. Perchè la facoltà di astrarre sia stata confusa colla fa-
colta di universalizzare ■ • *
osservazione II. L'univcrsalizzazionc produce le specie, l'astrazione 1
generi. .
osservazione III. Dottrina di Platone circa i generi e le specie . r
aatig, III, Sinica delle idee " '
CAFIT. IV. ovarto modo di spiegare l' ottanti delle idee acquisite
IN GENERALE : MEDIANTE UNA CLASSIEICAZIONE SOMMARIA DELLE
STESSE IDEE.
mie. I. Classificazione delle nostre intellezioni face. 88
«tic. II. Ove giaccia la difficoltà di spiegare le tre classi d'intellezioni
enumerate » 89
adtic. III. Necessità del linguaggio per muovere la nostra intelligenza
a formare gli astratti » 93
§ 1. Ciò che tira il nostro spirito all'atto del percepire, sono gli og
getti sensibili che a lui si presentano » gì
osservazioni sui limiti dello sviluppo a cui potrebber giungere degli
uomini fuori della società , che non avessero altri stimoli mo
venti la loro ragione, fuor solo le sensazioni e le immagini cor
poree » 9.5
§ 2. Le immagini corporee sono ragione sufficiente di quell' attività
onde lo spirito si forma le idee divise dalle percezioni ...» 97
§ 3. II linguaggio è una ragione sufficiente di quella attività onde il
nostro spirito si forma le idee astratte » 98
osservazione I. Sopra un'obbiezione che si può fare alle cose dette,
cavata dalla libertà umana » 101
osservazione II. Sullo sviluppo a cui giungono gli uomini mediante la
società ed il linguaggio , c come questo sia necessario perchè noi
ci facciamo arbitri delle nostre potenze » io4
uiTic. IV. Spiegazione della percezione intellettiva.
§ 1. Noi non abbiamo altra percezione intellettiva, che di noi stessi c
de' corpi « 105
^ •>.. Che si richiede a spiegare la percezione » 107
§ 3. Spiegazione del giudizio che genera in noi la percezione de'
corpi » 1 og
osservazione I. Dottrina degli antichi sul verbo della mento . . . >■> 111
osservazione II. Relazione fra Videa e il verbo della mente . . » n3
«tic. V. Precessila della percezione intellettiva » 1 1 .r>
osservazione I. Sulla questione, se l'anima pensi sempre > 117
ossERVA7roNE II. In che senso l'intelligenza sia una tavola rasa. . »• 118
CAPIT. V. l'idea dell'ente innata scioglie la difficoltà'
GENERALE DEL PROBLEMA DELL ORIGINE DELLE IDEE.
Uitic. I. Soluzione della difficoltà » 119
abtic. II. Obbiezioni e risposte.
§ 1. Obbiezione prima » 120
Risposta all'obbiezione prima » ivi
§ 3. Nuovo rincalzo all'obbiezione prima . . . , » 121
Continuazione della risposta » 1 5**
§ 3. Obbiezione seconda » 12G
Risposta alla seconda obbiezione » 137
osservazione I. V'ha un'idea che precede qualunque giudizio . . » l32
osservazione II. V'ha nell'uomo un senso intellettuale . . . . » ivi
osservazione III. In che diflcriscano il senso corporeo ed il senso in
tellettuale j> i33
osservazione IV. Natura dell'essere ideale » i35
PARTE TERZA. Origine de' primi principi dei
RAGIONAMENTO » 1 3G
CAPIT. I. PRINCIPIO PRIMO, DI COGNIZIONE, E PRINCIPIO SECONDO,
DI GONTKADDIZIONE H IVI
CAPIT. II. PRINCIPIO TERZO , DI SOSTANZA. PRINCIPIO QUARTO,
DI CAUSA M l40
CAPIT. IH. CHE COSA SIENO I PRINCIPJ SCIENTIFICI IN GENERALE. » l4'«
CAPIT. IV. ORIGINE DE' PRINCIPI SCIENTIFICI IN GENERALE . « l 'i"'
PARTE QUARTA. Origine delle idee pure, cioè
DI QUELLE CHE NULLA PRENDONO DAL SENTI
MENTO.
CAPIT. X ORIGINE DELLE IDEE ELEMENTARI DELL* ESSERE j SUPPOSTE
NEGLI UMANI RAGIONAMENTI.
Anne. I. Enumerazione delle idee elementari dell' essere .... face. 1 44
abtic. II. Origine di queste idee : a ivi
artic. III. Ragionamento di s. Agostino sulle idee (/'unità, e di numero,
ed altrettali, che confermano la teoria da noi esposta . . . » i45
CAPIT. Il- ORIGINE DELL' IDEA DI SOSTANZA » l5{
Anne. I. Stato della questione intorno all' origine dell'idea di sostanza, n i5i
artic. II. Descrizione ed analisi di tutto ciò che noi pensiamo intorno
alle sostanze.
1. Onde debbasi cominciare la ricerca sulle idee di sostanza . . » |5(
2. Definizione della sostanza » i5;
3. Analisi del concotto di sostanza » iti
4. Varj modi dell'idea di sostanza » 1 SS
5. Origine dell'idea d'individuo » 161
^ G. Giudizi sulla sussistenza delle sostanze, e in che differiscano dalle
idee di sostanza » ivi
§ 7. Ricapitolazione di tutti i pensieri che la mente umana fa intorno
alle sostanze > 16
artic. III. Le tre idee enumerate di sostanza vengono l'una dall'altra.» 164
artic. IV. 1 giudizj sulla sussistenza delle sostanze si spiegano tutti
quando si giunge a superarle una sola difficoltà » l65
artic. V . La spiegazione dell' idea specifica di sostanza pende da quella
difficoltà che si trova in render conto de' giudizj sulla sussi
stenza delle sostanze » iri
artic. VI. Spiegazione della percezione degl'individui » 166
CAPIT. III. DICHIARAZIONE MAGGIORE DELL'IDEA DI SOSTANZA.
artic. I. Necessità di questa dichiarazione n
artic II. ^numerazione de' sistemi stili' origine dell' idea di sostanza. » iC*>
artic. III. V'ha un'altra strada da battersi, per trovar l'origine del
l'idea di sostanza » 170
artic. IV. Prima proposizione: se il nostro intelletto concepisce , conce
pisce un qualche cosa m 131 '
artic. V. Seconda proposizione: ogni cosa può essere oggetto dell'intel
letto
§ I. Dimostrazione » ivi
§ a. Obbiezione contro il principio di contraddizione ....,» ip
^ 3. Risposta. — Difesa del principio di contraddizione . . . . » Ij3
^ 4- Conclusione della dimostrazione « i;i
artic. VI. Terza proposizione: l'intelletto non può percepire le qualità,
senza percepirle in un soggetto nel quale esistano » ivi
artic. VII. Distinzione fra l'idealismo di Hume , e quello di Berkeley. » l'I
artic. Vili. Confutazione dell' idealismo di Hume «iti
artic. IX. Origine dell'idea di accidente k ft»
artic. X. Cenno sull'invariabilità della sostanza » iSti
artic. XI. Le qualità sensibili non esistono per sè stesse (non sono so
stanze) » 189
CAPIT. IV. ORIGINE DELLE IDEE DI CAUSA E DI EFFETTO.
artic. I. Assunto del presente capitolo » '9'
Anne. II. Dichiarazione della proposizione » I91
artic. III. Analisi della proposizione* rivolta ad assegnare il modo della
difficoltà *
Aline. IV. Spinganone di ciò che v' ha ili diffìcile in assegnare V origine
deli idea di causa face. 19S
lime. V. Distinzione fra sostanza e causa » 300
autic. VI. V intelletto completa le percezióni della coscienza. ...» ao3
«ine. VII. Applicazione dèlia dottrina esposta sulla sostanza al senti-
interno » 2o5
CAPIT. V. CENNO SULL'ORIGINE DELLE IDEE DI VERITÀ.', DI GIU
STIZIA £ DI BELLEZZA . » IVI

PARTE QUINTA. Orìgine ùeIle idee non-pure,


CIOÈ DI QVELIE CHE PltENDONO , A FORMARSI,
QUALCHE COSA DAI SENTIMENTO. ...» 2O7
CAPII1, I. ORIGINE DELLA DISTINZIONE FRA LE IDEE DI SOSTANZA
CORPOREA E DI SPIRITUALE. • ■
une. I. Sulla dottrina esposta Intorno alla sostanza e alla causa . » ivi
«tic. II Argomento della seguente trattazione » ao<)
abtic. III. tìifferenza fra l'idea di causa e V idea di soggetto . . . 11 aio
urie. IV. Ulteriore analisi delle sensazioni ■ ■
A che tende- quest' analisi » aia
Nel soggetto- senziente , oltre quell' atto onde esistono le sensa
zioni,- v'ha qualche altra cosa . . » ai3
§ 3. Nella sostanza corporea de' realisti non può concepirei il solo
atto onde esistono le qualità sensibili senza qualche cos'altro. » ai 5
AiTic. V. THstinzione fra l'idèa di sostanza e l'idea di essenza.
1. Definizione dell'essenza 1 . . '. . » 219
1. Essenza specifica ., generica, e universale ...» ivi
3. Dell'essenza specifica » 216
4- Essenze genetiche » aaa
5. Definizione più perfetta della sostanza . • »>
«ime. VI. Riavviamcnto del presente discorso » a>4
»«tic. VII. Esiste un NOI soggetto pàrcipientc » aaé
«ne. VIII. Il concetto del PfOI, soggetto percipiente , è interamente di
verso dal concetto di sostanza corpoi-ca.
§ 1. Si danno in noi due serie di fatti, 1' una attivi e Y altra passivi
rispetto .1 noi » ivi
§ a. Della serie de' fatti attivi noi siamo la causa e il soggetto , dei
passivi il soggetto e non la causa » 228
§ 3. Ciò che si chiama corpo e la cagione prossima delie nostre sen
sazioni esterne » aa;)
| 4- fi nostro spirito non è corpo » a33
une. IX. Semplicità dello spirito ^ ............ » ivi
CAPIT. II. ORIGINÈ DELLA NOSTRA IDEA DI SOSTANZA CORPOREA.
actic. I. Via di mostrare l'esistenza de' corpi. . » a38
«•tic. II. V ha Dna causa prossima delle nostre sensazioni .... » a3c)
abtic. III. La causa diversa da noi è una sostanza . j » ivi
une. IV. La sostanza che è causa delle nostre sensazioni, è immediata
mente con esse congiunta ...» ivi
abtic. V. La causa delle nostre sensazioni è un essère limitato . » a4o
autic. VI. Noi imponiamo i nomi alle cose in quella maniera che le con
cepiamo intellettualmente . . » a4t
«Tic. VII. Regola da tenersi nell' usare de' vocaboli^ per non cadere in
errore ! » ivi
abtic. Vili. Il corpo è un essere limitato » ivi
Anne. IX. La causa prossima delle nostre sensazioni non è Dio . . >: a4*
abtic. X. / corpi esistono , e non si possono confondere Con Dio . . » ivi
■ìBTic. XI. Confutazione dell'idealismo di Berkeley » ivi
abtic. XII. Riflessioni sulla data dimostrazione dell'esistenza de' corpi. » 347
Hosmihi, Orig. delle idee, Voi. II. (ia
CAPIT. m. origine dell' idea pel corpo nostro, inquanto
SI DISTINGUE DA' CORPI ESTERIORI , MEDIANTE IL SEN
TIMENTO FONDAMENTALE face l5|
artic. I. Prima classificazione delle qualità che ne' corpi ti osservano. » i5i
artic. II. Classiftcazxone delle qualità corporee che costituiscono imme
diatamente il rapporto de' corpi col nostro spirito » i56
«STIC. III. Distinzione fra la vita e il sentimento fondamentale. . . » iSI
artic. IV. Due maniere di percepire il corpo nostro, soggettività, ed
extra-soggettiva a 160
artic V. La maniera soggettiva di peivepire il corpo nostro si suddi
vide in due; l'uno è il sentimento fondamentale, l'altra lesto-
«lilìrazioni di quel sentimento . . ■ . » j6i
artic. VI. Spiegazione della sensazione in quanto è modificazione del sen
timento fondamentale del corpo nostro ■ j65
artic. VII. Spiegazione della sensazione in quanto è percettiva de' corpi
esteriori » l6j
artic. Vili. Diversità del corpo nostro da' corpi esteriori ■ a63
artic. IX. Descrizione del sentimento fondamentale a *8
artic. X. Esistenza del sentimento fondamentale » rii
artic. XI. L'origine delle sensazioni conferma V esistenza del sentimento
fondamentale * rfi
artic. XII. Spiegazione della sentenza di s. Tommaso, che il corpo è nel
l'anima » rfo
artic. XIII. Influsso fisico fra V anima « »7 corpo » 381
CAPIT. IV. ORIGINE DELL'IDEA DEL CORPO NOSTRO , MEDIANTE
LE MODIFICAZIONI DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE.
artic. I. .Vi Yiaisume V analisi- della sensazione « ivi
artic. II. Definizione del sentimento fondamentali , e distinzione di lui
dalla percezione sensitiva de' corpi » 581
artic. III. Origine e natura del piacere e del dolore corporeo . . . '
artic. IV. Relazione del piacere e d*lore corporeo coli' estensione . . n iri
artic. V. Confutazione di quella sentenza degV ideologi, che « noi sen
fiamo tutto nel cervello, e riferiamo poi la sensazione alle di
verse parti del corpo » . . » 1S6
artic. VI. Paragone da' due modi soggettivi di percepire Vestensione del
proprio corpo _■ . . . ■ }88
artic. vìi. Nuova prova dell'esistenza del sentimento fondamentale . » 19»
artic. VIII. Ogni nostra sensazione è soggettiva ed extra-aoggettiva ad
un tempo m 391
artic. IX. Descrizione del tatto, senso universale. . . .' .
artic. X. Origine particolare del tatto ■ in
artic. XI. Relazione fra le due maniere soggettive di percepire il corpo
nostro >: 59}
CAPIT. V- CRITERIO DELL' ESISTENZA DB' CORPI.
artic. I. Definizione de' corpi alquanto perfezionata ■ Ijf
artic. II. Criterio generale pe' giudizj intomo all' esistenza de' corpi . » w
artic. III. Applicazione del criterio generale . . . . ■ 3*
artic. IV. La certezza del corpo nostro è il criterio dell' esistenza degli
altri corpi » Sol
artic. V. Applicazione del criterio agli errori die si pos toli prendere sul
l'esistenza di qualche membro del corpo nostro r in
abtic. VI. Argomento degl'idealisti tratto da' sogni, rifiutato . . . » 3o<
CAPIT. VI- ORIGINE DELL' IDEA DI TEMPO.
artic. I. Hesso delle dottrine esposte con quelle che seguono . ■ ■ » Jw
artic. II. Idea di tempo acquistata dtUla coscienza della proprie azioni >•
artic. III. Idea di tempo, suggerita dalle azioni altrui. »M
artic. IV. Idea pura del tempo » "j
artic. V. Idea del tempo puro indefinitamente lungo » I"
artic. VI. Sulla continuità nel tempo » 3*9
§ I. Tutto ciò chr avviene , avviene per istanti dice. 3ogi
§ j. Neil* idea di tempo data dalla sola osservazione , non si può tro
vare la soluzione della predetta difficoltà » in.
§ 3. Necessità di ricorrere alle possibilità semplici delle cose, e avver
tenza di non confonderle colle cose reali » In
X 4- L' osservazione non ci fa conoscere il tempo die come un rap-
/ porto fra la quantità delle azioni, data la medesima intensità nel-
l' operare « 3i 3
§ 5. V idea del tempo puro , e della indefinita sua lunghezza e divi
sibilità , sono mere possibilità o concetti della mente . . . » 3i
§ 6. L'idea fenomenale della continuità del tempo è fallace . . . » 3 ili
§ 7. La continuità del tempo è una mera possibilità , o sia un concetto
della mente m 3 >.o
§ 8. Distinzione fra ciò che è assurdo e ciò che è misterioso . . » 3'ii
§ 9. Nella durata delle azioni compite non e' è successione , e perciò
non c'è idea del tempo , ma continuo » 3 ri
§ 10. L'idea dell'essere che forma il nostro intelletto, è immune da
tempo , . » ivi
CAPIT. VII. ORICISE DELL' IDEA DEL MUTO.
une. 1. // moto si percepisce da noi in tre modi » .'>>'.
une. II. Descrizione del moto attivo. . . . » 3ij
«•tic. HI. Descrizione ilei moto passivo » ìf.5
urne. IV. // molo nostro per se stesso non è sensibile » 3^
«tic. V. Il moto ne' nostri organi sensitivi è sensibile » I j8
ime. Vi. Relazione fra il molo e la sensazione a JJo
une, VII. Del molo relativamente alla percezione del tatto ... m ivi
utic. Vili. Del moto relativamente alla perceiian della vista . . » 3J 1
wic. IX. Del moto relativamente alle percezioni dell' udito, ilell' odorato
e del gusto » ivi
une. X. Della continuità del moto
I. L'osservazione non percepisce le estensioni piccolissime. . . » 333
i. L* osservazione non ci dà che una continuità fenomenale uri molo n ivi
3. La continuità reale del movimento ù assurda «ivi
4. Obbiezione tratta da! salto , risoluta » 334
5. Continuità mentale del moto » 335
CAPIT. Vili. OliH.l SE DELL' IDEA DI SPAZIO.
lane. I. Distinzione fra l'idea di spazio e di corpo » 33<>
une. II. L'estensione o la spazio e interminabile a ivi
*>tic. III. Lo spatio o V estensione e continua » 338
una IV. Del continuo reale » 34"
une. V. // continuo non ha parti «ivi
utic. VI. // continuo può aver de' limiti . . . . • • . . m ivi
mie. VII. In qual modo ti può dire die il continuo è divisibile all' in
finito » 34i J
CAPIT. IX. ORIGINE DELL' IDEA DB' CORPI MEDIANTE LA PERCE
ZIONE EXTRA-SOGtìBTTIVA DEL TATTO.
mie. I. Seguita l'analisi della percezione extra-soggettiva de' corpi in
Generale » ivi
Tutti i sensi ci danno la percezione d'un diverso da noi . » 34 3
mie. III. Tutti i sensi ci danno la percezione d' un fuori di noi . . » ivi
mie. IV. // tatto solo non ptixepisce che delle superficie corporee . » 345
mie. V. // tatto unito al movimento dà V idea di spazio fornito di tre
dimensioni » 3 »<>
«UT*.. VI. Riassunto de' modi onde noi percepiamo lo spazio solido . » 347
aktic. VII. È più facile riflettere full' idea dello spazio acquistala pel
latto e pel moto, che pel sentimento fondamentale e pel moto. » ivi
ili 1. . Vili. Lo spazio percepito col movimento della sensazione del latto,
è identico collo spazio percepita col movimento ilei sentimento
fondamentale » ivi
artic. IX. V identità dell' estensione del corpo nostro e del corpo esterno
forma la comunicazione fra l'idea dell'uno e l'idea delfaltro, face. 34<i
artic. X. Continuazione - ivi
artic. XI. La sensazione soggettiva del corpo nostro è il mezzo delta
percezione extra-soggettiva corporea » 35o
a ime. XII. Dell'estensione del corpo » 35i
" i. La moltiplicità non è essenziale alla natura corporea . j> 55a
a. Unità complessa del nostro corpo sensitivo » ivi
3. Siili' unicità del nostro corpo non può cadere errore .... » 553
4. Moltiplicità del sentimento del nostro corpo » 354
5. Moltiplicità da noi percepita nel corpo esteriore » 355
6. Distinzione del corpo dal principio corporeo . ■ » 366
7. Dato che la sensazione corporea termini in un esteso continuo, è
necessario ammettere una estensione reale continua anche nei
corpi che la producono 35?
§ 8. Le parti sensitive del corpo nostro non producono un sentimento
più esteso di quello che sieno esse stesse » 36o
§ g. L' estensione de' corpi esterni ryin è maggiore nè minore di quella
delle sensazioni che producono in noi » 3fit
§ 10. Nello sensazioni nostre del tatto v' ha una continuità fenomenale m iri
€ 11. Le sensazioni elementari sono continue » 36?
| 15. I corpi elementari hanno una estensione continua .... » 364
§ i3. Confutazione de' punti semplici — 365
Anne. XIII. Definizione ilei corpo perfezionata » 366
Anne. XIV. Col tatto e col movimento noi percepiamo d corpo esleìiore. m ivi
artic. XV. Origine dell'idea di corpo matematico »■ 368
artic. XVI. Origine dell' idea di corpo fisico , . >■ 36y
CAFIT. X. CRITERIO PARTICOLARE DELL' ESISTENZA DEL CORPO
ESTERNO.
Aimo. I. Il criterio del corpo esterno è un' applicazione del criterio ge
nerale dell' esistenza de' corpi » ivi
Anne. II. Applicazioni del criterio dell' esistenza del corpo esterno . » 3jo
CAPIT. XI. DI Clb CHE r' HA DI SOGGETTIVO E DI CIÒ CHE
r' HA D' EXTRA-SOGGETTIVO NELLE SENSAZIONI ESTERNE.
artic. I. Necessità di questa trattazione " 3- 1
Anne. II. Si richiamano alcune verità " ivi
Anne. III. L'intelletto analizza la sensazione » 3;a
artic. IV. Principio generale per discernere ciò che v'ha di soggettivo
e ciò che v' ha di extra-soggettivo nella sensazione ...» ivi
artic. V. Applicazione del principio generale a trovar la parte extra
soggettiva della sensazione *• 3j3
artic. VI. Della distinzione fra te pr-oprielà primarie e secondarie de'
corpi k 3;4
artic. VII. Applicazione del principio generale a trovare la parte sog-.
gelliva della sensazione ■ » ivi
ARTIC. Vili. Della estensione resistente sentila dal tatto •» 37H
artic. IX. Della sensazione extra-soggettiva de' quattro organi . . . a». 333
CAFIT. XII. ORIGINE DELL' IDEA DE' CORPI MEDIANTE LA PERCE
ZIONE EXTRA-SOGGETTIVA DELLA VISTA.
artic. I. L' occhio percepisce una superficie colorata " 3&J
artic. II. La superficie colorata è una superficie cor-porea . . . • » 1*1
artic. IH. La superficie colorala è identica colla superficie della relina
dell' occhio affetta dalla luce » ivi
artic. IV. La superficie colorata da noi percepita e grande ne più ne
meno quanto la felina tocca dalla lucej ma in quella super
ficie i colori sono distriliuiti con certa stallile prtrporzione . ■ K 3ga
artic. V. La superficie colorata non può darci Videa di spazio soluto
nò pur mediante i movimenti de' colori die in lei succedono . " *ji
artic. VI. Le sensazioni de colori sono altrettanti segni della grandezza
delle cose face. 3g»
artic. VII. La vista associata al fatta ed al movimento percepisce le di
stanze e le qualità del moto del proprio corpo . . m 397
tane. Vili. Paragone dell'odorato, dell'udito e del gusto colla vista. » 4<x>
CAPIT. Xlil. CRITERIO DELL4 GRANDEZZA E DELLA HGVRA OS' CORPI.
artic. I. Il criterio della grandezza de' corpi è la grandezza percepita
col tatto » ITI
artic. II. Applicazione del criterio all' illusione circa la grandezza visi
bile delle cose ■ . . . . m {ol
artic. 111. Applicazione del criterio all' illusione visuale sulla lontananza
delle cose » 408
aetic. IV. Applicazione del criterio aW illusione sulla posizione delle
cose » 409
aktic. V. Il criterio della figura de' corpi è la loro figura percepita dal
tatto . » 4>4
artic. VI. Errori occasionati dalla vista circa la figura e grandezza de'
corpi. » ivi
CAPIT. XIV. DELLA PERCEZIONE EXTRA-SOGGETTirA de' CORPI MEDIASTE
I CINQUE SENSI CONSIDERATI IN RELAZIONE TRA LORO.
urne. I. V identità dello spazio unisce le varie sensazioni ed un solo
corpo fa percepire » 4<5
artic. II. La percezione visuale de' corpi è quella che ferma di più la
nostra attenzione " 417
abiic. III. Se nella sensazione noi riceviamo le specie delle cose corpo-
rffj o percepiamo le cose stesse " 4'9
artic. IV. Reid nega a torto ogni specie sensibile nella percezione de'
corpi. u 4>>
une. V. Distinzione di Reid fra la sensazione e la percezione . . » 4sa
mie. VI. Galluppi migliora la filosofia scozzese » 4>4
ime. VII. Che cosa aggiunga alla teoria di Galluppi l'analisi della
sensazione sopra esposta » 4?5
CAPIT. XV. DELLE PERCEZIONI SENSITirA E INTELLETTI?A De' CORPI
CONSIDERATE NELLA RELAZIONE TRA LORO.
artic. I. Distinzione delle due percezioni sensitiva e intellettiva. . . » 4^8
ìbtic. II. Locke confonde la petvezione sensitiva de' corpi colla intellet
tiva: — censure fatte a Locke per questa cagione . . . . » 43o
AiTic. III. Reid meglio degli alni conosce fattività dello spirito nella
formazion delle idee , e tuttavia cade nello stesso errore . . » 4-H
aiitic. IV. Continuazione » 437
autic. V. Se noi percepiamo i corpi pe' principj di sostanza e di causa. » 44"
astic. VI. La percezione intellettiva fu confusa colla sensitiva anche
rispetto al sentimento interno, all' Io » 443
CAPIT. XVI. DELLE SATURALI DISARMONIE FRA LA PERCEZIONE DEL
CORPO COME SOGGETTO, E COME UN AGENTE STRANIERO AL SOG
GETTO.
Ar.nu. I. Differenza fra i due modi principali di peivepire i corpi, cioè
come soggetti, e come agenti stranieri al soggetto » 446
aktic. II. Se l' impressione delle cose esterne sopra di noi abuia qualche
similitudine colla sensazione che sussegue a quella . . . » 447
autic. HI. Confutazione del materialismo ■ -, » 45i
Une. IV. Linea di confine tra la fisiologia e medicina, e la psico
logia » 458
astic. V. De' sistemi circa f unione dell'anima col corpo » 45y
artic. VI. Rapporto fra il corpo esterno ed il corpo soggetto . . . w 4<>«
mie. VII. Sulla materia del sentimento » 4Ca
PARTE SESTA. Conclusione.
CAPIT- I. epilogo delia nonia face. i"i
CAPIT. II- IH CHE STATO FU TKOVATA DALL'. ÀUTOEE LA DOTTEIHA DSL-
L OMIGIHE DELLE IDEE »
CAPIT- IH.' riA, OHDE LO STUDIOSO PUÒ rSHIKE IH POSSESSO DELLA
riNU ESPOSTA OSLL' OUtgAMM DELLE IDEE * $5

I
i33, /. 5 de' corporei leggi da' corporei.
IDEOLOGIA

LOGICA

VOLUME III.
ORIGINE DELLE IDEE

DI

ANTONIO ROSMINI-SERBATI

SACERDOTE hOVERETANO

VOLUME TERZO ED ULTIMO

c£e cottttetie
I COROLLARJ DILLA TEORIA
SUL CRITERIO DELLA CERTEZZA, SULLA FORZA DEL RAGIONAMENTO A PRIORI,
I SULLA PRIMA DIVISIONE DELLE SCIENZE.

MILANO,

DALLA TIPOGRAFIA POGLIANI


Contrada ili san?Alessandro vicino al Ginnasio

MDCCCXXXVU
SEZIONE SESTA

DEL CRITERIO DELLA. CERTEZZA

Colle dottrine fino a qui dichiarate parrai di aver


mantenuto il promesso , ed ogni mio debito sanato.
Perciocché discopersi e additai il nodo della questione (i);
ne narrai la storia (a) ; e ne diedi ancora la Teoria (3).
In questa trovai vero ciò che tante volte s' era detto ,
e tante volte negato, che v' avea un qualche cosa di
concreato col nostro spirito, che il faceva intelligente:
ma vidi e mostrai, che questo elemento ingenito o con
crealo era però più semplice che i migliori savj non
avessero opinato nè sospettato. Messomi nella spinosa
ricerca , « che cosa fosse questo elemento semplicissimo »,
sfuggito alla vista di lant' altri filosofi, che il negarono
al tutto perchè noi poterono essi osservare e notare ;
rinvenni , eh' egli dovea essere ed era un' idea sempli
cissima , che costituiva 1' unica forma (4) dell'intelletto
e della ragione umana. E qui io potrei deporre la penna,
e metter fine a questo trattato. Nulladimeno non mi dà
1' animo di farlo, se prima io non deduco dalla Teoria
esposta alcuni corollarj, che spontanei da quella discen
dono , e che troppo rilevano pel bisogno di questi tempi.
Questi nostri tempi si mostrano più che mai occu-

(1) Sez. II.


(2) Sez. Ili c IV.
(3) Se*. V.
(4) È assurdo il dire, clic le primitive forme dell' intelletto sieno molte,
come vuol Kant; poiché Impossibile est, dice s. Tommaso, simul multa
PRIMO eC PER SE inlclligere : una enim operatio non polest simul mul
ti* terminis terminati (C. Gcnt. I, xivni).
pati e affaticati da questioni per l'umano sapere e per
1' umana dignità gravissime, da questioni che formano
le basi di quanti ha 1' uomo nobili pensamenti , e de
stini , e speranze. E in fra cotali questioni primeggia
sull' altre quella del Criterio della certezza, così stret
tamente congiunta con quella dell' Origine delle idee ,
che lo scioglimento di quella è naturai conseguenza di
questa. A ragionare adunque di questo primo e prin-
cipal corollario, torrà la Sezione presente : nella quale
io intendo di far due cose; cioè i* di fermare quale
sia il criterio della certezza, a." e di mostrarne l'ap
plicazione, o il modo onde per esso le cognizioni umane
si accertano : sicché il valore di queste apparisca esser
intrinseco ed effettivo , e non puramente convenzionale,
o anche falso, siccome fanno mostra di creder gli scet
tici e gl' indifferenti. £ per giustificare la cognizione
umana (i), e mostrare eh' essa non è un nulla, o un'ap
parenza , ma che anzi essa è fornita di realtà vera, cioè
oggettiva ; io pongo mano a rimetter sott' occhio le va
rie maniere di cognizione che aver si posson dall' uomo,
e poi intendo provar di ciascuna a parte il mio assunto.
Abbiamo veduto, che nell' uomo è i.° la sensazione (a),
a.* Videa dell'essere, 3." ed una forza unica ( il soggetto
senziente ed intelligente) che unisce la sensazione e Videa
deW essere , e forma la percezione intellettiva delle cose.
Sulle percezioni intellettive lo spirito riflette, e riflet
tendo vi esercita diverse operazioni , colle quali ne cava
le idee, e, mediante queste, unisce e scompone idee e
percezioni , forma continuamente giudizj e raziocinj.
Tutte le cognizioni umane da questi pochi fonti sca
turiscono.
Ora la semplice sensazione non si può ancora chia
mare cognizione umana e intellettiva , della quale qui

(1) Io abbraccio sotto il nome di cognizione tutto ciò che è nello spirilo
nostro in quanto è intelligente. A chi non piace tale denominazione, I»
«assi pure , e ne metta un'altra : sarà forse più propria. A me è qui ne
cessario un nome che abbracci il complesso delle intellezioni nostre; e
questa necessità mi fa prendere in un senso così largo il nome di cogni
zione.
(2) Alle sensazioni intendo che sieno ridotte anche le immagini delle
cose sensibili, che sono rinnovamenti di sensazioni sull'erti: , e il sentimento
fondamentale che è una sensazione universale e pennaueule di noi stessi.
I

5
parliamo : essa non è che la materia della cogni
zione (i).
La cognizione umana adunque si parte in quella che
è puramente formale, la guai si suol dire anche pura ,
e in quella che è mista di materia e di forma.
Ora io debbo dimostrare, che tanto la cognizione
formale , quanto la cognizione materiata non è essen
zialmente illusoria e soggettiva , come pretendono i so
fisti di tutti i tempi, ma che porge all' uomo la verità
oggettiva e reale.
Prima comincerò a dimostrar questo della cognizione
formale, e poi verrò dimostrandolo della cognizion ma
teriata: poiché la forma dell'intelletto è essenzialmente
intellettiva, ed è quella onde ha esistenza ogni intel
lettivo conoscimento. Per il che solo ragionando di essa,
noi potremo rinvenire il principio supremo ed univer
sale della certezza. In ultimo parlerò degli errori a cui
1' umana cognizione soggiace. Ma prima giova che noi
diciamo che cosa sia la certezza , e che facciamo sulla
medesima alcune considerazioni generali: il perchè di
videremo tutta questa Sezione in cinque parti , che sono :
Parte I. Del criterio della certezza.
—■— II. Applicazione del criterio a dimostrare la ve
rità della cognizione pura.
III. Applicazione del criterio a dimostrare la ve
rità della cognizione non-pura, o materiata.
IV. Degli errori a cui soggiace la cognizione
umana.
• V. Conclusione.

(i) La sensazione si chiama materia, e non oggetto della cognizione:


poiché l'oggetto sensibile non è già la sensazione, ma la causa di essa. La
cognizione dell' oggetto sensibile non è senza la sensazione, e tuttavia questa
non è ancora la cognizione. Oltracciò la parte formale della cognizione di
un oggetto sensibile non è nella sensazione, ma in ciò che aggiunge l'intel
letto, il che è l' universalità, o l'oggettività. Tutte queste cose furono dichia
rate nella precedente Sezione.
6
PARTE PRIMA.

DEL CRITERIO DELLA. CERTEZZA.

CAPITOLO I.

CHE COSA È CERTEZZA, VERITÀ E PERSVAS10NE.

« La certezza è una persuasione ferma e ragionevole,


conforme alla verità».
La verità dunque negli uomini non è il medesimo che
la certezza.
Io posso avere presente allo spirito un'opinione vera,
c dubitare della sua verità : in tal caso io non ho la
certezza.
Non basta dunque che una cosa sia vera in sè, per
chè sia vera anche per noi. Acciocché ella sia vera
anche per noi, noi dobbiamo avere un motivo che ci
produca una ferma persuasione, e ce la produca ragione
volmente: un principio cioè, pel quale noi ci dobbiamo
convincere, che vera e indubitata sia quella nostra opi
nione o credenza (i).
Vero è, che la verità non ha un' esistenza in sè fuori
d1 ogni sussistenza ; ma ella esiste in sè fuori dell' in
telletto umano : e questo è ciò che giustifica la distin
zione fra una cosa vera in sè , e vera per l'uomo, me
diante la certezza eh' egli ha di questa verità. Queste
cose sono evidenti , e non ho bisogno ora d' indagare
più addentro la natura della verità : il che mi cadrà di
dover fare in altro luogo.
Intanto la definizione che diedi della certezza, mostra
ancora la differenza che passa fra essa, la persuasione,
e la verità.
La persuasione può essere, o si può pensare almeno
che sia fermissima, e di cosa falsa: questa non c cer
tezza.
La persuasione può essere fermissima, ed anche con
forme alla verità , ma può essere appoggiata ad un mo-

(i) Chiamo qui opinione o credenza qualunque idea , giudizio o raiio-


ciuio nella meule dell' uomo , a cui questi possa dare o negare il suo
assenso.
tivo irragionevole e falso (1): in tal caso P uomo sa
rebbe persuaso della verità, ma non avrebbe veramente
la certezza: quanti' altri non volesse distinguere due
specie di certezza, 1' una ragionevole, l'altra irragione
vole: distinzione che a me non garba, e che affatto
escludo, come quella che, anzi che chiarezza, induce con
fusione nell' argomento.
La certezza dunque risulta da tre elementi : i." la
verità nell'oggetto, 2° la persuasione ferma nel sog
getto, 3.,° e un motivo, o ragione produttrice della per
suasione.

CAPITOLO II.

LA CERTEZZA NON PUÒ ESSER MAI CIECA.

Se la produzione della certezza in noi è fatta da una


ragione che ci convince e trae a dare il nostro assenso
ad una proposizione; ella non può esser mai cieca , mai
un puro fallo, mai una sottomissione puramente istintiva.
Fu Reid, fondatore della scuola scozzese, il primo,
ne' tempi moderni, che pronunciò un tale assurdo , e
travolse la filosofica verità in un abisso , onde non
uscendo, sarebbe stata eternamente annullata. Atterrito
egli dallo scetticismo universale che la filosofia lockiana
avea di sè generato, quasi direi per una insufficienza della
propria ragione individuale, per un suo proprio scorag
giamento, non potendo sostenere uno stato così deso
lante di dubbio, cercò degli ausiliarj nella opinione
degli altri uomini, e ricorse, siccome naufrago , alla ta
vola del senso comune : disse, che le credenze comuni
non si poteano nù provare , nè giustificare j che ripo
savano sopra una necessità irresistibile di assentire , so-

(1) Talora il motivo onde l'uomo è mosso ad una fermissima persua


sione, è ragionevole senza che egli slesso se n'avvegpa, e senza che il
sappia annunziare altrui. Questi ha la certezza. Badisi adunque di non con
fondere il credere senza ragione , o sopra ragione falsa , e il credere con
vera ragione, ma senza sapersene render conto. Molti della plebe credono
al Vangelo : se voi gì' interrogate , forse non vi sapranno dire il perchè :
wa ciò non vuol dire, che non credano con ragione: mentre credono sul-
1 autorità divina, e sulla forza di una verità che parla loro internamente:
essi sono vinti dalla migliore delle ragioni; senza però potervi tosto riflet
tere, e notare ciò che in sè avviene cosi distintamente da saperlo altrui
comunicare.
8
pra una legge di natura, a cui l' uomo era sommesso. La
natura stessa , secondo lui, veniva in soccorso della ra
gione impotente; e non polendo questa giustificare le
prime nozioni , un istinto tuttavia necessitava l'umanità
a crederle: perchè l'umanità rifugge per natura dall'an
nientamento, che sarebbe a lei avvenuto se a' primi ed es
senziali principj ella avesse potuto negar la sua fede.
In tal modo egli credeva di avere svelto lo scettici
smo dalle radici ; e senza avvedersene 1' avea radicato
e consolidato maggiormente.
Poiché s' ella è una necessità della mia natura il
prestar fede a delle proposizioni, vuole egli dir questo,
che quelle proposizioni sien vere ? S' io presto loro il
mio assenso per conservare la mia esistenza , che senza
questo assenso cesserebbe, che altro mi spinge a ciò se
non il principio , bensì forte, bensì irrepugnabile , ma
però cieco, del mio interesse? E ciò che a me è utile e
necessario, sarà egli vero per questo? o a dir meglio,
non è tramutata qui la verità nell' utilità e nella ne
cessità? Quella adunque non esiste più, ma sole queste
son quelle che esercitano su di me la lor forza. Ma
s' ella è così, non sono io nelle tenebre egualmente di
prima? anzi in tenebre più fìtte, perchè in tenebre ne
cessarie, essenziali? Dico più: non è solo V ignoranza a
cui mi si condanna; è 1' errore che mi si prescrive, che
mi s' impone , pena la mia esistenza : perocché è un
errore il dar nome di verità a ciò che non è che una
utilità , che una fiera necessità. Mi si comanda un de
litto , mi si sforza alla più grande delle viltà! percioc
ché è un delitto, che atterra tutta la nobiltà della mia
razionale natura , il tener io per norma sola del vero
e del falso, l'utile e il disutile. Crudele natura, se
tale è la legge che detti all' uomo ! crudele benefizio,
se intendi salvarlo dall' annullamento collo spegnere in
lui ogni favilla di sua eccellenza ! Natura stolta e bu
giarda , se scancelli dall'anima razionale il carattere che
gli hai impresso tu stessa per ingannarlo, e ti penti
dell' intelligenza, e della vocazione alla virtù , che gli
hai data , acciocché egli signoreggi gli esseri che lo cir
condano ! Che tirannia più trista , più essenziale ai
quella che eserciterebbe una sì fatta natura sulla por
zione essenzialmente libera dello spirito umano? che fa
talità inesorabile manometterebbe 1 intendimento nostro.
L'assurdo in tale sistema usurperebbe il trono della ve
rità, eliminata per sempre dall' universo , é cassata dal
novero delle essenze : percioccbè noi avremmo un in
tendimento , che, privo della luce che il forma , ten
tennerebbe qua e là istintivamente: e una paura sorda,
atroce , formerebbe la base dell' essere umano , fuggente
sempre il nulla che gli sta accanto , e fuggente senza
conoscere ciò che fugge : una strana deità caccia inces
santemente ed esagita 1' uomo di questi filosofi, e ha
di lui provvida cura una deità incognita, fatale, in
concepibile.
Tale sistema , che nel primo aspetto ha di fuori una
vista benigna e provvidente , produsse già fuori il suo
reo veleno di che tocchiamo.
Dall' Inghilterra passò in Germania, e si trasformò
nel kantismo: il quale non è che il sistema scozzese
fecondato, approfondito, vestito di forme più gravi e
più regolari.
Reid avea detto, che noi, quanti siamo uomini presi
in corpo , crediamo a certe nozioni prime per un mo
vimento immediato del nostro spirito , il quale non può
fare a meno di dar loro 1' assenso. Questo, Reid il prese
come un fatto; nè tolse a dar di lui spiegazione, anzi
il dichiarò inesplicabile. Kant ammise quel fatto; e ag
giunse solo, che s'egli non si potea intieramente spiegare,
ii potea però analizzarlo accuratamente ; cioè, che quella
virtù intima dello spirito, che emetteva di sè con una
cotal suggestione i principj comuni della ragione , si
potea divisare e discernere a tenore de' suoi effetti ; e
tentò di distinguere tutti questi effetti. Il risultamento
eh' egli ebbe del suo lavoro si fu, che quella specie
d'istinto spirituale si manifesta con un certo numero
di funzioni; e quella virtù parziale, onde lo spirito fa
ciascuna di quelle funzioni , chiamolla forma dello spi
rito ; e così nacquero le forme della filosofia trascen
dentale. Reid avea creduto di buona fede , di difendere
all'uomo il possesso della verità oggettiva: Kant s'ac
corse che il sistema radiano faceva il contrario, cioè
la toglieva interamente. Egli 1' aprì allo scoperto, e di
chiarò che la ragione teoretica non avea alcun valore
oggettivo , e che la verità di tutti i ragionamenti umani
non potea essere che soggettiva , cioè apparente al sog-
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. a
IO
getto. Nè s'avvedeva, che pur questa maniera di dire,
verità soggettiva, era un abuso di parole; poiché la ve
rità soggettiva non è verità, e v' ha nella stessa espres
sione un' intima ripugnanza.
Nel suolo italiano non attecchì mai sì fatta stranez
za ; e vi fu sempre combattuta.
In Francia, la filosofia scozzese comparve nel 1811;
e prima di questo tempo , il Condillac vi regnava con
assolutissimo regno , nello stesso tempo appunto che
una infinita turba di Condillachiani si vantavano d'esser
gelosissimi possessori della libertà di pensare (1).
Dopo quel tempo , trovò 1' adito in Francia la filo
sofia tedesca , coperta in parte sotto il nome di eclet-

(t) Quanto l'uomo è poco informato di sè stesso! qivint'egli spesso è


ingannato , ove prende a portar giudizio delle proprie idee ! Quelli che si
credono i più liberi, sono bene spesso i più schiavi. — Questo è un fatlo
innegabile e tristo, che pur non si dee dissimulare. Conviene che passi il
tempo del fervore , perchè altri uomini, guardando indietro ., situo in caso
di rilevare in quale stato si trovavano gli uomini che gli hanno preceduti.
L'uomo dice spesso di voler pervenire ad un termine. Credete per questo,
che i mezzi eh' egli sceglie sieno quelli appunto che a quel termine il deb
itori condurre? V'ingannereste troppe volte, se vi avvisaste di creder ciò
sulla sola intenzione sua, secondo la quale vi dice d'avere scelto que
mezzi. Stiamo ne' filosofi. Leggete Berkeley ; e voi troverete, che primi
di lutto vi accerta, ch'egli inventò l'idealismo non ad altro fine chea
quello di confutare gli scettici, che erano pullulati dalla filosofìa di Locke
Intanto Locke stesso non ebbe che questa intenzione. L' efletto dell' ideali
smo fu quello di accelerare allo scetticismo i suoi progressi. Accorse Rrid
con tutta la buona volontà di raffrenarlo; e per far questo, vi oppose un
sistema che dava origine al criticismo, cioè allo scetticismo più estremo
che sia slato mai nel mondo, all'ultimo sviluppamento e perfezione dello
scetticismo. Ma quale è finalmente lo scopo che Kant si propone colla sua
dottrina? Ad udir lui, non è altro da quello che si proposero tutti i suoi
precessori, cioè di dar fine agli sceltici, che egli chiama <« un cotal genere
« di nomadi, che abbominano ogni coltura del suolo, e che dissolvono di
« giorno in giorno la civil società » (Pref. ). Egli giunge a dire, che milk
aver vi dee di opinabile nella sua dottrina : « Ho già fatta a me stesso h
« sentenza , egli dice : in questo genere di ricerche non è lecito di opi-
« care, e si dee violar tulio ciò che mostra faccia d'ipotesi, come inerte
« proibita, e non dargli alcun prezzo, anzi, toslochè si conosca, denuo-
et ziarla » ( Ivi). Ora, dopo tali dichiarazioni, ove sia I' equivoco? In que
sto , eh' egli ammette una cognizione necessaria , ma di una necessità ap
parente e. soggettiva. Con quest'aggiunta distrugge ogni cognizione, o£M
possibilità di cognizione. Il procedere di quest'ultimo è cerio da sofista; ne
indagar posso ciò ch'egli s'avesse nell'animo. Ma de' filosofi di sopra no
minoti , do' quali la retta intenzione è manifesta, io dirò , ch'essi ci danno
un chiaro argomento della verità accennata, che 1' uomo a giudicare di se
medesimo erra sovente, e che ciascuno difficilmente conosce su qual terreno
si sta, e quale sia il vero ed intero elicilo della sua maniera di pensare.
11
ticismo ; al qual nome facilmente da quello di criticismo
passar si potea : conciossiachè quella filosofia che chiama
in giudizio tutti i sistemi , poteva ben sceglier da essi.
Nè per questi soli nomi mi curerei di dare altrui bia
simo (i).
Non tutti conoscono in Francia la vera natura di
una simigliante filosofia : essendovi essa ancora nuova ,
e le sue ultime conseguenze non per anGo uscite in
luce. E son pure gli ultimi parti di una filosofia, quelli
che fanno giudicare inappellabilmente la causa della
lor madre, assolverla , o condannarla per sempre.
Quindi non è maraviglia se , mentre alcuni s' inge
gnano di far servire colai filosofia agl'interessi della
religione , altri la coltivano senza aver punto riguardo
a conseguenze religiose , e dimostratisi pronti di rice
vere le conseguenze tutte della medesima senza cono
scerle. Questi ultimi accelerano in tal modo lo svilup-
pamento del sistema, e la sentenza capitale del mede
simo. Ciò che solo ci fa star pensosi e solleciti di un
tal esito, si è il ricordarci , che una cattiva dottrina
filosofica non è giammai giudicata, se prima molti uo
mini non sono per essa sacrificati all' errore !
CAPITOLO III.
DEI DUE PRINCIPJ DELLA CERTEZZA.
Io distinguo due principj della certezza.
L' uno è una proposizione che esprime ciò che costi
tuisce la verità, e che si potrebbe chiamare Principium
estendi (2).

(1) Il criticismo ha però qualche cosa di prosontuoso e di assurdo anche


net nome: poiché sembra che un uomo possa portare giudizio della ragione
degli uomini, quasiché egli fosse un essere diverso dagli uomini. La deno
minazione di ecletlicismo non ha questo difetto; ma significando una scelta
di dottrine, non esprime in esse 1' unità, senza la quale non possono for
mare una vera filosofìa , ma solo un ammasso di staccate sentenze. Gli
eclettici, ove si dovessero giudicare pur dal nome che a sé impongono, di-
rebbersi una genie anzi di memoria che d' ingegno.
(a) 11 distinguer bene questi due principj della certezza , ci dà il van
taggio di evitare, nel 'progresso del ragionamento, molle ambiguità, e al let
tore molte male intelligenze; ed abbrevia nello stesso tempo il discorso ,
die non suole mai proceder sì lungo come allorquando cammina incerto e
confuso. Oltracciò conviene osservare, che la certezza ha bensì una cagione
fuori di noi; ma che tuttavia le proprietà di questa cagione, che colla cer
tezza non hanno relazione, sono interamente escluse dalla natura del. pre
mute argomento.
I2
L' allro è una proposizione che esprime un segno
certo della verità , e che si potrebbe chiamare Princi-
pium cognoscendi.
Egli è evidente, che quel principio che esprime l'es
senza della verità , dee essere anche il principio della
certezza; perciocché ov' io possa vedere che in ciò che
mi si presenta alla mente è la verità, io non ho biso
gno d1 altro motivo per esser certo della cosa pensata.
Medesimamente, ov' io m'abbia un segno certo, se
condo il quale io debba credere che ciò che penso è
vero , io posso ragionevolmente e fermamente credere
alla cosa presentata innanzi al mio pensiero, sebbene
di essa non veda la ragione o sia la verità stessa.
Ma veggiamo che relazione abbiano questi due prin
cipi c0* tre elementi della certezza , cioè colla verità
nell'oggetto, colla persuasione ferma nel soggetto, e
colla ragione produttrice della persuasione.
E prima , acciocché il ragionamento proceda più spac
ciato, stabiliamo le maniere di parlare.
Qualunque cosa a cui io dia o neghi il mio assenso,
si può rendere in una proposizione; una proposizione
presente al mio spirito, può dirsi anche una cogni
zione, in quanto intendo e conosco quella proposizione.
Userò dunque del vocabolo proposizione, non per espri
mere una forma particolare de' miei concepimenti , ma
per esprimere tutto ciò a cui la mia persuasione si ri
ferisce, quand'anco ciò fosse una semplice idea : perchè
anche un' idea, some dissi , può essere colla lingua tra
mutata ed espressa in una proposizione (i).
Ciò posto, dico, che quello che forma o toglie in
me la persuasione , è 1' assenso o il dissenso eh' io do a
qualche proposizione.
L'assenso poi, perchè produca una persuasione che
dia certezza , dee esser mosso da una ragione.
Una ragione adunque è la causa generale della cer
tezza; e dei tre elementi de' quali la certezza risulta,
è il terzo quello che la genera nell' individuo , unico
soggetto reale della certezza (a).

(1) Ogni idea acquisita , come abbiamo dimostralo nella Sezione prece
dente, ha in sè un giudizio: la prima idea diventa una proposizione tostocW
ti applica.
(2) Il sorella della certezza è sempre un individuo : poiché non può cs-
i3
Perchè adunque io dia il mio assenso ad una propo
sizione , e così generi in me la certezza , io debbo es
ser mosso da una ragione , e non dar questo assenso a
caso, o alla cieca.
Ora questa ragione non è necessaria ad altro, se non
a questo, che produca in me la persuasione della verità
di quella proposizione. Ma se la verità mi si mostra
intuitivamente , in tal caso questa ragione che mi
muove è la verità stessa, che presentandosi al mio
spirito io riconosco, e provo di lei quella forza che
genera in me un'immobile persuasione ragionevole, ap
punto perchè prodotta dalla verità, e perchè non mi
sono arreso che alla verità. In tale caso gli elementi
della mia certezza riduconsi a due , cioè alla verità nel-
V oggetto, che è altresì ragione della mia persuasione,
e alla persuasione stessa in me, soggetto, cagionata da
quella verità.
Ma ove io non possa vedere la verità stessa , chè così
si chiama la ragione suprema della proposizione; accioc
ché io dia un assenso ragionevole (i) , debbo avere un
motivo, un indizio o segno, in virtù del quale ragione
volmente io creda che in quella proposizione sia la verità,
eziandiochè io medesimo non la ci vegga: poiché quel
segno della verità è tale , che non mi può fallire. Or
questo segno certo della verità può essere, in ragion
d1 esempio, un,' autorità infallibile (2), alla quale ragio-

■ere che un individuo quegli che dà o nega l' assenso ad una proposizione,
non essendovi che individui sopra la terra. L'umanità non è che un'idea
astratta. Sarebbe adunque un assurdo il dire (cangiando un astratto in una
persona reale) che l'umanità, e non gl'individui de' quali l'umanità si com
pone, dà l'assenso e produce la certezza. Il dar l'assenso poi è pronunziare
un giudizio : il giudice prossimo adunque della certezza è fuori d' ogni
controversia l'individuo slesso, come il giudice prossimo delle azioni morali
é la coscienza di ciascuno. Questo però non toglie che 1' individuo non
debba seguire una regola che è indipendente da lui , nel fare simigliatile
giudizio.
(1) Erret necesse est, dice s. Agostino, qui assenlitur rebus incertis (L. II,
contro Acad. c. iv)-
(2) L' autorità non è già questo principio estrinseco della certezza con
siderato in tutta la sua generalità: ma è un caso particolare sottordinato a
questo general principio. Una parte delle argomentazioni ab absurdo sono
pure soggette al medesimo principio, cioè tutte quelle nelle quali l'assurdo
non cade punto sul contenuto della proposizione , ma sulla proposizione
stessa materialmente prosa, sicché nasce un assurdo a supporta falsa, seb
bene uou si sappia che cosa essa contenga, 0 non monti il saperlo.
"4
iievolmente io credo , sebbene ciò che mi viene affer
mato da quella autorità io non l'intenda. Ma di nuovo,
in generale, « un segno certo della verità di una pro
posizione nii può produrre la certezza » , sebbene estrin
seco alla proposizione , e non atto a farmi percepire
e conoscere (i) immediatamente la verità stessa in essa
contenuta.
Si possono adunque distinguere questi due principi
della certezza, chiamando l'uno intrinseco, e l'altro
estrinseco alla proposizione: perciocché il primo non si
trattiene solo a persuaderci e convincerci che in quella
proposizione aver ci dee la verità ; ma entra nella pro
posizione stessa, e la verità sua ci mostra manifesta
mente , e ce la fa percepire, per dir così, cogli occhi
nostri dell' intelletto. Il secondo all' incontro non s'in
terna nella proposizione , anzi non si cura sempre del
suo contenuto. E perciò con questo principio non è nè
pure necessario che noi intendiamo chiaramente quella
proposizione : ma checché ella contenga, e qualsiasi la
intelligenza nostra di lei ( foss' ella anco espressa in
lingua a noi ignota, o scritta in caratteri inintelligibili),
mediante quel principio noi proviamo a noi stessi, e
con ragione ci convinciamo , che quella proposizione
dee contener il vero, e quindi che noi dobbiamo aciù
che è in essa contenuto prestare intero 1' assenso.

CAPITOLO IV.

dell' ordine che hanno fra loro il principio intrinseco


e il principio estrinseco della certezza.

Quando io ho un segno certo della verità di uni


proposizione, per esempio un' autorità infallibile che
1' afferma , io ho un principio che mi dà certezza &
quella proposizione o del suo contenuto.

(i) Sant'Agostino trova più propria la parola sapere per indicare I» pfr'
cezionc della verità, e la parola credere per indicare l'assenso dato attui»
proposiziouc sull'altrui fede: Proprie quippe cuni loquimur, id solili* sa"
dicimWf quod mentis firma ralionc eomiirehendimus. Cum vero loqum»*
i-erbis consuetudini aptioribus, — non dubitemtts dicere scire nos et
pcrcipimus noitri corporis scnsibus, et quod fide dignis credimus testi*''•
DUM TAMEN INTER HMC ET 1LLUD QUID D1STET INTELLl-
CAMUS ( Rclract. L I, c. xiv ).
i5
Ma quel segno, perchè mi presti questo ufficio , dee
essere egli medesimo prima certo. È dunque in questo
caso una certezza che produce un' altra certezza. La
certezza che io acquisto di quella proposizione , non
1' acquisto io se non perchè prima ho la certezza di
quel segno o argomento che me 1' assicura. La certezza
adunque che mi produce il principio estrinseco della
verità, non è la certezza prima, ma è una certezza che
suppone un' altra certezza precedente.
Or dunque, ond' è la certezza di quel segno certo?
Se la certezza del medesimo mi viene da un altro segno
certo, io ridomando, onde la certezza di questo ? Ma
nifesta cosa è, che non si può andare all'infinito nella
serie di questi segni; perciocché se io m' accertassi del
primo segno pel secondo, e del secondo pel terzo, e
via discorrendo infinitamente , io dovrei aver nel capo
mio una serie infinita di segni; cosa assurda: percioc
ché in questa serie infinita il primo non troverebhesi
mai; e dal primo dipenderebber pur tutti gli altri; nè
senza il primo nulla gli altri varrebbero. È dunque da
finire in un segno, la verità del quale mi sia nota per
si stessa, e non per altro segno. Così forz' è di ridurre
il principio estrinseco della certezza , al principio intrin
seco, come a un principio superiore; e in tal modo il
principio ultimo della certezza riducesi ad un solo, cioè
alla verità veduta dalla nostra mente con una intuizione
immediata, senza segni e senza argomenti di mezzo (i).
(i) Osservisi bene, che il motivo o ragione che piega il mio assenso,
dee in ogni caso essere sempre la verità; perciocché nulla potrebbe vera
mente persuadermi che una cosa è vera, se non la verità. Poniamo che io
si» mosso a credere o pronunziar vera una proposizione da' miei interessi.
Questa proposizione sarebbe resa a me veramente certa? No: perchè la ra
gione che mosse il mio assenso fu {'utilità mia, e non la verità. V'ha un
sicario, che minacciandomi di conficcarmi un pugnale nel petto, mi fa giu
rare una dottrina. Che fa costui? mi persuade? Nò certo, all'istante; non
Eira che rendermi spergiuro: poiché quella pena minacciata non produce
lu me la certezza; essa non è verità, ma è pena; non ha dunque diritto
sul mio assenso intellettuale. Poniamo che una lunga oppressione, una lunga
scrviiu, una indefinita serie di pene fattemi soffrire, accompagnate da altri
mezzi di persuasione (non però mai dalla verità), piegasse in me 1' assenso
a falche dottrina, e producesse in me una persuasione qualunque. Questa
persuasione sarebb' ella certezza? Nò ancora, perchè prodotta da motivi
estranei alla verità. Che se quella persuasione, nata in me prima per mo-
'lv> stranieri alla pura forza del vero, poi sopraggiugnendo la verità net
m"> spirilo, fosse da questa confirmata} ella comincerebbe ad essere cor
azza solo in quest'ultimo tempo, e non prima. Non altro motivo dunque,
la vista della verità , può produrre la vera certezza.
iG
CAPITOLO V.
DELLA MANIERA ONDE NOI TEDIAMO LA VERITÀ'.

Due sono i principi della certezza , 1' uno intrinseco


e 1' altro estrinseco.
Il principio intrinseco è la cognizione intuitiva della
verità.
Il principio estrinseco è la cognizione di un segno
certo della verità.
II principio estrinseco non è propriamente ultimo:
egli è ordinato sotto il principio intrinseco , e da lui
dipendente : poiché non si può avere un certo segno
della verità , senza che si abbia una certezza anteriore,
che in ultima analisi non ci può esser data che dal
principio intrinseco , dalla cognizione intuitiva della pe
ritò (i).
Il principio supremo adunque od ultimo della certezza
è un solo , l'intuizione o la vista della verità.
Conviene adunque occuparsi a spiegare come sia che
noi diciamo di vedere o conoscere intuitivamente la ve
rità in una proposizione.
Noi diciamo di conoscere la verità in una proposi
zione , quando ne sappiamo la ragione.
Ma la ragione di una proposizione può essere sem
pre espressa con un' altra proposizione per esempio,
la ragione di questa proposizione, « L' uomo è più no
bile de' bruti » , può essere espressa con quest' altra.
« Perchè l'intelligenza di cui l'uomo è fornito è più
nobile del solo senso ».
Ma se una proposizione contiene la ragione di un'al
tra proposizione , una terza proposizione forse vi avrà
che conterrà la ragione della seconda: la ragione dell'
ragione : il perchè del perchè. Così della proposizione.
« L' intelligenza è facoltà più nobile del solo senso',
si può dare la ragione in quest' altra, « Perchè T intel
ligenza ha per oggetto l'essere in universale, e il senso
è ristretto al corpo ».
Ora di questa terza proposizione conviene pure sa
pere la ragione , per poter dire di conoscerne propria
mente parlando la verità ; il che ci dà una quarta
proposizione che la esprime.

(i) Cap. IV.


Ma cercando di nuovo la ragione di questa , quarta
proposizione, c poi della quinta , c così via ; si viene
finalmente ad una proposizione ultima , oltre la quale
andar non si può: la quale contiene ed esprime la ra
gione suprema , che ci dee soddisfare per sè medesima
(bene intesa che da nOi ella sia), e pienamente appa
gare la nostra voglia di cercar ragioni : e questa ra
gione suprema od ultima è la ragion propria di tutta
3uella serie di proposizioni, e perciò anche della prima:
ella quale altri non dice già di conoscere propriamente
od intuitivamente la verità, fino che non è pervenuto
a trovarla nell' ultima sua ragione, nella quale 1' intel
letto si acquieta pienamente.
Or facciasi qui attenzione. Cercavasi dì sapere « quando
sia che noi percepiamo intuitivamente la verità di una
proposizione». E trovammo, osservando il fatto, che
l'intelletto umano non è pienamente quieto e contento,
e non crede , o dice di vedere la verità della proposi
zione , se non allora che vede l'ultima ragione di essa.
La verità dunque della proposizione non è la proposi
zione stessa , ma la sua ultima e suprema ragione: que
sta ragione ultima perciò è quella che nel significato
comune della parola si chiama verità della proposizione ;
e il vedere la verità, non è che il vedere questa ragione.
Il criterio adunque della certezza, espresso in queste
parole, « La cognizione intuitiva della verità », si può
anche rendere in quest'altre, «La cognizione della ra
gione ultima della proposizione » (i) di che si tratta.

(i) Si dice della proposizione , e non della cosa intorno a cui pronuncia
la proposizione. La ragione della proposizione é una ragione logica; la ra
gione della cosa intorno a cui la proposizione pronuncia è una ragione
metafisica o finale ecc. Pigliamo in esempio questa proposizione: « Esiste
in genere umano ». Il genere umano è ciò intorno a che pronuncia la
Croposizionc. Ora io, per esser certo di questa proposizione, non ho mica
i sogno di conoscere la ragione ultima del genere umauo ; ma bensì quella
ragione ultima, che mi provi la sua esistenza; perchè la proposizione versa
su di questa esistenza, e non sulla natura o sulla ragione del genere umano
stesso.
Rosmini, Orig. delle Idee , Votili. 3
i8
CAPITOLO VI.

CHE IL PRINCIPIO DELLA COGNIZIONE DEE ESSER ANCO


IL PRINCIPIO DELLA CERTEZZA.

Quand' io voglio conoscere se una proposizione è vera


o falsa , io cerco la ragione della medesima (i).
La ragione della medesima può essere espressa in al
tra proposizione, di cui pur cerco la ragione : e non mi
acquieto pienamente (2), finché di proposizione in pro
posizione, di ragione in ragione, non sono venuto alla
ragione ultima di tutte, e per sè evidente. Allora dico
di percepire intuitivamente la verità della prima pro
posizione, d' aver trovato il principio supremo della
certezza.
Or attendasi a questo fatto (3). Fino che io di una
proposizione cerco s'ella è vera o s'ella è falsa, io
distinguo la cognizione (4) dalla certezza. Perciocché io
conosco, io intendo il senso di quella proposizione, e
tuttavia non so ancora s'ella sia vera. La cognizioni
adunque che ho della medesima , non è una cosa colla
verità o certezza che cerco di essa. Questa distinzione
fra la cognizione e la certezza di una proposizione , si
rimane in tutta la serie delle proposizioni o ragioni,
in fino all' ultima. Ma venuti che siamo alla ragione
ultima, forz' è che la cognizione colla certezza s'imme
desimi, e fra queste due cose non rimanga più alcuna
reale separazione.
In fatti, dissi ragione ultima a quella proposizione,
che, intesa appena, ha già, per la sua intrinseca auto-
(1) Cap. precedente.
(2) Nel fatto gli uomini non si acquietano sempre ragionevolmente nelle
loro ricerche ; ma si acquietano talora anche sopra ragioni frivole, come
vedesi nel volgo ; e talora queste colpiscouo di più che Te solide e vere. Si
può adunque ricercare « quale sia la legge che segue nel fatto l' appaga
mento degli uomini nella ricerca delle ragioni delle cose ». E si può stabi
lire, che la legge sia questa: « Nella serie delle proposizioni subordinate,
ciascun uomo si appaga giunto a quella proposizione , della quale egli pi"
non dubita » ; qualunque poi sia la cagione che noi fa dubitare.
(3) Si osservi bene, che io non ho cominciato ancora a parlare contro
gli scettici. Qui non fo che esporre de'falli e analizzarli. Raccouto ciò che
agli uomini avviene, o ciò eh essi credono che loro avvenga : ragiono i";
somma col comune degli uomini; non m' impaccio ora cogli scettici, coi
quali tratterò più sotto.
(4) Cogitatone iu scuso luussiino per concezione , o per lutto ciò clic si
concepisce.
rilà e forza di evidenza , tirato a sè giustamente il mio
assenso; sicché io non posso, nè voglio cercare altra
ragione di lei; ma quella mi appare giustificata da sè ,
e mi convince pienamente ed appaga. Conosciuta appena
quella ultima ragione, io dico di vedere la verità della
cosa (i): cognizione dunque e certezza diventano, in
queir ultimo punto delle mie investigazioni , una sola
e medesima intellezione.
Ma avvertile ancora, che se io mi fermo a quella
ragione ultima, non è già solo perchè io mi senta ap
pagato in quella. Io potrei chiamarmi appagato an
che in una ragione che non è ultima, e in quella fer
marmi. Neil1 ultima mi fermo non pure volontariamente,
ma anco necessariamente ; poiché dicendo ultima , dico
tal ragione, oltre la quale non ce n1 ha alcun' altra ,
che io possa veramente cercare , o a cui io possa as
sentire, nè che io possa conoscere. Come dunque la
ragione ultima di una proposizione è quella dove ter
mina il mio assenso e la mia persuasione , così essa è
quella altresì dove termina la mia cognizione : ella è
non solo il principio della certezza , ma hen anco il
principio della cognizione : ciò che avevamo tolto a di
mostrare (2).

(1) Cap. precedente.


(a) Quando si arriva a questo punto, ove la cognizione e la verità o
certezza non sono più che una cosa , allora si vede chiaro quanto sia as
surdo far produrre la cognizione da' sensi, da' quali non può venire la cer
tezza. I Peripatetici s'avvidero che il giudizio della verilà delle cose nou
poteva appartenere ai sensi. Or questo solo sarebbe dovuto bastar loro, ove
ci avessero attentamente riflettuto, a farsi accorti, che dunque nè pur la co
gnizione da' sensi, come da sua intera cagione, potea derivare; perciocché
questa è in ultimo una cosa medesima colla certezza. Ecco come Cicerone ri
ferisce l'opinione de' Peripatetici e degli Accademici : « Terlia pìuloso-
ph'tae pars, quae crai in rationc et disscrendo , sic traclabatw ab utriufue
(gli Accademici ed i Peripatetici). Quamquam orirelur a sensibus , lamen
non esse JUDICIUM -VERITATIS in sensibus. Menlem volebanl rerum
esse judiccm: solarn censebanl idonearn cui crederelur , quia sola cernerci
id quoti sempcr esset simplex , ci unius modi , et tale quale cssct. liane illi
IDEAM appellabant, jam a Platone ila appellalam : nos recle speciali pos-
sumus diccre (.tendati. I). Or dunque questi Peripatetici facevano delle idee
il principio della certezza. Ma se avessero osservato come le une dalle altre
germinavano, sarebbero venuti a trovar la prima idea, fonie dell'altre:
quindi 1* unità del fonte della cognizione e della certezza. Checché questi
Peripatetici opinassero, certo è, che chi giunge a conoscere che il giudizio
della certezza non proviene che dalla melile, può (se vuol essere coerente
a sè stesso) trovare altresì, che anche la cognizione dee avere la stessa
origine.
CAPITOLO VII.

IL PRINCIPIO DELLA CERTEZZA È UNO PER TUTTE


LE PROPOSIZIONI POSSIBILI.

Io non mi sono posto ancora a dimostrare , contro


gli scettici , che esiste per l' uomo un valido principio
della certezza : questo capitolo non si occupa che a
mostrare quale dovrebbe essere questo principio, perchè
tale chiamar si potesse , s' egli vi fosse veramente.
Dico adunque, seguitando, che se il principio della
certezza vi è, non può esser che uno per tutte le pro
posizioni possibili : il che è conseguenza delle cose espo
ste fin qui.
E veramente io mostrai, che pigliando una proposi
zione qualunque, per vederne la verità , conviene ri
cercarne e conoscerne la ragione ultima (i). Restava dun
que a sapere , se questa ragione ultima d' una proposi
zione , dovesse esser 1' ultima anche per tutte le altre.
Ma ricercando la natura di questa ragione ultima,
venni a trovare ch'essa* non era solo il principio della
certezza , ma sì ancora il principio delle cognizioni
umane.
Ora fu veduto nel corso di quest'opera, che il prin
cipio di tutte le umane cognizioni è un solo, 1' essebi
in universale (2). Convien dunque dire , che anche il
principio della certezza , s'egli vi è , dee essere un
solo per tutte le proposizioni possibili, e sia appunto
questa stessa idea maravigliosa dell' essere, che la natura
ha inserita in noi per renderci intelligenti, ciò che viene
ad una cosa medesima col dire, capaci di percepire la
verità (3).

(1) Sant'Agostino riconosce, che è bene appropriato il titolo di ragioni alle


idee. £ veramente, una ragione non può esser mai altro che un' idea. Ecco
il luogo del grande vescovo d'Ippona : Ideas latine possumus velformat vd
species dicere, ut verbum e verbo transferri videamur. Si antan RATIO-
WES eas vocemus, ab interpretandi quidem proprietate discedimus: rationes
enim graece Xijoi appellantur, non ideae: scd tamen quisquis hoc vocabulo
liti voluerit, a re ipsa non errabit ( Lib. LXXXIII Quaest., Q. XLVF).
(2) Gli antichi riconobbero che il principio della certezza dovea esser
qualche cosa di generalissimo , come si può veder in Sesto, nelle Jpotiposi,
L. II, c. ix.
(3) In questo scuso è vero ciò che scrive l' autore del Saggio sul? Indi/'
ferenza : La certilude est la base essentielle de la raison (Voi. II).
21
CAPITOLO Vili.

DI UNA MANIERA SEMPLICISSIMA 01 CONFUTARE GLI SCETTICI.

L' unica forma della ragione umana è 1' essere in uni


versale (i): quest' essere in universale è tanto il princi
pio della cognizione , come il principio della certezza (2).
Ora se si considera quest'essere in universale come il
principio della cognizione , chiamasi idea, idea prima,
idea madre.
Ma se si considera come il principio della certezza,
chiamasi generalmente dagli uomini ragione ultima, e
verità' delle intellezioni (3).
Questo basta a giustificare quella sentenza, che io
scrissi nel Saggio sui confini della ragione, cioè, che
« 1' unica forma della ragione umana è la verità' » (4).
Ed ora badisi qui, come da questa sola proprietà di
parlare nasca una facilissima confutazione degli scettici;
e il senso comune sia immune per sè stesso dagli as
salti de' sofisti, che credono di oppugnarlo, e nè pure
dirigono contro lui i loro colpi.
Facciamo parlare insieme gli scettici colla comunità
intera degli uomini, e veggiamo siccome quelli combat
tano, anziché con questi , colle loro proprie chimere.
Comunità degli uomini. Di alcune proposizioni si può
conoscere il vero ed il falso.
Scettici. Prosunzione vana ! la verità non può cono
scersi da uomo alcuno.
Comunità degli uomini. E pure noi sogliamo conti
nuamente formare de' ragionamenti , noi abbiamo delle
idee, queste le congiungiamo in giudizj, i giudizj gli
annodiamo fra loro e ne formiamo de' raziocinj. Me
diante queste diverse operazioni dello spirito noi veniamo
a conoscere se una proposizione sia ragionevole o no ,
se sia vera o falsa.
Scettici. Voi altri, turba infinita, credete di far tutto
questo, e con ogni sicurtà ravvolgete idee, componete

(0 Sez. V.
(a) Cap. VI e VII. Questo é anche vero secondo il senso comune degli
uomini : gli scettici assaliscono il senso comune : la difesa di esso è ne' capi
toli seguenti.
(3) Cap. II.
(4) O/zujc. Filos. Voi. II, face. 98.
22
giudizj 7 e andate a caccia, sillogizzando, di ragioni so*
pra ragioni. Ma vana e perduta fatica ! A. noi , pochi
savj, fa ridere: poiché veggiamo, che ciò che trovate,
limandovi così il cervello, è poi tutto falso; e quelle
idee che avete per ragioni, sono illusioni vostre, senza
che la verità ve 1' abbiate mai.
Comunità degli uomini. Noi non giungiamo, è vero,
a queste vostre acutezze. Tuttavia potrebb' essere, che
la differenza in fra noi consistesse appunto in questo,
che non veggendo noi tanto innanzi, siccome vedete
voi altri, nè pure possiamo tanto innanzi desiderare;
e quindi noi ci acquietiamo prima di voi, mentre voi altri
sdegnate ciò che noi pienamente appaga e accontenta.
Scettici. Così è, fuor d' ogni dubbio.
Comunità degli uomini. Per dire in altre parole lo
stesso pensiero, noi ci acquietiamo nella verità, e voi
cercate qualche cos'altro oltre la verità.
Scettici. Oibò! noi diciamo anzi, che voi non trovate
mai, nè si può trovare la verità.
Comunità degli uomini. Ma diteci, per grazia , non
avete voi riconosciuto questo fatto, che noi facciamo
di quelle operazioni col nostro spirito, che si chiamano
ragionamenti ì
Scettici. Sì; ma questi sono di nessun valore.
Comunità degli uomini. Qualunque sia il valor loro,
noi li facciamo; e mediante quelli, noi perveniamo a
vedere una ragione ultima delle proposizioni delle quali
si cerca il vero ed il falso.
Scettici. Appunto questa ragione ultima, a cui si ri
ducono , risolvendoli , tutti i vostri ragionamenti, è sfor
nita di ogni autorità e di ogni valore. Appunto per
questo non valgono nulla i ragionamenti vostri, perchè
hanno tutti per fondamento una ragione ultima gra
tuita , e senza dimostrazione, senza sostegno, e a cui
bisogna assentire gratuitamente.
Comunità degli uomini. Se la cosa stia come voi dite,
o nò , noi non possiam disputare , perchè troppo allo
è il ragionamento vostro sopra il sapere di noi molti
tudine. Ciò che possiam dimandarvi è solo questo: se
voi sappiate , come quella ragione ultima de' ragiona
menti, con proprietà di parlare si chiami.
Scettici. Che importa a noi il significato de' vocaboli
noi ragioniamo di cose , e non di parole.
23
Comunità degli uomini. Ma non si può sapere quali
sieno le cose sulle quali due parti ragionano, se le parti
non convengono nel significato delle parole.
Scettici. Come adunque si chiama ella questa vostra
ragione ultima ?
Comunità degli uomini. Verità'.
Scettici. Eh ! sciocchezza !
Comunità degli uomini, Tant' è : ella si chiama ve
rità (i), questo è il suo nome proprio: ed è perciò, che
noi dicevamo consistere la differenza fra voi altri pochi
e sublimi filosofi , e noi minuta e innumerevole gente
rella , in questo solo, che noi ci appaghiamo e ac
contentiamo della verità, ma per voi altri questa è troppo
misera e ignobil cosa ; e quando ella vi si presenta , voi
non la degnate d' onorevole accoglienza , e anziché ar
rendervi e sottomettervi ad essa , lei vi mettete dietro
le spalle, per andar più oltre, e cercar cosa migliore
e più degna di voi.
Scettici. Voi ci schernite, e abusate delle parole.
Comunità degli uomini. Vi scherniamo? non facciamo
che esporre la differenza che corre fra voi altri filosofi,
e noi genere umano. Non essendo noi alti ad entrare in
sottili ed ardue investigazioni con voi altri, ci acconten
tiamo di esporre il fatto : noi non vogliamo decidere
chi abbia la ragione ed il torto: mettiamo solamente
in chiaro la nostra opinione , perchè impugnandola voi,
sappiasi almeno che cosa impugniate e combattiate. In
quanto poi all'abuso che ci rimprocciate delle parole,
vi domandiam perdono; ma ci riesce alquanto strano
un simile rinfacciamento a noi.
Scettici. E non è egli un abuso manifesto di parole,
dar nome di verità a quell1 ultima ragione in cui vanno
a finire tutti i nostri ragionamenti? non è quest'abuso
ridicolo, mentre trattasi appunto di sapere se quella
ragione ultima sia vera o illusoria ? Voi supponete de
cisa la questione che si agita appunto.

(i) Noi abbiamo mostrato, che l'essere costituisce ciò che comunemente si
chiama il lume della ragione , e dalle scuole il lume dell' intelletto agente ,
ed è la ragione ultima onde tutte l'altre cose si conoscono. Ora s. Agostino
chiama appuuto verità questa luce , questa ragione : « Lux increata est
ratio cognoscendi, dic'epli , et sola lux increata EST VER1TAS ( De V.
lielig. Cap. XXXIV c XXXVI ).
24
Comunità degli uomini. Vi ripetiamo, che noi non vo
gliamo agitare nessuna questione ; chè noi non siamo
da tanto da contender co' vostri sottilissimi ingegni. Ma
riguardo all' abuso delle parole , non vi rammentate forse
più con chi parlate ?
Scettici. Con una moltitudine di gente la più parte
illetterata.
Comunità degli uomini. Voi parlate colla società del
genere umano , la quale , letterata o non letterata , è
quella sola che impone i nomi alle cose , o che dà loro
autorità. Risovvenitevi, che voi stessi , prima di diventar
filosofi, siete stati educati nella società degli uomini;
che in questa avete apparato quella loquela che adesso
adoperate a disputare contro di lei ; che questa loquela
era già formata prima che voi filosofaste , pensaste, na
sceste; che, bella e stabilita, tanto voi come noi tutti
la usiamo ad esprimere i nostri concepimenti. Non v'è
adunque lecito di attribuire al nome di verità un signi
ficato diverso da quello che noi gli attribuiamo e che
i nostri padri gli hanno sempre attribuito , e molto
meno di rimprocciare all' intero genere umano abuso
di vocaboli ; mentre il genere umano è quegli che in
questo fa e sancisce la legge, a cui tutti debbono stare
gli uomini , letterati ed illetterati , se pur vogliono in
tendersi fra di loro. Perdonateci piuttosto, se noi ritro
viamo una prosunzione infinita da parte di voi altri
pretesi scettici , i quali togliete così a fidanza di dar
legge al genere umano anche nella significazione delle
parole che da lui avete ricevuto. Contentatevi del di
ritto di ragionare, o sottilizzare a vostra posta; ma la
sciate all'uman genere quello sulla lingua, che nessuno
tor gli può nè violare impunemente. Ora sappiatevi
adunque, che tutto il genere umano appunto, dal prin
cipio del mondo fino al presente , non ha mai inteso
di dire altro , dicendo di conoscere la verità di una
proposizione , se non di conoscere quell' ultima ragio
ne , queir ultimo elemento della medesima : e che alla
parola verità, non ha aggiunto che questo valore. Non
potete dunque negare la verità : i vostri colpi non
vanno contro di questa ; mentre voi pure accordate ( ed
è un fatto), che ogni ragionamento gli uomini lo scom
pongono e riducono ad un ultimo elemento , o ragione
25
del ragionamento (i). Veramente, il dire che questa ra
gione è falsa e non vera, è un abusare delle parole:
perciocché ciò che si chiama verità, non è qualche, al
tra cosa , ma quella ragione stessa. La verità dunque è
immune dai vostri assalti : e la differenza che passa fra
gli scettici e il senso comune non è altra che questa ,
che il senso comune , pervenuto alla verità, ivi si ac
quieta e riconosce d' esservi pervenuto ; e gli scettici
pervenuti alla verità non se n' accorgono , ma la tra
passano, e cercano qualche cos'altro migliore, pel quale
(abusando delle parole) riserbano arbitrariamente il
nome di verità (a).

(1) Gli scettici non negano le apparenze; quindi nè pur negano la co


gnizione, ma la dichiarano priva di certezza: essi assnliscono la verità della
cognizione attaccando la base, l' ultimo principio della certezza. Si mediti
bene il passo seguente di Sesto, nel quale questi pretende di combattere i
dogmatici : — Il qualche cosa, che i dogmatici dicono essere la concezione
" generalissimo di tutte (xat (xivrà tI, Svtf Qzrir u'rai vàrrui/ ytvixuraror),
« — se è falso, debbono confessare essere false anche tutte le altre cose. Poi-
« chè in quella stessa maniera che, data la proposizione generale: Quella
« cosa che è animale ha l'anima, è pur data quest'altra : Questa cosa
* (particolare ) che è animale ha 1' anima ; nella stessa maniera , se la con-
« cezione generalissima di tutte ( il qualche cosa ) è falsa , anche tutte le
« concezioni particolari saranno false, e non vi avrà nulla di vero». Ora lo
scettico è tutto impegnato a provare che il qualche cosa, la nozione gene
ralissima, il principio onde tutte le altre concezioni dipendono, non si può
dimostrare che sia vero. Di che poi trae la conseguenza, che anche tutte le
cognizioni sono prive di certezza. Ora da questo passo di Sesto (Hypotyp.
L. II, c. IX ) molle cose importanti si rilevano: cioè, i.° che gli antichi
dogmatici avevano riconosciuto che tutte le cognizioni umane si riducevauo
in un solo principio, o sia in una concezione generalissima, e che questo
fatto non lo impugnavano punto gli scettici, ma ammettendolo, pigliavano
anzi a combattere la certezza di questa concezione universalissima cono
sciuta ; n.° che questa concezione universalissima era la concezione del
QUALCHE COSA, cioè dell' essere comunissimo; 3.° che da questa con
cezione dell'essere comunissimo fncevano dipendere ad un tempo la cogni
zione, e la certezza della cognizione ; 4-° che il sofisma degli sceltici di tulli
> tempi consiste nel richiedere una dimostrazione del principio ultimo, cioè
una ragione della ragione ultima, il che è una contraddizione in termini. Lh
maniera facile dunque che qui propongo di confutare gli scettici , è quella
di non secondarli nella loro intemperanza intellettuale, cercando di dar loro
una dimostrazione di ciò che è essenzialmente indimostrabile ed essenzial
mente evidente, dalla cui evidenza si «ava anzi ogni dimostrazione de' veri
inferiori; ma di mostrar loro, che essi fabbricano il loro sistema sopra un
falso supposto, il supposto cioè che verità sia qualche cosa di ulteriore alla
ragione ultima , o concezione generalissima; quando tutti gli uomini, dicendo
di conoscere la verità di una proposizione, non intendono di dir altro, se
non ch'essi veggono il nesso di quella proposizione colla ragione ultima , o
sia colla concezione universalissima ed evidentissima per sè stessa.
(2) Da questo esempio intendasi, quanto sia necessario studiare nella pro-
HoSMiNi, Orig. delle Idee, Voi. Ili 4
3G
Chi bene sento la forza di questo dialogo , troverà
la causa del senso comune circa I' esistenza della verità,
non solo vinta , ma messa fuori di questione.
E intenderà parimente, onde agli scettici venga il loro
desolante errore.
Questo non è in fine che un abuso di astrazione. •
Quantunque volte il ragionamento cade sopra un og
getto , e si trascura di considerare 1' oggetto in sè me
desimo, ma si ragiona di lui secondo un suo concetto
astratto , è facilissimo che 1' error vi s' intramelta. Per
ciocché il concetto astratto dell' oggetto non è un con
cetto perfetto di lui, cioè non ha tutto ciò che Del
l' oggetto si contiene , mancando ciò che gli è proprio,
ciò che lo determina esclusivamente fuori di ogn' altro:
e la mancanza di questo elemento importante dee fare
sbagliare il ragionamento, e darci degli erronei risultati.
E così fanno gli scettici, ragionando della verità. Essi
la considerano astrattamente, come una qualità che si
dà alle diverse proposizioni, delle quali si cerca s' elle
sono vere o sono false. Secondo questo concetto gene
rale e astratto della verità, si distingue la proposizione,
dalla verità di essa ; e quindi sembra che si possa am
metter sempre quella senza di questa. Gli scettici adun
que credono di poter dire che nessuna proposizione è
vera : e che 1' unione di que' due elementi , la proposi
zione e la verità , non si può giammai realizzare.
Ma avrebbero essi ciò detto , se avessero conside
rata la verità meno astrattamente e generalmente? se
si fossero in quella vece posti a considerare la verità
in sè stessa, e a formarsene la nozione propria ? No,
certo; poiché in tal caso sarebbero pervenuti a vedere,
che quella verità, che in tutte le proposizioni di conse
guenza è divisa da esse , in modo che proposizione , e
verità della proposizione, son due cose; quella verità slessa

prieti de' vocaboli, prima di oppugnare le sentenze del senso comune, che
non in altro modo, ma ne' vocaboli espresse si presentano. Meditando Im
portanza di questo avviso, si vieue a conoscere l'ultima unione delle io*
colle parole: e come queste sole contengano la tradizione delle opinioni
umane. Quindi gli antichi consideravano l'etimologia, o per dir meglio, lo
studio del valore delle parole, siccome una parte assai necessaria alla logici-
Verbnrum, così Cicerone espone la dottrina degli accademici e de' peripJ-
telici su di ciò, verborwn elioni explicatio probabatur, qua de causa quo
que essent ita nominala: quam etjfmoh'^iain appellabaitl. Yed. Acadcm. L '■
27
è una prima proposizione, e non altro: sarebbero per
venuti a vedere in somma, cbe v' ha una proposizione
che esprime la stessa verità , cioè una ragione che
verità' da tutti si appella. Venuti così a considerare
da vicino la verità , e anzi in sè stessa , e non in qual
che sua vaga e astratta nozione ; e trovato eh' ella è
un' ultima ragione ( che si esprime in una ultima pro
posizione ) ; avrebber conosciuto manifestamente, che è
un assurdo , una contraddizione in termini a negare la
verità di quest' ultima proposizione, perciocché è un
negare che la verità sia la verità. Nù altro perciò che
in un abuso di parole, in una trascuratezza di bene
intenderne il valore , 1' errore degli scettici si risolve.
Di che avviene, che la questione scettica al tutto si
cangi ; e non possa dimandarsi più : « Si può egli co
noscer la verità »? ma sì bene: «Dee l'uomo acconten
tarsi della verità»? dee ad essa assentire? Ciò a cui
il genere umano ha imposto il nome di verità, è poi
questa cosa si autorevole , sì assoluta , che niente di là
da essa si possa aspettare di piò nobile, di più appa
gante, o niente al tutto di checché pregio egli sia?
Questo nuovo stato della questione, che ne rende la
soluzion manifesta , la quale in vano gli scettici disco
noscono, è il solo che possa sussistere: e ciò si vedrà
maggiormente da quello che per ragionar siamo nei
capitoli susseguenti.
PARTE SECONDA.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO A DIMOSTRARE LA VERITÀ'
DELLA COGNIZIONE PURA.

CAPITOLO I.

si mostra essere giustificata per sè stessa


l'intuizione dell'essere fonte di ogni certezza.

ARTICOLO I.
OBBIEZIONI SCETTICHE CONTRO l' INTUIZIONE DELL' ENTE.

Gli sceltici non negano , almeno comunemente par


lando (i), le apparenze: non dicono che noi non sen
tiamo; dicono che la nostra percezione c'inganna, e
quindi eh' essa non ci può essere sicura promettitrice
e mantenitrice di verità.
La prima intellezione, da cui tutte l'altre dipendo
no (2), è quella dell'ente: e i dubbj che gli scettici
possono presentare contro la veracità e sincerità della
intellezione dell1 ente , si riducono a questi tre.
I. Come sappiamo noi che la intellezione dell' ente
( forma di qualunque percezione ) non sia che una pura
illusione? che non abbia se non una realità apparente
da parte nostra?
II. Come è possibile che 1' uomo percepisca ciò che
è fuori di sè? come può egli uscir di sò? che cosa forma
il passaggio fra lui, e le cose fuori o diverse da lui?
III. Ciò che vede lo spirito, quand'anco non fosse
illusione , quand' anco avesse in sè qualche cosa di reale,
non sarebb' egli alteralo e falsato dal modo del veder
nostro? non sembra egli naturale, che lo spirito, veg-
gendo le cose, le rivesta di quelle forme che sono in
lui, siccome specchio che riflette le immagini delle cose
fornite di quella configurazione che ha egli stesso, sic
ché s'egli è concavo o convesso, le raltrae o le rallar-
ga, e non le mostra già tali quali sono, ma qual è l'im
magine ch'egli, secondo la propria figura, ne forma in
sè medesimo?

(1) Pirrone medesimo, secondo Sesto Empirico (Hypolypos. L. I, c. Tiu)>


ammollo a le apparenze Sensibili, e negava solo che si potesse provarci*
loro realità.
(i) Parte I.
A questi tre si riducono gli argomenti delio scetti
cismo, e a questi dobbiamo rispondere. Ma prima di
farlo, ci gioverà molto l'entrar dentro nella mente
umana , e vedere per quali passi ella venga fino a que
ste estreme dubitazioni.

ARTICOLO IL
ONDI QUESTE OBBIEZIONI DERIVINO.

L'attenzione nostra, fino dall'ora che noi entriamo


in questo mondo , è continuamente occupata da perce
zioni sensibili. Che se , fatti adulti , noi ci applichiamo
alle scienze, una quantità sterminata di ragionamenti,
gli uni più sottili ed ardui , più astratti e prolungati
degli altri, tengono ed esauriscon tutte, si può dire, le
forze del nostro spirito. Or questa immensa mole di per
cezioni e di ragionamenti, capace di assorbire e vincere
qualunque intellettual vigoria , invita pur a sè colla vi
vacità e colla magnificenza del suo apparato : i nostri
bisogni, le nostre inclinazioni, i nostri più nobili pen
sieri in quell'oceano di sentite e pensate cose cercano
e sperano un loro appagamento. E il rimuovere dalla
mente nostra tutte queste percezioni , tutto questo globo
di ragionamenti che tanto amiamo, non dee essere ella
opera estremamente difficile? Il ridursi in una specie di
solitudine intellettuale, ove, tolto via l'acquisito sapere,
non si tenga ad oggetto di nostra attenzione che la sola
possibilità di un saper qualunque , non dev' egli tornarci
naturalmente disaggradevole ed abborrito ? E pure, chi
vuol porre l' attenzione nella sola idea dell' essere in
universale, conviene che divida e allontani da sè, per
astrazione, ogni cognizione acquistata , ritenendo solo
i l'abilità di dirigere l'attenzione, frutto del ricevuto
sviluppamento : perciocché ove ci riduciamo con quella
sola idea, non ci rimane che la sola possibilità del sa
pere. E questa specie di astinenza , per così dire, an
che per poco rincresce ; e pare che noi con essa non
pensiamo più a nulla , o che periamo in una sterile
contemplazione : nè si vede necessità, o vantaggio di
ciò. Perciò gli uomini non soglion fare questa astratta
meditazione ; se pur taluno recato non sia a ciò da
singolare necessità, da un bisogno urgente di cercar
fondamento a tutte le umane cognizioni pericolami.
3o
£ a tutti importa assai la ricerca sulla veracità del
sapere umano, e ne ragionano tutti.
Or questi ragionamenti da che specie adunque di
sapere son tratti ? Dal sapere acquisito e dedotto. Im
perciocché , come dicevo , tutto ciò che trae più forte
mente la mente umana, e di sè continuamente la oc
cupa, sono le scienze in tutto il loro ampio giro, con
tutte le moltiplici loro ricchezze. Vede lo scienziato in
gannarci questa osservazione, fallirci quel ragionamento:
ad una ragione riputata buona, contrapporsene un'altra
inaspettata di egual peso o maggiore: ciò che prima si
credeva, discredersi poi: l' industria del disputare assot
tigliarsi e scaltrirsi ognor più: e uscire finalmente i sofisti
al mondo, i quali professano scopertamente , e tolgono
ad insegnare con metodo 1' arte di provare il prò e il
contra di tutte cose, di distrarre un ragionamento, di
allungarlo, sicché non se ne venga a capo mai, di fra
stornare un accordo , il qual certo non si può conchiu
dere con chi ha tolto l'impresa di non accordarsi nè
arrendersi altrui , ragione o torto che s' abbia.
Questa esperienza della fallacità dell' umana ragione,
questa flessibilità e questi rivolgimenti continui che si
fanno prendere al ragionamento, questa possibilità di
portar sovente nelle menti la confusione, quest'ambi
zione insensata di dar prova di una possanza d' intel
letto nel falso , avviano finalmente gli uomini superfi
ciali o travolti ad una opinione di assoluto scetticismo.
Ma tutti questi esperimenti che hanno fatto i sofisti,
su che parte di sapere finalmente gli han fatti ? Questo
si dee ricercare. Non gli hanno fatti che sulla parte più
attraente e più usuale del sapere , su quella parte che
di sè più occupa ed alletta le menti de' dotti; non mai
su tutto intero il sapere.
All'incontro, qual conseguenza di quegli esperimenti
cavarono ? forse un dubbio su tutta quella parte di sa
pere ch'ebbero sottomessa a simili prove? Non restrin
sero la conclusione a questa parte : ma la si distesero
al sapere universo: e pronunciarono, che lutto il sapere
umano era illegittimo e falso , o per lo meno dubbioso.
Si prese adunque la parte pel tutta: non si badò
che 1' esperimento era caduto sulla sola parte del sapere
dedotto , parte che è sì di una immensa ampiezza e
pompa , e che tutti occupa di sè gli umani intendi
menti, ma che non è però il sapere tutto quanto in
tero. Non s'accorsero adunque che v'avea un'altra parte
di sapere, su cui non s' era mai fatto 1' esperimento di
renderlo dubbio ; quella parte era però tenuissima , era
un piccolo elemento trascurato, e quasi in un angolo
della mente lasciato, e anzi usato come servitorello di
inlima classe, che altri noi degna pur di uno sguardo e
di una attenzione leggera. Non curato questo piccolo
elemento, come si trasanda l'infinitesimo in matema
tica, o come si cassa del numero degli uomini il pove
rello da' grandi ; avvenne che si errò : quell' incertezza
di sapere , trovata nella parte, si accomunò e dichiarò
esser del tutto j nò pure sognandosi per avventura, che
quell' umile particella di sapere, che nelle menti era
confusa col resto , né sola si graziava di un pensiero ,
dovesse andarsi esente ella sola da una tal legge, e sola
ella fosse che potesse redimere dalla proscrizione il più
grande ed il più pomposo sapere, quello onde 1' uomo
insuperbisce , e toglie pel tutto del suo conoscimento.
E pure è così: anche qui, l'umiltà viene esaltata;
il fondamento di ogni certezza non si può trovare che
in un piccolissimo e sfuggevolissimo punto della scienza.
Questo punticciuolo , se è minuto e quasi impercetli-
bile , è però saldo e fermissimo : sicché in lui può l'uomo
pontar la leva della ragione, e muovere i suoi ragio
namenti ad efficacissime operazioni. E questo punto ò
quell' idea dell'essere, come dicevamo, semplicissima,
onde le idee tutte dell' uomo vedemmo prendere il loro
principio e il loro esser d' idee.
Or dunque ciò che noi avvertiamo si è, che non si
dee ravvolgere questo primo elemento del sapere ( il quale
esiste, ma è comunemente inosservato) in un ragiona
mento generale, col quale si presume d'atterrare la
scienza tutta ; perocché gli sceltici ragionamenti , ezian-
diochò all' altre parti della cognizione applicar si pos
sano, a questo in nessun modo si possono.
Per la qual cosa io prego il lettore di non acconten
tarsi de' generali ragionamenti, quali sono quelli degli
scettici ; ma di vedere se essi reggono allorquando si
applicano alle singole parti del sapere. Perciocché fa
cendo questa applicazione, io sostengo che si parrà chia
ramente, come, quand'anco a tutte l'altre parti del sa
pere potessero i ragionamenti sceltici convenire , essi
32
non potranno convenir mai all' idea dell' essere ; e con
tro questa , anziché validi , vani al tutto e anche privi
di significato si troveranno.
Ma a convincersi di ciò, conviene, come dicevo, rac-
corre l'attenzione a conoscere pienamente la propria in
dole e natura di questa idea : perciocché chi, fissatosi
in essa colla mente, n'avrà sentito l'intima natura,
non è dubbio che intenderà da sé medesimo quanto
quivi sieno inapplicabili gli astratti ragionamenti degli
scettici: e acciocché ciascuno possa far questo, sponiamo
i proprj caratteri della medesima.

ARTICOLO IH.
MllMO DUBBIO SCETTICO : « IL PENSIERO dell' ESISTENZA IN UNIVERSALE
NON POTREBBE ANCIi' ESSO ESSERE Un' ILLUSIONE ? M

S I.
Risposta.
Noi abbiam detto (i) che questo dubbio non può na
scere, ove bene s'intenda che cosa sia l' intuizione del
l' esistenza in universale: e ov' ella non si confonda
coli' altre intellezioni , ma si consideri nel suo essere
particolare.
E veramente, che vuol dire un'illusione, un pen
siero ingannevole ? Non può voler dire se non un pen
siero che addita una cosa che non è. Quand' io, di
sera , in un bosco , sotto nuova luna , guardo e credo
di vedere un uomo , ed è anzi un' ombra , o il tronco
d' un faggio , o un masso di pietra ; io mi sono ingan
nato nella mia opinione. Prendere in somma l' appa
renza per la realità , in qualunque modo ciò mi avven
ga, è un inganno, una illusione. Dunque il concetto
della illusione , bene analizzato , contiene due elementi,
i." l'apparenza 2.' e la realità. L' apparenza è ciò che
mi appare , la realità è ciò che giudico io dietro al
l' apparenza della cosa. Quando giudico esser veramente,
quella cosa che solo mi appare e non è , io mi sono
ingannato ed illuso.
Adunque , ove mi si desse un' apparenza , cioè o«
mi apparisse una cosa , 0 avessi una sensazione 0 vi-

(1) Artic. precedeute.


33
sione , e non me n' andassi più in là di questa , nè giu
dicassi io della realtà di altra cosa rispondente a quella ap
parenza; non potrebbe mai nascere in me alcuno inganno.
Perchè adunque sia possibile che in me succeda un
inganno, è necessario un mio giudizio; ed ov' io non
giudico , non m' inganno.
L' inganno pertanto esige due elementi, apparenza e
realtà; V uno de' quali, cioè il secondo, non risponda
al primo.
Or nulla di ciò avvi nel pensiero di un essere in
universale : quest' idea è perfettamente semplice , come
ho mostrato (i): è una pura intuizione intellettuale,
priva di ogni giudizio : dunque in essa non può darsi
alcun inganno.
E veramente , quand' io dico « esistenza in universa
le», che cosa esprimo io con questa frase? affermo io
qualche cosa? nego io? Nulla di ciò (a).
Pensare una cosa in universale ( l'essere), non è pur
pensare che un qualche cosa sussista. Se io pensassi che
un qualche cosa sussistesse, io mi potrei ingannare: forse
potrebbe quella cosa non sussistere: si dà la possibilità
del contrario.
Pensare una cosa in universale, è forse un pensare
3uesta o quella cosa? nè pure. L pensare a nessuna cosa
eterminata: è pensare alla possibilità (3) di una cosa
qualunque. E che è la possibilità ? non è che la pen-
sabilità (4). Cioè non è che un'entità sui generis , che
serve di lume alla mente, entità nella quale non è
contraddizione o pugna interna. Ciò che ha contrad
dizione o pugna interna, io noi posso nella mia mente
ricevere , se non ne' suoi singoli elementi. Perciò 1' u-
nione di questi elementi non è pensabile ; è un puro
nulla: giacché l'uno distrugge e toglie via l'altro, e il
solo nulla rimane. Ora in una cosa qualsivoglia , cioè
indeterminata, non ci può esser contraddizione: ella
dunque è da me concepibile , pensabile , il che è un
dire possibile.

(1) Sez. V, P. II, 0 V, art. n, g 2.


(a) Ivi.
(3) Sez. V, P. I, eli, art. iv.
(4) Sez. V , P. II, c. V, art. 11 , g 1.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. 111. 5
34
Dunque nella pura e semplice intuizione dell' essere
non può cader inganno , nò illusione alcuna.

§ a.
Istanza dello scettico.

Che noi abbiamo un concetto dell'essere, o sia che


l'essere sia pensabile, questo è un fatto (i).
Se lo scettico s'accontenta di dire, che questo con
cetto dell'essere è una illusione, un inganno; egli pro
ferisce, come dimostrai , una proposizione senza senso:
poiché applica l' inganno a ciò che d' inganno non è
capace.
Gli resterebbe solo a negare questo fatto , e a dire
che 1' essere non è da noi concepibile.
A questa istanza così rispondo : Dicendo che l'essere
non è concepibile, voi negate ogni pensiero dell' uomo.
Voi non dite più, con questo, che il pensiero c'ingan
ni ; dite che il pensiero non esiste. In fatti, non ci ha
più cosa alcuna che possa essere oggetto del pensiero,
dopo ciò che voi dite; perchè il dire che un qualche

(i) L'antichità conobbe che tutta la filosofia partiva da un fatto, e che


il fallo onde partiva era questo, della intuizione dell' essere iu universale ,
o in altre parole, il fatto dell'esistenza di una cognizione intelletti".
L' antichità vide pure, che un fatto non si può conoscere se non coll'ajuto
dell' esperienza j ma vide ancora , che il fatto fondamentale della filosofia
apparteneva all' esperienza interna, era un fatto della coscienza: esperienza
che i sensisli affatto neglessero, e sistematicamente, come ho tante volle
Dotato , abbandonarono. E in prova di quanto dico , cioè che 1' antichità
conoscesse questo primo fonie della lilosofia , recherò un testimonio del
secolo XIII . e il trarrò da quanto scrisse il sottile filosofo e teologo 4
Donston. EXPERIMVR in nobis quod cognoscimus actu UNIVERSALE
(ecco com'egli muove dall' esperienza dell'universale): EXPERIMVR
enim quod cognoscimus cns_, vcl qualitatem sub ratione aliqua communien,
quam sit ratio primi objecli sensibili* , t turni respeclu supremac sensitiivc
EXPERIMUR ctiam,elc. Quodìibet aulem istorum cognoscere est impossi
bile alicui sensilivae potentiae tribuere ( ecco il fatto della cognizione mtd-
Icttiva essenzialmente diversa dalla sensitiva ). Si quis miteni ( ecco come
chi nega il primo fatto toglie la possibilità di ogni dispulazione ) preterì*
neget illos actus inesse hornini, non est cum eo ultcrius dispuuindum; sicul
ntc cum dicenle, non video colorenti sed UH diccndum : tu indiges sensu,
quia coecus es. Ita quia quodam sensu , id est perccplione interiori ( ecto
l'esperienza interna della coscienza), experimur istos actus in nobis, si
istns neget , dicendum est eum non esse hominem, quia non Itabct Hi""
visionati inleriorem , quam olii experiuntur se habere. ( Giovanni Dirai)
nel L. IV delle Seni., Dis. XLIII, q. II. )
35
cosa sia oggetto del pensiero , è proposizione identica
con queir altra : Si dà la cognizione dell' essere. Dun
que per la vostra istanza ogni pensiero é reso impos
sibile, è annullalo.
Uno scettico di tal natura nè potrebbe proferire una
sola parola , nò colla sua mente potrebbe fare la più
piccola operazione; poiché parlando o pensando smen
tirebbe sè stesso. Non trattasi qui di pensar vero o fal
so: trattasi di puramente pensare. Se si pensa ( bene o
male, vero o falso), si pensa qualche cosa : e il dire
che si pensa qualche cosa , è un dire che si pensa
1' essere.
Lo scenico adunque non ha diritto di assalire lan»
t'olire la verità; perciocché col primo suo passo avrebbe
dato per vinto sè stesso. La possibilità del pensiero é
dunque superiore ad ogni assalto : perciocché per assa
lire la possibilità del pensiero , converrebbe cominciare
a non pensare; e non pensando, che si assaiisce ? nulla :
con ciò si toglie solamente sè stesso dalla comunanza
degli uomini , per mettersi fra la classe de' minerali o
de' vegetabili. Ora « la possibililà del pensiero » è una
proposizione identica con questa, « la pensabililà del
l' essere « : perocché il pensiero non è che un' opera
zione della mente, che ha per oggetto l'essere.
L'edere adunque, concepito sotto questo aspello, come
oggetto universale del pensiero, è sicuro, e sia oltre la
mira di ogni ragionamento: perciocché per assalirlo, con
viene usare il pensiero. Non avendovi adunque chi possa
fare contemporaneamente queste due cose, assalire e non
assalire, pensare e non pensare , non v'ha nè pure chi
possa smentire o negare la intuizione dell' essere in
universale.
L' intuizione dell' essere è adunque ammessa necessa
riamente : l' essere come pensabile é un puro fatto, non
soggetto alla nostra volontà : noi lo contempliamo , e
l'ammettiamo colla mente, per quella stessa necessita
per la quale siamo: non richiede già il nostro consenso
o dissenso : egli é : noi o non pensiamo punto , ovvero
penstam lui : pensar contro lui, ò un assurdo: chi crede
far ciò, non intende ciò di che si traila: egli crede di
fare ciò che non fa. È impossibile quindi che v' abbia
un uomo, il quale intenda che sia la concezione del
l'essere in universale, e tuttavia la neghi; perocché il
36
negarla sarebbe un affermarla : è impossibile che du
biti di lei, non forse ella sia illusoria ; perocché non
potrebbe essere illusoria , se non fosse vera e reale : e
illusorio non si può dire ciò che finisce in sè , ciò che
è al tutto semplicissimo (i).

§ 3.
Corollari della dottrina esposta.

Prima di trarre alcuni corollarj dalla esposta dottri


na , riassumiamola in altre parole , cioè riduciamola ad
alcuni semplici principj già da noi stabiliti nella prima
parte della Sezione V.
Ivi abbiamo dichiarata la natura dell' essere , e ab
biamo detto ,
i.° Che Tessere è quell'elemento che entra in tutte
le nostre idee;
a.* Che P essere è ciò che rimane nelle idee nostre,
dopo che s' è fatto sopra di esse tutte le astrazioni pos
sibili : l'ultima delle quali ci dà appunto l'essere solo
e puro, il quale rimosso, ogni idea è distrutta (2).
Dunque non conviene pensare , o se si pensa , con
viene pensar 1' essere: non si può dunque negare la pen
sabilità dell' essere , poiché negandola si pensa l' essere,
e quindi la si stabilisce.
Ora i corollarj di questa dottrina sono le seguenti
proposizioni :
I. Se l' idea dell' essere è 1' elemento costitutivo di
qualunque nostra idea (3) , forz' è che in qualunque no
stra idea, l'idea dell'ente sia l'elemento immutabile,
mentre tutti gli altri elementi sono mutabili.

(1) Quindi i Pirronici , che ammettevano le apparenze secondo il testi


monio di Sesto, sarebbero slati in contraddizione manifesta con sè me
desimi, se fosse vero ciò che dice Enesidemo , cioè che mettevano in dub
bio tutto, e anche 1* essere : « Immo nei/ue verum ncque falsum , ncque
ENS neque NON ENS, sed idem , ut sic dicatur , non potius verum esse
quam falsum : aut probabile potius quam improbabile : aut ens, quam non
ens : aut tum quidam tale , alias vero aliusmodi : aut uni tale, mox alun
etiam non tale ». Questa dottrina , che Enesidemo espose nel Lib. I degli
otto che scrisse sul sistema di Pirrone, è riferita da Fozio, Biblioth. c. J13-
(a) Cap. II, art v.
(3) Ho dimostrato che l'idea dell'ente può esistere anche sola in noi,
Sez. V, P. I, eli, art. vi.
«
IL Se in qualsiasi delle nostre idee (i) la concezione
dell' ente è immutabile , e gli altri elementi mutabili ,
quindi la differenza delle opinioni nelle quali si divi
dono gli uomini non può mai cadere sull'idea dell'ente,
ma solamente sulle determinazioni dell' ente , sopra le
qualità cioè che all' ente si attribuiscono , o sopra la
sussistenza di enti particolari.
III. Per la stessa ragione, quando noi diciamo che
il volgo si forma de' concetti ( o idee ) delle cose poco
esatti , o quando notiamo l' inesattezza o tal altro di
fetto nelle idee di alcuno, la nostra censura non cade
mai nò cader può sulla idea di ente^ che è invariabile
ed essenziale , nella quale tutti quelli che pensano con
vengono , ma bensì sugli altri elementi che entrano a
comporre quelle idee che noi censuriamo.

ARTICOLO IV.
SICOHDO BOBBIO SCETTICO : M COME È POSSIBILE CHE t' DOMO PERCEPISCA
UNA COSA DIVERSA DA SE STESSO ? »

5 i.
Risposta.
La concezione di un gualche cosa (2) indeterminato,
è un fatto semplice, innegabile, ove l' illusione o l'in
ganno temuto dagli scettici non ha luogo (3): poiché
non si tratta qui di un giudizio, ma di una intuizione
di fatto, ove non si afferma 0 nega volontariamente,
ma solo si vede la possibilità di negare o di affermare.
Or, quand' io penso ad un qualche cosa, senza deter
minar nulla intorno al medesimo , io concepisco però
due casi in cui il qualche cosa è possibile: questi casi
sono , che questo qualche cosa sia in me , ovvero che
sia fuori di me.
Lo scettico mi dice: » È impossibile che vi accorgiate
mai di cosa che sia fuori di voi , poiché non potete
mai uscir di voi ».
E sarà per avventura come dice lo scettico : io qui

(1) Anche in quelle degli scettici.


(a) Questa espressione è sinonima perfettamente con quest'altra, di quaU
die essere indeterminato.
(3"f Art. I1L
38
ora noi contraddico: sia pur vero, per un poco, che io
non possa giammai verificare con certezza se esista qual
che cosa fuori di me.
Quello che io qui mi limito a dire sì è questo, che
jo posso concepire e immaginare un qualche cosa fuori
di me. Io non mi accerterò mai se questo che io con
cepisco sia fuori di me veramente, o no: ma dall' istante
che io tratto questa questione , «se v' abbia un oggetto
fuori di me » , io concepisco già pur con questo la no
zione di un oggetto possibile tanto fuori di me come
dentro di me. Ritengasi la definizione data della possibi
lità. Quand' io dico, Un oggetto può esser fuori di me,
non dico altro se non che io posso pensare un oggetto
fuori e diverso da me, eziandiochè io non possa veri
ficare se fuor di me veramente egli sia.
Quando adunque lo scettico nega che io possa accor
germi di un oggetto fuori di me, egli con questa sua
negazione dimostra, che almeno il concetto di un og
getto fuori o dentro , diverso o identico con me, lo
possiede egli egualmente siccome il posseggo io.
Ora la concezione dell' essere in universale non con
tiene cosa alcuna di più di questo concetto.
Quando io penso un essere indeterminato , io non
penso già nè affermo che qualche cosa sussista fuori di
me veramente : non fo che concepire la possibilità di
ciò ; non fo in somma che avere la nozione del diverso
e dell' uguale, del fuori e del dentro , senz'ancora ap
plicarla, nè affermare o negare questa nozione di co
alcuna.
L' obbiezione adunque dello scettico, colla quale ni
domanda « Come potete voi conoscere qualche cosa di
diverso o di fuori di voi? » non tocca nè assale meno
mamente l'idea dell'essere - anzi la stabilisce e suppone;
e supponendola , la dichiara fuori di ogni assalimento
possibile, ammessa siccome cosa estranea ad ogni con
troversia , e di cui non cade mai di parlare o di di
sputare.
Quindi si conferma quanto di sopra osservai, che in
tutti i ragionamenti che fanno gli uomini, non esclusi
nè pure gli scettici , 1 idea dell' essere in universale
non è mai quella che viene assalita : ma essa viene
sempre supposta, ed ammessa tacitamente da tutti, sic
come cosa che non può essere materia a disputa, ma w
39
ad ogni dispula anteriore e superiore, perciocché essa
non è altro che la possibilità della disputa stessa , e
la possibilità della disputa è confermata col disputare.

