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Le specie animali e vegetali che vivono sulla Terra sono almeno 30.000.000:
questo patrimonio di complessità straordinaria, che costituisce la biodiversità
dei differenti ambienti, sta subendo l’attacco da parte dell’uomo e delle
alterazioni ambientali che esso provoca. Noi siamo infatti la prima specie
vivente che è in grado di danneggiare in modo irrimediabile l’ambiente ospite.
Si ipotizza perciò che nel corso di questo secolo potrebbe estinguersi circa la
metà delle specie che ora costituiscono fauna e flora del nostro pianeta.
L’uomo deve quindi modificare rapidamente il suo atteggiamento e la sua
impostazione culturale tradizionale. Anche se la nostra specie, operando
valutazioni puramente economiche e che non computano le conseguenze a
medio-lungo termine, può rinunciare ad ambienti ben conservati per
trasformarli in campi e città, non va mai sottovalutata l’importanza della
conservazione della natura, anche per un suo sfruttamento razionale futuro.
Infatti non può essere in alcun modo definito logico distruggere ciò che non si
conosce, che non si è in grado di ricostruire e che tra l’altro può fornire vantaggi
in numerosi campi, come possono dimostrare alcuni esempi:
• negli anni Settanta è stato scoperto in un’area della montagna messicana,
minacciata dalla messa a coltura, un mais selvatico perenne ed
estremamente resistente alle malattie: i geni di questa pianta hanno
permesso di incrementare produttività e resistenza di alcune varietà
coltivate, ma purtroppo negli ultimi anni il patrimonio genetico dei mais
nativi messicani, anch’essi resistenti e frugali, è stato contaminato
dall’ibridazione con varietà americane geneticamente modificate;
• dalla pervinca rosea del Madagascar sono state estratte sostanze attive
contro tumori prima incurabili, mentre un’altra specie di pervinca
malgascia – non ancora studiata a livello farmacologico – è alle soglie
dell’estinzione per la messa a coltura dell’area che ne ospita l’ultima
popolazione;
• il fagiolo della Nuova Guinea, commestibile in ogni sua parte e dotato di
notevole rapidità di crescita in ambienti caldi, potrebbe – se studiato per
adattarlo a forme moderne di coltivazione – contribuire a risolvere i
problemi di sottonutrizione in vaste aree del mondo.
Inoltre sono in corso di sperimentazione, con risultati spesso entusiasmanti,
numerose sostanze derivanti da animali (veleni di molluschi marini e anfibi
come antidolorifici, componenti della saliva di sanguisughe e di vampiri come
anticoagulanti) e da piante (farmaci da specie d’impiego tradizionale in varie
parti del mondo), oppure utilizzate per nuovi profumi e per differenti scopi
industriali, come le specie che potrebbero risolvere alcuni problemi di
approvvigionamento di alimenti e di materie prime (a rapida crescita per
produrre carta e biomasse, destinabili anche a ottenere energia): è quindi
d’importanza fondamentale non danneggiare questo patrimonio prima di
conoscerne tutte le potenzialità, anche soltanto per sfruttarle eventualmente in
futuro.
Ogni semplificazione ambientale irreversibile, ogni perdita anche delle razze
domestiche di animali e delle varietà delle piante coltivate in passato, non è
recuperabile: semplicemente si dovrà fare a meno di tale patrimonio, con
conseguenze che non possono essere valutate oggi.
La tutela della massima varietà biologica degli ecosistemi (a partire
ovviamente da quelli in miglior equilibrio) costituisce l’unico metodo realmente
efficace per garantire una loro conservazione durevole. Invece in passato si
tendeva spesso a privilegiare un solo aspetto della gestione di ambienti protetti,
sacrificandone di fatto altri non meno importanti: ogni ecosistema può però
funzionare validamente soltanto se vi sono presenti tutte le sue componenti,
anche quelle erroneamente considerate minori, ciascuna delle quali è
fondamentale per la sopravvivenza delle altre.
Ad esempio le piante fiorite dipendono dagli insetti impollinatori che le
fecondano, quelle che producono frutti o bacche non possono fare a meno degli
animali frugivori per la loro disseminazione, e tra predatori e prede e tra
erbivori e piante si instaura quella serie di rapporti di grande complessità che
sta alla base degli equilibri naturali.
