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Corso di Laurea Triennale in

Studi Internazionali.

La misura del Secolo.


I contributi di Arrighi e Hobsbawm
alla periodizzazione del '900.

Relatore: Fulvio Conti Candidato: Pietro Schioppetto

Anno Accademico 2013/2014


1
Indice
Introduzione. Il concetto di periodizzazione. 3

1 Secolo breve o secolo lungo?


1.1 Il Secolo breve di Eric Hobsbawm. 7

1.2 Il lungo ventesimo secolo di Giovanni Arrighi. 17

2 Il dibattito internazionale.
2.1 Il dibattito anglosassone su Il Secolo breve. 31

2.2 Il dibattito italiano su Il Secolo breve. 37

2.3 Alcune osservazioni di Hobsbawm. 42

2.4 Il dibattito anglosassone sul Il lungo ventesimo secolo. 43

2.5 Il dibattito italiano sul Il lungo ventesimo secolo. 49

2.6 Raffronti tra le periodizzazioni di Hobsbawm e Arrighi. 54

3 Proposte di periodizzazione del ‘900.


3.1 Il dibattito degli anni Novanta. 63

3.2 “1873”. 65

3.3 “1914-1917”. 73

3.4 “1939-1945”. 76

3.5 “1973”. 82

3.6 “1989-1991”. 85

Conclusioni. Due opere di fronte alla contemporaneità. 86

Ringraziamenti. 93

Bibliografia. 94

2
Introduzione. Il concetto di periodizzazione.

I secoli come partizioni del tempo storico, non sono reali,


ma le loro figure e le loro ombre sì, se condizionano il
nostro modo di interpretare il presente e progettare il
futuro.1

L’intento di questa ricerca è quello di comparare le periodizzazioni del Novecento


proposte da Eric Hobsbawm e Giovanni Arrighi nelle rispettive opere del 1994: il Secolo
Breve e Il lungo ventesimo secolo.
Esamino due titoli che ad una analisi superficiale sembrano presentare tesi completamente
opposte tra loro, ma che invece dimostrerò essere largamente comparabili e compatibili,
seppur differenti nelle metodologie di ricerca e nelle conclusioni.
Prima di procedere a presentare il contenuto del testo, illustro alcune riflessioni sul concetto di
periodizzazione che mi hanno guidato in questo lavoro e a cui farò riferimento nei vari
capitoli.

La periodizzazione è al contempo una delle attività più immediate (pensare la storia è


periodizzarla, per Croce)2 e uno dei concetti più complessi dell’analisi storica: «Qualsiasi
sforzo di periodizzazione, ben lungi dall’essere un astratto esercizio intellettuale, risponde in
effetti ad un profondo bisogno esistenziale: quello di portare un ordine nelle coordinate spazio
temporali che definiscono la nostra esperienza di vita».3
«Le periodizzazioni servono a rendere pensabili i fatti»,4 si tratta di procedimenti intellettuali
che mirano a individuare periodi definiti, compresi tra anni ritenuti storicamente rilevanti:
questo costituisce quello che definisco aspetto cronologico. Lo scopo di individuare periodi è
quello di far risaltare e analizzare i fenomeni, ritenuti rilevanti dallo studioso, che hanno un
proprio ciclo di sviluppo al loro interno: ecco quindi l’aspetto tematico. Riprendo questa
divisione dalla distinzione tra aspetto fattuale e concettuale delle periodizzazioni nei lavori di
Pomian.5
Diversi punti di vista e differenti giudizi sull’importanza dei fenomeni implicano di
conseguenza molteplici proposte di periodizzazione. Il secolo ne è una delle unità di misura

1
S. Guarracino, , Il Novecento e le sue storie, Mondadori, Milano, 1997.
2
B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano, 1989.
3
L. Paggi, Un secolo spezzato. La politica e le guerre, “ParoleChiave”, n. 12, 1996.
4
K. Pomian, Periodizzazione, in Enciclopedia. Volume decimo, Einaudi, Torino, 1980.
5
«Ogni periodizzazione fa dunque parte della famiglia delle operazioni che stabiliscono dei legami tra il visibile
l’inaccessibile alla vista, l’invisibile, il ricostruibile, il concettuale o se si vuole tra il fattuale e il concettuale”,Ivi.
3
favorite, sia per motivi di sintesi e rappresentazione,6 sia perché la cultura occidentale ha
progressivamente sovrapposto i concetti di epoca e centuria, generando la categoria del
secolo come metro di periodizzazione.
Tuttavia già dai titoli delle opere in esame ci accorgiamo di come un secolo possa allungarsi e
restringersi a seconda dell’analisi che viene effettuata. I fenomeni non hanno particolare
rispetto per le date: il concetto di secolo è più utile se, superando le costrizioni
numerologiche, diviene uno strumento per porre domande sulla storia, ritornando
concettualmente prossimo al concetto di epoca.7
Ciascun secolo individuato dalla ricerca ha in questo senso un inizio, che esprime
un’aspirazione, un programma, e una fine che ne individua l’esito. Fine e principio del secolo
stanno agli opposti estremi, ma per la ricorrenza dei secoli stessi, ogni fine è contigua
all’inizio successivo e tra le due vi è un rapporto stretto che può essere di continuità o
discontinuità dei fenomeni rilevanti.8
Aggiungerei che una periodizzazione può essere aperta se i periodi che individua possono
rappresentare contemporaneamente l’inizio e la fine di epoche contigue più ampie, oppure
chiusa se i limiti temporali di ogni periodo sono strettamente definiti. Un altro uso dei due
termini più semplice è il fatto che la periodizzazione individui un epoca già terminata (chiusa)
o che non si è ancora conclusa (aperta). Utilizzerò entrambe le versioni nella trattazione.
Periodizzare è un’attività tipica dell’analisi storica ma attiene anche al lavoro delle scienze
sociali che sin dalla loro formazione hanno elaborato nuovi tempi della politica,
dell’economia, della demografia.9
Infine, ogni periodizzazione sembra analizzare solo passato e presente: «la periodizzazione è
la ricerca della nostra identità di contemporanei»,10 ma in molti casi, nella sua opera di
selezione dei fenomeni rilevanti, proietta aspirazioni verso fatti a venire, esprime profezie per
il futuro.11

Il concetto di periodizzazione, nel senso che ho cercato d’indicare, è centrale sia nel
lavoro di Hobsbawm che in quello di Arrighi, nonostante gli usi differenti che i due ne fanno.
Una loro ottima sintesi è reperibile in Maier:

«Gli storici, di fatto, tendono ad imporre due livelli di periodizzazione. Uno è narrativo e mira a

6
C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2007.
7
Guarracino S., Il Novecento e le sue storie, Op. cit.
8
Ivi.
9
K. Pomian, Periodizzazione, Op. cit.
10
L. Paggi, Un secolo spezzato, Op. cit.
11
K. Pomian, Periodizzazione, Op. cit.
4
raggruppare gli eventi, come accade anche nel caso di configurazioni tradizionali, quali il «periodo tra le
due guerre», «la rivoluzione industriale» o il «breve ventesimo secolo» di Hobsbawm. Ma gli storici,
soprattutto gli storici della cultura, ma anche gli storici della politica e dell’economia, ricorrono pure a
quelle che possono essere a buon diritto definite delle «metanarrazioni», come i concetti di Rinascimento,
epoca del Romanticismo o perfino di «Età pre-moderna», «moderna» e «post-moderna». Sono
«metanarrazioni» perché il criterio di inclusione non è il nesso tra avvenimenti che devono essere
«spiegati», ma tra oggetti che devono essere «interpretati». Vale a dire che la narrazione è una forma di
risposta agli interrogativi come e perché, in sostanza il modo di «dar conto» di certe conseguenze. Una
metanarrazione è la risposta al quesito: quale tipo di struttura sequenziale rende il senso di un certo
oggetto o risultato? Elaborare una tale metanarrazione richiede di interpretare le interpretazioni».12

Risulterà evidente come Hobsbawm faccia parte della storia narrativa, mentre Arrighi crei
una metanarrazione nel senso individuato da Maier.

