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Liceo Ginnasio Statale Luigi Galvani

Esame di Stato A.S. 2016/2017


Classe V sezione CF
Anna Laura Rossi

LA LETTERATURA PERSIANA DI IERI E DI OGGI


dalla natura ambigua di una tradizione sospesa tra misticismo e
blasfemia alla “poetica delle piccole cose”

Quando nel 651 gli Arabi musulmani conquistano la Persia, quasi ogni traccia della cultura
precedente, già di per sé in decadenza, viene distrutta e quel poco che rimane deve far fronte
all’inevitabile confronto con l’apparentemente inconciliabile tradizione araba, la cui eleganza e
venustà non sembra poter trovare un punto di comunione con la scarna aridità dei mezzi espressivi
iranici. Così l’intero mondo estetico cosiddetto persiano risulta essere in realtà frutto di una
fusione: da una parte vi è una straordinaria ricchezza formale ed espressiva, accompagnata però da
un contenuto scarno e tendente alla riproposizione di argomenti ricorrenti, quasi obbligati e non
poeticamente sentiti; dall’altra si ha invece una grande ricchezza di contenuti leggendari, ma
trattati con tono debole e decadente, attraverso forme aride e povere. Si tratta di una duplicità
inevitabile che si riflette nella stessa lingua poetica persiana, che trae particolare ispirazione da
quella araba, la quale grazie alle sue particolarità ritmiche, prosodiche e grammaticali permette al
poeta di esprimere con ricercata raffinatezza anche i sentimenti più comuni. Non è infatti visto di
buon grado, in tal genere di poesia, l’esprimere con immediatezza le emozioni; a tal proposito è
interessante osservare il parere di Nezâmi Arûzi di Samarcanda, scrittore e poeta persiano del XII
secolo, secondo cui “La poesia è un’arte per mezzo della quale il poeta, abilmente congegnando
premesse immaginarie e combinando analogie da esse dedotte, riesce a far grande il piccolo e
piccolo il grande, e brutto il bello e bello il brutto; e con ben trovati giochi di immagini eccita le
forze concupiscibili e irascibili, sì che, sotto quell’effetto, gli animi si contraggono e s’espandono
e il poeta si fa causa di cose grandi nel cambiar l’ordine del mondo”. È, questa, l’atmosfera
estetica in cui vivevano grandi intellettuali eclettici, tra cui non possiamo fare a meno di ricordare
Omar Khayyâm, celebre tanto per il contributo ch’egli apportò in ambito scientifico (collaborò
infatti alla riforma del calendario secondo esatti calcoli astronomici) quanto per la sua produzione
poetica, costituita essenzialmente da quartine. Nato a Nisciâpûr (Persia nord-orientale) verso la
metà del secolo XI e morto in un anno non lontano dal 1126, Khayyâm è ricordato non solo per il
fascino indiscusso dei suoi scritti, ma anche e soprattutto per le disparate interpretazioni cui ha
dato adito la lettura, nel corso dei secoli, delle sue quartine, di cui si è cercato di individuare un
pensiero filosofico portante e unificante. Così si è originato il cosiddetto “problema khayyâmiano”
che, rimasto tuttora irrisolto, si potrebbe ridurre sostanzialmente a tre teorie interpretative. La
prima è espressa già nel 1223 da Dâyè, autore mistico persiano che nell’opera L’osservatorio dei
servi di Dio si esprime con parole di compassionevole biasimo affermando: “…ma quegli infelici
filosofi e materialisti che sono staccati dalle benedizioni divine brancolano nella stupefazione e
nell’errore, insieme a un certo dotto, famoso fra loro per il suo talento, la sua sapienza, la sua
sagacia e la sua dottrina. Costui è Omar Khayyâm. Per farsi un’idea della sua estrema
svergognatezza e corruzione basta leggere i seguenti versi da lui composti:
Il Creatore, allorquando plasmò adorne forme e creature,
Per qual ragione mai le gettò sotto imperio i morte?
Se ben riuscita era l’Opra, perché mandarla in frantumi?
