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S. B.
is.
IDEOLOGIA
LOGICA
VOLUME l.
5t m <i> 3iV(Q(BaD
auiV
DI
ANTONIO ROSMINI-SERBATI
SACERDOTE KOVERETANO
f O L U ME PRIMO
MILANO,
MDCCCXXXVI
Quest* Opera fu itaippata per la prima volla in Roma
l'anno i83o dalla Tipografia Salviucci, in quattro
■volumi.
PERENNI
LA MEMORIA DEGLI ANNI MDCCCXV E MDCCCXVl
•1
opera presente non appartiene alla filosofia in
quisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere
che travaglia di aggiungere chiarezza e sviluppamento a
delle verità già universalmente conosciute. E di vero, in
lavorando il presente Saggio, non fu altro il mio inten
dimento, se non di richiamare gli uomini ad osservare
ciò che hanno in se medesimi, ciò che già sanno per
natura, senza però aver contratta l'abitudine di riflet
terci i in somma io non intesi che di fare il commento
di una sentenza del senso comune, e di rispondere a
questa semplice dimanda « che cosa è il lume della ra
gione? y> quel lume che è un vocabolo di tutti gl'idiomi
e di tutti, i tempi, che è pronunziato da tutte le scuole
e da tutti i volghi, la cui esistenza nell'uomo è conte
stata perciò da un'autorità piena, ed è il fatto più di
tutti evidente e cospicuo, il fatto dal quale solo trae
origine ogn* altra specie di evidenza.
A por mano a questa materia mi condusse l'essermi
richiesto schiarimento di alcune parole da me in altra
opera scritte, nelle quali accennava la mia opinione sul-
V origine delle umane cognizioni. Le quali parole furono
le seguenti: » Secondo noi, » diceva io colà, « V in-
» tendimento puro dell'uomo non è ristretto, non è limi-
« tato; ammettiamo in lui una sola forma che chiamiamo
u la forma della VERITÀ' , la quale non restringe
« punto l' intendimento , non essendo essa forma parti-
« colare , ma bensì universale, generalissimo, che ab-
» braccia tutte le forme possibili e che misura tutto ciò
Vili
u che e limitato; e con questa sola forma , con questa
« sola misura noi spieghiamo tutto ciò che trascende
« nelle operazioni dello spirito umano i sensi e V espe
ti rienza (i) ». Io non poteva rendere di questa mia af
fermazione ragione piena e convincente, se non mi fossi
messo dentro- nell'esame della natura dell' umano inten
dimento, di che tratta tutta quest' opera , e non mi fossi
fatto a dichiarare, lungo lavoro per certo, l'indole di
quella idea o forma prima, per dirlo con Dante,
(i) In prego il lettore di vedere ciò che io dissi intorno all'indole della
filosofia che io mi propongo di seguitare , e a' due caratteri che la contrad
distinguono , nelle due Prefazioni premesse al Voi. I., ed al Voi. II degli
Ojmsroli Filosofici.
XV
ì a noi cognita in questa vita , ed è questo che prende
a fare l'opera presente. Nella qual' opera cominciandosi
dal toccare le cose più ovvie, e narrare i sistemi più
facili concepiti sull'origine delle idee, quindi mostran
dosi le difficoltà da quelli lasciate insolute, poi indicando
i mezzi tentati inutilmente da più valentuomini per su
perarle, e finalmente dandone la vera soluzione, si pro
cura di venir mano mano intro ducendosi nelle conclu
sioni più rilevanti, e nel fine di render aperto e mani
festo appunto quel pensiero che io toccava; sicché, co'
nosciuto che cosa sia la verità , si conosca pure com' ella
àa f unità essenziale di tutte le cose, e quindi come
non da altro principio se non da essa possa scaturire
la filosofia una che noi cerchiamo; come d'altra parte
quella filosofia una abbracci essenzialmente il tutto, poi
ché la verità non essendo che /'essere possibile, ella è
tale che fuori di lei, fuori dell'essere possibile non si
ritrova che il nulla.
L'uomo veramente ha in sè medesimo due bisogni es
tenuali da soddisfare; l'uno"appartiene alla vastità del
tuo cuore, F altro, per dir così, alla profondità. Egli
d'una parte non si sazia ne pure cibando l'universo, e,
per quanti esseri contingenti voi gli diate, egli ancora
ha un'altra esigenza. La moltitudine degli oggetti , nello
stesso tempo che lo incanta e seduce , lo a/fatica ed op
prime; ed è impossibile che l' uomo si sazj di una mol
titudine qualunque di oggetti ch'egli non può abbrac
ciare, e dai quali tuttavia non può esser empito. Final
mente egli vi dimanderà un ordine nella stessa moltitu
dine; egli cercherà in quella, qualche cosa di necessario
e di uno; e non sarà a pieno mai soddisfatto , fino che
non abbia ridotto e sottomesso la immensa varietà ed
universalità delle cose a un principio solo, nella cui im
mutabilità egli ritrovi un riposo e una quiete mentale,
dove più altro non gli resti a cercare e desiderare, per
chè altro non esiste, dove egli sia empito e non affati
XVI
caio, dove non manchi nulla, e non manchi nè pure
la più assoluta semplicità.
Venuto l'uomo in questo assoluto, venuto nel cono
scimento di una verità nella quale il tutto si semplifica
e si risolve , oltre a cui non ha inquietezza di ricerche,
è calmo, è soddisfatto; egli può vedere tranquillamente
altresì qual sia il posto che occupa egli medesimo nel
tutto, e come egli debba guardare quel posto, per non
violare un ordine che tanto ha cercato, e sottomettersi
al principio che unizza tutte le cose, acciocché anch' egli
entri nella grande unità e non la turbi, in quella unità
che ha conosciuto per V estremo voto di sua natura e
per il termine de' suoi supremi bisogni. E dunque da
quell' unità che abbraccia il tutto che viene un solido
fondamento alla morale, e fino a tanto che le scienze
s' insegneranno V una daW altra spartita, e quasi fram
menti sconnessi di grande tempio scrollato o da barbare
invasioni diruto, non sarà mai possibile che il sapere
umano vada di un passo pari colla morale virtù, e che
gli uomini colf aumento de' lumi si ammigliorino ; e se
non si animigli orano , come si pub riordinare la società
senza i costumi?
Ho già detto ancora, che credo questa essere la teo
ria dell' Evangelio , e perciò la filosofia del Cristianesimo.
Nè fa meraviglia che una filosofia divina per l'uomo
mostri aver le sue basi nella natura umana, e corrispon
dere alle essenziali leggi di questa natura per la quale
è data. Conciossiachè veramente io non saprei trovare
altra dottrina che meglio della cristiana congiunga in
se medesima I'vkita' più perfetta colla totalità' più
assoluta. Se non che, il Cristianesimo non è semplice
mente una teoria che additi all' intendimento umano il
metodo della verità, o la verità stessa, come può addi
tarla l'uomo all'uomo in parole; ma egli è una virtù
altresì invisibile che rende possente neW uomo la stessa
verità: che la rende possente nella mente , ove manifesta
ed emette nuova luce e discuopre di se medesima altre
XVII
parti prima al vedere umano celate e contese dalla li
mitazione delP umana natura; possente nel cuore, a ri-
mutarlo e convertirlo dall' apparenza del bene corruttibile
al desiderio e alP amore di quel bene sommo che nella
verità stessa gli si è reso più manifesto e più attraente ;
possente nella vita, che si rinnovelta e riconforma al
cuore ed alla mente rinnovellati ; e nello stesso universo
possente, il quale attempera le sue leggi, anzi ha le
/fg§i già temperate ab eterno in ossequio e servigio della
verità ingrandita e trionfante nella specie umana.
Quindi le divine Scritture nominano i Cristiani quasi
con loro proprio nome quelli che hanno conosciuto la
Verità (i). Ma perchè questa verità, di cui parlano le
Scritture, che è il principio di tutto il Cristianesimo,
dalla cui parola esse ci dicono generati (2), non è più
solo, come io diceva, il lume naturai della mente, la
vtrità iniziale, ma sì la verità compita ed assoluta, la
verità prima e sussistente, e non quindi una fredda idea
nostra, ma una virtù onnipossente, il Verbo stesso di
Dio (3),- perciò in quanto noi partecipiamo in questa
vita di cotesta verità divina fondamento del Cristianesi
mo, e ny esperimentiamo la virtù confortatrice dell' in
telletto e reggitrice dell'animo nostro, in tanto le divine
Scritture ci dicono che nella verità sta la grazia di
Dio (4), e che in virtù -di lei l'uomo cammina nel
chiaro lume della verità (5). E perciocché ancora questa
Verità compiuta , che pur adopera in noi con somma
tfjicacia e nelle nostre menti risplende, non ci si dà però
tutta a vedere sveltamente nella sua propria essenza
che è r essenza di Dio ; quindi noi quaggiù dobbiamo
credere alla sua virtù ciò che non possiamo esperimen-
\
(1) Qui cognoverunt veriutcm. Jo. Ep. Il, c. I.
(1) Geouit dos verbo veritatis. Jac. I.
(5) Ego som — veritas. Jo. XIF.
(4) Graliam Dei in verilatc. Coloss- I.
(5) la ventate ambulare. Jo. Ep. III.
Bossf/wr, Orig. delle Idee, Voi L c
XYIll
tare, ed in questo senso la Fede è la virtù primaria del
Cristianesimo, la Fede, come dicono le Scritture, che
si presta alla stessa Veri là , alla quale chi nega fede
è essenzialmente nella dannazione della menzogna (i).
Quindi non altra ragione assegna il Vangelo del non
riconoscere la parola di Cristo se non l'amore della
menzogna e il precedente rifiuto della verità (2).
Unico dunque è il principio del Cristianesimo, la
verità'; e la verità' pure è il principio della Filosofia;
se non che, come in questa la verità si mostra solo per
una regola della mente, così in quello ella ci si porge
compiuta e intera in se medesima sussistente siccome
una persona divina , la quale parte luce in noi ed opera
efficacissima nell'essenza del nostro spirito, e parte ve
lata ed occulta si Ja oggetto venerando alla nostra Fede
e argomento infinito di tutta nostra speranza. Di che la
Filosofia, se pur vuol esser vera, non dee voler essera
che una propedeutica alla vera Religione: conciossiachà
tuomo sarà più preparato alf adorazione e alla fede,
più ch'egli si sarà allontanato dall' errore ed occupato
a riconoscere e ad amare anche quell' abbozzo , per così
dire, di naturai Cristianesimo , che è nell' uomo la na
turale verità, un crepuscolo sarei per chiamarlo del
Verbo divino (3).
Questo principio semplicissimo che dà tanta uhita'
alla teoria cristiana, è pure quel principio sommamente
fecondo onde nella teorìa cristiana nascono tutti i beni;
e le stesse scienze umane non prosperano felicemente e
con non interrotto progredimento se non quando sono fatte
germogli di quel seme, e tralci di quella salda radice-
Quindi è che il Cristianesimo portò in sulla terra la ci-
(1) — elegerit vos Deus — in fide veritatis. Thessat. Ep. Il, c. II. — Ut
judieentur ornaci qui non crediderunt Tentati. Ivi.
(a) Qtiare loquelam meara non cognoscitis? — Quia non potestis audire
lermoncin mcum- Vos ex patre Diabolo eslis — quia non est verità* in eo.
Jo. Vili.
0) Quac illurainat omnera hominem veuientem in faune mundum. Jo, l.
Xlt
viltà, conseguenza naturale di lui, e la rese indistrutti'-
bile come se stesso ; e che introducendosi continuamente
più addentro nella società, mette in quella un germe di
perfettibilità indefinita, la quale l'orgoglio umano, che
ignora sempre i beneficj ed usurpa la gloria altrui, at
tribuisce a sè medesimo , quella perfettibilità che era in-
cognita alle nazioni che hanno preceduta la venuta di
Gesù Cristo, il quale solo, secondo l'ardita frase dì Isaia,
tolse via il freno dell'errore che era nelle mascelle de'
popoli (i). Quindi la stessa baldanza umana, che pur
può nuocere a de1 singoli uomini, è oggimai impotente a
imbarbarire Finterà umanità; e tutti gli sforzi dell'in
ferno nel secolo scorso non hanno giovato che a dar
nuova prova del nulla degli uomini, e della onnipotenza
di quel Redentore che ha rese sanabili le nazioni (a)>
a cu/ ogni ostacolo è mezzo, e mezzo necessario e cal
colato, che aiuta a compire gV indeclinabili destini della
parola evangelica. Sicché a malgrado dell'1 apparenze mo
mentaneamente contrarie, si può però dire sicuramente
che nulla arresta , nulla trattiene il passo del Cristiane
simo ; ed all' opposto si può ripetere anche a' dì nostri
quello che diceva s. Atanasio, che « oggimai non ha
« piò progressi la gentilesca sapienza ; ma più tosto
« quella che prima era , a gradi a gradi di continuo
« svanisce » (3). Nella quale efficacia e sicuro effetto
della parola di Dio, i Padri della Chiesa additarono la
riprova e quasi il suggello della sua divinità; percioc
ché la parola divina è d'un effetto certo; e a questo
segno chiamava Cristo medesimo quando diceva « Tutti
* quanti vennero sono ladri e assassini, e le pecore non
" hanno loro dato ascolto. — Io sono il buon pastore,
« e conosco le mie pecore, e quelle che son mie cono-
(\) Qui Philosophi vocaotur si qua forte vera et fidei nostrae accomoda
djienjDt, ab eis tanquara ab injustis possessoribus iu usum nostrum vin-
dicanda sunt. De Doetr. Christ. llt Xt.
(a) Quam ob rem, ut mihi videtur, cum ipsum verbum ad nos venit
eaelitus, non sunt nobis amplius frequentandae hominum scholae, nec
Atbenae, reliqua Graecia, aut etiam Jonia studiorum causa adeundne. Nam
si hoc utamur roagistro qui sanctis virlulibus, opifìcio, salute, beneficio,
legislalione, vaticinio, doctrinà compievi! omnia; nulla est doctriua quam
is non tradii, ipsique, hoc est verbo, uuiversus iam orbis lerrarum Alhe-
nae atque Graecia factus est - CohorUitio ad Gentes , il. II.
(3) Scientia veritatis, così sera' altro è chiamalo il Cristianesimo nelle
dtvinc Scritture- fed- *■ Pool. Ep. Il ad Timpth. c, ///.
XXIV
perciocché la sua contìnua tendenza a diffondersi in
tutte le parti del mondo è così manifesta , che non si
può a meno di dare a lei anche il titolo di cattolica,
che caratterizza e segna la religione che la produce.
Ella fu questa Religione sublime che abolì la schia
vitù, e che compose la grande società di uomini liberi
la quale si chiama Chiesa cattolica, e che ciò fece
senza alcuno sforzo violento , ma solo comunicando agli
uomini la cognizione della divina verità, secondo la pre
dizione del fondator della Chiesa il quale avea detto
« E conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi «
vera libertà, figlia primogenita della virtù secondo l'am
maestramento del medesimo divin fondatore: « In verità
« vi dico , che ciascuno che fa il peccato è servo del
« peccato » (2). E veramente la sola servitù a Dio è
quella che può sottrarre /' uomo dalla servitù deW uomo;
e il decreto dell' emancipazione del genere umano per
questo è coevo e immedesimato col primo precetto del
decalogo dell' adorazione divina , avendo Iddio ad un
tempo e stabilito nel suo popolo il culto, e promulgata
la libertà in quelle solenni parole: Dominum Deum tuum
adorabia, et ilia soli servies (3). La ferità dunque è
il principio della giustizia .• giacché in essa l'uomo sì
santifica (4) : e V effetto della giustizia , che nelV adora
zione di Dio massimamente consiste , è la libertà, la
pace, la felicità della società umana. La società adun
que formata dalla verità, la Chiesa cattolica, è essen
zialmente libera, sebbene il mondo ingiusto non cessa
dì tentare quanti è da se di aggravarla di catene, quel
mondo che ritien sempre la verità di Dio nella ingiu
stizia (5) j e questa libertà essenziale è V effetto neces-
()) Nullum negotium est patefacere omnia in rebus liumanis dul>iu , in.
XXXI
Altri poi di maggiora ■ ingegno forniti presumono, con
non poco a dir vero di baldanzosa confidenza , di poter
metter termine a tutte le questioni, inventando essi stessi
e foggiando de* sistemi semplici ed universali , cioè com
posti di poche idee; i quali però non sono punto più
felici dé sistemi di quelli che li hanno preceduti, e non
possono meglio soddisfare alle difficili questioni che pre
senta la natura umana , perocché arbitrariamente esclu
dono molte ricerche , e si racchiudono in un breve cir
colo di cognizioni e sommamente incompleto , da essi ,
giusta il proprio comodo, misurato e delineato. Questi
nuocono assai al progresso del vero, sì perchè rivestono
talora di splendida eloquenza i loro errori ( i ) , e lusin
gano altrui colla facilità, colla semplicità, e collo splen
dore di poche e talor vere e sante sentenze; e massime
poi col disprezzo profondo di che ricuoprono tutti quelli
che non senton con essi; imperocché sono essi entrati in
sì miserabile persuasione, che tutto ciò che v'ha d'im
portante per gli uomini sia già compreso nel descritto
giro di loro dottrine ; e per uno zelo inordinato predi
cono le più triste conseguenze di tutto ciò che non è
auanto dicon essi, e dichiarano ben sovente eterodosse
0 ancora atee tutte V altre opinioni dalle loro non tanto
forse contrarie quanto diverse. E troppi sono costoro ,
tirati in errore dalla specie del bene che di far si pro
pongono, e che tanto poco prudentemente sanno fare;
1 «/ de' quali conviene diligentemente come scogli evi
tati : e per questo appunto io ho tolto a farne con pochi
cenni il ritratto, perchè nella rettitudine delle loro inten
zioni forse altro non si richiede ad essi , acciocché si
ftrta, dispensa, magisque omnia verisimilia quam vera. Quo magis miruin
<>t Donnullos taedio investigandae poeuitus veritatis cuilibet opinioni te
mere suceumbere, quam io ezplorando pertinaci diligeutia perseverare. In
Octavio.
(1) De la Mennais.
XXXII
emendino , che di abbattersi a vedere come in lucido
specchio ri/lessa la fedele loro immagine.
Questo genere però , come gli altri accennati , non
vuoisi credere che sìa nuovo de' nostri tempi ; perocché
qual cosa v' ha di nuovo sotto al sole ? o quali sono i
difetti della natura umana, che solo a' nostri tempi sieno
cominciati?
Il seme del difetto che ho descritto, e al quale anche
i buoni per infermità soggiacciono , è tutto in una so
verchia fidanza che prende l'uomo di sè medesimo, e in
una speranza esagerata di potere assai facilmente metter
rimedio a' disordini, e condurre gli uomini per una via
regia a toccare su questa terra un termine di perfezione,
alla quale o mai o solo coli' opera di lunghi secoli po
tranno pervenire. Si presenta alla mente cosa , che par
rebbe dover essere utile a conseguire questo ottimo fine,
s'ella fosse nella natura umana e nell'ordine delle cose?
E bene; non si guarda già più se quella cosa sia nella
natura umana, se sia nell'ordine delle cose.- ma inescati
quelli che la vagheggiano dal vantaggio ch'ella presenta
al loro pensiero , affermano sicuramente che quella è
legge della natura , che quella è già nell' ordine delle
cose. E onde mosse la teoria che pose il supremo ed
unico criterio di certezza nel consentimento del genere
umano, se non dal pensiero, che sarebbe pur utile che
gli uomini avessero un criterio facile , universale, il quale,
senza le spine che si trovano nell'applicazione degli altri
criterj, desse le singole verità belle ed espresse (i)? Parve
SEZIONE PRIMA
PRINCIPI DA SEGUIRSI IN QUESTE RICERCHE
CAPITOLO I.
(i) È facile accorgersi, che questi due principi, presi insieme , non sono
che il principio delia ragion sufficiente diviso nelle due parti delle quali si
compone.
Zs„>«<, Ong- delle Idee, Foli.
a
Tutto ciò che si assume più che non è necessario alla
detta spiegazione, riesce superfluo ed al tutto gratuito;
il che è quanto a dir cosa che, come gratuitamente si
afferma, così gratuitamente si può rifiutare e negare. A
ragione d'esempio, chi pigliasse due sensi, e li desse
all'uomo unicamente per impiegare con essi una sola spe
cie di sensazioni ; questi si renderebbe ridicolo , asse
gnando ad un genere solo di fatti due cagioni , 1' una
delle quali riesce evidentemente superflua , e perciò
senza senno introdotta.
Perciò chi medita sulla natura dello spirito umano ,
dee riconoscere ed ammettere i.° tutto ciò che è ne
cessario a render ragione di tutti que' fatti caratteristici
che si posson raccorre con una diligente e completa os
servazione; a.* non dee riconoscere ed ammettere nulla
di più, per guisa che quanto egli ammette sia sempre
il menomo possibile, o sia, « di tutte le complete spie
di gazioni de' fatti dello spirito umano egli preferisca
u quella che è la più semplice, e che esige meno sup-
* posizioni dell'altre ».
CAPITOLO IL
(1) Chiamo filosofia volgare quella filosofia imperfetta che rimane nel
«cjgo de' filosofi tuttavia , in un tempo , nel quale il mondo possiede già
<tóle grandi e profonde cognizioni filosofiche, come pur sono quelle de
filate in tanti libri tramandatici dall'antichità e da' secoli posteriori fino
» «el fliel secolo scorso si è voluto rinunziare a tutta l'eredità de' nostri
f*àri: la filosofia ricominciò allora a comparir bambina: in questo stato
io tao dirla volgare ; perchè è l'uso del volgo quello di toglier le questioni
**' primo aspetto eh' elle presentano , anche quando esse hanno già mu
tato stato e natura, come avviene quando sono state segno ed oggetto d'una
filosofia più matura e profonda. Cartesio diede lo scandalo di accingersi
ejh solo, si può dire, e con pochissimo studio di quelli che il precedet
tero, all'edilizio filosofico , al quale avevano posto mano e già alto levatolo
'■fi i secoli precedenti : la sua gran niente, e le poche idee ricevute dalle
tegole, e messe a profitto senza confessarlo, fors'anco senza accorgersene^
lo ialró da molti errori; e se l'opera sua fu imperfetta, fu tuttavia por
tentosa considerata come l'opera sarei per dire di una sola mente. Locke
the dotato di tanto meno ingegno di Cartesio, volle usare la stessa fran
chezza confidando nella sua povera ragione individuale, segnò la ver»
epoca della filosofia volgare o bambina di cui favello.
tura del fatto medesimo, e non coglie in che consista
la difficoltà di esser prodotto , nè sente di che forza
debba essere la ragione che lo spieghi: in tutte queste
parti riesce imperfetta e manchevole la volgare filosofia.
L'imperfezione di un pensar volgare è facile a sentirsi
da ciascuno avvezzo un poco a riflettere; giacché non
v' ha uomo che non abbia poco od assai trattata la
plebe, e che non abbia potuto osservare la maniera
del suo pensare.
Nella maniera del pensare plebeo noi troviamo due
cose in apparenza opposte tra loro, e che dipendono
dalla stessa cagione, cioè dalla mancanza delle tre con
dizioni di sopra accennate come necessarie al pensar
filosofico. Osservale da una parte, che la plebe non si
fa punto maraviglia di cose che sono in se stesse le più
maravigliose, unicamente perchè quelle passano tutto
giorno sotto i suoi sguardi; e se voi dimanderete di esse
ragione, ella crederà di potervi soddisfare immediata
mente, rendendovene alcuna che a lei torna naturalis
sima e facilissima ; e mancherà poco che non sorrida
alla vostra semplicità , perchè non la sapevate quella
ragione , o che faceste mostra di non saperla. Quindi
accade che tutti gl'idioti hanno pochissime interroga
zioni da fare a se stessi : non vedono che pochissime
difficoltà, cioè le difficoltà straordinarie: e queste poche
le si sanno sciorre immantinente con ragioni o più ve
ramente con supposizioni grossolane, delle quali non è
ad essi la menoma cagione di dubitare. Ma fate nascere
nel loro capo qualche dubbio sulla soluzione da lor data:
aprite loro qualche nodo della questione, in modo che
bene il sentano. Là dove voi siate riuscito a far loro
concepire un tal nodo, il primo loro moto sarà quello
che li porterà all'estremo opposto. E mentre, prima di
fermarsi al difficile, risolvevano la questione senza scon
trarci il più piccolo intoppo, di poi, capita in essi l'ob
biezione, penerete assaissimo a far loro entrare la ra
gion vera altresì e adatta a spiegare quel fatto; e ve li
avrete altrettanto difficili a concedervi l'efficacia della
ragione da voi suggerita, quanto erano prima indulgenti
ad ammettere la ragione trovata da essi.
Ciò che voglio con ciò osservare si è, che il difetto
di quelle teorie, le quali nella spiegazione de' fatti dello
spirito umano assumono una ragione insufficiente per
5
: tetto, si attiene alla maniera de' volgari ragionamenti;
e all'incontro il difetto di quelle teorie, che per ispie-
«are i fatti dello spirito umano assumono più del ne
cessario, di coloro suol essere , che non sono nuovi al
tatto e pur ora accostati alla filosofia , ma che hanno
già fatto entro ad essa qualche progresso , e vi hanno
già vedute delle difficoltà con filosofica penetrazione ,
sebbene non hanno poi saputo trovare alle medesime la
ragion più semplice che le spieghi, la quale non occorre
mai alla mente se non dopo assai lungo tempo: peroc
ché le prime ragioni sono sempre ipotetiche e molto
complicate e ingroppate, le quali si ricevono e si am
mettono tuttavia dall'impazienza della mente umana che
non sa averne all'istante delle migliori alle mani, nè
soffre di restarne priva intieramente.
Di che si possono distinguere quasi tre periodi della
filosofia: nel primo periodo v'ha una filosofia volgare,
indulgente con se medesima , che o non vede o vede
oscuramente le difficoltà , e che perciò le spiega con
delle ipotesi grossamente o almeno confusamente da lei
immaginate: nel secondo periodo la filosofia si è resa
dotta, e ha già ben sentite le difficoltà che si attraver
sino aJle prime sue ipotesi; quindi disdegna le antiche
e rolgari teorie; e questo è il tempo nel quale si fab
bricano de' sistemi ingegnosi e difficili , ma che solita
mente peccano per eccesso, come i primi peccavano per
difetto. In questi due periodi la filosofia è difettosa: il
difetto del primo nasce perchè ella è nuova alle diffi
coltà; il difetto del secondo nasce perchè ella è nuova
allo scioglimento delle difficoltà. Quando ella, perfezio
nandosi via più, corregge questi difetti e rende le teorie
semplici ad un tempo e complete, allora ella è entrata
nel terzo periodo, che è quello della sua perfezione.
CAPITOLO III.
(i) C'è una ripugnanza c contraddizione nei termini tanto nella opinione
che il Tolgo giudichi i suoi reggitori, quanto in quella che la plebe giudichi
i suoi maestri. Il voler mettere in alto la più bassa parte della umanità c
una manifesta pazzia, è un voler capovolgere l'ordine di tutte le cose. Con
queste assurdità non si dee confondere il sistema di quelli che in tutte le
cose predicano doversi appellare, come a gran giudice, al senso comune.
Inteso ragionevolmente il sistema di questi ultimi , egli non tende se non
a reprimere la temerità e la baldanza individuale degli uomini; e a mettere
in Irono, per cosi dire, la società, l'umanità tutta intera; lasciando però
odia società e nella umanità l'ordine, che n'è il legame e la forma stabili.
Uti idla divma prgvidvuza, Nello stesso tempo elio faccio notare la difl»«
8
ad una speranza così ridente, così lusinghevole, di ve
dere un giorno nel genere umano un assembramento
mirabile di sapienti; se questo non è un vano sogno ,
fors' anche un sogno dell'umana baldanza; egli è certo
però, che tanto non si può che rimettere ad un tempo
così lontano e così indeterminato, che nè anche L'occhio
della mente più perspicace il può torre e segnare nel
l'avvenire; e anche questa estrema età, che noi pur la
sciamo cara lusinga all'animo degli amici degli uomini,
non ci lice lasciarla che qual tenue possibilità, per non
metter confini arbitrarj alla perfettibilità umana, o via
meglio alla divina providenza.
Intanto era ben naturale, che chi traeva tostamente
in cospetto del volgo, non apparecchiato ancora a ri
ceverla, la filosofia, e dava alla medesima l'idioma vol
gare, le avrebbe dato altresì un portamento ed una
maniera di ragionare alquanto simile a quella de' suoi
uditori.
Egli è per questo che la filosofia lockiana i.* dà a
vedere ovecchessia una osservazione incompleta , e spe
cialmente di que' fatti , cui per cogliere coli' atto del
l' a ttenzion nostra, fa bisogno che noi abbiam questa
assai desta e sempre riflessa su noi medesimi, e talora
anche riflessa di più riflessioni: cosa a che fare il co
mune degli uomini è interamente inetto; 2* dà a ve
dere leggerissimo discernimento in distinguere e fermare
i fatti caratteristici , cioè quelli che formano una nuova
specie, da' fatti simili e variati solo accidentalmente.
Universale vizio è degli scrittori di questa scuola la
scrupolosa esattezza ed attività di raccorre e di ammas
sare fatti simili, e moltiplicare esempj; e la maggiore
negligenza nell' indicare le varie specie de' medesimi;
3.* finalmente questa scuola non vede quasi mai dove
stia il forte della questione , e perciò sprezza agevol
mente i lavori de' filosofi precessori, rinunziando così
all'eredità delle dottrine che ci hanno lasciata i secoli
precedenti. Quand' ella ragiona de' grandi filosofi che si
sono assottigliati a trovare una conveniente soluzione
CAPITOLO UNICO.
(i) Di vero ogni idea dà qualche cognizione; potrebbe però negarsi che
le idee pare od astrane , non presentando per sè alcuna nolizia di cose
reali /ormino la cognizione propriamente detta : qualche cosa di simile a
foe'la distinzione si trova in Aristotele; ma ella non è necessaria al mio
intendimento presente : e d'altro Iato si può sempre, in un senso Iato, dare
il Moto di cognizione ad ogni maniera d'idee.
J2
giudizio non è se non quell'operazione colla quale noi
uniamo un dato predicato ad un dato soggetto; e quindi
che in questa operazione della nostra mente i.* noi per
cepiamo il soggetto ed il predicato a parte come due
cose mentalmente distinte, cioè tali, nell'una delle
quali noi possiamo fissare la nostra attenzione esclusi
vamente, e così distinguerla dall'altra; 2.* noi uniamo
queste due cose, o sia riconosciamo che sono unite in
natura, cioè noi fissiamo la nostra attenzione non già
nell'uno de' due termini in separato, ma nel loro rap
porto d'unione nel soggetto.
Essendo questa l'analisi del giudizio, si vede per
essa, che noi in sì fatta operazione primieramente con
cepiamo un predicato distinto dal soggetto, senza di
che non potremmo fare il giudizio; ed un predicato di
stinto dal soggetto contiene sempre una nozione gene
rale, giacché fino che non è ad un soggetto congiunto,
egli si può congiungere a più soggetti, anzi ad un nu
mero infinito di soggetti possibili; il che è appunto ciò
che significa la parola « generale » applicata alle no
zioni od idee.
Ma se l'umana mente non può fare quella operazione
che si chiama giudizio, senz'essere prima in possesso
di qualche nozione od idea generale ; come poi avviene
che l'umana mente si formi le idee generali?
L. facile eosa osservare che la mente umana non può
formarsi un' idea generale se non in uno di questi due
modi, i.° o coli' astrazione, a.° o con un giudizio.
Coli' astrazione noi possiamo trarre una idea generale
da una idea particolare, facendo col nostro spirito so
pra questa idea particolare le seguenti operazioni : 1.* la
scomposizione di lei nei due elementi de' quali ella si
compone, cioè a) nel comune b) e nel proprio; 2.* l'ab
bandono del proprio; 3." la fissazione della nostra at
tenzione sopra le sole note comuni, le quali sono ap
punto le idee generali che noi cerchiamo.
Ora si osservi i.* che tutte queste tre operazioni del
nostro spirito, facendosi da noi sopra una idea parti
colare, si esercitano sopra un'idea che già è in noi,
ondecchè l'abbiamo acquistata; 2.0 quindi esse non sono
rivolte ad altro fine che ad osservare la nota, o idea
comune sola ed isolata, non già a farla esistere 0 in
generarla nello spirilo nostro.
i3
Ala per osservare l1 idea comune e generale che si
afferma contenersi nelle nostre idee particolari (i), bi
sogna supporre che in esse idee particolari ella già si
contenga: perciocché altrimenti noi non la ci potremmo
osservare giammai , nè fermare in essa la nostra atten
zione, ov'ella già non ci fosse.
La via dunque dell1 astrazione non vale punto a spie
gare il modo onde noi ci t'ormiamo le idee comuni e
generai/, come si è creduto da certe scuole di filosofi:
vale solo a farcele osservare là dov'elle già sono pre
cedentemente formate; vale ad appurarcele, a divider
cele da ogni altro elemento eterogeneo, cioè che a loro
non appartiene, acciocché noi le abbiamo presenti alla
nostra attenzione pure e perfettamente isolale.
Non resta adunque, che noi ci formiamo le idee co
muni o generali se non col giudizio.
Ma noi abbiamo veduto che ogni giudizio suppone
che in noi abbiamo già precedentemente formata qual
che idea generale : perciocché il giudizio non è che una
operazione della mente che fa uso appunto di una idea
generale, cioè che la applica ad un soggetto, e così
ripone questo soggetto in qualche classe di cose che
riene determinata dall'idea generale : per esempio, giu
dicando che un uomo è buono, io ripongo quell'uomo
nella classe di cose formala dall'idea generale della
bontà: e il medesimo si può dire di qualunque altro
giudizio.
Pertanto, se l'uomo non può cominciare a giudicare
che mediante un'idea generale, è manifestamente im
possibile spiegare la formazione di tutte le idee gene
rali mediante de' giudizf; ma egli fa bisogno al tutto
di supporre che nell'uomo preesista, innanzi a tutti i
giudizj suoi , una qualche idea generale, colla quale a
(i) Conviene qui dire un* parola sulla denominazione d' « idea partico
lare ». Particolare non è un'idea, se non in quanto, nel mio spirito, ella,
si su allaccila ad un individuo: tostochè poi dall'oggetto individuale si
stecchi, ella acquista della generalità: imperciocché, fatta libera, può ap
plicarsi da me a piacere ad un infinito numero d'individui uguali. Ciò che
v'ha adunque di assolutamente proprio in un'idea, è solo l'individuo a
ori Hla aderisce, e che non forma veramente parte dell'idea stessa, ma è
qualche cosa di eterogeneo dall' idea congiuntale non per natura , ma per
opera dello spirito intelligente. Perciò idea « pura •> equivale per noi a
«tea u generale ». Tutto ciò riceverà piena luce nel progresso di quest'opera.
i4
bel principio egli possa giudicare, e in tal modo venirsi
roano mano formando tutte le altre idee.
Tale è la difficoltà brevemente esposta che si presenta
a chi si accinge di spiegare, senza pregiudizj di scuola
e senza arbitrj volgari, l'origine delle idee: difficoltà
che in progresso di queste ricerche verrà facendosi via
più manifesta, e che dura troppo vorrà parere a' que'
filosofi che si avvisano di potere da1 soli sensi dedurre
tutte quelle idee che V osservazione e la coscienza at
testano essere dall' uom possedute.
i5
SUZIONE TERZA
TEORIE FALSE PER DIFETTO,
CIOÈ PERCHÈ NON ASSEGNANO ALLE IDEE
UNA SUFFICIENTE CAGIONE
CAPITOLO I.
LOCKE.
ARTICOLO I.
SISTEMA LOC. MANO.
ARTICOLO IL
LOCU VENENDO A SPIEGARE l'origine Dell'idea DI SOSTANZA,
SI AFFACCIA ALLA DIFFICOLTA' E NON LA RAVVISA.
(1) Tale è il metodo di Locke: non dee credersi che parta da' falli e
« stabilire i principi : egli veramente parte da' principj, e poi
•Wide a dar con essi la spiegazione de' falli. Più o meno questo metodo
Ha» hanno lutti quelli della scuola sua fino a Cabanis, a Deslult-Traty,
' Gioja ecc. Che merito resta dunque ad essi rispetto al metodo iilosofiso ?
Quello di gridar sempre che si dee fare il contrario , che si dee coniin-
o*r da' fatti ed ascendere passo passo a' principj. Non è picciol merito
ricalcare ciò che va bene; prendiamo da tutti il buono, e il resto la-
ióamiAo andare.
i6
a riandare tutte le varie specie d'idee, e a mostrare
come dalla sensazione e dalla riflessione vengano tutte
formandosi agevolmente.
Quest' applicazione è troppo lodevole , perocché è
quella sola che potea dar la ripruova del sistema ab
bracciato, e mostrarlo veramente soddisfacente se era
tale in fatto; e se non era, scoprirne i difetti.
E veramente in essa fu che gli corse il nodo sotto
la mano: fra le varie specie d'idee gli venne ancora
innanzi l'idea di sostanza; ed invano egli si assottigliò
per ispiegare sì come si poteva ella prodursi dal solo
sentire e riflettere.
Ma fatto accorto di tale impedimento, piuttosto che
riconoscere qualche difetto nel principio del sistema,
e confessare che i due fonti da lui stabiliti della sen
sazione e riflessione non bastavano a produrre tutte le
nostre idee, egli trovò un'altra via a cessare la diffi
coltà 7 cioè quella di pur negare che esista l'idea di
sostanza. «Io confesso, egli dice, che v' ha un' idea (i)
« che sarebbe generalmente utile agli uomini, peroc-
« chè essa è il soggetto generale de' loro discorsi (a),
« ov'essi introducono quest'idea come se la conosces-
« sero effettivamente (3): io voglio parlare dell'idea di
« sostanza, che non abbiamo, nè possiamo avere per via
« di sensazione o di riflessione ».
11 ragionamento di Locke, messo in dialogo, riesce
a questo.
Locke. L'origine delle idee, come ogni altra parie,
si dee trattare per via de' fatti.
Obbiettatore. Io sono al tutto con voi: ma da quai
fatti, di grazia, movete, per ispiegare l'origine delle
idee?
Locke. Dalla sensazione e dalla riflessione.
ARTICOLO V.
COME LA DIFFICOLTA' CHE SI TROTA NELL* ASSECNARE l' ORIGINE DELl'iDEA
DI SOSTANZA, SIA LA MEDESIMA DA ME TROFOSTA SOTTO ALTRA FORMA.
(i) Si vedrà però altrove, che vi ha per noi qualche differenza fra la
percezione e 1' idea particolare di un oggetto. Tuttavia qui non istimiamo
necessario il farla osservare, e il farlo complicherebbe troppo, senza biso
gno, il ragionamento.
3i
tara delle cose esterne : e quindi cominciò la sua teoria
analisi delle idee; e da questa dedusse con una
templice separazione le idee generali nella loro forma
di astraiti: egli non ispiegò la formazione di queste
idee, ma la suppose; cioè egli le suppose in noi me
scolate colle sensazioni: e non pensò che a separarle,
e ad appurarle dalle qualità particolari che ad esse non
appartengono.
Finirò questo articolo recando un passo di un filo
sofo nostro, che, con accuratezza e chiarezza veramente
italiana, tocca l'imperfezione della teoria lockiana in
queste parole : « Nel sapere umano fa d'uopo distin-
- goere due epoche: la prima consiste nella sintesi,
■ che forma gli oggetti dell'esperienza e compone il
« gran libro della natura sensibile. — Neil' epoca di
• cui parliamo, la prima operazione dell'intelletto dee
■ esser la sintesi. La seconda epoca incomincia dalla
■ lettura del libro della natura; in questa seconda epoca
• lo spirito rivede la sua propria opera, e l'analisi è
■ \a tua prima azione. Locke si occupa della seconda
• epoca i egli suppone formato il gran libro della na-
• tnra, ed introduce lo spirito per leggerlo e compren-
• derlo: egli parte da questo fatto, che i sensi ci danno
• le idee complete degli individui, che sono gli oggetti
■ deir esperienza : egli suppone come dati l'esteriorità
• delle sensazioni, e la loro unione in un oggetto (ed
■ io aggiungerò la nozione comune dell' esistenza ) ; ed
■ egli fa, in conseguenza, derivare per mezzo dell' ana-
■ lisi, dall'esperienza tutte le idee semplici ». E più
innanzi così si esprime: « Che cosa fa di fatti il filo-
• »fo inglese? egli esponendo alla meditazione dello
• irrito umano il gran libro della natura, fa che lo
• spirito per mezzo dell'analisi ne ritragga tutte le no-
« noni semplici (i). Ora da ciò non può concludersi
• che tutte le nozioni semplici così derivate sieno de'
• dati della sensibilità, o de' sentimenti distinti e svi-
CAPITOLO IL
CONDIIXAC.
ARTICOLO I.
d'aLIMBUT Tk ALCUHK OPPOSIZIONI AL SISTEMA LOCHAMO.
(i) E tuttavia d'Alembert parla del Saggio sull' Intelletto umano deli' in
fletè filosofo , come di ua trattato completo di metafisica. Si voleva allora
che fosse il libro di moda. Le esagerazioni di quel tempo sopra Locke
sono divenute insoffribili: ciò mostra il progresso che indi a noi fece lo
Spirito umano.
Rosmini ^ Orig. delle Idee, Voi I. 5
del sapore o del suono; o queste a quelle del tatto.
Ora l'idea che noi abbiamo di un corpo è il complesso
di tutte queste qualità sensibili di loro natura essen
zialmente distinte fra loro. Ma nell'idea nostra di uu
corpo tutte queste qualità sensibili sono legale insieme,
tutte attribuite ad un solo soggetto che è appunto il
corpo, di cui abbiamo l'idea. Come avviene dunque che
l'anima nostra leghi insieme queste sensazioni e le at
tribuisca ad un soggetto unico ? Se i soli sensi ci pro
ducono le idee de' corpi, ciò a primo aspetto non s'in
tende come possa avvenire, perocché i sensi non ci
danno che le sensazioni così staccate, essenzialmente
distinte fra loro, e senz'aldina unità.
Queste difficoltà che d'Alembert fece alla teoria ta
citiana, non erano in fine che la difficoltà stessa che
vide Locke di spiegare l'origine dell'idea di sostanza:
se non che, come dicevo, Locke la si propose consi
derando l'idea di sostanza in generale: e d'Alembert
venne alla difficoltà stessa sotto una forma più par
ziale, cioè considerando l'idea sostanziale de' corpi.
In fatti il pensare un corpo fuori di noi come un
soggetto unico a cui si riferiscono le qualità sensibili
co' nostri sensi percepite; non è che il pensare un so
stegno, un centro necessario alle sensibili qualità, in
una parola la sostanza corporea.
Ma il filosofo francese fu ben lontano dal conoscere
che le due difficoltà s'adunavano in una sola (i): anzi
egli si mostrò consentire al tutto con Locke in negando
l'idea di sostanza (a), mentre poponeva d'altro lato
ARTICOLO IL
CSNSC**. CHE COND1LI.1C FA DI LOCKE.
D'Alembert propose le due difficoltà surriferite; ma
non le sciolse : Gondillac venne appresso e ne tentò lo
scioglimento.
Il proporre bene una questione è già far fare un
passo alla filosofia: questo è il merito di d'Alembert.
Egli era per altro ben lungi da 11' abbandona re il prin
cipio lockiano, che tutte le idee vengono dai sensi: un
tale principio si teneva per ostinazione : in tal caso era
impossibile l'abbandonarlo.
11 domandare come noi possiamo dalle sensazioni che
sono interne nel nostro spirito, trasportarci fuori di
noi e formarci le idee de' corpi, veniva al medesimo
che domandare « come noi possiamo formare un giu-
« diao prima d'essere forniti d'idee ». Di vero, per
chè noi abbiamo l'idea di qualche cosa fuori di noi,
dobbiamo formare i seguenti giudizj nel nostro spirito:
l* esiste qualche cosa, a." questa cosa che esiste è
fnori di me , 3.* questa cosa che esi>le è soggetto delle
qualità sensibili da me percepite. Per formare tutti
questi giudizj non debbo io già possedere delle idee
generali ? la formazione adunque delle idee esige delle
idee precedenti in me formate: le prime idee adunque
àe io mi formo, quali sono quelle de' corpi, sono
inesplicabili , se non suppongo qualche cosa d' innato
in me medesimo.
"Boa so che sia certamente voi noi sapete: io vi vorrei anzi accor
dare eh' egli è essenzialmente un incognita per voi, una x. Voi sapete solo
ch'egli è il soggetto di queste e quelle modificazioni, eh' egli è causa di questi
equrglì effetti. Che volete sapere di più? Se voi lo spogliate delle sue mo
dificazioni, delle sue proprietà, de' suoi effetti, egli vi rimane una perfetta
•r, una perfetta incognita: in tal caso voi ne avreste ancora l' idea , perchè
sapreste le relazioni che questa incognita ha con ciò che conoscete; questa
è la cognizione che s'ha delle sostanze, nè di più si può esigere: questo
basta perchè l'idea se n'abbia. Se si potesse negare un'idea, ogni qual
volta non si conosce in essa ciò che s'immagina di dovervi conoscere, si
potrebbero facilmente negare tutte le idee.
-
3G
Tale era la questione, ove si proponga in tulta la
sua estensione: ma Condillac non vide che la prima
parte. S'accorse eh1 erano necessarj de' giudizj a for
mare le idee de' corpi: ma non si accorse che questi
giudizj presupponevano delle idee generali anteriori :
questo secondo passo era pur breve e facile dopo il
primo: tuttavia egli noi fece: tale è il cammino lento
e indugiatore dello spirito umano.
Trovandosi egli adunque collocato dai tempo suo in
un punto più eminente, potè rimproverare a Locke di
non essersi accorto de' giudizj che si mescolano fra le
nostre sensazioni.
« Noi vedremo, » dice Condillac parlando di Locke
in principio del suo Trattato delle sensazioni « che la
u più parte de' giudizj che si mescolano a tutte le no-
« stre sensazioni, gli sono sfuggiti ». E poco appresso:
« Egli era sì lontano d'abbracciare in tutta la sua
« estensione il sistema dell'uomo, che senza Molineux
« non avrebbe forse avuto nè pure occasione di osser-
« vare che alle sensazioni della vista si mescolano de'
« giuditj. Nega egli espressamente che accada questo
« medesimo nelle sensazioni degli altri sensi. Egli cre-
« deva dunque che noi ci servissimo di questi per una
« specie d'istinto senza che la riflessione contribuisse
« punto a darcene 1' uso ».
ARTICOLO III.
SISTEMA CONDILLACHIAMO.
(1) Quando mi si dice che un uomo comunica all' nitro uomo la scienza
ammaestrandolo, io intendo benissimo che voglia dire la voce comunicare}
ina quando mi si dice che un senso comunica all'altro senso la facoltà di
giudicare che per sé nou ha, allora non ne intendo più niente: la parola
comunicare mi diventa una voce inintelligibile, inesplicabile.
(a) Più altre osservazioni sul sistema della sensazione trasformata potrai
vedere nell'operetta Breve esposizione della filosofia di M. Gioja, inserita
nel II volume degli Opuscoli filosofici, e massimamente nelle note alle
face. 358-365, dov' io mi sono ingegnato di mettere brevemente sott oc
chio gli assurdi di una sì fatta filosofia.
39
ARTICOLO Y.
1' ai unzioni bu' montniarto son su, medesimo che li jjnsttititi'.
(i) Con ciò che ho detto in questo articolo dell' attenzione, facoltà di
(fingere la forza intellettiva , non escludo mica una attività sensitiva ue-
eewjrii al sentire. Questa attività sensitiva, io l'ammetto anzi sempre ni
alto nell'uomo vivo, che sente il proprio corpo, ed ella è modificata dalle
impressioni esterne , e or s' espande equabile , or si concentra in una sen-
saiioue a preferenza d'un' altra , secondo certe leggi dell' istinto.
()) Sì può egli dare affermazione più gratuita di questa ? La menoma
prova non adduce di essa il Couddlac. Il provare de' filosofi di questa
scuola non è che un asserire francamente le proprie opinioni: le asserzioni
(ranche impongono al lettore inavveduto , e questi sono i principi della
scienza; le conseguenze che ne deducono vengono in tal modo assai facil
mente consentanee ai sistemi da loro preconcepiti.
Rosmim, Orig. delle Lice, Voi. I. G
42. .
« zioni passate ». L'esistere come sensazione suppone
che i nostri sensi corporei sieno attualmente tocchi , e
la sensazione comincia in essi quando cominciano ad
esser tocchi in quel modo che è necessario al nostro
spirilo perdi' egli senta: la sensazione rimane fino che
essi continuano ad esser tocchi, e tostochè il tocca
mente o l'impressione ne' sensi è cessata , anche la sen
sazione viene a cessare. All'incontro la memoria rimane,
o per dir meglio ella comincia appunto allorquando la
sensazione non è più : essa non è dunque sensazione.
La maniera volgare di parlare , « nella memoria si
« conservano le sensazioni passate » ; sembra esser ciò
che condusse in errore il nostro filosofo. Egli non ci
sarebbe caduto , osservando, che quella maniera di par
lare comune era rigorosamente parlando inesatta, pe
rocché la parola sensazione , in quel detto * le sensa
ti zioni si conservano nella memoria » , ha un valore
essenzialmente diverso da quello che si dà al nome di
sensazione quando parlasi di vere sensazioni. Non sono
già le sensazioni vere che si conservano nella memoria
nostra; è la ricordanza delle sensazioni vere: la quale
ricordanza è ciò che forma la stessa memoria. Chi mai
non vede, che ricordarsi di un dolore è tutto al di
verso dal sentire un dolore; che il rammentare un pia
cere sensibile, è lati' altro che il sentire il piacere at
tualmente coi nostri sensi ?
L' errore nato dal doppio significato della parola
sensazione applicata ai sensi ed applicata alla memoria,
è simile all' errore di quelli che sentendo dire ad alcuno
che mostra un ritratto « Questi è l'Imperatore » pren
desse quel ritratto per l'Imperatore vero e vivo, inten
dendo letteralmente quella espressione. Certo, quell'Im
peratore dipinto è essenzialmente diverso dall'Impera
tore vero, il quale non è una soltil tela impiastricciala
d'olio e di colori, ma è bensì un corpo formato di
carne e d'ossa. Nè pur bene direbbe chi affermasse quel
ritratto essere lo stesso Imperator trasformato; percioc
ché l'Imperatore negherebbe d'essersi trasformato giam
mai in una tela ed intonaco di colori, e poco starebbe
che non mandasse colui al collegio de' pazzi. La sensa
zione adunque che dicesi stare in noi quando noi ci
ricordiamo d'una sensazione passata, non è punto quella
sensazione che ci ha fatto, a ragion d'esempio, tanto
43
forte dolere il braccio o la gamba forata da uno stec
co^ la quale non si sente altrove che nel braccio o nel
piede, e non punto nella memoria; quella non è che
una pura reminiscenza, o se si vuol dire impropriamente,
un1 immagine di quella, cioè adire una cosa di essenza
diversa , e interamente da quella prima disparata (i).
11 perchè la sensazione, e la memoria della sensazione,
non si possono confondere insieme, eziandiochè si chia
mino con una medesima voce di sensazione: l'uno di
qat^li oggetti non ha che fare coli' altro: e qualun
que dipendenza o relazione abbiano insieme , non pos
sono giammai confondersi, nè dirsi l'uno trasformazione
dell' altro. Il senso adunque e la memoria sono due fa
coltà essenzialmente distinte, che non si possono in una
sola mescolare per amore d'una semplicità sistematica
contraria al fatto della natura (2).
ARTICOLO VII.
I>' ATTEW7.I0NE t DIVERSA DELLA MEMORIA.
Dopo avere fi Condillac creduto di dimostrare sic
come la facoltà di ricordarsi non differisce essenzial
mente dalla facoltà di sentire, prosegue francamente così:
* Laonde noi siamo capaci di due attenzioni: l' una
« s'esercita dalla memoria, e l'altra da' sensi.
« Avendovi doppia attenzione, v'ha paragone; giac-
- chè essere attento a due idee, o paragonarle, è il
« medesimo. Ora non si può paragonarle senza percepir
« tra esse qualche differenza o qualche rassomiglianza:
« percepire cosi fatti rapporti, è giudicare».
E questo un percorrere di volo un tratto immenso
di terreno : davanti a questo corridore sembra che gli
ostacoli spariscano per qualche incanto.
(1) Non si può propriamente dire che l'idea sia un' immagine: questa
parola d' immagine si può, in qualche modo, applicare ai fantasmi delle cose
corporee, quando noi lo immaginiamo presenti tali quali ci cadono sotto
gli occhi stessi; e non all'idea: per hen conoscere l'idea conviene anzi av
vezzarsi a considerarla in sé, tale qiial è ella medesima, senza mescolarvi
comparazioni e metafore tratte da cose materiali. L'idea ha un essere suo
proprio, spirituale , e affatto estraneo alla corporea sensazione-
fa) Condillac slesso distingue l'attenzione della memoria, dall' attenzione
del senso caratterizzando la prima per attiva e la seconda per passiva. Si
può dare una differenza più essenziale di questa, che le fa V una all' altra
direttamente confane?
44
Primieramente , basta assai poco di meditazione a co
noscere, che quell'atto onde noi raccogliamo la nostra
attenzione, sia in sugli oggetti della memoria , sia in
sugli oggetti del senso, non è nè la memoria nè il senso.
L'attenzione è una forza, come vedemmo, che viene
diretta dall'attività dello spirito nostro, o piuttosto è
la stessa attività volontaria del nostro spirito. Noi at
tendiamo per un atto della nostra volontà , ed in que
sto attendere ci sono più o meno gradi d' intensità a
nostro volere.
Come la sensazione per la sua passività si distingue
dall' attenzione , e come si distingue dalla memoria per
lo diverso suo oggetto, l'abbiamo già sopra veduto.
Che l'attenzione si distingua anche dalla memoria, è
facile pure vederlo. La memoria viene formata dalle
ricordanze delle cose passate, e in questo consiste la
sua propria natura: l'atto onde noi attendiamo si può
portare tanto sulle cose passate quanto sulle presenti.
V'hanno dunque in noi tre principj o tre facoltà es
senzialmente diverse: i.' la facoltà di sentire le presenti
impressioni; a." quella di ritenere le ricordanze delle
medesime dopo che sono già trapassate ; 3. finalmente
quella di fermare a nostro talento, o sopra alcuna delle
nostre sensazioni presenti o sopra alcuna delle passate,
l' attività intellettiva del nostro spirito in un grado
più o meno intenso.
ARTICOLO Vili.
IL GIUDIZIO NON SI DEE CONFONDERE COLLi SEMPLICE ATTENZIONE.
Proseguiamo :
« Avendovi doppia attenzione; vi è paragone (i),
« poiché essere attento a due idee e paragonarle, è il
« medesimo ».
Questo modo di ragionare è al tutto inesatto. Un
poco di diligente considerazione fa ben conoscere che
l'essere attento a due idee non è ancora un parago
narle, lo posso benissimo restringere l'attenzione mia
(i) I sensi non somministrano che la materia del giudizio; l'alio dui
giudizio si fa tutto dentro allo spirito, e non' si riferisce a nessun punto
del corpo nostro o dello spazio fuori di noi.
(a) Egli è un misero efTugio della difficoltà quello di Fortunato da Brescia,
che alla definizione che dava 1' Heineccio dell'idea, cioè, objecti alicuju»
genuina imago quam mens immediate contemplatur eie. , pensò di appiccarvi,
quia tamen de re ipsd quidquam a nobis ajjirmelur veì negetur. Tut
tavia questo stesso appicco mostra che egli travide la difficolta, perchè
senti il Insogno di un'aggiunta così stentata ed assurda. Se mediante Videa
è, che io mi accorgo che gli oggetti sono fuori di me, posso io accorgermi
di ciò senza che io l'abbia detto internamente a me stesso? e il dire a
me stesso internamente che gli oggetti mi sono al di' fuori , non è egli un
affermare qualche cosa, un giudicare che esistono fuor di me? Io stimo
bene di recare in mezzo questi inloppi scontratti in sulla via da quasi tulli
gli autori che han preso a spiegare l origine delle idee, e i varj ripieghi
che hanno immaginalo per superarli, poiché per essi si vede che 1' esistenza
5i
ARTICOLO X.
OSSI PEBCEZIONE RAPPRESENTATIVA È GENERALE: INDI LA DIFFICOLTÀ' VIE Fili*
SI MOSTRA m CONDILLAC, I VI EESTA INSOLUTA.
(1) Già ho toccato più sopra in che senso limitato si debbano prendere
le voci di modelli* tipi, immagini, applicate alle idee.
•al Io dico, concezione; Condillac direbbe sensazione; ma coqvien os
servare, che questo autore, come vivemmo, estende il vocabolo di sensa
zione, con da n doso equivoco, a significare «la ricordanza della sensazio
ne», tratto in errore dall'inesattezza del parlar volgare. Orla sensazione
propriamente delta, cioè attuale, niente rappresenta, come toccammo;
>i bène la ricordatila di lei uella mente, alla «male conviene anco il nome
di concezione.
54 . .
tosto concezioni rappresentative, dee affermare altresì,
che in tutte v'ha un elemento generale: perchè è solo
l'elemento generale che le può rendere rappresentative
ovvero simili a più cose, giacché più cose simigliatiti
non sono tali , se non perchè hanno qualche cosa di
comune: ed è questa essenza comune presa a parte che
si può considerare come il tipo di tutte, tutte a lei ri
ferendole. «Il tipo adunque è sempre generale; ed ove
vogliasi parlicolarizzare , riferendolo ad una cosa sola,
per esempio a quella da cui fu cavalo, ella non è che
una particolarizzazione arbitraria e positiva , non già
una particolarizzazione naturale e necessaria.
Se il Condillac avesse fatto questa osservazione, egli
non avrebbe parlato, in un luogo, delle idee, e in un
altro molto discosto, delle idee generali: non avrebbe
parlato di quelle, senza mostrarne la generalità che tutte
contengono; e altrove poi avrebbe potuto parlare delle
diverse specie di generalità.
Ma perchè non resti dubbio sul vero che ora abbiamo
noi dimostrato, cioè che ogni percezione, dal momento
che è fatta rappresentativa, è altresì generale, udiamo
di nuovo il Condillac medesimo, là dove spiega il modo
onde un1 idea particolare passa a diventar generale. « Noi
« non abbiamo alcuna idea generale che non sia stata
« particolare. Un primo oggetto che noi abbiamo avuto
« occasione di osservare , è un modello a cui noi ri-
« portiamo tutto ciò che gli si rassomiglia ; e questa
« idea che non è stata a principio che singolare, di-
« venta tanto più generale , quanto il nostro discerni-
« mento è meno formato » (i).
ARTICOLO XI.
CONTINUAZIONI.
(lì To ho già dimostrato che altro è sentir due cose nello stesso tempo ,
ni altro paragonarle fra loro. Ciascuna di queste rapisce a sè parte del
l' attrazione ; e perciò appunto cerca di sottrarla ali altra, perchè noi ci
occupiamo esclusivamente di lei. Lo spirito all' incontro, coli' atto del giu
dicare fa per così dire lo sforzo contrario, cioè egli dà la sua attenzione
a tutti e due gli oggetti contemporaneamente senza consentire di renderla
esclusiva ad un solo , nel qua! caso sarebbe impossibile il giudizio. Di che
apparisce come sia al tutto assurdo di attribuire il giudicare alle sensazioni,
essendo un atto contrario a quella qualunque azione eh' elle possano con
tenere od esercitare sull' anima nostra. La sensazione cerca di rapire ogni
attrazione tutta a sè; la facoltà di giudicare cerca di distribuirla quasi di
rei con equità sopra le diverse cose che dee confrontare per cavarne un
giudizio. D'altro lato, 1' espressione, che le sensazioni giudicano, ha qual
che cosa di cosi inesatto , che sembrerebbe impossibile che fosse caduta
giù dalla penna di un filosofo: poiché se la sensazione giudica, ossia, se
U senso giudica, o pure , se il giudizio è una sensazione; ne avviene che
Dna sensazione senta un' altra sensazione, giacché non si dà giudizio senza
eon/ronto; o che il senso di una sensazione sia quello stesso che ne sente
cootemporaneamevte un* altra; o che il rapporto sentito fra due idee, che
è il termine del giudizio, sia lo stesso giudizio. Le quali cose tutte sono
ernieotemente assurde,
(t) Trattalo delle senaationx , P. I, c. a , \. i4 e i5.
60
e la coea da giudicarsi è ciò che si peroepisce attual
mente dal senso.
Ma se l'idea che ho nella memoria , e colla quale
raffronto le cose che mi cadono sotto i sensi per giu
dicarle, fa in questi giudizj l'ufficio di modello, essa è
dunque generale nel senso stesso che il Coudillac attri
buisce a questa parola generalità , giacche , come ab
biamo veduto, la generalità dell'idea consiste nel servir
di modello ad un gran numero di oggetti. Noi dunque
dimandiamo al Gondillac com'egli, nell'opera sua, parli
de' giudizj assai prima che della generalità delle idee;
giacché egli parla delle idee generali nella Parte quarta
del Trattato delle sensazioni, mentre tratta de' giudizj
nella seconda (1). Se a formare il giudizio si richiedono
delle idee generali, come la teoria stessa del Condillac
conduce ad affermare, egli è impossibile di spiegar la .
natura de' giudizj senza prima avere spiegata quella
delle idee generali. Ma egli non parlò delle idee gene
rali dopo i giudizj, se non perchè s'accorse che tal ma
niera d'idee non si potevano formare nel suo sistema
se non mediante i giudizj.
« L'idea particolare, die' egli, d'un cavallo e quella
« d'un uccello diverranno egualmente generali quando
« le circostanze faranno paragonare insieme più cavalli
« e più uccelli; e così si dica di tutti gli oggetti sen- ,
« sibili r> (2).
Ora ritengasi, che nel sistema di Condillac non v'ha
paragone senza giudizio. Se dunque a trasformare una
idea da particolare in generale fa bisogno la compara
zione d'idee, certo ci fa bisogno il giudizio. Ma ogni
giudizio, viceversa, ha bisogno di un'idea generale per
formarsi. La formazione dunque de' giudizj presuppone
la formazione dell'idee generali, 0 semplicemente delle
idee, perchè tutte le idee hanno in sè del generale: e
viceversa, la formazione delle idee generali presuppone
de' giudizj, secondo l'autore che esaminiamo. La teoria
condillachiana dunque non risponde a questa difficoltà,
(1) Tocca bensì le idee generali anche nella Parte prima , coli' occasione
che insegna come la statua, fornita del solo senso dell'odorato, comincia
a formare delle astrazioni; ma ciò lo fa nel c. IV, mentre de'giudizj ave»
già parlato al c. II.
(a) Traile des sensations, P. IV, c. 6.
6i
eia trapassa senza vederla: il suo autore discorre delle
idee, de giudiz) e delle idee generali, in tre luoghi di
versi, quasi fossero argomenti fra loro indipendenti , e
non avessero fra loro quella così stretta relazione , che
rende impossìbile parlar dell'uno, senza bene conoscer
l'altro: ed in fine, dopo avere spiegato a suo agio le
idee generali, si felicita d'esserci riuscito senza difficoltà
alcuna, dicendo:* « si vede da ciò quanto sia facile il
■ tarsi delle idee generali » (i).
ARTICOLO XII.
CMCICSIONI «CTI DUETTO INTRINSECO DEL SISTEMA CONDILLACBIANO.
(i) Chi vuol convincersi via più di ciò, ponga attenzione a tutto intero
il passo di Condillac, del quale più sopra abbiamo recate alcune linee.
•< Se io mi richiamo, egli dice, un dolore che ho avuto, la ricordanza e
•< l'idea sono allora una cosa medesima; e s' io dico che mi faccio l'idea
« di un dolore di che mi si parla, che io non ho mai sentito, nasce ciò
« da questo , che IO GIUDICO sopra un dolore che soffersi o sopra un
« dolore che soffro attualmente. Nel primo caso, V idea eia ricordanza non
m differiscono punto. Nel secondo, l' idea è il sentimento di un dolore »l-
« tuale, MODIFICATA. PE' GIUDICI che io porto al fine di rappresen-
- tarmi il dolore di un altro ». Exlrait raisonni da Traile de» sensations.
■
63
a lasciare la questione in una perfetta ambiguità, anzi
dichiara o falso il sistema di Condii lac, o inesplicabile
si la formazione de1 giudizj che delle idee.
CAPITOLO III.
REI D.
ARTICOLO I.
ORIGINE DELLA SCUOLA SCOZZESE.
(i) li bisogno di ciò dovea sentirsi in Iscozia più die altrove, percioc
ché lo Stewart ci assicura che l'idealismo di Berkeley e di Hume era en
trato generalmente ed ammesso in tutte le scuole di quel paese. Histotre
abregée des sciences métaphysique etc, III, p. 191.
65
nascosto. Avendo a far dunque con avversarj sottili, e
costretti di procedere severi nel ragionare , non è ma
raviglia se i riformatori scozzesi dimostrarono far sì poco
conto della dottrina rimasta tuttavia popolare di Con-
dillac.
Re'vd non cita forse mai quest'autore. Dugald Stewart
parla di lui generalmente con isprezzo, chiamandolo un
cementatore di Locke non arrivato ad intendere il suo
maestro (i). Fra l'altre cose, così egli descrive il suo
stile filosofico: « La chiarezza e la semplicità dello stile
b di Condillac accrescono ancora l'illusione, e condu-
* cendo con mólta facilità il lettore a traverso de' più
« oscuri labirinti della metafìsica, lo lusinga coll'aggra-
» devole sentimento della sua forza intellettuale. Ecco
« a che debbesi attribuire la grande popolarità del-
■ l'opera sua. Si fa, in leggendola, così poca fatica come
* a leggere una storia o un romanzo: e solo dopo che
» s'ha chiuso il libro, e che si cerca alla propria foggia
« di pensare di render ragione a se stessi di ciò che
« &\ia di lui tratto, provasi la mortificazione di vedersi
« svanire tutta la scienza che altri credeva avere acqui-
" stata » (a).
(i) L'oggetto del senso non è una espressione esatta: anzi l'inesattezza
contenuta in questa maniera di parlare, fu madre di molti errori. Egli può
essere manifesto a tutti , che almeno una grande serie di sensazioni , tutte
quelle cioè che consistono nel solo piacere o dolore , non hanno oggetto
alcuno; esse sono semplici, e (se si può dir così) sono l'oggetto di se
stesse ; esse hanno bensì una cagione fuori di sé , ma non un oggetto. Tut
tavia fino che non mi è data occasione di chiarire questo argomento , io
son costretto di usare il parlar comune per farmi intendere, specialmenlo
nell'esposizione degli altrui sistemi, gli autori de' quali usano tali frasi li-
beraroeote.
lire e quella del ricordarsi. Affermava che l'oggetto im-
mfdiato della memoria non era la sensazione, p. es.
della rosa odorata ]eri, ma un'idea, un modello, un
fantasma, qualche cosa in somma di quella sensazione
rimastasi nei nostro spirito.
Berkeley e Hume, che perfezionarono in Inghilterra
il sistema di Locke, siccome fece Condillac in Francia ,
si sforzarono anch' essi di ridurre , al modo stesso del
filosofo francese , i due oggetti del senso e della memo
ria ad un solo-, e credettero riuscire a ciò supponendo
che gli oggetti della sensazione e della memoria non
differissero che nel grado della loro vivacità.
Singolare cosa è che il dottor Reid, il quale rivolse
pur l'acume del suo bell'ingegno a ribattere l'idealismo
e lo scetticismo di questi due filosofi , siasi appigliato
al partito di rigettare la distinzione che faceva Locke
fra l'oggetto del senso e dell'idea (i).
li\Tt dottor Reid non pare che conservi sempre tulla l'esattezza nel
riferire i Molimenti de' filosofi eh' egli confuta. Nelle sue Ricerche suW in*
df<ti>*ato amano ( Sez. HI, V) sembra che attribuisca egualmente a
Locke, Berkeley ed Hume, due opinioni fra loro contradditorie. La prima,
cb* I affetto immediato della memoria non sia che una idea della sen
sazione, una immagine, un modello di questa , distinta perciò essenzial
mente dalla sensazione stessa. Questa distinzione essenziale fra 1' oggetto
dei scaso e della memoria conduce a stabilire una distinzione pure essen
ziale fra quelle due potenze. La seconda , che la sensazione e 1' oggetto
delia memoria non differiscano che nel grado di forza e di vivacità onde
Io spirito li percepisce. Questa distinzione del semplice grado di forza
lo spirito percepisce , non lorrebbe che I' oggetto delle due facoltà
■e il medesimo ; di che perciò verrebbe che quelle due facoltà non
essenzialmente distinte. Può ben essere, anzi è di fatto , che questi
i non sieno coerenti a sè slessi nel modo di esprimersi, e che men
tre in un luogo non distinguono la sensazione dall' oggetto della memoria
se non dal grado di forza dello spirito percipiente , in altri mostrino di
tenere che l'oggetto della memoria non sia punto una sensazione più de
bole, ma un'idea di sensazione. Certo è, che la maniera onde si esprime
Hume, cel può far credere a buon diritto incoerente con sè stesso. Per
esempio, nel Saggio sull'origine delle idee talora dice che l' idea non è che
ma sensazione più debole j talora la descrive come una percezione del
l'anima che riflette in sulle sue sensazioni: ora la riflessione dell' anima
io sulle sue sensazioni non <t semplicemente una sensazione più debole :
in queste riflessione c'è più di attività che in qualunque semplice sensa-
«ooe. Tuttavia io ho creduto di dover attribuire a Locke il primo senti-
"xnto, e a Berkeley ed Hume il secondo , perchè sembra quello che più
domini nelle loro scritture, che è preso da essi direttamente di mirai
mentre aliando esprimono la contraria opinione, pare che loro esca quasi
non volendo di hocca , e per non avere alle mani più esatte maniere di
68
« Per me, egli dice, io domando la permissione di
« pensare coll'uom del volgo, che quando io mi sov-
« vengo dell'odore di una tuberosa, questa sensazione
« che io ho provata jeri, e che attualmente non ha più
« esistenza, è l'oggetto immediato della mia memoria;
« e che quando io l'immagino attualmente presente, è
u la sensazione ella stessa , e non già l' idea di questa
« sensazione l'oggetlo del mio immaginare » (i).
Son per dire che riuscirà difficile a capire come l'umana
mente possa pensare attualmente ad una cosa la quale
in nessuna maniera le è presente; cioè non per una
idea, giacché Reid esclude qualunque idea, tipo o segno
della medesima ; e non per la cosa stessa , giacché si
suppone che l'oggetto non sia presente. Io non credo
uè pure che l'uomo volgare pensi in ciò come il dottor
Reid; ma panni che qualunque uomo del volgo, il quale
si ricorda d'una cosa già veduta o sentita , creda d'aver
presente al suo spirito la cosa veduta o sentita, ma non
già in se stessa, bensì nella sua idea, oggetto presente
de' suoi pensieri (2).
ARTICOLO HI.
IS CBS JUODO IUD SENTISSE Li PREDETTA DIFFICOLTA'.
ARTICOLO IV.
LA difficolta' di reid contro il sistema lociuko
FU PRESENTITA DA LOCKE MEDESIMO.
(i) Lib. II, c. il. Il Signor Laromiguiere , nelle sue Lezioni di Filo
sofia , P. II , Lez. I , enumerando i diversi sinonimi che si sono usai
della parola idea , nota anche la parola cognizione , la quale egli osserv
riuscir barbara nella lingua francese. E infatti, il senso che questo filosof
attribuisce alla parola idea , corrisponde perfettamente a ciò che Lock
chiama cognizione , come si può vedere raifrontando i due autori ne' luo
ghi che ho sopra citati.
... ..75
fralmente avere idea a una cosa, e avere cognizione di
uns cosa; e nessuno può intendere come si possa avere
idea d'una cosa, senza avere almeno qualche cognizione
della medesima. Se adunque è contradditorio il dire ,
nel significato comune delle parole: « Io ho idea di una
< cosa, ma non la conosco punto nè poco » ; conviene
concedere come sentenza dagli uomini generalmente am
messa, che nell'idea di una cosa v'abbia sempre com
presa qualche cognizione della medesima. Di che sembra
potersi inferire, che se il Locke giunse a conoscere che
noi non possiamo avere cognizione alcuna senza un giu
dizio, egli travedesse ancora, che noi non possiamo senza
un giudizio avere nessuna idea; ma che tuttavia, non
sapendo trovar poi modo onde spiegare a se medesimo
la formazione delle prime idee, giacché non era possibile
avanti di quelle un giudizio, il quale suppone qualche
idea precedente; per evitare questa importuna difficoltà,
ricorresse alla immaginaria distinzione fra cognizione e
idea, e all'assurdo di supporre delle idee che non con
tenessero in sè alcuna cognizione, pel bisogno che avea
che non esigessero nessun giudizio.
Fu dunque l'amor di sistema, come a me pare, che
a ciò il condusse^ giacché non avrebb'egli potuto evi
tare tal sottigliezza, ripugnante al senso comune e al
suo stesso buon senso , per altro retto e schivo di fri
volezze, senza dovere abbandonare al tutto il sistema
soo, che consiste nella sentenza « nulla avervi d'innato
nella mente umana, ma tutto ciò che v'ha in essa acqui
starsi per la sensazione e per la riflessione ».
ARTICOLO V.
OBBIEZIONI FATTA DA BEID AL LOC1USMO.
ARTICOLO VI.
UID FA PRECEDERE IL GIUDIZIO ALLE IDEE.
Certo in queste parole si contiene un lampo di luce.
Il dottor Reid vede che non si può supporre , come ,
fanno i suoi avversarj, che ci sia nell'uomo prima la
percezione semplice della cosa, e senza persuasione della
sua esistenza; e che solo appresso, mediante compara- ,j
(1) Stin attento il lettore al valore che attribuisce il dottor Reid alla
parola immaginazione. Intendi; qui la facoltà della semplice apprensione ,
cioè la facoltà onde noi concepiamo una cosa come possibile, senza attac
carvi 1' idea di esistenza , a differenza della sensazione e della memoria :
poiché la sensazione attacca alla cosa percepita la persuasione della esi
stenza presente , e la memoria vi attacca quella dell' esistenza passai».
Certamente un simile modo di parlare non è esatto , come notammo già
prima. E questa inesattezza somministrò occasione a D. Stewart di fare
una lunga discussione nel C. HI. de' suoi Eltmenti di Flosofia per sapere
se si possa dire che t immaginazione non abbia congiuula la persuasione
della esistenza della cosa. Tanto è vero che le inesattezze nell'uso delle parole
moltiplicano inutilmente le questioni! Il sig. Stewart osserva con ragione,
che se 1' immaginazione di una cosa è assai viva, noi concepiamo la cosa
come presente, sebbene sapessimo speculativamente eh' ella non abbia nes
suna esistenza. Ora è appunto da fermarsi in questa speculativa cognizione
della non esistenza della cosa ; ed è di questa apprensione della cosa spe
culativa, se cosi si vuol chiamarla, di cui qui si parla. Per essa si contempla
freddamente la cosa in sé slessa, senza viva immaginazione per esaminarne
la sua natura, senza aver noi interesse nessuno circa la sua esistenza o non
esistenza. Questo è quello che si chiama semplice apprensione della cosa ,
alla facoltà della quale si dà impropriamente il nome d' immaginazione.
Esattamente parlando., non si può oè pur dire che nella semplice appren
sione della cosa noi conosciamo che non esiste : è che non pensiamo né
alla sua esistenza nò alla sua non esistenza: la consideriamo solo in sè
come rosa possibile. La facoltà della medesima propriameute si chiama
nlellrltn.
(2) Recherchcs sur l'enlendcmeiit humain , Sect. IV.
none e giudizj, venga l'uomo acquistando la persuasione
dell'esistenza della medesima. Vedevano i suoi avversarj,
che l'uomo non può essere intimamente persuaso che
nna cosa qualunque, esista , s'egli non fa un giudizio
della sua esistenza. Or non sapevano essi come supporre
di) giudizio in un uomo, che consideravano al tutto
sprovveduto d'idee: immaginarono adunque che questa
persuasione dell'esistenza delle cose percepite non fosse
punto contemporanea alla percezione delle cose mede
sime, ma che venisse acquistata di poi, allorquando
avendo già l'uomo percepite le cose, ha in sè le idee
delie medesime da confrontare insieme, e può, mediante
un tal confronto, giudicare della loro reale esistenza,
e cosi a se stesso persuaderla.
Ma il dottor Reid trova tutto ciò un puro frutto
dell'amore al sistema abbracciato ; non già quanto ci
porge la diligente osservazione del fatto.
11 fatto osservato senza alcuno spirito di sistema ci
dice, secondo il dottor Reid, che noi percepiamo co'
matti sensi gli oggetti esterni , e che noi immediata
mente cos vh giudizio naturale b primitivo ci rendiamo
persuasi della loro reale esistenza. Percepiti così gli es
seri come esistenti, noi, mediante un'astrazione sepa
riamo da essi l'esistenza loro presente e passata, e ve
niamo a contemplarli siccome cose meramente possibili;
di che nasce ciò che si chiama apprensione pura, o
concetto puro della cosa , cioè il concetto della cosa
spogliato della persuasione e del pensiero della sua reale
esistenza.
ARTICOLO VII.
I WHH STABILISCE , CONTRO LOCKE, CHE LA PRIMA OPERAZIONE DELI,' INTELLETTO
UMANO È LA SINTESI, E NON l' ANALISI.
ARTICOLO Vili.
IL SISTEMI PROPOSTO DA REID NON PUÒ SODDISFARE.
(i) Sono degni di considerazione gli sforzi che fan gli uomini stretti in
caa ({ustione da tutte parti: essi tentano ogn' adito, muovono ogni pio
to per ispscciarsi , ed uscir dell' intrico. Essi vi giungono ad alterare le
iBsissn cìkle cose : vi negano le definizioni le più ricevute : mettono in
oabbn U lare del sole. Si rendono allora oculatissimi : e se c' è qualche
fìccob lestezza nelle parole, che a lor giovi scoprire, è probabile assai
fot la scoprano, per quella stessa attività per la quale contraffanno il senso
di tinte altre parole e snaturano tnnte idee.
Fra «li altri tentativi fatti da' filosofi per evitare la difficoltà che qui io
la atti i50ria di Reid , v'ha quello di negare la definizione del giudizio.
I"e*f-raDdo ci dice che il giudizio non può essere il paragone delle idee, per
ete se ciò fosse, sarebbe necessario che le idee preesistcssero al giudizio ;
all' incontro il ragionamento di Ried dimostra necessario che sia il giudi-
tao rraello che preceda.
Questa riflessione di Degerando rileva veramente una inesattezza nella
àefcuziooe comune del giudizio , sebbene sia ben lontana da rispondere
•il wijezione che noi facciamo a Reid. Credo necessario di far qui rile
vale tote stia il merito della riflessione di Degerando , e dove stia il suo
Deprando fa questo argomento. « Quando noi affermiamo a noi stessi
*» resistenza di un oggetto esterno, noi formiamo un giudizio. Ora questo
« emiiio sull' esistenza delle cose esteriori non può nascere dal paragone
• dt due idee ; perciocché col paragone delle idee io trovo bensì le rela-
» zioni ebe le idee hanno fra loro , ma non esco per questo dalla inente
• mia , nou pervengo mai con questo a giudicare che esista realmente
« qualche oggetto fuori di me. Dunque il giudizio col quale all'ermo a me
• slesso 1' esistenza reale di qualche oggetto esteriore, non può consistere
• semplicemente nel paragone delle mie idee ». Questo argomeuto ( sup
ponendo che si parli dell'esistenza reale degli oggetti corporei) è cosi so
ldo, che non lascia nulla, eh' io vegga, da replicare. Fin qui dunque la
riflessione di Degerando è vera, e degna che se n'approfitti.
Ma quale é la conseguenza che da quella riflessione si può dedurre ?
fletta, m che dunque la definizione chi: fa consistere il giudizio nel sciu-
Hoi«iifTi, Orig. delle Idee, Voi. I. n
82
ARTICOLO IX.
DIFETTO COMUNL AL DOTTO» RUD X Al (COI AVYXBSABJ.
* sd ima stessa operazione dello spirito ? ciò non serve che a far nascere
« degli equivoci. Dall' altra parte , non si farebbe che muovere una lite
■ di parole » —
« La conoscenza primitiva , egli dice ( Degerando ) , è un giudizio, poi-
« cbè l'oggetto è veduto come reale; lo spirito dunque, io ripiglio, uoi-
« sce all' idea dell' oggetto , l' idea della realtà o dell' esistenza ; egli dice
« io se : l* oggetto eh' io veggo è reale ; ma questa operazione suppone le
« idee dell' oggetto e della realtà o dell' esistenza , ed in conseguenza è
« on operazione secondaria in ordine alla percezione, o all' idea; il ebe
« djftrajge 1' ipotesi dell' autore. Egli non v' ha mezzo ; o lo spirito si ar-
« resta alla semplice veduta dell' oggetto , ed egli ha una percezione ; o
* pere ritolge la sua attenzione alla realità dell oggetto , e tosto unisce
* dot (dee e forma un giudizio : operazione che viene in seguito alla per-
* ceooBt e la suppone » ( Saggio filotof. sulla Critica della Conoscenza
di Pasq. Galluppi, Napoli 1819, T. I, c. I. )
11 Galoppi adunque torna all' opinione che la percezione semplice sia
la prima operazione dello spirito nostro, e quindi che la semplice appren-
fsme ( r idea ) degli oggetti preceda il giudizio sulla reale esistenza de'me-
desura. Ma questo sistema non si può più sostenere dopo le osservazioni
che ha fatto sopra di quello Reid.
Reid dall' aver dimostrato che la prima operazione dello spirito non
prò essere una semplice percezione intellettuale ( idea ), conchiuse: « dun-
<t>* la prima operazione dello spirito è un giudizio » ; ma quella conclu-
era affrettata , e non potea essere ricevuta , giacché era inconcepibile
il paiaio senza qualche idea precedente.
iterando veggendo questo incaglio disse: « E bene, mutiamo la deli-
m roiKsae del giudizio : facciamone una che ci accomodi, cioè che abbracci
« timi e due i sistemi in sé stessa. Altri vogliono ebe la prima operazione
* deflo spirito sia una percezione, ma l' osservazione sembra evidenle-
« mente contraria a questa ipotesi. Altri vogliono che la prima operazione
* sia un giudizio, ma non s' intende un giudizio senza percezioni. Diciamo
* dunque che lo spirito cominci da una operazione singolare che è in-
* sterne giudizio e percezione : immaginiamo un giudizio semplice come
" semplice è la percezione *.
Galluppi viene appresso e trova contradditoria la proposta di Degerando.
Infatti ne una percezione semplice può esser mai un giudizio, perchè nella
percezione semplice non si possono notare i due termini del giudizio; né
il giudizio può esser mai una percezione semplice, perchè se io potessi ri-
àatre i due termini ad un solo , avrei con ciò distrutto , anzi reso impos
sibile il giudizio. Il sistema medio adunque di "Degerando è così puguaute
■
84 .
Ira ria a sì fatta dottrina ; ed essa ci assicura che noi
prima ci formiamo l'idea concreta della cosa realmente
esistente, e che solo appresso ne caviamo l'idea astratta
e divisa dalla persuasione della sua reale esistenza, che
è ciò che si chiama semplice apprensione della cosa. E
in fatti, pensiamo noi ad un cavallo possibile, se non
abbiamo percepito prima coi sensi nostri qualche ca
vallo esistente?
Questo nodo della questione non fu veduto bene nè
da Reid uè dagli avversarj suoi: e perciò ciascuna parte
valse ad abbatter l'altra, senza trovar la via di soste
nere se medesima.
Reid confuse due questioni in una sola. Poiché altra
cosa è dimandare « Il giudizio dell'esistenza delle cose
esterne si può egli fare, senza che preesista nella mente
nostra qualche idea generale » ? ed altro è il dimandare
« Il giudizio dell'esistenza delle cose esterne ha egli bi
sogno, per poter farsi, di essere preceduto dalla sem
plice apprensione, ossia dalle idee delle cose stesse » ?
Questa seconda questione la scioglievano affermativa
mente gli avversarj di Reid, e in questo avevano il torto.
Ora Reid, loro opponendosi, non si contentava di
dimostrar loro a che il giudizio dell'esistenza delle cose
esterne non ha bisogno, per farsi, di essere preceduto
dalla semplice apprensione delle cose stesse » ; ciò che
bastava per abbattere il loro sistema , essendo questa
propriamente la proposizione contraria a quella ch'essi
con sè medesimo, come è pugnante il dire che il due sia 1' uno , o die
1' uno sia nel medesimo tempo il due.
Di questo involto laberinto si trae chi ponga con noi i.° che innata è
nell' uomo la percezione semplice dell' ente, 2." che quindi la prima ope
razione dello spirito è un giudizio il quale unisce le sensazioni coli' idea
dell'ente e così formansi le idee de* corpi.
In tale sistema il giudizio non è 1' uuione di due idee , ma di un predi
cato e di un soggetto, ed il soggetto è la sensazione: quindi è un' unione
d' idea e di sensazione. Prima di questo giudizio noi non attuiamo la sem
plice apprensione o sia l' idea delle cose, ma solo la sensazione delle me
desime: giudichiamo della reale esistenza d' esse, e da questo giudizio e
conseguente persuasione della reale loro esistenza , noi caviamo la semplice
apprensione foro, coli' astrarre o sia prescindere al lutto dalla persuasione
di detta esistenza.
O conviene confessare pertanto che il problema dell'origine delle idoe
non si sa spiegare , ovvero convien venire a quella sentenza , dalla quale
pur tanto si ripugna, che v'ha in noi qualche cosa d'innato. Io confido
che nel progresso di quest* opera tale verità acquisterà una luce chia
rissima. »
85
sostenevano; ma Reid tolse di più a provar loro « che
noi facevamo un giudizio primitivo anteriore a tutte le
idee, inesplicabile e misterioso ». Questa risposta, più
estesa di quella ch'era necessaria ad abbattere gli av-
Tersarj suoi, conduceva il ragionamento da una questione
più stretta ad una più larga, dalla seconda delle due
questioni enunciate alla prima, e decideva che « il giu
dizio dell'esistenza delle cose esterne si potea fare non
solo senza le idee delle cose stesse, ma ben anco senza
cbe preesistesse alcuna idea generale nello spirito nostro ».
Ora fu questo allargamento della questione primitiva
latto da Reid, che gli nocque per modo, ch'egli, dopo
avere abbattuti gli avversarj suoi, andò da se slesso a
mettersi, per così dire, sul territorio dell'errore; e in
tal guisa diede l'adito ad essi, che non si potean pur
difendere, di assalire assai vantaggiosamente.
In fatti egli è per poco evidente che un giudizio non
si può formare se non da chi possiede qualche idea ge
nerale; e perciò la proposizione che Reid tolse a difen
dere, mosso da un giusto zelo, fu esagerata ed insoste
nibile.
Oltracciò il dimostrare agli avversarj suoi , che il giu
dico sulla esistenza reale delle cose esterne dovea pre
cedere la semplice idea delle medesime, era facile, ap
pigliandosi alla via piana della esperienza; ma non era
si facile trovar poi una risposta soddisfacente a quella
terribile obbjezione « Come posso io giudicare che esi
ste realmente ciò di cui non ho alcuna idea » ?
La risposta a questa obbjezione avrebbe condotto lo
scozzese filosofo molto innanzi nelle sue ricerche; ma
o che disperasse di rinvenirla , o che non ne sentisse
bene la forza, nè pure la ricercò, contentandosi d'in
volgere in nube misteriosa quel suo giudizio primitivo
che cercava di stabilire, per difenderlo, almeno con una
rispettabile caligine, da ogni indagine ulteriore degli
uomini sempre un po' curiosi.
La maniera di sciorre quella obbjezione non potea
esser che questa: conveniva escogitare « un sistema, ove
l'oggetto che si giudica esistente, fosse l'effetto dello
stesso giudizio, cioè nel quale l'oggetto non ci fosse se
non* in virtù del giudizio che si porta di lui ». Tutto
adunque il difficile consisteva a trovare un giudizio di
lai natura, che desse l'esistenza all'oggetto suo, ossia
86
all'idea nostra della cosa giudicata, ovvero (che è il
medesimo ) che producesse in noi l'idee delle cose.
Ora ripassando noi in rivista tutte le specie di giu-
dizj che portiamo in sulle cose, veggiam chiaramente,
che fino che il giudizio cade sopra qualche qualità della
cosa giudicata, la cosa preesiste necessariamente nel no
stro spirito al giudizio ed alla qualità che a lei col no
stro giudizio attribuiamo. Ma all'incontro quando il giu
dizio è tale, che cade sull'esistenza stessa della cosa,
allora la cosa giudicata non esiste prima di questo giu
dizio, ma in virtù di lui, perciocché fino che la cosa
non la pensiamo noi come esistente (cioè come avente
un'esistenza o possibile o reale), ella è nulla, ella non
è un oggetto del nostro pensiero, un'idea. Il giudizio
adunque sull'esistenza delle cose, a differenza di tutti
gli altri giudizj , produce egli medesimo il proprio og
getto; e mostra con ciò di avere una energia sua prò-'
pria, quasi un'energia creatrice, che merita tutta la
meditazione del filosofo (i): questo oggetto, che non esi
ste precedentemente a un tal giudizio su di lui portato,
esiste poi in virtù, e perciò, al più, contemporaneamente
del giudizio stesso. Somigliante giudizio è dunque una
virtù, una potenza singolare dell'intendimento nostro,
che pensa una cosa attualmente esistente.
Le questioni che si possono muover sopra questa po
tenza sono tre: i.° com'ella si muova a pensare una
cosa attualmente esistente; 2." onde cavi l'idea univer
sale di esistenza, di che in tal pensiero ella abbisogna;
3.* come ella restringa l'idea dell'esistenza, idea univer
sale , ad una cosa determinata , e così pensi esistente
questo determinato oggetto anzi che quello.
Alla prima ed alla terza di queste di ma ode è facile
rispondere coll'ajuto dell'esperienza.
Noi siamo eccitati a pensare un oggetto esistente dalle
sensazioni; e sono pure le sensazioni quelle che deter
minano questo oggetto esistente del nostro pensiero. Noi
ARTICOLO X.
CIÒ CHE IL SISTEMA DI REID HA DI SOLIDO CONTRO I SDOl AVVERSARE
DUGALD STEWART.
ARTICOLO I.
VABJ ASPETTI DELLA DIFFICOLTA'.
ARTICOLO II.
STEWART APPOGGIA LA SUA TEORIA AD UN FISSO DI SMITH.
In quel capitolo de' suoi Elementi di Filosofia dello
spirito umano , ove prende a parlare della facoltà di
ajirarre, reca un passo tolto dalla dissertazione sull'on-
gine delle lingue di Smith ; il quale, perchè contiene
J'idea principale della sua teoria dell'astrazione, io qui
riferirò.
« L'invenzione di certi nomi particolari per segnare
• degli oggetti particolari, cioè a dire la creazione de'
« nomi sostantivi, ha dovuto essere uno de' primi passi
• verso la formazione del linguaggio. La caverna par-
• lieoWe, che serviva di schermo al selvaggio contro
■ all' intemperie dell'aria; l'alhero particolare, del cui
■ fratto saziava la fame sua; il fonte particolare, della
- cai acqua spegneva la sete; furono certo i primi og-
« getti clfegli segnò colle parole caverna, arbore, fonte;
• o con altro vocaholo ch'egli trovò bene d'usare, nel
• primitivo suo gergo, per esprimere quelle idee. Come
■ questo selvaggio acquistò in appresso più d'esperienza,
» ed ebbe occasione d'osservare, e specialmente di no-
• minare altre caverne, altri alberi, altre fonti ; egli
\ • dovette naturalmente (i) dare a ciascuno di questi
(i) Tatto questo discorso di Smith , vero o falso eh' egli sia, non è però
■ca narrazione di falli : egli è un puro lavoro della immaginazione , col
T»»le si cerca ciò die sembra alla slessa verisimile nella ipotesi d'un uomo
staggio. >on dee credersi adunque che tulla la filosofia di Smith , di Ste
wart e di altri tali filosofi moderni si appoggi unicamente sopra le osser-
"tkmi e sopra i fatti: V immaginazione trova anche in questi autori il suo
kofo, anzi ti occupa uno spazio grandissimo, come qui appare. L1 argo
mento è d'una questione capitale in filosofìa, d'una questione dalla quale
I /, filosofia intera. Ora quale è il metodo che tiene lo Smith e lo
*Vwjrf per risolvere questa importante questione ? Essi cominciano a sta-
>lire delie Itasi svile quali debba reggersi tutto il loro futuro ragionamento:
l queste basi sono tolte dalla immaginazione. Cioè, essi cominciano dal ri-
eJore come secondo V immaginazione loro, sarebbe più verisimile che un
éncno (d.» l'ipotesi che fosse sprovveduto a principio d'idee e di pa-
W/, Orig. delle Idee, Voi. I. ,3
98
« nuovi oggetti quello slesso nome, che avea fatto gi
« l'abitudine di congiungere ad un oggetto simile e
« lui noto da lungo tempo. Cosi gli avvenne che quell
« parole, che originariamente erano de' nomi proprj
« segnavano degli oggetti individuali, divenissero inserì
a sibilmente de' nomi comuni, e segnasse ciascuno un
« collezione d'individui.
« Egli è, « continua lo Smith, » questa applicazion
« del nome di un individuo ad un gran numero di og
« getti simili, che dee aver suggerito la prima idea d
u queste classi o collezioni che sono indicate co' noni
« di generi e di specie; e de' quali l'ingegnoso Rousseai
a pena tanto a concepire l'origine. Ciò che costituisci
« una specie non è che un certo numero d'oggetti le-
« gati insieme da una mutua simiglianza, e che perciò
« sono segnati con un nome stesso egualmente adatta-
u bile a tutti (i) ».
Egli sembra a primo aspetto che la maniera onde in
questo passo si spiega la formazione delle idee di genere
e di specie, sia molto facile e naturale. E in fatti, non
si trova l'errore e l'insufficienza di questa spiegazione
se non si prende ad esaminare con diligenza. Egli è
quando la si disamina con rigore, che si scuopre essere
role) veniste poi formandosi insieme delle parole e delle idee. Esposto ele
gantemente il romanzetto di questo selvaggio, essi ne tirano le conseguenze:
ecco qual sia il metodo filosofico degli autori di che parliamo. È vero che
nel racconto che vi fanno a quando a quando intromettono delle espressioni
che v' incoraggiano, un la cosa è certa, un naturalmente deve avvenire cosi,
e tali altri modi : e come dopo ciò non crederete loro ? essi ve lo affermano
mila fede e sulla autorità della loro propria immaginazione.
Tutto questo però non crediamo che ci vieti di esaminare i.°seció che
dovrebbe avvenire di certo , e naturalmente , secondo la loro immaginazione,
sia d'accordo coi fatti reali, con ciò che s'è osservato avvenire in casi si
mili] 3.° se quindi sia possibile 1' ipotesi che stabiliscono di un selvaggio
privo al tutto di voci e d' idee: ipotesi nella quale consiste finalmente tutto
il loro sistema. Questo è quanto noi cerchiamo di fare colle diverse osserva
zioni seguenti sul passo di Smith , e sulle teorie di Stewart.
(i) Lo Stewart confessa che il Coudillac accenna sotto lo stesso aspetto
i progressi dello spirilo umano nella formazione de' generi e delle specie.
È noto il merito di Condillac nell' aver chiamata l' attenzione de' filosoli
sulla mutua relazione della favella e del pensiero. Perciò io avrei potuto ,
parlando del sistema condillachiano, fare alcune di quelle riflessioni chequi
faccio sopra il sistema di Stewart, circa il modo di spiegare la formazione
de' generi e delle specie; ma ho creduto bene di riservarle a quest'articolo
per non riuscir troppo lungo parlando di Condillac. Il lettore potrà riferire
da se stesso alla teoria coiidiUachiuna più cose clic qui osservo sulle
triue di Smith e di Stewart.
99
speciosa ed illusoria , e non solida e vera. Ella si dee
mettere, per mio avviso, fra il numero di quelle spie-
carioni, che presentando alle menti de' lettori poco cir
cospetti una bella forma di ragionare, li ritraggono in
grazia di questa bella forma dall'esame delle singole
parti ond'ella è composta: i lettori di cui parliamo,
veggendo giusto tutto l'andamento del discorso, non
dubitano della verità delle cose in esso contenute; e senza
darsi la cura di rendersi distinte le idee, le ammettono
a fidanza, per una cotal prevenzione a favor d'esse die
le fa loro suppor giuste ed accurate. Ma noi, preavver
titi dall'esperienza, la quale tante volte a nostro mal
grado ci ha mostrato, sotto ragionamenti in apparenza
assai plausibili star nascosti degli errori fatali produttori
di lunga serie di parimente erronee conseguenze, ci cre
diamo in diritto e in dovere di esaminare bene adden
tro, prima d'ammetterlo, il sopra addotto ragionamento.
ARTICOLO III.
PRIMO MANCAMENTO NEI, PASSO DI SMITB :
*>* TCttKG£ LE DIVERSE SPECIE DI NUMI INDICANTI COLLEZIONI d'iNDIVIDDI.
(i) Il vocabolo dieci è comune a tutte le specie di cose che sono (firn
ma questa comunanza non fa die sia meno vera la nostra osservazione
cioè ch'egli non sia un nome comune a ciascuno oggetto della colleziou
da esso indicala. S' egli è comune a tulle le cose che sono dieci, è perei)
egli contiene un' astrazione, da cui abbiamo già dello di prescindere i
questo ragionamento, per uou renderlo sovercliianieutc iulralciato.
101
nomi comuni, perchè non sono applicabili a quegl' in
dividui che nella collezione si racchiudono.
Tutti i nomi plurali sono nomi significanti collezioni
d'individui, e formano una quarta classe che nulla de
termina sulla numerosità di quelli. Così dicendo noi
uomini, animali, case, ecc., intendiamo bensì una col
lezione di queste diverse specie di cose, ma senza nulla
accennare del numero d'individui che quelle collezioni
contengono. Nè pur questi nomi sono comuni a più in
dividui, ma esprimono delle collezioni di un numero
al tatto indeterminato.
Su questa indeterminazione noi dovremmo alquanto
fermarci a riflettere: ma per non interromper la serie,
de' nomi, proseguiam per ora ad enumerare le loro di-
Terse classi, e a vedere quali sien quelle che col genere
de' nomi comuni si possono facilmente confondere.
ARTICOLO IV.
tuono MANCAMENTO : ITO!» DISTINGUE I NOMI INDICANTI COLLEZIONI d'iNDIVIDDT,
E 1 NOMI INDICANTI QBALITa' ASTRATTE.
(i) Non è che con ciò io affermi non potersi analizzare queste idee
u tratle e risolverle in idee più semplici; anzi tulle quelle che esprimono
ioa
confusa con nessun' altra , e la quale perciò è unica e
indivisibile. Così sarebbe una maniera impropria e ine
satta il dire le umanità , le animalità , le vegetalità , le
bianchezze ecc.; ma si dice l'umanità , ranimalità, la ve
getalità , la bianchezza ecc. Questi nomi adunque non
si danno a più individui , ma solo ad una singolare
proprietà di molli individui. Perciò tali nomi non rap
presentano nessuna collezione d'individui, uè si possono
dir comuni, ma solo si possono dire generali od astratti.
ARTICOLO V.
TERZO MANCAMENTO: CONFONDE I NOMI INDICANTI COLLEZIONI D'iNDIVIDCI,
E QUELLI INDICANTI QUALITÀ* GENERALI, Co' NOMI COMUNI.
le specie delle cose, come albero ecc. , non sono per me che un complesso
di qualità semplici unizzate; ma dico che noi le uniamo insieme ( non è
il luogo di parlare qui del modo) e le consideriamo come una cosa sola
e indivisibile. Di questa operazione d'unire più qualità in un solo concetto,
noi abbiamo bisogno', per inventar poi i nomi comuni.
(1) E di vero, non è necessario che esista il nome che segna l'idea
astratta, perchè v' abbia il nome comune che segna Y ente che possiede la
proprietà astratta. Vi sono molli nomi comuni nelle lingue , de' quali
manca I* astratto corrispondente; cosi i nomi albero, caverna, fonte, nno
hanno nella nostra lingua gli astratti corrispondenti che sarebbero alte
rità, cavernilà ecc.
L'esistenza di questi nomi, come di tutti gli altri, dipende dal bisogno
che hanno avuto gli uomini d'usarli; giacché il solo bisogno d' usare il
nome, fa sì eh' egli s' inventi. Ma se nelle lingue non è sempre indicalo
tutto il processo delle idee, perchè talora questo non è necessario general
mente agli uomini che per significare i loro concetti fanno uso delle lin
gue; tuttavia non segue che il processo delle idee nella mente non sia
contìnuo e completo. Se nella mente fosse interrotto il processo delle idee,
ue verrebbe che la mente andasse per salto , e senza discorso interiore ;
il che è assurdo. E tanto più è assurdo il supporre che esistano le idee
composte , senza che esistano le semplici da cui sono composte. Egli è
aduDqoe necessario di ammettere che, dovunque è stato inventalo il nome
comune, per esempio il nome albero , v'abbia avuto nella mente altresì
l'idea astratta che a quello corrisponde, e che se s'esprimesse nell'esempio
posto, sarebbe alberila. Il non essere espressa questa idea con un nome ,
non fa eh' ella non fosse necessaria per formare il vocabolo albero ; glae"
cbè questo concetto, risoluto ne' suoi elementi , non indica se non se « un
quali lie cosa dotato di quelle proprietà che espresse iu uu vocabolo si do
vrebbero dire alberila ».
io3
altero , forile, ecc. , come anche gli aggettivi bianco ,
duro ecc. , sia che si prendano come puri aggettivi, sia
che mediante una elissi , per la quale si sottintende il
sostantivo, si usino in luogo de' sostantivi.
Ora neW analizzare il valore di questi nomi, se non
useremo mollo di circospezione, noi saremo tratti in
errore dalla somma perfezione del linguaggio che da noi
oggidì s'adopera. Noi siamo sempre inclinati a credere
che ad una sola parola corrisponda una sola idea; ma
ciò non è punto: anzi sono rarissime quelle parole che
più tosto un' idea sola , che un complesso d'idee espri
mano. La natura della lingua, e massimamente delle
lingue nostre, è tale, che con una sola parola noi ve
niamo a manifestar talora un' idea sommamente com
plessa, cioè composta di molte altre; nè solo manife
stiamo tutte quelle idee, ma anche il loro nesso che
le lega insieme e congiunge in una unità. Per il che,
il valore d'una parola, quando noi l'abbiamo analizzato,
possiamo sovente risolverlo in una ed anche più pro
posizioni.
t. così appunto avviene de' nomi di cui parliamo: il
oome di uomo, per esempio, equivale a questa pro
posizione « un ente che ha l'umanità » ; il nome di
albero « un ente il quale ha quelle proprietà che costi
tuiscono l'albero, e che, se si dovessero legare ad una
parola che la lingua nostra non possiede, si dovrebbero
esprimere col vocabolo di alberità » . E puoi fare il di
scorso medesimo di tutti gli altri nomi di simil genere.
Questi nomi son tali, mediante i quali s'attribuisce a
degli enti una qualità che si trova loro appartenere;
essi perciò contengono nascosto in se medesimi un giu
dizio, col quale noi, proferendoli o pensandoli, attri
buiamo un predicato ad un soggetto, e per brevità
esprimiamo quest'operazione nostra con una sola voce,
la quale ci dà il risultato di tale operazione, presen
tandoci espresso il rapporto rinvenuto da noi fra quel
predicato e quel soggetto. Ora solo questi con proprietà
si dicono nomi comuni; perciocché convengono a cia
scuno individuo di una certa classe. Cosi, la parola
v>mo conviene a ciascuno degli uomini; la parola al
bero conviene ad uno, qualunque egli sia, fra tutti gli
alberi; la parola caverna ad una delle caverne indistin-
' mente- e vengasi dicendo il medesimo di tutti gli altri.
io4
Ma se l'essere comune di un nome non vuol dir altro
se non la proprietà ch'egli ha d'esprimere un individuo
per volta, ma qualunque poi sia questo individuo, cioè
l'uno o l'altro a piacimento, di tutti quelli che hanno
la qualità nel nome indicala; non si può dire menoma
mente esatta nè vera la sentenza dello Smith, quand'egli
afferma che ciascuno di questi nomi comuni segna una
collezion d'individui: anzi ogni nome comune segna sem
pre un individuo solo, ma lo segua mediante una pro
prietà comune a molti; ed è per ciò che lo stesso nome
si può attribuire ad un individuo, e poi ad altro, e
poi ad altro ancora, e così successivamente a ciascun
di quelli che hanno la qualità nel nome indicata. Se
fosse vero che la parola albero indicasse una collezione
di alberi, noi coll'usarla in plurale, cioè col dire alberi,
avremmo ad esprimere molte collezioni di alberi; ma
col detto plurale nessuno ha mai creduto d'esprimere
più collezioni di alberi, ma semplicemente più alberi
individuali.
ARTICOLO VI.
QOAKTO MANCAMENTO :
NON CONOSCE QDAL SIA LA VERA DISTINZIONE FRA I NOMI COMUNI, E I PBOFKJ.
ARTICOLO VII.
QCIltTO MANCAMENTO :
IONOEA LA BAOIONE PEB LA QUALE I NOMI 81 DICONO COMUNI I PEONU.
ARTICOLO Vili.
SESTO M1KCAMEKTO :
NON OSSERVA CHE t PRIMI NOMI IMPOSTI ALLE COSE FURONO NOMI COMUNI.
(i) La piò antica notizia che porga la storia circa l' imposizione de'noml,
è il celebre passo del Genesi ( Cap. II), nel quale si narra che Adamo
impose a tutti gli animali creati da Dio il nome loro; dopo la quale nar
razione il sacro storico aggiunge » omne enim , quod vocavit Adam anima
« viventi*, ipsum est nomea cjus ». Eusebio, spiegando questo passo, dice
che Mosè volea con ciò significare come i nomi imposti da Adamo agli
animali esprimevano la loro natura; «t'unì ait , ipsum erat nomen ejus,
•< quid ulani quam appetìationes , idi natura postulabat , ìriditas este signi-
« ficai? n ( Prmp. Evangel. , lib. XI , cap. VI). Ora questi nomi imposti
alle specie diverse degli animali da Dio creati , in tal modo che significa
vano la natura loro, non sono altro che appunto de' nomi comuni : sicché
il più antico e sacro documento che ci rimanga sulla prima formazione
del linguaggio, ci dimostra manifestamente che i primi nomi dati alle cose
non furono proprj, ina si bene comuni. Coli' opinione di Eusebio concor
dano ad una voce le ebraiche tradizioni e le sentenze, de' rabbini; e chi
fosse vago di vederle raccolte, egli non avrebbe che a leggere Giovanni
Buxtortio il figlio ( Dissert. philologico-theolog. I, § XXIV), o Giulio
Bartolocci (Bibliolh. magna rabbin. tom. I ), o altro tale scrittore.
Per altro non sono le sole antichità ebraiche che ci assicurano, i pruni
e antichissimi essere stali i nomi comuni, cioè significanti la natura o le
qualità delle cose uominate , e non l'individualità loro; questa è l'opi
nione di tutta 1' antichità , ed il fatto delle lingue antiche. Io non ho qui
tempo di estendermi a recar di ciò quelle innumerevoli prove che io Del
ire!; ma mi basta osservare, che il Cratilo di Platone è iu sostanza ri
volto a provare pur questo medesimo , cioè che i nomi furono anticbissi-
inameule imposti alle cose non per arbitrio ma per ragione; che doven
dosene imporre di nuovi, si dee parimente cercare, siili esempio de' pruni
che hanno nominate le cose, di trovare ed imporre nomi tali che espri
mano le qualità, la natura delle cose che si vogliono nominare; e che
finalmente, dovendo noi usare i nomi già imposti, si vogliono usare con
tutta la proprietà, perchè rispondano appunto al loro significato.
Egli è in gran parte per questo medesimo , cioè perchè i nomi anti
chissimi erano comuni, o sia indicanti le qualità comuni, le specie, le es
senze (il che è lutto il medesimo) , che s' avea' come ferma sentenza e
universale appresso gli antichi , nella scienza de' nomi consistere tutta la
sapienza, doversi i nomi gelosamente ed immutabili custodire, e traman
dare a' figliuoli come s'erano ricevuti da' padri, qual preziosa e sacra ere
dità, che rinserrava il deposito della religione e del sapere, e il segreto
dell' umana felicità.
Del medesimo fonte vennero ancora le superstizioni poste nell'uso di
certi nomi ; perciocché quella riverenza che loro s' avea , e quell' impor
tanza che loro davasi da' vecchi nel doverli custodire intani e tramandarli
a' posteri, si mutò appresso in una venerazione cieca e Confusa , e passo
cosi u quell'eccesso, al quale sempre mai è inclinata di rovesciare ogni
passione dell' uomo, eccesso nel quale la fantasia trovasi come iu suo le
gno, e vi produce i più capricciosi elicili,
1,3
seriazione può farsi de' nomi greci, e di quelli di tutta
intera l'antichità; nella quale si può dire con ragione,
eoe non sì è mai conosciuto il modo di creare de' nomi
veramente proprj , cioè non indicanti una qualità co-
mane, ma la slessa individualità della cosa, come nelle
lingue moderne vengono ad essere Pietro, Paolo ecc.,
Italia, Francia, Inghilterra ecc., Adige, Tevere, Po ecc.,
i quali nomi stessi sono divenuti proprj veramente dal
momento che si sono perdute le loro etimologie, o che
alle medesime non si pose più attenzione in proferendoli.
Per altro questi medesimi nomi proprj delle lingue
moderne tramandatici dall'antichità, sono argomento
di ciò che dico; perciocché ciò che ci rimane delle loro
etimologie manifesta che nell' antichità tutti avevano
un loro significato , e non erano punto de' suoni arhi-
trarj (i) : il che è quanto dire che l'antichità avea
nominato queste persone, questi paesi, questi fiumi in
dividuali con de' nomi comuni , cioè con nomi che li
contrassegnavano non già mediante le note lor proprie,
ma mediante le note comuni a più altri esseri della
medesima specie.
(i) Di qui gli antichi trovavausi iu acconcio di fare 1' osservazione dulia
priorità de' nomi comuni sui nomi proprj, assai più che noi non siamo.
Aristotele la fece nel libro I , c. i , delle cose fisiche. Ivi egli osserva
cbiiraraeule , che 1' uomo inventa prima dei nomi comuni , e poi de' nomi
E poi singolare il vedere come Aristotele appoggia la sua opinione ad
no latto similissimo a quello che riporta lo Smith , per dimostrare appunto
il contrario : tanto è vero che i falli , ove non sieuo accompagnati da un
buono e retto intendimento in chi ne fa uso, non valgono a condurre per
sé medesimi alla verità, ma sono anch' essi occasione d'abuso e d' errore.
Lo Smith vi dice « Il Selvaggio chiama col nome imposto alla sua ca
verna tutte le caverne che vede, dunque egli inventò prima il nome pro
prio e poscia lo rt-se comune » .
Aristotele vi dice « Il fanciullo chiama col nome di padre tutti gli
nomini che vede, fino che non ha imparato a discernere il padre suo dagli
altri uomini ; dunque il nome eh' egli dà a suo padre , per lui è un nome
comune, e non ristringe il significato di questo nome comune, a segnar
con esso il solo suo padre, fino che non s' accorge delle differenze, e perciò
dell' error suo nel prendere il padre per un uomo qualunque. Quindi il suo
intelletto procede dal generale al particolare, dal genere alle differenze che
gli fanno conoscere la specie «•.
Io non voglio decidere se questa osservazione di Aristotele, che suppone
che il fanciullo conosca prima nel padre suo l'uomo, che il padre, sia vera.
Ella mi vale però a provare che 1' opinione di Aristotele nell' invenzione
ile' nomi é questa, che prima si nominino le cose con voci più generali,
e poi con voci via meno generali.
Rosami, Orìg. delle idee, Voi. I. i5
ARTICOLO IX.
SETTIMO MANCAMENTO : IGNORA CKE fc PIO* FACILE CONOSCERE NELLE COSE
CIÒ CHE È COMUNE, DI Ciò CHE È FROFRIO.
ARTICOLO X.
OTTAVO MANCAMENTO :
IGWOKA COMI I NOMf COMUNI FASSINO AD ESSE* TBOPRJ.
nostra nel primo suo stalo, mentre non è avvezza ancora a fermarsi nelle
astrazioni, corre sempre alla realtà degli oggetti.
lo farò jedere in quest'opera stessa 1* ordine delle idee a cui la mente
amaca riflette , il quale è il seguente : i .* prima di tutto la mente umana
Vu l'idea dell'ente in universale, ma in questa non riflette nè mette atten
uo» se no a in fine di tutte le altre, si può dire: non comincia adunque
da (first» la serie delle idee riflesse; a.0 poi acquista le idee p più tosto
pera-coni degl' individui mediante i sensi , e queste idee sono composte a)
di celioni comuni b) e del proprio o individuale, e queste sono le prime
iJte nelle quali 1' attenzione umana si ferma ed occupa ; 3.° appresso sola
ndole cominciano le astrazioni, mediante le quaW I umana attenzione si
pose nelle sole nozioni comuni, abbandonando le note proprie degli oggetti.
Ora l'uomo non nomina se non l'idea sopra la quale riflette l'attenzione; non
cwlh a cui punto non bada , a cui punto non attende. Le prime idee no
nirate sono adunque idee applicate ad individui. Questo fu che condusse
io errore, a mio parere, lo Smith. Egli da ciò dedusse, che dunque i voca
li primi dovessero essere de' nomi proprj; ciò che è contro la storia, e
•siadi anche contro la ragione. Non aveva egli osservato la natura delle
Vist implicale ad individui ; egli aveva credulo che fossero idee semplici ,
ene s pensasse con esse la individualità, senz'allro. In vece di ciò, tali idee
• perosoni sono composte di nozioni comuni , e del proprio dell'oggetto ,
™»w a tutta quest' opera si dimostra. Ora noi diciamo che , .sebbene le
p™» idee nominate non sieno semplici idee , ma coli' applicazione loro ad
ain-.Am; tuttavia questa nominazione si fa dalla parte delle nozioni comuni
^caprese in tali idee, e quindi hannosi de' nomi comuni, che l'intenzioue
A coi li usa e le circostanze esterne li rendono atti a nomiuare cose indi
viduali.
Se le prime idee nominate, sono le idee individuale; le seconda idee sono
le astrazioni, cioè le idee delle nozioni comuni comprese nelle idee indivi»
tate. 11 separare queste nozioni comuni, l'affissarle in uuo stato d'isola
mento , e finalmente il nominarle, questa è la susseguente operazione dello
spirito umano.
Abbiamo detto, che le idee individuate si nominano da ciò che hanno
ài comune; e che questi nomi comuni indicano individui, unicamente per
ciò che vi sottintende lo spirito di chi li usa, che non li adopera senza
riferirli col pensiero ad individui. Questo è vedere il comune negl individui:
ora si tratta di vedere il comune in separalo dagl' individui, e in questo
stato nominarlo.
Quindi le due questioni» come lo spirito può fare le prime astrazioni »
e« come può nominarle» .
Per dir prima di questa seconda, egli è evidente, che, supponendo nello
spinto umano in movimento la sua facoltà di astrarre, supponendo cioè la
prima questione risoluta, è facile conoscere com'egli possa uomiuare gli
astratti già concepiti.
Egli può nominarli tanto coi nomi comuni, coma uomo, animale ecc.,
quanto coi sostantivi indicanti astrazioni, come umanità, animalità ecc.
Riguardo ai nomi comuni, egli li possiede già; tutto si riduce a sapere,
aspetto a questi , com' egli cominci ad adoperarli come nomi meramcutc
1 18
d'indicare e nominare l'individuo, noYi ^ espressa nel
nome stesso, ma vi rimane sottintesa e nascosta nello
spirito di quelli che ad indicare l'oggetto pur quel nome
particolare adoperano. Ed avviene questo fatto, che l'in
dividualità non si esprima direttamente, ma solo si sot
tintenda nell'uso de' nomi comuni ove s'applicano ad
individui, appunto per quella difficoltà che incontra la
mente umana in astrarre l'individualità dagli oggetti,
la quale astrazione è una delle ultime che si suol fare
e delle più malagevoli.
Riassumendo adunque: ritengasi, che il primo passo
che dà lo spirito umano verso la conoscenza dell'indi
vidualità, si è quello di percepirla accompagnata e rav
volta con tutte l'altre qualità delle cose comuni , e di
affissarla coli' intelletto meno distintamente delle qua
lità comuni:
Che quindi Io spirito, al cominciamento , segna co'
nomi le qualità comuni : e quindi appresso si giova di
questi nomi per indicare la stessa individualità : l'idea
però di questa non è ancora in lui netta e distinta, e
perciò non è atta d'essere espressa essa stessa, essa sola
con un nome proprio. Il che, come dicevamo, è cosi
difficile, che appena nelle lingue moderne qualche esem
pio se ne ritrova.
Adunque, se noi vogliam ritornare al nostro selvag
gio, e siam vaghi di farlo inventore de' nomi della sua
caverna; del suo albero, del suo fonte, conveniam dire
(1) Cerchisi il fatto: nelle lingue antiche si trovano molti nomi veramente
composti del nome comune, e del pronome possessivo affissovi; p. e. in
ebreo Sarai significa» la signora mia», e cosi dicasi di tanl'altri, che
terminano colla lettera £ indicante il pronome possessivo mio.
(2) L' osservaziouc che fece il capitano Cook, e che Dugald Stewart reca
in argomento della dottrina di Smith , serve piuttosto a provare mirabil
mente il contrario; e nel mentre che d' una parte viene in conferma della
dottrina da me esposta, dall'altra vi dà un esempio della grande differenza
che passa fra 1' allegare de' fatti e 1' allegarli a proposito.
Lo Smith e lo Stewart vogliono che il selvaggio inventasse prima i nomi
proprj} che quindi li rendesse comuni coli' applicarli a più cose simili, e
che questi nomi applicati a più cose simili tenessero luogo di specie e di
generi : così essi descrivono il progresso onde gli uomini pervennero alla
formazione de' generi e delle specie.
Ecco qual sia l' osservazione che fece il capitano Cook approdato alla
I 2I
partire le classi più generali in classi minori , e dise
rbar le specie più ristrette e più vicine all' individuo ;
i classificarle in tutti i modi possibili , necessarj ed ar
bitrar/, e finalmente fissare anche gli individui stessi
con de' nomi che segnino esclusivamente la loro indivi
dualità , ultima e più raffinata operazione prodotta non
da' bisogni dell' uomo isolato ma dall' uomo perfetta
mente sociale.
pitto!» isola di Wateeoo eli' egli visitò Tenendo dalln Nuova Zelanda alle
i»fe drjli Amici. •« Oli abitatori di quest'isola, egli dice , non osavano
• accciUrsi alle nostre vacche ed a' nostri cavalli, e non si facevano alcuna
• idra della natura di questi animali. Ma i montoni e le capre non supe-
■ mano la loro levatura. Essi ci fecero intendere , che ben sapevano che
■ enno degli uccelli ». Dopo questo racconto, il viaggiatore aggiunge :« Sem
brerà furse incredibile, che l'ignoranza possa andar tanl' oltre da com-
• mettere un simile errore, poiché né il montone nè la capra rassembra
• punto a un animale alato. Ma bisogna osservare , che questi popoli non
• conoscevano altri animali terrestri che il porco, il cane e gli uccelli. Essi
- ledevano assai bene, che le nostre capre e i nostri montoni erano al
• Mio differenti da quelle due prime classi da lor conosciute , e quindi
« tOTictiudevano ch'essi appartenessero alla terza, nella quale essi sapevano
» iieni grande varietà di specie»
Pcraeio credo più facile che il nostro viaggiatore, mal conoscente della
hrpi di quegli isolani , abbia preso sbaglio noli' intendere ciò eh' essi di-
Cerino, auzicbè io mi persuada che quegli isolani, i quali eran pur forniti
di itosi, non abbiano veduto che i montoni e le capre rassomigliano più ai
fora e ai cani , che non sia agli uccelli.
Mi giacché il signor Stewart non fa difficoltà a prestar fede a questo
racconto, mi contenterò di osservare, che tanto è lungi che col medesimo
ti possa provare il passaggio da' nomi proprj ai nomi comuni, che anzi iu
oso non si parla se non di nomi comuni. Quegli isolani avevano i nomi
delle specie , e Don i nomi degli individui , e li applicavano a quegl' individui
ebe nella loro specie si contenevano , o che potevano in qualche modo farsi
contenere nella medesima. Coli' applicare un nome comune a più individui ,
non si estende il suo significato; ma volendo anche supporre che quegl' iso
lani estendessero il significato della paiola uccelli, V estensione sarebbe da
Dna specie di cose meno estesa ad una più estesa , e però sarebbe sempre
da specie a specie, e non da individuo a specie: il che è dove sta il diffì
cile a spiegare, e alla cui spiegazione indarno si reca il racconto suddetto.
Oltre a ciò, quando si ha un vocabolo, ricevuto nell' uso comune a si
gnificare una specie di cose; se v'ha alcuno che usurpi lo stesso vocabolo
ad indicare un oggetto che in quella specie nou si contiene, egli è più giusto
i dire che colui commette errore nel significato del vocabolo, o nel giudizio
ebe fa su quell'oggetto a cui applica il vocabolo, facendolo entrare in una
specie di cose alla quale non appartiene; anzi che il dire che il vocabolo
tesso abbia ricevuto un'estensione maggiore di significato. Cosi se vedendo
W Cimelio, io dirò, egli è un cavallo, si dirà ch'io ho preso un errore
sulla specie dell'animale, o sul valore della parola cavallo, e nou già che
li carola abbia ricevuto un significato più esteso; un taJe significito non può
rcevcrlo fino che non concorra a darglielo l'uso Cumuuc degli uomini.
Boimihi, Orig- delle Idee, Fol I. iG
I 22
ARTICOLO XI.
HOMO MANCAMENTO: NEL PASSO SI SMITU, COL ODALI SI VUOLE SriICAW:
L£ IDEE ASTEATTS, NULLA DI CIÒ SI «ACCHIUDE.
(i) Questa sentenza i nostri filosofi non si danno punto cura di pro
varla: essi la suppongono ammessa da' loro lettori. Il loro ragionamento è
il seguente. « Il nome comune è quel nome che s'applica a più individui.
« Dunque per inventare un nome comune , basta che un nome proprio
« s imponga a più individui: egli è fatto comune »>. La prima supposi
zione è quella che tragettano come certa : il resto è tutto provato , se ta
maggiore è certa. Con questo loro metodo si può ir molto innanzi ; si nuo
giungere dove si vuole. Volete voi provare qualche vostra strana teoria ?
abbiate 1' avvertenza di formare a principio una proposizione che implici
tamente contenga quella vostra teoria: poi dichiaratela cosa certa, O sup
ponetela ammessa, o se vi vien meglio, sottintendetela nel vostro ragiona
mento. Indi analizzatela, tirale da essa espressamente la vostra dottrin» di
cui ella è già gravida : voi avrete provato facilmente in tal modo l'assunto :
poiché fino dal principio avete destramente fatto suppor vero ciò che v im
portava di provare. Il metodo è comodissimo.
1 27
s'applica ad. una collezion d'individui singolarmente
presi, cioè a quei tre, quattro o più, che vengono ad
aver comune il nome di Pietro ; ma quel nome non è
comune nel senso che segni una specie od un genere
di cose ; nel qual senso lo prendono i grammatici , e
tratta il nostro discorso; perciocché noi cerchiam di
«piegare in che modo si formino le idee di specie e di
genere. Il nome comune, nel primo significato, certo si
fa più comune, più che sono gl'individui a cui si ap
plica successivamente: ma il nome comune preso nel
significato in cui lo piglia il nostro ragionamento, è
cornane fino a principio, e non si rende più comune
colf applicarlo ad un maggior numero d'individui; per
ciocché egli di sua natura appartiene già a tutti gl'in
dividui possibili di quella specie, nè più nè meno. Pren
dasi il nome uomo; s'applichi successivamente ad uno,
due, tre, dieci, cento, mille uomini: significa egli per
questo, altro che uomo? diventa egli perciò più comune
che dinanzi non era? già innanzi egli segnava non una
collezione limitata, ma tutti gli uomini che sono e che
sanano o che esser mai possano singolarmente presi,
cioè latti quegli enti a cui conviene l'umanità, quan
tunque sieno questi in qualunque luogo , in qualunque
tempo, anche nella sola mente concepiti.
■Dall'ingegno de' filosofi io appello al huon senso di
chicchessia: perocché i primi, impegnati in un sistema,
negano veder ciò che tutti veggono, temendo troppo la
conseguenza d'una ingenua confessione, il rovesciamento
delie loro opinioni; e qualsiasi persona anche volgare,
» cui sovvenga il huon senso, può pronunciare in una
materia di suo diritto e di sua capacità, cioè nel senso
annesso alle parole, che non è proprietà de' filosofi, e
fortunatamente non può esser tosto da' loro cavilli al
terato. Scelgo la parola uomo: qualunque altro nome
comune sarebbe il medesimo. E dimando: colla parola
uomo, dicesi forse un determinato numero d'individui?
ovvero, ha ella questa parola congiunto un valore ap
plicabile ad un numero d'individui indeterminato e in
definito, a tutti gli enti che hanno l'umanità, che si
pensano poterla avere?
Ora se il nome comune, nel significato che a lui dà
l'aio racchiude l'idea della possibilità di altri indivi*
dai resta a spiegarsi che cosa sia questa indeterminata
t
128
possibilità che si annette a' nomi comuni : come in noi
nasca una sì fatta idea, che tanto estende il significato
della parola, quanto è esteso questo nostro concetto di
possibilità.
E che noi annettiamo al significato de' nomi comuni
l'idea della possibilità degl'individui di quella specie
che il nome esprime, è un fatto: e quest'idea di pos
sibilità è un' idea generale , anzi di tutte la più gene
rale; non ha essa che fare cogl'individni; essa è quella
che rende noi atti a pensarne un numero sempre maggiore.
Immaginiamo degli enti a* quali mancasse la potenza
di pensare questa possibilità di che noi parliamo, e che
perciò non fossero atti a percepire se non un dato nu
mero d'individui. In questa specie singolare di enti,
noi potremmo immaginare una gradazione lunghissima
nella loro forza di percepire : giacché potremmo sup
porre , che alcuni di essi non fossero atti a percepire
che cinque individui; altri giungessero a dieci, ma non
a più; altri ancora a cento, altri a mille, a mille mi
lioni , e così discorrendo. Tutti questi nulladimeno sa
rebbero determinati a percepire un determinato numero
d'individui esistenti, ma nessuno sarebbe pur capace di
estendersi alla possibilità d' altri individui sopra qnel
numero. Confrontiamo ora a cotale specie di enti, l'in
telligenza umana. L' uomo non percepisce solo un nu
mero determinato d'individui esistenti, cinque, dieci,
cento, mille ecc.; al numero d'individui ch'egli perce
pisce, sa sempre aggiungere, con una intellezione a lui
naturale, il concetto di tutti gl'individui possibili, il
che è troppo più. Ora quella specie di esseri che ab
biamo immaginata, non potrebbe mai altro, che inven
tare nomi proprj : l'uomo all'incontro può inventare
nomi comuni, perdi' egli può pensare in generale agl'in
dividui anche meramente possibili. Se quella prima spe
cie di esseri volesse segnare con un solo nome ciascuno
di quel numero determinato d'individui ch'ella conosce,
potrebbe farlo; ma non avrebbe con ciò che accomunato
a molti individui un nome proprio; nessun nome co
mune avrebbe formato: l'uomo all'opposto può formare
un nome comune; perciocché egli può dare un nome a
degli esseri, in quanto egli li ravvisa dotati d'una qua
lità comune ; egli può impor loro questo nome , come
dicevamo, perchè 1.° egli ha la facoltà di fissare la sua
I29
attenzione sopra una qualità dell'individuo di tal natura,
che pub essere partecipata da altri individui; 2." perchè
«li ha la facoltà di conoscere questa possibilità: la pos
sibilità cioè die quella qualità sia partecipala da altri
individui indefiniti di numero, di luogo e di tempo.
Al nome comune adunque si aggiungono le seguenti
idee: 1.* l'idea di una qualità, a." l'idea dell' attitudine
che ha questa qualità d'esser partecipata da un indivi
duo, 3.* l'idea della possibilità che questa qualità sia
partecipa la da individui di un numero indefinito. Tulle
queste idee sono comprese nell'idea di specie e di genere
che è dal nome comune supposta; perchè il nome co
mune esprime la specie od il genere che si forma me
diante una qualità che si conosce poter esser comune
a più individui di numero indefinito.
Che resta a dire? che il ragionamento di Smith non
rende alcuna ragione del modo onde l'uomo si forma
le idee di genere e di specie. Ridotto a poche e chiare
espressioni, quel ragionamento si riduce al seguente :
» L'uomo rende comuni i nomi pioprj applicandoli suc-
ceummente a più individui. Questi nomi applicati a
più individui, sono quelli che formano nella sua mente
le specie ed i generi ».
Sebbene nel fatto stesso ci abbia del falso , tuttavia
concediamo il fatto. Rispondiamo: Il semplice applicare
il nome proprio a più individui non è ciò che lo rende
nome comune. Per cominciare ad esser comune , egli
dee cangiare il suo valore, cioè dee cessare dal segnare
gì" individui con ciò che forma la loro individualità, e
cominciare a significarli per qualche loro qualità co
mune. A questo richiedesi una operazione interna dello
ipirìto; perchè non è se non lo spirilo che possa can
giare il significato d'una parola. Ma lo spirito non può
cangiare il significato di quel nome, se non 1.* rivol
gendolo ad indicare una qualità comune, mentre prima
indicava l'individualità; 2.* annettendo a quella qualità
l'idea, che quella qualità possa parteciparsi dagli indi
vidui indefinitamente.
Non è adunque il nome comune che tien luogo di
tali idee nella nostra mente; sono queste idee che fanno
I il valore del nome, 0 sia è per queste idee che lo spi-
rito trasforma il nome da proprio in comune.
Dunque quando s'è raccontato che l'uomo ha prima
BoSBiiti, Orrg. delle Idee, Voi I. 17
i3o
i nomi proprjj e che poscia questi diventati comuni ,
non s'è ancora spiegato come l'uomo forma i generi e
le specie 5 perocché i nomi non diventano comuni se
non per un atto dello spirito che li ordina a significar
cosa di cui egli ha idea : egli non può adunque inventar
de' nomi comuni senza ch'egli abbia già formati i ge
neri e le specie delle cose.
ARTICOLO XIII.
CHE FORMA PHEKDA LA DIFFICOLTA* DA NOI PROPOSTA
NE* RAGIONAMENTI DI SMITH £ DI STEWART.
ARTICOLO XIV.
IL SISTEMA DE* NOMINALI NON SODDISFA ILLA PREDETTI DIFFICOLTA'.
Lo Smith e lo Stewart, come tutti i Nominali, sono
ricorsi a negare l'esistenza delle idee generali, e a so
stenere che le idee generali non sono che delle parole,
per non sapere in che modo strigare questa matassa ,
cioè per non saper definire che altro esser possano que
ste misteriose idee generali, e come lo spirito le si formi.
Veramente quando si cerca di spiegare la formazione
delle idee generali, si dà sempre dentro in quella dif
ficoltà che noi abbiam presentata. Molti de' moderni
filosofi, non veggendo come salvarsi da questa specie di
sirte della filosofia , cercarono persuadere a se slessi ,
131
ch'ella non fosse che una chimera; e quindi , come dice
lo Stewart, « ciò che gli antichi «povera gente!» hanno
« riputalo uno de' più diffìcili problemi della metafisica,
• avea una soluzione semplice, come quella data dallo
« Smith ».
Ma questa maniera di declinare la forza della diffi
coltà, non è un trionfare della medesima; perciocché
le parole non possono tener giammai il luogo delle cose,
nè i nomi comuni supplire alle idee generali; anzi lo
spinto amano non può formare una parola generale ,
ossia on nome comune, se non avendo già prima in se
sta» l'idea generale a quel nome rispondente.
li che sembra così manifesto, che nulla più: ma qual
cosa è così manifesta, che non sia negata apertamente
da' filosofi, se a loro non piace?
E poiché il numero de' Nominali moltiplica oggidì ,
losingando se stessi d'aver trovato un effugio così facile
ad una difficoltà così grave; non saranno gittate quelle
parole che io qui aggiungerò a dimostrar più chiara
mente, come le ragioni onde lo Stewart cerca di corro-
Vrnre la opinione sua, sono pure fallacie, e tutte pec
canti di petizion di principio.
ARTICOLO XV.
ONDE SIA VENUTO L* ABBAGLIO PRESO DA STEWART.
ARTICOLO XVI.
PETIZIONE DI PRINCIPIO CB£ SI TROVA NEL SISTEMA DI STEWART.
Ma in questo discorso s'inchiude, come diceva , una
pelizion di principio.
E per dimostrarlo, così ragiono : In che modo potete
voi contrarre sì fatta abitudine? Onde derivate voi l'abi
tudine di sostituire a quel dato termine generale non
già qualsiasi individuo, ma pur certi, disegnati e de
terminati da quel termine? Per esempio, al termine
uomo voi non sostituite mai il significato di bestie, o
di pietre, ma sempre quello unicamente d'individui della
specie umana. Onde avviene, che la vostra abitudine
d'usare la parola uomo, sia determinata a quella classe
di cose, e non ad altre? È forse ciò per una virtù in
trinseca della parola materiale, la quale non vi per-
■
i33
metta di applicarla se non a certi e determinati indi
vidui? Mai no; poiché fra la parola materialmente presa,
e gl'individui ch'ella significa, non si dà alcuna neces
saria connessione. La parola è un puro suono : ella ci
richiama ben sovente alla memoria cose che non sono
suoni, e che non hanno a far nulla co' suoni. Vorrei
sapere qnal relazione abbia quel suono che costituisce
la parola uomo, con quest'essere ch'ella segna. Un tale
rapporto non può esser che quello che stabilisce il no
stro spirito fra la parola e la cosa.
Rapporto arbitrario, direte voi. Siamo d'accordo sotto
un aspetto : se col nome uomo piacesse significare gli
animali in genere, e a dargli questo significato conve
nne insieme una società qualsiasi, que' sozj s'intende
rebbero fra loro, usando la parola uomo a significar ciò
che noi chiamiamo ora animale, come noi c'intendiamo
orandola in senso più ristretto.
Or bene: l'arbitrio sia quello che stabilisce e ferma
che ad un dato nome comune si possano sostituire certi
individui, e non altri, ma pur quelli. Qui sta il nodo:
vo domando , in che modo l'arbitrio può stabilire che
ad tra termine generale si possano sostituire questi in
dividui anzi che quelli, nè si possano sostituire altri
ai questi soli? Forse determinando e assegnando a quel
fermine un numero fisso d' individui? Certo che ciò può
essere , se si facesse la convenzione , che tre uomini ,
Pietro, Paolo, Andrea, sieno chiamati con un nome sì
fatto , che ad esso non si possa sostituire se non uno
di questi tre individui. Ma o questo nome non sarebbe
generale, ma un mero nome proprio, come dando a
ciascuno de' tre un nome intieramente arbitrario; ov
vero s'egli fosse un nome comune, per esempio conve
nendo che s'intenderà un d'essi quando diciamo Vomico,
questo nome si usurperebbe in luogo del proprió per un
patto; e in tal caso resterebbe a spiegare due cose in
vece d'una, cioè i.° com'egli sia nome comune, a.* com'egli
si possa usare in luogo d' un nome proprio. In somma
si tratta d'indicare il modo, onde lo spirito umano an
nette certi individui ad uno di que' nomi che si dicono
nomi comuni; e questa difficoltà , qualunque supposi
zione si faccia, non si può evitar mai. Ai nomi comuni,
come abbia m detto più sopra, non si , tratta di sosti
tuire certi individui numerati e determinali innanzi.
i34
Se di ciò solo si trattasse, noi non avremmo bisogne
che d'una associazione d'idee, o di una semplice remi
niscenza, la quale, all'udire di quel suono, risvegliasse
in noi l'uno di que'due, tre, cinque, dieci individui
determinati, a contrassegnare i quali noi l'abbiamo di
segnato. Tutto all'opposto di ciò è ne' nomi comuni :
perocché a questi non si tratta già di sostituir colla
nostra mente un individuo a noi noto e da noi pecu
liarmente distinto e preso in mira, un individuo scelto
precedentemente fuor da un numero determinato di cose
cognite; trattasi anzi di sostituire un individuo preso
da un numero indefinito di cose a noi non cognite per
esperienza che di quelle abhiam fatto, anzi nè pure da
individui esistenti, ma da individui possibili.
E fate ragione: al termine generale di cavallo, non
è già necessario che noi sostituiamo uno de' cavalli da
noi veduti, nè anche uno de' cavalli esistenti; possiamo
sostituire a nostro grado un cavallo che non esiste, com
posto dalla immaginazione nostra colle forme de' cavalli
veduti. Ma quando anche noi fossimo pur costretti di
sostituire al vocabolo cavallo uno de' cavalli esistenti,
non sarebb'egli indifferente che noi sostituissimo al me
desimo l'uno o l'altro di essi? Ora se ciò è indifferente,
perchè è egli indifferente? Forse che noi abbiam veduti
l'un dopo l'altro individualmente tutti i cavalli che esi
stono, e relativamente ad ognun di essi abbiam fatto
una particolare convenzione di chiamarlo cavallo? Non
per questo certamente: che se ciò fosse, troppo noi
avremmo avuto che fare nell' imporre a tante bestie il
nome; nè gli altri uomini avrebbero avuto il tempo o
la pazienza di stringer con noi tante convenzioni: mas
sime che non il solo vocabolo di cavallo è lor neces
sario, ma il conversare umano esige altri innumerevoli
nomi che segnino le differenti specie delle cose; e troppo
gran noja e fastidio sarebbe il dover nominar gl'indi
vidui uno ad uno, per poter avere un nome comune,
sicché al suono di esso si potesse nella mente nostra
sostituire uno di quegli individui. Senza di che, grande
sciagura sarebbe pur questa, che, nascendo o forman
dosi de' nuovi individui , non si potrebbero nominare
co' nomi dati ai primi : e gli uomini non potrebbero
far altro al mondo, che dare il nome alle individue
cose, delle quali vorrebbe riuscire loro pur forte e lunga
faccenda a farne un perfetto inventario.
i35
Laonde egli è al tutto da dire, che i nomi comuni
non sono fatli in questo modo; e che lo spirito umano
non annette punto ad essi un dato numero d'individui
passati in revista 1* un dopo l'altro, ma bensì che an
nette a' medesimi una specie d'individui, cioè a dire
Vaiti gl'individui possibili aventi una qualità comune;
e perciò, che al nome comune, ov'egli si usa, vengono
sostituiti individui, ma i." non presi a caso, perciocché
in u\ modo non ci sarebbe più distinzione di specie e
di genere; a.° non per fatte convenzioni risguardanti
particolari individui, il che sarebbe un andare nell'in
finito: sì bene vengono sostituiti gl'individui al nome
comnne i* dietro il tenore d'una regola generale con
sistente in vedere se gl'individui posseggano quella qua
lità comune a cui quel nome comune si riporta; a." e
non già individui noti, o individui esistenti, ma indi
vidui puramente possibili , cioè qualunque individuo
pensar si possa fornito di quella qualità comune.
Di che avviene, che al solo presentarsi innanzi quel-
Iìndividuo, sebbene prima noi punto noi conoscessimo,
VulUvia di subito ci accorgiamo ch'egli ha il suo nome
stabilito e fermato dagli uomini, avanti ch'egli pur sia
renato ad esistere; perciocché egli ha quella qualità
che il mette fra quegli individui a cui è stato quel
nome assegnato.
È vano adunque quel ripiego dell'abitudine di sosti-
taire, a cui ricorre lo Stewart; perciocché l'abitudine
di sostituire a que' tali nomi quelle date cose , è nulla
per le cose meramente possibili, e per quelle che an
cora non sono individualmente note, a cui pure la mente
dell'uomo si distende. ^
Il perchè , quando lo Stewart •afferma non esser bi
sogno delle idee generali, e bastare che noi sappiamo
sostituire que' dati individui a'nomi comuni ov'essi ven
gono proferiti, altro non fa che pugnare seco medesimo,
affermando ciò che ha negato: perciocché saper sosti
tuire qne'dati individui a'nomi comuni, viene al me
desimo che aver le idee generali ; non potendosi far
quello, senza aver queste; poiché non saprebbesi, senza
di queste, quali fra tutti gl'individui sostituir si deb
bano ai nomi comuni. Bisogna dunque che prima la
mente distingua le specie ed i generi degl' individui ,
perchè poi ella sappia a quel dato termine sostituire
i36
gì1 individui di quella data specie, e non altri; e a
quell'altro termine sostituire gl'individui di quell'altra
specie, senza più; e perchè questi individui di diverse
specie ella sappia distinguere sì come appartenenti anzi
ad una che ad altra, e ciò sappia fare prima ancora
eh' ella sappia nominarli : conciossiachè ella saprà come
si chiamino allora solo eh' ella saprà a che specie ap
partengano. Se un fiore mi rimane coperto dall' erba,
io non so ancora applicargli la parola fiore', ma lostochè
egli mi si scopre, io il veggo e so che appartiene a quella
specie di cose che chiamansi fiori.
ARTICOLO XVII. i
ÀLIDO ABBIGLIO FUSO DA STEWART.
)
Lo Stewart prese un abbaglio simile a quello che ve
niamo or ora di notare , là ove espone in quest' altro
modo il suo pensiero. « Considerando sotto questo punto
« di vista il processo della generalizzazione, si vede ad
« un tratto che l' idea considerata dagli antichi filosofi
u come formante 1' essenza di un individuo, non è al-
« Irò che la qualità particolare (o una collezione di
« qualità) per la quale egli somiglia ad altri individui
m della stessa classe, e in virtù della quale a lui si ap-
* plica il nome generico. Egli è perchè possiede que-
« sta qualità, che l'individuo porta il nome del genere,
« e per.ciò è questa qualità che si può dire essere a lui
u essenziale nella classificazione che lo comprende sotto
« un certo genere particolare. Ma come ogni classifica-
« zione è fino a un certo punto arbitraria, non si può
■ conchiudere da tutto ciò, che questa qualità generica
« sia più essenziale all'esistenza d'un individuo di molte
« altre qualità riputate accidentali. In altre parole, e per
m parlare la lingua della filosofia moderna (i), questa
« qualità costituisce la sua essenza nominale e non già
« la sua essenza reale (3). »
Chi esamina questo passo , facilmente vi conosce lo
stile d'un uomo dubbioso di ciò che dice, e titubante
ne' passi suoi; d'un uomo che, non avendo chiara prova
ARTICOLO XVIII.
SI NOTINO ALTRI ABBAGLJ DELLO STEWART, E SI MOSTRA VIE Ho' l' INSCmCIEKZl
DEL SUO SISTEMA A SCIOGLIERE LA DIFFICOLTA* PROPOSTA.
con esse crediamo di prenderlo e d' involgerlo, quando a degli esseri real
mente esistenti le riferiamo per mezzo delle sensazioni; per esser poi
certi, elle noi non c' inganniamo cosi credendo , abbiamo bisogno di una
dimostrazione o ragionamento; il quale qual sia, m' ingegnerò altrove di
esporre.
Ora qui non aggiungerò che un' altra osservazione a chiarimento della
questione che tocchiamo. Io domando: - il riferire che noi facciamo le
idee nostre a cose realmente esistenti , ossia questa credenza che la nostra
idea involga e prenda qualche cosa di realmente esistente, è ella cosa che
appartiene all' idea? è un elemento che entra a formare V idea stessa t »
Io mi riserbo altrove a mostrare che 1' idea è al tutto diversa dalla
credenza che esista un ente reale rispondente all' idea: per modo, che
l'idea è perfetta ed intera anche senza questa credenza; nè questa credenza
aggiunge nulla all'idea della cosa, ma solo aggiunge allo spirilo nostro
una credenza che non è uu' idea ; sicché questo viene in cognizione del
l' esistenza reale di un oggetto con un atto essenzialmente diverso da
quello col quale egli ha l* idea. Per tal modo le operazioni dello spirito
iiilt-lligeiile vengono ad esser due essenzialmente diverse : i " quella colla
quale egli ha 1' idea di una cosa, a." quella colla quale egli ila la credenza
che a quella idea della cosa corrisponda una cosa realmente ed in sè
esistente. Questa distinzione delle due operazioni principali dell' iDtclli-
geuza e di sommo rilievo.
ne pur care illusioni? che non abbiano realtà di sorte
alcuna? che non esistano nè anche nella sua mente e
nell'animo suo? Chi persuaderà ai poeta, che quand'egli
non esprime ne' versi suoi gli oggetti individuali da lui
veduti e tocchi e palpati, i suoi bei canti sono vane e
perdute parole? Se quelle parole che non segnano og
getti individuali realmente esistenti , son vacui suoni
nulla significanti, onde avvien dunque, che, s'è sublime
il poeta, egli incanti coll'arte sua tutti i suoi contem
poranei, ed i posteri meravigli, ed egli solo abbia il
dono di ritrovar que' magici suoni così potenti, e che
pur nulla significano? Ma ond'egli trae tali suoni? qual
dio glieli inspira? che spirito muove macchinalmente le
sue labbra a proferirli? Innanzi che pronunci quelle pa
role, non ha egli dunque nessun concetto , nessun pen
siero, nessuna immaginazione presente allo spirito suo:
quando pur tutto il suo canto si diparte dal mondo
sensibile, e levasi a volo fuor dell'angustie di queste
cose individuali, e spazia pe' campi interminabili di una
immaginazione inesausta? Finalmente che direbbe un
uomo originale per iscoprimeuti e imprese nuove, ad
un ùlosofo che gli dicesse magramente così: « Sappi che
la non puoi concepir nulla, se non individui che esi
stono già: indarno tu mediti giovare il mondo di qual
che tua bella e nuova invenzione, di qualche scritto
originale, o di qualche impresa generosa: quando tu
pensi a tai cose che ancor non esistono, sei simile allo
stupido che non fa nulla, che non pensa a nulla: quando
di quelle tue cose tu parli, nulla più dei essere d'un
ciarlone; meno ancora d'assai, perciocché le tue non
sono che vane voci, vani suoni, siccome strepito di più
pietre fregate o battute insieme; conciossiachè non espri
mono nulla di esistente, nissun individuo particolare;
e non e' è pensier che di questi » .
Chi pone che l' uomo non abbia idee delle qualità
singole degli enti, se non considerate negli individui a
lui noti, e che tali qualità, quando si considerano fuori
degl'individui come meramente possibili, sieno meri
nomi, siccome fa lo Stewart; questi rinunzia e rinnega,
non sapendolo e non volendolo, tutte le arti e tutte le
scienze: non ha alcuna ragione colla quale spiegare l'im
maginazione intellettuale: l'uomo ragionevole di tali filo
sofi, non può avere che la povera reminiscenza delle
i48
cose vedute (i), non può immaginare enti possibili: €
così serrasi il fonte di tutto l' operare ragionevole ed
umano; giacché l'operare umano scaturisce dalla potenza
di fare e di ottenere de1 beni futuri e possibili; e per
(i) Lo Stewart parlando dell' opinione del dottor Reid sugli universali ,
cosi parla : « Io direi francamente che in questa materia non mi sembra
• essersi espresso in modo sì chiaro e soddisfacente come ha il costume di
■ fare» ( Élémens de la Philosophie de f esprit humain , Ch. IV, Sect. III).