Questa trattazione affronta un ambito di studio molto vasto e deve necessariamente


passare per una selezione e una semplificazione.
Dei due autori ho analizzo solo una fondamentale opera per ciascuno, limitandomi a citare
altre ricerche degli stessi solo dove queste erano utili a illuminare meglio i concetti espressi ne
Il Secolo breve e Il lungo ventesimo secolo.
Nel trattare le due opere mi sono focalizzato sull’aspetto della periodizzazione del ‘900 e su
alcuni temi comparabili (capitalismo, comunismo, cicli egemonici) anche se così si è perso
parte del più ampio orizzonte concettuale di Hobsbawm e di quello cronologico di Arrighi.
Nel primo capitolo illustro l’evoluzione del pensiero dei due autori che ha portato alla stesura
delle opere in questione e descrivo in maniera dettagliata la periodizzazione da queste svolta
del Novecento.
Il secondo capitolo tratta una selezione della ricezione critica dei due volumi nel contesto
anglosassone ed italiano, privilegiando commenti su aspetti compatibili con l’oggetto di
questa ricerca. Nel paragrafo finale, dopo aver riportato i giudizi di alcuni raffronti dei due
libri, effettuo una mia comparazione originale.
Il terzo capitolo è dedicato a inserire le due periodizzazioni nell’ambito di quello che ho
definisco come il dibattito degli anni Novanta sulla periodizzazione del ‘900. Utilizzando
come schema la sequenza degli anni più rilevanti delle periodizzazioni di Arrighi e
Hobsbawm, riporto una serie di ricerche e temi sul senso e l’organizzazione temporale del
‘900, comparandole con le due opere argomento della mia ricerca.
Infine nella conclusione, riprendo i capitoli finali dei due volumi, dedicati entrambi agli

12
C. S. Maier, I paradossi del «prima» e del «poi». Periodizzazioni e rotture nella storia, in I tempi della storia
contemporanea, a cura di Simone Neri Serneri, “Contemporanea” / a. II, n. 4, ottobre 1999.
5
sviluppi del XXI secolo, e cerco di dimostrare quale delle opere sia meglio riuscita, sulla base
della sua analisi del ‘900, a individuare quelli che sono gli elementi rilevanti della
contemporaneità.
Se la storia contemporanea è «sospesa tra passato e presente ed esposta a rapide smentite»13
che la obbligano a continue ridefinizioni, il mio scopo finale è indicare la periodizzazione che
ha retto meglio al rapido succedersi degli eventi degli ultimi venti anni, senza ovviamente
nulla togliere all’enorme valore delle due opere.

13
C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Op. cit.
6
1. Secolo breve o secolo lungo?

1.1 Il Secolo breve di Eric Hobsbawm.

«Eric Hobsbawm è lo storico più conosciuto al mondo. Il Secolo Breve, pubblicato nel
1994 è stato tradotto in numerose lingue dal cinese al ceco. Le sue memorie sono state un best
seller a Nuova Delhi; in alcune regioni del Sud America, sopratutto in Brasile, è un eroe
popolare culturale».14 Con simili credenziali può sembrare quasi superfluo analizzare il suo
volume. Tuttavia ai fini di questa discussione procederò ad un breve inquadramento
dell’opera e dell’autore.
Di Hobsbawm, nato ad Alessandria di Egitto nel 1917 e morto a Londra nel 2012, ci resta una
impressionante mole di opere che hanno lasciato segni fondamentali in diversi ambiti della
ricerca storica. Eminente membro del gruppo degli storici marxisti inglesi «la generazione che
includeva figure anziane come l’economista di Cambridge, Maurice Dobb e i giornalisti e
scrittori A.L.Morton e Dana Torr, ma le cui figure centrali e prominenti erano Rodney Hilton,
Christopher Hill, George Rudè, Edward Thompson, Dorothy Thompson, John Saville, Eric
Hobsbawm e Victor Kiernan»15 che formatisi intellettualmente tra la crisi degli anni Trenta e
la seconda guerra mondiale, unirono nel secondo dopoguerra l’impegno politico nel Partito
Comunista e la ricerca intellettuale, nella prospettiva di contribuire alla causa del socialismo.
Sono stati versati fiumi di inchiostro sul marxismo di Hobsbawm e il suo reiterato sostegno
alle sue tesi anche dopo la caduta dell’Urss, troppo spesso con intenti polemici e scandalistici.
Si può sostenere criticamente, come Tony Judt, che il marxismo abbia in definitiva
pregiudicato il suo istinto di storico e gli abbia impedito di considerare adeguatamente, se non
in retrospettiva, fenomeni come le crisi degli anni Settanta, dell’eurocomunismo e dell’Urss.16
All’opposto Traverso fa notare come la sua visione della storia, senza mai perdere
l’ancoraggio concettuale a Marx, sia divenuta via via sempre più problematica e meno
deterministica.17 È comunque evidente che l’ideologia marxista ha permeato la sua visione del
mondo e la sua opera di storico: «Io sono stato attratto alla storia innanzitutto dalla lettura di
Marx. Intendo dire che Marx mi fornì la consapevolezza che essa è uno strumento senza del
quale non possiamo capire cosa succede nel mondo. Mi convinse che la storia può essere vista

