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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA -“LA SAPIENZA”

FACOLTA’ DI INGEGNERIA

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA QUINQUENNALE


INGEGNERIA EDILE-ARCHITETTURA U.E.

DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA E URBANISTICA


PER L’INGEGNERIA

guida al corso di

ARCHITETTURA TECNICA 1

prima parte
principi complessi per la sicurezza statica
principi per il comfort ambientale
principi per la percezione della forma

prof.ssa ing. Marina Pugnaletto


Nell’ambito del corso di lezioni di Architettura tecnica 1 un cospicuo numero di ore
viene destinato all’analisi dell’apparecchiatura costruttiva di un organismo edilizio,
come insieme di scelte costruttive correlate da effettuare nel momento progettuale.
Definire l’apparecchiatura costruttiva di un oggetto edilizio significa individuare nel
momento del progetto le modalità realizzative (tecniche costruttive) per ottenere una
specifica forma che risponda, come spazio costruito, a determinate capacità di pre-
stazione in rapporto all’agibilità, alla percezione, al comfort ambientale e alla sicu-
rezza statica.
Ad ogni organismo edilizio corrisponde una sola apparecchiatura costruttiva che in
termini pratici si traduce nel procedimento costruttivo adottato per ottenere l’ogget-
to; procedimento costruttivo che consiste nell’insieme delle operazioni necessarie
alla costruzione dell’oggetto edilizio in rapporto ai materiali impiegati e ai principi
costruttivi adottati.

I fattori caratterizzanti un procedimento costruttivo sono:


- la lavorabilità dei materiali,
- la utilizzazione dei materiali ai fini della sicurezza statica e del comfort ambientale,
- la utilizzazione dei materiali in rapporto alla percezione della forma,
- i modi e i mezzi per attuarlo.

Per la preparazione di questa parte del corso gli studenti hanno come riferimento il
volume E. Mandolesi- Edilizia 1- ed. UTET- Torino 1978, ma tale volume risulta
essere soltanto la base da cui prendere spunto per una serie di riflessioni e di col-
legamenti, che non sempre risultano facili e immediati.
Le pagine che seguono vogliono essere proprio una sorta di approfondimento e
riflessione su quanto scritto nel 3° capitolo di Edilizia 1, per permettere agli studen-
ti una migliore preparazione dell’esame e contemporaneamente permettere loro di
entrare nel vivo dell’insegnamento.

Si è ritenuto opportuno tralasciare l’approfondimento dei principi costruttivi elemen-


tari per la resistenza statica in quanto le definizioni di sollecitazione di compressio-
ne, trazione, flessione, taglio e torsione, che si considerano già assorbite dagli stu-
denti nei corsi di studio precedenti, si ritrovano nell’analisi dei principi complessi. Si
è pensato, invece, di fare approfondimenti sui principi costruttivi complessi per la
resistenza statica in quanto basilari per la definizione del sistema costruttivo e del
comportamento di un oggetto edilizio; questi principi, chiaramente, non verranno
applicati tutti nella redazione del progetto da parte degli studenti, più frequentemen-

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te si troveranno a lavorare con sistemi trilitici o intelaiati, ma è opportuno trattarli in
quanto tutti pariteticamente adottati invece nelle costruzioni moderne. Conoscere i
sistemi costruttivi porta ad una visione critica e consapevole dell’architettura, sia
quando ci si trova a confronto con nuove costruzioni (le tecniche moderne condu-
cono a soluzioni sempre più ardite, in genere però rapportabili a principi statici sem-
plici), sia quando invece si ha davanti un impianto antico, del quale si devono esa-
minare non soltanto le volumetrie, ma se ne devono comprendere le modalità
costruttive.

Altrettanto importanti risultano i principi del comfort ambientale in quanto un buon


progetto non può prescindere dal pensare l’involucro, elemento di confine con l’am-
biente esterno, come un soggetto importante per la vivibilità dello spazio. Mentre nel
passato il problema comfort era automaticamente risolto nel corpo della parete mas-
siva, oggi, nelle architetture contemporanee, vengono adottati sempre più sistemi
complessi e costosi di isolamento con pareti ventilate, cappotti, ecc.; queste solu-
zioni però, oltre a garantire sicuramente meglio il comfort interno, risultano neces-
sarie in quanto i rivestimenti di facciata applicati non possono essere posti a diretto
contatto con la parte resistente della parete. Conoscere il comportamento corretto di
tali sistemi e poter decidere se applicarlo o non, anche in funzione del risultato for-
male che si intende ottenere, costituisce il nodo di una corretta progettazione.
Analoghe considerazioni si possono fare anche con i sistemi di smaltimento: ad
esempio le architetture contemporanee hanno abolito o quasi le coperture a tetto a
spioventi, ma non per questo tale sistema costruttivo non deve essere conosciuto
ed esaminato. Soltanto una volta acquisite le conoscenze dei vari sistemi costruttivi
si può essere in grado nelle fase di progetto di operare le scelte più opportune.

Ancora un aspetto importante, sul quale si sono voluti dare degli approfondimenti, è
la definizione dell’immagine che si vuole trasmettere dell’organismo edilizio nel
momento delle scelte progettuali. Proprio proseguendo le considerazioni fatte fin
ora, l’architettura moderna non lascia quasi mai il campo all’applicazione di un prin-
cipio materico, in quanto c’è una esaltazione del rivestimento di facciata, applican-
do tutti i materiali conosciuti; spesso anche quando si vedono pareti con laterizi in
vista (si pensi alle architetture di R. Piano), questi non sono altro che la pelle ester-
na di una parete ventilata, e ancora tutte le applicazioni dei materiali metallici (dalle
architetture di Liebenskin a quelle di Gehry) richiedono per il comportamento dello
stesso metallo una ventilazione retrostante; pochi sono invece gli architetti contem-
poranei che preferiscono mettere in evidenza il sistema costruttivo (esempio di una
tale espressione è l’architettura di T. Ando con le pareti in calcestruzzo a vista).

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il procedimento costruttivo e la sicurezza statica
principi complessi
PRINCIPIO COSTRUTTIVO DEL TRILITE
O DELL'ARCHITRAVE

L'immagine di un dolmen é emblematica per intuire il “princi-


pio del trilite”; il dolmen consiste in una struttura megalitica
risalente all'epoca neolitica composta da due pietre di grandi
dimensioni appoggiate sul terreno sorreggenti una grande
lastra orizzontale in modo da definire un vano agibile.
Il principio del trilite é infatti caratterizzato dalla composizione
di tre elementi pesanti, litoidi, correlati tra loro e con il terreno
attraverso vincoli di semplice appoggio: un elemento orizzon-
tale architrave, é appoggiato su due elementi verticali, piedrit- il dolmen come simbolo del principio del trilite
ti, appoggiati sul terreno, che lo sostengono in modo da crea-
re un vano agibile e sostenere gli eventuali carichi sovrastan- architrave
ti. L'architrave in tal modo é assoggettato a sollecitazioni di
flessione e taglio mentre i piedritti sono sollecitati essenzial- piedritto
mente a compressione. La stabilità dell'insieme é affidata al
peso dei tre elementi e alla capacità dei piedritti di opporsi a
il trilite e gli elementi costituenti
forze verticali e orizzontali, in quanto l'architrave contribuisce
alla stabilità soltanto con il suo peso come ricarico sui piedrit-
ti stessi.

Partendo dall'architrave, si é detto come questo sia sollecita-


to a flessione e taglio; la flessione é una sollecitazione com-
posta da compressione nelle fibre superiori dell'architrave e
da trazione nelle fibre inferiori; la sezione più sollecitata é
quella di mezzeria, come si evidenzia dalla visualizzazione del deformata dell’architrave e diagramma del
momento flettente
diagramma dei momenti nell'architrave e parallelamente dalla
sua deformata riportata in figura.
Occorre valutare la forma migliore per questo architrave in
funzione del materiale costituente, comunque é bene ricorda-
re che a parità di carichi e di luce un architrave alto riduce l'en-
tità degli sforzi in mezzeria della sezione rispetto ad uno
basso; é per questo che la forma data agli architravi in epoche
remote comporta molto spesso una sezione maggiore in mez-
zeria rispetto agli estremi, realizzando una specie di timpano
con funzione di assorbire le maggiori sollecitazioni, tale accor-
gimento spesso viene sfruttato anche per ottenere lo smalti-
mento delle acque dalla copertura.
L'architrave, inserito come apertura di un vano porta o finestra
la porta dei Leoni a Micene
all'interno di una parete, sostiene soltanto il peso di una por-
zione della parete sovrastante, in quanto all'interno di essa si
crea un “effetto arco” che rimanda le sollecitazioni sui piedrit-
ti. L'area di questa porzione é delimitata alla base dalla luce
libera dell'architrave (l) e in alto da una curva parabolica la cui
freccia (f) varia in funzione del tipo e della qualità della mura-
tura (se il muro é di buona qualità il valore di f é compreso tra
1/2l e 3/4l).
Per il dimensionamento dell'architrave i parametri che entrano
in gioco sono la luce e lo spessore, aumentando la luce a pari-
tà di materiale aumenta di conseguenza lo spessore; una
effetto arco nella muratura al di sopra dell’ar-
regola empirica per il dimensionamento dello spessore di un chitrave; ingresso al tesoro di Atreo in cui l’ar-
architrave é 1/10 della luce; gli architravi lapidei non possono chitrave è scarico.
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andare oltre certi limiti dimensionali in quanto il peso specifico
elevato della pietra porterebbe ad un aumento del peso del-
l'architrave provocandone la rottura per flessione. Architetture
trilitiche come quella egizia e greca hanno sicuramente archi-
travi sovrabbondanti rispetto alle luci da coprire, ma la scelta
del materiale non é dettata tanto da ragioni tecniche quanto
da ciò che avevano a disposizione nei luoghi di costruzione;
popoli come Egizi e Greci avevano grossi quantitativi di mate-
riale lapideo e scarsa possibilità di costruire con il legname (il
legno di palma non é un buon materiale da costruzione), que-
confronto tra un architrave lapideo e uno
ligneo sto spiega il grande sviluppo dell'architettura basata sul trilite
lapideo; in epoca romana per aumentare le luci dei vani da
coprire si introducono al di sopra degli architravi archi o piat-
tabande di scarico.
Dall'architrave lapideo, rigido (il materiale dà luogo a piccole
deformazioni impercettibili, ma la rottura é improvvisa e senza
preavviso), si passa agli architravi elastici (costituiti da mate-
riali capaci di riacquistare rapidamente la posizione originaria
una volta cessata la forza deformante) in legno, in ferro e in
a b calcestruzzo armato, che consentono di coprire le stesse luci
all’aumentare dell’inflessione nell’architrave si con sezioni ridotte. Per quanto riguarda l’architrave elastico la
sposta il punto di applicazione del carico sul
piedritto (a) a meno di non usare un apparec-
trave lignea ne rappresenta la materializzazione più antica:
chio di appoggio adeguato (b) esempio di particolare interesse sono i fasci di travi di legno a
coronamento degli ordini delle sale ipostile persiane.
L’impiego della trave di legno sotto forma di complesse inca-
stellature è tipico dell’Oriente asiatico; nell’architettura “pove-
ra” l’architrave di legno è stato molto utilizzato per aprire vani
di porte e finestre e, ripetuto in sequenza, ha dato origine ai
solai in legno che hanno rappresentato per lungo tempo l’uni-
ca alternativa alla volta nella realizzazione di chiusure oriz-
zontali. Dal XIX sec. con l’introduzione della putrella d’acciaio
l’architrave ligneo è stato superato e così pure l’uso del solaio
triliti a Stonehenge
con ordito in legno; dal XX sec. con la diffusione del cls arma-
to si è soppiantato quasi totalmente sia l’uso del legno che
quello dell’acciaio.

Per quanto riguarda il piedritto, questo é generalmente assog-


gettato a compressione; tuttavia l'architrave, in virtù della sua
deformazione per flessione, tende a spostare il punto di appli-
cazione della forza da lui trasmessa dal baricentro del piedrit-
to verso l'estremità interna del piedritto stesso. In tal modo la
utilizzazione del trilite in epoca egiziana: sala
ipostila del Ramesseum
sezione risulterebbe non più sollecitata a compressione uni-
forme ma, via via che la deformata diviene più forte, prima a
compressione non uniforme (qualora la forza applicata sia
all'interno del “nocciolo centrale d'inerzia” o ”terzo medio”) e
poi parte della sezione potrebbe risultare sollecitata a trazione
(qualora la forza applicata sia all'esterno del “nocciolo centra-
le d'inerzia” o “terzo medio”); il materiale lapideo per sua costi-
tuzione non resiste a trazione e quindi ne risulterebbe una
sezione resistente a compressione ridotta rispetto alla sezio-
ne data. Per ovviare a questo inconveniente si può interveni-
utilizzazione del trilite nel periodo greco: tem- re sulla superficie di appoggio tra architrave e piedritto, inse-
pio di Egina rendo un apposito apparecchio d'appoggio realizzato in un
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materiale con resistenza maggiore rispetto a quella del pie-
dritto (oggi si utilizza per questo apparecchio l'acciaio per un nocciolo centrale d’inerzia

piedritto realizzato in calcestruzzo armato; in epoca remota, baricentro


ad esempio negli architravi di Stonehenge, venivano effettua-
caso 1: carico nel baricentro
ti appositi risalti sulla testa del piedritto e relativi incavi nell'ar-
chitrave che avevano lo scopo di mantenere sempre nella s1 s1= P/A

stessa posizione l'elemento di architrave). caso 2: carico all’interno del nocciolo


centrale d’inerzia
Il piedritto, si é detto, viene sottoposto dall'architrave a solle- s2>s 1
citazioni di compressione, ma il sistema trilitico può anche
essere sollecitato da forze orizzontali, quindi le verifiche di sta-
bilità da effettuare sul piedritto consistono nelle verifiche allo caso 3: carico sul bordo del nocciolo
centrale d’inerzia
schiacciamento, allo scorrimento e al ribaltamento.
Occorre premettere che le tre verifiche si effettuano su un soli- s3= 2s1

do murario, cioè un blocco monolitico omogeneo, posizionato


caso 4: carico fuori del nocciolo cen-
su un terreno di fondazione infinitamente rigido con un vinco- trale d’inerzia
lo di semplice appoggio e sottoposto al peso proprio, a carichi sollecitazione di trazione
verticali e a forze orizzontali che tendono a spostarlo.
s4 s4= P/A1

Verifica allo schiacciamento


Si tratta di una verifica a compressione nella quale per avere
la stabilità lo sforzo massimo s max deve risultare < del carico
di sicurezza so. A1: sezione ridotta resistente a
Il solido é assoggettato a sole forze verticali, il peso proprio P, compressione

applicato nel baricentro della sezione, e un carico esterno P1;


Verifica allo schiacciamento
occorre verificare se il punto di applicazione della sommatoria
S
delle forze é contenuto o non all'interno del nocciolo centrale
d'inerzia (luogo dei punti in cui la risultante determina dia-
grammi di tipo rettangolare, trapezio e al limite triangolare; per
baricentro S
una sezione rettangolare é un rombo).
S<Ptg f R
Se il punto di applicazione del carico P1 coincide con l'asse P P

baricentrale, il centro di pressione C (punto di applicazione


f
della risultante dei carichi agenti) coincide con il baricentro
della sezione resistente G, cioè il carico é perfettamente bari- A B A B

centrico, e il diagramma delle pressioni, all'interno del solido verifica allo scorrimento il solido scorre: R è
esterna all’angolo di
S
risulta essere di tipo rettangolare, quindi il solido é uniforme- attrito f

mente compresso con s =s max1.