Continnazionc.
La dottrina esposta nel paragrafo precedente si ri
capitola tutta in quella proposizione già da me altrove
stabilita, che «l'essere in universale è l' oggetto del
l'intendimento (i)».
Quando io considero una cosa ( un essere ) , in quanto
io la considero, essa dicesi oggetto della mia conside
razione.
Ora checché sia questa cosa, l'esser ella oggetto, è
un dire eh' ella viene da me considerata in sè stessa ,
senza alcuna relazione ne con me nè con altri.
Questo non è che l' esposizione della maniera del
nostro concepire intellettualmente. Perciocché dire che
io penso un essere , che penso ciò che fa esistere la
cosa, è un- dire che penso la cosa in sè (in quanto
ella è ), e non punto che la penso in relazione con
altra (2).
Certo è dunque , che analizzando il pensiero di una
cosa, trovasi che la cosa pensata mi sta dinanzi come
indipendente dalla sua relazione con me: e quindi nel
pensiero di una cosa , io non penso già eh' ella sia in
me , cioè eh' ella sia qualche cosa di me.
Però se io non penso che la cosa sia in me , ma in
sè slessa, dunque io ho la nozione delle cose in quanto
sono in sè stesse. Potrà dunque essere che io erri nel-
l' applicare questa nozione: intanto però io penso real
mente la possibilità della cosa in sò, indipendente da
me, e quindi diversa da me.
Non si può rispondere, che io m' inganno in tale no
zione: cioè , che io creilo d' aver la nozione del diverso
da me, o dell' uguale a me, e non la ho: perciocché

(1) Scz. V, P. II, c. V.


(a) Non conviene ingannarsi in questo fatto : ciò che noi conosciamo
di positivo nelle cose , nasce certo da un' azione che quelle esercitano so
pra di noi ; ma l'operazione dell' intendimento è cotale , che noi dall' a-
ùone che sperimentiamo argomentiamo la cosa, Venie che fa quell'azione:
questo è ciò che dico concepire la cosa in sè , e non in relazione con noi.
4o
se io non l' avessi , come dicevo, non potrei parlarne, nè
potrebbe essermi contraddetta : non mi potrei ingannare.
Chi revoca adunque in dubbio tale nozione, certa
mente non intende bene che cosa metta in dubbio:
perciocché se bene l'intendesse, s' accorgerebbe ch'egli
tenta di mettere in dubbio ciò che non può essere
messo in dubbio.
L' arme dunque che impugna Io scettico, pnò bensì
ferire la proposizione seguente: « Io conosco che sus
siste un oggetto fuori di me » ; ma non può ferire
quest'altra: « Io intendo e concepisco benissimo, che
voglia dire un oggetto diverso o fuori di me».
Ora la concezione dell' essere non racchiude la prima
di queste due proposizioni , ma la seconda: concepir
l' essere, è « concepire una cosa indeterminata in sè » ,
e perciò non in me : quindi è avere nozione di ciò che
è diverso da me: è avere un oggetto del pensiero, di
verso per sua natura da ciò che è puramente soggetto

§ 3.
Corollari importanti.

Di questa dottrina vengono i seguenti corollarj.


I. L idea dell' essere in universale è quell' idea per
la quale noi pensiamo la cosa in sè stessa.
Pensare la cosa in sè stessa, è pensarla indipendente
dal soggetto, dal Noi.
Pensar la cosa in quanto è indipendente da noi, è
pensarla come diversa da noi ( soggetto ).
L' idea dell' ente dunque è quella che costituisce la
possibilità che abbiamo di uscir di noi, per così dire,
cioè di pensare a cose da noi diverse.
II. È adunque assurda la ricerca, « come noi pos
siamo uscir di noi stessi; ovvero: quale è il ponte che
forma il passaggio fra noi e le cose diverse da noi J «
Certo, che con queste espressioni metaforiche di usci
re , e di ponte di comunicazione, la questione non pre
senta nessun senso chiaro, ed è impossibile a risolver
si ; perciocché si dimanda una soluzione materiale o
meccanica di un fatto puramente spirituale.
Nessuno può uscire di sè: fra noi , e ciò che non è
noi , nessun potrà mai assegnare un ponte.

Conviene adunque ridurre quella questione in termini
proprii : ed ecco allora com' ella si trasforma.
L'uomo pensa alle cose siccome stanno in sè: que
sto è un fatto:, sia ch'egli s'inganni in questi suoi
pensieri, sia ch'egli non s' inganni, il suo pensiero però
è tale , che ha presenti gli oggetti come in sò stanno ,
come oggetti insomma, e non come soggetti. Or questo
come si può spiegare?
Coli' idea innata dell' essere in universale, che è ciò
che forma la sua intelligenza.
L' aver egli questa idea, equivale ad avere la possi
bilità di veder le cose in sè stesse.
Egli ha dunque, in certo modo, innato in sò me
desimo questo ponte di comunicazione, se si vuol pure
usare tali metafore, poiché percepisce l'ente in sè, e
l'ente è la qualità comune e più essenziale di tutte le
cose, "quella qualità che le fa essere ciò che sono, in
dipendenti da noi e divise da noi (i).
Lo spirito intelligente adunque fino dalla sua prima
esistenza ha l'attitudine di pensare le cose in quanto
in sè stanno, e non in noi : egli ha il concetto di que
sta diversità, esteriorità, o a meglio dire, oggettività
delle cose. Resterà a vedere com' egli possa passare dal
concepire una cosa fuori di sè meramente possibile, ad
una cosa realmente sussistente: qui 1' uomo potrà in
gannarsi ; questa sarà un' altra questione. Ella si risol
verà poi, esaminando se lo spirito possa avere un sicuro
indizio di qualche cosa fuori di sè; ma pel semplice-
niente pensarle , non ci riman dubbio , poiché 1' idea
innata dell' essere in universale lo fa attp a ciò per
sua propria natura.

(i) Il fuori di noi, abbiamo dotto che esprime una relazione delle cose
esteriori col nostro corpo ( Scz. Vj Parte V, cap. JX ) , ed è equivalente
a quest' altra espressione, diverso dal nostro corpo. La questione, « come
possiamo accertarci del fuori di noi »>, fu prodotta dalla filosofia de' sensi.
Ben presto fu trasportata alle cose spirituali ;-e pel vezzo introdotto dai
insisti , d' applicare le espressioni metaforiche tolte dalle cose sensibili alle
cose spirituali , si usò dire che ogni nostro pensiero usciva di noi , ecc. Al -
'ora nacque il trascendentalismo; e Kant non domandò più « come noi ci
possiamo accertare del fuori di noi »> ( de' corpi), ma generalizzando la
questione, e trasportandola allo spirito, domandò: «Come siamo noi certi
'jegli alti del nostro spirito, o sia, come ci possiamo accertare del diverso
•« noi»? da quesl' ultima domanda ebbe origine lo scetticismo critico, ed
L' quello che noi qui rifiutiamo.
Rosmini , Orig. delle Idee , Voi. HI. G
ARTICOLO V.
TERZO DOCCIO SCETTICO : « LO SPIRITO NON COMUNICA FORSE ALLE COSE VEDUTE U
SUE PROPRIE FORME, E NON LE ALTERA E TRASFORMA DA QUELLO CHE SONO»?

5 I.

Risposta.

Foniamo vero quanto si accenna in questo dubbio


scettico. Le cose percepite avranno dunque una forma
comunicata loro dal soggetto percipienle, che diverserà
da quella che hanno in sè stesse , e quindi la nostra
percezione non sarà genuina e autorevole a darci certa
notizia di esse cose.
Dico, che se questo dubbio si può concepire nelle
percezioni che noi abbiamo da' sensi del nostro corpo,
è impossibile 1' applicarlo alla percezione dell' ente che
fa il nostro spirito.
E veramente, gli organi del nostro corpo certo sono
temperati e configurati, in un modo determinato, e
perciò hanno anch' essi la loro parte nell1 impressione
die viene in essi cagionata: sicché l'impressione che vi
si fa è un effetto non d'una, ma di due cause concomi
tanti , cioè dell'oggetto esterno che agisce negli organi,
e della natura, qualità e disposizione degli organi stessi (i).
Ma argomentare secondo l'analogia di quello che
avviene nella percezione corporea, a ciò che avvenir
potesse nella immediata e spirituale intuizione dell'es
sere in universale, s'oppone al retto metodo di filoso
fare, e ci rovescia nell'errore che confutiamo. 11 quale
errore non sarebbe mai accaduto agli uomini , ove, la
sciale al tutto da parte le analogie, avessero fitto il
loro pensiero direttamente nell' oggetto di quella intui
zione spirituale di che parliamo, cioè nell' essere in
universale.
E in vero, chi considera quest' essere in universale,
s'accorge subito, ebe il dire die potess' essere una pro
duzione della nostra mente soggettiva , e dalla mente
stessa informala e determinata , è una contraddizione
ne' termini. Perciocché il dire l'essere in universale,

(i) Stz. V, P. V, c. XI.


43
viene a dire ciò che è esente da qualunque forma o
modo di essere di checchessia genere e natura.
Se dunque uoi analizziamo la detta supposizione scet
tica, che cosa si trova inchiuder essa e in sè contene
re? Il concetto di due forme o modi di essere:. i.° l'uno
della cosa in sè , a noi incognito; 2." l'altro della cosa
in quanto è da noi concepita, modo emanalo da noi
stessi esseri percipienti, e il solo a noi cognito.
Ora questi due modi della cosa, l'uno reale, l'al
tro apparente, l'uno incognito necessariamente, l'altro
u noi cognito , entrambi sono possibili, cioè da noi
pensabili. Si noti, dico pensabili; poiché altro è l'esser
pensabile , altro è l' essere verificabile. Io non potrò co
noscere se esistano realmente nella cosa, il che equivale
;t dire, non potrò verificarli in natura; ma potrò bensì
conoscere che esister potrebbero, il che equivale a dire,
potrò pensarli. E che io possa pensare tanto il modo
apparente, quanto il modo reale della cosa, è già sup
posto dallo scettico proponendomi il suo dubbio: per
ciocché- per dubitare che il modo eh1 io veggo della
cosa non sia reale, ma diverso, forz' è avere il concetto
della possibilità di tutti due questi modi, il che è quanto
dire, forz' è pensarli: ora tutta questa supposizione non
ha alcuna applicazione possibile all'idea dell'essere.
L' idea dell' essere in universale essendo perfettamente
indeterminata, non racchiude nessun giudizio sul modo
di essere ; e quindi tale idea è suscettiva di ricever poi
uno qualsivoglia di tutti i modi di essere pensabili, con
perfetta imparzialità e indifferenza, non avendone prima
nessuno. Essendo dunque pensabile quel modo , che lo
scettico temeva doverci rimanere occulto, anch' egli può
essere ammesso dalla natura universalissima dell'essere.
E adunque assurdo il dubbio, che l'essere in uni
versale, percepito dalla nostra mente, possa ritenere
un modo o una forma determinala dalla natura della
nostra mente ; ed è impossibile che un tal dubbio na
sca nella mente di chi considera 1' indole propria del
l'essere in universale. Perciocché quest'essere non ha
nessun modo , nessuna forma; ma egli anzi costituisce
la possibilità di tutti i modi e di tutte le forme che
pensiamo o immaginiamo.
E questa proprietà dell' idea dell' essere , che forma
la nostra intelligenza , e che io chiamo indeterminazione
e universalità, è ciò che forma e prova la perfetta im
materialità della nostra intelligenza.

§ a.
Corollari.

E di qui i seguenti corollarj :


I. Se Y Io, cioè il soggetto, è perfettamente deter
minato (perciocché ciò che sussiste in sè, dee essere
determinato), e se 1' essere da lui intuito per natura è
perfettamente indeterminato; dunque 1' essere non si può
chiamare una concezione soggettiva, ma essenzialmente
oggettiva: anzi è ciò che costituisce 1' oggetto dello
spirito, a differenza dello spirito slesso ( il soggetto)
che è il contrario dell' oggetto (i).

(i) Tre sono i fatti da cui si può tentare di dedurre l* assoluta certei-
za: i.° la materia della cognizione, a.0 il soggetto conoscente, 3." e l'og
getto formale, o sia la forma della cognizione.
i.° Vi furono de' filosofi che pretesero cavare la certezza dalla matcrm
della cognizione, cioè da' seusi. Questi diedero occasione agli antichi scet
tici, i quali videro i primi , che i sensi non potevano essere i fonti di una
apodittica certezza. Quindi Degerando , dopo aver descritti i dieci tropi
o epoche, ne' quali i pirronisti racchiudevano le loro eccezioni contro tua
certezza, acutamente soggiunge; « Si osservi, che tutto questo codice
« ( degli scettici ) , attaccando essenzialmente la testimonianza de' sensi,
« ammette come una supposizione convenuta , che le cognizioni venivano
k dall' esperienza esteriore e sensibile » ( Histoire comparée eie. , s edil.
T. II, pag. 477"4/8 )• Questo è il pirronismo generato da' sentisti.
a.0 Vi furono de' filosofi che pretesero cavare dall' intimo del nostro
spirito le cognizioni , che vedevano non poter venire da' sensi ; e quindi
da noi stessi, dalle leggi della nostra natura intelligente, dal soggetto ">
uua parola , dedussero la certezza. Questi diedero origiue agli scettici mo
derni , cioè a' filosofi critici o trascendentali. Tale è il pirronismo gene
ralo dalla filosofia scozzese, che diede origine all' assurdo di una venti
soggettiva , cioè di uua verità che non è verità.
3." Il terzo sistema , che trova il fondamento della certezza neu" og
getto formale , cioè neh" idea prima e indeterminata dell'essere, la quale
1 ,° non è materia , e quindi non può esser alterala e variata per la sua
essenziale semplicità , 2." non è soggetto limitato , e quindi non impone
forme parziali alla cognizione , ma è oggetto illimitato e indeterminato ; e
il nostro , e l' unico vero , che non dà luogo a risposte , e mette il fermo
punto su cui s' appoggia la certezza, e dove sta sicurissima dalla un»ua
temerità.
L' antichità cristiana aveva già esclusi e riprovali que' due primi sistemi,
cagioni di quelle due specie di scetticismo, che hanno tanto confuse e
turbate le recenti generazioni : ma 1' antichità cristiana fu riprovala a "•
ceuda dalle recenti generazioni, che fur viste 1' una guidar 1 ultra siccome
c echi guidatoli di cicchi; e rovesciarsi iu uuo inestricabile -abisso i »■
Medesimamente, se V Io è limitato e particolare, ed
all'incontro Tessere, intuito da noi per natura, ò il
limitato e universale; dunque l' mere non è un effetto,
un'emanazione dello spirilo, perciocché lo spirito è
causa impotente a produrlo, di natura opposta.
II. Se 1' essere è 1' unica idea che abbiamo nel nostro
spirito per natura, e se tutte le altre sono acquisite;
dunque lutto ciò che il nostro spirito aggiunge alle
cose , è solo il concetto dell' essere.
Ma 1' idea dell' essere è giustificata per sè stessa , per
chè essa non ha modo o forma particolare; dunque il
nostro spirito (in quanto è puramente intellettivo ) non
aggiunge nessun modo o forma alle cose da lui percepite.
Dunque le cose da lui percepite non sono contraffalle
da lui, perocché egli nulla v'aggiunge nò mula, ma
quali gli si presentano (t), tali egli le percepisce.

certezze e di agitazioni , fiuienti in una lassezza e in un mortale sfini


mento ; d'onde però ora s'affretta d'uscire la natura umana, protestando
altamente di non voler essere annullata e perduta. Sei secoli innanzi al
nostro , uno de' più bei lumi del cielo italiano escludeva que' due listerai
falsi, e insegnava che non si potea trovare il fermo della certezza nè nella <
materia della cognizione ( sensazioni ) , nè nel soggetto percipiente , ma
solo nella natura immutabile ed eterna dell' oggetto formale , nelle IDEE ,
le quali tutte, com' io mostrai, ad una sola si conducono finalmente. Le
sue parole sono degne di somma considerazione , ed io le recherò nella
lingua loro originale. Illationis NECESSITAS ( cioè la certezza, che ira-
plica il concetto di una assoluta necessità ) non venit ab EXISTENTIA
REI IN MATERIA, quia est contingens ( materia della cognizione); nec
ab exislentia rei IN ANIMA ( nel soggetto percipiente ) , quia lune esset
lictio, si non esset in re ( ecco la verità soggettiva o finta de' trascenden
ti ). Venit igilur ab EXEMPLARITATE in arte aelerna ( idea , esem
plare, forma della cognizione nostra ) , secundum quam res habent apti-
tudinem et habiludinem adinvicem, ad illius aelcrnae artis repraesenta-
tioncm.
Or che hauno a dire di questo passo quelli, che avendo sempre avuto
un invincibile ribrezzo a conoscer qualche cosa di ciò che fu scritto nei
secoli andati, datano la sapienza del genere umano dal 1789! Sospettano
forse di qualche impostura ? Vadano a leggersi da sè stessi il luogo ncl-
l' opuscoletto, che s. Bonaventura iutitolò Itinerarium mentis in Dcum, al
capitolo III; e purché l' intendano , trasporteranno, io confido, qualche
secolo addietro la data del vero sapere.
(1) Dissi che 1' intelligenza percepisce le cose tali come le si presentano ,
senza alterarle uè coutraiTarle: non dissi però, che le cose si presentino
perfettamente quali sono. Che è ciò che presenta le cose alla nostra intel
ligenza ? originalmente , il seuso interno ed esteruo. Ora il senso come
presenta le cose all'intelligenza? nel presentarle , le altera egli, le contrada,
le restringe e coarta alla propria forma e natura ? Queste sono questioni
che io ti alterò più sotto, dove parlerò della certezza della cognizione mu-
46
Dunque 1' intelligenza non è una facoltà fallace e in
gannevole, non solo nell' intuizione dell' essere in uni
versale , ma nè manco in qualunque altra sua perce
zione: è essenzialmente sincera, essenzialmente verace.
III. Di qui apparisce, che stoltamente gli scettici non si
acquietano nella ragione, ma vanno cercando una critica
della ragione, quasiché sopra la ragione potesse essere
qualche cosa che non fosse ragione, e che tuttavia giu
dicar potesse la ragione !
La ragione, o per dir meglio l' intelligenza, col ra
gionamento non si può trascendere: quindi una filoso
fia trascendentale è intrinsecamente assurda e ripugnante.
Il dire: sopra la ragione , vi può essere il dubbio
che la ragione s'inganni, perchè la ragione può essere
limitata a qualche forma particolare ; è una contraddi
zione manifesta Con quale facoltà pensate voi la pos
sibilità di un' altra forma diversa da quella della ra
gione? con una ragione superiore, la quale ha una forma
più estesa , che abbraccia la forma della ragione e an
che qualche altra forma. La ragione adunque è nello
stesso tempo più e meno estesa di quel che è. Ma una
è la ragione : dunque ella è nello stesso tempo meno
estesa e più estesa.
.Per le quali cose il kantismo s' appoggia tutto sopra
un gioco d'immaginazione; la quale prima si crea una
ragione limitata , e poi la giudica e critica. Intanto,
ciò che si giudica o mette in dubbio non è la ragione
completa : perocché la ragione completa abbraccia non
solo la pretesa facoltà che si critica, ma la facoltà clic
critica : perocché la ragione abbraccia lutto il possibile.

terìala, cioè fornita di materia e ili forma. Qui non parlo che della cojjni-
zione formale pura , meramente intellettiva: e rispetto a questa, panni
d' aver dimostrato evidentemente , contro il criticismo, che lo spirito intel
ligente non ha nessuna forma ristrettiva , collii quale alteri e con Ini (lacca
le cose che egli percepisce j ma eli' egli ha una sola forma , illimitati ,
la forma di tulle le forine possibili, non determinala a nulla, indifferente;
perciò perfettamente atta ad ammetterle tutte imparziale , e quasi direi
senza frode od inganno: questa forma così universale, così genuina, è li
VERITÀ' slessa, come ho dimostralo nella Parte I, eap. Vllf.
47
ARTICOLO VI.

SI RICONFERMA LA CONFUTAZIONE DEGLI SCETTICI.

Da quello che è fin qui ragionato , s'intende clie


pensar debbasi della celebre questione , « come un essere
percepir possa ciò che è diverso da sè ».
Questa è questione, dico io , aliena dall' argomento
della cognizione e della certezza umana . chi ne ricerca
il fondo; ed ella pecca contro la sobrietà del sapere.
In vero, quale è il legittimo^ metodo di una sobria
filosofia ? Quello di osservare attentamente i fatti , di
classificarli in ispecie e ordinarli fra loro, e finalmente
di ridurli , s' egli è possibile , al fatto primigenio dal
quale tutti gli altri dipendono. Ma colui che, trovato
questo fatto primigenio, non se n'appaga, e pretende
di dover cercare ancora una spiegazione di lui; questi
si espone al pericolo di cadere in vane ipotesi, o spe
culazioni sterili , o finalmente di indurre uno scetti
cismo spaventevole anche su tutta 1' altra parte del sa
pere , unicamente perchè non gli è riuscito di trovare
ciò che cercava, ciò che cercar non dovea , perchè non
esisteva (i).
Nel nostro argomento, il fatto primigenio è l'intui
zione dell' ente in universale.
* Quest' intuizione dell' ente ci trae in un atto che
termina fuori di noi soggetto, e che si affissa in un
oggetto indeterminato.
Che la maniera del vedere l'essere in universale, sia
un vedere o percepire la cosa in sè , oggettivamente,
indipendentemente da noi , questo è il fatto che non
lice addurre in controversia
Ora , posto questo fatto, è appianata tutta la diffi
coltà che trovar si può nella spiegazione degli altri in
numerevoli fatti particolari ; dico quella difficoltà che

(i) Qui si parla dell' ultima ragione logica, la quale è data a noi dal
fallo della intuizione prima. Or non può esistere alcun' altra ragione so
pra quella , Dell' ordine logico , sebbene possano esistere delle ragioni d'al
tra specie ( cioè finali , od ontologiche ), nella serie delle quali 1' uomo
non perviene a veder 1' ultima. Ma nella scric delle ragioni logiche l'uomo
vede V ultima, perchè ciò è essenziale alla ragione; ed è rispetto a que
st'ordine che si dee intendere il celebre passo di s. Agostino, « Quiequid
super illam (ralionalcm crcaturam) est , jam creator est ^Iu Jo. T. XXIIf).
48
nasce dalla dimanda , « come percepir si possa ciò che
è da noi diverso » : conciossiachè 1 intuire 1' essere in
universale, costituisce la possibilità (la facoltà) di ve
der le cose in sè , cioè indipendenti da noi.
Ma il volere spiegare quel fatto primo con un altro
fatto antecedente che appartenga alio stesso ordine lo
gico, è desiderio altrettanto intemperante, quanto quello
di semplificare maggiormente un numero che è già ri
dotto all'unità, cioè al suo primo e semplice elemento.
Gli scettici all' incontro abusano appunto di questa
ricerca , ragionando presso a poco così : « Noi non pos
siamo intendere come un essere possa percepire qualche
cosa di diverso da sè. Quando dunque 1' uomo, o altro
essere intelligente, percepisce qualche cosa di diverso
da sè, è da dire eh' egli noi percepisca se non appa
rentemente diverso da sè , ma che realmente egli per
cepisca una cosa non diversa da sè stesso, percepisca
sè stesso e nulla più ».
In questo ragionamento si vede la teoria che assali-
sce e distrugge il fatto , V ignoranza che cancella la
verità. . ,
Io rispondo agli scettici in questo modo : Voi dite
che noi concepiamo 1' essere diverso da noi solo appa
rentemente, ma che quell'essere realmente non è di
verso da noi. Ora se Tessere mi appare, come voi dite,
diverso da me, dunque lo concepisco diverso da me."
Che cosa è apparire una cosa a me, se non esser con
cepita da me? Badate, che io non decido ciò che sia
questo essere che percepisco in sè stesso , cioè se sia
diverso da me, o se sia identico con me : io mi re
stringo a dire, che io lo concepisco come da me diver
so; mi restringo cioè s stabilir quel fatto che voi me
desimi mi accordate. La differenza che corre fra di noi
si è questa sola, il diverso uso che noi facciamo di
questo fatto da ambedue le parti ammesso. Io dico: se
concepisco l'essere come diverso da me, dunque io ho
la facoltà di concepire le cose come diverse da me: se
questa mia facoltà sarà ingannevole , io per ora non
chiedo: basta a me di fermare, che la mia mente ha
un oggetto indipendente da sè , vero o falso che sia
quest' oggetto. Voi all'incontro cominciate a stabilire
in precedenza di ogni fatto, che è impossibile che la
mia mente esca di sè e concepisca qualche cosa da se
indipendente; dunque, conchiudete, Tessere ch'ella con
cepisce come diverso da sè , non può esser diverso da
sè ; ella s' inganna dunque. Ma non v' accorgete voi ,
che così dicendo uscite della questione? La questione,
e la difficoltà tutta quanta consiste pur solo in questo,
nel sapere se la niente concepisca il diverso da sèj non
già se ciò che concepisce risponda alla sua concezione
sì o no. Ora voi ci dite che non risponde : intanto ac
cordate, che la concezione sua termini in cosa fuori di
sè : che 1' oggetto, in quanto è da lei concepito, non sia
ella stessa. La natura dunque della concezione voi non
la potete negare : nè potete distinguere qui il concepire
o 1' apparire , perciocché 1' apparire nel caso nostro è il
concepire medesimo. Oltracciò , il dire che l'oggetto in
quanto non è dalla mente concepito non risponde al
concetto che la mente ha di lui , è un sentenziare so
pra una cosa non concepita, e quindi incognita perfetta
mente : avete dunque passati i termini del vostro potere.
Ma or via, voglio seguirvi nelle vostre immaginazioni
ed ipolesi: sia l'oggetto concepito dalla mente non di
verso dalla mente stessa, cioè dal soggetto percipienle.
Io dico : Il soggetto stesso , quando voi lo pensate,
non diventa egli 1' oggetto del vostro pensiero ? Certa
mente. L' essere dunque una cosa oggetto del pensier
nostro , non la mula ; non la fa per questo rimanersi
dall' essere ciò eh' ella s' era prima : ella può restarsi
soggetto, e tuttavia essere V oggetto insieme del pensier
nostro.
Ciò stabilito, ond' è che si usa questa frase: La
mente pensa le cose diverse da sè? Che vuole ella si
gnificare? Null'altro se non se, ch'ella pensa le cose
come suoi oggetti.
Ma in che modo possono essere sinonime queste due
maniere , pensar le cose come diverse da sè, ed esser
le cose oggetti del suo pensiero?
Oggetto del pensiero non vuol dire se non una cosa
da noi in se stessa pensata: una cosa in sè stessa , vuol
dire una cosa nella sua esistenza propria : e giacché una
cosa nella sua esistenza propria è diversa da ogn' altra
considerata pure nella sua propria esistenza, quindi og--
getto del pensiero è essenzialmente una cosa diversa da
noi pensanti.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. 111. 7
5o
Ora ciò si avvera anche quando io penso me stesso:
perciocché io, soggetto, divento in quell'atto oggetto
del mio pensiero : tuttavia, pensando a me, io considero
me stesso in quanto esisto in me, e non più, e perciò
in quanto penso e sento, cioè come soggetto de' miei
pensieri e delle mie sensazioni attuali. L' essenza dun
que del pensiero è quella di terminare in un oggetto,
cioè in cosa diversa dal soggetto pensante. L'ente adun
que diverso dal soggetto, o sia l'oggetto del pensiero,
non può far dubitare dell'autorità e veracità del pen
siero stesso; perciocché tanto è lungi che noi siamo
inetti a concepire le cose diverse da noi , che anzi noi
non possiamo nè pure concepire intellettivamente noi
stessi, se non ci consideriamo come diversi da noi, sog
getti attualmente pensanti.
L' argomento degli scettici avrebbe bensì luogo per
altri esseri, se ve n'avessero, i quali fossero forniti di
un modo di concepire tutto opposto al nostro: cioè se
essi concepissero tutte le cose non nella esistenza a quesle
propria, ma come identiche con sè soggetti concipienti.
Tra esseri intelligenti di tal natura, sarebbe ragionevole
che alcuno sorgesse dicendo: «Noi concepiamo le cose
tutte come parti di noi slessi. Ora ciò è impossibile.
E da credere più tosto, che così noi concependole, esse
sieno una creazione che facciam noi nell'alto del conce
pire; non possono esser veraci queste nostre concezioni».
Ma si osservi, che un simile dubbio non potrebbe
mai venire in capo ad uno di quegli esseri: ma sì bene
ad alcuno di quelli che avessero la facoltà di vedere le
cose in sè, potrebbe questa dubitazione presentarsi. Sic
ché gli scettici slessi, per muovere il dubbio contro
l'esistenza della facoltà che abbiamo di concepire il di
verso da noi, è necessario che abbiano questa facoltà,
perchè il detto dubbio possan pensare. Senza che, una
concezione che non esca dal soggetto, è un concetto che
fa a cozzi con sè slesso: perciocché sarebbe concezione
e non concezione in un tempo.
Finalmente la legittimità del pensare è evidente per
sè, chi ne medita attentamente la natura. Poiché la
sua natura consiste nel pensare che noi facciamo le
cose in sè ; or non è questo identico col pensare le
cose nella loro propria esistenza? e ciò è che si chiama
la verità della nostra concezione.

•i
5i
In poche parole, secondo gli scettici , le cose hanno
due esistenze: i." V una com' è da noi percepita, a. ° l'al
tra reale, come da noi non è percepita.
La percepita, la illusoria e falsa, è l'esistenza in sè,
oggettiva, perciò a noi appare la cosa oggettivamente.
La reale, come da noi non è percepita , dee essere
dunque 1' esistenza identica con noi , appunto perche
non è soggettivamente che noi percepiamo.
Non sono queste proposizioni manifestamente contrad
ditorie? Se l' esistenza in sè è la percepita da noi, se
1' esistenza immaginata come soggettiva è la non perce
pita; non sarà egli vera l'esistenza che noi percepia
mo, falsa o anzi nulla e parto chimerico degli scettici
stessi quella che non percepiamo (•)?

ARTICOLO VII.

QUANTO fC ESPOSTO È DOTTRINA DELLA CRISTIANA TRADIZIONE.

I tre duhhj fondamentali dello scetticismo furono da


me risoluti colf analisi della verità o idea dell'essere,
la quale mi fornì tre caratteri, ciascuno de' quali fu
alto a ribattere uno de' tre duhhj.
I tre caratteri dell' essere da noi intuito sono questi :
l." la sua semplicità, sicché non rappresenta che sè
stesso, a.* la sua oggettività , 3.° e la stia perfetta in
determinazione.
Essendo 1' essere semplice , non rappresentando nulla
fuori di sè , non contenendo verun giudizio , egli si ri

ti) L' errore degli scettici nacque altresì dal coafondere eh' essi fanno
" esistenza colla essenza specifica della cosa. Quando io dico di percepire
la cosa come esiste in se, io non vengo mica a dire di percepirla nella
sua reale essenza specifica. L'oggettività perfetta sta solo nel percepire la
prima di queste due cose, cioè r esistenza, che è quanto dire, nell' appli
care alle cose 1" idea dei!' essere in universale , che è il fonte dell' ogget
tività , anzi propriamente è ciò che costituisce l'oggettività stessa. All'oppo
sto, nel percepire l' essenza delle cose si può mescolare del soggettivo ; e
si mescola, come ahbiamo veduto nella Sezione V, massime parlando della
percezione de' corpi. Quindi ancora, 1' essenza cognita della cosa non è
sempre l' essenza specifica reale della medesima intatta e pura : ma è una
essenza in cui manca qualche cosa , come nelle essenze generiche ( Ved. il
Voi. II, facc. aiy e segg. ),e massime nelle essenze nominali, ed anco
mescolate di qualche elemento soggettivo, il quale però noi possiamo
sempre disccrnere e separare dall' oggettivo.
52
mane un fatto; e ciò è quanto dire , non può darsi in
lui illusione o inganno : così si scioglie il primo dubbio.
Essendo l'essere oggettivo essenzialmente, è diverso
essenzialmente ed opposto al soggetto che lo percepisce,
e costituisce con ciò l' intelletto, cioè una potenza che
non ha rispello a sè stessa, e che vede le cose fuori
di ogni luogo e tempo: quindi è distrutto il secondo
dubbio, come l'intelletto possa uscire di sè: dubbio
fondato tutto sopra una metafora tolta da' corpi, la
quale scoperta, e tradotta in espressioni proprie, non
ha più senso : questo dubbio cessa dunque da sè senza
essere sciolto.
Essendo l'essere indeterminato (1), egli non può de
terminare cosa alcuna , ma hensì ricever egli le deter
minazioni di cui le cose presentale sono fornite; e
quindi è impossibile e contrario al fatto il dire che la
nostra cognizion delle cose possa ricevere dal nostro in
telletto un modo soggettivo, una forma particolare,
diversa da quella che esse hanno in sè stesse.
Dimostrai finalmente , che que' dubbj non sarebbero
potuli nascere in mente di alcun filosofo, il quale fosse
proceduto per la via de' fatti, e non abbandonatosi
dietro a un metodo falso di vane ipote'si e creazioni
vaghe e confuse della fantasia.
Ora io qui dichiaro di buon animo, non esser mia
questa confutazione degli scettici moderni , ma conte
nersi nel deposito delle cristiane tradizioni. Nè solo
quella confutazione trovasi nella cristiana antichità, ma
altresì quel metodo che parie da' fatti primigenii e si
curi, e sopra quelli ragiona; dal qual metodo allonta
nandosi , senz' accorgersene i sofisti (3) ci hanno gittati

(1) Si parla sempre dell'essere ideale , o, che è il medesimo, dell' idea


dell' essere , non dell' essere sussistente.
(2) Dissi già altrove, il sommo merito de* tempi moderni , che comin
ciano dal Galilei , essere 1' aver pubblicato e accomunato il metodo dei
fatti. Il loro difetto ali' incontro è il non averlo seguito. In molti scrittori
però si vede la volontà dichiarata di seguirlo ; e questi sono commendi-
bilissimi nel loro proponimento , eziandiochè senz' accorgersi soventi volle
lo abbandonino. Altri, e questi sono i più, millantatori vani e ridicoli»
non rifiniscono mai di darsi il vanto di seguire appuntino il metodo dei
fatti; e tuttavia non tengono di questo metodo che l'apparenza. L'iuiip'd»
jattanza di castoro sarà certo schernita , se non obbliata interamente, dai
tempi che non molto dopo ai nostri seguiranno. Io amo di far pure spesso
questa osservatone, che « l' uomo non fa sempre quello che crede di ro-
53
nella ignoranza , ne' tlubbj e nelle universali nostre agi
tazioni. Di che io darò prova, sponendo brevemente la
cristiana filosofia in sulla natura della cognizione della
verità , e della relazione di quella collo spirito.
Secondo questa filosofia, il metodo da tenersi per
venire al conoscimento dell'anima, è quello i." dipar
tire dal fatto della cognizione, a." e dall' esame di que
sto fatto procedere a fissare ciò che I' anima possa o
non possa, o sia (che è il medesimo) quali sieno le
sue proprietà, facoltà ecc. (i).
Per tal modo quella muove da quello stesso punto
onde siamo parlili noi, cioè dal fatto, fiali' esistenza
della cognizione, che analizzato si riduce ad una per
fetta semplicità , cioè al fatto dell' essere in universale,
che non può contenere illusione alcuna in sè medesimo.
Analizzato dunque il fatto della cognizione intellet
tiva, gli antichi trovarono, siccome noi, che essa era
primieramente oggettiva: « L'atto della cognizione,
« dice s. Tommaso , si estende a quelle cose che sono
« fuori del conoscente » (a). Ecco il fatto primigenio. Non
dissero già essi, come i moderni, l'assurdo: a Questo
fatto è impossibile, dunque è apparente » ; ma dissero
in quella vece t « Questo fatto esiste, dunque è reale».
Non dimandarono: « Come è possibile che il cono
scente esca di sè » ? ma dissero : « Noi troviamo che il
conoscente esce di sè , dunque è possibile ». Da questo
fatto essi mossero innanzi.
Se la cognizione è oggettiva , così essi seguitarono a
ragionare , essa non è ristretta nel soggetto , ma con?

lere e di fare, molto meno poi quello che dice di volere»: e rispetto al
l' argomento del metodo , che « altro è il conoscere questo metodo nel suo
principio , altro il saperlo maneggiar nel fatto : e non conviene credere
facilmente a quelli che si professano di seguirlo , ma si bene guardar pri
lla se ne hanno I' arte, o se non hanno forse che belle e vacue parole ».
(>) San Tommaso stabilisce questo metodo, De ferii. X, vw. Gli scettici
all' incontro della filosofia trascendentale, in vece di dire: » La mente fa
questo , dunque ha la potenza di farlo » ; dicono : « La mente non ha la
potenza di far questo , dunque noi può fare se non in apparenza ». Essi
cominciauo a restringere arbitrariamente e ipoteticamente la potenza della
niente , e con queste anticipazioni assunte a loro arbitrio dichiarano ap
parenti i fatti della mente ; cioè non osando negarli con parole proprie e
ciliare, li negano con parole equivoche: poiché se il fatto esiste, egli ò
reale e valido: accordare un fatto, e dirlo senza valore, è una contraddi
zione , come contiuuapicnte diciamo.
(?) S. I, lxxxiv , a.

I
5*
sidera le cose nella loro esistenza , e non nell esistenza
del soggetto, come fossero modificazioni di questo:
dunque dee essere universale: cioè, ella può estendersi
a tutte cose che hanno o aver possono una esistenza
propria; dunque a tutte le possibili. Di qui conchiuse-
ro: Dunque i corpi non possono conoscere, perchè sono
determinati ad una sola e particolare loro forma : dun
que il soggetto intelligente ^lee essere immateriale, cioè
privo di ogni determinazione corporea e forma rispet
tiva, a Mediante la materia, dice s. Tommaso , la forma
u della cosa si determina e restringe ad un essere par
ti ticolare. Qnde egli è manifesto, che il concetto della
« cognizione è appunto l' opposto del concetto della
u materialità. E perciò egli è impossibile che le cose,
« che non ricevono se non materialmente le forme,
u come le piante, sieno intelligenti » (i).
Ma il carattere della universalità della cognizione,
che è compreso in quello della oggettività , e che col-
Y analisi di questo si può rinvenire, si manifesta anche
da sè medesimo direttamente , osservando qual sia la
cognizione intellettiva. Noi conosciamo le cose non pur
diverse , ma contrarie ancora : questo faceva dire agli
antichi , che la mente era atta a percepire tutte le cose:
intellectus omnia cogriosciti perciocché veramente chi
può percepire tanto il sì come il no d' ogni cosa, non
è determinato a nulla , non essendovi altro in mezzo
fra due contrarj. Questo fatto fu osservato fino dall'an
tica filosofìa; ed Empedocle, che avea consideralo un
tal fatto imperfèttamente , credette spiegarlo col sup
porre 1' anima composta degli elementi di tutte le cose.
Dico, che l'avea osservato imperfettamente; poiché egli
s'era ristretto ad osservare, che « l'anima conosce cose
diverse » : con la sua osservazione avea trascurato di
notare, che l'anima i.° non conosce solamente i prin
cipi delle cose, ma ancora le cose stesse; a." non co
nosce solo le cose diverse, ma le contrarie, e quindi è
a percepire il sì ed il no di checchessia egualmente
disposta.
L'errore di Empedocle era un errore (se pur si dee
intendere come 1' intese Aristotele ) comune a tulli i

(i) S.ì, LXXJCIV, u-


materialisti, che immaginano le idee essere qualche cosa
di simile nella sostanza alle cose, sicché ( come dicea
l' inglese Hook ) le idee della luce sieno formale di
qualche fosforo, e simigliantemente dell'altre.
Non mi è noto però che gli antichi confutassero Em
pedocle da questo lato, ma sì dalla imperfezione onde
egli avea osservato il fatto dell' universalità della co
gnizione; e massime dalla prima delle due imperfezioni
di che peccava il suo osservare, cioè dal non aver egli
posto mente , che colla cognizione si conoscono le cose
stesse, e non solo i loro principj. Quindi gli risposero,
che .se 1' anima avea bisogno di esser composta di tutti
i principj ( fisici ) onde risultan le cose, perchè ogni
cosa si dovea conoscere con un suo simulacro materia
le , in tal caso sarebbe convenuto eh' essa non i soli
principj avesse in sè , ma ben anco altrettanti corpic-
ciuoli o esseri , quanti sono i corpi o le cose conosci
bili. Per il che Anassagora , e appresso Aristotele dis
sero, al contrario di Empedocle, che l'anima dovea
essere immista, e immateriale, e non dovea tenere in
sè nulla di tutto ciò che era corporeo e determinato ,
perchè potesse conoscer tutte le cose.
Trattavasi adunque di spiegare un fatto in cui tutti
convenivano, ed il fatto era V universalità della cogni
zione: ma a spiegarlo, prendevano altra via i recenti
dagli antichi fra i filosofi greci. Tulli convenivano, che
essendo universale la cognizione, si dovea dare allo spi
rilo una virtù che fosse universale, cioè che si esten
desse a tutte le cose possibili. Ma dopo ciò, i più an
tichi non sapevano concepire questa virtù universale
che in modo materiale, e quindi la facevano constare
di tutti gli elementi. I recenti , veggendo che ciò nulla
spiegava, conobbero che dovea esser vero il contrario,
cioè che la virtù dell'anima era universale, in quanto
che non si componeva di nessuna delle cose determi
nate; e quindi definirono quella universalità dell'anima,
per una virtù non determinata a nulla in sè stessa, ed
atta in quella vece a determinarsi ne' suoi effetti, dando
luogo così imparzialmente alla cognizione di tutte le
cose possibili.
Ne' nostri tempi all' opposto, si disse impossibile il
fatto della cognizione universale: e perchè negar non si
potea , si disse essere un inganno; e si suppose l'anima
56
determinata , e deterrainatrice delle sue cognizioni. Nulla
può darsi che sia più privo di buon senso, quanto un
tal processo di ragionare. S' accorda la cognizione uni'
versale; e poi s' afferma che l'anima determina e li
mita la sua cognizione, e le dà questo marchio della uni
versalità: quasiché il dare alla cognizione l'universalità,
non fosse appunto il contrario del determinarla , del
limitarla , del renderla in una parola soggettiva.
« Essendo il nostro intelletto, così s. Tommaso, or-
o dinato ad intendere tutte le cose sensibili e corporee,
« conviene eh' egli sia privo di ogni corporal natura,
« siccome il senso della vista è privo di ogni colore
« appunto perchè è alto a percepire i colori. Poiché
« s'egli avesse qualche colore , quel colore impedirebbe
« di vedere gli altri colori. Così l'intelletto, se avesse
« in sè qualche natura determinata, quella natura a
« lui connaturale gl' impedirebbe la cognizione delle
« altre nature » (i).
L1universalità dunque della cognizione, secondo s. Tom
maso , è un fa'tto che rende assurde le forme ristrettile
di Kant. Ed egli è una contraddizione , come dicemmo,
manifesta, il dire che 1' universalità della cognizione è
l' opera di forme ristrettive : poiché queste forme che
producono l1 universalità nulla restringono, anzi tolgono
via ogni restrizione e determinazione.
E come l'errore è sempre una verità disguiseta o
sbagliata, così è facile accorgersi, che la verità di cui
abusò Kant, fu questo principio di s. Tommaso : « L'intel-
« letto fa le specie o le idee tali, quale è egli stesso: poiché
« ogni agente produce un simile a sè » (2). Or come nac
quero da questo vero male inteso le forme soggettive!
Ecco il modo. Si suppose, che l'affermare che l'in
telletto comunica alle idee la propria natura e dà loro
la propria forma , fosse il medesimo coli' affermare che
1' intelletto dà alle idee una forma particolare , ristret-

(1) In III de An. L. Vili. E Io stesso prova il santo Dottore neU»


Somma I , lxxv , n. Quod ( intelleclus ) , die' egli, potest cognoscere ebqua,
oporlet ut nihil eorum habeal in sua natura: quia iìlud quod inesset «'*»-
turaìiter, impedirci cognitionem aliorum. Sicut videmus , quod Iuig"i
infirmi, qua» iiifecta est cholerico et amaro humorCj non potest percipK
aliquid dulce , sed omnia videnlur ei amara.
(1) Tales antanfacit eas ( intellectus agens species inteUigibiles), quali* est
ipse : nam omne agcns agii sibi simile (C. Gent. II, unvi).
57
tiva , soggettiva. E si suppose questo , perchè il con
cetto di forma si tolse dalle forme corporee, che sono
tutte ristrettive e particolari : effetto del materialismo
pratico de" nostri tempi. All' opposto, la forma di cui
parla s. Tommaso, e della quale 1' intelletto informa le
proprie percezioni rendendole simili a sè , è d' una na
tura direttamente opposta alla forma corporea: non è
una forma particolare ; è una forma universale: non
aggiunge restrizioni, ma le toglie via tutte ; sicché que-
st' atto dell' intelletto, col quale egli comunica alle per
cezioni nostre la propria forma, non è se non quell'atto
col quale egli le universalizza (i); e così considera le
cose nel loro esser proprio, oggettivo, e non punto sog
gettivo. Quindi s. Tommaso dice, che anzi sta nella im
materialità di questa forma ciò che costituisce la po
tenza d' intendere (a). Questa forma adunque non è
forma nel senso volgare , siccome mostrano d'intenderla
i filosofi moderni, ma è forma nel senso antico, e con
siste nella privazione d' ogni forma in senso moderno.
Se la forma dell'intelletto è universale, cioè perfetta
mente indeterminata , sicché ella sia perfettamente indif
ferente alla percezione di tutti gli esseri possibili , a
tale che quella forma non sia che 1' intuizione della
possibilità stessa (3); dunque , conchiudono gli scrittori
antichi di cui parliamo, da quella forma l'intelletto
riceve una virtù infinita e da verun limite terminata.
u Nell'intelletto nostro, dice s. Tommaso, si trova
« l'infinito in potenza» (poiché la forma dell' intelletto
essendo indeterminata, non ha attualmente per sè la
cognizione attuale di cosa alcuna , ma può averla ): —
« poiché 1' intelletto nostro non può mai intendere
« tante cose, che non possa intenderne troppe più ».
E ancora: « A quel modo che 1' intelletto è infinito
■ per la virtù eh' egli ha ( la sua forma ) , a quello

(1) Vedi Voi. II, face. 78.


(2) Habet enim substantia animae humanae immaterialitatem ; et, sicut
ex dictis palei, ex hoc habet naturarti intelìectualem , quia omnis substan
tia immaterialis ( cioè priva di forma ristretta e particolare ) est hujus-
modi (C. Gent. II, lxxvii).
(3) Intelleclus respicit suum objeclum secundum communem rationem
tnlis, eo quod intelleclus possibilis est, quo est omnia fieri [S. I, lxxix, V»)
8
58
« conosce l'infinito. La virtù dell' intelletto è infinita, per-
« chè — è conoscitivo dell'universale — ; e perciò non
u finisce esso intelletto in un qualche individuo, ma
« per quanto a sè (i) si estende ad infiniti individui (2)».
Osservato per tal modo bene il fatto, che la cognizione
intellettiva è universale, sicché senza aver limite a tutto
si estende, cioè è infinita; osservavano ancora, ch'ella
è , e dee essere necessaria : « La forma della cosa in-
u tesa è nell'intelletto fornita di universalità, itnmate-
« rialità, e immobilità; il che apparisce dall' osserva
ci zione della stessa operazione dell'intelletto, il quale
« intende universalmente e necessariamente » (3). E che
queste due qualità , la necessità e la universalità , ven
gano l'una dall' altra , è facile a scorgersi, purché ben
si consideri che V universalità non è altro che la possi
bilità della cosa. Ora onde viene il necessario , se non
dal possibile? Cioè si dice necessario ciò che unisce in
sè tutta la possibilità , sicché una cosa a lui contraria
sia impossibile.
Osserviamo questo nella seguente proposizione: «L'a
mico Maurizio o vive, o non vive ». Questa è una pro
posizione necessaria: e perchè? Perchè fra due casi con-
trarj , del vivere e del non vivere, non si dà altro caso
possibile in mezzo. La necessità adunque è ciò che rac
chiude in sè ogni possibilità, sicché non resta più pos
sibile nulla di contrario a lui. Or la forma dell' intel-

(t) Dice, per quanto a si , poiché egli non giunge a conoscere mai infi
niti individui, perchè gl'individui stessi in un numero infinito non esi*>
no. Oltracciò l' intelletto, sebbene per sè non sia limitato , viene limiuw
dal senso, che è quello che a lui presenta gì' indizj degli esseri, e a»
giunge a conoscerli , come ho accennato nel Saggio sui confini delfumau
ragione ( Opusc. filos. Voi. I , face. 98 e segg. )
E anche questo vero , che il senso sia quello che fa presenti all' «fi
letto gli oggetti, è dottrina di s. Tommaso. Questi osserva , che l'i»i>w
saiUà della forma dell' intelletto consistendo in una privazione di fon»'
Farticolari , ella sola non basta a far conoscer le cose : Ex /toc ( cioè ài-
essere la forma dell' intelletto universale, o immateriale , che è il nwfc-
sirao ) nondum ( inteìlectus ) habet quod assimilclur huie vel UH rei <UUt-
minate, quod requiritur ad hoc quod anima nostra liane vel Mai»
determinale cognoscat. — Remanet igitur ipsa anima inlellectiva in polenta
ad delerminatas similitudines rerum cognoscibilium a nobis, quae sunt »»•
lurae rerum sensibilium ; et has quidem delerminatas na/uras itivi» *
sibilium PRAESENTANT nobis phnntasmala , etc. ( C. Geni. II,
(a) San Tommaso, S. I , lxxxvi, 11.
(3) San Bonaventura , Itin. mentis in Deum.
59
lelto e appunto la possibilità tutta. L'intelletto adunque
intende necessariamente, vuol dire ch'egli vede il rap
porto di ogni cosa intesa, colla possibilità, e la intel
lezione sua mediante questo rapporto si fa necessaria.
Quindi i Padri della Chiesa dicono , che lo spirito
intelligente' è fornito di un lume incircoscritto ( cioè
senza forma peculiare e ristrettiva ), o, che ò il mede
simo, fornito di una forma l'universale, indeterminala,
immateriale, infinita, i quali vocaboli vengono a dire
presso a poco il medesimo, 2.° e necessaria, e quindi
immutabile, e per sè sempiterna.
Nella universalità poi e nella necessità della cogni
zione , i Padri videro e notarono 1' unità. Poiché 1' uni
versalità è fondata in questo , che con una sola specie
si conosce una cosa, o qualità moltiplicata infinitamente
in un numero infinito d' individui : quindi V unità della
specie raccoglie ed unisce la moltiplicità delle cose. Si
milmente la necessità non è formata che da quell' una
specie o forma suprema che rappresenta la qualità co-
munissima, se cosisi vuol chiamar , delle cose, cioè l'es
sere loro, il quale unisce a sè e riduce ad unità tutte
le possibilità speciali.
Analizzata la cognizione umana, trovarono dunque
gli scrittori della Chiesa , eh' essa era nella sua ultima
forma (1) perfettamente una, universale o incircoscritta,
immateriale, infinita, necessaria, immutabile, eterna.
Fermato questo fatto (a), conchiusero eh' ella nè potea

(1) Quindi s. Tommaso.- Si allendantur raliones universales sensibi-


lium , omnes sdentine sunt de necessariis. Si autem allendantur ipsae re.v,
sic quaedam scientia est de necessariis , quaedam vero de contingenlibus
( S. I , lxxxvi, 111). Di che si vede come la necessità delle cognizioni venga ,
secondo s. Tommaso , dalla loro universalità; c quindi nou in tulio esse
sono necessarie, ma nella loro parte formale: ciò che il santo Dottore spiega
maggiormente in queste parole: Necessitas consequitur rationem formae ,
quia ea, quae consequunlur ad Jbrmam, ex necessitate insunl. — Ratio au
tem universale accipilur sccunclum abslraclionem fiirmae a materia parti-
culari. Dicium est aulem supra , quod per se et directe intellectus est uni-
versalium. — Sic igilur conlingeniia prout sunt eonlingentia, cognoseunlur
directe quidem a sensu, indircele aulem ab intellectu ( Ivi ).
(2) San Tommaso mette in ridicolo (cosa a lui insolita) il metodo che
Platone tenne nello stabilire la sua teoria delle idee, perchè in luogo di
partire da' fatti ovvii , da ciò che conosciamo, per ispiegare ciò che nou
conosciamo, partì da ciò che non conosciamo, per ispiegar ciò che cono
sciamo : Derisibile vidclur, ut dum rerum, quae nobis mani/éstae sunt ; noti-
liam quaerimus , alia enfia in medium ajferamm, eie. ( S. I, ixxnv, » )•
fio
venire da' sensi , uè dal nostro spirito cioè dal sog
getto (i).
Non da7 sensi, perchè le sensazioni non hanno nè
1' unità, nè V universalità, nè la necessità, nè l1 immuta-
bilità , nè gli altri caratteri di sopra annoverati.
Non da noi soggetto conoscente, poiché noi pure
siamo limitati, contingenti, mutabili; sicché non pos
siamo dare altrui quello che noi non abbiamo : gli at
tributi dunque della cognizione nostra sono contrarj a
quelli che abbiamo noi, e snperiori non solo alla no
stra potenza, ma ben anco a quella di qualsiasi essere
finito.
Sant'Agostino, dopo avere analizzata la nostra cogni
zione intellettiva, e trovato ch'essa essenzialmente consiste
nel giudicare (a), scuopre poscia, seguitando l'analisi, che
in essa è una unità fondamentale, poiché solo coli1 umili
si giudica. Dunque, conchiude, una tale cognizione non
può venire da' sensi ; « poiché, egli dice, chi mai, esa-
« minando un corpo, può — trovare eh' egli sia vera-
u mente e semplicemente uno: quando tutti i corpi o

Quanto ragionevolmente si può dire il medesimo di Kaut , ebe introduce


ipoteticamente delle forme incognite, e non solo inette a spiegare il f>>10
manifesto della cognizione, ma al fatto contrarie, perchè descritte comedi
un' indole soggettiva e ristretta , mentre la cognizione è d' un' indole essen
zialmente oggettiva ed assoluta!
(i) Vedi il bel passo di s. Bonaventura, da noi recato innanzi alla face. {5,
dove il santo Dottore esclude l'uno e l'altro di questi due fonti della cogni
zione formale , cioè i sensi e lo spirito nostro.
(a) Sani' Agostino nel libro Della vera Religione stabilisce queste propo
sizioni importanti: che la differenza specifica fra il senso e 1' intelletto, è il
potere che ha questo secondo di giudicare , del quale il primo è sfornilo:
Judicare de corjribus non sentientis tantum vilae , sed eliam ratiocùunta
est (xxix). Da questo principio egli scuopre , che in ogni cognizione «•
tellettiva avvi nascosto un giudizio. Ora egli procede innanzi, e sottopone
all' analisi questo giudizio. Egli trova con ciò , che non tutti quelli che giudi
cano, giudicano egualmente bene, ma solo quelli che n' hanno l'arto. Cor.-
vien dunque sottoporre all'esame l'arte stessa: « Sed quia clarum est eon
( naturam judicantem ) esse mutabilem, quando nane perita nunc w/*-
rila invenitur; tanto autem melius judicat quanto est pcritior ; et tanto est
peritior quanto alicujus artis — particeps est; ipsius artis natura quaerendt
est (xxx). Analizzata l'arte di giudicare, scopre ch'ella dipende da una nego'11
suprema superiore all' uomo, cioè dalla verità congiunta essenzialmenle eoo
lutti gl'intelletti. Appurato in tal modo e sceveralo da tutto il resto fer
mento formale del sapere, cioè questa regola, questa forma prima i
questa verità , secondo la quale 1' uomo giudica , egli mostra quanto ella
sia superiore all' nomo , da Ini indipendente, non soggettiva quindi,
oggettiva essenzialmente, e fino divina.
6i
« di specie o di luogo si mutano, e constano di parti
« ciascuna al suo luogo , pe' quali luoghi in ispazj di-
u versi si dividono e spargono? Certo, — una vera e
i prima unità non cogli occhi della carne , nè con
« altro tale senso , ma colla mente sola s1 intende e si
u vede » (i).
Ma molto più i maestri , de' quali parliamo, insistono
a dimostrarci , che il formale della cognizione intellet
tiva non può essere una emanazione della nostra natura
limitata.
Dall' immutabilità della cognizione, e dalla mutabilità
della nostra natura, così lo argomenta s. Bonaventura :
« Essendo la nostra mente mutabile, essa non può ve-
« dere la verità, che immutabilmente riluce, se non me
li diante un'altra luce veniente altronde, la quale irraggi
« immutabilmente} la quale è impossibile al tutto che
« sia una creatura mutabile » (2).
Dalla indeterminazione e universalità perfetta della
cognizione formale s. Tommaso dichiara, essere impos
sibile ch'ella sia l'essenza di qualche limitata natura,
sia un essere finito e determinato ; sicché nè pure 1' es
senza degli angeli, non che quella degli uomini , può
emettere di sè quella cognizione indeterminata ed uni-

(1) Poco dopo il tempo di Locke, fu proposto il problema, «Come l'a


nima univa più sensazioni in un solo soggetto» ( Voi. I, face. 3a e segg. ).
Noi abbiamo spiegato questo fatto i.° coli' identità dello spazio rispetto ai
sensi ( Voi. II, face. 4i5 e segg.), 2." e coli' unità dell' essere rispetto
allo spirito ( Voi. II, face. 4a8 e segg. ). Si richiede però sempre dalla
parte dello spirito la semplicità e 1' uuità sua propria. Questo vero sembra
riconosciuto da' filosofi del nostro tempo; e pare che non si dubiti da' mo
derni, che V unità della percezione proceda non dal senso esterno, ma dal
l' interna natura del nostro spirito. Parlando della percezione di un albero,
ecco che cosa dice C. Vittore Bonstetten in una Memoria intitolala Saggio
analitico sulfenomeno della sensazione, inserita nella Biblioth. universelle eie,
redigée à Genève (Marzo 1820): - L' azione del senso intcriore modificata
* dalla organizzazione produce il sentimento che va a far nascere 1' idea
» dell' albero : poiché è il sentimento che sulla tela preparata dell'organo
« esterno sceglie i raggi disegnatori dell' albero : ed è pure il sentimento
■ che dà all'immagine dell' albero quella unità tutta spirituale, tutta imma-
« teriale che ne forma un lutto , che permette alla parola di trasportar
« questo tutto per formarne poi de' pensieri , de' rapporti , delle astrazioni
" e de' principj, e tutto ciò che Io spirito sa produrre per la sensazione».
(2) Sed cum ipsa mens nostra sii commutabilis, illam ( veritalem ) sic
incommutabiliter reluccntem non potest videre, nisi per aliquam aliam lucem
omnino incommutabiliter radiantem, i\uam impossibile est esse crealuram
mutabileni {Itin. meni. eie. III).
versale di cui si parla. « Ciò onde si conosce checches-
u sia , dee essere simile alla cosa cognita. Laonde se
« la potenza d' un angelo potesse conoscere per sè stessa
a le cose tutte , ella sarebbe similitudine e atto di
« tutte le cose » ; il che non può concedersi. « Il per
ai chè è necessario che alla potenza intellettiva dell'an
te gelo si sopraggiungano altre specie intelligibili , colle
u quali egli possa conoscere , siccome con similitudini,
« le cose intese » (i). Di che conchiude, che il fare
uscire la cognizione formale dall'essenza stessa dello
spirito, non può essere giusto se non parlando d'Iddio,
1' essenza del quale è infinita, ed è principio universale
di tutte cose (2). Dal qual passo si vede, che la perspi
cacia di s. Tommaso già preconobbe la conseguenza da
noi rimproverata ai platonici e critici de' nostri tempi,
che col far uscire dallo spirito umano la forma della
cognizione, « fanno dell'uomo un Dio». E divinizzato
con ciò l'impotente, sebben sempre temerario, spirito
umano, sarà egli il nuovo Dio dell' universo , simile al
re che le rane d'Esopo pur troppo impetraron da Giove.
Sant'Agostino deduce l'impossibilità, che la cognizion
formale emani dall' essenza del soggetto , dall' osserva
zione eh' egli -fa ( ecco un altro punto , onde convien
partire ) , che la forma della cognizione è la regola colla
quale si giudica, e non si giudicano solo le altre cose,
ma anche il soggetto stesso vien giudicato; sicché il
soggetto non può essere nè causa, nè giudice di quella
regola, nè ella dal soggetto tiene alcuna dipendenza,
ma il soggetto la riceve tale qual è, e a lei egli sidee
sottomettere: e questa forma, o regola suprema di giu
dicare , si chiama propriamente verità. « Conciossiachè

(1) Si potenlia angeli per seipsam cognoscerct omnia — , esset simdiuub


et aclus omnium. Dnde oportet quod superaddantur potentiae intellectivat
ipsius aliquae species intelligibiles , quae sint similitudines rerum inteltccli-
rum ( S. I. II, 14, I, ad a )•
(a) Quaelibel creatura fiabet esse finilum ac determinalum. linde estenua
superioris creaturae etsi habet quondam simililudincm infcrioris creatomi,
prout communicanl in aliquo genere, non lamen complete habet similitodi-
nem illius : quia determinatur ad aliquam speciem, praetcr quam est species
infcrioris creaturae ( e quindi 1' essenza della creatura non può dare 'a
cognizione delle cose ). Sed essenlia Dei est perfecta similitudo omnium,
quantum ad omnia quae in rebus inveniuntur , sicut universale principi'"'
omnium (c quindi Iddio solo può intendere le cose little per la sua e»a>-
ia) (S. I , nxxiv, u).
63
« questa legge di tutte 1' arti sia al tutto incommuta-
u bile, all' incontro la mente umana , a cui è conce-
« duto di veder tal legge , possa patire mutabilità di
« errore ; abbastanza chiaramente si mostra , che v' ha
« una legge che sta sopra la mente nostra, la qual si
« appella verità' ». E appresso: « Sentendo l'anima
« di non portar già giudizio della bellezza e del movi-
u mento de' corpi secondo sè stessa, — conviene che
t ella s'accorga che quella natura, secondo la quale
« ella giudica , e della quale essa non può portare giu-
« dizio alcuno, è molto di lei più eccellente ». E di
nuovo: « Imperciocché siccome noi e tutte l'anime ra-
« gionevoli portiamo retto giudizio, quando secondo la
u verità il facciamo'; così di noi stessi , quando a lei
« stiamo attaccati, porta giudizio la sola verità » (i).
E si avverta, che questa verità così alta di sopra a
noi , secondo la quale noi giudichiamo le cose , e che
giudica noi, senza che nulla v'abbia di superiore che
possa di lei giudicare , è appunto quella forma stessa ,
nella quale secondo s. Agostino noi conosciamo tutte le
cose, la quale noi abbiam trovato coli' analisi delle co
gnizioni umane essere l'idea dell'essere in universale:
« Se ambedue noi veggiamo esser vero ciò che tu dici,
« e ambedue veggiamo esser vero ciò che io dico, dove
« mai lo veggiamo noi? Nè io certo in te, nè tu in
u me, ma ambedue nella stessa immutabile verità che
« sta sopra le nostre menti » (2).
Per le quali ragioni di nulla ebbero questi savj tanta
sollecitudine, quanto di mostrare all'uomo che la sua
natura non poteva essere la cagione della verità, quanto
di tenere da lui lontano 1' errore il più profondo ed as
surdo, nel quale venne a rovesciarsi finalmente la mo
derna filosofia: errore che spoglia la verità delle sue

(1) Hate aulern lex omnium artium cum sii omnino incommulabilis ,
mens vero humana cui talem legem videre concessimi est, mutabilitatem
pali possit erroris , satis apparet supra menlein nostrani esse legem , quae
verilas dicitur. — lingue cum se anima sentiat 3 nec corpoi um speciem mo-
tumque judicare secundum seipsam , simul oportet agnoscat .... proemiare
sibi eam naturam , secundum quam judicat , et de qua judicare nullo
modo potest. — Ut cnim nos et omnes animae rationales , secundum verità-
lem de inferioribus recte judicamus , sic de nobis , qtiando cidem cohaere-
mus , sola ipsa verilas judicat ( De V. Relig- cap. xxx , xxxt )■
(2) Conf. XII, xxv.
64 .
attribuzioni , e che dà allo spirito umano tutte le at
tribuzioni di lei, che rende mutabile l' immutabile, e
immutabile ciò che è mutabile : mostruosa idolatria del
l' uomo , che il genio delle tenebre ha pur saputo riti-
novellare nella presente luce de' tempi cristiani.
Ma da questo errore stanno sicuri lutti quelli che
ascoltano con attenzione ed affetto la voce della grande
tradizione della Chiesa, che incessantemente e unanime
mente dice all' uomo: « Non voler credere d'esser la luce
u tu stesso » (i).

CAPITOLO IL

dell' idea dell' essere in quanto è mezzo da conoscere


tutte l' altre cose (2), o sia della verità'.

ARTICOLO I.
NESSO DELLE DOTTBINE ESPOSTE CON QUELLE C8E SEGUONO.

Fin qui ho considerato l' idea dell'essere in sè stessa,


e ho mostrato che è una percezione immune da ogni
dubbio scettico.
Trovato questo punto fermo del mondo intellettuale,
io debbo mostrare come in lui si appoggia e sta tutta
la certezza delle cose.
Debbo dunque cominciare a considerar l'idea dell' es
sere nella sua applicazione alle cose.

(t) Noli pittare te ipsam esse lucerti (S.Aug. in Ps.). — Die quia tu Idi
lumen non es (S. Aug. Serm. Vili de verbis Domini).
(a) Noi veggiamo 1' ente naturalmente. Ma perchè noi conosciamo che
questo ente è quel lume che ci fa conoscere tutte le cose , clic è la verità;
noi dobbiamo ritornare colla nostra attenzione sull'ente medesimo, e per
lunga riflessione venirne osservando quella sua singolarissima proprietà, e
relazione ch'egli ha colle cose tutte, cioè di renderle a noi note e manife
ste. Solamente quando noi siamo pervenuti a conoscer questo , possiamo
dire d'aver conosciuto la verità in noi collucente. Noi concepiamo dunqut
1' ente con un atto diretto e naturale, ma non concepiamo 1 ente sotto la
sua relazione di verità se non con un atto riflesso, e di molto a quel pruno
posteriore. Quindi acutamente osserva s. Tommaso, che •« noi non possiamo
« apprendere il vero, senz'apprendere il concetto dell'ente: perciocché
— l'ente cade nel concetto del vero» , ma non è converso. E prosegue: «L>
« cosa è simile, come se noi paragoniamo l'intelligibile all'ente: poiché non
•» si può intendere l'ente, se non perchè è intelligibile. E tuttavia si può in-
« tendere 1' ente senza che si rifletta alla sua intelligibilità. Similmente,
« l'ente inteso è il vero; ma non segue però da questo, che intendendo
« 1' eulu, s'intenda il vero » (5. I, «vi, ni, ad 3 ).
65
Comincerò a considerarlo in quest'attitudine ch'egli
ha d'essere applicato: e poiché è quest'attitudine che
gli procaccia il nome di verità , perciò farò della verità
V argomento del presente Capitolo.

ARTICOLO IL
DEI DIVESSI USI DELLA PAROLA VERITÀ'.

% >•
Significato generalissimo della parola verità.

Quando un vocabolo vien preso in diversi significati,
non dall' improprietà del parlare d1 uno o d'altro scrit
tore individuale , ma sì dalla comunanza stessa degli
uomini, per la quale egli non sembra che ci possa es
sere improprietà di parlare ; allora in tutti que' diversi
significati della parola dee averci qualche cosa di co
mune: e questa nozione comune che si rinviene nei
significa ti varj del vocabolo , è il significato più gene
rale di lui , è 1' essenza unica della cosa dal vocabolo
significata.
Neil' esame che ho fatto de' diversi sensi che si so
gliono attribuire dal parlar comune al vocabolo verità,
parmi di esser venuto a conoscere, che il più esteso
significato di questo vocabolo, la nozione generale , l'es
senza unica da lui propriamente significata , sia quella
di esemplare ; e quindi ho definito la verità l'esemplare
delle cose (i).

Distinzione fra la verità e le cote vere.

Il concetto di esemplare racchiude una relazione con


ciò che si ritrae dall'esemplare, in una parola, colla
copia. La copia , quando è perfettamente simile al suo
esemplare , allora si chiama vera.

(i) Nel Saggio sulf Idillio e sulla luova Letteratura italiana ( Opusc.
Filos. Voi. I, face. 3ai e segg. ). In alcuni passi degli scrittori questo signifi
cato della parola fertili si vede manifesto : a ragion d'esempio, in questo passo
di Cicerone: In omni re vincit imitationem veritas (De Orai. Ili, 5j ): qui
è contrapposta Y imitazione alla verità, la copia all' originale, all'esemplare.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 9
66
Si distingua dunque fra la verità, e le cose vere: la
verità è l'esemplare; le cose in quanto sono conformi
al loro esemplare sono vere.

§ 3.
Significati di questa espressione : verità delle cose.

Si dice ancora : « La verità di questa cosa » , per


significare ciò che questa cosa ha di similitudine col suo
esemplare; poiché la similitudine eh' ella ha col suo
esemplare è la sua verità, quella verità per la quale
essa è vera, è la partecipazione di ciò che è nell'esem
plare dal quale è stata cavata.
Quindi si vede, che a rendersi ben chiaro il concetto
della verità , conviene aver prima nella mente assai
netto e chiaro il concetto della similitudine. Di che sì
mostra qual mente superficiale avessero que' filosufi, i
quali d'una parte supposero che la similitudine delle
cose fosse ad intendersi agevolissima, e dall' altra, che
difficilissimo fosse 1' assegnare 1' origine de' concetti ge
nerali e massime della verità delle cose (ì). La simili
tudine è anzi quel concetto, onde solo noi intendiamo
siccome le cose sieno vere e sieno false. Noi dobbiamo
adunque di questo concetto un poco occuparci , profit
tando qui delle dottrine già prima da noi stabilite sulla
similitudine delle cose.
Qualsiasi oggetto, anche esterno, io posso conside
rarlo siccome un esemplare, purché io il consideri sotto
il rispetto dell'attitudine ch'egli ha di servire a nor
ma , o a tipo di altri oggetti che si debbon formare su
lui . simili a lui.
Per questo tutta la natura è esemplare all' artista,
che di lei copia e ritrae le varie parti ; gli avvenimenti
della società umana e i costumi degli uomini sono esem
plare al poeta tragico o comico ; e un libro che si
trasporta d' una lingua in altra può acconciamente dirsi
l'esemplare rispetto alla traduzione, che dee perfetta-
mente col testo originale accordarsi.
Quindi la natura è la verità delle opere degli artisti,
che l'hanno imitata e ricopiata; e di qui ancora si

(i) Vedi il Voi. I, face, i5i e segg.


suol dire: «Questo ritratto è vero» , « Questo quadro ha
una gran verità «; nel medesimo modo come piena di
verità si dice una scena tragica , o comica : e con una
proprietà simigliante di parlare, volendo s. Girolamo dire
d'avere riscontrata la traduzione della divina Scrittura
al testo ebraico, dice d'averla resa secondo l'ebraica
verità (i).

5 4-
La verità significa propriamente parlando un'idea.

Ma qui conviene che noi entriamo in una osserva


zione, alla quale io chiedo tutta l'attenzione del mio
lettore.
Ho altrove dimostrato, che le cose esteriori, cioè le
cose in quanto sussistono fuori della nostra mente , e
non percepite, non si raiFrontano punto fra loro : ognuna
sta da sé: la similitudine o dissimilitudine non è che
un rapporto eh' esse hanno colla mente nostra che le
percepisce (2): questo rapporto consiste nel percepire
die noi facciamo con una sola idea o specie più oggetti;
sicché la similitudine di più oggetti si può definire
«l'attitudine di essere percepiti da una mente intelligente
mediante una sola specie» (3) ( s'intende sempre in quanto
sono simili ). Quindi le due tavole che accosta insieme
il falegname, a vedere se sono d' una stessa grandezza

(1) Nel Prologo gaietto: Quamquam mihi omnino conscius non sim,
mutasse me quidpiam de hebraica ventate. E nella lettera a Paolino :
Quamquam juxla licbraicam verilalem utrumque de eruditi* possil in*
telligi.
(a) Per bene intendere questo vero di tutta rilevanza , conviene che il
lettore richiami a mente ciò che fu detto sudi ciò nella Sezione III, cap. IV,
art. xx ; e nella nota alla face. 68 del Voi. I.
(3) Si dimanderà ; In che modo un' idea sola può servire a conoscere
più cose? Rispondo; Aggiungeiidovisi il giudizio sulla sussistenza della
cosa; il qunl giudizio si riferisce a ciascuna cosa in particolare, e il quale
perciò individualizza, se si può dir così, la specie, poiché è un alto col
quale si pronunzia internamente una parola , che si può ridurre sempre a
questa forinola: «La cosa da me pensata colla tale idea sussistei», e « sus-
sisle tante e tante volle - ( questo è il numero degl' individui ) ( Ved.
Voi II, face. 17 e segg.). Il giudizio poi è mosso dalle sensazioni (Voi. II,
•acc. io5 e segg. ); quindi è che noi possiamo avere più percezioni intel
lettive, le quali abbiano uua sola e medesima idea. L'elemento che distin
gue queste percezioni fra loro, è il giudizio, come dicevo, il quale termina
utgli oggetti individuali sussistenti, delcrmiuuti dalle sensazioni.
68
e forma, non si paragonano già insieme con quell'alto
esterno; sì solamente coli' atto interno, che succede con
temporaneo nella mente del falegname, atto che vieDe
«olo ajutalo, ma nulla più, da quell'esterno e sensi
bile congiungimento delle tavole.
E veramente, quando io raffronto un bel paese dipiato,
alle scene della natura, e trovo quello di una verità per
fetta, faccio io questo confronto di fuori di me? posso io
mettere il dipinto nella natura? immedesimar l'una cosa
coli' altra? e anzi nè pure accostarle insieme, come suole
il falegname le due tavole ? Nulla di ciò. Io non raf
fronto adunque la pittura che sto vedendo e ammiran
do, colla natura in quanto questa è in sè , fuori di
ine , da me non percepita; ma sì bene la raffronto col-
1' idea che io ho della natura , o comecchessia colla
natura in quanto è da me pensata. Tant' è vero, che
io posso fare il detto confronto anche nel fitto bujo
della notte , quando nessuna scena di natura mi ita
sensibilmente dinanzi ; o in luogo dove altra natura
non veggo, che orrida e tutta strana, e diversa dal
l' amenità della dipintura che mi diletta con prospetti
di dolci colli e fioritissimi piani in ora estiva di sol
cadente. Il paragone adunque è sempre opera del mio
pensiero, il qual , semplicissimo siccome egli è, può ad
una sola specie più percezioni raffrontare, e notare in
che parte si facciano una specie sola, e in che parte
le specie si moltiplichino. E il medesimo ragionamelo
può tenersi di qualsivoglia esterna cosa che tolgasi ad
uso di esemplare ; il qual sempre , perchè possa esser
tale nominato , dee stare nella mente nostra, essere in
somma una nostra idea.
Esemplare adunque non è mai altro che un'idea;
non essendovi cosa atta a servire di esemplare, se uon
pensata (i).

(i) Ho già osservato ( Voi. II, face. ai8 e segg. ) che una cosa qualun
que coutingente può pensarsi in uno stalo più o meno imperfello. Ora
raffrontando le idee che io ho di una cosa in due stati diversi , 1' uno ^
perfezione , l' altro d' imperfezione , io trovo questa sola differenza > che
coli' idea della cosa imperfetta penso ciò stesso che peusavo coli' «df*
della cosa perfetta , meno qualche suo pregio. In ciò adunque cb«
2uesle due idee hanno di positivo , non sono due, ma uua sola idea. >
inique coli' idea della cosa considerata nel suo stato perfetto., che io
pensare la (WM in lutti gli Stali possibili di lei ; perciocché in quell
6g
Con questa osservazione possiamo ora perfezionare [a
definizione data della verità, e ridurla in questa sem
plicissima : « La verità è l' idea in quanto è esemplare
delle cose » (i).

§ 5.
In che significato prendasi il nome di verità quando si dice
che le verità sono molte.
Tante adunque sono le verità, quante sono o possono
essere le idee esemplari delle cose. E in questo senso
solo si usa il vocabolo verità in plurale ; siccome quando
si dice: « le verità si sono diminuite» (3); ovvero si
parla di una verità peculiare, come dicendo: questa è
una verità rilevante; o come dice il poeta,
h Di bella verità m' avea scoverto ,
u Provando e riprovando , il dolce aspetto » (3).

Ora le idee esemplari delle cose per sè sono altret


tante quante le idee specifiche complete (4) colle quali

perfetta , u' ho già tutto il positivo ; e per pensarla imperfetta , non è che
a detrarre qualche parte di ciò che già penso. Quindi il nome di esem
plare conviene principalmente all' idea della cosa nel suo stato perfettissi
mo , all' idea platonica; sebbene, quando noi non siamo giunti a formarci
questo tipo di perfezione , togliamo ad esemplare quell' idea delle cose che
più perfetta aver possiamo e sappiamo : e il saperlasi formare assai per
fetta, è solo virtù de' sommi artisti nelle belle arti: e anche, secondo i
gradi di perfezione dell' esemplar formatoci, sul quale giudichiamo , il
nostro gusto, è più o meno perfetto , e i nostri giudizj iu opera d' arte
sono più o meno retti. Ora la verità è propriamente questo esemplare iu
quanto contiene tutta la perfezione delle cose; e quindi s' intende la defi
nizione che della verità dava il celebre medico di Bochara : « La verità di
•> una cosa è la proprietà dell' esser suo che è stabilito a quella cosa »
( Metaphys. L. XI , c. 11 ).
(1) San Tommaso perciò osserva, che la verità è, propriamente parlando,
nelT intelletto; e meuo propriamente si dice esser ella nelle cose , cioè a
quel modo che dicesi esser sana una medicina , sebbene la sanità non sia
propriamente che nell'animale (Ved. De Veril. Q.I, art. iv). E la dottrina
da me esposta , come è confirmata dall' osservazione che vengo or di re
care di s. Tommaso, così era prima da s. Agostino manifestamente inse
gnata. Noi abbiamo veduto, che l'essenza della cosa è ciò che da noi si
pensa nell' idea della cosa (Voi. II, face. 217): or s. Agostino insegna, che
1' essenza della cosa è appunto la verità delia cosa : ( Veritas ) cosi egli ,
non est proprium essenliae: quia si sic, qua ratione dicitur: veritas est
proprietas essentiae, pesset dici e converso, CUM OMNINO IDEM SINT
{ Solil. L. II, c. v ).
(2) Diminutae sunt veritales a filiis Itornirum. Ps. xi.
(3) Par. III.
U'/Ved. Sez. Y, P. V, c. I, art. v, ? i-4<

si conoscono positivamente e pienamente le cose; ma
rispetto a noi si può dire che sono tante quante le idee
più compite che di ciascuna cosa aver possiamo (i). E
perciò si suol dire, che ogni cosa ha la verità sua nella
sua specie: e i maestri insegnano, che «di più veri, più
« sono le verità, ma di una cosa sola, una sola è la ve-
« rilà » (a) : e medesimamente hassi a dire, che tutte le
cose individuali appartenenti ad una specie hanno una
verità sola, perchè, come dicevamo, hanno un esem
plare solo , un' idea sola che perfettamente le rappre
senta , cioè le fa conoscere (3).

§ 6.
In che significato prendasi il nome di verità, quando si usa in singolare
ed in modo assoluto.
Ora tutte queste sono verità speciali , o generiche (4),
ciascuna delle quali si riferisce alla classe di cose che
ella stessa colla sua unità determina e forma (5).

(i) L' esemplare perfetto delle cose per sè non è che Y idea specifica
compila ed assoluta. Ma questo esemplare ( archetipo ) noi non lo pos
siamo avere. Dobbiamo dunque usare per esemplare o regola, secondo coi
giudicare della verità delle cose e proposizioni , quella idea o specifica o
generica che la migliore abbiamo nella meule. Che se noi nou abbiamo
che semplicemente un' idea generica negativa, colla quale pensiamo solo
un' essenza nominale, forz' è che con questa sola, non avendone altra
migliore, giudichiamo delle cose a lei relative. Per altro tutte queste
idee nostre imperfette sono però sempre vere, cioè sono una parte della
idea perfettissima , verità o supremo esemplare e regola delle cose,
come abbiamo detto nel Voi. II, face. 317 e segg.
(a) S. Torara. De ferii. Q. I, iv.
(3) Voi. II, face. 86 e segg.
(4) Per sè, le verità delle cose sono sempre speciali; ma rispetto a noi,
quando non abbiamo della cosa che un' idea generica, questa per noi litui
il luogo di verità; è l'esemplare secondo cui giudichiamo^ perché nonne
abbiamo altri migliori.
(5) L'espressione, « verità di uua cosa », riceve tre significati, e con
viene ben distinguerli. Può voler dire l'idea esemplare della cosa, e que
sto è il senso proprio e più naturale di quella frase. Ma può voler dire
ancora « la verità che in una cosa si contiene »; nel qua! caso, « venia
di una cosa» è perfctlameute equivalente a « cosa vera «•: cioè esprime Li
convenienza o corrispondenza perfetta che ha la posa col suo esemplare, coli»
sua idea, colla sua verità in una parola. Finalmente se quella cosa vera
è o si considera come esemplare, in tal caso 1' espressione - la verità >"
questa cosa», risponde nè più nè manco a quesl' altra: «questa venta1*-
Così in questo passo del Boccaccio : « Niuu però alla verità del fatto pcf"
« venne - ( Gioru. vi»» f- 4)> >' (Mo si prende per l'esemplare, la venta
slessa, e viene a dire: Niuuo pervenne a scoprire, a tonoàccie queiU K'
rilà, cioè questo fallo.
Ma nel comune discorso oltracciò si usa il vocabolo
verità in tin senso assoluto, ed allora non mai altro
che in singolare ; nel quale significato gli scettici stessi .
dicono : « la verità non si può conoscere , o non è » ,
o con altra simil maniera la pronunciano. Ora qual
significato al vocabolo usato in simil modo hanno ag
giunto gli uomini ?
L'idea specifica è un esemplare degli esseri, ma ri
stretto ad una classe di esseri eh' essa a noi rappre
senta o sia fa conoscere.
Ora gl5 individui d' una stessa specie hanno un dato
modo e grado di essere , il quale li limita e specifica.
Tutti però , di qualunque specie sieno , hanno qualche
cosa in che sono uguali fra loro, e questo è 1 essere
stesso ( prescindendo dai gradi e modi ) , perciocché
tutti sono. L' idea dell' essere dunque è quella , che
tutti gli esseri di qualsiasi specie rappresenta: colla
quale tutti si conoscono: quella idea a cui si riducono
tutte le specie, sicché chiamar si potrebbe la specie
delle specie (i).
Se dunque ogni specie di cose ha il suo esemplare
peculiare, o sia la sua verità nell'idea specifica; oltre
a questo non di meno avvi un' idea più elevata , la
quale è 1' esemplare e perciò la verità di tutte le specie
possibili , e questa è l' idea dell' essere puro , e perciò
V idea dell' essere è la verità di tutte le cose.
L>' idea dell'essere adunque acquista , come altrove
io dissi , il nome di verità, ove quest' idea si consideri
nel rispetto di esser l' esemplare delle cose, ove si con
sideri insomma in relazione colle cose in quanto esse
sono da noi conoscibili.
La verità adunque unica , universale , assoluta , colla
quale si conoscono tutte le cose, è l'idea dell'essere;
perciocché 1' idea dell' essere è l' esemplare universale ,
che esprime ciò in che tutte le cose sono uguali.
Considerò in questo senso assoluto s. Agostino la ve-

(i) Il pensiero dell' essere può trovarsi in due modi: o imperfetto, nel
qual caso non si ba dell'essere che una semplice nozione, e questo è il
modo onde l'abbiamo in noi congenito; ovvero perfetto, nel qual caso si
conoscerebbero anche tutte le proprietà conseguenti alla nozione dell' essere,
c così noi non l'abbiamo. Ma a questa distinzione darà maggior chiarezza
la Sezione VII.
72
rità, allorché la definì « ciò che dimostra 1 essere ■ ;
il che è quanto dire, Videa dell'essere, perciocché è
l'idea che ci fa conoscere e ci dimostra ciò che è:
Veritas est qua ostenditur id quoti est (i). Torna al
medesimo la definizione di s. Ilario, che « è l'essere in
« quanto è dichiarativo o manifestativo», cioè l'essere con
siderato come quello che ci dichiara e manifesta le cose-,
il che è 1' essere da noi percepito, l'essere in quanto è
nella nostra mente, in una parola, Videa dell'essere:
Verwn est declarativum , aut manifestativum esse (a).
E quando s. Anselmo disse, che, « come il tempo sta
« a tutte le cose temporali , così sta la verità a tutte
u le cose vere » (3) , egli favellò di questa verità unica
ed assoluta, di quella « luce incorporea, nella quale ,
« come dice s. Agostino , la mente tutte le cose che
« ella conosce risguarda » (4).

ARTICOLO III.

CHE IDE* DELL' ENTE SU LA VEKIT*', SI FROVA Co' FÌSSI DI S. DONAVi-NTl I*


E DI S. TOMMASO.

È per la partecipazione della verità, che noi cono


sciamo. Basterà dunque di cercare che sia quel mezzo
ove le cose noi conosciamo, e sarà trovato che sia la
verità.
Ecco la dottrina di s. Bonaventura a questo propo
sito. « L' operazione della intellettiva virtù è nella per-
« cezione che fa l'intelletto de' termini, delle propo-
« sizioni, e delle illazioni. Ora l'intelletto capisce il
« significato de' termini, quando comprende che cosa sia
« ciascuna cosa mediante la sua definizione. Ma la de-
« finizione ha questo di proprio, di doversi ella fare
« mediante nozioni più alte, e queste per più alte an-
« cora , fino a che si perviene alle supreme e genera-
« lissime , ignorate le quali , non si possono intendere
« definitivamente le inferiori. Il perchè se non si co-
« nosce che sia 1' ente per sé, non si può a pieno sa-
i
(i) De vera Rei. c. xxxvi.
(a) Lib. V de Trinit.
(3) Lib. De Verit. c. xiv.
(4) Oc Trinit. XII, C. xv.
73
« pere la definizione di nessurfa speciale sostanza » (i).
Secondo questo grand' uomo adunque, ogni cognizione
si risolve finalmente nella cognizione dell' ente per
sè : ed è per la notizia di questo , chè conosciamo
tutto il resto: il mezzo dunque onde noi conosciam le
cose, è l'idea dell'ente: dunque l'idea dell'ente è la
verità.
Udiamo 1' altro chiarissimo lume del cielo italiano ,
e della cattolica Chiesa , s. Tommaso. Ecco le sue
parole :
a Come nelle oose dimostrabili conviene ridursi final-
« mente in alcuni principj noti all' intelletto per sè ,
■ così pure far si conviene nel cercare la quiddità delle
« cose ; altramente andrebbesi all' infinito , e così perì-
« rebbe al tutto la scienza e la cognizioh delle cose.
« Ora ciò che l' intelletto concepisce per primo come
« notissimo, e nel quale egli risolve tutte le sue con-
« cezioni, è l' ente — (a). È dunque necessario che tutté
« l'altre cognizioni dell'intelletto si ricevano da un' addi-
« zione che si fa all' ente. Ma all' ente non può aggiun
ti geni nulla quasi fosse natura a lui straniera, siccome si
x suole aggiungere là differenza al genere, o l'accidente al
k soggetto: conciossiachè qualsiasi natura essenzialmente
u è ente — (3). Ma dicesi aggiungersi sopra l'ente alcune
u cose , in quanto che queste esprimono un modo del-
« 1' ente, che nel nome di ente non viene espresso. —

(i) Operatio autem virtutis inteìlcctivae est in percepitone intellectus tcr-


minorum , propositionum et illationum. Capit autem intellectus terminortim
significata , cum comprehendit quid est iinumquodque per definitionem. Sed
definitio habet fieri per superiora , et Ma per superiora definiri habent, usque-
quo veniatur ad suprema et gcneralissima , quibus ignoratisi non possimi in-
telligi definitive inferiora. Nisi igilur cognoscàtur quid est ENS per se, non
potest piene sciri definitio alicujus specialis substantiae. Itiner. mentis ili
Deum, Cap. III.
(i) Io stimo giovevole di accumulare delle gravi autorità all' uopo nostro,
perchè si vegga che questo vero importante e capitale della filosofia fu ve
duto e riconosciuto generalmente dagli uomini più acuti e perspicaci che
furono. Perciò stesso uon mancherò di notare, che in Avicenna si trova
la medesima osservazione; e il luogo di questo grand' uomo, che si ac
cenna qui da s. Tommaso a conferma della sentenza , è nella sua Metafi
sica L. I, e. ix.
(3) Ciò che non è ente, è nulla, e perciò non può essere per sè oggetto
di cognizione. Ogni cognizione dunque non ha inai altro per oggetto , che
l' ente.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. HI. io
u Ora la convenienza che ha l' ente all' intelletto si
« esprime con questo nome (i) di vero (3).
Ed ecco com' egli seguita dimostrando che la verità
è la causa della cognizione. « Ogni - cognizione , egli
« dice, si compie per un assimilamento (3) del cono-
« scente (4) alla cosa cognita , sicché quesl' assimila-
« menlo fu detto causa della cognizione. — La prima
« comparazione adunque dell' ente all' intelletto è que-
« sta, che Tenie ali intelletto corrisponda: la quale
« corrispondenza dicesi equazione della cosa e dell'in-
« telletlo (5) : e in questo si compie formalmente il

(1) La voce vero esprime propriamente la cosa vera, e perciò la conve


nienza dell'ente sussistente individuale all'intelletto-, all'incontro la parola
verità è l'ente ideale , Y idea dell' ente.
(2) Sicul in demonslrabilibus oporteifieri reduclionem in aliqua principiala
se intellecUd nata, ita investigando quid est unumquodque; alias utrobiqut
in infinitum iretur , et sic perirei omnino scientia , et cognilio rerum, llìid
autem quod PRIMO intelleclus concipit quasi NOT1SSIMUM, et in quo
omnes conceptioncs resol\>it, est ENS. — Vnde oporlet quod omnes aliai
concepìiones intelleclus accipiantur ex addiItone ad ens. Sed enti non potai
addi aliquid quasi extranea natura, per modum quo differentia additar fiac
ri, vel accidens subjecto: quia QUjELIBET NATURA ESSENTlALlTEi
EST ENS : — sed secundum hoc aliqua diatntur addere supra ens,»
quantum exprimunt ipsius MODUM , qui nomine ipsius entis non exprimi-
tur Convenientiam vero entis ad intellcctum exprimit hoc nomea VERUM
De Verit. Q. I, art. i.
(3) In fatti Y idea dell' essere esprime, e rappresenta a noi, o sia fa co
noscere ciò che è in ogni essere sussistente : c è dunque una simigliane
fra l'essere in quanto sussiste, e Y essere in quant* è ideale; e la simigliami
sta in questo, che l'uno è Y essere possibile , l'altro è quell'essere stesso,
ma in atto. Quindi trae l'origine la celebre distinzione fatta da tutta l'an
tichità fra la potenza e l' allo. Questo è certo misterioso e recondito; mi
si dee per questo negare? è un fatto riconosciuto da tutti i tempi, da tulle
le plebi, da tutte le scuole. Conviene adunque partir da lui come da un
fatto primitivo; eziandiochè ci paja singolarissimo e oscuro, non è meno
un fatto, e quindi un vero indubitabile. Un falso metodo di filosofia , una
ignoranza baldanzosa , una superba modestia può bensì disconoscerlo a suo
proprio danno, ma non impedire ch'egli sia.
(4) Del conoscente , cioè dell' idea che è nel conoscente. Ma quesl' iàu
esscudo collo spirito umano congiunta intimamente e formalmente, si attn-
buisce allo spinto ciò che appartiene all'idea; indi quella sentenza di Ari
stotele, che « l'anima è in certo modo tutte le cose» ( L. Ili de J>-
texUxxxYii). L'incertezza di questa sentenza si appalesa con quella ma
niera che racchiude: in certo modo: la quale accusa una certa titubanti
nel concetto. Riducendo quella sentenza a parole più proprie e chiare,
così suonerebbe : - L'idea dell'essere innata nel!' anima, e che formalina
parte essenziale dell'anima intelligente, è, o anzi diviene tutte cose nei
loro stato di possibilità ».
(5) Cioè coli' idea della cosa, la quale è neh" intelletto.
u concito del vero (i). Sicché ciò che aggiunga il si-
« gnificato del vocabolo vero, sopra il significato del
u vocabolo ente , è questa conformità , o equazione della
« cosa e dell' intelletto; e a questa conformità segue,
« come si diceva , la cognizion della cosa. Laonde l'en-
« tità della cosa (P essere in quanto esiste in sè ) pre-
ai cede il concetto della verità; ma la cognizione (a)
« È UN EFFETTO DELLA. VERITÀ' » (3).

ARTICOLO IV.
MUOVI DIMOSTRAZIONE, CHE L* IDEA DELl'eMTE È LA VLKITA'.

§ I.
La varietà delle espressioni moltiplicano apparentemente le specie
dello scetticismo.

Quando un concetto si presenta vestito di una nuova


espressione , egli si toglie facilmente per un nuovo con
cetto.
Quindi avvenne , che gli scettici sembrassero opporre
alla verità un gran numero di obbiezioni , e eh' essi
medesimi si partissero in molte sette ; mentre, sottil
mente esaminando e ricercando il concetto reale dello
scetticismo , vedesi essere un solo veramente , ed una
sola la scettica filosofia , coni' è una la verità che com
batte , o anzi che crede e dice di combattere.

(1) U rapporto di un essere sussistente coli' idea, in quanto questa idea è


in noi ricevuta od occasionata da quell'estert!, è ciò che forma il vero,
cioè fa che quell'oggetto sia vero. Ma Videa stessa, in quanto è specifica e
perfetta, cousiderula in relazione cogli enti che ad essa si riferiscono, è la
Toro verità.
(2) Le cose in quanto sono vere, cioè in quanto hanno una corrispon
denza M'idea esemplare ( nel Creatore) onde provennero, porgono a noi
la cognizione di sè. Ma noi non potremmo conoscer tuttavia le cose, seb-
ben vere, ove non fossero vere rispetto a noi, cioè ove non fosse in noi
una idea esemplare che ce le facesse conoscere, una verità, la quale è l'i
dea innata dell' essere.
(5) O/nnis aidem cognitio perfidiar per assimilationem cognoseentis ad
rem cognitam, ita quod assimilatio dieta est causa eognilionis. — Pi-ima ergo
comparalio enlis ad intellectum est ut ens intelleetui correspondeat : ijuae
,/uutem correspondentia , eulaequatio rei et inlellectus dieilur: et in hoc
fiormaliler ratio veri peiftcilur. Hoc est ergo quod addii verum supra ens ,
scilicel conjormilalem , sive adaequationem rei et inlellectus ; ad quam con-
formilalem , ut dicium est, sequitw cognitio rei. Sic ergo entitas rei praece-
dil ralionem vcritatis; sed COGNITIO EST QUIDAM FERITATIS
EFFECTUS {De ferit. I, i ).
•jG
Il perchè , a combattere questo errore , o anzi que
sto traviamento di mente, questo tristo gioco della im
maginativa, conviene cavare il concetto dello scetticismo
fuori de' suoi involucri, e additarlo spoglio delle sue
vesti , riducendolo alla sua ultima espressione.

5 a-
Forme apparenti dello scetticismo.

Lo scetticismo è apparito sotto quattro forme princi


pali, che sono le seguenti.
Prima forma. Alcuni scettici hanno detto che la ve
rità non esiste.
Seconda forma. Alcuni si sono limitati a dire che la
verità non si può conoscere.
Terza forma. Alcuni , che non si conosce se non una
verità relativa a noi , una verità soggettiva.
Quarta forma. Finalmente alcuni , senza nulla asse
rire, hanno detto d'esser dubbiosi su tutte le cose, e
anche sopra questo, se alcuna verità esista..

§ 3.
Lo scetticismo non può avere che una sola forma reale in qualche modo.

La terza delle forme sopraddescritte dello scetticismo


non conserva che una verità soggettiva.
Ora la verità soggettiva non è verità : questo è un
abuso della parola j e 1' abuso di una parola non può
caratterizzare un sistema.
Quelli che accordano la cognizione di una verità sog'
gettiva, non hanno accordato la cognizione di alcuna
verità. Forz' è dunque che il terzo sistema ai riduca e
rientri in uno de' due primi, dal quale solamente in
apparenza e per abuso di vocaboli partire s'è voluto:
cioè fa d' uopo che o stia contento di negare all'uomo
la cognizione della verità , e in tal caso cade nel se
condo, ovvero s'innoltri a negare altresì l' esistenza
della verità, e in tal caso s' identifica col primo (i).

(l) li» verità, soggettiva d.e' moderni critici è il rionovellamenlo del si


stema clic neil' antichità avea messo innanzi Protagora. Ècco come Sesto
Empirico espone 'la dottrina di- quel solista. « L' uomo è la misura di tutte
Ma il primo ed il secondo sistema pure non differi
scono fra di loro nella cosa , ma nell' espressione.

« cose. Protagora fa dell'uomo (del soggetto) il criterio secondo il quale


« si faccia stima della realità degli esseri in quanto esistono, e del nulla in
« quanto non esiste. Protagora non ammette dunque che ciò che si mo
ie stra agli occhi di ciascuno. Tale è al parer suo il principio generale delle
« cognizioni » (Pyrrhon. Hypotip. c. zxxn). Or si può egli credere che
Protagora ammettesse una verità soggettiva, o relativa come la chiama
Sesto ( Advers. Logic, vii), di buona fede? cioè, si può egli credere che
veramente ignorasse , che verità relativa non è altramente verità ? ovvero
non bassi anzi ragione di sospettare eh' egli adoperasse il nome di verità re
lativa per non urtare di fronte il senso comune, facendo credere al monde»
eh' egli salvasse la verità , nel tempo stesso eh/ egli intendeva pur di ne
garla e di distruggerla veramente ? Questa mancanza di franchezza è il ca
rattere de' sofisti di tutti i tempi : questa subdolosità , questi equivoci di
parole, questo voler pure insinuare dottrine che temon la luce, dando a
credere di pensar essi Ulti' altro, è il solito mal gioco di questo scolo di
perturbatori , anzi di uccisori delle intelligenze. Rispetto a Protagora , non
e temerario il crederlo: la sua mala fede è attestata dall'antichità tutta;
e a noi basterà di recare qui il testimonio di Socrate, che nel Teetefo di
Platone nel seguente modo la manifesta. Dopo avere egli esposta la dottrina
della verità relativa di Protagora, conforme appunto con quella che sta nel
passo di Sesto sopra riferito, egli soggiunge , clic in quella forma egli
presentava quella sua filosofia al popolo, ma che co' suoi discepoli si
apriva più francamente, e negava a dirittura l'esistenza della verità.
« Socrate. Per le Graziet non è egli Protagora savi» al sommo ? Questo
<■ vero che a noi , gente semplice della plebe , indicò in modi oscuri , egli
" l' ha poi rivelato manifestamente a' discepoli suoi.
- Teeteto. Come , o Socrate ? e che di tu ?
« Socrate. Mi ti vo' spiegare ; ché non è questo punto a sprezzarsi. Egli
« ha voluto dire , che non v' ha in sé niente di vero, niente di reale. Ciò
« che tu di' grande, potrebb' esser piccolo ; ciò che tu di' sozzo , potrebbe
■ parer leggiadro; e cosi del resto; poiché non v* ha nulla che sia uno ,
" che sia qualche cosa , che abbia una qualità detcrminata. Ciò che noi
■ diciamo esistere., per un falso modo di favellare, non é che una cotal
« mistura che s' avvicenda, un mutar continuo : nulla esiste ; tutto si fa , e
« cangia senza posa ».
In questo passo si vede, i.° che il vero e schietto pensiero di Protagora
era quello di tor via ogni verità; a.0 eh' egli, non osando però di manife
stare questo suo intendimento al pubblico, non se n'apriva chiaro se non
co* discepoli suoi; 3.° che al pubblico dava ad intendere ch'egli conser
vava la verità , solamente dichiarandola per l' uomo relativa , o sia sog
gettiva : nelle quali parole tutti non intendeano contenersi la proscrizione
assoluta della verità; 4° finalmente che Protagora era venuto in questa
errore dall' aver solamente osservato la cognizione sensibile, nella quale ci
ha molto di soggettivo, cioè dipendente dalla natura e stato del soggetto,
come noi medesimi abbiamo mostrato nel Voi. II, face. 371 e segg. Egli
non s' era sollevato pertanto alla cognizione intellettiva e formale, non l' a-
vea osservata, non n' avea penetrata la natura oggettiva ed assoluta : ma
senza conoscerla, la ravvolse nella proscrizione del sapere sensibile. In tal
modo il sofisma di Protagora si riduce a quello «* di aver couchiuso del
tutto del sapere umano ciò che non vale se non per la parte », formola a
eui noi abbiamo ridotto l'error degli scettici, a face. 29 e segg. di questo
yplurae.
78
Poiché se io dico di non conoscere menomamente la
verità, io non posso nè pure affermare che esista, non
conoscendo nulla di lei: quindi il secondo sistema si
riduce a lasciare in dubbio l'esistenza della verità, e ad
affermar solo eh1 ella non si conosce.
Ora il primo sistema viene anch' egli al medesimo.
Poiché colui che afferma non esistere la verità, afferma
altresì di non conoscerla : ma se non la conosce meno
mamente, non può nè pure negarla: il suo sistema
dunque dee pure ridursi ad affermare che la verità non
si conosce, e a lasciare in dubbio s'ella esista.
Questo sistema però, composto di una affermazione
e di un dubbio, era ben facile a confutarsi; concio*-
siachè ha una contraddizion ne' suoi termini. Quindi
nell' antichità troviamo di questo assurdo sistema tal
confutazione , a cui non fu mai possibile di replicai
cosa alcuna, e che vince air istante che si proferisce.
Eccola detta da Lucrezio con de' versi eleganti.

Denique nil sciri si quis putat, id quoque nescit,


An sciri pàssity quum se nil scire fatetur:
Hunc igitur contro, mittam contendere causante
Qui capite ipse suo instituit vestigia retro.
Et tamen hoc quoque uti concedam scire ; at id ipsum
Quaeram, quum in rebus veri nil vìderit ante ,
linde sciai, quid sit scire, et nescire vicissùn ( i ).

(i) L. IV. Quest* ultima ragione die mette Lucrezio è sottile ed ow


vallile molto. Egli viene a dire : Se voi negate la verità , negate ancora •
cognizione. Non solo è per voi un contraddirvi manifesta l' affermare
non conoscere la verità, quando 1' affermare è il presentare una proposi
zione per vera; ma voi vi contraddite altresì col solo nominare vaili t
falsità , sapere c non sapere : poiché se voi conoscete il valore di questi
vocaboli, voi già sapete che sia verità, che sia falsità, che sia saperti
che sia non sapere. Or potreste voi conoscere tutto ciò , quando , seowi»
voi, nè la verità, nè la falsità , nè il sapere, uè il non sapere non si p"«
conoscere? In fatti la verità non è già qualche cosa fuori dell' intelletto ; j
nel!' intelletto. Se dunque nell* intelletto avete qualche cognizione , "»
avete qualche verità. Toglier dunque la verità, è togliere la cognizione :t
togliere la cognizione è togliere la loquela : voi vi rimanete dunque stupii,
e muti pesci interamente: in tal caso non potete contendere più nè per ■
verità nè contro di lei: cessate dall'essere una setta di filosofi, cessate rial-
l'esser uomini, fatti bruti o tronchi: ecco l'unico effetto dello scetticismo
coerente con sè stesso. Interdice allo scettico ogni questione , o§ni parola :
il suo sistema non può operare che su di lui solo: il degradarsi, l'inosl'
{arsi, è un sinonimo del dichiararsi sceltico.
Questa antica confutazione degli scettici è irrepugna
bile: e dovrebbe far meraviglia il vedere che lo scetti
cismo si riproduce di continuo , quando non si sapesse
eh' egli non è una filosofia , ma una malattia, e a dirlo
espressamente , una frenesia , a cui soggiace 1' umanità.
In vero , la formola a cui abbiamo ridotto lo scetti
cismo, « Non si può conoscere la verità » , è tale, che
non si può emendare in alcun modo, ma si dee cas
sare del tutto: con qualunque espressione o modifica
zione si componga , ella è sempre essenzialmente assurda
e pugnante : proviamoci un tratto.
Riducasi a questa celebre espressione: « Nessuna ve
rità si può conoscere, fuori di questa, che la verità non
si può conoscere».
La verità che voi eccettuate è la seguente : « La ve
rità non si può conoscere ». Ma se si può conoscere
una verità, dunque' è falso che assolutamente la verità
non si possa conoscere: la verità dunque che voi ec
cettuate è una proposizione falsa. Perchè la proposizione
che voi eccettuate fosse vera, dovrebbe contenere anche
1* eccezione colla quale sola voi l' affermate vera. Ma se
nella proposizione che voi eccettuate , deve entrare l'ec
cezione stessa , in tal caso noi avremo una formola che
non si può compire giammai, prolungandosi all'infinito,
e sarà la seguente : « Nessuna verità si può conosce
re , eccetto questa : Nessuna verità si può conoscere ,
eccetto questa : Nessuna verità si può conoscere, eccet
to , ecc. » ; e così all' infinito. 11 qual ritornello nes
suno potrebbe alla fine condurlo: e perciò la for
inola dello scetticismo è intrinsecamente impossibile:
perciocché essendo impossibile all'uomo di pronunziarla,
è impossibile altresì di pensarla. Lo scettico adunque è
condannato, in forza del suo sistema, a pronunziare in
tutta la vita sua una formola , la quale non ha alcun
senso fino che non è pronunziata tutta ; e tutta intera
non si può pronunziare giammai, perchè non ha fine.
Lo scettico adunque non giungendo mai ad aver for
mato il suo pensiero, ed essendo sempre in sul formar-
losi, egli è in uno stato, nel quale a lui è reso impos
sibile il pensare ; perciocché non si dice pensare , se
non allora che si compie un pensiero.
Or fu dopo che questa osservazione era già stata
fatta , e con essa era venuto meno 1' antico scetticismo,
8o
che uscì Pirrone , e tentò uno scetticismo più raffinato,
cioè lo scetticismo del dubbio (i).
Disse adunque ch'egli nulla affermava e nulla negava,
dubitava di tutto: così egli credette di evitare la con
traddizione rimproverata agli scettici che furono pri
ma di lui.
E questa del dubbio, è l'unica forma in qualche modo
reale che possa avere lo scetticismo: convicn dunque
che di questa un po' noi ragioniamo.

5 4-
Che cosa esiga lo scetticismo del dubbio per esser coerente.

Il nostro scettico raffinato vuole ad ogni patto evi


tare la contraddizione con sè stesso, che si rinfaccia
agli scettici più grossi , i quali affermano risolutamente
in quel punto che negano la possibilità di qualunque
affermazione. E bene! intende egli dunque , che dee
evitarsi il contraddirsi; perchè per questo egli si lima
l' ingegno , per riuscire ad ammannire lo scetticismo
per modo , eh' esso sia un sistema che non contraddica
a sè stesso intrinsecamente. Almeno il principio di con
traddizione lo riconosce adunque: sottintende dunque
un vero certo nel sistema del dubbio, e fu questo vero
certo che condusse l'autore e il trasse a formar quel
sistema. L' autore adunque del sistema del dubbio Ita
cominciato a contraddirsi allora appunto che ha comin
ciato a formare il suo sistema , poiché egli si mosse a
ciò per questo, eh' egli il volea privo di contraddizione.

(i) Il nome di scettico (da<rxiirT<u) esprime, secondo l'etimologia, uno che


osserva, che cerca, senza conchiudere definitivamente. E considerando che
ciò di cui disputano i filosofi appartiene alla cognizione molto ri/lessa , che
la riflessione è soggetta a turbarsi per infinite cagioni, e che ciò massima
mente dovea avvenire ne' tempi pagani ; non fa alcuna maraviglia , che m
quel tempo nascesse lo scetticismo. Si può dire eh' egli era l' esageratone
di un buon principio, quale è quello di una certa diffidenza, di un giusto
dubbio di sè stesso, di una prudente sospension di giudizio; ciò che in
Socrate si preseula come la forma della stessa saviezza. La ragione pratica
poi di Pirrone, che delibera l'uomo ad agire secondo la necessita e i *>"•
taggi probabili della vita , è pure il disguisamento di un principio retto,
quale è quello che « uoi debbiamo spesso deliberarci ad operare sopra
mere probabilità »; il qual fatto prova la nostra libera attività, e dimostra
l' influenza che ha la volontà nell' assentire praticamente ad una proposi
zione: conciossiachc il seguirla come regola, è un pratico assentire.
« 8i
Ma 'via, questi attorcimenti e nodi, co' quali lo scet
tico raggruppa e siringe sè slesso a morte, sien per ora
de' lacciuoli di seta, che cel tengano in vita e presente.
Dimando io a lui: Dubitate? non volete affermare
che non si conosca la verità, poiché affermando vedete
di contraddirvi ? Badate che terribile dubbio sia il vo
stro! se questo vostro dubbio non dee contenere nes
suna affermazione, ve ne potreste pentire voi medesimo.
E veramente, quando voi dite, « Dubito » ; con questa
parola vof avete già pronunziata un'affermazione, cioè
avete affermato di dubitare. Convien dunque , perchè
dal vostro « Dubito» si escluda ogni affermazione, che voi
dubitiate anche di dubitare. Direte dunque: « Dubito di
dubitare ». Ma vano è questo mezzo; la nuova formola da
voi trovala è pur essa affermativa, cioè con essa affermate
dubitare di dubitare. Convien dunque a voi retrocedere
ancora un passo , e fare che il dubbio vostro cada sullo
stesso dubbio del dubbio, sicché voi siate in dubbio se
dubitavate del dubitar vostro. La formula' ora si allunga
un anello, riducendosi a questa : u Dubito se io dubiti
di dubitare». Ma è ella migliorata? ella ancora affer
ma; se non che , in vece di affermare col primo o col
secondo verbo, il fa col terzo. Vedete voi già, ch'egli
vuol essere un po' difficile a trovare il modo di esclu
dere ogni affermazione dal dubbio vostro? perciocché
se al modo che fu fatto fin qui , si aggiunge un altro
anello alla formola , diverrà: « Dubito se io dubiti di du
bitare che io dubiti»: un po' più scettica, a dir vero,
ma affermativa egualmente: la difficoltà non è espulsa,
ma d1 un solo gradino allontanata. In somma questa dif
ficoltà riman sempre, infino a tanto che noi non po
niamo questo scetticismo in una serie infinita di anelli
dubbiosi; perciocché il primo termine tradisce sempre
affermando. Che è dunque a dire? Che la formola dello
scetticismo non può essere che una serie che non ha
fine; perchè se ella trova il fine, non è più scettica :
ella riesce alla serie di dubitazioni seguente: a Dubito di
dubitare di dubitare di dubitare di dubitare» ecc., al
l'infinito.
Oh! questa sì che non afferma nulla ! perciocché non
potendosi mai arrivare a pronunziarla tutta intera, non
trovandosi mai in essa V ultimo termine ( chè, se si tro-
Rosmim, Orig. delle Idee, Voi. 111. n
82
vasse, avrebbe un fine, contro l'ipotesi ), non si può
mai compire 1' affermazione che col principio della for
inola s'incomincia, e quindi si ha sempre una afferma
zione sospesa, che è quanto dire un pensiero sospeso,
perchè pensare è affermare.
Dalla natura della forinola trovala ognuno vede, che
lo scettico col solo tema della sua dottrina può empire
agevolmente tutti i libri della terra , e quando più non
ce n'ha, -può mettere ancora un eccetera, poiché non
è mai esaurita nò può esaurirsi la sua singolare fecon
dità. E i giovani alunni, i quali nella scuola dello scet
tico entrano, potranno esser certi, che non arriveranno
mai nè pure nel corso di tutta la loro vita a sentir
recitare compitamente il puro titolo della sublime filo
sofìa che d' apprendere hanno vaghezza (i).