14
T. Judt, E. J. Hobsbawm e il fascino del comunismo in L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ‘900, Laterza,
Roma-Bari, 2011, p. 116.
15
H. J. Kaye, Fanning the Spark of Hope in the Past: the British Marxists Historians, “Rethinking History”, 4:3
(2000).
16
T. Judt, E. J. Hobsbawm e il fascino del comunismo, Op. cit. , p. 125.
17
E. Traverso, Il Novecento di E. J. Hobsbawm in Il Secolo Armato. Interpretare la violenza del Novecento,
Feltrinelli, Milano, 2012.
7
e analizzata come un insieme e che ha... non voglio dire delle leggi, perché richiamerei troppo
una visione positivistica vecchia maniera, ma una struttura e delle regolarità, che è il racconto
dell’evoluzione di lunga durata della società umana».18
Ancora sulla lezione dell’autore del Manifesto: «Aver capito che una fase storica particolare
non è permanente, che la società umana è una struttura di successo perché è in grado di
cambiare: e che dunque il presente non ne è il punto di approdo finale. In secondo luogo,
nell’averne analizzato il modus operandi, i modi in cui un particolare sistema sociale
funziona, e perché esso genera o impedisce di generare le forze del cambiamento».19
Sulle complesse interazioni intellettuali del gruppo degli storici marxisti inglesi non si può
non menzionare l’influsso della fondamentale opera Problemi di storia del capitalismo del
1946, con cui Maurice Dobb pose nuovamente in evidenza la concezione del capitalismo di
Marx contro le prevalenti visioni di Weber e Pirenne.20
«Abbiamo il significato determinato da Marx, che non ricercò l’essenza del capitalismo nello
spirito d’iniziativa e neppure nell’impiego del denaro per il finanziamento di una serie di atti
di scambio condotta allo scopo del guadagno: ma in un particolare modo di produzione. Egli
non intendeva con questo il semplice stato della tecnica bensì si riferiva ai modi di proprietà
dei mezzi di produzione e ai rapporti sociali tra gli uomini derivanti dalla loro posizione
rispetto al processo della produzione».21
La risposta critica di Paul Sweezy, che riteneva centrali per il trapasso dal feudalesimo al
capitalismo l’ascesa del commercio internazionale e della classe borghese-mercantile che
progressivamente sgretolarono il sistema pre-capitalistico, suscitò il noto, vivace dibattito.22
Tra i vari interventi spicca un contributo di Hobsbawm che evidenzia come il trapasso dal
feudalesimo al capitalismo sia avvenuto nella sola Europa, a fronte di una ampia diffusione
mondiale del sistema feudale.
L’autore individua sette fasi storiche di sviluppo della civiltà, partito con l’Età del Bronzo e
culminato nelle quasi simultanee Rivoluzione industriale, americana e francese che segnano
l’affermazione della società borghese e del sistema di produzione capitalistico.23 Un testo
indicativo di come la periodizzazione di Hobsbawm abbia un forte debito verso le tesi di
Dobb, dove invece Arrighi propende per le teorie di Sweezy.

18
E. J. Hobsbawm, Intervista sul Nuovo secolo, Laterza, Roma-Bari, 2008, Op. cit. , p. 7.
19
Ivi.
20
H. J. Kaye, Fanning the Spark of Hope, Op. cit.
21
Maurice Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1974.
22
Per il dibattito Dobb-Sweezy rimando oltre che al citato volume di Dobb anche a AA.VV “The transition from
Feudalism to capitalism”, Verso edition, London, 1978 e a AA.VV ”Dal feudalesimo al capitalismo”, Liguori
Editori, Napoli, 1986.
23
E. J. Hobsbawm, From Feudalism to Capitalism, “Marxism Today”, Agosto, 1962.
8
Un’altra importante influenza sulla storiografia del gruppo di Hobsbawm e dell’autore stesso
è quella della scuola delle “Annales” e della concezione storica della lunga durata.
Hobsbawm stesso nella sua autobiografia ricostruisce il trapasso dalla vecchia alla nuova
storiografia come «il conflitto tra la concezione fondata sul presupposto convenzionale per cui
la storia è la politica del passato, sia all’interno dei singoli stati nazionali sia nei loro rapporti
reciproci, e la concezione della storia come storia delle strutture e dei cambiamenti delle
società e delle culture; tra la storia come narrazione e la storia come analisi e sintesi; tra
coloro che ritenevano impossibile formulare generalizzazioni sulle vicende umane e coloro
che invece lo ritenevano essenziale».24
L’autore evidenzia la fecondità dei contatti tra le diverse scuole nazionali nel secondo
dopoguerra e la forte comunità d’intenti che le univa contro le tendenze positivistiche e la
histoire bataille, per quanto la concezione marxista costituisse un forte elemento di divisione
tra gli annalisti e gli storici marxisti inglesi. Nel 1953 Hobsbawm insieme a Christopher Hill e
Edward Thompson, fonda la rivista “Past&Present” cercando una sintesi tra marxismo e
scuola delle Annales: i rispettivi scambi di cortesi dichiarazione di reciproca ispirazione e
comunanza di vedute testimonieranno la vicinanza tra i gruppi.
In definitva Hobsbawm dirà di aver avuto grande simpatia per “Les Annales” ma di esserne
stato diviso sulla concezione della storia: strutture permanenti per gli uni, una storia che
cambia, in movimento, per lo storico inglese.25

Nel corso degli anni Hobsbawm divide il suo lavoro tra una serie di opere di ricerca
pionieristiche, che creano nuovi concetti storiografici dalla vasta fortuna critica, come i ribelli
primitivi, il banditismo sociale e l’invenzione della tradizione, ad opere di ampia sintesi e dal
taglio divulgativo, definite da Hobsbawm stesso come haute vulgarisation.26 Tra queste
ultime troviamo la sua quadrilogia sull’Età contemporanea. Esiste probabilmente uno
«scarto»27 tra i due approcci dello studioso, ma entrambi condividono l’idea che solo la
modernità capitalistica rechi con sé la possibilità del movimento politico di massa e della
trasformazione sociale per le masse lavoratrici oppresse.28
La quadrilogia (The making of the Modern World, secondo la riedizione di Folio) viene
avviata da Le rivoluzioni Borghesi 1789-1948 del 1962 seguito da Il trionfo della Borghesia.
1848-1875 del 1975 e da L’Età dell’Imperi. 1875-1914 del 1987.

24
E. J. Hobsbawm, Anni Interessanti. Autobiografia attraverso la storia, Bur, Milano, 2004.
25
E. J. Hobsbawm, Intervista sul Nuovo secolo, Op. cit. , p. 8.
26
E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1948, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 9.
27
E. Traverso, Il Novecento di E. J. Hobsbawm, Op. cit. , p. 24.
28
G. Elliott, Hobsbawm. History and Politics, Pluto Press, London-New York, 2010, pp. 46-47.
9
Le tre opere in questione vanno a costituire una trilogia dedicata al periodo 1789-1914,
definito da Hobsbawm «lungo XIX secolo». Un’epoca scandita nei tre volumi da un’Età
rivoluzionaria, una di consolidamento e da un periodo finale d’illusorio splendore, preludio al
disastro della prima guerra mondiale: tre Età che compongono l’era della civiltà europea
borghese, liberale e capitalistica.
Una periodizzazione non del tutto originale, in parte ripresa da Polanyi e dal suo concetto
della “pace dei cento anni” intercorsa tra il Congresso di Vienna e lo scoppio del conflitto
mondiale, in La grande trasformazione (Hobsbawm già lo cita tra le ispirazioni dell’opera in
L’Età della Rivoluzione) e coincidente, ma a fronte di un’interpretazione opposta, alla lettura
di Arno Mayer della persistenza delle strutture socio-economiche europeee tradizionali in
Europa fino al 1914.29

