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APPARATO LOCOMOTORE

L'apparato locomotore è il risultato dell'unione tra l'apparato scheletrico e l'apparato muscolare.


I principali elementi anatomici che lo costituiscono sono: le ossa, il tessuto cartilagineo, i muscoli,
le articolazioni, i tendini e i legamenti.

• Le ossa formano lo scheletro e servono a dare stabilità e sostegno al corpo umano, e a


proteggere alcuni organi interni;
• il tessuto cartilagineo supporta l'azione delle ossa;

• i muscoli scheletrici servono al movimento;


• i muscoli del cuore servono alla contrazione di quest'ultimo;
• i muscoli lisci rivestono gli organi cavi presenti nel corpo;
• articolazioni, tendini e legamenti permettono a ossa e muscoli di funzionare al meglio e
consentono i movimenti corretti dello scheletro.
Tra le più importanti patologie dell'apparato locomotore, rientrano: le fratture ossee, le lesioni
muscolari, e le distorsioni articolari.

L'apparato locomotore, o apparato muscolo-scheletrico, è il complesso di ossa, muscoli e strutture


annesse che garantisce all'essere umano stabilità, sostegno e capacità di movimento.
L'apparato locomotore è, quindi, il risultato dell'unione tra l'apparato scheletrico (o sistema
scheletrico) e l'apparato muscolare (o sistema muscolare).

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Organizzazione
L'apparato locomotore comprende le ossa dello scheletro, il tessuto cartilagineo, i muscoli, i tendini,
le articolazioni, i legamenti e tutti quei tessuti connettivi che uniscono tra loro le varie strutture
anatomiche (tra cui altri tessuti e altri organi), presenti nel corpo umano.

SCHELETRO E OSSA

Lo scheletro umano è l'insieme strutturato delle varie ossa che risiedono all'interno del corpo.
Alla nascita, lo scheletro dell'essere umano comprende più di 300 ossa; durante il processo di
crescita, diverse ossa si fondono tra loro e ciò comporta che, in età adulta, il numero totale di
elementi ossei presenti nel corpo umano sia 206.
È opportuno precisare che il numero di ossa umane è oggetto di numerosi dibattiti, in quanto alcuni
anatomisti considerano certi elementi ossei, ritenuti un pezzo unico dai più, come l'insieme di due
ossa distinte.
Le ossa del corpo umano differiscono tra loro per forma e dimensioni. In base ai suddetti parametri,
è possibile riconoscere l'esistenza di almeno 5 tipi (o classi) di ossa:
• Le ossa lunghe. Sono così chiamati gli elementi ossei in cui la lunghezza prevale su spessore
e larghezza. Comprendono tre regioni: una regione centrale, chiamata diafisi, e due regioni
laterali (alle estremità della diafisi) denominate epifisi prossimale (l'estremità più vicino al
centro del corpo) ed epifisi distale (l'estremità più lontana dal corpo). Nella diafisi delle ossa
lunghe, risiede il midollo osseo, l'organo deputato alla sintesi delle cellule del sangue (globuli
rossi, globuli bianchi e piastrine). Esempi di ossa lunghe: femore, tibia, perone (o
fibula), omero, radio, ulna ecc.
• Le ossa corte o brevi. Sono le ossa la cui lunghezza e il cui diametro sono molto simili.
Il tessuto spugnoso che le costituisce presenta un rivestimento laminare di tessuto
dall'aspetto assai compatto. Esempi di ossa corte o brevi: ossa del polso, ossa del calcagno,
ossa delle vertebreecc.
• Le ossa piatte. Sono le ossa in cui larghezza e lunghezza prevalgono sullo spessore.
Assomigliano alle ossa corte: presentano un tessuto spugnoso al centro, con un rivestimento
laminare di tessuto compatto. Esempi di ossa piatte: ossa del cranio, ossa del bacino, ossa
dello sterno ecc.
• Le ossa irregolari. Sono le ossa di forma irregolare. Esempi di ossa irregolare: osso
sfenoide e osso etmoide del cranio.
• Le ossa sesamoidi. Sono le ossa che hanno un aspetto simile ai semi di sesamo. La loro
funzione è favorire la meccanica del movimento. Esempi di ossa sesamoidi: rotula e osso
pisiforme del carpo della mano.

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Lo scheletro ricopre diverse importanti funzioni:

• Provvede a dare forma al corpo.

• Garantisce sostegno e protezione ad alcuni organi interni.

• Permette i movimenti del corpo.

• Produce le cellule del sangue, attraverso il midollo osseo.

• Funge da punto di stoccaggio dei minerali assunti con la dieta e fondamentali per la buona
salute dell'intero organismo.

TESSUTO CARTILAGINEO

Il tessuto cartilagineo (o cartilagine) è un tessuto connettivo, avente funzione di sostegno e dotato


di estrema flessibilità e resistenza. La cartilagine è costituita da cellule particolare – i
cosiddetti condrociti – ed è sprovvista di vasi sanguigni. Nel corpo umano, il tessuto cartilagineo
presente può avere peculiarità diverse, a seconda delle funzioni che deve svolgere. A tal proposito,
si pensi per esempio alla cartilagine dei padiglioni auricolari e alla cartilagine
dei menischi del ginocchio: pur appartenendo alla stessa categoria di tessuto, e pur essendo
composti da condrociti, questi due tessuti cartilaginei differiscono notevolmente per consistenza e
proprietà specifiche.