(i) La verità soggettiva di Protagora e di Kant ammette lo stesso ragio


namento: poiché nel sistema della verità soggettiva il dubbio è essenziale.
Voi dite che l' uomo non può saper niente delle cose come sono in sè, non
conosce clic delle soggettive apparenze. E bene; ma questa vostra dot
trina è ella soggettiva, o vera in sè stessa? Soggettiva, se voi volete essere
coerente con voi medesimo. La dottrina adunque della verità soggettiva io
non so più se sia reale , ma mi par tale soggettivamente. Dirò dunque eie
è soggettiva la dottrina della soggettiva verità? Non basterebbe , ma dovrei
dire che io non pronunzio esser soggettiva la dottrina della soggettiva ve
rità, se non con un giudizio ch'egli stesso è soggettivo. Or poi, ond'io
ancora so che questo giudizio è soggettivo ? Il so io con una verità asso
luta ? No in vero, ma con una soggettiva, se altra verità non esiste per me.
Vedete voi dove riesciamo con questo sistema ? Egli è pur facile accor
gersi, che cou esso uoi siamo sempre a capo; che 1 entrare in questa filo-
soda, è l'entrare come direbbesi nell' uu via uno, è un ritornello perpetuo
che mai non cessa. Applichiamo questo discorso generale a qualche pro
posizione particolare del criticismo. La filosofìa critica ammette delle forme
soggettive, che rendono tutto il sapere umano soggettivo. Ma con quale
argomento prova essa l'esistenza di tali forme? Non può con altro, che col
principio di causa: vede che la cognizione umana si dispone sempre entro
poche classi supreme; dunque, conchiude, a produr quell'effetto vi deb
bono avere nel nostro spirito altrettante cause che determinino in questo
modo la nostra cognizione: queste cause io le chiamo/òrme. Egregiamente.
Ma che valore ha egli di grazia il principio di causa nella filosofia criticai
Nou altro che soggettivo: egli stesso è una forma dell' intelletto. Kaot
adunque conchiuse, che v'hanno delle forme nello spirito, che rendono la
eognizion soggettiva ; fabbricando tutto questo ragionamento sopra una ap
punto di esse forine soggettive, e quindi presupponendole. Egli entra dun
que in un circolo interminabile. Egli deduce i fonti della soggettività delle
cognizioni, cioè le forme, da uuo appunto de' fonti della soggettivila me
desima, cioè da' una forma : prova le forme colle forme presupposte. Q'|a'-
che cosa di simile a questo fu obbiettato a Kaut in Gcruiauia dall' elegante
autore dell* Enesidcmo.
83
Quanto a me, pare, che se un qualche divo discen
desse a visitar la terra, e come di tutte l'altre azioni
umane, così gli prendesse vaghezza di giudicare altresì
delle varie scuole di filosofia , e a tal fine un gran
consesso adunato avesse, dove tutti comparissero i di
versi filosofi, potrebbe incontrare per avventura agli
scettici uno stranissimo avvenimento. Perciocché essendo
ben verisimile, che la prima dimanda che farebbe quel
divo ( per giudicarli convenevolmente sulle loro parole ),
sarebbe quella: «Che cosa professate voi»? e avendo
egli autorità e potenza d'esigere, come è ragionevole,
che gli fosse da tutti 1' un dopo P altro schiettamente
e pienamente risposto; penso, che sentiti i placiti di
tutte l'altre scuole, e rettamente giudicati, cioè o as
soluti , o secondo il lor merito condannati, ultimamente
a sentire e giudicar gli scettici si rivolgesse: e detto loro
1' autorevole : « Che professate » ? ciascuno di quelli co
minciasse a proferire la vera ed unica formola del loro
sistema, non potuta ivi infinger da essi o nascondere,
incominciando: « Dubito di dubitare ....»; nè potendo
mai finirla, nè essendo loro permesso, per forza superiore,
di abbreviarla con uno eccetera , volendo il divo pur
sapere dalla lor bocca la dottrina loro intera e spiccata,
quelli avesser dovuto continuare a recitarla correndo
giù rompicollo per quella serie infinita di dubilari , in-
tantochè il divo, ciò udendo, levatosi da sedere, e sic
come pazzi schernitili , ivi lasciasseli a perorare con
tutta la gente, venuta allo strano consesso per curiosità,
e sganasciantesi dalle risa; in fino che ciascuno se ne
andasse a casa, ancor ridendo, pe' fatti suoi : e gli scet
tici pure se n'andassero dopo tutti gli altri, ma in
loro pena seguitando a pronunziare quel tema di loro
filosofia , senza potersi ristare da ciò più mai, condan
nati a dovere in perpetuo in quel loro nuovo modo
filosofare : e così fosser campali per buona ventura dal
maggior castigo, che altramente avrebbero da quel divo
immancabilmente ricevuto.

§ 5.
Lo scetticismo e l' impossibilità del pensare.
Condotto dunque lo scetticismo all' ultima sua espres
sione , alla quale egli dee necessariamente venire se non
84
vuol prima darsi vinto coli affermare la verità, esso
rende impossibile il pensare (i).
Imperciocché lo scettico non ammette altri pensieri
che uno, e questo non si può ridurre giammai al suo
alto.

§ 6.
L' idea dell' ente , e la rerità secondo la quale noi giudichiamo delle rose,
sono il medetimo.

Poste pertanto le cose dimostrate fin qui, ecco ond'io


deduco e stringo questa dimostrazione.
Io ho prima trattato dell1 idea deW essere (2) , poscia
della verità separatamente (3) 5 e il ragionamento partito
dall' uno e dall'altro di questi due capi, riuscì nella
slesso punto precisamente , sebbene per vie apparente-
metile tutte diverse.
Ragionando dell' idea deW essere , ciò che mi risultò
si fu questo, ch'essa costituisce la possibilità del psn-
sare (4) ; e quindi che quegli sceltici che hanno negato
1' essere, hanno reso il pensare impossibile, e si sono
contraddetti seco medesimi pur col primo pensiero che
di dar presumevano.
Ragionando della verità, io trovai che gli scettici che
la negano non si riducono finalmente ad altro che a
questo medesimo risultato , cioè a rendere impossibile
il pensare (5).
Negare adunque la verità , è rendere impossibile il
pensare: rendere impossibile il pensare, è negare Videa
dell' essere: dunque l'idea dell'essere è la verità. E
questo è quello che nel presente articolo io mi era pro
posto da dimostrare.

(1) Quindi la sentenza di s. Tommaso, che è impossibile all'uomo pro


sare che la verità non sia : Nuìlus polcst cogitare veritatem non esse ( ik
feri/. Q. X, art. m). Perciocché é una contraddizione il pensare, e i
negare insieme la verità : il ripeto , pensare è affermare. Un vero scelti"
adunque non può esistere : e quelli che si spacciano per scettici , menti-
scono, come più sotto manifestamente si vedrà.
(a) Cap. I.
(3) Cap. II.
(4) Face. 47 e segg.
(5) J preced.
85
CAPITOLO III.

dell'applicazione possibile (i) dell'idea, dell'essere.

ARTICOLO I.
L* APPLICAZIONE dell' idea dell' ESSERE GEMEI* I quattro numi principi
DEL RAGIONAMENTO.

L' idea dell' essere col primo applicarsi alle cose si


cangia in principio della cognizion delle cose (2).
Il diverso aspetto sotto il quale si considera questa
applicazione, e la diversità dell' applicazione stessa fa
sì, che l'idea dell' essere,., unica com'è, prenda l'espres
sione di più principi , e così in certo modo sembri
moltiplicarsi (3).
I quattro primi principj son quelli che io ho dedotti
già dall'idea dell'essere nella Sezione precedente, cioè
1.* principio di cognizione , a.* principio di contraddi
zione, 3.° principio di sostanza, e principio di causa,,
Tutti questi principj dimostrai che non sono mai al
tro se non l'idea dell'ente applicata.
Quindi la giustificazione data per 1' idea dell' ente
vale anche per questi principj, e la certezza di quella
è la certezza di questi (4).

ARTICOLO II.
WtlNCIPIO GENERALE DELL* APPLICAZIONE DELL* IDEA DELL* ESSERE CONSIDERATA
KZL SUO VALORE REALE ED OGGETTIVO RISPETTO ALLE COSE PUOR DELLA MENTE,

Ciò che abbiamo detto fin qui, racchiude già il prin


cipio che accenno nel titolo di questo articolo: e ciò
che son per dire non è cosa nuova, ma una espressione

(1) Badisi, che in questo Capitolo non trattasi ancora dell'applicazione


dell'idea dell'essere alle cose esteriori, ma trattasi solo di spiegare la pos-
Milita di questa applicazione; trattasi deli' applicazione possibile, e non
dell'attuale.
(») Vedi Sez. V, P. III.
(5) Voi. II, face. i4a e scg.
(i) San Tommaso in qualche luogo notò, che fra i primi principj e l'es
sere passava una strettissima unione. Talora dice , che l' intelletto non può
(fagliare circa i primi principj, appunto perché non può shagliarc circa 1' es
sere delle cose : InUllcctus sempcr est rectus, tali sono le sue parole, secun-
dum quod intellectus est principiorum , circa quae non decipilur EX EA-
DEM CAUSA, <pia non decipilur circa quod quid est (cioè la quiddità,
l'essere delle cose) {S, I, ZVU , III, ad 2).
86
più chiara ed esplicita di quanto ho detto. la vero,
quando io ho mostrato che P idea dell1 essere è ogget
tiva, allora ho ancora provata la sua forza di conchiu
dere con certezza rispetto alle cose fuor della mente,
ed in sè considerate: efficacia che negò Kant , e seguaci
suoi , alla umana intelligenza.
Certo, questo filosofo non osservò il principio, onde
l'applicazione dell'idea dell'essere si fa valida anche
alle cose non apparenti a' sensi , ma in sè stesse pura
mente considerate.
Questo principio è il seguente : « Ciò che concliiude
il mio interno ragionamento sulle cose esteriori, con
una necessaria illazione dee esser vero rispetto alle
cose stesse, perchè se non fosse vero, non potrebbe
esistere il mio interno ragionamento ».
Cioè a dire: il mio interno ragionamento esiste, ed
ha un1 intrinseca necessità : il che lo stesso Kant ci
concede. Ma questa intrinseca necessità, die' egli, è
tutta ideale ; non può dunque applicarsi alle cose per se
spectatas. Rispondo: supponendo che non avesse forzi
alcuna relativamente alle cose per sè considerate , egli
non potrebbe esser necessario nè pure nel semplice or
dine delle idee.
Noi dunque siamo certi delle cose esterne , perchè
questa certezza delle cose esterne è una condizione ne
cessaria della certezza che noi abbiamo delle cose interne.
L'ordine interno ideale è necessario per sua natura; è
impossibile il dubitarne : l' ordine esterno e reale è con
dizione senza la quale quell' ordine ideale non potrebbe
essere: dunque mediante la certezza necessaria che ab
biamo nell' ordine ideale , noi siamo pur certi di ciò
che percepiamo nell' ordine delle cose reali.
Questo nasce dall' essere la cognizione essenzialmente
oggettiva, come noi prima dicevamo. Che vuol dire,
ancora dimanderò io, oggettiva? Vuol dire cognizione che
termina in un oggetto, che non finisce in sè stessa, ma
in un essere diverso dui soggetto della cognizione. E
dunque essenziale alla cognizione, essendo oggettivala
verità di quest' oggetto : non v' hanno due certezze
adunque, 1' una della cognizione, l'altra del suo og
getto: ma l'oggetto e la cognizione formano una cosa
sola, della (piale la certezza è 1' attributo. Il dire adun
que , La coguizioue mia è necessaria, è un dire che
l'oggetto da me per essa conosciuto dee essere così
com' ella necessariamente a me lo presenta , e non può
essere altramente. La intrinseca ed essenziale necessità
che io esperimento nella mia cognizione , è adunque la
certa prova della verità degli oggetti della medesima.
Il principio di cognizione (i) e quello di con traddi
zione (2) suppongono l' essere possibile , e quest' essere
il suppongono siccome un' essenza diversa dall' essenza
del soggetto. L'intrinseca necessità dunque che si sente
ne' due detti principj , vale a conchiudere intorno al
l' essere per sè considerato e diviso dalla cognizione
nostra. Cioè a dire, ciò che la nostra cognizione neces
saria dice, si è questo, che «Tatto onde noi esistiamo,
è diverso al tutto dall' atto onde esiste 1' essere da noi
pensato » : questa cognizione adunque non può essere
necessaria se non nel caso, che sia necessaria altresì
questa distinzione essenziale fra l' essere e noi.
Si dica il medesimo de' due altri principj , di sostanza
e di causa.
Dall' accidente percepito io conchiudo all'esistenza di
una sostanza, da un effetto conchiudo alla reale esi
stenza di una causa. Che questa sostanza sussista real
mente , che sussista realmente questa causa , è conte
nuto nella necessità della mia prima cognizione. Sia
pure che io non ahbia percepita co' sensi la sostanza
uè la causa immediatamente : a me basta di aver per
cepito 1' accidente , e 1' effetto ( o 1' operazione ). Se io
sono certo di ciò che ho percepito , sono certo altresì
di ciò che non ho percepito co' sensi ( della sostanza e
della causa); perchè questo che non ho percepito, è
condizione necessaria della mia cognizione. La verità
adunque e realità delle cose esterne , essendo condizioni
necessarie della cognizione interna , sono tanto assicu
rate, quanto questa stessa interna cognizione; nò si può
ammetter questa senza di quelle. In fatti, se non fosse
vera e reale la sostanza e la causa esterna, sarebbe
falsa la proposizione interna , « Dato l'accidente o l'ef
fetto , dee sussistere la sostanza o la causa ». Ma questa

(1) Egli fu da me esposto in questo modo: « l'oggetto del pensare è


1 «sere » (Voi. II, face. i36 e segg.).
. (a) Egli è il seguente : « l' essere e il non essere non è oggetto del pcn-
Siero » (Ivi).
proposizione è vera e necessaria altrettanto quanto i
principj di contraddizione e di cognizione , e questi
quanto l' idea dell' essere fonte della necessaria certezza.
Se dunque si accorda che questi principj sieno neces
sariamente veri, si dee accordare altresì ch'essi sieno
validi ad essere realmente applicati alle cose diverse
dalla mente per sè medesime riguardate : perciocché
questa seconda concezione non è altra cosa dalla pri
ma , o certo da quella prima è indivisibile.

CAPITOLO IV.

DELLA PERSUASIONE CIRCA L'iDEA DELL' ESSERE O LA VERlTi',


E CIRCA I PRIMI PRINCIPJ
■ DEL RAGIONAMENTO.

ARTICOLO L
OGNI DOMO HA DNA NECESSARIA PERSUASIONE DELLA VERITÀ* E DE* VRLMI HlSCIi)
DEL RAGIONAMENTO.

La certezza è « una persuasione ferma e ragionevole


conforme alla verità » (i).
In questa definizione si contengono due elementi prin
cipali, i.* la verità a.* e la persuasione.
Fin qui ho parlato della verità: parlerò ora della
persuasione.
La persuasione non è tutta soggetta alla volontà
umana: ve n'ha una inserita in noi da natura, che in
noi la inserì con quell' atto stesso col quale c' infuse e
quasi affisse alle anime nostre (2) l'essere o la verità,
secondo cui giudichiam delle cose.

(0 Face. 6.
(a) Già ho detto , che la vista spirituale che noi abbiamo dell' essere è il
fatto primigenio da cui conviene partire. Non convien dunque sofisti»™
sulla singolarità e misteriosità di questo fatto maraviglioso , e tutto di sa?
genere ; non conviene fare il solito argomento, - La natura di questo fono
per me è inesplicabile, dunque il fatto non esiste »; ma conviene, con um
modestia più vera e più ragionevole, dire: « Io non posso negare che
questo fatto esista, ma egli è un mistero per me: io non trovo nulla di simile
a lui nella natura: egli è tale, a cui non si possono applicare le leggi che
regolano gli altri fatti della natura sensibile: ma io non posso tuttavia ne-
farlo ». In vero, questo fatto non si può che analizzare ; e quando B '
ene analizzato, ammirarlo. Ciò che risulta dall' analisi di lui, fatta eoo di
ligenza e senza prevenzioni, si è, che la radice delle cose è nelle idee, noi'
intelligenza: che qucll' essenza slessa che si pensa nell'idea, è pur quo"
che sussiste; salvochè nell'idea ella è possibile, nella sussistenza è '«
8.9
Ora questa persuasione della prima verità non è già
imperata a noi , o strappataci contro volontà ; nè ella

Questa è dottrina grande ed alla dell'antichità. L' antichità insegnava, 1 .° che


l'essenza é ciò che si pensa coli' idea ( Ved. Voi. II, face. 217 ), a.° che la
sussistenza della cosa è l'alto dell' essenza: Oportel — quod ipsum esse com-
paretur ad cssenliam, — sicut (ictus ad potentiam ( San Tomra. S. I, m, iv ).
È dunque, secondo questa dottrina , la medesima essenza ciò che si pensa
nell'idea e ciò che sussiste, salvochè quella è la potenza di questa, questa
l'atto di quella. Quindi s. Tommaso insegna, che « si può dire con pro-
« prietà, che anche 1' ente (non solo il vero, l'idea dell'ente) è tanto nelle
» cose quanto nell' intelletto m, perchè nell'idea si comprende l'ente stesso,
ma solo in potenza. Se dunque si considera 1' ente in potenza , che è nel
l'idea, si può dire che l'essenza sia nelle cose, e nell'intelletto; ina se si
considera tutta insieme l'idea dell'ente, e non questo suo oggetto solo
preciso da lei , si dice più acconciamente che nell' intelletto è la verità an
ziché l'ente, lpsa natura, così il santo Dottore, cui advenil intentici uni-
versalitatis, pula natura hominis, ìiabct DUPLEX ESSE, unum quidem ma
teriale secundum quod est in materia naturali, aliud autem immateriale se-
cundum quod est in intellectu (In lib. II de An. Lect. xn ). E altrove,
ilopo aver detto che la verità propriamente ò uell' intelletto , soggiunge :
Quantvis posset dici, quod etiam e.is est in rebus et in intellectu, sicut et ve
runi : licei verum principahter in intellectu , ens vero principaliler in rebus
(S. I, xvi, 111). Ogni cosa, ogni essenza (finita ) ha dunque due modi, due
slati, secondo questa antica dottrina, l'uno in potenza, l'altro in atto, la
quanto ella è in poteuza, costituisce l' idea, è nell'intelletto, e nella relazione
che ha con sè stessa iu atto si chiama verità, la quanto ella è in atto , e
la cosa sussistente, ha un'esistenza sua propria fuori della mente, e si
chiama più propriamente ente. Di qui trac la sua prima origine la distinzione
fra la potenza e l'fitto, distinzione delle più semplici e necessarie, che de
rivasi dalla stessa originaria natura della cognizione. Quindi ella è poco
spiegabile , perché è immediatamente congiuuta col fatto primigenio del
sapere umano, il quale non riceve innanzi di sè spiegazione. Io non posso
a meno di far qui osservare un acutissimo pensiero di s. Tommaso. In
dagando egli la cagione del materialismo , quale apparve ne' primi filosofi
greci, rit rovella nel non aver essi conosciuto la distinzione fra la potenza e
l'atto. Chi potrebbe mai pensare, che la mancanza di una tale distinzione
dovesse cagionare il materialismo? Quanti superficiali de' nostri tempi vo
gliamo noi credere che sieno disposti a considerare la distinzione fra la
potenza e Y alto, come una distinzione scolastica, inutile, o almeno di nes
suna pràtica importanza 1 All'opposto egli è proprio degli altissimi ingegni,
siccome era quello dell' Aquinate, di scorgere le relazioni delle cose più
lontane fra loro, di assegnare le cause rimolissime di ciò che avviene nelle
umane vicende e nelle menti, di scorgere nel principio di una dottrina
quelle conseguenze ultime nelle quali egli si dee infallibilmente sviluppare,
ma che il comune degli uomini non vede se non allorquando sono già
emanate per 1' opera del tempo, dalle quali conseguenze il principio stesso
viene finalmente giudicato coli' argomento ab absurdn, il più comune che
faccian gli uomini. Con quella sagucità dunque che fa vedere ne' principi
più astratti le conseguenze e gli elicili più pratici , s. Tommaso collocò la
causa del materialismo nella mancanza della distinzione fra la potenza e
l'alto. E in vero, se noi non riflettiamo che solo all'esistenza attuate dello
cose, e non all' esistenza loro potenziale, noi non possiamo mai formarci un
Uosmihi, Orig. delle Idee , Voi. III. ìa
9° .
è cieca ; ma ella viene dalla evidentissima luce della
verità, la quale è così patente, che l'uomo, vista che
1' abbia , da sè la conosce per vera : conciossiachè nulla
ci può essere di più vero, die la verità. Questo conse
gue a ciò che noi abbiamo detto dell1 indole e propria
natura dell1 essere in universale, il quale nulla esige da
noi, ma è come un fatto accordato per sè stesso: esso
è lo stesso assenso nostro , o anzi la stessa intuizione
di lui ( chè non è un distinto assenso, nè ne abbiso
gna); è un fatto solo, semplicissimo.
Ora volete voi una prova , che non è uomo il quale
non sia persuaso per natura de1 primi principj del ra
gionamento? I1 avete nella storia dello scetticismo. Noi
abbiamo veduto, che uno scetticismo che negasse vera
mente i principj del ragionamento, torrebbe via la pos
sibilità del pensiero e del ragionamento. Ora non vi fu
mai scettico che venisse a questo col fatto , cioè che,
lasciando di ragionare , s' istupidisse in un silenzio bru
tale di mente , non che di lingua; ma tutti usarono il
ragionamento a propugnare la loro opinione. Dunque
ammettevano e usavano i primi principj del ragiona
mento , senz' avvedersi essi medesimi : e ciò per natura,
non essendo alti ad esser negati: conciossiachè anche
l'atto col quale si negano, li suppone, ed abbisogna
di essi.

giusto concetto del modo onde le cose esistono nella intelligenza , ma solo
di quel modo onde le cose sussistono nella materia loro. Conciossiachè
¥ atto onde le cose sussistono, è una cosa stessa coli' esistenza loro in si ,
nella loro materia : la potenza all' opposto è un sinonimo coll'esistenia loro
nella mente. Non conoscendo adunque che sola 1' esistenza attuale «!•
cose, la natura della mente resta incognita: non rimangono che le cose
nella loro materia : ecco il materialismo. Sapientemente dunque scrisse cosi
S. Tommaso: Quia antiqui naturale* nesciebant distinguere inter actum d
potentiam, ponebant ammani esse corpus {S. I, lxxv, i,ad a). Una esserci
è in potenza, una essenza è nella mento, sono due espressioni identiche. Io bo
altrove dimostrato, che (essenza in potenza, l'essenza nella mente, fidai,
la verità, tutte frasi che s'identificano fra loro, s'identificano pure eoo
quest'altre maniere: le rappresentazioni, le similitudini delle cose sussistevi-
(Ved. Voi. I, face. 68 e segg., e Voi. II, face. 4j3 e segg.).- Noi ritocche
remo questa osservazione più sodo.
Ora il possesso nostro dell'essenza in potènza, rappresentazione, sW"*
indine ecc., è ciò che forma la cognizione, il lume intellettuale : iu lai raoJo
tutte queste cose ricevono una chiara e patente definizione.
9'
ARTICOLO IL
t PRIMI TMNCiri BEL ItAGIONAMENTO SI CHIAMANO ANCHE CONCEZIONI COMUNI.

Non avendovi adunque uomo che non ammetta per


natura , e non segua i primi principj del ragionamento,
seguita che questi si chiamino altresì concezioni co
muni.
Nel che avvertasi, che sono comuni perchè hanno
un1 intrinseca loro virtù e forza che li rende tostamente
noti e tostamente ricevuti a ciascuno individuo della
specie umana - non hanno già quella loro forza d' in
vincibile persuasione dall' esser comuni.

ARTICOLO III.
CHE COSA SIA IL SENSO COMUNE.

E quindi questi principj formano ciò che si chiama


il senso comune: sotto il qoal vocabolo si racchiudono
ancora tutte quelle conseguenze che dai detti principj
si possono derivare , le quali sieno così prossime ed
ovvie , clie anche la donnicciuola , e l' uom volgare valga
a dedurle da sè medesimo: di che avviene, che anch'es
se , per la somma loro facilità ed evidenza , sieno da
tutti gli uomini egualmente vedute ed ammesse (i).

(i) Reid, primo autore della filosofìa del senso comune, lo definì in questa
guisa: « Il scuso comune è quel grado di giudizio che é comune agli
« uomini co' quali noi possiamo conversare e trattare affari » (Essays on
Uie powers of the human mind, eie. T. II, face. 175).
E poco appresso: « Ogni cognizione ed ogni scienza dee esser fabbri-
it cala su principj che sieno per sè evidenti; e di tali principj ciascun
1 uomo che ha senso comune è giudice competente , quando li concepisce
— distintamente : quindi è che la disputa si termina spesso con un appello
« al senso comune » (Ivi, face. 178). Questo appello si fa ancora per rin
forzare la buona fede che nell' avversario vacilla , quaud' egli nou vuol ce
dere all' evidenza : perocché chiamando in mezzo il senso comune , è come
un farlo vergognare della sua ostinazione, s' egli più oltre resiste: concios-
siacbè tutti cedono gli altri uomini a quella chiarezza di verità manifesta: è
in somma argomento ad pudorem.
Pigliato sotto questo aspetto, il senso comune non è né pure un' autorità :
Don si fa uso di lui come di un argomento a convincere l'intelletto, ma
anzi come di una pena alla ripugnanza che mostra l'uomo di confessare la
verità. Più sotto considereremo il senso comune sotto l' aspetto di una
autorità. Qui ci basta di osservare, che è una improprietà di parlare quella
di far consistere il senso coiu^ie in un giudizio che danno gli uomini iu
massa su qualsiasi argomento: uon si può chiamar senso comune in lingua
filosofica se non il giudizio che danno tutti , e n >n già la maggior parte
Di questa definizione del senso comune si vede , clie
egli non è che quel ragionamento comune, a fare il
quale perviene ciascun degli uomini da sè ; e la parola
senso ha quivi questo significato (i).
Non conviene adunque confondere il senso comune,
colle credenze comuni , o colle tradizioni vere e falsi
( poiché 1' errore ha la sua tradizione ) ; le quali sono
di generazione in generazione mandate e ricevute senza
una ragione che di esse si abbia , ma sulla fede e sul-
r autorità dei padri che le tramandarono.
Quindi il rimprovero che si fa, dicendo: «Voi avete
perduto il senso comune » , ò assai diverso dal rimpro
vero che si fa altrui, dicendogli di non aderire alle co
muni credenze.
Chi ragiona contro ciò che il senso comune afferma,
sragiona necessariamente , o più tosto si dice che quel-
1' uomo ha perduto 1' uso della ragione; poiché non
vede e non sa ciò , a cui vedere e sapere , basta un
filo di ragione, quale hanno necessariamente tutti gli
uomini , dall' istante che sono uomini e allo sviluppo
debito pervenuti : quindi una costante deduzione di con
seguenze opposte a quelle che cava il senso comune degli
uomini , è ciò che costituisce lo stato di pazzia.
Ali1 incontro chi s1 oppone alle comuni credenze , non
si suole già dir pazzo per questo; ma semplicemente
sragionatore , se quelle credenze hanno un peso di legit
tima autorità a favor loro ; ed ancor empio 7 se quelle
credenze sono sante e pie. Che se altri si opponesse a
delle credenze comuni empie o false , com' erano le
idolatriche superstizioni , questi con tale opposizione
dovrebbe riportare ragionevolmente titolo di nemico dei
comuni pregiudizj.

degli uomini ai primi principi e alle prossime loro conseguenze : le altre


parti del sapere umano, che sono conseguenze rimote da' primi principi)
sono al tutto aliene dal senso comune. E guai se noi ci riconducessimo i
saper con certezza solo quelle cose clic tutti gli uomini sanno e sanno con
certezza!
(i) Ilo già dimostralo, che l'immediata intuizione che fa P intelletti)
della verità, è un senso spirituale (Voi. II, face. i3a e seg. ).È adunque assai
bene applicata la parola tatto nella maniera senso comune, perchè questo
non racchiude che le verità immediatamente o quasi immediatamente ve
dute dallo spirito. Nello stesso tempo Pus generale di questa maniera,
senso comune, conferma la dotti ina nostra sul senso che aiuinclliaino uditi
Spirito.
93
ARTICOLO IV.
OBBIEZIONE CONTRO Là PERSUASIONE UNIVERSALE Ds' PRIMI PRINCIPI.

Un'obbiezione si presenta da sè contro l'affermazio


ne, che 1' uomo non può per legge di sua natura dis
conoscerà i primi principj , ed ella è questa.
« Voi trovate in certi tempi, e massime ne' nostri , uo
mini che ve li negano assolutamente: dunque essi non
debbono esserne persuasi , nè sentirne quella convinzione
di che voi parlale ».

ARTICOLO V.
RISPOSTA : DISTINZIONE FRA LA COGNIZIONE DIRETTA B LA COGNIZIONE RIFLESSA.

Io riconosco il fatto. Di più, credo che v' abbiano di


quelli , che sieno in qualche modo persuasi di escludere
anche i primi principj del ragionamento. Debbo dun
que spiegare questo fatto ; e la spiegazione di lui ri
sponderà alla conseguenza che si vuole a torto cavare
dal medesimo contro alla persuasione universale dei
primi principj.
Conviene" distinguere nell'uomo due cognizioni, la di
retta e la riflessa. Questa distinzione è di altissima ri
levanza , e di grandissima difficoltà a intendersi bene.
Io ho cercato di ajutare il lettore a percepire questa
distinzione, in più luoghi dell' opera presente (1).
Quando mi vien dimandato: Sapete voi la tal cosa?
Ammettele voi il tale principio ? — ed io ad una tale
interrogazione rispondo; di che cognizione allora mi
servo io? Della cognizione riflessa, non già della cogni
zione diretta. E veramente, perche io risponda se am
metto o no un principio, che fo io ? Io mi rivolgo so
pra me stesso, ed esamino lo stalo del mio intelletto,
e quindi riconosco se nel mio intelletto quel principio
è approvato o vi è disapprovato. Il mio intelletto dun
que approva, supponiamo, un certo principio: questa

(0 Vcd. specialmente nella Sezione V, P. I, c. Ili, art. v, 2 2 ; e P.II,


c- V, art. 1, g 3. Non isfuggia s.Tommaso l'osservazione, che « ogni atto
dell' intelletto è incognito a sè stesso », e che per conoscere un atto qualunque
del nostro intelletto, noi dobbiam farne un altro riflesso sopra quel primo :
Mus est actus, egli dice, quo intcllcclus intelligit lapidcm, et alius est aclus
'/"o intclligU se inklligerc lapidcm. Vedi nella Somma I, uxxvn, m.
94
è cognizione diretta. Io esamino me stesso , e lo stato
del mio intelletto ; ed in conseguenza di questo esame
trovo , che il mio intelletto approva quel principio :
questa è cognizione riflessa.
Ora quand' io rispondo a chi m' interroga te il mio
intelletto approva o non approva un principio, io non
posso mica adoperare a far ciò quella cognizione stessa
colla quale il mio intelletto 1' approva quel principio;
ma bensì debbo adoperar quella che ritraggo dall' esa
minare lo stato del mio intelletto rispetto a quel prin
cipio; mediante il quale esame io riconosco e giudico
lo stato delle mie opinioni, e decido se il mio intel
letto 1' approva ovvero se non 1' approva. Quest' ultima
cognizione , colla quale ritorno sopra il mio intelletto
e ne rivelo a me slesso lo stato , è cognizione riflessili
quella prima, colla quale il mio intelletto intende uni
camente ad approvare o a riprovare quel principio, è
cognizione diretta.
Distinta così la cognizione diretta dalla cognizione ri
flessa , bassi a sapere , che questa seconda non va sem
pre d' accordo con quella prima , ma può ingannarsi
nel rilevar quella prima.
Ciò avviene se , ritornando io sopra il mio intelletto,
e ponendomi a rilevarne lo stato rispettivamente ad uo
certo principio , io non fo questo esame troppo accura
tamente*, ovvero il fo troppo in fretta; o in luogo di
esame, gioca, nel farmi pronunziare il giudizio, una
prevenzione in me venuta ondechessia : in tal caso io
posso ingannarmi, e posso credere e pronunziare che il
mio intelletto non approva quel principio mentre por
lo approva, ed e converso, che lo approva mentre anzi
lo riprova. Quantunque sembri strana a primo aspetto
una simigliante limitazione che noi abbiamo della
cognizion di noi stessi , ella non è tuttavia meno fera:
ella è un fallo.
Ciò posto, si spiega benissimo la contraddizione con- .
tinua degli scettici. Essi ragionando adoperano , e
quindi ammettono ed approvano col fatto tutti i pri«"
principj del ragionamento; ma non punto se ne avve?"
gono (i). Che anzi credono di fare il contrario; e
(i) Kant, a ragion d'esempio, dopo aver negala la forra oggrtliw del
principio dì causa , ne fa uso, senza accorgersi , a stabilire le sue
dello spirito Umano, come più sopra abbiamo detto.
in fatti pigliano per argomento e scopo de' loro ragio
namenti la distruzione de' primi principj , e v' assicu
rano di non crederli nò vederli muniti e giustificati.
Ora in tutto ciò, ove apertamente dimostrano di far
uso de' detti principj, e d'ammetterli (il che è neces
sario che sia , in tutti i loro ragionamenti , poiché ra
gionamento esser non può senza i detti principj ), usano
iella loro cognizione diretta (i). In quanto poi ricusano
apertamente a' detti principj l' assenso , e tolgono ad
oppugnarli, usano della loro cognizione ri/lessa: cogni
zione che, appunto per essere contraria alla cognizione
diretta , si mostra falsa e ingannatrice.

ARTICOLO VI.
ruicÓLO nel d»r risi a quelli che ci assicurano, di non esser persuasi
CE' PRIMI PRINCIPJ.

Perciò quelli che ci assicurano di non esser persuasi


de' primi principj , o sono ingannati , o ingannano.
E se altri, non sospettando di tanta nequizia, o della
possibilità di cadere in uno inganno così singolare, giu
dicando di ciò che noi sappiamo, e non tenendo troppo
ferme le verità esposte fin qui , fosse presto di dar
credenza a quelle fai sissi me affermazioni de' sofisti scet
tici; questi sarebbe tirato, con quella bonarietà sua,
in grave e certo pericolo di rendersi inetto a difender
poi la causa del vero.
Che chi si dà a credere potervi avere degli uomini
al mondo, che veramente dubitino de' primi principj ,
quasiché questi non sieno saldati e assicurati nelle anime
nostre dalla mano benefica della natura , verrà sicura
mente a mal termine.
Egli non troverà più , facendosi insieme cogli scettici
stessi , un punto fisso di persuasione nella ragione uma
na : la verità tutta quanta non avrà più per lui una
sola parte innegabile, è sicura dall'audacia dell'uomo:
si potrà dubitare della propria esistenza, dell' esistenza
di tutte le cose, dell' esistenza di Dio : e Iddio medesi-

(i) La buona antichità ha sempre insegnato, che è impossibile che l'uomo


pensi esser falsi i primi principj del ragionamento: Ea quae naturaliter ra
ttorti stint insita, scrive s. Tommaso, verissima esse constai, tntantum ut nec
ia esse falsa SIT POSSIBILE COGITARE (C. Geni. I, vii ).
mo , volendo rivelare delle verità nel cuore dell' uomo,
non potrà dare dentro di lui una prova sicura e infal
libile della veracità delle sue parole divine: dovrà l'uomo
e potrà temer sempre una illusione fatale, e, come di
cono , una falsa evidenza , giacche non ha impressa
in sè stesso una regola eterna , e di una luce inestin
guibile , ma solo dei lumi eh' egli può estinguere in
sè medesimo. Questi , che senza essere , anzi volendo
essere uno oppugnatore degli scettici , tuttavia è tras
corso' ,ad accordar loro tanto, sarà trascinato contro
suo volere assai più innanzi con essi: egli , per tro
vare un punto fermo, di cui pur sente il bisogno,
andrà allora a cercarlo via oltre al territorio della ve
rità. Cercherà quello che cercano pur gli scettici , qual
che cosa che lo appaghi, di più assoluto, di più fermo
della stessa verità: e quindi verrà a riporre il principio
supremo della certezza in qualche istinto cieco, in una
qualche necessità cieca , in un bisogno irresistibile di
credere , in una suggestion naturale, in una mera au
torità, che appunto perchè è sola, cessa d' essere autorità,
in tutt' altro in somma fuori che nella verità stessa. In
tal caso il nuovo criterio non è più giustificato: la luce
della verità non più l'avviva: un principio simile potrà
produrre bensì nell' uomo un assenso forzato e sde
gnoso ; non mai un assenso ragionevole , che dalla
sola forza della verità, e non da altro elemento , vien
dolcemente prodotto e conquistato (i).

ARTICOLO VII.
IL PRIMO MEZZO PER EMENDAR» LA COGNIZIONE RIFLESSA DI QUELLI CHE H-
GAMO I PRIMI PRINCIPI, ìj IL MOSTRARLI IN CONTRADDIZIONE COLLA 1010
COGNIZIONE DIRETTA.
Quando un uomo è pervenuto a tale inganno, ch'egli
creda di non dare l'assenso a' primi principj , anzi pure
d'impugnarli, convien mostrargli falsa questa sua cre
denza , chiamandolo a considerare la contraddizione
nella quale s' avvolge egli medesimo con tutti i suoi
ragionamenti.
Per tal modo la sua cognizione ri/lessa si può retti"

(i) È il caso di La Mcunuis.


ficare , conducendolo ad osservar meglio in sè quale sia
Ja sua cognizione diretta e naturale, alla quale la ri
flessa, che è una significazione della diretta , dee esser
conforme.
ARTICOLO Vili.
IL SECONDO MEZZO PER EMENDARE LA COGNIZIONE RIFLESSI DI QUELLI CBE NE
GANO I PRIMI PRINCIPI O SRAGIONANO SULLE COSB Pio' OVVIE, È L* AUTORITÀ'
DEOLI ALTRI UOMINI, LA QUALE PERCIÒ POTREBBESI CHIAMARE UN CRITERIO DELIJ
COGNIZIONE RIFLESSA.
Gioverà ancora assaissimo , a rettificare la cognizione
riflessa, l'appellarsi all'autorità degli altri uomini, gio
vandosi a ciò di queir inclinazione naturale die ha ogni
uomo di prestare altrui fede.
Oltracciò si può rinforzar di prove questo bisogno di
udir gli altri uomini , quando due non vanno d'accordo
nelle cose eziandio le più ovvie. Perciocché l'uomo può
sempre dire all'altro: « Noi abbiamo la ragione perchè
siamo uomini : questo vuol dire che tutti gli uomini
hanno la ragione egualmente come noi. Ora la mia ra
gione fa un ragionamento che riesce appunto al con
trario di quello che fate voi. Non ci dee dunque esser
caro ed utile il vedere come facciano il medesimo cal
colo altresì tutte l'altre ragioni simili alle nostre? Per
ciocché se V uno di noi due erra ( e certo 1' uno o l'al
tro di noi dee avere il torto ) , si potrà ritrovare chi
erra , col paragone di ciò che dicono tante altre ra
gioni simili che fanno il calcolo medesimo ».
Se l'uomo s'arrende all'autorità degli altri uomini,
l'emendazione è pronta. In tal caso l'autorità degli
altri uomini non è stato il criterio della certezza in ge
nerale , ma solamente il criterio della cognizione ri/lessa ;
mediante 1' uso del qual criterio non si misero già in
noi i primi principj del ragionamento, ma si tolse via
quel pregiudizio , quella prevenzione, per la quale non
si volevano riconoscere, e quindi si avevano e s' am
mettevano sempre per cognizion naturale e diretta, senza
accorgersene, e colla cognizione riflessa si escludevano ed
oppugnavano. L' autorità dunque degli altri uomini
nelle materie prime , cioè in quelle che al senso comune
appartengono (r), e che abbiamo dichiarate più sopra,

(0 Artic. ni.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. 111. i3
98
è un1 eccellente regola , una eccellente sponda , alla
quale allenendosi, l'uomo non cadrà, nè pericolerà
ne1 primi suoi passi. Per questo la natura stessa, dopo
aver dato 1' essere all' uomo, non l'ha abbandonalo solo
in sulla terra; ma, acciocché egli avesse ne' primi passi
del suo ragionamento , siccome ne' primi movimenti del
suo corpicciuolo , un ajuto e una scorta , 1' ha fatto
nascere nel seno della società.
Che se il male dell'uomo di che noi parliamo, fosse
il dispetto e il ri liuto 'di ogni autorità, troppo più
grave sarebbe il suo malore. A confermazione però di
quanto ho detto fin qui, accennerò ultimamente ciò che
l'esperienza dimostra avvenire nella cura di pazzi, i
quali sragionano delle cose più ovvie della vita umana:
che molto con essi si guadagna , t. si conducon talora
ad intera guarigione, costringendoli di uniformarsi , me
diante la presenza di una forza superiore d'assai alla'
loro , alle abitudini regolari , ed ai ragionamenti degli
altri uomini (i).

(1) Ciò che qui ho detto , suppone che gli uomini non sieno general-
mente venuti in uno stato di riflessione cosi turbata , che tutti in corpo
perfidiassero negando i primi principi della ragione. Questa degradazione
dell' uman genere è impossibile, nelle sue coudizioni particolari e straordi
narie nelle quali egli di fatto si trova : il cristianesimo lo salverà sempre di
uno scetticismo universale. Conviene riflettere , che la divina provvidenza
ha preso cura dell'umanità: in questo senso è vero, che nell'uman genere
intero si trova sempre la verità. Per altro, chi ha meditato spassionatamente
sulla condizione deli' individuo , e degli uomini presi in corpo , troverà
che da sè stessi, e sforniti degli ajuti soprannaturali, sono pur tristi ed io-
felici assai più di quello che non si creda comunemente, perchè si ha sol-
t' occhio un' umanità sostenuta da Dio a forza di portenti. Quanto a me,
delle lunghe meditazioni mi hanno convinto , che l' umanità senza la rive
lazione è priva di una forza morale sufficiente a preservarla dal cader tutu
intera nella più abbietta idolatria; ch'essa è soggetta a tanta debilez»
mentale , che se Io scetticismo sarebbe per lei impossibile , ciò avverrebbe
solo per questo, ch'egli è uiw setta filosofica, e che ha bisogno di un qual
che uso di ragione. L'umanità non avrebbe avuto tempo di rendersi tutu
intera scettica , perchè molto prima si sarebbe abbrutita j e l' uomo nelu
vita selvaggia, più sciagurato di tutti i bruti, avrebbe spento, per cosi
dire , ed anuicututo sè slesso.
99
PARTE TERZA.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO A DIMOSTRARE LA VERITÀ'
DELLA COGNIZIONE NON- PURA, O SIA MATERIATA.

CAPITOLO I.

DEL FATTO IN GENERALE.

ARTICOLO L
NESSO DELLB DOTTRINE.
Io ho dimostrato , che 1' intuizione dell'essere è un
fatto innegabile , immune da ogni possibilità d' inganno,
che costituisce la nostra facoltà di conoscere il diverso
da noi (i).
Ho però fatto osservare, che fino che si restringe il
discorso nel solo essere possibile, noi non affermiamo
nulla di esseri sussistenti distinti dalla nostra mente ;
ma solo percepiamo coli1 idea dell'essere la possibilità
de* medesimi, il che è quanto dire, n' abbiamo il con
cetto in universale: e l'esserci dato un tale concetto ,
viene a dire il medesimo che 1' esserci data la possibi
lità, la facoltà di conoscere cose da noi diverse (a).
Restava dunque a sapere , come il concetto di esseri
da noi diversi in generale, potesse condurci ad affer
mare degli esseri particolari sussistenti : e così dalla sola
facoltà di conoscere, dataci dalla natura nell'idea di
essere in generale, noi potessimo passare ad avere delle
attuali Cognizioni di esseri reali diversi da noi.
A tal fine ho cercato, supposta la cognizione dell'es
sere in universale dentro di noi, fatto primigenio, come
noi potessimo avere altresì una cognizione certa delle
cose diverse al tutto da noi , quali sono quelle cose
che hanno sussistenza in sè medesime, e non nella
nostra mente : e in questa ricerca ho trovato un prin
cipio generale della comunicazione fra le cose per sè

(1) Parte II, c. I. La nostra cognizione si compone i* dell' essere, che


percepiamo iu tutte le cognizioni, ed è la parte formale della cognizione,
a.° e delle determinazioni dell' essere , che e la parte materiale. Io mi re
stringo a dire che la nostra cognizione è perfettamente oggettiva nella parte
formale, e non estendo la stessa asserzione anche alla parte materiale ,
come ho più volte accennato.
(2) Face. e segg.
100
considerate , e il giudizio necessario che noi facciamo
sulla sussistenza delle medesime (i), il quale fu il se
guente : « È necessario che sussistano le cose che noi
giudichiamo con necessaria illazione sussistere, perchè
se non sussistessero in sè ( cioè realmente ) , non sarebbe
vero e necessario il giudizio che facciamo dentro di noi,
e quindi non sarebbe vera e necessaria com' è l' intui
zione dell' essere » (a). La necessità dunque interna del
l' essere produce la necessità che le cose esterne siero,
come noi le giudichiamo, in sè medesime, diverse da
noi e fuori di noi.
Questo principio , che costituisce 1' applicazione pos
sibile dell' idea dell' essere alle cose sussistenti per sè
considerale , ha la sua radice in quella mirabile pro
prietà dell' essere , 1' oggettività assoluta , anzi non è
propriamente che l'oggettività sua esposta nella sui
particolare relazione colle cose che esistono fuori della
mente. Imperciocché l'oggettività dell' essere, a dirlo an
cora in altre parole , consiste in questo , che V essere
cui la mente vede , sia essenzialmente diverso dall'otto
della mente col quale ella lo vede. Neil' intuizione del
l' essere , fatto primigenio, v'hanno , siccome un' analisi
accurata ci mostra, due elementi essenziali, 1.* l'otto
del soggetto che vede 0 intuisce , a.* 1' essere che è la
cosa intuita. Questi due elementi non si possono con
fondere insieme : 1' atto dunque della mente è essenzial
mente diverso dall'essere con quell'atto intuito. Se
dunque l'intuizione dell'essere è tale, che l'essere non
ci si presenta come dipendente dalla mente nostra, ma
anzi come da lei al tutto indipendente e alieno; fonè
dire, che in questa intuizione ( dalla quale non si dee
uscire) noi abbia m già date a principio due attivila,
cioè l'attività del soggetto, e l'attività dell'essere
( checché poi questa sia ); e questa seconda mantiene
l'essere presente al soggetto, e sforza questo a doverlo
intuire; sicché in quella intuizione l'edere è attivo
( forma ) , e il soggetto che 1' intuisce è verso di to'

(1) Non dico fra le cose e le idees perchè le sole idee non compreixtow
la sussistenza delle cose, ma solo la loro possibilità. Dico adunque fri »
cose sussìstenti, e il giudizio sulla sussistenza delle medesime.
(2) Parte II, cap. Ili, art. H.
passivo (i). E questa azione dell' essere, questa passività
del soggetto intuente, sebben soavissima e priva d'ogni
violenza, è somma, perciocché ella è la necessità na
turale e logica ad un tempo. La necessità logica adun
que vien da ciò che è essenzialmente diverso dalla
mente, sebbene dalla mente veduto: questa necessità si
riferisce all'oggetto, e non all'atto della mente. Ed ora,
onde avviene che noi con una necessaria illazione giu
dichiamo della sussistenza di un oggetto diverso dalla
mente ? Noi giudichiamo di ciò mediante la necessità
logica, la quale non è che una, quella che abbiamo
descritta, e che tutta s'accoglie nell'essere in univer
sale. Che vuol dire adunque questo giudizio? Vuol dire,
che se la cosa esterna non sussistesse come noi giudi
chiamo , non sarebbe 1' essere. Ma 1' essere è pure ; è
evidentemente; è necessariamente. Forz' è dunque che
sussista anche l'oggetto esterno (la sostanza, la causa ),
poiché quella necessità interna 1' esige come sua condi
zione : e la vista di questa relazione è ciò che ci fa
pronunziare il giudizio. Il principio adunque dell' appli
cazione possibile dell'idea dell' essere alle cose sussistenti
è bene stabilito, ed altrettanto certo quanto l'idea stessa
dell' essere.
Ma perchè questo principio abbia valore ed uso pra
tico, egli addimanda e suppone più dati. Cioè a dire,
egli suppone che il nostro spirito vegga, che quella
medesima intrinseca necessità che ha in sè l' essere ,
l'abbia pure il giudizio col quale giudichiamo che una
sostanza ovvero una causa sussista. Ora come lo spirito
nostro concepirà quest'unione sì stretta e sì necessaria
fra le cose sussistenti e l'idea dell'essere, sicché la
sussistenza di quelle sia provata per la necessità di
questa ? quali sono }e circostanze nelle quali si dee
trovare Io spirito, perch' egli vegga la necessità di pro
nunziare un simil giudizio sopra la sussistenza di una
cosa esterna alla mente? Certo, che se lo spirito rimane
colla sola idea dell'essere, egli non uscirà mai dalla
possibilità delle cose. Dee dunque avvenire in lui qual
che cangiamento , o dee almeno entrare sotto la sua

(i) Perciò abbiamo detto, che è un senso spirituale la facoltà d' intuir
' essere, perchè il senso percepisce patendo, ricevendo.
ioa
considerazione qualche altro elemento, perdi1 egli si
muova a passare dal regno delle cose meramente pos
sibili , a quello delle sussistenti. Quale sarà questo can
giamento ? qual può essere questo nuovo elemento che
lo conduce ad un simigliai! te passaggio? quale è il le
game fra questo elemento, 1' idea dell'essere e le cose
sussistenti, perdi* egli giudichi che queste sussistono,
mosso dalla necessità giacente originariamente nell'es
sere?
Questa è la ricerca che ci rimane a fare.
Ma questa ricerca ne suppone un' altra. Con questa
ricerca noi cerchiamo il principio che giustifichi il giu
dizio che noi facciamo sull' esistenza delle cose. Ma il
giudizio sulla sussistenza delle cose suppone l'idea delle
cose: o almeno 1' idea dee essere coeva al giudizio , come
abbiam già mostrato avvenire nella percezione. Questa
dà luogo ad un'altra questione, colla quale l' applica
zione dell'essere realmente si compie, cioè, Come acqui
stiamo noi le idee delle cose? la quale fa l'argomento
di tutta la Sezione quinta, alla quale ci rimettiamo;
ma della quale noi dobbiamo mostrare la relazione col-
l'altre tre questioni precedenti , dobbiamo cioè mo
strare il luogo eh' ella tiene nella ricerca del criterio
delia certezza.
Le tre precedenti questioni ebbero a scopo la rispo
sta al quesito, « Come la mente può percepire le cose
fuori di sù ( supponendo date ad essa le idee ) » ?
La quarta questione dimanda all'incontro, « Come
le eose fuori della mente possono presentarsi alla mente
in modo, che questa le percepisca » ?
Tale è la ricerca dell'origine delle idee acquisite: le
tre prime costituiscono la ricerca del criterio della cer
tezza.
Volendo enunciare le tre prime questioni in altra for
ma , esse si possono esporre così:
Prima questione. « Quale è il principio onde lo spi
rito umano conosce il diverso da sè in universale »?
£ a questa questione fu risposto , che è 1' idea dell'es
sere in universale, poiché l' essere (oggetto ) è ciò ebe
costituisce il diverso dallo spirito ( soggetto ): cioè ogni
diverso si racchiude sempre nell'essere.
Seconda questione. Quale è il principio onde Io spi
rito umano conosce con certezza il diverso da sè real
io3
menlo sussistente »? E a questa fu risposto, che questo
principio consiste nel legarne o vincolo d'identità fra
la sussistenza reale delle cose e l'essere ideale, sicché
quella sussistenza partecipa della necessità di questo per
modo, che la necessità dell' essere contiene, suppone
ed esige la realità esterna che si giudica essere per una
illazion necessaria d' identificazione.
Terza questione. « Quale è il principio onde la sus
sistenza della cosa reale si vede legata colla necessità
ideale ed interna a noi »? E a rispondere a questa que
stione è rivolto il Capitolo presente.
Egli è evidente, che questa terza questione suppone,
come dicevamo, che l'idea della cosa che si giudica
sussistente, sia in noi; suppone in somma sciolta la
questione dell' origine delle idee. Noi dunque dobbiamo
riprendere 1' origine delle idee acquisite, e in quest'ori
gine trovare la giustificazione del giudizio che fa la
mente sulla sussistenza della cosa.
Quando noi acquistiamo una nuova idea , acquistiamo
sempre con ciò una nuova determinazione parziale del
l' essere in universale (i). Una determinazione parziale
dell'idea dell'essere in universale noi abbiamo usato di
chiamarla fin qui materia delle nostre cognizioni. Le
due prime questioni adunque riguardavano la sola forma
della cognizione j ma colla terza si discende alla cogni
zione materiata, ed è di questa che noi dobbiamo in
questo Capitolo dimostrare la legittimità ed il valore.
Ogni materia adunque di cognizione è un essere par
ticolarmente determinato, o cosa che in un tale essere
si contiene. Noi racchiuderemo adunque la materia della
nostra cognizione sotto la determinazione generale di
fatto.
Pigliamo adunque a parlare subitamente della certezza
della cognizione del fatto in universale, cioè di tutto
ciò che è o che avviene. E prima

(i) Se noi potessimo avere un' idea positiva di Dio (il che non possiamo
quaggiù naturalmente), noi nou avremmo con essa acquistata una cogni-
zion materiata , ma si accresciuta la nostra cognizion formale e oggettiva.
Tutto ciò die noi conosciamo di Dio positivamente, èforma e puro oggetto
'Iella nostra mente e della nostra cognizione; e cosi pure quello che cono
scono di lui i celesti, che n'hanno la visione. Quindi la bella sentenza
dell' Aquiuate : Cum aliquis inlelleclus crealus videi Deum per essentiam ,
ipsa esscntia Dei fit forma inlelligibilis inlelleclus (S. 1, xa , v).
104
ARTICOLO II.
DEL FATTO IN SÈ, NON SENTITO NE INTESO.

Egli è evidente , che di un fatto non sentito ne in


teso non s' ha cognizione nè certezza: non può dun
que farsi intorno a lui la questione, « Come siamo noi
cerli di un tal fatto»? poiché, a dover potere esser
certi di una cosa, noi dobbiamo prima conoscerla.
Tuttavia non sarà inutile eh' io aggiunga qui un'os
servazione.
Quando noi conosciamo un fatto, allora in questa
nostra cognizione v'hanno due elementi, la cognizione
(l'atto del nostro conoscere), e il fatto stesso (l'oggetto
della nostra cognizione ). Noi possiamo mediante una
astrazione separare la cognizione del fatto dal fatto
stesso , e in tal modo noi concepiamo che il fatto esi
ste in sè anche non conosciuto. Da questa osservazione
si rileva, che noi abbiamo una nozione dell' atto, col
quale un essere esiste (un fatto), cotale, che ci mo
stra quell'atto di una natura indipendente ( rispetto al
nostro modo di concepire ) dalla cognizione. Il conoscere
adunque e 1' esistere sono due elementi ( rispetto a noi)
separati e incomunicabili; e questa separazione, (pesta
incomunicabilità è una condizione del nostro conoscere-
Cioè a dire, se il conoscere e I' essere non fossero due
elementi incomunicabili, il nostro conoscere sarebbe
impossibile. È 1' analisi del conoscer nostro che ci dà
per risultato la separaaione di que' due elementi: il co
noscere stesso protesta, per così dire, di non esser egli
1' essere conosciuto , e depone che dee essere da sè di
stinto. Quando si mediterà bene questa affermazione,
s'intenderà, i.° che sono vani gli sforzi della scuola
tedesca trascendentale per far compenetrare e immede
simare insieme il conoscere e M'essere , l'atto intellettivo
e l'oggetto di quell'atto (i); a." e che quindi l'ideali
smo trascendentale è assurdo, perchè toglie via la con
dizione per la quale solo la cognizione è possibile, cioè

(i) L'atto intellettivo (intuizione), l'idea (oggetto ideale, possibile), l'a*9


sensitivo (percezione sensitiva), il termine dell' atto sensitivo (materia), I
razionale (percezione intellettiva), e l' essere reale (oggetto reale, a cui I idi"8
si riferisce) ; sono sei cose tutte distinte fra loro, e si dee porre ogui dili
genza per non confonderle insieme.
io5
la separazione essenziale fra la conoscenza e V esistenza; x
egli rende impossibile il conoscere, perchè distrugge
V essere in sè , e quindi medesimo la verità.

ARTICOLO III.
BEL FITTO SENTITO ■ NOH INTESO.

Il fallo sentito e non inteso è o il sentimento, o la


materia del sentimento se il sentimento è materiale (i).
Poiché si suppone che questo fatto sia solamente
sentito e non inteso, quindi egli non è ancora oggetto
di alcuna cognizione. Nè pure adunque sopra di lui
può cadere la questione, « Come possiamo noi essere
certi di un tal fatto » ? poiché la certezza non è che un
attributo della cognizione, e dove non v'ha cognizione
non v' ha certezza.
Il sentimento è incognito a sè slesso, come abbiamo
tante volte detto. Noi veniamo a conoscere che esiste
un sentimento incognito mediante l1 astrazione, colla
quale separiamo da lui ogni cognizione, e lo conside
riamo solo in sè stesso. Ora considerando noi il fatto
sentimento in questo modo, noi possiamo ragionevol
mente conchiudere che il sentire è un elemento separato
al tutto dal conoscere , e come abbiamo detto poco in*
nanzi , dall' essere. Questa separazione fra il sentire e il
conoscere è una condizione necessaria al conoscere. È il
conoscere quello che ci dice che il sentimento è oggetto
suo, e non egli medesimo. Se l' atto del conoscere e l' og
getto suo non fossero essenzialmente distinti, non potrebbe
darsi il conoscere, perohè queste due cose separate sono
al conoscere essenziali. Egli è dunque impossibile d'im
medesimare il conoscere ed il sentire, o il far discen
dere il conoscere dal sentire come un suo sviluppamen-
to ; e i tentativi di Schelling e degli altri sistematici a
questo proposito non hanno altronde origine , che da
una mancanza di accurato esame del fatto della cogni
zione. Si può dire adunque che il conoscere nostro non
può sussistere se non colla condizione che si pongano
tre attività distinte 1' una dall'altra, i.* quella di es-

(t) Voi. II, face. 4fo.


Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. Itt. i4
ioG
sere , 2.0 quella di sentire, 3/ quella di conoscere.
Come poi queste tre attività si adunino in un solo ente
e si leghino a formare una sola sostanza, ella è que
stione questa d' un ordine troppo più elevato di quello
a cui mi sia lecito di sollevare il presente Saggio.

ARTICOLO IV.

COME VENGA ESIBITA AL NOSTRO «PIR1TO LA MATERIA DELLA COGNIZIONE.

L' essere ha due modi , il modo ideale ed il modo


reale.
L' essere ideale è la forma della cognizione.
L' essere reale n' è la materia.
Noi raccogliamo in questo Capitolo la materia della
cognizione sotto la denominazione di fatto.
Il fatto che forma la materia della nostra cognizione
abbiamo veduto distinguersi in due specie , 1' una con
sistente ne\¥ attività dell'essere insensitivo, 1' altra nel-
l' attività del sentire; che si possono dire due specie
appunto dell' essere reale.
La materia della cognizione, cioè 1' essere insensitivo
e il sentire , per sè soli , fino che non sono cogniti,
fino che non sono resi oggetti di quella terza attività,
il conoscere, non danno occasione di ragionare sulla
loro certezza , perchè la certezza non è che un attri
buto della cognizione.
Or come adunque la materia della cognizione ( Y es
sere insensitivo e il sentire ) viene esibita al nostro
spirito intelligente, e come diventa essa oggetto della
nostra cognizione?
La materia della nostra cognizione viene presentata
al nostro spirilo dal nostro sentimento , come abbiamo
detto , e questo nasce per l' identità fra noi esseri sen
zienti e noi esseri intelligenti.
Essendo noi già dalla natura forniti 1/ di un senti
mento fondamentale, 2.0 e della vista dell'essere in
universale, ci è data dalla natura stessa la materia prima,
e la forma della nostra cognizione (1).
La materia acquisita poi , non è che una modifica

ti) Voi. II, face. 281.


107
ùone delia materia prima ed originaria ( del sentimento
fondamentale) (i).
Ma si dirà : Questo vale a spiegare come venga esibita
al nostro spirito intelligente quella parte della materia
delle cognizioni, che consiste nel sentimento; ma non
quella parte che consiste nella semplice attività dell'es
sere reale privo di sentimento. Come noi ci formiamo
dunque 1' idea di esseri inanimati ?
Rispondo , che questa idea ci viene dalla materia del
sentimento. L'idea degli esseri inanimati si risolve in
tieramente i.° nella materia del sentimento, 2." e in
quelle forze che , modificando la materia di questo sen
timento, non suppongono in sè un'attività diversa da
quella che nella materia del sentimento slesso si trova;
perchè » ogni agente opera qualche cosa di simile a
sè n , secondo 1' antico adagio.

ARTICOLO V.
PRINCIPIO UNIVERSALE DI OGNI AITL1CAZIONE DELLA FORMI DELLA RAGIONE
AI FATTI ESIBITI DAL SENTIMENTO.
Il principio universale di ogni applicazione della ra
gione umana ai fatti somministrati dal sentimento, è il
seguente :
« Il fatto conosciuto dee formare un' equazione colla
forma della ragione » (a).
Ora egli è evidente, che se la cognizione del fatto (3)
è uguale colla forma della cognizione; essendo questa
giustificala , quella parimente rimane giustificata e certa.
Resta dunque che si avveri il principio ; ma prima
ancora è necessario che noi ne diamo gli opportuni
schiarimenti.

(i) Voi. H, face. a63.


[i) È quello che abbiamo accennato più sopra, face. ioa-io3. E la se
conda delle tre questioni ivi acceunate.clie qui più ampiamente si tratta. Il
Dottore d* Aquino almeno il travide , quando scrisse cosi : Ens quod est
PRIMUM per communitaUm , turn S1T IDEM PER ESSENTIAM REI,
CUILIBET (ecco l'equazione), nullius proportionem excedit; ci ideo m
cognitionc cujuslibet rei ipsum cognoscilur. De Verit. X, zi.
(3) Ogni cognizione materiata è una cognizione del l'alto, come abbiamo
detto.
io8
ARTICOLO VI.
OTCOUMZIONS DEI PRINCIPIO DMITIMAU iNHUlfZUTO,

L' equazione che ci dee essere fra la materia della


cognizione ( considerata nella cognizione stessa) e la
forma della cognizione, sta in questo, che tutto ciò che
si comprende esplicitamente e particolarmente nella co
gnizione materiata, è già compreso nella forma impli
citamente , e in un modo universale. Togliamo a veder
ciò con un sillogismo.
« Ogni uomo è ragionevole. Andrea è uomo. Dunque
Andrea è ragionevole ».
Nella maggiore di queste tre proposizioni, cioè in
quella che diceva « Ogni uomo è ragionevole », è com
preso in un modo generale ed implicito , che anche il
particolare uomo , Andrea , sia ragionevole : perocché te
tutti gli uomini sono ragionevoli , dunque ciascuno al
tresì , comecché egli si chiami. La terza proposizione
adunque è compresa nella prima in un modo implicito
e generale. In questo senso dico, che la terza proposi
zione forma un equazione colla prima, in quanto che
ciò che si asserisce nella terza, era già asserito nella
prima, e non si aggiunge una nuova asserzione: la par
ticolare adunque colla generale s' identifica.
Mi spiegherò più chiaramente.
Nella prima proposizione si afferma una cosa in ge
nerale, cioè che gli uomini sono ragionevoli. In questa
affermazione generale si comprendono , senza però che
sieno nella nostra mente l' una dall' altra distinte , una
quantità di proposizioni particolari. Ma pecche queste
non sono da noi distinte, nè i soggetti a cui si riferi
scono sono a noi noti, dicesi che noi non le conoscia
mo. Ora, allorché il sentimento ci presenta i soggetti
particolari, quelle proposizioni particolari si compiscono
e riescono chiare e distinte ; quindi le riconosciamo in
particolare con quello stesso lume col quale prima le
riconoscevamo in universale. La proposizione adunque,
quand' è materiata e compita, fa un' equazione perfetta
non già colla proposizione universale, ma con quella
particolare, che in essa era siccome cieca e confusa, e
che non riusciva a distinguersi da noi, perchè non sa
pevamo di qual soggetto si predicasse.
Nel caso del sillogismo surriferito, sapendo noi nella
prima proposizione, che ogni uomo è ragionevole, sap
piamo anche implicitamente, che un uomo individuale,
Andrea di nome , è ragionevole. Ma la scienza che An
drea è ragionevole , quale può esser ella in noi , se
non conosciamo punto Andrea ? sarà una proposizione
cieca, indistinta, confusa nell'affermazione generale, ed
ivi assorbita , avrà un' esistenza virtuale in essa , non
attuale. Ora la proposizione universale è una perfetta
equazione colla proposizione particolare , in quanto a
questo, che , dopo che noi abbiamo la percezione di
Andrea, e così conosciamo la proposizione particolare ,
anzi pure in conoscendola, noi conosciamo medesima
mente eh' ella era ( senza che noi lo sapessimo ) già
prima nella universale contenuta:
Quindi la proposizione universale può fare contempo
raneamente altrettante equazioni con innumerevoli pro
posizioni particolari , per la sua virtualità , cioè perchè
in ciascuna equazione la proposizione generale si prende
nella relazione peculiare che tiene colla proposizione
particolare colla quale ella si appareggia e confronta.
Ciò che ho detto di una proposizione particolare con
tenuta virtualmente nella generale, convien dire di un
sentimento (i) che è contenuto virtualmente nell' esse
re: e quindi colla vista dell'essere, noi, all'occasione
de' sentimenti , siamo idonei a conoscere che ai detti
sentimenti conviene il predicato di essere , e in tal
modo coli' idea di essere conosciamo i sentimenti, cioè
il soggetto, e la materia de' medesimi.

ARTICOLO VII.

OBBIEZIONE E1SOLUTA.

Qui però si presenta questa gravissima difficoltà ;


« Come la materia della cognizione si può identificare
colla forma? e se la materia non s1 identifica colla for
ma, come può dirsi ch'ella sia contenuta nella forma,
e che faccia con quella una perfetta equazione?»
Rispondo: La materia della cognizione non s' identi

co Abbiamo ridotto tutti i tatti ad altrettanti sentimenti nell' articolo


precederne
fica mai colia forma considerata in sè stessa (i). Anzi
ho già dimostrato , che la materia considerata in sè
stessa (il fatto, Tessere semplicemente preso, e il sen
tire ) è un' attività diversa dal conoscere , e molto più
dalla forma della cognizione (2). Quindi ancora ho detto,
che la materia della cognizione, divisa dalla cognizione
slessa, rimane incognita, e su di lei non può cadere
questione di sua certezza, perchè la certezza è sola
mente un attributo della cognizione. Ciò adunque che
s' identifica colla forma della cognizione , è la materia
della cognizione in quanto è cognita ; e questa cogni
zione succede appunto con un atto , mediante il quale
ella s'identifica colla forma; perchè lo spirito in tal
fatto non fa che considerar quella materia relativamente
all' essere , e vederla nell'essere contenuta , come una
attuazione e termine del medesimo. Per tal modo, prima
che la materia sia cognita , ella è tale di cui noi non
possiamo tener discorso ; ma quando è già a noi cogni
ta , ella ha ricevuto coli' atto del nostro conoscimento
una relazione , una forma , un predicato che non avea
prima , e in questo predicato consiste la sua identifica
zione coli' essere ; perocché si predica di lei l' essere, e
in questa predicazione sta 1' atto onde noi la conoscia
mo. Sicché poi ci sembra, considerando la materia
già cognita, ch'ella abbia in sè medesima qualche cosa
di comunissimo con tutte le cose: mentre questa qua
lità in quanto è comunissima è per lei acquisita, e ri
cevuta dalla mente nostra, è una relazione eh' eli' ha
colla mente , non reale in essa, ma reale solo nella
mente stessa. Il che non essendo stato bastevolmente
considerato da Aristotele, e da altri tali, fu cagione che
s'avvisassero poter la mente procacciarsi l'idea dell'es
sere coli' astrazione di ciò che era comunissimo nelle
cose ( materia della cognizione ); mentre anzi la mente
stessa era quella che poneva questa qualità comunissima
nelle cose ( materia della cognizione ) , e da esse toglien
dola, non faceva che ritogliere il suo proprio: peroc
ché, come dissi, ciò che nelle cose v'ha di comune ,

(1) Quindi ha luogo la grande sentenza degli antichi, che « le cose con
tingenti non sono, ma Dio solo è ».
(a) Art. 111.
I

111
non è altro che un risultamento della relazione ch'esse
hanno colla niente intelligente (i);
Al che certo si replicherà, che dove il vero stia così,
la materia della cognizione, il fatto, per sè solo è cosa
misteriosa ed occulta. Ed io interamente in ciò accon
sento ; ed aggiungo , che quest' attività misteriosa ed
occulta che sta nel fatto, è la radice della stessa co
gnizione; perchè anch' essa è finalmente un fatto , è ori
ginata dalla necessità suprema cominciante nella suprema
di tutte le nature, innanzi a cui conviene al filosofo
chinar la fronte e umilmente adorare.

ARTICOLO Vili.
DICBIABAZIONE MAGGIORE DEL PRINCIPIO ONDE SI G10ST1FICA Li COGNIZIONE
MATERIATA IN GENERALE.

E non sarà inutile che , non potendo noi ricercare


del fatto primigenio della cognizione una ragione fuori
di lui, seguitiamo ad analizzar lui stesso, per trovarvi
dentro la sua ragione.

(i) Da alcuni passi di s. Tommaso sembra, che il grand' uomo abbia ve


duto queste due cose importanti, i.° che Y universalità non si cava dalle
cose , ina in esse si mette dalla mente , 3.° che Dell'aggiungere che fa la
mente l'universalità alle cose sentite consiste l'essenza del conoscere. Tali
rose sono chiaramente espresse dal santo Dottore nel brano seguente : Cum
(licitar universale abslractum , duo inlelligunlur, scilicet ipsa natura rei, et
abstractio SEU UNIVERSALITAS (l'astrazione dunque è il medesimo che
l'universalità della cosa, secondo il santo Dottore). Ipsa igilur natura cui accidit
vel inlclligi vel abstrahi, vel intenlio universalitatis ( s' osservi come qui si fanno
tre sinonimi dell'intendersi, dell'astrarsi, e della universalità della cosa),
non est nisi in singularibus: sed lioc ipsum quod est INTELLIGI VEL
ABSTRAHI, VEL 1NTENT10 UNIVERSALITATIS.EST IN 1NTEL-
LECTU ( S. I, Lxxrv, li ). Qui però quelli che hanno presente la distin
zione die fa s. Tommaso fra le due operazioni ch'egli assegna all' intendi
mento, e che chiama talora i.° illustrari phantasmata, a." abstrahere pluvi-
tasmata, spiegate da me nel Volume II, face. 81, nota 3, troveranno una
ragionevole difficoltà. Sappiano essi adunque, che il santo Dottore nel passo
citato usa la parola abstrahere per significare la operazione che altrove
dice illustrari phantasmata. Poiché egli distingue due specie di astrazione ,
la prima delle quali egli chiama per modunt simplicilalis, e questa è un si
nonimo perfetto dell' illustrari phantasmata , nel qual significato si prende
I' abstrahere in questo luogo; la seconda chiama per modani compositionis
et divisionis , e questo è Y abstrahere propriamente detto, contrapposto iu
altri luoghi all' illustrari.
I 12
§ I.
In che consista l' imperfetto stato che tiene l'estere innato
nella mente umana.

Ho già detto che V essere, da noi intuito per natura,


è presente al nostro spirito in uno stato imperfetto (i).
Cerchiamo , coli' analisi di questa prima e fondamentali'
intuizione, di rilevare in che consista questa imperfe
zione.
Egli è facile di accorgersi , che ciò che manca alla
perfezione dell' essere da noi intuito per natura, sono
i suoi termini.
Noi concepiamo quest'attività che si chiama essere,
ma non veggiamo dove ella riesca , a che ella si ter
mini : come se noi sapessimo bensì che un uomo lavo
ra , ma non sapessimo che cosa quell'azione dell'uomo
ha per oggetto e per termine, se lavora una statua,
una pittura, od a tro.
Non sapendo dunque noi per natura ove termini
quell'attività che concepiamo e chiamiamo essere, av
viene che
j.° L'intuizione di quest'attività non ci può far co
noscere per sè sola veruna cosa reale, perchè le cose
reali sono altrettanti termini di queir attività che si
chiama essere (2).
a.* L'essere da noi intuito per natura, é indetermi
nato, che viene a dire privo de' termini suoi; univer
sale, in quanto che è atto a ricevere tutti qu e' termini
eh' egli non ha ; possibile , o sia in potenza , in quanto
che non ha un atto terminato ed assoluto, ma solo no
principio di atto : in somma si raccolgono in questa
sola osservazione ( che - ciò che noi veggiamo per na

ti) Non j»ià che l'essere slesso possa trovarsi rispetto a sé in Uno slato
imperfetto: io voglio dire, ch'egli ci si presenta per modo, che noi W
possiamo perfettamente torre e vedere coli' occhio della nostra mento, *•
il dobbiamo percepire imperfettamente. La limitazione e 1* iinpcrfoioK
è tutta nostra.
(a) Quindi, ove conoscessimo l'essere perfettamente, cioè con tutti ile-
mini suoi, noi conosceremmo, come dice s. Tommaso egregiamente, tut"
le cose; perocché quicumque cagnoscit, così il santo Dottore, perfetto «*"
quam naturam unwersalem , cognoseil modum quo natura illa palesi tu
beri , ed ex diverso modo existeiidi constituuntur diversi erailus eRli""-
C. G. I, t

-
n3
tura, è la prima allività, ma priva de' termini suoi ,
co' quali solo ella si natura , e formasi una real sussi-
slenza » ) tutte quelle qualità , che noi nel corso di
S[uest' opera abbiamo attribuite all'essere in universale,
òndamento della ragione e cognizione umana.
3.* Se quest' essere , spiegando sè stesso più manife
stamente innanzi alla mente nostra, dall'interno di sè
emettesse la sua propria attività, e così si terminasse
e compiesse, noi vedremmo allora Dio: ma innanzi che
ciò avvenga , e non veggendo noi che pur quell' essere
così imperfettamente come lo veggiamo naturalmente,
quell'attività prima che cela a noi il suo termine; non
possiamo dire altro se non quanto disse mirabilmente
8. Agostino, cioè che in questa vita, certa, quamvis
adirne tenuissima forma cognitionis attingimus Deum (i).
4-° Finalmente quell'attività che il sentimento ci
presenta, non uscente dall'interno dell'essere stesso,
forma della intelligenza,, ma veniente altronde, vedesi
da quello essenzialmente separata e distinta (2); e nulla-
dimeno con lui si giudica, e si conosce da lui dipen
dente ; si conosce un termine di lui parziale, contin
gente, inconfusibile con lui stesso; un termine, di cui
è inesplicabile l'origine (3) consideralo in sè slesso, e
che dalla relazione però coli' essere , forma della ra
gione, riceve un nuovo slato, una nuova luce, entra
nella classe degli esseri , si scorge in una parola fatto
partecipe in un modo ineffabile dell' essere.
Di tutto ciò che ci presenta il sentimento , che è
quanto dire di tutta la materia della cognizione, si può
adunque dire , « che non è un' attività che esca dal
l' essenza dell'essere, forma della cognizione , sicché sia
un termine essenziale del medesimo; ma bensì è tale,
che sebbene estranea all'essenza dell'essere , forma della
cognizione, tuttavia non è sussistente, nè si può conce
pire per tale, se non come termine dell' attività del
l' essere stesso ».
Quindi necessariamente si riconosce quell' essere , che

(1) De Libero Arbitrio II, xv..


{1) Con questo si mostra manifestamente, che il panteismo è un assurdo.
(3) La creazione all'uomo è essenzialmente inesplicabile, comi: nllrove
(limosi rcrò.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. i5
..4
è forma della cognizione , come fornito di una duplice
attività : cioè di una essenziale, colla quale costituisce ed
assolve sè stesso, il termine della quale è a noi inco
gnito; e di un'altra, colla quale termina fuori di sè stesso
in altri esseri contingenti da lui distinti, i quali ter
mini vengono presentati alla nostra percezione dal sen
timento (i).
Le quali tutte cose se bene si mediteranno , si ve
drà esser esse de1 risullamenli non del ragionamento,
ma sì della semplice osservazione ed analisi della co
gnizione nostra : ed il lettore non dee avvolgersi, per
bene intenderle , in lunga e difficile serie di raziocinj;
ma in quella vece dee concentrare a tutta sua possa ed
accogliere la sua attenzione in sè medesimo, a vedere e
notar bene tutto ciò che sta nella cognizione umana.

§ 2.
Della similitudirfe.
Noi veggiamo 1' essere per natura : fatto primigenio.
Questa vista dell' essere però è imperfetta : e questa
imperfezione Consiste nel veder noi quell' attività che si
chiama essere, nel suo principio, ma non ne1 suoi ter
mini ne1 quali ella si compisce e si assolve (a).
Quindi 1' essere , non veggendolo noi compito ed as
soluto , egli è l1 essere comunissimo, cioè un essere che
può terminare in infinite cose , o essenziali a lui, o
anco non essenziali. Questi termini dell' essere da noi
percepiti , sono le cose reali.
Il nostro sentimento, od una sua modificazione che
noi proviamo , è uno de' termini dell' essere da noi
intuito naturalmente. Pel sentimento adunque noi co
nosciamo le cose , o sia i termini dell' essere stesso (3)'
Ma un medesimo sentimento viene, e cessa, e ri vìe-
ne : quindi l'essere, il più delle volte può replicare lo
stesso suo termine un numero indefinito di volle.
Quando noi abbiamo veduto l'essere terminato in un
sentimento , noi abbiamo percepito ( mediante il senso )

(1) E perciò la creazione non è necessaria, come recentemente si sjucò9


in Francia.
(2) g I.
(3) Noi abbiamo spiegato a luDgo come ciò avvenga, nel Voi II
. . n5
un essere individuale, ed è ciò che chiamammo perce
zione individuale. Ma quando noi consideriamo quel sen
timento ( termine dell1 essere ) unicamente come pos
sibile a rinnovellarsi un indefinito numero di volte,
allora abbiamo Videa o specie della cosa, e con essa co
nosciamo un dato termine in cui può terminar Tessere,
ma non conosciamo eh' egli vi termini effettivamente: in
queir idea noi abbiamo Yessenza (conoscibile) della cosa.
L'essenza della cosa è ancora una cosa ideale; eli' è
un' attuazione e determinazione dell' essere, ma non
completa ancora , poiché Yessenza può terminare ella
stessa ad uno e talora ad infiniti individui : questi at
tuano e compiscono ad un tempo 1' essenza e 1' essere
da noi cognito, e sono a noi dal solo sentimento pre
sentati , ove si parli di esseri reali, finiti e contingenti.
Il termine ultimo dell'essere è la sussistenza (i): que
sta è l'atto compito dell'essere: l'essenza dunque e
l' essere comunissimo non è che la cosa in potenza ,
V essere iniziale delle cose.
Quando noi avessimo un torso antico di pietra ; e
scavando sotterra, ov'egli già fu trovato, ritrovassimo
una testa, due braccia e due gambe; noi non avremmo
che a confrontare queste parti col torso, e tosto le ri
conosceremmo per sue , se tali elle sono. Così avendo
noi 1' essere iniziale a noi per natura presente; ove sen
tiamo un sentimento, un'azione qualunque, riconosciamo
questo per finimento e termine di quell' essere che già
avevamo naturalmente in noi concepito. E in questo
raffronta mento e accorgimento consiste la natura del
conoscere.
L'idea dunque della cosa è la cosa stessa priva di
queir atto che la fa sussistere: ma come, avendo il
torso , si conoscono le mani ed i piedi , ove si trova
no; così coli' idee delle cose si conoscono le cose reali
e sussistenti ,' quando si sentono in noi operaie: si ri
conoscono per esseri sussistenti , cioè per attuazioni di
qucll' essere che già si conosce per natura. Quella cosa
dunque che prima si conosce in potenza ( nella mente),
si riconosce poi in alto ( fuor della mente ) realmente

(i) Vedi il valore che noi abbiamo assegnalo a questa parola, Voi. II,
face, ig-
ii6
sussistente in sè stessa. E in questo doppio modo di
essere che hanno le cose stesse , nella mente, e in tè,
sta la prima origine del concetto di similitudine, come
ho toccato altre volte ; e si trova la spiegazione di
quella sentenza antichissima , che « ogni conoscimento
nasce per via di similitudine ».
£ che la similitudine , colla quale gli antichi dicevano
che noi conosciamo le cose, fosse quella che passa fra
una essenza in potenza ed una essenza in atto , sicché
sia sempre una e medesima cosa , ma in due modi di
versi ; 1' insegnano manifestamente , e il provano con
una squisita analisi da loro fatta sulla natura della si
militudine. S' oda quel sommo uomo di s. Bonaventura,
colle parole del quale abbiamo illustrate in questo Sag
gio tante nobili verità:
« La cosa, die1 egli, non ha tanta identità colla ssa
« similitudine , da dover essere numericamente un solo
« ente; nè ha tanta diversità da differire di numero.
« — E perciò la similitudine della cosa è per riduzione
<• nello stesso genere della cosa. Poiché uscendo dalla
« cosa, differisce da essa, ma non passa tuttavia in al-
« tro genere. E qui parlo della similitudine sotto il ri-
« spetto di similitudine, non della intenzione di chi
» ne usa ; parlo cioè in quanto ella esce dal soggetto,
« e tuttavia non parte da lui, come lo splendor dalla
« luce » (i).
Nel qual passo vedesi, che, secondo il Dottore citato,
la similitudine ( nella mente ) non differisce di numero
(notisi bene) colla cosa ( sussistente fuor dalla mente l
e nulladimeno è diversa : ciò che si spiega consideran
dola come un'attuazione, un finimento, un termine
della sua essenza possibile nella mente esistente.
Nè l1 Aquinate insegna altramente.
« La similitudine intelligibile , così die' egli , Fa
u mezzo della quale s' intende qualche cosa nella sua

(0 Rcs non habet tantam identitatem cum sua similitudine , ut sint »«■
numero; nec tantam diversitatem ut differant numero. — Et ideo simiiHu'f
rei in eodem genere est per reductionem cum eo cujus est simililudo. Q**
enim egreditur, ideo differì: sed non transit in aliud genus. Et loqua"*
similitudine secundum rationem similitudinis , non intentionis , id est FJ"
a subjecto exit et non reuedit, ul splendor a luce (Iu I. Seni. Disi m.
Part. U, art. i, <j. i ).
»>7
» sostanza , conviene che sia della stessa specie della
« cosa intesa, o anzi la specie stessa » (i).
E in queste ultime parole avvi grandissima luce :
l' idea onde noi conosciamo la cosa , è la specie stessa ;
perciocché è 1' essere determinato bensì, ma non com
pitamente, non col suo termine ancora, il qual termi
ne (2) è la cosa medesina sussistente fuor della mente;
e quindi considerata da sè , non è l' individuo, ma la
specie, in quanto che Tatto suo si può rinnovellare e
ripetere in un numero indefinito d' individui.
Quindi quell' unità perfetta , della qual parla così
spesso s. Tommaso, fra l'intelligente e la cosa intesa,
è l'unità fra l'idea e la cosa sussistente, la qual cosa
sussistente a noi si congiunge col senso; e congiunta a
noi per l'azione sua nel nostro senso, noi internamente
possiamo poi vederla congiunta colla sua similitudine
0 potenza, cioè coli' essere innato. «Ciò che s' intende,
« dice s. Tommaso, conviene che sia nell' intelligen
ti te » (3). E ancora : « Ciò che è attualmente intelligi-
« bile, dee formare una cosa sola coli' intelletto che at-
« tualmente intende (4), come ciò che è attualmente sen
ti sibile è lo stesso senso in atto (5); in quanto poi la cosa
« intelligibile si distingue dall'intelletto, sono entrambi
« (cioè sì l'intelletto, come la cosa) in potenza, siccome
« si scorge avvenir parimente nel senso: conciossiachè nè
« il senso dell'occhio è attualmente veggente, nè ciò
« che è visibile attualmente è veduto , se non allora
« che l' occhio sia informato della specie visibile per
« modo , che della cosa visibile e del vedere ne av-
« venga una sola cosa » (6).
Tutto questo risulta nell' analisi dell' atto col quale
la mente conosce.

(1) Similitudo inlelligibilis, per quam inlelligitur aliquid sccundum suam


substantiam, oportet quod sii ejusdem speciei, VEL MAGIS SPECIES
EJUS (C. G. HI, xlix).
(3) Si parla delle cose contingenti.
(3) Intellectum oportet esse in intelligente (C. G. I, li).
(4) Cioè coWidea dell' intelletto, coli' essenza che si vede dall' intelletto.
(5) La passione die soffre il senso è l'effetto che caratterizza e segna
V ente che V ha prodotto.
(6) Intelligibile in actu,est inlellectus in actu,sicutet sensibile in aclu est
sensus in aclu; secundum vero quod intelligibile ab intclleclu distinguitur,
est utrumque in potentia , sicut et in sensu palei : neque enim visus est vi
dea* aclu , neque visibile videtur aclu , nisi cum visus informatur visibili
specie, ut sic ex visibili et visti unum fiat (C. G. I, li).
n8
E i grand1 uomini che noi citiamo, tatto ciò dedus
sero appunto da un' analisi sagacissima , a cui sottopo
sero l'atto del conoscere, e ne perscrutarono per lai
modo la natura. Essi di tutto ciò conchiusero, che le
similitudini sopra descritte sono i lumi intellettuali, e
che la similitudine universale, cioè V essere in universale,
è, per usare le parole di s. ^Bonaventura , « la luce
della verità che risplende a guisa di candelabro in co
spetto della mente » (i).
Ora, che fu tutta questa analisi del modo onde av
viene il conoscere?
Ella semplifica la difficoltà d'intendere questo rin
goiar fatto della conoscenza , riducendone tutte le sue
specie e varietà in un fatto ultimo e solo, che spiega
tutti gli altri , ma che rimane egli stesso finalmente a
noi misterioso ed oscuro.
Imperciocché la prima questione, « Come la mente
colle idee possa conoscere gli esseri sussistenti » , non
ha più alcuna difficoltà, date e fermate queste due cose,
i.* che noi veggiamo naturalmente Vesserei 2." che l'es
sere che veggiamo sia una cosa cogli esseri stessi , con
siderati però in potenza , sicché quegli esseri , in qnanto
sussistono, non sieno altro che de' termini e finimenti
di quell' essere che già noi veggiamo.
La seconda questione, « Come questi termini e fini
menti dell' essere, che veggiamo fuori di noi, possano
essere da noi conosciuti » , pure riceve grande luce,
considerando che ciascuno di noi è un essere sussistente,
un di que' termini e finimenti dell' essere che veggiamo;
e noi siamo in noi per modo, che quelli che veggiam
l'essere, siamo pur quelli che sentiamo noi stessi. Or
noi come esseri sussistenti sensitivi, siamo soggetti con-

(i) . . . . ubi (in intelligenlia) ad modani candelabri relucet lux veritotu


in facie noslrae mentis (llin. mentis in Deum, cap. III). Egli dice ancora ,
confermando ciò che avea detto prima l' autore dell' opera Della celale
Gerarchia, che « le sostanze intellettuali , perciò appunto che sono inteUet-
« tuali sostanze, son lumi », cioè hanno i lumi in sé medesime: che « l>
i perfezione , e il compimento della sostanza intellettuale è la luce spiri-
« tuale »: che « quella poteuza che è una conseguenza della natura del-
« 1' anima da parte dell' intelletto, è un colai lume iu essa » ; e con questo
lume egli spiega il celebre intelletto agente, e questo modo di dire i?'1
dice che è su/ter verba philosophica et calliolica fundatus (Sul li MW
dulie Sentenze, Disi. XXIV, P. II, art. I, q. i).
giunti e comunicanti con tutti gli altri esseri , sicché
gli esseri esercitano la loro azione sopra di noi, modi
ficando il nostro sentimento; e quindi gli effetti pro
dotti in noi , sono appunto quelli dai quali noi gli al
tri esseri fuori di noi conosciamo.
Tutto ciò è chiaro ; ma tutto ciò suppone la vista
dell'essere in universale, fatto primo, di cui non si
dee cercare spiegazione in altro fatto antecedente. Che
cosa dunque rimane di questo fatto a conchiudere?
Questo certamente, che V essere è conoscibile per sè
stesso; cioè ch'egli ha questa maravigliosa prerogativa,
di poter esistere nelle menti e costituirle. San Tommaso
era già pervenuto a questa conclusione, nella quale,
chi bene intende, la ricerca della natura del sapere
umano si riposa finalmente e si acquieta.
u Le specie intelligibili , cui il nostro intelletto par-
« tecipa , si riducono come in loro prima causa in qual-
« che principio per la sua propria essenza intelligi-
« bile » (i). Questa intelligibilità essenziale di questo
principio dell' intelletto è appunto il fatto ultimo di
che parliamo, dove ogni ricerca finisce e s'appaga. Le
parole di s. Tommaso si possono spiegare in quest'altre,
che equivalgono a quelle del santo Dottore: « Esami
nando ed analizzando la natura della cognizione , si ri
duce ultimamente ogni difficoltà a ricercare come noi
possiamo percepire 1' essere. Ma di ciò non essendo al
tra ragione che il fatto stesso, cioè mostrandoci questo
fatto che noi intendiamo 1' essere, e tutte le cose non
le intendiamo se non mediante l'essere, perchè sono
essere, ci convien dire che l'essere solo abbia una
cotal natura da poter sussistere nelle menti, il che
viene a un dire , da dover essere intelligibile per la sua
propria essenza ».

§3.
Si rinforza la confutazione dell' errore fondamentale della scuola tedesca ,
altrove data (a).
L' errore fondamentale della scuola tedesca ebbe tre
gradi: i.* l' identificazione assoluta delle cose colle idee,

(') S. I, ixmiv, IV.


(a) Voi. I, foce. 322.
130
2.° quindi coli1 intelletto , 3.° quindi finalmente coir no
mo. Noi dobbiamo occuparci del primo, radice degli
altri due.
Kant, da cui quella scuola ebbe principio, diede
principio (t) pure all'errore di cui parliamo, per una
difficoltà da lui veduta, e non potuta risolvere.
Io rimetterò innanzi questa difficoltà ; e mi confido
di farlo fors' anco con più di forza che nelle opere
stesse di Kant e di altri tedeschi ella non tenga.
Esaminando il filosofo di Konisberga il modo come
il nostro spirito percepisce intellettualmente un oggetto
corporeo, gli parve notare, che nell' oggetto è già com
preso il predicato che noi a lui diamo percependolo:
per esempio, quando noi pensiamo una casa grande, la
grandezza, che è il predicato, è già inerente alla casa
stessa percepita, e non siamo noi quelli che gliela ag
giungiamo col nostro pensiero. Viceversa , il concetto
grandezza, applicabile a diversi oggetti, ha in sè la
necessità di trovarsi in quegli oggetti, sebbene a quelli
noi non pensiamo senza 1' uso de' sensi che ce li pre
sentano. Quando poi coli' uso de1 sensi noi percepiamo
quegli oggetti, allora noi vediamo che sono questi og
getti così legati a quel concetto di grandezza, ch'egli
sarebbe vuoto e nulla significherebbe senza di questi.
Per tali osservazioni Kant conchiuse che v' avea iden
tità perfetta fra il concetto nella mente , e V attributo
della cosa fuori della mente. E come se egli fosse ve
nuto ragionando. in questo modo: « Quando io ravviso
iti un dato oggetto sensibile un attributo , per esempio
la grandezza, io faccio ciò per un giudizio, cioè io
applico al medesimo il concetto che nella mia mente
si trova di grandezza. Applicandogli io poi questo con
cetto, vengo a considerare questo concetto di grandezza
come inerente al medesimo oggetto essenzialmente; per
esempio , dicendo, " Questo oggetto è grande » , io attri
buisco al detto oggètto quella stessa grandezza che io
prima pensavo come cosa sua propria. Ora se quella
grandezza che io attribuisco ad un oggetto sensibile è

(i) Dico, diede principio; poictiè egli non immedesimò se non U p>rlf
formale delle cose colle idee , lasciandone dubbiosamente distinta l>
ieria. Fichte compì l'identificazione, facendo che anche la materia nu*lSSf
fuori dalla natura delle idee o dello spirito. ,
quella stessa che io pensavo prima, fora1 è che'l' attri
buto dell' oggetto sia una cosa identica colla mia idea ,
e perciò forz' è che la mia idea , o il mio concetto ,
che è il medesimo, sia un ingrediente necessario a for
mare gli oggetti che io percepisco e che io poi credo
essere cose di fuori di me. E veramente , se la gran
dezza che io vedo nell'oggetto non è quella stessa ap
punto che io penso ; in che modo dunque mi posso
servir del concetto mio di grandezza a conoscere quel
l'oggetto? in che modo posso io giovarmi a ciò di un
concetto che non ha da far nulla con ciò che è nel-
1' oggetto ? che mi varrà 1' applicar io all' oggetto un
predicato che non è punto il suo? questo predicato che
non è il suo , mi farà egli conoscere il suo proprio ?
come si dà questo passaggio , in una parola , da ciò
che è nella mente , a ciò che è fuori di lei nell' og
getto ?
Conviene adunque ammettere , conchiudeva , che i
miei concetti, le qualità nella mia mente , entrino a for
mare e comporre gli oggetti esterni come un elemento
loro necessario. »
Chi avrà inlesa la dottrina che noi abbiairiO più so
pra esposta, non si lascierà sopraffare da questa diffi
coltà , che non si può negare essere nell' aspetto suo
molto sottile e paurosa. Ella si scioglie perfettamente
quando s' abbiano bene conosciuti e meditati i fatti
seguenti, dati dall'analisi della cognizione umana, cioè:
i.* Che l'essenza delle cose (contingenti) ha due
modi di essere, nella mente, e fuori della niente.
a* Che il modo di essere nella mente ò in potenza ,
e fuori della mente è l' atto-delia stéssa identica essenza
che è veduta dalla mente.
3.* Che quindi neLla mente v* ha una pienissima si
militudine colla cosa fuori della mente ( la possibilità ),
e cotale, che sebbene non sia identica colla cosa in se
esistente, tuttavia non differisce al tutto di numero da
lei , ma è il suo cominciamento , e ne costituisce la
specie.
4-" Che se si considerano le cose ( limitate e con
tingenti ) in separato dalla mente , elle sono incognite,
anzi per sè non conoscibili : che la loro relazione colla
mente non è reale in esse, ma solo nella mente : che
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. iré
123
la loro similitudine che si trova nella mente quando si
considerano in relazione colla mente, non è che il loro
essere ideale, una determinazione dell'essere universale,
fonte di tutte le idee e di ogni conoscibilità, come
quello che solo è conoscibile per sè stesso (1).
5.* Finalmente, che le cose limitate e contingenti,
non essendo che altrettanti atti e termini dell'essere
comunissimo dalla mente nostra intuito, si possono da
lui considerar separate; ed è in quanto da lui sono se
parale, che si dicono sussistere fuor della mente, e
che si chiamano cose reali.
Le cose reali adunque non si possono in alcun modo,
senz'alterare la proprietà del discorso, confondere colle
idee, perciocché la loro separazione e reale distinzione
è contenuta nella slessa loro definizione.

CAPITOLO IL

DELLA CERTEZZA DELLA PERCEZIONE, E PRIMAMENTE


DELLA PERCEZIONE DI NOI MEDESIMI.

ARTICOLO L
DELLE COSE CHE NOI PERCEPIAMO.

Noi percepiamo alcune cose: altre le induciamo per


ragionamento dalle percepite.
Diciamo adunque in primo luogo della certezza di
quelle cose che noi percepiamo, e poscia della certezza
di quell' altre cognizioni che acquistiamo coli' analisi e
sintesi delle cose percepite.
In questa vita noi non percepiamo che due specie di
cose reali, cioè i.* noi stessi, 2.* e i corpi. Cominciamo
dalla certezza della percezione di noi stessi.

ARTICOLO II.
IL SENTIMENTO DELl' JO È UN SENTIMENTO SOSTANZIALI.

Jo sono un ente , sono perciò una sostanza.


Io è un sentimento, perciocché io sento me stesso:
mi sento sempre il medesimo in tutte le varie opera

ci) Le cose limitate non essendo da sèj non hanno uè pare htonow-
hililà loro da se.
123
zioni che io fo; e quando non ne fo, mi sento ancora,
perchè vivo e senio di vivere essenzialmente.
Quesl' lo è un sentimento fondamentale, perchè tulle
le altre sensazioni si fondano in lui (i): egli non ha
bisogno di tutte le altre sensazioni, perchè egli è noi
stessi: e quindi noi non possiamo giammai essere senza
di noi: tutte le altre sensazioni hanno bisogno di lui,
perocché tutte le possibili sensazioni non souo che mo
dificazioni di noi.
Gol sentimento Io noi sentiamo dunque un ente,
una sostanza , un soggetto : in tal modo se noi pensiamo
questo sentimento , noi percepiamo una sostanza ; c1 è
dunque una sostanza che noi percepiamo immediata
mente, e questa sostanza siamo noi.

ARTICOLO III.
KOI FEBCEPIAMO NOI STESSI SENZA UN FMNCIFIO DI MEZZO.

Percependo coli' intelletto nostro Noi stessi, noi non


abbiam bisogno d'usare verun principio di mezzo: la
percezione di noi slessi non si fa dunque con un ra
ziocinio , ma con un semplicissimo giudizio.
Conscii del sentimento fondamentale , noi diciamo a
noi stessi : « Esistiamo » : che vuol dire : « è il Noi » ; è
questo senlimento , che è una sostanza , un ente che
sussiste in una interna energia. In fatti nel sentimento
dell' Io I' uomo sente appunto quella energia nella
quale egli è, per la quale si distingue da tutte le altre
sostanze esistenti (2).

(1) Ciò fu provato nella Sezione V, ed ivi spiegatone il modo altresì ,


face. a5i e segg. Questo sentimento sostanziale dichiara ciò che dice san-
l' Agostino nel lib. IX della Trinità, che SUBSTANT1AL1TER nolilia
(sui ) inest menti. In falli l' anima a percepire sè stessa non ha bisogno
diedi volgere la propria attenzione sul proprio sentimento, e immanti
nente percepisce sè stessa. Ma poiché quest'alto di rivolgere al proprio
sentimento 1 attenzione dell' intelletto non è innato con noi, quiudi s. Tom
maso non accorda alla mente di necessario e di sostanziale che uua notizia
abituale di sè medesima: Nolilia qua anima se insani novit, non est in ge
nere accidentis, die' egli, quantum ad id quo HABITUALITEU cogno-
scitur, sed soluta quantum ad actum cognitionis. De Veril. X, \m.
(a) Tuttavia nella percezione di noi stessi , come di tulle 1' altre cose
sussistenti, analizzando quella percezione ritroviamo che l'essere è uu'al-
tività diversa dal sentire. Quiudi noi, che siamo uu sentimento, abbiamo al
tronde P essere, e non da noi stessi. ÌC duuque male usata la frase, che noi
distiamo per noi stessi, la quale si usa da alcuui filosofi iu Germania ed iu
1 2:\
Comprendendosi adunque nel sentimento Noi la no
stra particolare sussistenza , P intendimento non ebbe a
fare altro, al fine di percepire Noi , se non di rivol
gere la sua attenzione a Noi, e riconoscere quella esi
stenza reale che nel sentimento medesimo è già posta,
e che perciò egli non ha bisogno di supplire : il qual
riconoscimento egli il fa sempre mediante la nozione del
l' essere che è in lui.

ARTICOLO IV.

CERTEZZA DELLA PERCEZIONE DELL* lo.

Non potrei dimandare se è certa la percezione del:


1' Io, ove questa percezione non fosse data.
Oltracciò, vera o illusoria, ella è data dalla natura,
perchè si compone di due fatti primigenii, i." dalla
forma o idea dell' essere, a." e dalla materia o senti
mento fondamentale, che si suol segnare col monosil
labo la.
Se è dunque data, è ella vera e certa?
L'idea della esistenza è per sé giustificata, come
sopra abbiamo dimostrato (i), ed ella è la prima parte
di questa percezione.
Il sentimento dato dalla natura (Io) è giudicato esi
stere, e questo è il giudizio che costituisce la per
cezione intellettiva dell' Io , e del quale si cerca h
giustificazione. La questione dunque, « La percezione
dell' Io è ella certa ? » prende anche questa forma: «Il
mio intendimento giudica rettamente , nell' applicare il
predicato universale di esistenza al mio sentimento »!
La risposta a questa dimanda è contenuta nel prin
cipio generale dell' applicazione della forma della ra
gione ( predicato ) alla materia ( soggetto ) , principio
esposto nel Capitolo precedente.
Ivi abbiamo veduto, che ogni attività , ogni senti
mento non è che un' attuazione o un termine dell'attua
zione dell'edere : quindi è ben applicato questo predicalo

Francia. Più tosto si fa con questa considerazione manifestamente


grande sentenza di sant'Agostino e d'altri padri, che le creature
sono al tutto nulla, il che abbiamo Osservato più sopra,
(i) Face. 28 e segg.
ia5
al sentimento che costituisce Y Io , e la percezione di
me stesso è la più certa di tutte 1' altre ( di cose con
tingenti ) , perchè la più immediata , e altresì condizione
di tutte V altre.

ARTICOLO V.
COME S. AGOSTINO PILLA CERTEZZA DELLA PERCEZIONE DI NOI STESSI
TOLSE A CONFUTARE GLI ACCADEMICI.

Sant'Agostino mosse dal punto immobile della per?


cezione di Noi stessi (i) a ribatter gli Accademici, e lo
fece nel modo seguente. = « In questo ( cioè nel giudizio
che noi viviamo) « non temiamo punto, che da qualche

(i) Non è però che sant'Agostino avesse messo per prima verità , da
cui tutte F altre dipendono, l' lo esisto di Cartesio. Questa proposizione di
Cartesio manca di forza, se non suppone la sua maggiore, come ho di
mostrato nel Voi. II, face. 443 e segg.j e a torto fu detto e ripetuto le
mille volte, che il principio della filosofìa di Cartesio era il principio della
ilosofìa di sant'Agostino. Il santo Dottore è partito dall'io esisto, come da
ina verità evidente, e non contrastata dagli Accademici eh' egli confutava ;
na non come dal primo vero. Quando ha parlato di questo, egli allora ha
ibbandonato nel volo della sua iqente il soggetto , si è sollevato all' ogget
to , si è innalzato fino all'essenza della verità stessa priva di tempo, di
uogo, di angustie, di limili, e n'ha veduta la luce più certa e immobile
Iella propria esistenza; ed allora ha detto queste preclare parole: FACI-
AUSQVE DUMTAREM VIVERE ME, QUaM NON ESSE VERI-
VATEM QUAE PER Ed QUAE FACTA SUNT INTELLECTA
:ONSPIClTUR (Confess. vii, x).
E volendo osservare e distinguere la persuasione ch,e ha l'uomo delle
rime verità, e la persuasione dell'esistenza di sè stesso, dico che per
uelle e per questa la persuasione è somma ; ma v' ha tuttavia questa es
crabilissima differenza. Rispetto alle prime verità è impossibile semplice-
lente pensare che non esistano; rispetto a me non è impossibile pensare
la mia non esistenza, ma solo è impossibile che io assenta con cogni-
ione diretta alla proposizione che dice me non essere. Questa diversità fra
.' verità prime e necessarie, e la verità di fatto della mia esistenza con-
ngente, è fermata eccellentemente da s. Tommaso, e mostra l'assoluta
«possibilità che ha l'uomo di essere veramente scettico, cioè di rifiutar
assenso alle prime verità. Ecco le parole di s. Tommaso. - Pensare d'al
cuna cosa ch'ella non sia, può intendersi in due maniere. Nella prima,
che cada semplicemente nell' apprensione la cosa non essere; e in questa
nulla impedisce che l' uom pensi sè non essere, siccome può pensare un
tempo sé non essere sluto. Ma non potrebbe così cadere nell' apprensione
che il tutto fosse nello slesso tempo minore della sua parte (è uno de'
primi principi), poiché l'un termine esclude l'altro. Nella seconda ma
niera può intendersi che all'apprensione s'aggiunga l* astenso j e cosi
non è alcuno che possa pensare sè non essere con assentimento a ciò :
poiché in qualsiasi cosa ch'egli percepisca, percepisce sempre (abitual
mente) $è stesso » {De Verit. Q. X, art. xii).
126
« similitudine di vero forse noi siamo ingannali, per
ii ciocché certo è che vive eziandio quegli che s1 ingan-
« na ; nè in veder ciò , s' hanno a contrapporre di
a quelle obbiezioni che al vedere esterno si co u trappoli
ci gono, cioè che qui forse noi c' inganniamo, come
« quando s'inganna l'occhio che vede il remo infranto
a nell' acqua, e come a' naviganti par di vedere muo-
« ver le torri , e altre cose infinite le quali sono al-
« tramente da quello che si veggono} conciossiachè quel
« vero di che parliamo non vedesi per occhio di carne.
« Un' intima scienza è quella per la quale noi sappiamo
a di vivere; e qui nè pur l'Accademico può dire, Forse
« dormi, e noi sai, e vedi sognando. Certo le cose ve
ci dute in sogno similissime sono a quelle vedute io
« veglia; e chi noi sa? Ma chi si sta certo della scienza
u del viver suo, non dice con essa, So di vegliare;
« ma, .So di vivere : sia dunque eh' egli dorma, o sia
« che vegli , egli vive. Nè in quella scienza può avervi
u inganno per sogni ; perciocché anche il dormire, an
te che il veder cose ne' sogni , è operazion di chi vive.
« Nè l'Accademico contro questa scienza può dire , Tu
« sei pazzo furioso forse, e noi sai; poiché le cose che
« appajono a' sani, sono simigUantissime a quelle che
« veggono i pazzi: ma chi impazzisce vive. Nè contro
u gli Accademici altri dice, So di non esser pazzo; ma,
« So di vivere. Mai non può dunque ingannarsi o
« mentire quegli che dice saper di vivere. Si gettino
« pure mille generi di false visioni contro colui che
« dice, So di vivere: nulla di ciò temerà egli, con
ce ciossiachè anche chi s' inganna vive » ( i).

ARTICOLO VI.

DI ALTRE VERITÀ* CflE PARTECIPANO DELLA STESSA CERTEZZA DELLA FEHCEZIOSi.


dell' lo.

E s. Agostino da quella immobile certezza del viver


nostro e del nostro essere , molli altri veri deduce in
questo modoi
« Ma se tali cose sole all' umana scienza appartenes
ti sero, assai poche sarebbero; se non che in qualsiasi

(i) De Trinit. L. XV, c. xu.


127
u genere a tale si moltiplicano, che non solo cessano
« dall' esser poche, ma ancora si veggono tendere ad un
« numero infinito. Poiché colui che dice , So di vivere,
u dice di sapere una cosa : ma se dica , So di saper di
« vivere ; già le cose son due, e il saper di saper
« queste due, è sapere un terzo vero: così si può ag-
« giungere il quarto , e il quinto, e innumerevoli, se a
« ciò V uam bastasse. Ma poiché non vale a comprcn-
« dere un numero innumerabile per addizione di sin-
■ gole cose, nè a recitarle innumera bilmen te , alraen
u questo stesso senza dubbio comprende, e dice, quella
« serie esser vera , ed essere si innumerabile, che vera-
« mente l' infinito suo numero egli non possa compren-
« dere. Il medesimo osservar si può nella certezza della
a volontà. Poiché potrebb' egli essere che non fosse
u imprudente risposta il dire Forse t' inganni , a chi
« dice Voglio esser bealo? E se dica, So di voler ciò,
u e so di saperlo; già a queste due può aggiungere
« una terza affermazione, di saper que' due veri ; ed
u una quarta, cioè di sapere eh' egli sa que' due veri ,
■ e simiglianlemente all'infinito può procedere (i). Me-
u desimamente se alcuno dica, Non voglio errare; sia
« ch'egli erri, sia che egli non erri, non sarà egli

(i) Non bassi a credere che questa osservazione di sant'Agostino sia


una vana sottigliezza d'ingegno, e che questi veri che annovera sieno di
stinti di parole e non di realtà. Anzi l'uomo che sa, troverà qui forse
una osservazione acutissima , ed utile a ben conoscere la natura delle co
gnizioni umane. Sant'Agostino distingue le diverse riflessioni che la mente
fa sopra le proprie cognizioni , e nota che ogni riflessione è un atto nuovo
della niente distinto dal precedente, e che produce una cognizione nuova.
Ciò è di somma rilevanza a sapersi , e massimamente applicandosi alla
spiegazione de' fatti della mente. Noi abbiamo più volle in quest'opera
dovuto far uso della distinzione fra la cognizione riflessa, e la cognizione
diretta; e mostrar come 1' una non sia l'altra, l'una non sappia dell'altra,
l'una si trovi talora in contraddizione coli' altra ( Ved. fra gli altri luoghi il
Cap. IV della Parte antecedente, art. v-vm). Una riflessione sopra la cogni
zione clic già l'uomo ha, il sapere di sapere, è aumento tale di scienza, che
sta questa cognizion nuova alla prima come il molto al poco, e fin anco come
l'infinito al finito. Colla cognizione riflessa si domina e signoreggia la di
retta a sua voglia; e solo per la riflessa, quella è in nostro arbitrio. La
scrittura non si sareblic mai trovata , ove non ci fosse slata una riflessione
sulla lingua. I numeri sono un' invenzione dovuta alla riflessione sulle idee
de' medesimi; le lettere algebriche sono il prodotto d'una riflessione sopra
i numeri ; le funzioni analitiche nacquero da una terza riflessione sulle
lettere algebriche. Ecco che cosa voglia dire questo apparente giochetto di
parole, sapere di sapere di sapere I È la formola più semplice che esprime
l'ordine d'idee, a cui appartengono le funzioni analitiche.
128
« sempre vero che errare egli non vuole ì Chi è che a
« costui non rispondesse imprudentissimamente dicen-
« dogli , Forse t inganni? mentre ov' anco s' inganni,
« egli tuttavia non s' inganna in questo , nel non vo«
« lersi ingannare. E s' egli dice di saper ciò , può ag-
« giungere un numero quant' egli vuole grande di verij
« ed egli ben s' accorge che il numero va in infinito.
« Poiché chi dice , Non voglio ingannarmi , e so di non
« volerlo, e so di saperlo, già egli può, sebbene con una
« incomoda locuzione, di qui mostrare un infinito numero
« di veri: ed altre cose si trovano, valide assai contro agli
« Accademici , i quali contendono nulla potersi sapere
« dall' uomo » (i).

ARTICOLO Vii.
OSSERVAZIONE SULLE PERCEZIONI INTELLETTIVE DE* SENTIMENTI.
Osserverò, per conclusione di questo Capitolo, ch'egli
è impossibile , che ciò die ci si presenta all' intendi
mento e ciò che conosciamo sieno cose diverse : poiché
presentanosi una cosa; vuol dire sentirla : ed è la cosa in
quanto da noi è sentita, che noi percepiamo: quindi la
cosa in quanto è sentita, non può essere non identica
a sè stessa in quanto è conosciuta con una cognizione
diretta , cioè percepita intellettivamente : perciocché
percepirla , noti è che Sapere di sentirla. Sicché là per
cezione intellettiva ha lo stesso termine identico della
sensazione, che è suo oggetto prossimo : non può avervi
dunque difformità di una cosa con sè medesima, nò
perciò falsità in simile cognizione. Questa riprova della
percezione intellettiva nasce dall' unità e semplicità dello
spirito nostro, che congiunge in sè il sentimento e ls
intellezione.

ii 'i ,
(1) De Trinit. L. XV, c. KB.
129
CAPITOLO III.

DELLA CERTEZZA DELLA PERCEZIONE DB* CORPI.

ARTICOLO I.
difficoltà' nel provare la certezza della percezione de' corti (i).