Anche se i volumi non sono stati concepiti a partire dal primo come una ricerca
unitaria,30 i successivi seguono e sviluppano il programma di ricerca enunciato nella
prefazione di L’Età della Rivoluzione. La discontinuità storica del lungo Ottocento rispetto
alle epoche precedenti è costituita dalla “duplice rivoluzione”: Rivoluzione industriale e
Rivoluzione francese. Le due non devono essere visti come fenomeni separati ma come
manifestazioni parallele dell’emergere della società borghese liberale, dell’industria
capitalista, dell’economia e dello Stato moderni.
Senza insistere nell’analisi delle complesse cause che hanno reso possibili questi sviluppi,
Hobsbawm li limita territorialmente alla realtà europea e ne afferma come inevitabile
corollario l’espansione europea oltremare, con la sconfitta e l’asservimento di tutte le civiltà
che fino a quel momento avevano conteso il primato con l’Europa. Ma la storia resta in
costante movimento e vengono identificati quei fenomeni che, attivati dalla “duplice
rivoluzione”, sono già designati alla fine di questo periodo a disgregare l’edificio della società
borghese: la resistenza anti-coloniale e il movimento dei lavoratori.31
Un volume che risulta ormai abbastanza datato per le interpretazioni delle due rivoluzioni e
che imposta un paradigma eurocentrico che, come vedremo, costituirà una delle maggiori
critiche dell’intera quadrologia. Questo «blind spot»,32 come lo definisce Edward Said,
comporta «una periodizzazione eurocentrica, le cui faglie non sono generalizzabili».33 Anche
nei successivi volumi si continuano a prediligere periodizzazioni chiuse: individuate attorno a

29
A. Mayer, Il potere dell’Ancienne Regime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari, 1999.
30
E. J. Hobsbawm, L’età degli Imperi. 1875-1914, Laterza, Roma-Bari, 1987, Op. cit. , p. 11.
31
E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi. 1789-1948, Op. cit. , pp. 11-14.
32
V. Kiernan, B. Chase, E. Said, Remembering the hard way, “History Workshop Journal”, 1996, Issue 42.
33
E. Traverso, Il Novecento di E. J. Hobsbawm, Op. cit. , p. 30.
10
fenomeni che hanno il loro sviluppo in tempi strettamente definiti. In particolare viene
tralasciato il processo di apprendimento creativo dell’Oriente nei confronti dell’Occidente.
Non c’è posto nell’opera per la distinzione che si potrebbe tra i concetti di modernizzazione,
come scelta eclettica ed adattamento di elementi culturali e materiali, e occidentalizzazione,
come acritca accettazione dell’Occidente.34
In definitiva: «Hobsbawm non si è mai veramente allontanato dalla posizione di Marx che
denunciava il carattere predatorio e disumano dell’Imperialismo britannico, ostinandosi
tuttavia ad attribuirgli una missione civilizzatrice nel nome della dialettica storica». 35

L’opera successiva Il trionfo della Borghesia disegna le linee di sviluppo della


seconda fase dell’Ottocento. Sul fronte politico, a seguito degli sviluppi rivoluzionari del
1848, le aspirazioni rivoluzionarie subiscono una battuta d’arresto e l’ordine politico si
indirizza sui binari impostati dal liberalismo. Democrazia cessa di essere associata a
Rivoluzione e il suffragio, pur allargato, si adatta a sostenere l’ordine borghese. Sul fronte
economico, la Rivoluzione industriale trionfa in Occidente e ne impone la supremazia sul
resto del globo, sostenendo il dominio della borghesia e la preminenza della sua idea di
mondo.
Considerando l’epoca dal punto di vista culturale, il concetto di progresso (illuminato,
soddisfatto e inevitabile per la borghesia, drammatico per le masse sfruttate dei lavoratori
europei e per i popoli extra-europei) è il mantra dell’epoca. Lo sostengono l’enorme
avanzamento scientifico e la situazione di ordine internazionale, in cui i conflitti, numerose
guerre coloniali e poche guerre tra le grandi potenze, sono brevi scontri vinti dalla potenza
dell’organizzazione capitalistica e della scienza. Un epoca ancora una volta «trionfante», ma
effimera nelle sue realizzazioni a fronte delle aspirazioni suscitate: la crisi economica del ’73
e la conseguente depressione basteranno a metterla in crisi e ad aprire la strada per la sua
ridefinizione.36

L’ultimo volume della trilogia è particolarmente rilevante per la sua analisi di un


periodo che costituisce contemporaneamente la chiusura di un’era e il preludio di un’altra
completamente nuova: Il Secolo breve del Novecento (una prospettiva esplicitamente
affermata nellla prefazione).37 Come periodizzazione, il periodo 1875-1914 è diviso in due
dalla metà del decennio 1890, spartiacque tra la Grande depressione e la Belle Époque.

34
F. Maraini, Esotico inverso in Maraini. Pellegrino in Asia, Mondadori, Milano, 2007.
35
E. Traverso, Il Novecento di E. J. Hobsbawm, Op. cit. , p. 32.
36
E. J. Hobsbawm, Il trionfo della Borghesia. 1848-1875, Laterza, Roma-Bari, 1976, pp. 3-8
37
E. J. Hobsbawm, L’età degli Imperi. 1875-1914, Op. cit. , p. 11.
11
Una depressione, che pur non distruttiva ai livelli del crollo del 1929, deprime per decenni i
profitti, inceppando i meccanismi della società liberale. I cambiamenti economici e politici
messi in campo per affrontarla andranno a caratterizzare la seconda metà del periodo e
causeranno involontariamente il crollo della società ottocentesca.
La depressione e la conseguente deflazione costituiscono un’immensa preoccupazione per i
testimoni dell’epoca e spingono ad una serie di cambiamenti che rompono l’equilibrio
economico dell’Età precedente. 38 Dal liberoscambismo si passa al protezionismo per favorire
l’industrializzazione su base nazionale mentre le strutture aziendali familiari vengono
trasformate in società impersonali di dimensioni e complessità crescenti.39
S’impone l’imperialismo, come sfruttamento diretto e competitivo delle colonie extraeuropee:
l’economia mondiale passa da un modello collaborativo ad uno competitivo.40
Successivamente: «dalla metà degli anni 1890 alla grande guerra l’orchestra economica
globale suonò nella tonalità maggiore della prosperità anziché, come fino ad allora, nella
tonalità minore della Depressione».41
L’economia della seconda parte dell’Età imperiale ha caratteristiche che la differenziano da
quella dei periodi precedenti. La sua base geografica è più ampia, con un maggior numero di
paesi industrializzati. La Gran Bretagna muta ruolo: non più officina del mondo, ma camera
di compensazione della finanza. Il carattere stesso della produzione, legato alle nuove
industrie, assume un carattere di massa sia a livello dei consumi privati che di spesa
pubblica.42
Passando all’aspetto politico, l’Età degli imperi è caratterizzata da tre fenomeni strettamente
interconnessi: democrazia, imperialismo e rivoluzione. Con l’introduzione di sistemi elettorali
meno discriminanti l’ordine politico liberale deve adattarsi alla nuova organizzazione politica
delle classi lavoratrici:43 i grandi partiti organizzati e caratterizzati ideologicamente.44
Si pongono problemi nuovi per il mantenimento dell’ordine e della continuità delle politiche,
in specie economiche, e negli imperi multietnici persino dell’unità nazionale.45 Attraverso
collaborazioni con le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori 46 e prime embrionali
politiche redistributive,47 la classe borghese riesce apparentemente a disinnescare la bomba