Se spostiamo il punto di applicazione del carico P1 dall'asse
baricentrale in un punto qualsiasi all'interno del nocciolo cen- d
Mres > Mrib
trale d'inerzia, il diagramma delle pressioni diventa di tipo tra- P
Pb > Sd
pezio con smax che aumenta a parità di area, fino a che il punto
di applicazione del carico P1 non si trova sul perimetro del
nocciolo stesso per cui il diagramma diventa di tipo triangola- A
b
B

re, sempre a parità di area, con smax2=2s max1.


Nei tre casi suddetti va verificato se la smax< so dove smax=P/A
con A =area della sezione resistente.
Se il punto di applicazione della risultante delle azioni esterne S S
si trova all'esterno del nocciolo centrale d'inerzia il diagramma R R
P P
delle pressioni diventa del tipo a farfalla, cioè parte della
sezione risulta compressa e parte risulta tesa; la parte tesa,
essendo in presenza di materiale non resistente a trazione é A B A B
come se non esistesse. R va fuori della base di R è nella base di appoggio =
appoggio = non stabile stabile
In questo caso va verificato sempre che smax<so dove
smax=P/A1 con A1 =area della sezione resistente ridotta, cioè verifica al ribaltamento
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quella sollecitata a compressione, facendo conto che la parte
di sezione sollecitata a trazione non esiste.

Verifica allo scorrimento


Si tratta di una verifica sul solido murario sottoposto oltre che
ai carichi verticali, anche a una forza orizzontale. Sempre con-
siderando un solido omogeneo la sezione di scorrimento é
quella di base AB, cioè quella di contatto con il terreno; in que-
il solaio latero-cementizio come applicazione
sta sezione alla forza orizzontale applicata si oppone la forza
del principio del trilite di attrito che si sviluppa tra le due superfici.
La condizione di stabilità é data dalla relazione S<Pa dove S
é la forza orizzontale, P é il peso del solido e a é il coefficien-
te di attrito tra solido e terreno.
Se effettuiamo la verifica graficamente la risultante inclinata R
tra le forze S (orizzontale) e P(peso) deve essere contenuta
entro l'angolo d'attrito flegato ad a dalla relazione a < tg f

Verifica al ribaltamento
Il solido sottoposto alla forza orizzontale S e alla forza verti-
cale P oltre a poter scorrere sulla superficie di appoggio AB,
può anche ribaltarsi.
La forza orizzontale S produce rispetto al polo B della sezione
di base un momento ribaltante dato da MR= Sd, dove d é la
distanza del punto di applicazione della forza S rispetto alla
base di appoggio, mentre il solido sempre rispetto all stesso
polo B produce un momento stabilizzante MS=Pt, dove t é pari
alla metà della base di appoggio. Si avrà stabilità se MS>MR
ma per rimanere in sicurezza MS> 1.5 MR.
Se effettuiamo la verifica graficamente la risultante R tra le
forze S e P deve cadere all'interno della base di appoggio per
avere la stabilità del solido; se R cade all'esterno della base di
appoggio il solido si ribalta. Per tener conto del coefficiente di
il solaio in elementi prefabbricati alveolari in
calcestruzzo come applicazione moderna del
sicurezza si può utilizzare una forza S1 =1.5S.
principio del trilite
Una volta effettuate le verifiche si possono adottare vari accor-
gimenti in funzione del problema evidenziato.
Se si verifica che la smax>so, cioè si ha una rottura per schiac-
ciamento del materiale, si può aumentare il materiale resi-
stente e per far ciò si può allargare la superficie di appoggio
del solido, cioè la sezione maggiormente sollecitata, ad esem-
pio costruendo un piedritto a scarpa; oppure si deve agire sui
carichi agenti diminuendoli, ad esempio sostituendo l'architra-
ve in pietra con uno in legno più leggero.
Se la verifica allo scorrimento dimostra che il solido scorre sul
piano di appoggio, S>Pa, si può intervenire sul coefficiente di
attrito, conferendo una maggiore scabrosità alla superficie di
contatto tra solido e terreno, oppure aumentare P, ad esempio
ponendo un ricarico sul solido in questione.
Se la verifica al ribaltamento dimostra che il solido é instabile,
cioè MR>MS quindi Sd>Pt si può agire su due fattori: sul peso,
aumentando P attraverso il posizionamento di un ricarico sul
solido; sulla superficie di appoggio realizzando un piedritto a
principio del trilite scarpa, oppure creando un muro a contrafforti.
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PRINCIPIO COSTRUTTIVO DEL TELAIO

La cornice di un quadro è una struttura a telaio composta da


quattro elementi tra loro collegati in genere attraverso dei gat-
telli; questi ultimi hanno la funzione di realizzare il vincolo di
incastro tra gli elementi.
Rispetto al trilite, di cui si è già trattato, il sistema a telaio ha
un comportamento sostanzialmente diverso, in quanto il vin-
colo di solidarietà che si realizza tra elementi verticali ed ele-
menti orizzontali comporta la trasmissione delle sollecitazioni
di flessione, che caratterizzano l'architrave, anche ai ritti.
Rispetto ad un trilite un telaio rigido ha un comportamento
monolitico e possiede una maggiore resistenza ai carichi ver- la cornice di un quadro rappresenta il telaio
ticali e a quelli orizzontali.
Sotto l'azione di un carico verticale uniformemente ripartito, corrente

mentre l'architrave, che non é collegato rigidamente al piedrit-


to, si inflette e le sue estremità, libere di muoversi, ruotano montante
liberamente rispetto ai pilastri che restano verticali, l'elemento
orizzontale del telaio, detto corrente, rigidamente collegato
il telaio composto da un corrente e due mon-
attraverso un vincolo di incastro agli elementi verticali, detti tanti incastrati tra loro
montanti, si inflette e le sue estremità ruotano trasportando
nella rotazione rigida anche le estremità superiori del montan-
te, che si incurva; il corrente trasmette così ai montanti solle-
citazioni di flessione e taglio.
In conseguenza di questo comportamento si ha che: sollecitazioni nel cor-
- il corrente con le estremità parzialmente vincolate, ha una rente e nei montanti
maggiore rigidezza ed é in grado di resistere a sollecitazioni di
flessione maggiori; sollecitazioni dovute alla compressione e alla flessione nel
- i montanti non sono più assoggettati a sollecitazioni di sola montante

compressione, provenienti dal corrente e dal peso proprio, ma


anche a sollecitazioni di flessione dovute alla continuità con il
corrente stesso;
- al fine di mantenere l'equilibrio del corrente ai carichi verti- sollecitazioni dovute alla compressione e alla flessione nel
corrente
cali, si sviluppa una azione di spinta che tende a riportare i
montanti alla loro posizione verticale e fa lavorare anche il cor-
rente a compressione, tale spinta é generata dalla resistenza
delle fondazioni agli spostamenti laterali.
Da queste considerazioni deriva che tutti e tre i componenti di
un telaio semplice sono sottoposti a flessione e a compres-
sione. La flessione semplice produce sollecitazioni che sono
distribuite linearmente nello spessore dell'elemento con ugua-
li valori massimi a trazione e a compressione; a queste si deformata sotto carichi verticali uniformemen-
aggiunge una sollecitazione costante di compressione, che te distribuiti di un telaio incastrato al piede
provoca le distribuzioni trapezoidali di sollecitazione riportate
in figura, con la compressione prevalente nei montanti e la
flessione prevalente nel corrente.
Il piede del montante può essere sia incernierato che inca-
strato. Nei telai in acciaio il vincolo di cerniera può essere rea-
lizzato direttamente sia predisponendo una vera cerniera, sia
effettuando una distribuzione ad hoc dei bulloni di fissaggio
deformata sotto carichi verticali uniformemen-
del nodo; nei telai in cemento armato realizzare una cerniera te distribuiti di un telaio incernierato al piede
è più difficile ma può essere realizzato attraverso la creazione
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di una sezione non reagente a flessione (cioè priva di armatu-
ra e questo si ottiene incrociando i ferri d'armatura nella sezio-
ne desiderata) nella quale si ammette che possano verificarsi
delle fessurazioni per rotazione (i ferri debbono essere pas-
santi per garantire la trasmissione dei carichi verticali).
Per un telaio incernierato la deformazione sotto carichi verti-
cali uniformemente distribuiti, comporta una rotazione del
comportamento di un telaio incastrato sotto- montante nella cerniera, mentre per un telaio incastrato i mon-
posto a carichi orizzontali distribuiti uniforme-
mente sul montante
tanti, che non possono ruotare nella sezione di incastro, pre-
sentano un punto di flesso, equivalente ad una cerniera, in
quanto in quel punto non si producono sollecitazioni di fles-
sione; il telaio incastrato equivale ad un telaio incernierato con
montanti più corti, pertanto risulta più rigido di quello incernie-
rato di pari dimensioni.

comportamento di un telaio con vincoli di cer- Prendiamo in considerazione il comportamento di un telaio


niera tra corrente e montanti sottoposto a sottoposto a forze orizzontali (ad esempio il vento); mentre nel
carichi orizzontali distribuiti uniformemente trilite non c'é nessuna collaborazione dell'architrave nei con-
sul montante
fronti del piedritto, nel telaio la continuità tra i montanti e il cor-
rente consente di trasmettere parte della spinta anche al mon-
tante non direttamente caricato, con la conseguenza che
entrambi i montanti si inflettono. Anche se i montanti fossero
soltanto incernierati con il corrente il montante sopravvento
trasmetterebbe metà della spinta orizzontale a quello sotto-
comportamento di un telaio incernierato al
vento, riducendo così le tensioni sul montante rispetto alla
piede sottoposto a carico verticale asimmetri- soluzione a trilite. Ma dato che la continuità tra montanti e cor-
co sul corrente rente costringe quest'ultimo ad inflettersi insieme ai montanti,
questi é come se fossero soggetti ad un ulteriore vincolo e di
conseguenza diventano più rigidi, quindi la loro inflessione si
riduce e con essa le sollecitazioni di flessione.
Lo stesso spostamento laterale imposto al telaio da una forza
orizzontale viene prodotto da carichi verticali asimmetrici.
Qualora per motivi economici, risulti più semplice realizzare
comportamento di un telaio con vincolo di cer- telai con nodi di cerniera anziché di incastro, per garantire
niera tra corrente e montanti irrigidito con
controvento sottoposto a carico orizzontale
comunque la rigidezza del telaio, che altrimenti sottoposto ad
distribuito sul montante azioni orizzontali diverrebbe un parallelogramma articolato, si
interviene inserendo elementi diagonali, detti controventi, che
lavorano alternativamente a trazione o a compressione.
Questo elemento viene inserito di preferenza nella realizza-
zione di telai in legno o in acciaio nei quali per ottenere un
nodo rigido occorre utilizzare materiale sovrabbondante, in
antitesi con la leggerezza degli elementi costituenti, mentre
non sono mai usati nei telai in calcestruzzo armato, dove il
materiale stesso garantisce la continuità del nodo.
E’ da rilevare che quando si realizza un edificio con scheletro
portante in acciaio o legno l’inserimento dei controventi non
viene effettuato per ogni telaio, altrimenti si avrebbero proble-
mi nelle fruizione dello spazio abitato, ma si individuano delle
fasce di telai nelle quali intervenire con il controventamento
sia sul piano verticale, che orizzontale, in modo da ottenere un
elemento irrrigidente per l’intera struttura, oppure si realizza-
no dei nuclei in calcestruzzo irrigidenti (ad esempio nei grat-
principio del telaio tacieli, spesso è il nucleo centrale che contiene i servizi).
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PRINCIPIO COSTRUTTIVO DELL'ARCO

Il principio dell'arco realizza un vano agibile mediante un ele-


mento con configurazione curvilinea costituito da conci, l'arco,
che si collega ad elementi verticali, i piedritti.
I conci dell’arco, sollecitati a sola compressione, risultano giu-
stapposti e la loro stabilità è garantita dall'azione di mutuo
contrasto che si esercita tra essi; i conci infatti collaborano tra
loro in virtù della forma cuneiforme, che impedisce alle due
facce mutuamente a contatto di scorrere verso il basso l'una
rispetto all'altra.
Per quanto riguarda i piedritti su di essi l’arco esercita una funzionamento ad arco
azione di spinta. In termini di equilibrio statico il fenomeno può
essere spiegato scomponendo la forza peso del singolo con-
cio secondo due direzioni una normale e l’altra tangente al
piano di contatto con il concio contiguo. Le due componenti
che si ottengono rappresentano gli sforzi reciproci che si ven-
gono a creare all'interno dell’arco quando un concio viene
inserito tra altri due. Considerando un semiarco, e supponen-
do che sul concio di chiave agisca soltanto la forza peso, al
concio adiacente si trasmette la componente normale al piano
andamento della linea delle pressioni e uso
di contatto del peso (la componente tangenziale si elide per del rinfianco
l’azione di mutuo contrasto suddetta), che si compone con la
forza peso del concio; questo procedimento si può applicare
ai vari conci, così da determinare, fino alle reni, la curva delle
pressioni (curva costituita dalle risultanti dei vari conci) e quin-
di l'andamento della forza R, risultante del sistema spingente
che agisce sul piedritto (il giunto alle reni, 30°, è il limite mas-
simo fino al quale i conci si sostengono soltanto per attrito e
comportamento di due archi adiacenti
quindi fino a tale punto si può considerare che i conci dell’ar-
co facciano parte del piedritto). Il valore della forza R viene determi-
fornito graficamente dal poligono funicolare. nazione
del piano
Per la stabilità del singolo concio occorre verificare che la
di giunto
forza R cada all'interno del nocciolo centrale d’inerzia, questo tra conci
perché i conci dell'arco sono realizzati in materiali non resi- lapidei
stenti a trazione; la forza R cadendo al di fuori del nocciolo
solleciterebbe a trazione, fratturandola, la parte di sezione
opposta ad essa. Inoltre per la stabilità occorre che il valore
della compressione non superi i limiti di resistenza propri del
materiale impiegato.
Per la stabilità dell'arco nel suo insieme occorre che: la linea
delle pressioni rientri nello spessore dell'arco stesso, cioè sia
interna, e per evitare sollecitazioni di trazione sia compresa tra
gli estremi del nocciolo centrale di inerzia; la risultante in cor- sistema
rispondenza di ogni sezione formi con la normale alla sezione per la
stessa un angolo inferiore a quello di attrito della muratura; la determi-
nazione
sollecitazione di compressione in ogni sezione risulti minore del con-
del carico di sicurezza del materiale impiegato. cio di pie-
Per la stabilità dei piedritti occorre che la risultante R rientri nel tra; arco
in matto-
nocciolo centrale d'inerzia della sezione di base e, se questo ni
non accade, occorre cercare di raddrizzare tale forza compo-
nendola con azioni verticali, ad esempio con il carico di un rin-
13
fianco. La natura e lo spessore del rinfianco sono da determi-
nare attraverso verifiche, ad esempio in caso di volte pratica-
bili all'estradosso esso può essere costituito dal riempimento
necessario per riportare in piano il calpestio; la linea superio-
re del rinfianco può essere tangente alla sommità della volta
oppure inclinata, in rapporto alla forma della sezione della
volta e all'entità della luce; quando è inclinata occorre provve-
dere con un riempimento ulteriore in materiali leggeri.
Da quanto detto appare evidente come sia complessa per le
volte murarie l'esatta determinazione del comportamento sta-
tico, la cui analisi può essere effettuata con metodi grafici
come quello del Mery.
Per ottenere una eliminazione della spinta dell'arco sui pie-
dritti si può introdurre una catena di ferro all'altezza delle reni,
nomenclatura degli archi e tipi principali di operando in modo che le azioni di trazione esercitate dal tiran-
volte
te verso l'interno dell'arco si contrappongano all'azione di
spinta R e ne riducano la componente orizzontale.
Per quanto riguarda il piedritto per ampliare la base di appog-
gio in maniera che la spinta dell'arco possa rientrare entro il
terzo medio della sezione di base senza l'intervento di altre
forze esterne si può ricorrere all’utilizzo di contrafforti o spero-
ni, nonché alla realizzazione di murature a scarpa. I contraf-
forti possono risultare interni rispetti allo spazio costruito o
esterni: esempio di costruzione che utilizza un sistema a con-
vista e organizzazio- trafforti interni è il Pantheon, esempio di costruzione con con-
ne costruttiva del
Pantheon
trafforti esterni è il Tempio di Minerva Medica.
Altro metodo per contrastare la spinta di un arco é quello spe-
rimentato nel periodo gotico con l'introduzione dell'arco ram-
pante che serviva per controbilanciare le spinte provenienti
dalla volta della navata centrale e "accompagnarle" oltre le
navate laterali, sugli speroni murari.
Nel caso di archi o volte disposte in successione il problema
dell'eliminazione delle spinte è automaticamente risolto e
rimane aperto esclusivamente per gli elementi di testa; tutti gli
elementi correnti si sorreggono mutuamente perché forze
uguali e simmetriche si compongono tra loro dando luogo a
risultanti perfettamente verticali e centrate sul piedritto, che
può addirittura diventare un elemento molto sottile, come i
pilieri dell’architettura gotica o le colonnine del portico dell'o-
spedale degli Innocenti a Firenze; l’elemento di testata nel
portico è in genere costituito da un setto, mentre a controbi-
lanciare le spinte delle volte delle navate si trovano i muri late-
vista e organizzazio- rali contraffortati e le intere facciate delle chiese.
ne costruttiva del Per quanto riguarda l'apparecchio costruttivo particolare
tempio di Minerva
Medica
attenzione va usata nella chiusura in chiave della volta; la
chiave deve essere serrata in modo che nel disarmo non si
verifichino cedimenti della costruzione, e questo si ottiene
introducendo nei ricorsi di malta, a destra e sinistra del concio
di chiave, scaglie di pietra dura a formare elementi di contra-
sto, oppure introducendo il concio di chiave a secco e calan-
do poi nei giunti della malta.
Nella costruzione delle volte in pietra da taglio ha particolare
importanza la stereotomia (teoria del taglio delle pietre) per
14
assegnare al concio la forma desiderata. Per rendere meno
complessa la lavorazione dei conci si é sempre preferito uti-
lizzare curvature ad arco di cerchio. Con la pietra da taglio la
resistenza dell'arco é affidata esclusivamente alla disposizio-
ne dei conci e si realizzano pezzi così precisi che diventa
superfluo l'uso della malta, come facevano i Romani, oppure
la malta può essere utilizzata soltanto ai fini di una migliore
ripartizione dei carichi, come avveniva nel periodo romanico-
gotico.
Per quanto riguarda le volte in mattoni, materiale convenien-
te e molto usato, debbono essere osservati alcuni accorgi-
menti dettati dalla forma stessa dei conci, che risultano di
spessore costante e comportano perciò un giunto di malta
organizzazione costruttiva della chiesa gotica
cuneiforme con conseguente distribuzione non uniforme delle
pressioni. Tale giunto non dovrebbe misurare più di 6 mm
all'intradosso e 15-20 mm all'estradosso altrimenti la resisten-
za a compressione della muratura diminuisce sensibilmente;
per archi di notevole spessore si passa dalla realizzazione
dell’arco a più teste, all'apparecchio murario a rotoli separati o
si usano conci cuneiformi prodotti ad hoc.