E se mal riuscita era, di chi, dunque, la colpa?.”
Khayyâm sarebbe dunque, in sostanza, un filosofo razionalista, negatore di ogni dogma religioso,
addirittura un ateo e uno scettico. Una seconda teoria è quella espressa dallo storiografo arabo al-
Qiftî in Storia dei filosofi (opera scritta sicuramente prima del 1248, anno di morte dell’autore),
che considera Khayyâm proprio il contrario, cioè un mistico, affermando: “I sûfî (mistici
musulmani) hanno preso il senso esteriore di parte delle sue poesie e l’hanno adattato al loro
sistema, facendone oggetto di discussione e di meditazione nelle loro conventicole”. Con ciò
s’intende che ai mistici sarebbe particolarmente piaciuto l’aspetto esteriore, il senso apparente
delle quartine e l’uso di quelle stesse tecniche, perlopiù metafore, che erano sì comuni alla poesia
mistica persiana, ma assumevano un senso in realtà ben diverso nei componimenti khayyâmiani.
Infine vi è chi, come il suo editore persiano Mohammad Alî Forûghî, sostiene che Omar fu
soprattutto un dotto, filosofo e matematico, che, dotato di un’eccezionale sensibilità poetica, volle
e seppe esprimere in una forma così sintetica e concisa quale è la quartina i risultati di
un’osservazione attenta e di un’esperienza profonda della vita nelle sue più varie coloriture, dalla
gioia alla tristezza, dalla dolcezza alla sconsolata disillusione. Lo stesso Forûghî aggiunge che in
ciò “non vi è nulla di sostanzialmente irreligioso dal punto di vista musulmano, poiché le azioni
sovrane di Dio sono incommensurabili alla saggezza dell’uomo. Ché anzi, nella tristezza e
nell’amarezza del non riuscire a trovare con la sua ragione la verità assoluta nel mondo, e perché
nasciamo o moriamo, io affermo: irreligioso semmai sarebbe chi fosse perfettamente tranquillo
nell’animo al contemplare un mondo ch’ei vede a caso e anarchicamente preda della confusione.
Inoltre, il parlare spesso di vino e d’amanti rientra nel ben noto e comune mondo di metafore della
poesia classica persiana, senza che con questo si voglia sostenere la sciocca interpretazione
particolareggiatamente allegoristica di certi mistici”. Dunque, Khayyâm è per alcuni un ateo
scettico, per altri un mistico esoterico, per altri ancora un filosofo che esprime l’ansia di conoscere
il Vero, cui non si può giungere con la sola ragione. Vi è persino chi, come l’orientalista britannico
Arberry, parla di Omar come “poeta del pessimismo razionalistico”, che però non tende mai
troppo al tragico, ravvivando i propri pensieri con un sottile velo di umorismo, quasi teso a
parodiare quelli che, come lui ma prima di lui, si sono dedicati alla scrittura di quartine, tutti
mistici o, in genere, religiosi. Così si spiegano anche alcuni componimenti, che si potrebbero
considerare come l’allegro scherzo di un erudito mascherato dal tono didascalico che l’apparente
tematica trattata (che sia di carattere scientifico o metafisico, ad ogni modo pedagogico) presenta;
ne è un esempio la quartina che recita:
Poi che la Volta celeste non fu mai favorevole al Saggio
Conta se vuoi sette cieli, o contane otto se vuoi
Dappoi che morire bisogna e lasciar sogni e speranze,
Che importa ti mangino i vermi sotterra, o su aperta terra il lupo?