Nella percezione di noi stessi ci sono dati dalla na


tura i due termini fra' quali si fa il giudizio , cioè il
predicato ( 1' essere in universale ) ed il soggetto ( l' Io,
ente reale e sostanziale ). Questi due termini , congiunti
nell' unità del soggetto percipiente , formano la perce
zione dell' Io, sulla quale non può cader dubbio: poi
ché l' idea dell' essere è idea giustificata per sè , è la
verità; l' Io è la materia della cognizione, da noi punto
non alterata in percependola, perchè consiste in un
sentimento, il quale per sua natura è tale quale appa
risce. La percezione dunque dell' Io semplicissima non
ammette alcun raziocinio in mezzo , alcun uso di prin
cipio mediatore , ma solo 1' applicazione del principio
primo di ogni cognizione.
Ma non è fornita di tanta semplicità la percezione
del corpo.
Nel sentimento de' corpi noi proviamo e sentiamo
un' azione fatta in noi , quindi un' attività ; ma tutta
via questo agente non ci si presenta nel nostro senti
mento come un ente in sè , indipendentemente da ogni
relazione esterna. Il sentimento adunque, come tutte le
sensazioni de' corpi , non ci fa sentire questa sostanza ,
che si chiama corpo , nella sua propria entità ; ci fa
solo sentire l'attività di questa sostanza in noi, quindi
in una sua peculiar relazione con noi, in quanto agi
sce, e non in quanto ella è.

(1) Gli scettici rivolsero contro la percezione de' corpi tutte le loro armi,
come ho detto di sopra.
Sant'Agostino scrive cosi : Cum enim duo sint genera rerum quae sciuntur,
unum earum quae per sensus corporis vercipit animus, alterum earum quae
per se ipsum (veggalisi qui assai ben distinte da sant' Agostino le due ma
niere di percezioni da noi poste, i due fonti della materia delle cognizioni) :
multa Ufi philesophi garrierunt contro corporis sensus; animi autem quas-
dam. firmissimas per se ipsum perceptiones rerum vcrarum, quale illud est
quod dixi, Scio me vivere, nequaquam in dubium vacare poluerunl. De
Trinii. L. XV , c. xii.
Rosmini, Orìg. delle Idee, T. III. 17
j3o
Ed anzi veramente V azione del corpo noi la perce
piamo solo come passione. Tale ci è presentata neben-
timento. L' intelletto poi è quello che vede questa pas
sione, non più dalla parte di chi patisce, siccome la
esperimenta il senso , ma dalla parte di chi agisce,
e quindi la cangia a sè stesso in una azione, e contem
poraneamente riconosce un agente diverso da sè,un
ente, una sostanza, della qual solo è proprio l1 agire.
Pertanto queste operazioni intellettive hanno bisogno
di giustificazione; ed è ciò che debbo io ora entrar
a fare.

ARTICOLO II.
L* INTELLETTO GIUSTAMENTE VEDE On' AZIONE NELLE PASSIONI CHE SOfflU
LA NOSTRA SENSITIVITÀ*.
Già ho mostrato altrove, come passione ed azioni
sieno vocaboli che esprimono due relazioni d'una cosa
stessa : e come l'intelletto dalla passione che soffre il
senso percepisca un'azione (i).
Quella dottrina può soggiacere alla seguente difficolta:
11 senso percepisce la passione e non 1' azione. L' intel
letto non può percepire la prima senza la seconda,
perchè si dice la seconda inchiusa nella prima: qui
pare averci contraddizione.
Ma si risponde in questo modo : Vero è che il senso
percepisce la passione e non 1' azione , poiché la prima
ha un'esistenza diversa dall' altra. Ma V intelletto non
percepisce già la passione , ma sì il concetto della pai-
sione ; e il concetto della passione non può esistere
senza che s' inchiuda in esso il concetto dell'azione:
perciocché questi due concelti sono relativi , ed uno S
rinserra e implica vicendevolmente nelT altro.
Ma che è questo concetto? come l'intelletto si forma
il concetto della passione? Riassumiamo brevemente le
dottrine spiegate nella Sezione precedente.

(i) Voi. II, face. 229 e segg.


i3i
ARTICOLO III.

10 STURO DUMO DALLA PASSIONE CU SOFFRE IL SENSO PERCEPISCI E CONOSCE


UNA SOSTANZA CORPOREA.

Il principio di cognizione è questo : « L'oggetto del


l' intelletto è 1' essere » ; o in altro modo : « L' intel
letto , se percepisce , dee percepir qualche cosa » (i).
Or quando noi, esseri dotali d' intelletto, siamo con-
scii di una modificazione, diciamo naturalmente (2):
« Ecco un qualche cosa che non è noi ». E il dir ciò
è ragionevole e necessario; poiché, checché sia, sempre
un qualche cosa dee essere: giacché sentiamo che, ta
lora a nostro malgrado, talora a grado, sempre però
ci vien fatto forza ; tal passione non è un nulla : dun
que è un qualche cosa.
Poi diciamo: « Se qui ci ha un qualche cosa, ci dee
aver una sostanza»; poiché tutto ciò che si dà, o è
sostanza, o appartenenza di sostanza: non c'è mezzo
alcuno (3).
Veggiamo dunque che sia la sensazione che noi pro
viamo. Non è un sentimento sostanziale come quello
dell' Io; dunque accidentale: non è sostanza; dunque
appartenenza di sostanza. Ciò dunque che rispetto a noi
è passione , rispetto all' essere da noi concepito è azione.
Ciò posto , svanisce la difficoltà proposta. Il senso
non potea percepire l'avvenimento, che nel suo essere
di passione, non essendo egli una potenza oggettiva:
non potea percepire un agente, che nel proprio patire,
e quindi né manco potea percepirlo colla relazione di
azione. Ma 1' intelletto, facoltà di veder le cose in se,
necessariamente vede l'essere agente: perciocché è in
quanto una cosa ò in sé, che fa le sue operazioni, es
sendo 1' operare una conseguenza dell' essere. L' essere
è attività essenziale; é la prima attività da cui tutte
1' altre dipendono : dunque è proprio dell' intelletto il

(1) Voi. II, face. 171.


(?) Ci muovono a ciò i bisogni c gl'istinti, come abbiamo detto Voi. II,
face, (ji e segg. , e face. 470-
(5) Nel Voi. II, face. ì6j e segg., abbiamo dimostralo a lungo la ne
cessità assoluta di questa illazione. Non è però necessario che ci abbiano
sempre accideuti nelle cose.
i3a
veder sempre nella passione l'azione , e nell' azione V a-
gente, e nell' agente 1' essere in sè, la sostanza (i).
S' intenderà ora che sia il concetto di passione. Egli
non è che 1' azione considerata relativamente all' ente
che da lei patisce. Nel concetto di passione si racchiude
adunque quello di azione : perciocché quel concetto di
scende da questo . come questo discende dal concetto
di un agente. Concludendo: come la percezione dell'/o
si fa mediante due elementi dati dalla natura, senza
intervento d'altro principio, così la percezione de' corpi
si fa mediante l' unione di due elementi dati dalla na
tura, coli' intervento del principio di sostanza (2), che
s'applica in questo modo: La passione sensibile è eoa
relativa a noi, e che non è da noi. Dunque dee esistere
da qualche altro essere, diverso da noi (3).

ARTICOLO IV.

Nella percezione de' corpi c'è dunque 1.? la perce


zione dell' Io colla sua modificazione o passione sensi
bile, a.* l'applicazione del principio di sostanza alla
passione sensibile dell' Io : da cui viene il concetto so
stanziale del corpo.
La percezione dell' Io e sue modificazioni fu giusti
ficata nel capitolo precedente.
11 principio di sostanza fu giustificato altrove, aven
dolo noi ridotto ad una equazione col principio di con
traddizione (4) ; come abbiamo ridotto questo ad una

(1) Vedi Sez. V, P. IV, c. III.


(a) Sez. V, P. II, c. I.
(3) Ciò che colla parola corpo si esprime , è un essere in quanto fi '
noi un'azione avente un dato modo (estensione). Or chi considerasse Tei
ere corpo, indipendentemente da questa azione, non considererebbe più e»
che con questo vocabolo corpo si chiama. Avvertasi sottilmente a questo;
perciocché é ciò che spiega la denominazione di percezione de' corpi. S
dice percezione in quanto il corpo esprime un agente su noi. Non focena
adunque del corpo un essere astratto, o incognito, insensibile: poiché cosi
facendo, la nozione di lui è distrutta. Quindi l'influsso fisico fu per noi mess
fuori
(4) diCiòquestione.
abbiam fatto nella Sezione V , P. IV , c. II e III. Riassumendo
in poche parole quella dimostrazione , ecco qual fu : - Se qualche co»
esiste e non è l'energia di esistere, dee esistere in altro, cioè avere e W

uergia di esistere, e tic pur


è contraddizione ».
i33
equazione col principio di cognizione, il quale è Videa
dell'essere giustificata per sè slessa (i).
Ma se il principio di sostanza è giustificalo nell' or
dine delle idee, perchè s5 identifica coli' idea dell'essere
in universale, come poi si giustifica per mezzo suo la
percezione de' corpi? cioè a dire, come si giustifica egli
nella sua applicazione agli esseri sussistenti?
Noi abbiam dimostrato, che il principio della sua
applicazione possibile è il seguente: «Il principio di
sostanza non sarebbe necessario nell' ordine delle idee ,
s'egli non fosse valido nelP ordine delle cose slesse sus
sistenti da noi diverse » (2).
Ma quale è questo legame fra le cose sussistenti e il
principio ideale di sostanza? Esso cuna singolare specie
d' identità , che noi abbiamo dichiarala più sopra. In
somma , come il principio di sostanza da una parie
forma un'equazione coli' idea dell' essere in universale,
cosi dall' altra egli forma un' equazione col giudizio par
ticolare col quale noi giudichiamo la sussistenza esterna
di un essere. Così si raggiunge l'imo al sommo, e si
marita per così dire la materia colla forma della co
gnizione. E veramente, se è vero che ciò che non è
da sè dee essere da altro, fora' è il dire che anche que
sta singolare proposizione , colla quale io dico che la
modificazione di me non è da sè ne viene da me. debba
realmente venire da altro.
CAPITOLO IV.
DELLA CERTEZZA DEOLI ENTI CHE NON SI PERCEPISCONO,
MA SI DEDUCONO DA QUELLI CHE SI PERCEPISCONO.

ARTICOLO I.
QUALI OallO CU ESSEBI CHE «OH CONOSCIAMO FU UNA PERCEZIONE,
MA PER ON RAGIONAMENTO.
Come due sono le maniere di esseri che noi perce
piamo, cioè l'anima umana e il corpo (3), così due
(1) Face. 28 e segg.
(2) Face. 85 e segg.
(3) Noi percepiamo Noi stessi, e da questa percezione caviamo per
astrazione l'idea dell'anima umana nel modo che abbinino tante volte
descritto in quest'opera, cioè separando il giudìzio sulla sussistenza dal-
l' apprensione della cosa. Medesimamente noi percepiamo il corpo nostro e
i corpi che immediatamente agiscono sul nostro : e da queste percezioni ca
viamo per astrazione l'idea del corpo, sia organico e animale, sia inorganico.
i34
sono le maniere di esseri soprasensibili a cui giunge la
mente nostra per ragionamento, gli angeli (i) e Dio.

ARTICOLO IL
DISTINZIONI FBA t' IDIA E ti GIUDIZIO DILLI SUSSISTENZA DI QUESTI ESSISI.

Due cose si debbono spiegare circa le cognizioni no


stre di questi esseri : la concezione o idea de' medesimi,
e il giudizio sulla loro sussistenza.

ARTICOLO III.
ORDE NASCA LA CONCEZIONE DI QUESTI ESSEKI.

La concezione di questi esseri ( quale ella sia ) ci


viene dall' astrazione e sintesi delle idee delle cose per
cepite, e dall'idea dell'essere in universale.
La nozione dell' intelligenza umana è la più prossima
a quelle concezioni. Spogliando l'intelligenza umana del
corpo, e fornendola di nozioni innate, noi ci compo
niamo una certa idea di angeli.
Spogliando l'intelligenza umana d'ogni sua limita
zione , noi ci avviamo ad avere una colai nozione di Dio.

ARTICOLO IV.
, DEL GIUDIZIO SULL' ESISTENZA DI DIO.

Non è mio intendimento parlare di que' ragionamenti


co' quali si cerca di stabilire 1' esistenza delle angeliche
intelligenze.
L'esistenza di Dio si deduce in molte maniere; la
più comune è quella che prova una causa dell' universo.
La giustificazione del principio di causa fu da noi
data, e mostrato ch'egli forma una equazione perfetta
col principio di cognizione e colla forma della ragione^
Resta a giustificarne la particolare applicazione alia
divina esistenza.

(i) Gli angeli furono grande materia alle antiche filosofie. Non è ma
intenzione di esaminare se colla pura r.lgioue uoi potessimo a»ere prow
rigorosa della sussistenza degli angeli. Mi basta che noi possiamo foranf-
cene qualche idea , anche ove della loro sussistenza non potessimo
certa prova.
(s) Scz. V; P. III.
i35
La percezione delle nature che compongono l' uni
verso è giustificata nel capitolo precedente.
Ora queste nature non sono V essere : ma sì lo hanno:
dunque lo ricevono: poiché tutto ciò che non è l'es
sere, e tuttavia lo ha, dee riceverlo da chi è l'essere.
Dunque chi è l1 essere , dee darlo alle nature che
compongono l'universo, e che noi percepiamo.
Ora questo, che è l' essere , e che lo dà alle crea
ture, è la causa, è Dio.
L' analisi della percezione è quella che in questo ra
gionamento somministra i due fatti seguenti : i.° le
nature esistono o sia hanno l'essere, a.* le nature non
sono esse stesse l'essere.
Applicando noi 1' idea dell'essere , conchiudiamo dun
que da ciò: L'essere alle nature è aggiunto: dunque
1 essere alle nature comincia: poiché il venire aggiunto
loro, o il cominciare (i), è il medesimo.
Ma il cominciare 1' essere alle nature , o 1' essere ag
giunto , è una operazione ( mutazione ). E una prima
operazione ( mutazione ) domanda un ente immobile che
l'abbia prodotta, pel principio di causa (a).
Dunque il principio di causa è bene applicato a de
durre 1 esistenza di Dio. L' esistenza di Dio così de
dotta, è un' equazione perfetta (3) col principio di causa,
cioè uno de' casi particolari, per tutti i quali il prin
cipio di causa avea già prima conchiuso in universale
tutti abbracciandoli, e conchiuso validamente non solo
rispetto alla mente , ma ben anco rispetto alla cosa
sussistente.

(i) Non vorrei che altri s'ingannasse frantendendo il vero senso di questo
comincia. Cominciare non vuol dire che nel momento precedente non fosse;
non si riferisce all'istante precedente, ma all'istante in cui comincia.
Quindi sebbene una natura duri continuamente per de* secoli , si può dire
che comincia ogn' istante, perchè ogn' istante ha bisogno di ricever f energia
che la fa sussistere, l'attività dell essere.
<*) Sez. V, P. III.
(3) Ved. Parte III, cap. I, art. v.
«36
CAPITOLO V.

DELLA COGNIZIONE DELLE ESSENZE.

ARTICOLO L
IN QDM. SENSO SI DICI CBE KOI CONOSCIAMO LE ESSENZE DELLE COSI.

L' essenza è ciò che si pensa nell' idea della cosa (i).
Noi dunque conosciamo tante essenze, quante sono
le cose delle quali abbiamo qualche idea.
Il dire che noi conosciamo le essenze in questo senso,
è giusta proprietà di parlare: il che s' intenderà age
volmente, ove si faccia la seguente osservazione.
Quando noi diciamo, «l'essenza di una cosa», per
esempio deli1 albero, dell'uomo, del calore, della gran
dezza ecc., noi per significare la cosa della quale cer
chiamo l'essenza, adoperiamo de' vocaboli, cioè albero,
uomo, colore, grandezza ecc. Ora a che significare sono
stali imposti i vocaboli ? Noi 1' abbiamo veduto; «i vo
caboli sono stati imposti alle cose in quanto noi le co
nosciamo » (2) ; e se noi aggiungiamo loro un signifi
cato più esteso, abusiamo di essi, passiamo in tenebre,
o creazioni di fantasia. Quando dico adunque albero,
uomo,, colore , grandezza ecc., io nomino cose in quanto
a me sono cognite, che altramente non le potrei no
minare. Che cosa vuol dire adunque cercare l'esseuza
dell' albero, dell' uomo, del colore, della grandezza ecc.!
Non altro se non esaminare che significhino questi vo
caboli , qual sia 1' idea che gli uomini hanno aggiunto
alle voci albero , uomo , colore , grandezza ecc. Poiché,
cercherò io ciò che non hanno aggiunto a questi voca
boli? In tal caso non cercherei più l'essenza dell'albe-
ro, dell'uomo ecc., ma 1' essenza di qualche altra cosa
innominata ed incognita, della quale non potrei io
fare nò pure questa ricerca.
Altri risponderà : Se tale è l'essenza , ella non è che
ciò che si comprende nella definizione delle parole.
Appunto! e in questo e non in altro senso presero
1' essenza gli antichi: Essentia, dice s. Tommaso, com-

(1) Voi. II, face. 317.


\i) Voi. II, face. 241.
l37
preliendit in se Ma tantum, quae cadimi in definitione
speciei (i).
Questa osservazione dimostra , che i filosofi della
scuola di Locke hanno troppo temerariamente messo in
beffa gli antichi, per aver detto che 1' uomo conosce
le essenze delle cose; e per avventura senza darsi cura
d' intenderli , senza mettere studio in conoscere il si
gnificato delle parole che quegli antichi adoperavano ;
i quali , al contrario de' moderni , erano studiosissimi
e tenacissimi della proprietà del parlare; dalla qual
proprietà fedelmente mantenuta può solo venir chia
rezza e fine alle questioni , e senza la quale è un fa
vellare a caso e quasi direi all' impazzata.
Altri ancora dirà , che l' essenza non è ciò che si
pensa nell' idea della cosa , ma più tosto quella pro
prietà che la prima si pensa nella cosa , dalla quale
tutte le altre dipendono. E questo è vero; nè ciò to
glie , anzi conferma e prova la cognizione delle essenze.
Ma chi baderà attentamente , troverà la definizione no
stra più semplice ad un tempo e più rigorosa. Percioc
ché quando si dice aver noi 1' idea di una cosa? In
quel primo tempo che noi ce n' abbiamo formato qual
che concetto: poniamo d'un albero, noi n'abbiamo
l' idea allora appunto che abbiamo concepito quella
proprietà qualunque ella sia , a cui fu aggiunto dagli
uomini la parola albero; non prima, nè dopo. Prima
no, certo ; perchè non avendo alcun concetto di quella
proprietà (a), non sapevam nulla dell' albero: dopo, nè
pure ; perciocché tutto ciò che viene aggiunto a quella
nozione o proprietà a cui spetta propriamente il voca
bolo albero, è altro, che non entra nel significato di
questo vocabolo: sono altre essenze: forse delle essenze
accidentali , che verranno a determinare e attuare l'es-

(i) S. I, in, in. E noi abbiamo veduto che la specie per s. Tommaso non
è che l' idea, o, se si vuole, una maniera d' idee.
(a) Quindi le essenze sono semplici, e non v'ha mezzo, come osserva
vano gli antichi , fra l' ignorarle e il conoscerle : « Chi non tocca , dice
" s. Tommaso, l' essenza di una cosa semplice ( quali sono le cose nella
" prima apprensione che noi abbiamo di esse ) , la ignora del tutto. Per-
■< ciocché egli non può una parte sapere di quella essenza e una parie
" ignorare: perocché ella non è composta»». In Melaph. Arisi. L. IX,
Lect. xi.
Rosmini, Orìg. delle Idee, Voi. III. 18
i38
senza dell' albero , per formarne un albero particolare ,
ma che non sono V albero, preso in sè solo senza più.
Ogni idea semplice adunque contiene un' essenza , e
medesimamente ogni idea composta contiene un' essen
za: perciocché a quell'idea composta sono essenziali
tutti ii suoi elementi (i), per esser tale qual è, per
non essere un' altra.

;.. . . ARTICOLO II. „


ONDE SIA VENOTO CHE 1 MODERNI ABBIANO NEGATA LA COGNIZIONE DELLE ESStSZS.

Ho già detto , che questo è venuto dall' aver essi


preso il vocabolo di essenza in un significato impro
prio ; il contrario di ciò che fecero gli antichi (2).
.1; moderni nel vocabolo essenza intesero non ciò che
noi conosciamo in una cosa, ma ciò che in essa po
trei)]-)' essere anco d'incognito: per esempio, ne' corpi,
oltre le proprietà che noi conosciamo, ve ne potreb-
b' essere alcuna che noi al tutto non conosciamo, da
cui 1' altre dipendessero ; il che noi abbiamo chiamato
principio corporeo , e non essenza corporea (3). Mi spie
gherò meglio.
Noi conosciamo il corpo per un' azione , un effetto
che produce in noi : conosciamo dunque un' attività de
terminata dall' effetto , ed è questa attività 1' essenza
nella ' nostra idea di corpo. Or non potrebb' essere
che una simile attività fosse un effetto parziale di un'al
tra attività a noi incognita? Non possiamo nè affer
marlo , nè negarlo: quest'attività incognita al tulio
non ha nome: tuttavia non potendosi ella dire assurda,
fu cagione che altri dicesse, non conoscer noi l'essenza
de' corpi ^ in luogo di dire, non conoscer noi se quel-
Y essenza, che chiamiamo corpo , dipenda e si radichi
in qualche altra essenza incognita, come effetto 0 alto
in causa o potenza. Gran divario è dal dire l' una, al
dire 1' altra di queste due cose: perocché chi dice que-

(1) Anche quelli che , considerali a parie, sarebbero accidentali : (*'


esempio, « 1' essenza di un panno rosso » è che non solo sia panno,
che sia rosso altresì, altrimenti non sarebbe più il panno rosso, ma una'
Ira cosa , che converrebbe definire diversamente.
(2) Art. preced.
(3) Voi. II, face. 356.
i3g
sta seconda , non dice che a noi sia incognito il corpo,
ma sì qualche cos' altro tutto diverso dal corpo onde
il corpo dipenda.
Anche qui si mostra 1' intemperanza degl' ingegni , i
quali nelle loro ricerche per troppo aflYettamento e avi
dità trasvanno e lasciano indietro di sè ciò che cerca
vano. Ahbiamo veduto già prima in generale alcuni
rendersi scettici; alcuni altri si prossimi cogli scettici,
che sembra che cogli scettici se l' intendano, perchè in
luogo di prendere la verità e in essa fermarsi e appa
garsi, trascorron oltre, cercando altra cosa che meglio
lor debba soddisfare. Così poi , in luogo di fermarsi
alla definizione della essenza, la trapassano, e forman
dosi della essenza un altro concetto capriccioso e gra
tuito , combattono a spada tratta la lor propria fanta
sia , e contendono in gara a provarvi che 1' uomo non
conosce l'essenza, la quale è pur la cosa che solo
conosce (i).

ARTICOLO III.

DELL* VERITÀ* DELLE ESSENZE COGNITE IN GENERALE.

Le essenze cognite sono vere , perciocché per esse noi


conosciamo queir attività della cosa che si comprende
nell' idea della medesima.
Ora ogni idea è contenuta dall' essere che è la ve
rità: dunque ogni idea generalmente parlando è vera.
L' errore si può intromettere solamente nel giudizio
che noi portiamo sulle nostre idee. Cioè possiamo er
rare quando noi giudichiamo che nelle nostre idee si
comprenda più dì quello che realmente si comprende.
Veggianio adunque che cosa si richiegga per non isba-
gliare questo giudizio.

(i) Ove in un oggetto , per esempio ne' corpi, ci venisse scoperto in


ebecchessia modo un principio nuovo incognito prima, dal quale tulle le
altre proprietà discendessero, noi in tal caso conosceremmo una nuova
essenza , non più quella che col nome di corpo segniamo ; c se noi dessimo
a questo principio rivelatoci nuovamente il nome di corpo, questa voce
avrebbe cangiato di significato. Tuttavia, per l'identità dell' atto radicale
dell'essere, ci sembrerebbe in tal caso d'avere conosciuta meglio la natura
del corpo , e 1' avremmo elfeltivamcnle meglio conosciuta. Di ebe non fa
meraviglia, se ia mente infinita conosca in una sola essenza tulle le cose.
ARTICOLO IV.
LIMITI DELLA NOSTHA COGNIZIONE NATUBALE DILLE ESSENZE.

Circa la cognizione delle essenze noi possiamo fare


due serie di questioni , la prima riguardante la mia
cognizione individuale, la seconda la cognizione del
l'umana natura.
Circa la mia cognizione particolare posso dimandare:
Quanto conosco io di una data cosa? Ne ho io tutta
quella cognizione che all' umana natura è conceduto di
avere ? »
Circa la cognizione della natura umana si può di
mandare : " Quali sono i mezzi che ha 1' umana na
tura di conoscere? Quanta è la forza di ciascun mezzo
nel somministrarci le idee o concezioni delle cose? Quali
sono gl' impedimenti universali pe' quali le cose, cono
scibili in sè slesse a noi , non ci sono sempre cono
sciute? Quanta è la conoscibilità delle cose stesse ?
La prima serie di queste questioni non appartiene
alla filosofìa, ma alla prudenza di ciascun uomo, il
quale non voglia presumere di sè , ma giustamente va
lutare il proprio sapere.
La seconda serie è materia della filosofia ; e noi toc
cheremo brevemente di ciascuna di quelle questioni,
riassumendo qui ciò che in varj luoghi abbiamo dimo
strato in quest' opera.
Prima questione. Quali sono i mezzi che ha l'umana
natura di conoscere o sia di formarsi le idee delle cose?
Risposta. Quattro: i.° la percezione, 2.' 1' analisi eia
sintesi , 3." la percezione de' segni o naturali o conven
zionali , e massime in fra questi secondi la parola ,
4.° V integrazione.
Seconda questione. Quant* è la forza e virtù che ha
ciascuno di questi mezzi nel somministrare le idee delle
cose ? cioè quale di questi mezzi somministra idee più
perfette della cosa?
Risposta. Le più perfette idee che può aver 1' uomo
sono quelle eh' egli acquista colla percezione. In queste
idee si conosce V essenza specifica (1) positivamente,

(1) Conviene rimettersi ben presente alla mente la classificazione delle


varie essenze intuite dall'uomo, da noi fatta nel Voi. II, face. 217 e segg.
cioè ta cosa slessa; ed è questa, quand' ella vi sia, che
esprimono i vocaboli che s'impongono alle cose, questa
è quella che viene pure spiegata nella definizione. Que
sta essenza specifica poi mediante 1' analisi e la sintesi
prende tre modi , e ne' varj suoi modi l' abbiamo in
dicata co' tre vocaboli di essenza specìfica perfetta , es
senza specifica astratta , essenza specifica imperfetta (1).
L' analisi , che appartiene al secondo mezzo di cono
scere , scompone l' essenze specifiche (fondamento di
tutto il sapere umano ) , e così forma delle essenze par
ziali ed astratte, come sono le essenze generiche reali e
mentali. La sintesi , che pure appartiene al secondo
mezzo di conoscere, non fa che delle essenze comples
se, aggiunge una certa unione fra le essenze più sem
plici.
Il terzo mezzo di conoscere, cioè pe' segni , ci dà
delle idee più imperfette. Con questo mezzo noi pos
siamo avere le idee generiche mentali più o meno posi
tive (2).
Il quarto mezzo di conoscere finalmente, cioè 1' in
tegrazione, ci dà delle idee interamente vuole di materia
e negative, le quali ci fanno conoscere l' esistenza di
un essere, ma non ci danno di lui altra contezza che
questa dell'esistenza, più una relazione con altra cosa
a noi .cognita perchè ci sia fisso e determinalo.
Ora si dee considerare, che la percezione costituisce
il limite, o sia il massimo della nostra concezione delle
cose : ella costituisce ciò che noi chiamiamo il positivo
dell'idea, che è 1' effetto reale che *la cosa produce in
noi, o più generalmente quella parte di cosa che a noi
realmente si comunica. Questa cognizione, percettiva
delle cose, pertanto è quella che ci serve di regola a

(1) Conviene osservare, che di questi tre modi, solo quello dell'essenza
specifica astratta è in sé veramente semplice j gli altri hanno in sè una
composizione di più essenze accidentali e sostanziali.
(2) Avendo noi l'idea della specie, abbiamo in essa i caratteri altresì
che (bimano i generi. Ov' altri dunque ci desse la comunicazione d'una
nuova specie ritrovata appartenente ad un genere a noi cognito, 1' idea di
quella specie nella sua parte positiva non sarebbe più che generica, per
chè ancora non ci vennero manifestati i caratteri che contraddistinguono
quella specie dalle altre nuove: nella sua parte negativa poi sarebbe speci
fica. Di che si vede, che delle essenze negative e nominali possono essere
per noi tanto specifiche, quanto generiche e universali.
*43
cui riscontrare i gradi e la pienezza della perfezione
delle nostre idee delle cose. Gli altri tre mezzi di con
cepire , cioè l' analisi e la sintesi, i segni e l' integra'
zione, non ci possono somministrare tutto ciò che delle
cose ci somministra la percezione. Quindi di due uomi
ni, l1 uno de' quali abbia percepito egli una cosa, l'altro
l'abbia sentita descrivere solamente da chi l'ha perce
pita, si reputa che quel primo n'abbia più perfetta e
più positiva idea, mentre questo secondo la conosce
solo verbalmente o nominalmente (i). Questo fa sì, che
paragonando fra loro le essenze delle cose medesime ri
cevute per gli mezzi surriferiti, non diciamo di averne
quella piena cognizione che l' uomo può averne . se
non nel caso che n' abbiamo l' idea conseguita col primo
mezzo o sia colla percezione.
Terza questione. Quali sono gl'impedimenti pe' quali
le cose anche conoscibili in sè stesse , non sono all'uomo
pienamente conosciute , cioè percepite?
Risposta. Questi impedimenti non possono esser che
quelli che mettono tale ostacolo, pel quale la cosa non
esercita l'azione di cui ella sarebbe per sè stessa ca
pace in sull'uomo. E veramente non dipende dall'uomo
il far sì che le cose si accostino a lui, ed agiscano in
lui con quella forza di che sono capaci ; anzi questo
dipende da tutt' altra cagione, fuori di tutta l'umana
potenza , e della potenza di tutte le creature; ed ho
messo fra le essenziali limitazioni dell' umano conosci
mento , che « la mente umana non può produrre a sè
medesima veruna scienza , senza che ad essa da qual
che essere fuor di lei vengano proposti gli oggetti di
essa scienza » (a).
Quarta questione. Quanta è la conoscibilità delle cose
stesse.
Risposta. Noi abbiamo veduto , che il solo essere è
conoscibile per sè stesso; egli costituisce la stessa co
noscibilità (3). Quindi, come dicevano i nostri padri,
le cose sono in tanto conoscibili, iu quanto partecipano

(1) Si suppone che la cosa sia tutta diversa dall' altre cose cadute sotto
la percezione di quest' uomo.
(2) Saggio sui confini dell'umana ragione, uegli Opusc. Filosofici Voi. I»
face. 57 e segg.
(3) Face. 119.
dell'essere (i). Ciò però ove si dee mettere tutto il
nerbo e lo sforzo dell'attenzione, si è a conseguire la
cognizione chiara di questo vero mediante una osserva
zione intensa sulla propria cognizione. Perciocché ove
noi considereremo con somma attenzione la nostra co
gnizione, scorgeremo una manifesta ed infinita distin
zione fra l' intuizione dell'essere e la percezione di tutte
1' altre cose , le traccie delle quali tutte si risolvono in
sentimenti in noi cagionati. Allora vedremo, che 1' essere
è impossibile intuirlo senza intenderlo; chè l'intuirlo è ap
punto l'intenderlo. All'incontro i sentimenti li vedremo
per tè non essere punto intesi, e solo cominciare ad inten
dersi da noi quando li riguardiamo in relazione coli' es
sere, cioè li riguardiamo per un' attività , un termine
dell'essere stesso. Di che si vede, i.° che la conosci'
bilità delle cose altra è per sè , altra è partecipata;
come appunto l'essere o è per sè, o è partecipato:
s." che questa essenziale diversità nella conoscibilità delle
cose fa sì , che la percezione che si può avere di esse
sia diversa. E questa diversa natura della percezione
delle cose converrà che noi un poco più attentamente
consideriamo.

ARTICOLO V.

PARTE SOGGETTIVA, E ARTE OGGETTIVA NELLA PERCEZIONE DELLE ESSENZE.

La percezione è il mezzo che ci apporta il massimo


grado di cognizione delle cose; ed è perciò quella re
gola , secondo la quale giudichiamo della quantità del
conoscer nostro ; dicendo noi, che abbiamo una perfetta
concezione della cosa se l'abbiamo percepita, dicendo
all'incontro che ci manca una concezione perfetta se
non 1' abbiamo percepita (a).
Ma non è però uguale la percezione che noi possiamo
avere delle varie cose ; ma di certe cose è più in
tima e piena , ed è più esterna e più superficiale di
ceri' altre. Questa varietà nella percezione dipende da
più cagioni, e fa d'uopo clie sia da noi diligentemente

(0 Unumquodque cognoscibilc est in quantum est cns. S. Tomm. ut i


p"ys. c. I.
(a) Face. 1 4 1 e segg.
■44.
esaminala. Noi prima parleremo di quella varietà di
pienezza nella percezione , che dipende dalla varia co
noscibilità delle cose stesse e dalla nostra essenziale
costituzione.
In primo luogo adunque, ciò che noi concepiamo
mediante la percezione delle cose, in parte è oggettivo,
e in parte è soggettivo. Conviene rilevare e distinguer
bene questi due elementi (i); e prima mostrarne la loro
necessità, proveniente dalla essenziale limitazione di noi
esseri umani.
li1 essere è la cosa conoscibile per sò stessa; egli è
I' oggettività stessa. Tutto ciò adunque che non è f es
sere, è per sè incognito, e dovrà essere reso cognito
dall'essere. Che cosa siamo noi? Non certo l'essere;
noi veggiamo 1' essere , il concepiamo , ma sentiamo
insieme di concepirlo come una cosa che sta presente
a noi, ma che non è noi. Quindi in noi , come intel
ligenti, si debbono distinguere due elementi essenzial
mente distinti : i«* l' essere che noi veggiamo , a." noi
stessi che veggiamo Y essere. L' essere veduto è la co
gnizione; noi siamo il sentimento: la cognizione non ha
bisogno d' essere nota per altro mezzo , perchè ella è
cognizione; il sentimento ha bisogno di una cognizione,
perchè sia conosciuto: l'essere è 1* oggetto, e noi siamo
il soggetto. È dunque necessario, che nella nostra co
gnizione delle cose diverse dall'essere, si mescoli sem
pre qualche cosa di soggettivo, che costituisce la male-
ria della nostra cognizione , e qualche cosa di oggettivo,
che costituisce la forma della medesima. £ di qui si
può derivare il principio col quale discernere la parte
oggettiva dalla parte soggettiva delle nostre percezioni,
il quale è il seguente : « Tulto ciò che nella nostra
concezione di una cosa viene dall' essere , è oggettivo;
e tutto ciò che è messo dal nostro sentimento come
tale (a), è soggettivo ».

(1) Chi trascura di considerare l'elemento soggettivo , renderà l'i**»


baldanzoso e pieno di pretensioni , maggiori che non gli si contengono,
come certe classi di dogmatici fanno. Chi trascura per opposto l' elemento
oggettivo , avvilirà 1' uomo, e lo spoglicrà del suo vero c reale sapere; so
come fecero gli sceltici critici. La ricerca dunque che noi qui facciamo, e
di somma rilevanza per evitare questi due scogli della filosofìa.
(2) Dico dal sentimento come tale, poiché nella percezione inlcllelW
del sentimento vi s' aggiunge già V essere, o per dir meglio vi si ricoo°-
E questo principio è il medesimo che dire : Noi e le
modificazioni nostre sono la parte soggettiva ; se dun
que nella concezione della cosa, tolta la concezione del
noi e delle modificazioni del noi , rimane qualche cosa,
questo qualche cosa è la parte oggettiva della perce
zione : è ciò di che noi possiamo esser certi che non è
messo da noi , ma che si trova nella cosa medesima
percepita. E a ragione d' esempio , quand' io percepi
sco una cosa , 1' esistenza sua non è l'esistenza mia ;
dunque ella è oggettiva: la forza sua non è la mia, dunque
è oggettiva. In somma tutto ciò che io sono costretto
ad ammetter nella cosa in virtù dell'idea dell' essere
puramente, è la sua parte oggettiva.
Dopo di ciò si può dimandare : La parte soggettiva è
ella una parte ingannevole? La parte oggettiva è la
parte verace?
E si risponde primieramente: Nè la parte soggettiva ,
ne la parte oggettiva è ingannevole; purché noi non
prendiamo 1' una per V altra. Certo, se noi applichiamo
alle cose diverse da noi, ciò che a noi soli appartiene,
noi pigliamo un inganno : ma siamo noi costretti dalla
natura a far ciò? No, certamente; noi n' abbiamo bensì
una certa inclinazione sensibile, ma abbiamo il mezzo
in noi stessi da guarentirci dalla lusinga di questa in
clinazione. Se dunque noi prendiamo quella cognizione
che è soggettiva per soggettiva , quella che è oggettiva
per oggettiva, noi non c'inganniamo punto , ma anche
la cognizione soggettiva è per noi verace cognizione ed
utile. Ma quale ò il mezzo che ci faccia distinguere si
curamente la parte soggettiva dalla parte oggettiva delle
nostre cognizioni? L'abbiamo veduto: questo è virtù
essenziale dell'essere stesso: egli è essenzialmente indi
pendente da noi soggetto: egli è oggetto, l'oggettività
stessa. Ciò adunque che noi conchiudiamo delle cose

«ce un atto o termine dell' essere. Quindi nel Voi. II , face. 373 e segg. ,
ho distinto e sceverato la parte extra~soggettiva dalla soggettiva nella per
cezione de' corpi mediante un principio, che non è altro che un' applica- .
zione particolare del principio generale qui riferito. Ivi coli' uso di quel
principio ho trovato, che nella percezione de' corpi esterni v' aveano tre
elementi extra-soggettivi , cioè 1. l'esistenza di una forza , ?.° la moltipli-
cità , 5.° e l'estensione continua: i quali elementi son tutte cose essenzial
mente diverse da noi ( soggetto ).
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 19
i4G
in forza di lui, ciò che non riceviamo da noi stessi,
è la parie oggettiva ; ciò all' incontro che da lai non
qi viene, ma da noi, è la parte soggettiva della cogni
zione. Quelli che non videro, che Tessere da noi perce
pito è una essenza adatto diversa dalla nostra, è cosa
in sè, 'assolata , e che noi come tale lo concepiamo,
confusero 1' oggetto col soggetto, e dichiararono tatti
la cognizione umana soggettiva.
In secondo luogo convien riflettere, che il soggetto
si sente come soggetto , e se noi prendiamo questo sa-
timento per cognizione , noi abbiamo una cognizione
soggettiva. Ma noi possiamo avere anche una cognizione
oggettiva del soggetto, una cognizione propriamente detta.
In una parola, noi siamo il fonte della cognizione sog
gettiva , come l' essere è il fonte della cognizione ogget
tiva. Il conoscerci dunque come soggetti, è un conoscerà
veramente ; e la cognizione soggettiva che può illuder
ci , è solamente quella che noi abbiamo delle altre cose,
.diverse sì dall'essere come da noi soggetto ; poiché
quelle non sono colla propria loro entità nel soggetto
contenute. Dell'essere abbiamo un'intuizione tutu og-
gettiva; di noi una percezione tutta soggettiva; delle
altre cose una percezione mista di oggettivo e di sog
gettivo : i quali due elementi però noi possiamo distin
guere e separare , e attribuire alla cosa la parte ogget
tiva , a noi la parte soggettiva. E in questo modo ogni
specie di cognizione viene avverata e legittimata.

ARTICOLO VI.
CONSEGUENZE SOLLA NATURA DELLA HOSTBA COGNIZIONE DELLE ESSENZE
L' essere dunque ha una conoscibilità assoluta ed es
senziale: noi (soggetto) abbiamo una conoscibilità per
1' essere : le cose diverse da noi e dall' essere hanno 1>
loro conoscibilità per mezzo di noi e dell'essere; in
quanto cioè esercitano una forza su di noi, e noi co
noscendo noi stessi per 1' essere, conosciamo le attiviti
altresì che ci modificano.
Da questa dottrina più conseguenze discendono, 'e
quali mandano luce sull' intima natura della cognizione
umana. È primieramente,
i.* I varj soggetti intelligenti hanno una varia perce
zione del soggetto, perchè il soggetto varia : e questa
varietà dee mettere altresì varietà nelle percezioni delle
cose che sonò diverse dall' essere e dal soggetto , le
quali, come dicevamo, non possono dare che una per
cezione mista di soggettivo e di oggettivo.
3." L' essere che nella mente riluce, non si presenta
come sostanza, cioè come un essere sussistente e per
fettamente compito; e di ciò nasce ch'egli sia comu
nissimo, come abbiamo mostrato. Ora tutte 1' altre cose
non sono conoscibili se non per 1' essere. Quindi è che
la nostra cognizione nello stato presente è essenzial
mente universale, e che il nostro intelletto non attinge
e percepisce nessun essere sussistente e singolare. In
fatti non v' ha alcun essere singolare che sia conosci
bile per sè stesso, ma ciascuno ha bisogno di esser fatto
conoscibile dalla sua relazione coli' essere comunissimo.
Se l' essere che nelle nostre menti risplende fosse com
pito co' suoi termini essenziali, egli sarebbe allora un
singolare percepito essenzialmente dall' intendimento no
stro , perchè 1' essere è di sua natura conoscibile, anzi
costituente la cognizione (i). Sebbene adunque i nostri

(i) Sebbene gli antichi dicessero che la cognizione non era che degli
universali , tuttavia essi seppero conoscere , che ciò che ripugna all' inten
dimento non è l'essere singolare di una cosa , ma quella particolar condì-
lione di tutte le cose contingenti e finite , di non esser per sè conoscibili,
ma solo per l'essere partecipato; di che avviene , che ciascuna cosa con
tingente non abbia con 1' essere una cosi esclusiva relazione, che di uguali
ad essa non ce ne possano avere iufiuite altre; onde la nozione di quella cosn
inchiude la possibilità d' infinite altre alla medesima uguali o simili, o sia (che
è il medesimo) una nozione universale. Di particolare adunque nelle cose non
c' è che la propria loro sussistenza, che nelle cose sensibili è la materia di
che ciascuna cosa è composta. Ora la materia non può essere oggetto del
l' intelletto umano, per la definizione della medesima; giacché si chiama
materia in quanto termina in essa il senso particolare, e in quanto è ri
mosso da lei ogni principio intellettivo. Couciossiachè, ove uoi pensassimo
alla materia intellettivamente , cesserebbe d'esser particolare; ma pur con
queir alto non sarebbe più la materia , ma V idea della materia ( la mate
ria possibile ) : la materia stessa dunque di sua natura non può giungere e
presentarsi per sà al nostro intelletto. Quindi s. Tommaso; Singulare, dice,
non repugnai inlellig'.nti inquantum est singulare , sei iitquanlum est ma
teriale: quia niliil intelligitur nisi immalerialiter , cioè mediante uu' idea
(AI, lxxxvi , t ). Ma eia sussistenza degli esseri spirituali si perce
pisce ella dall' intelletto? la nostra propria sussistenza e individualità si
percepisce con pereczion singolare? Nò pure; e la ragione si è, che anch«
«oi siamo un sentimento, sebbene un sentimento semplice; e per percepirà
un simile sentimento no: gli dobbiamo applicare il predicalo dell' essere ,
"1 quale in quest'applicazione si rimane universale, perchè quest'essere non
imt esaurito nel noi individuale. Adunque nella sensibile pereciioue di
i48
sentimenti sieno particolari , tuttavia la nostra cogni
zione di essi non può esser che universale. E in vero, il

noi stessi noi percepiamo 1' individualità nostra pura e sola col sentimen
to; ma nella percezione intellettiva del NOI quel sentimento sostanziale
ticn luogo di materia della cognizione , e la forma si rimane universale
per modo, che nella percezione intellettiva di noi stessi è compresa Va
lenza di uomo, la quale si ripete e rinnovella in tutti gli uomini, e in
molti più si potrebbe ripetere e rinnovellare. La cosa dunque che sola è
conoscibile nella sua sussistenza e individualità per cosi dire, è l' essere
solo; perchè rispetto a sè egli è particolare e individuale; mentre egli ri
spetto alle cose che ci fa conoscere è universale e comune, perciocché dm
v' ha alcuna di tutte le cose singolari che por lui conosciamo , la quale
lui esaurisca in sè stessa ; sicché quell' essere che ci fa conoscer quella
cosa singola , nello slesso tempo che quella cosa ci fa conoscere, ci
presenta auco la possibilità ( sempre connessa ) d'infinite altre eguali a
quella. E io credo di non dilungarmi in ciò dalla mente di san Tom
maso, ove ben s'interpreti; sebbene v'abbiano alcuni suoi passi, che
nella prima udita sembrano significare il contrario, siccome sarebber
quelli dove insegna che 1' intelletto è conoscibile a sè stesso ( S. I ,
lxxxvi, i )■ Per bene intendere in questi passi la mente di s. Tommaso,
conviene esser pratico de' suoi modi di parlare. Egli sovente usa la parola
intelletto per indicare la forma dell' uomo: siccome, a ragione d' esempio,
in questa sentenza : Inttllectivum principiarli estforma hominis ; nella quale
l' intellettivo principio è l' intelletto stesso , InteUectus est intellectualis ape-
rationis principium { S. I, lxxvi , i ). E quest' uso di parlare è in qualche
modo giustificato dall' etimologia della voce intelletto, che specifica unt
cosa intesa; secondo la quale osservazione anche il senso comune degli
uomini, che affigge alle cose i loro vocaboli, diede a vedere, chiamando
intelletto la facoltà d'intendere, di riconoscere il bisogno d' una qualche
cosa già intesa per sè slessa, acciocché la facoltà d'intendere esistesse.
Oltracciò la ragione per la quale s. Tommaso col nome d' intelletto chiama
talora la slessa forma intellettiva, l'essere, si è perchè dell' essere e del
l'intelligente si fa una cosa sola, per la strettissima e perfetta loro unione,
nella quale veramente si può dir che si toccano; InteUectus enim in aciu,
die' egli , quodammodo est intelleclum in actu ( S. I , lxxxiv , iv )• Cono
sciuto bene quest' uso del parlare dell' Aquinate, si pare, che ciò che io
dico non è che la dichiarazione delle sue parole : il solo essere dunque è
ciò che può essere inteso nella sua singolarità. E perchè l'essere, in quanto
splende nelle menti nostre ed è in queste ricevuto , non è 1' essere co' suoi
termini e finimenti, ma l'essere iniziale; perciò quest'essere si può dire,
iu quanto è concepito da ciascun uomo, A singolare intelletto di ciascuno,
ma più propriamente il principio intellettuale. A maggiore confermaiione di
ciò, e perchè 1' opinione mia si veda fiancheggiata dall'autorità de' sommi
uomini che ne' passati tempi fiorirono, io chiedo che il lettore si inetta no
po' dentro colla sua riflessione in tutto il corpo della filosofia, che derivata
da Platone, di cui Aristotele fu un discepolo , fu universale si può dire na
mondo fino a Cartesio. Egli vedrà che tutta intera quella filosofìa suppo
neva quella verità, che io qui accenno, come suo fondamento. A ragione
d'esempio, Aristotele dimanda : « Come si fa il sapere, se nou mediante
l'uno veduto ne' molti? » ( Mttaph. Ili ) e con questo spiegava la sui
seuteuza , che il sapere avea in sè essenzialmente qualche cosa di aa^?'
sale. Omnia scientia, dice Giovanni Duns , spiegando quel passo del filo
sofo di Slagira , omnis scientia est de universali, quod est unum in nw®1'
'49
conoscere un sentimento non è se non percepirlo nella
sua possibilità , considerarlo come una essenza possibile
ad attuarsi rinnovèllandosi in infiniti individui.
3.° Quindi le nostre percezioni delle diverse cose si
possono ridurre in altrettante forinole che n' esprimano
la natura.
I. L' intuizione dell' essere prende questa formola :
« L'essere s'intuisce in sè, nè si può intuire altramente ».
II. La percezione in generale di tutte l'altre cose am
mette Ja formola seguente: « Si percepisce un essere
determinato dal sentimento ». E questa formola renden
dosi più particolare per le diverse maniere di cose per
cepite , si trasforma nelle seguenti:
a) Noi nell' idea dell' anima conosciamo un essere
determinato da un sentimento sostanziale ( cioè che co
stituisce la sostanza , il Noi ).
b) Neil' idea del corpo conosciamo un essere de
terminato da una certa azione sul nostro sentimento
sostanziale ( sul Noi ).
4." Poiché tutte le cose si vedono esser termini , at
tuazioni , od effetti dell' essere ; quindi si può dire al
tresì iu generale, che « l'essenze che noi conosciamo
delle cose sono gli effetti dell'essere». Noi stessi siamo
un effetto dell'essere, poiché l'essenza nostra non si
potea realizzare in una reale sussistenza, se non rice
vendo 1' atto dell' essere. L' altre cose poi le conosciamo
per gli effetti sopra di noi (1). .
quia de singularibus non est sdentili ( Nel commento sul 1. c. ). Ora se
la scienza universale degli amichi era questa , uua tal scienza supponeva
insieme la percezione dell' uno, e perciò del singolare. Ma che è quest'uno,
questo singolare che si percepisce ne' molti 'l S' intenderà assai chiaro che
sia quest' uno, questo singolare, quando alle sentenze di che parliamo si
avvicinerà la dottrina dell'antichità sull'uno. Questa dottrina diceva, che
fer uno non s' intendeva che l'ente indiviso. L'essere era quello che costituiva
unità; e quindi si prendea talora l'uno per l'ente, e viceversa: Unum
nihil aliud significai quam ENS indivisum. Et ex hoc ipso apparet, quod unum
convertilur cum ente ( S. Tomm. S. I , xi , 1 )• L' ente dunque è quello
elle si conosce per sua natura singolarmente , perchè è il medesimo che
1' uuo j e l' ente veduto nelle cose è ciò che fa couosccr le cose unum in
multisi e questa relazione che ha 1' unico ente con molte cose ( con molli
termini suoi ) è ciò che rende universale necessariamente la cogp'zione
delle cose. La cognizione universale adunque suppone prima di sè uua co- .
gnizione particolare, c in quella si fonda.
(1) Iddio conosce all'opposto i singolari iu tutte le cose, perchè la sua
cognizione non è prodotta dalle cose diverse dall' essere , dagli eliciti , ma
dall' esiere slesso causa delle cose, come dite eccellentemente s. Tommaso,
C. C. I, ixy.
i5o
ARTICOLO VII.
dell' imperfezione della percezione oggettiva.

Sebbene la percezione dell' mere sia oggettiva, e sia


il medesimo che la percezione della verità; tuttavia ella
può variare ne' gradi di luce colla quale Tessere si ma
nifesta alla mente, e la rende possente a' conoscimenti:
i quali gradi di luce maggiore sono perfezione della
stessa essenza della creatura , perchè perfezione della
sua forma -, e non so se fora' anco da questo si possa
ripetere una delle cagioni della diversità degl1 intendi
menti umani , anzi la massima.
Non so parimente se i gradi nella chiarezza della luce
che mostra Tessere alle menti, sieno altri da' gradi
nella quantità delle cose che 1' essere può rivelare in
sè di sè medesimo alle intelligenze.

ARTICOLO Vili.
delle essenze positive e negative.

Questa distinzione fra le cognizioni (i) positive e la


cognizione negativa, ha l'origine sua nella distinzione
fra la parte oggettiva e la parte soggettiva della per
cezione.
Veramente, al sentir nominare essenza o cognizioni
negativa, viene tosto voglia di chiedere: E come posso
io avere una cognizione negativa ? Conosco io, o non
conosco? Se io qualche cosa conosco , questa mia co
gnizione è positiva di sua natura : non v' ha dunque
cognizione che si possa dir negativa.
Ma questa apparente difficoltà si dilegua ove s' abbia
ben conosciuto la natura della cognizione che noi aver
possiamo di una cosa.
Conviene adunque ritenere , che la cognizione che
noi aver possiamo di una cosa sussistente, è composta
i.° da ciò che le discende dall'idea dell'essere, i* da
ciò che noi sentiamo o sia percepiamo sensibilmente
della cosa reale. A ragione di esempio, che un albero
sussista, è cognizione che discende dall'idea dell'essere

(1) Il dire essenza è il medesimo che dire cosa ideale, e cognato"* *


prende laloru uellu slesso significato.
i5i
in occasione della passione che noi ne sofferiamo; che poi
un albero abbia quel tronco , que' rami , quelle foglie
verdi , que' fruiti rosseggianti , con tutte 1' altre sue es
senziali od accidentali qualità, questo non lo possiamo
sapere se non per aver noi co' nostri sensi percepite
tutte queste cose, o insieme, o a parte a parte; per
ciocché se mai non avessimo veduto o sentito cosa si
mile a queste qualità nominate dell'albero, noi non
potremmo in alcun modo immaginarne nè concepirne
nulla. Ora questa percezione sensibile rende l'idea del
l' albero sussistente piena e viva, e in una parola posi
tiva; perciocché in essa l'albero ci è presentato in
quell' attiva forma e stato che egli rispetto a noi può
avere, e sebbene in tal percezione e rappresentazione
dell' albero molto di soggettivo ci abbia ( che noi pos
siamo però cernire e dividere dall'oggettivo), tuttavia
noi ci sperimentiamo tutta quella attività che l'al
bero può esercitare su di noi esseri senzienti, e quindi
apprendiamo e riceviamo tutto quel reale ed effettivo
nesso che la natura dell' albero può aver colla nostra.
Dividasi dunque il giudizio sulla sussistenza dell' al
bero, dalla rappresentazione dell'albero stesso: quello è
interamente oggettivo, perchè non s'estende a giudicare
che della sussistenza ( ad applicare l' idea dell' essere ) :
questa è mista di due elementi, oggettivo e soggettivo.
Ora poniamo che questa cosa che si chiama albero
giammai noi non avessimo percepita : potremmo noi
tuttavia saper che un albero sussiste? sì certo, se ta
luno ce lo dicesse. Ma come sapere, si chiederà, che
ciò che sussiste sia un albero? lo noi saprò certo; ma
saprò però che una cosa che si chiama albero sussiste.
Conoscerò io questa cosa ? Non n' avrò altra cognizione
che questa , di sapere che sussiste una cosa ( cognizione
tutta oggettiva, perchè l' idea di cosa è universale e in
determinata ), e di sapere che si chiama dagli uomini
albero; il qual nome mi determina perfettamente quella
cosa , senza però darmi di essa nessuna rappresenta
zione; perocché mi vien segnata con una relazione, la
quale nulla ha di reale in lei, ma è creata unicamente
dalla mente umana che le impose quel nome.
Potrebbe anco essere la relazione reale, invece di sem
plicemente nominale, e non darmi ancora nessuna rap
presentazione della cosa. Conosca io una frutta, e non
l52
sappia se non questo , che un essere di questo mondo
1' ha prodotta : quest' essere , causa della frutta , è co
nosciuto da me per l' effetto , cioè per una relazione
reale bensì, e atta a determinarmi la cosa perfettamen
te, non però a darmene alcuna rappresentazione, li
quale rappresentazione consiste solo in quel nesso che
ha 1' attività inerente alla cosa col mio sentimento,
cioè nell1 esperimento eh' io fo di quella attività in
sentendo 1' effetto suo , nel cagionarmi una modifica
zione nel mio sentimento. >•,
In somma non conosco la cosa se non per una re
lazione o arbitraria o naturale, e non per la percezione
della medesima. E qui s' avverta, che la relazione è
costituita sempre dall'idea dell'essere; ed è cosa che
appartiene alla parte oggettiva della cognizione , non
solo la relazione di causa, ma ancora quella di segno,
o se v' ha qualsiasi altra relazione atta a determinarmi
una cosa a me per sè medesima sconosciuta.
Ora il conoscere che una cosa è , e il conoscere una
relazione che la determina , non è punto avere una
rappresentazione, come dicevo, l'idea positiva di una
cosa ; perocché questa è costituita solo , per ripeterlo
ancora , « da quell' azione immediata della cosa su di
noi esseri senzienti , la coscienza della quale azione è
la rappresentazione stessa ».
Quindi l' idea nel modo predetto riman vuota di rap
presentazione, e si chiama acconciamente negativa: per
ciocché di tutto ciò che si conosce con quell'idea nella
cosa, nulla v'ha che veramente rappresenti e quasi di
pinga la cosa stessa ; ma tutto appartiene all' idea del
l' essere e sue applicazioni: idea, che per sè è estranea
alla cosa, la qual non fa che parteciparne all' occasione
d'essere conosciuta.

ARTICOLO IX.
dell' idea negativa di dio.
Contro l'idea di Dio, che una lunga tradizione o
dice esser negativa, stanno alcune difficoltà, delie quii
gioverà porre qui un cenno.
Prima difficoltà. Noi ci formiamo, dicono gli opposi
tori, l'idea dello spirilo supremo ed infinito, partendo
dall'idea dell'anima, togliendo da lei tutte le limita
i53
«ioni, e aggiungendole lutti i pregi. Or se 1* idea del
l'anima è positiva , mollo più dee esser positiva quel
l'idea che noi ci formiamo per tante aggiunte.
Risposta. Non è punto vero che noi ci formiamo
l'idea di Dio partendo dall'anima nostra nel modo in
dicato.
Si distinguano nelP idea le due parti accennate nel-
l'articolo precedente: cioè i.° la parte che contiene
una sussistenza e una determinazione mediante una re
lazione | la quale non somministra che un' idea nega
tiva , e nulla ci rappresenta o ci fa percepir della cosa
stessa; 3.° e la parte che rappresenta la cosa, che ci
fa sentire la forza eh* eli' ha d'agire in noi, e di pro
durci così una percezione di sè: questa seconda parte
è la parte positiva , e quasi direi vitale dell' idea : men
tre la prima non è più che uno schema dell' idea , o
i lineamenti fondamentali dentro cui ella trovar si
dee , ma non ella stessa.
Or nell'idea di Dio la prima parte noi 1' abbiamo in
questa vita per le relazioni di causa e d' effetto , di li
mitato e d' illimitato, d' imperfetto e di perfetto , ecc.
Ma per quante sieno tutte queste relazioni, nuli' altro
valgono che a produrci 1' idea nella prima delle due
parti descritte.
Noi però poco ci appaghiamo per natura di avere in
tal modo 1' idea di una cosa insensibile, di conoscer
così le cose quasi direi verbalmente. Molto più poi un
bisogno essenziale, profondo , il primo bisogno della
natura umana , ci sollecita di continuo col desiderio
d'aver pur di Dio un'idea positiva e piena, d' averne
la percezione, d' averne la diretta visione. Ma a tanto
aspiro della natura non puossi quaggiù interamente sod
disfare. Incapaci adunque di percepire quaggiù Iddio
stesso coi mezzi naturali, noi ricorriamo alle sue simili
tudini, e meglio che altrove le troviamo negli spiriti
intelligenti, siccome è l'anima umana: le raccogliamo,
ne componiamo quel concetto che meglio sappiamo. E
quindi medesimo le religioni ricorrono a' simboli , ne
cessari a supplire in qualche modo a quell' idea positiva
e beante di Dio, della quale quaggiù ci troviamo pri
vati , ed alla quale, senza conoscerla , per un istinlo

Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 20


i-54
eccellentissimo della nostra natura indeclinabilmente
aspiriamo (f).

(i) L' idea di Dio dcinque si eompone i ." d'una parte negativa , 1." e d'un»
parie simbolica, o sia in generale composta di similitudini, le quali ten
gono il luogo della parte positiva , ed alla mancanza di questa in qualche
modo suppliscono. E l' una e 1' altra di queste due parli entrano nella re
ligione, ma la parte principsle e fondamentale ò la prima. Se coi to
gliamo via la parte simbolica , ci rimarrà la prima ; ma nulla avremo di
sostituire alla parie clic abbiamo tolta vìa. Noi potremo bensì meditar
Sulla prima parte, la quale si compone tutta delle relazioni di Dio eolle
creature^ e queste meditazioni ci daranno una dottrina di Dio sempre più
completa ed ammirabile, ma che non sarà mai altro che uno sviluppo ed
analisi della parte negativa. Tutto questo sviluppamenlo entra anch' esso
di sua natura nella religione e nel culto di Dio , ajulando egli 1' uomo a
prestare questo culto con maggiore intelligenza ed amore. Non furono adun
que bene caratterizzate la religione e la filosofia dal signor prof. Couriu,
riduccndo la religione a de' simboli, e la filosofia a delle pure concezioni
(Lecon 17 avril i8u8). Le pure concezioni intorno a Dio quante esser
possano, ottenute dalla meditazione e dalla riflessione, entrano tutte nella
religione e ne giovano il culto, il quale non si restringe a' soli simboli.
Al contrario se la filosofia toglie via i simboli , essa non ha nulla da sosti
tuire ai medesimi: perocché tutto ciò che la riflessione può ritrovare
intorno n Dio, non consiste già in ridurre i simboli a delle pure conce
zioni; ma consiste a sviluppare l'altra parte dell' idea di Dio , lasciati al
tutto i simboli , la parte negativa che tutta consta dalle relazioni di Dio
con noi. Egli è ben vero che questo sviluppo si fa in parte per opera d'I
tempo, e coli' applicazione del pensiero riflesso sui primi concetti del
nostro pensiero diretto, e che perciò tutto questo sviluppo si può dire
che appartenga alla filosofia in quanto è fatto col semplice lume della
ragione naturale ; ma egli non appartiene meno per questo alla religione.
Qual opposizione v' ha mai fra la ragione e la religione? Qual diffi
coltà a ciò, che la ragione, la filosofia se così si vuol chiamarla, si oc
cupi di un argomento religioso, di Dio, oggetto della religione? nes
suna. Perchè si dirà che da quel punto che la riflessione si è occupala
dell' oggetto della religione, quest'oggetto sia cessalo dall' esser religioso,
e sia divenuto meramente filosofico? qual divisione è questa? Ha dunque
la filosofia il potere di snaturare le cose , sicché ciò a cui ella s' applica
perda incontanente la sua natura, e il Dio de' filosofi non sia più Dù>,
quest' oggetto del culto dell'anima intelligente non sia più oggetto del
culto, quando l'anima s' è applicata a lui appuuto colla sua parte più no
bile , colla sua attività intellettiva ? La divisione adunque fra la filosofi
e la religione è sistematica e falsa : la religione abbraccia il lutto di Di»,
c la filosofia non ne è che una parte : il tutto e la parte non sono io op
posizione fra loro , né s' escludono a vicenda. La^ religione precsisteva alla
filosofia : e quello che la filosofia , o diremo più tosto la ragione naturale,
ha rinvenuto lavorando sopra di lei, non fu che uno sviluppamenlo mag
giore della religione : né il sublime tratlato di Dio scritto da s. Tommaso,
coli' essere ammirabile per la profondità del pensiero e per l' acume della
riflessione, ha cessato mai di essere religioso, né fu mai considerato altro
che siccome una teologia. In luogo dunque di separare ciò che non è se
parabile, la religione da ciò che la ragione umana applicala alla religione
conosce, sarebbe convenuto distinguere lo slato successivo della religw"
i55
Le similitudini adunque e i simboli d'Iddio non
danno ancora a noi la percezione dell'essenza divina ;
poiché quelle similitudini e simboli non hanno con Dio
che una cotale analogia lontana, e nulla più.
Vero è bensì, che se consideriamo l'idea che dal
l' unione di tutte le perfezioni cognite in un essere a
noi risulta , ella è iti sè stessa più grande , più piena ,
più positiva : ma non è meno mancante, inadeguata
e nulla , rispetto alla rappresentazione di Dio. Il che
maggiormente s' intenderà ove si consideri , che quando
noi abbiamo accumulato tutte le perfezioni possibili in
un essere , noi non abbiamo trovato però ancora quel-
1' atto unico pel quale tutte sussistono, il quale atto
rispetto a Dio dee essere tale nel quale tutte e ciascuna
di quelle perfezioni sia contenuta ed immedesimata ,
della quale perfetta semplicità ed unità nessun esempio
rinveniamo nella natura. Or quell' unità appunto, quella
semplicità di essere è ciò che forma 1' essenza divina.
Adunque fino che non veggiamo l'essere così uno sus
sistente noi non abbiamo un'idea positiva di Dio.
Seconda difficoltà. Se la nostra cognizion di Dio è
negativa , non è cognizione; e rivolgendo noi la nostra
attenzione e il nostro affetto a Dio, questo non si tro
verà mai, non saprà mai l'uomo a chi si rivolga: in
tal caso è per noi come se Dio non fosse.
Risposta. Questa difficoltà non può nascere in chi ha
ben inteso l'idea negativa che abbiamo descritta. Spie
ghiamoci con altre parole.
Sia una cosa non conosciuta da noi uè con perce
zione, nè per similitudine di natura con altra cosa di
cui abbia m percezione (i).

stessa, la quale venne co' secoli sviluppandosi e perfezionandosi, e in


prima fu più simbolica, poi abboudò più di cognizioni pure; e sebbene
a ciò giovassero i continui incrementi del lume rivelato fino alia venuta
dello stesso Gesù Cristo, tuttavia giovò ancora assai l'uso della ragione
confortata da quel lume, la qual ragione non fu messa da Dio nell' uomo
perchè dovesse stagnarvi oziosa ed inutile, ma si perchè dovesse occuparsi
delle più nobili verità, e di tutte nobilissima è quella verità che riguarda
Dio. Per altro la ragione naturale isolata non esistette mai di fatto , e la
riflessione dell'uomo non ebbe mai per sua materia ciò che le sommini
strava il solo pensiero naturale diretto, ma ciò ancora che Dio in un modo
soprannaturale manifestò all' uomo di sè stesso.
(i) Poiché, come abbiamo spiegato , più cose simili, non vuol dir altro
se non più cose conosciute con una sola specie o idea.
Questa cosa a prima giunta ci è del tutto ignota.
Poi se ci fu manifestata la soa esistenza, noi cominciamo
a saper qualche cosa di lei, senza però conoscerne Ver-
senza; sappiamo cioè esistere una certa cosa a noi in
cognita.
Ma quante altre cose non potremmo noi ancor co
noscere circa questa cosa incognita, senza conoscere però
mai la sua essenza?
Infinite relazioni eh1 ella può avere con cose a noi
cognite.
Parlando di Dio , egli ha relazione colle cose , coi
sentimenti , e colle idee, che sono le tre attività che noi
abbiamo più sopra distinte.
Colle cose egli ha la relazione di cagione: cioè di
questa cosa incognita a noi , che si chiama Dio , noi
conosciamo gli effetti. Vero è che gli effetti non ci sve
lano la cosa stessa , la quale resta a noi occulta quasi
dietro cortina: pur tuttavia vero è ancora, che quegli
effetti sono proprj di lei per modo , che ad un altro
essere qualunque non possono convenire , e che perciò
noi per essi quasi per certo segno abbiamo già quella
cosa fissata, e non possiamo più sbagliarla e confon
derla con verun' altra : abbiamo un dato certo che pur
in sè racchiude il concetto positivo, sebbene noi non
possiamo indi cavarlo per la nostra limitazione. E ve
ramente la nozione di creatore contiene la nozione di
Dio, e noi la ci troveremmo , se valessimo ad inten
dere compiutamente che cosa esprime la parola crear
zione; la quale d'origine divina appunto per questo suo
senso recondito si manifesta, conciossiachè noi non pos
siamo intendere un tal vocabolo compitamente per que
sto, che ad intenderlo farebbe bisogno di aver prima
l' idea positiva di Dio che in sè contiene.
Co' sentimenti ha la relazione di sommo bene; poiché
anejiamo continuamente alla felicità, di cui non abbiam
pure che una universal notizia, e quindi altresì all'es
sere che da noi posseduto la forma.
Colle idee ha la relazione di essere assoluto e intelli
gibile per sè stesso.
Noi abbiamo l'idea dell'essere; nell'idea dell'essereè
compresa un'idea negativa dell' infinito, o come la chia
mavano gli antichi , un in/mito in potenza. Per questo
noi, in qualsiasi serie di cose, non veniamo giammai a
i57
un termine, che non possiamo altresì passar oltre; seb
bene non giungiamo mai all'infinito, percorrendo una
: serie qualunque. Questa potenza die abbiamo di dar sem
pre un passo più in là, quanti sieno quelli che noi ab-
biam dati, ci fa accorgere, che tutte le cose di cui que
ste serie si compongono , sono essenzialmente limitale.
Or il concetto di cose limitate è relativo a qualche altra
cosa di illimitato e di assoluto. Sebbene dunque l'essere
illimitato ed assoluto noi noi conosciamo; ne inten
diamo però la possibilità: intendiamo che è il contrario
di ciò che conosciamo (il limitato): quindi, per esclu
sione del limitalo , il che è quanto dire negativamente,
{>ensiamo l'illimitato. Ora così appunto ci avviene nel-
' accumulare in un essere tutti i gradi e le qualità a
i noi cognite di perfezioni : perocché noi veggiamo che ,
i fatto ciò, abbiamo ancor un essere limitato; da questo
i adunque ci slanciamo colla mente al suo contrario , e
i diciamo: « Un essere contrario a questo limitato, in cui
sempre la mia immaginazione dimora, è possibile » (i).
Ma se altri dimanda a sè stesso qual sia quest' essere ,
dee rispondersi di non saperlo , e di saper solo che è
opposto a tutto ciò che si pensa, cioè al limitato. Per
questa opposizione adunque, per questa negazione del-
t 1 essere limitato, quell' incognito viene contraddistinto e
fermato per modo, che con altro non può essere me-
j nomamente confuso : conciossiachè la mente nel suo
progresso mette da parte tutti gli esseri limitati : ora,
. tolti questi, non può esistere che l'illimitato: Iddio
, dunque è formato per 1' esclusione di qualunque altro
essere possibile, distinto da lui. Se non che, la mente
ha una cognizione di Dio ancora più prossima, sebbene
negativa tuttavia. Conciossiachè ella conosce a parte
i .* V essere possibile , 2.0 alcune essenze , 3.° e 1 atto
onde esistono quelle essenze , o sia alcune sostanze li
mitate. Ora l'essenza, in quanto è distinta dall'essere,
è una limitazione di lui; nè limiti possono essere in
Dio. Con questa osservazione si giunge dunque a com
porre una formola, colla quale si esprime Dio; e la
foratola è la seguente: «L'essere pensato in atto com
piuto, è Dio». Questa formola è vera; se non che al-

(1) Qui ii parla del concetto di Dio, uou della esistenza di Dio.
i58
1' uomo è inintelligibile, in quanto che egli non può
pensare Tessere stesso nel suo atto 'perfetto e compiuto.
E questo è il nome ineffabile di Dio; o sia una for
inola , la quale non può esprimer che Dio : sebbene
adunque da noi non possa essere intesa quella forinola
nella sua unità, è però intesa ne' suoi elementi: e que
sto basta perchè con essa segniamo e nominiamo Dio
fuor di tutte le cose: conciossiachè in nessuna delle
cose trovar si possono quegli elementi così legati insie
me, come nella formola sono espressi.
La nostra cognizione negativa di Dio è dunque tale,
che noi sappiamo per essa a chi rivolgerci , senza alcuno
errore prendere in ciò, e possiamo senza errore ado
rare la nostra causa , conoscere praticamente il fonti
della bontà, e terminare l'appetito di sapere nella luct
delle menti : sicché al tutto è scemo e vano lo sforzo
di que1 tristi savj del secolo , che da questa sorgente
inesausta di tutti i beni vorrebbero pur rivolgere e ar
retrare il genere umano, abusando della parola, che
egli è un essere incomprensibile.

ARTICOLO X.
i •
CONCLUSIONE.

Concluderò questo capitolo sulla nostra cognizione


delle essenze con tre osservazioni.
i.° A tutte le varie maniere di idee che abbiamo,
parte positive e parte negative, si applicano egualmente
de' vocaboli. Quindi rispetto alla lingua le idee sono
segnale tutte egualmente: e sembra che tutte esprimano
essenze uguali, positive e piene, perocché co1 vocaboli
si segnano le essenze1; il che però non è : e conviene
attentamente avvertirlo , acciocché un essere mentale o
puramente nominale non si scambi per avventura con
un essere reale (i).
<' •'• • ' ' ' "1 i t'unii óit ;ìvÌ ili wo-.x tu ' «• "

(i) Distinte le diverse essenze delle cose, si conciliano insieme le sen


tenze del Dottore d'Aquino, che altramente sembrebbero fra loro contrarif.
Egli dice più volte, che la sostanza e quiddità della cosa è il proprio
oggetto dell' intelletto: questo è per la natura dell'intelletto, s' intende pW
date le condizioni : e che iiitcllcctus penetrai ad inlimam naturarli speaci,
quaceslin ipsis individuis ( De ferii. X, v). Questo si avvera massima-
mente nella percezione di noi slessi, perciocché percependo noi , pcrce"
2.* Colla semplice idea della cosa, colla quale è che
noi pensiamo V essenza, noi non affermiamo nulla circa

piamo il termine dell' atto stesso onde esistiamo , c quindi la nostra es


senza a cui quell' atto si estende. . .t j
In altro luogo dice , che « in una mente ( com' è 1' umana ) che riceve
« la cognizione dalle cose , le forme ( le idee ) esistono per una colai azione
m delle cose nell'anima »: in mente enim accipiente scientiam a rebus, for•
mae existunl per rjuamdam actionem rerum in animami e quindi dice , che
« ciò che ci è cognito per la intelleltaal visione sono le cose stesse, e non le
u immagini delle cose; il che nella vision corporale o sensitiva, c spirituale
u o immaginativa non accade. Poiché gli oggetti della immaginazione e
« di-I senso sono alcuni accidenti , da' quali viene costituita qualche figura
« n immagine della cosa; ma l'oggetto dell'intelletto è la stessa essenza
« della cosa, sebbene egli conosca l'essenza della cosa per una sua simi-
« Illudine, come per mezzo onde conosce, non come foss'ella l'oggetto
« ove da prima si reca il suo sguardo » ( De Verit. X, ìv ). In questo
passo si parla di una certa similitudine onde 1' intelletto conosce le es
senze, e di certe immagini delle cose che l'intelletto non percepisce, poi
ché egli si reca a vedere le cose stesse. Qual è la distinzione fra quella
similitudine e quest' immagini ? Ecco quale io penso che debba essere. Il
senso ha la sensazione ( propriamente detta ) e la percezione sensitiva cor
porea. La percezione sensitiva corporea è il termine dell'azione delle cose
esterne su noi , ed è ciò che rende la sensazione in qualche modo ogget
tiva, o per dir meglio, extra- soggettiva. Ora questo termine dell'azione ( il
quale qui non è uopo descrivere ) corrisponde all' immagine sensibile di
s. Tommaso , fenomeno del senso. L'anima intanto , conscia di soffrire quel
termine dell'azione degli oggetti esterni, vede in esso, in quanto è intel
lettiva , un ente operante su lei , ente pensato mediante 1* idea dell' essere
in universale applicata ed aggiunta a quel termine di azione sofferita nel
senso. Quest'idea è la similitudine di s. Tommaso onde l' intelletto intende
le cose. Ora sono però le cose che vengono intese dall'intelletto, poiché
P essere è il suo oggetto. Ma come viene determinato 1' essere in univer
sale? Da quel termine di azione nel scaso : quindi quale è la natura del
l' azione che in noi vicn fatta, tale è la qualità della nostra cognizione
delle cose, tale la essenza loro a noi cognita. Ne* corpi, Y azione Idro so
pra di noi è sostanziale, come abbiam dimostrato ; poiché noi non nomi
niamo 1* essenza corporea , se non intendendo di nominare quella potenza
di modificar noi, nel modo che abbiamo esposto , Voi. II, face. a5i e segg.
Quindi però avviene , che anche ne' corpi non sia da noi percepito
" atlo dell' essere , ma solo l'azione, che è l'essenza a noi cognita, la
quale viene espressa col vocabolo corpo.
Ma perchè i corpi hanno diverse potenze sopra di noi , che specificano
j corpi fra loro , o Io stato de* corpi , quindi la distinzione delle nostre
idee che abbiam di questi corpi non è determinata che da azioni acciden
tali sopra di noi , e tali idee nostre non ci fanno conoscere perciò che delle
essenze generiche , le quali non sono propriamente essenze complete : ma
tengono luogo di essenza, le potenze operanti sopra di noi. AHa cognizione
pertanto di queste essenze sono applicabili que* passi di'S. Tommaso , nei
quali egli dice che le essenze delle cose ci sono incognite. A cagion di
esempio, nell' opera De ferii., Q. X, art. i: « Le essenze delle cose a noi
" sono ignote , ma le virtù loro a noi si manifestano mediante gli atti , e
* noi usiam di frequente i nomi delle virtù o potenze a significare le es-
<< senze»: Quia vero rerum essentiae situi nobis ignoUie , virtutes autem ea
iGo
gli esseri sussistenti; siamo ancora nel mondo delle
possibilità. Perciò le essenze sono semplici concezioni,
che dal momento che da noi sono concepite , sono di
natura loro possibili , giacché V esser possibili equivale
all' esser pensabili. Quindi gli antichi dicevano, che nella
semplice apprensione delle cose ( idea ) non si può dare
errore; e s. Tommaso approva ciò che dice Aristotele,
che definisce V intelligenza la facoltà degli indivisibili,
nella quale non può trovarsi alcuna falsità (i).
3.* Noi abbiamo veduto che i principi particolari delle
scienze non sono che le essenze delle cose , oggetti alle
scienze (a). Hanno adunque le scienze de' principj , sui
quali non può cadere errore.

rum innotescunl nobis per actus , ulimur FREQUENTER (non sempre


adunque ) nominibus virtulum , vel potcntiarum ad essentias significanMs-
E poco più sotto: « Poiché le sostanziali differenze delle cose a noi sono
« ignote, perciò io luogo di esse quelli che definiscono usano talora (IN-
u TERDUM) delle differenze accidentali, in quanto queste segnano o
« notificano l'essenza, siccome gli effetti proprii notificano la causa : onde
h il sensibile, preso come differenza costitutiva dell' animale, non si toglie
k dal senso inteso come potenza , ma inteso come significante la stessa
« essenza dell' anima , dalla quale tal potenza fluisce —.
Di Dio poi non conosciamo se non effetti, e questi , come noi li cono
sciamo , inadeguati alla causa ; quindi la cognizione nostra rispetto a Dio
rimane negativa. Onde il santo Dottore: « Il nostro intelletto anche nello
« stato di via può conoscere in qualche modo l'essenza divina, non già
» eh' egli sappia di essa ciò che sia , ma solo ciò che non sia ». £ scio
glie 1' obbiezione che nasce circa la direzione del nostro affetto in Dio m
questo modo : « Noi possiamo amare Dio immediatamente, senza bisogno
« d' amare altra cosa prima di lui ; sebbene talora dall' amore di alcune
- cose visibili siamo rapiti nelle invisibili: ma tuttavia non possiamo nel'0
« stato di via conoscere Dio immediatamente, senza bisogno di conoscere
•• altra cosa prima di lui. Di che la ragione è questa , che l' affetto seguiti
- all' intelletto , e dove termina 1' operazione dell' intelletto , ivi comindi
« l' operazion dell' affetto. Or 1' intelletto procedendo dagli effetti alle ciu-
« se , perviene in ultimo in una tal quale cognizione di Dio , conoscendo
« cioè di lui ciò che non è; e cosi 1' affetto si reca a ciò che V intelletti)
« gli offerisce , senza che a lui bisogni passare per tutti quo' mezzi f>
» quali passò 1' intelletto » ( De Veril. X , xi ).
(i) Arisi. De Anima. L. III.
(a) Voi. II, face. 142 e segg.
i6i
PARTE QUARTA

^EGLI ERRORI A CUI SOGGIACE L' UMANA COGNIZIONE.

CAPITOLO I.

SI RIASSUMONO TUTTE LE COGNIZIONI, NELLE QUALI LA NATURA


STESSA DELL' INTELLETTO CI PROTEGGE DA OGNI ERRORE.

Se la custodia della verità e della certezza fosse stata


commessa alla libera volontà dell1 uomo, assai mal fida
guardia sarebbe stata loro assegnata , e si sarebber ve
dute 1' una e l'altra ben presto dall'umana perversità
annichilate.
Per questo vedemmo, che i primi veri furono confi
dati dalla creatrice provvidenza non all' uomo, ma alla
natura umana. La natura umana , fatta per essenza in
telligente , vede per essenza le prime verità : e l' uomo
non le può smentire, non che annientare; poiché come
egli non ha il potere di nulla creare , cosi non ha nè
pure il potere di nulla distruggere di quanto ha rice
vuto da Dio esistenza (i).

(«) Sant'Agostino nelle sue idee fece quel progresso che io ho osser
vato dover far necessariamente la filosofìa , che comincia dall' esser vol
gare , e poi si erudisce e si perfeziona ( Voi I , face, a e segg. ) La filoso
fia volgare non vede le difficoltà che si trovano nelle questioni filosofiche ,
e procede quindi assai confidente e baldanzosa. Quando un arduo passo
le si rivela , dà nel vizio opposto : trasecolata di maraviglia , non 1' ap
paga più alcuna soluzione , e sembra che « lo scetticismo , secondo la frase
" di uno scrittore moderno , sia la prima forma . la prima apparizione del
« senso comune in sulla scena della filosofia ». Quindi s. Agostino comin
ciò dall' essere accademico. Uscito dal dubbio, trovossi quasi direi natural
mente nella filosofia platonica. Io ho osservato , che la dottrina platonica
intorno le idee appartiene alla filosofia dotta , ma in quel suo primo pe
riodo nel quale essa è ancora imperfetta , quando Vede bensì le difficoltà ,
ma non ne ha trovate le soluzioni più semplici, e ricorre in quella vece a
delle ipolesi ingegnose, che peccano di superfluo anziché di difetto. La
mente di s. Agostino non potea fermarsi qui ; dovea far necessariamente
un progresso : egli s' accorse quindi di ciò che v' avca di troppo nella
teoria platonica circa l'origine delle idee; recise quel soperchio, e ai
trovò nella verità , la quale consistea nell' accorgersi che la natura umana
é essenzialmente ragionevole, e che è per questo eh' ella riconosce la ve
rità , quando ne va in cerca e la trova , e che il fanciullo risponde accon
ciamente alle domande che gli vengono fatte ordinatamente anche sopra
cose che non gli furono mai prima insegnale. Quindi nelle Ritrattazioni
(L. I, c. vili ) egli riprova l'aver dello altra volta che l'anima sembrava
Rosmini, O/ig. delle Idee, Voi. III. 21
Biassumiam dunque qui brevemente tutto ciò che
fa la natura per assicurare all'uomo il possesso della
verità c proteggerlo dall'errore: il che confermerà, eh»
il vero scetticismo è impossibile; che non è che una
menzogna che dice a sè stesso o ad altrui 1' uomo im-
malvagito od alienato; che la verità ha nella natura
intelligente un possesso , un dominio che non le può
esser tolto, nè violato; sebbene quella natura libera
possa peccare contro di lei.
I. L' uomo adunque in primo luogo ha per sua natura
la vista permanente dell' essere in universale. Quest' es
sere è il lume della ragione, 1' ultimo perche degli
umani ragionamenti , sempre convincente , sempre in
vitto perse medesimo (i): quest'ultimo perchè è la ve-

aver recate tutte le arti seco medesima : « poiché può essere , così egli ,
ii — che il giovanetto possa rispondere interrogato , perchè è una nalura
« intelligibile »: fieri enim palesi — ut hoc ideo possil (iicterrogata respm-
dere ), quìa NATURA 1NTELLIGIBILIS EST. E quivi medesimo
spiega che sia quello che costituisce una natura intelligente , cioè un
lume innato: « Ho detto, che gli eruditi nelle liberali discipline, le
« discuoprono in sè coperte dalla dimenticanza, e in certa maniera le dìs-
«< sotterrano. Ma questo io lo riprovo; Poiché è più probabile che per
« questo rispondano anche gì' imperiti intorno a qualsiasi disciplina ,
« quando bene vengono interrogati, perchè è lor presente, quanto ne
«t posson capire, il lume di una eterna ragione, dove veggon que' ven
<< immutabili, non perchè gli abbiano saputi altra volta e poi dimentichi,
« come u' è paruto a Platone o ad altri lali » : propterea — quia praesens
est eis, quantum id capere possunt , LUMEN RATIONIS AETERNAE,
ubi linee immutabilia vera conspiciunt, non quia ea noveravi aliquando
et oblili sunt, qttod Plaloni vel talibus visum est (Ivi, c. ìv). Ora questo è
appunto quel miglioramento del quale noi abbiamo osservato abbisognare
hi domina di Platone, pel quale , in luogo di porsi le idee iunale, tulle
si doveano subordinar ad una sola innata, lume della ragione, dalla quale
tulte le altre si derivassero e ingenerassero, cioè ove, all'occasione delle
sensazioni , tutte le cose si vedessero e intellettualmente percepissero
( Sez. IV, ci). Or questo lume è chiamato da noi, come altresì da
s. Tommaso, principio della cognizione (PRINC1PIUM COGNIT10NIS),
il qual definisce che tutte cose che conosciamo , le cono-scia m noi in
tionilms aelernis sicut IN COGNJTIONIS PRINCIPIO (S. I, ìxvuy. 1}
E perchè non resti alcun dubbio circa l' intelligenza di questo principio
della cognizione , si osservi s. Agostino, e s. Tommaso dietro a lui, chia
marlo la verità: Nec ego utique in te (videmus vcrum), nec tu in me, sei
ambo in ipsa, quae supra menles nostras est, incommutabili MERITATE
( Confcss. L. XI, c. xxv ). Ora la verità, ove nella vita presente noi
veggiamo le cose vere, osservammo che, secondo la dottrina dell'Ange
lico , è l' idea dell' essere in universale ( Cap. IV, art, III ). Così tu"" .
dottrina de' due grand' uomini di cui parliamo è consonante seco medesi
ma , e intera , e la nostra ritrae da quella e a quella si continua.
(1) E dottrina di s. Tommaso, clic non possa I' uomo errare intorno
i63
rità, sicché tutte le cose sono vere in tanto che di lui
partecipano, e quindi 1' uomo per natura è possessore
della verità.
II. I primi principj della ragione sono l'idea dell'es
sere applicata (i) : evidenti come quella, sono pure im
muni da errore (2).
Queste prime verità sono i fonti di tutte le umane
cognizioni. Vi sono però anche delle verità di fatto,
intorno alle quali non può cadere errore. E queste sono
le seguenti:
III. L'uomo non può ingannarsi intorno alla propria
esistenza (3).
IV. Non può cadere errore nella coscienza che ha
delle sue principali modificazioni (4).
V. I nostri sensi non traggono in errore l' intelletto,
quando egli riceve da essi ciò che danno e nulla più (5).

all'essere per nessun mo<lo. Ecco le parole del santo Dollore: Proprium
objectum intellectus est quod quid est ( questa maniera vale 1' essere delle
cose ) : unde CIRCA HOC NON DECIPI TUR INTELLECTUS ( Con-
tra G. I , i.viii ).
(1) Voi. Il, face; 73.
(2) Intellectus , dice s. Tommaso, IN PRIMIS PRINCIPUS NON
ERRAT , sed in conclusionibus intei-dum, ad quas ex primis principiis ra-
tiocinando proceda. (Contro G. I , lxi).
(5) Così s. Tommaso: NULLUS ERRAVIT UMQVAM IN HOC
QUOD NON PERCIPERET SE VIVERE. (De Veni. X, vni).
(4) Questo fu il punto onde partì Cartesio, lo penso, la coscienza del
pensiero: questa evidenza è la base di tutto l'edilizio cartesiano. Noi ab
itiamo osservato, che questa base è bensì solida , ma la sua solidità e do
vuta a' principj della ragione; non può esser dunque la prima pietra del
l' edifìzio scientifico. Quiudi I' errore cartesiano c tutto in questo , nel
cominciare la fabbrica da una pietra che non è la prima. E fu questo il
lato debole, onde agli assalti fece breccia quella scuola di filosofia.
(5) Noi abbiamo trattato a lungo de' crilerj circa la veracità de' sensi
nella Sez. V, face. 2t)6 e segg. Questa dottrina è pure quella dell' Aqui-
naie. Del quale non sarà cosa inutile che qui dichiariamo una maniera di
esprimersi , procedente da Aristotele , che potrebbe ingenerare confusione
nelle menti di quelli diedi certe maniere oblilerale a' di nostri non hanno
la vera intelligenza Ecco il passo: Proprium objectum intellectus est quod
quid est: inule circa hoc non ilccipitur intellectus nisi per accideus. Cina
compositionem autem et divisianem decipiturs sicnt et senstis, QUI EST
PROPRIORUM, EST SEMl'ER VERUS, in aliis aulcm/allitur (O.G.l,
LViii). Qui s. Tommaso distingue due oggetti sì dell'intelletto chi' del senso:
' ometto proprio, e intorno a questo nou conosce errore ; e V aggetto per
accidente , iutoruo al quale si 1' intelletto che il seuso può indurci in er
rore. Or noi vogliamo spiegare che cosa sia quest' oggetto dell' intelletto
o del senso solo per accidente : il che metterà iti chiaro la mente del
santo Dottore. Cominciamo dui seuso. Egli medesimo così spiega la frase
i64
Questa atleslazione de' sensi è una parie della coscien
za, la cui certezza fu indicala al numero IV.
VI. L' astrazione, che trae dalle percezioni le idee,
e quindi la cognizione delle essenze delle cose , o come
dicevano gli antichi , la semplice apprensione , è pure
immune da errore (i). Or queste essente , come abbiamo

oggetto del senso per accidente , nel suo commentarlo sopra P opera di
Aristotele ( L. Ili, Lect. VI ) intorno all'anima: « Che sia bianco ciò
m che si vede , qui il senso non mente: ma se quel bianco sia questa
•< cosa o quella , poni neve o farina od altro tale , qui il senso può men-
k tire , e massime da lontano ». Or si badi : il senso vede il bianco: 1* in
telletto mio giudica che quel bianco che vede Y occhio è neve. Questo
giudizio vien fatto dall' intelletto sopra ciò che il senso gli presenta ( b
bianchezza ); ma poiché tien dietro così rapidamente alla sensazion di
bianchezza, sembra che sia con questa congiunto intimamente, e quindi il
comune degli uomini, errando, il crede oggetto del senso. Indi se ad tm
nom si dimandi: Chi vi attesta che colà su quel monte ci sta la neve? egli
immantinente risponde: L' occhio mio: poiché non si ferma egli a separare
quelle due cose così vicine ed unite, sebben diverse, i.° la sensaiione
della bianchezza, 2." il giudizio che dalla bianchezza fa 1' intelletto, indù-
cendone I' esistenza della neve in sul monte , come da segno cosa segnata.
Ora Aristotele né pur qui volle allontanarsi dalla comune maniera di pr
ia re , sebben falsa ; tanto era il suo rispetto al parlar comune, fino a
parerne talora superstizioso; e si contentò di dire, che quel giudizio era
oggel lo del senso per accidente , in quanto che il senso ne porgeva la
materia, e alla sensioue subitamente conseguitava. Giova però meglio ban
dire una tal maniera equivoca di parlare, e dire francamente, che quel
giudizio non è in alcun modo oggetto del senso, ma che è oggetto solo
dell' intelletto. Dopo di ciò s' intenderà che cosa debba essere l'oggetto
dell' intelletto per accidente. Come 1' oggetto del senso vero è la materia
delle cognizioni , e si disse oggetto suo /ter accidente la forma, che pure a
lui non appartiene; così oggetto dell' intelletto vero è la forma delle cogni
zioni , ed oggetto per accidente la materia delle medesime , che non è pure
veramente suo oggetto. Quindi se 1' intelletto vuol giudicare delle cose
sensibili , non seguendo I' esperienza sensibile , egli dee cadere in errore.
Osserverò finalmente, che Aristotele dice del senso, eh' egli talora s'in
ganna, sebben di raro, anche intorno l'oggetto proprio, cioè quando il
senso è difettoso ; ma noi , sceverando la deposizione del senso da ogni
elemento straniero, abbiamo rimossa al tutto questa eccezione.
(i) Anche questo fu insegnato da s. Tommaso ( De Anima L- W •
Lect. XI) ; « V ha una operazione dell' intelletto ( egli dice ) , secondo
« la quale egli percepisce gl'indivisibili ( viene a dire le semplici esscme ),
« come quando intende I' uomo , o il bue , o qualche altra cosa simile
« degl'iucomplessi. E tale intelligenza è in cose, nelle quali non si d»
m falso : sì perchè le cose incomplesse non sono né vere né false , e 51
« perchè nell'essere delle cose l'intelletto non s' inganna: ma in quelle
t cose intelligibili, nelle quali vi ha vero e falso, v' è una certa eo«>
« posizione delle cose intese, siccome quando di più cose se ne forma
« una sola »> ( nell' operazione della sintesi si formano le idee complesse )■
Ora che cosa sono queste cose incomplesse? Sono le pure iiiet, fnK
di giudizio sulle cose reali e sussistenti. E come avviene che iu esse i0U
veduto, sono i princip/ particolari delle scienze, e rispon
dono alle anticipazioni o xpóXippets di Epicuro»
; Tali sono i legami naturali e infrangibili , onde la
verità è unita e bene assicurala, colla nostra natura fatta
per lei. Or poi , dopo aver noi sino a qui veduto i
fini posti alla temerità della mente umana, ne' quali i
suoi flutti onde insurge contro alla verità s'affrangono,
e danno indietro; conviene che veggiamo altresì qual
sia l'ambito dell'errore, entro al quale è stato conce
duto all' uomo di poter nuocere a sè medesimo.

[ CAPITOLO IL

DELLA NATURA DEGLI ERRORI UMANI.

ARTICOLO L
DISTINZIONE FRA LA RICERCA DELLA NATURA DELL* ERRORE
E QUELLA DELLA SUA CAUSA.

L'argomento della causa degli errori si scambia age


volmente con quello della loro natura] e dove s' abbia
descritto la natura dell'errore, in che consista , come
s' ingeneri , sembra aversi trovata ancora la causa del
medesimo. Conciossiachè a descrivere la natura dell' er
rore, e il modo ond' avviene , è necessario descrivere
quell' atto appunto onde l' intelletto si rovescia all' er
rore. Ora quest'atto, dieesi , è appunto la causa del
l' errore.
E veramente è così; ma egli è la causa prossima, e
non V ultima onde l'intelletto stesso vien mosso a fare
quell' atto che produce a sè stesso l'errore.
L'errore consiste in un atto sbagliato dell'intelletto:
in quest'atto è la sua natura, è il modo ond' avviene,
è altresì la sua causa prossima. Ma che cosa muove
l'intelletto a un tale atto? Questa è questione diversa
dalla prima: e con essa si vuol cercare quella prima
cagione onde 1' uomo vien traviato e sospinto all'errore.

si dia nè vero nè falso? Perchè esse sono esemplari delle cose, lo


verità delle cose; il vero poi e il falso è nelle cose secondo che corrispon»
dono , o non corrispondono alle loro idee. Quindi se noi non pensiamo
alle cose reali, ma solo alle idee, alle loro possibilità, uou abbiamo mai il
giudizio sulla corrispondenza delle cose alle idee, nel che sta il vero ed
il falso.
i66
E perchè le due cagioni , la prossima e la rimola ,
sono legate strettamente insieme , noi diremo una pa
rola della cagion prossima , nella quale consiste la na
tura dell' errore ; e poi investigheremo la cagione men
prossima o rimota , che è vera ed efficiente cagione di
tutti i nostri errori.

ARTICOLO IL

l'errore non è che dell'intelletto (i).

Si suol dire che i sensi ingannano ; si suol nominare


gli errori dell' immaginazione. Tutte queste maniere
sono inesatte, e inducenti idee false nelle menti degli
uomini.
Perchè quelle frasi abbiano un senso vero , conviene
intendere per esse, che i sensi e l'immaginazione som
ministrano la materia e l'occasione dell' errore, e nulla
più. Una torre quadrata, da lontano vi par rotonda:
ma non è 1' occhio che vi dice la torre rotonda : egli
non dice che di soIFerire una sensazione come di og
getto rotondo. L' intelletto è quello che aggiunge il suo
giudizio, e conchiude dalla sensazione : Dunque la torre
è rotonda. E 1' intelletto dunque che s' iuganna. L'im
maginazione presenta al vivo un ricco guadagno: l'in
telletto il giudica probabile o certo. Era vera la vivezza
dell'immagine; ma l'intelletto errò nel dedurne da
quella la probabilità o la certezza.
Questa è verità conosciuta : gli scrittori però non si
sono mai risoluti di abbandonare quelle espressioni equi
voche di errori de' sensi , dell' immaginazione ecc. , per
quel senso vero che contengono, dove sieno inlese come

(i) Qui prendo l'intelletto come la facoltà di conoscere itilelletluai-


mente, l'intendimento. Sarebbe pur bone escludere i varj significali di
una parola; ma prima io non so se sia possibile, poi solo il tempo può
muovere V università degli uomini a ciò. Intanto couvicue usar le fok
siccome corrono. Ora dice s. Tommaso: « L'intelletto può considerarsi ■
due modi , cioè o in quanto egli è apprensivo dell' ente e del vero uni
versale ( secandum quod inlelleclm est anprehenimnu ENT1S ci F&L
UN1VERSALIS ), o ia quanto è una certa cosa , una particolar potei»1
avente un alto determinato » ( S. t, lxexii , iv ). lo riteugo k àoe
significazioni del vocabolo : e qui Io prendo nella secondatile colla p"1*
però ha somma affinità: lo prendo per la potenza della ragiono.
167
annunzianti solo , che ne' sensi e nell' immaginazione è
P occasione di quegli inganni (1).

ARTICOLO III.
L'ERRORE È Nfi' C1DDIZJ POSTERIORI ALLE PERCEZIONI.

L'intendimento solo va soggetto all'errore (2).


Volendo poi sapere quale sia propriamente quella fun
zione dell' intendimento che è soggetta all' errore , fa-
cil cosa è vedere che non può essere che il giudizio.
L' errore dunque é mancamento (3) de' giudizj , i quali
asseriscono il falso anziché il vero.
Ma i giudizj primi , cioè le percezioni , come pure
le idee che da quelle si traggono e che gli antichi chia
marono apprensioni semplici, sono immuni da errori :
poiché queste prime operazioni sono fatte dalla natura
intelligente, la qual non falla (4).
L' errore adunque ha sua sede ne' giudizj che la ra
gione fa posteriormente alle percezioni delle cose: nei
quali giudizj si uniscono sempre insieme due idee (5).

(1) « Per la stessa ragione, dice Bossuet, non v' ha che l'intelletto che
« possa errare. A parlare con proprietà, non v'ha errore nel senso, che
a fa sempre ciò che dee fare , poiché egli è fatto per operare secondo le
« disposizioni non pnr degli oggetti ma degli organi. Sta poi all' intelletto
« il giudicare degli organi stessi , e dalle sensazioni tirar le conseguenze
« necessarie. £ s'egli si lascia sorprendere, quegli che s'inganna è esso
<t medesimo » ( De la connoissance de Dieu et de soi méme, eh. I, vii ).
San Tommaso avea prima insegnato che il senso non percepisce né la verità
ne la falsità , che spettano al solo intelletto ; e che perciò quando si nomi
nano gli errori del senso , questa frase va intesa in questo significato, che
il senso somministra l'occasione all' intelletto d' ingannarsi, ovvero in un
modo simile a quello onde anche cose insensibili si dicono false o vere
in quanto egli apprende le cose come stanno: Fahitas non ( est) in
sensu, sicut in cognoscente verum et falsum. — Falsi!as non est quaerenda
in sensu nisi siculi ibi est veritas. Vcrilas autem non sic est in sensu , ut
scnsns cognoscat veritatem , sed inquanlum veram apprehensionem habet
de sensibilibus ( S. \, xvu, n ).
(2) Art. I.
(5) L' errore , come qualunque altro male, non è cosa positiva, ma ne
gativa, secondo la celebre osservazione di sant'Agostino: Si verum est
id quod est , dice questo gran Padre della Chiesa , falsum non esse
uspiam coneludetur quovis repugnante (Solil. II, vm).
(4) P. IH,c. V.
(5) Questo caratterizza tal genere di giudizj , e li dislingue da que' giu
dizj che sono insieme percezioni: perocché questi si compongono non di
due idee, ma di una idea e di sensazioni, come fu dimostrato nel Voi. I,
face. i35 e segg.
i68
L' unione di due idee si può chiamare una sintesi;
quindi si potrebbe semplificare la formola generale de
gli errori riducendola a questa: « L' errore consiste
sempre in una sintesi mal fatta».
Una delle due idee che si legano insieme è il soggetto
del giudizio, l'altra è il predicato.
Ogni errore dunque consiste nell' unire insieme mala
mente un predicato con un soggetto.
Si erra quindi i.' o dando un predicato ad un sog
getto a cui non appartiene, a." o negandolo ad un sog
getto a cui appartiene. E poiché il dare un predicato
è una specie di composizione, e il negarlo è una specie
di scomposizione mentale; quindi gli antichi dissero che
l'intendimento non è soggetto ad errore fuor solo che
in quella operazione nella quale egli compone o divide (i).

ARTICOLO IV.
SPIEGAZIONE DI QUELLA SPECIE PARTICOLARE d' ERRORI I QDALI NASCOSO
PER l' A1DSO DEL LINGUAGGIO.

Quando noi ad un vocabolo (a) diamo un significato


più o men lato, o diverso da quello che gli è assegnato

(1) Si può dire che 1' intelletto va soggetto all' errore tanto uel com
porre che nel dividere, per la ragion delta; ma queste due operazioni si
possono ridurre ad una , cioè alla composizione : perciocché anche il divi
dere può prendere la forma di composizione; giacché unire un predicato
negativo col soggetto , è reale divisione sotto la forma di composizione ,
rome avviene nella somma algebrica, quando si legano insieme le quintili
di segni opposti. Quindi talora s. Tommaso dice semplicemente: « La fal
ce sita dell' intelletto per sè è solamente circa la composizione * , si mi più
( S. I, «vii, hi); e così pure l'antico maestro delle scuole ( Vei
L. Ili, de Anim. , test. ui-a»). Talora poi dice che si dà falsità ivi.ow
l'intelletto o compone o divide: « Circa l' essenza delle cose 1* inlcltei'o
« non s' ingann» . — In componendo poi o dividendo si può ingannare,
«quando attribuisce alla cosa, di cui intende l'essenza, alcuna cosi
« che non tien dietro necessariamente a quella essenza, o le é contraria»:
circa quod quid est intelleclus non decipitur. — In componendo vero vtl divì
dendo potest decipi , dum attributi rei , cujus quidditalem inUlligit , aliiji'd
quod eam non consequilur vel, quod ei oppontiur IS.l, rv», "■)•
(2) Si crede comunemente, che a' vocaboli nell' uso comune non s'ag-
giunga un seuso ben determinato. Questo è falso: se fosse vero, la prima
dote dello scrittore , la proprietà nell* uso de' vocaboli cesserebbe ni esi
stere. Ciò che induce a credere che il senso comune degli uomini (al tp&
in gran parte appartiene la fissazione del valore delle parole) non iggii";*
un senso determinato , sono queste due apparenti ragioni: 1." l'irer os
servato che gli uomini particolari commettono molle improprietà ne' loro
ragionamenti, 2." che i più non sono capaci di darci la definizione di al
dall'uso comune, conduciamo noi stessi ed altrui in
fallibilmente in errore : ove prima noi definiamo , av
vertendo di volerlo prendere siccome segno arbitrario di
una nostra idea , e non come segno convenuto e cor
rente : e ci bisogna grande attenzione a mantenere l'as
segnata definizione in tutto il corso del nostro ragiona
mento, e non declinare più mai all'uso consueto di
quel vocabolo , a cui 1' assuefazione e 1' esempio degli
altri uomini continuamente ci trae.
Ma talora noi non mutiamo a' vocaboli il valore con
avvertenza e in proposito; ma li prendiamo inavvedu
tamente in un senso più lato , o meno , o altro da quel
diesi abbiano: ed allora l' errore entra inavvedutamente
ne' nostri ragionamenti.
Perciocché noi non potremo sostenerci a dar sempre
al vocabolo quel nuovo valore che impropriamente gli
avremo dato a principio; e a quando a quando nel pro
gresso del discorso nostro scaferemo all' uso comune ,
avvicinandoci alla proprietà del parlare. E ove ancora
avvenisse ( il che è al tutto impossibile ) che noi a
quel vocabolo conservassimo il falso valore che sopra
pensiero o condotti da qualche prevenzione gli abbiamo
assegnato, certo gli altri uomini non c'intenderanno;
e ciò che noi diremo della cosa che con quel vocabolo
segnar crediamo, gli altri tutti l'intenderanno della
cosa cui quel vocabolo segna veramente nell' uso co
mune: la quale misintelligenza è fonte d'infinite dis
sensioni fra' letterati.
Ora analizzando Terrore che qui accenniamo, si trova
consister egli in questo, che noi di un oggetto solo ne
facciata due : perciocché il vocabolo impropriamente
usato segna due cose, cioè i* segna ciò a cui segnare

con vocabolo, se noi loro la dimandiamo. La prima di queste due ragioni


prova il contrario di quello che si vuol provar con essa; poiché non si po
trebbero conoscere le improprietà particolari del parlare , se non si cono
scesse il senso proprio e determinato della parola. La seconda nulla prova;
quando si abbia osservato che v' ha una scienza volgare ed una scientifica ,
tutte due vere, e che è solamente la scientifica , cui s. Tommaso caratte
rizza dicendo, che ftt per studiosam inquisitionem (S. I, lxxxV", u ), che
dà le definizioni, corno quelle che a comporsi esigono un'analisi , de' con
fronti , una separazione di ciò che è comune c della differenza. Vedi sopra
ciò la nota posta nel Voi. II , alla face. to6.
Rosmini, Orig. delle Idee, T. IH. 22
170
r uso 1' ha stabilito ; valore che non gli fu tolto pei
alcuna dichiarazione particolare , nè senza questa gli si
può torre; 2.0 e segna ciò a cui segnare il parlatore lo
assume , rivolgendo a quell' oggetto pensato da lui come
espresso nel vocabolo le sue parole.
Ora qui avviene che si confondano due esserne, due
oggetti insieme; . e che il parlatore attribuisca ad uno
ciò che all' altro appartiene , o certo che così intenda
1* uditore. .■ , • 1 i •
Nel qual fatto' due classi d'errori possono accadere
perciocché se chi parla intende parlare di un oggetto,
e col vocabolo n' esprime un altro, gli avviene l'errore
di attribuire la definizione d'una cosa ad un'altra.
Che s' egli per improprietà di parlare ora assume ii
vocabolo in un significato ed ora in altro, in tal caso
di due oggetti ne fa uno, e congiunge insieme mo
struosamente le parti dell' uno colle parti dell' altro in
un essere solo ; e a quel medesimo a cui prima ami
dato, in grazia d'esempio, la ragione, in progresso poi
darà qualche qualità propria de' soli bruti, come il do
ver seguire solo l'istinto: siccome accadde a Rousseau,
che avendo dato per valore al vocabolo stato di naturi
(trattandosi della natura umana) lo stato naturai delle
bestie, conchiuse poi ( ben credo io per satira de' suoi
tempi , o ad espressione di sua profonda tristezza ) es
sere la più accomodata all' umana natura una vita sel
vaggia e ferina.
Gli errori dunque a cui gli antichi dicevan soggiacer
l'intelletto per accidente, in quella operazione orto" egli
conosce 1' essere delle cose , bene analizzati , si veggono
provenire unicamente dal mal uso del linguaggio; il
quale, male adoperato, moltiplica gli esseri e li mescola
insieme , producendo così una vera sintesi intellettuale (1).

(1) Vedi s. Tommaso nella Somma I, xvi! , in, là dove comincia W


Quia vero fahitas intellectus per se, solum circa compositionem inuUtcts
est, per accidens edam in operalione intellectus , qua cognoscit quod <p*
est, polest esse falsitas, INQUANTUM IBI COMPOSITIO MTSL-
LECTUS ADM1SCETUR. E qui reca e spiega le due classi d' emmi
noi recate è spiegate. Giacché però anche questi errori rigorosaiw-"
parlando non vengono che mediante una composizione dell' intelletto. » e*
è occasione il linguaggio; panni più piano, e meno soggetto ad equi»*'
il dire che V intelletto erra anche qui nel comporre, e non neH'ffF*
dere, anziché il dire che erra nel!' apprendere, ma per accidente, a»*
altra volta ho osservato.
171
■i ' . ARTICOLO V. : . ..mi;..!.., |
PERCHÈ L' ERRORE SIA SOLO De' GIDDIZJ POSTERIORI ALLE PERCEZIONI
ED ALLE PRIME IDEE. ' •'•'11''

E la ragione perchè Terrore cada sempre in un allo


dello spirito posteriore alle percezioni ed alle prime
idee è questa , che le percezioni , siccome anco tutte
quelle operazioni nelle quali l'intelletto non erra (i) ,
succedono in noi necessariamente, ed è il fatto della
natura intelligente la quale non erra (2).
Le percezioni adunque o si hanno, o non si hanno;
ma non si hanno sbagliate giammai. Lo stesso dicasi
delle idee delle cose contenute nelle percezioni.

ARTICOLO VI.
CONTINUAZIONE: COGNIZIONE DIRETTA, E COGNIZIONE RIFLESSA.

E qui si rende necessario che io entri a spiegare


maggiormente que' due generi di cognizioni , 1' una di
retta e l'altra riflessa, che ho tante volte accennato.
Poiché il nostro presente scopo è quello di conoscere
in che genere di atti intellettuali propriamente consista
1' errore.
Noi adunque abbiamo veduto, che quando 1' uomo da
prima entra in questo mondo , spoglio di tutte idee
delle cose, egli viene affetto dalle sensazioni, le quali
lasciano un fenomeno nella fantasia ( immagini ) : e dalle
sensazioni l' intelletto ha le percezioni ; per mezzo poi
delle immagini ha le idee, nel modo che fu dichiarato (3).

(1) Furono enumerate face. 161 e segg.


(a) Questa è pure la ragione che reca, di ciò s. Tommaso : perchè , dice
egli, res naturalis non deficit ab esse, quod sibi compelit secundum suam
formam { S. I , jrvn , m ).
(3) Ho dichiarato il modo onde l' intelletto ha la percezione delle cose
sensibili , nella Sez. V , P. II , c. IV, art. iv; e il modo onde dalla perce
zione separa le idee, ivi, art; ni, §2. Non sono però entrato mai nella que
stione , « in che modo l'intelletto si muova alle sue operazioni » ( di per
cepire ) .- o in quella , « s' egli tosto che ha la sensazione percepisca, o
passi qualche tempo nel primo sviluppameuto dell' uomo fra la sensazione
e la intellezione ». Ma qui gioverà eh' io tocchi un poco della prima di
queste due questioni, molto al lini fra loro, e che accenni come 10 conce
pisca che l' intelletto si possa muovere a percepire intellettivamente all'occa
sione delle sensazioni. La difficoltà sta in questo. Che la sensitività sia
tratta e mossa dall' oggetto sensibile, non è difficoltà ad intenderlo: ella è
potenza passiva : e il sensibile è stimolo conve mente ulla sua natura. Ma fra
172
L' intelletto si forma queste percezioni ed idee in
modo istintivo e naturale , e perciò non soggiace ad
errore, perchè la natura non erra (i).
Ma noi dobbiamo ora distinguere queste cogniziom
prime dell' uomo e involontarie, da quelle che vengono
appresso e sono volontarie : quelle prime formano la
cognizione diretta, e queste seconde la cognizione ri/lessa.
Fu conosciuta ed osservata sempre da' più grandi filo
sofi la distinzione fra questi due generi di cognizioni
umane. Solo la filosofia de' sensisti ha quasi del tutta
obliterata e perduta una distinzione così rilevante , e
che si conteneva nella tradizione costante dell' antichità,
La cognizione diretta, che contiene le percezioni in
tellettive e le idee, è una cognizione puramente sinte
tica; mentre la cognizione riflessa è una cognizione an
che analitica. Perciocché colla riflessione si torna sopra
ciò che prima s'era percepito direttamente, e lo si ana
lizza e scompone, si considera a parte a parte, e dopo
scomposto si raggiunge a volontà: là dove nella pere*

il senso e 1' intelletto non v' ha similitudine nè comunicazione di natura.