Sfruttando il principio dell'arco si costruiscono le volte che in


generale si distinguono in volte semplici e volte composte e
che applicano per determinare la loro configurazione alcuni
tipi di curve ricorrenti: il mezzo cerchio (volte a tutto sesto); il
segmento di cerchio (volte ribassate); l'arco acuto, composto
tipi di curve ricorrenti per gli archi
di due settori di cerchio a centri contrapposti; curve a profilo
ellittico ribassato (la corda é l'asse maggiore dell'ellisse);
curve a profilo ellittico rialzato (la corda é l'asse minore del-
l'ellisse); curve con profilo parabolico; curve policentriche
(archi di cerchio raccordati tra loro in modo conveniente).
Tra tutte le configurazioni elencate si deve ricordare che l’ar-
co più risulta ribassato e più spinge, quindi l’arco che tra tutti
risulta il meno spingente è l’arco acuto; nell’architettura gotica
venivano usati archi acuti composti da due settori ci circonfe-
renza inferiori a 30° (angolo di attrito per la muratura), che apparecchi per realizzare volte a botte
potevano essere costruiti senza l’ausilio di centine.
A queste configurazioni curve dell’arco occorre aggiungere
quello che viene definito arco retto o piattabanda, in genere
utilizzato per la realizzazione di vani di porta o finestra nelle
murature; consiste in una disposizione inclinata di mattoni che
mantengono un intradosso piano e risulta essere l’arco più
spingente in assoluto, contrastato nella spinta dai maschi
murari adiacenti il vano.
Per ogni tipo di volta esistono uno o più apparecchi murari
ricorrenti con i quali sono state realizzate nel passato; oggi
conoscere tali apparecchi risulta utile nella fase di recupero.

Oggi l’arco si è trasformato da un sistema a conci ad un siste-


ma elastico, cioè un elemento costruttivo dotato di resistenza
flessionale in grado di consentire luci molto superiori rispetto
all’arco murario; può essere realizzato in acciaio, cemento
armato e legno, in genere lamellare. il principio dell’arco
15
PRINCIPIO COSTRUTTIVO DEL CAVO

Il principio costruttivo del cavo consiste nello sfruttare la resi-


stenza a trazione di un elemento privo di rigidezza flessiona-
tenda di popolazioni nomadi del Marocco le, il cavo, che collegato a due piedritti permette di realizzare
un vano agibile.
Questo criterio dello sfruttamento della resistenza a trazione
del cavo trova applicazioni remote nell'utilizzo di funi per il sol-
levamento dei pesi o nell'atto di appendersi ad una liana per
superare un torrente; altrettanto remota e immediata é l'im-
magine del ponte di liane sospeso al di sopra di un baratro che
veniva utilizzato dalle popolazioni primitive; oggi tale immagi-
ne é rapportabile a quella del ponte sospeso e se si conside-
configurazioni del cavo al variare del carico ra il ponte come un organismo che consente ci collegare due
agente punti sopraelevati lasciando praticabile lo spazio al di sotto di
esso, si può risalire dall’immagine del ponte a quella della
copertura di un vano agibile.
L’idea del ponte sospeso con le sue diverse tipologie, appeso
e strallato, ha condotto alla realizzazione di opere di impor-
tanza notevole (molti grandi progettisti da R. Morandi, a N.
Foster e S. Calatrava hanno realizzato ponti sospesi) e pro-
prio con tale tipo di ponte si vuole realizzare il collegamento
E.Saarinen - Aeroporto di Washington
tra la Sicilia e la penisola.
Immaginando di traslare trasversalmente nello spazio l'imma-
gine di un cavo sospeso si ottiene un vano coperto da una
tenda o da un baldacchino. Dalla tenda delle popolazioni
nomadi si passa oggi alle grandi coperture basate sul princi-
pio del cavo, che hanno caratterizzato l'opera di grandi pro-
gettisti come E. Saarinen, R. Morandi, P.L. Nervi, Frei Otto e
R. Morandi - Hangar di Fiumicino
che vengono ideate ancora oggi da architetti come S.
Calatrava (ne è un esempio lo Stadio Olimpico di Atene).
Un cavo sospeso ai due estremi posti alla stessa quota é cari-
cato dal solo peso proprio, distribuito uniformemente lungo il
cavo stesso, e assume una configurazione particolare che va
sotto il nome di catenaria, appunto la disposizione di una cate-
na appesa alle estremità.
Problema importante da affrontare è il cambiamento di confi-
P.L. Nervi - Cartiere Burgo gurazione del cavo a secondo di come il carico é posizionato
al di sopra di esso (basti pensare al filo per stendere i panni!);
di conseguenza al variare dei carichi agenti varierà la confi-
gurazione di equilibrio del cavo e quindi la curvatura che esso
assume. Ad esempio un cavo a sostegno di un ponte con il
carico distribuito uniformemente in pianta assume la configu-
razione di una parabola, diversa dalla catenaria di cui si é
detto prima.
Il cavo che sostiene un carico concentrato in mezzeria assu-
me una configurazione a triangolo, con due o più carichi tale
configurazione diviene una spezzata, fino a che i carichi non
diventano tantissimi e distribuiti uniformemente lungo il cavo
stesso quando si ottiene una configurazione a catenaria (col-
F. Otto - Stadio di Monaco e padiglione di
lana di perle).
Stoccarda Questo modificarsi della configurazione a secondo dei carichi
16
agenti comporta notevoli problemi per la sua utilizzazione
nelle costruzioni; infatti in genere non é ammissibile che un
organismo edilizio, soggetto per sua natura a variazioni dei
carichi (vento sulla copertura, passaggio dei veicoli sul ponte),
vari la sua configurazione al variare di essi.
Per scongiurare il pericolo di una insufficiente rigidezza agli
effetti aerodinamici si sono svolte molte ricerche per indivi-
duare soluzioni di irrigidimento e controventamento sempre
più perfezionate ed efficaci, che hanno condotto a definire le
forme tipiche delle coperture a cavi e precisamente:
- stabilizzazione con aumento del peso proprio;
- stabilizzazione mediante travi trasversali;
- stabilizzazione mediante pre-trazione "piana";
- stabilizzazione mediante pre-trazione "spaziale".

Stabilizzazione con aumento del peso proprio


Il modo più semplice per stabilizzare un cavo é quello di ricor-
rere ad un aumento uniforme del peso proprio in modo che si
mantenga la sua forma a catenaria; ne derivano le coperture stabilizzazione con aumento del peso proprio
a ordito di cavi paralleli appesantite attraverso un impalcato
che rende trascurabili le azioni di carichi accidentali (soluzio-
ne corrente é il ricorso a getti o elementi preformati in cls).
Tale metodo di stabilizzazione però riduce di molto l’idea base
di leggerezza della copertura, che è quella di partenza per l’a-
dozione di un sistema costruttivo a cavi.
Ai fini della stabilità degli elementi in elevazione sottoposti ad
una azione di tiro da parte dei cavi, si possono adottare una
serie di accorgimenti come l'applicazione di tiranti di testata e stabilizzazione mediante travi trasversali
la realizzazione di setti o pilastri in c.a. conformati a mensola.

Stabilizzazione mediante travi trasversali


Seguendo il principio della stabilizzazione del cavo attraverso
un ricarico si può ricorrere, sempre nel caso di coperture a
ordito di cavi paralleli, all'inserimento di una serie di trasversi
rigidi che rendono tra loro solidali i cavi e che una volta vinco-
lati alle estremità (ad esempio con tiranti al suolo) assicurano
la stabilizzazione alle oscillazioni e ai carichi asimmetrici;
coperture di questo tipo vengono chiamate a cavi e travi.

Stabilizzazione mediante pre-trazione piana


In questo caso per ottenere la stabilizzazione di un cavo si uti-
d e
lizza un controcavo agente nel medesimo piano verticale con
uguale curvatura ma opposta, in modo da determinare delle
incavallature costituite dal cavo principale e dal cavo stabiliz-
zante tra loro collegati attraverso puntoni (se il cavo principa-
le è sotto) o tiranti (se il cavo principale è sopra).
Nel primo caso si hanno le incavallature a fuso o a osso di
seppia, nel secondo le incavallature a catenaria.
Le coperture che si ottengono vedono le incavallature dispo-
ste parallelamente in modo da coprire spazi a pianta rettan- f
golare o radialmente per coprire spazi a pianta centrale. Nel
caso di incavallature a osso di seppia disposte parallelamen- stabilizzazione mediante pre-trazione piana
te occorre porre attenzione al loro controventamento nel piano
17
perpendicolare a quello dell'incavallatura in quanto, confluen-
do i due cavi in un unico punto, si può verificare una rotazio-
ne nel punto di contatto incavallatura-ritto. Questo problema è
superato intrinsecamente con le incavallature a catenaria. Per
quanto riguarda il ritto, le azioni di tiro nel punto di collega-
mento con l’incavallatura sono riportate a terra attraverso cavi;
per evitare di sollecitare il ritto a flessione si dispone il suo
asse secondo la bisettrice dell’angolo formato da cavo por-
tante e cavo di stabilizzazione che va a terra; in questo modo
il ritto viene sollecitato a semplice compressione.

Stabilizzazione mediante pre-trazione spaziale


Un cavo in libera sospensione, con configurazione a catena-
ria, può essere stabilizzato ponendo in trazione un altro cavo
che lo interseca secondo un piano ortogonale e che avendo i
punti di attacco più bassi del primo assume una curvatura
stabilizzazione mediante pre-trazione spaziale
opposta (quanto più è elevata la differenza di quota tra i punti
di attacco tanto più sarà efficace il sistema di stabilizzazione).
Seguendo tale criterio si può realizzare una rete a maglie
tetragonali formata da due orditi di cavi incrociati e con dispo-
sizione relativa degli attacchi tale che, ponendo in trazione i
cavi stabilizzanti, si determina una superficie a due curvature
opposte sufficientemente rigida senza l'impiego di elementi
resistenti a flessione o a compressione. Per questa ragione
tali coperture si definiscono a rete spaziale.
La dislocazione dei punti di attacco e quindi la forma degli ele-
modalità di discacco di superfici Hypar dal menti di bordo è fondamentale per la definizione della super-
paraboloide ficie: in genere si adottano elementi di bordo parabolici che
consentono di ottenere una configurazione a paraboloide iper-
bolico che rappresenta la superficie di massimo rendimento.
Sezionando opportunamente un paraboloide iperbolico si pos-
sono ottenere diverse configurazioni, ad esempio sezionan-
dolo secondo piani orizzontali si ottengono superfici a bordi
curvilinei, ma, dato che il paraboloide viene anche definito
geometricamente una rigata, da esso si possono staccare
esempi di coperture a bordi curvilinei anche delle porzioni di superfici a bordi rettilinei, ottenute
sezionando la "sella" secondo le generatrici rette.
Nel primo caso si ottengono le coperture a bordi curvilinei che
presentano le linee di attacco dei cavi portanti ad andamento
curvo in modo da avvicinarsi il più possibile alla funicolare dei
carichi e ridurre le sollecitazioni di flessione sugli elementi di
bordo; si hanno così le coperture a due arconi periferici dis-
taccati o incrociati, le coperture ad anello piegato, le copertu-
re a uno o più arconi intermedi.
Nel secondo caso si hanno le coperture a bordi rettilinei basa-
te su porzioni di paraboloide iperbolico di cui la più frequente
è quella equilatera; in questo caso gli elementi di bordo sono
sollecitati a flessione e a torsione.