Essa riporta cenni di cosmologia, scienza che lo stesso Khayyâm praticava e di cui, come abbiamo
precedentemente ricordato, egli fu attivo promotore e innovatore; tuttavia i riferimenti scientifici
non sono altro che uno spunto, un argomento da cui partire e di cui avvalersi per rivolgere una non
così implicita e pacata critica a quei dotti che, all’epoca, discutevano se il numero dei cieli fosse
sette oppure otto, sprecando così quel già breve tempo che dura la misera ed effimera vita umana,
di cui Khayyâm non risparmia di mettere in luce, nella domanda retorica che chiude la quartina,
l’aspetto caduco ed esiziale. Di qui la considerazione attorno al presunto edonismo dell’autore,
inteso come culto del carpe diem, esortazione a liberarsi dei futili affanni di un vivere breve e
insensato e a cogliere consapevolmente i rari e fugaci piaceri della vita, primo fra tutti quello del
vino. Emblematica e pienamente esplicativa di una tale osservazione è la seguente quartina:
Ora che ti fiorisce pieno il fiore della Fortuna
Perché la tua mano non tocca la coppa del vino?
Bevi, bevi vino ché nemico perfido è il Tempo
E difficile, difficile molto, è cogliere un simile giorno.
Tuttavia, come tiene in particolar modo a rilevare l’inglese Chesterton (1874-1936) nel saggio
Eretici, proprio dal frequente riferimento al bere e ai suoi effetti traspare una nota fortemente cupa,
quasi febbrile, che nulla ha a che vedere con la spensierata allegria che ci si attenderebbe da un
uomo gaudente che canta entusiastiche lodi nei confronti della vite e dei suoi frutti, allegria che
rimane nella sola forma brillante e incisiva della quartina. Lo stesso Chesterton, nel dichiarare la
sua ostilità alla tristezza decadente dell’autore persiano, afferma: “Le ubriacature di Omar sono
condannabili, e molto, non perché siano ubriacature, ma perché sono ubriacature terapeutiche. È il
bere di un uomo che beve perché è infelice. Il suo è il vino che esclude l’universo, non il vino che
lo rivela. Non è un bere poetico, ossia gioioso e istintivo; è un bere razionale, ossia prosaico come
un investimento, insapore come una tazza di camomilla. […] Non si può godere né della natura, né
del vino, né di altro se si ha l’atteggiamento sbagliato verso la felicità, e Omar aveva
l’atteggiamento sbagliato. Egli festeggia perché la vita non è gioiosa; gozzoviglia perché non è
felice.”. È tuttavia da tenere a mente che stiamo parlando di una specifica letteratura, cioè quella
persiana, che per quanto possa essere conosciuta, studiata e apprezzata da numerosi orientalisti
europei rimane comunque distante per alcune sue caratteristiche e pertanto occorre riconoscere i
limiti del nostro mondo occidentale nel coglierne le più piccole particolarità espressive e
contenutistiche. Così l’accusa di Chesterton perde, se non completamente perlomeno in parte, la
sua vis polemica se si considera la natura della materia letteraria in questione, ossia la quartina.
Essa è, già al tempo di Khayyâm, un genere letterario, un τόπος, e in quanto tale comporta
immagini e riferimenti obbligati che prescindono dalle possibili interpretazioni. Non bisogna
dimenticare che nella letteratura classica persiana si ha un concetto di “libertà del poeta” ben
diverso da quello che può averne il nostro mondo moderno. Così il vino, come la tematica del
destino incerto o l’ironia, è un elemento a cui chiunque intendesse comporre quartine non poteva
sottrarsi, né ciò implicava l’adesione a una determinata linea di pensiero, filosofica o religiosa che
fosse; nulla di strano vi è nel parlare di vino come puro mezzo evocativo, senza attribuirgli realtà
concreta, specie considerando che si tratta di un elemento semplice e quotidiano, appartenente al
mondo che il poeta viveva. Si tratta di segni convenzionali, immagini che esprimono la verità
poetica dell’autore e attraverso le quali è possibile indagare la stessa realtà estetica di quel tempo,
che ricordiamo essere stata influenzata dalla cultura araba e aver pertanto risentito in particolare
degli influssi della religione islamica. Ora il dibattuto problema relativo al significato delle
quartine sposta l’attenzione dal contenuto e dalle modalità in cui esso è espresso alla realtà
culturale che ogni quartina sottende, lasciando trasparire quel pensiero che Khayyâm
inevitabilmente assorbì: l’islam e la sua visione del mondo profondamente teistica e
demitologizzata; una realtà in cui ogni legge della natura cede al peso dell’arbitrario agire del Dio,
sempre presente ma differentemente attivo nelle vicende terrene perché in un qualche modo
lontano da esse. È, questa, una concezione del mondo casualistica che deriva dalla consapevolezza
dell’impossibilità dell’uomo di ottenere una conoscenza completa della realtà e cogliere il sistema
di leggi che regola l’universo. Quel che ne resta è un mondo caotico e incomprensibile, superabile
solo per tre vie: la fede, la disperazione e l’ironia, che troviamo in Khayyâm alternate l’una
all’altra e non così distanti fra di loro, nonostante possa apparire contraddittoria la
giustapposizione di quartine “religiose” come
Col Tuo perdono, io più non curo il peccato;
E, col viatico Tuo, non curo fatica di viaggi;
Se mi farà la Tua grazia risorgere fra i Luminosi,
Del Libro Nero del male non avrò cura nessuna.