L’uomo ha sempre visto nella natura una fonte inesauribile di beni, come
dimostrano numerosi esempi di sfruttamento eccessivo e di danni irreparabili
fin dalla prima organizzazione della società umana; inoltre ormai la pressione
sull’ambiente è diventata praticamente insostenibile per la continua crescita
della popolazione mondiale e della richiesta di beni.
Di fronte a dati innegabili, che vanno dalle estinzioni di massa al
riscaldamento globale, si tende però a vedere i nostri antenati come
amministratori più saggi delle risorse disponibili, dalla cui cultura materiale si è
ormai operato un distacco così netto e rilevante da aver originato numerose
delle conseguenze negative attuali. Purtroppo invece non è affatto così, e
l’indispensabile inversione di tendenza dovrà quindi avere basi completamente
nuove.
Ad esempio quando 11.000 anni fa i primi nuclei di cacciatori-raccoglitori
raggiunsero l’Alaska dalla Siberia, camminando sul mare ghiacciato, si
trovarono di fronte un enorme territorio che non conosceva ancora la loro
presenza: in 1.000 anni questi uomini raggiunsero l’estremità meridionale delle
Americhe, provocando con la caccia l’estinzione del 73% dei generi di
mammiferi nel nord e l’80% nel sud. Peraltro anche gli agricoltori primitivi
hanno adottato il medesimo atteggiamento completamente privo di
lungimiranza nei confronti delle risorse ambientali, come dimostra ampiamente
l’esempio della città di Petra, nata come villaggio oltre 9.000 anni fa e poi
abbandonata, per essere scoperta nel 1812 ormai del tutto priva di abitanti. Al
momento del primo insediamento umano il sito era circondato da foreste, che in
epoca romana erano state ormai completamente abbattute, fino a un completo
inaridimento nel 900: per contrastare gli effetti della gestione errata precedente
vennero realizzate cisterne per raccogliere l’acqua piovana e una fitta rete di
canalizzazioni, rese però rapidamente inutilizzabili dalle modificazioni del
clima locale provocate dall’uomo. In ambienti aridi sulle aree private della
copertura vegetale si originano infatti correnti d’aria calda per il riscaldamento
solare delle rocce scoperte, che tendono a dirottare le nubi e a ridurre quindi la
ricaduta di piogge. Nell’ultima fase di vita della città l’ambiente circostante
divenne perciò utilizzabile soltanto per l’allevamento delle capre, che con il loro
pascolo contribuirono a distruggere la vegetazione rimasta e a determinare
l’abbandono della città.
Eppure dalle piante verdi derivano beni e servizi indispensabili alla nostra
sopravvivenza, a partire dalla fornitura di ossigeno. La storia dell’agricoltura,
base della civiltà umana che si è affermata maggiormente a livello mondiale,
dimostra ampiamente come l’uomo dipenda dalle piante coltivate per la sua
alimentazione, e non soltanto per questa. Sono infatti note e ampiamente
utilizzate piante che forniscono sostanze inebrianti (alcool, tabacco e droghe),
spezie per insaporire i cibi, fibre tessili e coloranti, elementi ornamentali (fiori e
piante in case e giardini), farmaci e principi attivi (come la caffeina), profumi,
insetticidi e repellenti contro specie dannose a salute ed economia umane,
sostanze di base per l’industria (legname e cellulosa).
Un esempio dell’importanza di alcuni vegetali nella storia dell’umanità è
visibile ancor oggi in alcuni paesaggi dell’Italia settentrionale con il gelso, le cui
foglie alimentano il baco da seta in Cina a partire da forse 9.500 anni fa: la seta
ottenuta e il suo commercio hanno coinvolto tutto il mondo. L’origine
dell’insetto è oscura, tanto che la specie non sarebbe più in grado di riprodursi
senza essere accudita dall’uomo, ma l’interesse per la seta era tale che vennero
emanate svariate leggi in Occidente per contenerne la costosa diffusione e che il
monopolio della sua produzione venne mantenuto a lungo e con ogni mezzo
dalla Cina. Le alleanze cinesi con sovrani barbari della periferia del loro impero
comportarono però la diffusione del baco, che faceva sempre parte della dote
delle principesse che venivano date loro in matrimonio per suggellare alleanze
politico-militari. Soltanto nel 536 alcuni monaci inviati segretamente
dall’imperatrice bizantina Teodora riuscirono a contrabbandare le uova del
baco, permettendo il suo allevamento e di seguito la nazionalizzazione della
produzione di seta per garantire forti introiti all’erario imperiale. Gli arabi
conquistatori di Bisanzio diffusero poi la sericoltura in Spagna e Sicilia, da dove
dopo la riconquista cristiana venne diffusa in Valpadana e in altre parti
dell’Italia. La coltivazione del gelso, periodicamente capitozzato per la
produzione delle foglie, prese il posto al margine dei campi della vite maritata
di origine etrusca e poi romana, per perdere poi d’interesse economico in
seguito al miglioramento dei trasporti internazionali, con il ritorno della
concorrenza da parte della seta orientale.