Altro sistema di copertura basato sull’utilizzo di cavi è quella a


telone, nella quale è un telo o una membrana flessibile soste-
nuta per punti da ritti a costituire elemento di copertura (esem-
principio del cavo pio di tale sistema sono i tendoni del circo)
18
PRINCIPIO COSTRUTTIVO DEL TRIANGOLO

Il principio del triangolo nasce nell'architettura etrusca come


bilite, costituito da due lastre di pietra appoggiate l'una contro
l'altra che contrapponendosi vengono assoggettate a com- a, copertura con bilite a Vetulonia; b, copertu-
pressione e ad azioni flessionali dovute al peso proprio ed ra con puntoni in legno
eventualmente da altri carichi verticali agenti. Gli elementi
inclinati, i puntoni (inizialmente in pietra, poi in legno e in
ferro), trasmettono al suolo azioni orizzontali e verticali e la
stabilità degli elementi é garantita dall'attrito che si sviluppa
sulla superficie di appoggio e dal peso.
La spinta orizzontale può essere contrastata attraverso l'utiliz-
zazione di un apposito apparecchio di appoggio realizzato al
piede degli elementi inclinati (un gradino nel quale i pezzi ven-
gono inseriti, un dormiente nel quale inserire le basi dei pun-
toni, un pattino di appoggio per i puntoni stessi) o ancora da
una catena disposta al piede degli elementi stessi.
Con l'inserimento della catena gli elementi diventano tre e si
ottiene il "triangolo indeformabile", cioé un elemento costrutti-
vo costituito da tre aste collegate tra loro attraverso vincoli di le travi reticolari
cerniera e sollecitate alternativamente a compressione o tra-
zione. Quest'ultima affermazione risulta veritiera soltanto nel
momento in cui le aste non vengono caricate lungo il loro
asse, ma i carichi vengono disposti soltanto nelle cerniere
(nodi). Come applicazione del triangolo indeformabile si pos-
sono menzionare le travi reticolari che basano il loro funzio-
namento su quattro punti fondamentali:
1) i carichi agenti debbono essere concentrati nei nodi;
2) gli assi baricentrici delle aste debbono convergere nel cen-
tro geometrico del nodo (per effettuare al meglio il collega-
mento si possono utilizzare i fazzoletti);
3) il piano medio della trave reticolare deve coincidere con il
piano dei carichi esterni;
4) la disposizione delle aste e i collegamenti nel piano medio
le capriate
debbono essere effettuati in modo da non provocare eccentri-
cità di costruzione (ad esempio utilizzando per le aste profili
gemelli), che provocherebbero sollecitazioni di flessione nelle
aste stesse.
Un altro elemento costruttivo che basa il suo funzionamento
sul principio del triangolo é la capriata, nella quale le due aste
inclinate e compresse, i puntoni, si collegano tra loro attraver-
so il monaco, che ha anche il compito attraverso una staffa
disposta all'estremità di sostenere la catena che può essere
inflessa dal peso proprio, a secondo delle dimensioni della
catena stessa. Per quanto riguarda i puntoni a secondo della
disposizione dei carichi vengono sollecitati a semplice com-
pressione o anche a flessione, infatti se gli arcarecci poggia-
no direttamente sui puntoni, su questi ultimi grava il peso del-
l'intero tetto, oltre al peso proprio; per contrastare l'inflessione
dei puntoni vengono collegati al monaco i saettoni che costi-
tuiscono una sorta di puntello (sono sollecitati a compressio-
ne), che diminuisce l'inflessione del puntone. il principio del triangolo
19
PRINCIPIO COSTRUTTIVO DEL PNEUMATICO

Il principio del “pneumatico” è di recente applicazione in edi-


lizia e viene utilizzato per realizzare spazi coperti sfruttando
l’aria in sovrappressione per far assumere la forma a un invo-
lucro “morbido” in materiale plastico, capace di resistere a sol-
lecitazioni di trazione. Il principio del “pneumatico” sfrutta quin-
di l'aria come elemento portante.
Le prime sperimentazioni risalgono ai primi anni del novecen-
to, oggi vengono utilizzate principalmente come coperture
smontabili per impianti sportivi, magazzini, padiglioni itineran-
ti per mostre; caratteristica peculiare delle costruzioni pneu-
matiche è infatti quella di poter essere erette e rimosse con
rapidità mediante semplici operazioni di gonfiaggio e sgon-
fiaggio, data anche la facilità di trasporto dell’involucro che è a,b,c,d,e,f,g, schemi di funzionamento e tipi di
copertura gonfiabile (a,d), a camera d’aria
ripiegabile e leggero (peso 5Kg/mq circa). Applicazioni mag- (b,e) e mista (c,f,g).
giori esistono nel campo dell'oggettistica, poltrone da mare, h,i,l, collegamenti tra membrana e cordolo di
materassini, ecc.; in paesi, come la Svezia, con clima inver- ancoraggio mediante profili in acciaio.

nale molto rigido involucri pressurizzati vengono utilizzati per


consentire la costruzione al chiuso di case unifamiliari isolate,
di ridotte dimensioni.
Si possono avere tre tipi di elementi costruttivi gonfiabili: le
coperture gonfiabili, le coperture a camera d'aria e le copertu-
re pneumatiche miste.
Nelle “coperture gonfiabili” lo spazio interno all'organismo
risulta pressurizzato in quanto l'aria, elemento portante, in
pressione occupa l'intera concavità. Lo spazio abitabile si rea-
lizza insufflando sotto un involucro (costituito da teli di plasti-
ca in unico strato) aria ad una pressione dell’ordine di
20Kg/mq che assicura l’assunzione della forma prestabilita e
la relativa stabilità. Anche se l’uomo si trova a vivere in un
ambiente pressurizzato, gli sbalzi di pressione tra interno ed
esterno (anche in caso di sovrappressioni di 80-100 kg/mq,
adottati per forti carichi esterni) non sono comunque avvertibi- a, collegamenti tra membrana e fondazione
li anche da soggetti particolarmente sensibili. mediante zavorra.
Nelle “coperture a camera d'aria” l'involucro, a doppia parete
(frazionato in più comparti a camera d’aria) o composto da
elementi pneumatici da accostare tra loro per determinare l’or-
ganismo edilizio, contiene al suo interno l'aria in pressione; ne
risulta che lo spazio agibile non è pressurizzato. Le forme pos-
sibili per l'organismo edilizio sono molteplici e dipendono dalla
forma degli elementi pneumatici, si possono avere coperture
a botte costituite da archi pneumatici o volte con ordito pneu-
matico, tutte configurazioni che, nel caso di coperture gonfia-
bili, non risultano possibili.
Le “coperture pneumatiche miste” utilizzano contemporanea-
mente i due sistemi, gonfiabile e pneumatico, in quanto la
copertura, del tipo a camera d'aria, viene mantenuta in posi-
zione attraverso aria a debole pressione all'interno dello spa-
zio costruito. Con questo sistema si ottengono coperture di a, teatro galleggiante pneumatico all’Expo di
Osaka
grandi spazi molto ribassate con le quali occorre far fronte a
20
condizioni di carico molto gravose (ad es.presenza di neve).
L'involucro in tutti e tre i casi suddetti viene sollecitato a tra-
zione, la capacità di resistenza è data dall'aria in pressione e
la forma dell'organismo è data dalla configurazione che assu-
me l'involucro gonfiato. Entro certi limiti, sfruttando l'elasticità
dell'aria, si possono ammettere deformazioni sotto carico.
a b Il problema importante da risolvere nelle coperture pneumati-
che è quello dell'ancoraggio degli elementi, che risulta di dif-
ferente soluzione a seconda che questi debbano risultare di
tipo smontabile o di tipo fisso.
Per coperture fisse si possono progettare cordoli di ancorag-
gio in calcestruzzo ai quali bloccare le membrane con oppor-
tuni sistemi (profili in acciaio, in pvc, ecc.).
Nel caso di coperture smontabili ("pallone" per la copertura
a, organismo pneumatico a camera d’aria, b,
organismo gonfiabile invernale di una piscina) anche l'ancoraggio deve risultare
rimovibile e quindi si adottano opportuni collegamenti per
punti, mentre la tenuta viene affidata a sacchetti di sabbia o a
tubolari riempiti di acqua in modo da assecondare le possibili
scabrosità del suolo, facilmente rimovibili o svuotabili. Per
quanto riguarda l’attacco a terra del telo, per evitare lacera-
zioni o strappi dell’involucro si devono ridurre le concentrazio-
ni degli sforzi in punti particolari del telo stesso e cercare di
ripartirli sul numero più elevato possibile di ancoraggi.
Nel caso di coperture gonfiabili il mantenimento dell'aria in
pressione va garantito nonostante debbano essere consentiti
gli accessi all'organismo: occorre prevedere apparecchi di
accesso ad anta, girevoli, a cortina d'aria o a camera d'equili-
brio che garantiscano la tenuta.
In rapporto alla sicurezza le cadute di pressione dell’aria inter-
na (dovute a perdite di tenuta o a guasti nei compressori), non
provocano un repentino afflosciamento del telo e quindi non
comportano un sostanziale pericolo per gli occupanti. Ai fini
del comfort ambientale se il telo è in unico strato può essere
insufflata aria preriscaldata.
Con qualsiasi tipo di sistema costruttivo gli involucri gonfiabili
possono essere ancorati al suolo mediante funi o cavi aggiun-
tivi, passanti al di sopra del telo, per ottenere una migliore sta-
bilizzazione.
Dato che il materiale costituente, il telo, è in genere attaccabi-
le dal fuoco, questi devono essere resi autoestinguenti attra-
verso opportuni trattamenti per garantire la sicurezza in caso
casseforme pneumatiche di incendio.

Negli anni ‘70 sono state realizzate delle casseforme pneu-


matiche a membrana atte a realizzare involucri globali in cal-
cestruzzo di spessore sottile. La matrice era costituita da una
membrana in materiale sintetico ancorata al suolo e sorretta
da aria insufflata; l’armatura del tipo estensibile (a forma di
molla), cioè capace di assumere la configurazione spaziale
una volta gonfiata la cassaforma, veniva disposta sulla mem-
brana in orizzontale. Il getto veniva effettuato in piano e coper-
to con un telo, poi veniva insufflata l’aria e vibrata la cassafor-
il principio del pneumatico ma.
21
PRINCIPIO COSTRUTTIVO DEL FUNGO

Il “principio del fungo” o “dell’albero” definisce la realizzazione


di un vano agibile attraverso un elemento verticale portante, il
ritto, sorreggente un elemento di chiusura orizzontale agget-
tante, il cappello, collegato al ritto solidalmente. Definizione di
uso corrente in edilizia è quella di copertura a fungo che sta
ad indicare le coperture che hanno forma ispirata a quella
naturale del fungo.
Secondo questo principio costruttivo si realizzano spazi abita-
F.L.. Wright - Centro Johnson a Racine
bili costituiti da un solo fungo o da un insieme di funghi, colle-
gati tra loro. Sotto il profilo statico si ha solidarietà tra cappel-
lo e gambo (voncolo di incastro) e quest’ultimo deve posse-
dere capacità di resistenza flessionale. Il gambo è normal-
mente incastrato alla base, ma può risultare anche incerniera-
to alla fondazione, in caso di più funghi tra loro adiacenti e con
cappelli collegati tra loro a cerniera (per es. la copertura del
salone per uffici del Centro Johnson a Racine di F.L. Wright).
La copertura a fungo, che è tipica del nostro secolo, può esse-
re realizzata con vari materiali: con ritto e cappello in calce-
struzzo armato a soletta piena o nervata (come nell’opera cita-
ta di Wright), oppure a conformazione spaziale (come le
coperture di alcuni magazzini costruite da F. Candela negli
F. Candela - Magazzini a Vallejo anni ‘50 in Messico, formate da superfici Ipar, porzioni di para-
boloide iperbolico, dette anche ad “ombrello”); con ritto in
cemento armato e cappello con mensole di acciaio (p.es. la
grandiosa copertura del Palazzo del Lavoro a Torino di P.L.
Nervi e G. Covre); con ritto e cappello in elementi metallici (ad
es. pensiline dei distributori di benzina); con ritto metallico e
cappello in tessuto di cotone e cavi (p.es. copertura isolata in
un parco di F. Otto); in elementi di acciaio e materie plastiche;
infine con cappello pneumatico (ad es. pensiline isolate
aII’EXPO di Osaka 1970).
Nella categoria delle coperture a fungo si possono far rientra-
re i so/ai a fungo, che vengono in genere adottati per soppor-
tare sovraccarichi elevati (ad es. in caso di depositi di carta o
P.L. Nervi - Palazzo del Lavoro di Torino di locali per rotative di giornali) in edifici multipiano con sche-
letro portante in cemento armato. Questo tipo di solaio è
caratterizzato da una soletta continua che, senza l’ausilio di
travi, si innesta direttamente sui pilastri; questi per non assog-
gettare la soletta a notevoli sollecitazioni di flessione e taglio
hanno all’innesto profilo ad iperbole (come lo ideò per la prima
volta Maillart) o sono conformati più correntemente a tronco di
piramide o di cono rovescio (con eventuale ingrossamento
della soletta). Da qui è nata la denominazione di solai a fungo.
Il primo a sperimentare e realizzare in Europa il solaio a fungo
è stato R. Maillart; nel 1910 costruì a Zurigo un magazzino
con questo tipo di solaio (avente le armature in due direzioni
ortogonali e di dimensioni variabili al variare del momento flet-
tente) per sopportare un carico di 20 kN/mq.
F. Otto - fungo con cappello in tessuto di coto- Qualche anno prima negli USA H. Turner aveva progettato un
ne e cavi solaio analogo (con diversa distribuzione delle armature) sem-
22
pre con l’obiettivo di non considerare la trave elemento a sé
stante rispetto alla soletta. La soletta viene assimilata ad una
lastra continua su pilastri isolati, disposti ad interasse costan-
te su file parallele (allineati nelle due direzioni ortogonali oppu-
re sfalsati di 1/2 interasse tra una fila e l’altra). La larghezza
del pilastro all’innesto con la piastra è in genere compresa tra
1/4 e 1/6 dell’interasse dei pilastri. Oltre al menzionato solaio
di Maillart, sono esempi noti: il solaio adottato da A.Àalto per
la sede di un giornale a Turku (1928-30); la soletta con nerva-
ture secondo le “isostatiche” dei momenti flettenti impiegata
da P.L. Nervi e A. Arcangeli nel Lanificio Gatti (1951-53).
il principio del fungo

Solai a fungo: a, disposizione delle armature


secondo Turner; b, disposizione delle armatu-
re secondo Maillart; c,d,e, deposito generale
del grano di Aldford in Svizzera progettato da
Maillart (1910); f, magazzini generali a Chiasso
progettati da Maillart (1925); g, tipi di profilo
per il fungo; h, disposizione dei pilastri in un
solaio a fungo.

23
il procedimento costruttivo e il comfort ambientale

25
Parlare di principi per il comfort ambientale significa individua-
re le relazioni intercorrenti tra organismo edilizio, procedimen- principio del deflusso diretto
to costruttivo idoneo a realizzarlo e accorgimenti riguardanti la
protezione dagli agenti atmosferici, nonché l'isolamento termi-
co e acustico.
principio della raccolta e del
successivo smaltimento
Ai fini della protezione dagli agenti atmosferici possono esse-
re individuati due sistemi costruttivi atti a realizzare gli ele-
menti di copertura, che incidono sulla forma dell'organismo;
da un lato si può conformare la copertura in modo da far principio del corpo unico
defluire l'acqua il più rapidamente possibile e quindi adottare
un principio del deflusso diretto, dall'altra creare al di sopra
della copertura un "catino stagno" tale da contenere la pioggia
e eliminarla poi attraverso appositi sistemi di deflusso, si trat- principio del corpo multiplo
ta di adottare il principio della raccolta e del successivo smal-
timento delle acque.