e altre “empie” come
M’hai infranto sul sasso il calice del vino, o Signore!
La porta della delizia m’hai chiuso in faccia, o Signore!
A terra hai versato il vino colore di rosa:
Scusami la bestemmia, ma sei tu ubriaco, o Signore?,
o di quartine gioiose come la seguente, in cui tutto è cielo e splendore:
Amanti noi siamo e idolatri di ebbri, oggi,
Adoratori del Vino sulla via d’Idoli belli, oggi,
Liberati e strappati del misero essere nostro
E sempre presenti alla corte sublime, oggi.
e altre dal tono cupo e cimiteriale, in cui tutto è terra:
Quando avrà detto addio al corpo l’anima tua, e la mia
Due mattoni porranno sulla tomba tua, sulla mia.
E poi; per farne mattoni ai sepolcri degli altri,
Si getterà nel forno la terra tua, e la mia.
Le poesie sono l’una frutto di un attimo di eternità goduto in un raro momento di estasi gioiosa,
l’altra effetto del vivo sentimento di inettitudine derivante dall’impossibilità di prolungare in
maniera permanente tali momenti, il tutto rimanendo nella fisicità della vita terrena. È dunque ora
comprensibile l’importanza di trovare nella visione del mondo islamico, ch’era il suo, le radici e le
forme del pensiero dell’autore, e non già andarle a cercare nel mondo iranico antico, a lui
antecedente, o nelle interpretazioni successive dei suoi componimenti, che risultano
inevitabilmente anacronistiche, frutto dell’influenza di un pensiero che appartiene a un’epoca che,
se non completamente estranea, è perlomeno distante da quella vissuta da Khayyâm.
Il motivo per cui ci siamo soffermati tanto a lungo sul “problema khayyâmiano” è che, pur
concernendo un solo autore, rispecchia l’intera natura della letteratura persiana, ambigua e per
certi aspetti addirittura dicotomica. Essa tende infatti, in uno stesso tempo, al misticismo e alla
blasfemia, passando da riflessioni metafisiche e fuori da ogni dimensione alla più gretta e terrena
materialità. Non sorprenderà dunque scoprire che vi è un filone della letteratura persiana di
“poesia oscena” e che essa non solo è diffusa tra gli autori di tutte le epoche e di tutte le scuole, e
dunque costituisce una parte integrante e vitale della cultura letteraria, ma è anche sempre stata
considerata di grande valore stilistico e formale, come attesta il fatto che sia stata tramandata
ininterrottamente sino ai giorni nostri, e ha quindi pieno diritto di essere collocata accanto ad altri
generi più celebri come la poesia lirica o la mistica, seppur non vi sia apparentemente un’ovvia e
condivisa ragione per un tale accostamento. Il tutto si spiega con un’analisi più attenta che vede
cadere il lato cosiddetto irriverente e riprovevole della trattazione di soggetti di argomento osceno,
in quanto ciò che ne resta è da una parte la messa a nudo dello squallore dell’aspetto materiale
dell’eros, dall’altra una vocazione all’astrazione assoluta per quanto riguarda la condizione
dell’uomo fedele all’amore nella sua totalità; la perfetta unione fra materialità, per quanto spietata
e svalutata, e immaterialità non può che avere luogo per mezzo di quell’arte che è sì frutto delle
capacità artistiche e intellettive dell’uomo, ma che è portatrice di un messaggio altro, altrimenti
nascosto e irraggiungibile, di cui si fa rivelatrice eccezionale: la poesia. Non a caso proprio l’Iran,
stato che si ritiene geograficamente e culturalmente erede dell’antica Persia, ha elaborato la