Tipi di cartilagine del corpo umano Dove trovarla? Alcuni esempi

Cartilagine ialina
Coste, naso, trachea e laringe

Cartilagine elastica
Padiglione auricolare, tuba di Eustachio ed epiglottide

Cartilagine fibrosa
Dischi intervertebrali, menischi e sinfisi pubica

MUSCOLI

I muscoli sono gli organi deputati al movimento del corpo e di alcune sue parti.
Essi, infatti, conferiscono motilità allo scheletro, ad alcuni organi di senso (per esempio gli occhi) e
a piccole strutture anatomiche (per esempio i peli della cute). L'apparato locomotore, per la
precisione la sua componente muscolare, comprende due tipologie diverse di muscoli:
• I muscoli striati e
• I muscoli lisci
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Alla tipologia dei muscoli striati appartengono la muscolatura scheletrica e la muscolatura
cardiaca (o miocardio).
La muscolatura scheletrica include tutti gli elementi muscolari che, attraverso la loro unione alle
ossa dello scheletro, consentono il movimento del corpo.
La muscolatura cardiaca, invece, è la componente muscolare che caratterizza le pareti contrattili
(atri e ventricoli) del cuore. Mentre la muscolatura scheletrica è volontaria (cioè è l'essere umano,
attraverso impulsi nervosi, a comandarne la contrazione e il rilassamento), la muscolatura cardiaca
è involontaria e possiede la straordinaria capacità di autocontrarsi.
Passando quindi ai muscoli lisci, questi sono gli elementi muscolari caratteristici degli organi interni
cavi – come per esempio lo stomaco, l'intestino, la vescica, l'utero, i vasi sanguigni e i vasi linfatici –
e di alcune strutture anatomiche particolari – tra cui la parte interna del globo oculare (muscoli
dilatatori della pupilla) e i peli cutanei (muscoli erettori dei peli). I muscoli lisci sono involontari.

Talvolta, in alcuni libri di anatomia umana, i muscoli sono suddivisi in tre tipi anziché due: la
muscolatura scheletrica, la muscolatura cardiaca e la muscolatura liscia.

Muscoli della Trapezio, Elevatore della scapola, Gran dorsale, Grande rotondo, Piccolo
schiena rotondo

Muscoli
dell’addome Retto dell’addome, Obliquo interno, Obliquo esterno, Trasverso
dell’addome, Quadrato dei lombi, Ileopsoas

Muscoli
dell’arto Grande pettorale, Trapezio, Bicipite brachiale, Tricipite brachiale, Cuffia
superiore dei rotatori (Piccolo rotondo, Sovraspinato, Sottoscapolare, Sottospinato),
Deltoide.

Muscoli Quadricipite femorale (vasto mediale, vasto laterale, vasto intermedio,


dell’arto retto femorale), Bicipite femorale, Adduttori (breve, lungo e grande),
inferiore Popliteo, Tricipite della sura (gastrocnemio laterale, gastrocnemio
mediale, soleo) Gluteo (piccolo, medio e grande)

TENDINI

Un tendine è una formazione di tessuto connettivo fibroso, dotato di una certa flessibilità, che
unisce un muscolo scheletro a un elemento osseo. Quindi, i muscoli scheletrici precedentemente
descritti trovano inserzione sullo scheletro, per mezzo dei tendini. I testi e gli esperti di anatomia
hanno la tendenza a identificare l'estremità iniziale e l'estremità terminale di un muscolo con il
tendine presente su ciascuna di queste due estremità.
La funzione dei tendini è trasformare in movimento la forza generata dalla contrazione dei
muscoli scheletrici.

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LEGAMENTI

I legamenti sono formazioni di tessuto connettivo fibroso che uniscono tra loro due ossa distinte o
due parti differenti dello stesso osso. Sono componenti fondamentali delle articolazioni: da loro,
infatti, dipende il movimento controllato e fisiologico degli elementi articolari. Senza i legamenti o
se i suoi legamenti presentano una lesione, un'articolazione funziona male ed è instabile; inoltre, le
sue parti costituenti sono suscettibili a rotture o comportamenti anomali.
Funzione

Le funzioni primarie dell'apparato locomotore sono tre:

• Offrire supporto e sostegno al corpo umano

• Permettere la locomozione e tutti i vari tipi di movimenti del corpo

• Proteggere gli organi vitali interni

SCHELETRO
Lo scheletro è l'impalcatura interna del corpo umano. Alla sua costituzione, partecipano,
principalmente, le ossa e, in seconda battuta, le cartilagini e le articolazioni.
Secondo la più classica delle visioni anatomiche, lo scheletro umano è suddivisibile in scheletro
assile e scheletro appendicolare. Lo scheletro assile comprende: il cranio, i tre ossicini di
ciascun orecchio, l'osso ioide, la colonna vertebrale e la gabbia toracica. Lo scheletro
appendicolare, invece, include: il cingolo scapolare, gli arti superiori, la pelvie gli arti inferiori.
L'uomo possiede uno scheletro leggermente differente dalla donna: le diversità sono sottili,
tuttavia un occhio esperto (es: un medico) è in grado di coglierle e capire il sesso di un individuo
dalla sola osservazione dell'impalcatura scheletrica (quando, chiaramente, non è disponibile altra
informazione).
Lo scheletro ricopre varie funzioni, tra cui: sostegno del corpo umano, protezione di organi e
tessuti molli sottostanti, assistenza all'equilibrio e al movimento, produzione di cellule del sangue,
rilascio dell'ormone osteocalcina e reparto di stoccaggio per sali minerali come il calcio e il ferro.
Lo scheletro può essere vittima di infortuni (es: fratture ossee o distorsioni articolari) e patologie,
come l'osteoporosi o l'artrite.
Anatomia

Lo scheletro di un essere umano adulto costituisce il 30-40% della massa totale del corpo (massa
corporea) e comprende ben 206 ossa, diverse per forma e funzione, e presenti in modalità pari
(es: i due femori) o impari (es: osso ioide).
DIVISIONI ANATOMICHE: SCHELETRO ASSILE E APPENDICOLARE

Secondo la visione anatomica classica, lo scheletro dell'essere umano è suddivisibile in: scheletro
assile e scheletro appendicolare.
Lo scheletro assile è l'insieme delle ossa che costituiscono il cranio, la colonna vertebrale e

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la gabbia toracica, più l'osso ioide e i tre ossicini di ciascun orecchio (martello, incudine e staffa).
In tutto, comprende 80 elementi ossei:
• Le 22 ossa del cranio;

• Le 33-34 ossa della colonna vertebrale;


• Le 25 ossa della gabbia toracica (12 paia di costole più lo sterno).
• I già citati osso ioide e 3 ossicini di ciascun orecchio;
Lo scheletro appendicolare, invece, rappresenta l'insieme delle ossa che formano la cintura
scapolare (o cingolo scapolare), gli arti superiori, la pelvi e gli arti inferiori. Nel complesso,
include 126 elementi ossei:
• Le 4 ossa del cingolo scapolare, che sono le 2 scapole e le 2 clavicole;
• Le 3 ossa di ciascun arto superiore mano esclusa, che sono omero, radio e ulna;
• Le 27 ossa di ciascuna mano, che sono le ossa carpali, i metacarpi e le falangi delle dita. Le
due mani, quindi, contengono la bellezza di 54 ossa;
• Le 2 ossa della pelvi, che sono le ossa iliache;
• Le 4 ossa di ciascun arto inferiore piede escluso, che sono il femore, la rotula, la tibia e
il perone;
• Le 26 ossa di ciascun piede, che sono le ossa tarsali, i metatarsi e le falangi delle dita. I due
piedi, pertanto, contribuiscono al numero totale delle ossa dello scheletro con ben 52
elementi.