Principio del deflusso diretto


Utilizzare questo sistema si traduce nel realizzare delle coper-
ture a volta o a tetto che garantiscono l'immediato deflusso
delle acque meteoriche.
Una volta realizzata la parte resistente conformata a piano
inclinato o a volta, che risulta implicitamente risolutiva per
quanto riguarda il deflusso diretto delle acque meteoriche,
occorre predisporre al di sopra, ai fini dell'impermeabilizzazio- deflusso diretto; raccolta e successivo smalti-
mento
ne, una serie di strati aggiuntivi che costituiscono il cosiddetto
manto di copertura. Tale manto deve soddisfare i seguenti
requisiti principali: consentire il deflusso rapido evitando infil-
trazioni e assorbimento (ove quest'ultimo avvenga, ad esem-
pio nei manti in laterizio, non deve interessare l'intero spesso-
re del manto e l'acqua assorbita deve poter evaporare facil-
mente, ad esempio lasciando uno strato di ventilazione al di
sotto del manto); consentire il convogliamento regolare del-
manti discontinui, ovvero per sovrapposizione
l'acqua grazie alla forma e agli attributi superficiali dei compo-
nenti; essere resistente sia alle varie azioni degli agenti atmo-
sferici (vento, gelo, grandine) sia al calpestio per la posa e la
manutenzione; risultare "leggero", in quanto grava sulla parte
resistente della copertura.
I manti di copertura si possono suddividere i tre grandi cate-
gorie: manti discontinui, manti continui e manti vegetali.

Manti discontinui, ovvero per sovrapposizione


Proteggono dalle acque meteoriche senza determinare una
superficie continua di tenuta essendo realizzati con elementi
indipendenti semplicemente sovrapposti, cioè senza giunti
stagni: l'acqua pertanto defluisce scendendo a cascata da un
elemento all'altro come su dei gradini. Per evitare la risalita
dell'acqua nei giunti orizzontali (cioè perpendicolari alla linea
di massima pendenza della falda) per capillarità o per effetto
del vento, si fa affidamento soltanto sulla entità della sovrap-
posizione tra un elemento e l'altro (maggiore è la sovrapposi-
zione, maggiore è il percorso che l'acqua deve fare per pene- schematizzazione dei fattori caratterizzanti
trare al di sotto del manto), oppure si sagomano opportuna- per i manti discontinui
27
mente i bordi degli elementi in modo da creare dei risalti per
la correlazione, allungando così il percorso dell'acqua.
Analogamente si provvede per i giunti inclinati (paralleli alla
linea di massima pendenza) tra elementi contigui con una
sovrapposizione laterale, oppure si conferisce all'elemento
una apposita sagoma laterale. A parità di ricoprimento il peri-
colo della risalita dell'acqua diminuisce con l'aumentare della
inclinazione delle falde. Gli elementi sovrapposti possono
essere inoltre sollevati dal vento, il rischio di sollevamento
però diminuisce con l'aumentare della inclinazione in quanto il
vento, rapportabile ad una forza orizzontale, nel caso di debo-
le pendenza tende a sollevare gli elementi essendo quasi
parallelo ad essi, mentre in caso di forte pendenza tende a
schiacciare gli elementi sulla falda, essendo quasi perpendi-
colare ad essa; va però ricordato che per forti pendenze del
tetto l’azione del vento è molto importante sulla parte resi-
stente della falda e quindi va considerato come carico su que-
a, manto in lastre di ardesia lavorata a spac-
sta. Per opporsi al vento gli elementi del manto debbono
co; b, abitazione a Cervinia
avere una forte sovrapposizione, che equivale a un forte peso
del manto stesso, oppure possono essere bloccati attraverso
degli appositi ancoraggi.
Fino a determinati valori della pendenza, che dipendono dal
tipo di manto adottato, gli elementi, semplicemente appoggia-
ti sulla parte resistente, non scorrono in quanto il loro peso e
le caratteristiche delle superficie a contatto (attrito) non ne
il peso di un manto in lastre di pietra è molto consentono lo scorrimento, ma per falde a forte pendenza è
elevato in quanto risulta forte il ricoprimento
in ciascun punto (4-6 lastre sovrapposte) indispensabile ancorare gli elementi al supporto attraverso
chiodatura o aggraffaggio. I manti discontinui, dato che i giun-
ti sono tutti aperti, sono permeabili all'aria; in questo modo si
evitano possibili fenomeni di condensa sulla faccia interna
degli elementi e si impedisce l'alterazione degli elementi di
supporto, in genere orditure in legno o in ferro.
Tra i manti discontinui si fanno rientrare:
- i manti in lastre lapidee, sia di forma irregolare (ad esempio
i manti in ardesia o in gneiss utilizzati nelle baite della Val
d'Aosta), che quadrata con disposizione delle diagonali
secondo la massima pendenza; sono molto pesanti
(400Kg/mq) e oggi sono in disuso;
- i manti in tegole piatte, di forma sia rettangolare (con bordi
retti, curvi o spezzati a punta) come le scandole di legno e gli
manto in tegole piatte di laterizio secondo il
Donghi (sopra); manto in tegole sagomate embrici in laterizio, sia quadrata come le tegole in ardesia o in
(sotto) fibrocemento e quelle metalliche;
- i manti in tegole sagomate, si possono suddividere in tre
gruppi; i manti con due elementi base, la tegola di fondo nella
quale avviene il deflusso e la tegola coprigiunto a ricoprimen-
to del giunto tra due canali adiacenti; manti di questo tipo sono
quelli di coppi e canali (tegole curve in laterizio o in cemento),
i manti di embrici con risvolti e coppi (alla "romana", in lateri-
zio), i manti in marmo utilizzati dai greci e dai romani costitui-
ti da elementi di fondo e da pezzi a sezione triangolare di
coprigiunto; i manti di tegole combinate o multiple, realizzate
con lo scopo di diminuire il numero dei giunti laterali e quindi
il peso del manto; sono costituite da pezzi che comprendono
28
nel caso più semplice la tegola di fondo + quella di coprigiun-
to (tegole portoghesi e olandesi), nei casi più complessi più
tegole combinate in successione (doppie portoghesi e doppie
olandesi, coppi quadrupli); i manti di tegole piane scanalate e
nervate realizzate di forma rettangolare con nervature e inca-
vi in modo da convogliare l'acqua per evitarne la risalita e di il numero dei giunyi diminuisce all’aumentare
evacuare quella eventualmente penetrata o ottenuta per con- delle dimensioni dei pezzi: dal manto di coppi
ed embrici alla tegola portoghese
densa; il tipo più comune è la tegola marsigliese in laterizio
predisposta anche per l'ancoraggio per legatura o chiodatura
(è il tipo di manto più leggero tra quelli in tegole sagomate,
perché comporta il minor numero di pezzi/mq);
- i manti in grandi elementi sagomati sono realizzati in lamie-
ra metallica o in fibrocemento o in materiali plastici (trasparenti
o traslucidi) con lo scopo di ridurre sempre di più il numero di
giunti, il peso del manto e i tempi di posa in opera.

Manti continui ovvero stagni o a impasto


Presentano una superficie continua di tenuta realizzata impie-
gando sia elementi piani rigidi o morbidi, sia impasti. In
entrambi i casi il manto non ha capacità autoportanti e quindi le scanalature nelle tegole hanno la funzione
necessita di un elemento di supporto continuo (ad esempio un di diminuire l’entità del ricoprimento
tavolato o la stessa soletta di copertura). I principali tipi sono:
- i manti in lamiere metalliche, in genere fissate su un tavola-
to di supporto che realizzano la tenuta stagna attraverso giun-
ti ottenuti per aggraffatura e piegatura in opera; oggi sono in
genere realizzati con lamiere di rame, alluminio, acciaio zin-
cato o zinco-titanio, mentre i primi manti in lamiera sono stati
realizzati in piombo (in particolare per il rivestimento di cupo-
le); per evitare la condensa che si formerebbe in virtù dei sot-
tilissimi spessori delle lamiere usate, si provvede a creare una manto in grandi elementi in lamiera di zinco
aerazione al disotto del manto e per consentire la dilatazione
termica vengono appunto utilizzati i giunti aggraffati, che con-
sentono un certo gioco;
- i manti a elementi piani morbidi, sono realizzati con gli stes-
si prodotti usati per le impermeabilizzazioni delle coperture a
terrazzo, cioè fogli, rotoli o guaine con giunti resi stagni
mediante sigillature a caldo o a freddo; l'utilizzazione di tali
manti nel caso di coperture inclinate prevede particolari accor-
gimenti nei confronti dello scorrimento del manto; specifici
sono i manti autoprotetti (strati bituminosi armati con fibra di
vetro e ricoperti da scaglie di ardesia, graniglia, sottilissimi
fogli di alluminio o rame) e le tegole fibrobituminose autopro-
tette;
- i manti continui in impasti bituminosi armati, emulsioni, schiu-
me sono realizzati con le stesse tecniche delle coperture
piane e aderiscono al supporto.

Manti vegetali
Si basano sulla realizzazione di un fitto strato di elementi
lineari flessibili sovrapposti (canne, paglia in fasci o in stuoie)
e sono tipici delle costruzioni tradizionali di campagna della
Germania e dell'Inghilterra (cottage); la pendenza del tetto giunti di collegamento per manti in lamiera
non risulta inferiore ai 45° per zone piovose e lo spessore ai metallica
29
30-35cm. Se è ben realizzato il manto ha buone capacità di
impermeabilizzazione, isolamento e durata. Oggi è poco diffu-
so ed è applicato soltanto laddove particolari ragioni di rispet-
to ambientale lo richieda, mentre è ancora in uso nelle fasce
tropicali.

posa di un manto in lamiera metallica Principio della raccolta e successivo smaltimento


Utilizzare questo principio significa realizzare delle coperture
piane a terrazzo che ricevono le acque meteoriche e le con-
vogliano verso appositi punti di smaltimento. La parte resi-
stente deve essere a tal fine corredata di un pacchetto di fini-
tura all'estradosso caratterizzato da una stratificazione di più
elementi ciascuno con specifiche funzioni.
Partendo dalla parte resistente e salendo verso l'estradosso i
vari strati sono:
- il massetto delle pendenze, che deve essere conformato in
modo da determinare piani di convogliamento dell'acqua,
secondo linee di compluvio, verso i punti di smaltimento, dove
sono posizionati prese o bocchettoni dei pluviali o buttafuori; il
requisito principale, gravando sulla parte resistente, è quello
della leggerezza e quindi in genere viene realizzato in calce-
posa in opera di un manto vegetale struzzo leggero (inerti in argilla espansa) eventualmente
armato con una rete metallica (specialmente nel caso in cui è
posto al di sopra di pannelli isolanti) e può avere anche fun-
zione di isolante termico; il suo spessore minimo, in corri-
spondenza dei punti di smaltimento deve essere di 4cm e le
pendenza minima per garantire un buon deflusso deve esse-
re dell'1,5%;
- il manto impermeabile, deve formare sul piano del terrazzo
un "catino stagno" che risvolta sulle pareti di bordo di almeno
15-20cm al di sopra del pavimento; caratteristiche principali
del manto impermeabile sono ovviamente di non far passare
l'acqua, di resistere alle azioni meccaniche (deve deformarsi
senza fessurarsi) indotte dal supporto, nonché dal sovrastan-
te strato di protezione, di adattarsi all'andamento del supporto
(si impiegano pertanto materiali allo stato plastico o flessibili o
malleabili), di mantenere stabilità e flessibilità alle alte e alle
basse temperature; per evitare un rapido invecchiamento e
deterioramento, il manto deve avere inoltre un buon compor-
tamento all'azione dei raggi ultravioletti, a quella combinata
conformazione del massetto delle pendenze degli agenti atmosferici e delle sostanze inquinanti e, per quel-
con discendenti interni o esterni li a base di materiali bituminosi, all'evaporazione delle sostan-
ze volatili alle alte temperature, ove questo non sia garantito
va protetto con appositi rivestimenti (ad esempio uno strato di
ghiaia da 5cm); se il terrazzo risulta praticabile, considerando
che in genere i manti non sono resistenti al calpestio si deve
prevedere un pavimento di protezione; il manto rispetto al
supporto può risultare aderente, cioè solidale con il supporto
del quale deve seguire i movimenti senza fessurarsi, ed è la
soluzione tipica delle coperture con pendenze superiori all'8%
(al di sopra del 5% di pendenza si parla di tetto) e comporta
modalità di posizionamento del massetto delle uno strato di imprimitura per garantire l'aderenza; indipenden-
pendenze te, cioè libero di muoversi rispetto al supporto evitando così
30
possibili fessurazioni (per garantire l'indipendenza si provvede
alla realizzazione di uno strato di scorrimento) come nel caso
delle guaine sintetiche e dei manti bituminosi in fogli o teli;
semindipendente, cioè aderisce al supporto per punti e può
lavorare in indipendenza nei campi tra i punti di aderenza; il
manto impermeabile in epoche passate veniva realizzato per
spalmatura o spruzzatura di materiali base, impiegando i
manti in asfalto colato che risalgono addirittura all'epoca dei
persiani, i manti in impasti asfaltaci armati in opera o miscele
bituminose o schiume poliuretaniche; oggi perseguendo uno
spostamento delle operazioni cantieristiche in officina si tende
a realizzare il manto impermeabile attraverso la posa in opera
di fogli, teli o guaine prodotte industrialmente eseguendo in
opera poche operazioni, al limite soltanto i giunti stagni di
tenuta; tra questi si possono distinguere i manti in elementi
preconfezionati, costituiti da una armatura impregnata e rico-
perta di bitume in officina (rappresentano uno spostamento in
officina delle operazioni cantieristiche di spalmatura e armatu-
ra di impasti asfaltaci e bituminosi, le prime applicazioni si
hanno con i cartonfeltri cilindrati o ricoperti, con i veli o feltri
di vetro ricoperti di bitume ossidato, per poi arrivare alle odier-
ne membrane plastobituminose) e si pongono in opera previa
spalmatura di un impasto bituminoso a caldo o a freddo; i
manti prefabbricati in guaine plastobituminose, che sono ana-
loghi ai precedenti ma sono formati da più strati assemblati in
officina e vengono posti in opera senza la necessità di uno
strato di bitume spalmato in quanto la superficie interna ha
capacità adesive (in seguito a riscaldamento alla fiamma), in
genere sono anche dotati di uno strato di protezione incorpo-
rato (guaine autoprotette) in scaglie di ardesia o in sottilissimi
fogli di rame; i manti prefabbricati in guaine sintetiche che si
basano sulla produzione in officina mediante resine termopla-
stiche (PVC) o gomme sintetiche di teli impermeabili con i
quali ottenere un manto unico da disporre a secco sull'intera
superficie da coprire (unico accorgimento da adottare è un
ricarico in ghiaia e un bloccaggio perimetrale);
- lo strato protettivo, che è pari all'intera superficie del manto varie soluzioni di posa di un manto impermea-
e lo protegge dagli agenti atmosferici e dall'eventuale azione bile e degli strati isolanti e protettivi
del calpestio; per terrazzi non praticabili, a seconda del mate-
riale del manto impermeabile si può adottare una semplice
sabbiatura o granigliatura o lamine metalliche incorporate nel
manto stesso o ancora vernici riflettenti, resine o infine ghiaia
sciolta; per i terrazzi praticabili si possono adottare pavimen-
tazioni in impasto cementizio o in gomma industriale o comun-
que pavimentazioni da esterni che possono essere montate
con giunti per impedire fessurazioni (il pavimento per consen-
tire una ispezionabilità del manto sottostante può essere
anche a quadrotti rimovibili in calcestruzzo, disposti a secco
su appositi distanziatori in plastica, conformati in modo da evi-
tare il punzonamento del manto);
- gli elementi per lo smaltimento e la tenuta, che sono costituiti
da bocchettoni, da porre nei punti di scarico per raccordarsi
con i pluviali o con i buttafuori, dai pluviali e dai buttafuori stes- guaina autoprotetta con lamina di alluminio
31
si, nonché da scossaline o copertine di protezione del manto
sui bordi perimetrali del terrazzo.