Un esempio di maggior portata è fornito dalla canna da zucchero, che iniziò a
far conoscere in Europa un dolcificante alternativo al miele, ma molto più forte,
solo dopo la prima crociata. Per soddisfare a una richiesta sempre maggiore ne
vennero realizzate grandi piantagioni nelle aree climaticamente più favorevoli,
e nelle Americhe a partire dal Sedicesimo Secolo: una volta esaurita la risorsa di
manodopera delle popolazioni locali ridotte in schiavitù, vennero usati per
questa coltivazione gli schiavi rapiti nell’Africa. Ebbe così inizio il Grande
Circuito sul quale si basò la potenza raggiunta da Inghilterra e Francia: con
notevoli guadagni a ogni passaggio l’Europa esportava in Africa manufatti a
buon mercato (determinando anche una forte spinta alla nascita dell’industria
per la loro produzione) che servivano per acquistare schiavi, trasportati nelle
Americhe a produrre beni (zucchero e minerali) che tornavano poi in Europa. In
questo modo, garantendo l’arricchimento straordinario di alcuni paesi europei e
la loro espansione coloniale in tutto il mondo, l’Africa venne privata di almeno
50.000.000 di uomini, donne e bambini. Le popolazioni africane hanno quindi
vissuto a lungo sotto la minaccia costante di aggressione e sono state
periodicamente private di quantità più o meno rilevanti di persone.
Considerando che in mancanza di scrittura la trasmissione delle conoscenze era
verbale, ciò ha determinato anche la distruzione sistematica della cultura locale,
che era affidata a persone che ricordavano pratiche magiche e rituali,
avvenimenti storici e genealogie di famiglie, e che finivano anch’esse per essere
deportate in schiavitù.
I nostri parenti più stretti, come vari altri mammiferi, utilizzano piante
contenenti principi attivi per combattere malattie o contrastare squilibri
fisiologici: nulla di strano quindi che anche la nostra specie usi piante o loro
parti per le medesime finalità, con prove certe a partire dall’Età del Bronzo.
Anche se nelle culture materiali del passato la componente magico-rituale
aveva una grande importanza terapeutica, la maggior parte delle piante che
venivano impiegate contengono effettivamente principi attivi.
Il primo approccio scientifico riguardante i farmaci di origine vegetale può
essere fatto risalire al greco Ippocrate e soprattutto al romano Galeno, con il
medico che elaborava personalmente i preparati per i suoi pazienti. In seguito
ebbe notevole importanza la cultura medica araba, sulle cui conoscenze si basò
in Italia la Scuola Salernitana: l’evoluzione tecnico-scientifica portò quindi alla
preparazione di farmaci così complessi da richiedere veri e propri specialisti
nella persona dei farmacisti, che inizialmente esercitavano nei monasteri.
Nacquero così anche i Giardini dei Semplici, nei quali venivano coltivate le
essenze di base (cioè i principi attivi “semplici”) per la cura delle malattie. Il
primo è stato istituito nel 1545 nell’Università di Padova per volere della
Repubblica di Venezia, seguito dall’orto universitario di Pisa a da quello di
Firenze, realizzato per volontà di Cosimo I dei Medici.
Nell’età moderna, con l’approfondimento delle conoscenze botaniche, mediche
e chimiche, i farmaci d’origine vegetale vennero testati e se efficaci riprodotti in
laboratorio, senza rendere più necessaria l’estrazione dalle piante d’origine. I
prodotti naturali vennero quindi abbandonati, per ritornare solo recentemente a
essere oggetto d’un diffuso interesse da parte del pubblico, che tende però a
utilizzarli nell’erronea convinzione che non possano essere mai pericolosi per la
salute.