ARTICOLAZIONI

Le articolazioni sono strutture anatomiche, talora complesse, che mettono in reciproco contatto
due o più ossa. Nello scheletro umano, sono 360 e adempiono a funzioni di sostegno, mobilità e
protezione.
Secondo la più comune visione anatomica, esisterebbero tre categorie principali di articolazioni:
• Le articolazioni fibrose (o sinartrosi). Mancano generalmente di mobilità e le ossa
costituenti sono tenute insieme da tessuto fibroso. Tipici esempi di sinartrosi sono le
articolazioni presenti tra le ossa del cranio.
• Le articolazioni cartilaginee (o anfiartrosi). Sono dotate di scarsa mobilità e le ossa
costituenti sono unite da cartilagine. Classici esempi di anfiartrosi sono le articolazioni che
collegano le vertebre della colonna vertebrale.
• Le articolazioni sinoviali (o diartrosi). Sono provviste di una grande mobilità e
comprendono varie componenti, tra cui: le superfici articolari e la cartilagine che le ricopre,
la capsula articolare, la membrana sinoviale, le borse sinoviali e una serie di legamenti e
tendini.
Esempi tipici di diartrosi sono le articolazioni della spalla, del ginocchio, dell'anca e
della caviglia.

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DIFFERENZE TRA I DUE SESSI

Lo scheletro dell'uomo presenta alcune differenze rispetto allo scheletro della donna.
Tali diversità sono sottili (solo un occhio esperto è in grado di coglierle) e riguardano:

• Il cranio. Tra il cranio maschile e il cranio femminile c'è una differenza grossolana a livello
di: linea mediana nucale, processi mastoidei, margini sopraorbitali, arcate sopracciliari e
mento.
• Le ossa lunghe e la muscolatura che le riguarda. Le ossa lunghe dell'uomo sono più larghe
delle ossa lunghe della donna. Inoltre, le zone d'inserzione dei muscoli, sulla ossa lunghe,
sono molto più ampie e resistenti negli uomini, piuttosto che nelle donne, a dimostrazione
della maggior forza muscolare del sesso maschile, rispetto al sesso femminile.
• La pelvi. La pelvi femminile differisce dalla pelvi maschile per forma e dimensione. È infatti
più larga e più spaziosa, per consentire la crescita del feto, durante
un'eventuale gravidanza, e favorire la fuoriuscita dello stesso feto, al momento del parto.
Pertanto, le diversità a livello pelvico tra i due sessi sono legate alla riproduzione.
Al cospetto di un resto scheletrico di cui si ignora l'appartenenza di genere (è uomo o è
donna?), l'osservazione della pelvi rappresenta uno dei metodi d'indagine più accurati e
attendibili, per stabilire il sesso.
• La robustezza generale dell'impalcatura scheletrica. Gli elementi scheletrici femminili
hanno la tendenza a essere meno robusti e più piccoli degli equivalenti elementi scheletrici
maschili.
Le differenze a livello scheletrico, esistenti tra uomo e donna, sono un esempio
di dimorfismo sessuale.
Per dimorfismo sessuale, s'intende la differenza morfologica tra individui appartenenti alla stessa
specie, ma di sesso diverso. Nello scheletro umano, un osso lungo che permette di stabilire, con
un certo grado di sicurezza, il sesso di un individuo è la clavicola. Rispetto alla clavicola femminile,
la clavicola maschile è più spessa, forma una S più accentuata, manca di simmetria (nel senso che
la clavicola destra è diversa dalla clavicola sinistra) e, infine, possiede zone d'inserzione per i
muscoli più ampie.

SCHELETRO NEI NEONATI


Lo scheletro di un essere umano appena nato comprende circa 300 ossa, quindi quasi un centinaio
in più rispetto allo scheletro di un essere umano adulto.
Tale differenza dipende dal fatto che, con la crescita, molte ossa adiacenti distinte si fondono tra
loro, formando un osso unico.
Esempi tipici di ossa che si fondono, durante la crescita, sono le ossa del cranio (processo di
fusione delle suture craniche).

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Funzioni

Lo scheletro adempie a uno svariato numero di funzioni, tra cui:

• Sostegno. Gli elementi ossei del cosiddetto scheletro assile sono indispensabili per il
mantenimento della postura eretta e per lo scarico corretto del peso dalla parte superiore
del corpo (testa, tronco e arti superiori) alla parte inferiore del corpo (anche e arti
inferiori).
• Protezione di organi e tessuti molli delicati. È il caso della scatola cranica (od ossa del
cranio) nei confronti dell'encefalo, della gabbia toracica nei confronti degli organi situati
nel torace (cuore, polmoni, aorta ecc.), delle vertebre nei confronti del midollo spinale e
delle ossa del bacino nei confronti degli organi addominali.
• Equilibrio e movimento, insieme a muscoli e nervi. All'equilibrio e al movimento
provvedono principalmente le ossa dello scheletro appendicolare.
• Produzione delle cellule del sangue (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine). Il processo
di produzione delle cellule del sangue spetta al midollo osseo, presente all'interno delle
ossa lunghe, e prende il nome di ematopoiesi.
• Plastica. Lo scheletro di ciascun individuo dà una forma ben precisa al corpo di
quest'ultimo.
• Deposito di sali minerali. Le ossa dello scheletro sono fondamentali per
l'immagazzinamento e il metabolismo del calcio, per il metabolismo del ferro e per
l'accumulo di ferro sotto forma di ferritina.
Ciò non deve stupire, se si ripensa alla cosiddetta matrice ossea, ricca di fosfato di calcio,
carbonato di calcio ecc.
• Rilascio dell'ormone osteocalcina. I principali compiti dell'osteocalcina sono: aumentare
la secrezione di insulina, agendo direttamente sul pancreas, e aumentare la sensibilità
all'insulina, agendo sulle cellule adipose.