38
E. J. Hobsbawm, L’età degli Imperi 1875-1914, Op. cit. , p. 41.
39
Ivi, p. 51.
40
Ivi, p. 53.
41
Ivi, p. 54.
42
Ivi, pp. 59-65.
43
Ivi, p. 103.
44
Ivi, pp. 108-9.
45
Ivi, p. 112.
46
Ivi p. 119.
47
Ivi, p. 121.
12
democratica. Questo avviene ad un doppio costo: la spinta verso nazionalismo e imperialismo
come proiezione all’esterno della pressione sociale interna,48 e la delusione dei rivoluzionari
verso il modello democratico, ora che si è sperimentata la possibilità di una sua
domesticazione rispetto alle istanze radicali.49
L’imperialismo (in cui le spinte sociali sono connesse a fattori economici, militari, di
prestigio) si lega al nazionalismo, un fenomeno che coinvolge anche le masse lavoratrici.
Questo perché le politiche economiche e sociali affermatesi su base statale le spingono ad una
propria politica nazionale,50 ma anche per la riuscita opera di nazionalizzazione delle masse
compiuta dalla borghesia attraverso benefici materiali e propaganda.51
La prospettiva rivoluzionaria si va così affermando nelle aree meno sviluppate dell’Occidente,
come la Russia, e nel resto del mondo dominato dall’imperialismo e dagli antichi imperi. Ne
sorge la sintesi leninista, che afferma la necessità per il proletariato di agire, forzando
l’evoluzione storica in contrasto con la borghesia in Occidente e in alleanza con le borghesie
nazionali nel resto del mondo.52
Questi aspetti economici e politici intervengono a creare il quadro che renderà la prima guerra
mondiale inevitabile e distruttiva: le rivalità insanabili tra un elevato numero di sistemi
economici nazionali-capitalistici attivi ormai su scala globale, il rilievo enorme della posta in
gioco che non permette accordi o accomodamenti e infine l’identificazione tra i concetti di
illimitata crescita economica e potenza politica-militare, che resero la soluzione delle armi
possibile e infine accettata.53
Il trionfo della società liberale dell’ottocento nata dalla “duplice rivoluzione” mostra infine la
sua natura transitoria. La struttura economica della Rivoluzione industriale (sia della
produzione che del commercio) e le istanze radicali-democratiche della Rivoluzione francese
(oltre che della supremazia europea sul resto del mondo)54 nella loro accezione ottocentesca
non influenzeranno il Novecento, sul quale piuttosto peseranno le tendenze dell’Età imperiale:
la prospettiva rivoluzionaria, la globalizzazione e il rilievo dello Stato nazionale.55

«Nessuna nuova interpretazione del mondo contemporaneo potrà fare a meno di confrontarsi con
la sua, ormai divenuta canonica. Questa osservazione rivela un paradosso, poiché il XX secolo si è chiuso
in un clima di restaurazione intellettuale e politica, salutato dal baccano mediatico che annunciava il

48
E. J. Hobsbawm, L’età degli Imperi.1875-1914, Op. cit. , p. 122.
49
Ivi, p. 129.
50
Ivi, p. 149.
51
Ivi, pp. 186-90.
52
Ivi, p. 341.
53
Ivi, p. 363.
54
Ivi, p. 15.
55
Ivi, pp. 382-3.
13
definitivo trionfo della società di mercato e del liberismo. Hobsbawm, viceversa, non nascondeva le sue
simpatie per il comunismo, il grande perdente della guerra fredda, né l’attaccamento a una concezione
della storia di ispirazione marxista. Il successo del suo libro creava scompiglio, infrangendo il consenso
liberista attorno a una visione del capitalismo come ordine naturale senza alternative». 56

Il Secolo breve (The Age of extremes) completa la quadrilogia sulla contemporaneità


analizzando l’esperienza novecentesca aperta dalla Rivoluzione di ottobre e dichiarandola
conclusa con la caduta dell’Urss nel ’91 e l’ingresso dell’umanità in una nuova era
d’incertezza economica e politica. Nell’introduzione, Hobsbawm chiarisce come il secolo
appena trascorso sia stato creato dalla nascita dell’Urss, che ha generato un confronto durato
70 anni tra socialismo e capitalismo, sia stato organizzato dai conflitti e dall’accordo tra i
vincitori del secondo conflitto mondiale e sia stata appunto «un’Età di estremi», di «guerra di
religioni» tra confliggenti visioni del mondo.57
Per completare i volumi precedenti, Hobsbawm aveva inizialmente concepito un opera basata
su una periodizzazione in due fasi: l’Età della catastrofe, dal 1914-45 e l’Età dell’oro fino al
presente. 58
Tuttavia la riflessione sugli eventi dei tardi anni Ottanta e all’indomani della
caduta del Muro di Berlino lo spinsero a reinterpretare gli eventi dagli anni Settanta creando
la nozione di Età della frana. L’intera storia del ‘900 fu rivista nel senso del Secolo breve,
organizzato in un trittico di periodi, aperto e chiuso dalla parabola del comunismo.59
Il Secolo breve ha inizio l’Età della catastrofe (1914-1945), comprendente le due distruttive
guerre mondiali, la Rivoluzione d’Ottobre e la drammatica crisi economica del ’29: tre
decenni in cui si assiste al crollo definitivo del mondo liberali ottocentesche e del predominio
europeo. Il capitalismo sembra destinato a perdere la sfida con il socialismo reale, le
istituzioni liberali prossime a soccombere alla sfida dei fascismi e dei regimi autoritari che
s’impongono in numerosi stati europei.
A fronte di questo drammatico periodo i decenni del dopoguerra: Età dell’oro (1945-1973) e
l’Età della frana (1973-1991), appaiono come due momenti distinti di un’unica identica
epoca, coincidente con la storia della guerra fredda. I trenta gloriosi sono un epoca di
immenso sviluppo materiale. Lo Stato sociale in Occidente e lo sviluppo parallelo nei paesi
del Blocco orientale sembrano avvicinare i due mondi divisi dalla guerra fredda. La «frana»
(landslide) comincia con la crisi del petrolio del 1973, che pone fine al boom economico e si
protrae con un’onda lunga recessiva. Ad Est, si annuncia con la guerra in Afghanistan (1978)
che innesca la crisi del sistema sovietico e l’accompagna fino alla sua decomposizione.
56
E. Traverso, Il Secolo di Hobsbawm, http://antoniomoscato.altervista.org/
57
E. J. Hobsbawm, Il Secolo Breve. 1914-1991, Bur, Milano, 2000.
58
G. Elliott, Hobsbawm. History and Politics, Op. cit. , p. 107.
59
E. Traverso, Il Novecento di E. J. Hobsbawm, Op. cit. , p. 25.
14
In conformità ai criteri di analisi adottati nei volumi precedenti, risultano evidenti due
elementi intorno ai quali è strutturata la riflessione su ciascun periodo.
Il primo è l’analisi dello sviluppo capitalistico, della sua crisi, ascesa e successiva
problematica e ancora aperta ridefinizione nel corso del Secolo. Il percorso ascendente
dell’economia globale e degli scambi internazionali s’interrompe bruscamente con il primo
conflitto mondiale,60 il crollo della posizione regolatrice della Gran Bretagna, crea una
situazione d’incertezza, in cui gli stati non vedono più opportunità ma minacce nell’economia
internazionale.61 La successiva crisi del ’29, che dipende da una letale commistione
d’insufficiente domanda interna USA, mancata regolazione del commercio internazionale e
inceppamento del meccanismo dei prestiti e delle riparazioni, divide il mondo in enclavi
economiche reiprocamente ostili e sembra affossare l’idea stessa di sistema economico
internazionale.62
Nel corso dell’Età dell’oro l’economia fordista raggiunge il suo apice in un certo numero di
paesi capitalisti e in misura minore nel Blocco orientale e si diffonde in un mondo che sta
ricostruendo faticosamente i legami economici dell’anteguerra. La rivoluzione tecnologica
cambia la struttura della produzione e dei bisogni, il consumo assume caratteri di massa e
sembra essere prossimo l’avvento della prosperità generalizzata, apparentemente
inesauribile.63 Uno sviluppo che Hobsbawm attribuisce alla riforma del capitalismo e alle
nuova gestione economica pubblico-privata che rende partecipi le classi sociali e i paesi
subalterni di una parte della ricchezza complessiva. Una prospettiva purtroppo di breve
durata: già alla fine degli anni Sessanta il suo equilibrio basato su una coordinazione tra la
crescita della produzione, il livello dei salari e dei profitti, è in affanno.64
La perdurante crisi degli anni Settanta, l’abbandono del Gold Standard, l’aumento del presso
del petrolio, portano alla rivoluzione neo-liberista. La destrutturazione del welfare state, la
fine dell’aiuto economico internazionale, ricacciano indietro le conquiste sociali dei lavoratori
e le posizioni guadagnate dai paesi del Terzo Mondo. Il nuovo keynesismo militare basato sul
debito costituisce una sfida militare ed ideologica progressivamente insostenibile per i paesi
socialisti già in grave crisi interna.65
Il secondo elemento periodizzante è la il prolungato confronto tra mondo libero-capitalista e
un comunismo reale che costituisce per tutto il secolo una reale e attraente alternativa al
sistema esistente. La Rivoluzione di Ottobre sopravvisse e ispirò una intensa agitazione