Ciò ha permesso ai prodotti naturali (o ritenuti oppure pubblicizzati come tali)
di conquistare una discreta quota di mercato, anche con esercizi commerciali
dedicati alla loro vendita, come le erboristerie.
Allegato - Alcune piante officinali del Parco Adda Sud
Appartiene alla famiglia delle labiatae, il suo nome deriva da "ros" rugiada,
balsamo, rosa o da "rhus" che significa arboscello e da "marinos", marino,
ovvero che cresce vicino al mare. In poche parole significa rugiada del mare
questo chiaro se si considera che originariamente il rosmarino cresceva lungo le
coste del Mediterraneo. Volgarmente viene chiamata anche ramerino,
acciughero, erba acciuga. In Grecia viene chiamato Lasmari oppure
Dendrolibano.
Nelle regioni meridionali del mediterraneo il suo profumo è molto
accentuato e in passato veniva usato al posto dell'incenso.
È la pianta mediterranea per eccellenza, legata com’è al mare, al sole e al
calore. Il suo profumo evoca l'estate il calore, i buoni aromi della cucina; nella
sua semplicità strutturale è una pianta di tutto rispetto e carica di dignità, ideale
in macchia di più cespugli che,compatti, formano quasi delle aiuole odorose.
Arbusto con foglie sempreverdi, legnoso e molto ramoso. Ha portamento
eretto e arriva ad un'altezza considerevole, sfiorando i 2 mt. Foglie lineari,
piccole, coriacee di color verde scuro nella pagina superiore e biancastra in
quella inferiore. I fiori sono riuniti in gruppetti all'ascella delle foglie sulla
sommità dei rami, hanno una corolla azzurra con una strutture tipica delle
labiatae.
Il rosmarino cresce spontaneamente in Europa, Asia e Africa lungo le coste
marine o sulle alture in prossimità del mare. In Italia lo troviamo naturalizzato
anche attorno ai laghi come il Garda e l'Iseo. Predilige luoghi rupestri sassosi o
arenosi, irti e soleggiati fino agli 800 s.l.m..
Anticamente veniva usato in Egitto per bagni di purificazione dei rituali
dedicati alle divinità, in quanto era considerato simbolo di immortalità
dell'anima e nelle corone funebri era presente assieme a Mirto e Alloro. I latini
lo utilizzavano per incoronare le statuette dei lari protettori della casa. In Sicilia
era considerata pianta funebre e i suoi rametti venivano passati sulle salme
prima di seppellirle.
Solo dopo l'anno mille si cominciò a sfruttare per usi terapeutici. Si dice che
Napoleone lo usasse per il suo potere di favorire la concentrazione della mente,
fino a consumarne “60 boccette” al mese!
Nel XVI secolo si diffuse in Europa un liquore prodotto dalla regina Isabella
d'Ungheria, ispirata, si dice, ad un angelo. Era un distillato derivato dalla
macerazione di fiori di rosmarino nell'alcol ed era considerato un elisir di
giovinezza. In Inghilterra si ritiene che un rametto di rosmarino portato
all'occhiello dell'abito favorisce qualsiasi impresa.
Il tempo balsamico del rosmarino coincide con l'inizio della fioritura per usi
alimentari, mentre in piena fioritura per la destinazione a olio essenziale.
Coltivazione
Richiede una posizione soleggiata al riparo di muri dai venti gelidi; terreno
leggero,a base morbosa, sabbioso e ben drenato; poco resistente ai climi rigidi e
prolungati, non sopporta molto la neve.
Si può coltivare in vaso sui terrazzi, accertandosi di godere di un drenaggio
ottimale, rinvasando ogni 2-3 anni. La dimensione del vaso deve essere
proporzionata in quanto eccessivi diametri sono inutili; piuttosto considerare
che per un rosmarino è meglio un vaso profondo (accomoda meglio le radici) e
per una menta o timo o maggiorana meglio una ciotola larga (trovano spazio i
rizomi e la naturale crescita tappezzante). Riguardo al substrato si consigliano
miscele di terricci già pronti a base di torba e contenenti inerti (pomice e lapillo
vulcanico) per favorire la percolazione dell’acqua; diffidare di terricci a basso
costo che potrebbero contenere ‘compost’ di dubbia provenienza; esso da
ottimo prodotto per la struttura del terreno può essere dannoso in vaso dove,
nei suoi naturali processi di decomposizione, innesca reazione di eccessiva
umidità e salinità. Consigliato l’uso di un fertilizzante liquido miscelato
all'acqua durante le annaffiature almeno nei periodi di primavera-estate!