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MALATTIE DELL’APPARATO LOCOMOTORE
Fratture
Una frattura viene definita un’interruzione del tessuto osseo. Le cause di queste possono essere
fattori traumatici, patologici o lo stress. Nel primo caso, le fratture traumatiche, sono causate da
una sollecitazione esterna che supera i limiti della normale resistenza ossea. Nel caso delle fratture
patologiche, la rottura avviene in un’area di discontinuità ossea con patologia preesistente
(osteoporosi, cisti ossee, lesioni osteolitiche metastatiche). Infine le fratture da stress sono dovute
a microtraumi continuativi e ripetitivi nel tempo (ballerini, soldati). Si possono classificare fratture
per varie tipologie.
• In rapporto al livello scheletrico:
• Diafisaria
• Metafisiaria
• Epifisaria
In rapporto al numero di interruzioni sullo stesso segmento scheletrico possono essere:
• Unifocali
• Bifocali
In rapporto all’irradiazione della rima di frattura a livello della capsula articolare:
• Intraarticolari
• Extraarticolari
In rapporto al danno scheletrico:
• Complete
• Incomplete
• In rapporto al decorso della rima di frattura:
• Trasversale
• Obliqua
• Spiroide
• Ad y o a farfalla
• Pluriframmentaria
• Bifocale
• Comminuta
• Strappamento
• A legno verde
In rapporto all’integrità del mantello cutaneo:
• Chiuse
• Esposte
In base al meccanismo vulnerante
• Trauma diretto (corpo contundente, schiacciamento, penetrazione)
• Trauma indiretto (strappamento, torsione, flessione, compressione)
• In rapporto all’eventuale spostamento dei frammenti
• Non scomposte
• Scomposte
La frattura è una lesione che tende alla riparazione spontanea per natura, con la formazione del
callo osseo (tessuto osseo neoformato). La guarigione è quindi un fenomeno spontaneo al quale si
arriva se si garantisce un contatto delle superfici di frattura, un’immobilità dei frammenti ossei e
un’adeguata vascolarizzazione dei frammenti. Clinicamente i fenomeni riparativi si manifestano con
una graduale scomparsa del dolore locale, diminuzione fino a una totale scomparsa della motilità
preternaturale. Si distinguono tre fasi diverse dal momento della frattura alla riparazione di essa.

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1. Infiammazione: prima fase 10% del tempo
2. Riparazione: arrivati gli osteoblasti al focolaio della frattura questi secernono matrice osteoide
dentro la quale rimangono intrappolati divenendo così osteociti (callo fibroso), quindi si ha
la deposizione di sali Calcio con la relativa formazione del callo osseo provvisorio 40% del
tempo
3. Rimodellamento: il callo osseo provvisorio si ristruttura con la formazione del callo osseo
definitivo, influenzato dalle variazioni di carico e dalle trazioni dei muscoli, rendendo l’osso
meccanicamente stabile e funzionale 70% del tempo.
I fenomeni di rimodellamento osseo durano per mesi o anni in modo tale che l’osso possa ritrovare
la propria struttura ossea preesistente alla lesione. Il tempo medio della consolidazione della
frattura varia dai 15-30 giorni. Se il tempo di consolidamento è maggiore del normale si parla di
“ritardo di consolidazione”, se invece non si ha consolidazione completa si ha “pseudoartrosi”.
I segni di probabilità di una frattura sono il dolore, l’impotenza funzionale, atteggiamento coatto e
deformità. Segni invece di certezza sono “crepitazione e motilità preternaturale”. La cura di una
frattura consiste nella riduzione della stessa e nell’immobilizzazione del segmento osseo preso in
considerazione.
1. Riduzione incruenta: questa trova indicazione nella maggior parte delle fratture. Si esercita una
forza trazionale sul frammento distale e una forza della stessa entità ma di verso opposto
sul frammento prossimale, in modo tale che i due monconi possano allinearsi. La riduzione
può essere estemporanea o graduale. Nel primo caso si utilizza un lettino ortopedico dove i
sistemi di ancoraggio rendono la pratica più agevole. Consigliabile praticare la manovra di
riduzione in anestesia in modo tale che si possa vincere la contrazione muscolare più
semplicemente. Nel caso della riduzione graduale e continua si infligge l’osso
trasversalmente con un cavo d’acciaio inossidabile, il quale viene agganciato ai morsetti di
una staffa, agganciata a un peso che esercita la forza di trazione, per mezzo di una carrucola
e un tirante.
2. Riduzione cruenta: consiste nell’apertura chirurgica del focolaio di frattura, rimozione di eventuali
ostacoli meccanici e nel ripristino morfologico del segmento coinvolto. Trova indicazione
nelle fratture dove vi sono interposte delle parti molli o schegge ossee, o in casi particolari,
fratture aggravate da lesioni neurologiche. Generalmente la riduzione cruenta viene
completata con osteosintesi.
Come la riduzione anche la contenzione può essere cruenta (immobilizzazione gessata) e incruenta
(osteosintesi). Una volta attuate tutte queste procedure e il callo osseo è in fase di rimodellamento
possiamo iniziare la riabilitazione, la quale consiste in tutti quegli accorgimenti ed esercizi atti a
limitare le ipotrofie muscolari e la rigidità articolare data dal periodo di immobilizzazione, in modo
tale da poter recuperare la forza muscolare che non solo da il movimento alle articolazioni ma le
rende stabili e valide. Con la manovra di osteosintesi si può iniziare precocemente la riabilitazione.