60
E. J. Hobsbawm, Il Secolo Breve, Op. cit. , p. 110.
61
Ivi, p. 111.
62
Ivi, pp. 120-132.
63
Ivi, pp. 305-313.
64
Ivi, pp.313-327.
65
Ivi, pp.471-505.
15
rivoluzionaria globale oltre a costituire con il suo modello del partito di massa la base per
l’azione politica nei decenni a venire in Occidente e nei paesi colonizzati, dove gl’intellettuali
occidentalizzati fusero le aspettative comuniste con quelle di emancipazione nazionale.
La guerra fredda fu un conflitto «irrazionale», in cui le superpotenze lottarono
ideologicamente sfruttando al massimo il proprio potenziale economico in una corsa
all’accumulo di armamenti. Avviato il meccanismo, una responsabilità che Hobsbawm
addossa interamente agli USA, questo si auto-perpetuò fino all’esaurimento interno
dell’Urss.66
Il sistema economico del capitalismo e la sfida politica del comunismo costituiscono quindi i
due fili conduttori del Secolo breve. Coerentemente con l’analisi dell’Ottocento, portata avanti
sulla falsariga dell’evoluzione della «duplice rivoluzione», Hobsbawm svolge una doppia
analisi che definisce la periodizzazione in tre epoche intorno ad anni rilevanti sotto il profilo
economico e politico (anche se dedica molti capitoli ad arte e scienza la loro evoluzione non
ha lo stesso peso nella definizione dei periodi).
Hobsbawm riesce a risolvere creativamente il doppio percorso intrecciando le sorti dei due
fenomeni. Il socialismo si è potuto affermare per l’estrema debolezza del sistema capitalista
nell’Età della catastrofe.67 Successivamente il capitalismo si è ridefinito per effetto della sfida
comunista creando lo Stato sociale e la gestione statale dell’economia, poi demolite quando
l’alternativa comunista è andata in pezzi.68 Una spiegazione del secolo indubbiamente
«totalizzante» ma coerente con gli scopi interpretativi che hanno sempre mosso l’autore.69

Per l’autore i danni generati dalla caduta dell’Urss e dalla possibilità di una concreta
sfida al capitalismo sono stati incalcolabili. L’Est europeo è finito nel caos, i sistemi politici
democratici sono stati messi a dura prova mentre l’ex terzo Mondo si è continuato a dibattere
in una condizione di perdurante difficoltà economica.
«Il futuro della politica è oscuro, ma la crisi della politica alla fine del Secolo breve è
palese».70 Le rivoluzioni borghesi era iniziato con una nota di profondo ottimismo e certezza
nella progressione della storia. L’immenso passo all’indietro della caduta del comunismo e
dell’apparentemente inarrestabile trionfo del laissez-faire economico, fanno perdere all’autore
ogni aspettativa di progresso storico e di possibilità di determinare il futuro.71

66
E. J. Hobsbawm, Il Secolo Breve, Op. cit., pp. 267-302
67
Ivi, p. 20
68
G. Elliott, Hobsbawm. History and Politics, Op. cit. , pp. 108-109.
69
R. Justin, Hobsbawm's century. “Monthly Review: An Independent Socialist Magazine”, Jul/Aug 95, Vol. 47,
Issue 3.
70
E. J. Hobsbawm, Il Secolo Breve, Op. cit. , p. 23.
71
G. Elliott, Hobsbawm. History and Politics, Op. cit. , p. 108.
16
1.2 Il lungo ventesimo secolo di Giovanni Arrighi.

Alla pubblicazione del Secolo breve nel 1994 fa da contraltare nello stesso anno
l’uscita dell’opera di Giovanni Arrighi: Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini
del nostro tempo, pubblicata negli Stati Uniti e nel 1996 in Italia, ma rimasta sfortunatamente
sconosciuta al grande pubblico.
Arrighi, nato nel 1937 e morto nel 2008, è stato un sociologo storico con una formazione da
economista, di grande fama accademica, con una complessa storia di lavoro di ricerca tra
l’Africa, l’Italia e gli Stati Uniti. Per la comprensione della sua periodizzazione (già dal titolo
alternativa al modello di Hobsbawm) è fondamentale analizzare l’evoluzione della sua visione
sistemica dei rapporti economici e sociali sottesi all’evoluzione storica. Procederò quindi con
una breve analisi delle sue precedenti opere e degli scambi intellettuali intercorsi tra gli anni
Sessanta e Ottanta.
Arrighi attribuisce il suo interessamento alla sociologia storica-comparativa, con l’abbandono
delle teorie astratte dell’economia neoclassica, all’incontro con l’antropologia storica basata
su teorie di carattere empirico e storico, approcciata nei seminari di Clyde Mitchell
all’University College di Rhodesia.72 In Africa si confronta con gli effetti delle politiche
economiche degli anni Sessanta (Arrighi lavorò in Rhodesia e Tanzania), improntate alla
teoria della modernizzazione, dominante nel governo degli Stati Uniti e nelle istituzioni
economiche internazionali.73
Questa era ispirata al lavoro di Rostow Gli stadi della crescita economica. Un manifesto non-
comunista, che sosteneva che i paesi sottosviluppati potessero percorrere per tappe successive
lo stesso cammino di sviluppo economico e modernizzazione dell’Occidente. Questi stadi
partono dalla cosiddetta società tradizionale, nella quale la maggioranza della popolazione
opera nel settore primario in un'economia di sussistenza e autoconsumo basata su rapporti
di reciprocità e ridistribuzione, passano per la crescita massiccia dell’industrializzazione,
terminano con l’espansione delle attività terziarie, in un’economia integrata basata su legami
d’interdipendenza.74
«Per circa trent’anni le nazioni del terzo Mondo venero continuamente spinte a realizzare
politiche per lo sviluppo, con l’obiettivo di raggiungere gli standard di consumo di massa
goduti dalla popolazione dell’America Settentrionale [...]. Ci furono diversi successi parziali e
temporanei [...]. Ma proprio nel momento in cui tutti gli indicatori sembravano diretti verso