* * *
Ai fini dell'isolamento termico e acustico dell'organismo edili-
zio rispetto allo spazio circostante si possono individuare due
modalità di realizzazione degli elementi di confine (chiusure
orizzontali di copertura e chiusure verticali ) e precisamente
secondo il principio del corpo unico o il principio del corpo mul-
tiplo.

Principio del corpo unico


Utilizzare questo principio significa realizzare le chiusure oriz-
zontali e verticali utilizzando un unico materiale in spessore
elevato; esempi di applicazione di tale principio li ritroviamo in
epoche passate quando le pareti esterne degli edifici, portan-
ti, erano di elevato spessore e assolvevano in tal modo sia a
compiti di resistenza statica che di comfort ambientale (nel
bocchettoni in una copertura a terrazzo e col- Pantheon a Roma le pareti di opus caementicium che nei
legamento alla gronda in una copertura incli- punti di minor spessore arrivano a circa 1,5m e la volta realiz-
nata con manto discontinuo
zata con lo stesso materiale, che arriva anch'essa in chiave
allo spessore di 1,5m, costituiscono al tempo stesso elementi
portanti e funzionanti perfettamente ai fini di un buon comfort
interno: entrando nel Pantheon nel mese di agosto si apprez-
za una temperatura molto più bassa di quella esterna accom-
pagnata da una valida circolazione d'aria innescata dal foro di
illuminazione posto in chiave alla cupola).
Oggi il sistema costruttivo a corpo unico si notevole spessore,
in genere realizzato attraverso un sistema a setti portanti con
coperture voltate, è stato superato dalla applicazione dei pro-
cedimenti a scheletro portante che hanno condotto alla diffe-
renziazione formale e costruttiva tra elementi portanti e siste-
ma di chiusura dell'edificio, con conseguente alleggerimento
delle parti portate e relativa diminuzione degli spessori.

Principio del corpo multiplo


Con la diminuzione degli spessori non si riesce più a realizza-
re una struttura monolitica avente capacità di assicurare il
comfort ambientale, perciò si è andati verso un processo di
stratificazione sia delle chiusure verticali che orizzontali, desti-
nando ciascuno strato ad una specifica funzione.
Prima di passare alle modalità costruttive con cui si realizza-
no questi sistemi stratificati occorre premettere alcune consi-
derazioni sui materiali isolanti termici.

La capacità isolante di un materiale dipende dalla natura,


dalla purezza, dalla struttura molecolare, ma anche e soprat-
tutto dalla presenza in esso di aria che deve essere in deter-
minate condizioni; si è infatti riscontrato che l'aria, se racchiu-
sa in celle piccolissime, tanto che risultino ostacolati i moti
dalla parete a corpo unico (con mattoni sia convettivi, presenta un valore delle conduttività particolarmen-
rivestita ad intonaco, sia a faccia vista) alla
parete a cassetta (con sola aria nell’intercape- te basso.
dine o con materiale isolante) A questo proposito è importante ricordare le tre modalità di
32
possibili soluzioni per la correzione
del ponte termico realizzato dal
solaio con la parete a cassetta

trasmissione del calore: per conduzione, nei corpi solidi il


calore passa dalla superficie più calda a quella più fredda
attraverso il materiale e viene misurata attraverso il coeffi-
ciente di conduttività; per convezione, nei gas il calore passa
dalla superficie più calda a quella più fredda attraverso l'in-
staurasi di moti convettivi e viene misurata attraverso il coeffi-
ciente di conducibilità termica; per irraggiamento, in qualsiasi
materiale posto a contatto con fonti di calore.
Basandosi proprio sulla capacità dell'aria di essere un buon
isolante termico, sono stati realizzati due tipi di materiali iso-
lanti: gli isolanti a celle aperte, più antichi, e gli isolanti a celle
chiuse.
Tra i primi rientrano la lana di roccia e la lana di vetro, mate-
riali che hanno la caratteristica di essere morbidi con celle
inglobanti aria direttamente a contatto con l'esterno; a contat-
to con l'acqua, perciò questa prende il posto dell'aria all'inter-
no delle celle e non essendo un buon isolante, il materiale
perde le sue capacità di isolamento termico; ne deriva quindi
che materiali isolanti con queste caratteristiche debbono
essere protetti nei confronti dell'acqua. Occorre quindi preve-
dere strati protettivi agli effetti igrotermici, cioè la "barriera al
vapore", da porre sulla faccia calda dell'isolante (verso l'inter-
no) per evitare che il vapore acqueo condensi all'interno dell'i-
solante stesso; essa è in genere costituita da elementi in roto-
li bitumati o da fogli di alluminio di spessore 5/100 mm.
I secondi invece sono gli isolanti di nuova generazione e sono
correlazione tra parete a cassetta e telaio in
costituiti da schiume poliuretaniche, da polistirolo espanso,
cemento armato (soluzione in sezione e in
ecc., materiali che hanno come caratteristica quella di avere pianta)
celle piene di aria nell'interno del materiale e di essere costrut-
tivamente impermeabili; quindi questi materiali possono
anche rimanere a contatto con l'acqua non perdendo le loro
capacità isolanti.

Fatta questa premessa si passa ad esaminare nell'ambito


delle chiusure verticali quali sono le modalità di realizzazione
di una tamponatura a corpo multiplo. La conformazione clas-
sica nasce dalla combinazione di più strati base: strati protet-
tivi agli agenti atmosferici, strati coibenti veri e propri, strati
resistenti alle sollecitazioni meccaniche.

La muratura a cassetta, che per un lungo periodo di tempo ha


correlazione tra parete a cassetta e telaio in
rappresentato il tamponamento tipico delle costruzioni a sche- acciaio (soluzione in sezione)
33
letro portante, soprattutto in cemento armato, è costituita da
due strati murari separati da una intercapedine nella quale ori-
ginariamente era presente soltanto aria (spessore intercape-
dine 4-5 cm), con le sue capacità coibenti in quanto ferma e
secca, e successivamente sono stati inseriti materiali coibenti
sia sotto forma di pannelli che come materiale sciolto, in quan-
to l'intercapedine essendo chiusa poteva costituire facile con-
tenitore. In alcuni casi sono presenti sia uno strato di aria, che
uno strato isolante: lo strato d’aria migliora la condizione del-
l’isolante in quanto diminuisce il contenuto di vapore acqueo
proveniente dall’interno dell’organismo e di conseguenza il
rischio di formazione di condensa.
Nel caso più ricorrente lo strato murario esterno è costituito da
una muratura a una testa di mattoni pieni o semipieni e quel-
lo interno da una parete in mattoni forati; i due strati sono indi-
pendenti e quello esterno deve avere principalmente resisten-
za alle sollecitazioni, in particolare al vento. Le capacità pro-
tettive vengono affidate in prevalenza allo strato esterno; ad
esempio attraverso la sigillatura dei giunti tra un mattone e l'al-
tro si impedisce all'aria di entrare, oppure realizzando sulla
faccia interna dello strato esterno un intonaco si garantisce
una migliore tenuta di questo strato. Gli strati possono essere
anche collegati tra loro, per esempio attraverso delle opportu-
ne staffe, ma in questi punti si può avere un ponte termico.

La parete a cappotto, risulta formata da uno strato interno


resistente, da uno strato termicamente isolante e da uno stra-
to di finitura in aderenza; con questo tipo di parete si cerca di
ottenere uno smorzamento e sfasamento dell'onda termica,
l'eliminazione dei ponti termici, una minore sollecitazione ter-
mica per la parete interna, l'innalzamento della temperatura
della parete interna in inverno e il suo abbassamento in esta-
te. Lo strato interno resistente, che può essere realizzato con
qualsiasi tipo di sistema (dalla muratura di mattoni in laterizio,
a quella in conci di cls leggero, alla tamponatura in pannelli in
cls prefabbricati), non è caratterizzante la parete ai fini del rag-
giungimento delle capacità isolanti, che sono interamente affi-
date al "cappotto". Questo ha come caratteristica quella di
avere tutti gli strati in aderenza tra loro e sul supporto, ciò
comporta una particolare attenzione alla costituzione di tali
strati in quanto il pacchetto che forma il "cappotto" è soggetto
all'azione degli agenti atmosferici e si possono presentare
dilatazioni e ritiri differenziali tra i vari materiali posti in ade-
renza. In particolare, considerato che l'innalzamento della
temperatura provocato dalla radiazione solare è tanto mag-
giore quanto minore è la conducibilità del materiale, la pre-
senza dello strato coibente all'esterno (protetto soltanto dal-
l'intonaco) comporta temperature superficiali dello stesso
molto elevate, con rischi di schoks termici e dilatazioni diffe-
renziali.
tipi di rivestimento a cappotto: con intonaco su
isolante incollato, con intonaco su isolante con
Lo strato isolante, che viene disposto sulla parte esterna dello
intelaiatura, con intonaco su isolante fissato strato interno attraverso un collegamento in genere per incol-
con giunti meccanici, con doghe metalliche laggio, è realizzato mediante isolanti a celle chiuse che garan-
34
tiscano impermeabilità all'acqua ma permeabilità al vapore (polistirene espanso segato a blocco
con densità 15-25 kg/mc).
Lo strato esterno è realizzato in due fasi: la rasatura, che consiste nell'applicare un intonaco a base
di collante e cemento nel quale viene inserita una rete in fibra di vetro (per evitare l'attacco degli
agenti atmosferici) che ha il compito di conferire allo strato una sufficiente elasticità e capacità di
resistenza meccanica, e la finitura a base di intonaco plastico con resine acriliche.

La parete ventilata, che risulta formata da uno strato interno, da uno strato isolante, da una inter-
capedine con aria in movimento e da un rivestimento esterno, ha avuto origine dall’intento di otti-
mizzare il comportamento termoigrometrico delle pareti. Il sistema di isolamento dall’esterno pro-
tegge la parete come nel caso del “cappotto”, ma il rivestimento separato da una intercapedine,
nella quale l’aria è libera di muoversi per l’”effetto camino” provocato dal suo riscaldamento, con-
sente di allontanare il vapore acqueo e contemporaneamente di limitare il calore sull’isolante per
effetto dell’irraggiamento solare.
In sostanza attraverso la parete ventilata si ottengono vari risultati quali una eliminazione comple-
ta dei ponti termici (con l’adozione di un isolante esterno); una minore sollecitazione termica della
parete (sempre per la posizione dell’isolante); un innalzamento della temperatura superficiale della
parete in inverno e abbassamento in estate rispetto alle temperature esterne; una riduzione del
pericolo di condensa (per effetto della ventilazione dell’intercapedine); una protezione dell’isolante
attraverso gli strati di finitura esterna e di intercapedine ventilata.
Dal punto di vista del comportamento termoigrometrico, occorre però distinguere tra stagione inver-
nale ed estiva: nel periodo estivo il problema più rilevante è l’azione della radiazione solare sulla
parete e in questo caso la presenza del rivestimento migliora la situazione in quanto come già detto

parete ventilata con rivestimento in laterizio


35
protegge l’isolante anche attraverso la ventilazione che per
effetto camino si innasca nell’intercapedine; nel periodo inver-
nale invece il problema maggiore è costituito dalla fuoriuscita
di vapore acqueo dall’interno della costruzione verso l’esterno
e anche in questo caso è la lama d’aria ventilata a garantire
contro la formazione della condensa; nel comportamento della
parete ventilata in inverno non si prende in considerazione né
l’intercapedine (che in quanto ventilata non costituisce uno
strato isolante), né il rivestimento (che in quanto sottilissimo e
permeabile all’aria non costituisce barriera) e si fa affidamen-
to soltanto sul pacchetto parte resistente-isolante termico
esterno; in alcuni casi vengono predisposti dei meccanismi di
chiusura delle bocchette di ventilazione dell’intercapedine per
poter far funzionare questa in inverno da strato isolante.
Le modalità realizzative della parete ventilata si differenziano
in relazione al materiale utilizzato per il rivestimento, in quan-
to a secondo del materiale variano notevolmente la struttura
dell’intelaiatura da collegare con la parte resistente della pare-
te per sostenere i pannelli di rivestimento, nonché le modalità
di aggancio tra pannello e telaio e tra telaio e parete.
L’isolante, del tipo a celle chiuse in pannelli, deve essere soli-
dale con la parte resistente della parete, non deve avere solu-
zioni di continuità, deve essere inalterabile e non assorbire l’u-
midità dell’aria.
L’intercapedine deve garantire il movimento dell’aria al suo
interno (larghezza di almeno 3cm) e deve avere bocchette di
entrata e di uscita dell’aria di sezione sufficiente da consenti-
re la ventilazione.
Il rivestimento esterno può essere realizzato in molti materia-
li, dalle scandole di legno (materiale con cui storicamente si
sono realizzate le prime pareti ventilate) alle lastre di pietra,
dai pannelli in calcestruzzo ai tavelloni o ai listelli in laterizio,
dalle lamiere metalliche in rotoli (rame, alluminio, zinco-titanio)
ai pannelli in lamiera smaltata, e viene collegato alla parte
resistente attraverso la predisposizione di una orditura metal- pianta e sezione degli agganci di una parete
lica di sostegno che varia a secondo del peso degli elementi. ventilata con rivestimento esterno in rame

schemi assonometrici degli agganci di pareti ventilate con rivestimenti esterni in lamiera a pannelli verticali, a pannelli orizzontali a
quadrotti.
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il materiale e la percezione della forma

37
38
Basandosi sull’esigenza di creare uno spazio abitabile l’uomo
ha da sempre realizzato delle “forme” che variano a seconda
della funzione dell’edificio stesso, del materiale utilizzato,
della tecnica costruttiva adottata e dell’immagine che dell’og-
getto edilizio si intende far percepire all’esterno.
Sull’immagine che della forma dell’oggetto si vuole dare all’e-
sterno incidono il procedimento costruttivo adottato nella rea-
lizzazione dell’oggetto stesso e in particolar modo il tratta-
mento di finitura che viene attuato.
Schematicamente si possono individuare due principi ben dif-
ferenziati: il principio materico e il principio geometrico.

Il principio materico e il principio geometrico.


Prima ancora di osservare la realtà, se ne percepiscono le
caratteristiche istintivamente registrandole e catalogandole
attraverso varie sensazioni che conducono ad un giudizio i principi materico e geometrico possono
sulla sua forma. Ai fini della percezione di tale forma i sensi essere applicati all’organismo edilizio sia
che vengono maggiormente utilizzati sono la vista e il tatto; il osservandolo dall’esterno che dall’interno
primo e più immediato contatto con le cose è in genere visivo,
ma non di rado ci si trova a toccare un oggetto per valutarne
la rugosità superficiale o la sua levigatezza.
Schematicamente si possono individuare due modi di com-
portamento suddetti entro i quali con diverse sfumature si
manifesta l’azione progetto; è, infatti, il progettista che a
seconda del messaggio che vuol far pervenire, sceglie il pro-
cedimento costruttivo più idoneo per ottenere un determinato
effetto d’immagine.

Operare secondo il principio materico significa voler mostrare


gli attributi intrinseci della forma, il modo e i materiali con cui
tale forma viene realizzata, ponendo in secondo piano gli attri-
buti volumetrici e spaziali. E’ evidente come l’applicazione di esempio di architettura contemporanea basa-
tale principio costruttivo influenzi, soprattutto a livello di finitu- ta sul principio materico: Botta nella villa a
Stabio mette in evidenza la muratura portante
re i cicli di lavorazione inerenti i singoli elementi costruttivi (ad perimetrale dell’edificio realizzata con blocchi
esempio il ciclo di produzione del mattone da montare “a fac- in cls leggero.
cia-vista” si differenzia da quello di un mattone da intonacare
in quanto i primi debbono risultare più impermeabili nello stra-
to superficiale, più uniformi nella grana e nel colore, mentre i
secondi debbono garantire una buona superficie di presa per
l’intonaco), che l’organismo nel suo insieme. In termini cantie-
ristici operare secondo il principio materico significa produrre
un rustico-finito, che comprende nella operazione di realizza-
zione dell’oggetto edilizio anche le operazioni di finitura, non
risultando queste ultime aggiunte su un rustico già definito.