A me sembra di più, eh' egli voglia esser difficile a conciliare in questo
jrgomento il dottor Reid con se medesimo. Certo lo Stewart cercando di
eonghielturare qual fosse su di ciò l'opinione di quell'eccellente filosofo, si
trova imbarazzalo a renderla consentanea co' suoi principj sulle idee. Ecco
qual è d passo nel quale il dottor Reid manifesta la sua opinione sugli
universali: « Una cosa universale non è l'oggetto d'alcuno de' sensi cste-
m riori , e perciò non può essere immaginata. Ma ella può essere concepita
« distintamente. Quando Pope dice : Lo studio che conviene all' uomo è V uo-
•< mo ; io concepisco chiaramente il suo pensiero , Quantunque lamia imma-
« ginazione non mi presenti nè un bianco nè un nero, nè un uomo ben
m fatto nè un uomo mal fatto. — Io posso concepire, ma non immaginare
" una proposizione o una dimostrazione. Io posso concepire e non posso
« immaginare 1' intelletto e la volontà , la virtù e il vizio, e tutti gli altri
« attributi dello spirilo. Medesimamente io posso concepire gli universali,
t ma non posso immaginarli ••. Interpretando questo passo nella maniera
ovvi» e naturale , ne verrebbe che il dottor Ueid riconoscesse gli universali
pei uu oggetto del pensiero , c uou per meri uomi. Ma ciò comi addii ebbe
i5o
Io non entrerò qui a cercare se il sistema di Reid
sia in questa parte vero o falso, il che ho toccato già
più sopra; non esaminerò nò pure se lo Stewart l'abbia
bene inteso, e se sia una conseguenza necessaria di quel
sistema, non ammettere al tutto le idee generali, e sup
porre in quella vece eh1 esse sieno meri nomi.
A me basta di fare osservare, che lo Stewart credette
d'essere obbligato a ciò dalla stretta necessità del siste
ma; perciocché fu per aver egli già ammesso il princi
pio che non esistono delle idee intermedie fra gli og
getti realmente esistenti fuor di noi , e noi stessi che
li percepiamo, che si condusse altresì a negare intera
mente l'esistenza delle idee generali; giacché in queste
concezioni generali lo spirito non ha nessuno oggetto
esterno realmente esistente.
Ora avendo io provato i.° che i nomi non bastano
ad ispiegare quell' atto col quale lo spirito immagina
degli esseri possibili , ed in numero maggiore di lutti
gì' individui da lui percepiti co' sensi , a." che non ba
stano nè pur le idee delle qualità, percepite negl'indi
vidui stessi in quanto stanno ad essi aderenti , 3." ma
che di più è necessario che la mente nostra percepisca
queste qualità in sè, cioè staccate dagl'individui, e quindi
come puramente possibili ; egli appar manifestamente
poi alla sua teoria delle idee, giacché egli ha negato che il nostro pensiero
abbia degli oggetti distinti da se e distinti dalle cose esterne. Quindi lo
Stewart s'industria, con molta sottigliezza a dir vero, di dare al passo di
Rcid un senso che lo concilj cogli altri passi del medesimo autore : ma mi
sembra che la sua interpretazione non possa menomamente soddisfare. Ella
è la seguente:» Pare, die' egli, che per questa espressione, concepire gli
« universali, il dottor Reid non intenda altra cosa se non comprender il
tt senso delle proposizioni in cui si trovano de' termini generali »» . Ma per
conoscere che questa interpretazione non risponde alla mente di Reid,
basta osservare che, nel passo di lui quivi sopra recato, egli distingue il
concepire una proposizioue e il concepire gli universali; e dice, che come
noi concepiamo le proposizioni , così medesimamente concepiamo anche
gli universali. Oltre di ciò abbiamo già dimostrato che i termini generali
non potrebbero essere a noi di alcun uso , se non annettessimo ad essi delle
vere idee generali ( face. i3i e segg. ). Egli è dunque necessario o di cer
care un'altra via migliore di conciliare la teoria del dottor Reid sugli uni
versali colla teoria del medesimo sulle idee, o di convenire che 1' una o
1' altra delle stesse è falsa. D' altro lato mi sembra cosa evidente ebe non
si possa stabilire una vera teoria sulle idee prima di aver sciolto il quesito
clic presentano gli universali, e che ha occupato tanto tutti i filosofi del
l' antichità: la quale osservazione dee porlo meno far dubitare della Icona
del dottor Reid.
che il sistema di Stewart è manchevole e insufficiente ;
giacché con esso non si può render ragione di quest'ul
timo modo di concepire, che è quello col quale si for
mano ed hanno presenti le idee generali.
ABTICOLO XX.
USUO SFIXOABX COMI SI PERCEPISCA LI SIMILITUDINE DBOLI OGGETTI ,
SI TB.OVA Là STESSA DIFFICOLTA' SOTTO ALTRO ASPETTO.
i53
si ponessero l' una aderente slrettamenle coll'altra, senza
più: con quella sola materiale collocuzione egli non ve
drebbe se le due, tavole sieno uguali, ove non possedesse
oltracciò in sè medesimo uno spirito intelligente, atto
a concepirle coro penetrate appunto insieme, cioè a dire,
tutte e due occupanti lo spazio medesimo. Se lo spirito
vuol raffrontar due linee, egli dee mettere una linea nel
posto dell* altra : se vuol raffrontar due superficie, egli
dee immaginare 1' una dentro nell'altra: se vuol con
frontar due solidi, è a lui necessario di concepirli l'un
l'altro interamente penetrati': è così ch'egli vede se
sono oguali o se son disuguali, quale ecceda de' due ,
e quale manchi. Per quanto i due solidi materiali si
facciano vicini e coerenti, rimangono sempre Pun fuor
dell' altro, e perciò in sè stessi non si confrontano ve
ramente. L'uno esiste, e non ha un riguardo di sorte
all'esistenza dell' altro.
Ora mi si dirà; se il falegname, accostando due so
lidi insieme per vedere quale soperchi, non ottiene fuori
della sua mente nessun confronto, perchè dunque egli
li accosta? Rispondo, che li accosta non perchè fuori
della sua mente succeda un confronto, ma perchè con
9seu"atto esteriore egli ajuta la mente sua, e dirò an-
che la sua immaginazione, a fare il vero confronto den
tro di sè. E sopra tutto ciò, egli semhra che non possa
cader dubbio a colui che mette attenzione a conoscere
come avvenga il confronto che lo spirito nostro fa di
due o più cose.
Solamente io debbo osservare, che ciò che per uno
esempio ho qui detto de' corpi e dell'estensione, si dee
dire egualmente di due cose individuali qualunque sieno.
Due individui non si possono mai mescolare insieme :
hanno, come individui, due esistenze separate, indipen
denti. Può dunque affermarsi , che se non v' avessero
che soli individui , questi non si potrebbero confron
tare giammai ; perciocché non potrebber consistere in
un luogo slesso, o per dirlo più generalmente, in una
stessa esistenza.
Che fa dunque bisogno alla mente acciocché ella
possa confrontare fra loro due o più individui, e rico
noscere in che sono uguali, in che sono disuguali, in
che sono simili e in che dissimili? Secondo lo Stewart,
e. innanzi lui, secondo .Reid, la mente non ha idee che
Rosami, Orig. delle Idee, Voi. 1. ao
i54
puramente individuali, idee non diverse dagl' individi
stessi. Ma le idee individuali non bastano a formare u
confronto, come non bastano gl'individui, da' quali qui
ate, in quanto alla distinzione e indipendenza fra lorc
punto non differiscono. Di vero, 1' idea di una qualil
cesserebbe di essere individuale, ove questa qualità d
noi pensata, in virtù del nostro pensiero potesse essei
trasportata da un individuo all'altro; giaccbè una qui
iilà è particolare o individuale per questa sola cond
zione , eh' ella si concepisce siccome aderente ad un
individuo. Laonde siccome non si dà confronto fra du
individui, rimossa la niente ebe li confronti insieme
così non si dà confronto fra due idee individuali, l'un;
delle quali non può mai (appunto per l'ipotesi ch'eli»
sono meramente individuali ) esser confusa od immede
simala coli' altra. Perchè adunque lo spirito trovi eh
due individui sono simili o sono dissimili , è necessari
al tutto ch'esso, oltre le idee individuali, abbia altre;
delle idee generali: ed ecco come ciò avviene.
Si tratti di conoscere la simiglianza di due paret
bianche, l'una più, e 1' altra meno.
Le pareti slesse, nè la bianchezza individuale dell
f»areti non si può, come dicevamo, trasportare una nel
'altra; e se si potesse, di quelle due bianchezze n
riuscirebbe una terza , la qual non darebbe ancora i
confronto delle due bianchezze prime, come cercavasi
Nè pure l' idea della bianchezza individuale della pa
rete può confrontarsi coli' idea della bianchezza indivi
duale dell'altra parete senz'altro ajuto di mezzo; per
ciocché quando io dico bianchezza individuale, intendi
bianchezza che ha una esistenza così sua propria , chi
non può uscire di sè, nè andare in altra, nè riceverm
alcun' altra in sè , anzi che è straniera a qualunqui
altra , e che qualunque altra da sè ignora ed esclude
Ciò adunque che nella mente nostra rende possibile i
confronto delle due bianchezze di che parliamo, con
viene che sia una potenza per la quale noi abbiamo
una nozione della bianchezza generale , e non la pura
vista della bianchezza esistente e individuale ; perocché
ove si supponga che noi siamo atti di formarci e d'avere
una nozione generale di bianchezza, immediatamente
noi potremo confrontar con essa le bianchezze indivi
duali percepite co' sensi, e vedere quanto queste bian
chezze partecipino della nozione di bianco.
i55
E veramente , poniamo che noi abbiam formato nella
mente nostra ( non cerco ora il modo ) l' idea di una
bianchezza generale, cioè di una bianchezza non già ri
cevuta in un individuo esistente, ma isolata e sola, sic
ché noi la consideriamo possibile di attuarsi in un numero
infinito d' individui; perciocché non essendo ella legata
a nessuno, sta in noi a congiungerla e legarla con quali
e quanti vogliamo, mediante gli atti del nostro pensiero.
tJna sì fatta idea, libera dalla prigione, per così dire,
dell1 individuo nella nostra mente, è di sua natura un
tipo, un esemplare, una regola, per la quale noi tosta
mente giudichiamo della simiglianza degli individui che
anzi gli occhi nostri trapassano; ed ecco in qual modo.
Sapponendo in noi quella idea generale, al vedere che
facciamo una parete bianca, noi abbiamo nella niente
nostra i.* la percezione della bianchezza di quella pa
rete, a." r idea generale della bianchezza possibile. Al
lora confrontiamo questa seconda bianchezza con quella
prima, e così la giudichiamo. Un tal confronto è pos
sibile: perocché l'idea generale della bianchezza, ap
punto perchè non è ristretta entro a nessuno individuo,
pròda noi essere concepita in tutti gl'individui pos
tuli, e perciò anche in quello della cui bianchezza
togliamo a giudicare. In tal modo la bianchezza indivi
duale sentita e la bianchezza generale nel nostro spirito
si compenetrano, cioè si trovano insieme, senza confon
dersi , giacché è impossibile che si confonda ciò che è
generale con ciò che è particolare, ma il particolare si
cape nel generale, e si può in quello vedere senza pure
eh1 egli perda la sua determinazione che particolare
il rende.
Or facendo noi un simigliante giudizio sopra un'altra
parete, noi abbiamo due pareti individuali, giudicale
tutte due bianche d'un certo grado. ■
Quindi, per l'assioma che due cose simili ad una terza
sono simili in fra loro, noi scopriamo la simiglianza
delle due pareti bianche.
Per trovare adunque che due o più individui si ras
somigliali tra loro, noi abbiamo d'uopo supporre che
nella mente nostra v'abbia un tipo o esemplare comune
di quella qualità in virtù della quale quell'individui
sono simili: e questo tipo o esemplare non è poi altro
che la qualità stessa considerata dalla mente nostra
1 56
fuori di tutti gì' individui, e perciò in modo generale;
non è in somma che quella qualità slessa, ma non più
come esistente realmente, ma come possibile di venir,
ricevuta in un indefinito numero d'individui.
A chi non piacesse questa maniera di spiegare come
l'uomo ritrova le simiglianze che hanno le cose in fra
loro, io sono ben conlento che egli proponga un'altra
più soddisfacente spiegazione.
Ma mi sembrerà sempre strano, che in un discorso,
nel quale si tratta di cercare che cosa sia un' idea ge- i
nerale, e come lo spirito la si formi, altri si contenti ■
dire, non esser ella che « la qualità particolare onde ;
un individuo somiglia ad altri individui della stessa
classe » ; mostrando con ciò di riputare inutile cosa :
e superflua lo spiegare il modo onde le simiglianze degli ,
individui si conoscono. Se inutile è render ragione del
modo onde lo spirito conosce le simiglianze e dissimi-
glianze, è parimente inutile l'instituir ricerca sulle idee
generali; perciocché queste non sono due, ma una sola ,
e identica questione espressa in diverse parole. Per me,
come diceva, non concepisco possibile un giudizio sul- (
l'eguaglianza o simiglianza di due oggetti, senza che
v'abbia una misura comune; misura, che appunto perchè
è comune, non può essere individuale, ma vuol essere .
generale. {
Se queste misure, se queste qualità comuni, se questi
universali ( poiché tali parole vengono tutte nel nostro
discorso ad esser sinonimi ) non. si possono bene inten
dere , se hanno forse in se stessi qualche cosa di mi
sterioso e di recondito, ne verrà per ciò che si debbano
negare a dirittura? Tale è pur troppo la prosontuosa
tendenza dell'umana filosofia. Vi ha cosa ch'ella non
sappia bene intendere? che abbia del misterioso? la nega
direttamente: la dichiara una chimera: un sogno della
rozza antichità: o al più la pronunzia inesplicabile -, mi
surando ciascun filosofo l'ingegno umano dalle forze del
suo particolare: e questo è l'estremo della modestia di
che si vanti una sì falla filosofia.
Ma, checché si dica degli scrittori di questo o di quel
tempo, sarà sempre dovere del vero amatore della sa
pienza, di non negare l'esistenza di cosa che è ben com
provata , per questo solo ch'egli non la comprende; e
di preferire il confessar piuttosto ingenuamente ch'egli
,57
non ne intende ancor la natura, anziché dichiarare ch'ella
non è intelligibile a nessun de' mortali , e che perciò
non dee essere oggetto di umane investigazioni.
ARTICOLO XXI.
STELLO SPIEGARE COME SI POSSONO CLASSIFICAR* Gl' INDIVIDUI
TOBI! A A PRESENTARSI LA MEDESIMA DIFFICOLTA'.
ARTICOLO XXIV.
LO STEWART IGNORA LI DOTTRINE DEGLI ANTICHI FILOSOFI Ch'xCLI CENSURA,
SULLA FORMAZIONE DE* GENERI E DELLE SPECIE.
(i) Tale confusione si può dir comune a' filosofi moderni. Non sapendo
rome risolvere la prima, introducono la seconda, e gettano l'assurdità ed
il ridicolo di essa sopra la prima.
i6o
quella che noi trattiamo : e di più la pongono ancora
in una maniera assai inesatta e falsa.
Io vorrei dimandar allo Stewart, ove, di grazia, ab
bia egli trovato che gli antichi filosofi facessero consi
stere l'essenza delle cose nelle loro qualità comuni e
generali. Più tosto io ritrovo che distinguevano anch'essi
le qualità comuni , in quelle che sono essenziali e in
quelle che sono accidentali: ritrovo ancora, ch'essi for
mavano i generi e le specie sì mediante quelle , che
mediante queste. E di vero, ogni qualità comune, sia
accidentale sia essenziale, può esser fondamento alla
formazione di un genere o di una specie. Così , se io
dico: la specie degli uomini; ho preso a fondamento di
questa specie una qualità comune essenziale, cioè l'uma
nità. Ma se io dico : la specie degli uomini bianchi e
la specie degli uomini neri, o pure se, come fa Aristo
tele, io classifico gli animali dal numero delle gambe;
io ho preso a fondamento di quelle specie una qualità
accidentale, cioè a dire il color bianco o nero, ed il
numero delle gambe. E fu sempre distinta, per quanto
a me pare, questa doppia maniera di formare i generi
e le specie. E fu attribuita solamente a' generi ed alle
specie formate nel primo modo , cioè col fondamento
d'una qualità essenziale, la proprietà di contenere la vera
essenza degl'individui (i). All'incontro i generi e le specie
formati nel secondo modo , aventi a fondamento una
qualità accidentale, non si reputaron mai contenere la
vera essenza degl'individui, ma solo la essenza loro in
quanto a quella specie accidentale e arbitraria appar
tenevano.
Questa seconda specie potrebbesi in certo senso ( seb
bene ancora con qualche improprietà ) chiamar nomi
nale (a). Ma lo Stewart non potrà mai chiamare, con
(i) Per tal modo è l' essenza della cosa che forma il genere o la specie ;
non é il genere o la specie che forma l'essenza. L' idea del genere o della
specie ci porta ad una collezione, sebbene indeterminata, indefinita , di og
getti almeno possibili ; 1' essenza della cosa è al tutto semplice ed una.
(1) Con proprietà essenta nominale direbbesi quella, ove il solo nome
formasse il genere: per esempio u il genere dei Pietri, de' Paoli "
sarebbe un genere che avrebbe per fondamento il solo nome della cosa. '
paragoni questa essenza nominale coli' altre essenze , questo genere cog '
altri generi , e si vedrà quanto quella sia diversa da tutte le altre essenze,
e quello da lutti gli altri generi , e che perciò uon puossi , come teul»
(ars-Io Stewart, confondere tutte queste cose insieme.
iCt
proprietà, nominale la prima. Quella ha qualche cosa
di arbitrario* poiché ove si tratta di formar delle spe
cie aventi a fondamento delle qualità comuni acciden
tali, può stare in mio arbitrio il prender una o l'altra
di queste accidentali qualità 5 ma nelle specie della prima
maniera, fondate in una qualità essenziale, non v' fla
nulla d'arbitrario, perocché l'essenza della cosa essendo
unica, io non posso che prenderla a formare il genere,
0 lasciarla.
Dissi però che anche una tale denominazione non si
darebbe con proprietà; perchè chiamando quella qualità
estenza nominale, potrebbe credersi ch'ella fosse un
mero Dome; il che abbiamo dimostrato esser falso; giac
ché le qualità comuni delle cose, sieno accidentali o
sieno essenziali, hanno un'esistenza per lo meno come
oggetti del nostro spirito.
ARTICOLO XXV.
STEWART KOB INTENDE LA QUESTIONE AGITATA FRA I REALISTI,
1 CONCETTUALISTI E I NOMINALI.
solo che , confondendo queste due ricerche in una sola , era "veramente
impossibile non confondere poi i Concettualisti coi Realisti, e perciò non
parlar de' primi senza oscurità e confusione.
(1) Élémens de la Philosophie de f esprit humain, Ch. IV, Sect. III.
(a) Élémens de la Philosophie de f esprit humain, Ch. IV, Sect. III.
(3) 11 lettore allento s' avviserà facilmente che nel mentre che io riguarda
come lontanissimo dal vero il sistema de' Nominali , non aderisco meglio
al sistema de' Concettualisti. Non amo né pure di dirmi realista, perciocché
con questa parola, come colle altre due de' Nominali e de' Concettualisti ,
non vengono espresse delle sentenze sole e precise, ma più tosto tre corpi
di varie sentenze. E di fatto, i Realisti, secondo Giovanni di Salisbury,
li partivano insieme in sei classi diverse, e i Concettualisti ed i Nominali
altresì avevano le loro diverse sette. Il prendere adunque un nome così in
determinato sarebbe un nulla, ovvero sarebbe mettersi iu una fazione e
parteggiare senza cognizione chiara di causa: è per questo che, come ho
osservato altrove , la storia della filosofia non verrà mai alla sua perfezione,
lino che non si cominci a classificare i sistemi filosofici con la esatta descri
zione delle opinioni, e non co' nomi de' loro autori, o delle sette. (Fram
mento di lettera sulla classificazione de' sistemi filosofici ecc., negli Opusc.
Filos. Voi. II, face. 4g3 e segg. )
Ma per accennar brevemente in che senso io dissi che non aderisco
a' Concettualisti , si osservi che con questo nome si può acconciamente chia
mar quelli che dichiarano Y universale un concetto della mente per sì fatto
modo, che fuor della mepte non esista nulla di ciò che la mente pensa
coli' universale. Ora questo è lontanissimo dalla mia opinione.
Io piglio un idea universale o generale, e la sottometto all' analisi. Que
st'analisi mi dà due elementi, da' quali la mia idea risulta: i.° la qualità
pensata , a* 1' universalità della medesima , che s. Tommaso pure distingue
a chiama intentio universalilatii.
i63
In altre parole, essi ammettevano che lo spirito no
stro avesse bensì dei concetti universali, ma che questi
concetti o idee non avessero un'esistenza reale fuori del
nostro spiritòr fossero in somma delle idee fabbricate
da lui, all'occasione delle percezioni particolari delle
cose ricevute co' sensi.
In questo sistema lo spirito veniva ad avere i." le
percezioni particolari, a.° la facoltà di lavorare sopra
\e percezioni particolari, e di aggiunger loro una nuova
forma per la quale si rendevano generali.
AÌT idea della qualità io dico che corrisponde nella cosa individua una
realità: all' universalità della idea della qualità dico che nrlla cosa non cor-
nspoode nulla di reale, ma che questa universalità è solo proveniente dalla
mente mia.
L' universalità non è la qualità pensata , ina è un modo eh' ella prende
daìla mia mente: egli è necessario di fermar bene questa distinzione.
Ora come avviene che la qualità pensata sia in me universale? per una
potenza che ha il mio spirito. Quando il mio spirito ha percepito una qua
lità qualunque , egli ha la potenza di replicare questa qualità in un numero
««Wunto d'individui , mediante altrettanti atti del suo pensiero co' quali
t& fresa quella qualità esistente successivamente o contemporaneamente
m un mostro indefinito d' individui: e questa potenza risulla da due prin
cipi, aoe j.° dalla idea del possibile inerente allo spirilo, e a.* dalla ile-
nbsliti degli atti dello spirito in generale.
0r2 questa potenza di replicare questi atti del pensipro, e quindi d'im-
magmar replicata indefinitamente la qualità, è una proprietà e facoltà uni
camente dello spirito. Dunque è lo spirito che, mediante questa sua facoltà,
aggiunge a quella qualità ch'egli percepisce, il carattere della universalità t
perocché questa universalità non vuol poi dir altro, se non se u la possi-
Mita che ha una qualità d'essere da noi pensata in un numero indefinito
<f individui ».
Ciò adunque che é unicamente nella mente, è l'universalità delle idee
miversali ; non le idee stesse : perocché in quanto queste esprimono qua-
tea, esse hanno qualche cosa di corrispondente realmente negli individui.
L' universalità adunque nasce dalla relazione che le cose reali hanno Colin
mente, ed è la mente che la produce: e poiché molte di queste cose reali
hanno la relazione medesima, cioè sono repliche della stessa idea, quindi
diconsi che sono simili. Il fondamento adunque della simigliama che hanno
le cose fre loro, non istà che nell'identità della idea a cui le cose si rife
riscono: é dunque dalla mente, che anch'esso procede. Ma di tutto ciò
ragionerò più distesamente, ove esporrò il mio sistema.
Ciò che qui non posso a meno d' aggiungere si è, che se Deaerando
avesse bene osservato la differenza che passa fra il porre che le idee uni
versali sono puri concelti, e l'ammettere che solo P universalità delle idee
e quella che dalla meute deriva , mentre le idee stesse in quanto alle qualità
che esprimono hanno nelle cose una reale corrispondenza , non avrebbe
detto che s. Tommaso sia nn vero concettualista (Hintoire comparée. ecc., a.
edit, T. IV, pag. 498), titolo ch'egli pretende convenire parimente ad
Odiamo ( ivi , pag. 59i ) , che pur mi sembra un poco lontano dalle idee
tilcsofìche del dottore d'Aquino.
iC4
E non ha forse il nostro spirito la potenza di far
alcune operazioni sulle proprie idee e di far mutar loro
forma (i)? Tutti gl'idoli della fantasia non sono forse
meri parli dell'attività del nostro spirito, che non hanno,
come tali, cioè in quella lor forma, nessuna realtà fuori
di lui? non sono lavori da lui formati mediante le ope
razioni sulle sensazioni e sulle idee delle cose sensibili?
ARTICOLO XXVI.
STEWART CONFONDE LA QUESTIONE SULLA NECESSITA' DEL LINGUAGGIO,
CON QUELLA SULl' ESISTENZA DELLE IDEE UNIVERSALI.
tanto che il linguaggio sia necessario , come che il linguaggio non sia ne
cessario allo spirito per formarsi questi oggetti ossia queste idee di una
natura tutta loro particolare. Ciò che mi sembra di poter dire con ragione
relativamente a Locke, si è, ch'egli non abbia veduto il fondo nè dell' u"*
nè dell' altra questione , e che non sia stato al tutto senza cagione il ridi
colo che sparse sulla sua filosofìa Doria, Martino Scriblcro, e molt'»llr'
appresso.
. attenzione non si ferma che in quelle circostanze per
i le quali il soggetto de' nostri ragionamenti somiglia
* a lutti gli altri individui dello stesso genere , tutto
* ciò che noi dimostriamo esser vero di questo sog-
» getto , non può mancare d'esser vero di tutti gì' in-
« dividui dotati della qualità comune (i) che si ha sola
« considerata. Nel secondo caso, poiché il soggetto de'
* nostri ragionamenti è espresso da una parola generica,
« che s'applica egualmente ad una moltitudine d'indi
ti ridai, la conclusione che noi ne tiriamo dee avere
« la stessa estensione , e applicarsi a tutto ciò che è
• compreso sotto il nome del soggetto in discorso (a) » .
Qui io vorrei interrompere un poco il signor Stewart
nel suo ragionamento, per dimandargli che cosa egli
cerca di fare col medesimo.
Mi risponderà, eh' egli cerca di render ragione delle
verità generali, ossia ch'egli cerca di spiegare la forma
zione de1 generi e delle specie. Ora in questo caso io
non posso a meno di richiamarlo a fare un po' d'at-
lenrione alle seguenti espressioni da lui adoperate nel
»o discorso : « Le circostanze comuni al genere » « le
ànostanze per le quali il soggetto de' nostri argomenti
tomaia agli altri individui dello stesso genere » . Queste
due espressioni, per fermarmi solo a queste, certo sup
pongono i generi già formati , e suppongono che noi
facciamo uso de' medesimi. Come dunque introduce egli
i generi e le specie già formale in un discorso, lo scopo
del quale è appunto quello di render ragione della for
mazione de' generi e delle specie? Non v'ha qui nuova
mente un'aperta petizione di principio?
ARTICOLO XXVIII.
ALTRA PETIZION DI PRINCIPIO :
ITIWAST SUPPONE CHE LE IDEE GENERALI SONO QUALCHE COSA, IN QUEL RAGIONAMENTO
STESSO COL QUALE VUOL PROVARE CHE NON SONO CHE MERI NOMI.
(i) È egli nulla questo? Nello spiegar che sia questo carattare (li simigli»""
za, sta appunto tutto il nodo della questione. Vedi sopra l'articolo XX.
l60
appartiene a' primi ; le lettere del nostro alfabeto sono
segni della seconda specie ; la geometria che usa le
figure , ha de' segni simiglianti colla cosa significata ;
l'algebra che usa le lettere, ha de' segni privi al tutto
di similitudine colle cose segnate.
Ora io dico, che l'uso appunto di questi segni sup
pone l'esistenza delle idee generali : tanto è lungi, come
pretende lo Stewart, ch'essi bastino da sè soli a dar
tastone de* nostri ragionamenti intorno alle verità ge
nerali.
Lo Stewart adopera la frase, che questi segni ci fanno
pervenire alle verità generali : ora se queste verità fos-
seio un niente, o non differissero dai segni stessi, qual
senso avrebbe un simil modo di favellare? Esso equi
varrebbe a quest' altro j « mediante i segni noi perve
niamo ai segni} e non ad altri segni, ma a quelli pro
prio di cui ci serviamo ». Qual vana e strana maniera
di filosofia sarebbe cotesta ? che verità importante con
terrebbe una simile proposizione ? Di vero io dimando
allo Stewart, e a qualunque altro s'abbia fiordi senno:
la sola parola segno non fa subito correre la nostra
mente alla cosa segnata ? v' ha alcuno che possa coll
ocare ciò che esprime la parola segno, o la parola cosa
segnata, senza che concepisca ad un tempo l'idea di
tutte e due queste cose, come di due cose relative, l'una
delle quali chiama necessariamente a sè l'altra?
ARTICOLO XXIX.
I SIGITI NON BASTANO A SPIEGARE LZ IDEE OENERAM.
ARTICOLO XXX.
ALTRA FALLACIA NELLA MANIERA DI RAGIONARE CSI CSA LO STEWART.
Egli sostiene che « oggetto del nostro pensare non
possano essere che individui , e che ciò che noi chia
miamo idee generali non sieno che pure parole o se
gni ». Ma proponendo a sè stesso la dillicoltà: « come,
dato ciò , si rendano possibili de' ragionamenti gene
rali n • egli, per ispacciarsene, s'impegna a provare la
strana proposizione: « che noi possiamo ragionare con
« delle parole senza aver nessun riguardo alle cose che
* quelle parole esprimono. »
Tale proposizione è necessaria in fatti, s'ella è vera
la sua teoria : giacché non facendosi uso , ne' ragiona
menti generali, di parole che esprimono individui, bi
sognava sostenere 1' una di queste due cose, o che le
parole generali non significhino nulla, o pure che v'ab
bia qualche cosa di generale, oggetto de' nostri pensieri
da quelle parole significato : esclusa questa seconda ,
doveasi mantenere la prima.
E per dimostrarla con uno esempio , bisognava , a
mio parere, prendere un ragionamento generale, e ai
(i) Ciò che condusse in errore lo Stewart sull' esistenza delle ideo ge
nerali , sembra essere anche slato il non avere egli osservato che le rela
zioni o rapporti delle cose si risolvono pure in altrettante idee genernli , e
sono il fondamento de' nomi comuni come quelle che si dicono qualità
comuni. Infatti un nome comune designa un ente sì per una qualità comune,
che per una sua relazione. Quand' io pronunzio, a ragion d'esempio, il
nome comune uomo , accenno l'individuo d' un genere che è formato dalla
qualità comune umanità: quando all'incontro nomino figlio, io accenno
l'individuo del genere formalo dulia relazione di fìgliuolanza , comune pure
a molti individui. Concepire adunque un rapporto , è avere un' idea gene
rale , una di quelle idee che formano i generi e che danno luogo ai nomi
comuni. Se lo Stewart avesse osservato ciò, non avrebbe creduto di aver
dimostrata la non esistenza delle idee generali, col sostituir ad esse le idee
di rapporto; nè di aver diinoltrato che un ragionamento s'intende senza
176
le idee generali si componga un ragionamento qualsias
perciocché quand'anche un ragionamento si rivolga si
pra meri individui, non può evitarsi di considerarli sii
come forniti di comuni qualità o di comuni relazioni
ARTICOLO XXXI.
conclusione: la filosofia scozzese, conscia della propria insufficienza
superare la difficolta* proposta, ha tentato in vano di eliminasi
dalla filosofia. •
CAPITOLO V.
(■) Dico quasi nulla, perchè ammettendo la scuola scozzese che l'uomo
venga alta cognizione de'corpi non perchè le sensazioni ne presentino l'im
magine, ma per una quasi inspirazione o facoltà di un genere tutto suo,
che all'occasione delle sensazioni fa sì che 1' uomo percepisca il corpo;
Tiene con ciò stesso ad ammetter d' innato più che il sistema di Locke o di
Coudillac: ammette una potenza nuova, e singolare, perchè oscura e al
tutto mitteriosa.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi I. 23
178
sguardo addietro, sopra il tratto di terreno da noi corso
sponendo i pensieri della moderna filosofìa ; ed osser
viamo in quale stato ella trovavasi al tempo di Locke,
che è il punto di partenza del cammin da noi fatto,
e quale vicenda soffersero per questa nuova scuola le
dottrine principali intorno l'argomento che noi trattiamo.
E a far questo, penso che ci gioverà che noi diam
mano e ci poniamo innanzi un libretto elementare,
scritto da un contemporaneo di Locke ; il quale rac
chiudendo le idee principali della filosofìa di quel tempo
nel quale fu scritto , esposte con semplicità , ci darà
modo a conoscere le modificazioni che quelle vennero
sofFerendo da poi: e questo libretto è il Trattato della
cognizione di Dio e di se stesso, scritto tla Bossuet (1)
pel Delfino di Francia , cioè per un giovanetto reale ,
al quale non poteva essere troppo agio di mettersi den
tro ne' profondi misterj de' metafisici, ma al quale con
vengasi tuttavia di presentar la sostanza delle dottrine
appianate e agevolate meglio che si potesse.
Veggiamo adunque che si sapeva nel tempo di questo
libretto, e paragoniamo le verità principali in quel tempo
conosciute, colle opinioni che in tutta questa Sezione
noi siam venuti traendo fuori de' filosofi della nuova
scuola , che da Locke ebbe il suo primo principio e
movimento.
Noi abbiam primieramente veduto, che dal tempo di
Locke fino a noi, una numerosa schiera di filosofi ha
tentato tutto per confondere insieme il senso e l'intel
letto, di queste due facoltà facendo una sola (2): egli
scritti di questi autori sono così diffusi oggidì , così
letti , e così avviluppati di materiali sofismi , che non
è poco riuscire di fare intendere in che stia la distin
zione di queste due facoltà a persone che si sogliono
trovare già preoccupate da quelli e confuse.
Presso i contemporanei di Locke la distinzione fra
il senso e l'intelletto era conosciuta pienamente, e te
nuta per cosa da non dubitarsene; e nel libretto citato
(j) Bossuet nacque nel 1627, e Locke cinque anni appresso, cioè nel i63j.
Morirono tutti e due nell'anno stesso 1704»
(U) Faco. 77 e scg.
di Bossuet vi è stabilita a lungo. Ivi si definisce l'in
telletto « la facoltà di conoscere il vero ed il falso » ;
il che si nega interamente al senso (i).
Condillac ha particolarmente confuso insieme il sen
tire ed il giudicare (a). Al tempo di Bossuet, queste due
operazioni dello spirito erano esattamente distinte; e
di più s'era giunto a vedere, che è nel giudicare che
precisamente consiste l'intender le cose.
■ l sensi, dice Bossuet, non ci apportano che le loro
«proprie sensazioni, e lasciano all'intelletto il giudi-
■ care delle disposizioni che notano negli oggetti.
« La vera perfezione dell'intendimento è di ben giu-
• dicare.
(i) Cbap. I , vn. Ove al tempo di Bossuet fosse uscito un uomo di genio ,
3 quale, io vece di mutar la via nella quale la filosofia era avviata per
opera di Cartesio, avesse prescelto unicamente di farla avanzare per la
sessi strada, di ricevere di buon animo e conservare le verità che erano
nate illustrale, di appurarle, di accrescerne il numero; questi poteva a ra-
tjaaffesempio qui dare uno sviluppamelo di questa sentenza, che, senza
&prtsrlo gran fatto da ciò che si sapeva allora , ma solo collegaudo me
si*; e rischiarando quel sapere, molto incremento avrebbe apportato alla
Bastiti ed ecco qual potea essere questo sviluppamento.
Si definiva 1' intelletto « la facoltà di conoscere il vero ed il falso * : e
itene; Don restava se non a cercare, che cosa fosse il vero ed il falso: il
bea chiarir ciò che fosse questo, era un arrecare un vantaggio infinito alla
cognizione filosofica, e ciò far si poteva senza allontanarsi gran fatto, colile
dissi, dalle idee già possedute. In fatti come definiva Bossuet il vero ed il
falso? « Il vero, die' egli in questo stesso libretto, è ciò che è; il falso è
ciò che non è » (Ch. I, xvi ). Il vero adunque, secondo Bossuet, è l'ente.
L'intelletto dunque non è che la facoltà di percepir l'ente, secondo Bos
suet medesimo : e tale è la definizione che io uso frequente. Su questa traccia
era necessario occuparsi a dimostrare diligentemente che il senso non po
teva in nessuna maniera percepir 1' ente ( Ved. face. 19 e segg. di quuslo
voi.), ma sole le cose che sono all'ente accidentali; che quindi questa idea
dovea essere in noi inserita naturalmente (face. 18 e segg.) ; che per la
percezione dell'ente stesso è che si percepiscono le sostanze; che quindi
te sostanze si percepiscono dal solo nostro intelletto ( face. i5 e segg. ) ;
che l' idea dell' ente spoglio di tutte le determinazioni sue che si ricevuti
pe' sensi, è l'idea universalissiraa; che da questa idea è che ricevono tutte
le altre idee il carattere di universalità; che tutte le idee sono fornite di
questo carattere , e che l' universalità costituisce la natura delle idee ( fac
cia 5i e segg. ). Dopo di tutto ciò si sarebbe arrivato a conoscere e a
stabilire che l'intelletto non solo é « la facoltà del vero e del falso », ma
ài più ancora , eh' egli solo è « la facoltà delle idee » , le quali al senso non
possono appartenere. In somma si poteva perveuire gradatamente a trarre
io luce tutte quelle verità die io ho desiderato e cercato di presentare iti
guest* operetta,
(a) Face 56 • segg-
i8o
« Giudicare è pronunciare dentro di noi sul vero e
« sul falso; e ben giudicare, è pronunciare su di ciò
« con ragione e cognizione » (i).
Il Reid e lo Stewart hanno talor confuso l'immagi
nazione coll'intelletlo (3). Prima di essi, queste facoltà
erano così distinte, che non si potevano confondere in
sieme. « Come egli è molto da temere , dice Bossuet ,
« che non si confonda l'immaginazione coll'intelligenza,
« convien notare i caratteri proprj dell'una e dell'altra.
« Vi è, per esempio, grande differenza tra l'itnina-
« ginare il triangolo e l'intendere il triangolo. Imma-
« ginare il triangolo si è rappresentarsene uno d'una
« misura determinata , e con una certa grandezza de'
« suoi angoli e de' suoi lati; in luogo di che l' inten
ti dere è conoscerne la natura, e sapere in generale elio
« cos'è una figura di tre lati, senza determinare alcuna
u grandezza nè proporzione particolare. Così, quando
« s'intende un triangolo, l'idea che se n'ha conviene
« a tutti i triangoli equilateri, isosceli, o altri di qual-
« siasi proporzione; in luogo di che il triangolo che
« s'immagina è ristretto a certa specie di triangolo, e
« ad una grandezza determinata.
« Ma la differenza essenziale fra l'immaginare e l'in-
« tendere è quella che viene espressa nella definizione:
« è, che intendere non è se non conoscere e discernere
« il vero ed il falso; il che non può fare l'immagina-
« zione, la qual segue i sensi » (3).
Alcuni de' filosofi che hanno ridotto l'intelligenza al
(1) È in sostanza l'argomento de' Nominali moderni, per negare l' esi
genza degli universali. Ved. face. 148 e segg.
(2) Cbap. I, ìx.
(5) Ved. face. i5 e segg.
(i) Chap. I, Vii-
(5) Face. 5a.
i8a
mostrandone il mancamento; e non è piccolo il merito
di d'Alembert nell' indicare quelle questioni.
Prima però di lui, e prima di Locke, quelle due que
stioni, da quest'ultimo dimenticate, erano state trattate
bene o male da Cartesio, il che vuol dire che si cono
scevano. Bossuet le conobbe pure , e propone la seconda
espressamente in questo modo: « Comechè le sensazioni
« sieno differenti fra loro, avvi però nell'anima una fa-
« coltà che le unisce. Perciocché l'esperienza c'insegna,
« che non si forma che un oggetto sensibile di tutto ciò
m che ci colpisce insieme, eziandio in sensi diversi, mas-
« simamente quando l'impressione ci viene dall' istessa
« parte. Così quando io veggo il fuoco d' un certo co-
« loie, e sento il caldo che mi cagiona, e odo il rombo
« dell'aria, non pure io veggo questo colore, provo quel
« caldo, odo quel suono, ma io sento queste sensazioni
« differenti come venienti d' un medesimo fuoco.
« Questa facoltà dell'anima, che unisce le sensazioni,
« od ella sia solamente una sequela delle sensazioni
« che s'uniscono naturalmente quand'elle s'avvengono
« insieme, od ella faccia parte dell' immaginativa, —
<« questa facoltà, io dico, checché ella sia, in quanto
« ella forma un solo oggetto di tutto ciò che colpisce
« ad un tempo i nostri sensi, è appellata senso comune;
h vocabolo che si trasporta alle operazioni dello spi-
« rito , ma del quale la significazion propria è quella
« che pur ora abbiamo accennata » (i).
Stewart non s'accorse che la percezione de' rapporti
delle cose, come delle loro simiglianze, non erano che
delle idee generali , e quindi queste non potevano appar
tenere ai sensi, che non s'estendono fuori delle sensa
zioni corporee ed individuali, ma all'intendimento (2):
mentre al tempo di Bossuet già si conosceva perfetta
mente che la cognizione de' rapporti e dell'ordine delle
cose non poteva essere che operazione dell' intelletto.
(i) Ancor meglio s' avrebbe potuto dire ciò della filosofia di Hobbes, che
■eque prima , e morì dopo Gassendi , e visse molto in Francia.
(a) 3 geunajo 1829. Per altro la filosofia di Locke doveva necessaria-
aenle produrre questi due opposti sistemi; perocché ella contiene tanto i
temi del materialismo, che quelli dell' idealismo. La riflessione, facoltà am
messa da Locke , che avrebbe potuto salvare la sua dottrina dal degenerare
Bel materialismo, vi è troppo superficialmente introdotta; vi è introdotta
senza che Locke medesimo ne intendesse la natura, come ho fatto vedere
più sopra.
(3) Corjvien confessare, che la nazione dove meno rimase spezzato il filo
delle idee tradizionali si fu l'italiana , mercè i grandi principj del Cristia
nesimo che vi si sono, per cosi dire, inviscerati. Quindi noi vedemmo, le
novità di Locke aver trovato subito in Italia una dignitosa opposizione in
Paolo Dori», quelle di Cartesio una simigliarne in Giovabmattista Vico.
Questi due grand' uomini avrebbero salvata l'Italia da molti traviamenti ,
m non si fosse messo in lei l'amore non tanto del nuovo quanto dello
straniero: non una filosofia, ma un partito prevalse: sciaguratamente fu un
partito anti-sociale e anti-religioso. Ma il secolo XVI II è passato; e il pre-
lente gli ha cominciato un severo giudizio.
Hosmihi, Ong. delle Idee , Voi. I, 2<{
i86
possiede, un farlo sempre rimbambire, e ricominciare
lavori a cui avea già posto mano e molto innanzi por
tatili, un fargli quindi gittare tempo infinito, ed uno
stancar finalmente la sua pazienza infastidendolo della
stessa filosofia che i filosofi rappresentano. Veramente
lo spirito filosofico non può esser giammai esclusivo ed
individuale; egli è uno spirito conservatore, imparziale
e pieno: egli riceve con rispetto le tradizioni del genere
umano, e de' particolari sapienti: egli non è, in una
parola, lo spirito vano del mondo; è lo spirito stesso
del Cristianesimo, applicato allo studio e alla medita
zione delle naturali verità.
SEZIONE QUARTA l8?
CAPITOLO I.
PLATONE E ARISTOTELE.
ARTICOLO I.
mtticolta' dil problema dell' origine dell' idee PROPOSTA DA PLATONE.
(1) Sezione IL
W Sezione I, cap. L
i88
Ecco uno de' passi più celebri al nostro uopo.
Menone di Tessalia, amico di Aristippo larisseo, e
seguace della filosofia prosoutuosa de' sofisti tessali , si
fa a ragionare con Socrate, che professava di non saper
nulla, fuori per avventura questo solo, di far osservare
altrui le difficoltà che contenevano in sè le questioni
filosofiche anche più ovvie ; e qui ben presto corre in
mezzo il nodo della difficoltà di che favelliamo. Il dia
logo che succede fra Menone e Socrate è il seguente.
Avendo questi detto di non sapere la definizione
della virtù, ma di volerla investigare, Menone gli fa la
seguente obbjezione : « In che modo vorrai tu , o So
li crate, ricercare ciò che al tutto ignori ? come ti puoi
« tu rappresentar ciò che ricerchi , se al tutto noi co
li nosci ì o se tu ti abbatti per avventura in questa cosa
« da te cercata , onde riconoscerai esser dessa quella
« appunto che cerchi , perfettamente sconoscendola » i
A cui Socrate rispondendo , fa rilevare Lutta la forza
dell' obbjezione , probabilmente non sentita da Menone
stesso: « Intendo il tuo pensiero, o Menone, egli sog
li giunge. Ma t' accorgi , di grazia, che argomentazione
« pervicace abbi tu pur ora recato in mezzo ? cioè, tu
« vieni con questo a dire, che l'uomo non può far ri
ti cerca nè di ciò che conosce, nè di ciò che ignora. Di
« vero , se già lo conosce , non ci ha uopo ricerca. Se
« non lo conosce, noi potrà investigare giammai, per
ii eh' egli pur non sa che cosa si voglia investigare » (0'
Questa difficoltà in fatti era fortissima: e a chi con'
sideravala con attenzione, essa dovea mostrar la neces
sità che v'è, in qualunque ricerca, di conoscere in par»
la cosa cercata, ed in parte di non conoscerla : giacchi
se non la si conoscesse menomamente, non si potrebb*
far di lei veruna ricerca ; couciossiachè è assurdo, eh
(i) S. Agostino tratta sottilmente questa difficoltà nel lib. X della Trinil
e conchiude : « Quilibet igitur studiosus t quilibet curìosus non amai ina
finita eliam cum ardentissimo appetiti! instai scire quod nescit. Aut enim jai
genere notum habet quod amai, idque nasse expedit etiam in aliqua re su
gula i vel in singulis rebus qua; itti uondum notaforte laudantur, fingitqh
animo imaginariam formam qua excitetur in amorem. - Questa second
via , per la quale desideriamo talora di conoscere ciò che è incognito, sur
pone in noi sviluppo di facoltà e cognizioni acquistate. Ma la prima via
per la quale desideriamo di conoscere in particolare ciò che conosciamo i
genere, può condurci fino all'origine di tutte le nostre cognizioni; il che
farà chiaro più innanzi.
altri cerchi e non sappia punto nè poco che cerchi; nè
il nostro deaiderio può recarsi in un oggetto compiuta
mente ignorato ; nè la nostra azione può tendere in un
oggetto di tal fatta, che per noi non esiste, poiché ci
è intieramente incognito. D'altro lato, se si conoscesse
pienamente quel vero che si ricerca, noi si cercherebbe
in «nodo alcuno , perocché la nostra mente già lo pos
sederebbe.
La riflessione adunque che faceva Menone , e di cui
Socrate volle rilevare avvedutamente tutta la forza, era
solida, e conduceva a questo risultato: «L'uomo colla
sua mente non può ricercare nessuna cosa, la quale non
gli sia parte incognita, e parte cognita. »
Si osservi prima di tutto la diversità che passa fra
il cercare qualche cosa reale per averla , e il cercare
qualche verità per conoscerla.
Quando si cerca un amico smarrito in fra la calca
del popolo, od un arredo dimenticato in qualche angolo
della casa ; allora la difficoltà proposta non ha luogo.
L* amico o V arredo si può conoscere perfettamente , e
Valimi ricercarlo. Il discorso di Menone cade sopra le
verità che si investigano , che è quanto dire , che si
cerano per conoscerle : il possederle , qui non è cosa
distinta dallo stesso conoscerle, ma è il conoscerle me
desimo : quindi ha origine la difficoltà di spiegare come
si possano cercar quelle verità senza conoscerle , o co
noscendole , a qual fine si cerchino.
In somma, un simigliante discorso conduceva ad am
mettere qualche cosa in mezzo , fra il conoscere per
fettamente, e il perfettamente ignorare: e in questa co
gnizione media della cosa cercata, in questa cognizione
mista di luce e d'oscurità, di tanta luce che basta a far
riconoscere ciò che si cerca, e ravvisare la cosa cercala
quando ad essa l'uomo si scontra, e di tanta oscurità
che rende necessario di ricercar la cosa per poler dire
con verità di conoscerla, doveva consistere la soluzione
di tale difficoltà.
ARTICOLO IL
SOLUZIONE PLATONICA DILLA DIFFICOLTA'.
Socrate in falli, per trarsi d'impaccio, ricorse ap
punto ad una scienza di mezzo, e la trovò in una co
gnizione da noi dimenticata nascendo.
igo
Per render probabile la sua dottrina , egli si appog
giava ad un fatto: cioè al fatto, che esiste talora nel-
1' uomo una cognizione , senza eh' egli se ne ricordi , e
quasi direbbesi assopita: la quale si sveglia e si richiama
in atto, immantinente che gli oggetti della medesima
sieno presentati di nuovo alla nostra attenzione. Allora
l'uomo si risovviene di averli altre volte conosciuti, il
che è un dire, che li riconosce per quelli appunto che
aveva smarriti nella memoria , nella quale altre volte
erano stati ricevuti. Ora Socrate applicò 1' osservazione
di questo fatto, che accade giornalmente a ciascuno,
alla difficoltà propostagli ; e credette di aver con esso
trovata una sufficiente spiegazione della medesima. Il suo
ragionamento per tal modo riducevasi a questo : « Io
osservo che v'ha una scienza nell'uomo obliterata), ed
una scienza attualmente presente nella memoria. Di que
sta non si può dare ricerca alcuna , perchè attualmente
la conosciamo: ma possiamo bene investigar quella prima,
perchè ci rimane una rimembranza generale di essa, la
quale, se non ci appaga, ci basta però per guidarci ad
investigare più pienamente ciò che dalla nostra memoria
fu scancellato, e a far risuscitare in essa quegli spenti
vestigi. Se adunque questo ci avviene giornalmente; or
supponiamo di portar con noi fino dalla nostra nascita,
una cognizion delle cose non attuale, ma solo in po
tenza , simile a quella che ha l' uomo allorché , dopo
avere appreso alcuna cosa, l'ebbe dimenticata, ma non
tanto che, rappresentandogliela , non gli sovvenga d' a-
verla pur altra volta avuta. Con questa sola supposi
zione , la quale s'appoggia ad un fatto della comune
esperienza , si rende chiaro siccome l'uomo fino dai suoi
primi momenti dimostri un desiderio vivissimo che lo
sospinge dietro alla ricerca delle verità, e com'egli ri
trovandole, le riconosca per quelle ch'egli avidamente
ricerca, e se n'appaghi siccome dell'oggetto appunto de
suoi desiderj ».
Questa ipotesi che proponeva Socrate, era, non ha
dubbio, ingegnosamente trovata, e soddisfaceva a pieno
alla difficoltà recata in mezzo da Menone. Ma non si
fermava qui quel solenne dialettico : e la spiegazione
proposta, veniva da lui rinforzata con delle altre osser
vazioni , con degli altri fatti.
Una di queste osservazioni era quella del giovanetto
19'
non ancora istruito dagli uomini in qualche disciplina.
Egli taceva venire a sè un di questi giovanetti, e av-
redutamente V interrogava per modo, che quella serie
<T interrogazioni ben connesse insieme , traeva natural
mente dalla bocca di lui delle verità geometriche, prima
facili, e poi anche difficili. Con questo metodo , tenen
dosi Socrate al semplice interrogare, poteva dir con ve
rità di non insegnar mai nulla al giovanetto ; perocché
veramente egli non gli diceva mai: la cosa è così ; ma
ciò lasciava dire a lui medesimo; ed egli si contentava
ài fargli 1' interrogazione senza più. Del quale esperi
mento conchiudeva che, traendo in tal modo dalla hocca
del giovane delle verità che quegli non avea pur mai
udite da uomo alcuno, conveniva dire, che quel fan
ciullo aveva quelle verità in sè medesimo: ma che, es
sendo in lui da prima in un cotale stato di assopimento,
nuli' altro si richiedeva, fuor solo che alcuno lo scuo
tesse, e conducesse la sua attenzione di bel nuovo in
sa quelle verità quasi abbandonate e dimentiche, e così
\o aitasse a rivocarlesi nella memoria.
ù fatto che Socrate proponea da spiegare , certo
non poteasi negare da chicchessia; perocché i." era
Teniamo che il giovanetto non avea imparato da alcun
uomo quelle verità che proferiva, a." ed era altresì ve-
hifimo ch'egli, venendo interrogato in acconcio modo,
japea trovar da sè quelle verità, senza che nessuno del
mondo gli dicesse affermatamente , che quelle cose sta
vano così.
Ora poi chi attentamente considera il fatto che pro
pose Socrate da spiegare, vedrà che, in altre parole,
si riduce al seguente.
11 giovanetto , quand' io lo interrogo con una serie
d'interrogazioni acconce all'uopo, mi risponde bene an
che sopra ciò che non gli fu detto da uomo vivente :
dunque questo giovanetto possiede (ecco l'unica conse
guenza rigorosa che indi si potea cavare ) la facoltà di
giudicare. Il fatto di Socrate si riduce dunque a spie
gare come 1' uomo abbia in sè la facoltà di giudicare ,
cioè la facoltà d'aver de' giudizj anche sopra ciò che
viene a cader per la prima volta sotto i suoi sensi ,
sopra ciò che mai egli pria non conobbe.
Per ispiegar questo fatto, o convien dire, che i giu-
dhj sopra quelle cose sieno stati a lui comunicati da
,9a
altri uomini , il che è escluso dall' ipotesi ; o pure che
egli ha, nascendo, qualche cosa dentro di sè , ond' egli
può attignere que' giudizj (t) , e in somma, secondo la
frase di Agostino , ha un naturale giudicatorio (2). Ora
Socrate, per ispiegar questo fatto, pone che que' giudizj
o quelle verità sieno esse medesime innate , ma oblite
rate: ed in questo modo, coll'ammettere innate le idee
a cui que' giudizj si riferiscono, spiegava, se non vera,
certo pienamente, un fatto così singolare.
ARTICOLO HI.
LA DIFFICOLTA' VEDUTA DA PLATONE, È NELLA SOSTANZA
LA DIFFICOLTA' STESSA DA ME PROPOSTA.
(«) Un sintomo dell'errore che talor s' asconde iu una dottrina ricevuta,
«• è l' incertezza del parlare degli scrittori , e la sollecitudine eccessiva di
Boshiki, Orrg. delle hkc7 Voi I. a5
Che se il giudizio è la prima operazione dello spirito
nostro, e se perciò questa operazione non fu preceduta
da un1 altra colla quale noi ci siamo potuti acquistar ~
giustificnrla mediante alcune sottilità d' ingegno. Ciò mostra la ior titubanza,
e come nel fondo della loro coscienza mormori una voce che li avvisa del
l' errore nascosto , il quale , se a lei avessero cuore di porger gli orecchi ,
ritroverebbero.
Non c'è forse dottrina filosofici più ricevuta di quella che mette le ope
razioni dell'intelletto umano nell'ordine seguente: i.°idea, a.0 giudizio, 3." ra- 15
ziocinio; e non ce n'è forse altra, nell' esposizione della quale si trovi, leg
gendo gli autori, il sintomo indicato più manifesto.
Ho fatto già osservare , come al tempo di Bossuet vi erano alcuni che
dubitavano della giustezza di quell'ordine (face. i83 ); e come Fortunato 1
da Brescia ( face. 5o 5i), per evitare la difficoltà che pur sentiva averci in
tal dottrina, ebbe la prudenza d' aggiungere alla definizione dell' idea espres- ,J'>
samente la clausola, « ch'essa, per esser tale, non dovea contenere a/euo r'
giudizio »»: quasiché l'idea potesse cessare dal racchiudere ciò che real- ' J'i
mente racchiude , perchè un filosofo caccia quanto racchiude fuor dalla
definizione eh' egli ne dà.
Poiché tutti questi segni che danno gli autori d' essersi accorti degli er
rori, sono preziosi; coneiossiachè convertono i filosofi che hanno sbagliato
in altrettanti teslimonj della verità, e fanno vedere quanto esteso sia lido- i'j
minio di questa sopra gli uomini; gioverà ch'io accenni qui lo sforzo che fece
il Wolfio per conservare alle nozioni il posto che vien loro comunemente as
segnato, facendole costituire la prima operazione dell'umano intelletto.
Il Wolfio non sentì la forza della sentenza di Platone, che « il pensiero
non è che un discorso interiore. »
Egli duuque distinse fra la nozione pensata solamente dall'intelletto, che
chiamò cognizione intuitiva , e la nozione stessa espressa con parole o con >
segni, che chiamò cognizione simbolica. E disse, che, « nella cognizione sim-
m boìica, la prima operazione dell'intelletto (la nozione colla semplice ap-
« prensione) si confondeva colla seconda " (PsycoL Ration. g 3g8); ma
che cosi non avveniva nella cognizione puramente intuitila. Questa distin
zione non è che uu effugio della difficoltà. Poiché , quando io esprimo in . ,
parole una nozione, ond' è che io debbo esprimerla colla forma di un giu
dizio? Sono io costretto ad esprimere nelle parole più che non si contenga
nelle idee? In tal caso, se nelle parole io metto qualche cosa che nelle idee
non si contiene , io vengo ad adoperar de' vocaboli privi di significato (cioè
di corrispondenza nella mente); e questo sarebbe cadere in un assurdo
nominalismo. A ragion d' esempio, volendo io esprimere la mia nozione del -
triangolo, dirò: k il triangolo È una figura di tre lati. >• Ora il verbo t,
che esprime l'esistenza possibile del triangolo, non è già una mera parola,
ma ha qualche cosa di corrispondente nella mia mente, la nozione stessa
percepita come cosa diversa da me.
Ma, dire il Wolfio, «< il vocabolo È non indica solamente che si riguarda
«« il triangolo come un colai soggetto, ma ben ancora esprime la inesistenza
« de' Ire lati in questo soggetto. Ora la cognizione semplicemente intuitiva
non considora questo nesso: con essa si rappreseutauo quello qualità che
« in qualche cosa si trovano, come diverse fra sé, e diverse dalla cosa nella
« quale stanno (Psyc. empir. Q 53 1 ). All'incontro nella cognizione simbolica
« forz' è esprimerle congiunte ed inesistenti nel soggetto : questa dunque
k i richiude un giudizio, ma non quella. »
Su questo ragionamento di Wolfio mi si permetta di fare le seguenti os
servazioni ;
delle \dee-, forx* è convenire, die è necessario d'ammettere
precederne al giudizio qualche cosa d' innato che renda
i.° Nego che il vocabolo e abbia, nella proposizione arrecata, quella forza
che gli attribuisce. La proposizione « il triangolo è una figura di tre lati »
equivale perfettamente a quest'altra « ciò che io concepisco e che chiamo
« colla parola triangolo è una figura di tre lati n. Il verbo È adunque non
«prime che 1' esistenza della nozione del triangolo nella mia mente, senza
portare la menoma alterazione nella stessa nozione che è espressa tutta tale
e quale sta Della mia mente colle parole « figura di tre lati. » Se all'in
contro io dicessi: « questa figura che penso ha tre lati »; in tal caso il
Trrbo ha esprimerebbe l'inesistenza de' tre lati nella figura pensala; ma il
terho È a questa inesistenza punto non si riferisce.
3." Wollio dice che nella cognizione intuitiva si percepiscono le qualità
lidia cosa tutte in separato fra loro c in separato dalla cosa stessa. E egli
dò possibile"/ avvien egli cosi nella prima nostra cognizione delle cose ? non
sembra anzi il contrario , cioè che prima noi percepiamo la cosa fornita
ielle sue qualità, e poi coll'astrazione dividiamo tulle queste cose e le con
feriamo a parte a parte ? L' esperienza mi sembra che attesti essere in
questo .«econefo modo la nostra cognizione prima delle cose. Ma di più, io
la già dimostrato (face. 22 e segg. ) , che non sarebbe possibile il contra
ria; perciocché nella nostra prima cognizione è al tutto impossibile che
o^i percepiamo intellettualmente gli accidenti senza il soggetto nel quale
efeHooo. Altro è del scuso, il quale percepisce i soli accidenti ; e forse è
^eaA» io questo errore il Wolfio per non avere abbastanza distinti i ca
ratteri d«k sensazione dai caratteri dell' idea, sebbene egli stabilisca l'uni-
vo-ndìta deUe riozioni , che sono l'oggetto, secondo lui, della prima opera-
wk ictedctluale ; dalla quale nota di universalità gli dovea certo esser
feiif 3 /irmarsi il più esatto concetto della cognizione intellettiva, e di-
swueria egregiamente dalla sensibile. Ma rispetto alla cognizione intcllct-
u*a, <£ che parliamo, dico che è impossibile che prima noi concepiamo l'ac-
adetrte in separato dal soggetto, e che poi ad essa l'uniamo, come vuote
il ttoluo. In fatti, percependo noi l'accidente di un soggetto, o noi sappiamo
pi fino dal primo istante, ch'egli è un accidente, e iu tal caso lo conce
ttino in relazione col suo soggetto ; ovvero non lo sappiamo, ed in tal
esso noi formiamo un soggetto dell' accidente stesso, cioè lo concepiamo
come cosa che sta da sè, e che ha perciò un essere ed un modo di essere;
che è tuttavia pensare un soggetto (ente), ed un predicalo (modo di
^aett'ente immaginato). E dunque impossibile ciò che il Wolfio mette per
bue della sua dottrina. '
Ma io posso provare la stessa cosa pur coli' esame delle parole del Wollio.
Come definisce egli la prima operazione dell'intelletto? * Prima inltllectus
« operatiti, dice , est plurium IN RE UNA singillatim facto reprmsentalin »
{Ptyx. Empir. 33o). Ora egli ci mette quel singillatim per indicarci che noi
percepiamo parte a parte tutte le qualità della cosa della quale abbiamo
T idea. Lasciamo Stare che questa percezione successiva di più qualità che
Isella cosa si trovano , non può essere la prima operazione intellettiva , pe
rocché è piuttosto una serie di operazioni intellettive. Dico solo, queste va
ne qualità dove le percepiamo noi 7 In re una , ci dice il nostro filosofo:
Slitte nella cosa della quale abbiamo l'idea. Dunque, dico io, non le per
cepiamo in sé, dalla cosa divise, ma bensì come qualità o parti alla cosa
appartenenti, e che nella cosa esistono, e non fuor della cosa. Non è questo
*■ ittrihuirle tutte alla cosa stessa? non è un implicito giudicare, eh:: a lei
>pptrleo"oao ? II percepir noi quelle condizioni, o parli, o qualità per sin-
t-Joj tome vuole «I Wolfio, non farebbe che rendere ciò che dico più
possibile il giudicare, questa prima operazione del nov
slro spirito.
ARTICOLO IV.-
IL SISTEMA DI PLATONE VALE A SCIORBE LA DIFFICOLTA' PROPOSTA ,
MA INSIEME PECCA DI SUPERFLUO.
rità dalla falsità. Ora il possedere io nella mia mente i caratteri distintivi
della verità, non è altro che il conoscere coni' ella sia, 1' averne in somma
presente, per così dire, la fUonomia, un qualche tipo, in una parola, l'e
semplare, la prenozione, la forma. Egli è a questo solo che riesce conclu
dente la osservazione di Platone: conclude a dover ammettere presente al
l' uomo la faccia genuina della verità , perchè altrimenti egli non potrelibc
fare nessun giudizio ( e io dimostrerò che questa faccia o tipo primitivo
non è altro che l'idea innata dell'ente, UNICA FORMA DELLA RA
GIONE): ma non conclude punto a dover ammettere nell'uomo tanti tipi,
quanti sono i giudizj, o le idee che acquista con que' giudizj : giacché una
volta eh' egli abbia in sé stesso il segno al quale conoscer possa la verità
e l'errore, sta in lui poi l'applicarlo ad infinite cose, a tutte le cose ch'egli
vuole ; egli ha da quel punto la facoltà di giudicare , la potenza di discer
nere e di godere il vero, che dovunque ha un medesimo volto : in una pa
rola , allora è in suo potere il giudicare delle cose, perchè n'ha la regola:
una regola sola basta per tutte , perchè in tutte egli non cerca mai che una
cosa sola , ciò eh' è vero, e ciò eh' è falso.
E se vogliamo analizzare via meglio l'osservazione del greco filosofo, le
ricerche che noi possiamo istituire son di tre specie. i.° Talora noi cer
chiamo e apprendiamo delle verità , qualunque sieno, secondo l'occasione
che ci viene di usare della ragione; i." talora noi cerchiamo delle verità
nuove, appartenenti ad una cosa già da noi sotto altro aspetto conosciuta;
3 0 talora finalmente noi cerchiamo delle verità che sono già inchiusc in
qualche idea, senza che noi ci abbiamo fatto riflessione, nè che le abbiamo
percepite distintamente ed isolatamente.
Noi facciamo questa terza specie di ricerche ogni qual volta prendiamo
ad analizzare qualche idea: allora noi non aggiungiamo nulla alla materia
delle nostre cognizioni : noi non facciamo che cercare di possedere scom
posto e diviso quello che già possedevamo prima composto ed unito: noi
aumentiamo solo la cognizione ri/lessa, mentre avevamo la cognizione intui
tiva e spontanea. In questo genere di ricerche noi indaghiamo quello eliti
sappiamo in un modo, per saperlo in un altro modo: giacché il sapere ni
questa seconda maniera, il sapere analizzato e distinto, ci giova a diversi
usi, a' quali non ci può giovare il sapere sintetico ed indiviso. Sopra questo
genere di ricerche non può cadere adunque il ragionamento istituito da
Platone, perocché non si tratta di scuoprire una verità interamente nuova,
ina di trovar le parli , per cosi dire , di un lutto già conosciuto.
Che se vogliamo considerar le parti di questo tutto come delle verità
nuove nella loro forma di parti, in tal caso questa terza specie di ricerche
si può ridurre e classificare sotto la seconda.
La seconda specie di ricerche è quando cerchiamo utàa cosa perfettamente
da noi ignorata in sè stessa, ma che si riferisce però ad un altra da noi
conosciuta. Se io, a ragione d'esempio, voglio misurare la gravità specifica
di diversi corpi, io vado a ricercare una cosa che ignoro perfettamente;
ma non ignoro mica i corpi , a cui appartiene questa gravità , e non ignoro
che cosa sia la gravità in genere. Quando adunque io ritrovo con degli espe
rimenti la gravità che ricerco, allora, sebbene io non conosceva prima quanta
ella fosse , tuttavia ho benissimo il modo di conoscere eh' essa gravità è quel
vero che io ricercava, perchè io conosceva i corpi a cui quella gravità doveva
appartenere. Questa relazione della gravità ricercata co' corpi, mi determina
e fissa per si fatto modo ciò che ricerco , che quand' anche io noi conosca
'99
di avere il tipo della verità in genere, tipo, a cui con
frontando qualunque sentenza sopra qualunque cosa, io
possa discernere in tutte la verità dall'errore, la verità,
dico, che in quanto è tale, ha una stessa faccia dovun-
prima , appena però che io il ritrovo, riconosco esser desso quello che cerco.
Orti,, si danno più determinazioni esterne che segnano ed indicano la cosa
per sì fatto modo, che non si può scambiarla con altre, quando si trova,
»oche senza conoscerla. Poniamo, se uno mi dice: l'uomo che io saluterò è
Tirilo che voi dovete prendere ; io non ho più bisogno di conoscer colui di
betìa, per non isbagliare, ma basta che lo riconosca col segno datomi, perchè
il segno lo determina indubitatamente. In questo genere adunque di ricerche,
qaand'io cerco una verità, e la ritrovo, io la riconosco per quella che viene
<k me cercata , non perchè io conoscessi lei stessa già prima , ma perchè
io conosceva una relazione eh' ella avea con qualche cosa già prima a me
cognita, la quale relazione mi vale d'un segno a riconoscerla, purché sia
usa relazione bene determinante. Così tutti i problemi d' algebra che si
icooo determinati, mi conducono a trovare un risultato per me interamente
nuovo, e ciò unicamente avviene perchè mi sono date delle condizioni che
valgono a determinar pienamente quel risultato. L'argomentazione adunque
da Platone non può nè pur cadere sopra questa specie di ricerche; perchè
a conoscere che la verità che mi si presenta sia quella che cerco, non ho
tacine di preconoscer punto lei , bastando ch'io conosca solo qualche re
tatone alla a determinarla con altra cosa a me precedentemente nota.
UatiVii prima delle tre specie di ricerche che ho di sopra distinte, l'uomo
neo nrma certe verità determinate eh' egli s'è proposto di ricercare, ma
snie nroo o piuttosto ritrova quelle verità che gli si presentano secondo
Jr «taami che occorrono a lui nel primo sviluppo delle sue facoltà intel-
Insnt. Cosi , per esempio , appena venuto 1' uomo in questo mondo , egli
rvrve un gran numero di sensazioni dagli oggetti che lo circondano. Essendo
e»d suscettivo di queste sensazioni, ed essendo insieme dotalo di ragione,
circe qualche cosa a sé stesso in occasione d'essere così affetto ne' suoi sensi:
per esempio , egli dice a sé stesso : « c' è qualche cosa fuori di me » ; o
uzzi, particolarmente quando viene affetto, forz'èche cominci internamente
a prosare, e a dire ad ogni sensazione; « qui c'è qualche cosa, la tal cosa,
b tal altra, ecc. «•; il quale interno discorso non è espresso ancora in pa
role , ma è un assentimento a ciò che alla sua mente si offerisce : assente
41' esistenza degli oggetti esterni , e questo interno assenso è un giudizio.
Egli con esso conosce l'esistenza degli oggetti fuori di lui; o, che è il mc-
attrìbuisce loro l' esistenza, come anche attribuisce l' esistenza a sé
Ora egli è in questi giudizj primitivi che fa bisogno che I' uomo
qualche prenozione, la prenozione dell' esistenza ; egli è necessario che
qualche segno od indizio, a cui conoscere che l' esistenza de' corpi è
i verità. Qui adunque è Solido il ragionamento di Platone: in questo terzo
di ricerche, o più tosto in questi ritrovamenti della verità, si rende
ariv qualche cosa d'innato in noi, onde distinguere la verità slessa, o
distinguerla intuitivamente e quasi all'aspetto; giacché non si può cono-
v rria per la relazione sua con altre verità, che si suppone di non averne
ancora l'uomo nessuna acquistata.
E in vero, supponendo solo che l'uomo porli seco fin dall'origine impressa
■a iota distintiva e comune delle verità ( la qual noia vedremo a suo luogo
appunto l'idea dell'esistenza ), tulle le difficoltà di cui parliamo sva-
rocooo. Con questa nata, egli percepisce le prime verità che ^li si presene
téop non iicercuuàv propiiamenle quelle , ma ricercando iti genere lune le
300
que. E così Platone venia conciotto ad una soluzione
troppo estesa, e ad ammettere d'innato nell'uomo più che
non si richiedesse per ispiegare il fatto dell' origine delle
idee, contro la seconda delle regole da noi stabilite (i).
ARTICOLO V.
ARISTOTELE FA OSSERVARE l' INESATTEZZA DEL RAGIONAMENTO DI PLATONE.
Questa inesattezza che si conteneva nel ragionamento
platonico, sembra essere stata la causa della defezione
di Aristotele dalla scuola del suo maestro.
verità , o più tosto stando desto e vigilante a riceverle ondechè gli avven
gano , giacché la ragione nulla più avidamente aspetta di queste; egli le
percepisce naturalmente come cose alla sua mente acconciate ; ed il perce
pire delle verità detcrminate, non è altro, io dicevo, che il giudicar vera
qualche cosa ; il percepire colla ragione i corpi , non è altro che giudicar
vero, che esistono i corpi, o (che è il medesimo) l'assentire internamente
alla loro esistenza. Quando l'uomo ha fatto questo passo., ed è per tal modo
venuto in possesso di più verità, allora non è guari difficile lo spiegare come
sia possibile il secondo genere di ricerche; giacché le verità conosciute hanno
delle relazioni che valgono a determinare delle verità ancora sconosciute,
le quali possono in tal modo divenire oggetto peculiare della nostra curio
sità e delle ricerche nostre; e qui propriamente cominciano le ricerche della
verità, perchè quelle della prima specie meglio dir si potrebbero perce
zioni o ritrovamenti, che ricerche. Medesimamente non contengono più al
cun che di difficile da spiegare le ricerche della terza specie; giacché si è
già trovato il modo di avere le idee che in quelle si prendono ad analizzai;
Per non aver Platone fatta la distinzione di queste tre maniere colle quali
noi investighiamo, o almeno troviamo la verità; gli accadde di estendere la
difficoltà, di cui parliamo, ad ogni ricerca di verità : mentre la difficoltà non
esiste che nella prima maniera : quindi né anche la soluzione da lui data
potè esser vera e perfetta.
(i) Non si può esigere da un uomo che il primo spinse il guardo tanto
addentro quanto Platone circa l'origine delle idee, eh' egli rendesse le tro
vate dottrine all'ultima esattezza d'espressione. Succede agli uomini origi
nali che veggono i primi le cose , che sieno così presi dalle verità che si
presentano alle lor menti, che già paghi ed esultanti per tale conquista, non
s'affatichino maggiormente a sccvrarla da tutto ciò che di falso o di ine
satto quelle possouo avere attorno ed hanno comunemente nella prima ap
parizione che fauno agli uomini. Quelli non sanno più dubitare delle Pr0'
prie idee; e quasi rapiti alla inaspettata loro bellezza, non han più 'ena
né da lavorare d' intorno ad esse, né da dubitare della lor perfezione ; le
prendono quali sono, e le idolatrano: cosi nascono i sistemi; e parmi clic a
Platone, circa l'origine delle idee, sia succeduto qualche cosa di simile.
Nulladimeno la ragione di questi uomini , in qualche momento pm tran
quillo, li conduce., senza che essi si accorgano, più vicino ni vero. Platone,
per esempio, in certi luoghi lo va così rasentando, che se non esistessero
di lui che quelli soli , si direbbe forse ch'egli l'avesse assegnilo. , .
Nel Tectcto , per ispiegare il modo onde portiam con noi le cogii'Z""11'
c tuttavia dobbiamo investigarle , dice che queste si possono possedere seuz
averle, come chi serba uccelli in camerino, che li possiede senza pur aVer
301
la moltissimi luoghi delle sue opere Aristotele fa osser
vare, che Platone usa una improprietà di parlare, quando
ARTICOLO VI.
m BAGIONAMLNTO DI PLATONE BIMANI! QUALCHE COSA DI SOLIDO.
L'osservazione di Aristotele era giusta , ma non ab
batterà che una parte del ragionamento di Platone, cioè
enfila parte nella quale il detto ragionamento era ine
satto. All'incontro essa non penetrava nel fondo del me
desimo, e non distruggeva ciò che v'avea in esso di solido.
Sembra che sia avvenuto al grande Aristotele ciò che
suole accadere a tanti altri uomini minori di lui. Chi
giunge a discoprire in una dottrina qualche cosa di
falso, non si dà poi cura di formarne un maggior esame,
ma la ricetta d'avanzo, supponendola interamente falsa,
senta riflettere che quell'error ch'egli ha in essa trovato,
non è forse che una piccola parte della medesima, o
per avventura una mancanza di esposizione e di perfe-
2'one in qualche parte del concetto. Per il che, conside
rando io l'esame che Aristotele fa di Platone, e Com'egli
sembra che si sia fermato, quasi direi, nella corteccia,
non mi torna difficile a concepire, siccome i Platonici,
che pur sentivano nel discorso di Platone rimaner tut
tavia un fondo di verità (benché né pur essi il sapes
sero appurare e nettamente indicare; di che avveniva
loro il contrario sbaglio, di abbracciare la dottrina pla
tonica tutta intera ), dicessero che la dottrina delle idee
stava troppo più su dell'intendimento d'Aristotele, per
chè questi corre ed abbracciar la potesse (2).
E di vero, l'inesattezza del ragionamento di Platone
consisteva nell'averlo egli applicato alle verità di conse
guenza, come è appunto la soluzione di un problema
di matematica: mentre la forza sua e la sua solidità si
ARTICOLO Vili.
ARISTOTILE NON SEMBRA AVER MARCATO ABBASTANZA , IN ALCCNI LUOGRI
DELLE SUE OPERE , LA DISTINZIONE l'RA IL SE/tSO E L INTELLETTO.
sovente alle operazioni dell'intelletto: quindi avviene che dia a' sensi ciò
che spetta al solo intelletto (come il giudicare), e dia all' intelletto ciò che
spetta a' sensi (come il percepire passivamente le impressioni de' parti
colari): o per dir meglio, che accomuni le operazioni degli uni e dell'olirò
a tutte e due queste distinte potenze. In questo modo non è più difficile
spiegare gli atti dell'intelletto, giacché a spiegarli s'adopera il senso, e
nel senso gli alti stessi intellettuali si assumono come supposti: manifesta
pelatoa di principio.
ao8
ed evidentemente acquisite, e nulla più e V aver
creduto di sbrigarsi facilmente rispetto alle prime e im
mediate (com'egli le chiama), dicendo che queste trag
gono l' origine loro da' sensi mediante una potenza par
ticolare ordinata a ciò , ed avente tutto ciò che si
richiede al suo fine, la quale si appi '.la intelletto; fa
ragionevolmente sospettare eh' egli non abbia sentito
abbastanza intimamente la difficoltà che si trova nel
problema dell' origine delle idee, e che si manifesta a
pieno allorquando si toglie a spiegare l' origine delle
idee primitive e universa lissi me, idee che non si posson
dedurre, sillogizzando, da altre idee precedenti, per
ciocché di precedenti ad esse non ve n' ha , e da esse
tutte 1' altre si deducono.
Ciò che mi conferma in questa opinione si è il ve
dere, com' egli sembra che in alcuni luoghi delle sue
opere non tocchi abbastanza la distinzione fra l'operare
del senso che riceve le sensazioni , e l' operare dell' in
telletto che pensa.
(i) Un' altra parte della dottrina platonica fermò l' attenzione di Aristote
le, e avendola trovata falsa, fu cagione eh' egli si disgustasse di tutta la pla
tonica filosofia , e fu quella delle idee separate. Platone insegnò che le idee
che noi abbiamo fossero veri enti fuori di noi , e che 1' aver le idee non
fosse che un contemplare questi enti. Era un' ipotesi che Platone assumeva
per ispiegare il modo, come noi avevamo queste idee: di che (per dirlo di
passaggio ) non sembra che abbiano bene inteso Platone quelli , che hanno
a lui rimproverato di aver colle sue idee innate fatta retrocedere di un
passo la difficoltà della formazione delle idee, senza averla spiegata. In
tanto ad Aristotele non fu difficile il sentire quanto una simile ipotesi fosse
gratuita, e da rigettarsi. Ma non sembra essersi poi accorto eh' essa non
era la sostanza della teoria platonica , ma solo un cotal sostegno laterale che
metteva Platone alla sua teoria per sostenerla ; quindi Aristotele si sbraccia
in tanti luoghi a dimostrare che non v' hanno queste idee od essenze delle
cose sussistenti per sè in separato dallo cose stesse e dalla mente, e dimo
strato questo , fa vista di credere che ne venga per conseguenza non es
servi nell' uomo idee innate di sorte. Ma volendo procedere con distinzione,
la questione delle idee innate non ha che fare colla questione delle idee se
parate: o almeno, non è essenzialmente congiunta con questa; quelle pos
sono essere senza di queste : e v' ebbero non pochi filosofi che ammisero
le idee innate, seuza sognarsi né pure di ammettere le idee separate di Pla
tone, come, fra' moderni, Cartesio e Leibnizio. Ma Aristotele ragionava
sulle vestigia di Platone presso a poco in questo modo : - Le idee separate
sono un sogno: dunque V uomo non può avere in sè stesso le idee a quella
guisa che le mette Platone, cioè come una speculazione delle idee sepa
rate: dunque non le può avere in alcun modo. IVon si può adunque farle
nascere in lui se non mediante i sensi , ed una potenza che sia capace di
eavare dalle scnsazioui le idee ». Ciascuno sente come questa argomenta»
zioue sia manchevole e inconcludente.
2ViJ
Certo egli era arrivato a vedere che queste son dun
potenze diverse, nè le confuse insieme siccome a1 nostri
tempi fece il Condillac (i): ma egli le distinse solo pe"
loro oggetti, e non s'accorse di una differenza essenziale
anche nel modo del loro operare. Assegnò ai sensi esterni
per oggetti i particolari, ali1 intelletto gli universali (2) .
aali , è appunto ciò che vuol dire quella espressici] nostra : essere universa'
(n potenza ». Ma con vostra buona pace , in tal caso l'essere essi universa
in potenza non può spiegare come succeda l'operazione dell' intelletto sopr
di essi , perciocché questa viene unicamente enunciata con tale espi pssìodi
anziché spiegata. Il pretendere adunque di render ragione del modo ood
i fantasmi singolari comunichino colle idee, cioè cogli universali, dicetit1
phe da quelli vengono questi, perchè quelli sono universali in potenza;
un circolo vizioso. Egli è appunto come se voi diceste : «« dai fantasmi vei
gono tratti gli universali: e la ragione di ciò si è, che dai fantasmi P°
fono venir tratti gli universali ». In fatti , il dire che i fantasmi sono un
versali in potenza, è un affermare unicamente che da essi possono ess
cavatele idee (sinonimo di universali): è un affermare ciò di che si ceri
la ragione: un affermare con parole misteriose ed oscure, quanto in p
role chiare e comuni si propone perchè sia spiegato e dimostrato.
(i) De Anima, Lib. Ili, c. 9, ed in molti altri luoghi delle sue ppei
Vedi però più innanzi alla face ?|6 la nota <},
2» I
sima : eonciossiacliè questa facoltà non può essere che
nel solo intelletto.
E nel vero io ragiono così: o il giudicare è precisa
mente lo stesso che il sentire; ed in tal caso, che mai
significano queste parole « la facoltà di sentire è atta
a giudicare », se non una ripetizione vana di senso ,
equivalente a quest' altra proposizione « la facoltà di
sentire è atta a sentire « ? — ovvero il giudicare è una
operazione diversa da quella di sentire ; e in tal caso ,
come mai si può attribuire ad una facoltà , operazioni
essenzialmente diverse , e dire « il senso giudica » ; con
un assurdo , come abbiamo anche più sopra osservato,
amile a quell'altro, « gli orecchi parlano, o il naso guar
ii, o le mani starnutano », od altro concetto mostruo
so, ove una potenza è maritata cogli atti non suoi?
Veramente , allorché si spoglia il senso esterno da
tatto ciò che non gli appartiene, e perciò da qualsiasi
giudizio, egli si rimane una potenza passiva, mediante
la quale 1* Io, soggetto senziente, riceve certe modifica-
noni; il che è quanto dire, sente sè stesso come prima,
ma in altro modo diverso da prima , e sente altro di
verso da sè. Qui non e' è ancora alcun pensiero , non
c'è ancora alcun atto, onde il soggetto abbia detto seco
medesimo « esiste la tal cosa » , cioè abbia attribuito
l'esistenza (questa idea così universale) o a sè , o a
qualche cosa fuori di sè.
L' immaginare un essere dotato del solo senso, è ope
razione difficilissima, come dissi , a noi che non abbiamo
di ciò esperienza, ma solo di un soggetto dotato ad un
tempo di senso e d' intelligenza, quali siamo noi stessi :
bisogna giungere , per una astrazione , ad immaginare
un soggetto il quale certamente esiste, e sente sè stesso,
ma non ha concepito V esistenza, e non 1' ha attribuita
a sè stesso; la quale attribuzione è la formazione del
giudizio, è il pensiero stesso. Noi uomini siamo soliti
di sentire noi stessi, e di attribuirci contemporaneamente
col pensiero l'esistenza: quindi il pensare d'esistere, e il
sentire noi slessi, sono per noi cose così congiunte, mas
simamente dalla continua abitudine, che le rifondiamo
insieme; indi ci bisogna poi una operazione della più
fina chimica intellettuale, che ce le divida. Egli è ri
flettendo su ciò lungamente, che veniamo a conoscer
chiarissimo, siccome il sentir noi stessi semplicemente ,
e il giudicar d'esistere, son due cose assai lontane fra
loro: come è lontano quell'atto onde tutto l'/o inse
parabilmente sente sè medesimo, senza più, in quel
modo nel quale egli esiste; da queU' altro atto, col quale
non già tutto Y Io, ma una sua parte, una sua potenza,
l'intendimento, riflettendo sopra l'/o stesso, e avendo
in sè per sua natura l'idea di esistenza, cougiunge que-
sC Io sentito, coli' idea d' esistenza, e dice: Io ho esi
stenza. In questo detto , Io ho esistenza. , l'/o viene
giudicato, è 1' oggetto del giudizio : all'incontro l'/o
anche modificato dalla sensazione, non è giudicato, non
è l' oggetto di alcun giudizio; è semplicemente un sog
getto unico , indiviso , senza composizione o scom
posizione d' idee, in uno stato privo di movimento e
d'azione, eccetto quella dell'atto ond'è, e onde immobil
mente sente. Per tal guisa 1' attribuire a' sensi il giu
dicare, siccome sembra fare Aristotele in alcuni luoghi,
è confondere due potenze assai distinte, e dare al senso
ciò che non appartiene che all' intelletto.
Egli non par dunque che sia bastevole la distinzione
che mise Aristotele tra il senso e l' intelletto. « Secondo
a la sentenza d' Aristotele ( così un uomo che profon-
« damente studiato l'aveva), fra il senso e l1 intelletto
u non v' ha se non quest' una differenza , che la cosa
u si sente con quella medesima disposizione eh' essa ha
« fuor dell'anima nella sua particolarità; là dove la na-
« tura della cosa che s' intende è bensì fuor dell'anima,
« ma non ha quel modo di essere fuor dell' anima se-
« concio il quale s' intende la natura comune, esclusi i
« principj che la individuano : e questa maniera d'es-
« sere essa non 1' ha fuor dell' anima » .
Questo verrebbe a dire che il senso e l' intelletto non
differissero che da' loro oggetti immediati : il primo per
cepisce la cosa esteriore colle sue particolarità ; il se
condo ciò solo percepisce, che nella cosa esteriore v' ha
di comune, avendo in sè tale virtù di limitarsi a que
sto nella sua considerazione , astraendo da tutto il re
sto (i).
(i) Che virtù sarebbe questa? Il senso varrebbe assai più percependo
-lue il generale anche il proprio: l'intelletto non sarebbe in tal caso che
;:a senso limitalo! Aristotele che in tanti l.mghi mostra <!.' conoscere assai
lune 1 eccellenza dell intelletto sopra il senso, convien dire che o non vide
ai3
Primieramente, tutto ciò posto, la difficoltà starebbe
sempre a sapere come l'intelletto possa fare questa astra
tone , senza aver prima un astratto che gli serva di
jaida in tale operazione; giacche quando un uomo prende
a separare in due classi diverse un ammasso qualunque
d'oggetti, egli dee aver l' idea distintiva che costituisce
qnesle due classi , dee conoscere precedentemente quella
qualità che le differenzia. Laonde, perchè l'intelletto
agente possa distinguere e separare il comune dal pro
prio, fora' è al tutto eh' egli abbia in sè qualche idea che
gli serra di norma in simile separazione, mediante la quale
idea egli possa conoscere i gradi di universalità mag
giori o minori che hanno le parti dell' oggetto intorno
a eoi egli lavora per appurarlo, se mi si concede que
sto traslato di cui hanno fatto tanto uso gli antichi.
Ma lasciando questo e tornando al nostro proposito,
non bastava osservare che è proprio del senso perce
pire la cosa esterna individualizzata colle sue partico
larità tale qual è; bisognava di più dimandare, se in
una tale percezione l'uomo dice qualche cosa a sè stesso,
se dice per esempio, « la tal cosa che io sento esiste ».
Perocché s'egli tien questo discorso a sè stesso, s'egli
assente a questa proposizione, nel suo interno egli pro-
nancia nn giudizio. Ma è egli solo contemporaneo que
sto giudizio alla sensazione, o è la sensazione stessa?
Qui sta tutto il nodo.
Per poco che l'uomo rifletta sopra sè medesimo, si
accorgerà ch'egli sente la sensazione in qualche parte
esteriore del suo corpo, o almeno a quella la riferisce :
mentre il giudizio che fa in conseguenza di quella sen
sazione, è una parola interna che dice a sè stesso,
e che non riporta punto al suo corpo, nè ad una
mano, nè ad un piede, nè ad altra parte, come fa ri
spetto alla sensazione. Forz'è adunque dire, che il giu-
ARTICOLO IX.
«RISTA LA PAHAFRASI DI TEMISTIO , ARISTOTELE
NON AVREBBE CONOSCIUTA ABBASTANZA LA NATURA DELL* CHIV'USUÉ.
coli' intelletto, che è il passo difficile. In fatti la difficoltà sta tutta nel pass
aggio dalla sensazione al giudizio: ma dall'istante che di queste due cose
si forma una potenza sola , d' un simile passaggio non resta più a dir nulla :
egli si suppone : e tutta la questione si trasporta dal passaggio fra la sen
sazione e il giudizio, al passaggio fra un giudizio ed un altro giudizio: da
un nodo difficile, ad un argomento facile, e nè pur degno, direi quasi, di
proporsi in forma di grave questione. Succede in una simile soluzione pre
tesa dell'origine delle idee, come a chi dimandando in che modo si valichi
un fiume a nuoto, altri rispondesse: è facilissimo, hasta valicarlo iu barca:
dove la risposta non si affa punto colla proposta,
ai6
u una medesima cosa: altramente, come non v'ha che
u un Callia , così non potrebbe vedersi che un uomo. Ma
u chi vede Socrate, vede in Socrate ciò che v'è di si-
« mile e di comune anche negli altri uomini. Laonde
« in qualche modo l' universale si percepisce col sehso,
« non tuttavia spartito dal singolare , ma ad una, e per
« conseguenza » (i).
ARTICOLO X.
GIUDICASI È FID* CHE PERCEPIRE L* UNIVERSALE.
Né mi fa maraviglia che Aristotele concedesse al senso
di percepire nelle cose singolari anche la natura comune,
dappoiché egli avea conceduto ad esso la forza di giu
dicare.
Non si può giudicare senza la nozione comune; pe
rocché giudicare, non è che classificare, o riporre in
qualche classe degli oggetti; ed una classe non si forma
che mediante qualche cosa che sia comune agli oggetti
classificati.
Sicché l'attribuire al senso il giudicare, sembra an
che più che il dare al medesimo la percezione di ciò
che è comune ne' particolari, al modo che questa per
cezione gli dà Aristotele, siccome viene qui spiegato da
Temistio, cioè non mai sola, ma sempre co' particolari
individuamente unita; perocché a giudicare si richiede,
di più, che s'abbia l'idea di ciò che è comune, in se
parato da tutto ciò ch'è particolare, sicché ella si possa
applicare a' diversi particolari, e così quelli si classifi
chino o si giudichino (a).
niente non è centro per sè stesso, ma solo perchè noi colla nostra mente
riferiamo a quel punto i raggi; egli, per sè, non è che una cosa semplice,
un punto; tulle le relazioni delle linee le acquista egli per opera del no
stro stesso pensiero , non per qualche suo fatto.
Resta dunque a spiegarsi anche nel concetto del circolo , del centro e
de' raggi, come il pensiero sia atto a dare origine a questa moltiplicilà di
relazioni in cosa unica com'è il centro. Sicché la similitudine stessa del
centro, che si assume per ispiegare coli' analogia il pensiero degli univer
sali o sia delle relazioni delle cose, non è più chiara nè più spiegata del
pensiero stesso, perocché non è che un caso particolare del pensiero:
spiegato che sia come noi percepiamo i rapporti e gli universali, è spie
gato come il centro sia il termine di più linee; questo all' incontro non é
spiegabile senza supporre già data quella prima spiegazione. L' esempio
adunque è illusorio: non rischiara la difficoltà che apparentemente: non
giova nulla a spiegare siccome una potenza unica possa e sentire gli og
getti di più sensi, e giudicarli, cioè paragonarli insieme, notando in essi ciò
che v' ha di simile e ciò che v* ha di dissimile, giudicarli anche piacevoli
o dispiacevoli. Tutte queste operazioni sono reali; non sono mere relazioni
che aggiungiamo noi al senso comune col nostro intelletto, come avviene
del centro , quando noi Io consideriamo siccome il termine di molle linee.
E quand' anche fosse facile a intendere come una cosa sola possa aver
molle relazioni con altre cose; riman tuttavia difficile a concepirsi come
una potenza possa aver molti oggetti , e formar molte operazioni essenzial
mente distinte, rimanendo una potenza unica; se pure è vero che potenza
intendiamo ima forza particolare dell'anima, specificata e distinta dall'unita
dell' oggetto suo, o della sua operazione. Di vero il dire che il se/m'/* e il
giudicare sono due operazioni essenzialmente diverse, come Aristotele me
desimo pur coirviene, non è egli il medesimo che il dire che esse appar
tengono a dne diverse potenze? dall'atto del sentire non si denomina li
potenza di sentire, come dall' atto del giudicare non riceve il suo nome la
potenza di giudicare ? che se il sentire e il giudicare sono essenzialmente
la slessa cosa., perchè adunque attribuir al senso il giudizio? questa frase
non sarebbe, come dicon gl'inglesi, un non-senso? sarebbe come un dire:
attribuire al senso il senso: la parola giudizio in tal caso dovrehbesi poter
abolire dall'umano idioma, senza per questo accorgersi punto d'una man
canza , sostituendo la parola senso o sensazione : il che è evidentemente
impossibile. Ma vogliamo noi vedere da quale argomento Aristotele venia
condotto a dare ai senso stesso la facoltà di giudicare ? - Noi » ( ecco
com'egli ragiona) « noi non solo sentiamo, ma ben anco sentiamo df
«* sentire ; e sentendo di sentire , giudichiamo ciò che sentiamo. Ori
« noi o sentiamo di sentire con quello stesso senso onde sentiamo , o
« con un altro senso. Se con un altro senso , allora io vi ripeto 1*
« stessa interrogazione: com' è che noi sentiamo di sentire ciò che sen-
« tiamo per questo setiso ? forse con un terzo senso? in tal caso wit
n procederemmo all' infinito colla serie di questi sensi , perche si dovrebbe
•< sempre rinnovare lo stesso discorso. Forz' è dunque dire che noi
" sentiamo di sentire con quello stesso senso onde sentiamo: e perno
- con questo stesso giudichiamo » ( De Anima Lib. Ili , Lect. H )• Que"
sta argomentazione è ingegnosa, a dir vero; ma per non toccare che un
solo de' suoi difetti, ella si fonda tutta sopra un fclso supposto , cioè che
mane ad essi egualmente.' cioè trovi un' idea che a più
di essi convenga , che valga a noi perchè con essa sola
a molti di quelli pensar possiamo; solo dopo questa ope
razione comincia la parola comune ad avere un valore ,
e ad essere adoprata con proprietà. Il dire che i sensi
percepiscono il comune, è un supporre fatta quest'ope-
Taxione dell' intelletto , colla quale l' uomo trova nelle
cose che hanno acquistato un essere mentale, ciò che è
comune.- ed un supporre ancora , che questa cosa tro
vala da] l'intelletto e nell'intelletto sia l'oggetto de' sensi.
Così si viene nell'assurdo singolare di ammettere che
oggetto de' sensi sia una produzione dell'intelletto : e che
boa più il senso somministri all'intelletto la materia del
k1 senso sia necessariamente racchiuso il senso del senso. Che cosa vuol
(fir questa espressione , sentire di sentire? ella non può voler dir nulla,
se non significa una riflessione dell' anima sopra la propria sensazione.
Qorado 1' anima si rivolge sopra sè stessa per conoscere il proprio stato,
e trota d' avere una sensazione, allora si suol dire che sente di sentire.
Ma questa riflessione dell' attenzione dell' anima sopra sè stessa , è pro-
prawnte il pensiero : ella dunque , propriamente parlando , pensa di sen-
tòt , e non sente di sentire : ella pensa alla sua sensazione : la sensazione
•» tal caso è 1' oggetto di questo pensiero; all' incontro il pensiero stesso
«Patto: non si confonda adunque 1' oggetto dell'alto , coli' alto stesso :
i> Jessazionc che è Y oggetto, è esterna e passiva : il pensiero onde si ri-
Stite a questa sensazione, è interno, attivo e volontario. Quando adunque
Bei diciamo che sentiamo di sentire, usiamola parola sentiamo in senso
(ristato , in luego di pensiamo, e usiamo la parola sentire in senso proprio,
cioè per esprimere propriamente la sensazione. II puro senso, non sente
di sentire ; ma sente e nulla più ; la sensazione nasce contemporanea al
l' immutazione di un organo corporale, e non ha riflessione sopra di sè :
poiché se un organo sensibile toccato da un oggetto , viene ritoccato
dal medesimo o da un altro oggetto , non nasce in esso niente di si
mile alla riflessione , ma nasce solo una nuova impressione e sensa
zione simile alla prima , e distinta intieramente nell' esser suo dalla
prima. Ma l'uomo, com' è fornito anche della facoltà di pensare, non può
quasi mai avere una sensazione senza che abbia contemporaneamente il pen
siero della medesima , o almeno non se ne accorga , noi dica a sè stesso :
indi avviene che, ogni qualvolta noi ci accorgiamo delle sensazioni, non
ci sia mai in noi il solo sentire, ma sempre anche il pensare di sentire,
che per traslato si può dire (sebbene equivocamente) sentire di sentire.
Oia egli è ben facire, che noi attribuiamo agli esseri dotati del solo senso,
quello che esperimentiamo in noi stessi : e questo mi pare che sia avvenuto
nell' argomentare di Aristotele. Avendo egli osservato che 1' uomo , ogni
qual volta s'accorge di sentire, pensa altresì cioè riflette di sentire; sup
pose che quella fosse proprietà essenziale del senso , il riflettersi sopra sè
stesso : ed in tal modo fu condotto a dare al senso una rotai riflessione
sopra sè stesso , la quale è indivisibile dal giudizio; perchè eoi riflettere
cb io sento, non faccio che un giudizio sopra me stesso , o sia pronunzio
e dico a me slesso : « provo una sensazione » ; il ehe è fare un giudizio >
ossia è pensare.
223
pensare, ma pur l'intelletto al senso ! In tal modo il mal
uso che fa Aristotele della parola comune, lo sbalte da
un estremo nel suo contrario, recandolo a dover assen*
tire tale proposizione che è in opposizion diretta col
principio fondamentale del suo sistema , onde moveva
tutto il suo ragionamento , cioè che il senso sommini
strasse la materia all' intelletto.
ARTICOLO XII.
CONTRADDIZIONE IN LUE SENTENZE SI ARISTOTELE.
Il comune, astratto da ciò che è particolare, dice Ari
stotele stesso, non è che l'oggetto dell'intelletto.
Esaminiamo ancor meglio che coerenza s'abbia questa
proposizione colla precedente dottrina del filosofo nostro.
Il comune non può esistere prima che sia astratto:
è l'astrazione che dà a lui l'esistenza (non supponen
dolo innato). Questa parola, comune, non significa che
ciò che è simile in più individui; e ciò che è simile in
più individui, è un astratto, cioè è diviso da ciò che
è dissimile, come una natura è divisa dall'altra , e mas
simamente dalla sua contraria.
Quando dunque Aristotele dice che il comune non è
che l'oggetto dell'intelletto; quando afferma che gli uni
versali non esistono che nell' anima ; quando scrive con
tro Platone: «l'animale universale o è nulla, o è poste
li riore all'animale individuale, ed egualmente si dica
« di ogni comune » (r); allora egli si accosta a sentire tutta
la difficoltà che si rinviene nello spiegare il modo, onde
ci formiamo gli universali ; ed egli si divide in tal modo
da sè medesimo. Il dire da una parte : l' oggetto dell'in
telletto sono gli universali in quanto sono universali, e
per dirlo in altre parole: l'oggetto dell'intelletto sono
i rapporti degli enti esistenti e possibili ; ed il dire dal
l'altra : gli universali in quanto sono universali non esi
stono nelle cose singolari, ma solo nella mente; è una
cosa medesima.
Ma se ciò è vero, e s'è vero che il senso percepisca
i singolari e non gli universali in quanto sono tali ; è
adunque vero che il senso non percepisce l'oggetto del-
(1) Per superare questa difficoltà gli Scolastici sono ricorsi a dire , che
fmtelletto percepisce i particolari per quondam rejlexionem. Ma ognuno vede
die il pronome quidam , quaderni , quoddam, per quanto sia rispettabile,
■ —o adoperato come una tavola nel naufragio de' filosofi, tuttavia non
opre acquietare l'umano intelletto curioso d'investigare delle migliori
ai. La difficoltà, a mio parere, è quella stessa che più sopra ci cadde
di osservare relativamente al senso comune. La soluzione n' è la seguente :
Tanto il senso, come l'intelletto ha un soggetto solo : quell' lo stesso che è
modificato mediante le sensazioni, è quegli che pensa ad esse. Io non ho adun
que bisogno di supporre che l'intelletto, questa potenza particolare, perce-
le sensazioni, quasiché le sensazioni fossero percepite da due potenze:
quindi nou bo bisogno di supporre due specie di fantasmi l'uno simile al
l' altro; il che è un moltiplicar gli enti senza necessità, e mi condurrebbe
all'infinito. Ciò di ebe io bo bisogno, è di fissarmi colla mia attenzione
nel!' unità del su , nella quale uuilà si trovano tanto le sensazioni , come i
pensieri e le idee. Aristotele supponeva che altra fosse la sensazione nel-
t organo esterno, altra fosse la sensazione portata al centro comune: indi
due potenze , il senso proprio , ed il senso comune. Il vero si è , che nel-
l'orgino esterno diviso dall'anima non è alcuna sensazione; e che è sempre
/'anima quella che sente : non c' è dunque che un genere di sensazioni , e
non ci sono altri sensi corporei che i sensi organici. Ma giacché per tutti
questi sensi è sempre l'auima quella che unicamente sente ; quindi è l'aninw»
a3o
Ma se egli percepisce i singolari come il senso , in che
modo poi troverà in essi gli universali ?
Noi abbiam già osservato, che ne' singolari, . fino che
sono tali, nessuno universale si contiene: mentre questa
parola, universale, non esprime che una relazione che ha
una cosa con altre cose simili possibili ; e però è tale
oggetto che il solo intelletto percepisce , e del quale
il senso nulla ne sa. Ma se questo attributo di univer
sale l'aggiunge da sè l'intelletto, se non è punto negli
oggetti del senso, ove mai l'intelletto lo trova?
Platone supponeva, che l'avesse innato, cioè che l'in
telletto, allorché il senso percepiva gli oggetti singolari ,
aggiungesse a loro l'idea di essi universale.- ovvero, che
è il medesimo, supponeva che l'intelletto portasse con sè
gli esemplari delle cose, i possibili, secondo i quali esem
plari , come secondo norme distintive, classificasse gli og
getti de' sensi : e con ciò il nodo era sciolto , o cerio
almeno tagliato.
Avicenna ricorse ad un intelletto separato al tutto dal
l'uomo, dal quale l'uom ricevesse belle e formate queste
idee, sotto cui divider poi egli gli oggetti da' sensi per
cepiti: questo sistema pure soddisfaceva in qualche modo
alla difficoltà.
Ma Aristotele, inteso secondo i posteriori Scolastici,
nulla di questo (i) : egli pretende che l' intelletto agente
aggiunga l'idea di universalità agli oggetti singolari per
cepiti da' sensi (giacché è poi questo in ogni sistema
ciò che fa l'intelletto), senza che questi abbiano in sè
stessi quest'idea, e senza che la porti seco né pure l'in
telletto agente !
ARTICOLO XVII.
Bit SISTEMA ESPOSTO , l' INTELLETTO OFEREAEBBE CIECAMENTE :
assordita' 01 CIÒ.
ARTICOLO XVIII.
CENNO IN ARISTOTELE DELLA VEBA BOTTRINA.
ARTICOLO XIX.
(i) Questa similitudine del lume, tanto adattata a spiegare ciò che 1 in
telletto nostro ha d' innato , fu adoperata sempre : è una voce di <u"e ,r
scuole, una parola di tutti gì' idiomi. E la teoria che io presento in quest"
Saggio, non è, come ho già detto, che il commento di questa verità indicata
e pronunziata così bene dal senso comune.
a3o
separato, senza il prisma esterno de' corpi sensibili che
•partisse e determinasse la luce sua, tuttavia egli avrebbe
innata la luce : sebbene non avesse nessuna scienza di
dò che è particolare e determinato (i), tuttavia si con
cederebbe a lui qualche idea comune , qualche forma
non determinata a nulla prima delle sensazioni: in una
parola, sebbene egli non avesse in sè nessuna delle idee
derivate, come pretendeva Platone, avrebbe però innata
l'idea prima e universalissima : non avrebbe innate le
conseguenze, ma avrebbe innato, in certo modo, il prin
cipio inpremo; giacché l'idea di ciò che è comunissimo,
è (palla ( come vedremo a suo luogo ) che, applicata alle
cor meno comuni , prende il nome di princìpio : ed i
pnocipj sono riconosciuti da Aristotele stesso per indi
mostrabili .
Qaindi s. Tommaso conchiude, spiegando onde possa
lenire all'intelletto questo suo lume ingenito, con queste
parole: «Una virtù attiva sì fatta, è una cotale parte-
• cipazione di lume intellettuale dalle sostanze sepa
rate s {2), cioè, giusta la dottrina dell'Aquinate, da Dio
medesimo (3).
ARTICOLO XXI.
«O UUI , VOLENDO RIGOROSAMENTE SOSTENERE CHE NULLA V* AVE* d' INNATO
OU' COIIO , CADDERO NELl' ERROR d' AMMETTERE l' INTELLETTO AGENTE FOOS
WU.' ANIMA DMANA.
■
34»
sendo il tipo di tutti gl' individui simili. Fa dunque
bisogno supporre che 1' uomo , che riceve le sensazioni
particolari , abbia in sè una potenza di universalizzarle.
Ma poiché la universalità non si trova nelle sensazioni ,
quindi per attribuirla loro, conviene che questa potenza
capace di generalizzare abbia già precedentemente in
sé stessa questa universalità. Coli' aggiungere alle cose
sentile dai nostri sensi una veduta universale, esse di
ventano idee attuali, mentre prima non erano che in
potenza (i). Rendere adunque idee attuali i fantasmi
riceruti co' sensi del corpo, non è altro che universa
lizzarli : giacché coli' universalizzarli si dà loro quel
l'alto, per lo quale si possono dire, semplicemente par
lando, idee. E poiché niente può ridurre qualche cosa
inatto, se non ciò che è già in alto egli slesso; quindi
•pesta potenza , che ha virtù di rendere in alto le co
gnizioni , dee avere in sè quest'atto, ossia dee aver ciò
che costituisce l'universalità, che aggiunge a' fantasmi
da' nostri sensi percepiti » (a).
ARTICOLO XXIII.
mino 01 uinomi nu' ivu conosciuto che | necessario oh atto
PRIMITIVO INNATO NEL NOSTRO INTELLETTO.
Per altro a me sembra pure assai questo solo, che
Aristotele sia venuto a tale scoperta, cioè a riconoscer
nell'uomo una facoltà conoscitiva non meramente in po
tenza, ma essenzialmente in atto, sebbene egli non siasi
(1) Ciò che impedisce di trovare la verità nelle questioni , sono le idee
confuse che talora in esse si mescolano : e per conoscere ben a fondo la
storia degli errori , ne' quali un autore venne a cadere , conviene appunto
conoscere dove sta di casa l' oscurità e la confusione delle sue idee. Egli
è per questo , che noi abbiam notato più volte ne' ragionamenti di Ari
stotele i luoghi dov' egli sembra che non concepisca troppo nettamente e
semplicemente ciò di cui ragionava. Qui ne darò un nuovo esempio. La
questione intorno 1' origine delle idee consiste tutta a spiegare come noi
possiamo avere delle concezioni universali, mentre tutto ciò che ci pre
sentano i sensi sono concezioni particolari. Se noi possiamo trovare il modo
di avere una sola idea universale, la questione è risoluta. Ora convien sa
pere, che noi abbiamo bisogno di un universale fino dal primo giudizio che
noi facciamo colla nostra mente; perchè senza una tale idea non si dì
alcun giudizio. Il nodo dunque della questione sta tutto nel primo passo che
fu la nostra meute nel suo primo e più semplice giudizio. I filosofi all'in
contro, che non hanno troppo ben sentito, che la difficoltà stava tutta qui.
stava nel render ragione del primo passo della ragione ; che hanno essi
fatto ? Sui primi passi della ragione son trascorsi con tutta facilità , non
sospettando puulo , che in essi potesse trovarsi il nodo , e sono venuti agli
ultimi passi e ragionamenti che fa la ragione quando stabilisce de' prin
cipi scientifici. Essi allora si sono sbracciati a spiegare la formazione di
questi principi scentilìci ; e ci sono a dir vero pienamente riusciti ; con-
ciossiacbè tutto ciò che era difficile , cioè il primo passo del ragionamento,
1' hanno supposto , c non ispiegato. Ora alcune volte incappa in questo in
ganno appunto Aristotele: cioè, anche a lui si preseuta il nodo della que
stione fuori di luogo; negli ultimi passi, in vece che nel primo. Il luogo
di Aristotele che qui sopra ho citato, lo mostra apertamente. Egli quivi fa
ogni sforzo per ispiegare l'origine de' principi oelle scienze e delle arti,
rome se nella formazione di questi stesse la difficoltà, e non nella forma
zione delle prime idee volgari e comuni , dalle quali muove il ragionamenlo.
Ciò che osservo si vede più mauifeslamente nella parafrasi che fa Tcmi-
slio del succitato luogo di Aristotele. « L'universale, dice, è 1' opera della
« mente , e da essa si forma ». E come si forma? questo è il problema
che si propone. Risponde: « per una induzione; poiché è proprio della
<« meute di unire , e di raccogliere insieme , e , come dice Platone , di
« mettere un fine alle cose indefinite « ( Su questo passo mi sia permesso
■ li osservare di passaggio , come egli sembra che Aristotele convenga qui
con Platone nelì' ammettere che operazione propria dell' intelletto sia de
terminare ciò che precsisteva nello spirito d' indeterminato, il che confer
merebbe le mie conghicllure sull' intelletto agente di Aristotele ). Ora
questa induzione, colla quale la mente dai particolari raccoglie ed unisce
a45
Or dopo avere spiegata con tanta facilità la cogni
zione de' primi e più generali principj , voi vi aspette-
mono delle specie di cose, e non de' meri sussistenti. Si vuol dunque sa
pere come questo fanciullo dalle cose particolari, individuali e sussistenti
che co' suoi sensi percepisce, passi cosi celeramente alle specie, cioè alle
idee, senza le quali non si può fare venia discorso. La questione è que
sta. All' incontro Aristotele , o Temistio , sfugge da questa questione che
intende a spiegare 1' origine de' primi universali , per portare la questione
alla formazione de' principi scientifici, che sono le ultime idee, e che sup
pongono quelle prime già formate, poiché non sono che un connetlimento
di quelle. A torto adunque conchiude la spiegazione della questione che s' era
proposta, di trovar cioè come l'uomo si forma l'universale, con queste
parole: « Ma cosi poco a poco ed insensibilmente si forma questa induzione*
( dalla quale i principj scientifici si cavano ), «che è nascosto, per la sua
•> medesima continuità , dov'ella cominci c dov ella arrivi. Di che avviene che
« molti credano , che la stessa natura dell' uomo abbia ingenite delle no~
m tizie , senza alcuno studio , ovvero un intelletto che le produca e le ec-
m citi; il che è falso ». Nelle quali parole si vede il solito stile di coloro,
che tutto vogliono dedurre da' sensi : i quali non potendo spiegare il modo
onde l'universale possa dal particolare procedere, ricorrono a dire che
questo lavoro si fa per un passaggio cosi lento ed insensibile, che sfugge
alla vista dell' osservatore : e che quindi altri s'immagina , che l'univer
sale sia innato nell'uomo. Essi cercano in tal modo di stabilire il loro si
stema, spargendo delle tenebre. Tutte le idee vengono da' sensi : ma ìi
che modo ? in modo impercettibile, per una progressione che sfuggi
allo sguardo. In tanto però io dico: questa progressione dee esser infinita
poiché dal particolare all' universale ci ha una progressione infinita > noi
avendo l'universale limite alcuno, come tale; gl'individui poi per quanto s
moltiplichino, non possono mai formare nè esaurire una specie , nè pur
se procedessero indefinitamente. Convien dunque supporre, per ispiegar
rome le idee vengano dalle sensazioni, che sia possibile attualmente un
progressione infinita, l' ultimo termine della quale dovrebbero esser le idee
ma questo termine non verrebbe mai; poiché se venisse, la progressi orv
finirebbe, contro il supposto: le idee adunque non sarebbero mai prodotte
In somma fra le sensazioni e le idee non si dà una differenza di sola gra
dazione, ma di essenza: ed è impossibile il passaggio graduale delle un
alle altre. E tornando al nostro proposito , è irragionevole il discorso d
Aristotele, il quale è il seguente: « Non si danno idee innate, perchè
principi scentifici vengono dalle idee mediante un' induzione » ; il che
come dire: « i macigni non sono opera della natura, perchè è 1* uorr»
che costruisce con essi le case »> Senza eh' io tenga dunque I' esistenz
delle idee innate al modo di Platone , non posso non riconoscere 1' inesat
tezza del ragionamento aristotelico; la quale inesattezza però a me pare c
ravvisarla in Aristotele come in germe, e nel suo parafraste in una (or m
più sviluppata.
(i) PosUrior. L. II in f.
a47
Ed osservi il lettore quanto questa espressione , che
esclude dalle cose innate nell' uomo solamente gli abiti
Iderminati , convenga a capello colla mia maniera di
pensare, o di parlare (i).
Io trovo l'errore di Platone nell' aver egli supposto
che 1' uomo abbia innate le idee degli oggetti partico
lari, cioè le idee determinate e conformi in tutto agli
esseri-, dico all'incontro, che si trova nel suo sistema
una narte vera , se esso si restringe ad ammettere nel
l'uomo innata qualche idea non di oggetti particolari ,
ma di qualche essenza universale , qualche idea perfet
tamente indeterminata, e di quest'idee universali ed
indeterminate non più , ma solo tante quante son ne-
cesane a spiegare la formazione delle altre idee (2): la
necessita di che sembra pure da Aristotele esser sentita
allorquando non si fidò di escludere gli abiti indetermi
nati dall'essere innati, ma solo gli abiti determinati: non
escluse la luce , ma la luce già divisa in colori.
ARTICOLO XXVI.
DDE SPECIE DI DOTTRINA IN PLATONE.
(1) Laerzio dice di Platone, che - suole adoperare varietà di voci , ac-
m ciocché le sue opere non sieno intelligibili agi' imperiti ed ai rozzi ~.
Non credo però d' una eguale verità , sebbene né pure al tutto falsa , 1' al -
tra osservazione di Laerzio , cioè che Platone - usa le voci stesse con
» significazioni diverse: e di più adopera voci contrarie per significare la
<• cosa medesima » ; perocché questo avviene più in apparenza che in
realtà , quand' altri si mette dentro nelle più riposte parli della platonica
filosofi».
(2) Metaph. Lib. Ili , c. II. Aristotele si mostrò' quasi sempre poco cu
rante della filosofia tradizionale, e de' maestri di quella, eh' egli metteva
in ridicolo, come si può vedere da questo luogo della sua metafisica. Quindi
a5i
I teologi doveano esser quelli che s' occupavano in rac-
corre ed intendere le verità, che, comunicate ne' pri
missimi tempi del mondo da Dio agli uomini, non fur
inai interamente perdute, ma tramandate tradizional
mente di generazione in generazione. I filosofi all'incon
tro doveano esser quelli che non istavan contenti alla
tradizione e all'autorità, e spesso poco a queste atten
devano, ma s'applicavano allo studio delle verità dietro
la scorta del proprio individuale ragionamento (i).
Avendo io posto qualche attenzione ai caratteri di
stintivi delle due celebri scuole dell'antichità, l'italica
e la jonica, mi parve d'aver rilevato, a non dubitarne,
che ciò che fondamentalmente distingue l'una dall' al
tra , si è l'aver posto l'autor della prima, cioè Pitta-
gora, per base della sua filosofia la dottrina tradizionale;
e all' incontro l'avere l'autore dell'altra, cioè Talete,
messo a base di tutte le sue ricerche il solo raziocinio,
e fattene quindi una dottrina razionale ed esclusiva. Per
ciò al primo convenia 1' analisi , come al secondo la sin
tesi: \\ primo partiva dal tutto, e scomponendo veniva alle
parti, per ritornar sempre al tutto, oggetto de' suoi pen
sieri: il secondo partia dalle parti, e componendo volea
por salire al tutto ; ma nell'infinito viaggio egli venia
meno, e ricadea sempre alle parti , ed eran queste lo
<
a5a
scopo solo di sua attenzione che altro non percepiva: il
primo cominciava da Dio, e il secondo dalla Natura-, il
primo viaggiava nelle pure regioni dello spirito, e il se
condo in vano facea tutti gli sforzi per uscire dalla
materia.
Platone congiunse in sè tutte e due queste maniere
di- dottrina. Egli può dirsi discendente da Pittagora per
la via di Archita, e discendente ad un tempo da Talete
per la via di Socrate.
Ciò che v'avea di buono nella tendenza della scuola
pittagorica, era l'intenzione di raccogliere le dottrine
salutari conservate dalla società, che Dio nell' origine
aveva agli uomini consegnate (i). Ciò che v'avea di
buono nella scuola di Talete, era l'esercizio attivo della
umana ragione.
I viaggi di Platone per raccorre i pittagorici insegna
menti son troppo noti. Da Socrate all' incontro egli avea
appreso il metodo di filosofare, ossia di far uso del
proprio ragionamento. E in vero può dirsi che tutta la
dottrina socratica non sia finalmente che un metodo di
ben ragionare su tutte cose, che si presentano alla con-
siderazione nostra : in tal modo eli' era un perfeziona
mento della intehzion di Talete, il primo , si può dire,
che in Grecia abbia preso a pensar da sè stesso (a)-
(i) Negli Opuscoli Filosofici Tom. I, face. 61 e segg. , già feci osservare
che due cose diede Iddio agli uomini recentemente creali: i.° delle verità
positive; 2." mise in movimento, mediante la favella, la loro ragione, che
Don avea modo di muoversi liberamente da sè medesima, ma dovea esser
mossa da qualche principio esterno, ond'avea pur ricevuto 1* esistenza. Io
spero che chi avrà letto quel brano degli Opuscoli, e bene inteso la dimo
strazione che ivi presentasi dell'impossibilità, in cui era l'umana ragione
di dare un libero movimento a sé stessa, senza quell' eccitamento esteriore
della lingua, non dirà che io affermi qui delle cose gratuitamente. Da que
ste due prime cose adunque, ricevute dall'uomo fino da' primi istanti di
sua esistenz1», come da' lor proprj fonti , le due dottrine che ho distinta
procedono. Dalle verità positive nacque la dottrina tradizionale, che gli
uomini dovean conservare nella loro memoria con fedeltà : dal movimento
della laro ragione nacque la scienza razionale, che l' uomo dovea sviluppare
col ragionamento, o coli' applicazione de' prìncipi astratti ricevuti nella
favella , sia ai dati positivi della rivelazione , sia alle sensazioni che sopra
lui faceano gli esseri che compongono l' universo materiale. Così ambiaue
i rami dell' umano sapere si riducono finalmente alla prima causa ; vengono
da Dio; e l'uomo non vi aggiunge sovente che i proprj traviamenti.
(a) Cioè che abbia dato a' suoi studj un ardimento simile a quello ebe
uè' tempi moderni mostrò di dare Cartesio; formandosi la legge, di non
voler ricevere nessuna verità dagli altri uomini , prima d'averla egli stesso
Socra'e però non erasi contentato di ridurre a per
fezione il metodo di Talete (i): egli fede anche un passo,
innanzi nell' applicazione del medesimo. Fino ad Acche-,
Ijo, maestro di Socrate, il raziocinio filosofico non sup
plicava quasi che alle cose fisiche (a):, ci volle più di
nn secolo ( poiché tanto tempo corre dalla .filosofia: dì
Talete a quella di Socrate ), prima che questi, lo tras
portasse dalle fìsiche cose alle morali. Per altro quando
Socrate proferia quella sentenza « le cose che sono so-
« pia di noi nulla hanno a fare con noi » (3), mO-
ARTICOLO I.
LA DIFFICOLTA' NELLA SPIEGAZIONE DELLE IDEE FD VEDUTA DA LEIBNIZIO.
260
« de (1)? Io feci uso anche del paragone tolto da un
« pezzo di marmo venato, anziché d'un pezzo di marmo
u netto, o delle tavole vuote, che si suol dire tabula
u rasa appresso i filosofi; perchè se l'anima simigliasse
« a queste tavole vuote, le verità starebbero in noi come
« la statua d' Ercole sta in un marmo che fosse al tutto
- indifferente a ricever questa od un'altra figura. Ma
h dove nel marmo v' avessero delle vene che vi trac-
« ciassero la statua d'Ercole meglio che altre forme,
« quel marmo sarebbe a quella figura determinato, ed
« Ercole potrebbe dirsi trovarsi in esso siccome in-
« nato, in qualche modo, sebbene egli bisognerebbe pur
« del travaglio a discuoprir quelle vene, e nettarle, e
« scagliar via tutto il superfluo che impedisce di riuscir
« fuori la statua. Ed è così, che le idee e le verità sono
« innate in noi, siccome inclinazioni, disposizioni, abi-
« tudini, o virtualità naturali, e non già siccome azioni;
« quantunque queste virtualità sien pur sempre accora-
« pagnate di qualche azione, sovente insensibile, che a
« quelle risponde » (2).
ARTICOLO II.
l' ANALISI BELLE POTENZE IN GENERE, E NON l' ANALISI PARTICOLABE DELLA
roTEHZA INTELLETTIVA CONDUSSE LEIBNIZIO ALLA COGNIZIONE DELLA DIFFICOLTA'.
(i) L'alta stima che ho di Leibnizio mi fa essere con lui severo: ogni
negligenza del suo ragionamento merita di notarsi, acciocché apparisca per
quanto poco d'inavvertenza s'introduce l'errore, e come l'errore, per pic
colo che sia ed appena percettibile, è fecondo sempre d'una prole simile
a lui, che in una mente più conseguente, più celere si sviluppa.
Qui adunque Leibnizio , dopo aver detto che le facoltà nude non sono
che un'astrazione, egli ricorre al fatto, dicendo, che in tutto l'universo
non v'ha una potenza oziosa, cioè che senz' alcun atto rimanga, e in istato
di nuda e pura potenza. Questo è un passaggio troppo rovinoso : sembrava
ch'egli parlasse della natura delle potenze considerate in sè stesse , e che
affermasse la loro natura esser tate da dovere aver sempre congiunto un
qualche atto: è una speculazione metafìsica; trattasi di sapere se sia possi
bile una potenza priva di qualunque atto; siamo nel mondo delle mere pos
sibilità. Ora, a provare che non è possibile, l'appellarsi al fatto, chiedendo
« in che parte dell'universo mi si mostrerà una potenza priva di atto » , è
un trarsi fuori del primo discorso , un discendere nel mondo delle realità ,
un appellarsi all'esperienza per provare ciò che è possibile e ciò che non
è possibile. Ma l'esperienza non attesta se non ciò che è, e non è, non
addita che i fatti : ella non vale perciò a determinare ciò che può essere.
£ quand' anche valesse a ciò , chi potrà veramente affermare o negare per
via di osservazione, che iu lutto 1 universo non si trovi uua pura potenza,
la qual non si resti in questo stato di pura potenza almeno un solo istante?
chi potrà esaminarle tutte, sottometterle tutte all'osservazione, in tulli
gì' istanti di loro esistenza ? Dalle osservazioni che si facessero intorno a
ciò, non s'indurrebbe al più, che un argomento conghietturale d'analogia,
e questo a provare un fatto generale sì, ma uon per questo ancora d'as
soluta necessità. Ora il mescolare appunto i due mondi, il reale e il possi
bile , è frequente in Leibnizio. E perchè una tale confusione è di gran
conseguenza nella sua filosofia , non rincresca che io rechi un altro suo
passo , dove si scòrge la stessa congiunzione di ciò che è di fallo con ciò
che è possibile, e chiamato quello a provar questo. Iu un luogo adunque
a63
> disposizione peculiare all'azione, e ad una azione me-
« glio che ad un' altra. E oltre la disposizione, v' ha
- una tendenza all' azione , anzi un numero infinito
» di tendenze in ogni momento, in ciascun soggetto,
« e queste tendenze non sono giammai senza qualche
* loro effetto. L'esperienza è necessaria, io lo confesso,
« perchè 1' anima venga determinata a tale o a tal pen-
o siero, e perch'ella si accorga delle idee che sono in
» noi: ma io non veggo punto, come l'esperienza ed i
» sensi possano darci delle idee. L'anima ha essa delle
- finestre? rassomiglia essa a delle tavolette? è ella come
• della cera ? egli è chiaro che tutti quelli che pensano
»■ tal modo dell'anima, la rendono in fondo corpo-
• in » (i).
Così Leibnizio nota il pericolo di tutte queste ana
logie colle quali si suol favellare tuttavia dell'anima;
ed è appunto mediante tali similitudini, che i Lockiani
s' ingegnano di spiegare il loro sistema : sebbene dopo
di ciò pretendano seriamente d' essere sol essi quelli che
serbano un metodo di ragionare severo e rigoroso; e
tutù i loro avversarj all'incontro sostituire P immagi
nazione al ragionamento; e questo non per altro, se
(gli dice: - Io sostengo che naturalmente una sostanza non potrebb' essere
• senza azione »>; e dopo ciò immantinente soggiunge: « e che non ci hanno
• né pur dei corpi senza movimento » ( N. Essais etc, Avant-propos ). Ora
la prima di queste due proposizioni è astratta; ma la seconda, parlando
de' corpi , Tassi concreta , e quindi non è una proposizione necessaria coni' è
la prima. S'egli si fosse accontentato di dire, che i corpi devono agire
perché sono sostanze ; provato che sono sostanze, e che ogni sostanza deve
agire, tutto sarebbe stato provato. Ma dire che tutti i corpi si muovono,
soggiungendo « L'esperienza già mi favorisce, e non è d'uopo che coll
ii sullare il libro dell'illustre signor Boyle contro il riposo assoluto, per es-
« seme persuasi » ( ivi ) ; questo è un ricorrere a ciò che si fa nel inondo
reale, per determinare i rapporti stabili ed eterni del mondo ideale.
Tanto più ciò è osservabile , quanto che talora nelle idee di Leibnizio
si manifesta un circolo vizioso. Cosi per provare il fatto che l'intelletto
pensi sempre, ricorre alla necessità che ogni potenza abbia un qualche
suo atto; e per provar poi il principio che ogni potenza abbia un qualche
suo alto, ricorre al fatto, e dice: I esperienza mostra che non vi son po
tenze nella natura senza azione: quando la questione « se l'intelletto pensi
sempre », così posta, è appunto la questione se ci sia nel fatto una po.
tenza priva talora d'ogni suo atto.
Onde nasca che nella mente di Leibnizio il mondo ideale ed il mondo
reale non sieno abbastanza distinti, noi lo vedremo in progresso; vedremo
che la natura stessa della sua filosofìa lo portava a non fermare bastevol»
mente una si importante distinzione,
(t) Nouveaiix Essais etc., Liv. II, eh. I.
a64
non perchè dissentono da essi , e perchè non vogliono
starsi contenti a quelle analogie sensibili di cui i Loc-
kiani fanno uso, senza inquietarsene. E pure, escluse cotali
grosse analogie ( così viene a dire Leibnizio ) delle fine
stre dell'anima, della cera, della tavoletta rasa, e con
siderata l'anima qual'è, come una mera potenza di
pensare; voi, badando attentamente, vedrete, che forz' è
dare ad essa un qualche atto, perciocché non v' ha po
tenza di sorte senza un suo atto; ed ora se quest'atto
dee esser conforme alla potenza ond' egli è, conviene
che T atto della facoltà di conoscere abbia seco qualche
specie di cognizione , qualche nozione o idea innata che
formi di quello il termine e l'oggetto, in tal modo l'ar
gomento, pel quale Leibnizio riconoscea la necessità di
ammettere qualche cosa d'innato nello spirito umano,
somigliava a quello onde Aristotele provava, che nel-
1' uomo, a volere spiegare 1' origine delle cognizioni , era
necessario ammettere un intelletto agente, cioè un intel
letto che fosse originariamente e naturalmente in atto.
« Una percezione non nasce naturalmente che da un'al-
« tra percezione, come il moto non nasce naturalmente
u che dal moto » : così il Bruckero espone la dottrina
leibniziana, con parole che parrebbero uscite dalla bocca
stessa di Aristotele (i).
ARTICOLO HI.
LEIBNIZIO VEDE IMPERFETTAMENTE LA DIFFICOLTA', PERCHÈ LA DEDUCI
DA PRINCIPI TROPPO GENERALI.
ARTICOLO IV.
SOLUZIONE LEIBHIZIANA DELLA DIFFICOLTA'.
(i) E ciò non per la natura diversa essenzialmente del corpo e dell'ani
mi, mentre il corpo non era per Leibnizio che una unione di monadi
•empiici aventi ciascuna le lor percezioni, sicché in un senso le chiama
talora altrettante anime. La ragione perchè escluse l'impulso fisico, non
fu altra che lo «tesso principio generale da lui fermato, che « nessun esser
creato poteva avere un' azione reale sopra qualche altro essere e produrvi
ma mutazione », e che tutte le mutazioni doveano nascere in ogni essere
un principio interiore al medesimo : quest' era il concetto della potenza
4 agircene s'era formato Leibnizio. Tuttavia egli pare dimenticarsi talora
di questo suo principio generale, fondamento di tutto il sistema, e fermarsi
nrlu disparata natura del corpo e dello spirito.
Renivi, Orig- delle Idee, Voi. I. 34
266
giace, non procedono dunque che da un principio in
teriore a lui, il quale contiene l'efficacia di svolgersi in
quell' ente , portando in esso una serie determinata di
mutazioni : queste essendo dall' ente supremo armoneg-
giate per certe leggi stabili fatte consuonanti alle muta
zioni degli altri enti, credesi dagli uomini che le une
sieno cagion delle altre acuì precedono stabilmente, ed
effetti di quelle a cui stabilmente succedono; mentre
non sono realmente che coesistenti : cotal era la dottrina
della celebre armonia prestabilita.
Il principio, che tutte le mutazioni a cui un ente
soggiace non vengono che da una forza interiore al me
desimo, che si sviluppa e si spiega in una serie deter
minala di movimenti, applicavalo Leibnizio a dichiarar
1' origine delle idee, le quali alla nostra mente succes
sivamente si rappresentano siccome una serie di modi
ficazioni o mutamenti che in essa avvengono.
Il nostro filosofo immaginò dunque , che le idee tulle
fossero già nella mente nostra ab origine, e per natura
. della medesima, ma in un modo insensibile, sicché noi
non n'avessimo coscienza alcuna; e le chiamò general
mente percezioni (i), distinguendole dalle appercezioni,
che erano pur le idee, ma dopo già sorta la coscienza
delle medesime,
Egli adunque dicea , che l' idea è cosa dal pensiero
diversa, e quindi ch'ella può trovarsi nell'anima senza
un attuale pensiero, o sia senza un atto dell'attenzione
dell' anima su di essa idea ; « Perchè le cognizioni ,
« idee, o verità sieno nel nostro spirilo, egli dice, non
« è già necessario che noi abbiamo alcuna volta attual-
« mente pensato ad esse: non sono che abitudini nalu-
« rali, cioè a dire, disposizioni e altitudini attive e
u passive , e più che tabula rasa » (2). A cui il lockiano
Filalele facendo la solita obbjezione: « Ma non è egli
« vero, che l'idea è l'oggetto del pensiero »? così ri
sponde il nostro Teofilo : « Io l'accordo, purché voi ag-
« giungiate ch'egli è un oggetto immediato, interno, e che
« quest'oggetto è un'espressione della natura o delle qua-
ARTICOLO V.
COME LE IDEE INNATE DI LEIBNIZIO POSSANO VENI» TUTTE SUCCESSIVAMENTE
AD DNO STATO LUMINOSO.
(i) Ved. le Tesi pel principe Eugenio pubblicate da Leibnizio nel 1714-
ARTICOLO VI.
V MERITO DI LEIBNIZIO IN QUESTA QUESTIONE.
■
2j3
u profondamente, che non a* abbia qualche sentimento
u debile e confuso : e altri non si scoterebbe del sonno
« al più gran fracasso del mondo , se non avesse qual-
riflesse talora ve n' hanno di ben vive e forti : giacché ogni qualvolta tutta
la nostra attenzione viene raccolta in un oggetto ancora più interessante o
potente su noi , noi non badiamo agli altri tutti. Quindi Archimede non
si accorgeva del romore dell' esercito romano che entrava in Siracusa ,
trovandosi assorto nella soluzione d'un problema della scienza da lui alta
mente diletta.
(1) N. Essais etc. , Avant-propos.
(2) Questa frase di percezioni insensibili mi fa credere che Leibnizio non
sia stato coerente a sè stesso, mentre, come ho osservato di sopra, talora
egli descrive come da noi sentite le percezioni, sebbene prive di apperce
zione. Come che sia, notisi che la sensazione è tutt' altro dilla riflessione
<"he si fa su di lei : per questa riflessione è, che noi ci accorgiamo d' avere
la sensazione e pensiamo ad essa : senza questa riflessione , noi avremmo
la sensazione bensì nell' auiraa nostra ( diversa al tutto dall' impressione
Eterna fitta nei nostro corpo, la quale può essere non sentita dall' anima );
come la statua segnala in bianco marmo da tenuissime
vene rossigne o giallognole, o d'altro colore, che servir
possano di traccia allo scarpellino per cavarne la statua
stessa : egli avrebbe nel marmo la statua tutta , ideata
e disegnata da quello scherzo della natura. Quindi tutto
lo sviluppo delle facoltà intellettuali consisterebbe, se
condo Leibnizio, in un lavoro dell'anima di render via
più risentite e più forti le idee che sono in essa quasi
direbbesi abbozzate dalla natura , riflettendo su quelle
per accorgersene e averne 1' attuale intuizione, e poter
per essa altrui favellarne.
Grande è 1' uso che fa Leibnizio di questa moltitudine
di percezioni leggiere nate con noi : trae di esse la spie
gazione di quasi tutti i fatti dello spirito. « Son esse,
« egli dice, che formano questo non so che, questi gu-
u sti, queste immagini delle qualità sensibili, chiare nel
« loro tutto, confuse uelle lor parti; queste impressioni
« che i corpi che ne circondano fanno su noi, e che
« racchiudono l'infinito; questo legame che ciascun es-
« sere ha col resto dell' universo. Può anche dirsi che,
« in conseguenza di queste piccole percezioni , il pre-
« sente è gravido dell'avvenire e pieno del passato; che
« tutto è cospirante, av/invoia, cravra, come diceva Ip-
x pocrate ; e che nella minima delle sostanze, degli oc-
« chi penetranti siccome quelli di Dio, potrebber leg-
« gere tutta la serie delle cose dell'universo
- Qua sint, quee fuerint, quee moxfutura trahaniur (i).
ARTICOLO VII.
LEIBNIZIO AMMISE d' INNATO MENO DI PLATONE.
ARTICOLO Vili.
CIÒ CHI LEIBNIZIO AMMETTE d' INNATO £ PIÙ CHE NON BISOGNA A SPIEGARE
IL FATTO DELLE IDEE.
(i) Filalele obbietta a Teofilo, uell' opera citata di Leibnizio, che per po
tere ammettere delle idee lunate converrebbe avere delle prove cavate dal
l' esperienza sensibile : a cui risponde Teofilo: t Si decide questa questione
« a quel modo onde si prova averci de' corpi impercettibili e de' movi-
* menù invisibili , quantunque certe persone li mettano in ridicolo. Così
" V hanno delle percezioni poco rilevate che non si distinguono già molto
" da poterle appercepire e sovvenirsene , ma esse si fanno conoscere me-
■ diante delle conseguenze certe ». N. Essais eia, L. II, c. L
a;8
mettere nella mente più che non bisognava d'innato.
Ecco come questo gli avvenne.
Non avendo fissata abbastanza la natura della potenza
intellettiva e delle idee , egli non potè far uso di quella
intima connessione che hanno le idee fra loro: per la
quale 1' una ingenera di sè l'altra: diche avviene, che
non sia necessario l'ammettere innati i vestigi di tutte
le idee, com'egli di fare è costretto, ma che sia suf
ficiente l'ammettere innata quell' una idea, che si fa
madre e generatrice di tutte 1' altre.
E veramente la difficoltà da me proposta consiste tutta
nello spiegare il modo, onde noi cominciamo a giudi
care. Che se una sola idea è innata , n' abbiamo già
abbastanza : perciocché col far uso di quest' idea noi
possiamo avere a nostro agio una serie di giudizj; e
questi giudizj darci delle altre idee; e quindi far con
esse altri ed altri giudizj , e cavarne altre ed altre idee.
Convien dunque esaminar bene la genealogia delle idee:
questo esame ci conduce a trovar di tutte un solo sti
pite, una idea prima, l'essenza delle idee, colla qual
sola noi veniamo ad aver perfetta la facoltà di giudi
care. Di questa indagine poco si curò Leibnizio : indi
non potè trovar modo di ridurre le idee innate ad una
sola primitiva, capo ed origine di tutte l'altre.
E non voglio io dire che Leibnizio non vedesse punto
siccome una idea si deduca dall'altra; dico che di que
sto principio non fece tutto 1' uso che far potea ; per
ciocché se fatto egli l'avesse, invece d'ammetter nel
l'anima la percezione dell'universo, e di tutte le sin
golari cose eh' esso comprende, le quali secondo Leib
nizio sono infinite, sarebbegli bastato pur una sola idea
pura, dalla quale, aggiunte le sensazioni, tutte l'altre
idee e cognizioni potevano provenire (i).
(i) Leibnizio, per esprimer ciò eh' egli ammette d' innato, adopera ta
lora l'espressione di cognizion virtuale: di che sembrerebbe eh' egli am
mettesse solamente una cognizione racchiusa in qualche principio : giacché
le conseguenze si dicono virtualmente ne' principj contenersi , perchè da
essi si posson dedurre. Ma più luoghi del nostro filosofo dimostrano che
tutte le cognizioni innate egli le ammetteva esistenti per sè , e non virtual
mente solo in altre comprese. Ecco in fatti un passo dov' egli spiega sè
stesso : « La conoscenza attuale ( delle scienze le più difficili ) non è punto
v innata, ma bensì ciò che si può chiamare la conoscenza virtuale ; come
■ la figura tracciata dalle vene del marmo, è nel marmo prima che la si
ARTICOLO IX.
ALTRI ERBOSI DELLA TEORIA LEIBNIZIANA.
dati , t." una ipotesi astratta , quali sono i dati dello spazio , tempo ecc. ,
a* una ipotesi concreta , cioè i corpi ecc.
Ora Pascal confuse la necessità apodittica de' principj della ragione colla
necessità ipotetica de* dati primi. Leibnizio poi discese un passo più giù,
e confuse la necessità apodittica de' principi colla necessità doppiamente
ipotetica quale è quella delle conseguenze che si deducono rispetto alle
cose ieL mondo reale.
IL Oltracciò il discorso che fa Leibnizio è rivolto a provare, che noi
eoo possiamo ripeter da' sensi tutte le nostre cognizioni , giacché i sensi
ara ci danno mai cognizioni necessarie e generali , le quali forz' è che noi
k caviamo dal fóndo della nostra propria ragione. Ora vale a provar ciò
non solo qualsivoglia necessità , che si mescoli nei nostri ragionamenti ,
cioè non solo la necessità apodittica, ma ben anco la necessità ipotetica ,
di qualunque grado ella. sia: perchè i sensi non possono dar giammai ne
cessità di qualsiasi maniera. Il ragionamento leibniziano adunque procede
rettamente nel suo tutto; ma si può notare in esso una inesattezza parziale,
che è la seguente. Egli confonde l'operare delle bestie, coli' operare degli
empirici: io affermo che ciò è inesatto; e che anche l'operare degli empi
rici mostra una ragione , un principio che ha la sua generalità e necessità,
e che per ciò in questa parte non può essere dedotto dai sensi. In fatti gli
empirici nel loro operare si dirigono dietro i casi simili; essi dunque par
tono dal principio generale dell'analogia, il quale sebbene gì' inganni fre
quentemente, tuttavia non si rimane dall'essere generale, od almeno essi
lo prendon per tale: essi errano perchè danno troppa fede all'esperienza,
ralla rgano troppo le sue applicazioni: fu cosi, dunque sarà così. Questa
stessa estensione soverchia che danno ai risultati della esperienza, questa
nni versalizzazione de' casi simili , non la potrebber fare limitandosi a' scusi ;
essi usano della loro ragione a far ciò, aggiungono ai fatti una universalità,
ed una necessità che cavano da sé stessi; e sebbene in ciò errano, errano
perù uscendo dal confine de' sensi, e mostrando di avere iu sé stessi la
eoDcezione de\Vuniversale e del necessario. All' incontro non così fanno le
bestie; perocché queste seuza alcuna regola seguono l'istinto loro, o la
loro abitudine: dalle quali cose ricevono una inclinazione e pendenza a
ripetere certe azioni, a preferirne alcune, e fuggirne altre. L'operare adun
que dell'uomo anche empirico, non può confondersi coli' operare dell' ani-
■asle privo di ragione.
a84
nel mondo delle cose reali (i), e di poter ella esser alta
a prevedere alcuni avvenimenti, sebben non sieno questi
forniti che di una necessità meramente ipotetica.
Il che dovea nascere a Leibnizio, come dicea, dalla
natura del suo sistema. Ammettendo egli nello spirito
innata Ja rappresentazione di tutte cose dell'universo,
supponeva nella natura di un tale spirito esser non solo
le idee pure, ma altresì quelle di tutte cose reali che
l'universo intero compongono. Quindi naturai cosa era
per lui l'ammettere, che lo spirito umano traesse di
sè, e, com'egli esprime, dal proprio fondo, non pur
delle verità astratte, ma delle concrete ancora, cioè delle
verità risguardanli le cose reali: e quest'è l'origine del
presentimento leibniziano , cioè della facoltà di preve
dere, ragionando, degli avvenimenti.
ARTICOLO X.
CONCLUSIONE SULLA TEORIA LEIBNIZIANA.
Da tutto ciò che noi abbiam detto può rilevarsi che
Leibnizio
i.° Ammise troppo d'innato, ammettendo innate tutte
l'idee; mentre non è necessario d' ammettere innata che
un'idea sola; bastando quell'una a spiegare la forma
zione di tutte l'altre, date che sieno allo spirito le sen
sazioni , come noi vedremo meglio a suo luogo (2).
a." Troppo estese la forza della ragione a priori, non
contentandosi di concederle i campi astratti della pos
sibilità, ma dandole ancora il diritto di scendere alle
CAPITOLO III.
KANT. .
ARTICOLO I.
KANT IMMETTE SENZA ESAME IL PRINCIPIO LOCX1ANO DELL'ESPERIENZA.
■ '3 ; che ogni azione dello spirito procede da una attività interiore al me-
codino , da degli istinti che vanno soggetti da per sè ad un determinato
sviluppo. Gliela negherà Malebranche, e tutti quelli che da una azione
■rame-aiata di Dio sullo spirito umano deducono le idee del medesimo. Il
pretendere che lutti questi oppositori non si debbano curare, è troppo; nè
n afta al metodo che suol tenere l' autore del criticismo , il quale nelle
opere sue discende a ribattere delle opinioni di questi filosofi assai meno
importanti di quella di cui parliamo. D'altro lato, se quella prima propo
sizione non ha bisogno di esser provata, cònvien dire che tutta la filosofia
critica non ne ha pure bisogno; perciocché in quella proposizione si con
tiene tutto in germe il criticismo. In fatti quella proposizione viene a dire
così: «È certo che Cartesio, Leibnizio, Malebranche ecc., e tutti quelli che
ammettono delle nozioni innate, o venienti da qualche essere diverso da'
corpi , hanno il torto ». Ammessa come certa una tale proposizione , con
viene ricorrere al kantismo per rendere ragione delle cognizioni nostre.
Kant adunque comincia dal porre come certo un principio che rende ne
cessario il suo sistema: non è egli questo un ammettere il sistema mede
simo come certo fino dal principio c avanti ogni prova? Egli è pur questo
un errore frequentissimo de' filosofi : cominciano essi col piantare una pro
posizione che sembra evidente e che implicitamente contiene la loro teo
ria , e questa proposizione si dispensano dal provarla : poscia deducouo
dalU medesima la lor teoria , e la dichiarano bella e provata , giacché è
'1. (lotta da un principio che hanno supposto c fallo passare come ammesso.
a88
ARTICOLO II.
URI NELL' OPPOSIZIONE CHE FECE * LOCKE IMITÒ LEIBNIZIO.
(1) Kant non pare sempre coerente a sè stesso nel valore che attribuisce
alla parola sperienza. Quand'egli dice « ogni nostra cognizione incomincia
u colla sperienza, ma non ogni nostra cognizione nasce dalla sperienza »
( Crii, della R. P., Introd., I), egli prende la parola sperienza per l'uso
de' nostri sensi. All'incontro quando egli domanda « come sia possibile
« l'esperienza » (Ivi, II), pare ch'egli prenda la sperienza come il fonte
di tutte le nostre cognizioni , e che la distingua da' sensi: egli allora prende
la parola sperienza per gli atti del nostro spirito , che sono misti di sensi
bilità e d'intelligenza. Generalmente però è il primo significato ch'egli at
tribuisce alla parola sperienza j ma io amo meglio di prenderla nel secondo,
perchè mi sembra che ciò faccia sentir meglio il fondo della riflessione kan
tiana. Mi allontano dunque alquanto qui dalla sua maniera più comune di
esprimersi , ma non dalla sostanza della sua filosofia : che se questo non
piace , il lettore n'è già avvertito, ed egli può correggere da sè le mio
espressioni.
28g
ARTICOLO III.
cognizione , l'uni a priori, l'altra a postbriori ,
. da tutte le scuole filosofiche.
(1) Locke fa uso della parola essenza, mentre in altri luoghi sostiene che
dell'essenza noi non abbiamo la menoma cognizione. È questa la contraddi
zione perpetua in cui son costretti di avvolgersi que' filosofi tutti , che vo
gliono eliminare dal sapere umano qualche cosa di ciò, di cui l'uomo non
può far senza : ciò che direttamente escludono , dichiarandolo oggetto estra
neo alle ricerche filosofiche, lo introducono poi indirettamente e inavvertita
mente ne' ragionamenti loro, e suppongono quello che prima aveano per
tinacemente negato: ed essi sono necessitati a far cosi: altramente non
potrebbero nè ragionare, né favellare : je essenze delle cose sono elementi
di tutti gli umani pensieri: e la loquela, che è formata sui primi principi
del senso comune, coutien per tutto r espressione delle essenze, c uon si
può proferir parola senza esprimer queste, o a queste alludere.
(2) Lib. IV, cap. ni.
(3) Locke dice , «e Le idee universali non possono essere che od nostro
« spirilo, e In riflessione è quella che glivlv somministra n. Ora iu che
2QI
Condillac, nel suo Corso degli sturi/, afferma che
questa distinzione fra le verità a priori , e le verità
sperimentali , esiste realmente : dalle prime egli fa na-
were V evidenza di ragione, dalle seconde Y evidenza di
sentimento e di fatto.
Leibnizio osserva il medesimo ; se non che dimostra
incora , che la certezza delle cognizioni nostre non può
venirci in alcun modo dalle sensazioni, ma dalla slessa
mente.
Laonde, che la nostra cognizione sia di due specie,
sembra un fatto riconosciuto egualmente da tutte le
scuole contrarie, un fatto, onde si può a buon diritto
partire siccome da un punto bene assicurato , e innol-
trarai in queste ricerche.
(i) L' esperienza nostra sopra qualsiasi cosa , quantunque volte ripetuta ,
é sempre piccolissima, anzi infinitamente piccola, verso i casi possibili: cua
è nulla, in relazione ad un'idèa universale e necessaria, che abbraccia tutto
ti possibile.
ag5
liti noo è al tutto reale e rigorosa: non è, secondo
1* espressione di Kant, che « un aumento spontaneo di
» prezzo, dal valere il più delle volte, al valere per
- tutte » (i).