Ernia del disco


Dislocazione patologica delle struttre che formano il disco intervertebrale per cui il nucleo polposo
si fa strada tra le fibre dell’anulus fibroso; in relazione al rapporto con il legamento longitudinale
posteriore distinguiamo:
• Ernia posterolaterale: che comprime la radice corrispondente al disco erniato (caso più frequente)
• Ernia posterocentrale: che comprime il sacco durale
• Ernia mediana: rara, interessamento bilaterale delle radici nervose
In rapporto all’estrusione del nucleo polposo invece si distinguono:
• Ernia contenuta

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• Ernia portuosa: vera e propria ernia che comprende lo spostamento del nucleo polposo che quindi
rompe le fibre dell’anulus arriva al legamento longitudinale posteriore ma rimane
parzialmente alloggiato nel disco dal quale proviene
• Ernia espulsa: quando il nucleo polposo esce dall’anulus e rimane in rapporto al punto di origine
solo tramite un peduncolo
Nelle forme recenti dette immature il nucleo polposo appare biancastro lucente ed elastico e la
radice è edematosa mentre nelle forme mature il nucleo è degenerato e la radice è assottigliata e
fissata tramite aderenze al tessuto discale erniato. Sono causate da danni compressivo-torsionale
che in genere agiscono su un disco malformato o in fase degenerativa. Interessa principalmente
giovani adulti , possibile anche in pubertà e anziani. Il dolore è il sintomo dominante e s’inizia
generalmente con una sciatalgia più raramente con una crurali. L’ernia del disco produce in genere
un danno monoradicolare (comprende di solito una sola radice). L’ernia discale ha un andamento
imprevedibile che varia da soggetto a soggetto, la terapia medica sintomatica è utile nella forma
acuta e si basa su riposo, blocchi antalgici e miorilassanti seguiti dall’uso di un corsetto ortopedico;
l’intervento chirurgico di asportazione dell’ernia va preso in considerazione solo in caso di dolori
incurabili.

Lussazione della spalla


É la perdita completa dei normali rapporti articolari tra la testa dell’omero e la cavità glenoidea della
scapola (lussazione scapolo-omerale). Rappresenta il 50% delle lussazione e pi avvenire in qualsiasi
direzione. Le lussazioni più comuni sono quelle anteriori e fra queste la lussazione sottocoracoidea.
Si determina quasi sempre per una caduta sulla mano o sul gomito, più raramente per caduta sulla
spalla. Si osserva un appiattimento del profilo della spalla con accentuazione del profilo
dell’acromion, abduzione obbligata a braccio a 20-40 gradi, accentuazione del dolore ai tentativi di
adduzione del braccio, reperto palpitarono di assenza dell’omero della sua normale sede e
tumefazione sottoclavicolare. Le complicanze possono essere:
• Frattura-lussazione
• Lesione del nervo circonflesso (paralisi del deltoide)
• Lussazione inveterata (permanenza della testa dell’omero al di fuori della sua sede)
• Lussazione recidivante ed abituale
La terapia della lussazione acuta di spalla si basa sulla riduzione d’urgenza (entro le prime ore) previo
accertamento di eventuali complicanze ossee e nervose. Manovre di riduzione di una lussazione: si
applica una controrotazione con una fascia e si applica una trazione lungo l’asse dell’omero
associata a movimenti di intra ed extrarotazione. Più tempo passa più è difficile ottenere la riduzione
a causa della contrazione muscolare, per cui si deve eseguire una manovra in narcosi. Nelle
lussazioni inveterate ed in quelle recidivanti il trattamento è chirurgico.

Articolazione del Ginocchio


L’articolazione del ginocchio è la più grande del corpo umano. Formato da tre ossa (femore, patella
e tibia), due articolazioni (femore/tibia e patella/femore), capsula articolare, legamenti, cartilagine
e menischi. Permette solamente movimenti di flesso estensione ed è un compromesso fra stabilità
e mobilità. Il femore partecipa all’articolazione con la “superficie articolare anteriore” e con le
superfici articolari dei “condili mediale e laterale”. La tibia partecipa con le cavità glenoidee dei
condili tibiali. A fare da cuscinetto fra le facce articolari dei condili del femore e le cavità glenoidee
dei condili della tibia vi sono i menischi laterale e mediale. Questi sono formazioni fibrocartilaginee
ha forma di semianello, il cui spessore va a diminuire in direzione periferico/centrale. Sono legati
fra loro tramite il legamento traverso del ginocchio, e hanno funzione di aumentare la profondità

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dell’articolazione del ginocchio e d’arresto. Anteriormente si trova la patella un osso sesamoide
inserito nel legamento patellare del quadricipite, partecipa all’articolazione con la superficie
posteriore che corrisponde alla troclea del femore. I legamenti che entrano in gioco
nell’articolazione sono il “legamento patellare”, “collaterale mediale e laterale”, “legamento
popliteo” e i “crociati anteriore e posteriore”. Il legamento patellare ha funzione di arresto, e
insieme alla patella impedisce i movimenti di iperestensione della gamba. I legamenti collaterali
sono posti lateralmente e impediscono movimenti di iperestensione, abduzione e adduzione. I
legamenti crociati si incrociano a forma di x posteriormente al ginocchio. Impediscono i movimenti
di scivolamento in avanti della tibia rispetto al femore, sono legamenti di arresto e di guida. Il
compartimento mediale del ginocchio ne aumenta la stabilità, mentre il compartimento laterale ne
aumenta la motilità.
Le lesioni a tale articolazione sono date da eventi traumatici distorsivi, frequenti negli sportivi,
prevalendo il sesso maschile. Il meccanismo traumatico può essere sia diretto che indiretto. I traumi
più importanti sono quelli che vanno a intaccare il “pivot centrale” sede di maggior stabilità del
ginocchio (LCA, LCPmenischi). All’esame obiettivo in caso di lesione, appare tumefazione articolare,
impotenza funzionale e ballottamento rotuleo. Ci può essere presenza di versamento, sia emartro
che idrarto, il primo in caso di lesione grave legamentosa, frattura intraarticolare, il secondo invece,
in caso di sinovite reattiva. Test clinici che evidenziano lesioni a tali compartimenti sono: test del
cassetto anteriore, del cassetto posteriore (per saggiare l’integrità di LCA e LCP), lechman test, jerk
test e pivot shift. Si prevedono differenti terapia in base a quale compartimento legamento e o
fibrocartilagineo viene leso durante il trauma.
1. Lesione del legamento collaterale mediale (LCM): presenta tumefazione a carico del
compartimento mediale del ginocchio con abnorme mobilità a sollecitazioni in valgo (test di
abduzione). Se la lesione è completa è presente instabilità articolare. Non è necessario
intervento chirurgico, ma solo immobilizzazione con stecca gessata in leggerà flessione.
2. Lesione del legamento collaterale laterale (LCL): tumefazione a carico del compartimento laterale
del ginocchio con abnorme mobilità a sollecitazioni in varo (test di adduzione). Non
necessario intervento chirurgico, immobilizzazione con stecca gessata in leggera flessione,
possibili complicazioni sono la lesione del nervo sciatico popliteo esterno che decorre sotto
la testa della fibula.
3. Lesione legamento crociato anteriore (LCA): la lesione avviene per trauma in extrarotazione,
intrarotazione e iperestensione. La terapia conservativa è consigliabile solo in caso di leggero
stiramento di suddetto legamento o in caso di lesione di lieve entità. Necessario intervento
chirurgico in caso di lesione totale, in quanto il legamento non ripara spontaneamente. L’
operazione prevede un trapianto con l’utilizzo di parte del tendine rotuleo, o fibre del
muscolo semimbranoso. Innovativa la tecnica che prevede l’utilizzo di un legamento
sintetico. La riabilitazione successiva prevede non solo il recupero anatomico ma anche
quello funzionale (6-8 mesi).
4. Lesione legamento crociato posteriore (LCP): più rare delle lesioni a LCA, derivano da traumi
anteroposteriori. La terapia consiste in somministrazione di cortisonici o operazione
chirurgica (più complicata di LCA in quanto il legamento è sia intramembrana che
intrasinoviale).
5. Lesioni meniscali: rappresentano i 2/3 di tutte le lesioni all’articolazione del ginocchio, il menisco
mediale risulta leso più frequentemente del laterale. La modalità consiste in traumi indiretti
per intrarotazione, extrarotazione, fase di passaggio da accucciamento a estensione con
piede fisso a terra, e calcio a vuoto (flessione/iperestensione). Data l’importante funzione di
distribuzione del carico da parte dei menischi, è sempre sconsigliata la “meniscectomia”, a
favore di un trapianto da cadavere o utilizzo di menischi sintetici. Se lesionata la zona più