Operare secondo il principio geometrico significa invece porre


in evidenza maggiormente i valori superficiali e volumetrici,
cioè gli attributi estrinseci della forma, lasciando in secondo
piano il fatto costruttivo che tale forma ha generato. Per otte-
nere una perfetta valorizzazione volumetrica di un oggetto edi- esempio emblematico di architettura contem-
lizio occorre avvolgere l’oggetto stesso in una “pelle esterna” porana basata sul principio geometrico: Gehry
riveste il Museo di Mineapolis con una pelle in
di rivestimento (dal più semplice intonaco, ai rivestimenti in zinco-titanio che lo rende riflettente ai raggi
materiali lapidei, laterizi, metallici), oppure realizzare un invo- del sole.
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lucro esterno omogeneo sia per colore che per materiale (ad
esempio le facciate continue in vetro che racchiudono i
moderni edifici per uffici).

I principi geometrico e materico rappresentano due intenzio-


nalità distinte che possono caratterizzare totalmente opere
architettoniche, ma che possono anche coesistere nell’ambito
di uno stesso organismo a secondo delle indicazioni date dal
progettista. Non mancano poi esempi che sono al limite tra
una soluzione e l’altra: un setto in mattoni sul quale viene
applicato uno strato di vernice protettiva, da un lato permette
di leggere la trama dei conci (materico) e dall’altro permette di
cogliere la geometria del setto stesso (geometrico).

Un fattore importante nella definizione di tali principi, essendo


la percezione legata al senso della vista, è dato dalla distan-
za alla quale l’osservatore si pone rispetto all’oggetto edilizio:
un esempio emblematico è dato dalle Piramidi del Cairo; viste
nello skyline della città si identificano proprio con la forma
geometrica della piramide, con i contorni netti e la punta, ma
man mano che ci si avvicina si comincia a capire che i con-
torni non sono così netti e la punta così precisa; giunti davan-
il Seagram Building a New York (prog. Mies
ti alla piramide si leggono benissimo i conci con cui è realiz-
van der Rohe- 1954-58) costituisce esempio zata, se ne apprezzano le dimensioni e la consistenza della
di come la distanza influisca sulla percezione pietra. Anche negli edifici moderni si può rilevare una analoga
di un organismo edilizio: nella foto in alto, l’e-
dificio visto da lontano appare rivestito da una
discrasia: se si guarda il Seagram Building (Mies van der
pelle di vetro continua, ma, nella foto in basso, Rohe - New York) da lontano lo si apprezza come un gratta-
si evidenzia il particolare della facciata e se ne cielo di vetro, ma avvicinandosi all’edificio se ne possono rile-
individuano i componenti costruttivi (pilastro in
acciaio, elementi verticali di scansione tra le
vare le intelaiature in acciaio che riquadrano gli infissi.
finestre, elementi marcapiano)
Anche una facciata interamente di vetro, che rappresenta l’e-
saltazione della geometria dell’edificio, può essere “sporcata”
dalle immagini del contesto che si rispecchiano in essa (albe-
ri, palazzi, nuvole) e che tendono a “matericizzarla”. Inoltre il
ragionamento fatto per le Piramidi può essere applicato anche
a questo esempio; ad un esame più ravvicinato della parete
interamente vetrata si possono evidenziare i montanti e i tra-
sversi di intelaiatura dei vetri o i giunti di “silicone strutturale”
posti a sostegno dei vetri stessi.

Nell’ambito del principio materico di seguito si prendono in


considerazione le tecniche e gli accorgimenti idonei per otte-
nere una buona parete a faccia-vista con l’uso del mattone e
del cemento armato.
Nell’ambito del principio geometrico invece si tratterà della
realizzazione di un intonaco o di un rivestimento con vari
materiali.

Muratura a faccia-vista
Per ottenere una buona muratura a faccia-vista occorre utiliz-
zare un mattone di elevata qualità, che deve essere privo di
difetti, come scagliature o variazioni cromatiche, di efflore-
scenze, non deve essere gelivo, non deve avere inclusioni
40 40
calcaree; per questo motivo viene ottenuto da argille pregiate
e selezionate.
Il mattone da faccia-vista può essere di due tipi: pieno, pres-
sato a pasta molle, o semipieno, estruso.
In funzione delle capacità di prestazioni del muro nei confron-
ti della sicurezza statica questo può essere portante o porta-
to; nel primo caso la muratura svolge anche un ruolo struttu-
rale, mentre nel secondo soltanto un ruolo di tamponamento;
in ambedue i casi deve garantire, da sola o attraverso l’ag-
giunta di altri strati appositi, il comfort ambientale dello spazio
confinato. A secondo che la muratura risulti portante o portata
varierà lo spessore e di conseguenza la tessitura della super-
ficie esterna (muro a una, due, tre teste, ecc).
corretta esecuzione dei giunti di malta
Per avere una buona utilizzazione dei mattoni e non ricorrere
a tagli inopportuni è necessario in fase di progetto dimensio-
nare le murature considerando il mattone come il modulo-
oggetto che regola la costruzione e quindi realizzare il muro
lavorando sui multipli e sottomultipli del mattone, consideran-
do che i tagli sul mattone vengono preferibilmente fatti a ¼, ½,
¾. Comunque in cantiere è indispensabile effettuare una
prova preliminare di posizionamento dei mattoni a secco in
modo da operare sui giunti per arrivare correttamente negli
angoli. L’orizzontalità dei ricorsi deve essere controllata
costantemente mediante un filo scorrevole teso orizzontal-
mente.
I mattoni vengono in genere bagnati per 24 ore prima della
posa per evitare che assorbano l’acqua di impasto della
malta, e impediscano quindi il corretto svolgimento del feno- esecuzione non corretta dei giunti
meno di idratazione e presa della malta stessa.
Per quanto riguarda le malte è preferibile usare malte di sola
calce (calce idraulica e sabbia) o malte bastarde (calce idrau-
lica, cemento e sabbia), più plastiche e quindi più facilmente
lavorabili, per avere una migliore aderenza sul laterizio; le
malte a base di cemento possono contenere elementi secon-
dari, come loppe o ceneri, che comportano fenomeni di efflo- il diverso sfalsamento dei giunti dipende dallo
rescenza sui mattoni. Per esaltare la trama della muratura il spessore della muratura e influisce sul dise-
giunto di malta può essere colorato in pasta aggiungendo gno della superficie esterna della stessa
degli additivi coloranti alla malta (ossidi).
L’accurata esecuzione dei giunti di malta nelle murature a fac-
cia-vista è di grande importanza ai fini statici, estetici e di tenu-
ta all’acqua della muratura. Per quanto riguarda la tenuta
all’acqua si può migliorare la impermeabilità della malta utiliz-
zando additivi in fase di impasto quali siliconi, elastomeri, sali
stabilizzanti, idrorepellenti, asfalti; si deve però garantire una
permeabilità al vapore che consente un corretto smaltimento
del vapore acqueo proveniente dallo spazio abitato, nonché
dell’umidità di costruzione della muratura stessa, o derivata da
infiltrazioni.
Nell’esecuzione dei giunti si deve tener conto anche del risul-
tato formale che si intende raggiungere oltre che naturalmen-
te del loro allineamento e della loro regolarità (naturalmente
se i mattoni utilizzati sono volutamente molto irregolari per
ottenere un effetto di muratura rustica, anche i giunti risulte- tipi di piunti stilati e modalità di realizzazione
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ranno irregolari). I giunti eseguiti nella realizzazione del setto
vengono poi rifiniti attraverso due tecniche: la costipazione e
la stratificazione.
La costipazione viene eseguita durante la formazione dei
corsi; la malta ancora morbida viene lisciata con un ferro
opportunamente sagomato. Questa operazione detta stilatura
soluzioni decorative di facciata ottenute con
del giunto dal punto di vista formale crea un giuoco di luce e
diversi tipi stilature dei giunti e differente alli- ombra che mette in risalto il singolo concio; più il giunto viene
neamento dei mattoni approfondito, maggiore è l’ombra e maggiormente si accentua
l’effetto percettivo materico; se invece il giunto è rasato si uni-
sce alla percettività materia un effetto geometrico di superficie
liscia, il setto viene visto con la sua grana pur nella sua unita-
rietà. Da un punto di vista della impermeabilità del setto, stila-
re il giunto significa creare tanti gocciolatoi tra un mattone e
l’altro e favorire così lo smaltimento dell’acqua dalla superficie
del setto stesso; con giunti non stilati l’acqua, se la malta è
poco impermeabile, potrebbe infiltrarsi più facilmente per
ristagno.
La stratificazione prevede l’asportazione per graffiatura della
malta di allettamento più esterna del giunto per una profondi-
tà massima di 1,5-2 cm, effettuata con un ferro a unghia
quando la malta non è ancora indurita, e il successivo riempi-
mento con malta grassa di cemento e sabbia fine (malta molto
il convento della Tourrette di Le Corbusier impermeabile); la malta di stuccatura inserita viene poi costi-
pata con ferri sagomati come nel caso precedente.
I giunti possono essere stilati con diversi tipi di ferri per otte-
nere diversi profili del giunto stesso, con chiare diversità for-
mali. La stilatura poi può essere effettuata su tutti i giunti, sia
orizzontali che verticali, per evidenziare il singolo mattone, ma
può anche essere effettuata soltanto sui giunti orizzontali
lasciando i verticali a raso, ottenendo così l’effetto di una
muratura “a righe orizzontali”.
Un problema non grave, ma sicuramente antiestetico, da evi-
tare nella realizzazione di una muratura è quello delle efflore-
scenze, quelle macche biancastre che possono apparire sulla
superficie della muratura una volta terminate le operazioni di
posa; queste possono derivare dalla presenza di elementi in
calcestruzzo, dalla presenza di sali all’interno della muratura
gli Endo Laboratories di P. Rudolph stessa provenienti dall’uno o dall’altro dei suoi componenti o
assorbiti per capillarità dal terreno; in genere il fenomeno si
esaurisce per dilavamento da parte degli agenti atmosferici.