In primavera è consigliato rinnovare l’arbusto cimando i getti principali, ….
arrosto a parte … questa pratica aiuta la pianta ad ottenere un aspetto
cespuglioso senza dover ricorrere ad interventi drastici di potatura.
La riproduzione avviene tramite talea apicale e non, o per seme.
La pianta forma i nuovi germogli in marzo aprile, circa in coincidenza del
periodo ottimale di taleaggio; … potremmo unire l’utile al dilettevole!
Per gli appassionati: prelevate un frammento di circa 6 cm da piante vigorose
interratelo per almeno 1/3 della sua lunghezza in un miscuglio di torba e sabbia
(presente in commercio come terriccio per tappeti erbosi), irrigate
abbondantemente una volta e successivamente nebulizzate giornalmente la
talea;con luce e temperatura sopra i 15° in 8 settimane potrebbe essere pronta
per il trapianto.
L’altro metodo di riproduzione è la semina: verso aprile-maggio, in un
contenitore con il medesimo terriccio sopraccitato seminare a spaglio, irrigare,
coprire con tessuto non tessuto, con temperature medie di 18° si potrebbe essere
pronti ad un trapianto in settembre o nella primavera successiva per ritardi di
germogliazione; in caso di piante adulte si moltiplica anche per divisione.
Utilizzo
Proprietà medicinali
Controindicazioni!
Le piante sono apparse sulla Terra più di 400 milioni di anni fa, e fin da
allora hanno rappresentato la fonte di base della catena alimentare: se ne
nutrono infatti erbivori e onnivori, che a loro volta rappresentano il cibo dei
carnivori.
Per affrontare le avversità ambientali e sopravvivere ad erbivori e parassiti le
piante hanno dovuto elaborare particolari strategie, tra cui quella chimica.
MEDICINA TRADIZIONALE
IERI E OGGI
Quando si utilizzano le piante bisogna essere consapevoli che il loro uso può
comportare, in alcuni casi, problemi di tipo tossicologico anche non
immediatamente evidenziabili.
Per cui bisogna usare solo le piante che conosciamo bene oppure affidarci a
persone qualificate ed esperte.
Le preparazioni
INFUSO
DECOTTO
ESTRATTO IDROALCOLICO
ESTRATTO OLEOSO
PIOPPO
(Populus spp.)
OLMO
(Ulmus glabra Huds.)
LUPPOLO
(Humulus lupulus L.)
PARIETARIA
(Parietaria officinalis L.)
E’ una pianta erbacea perenne che cresce preferenzialmente sui vecchi muri.
Il suo nome parietaria si riferisce appunto a questo.
E’ chiamata anche “erba vetriola”, perché un tempo si utilizzava per pulire
bottiglie e vetrate.
Usata già da Dioscoride, la medicina popolare l’ha da sempre utilizzata come
potente diuretico contro cistiti, uretriti, prostatiti, renella, piccoli calcoli renali e
nella ritenzione idrica.
Le foglie pestate nel mortaio erano usate topicamente per le malattie della
pelle e sulle ragadi anali.
PEPE D’ACQUA
(Persicaria hytdropiper L.)
RANUNCOLO
(Ranunculus bulbosus L. e Ranunculus acris L.)
IPERICO
(Hypericum perforatum L.)
L’iperico noto anche col nome di “Erba di San Giovanni” è una pianta
erbacea, alta fino a 70 cm, comune nei prati e lungo le strade. Fiorisce alla fine
di giugno, e viene tradizionalmente raccolta il 24 giugno, il giorno di San
Giovanni appunto.
La medicina popolare l’ha utilizzata, ad uso interno, per trattare cistiti e
affezioni bronchiali.
Il suo uso più noto è stato però soprattutto quello esterno, su scottature,
ustioni, punture, ulcere e piaghe di diversa specie.
Con le sommità fiorite fresche veniva preparato un macerato oleoso,
chiamato impropriamente “olio di Iperico”.