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esterna (rosso esterna), più vascolarizzata, è consigliabile la sutura (meniscopessi), invece
per quanto riguarda la zona interna (bianca interna) si fa meniscectomia artroscopica.
All’esame obiettivo si ha spesso un blocco del ginocchio in flessione (generalmente dovuto
alla lesione a manico di secchio della parte bianca interna), comparsa di tumefazione e
dolore alla pressione. Test utilizzabili di iperflessione, di mc Murray e Grindin test.
6. Lesioni croniche capsulo-legamentose: definite anche lassità croniche del ginocchio, sono dovute
a lesioni al compartimento centrale in caso di mancato trattamento o diagnosi, trattamento
inadeguato o deterioramento secondario della stabilità. Si distinguono in instabilità rotatorie
o dirette in base al fatto che il LCP sia o meno lesionato (in caso di lesione instabilità diretta).
La diagnosi si basa sul dato anamnestico di un vecchio trauma distorsivo seguito dalla ripresa
dell’attività sportiva o lavorativa o episodi di cedimento articolari seguiti da idrarto.
All’esame obiettivo si nota ipotrofia del quadricipite e positività ai test di lassità
legamentosa. Si procede per via chirurgica.

Contusioni
Si verificano frequentemente per trauma diretto ma a volte anche per trauma indiretto. Possiamo
parlare di emartro se vi è un versamento emorragico all’interno della cavità articolare o d’idrartro
se il trauma è minore ma produce un effetto irritato sulla membrana sinoviale. Clinicamente si
avverte forte sensazione di dolore nella zona colpita da trauma, tumefazione articolare
infiammazione e limitazione funzionale. La terapia indicata si basa sul riposo, applicazione locale di
ghiaccio, e utilizzo di medicinali quali fans e miorilassanti. Nel caso di un vasto emartro che può
provocare rigidità e riduzione della mobilità articolare si può procedere con artrocentesi evacuativa
seguita da immobilizzazione.

Distorsioni
Una distorsione si verifica nel momento in cui un’articolazione viene forza a compiere un’escursione
articolare superiore ai suoi limiti fisiologici causando un insieme di lesioni capsulo-legamentose che
determinano la perdita parziale e temporanea delle superfici articolari. Sono frequentissime nell’età
adulta soprattuto negli sportivi. Le distorsioni sono tipiche delle articolazioni prevalentemente
unidirezionali quali ginocchio, collo del piede, gomito, dita, rachide. Si distinguono in:
• I grado: semplice stiramento dei legamenti
• II grado: rottura parziale dei legamenti
• III grado: rottura completa dei legamenti con perdita della stabilità articolare
Si presente con dolore, tumefazione (emartro o idrarto), impotenza funzionale ed eventuali segni di
lassità articolare. Sono necessari esami diagnostici quali rx per scongiurare eventuali fratture,
consigliabili anche ecografia e rm per controllare lo stato di integrità dei legamenti. La terapia varia
in base al grado delle distorsione, va dal semplice riposo con applicazione di ghiaccio nelle zone
infiammate alla somministrazione di fans fino alla ricostruzione chirurgica dei legamenti nei casi più
gravi.

Contrattura
La contrattura muscolare è una contrazione involontaria, insistente e dolorosa di uno o più muscoli
scheletrici. Il muscolo coinvolto si presenta rigido e l’ipertonia delle fibre muscolari è apprezzabile
al tatto. La contrattura è di per sé un atto difensivo che insorge quando il tessuto muscolare viene
sollecitato oltre il suo limite di sopportazione fisiologico. L’eccessivo carico innesca un meccanismo
di difesa che porta muscolo a contrarsi. Le cause predisponenti possono essere di natura meccanica
e/o metabolica, ma non sono state ancora definite con chiarezza. Ciò che si sa è che sono in qualche