Egli è impossibile dunque immaginare che la sensazione muova l'intel
letto con una vera azione come di causa efficiente sopra di lui. Ecco tutta
via come io penso che la sensazione occasioni il movimento dell' intelletto
clic si leva a percepire, senza attribuire alla sensazione una vera comuni
cazione coli' intelletto. Questo nasce, dico io, per 1' UNITA' del soggetto
Io. Si consideri bene: quell'io che è sensitivo , è quell'Io medesimo
che è intellettivo. Ora hassi a sapere, che il senso produce l' istinto; t
ragione d' esempio, gli stimoli della fame che si sentono nello stomaco,
producono l' istinto di cercare il cibo , o buttarvisi sopra se è presente. Fin
qui siamo nell' ordine sensitivo. E non mi curo ora di spiegare come av
venga che il senso produca l' istinto : dico bensì , che il fatto è , che avendo
l'animale certe sensazioni , egli sente un bisogno, il quale mette in muto
le sue forze motrici , e tutta quell' attività che è nell' animale; la qual po
tenza di cercare la soddisfazion di un bisogno, io chiamola istinto. Partendo
da questo fatto , cosi ragiono] L'Io ( senziente-intelligente ) provaia ti
slesso un bisogno proveniente dalla sua sensitiva natura. Ora quest' Io dee
in tal caso eccitar sé stesso a mettere in opera tulle le forze ch'egli ha,
per rimuovere da sè quel bisogno , soddisfacendolo. Ma fra le forze che
ha quest' Io , sono ancora le forze intellettive ; egli dunque rivolge al suo
uopo non solo 1' attenzione sensitiva , ma anche 1' attenzione intellettivi; e
cosi eccita interiormente da sè in sè stesso la sua potenza intellettiva «
percepire: poiché V attività sensitiva nel soggetto, forma una sola fona «
attività colla intellettiva. In tal modo, senza che il senso operi nell'intel
letto , è occasione del primo movimento intellettuale : poiché il senso
eccita l' Io , che possiede V intelletto , a mettere in attività lo stesso intel
letto. L'unità dell io, ove il senso c l'intelletto convengono, è mediatrice,
e via di comunicazione fra queste due per altro al tutto separale potenze-
(1) Art. preced.
none noi abbracciamo tutta la cosa nel suo intero, con
un alto semplice, e come fosse un oggetto semplice.
Mediante questa prima apprensione intellettuale noi non
distinguiamo nulla in particolare della cosa; perciocché
la natura della nostra intelligenza è da questa legge
limitala, a ch'ella ha bisogno di più atti per distinguere
più cose , nè può distinguere una cosa dall' altra senza
una negazione, eia negazione vien dopo l'affermazione».
Noi prima adunque percepiamo la cosa intera, e solo
mediante la riflessione che succede passiamo poscia ad
analizzare quella nostra percezione. E il considerare le
cose nelle lor parti , ci apporta chiarezza nuova; e vi
ceversa , quella prima e complessiva percezione ci ap
pare confusa ed imperfetta (i). Il perchè succede, che
questa si sfugga anche all'osservazione di quelli che non
considerano attentamente come succeda il fatto del pen
sare nella propria coscienza. Il filosofo di Stagira os
servò assai bene l' esistenza di quella prima e diretta
percezione delle cose, e fece in essa consistere propria
mente l'atto essenziale dell'intelletto, il quale atto
chiamò intelligenza. Oltracciò conobbe, che 1' oggetto
percepito con questo atto ci si presentava tutto, senza
esser divisa in lui una parte dall' altra, sicché in questa
prima apprensione egli era semplice ed indivisibile. Os
servò ancora la natura di questa apprensione primitiva,
com' ella era necessaria , seguiva per uno spontaneo mo
vimento di natura, ed era immune da errore (2).
Su queste traccie cammina s. Tommaso 1 distingue
due scienze; la prima degli indivisibili, ove non v'ha
errore , ed è quella cognizione diretta di che noi par
liamo; la seconda delle cose divise o composte dall' in-

(1) Quindi s. Tommaso: Tanto enim perfectius cognoscimus, quanto dif,


ferentias ejas ( rei cognitae ) ad alia plemus intuemur. Ed è notabilissima
[a ragione che di ciò rende: Habet enim res unaquaeque in seipsa esse
■ìroprium ab omnibus aliis distinctum ( C. G. I , lxxx ). Quindi la prima
percezione delle cose è confusa , perchè ne abbraccia molte insieme come
ma cosa sola. Quando Laromiguiere definiva l' idea « un sentimento di
luito e sviluppato da altri sentimenti » , egli avea in vista la verità di cui
tarliamo ; ma non avea osservato che 1' idea o la percezione esiste anche
n uno stato confuso prima che in uno stato distinto , e che anche nel suo
irimo stato confuso si dislingue essenzialmente da' sentimenti. Vcd. Voi. II,
a ce. 43a-
(a) Intclligcntitt est indivisibilium, in quibus non est fahum ( De An. Ili ).
tendimento, la quale è la scienza ti/léssa, perciocché
l' intendimertto riflette sulle prime sue percezioni ed
idee, e le analizza e compone, e in queste operazioni
cade l'errore. La prima cosa che 1' intendimento perce
pisce, secondo questo santo Dottore, sono le mense
delle cose (i), le quali appunto corrispondono alle idee
prime delle cose, cioè a quelle idee che nelle percezioni
intellettive si contengono. Ora la riflessione che soprav
viene , analizzando le percezioni e le idee delle cose, vi
nota e distingue a parte a parte le proprietà delle cose;
e in questa operazione non aggiunge nulla alla cogni
zione prima e diretta, salvo un lume maggiore, poiché
non fa che avvertire e notare ciò che prima già in
quella si conteneva. Quindi con ragione fu detto che
1 essenza delle cose ( idee ) è il proprio oggetto dell'in
tendimento, poiché la pura riflessione non trova, non
produce un oggetto nuovo, ma solo esamina e ricono
sce 1' oggetto già percepito.
Laonde la cognizione riflessa si può dire anzi una
ricognizione che una cognizione; e così eccellentemente
chiamollà Tertulliano: « Nos definimus, die' egli, Dewn
prìmum naturd cognoscendtjm , deinde doctrind reco-
gnoscendvm (2). Nel qual passo si vede quanto bene
Juesto antico scrittore della Chiesa si fosse accorto, che
opo avere l'uomo conosciute le cose per una prima
intellezione naturale, torna poi sopra sè stesso, e colla
riflessione riconoscendole e analizzandole, dà loro di
stinzione e chiarezza, forrn^ di dottrina e di scienza. E
nel medesimo pensiero veniva il commentatore di Cor
dova, quando distingueva due specie di cognizioni,
chiamando P una secondo la via di formazione-, e l'altra
secondo la via di verificazione.
Le cognizioni dirette, secondo s. Tommaso, sono le
essenze delle cose. Io ho provato che le essenze 0
idee delle cose sono i principi delle scienze che in
torno a quelle cose versano. Quindi la cognizione di-

(1) JrUelleClus humanus non statini in prima apprehensione capii pafi'


ctam rei cognitionem : sed primo apprchendit aliquid de ipsa , pula QUID-
DITATEM ipsius rei, quae est prinuim et proprium objeclum intellccl"* •
et deinde intclligil proprietates et accidentia et habitudinu circumstanlcs *
cssentiam ( S. I , lxxxv* T ).
(a) Contr. Marc. L. I.
retta è il germe, la regola, il criterio della cognizione
riflessa: la riflessione si riferisce alla percezione o ap
prensione immediata come a sua norma ed esemplare,
a cui conviene che si adatti s'ella vuol esser verace.
Sotto questo aspetto ebbe già distinta la cognizione di
retta dalla cognizione riflessa Epicuro.
Sono celebri le anticipazioni \ xpóÀippeit; ) di questo fi
losofo: queste anticipazioni di Epicuro non sono che
gP indivisibili di Aristotele, le essenze di s. Tommaso,
la ricognizione di Tertulliano, la scienza di verificazione
di Averrbes, la cognizione diretta e primitiva in una
parola, che ricevette tutte queste appellazioni secondo
i rispetti sotto i quali ella fu da' diversi ingegni nei
diversi tempi considerata. Epicuro metteva nelle anti
cipazioni i principj di ogni ragionamento: senza quelle
non si potea nè ricercare , nè dubitare , nè opinare, nè
nominar cosa alcuna, nè fare atto alcuno di riflessione;
perciocché la riflessione si ripiega sempre su di ciò che
è già prima nella mente, e non aggiunge propriamente,
ma analizza, riconosce, verifica. Sicché è necessario che
noi ricaviamo delle percezioni intellettive e delle idee
senza nostra saputa nè volontà, ma per una Virtù della
natura , acciocché poi noi volontariamente moviamo il
nostro intelletto a pensare su di quelle. Questa seconda
operazione del nostro intendimento si osserva il più :
la prima, spontanea, sfugge alla osservazione : quindi an
che nel linguaggio comune la parola riflettere si adopera
ad esprimere qualunque operazione della mente, ridu
cendosi con ciò alla riflessione ogni uso della nostra
facoltà intellettiva.
Ho voluto recare queste autorità , perchè la distinzione
fra la cognizione diretta e la riflessa bene si fermi , e
si consideri sotto tutti i diversi suoi aspetti j nè si creda
una distinzione vana , quella che tanti sommi uomini
hanno notata e considerata necessaria a dar fondò alle
umane cognizioni. Ed ella è più che mai necessaria a
conoscere la natura e la cagione dell' errore. Perciocché
" errore non potendo trovarsi che nella cognizione ri
flessa , conviene ben conoscer questa, nè confonderla
mai colla prima: conciossiachè quando noi sapremo qual
sia veramente la sede dell'errore, facilissimo ci sarà il
ene trarne la natura e l'origine. E a tal fine si avverta,
i non confondere la distinzione or ora stabilita fra la
176
cognizione diretta e la ri/lessa, con un' altra distinzione
fra la cognizione popolare e filosofica, della quale gio
verà che diciamo alcune parole.

ARTICOLO VIL
COGNIZIONE POPOLARI B FILOSOrlCA.

La cognizióne diretta consiste nelle percezioni intel


lettive , e nelle idee che dalle percezioni si separano.
La rimessione si mette tosto in movimento (1), e i
suoi primi passi sono quelli pe' quali ella nota i rap
porti reali delle cose percepite ed apprese.
Questa prima operazione della riflessione non analizza
ancora le singole percezioni é le idee delle cose (2); le
lascia intere siccome stanno nel primo loro acquisto
nella mente : ella non fa che contemplarle insieme: è
ancora un'operazione sintetica; e questa è ciò che fanno
tutti gli uomini, e che costituisce la sciènza comune e
popolare.
La scienza filosofica all' incontro comincia coli' analisi
de' singoli oggetti. Quando le cose percepite si sotto
mettono all' analisi, allora acquistano una singoiar luce,
che è ciò che rende così illustre la dottrina de'savj.
Quest' analisi è propriamente il punto di partenza della

(1) Questo movimento della prima riflessione non può venire che dal
linguaggio , e perciò dalla società con altri esseri, siccome ho dimostrilo
Voi. II , face. 93 e segg.
(2) Prima di osservare i rapporti reali delle cose, conviene che abbia avuto
luogo in qualche parte 1' analisi , poiché un rapporto suppone udì vista
delle cose particola ri : quest' analisi prima è quella che non si esercita su
ciascuna delle cose reali , ma sul tutto delle cose : perocché le cose reali
nella prima percezione sono confuse insieme in un tutto: 1' universo è una
sola percezione. Viene l' analisi , e dislingue gli oggetti fra loro. In one
sto stato entra la sintesi di cui parliamo. Così l'analisi e la sintesi sono
due operazioni dello spirilo che si avvicendano. La riflessione comincia
certo co\V analisi di cui parliamo, ma quest'analisi non produce un» co
gnizione ' degna d'un nome: sopraggiunge la sintesi prima, e completa w
scienza popolare. Quindi ciò che dico prima riflessione, e che dichiaro
causa della cognizion popolare, è propriamente composta di due opera
zioni, cioè i.° di un' analisi, che distingue gli esseri reali fra loro confa*)
da prima nella percezione, 2.° e di una sintesi, che ne intende e quasi diro
percepisce immediatamente i grandi rapporti. Della cognizione filosofica s»
può dire altrettanto. Vero è che muove dall' analisi , ma non riceve nome
di scienza filosofica se la sintesi non sopravviene a compirla c darne 1111
distinto ed importante carattere.
filosofia, e da esso partendo si viene a confermare an
che i grandi rapporti che fra gli esseri avea già osservato
e notato quasi dii%i intuitivamente la gran massa degli
uomini.
Quindi la scienza popolare è media fra la scienza
puramente diretta e la .scienza filosofica : perocché quella
nasce da una prima riflessione, mentre la scienza filo
sofica non succede che per una riflessione seconda (i).
Oltracciò quella prima riflessione popolare aggiunge in
certo modo alla scienza , se non percezione di esseri
nuovi , almeno cognizioni di rapporti reali , e idee ne
gative d' esseri nuovi ; e quindi ella è prima nel suo
genere, producendo delle idee nuove, come le idee delle
cause; mentre tutto il principal merito della scienza
filosofica è d' aggiungere una certa maggior luce e forza
persuasiva alle verità già conosciute nel primo modo ,
quando pure attinge il suo fine, e per mancanza di
vigore non precipita negli errori a cui ella è massima-
niente soggetta.
La cognizione diretta è immune da errore: non al
tutto la popolare , perciocché questa è già in parte il
frutto della riflessione. La cognizione filosofica poi è
quella che più di tutte l'altre è all'errore soggetta,
perchè è tutta figlia della riflessione, e d' una riflessione
più lontana.
Quelli che hanno confuso la cognizione diretta colla
popolare, diedero al popolo l' infallibilità ; attribuendo
così alla cognizione popolare quello che non si può dire
che della diretta. In fatti i popoli interi, l'intera uma
nità è pur troppo soggetta all'errore. Sta scritto: «Ogni
« uomo è mendace »; e ancora: «Tutti decaddero, tutti
« insieme si sono resi inutili: non è chi faccia il bene,
« non ve n' è pure uri solo». Quindi i filosofi, ai quali
furono attribuiti tutti gli errori, mentre ne furono as
solti i volghi da cui quelli uscirono, si credettero trat
tati con ciò ingiustamente , e addussero contro i loro
avversarj i volgari pregiudizj.

0) Io nomino la prima e la seconda riflessione non dall'otto numerica-


Mente primo e secondo del riflettere, ma dagli oggetti proprj della prima
e della seconda riflessione , i quali oggetti specificano le due riflessioni di
cu' parlo.
Rosmini, Orig. delle Idee , Volili. a3
178
Il passo di Tertulliano, che ho di sopra recato, è
atto a far conoscere che la riflessione è una operazione
diversa dalla semplice conoscenza , e * per questo l' ho
addotto ; ma esaminando in particolare di quale specie
di riflessione egli parli in quel passo , vedesi eh' egli
parla d' una riflessione filosofica e dottrinale , a cui
oppone non una cognizione puramente diretta, ma sì
una cognizion popolare. £ veramente la cognizione
di Dio quaggiù, non è diretta , poiché non si perce
pisce immediatamente , ma bensì riflessa , di quella
{•rima riflessione che ingenera la cognizione popolare,
a quale consiste nel rilevare i rapporti delle cose
percepite. Ora l' idea di Dio non è che quella di un
ente principio o causa dell' universo, siccome abbiam
detto. E in altri luoghi l'africano apologista distingue
la cognizione popolare dalla filosofica, e si può dire
che a stabilire questa distinzione tutto sia rivolto il li
bro eh' egli intitolò Del testimonio dell'anima. Nel quale
imprende a mostrare come pur colle prime sue riflessioni
P anima salga naturalmente alle dottrine sane della cri'
sliana fede. Egli osserva come in sulla bocca di tutti
gli uomini suonino sì frequenti quelle invocazioni:
« M'ajuti Iddio, — Dio immortale! — Dio sa e .vede», ecc.
E dopo recate queste comuni maniere di dire così sog
giunge: u E chi non riputerà esser cotesti sfoghi del-
« l'anima dottrina della natura, e un tacito inno della
« congenita o ingenita nostra coscienza? Certo prima fu
« V anima che la letteratura , e prima la favella che il
« libro, e prima il senso che lo stilo , e prima l'uomo
« che il filosofo ed il poeta. Crederem noi mai che
« avanti le lettere ed il loro divulgamento gli uomini
« si stessero mutoli e senza proferir sillaba ? E onde
« 1' anima apprese? Per fermo non fu dalla filosofia,
« non dalle lettere o dalle scritture, non dalla disci-
« plina : perciocché tutte queste cose ella pronuncia non
«formata punto alle scuole, semplice , rozza, impolita,
» idiota, del trivio, del telajo ancor tutta. Tali con
« dalla natura maestra l'anima discepola apprese ».
E pochi altri passi in tutta l'antichità si troveranno, che
faccian sì bene distinguere la popolare e comune, dalla
filosofica cognizione.
Ne' tempi nostri la distinzione antichissima della
scienza diretta e della riflessa fu riprodotta: ma quella
prima, com'era ben facile , fd confusa colla popolare.
Nascendo questa per una prima riflessione sulle cose
percepite direttamente , la quale le guarda nel loro com
plesso, e co' loro rapporti avvincolate tutte le abbraccia
in una grande unità , era facilissimo che questa prima
riflessione si confondesse coli' alto diretto della intelli
genza; perciocché l'atto diretto è tacito e inosservato,
mentre la prima riflessione è splendida , e, come la
moltitudine, piena di parole. Recherò prima il passo di
un eloquentissimo filosofo , nel quale egli conduce bel
lamente il pensiero de' suoi uditori ad osservare la co
gnizione diretta, tanto sfuggevole persè, e a segregarla
dalla riflessa. Ecco coni' egli li muove a far questa 'os
servazione r"
« Io voglio pensare, e io penso. Ma non vi accade
« egli talora di pensare, senza aver voluto pensare? Tras-
« portatevi d'un tratto al primo fatto deli1 inlelligen-
« za; poiché l'intelligenza ha dovuto pur avere il suo
« primo fatto, ella ha dovuto avere un certo fenomeno,
« nel quale ella a' è manifestata la prima volta. Innanzi
«:a questo primo fatto non esistevate voi per voi stessi,
« o se esistevate per voi stessi, come l'intelligenza non si
« era ancora in voi sviluppata , voi ignoravaté che voi
u foste una esistenza che può svilupparsi; conciossiachè
u l'intelligenza non si manifesta che per gli alti suoi, per
« un atto almeno, e innanzi a quest'atto non era in vo-
u stra facoltà il sospettarlo, e voi l'ignoravate assoluta
ti mente. E bene. Quando l'intelligenza s' è manifestata
« la prima volta, chiaro è ch'ella non s'è manifestata
« volontariamente. Ella s'è manifestata tuttavia, e voi
« n'avete avuto la coscienza più o meno viva. Procacciate
m di sorprender voi stessi pensanti senz'averlo voluto. Voi
« vi troverete allora nel punto di partenza della intel-
« ligenza : e ivi potrete osservare anche oggidì con più
u o meno di precisione, che avvenne o che dovette
« avvenire in quel primo fatto della vostra intelligenza ,
u sebben egli non sia più, nè possa più ritornare in-
« dietro. Pensare è affermare (i). La prima afferma-
« zione, nella quale non è intervenuta la volontà nè

(i) Affermare é giudicare. Quindi pensare é giudicare: il qual vero è


base di tutta quesl' opera.
i8o
« per conseguente la riflessione, non può essere una
« affermazione meschiata di negazione ; poiché non si
« comincia con una negazione. È dunque una after-
« mazione senza negazione, una percezione istintiva
« della verità (i) , uno sviluppamelo tutto istintivo (2)
« del pensiero. La virtù propria del pensiero è il pen-
« sare; che voi v'interveniate o no, il pensiero si svi-
« luppa (3) : è allora un' affermazione che non è me-
« schia ta di negazione, una affermazione pura , una
« appercezion pura. Or che v'ha egli in questa intuizion
« primitiva ? tutto ciò che più tardi sarà nella rifl.es-
« sione: ma se v' è tutto ciò, v' è però ad altre con-
« dizioni. Noi non cominciamo dal cercar noi slessi,
« poiché ciò supporrebbe che noi sapessimo d'essere,
« ma un giorno, un'ora, un istante, istante solenne
« nell' esistenza , senza esserci cercati , noi ci siamo tro
ll vati : il pensiero vi discuopre che noi siamo nel suo
« sviluppamelo istintivo ; noi ci affermiamo con una
u sicurezza profonda , con una sicurezza che non è me
li schiata di nulla negazione. Noi ci appercepiamo, ma
« noi non discerniamo con tutta la nettezza della ri-
« flessione il nostro carattere proprio, che è d'essere
« limitati , noi non ci distinguiamo in un modo al tutto
« preciso da questo mondo, e noi non iscorgiamo pre-
« cisissimamente il carattere di questo mondo; noi ci
« troviamo, e noi troviamo il mondo, e noi apperce-
« piamo qualch' altra cosa ancora a cui naturalmente,
« istintivamente rapportiamo noi stessi e il mondo; noi

(1) Abbiamo già detto che le idee delle cose sono la verità di que
ste. — Quanto poi ad essere un'afférmazione senza negazione, l'accordo; ma
non senza /imiti. I limiti possono essere nell'oggetto del nostro giudizio
affermante , senza che noi gli osserviamo separatamente nell' oggetto stes
so: perchè ci fosse negazione nel nostro giudizio, converrebbe che noi
avessimo osservati i limiti nell* oggetto che affermiamo ; ma noi possiamo
affermarlo, senza tuttavia pensare a' suoi limili , tale com'è.
(a) Non è perù. occulto al tutto questo istinto , cioè non è un fatto
tutto isolato e che non si rappicchi a nessun altro. Vedi la spiegazione
da aie data nella nota 3 alla face. 171 e seg.
(3) Non però senza il soggetto , poiché è il soggetto che pensa. Il fallo
del pensiero non dice eh' egli sia una virtù dal soggetto indipeodenle.
Tuttavia è vero che si sviluppa senza la volontà deliberata del toggdfe
La particolarità del soggetto è essenziale alla generalità del pensiero. Aon
bisogna dare indietro a questi fatti j perchè sono fatti. Convien dunque
conciliarli colla teoria, il che credo vorrà essere alquanto difficile 'l' au
tore citato.
i8i
« distinguiamo tutto questo, ma senza una separazione
« severa. L'intelligenza in isviluppandosi appercepisce
« lutto, ma non 1' appercepisce da prima in una ma
il niera riflettuta , distinta, negativa; e se appercepisce
« tutto con una perfetta certezza , 1' appercepisce però
« con un poco di confusione » (i).
In tutto questo tratto 1' autore sembra occupalo a far
distinguere la cognizione prima e diretta, dalla ri/lessa ;
e sono poche le frasi nelle quali si veda la confusione
fra la scienza diretta , e la popolare o sia di prima
riflessione (a). Ma in ciò che segue al brano recato, la
detta confusione è più manifesta. £ perchè il ben di
stinguere e precisare i limiti della cognizione diretta e
sola immune da errore è di somma importanza, io slimo
bene di dar qui il carattere coi quale ella si può sicu
ramente distinguere dalla popolare.
La cognizione diretta primieramente ha degli oggetti
più particolari che la cognizione popolare. Poiché la
cognizion popolare è una prima riflessione su di ciò che
abbiamo percepito, e Patio della riflessione ha di sua
natura uno sguardo più generale della percezione. In

(1) Questa confusione nasce anche in parte dalla moltitudine delle parti,
delle quali gli oggetti souo composti ; la qual moltitudine vince 1 atto
primo della nostra forza intellettiva. Che la moltitudine apporti confusione
nella percezione, 1' abbiamo veduto nel Voi. II , face. 385 e segg.
(a) Questa confusione si vede nel supporre che fa 1' autore che noi per
cepiamo noi stessi, il mondo , e qualche altra cosa ( 1' infinito) fuori del
mondo contemporaneamente. AH' incontro noi i.° percepiamo l'idea del
l' essere universale per una prima, necessaria e spontanea intuizione: qui
e ['infinito escludente ogni negazione; e questo primo alto forma la po
tenza intellettiva; a.° percepiamo il mondo esteriore con una sintesi pri
mitiva ( percezione intellettuale); e qui sono limiti, ma non perù negazione ;
3.° togliamo da questo il giudizio sulla sussistenza delle cose, c ci re
sta l'apprensione pura (idee) : qui compariscono i limili, e le negazioni.
Fin qui va la cognizione diretta. In questo stato di noi slessi come esseri
intellettivi, abbiamo il sentimento che si esprime col pronome personale
Io, ma non abbiamo la percezione intellettiva. Dopo la cognizione diretta,
viene la prima riflessione su di ciò che è in noi ; la qual forma la scienza
popolare ; e eoa questa riflessione noi percepiamo i ° noi stessi , soggetto
intelligente, a." una causa di tulle le cose (Dio ), 3." altri grandi' rap
porti delle cose offerte dalla cognizione diretta. L' autore all' utcoulro che
noi citiamo di tutte queste cose pare che faccia una cognizione sola, che
chiama spontanea, mettendole di contro la ri/lessa. Ria noi vogliamo far
osservare che quella cognizione spontanea ( si chiami pur ella cosi ) par-
tesi in due , l'una duella e l'altra popolare , che nou si possono confon
der fra loro.
fatti noi percepiamo le cose una alla volta (i); o sene
percepiamo più insieme, come allora che, essendo edu
cato l' occhio nostro a farci conoscere gli oggetti lon
tani, noi percepiamo con esso ad un tempo tutta la
scena delle cose che ci stanno dinanzi a conve nevoi di
stanza- tuttavia ove noi ci moviamo, muliam scena, o
veggiamo e percepiamo sempre cose nuove. Ancora, la
percezione attuale per quanto possa esser complessa e
moltiplice , non può estendersi a percepir quelle cose
che attualmente non sono presenti, ma trapassarono
0 hanno a venire: sicché le percezioni si succedono, e
1' una dando luogo all' altra continuamente perisce. Ma
se perisce la percezione attuale , resta la ricordanza di
lei , e tutte le cose percepite in diversissimi tempi nel
deposito della memoria si conservano. Or sopravviene
la riflessione. Lo sguardo di questa si ripiega su tutto
il tesoro di notizie nella memoria custodito , e sulla
stessa coscienza: ella ha schierati quindi dinanzi a tè
1 tempi passati, siccome i presenti: e tutté le cose ab
braccia e comprende. A questo sguardo universale suc
cedono delle altre riflessioni e viste parziali ; ed allori
comincia propriamente quell' analisi, colla quale la
scienza popolare passa insensibilmente a rendersi filosofica.
Da questi caratteri di particolarità per la cognizione
diretta, e di generalità rispettiva per la cognizione po
polare , consegue che questa sia più atta a produrre nel-
1" uomo un sentimento sublime, che la cognizione diretta.
Un sentimento sublime è sempre prodotto da una viva
rappresentazione di cose che vede 1' intelletto , o vaste
per la loro moltitudine, o preclare per la loro eccel
lente natura. E viva è tanto più la rappresentazione di
solito, quant'ella è più nuova, e quanto l'uomo è più
fornito di fantasia potente e vergine ancora : le quali cose
tutte si adunavano nella prima infanzia della umanità.
Indi que1 dignitosi caratteri de' poeti antichi, quella loro
scienza tanto popolare, quel parlare ove diletta l'universa-
lità,la grandezzata sicurezza, la semplicità, l'entusiasmo^)
(i) Qui io suppongo che la prima percezione mediante la prima a"*'"
naturale di cui abbiamo altra volta toccato, sia già resa in qualche modo
distinta: cioè che gli esseri realmente distinti , sieno stati pure distinti Dell'
nostra percezione. » ■■■
(a) Vedi le osservazioni sopra lo stato delle prime arti del bello vA
Saggio suW Idillio e sulla nuova Letteratura italiana ( Opusc. Fil- Voi. V
tace. 3o4c segg.), o utili» Piefuzionc al Volume II degli Opuscoli Filose^1
i83
Conciossiachè la prima riflessione dell'uomo i.' è viva,
appunto perchè la fantasia è vivace e non ancora spos
sata nella gioventù, come degli uomini individuali, così
delle nazioni e del genere umano; a.° è nuova, poiché
è la prima, e scuopre i rapporti delle cose , ed inventa,
indi eli' ha quasi il carattere di creatrice; 3.* è sublime,
perchè corre necessariamente ai rapporti delle cose i
più grandi e i più necessarj , e divina (i) degli esseri
invisibili, una causa, un Dioj 4-° & vasta, perchè non
ha imparato ancora a fermarsi alle cose particolari , ed
alle lor parti minute, non essendovi nulla che ad esse
possa determinare l'attenzione, ma si riversa e si spande
avidamente sul tutto, che contemplando ancor trova
poco , e vi aggiunge l' infinito.
L'autore di che parliamo attribuisce l'entusiasmo non
alla cognizione riflessa, ma alla spontanea: non avendo
egli osservato che l' entusiasmo non può nascere dalla
cognizione diretta, ma solo dalla prima e dall' ultima
riflessione. Dalla prima per le ragioni dette ; dall'ultima
riflessione , cioè dalla scienza filosofica già completa ,
perchè dopo aver analizzato tutto , spezzato, minuzzato
tutto, e 1' uomo esser caduto con ciò necessariamente
in piccole e fredde considerazioni , egli ricompone tutto
a mano a mano, e si trova finalmente sul fine del suo
lungo e faticoso cammino colà dov' egli era partito,
nel grande, nel sublime, nel tutto, ma in un tutto
accresciuto d' infinita distinzione e luce (a).

(i) La mente non cessa di fare quesla operazione anche fornita essendo
della rivelazione ; solamente che questo slancio naturale della mente con
ferma , e rende più facile e intima la credenza di ciò che la rivelazione ci
scuopre.
(?) La storia degli uomini inspirati ci fa conoscere che di solito l' inspira
zione è accompagnata da un sacro entusiasmo. Questo nasce per 1' azione
straordinaria che Iddio esercita in tali anime comunicando loro i suoi se
creti, e per gli grandi misteri che loro discuopre. Per altro questo sacro
entusiasmo è un effetto che accompagna il più delle volte V inspirazione o
rivelazione divina, non è la stessa inspirazione o rivelazione. In fatti sembra
che talora Iddio rivelasse a' santi uomini delle cose senza che eccitasse nelle
loro anime quell' agitazione sublime che si chiama entusiasmo, come
quando parlò loro in placidi sonni, non rilevando nuovi misteri e princi
pali , ma dando loro de' comandi ordinar), come la fuga in Egitto. Ma il
volgo confuse talora l'effetto dell'inspirazione, colla stessa inspirazione e ri
velazione ; non avvertendo che una specie d' entusiasmo o di grande e
sublime agitazione intellettuale può nascere ancora da cagioni naturali ,
come dalle prime riflessioni degli uomini, colle quali discuoprono grandi


i84
ARTICOLO Vni.
RIASSUNTO DELLE COSE DETTE SCILI SEDE DELL' ERBOSE.

La prima cognizione umana è dunque diretta, nè può


essere altramente: questa è mossa da un istinto di sod
disfare a' proprj bisogni, ed occasionata dalle sensazioni
ed immagini delle cose esteriori.

verità. Rincresce a noi di vedere che il professore di Parigi non abbi»


evitato questo equivoco volgare : e confondendo le inspirazioni naturali dei
poeti colle inspirazioni divine e veramente soprannaturali , per essere le
une e l' altre fornite di una specie d' entusiasmo , abbia confuso insieme
ciò che viene dalla natura dell' uomo con ciò che viene da Dio , le reli
gioni false colle vere , quasi avesser tutte uno stesso fonte , perchè hanno
nel loro manifcslarsi qualche effetto simigliante. Ma le religioni false sa-
rebber esse finzioni se non assomigliassero alla verità? o avrebbero mai
ingannati gli uomini? E non è dovere della sagacità filosofica distinguere
le cose anche simili ma diverse fra loro, e non lasciarsi allucinare come
il volgo dalla loro similitudine? Ecco le parole dell'eloquente professore:
•< Tale é il fatto dell'affermazione primitiva anteriore ad ogni riflessione
a e scevra da ogni negazione : questo è il fatto che il genere umano ha
« chiamato inspirazione. L'inspirazione in tutte le lingue è distinta dalla ri-
« flessione: ella è l'appercezione delle verità, io intendo delle verità es-
« seuziali e fondamentali, senza l'intervento della volontà e della perso-
« nalità. L' inspirazione a noi non appartiene. Noi non siamo in essa che
« semplici spettatori , noi non siamo attori ; o tutta la nostra azioDe cou
rt sisle nell' avere la coscienza di ciò che avviene: qui v'ha certo dell'at
ei tivilà, ma non una attività riflessa, volontaria e personale. L'inspira-
« zionc ha per carattere 1' entusiasmo; eli' è accompagnala da quella emo-
« zione possente che strappa 1' anima dal suo stato ordinario e subalterno,
k e scioglie in essa la parte sublime e divina di sua natura : Est Deus i»
« nobis , agitante calescimus ilio. — Ecco perchè nel cominciamento della
« civilizzazione, chi possedeva più degli altri il dono maraviglioso della
« inspirazione, passava a' loro occhi pel confidente e l'interprete di Dio.
« — Quinci 1' origine sacra delle profezie, de' pontificati e de' culti ■•
In questo passo sono ravvolti e confusi, per mio avviso , molti elementi
in un solo, ed egli sembra che I' immaginazione, rammassando frettolosa
mente molte cose, abbia tolto all' intelletto dello scrittore la pacatezza acuu
onde ben sovente analizza i più difficili argomenti. Ed ecco ciò che a me
sembra che quel passo lasci a desiderare, i .° Era necessario distinguere
una vera inspirazione e rivelazione di Dio, ed una semplice cognizione na
turale , sublime se si vuole come quella de' grandi poeti, ma non oltre i
termini della natura. Vero è che anche la cognizione naturale può dir»
divina e una partecipazione della ragione esterna ed assoluta: ma non a
dee abusare di questo vero a tor via la rivelazione soprannaturale, giac
ché la filosofìa non può trovar nulla in questa di ripugnante e d'impos
sibile. 2.° Dovea distinguersi fra l'inspirazione a cui consegue
.•■ l'entusiasmo
e I' entusiasmo a cui.....
si dà volgarmente il.. nome d'...inspirazione frcl,è
, perche
1' uomo si sente grandemente in esso passivo , e nobilmente passivo. 3." Do-
vea aversi sotl' occhio 1' impostura , cagione delle religioni false e simula
trice della vera; e non riferire ad una sola origine il falso ed il «ero, »
simulazione e la sincerità , la religione e la superstizione , o per dirlo colle
i85
La seconda cognizione riflessa di prima riflessione
1' abbiatn chiamata popolare, perchè è comune agli uo
mini tutti. L' uomo non può trovar la via di far questa
prima riflessione se non mediante il linguaggio che ri
ceve dalla società (i).
Fin qui nulla o quasi nulla d'analisi; il sapere è
eminentemente sintetico. L' analisi dà principio alla co
gnizione filosofica con una seconda riflessione. L'uomo,
dopo d'avere abbracciato il tutto alquanto confusamente,
vuole riconoscere e perlustrare ciò che conosce, per
averne una più distinta e più lucida cognizione. Allora
egli comincia dalle parti, egli analizza, e dà con ciò
origine ad una cognizion filosofica. ■
Il filosofo dunque esce dal volgo, ma ne' primi suoi
pnssi ritiene necessariamente del sintetico e del volgare.
L' analisi, onde comincia la filosofia , è un' arte, e come
tutte le arti , così questa non si conosce perfettamente
nel suo principio: la filosofia dunque comincia con una
analisi imperfetta. L' analisi e la filosofia si scaltrisce e
si perfeziona passando per una trafila di errori innu
merevoli, che talora umiliano, e talor anco sconfor
tano interamente ed avviliscono 1' uomo.

parole dell'autor nostro, in generale le profezie, i pontificali ed i culti.


4° Non si dovea dire che la cognizione spontanea, che facilmente genera
I' entusiasmo, sia priva di ogni riflessione , mentre ella anzi nasce da una
riflessione primitiva e generale; e quindi si confondono insieme la cogni
zione diretta, e la cognizione popolare. 5.° Non si dovea escludere la per
sonalità o sia l'attività personale dalla cognizione popolare, e lasciarci solo
un' attività simile a quella che esercita uno spettatore presente ad uno
spettacolo. Bisogna osservare, che avere la coscienza è appunto il fatto di
cui si tratta , e chi ha la 'coscienza di una cosa percepisce la cosa : sarà
passivo bensì, ma è però il soggetto , la persona che interviene. I pensieri
suoi sono lo spettacolo : altro spettacolo non c'è; ed è egli l'attore in questi
pensieri, non altrimenti che il recitante è l' attore in sul teatro : egli non è
■1 creatore delle idee , ma è egli che passa dall'una all' altra, che le unisce
e le divide : non è che un altro pensi , ed egli vegga ciò che l'altro pensi :
o che i pensieri si muovano e gestiscano da sé stessi senza il soggetto, il quale
non faccia che contemplarli in movimento. Non è questo un osservar bene
la natura: i pensieri, sieno spontanei sieno riflessi, non si possono dividere
^ soggel,o, come la scena si divide dallo spettatore : la persona sussiste ,
sia passiva sia attiva: ella è l'identica tanto se soffre come se agisce: se non
rhe ov'ella soffre si suppone che oltre lei v'abbia qualche cos'altro fuori
di lei. Finalmente nella cognizione popolare interviene la riflessione, la
quale ha una attività speciale,
(i) Voi. II, face. Q-ì e segg.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 24
i86
La filosofìa comincia dunque dall'esser volgare. Quando
comincia a scaltrirsi, e s'avvede che una soverchia con
fidenza e facilità di rendere spiegazione de' fatti della
natura non fa che travolgerla a grossolani errori, ella
allora s'assottiglia a formare delle spiegazioni e delle
ipotesi ingegnose: allora sdegna il volgo da cui più s'è
allontanata, e prende un contegno più grave e più in
dividuale: allora si dice paucis contenta judìcibus: d»
volgare ella è divenula dotta. La filosofìa dotta ha i
suoi dotti errori, e non conquista alcuna verità parti
colare senza aver date prima innumerevoli prove della
umana fallacità (i).
Quando la filosofìa è ricca di particolari verità rico
nosciute colla riflessione e coli' analisi illustrate, allora
ella comincia a ricomporle in un tutto, allora ritorna,
come dicevamo, ad una sintesi che non è se non una
conferma, un'aggiunta d'immensa luce, una testimo
nianza resa alla sintesi prima e volgare.
Ora fra tutte queste cognizioni dove è la sede del
l' errore ?
Abbiamo veduto la cognizione diretta immune da er
rore, perchè opera della natura.
La cognizione popolare comincia ad esser l'opera
della volontà, e qui appunto l'errore ha il suo inco-
minciamenfco.
La cognizione popolare tuttavia è meno soggetta al
l' errore della filosofica : perciocché consistendo ella in
una prima riflessione colla quale si osservano ed ap
prendono i grandi rapporti delle cose, abbraccia il com
plesso delle medesime , e non le singole parli. Ora il
maggior pericolo d' errore nasce dalla facilità di pren
dere la parte pel tutto , e a questa semplice forinola
si riduce quasi ogni specie d' errori. Oltracciò la cogni
zione filosofica si riflette sulla cognizion popolare, e ri
ceve quindi anche gli errori di questa nel primo su"
avviamento.
Ma s' osservi un' altra cosa. La cognizion popolari
nel suo principio non è volontaria, ma naturale e istin
tiva : perciocché, come abbiamo veduto, è solamente
mediante il linguaggio che noi acquistiamo la signoria

(i) Ved. Yol. I, face, 2 e segg.


del nostro intelletto. Il linguaggio adunque muove l'in
telletto nostro alla prima riflessione in un modo simile
a quello onde i sensi il muovono occasionalmente alla
percezione intellettiva. È il soggetto ( V Io) che mette
in moto 1' intelletto ad attendere alle significazioni delle
parole, per un istinto di adoperare tutte le sue forze
al soddisfacimento de7 suoi bisogni. In questa prima
operazione l'intelletto apprende i rapporti necessarj, e
con essi noi impariamo ad usare poi l' intelletto stesso
a nostra volontà. Ora in questa apprensione de' grandi
e necessarj rapporti delle cose non può cadere errore ,
perchè non è ancora entrata in campo la volontà no
stra : l'intelletto ha appreso, ha giudicato, ma neces
sariamente: questa parte della cognizìon popolare è
dunque anch'essa un' opera della natura, una perce
zione di cose indivisibili , scevra perciò da ogni errore.
Che se questa prima e involontaria apprensione alquanto
confusa de' grandi rapporti delle cose noi vogliamo chia
marla senso comune, può dirsi in questo significato as
sai ragionevolmente , che al senso comune conviene ri
scontrarsi ogni speculazione filosofica come a sua norma
ed esemplare (i).
Ma dopo questa prima apprensione de' grandi rap
porti delle cose , 1' uomo è libero a dar loro 1' assenso
o a negarlo. Questa operazione non è un acquisto di

(i) Ammettendo io questo vero , osservo però che in tal caso il senso
comune non si può chiamare criterio della certezza, iti quel significato nel
qual viene presa questa espressione nella questione filosofica •< Qual sia il
criterio della certezza ». In questa dimanda il criterio della certezza che
si cerca è un principio supremo ed unico , il quale serva di regola per co
noscere ss una proposizione qualunque è vera o falsa. Per fare intendere
la differenza fra il criterio di certezza che cerca il filosofo, e un criterio di
certezza quale sarebbe il deposito delle verità conservate nel senso comune,
supponiamo che v' avesse un libro inspirato , il quale contenesse in sé re
gistrate le soluzioni, di tutte le questioni che far si possono in una data
scienza. Questo libro sarebb' egli il criterio cercato della scienza? Nò; ma
sarebbe la scienza stessa bella e formata. Supponiamo eh' io cerchi una
regola per misurare I' altezza di una casa: mi si dà un passetto : questo io
posso applicarlo alla casa , e rilevarne 1' altezza : egli è dunque la regola
colla quale io trovo 1' altezza. All' incontro mi si dà un (ilo allo quanto la
casa : questo filo non è la regola , è 1' altezza stessa già datami della casa.
Similmente le dottrine del senso comune non possono esser inni quella
regola o criterio supremo che cercano i metafisici , sebbene possano essere
dottrine vere ed anco infallibili, le quali possono perciò servire di ripruova
alle filosofiche opinioni.
i88
nuova scienza ; non si passa ancora alla cognizioni fi
losofica ; sebbene questo giudizio esiga forse qualche
nuova riflessione, tuttavia non è riflessione di tal na
tura cbe produca nuova scienza o scienza in nuova for
ma; è una ricognizione di ciò che si è appreso, nella
stessa forma lasciandolo in cui si è appreso. Qui co
mincia il campo dell'errore: questo è quell'adito dal
quale entra l'errore nella cognizione popolare: l'errore
comincia sempre coli' uso che fa 1' uomo della propria
volontà.

CAPITOLO Ut

CAUSA. DEGLI ERRORI UMANI.

ARTICOLO I.
L'ERBOSI ■ VOLONTARIO.

L'errore non può trovarsi che nella riflessione, e al


lora appunto che la riflessione comincia ad essere vo
lontaria (i).
Dunque V errore è volontario.

ARTICOLO II.
ECCELLENTE DOTTRINA DI MALEBRANCHE SOPRA LA CADSA DELL'ERRORE.

Il Malebranche vide questo vero, e pose la vera causa


dell'errore nella stessa volontà umana; e a tutte l'altre
cose che concorrono a inclinare la volontà nell'errore
diede la denominazione di occasioni o cause occasionali
dell'errore (a).

(1) Cap. II, art. vm.


(2) La modera» filosofia perdette questa eccellente verità , perchè rida-
cendo tutto al senso, ed il seoso non percependo che direttamente, noi
si considerò più nè s' intese la natura della riflessione, che è l'operazione
più difficile da osservarsi dello spirito umano. Ignorandosi la natura detti
riflessione, non si potè più intendere la differenza che passa fra un site
del nostro spirito, e 1' avvertenza di quest'atto , la quale avvertenza non i
che la riflessione sopra 1' atto stesso. Quindi si credette che noi avessimo
1' avvertenza di lutto ciò che passava nel nostro spirito , e che ciò di ca
noi non avessimo l'avvertenza non esistesse. Ora molte volte avviene, che
noi cadiamo in errore senza avvertire che fu un atto di nostra volont»
quello che vi ci ha tratti. Si fece dunque il solilo argomento : « Io 000
in' accorgo che la mia volontà sia stata quella che ha mosso l' inteileltó *
Egli oltracciò fece la distinzione fra le prime ope
razioni dell' intelletto e involontarie, e le seconde e vo
lontarie: in quelle riconobbe che non poteva cadere
errore, ed erano la norma , siccome le avea fatte Car
tesio (i), a cui convenia riscontrare e verificare queste
seconde.
Egli osservò, che i primi giudizj che fa l'intelletto
si possono chiamare mere percezioni: mentre quando
l'intelletto riflette volontariamente su que' primi giu
dizj e vi dà il suo assenso , allora il giudizio è una
operazione da sè che suppone la percezione già prece
dente. E in fatti la percezione intellettuale, la quale
non si fa se non mediante un giudizio o sintesi primi
tiva, è involontaria, e l'intelletto, sebbene sia attivo,
tuttavia a ciò è mosso naturalmente e istintivamente (2).

questo errore. Dunque la mia volontà non ci ha avuto parte ». È il solito


sofisma volgare, da noi tante volte confutato nel corso di quest' opera. Le
divine Scritture all' incontro ci parlano di atti della volontà nostra anche
colpevoli che restano a noi ignoti, certamente perchè non gli avvertiamo,
e ci esorlano a pregare perchè Iddio ci mondi da' peccati occulti ; ab occulta
meis munda me.
(1) Conviene considerare attentamente che cosa sia Y idea chiara di Car
tesio da lui detta criterio della certezza. Ella non è che 1' idea prima delle
cose ( l' essenza , come talora egli stesso la chiama ) : la idea che si con
tiene nella percezione intellettiva , o parlandosi de' rapporti reali , come di
causa , nella prima riflessione: in una parola, l'idea chiara di Cartesio
era la cognizione popolare. E veramente egli mosse tutta la sua filosofìa
dalla percezione intellettiva dell' Io , cognizione diretta. Poi si mise a ri
flettere sopra quella percezione dell' Io per riconoscerla, e conchiuse che
egli « non dovea ammettere neli* lo se non quello eh' egli trovava in
quella prima percezione ». Trovata questa proposizione particolare , la
generalizzò facendola servire anche per la cognizione popolare, cioè per
la percezione de'grandi rapporti degli esseri, e stabilì questa regola; « Non
si dee ammettere che ciò che si trova contenersi nella percezione o idea
prima della cosa ». La prima percezione adunque , la scienza diretta
e popolare, è il criterio di Cartesio, egualmente che di quelli i quali am
mettono per criterio il senso comune in un senso ragionevole. Cartesio
aggiunse , che di ciò che si trovava nella prima percezione bisognava ben
assicurarsi per non cadere in errore, cioè che bisognava vederlo chiara
mente i della quale regola di prudenza non v' è nulla di piò assennato , e
di più importante per evitare gli errori. Non si conviene adunque pren
dere un'attitudine ostile contro a quel sommo uomo di Cartesio, ma si
bene giova di perfezionare il suo sistema, dilucidandolo, e correggendo
que' mancamenti accessorj de' quali non sono mai povere le opere degli
uomini.
(a) L. I, c. n. Il Malebranche però non vide, che ogni operazione intel
lettuale doveva essere un giudizio, e quindi mise le operazioni dell'intel
letto nel solito ordine di i.° percezioni, a.0 giudizj, 3.° e raziocinj. Nella
Sezione precedente fu da noi dimostralo che le percezioni intellettuali nou
190
Di che anche Malebranche riconobbe i.° che la sede
dell' errore sta unicamente in una operazione dell1 in
telletto, cioè nel giudizio; 2.0 non in tutte le specie
de' giudizj, ma ne' giudizj riflessi e volontarj.
E in questi giudizj volontarj l'errore nasce, come
eccellentemente osserva quell' autore , quando diamo
V assenso (nel che consiste il giudizio) a ciò che l' in
telletto nelle sue percezioni ed idee punto non ci mo
stra, e quindi mentiamo a noi stessi dicendo che nel
l'idee prime o percezioni del nostro intelletto c'è quello
che non c'è, o viceversa quello che c' è disconoscendo.
« Conciossiachè tutti convengono che i giudizj leme-
« rarj sono peccali (1), e che ogni peccato è volontario;
u forz' è che pure convengano in questo, che in tal caso
« è la volontà che giudica, acquietandosi a delle perce-
u zioni dell'intelletto confuse e complesse ». Ed aggiunge
questa buona osservazione sull' intima unione della vo
lontà coli' intelletto : « Ma per dire il vero , questa
« questione, se giudichi e raziocini il solo intelletto,
« sembrami ben inutile , e più di parole che d' altro.
« Dico , se il solo intelletto: poiché certo egli ha nei
« nostri giudizj quella parte che gli ho assegnata ,giac-
« che conviene conoscer la cosa o sentirla, prima di
« giudicarla o a quella acconsentire. Per altro l' intel-
« letto e la volontà non è che la mente stessa , e perciò
« è la mente propriamente parlando quella che perce-
« pisce , giudica } ragiona, vuole ecc. A questa voce poi

sono che de' primi giudizj , dai quali si estraggono poi le idee nel modo
iudicato. In quanto ai raiiocinj , questi non si comprendono nella scino
diretta , ma cominciano ad apparire nella scienza di prima riflessione, che
noi abbiamo chiamata popolare. I giudizj e i raziocinj hanno due stati. I
primi che compariscono sono involontarj e istintivi : allora sono nello stalo
di percezioni intellettive, poiché l'intelletto apprende con essi nuove cose,
e sembra quasi passivo in quanto è portato alla sua azione necessariameote.
I giudizj poi e raziocinj secondi, o sia di seconda riflessione , hanDo m
altro stato, cioè non sono percezioni, ma ricognizione o assenso volontari»
delle percezioni. In questo acquistano nome proprio ed esclusivo di giu&fl
e di raziocinj , ed hanno assai maggior luce e chiarezza. Quindi gli uomini
assai difficilmente riconoscono c confessano di giudicare e di ragionare con
quo' primi giudizj e raziocini che fanno.
(1) Giudizj temerarj sono comunemente chiamati quelli che si fanno w
danno del prossimo. Ogni giudizio temerario, preso in tutto il valore dell'
parola, ancorché non si riferisca al prossimo, è una iuordiuazione: >">
talora sono di quelle iuordinazioni che provengono dalla corruzione origi
nale quasi dirci in uol senza di noi.
a d'intelletto diedi la nozione d'una facoltà passiva,
« cioè della potenza di ricever le idee » (i). Questa pas
sività dell'intelletto non è che quella necessità che ha
l'intelletto di percepire quando si tratta della scienza
diretta , o della prima parte della scienza popolare.
L' intelletto poi che riflette e riconosce i giudizj fatti ,
è l'attività volontaria di cui parla Malebranche. Diche
si vede che la volontà e l'intelletto formano insieme,
si può dire, una sola potenza: l'anima intelligente è
volontà in quanto si considera nella sua forza attiva
quando si muove ad un fine conosciuto , od elegge fra
più fini. '*
Malebranche osserva che se fosse la stessa natura del
nostro intelletto quella che ci trae all' errore , e non la
volontà che dà il consenso a ciò che l'intelletto non
porge, sarebbe Iddio stesso quegli che ci ingannerebbe,
avendoci dato una natura ingannatrice (2). Perciò ac
conciamente dice s. Tommaso , che « secondo la virtù
intellettuale non può dirsi mai che l'intelletto sia falso,
ma sempre vero » (3).
Nasce tuttavia una obbiezione , che si dee risolvere ,
contro la esposta dottrina sulla causa dell' errore. Vi
sono de' veri sommamente evidenti , come quasi tutti i
teoremi di geometria. Ora a questi 1' assenso dell' in
telletto può egli esser volontario? Sembra al tutto di
no. L' assenso dunque dell' intelletto, o sia il giudizio,
non dipende dalla volontà , ma è 'determinato dalla
stessa verità.

(OL. I,c. II.


(1) L. I , c. II. Poiché la volontà non si reca che solo in cose « co-
« gnite all' intelletto , ella necessariamente recasi in ciò che è per lo meno
- simile al vero ed al buono. Ora s' ella non fosse libera in questo , e se
- fosse necessitata di recarsi in ogni cosa simile al vero ed al buono , ella
« s' avvolgerebbe necessariamente in perpetui errori , e con un incredibile
- impeto in essi precipiterebbe: poiché ciò che è simile al vero ed al buo-
«no, non è però il vero ed il buono. Laonde non immeritamente , sé ciò
« fosse, i suoi errori verrebbero attribuiti al sommo fattore, ond' ella
« trasse la sua esistenza ».
(3) Virlus intellectualis est qutedam per/celio intellectus in cognoscendo.
Secundum autem virlutem intcllectuaìem non contingit intellectum falsum
dicere, sed semper verum (C. G. I , lxi). Lo stesso viene a dire Aristotele,
il quale chiamando intelligenza il proprio atto dell'intelletto, cioè quel
l'atto primo che fa l' intelletto per sé indipendentemente dalla volontà,
aggiunge che l* intelligenza non può fallire.
'9*
A questo si risponde che la volontà non è mica mia
potenza che sia di sua natura determinata, ma che può
benissimo un suo atto essere o determinato e necessa
rio, ovvero indeterminato, nel qual caso si dice che la
volontà è libera (i). La volontà non è che la potenza
di operare per un fine. Dato che non fosse presente
all' intelletto che un fine solo possibile, cioè buono, un
bene solo , la volontà sarebbe determinata da questo
fine : che se più fini avesse presenti , allora ella po
trebbe eleggere fra i medesimi. È adunque vero che nel
pronunciare 1' assenso , nel formare espressamente il giu
dizio, talora la volontà è determinata dalla evidenza
della verità, come nelle proposizioni geometriche; mi
ciò non distrugge la volontà , ma solo fa sì che in tali
casi la volontà non sia libera (a): sebbene, a dir

(1) Nel parlar comune sono sinonimi queste due maniere , libera vo-
lontà , e libero arbitrio. Ora quale è la forza propria della parola arbitrio!
Arbitrio ( arbiirium in latino , da cui il libero arbitrio italiano ) vuol dire
giudizio. È dunque il medesimo , secondo il comune sentimento degli uo
mini , una volontà Ubera, e un giudizio libero. Questo dimostra che se
condo la scienza popolare il giudizio dell' intelletto è libero talora, e che
la natura della volontà è questa e non altra, di essere un giudizio libero,
cioè « la volontà è una potenza di dare o di sostenere 1' assenso ad una
proposiziouc ». Neil' uso stesso adunque del linguaggio viene otlimamenle
espresso quell' intimo nesso che passa fra l'intelletto e la volontà. L'in
telletto è mosso in tre modi: i.° dall'istinto dell' Io , e in questo moilo è
mosso alle percezioni cd'idee prime; a." dalla volontà non libera, cioè
da un (lue a lui cognito ed esperimentato, che determina la sua azione,'
in questo modo è mosso in cielo per la cognizione ed esperienza del
sommo bene; 3.° o dalla volontà libera , quando il bene conosciuto ci
esperimentato non essendo pieno , gli rimane la facoltà di proporne a se
stesso uno maggiore, e quindi impedire di essere da quel primo determi
nato. L'intelletto che si muove per un (ine si dice volontà, considerilo
nella sua forza movente; l'intelletto libero (arbitrio) si dice libertà con
siderato pure in quella forza per la quale da sè stesso si determina.
(a) Per altro la volontà è più libera che non si crede anche nel dare
un pieno assenso alle proposizioni geometriche le più evidenti. Cerio I in
telletto colla prima riflessione le percepisce costretto; ma resta Tenere»
di un assenso speciale che può disconoscere quelle percezioni , negarle ,
farle argomento di disputa e di contesa. Leibnizio diceva, che « se le w-
rilà geometriche interessar potessero le passioni degli uomini come le ve
rità morali, egli credeva che sarebbero rivocate in dubbio, e falle soggetto
di contesa altrettanto quanto queste ». Ne* tempi moderni il genio dal male
si accorse che tutta la verità era legata insieme, e che concedendone un'
sola parte, questa avrebbe tirate dietro a sè irrepugnabilmente tutte *
altre parti. Non si nego adunque la verità tutta ? non si videro de soo*
impugnare con de' libri le geometriche verità? non si attaccarono qw*
ne' loro fondamenti , togliendo a provare che tutte s' appoggiavano »|ir'1
vero, la volontà, che ne' detti casi sembra non esser li
bera a giudicare in un modo o nell' altro, tuttavia ri-
man libera a dare o a non dare il giudizio, rivolgendo
altrove l'attenzion della mente. Ma perchè questo argo
mento è assai rilevante, veggiamo onde succeda che
alcune proposizioni si presentino con tale evidenza alla
mente nostra, che non la lascino libera a giudicare in
un modo o nell' altro , ma la determinino ad un modo
solo di giudizio.
Il Malebranche dà di ciò questa ragione :
« Si osservi, che all' intelletto nostro non riescono
« evidentissime le cose se non allora , che egli le ha
« esaminate da tutte parti, e secondo tutte le singole
« loro relazioni dalle quali può indurne il giudizio. Ora
« qui avviene, che essendo questa ferma legge della vo-
« lontà , che ella non appetisca cosa alcuna senz'aver
« di lei cognizione $ essa non possa, venuta a questo
« punto , spingere V intelletto più innanzi , cioè esiger
« da lui circa la cosa proposta nulla di nuovo , poiché
« perlustrate già tutte le singole parli della cosa, non
« riman più nulla in essa a conoscere: sicché la ve»
« lontà non può oggimai impellere e sollecitare più ol-
« tre l'intelletto, ma dee finalmente in quelle cose che
« dall' intelletto le furon proposte riposarsi. E questo
« pieno assenso è quello che con proprietà si dice giu-
« dizio, e raziocinio. Laonde non essendo il giudizio
« circa le cose evidentissime libero in noi della libertà
« d'indifferenza, egli ci pare essere altresì involonta-
« rio » , sebbene pure sia anch' egli un atto della volontà.

de' principi gratuiti e tutt' altro che provati ? e quando non si seppe più
come spiegare la forza dell' evidenza che que' principi in noi esercitavano,
non si corse a dire che v'avevano due evidenze, l'ima vera e l'altra il
lusoria ?! Non si tentò fare che questa illusione assorbisse ogni vera evi
denza, e non si dichiarò l'uomo una illusione a sè slesso? E il criticismo
non conchiuse, che anzi tale illusione universale era necessaria, costitutiva
della natura delle cose , a cui il credere di rifuggire era una parte della
stessa illusione? Ma finalmente qual fu il vanto degli scettici di tutti i
tempi , da quelli che sono descritti nelle Scritture , fino a quelli de' giorni
nostri , che rimutano il nome di scettici in quello d' indiuerenti, te non
quello di ritenere o negar 1' assenso ad ogni vero anche evidente , e di
non voler acquietarsi a ragione di sorte , disprezzare , godere ! et depre-
hendi nihil esse meliti! , quam laetari hominem in opere suo, et haiic esse
partem illius?
.Rosmiri , Orìg. delle Idee, Voi. 111. u5
!s4
« Ma fino a tanto che nelle cose , le quali si sotto*
« mettono da noi ad esame, ritrovasi qualche poco di
u oscurità , o fino a tanto che rimane qualche cosa a
« desiderare circa l' agitata questione , siccome av-
u viene bene spesso nelle cose difficili e quasi direbbesi
« moltiformi ; si può sempre tenere indietro l'assenso,
« e la volontà può comandare all' intelletto di rimettere
« sotto esame la cosa , di che avviene che noi crediamo
« più facilmente volontarj i giudizj che su tali cose noi
« portiamo » (i).
Ma questo è altresì da riflettersi , che dalla volontà
dipende pur 1' applicazione dell'intelletto ad esaminare
diligentemente le cose : e che ove alla volontà non piac
cia di acconsentire alle cose evidenti, ella rimuove l'in
telletto dal considerarle. E sebbene l'intelletto già fino
dalla prima vista le abbia quasi direi intuitivamente
percepite ; tuttavia riman sempre alla volontà l'effugio
di considerarle siccome vere apparentemente: che è della
sua efficacia il supporre e credere in universale che
qualche ragione occulta possa rinvenirsi , la quale dis-
cuopra l'inganno di quella evidenza. Perciocché in que
sti casi la volontà a cui il vero non garba sa essere
umile, e colla professione della impotenza e fallacia
dell' uomo sottrarsi alla efficacia di qualunque evidenza.
Finalmente supponendo che la volontà avesse coman
dato l'esame all'intelletto, e questo l'avesse eseguito
pienamente; ancora io mi credo che, ove manchi l'espe
rienza del sentimento, 1' ostinazione della volontà possi
essere così efficace , da volerlo pure disconoscere, e ne
gare continuamente a sè stessa.

ARTICOLO III.
CAUSE OCCASIONILI DEGLI ERRORI.
Ma perchè veggiamo meglio onde avvenga che più
difficilmente noi neghiamo 1' assenso alle verità geome
triche , che alle verità morali, facciamoci a ricercare le
cause occasionali dell' errore.
« L'errore è una riflessione colla quale l'intelletto,
ripiegandosi sopra ciò che ha percepito , nega volonta

ri) L. I, c. IL
195
riamente al medesimo 1' assenso o sia il riconoscimento,
ed afferma interiormente * di aver percepito altro da
quello che ha realmente -percepito »f
Essendo dunque l'errore un atto dell'intelletto vo
lontario, le cause occasionali di lui riguardar debbono
parte l'intelletto, parte la volontà.
La parte che ha l'intelletto nell'errore sta nell'in-
fingere una cosa non percepita, e giudicarla quella che
è percepita. Quindi in ogni errore vi ha sempre una
finzione.
La parte che vi ha la volontà è nel muovere V in
telletto a far quella finzione e a pronunziare quel giu
dizio falso.
L' intelletto e la volontà sebbene dipendano in parte
da noi , ed è in questa parte che formano il libero ar
bitrio , o la libera volontà; tuttavia dipendono in parte
ancora da leggi loro proprie, alle quali debbono acco
modarsi, e in questa parte quelle potenze non sono li
bere. Le leggi alle quali sono sottomesse per loro natura
danno origine alle cause occasionali dell' errore , ed ecco
in che modo.
L' intelletto è soggetto alla legge seguente , « che ri
flettendo sulle proprie percezioni, sia a lui tanto più fa
cile il distinguerle ( e ciò che si dice di esse tutte in
tere, si intenda sempre detto delle loro parti ) e più
difficile il confonderle insieme, quanto più sono dissi
mili fra loro, e da altre percezioni immaginabili: e che
all'opposto sia più facile all'intelletto il prendere una
di esse per un'altra vera o immaginaria , quanto questa
è più simile a quella ».
Da questa legge a cui è soggetto l'intelletto si trae,
che la causa occasionale deli' errore da parte dell' in
telletto è la similitudine che hanno le percezioni ( vere
0 immaginate) con altre percezioni.
Noi abbiamo mostrato che la percezione o idea prima
è ciò che si chiama la verità della cosa percepita. Quindi
s' intende perchè s. Agostino ed altri padri dicano, che
1' intelletto cade in errore perchè prende ciò che è si
mile al vero pel vero stesso.
La legge a cui è soggetta la volontà è questa: « la
volontà riceve un'inclinazione verso una cosa anziché
verso un'altra da più cause, le quali fumo si che una
cosa le si presenti come bene maggiore e più vivamente
i96
d' un' altra; e queste cause sono, a ragion d'esempio,
i."' il bene conosciuto nell'oggetto, a.* la vivezza e
perfezione della cognizione intellettiva, 3.* la sperieuza
sensibile di esso oggetto, 4-° l'istinto, 5." l' immagina
zione , 6" le passioni, 7.0 e le abitudini ».
Ora sebbene questa inclinazione della volontà non valga
a produrre in essa una vera deliberazione, perch' ella
è libera (ove un bene infinito operando in lei non la
determini ) ; tuttavia da quella inclinazione nasce, che
« sia tanto più difficile alla volontà muovere l'intelletto
a riconoscere e dare il pieno assenso ad un vero, quanto
questo vero è più contrario all' inclinazione già ricevuta
in sè per 1' azione delle cause enumerate , e quanto
questa inclinazione contratta è più forte » ; e per lo
contrario, che sia più facile il dare prontamente un pieno
assenso a ciò che è simile al vero, scambiandolo col
vero stesso, quanto è più forte l'inclinazione della vo
lontà e quell'assenso più conforme alla medesima.
La causa occasionale adunque dalla parte della vo
lontà è V inclinazione della volontà già contratta a dare
prontamente l'assenso al falso, trovando questo falso
alla sua inclinazione favorevole.
Due adunque sono le principali cause occasionali del
l' errore, 1." la similitudine che ha il falso col vero,
i.* l' inclinazione della volontà a dare 1' assenso a ciò
che è simile al vero, come conforme all'inclinazione me
desima. Illustriamo con qualche esempio 1' una e l'altra
cagione.
Dicemmo che due percezioni l'una simile all'altra
rendono facile 1' errore dalla parte dell'intelletto: que
ste percezioni possono appartenere ad una facoltà qua
lunque, al senso, all'immaginazione, all' intelletto. In
questo significato acconciamente si dice, che quante sono
le facoltà , altrettanti sono i fonti degli errori.
Veggiamo la similitudine ingannatrice del vero nelle
percezioni sensibili. Due colori, due sapori, due odori,
due suoni, delle fine stoffe che sono bensì diverse,
ma hanno una grandissima similitudine fra loro, io fa
cilmente le confondo insieme o le scambio. K ciò non
già perchè nel mio senso io non riceva quella diffe
renza (1); conciossiachè il senso è finissimo, e percepisce

(1) Supponendo che il senso non potesse al tutto percepir differenz»"1


passivamente anche le piccolissime differenze delle cose j
ma bensì nasce 1' errore perchè io non ne avverto colla
riflessione mia la differenza , e non sospendo il giudi'
zio , ma quando mi pare d' avere osservato abbastanza,
conchiudo confondendo una percezione coli' altra, e
anzi a tutte e due sostituendone una immaginaria al
quanto confusa , cioè non abbastanza distinta perchè in
essa si discenda a quelle leggiere e sfuggevoli diffe
renze (i).
La similitudine che trae facilmente all'errore la mente,
quand'è somministrata dal senso interno ed esterno,
giace nella stessa materia delle nostre cognizioni: con-
ciossiachè il senso somministrala materiale l'intelletto
mette la forma. Talora all'incontro quella simiglianza o
finzione del vero non è data dal senso, ma aggiunta
dall' intelletto. Questo nasce massimamente nelle asso
ciazioni delle idee o percezioni complesse , mediante le
quali si aggiunge a torto un giudizio nella percezione
sensitiva.
Prendiamo in esempio il giudizio col quale gli uo
mini giudicano del corso del sole. La percezione sensi
bile non accusa necessariamente un moto reale nel sole,
ma apparente soltanto. Ma la percezione del moto ap
parente del sole somiglia ad altre percezioni di moti
apparenti dove è anche il moto reale. Quindi del moto
reale e del moto apparente si fa una percezione com
plessa e una associazione d' idee. E questa percezione
complessa si prende ed iscambia colla percezione del
moto solamente apparente e non reale. E quale è la
similitudine in queste due percezioni ?
La similitudine sta in questo, che il moto apparente
è nell'una e nell'altra. La differenza loro sta in questo,
che nelle prime percezioni intellettive il moto apparenta

due oggetti ; in questo caso 1' errore consisterebbe nell' atto dell' intelletto ,
che in vece di fermarsi a considerare anche le defezioni del senso, nega
incondizionatamente ogni differenza negli oggetti esterni , il ebe egli non
ha diritto di fife, e facendo ciò opera temerariamente.
(t) La similitudine offerta dall' immaginazione corporea è simile a quella
de' sensi : conciossiachè non sia l' immaginazione cue un senso corporeo
interiore. Quindi ove alcuno facendo un'imitazione di qualche pezzo di
Virgilio o di altro eccellente autore, giudica di averlo imitato perfetta
mente, egli prenderà errore, ingannandolo l'amor proprio per alcune si«
migliarne del suo lavoro cou quello dell' iusìgue poeta proso a modello.
i98
è anche reale. L' errore perciò consiste nel giudicate
che la percezione del moto del sole sia di quelle per
cezioni a cui si dee aggiungere il moto reale : questa
confusione di due percezioni simili forma l'errore.
Questa similitudine ingannatrice del vero è prodotta
dall' intelletto , come quello che associa il moto reale
col moto apparente, e fa di queste due cose una per
cezione sola complessa, e prende la percezione del moto
del sole apparente che è semplice, per quella percezione
complessa, cioè per tal percezione alla quale, oltre l'ap
parenza del moto , sta aggiunto il moto reale altresì
pensato dall'intelletto.
Ogni qualvolta 1' intelletto segue il principio di
analogia, e sbaglia per una eccezione accidentale di
questo principio , l'errore proviene nella medesima guisa.
In generale 1' errore si può ridurre a questa forinola:
« una conseguenza che non viene dalle premesse ». Que
sta conseguenza è finta dall' intelletto, e per una simi
litudine o relazione che ha colle premesse è dichiarata
in quelle contenuta.
Venendo alla cagione occasionale dell' errore da parte
della volontà, s' abbia in prima ben chiara la nozione
della volontà. Talora per volontà s'intende « quella
forza interna che determina l'uomo all'operazione».
Ma questa definizione è troppo generale, e comprende
anche l'istinto. Io sostengo che l'uomo ha due forze
interiori che lo determinano alle sue operazioni; i.' l'i
stinto, e questo gli è comune cogli esseri puramente
sensitivi, 3.* la volontà, e questa è propria degli esseri
intelligenti. Dell' istinto non trovo definizione migliore
di quella che diede già l'Araldi, che così scrisse: Fi-
« glie dell' istinto sono quelle azioni , a cui l' animo
« concorre senza l'intervento della cognizione di niun
« vero motivo, ma cedendo soltanto all'impulso e al-
« l'invito di qualche sensazione » (1). Della volontà al

ti) L* Araldi usò il vocabolo di volontà per significare io generale una


forza interna che determina 1' uomo all' operazione , senz' aggiungervi per
un (ine conosciuto , ed in quest' uso della parola segui il costume de' mo
derni fisiologisti , ed errò. Ma se errò nell'uso della parola, non errò con
essi nelle cose; e negli scritti suoi, evidenti per una logica severa, inoslrtó
nomo di mente, contro cui non possono i pregiudizj de) tempo. Egli «fife*
l'esistenza dell' istinto anche rispetto all' uomo nella Memoria intitolai*
Del sonno e della sua ordinaria immediata cagione, lustrila nel iSoyiiw
l'opposto la definizione è la seguente: « Una interiore
ittivilà per la quale l1 uomo si determina alle sue

irirao tomo delle Memorie della società medica di Bologna ; e la sua difesa
onsisle in una eccellente definizione dell'istinto , e in alcuni fatti. E pcr-
hè i pregiudizi contro l'esistenza dell'istinto si continuano ancora presso
li alcuni , stimo bene di recare alcuni esempj , ne' quali apparisca V ope-
azionc dell' istinto anche nell'uomo, togliendoli dal citato medico e filosofo
nodanese. E prima si osservi che, tenendo la definizione data [dell' istinto,
gli è evidente che di tutte quelle prime operazioni che fa 1' uomo innanzi
uso delia riflessione, innanzi d' avere ricevuto la cognizione de' beni che
nelle azioni gli apportano, non si può assegnare altra cagione se non
de, che non operi dietro una cognizione del fine, ma senza cognizione del
ledesimo , e questa è appunto l'istinto. Ora dopo ciò ecco esempj di ope-
izioni istintive: « Tali sono i movimenti pe' quali il feto, trovandosi per
avventura nell'utero in una posizion disagiata, si contorce, e cerca can
giandola di cessarne V incomodo. All' istinto pure è visibilmente dovuta
P azione assai complicala per cui il bambino , poco dopo la nascita , ap
plicato al seno materno ne sugge il suo primo alimento. Nè serve il dire
con Darwin , preceduto in ciò dall' Hallero, che il bambino esercita in
quell' incontro una funzione appresa da lui quando nell' utero succhiava
e inghiottiva il liquore dell' amnios. Poiché mettendo anche da parte le
contese forse non per anche spente sulla nutrizione del feto, nel dir
ciò non si fa che recare 1' esempio di un'altra funzione dovuta all'istin
to., vale a dire , secondo il concetto che ne ha proposto, legata per isti-
tuzion di natura a certe sensazioni che determinano il feto ad esercitarla»,
n' altra operazione dell'istinto è il respiro, ed ecco come descrive il co-
■ nciamenlo del respiro l'insigne nostro fisiologo: « Il feto nell'atto di
uscire alla luce e di esser ricevuto nell' aria , comincia volontariamente
( istintivamente volea dire ) a respirare , deponendo a un tempo il ca
rattere e il nome -di feto, e assumendo quel di bambino. Esso si accorge
delle nuove circostanze in cui trovasi, e obbedisce alle voci dell'istinto
che gli parla col linguaggio di certe sensazioni, fra le quali merita di
essere sopra ogni altra avvertita quella di una cotale interna angustia
eh' ei prova in mezzo al petto, e che probabilmente in lui non sorge gii
in quel punto e nell'atto di nascere, essendo anzi assai naturale, che
avess' egli qualche tempo prima entro 1' utero comincialo a sentirne lo
stimolo. Mi guidano in fatti a ciò sospettare fortemente i manifesti cam
biamenti, che prima assai della nascita sopravvengono alle strade parti
colari aperte nel feto al sangue, e a que' sfogatoj , pe' quali questo
fluido giunto al cuore declina in gran parte il polmone rispetto a quel-
I' epoca , e passa senz' attraversarlo dal sistema delle vene cave nell' ar
terioso dell' aorta. Di una guisa niente equivoca scorgonsi questi cambia
menti nel foro ovale , che si restringe a misura che il parto si accosta.
Donde si scorge che quelle strade tendono a restringersi, e che la na
tura ne ha di lunga mano preordinato il totale chiudimento. A questo
restringimento delle mentovate strade non può, a gravidanza massime
noltrata verso il suo termine, non tener dietro qualche inciampo nel
circolo, e con esso qualche senso d'interna angustia, che comincia a
■endere il feto insofferente del suo carcere; donde per 1' una parte dc-
ivi eh' esso co' suoi movimenti piò vivi e frequenti cospiri con altre ca
gioni a risvegliare nell' utero le contrazioni e i travagli forieri del parlo ;
: per 1' altra eh' ei nel giungere alla luce, poiché, come é detto pur
ira, nuove sensazioni lo avvisano della presenza dell'aria, non tardi a
operazioni mediante la cognizione di un fine ». Or»
altrove ho osservato , che con questa legge sono ordi
nate le potenze degli esseri, che ad una potenza pas
siva si congiunga una potenza corrispondente attiva. AI
senso dunque, potenza passiva , risponde la potenza at
tiva dell' istinto; all' intelletto, potenza passiva, risponde
la potenza attiva della volontà. La volontà dunque non
si muove se non colla condizione di on bene conosciuto
Quindi innanzi che 1' uomo abbia conosciuto Y effetto
di una sua azione, se la fa , egli è determinato a ciò
dall' istinto. Ma se l' uomo non conosce che un solo
bene , egli si determina verso lui volontariamente ben
sì, perchè dietro cognizione, ma con una volontà it-
terminata necessariamente (i). Ma se 1' uomo conosce

« trarla avidamente nel petto , cominciando a respirare ». Il sonno è in


cora , secondo il medesimo Araldi , cagionato dall' istinto, ed a ciò tenie
tutta la memoria che noi citiamo colla sua appendice. E ciò che mostri
esser I' Araldi un osservatore sottile ed avveduto della natura, e l'essere
accorto assai bene della cagione per la quale non si avverte ciò die oasa
in noi , né si distingue la cagione a cui appartengono le nostre propw
operazioni. Io per fermo giudico , che tutto 1' esito di questa mia open
dipenda da un solo accidente, cioè da questo, - se con essa io riuscirò t
rendere gli uomini diffidenti delle proprie osservazioni sopra sé siasi,'
persuasi che succedano in essi delle operazioni anche sentite, anche vo
lontarie, anche cognite, delle quali tuttavia essi non prendano avverte:-
non ritengano memoria, non sappiano quindi renderne il conto né » se
stessi, uè ad altrui ». Il perchè io credo bene di mostrare , che questo ten
fu occorso alla vista di grandi uomini , e da essi assai ben conosciti;
e che da un tal fatto que' valenti trassero sempre la spiegazione naturili
d' innumerabili sbagli ed errori' uno di tali savj sia 1' Araldi, che rende
ragione perchè le operazioni dell' istinto furono confuse o colle nieccinidk'
o colle intellettive in questo modoi « Ho avvertito che le determinine*
» volontarie proprie dell' istinto sono per solito precedute da sensali*
« così fugaci e pronte a dileguarsi, che delle azioni che ne derivano dm
ut a stupire che vengano sbagliate per necessarie e meccaniche. &
« vuoisi aggiungere che a questo equivoco guida parimente la forza so»""
k dell' abitudine, che più o men presto accoppia il suo influsso a aw"1
m dell' istinto, e allargando per così dire e appianando la strada di reo-
« proca comunicazione fra gli organi de' sensi e quelli del movimeDl. ,
t rende questi ultimi docili ad ogni lieve urto che ad essi giungi f°
- parte dell'animo. Dell'uomo in oltre si avvera, che si frequentiseli»
« nel corso della sua vita le azioni precedute da riflessione e da esime*
« da esercizio più o men manifesto della facoltà di ragionare , e per ^
«« modo campeggiano esse e dominano sulle altre, che agevolmente si<n-
•> indotti n dichiararle tutte di tal carattere, e ad immaginare che l'ulu*
« deliba rimanersi relegato fra i bruti ».
(i) Non si può già dire che tiell' ipotesi della cognizione d'un solo he*
l'uomo sia libero di sostenere l'atto della volontà che il porta verso»
lui : perchè anche il sostenere quest' atto non può egli farlo volontir»
301
più beni ( indipendenti V uno dall' altro (i) ), allora egli
potrebbe determinarsi a scegliere 1' uno o l'altro; e que-
• sta operazione egli la farebbe con volontà libera, o in
determinata. Applichiamo tutte queste forze interiori ,
che determinano ad operare le varie potenze dell'uomo,
alla potenza dell' intelletto.
-L'intelletto adunque i.° è mosso dall'istinto (2),
a.* dalla volontà non libera. 3." finalmente dalla libera
volontà , la quale libertà è tanto maggiore, quanto mag
giori di numero sono i beni ( indipendenti ) da noi co
nosciuti (3).
Ritornando ora al nostro assunto, dico che noi vo
levamo vedere, mediante esempj , come l'inclinazione
della volontà sia cagione occasionale dell'errore dell'in
telletto; e quindi ci fu necessario di schierare sott' oc
chio queste tre forze capaci di muovere l' intelletto ,
acciocché alcuno non confonda 1' una coli' altra; ma
ben si avverta, che il nostro ragionamento non riguarda
che la terza ; conciossiachè la prima è immune da er
rore per sè medesima, e la seconda altresì, perchè il
bene conosciuto è uno; quindi non vi può essere fin
zione di lui. Noi abbiamo veduto che l' errore è sem
pre una finzione della verità. Quindi si vede che « è
necessario all' errore , per la sua propria natura, che
l'intelletto apprenda almeno due cose; l'una vera , • e
1' altra falsa , finzione della vera » ; e l'ipotesi nostra è,
ch'egli abbia non due, ma una sola concezione.
Ora la volontà può ricevere la sua inclinazione a
portare un falso giudizio da alcuna di quelle sette ca
gioni che abbiamo enumerate : ma ci condurremmo

mente senza proporselo a fine, e conoscere quindi questa sospensione come


buona. Ora una tale cognizione è posteriore alla cognizione del bene del
l' operazione stessa, e mentre questa è rispettivamente cognizione diretta,
Quella rispettivamente è riflessa, cioè esige una riflessione sulla sospensione
dell' atto.
(1) Se un bene fosse sommo, e come tale percepito, comprenderebbe
tutti gli altri; quindi si può dire che non sarebbero più beni indipendenti.
(a) L' istinto muove 1 Io ad usare dell' intelletto per 1' unità dell' Io
sensitivo ed intellettivo, nel modo che abbiamo spiegato nella nota 3, face. 171
e seg.
(3) Si potrebbe anche distinguere la volontà deliberante , dalla volontà
"«era, che da solenni maestri si confondono insieme; ma non vogliamo
allungare il discorso.
Rosmini Orig. delle Idee, T. III. 36
302
troppo a lungo se di ciascuna recassimo esempio. Ba
sterà dunque darlo di alcuna : consideriamo l'azione delle
passioni sul giudizio. L'ambizioso sarà inclinatissimo a
giudicare facile 1' ottenimento di un posto a cui ago
gna, il quale pure non otterrà mai, e questo suo falso
giudizio il renderà per avventura la favola del popol
tutto. L'avaro giudicherà gravissimi e vicini i più leg
geri e lontani pericoli di perdere i suoi quattrini am
massati.

« Amor eh' occhio ben san fa veder torto »

giudicherà bellezze i difetti di un' amata persona, e


vedrà nel mancai- di lei

« il gran pubblico danno,


« E '1 mondo rimaner senza il suo sole ».

Per tener fronte alY inclinazione ricevuta nella volontà


dalle cagioni annoverale verso il falso giudizio , e so
stenerla perchè in quella menzogna non si lasci andare,
è necessario contrapporle altrettanto di quella energia
intima che 1' uomo in sè medesimo prova , e che costi
tuisce il libero volere , 1' altissimo pregio umano. E in
chi è costantemente disposto e deliberato di opporsi
alla mala inclinazione presa dalla volontà, il grado &
virtù si può dir pari al grado di quella libera attiviti
eh' egli ha dovuto opporre a vincere la mala inchnii-
zione della volontà.
Dalle quali cose si può trarre finalmente questa con
seguenza importante , « che allorquando la similitudint
del vero e del falso è somma, e però è difficilissimo il
discernere l'uno dall'altro; e quando V inclinazione della
volontà a prendere il falso pel vero, ovvero anche sem
plicemente a giudicar prontamente, è anche somma,
sicché si richiegga un uso grandissimo di libertà a de
terminarsi pel vero anziché pel falso , o a sospendere
il giudizio tanto che s' abbia bene distinto il «ro e
fermato; in tal caso P errore , generalmente parlando,
è probabilissimo».
E indi ancora, « se un tal giudizio dee esser po'"
tato dalia moltitudine, si può predire con certezza ler"
rore, perchè certo è che la moltitudine non ha tanti
sol
virtù, quanta si richiede ad evitarlo». Non sa la mol
titudine far mai un grand' uso della propria libertà, o
sia a prendere un vero da cui rifugga la volontà sua ,
o sia a lasciare un falso a cui sia inclinatissima , o sia
finalmente a sospendere un giudizio Gntanto eh1 eli' ab
bia trovata quella chiara distinzione fra il vero ed il
falso, la qual forse per la vicinanza di questi ella non
è in caso di trovar mai (i).

ARTICOLO IV.
FtACUE ALLE VEStTA* FORNITE DI CERTA EVIDENZA a COME LE GEOMETR1CBK ,
SEMBRA CHS NOI SIAMO NECESSITATI DI DARE l' ASSENSO.

Trovate le cause occasionali degli errori , noi pos


iamo tornar sopra questo fatto e spiegarlo meglio.
Egli sembra che noi siamo necessitati di dar l'assenso
ille verità fornite di certa evidenza, come le geometri-
ine , perchè il più delle volte queste sono scompagnate
lalle cause occasionali dell'errore; cioè
i.° Sono così distinte e precise, che l" una dall'altra
: dissimilissima (3) e di tuli' altra natura.
3.* La nostra volontà non ha una precedente incli-
tazione nè ad un risultato nè ad un altro.

(1) Questa incapacità di sospendere l'assenso fu osservata sempre nelle


noltitudini : quindi la sentenza di Cicerone , « Valgin ex ventale pauca, ex
pinione multa extimat. Pro Roscio, C. X.
(2) Quando succede che v' abbia simiglianza fra queste verità, allora
uccede ancora che il matematico sbagli ; e questa è una delle cagioni degli
rrori che prendono i matematici. Un'altra cagione d'errore che s'intro-
uce ne' calcoli del matematico, sono gli sbagli di lingua o di penna.
>uando la mano o la lingua erra in un calcolo, l'errore necessariamente
introduce. In tal caso questi strumenti del calcolo sono cause occasionali
eli' errore. Di qui si può in generale stabilire , « che anche tutte le po-
■nze e gì' istrumenti di cui fa uso l'intelletto a pervenire alla conclusione
si suo giudizio possono essere cause occasionali ( sebbene più rimotc di
nelle che abbiamo annoverate ) di errore ». Per altro queste cause occa.
onali più riinote non hanno alcuna efficacia di produrre per sè 1' errore
nza le cause occasionali più prossime, come le cause occasionali più pros<
me non iuducono esse necessariamente l'uomo iu errore senza che la
dontà ceda negativamente o anche positivamente acconsenta. E a ve»
tre che la fallacilà delle potenze e degli islruineuti non portano l' cr-
»re di necessità , senza qualche coopeiazione della volontà , si consideri,
te quando io a ragione d' esempio scrivo colla mia mano un a iu
ago d'uu b, la mia mano il fa o volontariamente o meccanicamente.
: la mia mano è determinata meccanicameutc a scrivere il b, allora la
operazione della volontà è solamente negativa , cioè « I' errore è av
vilito perchè mentre la volontà intelligente dovea diriger la mano pel
ARTICOLO V.
SI ASSOLVONO GLI DOMINI DA MOLTI ERRORI.

L' assenso che dà o nega la volontà ad una propo


sizione, è di una natura che merita ogni considerazione.
Innanzi tratto , sebbene la volontà possa pronunziare
o non pronunziare, tuttavia quando ella pronunzia non
ha che una di queste due vie assolute, cioè di dire sì,
o di dire no. Se ella stesse sospesa , non pronunziereb-
be , contro l' ipotesi.
In secondo luogo , V uomo in un numero infinito di
casi che accadono alla giornata è obbligato di pronun
ziare un sì od un no , se pure vuole operare, vuol con
servar l'esistenza. Se l'uomo a ragion d'esempio non
si deliberasse di credere che nel cibo che gli viene of
ferto non ci ha veleno , e quindi che può mangiarlo a
sicurtà senza pericolo,' egli si morrebbe di fame, o vi
vrebbe in un continuo timore che gli renderebbe la vita
tristissima. Ora egli è obbligato a deliberarsi , e far
questi giudizj anche prima ch'egli abbia acquistato una
metafìsica certezza della verità della cosa; poiché questa
certezza , in cose che gli sono necessarie al vivere gior
naliero, non potrebbe acquistarla egli mai, o solo dopo
un esame lunghissimo, il quale prima che potesse es
ser compito , molte e molte volte egli sarebbe morto,
Or dunque egli dee deliberarsi il più sopra argomenti
probabili, e dee ancora risolversi a non darsi pena e
fastidio della piccola probabilità che resta incontro alla
sua deliberazione , se pure non vuole rendersi infinita
mente grave e importabile a sè medesimo. La qual so
verchia sollecitudine e soverchio timore delle piccole

fine del calcolo , ella noi fece, ma lasciò questa ire a sua posta»;1'
che è una inordinazione. Se la determinazione della mano a scrivere il »
è volontaria, la cooperazione della volontà è anche positiva. Nel caso
però della cooperazioue negativa della volontà l' errore si può cbia-
mare puramente materiale. Ma quando comincierebbe egli ad esser for
male? Nel fine del calcolo: se il giudizio finale del risullamenlo del calcolo
si avesse per assoluto e per infallibile. Perciò il matematico non «de a
un vero errore formale di cui noi parliamo, se al fine del calcolo dice:
m Questo è il risultamento, se pure la mia mano , la mia lingua ecc. «■
ha sbagliato in operare ». Questa prudente riserva, che bene spesso '
sottintesa, toglie l'errore formale e volontario , e lascia solo uno si»i"°
che non è un vero errore.
20D
probabilità che restano spesso contro agli umani calcoli,
se perviene a certo grado, mette 1' uomo, non che al
tro, ma in uno stato di pazzia, e di contraddizione a,
tutti gli altri uomini , che lui rigettano, come fastidio
sissimo in sommo grado, dal loro consorzio. Ora diremo
noi dunque, che la volontà, perchè in tutti questi casi
si acquieta a pieno senza darsi fastidio nò pensier d'al
tro, dando l'assentimento a molte cose che non sono
più che grandemente probabili, s'involga per questo in
continui errori, od agli errori si esponga? Ciò non si
dee punto dire; ma si dee considerare' un altro acci
dente, a cui va soggetto quell'assentimento pieno dato
dalla volontà a quelle cose che non sono più che pro
babili grandemente.
L' intelletto o la volontà ( che viene al medesimo ,
come abbiamo veduto ) può dare un assenso pieno in
qualche modo, e tuttavia più o meno provvisorio; e
questo carattere dell'assenso provvisorio è ciò che distin
gue in sì fatte cose l'assentimento dell'uomo savio,
dall'assentimento dell'uomo inconsiderato e temerario.
Dico un assenso pieno in qualche modo, ed intendo
per questo assenso pieno una deliberazione che si ferma
e termina nella conclusione del giudizio portato , senza
protrarre l' inquisizione più oltre , senza rivolgere il
pensiero sollecitamente sui casi possibili , che non fini-
scon mai più , e quindi senza ritener nell' animo alcun
timor dell'opposto, alcuna inquieta sollecitudine, quale
rimane nelle menti e nell' animo di quelli ne' quali la
causa non è ancora chiusa e finita, ma che la tengono
aperta tuttavia , e ne protraggono indefinitamente quel
termine che non può venir mai. Questi titubano per
petuamente , e si tengono necessariamente nello stato
di dubbio e di ansietà.
Tuttavia questo assenso pieno in qualche modo, poi
ché la mente ha già abbandonata 1 inquisizione ulte
riore e s'è acquietata in un partito , può essere sem
plicemente provvisorio ; e questo, per mio credere, è
ciò che distingue l'assenso de' prudenti nelle cose pro
babili della vita, da quel degli sciocchi (i). Che voglio
dire io coli' espressione di un assenso provvisorio?

(i) Gli antichi avevano osservato, che ci ha due maniere di dare l'as
senso al falso. Ecco come definivano la prima : Qualiscumque exislimalio
ao6
Non altro se non questo ; che ove qualche ragione-
voi cagione si presenti, quell'uomo che ha dato l' as
senso e ha terminato con esso l' inquisizione della sua
mente , sia però presto a riassumerla e protrarla in
nanzi ancora fino che le circostanze dimostrano alla sua
prudenza essere ciò necessario. Non sentiamo noi con
quanta modestia e riserbatezza pronunzino gli uomini
savj anche sulle cose che sembrano le men dubbiose!
« La cosa sta così, secondo che a me ne pare ». — «Io
giudico in questo modo, ma mi posso ingannare».—
u Questa è la mia opinione , ma la sottopongo al giu
dizio delle persone più intelligenti » , ecc. E dove altri
entri a produrre una contraria sentenza , con quanta
cortesia non 1' ascoltano? con quanta istanza talora non
la sollecitano? quanto non si mostrano avidi di rice
vere de' lumi dagli altri , eziandio in quelle cose nelle
quali sono maestri ? £ la loro riserbatezza in pronun
ziare , la loro prontezza in udire , la loro attenta ri
flessione sulle cose udite, sperando essi di poter trarre
qualche profitto anche talora dagli idioti, pur in cose
nelle quali sonosi già formata una opinione ; dimostra
che il loro assenso , sebbene pieno in questo senso, che
conchiude la questione , e non la lascia aperta ed in
decisa nell'animo, è pur provvisorio, cioè essi hanno
chiusa quella causa ritenendo la disposizione di riaprirla
ove bisogni, e di ritrattarla quasi direi in appello; e
questa maniera di conchiudere , conservando sempre
1 animo disposto a un nuovo esame ove un giusto mo
tivo insorga a trarlo della sua quiete , è ciò che gli
assolve da ogni errore, perciocché 1' assenso con que
sta disposizione è nè più nè meno quello che esser de
ve, e la volontà non uscì in atti precipitosi e temerarj.
E ove si guardi la certezza dalla parte della per-

levis qua aliquis adfiaeret falso tamquam vero , Slf/E ASSENSO CRI-
DULITAT1S. L'altra la definivano Firma credulità*. Essi quindi avevano
riconosciuto , come noi , il bisogno di distinguere due assensi falsi nell'uo
mo , e la distinzione falla da loro coincide presso a poco colla nostra. Di
cevano quel primo assenso non esser sempre temerario , nè potersi impo
tare a colpa della volontà umana; poiché in certi casi era necessario, *
non era fermo, non era firma credulità! , ma era, come noi diciamo, "»
a*senso si, ma provvisorio ( Vedi s. Toram. S. I, xcw , iv )■ Gli A«»*|
mici conobbero anch' essi la necessità di un assenso provvisorio , na "
portaron tropp' olire.
suasione e dell' assenso , lo slato cT una mente che ha
chiuso nel detto modo, si può chiamare ragionevolmente
stato di certezza, poiché essa non tituha più fra i dub-
bj , né si sta sospesa , ma si è già posata in una con
clusione, e quindi la sua sentenza dicesi certa, cioè
determinata e finita , e non incerta cioè ancor vaga ed
ondeggiante.
Una gran parte però degli uomini hanno pur troppo
ricevuto in retaggio una frettolosa, deplorabile teme
rità: e quello stato di certezza provvisoria, quell'aureo
mezzo non sanno trovar giammai ; ma corrono a sen
tenze assolute e inappellabili ; massime la gioventù , a
cui 1' esperienza non dimostrò ancora quanto sia 1' u-
mana mente fallace e breve , e quanto sia facile in
correre negli errori, e nei danni infiniti degli errori,
con troppo presti e confidenti giudizj. Da questa pro-
sunzione e mala sicurezza di giudicare , che esclude la
docilità sapiente dell' animo , quella bella disposizione
a ritornare col pensiero sulla questione altre volte ri
soluta , quella modesta coscienza che ben conosce la
possibilità d'un abbaglio portato nel primo giudizio,
e che quindi è prontissima di udire ciò che altri uomini
osservano sul medesimo; da cotesta prosunzione, dico,
e mala sicurezza di giudicare, hanno origine tante
dissensioni , tante contese private e pubbliche , che di
vidono e straziano il genere umano, fatto pure per es
sere una sola famiglia ; e sovente due fratelli , perchè
di opinione diversa, non possono vivere insieme! Al-
P opposto la saviezza dell'uomo cauto è madre di ca
rità, e concilia insieme gli animi anche allorquando
non può far consentire le menti.
Quell'assentimento pertanto pieno da una parte, dall'al
tra provvisorio, che usano in assaissime cose e massime
ne' negozj della presente vita i prudenti, evita molti pe
ricoli; perciocché i* essendo l' assenso pieno, cioè finito
e conchiuso, non lascia quella sospensione e inquietu
dine nella mente che il dubbio di sua natura v' inge
nera , e produce in quella vece uno stato di certezza ,
rende possibili le azioni umane, fa luogo alla buona
franchezza , e alla risolutezza nell'imprese necessarissima;
a." ed essendo provvisorio nel modo detto, evita l'er
rore , dal quale non si potrebbe salvare un assoluto ed
immobile assentimento, e lascia aperta la porta a' prò
208
gressi dello spirito, e rende possibile, pacata e dolce
la comunicazione degli uomini fra loro, conciliando
1' utile unione di molti colla modestia e colla tolleranza
delle varie opinioni (i).

ARTICOLO VI.
L'UOMO NON rcò SEMPRE EVITARE l' ERRORE MATERIALE,
MA SÌ IL MALE DEL MEDESIMO.

Nell'articolo precedente fu veduto come l'uomo possa


evitar sempre l' error formale, cioè un errore che è opera
sua, atto positivo di sua volontà. Nello stesso tempo
però si può inferire da quanto fu detto , eh' egli talora
non può evitare 1' error materiale, cioè un giudizio er
roneo che egli fa su de' dati che non dipendono da lui,
e che da lui non possono dipendere, o non debbono (2).

(1) Questa riserbatezza è la via, come dicevo, di evitare l* error formaìt,


cioè d' impedire che l' error materiale diventi vero e formale errore. L er-
ror materiale è quello che non dipende dalla volontà nostra, e quindi un
è fatto da noi; e questo è inevitabile talora. Poniara caso. Io nel misurare
un terreno prendo un passetto fatto da un artista per altro diligentiia-
mo, ed affidandomi a lui ho un risultamento falso, per una piccola inesat
tezza dello strumento. Or sono io la cagione di questo errore ? Io non fo
glio deciderlo nel caso di cui parliamo : dico bensi , che perchè a me si
potesse apporre 1' errore, converrebbe darmi il dovere di rettificare prima
il passetto da me adoperato, il che è ufficio del lavoratore di simili stru
menti. Ora se ciò assolutamente sostener si volesse, ne verrebbe in con
seguenza , che un uomo dovrebbe entrare nell'arte altrui , e in fine, eia
ciascun uomo dovrebbe impicciarsi di tutte le professioni , il che è impos
sibile e dannoso. Può adunque essere superiore i .° alle forze della volontà,
che non istà vigilante se non un tempo determinato, a.° al tempo ebe un
uomo possiede, 3.° ed ancora può esser dannoso l'impiegare tanto scru
poloso esame , se far si potesse , quanto si esigerebbe per evitare I emiri
materiale. Adunque 1' errore materiale , cioè « quello che non dipende da
un atto positivo della volontà umana », spesso non si può e non sidee
evitare in modo alcuno. Ma si può impedire bensì eh' egli si renda for
male, quando alla fine del calcolo si dà l'assenso definitivo, ma insieme
provvisorio , cioè colla condizione sottintesa, « se pure con un migliore
esame non si trovi esser diversamente».
(i) Come la giustezza negl' istrumenti fatti da eccellenti artisti, siccome fa
detto nella nota precedente. Quella giustezza si dee ragionevolmente sup
porre , e prendere a principio qual base del giudizio: quando poi s'na un
segno della loro inesattezza, allora si può rettificarli. Questa osservazioni'
dee avere un peso reale; poiché diamo che si dovessero prima rettificare-'
come si farà, se non pigliando un altro strumento più accreditalo pf
norma? Talora è impossibile salire alle prime norme: altrimenti coD'er-
rebbe che ciascuno che ha da fare una osservazione geodetica, cominciasse
rial misurare di nuovo il grado del meridiano.
Ma il male derivante dall' error materiale può l'uomo
evitarlo?
Può evitarlo colla ferma credenza dell' esistenza di
un Dio, e di una divina provvidenza. L'esistenza di Dio
è conseguenza immediata della forma della ragione, per
non dire che nella forma stessa della ragione è contenuta.
Dico conseguenza immediata , massime data la percezione
dell' universo, conseguenza di prima riflessione, che
come abbiamo veduto produce la scienza popolare , o
sia la scienza de' grandi rapporti delle cose , il primo
de' quali è quello di causa (i).
Imperciocché data una ottima provvidenza delle cose,
l'uomo che in essa si fida può assicurarsi che quell'er
rore materiale , nel quale egli cade necessariamente ,
non venendo da lui, è uno de' molti accidenti diretti
a buon fine da quella savissima e potentissima bontà
che il tutto governa. E questa è la parte vera del prin
cipio di Cartesio , che dalla verità della divina esistenza
dipenda la sicurezza che 1' uomo ha di non ingannarsi,
cioè dipenda la sicurezza che 1' errore involontario non
gli sia veramente nocevole.
Quelli pertanto che non ammettono un supremo prov-
visore , non possono credere ragionevolmente nè di evi
tare gli errori, nè che v'abbia alcuno che li campi dal
male degli errori, e perciò conviene che abbiano un
animo diffidente e oltremodo meticuloso. Nè Iddio campa
dal male dell' errore quelli che fanno parte da sè, e da
sè medesimi vogliono operare ogni cosa.

ARTICOLO VII.
ENTRO QUÌI CONFINI FOSSA CADERE l' ERROR MATERIALE.

Avendo noi nominato più volte 1' error materiale e


1' error formale , gioverà che prima d' innoltrare mag
giormente il discorso noi consideriamo meglio in che

(i) Qui suppongo che l' esistenza di Dio si trovi per una prima rifles
sione. Ciò non esclude, che fin da principio sia stato noto anche per una
rivelazione. La filosofia trova bensì che quella prima riflessione non si
potea fare dagli uomini senza una lingua; ma questa lingua potea essere
comunicata, senza la manifestazione positiva dell' esistenza di Dio. La ne
cessità di questa manifestazione positiva si dee dedurre adunque da altri
principj , non da quelli dell' assoluto bisogno di lei per la prima riflessione
degli uomini.
Rosmini , Orig. delle Idee, T. III. 27
2IO
quelle due specie d1 errori differiscano insieme , e mas
sime quali sieno i confini enlro i quali 1' errori mate
riale possa cadere.
Osservo adunque, che noi giudichiamo sempre sopra
alcuni dati. Ora questi dati o sono tali sui quali non
ha luogo dubbio di errore , come sarebbero le perce
zioni intellettive, che formano la cognizione diretta ; ot-
vero può sopra di essi cadere il dubbio, come se quei
dati dipendano in qualche parte da facoltà cieche, come
V istinto. A ragione d" esempio, prendo la penna e fac
cio un calcolo algebraico; la mia mano scrive un 3 in
luogo di un 3: tutto il calcolo mi viene errato. Quel 3
scritto nel luogo del 2 fu effetto senza dubbio di un
istantaneo divagamento della mia attenzione, 0 almeno
di una sospensione di questa : sicché la mano, mossa
con un avviamento preso a caso secondo la direzione
del moto precedente e le leggi d'istinto e meccaniche
congiunte insieme, si lasciò andare a scrivere il 3 là
ove dovea scrivere il 2. Ora questa sospensione istan
tanea di attenzione poteva essere evitata? Noi so; ma
io so bensì che la vigilanza continua della attenzione
cagiona fatica , e che sforzandomi di prolungarla oltre
a certo tempo , io non posso al tutto riuscirne. Da
questo fatto della sperienza conchiudo, che la vigilanza
della attenzione è limitata, ch'io non sono assoluto si
gnore di lei, nè posso averla in mia balia a quel grado
e a tutto quel tempo che io voglio. D' altro lato quei
venir meno istantaneo della mia attenzione neli' atto
che la mia mano scrive il 3, è così passaggero e breve,
che la mia avvertenza noi coglie punto ; nè rimangono
traccie di quel fatto nella mia memoria; sicché l'ac
corgermene dopo ch'egli è passato mi è del tutto im
possibile. Quel fallo adunque commesso dalla mia mano
può esser dipenduto da una deficienza di mia atten
zione, non veniente da me, ma dalla limitazione della
mia forza volontaria, e da una deficienza non avvertila
da me, nè avvertibile per la stessa ragione, della li
mitazione a cui è soggetta la forza della mia volontà.
Di che avviene eh' io non abbia nessuna ragione di cre
dere che in quel passo fosse caduto un errore, più che
in qualunque altro. Si vorrà forse dire che io dovea ri
vedere quel passo, per la ragione della possibilità generale
che in esso vi fosse orore? No certamente; perciocché
ai i
sarebbe un dire ch'io dovessi rivedere eziandio tutti gli
altri passi; e dopo una revisione farne un'altra; e così
in infinito senza conchiuder mai: il che sarebbe un tro
varmi sempre da capo , che è il tristo ed itnpossibil
gioco degli scettici. Conchiudo da ciò, ch'io non ho
dunque modo da guardarmi da certi errori materiali :
ma quali sono adunque questi, secondo il discórso fino
a qui da noi fatto ?
* Neil' errore descritto osserviam questo, che due cause
concorsero alla sua produzione; i.* la sospensione di
attenzione intellettuale, 2." una forza istintiva o abi
tuale che movea la mano indipendentemente dall' atten
zione dell' intelletto. Ma queste due cause concorsero
in modo diverso; perciocché la prima, cioè la volontà
intellettiva , concorse negativamente , e perciò fu solo
occasione dell'errore; mentre il movimento della mano
fu la vera cagione efficiente del medesimo.
Di questa analisi si può conchiudere, che « la cagione
della vera cognizione è 1' intelletto,, e che all'opposto,
dell' error materiale la cagione non è 1' intelletto, ma
egli n' è solo l'occasione; conciossiachè la cagione di
questo errore è qualche potenza cieca, che seguita ad
operare anche quando 1 intelletto ha sospeso le sue
funzioni , e operando produce un dato erroneo su cui
l'intelletto poi giudica».
Ma la potenza cieca che produce il dato erroneo su
cui giudica l'intelletto, è la sola cagione dell'errar
materiale? Non già. Talora la volontà intellettiva riceve
certi dati non prodotti da una potenza cieca , nè da una
potenza propria, ma d'altrui, cioè dall'altrui auto
rità (i) , e su questa li ammette per veri , s«tiza esa
minarli , e questi talora portano in sè l' errore. Procedo
bene l'intelletto nell'ommetteré volontariamente l'ulte
riore esame di que' dati? Molte volle procede bene;
molte volte egli dee ragionevolmente far così^ e dar
loro un pieno assenso nel modi» detto , sebbene provvi
sorio : perciocché facendo il contrario, egli produrrebbe
a sè stesso e altrui un male assai più grave di quello

(i) Quando io uso degli strumenti matematici fabbricati da un ottimo


artista , e a loro fido i miei calcoli , io mi fondo sull' autorità dell' artista ,
che mi assicura quegli strumenti andar bene; autorità fondata nella sua
couosciuta perizia in tali lavori.
che con troppo lunghe o meticulose indagini egli si stu
dia evitare. ., .
Da ciò si conchiuda, che degli errori materiali sono
due cagioni, cioè i.° il fondarsi che il giudizio fa so
pra qualche dato che fu opera di qualche potenza cieca,
2.* o il fondarsi sopra uh' autorità fallibile : e questi
errori sono puramente materiali quando conveniva giu
dicare su que' dati, supponendoli buoni, e non tratte
nersi a verificarli. ,
Conosciute queste cagioni dell' error materiale, noi
possiamo agevolmente disegnare i confini entro i quali
egli può cadere
L' error materiale non può cadere se non in que1 giu
dizi che s' appoggiano a de' dati che non hanno una
assoluta certezza in sè medesimi, e che conviene tut
tavia ammettere senza esame ulteriore , per evitare un
male maggiore.
Quindi l'error materiale potrà avvenire, come dicevo,
sol i.s quando i dati su cui giudichiamo debbano di
pendere necessariamente dall' altrui autorità fallibile,
2.° quando essi debbano dipendere da una facoltà cieca,
come dal moto della mano , della lingua , da uso di
strumenti, eccetera.
Al contrario ove l'intelletto giudica sopra dati i.' non
dipendenti da un' autorità fallibile e 2." che non poi-
sono esser l'effetto di una facoltà cieca , come l'istinto
o l' abitudine che muove la mano , ma viceversa dote
egli solo è quegli che produce il giudizio senza coope
razione di altro; in tali circostanze non possono esistere
che errori formali. Di che si ha questo vero degno di
considerazione:
« L' errore materiale può cadere nelle scienze mate
matiche e fisiche; ma ne' principj delle scienze morali
e metafisiche non possono cadere che errori formali».
Ciò che fu detto ne mostra la ragione manifesta. Le
scienze morali e metafisiche nascono solamente dalli
riflessione sulle nostre percezioni intellettive, ed idee,
e su tutto ciò che è nella nostra coscienza. I dati adun
que sono infallibili. Questi dati nè. dipendono dall'al
trui autorità, nè sono l'effetto di forze cieche; sì della
natura , o dell' intelletto medesimo. Non può pronun
ziarsi nulla, in sì fatti giudizj , in un tale istante nel
quale l'azione dell'intelletto sia impedita o sospesa;
ai3
perciocché non c' è alcun' altra forza che operi nel
tempo di quella sospensione, e che produca un dato od
una decisione : ma il solo intelletto giudica: e quindi
egli o è presente colla sua attuale attenzione, e fa il
giudizio; o, se non è presente, il lavoro del ragiona
mento non procede in sua assenza più innanzi (i).

ARTICOLO Vili.
IN CD SENSO LA SCRITTURA ED I PADRI DELLA CHIESA DICANO CU LE VIBRA*
SONO MANIFESTE, E OGNI UOMO, PURCHÉ IL VOGLIA, FOSSA VENIRNE AL POSSESSO.

Le verità necessarie all' uomo sono le metafisiche e


morali. Nelle quali non può cadere errore se non for
male, di cui è cagione l'umana volontà.
Si debbono pertanto intendere di questa specie di
verità i passi delle Scritture e de' Padri della Chiesa ,
ove si dice che se 1' uomo non conosce la verità , ciò
non dipende se non da lui stesso, che non tiene gl'in
viti della sapienza.
« La sapienza grida al di fuori, dicono i Proverbj, e
« nelle piazze dà la sua voce : alla testa delle moltitu-
« dini ella chiama, e in sulle porte della città profe-
« risce le sue parole, dicendo: Fino a quando, o fan
te ciulli , amerete l'infanzia, e gli stolti desidereranno
« le cose nocevoli , e gl' imprudenti odieranno la scien-
« za? Rivolgetevi alla mia monizione : ecco manderò
« io a voi lo spirito mio , e mostrerò a voi le mie pa-
« role. Poiché io chiamai , e vi dinegaste: e stesi la
« mia mano , e non fu alcuno che riguardasse » (a). È
adunque pur troppo la mala disposizione della volontà
che ritrae gli uomini, e li tien lontani da que' veri prin
cipali che formano la sapienza. In altro luogo la Scrit
tura esige che l'uomo cerchi la verità con quello slesso
affetto e con quell'acceso desiderio col quale egli cerca
il danaro, ed ella gli promette che non potrà fallire
dal ritrovarla: « Se cercherai la sapienza come il da
naro , e se la sterrerai come fai de' tesori , tu intenderai
allora il timor di Dio, e troverai la scienza di Dio» (3):

(i) Se possa darsi il caso che l'uomo cada in un crror formale neces
sariamente, cioè senza libertà di evitarlo, è questione dilicata e somma
mente difficile.
(a) Prov. I.
(3) Ivi, II.
ai4
che è appunto la scienza di quelle verità metafisiche e
morali delle quali noi parliamo. Dice ancora, che « U
sapienza ama quelli che amano lei , e che lei ritrovano
coloro che vigilano a lei di buon mattino » (1). Dai
quali luoghi , e da altri innumerevoli delle Scritture
vedesi manifesto , come la condizione che queste richie
dono perchè 1' uomo possa trovare la sapienza, « li
« quale, come in esse è descritta, medita e favellala
« verità » (3), si è quella di una volontà buona e per
fetta, vigile, e del vero accesa e sollecita ricercatrice.
E dalle Scritture è derivata la dottrina de' Padri.
Sant'Agostino non ha forse sentenza che sia a lui più
famigliare, e eh' egli esprima con più grazia di questa,
che se l'uomo riman privo della verità , è sua colpa,
che la verità risponde a tutti, che l'abbiamo dentro
di noi, ove la possiamo sempre consultare: « Da per
« tutto, die' egli, Verità, tu presiedi a quelli che ti con-
« sultano, e rispondi a tutti insieme anche consultai
« doti essi su cose diverse. Chiaramente tu rispondi.
« ma non tutti chiaramente intendono. Consultano tatti
u là onde bramano aver risposta, ma non sempre l'hanno
« quale essi vogliono. Quegli è un ottimo tuo ministro,
« che non bada ad udir più da te ciò eh' egli vuole,
« ma anzi a voler quello che da te ode » (3). Buona
regola adunque a venire in possesso delia verità è que
sta, di non accostarsi alla medesima con una menu
già pregiudicata, con una volontà già inclinala ad ave
da lei più tosto una che un'altra risposta ; perciocché al
lora noi non udiamo più ciò che ci parla, ma ciò che
noi vogliamo udire : consultisi la verità ricevendo ugual
mente ciò ch'ella dice, ed amando ciò che dice, chec
ché ella ci dica , anzi non amando ciò che si ama se
non perchè è detto da' lei.
Secondo sant' Agostino adunque ciascuno trova la

(1) Prov. Vili.