Ciò però che merita somma attenzione si è, che noi,
e ci limitassimo a' soli sensi, non potremmo nè pur dare
questa universalità di analogia, sebbene imperfetta , alle
nostre cognizioni.
Per vero , se noi ci limitassimo rigorosamente a ciò
m\o che ci somministrano i sensi , noi non avremmo nè
par mai l'idea di una universalità possibile.
ilbiam noi percepiti sei oggetti? noi non potremmo
etili» mente nostra estenderci al settimo, perchè non
l'ibbiam percepito: molto meno potremmo estenderci
i tutti gli esistenti , rispetto a' quali il numero di quelli
che abbiam percepito sarà forse una menoma parte ;
meno ancora a tutti assolutamente i possibili. E per
questa ultima estensione, che si richiede sempre una
(t) Si può dire che qualunque fallo non è che un effetto : la causa
dunque, come tale, è essenzialmente insensibile, come la sostanza.
3oo
nire da' sensi, perocché l'universalità non si esperimenta,
tutti i fatti esistenti non si esaminano, i possibili non
cadono sotto i sensi, mentre ancora non sono (i).
Da lutto questo Hume conchiuse che la proposizione
u ogni effetto dee aver la sua causa » non si potea de
durre in nessun modo dalle sensazioni.
Ma il principio « che ogni nostra cognizione traeva
l5 origine dalle sensazioni » , era già ammesso irrevoca
bilmente, e circa questo non si potea transigere. Che
dunque restava a fare?
Nuli' altro, che ad usare quel metodo di ragionamento
che avea usato Locke medesimo relativamente all'idea
di sostanza. Un tal metodo consisteva in rigettare come
non esistente tutto ciò che cozzava col principio del
sistema.
L'idea di sostanza Locke la trovò ripugnante col
detto principio: dunque la negò. Hume scoperse una
medesima ripugnanza, non osservata da Locke, della
cognizione a priori: bisognava dunque negare che esi
stesse questa specie di cognizione, ed Hume scelse questo
partito.
Negò adunque che il principio « ogni effetto dee aver
la sua causa » fosse necessario ed universale; in una
parola , affermò che questa enunciazione del senso co
mune degli uomini era falsa.
Ma onde avvien adunque che gli uomini così s' in
gannino? che la suppongano sempre vera, che ne fac-
cian uso continuo in tutti i loro ragionamenti?
Questo fatto, per Hume, era un error di abitudine.
È tanto facile a passare dall' idea di congiunzione a
quella di connessione , è tanto facile considerare l' un
fatto come causa e l'altro come effetto, quando l'uno
costantemente precede e l'altro costantemente sussegue,
che gli uomini scambiano l'una cosa coli' altra, e nomi
nano causa ed effetto tutti que' fatti che vedono con
certa costanza succedersi. Di più, se questo loro erro
neo giudizio si ristringesse a quelle cose che cadono
sotto la loro sperienza , non potrebb' egli mai essere una
proposizione universale: è adunque un loro arbitrio
(i) Io presento il pensiero di Hume con delle ragioni fors' anco più
forti di quelle eh' egli stesso propose ; ma il fondo del ragionamento è il
medesimo.
3oi
quello che la rende universale ; essi estendono l' espe
rienza oltre i limiti a lei prefìssi : dall' esperimentar che
fanno molte volte la successione ed apparente dipen
denza di due fatti , concludono che così sarà sempre,
die così è anche di que' fatti che non esperimentano ,
anche di quelli che non esistono, ma che sono mera
mente possibili , ed inventano in tal modo la proposi
none generale, a cui prestano poi credenza, «tutti gli
effetti hanno una causa ».
Ma questa proposizione , resa dall'immaginazione uni'
versale, non sarebbe ancora necessaria : gli uomini im
maginano dunque ancora , e perfezionano 1' assioma: im
maginano cioè che non possa essere altrimenti, ma che
fatti gli effetti debbano avere una causa di necessità, e
riducono la proposizione a questa solenne sentenza « tutti
|li effetti debbono avere una causa ».
Per tal modo una proposizione necessaria ed universale ,
una proposizione ammessa sempre da tutto il genere
amano, la proposizione « non può esistere un effetto senza
una causa » , sulla quale si fondano quasi tutti gli umani
ragionamenti, che è la base di tutte le verità più ele
vate , di tutte le credenze , e di tutte le dottrine mo
rali , rimase nella filosofia moderna senza alcuna rea
lità ; e si cangiò in un'illusione, in un errore dell'im-
maginazion troppo celere dell'umanità tutta intera; chè
tatta intera l'umanità si convince d'errore dal princi
pio lockiano « che tutte le cognizioni umane hanno
1' origine da' soli sensi! » Così i pochi filosofi de' tempi
prossimi a' nostri , che si sollevarono sopra il senso co
mune, e che lo abbandonarono agl'innumerevoli vol
ghi e alle innumerevoli scuole , hanno trovato e pro
clamato una teoria tanto semplice, un principio tanto
fecondo, che, attribuendo alle sensazioni sole il diritto
di produr le idee , dichiara una vana chimera tutto ciò
che è ragionevole , solo per questo eh' egli non è sen
sibile.
ARTICOLO VI.
■anu paste dilla cognizione a priori si può spiegare co' sensi.
(i) Hume distinse le cognizioni umane in due classi : cioè in quelle che
consistono in semplici relazioni d' idee , come sono tutti i ragionamenti
della matematica pura; e in quelle che discendono ai fatti , come sarebbe
la proposizione « non si dà effetto senza causa m . Egli si occupò a distrug
gere questa seconda specie di cognizioni a priori , lasciando sussister la
prima. Ma , supposta anche una tale distinzione , questa non poteva sus-
stere meglio dell'altra: la dialettica di Hume, appoggiata al principio loc-
kiano , è un umore corrosivo atto a discioglier tutto , e fin l' ombra di
ogni cognizione a priori, e poi anche di ogni cognizione a posteriori che
si raggiunge alla prima. Il ragionamento che io feci, lo prova : mi sembra
che non si possa replicar nulla solidamente. La distinzione di Hume fra la
cognizione a priori che consiste nella semplice relazione fra le idee , e
quella che discende ai fatti, quand'anche fosse reale, nulla influirebbe nel
l'argomento; si l'una che l' altra verrebbero medesimamente involte nella
mina. Di più , la proposizione * non si dà effetto senza causa » , fino che
si considera in generale, non è altro che una semplice relazione di idee,
come qualunque proposizione della matematica pura , per esempio , « due
cose eguali ad una tena sono eguali fra di loro ». Se poi applicate quella
proposizione a qualche effetto o causa particolare , ella passa ai fatti; ma
ciò conviene pure ugualmente alle proposizioni della matematica pura ,
quando s' applicano ai corpi e se ne trae la matenlatica applicata. La pro
posizione che è vera in teoria , è sempre vera anche nell' applicazione
pratica, quando s'abbia l'avvertenza di calcolare tutti gli elementi che entrano
nella pratica a modificare il risultato della proposizione puramente teoretica.
Quando io voglio calcolare la spinta di una volta che intendo di costruire ,
per conoscere la solidità de* fianchi di che io debbo fornirla , non faccio
che partire da delle proposizioni teoretiche, da delle semplici relazioni d'i
dee circa la natura degli archi, la gravità, il moto ecc.; e prima ancora
di tutto ciò, da delle semplici ragioni numeriche, in somma dalle propo
sizioni di un'algebra e di una geometria pura. La certezza adunque di
quelle proposizioni universali e necessarie che non sono che semplici rcla-
zioni a idee , e di quelle altre che discendono al fatto , è connessa intima
mente insieme: se quella esiste, questa pure esiste: non sono che una cer
tezza sola: le proposizioni che discendono al fatto, non sono che applica
zioni delle proposizioni teoretiche che non presentano che una semplice
relazione d'idee: sono queste che comunicano la forza a quelle; nè la cer
tezza di auelle si può distru?<rere . non si distrugge la certezza di queste
3o3
Il principio adunque di Locke « ogni nostra cogni
zione viene dai sensi » è in contraddizione con questo
fatto « esiste una cognizione a priori » : e chi lo ab
braccia, se vuole esser coerente con sè medesimo , dee
negare ali1 uomo la cognizione di qualunque proposizione
universale « necessaria.
Per sapere che cosa voglia dire, negare qualunque
proposizione universale e necessaria, si osservi che, tolta
via cpialunque proposizione universale e necessaria, è
lolla via la possibilità di qualunque certezza, ed è sta
bilito il perfetto scetticismo.
(i) Una proposizione che induca probabilità , anch' essa può contenere
una sua propria universalità e necessità: per esempio, quando d* un sacco
di palle tutte nere, eccetto una bianca, io dico « è più probabile che esca
una nera anziché la bianca «•} questa proposizione è universale e necessa
ria : cioè è necessario non che esca una palla nera , ma che sia piò pro
babile 1' uscita di questa ; sicché anche in tali proposizioni é mescolata
l'idea 4i necessità e di universalità.
3o5
se non m' abbia prima un principio necessario nella
mente, che me ne assicuri l'autorità.
Quando io dicessi a me stesso: « sono certo di venir
modificato, di percepire ne' miei sensi delle sensazioni » ;
in tal caso la mia ragione, ripiegandosi sopra di questa
mia presunzione di certezza, mi dimanderebbe incon
tanente: u e perchè sei tu certo di percepire qualche
cosa? » Rispondendo io: « perchè ciò che sento, è im
possibile che io non lo senta » ; ella immantinente ri-
pi»l\erebbe: « questo è un principio universale, un prin
cipio a. priori, è il principio di contraddizione. Ora chi
mai te ne assicura? egli non ti viene dai sensi, poiché
di' sensi non ti viene nulla che abbia in sè necessità,
come ha pure questo principio, nè universalità, di cui
è pare fornito il principio da te adoperato. Perchè adun
que tu creda immobilmente ai sensi, è necessario che
tu ricorra ad un principio necessario ed universale, ad
un principio a priori, al principio di contraddizione , a
me in una parola. I sensi hanno bisogno d'esser dichia
rati autorevoli dalla ragione ».
La ragione adunque non vien dai sensi: ella dee es
sere necessaria e universale, mentre i sensi sono parti
colari e contingenti. Non si dà dunque veruna certezza,
se non mediante un principio che non vien dai sensi,
e che è necessario, cioè che non può esser altrimenti,
e perciò ancora universale. Bella certezzt sarebbe quella
che non inducesse necessità ! Son certo che la cosa sta
così, ma potrebbe anco stare in altra maniera! Non è
questa una contraddizione? Perchè dunque noi crediamo
ragionevolmente ai sensi, dobbiamo avere una ragione
di creder loro: e questa ragione non può venir dai
sensi, perchè ci smarriremmo, se ciò fosse, in un ri
corso di ragioni all'infinito.
La distruzione adunque della cognizione a priori, trae
seco di naturai conseguenza anche la distruzione della
cognizione a posteriori: la cognizione a posteriori non
esiste se non mediante un principio di ragione il quale
sia necessario ed universale, ed il quale perciò non venga
dai sensi : il principio dunque di Locke « ogni, cogni
zione umana non ha V origine che da' soli sensi » va a
finire in un dubbio assoluto, universale; che dico io in
un dubbio ? il dubbio stesso non potrebb' essere senza
un principio di ragione indipendente dai sensi; che ci
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. I. òg
3oG
costringesse di dubitare (i): va a finir dunque nella di
struzione piena, assoluta, di qualunque nostra cogni
zione: non è già solo impossibile che l'uomo sia certo}
è impossibile ch'egli dubiti: è impossibile la ragione:
l'uomo adunque è spogliato, per questo principio loc-
kiano , della sua prerogativa speciale, dell' intelligenza.
0 convien dunque negare un fatto così luminoso, qual
è quello, che l'uomo è un essere ragionevole; o con
vien rinunziare al funesto principio « ogni cognizione
umana viene dai sensi » (2).
Queste ultime conseguenze, non tirate nè pure da
Hume, non vengono men necessarie dal principio loc-
kiano: non si può fermarsi, quando il principio è
ammesso; tutte le conseguenze ne debbono da quello sca
turire inesorabilmente; la sua fecondità dee essere inte
ramente esausta; e s'egli è un principio erroneo, questa
fecondità partorisce finalmente la distruzione di tutto
ciò che è vero , di tutto ciò che è : siate coerente al
più piccolo degli errori, e lasciatel produrre tutta la
prole di cui è gravido ; voi non finirete a raccogliere
ARTICOLO VII.
COHB fi TESTÒ DI CONFUTARE LO SCETTICISMO DI HUME.
(i) Egli negò, come già notai , una sola parte delle cognizioni a priori}
fa il suo ragionamento distrugge ogni cognizione.
3o8
quali appare, alla credenza che il sole si muova; seb
bene la sensazione del moto sia diversa dal moto reale,
e non sia che un moto apparente. Il genere umano adun
que confonde facilmente insieme l'apparenza colla realtà,
e precipita i giudizj suoi nell'errore : così avviene circa
il principio di causalità: egli lo piglia per necessario ed
universale, ma non è tale che in apparenza ».
Sarebbesi potuto replicare che 1' esperienza sola non
ha nè pure alcuna similitudine colla necessità : quan
d'anche io veda sorgere il sole ogni giorno tutta la mia
vita, io però non concepisco mai come impossibile il
contrario, come m'avviene pure della proposizione « non
si dà effetto senza causa ». L'esperienza adunque quan-
d' anco mi si replicasse indefinitamente, quand' anco
mi facesse nascer la persuasione, che la cosa conti
nuerà sempre così ; tuttavia non potrebbe giammai
farmi sentire l'impossibilità del contrario, farmi nascere
in capo la credenza , che v' abbia una ripugnanza, una
contraddizione intrinseca nel suo contrario. L' analisi
adunque di quelle proposizioni contingenti che può som
ministrare una lunga e sempre uniforme esperienza , e
l'analisi delle proposizioni necessarie come sarebbe que
sta « non si dà effetto senza causa » , è sufficiente a far
distinguere queste due serie di proposizioni per sì fatto
modo, da non poter confonder l'una coli' altra, e scam
biare l'universalità e la necessità supposta di quelle, col-
l'universalità vera eia necessità intrinseca di cui queste
si manifestano chiaramente fornite.
ARTICOLO VIIL
COME SI AVBEBBE POTOTO CONFUTARE PIO* EFFICACEMENTE LO SCETTICISMO DI HCME.
ARTICOLO IX.
REID RICETTA IL fHWClPIO LOCX11WO , E RICONOSCE tt FATTO
DELLE COGNIZIONI A PRIORI.
(i) Hume avea divise le verità generali in due classi , cioè i .° in quelle
ck ewsstono in pure relazioni fra le idee , come i teoremi della mate-
■Btb para, a.° in quelle che discendono alle cose reali, come » non si
i detto senza causa Vedemmo eh' egli tolse a combattere queste se-
<Mde , lasciando sussistere in qualche modo le prime.
lo ho già dimostrato che questa classificazione di Hume è falsa , e
ch'egli, nel combatter le seconde, ha involto anche le prime nella distru
zione medesima.
Reid si occupò a dimostrare in particolare que* principi che ci assicu
rano dell' esistenza reale delle cose; i quali, più tosto che principi, chia
mar si possono applicazioni de' principi , che facciamo all' esistenza reale
«ielle cose; le quali applicazioni hanno la forma di altrettanti giudizj.
Di più, tali giudizj che noi facciamo sull'esistenza reale delle cose, egli
con li considerò già come applicazioni de' principi della ragione , ma come
istinti necessari e ciechi della natura.
Quindi la dottrina di Reid non ascese punto a difendere e propugnare
veramente i principi della ragione, e la inconcussa autorità de medesimi.
Ma poiché i principi della ragione sono di un' assoluta necessità , perciò
«-gli fu costretto di cadere in molte contraddizioni : veggiamolo breve
mente.
Prima contraddizione. Ho fatto vedere che i principi generali dipendono
dall' idea che noi abbiamo delle essenze delle cose ( face. ag5 , nota ) , e
che, negata all'uomo ogni cognizione di queste, son tolti via anche quelli.
Reid non accorgendosi di ciò , si accompagnò in questo con Locke , e
disse che 1' uomo non avea alcuna idea delle essenze delle cose (Essays on
the powers of the human mind ecc. , Essay I , eh. I ). Ma quando poi
parla del modo onde noi percepiamo l'esistenza de' corpi , allora dice che,
per una legge stabilita dal creatore alla nostra natura , noi siamo necessi
tati d' aggiungere agli attributi un soggetto ( una sostanza ), e quiudi con
fessa che noi della natura delle cose , o delle loro essenze , abbiamo una
oscura nozione (Essays on the powers of the human mind ecc. , Essay V,
eh. II). E la stessa incongruenza che abbiamo notato iu Locke.
Seconda contraddizione. Reid tolse via le idee : non ammise che le ope
razioni dello spirilo che concepisce , secondo lui , immediatamente gli og
getti reali: questo era un distruggere le idee universali non solo, ma an
che le concezioni universali : era un ridurre la cognizione della mente ai
Ci oggetti sussistenti , individuali. Egli dice espressamente in qualche
go, che la mera possibilità è nulla : poiché, die' egli , ciò che è mera
mente possibile , non esiste , e ciò che non esiste è nulla. Non potea fare
«he questo ragionamento , dall' istante che tolse via le idee e non lasciò
clic gli oggetti reali: ciò era quanto lor via le possibilità, perciocché le pos
tulila, uou Simo the idee. Ma poteva egli esser coerente a sè stesso in si
3l3
A tal fine egli tolse ad analizzare il modo, onde noi
ci formiamo l' idea de' corpi , e gli parve di dovere di
stinguere questi tre passi che succedono nell'acquisto di
quella cognizione: i." l' impressione che viene fatta sugli
organi de' nostri sensi dagli oggetti esteriori; a.* la sensa
zione che immantinente sorge nell' anima nostra , data
quella impressione meccanica ; 3." finalmente la perce
zione dell'esistenza e delle qualità sensibili de' corpi, che
nel nostro spirito si suscita contemporanea alla sensazione.
Ora la sensazione non ha cosa , che la renda simile
all' impressione esterna: come la percezione dell' esistenza
de' corpi non ha nulla di simile colla sensazione : queste
tre cose si succedono , ecco il fatto : 1' una non si può
dir causa dell'altra, perchè sono tre cose interamente
diverse fra loro : la ragione per la quale si succedono
queste tre cose, è irreperibile, rimane occulta.
Ciò che si può dire si è , che non potendo la sensa
zione esser causa della percezione dell'esistenza de' corpi,
forz' è ammettere innato nello spirito stesso una cotale
attività, un cotale istinto che il porti tantosto dietro la
sensazione a giudicare l'esistenza de' corpi : questo giu-
fatto sistema ? ciò è superiore alle forze dell' uomo , che ha bisogno di
pensare il possibile in tutte le sue concezioni, per modo che non si può
uè pur dare un atto intellettivo . senza che si mescoli in esso 1' idea del
possibile. Il seguente passo del filosofo scozzese basta a mostrarlo in aperta
contraddizione con tutto ciò eh' egli ebbe altrove insegnato sulle essenze ,
sul possibile, e sugli oggetti della mente.
« Noi conosciamo (egli parla cosi apertamente) i' ESSENZA, di un
« triangolo , e da quell' essenza possiam dedurre le sue proprietà : ella è
■» uu UNIVERSALE , e poteva esser concepita dalla mente umana benché
h nessun triangolo individuale avesse mai esistito ( siamo nel regno del
k possibile ) : ha solamente ciò che Locke chiama essenza nominale che è
« espressa nella sua definizione. Ma ogni cosa che esiste ha una essenza
h reale che è superiore alla comprensione nostra, e perciò non possiam
« dedurre le sue poprietà e attributi dalla sua natura, come noi facciamo
i rispetto al triangolo «• ( Essays on the powers of the human mind ecc. ,
Essay V , eh. II ).
Si osscrvuoltre di ciò, che ['essenza nominale di Locke, Reid non la
intendeva già come una pura parola, poiché dice espressamente che le pa
role se non esprimono de' pensieri , son meri suoni , e a nulla servono
( Ivi , Essay V , eh. I ).
Egli dice , che si danno concezioni generali : che questa generalità non
istà già nella concezione stessa o sia nell' atto della mente, ma nel suo og
getto ( Ivi , Essay V, eh. II ).
V hanno dunque per Reid degli oggetti universali , che non sono idee
né mere possibilità, non sono cose esistenti, e tuttavia non sono nulla; che
cosa dunque saranno ?
3i3
disio istintivo che non è effetto delle sensazioni, le quali
non hanno con esso che una congiunzione di tempo, è
quello che fa trovarsi all'istante nel nostro spirito la co
gnizione ossia il pensiero che i corpi sieno qualche cosa,
che esistano , forniti di certe loro qualità.
ARTICOLO X.
LA. TEOBIA DI BEID NON EVITA LO SCETTICISMO.
fn Germania adunque non mancò chi s'accorse che Reid « non contribuì
» ponto a migliorar la causa del dommatismo filosofico, e in particolare
quella del realismo empirico »• ( Buhle. Histoire de la philosophie moderne.
T.V.c. XII.)
In Italia , il valentissimo Galluppi mostrò evidentemente, che Reid non
potè metter riparo allo scetticismo col suo sistema , anzi larga strada gli
aperse: e credette che la cagione di ciò, fosse l'aver egli distinta la sen
sazione dalla percezione de' corpi, e non voluto, che fra V una e 1' altra
ci avesse simiglianza di sorte alcuna , sicché que' due falli sorgessero in
noi contemporanei , da se , senza che si vedesse di essi una ragione al
mondo. Per riparare a questo difettto, Galluppi tolse via quella distin
zione, e trasportò alla sensazione tutto ciò che Reid avea detto della per
cezione. Reid avea supposto , che colla percezione noi immediatamente per
cepissimo i corpi come esseri esistenti : Galluppi disse che questa imme
diata comunicazione del nostro spirito colle cose esteriori si l'arca dalla
sensazione stessa, senz' altro: che la sensazione, lungi dall' essere mera
mente soggettiva, come l'avea fatta Reid, era essenzialmente oggettiva,
come Reid avea fatta la percezione: in tal modo Galluppi diede ai sensi
F attitudine di percepire 1' esistenza de' corpi.
Ma è impossibile 1' accordare ai soli sensi la percezione dell' esistenza
de' corpi. Conviene osservare , che io non posso dire in modo alcuno di
aver percepito i corpi come esseri esistenti , fino che io non ho detto a
me stesso « questi tali esseri esistono ». Or per questo è assolutamente
necessario che io m' abbia prima l'idea universale dell' esistenza , la qual
Galluppi vorrebbe farla venire dopo percepiti i corpi , per una operazione
della mente nostra sopra le percezioni di quelli. Ma queste percezioni di
esseri esistenti , la suppongono; né ella, universale com' è, si può cavar
mai da' particolari. Io concedo adunque al Galluppi la comunicazione im
mediata dello spirito nostro col corpo , intendo col corpo nostro , concedo
che colle sensazioni acquisite noi proviamo in noi slessi, indirettamente
però, un' azione de' corpi esteriori, ma non già che esse bastino a farci^
percepire degli esseri in sè esistenti.- le sensazioni de' corpi non si devono
confondere colle idee; noi percepiamo i corpi veramente mediante un'ope
razione dell' intelletto , che aggiunge all' azione de' corpi ricevuta in noi
per le sensazioni, 1' esistenza , e considera i corpi come agenti su di noi
in un modo dalle sensazioni stesse determinato.
3.6
ARTICOLO XI.
KANT DAL PRINCIPIO DI REID CÀA IL SUO SCETTICISMO , COME SOME
AEA CAVATO IL SCO DAL PRINCIPIO DI LOCKE.
ARTICOLO XII.
DOTTRINA DI KANT : DISTINZIONE FRA LA FORMA
E LA MATERIA DELLE NOSTRE COGNIZIONI.
ARTICOLO XIII.
IH CHS MODO KANT CERCI d'eVITARE LA TACCIA DI IDEALISTA.
(i) Non si creda che la distinzione fra la materia e' la forma delle no
stre cognizioni fosse un trovato di Kant: ella è antica, e in Italia ben co
nosciuta : il Genovesi 1' insegnava nella sua lettera ad Antonio Conti, nella
quale, dopo «ver esaminato se le idee sono il medesimo che le percezioni,
cosi coocbiude: n Queste ragioni ne fan comprendere facilmente che l'idee
« sieno le forme delle nostre percezioni, la cui maggior parte cioè le prime
- e semplici che sono gli elementi della sua scienza la mente riceva , non
» si crei. Via su abbandoniamoci a questo sentimento: dove pare che la
« più verisimile ragione ci porti ». Ciò che trovo inesatto nella dottrina
del Genovesi, si è il non aver distinto le idee pure, che sono propriamente
forme, dalle concretate , e il chiamarle forme delle percezioni anzi che
delle sensazioni. Le idee unite mediante il giudizio colle sensazioni for
mano /e percezioni de' corpi, le quali risultano da due elementi , i.° da
idee pure, semplice apprensione della cosa , e a.0 dal giudizio della attuale
esistenza della medesima. Ma di tutto ciò più a lungo altrove.
I
3ao
Sì le une che le altre vengono da noi; le prime dal
l' attività del nostro intelletto, le seconde dalla suscet
tività del nostro senso: nulla di reale è veramente per
noi conosciuto: non sappiamo nè pure se qualche cosa
di reale sia in sè e fuori di noi possibile.
Tal conseguenza venia dirittissima dalla teoria di Reid. j
Questi aveva detto : « I corpi che noi percepiamo non
sono le sole nostre sensazioni; un istinto del nostro in
telletto ci reca ad aggiungere alle medesime un oggetto ». i
Ammettendo che questo oggetto si percepisce da noi per
una attività cieca del nostro spirito, egli somministrò ;
a Kant l'occasione di conchiudere: dunque egli non è
che un parto del nostro spirito. I
Kant dice : Io non sono idealista , perchè non am- •
metto che i corpi sieno mere sensazioni, come Berkeley.
Egli accetta il titolo in un senso più sublime , cioè -
vuol essere idealista trascendentale: è il medesimo che
dire: Io non sono tanto poco idealista, quanto è Ber
keley (i).
ARTICOLO XIV.
DI CHE MODO KANT CEBCA d'eVITARE LA TACCIA DI SCETTICO.
ARTICOLO XV.
ERRORE FONDAMENTALE DEL CRITICISMO.
L'errore fondamentale del criticismo consiste nell'aver
fatto delle idee nostre e delle cose esterne una cosa sola-
Una cosa sola avea, di quelle due, fatto Reid; ma Reid
avea detto: questa cosa sola sono gli oggetti esterni; le
idee non esistono.
Kant disse: questa cosa sola sono le idee,son queste
gli oggetti; altri oggetti esterni non esistono.
I concetti sono generali, osservò Kant: dunque non
possono esistere nelle cose, ma solo nella mente.
Questo era vero; ma di questo non veniva, che i con
cetti nostri entrino, come un elemento, nella cosa esterna
a comporla e costruirla: egli è necessario distinguere
quel concetto o idea onde noi percepiamo la cosa, dal
l'elemento che è nella cosa esterna, e che assai facil
mente confondesi.
Prendiamo in esempio un'idea, V esistenza : bisogna
distinguere due esistenze, cioè i.* l'esistenza possibile o
ideale, la quale è solamente nel nostro intelletto, a.* l'e
sistenza sussistente e reale, che è nell'oggetto stesso.
Vero è che noi percepiamo la cosa , quasi con uno
stromento acconcio a ciò, coli' idea generale dell'esistenza
Ae abbiamo in noi : giacché quando formiamo questo
giudizio * Il tal oggetto esiste » ( ciò che equivale a
percepire quel tal oggetto), allora noi applichiamo il
predicato universale di esistenza al soggetto particolare,
cioè all' azione sensibile da noi sperimentata ; ma non
ne viene mica di ciò, che con questa nostra operazione
noi poniamo nella cosa percepita 1' esistenza in univer
sale.- anzi non facciamo che trovarvi Vesistenza sua par
ticolare.- e metter questa, non punto creata da noi, ma
riconosciuta, nella esistenza universale, cioè metter la
cosa nella classe universale degli esseri esistenti.
Se l'esistenza che noi percepiamo in un dato oggetto
affermandolo, fosse quella medesima nè più nè meno,
che noi abbiamo nel nostro intelletto; in tal caso, quando
noi percepiamo un oggetto, dovremmo mettere in esso
un'esistenza universale, perciocché l'esistenza nell'intel
letto nostro è universale: ma la cosa non va così: anzi
noi ravvisiamo, non mettiamo, nell'oggetto un'esistenza
particolare e a lui solo determinata.
Laonde il non aver distinto fra il concetto anteriore
della mente, che è sempre universale, e la cosa perce
pita mediante questo concetto, che è particolare, con
dusse in errore l'autore della filosofia critica: perciocché
3,4
riguardò come una cosa stessa il concetto intellettuale,
e la cosa a lui rispondente nell'oggetto percepito: e quindi
formò dell'universo intero una produzione dell'umano
intendimento e della umana sensibilità: mettendo quello
la forma, e questa la materia, come due ingredienti
necessarj a comporre gli oggetti tutti del mondo.
Questa osservazione fatta in particolare rispetto al
l'idea universale di esistenza, dee farsi medesimamente
rispetto a qualunque altra idea, e massimamente alle
dodici idee o categorie kantiane, alle quali Kant credette
che tutte le idee generali si riducessero.
E perchè meglio la verità di quanto osserviamo veder
si possa , applichiamo il ragionamento esposto ad una
delle quattro idee o categorie principali , cioè a quella
di quantità.
L'idea di quantità, che io ho nella mia mente, non
è già la quantità stessa che io percepisco coll'ajuto de1
sensi in un oggetto materiale, per esempio in una casa:
ma queste son due quantità interamente distinte.
Evidente è questa distinzione: perocché sebbene que
ste due quantità, cioè quella che ho nella mente mia,
e quella che percepisco nella casa, si chiamino col solo
vocabolo di quantità, tuttavia esse hanno caratteri e
distinti e contràrj. La quantità che ho nella mente, è
un'idea, una quantità che ha il carattere di universa
lità: nella casa all'opposto io non percepisco già la quan
tità universale, o la quantità possibile e applicabile ad
altri oggetti, ma una quantità propria e individua della
casa slessa, inamovibile dalla medesima, e contraria
perciò all'idea del mio intelletto, com'è contrario il par
ticolare al generale, che l'uno esclude l'altro. Quella
quantità dunque, che è concetto nella mia mente, non
è quella che io percepisco coll'ajuto del senso nella casa;
quindi erra la critica filosofia , dicendo che nella per
cezione degli oggetti esterni noi riferiamo ad essi quel
l'idea di quantità che è in noi, con un discorso simile
a quello che fa Condillac dove osserva che noi riferiamo
e apponiamo ai corpi quella sensazione di colore che
non è che in noi. Checché sia del ragionamento condil-
lachiano; quello foggiato dà Kant all'istesso modo, ma
applicato alle idee invece che alle sensazioni, si scorge
subito esser falso, dall'istante che si giunge a distinguere
3aS
il concetto universale , dall'attributo particolare , cioè reso
particolare dalle delerminazioni sensibili, dell'oggetto
percepito.
Il medesimo discorso è da farsi relativamente all'idea
di qualità, a quella di relazione, e a quella di modalità;
come pure alle idee a queste subordinate: anzi a qua
lunque idea si voglia , della quale noi ci serviamo per
giudicare una cosa reale, attribuendole la qualità coti
essa espressa. Converrà sempre distinguere fra Videa che
è in noi, e la qualità particolare nella cosa riconosciuta:
l'idea è la. regola, dietro la quale noi formiamo il no
stro giudizio; la qualità particolare nella cosa esterna
riconosciuta è l' effetto del nostro giudizio, è ciò che
mediante il detto giudizio noi siam pervenuti a cono
scere: non è dunque vero che l'intelletto nostro pone
nella cosa la sua idea : ma egli si serve della sua idea
per conoscer ciò che già è nella cosa : egli pone al con
trario la cosa nella sua idea, e così rende la cosa esterna
«ro e compito oggetto della cognizione (i).
La verità di questa distinzione apparisce via più ma
nifesta considerando che cosa noi facciamo quando pro
nunziamo un giudizio sulle cose: noi, per esempio, di
ciamo <* questa casa è grande ».
Analizziamo questa proposizione: in essa non c'è nulla
che esprima una nostra creazione della casa: nulla che
esprima che la grandezza la mettiam noi nella casa. 11
senso di quelle parole non presenta se non una opera
zione del nostro spirito, colla quale egli riconosce la
grandezza di quella casa.
Esaminiamo meglio tale operazione: ella suppone Videa
di grandezza in noi, che ci serve per riconoscere la gran
dezza reale nella casa: l'idea di grandezza in noi non
è dunque la grandezza della casa, perchè l'una è ideale,
e l'altra reale: la prima è quasi un istromento mediante
il quale conosciamo la seconda: le grandezze partico
lari e reali sono infinite; la grandezza ideale e univer
sale è una e immutabile.
ARTICOLO XVI.
ALTRO ERRORE DEL CRITICISMO.
(i) Reid è acconcio di negarmi, che questa sia la deposizione del senso
comune : ogni lettore imparziale giudicherà di questa coutroversia. La dis
parità però di opinione fra me e Reid intorno a ciò che depone il senso
comune, dimostra ancora, che l'autorità di questo non è sempre così
evidente per sè, che debba convincere egualmente tutti gli uomini indi
viduali.
pronunzj giudizio: non è necessario eh1 io attribuisca alla
medesima espressamente una quantità, qualità e rela
zione. Sopra tutte queste cose io posso sospendere il mio
giudizio, e tuttavia percepire intellettualmente la cosa:
purché io dica a me stesso: «esiste ».
Questo giudizio che io faccio nel primo alto della per
cezione intellettuale, si potrebbe esprimere così « Esiste
qualche cosa che modifica i miei sensi, fornita certo di
tutte le condizioni dell'esistenza ».
Son è però necessario che col mio intelletto mi fermi
a percepire queste condizioni dell'esistenza : il complesso
delle sensazioni offerisce al mio spirito il mezzo di de
terminare abbastanza il suo oggetto, perchè io possa
terminare in esso il giudizio «esiste», senza che mi sia
necessario di ricercare anche coll'intelletto il modo o le
determinazioni particolari di questa esistenza. Anzi posso
Bn anco prescindere dalle sensazioni particolari , o dalle
sensazioni d'ogni fatta, come allorquando concepisco un
oggetto sensibile in genere, o pure un oggetto senza più.
L'errore kantiano adunque qui consiste, nell'aver egli
supposto che le quattro categorie, cioè la quantità, la
qualità , la relazione e la modalità , sieno condizioni
della percezione intellettuale, o com' egli dice, dell' espe
rienza j mentre non sono che condizioni dell' esistenza
delle cose esterne.
Certo, nessuna cosa limitata può esistere senza una
quantità, delle qualità e delle relazioni : ma tutte que
ste cose, che pure in lei sono, non è necessario che
sieno da me intellettualmente percepite, perchè io possa
dire d'aver percepita o almeno concepita la cosa. E in
ogni cosa ci rimangono sempre occulte molte proprietà,
che ci si scuoprono poscia col tratto del tempo , e col
lungo esame della cosa ; e pure la cosasi potè benissimo
aver percepita da noi intellettualmente, senza che ab
biaci percepite quelle proprietà o qualità.
In somma esaminando che cosa esiga l'atto che fa il
nostro intelletto quando percepisce una cosa corporea ,
si trova che non esige se non queste due cose: J." che
questa cosa esterna abbia affetti i nostri sensi corporei,
2.' che l'intelletto pronunzj il giudizio sulla sua esistenza.
Il giudizio che pronunzia l' intelletto sulla esistenza
della cosa, e che si riferisce ad essa come produttrice
delie sensazioni, è l'atto onde l'intelletto percepisce.
328
Ma l'intelletto non ha bisogno di pronunziare altret
tanti giudizj sulla quantità , qualità , e relazioni della
cosa, per percepirla, meno ancora per solo concepirla .-
dunque l'intelletto può concepire e percepire la cosa an
che senza bisogno ch'egli concepisca o percepisca la sua
quantità , le sue qualità, e le sue relazioni. Dunque que
ste quantità generali sono bensì condizioni dell'esistenza
delle cose fuor della mente nella loro esistenza parti
colare e reale ; ma non sono , come pretende Kant ,
condizioni della percezione intellettuale ; e anche senza
l'uso delle idee di quantità, qualità e relazione, l'in
telletto può percepire le cose : sebbene non possa per
cepirle, senza l'uso dell'idea di esistenza.
Quando poi l'intelletto ha percepito una cosa offerta
da' sensi , egli può anche esaminarla, e percepire a mano
a mano la sua quantità, le sue qualità, e le sue rela
zioni. Ed è così, che si perfeziona la nostra cognizione
intellettiva. Ella esiste mediante il giudiz-'o sulla sussi
stenza delle cose; ella si perfeziona mediante altri giu
dizj più particolari , portati sopra di esse divenute già
oggetti del nostro spirito.
Kant dovea cadere necessariamente nell'errore che stiam
facendo osservare : questo non è che una conseguenza
dell'errore fondamentale esposto nell'articolo precedente.
Non avendo egli osservato, che esiste nella cosa reale
delle qualità pure, reali e particolari, rispondenti a quelle
quattro idee di quantità, qualità, relazione e modalità;
immaginò una quantità, qualità, relazione e modalità
uscente dalla mente, e nello stesso tempo tale che en
trasse a formar parte della cosa ( non distinguendola più
dall' oggetto della mente) per una nostra illusione, at
tribuendo noi ad essa ciò che è nostro.
Tolta questa distinzione di mezzo, egli non potea più
distinguere le condizioni dell' esistenza delle cose este
riori, dalle condizioni della percezione delle medesime.
Colla percezione, secondo Kant, le cose, almeno in
gran parte, non si conoscono solo; si creano: quindi le
stesse dovevano essere le condizioni di queste per esi
stere e per essere percepite. All'incontro il vero è, che
noi non possiamo niente nelle cose} ma che coll'atto del
percepirle noi aggiungiamo loro ciò che le rende oggetti
del nostro spirito. Altro è dunque la cosa come sta in
sè, altro è la cosa divenuta oggetto allo spirito nostro.
—'
Rimosso poi l' equivoco delle parole, risulta che avvi
una quantità , e delle qualità e relazioni particolari nelle
cose: ed una quantità, e delle qualità e relazioni gene
rali nella mente. Le prime sono qualche cosa di reale,
e dehbono trovarsi nelle cose, altramente esse non po
trebbero esistere , sono condizioni della loro esistenza :
le seconde sono qualche cosa d' ideale, si trovano nella
mente , e sono la conoscibilità delle qualità reali , le
regole per giudicare delle cose dopo averle percepite ,
ma non le condizioni necessarie a percepirle.
ARTICOLO XVII.
OBBIEZIONI D1SCIOLTA.
Ciò che ho detto sulla maniera ond' avviene la per
cezione intellettuale , può muovere in altrui un dubbio,
che qui debbo sciogliere. Questo scioglimento mi con
durrà a chiarir meglio la natura della percezione intel
lettuale , dalla cognizione chiara della quale percezione
dipende finalmente tutta la questione che noi trattiamo
delVorigine delle idee.
H dubbio, di che parlo, non è al tutto nuovo, e n'ab
biamo fatto cenno esponendo le opinioni di Aristotele
sopra la. questione presente; e fu il seguente.
Io dissi, che la percezione intellettuale delle cose esterne
e materiali consiste in un giudizio , mediante il quale
lo spirito nostro dice a sè stesso « esiste un oggetto
rispondente alle mie sensazioni ». Or altri può rispon
dere : questo giudizio o è pronunciato dall'intelletto, o
no. Se non è dall'intelletto pronunciato', l'intelletto nulla
ancor percepisce : poiché la percezione intellettuale non
è che questo giudizio. Se è pronunciato dall'intelletto ,
forz' è che l'intelletto percepisca le sensazioni sulle quali,
o almeno in occasione delle quali pronuncia il suo in
teriore giudizio dell' esistenza di qualche cosa a quelle
corrispondente. Ora se l' intelletto percepisce le sensa
zioni , non è dunque bisogno del giudizio per la perce
zione intellettuale, mentre l'intelletto percepisce prima
le sensazioni, e poi le giudica.
Questa obbjezione non ha origine, che da un po' di
confusione d'idee sulle facoltà dello spirito, e dalla man
canza di distinzione ne' nomi che alle medesime appli
cano comunemente i filosoG. Ella si dissipa pur colla
Rosmwi, Orig. delle Idee, Voi. I. \i
33o
chiara descrizione della percezione intellettuale, che io
son per fare, e colla enumerazione delle facoltà nostre
che concorrono a produrla.
Richiamisi di nuovo la definizione data della perce
zione intellettuale per le cose corporee : « è un giudizio
mediante il quale lo spirito afferma sussistente qualche
cosa percepita da' sensi » .
Analizzando quest'atto dello spirito, noi troviamo che,
acciocché egli si operi,
1." È necessario che il corpo, che trattasi di per
cepire, operi in su' nostri sensi, e quindi ci occasioni
delle sensazioni ; giacché questo corpo sensibile è quello,
che dee essere giudicato esistente.
2.' Per giudicarlo esistente, noi dobbiamo avere in
noi l'idea di esistenza, che è quell'universale che al
detto corpo viene applicato, dicendo « esiste »; uni
versale, che non vien percepito da' sensi.
3." Finalmente fa bisogno un atto, nel quale noi con
sideriamo l'azione de' corpi su di noi dalia parte del
principio operante; e questo principio lo riguardiamo
come in sé esistente, diverso da noi; il che è un clas
sificarlo nella classe delle cose esistenti, e un chiudere
il giudizio a Esiste ciò che ferisce i miei sensi ».
Or da questa analisi della percezione vedesi, che alla
medesima concorrono e cooperano tre facoltà distinte
del nostro spirito, cioè
i.* La facoltà di sentire il corpo sensibile;
a.* La facoltà che possiede l'idea di esistenza , o sia
che intuisce l'essere, il quale somministra il predicato
del giudizio;
3.* Finalmente la facoltà che unisce il predicato al
soggetto, e che così mette nel giudizio la copula, o sia
forma il giudizio stesso.
E in qualunque maniera si vogliano nominare queste
facoltà, egli è però sempre necessario tenerle distinte,
e non confonderle insieme giammai.
Se noi vorremo chiamare la prima col nome di sen
sibilità corporea, la seconda col nome d' intelletto, e la
terza col nome di ragione o di facoltà dì giudicare, e
non confonderemo mai fra loro queste denominazioni
così stabilite; in tal cac.o le osservazioni seguenti var
ranno a sciorre pienamente, come a me sembra, la pro
posta obbjezione.
33i
La sensibilità percepisce l' azione del corpo sensibil
mente e passivamente (sensazioni): V intelletto possiede
iu sè Videa di esistenza ( ondecchessia egli l'abbia, la
dee avere, come vedemmo, prima die segua il giudizio
di cui parliamo). Ora egli è certo, che fino che l'una
potenza ha in separato il complesso delle sensazioni o
la passione ricevuta, e l'altra potenza ha solo l'idea di
esistenza, non è possibile che segua giudizio alcuno: si
hanno bensì due elementi del giudizio, cioè il soggetto
ed u predicato ; ma fino che l'uno sta separato dall'al
tro, il giudizio non è formato: la loro sintesi o unione
è quella che costituisce il giudizio. Ora ecco come ciò
awiene.
la sensibilità e l'intelletto sono due facoltà d'uno stesso
soggetto: d' un Io perfettamente semplice. Questo sog
getto unisce, nella semplicità dell'intimo suo sentimento,
que' due elementi distinti, che quelle sue due distinte
facoltà a lui somministrano. Cioè quell'/o che da una
parie vengo modificato dalla sensibilità, e sento per essa
il sensibile agente sopra di me, sono quel medesimo die
dall'altra possiedo Videa di esistenza nel mio intelletto.
Questo però ancora non basterebbe; perocché queste due
cose, cioè il corpo esterno in quanto agisce ne' sensi, e
l'idea di esistenza, potrebbero esistere in un soggetto
semplice l'una a canto l'altra senza però unirsi, senza
raffrontarsi l'una coll'allra. Egli è dunque necessario di
più, che questo soggetto semplice , che possiede in sè
questi elementi del suo giudizio, cioè il sensibile (ma
teria) e l'idea di esistenza (forma del giudizio), abbia
una virtù od efficacia per la quale possa rivolgere la sua
attenzione, ossia riflettere sopra di sè , sopra tutto ciò
che patisce o che ha in sè stesso. Questo soggetto adun
que i." riflette d'avere contemporaneamente ciò che prova
nella sensibilità, e ciò che luce nell'intelletto, cioè l'idea
di esistenza; 2.* paragona il sensibile all'esistenza; 3.° e
ravvisa in esso una esistenza, che non è se non una rea
lizzazione particolare di quella esistenza ideale ch'egli
prima concepiva solo come possibile. Queste tre opera
zioni, che vengono fatte rapidamente nel fondo dell'in
timo sentimento di un ente sensitivo e ad un tempo in
telligente, sono quelle che costituiscono la terza delle
facoltà enunciate, cioè la facoltà di giudicare, che è una
funzione della ragione.
■
333
Venendo or dunque a rispondere all' obbjezione che
fu proposta , dico che , secondo la denominazione data
a queste tre facoltà , non è già l' intelletto quello che
giudica , e perciò egli non è la facoltà che percepisce ,
ma egli è solo la facoltà che somministra alla ragione
il mezzo di percepire , che è quanto dire la regola di
giudicare, mezzo che consiste nell'idea che serve di
predicato nella formazione del giudizio. Sebbene perù
non sia V intelletto quello che propriamente percepisce, i
tuttavia si chiama percezione intellettuale quella che de
scriviamo, perocché l' intelletto fornisce alla medesima
la parte principale e formale. i
E da quanto abbiamo fino a qui ragionato, egli non
sarà difficile a ritrarre una definizione esatta della per
cezione intellettuale , che sarebbe la seguente: « La per
cezione intellettuale è quella che fa il nostro spirito di
una cosa sentita, quando la vede (i) contenersi nella
nozione universale di esistenza ». i
ARTICOLO XVIII.
MERITO FILOSOFICO DI KANT : EGLI VIDE CHE IL PENSARE
NON EU* CHE CN GIUDICARE.
(1) I termini tolti dal senso della vista, ed applicati in un senso tras
lato a significare le. operazioni degli altri sensi, si fanno fonti inesausti
d' equivoci e di errori , come avremo occasione più volte di osservare. Non
credo però che il medesimo dir si possa della parola vedere applicai»
alla mente: oltreché può dirsi, che questa parola sia divenuta propria,
da traslala che era al principio, per 1' uso comune della medesima.
(2) Egli conobbe che 1' intendere era essenzialmente diverso dal sentire ;
ma non pervenne per questo a conoscere l' intima natura dell' operazione
intellettuale. Ciò che vide si fu, che l' intendere era qualche cosa di attivo ,
il sentire qualche cosa di passivo: « Tutte le visioni, egli dice, perchè
« sensitive, sono fondate sopra affezioni; i concetti sopra funzioni » ( Log-
trascendent. Analit. L. I , cap. I, Sez. I).
Egli chiamò visioni tutto ciò che il senso presenta : così generalizzò que
sta parola, il significato proprio della quale non si può riferire che alla
vista : mostrerò altrove quanti errori abbia prodotto questo vezzo comune
de' filosofi di parlare degli altri sensi con parole traslala tolte dal senso
particolare della vista.
333
fu poslo in istalo di potere analizzare questa seconda
operazione, cioè l' intendere la quale operazione non si
poteva giammai sottomettere ad un'analisi accurata, se
non si fosse prima isolata, o sia separata da ogn' altra
facoltà a quella affine ed aderente.
L'analisi accurata dell' intendere fruttò a Kant la co
gnizione di una verità assai rilevante, qual è quella, che
tutte le operazioni della mente nostra si riducano final
mente a de' giudizj: « Noi possiamo, egli dice, ridurre
« a giudizj tutte le operazioni dell'intendimento, in modo
« che sia lecito rappresentarcelo in generale come una
« facoltà di giudicare » (i).
ARTICOLO XIX.
KANT VIDE ASSAI IENE LA DIFFICOLTA' DI ASSEGNAR
L' ORIGINE DELLE COGNIZIONI DMANE.
ARTICOLO XX.
DISTINZIONE FRA* GIUDIZJ ANALITICI E SINTETICI.
ARTICOLO XXI.
COME KANT FOSE IL FK0BLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.
(i) Crit. della Rag. Pura, Introd. IV. Kant chiama sintetici questi giudizj,
perchè i predicati ne' medesimi sono dati, parlando degli empirici, dall' espe
rienza, e non contenuti nel concetto della cosa : per esempio, quando io
vedo un cavallo bianco, aggiudico a quel cavallo la bianchezza, che non si
contiene punto nel concetto cavallo , ma che mi è data dalla sensazione
della vista. Ma se il predicato m* è dato in questo stato dall' esperienza ,
onde ho io il soggetto ( cavallo ) a cui aggiudicarlo? Il soggetto cavallo è
un concetto astratto, che io pur non avrei mai, se non avessi veduti de'
cavalli. Ora quel concetto d' altra parte essendo astratto e generale , non
mi può essere dato da' sensi. Sta qui la vera difficoltà: non consiste nello
spiegare onde noi troviamo i predicati de' soggetti già da noi concepiti col-
1* intelletto; ma ella sta unicamente a spiegare come noi concepiamo i
soggetti , ossia come ce ne formiamo i concetti. È questa operazione che ,
analizzata attentamente , somministra il seguente progresso nell' origine
delle nostre idee.
i." Noi ci formiamo il concetto di un soggetto concreto : questo concedo
è composto a ) di qualche cosa di generico che non ci possono «lare i
sensi, il che, analizzato, si trova essere 1' idea di esistenza, b) e di una
parte sensibile.
a.0 Dal concetto del soggetto in concreto noi astraiamo l' esistenza attuale,
e quelle qualità sensibili che vogliamo; e cosi ci restano i concetti astratti,
come sarebbe il concetto di cavallo in genere.
3.° Avendoli noi formati questi concetti astratti , noi , all' occasione di
nuove sensazioni, aggiungiamo a' medesimi de' predicati sensibili a nostro
grado: ovvero ciò facciamo anche colla immaginazione sola. In tal modo
il concetto generale del soggetto è come uno scheletro , che noi vestiamo
ora di un abito ora d' un altro a tutto nostro piacere: e ne facciamo riu
scire un soggetto concreto.
RoSBiifi, Orig. delle Idee, Voi I. 43
,338
abbiamo in essi 1' appoggio della sperienza « che è già
u per sè stessa un accoppiamento sintetico (i) di visioni».
Ma « tale appoggio (della esperienza) manca del tutto
« ue'giudizj sintetici per anticipazione (o sia a priori).
« Se io debbo in fatti partirmi dal concetto del sog-
« getto Aì e trasferirmi ad un predicato B che in esso
« non è contenuto, e che tuttavia ad esso giudico unito,
« a che cosa potrò, di grazia, appoggiarmi per questo
« passaggio, o per qual mezzo accadrà che possa la sia-
« tesi aver luogo, se mi è qui precluso il campo della
« sperienza ove poter trovare il detto predicato » (2) 2
Or qui è dove Kant ritrovò il nodo della questione che
stiamo rivolgendo.
Perchè la s' intenda chiaramente, riepilogando ciò che
abbiamo detto fin qui, ecco siccome Kant si argomenta
di ragionare.
1.° Giudizj sintetici diconsi quelli , mediante i quali
noi attribuiamo ad un soggetto un predicato che non
è contenuto nel concetto del soggetto stesso.
a.* Supponendo che noi abbiamo già in noi il con
cetto del soggetto, noi non possiamo cavare dal mede
simo concetto il predicato che gli vogliamo aggiungere,
perchè in esso non è contenuto: dunque il detto pre
dicato ci dee essere somministrato d' altra fonte.
3." Questa fonte può essere l'esperienza sensibile.- quan
do adunque il predicato è tale che ci possa essere dato
dall'esperienza sensibile , allora è manifesta la possibilità
de' nostri giudizj sintetici: questi sono i giudizj sintetici
empirici.
4.* Ma vi hanno certi predicati in questa specie di
giudizj, che non ci possono esser somministrati da' sensi.
5.* Dunque la difficoltà consiste a mostrare, onde a
noi vengano dati questi predicati, mentre essi sono tali,
ARTICOLO XXII.
E EGM VERO CHE l'uOMO FA De' C1UDIZJ SINTETICI A PRIORI?
(t) All'incontro nel concetto di ogni linea può trovarsi un giudizio sin
tetico a priori; perocché avere il concetto di una linea, è pensare una li
nea possibile; e la possibilità non istà nella linea fisica , ma è un predicato
inesso dalla niente.
34a
ARTICOLO XXIII.
LA PROPOSIZIONE « Ciò CHE AVVIENE DEE AVEItE LA .SITA CAUSA » ,
È ELLA UN GIUDIZIO SINTETICO A PRIORI , NEL SENSO DI KANT ?
(i) È I' unilà dell' intimo senso quella che mi fa avere contemporauea-
mtnie presenti e paragonare insieme questi due tempi.
Bosmm, Orig, delle Idee, Voi. 1. 44
346
3.* Nel concetto di nuova operazione sta quello di una
esistenza precedente;
4-* Nel concetto di un' esistenza precedente giace il
concetto della causa.
Laonde
1.* Il concetto della causa è compreso nel concetto
di una esistenza precedente all' operazione
2." Il concetto delfo/jeraz/orce è compreso nel concetto
della mutazione;
3.* Il concetto della mutazione è compreso nel con
cetto del cominciare ad esistere.
Tutta la difficoltà adunque non può starsi se non
nello spiegare il modo, onde noi ci formiamo il concetto
del cominciare ad esistere, ossia del passaggio dal non
esistere all' esistere: perciocché avendo noi .già il con
cetto di questo passaggio, noi abbiamo altresì in esso
contenuto il concetto della mutazione ; e nel concetto
della mutazione, quello della operazione; e nel concetto
della operazione , quello di una esistenza a lei prece
dente; e nel concetto di una esistenza che preceder deve
alla prima operazione di un oggetto , che è quella ap
punto di esistere, il concetto della causa.
In che modo adunque possiamo noi concepire il pas
saggio che fa una cosa dal non esistere all'esistere?
Supponendo che noi possiamo concepire l'esistenza
degli oggetti che ci cadono sotto i sensi , il passaggio
di una cosa dalla non esistenza alla esistenza non ha
più difficoltà alcuna: egli ci viene somministralo dai
sensi col giudizio: noi vediamo, tocchiamo, sentiamo
in una parola quello che prima non vedevamo , non
trovavamo, non sentivamo.
Il paragone di questi due tempi, che noi facciamo,
è appunto la percezione del detto passaggio di un og
getto dal non esistere al suo esistere. Ma ciò suppone,
come diceva, che noi abbiamo la facoltà di percepire
l'esistenza di quell'oggetto (ossia di quello avvenimento);
perocché se noi non avessimo, di quell'oggetto, che le
sole sensazioni, senza il potere di immaginarci qualche
cosa di esistente fuori di noi, noi non potremmo mai
percepire intellettualmente il detto passaggio.
Da tutta questa analisi si conchiuda, che Punica dif
ficoltà che soprastà nella spiegazione dell' idea causa,
viene espressa nella domanda « Come si percepiscono
347
gli oggetti forniti di una esistenza? » Questo è vera
mente il problema generale della filosofìa.
ARTICOLO XXIV.
MANCAMENTI NELLA MANIERA ONDE KANT PROPOSE
IL PROBLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.
ARTICOLO XXV.
ST PROSEGUE * METTERE IN CHIARO IL PROBLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.
ARTICOLO XXVI.
SE I GIDOIZJ FRINITITI MEDIANTE 1 QUALI SI FORMANO LE IDEE
SIENO SINTETICI NEL SENSO DI KANT.
(i) Non dico nel concetto del soggetto, ma nel soggetto stesso: perocché
noi possiamo avere il soggetto senza che ce ne ahbinmo formato per anco
il concetto. Ciò che percepiamo co' sensi, può essere benissimo ed è talora
soggetto de' nostri giudizj ; e pure non ne abbiamo il concetto fino che
non l'abbiamo altresì percepito coli' intelletto.
35i
getto come metto una gemma in un anello, o come
metto una trave nella casa che costruisco, in modo in
somma che io considero ciò che metto, come una parte
integrante del medesimo soggetto ; ed in questo senso
è che lo prende Kant.
Ora Kant suppone ancora, come vedemmo, che in
certi giudizj il predicato, che io metto e considero nel
soggetto qual parte integrante del medesimo, non emani
dal concetto del soggetto, nè mi sia dato dall'esperienza.
Dunque, egli conchiuse, « sono io stesso, è il mio
spirito quegli che mette nel soggetto ciò che nel soggetto
per sè non è: il mio spirito adunque, quasi emanandolo
da sè, crea in parte a sè stesso questo soggetto: cioè
crea in esso quel predicato: e considerandolo io talora
come una parte necessaria al soggetto, son io quegli,
per l'attività del mio spirilo, che formo, o costruisco a
me slesso il soggetto a cui penso, anche in ciò che al
medesimo mi sembra poi essere necessario ed essenziale,
per una illusione ed inganno della mia natura (i) ».
Tutto questo ragionamento è coerente, a dir vero ,
ma u appoggia sgraziatamente sopra due supposizioni
gratuite e false, le quali sono le seguenti:
Prima supposizione falsa, che l'attributo che noi diamo
ad un soggetto non si trovi talora nè nell1 esperienza ,
nè nel concetto del soggetto medesimo. All'incontro quando
noi diamo un attributo ad un soggetto, se non ci vien
dato dall' esperienza, si trova sempre nel concetto del
«oggetto medesimo.
Seconda supposizione falsa, che quando noi formiamo
un giudizio sintetico, uniamo il predicato al soggetto *
in questo senso, che il predicato stesso entri a formar
parte integrante del soggetto; quando egli non forma
parte integrante che del concetto del soggetto.
Se dunque non si può attribuire alla parola 'sintesi
questo senso materiale che gli attribuisce Kant, quando
noi formiamo un giudizio, vediamo qual senso possa
convenire alla detta parola quand'ella si vuole applicare
(i) È pure umiliante per 1' uomo una dottrina , che vuol persuadergli
tempre eh' egli è ingannato necessariamente , essenzialmente, non da' suoi
simili, ma dalla sua natura, e dall' autore della sua natura, se questi pur
rimane in tale sistema 1 Può essere più grande l'umiltà della filosofia I non
umilia solamente 1' uomo ; umilia coli' uomo la natura stessa , umilia Dio.
35a
alle operazioni dello spirito nostro. Ciò servirà a chiarir
maggiormente come avvenga in noi la percezione intel
lettuale, dall'esatta descrizione ed analisi della quale
tutto dipende l1 esito di queste ricerche.
Quando noi pensiamo , ossia concepiamo intellettual
mente un corpo, noi attribuiamo al medesimo l'esistenza,
o per dir meglio, lo concepiamo in sè, in quell'esistenza
ch'egli ha , non già nella relazione sua verso di noi.
Ora gli elementi di questo concetto che noi ci for
miamo di una cosa materiale sono tre :
1.* elemento, tatto ciò che di lui ci danno i sensi,
2.* elemento, l'idea dell'esistenza in universale,
3." elemento, quell'esistenza particolare e reale che in
lui noi ravvisiamo, che perciò a lui attribuiamo con un
giudizio.
L'idea dell'esistenza presa in universale che è in noi,
noi la possiamo chiamare predicato, e l' esistenza partico
lare e reale che è in esso oggetto noi la possiamo chia
mare attributo.
Ora Kant confuse, come già mostrai (i), il predicato
coli' attributo ; confuse quell'idea che noi predichiamo di
più cose, siccome nell'esempio recato Videa dell'esistenza in
universale, con quella qualità particolare e reale che noi at
tribuiamo al soggetto, siccome nel detto esempio quell'esi
stenza particolare e reale di cui l'oggetto corporeo è fornito:
egli di queste due cose ne fece una sola: ossia suppose che
fosse una cosa identica V esistenza-idea , e V esistenza-cosa,
che noi chiamiamo sussistenza per distinguerla da quella
prima', senza accorgersi che l' esistenza dell'oggetto è parti
colare a lui, e non applicabile punto ad altri oggetti ; men
tre l'esistenza nell'idea universale e non applicata è univer
sale ed applicabile ad infiniti oggetti, a tutti quelli cioè
che possono essere da noi pensali: l'esistenza particolare
è moltiplice, cioè sono tante esistenze diverse quante sono
le cose che esistono, nè si può chiamare rigorosamente
esistenza, perchè è inseparabile dall'ente esistente, sicché
questa sola parola di ente propriamente parlando si appro
pria a significarla: mentre l'esistenza in universale come
è nel nostro intelletto, è una e immutabile , ed è quella
sola a cui spetta propriamente il vocabolo di esistenza.
(i) Chi toglie di mezzo 1' idea , e non lascia che I' oggetto reale, come
Reid , viene ad un medesimo. Reid tolse 1' idea dell' oggetto; Kant tolse
via l'oggetto, e lasciò l'idea. Tutti e due convengono che gli oggetti sieno
immediatamente percepiti dal nostro spirito : ma Reid dice , gli oggetti
immediati del nostro spirito sono oggetti reali ; Kant dice, sono idee,
355
a." effetto dell'ente percepito in particolare nel senso,
3." visione del rapporto fra l'ente agente percepito
(passivamente) dal senso, e l'idea universale dell'intel
letto, atto della ragione, percezione.
Se manca uno solo di questi tre elementi , non può
esistere in noi il concetto di un ente corporeo. Or
dunque supponendo che noi avessimo percepito col no
stro senso l'azione dell'ente corporeo particolare, e im
propriamente parlando, « l'esistenza particolare di quel
l'ente», noi non avremmo per questo ancora il concetto,
ossia l'idea di quell'ente} ne avremmo solamente la sen
sazione, l'azione. L'ente particolare adunque, ossia (im
propriamente) l'esistenza particolare non è conoscibile
perse, cioè non è mai un' idea $ ella non è che un
elemento sensibile onde risulta l'idea concreta, o sia la
percezione ; giacché l'idea concreta, o sia la percezione
è i la visione del rapporto fra quest'ente particolare o
sua esistenza particolare (impropriamente), e l'idea
universale di esistenza ».
Conchiudiamo da tutto ciò: Non esistono punto due
idee di esistenza, 1' una particolare , e l'altra generale.
Ma esistono solamente le seguenti idee :
i.* una sola idea di esistenza, che è l'esistenza in
universale,
a." molte idee di enti esistenti, che consistono, come
dicevamo, « nella visione che fa il nostro spirito del
rapporto fra gli enti percepiti in particolare dal senso,
e l' idea di esistenza » .
Appianata la difficoltà propostaci in questo modo, e
analizzato via meglio l'alto del nostro intendere , si ve
drà ora in qual senso io possa applicare la parola sin
tesi, o sia unione , ad un atto tutto spirituale.
L'atto dell'intendere o concepire intellettualmente un
oggetto corporeo, consiste « nel vedere il rapporto fra
l'agente particolare com'è percepito da' sensi, e l'idea
generale di esistenza ».
Egli non consiste adunque nel porre, che noi faccia
mo, ed unire nell'oggetto la nostra idea (per esempio
resistenza); ma consiste nel percepire semplicemente,
mediante l'unità del nostro intimo senso, il rapporto
ch'egli ha colla nostra idea di esistenza: il percepire un
rapporto, non è già un confondere ed immedesimare i
due termini del rapporto insieme in una sola cosa: que
356
sta specie d'unione è tutta materiale; è quella die si fa
di due liquori che si mescono insieme in un vaso, odi
due ingredienti che entrano in una vivanda: all'incontro
percependo un rapporto, si tengono ben distinti i due
termini; e si uniscono solamente insieme mediante l'atto
dello spirito, che ad un tempo li considera l'uno ri
spetto all'altro, e così ne trova una relazione fra loro,
che è un essere mentale, che non va niente a turbarli
o ad alterarli, ma che serve solamente di lume allo
spirito stesso , che forma anzi ciò che si chiama sua
cognizione o suo concetto.
In questo senso i giudizj primitivi del nostro spirito,
que' giudizj mediante i quali nasce la percezione intel
lettuale e l'idea, io li chiamo sintetici; perchè nasce una
unione fra una cosa data dai sensi (soggetto), ed una
che non entra nel soggetto dato dai sensi , ma che si
trova solo nell'intelletto ( predicato ).
Si osservi, che nello stesso tempo che dico che que
sto predicato non esiste nel soggetto , non dico , come
Kant, che non esiste nel concetto del soggetto.
In fatti nel concetto del soggetto esiste certo il pre
dicato: perocché che cosa è il concetto già formato del
soggetto, se non l'idea stessa di esso soggetto, se non,
in una parola, il soggetto sensibile a cui è già applicato
il predicalo intelligibile?
È cosa dunque interamente diversa il dire « il pre
dicato non esiste nel concetto del soggetto », e il dire
« il predicato non esiste nel soggetto ». Questa prima
è l'espressione di Kant, nella quale giace l'errore o l'equi
voco; e questa seconda solamente è quella che io am
metto e riconosco per esatta.
In una parola : i soggetti de' nostri giudizi sono o so
lamente dati dal senso, o già percepiti dall'intelletto:
in questo secondo caso,. del soggetto del nostro giudizio
abbiamo anche il concetto: ma nel primo caso, noi ab
biamo bensì il soggetto del nostro giudizio, ma non ne
abbiamo il concetto: solamente quando noi aggiungiamo
il predicato a quel soggetto, e formiamo così il giudizio,
solamente allora noi veniamo ad acquistarci, mediante
questo giudizio appunto, il concetto di quel soggetto.
E questi sono i giudizj primitivi , i quali formano i
nostri concetti, ossia le nostre idee.
Se noi diciamo, a ragione di esempio, « quest'uomo
è sapiente » ; noi formiamo un giudizio, nel quale ab
biamo già il concetto del soggetto (quest'uomo), e perciò
non è un giudizio primitivo: ma se io dico « ciò die
io sento in questo momento co' miei sensi, esiste »; in
tal caso « ciò che io sento co' miei sensi » è un sog
getto bensì del mio giudizio, ma che non mi è dato se
non da' sensi ; di cui perciò non ho il concetto , fino
che non ho perfezionato il giudizio, ed ho detto a me
stesso « esiste » ; perocché allora solo ho cominciato a
percepirlo intellettualmente.
1 giudizj adunque co' quali noi ci formiamo i concetti
ossia le idee delle cose, sono primitivi, perchè sono i
primi che noi facciamo su quelle cose: sono * sintetici ,
perchè noi aggiungiamo al soggello qualche cosa che in
lui non è , o per dir meglio , consideriamo il soggetto
in relazione con qualche cosa fuori di lui, con una idea
cioè del nostro intelletto; e si possono ancora chiamare
giustamente a priori, in quanto che , sebbene abbiamo
bisogno che la materia di essi giudizj ci sia sommini
strala da' sensi , tuttavia la forma di essi non la tro
viamo che nel nostro intelletto.
ARTICOLO XXVII.
IH CHE MODO KANT SCIOLSE IL PROBLEMA GENERALE DELLA FILOSOFIA.
(t) Questo ragionamento che fa Kant non è esatto. Non è già che tutte
le cognizioni necessarie ed universali sieno a priori ; a priori non è che
la necessità e la universalità di tali cognizioni.
(a) Si noti in Kant la seguente contraddizione. Egli sostiene che questi
predicati entrano a formar parte dell' oggetto da noi percepito. Ma come
descrive egli l'oggetto in quanto è da noi percepito? Come risultante da
359
2.* Nel descrivere il modo onde la nostra mente ap
plica e trasmette negli oggetti questi predicati, e quindi
costruisce a sè stessa gli oggetti delle sue cognizioni.
La prima di queste due ricerche da Kant è chiamata
« Analitica de' concetti » ; la seconda « Analitica dei
giudizj » ; e tutte e due insieme formano la parte ana
litica della Logica trascendentale.
Procacciando adunque in primo luogo di venir cer
cando e traendo fuori a mano a mano tutti i concetti
(o sieno predicati) che servono a formare i sopra de
scritti giudizj sintetici a priori, Kant crede di poter per
venire a stabilire ch'essi sono dodici^ ai quali egli man
tice il nome aristotelico di categorie. La intelligenza
nostra adunque, all'occasione delle sensazioni, pone fuori
di sè questi dodici predicati o categorie, quali ingre
dienti negli oggetti stessi: sicché gli oggetti risultano
come da due elementi, i.* da questi concetti puri,
a." dalle visioni della sensibilità, com'egli le chiama, o
sia dalle sensazioni.
In secondo luogo si dovea ricercare come nasce que
sta composizione de' concetti puri (categorie) e delle
visioni della sensibilità (sensazioni), sicché entrino que
sti due elementi a comporre un medesimo oggetto.
Kant in questa ricerca credette di stabilire la neces
sità di un mediatore fra le categorie ( al tutto pure ) e
le sensazioni ( al tutto empiriche ), per far sì che queste
si potessero vedere in quelle: e questo mediatore trovò
che era il tempo , che si unisce tanto ai concetti puri
dell'intelletto (categorie) quanto alle sensazioni.
Egli suppose che il tempo, unendosi alle categorie o
predicati, produca certe nozioni più vicine alle cose sen
sibili, sebbene ancora pure, le quali egli chiamò schemi,
che tengono un luogo di mezzo fra i predicati generali
e interamente puri, e gli oggetti già interamente costruiti.
due elementi , i ." dai concetti intellettuali , a." dalla visione empirica :
m Senza visione manca ogni nostro sapere intorno gli oggetti , ed esso ri-
ir mane vuoto del tutto n ( Logica trascendent. , Inlrod. Ora quei con
cetti intellettuali sono concetti puri, i predicati in una parola de' giudizj
sintetici. Ma se i concetti puri sono i predicati de' giudizj sintetici a priori,
come poi afferma che i predicati de' giudizj sintetici a priori non si tro
vino nel concetto dell' oggetto percepito? si può egli avere questo con
cetto, senza che vi sieno in essi i concetti puri che sono le condizioni
della esperienza e di ogni nostro percepimento ?
30o
Quindi egli distinse questi diversi passi che fa il no
stro intelletto puro nell'applicarsi alla sensibilità:
i.* Vi sono primieramente nell'intelletto le categorìe,
o sieno dei predicati al tutto generali.
a* Quando queste categorìe si considerano unite al
tempo ( che è la forma del senso intimo, o la condizione
secondo la quale intimamente si sente), allora da que
st'unione nascono nella nostra mente gli schemi, che
sono in sostanza de' predicati meno generali delle ca
tegorie.
3.° Che se noi uniamo questi schemi alle sensazioni,
in tal caso succede che l'unione di questi schemi colle
dette sensazioni (che Kant chiama visioni empiriche)
producano gli oggetti reali da noi pensati, ossia il mondo
esteriore.
Così Kant sciolse il problema della filosofia coerente
mente al modo nel quale egli lo si avea proposto; ri
spose cioè alla questione da lui fattasi, u come sieno
possibili i giudizj sintetici a priori » , o sia, come noi
costruiamo a noi stessi gli oggetti del pensar nostro.
ARTICOLO XXVIII.
KANT NON CONOBBE TUTTAVIA LA NATURA DELLA PERCEZIONE INTELLETTUALE.
ARTICOLO I.
EPILOGO DE' TRE SISTEMI.
(1) Il kantismo è 1' ultima linea degli umani studj , come la morte de
scritta da Orazio.
(2) Face. 376.
(5) Face. 271.
(4) Face. 3 16 e segg.
3GG
lui medesimo distintamente aprire e comunicare con
esatte e coerenti espressioni (i).
In tal modo riducendo Kant ciò che v' a vea d' innato
nell'uomo alle pure forme delle cognizioni, egli venia
a mettere nello spirito dell'uomo d'innato meno di
tutti quelli che lo precedettero in aver inteso la neces
sità di ammettere qualche cosa d'innato nella mente,
ed abbastanza tuttavia per una spiegazione completa del
fatto delle idee e delle cognizioni umane (2).
(1) Kant stesso prende il tuono d' interprete di Platone là dove traiti
delle sue tre idee o concetti della ragione, e rispetto all' intelligenza della
platonica filosofia fa l'osservazione seguente : « Piacerai solamente riflettere,
» qualmente non è punto strano , sia neh" ordinario linguaggio , sia negli
« scritti, che, paragonando fra loro i pensieri stessi emessi da qualche au-
■» tore sul proprio argomento , lo si comprenda anche meglio di quanto
« egli comprendeva sé medesimo , per non aver esso determinato baste-
•< volmente il suo concetto, e quindi ragionato più volte , se non anche
n pensato , in opposizione al proprio scopo ». Crit. della Ragion Pura ,
Logica, Diaìett. irascend. Lib. I, Sez. I, secondo il volgarizzamento del
Cav. Mantovani.
(2) Il sistema delleforme innate ( lasciando or qui la ricerca storica del
modo onde le intendeva Kant, intorno a che io ho già esposto la mia opi
nione nel Capitolo dove ho esaminata la dottrina di questo autore) può
essere concepito in due modi: i.° o in tal modo, che lo spirito abbia in
nate le forme ( che alla line non sono che delle idee generali ed astratte ,
alle quali si dà il nome di forme in relazione all' uso che se ne fa nelT in
telligenza degli oggetti reali ) , a quel modo che Cartesio o Platone mise
innate le idee; a.° o in tal modo , che lo spirito possieda una tale virtù
radicale, e così determinata, che, all'occasione di concepire gli oggetti
dell'esperienza de' sensi, egli emetta da sè e dia esistenza alle forme che
prima non esistevano , congiungendole colla materia dall' esperienza sensi
bile somministrata : sicché in tal modo egli generi di sè , senza seme per
così dire , od anzi crei il proprio sapere intellettuale , e con ciò lo stesso
mondo. Ora io qui non voglio fare osservare se non, che ove s'intendessero
le forme in questo secondo modo, si metterebbe nello spirito nostro assai
più che intendendole nel primo; e che perciò in questo secondo modo il
sistema delle forme peccherebbe di superfluo, più che non farebbe inteso
nel primo.
E non posso a meno di riferire, circa il sistema delle forme inteso in
questo secondo modo , alcune riflessioni di Antonio Genovesi in una sua
lettera al Conti, dalle quali riflessioni si può vedere che il sistema di Kant
iu sostanza fu pensato in Italia, e confutato prima ancora che fossevi portalo
da olire 1' alpi. « Io concedo volentieri, dice il filosofo italiano, questa
« produzione di forme di cose meramente possibili potersi fare dalla sola
« natura dell' animo; ma niuu uomo intenderà giammai , che la mente , la
* quale affatto ignora le cose esistenti, che non ne trova in sè verun orma,
« che non ne riceve vestigio da cagioni esterne , se ne possa fare dille
- immagini o delle forme corrispondenti ad esse cose. No, io mi ci perdo.
- Questa forza è ancora maggiore della creatrice : finalmente la crealnce
- non produce che ciò eh' ella intende : questa produce forme di cose che
«« non intende; né le produce di cose come possibili , ma come esistenti-
Le forme messe da Kant nello spirito umano a spie
gare il fatto delle cognizioni umane , furono diciassette :
due del senso (interno ed esterno), dodici dell'intel
letto da lui chiamate concelti puri o categorie, e tre
della ragione a cui diede il nome d'idee.
Tutto questo novero di forme era troppo : il formale
della ragione è molto più semplice: egli non era giunto
a far abbastanza bene la sottil divisione della materia
dalla forma del sapere, e ad estrarre il puro formale
senza lasciarvi annesso alcun che di materiale.
Ora questa specie di chimica metafisica da me tentata
mi dà per risultato , che quelle forme kantiane non
sodo meglio gli elementi formali del sapere umano, che
i patirò elementi d' Empedocle non sieno le sostanze
«empiici di cui tutti i varj corpi risultano: se non che,
carne la chimica perfezionandosi ridusse l'acqua, la ter
ra, il fuoco e l'aria, antichi elementi, ad un numero
maggior di principj ; così e converso la metafisica più
felice porge in ultimo risultato delle sue analisi un nu
mero assai minore degli elementi formali del sapere
umano , anzi li riduce finalmente alla massima sempli
cità , ad un solo, forma della ragione insieme e della
cognizione (i).
Kant adunque ammise ancor troppo d'innato: e come
ARTICOLO li.
CHI COSA HANNO DI SUPERFLUO LE FORME DI KANT, E COMI gf RIDUCONO
TUTTE AD UNA FORMA SOLA.
(i) NeW Analitica trascendentale Lib. I, cap. 1, parla del filo di guida
per la scoperta di tulli i concetti puri dell' intelletto, e lo assegna alla ua
36g
se quelle sieno perfettamente dedotte ed enumerate sì, o
no, cioè se sieno le uniche dodici classi del sapere umano,
sicché nulla di questo sfugga, che in alcuna di quelle non
dehbasi necessariamente collocare e dividere. Perciò egli
sarebbe un discorso lungo ed inopportuno il fare una cri
tica minuta di questa divisione, non meno arbitraria che
le antiche , delle idee generali dell'umano intelletto.
Ciò che si vede a prima vista si è, ch'egli confonde
talora la veste che le nostre idee ricevono dalla paro
la, colle idee stesse; e la medesima idea, perchè vestita
diversamente, la raccoglie e classifica come fosse un'al
tra idea; il che gli serve alla simmetrica regolarità della
divisione , come nella forma della qualità trovò la sot
todivisione de' giudizj infiniti , i quali non sono già
qualche cosa di diverso dai giudizj a/fermativi o nega
tivi , se non nella veste della parola (i).
Medesimamente, egli sembra che ommetta delle idee,
che determinano le classi del sapere umano e che po
trebbero aver posto nelle categorie, unicamente pel ti
more che queste non s'accrescano più del numero sta
bilito, e non gli rompano la regolarità vagheggiata.
Così la quantità continua o intensiva dovrebbe ri porsi
sotto Ja categoria di quantità, sotto cui non pone che
Ja quantità discreta , come quella che gli somministra
appunto tre belle classi, dell'unità, pluralità e totalità.
tara del giudizio: ma dopo di ciò, egli non deduce già le forme da' giu
dizi, ma le presenta in una tavola senza più ; nè s' occupa a far vedere la
tità che sieno dodici, e che non possano essere nè più nè raeuo , nè
nè in altro ordine da quello in che egli le presenta.
(i) Egli reca in esempio de' giudizj infiniti « V anima non è mortale »;
e pretende che questo giudizio differisca nella forma da quest' altro <> l'auima
è immortale m. Ora se per forma s'intende la veste esterna delle parole,
glielo concedo; ma in sè stessa la parola immortale è perfettamente sitio-
nima di non mortale ; e perciò non punto differisce nella Jorma interiore
e concetti va di cui parliamo; perocché le forme che nascono dall'uso delle
parole, troppe sono, e nuli' altro son che apparenti, perciocché è una forma
sola della mente, in più modi esterni manifestata e vestita. Che se si prende
un esempio in cui 1 attributo negato non abbia un solo opposto, siccome
è mortale, che ba il solo opposto immortale; ma abbia più opposti, come
i colori ( affermando per esempio che un oggetto non è verde, non vengo
ponto ad affermar eh' egli è rosso ) ; questo caso è complesso , e racchiude
due coppie di giudizj : prima coppia « non è verde « e il suo contrario « è
verde m; seconda coppia « è rosso » e il suo contrario » non è rosso ».
Ridotti adunque i giudizj complessi ai semplici , non si possono dare che
giudizj affermativi o negativi ( sia che si affermi e neghi con probabilità o
con certezza); e la classe de' giudizj injiniti non é che mia mistura ili
quelle due forme di giudizi , uè presenta alcuna forma nuova ed originale.
Rosmiui. Orig delle Idee, Voi. I. 47
370
Talora studia di conservare l'ordinata simmetria col
far violenza a delle idee, per ridurle a quelle che hanno
sortito l'onore di essere dichiarate categorie; come quando
vuol ridurre la verità alla pluralità, e la bontà alla to
talità} quasiché l'idea astratta del numero plurale po
tesse contenere in sè la nozione del vero, e l'idea astratta
del tutto potesse contenere la nozione del buono (1).
In quelle ch'egli chiama idee della ragione, e che
sono le forme dell'assoluto, egli confonde ciò che è
(1) Analit. trascend. Lib. I, c. I, sez. III. Ecco come pretende che il
detto scolastico, quotilibet ens est unum, veruni et bonum, sia già compreso
Delle sue categorie di unità, pluralità, totalità : « Questi pretesi predicati
« trascendentali delle cose non siao altro che requisiti logici e note di
« qualsiasi nostra cognizione , a cui sian fondamento le categorie di quan
ti tità, cioè dell' unità , della moltitudine , e della università. Solo che tali
« categorie, che dovrebbonsi prendere materialmente , come quelle che ap-
« partengono alla possibilità delle cose stesse , furori prese solo in una si
ti gnifìcazioneformale, come appartenenti a requisiti logici della cognizione,
« e incautamente si fecero altrettante proprietà delle cose stesse per sè
«r considerate, mentre non erano che note di ogni cognizione 1.
In questo passo si può osservare, cerne Kant stesso viene a confessare
che le sue categorie non sono pureJorme, ma hanno del materiale annesso.
Ciò che gl* impedi di fare la giusta divisione della forma dalla materia
del pensare, si fu l'aver presi gli oggetti del pensiero ( in generale ) come
cose puramente soggettive, e in tal modo confusili coi modi dell'essere
pensante. Avendo dunque ammessi gli oggetti del pensiero come una ema
nazione del medesimo pensiero e nulla più, egli prese ciò che apparteneva
a' modi del pensiero appunto per forme del pensiero : a quella guisa che
fu tratto in errore Leibuizio , quando avendo fatto emanar dal fondo
dello spinto tanto la cognizione degli universali , quanto quella delle cose
reali , mescolò e confuse il mondo delle astrazioni con quello delle realtà
( face. 280 e segg. ). Molto più accadde questo a Kant, che degli oggetti
del pensiero e delle forme di esso fece una cosa sola , e volle che uscisse
dall' animo nostro non pur ogni cognizione, come Leibuizio , ma il mondo
stesso , almeno in gran parte.
Per altro quanto è misero il modo ond' egli pretende che nella pluralità
stia il concetto della verità! Quest' è, egli dice, perchè « quante più sono
« le conseguenze vere di un dato concetto , taute più sono le Dote della
« verità sua oggettiva »> ( Anal. trasc. Lib. I, c. I., sez. Ili): quasiché le
note della verità sieno lo stesso della verità stessa , ovvero la pluralità non
possa trovarsi altresì nel numero delle conseguenze false. La pluralità è un
loculo, per così dire, privo di contenuto; mentre la verità determina e lissa
pur qualche oggetto reale fra tutte le cose ( vere e immaginarie) che sono
più. Parimente è troppo meschina stiracchiatura quel voler ridurre il
buono alla totalità; quasiché I' idea di un tutto offerisse ancora l' idea della
bontà di questo tutto. Ma quando anche l'offerisse, le due idee di lutto e
di buono diverserebbero in fra loro sempre come due enti di ragione , e
non converrebbe confonderli insieme e farne un solo. Non è cosa che fac
cia sragionare si bassamente quanto I' amore stemperato di sistema: questo
panni che renda talora 1' ingegno lotte di Kant più lìacco e povero di
quel d' un fanciullo.
assoluto veramente, come è Dio, con ciò che è assoluto
relativamente, come è l1 anima umana e l' universo: sic
ché tutte le idee dell' assoluto si debbono ridurre final
mente ad una sola , indivisibile , cioè all' idea dell' ente
degli enti, a Dio.
In tal modo le tre idee, o forme della ragione di
Kant, si riducono ad una, all'idea di Dio.
Ma l'idea stessa di Dio , considerata come forma della
ragione siccome Kant la presenta, rimanesi equivoci.
Perciocché Iddio o si prende per un essere sussistente,
o unicamente per una pura idea della mente nostra che
immagina come possibile ed altresì necessaria, per soddi
sfare se stessa , una specie d'ipotesi della causa ultima.
Questa causa ultima, come una pura idea necessaria
alla mente per soddisfarsi, non è punto ciò che si chiama
Dio; e quindi Kant parlando di Dio nella Critica della
Ragione pura, come un prestigiatore, adopera un vocabolo
venerando al genere umano in un senso diverso dal co
mune, per ingannare il suo lettore coli1 abuso delle pa
role, e cansare da sè il titolo obbrobrioso di Ateo (r).
E. \eramente, ove si pigliasse Iddio come un essere
Teale, egli non polrebb1 essere forma naturale, quaggiù
in (pesta vita, della nostra ragione, senza essere insieme
materia del nostro pensare; perciocché noi non possiamo
che pensare Dio secondo le similitudini tolte dagli es
seri finiti che noi sperimentiamo; e la forma della no
stra ragione quaggiù è un essere, una regola astratta,
per la quale perveniamo, giudicando, a conoscer gli
esseri reali. La forma adunque del saper nostro acco
munar si dee a tutti gli oggetti della cognizione, e non
può essere uno di essi.
Ciò posto, veggiamo che cosa v'ha di universale e
di formale nell'idea di una prima causa, che è l'idea
kantiana di Dio.
Nell'idea della prima causa, analizzandola, si trovano
due altre idee più elementari , che entrano a formarla;
cioè i.* l'idea di causa in generale, 2." 1 idea della causa
di tutte le cause, o del tutto.
Ora la causa del tutto non si ritrova se non mediante
l'applicazione dell'idea di causa in generale al tutto.
(1) Dio nella Ragion pura di Knnt non si prende che come un tipo nella
niente nostra di un essere perfettissimo ; un ideale, un esemplare, sènza
che ouìk possiamo conchiudere circa la sua reale ed oggettiva esistenza.
3^2
L' idea di causa contiene il principio, « ogni avveni
mento dee aver la sua causa ».
L' applicazione di questo principio al complesso di
tutti gli avvenimenti ( all' universo ), porta la proposi
zione » il complesso del tutto finito (l'universo) dee
aver la sua causa ».
Questa proposizione non è che una conseguenza del
principio: nel principio si contiene come in germe:
questa conseguenza non presenta adunque nessuna nuova
nozione che informi la nostra mente, diversa dalla
nozione di causa in generale : l' idea dunque di una
causa prima non può essere una forma originaria della
umana mente, diversa dalla nozione di causa in generale.
Ma 1' idea di causa in generale è già annoverata da
Kant fra le dodici categorie.
Nessuna adunque delle tre idee della ragione di Kant
può chiamarsi veramente forma della nostra intelligenza.
Kant confuse in esse ciò che appartiene all'oggetto del pen
sare , con ciò che appartiene alla forma del pensare stesso.
Mettiamo ora ad esame le dodici categorie che Kant
chiama forme dell'intelletto, e le due forme del senso
interno ed esterno, e veggiamo se tutte sieno veramente
forme primitive ed originarie della nostra intelligenza,
come il filosofo critico pretende.
Io osservo primieramente, che le dodici categorie di
Kant non possono aspirare tutte allo stesso posto, per
modo che ciascuna sia indipendente dall'altre, e così
di suo genere proprio, sicché ridur non si possano e
schierare le une sotto le altre , come classi minori sotto
classi maggiori.
Togliamo la forma di modalità; ella ha subordinate
le tre categorie di possibilità, esistenza e necessità.
Ora mettiamo con questa forma a confronto l' altre
tre, cioè le forme di quantità, qualità e relazione.
10 concepisco benissimo un ente possibile, od esistente,
senza che io sia obbligato di sapere quanto sia, quale
sia , e che relazioni egli abbia.
11 mio intelletto in questo caso è condizionato dalla
legge di dover pensare un tale ente o come possibile,
o come esistente , o come necessario : ma non è punto
necessitato, dopo di ciò, di vestire l'oggetto del pensiero
delle forme di quantità, qualità e relazione.
Se dunque si può dare un atto del mio intelletto sen»
bisogno delle Ire forme di quantità, qualità e relazione ;
vuol dire che queste non sono le forme essenziali e
necessarie del mio intelletto: non sono quelle forme
che informano e costituiscono nella sua propria natura
l'operazione intellettuale: e quindi esse non sono le
forme dell' intelletto che noi cerchiamo ; perciocché noi
cerchiamo quelle forme, per le quali l' intelletto è intel
letto, e per le quali 1' operazione intellettuale esiste , le
forme insomma che formano il termine prossimo, essen
te, necessario dell' atto intellettuale.
Laonde la forma della modalità è indipendente dalle
foncé di quantità , qualità e relazione : sicché l'intelletto
con quella sola forma della modalità può fare qualche
atto suo anche senza bisogno di queste.
Air incontro noi non possiamo pensare il quanto, il
quale, o le relazioni di un oggetto, se questo oggetto
noi non 1' abbiamo pensato prima o come possibile o
come esistente.
Quindi tutte le tre forme della quantità, qualità e
relazione, dipendono dalla forma della modalità, che è
superiore a quelle tre, le quali solo mediante questa e
dopo questa possono aver luogo nel nostro intelletto.
Noi possiamo adunque conchiudere con sicurezza , che
le tre prime forme di Kant, cioè la quantità, qualità e
relazione, non possono considerarsi siccome forme ori
ginarie ed essenziali del nostro intelletto; perciocché si
può concepire l'esistenza e l'operazione dell'intelletto
senza bisogno alcuno di esse.
Il medesimo si vede ancora per un' altra ragione. E
egli necessario, che ogni oggetto abbia un quanto ed
un quale determinato?
L affermarlo risolutamente, come fa Kant, è per lo
meno far fare alla ragione critica un atto di baldanza
e di temerità più che dogmatico, e attribuirle di poter
decidere in questo modo una questione che è impossi
bile di definire a priori all' umana ragione.
Se Kant ci avesse detto « Il dire che ogni oggetto
possibile dee esser fornito di un quanto e di un quale
determinato, soverchia le forze della ragione, perchè
a dir ciò si converrebbe di esaminare tutti gli oggetti
possibili, e dovremmo altresì entrare in investigazioni
intorno all' essere infinito, di cui noi non abbiamo una
positiva e adeguata idea » ; egli avrebbe con questo
374
mostrato almeno un po' di modestia filosofica, vera o
certo apparente : avrebbe mostrato qualche coerenza con
sé medesimo, cbe nulla ha, che più gli garbeggi ed
arrida, quanto il poter criticare la ragione, e l'inveire
contro i filosofi chiamati da lui dogmatici per ischerno,
cioè contro tutti quelli che qualche cosa ammetton di
certo oggettivamente. Ma avendo egli proferita sentenza
sull'argomento di cui parliamo; avendo posto la quantità,
e qualità, fra le forme primigenie dell' umano intelletto ,
quasiché egli nulla pensar possa senza di queste; venne
con ciò a dar prova di manifesta temerità, e a mostrare
ignudo il volto della critica dottrina, trattale incauta
mente la maschera della filosofica bacchettoneria.
Conchiudasi adunque, che se fra le forme kantiane se
ne può ritrovare alcuna che meriti il titolo di forma
originaria dell'intendimento umano, sicché lo informi,
ed informi la cognizione che dall' intelletto procede,
questa non può cercarsi che nella modalità: veggiamo
dunque se in questa nulla si contiene di ciò che cerchiamo.
Primieramente osservo, che ov' io penso e giudico che
qualche cosa esiste, io non vengo con quest'atto neces
sariamente a perfezionare la mia idea della cosa esistente.
E veramente io posso avere un' idea perfetta quanto
si voglia di un oggetto, senza che necessariamente l'og
getto esista. , ,
Adunque il giudicare che esista la cosa di cui io ho
V idea, è un atto essenzialmente diverso da quello col
quale il mio intelletto ha e contempla 1' idea della cosa :
quel giudizio non aggiunge nulla alla mia idea , nessuna
nozione nuova infirma per essa la mia mente.
Adunque V esistenza reale ed esterna, oggetto del mio
giudizio, non può essere nessuna forma originaria del
mio intelletto: poiché nel mio intelletto, della cosa non
c'è che Videa, e questa non si accresce nè diminuisce,
nè soffre alcuna alterazione dalla sussistenza o non sus
sistenza della cosa medesima. , . ■ ,. '
La forma dunque dell'intelletto non può essere che
uri idea, e non. la sussistenza della cosa: quindi delle
tre, categorie, di possibilità esistenza e necessità, quella
di esistenza, considerata come cosa a parte dalle altre
due, non può essere in alcun modo una forma originaria
ed essenziale del nostro intendimento. ,
: Veggia,m adunque se abbiali ;ij carattere di forme
3?5
originarie ed essenziali dell' intendimento le due altre di
possibilità e di necessità.
L'idea di una cosa qualunque ( in quanto non ha
ripugnanza interna) è ciò che si chiama la possibilità
logica della cosa.
Or certo è impossibile fare un atto qualunque del
l' intelletto senza la forma della possibilità.
Ma quando io penso la possibilità di una cosa, sono
io anche obbligato a pensare esplicitamente la necessità
assoluta della medesima? No certamente.
La necessità dunque non può essere forma originaria e
primitiva del mio intendimento, perchè essa non è l'og
getto e termine suo universale e immutabile.
Resta dunque a conchiudersi che, di tutte le dodici
forme kantiane, il carattere di forma dell' umano intel
letto non l'ha se non una sola, la possibilità. Perciò
veggiamo un poco questa che cosa sia.
Abbiamo detto che la possibilità di cui parliamo è
Videa di una cosa qualunque. In vero la possibilità dee
esser sempre pensata di una qualche cosa 3 perciocché
non si pensa la possibilità di un nulla.
La possibilità dunque è indisgiungibile da un qualche
cosa ; sebbene però ella trovar si possa unita a un qualche
cosa qualunque.
Perchè dunque noi pensiamo la possibilità, non è ne
cessario che questo qualche cosa sia determinato ad un
genere, ad una specie, o ad uno individuo ; ma basta che
sia un qualche cosa, un ente indeterminato perfèttamente.
Videa dunque (la possibilità) dell'eie indeterminato è
l'unica forma dell'umano intelletto originaria ed essenziale.
Ora veggiamo come tutte le nove prime forme del
l'intelletto di Kant a questa sola, come a loro princi
pio formale, si riducono, e come le altre due categorie
della modalità, la esistenza e la necessità, non hanno
nulla di formale, o sono elementi in questa già con
tenuti : cominciamo da queste.
Se per esistenza s'intende l'idea dell'esistenza della
cosa in universale, questa è racchiusa nel!' idea dell' ente
indeterminato.
Se per esistenza s' intende l' attuale sussistenza del
l' oggetto, questa non è che l'oggetto della facoltà di
giudicare, e non aggiunge nessuna forma all' intelletto.
La necessità si trova analizzando la possibilità ; peroc«
376
chè ciò che è possibile, è tale necessariamente. In lai
senso la necessità è compresa pure, come in germe,
nell' idea dell' ente in universale.
Ma se per necessità s' intende un ente necessario ,
conviene dir di questo ciò che si è detto dell' attuale
sussistenza degli oggetti in generale.
Ridotte alla sola forma dell' idea dell' ente in univer
sale le tre categorie della modalità, veggiamo come si
riducano a quella stessa forma le tre che si compren
dono sotto il titolo della relazione, cioè quelle di so
stanza, di causa e di azione.
10 ho già dimostrato che tutto ciò che v'ha d'intel
lettuale nelle idee di sostanza e di causa, non è ap
punto che l'idea di esistenza, o dell'ente in universale (i).
Se dunque Kant ripose la sostanza e la causa fra le
categorie o forme essenziali ed originarie dell' umano
intelletto, non fu se non perchè non ispinse abbastanza
avanti l'analisi di queste, da scoprire ciò che in esse
era pura forma.
Rispetto poi all' idea di azione, conviene osservare che
non solo l'intelletto percepisce V azione, ma ancora il
senso la percepisce, esperimentandola.
Or non può mettersi già fra le categorie l' azione par
ticolare in quanto è percepita dal senso; ma solo l' azione
percepita dall' intelletto, o, che è il medesimo, il con
cetto dell'azione.
Ma come egli avviene che l' azione particolare percepita
dal senso si fa universale quando ella diventa l'oggetto
dell'intelletto? Ciò avviene per la virtù che ha l'intelletto
di considerare l'azione particolare sperimentata dal senso,
come possibile a ripetersi un numero indefinito di volte.
È dunque l' aggiunta della possibilità quella che rende
l'azione un concetto universale. Il medesimo dite quando
io astraggo ciò che costituisce la natura dell' azione in
generale, e lascio di considerare le particolarità delle
diverse specie di azione.
11 concetto adunque di azione, sottomesso all'analisi,
trovasi che non è tutto pura forma dell'intelletto, ma
ch'egli è composto i.* d'un elemento materiale, in quanto
si riferisce alle azioni sperimentate dal nostro senso j
(i) L' analisi dell' idea di sostanza è alla face. 19 e segg. ; l'analisi del
l' idea di causa alla face. 54a e segg.
Ii
%.' e d' un elemento formale, in quanto il nostro in
telletto aggiunge la forma della possibilità, e così astrae
ed universalizza le azioni particolari.
Adunque ciò che v' ha di formale nell' idea di azione,
non è che la possibilità , o sia l'idea dell'entein universale.
Con una simile analisi noi potremo ridurre alla forma
dell'ente in universale la quantità e la qualità di Kant;
col separare cioè da esse ciò che v'ha di materiale, e
ritenere solo ciò che v' ha di formale.- ma sì fatta ana
lisi à dà per ultimo risultalo, che niente hanno in sè
^ue' concetti di formale, se non l'idea di possibilità,
o, che è il medesimo, dell'ente in universale.
£ in vero, anche gli oggetti del mio senso hanno una
arta quantità ed una certa qualità. Ora la qiantità e hi
qualità, percepita dal mio senso, non è menomamente
la forma del mio intelletto. La quantità adunque e la
qualità che è concetto, e, secondo Kant, anche forma
del mio intelletto, non è la quantità e qualità partico
lare, ma la quantità e la qualità considerata in universale.
Ora, ripetendo lo stesso discorso fatto relativamente
al concetto di azione, onde si forma la quantità e la
qualità in universale? Quando io penso una quantità
particolare, e la penso insieme come puramente possi
bile, io con ciò solo la ho resa universale. Che se da
questa idea di quella quantità possibile, io astraggo i
caratteri che la specificano, e così la universalizzo, ho
in questa idea la quantità in genere.
La quantità dunque o la qualità non è oggetto del
mio intelletto di natura sua, come fosse da sè forma
del medesimo-, ma eli' ha bisogno, per divenir tale, d'es
sere informata da un'altra forma: e la forma che l'in
telletto mio le aggiunge è appunto !a possibilità.
La quantità e la qualità sono adunque per sè materia;
ed è il mio intelletto che, informandole, le rende un
suo concetto.
Questo concetto adunque della quantità e della qua
lità, analizzato, non ha nuli' altro di formale in sè, se
non Videa di possibilità, o di ente in universale.
Così le dodici forme di Kant ad una sola pura e vera
forma si riducono.
Ma a questa unica forma si riducono finalmente an
che quelle che Kant chiama forme del senso esterno ed
interno, cioè lo spazio ed il tempo.
Rosmini , Orig. delle Idee; Voi. I.
i
378
In vero lo spazio ed il tempo, che Kant dichiara per
forme , non è già lo spazio ed il tempo soggetto all' e-
sperienza; è quello spazio e quel tempo indeterminato
e puro, che noi possiamo sempre immaginare uniforme
e senza limite alcuno.
Ora coli1 analisi di queste idee dello spazio e del
tempo, esse si risolvono finalmente in due elementi,
cioè i." nello spazio e tempo sperimentato, a.° e nel
pensiero della possibilità di uno spazio e di un tempo,
ripetuto ed ampliato indefinitamente, vuoto di cose e
di avvenimenti: possibilità che di natura sua è uniforme
e priva di limiti.
Ciò che v' ha di formale adunque anche in queste
due forme del senso interno e del senso esterno, non
è che la possibilità , o sia l'idea dell'ente indeterminato.
Concludiamo : la mente umana non ha nessuna forma
determinata innata j e le diciassette forme di Kant non
hanno alcun vero fondamento , e sono interamente su
perflue a spiegar l'origine delle idee.
All'incontro la mente umana ha una sola forma in
determinala, e questa è Videa dell'ente in universale.
L'idea dell'ente in universale è pura forma, e non
ha seco congiunto nessun elemento materiale: essa è
così semplice e poca cosa , che non si può semplificare
più oltre, nè immaginare nulla di meno che possa es
ser alto a informare le nostre cognizioni.
E veramente egli è impossibile immaginare un alto
qualunque della mente, che di questa forma non abbi
sogni, e per essa non si naturi e s'informi; sicché, tolta
via Videa di un ente in universale, è reso impossibile
il sapere umano e la mente stessa.
Laonde, ridotto in tal modo quanto vi può esser d'in
nato nella mente dell' uomo al menomo possibile, non
mi resta ora che a mostrare come questo poco sia tut
tavia sufficiente a spiegare completamente l' origine di
tutte le nostre idee: il che vorrà essere l' argomento della
Sezione seguente.
Prefazione face, vu
33o
abtic. IV. La difficoltà di Reid contro il sistema Incidanofu presentita da
Locke medesimo face, -i
ai tic. V. Obbiezione fatta da Reid al Iodismo « --5
Artic. VI. Reid fa precedere il giudizio alle idee » -6
aiitic. VII. E quindi stabilisce , contro Locke _, che la prima operazione
dell' intelletto umano è la sintesi, e non V analisi . . . . » y\
artic. Vili. // sistema proposto ila Reid non può soddisfare. . . . » r8
artic. IX. Difetto comune al dottor Reid e ai suoi avversar}'. . . . » 8a
artic. X. Ciò che il sistema di Reid ha di solido contro i suoi avversari n gì
artic. XJ. Conclusione "95
CAPIT. IV. Dvgaid Stettart.
abtic. I. Varj aspetti della difficoltà » iri
Anne. II. Stewart appoggia la sua teoria ad un passo di Smith . . » 97
artic. III. Primo mancamento nel passo di Smith: non distingue le di
verse specie di nomi -indicanti collezioni cT individui ...» 99
abtic. IV. Secondo mancamento : non distingue i nomi indicanti collezioni
d'individui, e i nomi indicanti qualità astratte . . -. . . » 101
aiitic. V. Terzo mancamento: confonde i nomi indicanti collezioni d'in
dividui , e quelli indicanti qualità generali, co* nomi comuni. » 102
abtic. VI. Quarto mancamento: non conosce qual sia la vera distinzione
fra i nomi comuni, e i propri » n>4
abtic. Vii. Quinto mancamento: ignorala ragione perla quale i nomi si
dicono comuni e propri » 106
abtic. Vili. Sesto mancamento : non osserva die i primi nomi imposti alle
cose furono nomi comuni . » 1 08
abtic. IX. Settimo mancamento : ignora die è più facile conoscere nelle
cose ciò che è comune, di ciò clic è proprio . • . . . n II 4
artic. X. Ottavo mancamento: ignora come i nomi comuni passino ad es
ser propij » Ii5
ARTIC XI. Nono mancamento: nel passo di Smith, col quale si vuole spie
gare le idee astratte, nulla di ciò si racchiude » \11
artic. XII. Decimo mancamento: lo Smith cela studiosamente la difficoltà
che s'incontra nello spiegare l'origine delle idee astratte . . >f iq3
artic. XIII. Che forma prenda la difficoltà da noi proposta ne' ragiona
menti di Smith e di Stewart » l3o
abtic. XIV. // sistema de' Nominali non soddisfa alla predetta difficoltà » ivi
artic. XV. Onde sia venuto l'abbaglio preso da Stewart » i3i
abtic. XVI. Petizione di principio che si trova nel sistema di Stewart. » l iJ
ABTIC. XVII. Altro abbaglio preso da Stewart • . . » |3G
Artic. XVIII. Si notano altri abbaglj dello Stewart, e si mostra viepiù
V insufficienza del suo sistema a sciogliere la difficoltà proposta " 1 38
Ar.Tic XIX. Il nominalismo di Stewart discende dai principj di Reid. » 1 49
abtic. XX. Nello spiegare come si percepisca la similitudine degli oggetti,
si trova la stessa difficoltà sotto altro aspetto » idi
ài.tic. XXI. 'Nello spiegare come si possono classificare gl' individui torna
a presentarsi la medesima difficoltà » l5;
Anne. XXII. Incertezza che dà a vedere lo Stewart nelle espressioni da
lui adoperate >j ivi
artic. XXIII. So Stewart confonde insieme due questioni distinte . » 1 58
abtic. XXI V. Lo Stewart ignora le dottrine degli antichi filosofi ch'egli
censura, sulla formazione de' generi e delle specie .... » 119
abtic. XXV. Stewart non intende la questione agitata fra i Realisti, i
Concettualisti e i Nominali » 161
ARTIC. XXVI. Stewart confonde la questione sulla necessità del linguaggio,
con quella sull'esistenza delle idee universali >■ i6i
abtic. XXVII. Nuova peti: imi di principio : Stevart volendo spiegare come
l'intelletto si fonila le idee di genere e di specie, comincia dal sup
pone tali idee già formate r
artic. XXVIII. Altra petizion di principio : Stewart suppone che le idee
generali sono qualche cosa , in quel ragionamento stesso col quale
vuol provare che non sono che meri nomi »
artic. XXIX. / segni non bastano a spiegare le idee generali. ..." '^9
ai, ric. XXX. Altra fallacia nella maniera di ragionare che usa lo Stewart » 'j1
38i
ime. XXXI. Conclusione : la filosofia scozzese, conscìa della propria in
sufficienza a superare la difficoltà proposta, ha tentato in vano di
eliminarla dalla filosofia face. 176
CAPIT. V. QvjLl PASSI FECE LA FILOSOFIA PEH OPEKA Da' FILOSOFI
FIX QUI ESAMINATI " '77
i
ORIGINE DELLE IDEE
DI
ANTONIO ROSMINI-SERBATI
SACERDOTE ROVERETANO
VOLUME SECONDO
cfie contiene
la teoria dell'autori.
MI L ANO,
MDCCCXXXVI
I
(1) Sez. Ili, c. I, art. n. (4) Sez. III. c. II, art. ix-xi.
(3) Sez. Ili, C. II, art. 11. (5) Sez. Ili, c. IH, art. v-vu.
(3) Sez. Ili , c. Il , art. in.
8
che io mi muova ad usare la mia potenza di giudicare ,
anzi che a lasciarla inoperosa ; ma non può spiegare
giammai l'origine della mia potenza di giudicare; esso
non può costituire in me questa potenza, ma solo muo
verla: nè questa potenza del giudicare si può muovere
senza eh' eli' abbia che giudicare, e secondo che giudi
care, cioè senza avere le idee, condizioni indispensabili
dello stesso giudicare (i).
Reid e il suo discepolo Stewart andarono ancora più
avanti, cacciati dalla difficoltà, che vedevano, sebbene
imperfettamente. I giudizj istintivi, per quanto loro
s' attribuisse di virtù , non potevano mai produrre
delle idee veramente universali. Che fecero que' filosofi?
S'appresero al partito più breve, ma insieme più di
sperato: negarono l'esistenza delle idee (a). Questa spe
cie di giustizia turca, che esercitavano colle povere idee,
ree non d' altro che di non lasciar lor vedere il mistero
di loro origine, 1' avea insegnata loro a fare già Locke,
quando decretò, come vedemmo, che non esistesse più
d'allora in avanti l'idea di sostanza , perchè era refrat
taria al suo sistema.
Tutti questi ideologi non furono adunque tanto scossi
dalla difficoltà, che si persuadessero essere impossibile al
tutto lo spiegare la produzione di tutte le idee mediante
operazioni del nostro spirito; e ciò perchè o non vi
dero, o videro parzialmente e sotto dubbia luce la dif
ficoltà.
Ma v'ebbero altri più perspicaci, i quali videro pie
namente come fosse difficile anzi impossibile 1' ammet
tere che le idee tutte si formassero colla sensazione e
colla riflessione, o più generalmente con delle operazioni
dello spirito nostro; conciossiachè intesero cotesti, che
quelle stesse operazioni onde si vogliono fatte le idee,
non possono effettuarsi senza le idee. Fra costoro noi
annoverammo i più alti e peregrini intelletti, Platone,
Leibnizio , e Kant (3).
Tutti questi grand' uomini furono unanimi : conven
nero tutti in questa sentenza , « che senz' ammettere
che lo spirito umano possegga da sè qualche elemento
(i) Sei. IV, c. IV, art. i. (3) Scz. IV, c. HI, art. x» e «gS-
\i) Se?, IV , c. II, ari. !.
11
Restava però a semplificare ancora : restava a ridurre
ai menomo possibile questa parte formale della cogni
zione, che s'era conosciuto dover esser data dalla natura
e non formata da noi , dover essere il seme seminato
ne' nostri animi dal Creatore, acciocché indi si svilup
passe l'immensa pianta della umana cognizione.
E i nostri maggiori avevano veduto, che questa por
zione essenziale allo spirito intellettivo non potea esser
che pochissima cosa, e con una leggiadra espressione
avean detto, che « Dio, nell'atto ch'egli crea le no-
«• str' anime, lascia loro così a un tratto dare un' oc-
« chiata, per così dire, all'immenso tesoro della sua
« eterna sapienza » (i).
A questo dunque riesce il problema che rimane alla filo
sofia dopo gli sforzi di Kant : « determinare quel mi
nimo di cognizione, o sia quella luce che rende l'anima
intelligente, e perciò idonea alle operazioni intellettive » :
il qual minimo è veramente appena una scintilla celeste
rubata al sole; è tanto, quanto può rubarsi di verità,
per così dire, mediante un' occhiata a lei data furtiva,
istantanea.
Veramente Kant non trovò questo minimo: egli avea
steso il formale del conoscimento a molto più che real
mente non vada ; e in vece di muovere da un princi-
ti) Scz. IV, c. IV, art. 11. Vedi ancora Sez. Ili, ci, ari. iv; c. Ili,
art. v—vii.
mento, i quali, mediante una diligente analisi, si Te*
dranno non esser altro che altrettanti modi di appli
care queir unica idea dell'essere a noi immobilmente
aderente. Sarà allora spiegato, come l' uomo possa ragio
nare; perocché il principio di cognizione, il principio
di contraddizione, e gli altri primi principj , sono gli
stranienti del ragionamento, senza i quali l'intendimento
umano non muove un passo.
Veduto in tal modo come l'uomo si fa intelligente e
ragionante , non è più difficile a mostrarlo autore delle
altre sue idee • perocché coli' uso del ragionamento age
volmente si posson formare.
Fra queste però, ci vengono innanzi alle mani quelle
che più stanno prossime al fonte onde derivano; le quali
sono le idee pure, e che nulla ricevono dal sentimento
reale, ma scaturiscono dalla sola idea primitiva e con
genita.
Discenderemo quinci da tanta altezza, deducendo le
idee non-pure , le quali prendono più o men di materia
dal sentimento. Dove dimostreremo prima come si for
mino i concetti delle due specie di sostanze, l'una cor
porea , 1' altra spirituale.
Appresso ci si presenterà a dichiarare 1' origine della
idea di corpo: e questa stessa presentandosi al nostro
intelletto in due modi, cioè come corpo animato dal
nostro spirito, e come corpo inanimato, faremo prima
l'analisi dell'idea del corpo nostro; nò potremo poscia
passare all' idea di corpo al nostro esteriore , se non
fermandoci alquanto in sulla via nell'investigazione di
quelle tre difficili idee di tempo , di moto e di spazio,
necessarie a favellarsi compiutamente del corpo esterno,
all' analisi del quale in fine discenderemo. Laonde tutta
la Sezione presente verrà partita nelle seguenti parli :
Parte I. Origine dell'idea dell'essere.
II. Origine di tutte le idee in generale per mezzo
dell'idea dell' essere.
III. Origine de' primi principj del ragionamento.
IV. Origine delle idee pure, cioè di quelle che
nulla prendono dal sentimento.
V. Origine delle idee non pure, cioè di quelle
che prendono , a formarsi , qualche cosa
dal sentimento.
VI. Conclusione.
i5
PARTE PRIMA.
ORIGINE DELL' IDEA DELL' ESSERE.
CAPITOLO I.
fatto: noi pensiamo l'essere in universale.
ARTICOLO L
l'idea poba dell'essere non è un'immagine sensibili.
(i) Cap. I.
e gli oggetti de' quali non possono esistere soli, ma pos
sono tuttavia esser pensati soli ;
a.* de' pensieri particolari di enti spirituali, che seb
bene abbiano tutto ciò che si richiede perchè sussistano,
tuttavia non ammettono essi pure immagini sensibili ;
3.* de' pensieri di oggetti corporei, i quali soli noi
ci possiamo coli' immaginazione sensibile rappresentare.
L'esistenza di queste tre serie di pensieri è un fatto:
ed è un fatto indipendente da ogni sistema : anche
quelli che negano l'esistenza degli spiriti debbono am
metterlo; giacché la questione sull' esistenza di esseri spi
rituali, è una questione diversa da quella sull'idee di es
seri spirituali.
Lo stabilire adunque gratuitamente il principio, « ciò
che non possiamo immaginare sensibilmente non pos
siamo nè pur pensare », e da questa ipolesi gratuita
cavarne la conseguenza « dunque le idee universali non
esistono » ; è un metodo al tutto falso ; è un partire
da un pregiudizio, e voler sottomettere al medesimo i
fatti; è un voler dettar leggi alla natura, anziché un
ascoltarla e interpretarla con sagacità.
ARTICOLO IL
l' IDEA DI UNA COSA SI DEE DISTINGUERE DAt GIUDIZIO
SULLA SUSSISTENZA DELLA COSA MEDESIMA.
ARTICOLO III.
NELLE IDEE DELLE COSE NON SI CONTIENE MAI LA SUSSISTENZA
DELLE MEDESIME.
ARTICOLO V.
li' DOMO NON PUÒ PENSARE A NULLA SENZA L* IDEA DELL* ESSERE.
DIMOSTRAZIONE.
Per poco che si consideri questa proposizione, ella si
dee trovar evidente da chicchessia; tuttavia pochi V ha:ino
bene considerata.
(i) Ci verrà occasione di far l'analisi dell' operazion del giudizio, quando
ci faremo a spiegare 1' origine della nostra idea di corpo.
Per altro 1 osservazione che ho qui fatta intorno la distinzione delle
idee dalla persuasione della sussistenza della cosa , conferma ciò che ho
detto nel Voi. I (face. i44, nota) intorno la falsità della dottrina di alcuni
che vogliono che le idee prendano ed involgano le cose slesse sussistenti ,
mentre le idee non presentano che mere possibilità di cose.
La dottrina di questi filosofi ha però un fondo di verità , in quanto che
v' ha realmente una facoltà in noi che prende ed involge , per cosi dire , le
cose sussistenti; ina questa non è la facoltà delle idee; è la facoltà del
senso unitamente all'operazione razionale del giudizio , che noi distinguiamo
interamente dalla facoltà d'intuire le idee.
(a) Art. III.
21
I moderni filosofi, come ho già toccato (i) , si occu
parono tutti ad analizzare le facoltà dello spirito, e poco
si trattennero ad analizzare il prodotto delle medesime,
cioè le umane cognizioni. All' incontro l'analisi di que
ste ultime dee precedere 1' analisi delle facoltà: percioc
ché queste non si conoscono che da' loro effetti , che
sono le cognizioni umane. Conviene adunque dall'esame
delle cognizioni salire all'investigazione delle facoltà; il
contrario di quanto fecero Locke, Condillac, e in ge
nerale tutta quella scuola che mette mano subitamente
a ragionare delle facoltà, e da quelle discende alle co
gnizioni.
Questa inversione nel metodo è forse il fonte princi
pale de* loro errori.
Pigliando io dunque il cammino contrario, mossi da
gli effetti , e tolsi ad analizzare ciò che si conosce come
un fatto, tentando la via di salir da quello alla causa,
cioè a fermare le facoltà atte e necessarie a produrre
in tutte le sue parti la nostra cognizione.
Ora V analisi di qualunque nostra cognizione ci dà
per risultamento costante la proposizione sopra posta,
che « l'uomo non può pensare a nulla senza l'idea
dell'essere ».
E veramente non v' ha cognizione , nè pensiero che
possa da noi concepirsi, senza che si trovi in esso me
scolata l'idea dell'essere.
Inesistenza è di tutte le qualità generali delle cose la
generalissima.
Pigliate qualunque oggetto vi piaccia, cavate da lui
coll'astrazione le sue qualità proprie, poi rimovete an
cora le qualità meno comuni, e via via le più comuni
ancora: nella fine di tutta questa operazione, ciò che
vi rimarrà per ultima qualità di tutte, sarà l'esistenza:
e voi per essa potrete ancora pensare qualche cosa,
penserete un ente, sebbene sospenderete il pensiero dal
suo modo d'esistere. Questo vostro pensiero concepirà
un essere perfettamente indeterminato, perfettamente
incognito nelle qualità sue, una X} ma questo sarà tut
tavia un pensar qualche cosa, perchè l'esistenza, seb
bene indeterminata, vi rimane: non è in tal caso il
CAPITOLO III.
ORIGINE DELL' IDEA DELL1 ESSERE.
Stabilita l'esistenza, e conosciuta la natura dell'idea
dell'essere, or noi dobbiamo investigare com' ella sia
data alla nostra mente : il che è quanto dire cercarne
1' origine.
£ primieramente diremo ond' ella non proceda, po
scia ond' ella proceda.
(i) Ari. V.
ARTICOLO I.
L'iDll DELL'ESSERE NOI* VtEHB DALLE SENSAZIONI COETOEBE.
§ ..
DIMOSTRAZIONE I,
cavata dal primo elemento dell'idea dell'essere, che costituUcc
il suo primo carattere, V oggettività.
(i) Quando questa nostra maniera di concepire le cose non fosse che
apparente , cioè quando noi credessimo di concepir la cosa in sè , ma la
cosa da noi concepita pur non avesse mai che un' esistenza a noi relativa ,
il mio ragionamento non avrebbe un valor minore. Si tratterebbe allora di
spiegare quest'apparenza: in una parola, apparente o reale che sia, si tratta
di spiegare il fatto della percezione delle cose in sè, oggettiva. D'altro lato
non parlandosi qui che della maniera onde noi percepiamo le cose, la di
stinzione fra l'apparente e il reale non può aver luogo. Non ci possiamo
ingannare circa il modo di concepire; poiché il dire: io concepisco l'og
getto in questo modo ; non è che un dire, che io concepisco a quel modo
che concepisco , e nulla più. Non c* entra qui la questione se la cosa esterna
corrisponda al mio concetto di lei: questa altrove da noi si tratterà. Valga
questa nula a levare i dubbj che potesse sommovere il mio ragionamento
ue' seguaci dell' idealismo trascendentale.
25
quei gradi di essere ch'esse hanno. Percependole sì fat
tamente, la forinola a cui si può ridurre il nostro pen
siero delle medesime , sarebbe : « la tal cosa ( che conce
pisco) ha il tal grado, o modo di esistenza ». L'esi
stenza è l'unico termine a cui si riferisce un tale nostro
concepimento; e questo termine a cui ha relazione l'agente
da noi sentito , è comune egualmente a tutti gli og
getti , perchè tutti li concepiamo come enti , come
aventi l'esistenza in tal grado o modo indicatoci, po
niamo, da' nostri sensi.
Ora io dico, che tutte le sensazioni nostre sono inelle
a farci percepire in tal maniera, che è propriamente
oggettiva.
E per vero, le sensazioni non sono che pure modifi
cazioni o passioni particolari del nostro composto; esse
non esistono che relativamente a noi.
Dunque tutto ciò che le sensazioni ci fanno sentire,
non può essere che una relazione delle cose esteriori
con noi , una loro potenza di modificarci ; ma il sog
getto di questa potenza, noi noi potremmo aver mai
presente come sta in se, limitandoci alle sensazioni sole :
perocché l'esistere in sò non può essere da noi sentito:
giacché queste due espressioni, «esistere in sò«, ed «es
sere sentito », esprimono due concetti contrarj , l'asso
luto e il relativo, l'uno de' quali esclude l'altro dilet
tamente.
In fatti la mera esistenza in sè di una cosa, non im
porta ed implica alcuna sensazione prodotta in un'altra
cosa : mentre all' incontro la sensazione non racchiude
nessuna idea di cosa che esiste in sè , ma solamente
quella pur di una passione nostra.
Dunque le sensazioni non ci possono far percepire la
cosa come sta in sè, ma solo in relazione con noi: sen
sazione non vuol dire che modificazione nostra ; idea di
un ente vuol dire percezione di una cosa che esiste in
dipendentemente da qualunque modificazione o passione
di altra cosa.
(i) Tra la percezione intellettiva e V idea non pongo che questa diffe
renza : percezione intellettiva chiamo il pensiero di un cute sussistente:
quindi la percezione intellettiva risulla i.° da un'idea, a." da un giudizio,
associati ( V. c. II, art. u—iv).
Ad una così ardua operazione della nostra niente,
mediante la quale noi separiamo dalla sensazione tutto
ciò che non le appartiene, e fino quell'idea medesima
onde noi la concepiamo, troviamo una ripugnanza par
ticolare per questo, che dopo isolata in tal modo la
sensazione, e separatala dalla stessa nostra cogitazione
di lei, ella ci rimane un'oggetto per sè non intelligi
bile, o per dir meglio, non inteso.
£ la difficoltà medesima , poco o nulla osservata , si
tma nella nostra cognizione degli oggetti materiali, e
di tutti quegli oggetti che, non essendo idee essi mede
simi, sono perciò, quanto è da sè, oscuri, cioè non
intesi, hanno una esistenza impossibile ad essere intesa
s'ella non viene unita ad una idea.
Il che se fosse stato osservato da' moderni, sarebbe
loro giovato sommamente a conoscere l'indole delle co
gnizioni che noi aver possiamo delle cose. Perciocché
essi si sarebbero accorti, che la cognizione delle cose, che
noi abbiamo, ritiene sempre qualche cosa di soggettivo,
e quindi d'inesatto, fino che noi non abbiamo osser
vato delle cose esterne conosciute la natura , incognita
perse stessa, e resa solo cognita dalle nostre idee che
ad esse noi aggiungiamo. Ma questo argomento qui non
posso che toccarlo leggermente, sebbene egli sia gra
vissimo, e fecondo di conseguenze.
Oltre poi a questa difficoltà che noi incontriamo a
formarci un concetto veramente oggettivo de' corpi, e
che è comune al concetto delle sensazioni , v' ha rispetto
a queste una difficoltà particolare che è la seguente.
Quando noi abbiamo tolto dalle sensazioni fino l'idea
colla quale le concepiamo, esse ci restano un oggetto
incognito, come dicevamo: ora a noi riesce estremamente
difficile il pensare che le sensazioni sieno per sè sole
un soggetto incognito; perocché ci pare, che essendo esse
modificazioni del nostro spinto, accompagnate forse sem
pre da piacere o da dolore, e sempre essenzialmente da
lui sentite, non possano essere qualche cosa d' ignoto: la
quale estrema difficoltà viene appunto da ciò che dice
vamo di sopra, cioè dall'abitudine di percepire le sen
sazioni, tosto che noi le abbiamo, intellettualmente $
perocché essendo noi esseri forniti d' intelletto e di
ragione , ciò che sentiamo lo avvertiamo altresì coll'in-
telligente potenza.
28
E si osservi bene oltracciò, che quand'anco in noi
ci fosse sensazione pura, scompagnata al tutto da idea;
come lalor sembra che avvenga, quando noi sentiamo
pure qualche cosa, e non ci badiamo, avendo l'atten-
zion della mente in altro occupata: quand'anco, dico, in
noi si desse sensazione senza idea; questa sensazione non
potrebbe in nessun modo giovarci a formar poi un esatto
concetto della sensazione, perciocché ella non sarebbe
da noi intesa, nè considerata, sarebbe come se non fosse
rispetto al nostro intendimento, e quindi noi non po
tremmo in modo alcuno nè pensare nè ragionar sopra lei.
Sicché il concetto della sensazione sola, e scompagnata
da ogni idea , noi non possiamo farcelo che nel modo
seguente : i.* Noi percepiamo intellettualmente la sensa
zione nostra, per esempio la sensazione del color rosso,
a." In questa sensazione così a noi cognita noi abbiamo
congiunto insieme intimamente l'idea e la sensazione, que
sta come cosa cognita , quella come cognizione ( in quant' è
intuita). 3.* Noi analizzando quest'atto del nostro intellet
tuale percepimento, analizzando in una parola questa idea
della sensazione del color rosso , separiamo Videa che ci fa
conoscere la sensazione, dalla sensazione che è la cosa co
nosciuta mediante l'idea. 4-° Quindi concludiamo, che
la sensazione priva dell' idea non può che essere un og
getto incognito: perchè ella ci era nota per Videa sola,
e togliendo via l'idea della medesima, abbiamo tolto ciò
che la illuminava, ciò che la faceva risplendere alla no
stra mente, abbiamo tolto in una parola la forma di
quella cognizione, rimastaci solo la materia della me
desima. 5." Mettendo finalmente l' attenzione nostra so
pra di questa materia, noi veggiamo ch'ella è sensa
zione, cioè che è modificazione del nostro spirito ; a dif
ferenza de' corpi esterni, che, in quanto tali, non pure
per sè stessi sono non cogniti , ma ben anco non sentiti.
DIMOSTRAZIONE II,
cavata dal secondo elemento dell'idea dell'essere,
che ne costituisce il secondo carattere, la possibilità o idealità.
La semplice idea dell'essere non è percezione di qual
che cosa di sussistente (i), ma intuizione di qualche cosa
possibile: non è che l'idea della possibilità della cosa.
Ora le nostre sensazioni non ci danno che delle mo
dificazioni dello spirito nostro, venienti da cose sussi
stenti; poiché le cose meramente possibili non hanno
forza nessuna di agire sopra de1 nostri organi, e produrci
le sensazioni. Dunque le sensazioni non hanno nulla che
fare colla nostra idea dell'essere, e non ce la possono
in nessun modo somministrare.
OSSERVAZIONI
sul nesso delle due prove generali che abhiam dato dell' incapacità
delle sensazioni a somministrarci l' idea dell' essere.
L'idea dell'essere comprende due cose, che sono così
umle fra loro, che senza l'una di esse quell'idea non
esiste, cioè i." la possibilità, e a.* un qualche cosa in
determinato a cui la possibilità si riferisce.
Egli è impossibile pensare alla possibilità sola, senza
intendere la possibilità di un qualche cosa indetermi
nato: come è impossibile pensare ad un qualche cosa ,
senza che sia logicamente possibile.
L' idea adunque dell' essere, sebbene perfettamente
semplice e indivisibile in sè stessaj tuttavia risulta per
noi da due elementi mentali, voglio dire dalla sola
mente assegnabili.
Ora l' esame della natura del primo di questi due
elementi (esistenza, o sia cosa indeterminata) ci ha
somministrato la prima dimostrazione: l'esame della na
tura del secondo (possibilità) ci ha somministrato la
dimostrazione seconda.
Il primo elemento, cioè V esistenza o una cosa qua
lunque in quanto ha un modo di esistere in sè, non
può percepirsi dal senso, perchè il senso non percepi
sce nulla in quanto esiste, ma solo in quanto agisce: il
§3.
DIMOSTRAZIONE III,
cavata dal terzo carattere dell' essere possibile, la semplicità.
Or si consideri colla mente V essere possibile da una
parte, e una reale sensazione dall'altra.
Si troverà che ogni sensazione organica ha qualche
estensione, avendo sua sede nell'organo esteso; all'op
posto un possibile intuito dalla mente, non ha certo seco
alcuna concrezione corporea, egli è perfettamente semplice.
Questo carattere adunque di semplicità , consistente in
non avere nulla di materiale, nulla che abbia qualche
analogia colla materia, nulla di esteso, nulla che ab
bia qualche analogia coli' estensione, è tale che costi
tuisce una diritta opposizione alla natura della sensa
zione reale: e però da questa non può in alcun modo
esser dato quel semplicissimo lume alla mente.
§ 4-
DIMOSTRAZIONE IV,
cavata dal quarto carattere dell'essere possibile,
la sua unità o identità.
Si continui questo confronto fra V essere possibile eie
sensazioni concrete.
Ciascuna di queste è in un luogo solo, divisa dal
l'altra, incomunicabile all'altra; a ragion d' esempio,
il dolore che io provo in un dito, non ha che fare
con un simile dolore che un altr'uomo prova pure nello
stesso dito, per la limitazione del luogo e della sussi
stenza reale, che separano queste due sensazioni.
All' incontro un ente che luce alla mente nel suo
stato di mera possibilità, non è più in un luogo che in
un altro; e può realizzarsi in molti luoghi, se è tale da oc
cupar luoghi, o può moltiplicarsi indefinitamente anche
se non soggiace di sua natura alla limitazione del luogo.
La mente contempli il corpo umano nella sua pos
sibilità: questo corpo possibile è sempre desso, ov' anco
3i
in varj luoghi venga a sussistere realizzandosi , e mol
tiplicandosi quanto si voglia. I corpi reali diventati
molti, il concetto o l'idea del corpo rimane uno sempre:
la mente , e ove si voglia anche più menti il veggono
identico in tutti gl'infiniti corpi umani ch'elleno pen
sino sussistenti.
E dunque opposta la natura delle cose reali, alle
quali appartengono le sensazioni) e la natura di una
semplice idea : questa adunque non può trovarsi in
quelle, nè esser prodotta da quelle.
§ 5.
DIMOSTRAZIONE V e VI,
cavate dal quinto e sesto carattere dell' essere possibile ,
1' universalità e la necessità.
§ 6.
DIMOSTRAZIONE VII e Vili,
cavate dal settimo e ottavo carattere dell'essere possibile,
l' immutabilità e l' eternità.
(i) Non è già die dall'idea sola dell'ente possibile, ove perfettamente
fosse compresa , non dovessero emanare necessariamente tutti i modi e le
determinazioni possibili degli enti reali ; ma la mente nostra non conce
pendo l' elite possibile in un modo perfetto , ba bisogno dell' esperienza per
rilevare o conci pire le determinazioni dell' cale, e però a noi si prcseiilauo
conio qualche iosa di arbitrario e ili positivo, e più ci uwicuc ciò, pi"
clic siamo rozzi e nuovi alle Meditazioni lilosoliclic.
35
Niente di ciò trova la mente nelle sensazioni muta
bili e periture: dunque le sensazioni non possono in
alcun modo scorgere la mente a pensare que' caratteri
dell'ente possibile.
§ 7-
DIMOSTRAZIONE IX ,
cavata dal terzo demento dell'essere possibile in universale, ehc costituisce
il nono carattere di quest idea, l' indeterminazione.
Fin qui ho dimostrato che l'idea dell'essere in uni
versale non può venire da' sensi, analizzandola e scom
ponendola in due elementi, i quali sono le nozioni che
ella racchiude i.'di un qualche cosa, 2.° e della idealità
o possibilità di questo qualche cosa (i).
Da questi due elementi coll'analisi io trassi i carat
teri della semplicità, dell' identità , dell' universalità, della
necessità, della immutabilità e della eternità di cui è
fornita l'idea dell'ente; da ciascuno de' quali argomentai
all'impossibilità ch'ella sia a noi somministrata dalle
sensazioni (3).
Ora si può arguire il medesimo dal terzo elemento
che costituisce l'idea dell'essere in universale, il quale
si é la sua pienissima indeterminazione.
E veramente gli argomenti fin qui arrecati valgono
ugualmente per tutte le idee: valgono a dimostrare, che
nessuna delle idee , considerata nella sua purità , può
venire dalle sensazioni ; perocché ogni idea non è che
il pensiero della possibilità di un ente, cosa di una na
tura tutta particolare, senza concrezionè (3); e che perciò
è fornita di tutti i caratteri da noi indicati e distinti (4).
Ma per l'idea dell'ente in universale v' ha di più la
prova che dedur si può dalla sua indeterminazione.
Di vero, ciò che costituisce un'idea pura è quell'ente
ideale dove non entra niuna concrezione, e per dirlo in
una parola, dove niente si trova di ciò che appartiene
alla sussistenza; sebbene aver vi possano quelle qualità
che costituiscono i generi e le specie stesse più finite.
All'incontro dall'edere in universale non solo è esclusa
§ 8.
Riassunto delle prove date, e cenno di altre prove particolari dell' impossibili^
di dedurre dalle sensazioni la cognizione a priori.
(1) Si noti qui l>enc, che 1* indeterminazione non è cosa inerente »ll es
sere slesso , ma procede dall' imperfezione del veder uoslro.
(a) ? i , s e 7. (3) g 5—6.
ho trattale a lungo nelle due Sezioni precedenti, dove
ho esposto la storia di questa questione: dico alle diffi
coltà di assegnar l'origine dell'idea di sostanza, dell'idea
di causa, dell' idea di rapporto ecc.; le quali idee tutte,
bene esaminale ed analizzate, non presentano ultima
mente altra difficoltà che quella stessa che v' ha nel
l'idea dell'ente possibile, dalla quale quelle altre idee
dipendono e si derivano (i).
Ma dovendo io trattare più sotto di tutte queste idee,
che hanno dato tanto da pensare a' filosofi, quando mi
converrà di mostrare appunto com' esse si originano in
noi dall'idea di ente e dall'esperienza sensibile unite in
sieme; perciò qui ommetto questi ulteriori sviluppamene
delle prove che confermar potrebbero la proposizione
sovra posta.
ARTICOLO II.
L* IDEA DELL' ENTE NON VIENE DAL SENTIMENTO DELLA PROPRIA ESISTENZA.
§ 3.
L'/o non mi dà che la sensazione della mia esistenza particolare.
(i) Tutta questa dottrina trovasi già nel deposito del sapere che hanno
a noi tramandato i padri nostri. San Tommaso, nel libro III contro i Gen
tili, cap. XLVI, insegna che l'anima nostra per conoscer sè stessa ha biso
gno di una specie intelligibile come tutte l'altre cose, per la quale specie
intelligibile nuli' altro si dee inlendere , come più sotto avrò occasione di
dimostrare, se non un' idea universale, alla quale l'anima (quest'essere par
ticolare) appartenga come a suo genere, o per dir meglio, a suo predicalo
maggiore. L'anima dunque non si conosce in un modo diverso da tulle
l'altre cose, ma mediatile quel lume dell' intelletto agente (1* idea dell'ente
in universale) col quale tulle l'altre cose si conoscono. San Tommaso in tal
modo viene a distìnguere anche qui fra la materia e la forma della nostra
cognizione. L' anima col sentimento di se somministra la materia della co
gnizione., ma nulla più; è solamente mediante un lume innato, che questa
materia s' informa e diventa cognizione vera. Ecco le parole di s. Tommaso:
« Cognizione naturale è quella che si fa per qualche cosa che sia in noi
« inserito da natura (naiuraliter nobis inditum): e tali sono i principi »>-
« dimostrabili che si conoscono pel lume dell' intelletto agente. Se dunque
« noi sapessimo che cosa sia I' anima per 1' anima stessa, ciò sarebbe co-
« gnizion naturale. Ma in quelle cose che ci sono note da natura , non può
« darsi errore: chè nella cognizione de' principi non è uomo che erri:
•< dunque nessuno errerebbe intorno alla sostanza dell'anima, se perse
« fosse nota; il che manifestamente è falso ». E poco dopo: « Cip clic e
« noto per sè , dee esser noto prima di tutto ciò che è noto mediante al-
« Irò, e quello è il principio della cognizione di questo. Tali sono le prime
« proposizioni rispetto alle conclusioni. Sicché se 1' anima conosce per se
« medesima la propria sostanza, questa le sarebbe per sè nota, e per cou-
« seguente sarebbe il primo nolo, e il principio della cognizione di tulle
« P altre cose : il che è falso manifestamente : perocché nelle scienze non
- si ammette già e suppone come cosa nota la sostanza dell'anima ; ma ciò
u si propone da indagare e dedurre da' principi ».
In questi luoghi vedesi, i.° siccome s. Tommaso ammetteva la cognizione
de' primi principi come anteriore alla cognizione particolare dell'anima no
stra: a.0 come questa non si polea aver che da quelli. 3.° I primi principi
poi secondo s. Tommaso si conoscono a prima giunta e immediatamente pel
lume innato, che, come noi abbiam mostrato altrove e mostriamo continua
mente, i'On può esser altro che ! idea dell' ente in universale. 4." L ;"1""'l>
conosciuta per li medesimi principi pe' quali si conoscono l'altre cose, nou
è essa il primo noto, e il principio della cognizione delle altre cose, e per*
ciò non è da essa che si possano dedurre le idee e i principi generali,
Errore di Malebranche, il quale pronuncia , che noi percepiamo intellettivamente
noi stessi immediatamente, senza il mezzo d'un' idea.
ARTICOLO III.
l'idea dell'ente non viene dalla riflessione lockiana.
*
§ I.
Definizione.-
5 «•
DIMOSTRAZIONE 1,
dalla osservazione del fatto.
La sensazione corporea non contiene l'idea dell'ente (2):
quindi non si può trovare in essa, per riflettervi sopra;
(i) Vedi a«ld. Scz. Ili, c. II, art. v. (q) Art. I c II.
concio'ssiachè la riflessione non aggiunge nulla alla sen
sazione, ma non fa che notare ciò che in essa è (i).
Rimane a vedere, se forse in quell'atto onde noi ab
biamo la sensazione, o in quello onde noi riflettiamo
sulla medesima, l'idea dell'ente si presenti da sè allo
spirito nostro per modo, che noi pur allora , quasi d'im
provviso, per una cotale apparizione che la medesima
Fa nella mente nostra, la concepiamo, e così avvenga
che noi acquistiamo simigliante idea.
E prima, messo da parte il ragionare della possibilità
di un tale fenomeno singolare, convien darsi ogni cura
di veriGcare se sì o no egli avvenga.
Reid, che protesta non voler entrare nella spiegazione
del fatto della cognizione umana , e solo occuparsi in
descriverlo accuratamente , divisandone tutti! le parti
sue e rilevandone tutte le circostanze, sembra non du
bitar punto, che il fatto, rispetto all'esistenza de' corpi,
sia composto delle tre parti prive di ogni legame fra
loro, i .° impressione sui nostri organi corporei, a." se?isa-
sione, 3.* percezione della esistenza de' corpi succedente
di tratto alla sensazione (2). E crede avere osservato, che
l'uno di questi tre avvenimenti succede all'altro per ferma
legge; sicché, dato il primo, si manifesti il secondo, dato
il secondo , si manifesti il terzo costantemente; ma il
primo non rassomiglia al secondo, nè il secondo al terzo,
nè fra l'uno e l'altro v'è la menoma connessione di causa
ed effetto. Descritto il fatto, ve lo asserisce inesplicabile,
e in tulle sue parti misterioso. E questa descrizione della
percezione de' corpi mostra certo, in chi la fece, una in
tenzione e uno sforzo filosofico; ma è ella riuscita rigo
rosa e completa? Di lauto si può dubitate; vediamolo
brevemente.
Che i tre avvenimenti indicali si debbano l'uno dal
l'altro distinguere (3), e che l'uno succeda all'altro, mi
(1) Art. IH. (a) Vidi add. Scz. 111,0. Ili, art. il.
(5) Secondo me, si debbono distinguere questi Ire avvenimenti; ma in quanto
al secondo (la sensazione), non panni sufficientemente descritto da Reid;
perciocché questo filosofo non considera la sensazione che come ima mo-
>b(ii azione dello spirito, tanto semplice, che non dia ultra nozione che quella
d'una relazione dello spirito con sè slesso, o per meglio dire, «die non sia
altro che uno stato diverso dello spirilo. All'incontro l'analisi che io fo
della sensazione, mi somministra un altro risnllainenlo. La sensazione è
uua passione , e l'analisi d'Un passione dà sempre tre elementi; i." ciò che
Rosami, Or:-, dette Idee, Voi II. 7
5o
par vero, e rilevato dallo Scozzese in modo chiaro a
non lasciarne il menomo dubbio.
Che l'uno non abbia vera similitudine coll'altro, e che
l'uno non possa essere quasi direbbesi stampato dall'ai-
patisce, a." ciò che fa patire, 3.' e la passione stessa. Ora primieramente
osservisi, che ciò che si chiama passione, e la cosa identica con ciò che si
chiama azione: solamente che quella cosa è passione relativamente al pa
ziente, che è azione relativamente all'agente. Questa diversa relazione col
paziente e coli' agente fa sì, che quella cosa che in sè è una, diventi due
aHa mente , per la diversa relazione che ad essa si aggiunge. E questa cosa
unica diventa due cose realmente diverse rispetto ai termini a cui si rife
risce : sicché pel paziente quella è una cosa interamente diversa e contraria
a rio ch'ella medesima è all'agente.
Ciò veduto, la sensazione essendo passiva, con essa non si percepisce
quella cosa unica in sè slessa e priva di relazioni , ma anzi sotto la sola
relazione col paziente ( cioè come passione), senza concepir nulla del suo
essere di azione, che è il suo esser proprio, Nella sensazione adunque , il
soggetto che la riceve, oltre di sentire sè stesso, prova in sè un avve
nimento che non viene da sè (la passione che soffre), ma che termina, come
in causa, in qualche altro essere. È bensì vero, che il soggetto puramente
senziente non percepisce a parte a parte sè stesso e ciò che agisce in sè,
e che queste due cose sono iu lui indivisibili; ma ciò non toglie che, me
diante la riflessione sopra la sensazione, noi non possiamo poi distinguere
in questa i.° una relazione col soggetto senziente, o sia il soggetto sen
ziente in quanto sente, a.0 una relazione che non termina nel soggetto sen
ziente, e perciò iu qualche altro essere diverso da lui.
Noi riserberemo la parola sensazione per segnar con essa unicamente il
soggetto senziente in quanto sente sè stesso; e useremo la frase di perfe
zione sensitiva de' corpi per segnare la sensazione medesima in quanto essa
è una passione, che , come tale , ha necessariamente una relazione con qual
che cosa di estraneo e diverso dal soggetto senziente.
Ciò posto, le percezioni de' corpi sarebber due; cioè i.° vi avrebbe una
percezione sensitiva de' corpi , c 2.° una percezione intellettiva.
Or della percezione sensitiva de' corpi si avvera ciò che ho più volle
dello, cioè che lo spirilo nostro prende ed involge i corpi stessi; e della
percezione intellettiva questa frase non ha luogo, se non in quanto questa
suppone quella, che le serve di materia.
Dove questa maniera ili parlare si ritenga, l'errore di Reid consiste
nell' aver egli distinte solo tre cose nel fatto della percezione intellettiva
de' corpi; quando egli avrebbe dovuto distinguerne quattro, cioè I. """
pressione meccanica sugli organi, 2." sensazione (presa nella sua unica re
lazione col soggetto), 3." percezione sensitiva de' corpi (cioè ricevimento io
noi della passioue cagionala da qualche cosa fuori di noi ) , 4-° percezione
intellettiva de' corpi (cioè conoscimento di agenti in un dato modo sopra
di noi ).
Questa mancanza di distinzione precisa portò Reid a confondere I» re
cezione sensitiva de' corpi , colla percezione intellettiva, e a dir di quella no
che avrebbe dovuto dire di questa.
Facendo della percezione intellettiva e della percezione sensitiva una cosa
sola, egli venne a negar le idee: perocché nella pereezion sensitiva non vi
trovò idee, e vi trovò percezione de' corpi; quindi disse, che la pcrCtUO**
de' corpi non avea bisogno d'idee. ' *
5i
tro, questo io l'accordo: certo Vimpressione sugli organi
corporei è di natura essenzialmente diversa dalla sensa
zione; e la sensazione non ha la più piccola simiglianza
colla percezione dell'esistenza che fa il nostro intelletto (1):
(i) Talora la filosofia ci ritrae dai misteri , talora vi ci conduce. Che è ciò ?
La filosofia non è dunque nemica di tutti i misteri, ma solo di alcuni! K
qui si badi: io non parlo qui che della tendenza che dimostra una specie
di filosofia ; il che in gran parte è indipendente dagl' individui che la pro
fessano. Se io m'appiglio a caso ad una scuola, o ad un metodo di filoso
fare, io ne suggo lo spirito, senza discernere io stesso chiaramente la na
tura di quello ; cammino sopra una strada, che ignoro io medesimo dov'ella
mi conduca, e, quanto a me, spero che mi conduca a buon termine. Ciò
dichiaro, acciocché non sembri eh' io voglia essere ingiurioso ad alcuno,
descrivendo l'indole e la tendenza di certa filosofìa , ed affermando che la
specie di cui parlo abborrisce certi misteri , e con parzialità degli altri ne
ama e propone. Or cercate voi quali sieno i primi, quali i secondi: trove
rete eh' ella abbon isce que' misteri che suppongono qualche cosa di spi
rituale. Supponete all'incontro, ch'ella co' suoi ragionamenti giunga a tal
passo, che non può valicare senza ricorrere a qualche essere spirituale.
Allora essa si ferma, e vi dice: questo passo è insuperabile: più là non
può andarsi; e cosi vi crea un mistero , cioè vi afferma esser lì appunto
no nodo inesplicabile. Il filosofo coglie poi occasione da ciò d'applaudirsi,
un po' immodestamente, della sua modestia , e di sclamare contro all' al
trui presunzione. Onde ini sì fatto modo di ragionare? Da questo pregiudizio
segreto: « lutto dee ridursi alla materia , lo spirito non dee essere necessa
rio ». Quando si parte da una proposizione non provata, supponendola
yera , o amandola in modo da volerla assolutamente vera ed esclusa la sua
contraria, allora che accade? questo: fino a dove si crede di potere inol
trale il ragionamento senza ricorrere a nozioni elevale, si va, e si spazia
in esso liberamente; arrivati al confine, quando non si può più avanzare
senza venire a qualche cosa di spirituale, allora si ferma il passo: il filo-
solo d'un tratto s'umilia: dichiara temerità il passar oltre, sobrietà filoso
fica l'arrestarsi. Questo limite arbitrario messo alla filosofia, questa umilia
zione volontaria, questa fede cicca nella incomprensibilità di ciò che non
piace, prima limila la scienza umana, e liranneggia l'umana famiglia, vie
tandole il libero uso della più sublime delle sue facoltà, la ragione; poi fini
sce col distruggere la filosofia intera , V intera scienza , col rendere impos
sibile il sapere umano: giacché più si medila, e più si vede che ogni
sapere umano si rende nullo ed assurdo, ove si elimini lo spirilo dall'uni
verso . e le cose divine dalla umana intelligenza, dalle quali ricevono il
loro esser le umane. Lo scetticismo, l'indifferentismo, l'egoismo , 1 epicu
reismo de' nostri tempi è il fruito della filosofia di cui tocchiamo : ma Io
sce lieo ragiona, sente l'indifferente, l'egoista ama, e l'epicureo si sulleva
dal suo lungo allorché vantasi d'esser tale: e così contraddicendosi perpe
tuamene, l'uomo pronunzia una condanna essenziale di sé medesimo; per
ei occhè è impossibile all'uomo cassare la propria natura, e la verità che
colla sua natura si mesce.
53
all'occasione della impressione eslerna: questo non fa al
mio scopo presente: mi fermerò sull' ultima parte del
fatto, cioè sul modo onde, all'occasione della sensazione,
sorge nell'anima la percezione de' corpi come cose esi
stenti. Dico che quest'ultima parte fu dichiarata ines
plicabile da Reid, perchè non la sottomise ad un'analisi
abbastanza fina: ed è ciò che ci proponiamo di tentar
qui noi.
Reid dice: data la sensazione, io ho la percezione de'
corpi esistenti, quantunque questa sia cosa interamente
diversa da quella.
In questa maniera di annunziare il fatto è una ine
sattezza.
Che Vesistenia in universale sia diversa e anzi contra
ria alla sensazione, questo l'abbiamo anche noi osser
vato (i).
Ma che la percezione intellettiva de' corpi esistenti sia
cosa interamente diversa dalle sensazioni (2), questo si
conosce inesatto ove si richiami alla mente l'analisi per
noi fatta di quella percezione (3).