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modo correlate ai seguenti fattori:
• Mancanza di riscaldamento generale e specifico
• Preparazione fisica non idonea
• Sollecitazioni eccessive, movimenti bruschi e violenti
• Problemi articolari, equilibri postulare e muscolari
La contrattura è la meno grave tra le lesioni muscolari acute poiché non causa alcuna lesione
anatomica alle fibre. Ciò che si verifica è semplicemente un aumento involontario e permanente del
tono. Il soggetto colpito da una contrattura avverte un dolore modesto e diffuso lungo l’area
muscolare interessata. L’ipertonia viene percepita piuttosto chiaramente e l’atleta lamenta una
mancanza di elasticità del muscolo durante i movimenti. La palpazione consente di apprezzare
l’aumento involontario del tono muscolare e di evocare dolore soprattutto in alcuni punti (trigger
point). Il dolore è tollerabile e non impedisce il proseguimento dell’attività sportiva. Tuttavia per
allontanare il rischio di complicazione è consigliabile sospendere immediatamente l’allenamento o
la competizione. Il riposo è la terapia più efficace, per guarire normalmente sono sufficienti 3-7
giorni di stop. Per accelerare i tempi di recupero sono utili tutte quelle attività che consentono di
allungare la muscolatura e favorire l’afflusso di sangue ai muscoli. Un’attività aerobica moderata
abbinata a qualche esercizio di allungamento aiuta a distendere la muscolatura sia direttamente
(stretching) che indirettamente (iperemia locale). L’ideale sarebbe associare anche un massaggio
decontratturante al termine dell’attività in modo da allentare le tensioni muscolari ed ottenere
benefici anche a livello antalgico. Sicuramente utili, ma da utilizzare solo nei casi più gravi e sotto
controllo medico sono i fans e i miorilassanti, che con la loro azione aiutano a distendere la
muscolatura. Se la sintomatologia non scompare in 10 giorni di trattamento conservativo (riposo),
è consigliabile sottoporsi a visite specialistiche per accertarsi che non vi siano lesioni muscolari ben
più gravi o che il dolore non sia la conseguenza di un altro problema.

Stiramento
Lo stiramento è una lesione di media entità che altera il normale tono muscolare. In una scala di
ipotetica gravità potremmo collocarlo tra la contrattura (aumento involontario e permanente del
tono muscolare) e lo strappo (rottura delle fibre muscolari). É una lesione piuttosto frequente in
ambito sportivo ed è causato dall’eccessivo allungamento subito dalle fibre muscolari. Tale
stiramento può verificarsi in situazioni diverse per differenti cause. Le più frequenti sono:
• Mancanza di riscaldamento generale e specifico
• Preparazione fisica non idonea
• Movimenti bruschi e violenti
• Problemi articolari, squilibri posturali e muscolari
• Condizioni ambientali avverse (freddo)
• Microtraumi ripetuti
• Recupero insufficiente
Nel momento in cui il muscolo si allunga eccessivamente (si stira) anche i fusi neuromuscolari, posti
in parallelo alle fibre, si allungano determinando il cosiddetto “riflesso da stiramento”. Tale
fenomeno causa un’improvvisa contrazione muscolare che si associa ad un contemporaneo
rilassamento del muscolo antagonista. Questo meccanismo permette di salvaguardare la struttura
muscolare, ma in particolari circostanze (affaticamento) può risultare insufficiente. A differenza
della contrattura che causa un dolore modesto e diffuso, nello stiramento muscolare si avverte un
dolore acuto ed improvviso a cui segue spasmo muscolare. Tuttavia in molti casi il dolore è
sopportabile e normalmente non impedisce il proseguimento dell’attività. Continuando la pratica
sportiva aumenta notevolmente il rischio di aggravare la situazione (strappo muscolare) per cui si
consiglia di fermarsi il prima possibile anche se il dolore avvertito è di lieve entità. Il riposo è l’unica

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terapia realmente efficace. L’osservanza di un periodo di stop compreso tra 2-3 settimane è altresì
fondamentale per scongiurare il rischio di eventuali recidive. Si consiglia l’immediata applicazione
del protocollo R.I.C.E. (rest, ice, compression, elevation), il più accreditato per le lesioni acute. La
ripresa degli allenamenti sarà graudale con particolare attenzione alla fase di riscaldamento. Una
visita da uno specialista potrebbe evidenziare la necessità di eseguire ulteriori indagini diagnostiche
per escludere la presenza di lesioni muscolari. Sempre lo specialista potrebbe prescrivere fans e
miorilassanti per accelerare la guarigione. Anche alcune terapie fisiche come la tens, gli ultrasuoni
e la tecarterapia possono ridurre notevolmente i tempi di recupero. La pratica dello stretching per
facilitare la ripresa può essere tanto utile quanto pericolosa per cui è consigliabile di eseguire tali
esercizi sotto la supervisione di personale qualificato.

Strappo
Lo strappo è una lesione piuttosto grave che causa la rottura di alcune fibre che compongono il
muscolo. Tale lesione è generalmente causa da un’eccessiva sollecitazione (brusche contrazioni o
scatti improvvisi) ed è piuttosto frequente in ambito sportivo, soprattutto negli sport che richiedono
un movimento muscolare esplosivo. Spesso gli strappi muscolari avvengono in condizioni di scarso
allenamento o quando il muscolo è particolarmente stanco o impreparato a sostenere lo sforzo
(mancato riscaldamento). Sebbene lo strappo possa colpire qualsiasi muscolo del corpo, le sedi più
frequentemente colpite sono gli arti, mentre più raramente si possono riscontrare patologie a carico
della muscolatura addominale e dorsale. In particolare negli sportivi sono frequenti lesioni ai
muscoli della coscia (bicipite femorale, adduttori, quadricipite) e della gamba (tricipite della sura).
Uno strappo muscolare frequente nei culturisti è invece quello che coinvolge il tricipite e/o deltoide
durante gli esercizi di spinta su panca piana. in relazione al numero di fibre coinvolte, gli strappi
muscolari si possono classificare usando una scala di gravità composta da tre stadi:
• Lesione di I grado: in questo tipo di lesione sono danneggiate solo poche fibre muscolari (meno
del 5%). Il danno è tutto sommato modesto e viene avvertito come un leggero fastidio che
si accentua durante la contrazione e l’allungamento muscolare. In caso di lesione di primo
grado non si ha quindi un’importante perdita di forza o limitazione del movimento.
• Lesione di II grado: la gravità dello strappo è alta poiché viene coinvolto un maggior numero di
fibre. Il dolore, acuto, è simile ad una fitta e viene chiaramente avvertito in seguito ad una
violenta contrazione muscolare. La lesione interferisce con il gesto atletico ma consente allo
sportivo di continuare la gara o l’allenamento. Il dolore può essere aggravato da ogni
tentativo di contrarre il muscolo.
• Lesione di III grado: l’alto numero di fibre coinvolte causa una vera e propria lacerazione del
ventre muscolare (completa o semi completa coinvolge almeno 3/4 delle fibre). Tal lesione
si avverte alla palpazione come un avvallamento, un vero e proprio scalino che testimonia
l’entità della rottura. Il dolore, violentissimo, determina una completa impotenza funzionale
tanto che se la lesione coinvolge gli arti inferiori l’atleta si accascia immediatamente al suolo.
Il soggetto colpito da uno strappo muscolare avverte un dolore acuto nella zona lesionata, tanto più
intenso quanto maggiore è il numero di fibre coinvolte. Il dolore avvertito vene spesso rievocato
dalla contrazione del muscolo interessato. Se il trauma è particolarmente grave il soggetto si trova
nell’impossibilità di muovere la parte interessata ed il muscolo appare rigido e contratto. Una
distrazione di II o di III grado si accompagna, nella maggior parte dei casi, ad edema e gonfiore. Il
muscolo scheletrico è irrorato da una fitta rete di capillari che in caso di strappo vengono lesionati.
Tale rottura causa un travaso ematico più o meno evidente a seconda dell’entità e della
localizzazione della lesione. Se nei traumi più lievi il sangue rimane all’interno del muscolo, in quelli
più gravi migra in superficie dove si accumula e forma evidenti ematomi. Dopo circa 24 ore si può
apprezzare un livido localizzato più in basso rispetto alla sede dello strappo a testimonianza dello