Preparazione dell’olio di Iperico
Mettere a macerare al sole 100 g di infiorescenze fresche di Iperico in 700 g di olio di
extravergine oliva, in un recipiente di vetro trasparente a chiusura ermetica. Lasciare a
macerare per oltre 1 mese, agitando tutti i giorni. Colare quindi l’olio, che avrà assunto
un colore rosso rubino, e metterlo in un flacone ben chiuso, al riparo dalla luce.
Durante la macerazione sarebbe opportuno aggiungere lo 0,2% di Vitamina E come
antiossidante.
UTILIZZO FITOTERAPICO DELL’IPERICO
parte usata: sommità fiorite
A partire dagli anni ’70 l’Iperico è stato studiato per le sue proprietà
antidepressive, dopo che in Germania ne è stato constatato l’effetto positivo su
pazienti affetti da depressione lieve e moderata. A ciò hanno seguito
numerosissimi lavori clinici.
In Germania esistono in commercio numerosi farmaci a base d’Iperico.
PAPAVERO
(Papaver rhoeas L.)
FUMARIA
(Fumaria officinalis L.)
SEMPREVIVO
(Sempervivum sp.)
BIANCOSPINO
(Crataegus sp.)
E’ un arbusto alto 2-5 m, spinoso e spesso
molto ramificato. I fiori bianchi sono disposti
in un’infiorescenza a corimbo. Talvolta in
campagna viene confuso con il prugnolo
(Prunus spinosa), che però, a differenza del
biancospino, prima fiorisce poi mette le foglie.
La specie più diffusa in Italia è il Crataegus
monogyna; è presente anche il C. oxyacantha. Le
varie specie di Crataegus danno origine ad
ibridi così facilmente, che spesso non è
possibile una loro determinazione precisa. In fitoterapia vengono comunque
usate tutte le specie, l’una per l’altra.
Anticamente le proprietà del Biancospino non erano conosciute: era talvolta
utilizzato come diuretico e astringente.
Dai frutti essiccati nel tardo Medioevo si ricavava una farina, che in tempi di
carestia era mescolata in piccola quantità a quella dei cereali. Con le bacche
fermentate si preparava anche una sorta di grappa.
GALEGA
(Galega officinalis L.)
MELILOTO
(Melilotus officinalis (L.) Pall.)
SALICE
(Salix sp.)
I salici sono alberi o arbusti con foglie lanceolate che crescono in genere
lungo i corsi d’acqua. Si utilizza in fitoterapia la corteccia di varie specie di
Salice, quali: S. purpurea, S. daphnoides, S.fragilis, S. alba ecc..
Fin dall’antichità, da Plinio in poi, alla corteccia del Salice sono state
riconosciute proprietà antinfiammatorie, antipiretiche ed astringenti. I fiori
erano invece usati come antispasmodici e leggeri calmanti.
Studi moderni hanno dimostrato che il salice contiene salicina e che i suoi
estratti possono essere utilizzati per lievi malattie febbrili, sindromi influenzali,
disturbi reumatici acuti e cronici, lievi cefalee e dolori di origine flogistica.
Per avere dei buoni risultati è importante assumere la giusta dose di principi
attivi: in questo caso almeno 120 mg di salicina 2 volte al giorno.
La Salicina è priva di effetti collaterali.
Il decotto di salice è però ricco di tannini che possono dare fastidio allo
stomaco.
TIGLIO
(Tilia sp.)
CENTAUREA
(Centaurium erythraea Raf.)
CAMOMILLA
(Matricaria recutita L.)
Piantaggine
Bardana
(Arctium lappa L.)
La Bardana era già nota a Virgilio e a Galeno. Era già presente in uno dei
primissimi erbari stampati: l’Herbarium Apulei, in cui le si attribuivano proprietà
curative in un numero infinito di malattie.
In Giappone la Bardana è coltivata e selezionata perché le radici sono
consumate come ortaggi con il nome di gobo.
Fin dal 1700 la sua radice è stata utilizzata come diuretico-depurativo,
mentre le foglie fresche e schiacciate sono state applicate su piaghe, ulcere,
eruzioni cutanee, tigna, crosta lattea ecc.
La Commissione E del Ministero della salute Tedesco ne da indicazione come
diuretico e depurativo del sangue, per il trattamento della gotta e dell’artrite e,
ad uso esterno, per trattare pelli impure, ittiosi e psoriasi.
Tarassaco
(Taraxacum officinale Weber)