Manca in Reid appunto l'analisi accurata della me
desima.
Tale analisi dimostra, ch'essa non è semplice come la
sensazione, ma che risulta di più parti distinte. Suppo
nendola semplice, certo non s'intenderebbe come nel
l'anima nostra venisse, se non per un'apparizione ines
plicabile: sarebbe una creazione che d'un trattosi ope
rerebbe nel nostro spirito in occasione della sensazione.
Ma s'ella è di più parti, in luogo di fermarsi ad essa
e dichiararla inesplicabile, si deve andar oltre; e pri
mieramente scomporla nelle parti ond' essa risulta; poi
esaminare la relazione di queste parli fra loro, se sono
contemporanee, o se ve n'ha alcuna di precedente, ed
alcuna di susseguente, e in che modo fra lor si connet
tano, e così sorga in noi la percezione de' corpi.
I. E veramente, vedemmo già assai , la percezione in
tellettiva comporsi di tre parti, cioè i.° sensazione, che
fa percepire al nostro senso le qualità sensibili in par-
(1) Art. L *
[1) Nella sensazione comprendo qui ciò che ho chiamalo pacchione sen-
tiliva de corpi. Ved i la nota , face. Si.
(5) Art. I, 2 •> Osservazioni.
54
ticolare. cioè tali coin'elle esistono, non col predicato
di qualità ; e queste qualità sensibili fissano il segno a
cui si volge l'intenzione del nostro pensiero: 2.' idea di
esistenza in universale; poiché concepire un corpo come
esistente, non è che classificarlo fra le cose esistenti; e
il far ciò presuppone l'idea di esistenza in universale,
quella idea che forma la classe ( per così dire ) di ciò
che esiste: 3.° rapporto fra la sensazione e l'idea di esi
stenza, o sia giudizio, nel quale s'attribuisce l'idea di esi
stenza ( predicato) al complesso delle sensazioni ricevute
e legate fra loro insieme in un dato modo (soggetto),
nel qual atto dello spirito sta propriamente la produ
zione della percezione intellettiva de' corpi. Vedemmo an
cora, che lo spirito nostro fa ciò in virtù di sua per
fetta unità, cioè dell'unità identità del soggetto senziente
coli' intelligente: il che viene a dire, che quegli mede
simo che riceve le sensazioni, è quegli ancora che vede
l'esistenza degli oggetti; ed ha l'energia, tornando sopra
di sè, di riguardare ciò che patisce sentendo, in rela
zione colla detta esistenza; nel quale riguardamento egli
vede la cosa in sè, oggettivamente.
II. Cercando ora se queste parti sono di lor natura
contemporanee, ovvero se alcuna goda qualche prece
denza sulle altre, può osservarsi, ch'esse e per natura e
per tempo debbon trovarsi nell'ordine seguente fra loro:
primo, dee esser l'idea dell'ente; poi, dee venire la sen
sazione; in terzo luogo, il giudizio, che le congiunge, e
così genera la percezione dell'esistenza de' corpi, la quale
non è altro finalmente, che l'applicazione dell'esistenza
in genere ( come predicato ) a' corpi sentiti ( come sog
getto ).
E di vero, che il giudizio non si possa chiudere se
non precedono i due termini (predicato e soggetto),
sembra cosa manifesta.
Che poi l'idea dell'ente debba precedere nell'uomo la
sensazione, questo si conoscerà mediante un' attenta os
servazione su que' due termini del giudizio.
Primieramente riflettasi, che l'idea dell'ente entra
egualmente in tutte le nostre idee, e perciò ancora in
tutti i nostri giudizj (1). Posto adunque che noi abbiamo
(i) Questa osservazione noti isfuggì ngli auliclii. San Bonaventura, parlando
de' primi principi della ragione , diceva , che è forza clic la mente eh
assenlial, non lanquam DE NOVO percipiat, seti tant/tiam sibi innaia et
FA311L1AR1A B.ECOGNOSCAT. lliner. mentis eie. c. III.
56
Voi volele che i confini di ciò che è esplicabile, sieno
quelli della vostra osservazione. Non è dunque possibile
osservare un passo più innanzi di quello che avete os
servato voi? Non si dee dunque sempre credere a' filo
sofi , quando ci dicono autorevolmente, che l'uomo nelle
ricerche filosofiche non può proceder olire, unicamente
perchè più oltre non sono proceduti essi. Il mistero nelle
percezioni intellettive v'avrà, io lo credo: ma non là,
dove Reid l'ha collocato.
La percezione intellettiva de1 corpi non è che un'ap
plicazione d'una idea precedente alle corporee sensazioni.
Ciò viene confermalo dalle stesse parole colle quali
s'esprime, e che sono, dice il Conditine (i), un'analisi
de' pensieri. Le parole « idea ( o percezione ) dell' esi
stenza de' corpi » , non comprendono esse e non espri
mono Videa dell'esistenza applicala ai corpi? L'idea dun
que dell' esistenza de' corpi è generata dall'idea dell'esi
stenza che a quella precede, e che all'occasione delle seri-
suzioni viene applicata alle medesime, e quindi s'impone
all'oggetto dell'idea che ne risulla, il nome di corpo.
Concludendo: L'idea dell'ente non comincia ad esistere
nel nostro spirito nell'atto della percezione: poiché l'os
servazione sopra di noi non ci dà nessuna consapevo
lezza, che questa idea venga così d'improvviso in noi
e in noi così subitanea si accenda; non ci dà nessuna
consapevolezza di quel grande passaggio che il nostro
(i) Conilillac definisce le lingue, dei melodi aniditici , cioè de' metodi di
scomporre le idee. Certo, che così si posson chiamare: ma ciò che è sfug
gito a Coudillac si è, che come ogni analisi suppone una sintesi precedente- ,
così pure le lingue seno prima melodi sintetici e poscia analitici* cioè
prima uniscono e poscia scompongono. Quando io dico un sostantivo,
per es. corpo, io pronuncio un nome che mi unisce insieme più idee, tulle
legale a questo segno unico , corpo. Su io dico ima proposizione, per cs.
esiste il corpo, io ho scomposto l'idea di corpo: ili fatti nella parola corpo
io esprimo già l'esistenza ; ma dicendo esiste, la divido altresì; e quindi ho
l'idea dell'esistenza unita nella parola corpo, ed anche separata nella parola
esiste: la p.irola corpo è una sintesi, la proposizione esiste il corpo è
un'analisi. Universalmente tulli i sostantivi non sono che altrettante tin
tesi, e le proposizioni nelle quali entrano i sostantivi sono delle analisi.
Ora come le pai ole singole precedono le proposizioni, che ili singole pa
role si compongono, cosi appunto la sintesi precede 1' analisi. Ciò è lauto
vero nel discorso meramente intellettuale, come nel discorso vocale. Si
può dunque dire che le lingue sieno fedeli rapprescnlatrici dei pensieri
(come in gran parie ne son r ajuto) , e «he perciò non sicuo meramente
melodi analitici, ma bensì « melodi siutelico-analitici ». Tale denomina-
zioae abbiacela tutto, ed evita il parziale ed il sistematico.
spirito farebbe dal non averla all'averla, se così la ri
cevesse: nessuna memoria di un tempo in cui non l'ab
biamo, e di un tempo in cui l'abbiamo: e all'incontro
siaru consapevoli a noi slessi di un continuo uso clic
noi sempre facemmo di questa idea , die ab immemo
rabili, per così dire, abbiam considerato qual cosa no
stra: nè, senza consapevolezza averne nè altra prova,
siamo in diritto di affermare un fatto sì strano, qual è
quello della creazione istantanea ed interiore a noi di
un idea, che non ha da far nulla con tutte le cose este
riori e corporee.
§ 2.
DIMOSTRAZIONE II,
dall'assurdo.
Or poniamo, che nell'atto della sensazione, o immedia
tamente appresso a quella, fosse il punto nel quale l'idea
dell'ente cadesse nella nostra mente} e che d'una idea
comparsale così improvvisa , usasse questa a percepire
l'esistenza de' corpi, applicandola alle sensazioni.
Primieramente, questo sarebbe un prodigio : il com
parire nell'interno della nostra mente un'idea, che non
ha che fare colle sensazioni, è una creazione, o certo
è un avvenimento interamente isolato, che non si ran
noda a nulla, che non ha nessuna analogia col solilo
operare della natura. Tanto basterebbe ad escludere una
simigliante ipolesi, non essendo necessaria, giacché ci
ha un mezzo assai più facile e assai meno maraviglioso
a spiegare l'origine delle nostre idee.
Ma di più, questa idea dell'ente, che si crea istanta
neamente nell'anima nostra, non può avere che una di
queste due cagioni: o un enle fuori di noi (Dio), che
all' occasione delle sensazioni la produce} o la natura
dell'anima stessa, che per una legge fìsica e necessaria
la manda fuori di sè, e di sè la crea.
La prima di queste ipotesi reincide nel sistema degli
Arabi, rifiutato più sopra (i); la seconda si riduce al
kantismo (2).
In falli, gli Arabi dicevano che l'intelletto agente di
li) Art. IL
6o
st.ro spirito che la contempla , come una stella del fir
mamento è indipendente dallo sguardo di chi la mira.
Finalmente non è difficile a dimostrare, coli' analisi
accurata che abbiam fatto dell'idea di ente, dove ab
biaci distinti i suoi sublimi caratteri (i), ch'ella è co
tale, che la sua produzione supera le forze di qualunque
essere finito, non che della mente umana. Ma parendomi
bastare il detto , a conferma della proposizione propo
stami, riserbomi di tornare su quest'altra dimostrazione,
più intrinseca e più rigorosa , ad un altro luogo , dove
mi cadrà in taglio di trattarla diffusamente.
ARTICOLO V.
L* IDEA DELL' ENTE È INNATA.
S I.
DIMOSTRAZIONE.
Questa proposizione segue alle precedenti. Poiché,
1.°Se l'idea dell'ente è così necessaria, ch'entra essen
zialmente nella formazione di tutte le nostre idee, sicché
noi non abbiamo la facoltà di pensare (o di avere, e
unire e disunire le idee) se non mediante l'idea del
l' ente (a) ;
2.* Se questa idea non si trova nelle sensazioni (3);
3.* S'ella non si può cavare dalle sensazioni esterne
o interne per la riflessione (4);
4-" Se non è creata in noi da Dio all'atto della per
cezione (5) ;
5." Finalmente se è assurdo il dire che l'idea dell'ente
emani da noi stessi (G) ;
Bimane che l'idea dell'ente sia innata nell'anima no
stra : sicché noi nasciamo colla presenza e colla visione
dell'ente possibile, sebbene non ci badiamo se non assai
tardi.
Questa dimostrazione per esclusione è irrepugnabile,
dove sia dimostrato che l'enumerazione de' casi possibili
è completa.
Ora , che sia completa , vedesi in questo modo.
■
G8
« conoscere. Ma siccome l'occhio, quando attende alle
« varie differenze de' colori , non vede il lume pel quale
« vede l'altre cose (i); o se lo vede, non lo avverte
« punto; così l'occhio della mente nostra, atteso agli
« enti particolari e universali (2), non vede 1' ente
u stesso fuori di ogni genere; benché egli occorra alla
« mente prima di tutte 1' altre cose , e per esso occor-
u rano l1 altre cose alla mente, tuttavia non l' avverte.
« Sicché verissimamente apparisce, che come sta l'occhio
« della nottola alla luce , così sta l'occhio della mente
« nostra alle più manifeste cose di natura » (3).
CAPITOLO I.
data l'idea deh' essere, l'origine dell'altre idee
si spiega mediante l'analisi de1 loro elementi.
ARTICOLO I.
NESSO DELLA DOTTRINA ESPOSTA COLLA SEGUENTE.
Movendo io dall'idea dell'ente in universale innata, a
spiegare l'origine delle idee acquisite, io non formo già
Dna vana ipotesi; perciocché io assumo a tale spiegazione
cosa, di cui prima provai l'esistenza (i).
Mi resta dunque a mostrare, siccome tutte le idee
dall'idea dell'ente si derivano, sicché, posta la idea
dell'ente , tutte si spieghino senza più.
La quale spiegazione si parrà via più vera, osservando,
ch'essa è la più semplice di tutte le possibili; percioc
ché non si può ammettere meno d'innato, di ciò che
poniam noi, ponendo innata la semplicissima idea del
l' ente in universale (2).
ARTICOLO II.
ANALISI DI TUTTE LE IDEE ACQUISITE.
(1) Newton osserva, che non si dee fare alcuna ipotesi per ispiegare i
(atti , ov'ella non abbia queste due condizioni:
i.° Che la cosa che si assume come cagione de' fatti, sia realmente esi
stente, e non essa stessa ipotetica;
3." Che sia atta a produrre que' fatti che si vogliono per essa spiegare.
La maniera ond' io spiego 1' origine delle idee, non pure ha questi due
caratteri , ma ne ha un terzo altresì , pel quale ella esce dalla classe delle
ipotesi , e passa in quella delle teorie, siccome a me sembra, bene assicurate.
Il terzo carattere sta in questo, che io non provo solo che l'idea del
l'ente, della quale è stato provato prima di tutto 1' esistenza anche come
innata (Parte I. ), è atta a generar di sé tulle l'altre idee; ma che le ge
nera veramente : perciocché tutto il formale delle idee bene analizzate si
rinviene non esser altro che la stessa idea dell'ente. Dunque nel tempo
che a tutte le idee assegno l' idea dell' ente come loro causa (formale), io
dimostro ancora, che questa causa è un fatto: é in tal modo, che la dot
trina dell'origine delle idee può aspirare ad un posto fra le scienze rigorose.
(•2) Sez. IV, c. IV, art. ii.
7°
i.* Tulle hanno essenzialmente in sè la concezione
dell'ente, per modo, che noi non possiamo aver idea
di veruna cosa, senza che noi concepiamo prima di tulio
l'esistenza possibile (i), che costituisce la parte a priori,
e la forma delle nostre cognizioni (2).
2.* Se v'ha nell'idea qualche altra cosa olire la con
cezione dell'ente , quest' altra cosa non è che un modo
dell'ente stesso : sicché si può dir veramente, che qualun
que idea non è mai altro, che o Tenie concepito .senza
alcun modo, o l'ente più o meno determinato da' suoi
modi ; determinazione che forma la cognizione a poste
riori , o la materia della cognizione.
ARTICOLO III.
CONSTANDO TDTTE LE IDEE ACQUISITE DI DUE ELEMENTI, FORMA E MATERIA ,
È NECESSARIA DNA DOri'IA CAUSA l'ER ISP1EG ARLK.
(1) Parie I, cap. II, art.v. (a) Sez. IV, c. Ili, art. xn.
(3) Parte I. — Udiamo anche su ciò S. Tommaso : Remanet igitur, cosi rpi ì
scrive, ipsa anima intellectiva in potentia ad DETERMINATAS similitu
dine! rerum cognoscibilium a nobis (qune tunl naturae rerum sensibilium ):
et has quidem delcrminalas naturas rerum sensibilium praesentant nobis
PHANTASMATA. Conlra Gent. II, lxxvii.
Io soglio attribuire alle sensazioni il suggerirci le determinazioni delle
cose presenti ; alle immagini quelle delle cose non presenti : la parola Jan-
tasmi, nel scuso di s. Tommaso abbraccia le une c le altre.
mia idea: i.° un qualche cosa che può esistere, percioc
ché io non potrei inai pensare una palla d' avorio se non
pensassi insieme l'esistenza possibile di un qualche cosa -,
2° e che questo qualche cosa è di tal grandezza , di tal
peso, sferico, levigato, bianco.
Ora, fermato che l'idea dell'esistenza possibile sta in
me, che mi resta per ispiegare il modo ond'io pervengo
a pensar quella palla?
Nuli' altro fuor solo questo, di mostrare quale sia la
via ond'io pervenga a determinare in me quell'idea di
un essere mediatile i caratteri del peso, della forma,
della grandezza, del colore ecc.
Ora ciò mi è assai facile: perocché egli è evidente, che
tutte le predette determinazioni della mia idea dell'ente
vengono suggerite al mio spirito da' miei sensi esteriori
die le percepiscono.
ARTICOLO V.
DOTTRINA 01 S. TOMMASO SULLA CAUSA DELLE NOSTRE IDEE.
(i) Non potest dici, quod sensibilis cognitio sii totalis et perfecla causa
intellectualis cognitionis , sed magis quodammodo est MATERIA CACI-
SAE ( S. I, LXXXIV, vi). Il perchè nel sistema di s. Tommaso non è già
il senso il principale agente nella formazione delle idee , ma questo non
£ che un agente secondario: ecco le parole stesse del Santo: In recepitone
qua inteìleclus possibilis species rerum ( cioè le idee ) accipit a phantnsma-
tibus , se liabtnl phantasmata ut agens instrumentale et SECUSDARIUM ,
mtellccius vero agens ut agens PRINCIPALE ET PRIMVM ( De Ferit.
Q. X, art. VI, ad 7). E nel riconoscere una doppia cagione delle idee, col
iJoltore aquinale conviene il grande suo contemporaneo ed amico s. Bonaven
tura, che così le due cause lucidamente distingue: Non solum habel (me
moria ) ab esteriori Jbrmari per phantasmata , verum etiam a superiori
suscipiendo et IN SE HABENDO simpìices formai , (pine non possimi in-
troire per poruts scnsuum et sensibilium phantasias. Itili, mentis iu tlcum,'
cap HI.
7a
ARTICOLO VI.
VERA INTERPRETAZIONE DEL DETTO SCOLASTICO :
M NIENTE T' È NELl' INTELLETTO , CHE PRIMA NON SIA STATO NEL SENSO ».
CAPITOLO II.
ARTICOLO l.
L* IDEA DELL* ENTE PnESENTE AL NOSTRO SPIRITO È CIÒ CHE FORMA
L'INTELLETTO E LA r.AGIONE UMANA.
ARTICOLO II.
DOTTRINA DI S. TOMMASO E DI S. IONAVENTC**
SOLLA FORMAZIONE DELL' INTELLETTO E DELLA RAGIONE.
(i) S. I, LV, i.
E qui badisi ali argomento che io fo, tutto appoggialo
sulle dottrine del grande Dottore di cui parliamo.
San Tommaso ci descrive la forma di una cosa come
quell'elemento, che si può colla mente nostra discernere
in essa, pel quale nel primo momento la cosa è in atto (i).
Ora se l'ente è la prima cosa che l'intelletto nostro
intende in qualunque sua intellezione; dunque convien
dire, che avanti che noi in una cosa veggiam l'ente,
nulla intendiamo: non è dunque essa ancora per noi
intellezione. All'incontro, tosto che abbiamo in checches
sia inlesovi l'ente, l'intellezione è in atto; perciocché
qualche cosa vi abbiamo inteso : l'ente dunque è la
forma della cognizione intellettiva, perciocché è ciò che
fino dal primo suo istante la mette in atto, che è quanto
dire la fa esistere.
Ora se l'intelletto è la facoltà di metter la forma
delle cognizioni, e se questa forma non può essere, se
condo la dottrina del grand' uomo di cui parliamo, se
non r ente, la prima cosa die vede l'intelletto, la prima
cosa che il fa essere in alto; forz' è dire che è l'idea
dell'ente quella che forma l'umana intelligenza (2).
San Bonaventura era pervenuto a trovare il medesimo
vero. E perciò egli insegna, che « l'essere è ciò che cade
« a prima giunta nella mente, e quell'essere che è puro
« atto » (3), sicché rende in atto o sia informa la mente
stessa. ,
E perchè l'essere nella mente é la. verità, egli dice
espressamente che « la mente dalla verità è formala» (4).
ARTICOLO I.
LA RIFLESSIONE.
ti) Tutta questa dottrina si può dire racchiusa nel seguente passo di
s. Tommaso d'Aquino: fntellectus enim UNICA VIRTUTE cognoscit omnia
quae pars sensitiva diversis polenliis apprehendil (percepisce) , et etiam ALIA
MULTA; intellecttis etinm quanto fucril altior (cioè quanto s'eleva aduna
riflessione maggiore), tanto ALIQUO UNO plura cognosccre potest, ad
nuac cognosccnda intellectus inferior (la riflessione minore) non pcrtirigit
per multa. Coutia Geniilcs I, xrn.
78
dinata al mio fine: considero dunque quell'idea, più un
suo rapporto col fine che mi sono proposto.
All' incontro : mi fisso io in quell' idea involontaria
mente , e senza che io il voglia? son tenuto in essa da
un1 azione piacevole eh' essa fa in me colla sua luce, a
quello stesso modo come il diletto della sensazione rapisce
e tiene a sè istintivamente l'attività mia di sentire? la
tal caso questa mia a (fissazione non è riflessione , ma è
puramente attenzione diretta , che viene tratta in un
alto intenso, e tenutavi naturalmente: e questo rinforzo di
attività conviene assai ben distinguerlo dalla riflessione.
u La riflessione adunque è un1 attenzione volontaria
data alle nostre percezioni », un'attenzione cioè diretta
da un fine} ciò che suppone un essere intelligente, atto
a conoscere il fine, perch' egli il possa a sò proporre (i).
Colla riflessione adunque si formano le idee di rap
porto, si raggruppano le idee (sintesi), o si dividono
( analisi).
E quando io adopero la riflessione per analizzare un'idea,
e separare ciò che è comune in essa da ciò che è proprio,
allora formo quella operazione che si chiama astrazione.
Tutte queste sono funzioni della riflessione.
ARTICOLO II.
LA UNIVERSALIZZAZIONE E l' ASTRAZIONE.
L' astrazione si dee dividere dalla universalizzazione ;
e l'averla confusa fu cagione di molti errori.
CoW astrazione si toglie via qualche cosa alla cogni
zione (le note proprie); colla universalizzazione si ag
giunge (3), s'ingrandisce, in una parola si universalizza:
sottrarre ed aggiungere sono operazioni contrarie.
(1) Vedi la Sez. UT, c. II, art. v, dove ho descritto più a luogo la diffe
renza fra Vattenzione dell'intelletto necessaria alla riflessione, e la sensibili
tà, confuse insieme da Condillac.
(a) Chi sottilmente considererà la dottrina di s. Tommaso , parmi che la
troverà con questa consentanea. Ma conviene ben intendere la sua ma
niera di parlare. E in vero, s. Tommaso insegna , i." che i fantasmi sen
sibili non sono che similitudini degli oggetti; 2.0 che l'intelletto percepisce
gli oggetti stessi: quidditas rei est proprium objectum intellectus {S. I.LXXXV,
v). Or dunque se l'intelletto non trova ne' fantasmi che delle similitudini delle
cose, e s'egli tuttavia percepisce non le similitudini ma le cose stesse, secondo
s. Tommaso, come può egli far ciò, se non supplendo egli le cose, gli enti •
L'intelletto adunque pone l'eute; quaudo il senso uou pone, secondo lAu
«
lizzazione, che èl'operazioDe colla quale all' occasione de' fantasmi si formano
k idee, e s'intendono le cose sensibili. Certo è che l'aggiunta che fa la nostra
intelligenza alle sensazioni dell'idea dell'ente si può chiamare molto ragione
volmente illustrarle; perciocché è solo per questa giunta che si fanno intelligi-
Jiili , che è quanto dire, lucide all'intelletto. Tuttavia alcuni passi de' filosofi
aristotelici farebbero dubitare di ciò, e tirerebbero a dire, che non aggiun-
gesser sempre un senso preciso e netto a quelle due maniere di dire, che
anzi si adoperasse sovente la parola astrarre per significare la universali!'
lozione delie idee. Ove però si consideri sottilmente la loro dottrina, parai
che si possano ridurre que'passi a buon senso. Ecco, a ragione d'esempio,
come s. Tommaso descrive le due operazioni dell' illustrare , e dell'astrarrti
« I fantasmi, egliJ~ii*
dice,
:_.«M„..~
e s'illuminano
— dall'intelletto agente,
' -e di• nuovo■■ ■■■da
cquista
.. l'intelletto agente si rendono atti da cui si astraggano le intenzioni >u"
« telligibili. Astrae poi l'intelletto agente le specie intelligibili da' fantasmi ,
« in quanto che noi possiamo, per virtù dell'intelletto agente, mettere sotto
v la considerazione nostra le nature delle specie senza le condizioni indivi-
« duali , secondo le similitudini delle quali s'informa l' intelletto possibile »
(S. I , LXXXV, i , ad 4)- Or clic può voler significare quell' espressione, che
la parte sensitiva acquista maggior virtù ( ejficilur virtuosior), per la con
giunzione sua coli' intelletto agente? che acquista quella virtù, per la quale
si rendono alti i fantasmi a subire un' astrazione , e dar per questa le specie
intelligibili delle cose, le idee? Egli sarà facile a saper che virtù sia questa,
quando si sappia ond'avvenga che uoi possiamo astrarre le nature specifiche
delle cose (le idee). Ora parmi di aver già dimostrato chiaramente che ciò
nasca in questo modo. Le sensazioni o immagini (plianUismata) vengono
unite coli' idea dell' enle e col giudizio della sussistenza della cosa : quiudi
si fa la percezione intellettuale determinata agl'individui percepiti appunto
mediante le sensazioni ( plitintasmata ) : ora è da questa percezione intel
lettiva che si può cavare l' idee specifiche delle cose (colla doppia specie di
astrazione; colla prima si astrae il giudizio che si riferisce agl'individui, colla
seconda am be le condizioni individuali), e si hanno così le idee universali
pure ed isolale. Sembra dunque evidente che ifantasmi illustrati di s. Tom
maso corrispondano perfettamente a ciò ch.e io chiamo percezioni i/Ottlellivt»
83
della cosa. Sembra dunque che in quesla operazione
v'abbia una specie di astrazione, die si può specificare
nominandola astrazione dalla sussistenza o dal giudizio.
Ma pure si osservi , che quando io nella percezione
intellettuale separo il giudizio sulla sussistenza, e ritengo
solo così divisa l'idea, non cavo con ciò nulla da' vi
sceri , per così esprimermi, dell'idea stessa: le tolgo
solo d'attorno ciò che non è suo, che le sta aderente
senza entrare a formare la sua natura; perocché la per
suasione della sussistenza della cosa dall'idea rappresen
tatami non è l'idea, nè cosa che le appartenga. Laonde
V idea stessa non soffrì la menoma astrazione o muta
zione in sè , e si rimase perfettamente quella che era
prima, quand'era congiunta colla persuasione della sus
sistenza de'la cosa.
Non fu adunque adoperata in essa propriamente astra
zione; e l'astrazione che v'ebbe, cadde tutta sulla per
cezione intellettuale , e non sull'idea, elemento di quella.
Ove adunque vogliasi tenere il vocabolo di astrazione
nel fatto nostro, convien dire tult' al più, che l'idea si
è ottenuta per una astrazione operata sulla percezione;
e perciò Videa si può chiamare una percezione astratta.
Di più: se l'idea è un elemento della percezione in
tellettiva , e se su quell'elemento non venne falla al
cuna astrazione, ma fu solamente considerato da sè, il
che non muta la sua natura; forz' è dire che, essendo
il detto elemento universale quando si contempla di
viso dalla percezione, universale era pure nella perce
zione, e che non si universalizzò già coli' astrailo, ma
la universalizzazione fu operata prima di questa guisa
di astrazione, e propriamente coli' atto della percezione
intellettuale (i).
Descrivendo adunque il processo di questa astrazione,
che cade sulla percezione e non sull'idea, convien no
tare i seguenti tre passi:
i.° Sensazione corporea, o fantasma (percezione sen
sitiva).
a.0 Unione della sensazione corporea coli' idea del
l' ente in universale, che avviene nell'unità della nostra
coscienza (percezione intellettiva).
(i) Vedi ciò che fu dello alFoccasioue di confutare Condillac, Scz. Ili,
tip. II , art. x.
84
(E in questa percezione intellettiva si fa contempo
raneamente, e in una operazione medesima, a) un giu
dizio della sussistenza della cosa, b) Videa della cosa,
mediante la universalizzazione).
3.° Astrazione o divisione del giudizio dall' idea, colla
quale divisione si ha l'idea sola e puraj la quale seb-
ben era universale fino dal suo primo essere nella per
cezione, tuttavia ella si consideravi legata colf oggetto
individuale e sussistente; ma spacciata da somigliante
vincolo, si vede sola , nella sua universalità.
L' universalizzazione adunque è la facoltà che produce
propriamente le idee (i): mentre V astrazione è una fa
coltà che solamente muta loro forma e modo di essere.
OSSERVAZIONE II.
L' universalizzazione produce le specie s V astrazione i generi.
(1) Merila clie si osservi , come tulli i maggiori filosofi defl* •litichiti si
sono accorti clie il conoscere dell' uomo non era che un percepire l'iwi-
versale. Non solo Platone, ma Aristotele medesimo lo dice espressamente
in tanti luoghi : basti il seguente della Metafisica (Lib. Ili, lez. ijc): Qua-
leiius universale quid est , ealenus omnia cognoscimus ; sopra il qual passo
s. Tommaso : Sic igitur sciintia de rebus singularibus non Imbellir nisi in-
quantum sciimtur universalia. Conviene adunque avere qualche universale
in noi, perchè possiamo conoscere i singolari che sono fuori di noi; ed è,
si può dire, col consenso unanime dell'antichità, che io stabilisco la facoltà
di universalizzare come il fonie della conoscenza.
(a) Specie, nell'origine della parola, èaspitto, cosa veduta, rappresenta
zione, idea ere. Come dunque fu applicata a significare certe classi di cose?
Appunto perche ogni idea essendo universale, c il fondamento di una
classificazione.
OSSERVA7AONE Ut.
Dottrina di Platone circa i generi e le specie.
(1) Certo è però, che Platone parla in molti luoghi dubbiosamente delle
sue idee; ed egli sembra che le sue idee sieno astratti, cioè idee delle cose
spoglie degli accidenti. Ma questa maniera di parlare (che ha però una ca
gione, la quale io darò più sotto) non fa disconoscere il fondo del suo
pensiero. San Tommaso spiegando questo pensiero di Platone adopera parole
the accennano l'interpretazione ch'io do a sì fatta platonica sentenza, come
là dove dice che Platone fa che le specie sieno sostanze delle cose singolari
(Nella Meta/, di Arist. Lib. Vll.lez. xvi ). A ciascuna dunque delle sin
golari cose che abbiano qualche differenza fra loro (considerate però nella
lor perfezione), corrisponde un'idea, un esemplare , dal quale l'autore della
cosa la ritrasse e formò: e dal quale egli può sempre ritrarre e foggiare
nuovi individui, purché sieno riducibili al tipo unico loro comune. Questa
interpretazione di Platone parmi che sia confìrmala da tutto ciò che dice
Aristotele, intorno si modo onde Platone venne a simil dottrinatici Lib. Vili
della Melaf., lezione xvi. Anche una dichiarazione che dà Platone circa
le specie ed i generi, mi rende probabile il sentimento che io gli attribuisco.
Platone dice, che quando qualche cosa di comune si predica di più esseri,
ma in modo che convenga meglio ad uno che ad un altro (la frase antica
dice secundum prius et posterius), allora quella cosa comune non può esser
che esista per sè, e separatamente dagli esseri ai quali si attribuisce; e ciò
s' avvera nel genere : ma che quella cosa comune esiste per sè, fuori degli
enti ai quali si attribuisce, s'ella si predica di più esseri egualmente; e ciò
s'avvera nella specie. Gl'individui adunque di una specie, secondo Platone,
non debbono aver differenze, uè gradi fra loro, ma esser uguali perfetta
mente, almeno in ciò che hanno di positivo. Platone adunque per le sue
specie, io concludo, non intendeva che le idee non astratte, ma solamente
universali , nelle quali entrasse bensì tutto quello che si percepisce in un
indi viduo , ma non l'individuo slesso, la materia, e più generalmente la
sussistenza , che non entra mai nelle idee, come di sopra ho mostralo (P. I,
c. II, art. in). Intese in questo modo le specie di Platone, mi sembra che
svaniscano alcune obbiezioni che Aristotele fa alla sua dottrina. E a ra
gione d'esempio, là dove Aristotele dà mano a provare, contro Platone,
che la materia dee entrare a formare la specie delle cose (Mctaph. Lib. Vili),
a me par di vedere un puro equivoco, una mala intelligenza. Certo, che
quando io penso una cosa corporea, penso altresì la materia della quale la
cosa dee esser composta , ma questa mia idea della materia non è la ma
teria stessa: ora se per ispecie s'intende l'idea, nella specie non entra la
materia. Quindi s. Tommaso, per torre l'equivoco, e difendete in qualche
modo il filosofo al suo tempo si veneralo, disse che la materia che entrava
a formar parte della specie, non era già questa materia che è il proprio
principio dell'individuo , ma una materia in generale (il che viene a din-,
l'idea della materia): « sì come entra nel concello della specie uomo, carni
- ed ossa, ma non queste carni e queste ossa che sono i principi di Sorte
86
Questo m'induce a pensare che il filosofo ateniese abbia
traveduta la distinzione fra le due operazioni dello spi
rito che accennammo, l'universalizzare e l' astrarre.
Di vero, le idee platoniche erano i tipi delle cose sin-
golari. Ora il tipo, secondo il quale l'artefice fa un'opera,
dee essere intero in tutte sue parti, siccome altrove ho
fatto osservare (i); dee esser fornito non pure di ciò che
è essenziale alla cosa singolare, ma sì ancora di tutti
quegli accidenti che ad essasi avvengono: conciossiachì-
se gli accidenti posson variare, tuttavia egli è essen
ziale alla cosa, eh' ella n'abbia alcuno di tutti quegli ac
cidenti che a lei appartengono: sicché ove l'artefice avesse
solo l'idea di una cosa astratta, e nulla più potesse
concepirne, egli non verrebbe mai a mettere la cosa
in essere, e produrla.
Ma questo non basterebbe tuttavia a bene intendere
le idee di Platone, nè a formarsi un vero concetto della
natura delle specie: ecco pertanto che cosa conviene
oltracciò sapere.
Platone aveva osservato, che qualsivoglia essere di questo
universo è suscettivo di maggiore o minor perfezione.
Io posso dunque spingere, egli disse seco medesimo,
col mio pensiero un essere qualunque fino alla sua compila
ed ultima perfezione; o certo ciò non è assurdo, che io
od altri fare il possa. Havvi dunque un concetto di ogni
essere tale, nel quale quest'essere viene rappresentalo
nello stato di tutta sua naturai perfezione senza difetto
alcuno.
Platone ammetteva, che di qualunque essere questo
concetto assoluto e compito non potesse esser che uno:
cioè che un essere non si potesse pensar fornito di UM
sua ultima perfezione, se non in un modo solo: e questa
specie di ottimismo intellettuale mi pare, a dir vero, pro
babile. Tuttavia io mi contento di lasciare in dubbio
la verità di un tal placito di Platone, per non avanzar
cosa che provata non sia: ma così rifletto:
« e di Platone » {Cantra Geni. II, xcn). Per allro pare che anche Aristo
tele in iiltri luoghi vedesse, il principio della specie esser V universalizia-
zione di un individuo (e già ancora il notai), e non l'astrazione; come nel
libro Vili della Metafisica , ove paragona le specie a' numeri, c dice, che
ad ogni unità di che s'accresce il numero, egli di tratto muta specie
(1) P. I, c. II, art. ii.
Se un oggetto ha due modi di sua naturai perfezione,
egli ha due concetti primitivi, due tipi, due idee: e queste
formano due specie di cose. Dunque torna vera , purché
s'intenda in questo senso, la sentenza, che l'individuo
d1 una specie non ha che un modo di sua naturai per
fezione: perciocché se n'avesse due, egli costituirebbe due
specie, o a due specie apparterrebbe.
Or poi a questa idea dell'oggetto ( che costituisce la
ideal perfezione del medesimo ) si riducono tutte quel
l'altre idee che rappresentano l'oggetto di qualche difetto
accompagnato: perciocché queste tutte sono quella me
desima idea, detratta solo da lei alcuna cosa} il qual
mancamento la rende imperfetta.
Laonde, se nella mente di un artefice fosse l'idea
perfetta della cosa, non solo con quella potrebbe eseguire
un perfetto lavoro, ma ancora tutti i lavori imperfetti,
che a quel primo, come cose imperfette alla perfetta,
si riducono.
Di che si vede onde nasce la specie delle cose: la specie
è costituita da quell'idea perfettissima, la quale, sebbene
tutti gli accidenti della cosa contenga, come quella che
essendo tipo di perfezione richiede anche questi e li
determina, ricevendo fra tutti, quelli che più le conven
gano e più perfetti sono, cioè che la perfezione sua esi-
jjej tuttavia ell'ha infinito numero d'altre idee a sé sogget
te, cioè tutte quelle che rappresentano l'oggetto ne' suoi
varj stati d'imperfezione; le quali però non formano
nuova specie, poiché non sono veramente altre idee, ma
sono pur quella stessa idea perfettissima, come dicevo,
meno qualche parte o pregio suo, il che toglie da lei
qualche cosa, ma non la muta.
ARTICOLO IH
SINTESI DELLE IDEE.
ARTICOLO IL
1
uTk giaccia l\ dii'iicolta* ni spiegare le tre classi
li' INTELLEZIONI ENUMERATE.
(i) Art. I, § i.
92
Laonde diam mano ora a far questo: supponendo le
percezioni già formate in noi : e poi riverremo a queste;
e descriveremo il modo onde, mediante V universalizza -
zione o sintesi primitiva, esse in noi si possan formare.
ARTICOLO III.
NECESSITA* DEL LINGUAGGIO PER MUOVERE LA NOSTRA INTELLIGENZA
A FORMARE OLI ASTRATTI.
(i) Saggio sui confini dell'umana ragione, negli Opusc. Filos., Voi. I,
face. 5g.
93
§ li- . . -..
Ci4 rlie tira il UnstrA ipirito all'atto del percepire, sono gli oggetti sensibili
•bc a lui si prrtentano.
(t) ATon come i corpi stanno gli uni alla presenza degli altri , ma come
i pensieri sono presenti allo spirito.
gione di quella attività, per la quale lo spirito si forma gli
astratti ; conciossiaohè gli astratti sono oggetti insensibili.
E veramente, quando il senso mi presenta un oggetto
corporeo, io intendo assai bene come la mia intelligenza
possa essere da quello tirata e mossa, e vegga quell'og
getto corporeo. Perciocché la mia intelligenza «essendo
naturalmente desta e attiva, basta che le si presenti un
essere, perch'ella lo tolga e veda. 0
Ora, che è questo presentarsi alla intelligenza umana
un essere in tal modo, ch'essa il vegga? qual cosa presenta
questo essere alla intelligenza ? Ciò che presenta que
st'essere all'intelligenza, non è, nè può essere altro che
il senso originalmente. Noi come esseri sensitivi ricevia
mo, mediante il senso nostro, l'azione degli oggetti in
noi, e quindi, si può dire, gli oggetti stessi ( siccome
agenti ). Di che l'oggetto agente essendo, per la sua opera
zione, in noi, egli è in luogo atto ad esser veduto: chè
non è difficile intendere, come ciò che è in noi, noi lo
veggiamo; perciocché, il dico di nuovo, siamo veggenti,
e abbiamo l'occhio aperto dell' intelletto appunto a veder
ogni essere, purché su di noi operi, a vederlo dico in
quanto egli opera.
Ciò fermato, intendesi che gli oggetti del senso pos
sono trarre lo spirito a sé: noi possiamo dunque gli
oggetti sentiti altresì intenderli, senz'altro: perciocché
c'è tutto ciò che si richiede per ispiegare questa opera
zione della mente nostra, colla quale intellettivamente
quegli oggetti si percepiscono, cioè t.' c'è la facoltà,
1 intelligenza, 2.° ci sono gli oggetti a noi presentati,
che tirano la nostra intelligenza nel suo atto, in quel
l'atto che in essi finisce.
Date adunque le sensazioni, senza più, vedesi che
l'intelligenza può formarsi le percezioni degli oggetti
individuali corporei (1); o sia, questi oggetti sentiti da
noi non hanno bisogno d'altro, per essere da noi intel
lettivamente percepiti.
Ora, se l'uomo non prende sempre le immagini corporee
delle cose vedute per le cose sussistènti, se egli nota
fra le une e le altre una differenza ( qualunque ella
sia); egli è almeno probabile, che l'uomo possa essor
OSSERVAZIONE I.
Sopra un' nbhiezinne che ti pttA .fare alle cose delte,
i cavala dalla libertà umana.
Si risponderà, che è nell' uomo un' attività libera, per
la quale egli è signore di sue potenze, e può dirigere
la sua attenzione, ove il voglia, sia sul tutto dell'idee,
sia sulle parli, cioè sulle qualità comuni; e per questa
102
intrinseca attività, colla quale egli deliberatamente con
tiene 1' attenzione dal tutto dell' idea , e la applica a
mirare in una sola parte, in una sola qualità comune,
egli può formarsi le idee astratte, senza bisogno di ri
correre ai segni che determinino e fissino queste qualità
e parti, dal tutto rimovendole e segregandole.
Questa obbiezione si scioglie con una attenta osser
vazione sulle leggi o condizioni secondo le quali la no
stra libera attività si adopera.
E primieramente, certo io confesso che vi hanno due
modi ne' quali l'umana attività viene condotta al suo
movimento: il primo è istintivo (i) e spontaneo, il secondo
volontario e riflesso.
distintivo è quello di che abbiamo parlalo sin qui;
questo è tirato quasi direi fisicamente e necessariamente
dall'oggetto suo: la impressione dell'oggetto trae la fa
coltà del senso a sentire, e la sensazione muove la
fantasia; questo è l' istinto sensitivo. Avvi oltracciò l'i
ntinto intellettivo (2), il quale dall'oggetto della sensa
zione è naturalmente tirato alla vista o percezione del
l'oggetto corporeo; e dal fantasma è pur tratto allWea,
colla quale vede l'oggetto intellettivamente, senza che
vi congiunga persuasione di sua sussistenza. Un istinto
altresì porta l'uomo, io lo concedo, ad esprimere fuori
ciò che dentro egli sente ed intende, con movimenti,
e gesti, e con suoni ancora; e in tal modo questo istinto
in quanto ò sensitivo sarà il generatore delle voci inar
ticolate e delle interjezioni , espressioni del senso; e in
quanto è intellettivo proferirà alcune parole articolate,
segni delle percezioni e delle idee dell'intelletto suo;
ma tali istinti però non porteranno mai l'uomo ad espri-
§ I.
Noi non abbiamo altra percezione inteHettita, che di noi stessi e eie' corpi.
Nello stato ove la natura ci pone nascendo quaggiù,
noi non abbiamo altra percezione intellettiva, che di
noi stessi e de' corpi.
in vero noi non possiamo percepire (i) la sussistenza
(1) Sono alcuni luoghi in s. Tommaso, da' quali potrebbe sembrare che
la materia delle nostre cognizioni venisse somministrata da' soli sensi este
riori , e non anco dal sentimento interno dell' Io. Mettendo però insieme
lutte le diverse riflessioni che fa su di ciò l'Aquinate, parmi che liquida
mele apparisca esser sur mente, che la materia delle cognizioni nostre
■venga da due fonti, cioè i.° dalle sensazioni esterne, e 2.° dal sentimento
interno dell' anima stessa. Che l'anima abbia un sentimento , o più tosto
ch'ella stessa sia questo sentimento sostanziale, quindi ch'ella somministri
all' intelletto una materia di cognizione che i sensi corporei in nessun
modo dar gli possono, è chiaramente insegnato da s. Agostino là dove
dice: « La mente conosce se stessa per sè slessa , poiché ella è incorporea
(De Trin. Lib. IX, cui). Contro a questa dottrina però stava una sen
tenza del Filosofo, che le scuole avean prescelto per loro stella (dove non
fosse opposto alla fede cristiana), la qual diceva che « l'intelletto niente
t intende senza fantasma corporeo » (Lib. Ili De Anima, coni. xxx). Al
sottilissimo ingegno di s. Tommaso parve che sotto un rispetto fosse vero
ciò che insegnava il gran vescovo d'Jppona, e sotto un altro ciò che la
sentenza aristotelica conteneva: ed egli s'ingegnò di conciliare insieme le
due dottrine; e il fede in questo modo.
Primieramente stabilì, che da' fantasmi non si polca trarre nessun
la quale fosse una similitudine dell'anima; e perciò, che da' fantasmi
porei non si potea astrarre nessuna idea dell' anima nostra , la quale è in
teramente diversa dalla corporea natura: Anima non cognoscitur per speciem
a sensibus abatraclam, quasi inlellieatur species illa esse animae similUudo
(De yerit. Q. X, viri).
Di poi considerò seco medesimo, che a trovare il modo onde noi cono
sciamo la natura dell'anima, non ci dovea esser via migliore, che l'esami
nare come i ragionamenti de' filosofi sulle diverse proprietà dell'anima pro-
c-erlossero. I filosofi che meditarono sulla natura dell'anima, egli osserva,
tolsero ad esaminar prima gli alti di lei, e massimamente le idee. « Da ciò,
•« cosi egli, che l'anima umana conosce le nature universali delle cose, s'ac-
corsero che la specie (idea) colla quale l'uomo intende è immateriale.
Dall' esser poi la specie intelligibile immateriale, compresero che l'in-
« lellello dovea esser cosa indipendente dalla materia, e di qui progredi-
.< rono innanzi a conoscere l'altre proprietà dell'intellettiva potenza » (Ivi).
Or da questa osservazione conchiude il santo Dottore, che le specie (idee)
astratte dalle cose materiali furono necessarie a'Iilosofi per conoscere la na
tura dell' anima, non già perchè somministrar ne potessero la simigliali/. > ,
sed quia naturarli spteiei considerando , quae a sensibdibus abstrahUur, in-
venitur natura animae, in qua liujusmodi species recipitur (Ivi). Sicché non
erano i fantasmi sensibili che davano la notizia dell' anima, ma la s/iecie
formata in noi dall'intelletto agente (come vedemmo). Essa, d'una ualuia
107
§ a.
Clie si richiede a spiegare la percezione.
Dove avremo spiegato l1 una di queste due specie di
percezione, l'altra rimane pure spiegala con un ragio
namento simile al primo.
. 7
interamente diversa da' fantasmi , diede un principio , dal quale movendo
trovar si potè la natura dell'anima.
Oltracciò, questa era la cognizione scientifica sull'anima, quella cogni
zione che poteva esser ridotta in definizione. Ora , oltre questa , v' ha una
cognizione sull'anima naturale, la quale, se non si vuol degnare del noni*
di cognizione , certo merita quello di percezione. E non è egli ciascun di
noi conscio di percepire sè medesimo col suo interior sentimento , cui
esprime colla parola Io, sentimento di che non si trova la più piccola traccia
nelle proprietà corporee dell' estensione ecc. , chesou tutte oggettive, mentri;
V Io è una percezione essenzialmente soggettiva? Non mi sembra già che
sia sfuggita questa specie di cognizione a s. Tommaso; ina per hen inten
dere la sua mente conviene prima mettersi innanzi le espressioni ch'egli
adopera a significare le due specie di cognizione di che io parlo, la scien
tifica e la volgare, quella fondata su de' sottili ragionamenti, e questa sopra
una percezione immediata.
San Tommaso dunque osserva, che non si può propriamente dire di co
noscere la natura di una cosa , se non si conosci: la sua differenza specifica,
■ america . mediante la quale si può formare una proposizione che con
tiene la definizione della cosa (cum (res) speciali ani generali cogniliime.
definilur). La sola cognizione scientifica è dunque quella che fa conoscere
la natura dell'anima.
Ha la cognizione che io direi \-olgarc o naturale, cosi la descrive s. Tom
maso: « quella onde l'anima si conosce individualmente » (cioè quantum ad
id quod est ei proprium). Questa specie di cognizione corrisponde a capello
con ciò che io dico anco percezione dell'anima nostra: conciossiachè questa
percezione dell'anima si fa pur la prima volta che noi abbiamo interna
mente detto: NOI SIAMO; e si compone i.° del sentimento dell' lo (ma
teria), a.0 e dell'idea dell'essere in universale (forma), senza più; cioè senza
conoscere espressamente differenze ch'ella s'abbia con altre cose, uè aver
fatto paragone di essa ton nitri oggetti. Ora questa maniera di cognizione
secondo s. Tommaso non è tale , che si possa dire di conoscere per essa
V essenza dell'anima, ma più tosto la sola esistenza ( per Itane cognilionem
cognoscitur an est anima; — per aliam vero — scilur quid est anima).
Prima di proceder oltre, mi si conceda ili fare una osservazione sopra que
sta maniera di denominare la percezione chiamandola cognato qua cognosalur
an est anima. L' Aquinate medesimo si fa questa obbiezione: « Non si può
« sapere di qualche cosa, s'ella sia, quando non si sappia prima, che sia »
{De ferii. Q. X, art. su). Alla quale obbiezione egli risponde così: « Perchè
" si conosca che una cosa sia , non è necessario che si sappia di lei che cosa,
« sia per definizione (cioè che se n'abbia una cognizione scientifica ), ma
•< sì che cosa venga significato pel nome »: il che viene a un dire, die s'abbia
di lei quella cognizione che hanno i volgari delle cose , quando co' loro
nomi le chiamano: la quale, io dico (nel caso nostro), riducesi ad una per
cezione della cosa in totale , senza averla paragonata cou altre cose , nè av
vertite di lei le differenze necessarie per comporre una perfetta definizione.
L'intendimento che io ho nel fare questa osservazione si è di chiamare il
io8
Ponendo dunque mano a spiegar quella de' corpi, rias
sumiamo innanzi trailo il falto.
i." Noi siamo affetti dalle sensazioni; 2" tosto diciamo
a noi stessi: esiste un qualche cosa fgiudizio J\ 3." questo
qualche cosa è determinato dalla natura dell'affezione in
noi prodotta ( idea de' corpi).
Di questo avvenimento or non si tratta di spiegare la
sensazione (prima parte): da essa partiamo siccome à*
un fatto semplice e primigenio nel presente trattato.
§ 3.
Spiegazione del giudizio che genera in noi la percezione de' corpi.
(«) Parte I, c. IL
(a) Vedine l'analisi, alla Sez. IV, cap. Ili, art. xxm.
I IO
Or, quando io faccio un tale giudizio, io non ag
giungo nulla, come ho osservato altrove (i), alla mia
idea di esistenza : ma non faccio che (issare ciò che pen
sava di checchessia, di qualunque ente possibile, in un
ente reale e sussistente. Come può avvenire una sì fatta
operazione del mio spirito? In questo modo:
Jo penso l'attuale esistenza in universale (idea innata).
Pensare l'attuale esistenza è pensare un' azion prima (i).
Ora le sensazioni sono azioni fatte in noi, di cui noi
non siamo gli autori.
Dunque le sensazioni, essendo azioni, suppongono un'a
zione prima, un'esistenza.
Le sensazioni sono anche azioni determinale: suppon
gono adunque un'azione prima determinata: un'azione
prima determinata è un ente esistente in un modo de
terminato.
Ma noi che abbiamo le sensazioni, siamo quegli stessi
che abbiamo 1' idea dell' attuale esistenza. «
Confrontando adunque noi la passione che proviamo
in noi stessi (le sensazioni), coWidea attuale di esistenza ,
troviamo che quella passione è un caso particolare di
ciò che pensavamo già prima coli' idea generale di esi
stenza; perciocché coli' idea generale di esistenza pen
savamo un' azione, e la sensazione è appunto un'azione
che vien fatta in noi (3).
Pensando adunque noi per natura l' azione in sè
(l'esistenza); quando poi un'azione sperimentiamo in noi
(una sensazione), allora col nostro spirito la notiamo
limitata dov'ella è, e la riconosciamo per ciò appunto
che prima dentro di noi pensavamo, dicendo a noi stessi:
« ecco una di quelle azioni ( o sia un grado e modo
d'azione) che col mio spirito io pensavo».
Il notare questo caso particolare, il riconoscere quella
cosa che passa in noi come appartenente a quanto pen-
o anco produce. Idea dunque di una cosa non vuol dire se non cosa possi
bile, esemplare , secondo il quale l'essere intelligente pensa ed opera.
(i) Perchè il verbo della mia ménte ci sia , basta che colla mia incute
mi fìssi in una cosa sussistente, dando l'assenso alla sussistenza della mede
sima. Quindi io posso pensare i.° ad una cosa attualmente sussistente (per
cezione), a.0 ad una cosa che fu già sussistente e da me percepita (memoria
della percezione), 3.° ad una cosa che non percepisco come sussistente, aia
credo sull' autorità altrui (fede circa la sussistenza ) : in tutte queste tre ope
razioni mentali , sia che io m' inganni o uo , io formo sempre un verbo della
mente, cioè dico una cosa sussistente: 4.°di più, io pronuncio un verbo anco
quando considero come sussistente ciò che non è tale in sè stesso , o per
errore, o per immaginazione , o per ajuto dato al ragionamento mediante
supposizioni .
(a) Il perchè s. Tommaso: * Sebbene tanto la specie come il verbo dalla
« specie generalo sia un accidente, poiché sono nell'anima come iu sog-
m getto, tuttavia il vei-bo prende più della similitudine della sostanza, che
- la specie stessa » (cosi dee essere, sapendo che il verbo è l'assenso alla
« sostanza determinata realmente esistente). « Poiché l'intelletto si sforza di
k pervenire alla quiddità della cosa , e perciò nella specie v'ha virtualmente
» in un modo spirituale (cioè come possibile) la quiddità della sostanza
•> (la sussistenza della cosa), ed essendovi virtualmente, si può da essa
« specie rettamente formare (il pensiero della sussistenza): — sicché il verbo,
« che è appunto questa cosa che si può mediante la specie interiormente
— formare, più s'accosta a rappresentare la cosa (sussistente), che non fac-
« eia la nuda specie delia medesima » ( Opusc. XIV). E certo , della
sola specie e idea di una cosa si può formare il verbo; perocché si può
immaginare una cosa corrispondente a quell'idea individualmente presente :
e così lo statuario immagina la statua nel pezzo di marmo che ha dinanzi:
sicché anche l' immaginazione umana ha il suo verbo, ed è tutto ciò ebe di
potenza creatrice ha l'uomo nelle sensitive potenze.
n3
guaggio interiore della menle, non comincia se non al
lora che la menle s'accorge di qualche essere sussi
stente: fino ch'ella non pensa sussistere un essere, non
dice nulla, non proferisce un verbo: contempla, ma quasi
direi in perfetto silenzio: ella è ancora perfettamente
muta.
La mente poi da questa sua quiete non è mossa a
consentire che qualche cosa sussista, se non per l'im
pulso delle sensazioni interne ed esterno. Da queste dun
que comincia ogni discorso e panila della mente (i).
OSSERVAZIONE U.
. RelazioneJra V idea e il yerbo JMa mente.
Col verbo si pronuncia interiormente la cosa sussi
stente, quella cosa che coW idea si concepiva unicamente
come possibile (3).
La cosa pensata dunque ( idea ) sta alla cosa reale
(espressa dal verbo), come la potenza al suo atto.
Perciò dissi, che queste due cose si riducono in una
sola natura (3): la cosa sussistente è quell'azione prima
ARTICOLO V.
NECESSITA* DELLA PERCEZIONE INTELLETTIVA.
tche mima per essentiam suam se videi (De Veril. Q. X, art. vm), ecc.
quantunque questo vedere non sia per s. Tommaso cognizione attuale, ma
abituale. Che se pur io potessi qui stabilire una verità, che troppe parola
esigerebbe a rendere ai più manifesta, ma che a chi ebbe Inngo uso di os
servare e riflettere sopra se stesso dee sembrare manifestissima, cioè « che
ogni alto dello spirito nostro è essenzialmente incognito a se stesso»; io mi
affido a credere, che quel duro e malagevole che altrui presenta la sen
tenza» aver noi un'attuale visione dell' ente(in universale) in ogni momento
della nostra esistenza», ed anche in que* primi istanti de' quali nulla noi ri
cordiamo, svanirebbesi interamente, e con una certa maraviglia beasi, ma
pur tuttavia facilmente quella sentenza si accetterebbe, senza darsi solleci
tudine di ricorrere ad una abituale od assopita cognizione. Ma perciocché
non molto rileva il modo di concepire l'unione dell'idea dell' ente con noi,
purché questa unione si riconosca, io non aggiungo altre parole a questa
lunga annotazione.
(1) Chi baderà a questa distinzione fra la idea (specie) ed il verbo , in
tenderà per mio avviso la distinzione che Platone faceva fra I* opinione vera
eia scienza. Questa era delle idee, de' possibili ; quella delle cose particolari
esistenti (verbo), perciocché è .incrinando qualche cosa che si dice il vero
»-d il falso, attributi dell' opinione, e non della scienza, che è sempre vera
Secondo Platone e s. Agostino ( De Trin. L. XV). Nel Timeo Platone di
stinse la scienza dall' orunione vera, dicendo che «la prima è insinuata da
«* una dottrina, la seconda dal prendere che noi facciamo una persuasione ».
In fatti, giudicando una cosa sussistente, noi non acquistiamo una dottrina
nuova , perocché quella cosa la conoscevamo, avendone l'idea; ma acqui
stiamo una persuasione della sua sussistenza col prestare il nostro assenso
per l'efficacia del nostro intelletto. Tuttavia v'ha un'eccezione a fare ciré»
l'essere necessariamente sussistente, l'essere per essenza, uella percezione
del quale il verbo e l'idea s' un mede si ma no.
i i6
siachè mostrai, che l'essenza dell'intendere le cose sus
sistenti (il percepire intellettivo) non è altra cosa che
il dare quell'assenso, il formare quel giudizio che ho
descritto.
E veramente, dato che il nostro spirilo abbia con
giunta a sè per congiunzion naturale l'idea dell'ente; che
la vegga sempre necessariamente; dato che quest'idea,
aderente con una unione immobile al nostro spirito ,
sia ciò che forma in lui l'intelletto e la ragione (i);
dato per conseguente, che la natura dello spirito intel
ligente e ragionevole consista nell' intuire questa idea: è
dunque questa la legge della intelligenza, di non concepir
nulla, se non come un ente, come un qualche cosa (2).
Ma questa legge della intelligenza non è soggettiva, o
arbitraria; ella è necessaria, sicché egli è impossibile
pur pensare il contrario.
In vero, non sarebb'ella una contraddizione ne'termini
il dire che il nostro spirito conosce le cose che a lui
si presentano, senza concepire un qualche cosa? e con
cepire un qualche cosa non è il medesimo che concepire
un essere?
La formola generale adunque che esprime la natura
necessaria della percezione intellettuale è la seguente :
o giudicare un ente (sussistente) fornito di alcune sue
determinazioni ».
Ma a chiarimento maggiore, poniamo che noi rice
vessimo le sensazioni da' corpi, ma che non avessimo la
potenza interiore di veder l'ente; quindi che quelle sensa
zioni non potessero essere da noi considerate in relazione
coli' ente. Ciò posto, sarebbesi modificalo il nostro spirito
dalle sensazioni corporee; ma queste non ci apparirebbero
punto siccome determinazioni di un qualche cosa: quindi
noi non percepiremmo mai per esse un ente determinato,
una cosa sussistente, un corpo; chè percepire un corpo
è percepire un ente determinato. Le sensazioni (e V Io
da esse modificato) non sarebber allora percepite dal-
(1) Cap. n.
(?) In questa dottrina conviene il celebre detto delle scuole, Intellectns liabet
operationem circa ens in universali (Ved. s. Torniti. S.l, LXXIX, ni,- o
quell'altro di s. Tommaso, ìnteUectus respicit rationem entis (S. I, LXXIX,
>Jt ). Quindi ancora la scuola insegnava, che Quod non est, non intclligilur
itisi per id quod est.
V intelletto nostro: solo nel senso rimarrebbero : quindi
nulla conosceremmo; solo saremmo modificati passiva
mente, sentiremmo, e nulla più. Acciocché, oltre sentire
il corpo (e questo nome è inventato solo in conseguenza
della percezione intellettiva del medesimo), anche lo co
nosciamo, fa bisogno avervi in noi la potenza di veder
ivi un'ente determinato, dov'è la sensazione.
Lo spirito intelligente non conosce dunque se non
mediante l'idea dell'ente, che in sè possiede; giacché
conoscere non è che percepire una cosa, come un grado,
un modo, una determinazione dell'essere meramente
possibile o comune.
OSSERVAZIONE I.
Sulla questione, se V anima pensi sempre.
Dalla teoria fin qui esposta viene la soluzione della
questione cartesiana, «se l'anima pensi sempre ».
L' anima è intelligente, perchè ha continuamente la
visione dell'ente (i).
Quindi 1' intelligenza è una facoltà essenzialmente at
tiva (3) e pensante : ma ciò non già perdi' ella s' abbia
presenti tutte le possibili idee , ma unicamente perchè
«'ha presente una sola idea, l'ente; e con questa idea,
che è suo lume (3), vede e distingue ciò che i sensi le
(1) Parte I.
(3) San Tommaso sull'orme di Aristotele dà la stessa soluzione all'accennata
questione. Applica, come toccammo, allo spirito intelligente il celebre prin
cipio « Nihil agii, nisi secundum quoti est actu»(S. I, LXXVI, l), e di esso
deduce la necessità che lo spirito sia in atto essenzialmente; nè l'uomo
avrebbe potenza da intendere, se ciò non fosse. E non vedo perchè inten
dere non si possa dell' intelletto agente, anziché dell'intelletto acquisito
( intellecfus adeptus), il detto di Aristotele, che «non accade d'un tale in-
« telletto, che talora intenda e talora non intenda», volendo dire che sempre
intende (De Anima IH). San Tommaso non niega che un tal detto si possa
intendere dell'intelletto agente, poiché dice:« In qualsiasi allo col quale
«• l'uomo intende, concorre l'operazione dell'intelletto agente e dell'intelletto
« possibile. — Ora quanto a ciò che si richiede perché noi considerar pos-
« siamo, da parte dell' intelletto agente niente manca a far sì, che noi sem-
« pre intendiamo ; ma manca quanto a ciò che è necessario da parte del-
« l'intelletto possibile, che non s'empie se non per le specie intelligibili
- astratte da' fantasmi » (De Verit. Q. X,art. vili). E la ragione per la quale
rispetto all'intelletto agente non ci restiamo dall' intendere , si è che l'in-
telletto agente « nulla riceve dal di fuori », ma trae tulio da sè, cioè la forma
della cognizione, l'essere in universale.
(3) Morris , scrittore che ha sviluppalo in Inghilterra il sistema di Male
branche j nell'opera sua Essoy towards the Theoiy of the ideal or iiitel
n8
somministrano nel modo spiegato, e intende quanto altri
esseri ragionevoli parlano.
La ragione poi ond' avviene che essendo l' idea del
l' ente fino dal primo istante della nostra esistenza con
noi indivisibilmente congiunta , tuttavia noi non ce ne
accorgiamo per molto tempo, fu da noi altrove di
chiarata (i).
OSSERVAZIONE II.
In che senso l'intelligenza sia una tavola rata.
ARTICOLO L
SOLUZIONE DELLA DIFFICOLTA'.
ridersi di tutta l'antichità, non l'abbiano putto intesa. Ecco quali sono le
ragioni che confortano la mia opinione, i .° La similitudine della tavola
rasa dice cbe non v' è nessun carattere particolare scritto nell'anima nostra,
ma ammette però una tavola su cui si possa scrivere checché si voglia.
Che cos'è dunque questa tavola piana e liscia, innata nell'anima nostra?
Questa, io dico, è appunto Venie universalissimo, atto a ricevere qualunque
determinazione, a.0 La similitudine della tavola rasa si può spiegare col-
l'altra che usa Aristotele della luce e de' colori. Non vi sono colori, dice
Aristotele, ma c'è luce innata, la quale per sè è uniforme ( la spianatura
■Iella tavola), e atta a far vedere tutti egualmente i colori delle cose.
3." Perchè intendendo nel modo detto la tavola rasa, si conciliano molti
passi d'Aristotele, altramente inconciliabili. 4-° Perchè negli antichi si trova
usata la similitudine della tavola rasa , e in certj luoghi è dagli autori me
desimi espressamente detta innata l'idea dell'ente. Valgami per tutti il
solo s. Bonaventura. Egli usa di quella similitudine aristotelica nel suo Com-
pendium Theologicae veritatis , Lib. II, Cap. XLVI; e nel Cap. XLV del
medesimo dice, che tutte le cognizioni vengono dal senso. Or tutta
via non è dubbio, che questo sommo uomo, non dirò italiano, perchè del
mondo, pone essere uell' uomo innata l'idea dell'essere attualissimo ( Itili,
mentis in Deum ) ; cioè più di me ; perciocché io pongo innata solo l' idea
dell' «sere comune e peritamente indeterminato. Che dire adunque? Che
quella similitudine della tavola non era intesa dal santo Dottore in quel
misero modo nel quale i moderni sogliono adoperarla,
(i) Sei. IL
120
ARTICOLO n.
OBBIEZIONI , E 1IWOUTB.
5 I.
Obbiezione prima.
in mera potenza verso lutti gli esseri determinali: quindi la mente non può
giudicare di essi, nè della loro possibilità, senza i.° pensare alle loro deter
minazioni, a* e confrontar queste coli' idea dell' ente, come regola suprema.
K dunque innaia la regola per giudicare della possibilità delle cose ; ma
non è innato il giudizio, nè la materia di questo giudizio: e quindi quel giu
dizio conviene cercarlo, e talora con fatica.
Se Kant avesse osservato, che la possibilità non è che un concetto ne
gativo, che esprime «non avervi alcuna ripugnanza colle leggi del pensare
ad esistere la cosa di che si parla » ; e di più, se non avesse confuso la
possibilità slessa col pericolo in cui talora siamo di giudicare tortamente
della medesima; egli non avrebbe negato che per poter noi giudicare die
una cosa sia possi In le basti dimostrare non avervi in essa (nella sua irle»)
ripugnanza , nè avrebbe dimandato qualche cosa di più pel concetto della
possibilità, siccome fa nella Critica della ragione pura, il che lo dilungò via
più da cogliere il vero. Ved. Parte I, Lib. II, Cap. II, Sez. Ili j tv.
I 25
qualche cosa » se s'adopera a significare ciò che v' ha
d'innato è inesatta. Quella proposizione suppone che Videa
della possibilità, quest'essere puramente mentale, noi l'ab
biamo già estratto colla nostra mente dalla semplicissima
idea dell'ente 5 e che abbiam così vestito di una forma
positiva, cioè di un pensiero e di un vocabolo, ciò che
è negativo di sua natura; che l'abbiamo, in una parola,
convertito in un predicato apparentemente positivo.
Volendo dunque entrare ad analizzare e conoscere ciò
che v'ha d'innato in questa proposizione «può esistere
un qualche cosa », conviene che togliam via da essa tutto
ciò che ci viene aggiunto apparentemente per la forma
del concepire e dell'esprimere nostro. A tal fine questa
proposizione, «noi abbiamo innato che un qualche cosa
è possibile » , conviene tradurla in quest'altra: «noi ab
biamo d' innato (cioè abbiamo presente al nostro spirito)
l'idea dell'ente priva di ripugnanza » ; ovvero in questa:
« noi abbiamo d'innato l'idea dell'ente, e riflettendo poi
mi di quella, si osserva esser priva di ripugnanza». E
poiché l'idea dell'ente costituisce la nostra intelligenza,
si può definire l'intelligenza nostra la facoltà di veder
l'ente; e riflettendo sudicio, si conchiude, che toltaci
la vista dell'ente, la intelligenza nostra è pur tolta. Quindi
J'enle non ci può esser tolto, cioè rimosso dalla mente.
Ora il rimuover l'ente, ed il lasciar l'ente, è ciò che si
chiama contraddizione. Nella nostra intelligenza adunque
non può esistere contraddizione. Quindi 1' intelligenza
non intende , ovvero (il che è lo stesso) non è intelli
gibile, non è pensabile, se non ciò che non involge con
traddizione.
Laonde egli è posteriormente, che noi osserviamo l'ente
prendere quelle molte determinazioni che ravvisar si
possono negli esseri reali. Quindi noi diciamo, che in
quella essenza dell'ente si contiene la possibilità delle
cose; il che non vuol dire altro, se non che «non v'ha
ripugnanza fra quell'idea dell'ente indeterminato, e le
sue determinazioni e realizzazioni».
In somma, dall' osservare che V ente è privo di deter
minazione (il che è una negazione, e non un predicato posi
tivo), noi poscia concludiamo (quando giungiamo, riflet
tendo colla nostra mente, a simile considerazione) esser
possibili (pensabili) una quantità indeterminata di esseri
ideali e reali, cioè di determinazioni e realizzazioni dèlia
i a6
nostra idea; o sia, non involgere ripugnanza eoli' idea
stessa; o anzi, ammetter questa senza ripugnanza tutte
quelle determinazioni e realizzazioni : il quale concetto
di mera possibilità è un concetto perciò acquisito all'oc
casione dello sviluppamelo di nostre facoltà ; non avendo
d'innato altro che il fondamento suo, cioè l'idealità e
indeterminazione dell'ente: la quale indeterminazione
non è punto un predicato, ma una negazione di predicalo,
che conferma e fa semplicissima d'ogni giunta quell'idea.
L'idea dell'ente adunque com'è innata senza predicato
alcuno, è essa medesima predicato universale. All'incontro
essendo essa priva di qualunque determinazione e azione
reale, queste determinazioni e azioni diventano il soggetto,
a cui essa si unisce od applica siccome predicato. L'idea
dell'ente dunque non racchiude un giudizio, ma costi
tuisce la possibilità di tutti i giudizj, in quanto die
ove ci si presenti un soggetto, noi possiamo coll'idea
dell'ente che è in noi, siccome con predicato comune,
giudicarlo (i). . .
§3.
Obbieiione seconda.
La obbiezione che mi sono occupato di sciorre, era
tratta dall'uno de' due primi elementi dell'idea dell'ente,
cioè la possibilità (2) . La soluzione mi venne trovata
dimostrando che questo elemento è negativo, e che perciò
non toglie, anzi esprime la semplicità dell'idea dell'ente.
Ma il secondo elemento, cioè il qualche cosa, l'esi
stenza, l'ente indeterminato in una parola, porge un'altra
difficoltà a concepire come l'idea dell'ente può essere
in noi senza bisogno di alcun giudizio primitivo, e la
difficoltà è la seguente. « Quando io concepisco l'idea
dell'ente, in questa concezione aver si debbono due
termini, l'io che percepisce, e l'idea dell'ente percepita.
In quest'atto adunque la mia coscienza mi dice: « io per
cepisco l'ente ». Questo è un giudizio: sembra dunque
che in ogni percezione oggettiva (cioè che non sia una
>
la nostra attenzione; questa vie più s'addentra in esso
innamorala e perduta. Se questa interna visione o con
templazione cresce al segno necessario, allora succede un
fatto singolare: a noi, immersi unicamente nell'oggetto
vagheggialo, non avanza più forza ad altro: in uno stalo
di estasi, siamo assorbiti nell'unico oggetto della nostra
vista; e dimentichi di noi slessi, non che d'altra cosa ,
il resto che ci circonda è come se non fosse: non pen
siamo più a nulla; non sentiamo più nulla; quell'unico
oggetto lega e consuma tutta la forza pensante del no
stro spirito e dell' amor nostro. Questo, è stato di alie
nazione, ed è un fatto; nè v'ha forse uomo, che in qual
che suo grado non l'abbia alcuna volta provato, e che
da ciò che ha esperimentato in se stesso con forza mi
nore, non possa argomentare a quel di più a cui un si
mile accesso di mente può aggiungere. Ora io dico: ove
l'uomo è in questo stalo, si reca egli colla sua atten
zione sopra se stesso? è egli capace di fare delle rifles
sioni sopra lo stato suo? Non più che un bambino che
succhia il latte, ed è tutto in quello. Egli non può fare que
ste riflessioni su di sè, e su quello stato di dimenticanza di
«è medesimo, se non allora che da quello stato è già rive
nuto, e rivenendo, s'è quasi dissi desto da un sonno pro
fondo: egli ripiega allora sopra sè le forze prima occupate
della sua attenzione, e quasi smarrite da sè stesso lontano.
Ma se quell'immersione della mente o dell' affetto fu
completa e piena, nè anche si rannoda quell'atto collo
stato successivo; perocché sono in quello tutte le forze
esauste; e dee succedere un riposo; quindi un ri pristi
na mento di azione, tutta senza legame con quella in
tensissima, della quale perciò è smarrita fin la memoria:
singolare fatto, accennalo dall'Alighièri in quo' versi:
(i) Par. I.
Kusaum, Orig. delle Idee , Folli. 17
i3o
nostro spirito, è un atto interamente diverso dalle ope
razioni stesse alle quali pensiamo.
Di qui deducasi, che io posso pensare un oggetto, per
esempio l'ente, senza però che io rifletta sopra di me
medesimo, e mi ravvisi così pensante.
Ed ora (per ravvicinarmi all'assunto) io non posso
pronunciare il giudizio « percepisco l'ente», se non in
conseguenza di una riflessione che fo su di me stesso,
per la quale riflessione io rivolgo la mia attenzione allo
slato mio, e formo questo stato oggetto di mia atten
zione. Ma lo stato di me è un oggetto interamente di
verso dall' ente. Dunque io debbo percepire lo stato mio
con un atto diverso da quello onde percepisco l'ente:
percepisco l'ente con un atto dell'attenzione che al
l' ente si volge; percepisco me con un atto dell'attenzione
che si rivolge in me: percependo l'ente, la mia atten
zione ha dinanzi un oggetto al tutto dal me diverso ,
mero oggetto; percependo il me, la mia attenzione ha di
nanzi per oggetto il soggetto medesimo che percepisce.
L' atto adunque ond'io percepisco l'ente, è. un atto sem
plice, primo, spontaneo; l'atto ond'io giudico me per-
cipiente l'ente, è un atto composto (un giudizio) e susse
guente: il primo adunque può essere innato, e non il
secondo; sebbene nulla osti, che il secondo sussegua al
primo più o meno prossimamente: il primo è a noi in
trinseco e necessario, il secondo può essere puramente
acquisito e volontario.
Nel distinguere questi due atti, io ho introdotto lo
stato dell'uomo occupato tutto in un solo oggetto (i).
Sono ricorso a questo fatto, non per appoggiare al me
desimo la distinzione di que' due atti , ma per ajutarne
l'intelligenza. Nello stato di concentrazione della nostra
mente in un oggetto, le forze dell'attenzione sono tutte
ridotte ad un solo punto (a): quindi si vede come un
(i) Succede veramente sempre cosi: perocché in ogni tempo l'atto della
mente è un solo : ma l' oggetto è il più delle volte complesso , e oltracciò
e prossimo il passaggio ad altri oggetti, e le riflessioni sopra di sè stessi
sono continue per l'abitudine contratta.
(a) Il fatto dell'uomo assorto nella conleraplazione di un oggetto mi da
campo di fare un'osservazione, colla quale si svela un falso giudizio solito
a farsi. Quando poco di una cosa altri si ricorda , ovvero quando alcuno
soffrì qualche sensazione seuia accorgersi punto, o con accorgersi pochi*
i3i
atto possa sussistere talora scompagnato da quegli altri,
onde suole essere ordinariamente accompagnato. Per lo
scopo però di questo ragionamento, io non lio bisogno
di far vedere l'uno atto dell'attenzione distinto anche
di tempo da tutti gli altri: basta per me di far osservare,
che l'uno atto non è l'altro. Perocché di questo ne
viene, che l'uno può essere innato, e l'altro no.
E quanto più di forza non piglierebbe il mio ragiona
mento , ov' io volessi qui torre a dimostrare quel vero
conosciuto dagli antichi, che l'intelletto non può fare
nello stesso tempo che un atto solo? e che 1' essere
(in generale qualunque cosa si percepisca) e l'io perei-
piente sono necessariamente due oggetti , e perciò ri
chieggono due alti dell'intelletto ad essere percepiti?
sicché tornerebbe cosa assurda il pensare che fossero
concepiti contemporaneamente? e quindi cosa assurda
immaginare, che nel tempo che io pecepisco un oggetto,
percepisca, ciò che vale un dire, conosca di percepirlo?
Che? se poi io togliessi a mostrar, sopra ciò, quello che
è pure evidente, cioè che il secondo atto, avendo per
oggetto il primo atto, non può cominciare ad esistere
senza supporre che il primo sia già bello e compito? e
però, che ripugna il concepire i due atti contemporanei,
cioè concepire contemporaneo il conoscere qualche cosa,
e il sapere che lo conosciamo?
Restami in fine a chiarire una cosa. Neil' intendere
l'atto della percezione, l'uomo nuovo nelle meditazioni
filosofiche, e non abbastanza esercitato, trova pur sempre
diflìcile a concepire come con quest'atto stesso noi non
percepiamo noi percipienti: quale è dunque la ragione
di sì fatta difficoltà? Questa:
Abbiamo distinto il sentimento di noi, che si esprimi
OSSERVAZIONE II.
V ha nell' uomo un senso intellettuale.
L' ente adunque è percepito dallo spirito nostro come
da un senso che riceve immediatamente l'impressione
dell' oggetto sensibile : egli è rispettivamente a questa
OSSERVAZIONE IH.
In che differiscano il senso corporeo ed il senso intellettuale.
CAPITOLO I.
-
i38
dunque pensate (qualunque opinione vi formiate pen
sando ), voi ammettete il principio di contraddizione, che
è l'enunciazione di questo fatto: « o pensale, o non
pensate: non c'è mezzo ; poiché pensare senza pensare
non si può ».
Quindi il principio di contraddizione è indipendente
da ogni pensiero umano, da Ogni opinione: precede i
pensieri e le opinioni, poiché costituisce la loro possi
bilità.
Voi direte: io nego la possibilità del pensiero. Potrei
rispondervi, che negando pensale; perocché il negare,
come l'affermare qualche cosa, è pensare. Ma non vo
glio io usare di questo vantaggio. Rispondo così: Negate
In possibilità del pensiero? Chi sa? forse avrete la ra
gione, e forse il torto: lasciam questo. Ditemi solo: pen
sate voi? Se è impossibile pensare, non penserete, proba
bilmente. Ma via, lasciovi in libertà di rispondere che
volete: pensale, o non pensate? Sia che mi rispondiate
una cosa, sia che mi rispondiate l'altra, il principio
di contraddizione l'avete messo in salvo; perocché il
principio di contraddizione non v'obbliga a pensare,
ma lasciavi fare a vostro grado. Che avreste dovuto ri
spondermi , perchè nella risposta aveste escluso e an
nullato il principio di contraddizione? Questo, c non altro:
« io pensando non penso»; ovvero: «io penso, sì, ma
non penso » . Or andate, e rispondete così, se vi dà l'animo
di far seriamente: voi non rispondereste con ciò; scher
nireste chi v'interroga, ovvero mandereste fuor de' suoni
senza valore.
Ma tornando all'analisi del principio di contraddi
zione, egli è una proposizione che esprime il fatto; « non
si può pensare l'essere insieme col non essere »;o sia:
« non si dà pensiero se non ha per oggetto l'essere «.
Or che cos'è questo fatto? egli è quel medesimo fatto
che io ho osservato, e provato, parmi, a non dubitarne:
l'idea dell'essere, che informa e produce la nostra in
telligenza (i): sicché questa sogliam definirla « la fa
coltà di veder ciò che è » ( V essere ). Questa frase ,
l'essere insieme col non essere, esprime il nulla: e il
nulla è il contrario del qualche cosa, dell'essere: col-
CAPITOLO IL
i
Il secondo è quello di contraddizione, e discende im-
medialamente dal primo: « Non si può pensare l'essere
ad un tempo col non essere ».
Il terzo è quello di sostanza, che dice: a Non si può
pensare l'accidente senza la sostanza ».
Il quarto è-quello di causa, che dice: «Non si può
pensare un nuovo essere senza una causa ».
L' accidente noi lo percepiamo per un1 azione che vien
fatta sopra di noi: egli dunque si può chiamare col nome
generale di avvenimento. E tanto più può ricevere questo
nome, in quanto che sopravviene alla sostanza , e non
è necessario alla stessa. Non è altra differenza fra Yac-
cidente e V effetto, che 1' accidente si considera in quanto
termina e fa una cosa sola colia sostanza, mentre Veffetto
si considera Come separato al tutto dalla causa. Ciò
posto , il modo col quale noi deduciamo il principio di
causa , servirà d' esempio al lettore , perdi' egli possa
da sè medesimo dedurre il principio di sostanza.
Ecco come il principio di causa discende dal prin
cipio di contraddizione , e quindi dal principio di co
gnizione.
Il principio di causa si può esprimer così: « Ogni av
venimento ( tutto ciò che comincia ) ha una causa che
lo produce *. Noi abbiamo trovata questa forma in altro
luogo. L' abbiamo anche analizzata: qui è necessario ri
chiamarsi alla memoria quella analisi.
« Ogni avvenimento ha una causa che lo produce ».
Questa proposizione equivale perfettamente a quest'altra:
« E impossibile all'intelligenza di pensare un avveni
mento , senza pensare una causa altresì che lo abbia
prodotto ». Per dimostrare che «un avvenimento senza
nna causa non si può pensare » , convien dimostrare
che « il concetto di un avvenimento sfornito di una
causa involge contraddizione ». Quando ciò sia dimo
strato, allora s'avrà il principio di causa dedotto dal
principio di contraddizione.
Ecco come si dimostra. Dire che ciò che non esiste
opera, è contraddizione. Ma un avvenimento senza causa
equivale a un dire: ciò che non esiste, opera. Dunque
un avvenimento senza causa è contraddizione. Alle prove.
La maggiore si prova così. Concepire un' operazione
(una mutazione) senza unente, è concepire senza con
cepire: il che è contraddizione. In vero, il principio della
cognizione dice: « L'oggetto del pensiero è l'ente »;
dunque senza un enle non si può concepire. Concepire
adunque un' operazione senza concepire insieme un ente,
è concepire senza concepire. Dunque 1' applicare l'ope
razione a cosa che non esiste, è contraddizione ne' ter
mini : il che si dovea dimostrare.
La minore si prova così. Un avvenimento è una ope
razione (una mutazione). Se dunque questa operazione
non ha causa, si percepisce isolata, senza un ente a cui
appartenga; c'è dunque l'operazione senza l'ente, o,
che è il medesimo, opera ciò che non esiste. Così la
minore pur ha la sua prova.
Quindi il principio di causa discende dal principio di
contraddizione, come lutti e due questi principj discen
dono dal principio di cognizione: e questo non è che
Videa dell'ente applicata, la quale prende forma di
principio, e s'esprime in una proposizione, quand'olia
si considera in relazione col ragionamento dell'uomo,
del quale essa è la causa.
CAPITOLO HI.
1
principio della morale, quando si ragiona raccogliendo
un complesso di applicazioni di essa : l' idea della bel
lezza si fa il principio dell'estetica, quando noi la ci
proponiamo perchè diriga e regoli, anzi pure ingeneri
lutti i ragionamenti che possiam fare sulle cose belle.
Quindi la definizione della bellezza, che non è altro
se non la proposizione in cui si cangia quell' idea, è il
primo principio di tutti i ragionamenti che intorno al
hello si possono fare.
Generalmente, l' essenza delle cose è il principio de'
ragionamenti che si fanno intorno le cose.
Di che , il principio di ciascuna scienza è la defini
zione , che esprime l'idea essenziale della cosa intorno
a cui la scienza si aggira: e di questo vero nasce l'arte
di dividere acconciamente le scienze in fra loro, e di
richiamarle ad una elegante unità ; acciocché esse non
sieno anzi collezioni di svariate notizie, che ben ordi
nati trattati, ove il principio unico signoreggi, e si veg
gano tutti gli altri veri da quel primo vero chiaramente
venire, siccome lumi da lume, ed ingenerarsi.
CAPITOLO IV.
CAPITOLO L
ARTICOLO L
ENUMERAZIONE DELLE IDEE ELEMENTARI DELL' ESSERE.
ARTICOLO III.
RAGIONAMENTI DI ». AGOSTINO SELLE IDEE v'UHITà', 8 DI MIMERÒ,
ED ALTRETTALI , CHI CONFERMANO LA TEORIA DA NOI ESPOSTA.
§ l.
(1) L'analisi delle sensazioni non era spinta a' tempi rli s. Agostino tanto
innanzi, come fu ne' tempi moderni. Però non fa meraviglia se qui paja
che non ben si distingua fra il sole in quanto é percepito da'sensi nostri ,
e il sole in sé percepito coli' intelletto. I sensi nostri non percepiscono
propriamente il sole, ma l'azione parziale del sole; e l'azione clic fa il sole
in uomini diversi, è numericamente diversa, sebbene sia simile e della stessa
specie. Sicché si può dire che diversi sensi percepiscano in certa cotal ma
niera diversi soli; ma più accuratamente ancora direbbesi che il sole in sè
non è percepito propriamente che dall' intelletto , il quale percepisce l'atte
sole; quando il senso non percepisce che V agente nelle sue varie e se
parate azioni.
(2) Si consideri quanto diligentemente qui s. Agostino dislingua il sog
getto dall' oggetto, la ragione dalla verità percepita dalla ragione. Le diffe
renze ch'egli fa notare sono manifeste, innegabili. E pure udiamo tulio
giorno di quelli che pretendono di confondere la scienza e la verità colla
mente umana, e far quella un puro effetto o emanazione di questa 1
(5) Conviene ben considerarsi, siccome il soggeUo che intende sia vario,
mutabile, difettoso; e la verità (l'oggetto) non patisca nulla dalle varie con
dizioni del soggetto che si sforza di contemplarla. Con queste ultime parole
s. Agostino distrugge ogni sistema di quelli che pretendono che la scienza
venga informata dalle qualità del soggetto: ciò non può al tutto essere,
essendo ella di sua natura immutabile.
1 48
« colo, per questo ella vien meno; ma rimanendosi ella
« vera e integra, colui all'incontro è fitto tanto più
« addentro nell'errore, quanto meno la vede ».
« Agostino. Ben da vero! e veggo che tu, come non
« punto nuovo di queste materie, hai tosto avuto alle
« mani il bisognevole da rispondermi. Tuttavia se alcun
« ti dicesse , cotesti numeri non esserci impressi nel-
« l'animo in virtù di certa loro natura, ma da quelle
« cose che percepiamo col senso corporeo, quasi fossero
« certe immagini di visibili cose, e che risponderesti tu?
« Slimi che così possa essere? »
« Evodio. Noi crederei mai. Poiché ove anco col senso
«< corporeo io percepissi i numeri (i), non per questo
« potrei percepire con esso la ragione , secondo cui i
« numeri si partono o si congiungono. Conciossiachè è
« mediante questa luce della mente, che io correggo colui
« che sommando o sottraendo ci mette fuori un risulta-
« mento sbagliato. E tutto ciò ch'io percepisco col senso
« corporeo, siccome questo cielo, e questa terra, e tutti
« gli altri corpi in essi, non so fino a che tempo sa-
« ranno: ma che sette e tre facciano dieci , io so che è
« ora, e anche sempre; nè v'ebbe mai tempo in che
« sette e tre non fossero dieci , nè verrà mai (2). Or
« questa incorruttibile verità del numero dissi che è
« comune a me, e a qual altro si voglia ragionatore ».
« Agostino. Non ripugno alle cose verissime e certis-
« sime che tu mi rispondi. Ma io voglio farti osservare,
« che nè anco l'idee de' numeri s'attraggono da' sensi cor-
« poreij il che facilmente vedrai, se li piaccia conside-
« rare, che ogni numero è un composto di unità: pon
« caso, quel numero che avrà due volte l'unità, si chiama
« due; quel che tre, tre; quel che dieci, dieci : e in somma
« ciascun numero quante volte ha l'uno, quinci prende
« il nome, e tanti si chiama. Or chi con verità pensa
« che sia l'uno, trova per certo eh' esso non può esser
« sentilo da' sensi del corpo. Chè tutto ciò che vien per-
« cepito da tal senso, provasi non esser uno, ma molti:
« conciossiachè è corpo , e perciò ha parti innuinera-
(t) Dato anco che nel corpo vi avesse una qualche unità, come sarebbe
negli cslcsi continui , per conoscere 1' unità di un corpo conviene sempre
che io percepisca quel corpo prima come ente , e poi come uno, cioè og
gettivamente; ora ciò non può fare il senso , che non riceve se non Va-
iione delle cose , e non sente che questa nel proprio sentimento , non le
cose stesse fuori di sè, fuori del proprio sentimento. Per al'ro l'unità
dell' esteso non è perfetta in quanto non esclude mai la possibilità dell»
divisione e della moltiplicità.
(a) Quelli che non pensano profondamente, si persuadono che sia assai
facile concepire la moltiplicità. Ed è facile concepirla, ma diffìcile spiegare
come si concepisce : confondono la concezione di fallo, colla teoria dell'»
concezione della moltiplicità , e la facilità di quella colla difficoltà di questa.
Tutti quelli all'incontro che approfondiranno questa questione s'avvede
mmo i.°che io non posso concepire i molti, senza che preceda in me
l'idea dell'uno, a.0 e che io non posso concepire l'uno , senza che preceda
in me l' idea dell' ente. •,
i5o
circa le proprietà e le relazioni de' numeri in fra loro,
dimostrandocele eterne s e non dipendenti da alcuna
cosa temporale.
« Di poi (così egli prosegue), sguardando all'ordine
« de' numeri , veggiamo, che dopo l'uno viene il due, che
« paragonato all'uno è il doppio: ma il doppio di que-
« sto due non viene immediatamente appresso, ma è
« uopo vi s'interponga il numero ternario, perchè se-
« guiti poscia il quaternario, che è il doppio del due. E
« simigliante ragione si stende a tutti gli altri numeri
« con legge certissima ed immutabile — , che quanl' è
« un numero dato, altrettanto si debba numerare per
« trovar quel numero che sia doppio di esso. Or questa
« proprietà, che noi veggiamo valere immutabile, fer-
« ma, incorrotta per tutti i numeri, onde la veggiam
« noi? non da' sensi ; perocché non v'ha uomo, che
« col senso del corpo percepisca tutti i numeri; i quali
« sono innumerabili (i): onde dunque conosciamo quella
« legge valer per tutti, o in che fantasia, in che fan-
* tasma veggiamo una verità così certa del numero, ap-
« plicabile a innumerabili serie di cose , e con tanta
k sicurezza, se non nella luce interiore, sconosciuta al senso
« del corpo ? »
Di che conchiude:
« Per questi ed altrettali molti documenti, coloro che
« ebber da Dio ingegno alle disputazioni , e cui la per
le tinacia non cuopre di caligine, sono astretti di confes-
tt sare,chela ragione e la verità de' numeri non appar-
« tiene a' sensi del corpo, stare essa inflessibile e sent
ii pre sincera, ed esser comune oggetto che si dà a ve
« dere a tutti quelli che ragionano » (3). —
5 3.
E or qui sant' Agostino fa de' simiglianti ragionamenti
per tutte le verità inconcusse di qualsiasi condizione ,
e le dimostra al tutto aliene da' sensi , come quelle de'
(1) Ecco come sant' Agostino s' accorge che trapassa ogni sperienza quel
ragionamento che si volge intorno all'ordine delle cose possibili c necessarie.
(2) His et taìibus mullis documenlis cogtinUtrJateri , quibus dispulantibus
Deus donavit ingenium, et pertinacia caliginem non obducit , rationem ve-
ritalemque numerorum et ad sensus corporis non pertinere, et invertibiUm
sinceramque consistere, et omnibus ratiocinantibus ad videndum esse COI*'
munem. (Oc Lib. arbitrio II , vili).
i5i
numeri, e necessariamente da più alta fonie procedenti
che dalle sensibili e temporanee nature. De' quali ragio
namenti mi si permetta di soggiungere ancora alcun brano,
acciocché si renda più manifesta la mente di un uomo
sì autorevole, e il vero che noi amiamo di mettere al
sicuro in tutta quest'opera , cioè che la cognizione nella
sua parte formale non può venire da' sensi. Udiamo dunque
come ripiglia il suo dialogo con Evodio il grand' uomo,
Slargandolo da' numeri agli altri veri.
« Agostino. Noi teniamo che v'ha una sapienza, e che
« lutti gli uomini vogliono esser sapienti, ed esser beati.
« Ora dove vediam noi ciò ? Poiché certo non dubito
• punto, che tu vegga ciò , e vegga che ciò è vero. Vedi
• in dunque questo vero a quel modo che vedi il tuo
«pensiero, il quale, se tu non mi manifesti qual sia, io
• l'ignoro? o più tosto vedi quel vero per sì fatto modo,
« che in pari tempo ti accorgi assai bene, che quel vero
« che tu vedi può esser veduto anche da me , sebbene
« tu non mei dica? » (i).
« Evodio. Anzi così appunto, che io non dubito po-
« teT tu da te stesso vedere quel vero, anche s' io non
« volessi che tu '1 vegga ».
« Agostino. Ora, se vergiamo noi tutti e due colle
« menti nostre proprie e singolari quel medesimo vero,
• non è egli cosa all'uno e all'altro di noi comune? »
« Evodio. Manifestissimo ».
« Agostino. Prendi un'altra proposizione simigliante.
«Ad esempio, io credo che tu non negherai , doversi
« porre studio ed amore nella sapienza , e sentirai che
« questa è una proposizion vera ».
« Evodio. Non ne dubito affatto».
« Agostino. Potremo adunque anche qui negare, che
« questo vero è uno, e che è comune a vedersi a tutti
« quelli che lo sanno, sebben ciascuno noi miri nè colla
« mia mente, nè colla tua, nè coli' altrui, ma colla sua
« prepria, quando ciò che è veduto, è pur presente a
« tutti i risguardanti ? »
"Evodio. Per niuna guisa si può negare ».
« Agostino. Che si debba vivere giustamente, che le
« cose deteriori vadano posposte alle migliori , le pari
(1) Ecco comes. Agostino [trova elicle scienze morali e metafisiche hanno
basi inconcusse al nuri di quelle che si chiamano scienze csalle « rigorose.
« a la guai non puoi tu dire nè tua, nè mia, nè di altro
« uomo singolo, ma solo puoi dire esser pronta e por
ti gersi ella in comune a vedere a tutti quelli che san
« mirare i veri immutabili, siccome un cotal lume segreto
« e pubblico a un tempo per modi maravigliosi ». —■
« Evodio. Tutto verissimo, ed apertissimo ».
« Agostino. Or ti vo' domandare una cosa. Questa
« verità, di cui sì a lungo parliamo, e nella quale veg-
<< giani tante cose, pensi tu che sia più eccellente della
« mente nostra, o eguale, o inferiore? »
u Evodio. Forse inferiore » (i).
« Agostino. Ma se fosse inferiore, non giudicheremmo
- noi secondo quella, ma di quella, siccome giudichiamo
«de' corpi che sono inferiori, e diciamo sovente non
« pur eh' essi sono così, o in altra guisa, ma ben anco
' ch'essi così o diversamente debbono essere: e dì il
« medesimo degli animi nostri, che non solo cono-
x sciamo quali siano, ma bene spesso conosciamo quali
« esser debbano. E quanto a' corpi , giudichiamo , dicen-
" do, Non è candido come sarebbe bisogno, o non è ben
« quadrato, e molt'altre cose simili. Degli animi poi, Non
u è disposto come converrebbe, o non abbastanza lene,
« o troppo poco veemente, come dimanda la ragion de'
« costumi. Le quali cose noi giudichiamo secondo quelle
« interiori regole della verità, che tutti comunemente
■ veggiamo: di esse poi nessuno giudica in alcun modo:
" perocché ove talun dica , che le cose eterne valgono
« più delle temporali, e che sette e tre fan dieci, niuuo
« dice che cosi dee essere, ma solo, conoscendo che la
« cosa sta così, non la corregge quasi facendola da esami-
« nalore, ma se ne rallegra come trovatore di quel vero ».
« Evodio. Se non è dunque la verità inferiore alla
« mente, poniamo che sia uguale ad essa ».
« Agostino. Quando tal fosse, la verità sarebbe muta-
« bile come la stessa mente (2). Conciossiachè le menti
CAPITOLO II.
Ciò che rende più arduo che non sarebbe , l' asse
gnare all'idea di sostanza la sua origine, si è il con
cetto inesatto e confuso che si fanno della sostanza i
filosofi che ne ragionano.
Generalmente, confondono l'idea di sostanza in ge
nere, coli' idee delle sostanze particolari. I nostri filo
sofi vi diranno, per esempio: « noi non possiamo conoscere
la sostanza de' corpi ecc. , dunque noi non abbiamo l'dea
di sostanza ». Vi par egli questo un ragionamento ri
goroso ?
Conviene in vero osservare, che noi potremmo avere
1' idea di sostanza in genere, e non conoscer intima
mente nessuna sostanza delle cose particolari: a quel
modo che noi potremmo conoscer benissimo, che un
masso, che noi veggiam sospeso ad un'alta colonna,
debba avere qualche congiunzion con essa , acciocché si
stia cosi penduto nell'aria, com'egli si sta; sebbene noi
non sappiamo la natura di quella congiunzione; e se
quel nesso del masso colla colonna onde penzola, sia
fatto d'una verga di ferro, o d'altro; ovvero se sia
a modo di ganghero, o di arpione; e in somma, di
che forma e di che materia sia l'appicco: tutto questo
noi possiamo ignorare , e intendere nulladimeno la ne
cessità d'una congiuntura qualunque del masso colla
cima della colonna.
Similmente, poniamo che noi potessimo conoscere,
che ci dee avere una sostanza , oltre alle qualità sen
sibili o ad altri accidenti: ne verrebbe di questo neces
i56
sanamente, che noi dovessimo saper anco che cosa sia
quella sostanza de' corpi, e conoscere pienamente la sua
natura? No, certamente. E converso, se non conosciamo
ciò che ne' corpi forma la sostanza, si dee conchiuder
di questo, che noi non abbiamo nè pure in generale la
nozion di sostanza ? No, per la stessa ragione: concios-
siachè senza la nozione di sostanza, noi non potevam
conoscere ch'ella fosse necessaria ne' corpi.
Or poi, il dimostrare che noi abbiam la nozion di
sostanza, sarebbe, com' altri poco fa osservava (i), una
pelizion di principio. A quelli che negano l' esistenza di
tal nozione, è da chiedersi: come possono negar l'idea
di sostanza, se non l'hanno, se non sanno che negano (2)?
Il perchè, come osservai altre volte, l'idea di sostanza
è un fatto contestato dal genere umano, compresi nel
genere umano quegli slessi che. tolgono a negarla in pa
role. Poiché quando anche il genere umano s'ingannasse,
e credesse d'aver un'idea che non ha, bisognerebbe
pure che gli sembrasse di aver quest'idea: e ora, sem
brargli di aver un'idea, è lo stesso che averla; perocché
un'idea apparente, non si rimane dall'essere un'idea
bella e buona, e reale siccome le altre: più oltre non
si può andare.
ARTICOLO IL
DESCRIZIONE ED ANALISI DI TCTTO CIÒ CHE NOI PENSIAMO INTORNO ALLE SOSTANZE.
§ I.
Onde debbisi cominciare la ricerca sulle idee di sostanza.
Il primo passo che dar dobbiamo è di appurare il
fatto; di verificar quali sieno le cognizioni nostre circa
la sostanza, o quai diversi pensieri la mente umana
§ 2.
Definizione della sostanza.
§ 3.
Analisi del concetto di sostanza.
(i) L' energia che costituisce V esistenza attuale degli esseri, ovvero l'ener
gia per la quale esistono, è il medesimo. Questa seconda espressione viene
spiegata da quella prima. Conviene cioè avvertire di non fare due cose di
verse dell' energia di cui parliamo, e dell' esistema attuale degli esseri: pe
rocché l' esistenza attuale è V energia stessa.
i58
stro ; perocché noi siamo qui per favellare di ciò che
sta nella mente, e non fuori di essa. Ciò che sta nella
nostra mente , non si distingue realmente che mediante
1' astrazione; mentre l' astrazione non costituirebbe una
vera divisione delle cose sussistenti fuori del nostro spi
rito. L' astrazione è un fatto , un' operazione dello spi
rito. Un altro fatto è, che per l'astrazione d'un pen
siero solo, se ne fanno più: per l'astrazione succede,
che mentre la nostra attenzione si volgeva da prima so
pra un pensiero tutto intero, e faceva con ciò un solo
atto , di poi si fissi nelle diverse parti di quel pensiero,
e ciò faccia con molti e molti atti, quante sono le parli
nelle quali ella si fissa. Irragionevolmente ci si farebbe
qui quel rimprovero , che è divenuto un luogo comune
de' moderni sofisti , che non in altro modo sanno tro
vare onesta cagione del non entrar nel forte e nello
spinoso della questione , il rimprovero , dico , che noi
abusiamo dell'astrazione per creare degli esseri imma
ginar]. All'opposto, noi siamo obbligati di spiegare il
fatto della stessa astrazione, e de' suoi prodotti, nel ra
gionamento presente. Non possiam dunque prescindere
dall' astrazione, nò far a meno di notare e descrivere
tutti i diversi pensieri o concetti che nel nostro spirilo
ella forma ed origina; reali al di fuori della mente, o
no, non sono meno pensieri reali dentro nella mente,
non sono meno idee; e noi ci siamo impegnati di render
conto di tutte le idee in questo Saggio che ha il titolo
dell'origine delle idee.
Rimosso tal pregiudizio, che potea star contro noi ,
e confondere la mente ad un lettore inavveduto, dico
che nella data definizione , « l' energia che costituisce
l'essenza attuale degli esseri », la niente nostra distingue
e pensa due cose, i.° gli esseri, 2.* e l'energia per la
quale esistono: queste son due idee elementari, onde ri
sulta un'unica idea di sostanza.
§ 4-
Varj modi dell'idea di sostanza.
(i) Conviene aver presente ciò che ho detto sui generi e sulle specie
(P. II, c. II), e quale sia la maniera nostra di concepire queste due ma
niere di classificazione.
i
i6o
abbia in se quella energia che si chiama attuale esi
stenza : non cerco punto a qual classe, o genere, o specie
egli appartenga: penso solo l'energia o esistenza at
tuale di lui, e implicitamente cou ciò penso, che que
st'ente sia determinato con tutto ciò ch'egli dee avere
in sè acciocché esista , ma non determino io però coi
mio pensiero, nè punto mi rappresento quali sieno le
determinazioni o proprietà sue, nè mi occupo a sapere
se sieno più tosto queste che quelle.
Nell'idea adunque di sostanza in universale i." c' è il
pensiero dell'esistenza attuale, a.* c'è il pensiero del
l'individuo che esiste,. 3.° c'è il pensiero iti universale
delle determinazioni che dee avere in sè quest' individuo
acciocché esista, cioè il pensiero della necessità ch'egli
sia compito, ed abbia tutto il suo necessario per esi
stere; senza cercar però io, che debba esser questo ne
cessario, che il fa essere un ente determinato, un tipo
compito.
Nell'idea di sostanza generica si possono distinguere
egualmente i tre pensieri elementari, cioè quello i.* di
una energia che costituisce l'esistenza, 2.* di un ente che
l'ha in sè questa energia, 3." e delle determinazioni
necessarie a quest'ente perch' egli sia compito all' esi
stenza, cioè perchè sia un individuo.
La parte variabile di queste due idee è la terza; il
diverso modo onde noi concepiamo il terzo elemento ,
fa la differenza delle due idee.
Nell'idea di sostanza in universale noi pensiamo, che
l'ente, di cui si pensa l'esistenza attuale, s'abbia in
sè tutte le determinazioni o proprietà necessarie ad esi
stere; ma non pensiamo tuttavia quali sieno, o s'elle
sieno più tosto queste che quelle. All'incontro nell'idea
di sostanza in genere, noi pensiamo altresì alcune de
terminazioni generiche dell'ente , la cui sostanza pen
siamo: per esempio, pensando io alla sostanza degli
spiriti, o de' corpi, io non penso solo all'esistenza at
tuale di un individuo in universale, ma penso all'indi
viduo d'un genere determinato, cioè del genere delle cose
corporee , o delle cose spirituali.
Finalmente nell'idea di sostanza specifica entra l'in
dividuo in tutto determinato tanto colle sue note gene
riche che proprie. Se io penso la sostanza di un albero
individuale, e non di un albero qualsiasi, io debbo peur
1G1
«ar l'albero fornito di tutti i suoi caratteri e note di
stintive (i).
Adunque in tutte le. tre idee di sostanza si pensa
sempre un individuo , perchè si pensa una cosa intera
mente determinata ad essere, una cosa compita in tutte
le sue parti, alla quale nulla manca fuori che la sus
sistenza, la qual cosa io chiamo individuo. Se l'archi
tetto immagina una casa, la disegna a sè stesso in tutte
le più minute sue parti, determinando altresì seco me
desimo i materiali necessarj a comporta ; questa casa
nella mente dell'architetto è perfetta: in edificandola ,
nulla cresce all'idea, che tutte le parti della casa già
abbraccia e tiene: ciò che si fa di nuovo è la casa
stessa , alla quale si dà un'esistenza in sè, non più una
esistenza ideale nella mente di chi la concepì e divisò
in tutte le sue più minute particolarità.
Si può dunque pensar l'individuo in universale: come
quando si pensa il complesso di ciò che è necessario
perchè l'ente esista, senza determinare nè pensar che
ciò sia.
Sì può pensar l' individuo in genere : come quando
non si pensa solo il complesso di ciò che è necessario
perchè l'ente esista, ma si comincia a determinar qual
che cosa dentro a questo complesso, cioè le qualità ge
neriche dell'individuo.
Si può finalmente pensar l' individuo in ispecie: come
quando nel complesso di ciò che è necessario acciocché
Tenie esista, si determinano le qualità generiche, e le
specifiche altresì.
In una parola, posso pensare un individuo qualsiasi,
un individuo d' un determinato genere, e finalmente un
individuo speciale.
S'io penso l'esistenza attuale di un individuo qual
siasi, penso la sostanza in universale; s'io penso 1 esi-
(i) Il lettor si ricordi ciò cKe ho dcWo sui generi e le specie, e capirà
flie non mi è necessario di far qui un'altra classe d'idee di sostanza per
gl'individui d'una specie distinti da qualche imperfezione; perocché le
idee di questi non sono che l'idea stessa dell'individuo perielio (idea speci
fica ) , tolto via da lei qualche pregio.
Oltracciò qui non si parla dell'affermazione degl'individui sussistenti,
poiché questi colle idee sole non si conoscono uè peusuuo, ro i col giudizio,
t altresì di essi parliamo più sollo.
Kosmimi, Urig. delle Idee , frolli. 21
i6a
s lenza attuale d1 un individuo d'un dato genere, penso
la sostanza in genere: s' io penso l'esistenza attuale d'un
individuo in sè stesso compito, penso con ciò alla so
stanza speciale. Idea di sostanza in universale , idea di
sostanza in generale, idea di sostanza specifica, sono
sempre idee dell'energia che costituisce l'esistenza at
tuale, la quale non può essere che d' individui , cioè di
enti perfettamente determinati all'esistenza ; se non che
noi o non pensiamo espressamente ciò che li determina,
o ci pensiamo solo in genere, o finalmente ci pensiamo
anche in tutte le loro note proprie le quali veramente
li costituiscono individui.
§ 5.
Origine dell' idea d'individuo.
§ 6.
Giudizj *ulla sussistenza delle sostanze, e in che differiscano
dalle idee di sostanza.
§ 7-
Ricapitolazione di lutti i pensieri che la mente umana fa
intorno alle sostanze.
(1) Non si dica già, che con ciò si acquista una nuova idea , l'idea di sus
sistenza: questa c'era, perdi' ella è necessaria a pensare « che un ente
possa sussisUre ». La persuasione adonque dell' esistenza reale è qualche
cosa interamente distinta dalla concezione; è di una natura al tutto diversa
dalle idee.
(1) Tanto al giudizio sopra una specie di sostanza , che al giudizio sopra
una sostanza individua presiede l' idea stessa specifica , o nella sua perfe
zione , o accompagnata da imperfezioni, o astratta (Vedi più avanti, Parie V,
cap. I, art. v, g i —5). I giudizj però si potrebbero veramelile dividere; e
iu tal caso le classi de' giudizj sarcliliero quattro.
i64
dizio sulla sussistenza d' una sostanza speciale e indi
viduale.
Di tutte queste idee e di tutti questi giudizj noi dob
biamo descriver l'origine, o sia mostrare il modo della
loro possibilità nella mente umana.
ARTICOLO III. .
lE TRE IDEE ENUMERATE DI SOSTANZA VERGONO L DNA DALL ALTRA.
ARTICOLO V. ,
L.A SPIEGAZIONE DELL'lDEA SPECIFICA DI SOSTANZA PENDE DA QUELLA DIFFICOLTA'
CHE SI TROVA IN RENDER CONTO DE* GIUDIZJ SULLA SUSSISTENZA DELLE SOSTANZE.
ARTICOLO VI.
SPIEGAZIONE DELLA PERCEZIONE DEGL'INDIVIDUI.
CAPITOLO III.
ARTICOLO I.
kecessita' di questa dicmarazione.
ARTICOLO HI.
v' ha cn* altra strada da battersi , pia trovar
l 'origine dell' idea di sostanza.
ARTICOLO V.
SECONDA PROPOSIZIONE : OCNI COSA PUÒ ESSERE OGGETTO DELI.' INTELLETTO.
5 I.
Dimostrazione.
Ciò posto, « ogni cosa può essere oggetto dell'intel
letto »; perocché ogni cosa ha una specie d'esistenza
sua propria.
§ 3.
Risposta. — Difesa del principio di contraddizione.
-
perocché se s'intende allora «una non-cosa, un nulla »,
il linguaggio mi sarebbe stato conceduto solo per cor
bellarmi.
È dunque 1' uso del linguaggio che esige che si dica
ciò che si dice; che quando io dico pane, dica pane;
e quando dico sasso, dica sasso.
Se io dico una parola , ed immantinente la ritratto
e la nego , io non ho detto ancora nulla , perciocché
ciò che avea detto , io l' ho richiamato e cassato. Se
io fo un segno colla matita in sulla carta, e poi lo ra
do, che restami nella carta? un bel bianco, siccome
prima di fare il segno. Se mi si accordasse disegnare
colla matita , ma a patto che ogni linea tirata inconta
nente cancellar dovessi, si direbbe che mi fu accordato
veramente il disegnare? In nessun modo; perocché io
avrei innanzi la carta sempre netta come prima ; nè
verrei mai a capo di vedervi sopra una testa, o una
mano, e nè pure un dito. Nella stessa guisa, se mi si
concede l'uso del linguaggio, ma mi si mette il patto,
che appena proferita una parola , io la richiami incon
tanente appresso e l'annulli, sarebbe egli questo un con
cedermi l'uso del linguaggio veramente? Linguaggio non
è un accozzamento casuale di suoni, ma un ordine di
suoni che significano delle idee: la possibilità adunque
che io usi del linguaggio, esige che nel linguaggio che
io uso eviti le espressioni ripugnanti e contradditorie;
perocché un linguaggio composto di esse , non è altri
menti linguaggio, di che 1' uso mi è conceduto.
Ora veniamo a noi. Quando io pronunzio questa fra
se, « una cosa che non ha nessuna maniera di esisten
za » , io non cerco già se vada bene o no in logica ;
dico che quella espressione non è linguaggio, perchè
non dice nulla; dico che l'uomo che la usa manda bensì
fuori de' rumorìi , non delle parole, punto meglio di co
lui che dopo la parola pronunziata, la ritrae e smenti
sce. E in vero, il significato che sta aggiunto alla voce
u cosa » , è appunto l' idea di una qualche esistenza :
quando dico adunque « cosa » , esprimo l'idea di una
qualche esistenza; e quando soggiungo, « che non ba
nessuna maniera di esistenza » , distruggo e tolgo via quel-
l' idea che prima ponevo, e la parola «cosa» si resta
siccome mai detta io non l'avessi: è la mia espressione
simile alla forinola algebrica a — a; che equivale a zero.
i75
§ 4-
Condottone della dimostrazione.
Ciò posto , la proposizione mia , che « ogni cosa può
essere l'oggetto dell'intelletto» (i), paruri al tutto evidente
in ogni sistema: perocché esige solo un postulato, che
non possono non accordarmi tutti quelli che parlano ;
nè gli scettici si sono mai mostrati disposti a tacere ,
meglio che tutte le altre sette e maniere di filosofi.
ARTICOLO VI.
IBU p»oposizione : l'intelletto non può perch'ire le qualità',
SENZA PERCEPIRLE IN UN SOGGETTO NEL QUALE ESISTANO.
(i) Io credo che a quegli stessi che negano la verità oggettiva , debba
sembrare di poter ammettere benissimo la definizione da me data dell' in
telletto , e la proposizione, ch'egli può concepire ogni cosa: solamente che
essi debbono dare a queste due proposizioni una verità intieramente sog
gettiva , cioè apparente al soggetto.
(7) Art. iv.
(3) Art. v.
(4) Art. tv.
(5) Cap. II, art. », ? a.
176
ARTICOLO VII.
DISTINZIONE MA l' IDEALISMO DI OCHE, I QOEUO DI WUUI.
ARTICOLO Vili.
CONFUTAZIONE DELL* IDEALISMO DI HUME.
ARTICOLO IX.
ORIGINI DELL* IDE* DI ACCIDENTI.
ARTICOLO X.
i
CENNO SCLL* BIVAMAIIUTa' DELLA SOSTANZA.
c
una proprietà necessaria dell'accidente, la variabilità:
se noi trovate necessario, voi non potrete conchiudere,
la variabilità esser necessaria al concetto dell'accidente.
Che se talora v'hanno degli accidenti variabili, e ciò
conoscete per esperienza, voi direte che ciò accade per
qualche circostanza particolare, e non già perchè così
debba di necessità e sempre avvenire. Ma io , ad ana
lizzare il concetto delle qualità esistenti per sè di Hnme,
e mostrarvi come quell'analisi dava per risultamenlo
che quel concetto componevasi dell'idea di sostanza e
dell' idea di accidenti , non ebbi bisogno se non di mo
strarvi che i due elementi, ne' quali quell' idea si scom
pone, hanno la nozione il primo di sostanza, il secondo
d'accidente, giusta la definizione delle dette nozioni: e
con ciò fu soddisfatto al mio assunto.
. ARTICOLO XI.
li qualità' sensibili non esistono Fra si Stesse ( non sono sostanze ).
CAPITOLO IV.
ARTICOLO I.
ASSUNTO DEL PRESENTE CAPITOLO.
ARTICOLO IL
mcnuMzioKK dilla proposizioni.
(1) Dico così, per determinare in qualche modo quest'azione: per altro la
cognizione che il nostro corpo sia tocco da oggetti esterni, è posteriore alla
consapevolezza della nostra passività ; sicché l'espressione è tolta da ciò che
vien dopo alla nostra passione.
(1) Il linguaggio non ci potrebbe giovare a nulla, se noi non avessimo già
in noi le idee dal linguaggio significate, o non avessimo la facoltà di for
marcele all'occasione de' suoni che udiamo. Quemadmodum potest quivi*,
osserva elegantemente s. Agostino, digilum movere ut aliquid ostendat, non
autem videndifacultalem conferre, ila potest homo exterius verbi proferre,
quae veritalis tigna suiti, non autem veri intelligendi virtutem, quae a solo
Deo est, impertiri.
Rosmirj, Orìg. delle Idee, Voi. II. a5
J94
difficile; perciocché V azione la conosciamo primieramente
per ciò che avviene in noi stessi (data l'idea dell'ente),
e di poi per quello che noi pensiamo di simile a quanto
in noi medesimi abbiamo sperimentato.
Di più, di tutte quelle azioni delle quali noi siamo
autori e cause, la nostra consapevolezza pure ci avvisa.
Noi siamo consapevoli a noi stessi d'esser pur noi
che vogliamo, che pensiamo ecc. Noi conosciamo dun
que la cagione di tutta questa specie di azioni ; cioè
sappiamo, che siamo noi quelli che le facciamo. E per
ciò possiamo analizzare ciò che noi facciamo; e nell'a
nalisi di queste nostre azioni distinguere il noi che opera
(cagione), da ciò che opera ( azione operata); e così for
marci l'idea della causa rispettivamente alle azioni fatte
da noi.
Anche questo non mostra difficoltà : e tuttavia è un
passo che ci è già molto utile; conciossiachò noi ab
biamo in ciò la sorgente di un'idea qualsiasi di causa.
Dico un'idea qualsiasi; perocché egli non sembra a
primo aspetto, che una tale nozione di causa, cavata
dalla cognizion di noi stessi, autori e cause delle nostre
azioni, sia al tutto completa, generale e necessaria.
E di vero, nell'idea di causa dee contenersi qualche
cosa , per la quale ella si veda manifestamente necessa
ria ad ogni avvenimento od azione Poiché la proposi
zione tolta da noi a dimostrare è la seguente : « ogni
nuovo fatto cliiama una cagione ». In questa proposi
zione si esprime un nesso necessario fra ciò che è pro
dotto e ciò che produce , fra V azione e 1' agente. Ora
xin nesso necessario fra- due idee deve uscire dalla na
tura stessa delle idee, che si chiamino e rabbraccino
insieme a vicenda per modo, che come due termini re
lativi, non si possa pensar 1' una senza pensar in qual
che modo altresì 1' altra ; sicché nel pensiero e nella
definizione dell'una, l'altra implicitamente si contenga,
e per forma, che analizzando l'uno de'due concelti, ci
si trovi dentro l'altro contenersi come in seme, dal
quale sbuccia , e così viceversa dell' altro.
Ora in questo appunto 6ta tutta la difficoltà, e tutto
il lavoro che noi dobbiam fare. Noi dobbiamo sotto
mettere ad un' analisi accurata i due termini della no
stra proposizione, i* azione , a." e causa che la produce;
195
e dimostrare, che nella nozione dell'una si giace e com
prende , e per noi già si pensa la nozione dell' altra.
E quando noi fossimo riusciti a ciò dimostrare, noi
saremmo altresì venuti ad aver dimostrato i.* che non
si può concepire un fatto o avvenimento senza pensare
una causa , a.* e che non si può concepire nessuna causa
senza dover pensare un effetto almeno possibile.
E dove fossimo a far questo pervenuti, cioè a dimo
strare, che supponendo in noi l'idea della causa , noi
abbiamo già e pensiamo implicitamente l'effetto; ed e
converso, che avendo in noi 1' idea dell'effetto (avveni
mento, azione), noi abbiamo in essa rinchiusa e ravvolta
l'idea della causa; non ci resterebbe che a spiegare il
modo, come noi acquistiamo l' una 0 l'altra di queste
idee; perciocché l'una delle due spiegata, è spiegata an
che l'altra; giacché l'analisi fa trovar l'una nell'altra.
Ma quanto all'idea dell'azione, o all'idea pura e
semplice d'una causa possibile, nessuna difficoltà s'in
contra , come abbiamo veduto : quelle idee sono date
dalla nostra esperienza ed interiore consapevolezza; giac
che noi siamo conscii a noi stessi delle nostre azioni, e
d'esser cause delle medesime.
La difficoltà dunque si riduce tutta a dimostrare que
sto solo, che noi, pensando all'azione, pensiamo impli
citamente alla causa, o viceversa. E poiché il progresso
naturale delle nostre idee è il primo, io mi applicherò
a descriver quello nell'articolo seguente.
ARTICOLO IV.
SPIEGAZIONE DI CIÒ CHE v'hA DI DIFFICILE IN ASSEGNABE
l' origine dell'idea DI CAUSA. ., ,
(1) È facile di vedere, che questa non è già una legge soggettiva dell'in
telletto, ma una necessità che nasce dalla natura della cosa che l'intelletto
Percepisce, perciò una necessità oggettiva: perocché la determinazione del
ente non esiste che per l'ente: e poiché solo in quanto esiste può conce
pirsi, quindi sarebbe assurdo il dire ch'ella si potesse percepire prima o
indipendentemente dall'ente a cui appartiene c per cui i qualche cosa.
Quando w dico ente, intendo ciò che è: ciò che non
è, è un nulla. Dunque ciò che non è un ente, o sia
qualche cosa nell'ente racchiuso, è un nulla. Colla pa
rola ente adunque s'abbraccia tutto; niente s'esclude;
c non può dirsi che v'abbia alcuna cosa fuori del lutto.
Se noi dunque concepiam qualche cosa, o dobbiam con
cepir l'ente, o qualche cosa che nell'ente si contenga.
Dire il contrario, è un contraddirsi manifesto; è un
dire, e poi cassare il detto; cioè non favellare, ma mandar
fuori de' suoni, che insieme non hanno il minimo si
gnificato.
Laonde se, per la natura della cosa, il dire che l'in
telletto nostro pensa qualche cosa, è il medesimo che
il dire ch'egli concepisce o l'ente o qualche cosa nel
l'ente contenuto; veggiamo che relazione s' hanno in fra
sè queste due specie d'oggetti del nostro pensiero.
Ciò che appartiene all'ente o che nell'ente è racchiuso,
come qualità, relazione ecc., è impossibile che noi lo
percepiamo intellettualmente senza l'ente.
È bensì vero , che noi possiamo considerarlo in
separato dall'ente mediante un'astrazione; ma quando
noi facciamo questa operazione, per la quale sepa
riamo mentalmente dall'ente qualche cosa che a lui
appartiene, non formiamo però della cosa separata un
ente da sè; e noi dobbiamo aver già prima pensato l'ente
tutto intero; poiché è sull'idea di questo, che noi
facciamo l'astrazione; chè astrarre, o separare qualche
cosa da un tutto non si può, se non si possiede prima
il tutto , dal quale si separa e recide la parte che si
vuole.
Le cose dunque che non sono da sò enti (sostanze),
ma che appartengono a qualche ente e in esso si per
cepiscono , non sono che pure astrazioni del nostro in
tendimento; e le astrazioni suppongono dinanzi a sè
l'idea intera della cosa^ fuor della quale si tolse a con
siderare alcuna parte: di che avviene, che « l'ente 6Ì
percepisca per sè ; e mediante l'ente poi si percepiscano
le cose che nell'ente sono contenute, od all'ente co
mecchessia appartengono e si riferiscono, in virtù della
facoltà che noi abbiamo di astrarre ».
La verità di questo principio s'intende medesima
mente ove d'altro lato lo si riguardi, cioè ove si ponga
attenzione alla natura dell'idea astratta.
!98 .
Noi, quando coll'intendimenlo nostro separiamo da un
ente una sua qualità, o relazione, o qualsiasi sua parte,
è vero che l'abbiamo separata e precisa dal tutto; ma
questo non ci può mica ingannare: e sappiam bene tut
tavia, che una tale separazione non è fatta che per poter
da noi considerare quella parte da se sola; e non già
perchè ignorar possiamo, ch'ella si stia attaccata ed
appartenente veramente al suo tutto, al suo ente. Egli
è dunque impossibile che l'intelletto percepisca qual
siasi apparenza dell'ente, senza che percepisca e pensi
prima l'ente stesso; ma egli percepisce prima l'ente,
e, percepito questo, poi fissa in esso l'attenzione, e in
quella parte singolare che a lui piace , e tutto in essa
intende (il che è astrarre), non ignorando però egli mai
(se non s'illude da sè medesimo) che quella parte è
inseparabile dall' ente nel quale egli esister la vede.
Bene afferrati e intesi questi semplicissimi principj ,
non è più difficile a vedere per qual via l'intelletto no
stro si formi l'idea di causa.
Nelle nostre percezioni passive, come abbiam detto,
siamo conscii d'una azione fatta in noi, e della quale
non siamo noi stessi gli autori.
Ora se fossimo noi stessi gli autori , percepiremmo
quest'azione come cosa a noi appartenente, cioè perce
piremmo l'azione (cosa appartenente ad un ente) nel
l'essere nostro. La percezione intellettiva in tal caso
avrebbe tutte le condizioni a lei necessarie per avverarsi.
Ma ove la nostra coscienza somministra al nostro in
tendimento un' azione, e non gli porge l'autore della
medesima ; allora in che modo può egli percepirla ed
intenderla?
Un'azione non è un ente (sostanza); è una cosa ap
partenente ad un ente (i).
Abbiam veduto, che l'intelletto non può percepir cosa
alcuna , se non mediante la percezione di un ente, nel
quale percepisce la cosa.
Dunque l'intelletto non percepisce V azione, se non
riferendola ad un ente, che non conosce particolarmente,
ma di cui sente la necessità, a cui ella appartenga o
(i) San Tommaso deduce allo stesso modo come fo io l'idea di sostaDza.
Egli stabilisce in prima, che l'oggetto proprio dell'intelletto è l'ente, o il
vero comune (objeclum intellectus est ens, vel veruni communc). Quindi cava
la sentenza, che ogni cosa è conoscibile in quanto è, in quanto ha un'esi
stenza sua propria: che è ciò che io pure ho fermalo: essendo manifesta
mente assurdo, che quanto non è possa essere inteso : Unumquodt/ue aulem
inquantum habet DE ESSE, intantum est cognoscibile (S. I, XVI, ili ).
Di qui la naturai conseguenza, che non essendo la sostanza delle cose che il
loro essere particolare, forz'è che le cose s'intendano per la loro sostanza;
di che l'altra sentenza del santo Dottore , che la sostanza è l'oggetto del
l'intelletto, appunto perchè l'oggetto intelletto è l'eute, quidditas rei
est proprium objeclum intellectus ( S. I , LXXXV, v ). Di ciò poi medesi
mamente egli cava un'altra fina conseguenza, cioè cjie il vero, considerata
nelle cose, è la stessa loro sostanza, lo stesso loro essere; verum aulem quod
est in rebus, convertilur cum ente secundum subslanttam ( S. I , XVI, in);
perciocché essendo il vero delle cose la relazione eh' esse hanno colle idee
dell' intelletto , e queste idee non potendo essere che del loro essere , della
loro sostanza, perchè è questo l'oggetto dell'intelletto ; derivasi, che la verità,
■u quanto è nelle cose partecipata, sia appunto la loro eulilà, ovvero la loro
sostanza.
200
ARTICOLO V.
DISTINZIONE FRA SOSTANZA * CAUSA.
(1) Dopo di ciò, possiamo anche immaginare qualche altra cosa che operi,
diversa dalle sostanze: per esempio, un pensiero ne produce un altro; ma
questo è solo per astrazione, poiché la vera cagione di tutti i pensieri è
sempre la sostanza dello spirito.
(a) Supplendo quest'ente, noi non lo creiamo già, nè Io emaniamo da
noi; ma ci è dato: lo riceviamo fino dal primo momento del nostro essere,
come una visioue, verso alla quale noi siamo passivi, come fu già da noi
dimostrato.
(3) Dimando licenza al mio lettore di aggiungere altre poche parole sulla
dottrina di s. Tommaso: perciocché io reputo dover sommamente rilevare,
che si chiarisca il più che si possa. Conciossiaché appoggiando quel graude
maestro a' suoi principi filosofici delle sublimi dottrine riguardanti le cose
della religione, le quali interessano sopra tutte l' altre 1* umana natura, dee
importare assai che a queste s'aggiunga luce; il che dee avvenire, ove i
principj della filosofìa su' quali s'erigono, sieno perfettamente conosciuti.
Io dissi in qualche luogo, che non potea essere l'intelletto quella virtù
ohe universalizzava le sensazioni, ma che quella dovea esser l'anima stessa,
la quale per la sua unità e semplicità, sofferendo d'una parte le sensazioni,
dall'altra fornita essendo della visione dell'ente, congiungeva in sè queste due
cose, e in tal modo universalizzava le sensazioni, o sia formava le idee. Or
badando io attentamente all'uso che s. Tommaso fa dell' intelletto agente, mi
sono convinto, che quella virtù dell'anima che unisce le due cose, è ciò che
intelletto agente viene chiamato. Quindi l'intelletto agente corrisponde a ciò
che io chiamava la facoltà della sintesi primitiva, ola ragione in quanto fa
la prima sua operazione, che in quella sintesi primitiva feci consistere. E
s. Tommaso altresì nota una ragione particolare, che chiama anche forza,
cogitativa, la quale ha virtù di discendere alle cose particolari e di ordinarle.
mais, cosi egli, regil wfcrioves v'irei* et sic singulaj-ibus se inuniscet movente
201
noi la riferiamo all'ente, la consideriamo come una de
terminazione dell'ente: quindi è che pensiamo un ente
ratione particulari, quae est potentia quaedam individualis quae alio nomine
dicitur cogitativa (De Verit. X, v). Or, secondo me, la ragione, come di-
cea, è quella virtù dell'anima, per la quale, essendo essa anima in possesso
d'una parte delle sue sensazioni e fantasmi, dall'altra dell'ente , perchè
intellettiva, congiunge queste due cose, e produce la prima Sua operazione
detta da me sintesi primitiva. Il perchè questa forza dell' anima cbe abbrac
cia i due estremi, diventa la ragione particolare o la forza cogitativa di san
Tommaso, ove dalla parte de' particolari ch'ella regolar può si considera.
Ma dove si considera come una virtù di formar le idee nel modo detto,
o sia di universalizzare i fantasmi , allora corrisponde all' intelletto agente
del santo Dottore , il quale acconciamente viene da lui chiamato virlus
quaedam animae noslrae (S. I, LXXXIX , iv). E perchè si vegga più
manifesta la mente del santo Dottore sopra di ciò, si facciano le seguenti
osservazioni.
San Tommaso primieramente stabilisce, che le sensazioui come tali, o le
immagini corporee (phantasmata) non sono idee, ma per divenir tali è ne
cessario che l'intelletto agente le illustri; la quale illustrazione io ho mo
stralo non esser altro che l'universalizzazione delle medesime, la quale egli
fa aggiungendo loro il suo lume, che è la possibilità , o l'ente possibile. In
una parola, l'anima che prova una sensazione, considera quella sua sen
sazione come possibile a ripetersi un infinito numero di volte, e quindi
con la considera più nella sua individuale esistenza, ma nella sua esistenza
possibj/eo generale. Formae sensibile*, sono parole del sauto Dottore, — non
possimi agere in mentem nostrani , nisi quatenus per lumen inlellectus agentis
immalerialcs redduntur, et sic efficiuntur quodammodo homogeneae. inUlleclui
postlùdi, in quem agunt (De Verit. X, ti). Di che conchiude, che il principale
agente nella formazione delle idee non è già il senso o i fantasmi, ma bensì
é l'intelletto agente col suo lume innato. Ora io dico, se l'intelletto agente rende
immateriali i fantasmi (li universalizza), egli dee agire sopra di essi, e,
secondo la frase di s. Tommaso, convertirsi ad essi. Dunque quest'intelletto
agente non può esser che quella virtù cbe ha l'anima di veder nell'ente
che intuisce le sensazioni che soffre. Ma che la natura dell' intelletto agente sia
quella che qui io descrivo, s'intenderà meglio dal passo seguente, nel quale
s. Tommaso rende conto come sia possibile che l' intelletto agente faccia im
materiali £ universali ) i fantasmi j e tale possibilità egli la deduce appunto
dall'unità adel soggetto, o sia dell'anima, la quale d'una parte hn i fantasmi,
dall'altra la virtù intellettiva. Ecco le sue proprie: parole : « L'anima in-
« tellcttiva certo e immateriale in atto, ma è inpoteuza alle specie. DE-
« TERMINATE delle cose ».. Quell' invnaterialità in atto, dell'anima intel
lettiva significa appunto l'essere in un atto universale, l' essere sgombro
da limitazioni e determinazioni corporee : tapto è vero, che il santo Dottore
insegna, che noi conosciamo l'immaterialità dell'anima dalle sue idee, le quali
troviamo essere universali (De Verit. X, vm) e perciò immateriali.- Or egli
seguila in questo modo: » Ma i fantasmi per l'opposto sono certamente si-
« militudini di alcune specie in alto, ma immateriali pon sono, che in po-
•< lenza », cioè non sono universali, ma possono essere dallo spirito nostro
universalizzati. « Or dunque niente vieta che QUELL'UJVA E MEDE-
« SIMA ANIMA, in quanto è immateriale in allo », cioè in quanto ha
l'idea dell'essere possibile, « abbia certa virtù, per la quale renda jm-
« materiali in atto (universalizzi) i fantasmi, astraendo dalle condizioni* in-
Rosmiwi, Orig. delle Idee, Voi. II. 26
202
determinato (ecco l'idea di sostanza). Percepita colla
coscienza un'azione, noi la riferiamo pure all'ente, la
consideriamo come una sua determinazione: allora perce
piamo l'ente operante, cioè l'ente (che è già prima ve
duto da noi) unitamente all'azione che a lui si applica
(percezione acquisita): ecco l'idea di causa: la sostanza
è unente che produce un'azione che noi consideriamo come
immanente nella sostanza medesima (gli accidenti) (i): la
causa è un ente che produce un' azione fuori di sè
(l'effetto ).
Il bisogno di un ente che precede gli accidenti ci dà
propriamente l'idea di sostanza ; il bisogno di un ente
che precede l'ente cominciante ad esistere ci dà l'idea
di un altro ente che propriamente si chiama causa.
CAPITOLO V.
CEimo sull'origine delle idee di verità' , DI GIUSTIZIA
E DI BELLEZZA.
(i) Dell' idea di VERITÀ' come fondamento della logica, si parla in que
st'opera stessa, alla Sezione VI; l' idea di GIUSTIZIA come fondamento
della morale, fu trattata ne Principj della scienza morale (Milano, i83i);
e 1' idea di BELLEZZA come principio della callologia, nel Saggio sulf /-
dillio e sulla nuova letteratura italiana (Voi. I degli Opuscoli Filosofici,
Milano, 1827 ).
PARTE QUINTA
CAPITOLO I.
ARTICOLO I.
IRU DOTTRINA ESPOSTA INTORNO ALLA SOSTANZA I ALLA CAUSA.
ARTICOLO IL
ARGOMENTO DELLA SEGUENTE TRATTAZIONE.
310
delle sensazioni mettendo due sole cose, i." le sensa
zioni, 2.* un soggetto delle medesime (il noi), e
nulla più.
Nel realismo del senso comune si descrive il detto
fatto distinguendo quattro cose: i." le sensazioni, 2.* il
soggetto delle medesime ( noi stessi), 3." le qualità sen
sibili , 4-" e il soggetto delle qualità sensibili che vien
chiamato corpo: due soggetti e loro qualità in luogo
d' un solo.
Or noi dobbiam vedere quale de' due sistemi sia più
fedele seguace della natura : se nell' idealismo di Ber
keley si omtnettano forse de' fatti reali, e degni d'os
servazione ; o pure se nel realismo del senso comune
s'introducano per avventura dall'immaginazion popolare
de' fatti che non esistono.
Ma innanzi di procedere in questo esame, aggiungiamo
chiarezza maggiore alle nozioni di soggetto e di causa;
perciocché è dalla chiara intelligenza delle nozioni delle
quali si tratta , che dipende il veder chiaro, e trovare il
fermo ne1 dubbiosi argomenti.
ARTICOLO III.
DIFFERENZA FRA t' IDEA DI CAUSA E l'iDEA DI SOGGETTO.
(1) Non é necessario di osservare, che il padre non è causa intera del fi
gliuolo, poiché 1' uomo nè può fare esistere la materia, nè creare lo spi
rito umano. Tuttavia l'esempio può in qualche maniera servire a fare in
tendere ciò che vogliamo spiegare.
de' pensieri; egli è anche il loro soggetto: perciocché i
pensieri non hanno alcuna esistenza diversa dall'esistenza
dello spirito stesso, ma sì quella medesima : e perciò
non si possono concepire esistenti, se non si concepi
scono nello spirito che li produce e li tiene in essere;
quindi lo spirito è la loro causa, e nel medesimo tempo
il loro soggetto.
Quando dunque la causa produce una cosa interiore
a sè stessa, che non precide nè manda fuori di sè, sic
come accade de' nostri pensieri , che tutti si ritengono
nello spirito, nè possono da quello dividersi, perocché
sono certe sue modificazioni; allora la causa si dice esser
anche soggetto della cosa prodotta : mentre quando la
causa opera esteriormente , e manda la cosa prodotta
fuori di sè, sicché questa acquista una sua propria at
tività d'esistere, e perciò si concepisce da noi in sè
stessa, senza bisogno di concepir insieme la causa sua;
allora questa non è il soggetto della cosa prodotta , ma
solo la cagione.
La distinzione è vera e importante. Una sola osser
vazione si dee fare, ed è di non intendere tortamente
questa espressione : « quando la cosa prodotta sta nella
causa, e non esce di lei, allora la causa è anche sog
getto » .
Il vocabolo cosa, adoperato in questa proposizione,
può ingenerare equivoco.
Esso si usa più generalmente a significare quello che
esiste in sè: perocché ciò che viene prodotto in una
cosa, propriamente non è una cosa, ina è una modi
ficazione, o checchessia d1 una cosa. Ora avvertasi dun
que , che in quella proposizione , la parola cosa ha un
senso lalissimo ; ed indica tutto ciò che noi pensiamo
con una concezion nostra qualunque , sia che l' oggetto
di essa concezione abbia un'esistenza sua, o non l'abbia.
In questo secondo caso la concezione è una pura
astrazione: nè noi potremmo a prima giunta pensare la
sola cosa prodotta, senza la producente (soggetto); ma
noi il facciamo da poi, mediante l'astrazione: per la
quale noi scomponiamo il nostro primo concetto, e se
pariamo l'accidente dal soggetto , da cui non è per sè
separabile, e gli diamo un nome siccome fosse una cosa
per sè, sebbene tale egli non sia, che inquanto il fac
312
ciam noi un oggetto mentale della nostra esclusiva at
tenzione.
Presa quest'avvertenza , la distinzione fatta tra una
pura causa , e quella causa che è insieme soggetto alla
cosa prodotta , si troverà solida e necessaria.
ARTICOLO IV.
ULTERIORE INALISI DELL! SENSAZIONI.
5 I.
A che tende quest' nudili.
§ 3.
Nella sostanza corporea de' realisti non può concepirsi il solo atto
onde esistono le qualità sensibili, senza qualche cos'altro.
Un simile ragionamento prova, nel sistema de' reali
sti, che non si possono pensare qualità sensibili che
esistano per un atto che in esse puramente termini; ina
che quell'atto che le fa esistere, di necessità dee fare
esistere qualche altra cosa diversa da esse.
E di vero , le sensibili qualità de' realisti sono virtù
di produrre sensazioni nel soggetto senziente.
Ora egli è assurdo immaginare che queste virtù esi
stano, e nulla esista che si possa colla mente distinguer
da esse.
Analizziamo 1' idea di sensibili qualità esistenti , cioè
di quelle virtù che eccitano in noi le sensazioni.
2l6
Le sensibili qualità, secondo il concetto de' realisti ,
tutte emanano da una specie di centro , clic chiamiamo
corpo , e che si suppone il soggetto di quelle.
Ora se queste qualità sensibili così si uniscono, e ri
feriscono tutte ad un essere dal quale par torio, forz' è
che nella idea di. sensibili qualità entri quest'essere,
checché egli sia, il quale le unisce, e le fa riuscire in
sè, siccome in foco comune , per così dire: in tal caso
quella idea, oltre l'esistenza delle sensibili qualità, in
chiude l'esistenza di un'altra cosa necessaria alle me
desime perchè esistano a quel modo che noi le conce
piamo.
Alcuno risponderà , che questo ragionamento non è
fondato nella pura idea di qualità sensibili, ma nell'idea
di esse quale ci viene dall' esperienza: e che nella sola
e pura, idea di sensibili qualità , o di virtù atte a pro
durre in noi le sensazioni, non entra punto il centro,
il nesso che queste virtù fra loro congiunge. Esaminiamo
dunque anche le qualità sensibili per sè stesse : una qua
lità sensibile isolata. E dico, che anche in tale idea noi
pensiamo qualche altra cosa , oltre la sensibile qualità.
E in vero, questa sensibile qualità è una virtù di
produrre in noi una data specie di sensazioni.
Ora se questa virtù realmente esiste, noi dobbiamo
pensare, e pensiamo realmente, che oltre la relazione
eh' ella ha con noi , debba essere qualche cosa in sè
slessa. Questa sussistenza in sè stessa è diversa dalla
relazione che ha con noi , o sia dall' azione che in noi
esercita; poiché è impossibile pensare una pura rela
zione, o azione d'un ente, senza pensare l'ente stesso;
è impossibile che v' abbia fra due esseri relazione ed
azione, senza che v'abbiano i due esseri. Adunque se
quando io concepisco una potenza di modificar me, con
cepisco la relazione d'una cosa con me; forz' è dire,
che sia la cosa che ha questa potenza in su me. Sicché in
una potenza che mi modifica io penso i* qualche cosa che
esiste indipendentemente da me , a." una relazione ed
azione che questo qualche cosa in me manifesta.
Laonde l'analisi di questo concetto, « qualità sensibili
esistenti, o potenze di produrre in me le sensazioni »,
dà per risultameli Lo due idee, cioè i.* l'idea d'un ente
realmente esistente in sè, 2.* e l'idea di relazione con
noi, o azione produttrice delle sensazioni.
2I7
Le quali cose tutte fin qui ragionate, fur volte a
dichiarar il concetto di soggetto e di sostanza. Nè
dee rincrescere al lettore, che per tali dichiarazioni gli
si tardi la confutazione promessa di Berkeley; concios-
siachè solo dopo che il concetto di sostanza sarà a pieno
inteso , quella confutazione' gli potrà nascere spontanea,
e d' invitta forza fornita a piegare la sua persuasione.
Il perchè io dimando che mi si conceda, come è neces
sario , di continuarmi ancora un poco a perfezionare la
sposizione di quel concetto.
ARTICOLO V.
DISTRUZIONE FRA l' IDEA DI SOSTANZA E li' IDEA DI ESSÈNZA.
§ I.
Definizione dell' essenza.
Essenza chiamo ciò che si comprende nell' idea di
una qualche cosa.
L' idea è la cosa in quanto è da me pensata : ma que
sta cosa da me pensata, ov'io mi tolga dal conside
rarla in relazione colla mente che la pensa , e la con
sideri in sè medesima siccome possibile , è l' essenza
della cosa: questa dunque è tutto ciò che io penso nel
l'idea della cosa.
§ 2.
Essenza specifica, generica, c universale.
Le idee fornite di qualche determinazione sono di
due maniere, specifiche e generiche (i).
A queste corrispondono due specie di essenze; ciò che
penso coli' idea specifica di una cosa , è l' essenza spe
cifica; ciò che penso coli' idea generica, è l'essenza ge
nerica.
Oltre queste due alassi d'idee, fornite più o meno
di determinazioni, vi è un'idea universale, Videa del-
F essere ; ciò che penso coli' idea dell' essere si può
chiamare essenza universale.
fi) Ved. add. Parte II, cap. Ili, art. ti, Osserv. ni.
(a) Parte III, c. 1.
(3) Parte IV, c. III.
stesso rimangono (i) e susseguono a quell'atto primo,
non sono già tutte e sempre e necessariamente con quel
l'atto primo congiunte: ma posson talora mancare: od
essendo necessario che ve n' abbiano, non è però ne
cessario che v' abbiano queste anziché quelle. Così ne'
corpi sebbene sia necessario che v'abbia un colore (in
quanto è qualità sensibile ) , non è però necessario che
sia l'azzurro anziché il rosso od il giallo.
Or dunque, fino che io penso quell'atto primo (esi
stenza attuale dell'ente) con tutto ciò a cui egli si estende
come a suo termine, io penso quell'ente.
Ma quell'otto non è connesso necessariamente con
molle operazioni che a quello susseguono , e co' loro
termini, come dicevamo: e non estendendosi a quelle
e questi, quelle e questi posson mancare o variare, e
tuttavia l'ente sussistere ed esser pensato.
Così, se quest'ente che io penso è l'uomo, perchè
io lo pensi, basta che pensi ciò che si comprende in
questa definizione: « un animale ragionevole » (a); poiché
a questo si stende l'atto primo onde l'uomo sussiste;
senza che io pensi le sue determinazioni ulteriori : pe
rocché o non sono al tutto necessarie, come sarebbe ch'egli
8' abbia questo grado di scienza , un corpo di questo
peso e di questa estensione ; ovvero, se sono necessarie
prese in genere, per esempio ch'egli s'abbia nell'or
dine presente un peso, e una estensione ecc., sono già
comprese nella definizione.
Se io penso dunque tutto ciò a cui si stende 1' atto
primo dell'ente, penso l'ente.
Se non penso tutto ciò a cui si stende quell' atto
primo , non è più 1' ente l' oggetto del mio pensiero ,
della mia idea.
Mediante queste osservazioni sulla natura di molti es
seri, si conchiude, i.° che v'ha qualche cosa di neces
sario nell'essere perdi' egli sia pensato, 2.0 che v'ha
qualche cosa di non necessario nell'essere perch' egli sia
da noi pensato, 3.° e che questa necessità viene dall'or-
dme intrinseco dell'essere stesso.
(i) Voleudo fissare l'ordine delle idee specifiche qui sopra distinte, se
condo il tempo nel quale noi le riceviamo, esse tengono l'ordine seguente:
1.° Primieramente noi acquistiamo V idea piena di un essere imperfetto,
come sono gli esseri tutti nella natura; nè solo imperfetto, ma talora an
che guasto; conciossiachè è raro che gli esseri in natura non abbiano an
che qualche guasto, piccolo o grande.
2.° Di poi da quest idea piena, ina di un essere imperfetto, noi formiamo
Videa specifica astratta, e ciò facciamo astraendo da' guasti, e dalle imper
fezioni dell'essere, senza aggiungere perfezioni, in una parola da tutto ciò
che non è necessariamente connesso colla concezione del suo esistere. Que
sta astrazione è quella che ci dà l'essenza specifica dell'essere abbozzata per
così dire, quell'idea che noi uomini sogliamo più comunemente usare.
3.° In ultimo solamente , noi cerchiamo di ascendere all' idea specifica
completa dell'essere ( archetipo dell'essere); alla quale idea però noi as
sai di rado e assai malagevolmente pervenir possiamo ; perciocché troppo
difficil cosa è il poter conoscere tutto ciò che appartiene alla somma perfe
zione naturale o soprannaturale di un ente. Tuttavia noi tentiamo conti
nuamente di avvicinarsi a questa idea, per quella virtù del nostro spirito
che fu da noi nominata facoltà integratrice deW intendimento umano. E quan-
d' anco non perveniamo a quella idea , pure sappiamo eh' ella ci dee es
sere, e che ci potremmo pervenire, se a tanto valessimo ; e quindi almeno
come a termine possibile de' nostri pensieri a lei ci volgiamo.
Questo è l'orbine cronologico delle nostre idee specifiche; ma l'ordine
che hanno queste tre maniere d'idee giusta la loro natura è tutto il con
trario : l' idea specifica completa è la prima ; la specifica astratta è la se
conda ; la specifica imperfetta la terza. Anzi queste due seconde meglio chia
mar si possono , come dicevamo , modi di quella prima idea , anziché idee
da quella diverse.
222
di essi, la qùal noi ci formiamo staccandola dal giu
dizio sulla loro sussistenza.
§ 4-
Essenze generiche.
Le idee generiche si formano coW astrazione (i); mentre
noi abbiamo delle idee specifiche colla sola universaliz-
zazione (2).
L1 astrazione è una operazione moltiplice: si astrae in
diversi modi e in diversi gradi : quindi ella dà diverse
maniere di generi; e queste noi dobbiamo qui enumerare.
Tre sono i modi di astrarre, mediante i quali si for
mano tre maniere di idee generiche, e di essenze ge
neriche: queste chiamar si possono co' nomi di generi
reali, mentali, e nominali.
Ecco in che modo queste tre maniere di generi na
scono e si distinguon fra loro.
Io prendo 1' essenza specifica ( astratta ) , ed esercito
sopra di lei Yastrazione.
Quest'astrazione a prima giunta io posso farla in due
modi : poiché io posso astrarre qualche cosa da quel
l'essenza specifica, in modo che nell'idea astratta che
mi rimane io pensi però ancora un essere reale; ovvero
in modo, che io astragga ogni essere reale, e non pensi
più nell' idea che mi rimane , se non qualche cosa di
ideale, come l1 accidente. Se mi resta nella detta idea
un essere reale, quell'idea ( rispettivamente all'idea spe
cifica su cui ho fatto l'astrazione) è un'idea generica
reale. Se nell'idea non mi resla'più che un essere men
tale , in questo caso l'idea è generica mentale, poiché
non esprime e rappresenta se non un essere astratto ,
che non esiste fuor della mia mente.