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stravaso ematico. Può inoltre insorgere una contrattura muscolare “di difesa” grazie alla quale
l’organismo cerca di immobilizzare l’area interessata per favorire il recupero ed evitare che la
situazione peggiori ulteriormente. La prima cosa da fare è sospendere immediatamente l’attività
sportiva ed immobilizzare la zona colpita. Se nei casi più gravi tale sospensione è d’obbligo, in quelli
più lievi il soggetto, vista la sopportabilità del dolore, è naturalmente portato a continuare. In questo
modo però aumenta notevolmente il rischio di aggravare la situazione per cui è consigliabile di
fermarsi il prima possibile anche se il dolore avvertito è di lieve entità. Dopo essersi fermati evitare
di caricare l’arto e metterlo in una posizione di riposo (posizione alzata). Applicare immediatamente
un impacco freddo sulla zona interessata in modo da ridurre il flusso di sangue ai vasi lesionati e allo
stesso tempo evitare qualunque forma di calore. Eseguire prontamente il protocollo R.I.C.E, e
sottoporsi poi ad esami diagnostici per valutare la reale entità del danno. Le lesioni di I grado si
risolvono nel giro di 1-2 settimane, in cui l’atleta va mantenuto a riposo e trattato con fans e
miorilassanti. Qualche esercizio di stretching può aiutare ad accelerare e migliorare il recupero,
rielasticizzando, per quanto possibile, il tessuto di riparazione cicatriziale. Le lesioni di II grado
prevedono invece tempi di guarigione più lunghi (15-30 giorni). Prima della ripresa dell’attività
sportiva il soggetto dovrà seguire un percorso di riabilitazione e sottoporsi ad opportuni interventi
fisioterapeutici. Nei casi più gravi delle lesioni di III grado può essere necessario un intervento
chirurgico. Tra le terapie più fisiche più efficaci vi è la tecarterapia (trasmissione di cariche elettriche
endogene agli strati muscolari più profondi). Le fibre lesionate dallo strappo muscolare hanno scarsa
capacità di rigenerazione. Il processo di riparazione avviene quasi esclusivamente con la formazione
di un tessuto cicatriziale meno elastico, meno contrattile e meno resistente di quello muscolare. Si
possono così formare delle aree con differente elasticità che aumentano sensibilmente il rischio di
lesioni ricorrenti.

Rieducazione Propriocettiva
La rieducazione propriocettiva è una riprogrammazione neuromotoria ottenuta attraverso
specifiche stimolazioni dell’intero sistema neuro-motorio. Occorre considerare che, quando siamo
in presenza di un trauma, le lesioni anatomiche interessano anche i recettori sensoriali con
conseguente alterazione dei maccanismi propriocettivi ossia della “lettura” dello spazio circostante,
da parte dei recettori, e della trasmissione delle informazioni alle strutture nervose centrali; le
conseguenze pratiche saranno carenza/distorsione della coscienza della posizione nello spazio delle
varie parti del corpo e della loro coordinazione nel movimento. D’altra parte anche per ottenere la
massima efficienza nelle prestazioni sportive e nei gesti quotidiani, è indispensabile un ottimale
“controllo” neuro-muscolare-articolare. Rieducare i riflessi propriocettivi risulta fondamentale,
oltre che per fini riabilitativi, anche per le performance sportive e come prevenzione in generale.
Essa pertanto andrebbe sempre inserita in un programma di esercizio fisico. La tecnica della
ginnastica propriocettiva consiste in una continua stimolazione dei recettori periferici, attraverso i
quali vengono attivati i circuiti nervosi propriocettivi, tramite specifiche sollecitazioni articolari
destabilizzanti (con diversi gradi di carico e difficoltà), che consente di ottimizzare le risposte
muscolari, sia in termini di velocità che di precisione, assorbendo l’effetto destabilizzante in maniera
fisiologicamente cibernetica anziché subirlo. Ricerche sulla corteccia motoria hanno dimostrato che
essa è organizzata non tanto in base alle aree topografiche corporee quanto piuttosto relativamente
a specifici movimenti corporei complessi indirizzati nello spazio verso un obiettivo definito. Da ciò
ne consegue che un movimento eseguito immaginando (visualizzando) di afferrare, respingere, o
disegnare un oggetto, coinvolge il sistema nervoso molto più dello stesso gesto eseguito solo
meccanicamente, stimolando e sviluppando in tal modo la propriocezione di quella specifica
articolazione o area corporea. Il passo successivo è creare schemi motori (engrammi) sempre più
complessi, attraverso specifiche sollecitazioni coordinative di più distretti corporei.

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