72
I tortuosi sentieri del capitale, Intervista con David Harvey, in G. Arrighi. Capitalismo e (dis)ordine mondiale,
a cura di G. Cesarale e M. Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, p. 20.
73
F. Volpe, Introduzione all'economia dello sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2005.
74
W. W. Rostow, The Stages of Economic Growth, Cambridge University Press, Londra, 1962.
17
l’alto-più o meno nel 1980 con la sola eccezione dell’Asia meridionale- sono crollati tutti
insieme, senza eccezioni nel decennio successivo».75
Arrighi in diversi saggi contesta la possibilità di uno sviluppo autonomo lungo le traiettorie
descritte sulla base di motivazioni sistemiche:76 anche dove la condizione sociale poteva
apparire favorevole, lo sviluppo era comunque determinato dalla struttura del capitalismo a
livello mondiale che determinava investimenti, commercio e fluttuazioni monetarie.77
Ritornato in Italia nel 1969, Arrighi pubblica nel 1978 Geometrie dell’Imperialismo con
l’obiettivo di «contribuire al superamento della confusione terminologica ancora prima che
concettuale su cui si è arenata la ripresa del dibattito sull’imperialismo».78
«Il marxismo, secondo Arrighi, aveva - con poche eccezioni (Dobb, Sweezy) - eretto a
feticcio il pensiero di Lenin, senza sottoporlo a verifica, e senza valutare se fosse adeguato ad
interpretare la situazione del secondo dopoguerra».79
Il complesso testo propone una rilettura del classico L’imperialismo di Lenin, sulla base di
una attenta considerazione della sua opera ispiratrice: L’imperialismo di Hobson. Per Arrighi
la teoria leninista, che vede nella concorrenza tra stati capitalisti per mercati dove investire il
proprio capitale eccedente, la caratteristica base dell’imperialismo «stadio supremo del
capitalismo», risulta inservibile nel contesto dell’economia post-bellica dominata dagli Stati
Uniti.80
Rileggendo l’originale saggio di Hobson ricava le quattro forme di dominio che caratterizzano
l’Età moderna: l’imperialismo come forma di competizione tra gli stati, il colonialismo come
occupazione di spazi sociali, l’impero formale come dominio politico e militare, e l’impero
informale come controllo degli spazi economici.
«Mentre la distinzione tra colonialismo e impero informale designa l’imperialismo come
espansione dello Stato e non della Nazione - scrive Arrighi - la contrapposizione
[dell’imperialismo] all’impero formale lo designa come anarchia nei rapporti tra stati tendente
alla guerra universale [...]. Il punto di coincidenza dei due assi, quello dell’espansione dello
Stato e quello dell’espansione della Nazione, designa infine lo Stato-Nazione come “origine”
in senso analitico dei quattro fenomeni espansionistici».81

75
G. Arrighi, Le disuguaglianze mondiali, in G. Arrighi. Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di G.
Cesarale e M. Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010, p. 123.
76
Raccolti in, G. Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Einaudi, Torino, 1969.
77
G. Cesarale, La lezione di G. Arrighi in G. Arrighi Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di G. Cesarale e
M. Pianta, Manifestolibri Roma 2010, p. 9.
78
G. Arrighi, Geometrie dell’Imperialismo, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 11.
79
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo nella teoria dei cicli sistemici di G. Arrighi, “Foedus”,
n. 26, 2010.
80
G. Cesarale, La lezione di G. Arrighi, Op. cit. , p. 13.
81
G. Arrighi, Geometrie dell’Imperialismo, Op. cit. , p. 40.
18
82

Al di là del rilievo nel dibattito degli anni Settanta sull’imperialismo statunitense, questo testo
è rilevante ai fini della ricerca per tre motivi.
Uno perché trarre la conclusione che fosse più importante cogliere la complessità, la
variabilità e la complementarietà, dei diverse processi espansivi dello Stato piuttosto che
distinguere tra i vari imperialismi,83 porterà Arrighi ad affermare (già nella prefazione alla
seconda edizione del 1983) l’ utilità della nozione gramsciana di egemonia, trasferita dallo
studio dei rapporti di classe a quello dei rapporti tra stati.84
Due, per la completa adozione di un metodo storico-comparativo facente esplicitamente
riferimento a Weber.85 «Il risultato di questa ricerca assomiglia ad una costruzione tipico-
ideale weberiana, in cui come è noto, alcuni elementi vengono isolati entro la molteplicità del
dato empirico al fine di coordinarli in un quadro concettuale che si differenzia dalla realtà e
non può venir scambiato con essa, ma a cui deve venir riferito il dato empirico perché questo
abbia senso».86
Isolare alcuni elementi significa, in senso weberiano, partire da punti di vista assunti
unilateralmente e riconnetterli in un quadro concettuale unitario (una modalità di lavoro che

82
G. Arrighi, Geometrie dell’Imperialismo, Op. cit. , p. 40.
83
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo, Op. cit.
84
I tortuosi sentieri del capitale , Op. cit. , p. 38.
85
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo, Op. cit.
86
G. Arrighi, Geometrie dell’Imperialismo, Op. cit. , p. 25.
19
avrà il suo pieno sviluppo nella trilogia di opere Il lungo ventesimo secolo, Caos e Governo
del mondo e Adam Smith a Pechino).
Infine le coppie impero informale-colonialismo e impero formale-imperialismo costituiscono
nella mia visione l’origine della riflessione di Arrighi sulle opposte strategie capitalista e
territorialista di formazione dello Stato e l’antesignano della distinzione tra regimi estensivi
ed intensivi di egemonia capitalista di cui dirò a breve.87
Un ulteriore tassello della teoria sistemica è rintracciabile nel saggio Una crisi di egemonia
del 1973 in cui si stablisce un legame tra capacità egemoniche della potenza dominante e
capacità di regolare l’economia a livello mondiale.88 Per Arrighi il fatto che nel ’73 gli Stati
Uniti avessero abbandonato la convertibilità dollaro-oro era il segno della loro perdita di
egemonia (intesa come capacità d’influenza) sul mercato mondiale lasciato nell’anarchia. Il
capitalismo, sciolto dai vincoli del trentennio post bellico, tornava alla precedente libertà
d’azione.
Comunque il nuovo sistema economico basato sulle multinazionali e improntato
all’investimento estero diretto e all’innovazione dei prodotti, impediva un ritorno alle
politiche mercantilistiche e protezionistiche giocate intorno alle variazioni dei prezzi.89
Le posizioni di Arrighi sono successivamente mutate per l’evoluzione dell’economia
internazionale e la riflessione storica, ma il legame tra finanza ed egemonia, pur rimodellato, è
divenuto un elemento fondamentale delle sue tesi.