Togliamo un esempio. L'idea di uomo è un'idea spe
cifica astratta.
Io posso esercitare sopra questa idea l' astrazione in
due modi.
§ 5.\
Definizione più perfetta"della sostanza.
(i) L'aver confuso l'essere delle cose colle cose stesse, cioè colle loro «-
senze, o anzi 1' aver ommesso uno di questi due elementi , produsse due
false nozioni di sostanza, che ingenerarono due opposti errori in filosofia,
voglio dire l'errore di Platone e l'errore di Spinoza.
Platone tolse l' essenza della cosa per la sostanza, e non avvertì che l'a
menza della cosa non è ancora che la cosa possibile , e nulla più , la cosa
pensata, ma non la cosa reale e sussistente. ludi rovesciò nell' errore, die
tutte le essenze fossero sostanze: di che i suoi Eoni, o Dei minori. Egli
non avea bene distinto l'essere possibile delle cose, dall'essere reale e svi-
sistente : il primo è l' atto dell' essere solamente pensato ; il secondo è la
sussistenza stessa dell' essere, la quale non si percepisce con uua idea, che
mostra la sola essenza , ma si con un giudizio , onde si produce il verbo
della mente.
Spinoza all'incontro tolse Y essere sussistente, per la sostanza: e quindi
credette che sostanza non fosse se non ciò che essenzialmente sussiste ,
1' essere necessario.
Ma il vero concetto della sostanza dovea esser formato da tutti e due
gli elementi indicati , i quali non si possono insieme confondere, cioè i ° dal
l' essenza della cosa ( cosa possi bi le , cosa pensata nell'idea ), a." e dallauo
dell' essere onde quella essenza sussiste ( percepito nel verbo ).
Quindi le essenze sole non sono sostanze sussistenti., come volea Plato
ne : né l' essere solo è l' unica sostanza, come volea Spinoza. Ma bensì tutte
quelle essenze le quali hanno 1' atto reale dell' essere sono sostanze : 1 es
senza poi che non ha , ma che è lo slesso atto sussistente dell' essere, è la
sostanza necessaria: la quale non appartiene propriamente al genere (men
tale ) delle sostanze; appunto perchè non avendo in sè distinzione tra
l'essenza e l'essere, non ha nessuna differenza onde dalle altre specie si
possa distinguere e specificare, è interamente dall'altre diversa e separala,
e quindi fuori del genere in cui l' altre convengono.
aa5
tolo precedente), questo non può avere un'esistenza pu
ramente relativa alle sensazioni stesse, ma dee essere an
cora qualche cosa che in sè prima sussista , e quindi
poi valga altresì a ricevere e sostenere le esterne sen
sazioni (i).
Similmente, se esiste un soggetto delle sensibili qua
lità, diverso dal soggetto delle sensazioni (siccome vo
gliono i realisti), questo dee essere un'attività che non
s'estenda solo a dar l'essere e la sussistenza alle sensi
bili qualità, ma prima di ciò dee essere qualche cosa
egli slesso, e quindi poi aver quelle attitudini che sen
sibili qualità si chiamano, come sue potenze Dell'esser
suo radicate.
Ma non conlento io di avere in tal modo dimostralo
che la sostanza, o il soggetto degli accidenti, era qual
che cosa di esistente in sè, poiché era l'atto dell'esistere;
ho voluto ricercare di più, onde avvenisse che le di
verse sostanze si specificassero, e l'una dall'altra si di
stinguessero.
E trovai ciò ne' termini a cui finiva quell'atto del
l' essere.
Di che ho perfezionato maggiormente la definizione
della sostanza , riducendola alla seguente formola uni
versale: « la sostanza è l'atto onde sussiste l'essenza
della cosa ».
E per rimuovere ogni equivoco, ho spiegato a lungo
che cosa era V essenza della cosa: e secondo i varj si
gnificati ch'ella riceve, i varj usi della parola sostanza :
fra' quali tutti, ho fatto scernere quello che è il proprio
della voce sostanza , determinato dall' essenza specifica.
Dalle quali dottrine seguitò, che di due elementi, di
visibili coli' astrazione della mente, si componea la so
stanza, cioè i." dell' atto di essere, a.* e dell'essenza che è.
Ed ora, spianata innanzi la via, ripigliando il corso
del ragionamento, io debbo tornare al mio assunto, quello
di ragionare delle sostanze speciali, e di rifiutare Berkeley,
siccome ho fatto di Hume.
Al qual fine ci giova l'aver dimostrato, che una so
stanza soggetto delie sensazioni ( uu noi ) esiste. Rimane
ARTICOLO VII.
ESISTE UN NOI SOGGETTO PERCIPIENTE.
ARTICOLO Vili.
IL CONCETTO DEL NOI, SOGGETTO PERCIFIENTE, X INTESAMENTE DIVERSO
DAL CONCETTO DI SOSTANZA CORPOREA.
•3 i.
Si danno in noi due serie di fatti, l'una attiri
e l' altra passivi rispetto a noi.
Questo vero ognuno può osservarlo in sè stesso. Na
scono in noi certi effetti senza di noi, nascono degli ef
fetti di che siamo noi stessi la causa.
Quando io deliberatamente voglio, e dietro la mia
volontà fo quello che voglio ; sento di muovermi per
una forza mia propria, interiore alla mia natura: per
ciò allora son io la cagione di quelle azioni; in esse io
faccio, e non patisco.
Quando succede in me qualche effetto senza che io il
voglia, e in contrario ancora talvolta alla mia vulontà,
allora io patisco, e non faccio.
Non è già, che quando io patisco , non sia io quegli
che patisce; nè che nel mio patire non ci abbia veruna
rooperazione da parte mia: ma certo è, che sebbene
Tazione si faccia in me, ed io da parte mia metta tutta
quella disposizione che è necessaria perdi' io la riceva;
tuttavia quella attività che produce la delta azione in
me, non è mia; nè posso dire a buona ragione, che al
lutto io medesimo agisco. Nè questo è il luogo d'inda
gare più addentro la natura della passione a cui e noi
ed aliti esseri van soggetti) basta qui di rilevare il fallo,
il quale è indubitato, cioè che questa passione esiste,
i
e che è diversa dall'azione fatta per nostra spontanea vo
lontà; ciò è sufficiente all'uopo nostro, cioè a dover ri
conoscere in noi due serie di avvenimenti, nell' una de'
quali noi ci diciam con ragione attivi, nell' allea ci di
ciamo con ragione passivi.
Fra gli avvenimenti passivi sono le sensazioni, clie
ci vengono dal di fuori di noi; e queste son quelle che
principalmente noi abbiamo ora in mira.
Convien dunque riconoscere le sensazioni corporee
come fatti che avvengono nel nostro spirito, ne' quali
esso è principalmente passivo, cioè soffre, e non fa.
Così se io mi sto cogli occhi aperti e volti rincontro
al sole, egli è per poco impossibile ch'io non vegga l'ab-
iagliante splendore, e non senta i raggi acuti ch'entrano
nelle mie pupille: in mezzo di una strepitosa banda mi
litare, io udrò anche contro mia voglia il suono delle
trombe e de' tamburi, ove pure non m'abbia gli orec
chi otturati: punto da un ferro o da uno slecco, io ad
doloro, sebben non piacciami addolorare, poiché a nes
suno è grato il dolore: e per dir tutto in un molto,
ov' io non fossi passivo nelle sensazioni che nel mio
corpo si suscitano, io potrei a mio grado cacciar da me
tutte le sensazioni moleste, aver tutte le dilettevoli, non
sofferir mai, non morir mai.
E reco quésti esempj estremi, sebbene anche di men
forti potesser bastare , contro coloro che fossero presti
di rispondermi, poter 1' uomo per forza di astrazione o
alienazion di mente fuggire dall' esser presente al dolore
e all'altre non volute sensazioni: di che conchiudono,
dover avvenir queste mediante un'azione dell'uomo stesso,
il quale assetta sè stesso di sua volontà a ricevere quelle
modificazioni sensitive.
Io rispondo prima, che 1' uomo non può torsi ad ogni
dolore, poiché se ciò fosse, sarebbe atto a farsi immor
tale, o a morire senza un affanno al mondo, ov'anche
una palla d'archibugio gli passasse il cuore; il che è
smentito dalla sperienza.
Di poi, 1' astrazione e alienazion di mente è mai sem
pre un cotale sforzo da parte noslra ; è un' azion fa
ticosa e violenta: talora essa è di tal travaglio, che ci
è impossibile il reggervi. Ora a die mai tanta fatica ?
certo a ritirarci, e fuggire dall'azion del dolore , o di
alcun' al Ira sensazione che non vogliamo.'
228
Dunque usiamo in questo sforzo 1' attivila nostra a
sottrarci da una forza che ci vien contro e ci vuol far
«offerire. Ma dov'è bisogno d' una forza a impedire un
effetto, ivi è manifestamente la forza in contrario che
tenta produrlo: imperocché la reazione suppone l'azione,
e la forza che elide suppone quella che viene elisa. L'at
tività dunque colla quale noi evitiamo tiilora l'esser pas
sivi, è prova^della nostra passività.
Finalmente rimane anco a vedere, se Io sforzo che
noi facciamo per torre noi slessi d'innanzi all'impres
sioni sensibili, impedisca veracemente in noi la sensa
zione: ovvero se non sia per avventura che una rimo
zione dell' attenzione intellettiva da ciò che noi pur pa
tiamo, sicché sebben noi patiamo nel senso, tuttavia noi
non ce ne accorgiamo nell'intelletto (non percependola
nostra passione intellettivamente), e quindi noi sappiam
dire a noi stessi; perocché sospesa l'attenzione, noi non
pensiam* più, né giudichiamo, di ciò che sentiamo; e
questo è ciò eh' io credo, sebben sia duro ad intendersi a
tutti coloro che non sono pervenuti a ben discernere le
modificazioni del senso dalle intuizioni dell' intelletto
che in noi sono intimamente congiunte.
§.a.
Della serie de' fatti attiTi noi siamo la causa c il soggetto,
de' passivi il soggetto e non la causa.
§ 3.
Gò die ti chiama corpo è la cagione prossima delle nostre sensazioni esterne.
Qui non ci bisogna una completa e finita definizione
del corpo: ci basta conoscere qualche sua proprietà es
senziale per modo, ch'egli non si possa cqnfondere con
altra cosa.
Ora a questo fine provvede sufficientemente la defini
zione che dalle cose dette deriva.
Chiamo dunque col vocabolo corpo « il soggetto delle
sensibili qualità », cioè di quelle virtù che producono
in noi le sensazioni; quindi corpo è il soggetto dell'esten
sione, della figura, della solidità, del colore, del sa
pore ecc., in quanto queste qualità sensibili trovansi ne'
corpi e non in noi, e perciò nelle virtù di produrre in
noi le sensazioni corrispondenti (i).
punto la naturale veracità delle loro parole, cioè che i vocaboli sien fedeli
espressioni di quanto nella loro mente concepiscono, a.0 Se la distinzione
che fa Reid realmente esiste fra sensazioni e percezioni delle sensibili qua
lità, come può egli provare che agli uomini sia inutile 1' esprimerla in pa
role? e che nulla loro noccia il confondere quelle due cose insieme? Una
tale confusione ingenererebbe infinito numero di equivoci ; perciocché ogni
qualvolta si parlasse di ciò che noi soffriamo, potrebbe intendersi dei
corpi , e non di noi, e viceversa: ciò che dovrebbe poter essere di grande
sconcio all'intelligenza, e alla mutua conversazion degli uomiui fra loro.
Nel sistema di Galluppi si trova una ragione più solida di quelPacco-
munamento di un nome solo a due idee. L'italiano filosofo sostiene, che
ogni sensazione sia di natura sua oggettiva; e che quindi noi non passiamo
già dalla sensazione a pensare alla qualità sensibile corrispondente nel corpo
esterno per un salto, e come dice Reid, per una suggestione della natura;
ma egli , negando a Reid questo passaggio arbitrario , stabilisce una con
nessione essenziale fra la sensazione e la qualità sensibile, sicché queste
due cose sieno in sè indivisibili, formino una cosa sola, quella eh' egli
chiama sensazione oggettiva. Una simile teoria è molto ingegnosa , e come
dicevo, spiega eccellentemente l' accomiroamento del vocabolo alle due cose,
sensazione , e qualità sensibile; o a dir meglio , quel vocabolo noti segne
rebbe che una cosa sola , e una cosa sola sarebbe in natura , che noi per
l'analisi e astrazione poi divideremmo e scomporremmo in due.
Per altro io oso dire, che il valentissimo Galluppi, rilenendo il linguag
gio di Reid sull' ambiguità de' vocaboli in discorso, non mautienc latta la
proprietà di espressione che far il, potrebbe coerente col suo sistema.
- Questa difficoltà nasce, cos'i egli, — dall' ambiguità del vocabolo sapore.
« Un tal vocabolo può denotare una sensazione dell' anima , e l'oggetto di
x questa sensazione, il quale è una qualità del corpo saporoso : è impossi-
i bile che preso per sensazione denoti una qualità esterna , nell' atto che
« il corpo saporoso si riguarda come privo di sensibilità ( Saggio filns,
sulla critica della conoscenza , L. II. c. vi, 2 r»3 ). Oia a me pare , che
avendo egli molto ingegnosamente stabilita la sensazione oggettiva, cioè una
sensazione composta ad un tempo di soggettivo e di oggettivo ( meglio sa
rebbe, in vece che oggettivo , dire estraneo al soggetto ) egli avrebbe po
tuto negare a Reid , che in que' vocaboli vi avesse alcuna ambiguità , c
affermare in vece, che la loro natura è di significare quell'unica sensa
zione che è insieme soggettiva e oggettiva: di che viene, che ora acconcia
mente applicar si possano al soggetto, ora all' oggetto.
Un' altra osservazione non posso tacer qui sul sistema di Galluppi , ed
è questa. Io ammetto la sensazione oggettiva di Galluppi ( sebbene la pa
rola oggettiva non sia esatta ) , accompagnandola però di alcune dichiara
zioni, come si vedrà nel progresso di questa Sezione. Ma pai mi che il
Galluppi, nello stabilire quella *ua opinione , sia trascorso un passo, al
quale io con lui non mi accompagno , ed ecco qual è.
La teoria intera di Galluppi pone due proposizioni.
La prima: « tutte le sensazioni sono' oggettive », cioè io percepisco un
fuori di me, ma lo percepisco intimamente unito col ME, nè diviso dal MG
il posso percepire.
La seconda: « la percezione del ME è simultanea a quella delle sue ma-
di Reazioni » , cioè io noti posso percepire me stesso isolatamente dalle mo-
diiicazioui mie ( le sensazioni esterne )., ■• - .
aSi
corpo « la causa prossima delle sensazioni, e il soggetto
delle qualità sensibili ».
§4-
Il nostro spirito non e corpo.
Egli è un corollario delle proposizioni precedenti.
Poiché se il corpo è la causa prossima delle nostre
sensazioni esterne (1), e se le nostre sensazioni esterne
sono di que' fatti che avvengono in noi senza di noi,
cioè di quelli di cui la causa non siamo noi , ina noi
siamo solo il soggetto paziente (2); forz'è conchiudere,
che noi non siamo corpo.
E poiché ciò che esprime la parola noi è il sog
getto senziente e pensante, perciò questo soggetto è una
costanza interamente diversa dalla sostanza corporea.
Per un tale progredimento d' idee noi ci formiamo
Videa distinta del soggetto noi, diverso al tutto dal
corpo, e gli diamo quindi la denominazione di spirito»
ARTICOLO IX.
SEMI-LICITA* DELLO SPIRITO.
(3) Che io senta più cose fuori di me, questo è un fatto, eiianHiochè
non si faccia nella molliplicilà consistere la natura del corpo j la quale dove
cuusista, non fu ancora da noi trovato, nè investigalo.
Rosmini, Orig. delle Idee , Voi. ILt 3o
a34
« può slare senza il moto di un altro, e di tutto l'ar-
« bore. Tale è il sentimento di un fuor di me.
« Ma vediamo quale è il sentimento del me, che
« percepisce il fuor di me. La coscienza del raziocinio
« è la percezione del me che ragiona (i): la percezione
« del me che ragiona è la percezione del me che dice
« dunque: la percezione del me che dice dunque, è la
« percezione del me che giudica nell' illazione e nelle
« premesse; l'io dunque percepito o sentito dalla co-
« scienza nel raziocinio, è l'istesso io in ciascuno de'
« tre giudizj di cui si compone il raziocinio. L'io che
« ragiona è dunque nel sentimento lo stesso io che giu-
« dica. Ma l'io che giudica è l'io che dice è, o non è;
u in conseguenza è l'io che percepisce il soggetto ed
« il predicato del giudizio. L1 io è dunque uno nella
« nozione , nel giudizio, e nel raziocinio.
« 11 soggetto di un giudizio può avere una composi-
« zione fisica , ed una unità logica : per esempio, allora
« che dico : il circolo ha i raggi uguali , il soggetto ha
u una composizione fisica , poiché il circolo è un mul-
« tiplice (a),- ma ha un'unità logica, perchè il soggetto
« del giudizio è uno , ed il pensiere che giudica dee
« abbracciare tutto il circolo; il pensiere è dunque quello
u che rende uno il circolo; io chiamo questa unità del
« pensiere unità sintetica , cioè unità della sintesi. I*
« coscienza percepisce dunque l'unità sintetica. Ma per*
« cepire l'unità sintetica è percepire il me che sinU-
« sizza (3) ; percepire il me che sintesizza si è perce-
« pire il me che riunisce la varietà delle percezioni del
« soggetto logico (4). L'io dunque sentito nell'unità sin-
a tetica della percezione è uno , malgrado la varietà
« delle percezioni che esso riunisce. L'io dunque che
(i) O almeno cerio è che noi percepiamo de* corpi molliplici ; q""1»
basta per provare 1' unilk dello spirilo che li percepiste.
« — Una scienza è una catena di raziocinj diretti a darci
« la cognizione la più distinta che sia possibile di un
« oggetto quale che siasi: i raziocinj sono una serie di
« giudizj: senza la sintesi immediata del giudizio, eia
u mediata del raziocinio, la scienza umana non sarebbe
« possibile: ora è necessaria l'unità sintetica nel razio-
« cinio: senza il dunque non vi sarebbe raziocinio, come
« senza l'è, o non è, non vi sarebbe giudizio: il dunque
« in un raziocinio lega in un'unità di pensiere le di-
« verse parti di un raziocinio, e l'è o non è lega nel
« giudizio in un'unità di pensiere le sue diverse parti.
« Ora la coscienza dell'unità sintetica del pensiere com-
u prende, come abbiamo spiegato, la coscienza dell'unità
« del soggetto pensante: quest'unità del soggetto pen
ti sante io la chiamo l' unità metafisica del me. L'unità
* sintetica del pensiere suppone dunque necessariamente
«l'unità metafisica del me- La prima non potrebbe
« aver esistenza senza la seconda. Questa unilà meta-
« fisica del me è la semplicità o spiritualità del prin-
« cipio pensante. Senza di essa non sarebbe possibile
« la scienza , poiché la scienza suppone la riunione
«di tutti i pensieri da' quali si compone; ed essendo
« un pensiere distinto dall'altro, come si farebbe l'unione
« di questi pensieri senza un centro di unione (i)? Ove
« s' incontrerebbero i diversi raggi del sapere , senza
«un centro che li riunisca? L'agente che costruisce è
« necessario che abbia tult' i materiali della costruzione.
« Vio di Newton che ritrova il calcolo sublime, è lo stesso
« io che ha appreso la numerazione aritmetica. Senza
« r unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità
« sintetica del pensiere, e senza l' unità sintetica del pen-
* siere non sarebbe possibile alcuna scienza per l'uomo» (2).
(1) Questo centro d' unione è però anche un oggetto logico, fondamenta
della stessa semplicità del me che l'intuisce.
(2) Galluppi, Ulcmenli di Fthiofia, T. lJI,Cap. IIf; g xxiy-iutY.
a38
CAPITOLO «...
ARTICOLO I.
VIA DI MOSTRARE h' ISISTENZA Di' CORPI.
ARTICOLO 0.
V'iti UNA CASSA PROSSIMI DELLE NOSTRE SENSAZIONI.
ARTICOLO IH.
LA CAUSA DIVERSA DA NOI È UNA SOSTANZA.
(1) Queste definizioni son tolte, come dicevamo, dal significalo che l'uso
comune aggiunge alla voce corpo.
(5). Cap. 1, art. vili. (5) Art. II.
(3) Ivi. (6) Parte IV, c. IV.
(4) Parte III , c. II. 1 (7) Cap. I, art. vai.
a4o
Lo sperimentare in noi una azione della quale noi non
siamo la cagione, è il medesimo che Io sperimentare
una energia che ha virtù di modificarci.
Questa energia è una sostanza operante che si chiama
corpo (i).
L'azione dunque che noi proviamo dal corpo su noi,
non è l' effetto di una potenza particolare del corpo,
ma del corpo stesso; poiché appelliamo corpo ciò che
appunto così ci modifica; nè riconosciamo altre potenze
coordinate in questo agente: e quindi quel!' azione è
della stessa sostanza corporea.
Ma l' azione di una sostanza operante è sempre inti
mamente congiunta colla sostanza , perchè la forza o
energia di un ente è inseparabile e indivisibile dall'ente
stesso: giacché la forza che ha un ente di agire, non è
che Io stesso ente considerato nell'azione che esercita.
Dunque la sostanza cagione delle nostre sensazioni,
è immediatamente con esse congiunta (2).
ARTICOLO V.
Là CkVSK DELLE NOSTRE SENSAZIONI È CN ESSERE LIMITATO,
L'energia o forza che produce in noi le sensazioni, e
che noi proviamo in noi slessi, è limitata: poiché l'a
zione che fa in noi, della quale noi non siamo la causa,
è limitata.
Ora questa energia è quella che 'dà l'idea della so
stanza: o sia, che è il medesimo, noi percepiamo in
quella energia o forza, l'ente distinto da noi, cagione
delle sensazioni.
Quindi come è limitata quella energia che noi espe
rimentiamo, così è limitato l'ente nel quale noi la
concepiamo: perocché quest' ente per noi non è che
quella stessa energia pensata come esistente.
L* ente dunque pensato da noi come sostanza e causa
prossima delle sensazioni , è limitato.
ARTICOLO VII.
IE60M DA TUIE»SI NEIL* USABE Ds' VOCABOLI, PER NON CADERE IN ERRORE.
ARTICOLO Vili.
IL CORPO È OR ESSERE LIMITATO.
ARTICOLO IX.
LA CASSA PROSSIMA DELLB NOSTRE SENSAZIONI NON É DIO.
ARTICOLO X.
I CORPI ESISTONO, E NON SI TOSSONO CONFONDERE CON DIO.
La causa prossima delle nostre sensazioni è una so
stanza esistente (7).
Questa sostanza si chiama corpo , e non è Dio (8).
Dunque esistono i corpi, e non si possono confonder
con Dio.
ARTICOLO XI.
CONFUTAZIONE DELI.' IDEALISMO DI BERKELEY.
Questa dimostrazione dell'esistenza de' corpi è contro
Berkeley.
11 sofisma di questo scrittore cominciò nell' aver fal
sala l'idea che viene significata col nome corpo.
Bastò , perchè quella vaga facoltà fosse espulsa , e l'origine delle cogni
zioni si rivocasse alla facoltà più positiva , la sensazione. Questa mutazione
parve nulla , e tale che il sistema di Locke medesimo la dimandasse. Che
ne fu ? Un rovesciamento totale : un sistema nuovo. Poiché Locke ammet
tendo in qualche modo la riflessione , movea da un interno testimonio ;
tolta questa , e tenuta sola la sensazione, movea la filosofia tutta dall'ester
no, e Dell'esterno finiva. Quindi non seppe che si facea Condillac, ridu
cendo la filosofia alla sensazione : si credea l' interprete di Locke , e mu
tava interamente 1' indole e la natura del sistema lockiano senza avve
dersene.
A' nostri giorni, che si guardano le dottrine di Locke e di Condillac
no po' più di lontano , e perciò non con quella specie di miopia colla
qtaìe si guardavano trenta o quarantanni fa, apparisce tutta la differenza
che parte que' due autori in fra loro.
■ Basta riscontrare le prime faccie del Trattato delle sensazioni ( ecco
m come si scrive in Francia ) col principio del secondo libro del Saggio
m sult Intelletto umano, per convincersi dell' illusione singolare che pali
« Condillac in credendosi il discepolo di Locke. Certo nelle due opere si
« trovano spesso le stesse forinole; né Locke malgrado del suo buon
■ senso , né Condillac malgrado del suo amore per la chiarezza, si sono
m bene intesi ; ma il loro punto di veduta è al tutto diverso. Locke si
m serra in sé stesso, e lascia venire a sé le immagini dal mondo esteriore ;
« Condillac si colloca al di fuori al fianco della sua statua, e le compone
« un'anima colle sensazioni che le dà successivamente. Ciò che è certo per
h Locke , che non ammette discussione , di che egli nè pur parla, è l'io;
« ciò che è incontrastabile per Condillac, ch'egli non mette al lutto in
« questione , è il mondo esteriore. L' uno s' occupa tutto a sapere come
•> P lo conosce il mondo esteriore; 1' altro a scuoprire come il mondo
■ esteriore operando sugli organi, sviluppa nel senso della statua ciò che
« egli chiama i fenomeni dell' intelletto e della volontà. Locke sciogliendo
« la sua questione dichiara die noi non conosciamo il mondo esteriore se
i non per le idee di questo mondo che i sensi ci trasmettono s Condillac
« risolvendo la sua, protesta che non v' è nulla nella statua che non sia
« una trasformazione della sensazione. L' uuo è sempre di dentro , l'altro
i sempre di fuori , rome al cominciamento del loro viaggio. Locke non
• consente di sortire per vedere i corpi: vuole al tutto trovarli nel fallo
« interiore delle idee ; Condillac non consente di entrare , a fine di pi-
« gliare conoscenza de' fenomeni dell'anima : egli s' ostina a dedurli dal
« fatto esterno della sensazione » ( Le Globe , 3 Janvier 1839 ).
Il difetto della dottrina lockiana diede occasione a Condillac di perfezio
narla , cioè di perfezionare quel difetto; e quel difetto perfezionato rovesciò
da capo a piedi la dottrina lockiana. E si noti , che .vedesi manifestamente
come la dottrina lockiana invitava al pensiero di ridurre tutte le idee alla
sensazione in queslo, che lo sviluppo della medesima fu uno stesso tanto
io Inghilterra che in Francia, sebbene si lavorasse senza inlelligeuza scam
bievole , e in Inghilterra comparve la filosofia della sensazione allo stes.su
modo e allo slesso tempo che comparve in Francia.
Quali furono le conseguenze della filosofia della sensazione?
In Inghilterra ed in Francia si operava senza scambievole intelligenza ,
come dicevo: e conferma di ciò sarà questo, che venuti là e qua allo slesso
risullato , alla filosofia della sensazione , di questo puuto coinuuc partendo
si divisero e s' allontanarono per due opposte vie.
a46
l'attenzione di Berkeley si restrinse in sulle sostanze
corporee.
Ma qual poteva essere l' idea che Berkeley avea de'
corpi , se nel suo animo non eran presenti che i soli
sensi?
Ecco la sua definizione : « Le cose sensibili non sono
« altro ch« delle qualità sensibili, o sia un accozza-
u mento di qualità sensibili » (i).
Ora per qualità sensibili egli intendeva le stesse sen
sazioni. Dopo ciò era facile dimostrare , che « le cose
sensibili sono in noi » ; poiché certo le sensazioni sono
in noi.
L'idealismo di Berkeley negava adunque le sostanze
corporee , poiché partiva da una filosofia , che avendo
tolto dall'uomo l'intelletto, e lasciati i soli sensi, avea
da lui cacciata quella facoltà appunto che le sostanze
percepiva. Non era dunque l'idealismo, che involgeva
lo scetticismo; era il principio onde l' idealismo di Ber
keley nascea, che producea contemporaneamente lo scet
ticismo di Hume: di che se Berkeley ammetteva altre
sostanze, questo era un resto dell'antico buon senso,
che non si distrugge interamente d' un tratto.
Le sostanze c le cause però doveano trovarsi nella
niente di Berkeley isolate , siccome i pregiudizj che
stanno in noi senza prova né legame cogli altri nosl"
ARTtCOLO XII.
EU LESSIONI SULLA DATA DIMOSTRAZIONE DELL* ESISTENZA DE* CORPI.
ti) Tal carallere è relativo alla nostra mente, ma è fondalo nella natura
(Itila cosa. L' altra definizione da me data riguarda la cosa stessa : « l'atto
oidc sussiste l'essenza della cosa », che si può anco cosi presentare:
« l'essenza della cosa fornita dell'atto d' esistere ».
248
temente dalla prima causa (i). È necessario solo, perchè
una cosa si dica sostanza, che noi possiamo concepirla
da sè , in separalo dalla prima sua causa : siccome cosa
che non può, è vero, esister ai tutto per sè, ma che
ha però una cotale esistenza sua propria , per la quale
si fa atta ad esser da noi pensata isolatamente, senza che
nel suo primo concetto entri qualche altro elemento, da
essa distinto.
2.* Parimente, perchè una cosa s'appelli sostanza,
non è necessario ch'ella sia tale, che riflettendo io sopra
lei, e formandomene un concetto più pieno, più accu
rato e profondo, io trovi ch'ella non possa esistere, e
quindi che non possa comprendersi interamente, senza
ricorrere alla cognizione di qualche altra cosa , come sa
rebbe della sua causa. Certo, non v'ha cosa, come dissi,
che si possa comprendere senza la cognizione della sua
causa ultima : ma ciò non le toglie che gli uomini non
la chiamino sostanza: poiché noi possiamo formarci di
essa « una prima concezione », senza bisogno d'altro
fuori di essa stessa, e col primo intuito del nostro pen
siero possi a m vederla pur sola siccome un essere: in
una parola, il primo suo concetto è indipendente da
ogn' altro concetto; ci si presenta come un' essenza in
comunicabile, per così esprimermi, e dall'altre mental
mente distinta.
Or non dobbiamo noi aggiungere al vocabolo sostanti
un valore più esteso di quello che vi aggiunge il co
mune uso del favellare, poiché con ciò noi apriremmo
la via a falsi ragionamenti ed errori infiniti.
I corpi dunque sono sostanze, dall'istante ch'essi
sono cose atte ad essere da noi concepite colla prima
nostra concezione sole , isolate , e per modo che con
nessun' altra cosa, cioè nè col nostro spirito nè con Dio
si possan confondere.
Gli accidenti all'opposto non sono sostanze; poiché
noi colla prima nostra concezione intellettuale non li
possiamo concepir soli, ma li concepiamo dopo aver con
fi) Quando si dice che solo Dio veramente esiste , che l' altre cose non
esistono, si viene a dire che Dio è la sola sostanza; ina il dello sarebbe
empio , se non si desse un altro senso in tale proposizione alla parola so
stanza i cioè se non s* intendesse tal sostanza , dove l' alto dell' essere e
l'essenza sono la medesima cosa.
cepito altra cosa a quelli congiunta nella quale esistano,
un ente a cui s'appartengano. Or tutto questo non ci
avviene de' corpi: giacché la loro percezione abbiatn ve
duto che finisce in essi , e non chiama altro.
Ecco pertanto dove sta il difetto di Berkeley.
In prima egli non ha fatto un'analisi diligente della
sensazione : e perciò non ha distinto in essa que' due
elementi, i." la forza che agisce in noi (verso la quale
noi siamo passivi), comune a tutte le specie di sensa
zioni, a.# i varj termini o effetti di quella forza , le
varie sensazioni.
Noi proviamo e sperimentiamo l' una e l' altra di
queste cose, la forza, e i suoi diversi effetti; e mentre
sentiamo quella la medesima in tutte le sensazioni, sen
tiamo pure diversi questi , a tenore della varietà de'
mezzi ed organi ne' quali e pe' quali quella forza opera
su di noi.
Ora se la varietà de' termini ed effetti di questa forza
(le sensazioni in quanto variano runa dall'altra) non
si può concepire intellettivamente senza la forza mede
sima che li produce, questa forza poi non si pensa senza
l'ente operante (pel principio di sostanza (t) ); noi
siamo già pervenuti alla sostanza, poiché dire un ente,
è dire una sostanza.
Riducendo dunque a poco tutto ciò che abbiam ve
duto circa l'origine delle nostre idee de' corpi,
l.* Noi ci procacciamo la percezione de' corpi con
quell'atto col quale noi giudichiamo ch'essi sussistono (a).
a." Analizzando questa percezione , noi troviamo ch'ella
si compone di due elementi, che sono
a) giudizio sulla sussistenza del corpo, e
b) idea del medesimo corpo.
3.* Analizzando l' idea del corpo, troviamo che in tre
elementi si dislingue, cioè
a) idea di esistenza , poiché noi non possiamo con
cepir nulla, e perciò né pure i corpi, se non pensiamo
la loro esistenza;
b) determinazione primaria dell'idea di esistenza, che
è ciò che si chiama essenza della cosa; sicché nell'idea
(i) Parte III , c. II. (a) Parte II, c. IV, art. tv.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi IL 3a
a5o
di corpo, oltre l'idea di esistenza, è necessario pensare
il termine a cui Tatto dell'esistenza necessariamente
termina, e questa è quella forza o energia che opera
in tulle le varie nostre sensazioni;
c) determinazioni secondarie, o qualità sensibili, che
sono altrettante attitudini, nelle quali quell'unica forza
si risolve , di produrci le varie sensazioni.
4-* 1 tre elementi dell' idea del corpo nel modo se
guente da noi si concepiscono:
a) L' idea dell'essere è nel nostro spirito naturalmente.
b) L'energia che in me opera e vi produce le sensa
zioni , considerala isolata dalla varietà delle sensazioni,
è una astrazione della mia mente (essenza specifica
astratla ) : ma in quanto ella in me agisce, mi è nota
per l'interiore coscienza : la quale chiamar potrebbesi
senso comune sotto questo rispetto, ch'ella attestala
propria passività egualmente in tutte le varie sensazioni.
c) Finalmente le sensazioni mi sono somministrali?
da' sensi esteriori.
In me adunque sono tutte le facoltà necessarie a spie
gare l'origine della percezione e dell'idea di corpo;
perciocché avvi. in me 1." la facoltà che vede conti
nuamente l'ente (intelletto), primo elemento dell' idea
di corpo; 2." la facoltà che percepisce una forza che
opera in me , senza che questa forza sia io medesimo,
e che è perciò ciò che forma l'essenza del corpo (co
scienza , senso comune) , secondo elemento dell' idea di
corpo; 3." i cinque sensi esteriori che percepiscono le sen
sazioni, terzo elemento dell'idea di corpo; 4-° finalmente
la facoltà della sintesi primitiva, o del giudizio, col
quale giudichiamo sussistente ciò che nell'idea di corpo
pensiamo. ,
Fermale poi le facoltà onde noi percepiamo i singoli
elementi, de' quali la nostra percezione intellettuale de
corpi si compone, resta a spiegare il modo onde noi
insieme li congiungiamo,
E primieramente le sensazioni in quanto sono varie,
e V energia che opera in noi, sono legate insieme di
loro propria natura per forma , che noi , ad avere e
pensare quell'energia in separato dal suo termine par
ticolare, cioè da questa o quella sensazione, dobbiamo
usare l'astrazione: nè l'energia sola senza la sensazione
si può percepire, ma quell'energia è la stessa sensazione
25!
considerala nel suo concetto generale di azione fatta in
noi e non da noi. La sensazione poi, presa tutta intera
come sta nel senso nostro, cioè come un'azione deter
minala, è ciò che altrove abbiam chiamalo percezione
sensitiva de' corpi.
Or noi uniamo la percezione sensitiva de' corpi col-
l'idea dell'ente in universale pel principio di sostanza:
e ciò facciamo la prima volta con quell'atto stesso onde
giudichiamo che il corpo sussiste, cioè coli' alto della
percezione intellettiva del corpo: la quale, brevemente,
così si fa :
Noi siamo esseri intelligenti.
Come tali percepiamo tutte le cose come sono, cioè
come enti , quando agiscono in noi.
La forza corporea che risponde all'essenza de' corpi,
agisce in noi (i): dunque la percepiamo come sussistente:
e tale è la percezion de' corpi.
Per tal modo è dichiarata generalmente la forma
zione delle idee di corpo: rimane che anche in parti
colare descriviamo il modo onde noi percepiamo il corpo
nostro, e quello dal nostro diverso.
CAPITOLO in.
ORIGINE DELL' IDEA DEL COIIPO NOSTRO , IN QUANTO SI
DISTINGUE DA.' CORPI ESTERIORI, MEDIANTE IL SENTIMENTO
FONDAMENTALE.
Esistono i corpi: essi sono sostanze diverse da Dio e
da noi: cagionano, siccome causa prossima, le nostre
sensazioni: l'essenza loro consiste in una certa energia
che opera su di -noi, verso la quale noi siam passivi:
un'attività diversa dalla nostra costituisce una diversa
esistenza : quindi il torto di Berkeley che nega le so
stanze corporee (2).
Or gli uomini non pensano il corpo solo come una
sostanza che cagiona le sensazioni corporee. Essi danno
ARTICOLO I.
MIMA CLASSIFICAZIONE DKLLE QUALITÀ* CHE Ht' COMI SI OSSERVAVO.
(1) Quanto siam per dire però darà qualche luce anche à questa que
stione.
(a) Se entrasse qualche nuova condizioue a mutare l'uguaglianza del ri
sultato, questa non potrebbe essere che un qualche corpo avvicinato o al
lontanato, il che è escluso dalla forinola. S'intende poi che sia rimossa l'a-
zioue degli spiriti, e sieno considerati i corpi soli nelle scambievoli loro
relazioni.
a54
scere la mutazione in lui avvenuta? Non in altro modo,
die ancora mediante i nostri sensi : perciocché se po
tesse avvenire una mutazione in un corpo di tal natura,
che nè mediatamente né immediatamente desse di se
segno ai sensi nostri, noi nè la percepiremmo co' me
desimi, nè la potremmo al tutto pensare, uè immagi
nare, nè asserire (i).
Convien dire adunque, non iscostandoci noi dalla pura
osservazione, che qualunque mutazione avvenga in un
corpo, acciocché sia qualche cosa per noi, è necessario
che sia sensibile a' sensi nostri, che produca finalmente
qualche effetto, qualche azione su questi: e tutta la dif
ferenza che può trovarsi in tali mutazioni de' corpi non
è, nè può esser altra se non questa, che o essa si
manifesti immediatamente sui nostri sensi, o solo me
diatamente. Se un corpo alla presenza di altro corpo
muta colore, come l'erba e le foglie degli alberi che
inverdiscono alla presenza e al contatto della luce, quel
corpo ha sofferto una mutazione che immediatamente si
discuopre ai sensi nostri.
Se io magnetizzo un ago di ferro , la mutazione av
venuta in quell' ago non si mostra immediatamente a1
miei sensi; poiché io nè col tatto, nè colla vista posso
distinguere alcun cangiamento in quel ferro avvenuto;
o se il potessi , non indovinerei mai da quello la pro
prietà ch'egli ha ricevuto di rivolgersi, messo in bilico
sopra una punta, a settentrione, o di attrarre il ferro
a sò. Ma queste proprietà io le scuopro quando ne veggo gli
effetti del volgersi al polo e dell' attrarre il ferro. Ora
il veder che io fo quell'ago così rivolgersi, o in mezzo
alla polvere di ferro appiccatasi tutta, non è a me
che un ricevere certa serie di sensazioni che non rice-
vea prima da quell' ago non magnetizzato: sicché io
posso dire a ragione , che la virtù da quell' ago acqui
stata, a rispetto mio riducesi finalmente in certe nuove
attitudini avvenute in lui di produrmi nuove sensazio
ni : il che si avvera sempre, qualsiasi azione d'un corpo
(i) Quando ci fosse narrata, ella o sarebbe cosa che noi co' sensi ab
biamo già sperimentata, ed allora n'avremmo insiem colla fede una co
gnizion positiva ; o sarebbe cosa non mai da noi sperimentata , e non po
tremmo allora avere che la fede in una colui mutazione, della quale la co
gnizione nostra sarebbe puramente negativa.
o55
sull'altro io prenda ad esaminare; perocché quand'an
che, in una serie di corpi l'uno sull'altro operanti,
tutti successivamente venissero immutali e alterati, tut
tavia quelle immutazioni e alterazioni che in loro io
concepisco non sarebbero che attitudini di agire final
mente su di me. Diamo , che solo 1' ultimo di questi
corpi sopra di me agisca: or per questo solo io cono
scerei le immutazioni avvenute negii altri. E veggasi
per qual modo. Sieno que' corpi denominati colle let
tere dell'alfabeto A , B , C , D , E , F, Z.
Ora la mutazione che ha sofferto l' ultimo Z, il quale
per quella mutazione ha cangiata, come fu supposto,
frizione sua su di me, così la definirei: «L'altera
zione di Z consiste nell' attitudine da lui perduta di
produrmi questa serie, e nell'attitudine da lui acqui
stata di produrmi quest'altra serie di sensazioni».
All'incontro come definirei io l'alterazione sofferta
da F? Non potrei altramente che così* «L'alterazione
di F consiste nell' altitudine da lui acquistata di por
tare l'alterazione descritta in Z ». L'alterazione di Z
mi è nota, come quella che co' miei sensi esperimento:
l'alterazione di F la conosco solo mediante l'altera
zione di Z: sicché volendo sostituire il valore noto di
Z nella definizione dell'alterazione di F, io m'avrei una
definizione alquanto incomoda a proferirsi , ma l'unica
però che aver potessi, cioè questa: « L'alterazione di
F consiste nell' attitudine acquistata di portare in Z
tale alterazione, che Z perdette per essa l'attitudine
di produrmi questa serie di sensazioni, e acquistò l'al
titudine di produrmene quest'altra serie ».
Al modo stesso , io non posso definire 1' alterazione
di E, se non riportandomi a quella di F; riè l'alte
razione di D, se non mediante quella di E ; nè l'alte
razione di C} se non riferendola a quella di D; nè
l'alterazione di B, se non con quella di C; nè final
mente quella di Aì se non a quella di B riducendola.
Ora, fra le alterazioni tutte di questi corpi, quella
di Z sola mi è nota per sè stessa : le altre non mi
sono note che come cause o prime, o seconde , o ter
ze ecc. di questa di Z : sicché lutto finalmente ciò che
v ha per me di noto nelle proprietà che hanno i corpi
di modificarsi scambievolmente, è l'attitudine acqui
stala di modificar me. Conoscendo la modificazione che
a56
io soffro, conosco l'altitudine che me la produce;
e conoscendo quell' attitudine , conosco altresì d' una
cognizion relativa le cause più o meno rimote della
medesima (i).
Per le quali osservazioni s' intende manifestamente ,
che tutte le qualità o proprietà corporee meccaniche,
fisiche e chimiche che costituiscono il rapporto che
hanno i corpi fra loro, non sono finalmente (limitan
doci or noi alla sola osservazione ) che pure potenze di
modificar noi stessi, di produrci delle sensazioni (2):
perocché tutte le idee che noi abbiamo , o aver pos
siamo di quelle proprietà, in ultima analisi si riducono
a diverse impressioni che i corpi fanno su noi , e ai di
versi sentimenti che in noi cagionano : conciossiachè noi
non concepiamo altre potenze meccaniche, fisiche e chi
miche ne' corpi, se non di modificar noi, o di modifi
care e mutar le potenze di modificar noi.
Nella question nostra adunque tutto si riduce ad esa
minar bene il rapporto che i corpi hanno con noi,
nello spiegar l'origine delle loro qualità sensibili; giac
che a queste sole tutte le altre si riferiscono.
ARTICOLO IL
CLASSIFICAZIONE DELLE QUALITÀ* CORPOREE CHE COSTITUISCONO IMMEDIATiMOITS
IL RAPPORTO DE* CORPI COL MOSTRO SPIRITO.
ARTICOLO 1IL
DISTINZIONI H* LA VITA X IL SENTIMENTO rOVDAIUKTALS.
volumc metlonsi in aperto, con logica veramente italiana, gli errori di eco
nomia «mimale e di fisica, de' quali soprabbondavano i Nuovi elementi di
Fisiologia di Antelmo Richerand.
(i) Questa uniche è cosi espressa anche dall'uso comune: un uomo
chiamasi nel linguaggio comune una persona. Noi non vogliamo entrare a
descrivere questa unione : ci basta qui di segnarla con un vocabolo proprio,
sicché uou si possa confondere con vcrun' altra maniera di unione.
a5c)
zione, il calore, il movimento vitale, e quindi l'incor
ruzione, e l'attitudine a diversi ufficj accomodati a cia
scuna delle varie parti del corpo.
All'incontro, sede del sentimento sono certe parti,
e non tutte, che noi sotto il nome di nervi racchiu
diamo: senza volere entrare con ciò in dispule fisiolo
giche, aliene dal nostro argomento (i).
Che «e noi sentiamo anco le parti insensitive del
corpo nostro, ciò avviene perchè elle* sono aderenti alle
sensitive, e premono, o pungono, o comecchessia toc-
cano queste: le sentiamo in somma al modo de' corpi
esteriori; nè l'esser vive, le fa perciò sensitive meglio
di quelle che sono divise al tutto dal corpo nostro e
non animate.
E perchè noi ci formiamo un chiaro concetto del corpo
sensitivo, ci giova usare una immaginazione. Anatomiz
zato il corpo umano, e tolte da lui le ossa, i tendini,
le membrane, le cartilagini, il tessuto celluioso , in una
parola le parti ^sensitive, e non lasciatagli che quella
mirabile rete di filamenti nervosi , che serpeggia per
esso intrecciandosi variamente , e n'avvolge tutto il vo
lume, attenendosi poi al cervello e alla midolla spinale
probabilmente siccome in suo termine , annodandosi n«'
plessi e ne' glanglj; tutto questo viluppo e andirivieni
di nervi immaginarlo ci conviene solo e ignudo, stan
dosi così in piede secondo la forma dell'uomo, senza
che cordicella o filo esca di luogo , per qualche virtù
divina, o anzi per virtù della fantasia nostra che così
il si ritrae e forma dinanzi, come se que' nervicelli fos-
ser di rigido e non pieghevole ferro. Ora questo corpo
umano, fatto tutto e implicato di tali funicelle mira
bili, è il corpo sensitivo, col 'quale noi sentiamo, quando
ci è aggiunto vitalmente, e cui pure per mio avviso noi
abitualmente ed uniformemente percepiamo con un sen
timento fondamentale e innato, sebbene , per esser con
tinuo e uniforme, non è tale di che noi ci possiamo
ARTICOLO IV.
DEE MINIERE DI FEECEFIBE IL COIIPO NOSTKO ,
SOGGETTIVA , ED EXTBA-SOGGETTIVA.
In primo luogo io osservo, che il corpo nostro (e
quando dico il corpo nostro, s'intenda sempre la parte
sensitiva ) si percepisce in due modi:
1* Come ogni allro corpo esteriore, cioè co' guardi,
co' toccamenli , co' cinque sensi in una parola. Allor
quando io percepisco questo mio corpo sensitivo qual
agente ne1 miei cinque sensi, io noi percepisco allora
propriamente come fornito della sensitività ( e questo si
vuol ben capire, poiché è di somma importanza ), ma
sì come qualsiasi altro corpo esteriore che mi cade sotto
i sensi e vi produce sensazioni. In lai caso un organo
del mio corpo ne percepisce un altro. E il medesimo
(») Art. I.
a6i
come se altri anatomizzasse e percepisse i nervi d' un
altro essere sensitivo vivente, i quali nervi non sono
perciò senzienti a me che li anatomizzo , ma a lui del
quale sono: cioè non li percepisco io in tale operazione
come sensitivi, ma puramente come sentiti, cioè ca
denti sotto a' miei sensi , alla guisa di ogni altro corpo
al mio esteriore.
a.* Per quel sentimento fondamentale ed universale
pel quale noi sentiamo la vita essere in noi ( sentimento
contestato dalla coscienza , come meglio farò veder poi ),
e per le modificazioni che soffre il medesimo sentimento
mediante le sensazioni avventizie e particolari.
Queste due maniere colle quali noi percepiamo il
corpo nostro sensitivo, si possono appellare acconcia
mente e distinguere co' nomi di extra-soggettiva e sog
gettiva-
Quando noi percepiamo il corpo nostro nella seconda
maniera, cioè per quel sentimento fondamentale cui dà
a noi V esser vivi, noi percepiamo il nostro corpo come
una cosa con noi ; egli diventa in tal modo , per l'in
dividua unione collo spirito nostro, soggetto anch' egli
senziente; e con verità si può dire ch'egli è da noi
sentito come senziente.
Quando all' incontro noi percepiamo il nostro corpo
nella prima maniera , cioè nella maniera medesima
onde percepiam gli altri corpi esterni pe' nostri cinque
sensi , allora il corpo nostro come tutti gli altri è fuori
del soggetto , è un diversò dalle nostre potenze sensi
tive: non lo sentiam più in quanto è anch' egli sen
ziente, ma puramente ne' suoi dati esteriori, in quanto
è atto ad esser sentito , ad eccitare in noi le sensazio
ni, e non a riceverle. .
E si noti bene la distinzione fra la maniera sogget
tiva e 1' extra- soggettiva di percepire il corpo nostro :
poiché da questa distinzione dipendono in gran parte
le dottrine che seguiranno.
ARTICOLO V.
LA MANIERA SOGGETTIVA DI PERCEPIRE IL CORPO NOSTRO SI SUDDIVIDE IN DUE;
l' UNA E IL SENTIMENTO FONDAMENTALE, L* ALTRA LE MODIFICAZIONI
DI QUEL SENTIMENTO.
Ancora, la maniera soggettiva di percepire il corpo
nostro si suddivide in due.
*
aGa
Conciossiachè noi percepiamo le parli sensitive del
nostro corpo soggettiva mente i.# tanto col sentimento
fondamentale, di cui abbiamo toccato, a.* quanto colle
modificazioni che quel sentimento soffre all'occasione
delle impressioni sui nervi. .. ■
Questo secondo modo soggettivo di percepire il corpo
nostro rilevasi da un' accurata analisi delle sensazioni
esteriori : questa ci fa trovare in ogni sensazione le due
cose seguenti :
i." L'immutazione che nasce nell' organo corporale
sensitivo, il quale per tale immutazione viene da noi
sentito in altro modo; ciò che è quanto dire che il
sentimento fondamentale soffre modificazione.
a.*. La percezione sensitiva del corpo esterno che ha
agito sopra di noi.
Veggasi questo nel tatto.
Ove con una superficie ruvida noi freghiamo il dosso
della mano, sentiam due cose: la mano, e la superfi
cie colla quale freghiam la mano: e la prima di queste
cose è ciò che dissi modificazione del sentimento del
corpo nostro -, la seconda è la percezione sensitiva di
quella ruvida superficie.
Questa duplicità della sensazione non è mai notata
abbastanza. M:i qui mi è solo necessario di additare il
rapporto che han fra loro questi due contemporanei e
sempre abbinati sentimenti racchiusi nel fatto deli'
sensazione.
Dico adunque, che se il sentimento che noi provia
mo per la pura immutazione che succede nel nostro
organo corporale (i) , è il fondamental sentimento che
subì una modificazione: all' incontro la percezione sen
sitiva del corpo esteriore, che l'accompagna, è cosa di
tutt' altro genere; è un fatto che succede in noi all'oc
casione di quella prima immutazione e di quel primo
sentimento , senza però che si possa trovare ( per quanto
a me sembra ) una connessione necessaria di causa e
(i) L' immutazione del nostro organo sensitivo non è ancora il sentii
mento : ma data quella immutazione , noi sentiamo, perchè I' organo è abi
tualmente da noi sentito in quello stato qualunque nel quale esso Si 'f0**-
quindi sono sentile ancora le mutazioni che succedono io lui. fon si ote
adunque confondere 1' impressione fisica sull' organo t° eoa qu»<»
primo nostro sentimento della detta impressione*
a63
d' effetto fra queste due cose; sebbene, come vedremo,
si possa notare la presenza di un' unica cagione tanto
del sentimento soggettivo, come dell' extra-soggettiva
percezione che ricevono i sensi.
ARTICOLO VI.
SPUGAZIONS CELIA SENSAZIONE IN QUANTO È MODIFICAZIONE DEL SENTIMENTO
FONDAMENTALE DEL COMO NOSTRO.
Ma che vogliam dire , dicendo che quel primo sen
timento dell'immutazione dell'organo corporale è un
semplice modo del sentimento fondamentale che ab
biamo in noi della vita ?
Ecco la mia maniera di concepir questo fatto.
Io ammetto, come dissi, un fondamental sentimento
della vita, pel quale noi sentiamo tutte le parti del
corpo nostro fornite di sensitività: sentimento che colla
vita comincia e finisce, o certo colla sensitività de' no
stri organi Censitivi.
Ora che è che noi sentiamo con questo sentimento?
qual è di questo sentimento la materia?
Le parti sensitive del corpo nostro sono materia a
questo sentimento ; e sentendo noi queste parli , na
turai cosa è che in quello stato nel quale elle sono le
sentiamo.
Ora se quelle parti noi le sentiamo nello stato nel
quale sono, avvenir dee naturalmente, che ove quelle
parti mutino stalo, muli altresì quel sentimento di es
se; perocché egli viene allora ad avere per sua materia
quelle parti in altro stalo da quello nel quale aveale
prima.
Dunque l'attività di quel sentimento fondamentale in
noi è una, sempre quella medesima, sempre vigile e
attuata a sentire lo stato qualunque egli sia del corpo
nostro sensitivo. Tutle le immutazioni adunque che ne- •
gli organi corporali succedono , si debbono da noi per
cepire pur con quell'atto del sentimenlo fondamentale
e primitivo : e le modificazioni del sentimento all'occa
sione delle mutazioni che nascono nel corpo , costitui
scono il primo di que' due elementi da' quali risultano,
come detto abbiamo , !e nostre sensazioni avventizie ,
le quali si suscitano in noi per irruzione (ora il sup
pongo coli' opinion comune ) Lde' corpi stranieri sul corpo
nostro.
364
Uno e il medesimo atto adunque percepisce il corno
nostro nella prima e sostanziai maniera , e il percepi
sce nella seconda ed accidentale. E tanto il sentimento
primitivo, come la modificazion eh' egli soffre, son due
fatti: di che io traggo, che lo spirito, col primo con
giungersi individualmente con un corpo animale, dee
pur mandar fuori una cotale sua attività, per la quale
egli quasi direi s'abbraccia col suo corpo, e con esso
si mescola, e mescolandosi il percepisce, nè più il la
scia , nè lascia perciò di percepirlo permanentemente
( fin che dura 1' union vitale ) in qualsiasi stato nel quale
egli si trovi. Il perchè se quel corpo, col quale lo spi
rito- è così stretto , per forza esteriore gli vien mutato,
succede necessariamente in quella immutazione, che sia
sottratta all'attività sensitiva dello spirito una forma,
e sostituitane un'altra; e quindi l'attività di quel sen
timento soffre pur essa una modificazione di necessità,
non per sè , ma per la materia sua, che gli è scam
biata senza sua voglia nè opera. A.lla stessa guisa, ore
io tenga gli occhi sbarrati a vedere una scena, efe
sia mi si muti dinanzi, non ho mutato io già l at
tività mia del continuo sguardare in quello spazio ove
la rappresentazione si fa , ma veggo altro ivi , poiché
mi fu mutato V oggetto. E così l' atto del mio senti
mento è quel medesimo , tanto nel primo stato del cor
po , come in tutti gli altri stati che succedono al primo,
e in tutte le parziali modificazioni degli organi sensitivi.
ARTICOLO VII.
ARTICOLO Vili.
diversità' del corto nostro da' curi ESTERIORI.
ARTICOLO IX.
DESCRIZIONE DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE.
ti) La variazione d'una sola linea nell'altezza del mercurio nel baronie»
Irò, suppone uno diminuzione del peso dell'aria di i38 libbre di pressione.
276
ma meno; e voi proverete vomiti, nausee, vertigini; e
le vene vostre lascieranno fino schizzar fuori il sangue,
tolto da esse il carico che le comprimeva, e reagiva
contro la spinta continua del sangue stesso ».
a.° E questo stesso muover del sangue , che corre
impetuoso pel corpo tutto in tanti canali implicati e
ravvolti variamente, spinto da maravigliosa forza, non
darà egli nessuna sensazione abituale ? Questo liquor vi
tale, così cacciato e serrato ne1 vasi suoi , preme natu
ralmente le pareti de' medesimi , e nelle piegature urta,
e per reazione che soffre muta di via. Pur tutto que
sto movimento non sembra che si senta , o che si senta
appena. Ma succeda mutazione : acceleri il sangue più
dell'usato, per ira che v'infiammi, o per ispavento che
vi raggeli; e voi sentirete ben allora martellare il cuo
re , e tremar le vene e i polsi. Non era prima, che vi
mancasse sensazione di quel discorrimento del sangue:
era che non ci potevate dare attenzione , perchè non
succedeva in voi novità che 1' attenzion vostra attirasse
e dirigesse.
3.* Il corpo umano tiene certo grado di calore; e il
calore è cosa che si sente : e pure, appena che l'uom
se n' accorga ; se pur qualche alterazione di grado non
ci avvenga. Poniamo che tutti i gradi di calore, dal
zero all' ottantesimo, venissero applicati successivamente
in una parte» del corpo nostro : noi li sentiremmo tutti,
e ci accorgeremmo altresì di sentirli. Prima la sensazione
del gelo ci abbrividirebbe ; poi, ascendendo di grado
in grado , ci giungerebbe a scottarci la sensazione del
l' acqua bollente. Ora fra tutti questi gradi successivi
di calore c'è pur quello che prima avea il corpo no
stro: anche prima adunque sentivamo quel grado, ma
non ce ne accorgevamo: nella mutazione ce ne accor
giamo, poiché applicato al corpo nostro dopo un calor
minore , succede un passaggio d'una sensazione ad un'al
tra, e quindi ha luogo il confronto fra le due sensa
zioni. E pure le sensazioni non sono già sentite da noi
perchè facciamo di esse il confronto; ma facciamo di
esse il confronto perchè esse sono da noi sentite. Delle
sensazioni ciascuna è sentita indipendentemente dall'al
tra, e indipendentemente dal paragone che ne facciamo,
il quale è pur necessario ad avvertirle; e queste esi
stono anche ove non è confronto, ove non è passaggio
d'una all' altra. È adunque da porre , che noi sentiamo
abitualmente quel grado di calore qualsiasi che al nostro
corpo umano è connaturale, eziandiochè noi non ci ac
corgiamo di questa abituale nostra sensazione.
4-* Le particelle tutte del nostro corpo tendono verso
la terra su cui camminiamo, per l'attrazione, checché
poi siasi quest' attrazione. Or qui avvi un' azione con
tinua fatta su ciascuna molecola del corpo nostro, della
quale pur noi non ci accorgiamo punto. E pure un sen
timento da quell'azione ci dee venire: cioè quel senti
mento stesso che fa parer greve il corpo a que' che
sono assai pingui, e che genera la stanchezza ne' cam- '
minanti : e noi siamo avvezzi di sentirlo ; ma quel sen
timento del peso del corpo, e dAle varie sue parti l'una
in sull' altra aggravantisi , è tutto equabile lino dai pri
mi momenti dell' esistenza ; e nè quel peso ci cresce
addosso, rendendoci adulti, che per insensibili aumen
ti ; nè v1 ebbe mai salto , o passaggio così celere , da
dovere poter farci avvertire una straordinaria gravita
zione delle parti corporee pesanti e prementi l'una sul
l'altra. Che se di repente l'attrazione cessasse, o si
niinuisse d'assai, noi proveremmo allora una nuova sen
sazione universale, la quale, per venirci istantaneamente
e fuor dell'usato, chiamerebbe la riflessione nostra;
ed osserveremmo allora in noi il senso di una leggerez
za, agilità e mobilità non mai sperimentata, o degli
sconcerti nella salute non preveduti. E converso, au
mentandosi repentinamente la forza attrattiva , ci sen
tiremmo aggravati ed affaticati d'insopportabile carico:
e il corpo che ci si accorcerebbe indosso , sicché la
forma stessa ne verrebbe mutata , ben ci farebbe av
vertiti della novità. E così all' opposto,» tolta via 1' at
trazione , il corpo acquisterebbe ( ove altro male non
gl' incogliesse ) una lunghezza maggiore; giacché tutte le
Earti , in luogo di aggravarsi le une sull'altre, stareb-
ero naturalmente distese là dove fosser poste, nè indi
tenterebbero di abbassarsi. Se dunque quelle 'muta
zioni di attrazione darebbero un sentimento al corpo
nostro, manifesto ò che ciò avverrebbe perchè l'attra
zione produce veramente un effetto sul corpo nostro
sensitivo, ed ivi eccita un sentimento: il che ella dee
fare medesimamente anco con quel grado che s' ha nel
fatto; sebben di questo 1' uomo non si accorge , perchè
378
è passato in assuefazione, nè tira più a sè 6 ferma la
sua attenzione.
Io potrei fare simigliante discorso sulla coesione, e
su' movimenti e alterazioni continue che nascono nel
corpo nostro per la respirazione , e la digestione, e la
perpetua vegetazione , e le operazioni chimiche infinite
che nascono dentro di noi. In somma tutto dà a vedere
che il nostro corpo dee esser da noi sentito con un
sentimento suo proprio , composto di tant' altri piccoli
sentimenti particolari e abituali, fino da' primi momenti
della congiunzione nostra con esso.
Ma oltre tutto questo complesso d' innumerevoli sen
timenti particolari , che si fondono in un sentimento
universale e costante in noi ( i quali io non so deci
dere, come dicevo, se entrino propriamente a formar
parte della vita, ma so questo solo, che nello stato
presente sono condizioni alla vita necessarie ) , oltre tutto
questo complesso di particolari sentimenti, io credo
avervi nello spirito stesso, congiunto alla materia ed
all'ente, un sentimento unico, fondamento di tutti gli
altri, che cogli altri tutti si mescola, e di tutti un in
cognito indistinto risulta, pel quale sentiamo lo spirito
col suo corpo: puro sentimento semplicissimo, e non idea,
secondo la distinzione che fra le idee ed i sentimeli!!
ho già stabilita, sicché questi non sono che il realizza
meli lo di quelle.
ARTICOLO XI.
(1) S. I, LII, 1.
(2) Parte. V, c. II, art. VI.
(3) Art. I. **■
(4) Parte V, c. II.
(5) Il determinare di valore di questo vocabolo certa, che è come uu in
cognita, e costituirlo in quella forinola che presenta la definizione del corpo,
sarà ciò che faremo più innanzi, c che perfezionerà la della definiti»*
del corpo.
(6) Parte V, c. II.
(7) Art. X.
(9) Parte V, c. I.
ARTICOLO XIII.
INFLUSSO FISICO F»A t' ANIMA E IL COVO.
CAPITOLO IV.
ARTICOLO I.
SI 1USSOME L' ANALISI DILLA SENSAZIONE.
ARTICOLO II.
DEFINIZIONE DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE, E DISTINZIONE DI LUI
DALLA FUCEZIONE SENSITIVA Db' COMI.
(0 Cap. ni.
(a) Descrivendo noi in tal modo la percezione particolare de' nostri or
gani sensitivi, nulla supponiamo di gratuito. È vero che in questa defini-
, zione entra la modificazione deli' organo ; ma questa non è gratuita , dal
l' istante che l'organo stesso (il corpo) è l'energia operante in noi, e pr°-
ducente il sentimento fondamentale in quanto si estende al corpo, ciò che
fu dimostrato più sopra.
a83
dalla percezione di qualche agente diverso da esso che
r accompagna , noi dobbiamo osservare un po' meglio
la natura di quel sentimento fondamentale, di cui la
percezione particolare non è che un nuovo modo.
11 sentimento fondamentale che vien dalla vita, è
un sentimento di piacere, supponendo la vita nello
stato suo naturale., e non guasta.
Egli si estende equabilmente e blandamente in tutte
le parti sensitive del corpoj ma egli non pare però che
abbia nulla di diverso da sè medesimo (i). E perciò
sarebbe certo impossibile, a chi non avesse mai provate
sensazioni particolari, ma solo quel sentimento fonda
mentale, formarsi quell' immagine o rappresentazione
del proprio corpo, di sua forma, di sua grandezza ecc.,
che a noi la vista e gli altri sensi esteriori sommini
strano*.
11 sentimento fondamentale adunque non è che pia
cere diffuso in determinala maniera (a): e quindi le
modificazioni di quel sentimento non sono che piacere
e dolore sensibile con un modo loro proprio.
Dalle quali osservazioni volendo noi raccogliere una
definizione più completa del sentimento fondamentale,
questa potrebbe esser la seguente : « un' azione fonda
mentale che sentiamo venire esercitata in noi necessa
riamente ed equabilmente da una energia che non siamo
noi stessi, la quale azione è naturalmente a noi piacevole,
ma può essere variata , secondo certe leggi , e rendersi
successivamente più o meno piacevole, o anche dolo
rosa r> .
ARTICOLO IV.
RELAZIONE DEL PIACERE E DOLORE CORPOREO COLL* ESTENSIONE.
E in quanto all' estensione soggettiva corporea , non è
difficile a provare che in ossa il piacere e dolore cor
poreo si termini (i).
ARTICOLO V.
CONFUTAZIONI DI QUELLA SENTENZA DEGL'IDEOLOGI, CHE • WOt SENTIAMO T0TTO W
CERVELLO, E RIFERIAMO POI LA SENSAZIONE ALLE DIVERSE PARTI DEL CORPO »•
(1) Mi parto qui dal valentissimo Galluppi, il quale giudica che 1' oc
chio veda i corpi lontani da sé immediatamente, e paragona i globicini di
luce che dal corpo illuminato vengono 1' uno appresso 1 altro a percuoter
la retina, alle varie parti di una canna tastate successivamente dalla mano
che scorre in sulla canna dal pomo alla punta. La differenza ne' due fatti è
questa : la mano si muove, e l'occhio sta fermò: ora è il moto, dico io,
quello che fa conoscere alla mano la lunghezza della canna. E se la canna
strisciasse sulla mano ferma, io mi credo ehe per la sola mano non si po
trebbe mai percepire la lunghezza della canna , se non forse per le abitu
dini e le memorie. All'occhio concedo bensì di conoscere il fuor di sè, ma
in quanto è anche tatto, e nulla più: quindi non mai la lontananza: ma
semplicemente uu diverso da sè, o se si vuole, anche un fuori di sè, come
dicevo ( giacché I' occhio suppongolo sentito pel sentimento fondamentale ):
questo fuor di sè però non sarebbe che qualche cosa diversa dall' occhio,
aderente all'occhio. Favorevole alla opinione di Galluppi tornerebbe quanto
si narra di quella giovane, a cui levò le cateratte congenite l'oculista Gio
vanni Janin; come pure di que' ciechi nati, a cui il Professore Luigi de'
Gregoris restituì in parte la vista ; a' quali tutti dicesi che non venisse so
spetto che i corpi fòsser cose aderenti a' loro occhi , ma che tostamente
fuori di sè li vedessero (Ved. l'opuscolo Delle cateratte de' cicchi nati, os
servazioni teorico-chimiche del Professore di chimica e di oftalmia Luigi de
Gregoris romano. Roma 1826 ). Ma l'esperimento di Cheseldcn è troppo
solenne e troppo accertato, perchè, a malgrado di tutto ciò, possa tostamente
rifiutarsi : tanto più ch'egli fu rinnovato in Italia dal Prof. Jacobi di Pavia,
con ogni diligenza, c couiermalo dall' evento iu tulle sue parti.
388
sommità appunto delle dita colle quali ho tastato quel
corpo ? Dico , che questo non può avvenire per abitu
dine contratta : perocché a sostener ciò dovrebbesi di
mostrare che fu un tempo nella vita nostra, quando
le sensazioni tutte non si riferivano a' varj punti del
corpo; e poi che v' ebbe un mezzo pel quale s' imparò
a riferirle di fuori a que' varj punti : il qual mezzo
nessuno 1' ha mai indicato , nè può indicarlo.
Poiché se 1' occhio ha bisogno del tatto, perchè por
tiamo le cose vedute al di fuori di esso occhio, e da
ciò si vuole inferirne il medesimo dover avvenire delle
parti del corpo che si senton col tatto; converrà inven
tare, io dico, un altro tatto nell'anima, il quale porti
le parti del corpo nostro al di fuori dell' anima : il che
è assurdo , e negato dall' esperienza.
V'ha dunque una potenza nell'anima, che immedia
tamente, e non per abitudine contratta, riferisce le sen
sazioni alle varie parti del corpo, ed in quelle le sente.
ARTICOLO VI.
PARAGONE Dt' DDE MODI SOGGETTIVI DI FERCEPIRE t,' ESTENSIONE (l)
DEL PROPRIO CORPO.
li) Non si dimentichi mai, die questa estensione soggettiva non ci è nota
già rome quella de' corpi esterni figurativamente , ina come un modo del
sentimento di noi slessi.
a89
dificazione del medesimo, cioè colla sensazione esterna,
si sente solo una parte di quella estensione, cioè la
parte affetta dalla sensazione.
3.* Col sentimento fondamentale si sente l'estensione
del corpo nostro in un modo tutto costante ; colla sen
sazione sopravveniente si sente la parte affetta in un
modo nuovo, più vivamente delle altre parti del corpo,
o certo in modo diverso da esse; a tale che la parte
così sentita spicca per così dire dalle altre, e si pre
senta fuor di tutte sola ed isolata nel sentimento che
soffre il nostro spirito.
3* Col sentimento fondamentale si sente in un modo
necessario, supposta la vita; colla sensazione l'organo
affetto si sente in un modo accidentale ed avventizio.
4-* Col sentimento fondamentale l'estensione si sente
quasi invariabilmente uguale; colla sensazione l'organo
si sente in modi assai diversi, pe' gradi diversi di pia
cere o di dolore , e pe' fenomeni de' colori , suoni , sa*
pori ed odori.
Ora queste quattro differenze bastano a veder chia
ramente, come il sentimento fondamentale non è atto a
scuoterci e a farsi da noi osservare. Egli è connatu
rale a noi, e così uno colla nostra natura , che forma
in parie la nostra natura stessa; quindi non ci dà nè mara
viglia , nè curiosità che ci renda intenti a lui , poiché
egli sta in noi come noi slessi.
Ma all' incontro la sensazione del nostro proprio or
gano non è a noi essenziale; essa è parziale, nuova e
viwx , accidentale e varia : quindi è tutta atta a muo
vere la nostra curiosità e 1' attenzione nostra sopra di
lei ; ed a sè attraendoci , ci fa così accorgere che noi
percepiamo le singole parti del corpo nostro con una
percezion soggettiva.
Di che si conchiuda , che delle due maniere sogget
tive di sentire il nostro corpo e la sua estensione, la
prima, cioè quel sentimento fondamentale, è assai fa
cile che sfugga all' osservazione ; mentre la seconda si
porge a questa assai agevolmente.
Di che non fa maraviglia se questo sentimento pochi
sappian d' averlo; quando la sensazione de' proprj organi
a tutti è palese.
(1) L'osservazione dimostra, che gli Stessi organi (i nervi) che sono i
ministri della sensazione, sono anco i ministri de' movimenti volonlarj.
Questo sembra confirmare, che è perla sensazione che l'anima, cioè la vo
lontà e la spontaneità , ha potere ed esercita l' imperio suo sopra il corpo ,
perciocché è per la sensazione che l'anima percepisce il corpo, e quindi ha
con lui una comunicazione non cieca , ma fornita di qualche maniera di
lume, del quale ha sempre bisogno la volontà e anco la spontaneità per co
mandare e per operare.
(3) Se fosse lecito fare qualche conghiettura sulla natura di quel senti
mento sostanziale che esprimiamo colla voce lo, ceco che cosa in argomento
tauto difficile opinerei:
ani
ARTICOLO Vili.
OGNI NOSTRA SENSAZIONE È SOGGETTIVA LI) EXTRA-SOGGETTIVA AD CN TEMro.
Va' azione primitiva dello spirito ci porta a sentire il modo del nostro
essere: quell'adone primitiva è necessaria ad un tempo e spontanea. In quanto
essa è necessaria, è l'obbligazione fìsica impostaci dal Creatore: essa costi
tuisce la nostra natura, e per essa lo spirito pone il NOI. Quest'astone che
termina nel modo dell' esser nostro , che è la sensazione del modo del
l'essere, è Vallo primo, essenziale del senso, quell'ut iu virtù del quale
noi sentiamo tutto ciò che sentiamo. Poiché il modo del nostro essere ve-
Deudo mutato, tutte in queste mutazioni si succedono le vane sensazioni.
Questo senso primo ci porta fuori di noi, cioè a sentire il motto dell'esser
□ostro: quindi quella dualità in noi lauto essenziale, cioè l'azione, e il ter-
mine dell'azione (materia della sensazioue).
Ma tutte queste cose io voglio averle qui accennale siccome coughictturo,
le quali nou l'orinano la parte essenziale dell'opera presente.
292
Questo secondo è la percezione corporea del senso della
vista.
Gli oggetti che il nostro occhio percepisce danno una
rappresentazione così vivace e vaga, che tira a sè tutta
la nostra curiosità, e muove in noi ammirazione, mas
sime quando l'occhio è già educato ed ammaestrato per
così dire dal tatto. Quindi mentre che noi curiosamente
stiam riguardando le varie scene di natura o i lavori
dell'arte, non ci cade il menomo pensiero sull'occhio
nostro, nel quale proviamo una leggiera sensazione pro
dotta dalla luce che lo ferisce, e che passa inavvertita.
Questa sensazione però non è men reale , per essere
inavvertita. Immaginate che venga a colpire l' occhio
vostro di repente un fascicolo condensato di viva luce,
a tale che superi la forza della pupilla. Immantinente
sentirete allora, e v'accorgerete di sentire una spiace
vole sensazione nell'occhio stesso, offeso da un lume
soverchio: ed è in tali casi, che noi poniamo attenzione
anche all'organo nostro affetto da notami dolore. Per
chè dunque noi ci accorgiamo di sentir 1' organo per-
ci piente, è necessario che in esso si metta un grado di
piacere o di dolore insolito e vivo, il quale raccolga a
sè l'attenzione sviata dietro all' agente esteriore dall'or
gano percepito.
Intanto questo che ho detto dell'occhio dimostrasi
evidenza il fatto, sfuggevole sì, ma vero, che data una
modificazione acconcia nell'organo sensitivo, noi pro
viamo le due cose accennate, cioè i.° sentiam l'organo
sensitivo modificato, 2.* e percepiam Vagente esteriore a
quel modo che il senso può percepirlo. E questa per
cezione non ha che far nulla colla sensazione dell'or
gano , colla quale sensazione è però indivisibilmente
unita a tale, che forma con essa una cosa, nè senza
questa quella esiste.
Ora il medesimo si trova nel fatto della sensazione
dell'udito, dell'odorato e del gusto.
L'udito fa sentire il suono; ma il suono non è la
sensazione dell'organo acustico col quale lo percepiamo:
è un fenomeno che sorge in noi quando quell' organo
viene modificalo, senza che si possa confondere nè ab
bia simiglianza colla sensazione dell' organo. In questo
fenomeno del suono è un'azione che io sento fatta M
ag3
me, diversa da quella che mi ò fatta dall'organo mo
dificato.
Quest' azione col fenomeno del suono da cui è accom
pagnata, è assai più forte del sentimento del mio organo,
e vale assai a tirarmi a sè, massime dov' ella s'abbia
delle particolari qualità. Perciocché se io sento una grata
modulazione di flauto, o il tintinnio di un'arpa tocca
maestrevolmente, vengo tratto nella soavità di que' suoni,
uè di stare punto attento al mio orecchio mi viene in
capo. E perchè da' suoni eh' io sento , io rimuova la
mia attenzione a riflettere sul senso dell' organo mio col
quale io gli odo, necessario è che qualche modificazione
dolorosa nell'orecchio mi vi richiami : come avverrebbe
allo scoppio di cannoni, che scotesser l'aria in tant' im
peto, che molestia mi dessero all'organo dell'udito; a
cui soglion correr le mani, in tali accidenti, subitamente
a difenderlo ed otturarlo , dando manifesto segno con
ciò della percezione dell' organo.
E dell' odore e del sapore è il medesimo, che son la
parte fenomenale della sensazione che si prova ove l'or
gano dell' odorato o del palato vien modificato dagli
agenti alla loro natura convenienti.
Afeli' odore di un garofano e nel sapore del miele si
possono notare quelle due cose.
In prima le particelle odorifere del garofano, recate
dall'aria alle mie narici, titillano in esse le fibre che
presiedono alla sensazione dell'odoralo. Quel titillamento
delle fibre sarà forse un leggero tremolamento in quelle
promosso, ovvero una piccola ferita o impronta che in
quelle fibre si rimarrà : io non cerco. Che cosa è egli
poi ehe noi percepiam coli' odore? forse quel movimento?
forse quella piccola puntura, o quella forma di stampo
che le molecole odorose debbono avere impresso in que'
nervicciuoli del naso? Nulla di ciò: non ha con ciò
similitudine del mondo la sensazion dell' odore: non
rappresenta nè richiama o movimento o forma che ab-
bian ricevuto le parti olfattorie: è cosa al tutto da sè,
che solo all' occasione di quelle modificazioni minute e
fors' anco impercettibili delle narici, sorge di repente
nello spirito nostro: il che io chiamo il fenomeno del
l' odoralo. Certo però è, che se i corpicciuoli odoriferi,
che percotono nelle nostre narici, fossero di tal forza e
vigore che a ciò bastassero, ecciterebbero un dolore nelle
294
stesse narici, che di questa parte ci farebbe risentire:
come avviene allora che l'odor dell' assa-felida ci fa rag
grinzare il naso spiacevolmente. Il che se non sempre
avviene, per la leggerezza del toccamento, non è però
che il fenomeno dell' odore ( nel quale è il termine di
un' azione esterna ) non sia interamente distinto dalla
sensazione dell' organo dell' odorato.
Del sapore il medesimo dir si dee: perocché quella
diversa forma che le papille del palato ricevono al tocco
del miele, non è già quella che noi sentiam col sapore:
ma il sapore è la parte fenomenale di questa sensazione,
e indipendente al tutto dalla percezion del palato.
ARTICOLO IX.
DESCRIZIONI DEI TATTO, SENSO UFIVMS ÌLI.
(1) Anche gli antichi avevano osservato, che tulli i sensi sono latto fi
nalmente : quindi s. Tommaso: Omnes aulem ala seiisus /umlantur supra
factum (S. I , lxxvi , v ).
(a) La percezione del tatto abbiam veduto esser duplice , cioè di uni
natura soggettiva ed extra-soggettiva ad uu tempo, in lauto che odia sen
sazione del tatto si percepisce ad un tempo I.° l'organo senziente (parte
soggettiva), a.0 e l'agente esterno che tocca (parte extra-soggettiva). Io »'
riserbo più sotto a mostrare coli' analisi, come questa duplicità di stns*-
zione sia tu-' .piatta, sensi particolari di cui oui parliamo, e oltre a ciò coinè
iu essi sieno i quattro fenomeni indicali.
a9s
naturale; sicché per un atto primo tutto il nostro corpo
è dallo spirito nostro sentito.
All' incontro quello che si dice il senso esteriore del
tatto, non è (nel suo elemento soggettivo) che la capa
cità che ha il sentimento fondamentale di sofferire una
modificazione.
E poiché il fondamental sentimento si stende a tutte
le parti sensitive del corpo; o sia, questa estensione non
è che il modo di essere di quel sentimento; quindi mu
tandosi questo modo di essere, mutasi quel sentimento.
È per questo, che nascendo qualche moto nel corpo no
stro, e sofferendo quest'alterazione nella sua forma, noi
proviamo le sensazioni del tatto.
ARTICOLO XI.
RELAZIONE IU U DOS HMOHI SOGGETTIVE DI PERCEPIRE IL CORPO ROSTRO.
v
39G
queste due maniere di sentire , si è il riferire che fac
ciamo il sentimento e la sensazione agli stessi punti
dello spazio.
CAPITOLO V.
ARTICOLO I.
DEFINIZIONE DE* CORPI ALQUANTO PERFEZIONATA.
ARTICOLO T. .
APPLICAZIONE DEL CRITERIO ACLI ERBORI CHE SI POSSO» PRO.'DEIE
SULL* ESISTENZA DI QUALCHE MEMBRO DEL CORPO NOSTRO.
ARTICOLO VI.
ARGOMENTO DECb' IDEALISTI TRATTO DA* SOGNI , RIFIUTATO.
ARTICOLO I. ".
i
NESSO DELLE DOTTRINE ESPOSTE CON QUELLE CHE SEGUONO.
ARTICOLO IL
IDEA DI TEMPO ACQUISTATA DALLA COSCIENZA DELLE PROPRIE AZIONI.
(i) La prima azione che noi sentiamo di fare è quella della vita : I»
qual pure ha la limitazione della durata. Nel sentimento fondamentale «dun
que è compreso anche il sentimento del tempo. Ma V aoalisi del sentimento
fondamentale richiede troppo lavoro: ed io mi limito in quest'opera ele
mentare ad accennare di questo sentimento ciò che è necessario per 1 as
sunto tolto dalla medesima,
3c>7
Si sarebbe potuto prendere a misura del tempo qual
sivoglia altra azione , purché alla durata di essa si
rapportasse la durata di tutte le altre azioni.
Sebbene io possa diminuire ed accrescere la durata'
d1 una mia azione, tuttavia quando io voglia conservare
la stessa quantità d' azione, ciò far non posso senza
compensare coli' intensità ciò che perdo nella durata
accorciata ; o se accresco la durata, debbo scemare altret
tanto l' intensità. Si dà dunque un rapporto invaria
bile fra la durata e V intensità dell' azione.
La costanza di questo rapporto è fondata in due dati
costanti, cioè i.° nella quantità costante di effetto o
di azione che si vuole ottenere, 2." e nella quantità li
mitala delle forze operanti, la quale pure è data e
costante.
E dunque per legge, che esce dalla natura delle cose,
fissato , che volendo una data quantità d' azione entro
una certa durata , non possa essere che una certa e
fissa intensità d'azione quella che. la ottenga.
Di più,, poniamo la quantità d'azione, che si esige,
non determinata; e l'intensità dell'azione poter varia
re. Mettiamo costante la durata. Applicando poi a que
sta durata una serie di gradi d' intensità d' azione,
noi avremo una serie che ci esprimerà altrettante quan
tità d'azioni o d'effetti, tutte proporzionate alla serie
de' gradi d' intensità , nè più nè meno. Io posso dun
que stabilire in generale, che dentro una durata qual
siasi, la quantità d' azione sarà proporzionata all' in
tensità dell'azione, e nulla più: quindi l'idea della
equabilità del tempo. Checché si faccia entro una certa
durata , io ho un rapporto costante fra P intensità del
l'azione, e la quantità di questa: sicché ov' io vedessi
farsi poco entro quella durata, potrò bensì immaginar
sempre che di più si facesse , ma a condizion di sup
porre un aumento ncll' intensità dell' azione: in una
parola, io posso pensare la possibilità di fare una cosa
entro certa durata, ma mediante una tale intensità
d'azione determinata; e lo stesso posso pensare di qua
lunque durata a quella uguale.
>
3o8
. . .. t I i ARTICOLO III.
..•!,.:•..
IDEA DI 'TEMPO , SUGGERITA DALLE AZIONI A LUCI.
| .. ! . :
Ciò che fu detto rispettò alle azioni di cui la co
scienza ci dice d' esser noi gli autori , possiamo dir si
milmente di quelle azioni che noi percepiamo e delle
quali gli autori non siam noi.
Per tal modo il tempo non solo è limitazione del
l' azione, ma ancora della passione: e ciò perchè pas
sione ed azione non sono ben sovente che lo stesso
fatto considerato sotto due rispetti diversi e contrarj.
• ARTICOLO IV.
• . ■ !.. . •,' ' I
IDEA PERA DEL TEMPO.
.1 . 1 , t
In tutte le azioni e passioni degli esseri finiti , noi
possiamo astrarre quella loro limitazione , che abbia m
chiamato durata successiva , e poi aggiungere 1' idea di
possibilità ( cioè dell' azione possibile ), che è in noi
ingenita, come si disse: allora noi abbiam l'idea pura
del tempo, cioè del tempo non in un' azione reale, ma
in un'azione possibile.
ARTICOLO V.
IDEA DEL TEMPO PORO' INDEFINITAMENTE LUNGO.
§ I.
Tutto ciò che avviene , avviene per istanti.
In qualunque istante si osservi una cosa qualsiasi
che abbia in sè successione , cioè che nasca , cresca , si
perfezioni, invecchi e- perisca; in qualunque istante,
dico, si osservi tal cosa; trovasi in essa uno stalo de
terminato.
Conciossiachò , pel principio di contraddizione, non
può esser in lei parte, o perfezione , la qual sia e non
sia nel medesimo tempo.
A dichiarar quest' idea, osserviamo il dente che mette
in un bambino, o il tempo quando muta in barba la
lanuggine d'un giovinetto. A chi dimanda: E nato il
dente? è venuta la barba? rispondesi: Non ancora, ma
comincia. Questa parola, comincia, racchiude una rela
zione mentale col futuro stato della cosa, cioè col dente
già nato e venuto, e colla barba cresciuta. Ma certo è
che quella nascenza di dente che si mosse a venire, e
quelle cime de' crini spuntate, considerate in sè stesse,
sono già , e non è il loro stato alcuna cosa di mezzo
fra 1' essere e il non essere.
Questa semplice osservazione del fatto ci dà una con
seguenza singolare , ma vera, cioè che tutto ciò che
avviene, avviene in uno istante: quando però s'intenda
quel tutto ciò che avviene non per cosa complessa, cioè
per una natura già formata ( e l'uomo suol sempre aver
V occhio suo a questa ), ma per quella cosa qualsiasi
( parte di natura , elemento di un oggetto complesso )
che in ciascuno istante è : conciossiachè quella cosa ,
checché sia , la quale in un dato istante si trova es
sere , è perfetta verso di sè, verso dell' esistenza sua ;
sebbene sia imperfetta considerata qual parte di cosa
maggiore, di cui ella è elemento, o abbozzo, o principio.
E quinci una grave diflicoltà.
Se, in questo senso, tutto ciò che si fa, si fa in
3ro
uno istante, ond' è dunque il tempo continuo? Questa
idea di tempo la caviam pure per astrazione da ciò die
si fa, dalle azioni. Pensando una serie di cose che av
vengono , delle quali ciascuna avviene in uno istante ,
noi percepiam , sì, una serie di punti, una successione
d'istanti; ma un tempo continuato, non mai.
§ 3.
Neil' idea di tempo data dalla sola osservazione, non si può trovare la soluzione
della predetta difficoltà.
Ripigliamo l'esempio de' peli nascenti, eveggiamose
l'osservazióne sola ci somministra primieramente talt
idea del tempo, nella quale entri il carattere di una
vera continuità.
Un capello lungo un palmo abbia messo due mesi a
venire.
Questo moto del capello fu un' azione , che noi dire
mo complessa ,• perciocché ci appar composta di molle
piccole azioni , ciascuna di minor durata.
E simigliantemente sarebbe della produzione di qua
lunque altra natura : poiché il nascimento di un fiore,
l' incisione di un basso rilievo , o qualunque altro avve
nimento il qual diede o mutò l'essere a checchessia,
noi lo chiameremo un'azione complessa, perciocché pos-
siam sempre col nostro pensiero suddividerla in più
parli, le quali sarebbero altrettante azioni o avvenimenti
minori.
Ora badisi primieramente, che il tempo messo da
quel capello a venire, conserva una ragione costante
con tutte le altre azioni che fatte si sono entro i due
mesi, a quel modo che l'abbiamo dichiarata di sopra (i),
cioè fatta ragione all'intensità dell'operazione.
Fissata così la intensità dell' operazione entro i due
mesi , ogni essere in essi operante non può dare che
una quantità di azione, o sia un effetto determinato.
Veggiamo or dunque come quest'azione complessa e
successiva, o questo effetto totale si possa pensare di
viso in istanti nella durata de' due mesi.
Facciamo una distribuzione arbitraria qualsiasi di
questi istanti. Il capello si supponga cresciuto un palmo
(i) Art. L
• 3n
in 5,i84,ooo istanti , in ciascuno de' quali egli acquistò
il suo piccolo aumento corrispondente. Io dico : se in
capo a due mesi la sua lunghezza dee esser d' un pal
mo e nulla più, è necessario che l'intervallo d'uno
all'altro di quegli istanti, ne' quali egli è cresciuto,
sia determinato; sicché, supposto sempre uguale l'inter
vallo d' uno air altro, sarà nè più né meno un minuto
secondo.
Questi intervalli così minuti e più ancora ? sfuggireb
bero interamente all'osservazione: quindi essi non po
trebbero esser da noi misurati nò percepiti colla osser
vazione, ma solo col ragionamento : cioè noi li potremmo
misurare dalla cognizione dell'effetto totale, o sia della
quantità d' azione avvenuta in un dato tempo notabile
(la qual cade sotto l'osservazione), come sarebbero i
due mesi , o anche meno , qualunque sia il tempo, pur
ché notare da noi si possa ; e la misura di quella quan
tità cV azione è il rapporto di tutte le altre quantità
d' azioni entro lo stesso tratto di tempo ottenute.
Tuttavia seguitiamo un poco nella supposizione del
l' esistenza di questi piccoli intervalli. Se essi fosser tali
che potessero esser da noi osservati, in che modo po
trebbero essi cadere sotto la nostra osservazione?
Non per sè; perciocché in quanto a sé sono una ne
gazione , una cessazione di azione : solo dunque per la
relazione della diversa frequenza degl' istanti in azioni
diverse. Se dunque noi potessimo osservare que' succes
sivi crescimenti istantanei che abbiam supposto avve
nir nel capello ogni minuto secondo, noi , guardando
quest' azione sola , non avremmo nessuna misura del
minuto, se pure a ciò che avviene in noi in un corri
spondente intervallo, come il battito del cuore, o un
grado di stanchezza ecc., noi paragonassimo. All'incon
tro raffrontando più azioni insieme, osservando per esem
pio gli accrescimenti del capello d' un vecchio in con
fronto cogli accrescimenti del capello d'un giovane,
rileveremmo, che mentre il primo dà un aumento, il se
condo ne dà due o tre: indi la misura di quel piccolo
intervallo, tolta sempre dalla quantità d'azione (fatta
uguale l'intensità) che si ha per risultato entro due
istanti. La misura dunque di quegl' intervalli piccolis
simi, dove aver si potesse colla osservazione, non sa
rebbe altro che il rapporto della quantità o effetto lo
3l2 •
tale, che ài. rileverebbe io più cause operanti entro due
medesimi istanti. Quindi la misura di quegli interTalli
piccolissimi non potrebb1 essere d'altra natura da quel
la che si ha di una serie d'istanti, o sia d'una du
rata notabile, in fine alla quale si mettono a confronto
delle quantità d'azioni maggiori, o degli effetti totali che
per la loro grandezza cader possono sotto la nostra os
servazione.
Conchiudiamo adunque, che posti i veri fin qui di
mostrati, cioè posto i.° che tutto ciò che avviene, avviene
per istanti, 2.0 e che 1' idea cui l'osservazione ci può dare
del tempo non è che un rapporto degli avvenimenti in
fra loro, cioè delle quantità d'azioni entro i mede
simi istanti, consegue che
« Qualsiasi osservazione, quand' anco fosse un'osser
vazione indefinitamente più fina e più penetrante di
quella della qual l'uomo è capace, non potrebbe mai
somministrare immediatamente all' intendimento l'idea
di un tempo continuo, cioè di una successione conti
nua; ma non somministrerebbe se non l'idea di una
serie d'istanti più o meno prossimi fra loro, edil rap
porto fra i medesimi ».
A malgrado di tutto questo però noi abbiamo l' idea
di un tempo continuo. Dobbiamo dunque rendere una
ragione sufficiente , che spieghi il fatto di questa idea.
Tentata la via della sola osservazione, e trovatala inetta
a tal fine, dobbiamo cercare un altro fonte, onde quelli
idea possa esserci derivata.
§ 3.
Necessità di ricorrere alle possibilità semplici delle cose, e aVYcrtenza
di non confonderle colle cose reali.
Nelle concezioni nostre intorno al tempo, separiamo
dunque quelle che ci son date immediatamente dall'os
servazione, da quelle che noi formiamo col ragiona
mento astratto , che muova però sempre dall' osserva
zione.
L' osservazione presenta al nostro intendimento, cioè
alla nostra facoltà di giudicare, cose di fatto. Le idee
esprimono pure possibilità, e non cose di fatto.
Ora non si hanno già a spregiare le pure idee che
esprimono semplici possibilità, siccome la frettolosa te
merità del secolo trapassato facea ; ma ciò di cliedob
3i3
biamo sommamente guardarci si è di non confondere
giammai le possibilità colle cognizioni delle cose reali
e de' fatti.
Le idee o le possibilità sono rispettabili altamente
per due ragioni , cioè i.° poiché senza quelle non pos
siamo fare il menomo ragionamento, nè anco in sulle
cose di fatto, siccome risulta da tutta la teoria del
l' origine delle idee , la qual dimostra che in ogni idea
la possibilità si mescola necessariamente (i) ; a." poiché
fra tutte le cose possibili contrarie, le quali d'una cosa
si pensano, ve n'ha pur una di vere, e può anco es
sere talora che col ragionamento si trovi la via di fer
mar fra le due quale ella sia.
Ma dopo ciò, il ravvolgere insieme ciò che è possibile
d' una cosa , con ciò eh' è di fatto, è 1' error capo di
tutti gli errori; perciocché corrompe il metodo stesso,
o sia il mezzo di trovare la verità.
Occupiamoci adunque con diligenza a sceverare le co
gnizioni che intorno al tempo ci vengono immediata
mente dalla osservazione, e ci additan de' fatti (a) , da
quelle che non esprimono che semplici possibilità.
§ 4.
L' osservazione non ci fa conoscere il tempo che come un rapporto fra la
quantità delle azioni, data la medesima intensità nell'opcrarc.
L' osservazione adunque non ci mostra che azioni
grandi', perciocché un'azione quand'é semplificata, o
sia diminuita oltre a certo termine, si sottrae a qual
siasi nostra osservazione.
Il rapporto della quantità di queste azioni grandi
( fatta però ragione all' intensità dell' operare ), è ciò
che ci dà la pura osservazione (3).
Ora, data sempre uguale l'intensità dell'operare,
alla diversa quantità dell' azione seguita una circostan-
§ 5.
L' idea del tempo puro , e della indefinita sua lunghezza e divisibilili ,
sono mere possibilità o concetti della niente.
Fin qui il fatto. Veggiamo ora quali sieno quelle
possibilità, che, posto questo fatto, si presentano alla
mente nostra. E riflettasi , che nella deduzione delle
possibilità, la mente procede innanzi fino ch'ella può;
cioè fino che non venga a cosa , nella quale vegga im
plicarsi una contraddizione.
I. In primo luogo, la mente , osservando che entro
due medesimi istanti, quali sieno, molte azioni realisi
fanno, di quantità fra loro varia, ma che mantiene certo
rapporto ; ella astrae da quelle azioni reali , e pensa a
quelle azioni siccome meramente possibili. Così ella si
forma Videa pura del tempo (ì); cioè ella pensa che fra
due istanti dati (a) possano aver luogo certe quantità
d' azione, aventi un certo rapporto colle loro intensità
rispettive, e fra loro.
II. Dopo ciò, la mente riflette, che fra le diverse azioni
grandi , che 1' osservazione ci ha presentato, ve n'hanno
di più lunghe, e di meno; osia, che entro due istanti
dati, si replica talora, e triplica, e s' ini mi la talvolta
un' azione: ella pensa quindi la possibilità, che 1 «-
(i) Art. V.
(a) Questi istanli non sono che il principio e il termine d' un'azione com
plessa possibile, clic si prende per norma.
3,5
zione medesima sia iterata un indefinito numero di
volte, ritenendo quell'azione non più come reale, ma
sempre come possibile : indi la lunghezza indefinita
del tempo puro. Quest'idea dunque della indefinita
lunghezza del tempo, non è che una mera possibilità
pensata dalla mente; la quale non trova mai contraddi
zione nel pensare che un'azione qualunque si rinnovi
ancora , quantunque volte ella siasi rinnovata per lo
tempo passalo.
IH. Di più, dall' accorgersi che fra le azioni alte ad
essere osservate ve n' hanno di più lunghe, e di meno,
sicché mentre si fa un' azione, tal altra azione si ripete
più volte; così la mente ragiona : L'azione più breve ripetesi,
a ragione d'esempio, due, tre, quattro, mille volte,
in quello che l'azione più lunga una volta sola si com
pie : nell'istante adunque che l'azione più breve s'as
solve la prima volta, 1 azione più lunga non si può
fare che in alcuna sua parte. Quindi la mente consi
dera un'azione come un risultato di più parti, o sia
un complesso di tante azioni minori. Egli è vero che
venuti ad un'azione brevissima, l'osservazion ci vieu
meno: ma la mente pensa la possibilità di una osser
vazione più fina, e poi via più fina ancora, di quella
che. s' abbia 1' uomo; perocché in questo pensiero non
trova contraddizione. Indi conchiude, che con quell'os
servazione sottilissima sarebbe possibile di rilevare un'a
zione più breve ancora della minima, fra quelle che
sono a noi osservabili. La mente adunque riconosce la
possibilità d'azioni sempre più brevi indefinitamente:
perocché per quanto accorci quest' azione , non trova
mai una contraddizione nell' accorciarla via più colla
mente. Indi l' idea della divisibilità indefinita del tempo.
IV. La divisibilità indefinita del tempo nou è che la
possibilità che dà la mente di assegnare una serie d' i-
stanti sempre più vicini fra loro , cioè di pensare delle
azioni sempre più brevi , il principio ed il fine delle
quali sono appunto gl'istanti di questa serie, come i
termini di una linea sono i punti. Ma qui non abbia
mo ancora l' idea della continuità , che con questo di
scorso cerchiamo: veggiamo adunque come anche questa
idea sia una possibilità della mente; ed occupiamoci di
lei con ispecial diligenza , come di una idea , quanto
difficile, tanto importante.
i
§ 6. \
L' idea fenomenale della continuità del tempo è fallace.
to? 4 « 5. (a) l ..
sare : egli non sarebbe più un numero particolare, ma
il numero in genere , essere puramente mentale. A ve
der ciò più manifesto, si consideri, che se io scrivo
la serie de1 numeri naturali i, a, 3, 4> 5 ecc., e la
suppongo protratta a piacimento , questa serie è la for
inola che esprime ed annovera tutti i numeri partico
lari possibili. Se io dunque penso ad un numero par
ticolare , debbo necessariamente pensare un numero che
possa essere contenuto in detta formola. Ora tutti i
numeri contenuti in quella serie , sono determinati ,
cioè ciascuno è egli, e non è un altro: il 3, per esem
pio, è il 3, nè più nè meno, e non è il 4, nè il 2 ,
nè alcun altro. È dunque dell'essenza specifica del nu
mero, di essere determinato. Un numero dunque inde
terminato non esiste , nè può esistere.
Seconda proposizione. « Se un numero di cose, per
chè possa esistere, dee essere determinato, egli dee essere
altresì finito ».
La ragione di ciò si è, che l'essere un numero determi
nato , inchiude già l'idea dell'essere finito. Poiché deter
minato vuol dire, come dissi, ch'egli sia egli, e non più
e non manco ; che la sua esistenza quindi non si con
fonda nè col numero che lo precede nella serie, nè col
numero che lo sussegue. E standoci alla serie nostra ,
che tutti i numeri particolari inchiude, via, scelgasi
qual più si voglia fuori di tutti gli altri: poiché se si
vuole un numero , conviene pur sceglierlo fra tutti , e
non lasciare indeciso qual sia. Ora, qualunque si scel
ga, che sarà finalmente il numero che si sceglie? Sarà
sempre il numero precedente aumentato di una unità,
fifa il numero precedente è pur finito; poiché facendosi
lo stesso discorso di lui, egli è quello che lo precede,
più una unità; per modo, che venendo indietro al prin
cipio, si trova che qualunque numero particolare è
1* unità, più delle altre unità: è dunque una somma di
numeri finiti : qualunque numero adunque particolare
dee essere finito per modo, che l'idea di numero par
ticolare inchiude quella di numero finito. È adunque
assurdo che esista un numero di cose veramente infinito.
Terza proposizione. « Una successione di cose infinite
di numero, è contraddizione».
Questa proposizione ha la sua ragione nelle due pre
cedenti.
3i8
Una successione di cose infinite di numero non po
trebbe esser pensata , perchè il numero infinito non può
essere pensato, giacche involge contraddizione.
Ciò che non può pensarsi perchè involge contraddi
zione, non è possibile.
Dunque una successione di cose infinite di numero
è impossibile, o sia , è cosa che involge contraddizione.
Quarta proposizione. <* La produzione d1 un essere
mediante un'azione successiva e continua, dà una suc
cessione di cose infinite di numero».
In una successione continua io posso assegnare un
indefinito numero d' istanti.
Ma io ben capisco , che questo numero d' istanti ,
quantunque grande egli sia a mio piacimento , non per
viene mai a formare il continuo , anzi nè pure a di
minuirlo nella più piccola parte ; perciocché un istante
non avendo lunghezza alcuna , ma essendo un perfetto
punto, non può coprire la menoma lunghezza continua.
Quindi per quantunque istanti io segni col mio pensiero
in un tempo continuo e da lui li sottragga, io non Ito
diminuito la lunghezza di questo tempo nella più pic
cola parte , conciossiachè non ho sottratto da lui al
cuna lunghezza, ma ho segnato in lui un numero di
punti privi al tutto di lunghezza. Mediante questo ra
gionamento io concludo , che restandomi sempre la
lunghezza medesima continua ( sebbene divisa in mi
nute parti, ciascuna però continua ), io non potrei giun
gere ad esaurire questa lunghezza nè anco se io potessi
moltiplicare gl'istanti all'infinito: giacché un infinito
numero di non-lunghezze non possono giammai fare
una lunghezza. Questa natura del continuo però non è
quella che involge alcuna contraddizione; perocché non
è già essa che abbia in sè un numero infinito di punti,
ma sono io che gli immagino, o mi sforzo d' immagi
narli in essa (i). Per quanto sia misteriosa questa na
tura del continuo, ella non è però ripugnante ed in
trinsecamente contraddiente^ >
All'incontro supponendo noi, coni' è nel caso nostro,
una successione continua , dico che in questa succes-
§ 7-
La continuità del tempo è una mera possibilità,
o sia un concetto della mente.
Se noi non abbiamo un' idea di continuità reale nel
tempo dall'osservazione, abbiamo però un'idea di con
tinuità astratta, e col ragionamento sulle possibilità delle
cose in noi venuta nel modo seguente.
Entro due istanti dati, cioè entro la spazio di tempo
in cui si assolve un'azione grande o sia osservabile,
veggiamo farsi medesimamente un gran numero d altre
3ai,
azioni, o almen cominciare, meno o più lunghe di
quella. Or consideriamo i principj di queste azioni: l'i
stante nel quale cominciano non è punto dalla loro natura
determinato. Noi pensiamo adunque alla possibilità, che
in qualunque istante, assegnabile entro lo spazio di
tempo predetto, possa cadere il cominciamento di un'a
zione. Quindi tutto quello spazio di tempo non ha, ri
spetto a questo, particella che sia diversa dall'altra,
non ha intervallo di sorta; ma, ovecchè si voglia, in
lui si può assegnare un punto , ed ivi far cominciare
un1 azione. Quest'attitudine adunque che ha quello spazio
di tempo, questa uguaglianza perfetta e indifferenza a
ricevere in qualsivoglia sua parte un principio di azione,
questo nessuno intervallo , nessuna esclusione in qua
lunque suo istante ; è appunto ciò che ci dà quell'idea
astratta che noi abbiamo della continuità del tempo;
la quale si riduce alla possibilità di assegnare il prin
cipio o il fine di un' azione egualmente in tutti i punti
da me pensabili in un certo spazio di tempo.
§ 8. " •
Distinzione fra ciò che è assurdo e ciò che è misterioso.
Assurdo è ciò che involge contraddizione.
Misterioso è ciò che è inesplicabile. *
Invano i sofisti hanno tentato di confondere questi
due distinti concetti : essi rimarran sempre distinti.
Ciò che è assurdo, si dee rigettare siccome falso.
Ciò. che è misterioso , tanto è lungi che rigettar si
debba, che anzi spesso rigettare al tutto non si può.
Bene spesso ciò che è misterioso, è un fatto : ed i fatti
non si posson negare.
Innumerevoli sono i fatti misteriosi nella natura ma
teriale : si vorrà pretendere che non debba essere nes
sun mistero nella natura dello spirito, in questa na
tura tanto più sublime, più attiva, immensa , profonda?
Noi crediamo assurdo il continuo nella successione. .
Ma il concetto del continuo semplice il crediamo
bensì misterioso, e non assurdo: il crediamo anche ma
nifestamente esser nel fatto. Quindi nel mentre che ab
biamo rigettato il continuo nella successione, non ci
crediamo in diritto nè in potere di rifiutare il continuo
Rosmiiw, Orig. delle Idee, Voi. II. 4'
322
dalla natura delle cose , siccome un concetto ove non
reggiamo alcuna contraddizione.
§9-
Nella durata delle azioni compite non c'è successione,
e pereiò non c'è idea del tempo, ma continuo.
§ io.
L'idea dell'essere che forma il nostro intelletto, « immune da tempo-
CAPITOLO VII.
ARTICOLO I.
Il MOTO SI PERCEPISCE DA HOT IN T»K MODI.
\
Una delle grandi azioni che si fanno con successione,
e che formano e misurano (3) il tempo, è il moto: di
questa idea del moto dobbiamo ora parlare.
Il moto è attivo e passivo rispetto a noi.
jéttivo chiamo quel movimento de' nostri corpi , di
cui siamo noi stessi cagione quando camminiamo, o tras
portiamo in qualunque modo il corpo nostro per la fa
coltà locomotrice di che siamo forniti. .
Passivo chiamo quel movimento che riceve il corpo
nostro da una forza esteriore che gli fa mutare di luogo.
Oltre al moto nostro, e' è poi il moto de' corpi che
(i) Questa parte più elevata é ciò che si chiama , propriamente par
lando, intelletto: Supremum, dice s. Tommaso, in nostra cognitione non est
ratio, sed in!elice tus, qui est rationit origo (C. Gent. I, mi).
(a) S. Tommaso pure deduce l'idea del tempo a posteriori, cioè da' fan
tasmi: Ex ea parte, così egli, qua se ( intellectus ) ad phantasmala con-
veriil, compositioni et divisioni intellectus, adjungitur tempus. Quindi quella
elevatezza di maniere che usano i Padri della Chiesa quando parlano della
parte più nobile della mente umana; quelle espressioni, consacrate da una
costantissima tradizione, che gli uni appo gli altri ripetono di secolo in se
colo, colle quali asseriscono che la mente nostra è alle eterne ed immuta'
bili cose congiunta , che gode la vista di una verità incommutabile, e che,
come dice s. Bonaventura , vede sempiternalia et sempiternaliter ( Ititi,
mentis, etc. )
(3) La successione in generale forma il tempo; ma ciascuna successione
particolare si dice misura del tempo quando si prende per norma a cui
confrontare le altre successioni.
3a4
ci circondano, il quale noi proviamo noi stessi nè atti»
va mente nè passivamente.
Ora essendo il moto un' affezione tanto del corpo no»
stro come de* corpi esteriori , quindi avviene che noi lo
percepiamo insieme co' corpi de' quali egli è in qualche
modo un' affezione; e quindi che noi lo percepiamo in
tanti modi , quanti sono i modi della percezione de'
corpi; i quali, come abbiamo veduto, sono i tre già
annoverati. , . - • •' : <■ '• ' ! < .
Quindi il moto da noi pure si percepisce
i* soggettivamente, mediante il sentimento fondamen
tale; e questo vale pel moto- attivo , del quale la co
scienza nostra ci avvisa di esser noi stessi cagione;
a." soggettivamente ancora , mediante la sensazione
acquisita, che ci fa sentire il movimento delle parti nel-
1' organo sensitivo affètto ; e quindi in questo modo
percepiamo soggettivamente una specie di moto passivo;
3.' extra-soggettivamente , mediante i sensi, i quali
come ci fanno percepire alla lor foggia i corpi nostri
sì bène che gli esteriori , così percepir ci fanno pure i
movimenti che né' còrpi tutti avvengono , sia il molo
rispetto a noi attivo o passivo; lè quali affezioni di at
tività o passività del moto, extra-soggettivamente di-
stinguère e percepii1 non si possono , ma solo soggitò'
vomente.
Ora io non dovrei, a dir vero1, ragionare che de1
modi Soggettivi di percepire il moto: conciossiachè ho
trattato fin qui solò de modi : soggettivi di percepirei
corpi, e mr rimane a trattar del modo extra-soggettivo-
Tuttavia questa separazione renderebbe mozza la pre
sente trattazione sulla percezione del movimento: il per
chè non istimo convenevole di disgiungere al tutto il
modo extra-soggettivo di percepire il moto de' corpi ,
da' modi soggettivi.
.1 ARTICOLO IL
4t DESCRIZIONE DEL MOTO ATTIVO.
Non è però mio intendimento di mettermi in troppo
difficili investigazioni intorno alla natura del moto: mio
ufficio è solò di additar l'origine dell' idee del moto.
L'osservazione anche qui dee esser mia guida, e il
fatto in prima della coscienza.
3a5
Parlerò del moto attivo, e poi del moto passivo.
Noi abbiamo la facoltà di muovere il corpo nostro (i).
Che è questa facoltà? come ci vien presentata dall'osser
vazione?
Abbiam veduto, il sentimento fondamentale che ci fa
percepire immediatamente il corpo esser fornito di un
suo modo , cui abbiamo chiamato estensione (a).
Or la facoltà di muovere il corpo nostro , siccome
ce la presenta immediatamente l'osservazione, è un po
tere dell'anima sul suo sentimento fondamentale; e que
sto potere consiste nel mutare in una data maniera il
modo di quel sentimento.
Il nuovo modo (3) che prende quel sentimento, si
chiama nuovo spazio.
Mutare il modo di quel sentimento fondamentale, si
dice quindi mutare lo spazio o il luogo.
E poiché l' anima ha virtù di mutare il modo del
sentimento fondamentale, per questo si dice ch'ella ha
potere sul proprio corpo, il potere di muoverlo.
E veramente^ se il corpo è quell'agente che produce
sull'anima il sentimento fondamentale, termine al quale
è l'estensione; l'anima dunque dee avere un'attività su
quell'agente, quando il fatto dimostra ch'ella può far
sì che muti in un dato modo la sua azione.
ARTICOLO III.
' DESC&I1I0NE DEL MOTO PASSIVO.
ARTICOLO IV.
(i) A questo luogo, dove mostro che il moto non si percepisce da noi
per sè stesso, stimo di non perdere l' occasione di sciorre un soitil dubbia
che altrui venire potrebbe, non nella presente materia, ma tuttavia in ma
teria di sommo momento, e che si fa necessaria ad ogni capitolo quasi
direi di quest'opera. Il dubbio cade sulla distinzione fra 1* idea, e il giu
dizio in sulla sussistenza delle cose da me stabilita nella Parte I , c. II. Dissi
che ov'anco un oggetto qualunque si concepisse dalla mente fornito di tutti
i suoi caratteri essenziali e accidentali, non è tuttavia necessario ch'egli
sussista; e che perciò, giudicando che sussista, non abbiamo con questo nulla
aggiunto alla sua idea, la quale era pur in noi così compita e perfetta per
lo innanzi siccome da poi, nè poteva esser più. Or si dimanderà (ecco il
dubbio): Il luogo e il tempo non son essi caratteri accidentali sì, ma pur
caratteri della cosa? giudicando che una cosa sussista, voi aggiungete all'idea
della cosa il luogo e il tempo , caratteri che a lei mancavan da prima.
A cui io oppongo la seguente osservazione. Il luogo e il tempo per sé
Don sono caratteri della cosa: in qualunque luogo e in qualunque tempo la
cosa sussista , ella è la medesima nè più nè meno; nessuna giunta , nessuna
'Iterazione nella sua natura. Questo è da considerarsi attentamente. Prova
di ciò può essere l'esperienza che accenno in un essere sensitivo. Un es
sere sensitivo può esser trasportato ovecchessia, anche le mille miglia lon
tano, senza eh egli n'abbia il minimo sentore: perchè ciò? perchè il tro
varsi in questo o quel luogo (e dite lo stesso del tempo) è nulla per lui, non
cangia in lui nulla, la sua natura resta quella stessa identica nè più nè
manco di prima , senza alterazione di sorta: nell'idea dunque di una cosa
non entra il luogo. All'opposto il giudiiio sulla sussistenza di una cosa cor
porea, quando si fa per la percezione sensitiva, determina il luogo: poiché
se io percepisco co' sensi miei un corpo, debbo percepirlo in luogo deter
minato. Ma che è questo luogo, questa estensione che occupa il corpo per
cepito? Il luogo determinato (l'Aie et nunc degli scolastici) è un'astrazione
del corpo sussistente: egli non cade dunque nell'idea, ma cade sotto al
giudizio insieme colla sussistenza della cosa della quale forma , nelle cose
corporee, un elemento. Si replicherà : non ho io dunque l' idea del luogo?
Sì, io rispondo; ma a quello stesso modo com'avete Videa della sussistenza.
L'idea della sussistenza è universale come tutte le altre idee, cioè quella
nostra idea non è che la possibilità che un essere sussista. Ove si tratti
all' incontro della par'ticolar sussistenza di un essere, questa sussistenza par
ticolare che voi pensate è 1* idea medesima della sussistenza determinata con
un giudizio ad un oggetto particolare. Medesimamente voi avete l' idea di
m luogo: questa idea è la possibilità che un essere esteso eaista. Quando
voi percepite un essere esteso sussistente, determinate con un giudizio l' idea
di quell'esteso, affermandone a voi stesso la sussistenza, e con esso il luogo
empito. Se non che il luogo è un astratto, la sussistenza è l'atto stesso di
Un ente: il luogo è il modo della sussistenza di quell'ente che corpo chia
miamo. Questa distinzione fra ciò che si comprende nell' idea (il possibile ,
3a8
ARTICOLO V.
u MOTO hi' nostri organi sbasitivi è SENSIBILI.
i
33o
la mutazione della forma totale dell' organo , cioè la
mutazione di luogo di più molecole ad un tempo (il
moto relativo delle molecole), quella che fa sensibili
in altri luoghi le parti individuali dell' organo stesso.
Volendo dunque analizzare quel sentimento soggettivo
col quale noi percepiamo le parti sensitive del nostro
corpo , veggiamo
1.° che questo sentimento è vario piacere o dolore
diffuso in una data estensione limitata o figurata ;
2." che la /ìgura di questa esleusione sentita può
mutarsi mediante un molo relativo delle sue parli, e
che il sentimento si diffonde tuttavia sempre nella esleu
sione compresa in tutte le figure successive che prende;
3. * che quindi il sentimento soggettivo percepisce il
movimento particolare che succede nella figura dell'or
gano, in quella parte sola però dell'organo slesso o\e
la l'orza applicata opera in quel modo che è necessario
perchè ivi produca sensazione.
Il sentimento soggettivo adunque percepisce il movi
mento in quanto è alterazione che soffre la sua materia.
ARTICOLO VI.
BELAZ10NE fiu il moto e la sensazione.
ARTICOLO VII.
DEL MOTO RELATIVAMENTP ALLA PERCEZIONE (l) DEI TATTO.
Il tatto percepisce la durezza e la superficie de' corpi.
Ma quando un corpo, poniamo una punta, striscia
in sul nostro braccio fermo , correndone la lunghezza ,
percepiamo noi allora il moto col tatto ?
(i) Ne' sensi esterni abbiniti distinto I* la sensazione dell' organo, a* "
percezione di cosa diversa dall' organo. Abbia m parlato del moto relatiw
menie alla sensazione (Art. IV); ora parliamo del moto relativamente «B»
percezione corporea.
33c
Sembra a prima giunta di sì; e certo noi percepiamo
qualche cosa di simile al moto,
Tuttavia una difficoltà non leggera nasce in questo ,
che sebbene noi sentiamo nel braccio nostro una sen
sazione, che si muove, quasi direi, allungandosi secondo
il braccio stesso , e con essa percepiamo il corpo che
produce la sensazione; tuttavia pare che noi non ci
possiamo bene accertare dell'identità del corpo che ci
produce quelle sensazioni; perocché in luogo d' un corpo
chi- scorre il braccio, potrebbero essere altrettanti corpi
l'uno all'altro successivamente senza notabile inter
vallo sostituiti (l).
ARTICOLO IX.
DEL MOTO RELATIVAMENTE ALLE PERCEZIONI DELl' COITO,
DELL' ODORATO E DEL COSTO.
ARTICOLO X.
DBL1A CONTINUITÀ' NEI. MOTO.
5 i.
§ 2.
V osserrazione non ci dà die una continuità fenomenale nel moto.
§ 3.
La continuità reale del morimento è assurda.
Se l' osservazione non può dirci nulla di certo sulla
continuità reale del movimento , rimane a tentare la
via del ragionamento.
Il ragionamento non ci può accertare de' falli, ma
334
può però pronunziare sull'intrinseca possibilità o im
possibilità de1 medesimi.
Or noi abbia m dimostrato già sopra , che la conti
nuità nella successione è assurda (i).
Ma nel movimento, come in ogni azione che cresce
e minuisce , avvi successione.
Dunque nel movimento è assurda una vera e reale
continuità.
In tal modo è che il ragionamento dal discorso delle
mere possibilità conchiude talora ai fatti : egli può ne
garli, ove scopra in essi intrinseca ripugnanza: ove non
possa notarvi ripugnanza, egli non può asserirli, ma
solamente dichiararli possibili,
§4-
Obbiezione tratta dal salto, ruotata.
Se nel movimento non può ammettersi vera continui
tà, dunque egli si fa per salti. Ma essere il salto escluso
dalla natura, è sentenza comunissima ed antica.
E certo il salto nella natura è assurdo.
Ma il non essere vera continuità nel movimento, af
fermo che non v' induce il salto.
L'idea del salto non è, nè può essere in ciò che av
viene in uno istante.
Perciocché il salto suppone due punti , dall' uno al
l' altro de' quali si passi senza toccare il mezzo. Ora
iteli' idea di passaggio si comprende quella di toccare
il mezzo: perciocché il passare d'un luogo all'altro
senza toccare il mezzo, è passare senza passare. E dun
que assurdo il concetto del salto nella natura in questo
senso, che si mettono di mezzo degli anelli, e poi si
fanno trapassare senza toccarli: il mettere degli anelli
in mezzo ( cioè de' passi necessarj ), e poi il farli tra
salire, è contraddizion manifesta.
Il movimento all'incontro, ove non si aggiunga cosa
alcuna al suo concetto colla immaginazione , non pre
senta altro che l' esistenza di un oggetto successiva in
più luoghi , senza bisogno di pensare che salti d' mi
luogo ad un altro. Non inchiude dunque questo concetto
§ 5.
Continuità mentale del moto.
E ciò che rende via più difficile sentir la forza del
detto ragionamento si è, che v' ha nella nostra mente,
come del tempo, così pure del moto V idea di una certa
continuità mentale.
Questa continuità mentale ed astratta consiste nella
possibilità (che noi concepiamo uguale e indifferente),
che in qualunque punto di tempo e di spazio cominci
o termini il movimento.
Non essendo un punto del tempo e dello spazio più
336
atto dell' altro a ricevere il principio o il termine del
movimento, quindi un'uguaglianza di possibilità che
produce o più tosto è l' idea di una continuità astratta
nel movimento di un oggetto che scorre fra due istanti
o due punti qualunque sieno.
CAPITOLO Vili.
ARTICOLO L
distinzione nk l' idea di stazio e di conto.
ARTICOLO IL
l' estensione o lo spazio è interminabile.
L' estensione o lo spazio, preso in questo modo astrat
to, e interminabile e continuo.
Or come avviene che il nostro concetto di spazio
acquisti que' due caratteri innegabili della interminati-
lità e della continuità?
Veggiamolo, cominciando dal primo.
In noi è una potenza di muovere il corpo nostro (a)
Muovere il nostro corpo non è che rimutare, cioè
replicare il modo del sentimento del nostro corpo, ossia
replicare 1' estensione di esso corpo nostro.
Ora gli atti delle nostre potenze noi possiamo repli
carli indefinitamente: e quando nel fatto noi non pos-
(i) La ragione non trova in ciò alcuna ripugnanza: io sarò costretto più
sotto dui mio argomento a rifarmi su questa questione , c tentarne il guado.
ma di astrazione, d'una idea che risulta alla mente
'lai concetto applicato della possibilità. E in vero, noi
concepiamo assai bene la possibilità di riferire a qua
lunque di que1 punti la sensazione che noi proviamo.
Conciossiachè se il nervo sentito ha i suoi pori e i suoi
piccioli vani nella finissima sua tessitura, egli è poi al
tutto accidentale che questi forellini cadano anzi dove
sono che tutt' altrove : e nulla ripugna che noi pen
siamo un nervo aver là il pieno, ove di presente ha il
vuoto*, siccbè almeno colla mente nostra noi possiamo
tramutar luogo a tutte le particelle sensitive del nervo
nostro , come pure agli spazj vacui che nel medesimo
qua e là si rinvengono : e questa potenza della imma
ginazione intellettiva basta perchè noi concepiamo a
pieno « la possibilità di riferire un sentimento a qua
lunque punto assegnabile», il che è l'idea della con
tinuità.
Tale possibilità che abbiamo di riferire il sentimento
a qualsiasi punto assegnabile in uno spazio , nasce dal
l' indifferenza che v' ha nella natura dello spazio a ri
cevere anzi in un punto che in un altro quel senti
mento. Non essendo determinazione alcuna in ciò, resta
possibile che in qualunque punto entro i confini del
corpo termini la sensazione: e questa indeterminazione
de' luoghi , questa possibilità di riferire il - sentimento
indifferentemente ad ogni punto, racchiude ed è l' idea
stessa del continuo nello spazio puro ed astratto.
La potenza di muoverci n' agevola l' acquisto di tale
idea*, perocché ci dimostra pur col fatto l' indifferenza
che ha ogni parte di spazio ad esser quella ove il sen
timento nostro si espande.
Notomizziam coli' immaginazione una mano : disco
priamone i nervi tutti in essa serpeggianti, e poniam
di scoprire con acutissimo microscopio il lor finissimo
tessuto. Mediante tale stromento noi veggiam 1' aderenza
delle molecole di cui sono composti , e i piccolissimi
loro interstizj. In questi interstizj , dove il nervo va
neggia , non è sentimento; perocché non è parte sensi
tiva. Or usiamo della facoltà motrice. Un piccolissimo
movimento dato alla mano, che fa? il luogo occupato
prima dalle molecole nervee è tosto lasciato libero , e
quelle han preso posto là ove prima era il vacuo. In
questa nuova posizion della mano, a che luoghi rife
34o
riamo noi il sentimento ? a' luoghi vacui prima. Col
moto dunque succede di fatto, che noi possiamo recare
in qualunque punto matematico dello spazio il senti
mento nostro: questa possibilità ci fa concepir lo spa
zio di una continuità assoluta e perfetta.
Vero è che il sentimento dell' organo pel moto ac
quistato non è mutato un punto: conciossiachè il moto
per sè stesso è insensibile (i). Ma ciò non toglie che
la mente nostra , ajutata massimamente dalla sensazione
oggettiva de' corpi, non tragga nel modo detto l'idea
della continuità della estensione.
ARTICOLO IV.
SSL CONTINUO BEALE.
ARTICOLO V.
IL CONTINUO NON HA FAETL
ARTICOLO VI.
IL CONTINUO ?UÒ AVE» DE* LIMITI.
i
342
non fanno già un sol continuo, fino a tanto che si con
cepiscono come parti; ma esse fanno più continui mi
nori , e non altro, per sì fatto modo , che ove noi le
vogliamo considerar tutte insieme siccome un continuo
solo, dobbiamo rimuover da esse l'idea di parti, e
ogni divisione qualsiasi, e accostandole insieme coli1 im
maginazione, tor via ogni confine loro, anche ideale pu
ramente; conciossiachè il concetto di continuo ripudia
come suo contrario il concetto di parte.
ARTICOLO VII.
IN QOAL MODO SI PUÒ DIRI CBE IL CONTINUO È DIVISIBILE ALl' INFINITO.
Il perchè non può dirsi il continuo divisibile all'in
finito, se non nel senso eh' egli è limitabile da noi in
definitamente (i).
E questa indefinita limitazione di cui egli è suscetti
vo , nasce dalla sua natura non solo, ma ben anco da
quella delle facoltà nostre, che possono sempre iterare
il loro atto, e massimamente dalla nostra facoltà di
pensare , che mediante il concetto di possibilità può
immaginare e pensar possibile tutto ciò che non è in
sè ripugnante e contradditorio.
La divisibilità adunque all'infinito non è che la pos
sibilità di ripetere indefinitamente la limitazione dello
spazio da noi pensato: quindi la sentenza di s. Tom
maso, che « il continuo ha infinite parti in potenza ,
e nessuna in atto » •
CAPITOLO IX.
(i) Il continuo non si dice con proprietà divisibile, per questa ragione,
ch'egli diviso, non è più continuo.
343
a.* la percezione sensitiva del corpo esteriore , la
qual dobbiamo noi ora diligentemente analizzare.
La percezione extra-soggettiva di un corpo, analiz
zata, ci dà pure due elementi :
a) la coscienza dell' azione cbe noi patiamo ,
b) Y estensione , nella quale riferiamo la coscienza di
quella specie di violenza che ci vien fatta, la quale
estensione comprende un fuori di noi esteso.
Di qui può conchiudersi, che noi allora possiam dire
d' avere la percezione di un corpo mediante la sensa
zione acquisita, quando abbiamo percepito un distinto
da noi , un fuori di noi, e un esteso.
Sponiamo adunque come i sensi esteriori ci dieno un
soggetto a cui convengano queste tre qualità, e comin
ciamo dal tatto.
ARTICOLO II.
TUTTI I SENSI CI DANNO Là PERCEZIONE D* OR DIVERSO DI NOI.
ARTICOLO III.
TU'llI I SENSI CI DANNO LA PEBCEZIONE D* UN FUORI DI NOI.
ti) Capo II. Quindi non si può ammettere la distinzione che cercò di
stabilire fra' sensi Royer-Collard , alcuni de' quali fece meramente stro-
mniti di sensazioni , e alcuni di sensazioni e di percezioni ad un tempo
( Vedi i frammenti delle Lezioni di Royer-Collard, stampati da Jouffroy ) :
perciocché tulli percepiscono, tutti hanno la loro parte extra-soggettiva ,
sebbene in alcuni questa parte sia più distinta e tu altri meno, come ve*
dremo.
344
tra, è una cosa che non occupa i! luogo di un'altra.
Quindi fuori di me, viene a dire fuori delle parti ed
organi senzienti del corpo mio (i).
Se dunque il diverso da me indica una relazione di
distinzione dal mio spirito; il fuori di me indica una
distinzione dal mio corpo in quanto egli è senziente,
per l' intima unione eh' egli ha col mio spirito, nel
quale è come un agente, nel modo che ho sopra toccato.
A dimostrar dunque che ogni senso percepisce il fuor
di noi , dobbiam dimostrare che ogni senso percepisce
un diverso dal nostro corpo soggettivamente percepito.
Ora, che ciò avvenga, manifesto è per le cose dette.
Fu detto che il sentimento fondamentale è prodotto
da un'attività diversa da quella che il cangia: indi de
ducemmo due specie di attività, o sia i.° il corpo mio,
a.* ed i corpi esteriori che agiscono sul corpo mio.
In ogni sensazione adunque noi percepiamo un prin
cipio attivo , o sia un corpo diverso dal corpo mio :
conciossiachè ogni sensazione è passione che noi sof
friamo d' altro che dal corpo nostro. Dunque ogni senso
ci dà un fuori di noi , come dicevamo da principio.
E perchè non s'abbia dubbio di ciò, gioverà, a ri
badir questa prova, alcuna riflessione.
Il corpo mio è sentito nel sentimento fondamentale:
ciò che si sente fuor di quel sentimento, non è mio
corpo.
Or si figga l'attenzione ne' quattro fenomeni, de' co
lori, suoni, odori e sapori, e nella durezza altresì,
ed altrettali qualità tattili de' corpi; e vengasi interro
gando la propria coscienza, se tutte quelle cose non
sono forse altro che i proprj organi sensitivi: facilmente
si vedrà , che quelle sensazioni hanno qualche cosa di
diverso da' proprj organi , a tale che si può dire più
agevolmente che 1' odore non ha la minima similitudini!
col naso nostro , nè il sapore colla lingua o col pala
to , nè il suono cogli orecchi , e così dicasi dell' altre
qualità tutte. Quelle sensazioni adunque non possono
(i) Ciascuna parte anche senziente del mio corpo si può dire fuori di
noi in quanto ella si percepisce extra-soggettivamerUe , nella qual percctione
essa si considera in ciò che ha di comune co' corpi esteriori tutti; eli è
allora fuori del soggetto , cioè la parte che è percepita è fuori della porte
percipiente ( soggetto ).
avere per sola materia il corpo nostro ; e se v' ha an
che la sensazione del corpo nostro in esse, certo tutto
ciò che con esse noi percepiamo , non è il corpo no
stro. Esse provano adunque un principio esteriore al
nostro corpo , un termine diverso da quello del senti
mento fondamentale.
ARTICOLO IV.
IL TATTO SOLO NON PERCEPISCE CHE DELLE SUPERFICIE CORPOREE.
(1) Radisi però che qui parlasi delle sensazioni avventizie , e non ari
sentimento fondamentale, nel quale io son convinto che V abbia il conti
nuo nelle parti a cui egli termina.
(2) Cap. VII , art. n.
(3) Non è già che questa solidità possa esser nota al senso, poiché »
moto non è sensibile per sé stesso, come abbiamo osservato, ma è una
via per la quale noi formiamo il pensiero della solidità sensibile.
(4) Il movimento spontaneo <> la principal cagione delle notizie che noi
acquistiamo delle distanze e degli spazj ; il tatto ( mediante il tempo ) e ■»
vista non servono che a far percepire esaltamente il termine della distani».
Quindi non è necessario un latto finissimo a misurare le grandi distanze,
siccome veggiam negli uccelli , che percorrono gl'immensi campi dell aria,
e li misurano senza aver più che 1* ottusissimo tatto delle loro zampette-
li' avoltojo , a ragione d esempio , misura lo spazio , il tempo e la cele
rità necessaria a calare e raggiungere la sua preda : a cui gli basta il poco
tatto di cui è fornito , e la molla vista congiuntamente alla molta po
tenza locomotrice.
347
ARTICOLO VI.
RIASSUNTO DE* MODI ONDE KOI PERCEPIAMO LO SPAZIO SOLIDO.
ARTICOLO VII.
ì PIÙ* FACILE RIFLETTERE SULL* IDEA DELLO SPAZIO ACQUISTATA PEL TATTO
E PEL MOTO , CHE PEL SENTIMENTO FONDAMENTALE E PEL MOTO.
ARTICOLO Vili.
><0 SPAZIO PERCEPITO COL MOVIMENTO DELLA SENSAZIONE DEL TATTO , È IDENTICO
COLLO SPAZIO PERCEPITO COL MOVIMENTO DEL SENTIMENTO FONDAMENTALE.
Il termine della sensazione esteriore del tatto è quello
di una superficie più o meno estesa (a).
ARTICOLO X.
contindazione.
ARTICOLO XI.
LA SENSAZIONE SOGGETTIVA DEL CORPO NOSTRO È IL MEZZO DELLA PERCEZIONE
EXTRA-SOGGETTIVA CORPOREA.
(1) Art. X
{?) La filosofia non per un solo, ma per molti canali discendendo, venne
a meltersi e perdersi quasi in oceano interminabile nel moderno scettici
smo. Io ho accennato la storia di questo sistema, anzi negazion di sistema,
per Locke , Berkeley, Hume, Reid e Kant, come pure per Locke, Con-
dillac, e gli scettici di Francia: un'altra via per la quale venne a noi
quella distruzion filosofica, fu per Cartesio, Bayle e Kant; ed ecco quali
De furono i passi. Cartesio avea resa celebre , e fatta abbracciare univer
salmente la sentenza del Galilei sulle proprietà secondarie de' corpi , che
non fossero che nel soggetto ; e ripose 1' essenza de' corpi nella estensione.
Il suo errore consisteva nel non avere osservato, che in tutte le sensazioni
nostre, sebben soggettive , come ne' colori, sapori, suoni, odori ecc., v'ha
sempre necessariamente una parte extra-soggettiva. Dimenticala questa
parte e negletta , e fatte passare quelle sensazioni tutte per soggettive ,
venne Bayle , il quale applicò gli stessi argomenti che avea Cartesio usati
per le qualità secondarie, a mostrar soggettive le primarie, fra le quali la
estensione. L'argomento era semplicissimo, e ad hominem. L' estensione
non è percepita da noi che mediante una sensazione: le sensazioni sono
soggettive: dunque 1' estensione è soggettiva. Di questo punto partendo,
bastò a Kant l'inventare il nome di forma del senso estemo, per esprimere
quell' attitudine che ha il soggetto di avere la percezion dello spazio : ed
ecco messo il piede in sul suolo dulia critica filosofica. Kant fece più
passi entro una terra a cui si trovò sbalzato dal naufragio, quasi direi ,
ilei suo tempo, e scoperse un tristo paese, la filosofia trascendentale. L'e-
sttnsione non si potè più difendere , dopo il piccolo crror di Cartesio ,
cioè quello di aver trasandato I' elemento extra-soggettivo , che è pur in
tulle le noslre sensazioni soggettive.
35?.
§ 2.
Unità complessa del nostro corpo sensitivo.
I nostri organi, acciocché abbiano la facoltà sensiti
va , debbono avere certe condizioni.
Una fra queste è la comunicazion col cervello.
Questa fa conchiudere, che la sensitività di ciascuna
parte del nostro organo sensitivo dipende dalla forma
di tutto il sistema senziente, cioè da un acconcio com
partimento ed organizzazion di parti: le quali, messe
così armonicamente, danno un tutto, che in ogni sua
parte è sensitivo.
Dal tutto adunque, o a dir meglio , da una cotale
unità che in qu-esto tutto ha sede , vien V essere sensi-
§3.
Sull' unicità del nostro corpo non può cadere errore.
A. veder ciò, diamo che i nostri corpi fossero due.
Converrebbe che noi avessimo due sentimenti fonda
mentali, con due estensioni: perciocché questi sono i
due elementi essenziali del corpo nostro. La coscienza
dunque, che attesta un solo sentimento fondamentale
esteso in una data estensione , attesta pure 1' unicità
del corpo nostro.
Diamo che sentissimo aver due corpi. Non potremmo
averne un solo; se pur nella sensazion de' due corpi noi
percepissimo duplicati i due elementi costitutivi, poiché
questi due elementi formano appunto il corpo (ì).
(l) A cui sarà beu entrato nell' animo il concetto che io diedi del cor
po, riusciranno irragionevoli le seguenti pai ole di Reid : « Noi non dob-
« biamo di ciò conchiudere, che tali organi corporali sieno di lor natura
• necessarj alla percezione , ma più tosto che per voler di Dio il nostro
■ potere di percepire aggetti esterni è limitato e circoscritto dagli organi
" del senso, conciossiachè noi percepiamo questi oggetti irt una certa ma-
» niera e in certe circostanze, e non in altre ( Essnys ori the Powers, eie,
T. I, f. 71 ). Che una cognizione de* corpi possa darsi più perfetta della
nostra in altri esseri privi degli organi corporei , è verissimo. Ma che la
percezione sensitiva de' corpi si possa aver migliore senza gli organi, que
sta è uua sentenza che non può dirsi se non da tale a cui manca una per
fetta analisi di detta percezione. Io ho mostrato, che ciò che noi chiamia
mo corpo, è appunto ciò che percepiamo cogli organi; sicché sono cosi
necessarj gli organi a percepire sensitivamente la natura corporea, come
e necessaria la stessa natura corporea, nè più né meno. Il detto di Rrid
manifestamente dimostra , eh' egli si era formato de' corpi 1' idea di una
Kosmihi, Orig. delle Idee , Voi II. l\ 5
35/,
§ 4-
Moltiplicità del sentimento del nostro corpo.
Or sebbene il corpo nostro sia uno per l'armonia
delle parli, e perciò noi ne percepiamo altresì l'unici
tà, e tutto ciò die è fuori di quell' armonia noi sen
tiamo, ed è alieno da noi ; tuttavia quell' unità uè quella
unicità non esclude la molli plici là sua; e di quesla
dobbiam ora toccare.
E dico, ebe per 1' organizzazion del mio corpo, lo
spirito mio col senlimento fondamentale sente lulle le
parti sensitive, e colla sensazione avventizia in luttele
parti sensitive, il ebe dà una colale molliplicilà per
lo meno possibile a concepirsi coli' intelletto.
E fermiamoci alla sensazione, cbè facil cosa è poi
applicare il ragionamento medesimo al senlimento fon
damentale.
Che possiamo noi affermare sulla moltiplicità della
sensazione, e che cosa non possiamo?
Noi possiamo affermar questo, che quando proviamo
una sensazione nel talto, se la impressione è di una
certa estensione ( data un' intension sufficiente ) noi la
sentiamo, e il più delle volle altresì l'avvertiamo.
Ma se quell' estensione è piccola oltre a certo segno,
sfugge da ogni avvertenza.
Possi a m chiamar minima quell' estensione della sen
sazione, che fatta più piccola , si rende inetta ad es
sere avvertita.
Ora questa minima estensione riguardisi qui come
1' elemento della sensazione estesa.
Cerio, che uno di questi elementi non è l'allro; pe-
cerla cosa incognita e misteriosa, come tutti i filosofi moderni che 1' Jiaim"
preceduto. Di ima idea cosi vaga, confusa, anzi al tutto misteriosa de' cor
pi , la qual da luogo ad almanaccare quanto alìrui piaccia, sortirono tulle
le stranezze, si può dire, della moderna filosofia, e massime l' idealismo-
In quella vece convien dire, clie la voce corjw non esprime nè può espri
mere se non ciò clic noi conosciamo e percepiamo sensitivamente : quindi
la nozione nostra de' corpi è condizionata e legata strettamente cogli organi
slessi. L' errore in questa parte di Reid, è il contrario di quello di New
ton, che giudicò necessario di dare a Dio per sensorio lo spazio infinito.
Reid giudicò gli organi eslesi non necessarj alla percezione sensitiva cor
porea , Newton I' estensione necessaria alla cognizione divina. La più parip
di qucsli incagli si rimuovono, ove s' abbia ben concepita la distinzione
della sensazione e percezione sensitiva, dall' idea e verbo dell' inlellello.
355
rocchè in ciascuno di essi noi abbiamo in separato que
ste due cose , i.° sensazione, 2" estensione 5 e queste
sono i due costitutivi del corpo.
Quindi noi possiam considerare questi elementi sicco
me rispondenti ad altrettanti corpicciuoli sussistenti in
separato 1' uno dall'altro , cioè V uno fuori dell'altro 5
ed è impossibile che l'uno coli' altro si confonda, o
che l'uno faccia le veci dell' nitro. Quindi noi perce
piamo nel corpo nostro con altrettanta certezza la mol-
tiplicilà, quanl' è la certezza della percezione di cia
scuna unità.
§ 5.
Mofciplicità da noi percepita nel corpo esteriori-.
§ 7-
Dato che la sensazione corporea termini in un esteso continuo , è necessario
ammettere una estensione reale continua anche ne' corpi che la producono.
Poniamo che noi, tocchi nella superficie del corpo
nostro , avessimo tal sensazione , la qual non solo si
diffondesse in quella superficie, ma ben anco quella
superficie in cui si diffonde fosse continua, ovvero fosse
in essa qualche spazietto veramente continuo (2).
Dico che il corpo che ci produce quella sensazione
estesa e continua, dee essere anch' egli esteso e conti
nuo : e questo è corollario alle cose in altri luoghi ed
ultimamente dette.
In altri luoghi abbiamo detto, che « il corpo è la
causa prossima delle nostre sensazioni » (3). Abbiamo
spiegato che s'intenda per causa prossima: cioè tal ente,
che ha il suo nome dall'effetto che costantemente pro
duce, e non da altro (4).
Quindi abbiamo conchiuso , che le sensazioni costan
ti, cioè il sentimento fondamentale e le sue modifica
zioni, non eran prodotte da una potenza del corpo, ma
dalla sostanza stessa del corpo, dal corpo stesso; per
ciocché questo vocabolo corpo non s' intendeva se non
per quegli effetti, i quali venivano in tal modo ad esau
rire tutto il significato del vocabolo (5).
§ 8.
Le parti sensitive del corpo nostro non producono un sentimento più e«te»
di quello che sieno esse stesse.
Ciò è manifesto dal paragrafo precedente; ma oltrac
ciò la definizione delle parti sensitive del corpo nostro
può far questo vero evidente.
Poiché , come le conosciam noi ? Ivi sentiamo una
parte sensitiva, dove sentiamo la sensazione.
Dunque la sensazione non è più estesa della parie
sensitiva, nè la parte sentila della sensazione.
36 1
§ 9-
L'estensione de' corpi esterni non è maggiore né minore di quella
delle sensazioni che producono in noi.
§ io.
Nelle sensazioni nostre del tatto t' ha una continuità fenomenale.
(i) Abbiamo distinto più volte il sentire , dall' avvertir di sentire. Certis
simo mi sembra , e quanto diremo il dimostrerà , che P oggetto corporeo
che opera sullo spirito nostro , lia bisogno di essere più grande acciocché
produca una sensazione atta ad essere avvertila, almeno con mediocre fa
cilità , che non acciocché produca una sensazione semplicemente. Voglio
dire che la sensazione, quant' è più ristretta e tenue, tanto è più difficile
ad avvertirsi in noi eziandiochè ella esista. Quindi una sensazione ristret
tissima dee esser sommamente malagevole a potere avvertirsi, o almeno ad
avvertire la sua estensione.
Roswist, Orig. delle Idee , Voi. II. 4^
36a
verissima e necessarissima distinzione fra la sensazione
e Y avvertenza ; e convincersi per via di osservazione,
che minutissime sensazioni si hanno, le quali scappano
interamente al nostro avvertire: il perchè non avver
tendo noi qne' sottilissimi meati e interpolamenti che
nella sensazione della detta superficie si trovano, noi
la nrediam tutta uguale, e senza fili o punti vaneggianti.
Laonde non è propriamente la sensazione grande
quella che sia continua ; ma noi quella supponiamo
tale, perchè non avvertiamo i suoi minutissimi inter
rompi menti.
§ 1 1.
Le sensazioni elementari sono continue.
5 ia-
(i) 36.
(a) L' errore leibniziano sembra appunto consistere nell'aver egli voluto
parlare del principio corporeo anziché de' corpi, dell'ignoto anziché del
noto. E chi può parlar* francamente e senza errore di ciò che ignora ?
365
Conchiudasi : dunque i corpi" elementari hanno una
estensione continua (i).
§ i3.
Confutazione de' punti semplici.
E veramente , i punti scappano da' nostri sensi : ab
bi a m noi mai la percezione di punti inestesi? Se non
1' abbiamo , dunque non sono corpi. Possiamo noi aver
messo un nome a ciò che non conosciamo? o non è
anzi fermato, che noi mettiamo i nomi alle cose cono
sciate , e li togliamo a significar le cose solo in quanto
le conosciamo (2)? II vocabolo corpo adunque dee si
gnificarci delle cose note, delle cose che cadono sotto
i nostri sensi, che noi tastiamo colle mani , e veggia-
mo cogli occhi , e percepiamo cogli altri organi nostri 5
e non de' punti inestesi, de' quali non abbiamo alcuna
esperienza.
Ov' è una sensazione, ivi è una passione rispetto a
noi: un'azione rispetto all'agente: una forza in atto,
che si chiama corpo. Ora se in certi spazietti v' hanno
delle sensazioni continue , vuol dire che quella forza
si espande in tutto quello spazietto, che è presente in
ogni suo punto , che è estesa e continua : i corpi adun
que elementari debbono avere una vera continuità , e
non esser de' semplici punti; ove pur sui dati dell'os
servazione si ragioni , e non su quelli della vana im
maginativa (3).
ARTICOLO XIV.
ARTICOLO XV.
ORIGINE DELL' IDEA DI CORPO MATEMATICO.
Coli' esperimento suddetto ho imparato a conoscere,
che entro quello spazio fornito di superficie corporee,
posso ottenere altre ed altre superficie pure corporee,
mediante l'applicazione di una forza a quel cubo, pos
sente a fargli mutar forma o spezzarlo.
Ora ripensando a questo fatto , io non posso colla
mia mente assegnare una ragione, per la quale le su
perficie che io scuopro occupino anzi una parte che l'al
tra del cubo solido.
Non ha dunque alcuna ripugnanza il pensare che le
dette superficie corporee si scuoprano egualmente 1»
tutte parti, cioè in qualunque piano assegnabile entro
quel cubo.
Ora questa possibilità di pensare delle superficie cor
369
poree che taglino quello spazio cubo in qualunque piano,
è l'idea di corpo matematico, il quale si concepisce sem
pre perfettamente continuo.
ARTICOLO XVI-
ORIGINE DELI.' IDEI DI CORPO FISICO.
Fino a tanto che io penso la possibilità di trovare
una superficie corporea entro un cubo limitato da su
perficie in qualunque piano assegnabile nel medesimo,
io ho l'idea di un corpo matematico (i).
Ma ov' io , in luogo di quella semplice possibililà
pensala secondo l'analogia degli esperimenti, mi do
a rilevare , quanto posso, col tatto e cogli altri miei
sensi , anche armati se si vuole di stromenti, le forme
di un corpo particolare e reale; e scuoprendo in esso
di nuove superfìcie sensibili , vi nolo anche le lacune
de' pori , e i piccoli dossi , e tutte le interpolalure fra
uno strato e l'altro, fra una e l'altra piccola parti
cella; allora io mi vengo formando l'idea di un aggre
galo di minimi variamente foggiati, non perfettamente
coerenti, ma con vacui e meati interposti, i quali però
in alcuni punti aderiscono e non lasciansi se non per
forza divellere, e chiamolo corpo fisico.
£ da tutto ciò si spiega come i ciechi nati possano
formarsi l'idea tanto de' corpi matematici, quanto de'
fisici, mediante il tatto e il movimento, e l'intelletto.
CAPITOLO X.
ARTICOLO I.
IL CRITERIO DEL CORFO ESTERNO È Un' APPLICAZIONI DEL CRITERIO GENERALE
DELL' ESISTENZA DE* CORPI.
Vedemmo il criterio generale (3): applicandolo a' corpi
esteriori da noi ormai conosciuti, si ha il criterio del
l'esistenza de' medesimi.
Quest' applicazione ci dà, che ad accertarci della per
cezione del corpo esteriore
ARTICOLO II.
APPLICAZIONI DEL CMTERIO DELlV.S1ST1.NZA DEL CORPO ESTERNO.
(1) La sensazione eccitata nel nervo dura qualche tempo, anche rimoss»
la causa della sensazione; siccome si vede nell'occhio per la striscia rossa
che fa la bragia girala con grande celerilà. La pura sensazione testimonia si
stessa, e la coscienza della passione testimonia una causa, ma uon la prese»'
attuale della medesima. Questa dunque si dee trarre mediante nn giudizio,
il quale se non ha tutte le condizioni necessarie, é fallace. Ciò però io fU1
non c'inganna la sensazione, si è nel deporci l'esistenza della parte allei in
del corpo nostro , in quanto è modificazione del sentimento fondamentali
come dicemmo.
(a) Anche qui è il giudizio che c'inganna, e non la sensazione: e il g1"-
dizio c'iuganna perchè s'innoltra là dove non l' accompagna alcuna sensa
zione , cioè nell' interno dellu colonna.
37,
CAPITOLO XI.