(2) Ivi.
(3) Ubitjue, veritas , praesides omnibus consulentilus te, simulque «•
spondes omnibus elioni diversa consulentibus. Liquide tu risponda , sd
non liquide omnes audiunt. Omnes unde voltali consulunl , ted non «*•
per quod volunt audiunt. Optimus minister tuus est, qui non magi» ink-
tur hoc a le audire quoti ipse voluerit, sed polius /toc velie quod a '.. «*-
dieril. Gonf. X , xxvi •
3l5
verità in sè (i), s'egli vuole; poiché, come abbiamo
veduto , ognuno ha il lume della verità innato, ed ha
oltracciò la scienza diretta immune da errore , e sulla
quale riflettendo può egli da sè medesimo riconoscere
le grandi dottrine metafìsiche e morali. E acciocché
non si creda che sant' Agostino parli forse, nel luogo
recato, di quella verità soprannaturale cui comunica agli
animi umani Iddio colla grazia, farò osservare, come il
santo Dottore dice che all'empio medesimo, s'egli
vuol riconoscerla, sta aperta la verità, e ch'egli la può
vedere riflettendo dentro a sè stesso : « Da quella in-
« commutabile luce di verità l'empio stesso, mentre
« da essa fugge, in certo modo è toccato. Quindi è
« che anche gli empj pensano l'eternità, e rettamente
« riprendono, rettamente lodano molte cose ne' costumi
u degli uomini. E con quali regole giudicano essi final-
« mente , se non con quelle nelle quali essi veggono
« come ciascun uomo debba vivere, sebbene poi essi
u in quel modo non vivano » (2)?
E quali ragioni , secondo questo Padre , fanno sì che
l'uomo, avendo in sè la verità percepita, pure non la
riconosce, e scade all'errore? Le due da noi accennate,
cioè la simiglianza delle cose false colle vere, e le pas
sioni, che inclinano la volontà a prendere per vero quel
falso che al vero è simile e eh' ella ama. Laonde così
accenna egli le cause occasionali dell'errore nel libro
della Vera Religione.- « La falsità non nasce dalle
« cose stesse che ingannino, le quali non mostrano al
« senso che quella vista , che secondo il grado di loro
« bellezza han ricevuto: nè da inganno di sensi, i quali
« non annunziano all'animo, che loro presiede, se non
« le affezioni delle quali sono affetti secondo la natura
« degli organi corporei : ma sì i peccati ingannano

(1) Questa verità che 1' uomo ha in sé, non è che sempre dia le verità
particolari belle e trovate; ma ella mostra la via, e addita i mezzi sicuri a
trovarle: quindi quando noi sentiamo il bisogno di ricorrere all'assistenza
degli altri uomini per essere istruiti di qualche scienza o chiariti di qual
che vero , è la verità In noi esistente che ci manda ad essi. La verità in
teriore adunque tanto è lungi che chiuda l'uomo in sè medesimo, o che
escluda di ricorrere all' autorità e agli altri mezzi di conoscere il vero , che
anzi è dessa quella che mostra la necessità di questi mezzi , e a questi ci
scorge.
(2) De Trititi. XIV , xv.
3l6
* X' anime quando esse cercano il vero , lasciata e ne-
« gletta la verità » (i). E dice appresso, che « nessuno
u può essere rigettato dalla verità, se da qualche effigie
« della verità non è preso. Or tu cerca che cosa sia
« quello che trattiene nella voluttà corporea. Non tro-
u verai esser altro che la convenienza : poiché se le
« cose resistenti producon dolore, le convenienti ap-
« portan diletto ». Da questa osservazione poi, che
l'uomo conosce, dove pure gli piaccia, la convenienza,
s. Agostino prova che dunque egli può ben, se vuole,
conoscere anco la convenienza somma, cioè Dio, e che
questa verità dipende dalla sua buona o mala volontà.
« Riconosci dunque, così il santo, qual sia la conve-
« nienza somma : non volere andar fuori di te , torna
« in te stesso, mell' uomo interiore abita la. veei-
« ta1 » (a): alla quale egli dice che « si perviene cer

ti) C. XXXVI.
(2) Ecco indicata I' osservazione de'fatti, interiori come il fonte delle
verità più sublimi. Questo genere di osservazione fu abbandonato dalla filo
sofia moderna, che ritenne solo F osservazione esterna , e nei sensi esterni
esaurì tutto l'uomo: indi il suo materialismo, e la sua abbiezione. Se noi
vogliamo paragonare la filosofia di Cartesio con quella di Locke, noi tro
viamo che esse provengono da due fonti al tutto diversi , la prima di no»
osservazione interiore dell' uomo sopra sè stesso , la seconda da una osser
vazione puramente esteriore. Queste due filosofie dovevano avere il loro
periodo, e ¥ ebbero. Dopo di questi sistemi egli sembra naturale che il
mondo debba aspettare una filosofia, che, senza esclusione dell' uno dei d«
fonti, si derivi dall' osservazione interiore e dall' osservazione esteriore »
sociale insieme; quésta non sistematica e parziale, ma vera e compita
filosofìa sarebbe la sola che potrebbe soddisfare ai bisogni presenti ed «I-
l' aspettazione dell' umanità. Faccia Iddio , che noi abbiamo cooperato tu
nonnulla , siccome abbiamo desiderato e sperato, a cotanta impresa. P?r
altro è degno di osservazione siccome la mollezza crescente del secolo in
fluisse sommamente a tor gli uomini dalla via della osservazione inttrùrt
sulla quale li avea scorti Cartesio, fino a dimenticarsene affatto , fino a no-
scire ora questa una parola nuova , e per molte menti forse un raggio
di luce improvvisa, che le scuote ed eccita quasi da un allo sonno. Cartesio
avea parlato della osservazione interiore colla maggior chiarezza, ed atei»
notato che solamente con essa si potea formarsi delle idee giuste dell ani;
ma , e senza di essa non si potea formarsi di lei se non delle idee materni!
e confuse ( Ved. Voi. II, face. 446 e segg.). Ed odasi Cartesio medesimo
quanto altamente n' ammonisse gli uomini nel suo celebre discorso sol
Metodo : « Ma ciò che fa sì, che v' abbia di molli i quali si persuadono
« che e' è difficoltà a formarsi la nozione di Dio , e anco a conoscer ài
- sia la propria anima, è questo, eh' essi non levano mai il loro spirilo
« su dalle cose sensibili ( dall' osservazione esterna ), e ch'essisi*"10
f cotanto avvezzi a considerar tutto colla immaginazione , la quale e ua
1 modo parlicolar di pensare valevole Solo per le cose materiali, che lui10
« ciò che non è immaginabile, essi crcdonlo altresì inintelligibile. — Ea *
217
« candola non nello spazio de' luoghi, ma nell'affetto
« della mente, non locorum spatio, sed mentis affectu (i).
Questa stessa dottrina è insegnata dagli altri Padri
e Dottori: de' quali, per non essere infinito, addurrò il
solo testimonio dell'amabilissimo cardinale s. Bonaven
tura , il quale dice manifestamente, che l' uomo ha
dentro di sè onde trovare la verità , s' egli il voglia ,
e non si lasci illudere dalle sensibili cose che inclinano
la volontà sua a consentir nell'errore: « Manifesta
ta mente apparisce, così egli, che l'intelletto nostro è
« congiunto pur coli' eterna verità, giacché solo per
« una tale maestra può egli capire con certezza alcun
u vero. Puoi dunque vedere per te stesso la verità, che
« ti ammaestra , se pure le cupidigie e i fantasmi non
« t'impediscano, e non si mettano come nubi tra te e
« il raggio della verità » (3).
Finalmente che l'anima umana quando ha l'occhio
intenebrato da passioni non sia atta , riflettendo in sè
medesima , a trovare la verità , è un luogo comune di
tutta l'antichità: e le purgazioni dell' anima, che le più
antiche e celebri scuole della filosofia insegnavano ed
esigevano dai discepoli , perchè fossero atti a percepire
la dottrina che si dovea loro comunicare, non hanno altro
fondamento che il vero di cui parliamo. E di qui il
divino Maestro richiedeva uditori che avessero gli orec
chi del cuore aperti ad udire: qui habet aures udien-
di , audiat (3).

« me sembra che quelli che vogliono pur usure della loro immaginazione
« per conoscere quelle rase ( l'anima e Dio ), fanno appunto il medesimo
*c che se essi volessero servirsi degli occhi per udire i suoni o fiutar gli
« odori »,
(1) C. XXXIX. A lai segno sani' Agostino professò questa dottrina,
e conobbe che l'errore ne' principi della metafìsica e della morale non si
fa se non mediante uu assenso dipendente dalla volontà, che nelle Ri-
trattazioni (L. I, c. xm) scrisse molto sottilmente' così : « Elille qui pec
cai ignorans, voluntate utique Jacit , quod cum Jacienf^non tit, putal esse
faciendum.
(a) Ex quo manifeste apparet, quod conjunctus sii inlcu. ' nosler ipsi
aeternae verilati , dum niii per illam docentem nìhil verum pou "ertiludi-
nalitcr capere. VIVERE IOITVR PER TE POTES VERITAÌEM ,
quae te docci , si te concupiscentiae et phantasmata non impediant , et se
Uunauam nulies inler le et veritatis radium non interponant. Ilio. III.
(3) Mail. XI. In questo articolo il discorso è tulio sulla cognizione ri
flessa , « he consiste non, nella prima percezione delle cose ( coguizionc di-
Rosami, Orig. delle Idee, T. III. jS
2l8
ARTICOLO IX.
E5EMFIO DI ERRORE NELLA COONIZIONE FOFOLARE E COMCNE
MOSTRATO DA S. AGOSTINO NELI,' IDOLATRIA.

Conosciuto che la cagione dell' error formale è la


volontà, la quale cede ali1 inclinazione che riceve in
verso r errore , massime quando il falso ha molta so
miglianza col vero; applichiamo qnesla dottrina a qual
che error solenne, acciocché prenda da ciò maggior
lume ed evidenza. E il piglieremo da sant'Agostino,
del quale è pure tutta questa dottrina.
Due specie di cognizioni abbiamo distinto , la popò-
lare o di prima riflessione , e la filosofica o di riflessione
ulteriore. Abbiamo veduto che l' errore si mette più
assai agevolmente in questa seconda che nella prima;
ma s'intrude però talora anche nella prima. Sant'Ago
stino ci dà esempio dell' errore popolare e comune, e
dell' error filosofico ; e mostra come l' uno e l' altro
venga per debilezza e viltà della volontà umana, die
si lascia il più piegare e corrompere dalle passioni.
L' esempio che reca sant' Agostino rispetto alla co-
gnizion popolare , è un errore capitale ed universale,
l'idolatria. Ecco il modo come egli descrive l'origine
di questo errore: reco tutto il lungo passo, poiebè è
di sommo rilievo a conoscere diligentemente come av
venne che le menti di tutto si può dire il getter?
umano si travolgessero dal vero in tanta tenebra -
perdizione.
« Poiché gli uomini amarono ( ecco V affetto, oc»

retta ) , ma in una ricognizione delle medesime. Nella cognizione direna,


dove non cade errore, cade però ignoranza. Cioè l'uomo può esserne priw,
ricevendola dal di fuori, e a dargliela concorrendo i.8 le cose sensi™
esterne, che ne somministrano la materia, q.° i bisogni interni dell' orp-
nizzazione, che sono probabilmente la prima occasione per la quale s
muove l'intelletto alla percezione. Rispello alla prima nJlessione,c\ìe produw
la scienza popolare , i fonti di questa sono pure in parte esterni all' no"*'
cioè souo \° il linguaggio, che è la causa occasionale dell'atto del riflettere,
2.° le cose comunicale col linguaggio, che sono 1' oggetto della riflessione
e queste possono essere anche soprannaturali , quali sono quelle conlenulE
nella divina rivelazione. La cagione però vera dell' intendere e del riflet
tere è sempre dentro di noi; e quindi s. Bonaventura dice: VWER£
IGITUR. PER TE POTES VERITATEM: alla quale sentenza si
sottintendere: « date le condizioui necessarie, colle quali la riilessione
possa operare «.
« sion dell'errore) più le opere che l'artefice e l'arte
u stessa, essi vennero puniti con qhesto errore ( del-
u l'idolatria): pel quale essi ricercano l'artefice e
« l'aite nelle opere stesse: e poiché noi posson trovare
« ( conciossiachè Iddio non soggiace ai sensi del cor-
« po , ma alla stessa mente soprasta), giudicano che
a le opere stesse sieno 1' arte e 1' artefice. Di. qui
« trae l'origine ogni empietà, non solo de' peccanti,
« ma ancora di quelli che sono dannati pe' loc pec-
« cati ». Di poi descrive il Santo i progressi di que
sto errore dell'idolatria, che vanno d'un passo coti
quelli della corruzione. Quanto una cosa falsa più si
miglia alla vera , tanto è più facile 1' errore, e si esige
meno d' inordinazione della volontà a cadere in un tale
errore y che a prendere per vero ciò che troppo più
dissomiglia dal vero. Quindi in ragione della corruzione
della volontà, è l'accecamento della mente, e la gros
sezza dell' errore ; fino che una volontà corrottissima
non sa più far uso dell'intelletto, non sa più discernere
nè pure le cose dissimilissime fra loro. E questo pare
che si possa ossarvare ne' progressi dell'idolatria. San
t'Agostino descrivendoli osserva, che gli uomini co
minciarono ad amare le creature , poscia passarono
ancora a volere servirle, rendendosi volontariamente
servi di queste : il che addita un progresso nella cor
ruzione. Medesimamente nell' errore dell'idolatria è il
corrispondente progresso: si cominciò dall' ingannarsi
pigliando pel creatore le creature più helle , come
quelle che sembravano più simili a lui; ma quindi
si stese questa confusion di mente sulle creature tutte
anche le più deformi , pregiando per divinità ciò che
era lontanissimo dall' aver pure colla divinità alcuna nè
anco apparente similitudine di perfezione. Sentiamo
sant' Agostino.
« Non pur vogliono gli uomini scrutare le cose creale
« contro il precetto di Dio, ed amar esse in luogo
« della legge e della verità , —• ma aggiungono ancora
« di dannazione in dannazione questo, che vogliono
« non che amare, pur servire la creatura a preferenza
« del creatore, e prestarle un culto in tutte le sue
« parli dalle somme fino alle più basse ». Ecco ben
caratterizzati i due gradi della corruzione : a questi ri
spondono i gradi dell'errore. Prima s'inganna l'inleU
2 20
letto, pigliando per Iddio le cose più simili a Dio:
u Alcuni si tengono in questo, di prestare un culto al-
« l'anima come a sommo Dio, a questa prima crea
ti tura intellettiva che il Padre fabbricò per mezzo della
« verità, accioccbè sguardi sempre nella verità, e per
« questa conosca sè stessa (i), poiché in ogni modo
« è a lei similissima ».
11 secondo errore e più grosso dell' intelletto, è di
prendere per Iddio le cose che sono a Dio più dissi
mili : « Di poi ( gli uomini), segue sant' Agostino, ven-
« gono dando un culto alla vita genitale, per la qua!
« creatura Iddio eterno e incommutabile fa le cose
« visibili e temporali atte a generare. Quindi agli ani-
■ mali discendono , e da questi scadono a prestare un
« culto agli stessi corpi bruti : e fra questi eleggono
» prima i più belli , tra' quali primeggiano grandemente
u i celesti. E fra essi presentasi il soie , ed alcuni si
a restano in esso. Alcuni altri credono degno di culto
« anche lo splendore della luna: la quale, come si dice,
« è a noi più vicina, sicché una bellezza più vicina a
u noi mostra Altri poi v' aggiungono ancora i corpi
« dell'altre stelle, e tutto il cielo cogli astri suoi. Al-
« tri al cielo etereo associano l'atmosfera , e a questi
« due superiori elementi corporei sottopongono l'anime
u proprie. Ma fra tutti sembra loro di esser al sommo
a religiosissimi quelli che tutto il complesso delle crea-
« ture , cioè tutto il mondo con tutte le cose che in
« esso sono, e la vita onde altri spira ed è animato.
u che alcuni corporea, altri incorporea esser credettero:
« tutto questo complesso in somma credono essere un
« cotale gran Dio, di cui l'altre cose sien parti. Poi-
« chè non conobbero l'autore e il fondatore di ogni
« creatura. Quindi precipitarono a' simulacri , e dall' o-
« pere d'Iddio giù s' inabissarono in fino all'opere prò-
« prie, che pur ancora sono visibili » (2). Nella quale
specie d' idolatria de' simulacri 8. Agostino nota giusta
mente un errore maggiore della idolatria della natura:

(1) Badisi come sant' Agostino insegni costantemente che l'anima h> bi
sogno della verità ( idea prima ) per conoscer sè stessa : non gli basta g"
il sentimento dell' Io; in una parola l'anima non è noia a sè per sé
(a) De KR XXXVii.
poiché la natura almeno è sommamente più grande ed
augusta delle opere umane, e in qualche modo più si
mile a Dio, giacché è 1' opera di Dio.

ARTICOLO X.
«EMPIO DI ERRORE NELLA COGNIZIONE FILOSOFICA ,
MOSTRATO DI S. AGOSTINO NELLA INCREDULITÀ'.
Dopo avere Agostino parlato dell' idolatria come di
errore della cognizion popolare, viene a parlare della
incredulità, che è buono esempio di errore nella cogni
zion filosofica. ,
E anche questo errore il descrive siccome un effetto
di volontà piegata al male ed a questo cedente. « V'ha,
« egli dice, un più tristo e più Basso culto di simu
li lacri , col quale gli uomini coltivano i loro fantasmi,
« e ossequiano sotto nome di religione checché ripen-
« sando con animo errante , e con superbia c boria
« vennero immaginando, trascorrendo a tale termine,
« che si lascino venire in mente che non si debba già
« più prestar culto a cosa veruna , ed essere ingannali
a gli uomini che si ravvolgono nella superstizione, e
« s'implicano in una misera servitù». Cioè il desiderio
eli una libertà disfrenata è il germe, secondo Agostino,
della incredulità; di una libertà che sottrae l'uomo
dal dominio giusto di Dio : e questo è lo spettacolo di
tutti i tempi, la storia intera dell'incredulità, da' gi
ganti della Scrittura , fino a' sofisti dell'età nostra. « Ma
u indarno, seguita a dire il santo Dottore, così si con-
u sigliano: chè non ottengono di non servire: riman
ti gono gli stessi vizj da' quali sono tratti a pensar così,
a e con ciò stesso a destinar loro un culto. Concios-
« siachè servono cotestoro ad una triplice passione, o
« di piacere, o di eccellenza , o di cupido sguardo. Nego
u che vi sia alcun di cotesti, i quali credono non do-
« versi prestar culto a nulla, che o non sia suddito ai
« godimenti di carne , o non istudj una vana potènza,
a o non immaltisca dietro a' diletti di qualche vano
u spettacolo. — Sicché, contenendo il mondo tutte que-
« ste cose temporali , servono a tutte le parti del mondo
u quelli che, tratti dall'amore del mondo , credono che
« non si debba dar culto a nulla, per non servire» (i).
(i) De V. R. XXXVIII.
333
Di tulle le quali cose è da conchiudersi con Ago
stino , " che nella Religione non poteva, cadere nessuno
« errore, se l'uomo non avesse dalo il suo affetto ed
« il culto, invece che a Dio, allo spirito, o al corpo,
u o a' suoi proprj fantasmi » (i).
Ma gli uomini che sono caduti nel fatale errore di
che parliamo , hanno la mente confusa , e non sodo
più atti a riconoscere tranquillamente la verità.
Quindi il loro ritorno alla verità dee cominciar dalla
fede assai meglio che dal ragionamento , ed è questo
quel preclaro servigio che, come abbiamo già più sopra
notato (2), presta V autorità: ella supplisce all'infer
mità della riflessione, resa turbata ed incerta da un
mal disposto volere. « Quantunque , dice il grand' uomo
« che abbiamo fin qui seguitato, giacciano i miseri in
« tanta estremità, da sofferire il dominio de' vizj, — tul-
« tavia , fino che in questa vita si trovano, possono ri-
« mettere la battaglia e vincerla ancora » . E quale è
di ciò la condizione? « se prima credano ciò, che non
valgono ancora ad intendere » (3).

ARTICOLO XI.
SI CONTINUA l' ANALISI DELL* ERRORE : h' ERRORE SON-ONE CONFUSIONE
NELLA MENTE.

L' errore materiale nasce da certi dati erronei che


non dipendon da noi, ricevuti o dall'autorità, odi
una potenza cieca (4). .

(1) Quamobrem sit libi manifestimi ahjue perceplum, NULLUM ERRO-


REM in Religione esse potuisse , si anima prò Deo suo non colerti a*-
mani , aut corpus , ani phanlasmata sua. De V. R. X.
(1) Face. 97 e segg.
(3) De V. R. XXXVIII. Si prius credant quod intelligcre nondum rtdent-
(4) Si dimanderà come una potenza cieca possa dare de' dati errona,
mentre in ciò che è cieco non e' è errore nè verità : la potenza cieca ili
quello che può , e non falla mai. Si risponde a questa ragionevolissima di
manda : Una poteuza cieca può dare de' segni convenzionali, e da questi
uasce l'errore. A ragion d' esempio , nel caso della mano che scrive in un
calcolo il numero 3 in luogo del numero 4> mossa meccanicamente, il nu
mero 4 scritto dalla mano è quello che contiene l'errore. Vero è ebe que
sta cifra 4, considerata nella sua esistenza propria, non contiene nè er
rore nè verità; ed è in questa sua esistenza che è prodotta dalla potenti
cieca. Quindi la poteuza cieca che la produce nou mette in essa pro
priamente nè errore nè verità. Ma noi consideriamo quella cifra come uu
segno di quattro unità risultanti dal calcolo , c così noi le aggiuogiamo »•
aa3
L'errore formale all'incontro è quello nel quale i
dati su cui giudica sono somministrati dalla natura dello
spirito intelligente, cioè sono le percezioni e le idee, che
formano la cognizione diretta.
Quivi 1' errore non nasce se non accompagnato da
una confusione nella mente.
E in vero questo errore ha luogo quando noi, riflet
tendo sulle nostre percezioni ed idee, prendiamo 1' una
per 1" altra , il che è un confonderle insieme. E per co
noscere meglio come ciò avviene, riduciamo l'errore alla
formola più comune: « L'errore è allora quando noi
attribuiamo ad un soggetto un predicato che non gli si
conviene » (i). Ora esaminando questa formola, facil
cosa è vedere che si può ridurla a quest' altra come
a suo equivalente: « L' errore è allora che noi pren
diamo una intellezione per un' altra.
E veramente , quando io attribuisco ad un soggetto
un predicato che non gli appartiene, che cosa fo io ,
se non formarmi di quel soggetto un concetto diverso
dal vero ? Cioè io penso che quel soggetto sia tale quale
egli non è , io penso che abbia quel predicato che
egli non ha. Vi hanno dunque nella mia mente due
intellezioni possibili: l' una è il concetto vero della
cosa, cioè io concepisco la cosa senza quel predicato ;
V altra è il concetto falso , cioè io concepisco quella
cosa stessa col predicato. Ora avendo presente la con-

volontariamentc P errore che si chiama materiale. Noi non facciamo con eiò
che prendere quella cifra per indicazione di quanto fu convenuto d' espri
mer per essa; e questo facciam bene; poiché è giusto che ad ogni segno
aggiungiamo il valor convenuto; nè altro far noi possiamo. Ma questo no
stro fatto , che per sè è giusto e privo d' errore , associato insieme coli' atto
della mano cieco, ma che pure non si può chiamare errore, fa uscir l' er
rore in fine del calcolo; il quale errore consiste « a prendere il risultato
per l'opera di una facoltà intelligente, mentre non fu solo l'opera di que
sta . ma v' ebbe parte una facoltà cieca ». Ma perchè quest errore o ò
inevitabile, o certo non giova mettersi da lui al sicuro eziandiochè si po
tesse (che volendo far questo si farebbe un male maggiore di quello, che
si. cerca evitare), perciò dicesi involontario e materiale; ove 1' uomo pur se
ne difenda « giudicando che quel risultato è l' opera della facoltà intelli
gente provvisoriamente, e non inappellabilmente », riconoscendo la possi
bilità che lo sbaglio s' introduca per le accennale cagioni.
(i) È manifesto , come fu accennato, che in questa formola si può com
prendere ancora quell' errore che consiste nel negare un predicato ad un
soggetto al quale conviene , purché si prenda il predicato come uu valore
incognito, che può essere negativo o positivo.
cezione di queste due cose, io prescelgo la seconda alla
prima; e dico, a ragion d'esempio: « La cosa così de
nominata , o la cosa che produsse in me questo senti
mento ecc., ha il tale predicato» ; mentre avrei dovuto
dire il contrario. Prendo adunque la cosa col predica
to, per quella che produsse in me quel sentimento, o
che in altro modo mi è determinata, e che non ha il
detto predicalo. Succede dunque nella mia mente uno
scambio, una confusione di due intellezioni; io creo
una congiunzione che non esiste, e affermo che esista.
Egli è evidente, che riflettendo io sulle cose che sodo
nella mia mente, non posso vedervi quello che non vi
è , nè diversamente da quello che v' è, se l'occhio della
mia riflessione, a cui è guida la mia volontà , non dice
di vedere ciò che non vede, cioè non mentisce. Che se
gli par di vedere , questa cosa che a lui par di vedere
dee esser un idolo da lui creato a. Ma una vera crea
zione è superiore alle forze dello spirito umano, è stra
niera all' uomo. Ciò adunque che si dice crear l' uomo
a sè slesso, non può essere che un falso accozzamento
di ciò che già preesiste nella sua mente. Ora fino che
egli fa quésto accozzamento, ancora non erra; purché
sappia che è suo lavoro , e noi prenda per ciò che la
natura stessa gli ha prodotto nella mente , in somma
per la verità della cosa. L'uomo ha dunque le cose
percepite, ha le sue finzioni; prende queste per quelle;
ecco 1' errore. Ma mettendo l' uomo la finzione nel luogo
della percezione (1), egli fa due cose: i." finge, a.' to
glie questa sua finzione in luogo della verità ( percezione),
disconoscendo questa e rigettandola. Un tale rigetta-
mento, che fa l'uomo di quella verità che ha pure nella
sua mente, è ciò che completa e informa l'errore.
Ora questa operazione, colla quale l'uomo cade in
errore, conviene che si produca necessariamente a tra
verso di tenebre e di confusione d'idee, cóme la su»
natura stessa il mostra: conviene che l'atto della ri
flessione si tolga dal mirare in ciò che è nella mente
da natura, figgendosi in ciò che vi è artefatto e fin'0'
e che queste due cose le compenetri in uno per co*i

(i) O in luogo de' rapporti delle percezioni, e di tulle le consfg«"ut


che sono dalle percezioni determinate e che in esse virtualmente » con"
tengono.
325
dire , od anzi che colla intellezione fìnta cuopra e veli
la vera, ciò che equivale ad un tentativo di distrug
gerla, se fosse possibile: ma questo è impedito dalla
natura immutabile; sebbene il turbamento della rifles
sione può crescere indeterminatamente , ed ella rendersi
affatto inetta a discernere il vero ch'ella ha cercato
lungamente di soperchiare e rinnegare ; il quale slato
della riflessione è ciò che si chiama appunto confusione
ed oscurità delia mente.

ARTÌCOLO XII.
l'errore si fa mediante dna sospensione ingiusta di assenso.

Analizzata la natura dell' errore rispetto all' intel


letto, abbiamo trovato eh' egli consiste in una con/u'
sione d'idee, delle quali l'una si scambia coli' altra (i).
Consideriamo ora l'errore rispetto all'operazione della
volontà, che muove l'intelletto a produrlo.
Noi possiamo esprimere la natura di quest'atto colla
forinola seguente : « L' errore nasce dal portare che si
fii un giudizio mentre le idee nella nostra mente sono
ancora in uno stato indistinto e confuso, nel quale è
facile di scambiar l'una coli' altra».
Sieno nella nostra mente due idee, un predicato ed
un soggetto, in uno stato di perfetta distinzione fra

(i) Art. precedente. Clii è che fa questa operazione di scambiare 1' una
■dea coli' altra ? L' lo, il soggetto. Ora che operazione viene ad essere
questo scambiamento delle idee ? a qual facoltà appartiene ? Noi abbiamo
distinto 1' idea dal verbo della mente ( Voi. Il , face. 1 1 1 e segg. ). Ora
l'operazione che fa il soggetto che erra appartiene alla facoltà del verbo ,
e non a quella delle idea ed ecco in che modo. La facoltà delle idee ha
per suo termine l'idea che è universale; ma la facoltà del verbo fissa e
determina il particolare Dell' universale , cioè pronunzia, e pronunziando
pone qualche cosa di particolare nell' universale. La facoltà del verbo
adunque è la facoltà del giudicare; e nel giudizio interiore sta solo l'errore
( face. 167 ), cioè nel risultamento del giudizio; il quale risullamenlo è
atto ad essere espresso con uua parola anche esterna; perchè non è una
semplice apprensione passiva, ma è un effetto dell'energia del soggetto,
che , eccitata in sè stesso una maggior forza , ha dato , direbbesi , corpo a
ciò che languidamente avea prima percepito, e l'ha determinato con tutte
le sue determinazioni necessarie acciocché veramente sussistesse , e così
potesse essere espresso. Questo è tutto ciò che di simile alla creazione fu
conceduto all' umana natura : la creazione dell' errore 1
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. HI. 29
226
loro (i) , e distinta pure e chiarissima sia l'idea del
loro nesso; egli è impossibile al tutto, fino cbe la
mente rimane in questo stato, che noi acconsentiamo
all' errore , nome abbiamo detto parlando dell' evidenza
delle proposizioni geometriche (2).
Ma se 1' uomo è di mala volontà , ed odia una ve
rità ed ama l'errore contrario, che farà egli per po
tersi abbandonare nell' errore 1
Egli cercherà qualche sofisteria da presentare a sè
medesimo, per la quale egli possa sospendere il suo as
senso , e confondere un poco le proprie idee, e così
torsi di quello stato di chiarezza nel quale egli prima
si trovava. Il che a fare non è il più delle volte dif
ficile: perciocché vi sono sempre delle ragioni generali
per lo meno atte a farci sospender V assenso : e si vede
di molte persone ostinate nella propria opinione , che
non sapendo più che rispondere alle obbiezioni che
loro si fanno , si contentano di confessare la propria
ignoranza , ma non di cedere ; e anzi il più delle volte
mettono termine alla disputa coli' addurre in mezzo
l'ignoranza e la fallacilà a dirittura della stessa ragione
umana, pigliando il tuono, solamente in quell'istante
appunto, di persone modeste e guardinghe nelle loro
investigazioni; e tutto il frutto che avrete cavato dalle
vostre convincenti e stringenti ragioni , sarà puramente
quello di sentirvi dare dolcemente degli avvisi generali
di sobrietà e di moderazione nel pensare e neh" in*
stigare , avvertendovi con molla gravità che v' è oa
confine nel sapere umano , e che non conviene spin
gersi nelle cose imperscrutabili ed oscure. Il che per
quanto ridicolo possa essere , non è men frequente; e
forma una prova patente , che 1' uomo, il quale non
vuole dar 1' assenso ad una proposizione, noi darà mai;
perchè troverà sempre una ragione generale , un « Chi

(1) Le idee sono distinte per sè stesse, né possono mai confondersi: n"
qui si parla delle idee riflesse. E per parlare più accuratamente, è la
flessione quella che si turba e tentenna quasi cercando questa o quell' >I|n
idea; ed avviene ch'ella colpisca e si ferrai in una invece che in ud' ile;
e quindi ella le scambia, e non trova quello che cerca. La confusione adun-
que a cui soggiace la nostra mente , ha la sua propria sede nella sola
colta di riflettere , la quale è guidata dalla volontà : la confusione no»
cade dunque nell' oggetto (idee ), ma nel soggetto (atto della riflessione )•
(2) Face. ig3 e segg.
a*7
sa » ? un riparo insomma , o nella propria ignoranza ,
o anche in un affettato scetticismo , per sostenere il
pieno suo assentimento dalla proposta verità.
Ma lasciando questo caso di somma ostinazione nel-
1' errore , chi ha una volontà almeno generale di cono
scere il vero , può rendersi troppo meticuloso e timido
nel dare 1' assenso alla verità lucente, ove sia preve
nuto ed occupato da un soverchio timore dell' errore.
E perciò una delle regole ad evitare l'errore, che varrà
assai a costoro , dee essere la seguente :
a L' uomo disponga la propria volontà in modo, da
non dovere indugiar punto a dare 1' assenso alla verità
conosciuta», ma sì tosto che conosce il vero, gli dia
il suo pronto e pienissimo assentimento.
E una candida prontezza di assentire lietamente alla
presenza del vero è ciò che forma e contrassegna gli
uomini retti e virtuosi, i quali perciò appariscono do
tati di uno squisito huon senso in discernere e cono
scere la verità.
La sospensione all' incontro affettata del proprio as
sentimento, o la troppa pusillanimità prodotta da so
verchio timore di errare, rovescia sovente nell' errore
slesso (i); perciocché dà tempo alla mente di confon-

(i) Se mi si dimandasse esempio di questa specie di errori venuti da


soverchia sospension di giudizio e ritrosia in dare l' assenso , addurrei
tutta quella serie di errori ne' quali cadono i sensisti per l' incontentabilità
di loro ricerche relativamente alle proposizioni astratte. Costoro hanno
una immensa difficoltà di ammettere che la nostra mente possegga de' con
cetti universali , per gli quali con uno sguardo solo percepisca una specie
intera di esseri possibili : e questa difficoltà de' sensisti s' è resa a' giorni
nostri generale, effetto della diffusione generale delle loro dottrine. Que
sto nasce indubitatamente da mancanza di ossetvazione interna, dalla quale
i sensisti rifuggono , rannicchiandosi nella sola osservazione esterna. Ma
ceco in qual modo nasce loro tanta difficoltà. Essi tolgono a fissare colla
loro atteuzione un concello universale. In questo stato non possono star
lungamente , che non si metta in molo la loro immaginazione; potenza
molto attiva in tulli gli uomini, ma ne' sensisti quasi esclusivamente atti
va, perchè risuscita loro le immagini de' sensi corporei, che sono i soli
fonti di loro filosofia. Ora l' immaginazione presenta e surroga ben tosto
immagini o fantasmi di cose singolari, e cosi l'universale che prendevano
» contemplare è sfuggito loro interamente d' innanzi. Dall' esperimentare
adunque eh' essi non possono fissar lungamente l' attenzione nel puro
universale, conchiudono che questo non esista. Non avverrebbe loro quosto,
se non esigessero di fissare a lungo l'universale, e di formarsene una imma
gine eh' egli somministrar non può; ma se tosto che il pensano, lo conce
dessero ed ammettessero , senza voler applicare ad esso quel modo di con
2 28
dersi , e alla riflessione, col movimento delle immagini
e delle idee, di turbarsi.

cepìre die è solo proprio delle cose corporee e singolari. Questa fissazioni
del puro universale è poi tanto più difficile, quanto, egli è più astratto; e
perciò il concetto dell' essere in universale, o sia il concetto della verità,
come quello che richiede più di astrazione, è quello altresì da cui si dee
più tener rimosse le immagini , e alla cui luce più prontamente assentili.
Preveggo io bene, che questo sarà il massimo impedimento che incontrerà
la mia teoria presso i sentisti, o gli uomini avvezzi a pensare secondo il
metodo di quelli. Voglio però far osservare , che l'osservazione ch'essi
fanno , cioè che non si possa a lungo tener ferma la mente sugli Astrali;,
non fu già sconosciuta né pure a que' filosofi che ammisero gli astratti e
gli universali nella mente; ma questi non hanno tuttavia creduto, cbe
per un simigliarle fatto, nascente dalla costituzione mista dell'uomo, si
dovesse rigettare il fatto degli universali. Uno di cotesti certo fu s. Ago
stino, il quale del pronto assenso, che si dee dare alla verità senz' altre
ricerche, parla in questo modo: « Quando tu senti dire, Dio è Verità non
« voler cercare che cosa è verità. Poiché tosto ti si affacceranno le cali-
« gini delle immagini corporee, e le nubi de' fantasmi, e turberanno il
« sereno, che di primo tratto ti risplcndette, quaitd'io nominai Verità:^
m primo ietti diluxil Ubi cum dicerem Vevitas »> (De Trinit. Vili, ti). Q««l>
osservazione, che l'uomo non può tenersi a lungo in un concetto astrailo;
e eh' egli cerca naturalmente di vestirlo di forme corporee; c che, venuti
all' ultimo concetto generalissimo della verità, si dee appagarsene tosto
senza cercar oltre , poiché questo cercare non è che un volersi rovescia"
di nuovo giù da quell'apice di pensiero a' corpi prima abbandonali; 'u
fatta sempre da' migliori scrittori. E valgami qui il nome d'un altro, d«
del celebre scozzese Giovanni Duns, che con queste parole nel secolo Xff
commentava il passo di sant'Agostino: « Quando si astrae un concetti)
« universale dal singolare, quanto quel concetto è più universale, tanto
« è più difficile all' intelletto il tenersi a lungo in un tale concetto. E <*>
w avviene, perchè è un' inclinazione naturale che ci porta a immaginare in
« singolare quantunque volte noi intendiamo un universale. E per la stesa
« ragione più a lungo e più facilmente noi possiamo tenerci in un con-
« cetto universale, quauto questo è più simile al singolare che riluce nel-
« l' immagine. Ora essendo i concelti universalissimi più rimoti dallo
« stesso singolare, quindi più difficilmente possiamo mantenere l'intelletto
« nel concetto delle cose più di tutte le altre universali. Ciò posto, nella
« concezione di Dio sotto il concetto universalissimo di verità , non si dee
« cercare ( dice sant'Agostino ) che sia la verità, cioè non voler discendere
« a qualche concetto particolare. — Perciocché discendendo a un tale
« concetto, che più s' avvicina e riluce nell'immagine fantastica che lo*
« s' allaccia , si perde quel sereno di verità , cioè quella verità sincera
« nella quale si percepiva Iddio. Poiché tosto in tale scadimento si viene a
« percepire la verità contratta, che a Dio non conviene, al quale convenga
« la verità concepita comunemente e non contraila » ( 1" i
D. Ili, q. IV).
22Q
ARTICOLO XIII.
L ERRORE TALORA SI FA MEDIANTE CN AFFRETTAMENE O rrtEClHTAllZA
IN DARE h ASSENSO.

L' errore non cade se non dato uno stato di mente


in cui sia confusione cioè mancanza di distinzione
d'idee (i).
Quando però la mente nostra è venuta ad uno stato
di distinzione d1 idee , la volontà può ancor produrre
l'errore; non già fin cho dura questa distinzione, ma
sospendendo per qualche istante 1' assenso , e cogliendo
questo mezzo tempo a turbare quella serenità e chia
rezza , inducendovi intanto del turbamento e della con
fusione (2).
Quando poi la mente non è pervenuta allo stato di
distinzione d'idee, e tuttavia la volontà conchiude l'as
senso, nasce 1' errore per un affrettamento o precipilanza
di giudizio: del che ora dobbiam parlare.
La volontà che precipita l'assenso, e muove l'intel
letto a chiudere il giudizio prima che abbia rese di
stinte le idee di cui fa uso in giudicando, può far ciò
per due motivi: i.° perchè ami l'errore, di che ella
coglie tosto il momento della confusione per abbrac
ciarlo e farlo passare nel proprio animo per verità ;
2.* perchè ami di spacciarsi con una decisione, e troppo
le gravi uno slato di sospensione e d'incertezza.
Io ho enumerato sette cagioni che hanno potere di
produrre inclinazione nella volontà, cioè i.° il bene
conosciuto nell' oggetto (3), 2.° la perfezione della cogni
zione intellettiva, 3.* la sperienza sensibile, 4° l'im
maginazione, 5." le passioni, 6." le abitudini, n* l'i
stinto (4). Le cinque prime di queste forze producono
nella volontà una inclinazione verso o contro l'oggetto,
e quindi influiscono perdi' ella affretti il giudizio del
l'intelletto per amore ovvero odio dell'oggetto, in una
parola per amore di ciò che trova nell' errore. Le due
ultime producono bene spesso nella volontà una incli
nazione ad affrettare il giudizio non tanto per amore
ovvero odio dell'oggetto del giudizio, quanto per la

(1) Art. XT. (3) S'intendi* viceversa auchc il male.


(2) Articolo precedutile. (4) Face.
a3o
pena che V uomo prova a tener sospeso il giudizio, ove
un istinto od una abitudine di giudicare temerà riamente
lo sollecita ed istantemente lo provoca.
In fatti la sospensione di giudizio per noi è natural
mente una pena fino che la riflessione non ce n'abbia
fatto conoscere la necessità, ed è allora solo che co
minciamo ad andare a rilento nel pronunziare.
Intanto fino dal primo sviluppo della nostra mente un
istinto ci porta a conchiudere dietro le prime apparen
ze , senza darci pensiero di rendere prima distinte le
nostre idee. Questo istinto è prodotto, come ho toccato
altrove, da1 bisogni della nostra vita animale, i quali
per la unità del soggetto mettono in molo tutte le forze
del soggetto , e quindi le intellettive ancora , per la
propria conservazione. Ora questo istintivo movimento
dell'intelletto procedendo da' bisogni sensibili, è natu
rale che sia avventato e frettoloso; poiché il senso non
conosce indugio, ed è sua proprietà essenziale di ope
rare con fretta (i).
L'uomo dùnque comincia per uno istinto ad affret
tare i suoi giudizj fino dalla culla, e in tal modo ac
quista un' abitudine di precipitazione nel giudicare, che
si ravvisa massimamente nel popolo : il qual vizio solo
colla coltura, collo studio, o sia con una lunga rifles
sione si corregge (2).
Ora sia che la volontà venga inclinata a muovere

(1) Perchè il senso è portato al suo scopo particolare senza conoscere


nulla fuori di quello , e quindi non ha riguardo a nulla di estraneo alla
sua soddisfazione nell' operare.
(a) Ne' fanciulli si ravvisa una mirabile rettitudine in giudicare, e cosi
pure si trova bene spesso una giustizia e rettezza ne' giudizj che porti
un popolo preso complessivamente. La rettitudine de' fanciulli nasce dal
l' essere ancora privi di passioni, o meno a queste soggetti , come pure dal
non aver essi contratte perverse abitudini, pregiudizj ecc. La rettitudine
del popolo nasce dall' essere esente necessariamente da passioni raflinalti
e dalla meditazione e sofisterie degli uomini colti ajutate , o alimentate dai
mezzi che hanno i grandi signori. La rettitudine però del popolo e do
fanciulli non impedisce che anch' essi soggiacciano ad errori ; da' quali s
vedono andare esenti i savj , i quali congiunsero allo studio delle scienie
la virtù e la pratica delle cose umane. Questi prudenti sono quelli ebe s
cautelano maggiormente dagli errori, perchè non gli amano, lenendo •
freno le passioni, e contemporaneamente regolando il naturale istinto, che
ci porla a-conchiudere precipitosamente, colla riflessione illuminata dal
l' esperienza , che ha loro insegnato a conoscere il pericolo di errare; di
che fu resa in essi abituale la conveniente sospensione del giudilio, c
1' esame freddo ed accurato della causa sa cui pronunziano.
a3i
l'intelletto, acciocché egli consenta in un falso giudi
zio, dall' amore dell' errore e dall' odio del vero con
trario; sia che s'inclini a ciò dal desiderio di veder
prontamente decisa la cosa , e dalla pena eh' ella prova
a protrarne la decisione; certo è che se la volontà non
cede a questa inclinazione, 1' errore non nasce. Sicché
chi ama in generale la verità, eziandiochè in particolare
non sia privo di passioni e d' impulsi contrarj all'equità
del giudizio, dee munirsi di quella prima regola fra le
quattro del Metodo di Cartesio , che è contro la preci
pitazione del giudizio, e che a me piace di esporre così:
« Si sospenda il giudizio fino che le idee del predi
cato , del soggetto e del loro nesso non sono bene di
stinte nella mente ; ma si adoperi ogni diligenza a ren
derle distinte ; e quando sono rese tali , allora sola
mente si concluda il giudizio ».

CAPITOLO IV.

DELLA PERSUASIONE RIFLESSA DELLA VERITÀ' £ DELL' ERRORE.

Ho parlato della persuasione naturale e spontanea


de' primi principj (i): ora gioverà che io dica alcuna
cosa altresì della persuasione volontaria e riflessa che
forma 1' uomo in sè medesimo, consentendo nella verità
o nell'errore; alla quale massimamente conviene il nome
e la natura piena di persuasione.

ARTICOLO l
DELLA PERSUASIONE RIFLESSA IN GENERALE.

Ciò che fu fin qui ragionato mostra questo fatto, che


la persuasione riflessa che un uomo acquista di una
opinione, è l'effetto congiuntamente della volontà e
dell' intelletto.
« Questa persuasione è un riposo dell'intelletto in
un assenso dato volontariamente ad una proposizione» (2).
La volontà muove l'intelletto, e l'intelletto mosso

(') Face. 88 e segg.


(2) Colla parola proposizione intendo un'opinione qualsiasi, e in qual
siasi modo espressa , come ho già dichiarato altrove.
a3a
dalla volontà aderisce ad una proposizione e s'acquieta
in essa: così nasce questa persuasione.
Quando la proposizione è formalmente falsa, allora
la persuasione è più opera della volontà che dell'intel
letto. La volontà bramandola vera, si approfitta di quel
poco di confusione che si trova nelle idee, per ispin-
gere l'intelletto ad una credenza, di cui egli non vede
distinta la falsità ; quindi con leggerezza crede ed ap
prova il falso confuso e scambiato pel vero. Ma non
sarà disutile che noi esaminiamo tutti i diversi gradi
ne' quali entra l'opera della volontà a produrre la per
suasione ne' varj casi ne' quali l'intelletto dà l'assenso.

ARTICOLO II.
dell'evidenza, e della persuasione prodotta dal ramo CRITERIO
DELLA CERTEZZA NE* PR1KCIPJ.

L'apprensione e 1' r,s senso a' primi principj non è


libero , ma ò necessario.
L' apprensione è naturale , cioè è la natura quella
che la fa in noi : 1' assenso poi che noi irresistibilmente
loro diamo viene dalla loro evidenza.
L' evidenza io mostrai nascere dalla universalità e
necessità dell' idea dell' essere, ove sono i primi prin
cipj radicati: poiché la cosa non può essere in altro
modo, che come quell'idea accenna, comprendendo ella
in sè ogni possibilità, e non essendo altro la possibilità che
quella medesima idea. Ora questa idea , essenziale alla
mente e perfettamente semplice, dee risplender sempre
nella mente; e secondo essa sola, come secondo suprema
regola logica , dee la mente formare tutti i suoi giudiij
non solo veri ma ancora falsi, senza però che la falsila
di questi dipenda punto da quella regola infallibile, ma
solo dal mal uso che il soggetto fa di quella regola.
La parola evidenza però merita qualche altro diluci-
damento, poiché è parola di cui molto si abusò, e fu
tolta in diversi significati.
A questo abuso, o a questa incertezza" de' filosofi sol
significato della parola evidenza , condusse in parte la
sua etimologia, la quale non esprime che una cliia"
visione o percezione. Ora una semplice visione o per*
cezione non è più che un fatto contingente, e non ponto
necessario ; quindi non si vede come ciò che è conti0*
a33
gente e accidentale possa esigere un assenso necessario ;
e non mancarono de' filosofi che dissero avervi un' evi
denza fallace, ed una evidenza veritiera, e credettero
di dover dimandare qual sia il criterio dell'evidenza.
In vero , ponendo che 1' evidenza non sia più che la
chiara visione di una cosa in generale, questa non rac
chiude in sè ancora un giudizio: e fra la visione e la
cosa veduta corre una sì reale e sostanziale differenza ,
che portando noi giudizio sulla cosa veduta dietro una
sola visione di lei, questa ci potrebbe ingannare, e la
visione nostra sebben chiara, sebbene evidente , esser
fallace.
Per levare adunque tutti questi equivoci, pe' quali si
trasforma l'evidenza intellettiva in una semplice visione
simile a quella della vista esterna , conviene senza dub
bio dichiarare la natura della evidenza intellettiva, e
dimostrare che questa evidenza non racchiude già solo
il concetto di una chiara apprensione della cosa , ma si
il concetto di una apprensione necessaria. Ecco adunque
la definizione che noi diamo della evidenza intellettiva:
« L' evidenza intellettiva è l'apprensione della ne
cessità della proposizione».
Intesa in questo modo l' evidenza intellettiva, ella
presenta non solo il fatto della percezione , ma la ra
gione ancora che produce irresistibilmente il nostro as
senso e determina il nostro giudizio: e questa ragione,
questa forza che ha in sè l'evidenza intellettiva, è la
necessità della proposizione a cui si assente.
Ora la persuasione dell'evidenza intellettiva ne' primi
principi è massima dalla parte dell' intelletto , e si sot
trae al tutto alle forze della libertà umana, la quale,
come abbiamo già prima detto, non vale ad oppugnare
la natura, nè può negare ciò che 1' intelletto vede ne
cessariamente.

ARTICOLO III.
DELLA PERSUASIONE PRODOTTA DAL CRITERIO DELLA CERTEZZA NELLI CONSEGO EHZ

L* evidenza intellettuale è sempre una necessità ve


duta dall' intelletto in una proposizione (i).

(i) Art. precedente.


Rosmini, Orig. delle Idee, T. HI. 3o
a34
Le prime proposizioni sono di una tale necessità che
non si può a meno di sentire.
Ma v ha una quantità di proposizioni di conseguenza,
le quali non mostrano in sè alcuna necessità: per que
ste non v'ha egli dunque alcuna evidenza intellettiva?
Non si può rispondere a questa dimanda , senza ve
der prima in che consista l' evidenza delle proposizioni
di conseguenza.
u L'evidenza intellettiva delle proposizioni di con
seguenza si ha quando si vedono queste proposizioni nei
principj » , cioè quando si vede chiaramente il nesso della
proposizione di conseguenza col principio supremo, e
si vede che se la proposizione fosse falsa, falso sarebbe
il principio supremo ove falsità non si può pensare.
Ora la proposizione di conseguenza può essere conte
nuta nella proposizione suprema e per sè evidente in
due modi, cioè i/o per la sua stessa natura e nul-
1' altro, 2/ ovvero dato che sia un fatto, una condi
zione contingente. Nel primo caso la proposizione ha
una necessità e quindi un1 evidenza apodittica, nel se
condo caso la proposizione ha una necessità e quindi una
evidenza ipotetica. Dichiariamo tutto ciò con degli esempj.
Questa proposizione, « Io in questo istante debbo
muovermi o star fermo », è di quelle che si chiamano
proposizioni necessarie.
« Io mi muovo», è di quelle proposizioni che i
chiamano contingenti, perchè è possibile 1' opposto.
E così queste due proposizioni sono bene denomi
nate fino che si considerano in astratto siccome pro
posizioni possibili : ma se noi le consideriamo attual
mente in un soggetto, il quale ha dato l'assenso ad
entrambi quelle proposizioni , in tal caso dico che la
certezza che ha questo soggetto di entrambi quelle pro
posizioni inchiude egualmente una necessità; ma perla
prima , una necessità apodittica , per la seconda, una
necessità ipotetica: e quindi quelle proposizioni, ovìv
all' assenso ragionevole dato loro, diventano necessarie
ambedue , ma la prima apoditticamente, la seconda
ipoteticamente.
S'intende meglio quanto dico, se l'assenso dato alla
necessità di quelle due proposizioni si esprima nell an-
nunziazione delle medesime. Esse allora si trasformano
in quest' altre :
*35
« Sono cèrto che in questo istante io debbo muo
vermi o star fermo » . t
« Sono certo che io mi muovo » .
In ambedue queste proposizioni si esprime la eer
tezza. E onde viene questa mia certezza ?
La certezza non viene mai che da una necessità.
La necessità di dar 1' assenso alla prima è la neces
sità assoluta della proposizione , nella quale si vede non
potersi pensare cosa diversa da ciò ch'ella annunzia ;
perchè non si danno che due casi contrarj possibili, del
muoversi, e dello star fermo; quindi ella racchiude in
sè tutte le possibilità , il che costituisce la necessità
apodittica, in una parola ella è un caso del principio
di cognizione.
La necessità di dar 1' assenso alla seconda proposi-
zione non nasce dalla proposizione stessa , che non ha
nulla in sè di necessario, ma nasce da un fatto sottin
teso , cioè dalla coscienza che ho di muovermi , e dal
l' immediata e naturale percezione che fa il mio intel
letto di ciò che passa nella coscienza (i).
Dato dunque il fatto della percezione intellettiva del
movimento, il movimento è innegabile, perchè è un
elemento del fatto stesso (2). Se il mio movimento
potesse non essere, quando intellettivamente lo percepi
sco, non sarebbe e sarebbe nello stesso tempo: me--
diante adunque il fatto della percezione, quella pro
posizione per sè contingente diviene necessaria , e si
rende un caso particolare del principio di contraddizione.
Si può adunque conchiudere, che la certezza apodittica
è quando la necessità della proposizione, che costituisce
la sua evidenza , deriva unicamente dalla forma della
verità, o sia da' primi principj , senza bisogno d'altro:

(1) Quindi gli antichi dicevano che la cognizione inlelleltiva versa sem
pre intorno a' necessarj : Intellectus, dice Aristotele, et sapientia et sdentici
non sunt conlingenlium sed necessariorum (VI Elh.c. vi). E s. Tommaso dice,
che le cose su cui versano le scienze, sono bensì talora contingenti, ma
non le scienze stesse, cioè le ragioni universali colle quali si considerano
le cose contingenti: Nihilenim, die* egli, est adeo contingens quin in se
aliquid necessarium habeal. Sicut hoc ipsum quod est Soricm currere,
in se quidern contingens est , sed habiludo cursus ad molum est necessaria.
Necessarium enim est Sortem moveri si currit. E poi mostra che l'ele
mento necessario nelle cose contingenti viene dall' intelletto , il quale le
considera sempre in relazione coi suoi concetti universali (S. I, Lxxxyi. ut).
(2) Face. gy e segg.
a36
e che la certezza ipotetica deriva da' primi principi aP"
piicali ad un fatto contingente della coscienza.
La persuasione delle proposizioni dedotte è grande
quando esse si veggono ne' principj ; ed è -prodotta in
tal caso assai più dall'intelletto che dalla volontà. Ma
però quanto più la deduzione è lunga, e la certezza
dipendente da più fatti contingenti, tanto più la volontà
ha campo d'imporre all'intelletto che sospenda l'as
senso , e di turbarlo nella sua vista confondendo le
sue idee.

ARTICOLO IV.
STATO DELLA MENTE NELLA PERSUASIONE PRODOTTA DAL PRIMO CMTEUO
DELLA CERTEZZA, DESCRITTO DA S. BONAVENTURA E DA S. TOMMASO.

Lo slato della mente che è in possesso della verità


mediante il primo criterio della certezza , e che attual
mente la vede, dee esser bene descritto ; perchè la de
scrizione di questo slato è finalmente il criterio pel
quale non solo l'uomo è certo, ma anche, riflettendo
sulla sua certezza, sa di esser certo, e il dice e ridice
a sò medesimo; il che reca una conferma ed un appa
gamento interiore più pieno, il quale fa compita e ini-
nubile la persuasione della verità.
Quelli che non hanno bene distinto fra la cognizione
diretta (i) e la ri/lessa, ma, ommettendo di considerare
la prima, non videro e non conobbero che questa se
conda, parlarono del criterio della certezza parzialmente:
e in luogo di dare il vero criterio universale della cer
tezza , diedero il criterio parziale della certezza riflessa,
cioè si occuparono a descrivere senza più lo stato della
mente che si trova già in pieno possesso della cer
tezza ; senza riflettere , che se la mente era già in pos
sesso della certezza, essa dovea avere usato un criterio
precedente per giungere a quel possesso , e che perciò
la descrizione dello stato della mente in possesso della
certezza non poteva costituire che un criterio valevole
per la riflessione mediante la quale noi avvertiamo il
precedente nostro possedimento della certezza e lo con
fermiamo a noi stessi.
(i) Diretta relativamente si può chiamare anche una qualunque «fin
zione (l'oss'ella per sè riflessa) quando si considera in relazione à< uW
riflessione fatta sopra di lei.
Questi lilosofi poi descrivendo un tale slato della
mente si contentarono di ricorrere allo stato di evi
denza, e quindi dissero che 1' evidenza era il criterio
della certezza.
Ma i varj significati della parola evidenza diedero
cagione a molte liti tra i filosofi. Conveniva , perchè
queste cessassero, trovare il carattere della evidenza in
tellettiva , ed evitare con ciò, che si confondesse l'evi
denza de' sensi coli' evidenza dell'intelletto, come si
fece ne' nostri tempi, impiccoliti da' sistemi de' mate
rialisti e de' sensisti.
Non così equivocamente troviamo che descrivano lo
stato della mente in possesso della certezza i due sommi
uomini 8. Bonaventura e s. Tommaso. Essi fissarono il
carattere della evidenza intellettiva nella necessità della
cosa, o sia nell'intuizione dell'impossibilità del contra
rio, e collocarono un tale stato della mente nel veder
chiaro ch'ella fa, siccome la cosa pensata impossibile
EST AtITER SE H ABERE (l).
Ora7 descritto con questa forinola lo stato della mente
in possesso della certezza mediante 1' uso del primo
criterio, siamo pervenuti all'ultimo anello, all'ultima
proposizione, della quale non è lecito il cercare alcu-
n' altra ragione, alcun altro criterio (2).

(1) Ecco lutto il passo di s Bonaventura, nel quale descrive lo stato della
mente in possesso della evidenza intellettuale mediante il primo criterio.
Tane inletleclut nostcr dìcilur veraciter compre/tendere ( propositiones ) ,
cum certiladinatiter scit Mas veras esse : et hoc scire est serre : QUONlAAf
NON POTEST FALLI IN ILLA COMPREHENSIONE ,scit enim quod
verilas Ma NON POTEST ALITER SE HABERE. Scit igitur veritatem
illam esse incommutabilem (Itin. mentis eie. Ili ). San Tommaso caratte
rizza pure colla nota della necessità l'evidenza intellettiva con queste parole:
scire est causnm rei engnoscere, et quoniam IMPOSSIBILE EST ALITER
SE HABERE ( De Verit. Q. X , art. x ).
(3) Chi cercasse il criterio della evidenza intellettiva , cercherebbe una
cosa impossibile: poiché quest'altro criterio o avrebbe 1' evidenza intellet
tiva, o no: se nou l'avesse, a nulla varrebbe; se l'avesse, saremmo ricaduti
nello stesso criterio primo, idem per idem. Quindi ottimamente la Scuola
a questo proposito dicea : Ratio non est quaerenda corum quorum non al
ratio, io. Duns , Quodt. q. XVI.
a38
ARTICOLO V.
DILLA PERSUASIONE PRODOTTA DAL CRITERIO ESTRINSECO DELLA CEttEBà |
E PARTICOLARMENTE DALL' ADTORITa'.

La certezza che si acquista col criterio estrinseco non


consiste nella vista dell' ultima ragione o della necessità
della proposizione , ma nella cognizione di un segno
certo della proposizione , siccome sarebbe 1' autorità.
Sull' assenso, che produce la persuasione di questa
certezza in noi, ha più luogo l'azione della volontà,
che sulla persuasione prodotta dalla vista di una in
trinseca necessità della proposizione.
Tuttavia quando il segno è certo , e certa la sua
connessione colla proposizione segnata , induce necessità
nell'intelletto ad assentire. Ma la volontà può con fa
cilità togliere la chiarezza di quel segno e di quel nesso,
e produrre confusione nelle idee, nel quale stato di
confusione l' intelletto mosso dalla volontà può facil
mente sospendere o negar anco 1' adesione e 1' assenso.
Quindi se la persuasione nasce da una autorità in
fallibile , la certezza può essere più forte rispetto alla
persuasione e adesione dalla parte della volontà, die
non sia la certezza de' primi principj : ma non cosi
dalla parte dell' intelletto , il quale è più necessitato
dalla vista de primi principj, che non sia dall'autorità
anche infallibile (i).

(i) L' assenso è un prodotto di due cause, i.° della forza del motivo che
determina l'intelletto, a.0 e della forza della volontà. La volontà agisce più
dell'intelletto nel produrre la fede cristiana , che perciò è una virtù: raa
1' intelletto è più immediatamente determinato all' assenso da' primi prin
cipj t che dall' autorità infallibile. Per ben intendere quanto sieno solide
queste distinzioni, conviene aver presente la distinzione che noi abbiamo
fatta fra la certezza e la verità. Certo nella verità non vi sono gradi, poi
ché è semplice ed immutabile. Ma la certezza è la verità da noi percepita,
« è una persuasione ferma e ragionevole conforme alla verità ». Nella per
cezione nostra adunque della verità, nella uostra adesione, persuasione,
può assegnarsi un grado di maggiore intensione e fermezza: quindi nella
certezza si possono assegnare de' gradi , non dalla parte della verità , nu
dalla parte dell' atto delle nostre potenze. Questa dottrina è insegnata (lai
due savj italiani che tante volte abbiamo citati, 1' uno de' quali, cioè
s. Bonaventura , paragona la certezza della fede colla certezza della ragione
nel modo seguente: De CERTITUDINE ADHAESIONIS ( che è quanto
a dire rispetto alla volontà ) veruni est fidem esse ceriiorem scientia plulo-
sophica. Si aulem ìoquamur de CERTITUD1NE SPECVLATIOMS,
f/uae tjuidem i-espicit ipsuni intelleclum ( e non la volontà ) et nudai* «-
ARTICOLO VI.

DELLA PERSUASIONI Di' FUMI PB1NCIPJ DEDOTTA DAL CRITERIO ESTRINSECO.

I primi principj si comprendono nel criterio primo


e supremo della certezza (l'idea dell'essere in univer
sale ), ed indi essi hanno una evidenza intellettiva o
necessità intrinseca, che fa forza all'intelletto di ogni
individuo, e v' induce una persuasione indeclinabile ,
e massime rispetto all' intelletto.
A malgrado di ciò posson essi questi primi principj
esser provati anche col criterio secondo od estrinseco
della medesima? o per dir lo stesso in altre parole,
oltre la necessità intrinseca, che rende i primi principj
intellettivamente evidenti, v' ha altresì un segno certo
che li contraddistingua, col qual segno, fosse anche
solo, si* possano conoscere fuor da tutti gli altri che
non sono di quella evidenza forniti?
Questa dimanda nel primo aspetto sembra assurda :
perciocché il segno certo, come noi abbiamo detto, non
può esistere, se prima non si fa uso de' primi principj
per riconoscerlo come tale.
Tuttavia esaminandola meglio, si trova ch'essa non
è al tutto priva di senso, ove bene si tenga presente
la distinzione fra la cognizione diretta e la riflessa.
La riflessione è quella sola operazione nella quale
succede turbamento e confusione e perciò s1 intro
mette l' errore. Ora noi possiamo negare per rifles
sione ciò che conosciamo direttamente ; e questo è il
caso degli scettici. Essi negano i primi principj con una
operazione che appartiene alla riflessione; mentre è im
possibile che non ne abbiano una cognizione diretta ,
e che non usino di questi stessi principj per negarli,
come usar debbono di essi per qualsivoglia altro loro
pensiero.
Ma i principj primi, ammessi necessariamente da cia-

ritatem , sic concedi potest quod major est certiludo in aliqua scientia,
quam infide, prò eo quod aìiquis potest aliquid per scientiam ita certitudi-
naliler nosse quod nullo modo discredere , nec in corde suo ulto modo con-
tradioere potest, sicut patet in cognitione dignitatum et prinwrum prin-
cipiorum { In III Sent. D. XXIII, art. i , q. 4 )• E può vedersi la stessa
dottrina professala dall'altro savio, s. Tommaso d'Aquino, nell'opera De
Verilate Q. X, art. 11.
a4o
semi uomo, sono ammessi per conseguente da tutli.
Quindi la consensione di tutti gli uomini in que' pria-
ci }>) e ciò che forma il senso comune, un segno di quei
principj. Fu per questo che noi dicemmo il senso co
mune essere un' ottima regola per quelli che sono giunti
ad aver la mente così confusa e la riflessione così tur
bata da credere di dubitare de' primi principj.
Questa regola però è un caso particolare del criterio
estrinseco e secondario della certezza, e rispetto a' primi
principj non vale già per la loro certezza in generale,
ina vale per la loro certezza rispetto alla cognizione ri
flessa: è una regola colla quale si può fermare e accer
tare la cognizione riflessa de' primi principj, e discernere
questi anche colla riflessione da tutti gli altri.
E si avverta attentamente, che la consensione del
genere umano non si può chiamare un senso comune
se non nel caso eh' essa sia prodotta dalla verità. Im
perciocché sebbene una verità prima ed essenziale al
l' uomo debba produrre indubitatamente 1' effetto della
consensione comune in quella verità, tuttavia non è
intrinsecamente ripugnante che un simile effetto possa
venir prodotto alcuna volta anche da un errore: per
ciocché degli uomini tanto 1' individuo che la massa è
fallace. E quando anco questo caso al tutto non si
desse (i) , tuttavia egli non ripugna intrinsecamente alla
natura umana.
Come adunque diciamo noi che il consenso generale
degli uomini può far discernere all'uomo traviato quali
sieno i primi principj? e che quindi quel consenso poo
chiamarsi un criterio alto a servir di guida alla rifles
sione ? Ecco il modo di ciò.
Neil' uomo che ha la riflessione turbata e confusa,
i primi principj sono tuttavia veduti chiaramente colla
cognizione diretta : non sono in lui spenti giammai.
Ora io dico che questo lume, che in lui sempre vive

(i) Questo caso non si dà nel fallo, ma non già per virlù essenziale del-
1' umanità , ma perchè il lume della rivelazione noi permise. Per allro si
dà bensì questo , « che un uomo possa trovare in un medesimo errore
tulli quelli coi quali egli parla e può parlare in vila sua -, e quindi che
non abbia modo alcuno di conoscere che vi sono allri uomini, o pnre cbf
verranno allri tempi ne' quali si opinerà diversamente. A molli sci""1
dell' antichità, e a molti de' tempi moderni presto gì' infedeli eri ed è io-
possibile trovare nell'autorità degli uomini come sgannarsi da molti erron.
de' primi principj, si può far visibile, si può ricondurre
sotto lo sguardo distratto altrove dello scettico, coll'ajuto
dell'autorità degli altri uomini. Non è dunque l' autorità
sola degli altri uomini che costituisca il criterio' della
riflessione pe' primi principj : ma sì bene è il lume di
questi principj non mai spento che viene ajutato e
rinforzato da quell'autorità, la quale sola non potrebbe
formare una prova al tutto sicura, o più tosto è 1' occhio
dell'uomo che viene raddirizzalo a vederli.
Per tal modo l'uomo che si giova dell'autorità del
genere umano per certificarsi de' primi principj, è egli
quegli che con un picciol lume che in sè gli rimane sa
restringere quest'autorità, chetante cose vere e false gli
dice, tanti principj e tante conseguenze gli propone;
e discernere, se pur vuole, que'casi ne' quali ella a' primi
principj suffraga , da tutti gli altri ; e così egli sa fis
sare come principj quei soli, che oltre ad essere dalla
autorità del genere umano autorizzati, trovano nella sua
mente un'armonica corrispondenza, una testimonianza,
che serve ad interpretare quell'autorità stessa, come
V autorità a vicenda interpreta ed illumina quella in
teriore testimonianza.
L' autorità dunque del genere umano non forma da
sè sola il criterio della riflessione della quale parliamo;
ma essa con quel rimasuglio per dir così di ragione
che all' uomo traviato rimane, a cui viene in soccorso
come ausiliaria, forma insieme un solo criterio, una
sola regola della verità.

ARTICOLO VII.
DELLA PERSUASIONE CHE SI PUÒ AVERE DELL* ERRORE.

La persuasione che si può avere di un errore è più.


opera della volontà che dell'intelletto; il contrario di
ciò che abbiam detto delle varie maniere di persuasioni
indicate fin qui, venienti dalla verità della cosa cono
sciuta o coll'intrinseco o coli' estrinseco principio della
certezza.
Nel caso che la verità sia quella che produce la per
suasione , la verità ha una forza in se di determinare
l'intelletto.
Ma quando ci persuadiamo del falso, ci persuadiamo
Bosmini, Orig. delle Idee, T. III. 3i
di ciò che non ha in sè virtù di determinare P intel
letto, perchè non ha esistenza : giacché il falso non
esiste. La verità cioè esiste in sè, e nella cognizione di
retta; ma il falso è ciò appunto che nella cognizione
diretta non si trova nè espressamente nè virtualmente.
Il falso adunque, come abbiam detto, è sempre uni
cognizione finta. Ora una finzione viene creata dalli
nostra volontà, la quale muove l'intelletto confuso, t
questo cedendo alla mozione di quella, fissa per vera,
e forma una cosa falsa.
Questa cosa falsa fissata dall' intelletto è un essere
puramente mentale, come tutte le finzioni, senza realità:
e tale operazione appartiene alla facoltà del verbo,oiu
del giudizio. Perciò gli errori si possono acconciamente
chiamare altrettante parole false o menzogne interiori.
Non è però che tutti gli esseri mentali creati dalla
mente sieno falsi ; ma solo quelli che non hanno il
loro fondamento nella cognizione diretta. Per altro un
essere mentale anche vero è ciò che mostra la limitazioni
della mente, perciocché è un modo di concepire che
non corrisponde alla natura della cosa concepita. In
questa parte I' antichità ha riconosciuto un elemento
soggettivo nelle cognizioni ; ma osservò però , di' eeji
non ingannava necessariamente l'uomo, nè rendea false
le sue cognizioni; perchè 1' uomo avea un intelletto uni
versale, pel quale egli sapea conoscere che quell'ele
mento era soggettivo , e non era costretto a prenderli
per oggettivo, nel che solo ci sarebbe stato il falso (ij

(i) San Tommaso distingue i.° l'atto o modo d'intendere, il quale ap


partiene al soggetto e si conforma al soggetto , a.0 e l' oggetto dell' inten
dere , il quale è indipendente dal soggetto. Noi , a ragione d' esempi» .
intendiamo le cose materiali con un atto semplice e immateriale: ma •*
attribuiamo mica la semplicità e l'immaterialità alla cosa intesa. All'oppo
sto noi intendiamo Iddio con degli atti moltiplici , ma non attribuiamo »
Dio per questo la molti pi ir ita : perciò 1' intelletto nostro sa distinguere, »p-
punto per la sua universalità, ciò che aggiungiamo noi soggetto nel rooA'
dell'intendere, e ciò che appartiene alla cosa. Quindi la cosa conoscine
non è alterata dal soggetto, non si rende soggettiva :. ina soggettivo ri"""
solo il modo o l'atto dell'incendere. Questa eccellente dislimioue basta»
distruggere lo scetticismo critico. E si vede che il criticismo non si fon»
che in una confusione d' idee , mescolando insieme il modo o *l\o ? *
tendere, colla cosa intesa: cose che erano già stale tanto bene distinte *»
nostri padri. Ecco le parole dell' Aquinate : Non enim intellectus MODE»
quo intclligit, REBUS aW ibuit 1NTELLECTIS , sicut nec lapidi
rialitatem, ijuamvis eum immaterialilcr cognoscal. E quindi delle prf4*'
a43
E in ciò V errore può avvenire in due modi :
1.s Si forma un essere dall' intendimento, dichiaran
dolo essere mentale mentre non è, come nella propo
sizione «Si dà un effetto senza causa ». In questa spe
cie d'errori manca la entità ideale o mentale.
2." O si forma un essere mentale dichiarandolo cosa
reale ed estrinseca, come «Vive Maurizio», nel men
tre eh' egli è pur morto. In questa specie d'errori manca
la entità estrinseca o realità.
L'errore dunque è uno sforzo di vedere coli' intel
letto una entità là dove ella non è: il termine adun
que dell' intelletto in tale operazione dà nel vano, nel
nulla (i).

noni che si fanno intorno a Dio dice : Si qua est diversìtas in compositione,
ad intelleclum referatw ( cioè questa diversità è un elemento soggettivo che
mette il soggetto nelle proposizioni ) ; unitas vero ad rem intelleclam. Et ex
hoc ralione quandoque inlellectus nosler enuntiationem de Deo format cura
aliqua diversitatis nota, praepositionem interponendo, ut cum dicilur, Boni
to* est in Deo : quia in hoc designalur aliqua diversìtas, quae competit in-
lellectui (al soggetto), et aliqua unitas, gitani oportel ad rem re/èrre (all'og
getto ). C. G. I, xxxvi.
(i) Io ho distinto Ire maniere di persuasione:
1.° Quella che viene a noi dal primo criterio, che mostra una verità in
trinseca alla proposizione a cui si assente: e in produr questa, opera as
sai l'intelletto. ,
2.° Quella che viene dal secondo criterio , che mostra esser vera la pro
posizione a cui si assente, ma non ci mostra questa verità come intrinseca
nella proposizione, ma per un segno certo di essa verità ce n'avvisa , come
sarebbe per una autorità infallibile: e a produrre questa persuasione opera
meno clie nella prima l'intelletto, e più la volontà.
3.° Quella che viene dall'errore; e a produr questa ha la principale
azione la volontà, a cui l'intelletto ubbidisce, e non viceversa.
Ora s. Agostino trattò di questi tre generi di persuasione nell'operetta
ch'egli intitolò De utilitale credendi , e chiamò queste tre persuasioni
intendere, credere, e opinare, Ecco com'egli mette a confronto questi tre
stati dell'animo umano relativamente alla persuasione: « Tre cose sono
« nell'animo umano, finitime in fra loro, e tuttavia degnissime di distin-
h zione , intendere , credere , opinare. Delle quali cose per sè considerate ,
•< la prima ( cioè l' intendere ) è sempre immune da vizio , la seconda
« ( cioè il credere ) è talora di vizio macchiata , la terza poi non è mai
« senza vizio. — L' intendere noi il dobbiamo alla ragione , il credere
« all' autorità, 1' opinare all'errore. Ma ciascuno che intende, anche crede
« ( cioè ipsi ventati credit, come dice più sotto ); crede anche ciascuno
« di quelli che opinano; ma nessuno di quelli che opinano intende ».
Di che si vede che secondo questo Padre della Chiesa l'errare è una
mancanza d' intendere, è una privazion di sapere: e la cognizione all'op
posto t' immedesima colla certezza.
*44
ARTICOLO Vili.
CONTINUAZIONE.
Il perchè la persuasione nell'errore è fittizia: è un'
opera tutta dell'attività dell'uomo, uno sforzo contro
natura, un tentativo della volontà a seduzione dell'in
telletto , che per sè dalla sola luce della verità è at
tratto e determinato.
Senza che , essendo la cognizione diretta sempre vera
ed indistruttibile, la persuasione nell'errore non è che
nella riflessione, operazione che si sopraggiunge per
così dire alla natura umana: nel fondo quindi della
mente giace sempre la verità j ed alla riflessione sta
sempre innanzi , atto ad esser veduto , il fondamento
della verità, e quindi n'ha forse sempre il sospetto.
L' errore dunque non è che superficiale , e non pos
siede mai l'intimo stesso della natura dell'uomo. Per
quanto la persuasione dell' errore sia profonda, ella è
bene spesso piena di esitazioni ; ripullulano i dubbj che
pareano già assopiti : e una misteriosa inquietudine non
abbandona giammai interamente gli uomini dall'errore
occupati , sebbene 1' inquietudine non abbia in sè vigore
di convertirli alla pace della verità.

ARTICOLO IX.
t' ERRORE È SEMPRE UNA IGNORANZA.

Coli' errore il mio intendimento non termina nella


verità, ma termina in un oggetto privo di entità (i),
cioè in cosa che non ha esistenza se non quella che
le dà l'intendimento stesso in supponendo reale ciò che
non è. Quindi dissi che il termine dell' intendimento
nell'errore per sè è un nulla. L' intendimento adunque
coli' errore non acquista una cognizione , ma di una
cognizione resta privato: perciocché non ha alcuna en
tità ciò in cui egli termina, sebbene egli creda che
l'abbia: non vede nulla, ma dice di vedere j mente in
somma a sè stesso.
L'errore dunque è sempre un'ignoranza; se nonché
mentre l'ignoranza è una semplice negazione di sapere,

{■) Art. VII.


F errore a quella negazione di sapere aggiunge lo sforzo
dell' intendimento mosso dalla volontà, a fine di pro
dursi un essere vano che tenga luogo del sapere che
manca, e dare ad intendere a sè stesso di sapere. Non
sapere, e dire a sè stesso di sapere, è una menzogna
dell'orgoglio: adunque ogni errore formale è un'opera
zione secreta dell' orgoglio : ed ogni errore è essenzial
mente orgoglioso (1).
A questa specie di negazione di sapere gli antichi, per
distinguerla dalla semplice ignoranza, davano con pro
prietà il nome di privazione.

(i) Questa osservazione è di sant'Agostino, che sa tanto bene spiare nei


segreti del cuore umano. « Opinare, egli dice ( e questa parola opinare a
lui vale il medesimo che essere uell' errore ) « opinare è viluperevolis-
simo per due ragioni : perchè colui che è persuaso già di sapere ( coni' è
quegli che ha 1' errore ), « non può imparare nè pur ciò che altramente
«« imparar potrebbe: e perchè la temerità per sè stessa è segno d'animo
« non bene affetto. — È pertanto viziosa credulità quella di coloro che
« opinano di sapere ciò che non sanno - ( De util. cred. XI). Anche
s. Tommaso chiama la prosunzione maler erroris ( C. G. I, v ). A
chi dunque appartiene il rimprovero di credulità ? a quelli soli che er
rano. Mal si guardano dal vizio della credulità quelli che presurnouo di
nulla credere : perciocché costoro sono creduli all' errore , nel che- solo ,
secondo i grand' uomini citati , consiste propriamente la viziosa credulità.
a46
PARTE QUESTA
CONCLUSIONE.

CAPITOLO I.

ILLUSTRAZIONE DKLLE DOTTRINE ESPOSTE, COLl'ahAXISI


CHE FA S. AGOSTINO DELL* ERRORE De' MATERIALISTI.

Sant'Agostino analizzando Terrore de' materialisti mo


stra come egli non sia che una privazione di sapere.
Cioè quando il materialista dice a sè stesso che l'a
nima propria è corpo, non è già ch'egli sappia che la!
sia, ma solo egli ciò reputa (i).
Si distingua dunque l' operazione che fa la mente
quando veramente sa che una cosa è così , da quella
operazione onde la mente reputa o crede che sia così.
Questa operazione seconda, che consiste a reputare od
opinare o credere che la cosa sia così, senza però saperlo,
è quella che è soggetta all'errore: poiché il reputare che
una cosa sia così, può farsi senza saperlo , e perciò senza
che la cosa così sia veramente. In quest' ultimo caso si
ha una opinione falsa, o sia un errore.
E di somma importanza il ricercare « come mai la
mente, non avendo la scienza di una proposizione,
tuttavia dia 1' assenso a quella proposizione, dicendo a
sè slessa di sapere ciò che non sa ».
Ma v' ha di più: non solo la mente nell' errare dice
di sapere ciò che non sa, ma dice ed opina il contrario
di ciò che sa , come nel caso de' materialisti. Sant'Ago
stino pretende che la natura spirituale dell' anima sia
nota naturalmente ad ogni uomo pel testimonio della
coscienza (2). Nasce dunque la dimanda , * Come l'uomo
dice di avere un' anima corporea , mentre sa per la sua
coscienza d'averla spirituale? »
(1) Cum ergo verbi gratta, mens aerem seputat, aérem ìnUlligere prid,
se tamen inUJligere sciti aerem aulem se esse nou SCIT, «ed PUTÌ*
( De Trinit. X.)
(2) Saul* Agostino prova a lungo nel libro X dèlia Trinità, che ogni
uomo sa per testimonio della propria coscienza di vivere, di sentir* e 4
intendere, e che il saper questo solo è il conoscere 1' anima propria . tl;<
è il soggetto che vive , sente ed intende. L* errore poi nasce nell' agg1»0-
gerc che si fa a questa cognizione qualche cosa di eterogeneo, e non d*u
dal testimonio interno della coscienza, ma da 'sensi esteriori, che non per
cepiscono l'anima, ma solo i corpi. Sant'Agostino adunque ammette r <*• |
servazione interiore come fonte legittimo della cognizione dell'anima.
V ha una contraddizione nell' uomo materialista :
I.* da una parte egli ha una cognizione intima dell'a
nima propria come vivente, senziente e intelligente,
2* dall'altra egli ha una opinione che l'anima propria
sia corpo. Questa contraddizione non si spiega se non
mediante la distinzione fra le due coverse funzioni del
l' anima , cioè i.* la percezione della verità , fonte della
cognizione diretta, a* la riflessione, fonte della cogni
zione riflessa. L'uomo per cognizione diretta, sommini
strata dall'intima sua coscienza, conosce la natura spi
rituale o sia intellettiva dell' anima; ma riflettendo poi
sopra di quella cognizione diretta, egli la disconosce, e
dichiara invece 1' anima materiale.
E qui s. Agostino si fa la difficoltà, « Come dunque
c'è il precetto di conoscer sè stessi, se l'anima già na
turalmente si conosce»? E risponde: « Quel precetto
impone che 1' anima pensi a sè stessa, ut se ipsam co-
gitet ; poiché altro è il non conoscersi, altro è il non
pensare a sè stessa » : si può conoscersi ( cognizione di
retta) senza pensarvici, cioè senza riflettere a ciò che già
si conosce (cognizione riflessa) (i).
Ma per quai passi la riflessione può turbarsi a segno,
da venire nella opinione che 1' anima umana sia cor
porea ? Conviene osservare, egli dice, che «quelli che
« opinano l'anima esser corporea, non errano già per
ei chè nel concetto che si formano dell'anima manchino
« d' inchiudere la mente; ma bensì perchè in questo
« concetto vi aggiungono ( arbitrariamente ) quelle cose,
« senza le quali essi non sono capaci di concepire al-
u cuna natura. Poiché costoro slimano che sia nulla
« tutto ciò che voi li fate pensare senza immagini cor-
« poree » (2).
E onde avviene che costoro non possano pensare che
corpi? e che ogni qualvolta pensano a qualche cosa,
vengano loro affacciandosi sempre immagini corporee?
Questo avviene perchè quando 1' uomo rivolge l' intendi
mento suo a riflettere su qualche cosa, conviene ch'egli
abbia l'arte di dirigerlo bene, acciocché egli pervenga

(') Ut quid ergo ei prneceptum est ut seipsam cognoscat? Credo ut sei-


psam cogitet; — cum aliud sii non se NOSSE.aliud non se COGITARE.
De Tiioit. X, v.
(2) De Trin. X, vii.
2^8
sicuramente a trovar quella cosa. Altrimenti noi sapendo
egli dirigere al giusto segno, ed avviare la riflessione
su quella cosa che cerca, questa riflessione perverrà ad
un'altra cosa diversa da quella ch'egli cercava, e la
lorrà per la cosa cercata, e così sca tubiera 1' una così
coli' altra. Ora duuque che è che dirige l'intendimento?
Principalmente la volontà. Qual cosa dunque fa sì che
l' intelletto , o per dir meglio la riflessione de' materia
listi, volendo cercare lo spirito, non rinvenga mai che
i corpi, e studiandosi di percepire l'anima spirituale,
trovi in essa il corporeo? Sant'Agostino risponde : Perchè
questi non si sono mai esercitati che a dirigere la ri
flessione sui corpi} perchè la volontà loro si è solo
de' corpi dilettata , ed occupata; e quindi non ha im
parato giammai quella via per la quale si giunge allo
spirito, il quale non si trova già per la stessa via che
conduce a' corpi che sono al di fuori di noi, cioè con
una osservazione esteriore , ma sì per una via opposta,
cioè con ritornare e fermarci dentro in noi stessi.
« Per la qual cosa , dice s. Agostino, la mente non
<« si cerchi , come s' ella mancasse a sè stessa. Imper-
« ciocché che cosa v' ha che sia tanto presente al pen-
« siero, quanto ciò che è presente alla mente? o che
« cosa è tanto presente alla mente, quanto la mente
«« stessa? — che cosa tanto è nella mente quanto la
cì mente? Ma perciocché ella è assuefatta nelle cose
« sensibili, cioè corporee, le quali con amore ella ri-
«« pensa , non è più atta a tenersi in sè medesima sen-
« z' aver seco altresì le immagini di quelle cose. Quindi
«< nasce il disdoro dell'error suo, mentre ella non è
« più atta a separare da sè le immagini delle cose
« sentile, e a vedere sè sola. Perciocché queste cose
« le si attaccarono in mirabil modo pel glutine dell'a-
« more: e qui sta la sua immondezza, poiché allor-
<« quando ella pure si sforza di pensare sè sola , si re
ti puta tuttavia esser qualche cosa di ciò senza di che
u non è punto atta a pensarsi » (i).

(i) De Trin. X, vii, vili. Questa specie A' immondezza noi la portu"»
con noi nascendo , sebbene s' accresca col mal uso. Il fallo mostra che <
torpida e lenta In pura facoltà intellettiva dell' uomo ; mentre i sensi sono
attivissimi fino dall'infanzia, ed assorbono a sè tutto l'uomo, quasi
prima clic la ragione ( per sè sola ) sia venuta in islato da signoreggiar»"
249
Di che si vede che la confusione d' idee che suppone
l'errore viene dalla mala disposizione della volontà, la
quale non sa muovere l'intelletto a fare le necessarie
distinzioni, e conchiude in tempo che ancora le idee
sono confuse. Prosegue così il santo Dottore a ricercare
colla sua finezza tutte le fibre di questo errore de' ma
terialisti: « Quando adunque si comanda che la mente
a conosca sè stessa, non vada ella cercandosi come
« fosse staccata da sè; ma stacchi da sè ciò ch'ella si
« è aggiunto. Poiché essa è di dentro, non solo più di
« queste cose sensibili che manifestamente sono al di
« fuori, ma eziandio più che le immagini loro , che pur
« sono in una parte dell'anima, e cui hanno anco le be-
u slie, sebbene prive d' intelligenza, la quale spetta solo
« alla mente. Laonde essendo la mente interiore, ella
« esce in certo modo da sè stessa, quando manda l'af-
« fetto dell' amore a questi cotali vestigi di molte sue
« intenzioni. — Conosca dunque sè stessa, nè si cerchi
« come fosse assente, ma l'attenzione della volontà, onde
« vagava per l'altre cose, fermi in sè stessa, e si pen-
« si (i). Così vedrà che non fu mai tempo — nel quale
« ella ignorasse sè stessa (2) : ma amando seco qualche
« altra cosa, con questa confuse sè stessa, e in certo
« modo a sè l' aggiunse ; e in tal modo mentre racco-
« glie a sè molte cose, reputò che una sola cosa sieno
« quelle che sono diverse » (3).
È qual via ci mostra poi s. Agostino a ricondurre la
riflessione turbala e sviata de' materialisti nella diritta
via , e far eh' essa trovi sè, cioè lo spirito, e lo consi
deri ? Egli ci mostra queste due. La prima di far loro
osservare quali sieno quelle cose nelle quali sono tutti
gli uomini d'accordo, e quali quelle nelle quali sono
di disparata opinione : facendo vedere che in queste sta
l'incertezza, e in quelle la certezza (4)- La seconda di

(1) INTENTIONEM rOLUNTATIS qua per alia vagabalur, statuat


in semetipsam , et se cogitel.
(1) Con una cognizione diretta , a cui mancava la riflessione.
(3) De Trinit. X, vm.
(i) Scremai ( mens ) quod se PUTAT, cernat quod SCIT : hoc ei re
matici ; uttde ne illi quidem dubitaverunl , qui aliud atque aliud corpus
esse mcnlcm putaverunt. Ncque enim omnis mens ai:rem se esse exislimat ,
ted alme ignem, aliae cerebrum, aliaeque aliud corpus , et aliud aline, sicut
Rosmini , Orig. delle Idee, T. III. 32
a5o
far loro osservare ancora quali siedo quelle cose delle
^juali non è possibile a nessuno il dubitare, e quali quelle
sulle quali può cadere il dubbio : e mostra che l1 errore
si dee cercare in queste seconde; e in queste loro lo
addita , mostrando che sono gratuitamente aggiunte alla
verità, giunta nella qual consiste appunto 1' errore (1)
Di che si vede come s. Agostino riconosce il senso co
mune e la necessità della percezione intellettiva siccome
i due mezzi da richiamare in sè la riflessione traviala
e perduta.
£ da tutte queste cose si può inferire ancora, chela
persuasione nelV errore non è giammai ferma come la
persuasione nella verità, nè trovasi giammai lungamente
scompagnata dall' esitazione e dal dubbio. Quindi è che
1' uomo il quale ha tentalo a lungo di fermare la sua
persuasione nell' errore , veggendo per lunga sperieaa
di consumare il tempo in una inulil fatica, prende alla
fine il partito di credere che nessuna certa persuasione
possa trovarsi , e termina nel tristissimo scetticismo i
suoi laboriosi divagamenti.
Nè meglio io saprei mostrare in un esempio la io-
costanza della persuasion dell' errore, che coli' osserva
zione che fa Agostino sulla divergenza o mutabilità ci
opinioni fra' materialisti in quella parte nella qual;
essi errano.
« Tutto quel comandare che si fa all' anima di co
ti noscer sè stessa riesce qui , che s' accerti non esse:
« ella alcuna di quelle cose sulle quali è incerta, ma

supra commemoravi : OMNES tamen se inlelligere noverunt , et esse, 6


vivere; sed inlelligere ad id quod intelligunt referunt, esse autem et
ad se ipsas , eie. De Trio. X , x.
(i) Sed quoniam de natura mentis agitar , removeamus a considerato!*1
nostra omnes nolitias quae capiunlur exlrinsecus per sensus corporis, et tf
quae posuimus omnes mentes de se ipsis nosse cerlasque esse , diU%ert*!
adlendamus. Utrum enim aèris sit vis vivendi , reminiscendi , inlellig&k •
volendi, cogilandi, sciendi, judicandi ; an ignis , an cerebri , an «inguaui,
an atomorum , an praeter usitala quatuor dementa quinti nesào eujU
torporis , an ipsius carnis nostrae compago vel temperamentum haec effan
valeat, dubilaverunt homines: et alius hoc, alias aliud affirmare consH'
est. Vivere se tamen et meminisse, et inlelligere, et velie, et cogitarti *
scire , et judicare quis dubitet? — Non est igitur aliquid eorum: toti&r:
illud quod se jubetur ut noverit, ad hoc pertinet ut certa sit, non M
mliquid eorum de quibus incerta est, idque solum esse se certa sit,
solum esse se certa est. De Xrin. X , x.
25l
k essere solo ciò che è certa di essere. Poiché ella pensa
u con incertezza di esser fuoco o aria , o checché altro
« corpo. Ed ella non può pensare ciò che è , in quel
« modo stesso onde pensa ciò che none (1). Ella pensa
« tutte queste cose, fuoco, aria, questo o quel corpo,
« parte, o compaginamento e temperanza di corpo, me-
« diante immaginazione di fantasia ; e non dice d' es-
« sere tutte queste cose, ma sì 1' una o 1' altra di esse.
« Ma se alcuna di queste cose ella fosse , questa tal
« cosa la penserebbe certo in un modo diverso da tutte
« l'altre, cioè non per una finzione immaginaria, come
u s'immaginano le cose assenti, che col senso del corpo
« si toccano, o esse, o altre dello stesso genere; ma
« con una interiore presenza , non simulata ma vera (2)
1 ( imperciocché non può aver nulla di più presente a
« sé di sé slessa): siccome pensa il suo vivere, il ri
ti cordarsi, V intendere ed il volere. Poiché tutte queste
« cose le conosce in sé , e non le immagina ella quasi
« fuor di sé tocche dal senso, siccome tutte le cose
« corporee si toccano. Da' quali pensieri se ella non
« torrà alcuna parte per aggiungerla , fingendo , a aè
« stessa, e crederla sé; ciò che gli rimane in que' pen-
« sieri (detratti que' loro oggetti esterni), ciò solo ù
« dessa » (3).
CAPITOLO II.
EPILOGO SUL CRITERIO DELLA VERITÀ.'

Recando or dunque in poche parole le cose ragionate


in questa Sezione, la cognizione è di due maniere, di'
retta (4) e riflessa. Quella è la verità (5) posseduta da

(1) In tutto questo discorso si vede la distinzione del soggettivo dall' og


gettivo ^ dalla confusione de' quali nasce , come vedemmo ( Voi. II,
face. 45 1 ), ogni materialismo.
(1) Ecco di nuovo come la sola osserva2Ìone interiore, secondo s. Ago
stino , ci conduce ad avere giuste idee dell' anima.
(3) De Trìn. X , x.
(4) La cognizione diretta è composta della forma della ragione o idea
dell'essere in universale; poi delle percezioni; poi delle idee prime che
" uomo potè avere dalla universalizzazione o dalla integrazione. Che se
piacesse di escludere dalla coguizion diretta le idee clic abbiamo dall' in-
tegrazione, perchè suppone un primo riflettere, queste idee però sono nuove
per sè e costituiscono quindi una cognizione fondamentale. In questa co
gnizione naturale non cade errore, ed è l' esemplare, la regola su cui ogni
altra cognizione s' accerta e si corregge.
(5) La idea dell'essere chiamasi verità logica senza più. Le idee prime
a5a
tutli gli uomini. Questa non fa che sviluppare , con-
giungere ed analizzar quella diretta ,• ed è vera, quando
a quella è conforme e consuonante; è falsa, se la ri
flessione , in vece di fondarsi e riconoscere ciò che è
nella cognizione diretta, vuole inventare, creare. Di che
V errore è una cotal creazione fatta dall'uomo colla fa
coltà di riflettere.
Le prime riflessioni costituiscono la scienza popolare:
le seconde la scienza filosofica. La scienza è più sog
getta ad errore, più che in essa ha parte la riflessioni.
Quindi la filosofia è più soggetta all' errore della popolare.
La riflessione aggiunge luce e perfezione al sapere
umano. Quindi la scienza filosofica mentre ha da una
parte lo svantaggio d'essere molto soggetta all'errore,
ha dall' altra il vantaggio d' essere fornita d' una luce
e d' una perfezione immensamente maggiore della scienza
popolare s' ella perviene alla verità.
La riflessione, fonte della scienza più luminosa, e di
quella che sola comunemente s'intende sotto il nome
di scienza, è mossa dall'istinto e dalla volontà; ma si
può dire a dirittura dalla volontà, perchè questa coo
pera sempre, almeno negativamente. Quindi la volontà
torta o retta conduce la riflessione all'errore o alla verità.
Quando la volontà è abituata a dirigere tortamente
la riflessione , nasce in questa una confusione, e nulla
più trova , nè pur ciò che è evidente: è 1' occhio del
l' uomo ottenebrato; è allora lo stato, nel quale la ri
flessione nega fino i primi principj.
Ma se la regola o criterio a cui si dee riportare la
riflessione è la cognizione diretta, che cosa mai fa si,
che la cognizione diretta sia atta ad avere autorità e
forza sulla riflessa per modo, che 1' uomo si senta ob
bligato a dirigere le sue riflessioni a tenore di ciò che
gli detta la cognizione diretta?
L' evidenza intellettiva di essa cognizione diretta: la
uale evidenza non è un fatto soggettivo , ma è evi-
enza fornita di forza sua propria, che obbliga l'uomo,
appunto perchè quella è intellettiva e non sensibile;
il che vuol dire, perchè è evidenza fornita di una in-

od essenze sono verità o tipi a cui riscontrare e dar ripruova a lulta qoeil»
classe di cose che esse comprendono e che coll'analisi si distinguono*
conoscono esplicitamente.
a53
Irinseca necessità logica, per la quale irrepugnabil
mente 1' uomo intende e sa che è impossibile pensare
il contrario.
Onde poi tanta necessità? Dal fonte di tutta l'intel
lettiva cognizione, 1' idea dell' essere in universale: la
quale accoglie in sè tutte le possibilità: e la unione di
esse è ciò che si chiama necessità, perchè tutto ciò che
è, dee essere in esse. Di che si conchiude, che il vero
ed ultimo principio della certezza non è nè può esser
altro che l' idea dell' essere in universale inserita nello
spirito intelligente: la quale si mostra non pure con
evidenza di luce, ma con una intrinseca necessità, sic-
chè fuori di essa non è possibile il pensar altro. Se
condo questo principio pertanto debbono gli uomini ra
gionare, se vogliono trovare la verità.
Ma gli uomini ragionano essi di lor natura secondo
questo supremo criterio che al vero gli scorge ? Fino
che stanno nella cognizione diretta, il fanno naturai'
mente: ma questa è poca cosa e nulla relativamente
a' bisogni dell' uomo in società. Quando poi passano alla
riflessione, ella diviene una questione di mero fatto
contingente; e per risolverla non è altra via che quella
di osservare diligentemente la storia del genere umano.
Il che coloro i quali credono che la filosofia sia qual
che cosa di così astratto, che nulla abbia ad implicarsi
co' fatti , sono presti di dire che non appartiene punto
alla filosofia. Ma checché sia di ciò, io dirò poche pa
role sulla questione; le quali, dov' anco filosofiche non
sieno , mi soprabbasterà se saranno vere. Dico che la
storia del genere umano annunzia un tristo spettacolo :
corruzione di cuore, perturbazione di mente, ecco il
retaggio di tutta intera 1' umanità. Questa è la storia
dell' uomo : la massa corrupta di s. Paolo è la teoria
di questa storia.
« Appena, dice Cicerone, noi siamo messi in luce
u ed accolti, ci ravvolgiam di continuo in ogni ribal-
« deria , e in una somma perversità di opinioni , sicché
a egli pare che pur col latte della nutrice noi abbiamo
u succhiato 1' errore. Quando poi siamo resi a' parenti
« e consegnati a' maestri , allora c'imbeviamo di così
u svariali errori , che alla vanità cede la verità, e alla
u opinione invecchiata la stessa natura. Aggiungonsi ali
ti cora i poeti, che mostrando apparenza grande di dot
254
« trina e di sapienza, s'ascoltano, si leggono, scappa
te rano, e si rimangono fitti al tutto nelle menti. — Si
« sopraggiunge il popolo, quasi un maestro di tutti
« maggiore (quasi maximus quidem magister populus),
u e tutta la moltitudine che d'ogni parte consente nei
« vizj : allora interamente c'infardiamo di malvagità , e
« rinneghiamo la stessa natura » (i).
L' individuo non avrebbe adunque nel senso comune
dell' umori genere un sicuro mezzo a raddirizzare la
propria riflessione turbata ed uscita di traccia. All'op
posto si dee dire dell' uomo nella società cristiana. Qui
ciascuno trova nel!' autorità di altri uomini ( s' egli
vuol saperli scegliere) (2), un mezzo sicuro a confortare
e rassicurare la trepida ed incerta sua riflessione ; sic
ché quelli che non usano di questo mezzo sono inesca-
sabili. La verità non è costituita immobilmente nella
società del genere umano: ma nella società cristiana: è
qui solo che, per usare una frase scritturale, si trova
« la colonna e il firmamento della verità » (3): e non
tutt' altrove. Non poteva che un divino ajuto rendere
certi e sicuri i passi della riflessione dell' uomo; come
sola una divina virtù può consolidare le piante di un
uom paralitico, o restituire la luce agli occhi che l'hanno
smarrita (4).
Ma bastava assicurare 1' esistenza della verità fra gli
uomini, per corrispondere a' loro bisogni? Nò: conve
niva di più migliorare la loro volontà ; perchè è vo
lontariamente che trovano quella verità che hanno sem
pre innanzi gli occhi , ma >n cui non guardano : per

(1) Tose. TU, 1.


(a) Questa scelta non si può fare che col lume di ragione che 1 ciascun
traviato è rimasto. Questo lume non sarebbe alto a ricondur l' uomo <k
sè solo alla verità, non per suo difetto , ma per difetto dell' occhio che
guarda altrove: che ha l uomo dunque a fare? Associare il suo col ■*
degli altri uomini ; usare quella piccola virtù che gli rimane , a trovare
de' consiglieri fedeli. In tal modo non è nè solo il lume individuale, i
solo il lume degli altri uomini che soccorre all' individuo traviato : ma
sti due lumi confederati insieme. E cosi ciascun uomo non ricorre altrui
per consiglio senza conoscere i consiglieri , ma sceglie quegli, sceglie non gli
uomini, ma i lumi che conosce essere negli altri uomini.
(3) IL Tim. XII.
(4) Non è l' individuo , ma f intero genere umano , che s. Gregorio pa
ragona al cieco nato risanato da Gesù Cristo : Caecum quippt est
humanum : cosi nel!' Hom. Il in Ev.
a55
quésta via il cristianesimo condusse gli uomini alla ve
rità , correggendo i loro costumi: li fece buoni, ed essi
furono illuminati , e la coltura e la civiltà spuntarono
dalla radice della virtù. Poco è dunque additare qual
sia il criterio della certezza per giovare agli uomini j
conviene ancora predicare ad essi 1' amore della verità,
e metterlo ne' loro cuori.
Per questo s. Agostino diceva : « Quegli solo è il
« vero Maestro, il quale e può imprimere in noi la
« specie, e infondere il lume, e dare la virtù' al cuore
« di chi ascolta ».
a5(3
SEZIONE SETTIMA

DELLE FORZE DEL RAGIONAMENTO A PRIORI.

CAPITOLO I.

CHE COSA INTENDIAMO PER RAGIONAMENTO jì PRIORI.

Io ho distinto la forma della cognizione, e la co-


gnizione propriamente detta (i): e ho mostrato quella
innata , questa acquisita.
La cognizione è prima diretta, e poi ri/lessa. La ri
flessa di prima riflessione, o popolare, aggiunge la no
zione di nuovi esseri alla cognizione diretta (2): ma
quella di ulterior riflessione, o filosofica, non aggiunge
più nulla veramente, ma solo per essa percepisce l'uomo
maggior luce dagli oggetti conosciuti, e acquista grande
persuasione nell'animo della verità: il che dà un con
tento, che fa pregustare quasi picciol saggio della bea
titudine che dee produrre la vista perfetta e scoperta
della stessa verità.
Alla cognizione in quanto termina in oggetti nuovi,
sia diretta, sia riflessa di prima riflessione, può darsi

_ (i) Il vocabolario filosofico non è ancora perfettamente fissato; il cheli


si die per farsi intendere convieue talora usare un solo vocabolo io di
versi significati. Nè so se la natura limitata della lingua, e l'affinili delle
idee permetterà pur una volta di far altro. Conviene però, usando um
voce in più significali dati dall' uso, avvertire in quale di que* signifi
cati essa si prenda in ciascun luogo. Nella parola cognizione talora sti
lliamo racchiuso anco la forma del pensare : qui aggiungiamo la frase.
« propriamente parlando », per avvertire che adoperiamo quel vocaboli)
per significare la cognizione acquisita. Il comune degli uomini dm
parla della forma della ragione, distinguendola da tutto il resto; o par
landone, suole chiamarla anziché altro, lume della ragione. E ■t i*
timologia della parola intelletto dimostra che anche il comune degli uo
mini riconosce, nella potenza d' intendere, qualche cosa di essenzialmente
inteso, intellectum , nondimeno questa prima cosa intesa dallo spirilo no»
si suol nominar mai, per quanto io credo, dal comune degli uomini col
vocabolo di cognizione. Il che vale a spiegare quella certa uniTersal per
suasione, che si trova anche neh" amichila (tratti i pochi filosofi che so"0
usciti dal comune), che le cognizioni sieno tutte acquisite co'seDsi. E Ione
questa maniera di parlare sarebbe da mantenersi. t ..
(a) Questi sono la causa dell' universo, e in generale le potente 1»'*
bili. Di questi esseri però non ce ne dà che una cognizione negativa ,
come abbiamo mostrato.
il nome di fondamentale (i). Non v' ha dunque nulla
nella cognizione di riflessione ulteriore, che non si con
tenga già nella fondamentale : il perchè in analizzando
la sola cognizione fondamentale sarà facile di sceverare
ciò che v' ha di cognizione a priori, da ciò che v' ha
di cognizione a posteriori
La cognizione fondamentale si compone di questi due
elementi, i.° l'idea dell'essere 2.0 e il modo dell'es
sere. Noi abbiamo veduto che nell' idea dell' essere è
la possibilità, fonte di tutto ciò che v' è di necessario
e di universale nella cognizione umana. Ora la cogni
zione a priori è quella dotata di necessità e di univer
salità (2). Dunque ciò che a priori si trova nella co
gnizione umana è racchiuso nell' idea dell'essere in uni
versale, e l'altre cognizioni non ne partecipano se non
perchè questa idea dell' essere si mescola con esse (3).
Quindi la cognizione mescolata dell' idea dell' essere
in universale e delle determinazioni o modi dell'essere
non è interamente a priori ; è mista , e non esiste fino
che non sono posti i due elementi de' quali essa si com
pone- e quindi ha bisogno di percezioni sensibili, 0 di
una prima attenzione su quelle; di che si può dire che
ella acquisti la sua esistenza a posteriori. Conviene adun
que risalire all' idea dell' essere in universale , e quivi
solo trovare la cognizione a priori e pura.
Le maniere però a priori e a posteriori nella loro eti
mologia si mostrano inventate a significare anzi un ra
gionamento che una semplice cognizione: poiché esse
vengono a dire « un argomento dedotto da ciò che è
anteriore » , ovvero « un argomento dedotto da ciò che
e posteriore». E per ciò che è anteriore generalmente
s'intese la causa, per ciò che è posteriore l'effetto;
quindi si dissero a priori i ragionamenti che passavano
dalla causa all'effetto, e a posteriori quelli che dall'ef
fetto venivano alla causa. Io prendo in un significato
P»u ristretto la cognizione a priori, intendendo per essa

(1) La cognizione fondamentale aduuque è composta di percezioni, che


contengono una cognizione positiva, e di ragionamenti , che danno una
cognizione negativa.
(2) Ved. Voi. I , face. 289 e segg.
(3) Voi. II, face, ao e segg.
Rosmini , Orig. delle Idee , Voi. 111. 33
a58
quella cognizione che si deduce non dalla causa effi
ciente o altra della cosa di che si ragiona , ma dalla
causa della cognizione o forma della ragione ; percioc
ché questo è il primo fatto, anteriore a tutti gli altri
nell' ordine delle cognizioni ; ed è perciò che la cogni
zione a priori in questo significato è fornita di due ca
ratteri, di necessità e di universalità (i).
Ma si dà in questo senso un ragionamento a priori}
e se si dà, quale n' è l'estensione, quali i confini!
Queste sono le ricerche che mi propongo di fare in que
sta Sezione, alle quali fecero la via le dottrine che fu
rono innanzi dichiarate.

CAPITOLO II.
SUL PUNTO DI PARTENZA DELLE UMANE COGNIZIONI ASSEGNATO
DA ALCUNI PENSATORI DELLA SCUOLA TEDESCA.

ARTICOLO L
SCOrO DI QUESTO CÌNTOLO.
Il ragionamento a priori è quello che si fa sulla idea
dell'essere in universale, senza che nel ragionare s'in
troduca alcun altro elemento (a): e si chiama a priori
perchè questa idoa è la prima e indipendente da tutte
l' altre.

(i) In un significato simile a questo tolse la cognizione a priori Kant,


tome ho accennato nella nota i face. 292 del Voi. I. V ha però qualcb*
differenza fra Kant e me nella definizione della cognizione a priori, e ri
chiede la chiarezza del discorso che qui io la mostri. Per Kant la cogni
zione a priori è quella che ha i due caratteri della necessità e della a";
versatila^ e con questi egli la contrassegna. Anche la mia cognizione a prie"
ha questi due caratteri, ma essi vengono in conseguenza di un carattere
antecedente, che forma 1' essenza di questa cognizione. Infatti Kant tn>»>
la cognizione a priori nelle forme che lo spirito aggiunge del suo nelle
percezioni delle cose sensibili: quindi la cognizione a priori di Kurt e
propriamente acquisita, sebbene nascente dallo spirito, le forme del qua*
non sono che altrettante potenze o attività particolari, senza che siew
nulla di attualmente inteso dallo spirito. Io stabilisco all' incontro che 1°
spirito intenda essenzialmente qualche cosa (l'essere in universale)»'
quindi la mia cognizione a priori è essenziale allo spirito, perchè è leJ;
sere in universale e tutto ciò eh* egli contiene , non però in uno stato »
analisi, uè di avvertenza. Quindi Kant comincia lo sviluppo dello sp*11"
nostro con un alto accidentale al medesimo: io comincio lo sviluppo c«
un oggetto inteso essenzialmente innanzi a tutti gli atti accidentali •»">
spirito stesso.
(a) C»p. I.
Innanzi di entrare nella difficile ricerca, « Quale ra
gionamento possiamo noi instituire au quella idea pura
e universale, e fin dove questo ragionamento ci può
condurre ? » gioverà che confermiamo bene e difendiamo
a questa idea il diritto di essere il punto di partenza
di tutte le umane cognizioni.
Difenderò dunque il primato di questa idea contro i
più sottili sistemi de' giorni nostri , i quali tutti trag
gono la loro origine da quella studiosa nazione della
Germania.
Contro le molte forme di Kant, io ho già dimostrato
che queste si risolvono finalmente in quella sola da me
stabilita , e che non sono che altrettanti modi di ap
plicazione che riceve l'unica vera forma, la quale ve
nendo determinata in un modo ancora generale, dà
quelle forme particolari che sembrano pure, ma che
noi sono tuttavia, perchè ciascuna ha qualche cosa di
ristrettivo e di parziale (i).

ARTICOLO
DIFFERENZA PRINCIPALE FRA LE FORME ASSEGNATE DA ALCUNI MODERNI
ALLO SPIRITO INTELLIGENTE, E t' DMCA NOSTRA FORMA.

Altri dopo Kant ridusse le forme prime della intel


ligenza a numero minore ; ed anco contro questi io
debbo parlare , mostrando che si debbono tutte restrin
gere in una sola.
Ma prima ancora giova eh' io faccia osservare la
differenza comune e caratteristica che divide le forme
messe in campo da altri moderni, dall'unica forma da
me proposta. Perciocché tutti que' sottili ingegni che,
massime in Germania, hanno trattata questa questione,
« qual sia il principio della cognizione », indicarono
questo principio nell'atto dello spirito, e non nel suo
oggetto : e si fermarono ad analizzare assai più quello
che questo. Ciò che contribuì al loro traviamento si fu
il non aver conosciuto la natura delle potenze umane,
e massime della potenza intellettiva. Io ho cercato di
stabilire la natura delle potenze, e ho trovato la po
tenza consistere « in una congiunzione stabile con un

(«) Voi. I, foce. 3(58 e segg.


a6o
oggetto, il quale oggetto essenziale alla potenza se è at
tivo, sicché tragga il soggetto all'atto che termina io
lui, chiamasi forma » , come avviene nell' intelletto (i).
Quindi la natura della potenza intellettiva trovai con
sistere in un atto primo ed essenziale, il quale termini
in una forma (la verità), cioè in cosa verso la quale egli
stesso è passivo , e viene egli medesimo a quell'atto .deter
minato e necessitato, non si muove spontaneo, ed agisce
egli medesimo sopra un oggetto rispetto a lui passivo.
Io comincio dunque dall' analisi dell'oggetto essenziale
dell'intelletto; e che ciò far si debba, hanno ricono
sciuto gli antichi: ma i moderni non asceser sì allo
(ch'io sappia), e cominciarono solo dall'atto dello
spirito, senza accorgersi che quest'atto medesimo eri
passivamente fatto, per un'azione irresistibile di un suo
oggetto essenziale, e che quindi all' atto dello spirito
era precedente qualche altra cosa, cioè quest'oggetto
medesimo, cagione di esso atto.

ARTICOLO HI.
SOL PUNTO DI PARTENZA DELLA FILOSOFIA DI KANT.
Riandiamo dunque colesti sistemi; e perchè non sia
interrotta la serie delle idee , rifacciamoci su di Kant.
Kant, pensando che tutto ciò che lo spirito conce
pisce dovesse essere rivestito di forme dallo spirito stesso,
era salito un grado più su nella sua ricerca , che i mo
derni suoi predecessori.
Imperciocché Cartesio era partito dalla minore di ai
sillogismo, e senza accorgersene ne avea supposto la mag
giore (a).
Locke suppose ed ammise , senza darne spiegazione,
ancor più di Cartesio : egli non giunse a scomporre la
cognizione mista nella forma e nella materia: il suo
punto* di partenza fu la materia della cognizione; la
forma la suppose interamente senza parlarne (3).