paradossale idea di una dimensione perfetta presente nella sola adimensionalità e della “persona
senza dimensione”, di cui massimo esempio è la figura dell’angelo, frutto dell’invenzione della
cultura iranica antica. Come in Khayyâm abbiamo visto alternarsi riflessioni filosofiche o mistiche
a spunti di natura edonistica o scettica, anche dalla lettura dei classici persiani scaturisce una
radicata predisposizione all’osceno e al faceto; vi sono infatti due nozioni, entrambe derivate dalla
cultura araba, che sono vere e proprie colonne portanti dell’universo compositivo persiano: havj e
hazl, rispettivamente “satira” e “oscenità”. In una mescolanza di lessico e immagini di stampo sia
tradizionale sia innovativo, ai toni crudi e diretti della satira si alterna l’attitudine frivola e giocosa
della poesia oscena, il tutto al fine di trattare il lato comico e insensato delle vicende umane, viste
alla luce di quella stessa concezione del mondo casualistica, così da divertire il pubblico,
distraendolo dalla noia e dalle fatiche e attraendolo a una poetica diversa, un’alternativa alle
faticose opere impegnate. Si tratta di una tecnica compositiva che prevede una sapiente e ben
misurata alternanza di serietà e di facezie, come ben dimostra la testimonianza di ‘Obeyd, poeta
satirico persiano vissuto nel XIV secolo, il quale nell’opera Etica dell’aristocrazia afferma: “La
virtù dell’eloquio, da cui dipende la nobiltà dell’uomo, ha due aspetti: l’uno serio e l’altro faceto.
Sebbene la superiorità delle cose serie su quelle facete sia indiscutibile, una continua serietà
procura noia allo stesso modo in cui uno scherzo ininterrotto causa disprezzo e discredito.[…] Ciò
premesso, gli uomini di buon gusto, per scacciare la noia e allietare l’animo, hanno talora prestato
attenzione a un certo tipo di facezie seguendo l’invito dei saggi secondo cui ‘si deve usare lo
scherzo nelle parole allo stesso modo del sale nel cibo’. ” Del resto, l’attitudine a combinare
opposti stati d’animo non è solo precipua del mondo musulmano, ma si ritrova anche nel contesto
occidentale, come dimostra la seguente citazione di Plinio il Giovane, scrittore e senatore romano
vissuto tra il I e il II secolo: “Come nella vita così negli studi, mi pare ottimale ed estremamente
umano mescolare serietà e giovialità, di modo che la prima non vada a finire in tristezza e la
seconda in sfacciataggine. Per questo motivo alterno opere più serie ai giochi e agli svaghi”.
La varietà tematica e la tendenza a rappresentare la realtà come prodotto dello scontro, inevitabile
e necessario, di elementi fra loro antitetici è rimasta nella cultura persiana sino a giungere ai nostri
giorni, tant’è che ne possiamo trovare un esempio nella raccolta poetica Un lupo in agguato di
Abbas Kiarostami (1940-2016), regista, fotografo e poeta iraniano di fama internazionale. Le sue
composizioni sono infatti il frutto di una sapiente giustapposizione di immagini, attuata secondo
un ben ragionato principio estetico, uno dei cui caratteri fondamentali è l’onnipresenza del
contrasto, più o meno evidente a seconda dei casi. Talvolta i contrasti sono enunciati apertamente
e presentati come se non vi fosse nulla di strano nell’affermare dapprima una cosa, poi l’esatto
contrario, come nelle seguenti composizioni, in cui Kiarostami descrive un filo di fumo che si alza
o meno da una casa di fango:
Un fumo bianco
su un cielo azzurro
da una capanna
di fango.