ARTICOLO I.
necessita' di questa trattazione.
ARTICOLO li.
SI RICHIAMANO ALCUNE VERITÀ*.
ARTICOLO IH.
l' INTELLETTO ANALIZZA LA SENSAZIONE.
ARTICOLO IV.
PRINCIPIO GENERALB PER DISCERNERE CIÒ CHE V* HA DI SOGGETTIVO
E CIÒ CBS V* HA DI EXTRA-SOGGETTIVO NELLA SENSAZIONE.
ARTICOLO VII.
APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO GENERALE A TROVARE LA PARTE SOCOITTIVt
DELLA SENSAZIONE.
(i) Quindi si vede in qual parte sia vera quella sentenza degli antichi,
che i fantasmi sieno similitudini o immagini de' corpi esteriori. La \>",c
vera di questa sentenza riguarda la parte extra-soggettiva de' fantasmi, e
non la soggettiva, ed è la parte extra-soggettiva quella colla quale perce-
piomo i corpi esteriori. Quindi vero è che la molliplicità e la continuità
de' fantasmi è simile a quella de' corpi esteriori. In quanto alla fona poi
propria de' corpi esteriori, ne' fantasmi noi l'abbiamo passivamente, mentre
è attiva ne' corpi ; ma si negli uni che negli altri è la stessa forza in «lt°>
perciocché le sensazioni sono il termine e l' effetto di essa.
queste tre parli ci scnopre; tutto il rimanente che in
esse notar possiamo è soggettivo.
È da osservarsi che il sentimento nostro sebbene ab
bia una unità, l'unità dell' Io , che tutta la varietà
delle modificazioni sue raccoglie ed unizza; e sebbene
sia ragionevole il credere che la natura stessa dell' Io
sia quella che generi que' varj sentimenti, e la loro di
versa indole ne stabilisca e determini; tuttavia noi non
conosciamo l' Io sotto questo rispetto, nò veggiam que
sto nesso; e quelle variatissime guise in cui il senti
mento si cangia e trasmuta, ci sembrano arbitrarie, e
siccome fatti staccati e indipendenti l'uno dall'altro.
Sia dunque che questo a me paja , pel mio poco sa
pere , o pure sia che veramente ci abbia qui dentro
qualche cosa di occulto e di misterioso per 1' uomo; io
mi contenterò di additare le variatissime specie di sen
sazioni siccome altrettanti fatti primigenii , senza occu
parmi a cercare in oltre, come, e secondo quali leggi
necessarie , da un solo e primo sentimento possano tutti
quegli altri così diversi e non prevedibili ingenerarsi
o scaturire.
Ciò che mi fa credere che nel fatto accennato ci ab
bia veramente qualche cosa di nascosto per l'uomo, si
è il vedere, come da una specie di sensazione non si
passa in modo alcuno coli' immaginazione ad un' altra
specie : sicché il cieco nato non giunge mai a farsi l'im
magine de' colori : e generalmente, a chi è venuto al
mondo privo d'un senso, riesce impossibile il condursi
dalle sensazioni degli altri sensi, che in lui fors' anco
som più valenti , a comporsi una immaginazione qua
lunque di quella specie di sensazioni eh' egli non ha
giammai sperimentato. Par dunque innegabile , che le
sensazioni esterne ed acquisite almeno abbiano qualche
cosa d' incomunicabile, e sieno interamente in fra lor
divise, siccome invita a credere altresì la loro grande
semplicità.
Premesso questo , dico che il primo elemento sogget
tivo è quel piacer diffuso nelle sensitive parli del corpo
animato pel sentimento fondamentale.
Questo è prodotto dal corpo nostro, e la sua natura
è determinala dallo siato del corpo slesso, data la vita.
E certo, dallo stato del corpo sono determinale le
modificazioni di quel sentimento; ma ciò secondo log
376
gi , delle quali , come dicea , non è carico adattato ai
miei omeri l' investigar la ragione e il principio.
Quindi le varie parti del corpo avendo uno stato
diverso, ricevono in diverso modo le impressioni, e in
diverso modo modificano il medesimo sentimento fon
damentale.
Questo stato diverso delle parti del corpo nostro fu
con somma sapienza ordinato dall'autore delle cose,
perchè ne uscissero conformali acconciamente i varj or
gani che alle varie specie di sensazioni doveano prese
dere. Quindi la costruzione mirabile dell' occhio è ac
comodata a ricevere in quella parte certe modificazioni
del sentimento, diverse da quelle che in sè ricevono gli
orecchi, le nari, il palato.
Nò solo questi sensi apportano diverse modificazioni
al sentimento fondamentale ; ma altre parti del corpo
sono suscettive di altre modificazioni, secondo !a loro
più grossa o fina sostanza e contestura , od una orga
nizzazione particolare: la sensazione della fame, della
sete, del sonno, e l'inclinazione sessuale sono d'un ge
nere fra loro diverso al tutto ; e se non si considerano
siccome altrettanti sensi, non è perchè esse noi sieno,
ma è perchè si riserba il nome di senso peculiare a
quello che ajula in un modo più speciale l' intelletto
ad acquistare le cognizioni delle cose.
Lo stato e l'organizzazione speciale dell'organo t
ciò che il fa atto a ricevere quella specie di modifica
zione del sentimento, alla quale egli fu ordinato e fog
giato. Ma perchè questa modificazione venga fatta, no
tisi , che oltre al buon sistema organico, è necessario lo
stimolo, e l'acconcia maniera dell'operare dello stimolo
o cagione.
Quindi sebbene l'occhio dia la sensazione de' colon,
tuttavia non la può dare egli solo, nè tocco da qual
siasi oggetto , ma pur dalla luce ; siccome 1' udito ha
bisogno del particolar corpo dell'aria, e le nari degli
effluvj odoriferi e non d'altro, e delle particelle sapo-
rose il palato. Dee adunque essere un' acconcia cagione
e conveniente sì rispetto alla materia che alla forma,
perchè 1' organo riceva 1' immutazion necessaria a por
tare nel fondamenta! senlimenlo una certa specie di
sensazioni.
Ma la cagione non basta: si conviene oltracciò che
essa operi nel dell'ito modo: siccliè V aria dee essere
increspala a quella guisa, la luce in quella foggia vi
brata, l'olezzo sparso per l'aria, e soluti e accostati
convenevolmente i corpi saporiti (i).
Adunque a produrre le speciali sensazioni concorre ,
olire la vita, i* la qualità, l1 organizzazione acconcia,
e lo stato dell'organo, a* Vagente conveniente, 3.* il
modo adattalo dell'operar dell'agente.
Indi si trae , che 1' effetto, cioè la sensazione sogget
tiva, venendo di tre principi che si consociano a pro
durlo, non è certo indizio dello stalo d'uno solo di
questi principe ed ove dalla detta soggettiva sensazione
si voglia indurre ed argomentare la qualità delia este
riore cagione , non possono mancare degli errori.
Quindi si vede, che la sensazione del calorico a ra
gion d' esempio, la quale è soggettiva , cioè è in noi
e non nel corpo esterno che la produsse (2), non è
(1) Anche nel tatto, quanta varietà di sensazioni dal solo modo diverso
de' toccamcnti ? Chi potrebbe immaginare; non avendolo provato mai , che
'I solleticar leggermente i nervi sottilissimi della cute, aver se ne dovesse
quel singolare mordicamento del pizzicore? Che ha ella a fare questa sen
sazione che vi fa ridere contro voglia, effetto singolare ed unico di suo ge
nere, con tutte 1* altre?
(1) Non si creda che prima di Cartesio non sia stata giammai osservata
al mondo la soggettività della sensazione. Tutta l'antichità l'ebbe conosciuta;
« non mancarono anche allora i solisti che n'abusarono, traendone occasione
di negare ogni verità altro che soggettiva o sia relativa all'uomo, e indtt-
criuloue uno scetticismo uuivcrsale. Lasciando gli scettici, e venendo agli
epicurei , Lucrezio nega a' corpi il colore , il freddo ed il caldo , il suono ,
I odore e il sapore :
Sed ne forte putes solo spollaia colore
' Corpora prima manere; etiam secreta tepori»
Sunt, ac Jrigoris omnino , calidique vaporisi
Et sonitu sterilii, et succo jejuna Jcruntur:
Nec jaciunl ullum proprio tic corpore odorem.
Lib. II, 841-845.
Li tradizione di questo vero non si perdette ne' tempi fiorenti degli scola
tici. San Tommaso insegna espressamente, che allorquando si usa l'espres
sione « il sole è caldo », non si dee intenderla cosi grossamente, da attri
buire al sole la sensazion del calore; ma vuoisi intendere per essa, che il
sole è cagione di questa sensazione ; usandosi quella maniera come quest'ai-
tra: Mia medicina è sana »; la quale non vuol già dire che la medicina abbia in
sé sanità o malattia, ma che in noi cagiona sanità ( C. Geni. I, xziz e xxxi ).
E questa dottrina di s. Tommaso sia conferma di que' due periodi , che io
soglio distinguere nella storia della scolastica filosofia : il primo, del suo bel
tempo, nel quale fiori il maestro d'Aquino con altri sommi : il secondo, del
l'ultima sua età, quand' ella, come tutte le cose umane, invecchiò e veniio
Rosmini , Orig. delle Idee, Fui. IL 4$
punto acconcia misura della quantità del calorp: rome
ciascuno può persuadersi, ove ponga iuta mano freddis
sima nell1 acqua fredda, die a lui parrà calda , e ponga
una mano caldissima nell'acqua calda, che a lui parrà
fredda , per la diversa disposizione della mano dove
avvenir dee l' immutazione del fondamental sentimento.
ARTICOLO Vili.
DELL* ESTENSIONE RESISTENTE SENTITA D1L TATTO.
Sebbene noi abbiam veduto che le sensazioni elemen
tari del tallo, siccome pure i corpicciuoli che a quelle
rispondono, sono estese e continue; tuttavia da ciò
non si può conchiudere con sicurezza, che la sensazione
del tatto possa percepire qualsivoglia piccolissima esten
sione.
(0 Tutta questo gioverà a discernere sempre più, che distanza passi Ira
la sensazione e l' intellezione: V avvertenza è allo dell' intelletto, e uou del
«easo; perciocché l'avvertenza non è che un'attenzione intellettiva data a ciò
che seutiamo o intendiamo. Gli antichi avevano conosciuto sì bene che il
riflettere uou é allo del senso ina dell'intelletto, che dal rillettere caratteri*-
"vano talora la facoltà intellettiva: e cosila Dante in quel verso, dove, vo-
Wtido nominare le tre potenze, di vivere, seulire ed intendere, dice ;
« un' alni* sola
« Che vive, e sente, e tè in »è rigira.
l'ur^. XXV.
38o
tallo cose mirabili. Ma è egli esatto il dire che questo
senso in essi si raffini, o che il sortano da naturà più
acuto degli altri? Noi credo: ciò che in essj si avva
lora, ciò che in essi è più fino, si è V avvertenza sulle
sensazioni: il tatto è uguale in tutti; non ha differenza
da ciechi a non ciechi (i). Ma i ciechi non avendo le
distrazioni della vista , ed avendo gran bisogno di met
tere a profitto le sensazioni del tatto, come quelli che
della vista non si posson giovare, acquistano, vivendo
in perpetue tenebre, un tale raccoglimento , una sì ac
corta attenzione abitualmente pronta e presente a tutte
notare le impressioni che vengono cagionate nel loro
tatto, che imparano ad avvertire anche le minutissime
e a tutti gli altri uomini sfuggevoli, e a notarne le mi
nime differenze. Di che è lecito il credere, che se l'umana
avvertenza potesse procedere anche più oltre, 1' uomo
si accorgerebbe che il suo tatto è un senso, se non di
una finezza indefinita, cerio di una sottilità stupenda
ed incredibile (a).
(i) Non nego però, che vi possa avere nell'animale una colai potenia
sopra i suoi nervi, colla quale egli li protende e li applica a fine di coglier
meglio la sensazione. Or 1' uso di questa potenza può esser perfezionalo ptr
arte, e per abitudine d'adoperarla.
(a) A maggior conferma di quanto dico , cioè che ritolte cose s' attribui
scono alla maggiore o minore perfezione de' sensi, le quali -pure atlribuir"
dovrebbero alla maggiore o minore perfezione dell' avvertenza nostra o ti-
gilanza di attenzione sulle sensazioni, si facciano le osservazioni seguenti.
La mano è ella forse quella parte del corpo dove abbiamo il senso più
delicato ? L'osservazione ci dice di no; ma che altre parti sono molto più
fornite di nervi, e molto più sensitive della roano. Anzi pnò dirsi, che quasi
in ulte l'altre parli la cute del corpo è più sensitiva e delicata che non sia
nella mano, avendo la natura provveduto sapientemente di non porre nella
mano una soverchia finezza di sensitività, acciocché noi potessimo usarla li
beramente, senza lo sconcio di sentire ad ogn'ora in essa dolore. E il con
tinuo uso della mano la rende altresì più callosa ed ottusa : niun aumenlo
dunque di finezza acquista il tatto della mano dall'educazione; quando
però non yogliam supporre una maggior attuazione e protendimeoto M
nervicciuoli delle parti che più si usano, prodotto dalla volontà, del che io
ho fondato sospetto. Ma lasciando questo (che prova però il bisogno d'uu»
maggior attenzione, almeno sensitiva) , qual membro tuttavia è più atto a
farci percepire e distinguere le piccole ineguaglianze ne' corpi groppolos' e
ruvidi, le minutissime particelle, e tutte le differenze tattili de' corpi? Niun
altro meglio che la mano. E se non viene alla mano quest'attitudine dalla
maggior delicatezza del suo tallo, onde le viene? Dall'abitudine, io dico,
di usarla a ciò, dall'abitudine che abbiamo di avvertire le differenze mi
nime nelle sensazioni della mano, mentre non abbiamo imparato ad avver
tirle in altre parti. E non si vide forse fare alimi co' piedi delle cose mira
bili, a cui mancavau !« mani, quando una lunga educazione insegnò » *
38i
L' avvertire le sensazioni è più difficile ove la sensa
zione è immobile, ed ha men varietà, come abbiamo
osservato.
monchi di slarsi attenti alle Sensazioni che riceveano ne' piedi, a distin
guere ben tra loro e notare accuratamente le differenze? Forse è cresciuta
loro la sensitività ne' piedi ? Non credo io, almeno a tal segno. Bensì credo
che abbiano apparato a dirigere colaggiù la loro alterazione, e badare a
quello che nelle sensazioni de' piedi avviene, alle quali gli altri uomini o
punto, o così per minuto non badano.
E perchè mai un eccellente medico, pratico per lunga esperienza, nota
le minime differenze nel polso dell'ammalato, nel quale tutti gli altri non
sanno avvertir differenza ? Crederemo noi che il tatto del medico siasi raf
finato per toccar polsi? Non credo io: conciossiachè potrebbe alcun altro
averne toccati altrettanti, e non aver nulla imparato. 0 se il tatto è quello
che toccando spesso i polsi si raffina , io vorrei sapere perchè quel tocca-
mento, fatto proprio in quel luogo della vena , debba avere aggiunto tanto
di maggior finezza ai nervicciuoli della mano medica, anziché fatto tutt'al-
trove: o perchè il tallo del medico sia solo cosi fino pel polso , e sia grosso
all'opposto e rozzo forse a' minuti lavorìi di un orefice: poiché, se il sen
tire le differenze del polso dipendesse dalla sensitività fisica della pelle, e
nim dall' abilità acquistala d'avvertir ciò che nel tatto si sente, ogni tatto
lino servirebbe per ogni cosa; e il cieco nato non avrebbe bisogno d' im
parare a discernere i polsi coli' uso, avendo già finissimo il tatto. Il perchè
è "avvertenza sopra le sensazioni nostre che si educa di continuo, e si ac
cresce assai più che i sensi stèssi. Non voglio già dire che i sensi coll'a-
doperarsi anche fisicamente non si migliorino; ma non di molto, né tanto
da potere spiegare l'immensa differenza che passa fra i sensi in un uomo
che gli ha usati, ed in altro che usati non gli ha discretamente : percioc
ché la finezza fisica del senso dipendendo dalla tessitura dell'organo, questa
i data a principio dalla natura, nè si può grandemente cangiare. Nel senso
della vista sembra che 1' educazione più possa ad acuirlo e assottigliarlo. Ma
quando si rammenta che tutto ciò che questo senso ci dice degli oggetti
lontani, è dovuto, come proveremo poi, a dei giudizj abituali; si vedrà fa
cilmente, che, rispetto alle lontananze, è massimamente l'attitudine di far
qiiesti giudizj che in noi si perfeziona; e per le superficie, è dovuto all'e
ducazione dell'abilità d'osservare, in gran parte, il fino sguardo di un gio
ielliere, o pure il saper legger ne' volti le affezioni del corpo, siccome i
medici fanno, e quelle dell'animo, siccome fanno talora i moralisti, i politici,
>' in generale gli uomini avveduti. Non nomino le sottilissime differenze
cl'e veggono i pittori ne' colori e ne' dipinti: perchè qui entra evidenie-
ineute la perizia dell'arte, che gli ajuta a discernere quelle varielà che agli
altri sfuggono, non perchè non le veggano, ma perchè non sanno notarle,
'(inorandone l'importanza. E il medesimo dir si può degli orecchi esercitati
alle musiche , che troppe più cose sembrano sentire in un concerto , che
quelli degli altri uomini non fanno: quando e gli uni e gli altri percepi
scono pure gli slessi suoni, ma coli' attenzione dell'animo diversamente dis
posta: gli uni osservano più sagacemente degli altri, poiché hanno impa
ralo a dividerei suoni, e farne una naturale analisi, notandone le bellezze
t i difetti: e quindi pur tanta varielà nelle avvertenze loro, che sembra
ch'abbiano sensi diversi, mentre hanno pure i medesimi, o certo poco dif
ferenti, ed io credo che potrebbero essere talora anco meno attivi, siccome
ne vecchi. Que' selvaggi , de' quali si narra che distinguevano, fiutando in
lem, le orme degli Spaguuoli, fecer grati maraviglia per l' acutezza deli o-
332
Quindi ove vogliam noi »r.ol latto della mano untare
delle disuguaglianze e rilievi in superfìcie corporei), non
ci contentiamo di porci il dito calcandocel sopra fermo
in un luogó; cliè cosi, eziandiochè sentissimo que' minuti
risalti ed avvallamenti, tuttavia non avvertiremmo forse
mai di sentirli; ma per avvertirli, noi ci stropicciamo
sopra il dito, quinci e quindi d' ogni parte premendolo;
e questo stropiccio ci dà più varie e più acute le sen
sazioni di que1 piccolissimi fori ed angui uzzi sporgenti,
sicché ci sono facili ad avvertire in noi le sensazioni di
quelli, e per queste ad avvertir quelli atlresl.
Laonde un corpo solido , in quanto noi avvertiamo
di sentirlo, ù altro da quello cui noi tentiamo col lec
camento.
Il corpo, in quanto è avvertilo, sarà per avventura
tutto continuo e piano in ogni superficie perfettamente;
e intanto il corpo toccato è forse altrettanto scabroso
e perforato e pien d'interpolamenti, quanto è il corpo
veduto e avvertilo con finissimo microscopio, e pi"
ancora: conciossiacliè non sembra assegnabile, come di
cevo, il confine della sottigliezza del tatto.
Quel corpo però, eziandiochè, veduto con eccellente
microscopio, ci appaja, con grande maraviglia nostra ,
tutto bucato ed aspro; tuttavia noi il veggiaruo ancora,
col microscopio stesso, unito in più punti, e veggianio
in lui degli spazielti apparentemente continui. Or que
sta continuità osservabile in varie piazzuole della su
perficie del corpo veduto, non è già quella de' corpi
elementari de' quali abbiamo parlalo; la quale è d»
dorato; mentre assai più, a mio credere, dovea maravigliare quella perfetl»
attenzione che doveano aver posta nel sentire le minute sensazioni deg''
odori, e le lor differenze. Quale è l' immutazione che possou ricevere k
papille ncrvee di un palalo dal frequente luccaincnto di varj cibi? poa,
verso alla finezza mirabile che acquistano i ghiottoni, sugli altri uomioi,
nel giudicar de' sapori. £ forse da continue salse e mameari avea reso il
palato più ottuso degli altri uomini quel leccardo di Giovenale, che pur po
nendo somma attenzione ne'cibi, avea acquistato tanta pratica de' sapori delle
ostriche, da saper dire al primo morso, se venisser da Circia, o dal lago
Lucrino, o dal mare di Rutupe, e che disccrueva col primo sguardo di cb«
lido fosse un echino.
E di tutte queste osservazioni il maggior vantaggio che possa cavare il
mio lettore si è quello di ben convincersi della immensa differenza eli*
passa fra la sensazione e ['avvertenza: e l'esser persuaso, che v'hanno iu-
iiuitc cose da uoi sentile, delle quali pure uè puutu uc pocu ci accorgiamo
383.
credere esser sopra ogni avvertenza nostra più mimila.
Nè possiamo dire che la continuità di quelle piazzuole
che co' microscopi si scorgono, sia vera continuità} pe
rocché la vicinanza de1 corpi elementari può esser assai
maggiore di quella che è necessaria per venire osservata:
ma dico bensì, che la perfetta aderenza de' corpicciuoli
elementari non si può nè anco dichiarare impossibile ed
assurda. Conciossiachè nulla ha d' impossibile un vero
tocca mento.
Uscendo però noi di questo mondo riposto e inos
servabile , nel quale viaggiar si dee senza lume di os
servazione, e dove perciò si viaggia assai pericolosamente,
dico che il corpo solido percepito dal latto ed avvertito
da noi tiene una figura che noi assai ben distinguiamo;
perocché, trascurando le piccole disuguaglianze, noi per
forza d'immaginazione ce la accomodiamo e regolariz
ziamo, come ci è più d'agio e di necessita il concepirlo.
Indi quella regolarità di forme, che ci presenta il tatto;
le quali per la loro semplicità noi perccpiam facilmente,
e ci contentano e appagano , e sembrano piene di di
stinzione e di lume (i).
ARTICOLO IX.
DELLA SENSAZIONE EXTRA-SOGGETTIVA De' QUATTRO ORGANI.
(i) La vivacità loro dipende dal produrle particelle Dell' organo un' assai
furie impressione per Ih loro moltitudine, velocità , e fors'anco elasticità
(rispetto alla luce, che tocca e risalta in un minimo di tempo, senza che la
sua impressione sia soverchia ). Una forte impressione di lai natura dee dat i:
un gran moto, forse un tremore a'nervi, e perciò cagionare una grande sen
sazione soggettiva, sentendo l'anima quel movimento celere e frequente del
nervo mosso. E generalmente si può stabilire questo fatto, che 1' osserva
zione somministra: « Trovando il modo di eccitare nel nervo un oltre e
frequente movimento , senza che le parti del nervo vengano disgregate e.
rotte, una piacevolissima sensazione per quelle oscillazioni vico nel nervo
eccitata »». Ora ogni qua! volta gli stimoli sieri pìccolissimi e molli, otten
gono questo line, purché la lor moltitudine non soperchi, e la percossa che
dà ciascuno sia udì' impeto suo moderata e gentile. Per questo un letto di
rose, o d' altra soffice materia , tanto aggradevole al fianco riesce, ed ogni
morbidezza di superficie piace al tallo, con una vivacità simile a quella ondi
vaghi colori piacciono alla pupilla, o i vaghi suoni agli orecchi.
388
non riferirsi al membro stesso sensitivo che in sè la
scia trascorrere il moto delle parti e il sentirete quindi
quell' aumento di sensazione consenziente non è se non
soggettivo, cioè non ha congiunta la percezione di un
corpo esteriore, ma riposa solo come in sua sede e
materia nel nervo stesso così mosso ed affetto.
Ora notisi la natura singolare delle sensazioni dei
quattro organi. Potrebb' ella una sola particella d'aria
vibrata nell' organo acustico produrvi la sensazione del
suono? Corto no: conciossiachè è solamente il corpo
intero dell' aria onduleggiante che vi cagiona quel sen
timento. Così io non so se un granello solo di luce
potesse muovere l'organo visivo; ma io credo necessa
rio, ad aver la sensazione de' colori, che si versi in
copia dentro agli occhi nostri, come già fu detto, il
dolce liquor della luce.
Medesimamente a me non par verisimile, che la sen
sazione de' sapori e degli odori si susciti in noi per le
virtù de' singoli corpicciuoli o saporosi od odoriferi; ma
sì perchè recandosi questi in gran moltitudine e (piasi
a tumulto ad assalire le papille e mammillule dell'organo
sensitivo, vi danno tale moto e scossa tutte congiun
tamente, che vi producono un frequente tremore uni
versale, il qual solo forse è ciò che quelle sensazioni
occasiona. 11 qual fatto se così avviene , come probabil
mi sembra, non potrebbesi già dire, che ciascuno dei
minimi impellenti, qualche sensazion di sapore, d'o
dore ecc. debba aver prodotto ; ma sì solamente , che
ciascuno di que' corpicciuoli, sebben minutissimo, vi
ha dato il suo colpo , che non è ancora la sensazione:
la qual sensazione saporosa, odorifera od altra, comin
cia allora che quel tremamento in tutta forse la mem
brana o cartilagine nervosa sia propagato, e g'uuto al
grado di scotimento necessario perchè la sensazion vi
si svegli.
Ora dove ciò creder si debba ( e quanto all' udito non
si può dubitarne), dico, che quelle quattro specie di
sensazioni nascerebbero in gran parie per consenso delle
parli, cioè per comunicazione di movimento: il che
renderebl>e ancora più nascosta e confusa la parte extra-
soggettiva di quelle sensazioni. Conciossiachè trallerebbesi
di parti inosservabili, e la sensazione non renderebbe
tanto l'impulso per esse dato, quanto tutta insieme
3»g
l' agitazione succeduta nel membro : o se 1' uno e l'al
tra rendesse , quello mescli iato a questa si farebbe per
avventura quasi indiscernibile.
CAPITOLO XII.
ARTICOLO I.
l' occhio percepisce dna superficie colorata.
ARTICOLO IL
LA SUPERFICIE COLORATA È UNA SUPERFICIE CORPOREA .
ARTICOLO III.
U SUPERFICIE COLORATA È IDENTICA COLLA SUPERFICIE DELLA RETINA DELl'oCCUIO
AFFETTA DALLA LUCE.
(i) Cap IV, art. ix. (a) Cap. preceif , art. vii. (3) Ivi.
39?
derino distintamente. Essi non aggiungono dunque nulla,
non alterano le leggi comuni a cui il tatto universale
è soggetto.
Ma nel tatto, la superficie toccante del corpo esteriore
s' immedesima colla toccata del corpo nostro : sicché
quella stessa superficie è sentita in due rispetti ad un
tempo, cioè è sentita come nel corpo nostro, soggetti
vamente, ed è percepita come termine dell' agente este
riore, extra-soggettivamente (i).
Ciò posto, manifesta cosa è, che «la superficie co
lorala percepita dall' occhio è identica colla superficie
della retina che viene toccata dalla luce».
Conviene bene considerare il fatto , che l'occhio per
cepisce la superficie colorala a quello stesso modo come
il tatto percepisce la durezza e resistenza di un corpo
esteso.
Anche nella visione corporea si dee perciò distinguere
i.° la sensazione della retina stessa, i* la percezione
confusa degl'innumerevoli globiciui della luce che sparsi
ingombrano tutta la retina.
ARTICOLO IV.
LA SUPERFICIE COLORATA DA NOI PERCEPITA È GRANDE NE PIÙ* HS MENO QMSTO
LA RETINA TOCCA DALLA LUCE ; MA IN QUELLA SUPERFICIE I COIVRI SSM
STR1BUIT1 CON CERTA STABILE PROPORZIONE.
Questo vero singolare, ma irrepugnabile, è corollario
della proposizione precedente.
Ciò che può tor fede al medesimo appo i poco at
tenti, si è l'abitudine che noi abbiamo di attribuire
agli oggetti percepiti coll'ajuto dell' occhio quella gran
dezza medesima che noi percepiamo in essi mediante il
tatto ed il movimento. Ma più sotto spiegheremo sic
come ci nasca questa abitudine; e apparta, ch'essa ap
partiene al giudizio che noi aggiungiamo alla sensazione
della vista, e non alla sensazione stessa.
Quindi cominciamo dall' osservare, che qualunque sia
la grandezza degli agenti percepita dall'occhio, egli e
sempre vero però che l'occhio li percepisce con certa
proporzione costante in fra loro. Per esempio, ricevendo
ARTICOLO V.
LA StirF.RFir.IE COLORATA NON PUÒ DARCI l' IDEA DI SPAZIO SOLIDO
NE PUR MEDIANTE I MOVIMENTI DE* COLORI CHE IN LEI SUCCEDONO.
1
Il disegno adunque che fa In luce in snlln retina
nostra delle cose visibili , le quali sono ad una mede-
.sima distanza dall1 occhio, è simile a quello che fa
l'ingegnere quando ritrae la mappa di un tratto: di
paese; il quale sopra una carta il riporta , delineandolo
sotto una scala minore, ma le proporzioni delle parli
conserva perfettamente. Così nella retina nostra si de
lineano gli esterni oggetti , ad una scala assai minore
bensì, ma che mantiene accuratamente la proporzione.
E nel ritrarre d' un tratto la scena delle visibili cose
sotto una scala minore, ma in egual proporzione, la
luce e l'occhio operano così bene d' accordo , che quelle
macchinette trovate per recare appunto d' un tratto un
disegno da una scala maggiore ad una scala minor qual
sivoglia, non è poi che un'imitazione di ciò che vi-
desi far prima dalla natura.
E badisi attentamente quanto questa similitudine al
l'uopo nostro sia accurata. ■ -.
In una carta geografica o topografica non si bada
troppo a' colori, nè all'altre qualità degli oggetti ivi
ritratti: badasi il più alla grandezza de' medesimi , la
quale ottimamente, con una proporzione che dalla scala
piccola e» trasporta alla grande e naturale, si rileva e
conosce. Medesimamente nelle varietà che prende la-
sensazione de' colori percepiti dall'occhio, non è la
qualità de' colori quella che ci apporti cognizione vera
e immediata delle cose vedute; perciocché il colore,
come tale, è la parte soggettiva della sensazione (i),
« stinto col tatto », facilmente si risolve. L'occhio è pure tatto; egli per
cepisce le ligure egualmente che il tatto della mano, ma le percepisce di una
dimensione minore. De'segni dunque della sfera e del cubo, che la luce im
prime sulla retina, l'uno è circolare e l'altro rettilineo: cioè hanno una di
stinzione fra loro simile a quella che ha trovato il tatto della mano fra gli
aggetti. E dunque certa l'opinione di Leibnizio che risolveva quel problema
affermativamente.
' (i) I colori delle cose ci annunziano anch'essi le loro qualità; ma non
perchè questi colori abbiano con esse similitudine , essendo essi la parie
'oggettiva della sensazione; bensì perchè si fanno come altrettanti segni,
non però similitudini delle medesime, mediante l'esperienza. Così la parola
scrìtta è segno della parlala, senza aver similitudine con essa; mentre il ri
tratto è segno dell'uomo, avendo coll'uomo simiglianza. Ora in questo modo
quante cose non si conoscono pe' varj colori? Oudc si conosce che una
frulla è acerba , o matura , o mezza, se non in grau purle da' suoi co-
lios-.iiNi , Orig. delle idee , Vul. IL 5o
394
siccome vedemmo. All' opposto la grandezza e propor
zione de1 varj spazj colorati è la parte extra-soggettiva,
e quella che ci rende avvisati della grandezza delle cose
esteriori : colla estensione di queste ha vera similitudine;
conciossiachè un triangolo od un quadrato piccolo, ras
somiglia veramente ad un triangolo o ad un quadrato
grande ; e la ragione che passa fra una città ed una
casa, passa egualmente fra due macchiette , 1' una delle
quali è maggiore dell'altra quanl' è della casa la città (i).
Sicché è della grandezza delle cose ,. che 1' occhio ci
avvisa mediante una similitudine della sensazione con
esse, e non dell' altre lor proprietà.
Ora , perchè veggiamo come noi dalle sensazioni dei
colori sperimentale nell' occhio passiamo a conoscere le
grandezze delle cose, conviene aggiunger l'uso del tatto,
e supporre che con questo senso e col moto abbiamo
già percepiti i corpi esteriori , le loro estensioni asso
lute e proporzioni. Adoperando l'uomo il tatto, e con
temporaneamente l'occhio , succede eh' egli venga os
servando una singoiar relazione fra le parti de' corpi
percepiti dal tatto, e i colori dall' occhio. La mia mano
che si stende a toccare un corpo, toglie agli occhi miei
un colore ; ogni punto eh' ella tocca, è una niacchiuzza
che mi si celaj poiché veggo in luogo di quel puntola
mano che il cuopre. Replicando queste prove ed espe
rienze, finalmente imparasi, che son legate insieme sta-
, Xl) J?i osservi, clic quando il segno ci è notissimo, e 1' uso suo a noi abi
tuale , noi, non ci (enniam punto a lui: andiamo a dirittura alla cosa se
gnata, che ci pare di vedere e percepire nel segno slesso i ci pare che il
segno sia dessa medesima la cosa, a tale, che ci riesce difficilissimo discer
nere l'una dall'altro. Perciò noi diciamo <« d'avere udite le tali e tali ve
rità da un uomo dotto »j quasiché avessimo udite le verità stesse, é non
le parole che sole veramente udite «libiamo, le quali non hanno né manco
la più piccola similitudine colle venia udite. Diciamo d'una ii.nnagine, che
è la persona stessa dipinta : le attribuiamo lo slesso nome; perché non ci
tratteniamo punto al ritratto: insomma pensiamo, alla cosa nel suo segno:
questo è ciò che ci avviene universalmente fu tutte 'quasi le operazioni che
noi l'acciaino come csscn intelligenti. ' .':
3<jG
direi intuitivamente, non è sì agevole nè spellilo come
a misurar le grandezze delle cose sulla carta che ne
dà l1 occhio ; perchè questa carta dell'occhio ci è sem
pre presente , e nell' applicarla noi ci esercitiamo con
tinuamente, e il tatto con leggier fatica rettifica e ri-
pruova di continuo i rilievi nostri delle grandezze me
desime.
E di più avvi questa differenza fra il vedere un paese
ritratto in carta, e . il . percepire i corpi esteriori me
diante la percezione della retina nostra tempestata a
macchie di varj colori dalla luce che viene rotta varia
mente ne' corpi ed alla pupilla riflessa; che la carta è al
tutto staccata dal paese ch'ella porta su di sè disegnato,
e non ha de' fili , per dir così, che al paese stesso la con
giungano; mentre i lineamenti dipinti nell'occhio hanno
coi corpi percepiti dal tatto una connessione mirabile e
fisica: conciossiachè i raggi della luce partendo da' corpi,
congiungoho questi coli' impressioni che soffre l'occhio;
non già perchè 1' occhio per questi filamenti luminosi ,
che passano dal corpo a lui , esca di sè, o percepisca
altro che l'estremità di que'fili; ma bensì perchè que
ste estremità vengono alterate e mutate, stante tale
comunicazione, da ogni moto che succede nel corpose
massime dalla mano che tocca i corpi. Sicché* la spe-
rienza insegna al fanciulletto,. che di ogni punto toccato
dalla mano egli ha. una sensazione luminosa; e così i
punti di luce sentiti dall' occhio, sono commisurati ai
punti toccali dalla mano; ciò che il conduce a imme
desimare la misura dell'occhio e quella della mano,
quasi direi sopì apponendo 1' una all'altra, punto a
punto, linea a linea, e superficie a superficie: col qual
magistero mirabile la natura medesima conduce l'uomo
a trovare facilissimamente nelle macchie dell' occhio la
misura medesima degli oggetti , che percepisce col tatto.
E a meglio intendere questo fatto, conviene notare
un' altra differenza fra la carta topografica e il paese,
e la retina spruzzolata di colori ; che il paese e la carta
sono due oggetti dell'occhio, l'uno maggiore e l'altro
minore; mentre l'oggetto esterno e i colori sono due
oggetti bensì del tatto, ma del tatto in due parti di*
verse del corpo nostro, 1' una, cioè quella della pu
pilla, assai più .. delicata e di una complessione sua
propria, luti' ultra da quella del tatto comune.; dalla
qual differenza venne alla vista il nome d'un senso
particolare e diverso dal tatto. Ora fino che si tratta
di due oggetti dell'occhio medesimo, per esempio di
due triangoli l* uno immensamente più grande dell' al
tro, si può bene, per la loro similitudine, prender
l'uno come il segno dell' altro} ma le loro diverse gran
dezze non si possono così agevolmente perder di vista,
e se ne osserva la disuguaglianza manifesta. All' oppo
sto le superficie colorate percepite dall'occhio, e le su
perfìcie palpate dal tatto, sono di qualità sensibili som
mamente diverse fra loro: sicché la loro simiglianza di
forma, e disparita di grandezza non si rileva agevol
mente, se non quasi direi soprapponendole, come si
suol fare, 1' una all'altra. Ma la natura ha impedito
questo; ed anzi ha stabilito essa una specie di soprap
posizione singolare, la quale c' inganna; cioè ha fatto
sì, die, toccando noi colla mano gli oggetti veduti,
ci sembrasse di soprapporre la punta delle piramidi lu
minose , la qual entra nel nostro occhio, agli oggetti
del tatto ; mentre veramente soprapponiam loro sempre
la base che noi non percepiamo ; il che ci sembra fare
pel richiamo che ha questa base colla punta delle pi
ramidi da noi percepita.
Dalle quali cose avviene, che all' uomo sviluppato sia
più difficile riconoscere la differenza delle grandezze ve
dute e toccate, che di crederne l'uguaglianza.
ARTICOLO VII.
LA VISTA ASSOCIATA AL TATTO ED Al MOVIMENTO PERCEPISCE LE DISTANZE
E LE QUALITÀ' DEL MOTO DEL PROPRIO CORPO.
(i) Gioverebbe istituire delle osservazioni accurate sul tempo che i bam
bini mettono ad imparare questo riscontro delle grandezze dell'occhio colle
grandezze del tatto e colle distanze. Avvertasi però che un effetto simile
s< ottiene in due modi , istintivamente e intellettivamente. Cioè a perce
pire tali proporzioni si educa i.° la sensitività (e questo avviene anche ne'
bruti) j.° e l' intendimento. L» sensitività impara a fare quel riscontro
pravamente mediante «sedazioni di sensazioni, fantasmi, sentimenti, istinti,
e abitudini: 1' uomo accompagna tutto ciò con de' veri giudizj. L'esperienze
dunque dovrebbero tendere a distinguere ne' bambini anche i pro
fessi di queste due facoltà ; il che però è sommamente difficile. Gabanis
'ferma d'aver veduto un ragazzo stupido fornito di occhi sanissimi, che
non potè mai pervenire a conoscere col solo occhio le distanze (Rapporti
«» physique et du moral de l'homme, eie-, Meni. II). Se ciò è vero, quel ra
gazzo dovea esser dilettoso nou solo uella parte intellettiva , ma uiico nella
parte animale. . :
4oo
legge pare di percepire pur le parole immediatamente ,.
e a chi ascolta pare di ricever le idee con quegli stessi
orecchi co' quali nuli' altro riceve che le parole.
ARTICOLO Vili.
PARAGONE DELL* ODORATO, DELL* UDITO E DEL COSTO COLLA VISTA.
CAPITOLO XIII.
ARTICOLO I.
IL CRITERIO DELLA GRANDEZZA Dt' CORPI È LA GRANDEZZA PERCEPITA COL TATTO.
(1) Quel filosofo che diceva il corpo nostro esser Ir natura di tutte le
cose, avrebbe proferito una sentenza vera e bellissima, se l'avesse intesa nel
giusto sno significalo.
<a) Cap. IX, art. vm.
Kosmini, Orìg. delle Idee, Voi. II. 5i
403
uomini , e non è fuor di proposito il nominarlo un er
rore del senso comune (i).
Un tale errore dà luogo a delie indagini, che si ren
dono poi interamente superflue quando quell'errore è
dilegualo.
Ecco una questione vana, a cui dà luogo quell'errore.
Il mio occhio aperto, e intento , vede una scena in
nanzi di sè : gl'immensi spazj del cielo, la vasla estcn-
(i) Gli errori comuni al più degli uomini sono forse tulli di questa
folla ; dipendono da de* giudizj abituali, ne' quali cade il volgo quasi direi
involontariamente , irresistibilmente. I giudizj si fanno abituali allora clie
l'esperienza ha mostralo una connessione pressoché costante di due (atti:
il comune degli uomini non osserva le pochissime anomalie; egli acquista
allora una propensione a pronunziare il silo giudizio, estendendolo dalle /«ù
volte, al sempre , e non può avere tanta riserbatezza da tenerlo sospeso. E
qual volgo, qual comunanza d' uomini non ha giudicato che il sole girasse?
Le nazioni intere, l'intera umanità fece un tal giudizio: 1' occhio non dico
niente intorno al moto reale del sole: era il giudizio che gli uomini in corpo
aggiungevano a quella sensazione dell'occhio. Se non vi avessero aggiunto
il giudizio, uon sarebbero caduti in simigliante errore : ma come era pos
sibile di sospendere quel giudizio, fondalo in una esperienza quasi generile,
che al molo apparente si accompagni il moto reale dell'oggetto veduto?
Questa legge della esperienza avea, egli è vero, delle anomalie : l'uomo chr
dalla barca vede correre le rive del fiume, n'era una patente a tulli. Pure
troppo poco è un caso particolare, perchè i volghi , le nazioni , le masse
d'uomini il tengano bene a conto, e sappian giovarsene. Troppo grate è
agli uomini sospendere il giudizio ; gravissimo, importabile è, o almeno fu
sino ad ora, alle moltitudini. Le moltitudini giudicano senza ritegno: quii
forza potrebbe frenarle in questo? chi ha mai insegnato a sospendere il
giudizio ad un popolo ? quando mai , o in che luogo del mondo tanti
prudenza , tanta lentezza e considerazione di pensare, lauta sobrietà ,
alla quale i sommi filosofi rarissimamente pervengono , fu la dote comune
delle plebi intere? Ciò sarebbe un chieder troppo alla turba: quando que
sta è così all'error prossima, eh' esso non si possa cvilare se non per una
sospension di un giudizio che ha tutta l' apparenza di verità, che è fondalo
in una legge di comune esperienza accompagnala da pochissime anomalie,
che è solito farsi dal volgo e n'ha l'abitudine già contratta; qual nui
mortale può ritener questo o colla forza o colle parole perchè giù non pre
cipiti ? la caduta sua in quel giudizio, in quell' errore , é irreparabile : il
savio può sicuramente prevederla , predirla ; impedirla non mai. Sarebbe
più facile che alcuno sostenesse una rovina di vasti macigni che cìÒobo
d' una montagna, anziché egli solo tenesse indietro quell' inclinazione, quella
precipitanza, onde una moltitudine si dà a proferire un giudizio di tal na
tura. Solo dipoi, dopo lunghi anni, dopo secoli, quel giudizio si emenda.
Viene il tempo in cui un uomo straordinario sorge a dimostrarlo mendace:
da prima allora, questi è afflitto, è oppresso dal peso immenso del seoli-
nienlo comune ; ma nella sua oppressione non perisce il germe della »e-
rilà, della quale egli è martire ; rimane dopo di lui ; e con lenii progressi
s' insinua fra gli nomini, e perviene a signoreggiar finalmente la moltitudine
stessa , lardi pentita e vergognata della stolta sua presunzione e del!» su'
ignoranza orgogliosa e sempre crudele.
sione d'una pianura ubertosa, montagne, laghi, fiumi ,
animali , piante , erbe, infinita varietà il' oggetti. Fra
tante cose , vede un suo simile; ben piccola cosa, un
punto, verso alla grandezza di tutta l'altra sfera. Ora
nella front» di quest'uomo vede ancora i due occhi, mem
bri piccoli di piccolo oggetto. In mezzo degli occhi nota
un fiorellino nero, dentro a cui sta teso un pannicolo
sottilissimo e sensiti vissi rao che si chiama retina, ed ivi
la luce porta la sua mirabile irritazione.
Ora egli è appunto in questa angustissima parete del
l' ultima tunica dell' occhio, che quella persona vede me
e vede tutte 1' altre cose , siccome in uno simigliane
piccolissimo spazio nervoso io veggo lei, e terre e cieli
e l'interminato universo.
Ora il mio occhio, che vede l'occhio altrui, o sè in
uno specchio , mi dice che quella tela che riceve i co
lori in sè di tante cose , non è appena larga una pic
cola linea : e tuttavia le cose in essa dipinte mi appa
iono immensamente più grandi di lei. Come può ella
ricevere quella visione? m' inganna ella mostrandomi gli
oggetti sì grandi , quando la impressione che riceve è
si piccola ?
Ora tutta questa difficoltà, tutta questa maraviglia
svanisce , ove s' abbia conosciuto ed inteso il vero so
pra esposto, che l'occhio non percepisce le grandezze
nè le distanze, ma solo i segni di quelle, da' quali con
rapidità di giudizio passa la mente a concepir le distanze.
I segni non hanno bisogno d' essere d' una slessa na
tura o misura colla cosa segnala; e tuttavia ci possono
far conoscere la grandezza di lei, purché conosciamo la
ragione che tien la grandezza de' segni colla grandezza
della cosa. Nel caso dell'occhio, noi conosciamo que
sta ragione abitualmente ; perchè mediante il latto ap
prendiamo le grandezze vere delle cose, e formiamo
r abito di riscontrar le grandezze apparenti all' occhio,
colle vere delle cose toccate.
Una difficoltà però ancora si presenta , e merita ogni
attenzione. L'occhio è anch' egli un tatto, e la luce il
tocca veramente. Or perchè non potremo applicare la
legge del tatto all' occhio ? E la legge del tatto è que
sta ; quando con una mano noi tastiamo un oggetto ,
noi il misuriamo colla mano slessa , quasi con sesta o
modulo che soprappouiamo al medesimo per farne il
4o4
confronto. E in tale toccamente e soprapponimento ab*
biam distinto la sensazione nella mano, dalla percezione
dell' oggetto esteriore. Abbiam detto che l' estensione
della sensazione nella mano, è misura dell' estensione
dell' oggetto esteriore venuto al contatto della mano;
e quindi che la sensazione soggettiva, cioè del nostro
proprio corpo , è misura della percezione extra-sogget
tiva, cioè dell'agente esteriore che al nostro corpo in
tale operazione si raffronta. Applichiamo dunque all'oc
chio la stessa legge. Lui toccano i globicini della luce:
egli avrà dunque i.° una sensazione soggettiva delle di
verse parti della retina da diversi raggi di luce toccata
e con diversa spessezza de' medesimi, a.° la percezione
extra-soggettiva di que' globicini della luce. Pertanto
colla estensione della sensazion soggettiva misurerà egli
gli agenti, cioè se non i singoli minimi del raggio,
almeno 1' estensione de' fascicoli luminosi che quasi pen-
nellini frugano il panno dell' occhio. Ora restandoci
nella sola sensazion della vista considerata siccome un
tatto, noi dovremo in essa rilevare la piccolezza delle
immaginuzze dipinte, ed accorgerci che sono via più
piccole della piccola apertura dell'occhio, che è siccome
la scena o il quadro generale , del quale le singole parti
vogliono esser minori, giacché del tutto è minore la
parte. Noi dunque dovremo accorgerci della piccolezza
delle immaginette nell'occhio ricevute, e sentire la ragione
che quelle hanno coli' occhio stesso. Ben è vero , che
queste immaginette, aggiungendosi poi l'uso del tatto,
potranno fare a noi l'ufficio d'altrettanti segni delle
grandezze vere rilevale dal tatto , non altrimenti che
una carta topografica ci dà segno ed avviso della gran
dezza de' territorj in quella disegnali, mediante una
scala proporzionale ; ma questo non toglie però che a
noi non debba restar ferma la prima cognizione, per la
quale abbiamo confrontato le immaginette dell'occhio
coli' occhio stesso , e con esso , siccome ogni altro og
getto del tatto, nella loro propria e reale grandezza
misurate. E pure nulla di tutto ciò dà l'esperienza.
Ecco come si dissipa questa difficoltà.
Primieramente, non si vuol nominare immagini le
macchiette dell' occhio anziché noi abbiamo rilevato
mediante il tatto, che i colori gittati sull'occhio «
manifestano gli oggetti esteriori: è solo il tatto che ci
4«5
rende avvisali di ciò. I colori adunque di cui la retina
è spruzzata e tinta, non formano che altrettante mac-
chiuzze sentile, che nulla significano nè rappresentano
per sè sole, innanzi all'uso del tatto, e quindi non
sono per noi immagini, nè segni di sorle. L'uso del
tatto poi , contemporaneo all' uso dell' occhio, fa che
a noi si discuopra un rapporto costante fra le gran
dezze del tatlo e quelle delle macchie dell' occhio , pel
quale queste macchiette scorgendosi variare secondo che
varian gli oggetti del tatto , si fanno a noi segni , e
sembrano vere immagini di questi (i). Or se 1' occhio
per sè solo non percepisce che sensazioni , o come so-
gliam dire, imbeve cerle macchiuzze di colore, le quali
nella retina e non altrove sono sentite; convien dire
che allorquando si aggiunge il tallo, e per 1' uso di
questo senso quelle macchie o sensazioni nella retina
vengono a far l'ufficio di segni di cose lontane, acqui
stano un nuovo slato, o anzi meglio, una cotal nuova
relazione con noi , per la quale si cangiano nella no
stra considerazione interamente dall' esser loro di pri
ma , e ci sembrano cose al tulio diverse e d'altra natura.
Le macchiuzze adunque, sensazioni nella retina, e le
immagini visuali nel loro esser proprio , sono la cosa
medesima ; ma noi rispetto sotto cui noi le guardiamo ,
sono due cose affatto diverse ; conciossiachè nel consi
derare quella sensazione stessa siccome macchia sentita
dall'occhio, e siccome immagine di cosa esteriore, la
nostra attenzione si porta in due termini interamente
opposti; poiché considerandola come macchia sentila,
ella si ferma nella sensazione della retina ; consideran
dola poi come immagine, ella procede, senza fermarsi
nel segno, dirittamente alla cosa rappresentata, e a
questa sola bada come a suo solo termine. Così colui
che vede il ritratto d' un amico, pensa immediatamente
alla persona ritratta, e nulla si ferma ad esaminare il
3uadro nell' esser suo proprio, non la tela, nè il tessuto
i quella, nè la qua'ità de' colori, o l'olio ove furono
stemperati, o l' itupri ni luta ; nè sta facendo l'analisi
degli elementi chimici di cui quella tela e quella cro-
(i) Dico sembrano, perchè non hanno siniiglianza cogli oggetti e»lerior
>e uon nella parte extra- soggettiva.
4o6
sta clic la intonaca si compone. S' osservi dunque bene
a rilevar come succede un tal fatto. La maccltiuzza sen
tita nell'occhio, si cangia in immagine al sopravvenire
1' uso del tatto. Cangiata in immagine, l'attenzione no
stra parte di lei, piglia altra direzione, e si porta lon
tana al di fuori, cercando l'oggetto di cui la maccltiuzza
è immagine. E per intendere perfettamente questo rile
vante fatto, conviene rendersi pratichi di quella distin
zione importantissima , su cui si regge tutta si può
dire la cognizion filosofica dell'uomo, fra la sensazione,
e V avvertenza (i) della medesima. La legge dell'avver
tenza è la seguente : « Ciò che noi avvertiamo è il ter
mine delia nostra attenzione intellettiva ». L'avvertenza
di una cosa nasce in noi da questo, che la nostra at
tenzione si mette e termina in quella cosa per modo,
che in quella ultimamente si ferma e riposa. Tutti gli
anelli intermedj, pe' quali l'attenzione e il pensiero pas
sa , ma non si posa come a suo termine , sono perce
piti sfuggevolmente, ma non avvertiti da noi. Se vogliamo
avvertirli , dobbiamo tornare indietro, rifare il cammino
fatto col pensiero , e rendere quegli anelli , sorvolati
prima, proprj termini della nostra attenzione. Ciò dun
que a cui la nostra attenzione è volta, ed ove finisce,
è da noi avvertito, e nulla più si avverte, sebbene molte
altre cose si sentano e si percepiscano. Ora quando le
sensazioni provate nella retina dell'occhio hanno acqui
stalo qualità e stato d' immagini, esse tali sono fatte,
che non possono essere più il termine per sè medesime
dell' attenzion nostra: conciossiachè , secondo l'osser
vazione toccata, l'immagine per sua natura ci porta
fuori di sè, e non è che una regola, dietro la quale
noi dirigiamo la nostra attenzione a trovare con questa
un'altra cosa, cioè la cosa ritratta : conciossiachè il ve
(') Dico poco o nulla, poiché veramente ognuno s'accorge alquanto drlla
'«osazion degli occhi. E non sente ognuno di ricever cogli occhi la luce ? e
4o8
verliamo la percezione immediata delle particelle di
luce e loro varietà, e siamo all'opposto tutti occupati
nell' osservare gli oggetti del tatto eh1 essa ci rappre
senta e ci annunzia; la quale osservazione d'altro iato
non è una speculazion vana , siccome sarebbe 1' osser
var le macchie nell' occhio, ma è sommamente utile, e
richiesta da' bisogni continui di nostra vita.
ARTICOLO HI
ArrucAZic-NE del criterio all'illusione visuale sulla lontanasza
DELLE COSE.
Gli oggetti delineati dalla luce nella pupilla , ove
non sono a una stessa distanza , non tengono la gran
dezza proporzionale: ma i più indietro mandano all'oc
chio un' immagine minore , ed una maggiore i più in
nanzi e più all' occhio vicini.
Questo effetto nasce da' raggi convergenti della luce,
i quali più partono di lontano, e più sono necessitati
di allungarsi in angolo acuto a toccar l'occhio, dove
suscitano la sensazione. Così portano al medesimo un
vestigio dell'oggetto, più piccolo di quello che esser
dovrebbe. E di questa specie d' inganno non si dee però
accagionare la sensazione, che nulla veramente ci dice
dell'oggetto: anzi è il giudizio della mente nostra clic
qui può ingannarci, inferendo la grandezza degli este
riori oggetti , dalla sensazion della luce tolta da lui
come segno.
Ma ben presto anche questo error si corregge: per
ciocché ,le immagini venienti a noi da varie distanze,
seguono un'altra specie di proporzione, che vale a con
trassegnare le distanze stesse.
Indi avviene, che la grandezza apparente si faccia a
noi indizio sicuro e misura anche delle distanze a cui
son posti gli oggetti , aumentandosi 1' immagine nell'oc
chio in ragione che la distanza diminuisce , e vicever
sa: sicché le grandezze apparenti, e le distanze loro,
vanno costantemente in una certa ragion contraria. La
costanza di questa ragione dà fondamento all'arte della
prospettiva.
chiudendogli occhi, non provieni noi che la natura non ci brilla più inoanii-
Ma, come dicevo, non si attende a ciò che avviene negli occhi nostri, quando
abbiamo si graziose cose da vedere fuor di essi.
Il movimento spontaneo e il tatto, come: vedemmo,
rilevano le vere distanze: l'abituale osservazione la co
noscere il rapporto fra la grandezza apparente degli
oggetti, e la distanza loro misurata dal tatto e dal no
stro movimento: indi apprendiamo a passar celerissi-
mamenle da quella a questa, e a rilevare all' istante la
distanza degli oggetti dall'apparente loro grandezza.
Poniamoci in capo di un lungo viale d'elei, o di
catalpe, o d'altre piante: di qui noi veggiamo declinare a
roano a mano le altezze apparenti d'ambo i filari; ora
tale declinazione appunto ci fa accorti della via mag
gior distanza delle succedenti piante, e finalmente del
l' ultime dalle prime.
Nè m'inganno io più, dopo quest' abitudine contralta
di far meco medesimo quella ragione, Circa la gran
dezza delle piante ; poiché in quel decrescere io leggo
già l'effetto delle distanze , e null'altro; e così emendo
la sproporzione dell'apparente grandezza, e riconduco
col mio pensiero tutti quegli alberi ad una medesima
vicinanza , nella quale io so vederli tutti sottosopra di
una stessa altezza.
i . i■
ARTICOLO IV.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO ALL' ILLUSIONE SULLA POSIZIONE DELLE COSE.
(1) Io credo anco del tutto impossibile avvertire distintamente nel sen
timento fondamentale la posizione relativa delle parli senza ajuto di sen
sazione acquisita.
(2) È singolare il vedere come l' uno scrittore dall' altro copia e ripete
questo pregiudizio, che il tatto raddirizzi gli oggetti veduti rovesci dall'oc
chio, dopo che Condillac e BulFon l'hanno detto. Hauy (Traile élémen-
'««•e de phystifue, tom. II), Foderé (PUysiologic positive, tom. Ili), per
tacer d'Algarotli e di tutta la schiera de' nostri più recenti, non hanno
saputo che ripeterci la cosa slessa. Tuttavia è da fare eccezione a Mel
chiorre Gioja, che, fra iunumerevoli errori., ha questa buona osservazione :
" Sembra assolutamente falso che le sensazioni, del tallo possano correggere
" le impressioni della vista. Intatti , il tallo ci accerta che il bastone, che
" piantato nel fungo sorge fuori dell'acqua, è diritto, e pure noi lo vc-
'•- 'liaino spezzalo, e continuiamo a vederlo tale, benché l' abbiamo, toccalo
" le mille volle. St-hhyne il tallO'Ct accerti che non esiste nell'uria l'iniina
4.4
ARTICOLO V.
IL CRITERIO DELLA FIGURA DB* CORFI E LA LOBO FIGO»» FERCEFITA DAL TATTO.
« gine della nostra figura che ci viene trasmessa da uno specchio codcjw
« pure l'occhio s'ostina in contrario, e ci accerta che esiste, e la vede. l«
« pittore che ha dipinto un globo sopra una tela , é ben certo che quei»
« globo è steso sopra superficie piana : ciò nou ostante il suo occhio
« dice che una metà del globo o più esce dalla tela e s'avanza versoi-.'
« spettatore ». - ■
« Supponendo vera la spiegazione che ci danno i sullodati fisiologi^ .
« cioè che il tatto corregge o rettifica le impressioui della vista, gli ogge"1
- dovrebbero apparirci rovesciali finché il tatto non ci avesse disingann»".
« il che non è: coloro in fatti, cui venne tolta la cataratta che portarono
« seco riascendo, veggono gli oggetti non rovesciati ma diritti ».
« Finalmente apparir dovrebbero rovesciati gli oggetti a tanti animai'
« che mancano quasi interamente di tatto: e pure essi si dirigono in modo
« da farci credere che li veggono diritti come noi » (Esercizio logico sufi
errori a" Ideologia e Zoologia, ecc., face. g8 e segg.).
(1) Cap. IX.
(i) Lo spazio non muta figura, per la stessa ragione che non muta gran
dezza. Dote figure diverse, nou sono che due pezzi di spazio iudipen0*""
fra loro Uno spazio adunque non può mai trasformarsi in un altro. Un»
liguru nello spazio uoti si dice esattamente ch'eli» si muta in altra1
non è più quella , se ad essa1 ne succede un'altra: questa seconda non r U
prima trasformata ; è una figura al tutto diversa e indipendente da qw-Uj
4iS
o analogia a noi nota e da noi fissata , dalla quale come
da indizio o da caratteri fedeli giudichiamo del corpo;
e succede che il giudizio nostro sia indotto in errore
dalla infedeltà di questo segno della luce nunzialrice
de1 corpi. Quindi le illusioni ottiche del remo spezzato
nell'acqua, de' gran massi che appajono ne' climi fred
dissimi dove l'aria condensata fa l'ufficio di lente, ai
quali avvicinandosi trovasi in loro luogo de' ciottoli
piccolissimi, ed altri tali inganni che il senso del tatto
discuopre e corregge.
CAPITOLO XIV.
DELLA PERCEZIONE EXTRA-SOGGETTI VA De' CORPI MEDIANTE
I CINQUE SENSI CONSIDERATI IN RELAZIONE FRA LORO.
ARTICOLO I.
l* identità' dello spazio unisce le varie sensazioni
ed on solo corro fa pebcwiez.
. '.Ili
' ' 1... . '
(i) L' arte mediante la scrittura segna colle sensazioni della vista li
pensieri Umani, c cou tale ingegno dà l'udito per cosi dire ai sordi,
ìoquela ai rautii . ."
4.7
ARTICOLO II.
Li PERCEZIONE VISUALE De' CORPI £ QUELLA CHE FERMA DI Più'
LA NOSTRA ATTENZIONE.
(i) La percezione de' corpi fatta colla vista viene sempre completata i>
noi mediante de'giudizj abituali o delle associazioni a"idee. Quana'io veg5°
un ritrailo, che cosa veggo io? Una pura superficie. Tuttavia qufsla su
perficie mi ricorda forse solo la superficie della persona ritratta? Non
A me par di vedere in quel dipiuto la persona slessa viva ed intera. Io m
richiamo tosto, a quel sembiante, V idea compita della medesima , e m f!
d'essere e di parlar con essa. Or tutto il solido per dir cosi della persona,
e il corpo, e l'anima, e il sapere, e i costumi, e la virtù, tutto io ramine-
moro con un solo atto, tutto aggiungo io, senza avvedermene, pur al primo
venirmi sotto l'occhio di quell aspetto, al quale ho sempre accostumalo *
associar tante idee. E queste associazioni anche all'uso del tatto, non pur
dell'occhio, si accompagnano; poiché un solo toccamento mi fa ben so
vente pensare tutto un solido, c compito delle sue qualità che a m(
son uolc.
queste parti : i nella percezione di una forza corporea
( primo elemento del corpo ), 3.* nella estensione ( se
condo elemento del corpo) proporzionale, 3.° nella figura
simile alla superfìcie de' corpi esteriori.
Oltracciò v" ha un legame fra la specie simile e il
corpo esterno, posto dalla natura e strettissimo, qual
è quello che formano i raggi continui della luce, e che
abbiam dichiarato.
ARTICOLO IV.
REID NEGA A TORTO OGNI SFECIE SENSIBILE NELLA PERCEZIONE DE* CORPI.
(1) Essays on t/tc powers of tlie human mind, etc. Essay II, eh. XIV.
(2) Recherclies sur /' Entendcmeiit humain, eie. Chap. II, Sect. I.
(3) A me sembra di trovare che qui Reid non sia perfettamente cocreoit
cod sè medesimo, od almeno che si spieghi con qualche oscurità. Da uw
parte ci dice che la percezione è di sua natura interamente diversa HalU
sensazione; che quella si fa per un giudizio naturale col quale si affermami
i corpi esterni, mentre questa non si estende fuori dell' anima che sciiti
sè slessa modificata : tutto ciò dee far crédere che la percezione e la sen
sazione sieno due potenze diverse. E sembra ch'egli affermi ciò ancora più
manifestamente là dove parla della percezione come di una facoltà miste
riosa ed interna allo spirito, il che è ben altro dalla sensazione. Ma d'uti'al-
tra parte ci dice, che non si dà senso senza giudizio; che la mauiera di
parlar comune, a cui egli. s'appella, colla parola senso esprime mai sempre
un'abilità di giudicare; che fu un guasto de' filosofi l'aver divise queste
due cose, il senso e il giudizio, e fattone due facoltà {Essays oh the powu*
oj the human mind, tic. T. II, p. 1 76 ).
4a3
Ma non è così. Reid fa presedere alla percezione una
potenza diversa da quella che presiede alla sensazione ,
ARTICOLO VI.
GALLCPPI MIGLIORA LA FILOSOFIA SCOZZESE.
(1) Vedi la noia i su questa parola intuizione, addietro, alla face. i.}8*
(2) Saggio filosofico sulla critica delia Conoscenza, Tomo il, ?;7«- ,
(3) Una mancanza grave di Reid consiste nel non aver veduto in; che
questa comunicazione immediata consistesse: noi l'alibiumo fatta consistere:
nelle sensazioni: egli parla di atli intellettivi che afferrano i corpi iirnne,-
diatameute. Non è nè pur Galluppi interamente esente da questo errore^ "
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi 11. . .. . ..t«V&4t
4a6
è proveniente dulia natura della sensazione o sentimento
in generale, ma sì dalla natura speciale -delle sensazioni
acquisite. • :» • M ' oi. --, o'.!
E di vero innanzi a tutte le sensazioni acquisite noi
abbiamo stabilito 1' esistenza dell' Io , sentimento fon
damentale (i), il quale essendo congiunto con un corpo
per un mirabile vincolo e quasi direi mescolamento
che vita si chiama , si estende nella estensione di lulto
ili corpo1 sensitivo, che diciamo perciò -uà materia.
- Sicché se ogni sensazione esterna non può 'pensarsi
senza il sentimento dell'/o, di cui è modificazione,
non è però vero il contrario, che l' Io non esista senza
qualche esterna sensazione. ■ i u ■■»
Rispetto alla sensazione esterna, ecco1 in che modo
e con quali limitazioni abbiamo trovato essere legata
con essa la percezion de' corpi.
Il tatto dà una immediata comunicazione co' corpi
esteriori. ..
I quattro sensi, della vista, dell'udito, dell'odorato
e del gusto, danno una comunicazione immediala coi
corpi esteriori in quanto sono tatto , cioè in quanto
sono da' corpicciuoli immediatamente toccati. •' •••
II senso della vista ( e con certa proporzione anche
gli allri'trè , nel modo spiegato ), in quàntò ci mostra
de' corpi lontani che' nói toccano, non ha una imme
diata comunicazione cori- essi, ma cé li fà conoscere per
via di segni o specie sensibili.
Non si può dire però, che i sensi, nò pur in quanto
sono tatto e perciò 'in quanto ci danno una comuni
cazione immediata Co' corpi , percepiscano pienamente
i corpi stessi; ma sì degli elementi corporei, cioè i due
clementi i.* di una forza esterna 2.° e di tìna estensione
in superfìcie (2). Ora per completare la percezione 1 del
• : 1 ■ • • : . . ■ ; . 1 ìi • . < ' . :.; , 1 1 .li' , < .< ;
noi stilliamo iti modo completo un corpo solido, cioè il nostro: nessuna
dille sensazioni esteriori per sé ci dà lauto.
4 23
certo nella nostra fantasia. E questa proposizione si
concilia per tal modo coli' altra, che noi pe' sensi co
munichiamo col mondo esteriore immediatamente: ma
ella è pericolosa assai ad usarsi, senza qualche sorta di
commento.
. : CAPITOLO XV.
.. .. ,.:
DELLE PERCEZIONI SENSITIVA E INTELLETTIVA DE CORPI
, ,j . ,. CONSIDERATE NELLA RELAZIONE FRA LORO.
V . •'.
•»i'.*>p . '»'■ i ••ARTICOLO
. : I. . ■ . .
DISTINZIONE DELIE DUE FEKGSZIONI SENSITIVA C INTELLETTIVA.
v. : i J/ ■ • •■ •
Non v'ha un solo filosofo moderno a me noto, il
quale non abbia , almeno qualche volta, confusa insieme
la percezione sensitiva de' corpi colla intellettiva.
Questo mi fa credere che sia molto difficile a farne
be,nc la distinzione, e che giovi metterla in molta luce:
il che io penso di fare, quanto io so, in questo capi
tolo : additando colla stessa occasione le dispute vane
che una tale confusione ha ingenerate , e che, tolta via
questa, svaniscono.
Vuoisi in prima considerare con ogni attenzione, che
il senso ha sempre per termine una cosa singolare. Que
sto è principio, che, ben ritenuto in mente, vale a farci
conoscere ciò che appartenga alla percezione sensitiva,
e ciò che appartenga alla intellettiva. Perciocché da
quel principio deriva questa conseguenza, « che lutto
ciò che noi troviamo fornito di qualche universalità
nella percezione de' corpi, si debba attribuire all' intel
letto,, e non al senso » (i).
I .Ora quando io percepisco un corpo col mio pensie
ro , .cioè quando penso un oggetto fornito della natura
di corpo, o quando il penso come una cosa esistente,
io ne ho la percezione intellettiva; perchè non posso
pensarlo.coM, s'io non m'abbia la nozione di esistenza,
che. è universale. ,
l . 1 , —
(i) Questa verità fu conosciuta e affermata da tutta l'antichità. Ann''
tredici secoli, Boezio scrivea rettamente così : Universale est dum inteU/gHv,
singultire dum sentilur (Sup. Porpliir. Provein. in Pradic); c così scri
vendo , egli ripelea una sentenza di Aristotele , che era vivulo nove secoli
prima di lui. »
Rinserriamoci donane nella percezione puramente sen
sitiva, e veggiamo ciò che questa comprenda.
Col sentimento fondamentale noi sentiamo il corpo
nostro come cosa indivisa da noi. Questa percezione è
completa, ma difficile ad essere osservata ed analizzata;
rivolgiamoci adunque al tatto, che è la seconda via
onde abbiamo la percezione sensitiva de1 corpi.
La sensazione del tatto, come tale, è soggettiva; ma
essa è percezione corporea i' in quanto è termine del
l' azione d' un fuori di noi , a.* e in quanto ci dà que
sto termine esteso in superfìcie.
Le sensazioni ripetute e variate del tatto, a cui molto
appresso vengono in soccorso quelle della vista , si as
sociano , e danno alla nostra sensitività l' aspettazione
di trovar nuove superfìcie col movimento e colla forza
sotto la superficie percepita. È una legge a cui è sog
getto anche il senso, quella dell' aspettazione de' casi si
mili , siccome ci mostra la sperienza. È il senso sog
getto ad essa in questo modo. Nasce in lui un' abitu
dine, un'inclinazione, una specie d'istinto a ripetere
degli atti simili a quelli che molte volte si sono fatti,
aspettandone simili risultamenti. Quest' aspettazione istin
tiva di nuòve superficie corporee, rimossa la prima, è
quella che perfeziona la percezione sensitiva.
Ora veggiamo che cosa faccia l' intelletto per comple
tare la percezione de' corpi.
Quando il nostro spirito ha ricevuto pe' sensi gli ele
menti corporei fin qui descritti , 1' intelletto ne compie
la percezione nel modo seguente.
La passione che noi sofferiamo nella sensazione ha
due rispetti: dalla parte del suo termine che siamo noi,
ed è passione, e dalla parte del suo principio, ed è
azione. Azione e passione sono due parole che indicano
la stessa cosa sotto due rispetti diversi e contrarj.
Ora il senso non percepisce la cosa di che parliamo,
che come, passione, e aspettazione di nuove passioni;
I' intelletto solo è quello che vale a percepirla come
azione.
L' intelletto con far ciò non aggiunge nulla alla co.sa,
ma solamente la considera in un modo assoluto) men
tre il senso non la percepisce che in un rispetto parti
colare, in un modo relativo; l'intelletto si parte da
noi, esseri particolari, e col suo vedere mira le. cose
43o
in sè ; laddove il senso non ai parte mai dal soggetto
particolare , di cui egli è , cioè da noi.
Il concepire un' azione altrui è dunque proprio del
l' intelletto. Ma il concepire uu1 azione racchiude il con
cepire un principio in atto: quindi l'intelletto perce
pendo un'azione, percepisce sempre un Agente inquanto
esiste in sè, cioè un essere inatto, pel principio di so
stanza e di causa.
L' intelletto fa tutto ciò mediante 1' idea dell' etile
eh' egli ha in sè medesimo.
Quando adunque l'intelletto percepisce Vagente di cui
noi parliamo, come un ente diverso da noi, fornito di
estensione, egli ha la percezione del corpo.
E da tutto ciò si vede, che l' intelletto a percepire
il corpo non fa che considerare quanto i sensi sommi
nistrano; ma non in modo a noi relativo, siccome il
senso, ma prescindendo e astraendo da noi , cioè ag
giungendo il concetto universale dell'essere della cosa.
La percezione intellettiva del corpo è dunque l'unione
dell'intuizione di un ente (causa, agente) colla per
cezione sensitiva ( effetto, passione ), o sia un giudizio ,
una sintesi primitiva.
Che se poi si astrae il giudizio dell' attuale presenza
del corpo, e si lascia la semplice possibilità sua, noi
abbiamo la pura idea o la semplice apprensione del corpo.
ARTICOLO IL
LOCKE CONFONDE LA PERCEZIONE SENSITIVA DE* CORPI COLLA INTELLETTIVA • ~~
CENSURE FATTE A LOCKE PEU QUESTA CAGIONE.
Locke fa che l'anima riceva le idee semplici pani-
vomente dall'impressioni delle cose esterne (i); questo
è un confondere non solo la percezione sensitiva, ina la
sensazione colle idee.
Tutta l'antichità avea riconosciuto questo vero, che
le pure sensazioni passive non sono idee, ma. che una
certa attività dell' intendimento è necessaria perchè dalle
sensazioni si avesser le idee (2).
ARTICOLO IV.
CONTINUAZIONI.
(1) Essays on the powers of the human minti, Essny I, eh. i, — Stewart,
discepolo di Reid, ripete lo stesso errore negli Éldmens de la philosopliie
de f Esprit humain, Ch. I, Scct. i.
(1) Reid pretende che la parola idea abbia due significali, l'uno de' filosofi
« l'allro del popolo. Egli dice di rigettare le idee nel significato de' filosofi, e
ritenerle nel significato popolare: giacché la sua filosofia si propone di seguire
■I scuso comune. È egli vero che in ciò egli segua il senso comune 1 Già dissi
die noi credo (Voi. I, face. 68 e segg. ). E in vero, quali sono i due pretesi
significati della parola ideai II primo, filosofico, si è di un mezzo fra noi e
gli oggetti, tale che per le idee noi conosciamo gli oggetti. Il secondo, popolare,
ti e di una operazione della nostra mente, colla quale operazione pensiamo
immediatamente gli oggetti slessi. Ora come Reid prova l'esistenza di questo
secondo significalo? Ecco il suo argomento: « Nel parlar comune queste
*' due frasi, pensare una cosa , ed avere idea di una cosa, sono perfella-
* mente d'ugual valore. Ora pensare è un verbo attivo, esprime Vopera-
" *}oae slessa della mente: dunque anche avere un'idea non esprime che
" " attivila della mente, e null'altro » (Essays on the powers of the human
4>
ARTICOLO V.
SE NOI PERCEPIMMO I CORPI Pe' PRINCIPI DI SOSTANZA E DI CAUSA.
mind, eie. London 1812, Voi. I, pag. io e segg.). '° osservo, che scegli
trae questa conseguenza dall' osservare che cosa esprime la frase pensare una
cosa , io posso trarre una conseguenza contraria coli' osservare che cosa
esprime la frase avere un' idea. Questa frase, avere un'idea, non mi esprime
che il possesso di una cosa; il verbo avere esprime possesso , e nulla più;
quindi la frase, avere un'idea, non esprime che uno stalo della mente li
quale ha l'idea, e non già un' operazione della medesima. Ora come io sta
glierei se da questo significato, che ha la frase avere un'idea, volessi ca
vare il significato di quest' altra frase , pensare una cosa j così parimente
non mi sembra ragionevole voler trovare il significato della frase a«re
un idea, mediante il significato dell'altra frase pensare una cosa. Io concedo
che il verbo pensare esprima l' operazione del nostro spirito ; ma perciò ap
punto nego che le due frasi accennate abbiano appunto lo stesso signifi
cato. Tanto è vero che si può avere un' idea, senza pensare attualmente alla
cosa di cui si ha idea: altro è adunque Y operazione deliamente die pensa
ad una cosa , altro è il semplicemente possedere V idea della cosa : il che
non vuol dire ancora che ci si pensi. Si osservi, che in tutte le lingue, per
quanto è a me noto, si trovano queste due frasi diverse, pensare una cosa,
e avere Videa di una cosa. Ora, secondo i principj di Reid, questo non sa
rebbe avvenuto, se il senso comune degli uomini non avesse veramente iu-
teso di esprimere due cose diverse: giacché ove il linguaggio segna costan
temente una distinzione mediante due parole o frasi diverse, ivi forz' è che
realmente la distinzione sia tenuta. E con questo argomento Reid confuta
altrove l'improprietà del parlare di Hume (Essays on the powersqflit
human mind, etc. Essay I, eh. I, p. 20 e segg-).
Ma la dottrina di Reid circa l'esclusione delle idee ha ella nessuna parte
solida? Io penso di si; ed ecco qua1 è questa parte che io ammetto. Accordu
a Reid, che i filosofi generalmente errassero, non già Dell' ammetter le idei
distinte AaW operazione che fa lo spirito quando pensa alle cose, ma nella
nozione che davano a queste idee.
Reid distingue tre cose nel pensiero umano: « t.° il soggetto pensante,
2.0 l'operazione della mente che pensa, 3." l'oggetto pensato ». Egli dice:
« Non esistono che questi tre elementi nel pensiero: i filosofi ne hanno in
trodotto un quarto, che fosse mezzo fra l'oggetto pensato e la mente pen
sante, e questo mezzo lo chiamarono idea. Ora è questa idea che io consi
dero come una chimera dell' immaginazione, che non ha punto esistenza ».
Ecco ciò che io ricevo di tutta questa dottrina de' filosofi. Alcuni filosofi
sembra che si sieno formati dèi' idea il concetto, ch'ella sia il solo e per
fetto mezzo per Io quale noi conosciamo le cose reali ; questo , secondo me,
è un errore. L' idea della cosa non ci fa conoscere ancora nulla di reale;
ella non ci presenta che la mera possibilità. L'idea dunque non è il *eao
perfetto ed adeguato per conoscerete cose reali, come osserva in tanti luoghi
s. Tommaso; si esige qualche cos'altro perchè noi abbiam di questo nolo"'
Per le cose corporee è dunque necessario il senso corporeo , col qu»'e 001
Galluppi negò che noi conosciamo i corpi pél prin
cipio di causa ; ed ebbe luogo di fare a Tracy questo
argomento invincibile e manifesto: « Se il principio di
causalità fa conoscere gli oggetti , esso nou viene dun
que dagli oggetti (1) » . Tracy non potò replicar verbo
a questa osservazione. Ma noi diciamo a Galluppi : No,
ARTICOLO VI.
LA FLRCEZIONT. INTELLETTIVA FD CONFUSA COLLA SENSITIVA ANCHE M5FETTO
AL SENTIMENTO INTERNO, All' 70.
(i) Tutti gli argomenti di Galluppi sono rivolti a provare, che la perce
zione deir Io è immediata. Ora ciò io gli accordo; ma aggiuugo, clic questa
percezione è sensitiva , cioè è il sentimento stesso fondamentale, e nulla più.
Ad avere all'incontro la percezione intellettiva dell'io, conviene che io fac
cia una sintesi, un giudizio fra l'idea di esistenza e l'7o sentimento, pro
nunciando : lo esisto. Allora ho la percezione intellettiva , perchè non ho
solamente percepito me in particolare , ma mi ho percepito come un ente,
in relazione in somma dell esistenza in universale. Quando io ho questa
percezione intellettiva dell' io, mi resta a fare un terzo passo, cioè ad av
vertire la medesima percezione. Ora onde sono io tratto a questa avvertenza,
che mi nasce mediante una riflessione su di me stesso? Da una modifica
zione della mia coscienza, insolita e viva, che trae a sè la mia attenzione
fortemente: insomma dagli atti miei. Qui comincia la filosofia di Cartesio:
« Penso , dunque esisto ». La forza di questa proposizione equivale a que-
sl'allra: « Mediante i miei pensieri io mi accorgo di esistere ». Vale l'ar
gomento per l'accorgersi, non pel semplice percepire intellettivamente, e
molto meno sensitivamente^ E solo da quel punto dovea e potea partire la
filosofia. Poiché quando è che l' uomo comincia a filosofare? forse quando
ancora uon ha che delle percezioni sensitive? fin qui non pensa. Quando è
venuto ad avere delle percezioni intellettive? qui pensa, ma non riflette di
pensare: è la vita intelligente del comune degli uomini. Viene il tempo
ch' egli riflette di pensare : e qui comincia la filosofia. Ora il punto di par
anza della nostra mente non può essere che lo stato nel quale ella si trova.
L'uomo che comincia a filosofare è nello stato della riflessione e dell'av
vertenza. Egli dunque parte da questo slato: e da questo movea Cartesio,
quando dicea « Io penso, dunque esisto ». Ma antecedente a questo slato
e è pur quello della cognizione diretta, e l'altro del sentimento. Quindi era
naturale, che dopo Cartesio venisse Locke, cioè che dall'esame del peti-
"ero, si rilrocedesse ad analizzare la sensazione dove il pensiero si fonda.
Ma in questo cammino era facile di saltare uu anello, poiché ve n'ha uno
die si presta assai difficilmente all'osservazione ed all'avvertenza, per più
cagioni da noi indicale; l'anello dico della cognizione prima e diretta del-
I uomo: questo in falli fu saltalo a pie pari. Cartesio adunque partì dalla
"flessione, Locke si occupò della sensazione : l' analisi della cognizione sem
plice che sta fra questa e quella, ed è la chiave dell'una e dell'altra, fu
dimenticata ; e a questa mancanza io mi sono ingegnato di supplire, come ho
potuto, coli' opera presente.
446
CAPITOLO XVI.
ARTICOLO I.
DIMERENZA FRA I DDE MODI PRINCIPALI DI PERCEPIRE I CORPI, CIOÈ
COME SOGOETTI , E COME AGENTI STRANIERI AL SOGGETTO.
(i) Mi astengo dal dire come oggetto, perocché il corpo non è vero oggeUi',
che relativamente alla percezione intellettiva, dove il corpo è appreso come
un ente : la percezione sensitiva all' incontro non percepisce che un'aiioiio
estranea al soggetto. E qui si noti, che l' oggetto di un' azione non è Io stesso
che V oggetto di una percezione intellettiva. Nell'azione l'oggetto è passivo,
nella percezione egli è attivo. Ben è vero che noi meniamo della uostro al-
lività intellettuale a percepire l'oggetto; ma quest'attività non produci;
nulla Dell' oggetto; produce solo l' atto col quale uoi lo percepiamo. AH' i»;
contro l' oggetto percepito che noi non possiamo mutare , e sul quale d<»
non abbiamo alcuna potenza, è ciò che forma la nostra cognizione: qumilt
il dello di s. Tommaso: « S/vcies intclligibifis principium formale est in-
tellcctualis opcrationis , sicut forma cujuslibet agentis principium est l"^-
priac opcrationis » ( C. Geni. I, savi ).
447
contraria ali1 idea di un corpo paziente; ma trattasi di
una particolare azione 3 passione quale è quella del
senso. Se noi consideriamo la passione nostra , cioè il
sentimento di piacere o dolore , nel principio che la
produce , noi abbiamo l' idea dell' agente : se nel suo
termine, cioè in sè stessa terminata e sofferta , abbiamo
noi slessi modificati e pazienti.
ARTICOLO IL
se l'impressione delle cose esterne sopri di noi abbia qualche
similitudine colla sensazione che sussegue a quella.
(1) I movimenti che fa l'iride all'azion della luce, non sono puri effetti
della luce, ma dipendono altresì da altri principj , cioè dall'irritabilità di
>|uel muscolclto, c dalla spontaneità dell' anima.
448
esempio, d'una impronta sulla cera , ti' un vestigio la
sciato, d'un molo eccitato in qualsiasi corpo. Questi
effetti sono oggetti del tatto e dell'occhio nostro, come
le mutazioni del corpo nostro , a cui tengono dietro le
sensazioni.
Ora io dico, che sì fatte impressioni non hanno la
più piccola similitudine colla sensazione, considerata
nella sua parte soggettiva-, sebbene, date quelle, questa
si desti subitamente. Anzi quelle hanno con questa una
vera opposizione e contrarietà.
Un'impronta, un rilievo, un molo, mi corpo ogget
tivamente percepito (col tatto) , è un agente che pro
duce nel nostro organo la sensazione. La sensazione al
l' incontro è una passività, è il paziente sensibile a sè
slesso.
Ma 1' agente è il contrario del paziente (i).
Dunque l1 impressione fatta sul nostro corpo sensiti
vo , a cui tien dietro la sensazione, non ha alcuna si
militudine con questa nella sua parte soggettiva , ma i
di natura interamente a questa opposta e contraria ,
sicché l' una di queste due cose esclude l'altra, a
quel modo slesso che il sì esclude il no , e viceversa.
Bendiamo più chiara, se ci è possibile, questa di
stinzione. A far ciò, poniamoci ad osservare l'impres
sione di una piccola palla rotonda di metallo ricalcata
in un membro sensitivo del corpo , e internata la metà,
sicché ella formi in quella parte carnosa una pozzetta
circolare pari all'impressione di mezza quella sfericciuo-
la. In questa impressione dolorosa 1' uomo sente viva
mente due cose, i.° la parte del proprio organo nella
quale vien fatta quella piccola cavità , a." e la pallot
tola, ossia l'agente diverso al tutto dall' organo paziente.
Ora , il sentimento della parte offesa certo è cosa
diversa dalla percezione della palla medesima : sono due
sentimenti bensì contemporanei, e che allo stesso luogo
si riferiscono, ma tuttavia assai diversi.
Chi sente, a ragione d'esempio, il suo braccio leso,
sente ciò che patisce; quando percepisce In pallottola,
«etile ciò che agisce .- questi due sentimenti sono oppo
sti e inconfusibili.
ARTICOLO IU.
CONFUTAZIONE DEL MATERIALISMO
(i) Reid ha molto merito per avere censurate alcune maniere di dire in
valse nella filosofìa , le quali racchiudono nel loro seno una improprietà che
conduce al materialismo. A ragion d'esempio, il dire che la sensazione si
faccia per via A' impulso del nervo nello spirito, esprime una immaginazione
ipotetica e materiale. Egli la nota in Locke: « Il Signor Locke afferma con
" grande sicurtà che le idee degli oggetti esterni sono prodotte nelle no-
■ sire menti per impulso, essendo questa l'unica maniera iu che noi conce-
" piamo potere i corpi operare »; e mostra quanto sia questa ragione di
Locke gratuita. È però da osservarsi, rispetto all' opinione di Locke su ciò,
quanto Reid medesimo soggiunge, cioè ch'egli ritrattò questa sentenza nella
sua prima lettera al vescovo di Wocestcr, e che promise di rettilicarc il
passo Della prossima edizione del Saggio. « Ma o per dimenticanza dell' au-
" torc, così Reid, o per negligenza dello stampatore, il passo rimane in
" tulle le edizioni seguenti che io ho vedute» (Essays on the power.* eie,
T. Il, face. 88) Osserva lo stesso valente scozzese l'equivoco che danno
le maniere di dire, fuori o dentro della mente, presente idi' anima, ecc., le
quali sono tolte tutte dalla percezione oggettiva de' corpi esterni. Il dentro
«fuori deW anima, perchè abhia un valore esalto, non dee già voler signi
ficare idee di luogo , ma dee solamente esprimere che sono nel soggetto, o
non sono. Il presente alla mente, vuol dire dalla niente attualmente pensato.
Talora però sembrami che il dottor Reid censuri con troppa severità qual
che espressione , che tiene per mio avviso un senso vero anche tolta in
senso proprio: come quella di rappresentazione, applicata alla mente. È vero
die la parola rappresentazione si toglie il più a significare ciò che ci è posto
i' schierato dinanzi ai nostri occhi nello spazio. Ma io osservo, che quau;
il' anco io mi chiuda nel solo mio pensiero., io posso e debbo concepire,
che ciò che il mio spirito intelligente pensa, è a lui rappresentato .- percioc
ché in ciò cui pensa, il mio spirilo non ha alcuna potenza; non pervade 'la
cosa pensata, nè s' immcdrsiuia con essa, ma è da essa distinto: la co>.i è
nello spirito in modo che nou si può confonder con lui: e questa maniera
di essere nello spirito, panni che venga bene espressa colla p<r(.la ;Ii rap-
Rosmini, Orrg. delle Idee, Voi. IL 58
458
ARTICOLO IV.
LINEA DI CONFINE TEA LA FISIOLOGIA E MEDICINA , E LA PSICOLOGIA.
presentazione ecc. Allo slesso modo io credo che certe espressioni, che beve
si affanno al senso /Iella vista, si affacciano altresì all' intelletto, non già come
pure metafore , ma in senso proprio : poiché c' è una specie di analogia di
operare fra queste due nolenjc, sebbene di natura interamente diverse.
na. Se queste scienze tengono conto dell'effetto che le
diverse abitudini del corpo producono sull'animo e sulle
facoltà intellettuali; ciò fanno per rinvenire il modo di
far prendere al corpo quello slato di prosperità , che il
renda atto a servire allo spirito. In tutte queste ricer
che il fisiologo ed il medico osservano sempre il corpo
mediante 1' osservazione esterna , e però come puro og
getto.
Il psicologo all' opposto ha un' altra specie di osser
vazione, cioè l'osservazione interna: i fatti della co
scienza sono gli oggetti della sua osservazione: egli con
sidera l' Io , il soggetto : e se ha riguardo al corpo come
oggetto , ciò non fa se non per la relazione che questo
ha col soggetto: non si ferma perciò in questo secondo:
la cognizione del primo è lo scopo e l'argomento pro
prio della scienza : le altre cose tutte non sono a lei
che mezzi ed ajuti.
Quindi si può conchiudere , che ov' anche il coltello
anatomico giungesse a cercare ne' corpi degli animali
le minime fibre, e s'inventassero de' microscopj quanto
si può immaginare eccellenti che mostrassero addentro
l' intima tessitura de' corpi , e quando anche tutto ciò
riuscisse di fare in un modo più perfetto d' assai che
air uomo non è conceduto; tuttavia, rimossa la osser
vazione interiore de' fatti della coscienza , la scienza psi
cologica di tutte queste scoperte non profitterebbe un
punto, non farebbe con tutto ciò un picciol passo più
innanzi.
ARTICOLO
• ■ V. • .,. •. . . :i . ■ .
de' sistemi circa l'unione dell'anima col corpo.
(i) Se tutto ciò «he si percepisce co' sensi è fuori di noi , come a po
terla spiegare un'azione fatta iu noi. con ciò che è fuori di noi esseuzi-'
metile, e per l' ipotesi t
46i
Conveniva adunque rientrare in sè stessi , consultare
la coscienza , e riflettere unicamente sul sentimento del
l'/o, esclusa ogni immaginazione esterna : e indi cavare
il concetto di quella congiunzione di che si trattava.
In tal modo è nell'/o stesso che si avrebbe potuto
trovare il corpo, secondo il pensiero di s. Tommaso,
perchè è nell' Io che sta quella azione che ha un modo
ed un termine che si chiama spazio.
Nell'/o, nello stalo della nostra presente natura,
trovasi adunque una forza diversa dall' Io, cui V Io sente,
e sentendola, stende la propria sensazione in un ter
mine esteso.
Questo sentimento che si trova nell'/o, al quale
l' Io è tratto da una forza naturale ( per la quale egli
è passivo ), è un fatto. Bisognava adunque considerare
F unione dell' anima al corpo come un fatto dato dalla
osservazione sopra di noi medesimi: come un fatto pri
mitivo, un fatto che è la nostra stessa natura: quindi
le difficoltà di questa unione non si possono nè pure
più concepire, non hanno più alcun senso.
ARTICOLO VL
RAPPORTO FRA IL CORPO ESTERNO SD IL CORPO SOGGETTO.
ARTICOLO VII.
SULLA MATERIA DEL SENTIMENTO.
Nella sensazione eccitata in noi dall'azione de' corpi
esteriori, noi abbiamo distinta la parte extra-soggettiva
dalla parte soggettiva.
Ma favellando del sentimento fondamentale, siccome
pure della parte soggettiva della sensazione che è una
modificazione di lui, noi abbiamo detto non potersi
dire con proprietà che il detto sentimento abbia un
oggetto, ma bensì una materia ov' egli termina.
Data poi 1' operazione de' sensi , e aggiuntosi l' atto
dell' intendimento , noi percepiamo degli oggetti esterni
e imponiamo loro il nome di corpi. Ma ci accorgiamo
ben presto, che fra questi corpi percepiti ve n' ha uno
che è la materia del nostro sentimento , il quale perciò
lo chiamiamo corpo nostro. '
Ma qual differenza v' è mai fra oggetto e materia?
Questo è quello che giova 'diligentemente investigare:
diam mano, per quanto ci è possibile, a farlo.
Il nostro corpo , sia nello stato naturale , sia modi
ficato, in quanto è sentito dal nostro sentimento inte
riore , è materia di questo ; in quanto è percepito dai
sensi nostri od altrui , è termine de' medesimi, ed og
getto poi dell' intendimento. Questo fa conoscere, che la
materia del sentimento è qualche cosa di mezzo fra il
puro soggetto e il termine del senso : non è il soggetto
senziente, perch'ella anzi è sentita; ma nè anche è un
puro termine del senso, perciocché il senso non esiste
senza di lei. Ciò che dico del corpo come puro termine
463
del senso, vale anche poi corpo considerato come ter
mine percepito dall'intelletto, o sia oggetto: e vice
versa, ciò che dico del corpo come oggetto, s'inten
derà detto anco del corpo come termine.
La prima differenza adunque fra materia ed oggetto
d'una potenza è questa, che l'oggetto non è necessa
rio alla sussistenza della potenza; mentre la materia
entra a costituir la potenza in questo senso, che senza
essa, la potenza non si può più concepire. Vero è, che
l'uomo non vedrebbe, udirebbe , fiuterebbe, gusterebbe,
senza luce, aria, olezzo, particelle saporifere : ma tolti
questi oggetti , sussistono tuttavia e si possono pensare
occhi, orecchi, nasi, palati, cioè organi sensitivi sani
e perfetti. Non può intendere a fondo questa differenza
che qui espongo fra materia ed oggetto , colui che non
si è formato un giusto concetto delle potenze. Questi
dee sapere adunque, che ogni potenza è un atto primo,
il quale atto poi, date le condizioni necessarie, ne pro
duce degli altri , variati secondo la varietà delle condi
zioni. Or quest' atto primo e costante si dice potenza
rispettivamente agli atti secondi e passaggeri. In somma
ogni potenza dee essere una certa attività quasi direi
infrenata, la quale , tolto via il freno, come arco in
cordato scocca e ferisce. Or, fittasi bene in capo questa
nozione della potenza , si vedrà , che come ogni atto
secondo ha bisogno d' un termine perchè sia fatto, così
la potenza cioè V atto primo ha pure bisogno del suo
termine , senza il quale non può essere nè pensarsi. E
come la potenza ò qualche cosa di stabile, mentre l'o
perazione della potenza è passaggera ; così la potenza
dee avere a termine cosa stabile , perocché col suo ter
mine essa rimane o perisce. Tolto dunque il termine
dell' operazione , la potenza rimane; ma tolto il termine
della potenza, questa non riman più. Ora la materia è
appunto un termine slabile, un termine della potenza,
che forma quindi una cosa sola con essa. Ma poiché
questo termine è così congiunto colla potenza, né si
può pensare da essa staccato, quindi anziché chiamarsi
semplicemente termine (vocabolo che si riserba pel ter
mine esteriore dell' atto ) , riceve quello di materia. Tut
tavia non basta questo carattere della indivisibilità dalla
potenza , a formare la materia di una potenza.
La seconda differenza adunque fra l' oggetto e la
464
materia di una potenza è questa, die l'oggetto talora
può essere attivo, per modo che attivi la potenza, o può
essere almeno impassivo ; mentre la materia della potenza
si concepisce senza attività rispetto alla medesima. E qui
pure si distingua il termine dell'atto primo (potenza),
e i termini degli atti secondi od operazioni della po
tenza : gli oggetti delle mie cognizioni sono quelli che
traggono la mia mente a fare gli alti coi quali ella ce
nosce ; così pure V impression della luce esterna è unt
cotale azione violenta ( termine ) che trae la mia sensi
tività all'atto della percezione sensitiva. E generalmente
parlando , gli oggetti del conoscer nostro tengono, ri
spetto alle nostre potenze conoscitive, uno stato attivo,
o certo impassivo (come l'osservazione ce li presenta),
mentre i termini delle nostre potenze pratiche tengono
uno stato passivo. Ora se il termine dell' atto primo,
cioè quello che costituisce la stessa potenza, ci si pre
senta in uno stato attivo, o certo impassivo, noi al
lora non lo chiamiamo oggetto perchè riserbiamo que
sto vocabolo a significare cosa esteriore alla potenza
stessa, dove terminano le sue operazioni; e nè pure il
chiamiamo materia, poiché un tal nome esclude il con
cetto di attività; ma lo chiamiamo anzi forma della
potenza , cioè tale oggetto, che costantemente unito col
soggetto , trae questo in un atto primo, cagione poi di
molte operazioni , il qual atto si chiama potenza. Quindi
è che l' idea dell' essere universale noi la dicemmo forma
dell' intelletto : e all' opposto il corpo nostro sentito noi
lo chiamammo materia del sentimento, in quanto che
egli è « un Oggetto stabile dell' atto primo della nostra
sensitività , privo di attività rispetto all'atto stesso del
sentire » .
La materia però del sentimento fondamentale ha un
terzo carattere e notabilissimo. Non solo essa , rispetto
al sentimento , è un termine suo senza attività, e colla
capacità semplicemente di porgersi al medesimo in ter
mine passivo; ma questa stessa capacità o suscettività
passiva è assai imperfetta, poiché la materia resiste con una
cotale inerzia a ricevere quello stato che 1' attività del
sentimento dar le potrebbe, e quindi il sentimento slesso
trova un freno posto al suo perfetto operare. Nè dicasi
che questa inerzia dee essere pure una forza rispetto al
sentimento, giacchi- contrasta col sentimento. Prima os
servo, che il lasciarsi muovere agevolmente, appartiene
a perfezione, quando trattasi d' un moto che solleva a
condizione di natura migliore. La capacità di ricevere
miglioramento è una intrinseca attività. Al contrario
dunque , l' incapacità di ricevere miglioramento è man
canza di queir attività quasi direi seminale, di quella
recondita virtù, che se non è, sviluppar non si può;
quindi colla sua mancanza mette ostacolo alla perfezione
che all' ente potrebbe venire comunicata. Non è dun
que vera ed attiva resistenza quella che fa la materia
al sentimento, ma è incapacità, inerzia. Nè queste ri
flessioni vengono da speculazioni astratte, ma descri
vono la materia del sentimento siccome ella si porge
ad una attenta osservazione. Perciocché l'osservazione
ci mostra , che il sentimento fondamentale non si spande
già puramente in una estensione vuota ( per così dire ),
ma in una estensione dove prova certe resistenze, e se
vuoisi, anco mutazioni e violenze, secondo stabili leg
gi: le quali sono x.° quelle che costituiscono il rapporto
del corpo sensitivo co' corpi esteriori , a." e quelle che
costituiscono il rapporto del corpo sensitivo ( materia )
coli' Io $ cioè coli' atto del sentimento. Ma più ancora,
che alla perfezione del corpo, attendasi alla perfezione
del sentimento. Il sentimento sarebbe più perfetto, più
eh' egli potesse avere il corpo perfetto e a sua voglia
per così dire ubbidiente. Se dunque succedono delle
alterazioni dannose nel corpo , e il sentimento ne pati
sce; sia pure che ciò mostri una forza nel corpo; ma
s' ella è una forza , è però tale che rende il sentimento
imperfetto , e che , quando si confiderà come termine
del sentimento , è meno che una semplice inattività.
Ora il sentimento colla sua materia forma una cosa
sola, una sola potenza , come osservammo. Questa forza
adunque della sua materia è la parte passiva ed imper
fetta di questa potenza, non la formale e perfetta; ed
è perciò massimamente, che il corpo nostro in quanto
è da noi sentito chiamasi materia del sentimento fon
damentale (i).
(1) Oltracciò si rifletta che cogli orgaui esterni percepiamo delle qualità
assolute e necessarie al corpo , sebbene di poca luce per intendere la na
tura dfl principio corporeo.
(i) Face. 263 r srgg. >
47° ' . ..."
leggi meccaniche, fisiche e chimiche. Ora questa esclu
sione conferisce a far sì che nella paròla corpo non si
ravvisi alcuna attività sua sullo spirito , e che quindi
egli venga considerato come pura materia del medesimo.
In terzo luogo, quell' attività che noi abbiamo attri
buita al corpo, non è al corpo essenziale , nel senso più
comune di questa parola ; ma accidentale : essa non
emana dalla stessa natura del corpo volgarmente preso;
il che si dee molto attentamente considerare. Questa
ragione giustifica il senso comune, il quale non suole
racchiudere nel significato del vocabolo corpo quella ai-
tività di che favelliamo; poiché il nome corpo non se
gna che semplicemente l' idea di corpo in generale ; e
questa idea non presenta alcuna attività , massime in
sullo spirito . nostro.
E a veder ciò, esaminiamo l'indole dell'azione de'
corpi, sia fra loro, sia in sullo spirito nostro.
I. 11 movimento non è essenziale ai corpi; ma ciascun
corpo lo riceve dal di fuori di sè. Ora l' azione che
fanno i corpi esteriori sui nostri organi, è tutta, quanto
sembra, veniente dal movimento. La resistenza non è
altra cosa che il compartimento del moto nelle parti del
corpo. L' aderenza delle parti non presenta se non una
legge che determina il numero delle parti fra le quali
il moto dev'esser diviso. L'azione dunque de' corpi
esterni sul nostro, siccome noi siamo soliti di speri
mentarla, è una attività dal corpo ricevuta, e non pro
pria ed essenziale al corpo stesso. Quindi il corpo, ri
spetto a questa attività di muoversi, è veramente passivo,
in quanto egli non fa che ricevere, e lasciar partire di
sè ciò che ha ricevuto ( il moto ).
II. Veniamo all'azione del corpo nostro sullo spirito.
Egli sembra evidente, che anche quest' azione non è
compresa nella natura di corpo (extra-soggetto) , e che
il corpo la riceve da un principio fuori di lui. E ve
ramente, se fosse essenziale al corpo 1' altitudine di po
tere agire sullo spirito, ogni corpo dovrebbe essere ani
mato. All' opposto 1' osservazione dimostra , che ogni
corpo non è animato; anzi, che un corpo, a poleressere
animato, dee avere una certa configurazione od organiz
zazione, la quale non è essenziale, ma puramente acci
dentale al corpo. Quindi l' attitudine alla vita, anziché
risedere nelle singole particelle de' corpi, sembra dover
riponi in un certo loro complesso ed armonica dispo
sizione. Il corpo adunque sebbene agisca in sullo spi
rito, non agisce per un principio attivo che abbia in
sè per natura, ma per un'attività ricevuta. Quindi ri
spetto a questa attività il corpo è un essere passivo,
cioè un essere che riceve e non dà (i).
In quarto luogo , faccia il lettore la riflessione se
guente, che mi sembra più importante al uostro uopo
di tutte quelle che ho fatte fin qui.
Il corpo, abbiam detto, non ha nella sua natura
V attività d'agire sullo spirito, ma egli la riceve. Or non
potrebbe riceverla dallo spirito stesso? Non abbiamo noi
veduto, che « un essere può eccitare in un altro tale at
tività, che questo venga ad agire appunto su lui che
la eccitò? » Questa osservazione che abbiamo applicata
all'azione del corpo, non si può assai meglio applicare
all'azion dello spirito?
La meditazione che io ho fatta su questa questione
mi ha dato come probabile il seguente risuitamento :
I. Lo spirito umano nella sua azione è determinato
a certe condizioni: una di queste condizioni, per certa
specie di azioni, è quella dell'esistenza di un corpo
organizzalo e a lui accomodato. Tulio questo non ri
chiede ancora alcuna azione dalla parte del corpo , ma
solo un dato stato del medesimo, che non può dare a
si stesso, ma che riceve da fuori. È legge imposta dalla
natura allo spirito umano.
IL Accomodato lo spirito al corpo perfettamente or
ganizzato , sembra che lo spirito , avendo con ciò la
condizione necessaria per fare la specie di azione accen
nala , agisca con questo corpo, e lo metta in quella at
tività che si dice vita) per la quale il corpo acquista
le ultime proprietà de' corpi vivi.
III. Quest' attivila dal corpo ricevuta è tale, che alla
sua volta reagisce in sullo spirilo, e trae lo spirito al
l'atto del sentimento fondamentale.
IV. Il sentimento fondamentale pervade il corpo e il
fa sua materia, cioè sua sede, suo modo di essere, sua
estensione.
CAPITOLO I.
(1) Già ho (licbiaralo che si debba intendere per cosa universale, nel
Voi. I, face. 68 e segg. Non è che v'abbia cosa che possa essere univer
sale in se stessa; ogni cosa, in quanto è, è particolare, voglio dire deter
minala. Uno universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale
sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L'a-
mversalità adunque non è che un rapporto: nè può cadere propriamente
10 altro che nelle idee, perciocché le idee sono cose, siccome abbiamo ve
duto, con ciascuna delle quali noi conosciamo uu numero indefinito di cose,
11 qual numero si chiama specie. Vero è, che sembra a pTimo aspetto, che
oltre le idee, v'abbia qualche altra cosa che dir si possa in questo senso
universale: un riti-atto sembra universale perchè è rappresentativo di tulle
quelle persone ch'egli somiglia. Ma questo è un inganno: il ritratto nou
l>a questa proprietà dell' universalità , se non in quanto le idee gliela ag
giungono. È l' idea del ritratto quella che del ritratto e delle persone che
al ritratto somigliano fa una cosa sola, cioè paragona, e trova una simi-
glianza: questa siraiglianza non esiste già nel ritratto, ma inquell'una idea
colla quale fu pensalo il ritratto e le cose n questo simili. L'unità adunque
di quell' idea è ciò che costituisce la similitudine che possono avere le
cose fra loro, come nel caso nostro il ritratto colle persone. Vcd. Voi. I,
face, iji e segg.
(2) Noi abbiamo ridotto la potenza d'intendere ad un senso primitivo,
face. 1 5i-i 55.
(5) Face. 464.
R osmi ni, Orig. rielle Llee, Voi. TI. 60
mentre il termine essenziale dell1 intelletto è oggetto e
forma del medesimo (i).
La sensitività è esterna od intema : 1' esterna ha per
termine essenziale il corpo, materia corporea estesa;
l' interna ha per termine il soggetto puro [V Io) (a).
Ciò che costituisce adunque la potenza della sensiti
vità esterna è il sentimento fondamentale del proprio
corpo (3).
Ciò che costituisce la potenza della sensitività intenta
è il sentimento dell' Io semplicemente (4).
Ciò che costituisce la potenza dell' intelletto è il sen
timento che percepisce l' idea dell' essere universale (5).
Tolta via la materia della sensitività, non rimane più
V essere sensitivo: tolta via la forma dell' intelletto, è
tolta questa potenza , ma rimane ancora il concetto di
un essere sensitivo. Quindi 1' idea dell' essere in univer
sale è vero oggetto percepito , c distinto dall'essere sen
sitivo ; ma il termine della sensitività è un costitutivo
dell' essere sensitivo , e non potendosi da lui dividere,
non riceve propriamente il nome di oggetto (6).
La percezione esige qualche cosa di distinto dal sog
getto percipienle, e quindi è essenzialmente extra-sogget
tiva ; la sensazione non esige che una materia (7). Quindi
l'intelletto è una vera percezione primitiva, e più pro
priamente intuizione; ma la sensitività non è che un
primitivo sentimento.
Nel nostro fondamental sentimento esistono tulle
queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il senti
mento di me col mio corpo ( sensitività ), e l' intelletto.
Questo sentimento intimo, e perfettamente uno, uni
sce la sensitività e l' intelletto. Egli ha altresì un'atti
vità , quasi direi una vista spirituale, colla quale ne
vede il rapporto : quest' attività è ciò che costituisce la
sintesi primitiva (8).
CAPITOLO II.
CAPITOLO HI.
I
i33, /. 5 de' corporei leggi da' corporei.
IDEOLOGIA
LOGICA
VOLUME III.
ORIGINE DELLE IDEE
DI
ANTONIO ROSMINI-SERBATI
SACERDOTE hOVERETANO
c£e cottttetie
I COROLLARJ DILLA TEORIA
SUL CRITERIO DELLA CERTEZZA, SULLA FORZA DEL RAGIONAMENTO A PRIORI,
I SULLA PRIMA DIVISIONE DELLE SCIENZE.
MILANO,
MDCCCXXXVU
SEZIONE SESTA
(1) Io abbraccio sotto il nome di cognizione tutto ciò che è nello spirilo
nostro in quanto è intelligente. A chi non piace tale denominazione, I»
«assi pure , e ne metta un'altra : sarà forse più propria. A me è qui ne
cessario un nome che abbracci il complesso delle intellezioni nostre; e
questa necessità mi fa prendere in un senso così largo il nome di cogni
zione.
(2) Alle sensazioni intendo che sieno ridotte anche le immagini delle
cose sensibili, che sono rinnovamenti di sensazioni sull'erti: , e il sentimento
fondamentale che è una sensazione universale e pennaueule di noi stessi.
I
5
parliamo : essa non è che la materia della cogni
zione (i).
La cognizione umana adunque si parte in quella che
è puramente formale, la guai si suol dire anche pura ,
e in quella che è mista di materia e di forma.
Ora io debbo dimostrare, che tanto la cognizione
formale , quanto la cognizione materiata non è essen
zialmente illusoria e soggettiva , come pretendono i so
fisti di tutti i tempi, ma che porge all' uomo la verità
oggettiva e reale.
Prima comincerò a dimostrar questo della cognizione
formale, e poi verrò dimostrandolo della cognizion ma
teriata: poiché la forma dell'intelletto è essenzialmente
intellettiva, ed è quella onde ha esistenza ogni intel
lettivo conoscimento. Per il che solo ragionando di essa,
noi potremo rinvenire il principio supremo ed univer
sale della certezza. In ultimo parlerò degli errori a cui
1' umana cognizione soggiace. Ma prima giova che noi
diciamo che cosa sia la certezza , e che facciamo sulla
medesima alcune considerazioni generali: il perchè di
videremo tutta questa Sezione in cinque parti , che sono :
Parte I. Del criterio della certezza.
—■— II. Applicazione del criterio a dimostrare la ve
rità della cognizione pura.
III. Applicazione del criterio a dimostrare la ve
rità della cognizione non-pura, o materiata.
IV. Degli errori a cui soggiace la cognizione
umana.
• V. Conclusione.
CAPITOLO I.
CAPITOLO II.
(1) Ogni idea acquisita , come abbiamo dimostralo nella Sezione prece
dente, ha in sè un giudizio: la prima idea diventa una proposizione tostocW
ti applica.
(2) Il sorella della certezza è sempre un individuo : poiché non può cs-
i3
Perchè adunque io dia il mio assenso ad una propo
sizione , e così generi in me la certezza , io debbo es
ser mosso da una ragione , e non dar questo assenso a
caso, o alla cieca.
Ora questa ragione non è necessaria ad altro, se non
a questo, che produca in me la persuasione della verità
di quella proposizione. Ma se la verità mi si mostra
intuitivamente , in tal caso questa ragione che mi
muove è la verità stessa, che presentandosi al mio
spirito io riconosco, e provo di lei quella forza che
genera in me un'immobile persuasione ragionevole, ap
punto perchè prodotta dalla verità, e perchè non mi
sono arreso che alla verità. In tale caso gli elementi
della mia certezza riduconsi a due , cioè alla verità nel-
V oggetto, che è altresì ragione della mia persuasione,
e alla persuasione stessa in me, soggetto, cagionata da
quella verità.
Ma ove io non possa vedere la verità stessa , chè così
si chiama la ragione suprema della proposizione; accioc
ché io dia un assenso ragionevole (i) , debbo avere un
motivo, un indizio o segno, in virtù del quale ragione
volmente io creda che in quella proposizione sia la verità,
eziandiochè io medesimo non la ci vegga: poiché quel
segno della verità è tale , che non mi può fallire. Or
questo segno certo della verità può essere, in ragion
d1 esempio, un,' autorità infallibile (2), alla quale ragio-
■ere che un individuo quegli che dà o nega l' assenso ad una proposizione,
non essendovi che individui sopra la terra. L'umanità non è che un'idea
astratta. Sarebbe adunque un assurdo il dire (cangiando un astratto in una
persona reale) che l'umanità, e non gl'individui de' quali l'umanità si com
pone, dà l'assenso e produce la certezza. Il dar l'assenso poi è pronunziare
un giudizio : il giudice prossimo adunque della certezza è fuori d' ogni
controversia l'individuo slesso, come il giudice prossimo delle azioni morali
é la coscienza di ciascuno. Questo però non toglie che 1' individuo non
debba seguire una regola che è indipendente da lui , nel fare simigliatile
giudizio.
(1) Erret necesse est, dice s. Agostino, qui assenlitur rebus incertis (L. II,
contro Acad. c. iv)-
(2) L' autorità non è già questo principio estrinseco della certezza con
siderato in tutta la sua generalità: ma è un caso particolare sottordinato a
questo general principio. Una parte delle argomentazioni ab absurdo sono
pure soggette al medesimo principio, cioè tutte quelle nelle quali l'assurdo
non cade punto sul contenuto della proposizione , ma sulla proposizione
stessa materialmente prosa, sicché nasce un assurdo a supporta falsa, seb
bene uou si sappia che cosa essa contenga, 0 non monti il saperlo.
"4
iievolmente io credo , sebbene ciò che mi viene affer
mato da quella autorità io non l'intenda. Ma di nuovo,
in generale, « un segno certo della verità di una pro
posizione nii può produrre la certezza » , sebbene estrin
seco alla proposizione , e non atto a farmi percepire
e conoscere (i) immediatamente la verità stessa in essa
contenuta.
Si possono adunque distinguere questi due principi
della certezza, chiamando l'uno intrinseco, e l'altro
estrinseco alla proposizione: perciocché il primo non si
trattiene solo a persuaderci e convincerci che in quella
proposizione aver ci dee la verità ; ma entra nella pro
posizione stessa, e la verità sua ci mostra manifesta
mente , e ce la fa percepire, per dir così, cogli occhi
nostri dell' intelletto. Il secondo all' incontro non s'in
terna nella proposizione , anzi non si cura sempre del
suo contenuto. E perciò con questo principio non è nè
pure necessario che noi intendiamo chiaramente quella
proposizione : ma checché ella contenga, e qualsiasi la
intelligenza nostra di lei ( foss' ella anco espressa in
lingua a noi ignota, o scritta in caratteri inintelligibili),
mediante quel principio noi proviamo a noi stessi, e
con ragione ci convinciamo , che quella proposizione
dee contener il vero, e quindi che noi dobbiamo aciù
che è in essa contenuto prestare intero 1' assenso.
CAPITOLO IV.
(i) Sant'Agostino trova più propria la parola sapere per indicare I» pfr'
cezionc della verità, e la parola credere per indicare l'assenso dato attui»
proposiziouc sull'altrui fede: Proprie quippe cuni loquimur, id solili* sa"
dicimWf quod mentis firma ralionc eomiirehendimus. Cum vero loqum»*
i-erbis consuetudini aptioribus, — non dubitemtts dicere scire nos et
pcrcipimus noitri corporis scnsibus, et quod fide dignis credimus testi*''•
DUM TAMEN INTER HMC ET 1LLUD QUID D1STET INTELLl-
CAMUS ( Rclract. L I, c. xiv ).
i5
Ma quel segno, perchè mi presti questo ufficio , dee
essere egli medesimo prima certo. È dunque in questo
caso una certezza che produce un' altra certezza. La
certezza che io acquisto di quella proposizione , non
1' acquisto io se non perchè prima ho la certezza di
quel segno o argomento che me 1' assicura. La certezza
adunque che mi produce il principio estrinseco della
verità, non è la certezza prima, ma è una certezza che
suppone un' altra certezza precedente.
Or dunque, ond' è la certezza di quel segno certo?
Se la certezza del medesimo mi viene da un altro segno
certo, io ridomando, onde la certezza di questo ? Ma
nifesta cosa è, che non si può andare all'infinito nella
serie di questi segni; perciocché se io m' accertassi del
primo segno pel secondo, e del secondo pel terzo, e
via discorrendo infinitamente , io dovrei aver nel capo
mio una serie infinita di segni; cosa assurda: percioc
ché in questa serie infinita il primo non troverebhesi
mai; e dal primo dipenderebber pur tutti gli altri; nè
senza il primo nulla gli altri varrebbero. È dunque da
finire in un segno, la verità del quale mi sia nota per
si stessa, e non per altro segno. Così forz' è di ridurre
il principio estrinseco della certezza , al principio intrin
seco, come a un principio superiore; e in tal modo il
principio ultimo della certezza riducesi ad un solo, cioè
alla verità veduta dalla nostra mente con una intuizione
immediata, senza segni e senza argomenti di mezzo (i).
(i) Osservisi bene, che il motivo o ragione che piega il mio assenso,
dee in ogni caso essere sempre la verità; perciocché nulla potrebbe vera
mente persuadermi che una cosa è vera, se non la verità. Poniamo che io
si» mosso a credere o pronunziar vera una proposizione da' miei interessi.
Questa proposizione sarebbe resa a me veramente certa? No: perchè la ra
gione che mosse il mio assenso fu {'utilità mia, e non la verità. V'ha un
sicario, che minacciandomi di conficcarmi un pugnale nel petto, mi fa giu
rare una dottrina. Che fa costui? mi persuade? Nò certo, all'istante; non
Eira che rendermi spergiuro: poiché quella pena minacciata non produce
lu me la certezza; essa non è verità, ma è pena; non ha dunque diritto
sul mio assenso intellettuale. Poniamo che una lunga oppressione, una lunga
scrviiu, una indefinita serie di pene fattemi soffrire, accompagnate da altri
mezzi di persuasione (non però mai dalla verità), piegasse in me 1' assenso
a falche dottrina, e producesse in me una persuasione qualunque. Questa
persuasione sarebb' ella certezza? Nò ancora, perchè prodotta da motivi
estranei alla verità. Che se quella persuasione, nata in me prima per mo-
'lv> stranieri alla pura forza del vero, poi sopraggiugnendo la verità net
m"> spirilo, fosse da questa confirmata} ella comincerebbe ad essere cor
azza solo in quest'ultimo tempo, e non prima. Non altro motivo dunque,
la vista della verità , può produrre la vera certezza.
iG
CAPITOLO V.
DELLA MANIERA ONDE NOI TEDIAMO LA VERITÀ'.
(i) Si dice della proposizione , e non della cosa intorno a cui pronuncia
la proposizione. La ragione della proposizione é una ragione logica; la ra
gione della cosa intorno a cui la proposizione pronuncia è una ragione
metafisica o finale ecc. Pigliamo in esempio questa proposizione: « Esiste
in genere umano ». Il genere umano è ciò intorno a che pronuncia la
Croposizionc. Ora io, per esser certo di questa proposizione, non ho mica
i sogno di conoscere la ragione ultima del genere umauo ; ma bensì quella
ragione ultima, che mi provi la sua esistenza; perchè la proposizione versa
su di questa esistenza, e non sulla natura o sulla ragione del genere umano
stesso.
Rosmini, Orig. delle Idee , Votili. 3
i8
CAPITOLO VI.
(0 Sez. V.
(a) Cap. VI e VII. Questo é anche vero secondo il senso comune degli
uomini : gli scettici assaliscono il senso comune : la difesa di esso è ne' capi
toli seguenti.
(3) Cap. II.
(4) O/zujc. Filos. Voi. II, face. 98.
22
giudizj 7 e andate a caccia, sillogizzando, di ragioni so*
pra ragioni. Ma vana e perduta fatica ! A. noi , pochi
savj, fa ridere: poiché veggiamo, che ciò che trovate,
limandovi così il cervello, è poi tutto falso; e quelle
idee che avete per ragioni, sono illusioni vostre, senza
che la verità ve 1' abbiate mai.
Comunità degli uomini. Noi non giungiamo, è vero,
a queste vostre acutezze. Tuttavia potrebb' essere, che
la differenza in fra noi consistesse appunto in questo,
che non veggendo noi tanto innanzi, siccome vedete
voi altri, nè pure possiamo tanto innanzi desiderare;
e quindi noi ci acquietiamo prima di voi, mentre voi altri
sdegnate ciò che noi pienamente appaga e accontenta.
Scettici. Così è, fuor d' ogni dubbio.
Comunità degli uomini. Per dire in altre parole lo
stesso pensiero, noi ci acquietiamo nella verità, e voi
cercate qualche cos'altro oltre la verità.
Scettici. Oibò! noi diciamo anzi, che voi non trovate
mai, nè si può trovare la verità.
Comunità degli uomini. Ma diteci, per grazia , non
avete voi riconosciuto questo fatto, che noi facciamo
di quelle operazioni col nostro spirito, che si chiamano
ragionamenti ì
Scettici. Sì; ma questi sono di nessun valore.
Comunità degli uomini. Qualunque sia il valor loro,
noi li facciamo; e mediante quelli, noi perveniamo a
vedere una ragione ultima delle proposizioni delle quali
si cerca il vero ed il falso.
Scettici. Appunto questa ragione ultima, a cui si ri
ducono , risolvendoli , tutti i vostri ragionamenti, è sfor
nita di ogni autorità e di ogni valore. Appunto per
questo non valgono nulla i ragionamenti vostri, perchè
hanno tutti per fondamento una ragione ultima gra
tuita , e senza dimostrazione, senza sostegno, e a cui
bisogna assentire gratuitamente.
Comunità degli uomini. Se la cosa stia come voi dite,
o nò , noi non possiam disputare , perchè troppo allo
è il ragionamento vostro sopra il sapere di noi molti
tudine. Ciò che possiam dimandarvi è solo questo: se
voi sappiate , come quella ragione ultima de' ragiona
menti, con proprietà di parlare si chiami.
Scettici. Che importa a noi il significato de' vocaboli
noi ragioniamo di cose , e non di parole.
23
Comunità degli uomini. Ma non si può sapere quali
sieno le cose sulle quali due parti ragionano, se le parti
non convengono nel significato delle parole.
Scettici. Come adunque si chiama ella questa vostra
ragione ultima ?
Comunità degli uomini. Verità'.
Scettici. Eh ! sciocchezza !
Comunità degli uomini, Tant' è : ella si chiama ve
rità (i), questo è il suo nome proprio: ed è perciò, che
noi dicevamo consistere la differenza fra voi altri pochi
e sublimi filosofi , e noi minuta e innumerevole gente
rella , in questo solo, che noi ci appaghiamo e ac
contentiamo della verità, ma per voi altri questa è troppo
misera e ignobil cosa ; e quando ella vi si presenta , voi
non la degnate d' onorevole accoglienza , e anziché ar
rendervi e sottomettervi ad essa , lei vi mettete dietro
le spalle, per andar più oltre, e cercar cosa migliore
e più degna di voi.
Scettici. Voi ci schernite, e abusate delle parole.
Comunità degli uomini. Vi scherniamo? non facciamo
che esporre la differenza che corre fra voi altri filosofi,
e noi genere umano. Non essendo noi alti ad entrare in
sottili ed ardue investigazioni con voi altri, ci acconten
tiamo di esporre il fatto : noi non vogliamo decidere
chi abbia la ragione ed il torto: mettiamo solamente
in chiaro la nostra opinione , perchè impugnandola voi,
sappiasi almeno che cosa impugniate e combattiate. In
quanto poi all'abuso che ci rimprocciate delle parole,
vi domandiam perdono; ma ci riesce alquanto strano
un simile rinfacciamento a noi.
Scettici. E non è egli un abuso manifesto di parole,
dar nome di verità a quell1 ultima ragione in cui vanno
a finire tutti i nostri ragionamenti? non è quest'abuso
ridicolo, mentre trattasi appunto di sapere se quella
ragione ultima sia vera o illusoria ? Voi supponete de
cisa la questione che si agita appunto.
(i) Noi abbiamo mostrato, che l'essere costituisce ciò che comunemente si
chiama il lume della ragione , e dalle scuole il lume dell' intelletto agente ,
ed è la ragione ultima onde tutte l'altre cose si conoscono. Ora s. Agostino
chiama appuuto verità questa luce , questa ragione : « Lux increata est
ratio cognoscendi, dic'epli , et sola lux increata EST VER1TAS ( De V.
lielig. Cap. XXXIV c XXXVI ).
24
Comunità degli uomini. Vi ripetiamo, che noi non vo
gliamo agitare nessuna questione ; chè noi non siamo
da tanto da contender co' vostri sottilissimi ingegni. Ma
riguardo all' abuso delle parole , non vi rammentate forse
più con chi parlate ?
Scettici. Con una moltitudine di gente la più parte
illetterata.
Comunità degli uomini. Voi parlate colla società del
genere umano , la quale , letterata o non letterata , è
quella sola che impone i nomi alle cose , o che dà loro
autorità. Risovvenitevi, che voi stessi , prima di diventar
filosofi, siete stati educati nella società degli uomini;
che in questa avete apparato quella loquela che adesso
adoperate a disputare contro di lei ; che questa loquela
era già formata prima che voi filosofaste , pensaste, na
sceste; che, bella e stabilita, tanto voi come noi tutti
la usiamo ad esprimere i nostri concepimenti. Non v'è
adunque lecito di attribuire al nome di verità un signi
ficato diverso da quello che noi gli attribuiamo e che
i nostri padri gli hanno sempre attribuito , e molto
meno di rimprocciare all' intero genere umano abuso
di vocaboli ; mentre il genere umano è quegli che in
questo fa e sancisce la legge, a cui tutti debbono stare
gli uomini , letterati ed illetterati , se pur vogliono in
tendersi fra di loro. Perdonateci piuttosto, se noi ritro
viamo una prosunzione infinita da parte di voi altri
pretesi scettici , i quali togliete così a fidanza di dar
legge al genere umano anche nella significazione delle
parole che da lui avete ricevuto. Contentatevi del di
ritto di ragionare, o sottilizzare a vostra posta; ma la
sciate all'uman genere quello sulla lingua, che nessuno
tor gli può nè violare impunemente. Ora sappiatevi
adunque, che tutto il genere umano appunto, dal prin
cipio del mondo fino al presente , non ha mai inteso
di dire altro , dicendo di conoscere la verità di una
proposizione , se non di conoscere quell' ultima ragio
ne , queir ultimo elemento della medesima : e che alla
parola verità, non ha aggiunto che questo valore. Non
potete dunque negare la verità : i vostri colpi non
vanno contro di questa ; mentre voi pure accordate ( ed
è un fatto), che ogni ragionamento gli uomini lo scom
pongono e riducono ad un ultimo elemento , o ragione
25
del ragionamento (i). Veramente, il dire che questa ra
gione è falsa e non vera, è un abusare delle parole:
perciocché ciò che si chiama verità, non è qualche, al
tra cosa , ma quella ragione stessa. La verità dunque è
immune dai vostri assalti : e la differenza che passa fra
gli scettici e il senso comune non è altra che questa ,
che il senso comune , pervenuto alla verità, ivi si ac
quieta e riconosce d' esservi pervenuto ; e gli scettici
pervenuti alla verità non se n' accorgono , ma la tra
passano, e cercano qualche cos'altro migliore, pel quale
(abusando delle parole) riserbano arbitrariamente il
nome di verità (a).
prieti de' vocaboli, prima di oppugnare le sentenze del senso comune, che
non in altro modo, ma ne' vocaboli espresse si presentano. Meditando Im
portanza di questo avviso, si vieue a conoscere l'ultima unione delle io*
colle parole: e come queste sole contengano la tradizione delle opinioni
umane. Quindi gli antichi consideravano l'etimologia, o per dir meglio, lo
studio del valore delle parole, siccome una parte assai necessaria alla logici-
Verbnrum, così Cicerone espone la dottrina degli accademici e de' peripJ-
telici su di ciò, verborwn elioni explicatio probabatur, qua de causa quo
que essent ita nominala: quam etjfmoh'^iain appellabaitl. Yed. Acadcm. L '■
27
è una prima proposizione, e non altro: sarebbero per
venuti a vedere in somma, cbe v' ha una proposizione
che esprime la stessa verità , cioè una ragione che
verità' da tutti si appella. Venuti così a considerare
da vicino la verità , e anzi in sè stessa , e non in qual
che sua vaga e astratta nozione ; e trovato eh' ella è
un' ultima ragione ( che si esprime in una ultima pro
posizione ) ; avrebber conosciuto manifestamente, che è
un assurdo , una contraddizione in termini a negare la
verità di quest' ultima proposizione, perciocché è un
negare che la verità sia la verità. Nù altro perciò che
in un abuso di parole, in una trascuratezza di bene
intenderne il valore , 1' errore degli scettici si risolve.
Di che avviene, che la questione scettica al tutto si
cangi ; e non possa dimandarsi più : « Si può egli co
noscer la verità »? ma sì bene: «Dee l'uomo acconten
tarsi della verità»? dee ad essa assentire? Ciò a cui
il genere umano ha imposto il nome di verità, è poi
questa cosa si autorevole , sì assoluta , che niente di là
da essa si possa aspettare di piò nobile, di più appa
gante, o niente al tutto di checché pregio egli sia?
Questo nuovo stato della questione, che ne rende la
soluzion manifesta , la quale in vano gli scettici disco
noscono, è il solo che possa sussistere: e ciò si vedrà
maggiormente da quello che per ragionar siamo nei
capitoli susseguenti.
PARTE SECONDA.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO A DIMOSTRARE LA VERITÀ'
DELLA COGNIZIONE PURA.
CAPITOLO I.
ARTICOLO I.
OBBIEZIONI SCETTICHE CONTRO l' INTUIZIONE DELL' ENTE.
ARTICOLO IL
ONDI QUESTE OBBIEZIONI DERIVINO.
ARTICOLO IH.
MllMO DUBBIO SCETTICO : « IL PENSIERO dell' ESISTENZA IN UNIVERSALE
NON POTREBBE ANCIi' ESSO ESSERE Un' ILLUSIONE ? M
S I.
Risposta.
Noi abbiam detto (i) che questo dubbio non può na
scere, ove bene s'intenda che cosa sia l' intuizione del
l' esistenza in universale: e ov' ella non si confonda
coli' altre intellezioni , ma si consideri nel suo essere
particolare.
E veramente, che vuol dire un'illusione, un pen
siero ingannevole ? Non può voler dire se non un pen
siero che addita una cosa che non è. Quand' io, di
sera , in un bosco , sotto nuova luna , guardo e credo
di vedere un uomo , ed è anzi un' ombra , o il tronco
d' un faggio , o un masso di pietra ; io mi sono ingan
nato nella mia opinione. Prendere in somma l' appa
renza per la realità , in qualunque modo ciò mi avven
ga, è un inganno, una illusione. Dunque il concetto
della illusione , bene analizzato , contiene due elementi,
i." l'apparenza 2.' e la realità. L' apparenza è ciò che
mi appare , la realità è ciò che giudico io dietro al
l' apparenza della cosa. Quando giudico esser veramente,
quella cosa che solo mi appare e non è , io mi sono
ingannato ed illuso.
Adunque , ove mi si desse un' apparenza , cioè o«
mi apparisse una cosa , 0 avessi una sensazione 0 vi-
§ a.
Istanza dello scettico.
§ 3.
Corollari della dottrina esposta.
ARTICOLO IV.
SICOHDO BOBBIO SCETTICO : M COME È POSSIBILE CHE t' DOMO PERCEPISCA
UNA COSA DIVERSA DA SE STESSO ? »
5 i.
Risposta.
La concezione di un gualche cosa (2) indeterminato,
è un fatto semplice, innegabile, ove l' illusione o l'in
ganno temuto dagli scettici non ha luogo (3): poiché
non si tratta qui di un giudizio, ma di una intuizione
di fatto, ove non si afferma 0 nega volontariamente,
ma solo si vede la possibilità di negare o di affermare.
Or, quand' io penso ad un qualche cosa, senza deter
minar nulla intorno al medesimo , io concepisco però
due casi in cui il qualche cosa è possibile: questi casi
sono , che questo qualche cosa sia in me , ovvero che
sia fuori di me.
Lo scettico mi dice: » È impossibile che vi accorgiate
mai di cosa che sia fuori di voi , poiché non potete
mai uscir di voi ».
E sarà per avventura come dice lo scettico : io qui
Continnazionc.
La dottrina esposta nel paragrafo precedente si ri
capitola tutta in quella proposizione già da me altrove
stabilita, che «l'essere in universale è l' oggetto del
l'intendimento (i)».
Quando io considero una cosa ( un essere ) , in quanto
io la considero, essa dicesi oggetto della mia conside
razione.
Ora checché sia questa cosa, l'esser ella oggetto, è
un dire eh' ella viene da me considerata in sè stessa ,
senza alcuna relazione ne con me nè con altri.
Questo non è che l' esposizione della maniera del
nostro concepire intellettualmente. Perciocché dire che
io penso un essere , che penso ciò che fa esistere la
cosa, è un- dire che penso la cosa in sè (in quanto
ella è ), e non punto che la penso in relazione con
altra (2).
Certo è dunque , che analizzando il pensiero di una
cosa, trovasi che la cosa pensata mi sta dinanzi come
indipendente dalla sua relazione con me: e quindi nel
pensiero di una cosa , io non penso già eh' ella sia in
me , cioè eh' ella sia qualche cosa di me.
Però se io non penso che la cosa sia in me , ma in
sè slessa, dunque io ho la nozione delle cose in quanto
sono in sè stesse. Potrà dunque essere che io erri nel-
l' applicare questa nozione: intanto però io penso real
mente la possibilità della cosa in sò, indipendente da
me, e quindi diversa da me.
Non si può rispondere, che io m' inganno in tale no
zione: cioè , che io creilo d' aver la nozione del diverso
da me, o dell' uguale a me, e non la ho: perciocché
§ 3.
Corollari importanti.
(i) Il fuori di noi, abbiamo dotto che esprime una relazione delle cose
esteriori col nostro corpo ( Scz. Vj Parte V, cap. JX ) , ed è equivalente
a quest' altra espressione, diverso dal nostro corpo. La questione, « come
possiamo accertarci del fuori di noi »>, fu prodotta dalla filosofia de' sensi.
Ben presto fu trasportata alle cose spirituali ;-e pel vezzo introdotto dai
insisti , d' applicare le espressioni metaforiche tolte dalle cose sensibili alle
cose spirituali , si usò dire che ogni nostro pensiero usciva di noi , ecc. Al -
'ora nacque il trascendentalismo; e Kant non domandò più « come noi ci
possiamo accertare del fuori di noi »> ( de' corpi), ma generalizzando la
questione, e trasportandola allo spirito, domandò: «Come siamo noi certi
'jegli alti del nostro spirito, o sia, come ci possiamo accertare del diverso
•« noi»? da quesl' ultima domanda ebbe origine lo scetticismo critico, ed
L' quello che noi qui rifiutiamo.
Rosmini , Orig. delle Idee , Voi. HI. G
ARTICOLO V.
TERZO DOCCIO SCETTICO : « LO SPIRITO NON COMUNICA FORSE ALLE COSE VEDUTE U
SUE PROPRIE FORME, E NON LE ALTERA E TRASFORMA DA QUELLO CHE SONO»?
5 I.
Risposta.
§ a.
Corollari.
(i) Tre sono i fatti da cui si può tentare di dedurre l* assoluta certei-
za: i.° la materia della cognizione, a.0 il soggetto conoscente, 3." e l'og
getto formale, o sia la forma della cognizione.
i.° Vi furono de' filosofi che pretesero cavare la certezza dalla matcrm
della cognizione, cioè da' seusi. Questi diedero occasione agli antichi scet
tici, i quali videro i primi , che i sensi non potevano essere i fonti di una
apodittica certezza. Quindi Degerando , dopo aver descritti i dieci tropi
o epoche, ne' quali i pirronisti racchiudevano le loro eccezioni contro tua
certezza, acutamente soggiunge; « Si osservi, che tutto questo codice
« ( degli scettici ) , attaccando essenzialmente la testimonianza de' sensi,
« ammette come una supposizione convenuta , che le cognizioni venivano
k dall' esperienza esteriore e sensibile » ( Histoire comparée eie. , s edil.
T. II, pag. 477"4/8 )• Questo è il pirronismo generato da' sentisti.
a.0 Vi furono de' filosofi che pretesero cavare dall' intimo del nostro
spirito le cognizioni , che vedevano non poter venire da' sensi ; e quindi
da noi stessi, dalle leggi della nostra natura intelligente, dal soggetto ">
uua parola , dedussero la certezza. Questi diedero origiue agli scettici mo
derni , cioè a' filosofi critici o trascendentali. Tale è il pirronismo gene
ralo dalla filosofia scozzese, che diede origine all' assurdo di una venti
soggettiva , cioè di uua verità che non è verità.
3." Il terzo sistema , che trova il fondamento della certezza neu" og
getto formale , cioè neh" idea prima e indeterminata dell'essere, la quale
1 ,° non è materia , e quindi non può esser alterala e variata per la sua
essenziale semplicità , 2." non è soggetto limitato , e quindi non impone
forme parziali alla cognizione , ma è oggetto illimitato e indeterminato ; e
il nostro , e l' unico vero , che non dà luogo a risposte , e mette il fermo
punto su cui s' appoggia la certezza, e dove sta sicurissima dalla un»ua
temerità.
L' antichità cristiana aveva già esclusi e riprovali que' due primi sistemi,
cagioni di quelle due specie di scetticismo, che hanno tanto confuse e
turbate le recenti generazioni : ma 1' antichità cristiana fu riprovala a "•
ceuda dalle recenti generazioni, che fur viste 1' una guidar 1 ultra siccome
c echi guidatoli di cicchi; e rovesciarsi iu uuo inestricabile -abisso i »■
Medesimamente, se V Io è limitato e particolare, ed
all'incontro Tessere, intuito da noi per natura, ò il
limitato e universale; dunque l' mere non è un effetto,
un'emanazione dello spirilo, perciocché lo spirito è
causa impotente a produrlo, di natura opposta.
II. Se 1' essere è 1' unica idea che abbiamo nel nostro
spirito per natura, e se tutte le altre sono acquisite;
dunque lutto ciò che il nostro spirito aggiunge alle
cose , è solo il concetto dell' essere.
Ma 1' idea dell' essere è giustificata per sè stessa , per
chè essa non ha modo o forma particolare; dunque il
nostro spirito (in quanto è puramente intellettivo ) non
aggiunge nessun modo o forma alle cose da lui percepite.
Dunque le cose da lui percepite non sono contraffalle
da lui, perocché egli nulla v'aggiunge nò mula, ma
quali gli si presentano (t), tali egli le percepisce.
terìala, cioè fornita di materia e ili forma. Qui non parlo che della cojjni-
zione formale pura , meramente intellettiva: e rispetto a questa, panni
d' aver dimostrato evidentemente , contro il criticismo, che lo spirito intel
ligente non ha nessuna forma ristrettiva , collii quale alteri e con Ini (lacca
le cose che egli percepisce j ma eli' egli ha una sola forma , illimitati ,
la forma di tulle le forine possibili, non determinala a nulla, indifferente;
perciò perfettamente atta ad ammetterle tutte imparziale , e quasi direi
senza frode od inganno: questa forma così universale, così genuina, è li
VERITÀ' slessa, come ho dimostralo nella Parte I, eap. Vllf.
47
ARTICOLO VI.
(i) Qui si parla dell' ultima ragione logica, la quale è data a noi dal
fallo della intuizione prima. Or non può esistere alcun' altra ragione so
pra quella , Dell' ordine logico , sebbene possano esistere delle ragioni d'al
tra specie ( cioè finali , od ontologiche ), nella serie delle quali 1' uomo
non perviene a veder 1' ultima. Ma nella scric delle ragioni logiche l'uomo
vede V ultima, perchè ciò è essenziale alla ragione; ed è rispetto a que
st'ordine che si dee intendere il celebre passo di s. Agostino, « Quiequid
super illam (ralionalcm crcaturam) est , jam creator est ^Iu Jo. T. XXIIf).
48
nasce dalla dimanda , « come percepir si possa ciò che
è da noi diverso » : conciossiachè 1 intuire 1' essere in
universale, costituisce la possibilità (la facoltà) di ve
der le cose in sè , cioè indipendenti da noi.
Ma il volere spiegare quel fatto primo con un altro
fatto antecedente che appartenga alio stesso ordine lo
gico, è desiderio altrettanto intemperante, quanto quello
di semplificare maggiormente un numero che è già ri
dotto all'unità, cioè al suo primo e semplice elemento.
Gli scettici all' incontro abusano appunto di questa
ricerca , ragionando presso a poco così : « Noi non pos
siamo intendere come un essere possa percepire qualche
cosa di diverso da sè. Quando dunque 1' uomo, o altro
essere intelligente, percepisce qualche cosa di diverso
da sè, è da dire eh' egli noi percepisca se non appa
rentemente diverso da sè , ma che realmente egli per
cepisca una cosa non diversa da sè stesso, percepisca
sè stesso e nulla più ».
In questo ragionamento si vede la teoria che assali-
sce e distrugge il fatto , V ignoranza che cancella la
verità. . ,
Io rispondo agli scettici in questo modo : Voi dite
che noi concepiamo 1' essere diverso da noi solo appa
rentemente, ma che quell'essere realmente non è di
verso da noi. Ora se Tessere mi appare, come voi dite,
diverso da me, dunque lo concepisco diverso da me."
Che cosa è apparire una cosa a me, se non esser con
cepita da me? Badate, che io non decido ciò che sia
questo essere che percepisco in sè stesso , cioè se sia
diverso da me, o se sia identico con me : io mi re
stringo a dire, che io lo concepisco come da me diver
so; mi restringo cioè s stabilir quel fatto che voi me
desimi mi accordate. La differenza che corre fra di noi
si è questa sola, il diverso uso che noi facciamo di
questo fatto da ambedue le parti ammesso. Io dico: se
concepisco l'essere come diverso da me, dunque io ho
la facoltà di concepire le cose come diverse da me: se
questa mia facoltà sarà ingannevole , io per ora non
chiedo: basta a me di fermare, che la mia mente ha
un oggetto indipendente da sè , vero o falso che sia
quest' oggetto. Voi all'incontro cominciate a stabilire
in precedenza di ogni fatto, che è impossibile che la
mia mente esca di sè e concepisca qualche cosa da se
indipendente; dunque, conchiudete, Tessere ch'ella con
cepisce come diverso da sè , non può esser diverso da
sè ; ella s' inganna dunque. Ma non v' accorgete voi ,
che così dicendo uscite della questione? La questione,
e la difficoltà tutta quanta consiste pur solo in questo,
nel sapere se la niente concepisca il diverso da sèj non
già se ciò che concepisce risponda alla sua concezione
sì o no. Ora voi ci dite che non risponde : intanto ac
cordate, che la concezione sua termini in cosa fuori di
sè : che 1' oggetto, in quanto è da lei concepito, non sia
ella stessa. La natura dunque della concezione voi non
la potete negare : nè potete distinguere qui il concepire
o 1' apparire , perciocché 1' apparire nel caso nostro è il
concepire medesimo. Oltracciò , il dire che l'oggetto in
quanto non è dalla mente concepito non risponde al
concetto che la mente ha di lui , è un sentenziare so
pra una cosa non concepita, e quindi incognita perfetta
mente : avete dunque passati i termini del vostro potere.
Ma or via, voglio seguirvi nelle vostre immaginazioni
ed ipolesi: sia l'oggetto concepito dalla mente non di
verso dalla mente stessa, cioè dal soggetto percipienle.
Io dico : Il soggetto stesso , quando voi lo pensate,
non diventa egli 1' oggetto del vostro pensiero ? Certa
mente. L' essere dunque una cosa oggetto del pensier
nostro , non la mula ; non la fa per questo rimanersi
dall' essere ciò eh' ella s' era prima : ella può restarsi
soggetto, e tuttavia essere V oggetto insieme del pensier
nostro.
Ciò stabilito, ond' è che si usa questa frase: La
mente pensa le cose diverse da sè? Che vuole ella si
gnificare? Null'altro se non se, ch'ella pensa le cose
come suoi oggetti.
Ma in che modo possono essere sinonime queste due
maniere , pensar le cose come diverse da sè, ed esser
le cose oggetti del suo pensiero?
Oggetto del pensiero non vuol dire se non una cosa
da noi in se stessa pensata: una cosa in sè stessa , vuol
dire una cosa nella sua esistenza propria : e giacché una
cosa nella sua esistenza propria è diversa da ogn' altra
considerata pure nella sua propria esistenza, quindi og--
getto del pensiero è essenzialmente una cosa diversa da
noi pensanti.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. 111. 7
5o
Ora ciò si avvera anche quando io penso me stesso:
perciocché io, soggetto, divento in quell'atto oggetto
del mio pensiero : tuttavia, pensando a me, io considero
me stesso in quanto esisto in me, e non più, e perciò
in quanto penso e sento, cioè come soggetto de' miei
pensieri e delle mie sensazioni attuali. L' essenza dun
que del pensiero è quella di terminare in un oggetto,
cioè in cosa diversa dal soggetto pensante. L'ente adun
que diverso dal soggetto, o sia l'oggetto del pensiero,
non può far dubitare dell'autorità e veracità del pen
siero stesso; perciocché tanto è lungi che noi siamo
inetti a concepire le cose diverse da noi , che anzi noi
non possiamo nè pure concepire intellettivamente noi
stessi, se non ci consideriamo come diversi da noi, sog
getti attualmente pensanti.
L' argomento degli scettici avrebbe bensì luogo per
altri esseri, se ve n'avessero, i quali fossero forniti di
un modo di concepire tutto opposto al nostro: cioè se
essi concepissero tutte le cose non nella esistenza a quesle
propria, ma come identiche con sè soggetti concipienti.
Tra esseri intelligenti di tal natura, sarebbe ragionevole
che alcuno sorgesse dicendo: «Noi concepiamo le cose
tutte come parti di noi slessi. Ora ciò è impossibile.
E da credere più tosto, che così noi concependole, esse
sieno una creazione che facciam noi nell'alto del conce
pire; non possono esser veraci queste nostre concezioni».
Ma si osservi, che un simile dubbio non potrebbe
mai venire in capo ad uno di quegli esseri: ma sì bene
ad alcuno di quelli che avessero la facoltà di vedere le
cose in sè, potrebbe questa dubitazione presentarsi. Sic
ché gli scettici slessi, per muovere il dubbio contro
l'esistenza della facoltà che abbiamo di concepire il di
verso da noi, è necessario che abbiano questa facoltà,
perchè il detto dubbio possan pensare. Senza che, una
concezione che non esca dal soggetto, è un concetto che
fa a cozzi con sè slesso: perciocché sarebbe concezione
e non concezione in un tempo.
Finalmente la legittimità del pensare è evidente per
sè, chi ne medita attentamente la natura. Poiché la
sua natura consiste nel pensare che noi facciamo le
cose in sè ; or non è questo identico col pensare le
cose nella loro propria esistenza? e ciò è che si chiama
la verità della nostra concezione.
•i
5i
In poche parole, secondo gli scettici , le cose hanno
due esistenze: i." V una com' è da noi percepita, a. ° l'al
tra reale, come da noi non è percepita.
La percepita, la illusoria e falsa, è l'esistenza in sè,
oggettiva, perciò a noi appare la cosa oggettivamente.
La reale, come da noi non è percepita , dee essere
dunque 1' esistenza identica con noi , appunto perche
non è soggettivamente che noi percepiamo.
Non sono queste proposizioni manifestamente contrad
ditorie? Se l' esistenza in sè è la percepita da noi, se
1' esistenza immaginata come soggettiva è la non perce
pita; non sarà egli vera l'esistenza che noi percepia
mo, falsa o anzi nulla e parto chimerico degli scettici
stessi quella che non percepiamo (•)?
ARTICOLO VII.
ti) L' errore degli scettici nacque altresì dal coafondere eh' essi fanno
" esistenza colla essenza specifica della cosa. Quando io dico di percepire
la cosa come esiste in se, io non vengo mica a dire di percepirla nella
sua reale essenza specifica. L'oggettività perfetta sta solo nel percepire la
prima di queste due cose, cioè r esistenza, che è quanto dire, nell' appli
care alle cose 1" idea dei!' essere in universale , che è il fonte dell' ogget
tività , anzi propriamente è ciò che costituisce l'oggettività stessa. All'oppo
sto, nel percepire l' essenza delle cose si può mescolare del soggettivo ; e
si mescola, come ahbiamo veduto nella Sezione V, massime parlando della
percezione de' corpi. Quindi ancora, 1' essenza cognita della cosa non è
sempre l' essenza specifica reale della medesima intatta e pura : ma è una
essenza in cui manca qualche cosa , come nelle essenze generiche ( Ved. il
Voi. II, facc. aiy e segg. ),e massime nelle essenze nominali, ed anco
mescolate di qualche elemento soggettivo, il quale però noi possiamo
sempre disccrnere e separare dall' oggettivo.