(i) Voi. II, face. 463 e seg.


(a) Vedi Voi. II, face. 443 e segg.
(3) Nell'ordine cronologico delle nostre cognizioni noi osserviamo o»
avvertiamo prima la materia e poi la forma: poiché l'ordine cronotopi
delle avvertenze è il contrario dell' ordine cronologico delle conosctmt Ì-
rette. Quindi il più forte argomento di Locke contro le idee innate non »
fonda che in una mancanza di osservazione. « Nessuna enunciazione, •S"
- Locke , può essere ingenita , se ingenite nou sono le idee intorno ■
2(3 1
Condillac fa ragionare la sua statua fino dalle prime
sensazioni eh' essa riceve , e non s' accorge mica che per
ragionare conviene possedere già de* principj. Aneli e-
gli adunque parte dal materiale della cognizione, non
ne osservando il fermale; e quindi nè pure sospetta che
ci abbia bisogno di darne spiegazione.
Kant, eccitato da' lavori di alcuni Inglesi posteriori
a Locke, e ancor più dagli Scozzesi, notò distintamente
l'elemento più elevato della cognizione, cioè la forma:
e si credette in dovere di darne una spiegazione. Il
punto di partenza adunque di Kant è più elevato di
quello di tutti gli altri filosofi moderni.
Ma per rendere ragione della forma della cognizione,
Kant, come dicevo, ricorse all' atto e alla natura dello
spirito intelligente; mentre egli avrebbe dovuto innol-
trarsi ancor più, e giungere all'oggetto essenziale dello
spirito; il che è il tentativo fatto da noi in quest'opera.
Per questo difetto il filosofo prussiano in luogo di sco
prire la suprema forma della ragione, si arrestò a delle
forme inferiori e dipendenti da quella prima, impure
e ristrettive. Disse adunque die lo spirito nell' inten
dere operava secondo certe leggi sue proprie ( le forme );
che a queste leggi conformava ciò che concepiva: ra
gionamento eh' egli faceva su analogie (i) tolte dalle
sensazioni. In una parola, il principio da cui cavò il
suo sistema fu questo: « L'oggetto offerto a' sensi dee
determinarsi dalla nostra sensitività secondo concetti
aderenti allo spirito stesso; dunque lo stesso dee avve
nire dell'oggetto offerto allo spirito, dee determinarsi
secondo concetti partenenti allo spirito stesso » (a).

«* quali ella versa. Ma ciò sarebbe un dire che tutte le idee de' colori ,
•» de' suoni , de' sapori , delle figure ecc. fossero innate; di che non
« può avervi cosa più dirittamente contraria alla ragione ed alla spe-
*t rienza » ( Lib. 1 ). E falsa l'assurdità che Locke vuol trovare nella
opinione che qualche enunciazione sia innata, poiché tutte le enun
ciazioni non sono di suoni e colori, e d' altre cose sensibili, ma ve n'hanno
di soprasensibili al tutto. Di poi ( e questo è ciò che fa al caso nostro )
nelle idee di cose sensibili non entrano solo cose sensibili ; c'è un princi
pio intellettivo, il quale scappò all'osservazione di Locke, e questo prin
cipio intellettivo puramente è la forma delle idee. Locke parti dunque dalla
materia ; trascurò la forma, noti la osservò, sottintendendola gratuitamente,
(i) L' analogia è pur la feconda madre di errori !
(a) Parlando del moto, così dice: « Acciocché la rappresentazioni' »
( cioè il pensiero intellettivo ) - del moto diventi esperimento w ( cioè per*
a-6«
Per tal maniera tutto ciò che noi conosciamo è Mg-
gettivo.
Le cose in sè, a cui Kant dà il nome di noumeni,
rimangono adunque al tutto incognite a noi, secondo
questo filosofo; poiché l'esperienza de' sensi non ci dà
che fenomeni, cioè apparenze, e l'intelligenza non ci dà
che un ordine ideale, che non presenta nessun essere in
sè esistente e reale.
Questa nostra ignoranza assoluta delle cose in sè,
Kant la dichiara in molti luoghi, e conchiude i suoi
Elementi Metafìsici della Fisica con queste parole:
« Laonde la dottrina metafisica de' corpi finisce nella
« considerazione del vacuo, e perciò appunto nell'in-
« comprensibile. Nel che il suo destino è in questa parte
« uguale come in tutti gli altri sforzi della ragione.
« Conciossiachè nel ritrocedere a' principj essa va inve
ii stigando le prime cagioni delle cose; nel che ella
« null'altro può comprendere se non ciò che sotto certe
« condizioni è determinato (i), perciocché così porla
« la natura. E quindi avviene che da una parte essa
« non può fermarsi in ciò che discende da qualche
« condizione (2), dall'altra non può comprendere ciò
« che è di ogni condizion privo. A lei pertanto, ove
« ardore di sapere la stimola , non resta che questo
« solo, di arretrarsi dagli oggetti, e ritornare in sè
« stessa , ove in luogo degli ultimi confini delle cose
« investighi e determini gli ultimi carceri della sua fa
ti coltà abbandonala a sè stessa ».
Sebbene de' noumeni Kant avesse dichiarato tanto chia
ramente un' ignoranza assoluta , tuttavia sembra che in
questo da molti non fosse bene inteso. Certo è che
altri dopo lui non si contentò di dire avervi una pro
vincia ignota all' uomo, ma negò che di là da' confini
dell' umana sperienza alcuna cosa esistesse; e fu parlato
assai del gran nulla di là dal conoscibile , siccome di

cepito co' sensi ) , « conviene che la determinazione dell' oggetto si facci,


secondo la rappresentazione che y'è nel soggetto ». {Elemento Mctaphysic*
Physices c. IV). all'opposto, che in questo consiste la grande propnd-»
(1) Io mostrai
essenziale dell' intelletto , nel concepire ciò che è perfettamente indeter
minato.
(2) E non è questo un segno manifesto, eh' essa ha la nozione dell' wW'
ditionato ?
a63
una scoperta sublime, avvenendo troppo in Germania, che
delle espressioni misteriose ed oscure tengano il luogo
di conoscenze reali. Altri parve che si attentasse di fare
il contrario; e malcontento egualmente che all'uomo
ai ponessero confini , e si dichiarasse o almeno si du
bitasse che di là dal conoscibile vi potesse avere una
regione incognita perfettamente, s'industriò di penetrare
anche in questa regione, facendo scaturir tutto dallo
stesso spirito umano, dal quale Kant dopo aver mollo
cavato, lasciò però detto che di là da tutto ciò che
cavar si poteva v'avea pur forse un qualche cosa, non
deducibile dallo spirito ( i noumeni), nel che a dir
vero è strano assai com' egli s' abbia questo secreto po
tuto sapere (i) e rivelare a' mortali, mentre lo spirito
suo non arrivava in quelle regioni, nè uomo, se è vera
la teoria kantiana, vi pervenne mai. Ma, come io di
cevo, Kant suol parlare come non un de' mortali, ma
come un Genio, che fuor del carcere della umana natura
dall'alto misura questo carcere, ed irride o compiange
la povertà e l'angustia di questa trista natura!
E qui mi si conceda di metter via più in chiaro la
ragione per la quale io dico che Kant mosse da un
punto subordinato e non si sollevò al vero principio
di tutta la filosofia. Già dissi che ciò gli accadde per
meno di analisi sulla cognizione umana , di che non gli
vennero a pieno conosciute le diverse maniere di nostra
cognizione. Or se ben si riflette a questa cagione , si
vedrà contenersi in essa anche 1' origine dell' altro di
fetto della kantiana teoria, quale è quello di escludere
i noumeni da qualsiasi nostra cognizione, e dichiararli
a noi intieramente incogniti.
I sofisti francesi avéano distrutti i gradi della cogni
zione umana: e facevan mostra di credere che fra il
comprendere e il non conoscere nessun grado vi pas-

(i) la fatti come poteva Kant nominare i noumeni, se non n'avesse


avuto il concetto? come poteva egli sapere che i fenomeni non abbracciano
il tutto, so non avesse avuto idea del tutto, un idea essenzialmente uni
versale, che raccoglie in sè tutte le possibilità ? La distinzione adunque che
fa Kant fra' noumeni e fenomeni dimostra che la nostra intelligenza non è
limitata a' soli fenomeni , uè alle sole forme kantiane, ma che abbraccia
tutto il possibile. Chi fosse veramente limitato *tfenomeni, non saprebbe
che oltre a' fenomeni possano essere de' noumeni : non concepirebbe, non
the la loro esistenza , nè anco la loro possibilità.
a64
sasse di mezzo. Non osservavano, in quella loro vanii-
sima presunzione, che fra il comprendere, che viene a
dire conoscere con perfezione, e il non conoscere al
tutto, v1 Iia indubitatamente una conoscenza media, la
quale ella stessa ha più gradi ; e che 1' uomo conosce
talora con qualche grado di conoscenza, senza tuttavia
conoscere perfettamente. Voltaire, siccome moli' altri
saccenti di quell' età, in odio del cristianesimo, abusava
di questa ignoranza o vera o affettala , per far credere
che Iddio essendo incomprensibile, fosse altresì ignoto
a tale, che di lui l'uomo non potesse né parlare nè
pensare; e Kant provò ( forse senza avvedersene) l'in
fluenza di quegli scrittori, e per la stessa mancanza di
osservazione negò che fosse possibile all'uomo qualun
que cognizione de' noumeni , o sia delle sostanze.
I gradi della cognizione umana, che conseguono dalla
teoria da noi esposta nella Sezione quinta, sono acconci
a ribattere questo errore.
Io ho definito la sostanza « quell'atto onde esiste l'es
senza della cosa » (1).
Perchè adunque noi abbiamo cognizione di una so
stanza, dobbiamo pensare due cose, cioè i." l'essere,
a.* e l' essenza della cosa (a).
Ora noi conosciamo 1' essenza della cosa in diversi
modi e gradi, che abbiamo altrove esposti (3); e *
condo questi modi e gradi onde noi conosciamo l'es
senza della cosa , sono pure i modi e gradi della nostra
cognizione.
Ciò che conosciamo della cosa si chiama da noi es
senza cognita, ed è di questa sola che noi possiamo
parlare (4). Ciò che noi conosciamo della cosa, talora
è una mera relazione con altre cose a noi più cognite;
la quale ci distingue bensì la cosa fuor da tutte l'altre,

(1) Voi. II, face. 223.


(2) Se si pensa I' essere della cosa in universale solamente, cioè 1» pos
sibilità della cosa, si ha Y idea di una data sostanza ; ma se si pensa aocbf
1' atto dell' essere onde 1' essenza di una cosa attualmente sussiste) allora 51
ha conseguita anche la persuasione della sussistenza di quella sostanza.
(3) Voi. II, face. 217 e segg.
(4) Quindi parlando de' corpi , ove abbiamo voluto indicare la cosi >°
sé anche nella parte a noi incognita, abbiamo chiamalo questa essenti
principio corporeo. Voi II, face. 389 e segg.
a65
ma non ci dà perù che quella negativa cognizione di
essa di che abbiamo a lungo parlato (i).
Ora Kant i." non inlese la natura dell'essere in uni
versale, il quale ci fa conoscere le cose oggettivamente,
cioè nella loro propria essenza; a." non osservò, che
oltre a quello che le sensazioni ci porgono , v1 aveano
degli altri modi co' quali noi potevamo conoscere le
determinazioni degli esseri , ed aver certo ségno della
loro sussistenza, cioè l'applicazione del ragionamento
alle cose sensibili , o sia 1' applicazione del principio di
causa, il qual principio non è altro che l'idea stessa
dell' essere in universale. E veggendoche quel principio
non ci dava rappresentazioni o qualità positive della
cosa, credette che a nulla valesse fuori della sfera dei
fenomeni; senza avvedersi, che egli ci somministrava
una essenza della cosa, essenza nominale bensì, ma tale
però che era atta a convincerci ragionevolmente della
sussistenza dell' essere soprasensibile , e a farcelo avere
contrassegnato e distinto fuor da tutti gli altri.

ARTICOLO IV.

SOL PONTO DI PARTENZA DELIA FILOSOFIA DI riCIITE.

Fichte, discepolo di Kant, tolse a cavare dal soggetto


Io tutto, e non volle sussister nulla oltre a ciò ch'egli
ne trasse : indi ebbe luogo il rifiuto che fece l'autore
del criticismo di riconoscere la dottrina di Fichte per
sua , e la dichiarazione d' essere stato male inteso da
questo acuto suo uditore.
Kant avea divisa l' attività dello spirilo in altret
tante forme o parziali attività; egli avea ammesso anco
della passività nel pensiero (non so poi se accorgen
dosene egli medesimo), perciocché avea escluso da que
sto i noumeni, le cose come sono in sè. Fichte con
centrò di nuovo 1' azione del pensiero , il considerò
nella sua unità, e volle che fosse tutto attività pura:
l'attività dell' Io in questo sistema fa tutto: quest'at
tività è il punto di partenza della filosofia di Fichte.

(i) Face. a66 e segg.


Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 34
uG6
L' Io, secondo la dottrina di Fichte, pone sè stesso;
il che equivale a dire , si crea. Ma quest' atto primo
che fa l'Io ponendo sè stesso, è un atto solo, e tut
tavia complesso. L' Io non pone sè stesso se non po
nendo di contro a sè il non-Io. Quell'atto identico
che il rende consapevole di sè , è quello che il rende
consapevole del mondo esterno, e delle cose tutte fuori
di lui raccolte sotto la denominazione di non-Io • o per
dir meglio, quell'atto che il fa consapevole d'un di
verso da sè , il fa consapevole di sè stesso. Ora esser
consapevole di sè, in questo sistema è il medesimo che
essere. L'/o di Fichte è essenzialmente consapevole di
sè. Prima dunque d'essere consapevole, V Io non è:
perchè l' essenza dell' Io sta nell' essere consapevole.
L' Io dunque coli' atto della propria consapevolezza pone
sè stesso , si crea (i). Ma 1' atto della propria consape
volezza , che costituisce l'/o, non si fa , secondo Fichte,
se non coli' atto onde si conosce il mondo esteriore, o
il diverso dal soggetto Io, che è quanto dire il non-Io.
Dunque con un atto primo dell Io, con quell' atto
primo onde l' Io sente sè stesso, sente anco , o per
usare la maniera di Fichte, pensa, pone il mondo
esteriore (2). Tutto ciò che l'uomo conosce è V lo e
il non-Io. Ora il non-Io non esiste prima che esista
l'/o, ma sì contemporaneamente all' Io. Quell'attività
dunque del pensiero che pone l' Io , è quella che pone
il non-Io f 1' esistenza dunque di tutte le cose pensabili
scaturisce dall'attività primitiva dell' Io. Fra le cose
pensabili v' è Dio stesso, e appartiene al non-Io se
condo Fichte. Indi quella espressione così singolare)
così strana, colla quale Fichte un giorno promise ai
suoi uditori, che nella prossima lezione « si sarebbe ao

(i) L' errore di Fichte qui consiste nel non osservare, che l'alio primo
onde Y Io esiste, e in generale l'atto primo onde una cosa esiste, è beasi
un atto della cosa , ma un atto creato da una causa antecedente ali» cosi.
La cosa ha cominciato ad essere col suo atto: questo non vuol dire se non
che fu da Dio creata in atto. Questa mancanza della filosofia di Fichte
diede luogo al sistema di Schelling.
(a) La confusione nacque da questo , che negli atti dello spirito nostro,
V è del passivo e dell' attivo, come abbiamo mostrato Voi. II, &«• 19
e segg. Fichte osservò I' elemento attivo, e ridusse tutto a lui solo, di'»"*
tirando di considerare la passività dello spirito.
cinto di creare Iddio». Egli così trovò l'ultima espres
sione dell'orgoglio di una creatura intelligente , la for
inola più breve e più elegante della malizia dell' angelo
riprovato; una lotta intima, essenziale, una necessità
ed una impossibilità di distruzione, un annullamento
perpetuo si contiene ne' visceri di quelle poche parole.
Ivi 1' uomo non potendo a meno di riconoscere un Dio,
cioè un infinito essere, un infinitamente a sè superiore,
fonte del tutto, prende il partito di farlo scaturire da
sè stesso , con una essenziale menzogna dichiarandosene
il creatore. Non è che io voglia attribuire questa estre
mità di malizia, che solo al principio del male appar
tiene , a Fichte ; io intendo dimostrare ciò che si
contiene in quelle sue maniere di parlare, che rimar
rebbero per sempre uno spaventevole monumento del
secolo in cui furono inventate, ove non passasse a' po
steri insieme con quelle altresì la notizia della legge
rezza onde in cotesta età si proferirono, senza alcuna
riflessione , senza alcun intimo convincimento , le più
portentose stravaganze.
Beinhold , che avea posto mano a regolarizzare la
filosofia di Kant, nella quale non appariva un princi
pio unico di cui tutta discendesse, era partito dal fatto
della coscienza. Ma in questa espressione , « il fatto
della coscienza», si contengono molti equivoci: quindi
le interminabili contese sopra questo principio di Bein-
liold. E in vero, così si può ragionare: lo penso ciò
che passa nella mia coscienza; io penso dunque il fallo
della coscienza. Poniamo or questo il primo atto dello
spirito, e il fatto della coscienza sia la prima cosa da
me pensata. Si viene egli a dir con questo, che io sia
partito col primo atto del mio spirito dal fatto della
mia coscienza? No certamente: anzi si viene a dire che
io sono terminato con quel primo atto del mio pensiero
nel fatto della mia coscienza. L' atto dunque del mio
spirito è anteriore, disse giustamente Fichte, al fatto
della mia coscienza : non si dee dunque muovere dal
fatto della coscienza, sì dall' attività del pensiero che si
ripiega sopra sè stesso cioè sopra la propria coscienza.
Così avendo Fichte posto il punto di partenza della
filosofia nella riflessione del pensiero sopra sè slesso ,
credette d' averlo collocalo più su che non avesse fallo
Reinhold.
a68
Ma quivi si scorge manifestamente un equivoco. Per
ciocché altro è il punto di partenza del ragionamento, ed
altro il punto di partenza dello spirito umano. Il ragiona
mento non può partire che dal fatto della coscienza, poi
ché il ragionamento, massime filosofico, non parte da
ciò che l' uomo sa , ma sì da ciò che l'uomo avverte o
sa di saprre. Ora 1' ordine cronologico delle avvertenze o
riflessioni, come ho detto più volte, è inverso dell'or
dine delle conoscenze dirette. L' uomo dunque prima ri
flette sul fatto della propria coscienza , e poi riflette
sull'alto col quale riflette; quest'atto adunque rifles
sivo dello spirito è avvertito dopo , sebbene esista prima
dell'avvertenza dell' atto della coscienza. La prima cosa
adunque avvertita dal filosofo che medila sopra sè stesso
è il fatto della coscienza : questo dunque è il punto di
partenza del ragionamento. Ma di poi il filosofo di
manda a sè slesso: « Come ho io osservato il fatto della
mia coscienza» ? e allora risponde a sè stesso: «Con
un atto riflesso sopra di quella » j quest'alto dunque
riflesso è un punto di partenza del pensiero, più ele
vato che non sia il fatto della coscienza conosciuto per
riflessione.
E avvertasi , che io dissi: è un punto di partenza
del pensiero, non dissi: è un punto di partenza dello
spirito. Questa distinzione è sfuggita a Fichte. Egli
partì dalla riflessione del pensiero sopra sè stesso , come
dall'atto primo e radicale col quale si possano spie
gare tulti i fatti dello spirito umano. Egli dunque ri
dusse tutto al pensiero, e confuse col pensiero anche il
sentimento, che pure dal pensiero è diverso, come io
a lungo ho mostrato. Se Fichte non avesse fatta questa
confusione, egli non avrebbe usato di questa forinola
per indicare il punto di partenza dello spirilo, «Lat-
tività del pensiero che si riflette sopra sè stesso», o>a
si sarebbe scontrato in quest'altra, a L'attività del pen
siero che si ripiega sul sentimento": e in questa se
conda gli era impossibile di collocare il punto di Par*
tenza dello spirito, poiché egli sarebbe si toslo accorto
che il sentimento dovea preesislere all' atto del pensiero
che l'osservava. Dall'altro lato, « il pensiero che si
ripiega sopra sè slesso » come punto di partenza dello
spirito, non può non esprimere una contraddizione nei
termini : poiché rende identico il pensiero che si [l'
piega , col pensiero sopra cui si ripiega: concentra dun
que e confonde il passivo e 1' attivo in una sola es
senza, o anzi fa che il passivo sia attivo, e viceversa,
il che è una vera contraddizione.
Io attribuisco in gran parte a questa intrinseca ri
pugnanza contenuta nel principio di Fichte, le contrad
dizioni che trovò un tale sistema, e contro alle quali
questo filosofo , per altro acutissimo, ricorse u dire
« che per elevarsi a concepire l'atto primo del pen
siero ond' egli partiva era necessario un senso partico
lare, che la natura non dà a tutti, e a chi ella noi dà
non può intendere la sua filosofìa ». Il rispondere in
questo modo è darsi in una specie di disperazione filo
sofica. Per altro non è che io non conceda avervi una
somma arduità a salire fino a figgergli sguardi nell'atto
primo della riflessione : anzi io sostengo che Fichte me
desimo non seppe sollevarsi a ciò, o per dir meglio,
sollevato che fu alla contemplazion di quell'atto, non
.seppe poi osservamela vera natura con quell'attenzione che
.si richiede ; di che gli nacque la strana opinione della
forza creatrice di quell1 atto, e così fu autore di un
entusiasmo, che non è, qual dovrebbe essere, un tri
pudio alla vista della verità, ma una baldanza che sente
l'uomo in sè medesimo per una cotal potenza esorbi
tante data al proprio spirito dall'immaginazione intel
lettiva, collegata con quella avidità di usurpata gran
dezza , che guasta pur sempre il fondo della colpevole
umanità.
Imperciocché se Fichte avesse ben conosciuto 1' atto
della riflessione, sarebbesi accorto, che nessun allo si
ripiega veramente sopra sè stesso , ma sempre sopra un
atto preesistente, che diventa oggetto di lui. Pigliamo
pure a considerare un atto riflesso: questo si ripiega
dunque sopra un atto , che sarà di nuovo riflesso se
così si vuole; e questo sopra un altro pure riflesso; ma
finalmente si dee venire all' atto di prima riflessione,
e questo si dee piegare sopra di un atto diretto del
pensiero, altramente noi procederemmo in infinito, il
che è assurdo. Ora 1' atlo diretto del pensiero è la in
tuizione e la percezione. La percezione è un atlo del
pensiero con cui si congiungono insieme due affezioni ,
i.' la sensazione corporea, a.' l'intuizione dell'essere
ili universale. Precedentemente adunque a qualunque
370
riflessione esiste il sentimento e F intuizione , che sono la
base di tutto; cioè 1.* un'intuizione intellettiva, 3.' un
sentimento corporeo. Queste due affezioni accoppiate in
sieme dall' attività unica dello spirito, formano la perce
zione semplicissima , e sopra questa agisce la riflessioni
del pensiero. Ma questa analisi non fece Fieli te, ed
ecco ciò che lo trasse per mio avviso in errore.
Quando io faccio un atto col mio pensiero, con questo
atto io conosco l'oggetto in cui termina Fatto: ma l'atto
slesso mi rimane incognito. Io debbo fare un altro atto
riflesso sopra 1' atto primo, sicché F atto primo diventi
egli oggetto, perchè io il conosca; ma allora l'atto se
condo riflesso mi rimane incognito tuttavia. Se io ri
fletto sull'atto secondo, faccio un terzo atto, il quale
mi fa conoscere F atto secondo, che si rende oggetto al
terzo, ma non sè stesso ; e così può andarsi quanto si
voglia più innanzi: sicché può stabilirsi come legge della
nostra maniera di conoscere, questo gran canone: «Un
atto qualunque del nostro intendimento ci fa conoscere
F oggetto suo nel qual termina , ma non ci fa cono
scere sè stesso». Ciò veduto, nasce questa dimanda:
u Dell'atto col quale noi conosciamo un oggetto non
siamo noi forse consapevoli» ? Convien osservare, che
tale dimanda è diversa da quest'altra: « Dell' atto con
cui noi conosciamo un oggetto abbiamo noi sentimento^.
Perocché aver coscienza è aver scienza dell'atto nostro
come nostro, cioè dell'atto nostro e ad un tempo di
noi che il facciamo. E questa scienza non la pos
siamo noi avere, che mediante un altro atto di rifles
sione. All'incontro il sentimento non ci manca mai delle
nostre operazioni ; ma il sentimento è cieco. Il comune
degli uomini però non può persuadersi , che noi fac
ciamo un atto senz'averne anche la coscienza. E la ra
gione per la quale il comune degli uomini pensa in
questo modo si è, che quando facciamo un atto col
nostro spirito, noi possiamo subito generalmente riflet
terci ed avvertirlo, e quest'atto che facciamo nel ri
fletterci ed avvertirlo lo facciamo con tanta facilità e
celerità, che non l'osserviamo: quindi siamo acconci di
credere , che quell' atto del nostro spirito sia avvertito
e conosciuto per sè stesso , e non per un alto soprag
giunto da noi; mentre per sè stesso è ignoto e inav
vertito , ma bensì all' istante possiamo a nostro grado
renderlo a noi noto riflettendo a lui, e avvertirlo. Ora
Fichte conobbe assai acutamente questo errore comune
degli uomini , e per evitarlo urtò nello scoglio opposto.
Egli non si contentò di dire che quell' atto del nostro
spirito non era per sè avvertito e riflettuto, ma disse
che non esisteva al tutto ; e quindi diede alla riflessione
dello spirito un' attività di produrlo , e tentò anzi di
immedesimarlo, come dicevo, colla riflessione medesima.
Air opposto noi diciamo, che un atto delio spirito
qualsiasi, anche prima di essere riflettuto e conosciuto,
esiste in noi, cioè nella nostra coscienza , ma egli è un
puro sentimento. Quindi in qualunque atto dello spirito
intelligente v'ha un'idea e v'ha un sentimento. L' og
getto intuito è ciò che è illustrato , e si chiama idea $
1' atto col quale percepiamo un oggetto nella nostra
coscienza è un sentimento cieco e nulla più. Ora niente
si conosce senza idea. L' uomo dunque fino che ha dei
soli sentimenti nulla veramente conosce : e in particolare
lo stato dell' uomo anteriore alla riflessione sopra sè
stesso è uno stato, come tante volte ho detto , impos
sibile ad essere osservato; poiché sembra una vera non
esistenza, mentre non è che uno stato a noi incognito.
Quindi Fichte confondendo il non conoscersi col non
essere, disse che V lo per una sua riflessione poneva sè
stesso coli' atto medesimo col quale poneva il non-Io.
Nè vale il dire che l'essenza dell' Io stia nel conoscere,
nel pensare : poiché l' Io non è un pensiero di sè, è
un sentimento : e 1' avere appunto fatto assorbire dal
pensiero il sentimento , senz'aver notata la distanza di
questo da quello, condusse Fichte a sì strani e sì pro
fondi errori. Che se l' Io intelligente ha ben anco un
sentimento intellettivo , con esso finisce in sè , ma è
affetto dall'essere in universale : nè questo può pigliarsi
per la riflessibilità di Fichte, mentre nulla ha di ri
flesso questo elementare pensiero , ed è la parte immo
bile e perpetua dell' uomo. Qui però pare che Fichte
siasi alquanto 'avvicinato al vero, e lo travedesse da
lontano, allorché disse 1' egregia sentenza ,« che mentre
i pensieri passano, v'ha nell'uomo una parte ebe con
templa immutabile».
ARTICOLO V.
SUL PONTO DI PARTENZA DI SCHELLING.

A me sembra che Schelling siasi in parte avvedalo


dell'errore di Fichte, quello di ridurre tutto al pen
siero determinato , senza badare che avanti all' esista
di pensiero v' ha l' esistenza di sentimento , e quinà
che F Io può esistere prima di alcuna riflessione sopra
sè stesso , pur coli' atto diretto ond'egli è un sentimento
animale e intuente l'essere Quindi Schelling pretese di
porre il punto di partenza dello spirito in un Io di
sentimento: e di un tale Io egli fece quel suo assoluto,
onde trasse, presso a poco sul gusto di Fichte, tutte
Je cose. Camminò dunque sulla slessa via, ma sostituì
al pensiero il sentimento, che dal pensiero è sempre pre
supposto : e questo suo lo sentimento fece esser radice
e fonte tanto dell' Io come del non- Io di Fichte. Negò
adunque quella specie di dualità introdotta da Fichte;
ma presunse di trovare, che di queste due cose poste in
opposizione fra loro da Fichte, F Io e il non-Io ,ù
avea un germe comune, ove s'identificavano perfetta
mente ; di che diede nome alia sua dottrina di sistema
dell' identità assoluta. In questa radice ultima delle cose
tutte egli pose il mislero della vita, e denominò quella
vita prima e radicale , dinamica , cioè consistente in
una forza primitiva , alla quale tolse tutti i confini
All' Io di Fichte sembra che sostituisse il nome di ideali,
e al non-Io quello di reale. L' Io di Schelling dunque
primitivo ed infinito armonizza e crea in sèdi *è V ideali
e il reale.' quindi ne fa uscire una trinità nella unità,
secondo il veder suo , sublime e maravigliosa (i).

(i) Fichte avea detto, che V Io poneva, creava sè stesso con qudl»"0
identico col quale poneva , creava il mondo, il non-Io. Schelling ossa"
che si poteva concepire un atto dell' Io privo di oggetti , e che questo
il primo d» cui conveniva partire. Ora un tale atto è appunto un
mcnlo, e non un pensiero; poiché il sentimento differisce appunto dal pei-
siero in questo, che non ha oggetti determinali, che è tutto uno e sem
plice, come ho dello nel Voi. LI, face. 48 e segg. L'errore di Schelling
consiste nel dare a quell' atto primo del sentimento maggiore «turila che
a lui noù competa ; nel che peccò allo stesso modo di Fichte, saltocl*
questi esagerò V attività della riflessione, e Schelling quella del sentuntnf-
Udiamo Schelling medesimo:
«« Egli è chiaro, dice, che lo spirito non può avere la coscienza di «
come tale, se non elevandosi sopra tutto ciò che è oggettivo. Ma isolandosi
da ogni oggetto , lo spirito non trova più sè stesso ».
273
Conviene che io mostri la ragione onde Schelling im
maginò un Io senza confine. Fichte avea messo in con-

* In questa prima proposizione, che mette innanzi siccome chiara ed evi


dente , è contenuto e .supposto già tutto il sistema schellinghiano nel suo
germe. Si suppone cioè, che Io spirito nostro, separandosi da tutti i suoi
oggetti, e rimanendo egli solò soggetto, siasi elevato più su che prima non
era. Ma dico io, che questo appuuto era da provarsi, e non da supporsi.
Se il soggetto è più nobile di tutti i suoi oggetti, certo si può dire in qual
che modo che il concentrarsi in sè sia un sollevarti; ma s' egli ha degli
oggetti nel suo pensiero maggiori e più alti di lui , 1' abbandonarli per ri
maner solo con sè è anzi uno abbassarsi. Ora io credo di più , che anzi
sia chiaro tutto il contrario di ciò che dice qui Schelling: credo che l' og
getto intellettuale sia sempre essenzialmente più nobile del soggetto che lo
percepisce: che quindi rimuover da noi tutti gli oggetti dell'intendimento
sia ridurci in uno stato di perfetta ignoranza , in uno stato di puro sen
timento, dove 1' attività nostra si trova assai minore che prima non era.
L' argomentare poi da quel soggetto puro , che si trova in noi per astra
zione, ad un soggetto primo ed assoluto, è un mettersi per la strada assai
fallace dell' analogia s è un salto mortale, col quale si tenta di lanciarsi
dall' ordine psicologico nel mare dell' ontologia.
- Ma quest' azione , continua Schelling , per la quale lo spirito si stacca
da ogni oggetto , non può essere spiegata che per la determinazione che
10 spirito da a sè stesso. Lo spirito determina sè stesso ad agire , e in
determinandosi agisce ».
Anche questa affermazione , che con tanta confidenza il nostro autore
mette innanzi come manifesta , crolla da tutte le parti. E perchè il nostro
spirito, in luogo di determinar sè stesso, non potrebbe essere determi
nato? perchè non potrebb'egli in quella sua prima mozione esser passivo
anziché attivo? Non racchiude un assurdo il dire che lo spirito, che si
suppone prima in una perfetta inazione, ed anco nel nulla, determini sè
stesso ? e che , come si dice , ponga , crei sè stesso ? Il negativo produrrà
11 positivo? il nulla produrrà il qualche cosa? Che stravaganze son queste?
m Questo è uno slancio che lo spirito dà a sè stesso per elevarsi sopra
il finito. Egli annienta per sè tutto ciò che è finito, ed egli si contempla
allora in quell' assoluto positivo che sopravvive. ».
Converrebbe dimostrare , che quando il nostro spirito caccia da sé tutti
gli oggetti finiti , allora si presentasse a lui l'infinito. Il fatto all' incontro
dimostra, che gli oggetti finiti sono gli unici di cui il nostro spirito abbia
idee positive: cacciati questi, egli resta dunque privo di ogni cognizione.
Il ragionamento di Schelling sarebbe simile a quello di colui , che in una
conversazione notturna volesse provare , che spegnendo tutte le candele ,
si accenderà la luce del sole.
« Questa determinazione , che lo spirito dà a sè stesso , chiamasi volere.
Lo spirito vuole, ed egli è libero. Non si può dare alcun fondamento alla
sua volizione: poiché quest'azione è volere precisamente, perch' ella si
fa assolutamente ».
L'uomo vuole liberamente , ma non sa che cosa voglia , perchè non ha
oggetti da volere I Per altro qui seguita la stessa pazza ipotesi , che l'uomo
determini sè slesso al primo suo alto in modo eh egli sia assolutamente e
unicamente attivo senz' alcuna passività. Sebbene si possa provare all'in
contro , che al primo atto del suo sentimento ond' egli è , sia mosso e de-
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. HI. 35
3?4
trapposizione dell' Io il non-Io, e definì questo non-Io
come il termine dell'io. Era in una parola nel sistema
di Fichte l' Io che limitava sè stesso, e questa limita
zione era il non-Io. Questo era il fatto primigenio nella
filosofia di Fichte; e di questo non (lavasi, nè dar li
poteva dimostrazione. Ma Schelling vide, e notò giusta
mente, che nel lasciare questo fatto indimostrato v'avea
una mancanza ; non già perchè si dovesse dimostrar
tutto, ma perchè si dovea dimostrare tutto ciò che non
era evidente, il che viene a dire indimostrabile. A Fichte
adunque, il quale s1 era dichiarato di volere spingere
la filosofia fino al principio evidente per7 sè , e così
tor via tutti i contrasti (i), negò Schelling che avesse
conseguito il suo intento. E certo 1' obbiezione di
Schelling era ragionevole : perciocché c'è qualche cosa
di ripugnante in un Io che limita necessariamente sè
stesso. Se l' Io limita necessariamente la propria natura,
gli è imposta una legge, una necessità. La natura del
l'/o adunque riceve la legge della limitazione, e non
la dà. V ha dunque qualche cosa di più forte di lui,
a cui egli ubbidisce, una legge di natura infrangibile;
egli dunque è limitato e non limita sè stesso. Per capir
bene la forza di questa obbiezione , noi dobbiamo con
centrare la nostra osservazione interiore sopra noi stessi:
questa osservazione allora ci dirà, che ciò che facciamo
noi, è ciò che noi facciamo volontariamente; e che ciò
che avviene in noi per un limite necessario di natura,
non siamo noi che lo fa, ma avviene in noi, vien fatto
in noi senza di noi. E in vero, se dipendesse da noi il
metterci o non metterci limiti, certo è che non ce li
metteremmo, poiché il limite restringe la nostra pò*

terminato passivamente e necessariamente ; tuttavia a ciò che dice <p


Schelling basta opporre il noto principio, che quod gratis asserilur,
negatur. Schelling poi da quel primo atto cava ad un tempo e la ragione
pratica, e l' intelligenza , e la legge, e la verità. Ma che non si può ca
vare da un' azione supposta , e foggiata unicamente a grado di una imma
ginazione estremamente eccitata ? ( Fedi il Giornale filosofico che il nostro
autore pubblicava insieme con Hegel , Voi. VI , fascio. II. )
(0 Fichte ci assicura, nella sua celebre ÌVissenschaflslehre e in
scritti, eh' e^li compose la sua filosofia a fine di distruggere Io scetticismo!
ecco l'intenzione di tutta la filosofia moderna. Lo stabilimento sempre
maggiore dello scetticismo, ecco il suo effetto. Ella si propone di «ndarea
mezzogiorno, ma viaggia sempre verso settentrione.
a75
tenza e diminuisce la nostra forza , e noi vogliamo pur
essere potenti e forti ; nè volontariamente noi mette
remmo mai limite alla nostra forza e potenza, se non
forse per evitare un limite maggiore , che ci verrebbe
imposto a nostro malgrado , là dove non ne mettessimo
uno a noi medesimi, siccome avviene nell'ordine mo
rale e libero. Perciò il limite come tale non può giam
mai proceder da noi, ma a noi è imposto da qualche
cosa di superiore a noi. Ora questo qualche cosa, chec
ché sia , che ci limita , non può aver egli limite alcuno,
perchè l'assoluta necessità della natura è tale a cui non
può esser nulla di superiore. E ove anco noi volessimo
credere che questo qualche cosa che limita noi avesse
anch' egli i suoi limiti, si potrebbe fare sopra questo
qualche cosa il medesimo discorso che abbiamo fatto
sopra di noi : sicché conviene di necessità condursi
finalmente ad un assoluto da nulla limitato; e venuto
a questo, credette Schelling di aver trovato il punto su
premo della filosofia, oltre a cui non si potesse andare.
L' assoluto di Schelling adunque è figlio del non-Io
di Fichte. E perchè si renda più manifesto questo anello
della filosofia di Fichte con quella di Schelling, è neces
sario che io faccia un cenno della parte pratica della
filosofia del primo, nella quale si trova ancor più chiaro
il germe della filosofia schellinghiana.
Nel non-Io di Fichte si comprende un mondo sensi
bile, un primo mondo intelligibile, ed un ordine so
prasensibile del medesimo. Quella attività dell' Io che
lia prodotto fuori di sè il non-Io, cioè tutti questi
mondi, è quella altresì che dà loro federe questa fede
rende reale soggettivamente il mondo: cioè a dire l'io
lo crede , e lo tien per reale senza punto dubitarne.
In questa fede, secondo Fichte, sta la possibilità della
libertà umana. Poiché questa somma attività, onde V Io
crede alla realtà del non-Io, produce una efficace per
suasione di potere operare per uno scopo a tenore del
l' ordine soprasensibile, nell' uniformarsi al quale V Io
vede la propria felicità. Questa fede, questa persuasione
è lo stesso potere libero dell'uomo: l'ordine soprasen
sibile del mondo è il limite morale dell'uomo, l'ob
bligazione, l'assoluto dovere. È la natura dell' Io così
fatta, ch'essa, fra le cose che contrappone a sè stessa,
e con cui si limita, ha quest'ordine, quest' obbliga
376
zione , questo dovere. Di più, ella crede, per Virtù «li
sua intima attività, d' esser libera in questa limitazione
morale: questa credenza, come dicevo, realizza la li
bertà umana. Ma la libera attività così realizzata e creata
mediante la fede , non è paga di sè se non allorquando
compiutamente si adatta a quell'ordine soprasensibile,
che prende nome di obbligazione e di assoluto dovere.
Acciocché sia in ciò paga pienamente, e quindi felice,
ella dee credere alla realità di quell' ordine. Quindi
1' anima si sforza , mediante la sua attività , che si ma
nifesta sotto la forma di fede o di credenza, di realiz
zare quell'ordine. Ora in questo sforzo, col quale pre
stando essa fede a quell' ordine morale dell' universo lo
realizza a sè medesima , è che le nasce il concetto di
Dio, necessario alla perfetta realizzazione di quell'or
dine morale. Tale è il Dio di Fichte, che dalla ra
gione pratica nel modo spiegato riceve 1' origine. Per
la deduzione di un sì fatto concetto di Dio questo filo
sofo fu accusato di ateismo , e di questa accusa mollo
travagliato: nè le sue giustificazioni sembrano avere il
pubblico pienamente soddisfatto. Con varj scritti egli
tentò di riconciliare le altrui opinioni colle sue; e uno
degli ultimi fu quello sull'ultimo stato del mondo de
dotto dal primo, nel quale , idealista e realista a suo
modo , ora muove dall' attività dell' Io come dall'unico
reale, ora dall'assoluto divino come dall'unico reale
che nell' immagine o idea si manifesta e in tal modo
diventa coscienza. In Germania questa fu presa per una
modificazione che Fichte facesse al suo sistema per ren
derlo più confacente al comune pensare: ma a me sem
bra che non sia più che una nuova spiegazione del
medesimo: e a chi vi ha bene veduto il fondo, svanisce
anco quell'apparente contraddizione. Fichte ammette che
l'attività dell' Io che pone il non-Io si manifesti in due
modi , mediante la rappresentazione del non-Io e me
diante la fede al non-Io. La facoltà di porre e di rap
presentare il non-Io è la ragione teoretica ; la facoltà di
prestar fede al non-Io è la ragione pratica, fonte della
obbligazione , della morale e del diritto. Nella ragioni
teoretica il solo reale è l'attività dell' Io: tutto viene
da questa attività. Nella ragione pratica il solo reale è
1' essere divino: tutto viene da quest'essere; la prove
nienza e dipendenza di tutte le cose da lui è appunto
l' ordine morale, il fonte della obbligazione. In tale si
stema v' ha evidentemente il reale preso in due signi
ficati diversi: il reale vero, inteso e producente il tutto,
è l'attività dell'io; ma il reale creduto, cioè reale alla
nostra fede, è solo l'essere divino (i). Chi volesse pre
sentare questo sistema nel modo meno sfavorevole che
si potesse, converrebbe, parmi, renderlo in questa pro
posizione: « La esigenza intrinseca della natura umana
dimanda assolutamente ( cioè indipendentemente da
prove ) che si creda alla somma realità dell' essere di
vino». In tal modo la credenza alla realità di quest'es
sere è necessaria veramente , perchè esce dall' esigenza
suprema della natura umana: tuttavia l'uomo si crede
libero in ciò: quindi il primo suo dovere di ammetter
Dio: pensiero simile a quello di Seneca, che disse:
« Il primo dovere verso Dio è quello di credere alla
« sua esistenza » (2). Ma quantunque questo pensiero possa
aver qualche luogo , ove si supponga che 1' esistenza di
Dio possa almeno esser provala anche dalla ragione j
tuttavia egli è privo di valore ove si supponga che una
sola necessità cieca della natura , una sola fatale illu-
1 sione, un proprio interesse, eziandiochè interesse supremo,
ci conduca solo indeclinabilmente a quella credenza.
Intanto si vede come nella parte movale della filo
sofia di Ficte già fosse il germe del sistema di Schel
ling. Alla fede necessaria della natura umana un solo
reale v' avea , e questo era l'essere divino: qui Schel
ling appuntò il suo sistema. Se non che egli pose l'as
soluto per reale in sè -, e prelese che non fosse già rea
lizzato unicamente dalla fede della umana natura, che
non venisse quindi dall'attività dell' Io di Fichte, ma
anzi ogni cosa venisse da quell' altro Io, che è fonte
di tutta l'attività e di tutta la forza. Schelling cre
dette per tal modo di avere sollevata la filosofìa alla
evidenza; poiché 1' assoluto, secondo suo avviso, non ha
bisogno di prova: conciossiachè tutte l'altre cose ab
bisognano di lui per essere ; egli non ha bisogno di nes
suna : le cose dunque sarebbero inconcepibili senza l'as
soluto: la certezza dunque delle cose tutte è condizionata

(1) Questo Dio di Fidile diventa al suo modo reale per la realita della
credenza che lo produce: ma questa realità con è ella sempre relativa?
(a) Ep. «y.
378
alla certezza dell1 assoluto: sicché se siamo cerli delle
altre cose , molto più noi dobbiamo essere dell1 assoluto,
nel quale le cose sono possibili, e della cui certezza solo
partecipano. Questo ragionamento ha qualche cosa di
solido: ma non si fermò qui Schelling , e 1' avidità di
conoscer tutto, anco l' incognito, il travolse agli errori:
conciossiachè , ove 1' uomo si ostini a voler pur sapere
ciò che non può, conviene ch'egli fabbrichi colla im
maginazione il paese conteso a' suoi passi , ove niun
mortale può realmente penetrare. Veggiamo come ciò
sia avvenuto al nostro filosofo.
Tre grandi esseri si rappresentano al pensiero umano:
I7 universo materiale, V Io soggetto, Iddio. Queste rap
presentazioni di oggetti, disse Kant ( e a torto, come noi
abbiamo mostrato nella Sezione precedente ), uon hanno
autorità di farci conoscere le cose in sè , gli oggetti
loro, ma solo sè stesse; e il dar loro fede non è che
un alto libero, che costituisce ciò ch'egli chiama ra
gione pratica. Tuttavia nel sistema di Kant possono esi
stere, purché emanino dallo spirito nella parte loro
formale: lo spirito percepisce quindi gli oggetti vestili
di forme soggettive: come sieno gli oggetti stessi, è ciò
che rimane incognito : al più può ammettersi una ma
teria in generale (rispetto all'universo), ed una raàct
ultima delle cose rispetto a Dio.
Ora le rappresentazioni si dicano fenomeni, le cose
in sè noumeni. L' uomo adunque è conscio de1 fenomeni,
ma è interamente all' oscuro sui noumeni. Questa oscu
rità fu molesta a Fichte e a Schelling, e cercarono di
dileguarla. Il primo disse che non esisteva altro se non
quello che emanava di sè l'io; che questa emanazione
era l'universo, e Dio, e in generale la rappresenta
zione de' noumeni compresa sotto la parola non-Io; che
a questa rappresentazione 1' Io dava fede, e così ren
deva reali le sue rappresentazioni. Un Io adunque fe
nomenale fu per Kant il fonte di tutto lo scibile con
sistente in apparenze o fenomeni : ma che oltracciò vi
avesse realmente qualche cos' altro , nè negò, nè affer
mò ; disse che questi erano i confini della umana mente.
L'/o per Fichte fu reale, e coà pose un noumeno p*r
supposizione , o postulato si può dire : quest'/o produ
ceva di sè ciò che esisteva: non v' aveano dunque più
Provincie incognite, non v'erano altri noumeni se non
quelli che poi la ragione pratica creava a sè colla fede
data alle rappresentazioni dell' Io. Schelling pretese di
ascender ad un noumeno che producesse un Io ed
un mondo fenomenale: questo fu il punto fermo di
Schelling : questo fu il noumeno da Schelling suppo
sto, senza dimostrazione, come necessario a base di
tulli i fenomeni, e quindi più assai di essi certo e
per sè evidente: e questo noumeno è il Dio di Schel
ling. Ma poiché questo è il solo noumeno, il solo for
nito di attività propria, quindi non v'ha altra attività
reale fuori di lui. L'attività dunque di tutte le cose
della natura, egualmente che dell' Io soggetto, è 1' atti
vità sua: ciò che hanno queste cose di proprio, non è
che il fenomenale: quella sola infinita essenza sussiste,
e in essa è 1' essere di tutti i fenomeni : in essa adun
que s' identifica il soggetto , l'oggetto, l'ideale, il reale,
le rappresentazioni, le parti ecc., poiché l'essere di
tutte queste cose non è altro che quello dell' assoluto ,
il quale fenomenalmente in tutte queste cose si trasfor
ma: sicché non si danno nelle cose differenze qualifica
tive , ma solo quantitative: giacché è lo slesso essere in
tutte: per questo modo l'anima e la natura materiale
si mettono alla stessa condizione, si rendono egualmente
fenomenali nell'esistenza loro individua, e si rifondono
poi nel gran tutto, nell'assoluto, in quanto all'esi
stenza reale. Così l' individuo si assorbe e perisce nella
natura immensa di Dio , presso a poco come dicevan
gli Stoici che avviene all'uom dopo morte. Il ragiona
mento su cui si rivolge tutto questo sistema , che sem
bra confondersi col panteismo, pare il seguente: « La
realità di tutte le cose ( i noumeni ) è resa dubbiosa
pe' ragionamenti della filosofia critica. Ma non può es
sere dubbiosa la realità di un assoluto, poiché è con
dizione della possibilità di tutti i fenomeni che la filo
sofia critica riconosce. Dunque non v' ha di certo altra
realità che questa : quinci dunque conviene fare uscire
tutte le cose , tutte riconoscerle come parti, emanazioni
o anzi trasfigurazioni di quello ».
Ma più osservazioni si possono contrapporre ad un sì
fatto ragionare.
1." Primieramente, la filosofia critica per negare la
conoscenza de' noumeni s' è giovata di un ragionamento.
In tal modo essa ha riconosciuta col fatto la validità
a8o
del ragionamento. Se dunque il ragionamento, dove sia
ben fatto, conduce a conseguenze certe, non vedesi per
chè egli debba essere ammesso solo parzialmente , cioè
per negare la cognizione de' noumeni, e non per am
metterla. La filosofia critica era dunque in contraddi
zione con sè stessa , e non si dovea lasciarsi imporre
dalla medesima.
a.* Se la filosofia critica non avesse questa intrinseca
pugna con sè medesima , o se si volesse nou rinfacciar
gliela , in tal caso ecco com' essa si potrebbe difendere
contro 1' obbiezione ebe gli fa Schelling e dalla quale ha
dedotto il suo sistema : « Voi dite, che i fenomeni o le
rappresentazioni suppongono un assoluto reale. Onde voi
il deducete? Certo dall'uso del ragionamento. Ma fra
questi fenomeni o rappresentazioni la filosofia critica
ammette le stesse leggi del pensare. Queste leggi del
pensare secondo il criticismo sono soggettive, e per così
dire fenomenali. Esse dunque non hanno altra forza
che di conchiudere soggettivamente e fenomenalmente.
L' assoluto adunque vien certo richiesto dalle leggi del
pensiero , e Kant 1' ha trovato anch' egli come il sa
premo effetto del pensiero stesso parlando della ragione:
ma appunto perciò non può essere che un assolalo
fenomenale, ammesso tuttavia come reale dalla neces
sità che n'ha l'uomo» (quest'è la ragione pratica).
3.* Ma ponendo che l'assoluto reale di Schelling sia
bene assicurato ed evidente per sè, e ancora, che nul-
1' altro , eccetto quello , si possa riconoscere di reale
coli' uso del ragionamento, ne viene per questo che
nuli' altro di reale ci possa essere? No: tutt' al più verrà
la conseguenza, che nuli' altro di reale l'uomo conosca.
In tal caso avremo una provincia ignota, come suppo
neva Kant, più ristretta però della kantiana, poiché
Schelling trae da quella l' assoluto e lo realizza. Ma non
è mai buona logica il conchiudere, «Io non conosco al
tro di reale , dunque altro non v' è nè vi può essere».
Che se Schelling volgesse il suo ragionamento a soste
nersi coll'argomento panteistico, « che ciò che è infinito
dee racchiudere tutto, nè può esistere altro fuori di
sè » ; egli si trarrebbe in tal caso ad un partito per
duto , perciocché a quell'argomento fu già tante voli?
risposto in quelle molle cose che furono scritte contro
i panteisti di tutti i secoli.
28 1
Nel meditare sulle idee di Schelling, si vede in esse una
voglia di ridurre tutto ad una unità sistematica ; voglia
da cui erasi lasciato governare già prima Fichte. Quindi
uno sforzo, non di conformare la propria filosofìa alla
natura delle cose, ma di conformare le cose alla pro
pria filosofìa : cioè ad una forma preconcepita nell'animo,
e vagheggiata come di tutte elegantissima: una scienza
con un solo principio, ove trovino loro luogo tutte le
cose ; quasiché all' uomo non potesse esserne celata nes
suna : si direbbe che è uno sforzo, mediante il quale
1' uomo vuole aprire via più gli occhi , e rendersi via
più simile a Dio: una imitazione, una continuazione di
quel primitivo fatto miserando, col quale il primo uomo
sedotto si lusingò di venire al possesso della divina in
telligenza: e in che modo? col secondar pure il pro
prio appetito, e gustare un frutto vietato. E pure non
sembra egli dover essere facile assai 1' accorgerci final
mente, e toccar con mano, che all'uomo, alla sua
potenza , alla sua scienza sono messi de' termini ch'egli
non può trapassare? Quivi conviene che il suo orgoglio
si affranga ; non gli vale fremere , non ispumare. E uno
di qu esti termini è appunto quella linea che tiene di
viso il finito e l'infinito, la creatura e il creatore: in
darno egli farnetica di mescere insieme questi due og
getti in un solo, siccome l'ubbriaco mesce due liquori
in un bicchiere: un abisso li parte; egli non può fran
carlo, non immaginarlo, non conoscerlo.
E io credo per fermo, che Schelling non si sarebbe mai
giltato a mescolare insieme tutte le cose, e a definir Iddio
presso a poco secondo il verso dell'infelice sofista di Nola,
Est animai sanctum , sacrum et venerabile, mundus (i)j
ov' egli , invece di precipitarsi subito in quelle estreme
speculazioni, avesse prima tolto a decifrare e sciogliere
i problemi più elementari del sapere umano (a). 1

(1) Giordano Bruno, De immenso L. V. Vedi fra le molte opere di Schel


ling quella intitolata Fon derWeltseele cine Hypotliese der hóhcrnPhysik zur
Erliiurterung ties allgemeinen organismus , stampata in H.-mburgo nel 1798.
(2) Questo mi pare il vizio generale della filosofia tedesca , quanto al
metodo , correre ai problemi più astrusi e difficili senza aver prima sciolto
i più oi vii, i quali soli possono far la via ad intendere o parlare con
senno di argomenti più difficili.
Rosmini , Orig. delle Idee, Voi. 111. 36
a8a
Se Schelling avesse avuto la pazienza di analizzar
prima la cognizione umana , cercarne i fonti , distin
guerne le specie; egli avrebbe senza dubbio ravvisati
ancora de1 confini alla stessa non oltrapassabili. Egli
avrebbe conosciuto, che se di noi stessi e delle co»
sensibili abbiamo una nozione positiva, la nozione di
Dio all'incontro non può essere che negativa; o sii
che non conosciamo del sommo essere se non una a-
senza nominale (i)- Quindi avrebbe manifestamente tro
vato, che la nozione della natura e quella di Dio non
si possono mai confondere insieme nè ridurre ad uni
sola. Di più, la nozione positiva della natura è anche
fornita di tali caratteri, che sono in assoluta contraddi
zione colla nozione di Dio : sicché sarebbe un assurdo
1' attribuire i caratteri della natura alla divina essenza.
La prima differenza fra la nozione della natura e
quella di Dio, cioè l'esser la prima positiva e la se
conda negativa, dichiara intemperanza e temerità il ten
tativo di ridurre Iddio e la natura in un solo princi
pio , in una sola sostanza: poiché l' uomo mette insieme
una cosa cognita ed una incognita, ed arbitrariamente
ne fa un tutto solo: e così pronunzia e dispone di cti
che trapassa i limiti di sua conoscenza.
La seconda differenza fra la cognizione che abbiamo
della natura e quella che abbiamo di Dio ( cioè che la
prima ha de' caratteri ripugnanti e contradditorj alla
seconda ) rende assurdo e privo di senso il tentativo di
mescolare insieme ciò che è essenzialmente contrario;
quando la delta unione non si può pensare , meglio che
pensar si possa il nulla.
Ma per non essere infinito , io voglio attenermi alla
prima di queste due ragioni. La quale, ridotta per mag
gior chiarezza in un dialogo , nel seguente modo si può
presentare.
Schelling. E necessario un assoluto : altramente non
può esister nulla , non si può conoscer nulla.
Oppositore. Sì certamente ; ma il conoscete voi que
sto assoluto ?
Schelling. Dall' istante eh' io m* accorgo eh' egli esi
ste, io lo conosco. E poiché egli è quello che mi f»

(i) Ved. face. i5a e segg.


283
conoscere le altre cose, molto più mi dee esser noto
egli stesso.
Oppositore. Non vi pare a voi , che corra differenza
fra il conoscere 1' esistenza di un oggetto, e il conoscere
V oggetto stesso?
Schelling. Qual sarà ? io non posso conoscere che un
oggetto esiste , se non conosco l' oggetto.
Oppositore. Per conoscere che un oggetto esiste , v' è
certamente bisogno di avere qualche cognizione dell'og
getto : ma questa cognizione potrebb' essere meramente
negativa.
Schelling. Che intendete voi per cognizione negativa?
Oppositore. Intendo un segno della cosa , mediante il
quale la cosa non si può confondere con alcun' altra :
questo segno è ciò che soglio anche chiamare l' essenza
nominale della cosa. A ragion d'esempio, se mi si dicesse
da persona autorevole che esiste un oggetto, a cui tutti
gli uomini hanno dato un certo nome , il qual nome
nulla significasse della natura dell' oggetto , che cosa
conoscerei io dell' oggetto udendo quel nome? Nuli' al
tro se non queste due cose, i.° la sua sussistenza,
a* il nome col quale è chiamato. Ora questa sarebbe
un' idea di lui negativa, perciocché nulla io saprei di
lui stesso. La sussistenza , essendo comune a tutte le
cose che sussistono, non mi fa conoscere le cose slesse,
che son cose in quanto hanno l'essenza distinta, e non
in quanto hanno 1' essere a tutte comune.
Schelling. Ma questa vostra dottrina non si può ap
plicare ali assoluto. Perciocché io non ho già conosciuto
l'assoluto per autorità di alcuno, che m'abbia rivelato
il suo nome e nulla più. Io l' ho conosciuto deducen
dolo con un ragionamento inducente necessità.
Oppositore. Per illustrare ciò che io intendevo per
cognizione negativa, o cognizione dell' essenza nominale,
io recai l'esempio di un oggetto avente un nome arbi
trario. È vero, che questo al fatto vostro dell' assoluto
non conviene propriamente, poiché egli si conosce non
per un nome o segno arbitrario, ma per un nome o
segno naturale. Ma che il nome o segno che determina
1' oggetto incognito sia arbitrario , o eh' egli sia natu
rale, è tutt' uno ; ciò che di lui sta nella nostra mente,
non è più che un'essenza nominale. Quindi la cogni
zione si rimane negativa, e l'essenza reale e positiva
a84
dell'oggetto è a noi del tutto incognita. Tale è la co
gnizione che voi acquistar potete per ragionamento del
vostro assoluto.
Schelling. Spiegatevi meglio, poiché queste cose mi
sanno del nuovo.
Oppositore. Per qual ragionamento ascendete voi al
l'assoluto ?
Schelling. Per questo, che non si può pensare esi
stente nessuna cosa senza un assoluto: se c'è qualche
cosa , ci dee essere 1' assoluto.
Oppositore. Ma come sapete voi che ci sia pur qual
che cosa?
Schelling. La coscienza di me stesso , e i sensi mei
dicono.
Oppositore. Ma percepite voi colla coscienza medesima
o co' sensi l'assoluto stesso? cioè, la vostra coscienza
particolare , i vostri sensi percepiscono in sè un infinito
assoluto, ove non sia alcuna limitazione?
Schelling. No veramente. Vi dissi già, eh' io ascendo
all' infinito col ragionamento : poiché tutte queste cose
che nella mia coscienza percepisco, sebben finite, non
possono esistere, se non esiste l'infinito, l'assoluto.
Oppositore. Non si potrebbe dunque dire, che lutto
ciò che voi esperimentate è un certo segno dell'esistenza
di un assoluto, di un infinito ?
Schelling. Ma di più una manifestazione, una parte,
o una forma parziale dell' infinito.
Oppositore. Sarà forse vero anco questo : ma convien
trattare una questione alla volta. Intanto io voglio eoe
bene fermiamo , che tutto ciò che noi conosciamo per
V intima nostra particolare coscienza è un soggetto cerio
dell' assoluto , dell' infinito. Allo stesso modo , se io vedo
un'opera che mostri in sè traccia d' intelligenza , una
figura geometrica, una statua, una pittura, o checché
altro , io dico immantinente che quell' oggetto da me
percepito è un certo segno di un essere intelligente che
fu cagione di quel vestigio lasciato della sua mente.
Schelling. Anche questo.
Oppositore. Ora quel segno io lo dico naturale, «•
appello il nome naturale della cosa segnata; perchè e
un effetto di lei , e mostra qualche cosa che dee in lei
essere, sebbene ci resti occulto il modo ond'ella ha in
sè quella proprietà. Da questo segno o nome naturale
a85
adunque voi conoscete il vostro assoluto; da un suo
effetto , che ve Io segna e contraddistingue fuori da tutte
l'altre cose; sebbene voi non sappiate che risponda
propriamente in detto assoluto a quell' effetto ; poiché
quantunque voi sappiate ch'egli n' è causa, non sapete
tuttavia nò il suo modo di operare, nè il suo modo di
essere, non avendo voi percepito lui stesso, ma un ef
fetto suo. Conoscete adunque ancora solo V essenza no
minale dell'assoluto, e nulla più; sebbene il nome che
ve lo fa conoscere non sia puramente convenzionale,
ma sì anco naturale ( se mi permettete di così chia
marlo), e quindi egli vi scorga a conoscere qualche
relazione reale di lui, ma nulla più. Di che poi io con
chiudo, che essendovi ignota la propria natura dell'as
soluto , voi non avete alcun diritto di fabbricare sopra
di essa natura un sistema di emanazioni , e di dichia
rare tutte le cose dell'universo altrettante forme sue,
o parti, o con qual altro nome voi chiamar le vogliate.
E veramente questa vostra strana sentenza ripugna in
teramente: perciocché, ditemi in grazia, le due idee di
assoluto e di non-assoluto non sono esse contrarie come
il sì ed il no ?
Schelling. Sono diverse, non già contrarie.
Oppositore. Ma 1' aver de'limiti, e non averli, si può
egli pensare ad un tempo, e d'una cosa stessa? nò
manifestamente. Or che è l' assoluto , se non ciò che è
privo di tutti i limiti? che è il non-assoluto, se non
ciò che ha de'limiti? Sono adunque non pur diverse,
ma contrarie.
Schelling. Io voglio dire, che quella cosa slessa che
limitata è non-assoluto, non limitata è assoluto.
Oppositore. Voi supponete dunque che le cose limitale
possano rendersi illimitate. In tal caso 1' assoluto co
mincerebbe ad essere, quando prima non sarebbe: egli
non sarebbe già più assoluto per questo appunto. Ol
treché , se le cose limitate per diventare assolute deb
bono perdere i limiti loro, chi a ciò le muove? e prima
non eran dunque assolute. Esisteva adunque una essen
ziale contrarietà fra l'essenza di esse nello stato primo,
e I' essenza loro nello stato secondo. La dualità adun
que ammessa in questo senso è inevitabile. Nè si può
mai confondere, senza temerità e assurdità di ragiona
mento, le cose tutte insieme, e farle altrettante trasfor
a86
muzioni o modificazioni di un solo essere assoluto ed
infinito , poiché egli non può giammai essere il soggetto
della limitazione , della parzialità, e della essenziale
contrarietà e ripugnanza.
Al quale ragionamento dell' oppositore non vedo che
cosa lo Schelling di solido risponder potesse.
Si può dire adunque ragionevolmente , che ciò che
condusse Schelling in errore si fu 1' avere om messo di
premettere ad ogn' altra speculazione un'analisi accurata
delle forze del ragionamento , e quindi l' avere igno
rato , che esistono per 1' umano intendimento delle prò-
vincie quasi interamente incognite , come di tutti gli
esseri che non si percepiscono colla coscienza o sue mo
dificazioni. Di che rovesciò, come dicevamo, nell'errore
opposto a Kant. Perciocché mentre questi negò all'uomo
anche la cognizione dell' esistenza degli esseri soprasen
sibili e per sé esistenti (noumeni), Schelling pretese
di ragionare come se l' essenza stessa reale conoscere se
ne potesse. Ed è degno di osservazione il corso di que
ste idee filosofiche nella Germania.
Si cominciò da partire dalla natura materiale, per sol
levarsi e concentrarsi nello spirito dell' uomo : Kant fece
ciò lasciando la natura materiale in dubbio, o in uno
stato di occultazione perfetta all' umano intendimento:
Fichte assorbendola nello spirito stesso.
Ma questo spirito dell'uomo, ove si avea preteso di
concentrar 1' universo, era pure ancora troppo piccolo
per 1' uomo, e non potea bastare a sé stesso. Sembrava
dunque naturale , che come altri dalla materia s'era
sollevato allo spirito umano , così dallo spirito umano
altri si sollevasse a Dio, all'assoluto, all'infinito. La ten
denza fu questa , ma le penne mancarono al volo.
Si tentò, si volle sollevarsi all'infinito: ma se ciò si
fosse veramente fatto , si sarebbe venuti in una regione
incognita , inaccessibile. In tal caso il filosofo, prostrato
innanzi a quell' incomprensibil natura , avrebbe adorato
Ma quest' adorazione , quest' umiliazione profonda del
pensatore innanzi a Dio .... Eh! tutto ciò che si vo
leva, erano de' sistemi. L'uomo volea spiegare le fone
del suo intendimento , non raccoglierle ed offerirle in
olocausto all'incomprensibile. L'uomo adunque nel suo
viaggio filosofico era guidato dal desiderio di raggiar
luce fuori da sé in tutte le regioni a cui pervenir
V erano dunque da conciliarsi questi suoi due divisa-
menti , i.* di pervenire all'infinito, a.* di pervenire a
lui siccome a cosa cognita. E l' infinito era incompren
sibile. Che rimaneva? Tu, o immaginazione , soccorri al
pensiero che manca ! Invocata , ella coniò tosto un in
finito, un assoluto, un Dio, composto da tutto ciò che
ella sapea figurare, effigiare, conoscere. Che conoscea
l'uomo? che conoscea l'immaginazione dell'uomo? Il
mondo, e sè stesso. L'assoluto adunque de' filosofi non
fu, non potè essere che una composizione, un mescola
mento del mondo e dell'uomo: ecco il Dio, o più tosto
l'idolo della Filosofìa, l'opera delle mani degli uomini:
os habet , et non loquetur.
Ma ciò che a noi principalmente rileva si è di mo
strare , come 1' assoluto punto di partenza della filoso
fia di Schelling non può essere il vero punto di par
tenza della filosofia umana. Dico umana , perciocché
conviene che noi non ci dimentichiamo che siamo uo
mini. Se fossimo Dei, noi partiremmo certamente da
un altro punto ; ma essendo uomini , dobbiamo partire
colla scienza nostra da quel principio che alla mente
umana è stato conceduto per lume. Al tempo di Kant
s'era già conosciuto che non si pò tea se non partire
dall' esame del ragionamento; secondo un tal principio
il filosofo di Kònisberga fece la Critica della ragion»
pura. Fichte cominciò a deviare da quella via , e mosse
dall' attività del pensiero. Intanto rimaneva a diman
darsi a Fichte, con qual diritto ragionava egli sull'af-
tività del pensiero , prima d1 averci dimostrato che i
ragionamenti eh' egli faceva sopra un tale argomento
avessero qualche autorità. Una tale dimanda sarebbe
bastata a far dare a Fichte un passo indietro , e ren
derlo avvertito, che tutto era gratuito ciò eh' egli avesse
ragionato, ove non provasse prima valido il ragiona
mento, del quale egli usava per convincere altrui del
suo sistema. Dopo Fichte si perdette ancor più di vista
il vero punto onde partiva la filosofìa. In vece di co
minciare dal gran problema della validità del ragiona
mento, in vece di disporre nel debito loro ordine le
cognizioni , si pensò a mettere in ordine gli oggetti sus
sistenti delle cognizioni. Certo, che volendo distribuire
gli oggetti sussistenti delle cognizioni, il primo di tutti
gli altri è l'assoluto: tutti gli altri dipendono da lui,
a88
e non sono, nè sono possibili se non per lui. Ma Tes
sere completo ed assoluto, questo primo e supremo es
sere , fonte di tutti gli altri , onde conosciamo noi che
sussista? che ci conduce a lui ? Il solo ragionamento:
questo è la nostra guida : se questa guida è essenzial
mente fallace, nulla ci varrà il partire da lei per con
durci air assoluto : tutto ciò che noi diremo, non avrà
valore: non sapremo mai nulla di fermo: poiché ciò
che diciamo anche del primo degli esseri , è solo vera
e valente cognizione in quanto la ragione che ci fa co
noscere quell' essere è autorevole e ferma. Vero è che
e noi, e i ragionamenti nostri dipendono essi stessi dal
l' assoluto: ma questa dipendenza non è ne\V ordine
delle cognizioni umane, ma nell' ordine degli esseri reali:
cioè, egli è vero che acciocché noi siamo, e acciocché
possiamo ragionare, dee esser prima l'assoluto; ma non
è mica vero per questo, che noi possiamo conoscere ciò,
nè conoscere 1' assoluto , senza far uso della facoltà di
conoscere di cui siamo dotati, delia ragione. Si distin
gua dunque tra l'ordine delle cognizioni, e l'ordini
degli oggetti delle cognizioni. Nella nostra mente gli og
getti non sono , se non è la cognizion loro. L' ordini
adunque delle cognizioni precede 1' ordine degli oggeti
Convien dunque muovere la filosofìa dal problema della
validità delle cognizioni , prima di ragionare su qual
siasi oggetto, foss'anco lo stesso assoluto.

ARTICOLO VL
SUL PONTO DI PÀBTENZA DI EOUTERWECK.
Federico Bouterweck s'accorse che Schelling, in vece
di ascendere ad un punto di partenza della filosofia pi"
elevato, era disceso; perchè dall'ordine delle cognizioni
era venuto a quello de' sentimenti, e finalmente anche
a quello degli esseri, che rispettivamente al nostro in
tendimento stanno in un ordine posteriore. Egli <lun"
que obbiellò a Schelling: «Voi partile da una cosa
reale (cioè sussistente), l'assoluto. Ora come dimostrai
voi che v' ha qualche cosa di reale ? Perchè poteste di
mostrar questo, converrebbe che voi mostraste in primo
luogo avervi una facoltà di conoscere atta a percepir'
la realità delle cose , il che si rende sommamente ne
cessario dopo tutto ciò che disse Kant per dimostrar*
I1 impossibilità di una tale facoltà». E veramente, l'ar
gomento di Schelling, che fa Y assoluto evidente per sè}
e necessario acciocché qualche cosa si pensi o sia, seb-
Len verissimo, tuttavia egli non è valido se non d' al
lora che si suppone la nostra ragione pronunziar ret
tamente, ed estendere validamente i suoi giudizj anche
sulle cose reali.
E nello stesso tempo che Bouterweck obbiettava que
sto a Schelling, confutava ancora i puri idealisti in
questo modo : « È impossibile ridurre Vessere alle idee j
poiché analizzando le idee, noi troviamo che gli esseri
sono alle idee precedenti, e causa di esse, e che sono
molto più di esse , essendo più un essere che una idea.
Non è dunque possibile ridurre tutto a vane idee: ma
conviene distinguere le idee e gli esseri, rendere ragione
delle une e degli altri, e della loro relazione e unione».
In sostanza quest' era stato il tentativo di Fichte e di
Schelling ; ma essi a tal fine immedesimarono gli esseri
e i pensieri, o a dir meglio, fecero sortir tutti gli es
seri dal pensiero (i).
Bouterweck osservò ancora, che non si può dare
scienza senza un oggetto, un essere, e che V essere è
indefinibile, nè v' ha filosofo che possa dimandare che
sia 1' essere in generale. U essere adunque è essenziale
al pensiero, conchiuse Bouterweck, e sebben diverso da
lui , è dato con lui. Disse dunque, che si convenia par
tire da una assoluta facoltà di conoscere come da un
fatto primo, evidente, fondamentale, la quale consiste
appunto nella percezione dell' assoluta esistenza. Quindi
la proposizione fondamentale del suo sistema si può
dire che sia la seguente: «Ad ogni sentimento e pen
siero sottostà un essere come fondamento vero e con
seguentemente assoluto, che non ha altro fondamento,
ma che è egli stesso fondamento».
Qui però Bouterweck confondeva 1' assoluta esistenza
coli' esistenza considerata in universale, o sia, che viene

(t) Non mi sembra che Schelling abbia mostrato bene la distinzione


fra il sentimento e il pensiero; giacché immaginò un pensiero primo indif
ferente all' oggettivo e al soggettivo: il che, oome ho più sopra osservato,
è essenzialmente contrario alla natura del pensiero , e solo a quella del
sentimento puro si conviene.
Rosmini , Orig. delle Idee, Voi. III. 37
29°
al medesimo , coli' essére comunissimo. Se avesse detto
che 1' intelligenza è essenzialmente legata e formata col-
l' essere comunissimo, egli sarebbe entrato nel nostro
sistema : ma avendo preso l' essere assoluto in luogo
della semplice nozione dell' essere , egli rovesciò, senza
volerlo, nel panteismo; poiché dell' essere reale e attuale
e del pensiero tornò a fare una mescolanza, una cotale
sostanza unica; ed egli medesimo noi nascose. Per sal
vare tuttavia 1' esistenza dell'individuo in questa singo
lare sostanza , immagina una forza particolare che lo
costituisca, o sia un atto particolare di attività in quella
sua sostanza , il quale atto egli denomina virtualità. Ma
di questa forza che costituisce l'individuo, e che non
è conosciuta che concependo una distinzione fra il sog
getto che fa lo sforzo e gli oggetti che resistono, non
n'abbiamo a prima giunta cheuna.se/ertza praticativi
di sentimento o di fatto sperimentale; non se n'ha
dunque ancora la scienza teoretica, non se ne vede in
somma una intrinseca necessità. L' assoluta facoltà di
conoscere perciò s' applica a quella virtualità, e la can
gia in una assoluta realità ; il che io credo che facesse
avvenire in questo modo. Essendo l' assoluta facoltà di
conoscere quella che vede l' assoluto essere, ella vede
in tutte cose quest'essere, e tutto eleva a quest'essere.
Anche la forza individuale adunque la considera nel
suo essere assoluto; di che nasce il concetto di un'in
finita esistenza e di un' infinita azione.
Anche di questo sistema il falso consiste i." nell'essere
partito anzi dall'arto dello spirito nostro , che da un'ac
curata analisi dell' oggetto pensato. Avendo negletto di
ben verificare e appurare che fosse l'oggetto essenziale del
pensiero, Bouterweck equivocò, e confuse V essere postillili
co\V essere sussistente .- non s'avvide, che quel solo primo
è l'oggetto essenziale del pensiero, non questo secondo, «
molto meno questo secondo tutto quant' egli è. Ponendo
che l'oggetto del pensiero fosse l'essere sussistente as
soluto quant' egli è, si porrebbe una comprensione piew
di Dio: ma chi comprende Dio, è Dio: eccoci nel pan
teismo. a.° Conferì a questo errore di Bouterweck il
non essersi pure dato cura di bene stabilire la distin
zione fra il sentimento e il pensiero. Se si fosse trat
tenuto in queste ricerche elementari, prima di abban
donarsi nel pelago delle questioni più astruse , V
sarebbe» avveduto , che al solo pensiero è necessario di
avere Vesserà per oggetto e per fondamento, non già
al sentimento : quindi avrebbe veduto, che tolto via
ogni oggetto del pensiero , sarebbe tolto il pensiero e la
facoltà di pensare, ma che l' Io non sarebbe annullato
interamente, perocché di noi tutta la parte animale
resterebbe , e P uomo sarebbe solo degradato air essere
di bruto. Con questa osservazione egli sarebbesi convinto
della essenziale limitazione dell1 uomo, la base del quale
per così dire è la natura animale, alla quale non è
necessario per sussistere di avere la visione dell1 ente
sussistente , e molto meno dell1 ente assoluto.
Non trovò Bouterwech adunque il primo e semplice
punto di partenza delle umane cognizioni per due ra
gioni: i.° perchè partendo da una assoluta facoltà di
conoscere, supponeva Videa e V essere sussistente come
dati precedenti e materia di quella facoltà : e tutto que
sto avea bisogno di dimostrazione , perciocché dipendea
dal principio della dimostrazione, anteriore a quella
facoltà : a." perchè P essere sussistente assoluto non è
cognito all'uomo positivamente: e quindi nel concetto
della sua facoltà assoluta s' inchiudeva ciò che non vi si
contiene.

ARTICOLO VII.
SOL PONTO DI riinlU DI BiKDILLI.

Bardilli conobbe che il punto di partenza della filo


sofìa non poteva essere che il pensiero , siccome P avea
conosciuto Bouterveck. Egli domandò dunque per po
stulato P uso del pensiero; il quale però non dee essere
solo un postulato, per nostro avviso, ma sì un fatto.
Tentò dunque una nuova analisi del pensiero, cercando
di trovare che cosa nel pensiero fosse il primo per sè
stesso (i) , il che venia a dire il punto di partenza della
filosofia.
Ma egli, presso a poco come fece Schelling, tolse
per primo ciò che veramente è P ultimo nel pensiero,

(i) Questa ricerca fu pure intrapresa dal nostro Pini nella Prolologia,
opera che se fosse apparsa oltre 1 alpi avrebbe probabilmente sollevato un
gran rumore e nome di sè.
392
cioè l'assoluto (i). Non vale il dire che l' assoluto è
condizione da cui pende ogni certezza ed ogni esistenza:
è ben vero ciò: nulladimeno non è necessario, accioc
ché io sia certo delle cose, che io abbia un'idea po
sitiva dell' assoluto. Io posso avere prima un mezzo di
accertarmi delle cose finite e condizionale: nel qual
caso, in questa mia certezza l'assoluto è compreso im-
patitamente, e suppostovi: ed io posso, ragionandovi
sopra, pervenire anche a scoprirne esplicitamente la ne
cessità. E in fatti tale è il vero progresso del ragiona
mento umano. Perchè noi ci accertiamo delle cose,
basta che noi conosciamo la necessità che ciò cheti
appare sia vero; questa necessità noi la concepiamo me
diante V essere possibile, come ho già mostralo, senza
che io abbia bisogno di recarmi al concetto dell' asso
luto essere sussistente: a cui però quindi appresso io per
vengo, come all'assoluta condizione di tutta la mia
certezza, e di tutti gli esseri de' quali io sono certo;
e questo necessario avanzamento , che fa il mio ragio
namento sviluppandosi, è dovuto alla natura dell' essere
possibile, ed è ciò che ho chiamato già la facoltà in
tegratrice dell' intendimento (a). E a maggior prova di

(1) Bardili! ha lo stesso errore di Schelling: egli suppone che lo spirito


umano possa avere una positiva idea di Dio. Queslo errore mena ad mi
falso entusiasmo , dando all' uomo una grandezza di potenza intelletti»!
eh' egli non ha , all' aspetto della quale , come di cosa sublime , la sua im
maginazione imbaldanzisce e tripudia , che è quanto dire si entusiasta. Il
supporre poi l' idea che l'uomo ha di Dio essere adeguata, porta in con
seguenza un panteismo irreparabile , come più volte feci osservare. Questo
è uno scoglio a cui rompono agevolmente i forti e confidenti ingegni, e
non manca qualche scrittore recente che in Italia fece ad esso naufraga.
Nulladimeno parrai che Bardilli ponesse il punta di partenza della
filosofia alquanto meno falsamente di Schelling. Perciocché Schelling il
pone in un assoluto pensiero che è indifferente all' oggetto ed al soggetto.
Ora questo è un carattere essenzialmente contradditorio colla natura <W
pensiero, che dee sempre avere un oggetto. Ciò che non ha oggetto cesa
d'esser pensiero; egli è sentimento; ed è per questo che io dicevo essere
il punto di partenza di Schelling nel sentimento. Ma Bardilli disse i"
quella vece, che il pensiero come pensiero , cioè superiore e indifferente
°SSeUo ed al soggetto, non si conosceva per sè, ma solo nella sua ap-
plicazione: che dovevasi dunque partir da questa. Il pensiero dunque as
soluto sembra che per Bardilli (se fosse stato coerente a sè stesso) non do
vesse essere altro che un' astrazione , onde noi pensiamo il pensiero senta
oggetto nè soggetto, sebbene tal mai non esista. Dall' applicatone adunque
del pensiero Bardilli partì, per salire al pensiero puro ed assoluto; e 10
questo si vantaggia da Schelling. ,
(2) Voi. II, face. 186.
ciò, io voglio qui aggiungere un' altra osservazione. In
che modo vengo io in possesso della cognizione di
un assoluto necessario, primitivo, originale? Non in
altro modo , se non perchè questo assoluto è la con
dizione di ogni mia certezza e di tutto ciò che io co
nosco esistere. Ma s1 ella è così, può mai dirsi che
solo mediante la cognizione dell'assoluto io mi accerto
e do fondamento a tutte le mie cognizioni precedenti ?
può egli dirsi che dall' assoluto dee muovere la filo
sofia? No certamente. Poiché, onde la necessaria esi
stenza dell'assoluto? Dall' esser egli condizione della
certezza delle mie cognizioni. Ma se questa certezza non
esiste, l'assoluto non è punto necessario. Tolto il con
dizionato , è tolta la condizione. La certezza e necessità
delle mie cognizioni rende certo e necessario l'assoluto;
e non il contrario. Io induco la necessità di questo
dalla necessità di quelle. Se le mie cognizioni su ciò
che esiste sono dubbiose, dubbioso è l'assoluto. Dun
que la certezza e necessità delle mie cognizioni è an
teriore e presupposta, rispetto alla mente umana, alla
certezza e necessità dell'assoluto essere sussistente. Dun
que la filosofìa non può partire da questo, ma in que
sto terminare. Antecedentemente alla cognizione del
l' assoluto, essere sussistente, Dio, io debbo avere un
mezzo, un principio che mi faccia conoscere, o sia mi
produca la certezza delle mie cognizioni ; e questo è
l'idea dell'essere in universale e indeterminato, presente
al nostro spirito incessantemente.
Tanto è lontano che Bardilli vedesse ciò che avea
fatto traviare i filosofi suoi connazionali, che anzi egli
sistematizzò via più e compì il loro errore medesimo.
Dalle osservazioni che io ho fatte fin qui sopra di essi
risulta, che il comune errore di quelli che vennero dopo
Kant fu di supporre «che l'uomo potesse avere idee
positive di ciò, di che egli non ba alcun mezzo di for
marsele , o a dir meglio, che non vi avesse nessuna cosa,
di cui 1' uomo aver non potesse idee positive; equipa
rando così al complesso delle cose sussistenti la sfera
della umana cognizione». Poiché da questa supposizione,
che in tutti que' sistemi vedesi sottintesa, ed è nasco
stamente la loro perpetua direttrice , avviene, che ove si
presenta un essere , di cui I' uomo non può avere uu
adeguato uè positivo concetto, siccome è di Dio, ma
394
solo un concetto negativo e quasi direi vuoto , venga in
ajuto P immaginazione, e riempia quel concetto come
può, per renderlosi positivo e reale. Ma P immaginazione
filosofica a fare questo lavoro non può adoperare che
que' materiali eh' ella già possiede , cioè non può ren
dere positivo quel concetto se non mettendo in luogo
suo ciò die già conosce. Per rendere adunque positivo
il concetto di Dio , conviene empirlo e quasi imbollarlo
di tutte Patire cose che si conoscono positivamente, e
queste sono la natura e P uomo. E non altro, a guar
dar sottilmente , fu P errore di tutti gP idolatri. Non
potendo essi appagarsi di un concetto negativo di Dio,
sei vennero formando artificiosamente positivo, mettendo
in luogo di Dio , la cui essenza reale non conoscevano,
ciò che conoscevano; e adorarono quindi la natura e
l'umanità. Questa medesima voglia intemperante di co
noscer tutto, e questa ripugnanza di consentire a cre
dere la propria ignoranza e di confessarla a sè mede
simi , quest' orgoglio in una parola originale che non
permette all' uomo di conoscere ch'egli non sappia ciò
che non sa , è il fonte parimente di ogni panteismo,
il quale non è finalmente se non una idolatria quasi
direi perfezionata e vestita di filosofiche forme. £ il
vedere come la filosofia del secolo si precipitò ne' pros
simi andati tempi in un universale panteismo, che sotto
tante forme si riprodusse, mostra manifesto quanto gli
uomini abbandonati a sè medesimi propendano di con
tinuo ad avvallarsi nello stato del gentilesimo , verso
il quale, anche nella luce patente del Vangelo, si
sono veduti dar tanti passi , e dove rumerebbero in
fallibilmente, e irreparabilmente si perderebbero , se il
cristianesimo si potesse annichilare dagli sforzi degli
uomini insensati, e dalla malizia infernale.
Il principio adunque conservatore della distinzione
fra Dio e la natura, fra il creatore e le creature, è
quello che stabilisce avervi nell'uomo due serie dT idee,
altre negative, ed altre positive: colle prime delle quali
si pensa ciò che abbiamo chiamato un'essenza nominak(ih

(i) L' essenza nominale per noi è sempre una essenza generica, eoe*
abbiamo dello già Voi. II, face. 197 e segg.; e l'essenza generica nomi'
naie comprende due elementi, cioè 1 ■ l'essenza universale (che è l'essere a
colle seconde poi si pensa una essenza reale (i). Colle
prime non pensiamo se non una cosa incognita , una
jr, di cui non conosciamo l'essenza reale nè spe
cifica nè generica positiva, e perciò si possono chiamare
in qualche modo idee vuote. Le seconde ci presentano
l'essenza reale o specifica o almen generica della cosa,
e queste si possono dire idee piene. Ora chi confonde
insieme queste due serie distinte d'idee, e pretende
che tutte le idee sieno in noi piene, dee necessariamente
rovesciarsi nel panteismo e in mille altri errori : di
quegli esseri di cui non abbiamo che idee vuote , egli
è costretto a comporsi de' simulacri immaginarj e bu
giardi, a crearsi delle finzioni che tengano il luogo di
idee piene : quindi un Dio composto coi caratteri e
colle proprietà dello spirilo e della materia, impastato
di elementi stranieri rimescolati insieme in mille strane
guise, che non hanno legge, poiché non ha legge il
vagare perpetuo di uua disordinata fantasia; ed ecco il
fonte inesausto di sistemi bizzarrissimi, ingegnosissimi
e giganteschi, i quali anco sbalordiscono pel momento
ed incantano, ma non hanno vita più lunga di quella
che a' abbia la falsità e l' illusione' (2).

universale, il quale forma parte di tutte le idee ), e la relazione di qual


che cosa a noi positivamente cognita , che determina 1' incognita , e deter
mina 1' essenza universale e la individualizza,
(i) Ved. Voi. II, face. 197 e segg.
(a) Tante specie di Platonici che furono ncll' antichità, e fra questi i
Valentiniani , cadevano in una specie d'idolatria appunto perchè preten
devano di rendere l'idea di Dio positiva, e quindi omogenea per modo
alle idee positive che ha 1' uomo ( le quali tutte sono delle creature finite ),
che non ripugnasse immaginar le creature siccome un'emanazione della
sostanza divina. I Manichei caddero nello stesso errore : quindi s. Ago
stino rimprovera a Fausto la colpa d' idolatria : ita convinceris innumera-
biles deos colere ( Contro Faustum XV, vi ). Si può dire pertanto, che gli
errori della scuola tedesca si possono confutare cogli stessi principj che
hanno usati i Padri nel confutare diverse eresie derivate dal Platonismo
e dalla Cabala degli Ebrei. Finalmente mi si permetta qui di confermare
col fatto quanto ho detto più sopra , « che un simigliante sistema , nel
quale 1' nomo s'immagina c persuade di potersi formare e di essersi for
mato un concetto positivo di Dio, dee produrre in lui l'entusiasmo falso,
cioè una esaltazione di spirito straordinaria ». Questo effetto gli antichi
stessi l'osservarono anche in tutte quelle scuole filosofiche, che nella di
vina natura pretendevano di essere entrate, e venute in possesso degli ar
cani eh' ella contiene. I Gnostici, o sapienti com' essi si chiamavano ,
erano di costoro. Il tuono che prendevano i Valentiniani era il più sollevalo
e orgoglioso che udir si potesse. Sant'Ireneo ce li descrive perjeclos semel-
ipsos vocantes , quasi nemo possi! exaequari magnitudini agnitionis ipsorum,
2t)6
Già Bouterweck, ponendo a principio dì sua filosofia
la proposizione, « che ad ogni sentimento e ad ogni
idea sottostà un essere per fondamento » , avea pertur
bato i due ordini stabiliti, e disconosciuto l'ordine
delle idee vuote. I suoi precessori però, Schelling e Fichte,
erano incappati nello stesso errore, e in peggiore ancora;
giacche rendevano più dipendente 1' essere dal pensiero,
sicché il pensiero era il fonte solo dell'essere. Le idee
vuote adunque non poterono esser più , poiché il pen
siero nel suo stesso fonte tutto 1' essere conteneva. Ma
sebbene Bouterweck trovi nell' essere qualche cosa di
più che nel pensiero vuoto, tuttavia egli riconosce es
senziale ad ogni pensiero il fondamento dell' essere, e
così esclude la reale esistenza delle idee negative; di
che quella sua oscura maniera di spinozismo.
Bardi Ili sulle stesse traccie pronunziò manifestamente
l'abolizione della distinzione fra le idee vuote e le idee
piene, e coli' aver fatta questa distinzione pretese di
aver trovato il fonte degli errori delle antiche filosofie.
Il vizio fondamentale è nella logica , secondo lui, e
consiste nella falsa restrizione che s' ha voluto dare
al valore de' logici principj. « Si è voluto considerarla
« logica, die' egli, come la semplice legge delle forme del
« pensiero, come una ricerca racchiusa unicamente dentro
u i limiti del soggetto pensante, come isolata dalla me-
« tafisica e dalla scienza degli esseri. Si è potuto fare
« un codice regolare; ma finalmente ella fu una cornice
« senza il quadro ».
Questo tentativo di Bardilli di ridurre tutta la me
tafisica alla logica, non è che Io sviluppo e l' espressione
più chiara de' sistemi che lo hanno preceduto. Per uno
errore medesimo, e pel medesimo spirilo si dice oggidì
in Francia da alcuni, «che il metodo è tutta la filo
sofia ». Così da una parte si riduce tutto alle idee
astratte, le quali solo stabiliscono il metodo; dall'altra

nec si Paulum aut Petrum dicas , vel allenirti quondam Apostolorvnt , uà


plus omnibus se cognovisse , et magniludinem agnitionis illius, quat est ut-
narrabili* virtulis, solos ebibisse (L. I, c. ix). E quale poi era di cotesti
perfetti la vita , i costumi ? Oiraè 1 non era vizio che potesse macchiare li
loro santità ; bastava loro 1' infinita sapienza. Quindi chi volesse vedere
quali mostruose e sozze cose operassero , legga Ireneo ( l. c.) ed Epifanio
{Haer. XXXI), ed imparerà di che fatta sia la perfezione di que' filosi
a' quali tutta la natura divina è manifesta !
non si vogliono riconoscere idee vuote- Quindi conviene
che entri in mezzo l' immaginazione (t) che renda con
creto l'astratto, che ciò che è vuoto renda pieno: ecco
la confusione ed il rimescolamento di tutte le cose nel
regno della filosofia: si spiega, è vero, una grande at
tività in queste permutazioni e contraffazioni d'idee,
una attività creatrice; ma perciò slesso un'attività falsa,
un' attività pel male (3).
Ciò che è strano però si è il vedere che Bardilli ,
che pure riduce ogni pensiero ed una prima fonte iden
tica colla fonte dell'essere, segni poi l' essere in se stesso
con questa strana forinola B—È, la quale non altro
esprime che il nulla. Così, sostituito il nulla sW esserey
si è pervenuto al contrario termine da quello a cui si
tendeva, perciocché mentre si voleva realizzare e compire
ogni pensiero, si giunse in quella vece a trovare il
nulla per fondamento di ogni pensiero (3).
Di più ancora : Bardilli partì dall' applicazione del
pensiero, senza la quale egli conobbe non potersi cono
scere il pensiero puro. Dov' egli tendeva come in suo
termine? al pensiero puro. Quindi così pose il problema
della filosofia: «In che modo si può riportare il pen
ti siero come pensiero, nella sua applicazione come appli-
« cazione, al pensiero stesso come pensiero »? e in altre
parole: «Come si può riportare il pensiero applicato,
« al pensiero puro anteriore ad ogni applicazione» (4)?

(1) Ho già osservato l'errore de' nuovi platonici, che cangiano Dio in
una ideo astratta della mente umana, o questa idea astratta in Dio ( Ved.
il Voi. I degli Opuscoli Filos. face. 4.1 )■ Cosi la mente si divinizza; una
idea diventa un ente , il primo degli enti : si presenta in tali confusioni e
pervertimenti un caos filosofico , si scuopre il gran nulla t
(a) I santi Padri riconobbero una grande attività di spirito ne' Valenti-
niani , e in altri tali acuti eretici. San Girolamo dice, che non può inventare
tali errori. Risi qui ardentis ingenii est, et habtt dona naturae quae a Dea
artifice sunt creata. E soggiunge: Talis Jkil Valentinus , talis Marcion ,
quos doctissimos legimus. In Os. c. X.
(3) Colla lettera B segna il Bardilli la realità, cioè quel carattere che
risulla dal pensiero applicato alla sua materia, e col segno — B vuol signi
ficare il pensiero presente all' applicazione. Or come mai il pensiero
presente nell' applicazione sua alla materia sarà una semplice nega
zione della materia?
(4) Sembrerebbe che nel sistema di Bardilli questo pensiero puro ed as
soluto fosse l'ultimo anzi che il primo, mentre Bardilli parte dall' applica
zione del pensiero per recar poi tutto al pensiero puro ; c che quindi non
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. HI. 38
298
11 pensiefo come pensiero di Bardili) è un pensiero
privo di soggetto, di oggetto, di relazione fra soggetto
ed oggetto, si esprime con un infinitivo pensare deter
minato e determinante. Ora un simile pensiero non può
essere che un astratto, nè mai alcuno l' esperimentò o
il conobbe esistente in realtà. E veramente il pensiero
non può essere che un atto, nè un atto può" esistere
se non c' è chi lo fa , e se non ha un termine ove fini
sca e riposi. Il Bardilli accorda che questo pensare non
si può conoscere in sè stesso , ma solo nella sua appli
cazione: tuttavia egli, senza prova alcuna, siccome
Schelling, ve lo presenta quasi fosse qualche cosa di
sussistente e di attivissimo.
Ed è pure degno di attenzione , quanto i filosofi della
scuola tedesca abusino dell' astrazione. Egli sembra un
principio del senso comune questo, che « togliendo via
da una cosa qualche sua parte, ella si renda più pio-
cola», e in generale, « togliendo via da una cosa qual
che sua perfezione , ella si rimanga più imperfetta »,
Ora certo è che l' oggetto del pensiero è una perfezione
del pensiero: più sono gli oggetti a cui il pensiero si
estende , più egli è vasto e perfetto. Diminuisco io
gli oggetti al pensiero ? ed io rendo qutl pensiero meno
conoscitivo, lo impiccolisco, lo rendo meno attivo. Ri
duco io gli oggetti del pensiero a piccolissimo numero
ed a cose tenuissime? ho impoverito il pensiero via più.
Tolgo io via tutti i suoi oggetti? il pensiero reale più
non esiste , non esiste al più che un concetto astratto
del pensare. Non sembra, che ridotto il pensiero a que
sto stato, io 1' abbia condotto al suo stato imperfettis
simo? ad una mera potenza senz'atto? Certo così di
rebbe il buon senso, e il senso comuue. Quel pensare

potesse convenire la censura che abbiamo fatta di Bardilli al cominci»-


mento di questo articolo , la quale sta bene a Schelling. Ma chi ben ad
dentro vedrà nel sistema di Bardilli, s' accorgerà che anche questo merilt
la stessa animavversione. Perciocché anche Bardilli nel riportare tatto «1-
l'assoluto (pensiero come pensiero) mette il fondamento di ogni co$naw*t
ragionevole. Nulla cognizione adunque , nulla certezza prima d' avere ri
portalo la cognizione all' assoluto. Non comincia adunque in questo sistemi
la cognizione e la certezza umana se non dall' assoluto : ed i ragionamenti
che fa Bardilli per rinvenire e fondare questo assoluto sono quindi tutti p+
tuiti e ipotetici ; il sistema dunque è privo di un punto fermo su cui *
così astratto c vuoto d'ogni oggetto è una lenuissiina
astrazione. Non è così per Bardilli. Egli , sull' orme di
Schelling , di tutto ciò non s' accorge , e pretende anzi
d' essere pervenuto con tale astrazione alla massima at
tività del pensiero ; egli nega che quel pensiero sia vuoto,
ma sostiene che si debba chiamare pensiero puro. Que
sta è una evidente falsità e stranezza ; ma conviene ve
dere che cosa può aver condotto que' filosofi ad un sì
nuovo errore.
Primieramente si osservi , che quando si spoglia il
pensare di tutti i suoi modi , non rimane che il pen
siero essenziale, cioè ciò che forma l' essenza dell' attività
pensante. Ora egli è facile supporre questa essenza esi
stente per sè stessa, in luogo che riconoscerla per una
semplice astrazione della nostra mente. A prendere que
sto equivoco , e trasformare un'attività mentale ed astratta
in una attività reale, basta ignorare la natura del no
stro concepire astratto , che non è concezione di alcuna
cosa , ma più tosto uno iniziamento della concezione.
Confusero dunque l' essenziale pensare, come noi lo pen
siamo astrattamente e inizialmente, il quale non ha al
cuna esistenza reale e propria , coli' essenziale pensare
compito e sussistente: e così supposero che il pensar
nostro, diviso per virtù della mente da' suoi oggetti, e
solo in sè stesso contemplato , desse un concetto di
una attività di pensiero essenziale, e però infinita.
Essi non conobbero adunque bene la natura del no
stro concepire, il qual concepire (nell'ordine naturale)
non vede per sè le essenze delle cose sussistenti , ma
solo in tanto che il senso gliele somministra ; e di lutto
ciò che il senso non somministra , nulla conosce fuor
che l'essere comunissimo, che non costituisce veruna
essenza reale o sia di cosa sussistente. Essi confusero
adunque insieme i due significati che prende in latino
la parola infinitum , la quale vale egualmente per dire
1 ,° che la cosa non è finita, è priva del suo debito fine ,
delle sue determinazioni, in una parola è imperfettissima ;
2." e che la cosa è priva di limiti e di confini , è per-
Rettissima. Ciò che è indeterminato e quindi imperfettis
simo, essi presero per ciò che è completissimo e per
fettissimo. Il pensare dell' uomo privo de' suoi oggetti è
indeterminato e imperfettissimo: e in questa indetermina
zione essi videro, colla loro fantasia, l'infinito in con
Zoo
tra rio senso da quello nel quale vedere ce lo domano.
In fatti , avvi nn infinito negativo o sia in polenta, ed
è proprio dell' intelligenza nostra , la quale non essendo
a nulla determinata , può però ricevere tutte le forme
e tutte le determinazioni 5 ma non già un infinito poti-
tivo. Intanto nell' infinito negativo in luogo di vedere
un gran vuoto da riempiere, si compiacquero di vedere
un1 infinita attività creata dalle loro fantasie. Tuttavia
nell' infinito negativo, cioè nella mancanza di tutto,
non potevano non riconoscere il nulla; quindi parlarono
del gran nulla come del fonte del tutto! « L* /o , dice
« Schelling (e vuol dire V Io primitivo), non è punto
« un essere, una cosa ; egli non ha alcuno attributo fuori
« che questa proprietà negativa. Il primo problema della
« filosofia è di trovar ciò che non possa essere assoluta-
« mente conosciuto come un essere » (1). Essi vengono
adunque a confessare di far creare tutte le cose dal
nulla! al nulla discesero per trovare la massima atti
vità ! Se questo non è un contraddirsi manifesto, non
so qual sarà. A me pare che Dio abbia fatto giusti
zia di costoro , confondendo a questo segno la loro
lingua. Essi dissero : « Filosofare sulla natura, è la ice-
« desima cosa che creare la natura » (2). Sì, e Iddio
vi permette por mano a crear la natura; a patto però
che voi confessiate, che tutta l'attività creatrice che
è in vostro potere, la cercate e la - trovate nel nulla!
Così questi filosofi , nuovi creatori , pronunziano sen
tenza di sè stessi. Grandi e laboriose sono le loro spe
culazioni : ma rinvengono finalmente l'attività creatrice?
dove mai l'hanno essi rinvenuta? nell'uomo certamen
te ; ma levando dall' uomo tutto ciò che a quella at
tività creatrice non si dicea. Ciò che rimase dopo le
vato tutto questo, fu quella cercata attività: or che
rimase? il nulla, il perfetto nulla.
Questo ancora conferì a produrre 1' errore di credere,
che il concetto del semplice pensare spoglio de' suoi
oggetti contenesse qualche cosa d' infinito, un'infinita
attività. Gli oggetti reali e positivi del pensier nostro
sono limitati. Essi dunque furono presi per altrettante

(1) Systèrne des trascendentale! Idealismus, 1800, VoL III, face.


(a) Natur-Wissencliafl , face. 3.
3oi
limitazioni del pensiero; e fu creduto quindi , che tolte
via tutte le limitazioni , si avrebbe un pensiero infinito.
Ma è un errore il credere, che togliendo via dal pen
siero gli oggetti finiti , si togliessero da lui le limita
zioni. Ciò sarebbe stato vero, se il pensiero avesse avuto
per sè un oggetto infinito e completo , il quale venisse
limitato dagli oggetti. Ma il pensiero ha bensì per sè
un oggetto infinito, l' essere in universale) ma primie
ramente quest'essere non è infinito che inizialmente,
come fu detto, e non completamente; egli è anzi in
determinato che infinito, preso nel senso positivo, m per
chè l'essere che noi veggiamo è l'atto di essere nel suo
principio, ma privo de' termini ove quest'alto si compie
e riposa » (i). In secondo luogo, col sopravvenire degli
oggetti finiti e determinati nell' intelletto nostro , non
cessa di risplendere in esso 1' essere in universale , ma
questo rimane immutabile, e solo si de termi ua, finisce
e perfeziona parzialmente negli oggetti limitati che l'in
telletto riceve. Gli oggetti limitati dell' intelletto sono
«de' perfezionamenti parziali dell'idea dell'essere iu
universale ». Quest' idea dunque riman sempre nella
mente; salvochè, togliendo da lei i suoi perfezionamenti
parziali, o sia le sue determinazioni, ella rimane nello
stato dell' imperfezion primitiva , nella massima imper
fezione , coni' ella si stava in noi nel primo momento
che ci fu impressa. Colla concezione degli oggetti par
ticolari si trae 1' intelletto nostro dalla potenza all'atto,
come ho altrove mostrato, e quindi gli oggetti parti
colari sono anch' essi, come assai bene conobbero gli
antichi , altrettante forme che informano e perfezionano
1' intelletto traendolo ad un atto perfetto, e non ma
teria del medesimo (a).
Se io prendo un oggetto limitato, e tolgo via da lui
i suoi limiti, egli mi si rende in qualche modo illimi
tato. Questo discorso , che va bene applicato agli og
getti del pensiero, non si può applicare al pensiero stesso
nel modo che fa Bardi Ili con altri tedeschi. Essi non
distinguono negli oggetti i.* il positivo 2' e la limita-

(1) Questi termini sono le essenze specifiche e generiche delle cose. Nes
suna di queste essenze è in noi innata.
(3) Voi. II, face. 462 e segg.
I

3oa
rione: ma suppongono che gli oggetti stessi sieno limi
tazioni del pensiero e nulla più ; e ciò perchè non ana
lizzarono abbastanza il pensiero, non distinsero con
abbastanza precisione e chiarezza 1' atto del pensiero e
1' oggetto suo: e in vece di partir da questo, partirono
da quello, come ho detto già sopra (i), e attribuirono
all'atto del pensiero ciò che nel solo oggetto del pen
siero si avvera.
Oltracciò il materialismo del secolo si vede penetrato
in quelle speculazioni sì astratte e apparentemente volle
ad uno spiritualismo esagerato. Perciocché avendo co
storo sempre presente ciò che avviene nel senso, par
lano dell' intelletto colle maniere solo a questo appli
cabili. E come nel senso videro la materia , così supposero
che anche gli oggetti dell' intendimento fossero qualche
cosa di simile alla materia , e eh' essi restringessero e
limitassero l' intelletto ; e non conobbero anzi il loro
esser di forma ; di che avvenne, che in togliendoli via
dall'intelletto, parve ad essi di sgombrare l'intelletto
da qualche cosa di materiale che 1' angustiasse (a).
A malgrado di tutto ciò, ricadono a quando a quando
nella contraddizione sopra indicata, di mettere il mas
simo positivo nel negativo. Poiché non possono talora
non vedere, che, depauperato l'intelletto de' suoi og
getti , egli s' attenua, e riman poco, e finalmente nulla.
Bardilli dice , che il pensiero, sgombrato da ogni og
getto e da ogni soggetto , si appura , e rimane il pen
sare come pensare, che è quanto dire l'essenziale pen
sare. Ma che cosa è , secondo Bardilli , questo pensare
come pensare? La possibilità delle cose. Or qui vedete
intanto come continua l' equivoco tante volte da me
indicato , di attribuire all' atto del pensiero ciò che non
appartiene che all'oggetto del pensiero. Io ho dimostrato,
che la possibilità non è che una proprietà dell' oggetto
essenziale del pensiero , cioè dell' essere in universale.

(i) Face. a5g e segg.


(a) S. Tommaso all' opposto insegnò , che I' oggetto del pensiero perfe
zionava il pensiero : Specie* enim intelligibili* principiarti formale est «•
tellectualis operationis , sicut forma cujuslibet agenlis principium est
priae operationis. C. G. I, xlvi- E capo xlviii : intellectum est perfectio «•
telligcntis: secundum enim hoc intelleclus perfeclns est t/aod aetu inlell$:
tjuod'quidem est per hoc quod est unum cum eo quod intelligitur.
3o3
Bardilli non la ripone nell' oggetto del pensiero, ma
nel pensare come pensare. Ecco trasferito ciò che è
proprio dell'oggetto del pensiero, all'atto del medesimo.
Di più: come esprime Bardilli questa possibilità?
Come una quantità negativa (i). La possibilità è adun
que una pura negazione di realità? Troppo poco, a dir
vero, è questa possibilità: poiché una quantità negativa
è meno che il nulla.
E pure la possibilità, che d' una parte per Bardilli
è una quantità negativa, dall'altra per lui è il fonda
mento della realità, è il pensare come pensare, la somma
attività, Dio medesimo!
La possibilità è dunque meno che il nulla , e meno
che il nulla è il vostro Dio : si è divinizzato il nulla,
il meno che il nulla ! Questa possibilità però è il pen
sare come pensare , e si trova nell' uomo. Ecco il pen
sare dell'uomo da una parte dichiarato nulla, dall'al
tra dichiarato Dio!
La realità , dice il nostro filosofo , non è che una
nuova determinazione della possibilità. La possibilità
dunque è una determinazione del nulla! e nello stesso
tempo una determinazione di Dio! La materia fa questa
determinazione; ma essa stessa non è che pel pensiero
e col pensiero, il quale si moltiplica replicando sè
stesso in sè stesso. Intanto la possibilità e la realità sono
fattori che entrano in ogni oggetto, e compongono la
natura, che non è se non una manifestazione, una de
terminazione di quel Dio che è nulla!
Questi non sembrano solamente deliri d' infermi , ma
ben ancora punizioni di uomini temerarj.

(i) —B è per Bardilli il segno che esprime la possibilità.


3o/j
CAPITOLO III.

SUL PUNTO DI PARTENZA DELLA FILOSOFIA


DEL SIGNOR PROF. COUS1N.

ARTICOLO I.
ESPOSIZIONE DEL SISTEMA.

Il signor Vittore Cousin , professore di Filosofia alla


facoltà delle lettere di Parigi, derivò molte sue dot
trine dalla scuola tedesca: ma la chiarezza della lingua
di cui egli fa uso, la facondia sua propria , e il metodo
più sano ond' egli le tratta, danno a quelle dottrine
delle forme eleganti, ed un nuovo splendore, nel tempo
stesso che le rendono più popolari, facendole discendere
da un' altezza sospetta ai più che non la raggiungono,
e conducendole a intrattenersi nella comune società de
gli uomini.
Egli parte da un fatto della coscienza.
Questo fatto della coscienza manifesta tre idee, che
costituiscono, com' egli dice, il fondo stesso della ra
gione (i).
Ecco com'egli si esprime sul fatto della coscienza,
dal quale egli parte.
u Lo studio della coscienza (2) è Io studio dell'urna-
« nilà. Lo studio della coscienza nel dizionario filoso-
« fico s'appella Psicologia. Nella coscienza vi hanno
« mille e mille fenomeni come nel mondo esteriore, ma

(1) Lezione V del 21 Maggio 1828, face. i5.