In questo villaggio
non ho visto niente:
non un fumo
da una casa di fango,
non un panno
sul filo della biancheria.
Si genera così un mondo poetico in cui tendenze discordanti non sono solo compresenti, ma
risultano anche accettabili e giungono talvolta ad avvicinarsi, quasi coincidendo, sino ad essere
superate. Così possiamo leggere di colori diversi, come il caldo giallo e il freddo viola, che
scompaiono sotto il bianco della neve che li ricopre e uniforma:
Pansé gialle
Pansé viola,
entrambe bianche
sotto la neve primaverile. ;
oppure, passando dal mondo naturale e paesaggistico a quello umano e burocraticamente ordinato,
leggiamo dell’annullamento, nelle registrazioni anagrafiche del censimento, di ogni differenza fra
le posizioni sociali di una signora e della sua serva:
Sensazioni comuni
la signora e la serva
il giorno del censimento.
È proprio la coesistenza di elementi contrastanti, insieme con la varietà di loro possibili incontri, a
suggerire l’idea di una vita caratterizzata da quello che Zipoli (docente di Lingua e Letteratura
persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia) definisce “un dinamismo incerto, ondeggiante fra
momenti lontani che però giungono anche a sfiorarsi e a confondersi”, in cui tutto è in movimento
e non è pertanto possibile trovare un momento di stasi. Lo stesso concetto di movimento ha nella
poetica di Kiarostami un ruolo centrale e si ripresenta anche nei suoi componimenti, in cui spesso
parla di viandanti, foglie che volano al vento, uccelli migratori, precipitazioni atmosferiche e
lunghi cammini senza tuttavia rivelarne mai la provenienza né la meta, contribuendo alla
creazione di un alone d’indefinitezza che invita il lettore a indagare, spinto dalla necessità di
decifrarne il messaggio nascosto, il mondo reale. L’atteggiamento nei confronti dell’esistenza che
emerge dalla lettura della raccolta sembra non essere improntato a sicurezze o a verità di fondo, né
a concetti prestabiliti o idee precise; piuttosto, se ne evince una visone del mondo come sospeso
nella possibilità del molteplice e nell’imprevedibilità del divenire, i cui esiti possono essere
svariati e talvolta persino contraddittori. Il compito d’interpretazione degli sviluppi della vita viene
lasciato da Kiarostami al lettore, il quale può scegliere se continuare la sua indagine autoptica del
mondo per fugare ogni dubbio o, al contrario, restare nel dubbio, non sottraendosi ma anzi
uniformandosi a quel “dinamismo incerto” che determina ogni cosa e di cui sente di far parte; e
una libertà s’è preso anche l’autore, nello scegliere un repertorio di sentimenti umani vasto e dai
tratti universali. Le riflessioni espresse nelle poesie vertono infatti su problematiche centrali
dell’esistenza e pongono l’accento il più delle volte sui disagi e sulle difficoltà vissute dal singolo,
come la solitudine, la nostalgia e l’insicurezza a livello intimo e personale o la guerra, il lavoro e
l’immigrazione a livello sociale; il tutto raramente intervallato da momenti di gioia, perlopiù
collegati alla capacità di cogliere e godere della bellezza della natura. A sostegno di quanto appena
affermato, si possono riportare le seguenti poesie:
L’occasione oggi
è andata persa
come ieri

non ci resta
che dolersi del tempo.
in cui il poeta esprime una riflessione personale sull’insoddisfazione della vita e la disillusione da
ogni speranza futura;
Dopo 24 ore di fatica
il pane
per mezza giornata.
in cui denuncia la durezza del lavoro e la miseria della paga, insufficiente a vivere;
Il vento porterà con sé
i fiori del ciliegio
sino al biancore delle nubi.