52
mane un fatto; e ciò è quanto dire , non può darsi in
lui illusione o inganno : così si scioglie il primo dubbio.
Essendo l'essere oggettivo essenzialmente, è diverso
essenzialmente ed opposto al soggetto che lo percepisce,
e costituisce con ciò l' intelletto, cioè una potenza che
non ha rispello a sè stessa, e che vede le cose fuori
di ogni luogo e tempo: quindi è distrutto il secondo
dubbio, come l'intelletto possa uscire di sè: dubbio
fondato tutto sopra una metafora tolta da' corpi, la
quale scoperta, e tradotta in espressioni proprie, non
ha più senso : questo dubbio cessa dunque da sè senza
essere sciolto.
Essendo l'essere indeterminato (1), egli non può de
terminare cosa alcuna , ma hensì ricever egli le deter
minazioni di cui le cose presentale sono fornite; e
quindi è impossibile e contrario al fatto il dire che la
nostra cognizion delle cose possa ricevere dal nostro in
telletto un modo soggettivo, una forma particolare,
diversa da quella che esse hanno in sè stesse.
Dimostrai finalmente , che que' dubbj non sarebbero
potuli nascere in mente di alcun filosofo, il quale fosse
proceduto per la via de' fatti, e non abbandonatosi
dietro a un metodo falso di vane ipote'si e creazioni
vaghe e confuse della fantasia.
Ora io qui dichiaro di buon animo, non esser mia
questa confutazione degli scettici moderni , ma conte
nersi nel deposito delle cristiane tradizioni. Nè solo
quella confutazione trovasi nella cristiana antichità, ma
altresì quel metodo che parie da' fatti primigenii e si
curi, e sopra quelli ragiona; dal qual metodo allonta
nandosi , senz' accorgersene i sofisti (3) ci hanno gittati
lere e di fare, molto meno poi quello che dice di volere»: e rispetto al
l' argomento del metodo , che « altro è il conoscere questo metodo nel suo
principio , altro il saperlo maneggiar nel fatto : e non conviene credere
facilmente a quelli che si professano di seguirlo , ma si bene guardar pri
lla se ne hanno I' arte, o se non hanno forse che belle e vacue parole ».
(>) San Tommaso stabilisce questo metodo, De ferii. X, vw. Gli scettici
all' incontro della filosofia trascendentale, in vece di dire: » La mente fa
questo , dunque ha la potenza di farlo » ; dicono : « La mente non ha la
potenza di far questo , dunque noi può fare se non in apparenza ». Essi
cominciauo a restringere arbitrariamente e ipoteticamente la potenza della
niente , e con queste anticipazioni assunte a loro arbitrio dichiarano ap
parenti i fatti della mente ; cioè non osando negarli con parole proprie e
ciliare, li negano con parole equivoche: poiché se il fatto esiste, egli ò
reale e valido: accordare un fatto, e dirlo senza valore, è una contraddi
zione , come contiuuapicnte diciamo.
(?) S. I, lxxxiv , a.
I
5*
sidera le cose nella loro esistenza , e non nell esistenza
del soggetto, come fossero modificazioni di questo:
dunque dee essere universale: cioè, ella può estendersi
a tutte cose che hanno o aver possono una esistenza
propria; dunque a tutte le possibili. Di qui conchiuse-
ro: Dunque i corpi non possono conoscere, perchè sono
determinati ad una sola e particolare loro forma : dun
que il soggetto intelligente ^lee essere immateriale, cioè
privo di ogni determinazione corporea e forma rispet
tiva, a Mediante la materia, dice s. Tommaso , la forma
u della cosa si determina e restringe ad un essere par
ti ticolare. Qnde egli è manifesto, che il concetto della
« cognizione è appunto l' opposto del concetto della
u materialità. E perciò egli è impossibile che le cose,
« che non ricevono se non materialmente le forme,
u come le piante, sieno intelligenti » (i).
Ma il carattere della universalità della cognizione,
che è compreso in quello della oggettività , e che col-
Y analisi di questo si può rinvenire, si manifesta anche
da sè medesimo direttamente , osservando qual sia la
cognizione intellettiva. Noi conosciamo le cose non pur
diverse , ma contrarie ancora : questo faceva dire agli
antichi , che la mente era atta a percepire tutte le cose:
intellectus omnia cogriosciti perciocché veramente chi
può percepire tanto il sì come il no d' ogni cosa, non
è determinato a nulla , non essendovi altro in mezzo
fra due contrarj. Questo fatto fu osservato fino dall'an
tica filosofìa; ed Empedocle, che avea consideralo un
tal fatto imperfèttamente , credette spiegarlo col sup
porre 1' anima composta degli elementi di tutte le cose.
Dico, che l'avea osservato imperfettamente; poiché egli
s'era ristretto ad osservare, che « l'anima conosce cose
diverse » : con la sua osservazione avea trascurato di
notare, che l'anima i.° non conosce solamente i prin
cipi delle cose, ma ancora le cose stesse; a." non co
nosce solo le cose diverse, ma le contrarie, e quindi è
a percepire il sì ed il no di checchessia egualmente
disposta.
L'errore di Empedocle era un errore (se pur si dee
intendere come 1' intese Aristotele ) comune a tulli i
(t) Dice, per quanto a si , poiché egli non giunge a conoscere mai infi
niti individui, perchè gl'individui stessi in un numero infinito non esi*>
no. Oltracciò l' intelletto, sebbene per sè non sia limitato , viene limiuw
dal senso, che è quello che a lui presenta gì' indizj degli esseri, e a»
giunge a conoscerli , come ho accennato nel Saggio sui confini delfumau
ragione ( Opusc. filos. Voi. I , face. 98 e segg. )
E anche questo vero , che il senso sia quello che fa presenti all' «fi
letto gli oggetti, è dottrina di s. Tommaso. Questi osserva , che l'i»i>w
saiUà della forma dell' intelletto consistendo in una privazione di fon»'
Farticolari , ella sola non basta a far conoscer le cose : Ex /toc ( cioè ài-
essere la forma dell' intelletto universale, o immateriale , che è il nwfc-
sirao ) nondum ( inteìlectus ) habet quod assimilclur huie vel UH rei <UUt-
minate, quod requiritur ad hoc quod anima nostra liane vel Mai»
determinale cognoscat. — Remanet igitur ipsa anima inlellectiva in polenta
ad delerminatas similitudines rerum cognoscibilium a nobis, quae sunt »»•
lurae rerum sensibilium ; et has quidem delerminatas na/uras itivi» *
sibilium PRAESENTANT nobis phnntasmala , etc. ( C. Geni. II,
(a) San Tommaso, S. I , lxxxvi, 11.
(3) San Bonaventura , Itin. mentis in Deum.
59
lelto e appunto la possibilità tutta. L'intelletto adunque
intende necessariamente, vuol dire ch'egli vede il rap
porto di ogni cosa intesa, colla possibilità, e la intel
lezione sua mediante questo rapporto si fa necessaria.
Quindi i Padri della Chiesa dicono , che lo spirito
intelligente' è fornito di un lume incircoscritto ( cioè
senza forma peculiare e ristrettiva ), o, che ò il mede
simo, fornito di una forma l'universale, indeterminala,
immateriale, infinita, i quali vocaboli vengono a dire
presso a poco il medesimo, 2.° e necessaria, e quindi
immutabile, e per sè sempiterna.
Nella universalità poi e nella necessità della cogni
zione , i Padri videro e notarono 1' unità. Poiché 1' uni
versalità è fondata in questo , che con una sola specie
si conosce una cosa, o qualità moltiplicata infinitamente
in un numero infinito d' individui : quindi V unità della
specie raccoglie ed unisce la moltiplicità delle cose. Si
milmente la necessità non è formata che da quell' una
specie o forma suprema che rappresenta la qualità co-
munissima, se cosisi vuol chiamar , delle cose, cioè l'es
sere loro, il quale unisce a sè e riduce ad unità tutte
le possibilità speciali.
Analizzata la cognizione umana, trovarono dunque
gli scrittori della Chiesa , eh' essa era nella sua ultima
forma (1) perfettamente una, universale o incircoscritta,
immateriale, infinita, necessaria, immutabile, eterna.
Fermato questo fatto (a), conchiusero eh' ella nè potea
(1) Hate aulern lex omnium artium cum sii omnino incommulabilis ,
mens vero humana cui talem legem videre concessimi est, mutabilitatem
pali possit erroris , satis apparet supra menlein nostrani esse legem , quae
verilas dicitur. — lingue cum se anima sentiat 3 nec corpoi um speciem mo-
tumque judicare secundum seipsam , simul oportet agnoscat .... proemiare
sibi eam naturam , secundum quam judicat , et de qua judicare nullo
modo potest. — Ut cnim nos et omnes animae rationales , secundum verità-
lem de inferioribus recte judicamus , sic de nobis , qtiando cidem cohaere-
mus , sola ipsa verilas judicat ( De V. Relig- cap. xxx , xxxt )■
(2) Conf. XII, xxv.
64 .
attribuzioni , e che dà allo spirito umano tutte le at
tribuzioni di lei, che rende mutabile l' immutabile, e
immutabile ciò che è mutabile : mostruosa idolatria del
l' uomo , che il genio delle tenebre ha pur saputo riti-
novellare nella presente luce de' tempi cristiani.
Ma da questo errore stanno sicuri lutti quelli che
ascoltano con attenzione ed affetto la voce della grande
tradizione della Chiesa, che incessantemente e unanime
mente dice all' uomo: « Non voler credere d'esser la luce
u tu stesso » (i).
CAPITOLO IL
ARTICOLO I.
NESSO DELLE DOTTBINE ESPOSTE CON QUELLE C8E SEGUONO.
(t) Noli pittare te ipsam esse lucerti (S.Aug. in Ps.). — Die quia tu Idi
lumen non es (S. Aug. Serm. Vili de verbis Domini).
(a) Noi veggiamo 1' ente naturalmente. Ma perchè noi conosciamo che
questo ente è quel lume che ci fa conoscere tutte le cose , clic è la verità;
noi dobbiamo ritornare colla nostra attenzione sull'ente medesimo, e per
lunga riflessione venirne osservando quella sua singolarissima proprietà, e
relazione ch'egli ha colle cose tutte, cioè di renderle a noi note e manife
ste. Solamente quando noi siamo pervenuti a conoscer questo , possiamo
dire d'aver conosciuto la verità in noi collucente. Noi concepiamo dunqut
1' ente con un atto diretto e naturale, ma non concepiamo 1 ente sotto la
sua relazione di verità se non con un atto riflesso, e di molto a quel pruno
posteriore. Quindi acutamente osserva s. Tommaso, che •« noi non possiamo
« apprendere il vero, senz'apprendere il concetto dell'ente: perciocché
— l'ente cade nel concetto del vero» , ma non è converso. E prosegue: «L>
« cosa è simile, come se noi paragoniamo l'intelligibile all'ente: poiché non
•» si può intendere l'ente, se non perchè è intelligibile. E tuttavia si può in-
« tendere 1' ente senza che si rifletta alla sua intelligibilità. Similmente,
« l'ente inteso è il vero; ma non segue però da questo, che intendendo
« 1' eulu, s'intenda il vero » (5. I, «vi, ni, ad 3 ).
65
Comincerò a considerarlo in quest'attitudine ch'egli
ha d'essere applicato: e poiché è quest'attitudine che
gli procaccia il nome di verità , perciò farò della verità
V argomento del presente Capitolo.
ARTICOLO IL
DEI DIVESSI USI DELLA PAROLA VERITÀ'.
% >•
Significato generalissimo della parola verità.
•
Quando un vocabolo vien preso in diversi significati,
non dall' improprietà del parlare d1 uno o d'altro scrit
tore individuale , ma sì dalla comunanza stessa degli
uomini, per la quale egli non sembra che ci possa es
sere improprietà di parlare ; allora in tutti que' diversi
significati della parola dee averci qualche cosa di co
mune: e questa nozione comune che si rinviene nei
significa ti varj del vocabolo , è il significato più gene
rale di lui , è 1' essenza unica della cosa dal vocabolo
significata.
Neil' esame che ho fatto de' diversi sensi che si so
gliono attribuire dal parlar comune al vocabolo verità,
parmi di esser venuto a conoscere, che il più esteso
significato di questo vocabolo, la nozione generale , l'es
senza unica da lui propriamente significata , sia quella
di esemplare ; e quindi ho definito la verità l'esemplare
delle cose (i).
(i) Nel Saggio sulf Idillio e sulla luova Letteratura italiana ( Opusc.
Filos. Voi. I, face. 3ai e segg. ). In alcuni passi degli scrittori questo signifi
cato della parola fertili si vede manifesto : a ragion d'esempio, in questo passo
di Cicerone: In omni re vincit imitationem veritas (De Orai. Ili, 5j ): qui
è contrapposta Y imitazione alla verità, la copia all' originale, all'esemplare.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 9
66
Si distingua dunque fra la verità, e le cose vere: la
verità è l'esemplare; le cose in quanto sono conformi
al loro esemplare sono vere.
§ 3.
Significati di questa espressione : verità delle cose.
5 4-
La verità significa propriamente parlando un'idea.
(1) Nel Prologo gaietto: Quamquam mihi omnino conscius non sim,
mutasse me quidpiam de hebraica ventate. E nella lettera a Paolino :
Quamquam juxla licbraicam verilalem utrumque de eruditi* possil in*
telligi.
(a) Per bene intendere questo vero di tutta rilevanza , conviene che il
lettore richiami a mente ciò che fu detto sudi ciò nella Sezione III, cap. IV,
art. xx ; e nella nota alla face. 68 del Voi. I.
(3) Si dimanderà ; In che modo un' idea sola può servire a conoscere
più cose? Rispondo; Aggiungeiidovisi il giudizio sulla sussistenza della
cosa; il qunl giudizio si riferisce a ciascuna cosa in particolare, e il quale
perciò individualizza, se si può dir così, la specie, poiché è un alto col
quale si pronunzia internamente una parola , che si può ridurre sempre a
questa forinola: «La cosa da me pensata colla tale idea sussistei», e « sus-
sisle tante e tante volle - ( questo è il numero degl' individui ) ( Ved.
Voi II, face. 17 e segg.). Il giudizio poi è mosso dalle sensazioni (Voi. II,
•acc. io5 e segg. ); quindi è che noi possiamo avere più percezioni intel
lettive, le quali abbiano uua sola e medesima idea. L'elemento che distin
gue queste percezioni fra loro, è il giudizio, come dicevo, il quale termina
utgli oggetti individuali sussistenti, delcrmiuuti dalle sensazioni.
68
e forma, non si paragonano già insieme con quell'alto
esterno; sì solamente coli' atto interno, che succede con
temporaneo nella mente del falegname, atto che vieDe
«olo ajutalo, ma nulla più, da quell'esterno e sensi
bile congiungimento delle tavole.
E veramente, quando io raffronto un bel paese dipiato,
alle scene della natura, e trovo quello di una verità per
fetta, faccio io questo confronto di fuori di me? posso io
mettere il dipinto nella natura? immedesimar l'una cosa
coli' altra? e anzi nè pure accostarle insieme, come suole
il falegname le due tavole ? Nulla di ciò. Io non raf
fronto adunque la pittura che sto vedendo e ammiran
do, colla natura in quanto questa è in sè , fuori di
ine , da me non percepita; ma sì bene la raffronto col-
1' idea che io ho della natura , o comecchessia colla
natura in quanto è da me pensata. Tant' è vero, che
io posso fare il detto confronto anche nel fitto bujo
della notte , quando nessuna scena di natura mi ita
sensibilmente dinanzi ; o in luogo dove altra natura
non veggo, che orrida e tutta strana, e diversa dal
l' amenità della dipintura che mi diletta con prospetti
di dolci colli e fioritissimi piani in ora estiva di sol
cadente. Il paragone adunque è sempre opera del mio
pensiero, il qual , semplicissimo siccome egli è, può ad
una sola specie più percezioni raffrontare, e notare in
che parte si facciano una specie sola, e in che parte
le specie si moltiplichino. E il medesimo ragionamelo
può tenersi di qualsivoglia esterna cosa che tolgasi ad
uso di esemplare ; il qual sempre , perchè possa esser
tale nominato , dee stare nella mente nostra, essere in
somma una nostra idea.
Esemplare adunque non è mai altro che un'idea;
non essendovi cosa atta a servire di esemplare, se uon
pensata (i).
(i) Ho già osservato ( Voi. II, face. ai8 e segg. ) che una cosa qualun
que coutingente può pensarsi in uno stalo più o meno imperfello. Ora
raffrontando le idee che io ho di una cosa in due stati diversi , 1' uno ^
perfezione , l' altro d' imperfezione , io trovo questa sola differenza > che
coli' idea della cosa imperfetta penso ciò stesso che peusavo coli' «df*
della cosa perfetta , meno qualche suo pregio. In ciò adunque cb«
2uesle due idee hanno di positivo , non sono due, ma uua sola idea. >
inique coli' idea della cosa considerata nel suo stato perfetto., che io
pensare la (WM in lutti gli Stali possibili di lei ; perciocché in quell
6g
Con questa osservazione possiamo ora perfezionare [a
definizione data della verità, e ridurla in questa sem
plicissima : « La verità è l' idea in quanto è esemplare
delle cose » (i).
§ 5.
In che significato prendasi il nome di verità quando si dice
che le verità sono molte.
Tante adunque sono le verità, quante sono o possono
essere le idee esemplari delle cose. E in questo senso
solo si usa il vocabolo verità in plurale ; siccome quando
si dice: « le verità si sono diminuite» (3); ovvero si
parla di una verità peculiare, come dicendo: questa è
una verità rilevante; o come dice il poeta,
h Di bella verità m' avea scoverto ,
u Provando e riprovando , il dolce aspetto » (3).
perfetta , u' ho già tutto il positivo ; e per pensarla imperfetta , non è che
a detrarre qualche parte di ciò che già penso. Quindi il nome di esem
plare conviene principalmente all' idea della cosa nel suo stato perfettissi
mo , all' idea platonica; sebbene, quando noi non siamo giunti a formarci
questo tipo di perfezione , togliamo ad esemplare quell' idea delle cose che
più perfetta aver possiamo e sappiamo : e il saperlasi formare assai per
fetta, è solo virtù de' sommi artisti nelle belle arti: e anche, secondo i
gradi di perfezione dell' esemplar formatoci, sul quale giudichiamo , il
nostro gusto, è più o meno perfetto , e i nostri giudizj iu opera d' arte
sono più o meno retti. Ora la verità è propriamente questo esemplare iu
quanto contiene tutta la perfezione delle cose; e quindi s' intende la defi
nizione che della verità dava il celebre medico di Bochara : « La verità di
•> una cosa è la proprietà dell' esser suo che è stabilito a quella cosa »
( Metaphys. L. XI , c. 11 ).
(1) San Tommaso perciò osserva, che la verità è, propriamente parlando,
nelT intelletto; e meuo propriamente si dice esser ella nelle cose , cioè a
quel modo che dicesi esser sana una medicina , sebbene la sanità non sia
propriamente che nell'animale (Ved. De Veril. Q.I, art. iv). E la dottrina
da me esposta , come è confirmata dall' osservazione che vengo or di re
care di s. Tommaso, così era prima da s. Agostino manifestamente inse
gnata. Noi abbiamo veduto, che l'essenza della cosa è ciò che da noi si
pensa nell' idea della cosa (Voi. II, face. 217): or s. Agostino insegna, che
1' essenza della cosa è appunto la verità delia cosa : ( Veritas ) cosi egli ,
non est proprium essenliae: quia si sic, qua ratione dicitur: veritas est
proprietas essentiae, pesset dici e converso, CUM OMNINO IDEM SINT
{ Solil. L. II, c. v ).
(2) Diminutae sunt veritales a filiis Itornirum. Ps. xi.
(3) Par. III.
U'/Ved. Sez. Y, P. V, c. I, art. v, ? i-4<
7°
si conoscono positivamente e pienamente le cose; ma
rispetto a noi si può dire che sono tante quante le idee
più compite che di ciascuna cosa aver possiamo (i). E
perciò si suol dire, che ogni cosa ha la verità sua nella
sua specie: e i maestri insegnano, che «di più veri, più
« sono le verità, ma di una cosa sola, una sola è la ve-
« rilà » (a) : e medesimamente hassi a dire, che tutte le
cose individuali appartenenti ad una specie hanno una
verità sola, perchè, come dicevamo, hanno un esem
plare solo , un' idea sola che perfettamente le rappre
senta , cioè le fa conoscere (3).
§ 6.
In che significato prendasi il nome di verità, quando si usa in singolare
ed in modo assoluto.
Ora tutte queste sono verità speciali , o generiche (4),
ciascuna delle quali si riferisce alla classe di cose che
ella stessa colla sua unità determina e forma (5).
(i) L' esemplare perfetto delle cose per sè non è che Y idea specifica
compila ed assoluta. Ma questo esemplare ( archetipo ) noi non lo pos
siamo avere. Dobbiamo dunque usare per esemplare o regola, secondo coi
giudicare della verità delle cose e proposizioni , quella idea o specifica o
generica che la migliore abbiamo nella meule. Che se noi nou abbiamo
che semplicemente un' idea generica negativa, colla quale pensiamo solo
un' essenza nominale, forz' è che con questa sola, non avendone altra
migliore, giudichiamo delle cose a lei relative. Per altro tutte queste
idee nostre imperfette sono però sempre vere, cioè sono una parte della
idea perfettissima , verità o supremo esemplare e regola delle cose,
come abbiamo detto nel Voi. II, face. 317 e segg.
(a) S. Torara. De ferii. Q. I, iv.
(3) Voi. II, face. 86 e segg.
(4) Per sè, le verità delle cose sono sempre speciali; ma rispetto a noi,
quando non abbiamo della cosa che un' idea generica, questa per noi litui
il luogo di verità; è l'esemplare secondo cui giudichiamo^ perché nonne
abbiamo altri migliori.
(5) L'espressione, « verità di uua cosa », riceve tre significati, e con
viene ben distinguerli. Può voler dire l'idea esemplare della cosa, e que
sto è il senso proprio e più naturale di quella frase. Ma può voler dire
ancora « la verità che in una cosa si contiene »; nel qua! caso, « venia
di una cosa» è perfctlameute equivalente a « cosa vera «•: cioè esprime Li
convenienza o corrispondenza perfetta che ha la posa col suo esemplare, coli»
sua idea, colla sua verità in una parola. Finalmente se quella cosa vera
è o si considera come esemplare, in tal caso 1' espressione - la verità >"
questa cosa», risponde nè più nè manco a quesl' altra: «questa venta1*-
Così in questo passo del Boccaccio : « Niuu però alla verità del fatto pcf"
« venne - ( Gioru. vi»» f- 4)> >' (Mo si prende per l'esemplare, la venta
slessa, e viene a dire: Niuuo pervenne a scoprire, a tonoàccie queiU K'
rilà, cioè questo fallo.
Ma nel comune discorso oltracciò si usa il vocabolo
verità in tin senso assoluto, ed allora non mai altro
che in singolare ; nel quale significato gli scettici stessi .
dicono : « la verità non si può conoscere , o non è » ,
o con altra simil maniera la pronunciano. Ora qual
significato al vocabolo usato in simil modo hanno ag
giunto gli uomini ?
L'idea specifica è un esemplare degli esseri, ma ri
stretto ad una classe di esseri eh' essa a noi rappre
senta o sia fa conoscere.
Ora gl5 individui d' una stessa specie hanno un dato
modo e grado di essere , il quale li limita e specifica.
Tutti però , di qualunque specie sieno , hanno qualche
cosa in che sono uguali fra loro, e questo è 1 essere
stesso ( prescindendo dai gradi e modi ) , perciocché
tutti sono. L' idea dell' essere dunque è quella , che
tutti gli esseri di qualsiasi specie rappresenta: colla
quale tutti si conoscono: quella idea a cui si riducono
tutte le specie, sicché chiamar si potrebbe la specie
delle specie (i).
Se dunque ogni specie di cose ha il suo esemplare
peculiare, o sia la sua verità nell'idea specifica; oltre
a questo non di meno avvi un' idea più elevata , la
quale è 1' esemplare e perciò la verità di tutte le specie
possibili , e questa è l' idea dell' essere puro , e perciò
V idea dell' essere è la verità di tutte le cose.
L>' idea dell'essere adunque acquista , come altrove
io dissi , il nome di verità, ove quest' idea si consideri
nel rispetto di esser l' esemplare delle cose, ove si con
sideri insomma in relazione colle cose in quanto esse
sono da noi conoscibili.
La verità adunque unica , universale , assoluta , colla
quale si conoscono tutte le cose, è l'idea dell'essere;
perciocché 1' idea dell' essere è l' esemplare universale ,
che esprime ciò in che tutte le cose sono uguali.
Considerò in questo senso assoluto s. Agostino la ve-
(i) Il pensiero dell' essere può trovarsi in due modi: o imperfetto, nel
qual caso non si ba dell'essere che una semplice nozione, e questo è il
modo onde l'abbiamo in noi congenito; ovvero perfetto, nel qual caso si
conoscerebbero anche tutte le proprietà conseguenti alla nozione dell' essere,
c così noi non l'abbiamo. Ma a questa distinzione darà maggior chiarezza
la Sezione VII.
72
rità, allorché la definì « ciò che dimostra 1 essere ■ ;
il che è quanto dire, Videa dell'essere, perciocché è
l'idea che ci fa conoscere e ci dimostra ciò che è:
Veritas est qua ostenditur id quoti est (i). Torna al
medesimo la definizione di s. Ilario, che « è l'essere in
« quanto è dichiarativo o manifestativo», cioè l'essere con
siderato come quello che ci dichiara e manifesta le cose-,
il che è 1' essere da noi percepito, l'essere in quanto è
nella nostra mente, in una parola, Videa dell'essere:
Verwn est declarativum , aut manifestativum esse (a).
E quando s. Anselmo disse, che, « come il tempo sta
« a tutte le cose temporali , così sta la verità a tutte
u le cose vere » (3) , egli favellò di questa verità unica
ed assoluta, di quella « luce incorporea, nella quale ,
« come dice s. Agostino , la mente tutte le cose che
« ella conosce risguarda » (4).
ARTICOLO III.
ARTICOLO IV.
MUOVI DIMOSTRAZIONE, CHE L* IDEA DELl'eMTE È LA VLKITA'.
§ I.
La varietà delle espressioni moltiplicano apparentemente le specie
dello scetticismo.
5 a-
Forme apparenti dello scetticismo.
§ 3.
Lo scetticismo non può avere che una sola forma reale in qualche modo.
5 4-
Che cosa esiga lo scetticismo del dubbio per esser coerente.
§ 5.
Lo scetticismo e l' impossibilità del pensare.
Condotto dunque lo scetticismo all' ultima sua espres
sione , alla quale egli dee necessariamente venire se non
84
vuol prima darsi vinto coli affermare la verità, esso
rende impossibile il pensare (i).
Imperciocché lo scettico non ammette altri pensieri
che uno, e questo non si può ridurre giammai al suo
alto.
§ 6.
L' idea dell' ente , e la rerità secondo la quale noi giudichiamo delle rose,
sono il medetimo.
ARTICOLO I.
L* APPLICAZIONE dell' idea dell' ESSERE GEMEI* I quattro numi principi
DEL RAGIONAMENTO.
ARTICOLO II.
WtlNCIPIO GENERALE DELL* APPLICAZIONE DELL* IDEA DELL* ESSERE CONSIDERATA
KZL SUO VALORE REALE ED OGGETTIVO RISPETTO ALLE COSE PUOR DELLA MENTE,
CAPITOLO IV.
ARTICOLO L
OGNI DOMO HA DNA NECESSARIA PERSUASIONE DELLA VERITÀ* E DE* VRLMI HlSCIi)
DEL RAGIONAMENTO.
(0 Face. 6.
(a) Già ho detto , che la vista spirituale che noi abbiamo dell' essere è il
fatto primigenio da cui conviene partire. Non convien dunque sofisti»™
sulla singolarità e misteriosità di questo fatto maraviglioso , e tutto di sa?
genere ; non conviene fare il solito argomento, - La natura di questo fono
per me è inesplicabile, dunque il fatto non esiste »; ma conviene, con um
modestia più vera e più ragionevole, dire: « Io non posso negare che
questo fatto esista, ma egli è un mistero per me: io non trovo nulla di simile
a lui nella natura: egli è tale, a cui non si possono applicare le leggi che
regolano gli altri fatti della natura sensibile: ma io non posso tuttavia ne-
farlo ». In vero, questo fatto non si può che analizzare ; e quando B '
ene analizzato, ammirarlo. Ciò che risulta dall' analisi di lui, fatta eoo di
ligenza e senza prevenzioni, si è, che la radice delle cose è nelle idee, noi'
intelligenza: che qucll' essenza slessa che si pensa nell'idea, è pur quo"
che sussiste; salvochè nell'idea ella è possibile, nella sussistenza è '«
8.9
Ora questa persuasione della prima verità non è già
imperata a noi , o strappataci contro volontà ; nè ella
giusto concetto del modo onde le cose esistono nella intelligenza , ma solo
di quel modo onde le cose sussistono nella materia loro. Conciossiachè
¥ atto onde le cose sussistono, è una cosa stessa coli' esistenza loro in si ,
nella loro materia : la potenza all' opposto è un sinonimo coll'esistenia loro
nella mente. Non conoscendo adunque che sola 1' esistenza attuale «!•
cose, la natura della mente resta incognita: non rimangono che le cose
nella loro materia : ecco il materialismo. Sapientemente dunque scrisse cosi
S. Tommaso: Quia antiqui naturale* nesciebant distinguere inter actum d
potentiam, ponebant ammani esse corpus {S. I, lxxv, i,ad a). Una esserci
è in potenza, una essenza è nella mento, sono due espressioni identiche. Io bo
altrove dimostrato, che (essenza in potenza, l'essenza nella mente, fidai,
la verità, tutte frasi che s'identificano fra loro, s'identificano pure eoo
quest'altre maniere: le rappresentazioni, le similitudini delle cose sussistevi-
(Ved. Voi. I, face. 68 e segg., e Voi. II, face. 4j3 e segg.).- Noi ritocche
remo questa osservazione più sodo.
Ora il possesso nostro dell'essenza in potènza, rappresentazione, sW"*
indine ecc., è ciò che forma la cognizione, il lume intellettuale : iu lai raoJo
tutte queste cose ricevono una chiara e patente definizione.
9'
ARTICOLO IL
t PRIMI TMNCiri BEL ItAGIONAMENTO SI CHIAMANO ANCHE CONCEZIONI COMUNI.
ARTICOLO III.
CHE COSA SIA IL SENSO COMUNE.
(i) Reid, primo autore della filosofìa del senso comune, lo definì in questa
guisa: « Il scuso comune è quel grado di giudizio che é comune agli
« uomini co' quali noi possiamo conversare e trattare affari » (Essays on
Uie powers of the human mind, eie. T. II, face. 175).
E poco appresso: « Ogni cognizione ed ogni scienza dee esser fabbri-
it cala su principj che sieno per sè evidenti; e di tali principj ciascun
1 uomo che ha senso comune è giudice competente , quando li concepisce
— distintamente : quindi è che la disputa si termina spesso con un appello
« al senso comune » (Ivi, face. 178). Questo appello si fa ancora per rin
forzare la buona fede che nell' avversario vacilla , quaud' egli nou vuol ce
dere all' evidenza : perocché chiamando in mezzo il senso comune , è come
un farlo vergognare della sua ostinazione, s' egli più oltre resiste: concios-
siacbè tutti cedono gli altri uomini a quella chiarezza di verità manifesta: è
in somma argomento ad pudorem.
Pigliato sotto questo aspetto, il senso comune non è né pure un' autorità :
Don si fa uso di lui come di un argomento a convincere l'intelletto, ma
anzi come di una pena alla ripugnanza che mostra l'uomo di confessare la
verità. Più sotto considereremo il senso comune sotto l' aspetto di una
autorità. Qui ci basta di osservare, che è una improprietà di parlare quella
di far consistere il senso coiu^ie in un giudizio che danno gli uomini iu
massa su qualsiasi argomento: uon si può chiamar senso comune in lingua
filosofica se non il giudizio che danno tutti , e n >n già la maggior parte
Di questa definizione del senso comune si vede , clie
egli non è che quel ragionamento comune, a fare il
quale perviene ciascun degli uomini da sè ; e la parola
senso ha quivi questo significato (i).
Non conviene adunque confondere il senso comune,
colle credenze comuni , o colle tradizioni vere e falsi
( poiché 1' errore ha la sua tradizione ) ; le quali sono
di generazione in generazione mandate e ricevute senza
una ragione che di esse si abbia , ma sulla fede e sul-
r autorità dei padri che le tramandarono.
Quindi il rimprovero che si fa, dicendo: «Voi avete
perduto il senso comune » , ò assai diverso dal rimpro
vero che si fa altrui, dicendogli di non aderire alle co
muni credenze.
Chi ragiona contro ciò che il senso comune afferma,
sragiona necessariamente , o più tosto si dice che quel-
1' uomo ha perduto 1' uso della ragione; poiché non
vede e non sa ciò , a cui vedere e sapere , basta un
filo di ragione, quale hanno necessariamente tutti gli
uomini , dall' istante che sono uomini e allo sviluppo
debito pervenuti : quindi una costante deduzione di con
seguenze opposte a quelle che cava il senso comune degli
uomini , è ciò che costituisce lo stato di pazzia.
Ali1 incontro chi s1 oppone alle comuni credenze , non
si suole già dir pazzo per questo; ma semplicemente
sragionatore , se quelle credenze hanno un peso di legit
tima autorità a favor loro ; ed ancor empio 7 se quelle
credenze sono sante e pie. Che se altri si opponesse a
delle credenze comuni empie o false , com' erano le
idolatriche superstizioni , questi con tale opposizione
dovrebbe riportare ragionevolmente titolo di nemico dei
comuni pregiudizj.
ARTICOLO V.
RISPOSTA : DISTINZIONE FRA LA COGNIZIONE DIRETTA B LA COGNIZIONE RIFLESSA.
ARTICOLO VI.
ruicÓLO nel d»r risi a quelli che ci assicurano, di non esser persuasi
CE' PRIMI PRINCIPJ.
ARTICOLO VII.
IL PRIMO MEZZO PER EMENDAR» LA COGNIZIONE RIFLESSA DI QUELLI CHE H-
GAMO I PRIMI PRINCIPI, ìj IL MOSTRARLI IN CONTRADDIZIONE COLLA 1010
COGNIZIONE DIRETTA.
Quando un uomo è pervenuto a tale inganno, ch'egli
creda di non dare l'assenso a' primi principj , anzi pure
d'impugnarli, convien mostrargli falsa questa sua cre
denza , chiamandolo a considerare la contraddizione
nella quale s' avvolge egli medesimo con tutti i suoi
ragionamenti.
Per tal modo la sua cognizione ri/lessa si può retti"
(0 Artic. ni.
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. 111. i3
98
è un1 eccellente regola , una eccellente sponda , alla
quale allenendosi, l'uomo non cadrà, nè pericolerà
ne1 primi suoi passi. Per questo la natura stessa, dopo
aver dato 1' essere all' uomo, non l'ha abbandonalo solo
in sulla terra; ma, acciocché egli avesse ne' primi passi
del suo ragionamento , siccome ne' primi movimenti del
suo corpicciuolo , un ajuto e una scorta , 1' ha fatto
nascere nel seno della società.
Che se il male dell'uomo di che noi parliamo, fosse
il dispetto e il ri liuto 'di ogni autorità, troppo più
grave sarebbe il suo malore. A confermazione però di
quanto ho detto fin qui, accennerò ultimamente ciò che
l'esperienza dimostra avvenire nella cura di pazzi, i
quali sragionano delle cose più ovvie della vita umana:
che molto con essi si guadagna , t. si conducon talora
ad intera guarigione, costringendoli di uniformarsi , me
diante la presenza di una forza superiore d'assai alla'
loro , alle abitudini regolari , ed ai ragionamenti degli
altri uomini (i).
(1) Ciò che qui ho detto , suppone che gli uomini non sieno general-
mente venuti in uno stato di riflessione cosi turbata , che tutti in corpo
perfidiassero negando i primi principi della ragione. Questa degradazione
dell' uman genere è impossibile, nelle sue coudizioni particolari e straordi
narie nelle quali egli di fatto si trova : il cristianesimo lo salverà sempre di
uno scetticismo universale. Conviene riflettere , che la divina provvidenza
ha preso cura dell'umanità: in questo senso è vero, che nell'uman genere
intero si trova sempre la verità. Per altro, chi ha meditato spassionatamente
sulla condizione deli' individuo , e degli uomini presi in corpo , troverà
che da sè stessi, e sforniti degli ajuti soprannaturali, sono pur tristi ed io-
felici assai più di quello che non si creda comunemente, perchè si ha sol-
t' occhio un' umanità sostenuta da Dio a forza di portenti. Quanto a me,
delle lunghe meditazioni mi hanno convinto , che l' umanità senza la rive
lazione è priva di una forza morale sufficiente a preservarla dal cader tutu
intera nella più abbietta idolatria; ch'essa è soggetta a tanta debilez»
mentale , che se Io scetticismo sarebbe per lei impossibile , ciò avverrebbe
solo per questo, ch'egli è uiw setta filosofica, e che ha bisogno di un qual
che uso di ragione. L'umanità non avrebbe avuto tempo di rendersi tutu
intera scettica , perchè molto prima si sarebbe abbrutita j e l' uomo nelu
vita selvaggia, più sciagurato di tutti i bruti, avrebbe spento, per cosi
dire , ed anuicututo sè slesso.
99
PARTE TERZA.
APPLICAZIONE DEL CRITERIO A DIMOSTRARE LA VERITÀ'
DELLA COGNIZIONE NON- PURA, O SIA MATERIATA.
CAPITOLO I.
ARTICOLO L
NESSO DELLB DOTTRINE.
Io ho dimostrato , che 1' intuizione dell'essere è un
fatto innegabile , immune da ogni possibilità d' inganno,
che costituisce la nostra facoltà di conoscere il diverso
da noi (i).
Ho però fatto osservare, che fino che si restringe il
discorso nel solo essere possibile, noi non affermiamo
nulla di esseri sussistenti distinti dalla nostra mente ;
ma solo percepiamo coli1 idea dell'essere la possibilità
de* medesimi, il che è quanto dire, n' abbiamo il con
cetto in universale: e l'esserci dato un tale concetto ,
viene a dire il medesimo che 1' esserci data la possibi
lità, la facoltà di conoscere cose da noi diverse (a).
Restava dunque a sapere , come il concetto di esseri
da noi diversi in generale, potesse condurci ad affer
mare degli esseri particolari sussistenti : e così dalla sola
facoltà di conoscere, dataci dalla natura nell'idea di
essere in generale, noi potessimo passare ad avere delle
attuali Cognizioni di esseri reali diversi da noi.
A tal fine ho cercato, supposta la cognizione dell'es
sere in universale dentro di noi, fatto primigenio, come
noi potessimo avere altresì una cognizione certa delle
cose diverse al tutto da noi , quali sono quelle cose
che hanno sussistenza in sè medesime, e non nella
nostra mente : e in questa ricerca ho trovato un prin
cipio generale della comunicazione fra le cose per sè
(1) Non dico fra le cose e le idees perchè le sole idee non compreixtow
la sussistenza delle cose, ma solo la loro possibilità. Dico adunque fri »
cose sussìstenti, e il giudizio sulla sussistenza delle medesime.
(2) Parte II, cap. Ili, art. H.
passivo (i). E questa azione dell' essere, questa passività
del soggetto intuente, sebben soavissima e priva d'ogni
violenza, è somma, perciocché ella è la necessità na
turale e logica ad un tempo. La necessità logica adun
que vien da ciò che è essenzialmente diverso dalla
mente, sebbene dalla mente veduto: questa necessità si
riferisce all'oggetto, e non all'atto della mente. Ed ora,
onde avviene che noi con una necessaria illazione giu
dichiamo della sussistenza di un oggetto diverso dalla
mente ? Noi giudichiamo di ciò mediante la necessità
logica, la quale non è che una, quella che abbiamo
descritta, e che tutta s'accoglie nell'essere in univer
sale. Che vuol dire adunque questo giudizio? Vuol dire,
che se la cosa esterna non sussistesse come noi giudi
chiamo , non sarebbe 1' essere. Ma 1' essere è pure ; è
evidentemente; è necessariamente. Forz' è dunque che
sussista anche l'oggetto esterno (la sostanza, la causa ),
poiché quella necessità interna 1' esige come sua condi
zione : e la vista di questa relazione è ciò che ci fa
pronunziare il giudizio. Il principio adunque dell' appli
cazione possibile dell'idea dell' essere alle cose sussistenti
è bene stabilito, ed altrettanto certo quanto l'idea stessa
dell' essere.
Ma perchè questo principio abbia valore ed uso pra
tico, egli addimanda e suppone più dati. Cioè a dire,
egli suppone che il nostro spirito vegga, che quella
medesima intrinseca necessità che ha in sè l' essere ,
l'abbia pure il giudizio col quale giudichiamo che una
sostanza ovvero una causa sussista. Ora come lo spirito
nostro concepirà quest'unione sì stretta e sì necessaria
fra le cose sussistenti e l'idea dell'essere, sicché la
sussistenza di quelle sia provata per la necessità di
questa ? quali sono }e circostanze nelle quali si dee
trovare Io spirito, perch' egli vegga la necessità di pro
nunziare un simil giudizio sopra la sussistenza di una
cosa esterna alla mente? Certo, che se lo spirito rimane
colla sola idea dell'essere, egli non uscirà mai dalla
possibilità delle cose. Dee dunque avvenire in lui qual
che cangiamento , o dee almeno entrare sotto la sua
(i) Perciò abbiamo detto, che è un senso spirituale la facoltà d' intuir
' essere, perchè il senso percepisce patendo, ricevendo.
ioa
considerazione qualche altro elemento, perdi1 egli si
muova a passare dal regno delle cose meramente pos
sibili , a quello delle sussistenti. Quale sarà questo can
giamento ? qual può essere questo nuovo elemento che
lo conduce ad un simigliai! te passaggio? quale è il le
game fra questo elemento, 1' idea dell'essere e le cose
sussistenti, perdi* egli giudichi che queste sussistono,
mosso dalla necessità giacente originariamente nell'es
sere?
Questa è la ricerca che ci rimane a fare.
Ma questa ricerca ne suppone un' altra. Con questa
ricerca noi cerchiamo il principio che giustifichi il giu
dizio che noi facciamo sull' esistenza delle cose. Ma il
giudizio sulla sussistenza delle cose suppone l'idea delle
cose: o almeno 1' idea dee essere coeva al giudizio , come
abbiam già mostrato avvenire nella percezione. Questa
dà luogo ad un'altra questione, colla quale l' applica
zione dell'essere realmente si compie, cioè, Come acqui
stiamo noi le idee delle cose? la quale fa l'argomento
di tutta la Sezione quinta, alla quale ci rimettiamo;
ma della quale noi dobbiamo mostrare la relazione col-
l'altre tre questioni precedenti , dobbiamo cioè mo
strare il luogo eh' ella tiene nella ricerca del criterio
delia certezza.
Le tre precedenti questioni ebbero a scopo la rispo
sta al quesito, « Come la mente può percepire le cose
fuori di sù ( supponendo date ad essa le idee ) » ?
La quarta questione dimanda all'incontro, « Come
le eose fuori della mente possono presentarsi alla mente
in modo, che questa le percepisca » ?
Tale è la ricerca dell'origine delle idee acquisite: le
tre prime costituiscono la ricerca del criterio della cer
tezza.
Volendo enunciare le tre prime questioni in altra for
ma , esse si possono esporre così:
Prima questione. « Quale è il principio onde lo spi
rito umano conosce il diverso da sè in universale »?
£ a questa questione fu risposto , che è 1' idea dell'es
sere in universale, poiché l' essere (oggetto ) è ciò ebe
costituisce il diverso dallo spirito ( soggetto ): cioè ogni
diverso si racchiude sempre nell'essere.
Seconda questione. Quale è il principio onde Io spi
rito umano conosce con certezza il diverso da sè real
io3
menlo sussistente »? E a questa fu risposto, che questo
principio consiste nel legarne o vincolo d'identità fra
la sussistenza reale delle cose e l'essere ideale, sicché
quella sussistenza partecipa della necessità di questo per
modo, che la necessità dell' essere contiene, suppone
ed esige la realità esterna che si giudica essere per una
illazion necessaria d' identificazione.
Terza questione. « Quale è il principio onde la sus
sistenza della cosa reale si vede legata colla necessità
ideale ed interna a noi »? E a rispondere a questa que
stione è rivolto il Capitolo presente.
Egli è evidente, che questa terza questione suppone,
come dicevamo, che l'idea della cosa che si giudica
sussistente, sia in noi; suppone in somma sciolta la
questione dell' origine delle idee. Noi dunque dobbiamo
riprendere 1' origine delle idee acquisite, e in quest'ori
gine trovare la giustificazione del giudizio che fa la
mente sulla sussistenza della cosa.
Quando noi acquistiamo una nuova idea , acquistiamo
sempre con ciò una nuova determinazione parziale del
l' essere in universale (i). Una determinazione parziale
dell'idea dell'essere in universale noi abbiamo usato di
chiamarla fin qui materia delle nostre cognizioni. Le
due prime questioni adunque riguardavano la sola forma
della cognizione j ma colla terza si discende alla cogni
zione materiata, ed è di questa che noi dobbiamo in
questo Capitolo dimostrare la legittimità ed il valore.
Ogni materia adunque di cognizione è un essere par
ticolarmente determinato, o cosa che in un tale essere
si contiene. Noi racchiuderemo adunque la materia della
nostra cognizione sotto la determinazione generale di
fatto.
Pigliamo adunque a parlare subitamente della certezza
della cognizione del fatto in universale, cioè di tutto
ciò che è o che avviene. E prima
(i) Se noi potessimo avere un' idea positiva di Dio (il che non possiamo
quaggiù naturalmente), noi nou avremmo con essa acquistata una cogni-
zion materiata , ma si accresciuta la nostra cognizion formale e oggettiva.
Tutto ciò die noi conosciamo di Dio positivamente, èforma e puro oggetto
'Iella nostra mente e della nostra cognizione; e cosi pure quello che cono
scono di lui i celesti, che n'hanno la visione. Quindi la bella sentenza
dell' Aquiuate : Cum aliquis inlelleclus crealus videi Deum per essentiam ,
ipsa esscntia Dei fit forma inlelligibilis inlelleclus (S. 1, xa , v).
104
ARTICOLO II.
DEL FATTO IN SÈ, NON SENTITO NE INTESO.
ARTICOLO III.
BEL FITTO SENTITO ■ NOH INTESO.
ARTICOLO IV.
ARTICOLO V.
PRINCIPIO UNIVERSALE DI OGNI AITL1CAZIONE DELLA FORMI DELLA RAGIONE
AI FATTI ESIBITI DAL SENTIMENTO.
Il principio universale di ogni applicazione della ra
gione umana ai fatti somministrati dal sentimento, è il
seguente :
« Il fatto conosciuto dee formare un' equazione colla
forma della ragione » (a).
Ora egli è evidente, che se la cognizione del fatto (3)
è uguale colla forma della cognizione; essendo questa
giustificala , quella parimente rimane giustificata e certa.
Resta dunque che si avveri il principio ; ma prima
ancora è necessario che noi ne diamo gli opportuni
schiarimenti.
ARTICOLO VII.
OBBIEZIONE E1SOLUTA.
(1) Quindi ha luogo la grande sentenza degli antichi, che « le cose con
tingenti non sono, ma Dio solo è ».
(a) Art. 111.
I
111
non è altro che un risultamento della relazione ch'esse
hanno colla niente intelligente (i);
Al che certo si replicherà, che dove il vero stia così,
la materia della cognizione, il fatto, per sè solo è cosa
misteriosa ed occulta. Ed io interamente in ciò accon
sento ; ed aggiungo , che quest' attività misteriosa ed
occulta che sta nel fatto, è la radice della stessa co
gnizione; perchè anch' essa è finalmente un fatto , è ori
ginata dalla necessità suprema cominciante nella suprema
di tutte le nature, innanzi a cui conviene al filosofo
chinar la fronte e umilmente adorare.
ARTICOLO Vili.
DICBIABAZIONE MAGGIORE DEL PRINCIPIO ONDE SI G10ST1FICA Li COGNIZIONE
MATERIATA IN GENERALE.
ti) Non j»ià che l'essere slesso possa trovarsi rispetto a sé in Uno slato
imperfetto: io voglio dire, ch'egli ci si presenta per modo, che noi W
possiamo perfettamente torre e vedere coli' occhio della nostra mento, *•
il dobbiamo percepire imperfettamente. La limitazione e 1* iinpcrfoioK
è tutta nostra.
(a) Quindi, ove conoscessimo l'essere perfettamente, cioè con tutti ile-
mini suoi, noi conosceremmo, come dice s. Tommaso egregiamente, tut"
le cose; perocché quicumque cagnoscit, così il santo Dottore, perfetto «*"
quam naturam unwersalem , cognoseil modum quo natura illa palesi tu
beri , ed ex diverso modo existeiidi constituuntur diversi erailus eRli""-
C. G. I, t
-
n3
tura, è la prima allività, ma priva de' termini suoi ,
co' quali solo ella si natura , e formasi una real sussi-
slenza » ) tutte quelle qualità , che noi nel corso di
S[uest' opera abbiamo attribuite all'essere in universale,
òndamento della ragione e cognizione umana.
3.* Se quest' essere , spiegando sè stesso più manife
stamente innanzi alla mente nostra, dall'interno di sè
emettesse la sua propria attività, e così si terminasse
e compiesse, noi vedremmo allora Dio: ma innanzi che
ciò avvenga , e non veggendo noi che pur quell' essere
così imperfettamente come lo veggiamo naturalmente,
quell'attività prima che cela a noi il suo termine; non
possiamo dire altro se non quanto disse mirabilmente
8. Agostino, cioè che in questa vita, certa, quamvis
adirne tenuissima forma cognitionis attingimus Deum (i).
4-° Finalmente quell'attività che il sentimento ci
presenta, non uscente dall'interno dell'essere stesso,
forma della intelligenza,, ma veniente altronde, vedesi
da quello essenzialmente separata e distinta (2); e nulla-
dimeno con lui si giudica, e si conosce da lui dipen
dente ; si conosce un termine di lui parziale, contin
gente, inconfusibile con lui stesso; un termine, di cui
è inesplicabile l'origine (3) consideralo in sè slesso, e
che dalla relazione però coli' essere , forma della ra
gione, riceve un nuovo slato, una nuova luce, entra
nella classe degli esseri , si scorge in una parola fatto
partecipe in un modo ineffabile dell' essere.
Di tutto ciò che ci presenta il sentimento , che è
quanto dire di tutta la materia della cognizione, si può
adunque dire , « che non è un' attività che esca dal
l' essenza dell'essere, forma della cognizione , sicché sia
un termine essenziale del medesimo; ma bensì è tale,
che sebbene estranea all'essenza dell'essere , forma della
cognizione, tuttavia non è sussistente, nè si può conce
pire per tale, se non come termine dell' attività del
l' essere stesso ».
Quindi necessariamente si riconosce quell' essere , che
§ 2.
Della similitudirfe.
Noi veggiamo 1' essere per natura : fatto primigenio.
Questa vista dell' essere però è imperfetta : e questa
imperfezione Consiste nel veder noi quell' attività che si
chiama essere, nel suo principio, ma non ne1 suoi ter
mini ne1 quali ella si compisce e si assolve (a).
Quindi 1' essere , non veggendolo noi compito ed as
soluto , egli è l1 essere comunissimo, cioè un essere che
può terminare in infinite cose , o essenziali a lui, o
anco non essenziali. Questi termini dell' essere da noi
percepiti , sono le cose reali.
Il nostro sentimento, od una sua modificazione che
noi proviamo , è uno de' termini dell' essere da noi
intuito naturalmente. Pel sentimento adunque noi co
nosciamo le cose , o sia i termini dell' essere stesso (3)'
Ma un medesimo sentimento viene, e cessa, e ri vìe-
ne : quindi l'essere, il più delle volte può replicare lo
stesso suo termine un numero indefinito di volle.
Quando noi abbiamo veduto l'essere terminato in un
sentimento , noi abbiamo percepito ( mediante il senso )
(i) Vedi il valore che noi abbiamo assegnalo a questa parola, Voi. II,
face, ig-
ii6
sussistente in sè stessa. E in questo doppio modo di
essere che hanno le cose stesse , nella mente, e in tè,
sta la prima origine del concetto di similitudine, come
ho toccato altre volte ; e si trova la spiegazione di
quella sentenza antichissima , che « ogni conoscimento
nasce per via di similitudine ».
£ che la similitudine , colla quale gli antichi dicevano
che noi conosciamo le cose, fosse quella che passa fra
una essenza in potenza ed una essenza in atto , sicché
sia sempre una e medesima cosa , ma in due modi di
versi ; 1' insegnano manifestamente , e il provano con
una squisita analisi da loro fatta sulla natura della si
militudine. S' oda quel sommo uomo di s. Bonaventura,
colle parole del quale abbiamo illustrate in questo Sag
gio tante nobili verità:
« La cosa, die1 egli, non ha tanta identità colla ssa
« similitudine , da dover essere numericamente un solo
« ente; nè ha tanta diversità da differire di numero.
« — E perciò la similitudine della cosa è per riduzione
<• nello stesso genere della cosa. Poiché uscendo dalla
« cosa, differisce da essa, ma non passa tuttavia in al-
« tro genere. E qui parlo della similitudine sotto il ri-
« spetto di similitudine, non della intenzione di chi
» ne usa ; parlo cioè in quanto ella esce dal soggetto,
« e tuttavia non parte da lui, come lo splendor dalla
« luce » (i).
Nel qual passo vedesi, che, secondo il Dottore citato,
la similitudine ( nella mente ) non differisce di numero
(notisi bene) colla cosa ( sussistente fuor dalla mente l
e nulladimeno è diversa : ciò che si spiega consideran
dola come un'attuazione, un finimento, un termine
della sua essenza possibile nella mente esistente.
Nè l1 Aquinate insegna altramente.
« La similitudine intelligibile , così die' egli , Fa
u mezzo della quale s' intende qualche cosa nella sua
(0 Rcs non habet tantam identitatem cum sua similitudine , ut sint »«■
numero; nec tantam diversitatem ut differant numero. — Et ideo simiiHu'f
rei in eodem genere est per reductionem cum eo cujus est simililudo. Q**
enim egreditur, ideo differì: sed non transit in aliud genus. Et loqua"*
similitudine secundum rationem similitudinis , non intentionis , id est FJ"
a subjecto exit et non reuedit, ul splendor a luce (Iu I. Seni. Disi m.
Part. U, art. i, <j. i ).
»>7
» sostanza , conviene che sia della stessa specie della
« cosa intesa, o anzi la specie stessa » (i).
E in queste ultime parole avvi grandissima luce :
l' idea onde noi conosciamo la cosa , è la specie stessa ;
perciocché è 1' essere determinato bensì, ma non com
pitamente, non col suo termine ancora, il qual termi
ne (2) è la cosa medesina sussistente fuor della mente;
e quindi considerata da sè , non è l' individuo, ma la
specie, in quanto che Tatto suo si può rinnovellare e
ripetere in un numero indefinito d' individui.
Quindi quell' unità perfetta , della qual parla così
spesso s. Tommaso, fra l'intelligente e la cosa intesa,
è l'unità fra l'idea e la cosa sussistente, la qual cosa
sussistente a noi si congiunge col senso; e congiunta a
noi per l'azione sua nel nostro senso, noi internamente
possiamo poi vederla congiunta colla sua similitudine
0 potenza, cioè coli' essere innato. «Ciò che s' intende,
« dice s. Tommaso, conviene che sia nell' intelligen
ti te » (3). E ancora : « Ciò che è attualmente intelligi-
« bile, dee formare una cosa sola coli' intelletto che at-
« tualmente intende (4), come ciò che è attualmente sen
ti sibile è lo stesso senso in atto (5); in quanto poi la cosa
« intelligibile si distingue dall'intelletto, sono entrambi
« (cioè sì l'intelletto, come la cosa) in potenza, siccome
« si scorge avvenir parimente nel senso: conciossiachè nè
« il senso dell'occhio è attualmente veggente, nè ciò
« che è visibile attualmente è veduto , se non allora
« che l' occhio sia informato della specie visibile per
« modo , che della cosa visibile e del vedere ne av-
« venga una sola cosa » (6).
Tutto questo risulta nell' analisi dell' atto col quale
la mente conosce.
§3.
Si rinforza la confutazione dell' errore fondamentale della scuola tedesca ,
altrove data (a).
L' errore fondamentale della scuola tedesca ebbe tre
gradi: i.* l' identificazione assoluta delle cose colle idee,
(i) Dico, diede principio; poictiè egli non immedesimò se non U p>rlf
formale delle cose colle idee , lasciandone dubbiosamente distinta l>
ieria. Fichte compì l'identificazione, facendo che anche la materia nu*lSSf
fuori dalla natura delle idee o dello spirito. ,
quella stessa che io pensavo prima, fora1 è che'l' attri
buto dell' oggetto sia una cosa identica colla mia idea ,
e perciò forz' è che la mia idea , o il mio concetto ,
che è il medesimo, sia un ingrediente necessario a for
mare gli oggetti che io percepisco e che io poi credo
essere cose di fuori di me. E veramente , se la gran
dezza che io vedo nell'oggetto non è quella stessa ap
punto che io penso ; in che modo dunque mi posso
servir del concetto mio di grandezza a conoscere quel
l'oggetto? in che modo posso io giovarmi a ciò di un
concetto che non ha da far nulla con ciò che è nel-
1' oggetto ? che mi varrà 1' applicar io all' oggetto un
predicato che non è punto il suo? questo predicato che
non è il suo , mi farà egli conoscere il suo proprio ?
come si dà questo passaggio , in una parola , da ciò
che è nella mente , a ciò che è fuori di lei nell' og
getto ?
Conviene adunque ammettere , conchiudeva , che i
miei concetti, le qualità nella mia mente , entrino a for
mare e comporre gli oggetti esterni come un elemento
loro necessario. »
Chi avrà inlesa la dottrina che noi abbiairiO più so
pra esposta, non si lascierà sopraffare da questa diffi
coltà , che non si può negare essere nell' aspetto suo
molto sottile e paurosa. Ella si scioglie perfettamente
quando s' abbiano bene conosciuti e meditati i fatti
seguenti, dati dall'analisi della cognizione umana, cioè:
i.* Che l'essenza delle cose (contingenti) ha due
modi di essere, nella mente, e fuori della niente.
a* Che il modo di essere nella mente ò in potenza ,
e fuori della mente è l' atto-delia stéssa identica essenza
che è veduta dalla mente.
3.* Che quindi neLla mente v* ha una pienissima si
militudine colla cosa fuori della mente ( la possibilità ),
e cotale, che sebbene non sia identica colla cosa in se
esistente, tuttavia non differisce al tutto di numero da
lei , ma è il suo cominciamento , e ne costituisce la
specie.
4-" Che se si considerano le cose ( limitate e con
tingenti ) in separato dalla mente , elle sono incognite,
anzi per sè non conoscibili : che la loro relazione colla
mente non è reale in esse, ma solo nella mente : che
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. iré
123
la loro similitudine che si trova nella mente quando si
considerano in relazione colla mente, non è che il loro
essere ideale, una determinazione dell'essere universale,
fonte di tutte le idee e di ogni conoscibilità, come
quello che solo è conoscibile per sè stesso (1).
5.* Finalmente, che le cose limitate e contingenti,
non essendo che altrettanti atti e termini dell'essere
comunissimo dalla mente nostra intuito, si possono da
lui considerar separate; ed è in quanto da lui sono se
parale, che si dicono sussistere fuor della mente, e
che si chiamano cose reali.
Le cose reali adunque non si possono in alcun modo,
senz'alterare la proprietà del discorso, confondere colle
idee, perciocché la loro separazione e reale distinzione
è contenuta nella slessa loro definizione.
CAPITOLO IL
ARTICOLO L
DELLE COSE CHE NOI PERCEPIAMO.
ARTICOLO II.
IL SENTIMENTO DELl' JO È UN SENTIMENTO SOSTANZIALI.
ci) Le cose limitate non essendo da sèj non hanno uè pare htonow-
hililà loro da se.
123
zioni che io fo; e quando non ne fo, mi sento ancora,
perchè vivo e senio di vivere essenzialmente.
Quesl' lo è un sentimento fondamentale, perchè tulle
le altre sensazioni si fondano in lui (i): egli non ha
bisogno di tutte le altre sensazioni, perchè egli è noi
stessi: e quindi noi non possiamo giammai essere senza
di noi: tutte le altre sensazioni hanno bisogno di lui,
perocché tutte le possibili sensazioni non souo che mo
dificazioni di noi.
Gol sentimento Io noi sentiamo dunque un ente,
una sostanza , un soggetto : in tal modo se noi pensiamo
questo sentimento , noi percepiamo una sostanza ; c1 è
dunque una sostanza che noi percepiamo immediata
mente, e questa sostanza siamo noi.
ARTICOLO III.
KOI FEBCEPIAMO NOI STESSI SENZA UN FMNCIFIO DI MEZZO.
ARTICOLO IV.
ARTICOLO V.
COME S. AGOSTINO PILLA CERTEZZA DELLA PERCEZIONE DI NOI STESSI
TOLSE A CONFUTARE GLI ACCADEMICI.
(i) Non è però che sant'Agostino avesse messo per prima verità , da
cui tutte F altre dipendono, l' lo esisto di Cartesio. Questa proposizione di
Cartesio manca di forza, se non suppone la sua maggiore, come ho di
mostrato nel Voi. II, face. 443 e segg.j e a torto fu detto e ripetuto le
mille volte, che il principio della filosofìa di Cartesio era il principio della
ilosofìa di sant'Agostino. Il santo Dottore è partito dall'io esisto, come da
ina verità evidente, e non contrastata dagli Accademici eh' egli confutava ;
na non come dal primo vero. Quando ha parlato di questo, egli allora ha
ibbandonato nel volo della sua iqente il soggetto , si è sollevato all' ogget
to , si è innalzato fino all'essenza della verità stessa priva di tempo, di
uogo, di angustie, di limili, e n'ha veduta la luce più certa e immobile
Iella propria esistenza; ed allora ha detto queste preclare parole: FACI-
AUSQVE DUMTAREM VIVERE ME, QUaM NON ESSE VERI-
VATEM QUAE PER Ed QUAE FACTA SUNT INTELLECTA
:ONSPIClTUR (Confess. vii, x).
E volendo osservare e distinguere la persuasione ch,e ha l'uomo delle
rime verità, e la persuasione dell'esistenza di sè stesso, dico che per
uelle e per questa la persuasione è somma ; ma v' ha tuttavia questa es
crabilissima differenza. Rispetto alle prime verità è impossibile semplice-
lente pensare che non esistano; rispetto a me non è impossibile pensare
la mia non esistenza, ma solo è impossibile che io assenta con cogni-
ione diretta alla proposizione che dice me non essere. Questa diversità fra
.' verità prime e necessarie, e la verità di fatto della mia esistenza con-
ngente, è fermata eccellentemente da s. Tommaso, e mostra l'assoluta
«possibilità che ha l'uomo di essere veramente scettico, cioè di rifiutar
assenso alle prime verità. Ecco le parole di s. Tommaso. - Pensare d'al
cuna cosa ch'ella non sia, può intendersi in due maniere. Nella prima,
che cada semplicemente nell' apprensione la cosa non essere; e in questa
nulla impedisce che l' uom pensi sè non essere, siccome può pensare un
tempo sé non essere sluto. Ma non potrebbe così cadere nell' apprensione
che il tutto fosse nello slesso tempo minore della sua parte (è uno de'
primi principi), poiché l'un termine esclude l'altro. Nella seconda ma
niera può intendersi che all'apprensione s'aggiunga l* astenso j e cosi
non è alcuno che possa pensare sè non essere con assentimento a ciò :
poiché in qualsiasi cosa ch'egli percepisca, percepisce sempre (abitual
mente) $è stesso » {De Verit. Q. X, art. xii).
126
« similitudine di vero forse noi siamo ingannali, per
ii ciocché certo è che vive eziandio quegli che s1 ingan-
« na ; nè in veder ciò , s' hanno a contrapporre di
a quelle obbiezioni che al vedere esterno si co u trappoli
ci gono, cioè che qui forse noi c' inganniamo, come
« quando s'inganna l'occhio che vede il remo infranto
a nell' acqua, e come a' naviganti par di vedere muo-
« ver le torri , e altre cose infinite le quali sono al-
« tramente da quello che si veggono} conciossiachè quel
« vero di che parliamo non vedesi per occhio di carne.
« Un' intima scienza è quella per la quale noi sappiamo
a di vivere; e qui nè pur l'Accademico può dire, Forse
« dormi, e noi sai, e vedi sognando. Certo le cose ve
ci dute in sogno similissime sono a quelle vedute io
« veglia; e chi noi sa? Ma chi si sta certo della scienza
u del viver suo, non dice con essa, So di vegliare;
« ma, .So di vivere : sia dunque eh' egli dorma, o sia
« che vegli , egli vive. Nè in quella scienza può avervi
u inganno per sogni ; perciocché anche il dormire, an
te che il veder cose ne' sogni , è operazion di chi vive.
« Nè l'Accademico contro questa scienza può dire , Tu
« sei pazzo furioso forse, e noi sai; poiché le cose che
« appajono a' sani, sono simigUantissime a quelle che
« veggono i pazzi: ma chi impazzisce vive. Nè contro
u gli Accademici altri dice, So di non esser pazzo; ma,
« So di vivere. Mai non può dunque ingannarsi o
« mentire quegli che dice saper di vivere. Si gettino
« pure mille generi di false visioni contro colui che
« dice, So di vivere: nulla di ciò temerà egli, con
ce ciossiachè anche chi s' inganna vive » ( i).
ARTICOLO VI.
ARTICOLO Vii.
OSSERVAZIONE SULLE PERCEZIONI INTELLETTIVE DE* SENTIMENTI.
Osserverò, per conclusione di questo Capitolo, ch'egli
è impossibile , che ciò die ci si presenta all' intendi
mento e ciò che conosciamo sieno cose diverse : poiché
presentanosi una cosa; vuol dire sentirla : ed è la cosa in
quanto da noi è sentita, che noi percepiamo: quindi la
cosa in quanto è sentita, non può essere non identica
a sè stessa in quanto è conosciuta con una cognizione
diretta , cioè percepita intellettivamente : perciocché
percepirla , noti è che Sapere di sentirla. Sicché là per
cezione intellettiva ha lo stesso termine identico della
sensazione, che è suo oggetto prossimo : non può avervi
dunque difformità di una cosa con sè medesima, nò
perciò falsità in simile cognizione. Questa riprova della
percezione intellettiva nasce dall' unità e semplicità dello
spirito nostro, che congiunge in sè il sentimento e ls
intellezione.
ii 'i ,
(1) De Trinit. L. XV, c. KB.
129
CAPITOLO III.
ARTICOLO I.
difficoltà' nel provare la certezza della percezione de' corti (i).
(1) Gli scettici rivolsero contro la percezione de' corpi tutte le loro armi,
come ho detto di sopra.
Sant'Agostino scrive cosi : Cum enim duo sint genera rerum quae sciuntur,
unum earum quae per sensus corporis vercipit animus, alterum earum quae
per se ipsum (veggalisi qui assai ben distinte da sant' Agostino le due ma
niere di percezioni da noi poste, i due fonti della materia delle cognizioni) :
multa Ufi philesophi garrierunt contro corporis sensus; animi autem quas-
dam. firmissimas per se ipsum perceptiones rerum vcrarum, quale illud est
quod dixi, Scio me vivere, nequaquam in dubium vacare poluerunl. De
Trinii. L. XV , c. xii.
Rosmini, Orìg. delle Idee, T. III. 17
j3o
Ed anzi veramente V azione del corpo noi la perce
piamo solo come passione. Tale ci è presentata neben-
timento. L' intelletto poi è quello che vede questa pas
sione, non più dalla parte di chi patisce, siccome la
esperimenta il senso , ma dalla parte di chi agisce,
e quindi la cangia a sè stesso in una azione, e contem
poraneamente riconosce un agente diverso da sè,un
ente, una sostanza, della qual solo è proprio l1 agire.
Pertanto queste operazioni intellettive hanno bisogno
di giustificazione; ed è ciò che debbo io ora entrar
a fare.
ARTICOLO II.
L* INTELLETTO GIUSTAMENTE VEDE On' AZIONE NELLE PASSIONI CHE SOfflU
LA NOSTRA SENSITIVITÀ*.
Già ho mostrato altrove, come passione ed azioni
sieno vocaboli che esprimono due relazioni d'una cosa
stessa : e come l'intelletto dalla passione che soffre il
senso percepisca un'azione (i).
Quella dottrina può soggiacere alla seguente difficolta:
11 senso percepisce la passione e non 1' azione. L' intel
letto non può percepire la prima senza la seconda,
perchè si dice la seconda inchiusa nella prima: qui
pare averci contraddizione.
Ma si risponde in questo modo : Vero è che il senso
percepisce la passione e non 1' azione , poiché la prima
ha un'esistenza diversa dall' altra. Ma V intelletto non
percepisce già la passione , ma sì il concetto della pai-
sione ; e il concetto della passione non può esistere
senza che s' inchiuda in esso il concetto dell'azione:
perciocché questi due concelti sono relativi , ed uno S
rinserra e implica vicendevolmente nelT altro.
Ma che è questo concetto? come l'intelletto si forma
il concetto della passione? Riassumiamo brevemente le
dottrine spiegate nella Sezione precedente.
ARTICOLO IV.
ARTICOLO I.
QUALI OallO CU ESSEBI CHE «OH CONOSCIAMO FU UNA PERCEZIONE,
MA PER ON RAGIONAMENTO.
Come due sono le maniere di esseri che noi perce
piamo, cioè l'anima umana e il corpo (3), così due
(1) Face. 28 e segg.
(2) Face. 85 e segg.
(3) Noi percepiamo Noi stessi, e da questa percezione caviamo per
astrazione l'idea dell'anima umana nel modo che abbinino tante volte
descritto in quest'opera, cioè separando il giudìzio sulla sussistenza dal-
l' apprensione della cosa. Medesimamente noi percepiamo il corpo nostro e
i corpi che immediatamente agiscono sul nostro : e da queste percezioni ca
viamo per astrazione l'idea del corpo, sia organico e animale, sia inorganico.
i34
sono le maniere di esseri soprasensibili a cui giunge la
mente nostra per ragionamento, gli angeli (i) e Dio.
ARTICOLO IL
DISTINZIONI FBA t' IDIA E ti GIUDIZIO DILLI SUSSISTENZA DI QUESTI ESSISI.
ARTICOLO III.
ORDE NASCA LA CONCEZIONE DI QUESTI ESSEKI.
ARTICOLO IV.
, DEL GIUDIZIO SULL' ESISTENZA DI DIO.
(i) Gli angeli furono grande materia alle antiche filosofie. Non è ma
intenzione di esaminare se colla pura r.lgioue uoi potessimo a»ere prow
rigorosa della sussistenza degli angeli. Mi basta che noi possiamo foranf-
cene qualche idea , anche ove della loro sussistenza non potessimo
certa prova.
(s) Scz. V; P. III.
i35
La percezione delle nature che compongono l' uni
verso è giustificata nel capitolo precedente.
Ora queste nature non sono V essere : ma sì lo hanno:
dunque lo ricevono: poiché tutto ciò che non è l'es
sere, e tuttavia lo ha, dee riceverlo da chi è l'essere.
Dunque chi è l1 essere , dee darlo alle nature che
compongono l'universo, e che noi percepiamo.
Ora questo, che è l' essere , e che lo dà alle crea
ture, è la causa, è Dio.
L' analisi della percezione è quella che in questo ra
gionamento somministra i due fatti seguenti : i.° le
nature esistono o sia hanno l'essere, a.* le nature non
sono esse stesse l'essere.
Applicando noi 1' idea dell'essere , conchiudiamo dun
que da ciò: L'essere alle nature è aggiunto: dunque
1 essere alle nature comincia: poiché il venire aggiunto
loro, o il cominciare (i), è il medesimo.
Ma il cominciare 1' essere alle nature , o 1' essere ag
giunto , è una operazione ( mutazione ). E una prima
operazione ( mutazione ) domanda un ente immobile che
l'abbia prodotta, pel principio di causa (a).
Dunque il principio di causa è bene applicato a de
durre 1 esistenza di Dio. L' esistenza di Dio così de
dotta, è un' equazione perfetta (3) col principio di causa,
cioè uno de' casi particolari, per tutti i quali il prin
cipio di causa avea già prima conchiuso in universale
tutti abbracciandoli, e conchiuso validamente non solo
rispetto alla mente , ma ben anco rispetto alla cosa
sussistente.
(i) Non vorrei che altri s'ingannasse frantendendo il vero senso di questo
comincia. Cominciare non vuol dire che nel momento precedente non fosse;
non si riferisce all'istante precedente, ma all'istante in cui comincia.
Quindi sebbene una natura duri continuamente per de* secoli , si può dire
che comincia ogn' istante, perchè ogn' istante ha bisogno di ricever f energia
che la fa sussistere, l'attività dell essere.
<*) Sez. V, P. III.
(3) Ved. Parte III, cap. I, art. v.
«36
CAPITOLO V.
ARTICOLO L
IN QDM. SENSO SI DICI CBE KOI CONOSCIAMO LE ESSENZE DELLE COSI.
L' essenza è ciò che si pensa nell' idea della cosa (i).
Noi dunque conosciamo tante essenze, quante sono
le cose delle quali abbiamo qualche idea.
Il dire che noi conosciamo le essenze in questo senso,
è giusta proprietà di parlare: il che s' intenderà age
volmente, ove si faccia la seguente osservazione.
Quando noi diciamo, «l'essenza di una cosa», per
esempio deli1 albero, dell'uomo, del calore, della gran
dezza ecc., noi per significare la cosa della quale cer
chiamo l'essenza, adoperiamo de' vocaboli, cioè albero,
uomo, colore, grandezza ecc. Ora a che significare sono
stali imposti i vocaboli ? Noi 1' abbiamo veduto; «i vo
caboli sono stati imposti alle cose in quanto noi le co
nosciamo » (2) ; e se noi aggiungiamo loro un signifi
cato più esteso, abusiamo di essi, passiamo in tenebre,
o creazioni di fantasia. Quando dico adunque albero,
uomo,, colore , grandezza ecc., io nomino cose in quanto
a me sono cognite, che altramente non le potrei no
minare. Che cosa vuol dire adunque cercare l'esseuza
dell' albero, dell' uomo, del colore, della grandezza ecc.!
Non altro se non esaminare che significhino questi vo
caboli , qual sia 1' idea che gli uomini hanno aggiunto
alle voci albero , uomo , colore , grandezza ecc. Poiché,
cercherò io ciò che non hanno aggiunto a questi voca
boli? In tal caso non cercherei più l'essenza dell'albe-
ro, dell'uomo ecc., ma 1' essenza di qualche altra cosa
innominata ed incognita, della quale non potrei io
fare nò pure questa ricerca.
Altri risponderà : Se tale è l'essenza , ella non è che
ciò che si comprende nella definizione delle parole.
Appunto! e in questo e non in altro senso presero
1' essenza gli antichi: Essentia, dice s. Tommaso, com-
(i) S. I, in, in. E noi abbiamo veduto che la specie per s. Tommaso non
è che l' idea, o, se si vuole, una maniera d' idee.
(a) Quindi le essenze sono semplici, e non v'ha mezzo, come osserva
vano gli antichi , fra l' ignorarle e il conoscerle : « Chi non tocca , dice
" s. Tommaso, l' essenza di una cosa semplice ( quali sono le cose nella
" prima apprensione che noi abbiamo di esse ) , la ignora del tutto. Per-
■< ciocché egli non può una parte sapere di quella essenza e una parie
" ignorare: perocché ella non è composta»». In Melaph. Arisi. L. IX,
Lect. xi.
Rosmini, Orìg. delle Idee, Voi. III. 18
i38
senza dell' albero , per formarne un albero particolare ,
ma che non sono V albero, preso in sè solo senza più.
Ogni idea semplice adunque contiene un' essenza , e
medesimamente ogni idea composta contiene un' essen
za: perciocché a quell'idea composta sono essenziali
tutti ii suoi elementi (i), per esser tale qual è, per
non essere un' altra.
ARTICOLO III.
(1) Conviene osservare, che di questi tre modi, solo quello dell'essenza
specifica astratta è in sé veramente semplice j gli altri hanno in sè una
composizione di più essenze accidentali e sostanziali.
(2) Avendo noi l'idea della specie, abbiamo in essa i caratteri altresì
che (bimano i generi. Ov' altri dunque ci desse la comunicazione d'una
nuova specie ritrovata appartenente ad un genere a noi cognito, 1' idea di
quella specie nella sua parte positiva non sarebbe più che generica, per
chè ancora non ci vennero manifestati i caratteri che contraddistinguono
quella specie dalle altre nuove: nella sua parte negativa poi sarebbe speci
fica. Di che si vede, che delle essenze negative e nominali possono essere
per noi tanto specifiche, quanto generiche e universali.
*43
cui riscontrare i gradi e la pienezza della perfezione
delle nostre idee delle cose. Gli altri tre mezzi di con
cepire , cioè l' analisi e la sintesi, i segni e l' integra'
zione, non ci possono somministrare tutto ciò che delle
cose ci somministra la percezione. Quindi di due uomi
ni, l1 uno de' quali abbia percepito egli una cosa, l'altro
l'abbia sentita descrivere solamente da chi l'ha perce
pita, si reputa che quel primo n'abbia più perfetta e
più positiva idea, mentre questo secondo la conosce
solo verbalmente o nominalmente (i). Questo fa sì, che
paragonando fra loro le essenze delle cose medesime ri
cevute per gli mezzi surriferiti, non diciamo di averne
quella piena cognizione che l' uomo può averne . se
non nel caso che n' abbiamo l' idea conseguita col primo
mezzo o sia colla percezione.
Terza questione. Quali sono gl'impedimenti pe' quali
le cose anche conoscibili in sè stesse , non sono all'uomo
pienamente conosciute , cioè percepite?
Risposta. Questi impedimenti non possono esser che
quelli che mettono tale ostacolo, pel quale la cosa non
esercita l'azione di cui ella sarebbe per sè stessa ca
pace in sull'uomo. E veramente non dipende dall'uomo
il far sì che le cose si accostino a lui, ed agiscano in
lui con quella forza di che sono capaci ; anzi questo
dipende da tutt' altra cagione, fuori di tutta l'umana
potenza , e della potenza di tutte le creature; ed ho
messo fra le essenziali limitazioni dell' umano conosci
mento , che « la mente umana non può produrre a sè
medesima veruna scienza , senza che ad essa da qual
che essere fuor di lei vengano proposti gli oggetti di
essa scienza » (a).
Quarta questione. Quanta è la conoscibilità delle cose
stesse.
Risposta. Noi abbiamo veduto , che il solo essere è
conoscibile per sè stesso; egli costituisce la stessa co
noscibilità (3). Quindi, come dicevano i nostri padri,
le cose sono in tanto conoscibili, iu quanto partecipano
(1) Si suppone che la cosa sia tutta diversa dall' altre cose cadute sotto
la percezione di quest' uomo.
(2) Saggio sui confini dell'umana ragione, uegli Opusc. Filosofici Voi. I»
face. 57 e segg.
(3) Face. 119.
dell'essere (i). Ciò però ove si dee mettere tutto il
nerbo e lo sforzo dell'attenzione, si è a conseguire la
cognizione chiara di questo vero mediante una osserva
zione intensa sulla propria cognizione. Perciocché ove
noi considereremo con somma attenzione la nostra co
gnizione, scorgeremo una manifesta ed infinita distin
zione fra l' intuizione dell'essere e la percezione di tutte
1' altre cose , le traccie delle quali tutte si risolvono in
sentimenti in noi cagionati. Allora vedremo, che 1' essere
è impossibile intuirlo senza intenderlo; chè l'intuirlo è ap
punto l'intenderlo. All'incontro i sentimenti li vedremo
per tè non essere punto intesi, e solo cominciare ad inten
dersi da noi quando li riguardiamo in relazione coli' es
sere, cioè li riguardiamo per un' attività , un termine
dell'essere stesso. Di che si vede, i.° che la conosci'
bilità delle cose altra è per sè , altra è partecipata;
come appunto l'essere o è per sè, o è partecipato:
s." che questa essenziale diversità nella conoscibilità delle
cose fa sì , che la percezione che si può avere di esse
sia diversa. E questa diversa natura della percezione
delle cose converrà che noi un poco più attentamente
consideriamo.
ARTICOLO V.
«ce un atto o termine dell' essere. Quindi nel Voi. II , face. 373 e segg. ,
ho distinto e sceverato la parte extra~soggettiva dalla soggettiva nella per
cezione de' corpi mediante un principio, che non è altro che un' applica- .
zione particolare del principio generale qui riferito. Ivi coli' uso di quel
principio ho trovato, che nella percezione de' corpi esterni v' aveano tre
elementi extra-soggettivi , cioè 1. l'esistenza di una forza , ?.° la moltipli-
cità , 5.° e l'estensione continua: i quali elementi son tutte cose essenzial
mente diverse da noi ( soggetto ).
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. III. 19
i4G
in forza di lui, ciò che non riceviamo da noi stessi,
è la parie oggettiva ; ciò all' incontro che da lai non
qi viene, ma da noi, è la parte soggettiva della cogni
zione. Quelli che non videro, che Tessere da noi perce
pito è una essenza adatto diversa dalla nostra, è cosa
in sè, 'assolata , e che noi come tale lo concepiamo,
confusero 1' oggetto col soggetto, e dichiararono tatti
la cognizione umana soggettiva.
In secondo luogo convien riflettere, che il soggetto
si sente come soggetto , e se noi prendiamo questo sa-
timento per cognizione , noi abbiamo una cognizione
soggettiva. Ma noi possiamo avere anche una cognizione
oggettiva del soggetto, una cognizione propriamente detta.
In una parola, noi siamo il fonte della cognizione sog
gettiva , come l' essere è il fonte della cognizione ogget
tiva. Il conoscerci dunque come soggetti, è un conoscerà
veramente ; e la cognizione soggettiva che può illuder
ci , è solamente quella che noi abbiamo delle altre cose,
.diverse sì dall'essere come da noi soggetto ; poiché
quelle non sono colla propria loro entità nel soggetto
contenute. Dell'essere abbiamo un'intuizione tutu og-
gettiva; di noi una percezione tutta soggettiva; delle
altre cose una percezione mista di oggettivo e di sog
gettivo : i quali due elementi però noi possiamo distin
guere e separare , e attribuire alla cosa la parte ogget
tiva , a noi la parte soggettiva. E in questo modo ogni
specie di cognizione viene avverata e legittimata.
ARTICOLO VI.
CONSEGUENZE SOLLA NATURA DELLA HOSTBA COGNIZIONE DELLE ESSENZE
L' essere dunque ha una conoscibilità assoluta ed es
senziale: noi (soggetto) abbiamo una conoscibilità per
1' essere : le cose diverse da noi e dall' essere hanno 1>
loro conoscibilità per mezzo di noi e dell'essere; in
quanto cioè esercitano una forza su di noi, e noi co
noscendo noi stessi per 1' essere, conosciamo le attiviti
altresì che ci modificano.
Da questa dottrina più conseguenze discendono, 'e
quali mandano luce sull' intima natura della cognizione
umana. È primieramente,
i.* I varj soggetti intelligenti hanno una varia perce
zione del soggetto, perchè il soggetto varia : e questa
varietà dee mettere altresì varietà nelle percezioni delle
cose che sonò diverse dall' essere e dal soggetto , le
quali, come dicevamo, non possono dare che una per
cezione mista di soggettivo e di oggettivo.
3." L' essere che nella mente riluce, non si presenta
come sostanza, cioè come un essere sussistente e per
fettamente compito; e di ciò nasce ch'egli sia comu
nissimo, come abbiamo mostrato. Ora tutte 1' altre cose
non sono conoscibili se non per 1' essere. Quindi è che
la nostra cognizione nello stato presente è essenzial
mente universale, e che il nostro intelletto non attinge
e percepisce nessun essere sussistente e singolare. In
fatti non v' ha alcun essere singolare che sia conosci
bile per sè stesso, ma ciascuno ha bisogno di esser fatto
conoscibile dalla sua relazione coli' essere comunissimo.
Se l' essere che nelle nostre menti risplende fosse com
pito co' suoi termini essenziali, egli sarebbe allora un
singolare percepito essenzialmente dall' intendimento no
stro , perchè 1' essere è di sua natura conoscibile, anzi
costituente la cognizione (i). Sebbene adunque i nostri
(i) Sebbene gli antichi dicessero che la cognizione non era che degli
universali , tuttavia essi seppero conoscere , che ciò che ripugna all' inten
dimento non è l'essere singolare di una cosa , ma quella particolar condì-
lione di tutte le cose contingenti e finite , di non esser per sè conoscibili,
ma solo per l'essere partecipato; di che avviene , che ciascuna cosa con
tingente non abbia con 1' essere una cosi esclusiva relazione, che di uguali
ad essa non ce ne possano avere iufiuite altre; onde la nozione di quella cosn
inchiude la possibilità d' infinite altre alla medesima uguali o simili, o sia (che
è il medesimo) una nozione universale. Di particolare adunque nelle cose non
c' è che la propria loro sussistenza, che nelle cose sensibili è la materia di
che ciascuna cosa è composta. Ora la materia non può essere oggetto del
l' intelletto umano, per la definizione della medesima; giacché si chiama
materia in quanto termina in essa il senso particolare, e in quanto è ri
mosso da lei ogni principio intellettivo. Couciossiachè, ove uoi pensassimo
alla materia intellettivamente , cesserebbe d'esser particolare; ma pur con
queir alto non sarebbe più la materia , ma V idea della materia ( la mate
ria possibile ) : la materia stessa dunque di sua natura non può giungere e
presentarsi per sà al nostro intelletto. Quindi s. Tommaso; Singulare, dice,
non repugnai inlellig'.nti inquantum est singulare , sei iitquanlum est ma
teriale: quia niliil intelligitur nisi immalerialiter , cioè mediante uu' idea
(AI, lxxxvi , t ). Ma eia sussistenza degli esseri spirituali si perce
pisce ella dall' intelletto? la nostra propria sussistenza e individualità si
percepisce con pereczion singolare? Nò pure; e la ragione si è, che anch«
«oi siamo un sentimento, sebbene un sentimento semplice; e per percepirà
un simile sentimento no: gli dobbiamo applicare il predicalo dell' essere ,
"1 quale in quest'applicazione si rimane universale, perchè quest'essere non
imt esaurito nel noi individuale. Adunque nella sensibile pereciioue di
i48
sentimenti sieno particolari , tuttavia la nostra cogni
zione di essi non può esser che universale. E in vero, il
noi stessi noi percepiamo 1' individualità nostra pura e sola col sentimen
to; ma nella percezione intellettiva del NOI quel sentimento sostanziale
ticn luogo di materia della cognizione , e la forma si rimane universale
per modo, che nella percezione intellettiva di noi stessi è compresa Va
lenza di uomo, la quale si ripete e rinnovella in tutti gli uomini, e in
molti più si potrebbe ripetere e rinnovellare. La cosa dunque che sola è
conoscibile nella sua sussistenza e individualità per cosi dire, è l' essere
solo; perchè rispetto a sè egli è particolare e individuale; mentre egli ri
spetto alle cose che ci fa conoscere è universale e comune, perciocché dm
v' ha alcuna di tutte le cose singolari che por lui conosciamo , la quale
lui esaurisca in sè stessa ; sicché quell' essere che ci fa conoscer quella
cosa singola , nello slesso tempo che quella cosa ci fa conoscere, ci
presenta auco la possibilità ( sempre connessa ) d'infinite altre eguali a
quella. E io credo di non dilungarmi in ciò dalla mente di san Tom
maso, ove ben s'interpreti; sebbene v'abbiano alcuni suoi passi, che
nella prima udita sembrano significare il contrario, siccome sarebber
quelli dove insegna che 1' intelletto è conoscibile a sè stesso ( S. I ,
lxxxvi, i )■ Per bene intendere in questi passi la mente di s. Tommaso,
conviene esser pratico de' suoi modi di parlare. Egli sovente usa la parola
intelletto per indicare la forma dell' uomo: siccome, a ragione d' esempio,
in questa sentenza : Inttllectivum principiarli estforma hominis ; nella quale
l' intellettivo principio è l' intelletto stesso , InteUectus est intellectualis ape-
rationis principium { S. I, lxxvi , i ). E quest' uso di parlare è in qualche
modo giustificato dall' etimologia della voce intelletto, che specifica unt
cosa intesa; secondo la quale osservazione anche il senso comune degli
uomini, che affigge alle cose i loro vocaboli, diede a vedere, chiamando
intelletto la facoltà d'intendere, di riconoscere il bisogno d' una qualche
cosa già intesa per sè slessa, acciocché la facoltà d'intendere esistesse.
Oltracciò la ragione per la quale s. Tommaso col nome d' intelletto chiama
talora la slessa forma intellettiva, l'essere, si è perchè dell' essere e del
l'intelligente si fa una cosa sola, per la strettissima e perfetta loro unione,
nella quale veramente si può dir che si toccano; InteUectus enim in aciu,
die' egli , quodammodo est intelleclum in actu ( S. I , lxxxiv , iv )• Cono
sciuto bene quest' uso del parlare dell' Aquinate, si pare, che ciò che io
dico non è che la dichiarazione delle sue parole : il solo essere dunque è
ciò che può essere inteso nella sua singolarità. E perchè l'essere, in quanto
splende nelle menti nostre ed è in queste ricevuto , non è 1' essere co' suoi
termini e finimenti, ma l'essere iniziale; perciò quest'essere si può dire,
iu quanto è concepito da ciascun uomo, A singolare intelletto di ciascuno,
ma più propriamente il principio intellettuale. A maggiore confermaiione di
ciò, e perchè 1' opinione mia si veda fiancheggiata dall'autorità de' sommi
uomini che ne' passati tempi fiorirono, io chiedo che il lettore si inetta no
po' dentro colla sua riflessione in tutto il corpo della filosofia, che derivata
da Platone, di cui Aristotele fu un discepolo , fu universale si può dire na
mondo fino a Cartesio. Egli vedrà che tutta intera quella filosofìa suppo
neva quella verità, che io qui accenno, come suo fondamento. A ragione
d'esempio, Aristotele dimanda : « Come si fa il sapere, se nou mediante
l'uno veduto ne' molti? » ( Mttaph. Ili ) e con questo spiegava la sui
seuteuza , che il sapere avea in sè essenzialmente qualche cosa di aa^?'
sale. Omnia scientia, dice Giovanni Duns , spiegando quel passo del filo
sofo di Slagira , omnis scientia est de universali, quod est unum in nw®1'
'49
conoscere un sentimento non è se non percepirlo nella
sua possibilità , considerarlo come una essenza possibile
ad attuarsi rinnovèllandosi in infiniti individui.
3.° Quindi le nostre percezioni delle diverse cose si
possono ridurre in altrettante forinole che n' esprimano
la natura.
I. L' intuizione dell' essere prende questa formola :
« L'essere s'intuisce in sè, nè si può intuire altramente ».
II. La percezione in generale di tutte l'altre cose am
mette Ja formola seguente: « Si percepisce un essere
determinato dal sentimento ». E questa formola renden
dosi più particolare per le diverse maniere di cose per
cepite , si trasforma nelle seguenti:
a) Noi nell' idea dell' anima conosciamo un essere
determinato da un sentimento sostanziale ( cioè che co
stituisce la sostanza , il Noi ).
b) Neil' idea del corpo conosciamo un essere de
terminato da una certa azione sul nostro sentimento
sostanziale ( sul Noi ).
4." Poiché tutte le cose si vedono esser termini , at
tuazioni , od effetti dell' essere ; quindi si può dire al
tresì iu generale, che « l'essenze che noi conosciamo
delle cose sono gli effetti dell'essere». Noi stessi siamo
un effetto dell'essere, poiché l'essenza nostra non si
potea realizzare in una reale sussistenza, se non rice
vendo 1' atto dell' essere. L' altre cose poi le conosciamo
per gli effetti sopra di noi (1). .
quia de singularibus non est sdentili ( Nel commento sul 1. c. ). Ora se
la scienza universale degli amichi era questa , uua tal scienza supponeva
insieme la percezione dell' uno, e perciò del singolare. Ma che è quest'uno,
questo singolare che si percepisce ne' molti 'l S' intenderà assai chiaro che
sia quest' uno, questo singolare, quando alle sentenze di che parliamo si
avvicinerà la dottrina dell'antichità sull'uno. Questa dottrina diceva, che
fer uno non s' intendeva che l'ente indiviso. L'essere era quello che costituiva
unità; e quindi si prendea talora l'uno per l'ente, e viceversa: Unum
nihil aliud significai quam ENS indivisum. Et ex hoc ipso apparet, quod unum
convertilur cum ente ( S. Tomm. S. I , xi , 1 )• L' ente dunque è quello
elle si conosce per sua natura singolarmente , perchè è il medesimo che
1' uuo j e l' ente veduto nelle cose è ciò che fa couosccr le cose unum in
multisi e questa relazione che ha 1' unico ente con molte cose ( con molli
termini suoi ) è ciò che rende universale necessariamente la cogp'zione
delle cose. La cognizione universale adunque suppone prima di sè uua co- .
gnizione particolare, c in quella si fonda.
(1) Iddio conosce all'opposto i singolari iu tutte le cose, perchè la sua
cognizione non è prodotta dalle cose diverse dall' essere , dagli eliciti , ma
dall' esiere slesso causa delle cose, come dite eccellentemente s. Tommaso,
C. C. I, ixy.
i5o
ARTICOLO VII.
dell' imperfezione della percezione oggettiva.
ARTICOLO Vili.
delle essenze positive e negative.
ARTICOLO IX.
dell' idea negativa di dio.
Contro l'idea di Dio, che una lunga tradizione o
dice esser negativa, stanno alcune difficoltà, delie quii
gioverà porre qui un cenno.
Prima difficoltà. Noi ci formiamo, dicono gli opposi
tori, l'idea dello spirilo supremo ed infinito, partendo
dall'idea dell'anima, togliendo da lei tutte le limita
i53
«ioni, e aggiungendole lutti i pregi. Or se 1* idea del
l'anima è positiva , mollo più dee esser positiva quel
l'idea che noi ci formiamo per tante aggiunte.
Risposta. Non è punto vero che noi ci formiamo
l'idea di Dio partendo dall'anima nostra nel modo in
dicato.
Si distinguano nelP idea le due parti accennate nel-
l'articolo precedente: cioè i.° la parte che contiene
una sussistenza e una determinazione mediante una re
lazione | la quale non somministra che un' idea nega
tiva , e nulla ci rappresenta o ci fa percepir della cosa
stessa; 3.° e la parte che rappresenta la cosa, che ci
fa sentire la forza eh* eli' ha d'agire in noi, e di pro
durci così una percezione di sè: questa seconda parte
è la parte positiva , e quasi direi vitale dell' idea : men
tre la prima non è più che uno schema dell' idea , o
i lineamenti fondamentali dentro cui ella trovar si
dee , ma non ella stessa.
Or nell'idea di Dio la prima parte noi 1' abbiamo in
questa vita per le relazioni di causa e d' effetto , di li
mitato e d' illimitato, d' imperfetto e di perfetto , ecc.
Ma per quante sieno tutte queste relazioni, nuli' altro
valgono che a produrci 1' idea nella prima delle due
parti descritte.
Noi però poco ci appaghiamo per natura di avere in
tal modo 1' idea di una cosa insensibile, di conoscer
così le cose quasi direi verbalmente. Molto più poi un
bisogno essenziale, profondo , il primo bisogno della
natura umana , ci sollecita di continuo col desiderio
d'aver pur di Dio un'idea positiva e piena, d' averne
la percezione, d' averne la diretta visione. Ma a tanto
aspiro della natura non puossi quaggiù interamente sod
disfare. Incapaci adunque di percepire quaggiù Iddio
stesso coi mezzi naturali, noi ricorriamo alle sue simili
tudini, e meglio che altrove le troviamo negli spiriti
intelligenti, siccome è l'anima umana: le raccogliamo,
ne componiamo quel concetto che meglio sappiamo. E
quindi medesimo le religioni ricorrono a' simboli , ne
cessari a supplire in qualche modo a quell' idea positiva
e beante di Dio, della quale quaggiù ci troviamo pri
vati , ed alla quale, senza conoscerla , per un istinlo
(i) L' idea di Dio dcinque si eompone i ." d'una parte negativa , 1." e d'un»
parie simbolica, o sia in generale composta di similitudini, le quali ten
gono il luogo della parte positiva , ed alla mancanza di questa in qualche
modo suppliscono. E l' una e 1' altra di queste due parli entrano nella re
ligione, ma la parte principsle e fondamentale ò la prima. Se coi to
gliamo via la parte simbolica , ci rimarrà la prima ; ma nulla avremo di
sostituire alla parie clic abbiamo tolta vìa. Noi potremo bensì meditar
Sulla prima parte, la quale si compone tutta delle relazioni di Dio eolle
creature^ e queste meditazioni ci daranno una dottrina di Dio sempre più
completa ed ammirabile, ma che non sarà mai altro che uno sviluppo ed
analisi della parte negativa. Tutto questo sviluppamenlo entra anch' esso
di sua natura nella religione e nel culto di Dio , ajulando egli 1' uomo a
prestare questo culto con maggiore intelligenza ed amore. Non furono adun
que bene caratterizzate la religione e la filosofia dal signor prof. Couriu,
riduccndo la religione a de' simboli, e la filosofia a delle pure concezioni
(Lecon 17 avril i8u8). Le pure concezioni intorno a Dio quante esser
possano, ottenute dalla meditazione e dalla riflessione, entrano tutte nella
religione e ne giovano il culto, il quale non si restringe a' soli simboli.
Al contrario se la filosofia toglie via i simboli , essa non ha nulla da sosti
tuire ai medesimi: perocché tutto ciò che la riflessione può ritrovare
intorno n Dio, non consiste già in ridurre i simboli a delle pure conce
zioni; ma consiste a sviluppare l'altra parte dell' idea di Dio , lasciati al
tutto i simboli , la parte negativa che tutta consta dalle relazioni di Dio
con noi. Egli è ben vero che questo sviluppo si fa in parte per opera d'I
tempo, e coli' applicazione del pensiero riflesso sui primi concetti del
nostro pensiero diretto, e che perciò tutto questo sviluppo si può dire
che appartenga alla filosofia in quanto è fatto col semplice lume della
ragione naturale ; ma egli non appartiene meno per questo alla religione.
Qual opposizione v' ha mai fra la ragione e la religione? Qual diffi
coltà a ciò, che la ragione, la filosofia se così si vuol chiamarla, si oc
cupi di un argomento religioso, di Dio, oggetto della religione? nes
suna. Perchè si dirà che da quel punto che la riflessione si è occupala
dell' oggetto della religione, quest'oggetto sia cessalo dall' esser religioso,
e sia divenuto meramente filosofico? qual divisione è questa? Ha dunque
la filosofia il potere di snaturare le cose , sicché ciò a cui ella s' applica
perda incontanente la sua natura, e il Dio de' filosofi non sia più Dù>,
quest' oggetto del culto dell'anima intelligente non sia più oggetto del
culto, quando l'anima s' è applicata a lui appuuto colla sua parte più no
bile , colla sua attività intellettiva ? La divisione adunque fra la filosofi
e la religione è sistematica e falsa : la religione abbraccia il lutto di Di»,
c la filosofia non ne è che una parte : il tutto e la parte non sono io op
posizione fra loro , né s' escludono a vicenda. La^ religione precsisteva alla
filosofia : e quello che la filosofia , o diremo più tosto la ragione naturale,
ha rinvenuto lavorando sopra di lei, non fu che uno sviluppamenlo mag
giore della religione : né il sublime tratlato di Dio scritto da s. Tommaso,
coli' essere ammirabile per la profondità del pensiero e per l' acume della
riflessione, ha cessato mai di essere religioso, né fu mai considerato altro
che siccome una teologia. In luogo dunque di separare ciò che non è se
parabile, la religione da ciò che la ragione umana applicala alla religione
conosce, sarebbe convenuto distinguere lo slato successivo della religw"
i55
Le similitudini adunque e i simboli d'Iddio non
danno ancora a noi la percezione dell'essenza divina ;
poiché quelle similitudini e simboli non hanno con Dio
che una cotale analogia lontana, e nulla più.
Vero è bensì, che se consideriamo l'idea che dal
l' unione di tutte le perfezioni cognite in un essere a
noi risulta , ella è iti sè stessa più grande , più piena ,
più positiva : ma non è meno mancante, inadeguata
e nulla , rispetto alla rappresentazione di Dio. Il che
maggiormente s' intenderà ove si consideri , che quando
noi abbiamo accumulato tutte le perfezioni possibili in
un essere , noi non abbiamo trovato però ancora quel-
1' atto unico pel quale tutte sussistono, il quale atto
rispetto a Dio dee essere tale nel quale tutte e ciascuna
di quelle perfezioni sia contenuta ed immedesimata ,
della quale perfetta semplicità ed unità nessun esempio
rinveniamo nella natura. Or quell' unità appunto, quella
semplicità di essere è ciò che forma 1' essenza divina.
Adunque fino che non veggiamo l'essere così uno sus
sistente noi non abbiamo un'idea positiva di Dio.
Seconda difficoltà. Se la nostra cognizion di Dio è
negativa , non è cognizione; e rivolgendo noi la nostra
attenzione e il nostro affetto a Dio, questo non si tro
verà mai, non saprà mai l'uomo a chi si rivolga: in
tal caso è per noi come se Dio non fosse.
Risposta. Questa difficoltà non può nascere in chi ha
ben inteso l'idea negativa che abbiamo descritta. Spie
ghiamoci con altre parole.
Sia una cosa non conosciuta da noi uè con perce
zione, nè per similitudine di natura con altra cosa di
cui abbia m percezione (i).
(1) Qui ii parla del concetto di Dio, uou della esistenza di Dio.
i58
1' uomo è inintelligibile, in quanto che egli non può
pensare Tessere stesso nel suo atto 'perfetto e compiuto.
E questo è il nome ineffabile di Dio; o sia una for
inola , la quale non può esprimer che Dio : sebbene
adunque da noi non possa essere intesa quella forinola
nella sua unità, è però intesa ne' suoi elementi: e que
sto basta perchè con essa segniamo e nominiamo Dio
fuor di tutte le cose: conciossiachè in nessuna delle
cose trovar si possono quegli elementi così legati insie
me, come nella formola sono espressi.
La nostra cognizione negativa di Dio è dunque tale,
che noi sappiamo per essa a chi rivolgerci , senza alcuno
errore prendere in ciò, e possiamo senza errore ado
rare la nostra causa , conoscere praticamente il fonti
della bontà, e terminare l'appetito di sapere nella luct
delle menti : sicché al tutto è scemo e vano lo sforzo
di que1 tristi savj del secolo , che da questa sorgente
inesausta di tutti i beni vorrebbero pur rivolgere e ar
retrare il genere umano, abusando della parola, che
egli è un essere incomprensibile.
ARTICOLO X.
i •
CONCLUSIONE.
CAPITOLO I.
(«) Sant'Agostino nelle sue idee fece quel progresso che io ho osser
vato dover far necessariamente la filosofìa , che comincia dall' esser vol
gare , e poi si erudisce e si perfeziona ( Voi I , face, a e segg. ) La filoso
fia volgare non vede le difficoltà che si trovano nelle questioni filosofiche ,
e procede quindi assai confidente e baldanzosa. Quando un arduo passo
le si rivela , dà nel vizio opposto : trasecolata di maraviglia , non 1' ap
paga più alcuna soluzione , e sembra che « lo scetticismo , secondo la frase
" di uno scrittore moderno , sia la prima forma . la prima apparizione del
« senso comune in sulla scena della filosofia ». Quindi s. Agostino comin
ciò dall' essere accademico. Uscito dal dubbio, trovossi quasi direi natural
mente nella filosofia platonica. Io ho osservato , che la dottrina platonica
intorno le idee appartiene alla filosofia dotta , ma in quel suo primo pe
riodo nel quale essa è ancora imperfetta , quando Vede bensì le difficoltà ,
ma non ne ha trovate le soluzioni più semplici, e ricorre in quella vece a
delle ipolesi ingegnose, che peccano di superfluo anziché di difetto. La
mente di s. Agostino non potea fermarsi qui ; dovea far necessariamente
un progresso : egli s' accorse quindi di ciò che v' avca di troppo nella
teoria platonica circa l'origine delle idee; recise quel soperchio, e ai
trovò nella verità , la quale consistea nell' accorgersi che la natura umana
é essenzialmente ragionevole, e che è per questo eh' ella riconosce la ve
rità , quando ne va in cerca e la trova , e che il fanciullo risponde accon
ciamente alle domande che gli vengono fatte ordinatamente anche sopra
cose che non gli furono mai prima insegnale. Quindi nelle Ritrattazioni
(L. I, c. vili ) egli riprova l'aver dello altra volta che l'anima sembrava
Rosmini, O/ig. delle Idee, Voi. III. 21
Biassumiam dunque qui brevemente tutto ciò che
fa la natura per assicurare all'uomo il possesso della
verità c proteggerlo dall'errore: il che confermerà, eh»
il vero scetticismo è impossibile; che non è che una
menzogna che dice a sè stesso o ad altrui 1' uomo im-
malvagito od alienato; che la verità ha nella natura
intelligente un possesso , un dominio che non le può
esser tolto, nè violato; sebbene quella natura libera
possa peccare contro di lei.
I. L' uomo adunque in primo luogo ha per sua natura
la vista permanente dell' essere in universale. Quest' es
sere è il lume della ragione, 1' ultimo perche degli
umani ragionamenti , sempre convincente , sempre in
vitto perse medesimo (i): quest'ultimo perchè è la ve-
aver recate tutte le arti seco medesima : « poiché può essere , così egli ,
ii — che il giovanetto possa rispondere interrogato , perchè è una nalura
« intelligibile »: fieri enim palesi — ut hoc ideo possil (iicterrogata respm-
dere ), quìa NATURA 1NTELLIGIBILIS EST. E quivi medesimo
spiega che sia quello che costituisce una natura intelligente , cioè un
lume innato: « Ho detto, che gli eruditi nelle liberali discipline, le
« discuoprono in sè coperte dalla dimenticanza, e in certa maniera le dìs-
«< sotterrano. Ma questo io lo riprovo; Poiché è più probabile che per
« questo rispondano anche gì' imperiti intorno a qualsiasi disciplina ,
« quando bene vengono interrogati, perchè è lor presente, quanto ne
«t posson capire, il lume di una eterna ragione, dove veggon que' ven
<< immutabili, non perchè gli abbiano saputi altra volta e poi dimentichi,
« come u' è paruto a Platone o ad altri lali » : propterea — quia praesens
est eis, quantum id capere possunt , LUMEN RATIONIS AETERNAE,
ubi linee immutabilia vera conspiciunt, non quia ea noveravi aliquando
et oblili sunt, qttod Plaloni vel talibus visum est (Ivi, c. ìv). Ora questo è
appunto quel miglioramento del quale noi abbiamo osservato abbisognare
hi domina di Platone, pel quale , in luogo di porsi le idee iunale, tulle
si doveano subordinar ad una sola innata, lume della ragione, dalla quale
tulte le altre si derivassero e ingenerassero, cioè ove, all'occasione delle
sensazioni , tutte le cose si vedessero e intellettualmente percepissero
( Sez. IV, ci). Or questo lume è chiamato da noi, come altresì da
s. Tommaso, principio della cognizione (PRINC1PIUM COGNIT10NIS),
il qual definisce che tutte cose che conosciamo , le cono-scia m noi in
tionilms aelernis sicut IN COGNJTIONIS PRINCIPIO (S. I, ìxvuy. 1}
E perchè non resti alcun dubbio circa l' intelligenza di questo principio
della cognizione , si osservi s. Agostino, e s. Tommaso dietro a lui, chia
marlo la verità: Nec ego utique in te (videmus vcrum), nec tu in me, sei
ambo in ipsa, quae supra menles nostras est, incommutabili MERITATE
( Confcss. L. XI, c. xxv ). Ora la verità, ove nella vita presente noi
veggiamo le cose vere, osservammo che, secondo la dottrina dell'Ange
lico , è l' idea dell' essere in universale ( Cap. IV, art, III ). Così tu"" .
dottrina de' due grand' uomini di cui parliamo è consonante seco medesi
ma , e intera , e la nostra ritrae da quella e a quella si continua.
(1) E dottrina di s. Tommaso, clic non possa I' uomo errare intorno
i63
rità, sicché tutte le cose sono vere in tanto che di lui
partecipano, e quindi 1' uomo per natura è possessore
della verità.
II. I primi principj della ragione sono l'idea dell'es
sere applicata (i) : evidenti come quella, sono pure im
muni da errore (2).
Queste prime verità sono i fonti di tutte le umane
cognizioni. Vi sono però anche delle verità di fatto,
intorno alle quali non può cadere errore. E queste sono
le seguenti:
III. L'uomo non può ingannarsi intorno alla propria
esistenza (3).
IV. Non può cadere errore nella coscienza che ha
delle sue principali modificazioni (4).
V. I nostri sensi non traggono in errore l' intelletto,
quando egli riceve da essi ciò che danno e nulla più (5).
all'essere per nessun mo<lo. Ecco le parole del santo Dollore: Proprium
objectum intellectus est quod quid est ( questa maniera vale 1' essere delle
cose ) : unde CIRCA HOC NON DECIPI TUR INTELLECTUS ( Con-
tra G. I , i.viii ).
(1) Voi. Il, face; 73.
(2) Intellectus , dice s. Tommaso, IN PRIMIS PRINCIPUS NON
ERRAT , sed in conclusionibus intei-dum, ad quas ex primis principiis ra-
tiocinando proceda. (Contro G. I , lxi).
(5) Così s. Tommaso: NULLUS ERRAVIT UMQVAM IN HOC
QUOD NON PERCIPERET SE VIVERE. (De Veni. X, vni).
(4) Questo fu il punto onde partì Cartesio, lo penso, la coscienza del
pensiero: questa evidenza è la base di tutto l'edilizio cartesiano. Noi ab
itiamo osservato, che questa base è bensì solida , ma la sua solidità e do
vuta a' principj della ragione; non può esser dunque la prima pietra del
l' edifìzio scientifico. Quiudi I' errore cartesiano c tutto in questo , nel
cominciare la fabbrica da una pietra che non è la prima. E fu questo il
lato debole, onde agli assalti fece breccia quella scuola di filosofia.
(5) Noi abbiamo trattato a lungo de' crilerj circa la veracità de' sensi
nella Sez. V, face. 2t)6 e segg. Questa dottrina è pure quella dell' Aqui-
naie. Del quale non sarà cosa inutile che qui dichiariamo una maniera di
esprimersi , procedente da Aristotele , che potrebbe ingenerare confusione
nelle menti di quelli diedi certe maniere oblilerale a' di nostri non hanno
la vera intelligenza Ecco il passo: Proprium objectum intellectus est quod
quid est: inule circa hoc non ilccipitur intellectus nisi per accideus. Cina
compositionem autem et divisianem decipiturs sicnt et senstis, QUI EST
PROPRIORUM, EST SEMl'ER VERUS, in aliis aulcm/allitur (O.G.l,
LViii). Qui s. Tommaso distingue due oggetti sì dell'intelletto chi' del senso:
' ometto proprio, e intorno a questo nou conosce errore ; e V aggetto per
accidente , iutoruo al quale si 1' intelletto che il seuso può indurci in er
rore. Or noi vogliamo spiegare che cosa sia quest' oggetto dell' intelletto
o del senso solo per accidente : il che metterà iti chiaro la mente del
santo Dottore. Cominciamo dui seuso. Egli medesimo così spiega la frase
i64
Questa atleslazione de' sensi è una parie della coscien
za, la cui certezza fu indicala al numero IV.
VI. L' astrazione, che trae dalle percezioni le idee,
e quindi la cognizione delle essenze delle cose , o come
dicevano gli antichi , la semplice apprensione , è pure
immune da errore (i). Or queste essente , come abbiamo
oggetto del senso per accidente , nel suo commentarlo sopra P opera di
Aristotele ( L. Ili, Lect. VI ) intorno all'anima: « Che sia bianco ciò
m che si vede , qui il senso non mente: ma se quel bianco sia questa
•< cosa o quella , poni neve o farina od altro tale , qui il senso può men-
k tire , e massime da lontano ». Or si badi : il senso vede il bianco: 1* in
telletto mio giudica che quel bianco che vede Y occhio è neve. Questo
giudizio vien fatto dall' intelletto sopra ciò che il senso gli presenta ( b
bianchezza ); ma poiché tien dietro così rapidamente alla sensazion di
bianchezza, sembra che sia con questa congiunto intimamente, e quindi il
comune degli uomini, errando, il crede oggetto del senso. Indi se ad tm
nom si dimandi: Chi vi attesta che colà su quel monte ci sta la neve? egli
immantinente risponde: L' occhio mio: poiché non si ferma egli a separare
quelle due cose così vicine ed unite, sebben diverse, i.° la sensaiione
della bianchezza, 2." il giudizio che dalla bianchezza fa 1' intelletto, indù-
cendone I' esistenza della neve in sul monte , come da segno cosa segnata.
Ora Aristotele né pur qui volle allontanarsi dalla comune maniera di pr
ia re , sebben falsa ; tanto era il suo rispetto al parlar comune, fino a
parerne talora superstizioso; e si contentò di dire, che quel giudizio era
oggel lo del senso per accidente , in quanto che il senso ne porgeva la
materia, e alla sensioue subitamente conseguitava. Giova però meglio ban
dire una tal maniera equivoca di parlare, e dire francamente, che quel
giudizio non è in alcun modo oggetto del senso, ma che è oggetto solo
dell' intelletto. Dopo di ciò s' intenderà che cosa debba essere l'oggetto
dell' intelletto per accidente. Come 1' oggetto del senso vero è la materia
delle cognizioni , e si disse oggetto suo /ter accidente la forma, che pure a
lui non appartiene; così oggetto dell' intelletto vero è la forma delle cogni
zioni , ed oggetto per accidente la materia delle medesime , che non è pure
veramente suo oggetto. Quindi se 1' intelletto vuol giudicare delle cose
sensibili , non seguendo I' esperienza sensibile , egli dee cadere in errore.
Osserverò finalmente, che Aristotele dice del senso, eh' egli talora s'in
ganna, sebben di raro, anche intorno l'oggetto proprio, cioè quando il
senso è difettoso ; ma noi , sceverando la deposizione del senso da ogni
elemento straniero, abbiamo rimossa al tutto questa eccezione.
(i) Anche questo fu insegnato da s. Tommaso ( De Anima L- W •
Lect. XI) ; « V ha una operazione dell' intelletto ( egli dice ) , secondo
« la quale egli percepisce gl'indivisibili ( viene a dire le semplici esscme ),
« come quando intende I' uomo , o il bue , o qualche altra cosa simile
« degl'iucomplessi. E tale intelligenza è in cose, nelle quali non si d»
m falso : sì perchè le cose incomplesse non sono né vere né false , e 51
« perchè nell'essere delle cose l'intelletto non s' inganna: ma in quelle
t cose intelligibili, nelle quali vi ha vero e falso, v' è una certa eo«>
« posizione delle cose intese, siccome quando di più cose se ne forma
« una sola »> ( nell' operazione della sintesi si formano le idee complesse )■
Ora che cosa sono queste cose incomplesse? Sono le pure iiiet, fnK
di giudizio sulle cose reali e sussistenti. E come avviene che iu esse i0U
veduto, sono i princip/ particolari delle scienze, e rispon
dono alle anticipazioni o xpóXippets di Epicuro»
; Tali sono i legami naturali e infrangibili , onde la
verità è unita e bene assicurala, colla nostra natura fatta
per lei. Or poi , dopo aver noi sino a qui veduto i
fini posti alla temerità della mente umana, ne' quali i
suoi flutti onde insurge contro alla verità s'affrangono,
e danno indietro; conviene che veggiamo altresì qual
sia l'ambito dell'errore, entro al quale è stato conce
duto all' uomo di poter nuocere a sè medesimo.
[ CAPITOLO IL
ARTICOLO L
DISTINZIONE FRA LA RICERCA DELLA NATURA DELL* ERRORE
E QUELLA DELLA SUA CAUSA.
ARTICOLO IL
ARTICOLO III.
L'ERRORE È Nfi' C1DDIZJ POSTERIORI ALLE PERCEZIONI.
(1) « Per la stessa ragione, dice Bossuet, non v' ha che l'intelletto che
« possa errare. A parlare con proprietà, non v'ha errore nel senso, che
a fa sempre ciò che dee fare , poiché egli è fatto per operare secondo le
« disposizioni non pnr degli oggetti ma degli organi. Sta poi all' intelletto
« il giudicare degli organi stessi , e dalle sensazioni tirar le conseguenze
« necessarie. £ s'egli si lascia sorprendere, quegli che s'inganna è esso
<t medesimo » ( De la connoissance de Dieu et de soi méme, eh. I, vii ).
San Tommaso avea prima insegnato che il senso non percepisce né la verità
ne la falsità , che spettano al solo intelletto ; e che perciò quando si nomi
nano gli errori del senso , questa frase va intesa in questo significato, che
il senso somministra l'occasione all' intelletto d' ingannarsi, ovvero in un
modo simile a quello onde anche cose insensibili si dicono false o vere
in quanto egli apprende le cose come stanno: Fahitas non ( est) in
sensu, sicut in cognoscente verum et falsum. — Falsi!as non est quaerenda
in sensu nisi siculi ibi est veritas. Vcrilas autem non sic est in sensu , ut
scnsns cognoscat veritatem , sed inquanlum veram apprehensionem habet
de sensibilibus ( S. \, xvu, n ).
(2) Art. I.
(5) L' errore , come qualunque altro male, non è cosa positiva, ma ne
gativa, secondo la celebre osservazione di sant'Agostino: Si verum est
id quod est , dice questo gran Padre della Chiesa , falsum non esse
uspiam coneludetur quovis repugnante (Solil. II, vm).
(4) P. IH,c. V.
(5) Questo caratterizza tal genere di giudizj , e li dislingue da que' giu
dizj che sono insieme percezioni: perocché questi si compongono non di
due idee, ma di una idea e di sensazioni, come fu dimostrato nel Voi. I,
face. i35 e segg.
i68
L' unione di due idee si può chiamare una sintesi;
quindi si potrebbe semplificare la formola generale de
gli errori riducendola a questa: « L' errore consiste
sempre in una sintesi mal fatta».
Una delle due idee che si legano insieme è il soggetto
del giudizio, l'altra è il predicato.
Ogni errore dunque consiste nell' unire insieme mala
mente un predicato con un soggetto.
Si erra quindi i.' o dando un predicato ad un sog
getto a cui non appartiene, a." o negandolo ad un sog
getto a cui appartiene. E poiché il dare un predicato
è una specie di composizione, e il negarlo è una specie
di scomposizione mentale; quindi gli antichi dissero che
l'intendimento non è soggetto ad errore fuor solo che
in quella operazione nella quale egli compone o divide (i).
ARTICOLO IV.
SPIEGAZIONE DI QUELLA SPECIE PARTICOLARE d' ERRORI I QDALI NASCOSO
PER l' A1DSO DEL LINGUAGGIO.
(1) Si può dire che 1' intelletto va soggetto all' errore tanto uel com
porre che nel dividere, per la ragion delta; ma queste due operazioni si
possono ridurre ad una , cioè alla composizione : perciocché anche il divi
dere può prendere la forma di composizione; giacché unire un predicato
negativo col soggetto , è reale divisione sotto la forma di composizione ,
rome avviene nella somma algebrica, quando si legano insieme le quintili
di segni opposti. Quindi talora s. Tommaso dice semplicemente: « La fal
ce sita dell' intelletto per sè è solamente circa la composizione * , si mi più
( S. I, «vii, hi); e così pure l'antico maestro delle scuole ( Vei
L. Ili, de Anim. , test. ui-a»). Talora poi dice che si dà falsità ivi.ow
l'intelletto o compone o divide: « Circa l' essenza delle cose 1* inlcltei'o
« non s' ingann» . — In componendo poi o dividendo si può ingannare,
«quando attribuisce alla cosa, di cui intende l'essenza, alcuna cosi
« che non tien dietro necessariamente a quella essenza, o le é contraria»:
circa quod quid est intelleclus non decipitur. — In componendo vero vtl divì
dendo potest decipi , dum attributi rei , cujus quidditalem inUlligit , aliiji'd
quod eam non consequilur vel, quod ei oppontiur IS.l, rv», "■)•
(2) Si crede comunemente, che a' vocaboli nell' uso comune non s'ag-
giunga un seuso ben determinato. Questo è falso: se fosse vero, la prima
dote dello scrittore , la proprietà nell* uso de' vocaboli cesserebbe ni esi
stere. Ciò che induce a credere che il senso comune degli uomini (al tp&
in gran parte appartiene la fissazione del valore delle parole) non iggii";*
un senso determinato , sono queste due apparenti ragioni: 1." l'irer os
servato che gli uomini particolari commettono molle improprietà ne' loro
ragionamenti, 2." che i più non sono capaci di darci la definizione di al
dall'uso comune, conduciamo noi stessi ed altrui in
fallibilmente in errore : ove prima noi definiamo , av
vertendo di volerlo prendere siccome segno arbitrario di
una nostra idea , e non come segno convenuto e cor
rente : e ci bisogna grande attenzione a mantenere l'as
segnata definizione in tutto il corso del nostro ragiona
mento, e non declinare più mai all'uso consueto di
quel vocabolo , a cui 1' assuefazione e 1' esempio degli
altri uomini continuamente ci trae.
Ma talora noi non mutiamo a' vocaboli il valore con
avvertenza e in proposito; ma li prendiamo inavvedu
tamente in un senso più lato , o meno , o altro da quel
diesi abbiano: ed allora l' errore entra inavvedutamente
ne' nostri ragionamenti.
Perciocché noi non potremo sostenerci a dar sempre
al vocabolo quel nuovo valore che impropriamente gli
avremo dato a principio; e a quando a quando nel pro
gresso del discorso nostro scaferemo all' uso comune ,
avvicinandoci alla proprietà del parlare. E ove ancora
avvenisse ( il che è al tutto impossibile ) che noi a
quel vocabolo conservassimo il falso valore che sopra
pensiero o condotti da qualche prevenzione gli abbiamo
assegnato, certo gli altri uomini non c'intenderanno;
e ciò che noi diremo della cosa che con quel vocabolo
segnar crediamo, gli altri tutti l'intenderanno della
cosa cui quel vocabolo segna veramente nell' uso co
mune: la quale misintelligenza è fonte d'infinite dis
sensioni fra' letterati.
Ora analizzando Terrore che qui accenniamo, si trova
consister egli in questo, che noi di un oggetto solo ne
facciata due : perciocché il vocabolo impropriamente
usato segna due cose, cioè i* segna ciò a cui segnare
ARTICOLO VI.
CONTINUAZIONE: COGNIZIONE DIRETTA, E COGNIZIONE RIFLESSA.
ARTICOLO VIL
COGNIZIONE POPOLARI B FILOSOrlCA.
(1) Questo movimento della prima riflessione non può venire che dal
linguaggio , e perciò dalla società con altri esseri, siccome ho dimostrilo
Voi. II , face. 93 e segg.
(2) Prima di osservare i rapporti reali delle cose, conviene che abbia avuto
luogo in qualche parte 1' analisi , poiché un rapporto suppone udì vista
delle cose particola ri : quest' analisi prima è quella che non si esercita su
ciascuna delle cose reali , ma sul tutto delle cose : perocché le cose reali
nella prima percezione sono confuse insieme in un tutto: 1' universo è una
sola percezione. Viene l' analisi , e dislingue gli oggetti fra loro. In one
sto stato entra la sintesi di cui parliamo. Così l'analisi e la sintesi sono
due operazioni dello spirilo che si avvicendano. La riflessione comincia
certo co\V analisi di cui parliamo, ma quest'analisi non produce un» co
gnizione ' degna d'un nome: sopraggiunge la sintesi prima, e completa w
scienza popolare. Quindi ciò che dico prima riflessione, e che dichiaro
causa della cognizion popolare, è propriamente composta di due opera
zioni, cioè i.° di un' analisi, che distingue gli esseri reali fra loro confa*)
da prima nella percezione, 2.° e di una sintesi, che ne intende e quasi diro
percepisce immediatamente i grandi rapporti. Della cognizione filosofica s»
può dire altrettanto. Vero è che muove dall' analisi , ma non riceve nome
di scienza filosofica se la sintesi non sopravviene a compirla c darne 1111
distinto ed importante carattere.
filosofia, e da esso partendo si viene a confermare an
che i grandi rapporti che fra gli esseri avea già osservato
e notato quasi dii%i intuitivamente la gran massa degli
uomini.
Quindi la scienza popolare è media fra la scienza
puramente diretta e la .scienza filosofica : perocché quella
nasce da una prima riflessione, mentre la scienza filo
sofica non succede che per una riflessione seconda (i).
Oltracciò quella prima riflessione popolare aggiunge in
certo modo alla scienza , se non percezione di esseri
nuovi , almeno cognizioni di rapporti reali , e idee ne
gative d' esseri nuovi ; e quindi ella è prima nel suo
genere, producendo delle idee nuove, come le idee delle
cause; mentre tutto il principal merito della scienza
filosofica è d' aggiungere una certa maggior luce e forza
persuasiva alle verità già conosciute nel primo modo ,
quando pure attinge il suo fine, e per mancanza di
vigore non precipita negli errori a cui ella è massima-
niente soggetta.
La cognizione diretta è immune da errore: non al
tutto la popolare , perciocché questa è già in parte il
frutto della riflessione. La cognizione filosofica poi è
quella che più di tutte l'altre è all'errore soggetta,
perchè è tutta figlia della riflessione, e d' una riflessione
più lontana.
Quelli che hanno confuso la cognizione diretta colla
popolare, diedero al popolo l' infallibilità ; attribuendo
così alla cognizione popolare quello che non si può dire
che della diretta. In fatti i popoli interi, l'intera uma
nità è pur troppo soggetta all'errore. Sta scritto: «Ogni
« uomo è mendace »; e ancora: «Tutti decaddero, tutti
« insieme si sono resi inutili: non è chi faccia il bene,
« non ve n' è pure uri solo». Quindi i filosofi, ai quali
furono attribuiti tutti gli errori, mentre ne furono as
solti i volghi da cui quelli uscirono, si credettero trat
tati con ciò ingiustamente , e addussero contro i loro
avversarj i volgari pregiudizj.
(1) Abbiamo già detto che le idee delle cose sono la verità di que
ste. — Quanto poi ad essere un'afférmazione senza negazione, l'accordo; ma
non senza /imiti. I limiti possono essere nell'oggetto del nostro giudizio
affermante , senza che noi gli osserviamo separatamente nell' oggetto stes
so: perchè ci fosse negazione nel nostro giudizio, converrebbe che noi
avessimo osservati i limiti nell* oggetto che affermiamo ; ma noi possiamo
affermarlo, senza tuttavia pensare a' suoi limili , tale com'è.
(a) Non è perù. occulto al tutto questo istinto , cioè non è un fatto
tutto isolato e che non si rappicchi a nessun altro. Vedi la spiegazione
da aie data nella nota 3 alla face. 171 e seg.
(3) Non però senza il soggetto , poiché è il soggetto che pensa. Il fallo
del pensiero non dice eh' egli sia una virtù dal soggetto indipeodenle.
Tuttavia è vero che si sviluppa senza la volontà deliberata del toggdfe
La particolarità del soggetto è essenziale alla generalità del pensiero. Aon
bisogna dare indietro a questi fatti j perchè sono fatti. Convien dunque
conciliarli colla teoria, il che credo vorrà essere alquanto difficile 'l' au
tore citato.
i8i
« distinguiamo tutto questo, ma senza una separazione
« severa. L'intelligenza in isviluppandosi appercepisce
« lutto, ma non 1' appercepisce da prima in una ma
il niera riflettuta , distinta, negativa; e se appercepisce
« tutto con una perfetta certezza , 1' appercepisce però
« con un poco di confusione » (i).
In tutto questo tratto 1' autore sembra occupalo a far
distinguere la cognizione prima e diretta, dalla ri/lessa ;
e sono poche le frasi nelle quali si veda la confusione
fra la scienza diretta , e la popolare o sia di prima
riflessione (a). Ma in ciò che segue al brano recato, la
detta confusione è più manifesta. £ perchè il ben di
stinguere e precisare i limiti della cognizione diretta e
sola immune da errore è di somma importanza, io slimo
bene di dar qui il carattere coi quale ella si può sicu
ramente distinguere dalla popolare.
La cognizione diretta primieramente ha degli oggetti
più particolari che la cognizione popolare. Poiché la
cognizion popolare è una prima riflessione su di ciò che
abbiamo percepito, e Patio della riflessione ha di sua
natura uno sguardo più generale della percezione. In
(1) Questa confusione nasce anche in parte dalla moltitudine delle parti,
delle quali gli oggetti souo composti ; la qual moltitudine vince 1 atto
primo della nostra forza intellettiva. Che la moltitudine apporti confusione
nella percezione, 1' abbiamo veduto nel Voi. II , face. 385 e segg.
(a) Questa confusione si vede nel supporre che fa 1' autore che noi per
cepiamo noi stessi, il mondo , e qualche altra cosa ( 1' infinito) fuori del
mondo contemporaneamente. AH' incontro noi i.° percepiamo l'idea del
l' essere universale per una prima, necessaria e spontanea intuizione: qui
e ['infinito escludente ogni negazione; e questo primo alto forma la po
tenza intellettiva; a.° percepiamo il mondo esteriore con una sintesi pri
mitiva ( percezione intellettuale); e qui sono limiti, ma non perù negazione ;
3.° togliamo da questo il giudizio sulla sussistenza delle cose, c ci re
sta l'apprensione pura (idee) : qui compariscono i limili, e le negazioni.
Fin qui va la cognizione diretta. In questo stato di noi slessi come esseri
intellettivi, abbiamo il sentimento che si esprime col pronome personale
Io, ma non abbiamo la percezione intellettiva. Dopo la cognizione diretta,
viene la prima riflessione su di ciò che è in noi ; la qual forma la scienza
popolare ; e eoa questa riflessione noi percepiamo i ° noi stessi , soggetto
intelligente, a." una causa di tulle le cose (Dio ), 3." altri grandi' rap
porti delle cose offerte dalla cognizione diretta. L' autore all' utcoulro che
noi citiamo di tutte queste cose pare che faccia una cognizione sola, che
chiama spontanea, mettendole di contro la ri/lessa. Ria noi vogliamo far
osservare che quella cognizione spontanea ( si chiami pur ella cosi ) par-
tesi in due , l'una duella e l'altra popolare , che nou si possono confon
der fra loro.
fatti noi percepiamo le cose una alla volta (i); o sene
percepiamo più insieme, come allora che, essendo edu
cato l' occhio nostro a farci conoscere gli oggetti lon
tani, noi percepiamo con esso ad un tempo tutta la
scena delle cose che ci stanno dinanzi a conve nevoi di
stanza- tuttavia ove noi ci moviamo, muliam scena, o
veggiamo e percepiamo sempre cose nuove. Ancora, la
percezione attuale per quanto possa esser complessa e
moltiplice , non può estendersi a percepir quelle cose
che attualmente non sono presenti, ma trapassarono
0 hanno a venire: sicché le percezioni si succedono, e
1' una dando luogo all' altra continuamente perisce. Ma
se perisce la percezione attuale , resta la ricordanza di
lei , e tutte le cose percepite in diversissimi tempi nel
deposito della memoria si conservano. Or sopravviene
la riflessione. Lo sguardo di questa si ripiega su tutto
il tesoro di notizie nella memoria custodito , e sulla
stessa coscienza: ella ha schierati quindi dinanzi a tè
1 tempi passati, siccome i presenti: e tutté le cose ab
braccia e comprende. A questo sguardo universale suc
cedono delle altre riflessioni e viste parziali ; ed allori
comincia propriamente quell' analisi, colla quale la
scienza popolare passa insensibilmente a rendersi filosofica.
Da questi caratteri di particolarità per la cognizione
diretta, e di generalità rispettiva per la cognizione po
polare , consegue che questa sia più atta a produrre nel-
1" uomo un sentimento sublime, che la cognizione diretta.
Un sentimento sublime è sempre prodotto da una viva
rappresentazione di cose che vede 1' intelletto , o vaste
per la loro moltitudine, o preclare per la loro eccel
lente natura. E viva è tanto più la rappresentazione di
solito, quant'ella è più nuova, e quanto l'uomo è più
fornito di fantasia potente e vergine ancora : le quali cose
tutte si adunavano nella prima infanzia della umanità.
Indi que1 dignitosi caratteri de' poeti antichi, quella loro
scienza tanto popolare, quel parlare ove diletta l'universa-
lità,la grandezzata sicurezza, la semplicità, l'entusiasmo^)
(i) Qui io suppongo che la prima percezione mediante la prima a"*'"
naturale di cui abbiamo altra volta toccato, sia già resa in qualche modo
distinta: cioè che gli esseri realmente distinti , sieno stati pure distinti Dell'
nostra percezione. » ■■■
(a) Vedi le osservazioni sopra lo stato delle prime arti del bello vA
Saggio suW Idillio e sulla nuova Letteratura italiana ( Opusc. Fil- Voi. V
tace. 3o4c segg.), o utili» Piefuzionc al Volume II degli Opuscoli Filose^1
i83
Conciossiachè la prima riflessione dell'uomo i.' è viva,
appunto perchè la fantasia è vivace e non ancora spos
sata nella gioventù, come degli uomini individuali, così
delle nazioni e del genere umano; a.° è nuova, poiché
è la prima, e scuopre i rapporti delle cose , ed inventa,
indi eli' ha quasi il carattere di creatrice; 3.* è sublime,
perchè corre necessariamente ai rapporti delle cose i
più grandi e i più necessarj , e divina (i) degli esseri
invisibili, una causa, un Dioj 4-° & vasta, perchè non
ha imparato ancora a fermarsi alle cose particolari , ed
alle lor parti minute, non essendovi nulla che ad esse
possa determinare l'attenzione, ma si riversa e si spande
avidamente sul tutto, che contemplando ancor trova
poco , e vi aggiunge l' infinito.
L'autore di che parliamo attribuisce l'entusiasmo non
alla cognizione riflessa, ma alla spontanea: non avendo
egli osservato che l' entusiasmo non può nascere dalla
cognizione diretta, ma solo dalla prima e dall' ultima
riflessione. Dalla prima per le ragioni dette ; dall'ultima
riflessione , cioè dalla scienza filosofica già completa ,
perchè dopo aver analizzato tutto , spezzato, minuzzato
tutto, e 1' uomo esser caduto con ciò necessariamente
in piccole e fredde considerazioni , egli ricompone tutto
a mano a mano, e si trova finalmente sul fine del suo
lungo e faticoso cammino colà dov' egli era partito,
nel grande, nel sublime, nel tutto, ma in un tutto
accresciuto d' infinita distinzione e luce (a).
(i) La mente non cessa di fare quesla operazione anche fornita essendo
della rivelazione ; solamente che questo slancio naturale della mente con
ferma , e rende più facile e intima la credenza di ciò che la rivelazione ci
scuopre.
(?) La storia degli uomini inspirati ci fa conoscere che di solito l' inspira
zione è accompagnata da un sacro entusiasmo. Questo nasce per 1' azione
straordinaria che Iddio esercita in tali anime comunicando loro i suoi se
creti, e per gli grandi misteri che loro discuopre. Per altro questo sacro
entusiasmo è un effetto che accompagna il più delle volte V inspirazione o
rivelazione divina, non è la stessa inspirazione o rivelazione. In fatti sembra
che talora Iddio rivelasse a' santi uomini delle cose senza che eccitasse nelle
loro anime quell' agitazione sublime che si chiama entusiasmo, come
quando parlò loro in placidi sonni, non rilevando nuovi misteri e princi
pali , ma dando loro de' comandi ordinar), come la fuga in Egitto. Ma il
volgo confuse talora l'effetto dell'inspirazione, colla stessa inspirazione e ri
velazione ; non avvertendo che una specie d' entusiasmo o di grande e
sublime agitazione intellettuale può nascere ancora da cagioni naturali ,
come dalle prime riflessioni degli uomini, colle quali discuoprono grandi
■
i84
ARTICOLO Vni.
RIASSUNTO DELLE COSE DETTE SCILI SEDE DELL' ERBOSE.
(i) Ammettendo io questo vero , osservo però che in tal caso il senso
comune non si può chiamare criterio della certezza, iti quel significato nel
qual viene presa questa espressione nella questione filosofica •< Qual sia il
criterio della certezza ». In questa dimanda il criterio della certezza che
si cerca è un principio supremo ed unico , il quale serva di regola per co
noscere ss una proposizione qualunque è vera o falsa. Per fare intendere
la differenza fra il criterio di certezza che cerca il filosofo, e un criterio di
certezza quale sarebbe il deposito delle verità conservate nel senso comune,
supponiamo che v' avesse un libro inspirato , il quale contenesse in sé re
gistrate le soluzioni, di tutte le questioni che far si possono in una data
scienza. Questo libro sarebb' egli il criterio cercato della scienza? Nò; ma
sarebbe la scienza stessa bella e formata. Supponiamo eh' io cerchi una
regola per misurare I' altezza di una casa: mi si dà un passetto : questo io
posso applicarlo alla casa , e rilevarne 1' altezza : egli è dunque la regola
colla quale io trovo 1' altezza. All' incontro mi si dà un (ilo allo quanto la
casa : questo filo non è la regola , è 1' altezza stessa già datami della casa.
Similmente le dottrine del senso comune non possono esser inni quella
regola o criterio supremo che cercano i metafisici , sebbene possano essere
dottrine vere ed anco infallibili, le quali possono perciò servire di ripruova
alle filosofiche opinioni.
i88
nuova scienza ; non si passa ancora alla cognizioni fi
losofica ; sebbene questo giudizio esiga forse qualche
nuova riflessione, tuttavia non è riflessione di tal na
tura cbe produca nuova scienza o scienza in nuova for
ma; è una ricognizione di ciò che si è appreso, nella
stessa forma lasciandolo in cui si è appreso. Qui co
mincia il campo dell'errore: questo è quell'adito dal
quale entra l'errore nella cognizione popolare: l'errore
comincia sempre coli' uso che fa 1' uomo della propria
volontà.
CAPITOLO Ut
ARTICOLO I.
L'ERBOSI ■ VOLONTARIO.
ARTICOLO II.
ECCELLENTE DOTTRINA DI MALEBRANCHE SOPRA LA CADSA DELL'ERRORE.
sono che de' primi giudizj , dai quali si estraggono poi le idee nel modo
iudicato. In quanto ai raiiocinj , questi non si comprendono nella scino
diretta , ma cominciano ad apparire nella scienza di prima riflessione, che
noi abbiamo chiamata popolare. I giudizj e i raziocinj hanno due stati. I
primi che compariscono sono involontarj e istintivi : allora sono nello stalo
di percezioni intellettive, poiché l'intelletto apprende con essi nuove cose,
e sembra quasi passivo in quanto è portato alla sua azione necessariameote.
I giudizj poi e raziocinj secondi, o sia di seconda riflessione , hanDo m
altro stato, cioè non sono percezioni, ma ricognizione o assenso volontari»
delle percezioni. In questo acquistano nome proprio ed esclusivo di giu&fl
e di raziocinj , ed hanno assai maggior luce e chiarezza. Quindi gli uomini
assai difficilmente riconoscono c confessano di giudicare e di ragionare con
quo' primi giudizj e raziocini che fanno.
(1) Giudizj temerarj sono comunemente chiamati quelli che si fanno w
danno del prossimo. Ogni giudizio temerario, preso in tutto il valore dell'
parola, ancorché non si riferisca al prossimo, è una iuordiuazione: >">
talora sono di quelle iuordinazioni che provengono dalla corruzione origi
nale quasi dirci in uol senza di noi.
a d'intelletto diedi la nozione d'una facoltà passiva,
« cioè della potenza di ricever le idee » (i). Questa pas
sività dell'intelletto non è che quella necessità che ha
l'intelletto di percepire quando si tratta della scienza
diretta , o della prima parte della scienza popolare.
L' intelletto poi che riflette e riconosce i giudizj fatti ,
è l'attività volontaria di cui parla Malebranche. Diche
si vede che la volontà e l'intelletto formano insieme,
si può dire, una sola potenza: l'anima intelligente è
volontà in quanto si considera nella sua forza attiva
quando si muove ad un fine conosciuto , od elegge fra
più fini. '*
Malebranche osserva che se fosse la stessa natura del
nostro intelletto quella che ci trae all' errore , e non la
volontà che dà il consenso a ciò che l'intelletto non
porge, sarebbe Iddio stesso quegli che ci ingannerebbe,
avendoci dato una natura ingannatrice (2). Perciò ac
conciamente dice s. Tommaso , che « secondo la virtù
intellettuale non può dirsi mai che l'intelletto sia falso,
ma sempre vero » (3).
Nasce tuttavia una obbiezione , che si dee risolvere ,
contro la esposta dottrina sulla causa dell' errore. Vi
sono de' veri sommamente evidenti , come quasi tutti i
teoremi di geometria. Ora a questi 1' assenso dell' in
telletto può egli esser volontario? Sembra al tutto di
no. L' assenso dunque dell' intelletto, o sia il giudizio,
non dipende dalla volontà , ma è 'determinato dalla
stessa verità.
(1) Nel parlar comune sono sinonimi queste due maniere , libera vo-
lontà , e libero arbitrio. Ora quale è la forza propria della parola arbitrio!
Arbitrio ( arbiirium in latino , da cui il libero arbitrio italiano ) vuol dire
giudizio. È dunque il medesimo , secondo il comune sentimento degli uo
mini , una volontà Ubera, e un giudizio libero. Questo dimostra che se
condo la scienza popolare il giudizio dell' intelletto è libero talora, e che
la natura della volontà è questa e non altra, di essere un giudizio libero,
cioè « la volontà è una potenza di dare o di sostenere 1' assenso ad una
proposiziouc ». Neil' uso stesso adunque del linguaggio viene otlimamenle
espresso quell' intimo nesso che passa fra l'intelletto e la volontà. L'in
telletto è mosso in tre modi: i.° dall'istinto dell' Io , e in questo moilo è
mosso alle percezioni cd'idee prime; a." dalla volontà non libera, cioè
da un (lue a lui cognito ed esperimentato, che determina la sua azione,'
in questo modo è mosso in cielo per la cognizione ed esperienza del
sommo bene; 3.° o dalla volontà libera , quando il bene conosciuto ci
esperimentato non essendo pieno , gli rimane la facoltà di proporne a se
stesso uno maggiore, e quindi impedire di essere da quel primo determi
nato. L'intelletto che si muove per un (ine si dice volontà, considerilo
nella sua forza movente; l'intelletto libero (arbitrio) si dice libertà con
siderato pure in quella forza per la quale da sè stesso si determina.
(a) Per altro la volontà è più libera che non si crede anche nel dare
un pieno assenso alle proposizioni geometriche le più evidenti. Cerio I in
telletto colla prima riflessione le percepisce costretto; ma resta Tenere»
di un assenso speciale che può disconoscere quelle percezioni , negarle ,
farle argomento di disputa e di contesa. Leibnizio diceva, che « se le w-
rilà geometriche interessar potessero le passioni degli uomini come le ve
rità morali, egli credeva che sarebbero rivocate in dubbio, e falle soggetto
di contesa altrettanto quanto queste ». Ne* tempi moderni il genio dal male
si accorse che tutta la verità era legata insieme, e che concedendone un'
sola parte, questa avrebbe tirate dietro a sè irrepugnabilmente tutte *
altre parti. Non si nego adunque la verità tutta ? non si videro de soo*
impugnare con de' libri le geometriche verità? non si attaccarono qw*
ne' loro fondamenti , togliendo a provare che tutte s' appoggiavano »|ir'1
vero, la volontà, che ne' detti casi sembra non esser li
bera a giudicare in un modo o nell' altro, tuttavia ri-
man libera a dare o a non dare il giudizio, rivolgendo
altrove l'attenzion della mente. Ma perchè questo argo
mento è assai rilevante, veggiamo onde succeda che
alcune proposizioni si presentino con tale evidenza alla
mente nostra, che non la lascino libera a giudicare in
un modo o nell' altro , ma la determinino ad un modo
solo di giudizio.
Il Malebranche dà di ciò questa ragione :
« Si osservi, che all' intelletto nostro non riescono
« evidentissime le cose se non allora , che egli le ha
« esaminate da tutte parti, e secondo tutte le singole
« loro relazioni dalle quali può indurne il giudizio. Ora
« qui avviene, che essendo questa ferma legge della vo-
« lontà , che ella non appetisca cosa alcuna senz'aver
« di lei cognizione $ essa non possa, venuta a questo
« punto , spingere V intelletto più innanzi , cioè esiger
« da lui circa la cosa proposta nulla di nuovo , poiché
« perlustrate già tutte le singole parli della cosa, non
« riman più nulla in essa a conoscere: sicché la ve»
« lontà non può oggimai impellere e sollecitare più ol-
« tre l'intelletto, ma dee finalmente in quelle cose che
« dall' intelletto le furon proposte riposarsi. E questo
« pieno assenso è quello che con proprietà si dice giu-
« dizio, e raziocinio. Laonde non essendo il giudizio
« circa le cose evidentissime libero in noi della libertà
« d'indifferenza, egli ci pare essere altresì involonta-
« rio » , sebbene pure sia anch' egli un atto della volontà.
de' principi gratuiti e tutt' altro che provati ? e quando non si seppe più
come spiegare la forza dell' evidenza che que' principi in noi esercitavano,
non si corse a dire che v'avevano due evidenze, l'ima vera e l'altra il
lusoria ?! Non si tentò fare che questa illusione assorbisse ogni vera evi
denza, e non si dichiarò l'uomo una illusione a sè slesso? E il criticismo
non conchiuse, che anzi tale illusione universale era necessaria, costitutiva
della natura delle cose , a cui il credere di rifuggire era una parte della
stessa illusione? Ma finalmente qual fu il vanto degli scettici di tutti i
tempi , da quelli che sono descritti nelle Scritture , fino a quelli de' giorni
nostri , che rimutano il nome di scettici in quello d' indiuerenti, te non
quello di ritenere o negar 1' assenso ad ogni vero anche evidente , e di
non voler acquietarsi a ragione di sorte , disprezzare , godere ! et depre-
hendi nihil esse meliti! , quam laetari hominem in opere suo, et haiic esse
partem illius?
.Rosmiri , Orìg. delle Idee, Voi. 111. u5
!s4
« Ma fino a tanto che nelle cose , le quali si sotto*
« mettono da noi ad esame, ritrovasi qualche poco di
u oscurità , o fino a tanto che rimane qualche cosa a
« desiderare circa l' agitata questione , siccome av-
u viene bene spesso nelle cose difficili e quasi direbbesi
« moltiformi ; si può sempre tenere indietro l'assenso,
« e la volontà può comandare all' intelletto di rimettere
« sotto esame la cosa , di che avviene che noi crediamo
« più facilmente volontarj i giudizj che su tali cose noi
« portiamo » (i).
Ma questo è altresì da riflettersi , che dalla volontà
dipende pur 1' applicazione dell'intelletto ad esaminare
diligentemente le cose : e che ove alla volontà non piac
cia di acconsentire alle cose evidenti, ella rimuove l'in
telletto dal considerarle. E sebbene l'intelletto già fino
dalla prima vista le abbia quasi direi intuitivamente
percepite ; tuttavia riman sempre alla volontà l'effugio
di considerarle siccome vere apparentemente: che è della
sua efficacia il supporre e credere in universale che
qualche ragione occulta possa rinvenirsi , la quale dis-
cuopra l'inganno di quella evidenza. Perciocché in que
sti casi la volontà a cui il vero non garba sa essere
umile, e colla professione della impotenza e fallacia
dell' uomo sottrarsi alla efficacia di qualunque evidenza.