(2) La precisione delle espressioni non è mai soverchia , quando la di
scussione è recata agli ultimi termini. In un ragionamento spinto moli"
innanzi, qualunque menomo difetto di espressione è fatale, è germe à
errori gravissimi nelle conseguenze. Perciò io non credo inutile di notare
ogni piccola cosa, che a me paja inesatta nelle espressioni del signor Coti-
sin. A ragion d'esempio osserverò qui, che questa maniera, * Lo slud'o
della coscienza è lo studio dell' umanità », sebbene abbia un senso veri.-
simo, tuttavia ella presenta d' altra parte anche un senso falso. La (*■
scienza è sensitiva e intellettiva. In quanto ella è iutellettiva ci conduce »
delle cose che sono fuori della coscienza , delle quali lo studio dell'untami»
ha bisogno. La parola coscienza adunque o esprime solamente un' aflenoo
soggettiva; e presa in questo significato, non è vero che si rinserri in <ju^
slo solo lo studio dell' umanità: o ci manoduce a degli oggetti fuori di
noi, e diversi nel loro alto di esistere dalla coscienza noslra; e lo siu^
della umanità anche collo studio di questi oggetti si compieta, sebbe*
non sieno nella nostra coscienza.
3o5
« tulli i fatti della coscienza possono riassumersi e si
« riassumono (io credo d'averlo altra volta mostrato)
« in un fatto costante, permanente, universale, che
« sussiste in tutte le circostanze possibili, che ha luogo
« nella coscienza di un pastore come in quella di Inib
ii nizio, e che sta nella coscienza ad una sola condi-
« zione, cioè alla condizione che v'abbia un atto della
« coscienza » (i).
Ed ecco come egli descrive questo fatto principale :
« Fino a tanto che l'uomo non si conosce, non s'ap-
« percepisce, egli non ha coscienza di sè, non conosce,
« non appercepisce nulla (2) ; poiché noi non possiamo
« saper cos' alcuna se non in tanto che noi siamo per
« noi slessi (3), cioè a dire in tanto che noi sappiamo
« che noi siamo. Ogni sapere qualunque implica il sa
ie pere di sè stesso (4), non certo un sapere sviluppato,
« ma quel sapere che consiste almeno in sapere che noi
« siamo (5). Fino a tanto che 1' uomo non è per sè,
« egli è come se non fosse; ma dall'istante ch'egli si
« conosce (e notate ch'io non parlo qui di un sapere
« sviluppato e scientifico ), egli non si conosce che a

(1) I titoli di costante, permanente , universale ecc., non si debbono in


tendere nel loro senso rigoroso: in fatti quel fatto della coscienza è con
dizionalo; egli esige che la coscienza cominci ad essere, ch'ella abbia uu
alto. Or la coscienza individuale dell'uomo non essendo necessaria ni
avendo sempre esistito, nè pur fu sempre quel fatto che nella nostra co
scienza contingente si manifesta.
(2) Io ho già mostrato, Voi. II, face. 40 e segg. , che l'essere in «ni»
versale è conosciuto da noi prima che abbiamo idea e però coscienza di
noi stessi , ma in tale stato , in cui non abbiamo di noi che un puro sen
timento, non una cognizione. Medesimamente io sono convinto, come dissi,
che noi conosciamo il mondo esteriore prima di noi stessi.
(3) Questa frase, « essere per noi stessi», non ha una piena verità se
non nel sistema di Fichte , nel quale l' Io pone sè stesso con una attività
sua propria : ma di questa attivila nuova manca ogni ragion sufficiente ,
siccome ho detto (face. 266); é quindi l'Io che pone, che determina, che
crea liberamente sè stesso , applicalo all' uomo è una chimera. Egli è però
vero, che il passaggio dal non aver coscienza di noi all'averla è ammirando:
ci aggiunge una parte di noi stessi : acquistiamo per esso un nuovo modo
di essere : è un passaggio solenne simile a quello della vita alla morte , e
della morte alla vita.
(4) Questo è quello eh' io nego. Ogni sapere implica il sentimento , ma
non il sapere di sè stesso.
(5) Noi sappiamo di essere , cioè abbiamo l' idea della nostra esistenza
dopo che abbiamo avuta l'idea dell'esistenza in universale.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 39
3oG
« condizione di saper lutto il resto nella maniera che
« sa sè stesso (i). Tutto è dato in lutto (2); e l'uomo
« appercependosi , col pure affacciarsi a sè stesso , tocca
u già col suo intendimento tutto ciò eh' egli può ap-
« prender piò tardi ».
Ora sentiamo in che modo il signor Cousin spiega
questa sua sentenza , che in qualunque cognizione no
stra si debba necessariamente trovar tutto il resto; e
spero che non sarà discaro al mio lettore eh' io rechi
intero il passo sebbene un po' lungo dell' eloquente
filosofo. /
« Quand1 io mi appercepisco , die1 egli , io mi di-'
« scerno da tutto ciò che non sono io (3). E discer-
« nendomi da tutto ciò che non sono io , faccio due
« cose: 1.* affermo me slesso come esistente, a." io af-
« fermo altresì come esistente ciò da cui io mi distin
ti guo (4). Io non sono io , io non sono quest' io che
« non si confonde con nulla di straniero a lui, che a
« condizione di distinguermi da tutto il resto (5) ; e
« distinguersi da qualche cosa è supporre esistente (6)

(1) Quando noi sappiamo di essere, noi sappiamo anco che cosa siamo:
in altre parole, quando noi sappiamo la nostra esistenza, noi abbiamo
ancora l' idea della nostra essenza specifica. Non cosi di tante altre coso ,
delle quali possiamo saper 1' esistenza senza sapere che cosa sieno posiln
vamente, ma conoscendo di esse solo una relazione che hanno eoa ciò che
è a noi positivamente noto.
(2) Questa è una di quelle frasi enfatiche che nulla dicono di preciso. A
me pare evidente, che il necessario non racchiuda il contingente (reale),
né che un contingente racchiuda un altro contingente che da lui nou di
pende. Dunque tutto non è dato in tutto.
(3) Nel caso che io non appercepissi che me stesso, io sarei distinto
dal resto , perchè il resto non lo conoscerei ancora punto né poco.
(4) Nego questa conseguenza : io non penso punto a tutto quello ebe
non sono io, e non pensandoci, non c'è la possibilità ch'io mi confondi
con ciò a cui io non penso , con ciò che non conosco punto. Ora il uoo
pensare una cosa, non è affermare eh' ella esista.
(5) Basta ch'io mi distingua negativamente, cioè basta ch'io non cono
sca tulle l'altre cose, e conosca me solo, perch'io sia già da tulle l'alti*
cose distinto. Il ragionamento del signor Cousin suppone vero quello di'
è in questione, e pecca perciò di petizione di principio. In falli poniamo
che fosse vero che noi nella prima nostra cognizione appercepissimo tulle
le cose : in la] caso solo sarebbe vero che noi non potremmo appercepir noi
stessi se non affermando insieme 1' esistenza deli' altre cose come distinta
da noi.
(6) Se si trattasse di distinguersi con un atto positivo, lo concedo: db
io non ho bisogno di far alcun alto perchè una cosa da me percepita 10
non la confimela con altra cosa clic io non conosco. Io percepisco la cupola
u ciò da cui 1' uomo distingue sè stesso. L1 uomo non
« trova dunque sè stesso se non trovando qualche cosa
« che lo circonda e per conseguente lo limita (i). E
« veramente, tornate un po' dentro di voi : voi conoscerete
« che l' io che siete voi è un io limitalo da tutte parti
« per gli oggetti esteriori (a). Quest'io è dunque finito;
u ed in tanto eh' egli è limitato e finito, egli e l' io (3).
u Ma se il mondo esteriore limita l'/o e gli fa ostacolo
u in tutti i sensi , l' io altresì agisce sul mondo esteriore,
« lo modifica, s'oppone all'azione di lui e gl'imprimé
« 1% sua in qualche grado; e questo grado di azione ,
« sia egli pur debile, si rende pel mondo esteriore un
« confine, un limile (4). Così il mondo o il non-io che
« nella sua opposizione all' io è il limite dell' io , è
« alla sua volta contraddetto, modificato, limitato dal-
« 1' io, il quale perciò nello stesso tempo ch'egli è
u costretto di riconoscersi limitato, terminato, finito,
« marca alla sua volta il mondo esterno (il non-io),
u dal quale egli distingue sè stesso , del carattere di
« terminato , limitato e finito (5). Ecco 1' opposizione

di s. Pietro: si dirà che io ho bisogno di percepire altresì la torre di Pisa


per non confonderla con questa? avrò io bisogno d' affermare 1' esisteoza
dell' obelisco di Sisto, per poter dire d'aver percepito distintamente 1' A-
pollo vaticano ? L' una percezione è distinta dall' altra per sua natura , e
non per uu atto positivo che io faccia, col quale dall'altra cose io la se
pari affermando la sua esistenza. Non nego però, che ov'io trovi e noti
maggiori differenze delle cose in fra loro, massime delle cose simili, io mi
formi con ciò una più distinta nozione di ciascuna.
(i) L'uomo non è limitato dall'altre cose: è la sua natura stessa clic
è limitata: quindi percepisce i suoi limiti percependo la sua natura; la
quale è distinta essenzialmente dall' altre nature per sè medesima.
(3) Gli oggetti esteriori non fanno che metter de' limili all' esercizio delle
nostre forze, e agli effetti che le nostre forze fuor di sè potrebber pro
durre; questa non è la limitazione essenziale dell'uomo, ma è una conse
guenza, un effetto della limitazione essenziale : il mondo dunque non è quello
che limita essenzialmente 1* uomo : se non ci fosse il mondo , 1' uomo sa
rebbe ugualmente limitato.
(3) Non in tanto che è limitato dalle cose esteriori, ma in tanto che ha
una limitazione interna e intrinseca alla sua natura.
(4) Il mondo esteriore non riceve la sua limitazione dall' Io, ma la ha
in sé medesimo , nella sua propria natura. Non si può dire né pure, pro
priamente parlando, che l' io limili V azione delle forze del mondo este
riore; ma ne modifica solo gli effetti, rimanendo ugu.ile la quantità
A' azione : molto più però che 1 lo, le forze slesse del mondo esteriore si
contrappongono viceudevolmeute e s' impediscono ne' loro movimenti od
efletti.
(5) Tutto ciò è falso, come abbiamo detto nelle note precedenti : il mondo
sarebbe limitato, quantunque non ci fosse 1' uomo.
3o8
« mutua nella quale noi sentiamo noi stessi; questa op-
« posizione è permanente nella coscienza, dura quanto
« la coscienza (i).
Fin qui si vede il linguaggio di Fichte ; ma il filo
sofo francese passa ben tosto più innanzi , accompa
gnandosi, com'egli pare, con Schelling nel modo se
guente :
« Questa opposizione , a ben riflettere , si risolve in
a una sola e medesima nozione , quella del finito. Que-
« st' io che noi siamo è finito : il non-io che lo limita
u è parimente finito e limitato dall' io (2). Essi sono
« limitali in gradi diversi, ma sono pure entrambi li
ei mitati ; noi siamo dunque ancora nella sfera del finito.
« Non v'ha egli altro nella coscienza?
u Sì : nello stesso tempo che la coscienza percepisce
« l' io come finito nella sua opposizione al non-io finito
« parimente, ella riferisce quest'io e questo non-io
« finiti, limitali, relativi, contingenti, a una unità
« superiore, assoluta e necessaria che li contiene in aè
u e che li spiega, e che ha tutti i caratteri opposti a
u quelli che 1' io trova in sè stesso e nel non-io che
u gli è analogo (3). Questa unità è assoluta, come l'io
« e il non-io sono relativi. Questa unità è una so-
u stanza (4), come V io e il non-io, sebbene sostanziali

(1) Noi sentiamo noi stessi per un sentimento fondamentale , e questo


sentimento di noi stessi accompagna le sensazioni che riceviamo dal mondo
esteriore. Queste poi se in parte ci limitano, in parte tolgono altresì h
nostra limitazione naturale, quale è quella della nullità di percezioni sen
sibili, e della ignoranza ebe è in noi precedentemente alle sensazioni
acquisite.
(a) Si veggano le note precedenti.
(3) L' analisi della percezione intellettiva non dà tutto ciò. Ciò ch'eli»
dà si è, che V uomo, percependo qualche cosa di finito siccome sè stesso, o
qualche oggetto esterno ( gli oggetti poi finiti nel concello loro sono lutti
indipendenti cosi, che si può percepir l'uno senza dell'altro), egli rifensw
questo oggetto finito, percepito col sentimento, ali' idea delt essere in uni
versale , e con questa relazione lo intende. Ora in questa prima operai'**
l'essere è una unità assoluta e necessaria, ma solamente uell' ordine logio>!
quell'essere non si percepisce immediatamente come un ente reale, «etile
la sussistenza in sè, nel qual rispetto si riconosce per sostanza e per causa.
Nella prima percezione adunque entra bensì qualche cosa di assoluto, cioè
V essere come principio della cognizione, ma non l'essere come sussiste*!*!
sostanza e causa suprema.
(4) L' idea dell' essere che si contiene nella prima percezione non è V
sussistenza ancora per noi, quindi non si può dire ancora un» sostaim>
una causa. Bensì è vero, che mediante una riflessione sull'essere sic*»3
« per la loro relazione colla sostanza, sono in sè slessi
u de' semplici fenomeni, limitali come i fenomeni, spa
ti renli e ricomparenti come fanno i fenomeni (i). Di
« più questa unità superiore non è solo una sostanza ,
« è una causa altresì. E veramente P io non si sente
« che ne1 suoi atti, come una causa che agisce sul mondo
« esteriore (2); e il mondo esteriore non entra nella
u conoscenza dell' io se non per le impressioni ch'egli
« fa sopra di questo, per le sensazioni che I' io prova,
u e non produce, non può distruggere, non può quindi
u riferire a se, e perciò riferisce a qualche cosa di slra-
« niero a sè siccome a causa : questa causa fuor di lui
« è il mondo (3): ma avendovi qui una causa finita, e

può venire a conoscere che ci dee essere un essere primo e sussistente,


compimento dell' essere mentale; ma ciò non vuol dire che 1' abbiam per
cepito nel primo atto della nostra coscienza intellettiva , ma sì solo , che
n'abbiamo percepito un indizio, una similitudine, una condizionale, una
regola per conoscere , un cominciamento. Altri domanda : Quale è la via
di Roma? gli viene risposto: Questa: egli la vede, l'ha percepita. Ha per
cepito per questo Roma? Non ancora, ina solo il mezzo da giungervi. Al
cun ali ro chiede: Quant'è l'altezza di quella montagna? Un geometra si
accosta , e gì' insegna il metodo migl iore da rilevare quell' altezza. Colui
die I' ha appreso sa ancora qual sia l'altezza della montagna? Né puulo
uè poco. Può essere che taluno risponda al geometra : Clic mi trattieni
insegnandomi questo metodo? io ho ora bisogno di saper quell' altezza , e
non il metodo di trovarla. Il conoscere adunque la via o la regola per
rinvenire una cosa o una cognizione che noi cerchiamo, non è punto il
medesimo che 1' avere già quella cosa o quella cognizione. Quindi se Del
l' analisi della prima nostra percezione, nel primissimo atto della nostra
coscienza intellettiva si trova un dato, una via. uua regola, secondo la
quale noi poi ragionando possiamo venire alla cognizione dell'esistenza di
un eute primo , assoluto, sostanza essenziale, essenziale causa; non conse
gue mica da ciò , che anche 1' esistenza del detto essere sia a noi data in
quella prima percezione , e molto meno che si debba conchiudcre percepir
noi il detto essere nella prima delle nostre percezioni.
(ì) L' lo intellettivo comparito una volta, non iscomparisce più, perchè
è immortale. Gli elementi della materia non iscompariscono , ma solo le
loro varie composizioni.
(a) Si sente anche in sè stesso, ed è perchè sente sè , che sente il
mondo esteriore. Egli però avverte di sentirsi solo dopo che ba sentilo
il mondo esteriore. '
(5) Il sig. Cousin qui suppone che lo spirito umano i."si senta modifi
cato dal mondo esteriore; 3.° che non potendo riferire a sè queste modi
ficazioni, le riferisca ad un ageute esteriore, al mondo; 3.° che, essendo il
mondo limitato, ricorra in ultimo ad una causa illimitata. Non sono questi
Ire passi? non sono essi essenzialmente successivi? può lo spirilo nostro
riferire al mondo esteriore le sue sensazioni, senza aver prima provale le
sensazioni stesse? può ricorrere ab" ultima causa senza aver prima provate
le sensazioni , e riferitele al mondo , e trovato questo limitato ed esigente
un illimitato ? Se questi tre passi sono successivi, non si possono dunque
3io
u l'io pure essendo una causa finita; 1' unità, la so-
u stanza che contiene l'io, e il non-io essendo una
« causa , dee essere conseguentemente alla sua natura
« una causa infinita » (i).

ARTICOLO IL
£ IMPOSSIBILE PARTIRE DALLA TRIPLICE PERCEZIONE DEL SIC. FROr. MOSI.

§ I.
Non è necessario che nella prima percezione si percepisca
la causa assoluta ed infinita.
Non si dee confondere 1' ordine delle cose reali e sus
sistenti in sè, coli1 ordine delle idee che non sono che
nella mente.
Nell'ordine delle cose reali egli è manifesto, che non
può sussistere nessun essere contingente e limitato, se
non esiste un essere necessario ed assoluto che gli dia
1' esistenza.
Ma dato che degli esseri contingenti e limitali già
sussistano , si possono essi percepire anche senza biso
gno di percepire l' essere necessario ed assoluto che ha
dato loro 1' esistenza ? Questa è una questione appar
tenente all'ordine delle idee, al modo del percepire,
e che non conviene confondere colla prima.
Ora quale può essere il diritto metodo da seguire a
chi voglia sciorre questa seconda questione? Forse l'e
saminare la relazione che tiene l'essere contingente col-
Tessere necessario? No certo; questo sarebbe un ricor
rere all'ordine delle cose reali , e non un cercar l'ordine
e la natura delle idee e delle percezioni. Il vero e na
turai metodo non può esser altro che questo, di pigliare
Ja percezione intellettiva siccome ella è nel fatto, osser
varla f e sottometterla all' analisi: non esaminar già
com' ella debba essere, ma contentarsi di riconoscere
com' ella è. Tutti i ragionamenti del professore di Pa
rigi si riducono a stabilire a priori come la percezione

trovare tulli tre nel primo atto della coscienza; ma in questa fori'é
prima entrino le sensazioni, di poi il peusiero del mondo esteriore, osa
la percezione de' corpi, e in terzo luogo che sopravvenga una nllessioi*
colla quale finalmente 1' uomo s' innalzi a Dio.
(i) Lecon ai Mai 1829.
3n
debba essere; e questo è un fare abuso del ragiona
mento a priori: egli ci dice in sostanza : « Il finito non
può stare senza l'infinito; dunque il finito non si può
percepire senza l'infinito». Il principio è vero; la con
seguenza è falsa: il principio appartiene all'ordine delle
cose reali; le conseguenze appartengono all'ordine delle
idee: sono mescolati i due ordini; nè ciò che è vero
nel primo, si dee credere necessariamente vero nel se
condo, se non si prova.
Non conviene dunque cominciare dall' impor leggi alla
natura della cognizione; noi non siamo da tanto. Con
viene in quella vece che noi cominciamo dall' espe
rienza, che prendiamo il fatto della cognizione tale
quale egli è, non quale noi crediamo che debba essere,
che lo analizziamo, e che veggiamo ciò ch'esso contiene,
e quindi quali leggi egli segua. Ora la percezione nostra
si limita e termina negli oggetti percepiti (i); non va
oltre questa: se uno e limitato n' è 1' oggetto, uno è il
termine della percezione ed egualmente limitato. Ma
quell'oggetto non esiste se non condizionatamente ad
altri oggetti. Sarà vero questo : ma esiste tuttavia la
percezione di quell'oggetto indipendentemente dalle per
cezioni degli oggetti da' quali quel primo dipende : io
posso percepire e conoscere il figlio nella sua propria
esistenza senza conoscere il padre, posso conoscere il
ruscello senza conoscer la fonte , posso percepire un
frutto senza aver mai veduta la pianta ; e tuttavia il
figlio non esiste senza il padre, nè il ruscello senza la
fonie, nè il frutto senza la pianta. Così parimente posso
percepire il limitato senza percepire positivamente l' il
limitato; sebbene il limitato non possa essere senza l'il
limitato. E se si vuole analizzar bene la percezione in
tellettiva degli esseri limitali, si troverà bensì ch' ella
racchiude un concetto incipiente dell'illimitato (l'idea
dell'essere), ma nessuna positiva cognizione, nessuna
percezione di un essere illimitato sussistente. La quale
distinzione fra la parte positiva e la parte vuota o in
cipiente delle nostre idee è sufficiente a sciorre tutte le
apparenti ragioni, dalle quali può essere stata ingenerata
quella opinione che rincresce a me di non poter divi
dere col valente professor parigino.

(i) Voi. II , face. g3.


3I2
§ 3.
Non è necessario che nella percezione del mondo noi percepiamo
intellettivamente nor stessi.

Io proverò questa proposizione al modo stesso onde


ho provata la precedente, cioè richiamando il lettore
ad una analisi accurata dell'atto del percepire; e per
chè apparisca più evidente la prova, mi gioverò di una
qualità che quell'atto della percezione ha comune con
qualunque azione di un essere finito. A maggior chia
rezza poi distribuirò lutto in una serie di proposizioni.
Prima proposizione. L' esperienza dimostra , che ogni
azione di un essere limitato ha un termine, o fuori
dell' operante, o almeno distinto dal cominciameclo
dell'azione.
E veramente 1' azione di un essere limitato che co
mincia , procede, finisce, è una specie di movimento,
pel quale l'attività dell' essere sorte da quello stato di
virtualità o di potenza, e viene a produrre l'effetto: e
questo effetto , termine di quella attività che si spiega
e trae fuori , è sempre diverso dal principio e dalla
radice dell'atto. Perciocché s'egli non fosse in nesso»
modo diverso, non si potrebbe concepire mutazione av
venuta; mentre nel concetto di mutazione sta essen
zialmente diversità e distinzione. Quando poi l'azione
termina fuori dell'ente operante, allora questo non avviene
se non per un cotal toccamento, o sia unione strettis
sima e continua coli' effetto prodotto esternamente, du
rante 1' atto nel quale è prodotto: prodotto poi 1' effetto,
si stacca talora, o sembra staccato dall' azione della sua
causa; talora anche cessa questa, e 1' effetto allora solo
ritrovasi perfettamente distinto ed esteriore. È dunque
legge di ogni essere nel suo operare , di procedere da
dentro di sè al di fuori : sicché la radice dell' attivila
è nella natura intima dell'agente, e il termine nell'e
stremo di lui, o tutto di fuori. Di che viene il corol
lario, che il primo oggetto dell' azione di un essere
finito non è mai 1' essere stesso radicale.
Seconda proposizione. Se ogni nuova azione degli es
seri procede dal di dentro al di fuori dell'essere, con
viene che ciò avvenga ancora dell'azione che fa l'intel
letto umano in percependo.
E ciò pure è confermalo dall' esperienza: e qui""1
3i3
V essere intelligente non può aver mai per primo oggetto
della sua facoltà intellettiva sè stesso.
Terza proposizione. Il termine della percezione è l' og
getto suo , e l' oggetto della percezione vuol dire ciò
che l' uomo colla percezione percepisce e conosce.
Questa proposizione è evidente.
E da essa nasce il corollario, che ciò che coir atto
della percezione si conosce, non è che 1' oggetto della
medesima, e nulla più, nulla meno. Poiché se colla
percezione V uomo percepisse qualche altra cosa oltre
l1 oggetto della percezione, questa cosa percepita sarebbe
appunto oggetto , per la definizione.
Conclusione. Quindi colla prima percezione 1' uomo ,
essere intelligente , non può percepire sè stesso, ma solo
qualche cosa fuori di sè, che gli viene presentato siccome
oggetto. Questo è quello che dall' esperienza vien confer
mato : l'uomo non percepisce sè stesso che mediante una
percezione ri/lessa, colla quale egli ritorna sopra sè stesso:
il mondo esteriore all'incontro lo percepisce con una per
cezione diretta , colla quale per così dire lascia sè slesso,
e sè dimentica, per uscire a conoscere il mondo esteriore,
dove termina la sua percezione , e dove viene dalla li
mitazione dell' oggetto suo limitato. Come adunque il
mondo esteriore non è l' Io percipiente, così la perce
zione del mondo esteriore e quella dell' Io sono due
percezioni essenzialmente distinse; ed è impossibile al
l' uomo di percepire questi due oggetti (la prima volta)
con una identica percezione; non solo perchè essi sono
essenzialmente distinti, ma sì ancora perchè vengono a
lui presentati da due sentimenti essenzialmente diversi,
cioè l'uno da un sentimento interno, l'altro dalle sen
sazioni esterne. Di che avviene, che l'atto del perce
pire in queste due percezioni ha una direzione contra
ria; perocché l'atto del percepire il mondo Ita la direzione
dal di dentro al di fuori, e l'atto di percepire sè stessi
ha la direzione (i) quasi a dir circolare dal di dentro
al di dentro. Ora come un atto stesso non può avere

(i) Non vorrei che altri s'assottigliasse qui per mostrare che questo é
un parlar metaforico. Sia pure , se così si vuole; ma egli non esprime
meno chiaramente una differenza essenziale fra 1' alto col quale si percepi
sce il mondo , e 1' alto col quale si percepisce sè stesso.
Rosmini , Orig. delle Idee, Voi. III. 4°
3i4
due direzioni contrarie, così è assurdo il dire che una
percezione sola e prima percepisca V Io ed il mondo in
uno. Ciò che può aver dato origine a questa falsa cre
denza si è la confusione fra il sentimento e la pera-
zione intellettiva. Poiché noi nel percepire il mondo,
siccome ogni altro oggetto, siamo sempre accompagnati
dal sentimento di noi stessi; dunque, si condii use, per
cepiamo anche intellettivamente noi stessi. Non già, io
rispondo, poiché il sentimento è essenzialmente diverso
dalla percezione intellettiva.

§ 3.
La prima percezione essenziale onde muove ogni ragionamento
è quella dell'essere in universale.

La triplice percezione adunque che descrive il signor


Cousin, e ond' egli pretende che lo spirito umano co
minci le sue operazioni , non esiste. Anzi lo spirito
umano, allorché prima si muove a percepire qualche
cosa, non può percepire più di ciò che il sentimento
gli somministra.
Quindi come il sentimento è duplice, cioè di noi
stessi e delle cose esteriori, così lo spirito non ha ebe
due maniere di percezioni essenzialmente distinte, li
percezione di noi e la percezione del mondo esterno.
La percezione poi dell' infinito non si ha in questa
vita , poiché quest' essere non si fa vedere allo spirito
nostro come sussistente. Quindi di questo non ha l'uomo
se non un'idea negativa o incipiente, ed egli la trac
da una riflessione sulle percezioni di sé e del mondo,
per la quale riconosce che questi enti finiti non po
trebbero essere senza un infinito pel quale fossero.
Lo spirito umano adunque nel primo suo passo non
{>uò cominciare che con una delle due percezioni inlel-
ettive surriferite, i.° del mondo, a.* o di sé: perce
zioni che s' escludono a vicenda , sicché s' egli comincia
coli' una, egli non può cominciare coli' altra (i).

(i) San Tommaso fa cominciare lo sviluppo dell' intelletto umano


percezione del mondo sensibile ; e solamente dopo che l' intelletto ha f"
cepito il mondo sensibile , pensa eh' egli si ripieghi sopra sè medesima
veramente, qual movente potrebbe mai trarre il nostro intelletto a ritorta'
il suo sguardo in sè slesso, movimento quasi contro natura, e cosi ff^15
3,5
Ma sia che cominci coli' una, sìa che cominci col-
l'altra ad esercitare la sua attività, l'analisi di ambe
due quelle percezioni ci dà questo risultamento: che lo
spirito umano non potrebbe cominciare ad avere 1' una
o l'altra di quelle due percezioni, s'egli non avesse
prima una percezione interiore, essenziale, una perce
zione non di un essere sussistente in sè , ma di una
essenza mentale dell'essere sussistente nella mente, del
l'essere in universale, dell'essere alle cose tutte comu
nissimo, o, come l'abbiamo chiamato, iniziale, lume dello
stesso intendimento, e che ne forma la natura, e l'at
tività di percepire e conoscere ogu' altra cosa. È dunque
da questa concezione antecedente a tutto ciò che v' ha
di acquisito nella mente, che conviene muovere come
da suo vero principio la Filosofia, siccome pure è da
questa concezione prima che muove ogni uomo neces
sariamente i suoi ragionamenti, e dalla quale trae tanto
il bifolco ciò che ragiona degli armenti e delle glebe
solcate, quanto il savio ciò che medita intorno al giro
degli astri e alla divina natura.

CAPITOLO IV.

IL RAGIONAMENTO A PRIORI PURO NON CI CONDUCE A CONOSCER


NULLA NELL' ORDINE DEGLI ESSERI SUSSISTENTI E FINITI.

Le cose ragionate fin qui stabiliscono la possibilità


di un ragionamento a priori; perciocché mostrano un
punto luminoso nella mente , anteriore a tutta 1' espe
rienza sensibile, messo in noi come un elemento di no
stra natura, l'elemento razionale di lei, l'essere a noi
sempre presentissimo.

e conoscersi? Nessuno , ove prima egli non sta tratto dalla sua quiete na
turale per gli stimoli delle cose esteriori. Questi traggono a sè da prima
1' attenzione dell' intelletto. E in ciò l' intendimento si può assimigliare
all' occhio. Che cosa 1' occhio vede prima? sè stesso? In modo veruno:
egli drizza prima il suo vedere negli oggetti esteriori , e questa è la scena
che primieramente percepisce. Anzi sè slesso non vedrebbe mai , senza
Io specchio, dcI quale mira non sè, ma la propria immagine, pure con
quell'atto col quale vede l'oggetto esteriore del cristallo piombalo. Questa
parte però non s' acconcia all'intelletto pianamente, poiché l'intelletto
Da una virtù riflessiva a differenza del senso. Ma tuttavia l' intelletto prima
che rifletta , come dicevamo , dee esser messo in movimento , e tratto al
l'atto suo diretto. Vedi s. Tomin. $. I, uuyii, I.
3i6
Trovata la possibilità di un ragionamento puro a
priori, si possono stabilirne i confini col seguente prin
cipio : « Tutto ciò che si comprende nell'idea dell'essere,
o che da questa idea sola ragionando, senz'appoggiarsi
su altro dato di esperienza, cavar si può, appartiene al
ragionamento a priori puro » j e tutto ciò che per co
noscersi da noi , oltre 1' idea dell' essere , ha bisogno
di qualche altro dato di esperienza esterna od interna,
non appartiene al ragionamento a priori puro.
Ciò fermato, l'analisi dell'idea dell'edere in uni
versale mostrerà le forze di questa maniera di ragiona
mento rispondendo alle seguenti questioni : i.° Che cosa
contiene in sè medesima quell' idea ? 2.* Che cosa esige
ella e suppone come condizionale? 3.* Che cosa non
contiene ella ? 4 ° nè dal suo contenuto ragionando si
può dedurre? Cominciamo dalle due ultime di queste
questioni , acciocché pel metodo di esclusione veniamo
a restringere il campo delle nostre ricerche.
I. Che cosa V essere presente alla mente non contiene
in sè medesimo ?
Noi abbiamo veduto, che l'essere, come ci sta pre
sente essenzialmente allo spirito, è incompleto : questa
mancanza di compimento abbiamo trovato consistere
nel mancare de' suoi termini , e nell' esser quindi nn
essere iniziale, e medesimamente un essere comune,
perchè mancando de' termini suoi è atto naturalmente
a terminarsi e completarsi in infinite maniere.
Ora da simigliante limitazione si trae questa conse
guenza , che quell' essere non mostra di sè altra sussi
stenza che nella mente , cioè che ci si presenta come
un oggetto alla mente , e nulla più.
E qui conviene attendere sottilmente , per non con
fondere insieme due cose al tutto distinte. Altro è il
dire «un essere mentale», altro il dire «una modifica-
zion della mente » , quasiché quest' essere che noi reg
giamo non sia nulla più che noi stessi modificati.
Confesso che è alquanto difficile a distinguere queste
due cose, e che tale distinzione è quasi al tutto ignota
ne' nostri tempi; ma ella non è meno vera per questo,
nè men rilevante. Io ripeto ciò che ho tante volte detto:
il filosofo non dee rifuggire alla vista de' fatti ; dee am
metterli, ammetterli tutti, dee anche analizzarli e riceverne
di buon animo il risul tamento: egli può ben dire, lo no"
intendo ; può maravigliarsene a suo grado; ma pure
dee accettarli , e non presumere che una cosa sia nè
più nè meno quale egli se 1' è prefigurala: poiché l'uomo
non può impor leggi alla natura, ma riconoscerle quali
sono , e istruirsene colla loro contemplazione: altra
mente non giungerà ad un vero sapere , ma piglierà
oggi ciò che dimani gli sfuggirà di mano , conosciuto
come una sua svista, una sciocchezza. Tornando dunque
al proposito nostro, è l'analisi accurata del primo fatto
della mente, quale è quello dell'intuizione dell'essere,
che ci dà queste due verità, cioè ch'egli i.° è un es
sere mentale (oggettivo), e non un essere sussistente
in sè, e eh' egli a.* non è tuttavia una semplice modi
ficazione della mente.
i.° E veramente egli è un essere mentale, e non an
cora un essere sussistente in sè fuor della mente. Che
vuol dire « un essere mentale» ? S'intenda bene; vuol
dire un essere che ha la sua esistenza nella mente per
modo, che ove noi supponessimo non esistere qualche
mente ov' egli fosse, la sua esistenza ci sarebbe incon
cepibile; poiché noi non conosciamo di lui il modo come
egli è (se pur è) fuor della mente, ma puramente il
modo com'egli è nella mente; non conosciamo Patto
del suo esistere in sè, ma solo Tatto del suo esistere
nella mente nostra. Ora, bene intesa questa definizione,
egli è per sè manifesto, che l'essere iniziale, l'essere comu
nissimo presenta al nostro spirito una semplice possibilità,
non alcuna sussistenza ; quasi direi un progetto di essere,
ma nessun essere veramente completo e in sè attuato. A
conoscer dunque che l'essere innato è un semplice prin
cipio logico, una regola direttrice del nostro spirito,
un' idea , un' essenza mentale , e non ancora un es
sere reale e sussistente, basta esaminare ed analizzare
imparzialmente quest'essere che noi naturalmente veg-
giamo , il quale, appunto perchè comunissimo a tulli
gli enti sussistenti, non è, nè può essere alcun d'essi,
ma solo il fondamento di tutti. E quindi rimangono
confutati que' Platonici antichi e moderni, i quali con
fusero 1' ordine delle idee coli' ordine delle cose reali ,
e dell' essere ideale fecero un Dio , come delle essenze
od idee delle cose fecero altrettante intelligenze sepa
rate, non essendo essi giunti a conoscere la natura del
l'ente mentale, il quale è pur mentale sebbene non
3i8
sia una modificazione del soggetto limitato e finito che
n' ha la visione (i).
2.* Dico dunque in secondo luogo, ch'egli non è una
semplice modificazione della mente, o sia del soggetto
che n' ha 1' intuizione.
E veramente, questo vero si manifesta pure nell'at
tenta considerazione dell'edere in universale. Nel pen
siero dell'essere noi veggiamo, che 1' essere da noi pen
sato è un oggetto della mente , che anzi è 1' oggettività
di tutti i pensieri della mente, come tante volte abbiam
detto. Egli è dunque per essenza distinto dal soggetto,
e da tutto ciò che al soggetto può appartenere; egli è
il lume del soggetto ; egli è superiore al soggetto; il
soggetto è rispetto a lui passivo , egli è essenzialmente
attivo in un modo suo proprio: il soggetto percipiente
è necessitato di vedere, di assentire all'essere, assai più
che l' occhio aperto di sentire gli acuti raggi del sole
che ha di contro e che pungono la sua retina: l'essere
è immutabile, è qual è; il soggetto è mutabile: Tes
sere impone legge, e modifica il soggetto intuente, giac
ché nell'intuizione dell'essere entra una modificazione,
un' attuazion del soggetto ; ma in questa azione dell'es
sere dal soggetto sofferita , 1' agente e il paziente sono
distinti sempre, perchè in opposizione fra loro , e la
passione del soggetto è infinitamente diversa dall'essere
nel quale termina e col quale si unisce patendo. E tutte
queste osservazioni valgono a ribattere l'errore contrario
a quel de' Platonici surriferiti, e di lutti quelli che, non
trovando nell' idea dell'essere un ente realee sussistente
fuor della mente, gli negano ancora una vera oggetti
vità , e ricorrono a dire che sia puramente soggettivo,
cioè una pura modificazion del soggetto (2).
L' attenta osservazione adunque, posta su quest'essere
che nelle nostre menti naturalmente risplende, conduce
a stabilire , che « quest' essere è un oggetto essenzial
mente diverso dal soggetto che lo percepisce , ma che
tuttavia egli non si pensa da noi fornito di altra esi-

(1) Negli Alhei detteli di Arduino sottosta e domina un concetto rete,


quale è quello, che il divinizzare la verità logica è una specie d' «teismo ;
• e dove si leggano sotto questo aspetto, non si troveranno privi d' interesse-
(a) Non mi sembra che il nostro valentissimo Galluppi siasi bastetol-
mente guardato da questo pericolo.
3,9
stenza fuor solo di quella onde risplende nella mente ,
sicché rimossa ogni mente , non si concepisce più al
cuna sussistenza di quell'essere, e in questo senso si dice
ch'egli è un ente mentale».
Quelli che amano di sistematizzare , immantinente
entrano a dire: « Quell'edere, se non sussiste in sè ( fuor
della mente), non può esser altro che una modifica
zione del soggetto: qui non ci ha mezzo ». Questo sen
tenziare , questo impor leggi alla natura e acconciarla
alla brevità del proprio vedere , è una via troppo mal
sicura. Non ci può esser mezzo? Non cerco io ora ciò j
non mi curo di saper se ci possa essere. Bastami d'aver
rilevato, che 1' essere , che vede la mente umana , nè è
reale e sussistente ( in quanto è veduto da noi ), nè è
una modifìcazion della mente. Se il fatto mi dice che
nè l'uno nè l'altro di questi estremi ha luogo, io di
ciò conchiudo senza più, che un termine medio vi sarà.
E al fatto dee star contenta ogni savia e intelligente
persona : ab esse ad posse datur consecutio.
Conosciuta pertanto la natura dell' essere che luce
nelle menti nostre, noi possiamo dire con sicurezza,
eh' egli non contiene in sè , nè ci mostra nessun essere
reale sussistente fuor della mente. Non possiamo dunque
coli' intuizione di quell' essere conoscere nulla delle cose
sussistenti in modo contingente.
II. Che cosa è , che dal contenuto nell'essere in uni
versale non si può dedurre?
La sussistenza di nessun essere limitato. Perciocché
1' essere in universale non esige nessun essere limitato;
e quindi nessun essere limitato è necessario, ma solo
contingente. Perocché necessario si dice a quell'ente
che è condizione senza la quale 1' essere nelle menti
nostre non sarebbe, del qual ente necessario, l'essere
possibile nelle nostre menti lucente dovrebbe essere il
condizionale.
Dalla risoluzione pertanto di queste due questioni si
prova la verità di quello che ho tolto a provare nel
titolo prefìsso a questo capitolo, cioè che « le forze del
ragionamento a priori puro non si stendono tanto, da
poter con esse giungere a conoscere la sussistenza di un
essere limitato » .
Quindi si può stabilire il canone del giusto metodo
filosofico , che « nella cognizione degli esseri sussistenti
3 io
finiti dobbiamo battere la via dell' esperienza , e da
questa punto non allontanarci mai, acciocché non ci per
diamo iti ragionamenti vaghi ed astratti, che nell'or
dine de' fatti non hanno alcun vero valore».

CAPITOLO V.

IL RAGIONAMENTO A PRIORI CI CONDUCE A Db' PRINCIPI LOGICI


CHE APPARTENGONO ALL' ORDINE DEGLI ESSERI IDEALI.

ARTICOLO L
DEFINIZIONI.

Chiamo cognizione a priori quella che discende dal


l' idea dell' essere, forma e regola suprema della ragione.
Chiamo cognizione a priori pura quella, che non solo
discende dall'idea dell' essere, ma discende da essa senza
bisogno di alcun dato della sperienza interna od esterna;
perciò quella cognizione, che si può trovare nell'edere
stesso, analizzandolo , o si può dedur da lui come con
dizione dal suo condizionale.

ARTICOLO n.
A CHE SI ESTENDA Li COGNIZIONE A PRIORI PORA.

L' analisi del puro essere , non facendovi intervenire


alcun dato della sperienza , non ci fa distinguere in
quell'essere nulla, se non il carattere della unità. Per
tal modo nell'idea primitiva ci è data i* V attività
prima, che è quella di essere, 3.* e il carattere essen
ziale di questa attività prima , che è quello di unità as
soluta (1). A queste due nozioni, e a qualche altra cbe
abbiamo altrove accennata, si riduce tutta la nostra co
gnizione a priori pura : e da essa si vede come 1' unità

(1) L'unirà assoluta disgiunta dall' idea dell' essere non si dà; né boi
le avremmo imposta una parola diversa da quella che diamo all' esserti
cioè la parola unità , se non avessimo avuto bisogno di escludere dall' es
sere la molliplicilà. In quanto dunque 1' unità si considera separatamente
dall' essere , essa non significa propriamente che una negazione, la na
zione della molliplicilà. Quindi si trovano vane tante speculazioni cbe fu
rono fatte sull' unità , e mancanti di fondamento ; e il difetto di quelle s
fu l'aver considerata l'unirà come qualche cosa per se, presa in sepw»10
dall' essere.
321
sta al fonte della cognizione intellettiva , e si spiega
come ogni vera unità proceda dall'intelletto, e come le
cognizioni umane partecipino di quella unità maravigliosa.
La moltiplicità è una cognizione a posteriori , cioè
data dalla sola sperienza ; e non solo non si contiene
neir essere mentale , ma nè anche si può da lui dedurre
per ragionamento: perchè sebbene si possano ripetere
gli atti co' quali lo spirito si riflette sull'essere, tutta
via tutti questi atti finiscono in quell'essere identico;
ed egli non si può osservare moltiplicato se non nel
caso che si consideri in relazione con que' varj atti dello
spirito co' quali già è cominciata l'esperienza.
Oltre l'analisi, si può adoperare sull'essere il ragio
namento a priori puro; ma noi ci riserbiamo a parlar
di questo nel prossimo capitolo.

ARTICOLO IH.
A CHE SI ESTENDA LA COGNIZIONE A PRIORI.

Neil' applicazione dell' idea dell' essere a' dati della


esperienza, l'essere da noi veduto, come dicevamo, si
completa e termina in varie maniere, e in tal modo
costituisce la cognizione umana.
Noi conosciamo tre maniere di cose : i.* degli esseri
in quanto sono sussistenti fuor della mente, siccome i
corpi, 2." de' sentimenti, 3.° degli esseri mentali, es
senze. Le prime due, generalmente parlando, costitui
scono la materia della cognizione nostra; la terza costi
tuisce la forma. Tutto ciò che v' ha di formale nella
cognizione, è una cognizione a priori (i). Veggiamo qual
aia la provincia di questa cognizione.
Appena che V essere si considera nelle sue diverse re
lazioni , egli piglia altri nomi, che esprimono quelle re
lazioni nelle quali egli si riguarda. Se V essere sì riguarda
come il fonte della cognizione intellettiva , egli prende
il nome di verità. Se si considera come l'attività prima,
atta ad essere completata e terminata colla sussistenza,
egli acquista il nome di bene o di perfezione.
L' idee dunque del vero e del bene nascono colla

(i) Ved. Voi. I, face. 3 1 7 e segg.


Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 4l
Sa a
primissima applicazione dell'essere, e costituiscono i due
rispetti generalissimi ne' quali l'essere mentale si pre
senta nelle sue applicazioni, e corrispondono a1 due
modi che hanno le essenze, cioè nella mente e fuori
della mente: l'essere nell'applicazione sua nella mente
come fonte della cognizione è verità; l'essere nell'ap
plicazione sua fuori della mente come fonte di sussi
stenza è bene.
La verità dunque è la relazione generale che ha Tes
sere colle altre cognizioni , le quali all' essere come a
loro riprova e criterio tutte si revocano. Veggiamo quai
modi parziali prenda l' essere nelle sue applicazioni
parziali.
Primieramente noi abbiamo veduto, che la cogni
zione a priori pura, data dall'analisi dell'essere, con
teneva due idee, basi di tutto il sapere, i.° l'idea di
quell' attività che è l'essere mentale, 2.° e l'idea dell'unità
assoluta. Quindi nell'applicazione dell'essere due serie
di principj, secondo i due elementi de'quali egli consta
L'essere considerato positivamente come attività, prende
la forma de' quattro principj da noi già esposti , di co
gnizione , di contraddizione, di sostanza, e di causa.
L' essere consideralo come unità assoluta, è fonte del
l' idea di quantità, e si trasforma ne' principj che reg
gono la quantità, come sarebbe che « il tutto è mag
giore della sua parte», ed altri tali, sui quali principj
si appoggiano le scienze matematiche.
£ brevemente , 1' essere in applicandosi si cangia e
finisce in tutte le essenze delle cose, le quali essenze
delle cose sono i principj delle scienze tutte, come area
già detto l'antichità (s.) , e quindi l'idea dell' essere è
il fonte e il fondamento inconcusso di tutto il sapere
umano.

(1) Questa non è vero composizione, perchè V unità da sé sola non '
anzi che la remozione della moltipìiatà, e quindi non offende la sempli^"
dell' essere , anzi non è che la semplicità stessa di lui. Ma il linguif?"
conduce per sua natura a delle espressioni equivoche j perchè egli
con un vocabolo non solo ciò che è, ma anco la negazione di 010(1"
è; segualo con un vocabolo, sembra qualche cosa anche il nulla.
(2) « Il principio di tutta la scienza, che la umana ragione p»*,*'*
« d' una cosa, dice s. Tommaso, è il concetto della sostanza di lei (citi*
•• essenza ) , poiché il principio della dimostrazione nou è altro clic 1 »
« senza medesima di essa cosa » ( C. G. I, 111 ).
3a3
Ma tutti questi principj rimangono nell'ordine delle
idee. Non possiamo dunque passar punto dall' idea del
l' essere al regno della realità? non ha quest'idea nes
suna interior forza da spingerci punto oltre sè stessa?
Questo è quello che ci resta ad esaminare ne' capi se
guenti.
Ma prima confirmiamo con nuova prova il vero, che
quanto si deduce dall' essere è dedotto a priori, perche*
l' essere stesso non è prodotto da alcuna astrazione , ma
sì dato dalla natura.

CAPITOLO VI.

SI RICONFERMA. IL PRINCIPIO DI TUTTA QUEST' OPERA , MO


STRANDO CON NUOVO ARGOMENTO CHE L'iDEA DELL'ESSERE
È DI TAL MATURA, CHE i/ UOMO NON PUÒ FORMARSELA
COLL' ASTRAZIONE.

Se noi potessimo formarci coli' astrazione 1' idea del


l'1 essere , ella non sarebbe in noi anteriore ad ogni spe-
rienza. Non v'avrebbe dunque alcun ragionamento a
priori, delle forze del quale noi parliamo in questa
Sezione. Non credo dunque inutile di qui rinforzare
maggiormente quel vero che ho nella Sezione seconda
e nelle seguenti dimostrato, cioè che l'idea dell'essere
non ci può venire dall' astrazione, porgendomene un
nuovo argomento 1' analisi testé fatta di questa idea :
argomento, che ove sia bene inteso, dee essere efficacis
simo a provare l'assunto e rimuovere ogni dubbio.
Esaminiamo adunque qual sia la natura dell'astra
zione , e fin dove si stendano le sue forze. Astrarre non
vuol dire che dividere e considerare una parte, un ele
mento di una cosa in separato dall'altro, come se l'al
tro nè pur fosse. Quando io dunque analizzo una mia
idea , io non fo che trovare ciò che nell' idea si con
tiene; io non impongo alcuna legge all'idea o all'og
getto dell'idea; io non fo che adattarmi a lei: non
dico già io prima, « La tal cosa si dee trovare in questa
idea o nel suo oggetto, la tal cosa non si dee trovare » :
colla pura astrazione io non posso stabilire alcuno di
questi principj ; non posso che riconoscere ciò che è ,
senza definire ciò che esser debba.
E pure gli astratti sono soggetti a certe leggi immti
3a4
labili. A ragione d'esempio, io posso bensì in virtù
dell'astrazione considerare la estensione in linea retta
separatamente dall' estensione in superficie ed in soli
dità: ma questo astratto, che io mi sono formato della
linea retta, è però soggetto a questa legge, «eh' egli non
possa essere ragionevolmente da me creduto un vero
essere per sè sussistente e diviso realmente dall' altre
due dimensioni ». All' opposto io considero di una co
lonna la metà superiore , e astraggo dalla inferiore:
questa specie di astratto non soggiace alla legge stessa
della linea retta, ma egli « può esser da me conside
rato come un essere che sussiste anche realmente
diviso e staccato dalla metà inferiore della colonna 5.
Io astraggo da un corpo il peso in generale: il corpo
senza il peso io posso considerarlo astrattamente a mio
piacere come privo di peso; ma però con questa legge,
« che ov' io lo consideri privo di peso, noi possa consi
derare insieme pesante », perciocché 1' una 0 l'altra
cosa contraria è a me pensabile , non due contrarj in
sieme. L' astrazione adunque ha dei limiti, ha delle
leggi che dee mantenere; e si riducono a queste tre:
i.° ella non può fare che due cose che sono ripugnanti
non sieno tali , 2.* che un accidente si possa concepire
sussistente privo di sostanza, 3.* e che un effetto si
possa concepire privo di causa. Queste tre prime leggi
dell' astrazione non sono adunque prodotte dall'astra
zione, ma sì dall' efficacia de' tre principj , di contrad
dizione , di sostanza e di causa. L' efficacia dunque di
questi tre principj non può nascere dall' astrazione, ma
1' astrazione è una facoltà a questi principj subordinata,
che li segue e ad essi ubbidisce, e non li produce ponto.
Or questi principj , che impongono confini e leggi
all' astrazione stessa , come alle altre operazioni del
l'umano intendimento (1), non sono che l' idea 'dell es
sere considerata nelle sue applicazioni.

(1) Taluno riduce tutte le operazioni dell' umano intendimento «Il <W"
lisi ed alla sintesi. Io osserverò solamente sopra di ciò , che due generi di
sintesi conviene con ogni diligenza distinguere, perchè l'uno 01U •to'
sono differentissimi , e in uno I' intendimento mette fuori un» partirowe
su» efficacia più che nell'altro. La sintesi non si può già definire m gene
rale , come si suole, « una congiunzione delle idee ». Questo è un g*»**
di sintesi ; ve u' ha un altro che richiede maggiore altenzioue : in f**
3 a5
L' idea dell'essere adunque dirige colla sua efficacia in
tima e impone leggi all' astrazione , e non può per con
seguenza da questa esser prodotta ed originata.
Perciò quando io nel corso di quest'opera chiamo
l'idea dell essere in universale astrattissima, non in
tendo che sia dalla operazione dell'astrarre prodotta,
ma solo eh' essa sia per sua natura astratta e divisa da
tutti gli esseri sussistenti. E veramente in ordine alle
astrazioni formate potrebbe dirsi che ve n' abbia alcuna
più astratta dell'idea stessa dell'essere, giacché l'idea
d' unità, di possibilità ecc. sono idee che suppongono
un' astrazione formata sull' essere stesso.

CAPITOLO VII.

IL RAGIONAMENTO A PRIORI PURO CI CONDUCE A CONOSCERE


l' esistenza di. un INFINITO , DI DIO.

ARTICOLO I.
come si possa inst1tu1re un ragionamento senza usare alcun altro dato
fuori dell'idea dell'essere.

Un ragionamento che non usi di altro dato fuor


solo che dell'idea dell'essere in universale, sembra nel
primo aspetto impossibile. Poiché ragionare non si può
senza giudizj e raziocinj, i quali sono operazioni della
mente che dimandan più termini: l'ente è un'idea
semplicissima, e quindi un termine solo: coli' ente solo
adunque è impossibile ogni giudizio e raziocinio.
Ma svanisce la difficoltà, ove si osservi che un'idea
sola e la medesima si moltiplica nella mente per le di
verse riflessioni che la mente fa su di lei: ogni intùito
nuovo di un'idea che è in noi, ci dà una nuova idea.
Applichiamo questa osservazione all' idea dell' ente.
Io ho presente alla mente l'idea dell'essere in uni-

Io spirito non congiunge puramente più idee possedute , ma sì produce a


sé stesso delle idee nuove. Ed egli fa ciò in due modi. Il primo modo è
quello della sintesi primitiva, nella quale congiunge un sentimento coll'idea
dell' essere , e produce le percezioni e idee delle cose , della quale si può
vedere nel Voi. I , face. 81 e segg. Il secondo appartiene alla facoltà in
tegratrice dell'intendimento, mediante la quale dall'idea dell'effetto l'uomo
sale di repente a formarsi l' idea della causa , o fa altro simil passaggio.
Ved. Voi. II , face. ao3 e seg. Con questo secondo modo si producono
delle idee negative , col primo delle positive.
326
versale. Ma io medesimo, fornito come sono di questa
idea , posso ripiegarmi e riguardar di nuovo in questa
idea , e con questo nuovo sguardo osservarla, analiz
zarla , giudicarla. Questo è fatto, mirabile sì , ma è fatto.
E veramente quand' io ragiono dell'idea dell'essere,
e dico eh' ella è universale , necessaria ecc. , secondo
qual regola ragiono io ì di che idea mi servo a cono
scere e giudicar tutto ciò? Dell'idea stessa dell' essere.
L'idea dunque dell'essere s'applica a sè stessa, e ri
conosce sè stessa ; ella medesima fa da predicato e da
soggetto, è giudice e giudicata: tale è la mirabile pro
prietà della mente , che ha virtù di convertirsi sopra
di sè medesima; tale la mirabile proprietà dell'essere,
che senza perdere la sua semplicità , ha virtù di mol
tiplicarsi , e d' ingenerare in sè medesimo, quasi direi
con una fecondità verginale, il ragionamento (i).

ARTICOLO IL
CENNI SOMA UNA DIMOSTRAZIONE DELL' ESISTENZA DI DIO A PRIORI.

Col solo dato dell' idea dell' essere si può dunque


formare un ragionamento. E questo è veramente a priori
e puro, poiché egli non ha bisogno che di un dato per
sè a noi manifesto, e non acquisito dalla sperienza.
Ora io penso, che col solo dato dell'idea dell'essere
si possa lavorare una rigorosa e fermissima dimostra
zione dell'esistenza di Dio; la quale perciò sarebbe una
dimostrazione a priori nel senso in che noi abbiamo
definito questa parola. Non è però mia intenzione di
estendermi su questo argomento; ma ne farò solo qual
che cenno.
L'essere in universale, pensato essenzialmente dalla men-

(i) L'uomo che non avesse se non l'idea dell' essere, non alcuna sen
sazione, non alcuno impulso, non farebbe mai alcun ragionamento : que
sto è evidente senza che io qui lo noli, e si fa manifesto da tutu la no
stra teoria. Ciò però non nuoce alla presente questione delle forze del
ragionamento a priori puro : poiché non si cerca qui se 1' uomo avrebbe
il motivo impellente di fare effettivamente un ragionamento non possedendo
in sè che la sola idea dell' essere ; ma se noli* idea dell' essere si compren
dano tutti i dati necessarj al detto ragionamento, sicché, sopravvenendo il
motivo, far si potesse. In somma non si chiede se il bambino neU' utero
materno ragioni a priori, il che sarebbe una puerile sciocchezza; ma se
un uomo sviluppato ed adulto, anzi un filosofo, possa instituire un ri-
gionamento a priori c puro.
le, è di tal natura, come abbia m veduto, che da una parte
non mostra alcuna sussistenza fuori della mente, e quindi
si può denominare un essere mentale o logico; ma dal
l' altra egli ripugna che sia una semplice modificazione
del nostro spirito, e anzi spiega egli tale attività, verso
a cui il nostro spirito è interamente passivo (i) e sud
dito : noi siamo conscii a noi medesimi di nulla potere
contro 1' essere, di non poterlo immutare menomamente:
di più, egli è assolutamente immutabile, egli è l'atto
di tutte le cose, il fonte di tutte le cognizioni: insom
ma egli non ha nulla che sia contingente, come noi
siamo: è un lume, che noi percepiamo naturalmente,
ma che ci signoreggia , ci vince , e ci nobilita col sot
tometterci interamente a sè. Oltracciò noi possiamo pen
sare che noi non fossimo ; ma sarebbe impossibile pen
sare che l'essere in universale, cioè la possibilità, la
verità non fosse. Avanti di me il vero fu vero, il falso
fu falso , nè ci potè mai essere un tempo che fosse al
tro che così. È questo nulla ? No certamente : chè il
nulla non mi costringe , non mi necessita a pronun
ziar nulla: ma la natura della verità che risplende in
me, mi obbliga a dir: « Ciò è»; e ov'io non lo volessi dire,
saprei tuttavia che la cosa sarebbe egualmente, anche
a mio dispetto. La verità dunque, l'essere, la possi
bilità mi si presenta come una natura eterna, necessa
ria, tale contro a cui non può alcuna potenza, poiché
non può concepirsi potenza che valga a disfare la ve
rità. E tuttavia io non veggo come questa verità sus
sista in sè; io non ne sento che una forza ineluttabile,
una energia, che si manifesta dentro di me, e la mia
mente e tutte le menti soggioga, e soavemente domina,
come un fatto, senza possibilità di opposizione.
L' essere dunque nella mia mente , o la verità , o il
lume intellettuale è un fatto: questo fatto mi dice

(i) Quindi la celebre sentenza di Aristotele, che Inlelligcre pati est,


scire autem facere (De Anima. L. Ili, Lect. vii). Per bene intendere que
sta sentenza conviene sapere che cosa Aristotele voleva esprimere col vo
cabolo intendere, e che cosa col vocabolo sapere. Coli' intendere egli si
gnificava ciò che io dico intuire o percepire, la prima concezione della
cosa , la quale per Aristotele non era ancora sapere. Sapere era per lui
avere una concezione riflessa, colla quale si avesse notato nelle cose la
loro differenza specifica.
3 28
i." che v1 ha un effetto in me di tal natura, che non
può essere prodotto nè da me stesso, nè da nessuna
causa finita ; a.0 che questo effetto vien prodotto da
un oggetto a me presente, il quale non mi si manife
sta che nella mente mia , ma è tuttavia di tal natura,
che egli è intrinsecamente necessario e immutabile , in
dipendente dalla mente mia e da ogni mente finita.
Questi due elementi mi conducono per due vie a
conoscere l' esistenza di Dio.
Poiché se io applico al primo il principio di causa,
io debbo conchiudere : « Esiste una causa che esercita
un1 azione infinita , e che perciò dee essere infinita ».
Considerando poi il secondo elemento , io vedo , che
quella causa che manifesta un'infinita energia, è l'og
getto stesso della mia mente , e che non mostra in sè
altra esistenza che in una mente; quindi conchiudo:
« La natura di quella causa infinita è di sussistere in
una mente, cioè di essere essenzialmente intelligibile ».
A cui applicando il principio di sostanza, ritrovo ch'ella
non può essere un semplice accidente, o in generale
parlando, una semplice appartenenza di una sostanza,
come apparrebbe essere se fosse in sè un oggetto pu
ramente mentale; di che conchiudo: « Esiste una so
stanza, mente infinita, la quale ha la proprietà di es
sere per sè intelligibile, e quindi d'esistere altresì nelle
menti , e come tale è causa di una infinita energia
manifestata nelle menti nostre, e di ogni nostra co
gnizione » .
Ciò che si potrebbe opporre a questo argomento sa
rebbe , che si fa in esso entrare 1' azione che l* essere
esercita sopra di noi, e quindi noi stessi: al che però
si può rispondere, che quest'azione non essendo che una
manifestazione , noi non entriamo nell' argomento se
non come il soggetto che intuisce 1' essere, nel quale
rispetto noi veniamo in qualche modo immedesimati
coli' essere intuito.
Ma volendo un ragionamento ancora più puro, non
sarà difficile averlo in questo modo.
I^essere ha due rispetti in cui mirar si può, verso di sè,
e verso di noi. Lasciando interamente questo secondo
rispetto, e considerando puramente l'essere in sè, noi
abbiamo trovato che è solo iniziale; di che avviene ch'egli
sia d'una parte similitudine degli esseri reali finiti, dall'ai
tra similitudine dell'essere reale infinito (i), e si possa
quindi predicare di Dio e delle creature, come dissero
le scuole, univocamente (a); poiché nascondendoci i
suoi termini , egli può attuarsi e terminarsi , sebbene
non certo allo stesso modo , o in Dio o nelle creature.
Vero è ancora , che noi non abbiamo una tale in
terna efficacia da renderci l'essere interno terminato,
senza la percezione de' termini suoi sperimentale; e che
quindi col solo esser mentale non possiamo aver la
percezione di verun essere sussistente.
Tuttavia contemplando 1' essere iniziale , noi possiamo
conoscere, eh' egli come tale non potrebbe sussistere
senz' essere in sè terminato ; poiché egli non si presenta
come avente una sussistenza assoluta (3). Non veggendo
dunque in lui una sussistenza assoluta, tuttavia, pel
principio di assoluta sussistenza (che nasce dall'essere allo
stesso modo che quel di sostanza ), giudichiamo che
egli debba ridursi e terminarsi in una sussistenza asso
luta, della quale sussistenza egli è un'appartenenza
mentale. Ora, trovato questo, noi possiamo ancora co
noscere, che é al tutto impossibile che questa sostanza
sussistente sia finita; poiché se fosse finita, non ade
guerebbe , non sarebbe un termine adeguato di quel-
ì' essere iniziale, ma anzi sarebbe fuori di lui, e lungi
da formare con lui una essenza come il suo proprio
termine e complemento , sarebbe anzi cosa a lui estra
nea, un effetto suo contingente. Dunque l'essere men
tale esige un' attuazione infinita , sostanziale, per la
quale egli abbia non solo l'esistenza logica, cioè nella

(i) Cum ipsa intellectiva virtus creaturae, dice s. Tommaso, non sit
Dei essentia , relinquitur quod sit aliqua participata similitudo ipsius, qui
est primus intellectus (S. I. zìi, u). Quindi l'uomo fu crealo ad immagine
e similitudine di Dio.
(a) Può vedersi questa questione trattata nella Filosofia che espose Carlo
Francesco da San Floriano secondo la mente di Scolo , mettendo a con
fronto i pensamenti di questo acuto ingegno della Scuola con quelli dei
filosofi moderni, e che fu stampata in Milano l'anno 1771 , T. lì, p. io3.
(3) Non è necessario propriamente provare, eh' egli non sia un acci
dente o una modificazione dello spirito nostro ; 1 0 perchè in questa argo
mentazione lo spirito nostro si suppone incognito, e viene da lei intera
mente escluso ; 2.* perchè I' essere è per sè dallo spirito così distinto e
separato, che è impossibile al tutto il confonderlo col medesimo, ove di
rettamente si percepiscano entrambi. La prima percezione dell'ente esclude
la percezione di noi stessi , la quale come tante volte dicemmo e riflessa.
Rosmini , Orig. delle Idee, frol. III. 42
33o
niente, ma altresì 1' esistenza assoluta, e, come la chia
mano, metafisica, o in sè medesima, esistenza pieni
ed essenziale; e un tal essere è l'essenza divina. Per
tal modo 1' essere necessario sussistente o metafìsico si
identifica, aggiungendosi il complemento e naturai ter
mine, coli' mere necessario logico: e quindi non esi
stono propriamente due necessità, 1' una logica, l'altra
metafisica; ma una sola, la quale ad un tempo è nella
mente e in sè stessa (i).

(i) E veramente, quando io dico necessità, io non posso esprimere che


una pura relazione della cosa colla inente , a quel modo che vedemmo I»
similitudine non essere che un rapporto colla mente. Quando dico, « Que
sto è uu essere necessario », che voglio io dire con ciò? Ch' egli non può
non essere, che la sua non-esistenza implica contraddizione. È dunque per
chè noi veggiamo che il principio di contraddizione ci sforza ad ammettere
3uell' essere esistente, che noi lo diciamo necessario. La necessità dunque
i un essere dipende dal principio di contraddizione ; e il principio di
contraddizione è nella mente, è la necessità logica. In fatti un essere qua
lunque , ove si consideri in sè , e senza alcuna relazione colla mente e co
principi logici , che cosa dà in sè stesso? La sussistenza, e nulla più; oca
la necessità della sussistenza. Ma noi, forniti d' intelligenza, quando per
cepiamo la sussistenza tli un tale essere , ragioniamo con noi medesimi ,
dicendo: » Polrebb'egli essere che quell'ente non fosse »»? Or s'egli è ne
cessario, rispondiamo: « No per fermo, questo è impossibile; la sua non-
esistenza ripugna ». Noi dunque abbiamo paragonato lui ( la sua sussi
stenza ) colla possibilità delia sua non-esistenza, e abbiamo trovato il rap
porto di contraddizione o ripugnanza. Questo rapporto è la necessità. Da
questa osservazione si traggono i seguenti corollarj:
i.° La necessità logica e la necessità metafisica non sono che una stessi
necessità, la quale consiste nel rapporto di ripugnanza che ha un essere
eolia sua non-esistenza. Quando questo rapporto si considera come possi
bile , si chiama necessità logica, e forma il principio di contraddizione:
quando si considera in fatto come reale , si chiama necessità metafisict-
Il principio dunque di contraddizione o sia la necessità logica e meul><e
è il fonte della necessità metafisica.
j.° L' essere necessario ha uno strettissimo rapporto colla mente o w
coli' essere mentale; e questo rapporto consiste a dovere queir ew* **"
erssario avere una natura essenzialmente intelligibile. Altrimenti egli non sa
rebbe assolutamente necessario, poiché dipenderebbe, per esser tal', •
una mente o idea prima, se questa idea fosse essenzialmente diversa ti*
33r
SEZIONE OTTAVA
SULLA PRIMA DIVISIONE DELLE SCIENZE.

CAPITOLO I.

QUAL SIA LA PRIMA DIVISIONE DELLE SCIENZE.

Chi prende a formare un albero genealogico delle


scienze, conviene che cominci dal considerare lo scibile
umano come un gran tutto, una scienza sola, dimen
tico di tutte le divisioni che si sono fatte fin qui.
Noi, non meno in trattando dell'origine 'delle idee,
che del criterio della certezza, fummo condotti a con
siderare tutte le cognizioni umane in questa grande
unità; giacché salimmo a quel principio onde tutte le
cognizioni si derivano , e pel quale si accertano e si
giustificano. La prima divisione alla quale ci siamo ab
battuti nell'applicazione di questo principio, fu quella
che divide tutta la scienza in formale o pura, e ma
teriata.
Ogni cognizione materiata suppone innanzi di sè la
forma ; la forma all'incontro non abbisogna, per essere
concepita nella nostra mente, di alcuna materia. Ora ,
regola di buon metodo nella trattazione delle scienze è
manifestamente la seguente : « Si distribuiscano le cose
che s' hanno a dire, in tal ordine, che le precedenti
non abbiano bisogno, per esser intese e giustificate,
delle susseguenti , ma all' opposto preceda ciò che dà
lume a quello che segue».
Ora la forma della cognizione è causa e lume di tutte
le altre cognizioni , le quali non esistono se non per
una applicazione della forma delle cognizioni. La scienza
dunque della forma dee precedere a tutte le cognizioni,
e si può chiamare Scienza prima pura (Ideologia), e
tutte l'altre, Scienze applicate. Tale è la prima divisione
delle scienze.
La scienza prima e pura, trattando unicamente del
l' ente mentale, forma di tutte le altre cognizioni, non
somministra ancora quest'ente, regola suprema della
mente, nella sua applicazione agli esseri sussistenti. Indi
quasi mediatrice fra la scienza prima e le applicato
33a
starà la Logica (i) , scienza pura anch' essa , che traila
de' principj o regole di applicazióne della forma della
ragione.
Io qui aggiungerò solo un' osservazione sulla prima
divisione delle scienze di Bacone. Egli comincia col
dividerle in tre serie, secondo le tre principali potenze,
la ragione, la memoria e l' immaginazione. In un tal
pensiero si vede manifestamente quanto stava indietro
ne' tempi di Bacone la dottrina della umana cognizione.
Non s' era ancora conosciuto bene come fosse la sola
ragione quella che generava le scienze , come la memo
ria non sia che il deposito delle cognizioni già acqui
state , di qualunque genere elle sieno, e V immagina
zione non sia che una facoltà atta a somministrare dei
puri materiali della cognizione o a vestirla di eleganti
segni esterni: o pure, se tutto questo s'era conosciuto,
non s'era certamente giunto a sentire l'importanza che
in ciò v' avea relativamente ad una divisione delle
scienze veramente filosofica. Le scienze perciò nelle mani
di Bacone, e meno in quelle degli Enciclopedisti (2),
non poterono ricevere quell' unità di ordine che mette
in esse una eminente bellezza e dà loro una preclara
attitudine a giovare (3).

(i) Questa può essere universale, che contiene i principi d'applicano»


dell'ente a tutto lo scibile, e particolare, che contiene le regole d'appli
cazione di questi principj alle singole scienze applicate.
(a) Lo scopo degli Enciclopedisti era di riunire le cognizioni in un P"
dizionario; quindi l'albero che ne fecero non fu l'oggetto principale adii
loro opera.
(3) La metafisica degli antichi era chiamata scienza prima e gentntnct
delle altre , e in questo eccellentemente dicevano. Ma poi della metafwa
facevano un trattato di più cose eterogenee , di esseri mentali , e di esseri
reali : quindi la metafisica degli antichi non era quella scienza prò*» di
cui noi parliamo, appurata e sola, ma questa scienza prima si contener ■
quella metafisica come una parte nel tutto. Indi molle equivocatimi w
oscurità. Un altro mancamento avea la metafisica scolastica considera»
come la prima delle scienze e la generatrice dell'altre. L' averla conosci»»
ceppo dell' albero genealogico delle scienze era aver conosciuto un belio
ed utile vero ; ma s'ignorava poi il modo di dedurre da essa l'ali»
scienze, e si supponeva più feconda ch'ella stessa non fosse. Quindi »
negligentava V osservazione della natura, che sola ci fa conoscere l'essente
specifiche delle cose , e si definivano in quella vece le cose con utile
astrazioni metafisiche, facendo che l' essere in universale, che da se sol*
non è l'essenza di nessuna cosa, tenesse luogo di tutte. Questa osstw
zione importante è del P. Malebranche, che osserva, « la presenza ioli»'
« dell' idea vaga dell' ente in genere ( volea dire in universale ) ■
333
CAPITOLO II.

SULLE DUE VIE, DI OSSERVAZIÓNE E DI RAGIONAMENTO.

Nel meditare sulla maniera di dar ordine a tutle le


cognizioni umane secondo il principio di metodo toc
cato di sopra , « che si anteponga ciò che non ha bi
sogno delle dottrine susseguenti per essere inleso o
dimostrato » , si offre al pensiero questa difficoltà. Io
dimostro l' ultima proposizione per la penultima , la
penultima per la precedente, la precedente per l'altra
che le sta innanzi, e così fino alla prima. Ottimamente.
Ma venuto eh' io sono alla prima proposizione, come
dimostrerò io questa ? E se non la dimostro , ella è
gratuita, e di nessun valore le dimostrazioni che su di
essa si sono fatte.
Un tale ragionamento suppone cosa che non è, vale
a dire suppone che ogni proposizione debba essere di
mostrata per un' altra a lei precedente. AH1 incontro
bisogna considerare, che la prima proposizione ha cotal
natura, che racchiude la dimostrazione di sè in sè me
desima, cioè è evidente ed irrepugnabile, è vera per
sè , perchè è la verità stessa.
Ma ove troveremo noi questa proposizione ? come la
discerneremo fuori da tutte le altre ?
Noi la troveremo in noi medesimi : ma non già col
ragionamento; sì colla pura intuizione, colla pura os
servazione: e lo scettico stesso la vedrà, e la concepirà
anche riflessivamente , purché rifletta dentro a sè me
desimo; egli volgendo sulle sue cognizioni il guardo
della sua mente , vedrà in quelle 1' idea deW ente , e

- cagione di tutte le astrazioni inordinate della mente » ( L. Ili, c. vm ) ;


e facendo 1' applicazione di questa sua osservazione : « Se si leggono, egli
« dice, quanto più attentamente si possa , tutte le definizioni e le spie-
h gazioni che sogliono darsi delle forme sostanziali; e si faccia uno accu-
« ratissimo esame dell' essenza di tutte quelle entità che i filosofi immsgi-
« nano a lor piacimento in numero infinito , sicché sono costretti di farne
« divisioni e suddivisioni ; io certo oso affermare, che tutte quelle cose
« non valgono ad eccitare in mente alcun' altra idea che quella dell' ente e
« della causa in genere » ( Ivi ). Poteva accorgersi per questo il buon
Malebranche, che quell' idea dell'ente era deficiente, e non era l'idea
di Dio , cioè della massima realità , com' egli pur vuole ; del che se si fosse
accorto , avrebbe evitato d' essere registrato dal terribile Arduino nel ca
talogo de' suoi, si può dire, Atei di conseguenza.
334
fìggendo l' attenzione via più in essa a contemplarla,
ed analizzarla, e notarne i caratteri essenziali, non po
trà a meno di percepirne la luce, la necessità, l'evi
denza, l'immutabilità. Con una tale osservazione , e
non con altro mezzo, ha cominciamento la scienza
dotta degli uomini, e il riavviamento sul buon sentiero
degli scettici.
La prima scienza dunque è una scienza di osserva
zione , e non di ragionamento; e in tal modo rimane
evitato quel circolo , nel quale agevolmente si entra in
facendo la divisione dellé scienze; perocché la dimo
strazione termina e s' innanella nella osservazione, e
questa non è che la intellezione della verità per se
nota, e fonte di tutte dimostrazioni.

CAPITOLO III.

SUL PUNTO DI PARTENZA DEL SISTEMA DELLE COGNIZIONI


UMANE.

Noi abbiamo veduto (i), che il sistema delle cogni


zioni umane dee partire da una osservazione ri/lessa che
fa l'uomo sulla propria cognizione, mediante la quale
osservazione egli ravvisa e discerne in sè medesimo
Videa dell'essere; e trovata questa, con essa, come
con un mezzo universale, trova e certifica tutte l'altre
cognizioni. Ma qui si presenta alla mente questa ob
biezione. Prima della osservazione riflessa sull'idea del
l'ente, avvi la intuizione diretta del medesimo; egli
sarebbe dunque più conforme alla natura, di far muo
vere il sistema delle cognizioni umane dall' intuizione
deli' essere, anziché dalla riflessione e riconoscimento
dell' intuizione.
Per intendere la nullità di questa obbiezione, con
viene distinguere quattro questioni affini in fra loro, e
che si sogliono comunemente confondere insieme, scio
gliendo 1' una delle quattro con quella soluzione cbe
ad un' altra di esse appartiene , ma che si presenta ca
sualmente all' intendimento: dal che io derivo la ragione
principale del non essersi giammai convenuti gli scieu-

(i) Cap. prcc.


335
ziali fino ad ora sul metodo delle scientifiche tratta
zioni. Le quattro questioni adunque di cui io parlo
sono le seguenti.
Questione prima. Quale è il punto di partenza del
l' uomo nel suo primo sviluppamento?
A questa questione io rispondo , che è la sensazione
esterna. Le sensazioni esteriori sono certamente i primi
passi, co' quali l'uomo dà sviluppo alle sue potenze.
Quelli che hanno osservato questo vero, e non hanno
distinto fra il cominciare dello sviluppo reale dell'uomo
e il cominciare della filosofia , hanno conchiuso che si
dee cominciare la filosofia dal trattato delle sensazioni.
Essi si sono immaginati di poter fare nella scienza que
gli stessi passi, ch'essi fecero prima nel loro successivo
sviluppo: intanto non s'avvidero che per essere fedeli
a questo loro metodo converrebbe loro ritornare ad
esser bambini, e non passare ancor punto nè poco alla
filosofia; il perchè, conservare rigorosamente questo
metodo è assolutamente impossibile.
Questione seconda. Quale è il punto di partenza dello
spirito umano?
A questa dimanda rispondo, essere l'idea dell'essere;
poiché qualunque passo intellettivo dello spirito sup
pone sempre ed esige precedentemente la intellezione
dell' essere. Tuttavia non può esser questo il punto di
partenza della filosofia ; perciocché lo spirito di chi filo
sofa non è lo spirito che fa il primo passo dell' intel
ligenza, ma conviene che sia necessariamente uno spi
rito già sviluppato, che venuto a certo termine , ama
di tornare indietro, e di dimandare ragione a sé stesso
del suo proprio sviluppamento. Egli dee dunque riflet
tere , o sia ripiegare la sua attenzione sui primi suoi
passi, e sopra ciò che i primi suoi passi supposero in
lui , cercando fin nell' origine la giustificazione e la cer
tezza de' medesimi.
Questione terza. Quale è il punto di partenza del
l' uomo che comincia a filosofare?
Quando 1' uomo comincia a filosofare egli è già svi
luppato , come dicevamo. Ora egli non può partire da
altro punto che da quello nel quale egli si trova; Il
fare diversamente gli è impossibile. Condillac e Bonnet
pretendono di trasportarsi al primo esordio delle co
gnizioni, e immaginano la statua con un solo senso.
336
Ma così facendo , bene o male il facciano, fanno un
salto immenso ; varcano un abisso, quale è quello di
dimenticare tutto d' un tratto lo stato loro in cui si
trovano, per assistere, come spettatori d' un'altra na
tura, all' effetto delle prime sensazioni che l'uomo
prova; tempo passato per essi, e passato per sempre.
Questione quarta. Quale è il punto di partenza della
filosofìa come scienza , o sia del sistema delle cognizioni
umane?
Non conviene confondere il punto di partenza del
l' uomo che comincia a filosofare, col punto di partenza
della filosofia già formata. La filosofìa già formata non
è il primo passo dell' uomo che s' applica alla filosofia,
ma bensì l'ultimo: ella è l'opera consumata de' filosofi
L' ordine adunque della filosofia non può esser altro
dall'ordine assoluto che hanno le verità in fra loro.
Conciossiachè chi comincia a filosofare non ha trovato
ancor quest'ordine, ma va cercandolo quasi direi tentone.
Se dunque 1' uomo che comincia a filosofare non può
che partire dallo stato in cui egli si trova per riandare
tutti i passi del suo precedente sviluppamento , e sot
toporli ad un giudizio rigoroso, rendendoli in tal modo
a sè stesso più chiaramente certi ; la filosofia all'incon
tro dee cominciare a stabilire per primo quel punto
luminoso, dal quale derivasi il chiarore della certezza
e della verità a tutte le altre cognizioni , e con cai
queste vengono accertate e giustificate. Pigliamo una
similitudine dal gioco del palio. È fissato in questo
gioco e convenuto il punto di partenza de' corridori.
Ora io dico , il fante che corre il palio dee venir cer
tamente e collocarsi al punto fissato in riga cogli altri.
Ma a questo punto egli non c'è, ma ci viene; e donde
ci viene egli ? dondecchessia ; da quel luogo nel quale
accidentalmente egli si trova. Questo luogo accidentale
donde il fante viene alla corsa , è il punto di partenza
dell' uomo che comincia a filosofare ; il segno fissato
onde mover debbono i corridori è il punto di partenza
della filosofia. Ma qual cosa può essere che tragga l'uomo
che comincia a filosofare, e il conduca a mettersi nel
punto di partenza della filosofia per indi cominciare il
suo regolato movimento? L'osservazione ri/lessa sopra di se
medesimo : questa sola gli può fare scorgere ben chiaro
e avvertire quel punto luminoso onde ha principio e
337
movimento tutto il sistema delle cognizioni , io vo' dire
l'idea dell'essere, forma della ragione, e causa formale
dell' umano sapere.

CAPITOLO IV.

SE CONVENGA COMINCIARE DA UN PARTICOLARE


O DA UN UNIVERSALE.

Ponendo a principio della scienza 1' essere mentale ,


.si eccita la censura di quelli che pensano essere canone
infallibile di retto metodo il procedere dai particolari
agji universali.
Ma io primieramente osservo , che questa censura si
fonda in un errore gravissimo , sebben troppo comune
a' dì nostri , quello che gli universali non sieno che un
aggregato di particolari; errore già da me rifiutato (i).
Oltracciò , chi si farà ad investigare la natura de' parti
colari e degli universali , troverà che il metodo che pre
scrive di procedere dai particolari agli universali è tale,
che non si può al tutto interamente mantenere ; per
ciocché è intrinsecamente impossibile ed assurdo; men
tre non si può pensare un solo particolare, senza pur
far uso, in pensandolo , di un universale {2).
Ciò ancora che non si osserva da quelli che sono
presti di farci la censura toccata, si è, che quando di
ciamo di dover cominciare la filosofia dalla trattazione
dell'idea dell'essere, noi siamo in caso di difendere
egualmente queste due proposizioni in apparenza con
trarie , cioè che «cominciamo da un universale », e
che «cominciamo da un particolare».
E veramente, chi ha bene intesa la natura dell' idea
dell' essere, dee essersi accorto, che 1' essere mentale è
ad un tempo particolare ed universale ; ed anzi è assai
prima particolare , cioè singolare, che universale. E
certo noi abbiamo mostralo, che un universale non

(1) Voi. I, face. 102 e segg.


(a) In un eccellente brano delle sue Lezioni il professor Cousin mostra
fino all' evidenza l'impossibilità che uno storico della filosofia , e si può
dire egualmente d'uno storico dello spirito umano, quale è il filosofo, sia
fedele al metodo empirico. Egli è nella lezione da lui letta il giorno 8 Mag
gio 1839, face. 10-17.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 4^
338
vuol dir altro se non una relazione di similitudine di
una cosa con molte. Or prima che si consideri una
cosa nella sua relazione di similitudine con molte,-con-
viene averla considerata o percepita in sè stessa, e quindi
nella sua singolarità. L' unità dunque della cosa, che,
come abbiamo altrove detto, s'identifica colla sua esi
stenza , precede la considerazione della sua universalità,
e quindi si può dire a ragione, che cominciando dal
l' essere , si comincia da un singolare, poiché egli è
singolare in sè stesso, sebbene sja un lume che si dif
fonde universalmente su tutte le cose conoscibili.
Questa riflessione ha una forza particolare, applicata
all'idea dell'essere; poiché l'essere mentale è massi
mamente semplice, essenzialmente uno, il principio della
unità in tutte le cose, e quindi per sé stesso non è
solamente singolare, ma è altresì il fonte di ogni vera
singolarità (i).

CAPITOLO V.

SC SI DEBBA PARTIRE DA UN FATTO , E PARTICOLARMENTE


DAL FATTO DELLA COSCIENZA.

Ove per fatto s' intenda ciò che è; 1' essere, da cui
noi diciamo che si dee partire, non solo è un fatto,
ma il principio di tutti i fatti.
Non è dunque che si debba partire da un fatto qua
lunque , nè da un fatto contingente; ma si dee partire
dal fatto primo, dal fatto necessario, intelligibile per
sè, onde tutti gli altri fatti sono possibili , intelligibili.
Alla dimanda poi, se si debba partire dal fatto della
coscienza, rispondo che queste parole non sono prive
di equivoco , e che perciò possono ricevere una rispo
sta tanto affermativa che negativa. Se per fatto della
coscienza s' intende l' essere mentale concepito congiuD-
tamente col soggetto che lo intuisce , col sentimento
che accompagna quella intuizione, io dico in tal caso,
che questo è un fatto della coscienza complesso, cioè
composto di due elementi , sentimento l'uno, l'altro
idea (2). Ora la cognizione intellettiva non può avere

(1) Vedi ciò che ho dello sopra di ciò, face. 021 e seg.
(a) Voi. II, face, tat e segg.
due punti di partenza , nè può partire da ciò che non
è puramente intellettivo e mentale; perocché il senti
mento soggettivo non ò ancora intellettual cognizione ,
ma materia solo di cognizione, la quale si rende co
gnizione di poi , quando riflettendo sopra di lei , ci
formiamo di noi stessi l' idea. Se poi per fatto della
coscienza non ai vogliano intendere tutti e due quegli
elementi eh' entrano a comporre il detto fatto , ma so
lamente P elemento intellettivo, la pura luce dell'essere
che risplende nelle nostre menti e che non è che il
termine della nostra interiore visione; in tal caso si può
dire che la filosofia parte dal fatto primitivo della co
scienza, cioè non dall'atto della coscienza slessa, ma
sì da ciò che la coscienza con quell'atto concepisce e
testifica a sè di concepire siccome suo oggetto (1).

CAPITOLO VI.

DEL DUBBIO E DELL' IGNORANZA METODICA.

Cartesio cominciò l' edificio della filosofia da uno


stato di dubbio, in cui egli si pose rispetto a tutte le
cognizioni da lui possedute : dubbio non già vero , ma
metodico, come fu chiamato, cioè inserviente al me
todo e all'ordine nel quale dovea esser trattata la
filosofia.
Sebbene Cartesio non fosse il primo a cominciare la
scienza da questa supposizione del dubbio, la quale
era ammessa dalla scuola (a) ; tuttavia il dubbio car
tesiano fu cagione di gravissimi parlari contro Cartesio,
forse per 1' abuso che ne fecero quelli che male l' in
tesero.
Io osserverò sopra ciò due cose. La prima , che nel

(i) Le obbiezioni fatte a Reinhold, che partiva dal fatto della coscienza,
massime dall' autore dell' Enesideroo, cadono tutte con questa distinzione.
È però vero ebe non è interamente chiara nè esatta , semplicemente par
lando, la proposizione, « che la scienza parte dal fatto della coscienza».
(a) San Tommaso, secondo il costume degli scolastici del suo tempo, in
titola tutte le trattazioni eh' egli fa, Questioni; e comincia dalle obbiezioni
che si possono fare alla verità : Videtur quod Deus non sit , ed altri simili
modi aprono la questione. E ciò fa perchè, come dice il santo Dottore,
UH qui voìunt inquirere veritatem , non considerando prius dubitationem ,
assimiìantur illis qui nesciunt quo vadant, In Metaph. L. Ili, c. i.
cominciameli lo della filosofìa, lo stato supposto dell'uomo
è anzi uno stato d1 ignoranza metodica che di dubbio
metodico : perocché cominciando la filosofia dall' asse
gnare l'origine delle cognizioni umane, e quindi pro
cedendo a dedur mano mano le umane cognizioni da
quella origine prima , viene supposto dalla natura della
trattazione, che avanti la loro origine le cognizioni non
sieno; e l'assenza delle cognizioni nell' uomo si chiama
ignoranza : nel che si vede distinto il carattere della
filosofia cartesiana dalla nostra : conciossiachè quella di
Cartesio si mostra di un' indole dimostrativa , e si pro
pone fino dal suo principio di cercar la certezza; quando
la filosofia nostra risale un passo più addietro, e non
comincia dal dimostrare, ma sì bene dall' osservare quali
sieno i primi dati coi quali la dimostrazione stessa si
forma , e che costituiscono la possibilità della medesi
ma. Il primo scopo quindi della nostra filosofia non è
la certezza delle cognizioni, ma le cognizioni s lesse, la
loro esistenza, la loro origine, trovata la quale, è poi
trovato come un corollario anche il principio della cer
tezza. Tuttavia V origine delle cognizioni e la loro cer
tezza sono assai affini , e sono affini perciò fra loro lo
stato d' ignoranza metodica e lo stalo di dubbio metodico.
Ma prima , per rimuovere ogni ambiguità e giusta ca-
gion di censura da questa sentenza, conviene eh' iodi-
mostri chiaramente qual luogo tenga nell' uomo una
tale ignoranza e un tale dubbio ; il che è la seconda
osservazione che mi sono proposto di fare.
Io ho già distinto la scienza popolare dalla scienza
filosofica; e ho definito la scienza filosofica come l'ef
fetto di una riflessione ulteriore che analizza, dimostra,
e ordina la scienza popolare , e così compone la filoso
fia (i). Ora ai comuni bisogni della vita umana è suf
ficiente, generalmente parlando, la scienza popolare,
sebbene rechi di molto vantaggio altresì la filosofica. Ora
ciò che io voglio qui osservare si è, che tutta la scienza
popolare colla sua certezza dee esser sempre conservata
nell'uomo, nè mai può esser cassata o addotta in un
dubbio universale. All'opposto, quando comincia quella
riflessione ulteriore colla quale l'uomo fa i primi pa»

(i) Face. 176 e segg.


" 34.
nelle filosofiche ricerche, allora viene supposto necessa
riamente che non esista ancora nessuna parte di quella
filosofia che si viene producendo. E in questo consiste
lo stato d'ignoranza metodica da cui io parlo; consiste
cioè in una assenza perfetta non di ogni cognizione, ma
puramente della cognizione filosofica , o come dissi, di
ulteriore riflessione. E da qualche passo di Cartesio (i)
si può credere, che anch' egli togliesse il suo dubbio
metodico presso a poco entro questi limiti , ma che non
se ne fosse ancor formato un concetto così chiaro e pre
ciso , eh' egli il potesse altrui coll'evidenza della sud
detta distinzione comunicare.

FINE DEL VOLUME TERZO ED ULTIMO.

(i) Nel Discorso sui Metodo, Cartesio, dopo avere proposto il suo dub
bio come principio della filosofia , egli lo restringe mediante alcune mas
sime pratiche; « La prima delle quali , die' egli, sarebbe di ubbidire alle
i leggi e a' costumi del mio paese, ritenendo costantemente la religione
« nella quale Iddio mi fece la grazia d' essere istruito fino dalla mia in-
n fanzia , e governandomi in ogni altra cosa a tenore delle opinioni più
t moderate e più lontane da eccesso, che fossero nella pratica le più ri
ti cevute dagli uomini più sentiti fra quelli co' quali mi convenisse di vi-
« vere ». Sebbene qui si veda che Cartesio non poco deferiva al senso
comune , tuttavia alcune sue espressioni dimostrano chiaramente eh' egli
non avea ben notata 1' importanza e la certezza della cognizione diretta e
popolare.
INDICE

DEGLI AUTORI CITATI IN QUEST'OPERA

A Bonnet, II, 137; III, 335.


Bonstetten, III, 61.
Agostino (».), I, xxm, 37, 5a, i45, Boscovich, II, 397.
188, 193, 357; II, 73, 76, 106, 108, Bossuet, I, 178-183; III, 167.
n5, i46-i54, 193, 4>9i 43 1 • 4^o; Boutorweck, III, 388-389, 396.
III, i3, i4, 30, a3, 47» 60, 63-64, Bruckero, I, 253, 364 ; U, 88.
69, 71-73, n3, 133-139, 161-163, Bruno (Giordano), I, xxxm; III, 381.
167, lo5, 3l4"333, 338., 343, 245- Buffon, II, 41 3.
a5i, 355, 3g5. Buhle, I, 3i4.
Alcuino, li, 43i. Buxtorfio, I, Ila.
Alembert (D'), I, 3s-35, 181-183; II,
•39. 4o. c
Alfieri, I, xxxiii.
Algarotti, 11, 4 1 3. Cabanis, I, i5; II, 346, 390, 454-456.
Anassagora, I, a53; III, 55. Caldani (Leopoldo), II, 357.
Anassimcne, I, s53. Carlo Francesco da San Floriano , III ,
Anselmo ( s. ), II, 480; III, 73. 339.
Araldi, I, x-xi; li, 357; III, 198-300. Cartesio, I, 3, 9, 179, 183, i84-i85,
Archelao, I, 353. 308, 353, 386-387, 390,306, 365-36G;
Archimede, I, 375. II, 9, 396, 35i, 377, 44o,443,477»
Archita , I , s5 1 . 48o; 111, 135, 148, 189, 309, 316,
Arduino, III, 3 18, 335. 33 1, 260, 339-341.
Aristotele, I, ìx, 11, 37, n3, 187-357, Chesclden, II, 387.
364, 335 j II, 43, 58, 68, 75, 84-86, Cicerone , II, 88; III, 19, a6, 65, 2o3,
117-1 19, 302,344, 418-419, 428, 43 1, 353-354.
438-439, 441, 452; III, 54-55, 60, Clemente Alessandrino, I, xxm.
73, 110, 148, 160, 164, 173, 175, Collard (Royer-), I, xn; II, 343.
191, 235, 337. Condillac, I, x-xu, 33-63, 65,67, 73,
Arnaldo, I, 36i ; II, 466. 96, 98, 177-179, 309, 310, 225, 391;
Atanasio (s.), I, xix. II, 7, 21, 48, 56, 78, 245-246, 296,
Averroès, III, 174-175. 35i, 4i3; III, 10, 361, 335.
Avicenna, I, s3o; 111, 73. Cook, I, 130.
Cousin, II, i56, 169, 171; III. i54,
B 179.181, 184, 3o4-3io, 3i4, 337.
Bacone, III, 333. D
Barbacovi, II, 479-
BardiUi, III, a9i-3o3. Dante, I, vmj II, 65, 139, 353, 379,
Bartolocci, I, 113. 48i;I1I,6o.
Bayle, II, 35 1, 386. Darwin , li , 453.
Berkeley, I, 63-64, 67, 3it, 3 19-330; Degerando, I, 8i-83, 1 44 ; III, 44.
II , 176, 309, 313, 317, 235, 343-244> Domenico di Fiandra, I, 343.
346-347, 349, s5i, 396, 35i, 438; Doria, I, 166. i85.
HI, 10. Duns (Giovanni), HI, 34, i48, 328,
Boccaccio , III , 70. 237.
Boezio, li, 428.
Bonald, II, 100. E
Bonaventura (s. ), II, 55. 67-68, 71,
74-75, 119, 139, 3j3, 4;M:9; »'» Egidio, I, 248.
45, 58, 60-61, 72-73, 116-117.317, Empedocle. I, 367; III, 54-55.
218, 337-238. Enciclopedisti, III, 332.
Enesidemo (Autore dell') . III. 36, 58, 65, t24, 169, i3i, -4G, 3m,
:ì39. 35i ; III, 3, 9-10, 41. Tifi, fio, Ss,
Epicuro, II, 45i-45aj III, i65, ij5. 86, 94, 120,358-265,267,278,1811,
Euclide, I , 282-283. 28G-288, a93.
Eusebio, I, in, ao3.

Laerzio, I, 25o.
Fallati, I, 63; II, 3g-4o. Laromiguiere , 1 , 74 ; II , 432, 43G-43;.
Feder, I . 3 1 4- Leibnizio, I , xxxiu, 9. 208, 140,
Felire (Minimo), I, xxx. 258-288, 291-292, 295. 364-365, 370;
Fichte, III, 120, 263-281, 286-291, II, 8, 10, 61, 11 3, 268, 296, 35i,
296.3o5. 364, 3g3, 4**>; III, 192-
Firino (Marsiglio), II, 88. 48... Loeke, I, ix, 3, 5-io, 1 5-36. 65-67,
Filibert, II, 479. 73-75, g5-g6, 148-149. i65-i6t>,
Fodere, II , 4 177-178, 181-185, 206-207, «5,
Fortunato da Brescia, I, 5o, i94- 258-259, 26i, 270, 275, 286-288,
Fozio, 111, 36. 290-291, 295-298, 3oo, 3o5-3o-,
3io-3i2,3i6. 3i9; II, 6-8.21, 43^8,
61. 66, 72. 244^45. 268,35i,384-
385, 423, 43o-43i, 434, 436-43:,
Galileo, I, 96; II, 35i, 3;8. 457, 480; 111, 10, 61, 137, 216,
Gallini, II, 244- 260-261.
Galluppi. I, 18, 32, 39. 63. 82-83, Lucrezio, II, 377: III, 78.
i44, 247, 3i5; li, 4«), a3o. 23l- Lullo (Raimondo), I, xxxui.
237, 246, 265-267, 287, 406. 418,
4*4-4*5, 432-433, 435-437 , 44>-442,
48 1 ; III, 3i8.
Garve, II, 44 1 - Malebranche, I, 287, 36i ; II. q, 43.
Gassrndi, I, 1 84-1 85. 117, 296, 34i. 46o, 466, 4;;-48o;
Genovesi, 1, 3 19, 366. III, 188-194, 33a-333.
Ordii, I . 63; ÌI, 48o. Mennais (La), I, xxxi; III, 20,96.
Gioja, I , i5, 38; II, 4i3. Mettrie (La) , I, i48.
Giovenale, II, 382. Miceli, 1, 63.
Giovenale (Padre), II, 479- Molineaux, I, 36; II, 3gi.
Girolamo (s.), Ili, 67, 297.
Giuntino (s.), I, xx-xxin. ' N
Gregorio (s.), Ili, a54.
Gregoris, li, 287. Newton, I, 96; II, 69, 354.
Norris, II, 117-118.
Il
Haller (Alberto), II, a57. O
Hauy, II. 4i3. Oberrauc, II, 4 79-
Helvezio, I, i48. Ockamo, I, i63.
Hobbes, I, i48.
Hook, II, 45o.; III, 55.
Hume, 1 , 63-64. 67, 73, 292. 298-301,
3o6-3(>7, 309-311, 3i6, 3i9 ; II, Pini (Ermenegildo), 1,63; HI, Kit.
1 76-191. 207, 209. 2i5, 225, 245-246, Pirrone, III, 36, 80.
35 1, 418, 438, 44o, 453. Pittagora, I, 25i-a53: II, 88.
I Platone , I ,ix . xxn , i38. 151,187-257,
277, 364-366; II, 8, 10, 33,64-65,
Ilario (s.), I. xxvtn-xxix; III, 72. 84-86, 88. n5, 3*4, 43i, 439, 4<i;
Ireneo (».), II , 2g5. III, 59. 77. 148. 162.
Jarobi, II, 9.87. Protagora, III, 76-77, 81.
Janin . Il , 287.
Jouffroy, I, xi.
Reid, I, 63-o6, 140, 144, i4q-i5o,
i53, 180, i83, 2o5, 307, 310-J17,
3io, 326. 354, 36i-363; II, 7,«.
Kant, I, xxxiv, ao5, 23i, 285-368, 4o-5o. 53 . 56. 66, 229-131. J5i,
370, 373, 375-378; 11,8, 10-12, 3!, 353-354, 384-385, 421-4Ì5, lU-ft,
439-441, 453, 457,481; 111,7,9-10, Temistio, 1, 2i5-2iG, a45-246.
91- Teofrasto, I, 209.
Keinhold, IH, 267, 33g. Tertulliano, HI, 174-175, 178.
flicherand ( Antclmo) , II , 258. Tommassini, II, 479-480.
Rousseau, I, 98; li, 100; III, 170. Tommaso (s.), I, 86, 162-163, 217-218,
224-225, 228,237-240, 242; II, 42,
S 70-72, 74-75, 77-79, 81-82, 84-85,
90, 106-108, 1 12-117, 126, i34, 139,
Schelling, III, io5, 266, 272-289, 292, I99-202, 23 1, 244, 272-274, 204,
296, 298-300. 323, 342, 377, 43 1, 44o, 446, 46i,
Scriblero, I, 166. 47i, 476, 478-480; III, 3, 53-54,
Secretano dell'Accademia del Cimen 56-59,61-62,64,69-70, 73-74, 84-85,
to, II , 11. 89-9°, 93, g5, io3, 107, 111-112,
Senofonte, I, 253-254. 116-117, 119, 123, 12S, i36-i37,
Sesto Empirico, I, 209; III, 20, 25, 147-149» i54, i58-i6o, 162-164,
28, 36, 76-77. 166-171, 173-175, 191, 206, 235,
Simplicio, II, 328. 237, 239, 24^-243, 245, 3o2, 3i4,
Sistema della natura (Autore del), 322, 329, 339.
I, 48. Tracy (Dcstutt-), I, l5j li, 246,
Simili . I, 97-131. 44o-44 1.
Soave, I, 63.
Socrate, I, 25i-254. V
Spallanzani, li, 455.
Spinoza, II, 224. Vico, I, i85.
Stewart, I, 64, 65, 76, 95-177, 180, Voltaire, III, 264.
182; II, 8, 66, 417. Wollio, I, 194-196.
T
Talete, I, 25 1-253.
Tartarotti, II, 4;9-

Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 44


V »
ÌNDICE

Sezione sesta, del CRITERIO DELLA CER


TEZZA face. 3

PARTE PRIMA. Del criterio della certezza.

CAPIT. I. Che cosa k certezza , verità', e persuasione » 6


CAPIT. XI. La certezza non può esse» mai cieca . . » 7
CAPIT. HI. Dei due principi della certezza » 11
CAPIT. IV. Dell' ordine che hanno tra loro il principio intrinseco
E IL PRINCIPIO ESTRINSECO DELLA CERTEZZA » l£
CAPIT. V. Della maniera onde noi tediamo la verità'. ...» 16
CAPIT. VI. Che il principio della cognizione dee esser anco il
principio della certezza » 18
CAPIT. VII. Il principio della certezza è uno per tutte le pro
posizioni possibili » ao
CAPIT- YUX Di una maniera semplicissima di confutare oli scettici, » ai

PARTE SECONDA. Applicazione del criterio


A DIMOSTRARE LA FERITA^ DELLA COGNIZIONE
PURA.
CAPIT. I. Si mostra essere giustificata per se stessa l' intuizione
dell' essere tonte di ogni certezza.
artic. I. Obbiezioni scettiche contro V intuizione dell' ente > 38
ARTic. II. Onde queste obbiezioni derivino » 29
artic. III. Primo dubbio scettico : « 11 pensiero dell' esistenza in univer
sale non potrebbe anch' esso essere un' illusione »? . » 3a
§ 1. Risposta » ivi
$ a. Istanza dello scettico » 34
§ 3. Corollarj della dottrina esposta » 36
artic. IV. Secondo dubbio scettico: u Come è possibile che V uomo perce
pisca una cosa diversa da sì stesso »? » 37
§ I. Risposta » ivi
§ a. Continuazione » 3g
§ 3. Corollarj importanti » 4°
artic. V. Terzo dubbio scettico: « Lo spirito non comunica forse alle
cose vedute le sue proprie forme , e non le altera e trasforma
da quello che sono » ? » 43
8 1. Risposta » ivi
§ a. Corollarj "44
artic. VI. Si riconferma la confutazione degli scettici. » 47
artic. VII. Quanto fu esposto e dottrina della ciistiana tradizione. . » £1
. 44*
CAPIT. n. Dell' idea dell'essere ih qvanto i mezzo da covatati
TUTTE l' ALTRE COSE , O SIA DELIA FERITA'.
artic. I. Nesso delle dottrine esposte con quelle che seguono . . face. 64
Aaric II. Dei diversi usi della parola verità » 65
t. Significato generalissimo della parola verità » ivi
a. Distinzione fra la verità e le cose vere » ivi
3. Significati di questa espressione: verità delle cose a 66
4. La verità significa propriamente parlando un'idea » 6;
5. In che significato prendasi il nome di verità quando si dice che
le verità sono molte » 69
§ 6. In che significato prendasi il nome di verità, quando si usa in
singolare ed in modo assoluto a »o
artic HI. Che V idea dell' ente sia la verità, si prova co' passi di
s. Bonaventura e di s. Tommaso » 71
artic. IV. Nuova dimostrazione , che V idea dell' ente è la verità. . » *i
§ 1. La varietà delle espressioni moltiplicano apparentemente le specie
dello scetticismo » iti
§ a. Forme apparenti dello scetticismo » 76
§ 3. Lo scetticismo non può avere che una sola forma reale in qual
che modo a ivi
§ 4- Che cosa esiga lo scetticismo del dubbio per esser coerente. . » 80
C 5. Lo scetticismo è l' impossibilità del pensare » 83
§ 6. L'idea dell' ente, e la verità secondo la quale noi giudichiamo
delle cose , sono il medesimo a H
CAPIT. III. Dell' applicazione possibile dell' idea dell' essere.
artic I. L'applicazione dell'idea dell'essere genera i quattro primi prin
cipi del ragionamento » 85
artic. II. Principio generale dell' applicazione dell' idea dell' essere con
siderata nel suo valoiv reale ed oggettivo rispetto alle cose fuor
della mente » ivi
CAPIT. IV- Della persuasione circa l' idea dell' essere o la ferita',
E CIECA 1 PRIMI PRINCIPJ DEL RAGIONAMESTO.
artic. I. Ogni uomo ha una necessaria persuasione della verità e dei
primi principj del ragionamento » 88
artic. II. / primi principj del ragionamento si chiamano anche conce
zioni comuni » 91
artic III. Che cosa sia il senso comune » ivi
artic. IV. Obbiezioni contro la persuasione universale de' primi principj. » 0}
artic V. Bisposta : Distinzione fra la cognizione diretta e la cogni
zione riflessa » ivi
artic VI. Pericolo nel dar fede a quelli che ci assicurano di non esser
persuasi de' primi principj » j5
artic VII. // primo mezzo per emendare la cognizione riflessa di quelli
che negano i primi principj , è il mostrarli in contraddizione colla
loro cognizione diretta » 96
artic Vili. // secondo mezzo per emendare la cognizione riflessa di
quelli che negano i primi principj o sragionano sulle cose più
ovvie, è V autorità degli altri uomini, la quale perciò potrei -
besi chiamare un criterio della cognizione riflessa * 99
PARTE TERZA. Applicazione del critebio a di
mostrare LA VERITÀ' DELLA COGNIZIONE
NON'PVRA , O SIA MATERIATA.
CAPIT. I. Del fatto /.v generai*.
artic. I. Nesso delle dottrine » S)
artic. 11. Del fatto in sè , non sentilo ni inteso » lu4
artic IH. Del fatto sentito e non inteso. t . face. io5
aktiu. IV. Come venga esibita al nostro spirito la materia della cognizione. » 109
artic V. Principio universale di ogni applicazione della forma della
ragione ai fatti esibiti dal sentimento ti 107
artic VI. Dichiarazione del principio universale annunziato. . . . » 108
artic VII. Obbiezione risoluta » 109
artic Vili. Dichiarazione maggiore del principio onde si giustifica la
cognizione materiata in generale » III
§ 1. In che consista l' imperfetto stato che tiene 1' essere innato nella
mente umana » 119
8 a. Della similitudine; » u{
§ 3. Si rinforza la confutazione dell' errore fondamentale della scuola
tedesca, altrove data » 119
CAPIT. IT. Dell* certezza della percezione , s primamente della
PERCEZIONE DI SOI MEDESIMI.
artic I. Delle cose che noi percepiamo » iaa
autic. II. // sentimento dell' Io è un sentimento sostanziale. • . . » ivi
Anne. III. Noi percepiamo noi stessi senza un principio di mezzo. . » laS
artic IV. Certezza della percezione dell' Io » ia4
artic. V. Come s. Agostino dalla certezza della percezione di noi stessi
tolse a confutare gli Accademici. 1» ia5
ARTIC. VI. Di altre verità che partecipano della stessa certezza della per
cezione dell' Io » ia6
artic VII. Osservazione sulle percezioni intellettive de' sentimenti. . » ia8
CAPIT. m. Della certezza della percezione de' corpi.
artic I. Difficoltà nel provare la certezza della percezione de' corpi. » 139
artic II. L' intelletto giustamente vede un' azione nelle passioni che
soffre la nostra sensitività » i3o
artic III. Lo spirito umano dalla passione che soffre il senso percepisce
e conosce una sostanza corporea » l3l
artic IV. Giustificazione della percezione de' corpi. » l3a
CAPIT. IV. Della certezza degli enti che non si percepì'
SCONO , HA SI DEDUCONO DA QUELLI CHE SI PERCEPISCONO.
artic I. Quali sieno gli esseri che non conosciamo per una percezione ,
ma per un ragionamento » l33
artic. II. Distinzione fra l' idea e il giudizio della sussistenza di questi
esseri. » l34
Anne. III. Onde nasca la concezione di questi esseri. » ivi
artic IV. Del giudizio suW esistenza di Dio » ivi
CAPIT. V. Della cognizione delle essenze.
artic I. In qual senso si dica che noi conosciamo le essenze delle cose. » l36
artic II. Onde sia venuto che i moderni abbiano negata la cognizione
delle essenze » i38
artic III. Della verità delle essenze cognite in generale » 1 39
artic IV. Limiti nella nostra cognizione naturale delle essenze. . . » 140
artic . V. Parte soggettiva , e parte oggettiva nella percezione delle
essenze » 1 43
artic VI. Conseguenze sulla natura della nostra cognizione delle essenze.» 146
artic VII. Dell imperfezione della percezione oggettiva » l5o
artic Vili. Delle essenze positive e negative » ivi
artic IX. Dell' idea negativa di Dio » l5a
artic X. Conclusione » l58
PARTE QUARTA. Degli errori a evi soggiaci
l' umana cognizione.

CAFIT. I. Si riassumono tutte le cognizioni , nelle ovali


LA NATURA STESSA DELL' INTELLETTO CI PROTEGGE DA
OGNI ERRORE face. 161
CAFIT. n. Della natura degli errori uhani.
àbtic. I. Distinzione fra la ricerca della natura dell' errore e quella
della sua causa » l65
artic. II. L' errore non è che dell' intelletto » 166
artic. III. L' errore è ne' giudizj posteriori alle percezioni » 163
artic. IV. Spiegazione di quella specie particolare d'errori i quali na
scono per l' abuso del linguaggio » 168
artic. V. Perchè l' errore sia solo de giudizj posteriori alle percezioni
ed alle prime idee » 171
artic. VI. Continuazione : cognizione diretta , e cognizione riflessa. . » ìtì
artic. VII. Cognizione popolare e filosofica » 176
artic. Vili. Riassunto delle cose dette sulla sede dell' errore. . . . » i&f
CAFIT. m. Causa degli errori umani.
artic. I. L' errore è volontario. » 188
artic. II. Eccellente dottrina di Malebranche sopra la causa dell'errore. ìtì
artic. III. Cause occasionali degli errori. » 19$
artic. IV. Perchè alle verità fornite di certa evidenza, come le geome
triche , sembra che noi siamo necessitali di dare V assenso. . •> 3o5
artic. V. Sì assolvono gli uomini da molli errori. » 2(4
artic. VI. V uomo non può sempre evitare V error materiale, ma si il
male del medesimo » 208
artic. VII. Entro quai confini possa cadere V error materiale. . . » 209
artic. Vili. In che senso la Scrittura ed i Padri della Chiesa dicano
che le verità sono manifeste , e ogni uomo, purché il voglia,
possa venirne al possesso > ili
ARTIC. IX. Esempio di errore nella cognizione popolare e comune, mostrato
da s. Agostino nell' idolatria » »l8
artic. X. Esempio di errore nella cognizione filosoGca , mostrato da
s. Agostino nella incredulità » 211
artic. XI. Si continua l'analisi dell' errore: V errore suppone confusione
nella mente »
artic. XII. L'errore si fa mediante una sospensione ingiusta di assenso.» vii
artic. XIII. V errore talora si fa mediante un affrettamento o precipi'
tanza in dare V assenso » 229,
CAFIT- IV. Della persuasione riflessa della verità' e del
l' errore.
artic. I. Della persuasione riflessa in generale . . » »3l
artic. II. Dell' evidenza, e della persuasione prodotta dal primo criterio
della certezza ne' principi. * iii
artic. III. Della persuasione prodotta dal criterio della certezza nelle
conseguenze ." ."
ARTIC IV. Stato della mente nella persuasione prodotta dal primo criterio
della certezza , descritto da s. Bonaventura e da s. Tommaso. » 2»
Artic. V. Della persuasione prodotta dal criterio estrinseco della cer-
lezza , e particolarmente dall' autorità ^v!
ARTIC. VI. Della persuasione de' primi principj dedotta dalcriterio estrinseco» 33g
artic. VII. Della persuasione che si può avere dell' errare. . . • "
artic. Vili. Continuazione "
astic. IX. L'errore è sempre una ignoranza *
PARTE QUINTA. Conclusione.

capit. I. Illustrazione delle dottrine esposte , coli'ana


lisi CHE FA S. AGOSTINO DELL' ERRORE DE' MATERIALISTI f. 346
capit. H- Epilogo sul criterio della perita' » a5i

SEZIONE SETTIMA. Delle forze del ragiona


mento A PRIORI.

CAPIT. I. Che cosa intendiamo per ragionamento a priori. » a56


CAPIT. H. Sul punto di partenza delle umane cognizioni
assegnato da alcuni pensatori della scuola tedesca.
artic. I. Scopo di questo capitolo » 258
ai, ric. II. Differenza principale fra le foime assegnate ila alcuni moderni
allo spirito intelligente , e V unica nostra forma » a5<)
artic. III. Sul punto di partenza della filosofa di Kant » 260
a ia te. IV. Sul punto di partenza della filosofia di Fichte » 265
ai, ne. V. Sul punto di partenza di Schelling » 272
abtig. VI. Sul punto di partenza di Bouterwecky » 288
ahtic. VII. Sul punto di partenza di Bardilli. « ^gi
CAPIT. ni. Sul punto di partenza della filosofia del
signor prof. Cousin.
ai. mg. I. Esposizione del sistema » 3o4
Anne. II. E impossibile partire dalla triplice percezione del sig. profes
sor Cousin » 3io
§ 1. Non è necessario che nella prima percezione si percepisca la
causa assoluta ed infinita » ivi
§ 2. Non é necessario che nella percezione del mondo noi percepiamo
intellettivamente noi stessi » 3n
<j 3. La prima percezione essenziale onde muove ogni ragionamento e
quella dell'essere in universale « 314
CAPIT. IV- Il ragionamento a priori puro so* ci conduce a conoscer
NULLA NELL' ORDINE DEGLI ESSEKI SUSSISTESTI E FINITI. . . « 3|5
CAPIT- V. Il ragionamento a priori ci conduce a de' principi logici
cut: APPARTENGONO All' ORDINE DEGLI ESSERI IDEALI.
artic. I. Definizioni. « 3jo
artic. II. A che si estenda la cognizione a priori pura « ivi
artic. HI. A che si estenda la cognizione a priori » 321
CAPIT. VI- Si riconferma il principio di tutta quest' opera , mo
strando con Nuoro argomento che l idea dell' essere è di
TAL NATURA j CHE l' UOMO NON PUÒ FORMARSELA COLl'ASTRAZIONE •! ili
CAPIT. VH. Ih RAGIONAMENTO A PRIORI PORO CI CONDUCE A CONOSCERE
l' ESISTENZA DI UN INFINITO j DI Dio.
artic. I. Come si possa inslituire un ragionamento senza usare alcun
altro dato fuori dell'idea dell' essere » 32.S
artic. II. Cenni sopra una dimostrazioiw dell'esistenza di Dio a priori. » 326
. sezione ottava. Svila prima Divisioni
DELLE SCIENZE.
CAPIT. I. QfAL SIA LA PRIMA DIVISIONE DELLE SCIENZE. . . . face. 33l
CAPIT. II. Sulle due vie, di osservazione e di ragionamento. . » 353
CAPIT. HI. Si i. 'punto di partenza del sistema, delle cognizioni
UMANE. » 334
CAPIT. IV Se convenga Cominciare da un particolare o da un
UNIVERSALE é » y>~
CAPIT. V. Se si debba partire da cn fajto, e particolarmente dal
FATTO DELLA COSCIENZA. » 333
CAPIT. VI. Del dubbio e dell' ignoranza metodica » 33g

Indice degli Autori citati in qucst' Opera ...» 343

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