in cui alla celebrazione della bellezza della natura si aggiunge un anelito alla perfezione cristallina
e sovraumana di cui essa si fa portatrice. Inoltre, non si rintracciano peculiarità paesaggistiche o
urbane che permettano di identificare nell’Iran il contesto di ambientazione delle poesie, ad
eccezione di qualche riferimento alle caratteristiche del mondo religioso del Paese, ma si tratta di
elementi afferenti al contesto musulmano nel suo complesso, come la preghiera collettiva o il velo
indossato dalle fanciulle a scuola, ciò a significare ancora una volta l’universalità delle tematiche
trattate e delle emozioni descritte, le quali sono appannaggio di tutti gli esseri viventi, dall’uomo
all’animale, finanche al vegetale. È, quest’ultima, una commistione fra i settori del mondo vivente,
che Kiarostami ritiene avere pari dignità di essere rappresentati in quanto condividono un
medesimo potenziale comunicativo. Così in una poesia si descriverà il canto di un uccellino:
Un uccello
canta a notte fonda,
sconosciuto
persino agi uccelli.
mentre in un’altra saranno gli operai al lavoro a cantare:
Un canto sconosciuto
in una terra straniera

gli operai sono al lavoro.


In generale, che si parli di uomini, animali o elementi della natura, la caratteristica comune a tutti
gli elementi descritti nelle poesie è la loro appartenenza alla vita quotidiana; per quanto concerne
gli esseri umani, i personaggi descritti provengono infatti dalle classi umili o dalle minoranze
sociali (contadini, domestiche, mendicanti, operai e altri), e quando si tratta di animali o di
vegetali si incontrano specie poco nobili (come vermi, zanzare e mosche) e generi comuni (ad
esempio i ciliegi, i gelsi, le violette). L’insieme dei personaggi della scena poetica comprende
insomma tutti quegli elementi che la società tende a mettere in secondo piano, talvolta addirittura
emarginandoli, e che invece in Kiarostami assurgono a protagonisti della coscienza umana, quasi a
rivendicare la travolgente potenzialità dell’essenzialità e della semplicità. Una poetica, dunque,
delle piccole cose, ma contraddistinta da stati d’animo profondi e universali di cui quegli stessi
minimi e apparentemente insignificanti segni si fanno eccezionali portatori.
Quello appena presentato non è altro che un primo sguardo sulla cultura letteraria persiana, di cui
finora un numero limitato di studiosi ha messo in luce non solo la nobile e antica tradizione, degna
dell’attenzione dei più autorevoli intellettuali occidentali, ma anche le infinite e accattivanti
potenzialità, nonché la capacità di rendere in pochi e leggeri versi dalla brillante incisività quei
pensieri universali e immortali che da quasi un millennio incantano il lettori. Dalle quartine,
dissacranti di Khayyâm alle delicate poesie di Kiarostami, attraverso una continua e mai ripetitiva
per quanto estremamente coerente tradizione poetica, la poesia persiana rivela la propria elegante
natura: estranea agli artifici formali e concettuali, volta alla massima valorizzazione di quanto più
semplice e prezioso vi è nella vita, essa è un canto dalla vaga tristezza in cui ogni conoscenza del
mondo sensibile e vissuto si traduce in versi dall’altissima liricità e dalla disarmante immediatezza
che toccano con fare delicato e ben pensato le più intime corde del cuore degli uomini.

Bibliografia:
· G. K. Chesterton, Eretici, Lindau, 2016
· O. Khayyâm, Quartine (robâ’iyyat) a cura di Alessandro Bausani,
Einaudi, 1956
· A. Kiarostami, Un lupo in agguato, Einaudi, 2003
· R. Zipoli, Tesori e serpenti (poesia persiana oscena dal X al XX secolo),
Cafoscarina, 2016
Altre fonti:
· Dâyè, L’osservatorio dei servi di Dio, 1223
· ‘Obeyd, Etica dell’aristocrazia, XIV secolo
· Qiftî, Storia dei filosofi, 1240 ca.

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