Finalmente supponendo che la volontà avesse coman
dato l'esame all'intelletto, e questo l'avesse eseguito
pienamente; ancora io mi credo che, ove manchi l'espe
rienza del sentimento, 1' ostinazione della volontà possi
essere così efficace , da volerlo pure disconoscere, e ne
gare continuamente a sè stessa.
ARTICOLO III.
CAUSE OCCASIONILI DEGLI ERRORI.
Ma perchè veggiamo meglio onde avvenga che più
difficilmente noi neghiamo 1' assenso alle verità geome
triche , che alle verità morali, facciamoci a ricercare le
cause occasionali dell' errore.
« L'errore è una riflessione colla quale l'intelletto,
ripiegandosi sopra ciò che ha percepito , nega volonta
ri) L. I, c. IL
195
riamente al medesimo 1' assenso o sia il riconoscimento,
ed afferma interiormente * di aver percepito altro da
quello che ha realmente -percepito »f
Essendo dunque l'errore un atto dell'intelletto vo
lontario, le cause occasionali di lui riguardar debbono
parte l'intelletto, parte la volontà.
La parte che ha l'intelletto nell'errore sta nell'in-
fingere una cosa non percepita, e giudicarla quella che
è percepita. Quindi in ogni errore vi ha sempre una
finzione.
La parte che vi ha la volontà è nel muovere V in
telletto a far quella finzione e a pronunziare quel giu
dizio falso.
L' intelletto e la volontà sebbene dipendano in parte
da noi , ed è in questa parte che formano il libero ar
bitrio , o la libera volontà; tuttavia dipendono in parte
ancora da leggi loro proprie, alle quali debbono acco
modarsi, e in questa parte quelle potenze non sono li
bere. Le leggi alle quali sono sottomesse per loro natura
danno origine alle cause occasionali dell' errore , ed ecco
in che modo.
L' intelletto è soggetto alla legge seguente , « che ri
flettendo sulle proprie percezioni, sia a lui tanto più fa
cile il distinguerle ( e ciò che si dice di esse tutte in
tere, si intenda sempre detto delle loro parti ) e più
difficile il confonderle insieme, quanto più sono dissi
mili fra loro, e da altre percezioni immaginabili: e che
all'opposto sia più facile all'intelletto il prendere una
di esse per un'altra vera o immaginaria , quanto questa
è più simile a quella ».
Da questa legge a cui è soggetto l'intelletto si trae,
che la causa occasionale deli' errore da parte dell' in
telletto è la similitudine che hanno le percezioni ( vere
0 immaginate) con altre percezioni.
Noi abbiamo mostrato che la percezione o idea prima
è ciò che si chiama la verità della cosa percepita. Quindi
s' intende perchè s. Agostino ed altri padri dicano, che
1' intelletto cade in errore perchè prende ciò che è si
mile al vero pel vero stesso.
La legge a cui è soggetta la volontà è questa: « la
volontà riceve un'inclinazione verso una cosa anziché
verso un'altra da più cause, le quali fumo si che una
cosa le si presenti come bene maggiore e più vivamente
i96
d' un' altra; e queste cause sono, a ragion d'esempio,
i."' il bene conosciuto nell'oggetto, a.* la vivezza e
perfezione della cognizione intellettiva, 3.* la sperieuza
sensibile di esso oggetto, 4-° l'istinto, 5." l' immagina
zione , 6" le passioni, 7.0 e le abitudini ».
Ora sebbene questa inclinazione della volontà non valga
a produrre in essa una vera deliberazione, perch' ella
è libera (ove un bene infinito operando in lei non la
determini ) ; tuttavia da quella inclinazione nasce, che
« sia tanto più difficile alla volontà muovere l'intelletto
a riconoscere e dare il pieno assenso ad un vero, quanto
questo vero è più contrario all' inclinazione già ricevuta
in sè per 1' azione delle cause enumerate , e quanto
questa inclinazione contratta è più forte » ; e per lo
contrario, che sia più facile il dare prontamente un pieno
assenso a ciò che è simile al vero, scambiandolo col
vero stesso, quanto è più forte l'inclinazione della vo
lontà e quell'assenso più conforme alla medesima.
La causa occasionale adunque dalla parte della vo
lontà è V inclinazione della volontà già contratta a dare
prontamente l'assenso al falso, trovando questo falso
alla sua inclinazione favorevole.
Due adunque sono le principali cause occasionali del
l' errore, 1." la similitudine che ha il falso col vero,
i.* l' inclinazione della volontà a dare 1' assenso a ciò
che è simile al vero, come conforme all'inclinazione me
desima. Illustriamo con qualche esempio 1' una e l'altra
cagione.
Dicemmo che due percezioni l'una simile all'altra
rendono facile 1' errore dalla parte dell'intelletto: que
ste percezioni possono appartenere ad una facoltà qua
lunque, al senso, all'immaginazione, all' intelletto. In
questo significato acconciamente si dice, che quante sono
le facoltà , altrettanti sono i fonti degli errori.
Veggiamo la similitudine ingannatrice del vero nelle
percezioni sensibili. Due colori, due sapori, due odori,
due suoni, delle fine stoffe che sono bensì diverse,
ma hanno una grandissima similitudine fra loro, io fa
cilmente le confondo insieme o le scambio. K ciò non
già perchè nel mio senso io non riceva quella diffe
renza (1); conciossiachè il senso è finissimo, e percepisce
due oggetti ; in questo caso 1' errore consisterebbe nell' atto dell' intelletto ,
che in vece di fermarsi a considerare anche le defezioni del senso, nega
incondizionatamente ogni differenza negli oggetti esterni , il ebe egli non
ha diritto di fife, e facendo ciò opera temerariamente.
(t) La similitudine offerta dall' immaginazione corporea è simile a quella
de' sensi : conciossiachè non sia l' immaginazione cue un senso corporeo
interiore. Quindi ove alcuno facendo un'imitazione di qualche pezzo di
Virgilio o di altro eccellente autore, giudica di averlo imitato perfetta
mente, egli prenderà errore, ingannandolo l'amor proprio per alcune si«
migliarne del suo lavoro cou quello dell' iusìgue poeta proso a modello.
i98
è anche reale. L' errore perciò consiste nel giudicate
che la percezione del moto del sole sia di quelle per
cezioni a cui si dee aggiungere il moto reale : questa
confusione di due percezioni simili forma l'errore.
Questa similitudine ingannatrice del vero è prodotta
dall' intelletto , come quello che associa il moto reale
col moto apparente, e fa di queste due cose una per
cezione sola complessa, e prende la percezione del moto
del sole apparente che è semplice, per quella percezione
complessa, cioè per tal percezione alla quale, oltre l'ap
parenza del moto , sta aggiunto il moto reale altresì
pensato dall'intelletto.
Ogni qualvolta 1' intelletto segue il principio di
analogia, e sbaglia per una eccezione accidentale di
questo principio , l'errore proviene nella medesima guisa.
In generale 1' errore si può ridurre a questa forinola:
« una conseguenza che non viene dalle premesse ». Que
sta conseguenza è finta dall' intelletto, e per una simi
litudine o relazione che ha colle premesse è dichiarata
in quelle contenuta.
Venendo alla cagione occasionale dell' errore da parte
della volontà, s' abbia in prima ben chiara la nozione
della volontà. Talora per volontà s'intende « quella
forza interna che determina l'uomo all'operazione».
Ma questa definizione è troppo generale, e comprende
anche l'istinto. Io sostengo che l'uomo ha due forze
interiori che lo determinano alle sue operazioni; i.' l'i
stinto, e questo gli è comune cogli esseri puramente
sensitivi, 3.* la volontà, e questa è propria degli esseri
intelligenti. Dell' istinto non trovo definizione migliore
di quella che diede già l'Araldi, che così scrisse: Fi-
« glie dell' istinto sono quelle azioni , a cui l' animo
« concorre senza l'intervento della cognizione di niun
« vero motivo, ma cedendo soltanto all'impulso e al-
« l'invito di qualche sensazione » (1). Della volontà al
irirao tomo delle Memorie della società medica di Bologna ; e la sua difesa
onsisle in una eccellente definizione dell'istinto , e in alcuni fatti. E pcr-
hè i pregiudizi contro l'esistenza dell'istinto si continuano ancora presso
li alcuni , stimo bene di recare alcuni esempj , ne' quali apparisca V ope-
azionc dell' istinto anche nell'uomo, togliendoli dal citato medico e filosofo
nodanese. E prima si osservi che, tenendo la definizione data [dell' istinto,
gli è evidente che di tutte quelle prime operazioni che fa 1' uomo innanzi
uso delia riflessione, innanzi d' avere ricevuto la cognizione de' beni che
nelle azioni gli apportano, non si può assegnare altra cagione se non
de, che non operi dietro una cognizione del fine, ma senza cognizione del
ledesimo , e questa è appunto l'istinto. Ora dopo ciò ecco esempj di ope-
izioni istintive: « Tali sono i movimenti pe' quali il feto, trovandosi per
avventura nell'utero in una posizion disagiata, si contorce, e cerca can
giandola di cessarne V incomodo. All' istinto pure è visibilmente dovuta
P azione assai complicala per cui il bambino , poco dopo la nascita , ap
plicato al seno materno ne sugge il suo primo alimento. Nè serve il dire
con Darwin , preceduto in ciò dall' Hallero, che il bambino esercita in
quell' incontro una funzione appresa da lui quando nell' utero succhiava
e inghiottiva il liquore dell' amnios. Poiché mettendo anche da parte le
contese forse non per anche spente sulla nutrizione del feto, nel dir
ciò non si fa che recare 1' esempio di un'altra funzione dovuta all'istin
to., vale a dire , secondo il concetto che ne ha proposto, legata per isti-
tuzion di natura a certe sensazioni che determinano il feto ad esercitarla»,
n' altra operazione dell'istinto è il respiro, ed ecco come descrive il co-
■ nciamenlo del respiro l'insigne nostro fisiologo: « Il feto nell'atto di
uscire alla luce e di esser ricevuto nell' aria , comincia volontariamente
( istintivamente volea dire ) a respirare , deponendo a un tempo il ca
rattere e il nome -di feto, e assumendo quel di bambino. Esso si accorge
delle nuove circostanze in cui trovasi, e obbedisce alle voci dell'istinto
che gli parla col linguaggio di certe sensazioni, fra le quali merita di
essere sopra ogni altra avvertita quella di una cotale interna angustia
eh' ei prova in mezzo al petto, e che probabilmente in lui non sorge gii
in quel punto e nell'atto di nascere, essendo anzi assai naturale, che
avess' egli qualche tempo prima entro 1' utero comincialo a sentirne lo
stimolo. Mi guidano in fatti a ciò sospettare fortemente i manifesti cam
biamenti, che prima assai della nascita sopravvengono alle strade parti
colari aperte nel feto al sangue, e a que' sfogatoj , pe' quali questo
fluido giunto al cuore declina in gran parte il polmone rispetto a quel-
I' epoca , e passa senz' attraversarlo dal sistema delle vene cave nell' ar
terioso dell' aorta. Di una guisa niente equivoca scorgonsi questi cambia
menti nel foro ovale , che si restringe a misura che il parto si accosta.
Donde si scorge che quelle strade tendono a restringersi, e che la na
tura ne ha di lunga mano preordinato il totale chiudimento. A questo
restringimento delle mentovate strade non può, a gravidanza massime
noltrata verso il suo termine, non tener dietro qualche inciampo nel
circolo, e con esso qualche senso d'interna angustia, che comincia a
■endere il feto insofferente del suo carcere; donde per 1' una parte dc-
ivi eh' esso co' suoi movimenti piò vivi e frequenti cospiri con altre ca
gioni a risvegliare nell' utero le contrazioni e i travagli forieri del parlo ;
: per 1' altra eh' ei nel giungere alla luce, poiché, come é detto pur
ira, nuove sensazioni lo avvisano della presenza dell'aria, non tardi a
operazioni mediante la cognizione di un fine ». Or»
altrove ho osservato , che con questa legge sono ordi
nate le potenze degli esseri, che ad una potenza pas
siva si congiunga una potenza corrispondente attiva. AI
senso dunque, potenza passiva , risponde la potenza at
tiva dell' istinto; all' intelletto, potenza passiva, risponde
la potenza attiva della volontà. La volontà dunque non
si muove se non colla condizione di on bene conosciuto
Quindi innanzi che 1' uomo abbia conosciuto Y effetto
di una sua azione, se la fa , egli è determinato a ciò
dall' istinto. Ma se l' uomo non conosce che un solo
bene , egli si determina verso lui volontariamente ben
sì, perchè dietro cognizione, ma con una volontà it-
terminata necessariamente (i). Ma se 1' uomo conosce
ARTICOLO IV.
FtACUE ALLE VEStTA* FORNITE DI CERTA EVIDENZA a COME LE GEOMETR1CBK ,
SEMBRA CHS NOI SIAMO NECESSITATI DI DARE l' ASSENSO.
fine del calcolo , ella noi fece, ma lasciò questa ire a sua posta»;1'
che è una inordinazione. Se la determinazione della mano a scrivere il »
è volontaria, la cooperazione della volontà è anche positiva. Nel caso
però della cooperazioue negativa della volontà l' errore si può cbia-
mare puramente materiale. Ma quando comincierebbe egli ad esser for
male? Nel fine del calcolo: se il giudizio finale del risullamenlo del calcolo
si avesse per assoluto e per infallibile. Perciò il matematico non «de a
un vero errore formale di cui noi parliamo, se al fine del calcolo dice:
m Questo è il risultamento, se pure la mia mano , la mia lingua ecc. «■
ha sbagliato in operare ». Questa prudente riserva, che bene spesso '
sottintesa, toglie l'errore formale e volontario , e lascia solo uno si»i"°
che non è un vero errore.
20D
probabilità che restano spesso contro agli umani calcoli,
se perviene a certo grado, mette 1' uomo, non che al
tro, ma in uno stato di pazzia, e di contraddizione a,
tutti gli altri uomini , che lui rigettano, come fastidio
sissimo in sommo grado, dal loro consorzio. Ora diremo
noi dunque, che la volontà, perchè in tutti questi casi
si acquieta a pieno senza darsi fastidio nò pensier d'al
tro, dando l'assentimento a molte cose che non sono
più che grandemente probabili, s'involga per questo in
continui errori, od agli errori si esponga? Ciò non si
dee punto dire; ma si dee considerare' un altro acci
dente, a cui va soggetto quell'assentimento pieno dato
dalla volontà a quelle cose che non sono più che pro
babili grandemente.
L' intelletto o la volontà ( che viene al medesimo ,
come abbiamo veduto ) può dare un assenso pieno in
qualche modo, e tuttavia più o meno provvisorio; e
questo carattere dell'assenso provvisorio è ciò che distin
gue in sì fatte cose l'assentimento dell'uomo savio,
dall'assentimento dell'uomo inconsiderato e temerario.
Dico un assenso pieno in qualche modo, ed intendo
per questo assenso pieno una deliberazione che si ferma
e termina nella conclusione del giudizio portato , senza
protrarre l' inquisizione più oltre , senza rivolgere il
pensiero sollecitamente sui casi possibili , che non fini-
scon mai più , e quindi senza ritener nell' animo alcun
timor dell'opposto, alcuna inquieta sollecitudine, quale
rimane nelle menti e nell' animo di quelli ne' quali la
causa non è ancora chiusa e finita, ma che la tengono
aperta tuttavia , e ne protraggono indefinitamente quel
termine che non può venir mai. Questi titubano per
petuamente , e si tengono necessariamente nello stato
di dubbio e di ansietà.
Tuttavia questo assenso pieno in qualche modo, poi
ché la mente ha già abbandonata 1 inquisizione ulte
riore e s'è acquietata in un partito , può essere sem
plicemente provvisorio ; e questo, per mio credere, è
ciò che distingue l'assenso de' prudenti nelle cose pro
babili della vita, da quel degli sciocchi (i). Che voglio
dire io coli' espressione di un assenso provvisorio?
(i) Gli antichi avevano osservato, che ci ha due maniere di dare l'as
senso al falso. Ecco come definivano la prima : Qualiscumque exislimalio
ao6
Non altro se non questo ; che ove qualche ragione-
voi cagione si presenti, quell'uomo che ha dato l' as
senso e ha terminato con esso l' inquisizione della sua
mente , sia però presto a riassumerla e protrarla in
nanzi ancora fino che le circostanze dimostrano alla sua
prudenza essere ciò necessario. Non sentiamo noi con
quanta modestia e riserbatezza pronunzino gli uomini
savj anche sulle cose che sembrano le men dubbiose!
« La cosa sta così, secondo che a me ne pare ». — «Io
giudico in questo modo, ma mi posso ingannare».—
u Questa è la mia opinione , ma la sottopongo al giu
dizio delle persone più intelligenti » , ecc. E dove altri
entri a produrre una contraria sentenza , con quanta
cortesia non 1' ascoltano? con quanta istanza talora non
la sollecitano? quanto non si mostrano avidi di rice
vere de' lumi dagli altri , eziandio in quelle cose nelle
quali sono maestri ? £ la loro riserbatezza in pronun
ziare , la loro prontezza in udire , la loro attenta ri
flessione sulle cose udite, sperando essi di poter trarre
qualche profitto anche talora dagli idioti, pur in cose
nelle quali sonosi già formata una opinione ; dimostra
che il loro assenso , sebbene pieno in questo senso, che
conchiude la questione , e non la lascia aperta ed in
decisa nell'animo, è pur provvisorio, cioè essi hanno
chiusa quella causa ritenendo la disposizione di riaprirla
ove bisogni, e di ritrattarla quasi direi in appello; e
questa maniera di conchiudere , conservando sempre
1 animo disposto a un nuovo esame ove un giusto mo
tivo insorga a trarlo della sua quiete , è ciò che gli
assolve da ogni errore, perciocché 1' assenso con que
sta disposizione è nè più nè meno quello che esser de
ve, e la volontà non uscì in atti precipitosi e temerarj.
E ove si guardi la certezza dalla parte della per-
levis qua aliquis adfiaeret falso tamquam vero , Slf/E ASSENSO CRI-
DULITAT1S. L'altra la definivano Firma credulità*. Essi quindi avevano
riconosciuto , come noi , il bisogno di distinguere due assensi falsi nell'uo
mo , e la distinzione falla da loro coincide presso a poco colla nostra. Di
cevano quel primo assenso non esser sempre temerario , nè potersi impo
tare a colpa della volontà umana; poiché in certi casi era necessario, *
non era fermo, non era firma credulità! , ma era, come noi diciamo, "»
a*senso si, ma provvisorio ( Vedi s. Toram. S. I, xcw , iv )■ Gli A«»*|
mici conobbero anch' essi la necessità di un assenso provvisorio , na "
portaron tropp' olire.
suasione e dell' assenso , lo slato cT una mente che ha
chiuso nel detto modo, si può chiamare ragionevolmente
stato di certezza, poiché essa non tituha più fra i dub-
bj , né si sta sospesa , ma si è già posata in una con
clusione, e quindi la sua sentenza dicesi certa, cioè
determinata e finita , e non incerta cioè ancor vaga ed
ondeggiante.
Una gran parte però degli uomini hanno pur troppo
ricevuto in retaggio una frettolosa, deplorabile teme
rità: e quello stato di certezza provvisoria, quell'aureo
mezzo non sanno trovar giammai ; ma corrono a sen
tenze assolute e inappellabili ; massime la gioventù , a
cui 1' esperienza non dimostrò ancora quanto sia 1' u-
mana mente fallace e breve , e quanto sia facile in
correre negli errori, e nei danni infiniti degli errori,
con troppo presti e confidenti giudizj. Da questa pro-
sunzione e mala sicurezza di giudicare , che esclude la
docilità sapiente dell' animo , quella bella disposizione
a ritornare col pensiero sulla questione altre volte ri
soluta , quella modesta coscienza che ben conosce la
possibilità d'un abbaglio portato nel primo giudizio,
e che quindi è prontissima di udire ciò che altri uomini
osservano sul medesimo; da cotesta prosunzione, dico,
e mala sicurezza di giudicare, hanno origine tante
dissensioni , tante contese private e pubbliche , che di
vidono e straziano il genere umano, fatto pure per es
sere una sola famiglia ; e sovente due fratelli , perchè
di opinione diversa, non possono vivere insieme! Al-
P opposto la saviezza dell'uomo cauto è madre di ca
rità, e concilia insieme gli animi anche allorquando
non può far consentire le menti.
Quell'assentimento pertanto pieno da una parte, dall'al
tra provvisorio, che usano in assaissime cose e massime
ne' negozj della presente vita i prudenti, evita molti pe
ricoli; perciocché i* essendo l' assenso pieno, cioè finito
e conchiuso, non lascia quella sospensione e inquietu
dine nella mente che il dubbio di sua natura v' inge
nera , e produce in quella vece uno stato di certezza ,
rende possibili le azioni umane, fa luogo alla buona
franchezza , e alla risolutezza nell'imprese necessarissima;
a." ed essendo provvisorio nel modo detto, evita l'er
rore , dal quale non si potrebbe salvare un assoluto ed
immobile assentimento, e lascia aperta la porta a' prò
208
gressi dello spirito, e rende possibile, pacata e dolce
la comunicazione degli uomini fra loro, conciliando
1' utile unione di molti colla modestia e colla tolleranza
delle varie opinioni (i).
ARTICOLO VI.
L'UOMO NON rcò SEMPRE EVITARE l' ERRORE MATERIALE,
MA SÌ IL MALE DEL MEDESIMO.
ARTICOLO VII.
ENTRO QUÌI CONFINI FOSSA CADERE l' ERROR MATERIALE.
(i) Qui suppongo che l' esistenza di Dio si trovi per una prima rifles
sione. Ciò non esclude, che fin da principio sia stato noto anche per una
rivelazione. La filosofia trova bensì che quella prima riflessione non si
potea fare dagli uomini senza una lingua; ma questa lingua potea essere
comunicata, senza la manifestazione positiva dell' esistenza di Dio. La ne
cessità di questa manifestazione positiva si dee dedurre adunque da altri
principj , non da quelli dell' assoluto bisogno di lei per la prima riflessione
degli uomini.
Rosmini , Orig. delle Idee, T. III. 27
2IO
quelle due specie d1 errori differiscano insieme , e mas
sime quali sieno i confini enlro i quali 1' errori mate
riale possa cadere.
Osservo adunque, che noi giudichiamo sempre sopra
alcuni dati. Ora questi dati o sono tali sui quali non
ha luogo dubbio di errore , come sarebbero le perce
zioni intellettive, che formano la cognizione diretta ; ot-
vero può sopra di essi cadere il dubbio, come se quei
dati dipendano in qualche parte da facoltà cieche, come
V istinto. A ragione d" esempio, prendo la penna e fac
cio un calcolo algebraico; la mia mano scrive un 3 in
luogo di un 3: tutto il calcolo mi viene errato. Quel 3
scritto nel luogo del 2 fu effetto senza dubbio di un
istantaneo divagamento della mia attenzione, 0 almeno
di una sospensione di questa : sicché la mano, mossa
con un avviamento preso a caso secondo la direzione
del moto precedente e le leggi d'istinto e meccaniche
congiunte insieme, si lasciò andare a scrivere il 3 là
ove dovea scrivere il 2. Ora questa sospensione istan
tanea di attenzione poteva essere evitata? Noi so; ma
io so bensì che la vigilanza continua della attenzione
cagiona fatica , e che sforzandomi di prolungarla oltre
a certo tempo , io non posso al tutto riuscirne. Da
questo fatto della sperienza conchiudo, che la vigilanza
della attenzione è limitata, ch'io non sono assoluto si
gnore di lei, nè posso averla in mia balia a quel grado
e a tutto quel tempo che io voglio. D' altro lato quei
venir meno istantaneo della mia attenzione neli' atto
che la mia mano scrive il 3, è così passaggero e breve,
che la mia avvertenza noi coglie punto ; nè rimangono
traccie di quel fatto nella mia memoria; sicché l'ac
corgermene dopo ch'egli è passato mi è del tutto im
possibile. Quel fallo adunque commesso dalla mia mano
può esser dipenduto da una deficienza di mia atten
zione, non veniente da me, ma dalla limitazione della
mia forza volontaria, e da una deficienza non avvertila
da me, nè avvertibile per la stessa ragione, della li
mitazione a cui è soggetta la forza della mia volontà.
Di che avviene eh' io non abbia nessuna ragione di cre
dere che in quel passo fosse caduto un errore, più che
in qualunque altro. Si vorrà forse dire che io dovea ri
vedere quel passo, per la ragione della possibilità generale
che in esso vi fosse orore? No certamente; perciocché
ai i
sarebbe un dire ch'io dovessi rivedere eziandio tutti gli
altri passi; e dopo una revisione farne un'altra; e così
in infinito senza conchiuder mai: il che sarebbe un tro
varmi sempre da capo , che è il tristo ed itnpossibil
gioco degli scettici. Conchiudo da ciò, ch'io non ho
dunque modo da guardarmi da certi errori materiali :
ma quali sono adunque questi, secondo il discórso fino
a qui da noi fatto ?
* Neil' errore descritto osserviam questo, che due cause
concorsero alla sua produzione; i.* la sospensione di
attenzione intellettuale, 2." una forza istintiva o abi
tuale che movea la mano indipendentemente dall' atten
zione dell' intelletto. Ma queste due cause concorsero
in modo diverso; perciocché la prima, cioè la volontà
intellettiva , concorse negativamente , e perciò fu solo
occasione dell'errore; mentre il movimento della mano
fu la vera cagione efficiente del medesimo.
Di questa analisi si può conchiudere, che « la cagione
della vera cognizione è 1' intelletto,, e che all'opposto,
dell' error materiale la cagione non è 1' intelletto, ma
egli n' è solo l'occasione; conciossiachè la cagione di
questo errore è qualche potenza cieca, che seguita ad
operare anche quando 1 intelletto ha sospeso le sue
funzioni , e operando produce un dato erroneo su cui
l'intelletto poi giudica».
Ma la potenza cieca che produce il dato erroneo su
cui giudica l'intelletto, è la sola cagione dell'errar
materiale? Non già. Talora la volontà intellettiva riceve
certi dati non prodotti da una potenza cieca , nè da una
potenza propria, ma d'altrui, cioè dall'altrui auto
rità (i) , e su questa li ammette per veri , s«tiza esa
minarli , e questi talora portano in sè l' errore. Procedo
bene l'intelletto nell'ommetteré volontariamente l'ulte
riore esame di que' dati? Molte volle procede bene;
molte volte egli dee ragionevolmente far così^ e dar
loro un pieno assenso nel modi» detto , sebbene provvi
sorio : perciocché facendo il contrario, egli produrrebbe
a sè stesso e altrui un male assai più grave di quello
(i) Se possa darsi il caso che l'uomo cada in un crror formale neces
sariamente, cioè senza libertà di evitarlo, è questione dilicata e somma
mente difficile.
(a) Prov. I.
(3) Ivi, II.
ai4
che è appunto la scienza di quelle verità metafisiche e
morali delle quali noi parliamo. Dice ancora, che « U
sapienza ama quelli che amano lei , e che lei ritrovano
coloro che vigilano a lei di buon mattino » (1). Dai
quali luoghi , e da altri innumerevoli delle Scritture
vedesi manifesto , come la condizione che queste richie
dono perchè 1' uomo possa trovare la sapienza, « li
« quale, come in esse è descritta, medita e favellala
« verità » (3), si è quella di una volontà buona e per
fetta, vigile, e del vero accesa e sollecita ricercatrice.
E dalle Scritture è derivata la dottrina de' Padri.
Sant'Agostino non ha forse sentenza che sia a lui più
famigliare, e eh' egli esprima con più grazia di questa,
che se l'uomo riman privo della verità , è sua colpa,
che la verità risponde a tutti, che l'abbiamo dentro
di noi, ove la possiamo sempre consultare: « Da per
« tutto, die' egli, Verità, tu presiedi a quelli che ti con-
« sultano, e rispondi a tutti insieme anche consultai
« doti essi su cose diverse. Chiaramente tu rispondi.
« ma non tutti chiaramente intendono. Consultano tatti
u là onde bramano aver risposta, ma non sempre l'hanno
« quale essi vogliono. Quegli è un ottimo tuo ministro,
« che non bada ad udir più da te ciò eh' egli vuole,
« ma anzi a voler quello che da te ode » (3). Buona
regola adunque a venire in possesso delia verità è que
sta, di non accostarsi alla medesima con una menu
già pregiudicata, con una volontà già inclinala ad ave
da lei più tosto una che un'altra risposta ; perciocché al
lora noi non udiamo più ciò che ci parla, ma ciò che
noi vogliamo udire : consultisi la verità ricevendo ugual
mente ciò ch'ella dice, ed amando ciò che dice, chec
ché ella ci dica , anzi non amando ciò che si ama se
non perchè è detto da' lei.
Secondo sant' Agostino adunque ciascuno trova la
(1) Questa verità che 1' uomo ha in sé, non è che sempre dia le verità
particolari belle e trovate; ma ella mostra la via, e addita i mezzi sicuri a
trovarle: quindi quando noi sentiamo il bisogno di ricorrere all'assistenza
degli altri uomini per essere istruiti di qualche scienza o chiariti di qual
che vero , è la verità In noi esistente che ci manda ad essi. La verità in
teriore adunque tanto è lungi che chiuda l'uomo in sè medesimo, o che
escluda di ricorrere all' autorità e agli altri mezzi di conoscere il vero , che
anzi è dessa quella che mostra la necessità di questi mezzi , e a questi ci
scorge.
(2) De Trititi. XIV , xv.
3l6
* X' anime quando esse cercano il vero , lasciata e ne-
« gletta la verità » (i). E dice appresso, che « nessuno
u può essere rigettato dalla verità, se da qualche effigie
« della verità non è preso. Or tu cerca che cosa sia
« quello che trattiene nella voluttà corporea. Non tro-
u verai esser altro che la convenienza : poiché se le
« cose resistenti producon dolore, le convenienti ap-
« portan diletto ». Da questa osservazione poi, che
l'uomo conosce, dove pure gli piaccia, la convenienza,
s. Agostino prova che dunque egli può ben, se vuole,
conoscere anco la convenienza somma, cioè Dio, e che
questa verità dipende dalla sua buona o mala volontà.
« Riconosci dunque, così il santo, qual sia la conve-
« nienza somma : non volere andar fuori di te , torna
« in te stesso, mell' uomo interiore abita la. veei-
« ta1 » (a): alla quale egli dice che « si perviene cer
ti) C. XXXVI.
(2) Ecco indicata I' osservazione de'fatti, interiori come il fonte delle
verità più sublimi. Questo genere di osservazione fu abbandonato dalla filo
sofia moderna, che ritenne solo F osservazione esterna , e nei sensi esterni
esaurì tutto l'uomo: indi il suo materialismo, e la sua abbiezione. Se noi
vogliamo paragonare la filosofia di Cartesio con quella di Locke, noi tro
viamo che esse provengono da due fonti al tutto diversi , la prima di no»
osservazione interiore dell' uomo sopra sè stesso , la seconda da una osser
vazione puramente esteriore. Queste due filosofie dovevano avere il loro
periodo, e ¥ ebbero. Dopo di questi sistemi egli sembra naturale che il
mondo debba aspettare una filosofia, che, senza esclusione dell' uno dei d«
fonti, si derivi dall' osservazione interiore e dall' osservazione esteriore »
sociale insieme; quésta non sistematica e parziale, ma vera e compita
filosofìa sarebbe la sola che potrebbe soddisfare ai bisogni presenti ed «I-
l' aspettazione dell' umanità. Faccia Iddio , che noi abbiamo cooperato tu
nonnulla , siccome abbiamo desiderato e sperato, a cotanta impresa. P?r
altro è degno di osservazione siccome la mollezza crescente del secolo in
fluisse sommamente a tor gli uomini dalla via della osservazione inttrùrt
sulla quale li avea scorti Cartesio, fino a dimenticarsene affatto , fino a no-
scire ora questa una parola nuova , e per molte menti forse un raggio
di luce improvvisa, che le scuote ed eccita quasi da un allo sonno. Cartesio
avea parlato della osservazione interiore colla maggior chiarezza, ed atei»
notato che solamente con essa si potea formarsi delle idee giuste dell ani;
ma , e senza di essa non si potea formarsi di lei se non delle idee materni!
e confuse ( Ved. Voi. II, face. 446 e segg.). Ed odasi Cartesio medesimo
quanto altamente n' ammonisse gli uomini nel suo celebre discorso sol
Metodo : « Ma ciò che fa sì, che v' abbia di molli i quali si persuadono
« che e' è difficoltà a formarsi la nozione di Dio , e anco a conoscer ài
- sia la propria anima, è questo, eh' essi non levano mai il loro spirilo
« su dalle cose sensibili ( dall' osservazione esterna ), e ch'essisi*"10
f cotanto avvezzi a considerar tutto colla immaginazione , la quale e ua
1 modo parlicolar di pensare valevole Solo per le cose materiali, che lui10
« ciò che non è immaginabile, essi crcdonlo altresì inintelligibile. — Ea *
217
« candola non nello spazio de' luoghi, ma nell'affetto
« della mente, non locorum spatio, sed mentis affectu (i).
Questa stessa dottrina è insegnata dagli altri Padri
e Dottori: de' quali, per non essere infinito, addurrò il
solo testimonio dell'amabilissimo cardinale s. Bonaven
tura , il quale dice manifestamente, che l' uomo ha
dentro di sè onde trovare la verità , s' egli il voglia ,
e non si lasci illudere dalle sensibili cose che inclinano
la volontà sua a consentir nell'errore: « Manifesta
ta mente apparisce, così egli, che l'intelletto nostro è
« congiunto pur coli' eterna verità, giacché solo per
« una tale maestra può egli capire con certezza alcun
u vero. Puoi dunque vedere per te stesso la verità, che
« ti ammaestra , se pure le cupidigie e i fantasmi non
« t'impediscano, e non si mettano come nubi tra te e
« il raggio della verità » (3).
Finalmente che l'anima umana quando ha l'occhio
intenebrato da passioni non sia atta , riflettendo in sè
medesima , a trovare la verità , è un luogo comune di
tutta l'antichità: e le purgazioni dell' anima, che le più
antiche e celebri scuole della filosofia insegnavano ed
esigevano dai discepoli , perchè fossero atti a percepire
la dottrina che si dovea loro comunicare, non hanno altro
fondamento che il vero di cui parliamo. E di qui il
divino Maestro richiedeva uditori che avessero gli orec
chi del cuore aperti ad udire: qui habet aures udien-
di , audiat (3).
« me sembra che quelli che vogliono pur usure della loro immaginazione
« per conoscere quelle rase ( l'anima e Dio ), fanno appunto il medesimo
*c che se essi volessero servirsi degli occhi per udire i suoni o fiutar gli
« odori »,
(1) C. XXXIX. A lai segno sani' Agostino professò questa dottrina,
e conobbe che l'errore ne' principi della metafìsica e della morale non si
fa se non mediante uu assenso dipendente dalla volontà, che nelle Ri-
trattazioni (L. I, c. xm) scrisse molto sottilmente' così : « Elille qui pec
cai ignorans, voluntate utique Jacit , quod cum Jacienf^non tit, putal esse
faciendum.
(a) Ex quo manifeste apparet, quod conjunctus sii inlcu. ' nosler ipsi
aeternae verilati , dum niii per illam docentem nìhil verum pou "ertiludi-
nalitcr capere. VIVERE IOITVR PER TE POTES VERITAÌEM ,
quae te docci , si te concupiscentiae et phantasmata non impediant , et se
Uunauam nulies inler le et veritatis radium non interponant. Ilio. III.
(3) Mail. XI. In questo articolo il discorso è tulio sulla cognizione ri
flessa , « he consiste non, nella prima percezione delle cose ( coguizionc di-
Rosami, Orig. delle Idee, T. III. jS
2l8
ARTICOLO IX.
E5EMFIO DI ERRORE NELLA COONIZIONE FOFOLARE E COMCNE
MOSTRATO DA S. AGOSTINO NELI,' IDOLATRIA.
(1) Badisi come sant' Agostino insegni costantemente che l'anima h> bi
sogno della verità ( idea prima ) per conoscer sè stessa : non gli basta g"
il sentimento dell' Io; in una parola l'anima non è noia a sè per sé
(a) De KR XXXVii.
poiché la natura almeno è sommamente più grande ed
augusta delle opere umane, e in qualche modo più si
mile a Dio, giacché è 1' opera di Dio.
ARTICOLO X.
«EMPIO DI ERRORE NELLA COGNIZIONE FILOSOFICA ,
MOSTRATO DI S. AGOSTINO NELLA INCREDULITÀ'.
Dopo avere Agostino parlato dell' idolatria come di
errore della cognizion popolare, viene a parlare della
incredulità, che è buono esempio di errore nella cogni
zion filosofica. ,
E anche questo errore il descrive siccome un effetto
di volontà piegata al male ed a questo cedente. « V'ha,
« egli dice, un più tristo e più Basso culto di simu
li lacri , col quale gli uomini coltivano i loro fantasmi,
« e ossequiano sotto nome di religione checché ripen-
« sando con animo errante , e con superbia c boria
« vennero immaginando, trascorrendo a tale termine,
« che si lascino venire in mente che non si debba già
« più prestar culto a cosa veruna , ed essere ingannali
a gli uomini che si ravvolgono nella superstizione, e
« s'implicano in una misera servitù». Cioè il desiderio
eli una libertà disfrenata è il germe, secondo Agostino,
della incredulità; di una libertà che sottrae l'uomo
dal dominio giusto di Dio : e questo è lo spettacolo di
tutti i tempi, la storia intera dell'incredulità, da' gi
ganti della Scrittura , fino a' sofisti dell'età nostra. « Ma
u indarno, seguita a dire il santo Dottore, così si con-
u sigliano: chè non ottengono di non servire: riman
ti gono gli stessi vizj da' quali sono tratti a pensar così,
a e con ciò stesso a destinar loro un culto. Concios-
« siachè servono cotestoro ad una triplice passione, o
« di piacere, o di eccellenza , o di cupido sguardo. Nego
u che vi sia alcun di cotesti, i quali credono non do-
« versi prestar culto a nulla, che o non sia suddito ai
« godimenti di carne , o non istudj una vana potènza,
a o non immaltisca dietro a' diletti di qualche vano
u spettacolo. — Sicché, contenendo il mondo tutte que-
« ste cose temporali , servono a tutte le parti del mondo
u quelli che, tratti dall'amore del mondo , credono che
« non si debba dar culto a nulla, per non servire» (i).
(i) De V. R. XXXVIII.
333
Di tulle le quali cose è da conchiudersi con Ago
stino , " che nella Religione non poteva, cadere nessuno
« errore, se l'uomo non avesse dalo il suo affetto ed
« il culto, invece che a Dio, allo spirito, o al corpo,
u o a' suoi proprj fantasmi » (i).
Ma gli uomini che sono caduti nel fatale errore di
che parliamo , hanno la mente confusa , e non sodo
più atti a riconoscere tranquillamente la verità.
Quindi il loro ritorno alla verità dee cominciar dalla
fede assai meglio che dal ragionamento , ed è questo
quel preclaro servigio che, come abbiamo già più sopra
notato (2), presta V autorità: ella supplisce all'infer
mità della riflessione, resa turbata ed incerta da un
mal disposto volere. « Quantunque , dice il grand' uomo
« che abbiamo fin qui seguitato, giacciano i miseri in
« tanta estremità, da sofferire il dominio de' vizj, — tul-
« tavia , fino che in questa vita si trovano, possono ri-
« mettere la battaglia e vincerla ancora » . E quale è
di ciò la condizione? « se prima credano ciò, che non
valgono ancora ad intendere » (3).
ARTICOLO XI.
SI CONTINUA l' ANALISI DELL* ERRORE : h' ERRORE SON-ONE CONFUSIONE
NELLA MENTE.
volontariamentc P errore che si chiama materiale. Noi non facciamo con eiò
che prendere quella cifra per indicazione di quanto fu convenuto d' espri
mer per essa; e questo facciam bene; poiché è giusto che ad ogni segno
aggiungiamo il valor convenuto; nè altro far noi possiamo. Ma questo no
stro fatto , che per sè è giusto e privo d' errore , associato insieme coli' atto
della mano cieco, ma che pure non si può chiamare errore, fa uscir l' er
rore in fine del calcolo; il quale errore consiste « a prendere il risultato
per l'opera di una facoltà intelligente, mentre non fu solo l'opera di que
sta . ma v' ebbe parte una facoltà cieca ». Ma perchè quest errore o ò
inevitabile, o certo non giova mettersi da lui al sicuro eziandiochè si po
tesse (che volendo far questo si farebbe un male maggiore di quello, che
si. cerca evitare), perciò dicesi involontario e materiale; ove 1' uomo pur se
ne difenda « giudicando che quel risultato è l' opera della facoltà intelli
gente provvisoriamente, e non inappellabilmente », riconoscendo la possi
bilità che lo sbaglio s' introduca per le accennale cagioni.
(i) È manifesto , come fu accennato, che in questa formola si può com
prendere ancora quell' errore che consiste nel negare un predicato ad un
soggetto al quale conviene , purché si prenda il predicato come uu valore
incognito, che può essere negativo o positivo.
cezione di queste due cose, io prescelgo la seconda alla
prima; e dico, a ragion d'esempio: « La cosa così de
nominata , o la cosa che produsse in me questo senti
mento ecc., ha il tale predicato» ; mentre avrei dovuto
dire il contrario. Prendo adunque la cosa col predica
to, per quella che produsse in me quel sentimento, o
che in altro modo mi è determinata, e che non ha il
detto predicalo. Succede dunque nella mia mente uno
scambio, una confusione di due intellezioni; io creo
una congiunzione che non esiste, e affermo che esista.
Egli è evidente, che riflettendo io sulle cose che sodo
nella mia mente, non posso vedervi quello che non vi
è , nè diversamente da quello che v' è, se l'occhio della
mia riflessione, a cui è guida la mia volontà , non dice
di vedere ciò che non vede, cioè non mentisce. Che se
gli par di vedere , questa cosa che a lui par di vedere
dee esser un idolo da lui creato a. Ma una vera crea
zione è superiore alle forze dello spirito umano, è stra
niera all' uomo. Ciò adunque che si dice crear l' uomo
a sè slesso, non può essere che un falso accozzamento
di ciò che già preesiste nella sua mente. Ora fino che
egli fa quésto accozzamento, ancora non erra; purché
sappia che è suo lavoro , e noi prenda per ciò che la
natura stessa gli ha prodotto nella mente , in somma
per la verità della cosa. L'uomo ha dunque le cose
percepite, ha le sue finzioni; prende queste per quelle;
ecco 1' errore. Ma mettendo l' uomo la finzione nel luogo
della percezione (1), egli fa due cose: i." finge, a.' to
glie questa sua finzione in luogo della verità ( percezione),
disconoscendo questa e rigettandola. Un tale rigetta-
mento, che fa l'uomo di quella verità che ha pure nella
sua mente, è ciò che completa e informa l'errore.
Ora questa operazione, colla quale l'uomo cade in
errore, conviene che si produca necessariamente a tra
verso di tenebre e di confusione d'idee, cóme la su»
natura stessa il mostra: conviene che l'atto della ri
flessione si tolga dal mirare in ciò che è nella mente
da natura, figgendosi in ciò che vi è artefatto e fin'0'
e che queste due cose le compenetri in uno per co*i
ARTÌCOLO XII.
l'errore si fa mediante dna sospensione ingiusta di assenso.
(i) Art. precedente. Clii è che fa questa operazione di scambiare 1' una
■dea coli' altra ? L' lo, il soggetto. Ora che operazione viene ad essere
questo scambiamento delle idee ? a qual facoltà appartiene ? Noi abbiamo
distinto 1' idea dal verbo della mente ( Voi. Il , face. 1 1 1 e segg. ). Ora
l'operazione che fa il soggetto che erra appartiene alla facoltà del verbo ,
e non a quella delle idea ed ecco in che modo. La facoltà delle idee ha
per suo termine l'idea che è universale; ma la facoltà del verbo fissa e
determina il particolare Dell' universale , cioè pronunzia, e pronunziando
pone qualche cosa di particolare nell' universale. La facoltà del verbo
adunque è la facoltà del giudicare; e nel giudizio interiore sta solo l'errore
( face. 167 ), cioè nel risultamento del giudizio; il quale risullamenlo è
atto ad essere espresso con uua parola anche esterna; perchè non è una
semplice apprensione passiva, ma è un effetto dell'energia del soggetto,
che , eccitata in sè stesso una maggior forza , ha dato , direbbesi , corpo a
ciò che languidamente avea prima percepito, e l'ha determinato con tutte
le sue determinazioni necessarie acciocché veramente sussistesse , e così
potesse essere espresso. Questo è tutto ciò che di simile alla creazione fu
conceduto all' umana natura : la creazione dell' errore 1
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. HI. 29
226
loro (i) , e distinta pure e chiarissima sia l'idea del
loro nesso; egli è impossibile al tutto, fino cbe la
mente rimane in questo stato, che noi acconsentiamo
all' errore , nome abbiamo detto parlando dell' evidenza
delle proposizioni geometriche (2).
Ma se 1' uomo è di mala volontà , ed odia una ve
rità ed ama l'errore contrario, che farà egli per po
tersi abbandonare nell' errore 1
Egli cercherà qualche sofisteria da presentare a sè
medesimo, per la quale egli possa sospendere il suo as
senso , e confondere un poco le proprie idee, e così
torsi di quello stato di chiarezza nel quale egli prima
si trovava. Il che a fare non è il più delle volte dif
ficile: perciocché vi sono sempre delle ragioni generali
per lo meno atte a farci sospender V assenso : e si vede
di molte persone ostinate nella propria opinione , che
non sapendo più che rispondere alle obbiezioni che
loro si fanno , si contentano di confessare la propria
ignoranza , ma non di cedere ; e anzi il più delle volte
mettono termine alla disputa coli' addurre in mezzo
l'ignoranza e la fallacilà a dirittura della stessa ragione
umana, pigliando il tuono, solamente in quell'istante
appunto, di persone modeste e guardinghe nelle loro
investigazioni; e tutto il frutto che avrete cavato dalle
vostre convincenti e stringenti ragioni , sarà puramente
quello di sentirvi dare dolcemente degli avvisi generali
di sobrietà e di moderazione nel pensare e neh" in*
stigare , avvertendovi con molla gravità che v' è oa
confine nel sapere umano , e che non conviene spin
gersi nelle cose imperscrutabili ed oscure. Il che per
quanto ridicolo possa essere , non è men frequente; e
forma una prova patente , che 1' uomo, il quale non
vuole dar 1' assenso ad una proposizione, noi darà mai;
perchè troverà sempre una ragione generale , un « Chi
(1) Le idee sono distinte per sè stesse, né possono mai confondersi: n"
qui si parla delle idee riflesse. E per parlare più accuratamente, è la
flessione quella che si turba e tentenna quasi cercando questa o quell' >I|n
idea; ed avviene ch'ella colpisca e si ferrai in una invece che in ud' ile;
e quindi ella le scambia, e non trova quello che cerca. La confusione adun-
que a cui soggiace la nostra mente , ha la sua propria sede nella sola
colta di riflettere , la quale è guidata dalla volontà : la confusione no»
cade dunque nell' oggetto (idee ), ma nel soggetto (atto della riflessione )•
(2) Face. ig3 e segg.
a*7
sa » ? un riparo insomma , o nella propria ignoranza ,
o anche in un affettato scetticismo , per sostenere il
pieno suo assentimento dalla proposta verità.
Ma lasciando questo caso di somma ostinazione nel-
1' errore , chi ha una volontà almeno generale di cono
scere il vero , può rendersi troppo meticuloso e timido
nel dare 1' assenso alla verità lucente, ove sia preve
nuto ed occupato da un soverchio timore dell' errore.
E perciò una delle regole ad evitare l'errore, che varrà
assai a costoro , dee essere la seguente :
a L' uomo disponga la propria volontà in modo, da
non dovere indugiar punto a dare 1' assenso alla verità
conosciuta», ma sì tosto che conosce il vero, gli dia
il suo pronto e pienissimo assentimento.
E una candida prontezza di assentire lietamente alla
presenza del vero è ciò che forma e contrassegna gli
uomini retti e virtuosi, i quali perciò appariscono do
tati di uno squisito huon senso in discernere e cono
scere la verità.
La sospensione all' incontro affettata del proprio as
sentimento, o la troppa pusillanimità prodotta da so
verchio timore di errare, rovescia sovente nell' errore
slesso (i); perciocché dà tempo alla mente di confon-
cepìre die è solo proprio delle cose corporee e singolari. Questa fissazioni
del puro universale è poi tanto più difficile, quanto, egli è più astratto; e
perciò il concetto dell' essere in universale, o sia il concetto della verità,
come quello che richiede più di astrazione, è quello altresì da cui si dee
più tener rimosse le immagini , e alla cui luce più prontamente assentili.
Preveggo io bene, che questo sarà il massimo impedimento che incontrerà
la mia teoria presso i sentisti, o gli uomini avvezzi a pensare secondo il
metodo di quelli. Voglio però far osservare , che l'osservazione ch'essi
fanno , cioè che non si possa a lungo tener ferma la mente sugli Astrali;,
non fu già sconosciuta né pure a que' filosofi che ammisero gli astratti e
gli universali nella mente; ma questi non hanno tuttavia creduto, cbe
per un simigliarle fatto, nascente dalla costituzione mista dell'uomo, si
dovesse rigettare il fatto degli universali. Uno di cotesti certo fu s. Ago
stino, il quale del pronto assenso, che si dee dare alla verità senz' altre
ricerche, parla in questo modo: « Quando tu senti dire, Dio è Verità non
« voler cercare che cosa è verità. Poiché tosto ti si affacceranno le cali-
« gini delle immagini corporee, e le nubi de' fantasmi, e turberanno il
« sereno, che di primo tratto ti risplcndette, quaitd'io nominai Verità:^
m primo ietti diluxil Ubi cum dicerem Vevitas »> (De Trinit. Vili, ti). Q««l>
osservazione, che l'uomo non può tenersi a lungo in un concetto astrailo;
e eh' egli cerca naturalmente di vestirlo di forme corporee; c che, venuti
all' ultimo concetto generalissimo della verità, si dee appagarsene tosto
senza cercar oltre , poiché questo cercare non è che un volersi rovescia"
di nuovo giù da quell'apice di pensiero a' corpi prima abbandonali; 'u
fatta sempre da' migliori scrittori. E valgami qui il nome d'un altro, d«
del celebre scozzese Giovanni Duns, che con queste parole nel secolo Xff
commentava il passo di sant'Agostino: « Quando si astrae un concetti)
« universale dal singolare, quanto quel concetto è più universale, tanto
« è più difficile all' intelletto il tenersi a lungo in un tale concetto. E <*>
w avviene, perchè è un' inclinazione naturale che ci porta a immaginare in
« singolare quantunque volte noi intendiamo un universale. E per la stesa
« ragione più a lungo e più facilmente noi possiamo tenerci in un con-
« cetto universale, quauto questo è più simile al singolare che riluce nel-
« l' immagine. Ora essendo i concelti universalissimi più rimoti dallo
« stesso singolare, quindi più difficilmente possiamo mantenere l'intelletto
« nel concetto delle cose più di tutte le altre universali. Ciò posto, nella
« concezione di Dio sotto il concetto universalissimo di verità , non si dee
« cercare ( dice sant'Agostino ) che sia la verità, cioè non voler discendere
« a qualche concetto particolare. — Perciocché discendendo a un tale
« concetto, che più s' avvicina e riluce nell'immagine fantastica che lo*
« s' allaccia , si perde quel sereno di verità , cioè quella verità sincera
« nella quale si percepiva Iddio. Poiché tosto in tale scadimento si viene a
« percepire la verità contratta, che a Dio non conviene, al quale convenga
« la verità concepita comunemente e non contraila » ( 1" i
D. Ili, q. IV).
22Q
ARTICOLO XIII.
L ERRORE TALORA SI FA MEDIANTE CN AFFRETTAMENE O rrtEClHTAllZA
IN DARE h ASSENSO.
CAPITOLO IV.
ARTICOLO l
DELLA PERSUASIONE RIFLESSA IN GENERALE.
ARTICOLO II.
dell'evidenza, e della persuasione prodotta dal ramo CRITERIO
DELLA CERTEZZA NE* PR1KCIPJ.
ARTICOLO III.
DELLA PERSUASIONE PRODOTTA DAL CRITERIO DELLA CERTEZZA NELLI CONSEGO EHZ
(1) Quindi gli antichi dicevano che la cognizione inlelleltiva versa sem
pre intorno a' necessarj : Intellectus, dice Aristotele, et sapientia et sdentici
non sunt conlingenlium sed necessariorum (VI Elh.c. vi). E s. Tommaso dice,
che le cose su cui versano le scienze, sono bensì talora contingenti, ma
non le scienze stesse, cioè le ragioni universali colle quali si considerano
le cose contingenti: Nihilenim, die* egli, est adeo contingens quin in se
aliquid necessarium habeal. Sicut hoc ipsum quod est Soricm currere,
in se quidern contingens est , sed habiludo cursus ad molum est necessaria.
Necessarium enim est Sortem moveri si currit. E poi mostra che l'ele
mento necessario nelle cose contingenti viene dall' intelletto , il quale le
considera sempre in relazione coi suoi concetti universali (S. I, Lxxxyi. ut).
(2) Face. gy e segg.
a36
e che la certezza ipotetica deriva da' primi principi aP"
piicali ad un fatto contingente della coscienza.
La persuasione delle proposizioni dedotte è grande
quando esse si veggono ne' principj ; ed è -prodotta in
tal caso assai più dall'intelletto che dalla volontà. Ma
però quanto più la deduzione è lunga, e la certezza
dipendente da più fatti contingenti, tanto più la volontà
ha campo d'imporre all'intelletto che sospenda l'as
senso , e di turbarlo nella sua vista confondendo le
sue idee.
ARTICOLO IV.
STATO DELLA MENTE NELLA PERSUASIONE PRODOTTA DAL PRIMO CMTEUO
DELLA CERTEZZA, DESCRITTO DA S. BONAVENTURA E DA S. TOMMASO.
(1) Ecco lutto il passo di s Bonaventura, nel quale descrive lo stato della
mente in possesso della evidenza intellettuale mediante il primo criterio.
Tane inletleclut nostcr dìcilur veraciter compre/tendere ( propositiones ) ,
cum certiladinatiter scit Mas veras esse : et hoc scire est serre : QUONlAAf
NON POTEST FALLI IN ILLA COMPREHENSIONE ,scit enim quod
verilas Ma NON POTEST ALITER SE HABERE. Scit igitur veritatem
illam esse incommutabilem (Itin. mentis eie. Ili ). San Tommaso caratte
rizza pure colla nota della necessità l'evidenza intellettiva con queste parole:
scire est causnm rei engnoscere, et quoniam IMPOSSIBILE EST ALITER
SE HABERE ( De Verit. Q. X , art. x ).
(3) Chi cercasse il criterio della evidenza intellettiva , cercherebbe una
cosa impossibile: poiché quest'altro criterio o avrebbe 1' evidenza intellet
tiva, o no: se nou l'avesse, a nulla varrebbe; se l'avesse, saremmo ricaduti
nello stesso criterio primo, idem per idem. Quindi ottimamente la Scuola
a questo proposito dicea : Ratio non est quaerenda corum quorum non al
ratio, io. Duns , Quodt. q. XVI.
a38
ARTICOLO V.
DILLA PERSUASIONE PRODOTTA DAL CRITERIO ESTRINSECO DELLA CEttEBà |
E PARTICOLARMENTE DALL' ADTORITa'.
(i) L' assenso è un prodotto di due cause, i.° della forza del motivo che
determina l'intelletto, a.0 e della forza della volontà. La volontà agisce più
dell'intelletto nel produrre la fede cristiana , che perciò è una virtù: raa
1' intelletto è più immediatamente determinato all' assenso da' primi prin
cipj t che dall' autorità infallibile. Per ben intendere quanto sieno solide
queste distinzioni, conviene aver presente la distinzione che noi abbiamo
fatta fra la certezza e la verità. Certo nella verità non vi sono gradi, poi
ché è semplice ed immutabile. Ma la certezza è la verità da noi percepita,
« è una persuasione ferma e ragionevole conforme alla verità ». Nella per
cezione nostra adunque della verità, nella uostra adesione, persuasione,
può assegnarsi un grado di maggiore intensione e fermezza: quindi nella
certezza si possono assegnare de' gradi , non dalla parte della verità , nu
dalla parte dell' atto delle nostre potenze. Questa dottrina è insegnata (lai
due savj italiani che tante volte abbiamo citati, 1' uno de' quali, cioè
s. Bonaventura , paragona la certezza della fede colla certezza della ragione
nel modo seguente: De CERTITUDINE ADHAESIONIS ( che è quanto
a dire rispetto alla volontà ) veruni est fidem esse ceriiorem scientia plulo-
sophica. Si aulem ìoquamur de CERTITUD1NE SPECVLATIOMS,
f/uae tjuidem i-espicit ipsuni intelleclum ( e non la volontà ) et nudai* «-
ARTICOLO VI.
ritatem , sic concedi potest quod major est certiludo in aliqua scientia,
quam infide, prò eo quod aìiquis potest aliquid per scientiam ita certitudi-
naliler nosse quod nullo modo discredere , nec in corde suo ulto modo con-
tradioere potest, sicut patet in cognitione dignitatum et prinwrum prin-
cipiorum { In III Sent. D. XXIII, art. i , q. 4 )• E può vedersi la stessa
dottrina professala dall'altro savio, s. Tommaso d'Aquino, nell'opera De
Verilate Q. X, art. 11.
a4o
semi uomo, sono ammessi per conseguente da tutli.
Quindi la consensione di tutti gli uomini in que' pria-
ci }>) e ciò che forma il senso comune, un segno di quei
principj. Fu per questo che noi dicemmo il senso co
mune essere un' ottima regola per quelli che sono giunti
ad aver la mente così confusa e la riflessione così tur
bata da credere di dubitare de' primi principj.
Questa regola però è un caso particolare del criterio
estrinseco e secondario della certezza, e rispetto a' primi
principj non vale già per la loro certezza in generale,
ina vale per la loro certezza rispetto alla cognizione ri
flessa: è una regola colla quale si può fermare e accer
tare la cognizione riflessa de' primi principj, e discernere
questi anche colla riflessione da tutti gli altri.
E si avverta attentamente, che la consensione del
genere umano non si può chiamare un senso comune
se non nel caso eh' essa sia prodotta dalla verità. Im
perciocché sebbene una verità prima ed essenziale al
l' uomo debba produrre indubitatamente 1' effetto della
consensione comune in quella verità, tuttavia non è
intrinsecamente ripugnante che un simile effetto possa
venir prodotto alcuna volta anche da un errore: per
ciocché degli uomini tanto 1' individuo che la massa è
fallace. E quando anco questo caso al tutto non si
desse (i) , tuttavia egli non ripugna intrinsecamente alla
natura umana.
Come adunque diciamo noi che il consenso generale
degli uomini può far discernere all'uomo traviato quali
sieno i primi principj? e che quindi quel consenso poo
chiamarsi un criterio alto a servir di guida alla rifles
sione ? Ecco il modo di ciò.
Neil' uomo che ha la riflessione turbata e confusa,
i primi principj sono tuttavia veduti chiaramente colla
cognizione diretta : non sono in lui spenti giammai.
Ora io dico che questo lume, che in lui sempre vive
(i) Questo caso non si dà nel fallo, ma non già per virlù essenziale del-
1' umanità , ma perchè il lume della rivelazione noi permise. Per allro si
dà bensì questo , « che un uomo possa trovare in un medesimo errore
tulli quelli coi quali egli parla e può parlare in vila sua -, e quindi che
non abbia modo alcuno di conoscere che vi sono allri uomini, o pnre cbf
verranno allri tempi ne' quali si opinerà diversamente. A molli sci""1
dell' antichità, e a molti de' tempi moderni presto gì' infedeli eri ed è io-
possibile trovare nell'autorità degli uomini come sgannarsi da molti erron.
de' primi principj, si può far visibile, si può ricondurre
sotto lo sguardo distratto altrove dello scettico, coll'ajuto
dell'autorità degli altri uomini. Non è dunque l' autorità
sola degli altri uomini che costituisca il criterio' della
riflessione pe' primi principj : ma sì bene è il lume di
questi principj non mai spento che viene ajutato e
rinforzato da quell'autorità, la quale sola non potrebbe
formare una prova al tutto sicura, o più tosto è 1' occhio
dell'uomo che viene raddirizzalo a vederli.
Per tal modo l'uomo che si giova dell'autorità del
genere umano per certificarsi de' primi principj, è egli
quegli che con un picciol lume che in sè gli rimane sa
restringere quest'autorità, chetante cose vere e false gli
dice, tanti principj e tante conseguenze gli propone;
e discernere, se pur vuole, que'casi ne' quali ella a' primi
principj suffraga , da tutti gli altri ; e così egli sa fis
sare come principj quei soli, che oltre ad essere dalla
autorità del genere umano autorizzati, trovano nella sua
mente un'armonica corrispondenza, una testimonianza,
che serve ad interpretare quell'autorità stessa, come
V autorità a vicenda interpreta ed illumina quella in
teriore testimonianza.
L' autorità dunque del genere umano non forma da
sè sola il criterio della riflessione della quale parliamo;
ma essa con quel rimasuglio per dir così di ragione
che all' uomo traviato rimane, a cui viene in soccorso
come ausiliaria, forma insieme un solo criterio, una
sola regola della verità.
ARTICOLO VII.
DELLA PERSUASIONE CHE SI PUÒ AVERE DELL* ERRORE.
noni che si fanno intorno a Dio dice : Si qua est diversìtas in compositione,
ad intelleclum referatw ( cioè questa diversità è un elemento soggettivo che
mette il soggetto nelle proposizioni ) ; unitas vero ad rem intelleclam. Et ex
hoc ralione quandoque inlellectus nosler enuntiationem de Deo format cura
aliqua diversitatis nota, praepositionem interponendo, ut cum dicilur, Boni
to* est in Deo : quia in hoc designalur aliqua diversìtas, quae competit in-
lellectui (al soggetto), et aliqua unitas, gitani oportel ad rem re/èrre (all'og
getto ). C. G. I, xxxvi.
(i) Io ho distinto Ire maniere di persuasione:
1.° Quella che viene a noi dal primo criterio, che mostra una verità in
trinseca alla proposizione a cui si assente: e in produr questa, opera as
sai l'intelletto. ,
2.° Quella che viene dal secondo criterio , che mostra esser vera la pro
posizione a cui si assente, ma non ci mostra questa verità come intrinseca
nella proposizione, ma per un segno certo di essa verità ce n'avvisa , come
sarebbe per una autorità infallibile: e a produrre questa persuasione opera
meno clie nella prima l'intelletto, e più la volontà.
3.° Quella che viene dall'errore; e a produr questa ha la principale
azione la volontà, a cui l'intelletto ubbidisce, e non viceversa.
Ora s. Agostino trattò di questi tre generi di persuasione nell'operetta
ch'egli intitolò De utilitale credendi , e chiamò queste tre persuasioni
intendere, credere, e opinare, Ecco com'egli mette a confronto questi tre
stati dell'animo umano relativamente alla persuasione: « Tre cose sono
« nell'animo umano, finitime in fra loro, e tuttavia degnissime di distin-
h zione , intendere , credere , opinare. Delle quali cose per sè considerate ,
•< la prima ( cioè l' intendere ) è sempre immune da vizio , la seconda
« ( cioè il credere ) è talora di vizio macchiata , la terza poi non è mai
« senza vizio. — L' intendere noi il dobbiamo alla ragione , il credere
« all' autorità, 1' opinare all'errore. Ma ciascuno che intende, anche crede
« ( cioè ipsi ventati credit, come dice più sotto ); crede anche ciascuno
« di quelli che opinano; ma nessuno di quelli che opinano intende ».
Di che si vede che secondo questo Padre della Chiesa l'errare è una
mancanza d' intendere, è una privazion di sapere: e la cognizione all'op
posto t' immedesima colla certezza.
*44
ARTICOLO Vili.
CONTINUAZIONE.
Il perchè la persuasione nell'errore è fittizia: è un'
opera tutta dell'attività dell'uomo, uno sforzo contro
natura, un tentativo della volontà a seduzione dell'in
telletto , che per sè dalla sola luce della verità è at
tratto e determinato.
Senza che , essendo la cognizione diretta sempre vera
ed indistruttibile, la persuasione nell'errore non è che
nella riflessione, operazione che si sopraggiunge per
così dire alla natura umana: nel fondo quindi della
mente giace sempre la verità j ed alla riflessione sta
sempre innanzi , atto ad esser veduto , il fondamento
della verità, e quindi n'ha forse sempre il sospetto.
L' errore dunque non è che superficiale , e non pos
siede mai l'intimo stesso della natura dell'uomo. Per
quanto la persuasione dell' errore sia profonda, ella è
bene spesso piena di esitazioni ; ripullulano i dubbj che
pareano già assopiti : e una misteriosa inquietudine non
abbandona giammai interamente gli uomini dall'errore
occupati , sebbene 1' inquietudine non abbia in sè vigore
di convertirli alla pace della verità.
ARTICOLO IX.
t' ERRORE È SEMPRE UNA IGNORANZA.
CAPITOLO I.
(i) De Trin. X, vii, vili. Questa specie A' immondezza noi la portu"»
con noi nascendo , sebbene s' accresca col mal uso. Il fallo mostra che <
torpida e lenta In pura facoltà intellettiva dell' uomo ; mentre i sensi sono
attivissimi fino dall'infanzia, ed assorbono a sè tutto l'uomo, quasi
prima clic la ragione ( per sè sola ) sia venuta in islato da signoreggiar»"
249
Di che si vede che la confusione d' idee che suppone
l'errore viene dalla mala disposizione della volontà, la
quale non sa muovere l'intelletto a fare le necessarie
distinzioni, e conchiude in tempo che ancora le idee
sono confuse. Prosegue così il santo Dottore a ricercare
colla sua finezza tutte le fibre di questo errore de' ma
terialisti: « Quando adunque si comanda che la mente
a conosca sè stessa, non vada ella cercandosi come
« fosse staccata da sè; ma stacchi da sè ciò ch'ella si
« è aggiunto. Poiché essa è di dentro, non solo più di
« queste cose sensibili che manifestamente sono al di
« fuori, ma eziandio più che le immagini loro , che pur
« sono in una parte dell'anima, e cui hanno anco le be-
u slie, sebbene prive d' intelligenza, la quale spetta solo
« alla mente. Laonde essendo la mente interiore, ella
« esce in certo modo da sè stessa, quando manda l'af-
« fetto dell' amore a questi cotali vestigi di molte sue
« intenzioni. — Conosca dunque sè stessa, nè si cerchi
« come fosse assente, ma l'attenzione della volontà, onde
« vagava per l'altre cose, fermi in sè stessa, e si pen-
« si (i). Così vedrà che non fu mai tempo — nel quale
« ella ignorasse sè stessa (2) : ma amando seco qualche
« altra cosa, con questa confuse sè stessa, e in certo
« modo a sè l' aggiunse ; e in tal modo mentre racco-
« glie a sè molte cose, reputò che una sola cosa sieno
« quelle che sono diverse » (3).
È qual via ci mostra poi s. Agostino a ricondurre la
riflessione turbala e sviata de' materialisti nella diritta
via , e far eh' essa trovi sè, cioè lo spirito, e lo consi
deri ? Egli ci mostra queste due. La prima di far loro
osservare quali sieno quelle cose nelle quali sono tutti
gli uomini d'accordo, e quali quelle nelle quali sono
di disparata opinione : facendo vedere che in queste sta
l'incertezza, e in quelle la certezza (4)- La seconda di
od essenze sono verità o tipi a cui riscontrare e dar ripruova a lulta qoeil»
classe di cose che esse comprendono e che coll'analisi si distinguono*
conoscono esplicitamente.
a53
Irinseca necessità logica, per la quale irrepugnabil
mente 1' uomo intende e sa che è impossibile pensare
il contrario.
Onde poi tanta necessità? Dal fonte di tutta l'intel
lettiva cognizione, 1' idea dell' essere in universale: la
quale accoglie in sè tutte le possibilità: e la unione di
esse è ciò che si chiama necessità, perchè tutto ciò che
è, dee essere in esse. Di che si conchiude, che il vero
ed ultimo principio della certezza non è nè può esser
altro che l' idea dell' essere in universale inserita nello
spirito intelligente: la quale si mostra non pure con
evidenza di luce, ma con una intrinseca necessità, sic-
chè fuori di essa non è possibile il pensar altro. Se
condo questo principio pertanto debbono gli uomini ra
gionare, se vogliono trovare la verità.
Ma gli uomini ragionano essi di lor natura secondo
questo supremo criterio che al vero gli scorge ? Fino
che stanno nella cognizione diretta, il fanno naturai'
mente: ma questa è poca cosa e nulla relativamente
a' bisogni dell' uomo in società. Quando poi passano alla
riflessione, ella diviene una questione di mero fatto
contingente; e per risolverla non è altra via che quella
di osservare diligentemente la storia del genere umano.
Il che coloro i quali credono che la filosofia sia qual
che cosa di così astratto, che nulla abbia ad implicarsi
co' fatti , sono presti di dire che non appartiene punto
alla filosofia. Ma checché sia di ciò, io dirò poche pa
role sulla questione; le quali, dov' anco filosofiche non
sieno , mi soprabbasterà se saranno vere. Dico che la
storia del genere umano annunzia un tristo spettacolo :
corruzione di cuore, perturbazione di mente, ecco il
retaggio di tutta intera 1' umanità. Questa è la storia
dell' uomo : la massa corrupta di s. Paolo è la teoria
di questa storia.
« Appena, dice Cicerone, noi siamo messi in luce
u ed accolti, ci ravvolgiam di continuo in ogni ribal-
« deria , e in una somma perversità di opinioni , sicché
a egli pare che pur col latte della nutrice noi abbiamo
u succhiato 1' errore. Quando poi siamo resi a' parenti
« e consegnati a' maestri , allora c'imbeviamo di così
u svariali errori , che alla vanità cede la verità, e alla
u opinione invecchiata la stessa natura. Aggiungonsi ali
ti cora i poeti, che mostrando apparenza grande di dot
254
« trina e di sapienza, s'ascoltano, si leggono, scappa
te rano, e si rimangono fitti al tutto nelle menti. — Si
« sopraggiunge il popolo, quasi un maestro di tutti
« maggiore (quasi maximus quidem magister populus),
u e tutta la moltitudine che d'ogni parte consente nei
« vizj : allora interamente c'infardiamo di malvagità , e
« rinneghiamo la stessa natura » (i).
L' individuo non avrebbe adunque nel senso comune
dell' umori genere un sicuro mezzo a raddirizzare la
propria riflessione turbata ed uscita di traccia. All'op
posto si dee dire dell' uomo nella società cristiana. Qui
ciascuno trova nel!' autorità di altri uomini ( s' egli
vuol saperli scegliere) (2), un mezzo sicuro a confortare
e rassicurare la trepida ed incerta sua riflessione ; sic
ché quelli che non usano di questo mezzo sono inesca-
sabili. La verità non è costituita immobilmente nella
società del genere umano: ma nella società cristiana: è
qui solo che, per usare una frase scritturale, si trova
« la colonna e il firmamento della verità » (3): e non
tutt' altrove. Non poteva che un divino ajuto rendere
certi e sicuri i passi della riflessione dell' uomo; come
sola una divina virtù può consolidare le piante di un
uom paralitico, o restituire la luce agli occhi che l'hanno
smarrita (4).
Ma bastava assicurare 1' esistenza della verità fra gli
uomini, per corrispondere a' loro bisogni? Nò: conve
niva di più migliorare la loro volontà ; perchè è vo
lontariamente che trovano quella verità che hanno sem
pre innanzi gli occhi , ma >n cui non guardano : per
CAPITOLO I.
CAPITOLO II.
SUL PUNTO DI PARTENZA DELLE UMANE COGNIZIONI ASSEGNATO
DA ALCUNI PENSATORI DELLA SCUOLA TEDESCA.
ARTICOLO L
SCOrO DI QUESTO CÌNTOLO.
Il ragionamento a priori è quello che si fa sulla idea
dell'essere in universale, senza che nel ragionare s'in
troduca alcun altro elemento (a): e si chiama a priori
perchè questa idoa è la prima e indipendente da tutte
l' altre.
ARTICOLO
DIFFERENZA PRINCIPALE FRA LE FORME ASSEGNATE DA ALCUNI MODERNI
ALLO SPIRITO INTELLIGENTE, E t' DMCA NOSTRA FORMA.
ARTICOLO HI.
SOL PUNTO DI PARTENZA DELLA FILOSOFIA DI KANT.
Riandiamo dunque colesti sistemi; e perchè non sia
interrotta la serie delle idee , rifacciamoci su di Kant.
Kant, pensando che tutto ciò che lo spirito conce
pisce dovesse essere rivestito di forme dallo spirito stesso,
era salito un grado più su nella sua ricerca , che i mo
derni suoi predecessori.
Imperciocché Cartesio era partito dalla minore di ai
sillogismo, e senza accorgersene ne avea supposto la mag
giore (a).
Locke suppose ed ammise , senza darne spiegazione,
ancor più di Cartesio : egli non giunse a scomporre la
cognizione mista nella forma e nella materia: il suo
punto* di partenza fu la materia della cognizione; la
forma la suppose interamente senza parlarne (3).
«* quali ella versa. Ma ciò sarebbe un dire che tutte le idee de' colori ,
•» de' suoni , de' sapori , delle figure ecc. fossero innate; di che non
« può avervi cosa più dirittamente contraria alla ragione ed alla spe-
*t rienza » ( Lib. 1 ). E falsa l'assurdità che Locke vuol trovare nella
opinione che qualche enunciazione sia innata, poiché tutte le enun
ciazioni non sono di suoni e colori, e d' altre cose sensibili, ma ve n'hanno
di soprasensibili al tutto. Di poi ( e questo è ciò che fa al caso nostro )
nelle idee di cose sensibili non entrano solo cose sensibili ; c'è un princi
pio intellettivo, il quale scappò all'osservazione di Locke, e questo prin
cipio intellettivo puramente è la forma delle idee. Locke parti dunque dalla
materia ; trascurò la forma, noti la osservò, sottintendendola gratuitamente,
(i) L' analogia è pur la feconda madre di errori !
(a) Parlando del moto, così dice: « Acciocché la rappresentazioni' »
( cioè il pensiero intellettivo ) - del moto diventi esperimento w ( cioè per*
a-6«
Per tal maniera tutto ciò che noi conosciamo è Mg-
gettivo.
Le cose in sè, a cui Kant dà il nome di noumeni,
rimangono adunque al tutto incognite a noi, secondo
questo filosofo; poiché l'esperienza de' sensi non ci dà
che fenomeni, cioè apparenze, e l'intelligenza non ci dà
che un ordine ideale, che non presenta nessun essere in
sè esistente e reale.
Questa nostra ignoranza assoluta delle cose in sè,
Kant la dichiara in molti luoghi, e conchiude i suoi
Elementi Metafìsici della Fisica con queste parole:
« Laonde la dottrina metafisica de' corpi finisce nella
« considerazione del vacuo, e perciò appunto nell'in-
« comprensibile. Nel che il suo destino è in questa parte
« uguale come in tutti gli altri sforzi della ragione.
« Conciossiachè nel ritrocedere a' principj essa va inve
ii stigando le prime cagioni delle cose; nel che ella
« null'altro può comprendere se non ciò che sotto certe
« condizioni è determinato (i), perciocché così porla
« la natura. E quindi avviene che da una parte essa
« non può fermarsi in ciò che discende da qualche
« condizione (2), dall'altra non può comprendere ciò
« che è di ogni condizion privo. A lei pertanto, ove
« ardore di sapere la stimola , non resta che questo
« solo, di arretrarsi dagli oggetti, e ritornare in sè
« stessa , ove in luogo degli ultimi confini delle cose
« investighi e determini gli ultimi carceri della sua fa
ti coltà abbandonala a sè stessa ».
Sebbene de' noumeni Kant avesse dichiarato tanto chia
ramente un' ignoranza assoluta , tuttavia sembra che in
questo da molti non fosse bene inteso. Certo è che
altri dopo lui non si contentò di dire avervi una pro
vincia ignota all' uomo, ma negò che di là da' confini
dell' umana sperienza alcuna cosa esistesse; e fu parlato
assai del gran nulla di là dal conoscibile , siccome di
ARTICOLO IV.
(i) L' errore di Fichte qui consiste nel non osservare, che l'alio primo
onde Y Io esiste, e in generale l'atto primo onde una cosa esiste, è beasi
un atto della cosa , ma un atto creato da una causa antecedente ali» cosi.
La cosa ha cominciato ad essere col suo atto: questo non vuol dire se non
che fu da Dio creata in atto. Questa mancanza della filosofia di Fichte
diede luogo al sistema di Schelling.
(a) La confusione nacque da questo , che negli atti dello spirito nostro,
V è del passivo e dell' attivo, come abbiamo mostrato Voi. II, &«• 19
e segg. Fichte osservò I' elemento attivo, e ridusse tutto a lui solo, di'»"*
tirando di considerare la passività dello spirito.
cinto di creare Iddio». Egli così trovò l'ultima espres
sione dell'orgoglio di una creatura intelligente , la for
inola più breve e più elegante della malizia dell' angelo
riprovato; una lotta intima, essenziale, una necessità
ed una impossibilità di distruzione, un annullamento
perpetuo si contiene ne' visceri di quelle poche parole.
Ivi 1' uomo non potendo a meno di riconoscere un Dio,
cioè un infinito essere, un infinitamente a sè superiore,
fonte del tutto, prende il partito di farlo scaturire da
sè stesso , con una essenziale menzogna dichiarandosene
il creatore. Non è che io voglia attribuire questa estre
mità di malizia, che solo al principio del male appar
tiene , a Fichte ; io intendo dimostrare ciò che si
contiene in quelle sue maniere di parlare, che rimar
rebbero per sempre uno spaventevole monumento del
secolo in cui furono inventate, ove non passasse a' po
steri insieme con quelle altresì la notizia della legge
rezza onde in cotesta età si proferirono, senza alcuna
riflessione , senza alcun intimo convincimento , le più
portentose stravaganze.
Beinhold , che avea posto mano a regolarizzare la
filosofia di Kant, nella quale non appariva un princi
pio unico di cui tutta discendesse, era partito dal fatto
della coscienza. Ma in questa espressione , « il fatto
della coscienza», si contengono molti equivoci: quindi
le interminabili contese sopra questo principio di Bein-
liold. E in vero, così si può ragionare: lo penso ciò
che passa nella mia coscienza; io penso dunque il fallo
della coscienza. Poniamo or questo il primo atto dello
spirito, e il fatto della coscienza sia la prima cosa da
me pensata. Si viene egli a dir con questo, che io sia
partito col primo atto del mio spirito dal fatto della
mia coscienza? No certamente: anzi si viene a dire che
io sono terminato con quel primo atto del mio pensiero
nel fatto della mia coscienza. L' atto dunque del mio
spirito è anteriore, disse giustamente Fichte, al fatto
della mia coscienza : non si dee dunque muovere dal
fatto della coscienza, sì dall' attività del pensiero che si
ripiega sopra sè stesso cioè sopra la propria coscienza.
Così avendo Fichte posto il punto di partenza della
filosofia nella riflessione del pensiero sopra sè slesso ,
credette d' averlo collocalo più su che non avesse fallo
Reinhold.
a68
Ma quivi si scorge manifestamente un equivoco. Per
ciocché altro è il punto di partenza del ragionamento, ed
altro il punto di partenza dello spirito umano. Il ragiona
mento non può partire che dal fatto della coscienza, poi
ché il ragionamento, massime filosofico, non parte da
ciò che l' uomo sa , ma sì da ciò che l'uomo avverte o
sa di saprre. Ora 1' ordine cronologico delle avvertenze o
riflessioni, come ho detto più volte, è inverso dell'or
dine delle conoscenze dirette. L' uomo dunque prima ri
flette sul fatto della propria coscienza , e poi riflette
sull'alto col quale riflette; quest'atto adunque rifles
sivo dello spirito è avvertito dopo , sebbene esista prima
dell'avvertenza dell' atto della coscienza. La prima cosa
adunque avvertita dal filosofo che medila sopra sè stesso
è il fatto della coscienza : questo dunque è il punto di
partenza del ragionamento. Ma di poi il filosofo di
manda a sè slesso: « Come ho io osservato il fatto della
mia coscienza» ? e allora risponde a sè stesso: «Con
un atto riflesso sopra di quella » j quest'alto dunque
riflesso è un punto di partenza del pensiero, più ele
vato che non sia il fatto della coscienza conosciuto per
riflessione.
E avvertasi , che io dissi: è un punto di partenza
del pensiero, non dissi: è un punto di partenza dello
spirito. Questa distinzione è sfuggita a Fichte. Egli
partì dalla riflessione del pensiero sopra sè stesso , come
dall'atto primo e radicale col quale si possano spie
gare tulti i fatti dello spirito umano. Egli dunque ri
dusse tutto al pensiero, e confuse col pensiero anche il
sentimento, che pure dal pensiero è diverso, come io
a lungo ho mostrato. Se Fichte non avesse fatta questa
confusione, egli non avrebbe usato di questa forinola
per indicare il punto di partenza dello spirilo, «Lat-
tività del pensiero che si riflette sopra sè stesso», o>a
si sarebbe scontrato in quest'altra, a L'attività del pen
siero che si ripiega sul sentimento": e in questa se
conda gli era impossibile di collocare il punto di Par*
tenza dello spirito, poiché egli sarebbe si toslo accorto
che il sentimento dovea preesislere all' atto del pensiero
che l'osservava. Dall'altro lato, « il pensiero che si
ripiega sopra sè slesso » come punto di partenza dello
spirito, non può non esprimere una contraddizione nei
termini : poiché rende identico il pensiero che si [l'
piega , col pensiero sopra cui si ripiega: concentra dun
que e confonde il passivo e 1' attivo in una sola es
senza, o anzi fa che il passivo sia attivo, e viceversa,
il che è una vera contraddizione.
Io attribuisco in gran parte a questa intrinseca ri
pugnanza contenuta nel principio di Fichte, le contrad
dizioni che trovò un tale sistema, e contro alle quali
questo filosofo , per altro acutissimo, ricorse u dire
« che per elevarsi a concepire l'atto primo del pen
siero ond' egli partiva era necessario un senso partico
lare, che la natura non dà a tutti, e a chi ella noi dà
non può intendere la sua filosofìa ». Il rispondere in
questo modo è darsi in una specie di disperazione filo
sofica. Per altro non è che io non conceda avervi una
somma arduità a salire fino a figgergli sguardi nell'atto
primo della riflessione : anzi io sostengo che Fichte me
desimo non seppe sollevarsi a ciò, o per dir meglio,
sollevato che fu alla contemplazion di quell'atto, non
.seppe poi osservamela vera natura con quell'attenzione che
.si richiede ; di che gli nacque la strana opinione della
forza creatrice di quell1 atto, e così fu autore di un
entusiasmo, che non è, qual dovrebbe essere, un tri
pudio alla vista della verità, ma una baldanza che sente
l'uomo in sè medesimo per una cotal potenza esorbi
tante data al proprio spirito dall'immaginazione intel
lettiva, collegata con quella avidità di usurpata gran
dezza , che guasta pur sempre il fondo della colpevole
umanità.
Imperciocché se Fichte avesse ben conosciuto 1' atto
della riflessione, sarebbesi accorto, che nessun allo si
ripiega veramente sopra sè stesso , ma sempre sopra un
atto preesistente, che diventa oggetto di lui. Pigliamo
pure a considerare un atto riflesso: questo si ripiega
dunque sopra un atto , che sarà di nuovo riflesso se
così si vuole; e questo sopra un altro pure riflesso; ma
finalmente si dee venire all' atto di prima riflessione,
e questo si dee piegare sopra di un atto diretto del
pensiero, altramente noi procederemmo in infinito, il
che è assurdo. Ora 1' atlo diretto del pensiero è la in
tuizione e la percezione. La percezione è un atlo del
pensiero con cui si congiungono insieme due affezioni ,
i.' la sensazione corporea, a.' l'intuizione dell'essere
ili universale. Precedentemente adunque a qualunque
370
riflessione esiste il sentimento e F intuizione , che sono la
base di tutto; cioè 1.* un'intuizione intellettiva, 3.' un
sentimento corporeo. Queste due affezioni accoppiate in
sieme dall' attività unica dello spirito, formano la perce
zione semplicissima , e sopra questa agisce la riflessioni
del pensiero. Ma questa analisi non fece Fieli te, ed
ecco ciò che lo trasse per mio avviso in errore.
Quando io faccio un atto col mio pensiero, con questo
atto io conosco l'oggetto in cui termina Fatto: ma l'atto
slesso mi rimane incognito. Io debbo fare un altro atto
riflesso sopra 1' atto primo, sicché F atto primo diventi
egli oggetto, perchè io il conosca; ma allora l'atto se
condo riflesso mi rimane incognito tuttavia. Se io ri
fletto sull'atto secondo, faccio un terzo atto, il quale
mi fa conoscere F atto secondo, che si rende oggetto al
terzo, ma non sè stesso ; e così può andarsi quanto si
voglia più innanzi: sicché può stabilirsi come legge della
nostra maniera di conoscere, questo gran canone: «Un
atto qualunque del nostro intendimento ci fa conoscere
F oggetto suo nel qual termina , ma non ci fa cono
scere sè stesso». Ciò veduto, nasce questa dimanda:
u Dell'atto col quale noi conosciamo un oggetto non
siamo noi forse consapevoli» ? Convien osservare, che
tale dimanda è diversa da quest'altra: « Dell' atto con
cui noi conosciamo un oggetto abbiamo noi sentimento^.
Perocché aver coscienza è aver scienza dell'atto nostro
come nostro, cioè dell'atto nostro e ad un tempo di
noi che il facciamo. E questa scienza non la pos
siamo noi avere, che mediante un altro atto di rifles
sione. All'incontro il sentimento non ci manca mai delle
nostre operazioni ; ma il sentimento è cieco. Il comune
degli uomini però non può persuadersi , che noi fac
ciamo un atto senz'averne anche la coscienza. E la ra
gione per la quale il comune degli uomini pensa in
questo modo si è, che quando facciamo un atto col
nostro spirito, noi possiamo subito generalmente riflet
terci ed avvertirlo, e quest'atto che facciamo nel ri
fletterci ed avvertirlo lo facciamo con tanta facilità e
celerità, che non l'osserviamo: quindi siamo acconci di
credere , che quell' atto del nostro spirito sia avvertito
e conosciuto per sè stesso , e non per un alto soprag
giunto da noi; mentre per sè stesso è ignoto e inav
vertito , ma bensì all' istante possiamo a nostro grado
renderlo a noi noto riflettendo a lui, e avvertirlo. Ora
Fichte conobbe assai acutamente questo errore comune
degli uomini , e per evitarlo urtò nello scoglio opposto.
Egli non si contentò di dire che quell' atto del nostro
spirito non era per sè avvertito e riflettuto, ma disse
che non esisteva al tutto ; e quindi diede alla riflessione
dello spirito un' attività di produrlo , e tentò anzi di
immedesimarlo, come dicevo, colla riflessione medesima.
Air opposto noi diciamo, che un atto delio spirito
qualsiasi, anche prima di essere riflettuto e conosciuto,
esiste in noi, cioè nella nostra coscienza , ma egli è un
puro sentimento. Quindi in qualunque atto dello spirito
intelligente v'ha un'idea e v'ha un sentimento. L' og
getto intuito è ciò che è illustrato , e si chiama idea $
1' atto col quale percepiamo un oggetto nella nostra
coscienza è un sentimento cieco e nulla più. Ora niente
si conosce senza idea. L' uomo dunque fino che ha dei
soli sentimenti nulla veramente conosce : e in particolare
lo stato dell' uomo anteriore alla riflessione sopra sè
stesso è uno stato, come tante volte ho detto , impos
sibile ad essere osservato; poiché sembra una vera non
esistenza, mentre non è che uno stato a noi incognito.
Quindi Fichte confondendo il non conoscersi col non
essere, disse che V lo per una sua riflessione poneva sè
stesso coli' atto medesimo col quale poneva il non-Io.
Nè vale il dire che l'essenza dell' Io stia nel conoscere,
nel pensare : poiché l' Io non è un pensiero di sè, è
un sentimento : e 1' avere appunto fatto assorbire dal
pensiero il sentimento , senz'aver notata la distanza di
questo da quello, condusse Fichte a sì strani e sì pro
fondi errori. Che se l' Io intelligente ha ben anco un
sentimento intellettivo , con esso finisce in sè , ma è
affetto dall'essere in universale : nè questo può pigliarsi
per la riflessibilità di Fichte, mentre nulla ha di ri
flesso questo elementare pensiero , ed è la parte immo
bile e perpetua dell' uomo. Qui però pare che Fichte
siasi alquanto 'avvicinato al vero, e lo travedesse da
lontano, allorché disse 1' egregia sentenza ,« che mentre
i pensieri passano, v'ha nell'uomo una parte ebe con
templa immutabile».
ARTICOLO V.
SUL PONTO DI PARTENZA DI SCHELLING.
(i) Fichte avea detto, che V Io poneva, creava sè stesso con qudl»"0
identico col quale poneva , creava il mondo, il non-Io. Schelling ossa"
che si poteva concepire un atto dell' Io privo di oggetti , e che questo
il primo d» cui conveniva partire. Ora un tale atto è appunto un
mcnlo, e non un pensiero; poiché il sentimento differisce appunto dal pei-
siero in questo, che non ha oggetti determinali, che è tutto uno e sem
plice, come ho dello nel Voi. LI, face. 48 e segg. L'errore di Schelling
consiste nel dare a quell' atto primo del sentimento maggiore «turila che
a lui noù competa ; nel che peccò allo stesso modo di Fichte, saltocl*
questi esagerò V attività della riflessione, e Schelling quella del sentuntnf-
Udiamo Schelling medesimo:
«« Egli è chiaro, dice, che lo spirito non può avere la coscienza di «
come tale, se non elevandosi sopra tutto ciò che è oggettivo. Ma isolandosi
da ogni oggetto , lo spirito non trova più sè stesso ».
273
Conviene che io mostri la ragione onde Schelling im
maginò un Io senza confine. Fichte avea messo in con-
(1) Questo Dio di Fidile diventa al suo modo reale per la realita della
credenza che lo produce: ma questa realità con è ella sempre relativa?
(a) Ep. «y.
378
alla certezza dell1 assoluto: sicché se siamo cerli delle
altre cose , molto più noi dobbiamo essere dell1 assoluto,
nel quale le cose sono possibili, e della cui certezza solo
partecipano. Questo ragionamento ha qualche cosa di
solido: ma non si fermò qui Schelling , e 1' avidità di
conoscer tutto, anco l' incognito, il travolse agli errori:
conciossiachè , ove 1' uomo si ostini a voler pur sapere
ciò che non può, conviene ch'egli fabbrichi colla im
maginazione il paese conteso a' suoi passi , ove niun
mortale può realmente penetrare. Veggiamo come ciò
sia avvenuto al nostro filosofo.
Tre grandi esseri si rappresentano al pensiero umano:
I7 universo materiale, V Io soggetto, Iddio. Queste rap
presentazioni di oggetti, disse Kant ( e a torto, come noi
abbiamo mostrato nella Sezione precedente ), uon hanno
autorità di farci conoscere le cose in sè , gli oggetti
loro, ma solo sè stesse; e il dar loro fede non è che
un alto libero, che costituisce ciò ch'egli chiama ra
gione pratica. Tuttavia nel sistema di Kant possono esi
stere, purché emanino dallo spirito nella parte loro
formale: lo spirito percepisce quindi gli oggetti vestili
di forme soggettive: come sieno gli oggetti stessi, è ciò
che rimane incognito : al più può ammettersi una ma
teria in generale (rispetto all'universo), ed una raàct
ultima delle cose rispetto a Dio.
Ora le rappresentazioni si dicano fenomeni, le cose
in sè noumeni. L' uomo adunque è conscio de1 fenomeni,
ma è interamente all' oscuro sui noumeni. Questa oscu
rità fu molesta a Fichte e a Schelling, e cercarono di
dileguarla. Il primo disse che non esisteva altro se non
quello che emanava di sè l'io; che questa emanazione
era l'universo, e Dio, e in generale la rappresenta
zione de' noumeni compresa sotto la parola non-Io; che
a questa rappresentazione 1' Io dava fede, e così ren
deva reali le sue rappresentazioni. Un Io adunque fe
nomenale fu per Kant il fonte di tutto lo scibile con
sistente in apparenze o fenomeni : ma che oltracciò vi
avesse realmente qualche cos' altro , nè negò, nè affer
mò ; disse che questi erano i confini della umana mente.
L'/o per Fichte fu reale, e coà pose un noumeno p*r
supposizione , o postulato si può dire : quest'/o produ
ceva di sè ciò che esisteva: non v' aveano dunque più
Provincie incognite, non v'erano altri noumeni se non
quelli che poi la ragione pratica creava a sè colla fede
data alle rappresentazioni dell' Io. Schelling pretese di
ascender ad un noumeno che producesse un Io ed
un mondo fenomenale: questo fu il punto fermo di
Schelling : questo fu il noumeno da Schelling suppo
sto, senza dimostrazione, come necessario a base di
tulli i fenomeni, e quindi più assai di essi certo e
per sè evidente: e questo noumeno è il Dio di Schel
ling. Ma poiché questo è il solo noumeno, il solo for
nito di attività propria, quindi non v'ha altra attività
reale fuori di lui. L'attività dunque di tutte le cose
della natura, egualmente che dell' Io soggetto, è 1' atti
vità sua: ciò che hanno queste cose di proprio, non è
che il fenomenale: quella sola infinita essenza sussiste,
e in essa è 1' essere di tutti i fenomeni : in essa adun
que s' identifica il soggetto , l'oggetto, l'ideale, il reale,
le rappresentazioni, le parti ecc., poiché l'essere di
tutte queste cose non è altro che quello dell' assoluto ,
il quale fenomenalmente in tutte queste cose si trasfor
ma: sicché non si danno nelle cose differenze qualifica
tive , ma solo quantitative: giacché è lo slesso essere in
tutte: per questo modo l'anima e la natura materiale
si mettono alla stessa condizione, si rendono egualmente
fenomenali nell'esistenza loro individua, e si rifondono
poi nel gran tutto, nell'assoluto, in quanto all'esi
stenza reale. Così l' individuo si assorbe e perisce nella
natura immensa di Dio , presso a poco come dicevan
gli Stoici che avviene all'uom dopo morte. Il ragiona
mento su cui si rivolge tutto questo sistema , che sem
bra confondersi col panteismo, pare il seguente: « La
realità di tutte le cose ( i noumeni ) è resa dubbiosa
pe' ragionamenti della filosofia critica. Ma non può es
sere dubbiosa la realità di un assoluto, poiché è con
dizione della possibilità di tutti i fenomeni che la filo
sofia critica riconosce. Dunque non v' ha di certo altra
realità che questa : quinci dunque conviene fare uscire
tutte le cose , tutte riconoscerle come parti, emanazioni
o anzi trasfigurazioni di quello ».
Ma più osservazioni si possono contrapporre ad un sì
fatto ragionare.
1." Primieramente, la filosofia critica per negare la
conoscenza de' noumeni s' è giovata di un ragionamento.
In tal modo essa ha riconosciuta col fatto la validità
a8o
del ragionamento. Se dunque il ragionamento, dove sia
ben fatto, conduce a conseguenze certe, non vedesi per
chè egli debba essere ammesso solo parzialmente , cioè
per negare la cognizione de' noumeni, e non per am
metterla. La filosofia critica era dunque in contraddi
zione con sè stessa , e non si dovea lasciarsi imporre
dalla medesima.
a.* Se la filosofia critica non avesse questa intrinseca
pugna con sè medesima , o se si volesse nou rinfacciar
gliela , in tal caso ecco com' essa si potrebbe difendere
contro 1' obbiezione ebe gli fa Schelling e dalla quale ha
dedotto il suo sistema : « Voi dite, che i fenomeni o le
rappresentazioni suppongono un assoluto reale. Onde voi
il deducete? Certo dall'uso del ragionamento. Ma fra
questi fenomeni o rappresentazioni la filosofia critica
ammette le stesse leggi del pensare. Queste leggi del
pensare secondo il criticismo sono soggettive, e per così
dire fenomenali. Esse dunque non hanno altra forza
che di conchiudere soggettivamente e fenomenalmente.
L' assoluto adunque vien certo richiesto dalle leggi del
pensiero , e Kant 1' ha trovato anch' egli come il sa
premo effetto del pensiero stesso parlando della ragione:
ma appunto perciò non può essere che un assolalo
fenomenale, ammesso tuttavia come reale dalla neces
sità che n'ha l'uomo» (quest'è la ragione pratica).
3.* Ma ponendo che l'assoluto reale di Schelling sia
bene assicurato ed evidente per sè, e ancora, che nul-
1' altro , eccetto quello , si possa riconoscere di reale
coli' uso del ragionamento, ne viene per questo che
nuli' altro di reale ci possa essere? No: tutt' al più verrà
la conseguenza, che nuli' altro di reale l'uomo conosca.
In tal caso avremo una provincia ignota, come suppo
neva Kant, più ristretta però della kantiana, poiché
Schelling trae da quella l' assoluto e lo realizza. Ma non
è mai buona logica il conchiudere, «Io non conosco al
tro di reale , dunque altro non v' è nè vi può essere».
Che se Schelling volgesse il suo ragionamento a soste
nersi coll'argomento panteistico, « che ciò che è infinito
dee racchiudere tutto, nè può esistere altro fuori di
sè » ; egli si trarrebbe in tal caso ad un partito per
duto , perciocché a quell'argomento fu già tante voli?
risposto in quelle molle cose che furono scritte contro
i panteisti di tutti i secoli.
28 1
Nel meditare sulle idee di Schelling, si vede in esse una
voglia di ridurre tutto ad una unità sistematica ; voglia
da cui erasi lasciato governare già prima Fichte. Quindi
uno sforzo, non di conformare la propria filosofìa alla
natura delle cose, ma di conformare le cose alla pro
pria filosofìa : cioè ad una forma preconcepita nell'animo,
e vagheggiata come di tutte elegantissima: una scienza
con un solo principio, ove trovino loro luogo tutte le
cose ; quasiché all' uomo non potesse esserne celata nes
suna : si direbbe che è uno sforzo, mediante il quale
1' uomo vuole aprire via più gli occhi , e rendersi via
più simile a Dio: una imitazione, una continuazione di
quel primitivo fatto miserando, col quale il primo uomo
sedotto si lusingò di venire al possesso della divina in
telligenza: e in che modo? col secondar pure il pro
prio appetito, e gustare un frutto vietato. E pure non
sembra egli dover essere facile assai 1' accorgerci final
mente, e toccar con mano, che all'uomo, alla sua
potenza , alla sua scienza sono messi de' termini ch'egli
non può trapassare? Quivi conviene che il suo orgoglio
si affranga ; non gli vale fremere , non ispumare. E uno
di qu esti termini è appunto quella linea che tiene di
viso il finito e l'infinito, la creatura e il creatore: in
darno egli farnetica di mescere insieme questi due og
getti in un solo, siccome l'ubbriaco mesce due liquori
in un bicchiere: un abisso li parte; egli non può fran
carlo, non immaginarlo, non conoscerlo.
E io credo per fermo, che Schelling non si sarebbe mai
giltato a mescolare insieme tutte le cose, e a definir Iddio
presso a poco secondo il verso dell'infelice sofista di Nola,
Est animai sanctum , sacrum et venerabile, mundus (i)j
ov' egli , invece di precipitarsi subito in quelle estreme
speculazioni, avesse prima tolto a decifrare e sciogliere
i problemi più elementari del sapere umano (a). 1
ARTICOLO VL
SUL PONTO DI PÀBTENZA DI EOUTERWECK.
Federico Bouterweck s'accorse che Schelling, in vece
di ascendere ad un punto di partenza della filosofia pi"
elevato, era disceso; perchè dall'ordine delle cognizioni
era venuto a quello de' sentimenti, e finalmente anche
a quello degli esseri, che rispettivamente al nostro in
tendimento stanno in un ordine posteriore. Egli <lun"
que obbiellò a Schelling: «Voi partile da una cosa
reale (cioè sussistente), l'assoluto. Ora come dimostrai
voi che v' ha qualche cosa di reale ? Perchè poteste di
mostrar questo, converrebbe che voi mostraste in primo
luogo avervi una facoltà di conoscere atta a percepir'
la realità delle cose , il che si rende sommamente ne
cessario dopo tutto ciò che disse Kant per dimostrar*
I1 impossibilità di una tale facoltà». E veramente, l'ar
gomento di Schelling, che fa Y assoluto evidente per sè}
e necessario acciocché qualche cosa si pensi o sia, seb-
Len verissimo, tuttavia egli non è valido se non d' al
lora che si suppone la nostra ragione pronunziar ret
tamente, ed estendere validamente i suoi giudizj anche
sulle cose reali.
E nello stesso tempo che Bouterweck obbiettava que
sto a Schelling, confutava ancora i puri idealisti in
questo modo : « È impossibile ridurre Vessere alle idee j
poiché analizzando le idee, noi troviamo che gli esseri
sono alle idee precedenti, e causa di esse, e che sono
molto più di esse , essendo più un essere che una idea.
Non è dunque possibile ridurre tutto a vane idee: ma
conviene distinguere le idee e gli esseri, rendere ragione
delle une e degli altri, e della loro relazione e unione».
In sostanza quest' era stato il tentativo di Fichte e di
Schelling ; ma essi a tal fine immedesimarono gli esseri
e i pensieri, o a dir meglio, fecero sortir tutti gli es
seri dal pensiero (i).
Bouterweck osservò ancora, che non si può dare
scienza senza un oggetto, un essere, e che V essere è
indefinibile, nè v' ha filosofo che possa dimandare che
sia 1' essere in generale. U essere adunque è essenziale
al pensiero, conchiuse Bouterweck, e sebben diverso da
lui , è dato con lui. Disse dunque, che si convenia par
tire da una assoluta facoltà di conoscere come da un
fatto primo, evidente, fondamentale, la quale consiste
appunto nella percezione dell' assoluta esistenza. Quindi
la proposizione fondamentale del suo sistema si può
dire che sia la seguente: «Ad ogni sentimento e pen
siero sottostà un essere come fondamento vero e con
seguentemente assoluto, che non ha altro fondamento,
ma che è egli stesso fondamento».
Qui però Bouterweck confondeva 1' assoluta esistenza
coli' esistenza considerata in universale, o sia, che viene
ARTICOLO VII.
SOL PONTO DI riinlU DI BiKDILLI.
(i) Questa ricerca fu pure intrapresa dal nostro Pini nella Prolologia,
opera che se fosse apparsa oltre 1 alpi avrebbe probabilmente sollevato un
gran rumore e nome di sè.
392
cioè l'assoluto (i). Non vale il dire che l' assoluto è
condizione da cui pende ogni certezza ed ogni esistenza:
è ben vero ciò: nulladimeno non è necessario, accioc
ché io sia certo delle cose, che io abbia un'idea po
sitiva dell' assoluto. Io posso avere prima un mezzo di
accertarmi delle cose finite e condizionale: nel qual
caso, in questa mia certezza l'assoluto è compreso im-
patitamente, e suppostovi: ed io posso, ragionandovi
sopra, pervenire anche a scoprirne esplicitamente la ne
cessità. E in fatti tale è il vero progresso del ragiona
mento umano. Perchè noi ci accertiamo delle cose,
basta che noi conosciamo la necessità che ciò cheti
appare sia vero; questa necessità noi la concepiamo me
diante V essere possibile, come ho già mostralo, senza
che io abbia bisogno di recarmi al concetto dell' asso
luto essere sussistente: a cui però quindi appresso io per
vengo, come all'assoluta condizione di tutta la mia
certezza, e di tutti gli esseri de' quali io sono certo;
e questo necessario avanzamento , che fa il mio ragio
namento sviluppandosi, è dovuto alla natura dell' essere
possibile, ed è ciò che ho chiamato già la facoltà in
tegratrice dell' intendimento (a). E a maggior prova di
(i) L' essenza nominale per noi è sempre una essenza generica, eoe*
abbiamo dello già Voi. II, face. 197 e segg.; e l'essenza generica nomi'
naie comprende due elementi, cioè 1 ■ l'essenza universale (che è l'essere a
colle seconde poi si pensa una essenza reale (i). Colle
prime non pensiamo se non una cosa incognita , una
jr, di cui non conosciamo l'essenza reale nè spe
cifica nè generica positiva, e perciò si possono chiamare
in qualche modo idee vuote. Le seconde ci presentano
l'essenza reale o specifica o almen generica della cosa,
e queste si possono dire idee piene. Ora chi confonde
insieme queste due serie distinte d'idee, e pretende
che tutte le idee sieno in noi piene, dee necessariamente
rovesciarsi nel panteismo e in mille altri errori : di
quegli esseri di cui non abbiamo che idee vuote , egli
è costretto a comporsi de' simulacri immaginarj e bu
giardi, a crearsi delle finzioni che tengano il luogo di
idee piene : quindi un Dio composto coi caratteri e
colle proprietà dello spirilo e della materia, impastato
di elementi stranieri rimescolati insieme in mille strane
guise, che non hanno legge, poiché non ha legge il
vagare perpetuo di uua disordinata fantasia; ed ecco il
fonte inesausto di sistemi bizzarrissimi, ingegnosissimi
e giganteschi, i quali anco sbalordiscono pel momento
ed incantano, ma non hanno vita più lunga di quella
che a' abbia la falsità e l' illusione' (2).
(1) Ho già osservato l'errore de' nuovi platonici, che cangiano Dio in
una ideo astratta della mente umana, o questa idea astratta in Dio ( Ved.
il Voi. I degli Opuscoli Filos. face. 4.1 )■ Cosi la mente si divinizza; una
idea diventa un ente , il primo degli enti : si presenta in tali confusioni e
pervertimenti un caos filosofico , si scuopre il gran nulla t
(a) I santi Padri riconobbero una grande attività di spirito ne' Valenti-
niani , e in altri tali acuti eretici. San Girolamo dice, che non può inventare
tali errori. Risi qui ardentis ingenii est, et habtt dona naturae quae a Dea
artifice sunt creata. E soggiunge: Talis Jkil Valentinus , talis Marcion ,
quos doctissimos legimus. In Os. c. X.
(3) Colla lettera B segna il Bardilli la realità, cioè quel carattere che
risulla dal pensiero applicato alla sua materia, e col segno — B vuol signi
ficare il pensiero presente all' applicazione. Or come mai il pensiero
presente nell' applicazione sua alla materia sarà una semplice nega
zione della materia?
(4) Sembrerebbe che nel sistema di Bardilli questo pensiero puro ed as
soluto fosse l'ultimo anzi che il primo, mentre Bardilli parte dall' applica
zione del pensiero per recar poi tutto al pensiero puro ; c che quindi non
Rosmini, Orig. delle Idee, Voi. HI. 38
298
11 pensiefo come pensiero di Bardili) è un pensiero
privo di soggetto, di oggetto, di relazione fra soggetto
ed oggetto, si esprime con un infinitivo pensare deter
minato e determinante. Ora un simile pensiero non può
essere che un astratto, nè mai alcuno l' esperimentò o
il conobbe esistente in realtà. E veramente il pensiero
non può essere che un atto, nè un atto può" esistere
se non c' è chi lo fa , e se non ha un termine ove fini
sca e riposi. Il Bardilli accorda che questo pensare non
si può conoscere in sè stesso , ma solo nella sua appli
cazione: tuttavia egli, senza prova alcuna, siccome
Schelling, ve lo presenta quasi fosse qualche cosa di
sussistente e di attivissimo.
Ed è pure degno di attenzione , quanto i filosofi della
scuola tedesca abusino dell' astrazione. Egli sembra un
principio del senso comune questo, che « togliendo via
da una cosa qualche sua parte, ella si renda più pio-
cola», e in generale, « togliendo via da una cosa qual
che sua perfezione , ella si rimanga più imperfetta »,
Ora certo è che l' oggetto del pensiero è una perfezione
del pensiero: più sono gli oggetti a cui il pensiero si
estende , più egli è vasto e perfetto. Diminuisco io
gli oggetti al pensiero ? ed io rendo qutl pensiero meno
conoscitivo, lo impiccolisco, lo rendo meno attivo. Ri
duco io gli oggetti del pensiero a piccolissimo numero
ed a cose tenuissime? ho impoverito il pensiero via più.
Tolgo io via tutti i suoi oggetti? il pensiero reale più
non esiste , non esiste al più che un concetto astratto
del pensare. Non sembra, che ridotto il pensiero a que
sto stato, io 1' abbia condotto al suo stato imperfettis
simo? ad una mera potenza senz'atto? Certo così di
rebbe il buon senso, e il senso comuue. Quel pensare
(1) Questi termini sono le essenze specifiche e generiche delle cose. Nes
suna di queste essenze è in noi innata.
(3) Voi. II, face. 462 e segg.
I
3oa
rione: ma suppongono che gli oggetti stessi sieno limi
tazioni del pensiero e nulla più ; e ciò perchè non ana
lizzarono abbastanza il pensiero, non distinsero con
abbastanza precisione e chiarezza 1' atto del pensiero e
1' oggetto suo: e in vece di partir da questo, partirono
da quello, come ho detto già sopra (i), e attribuirono
all'atto del pensiero ciò che nel solo oggetto del pen
siero si avvera.
Oltracciò il materialismo del secolo si vede penetrato
in quelle speculazioni sì astratte e apparentemente volle
ad uno spiritualismo esagerato. Perciocché avendo co
storo sempre presente ciò che avviene nel senso, par
lano dell' intelletto colle maniere solo a questo appli
cabili. E come nel senso videro la materia , così supposero
che anche gli oggetti dell' intendimento fossero qualche
cosa di simile alla materia , e eh' essi restringessero e
limitassero l' intelletto ; e non conobbero anzi il loro
esser di forma ; di che avvenne, che in togliendoli via
dall'intelletto, parve ad essi di sgombrare l'intelletto
da qualche cosa di materiale che 1' angustiasse (a).
A malgrado di tutto ciò, ricadono a quando a quando
nella contraddizione sopra indicata, di mettere il mas
simo positivo nel negativo. Poiché non possono talora
non vedere, che, depauperato l'intelletto de' suoi og
getti , egli s' attenua, e riman poco, e finalmente nulla.
Bardilli dice , che il pensiero, sgombrato da ogni og
getto e da ogni soggetto , si appura , e rimane il pen
sare come pensare, che è quanto dire l'essenziale pen
sare. Ma che cosa è , secondo Bardilli , questo pensare
come pensare? La possibilità delle cose. Or qui vedete
intanto come continua l' equivoco tante volte da me
indicato , di attribuire all' atto del pensiero ciò che non
appartiene che all'oggetto del pensiero. Io ho dimostrato,
che la possibilità non è che una proprietà dell' oggetto
essenziale del pensiero , cioè dell' essere in universale.
ARTICOLO I.
ESPOSIZIONE DEL SISTEMA.
(1) Quando noi sappiamo di essere, noi sappiamo anco che cosa siamo:
in altre parole, quando noi sappiamo la nostra esistenza, noi abbiamo
ancora l' idea della nostra essenza specifica. Non cosi di tante altre coso ,
delle quali possiamo saper 1' esistenza senza sapere che cosa sieno posiln
vamente, ma conoscendo di esse solo una relazione che hanno eoa ciò che
è a noi positivamente noto.
(2) Questa è una di quelle frasi enfatiche che nulla dicono di preciso. A
me pare evidente, che il necessario non racchiuda il contingente (reale),
né che un contingente racchiuda un altro contingente che da lui nou di
pende. Dunque tutto non è dato in tutto.
(3) Nel caso che io non appercepissi che me stesso, io sarei distinto
dal resto , perchè il resto non lo conoscerei ancora punto né poco.
(4) Nego questa conseguenza : io non penso punto a tutto quello ebe
non sono io, e non pensandoci, non c'è la possibilità ch'io mi confondi
con ciò a cui io non penso , con ciò che non conosco punto. Ora il uoo
pensare una cosa, non è affermare eh' ella esista.
(5) Basta ch'io mi distingua negativamente, cioè basta ch'io non cono
sca tulle l'altre cose, e conosca me solo, perch'io sia già da tulle l'alti*
cose distinto. Il ragionamento del signor Cousin suppone vero quello di'
è in questione, e pecca perciò di petizione di principio. In falli poniamo
che fosse vero che noi nella prima nostra cognizione appercepissimo tulle
le cose : in la] caso solo sarebbe vero che noi non potremmo appercepir noi
stessi se non affermando insieme 1' esistenza deli' altre cose come distinta
da noi.
(6) Se si trattasse di distinguersi con un atto positivo, lo concedo: db
io non ho bisogno di far alcun alto perchè una cosa da me percepita 10
non la confimela con altra cosa clic io non conosco. Io percepisco la cupola
u ciò da cui 1' uomo distingue sè stesso. L1 uomo non
« trova dunque sè stesso se non trovando qualche cosa
« che lo circonda e per conseguente lo limita (i). E
« veramente, tornate un po' dentro di voi : voi conoscerete
« che l' io che siete voi è un io limitalo da tutte parti
« per gli oggetti esteriori (a). Quest'io è dunque finito;
u ed in tanto eh' egli è limitato e finito, egli e l' io (3).
u Ma se il mondo esteriore limita l'/o e gli fa ostacolo
u in tutti i sensi , l' io altresì agisce sul mondo esteriore,
« lo modifica, s'oppone all'azione di lui e gl'imprimé
« 1% sua in qualche grado; e questo grado di azione ,
« sia egli pur debile, si rende pel mondo esteriore un
« confine, un limile (4). Così il mondo o il non-io che
« nella sua opposizione all' io è il limite dell' io , è
« alla sua volta contraddetto, modificato, limitato dal-
« 1' io, il quale perciò nello stesso tempo ch'egli è
u costretto di riconoscersi limitato, terminato, finito,
« marca alla sua volta il mondo esterno (il non-io),
u dal quale egli distingue sè stesso , del carattere di
« terminato , limitato e finito (5). Ecco 1' opposizione
ARTICOLO IL
£ IMPOSSIBILE PARTIRE DALLA TRIPLICE PERCEZIONE DEL SIC. FROr. MOSI.
§ I.
Non è necessario che nella prima percezione si percepisca
la causa assoluta ed infinita.
Non si dee confondere 1' ordine delle cose reali e sus
sistenti in sè, coli1 ordine delle idee che non sono che
nella mente.
Nell'ordine delle cose reali egli è manifesto, che non
può sussistere nessun essere contingente e limitato, se
non esiste un essere necessario ed assoluto che gli dia
1' esistenza.
Ma dato che degli esseri contingenti e limitali già
sussistano , si possono essi percepire anche senza biso
gno di percepire l' essere necessario ed assoluto che ha
dato loro 1' esistenza ? Questa è una questione appar
tenente all'ordine delle idee, al modo del percepire,
e che non conviene confondere colla prima.
Ora quale può essere il diritto metodo da seguire a
chi voglia sciorre questa seconda questione? Forse l'e
saminare la relazione che tiene l'essere contingente col-
Tessere necessario? No certo; questo sarebbe un ricor
rere all'ordine delle cose reali , e non un cercar l'ordine
e la natura delle idee e delle percezioni. Il vero e na
turai metodo non può esser altro che questo, di pigliare
Ja percezione intellettiva siccome ella è nel fatto, osser
varla f e sottometterla all' analisi: non esaminar già
com' ella debba essere, ma contentarsi di riconoscere
com' ella è. Tutti i ragionamenti del professore di Pa
rigi si riducono a stabilire a priori come la percezione
trovare tulli tre nel primo atto della coscienza; ma in questa fori'é
prima entrino le sensazioni, di poi il peusiero del mondo esteriore, osa
la percezione de' corpi, e in terzo luogo che sopravvenga una nllessioi*
colla quale finalmente 1' uomo s' innalzi a Dio.
(i) Lecon ai Mai 1829.
3n
debba essere; e questo è un fare abuso del ragiona
mento a priori: egli ci dice in sostanza : « Il finito non
può stare senza l'infinito; dunque il finito non si può
percepire senza l'infinito». Il principio è vero; la con
seguenza è falsa: il principio appartiene all'ordine delle
cose reali; le conseguenze appartengono all'ordine delle
idee: sono mescolati i due ordini; nè ciò che è vero
nel primo, si dee credere necessariamente vero nel se
condo, se non si prova.
Non conviene dunque cominciare dall' impor leggi alla
natura della cognizione; noi non siamo da tanto. Con
viene in quella vece che noi cominciamo dall' espe
rienza, che prendiamo il fatto della cognizione tale
quale egli è, non quale noi crediamo che debba essere,
che lo analizziamo, e che veggiamo ciò ch'esso contiene,
e quindi quali leggi egli segua. Ora la percezione nostra
si limita e termina negli oggetti percepiti (i); non va
oltre questa: se uno e limitato n' è 1' oggetto, uno è il
termine della percezione ed egualmente limitato. Ma
quell'oggetto non esiste se non condizionatamente ad
altri oggetti. Sarà vero questo : ma esiste tuttavia la
percezione di quell'oggetto indipendentemente dalle per
cezioni degli oggetti da' quali quel primo dipende : io
posso percepire e conoscere il figlio nella sua propria
esistenza senza conoscere il padre, posso conoscere il
ruscello senza conoscer la fonte , posso percepire un
frutto senza aver mai veduta la pianta ; e tuttavia il
figlio non esiste senza il padre, nè il ruscello senza la
fonie, nè il frutto senza la pianta. Così parimente posso
percepire il limitato senza percepire positivamente l' il
limitato; sebbene il limitato non possa essere senza l'il
limitato. E se si vuole analizzar bene la percezione in
tellettiva degli esseri limitali, si troverà bensì ch' ella
racchiude un concetto incipiente dell'illimitato (l'idea
dell'essere), ma nessuna positiva cognizione, nessuna
percezione di un essere illimitato sussistente. La quale
distinzione fra la parte positiva e la parte vuota o in
cipiente delle nostre idee è sufficiente a sciorre tutte le
apparenti ragioni, dalle quali può essere stata ingenerata
quella opinione che rincresce a me di non poter divi
dere col valente professor parigino.
(i) Non vorrei che altri s'assottigliasse qui per mostrare che questo é
un parlar metaforico. Sia pure , se così si vuole; ma egli non esprime
meno chiaramente una differenza essenziale fra 1' alto col quale si percepi
sce il mondo , e 1' alto col quale si percepisce sè stesso.
Rosmini , Orig. delle Idee, Voi. III. 4°
3i4
due direzioni contrarie, così è assurdo il dire che una
percezione sola e prima percepisca V Io ed il mondo in
uno. Ciò che può aver dato origine a questa falsa cre
denza si è la confusione fra il sentimento e la pera-
zione intellettiva. Poiché noi nel percepire il mondo,
siccome ogni altro oggetto, siamo sempre accompagnati
dal sentimento di noi stessi; dunque, si condii use, per
cepiamo anche intellettivamente noi stessi. Non già, io
rispondo, poiché il sentimento è essenzialmente diverso
dalla percezione intellettiva.
§ 3.
La prima percezione essenziale onde muove ogni ragionamento
è quella dell'essere in universale.
CAPITOLO IV.
e conoscersi? Nessuno , ove prima egli non sta tratto dalla sua quiete na
turale per gli stimoli delle cose esteriori. Questi traggono a sè da prima
1' attenzione dell' intelletto. E in ciò l' intendimento si può assimigliare
all' occhio. Che cosa 1' occhio vede prima? sè stesso? In modo veruno:
egli drizza prima il suo vedere negli oggetti esteriori , e questa è la scena
che primieramente percepisce. Anzi sè slesso non vedrebbe mai , senza
Io specchio, dcI quale mira non sè, ma la propria immagine, pure con
quell'atto col quale vede l'oggetto esteriore del cristallo piombalo. Questa
parte però non s' acconcia all'intelletto pianamente, poiché l'intelletto
Da una virtù riflessiva a differenza del senso. Ma tuttavia l' intelletto prima
che rifletta , come dicevamo , dee esser messo in movimento , e tratto al
l'atto suo diretto. Vedi s. Tomin. $. I, uuyii, I.
3i6
Trovata la possibilità di un ragionamento puro a
priori, si possono stabilirne i confini col seguente prin
cipio : « Tutto ciò che si comprende nell'idea dell'essere,
o che da questa idea sola ragionando, senz'appoggiarsi
su altro dato di esperienza, cavar si può, appartiene al
ragionamento a priori puro » j e tutto ciò che per co
noscersi da noi , oltre 1' idea dell' essere , ha bisogno
di qualche altro dato di esperienza esterna od interna,
non appartiene al ragionamento a priori puro.
Ciò fermato, l'analisi dell'idea dell'edere in uni
versale mostrerà le forze di questa maniera di ragiona
mento rispondendo alle seguenti questioni : i.° Che cosa
contiene in sè medesima quell' idea ? 2.* Che cosa esige
ella e suppone come condizionale? 3.* Che cosa non
contiene ella ? 4 ° nè dal suo contenuto ragionando si
può dedurre? Cominciamo dalle due ultime di queste
questioni , acciocché pel metodo di esclusione veniamo
a restringere il campo delle nostre ricerche.
I. Che cosa V essere presente alla mente non contiene
in sè medesimo ?
Noi abbiamo veduto, che l'essere, come ci sta pre
sente essenzialmente allo spirito, è incompleto : questa
mancanza di compimento abbiamo trovato consistere
nel mancare de' suoi termini , e nell' esser quindi nn
essere iniziale, e medesimamente un essere comune,
perchè mancando de' termini suoi è atto naturalmente
a terminarsi e completarsi in infinite maniere.
Ora da simigliante limitazione si trae questa conse
guenza , che quell' essere non mostra di sè altra sussi
stenza che nella mente , cioè che ci si presenta come
un oggetto alla mente , e nulla più.
E qui conviene attendere sottilmente , per non con
fondere insieme due cose al tutto distinte. Altro è il
dire «un essere mentale», altro il dire «una modifica-
zion della mente » , quasiché quest' essere che noi reg
giamo non sia nulla più che noi stessi modificati.
Confesso che è alquanto difficile a distinguere queste
due cose, e che tale distinzione è quasi al tutto ignota
ne' nostri tempi; ma ella non è meno vera per questo,
nè men rilevante. Io ripeto ciò che ho tante volte detto:
il filosofo non dee rifuggire alla vista de' fatti ; dee am
metterli, ammetterli tutti, dee anche analizzarli e riceverne
di buon animo il risul tamento: egli può ben dire, lo no"
intendo ; può maravigliarsene a suo grado; ma pure
dee accettarli , e non presumere che una cosa sia nè
più nè meno quale egli se 1' è prefigurala: poiché l'uomo
non può impor leggi alla natura, ma riconoscerle quali
sono , e istruirsene colla loro contemplazione: altra
mente non giungerà ad un vero sapere , ma piglierà
oggi ciò che dimani gli sfuggirà di mano , conosciuto
come una sua svista, una sciocchezza. Tornando dunque
al proposito nostro, è l'analisi accurata del primo fatto
della mente, quale è quello dell'intuizione dell'essere,
che ci dà queste due verità, cioè ch'egli i.° è un es
sere mentale (oggettivo), e non un essere sussistente
in sè, e eh' egli a.* non è tuttavia una semplice modi
ficazione della mente.
i.° E veramente egli è un essere mentale, e non an
cora un essere sussistente in sè fuor della mente. Che
vuol dire « un essere mentale» ? S'intenda bene; vuol
dire un essere che ha la sua esistenza nella mente per
modo, che ove noi supponessimo non esistere qualche
mente ov' egli fosse, la sua esistenza ci sarebbe incon
cepibile; poiché noi non conosciamo di lui il modo come
egli è (se pur è) fuor della mente, ma puramente il
modo com'egli è nella mente; non conosciamo Patto
del suo esistere in sè, ma solo Tatto del suo esistere
nella mente nostra. Ora, bene intesa questa definizione,
egli è per sè manifesto, che l'essere iniziale, l'essere comu
nissimo presenta al nostro spirito una semplice possibilità,
non alcuna sussistenza ; quasi direi un progetto di essere,
ma nessun essere veramente completo e in sè attuato. A
conoscer dunque che l'essere innato è un semplice prin
cipio logico, una regola direttrice del nostro spirito,
un' idea , un' essenza mentale , e non ancora un es
sere reale e sussistente, basta esaminare ed analizzare
imparzialmente quest'essere che noi naturalmente veg-
giamo , il quale, appunto perchè comunissimo a tulli
gli enti sussistenti, non è, nè può essere alcun d'essi,
ma solo il fondamento di tutti. E quindi rimangono
confutati que' Platonici antichi e moderni, i quali con
fusero 1' ordine delle idee coli' ordine delle cose reali ,
e dell' essere ideale fecero un Dio , come delle essenze
od idee delle cose fecero altrettante intelligenze sepa
rate, non essendo essi giunti a conoscere la natura del
l'ente mentale, il quale è pur mentale sebbene non
3i8
sia una modificazione del soggetto limitato e finito che
n' ha la visione (i).
2.* Dico dunque in secondo luogo, ch'egli non è una
semplice modificazione della mente, o sia del soggetto
che n' ha 1' intuizione.
E veramente, questo vero si manifesta pure nell'at
tenta considerazione dell'edere in universale. Nel pen
siero dell'essere noi veggiamo, che 1' essere da noi pen
sato è un oggetto della mente , che anzi è 1' oggettività
di tutti i pensieri della mente, come tante volte abbiam
detto. Egli è dunque per essenza distinto dal soggetto,
e da tutto ciò che al soggetto può appartenere; egli è
il lume del soggetto ; egli è superiore al soggetto; il
soggetto è rispetto a lui passivo , egli è essenzialmente
attivo in un modo suo proprio: il soggetto percipiente
è necessitato di vedere, di assentire all'essere, assai più
che l' occhio aperto di sentire gli acuti raggi del sole
che ha di contro e che pungono la sua retina: l'essere
è immutabile, è qual è; il soggetto è mutabile: Tes
sere impone legge, e modifica il soggetto intuente, giac
ché nell'intuizione dell'essere entra una modificazione,
un' attuazion del soggetto ; ma in questa azione dell'es
sere dal soggetto sofferita , 1' agente e il paziente sono
distinti sempre, perchè in opposizione fra loro , e la
passione del soggetto è infinitamente diversa dall'essere
nel quale termina e col quale si unisce patendo. E tutte
queste osservazioni valgono a ribattere l'errore contrario
a quel de' Platonici surriferiti, e di lutti quelli che, non
trovando nell' idea dell'essere un ente realee sussistente
fuor della mente, gli negano ancora una vera oggetti
vità , e ricorrono a dire che sia puramente soggettivo,
cioè una pura modificazion del soggetto (2).
L' attenta osservazione adunque, posta su quest'essere
che nelle nostre menti naturalmente risplende, conduce
a stabilire , che « quest' essere è un oggetto essenzial
mente diverso dal soggetto che lo percepisce , ma che
tuttavia egli non si pensa da noi fornito di altra esi-
CAPITOLO V.
ARTICOLO L
DEFINIZIONI.
ARTICOLO n.
A CHE SI ESTENDA Li COGNIZIONE A PRIORI PORA.
(1) L'unirà assoluta disgiunta dall' idea dell' essere non si dà; né boi
le avremmo imposta una parola diversa da quella che diamo all' esserti
cioè la parola unità , se non avessimo avuto bisogno di escludere dall' es
sere la molliplicilà. In quanto dunque 1' unità si considera separatamente
dall' essere , essa non significa propriamente che una negazione, la na
zione della molliplicilà. Quindi si trovano vane tante speculazioni cbe fu
rono fatte sull' unità , e mancanti di fondamento ; e il difetto di quelle s
fu l'aver considerata l'unirà come qualche cosa per se, presa in sepw»10
dall' essere.
321
sta al fonte della cognizione intellettiva , e si spiega
come ogni vera unità proceda dall'intelletto, e come le
cognizioni umane partecipino di quella unità maravigliosa.
La moltiplicità è una cognizione a posteriori , cioè
data dalla sola sperienza ; e non solo non si contiene
neir essere mentale , ma nè anche si può da lui dedurre
per ragionamento: perchè sebbene si possano ripetere
gli atti co' quali lo spirito si riflette sull'essere, tutta
via tutti questi atti finiscono in quell'essere identico;
ed egli non si può osservare moltiplicato se non nel
caso che si consideri in relazione con que' varj atti dello
spirito co' quali già è cominciata l'esperienza.
Oltre l'analisi, si può adoperare sull'essere il ragio
namento a priori puro; ma noi ci riserbiamo a parlar
di questo nel prossimo capitolo.
ARTICOLO IH.
A CHE SI ESTENDA LA COGNIZIONE A PRIORI.
(1) Questa non è vero composizione, perchè V unità da sé sola non '
anzi che la remozione della moltipìiatà, e quindi non offende la sempli^"
dell' essere , anzi non è che la semplicità stessa di lui. Ma il linguif?"
conduce per sua natura a delle espressioni equivoche j perchè egli
con un vocabolo non solo ciò che è, ma anco la negazione di 010(1"
è; segualo con un vocabolo, sembra qualche cosa anche il nulla.
(2) « Il principio di tutta la scienza, che la umana ragione p»*,*'*
« d' una cosa, dice s. Tommaso, è il concetto della sostanza di lei (citi*
•• essenza ) , poiché il principio della dimostrazione nou è altro clic 1 »
« senza medesima di essa cosa » ( C. G. I, 111 ).
3a3
Ma tutti questi principj rimangono nell'ordine delle
idee. Non possiamo dunque passar punto dall' idea del
l' essere al regno della realità? non ha quest'idea nes
suna interior forza da spingerci punto oltre sè stessa?
Questo è quello che ci resta ad esaminare ne' capi se
guenti.
Ma prima confirmiamo con nuova prova il vero, che
quanto si deduce dall' essere è dedotto a priori, perche*
l' essere stesso non è prodotto da alcuna astrazione , ma
sì dato dalla natura.
CAPITOLO VI.
(1) Taluno riduce tutte le operazioni dell' umano intendimento «Il <W"
lisi ed alla sintesi. Io osserverò solamente sopra di ciò , che due generi di
sintesi conviene con ogni diligenza distinguere, perchè l'uno 01U •to'
sono differentissimi , e in uno I' intendimento mette fuori un» partirowe
su» efficacia più che nell'altro. La sintesi non si può già definire m gene
rale , come si suole, « una congiunzione delle idee ». Questo è un g*»**
di sintesi ; ve u' ha un altro che richiede maggiore altenzioue : in f**
3 a5
L' idea dell'essere adunque dirige colla sua efficacia in
tima e impone leggi all' astrazione , e non può per con
seguenza da questa esser prodotta ed originata.
Perciò quando io nel corso di quest'opera chiamo
l'idea dell essere in universale astrattissima, non in
tendo che sia dalla operazione dell'astrarre prodotta,
ma solo eh' essa sia per sua natura astratta e divisa da
tutti gli esseri sussistenti. E veramente in ordine alle
astrazioni formate potrebbe dirsi che ve n' abbia alcuna
più astratta dell'idea stessa dell'essere, giacché l'idea
d' unità, di possibilità ecc. sono idee che suppongono
un' astrazione formata sull' essere stesso.
CAPITOLO VII.
ARTICOLO I.
come si possa inst1tu1re un ragionamento senza usare alcun altro dato
fuori dell'idea dell'essere.
ARTICOLO IL
CENNI SOMA UNA DIMOSTRAZIONE DELL' ESISTENZA DI DIO A PRIORI.
(i) L'uomo che non avesse se non l'idea dell' essere, non alcuna sen
sazione, non alcuno impulso, non farebbe mai alcun ragionamento : que
sto è evidente senza che io qui lo noli, e si fa manifesto da tutu la no
stra teoria. Ciò però non nuoce alla presente questione delle forze del
ragionamento a priori puro : poiché non si cerca qui se 1' uomo avrebbe
il motivo impellente di fare effettivamente un ragionamento non possedendo
in sè che la sola idea dell' essere ; ma se noli* idea dell' essere si compren
dano tutti i dati necessarj al detto ragionamento, sicché, sopravvenendo il
motivo, far si potesse. In somma non si chiede se il bambino neU' utero
materno ragioni a priori, il che sarebbe una puerile sciocchezza; ma se
un uomo sviluppato ed adulto, anzi un filosofo, possa instituire un ri-
gionamento a priori c puro.
le, è di tal natura, come abbia m veduto, che da una parte
non mostra alcuna sussistenza fuori della mente, e quindi
si può denominare un essere mentale o logico; ma dal
l' altra egli ripugna che sia una semplice modificazione
del nostro spirito, e anzi spiega egli tale attività, verso
a cui il nostro spirito è interamente passivo (i) e sud
dito : noi siamo conscii a noi medesimi di nulla potere
contro 1' essere, di non poterlo immutare menomamente:
di più, egli è assolutamente immutabile, egli è l'atto
di tutte le cose, il fonte di tutte le cognizioni: insom
ma egli non ha nulla che sia contingente, come noi
siamo: è un lume, che noi percepiamo naturalmente,
ma che ci signoreggia , ci vince , e ci nobilita col sot
tometterci interamente a sè. Oltracciò noi possiamo pen
sare che noi non fossimo ; ma sarebbe impossibile pen
sare che l'essere in universale, cioè la possibilità, la
verità non fosse. Avanti di me il vero fu vero, il falso
fu falso , nè ci potè mai essere un tempo che fosse al
tro che così. È questo nulla ? No certamente : chè il
nulla non mi costringe , non mi necessita a pronun
ziar nulla: ma la natura della verità che risplende in
me, mi obbliga a dir: « Ciò è»; e ov'io non lo volessi dire,
saprei tuttavia che la cosa sarebbe egualmente, anche
a mio dispetto. La verità dunque, l'essere, la possi
bilità mi si presenta come una natura eterna, necessa
ria, tale contro a cui non può alcuna potenza, poiché
non può concepirsi potenza che valga a disfare la ve
rità. E tuttavia io non veggo come questa verità sus
sista in sè; io non ne sento che una forza ineluttabile,
una energia, che si manifesta dentro di me, e la mia
mente e tutte le menti soggioga, e soavemente domina,
come un fatto, senza possibilità di opposizione.
L' essere dunque nella mia mente , o la verità , o il
lume intellettuale è un fatto: questo fatto mi dice
(i) Cum ipsa intellectiva virtus creaturae, dice s. Tommaso, non sit
Dei essentia , relinquitur quod sit aliqua participata similitudo ipsius, qui
est primus intellectus (S. I. zìi, u). Quindi l'uomo fu crealo ad immagine
e similitudine di Dio.
(a) Può vedersi questa questione trattata nella Filosofia che espose Carlo
Francesco da San Floriano secondo la mente di Scolo , mettendo a con
fronto i pensamenti di questo acuto ingegno della Scuola con quelli dei
filosofi moderni, e che fu stampata in Milano l'anno 1771 , T. lì, p. io3.
(3) Non è necessario propriamente provare, eh' egli non sia un acci
dente o una modificazione dello spirito nostro ; 1 0 perchè in questa argo
mentazione lo spirito nostro si suppone incognito, e viene da lei intera
mente escluso ; 2.* perchè I' essere è per sè dallo spirito così distinto e
separato, che è impossibile al tutto il confonderlo col medesimo, ove di
rettamente si percepiscano entrambi. La prima percezione dell'ente esclude
la percezione di noi stessi , la quale come tante volte dicemmo e riflessa.
Rosmini , Orig. delle Idee, frol. III. 42
33o
niente, ma altresì 1' esistenza assoluta, e, come la chia
mano, metafisica, o in sè medesima, esistenza pieni
ed essenziale; e un tal essere è l'essenza divina. Per
tal modo 1' essere necessario sussistente o metafìsico si
identifica, aggiungendosi il complemento e naturai ter
mine, coli' mere necessario logico: e quindi non esi
stono propriamente due necessità, 1' una logica, l'altra
metafisica; ma una sola, la quale ad un tempo è nella
mente e in sè stessa (i).
CAPITOLO I.
CAPITOLO III.
CAPITOLO IV.
CAPITOLO V.
Ove per fatto s' intenda ciò che è; 1' essere, da cui
noi diciamo che si dee partire, non solo è un fatto,
ma il principio di tutti i fatti.
Non è dunque che si debba partire da un fatto qua
lunque , nè da un fatto contingente; ma si dee partire
dal fatto primo, dal fatto necessario, intelligibile per
sè, onde tutti gli altri fatti sono possibili , intelligibili.
Alla dimanda poi, se si debba partire dal fatto della
coscienza, rispondo che queste parole non sono prive
di equivoco , e che perciò possono ricevere una rispo
sta tanto affermativa che negativa. Se per fatto della
coscienza s' intende l' essere mentale concepito congiuD-
tamente col soggetto che lo intuisce , col sentimento
che accompagna quella intuizione, io dico in tal caso,
che questo è un fatto della coscienza complesso, cioè
composto di due elementi , sentimento l'uno, l'altro
idea (2). Ora la cognizione intellettiva non può avere
(1) Vedi ciò che ho dello sopra di ciò, face. 021 e seg.
(a) Voi. II, face, tat e segg.
due punti di partenza , nè può partire da ciò che non
è puramente intellettivo e mentale; perocché il senti
mento soggettivo non ò ancora intellettual cognizione ,
ma materia solo di cognizione, la quale si rende co
gnizione di poi , quando riflettendo sopra di lei , ci
formiamo di noi stessi l' idea. Se poi per fatto della
coscienza non ai vogliano intendere tutti e due quegli
elementi eh' entrano a comporre il detto fatto , ma so
lamente P elemento intellettivo, la pura luce dell'essere
che risplende nelle nostre menti e che non è che il
termine della nostra interiore visione; in tal caso si può
dire che la filosofia parte dal fatto primitivo della co
scienza, cioè non dall'atto della coscienza slessa, ma
sì da ciò che la coscienza con quell'atto concepisce e
testifica a sè di concepire siccome suo oggetto (1).
CAPITOLO VI.
(i) Le obbiezioni fatte a Reinhold, che partiva dal fatto della coscienza,
massime dall' autore dell' Enesideroo, cadono tutte con questa distinzione.
È però vero ebe non è interamente chiara nè esatta , semplicemente par
lando, la proposizione, « che la scienza parte dal fatto della coscienza».
(a) San Tommaso, secondo il costume degli scolastici del suo tempo, in
titola tutte le trattazioni eh' egli fa, Questioni; e comincia dalle obbiezioni
che si possono fare alla verità : Videtur quod Deus non sit , ed altri simili
modi aprono la questione. E ciò fa perchè, come dice il santo Dottore,
UH qui voìunt inquirere veritatem , non considerando prius dubitationem ,
assimiìantur illis qui nesciunt quo vadant, In Metaph. L. Ili, c. i.
cominciameli lo della filosofìa, lo stato supposto dell'uomo
è anzi uno stato d1 ignoranza metodica che di dubbio
metodico : perocché cominciando la filosofia dall' asse
gnare l'origine delle cognizioni umane, e quindi pro
cedendo a dedur mano mano le umane cognizioni da
quella origine prima , viene supposto dalla natura della
trattazione, che avanti la loro origine le cognizioni non
sieno; e l'assenza delle cognizioni nell' uomo si chiama
ignoranza : nel che si vede distinto il carattere della
filosofia cartesiana dalla nostra : conciossiachè quella di
Cartesio si mostra di un' indole dimostrativa , e si pro
pone fino dal suo principio di cercar la certezza; quando
la filosofia nostra risale un passo più addietro, e non
comincia dal dimostrare, ma sì bene dall' osservare quali
sieno i primi dati coi quali la dimostrazione stessa si
forma , e che costituiscono la possibilità della medesi
ma. Il primo scopo quindi della nostra filosofia non è
la certezza delle cognizioni, ma le cognizioni s lesse, la
loro esistenza, la loro origine, trovata la quale, è poi
trovato come un corollario anche il principio della cer
tezza. Tuttavia V origine delle cognizioni e la loro cer
tezza sono assai affini , e sono affini perciò fra loro lo
stato d' ignoranza metodica e lo stalo di dubbio metodico.
Ma prima , per rimuovere ogni ambiguità e giusta ca-
gion di censura da questa sentenza, conviene eh' iodi-
mostri chiaramente qual luogo tenga nell' uomo una
tale ignoranza e un tale dubbio ; il che è la seconda
osservazione che mi sono proposto di fare.
Io ho già distinto la scienza popolare dalla scienza
filosofica; e ho definito la scienza filosofica come l'ef
fetto di una riflessione ulteriore che analizza, dimostra,
e ordina la scienza popolare , e così compone la filoso
fia (i). Ora ai comuni bisogni della vita umana è suf
ficiente, generalmente parlando, la scienza popolare,
sebbene rechi di molto vantaggio altresì la filosofica. Ora
ciò che io voglio qui osservare si è, che tutta la scienza
popolare colla sua certezza dee esser sempre conservata
nell'uomo, nè mai può esser cassata o addotta in un
dubbio universale. All'opposto, quando comincia quella
riflessione ulteriore colla quale l'uomo fa i primi pa»
(i) Nel Discorso sui Metodo, Cartesio, dopo avere proposto il suo dub
bio come principio della filosofia , egli lo restringe mediante alcune mas
sime pratiche; « La prima delle quali , die' egli, sarebbe di ubbidire alle
i leggi e a' costumi del mio paese, ritenendo costantemente la religione
« nella quale Iddio mi fece la grazia d' essere istruito fino dalla mia in-
n fanzia , e governandomi in ogni altra cosa a tenore delle opinioni più
t moderate e più lontane da eccesso, che fossero nella pratica le più ri
ti cevute dagli uomini più sentiti fra quelli co' quali mi convenisse di vi-
« vere ». Sebbene qui si veda che Cartesio non poco deferiva al senso
comune , tuttavia alcune sue espressioni dimostrano chiaramente eh' egli
non avea ben notata 1' importanza e la certezza della cognizione diretta e
popolare.
INDICE
Laerzio, I, 25o.
Fallati, I, 63; II, 3g-4o. Laromiguiere , 1 , 74 ; II , 432, 43G-43;.
Feder, I . 3 1 4- Leibnizio, I , xxxiu, 9. 208, 140,
Felire (Minimo), I, xxx. 258-288, 291-292, 295. 364-365, 370;
Fichte, III, 120, 263-281, 286-291, II, 8, 10, 61, 11 3, 268, 296, 35i,
296.3o5. 364, 3g3, 4**>; III, 192-
Firino (Marsiglio), II, 88. 48... Loeke, I, ix, 3, 5-io, 1 5-36. 65-67,
Filibert, II, 479. 73-75, g5-g6, 148-149. i65-i6t>,
Fodere, II , 4 177-178, 181-185, 206-207, «5,
Fortunato da Brescia, I, 5o, i94- 258-259, 26i, 270, 275, 286-288,
Fozio, 111, 36. 290-291, 295-298, 3oo, 3o5-3o-,
3io-3i2,3i6. 3i9; II, 6-8.21, 43^8,
61. 66, 72. 244^45. 268,35i,384-
385, 423, 43o-43i, 434, 436-43:,
Galileo, I, 96; II, 35i, 3;8. 457, 480; 111, 10, 61, 137, 216,
Gallini, II, 244- 260-261.
Galluppi. I, 18, 32, 39. 63. 82-83, Lucrezio, II, 377: III, 78.
i44, 247, 3i5; li, 4«), a3o. 23l- Lullo (Raimondo), I, xxxui.
237, 246, 265-267, 287, 406. 418,
4*4-4*5, 432-433, 435-437 , 44>-442,
48 1 ; III, 3i8.
Garve, II, 44 1 - Malebranche, I, 287, 36i ; II. q, 43.
Gassrndi, I, 1 84-1 85. 117, 296, 34i. 46o, 466, 4;;-48o;
Genovesi, 1, 3 19, 366. III, 188-194, 33a-333.
Ordii, I . 63; ÌI, 48o. Mennais (La), I, xxxi; III, 20,96.
Gioja, I , i5, 38; II, 4i3. Mettrie (La) , I, i48.
Giovenale, II, 382. Miceli, 1, 63.
Giovenale (Padre), II, 479- Molineaux, I, 36; II, 3gi.
Girolamo (s.), Ili, 67, 297.
Giuntino (s.), I, xx-xxin. ' N
Gregorio (s.), Ili, a54.
Gregoris, li, 287. Newton, I, 96; II, 69, 354.
Norris, II, 117-118.
Il
Haller (Alberto), II, a57. O
Hauy, II. 4i3. Oberrauc, II, 4 79-
Helvezio, I, i48. Ockamo, I, i63.
Hobbes, I, i48.
Hook, II, 45o.; III, 55.
Hume, 1 , 63-64. 67, 73, 292. 298-301,
3o6-3(>7, 309-311, 3i6, 3i9 ; II, Pini (Ermenegildo), 1,63; HI, Kit.
1 76-191. 207, 209. 2i5, 225, 245-246, Pirrone, III, 36, 80.
35 1, 418, 438, 44o, 453. Pittagora, I, 25i-a53: II, 88.
I Platone , I ,ix . xxn , i38. 151,187-257,
277, 364-366; II, 8, 10, 33,64-65,
Ilario (s.), I. xxvtn-xxix; III, 72. 84-86, 88. n5, 3*4, 43i, 439, 4<i;
Ireneo (».), II , 2g5. III, 59. 77. 148. 162.
Jarobi, II, 9.87. Protagora, III, 76-77, 81.
Janin . Il , 287.
Jouffroy, I, xi.
Reid, I, 63-o6, 140, 144, i4q-i5o,
i53, 180, i83, 2o5, 307, 310-J17,
3io, 326. 354, 36i-363; II, 7,«.
Kant, I, xxxiv, ao5, 23i, 285-368, 4o-5o. 53 . 56. 66, 229-131. J5i,
370, 373, 375-378; 11,8, 10-12, 3!, 353-354, 384-385, 421-4Ì5, lU-ft,
439-441, 453, 457,481; 111,7,9-10, Temistio, 1, 2i5-2iG, a45-246.
91- Teofrasto, I, 209.
Keinhold, IH, 267, 33g. Tertulliano, HI, 174-175, 178.
flicherand ( Antclmo) , II , 258. Tommassini, II, 479-480.
Rousseau, I, 98; li, 100; III, 170. Tommaso (s.), I, 86, 162-163, 217-218,
224-225, 228,237-240, 242; II, 42,
S 70-72, 74-75, 77-79, 81-82, 84-85,
90, 106-108, 1 12-117, 126, i34, 139,
Schelling, III, io5, 266, 272-289, 292, I99-202, 23 1, 244, 272-274, 204,
296, 298-300. 323, 342, 377, 43 1, 44o, 446, 46i,
Scriblero, I, 166. 47i, 476, 478-480; III, 3, 53-54,
Secretano dell'Accademia del Cimen 56-59,61-62,64,69-70, 73-74, 84-85,
to, II , 11. 89-9°, 93, g5, io3, 107, 111-112,
Senofonte, I, 253-254. 116-117, 119, 123, 12S, i36-i37,
Sesto Empirico, I, 209; III, 20, 25, 147-149» i54, i58-i6o, 162-164,
28, 36, 76-77. 166-171, 173-175, 191, 206, 235,
Simplicio, II, 328. 237, 239, 24^-243, 245, 3o2, 3i4,
Sistema della natura (Autore del), 322, 329, 339.
I, 48. Tracy (Dcstutt-), I, l5j li, 246,
Simili . I, 97-131. 44o-44 1.
Soave, I, 63.
Socrate, I, 25i-254. V
Spallanzani, li, 455.
Spinoza, II, 224. Vico, I, i85.
Stewart, I, 64, 65, 76, 95-177, 180, Voltaire, III, 264.
182; II, 8, 66, 417. Wollio, I, 194-196.
T
Talete, I, 25 1-253.
Tartarotti, II, 4;9-