Calcestruzzo a faccia-vista
Considerato che l’impiego tradizionalmente più importante del
calcestruzzo è quello strutturale, con preminente funzione sta-
tica, in genere per esso non vengono richiesti particolari attri-
buti dal punto di vista formale, ma la caratteristica fondamen-
tale risulta quella della resistenza meccanica.
Al calcestruzzo però possono essere richieste anche specifi-
che valenze formali; non mancano esempi nell’architettura
moderna di organismi realizzati interamente o quasi con cal-
cestruzzi a faccia-vista (dalle architetture di Le Corbusier, a
il palazzo dello sport di Roma di P.L. Nervi quelle di P. Rudolph, a quelle di P.L. Nervi); per ottenere que-
42
sto risultato oltre a realizzare il calcestruzzo a regola d’arte,
che per costituzione si presenta compatto e uniforme e quindi
di aspetto estetico già soddisfacente, occorre soltanto rispet-
tare delle regole in fase di getto e adottare delle particolari
procedure dettate dal progettista a secondo dell’effetto forma-
le voluto.
Il conglomerato cementizio indurito riproduce la forma del cas-
sero nel quale è stato gettato, quindi la cassaforma risulta
importantissima per ottenere l’effetto desiderato; in prima
istanza si possono distinguere due procedimenti per ottenere
un calcestruzzo a faccia-vista:
- i procedimenti che non richiedono interventi successivi al
disarmo, nei quali è la cassaforma stessa a determinare la
superficie del getto, liscia, sagomata o disegnata; procedimento adottato da P. Rudolph per otte-
- i procedimenti che richiedono interventi successivi al disar- nere il calcestruzzo “a coste”
mo, nei quali il risultato ottenuto con il cassero viene poi modi-
ficato con trattamenti di finitura superficiale, quali lavatura,
sabbiatura, spazzolatura, graffiatura, bocciardatura, scalpella-
tura, martellatura.
A questo punto è importante parlare delle casseforme più
adatte per ottenere dei getti da lasciare in vista, nonché degli
accorgimenti che in fase di montaggio delle stesse debbono
essere seguiti per ottenere un buon risultato finale.
Le casseforme in legno grezzo, in genere tavole di abete o
pino a superficie ruvida, vengono utilizzate frequentemente
perché poco costose; il numero dei reimpieghi possibili è però
limitato in quanto le caratteristiche delle tavole con l’uso si
alterano (progressiva impermeabilizzazione delle stesse) e
non possono essere usate tavole nuove con tavole vecchie; il
legno deve essere stagionato per evitare deformazioni, l’e-
sposizione al sole può provocare l’ingiallimento del legno con
conseguenti macchie sul getto, le tavole debbono essere
bagnate prima del getto e trattate con un disarmante per evi-
tare l’assorbimento dell’acqua di impasto del calcestruzzo, i
nodi delle tavole possono creare anch’essi variazioni di colo-
la grana superficiale del getto varia a secondo
re nel getto, causati dal diverso assorbimento. L’effetto di della percentuale e del colore dei componenti
stampa delle venature del legno sulla superficie del calce- usati
struzzo è però un risultato formale ottenibile con queste cas-
seforme e tale effetto può essere accentuato attraverso una
lavorazione della superficie delle tavole con sabbiatura o
bagno di soluzione ammoniacale che asporta la parte più
molle delle venatura lasciando dei solchi ben evidenti.
Le casseforme in legno lavorato sono di frequente realizzate
con legni duri e consentono, oltre al risultato già detto di evi-
denziare le venature, di ottenere delle superfici perfettamente
piane attraverso la piallatura delle tavole e la finitura dei bordi
delle stesse per un perfetto accoppiamento.
Le casseforme in legno possono prevedere l’uso per il manto
anziché di tavole, di compensati, sia in fogli sottili di rivesti-
mento interno per ottenere una superficie del getto liscia, sia
in fogli di grosso spessore atti a costituire da soli la cassafor-
ma, utilizzando soltanto degli elementi di rinforzo; i pannelli in il disegno delle tavole di legno si trova al
compensato possono essere trattati con resine sintetiche in negativo sul getto finito
43
modo da essere reimpiegati più volte e ottenere delle superfi-
ci di getto perfettamente lisce.
Oggi, sempre a base di legno, vengono prodotti pannelli per
manti di casseforme in impasto di trucioli e cemento, che rea-
lizzano una cassaforma persa isolante (ad esempio risolvono
il problema del ponte termico del pilastro).
Le casseforme in acciaio sono molto resistenti e possono
essere riutilizzate per lungo tempo; con esse possono essere
effettuati getti anche di grandi dimensioni e vengono utilizzate
in officina per il getto di elementi prefabbricati (in questo caso
sono del tipo basculante, cioè il getto viene effettuato in oriz-
zontale e poi viene ruotata l’intera cassaforma per il disarmo),
sopportano bene infatti le sollecitazioni dovute alla vibrazione
dei getti e con appositi accorgimenti possono essere riscalda-
te per ottenere una maturazione accelerata dei getti; la loro
manutenzione deve essere accurata in quanto possono ossi-
darsi (ruggine) e quindi macchiare il getto; debbono essere
cassaforma in materiale plastico per la realiz- trattate con disarmanti per consentire una corretta sformatura;
zazione di solette nervate in calcestruzzo
con le casseforme in acciaio si ottengono getti con superficie
liscia e omogenea, ma l’inconveniente più frequente è la for-
mazione di bolle d’aria causata dalla impermeabilità all’aria
della cassaforma.
Le casseforme in materiali plastici (termoplastici espansi: poli-
stirolo, polistirene, PVC espanso, poliuretano in schiuma; ter-
moindurenti: resine poliestere o epossidiche) consentono la
realizzazione di pezzi particolarmente complessi; si ottengono
per stampaggio su modelli e quindi la superficie interna del
cassero può risultare levigata o ruvida a secondo del tratta-
mento impresso; tutti i materiali suddetti possono essere rin-
il mancato allineamento delle tavole porta a forzati con fibre di vetro per ottenere casseforme particolar-
una non planarità nel setto
mente resistenti, al limite anche la lasciare in fase di esercizio
per ottenere particolari risultati di comfort.
Le casseforme in cartone (di elevato spessore) vengono uti-
lizzate per il loro basso costo ad esempio per ottenere pilastri
tondi o lacunari di solette nervate; la superficie che si ottiene
è perfettamente liscia.
Le casseforme in cemento o in ferro-cemento sono state intro-
dotte da P.L. Nervi per la realizzazione dei conci speciali delle
nervature del Palazzo dello Sport di Roma; sono degli ele-
menti parzialmente prefabbricati da completare con getto in
opera, quindi costituiscono rispetto ad una semplice cassafor-
ma persa un elemento con caratteristiche portanti.
Per ottenere una qualsiasi finitura superficiale tra la cassafor-
ma vera e propria e il getto possono essere interposti dei sot-
tili strati di rivestimento, che hanno anche la funzione di pro-
tezione del cassero stesso.
Per facilitare il distacco del getto dalla cassaforma si utilizza-
no prodotti disarmanti; quelli tradizionali sono oli di origine ani-
male, vegetale o minerale o emulsioni di acqua nell’olio; que-
sti prodotti debbono formare una sottile pellicola di separazio-
ne tra cassaforma e getto e vengono stesi in maniera unifor-
la sistemazione dei tiranti in fase di getto porta me sulla superficie interna del cassero con spazzole, rulli,
ad un disegno sulla superficie finita pennelli o spruzzatori, in modo da evitare concentrazioni in un
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punto che potrebbero provocare macchie nel getto. Per evita-
re l’inconveniente delle bolle d’aria sulla superficie del getto
che si formano con casseforme impermeabili all’aria (acciaio)
è utile applicare come disarmante una emulsione di olio addi-
zionato con un tensioattivo in quantità ridotta. Il disarmante
non deve attaccare il materiale della cassaforma, ma non
deve neanche nuocere alla superficie del getto; si debbono
evitare gli oli di scarto della macchine. Esistono prodotti in
forma di pasta colorata da utilizzare sulle casseforme lisce,
che però non funzionano per getti di calcestruzzi bianchi e per
getti a faccia-vista in quanto possono dare contaminazioni
colorate sulla superficie del getto; per evitare questo è conve-
niente usare prodotti a base di cera o di paraffina per casse-
forme in acciaio o in plastica. Altro aspetto importante è la
tenuta alle alte temperature del disarmante quando questo
viene utilizzato per getti in officina che richiedono una matura-
zione accelerata dei getti con trattamento termico. Da ultimo
alcuni prodotti disarmanti hanno un leggero effetto ritardante
sulla presa, che facilita le operazioni di disarmo ed è utile spe-
cialmente quando debbono essere effettuate delle operazioni
di trattamento superficiale come la lavatura.
Altro problema da considerare nella realizzazione di un buon
getto a faccia-vista è quello della realizzazione dei giunti tra gli
elementi della cassaforma che possono dar luogo a fuoriusci-
te di cemento con conseguente formazione di ringrossi antie-
stetici, oppure di un mancato allineamento con conseguente
mancata planarità della superficie. Per ovviare al primo incon-
veniente nel caso si utilizzino casseforme in materiali imper-
meabili il giunto può essere sigillato con nastri di schiuma pla-
stica che, applicati sul bordo degli elementi di cassero, inibi-
scono la fuoriuscita del latte di cemento (boiacca); nel caso si
usino casseforme in legno le tenuta stagna del cassero si
ottiene bagnando lo stesso (le tavole bagnate rigonfiano e
sigillano il giunto), adottando tavole a maschio e femmina
(procedimento poco diffuso per il costo del materiale), usando
bande sigillanti come per l’acciaio (occorre fare attenzione
perché queste potrebbero aderire al getto anziché al cassero).
Il giunto però può essere evidenziato per una precisa scelta particolare costruttivo e vista interna del
formale (getto dei setti di T. Ando) e per ottenere ciò si deve Padiglione a Weil am Rhein (prog. T. Ando)
con setti in calcestruzzo a faccia vista
agire ancora sul cassero: per ottenere dei giunti a rilievo con
casseforme complanari occorre smussare gli spigoli delle due
tavole adiacenti (il pericolo sta nella fase di disarmo in cui il
giunto può saltare); per ottenere un giunto incassato occorre
sovrapporre nel giunto dei listelli di legno che una volta disar-
mato creano un effetto di bassorilievo sulla superficie; il giun-
to però può anche volutamente risultare imperfetto utilizzando
delle tavole del manto di spessori diversi per evidenziare la
discontinuità del getto.
L’allineamento della cassaforma e il parallelismo delle due
facce deve essere mantenuto attraverso delle legature metal-
liche, in genere inserite in guaine in materiale plastico per evi-
tare l’ossidazione a presa avvenuta; le guaine rimangono a
presa avvenuta e possono essere sigillate a raso o lasciate in
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vista con sigillatura profonda per evidenziare le fasi di costru-
zione del setto e quindi l’applicazione del principio materico.
Oltre ai problemi che derivano dalla realizzazione della cas-
saforma, il getto di calcestruzzo, come già detto, deve essere
eseguito a regola d’arte per ottenere un materiale omogeneo
e compatto.
Per evitare la segregazione dei componenti è importante che
l’impasto risulti coesivo e per ottenere questo occorre che la
quantità di acqua sia quella strettamente necessaria per la
presa e che quindi la quantità di cemento e sabbia sia alta; per
avere una maggiore lavorabilità si può intervenire con additivi
plastificanti. La segregazione del calcestruzzo può avvenire
però anche durante il trasporto per scossoni ricevuti dalla
betoniera oppure durante le operazioni di getto, per caduta
della massa di calcestruzzo da altezza elevata, per l’urto della
stessa sulle casseforme o sulle armature o per lo scorrimento
su superfici inclinate. Il risultato della segregazione è la for-
mazione sulla superficie del calcestruzzo di vuoti o di irrego-
larità come la concentrazione in punti di malta fine o di inerti
(nidi di ghiaia).
Per eliminare invece le bolle d'aria che si formano per la per-
la segregazione del cls in fase di getto, la manenza dell'aria tra il getto e la cassaforma e che risultano
mancata vibrazione e il getto dall’alto portano particolarmente evidenti quando la cassaforma è impermeabi-
alla formazione di nidi di ghiaia le, occorre che il getto venga eseguito contemporaneamente
alla vibrazione; cosa da evitare è eseguire prima il getto com-
pleto e poi procedere alla sua vibrazione, in quanto la super-
ficie del getto si indurisce e le bolle d'aria fanno più fatica ad
uscire; gettando l'impasto vicino al vibratore in funzione le
bolle d'aria tendono a spostarsi verso la fonte della vibrazione
e ad uscire; per questo è preferibile utilizzare un vibratore ad
ago, che agisce internamente all'impasto, piuttosto che appli-
care una vibrazione direttamente sulla cassaforma (cosa che
avviene per gli elementi prefabbricati), infatti in questo modo
le bolle tendono ad accumularsi proprio verso la superficie del
trattamento superficiale con inerti in vista
getto.
Altro accorgimento da adottare per un calcestruzzo a faccia-
vista è garantire che la essiccazione del getto avvenga in
modo lento e omogeneo nella massa: una essiccazione rapi-
da produce uno schiarimento del colore, che sarebbe visibile
in superficie a chiazze.
Dopo il disarmo il calcestruzzo andrebbe coperto con un telo
di plastica per evitare che la sua superficie sia macchiata da
sostanze esterne.
Occorre anche evitare che si formino efflorescenze che for-
mano sulla superficie del calcestruzzo macchie biancastre
permanenti. Una possibile formazione di efflorescenze è
indotta da un getto effettuato con tempo freddo e umido, con
conseguente lento indurimento del calcestruzzo; l'umidità del-
l'aria o la pioggia attirano in superficie l'idrossido di calcio che
a contatto con l'anidride carbonica presente nell'aria deposita
carbonato di calcio sulla superficie.
Per proteggere le superfici di calcestruzzo a vista dalle intem-
procedimento per lasciare gli inerti in vista perie, che tendono a macchiarlo e a sporcarlo, si può trattare
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con vernici idrorepellenti a base siliconica traspiranti. 1
Per quanto riguarda i trattamenti successivi al disarmo la lava-
tura consiste nella asportazione dello strato più superficiale
del copriferro mettendo a nudo gli inerti; si ottiene lavando con
acqua e spazzolando le superficie del getto, ma per ottenere
un risultato migliore è preferibile intervenire quando la malta è
ancora plastica e non completamente indurita (in condizioni
normali 3-6 ore dopo il getto).
La sabbiatura consiste invece nella asportazione della pellico- 2
la superficiale del copriferro attraverso un getto di sabbia a
forte pressione; questa operazione deve avvenire quando il
getto è completamente indurito, ma variando la durezza del
supporto e la pressione del getto di sabbia si possono ottene-
re risultati formali molto diversi, con superfici aggredite più o
meno in profondità; utilizzando mascherine prestabilite si pos-
sono realizzare anche disegni sulla superficie.
Le altre lavorazioni possibili sulla superficie del calcestruzzo 3
prevedono tutte l'utilizzo di attrezzi che tendono ad asportare
materiale in maniera energica; lo scopo è in genere quello di
rendere ruvida la superficie asportando lo strato superficiale di
malta e intervenendo sugli inerti grossi superficiali; si possono
ottenere vari effetti, uno dei più caratteristici è quello voluto da
P. Rudolph per il trattamento dei calcestruzzi di molte sue
architetture: il manto della cassaforma era costituito da una
lamiera grecata e una volta disarmato il getto le greche rego-
4
lari venivano martellate fino ad ottenere un effetto che da lon-
tano fa apparire il calcestruzzo come un "velluto a coste".

Intonaco
Il modo più semplice e antico per rivestire un organismo edili-
zio e contemporaneamente proteggerlo da infiltrazioni esterne
è realizzare un intonaco.
L'intonaco è costituito da uno strato sottile (1-2 cm) di malta 5
fine ottenuta impastando sabbia, pozzolana o polvere di tufo
in grani fini con un legante (cemento o calce comune), nelle
proporzioni di una parte di legante e 2,5-3 parti di inerte.
Per ottenere regolarità nella posa si eseguono delle fasce ver-
ticali, guide, distanti tra loro circa 2m e situate su uno stesso
piano verticale; tra queste poi si getta contro il muro la malta
con la cazzuola regolarizzandone lo spessore con regoli che
si appoggiano sulle guide. Su questo primo strato, rinzaffo, si trattamento superficiale con: 1, lavatura; 2,
spazzolatura; 3, sabbiatura; 4, martellatura; 5,
stende poi uno strato sottile di malta finissima, arriccio, che bocciardatura.
viene ben spianata e lisciata regolando sempre lo spessore
con il regolo; dopo qualche ora la superficie viene strofinata
con un fratazzo bagnato eseguendo un movimento rotatorio.
Per ottenere una buona adesione con la superficie muraria in
modo che con il tempo l'intonaco non si distacchi, occorre che
questa sia preventivamente inumidita per evitare l'assorbi-
mento dell'acqua di impasto della malta da parte del muro;
occorre inoltre che la muratura sua sufficientemente ruvida
(dovendo intonacare il muro si preferiranno mattoni con super-
ficie esterna scabrosa), ma ben spianata per evitare che in
alcune zone l'intonaco risulti molto spesso e in altre molto sot- procedimento per la sabbiatura
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tile.
Gli intonaci hanno composizione differente se sono all'interno
o all'esterno dell'edificio: nel primo caso si possono usare
anche malte poco resistenti a base di gesso, mentre nel
secondo si useranno malte a base di cemento o di calce idrau-
lica essendo esposti alle intemperie. Altro accorgimento
importante da adottare in caso di intonaci esterni è quello
della permeabilità all'aria e all'acqua dell'intonaco stesso; gli
antichi realizzavano tale intonaco in tre strati che presentava-
no porosità crescente verso l'esterno, in modo da consentire
una veloce evaporazione dell'acqua piovana assorbita e da
far traspirare la muratura di supporto. Importante risulta adot-
tare su tale intonaco ben fatto delle vernici altrettanto traspi-
il museo Guggenheim di New York (prog. F.L. ranti.
Wright) costituisce esempio di applicazione
del principio geometrico utilizzando l’intonaco.
Gli intonaci, a secondo della lavorazione dello strato superfi-
ciale, si distinguono in rustici, nei quali lo strato finale è l'arric-
cio e non è lisciato, e civili, nei quali, successivamente all'ar-
riccio viene steso un ulteriore strato di finitura particolarmente
curato in modo da poter presentare, a secondo del risultato
formale che si intende ottenere, una superficie perfettamente
liscia o una superficie trattata con diverse tecniche, da effet-
tuarsi prima o dopo l'indurimento della malta.
intonaco su rete metallica a tre strati; intonaco Se si intende ottenere una finitura più grezza in cui si eviden-
in due strati su supporto in gesso; intonaco
sottile a uno strato. zia una grana all'interno dello strato di intonaco (principio geo-
metrico che a distanza ravvicinata tende al materico, perché
si vede la grana del materiale) di può realizzare: l'intonaco
spruzzato (o a gretoncini), ottenuto con una tecnica manuale
o con apparecchi rotativi che conferiscono una grana unifor-
me; l'intonaco pettinato, graffiato o striato, ottenuto con una
lama dentata da passare sulla superficie della malta prima
dell'indurimento; l'intonaco tirato o rullato, ottenuto con il fra-
tazzo, che viene trascinato o ruotato con pressione sulla pare-
te intonacata fresca. Esempio caratteristico di finitura spruz-
zata sono gli intonaci che rivestono varie architetture di L.
Moretti.
La superficie intonacata può essere anche perfettamente
graffiatura dello strato di fondo (arriccio) per
ottenere un migliore aggrappaggio dello strato liscia utilizzando gli intonaci a stucco: finto marmo, ottenuto
intermedio di intonaco (rinzaffo) con un composto di gesso, sabbia fine e acqua di colla che si
1 2 stende sulla parete già liscia, al quale sovrapporre uno strato
di polvere di gesso e di marmo diluita in acqua e colore per
formare una base omogenea sulla quale disegnare le venatu-
re; stucco lucido, consiste in un solo strato di polvere di
marmo, calce bianca e colore da disporre sulla parete già
lisciata; stucco bianco o "intonaco marmorino", consiste in uno
strato composto da polvere di marmo (3 parti) e calce crivel-
3 4 lata (1 parte), spianato con il feltro e lucidato con un ferro
caldo (45°). Con i trattamenti di lucidatura si ottengono super-
fici a specchio che esaltano la geometria dell’organismo.
Oltre alle finiture ad intonaco per esaltare il principio geome-
trico possono essere utilizzati rivestimenti in vari materiali, dal
marmo del periodo razionalista, ai metalli dell’architettura con-
esempi di finitura di un intonaco: 1,con frataz-
zo rivestito in spugna; 2, con fratazzo; 3, a temporanea, che possono essere montati in aderenza o su
spruzzo; 4, scabra. parete ventilata.
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Bibliografia ragionata

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TESTI GENERALI
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