L’ultimo elemento di questo inquadramento è l’approdo di Arrighi negli Stati Uniti nel
’79 alla State University di NewYork-Binghamton. Qui partecipa per più di vent’anni al
lavoro del gruppo di studiosi della World System Analysis,90 raccolta attorno al Fernand
Braudel Center (e relativa rivista: Fernand Braudel Center Review) fondato da Immanuell
Wallerstein, perfeziona l’approccio sistemico che darà spessore metodologico alle sue opere e
scopre l’opera di Braudel che ne allargherà l’orizzonte storico.
Inserita nel più ampio filone della New World History,91 la scuola sistemica formata

87
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano,
2003, Op. cit. , p. 57.
88
G. Arrighi, Una crisi di egemonia, in Dinamiche della crisi globale, a cura di G. Parboni, Editori Riuniti,
Roma, 1988.
89
G. Cesarale, La lezione di G. Arrighi, Op. cit. , pp. 14-15.
90
Alcuni dei quali: Wallerstein, Samir Amin e John Saul, già colleghi in Tanzania, I tortuosi sentieri del
capitale , Op. cit. , p. 32.
91
Aperta dal lavoro di W. H. Mc Neill del 1963 The rise of the West. A history of the human community,
che si poneva come sintesi tra le grandi sintesi di inizio nocevento di Spengler e Toymbee (ancora
profondamente totalizzanti e influenzate da concezioni di filosofia della storia) e la nuova sensibilità per la
studio dei processi storici di sviluppo culturale- tecnologico e le interazioni e gli scambi tra le diverse civiltà e
parti del mondo.
20
prevalentemente da sociologi come Andre Gunder Frank e Wallerstein ha forgiato le sue
concezioni nella critica alla teoria della modernizzazione (di cui sopra) assumendo il punto di
vista della scuola della dependencia di Raul Prebish e degli altri economisti sudamericani
dell’ECLA.
Questi studiosi ribaltarono la logica liberale di Rostow sostenendo che l’economia
dell’America Latina fosse condizionata dallo sviluppo e dall’espansione dell’economia
statunitense. L’integrazione nel sistema capitalista non era più un occasione di sviluppo e
modernizzazione per i paesi sottosviluppati ma solo la perpetuazione della loro condizione di
sfruttamento. Nello specifico, il costante deterioramento delle ragioni di scambio tra materie
prime e prodotti finiti con i paesi sviluppati, riduceva progressivamente la capacità dei paesi
del Terzo mondo di accumulare il capitale necessario al take-off postulato da Rostow.92
Tre sono gli aspetti che hanno influenzato i sistemici: il capitalismo ha come caratteristica
fondante la discriminazione tra aree del mondo e lo sfruttamento di quelle periferiche, lo
sviluppo della periferia è dipendente da quello del centro, questa situazione è perpetuata da
un’alleanza tra le rispettive classi dominanti.93
L’altra grande ispirazione per i sistemici fu l’opera di Braudel, 94 con le sue note categorie di
lunga duratae di economia mondo.95 Inoltre Braudel stesso s’impegnò notevolmente per
favorire l’apertura del centro omonimo e diffondere gli studi di storia improntati alla lunga
durata in America.96 Come vedremo è enorme l’influenza del lavoro dello storico francese su
Il lungo ventesimo secolo. Arrighi ne ha sfruttato la vasta e profonda informazione e la
presenza di innumerevoli spunti teorici e ne ha in particolare tratto l’ipotesi che le tre
egemonie degli stati-nazioni del capitalismo (olandese, inglese, statunitense) siano state

92
L. Paggi, Un secolo spezzato, Op. cit.
93
A. Locatelli, L’International Political Economy, in Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali, a cura di G.
J. Ikenberry e V. E. Parsi, Laterza, Roma-Bari, 2001.
94
Nell’opera “Il Mediterraneo all'epoca di Filippo II”, propone una suddivisione tripartita tra: una storia quasi
immobile, le cui fluttuazioni sono quasi impercettibili, che riguarda le relazioni tra l'uomo e l'ambiente; una
storia lievemente più mossa, la storia sociale, riguardante i gruppi umani; la storia effettiva, quella dell'agitazione
di superficie, politica e culturale.
95
Sistema che costituisce lo strato superiore delle economie di una certa area del mondo, i cui insediamenti siano
unti da stretti legami commerciali: «l’economia che abbraccia le monete e gli scambi, tende a creare una certa
unità[...] possiamo dedurre che in una economia mondo convergano una somma di spazi individualizzati
economici e non; essa rappresenta una superficie enorme(in linea di principio, la più vasta zona di coerenza, in
una certa epoca, per una data parte di globo)». Quindi una economia che ingloba spazi che si mantengono nel
tempo, dominata in maniera più o meno completa al centro da una sequela città capitalista, i cui primati si sono
susseguiti nel tempo e che gerarchizza lo spazio tra centro dominante, imitatori del centro e periferie, imponendo
una certa divisione internazionale del lavoro e una specifica forma di dominio politico.
F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (Secoli XV-XVIII). I tempi del mondo. Einaudi, Torino,
1982, pp. 3-26.
Da notare anche come Braudel abbia ridefinito le sue teorie anche sulla base della lettura data da Wallerstein
delle sue opere precedenti, p. 20.
96
Per l’influenza di Braudel in America si veda il volume 1/2001 della “Review” in particolare Rojas, Braudel’s
influence in the United States and Latin America.
21
precedute da una serie di transizioni egemoniche nel sistema delle città-stato italiane.97
Per Arrighi è molto rilevante anche l’apporto dell’opera di Wallerstein. Nei tre volumi de Il
sistema mondiale dell’economia moderna lo studioso statunitense espande le teorie
dependentiste all’intera storia moderna, abbandonando lo Stato-nazione come unità di analisi
fondamentale e descrivendo le relazioni internazionali nell’età moderna come «un sistema
mondo moderno», originatosi nel XV secolo in Europa e distinto dagli imperi-mondo
(centralizzati e basati sulla ridistribuzione delle risorse che dalla periferia giungono al centro
sotto forma, ad esempio, di contributi fiscali e da qui vengono poi ridistribuite). 98
Mentre sono, storicamente, esistiti più imperi-mondo, l'economia-mondo capitalista
affermatasi nel 1500 è una realtà unica, e corrisponde al nostro attuale sistema-mondo. Il
sistema risulta diviso tra stati centrali, periferici e semi-periferici: la periferia del sistema è
rappresentato dai paesi fornitori di materie prime e forza lavoro a basso costo per il centro
produttore di prodotti. Sono invece semi-periferici alcuni stati posti in una condizione
intermedia che beneficiano dello «scambio ineguale» con la periferia ma sono comunque
sottoposti a loro volta nei confronti del centro. 99
Il lieve accumulo di capitale avvenuto in alcuni paesi europei con la fine del feudalesimo,
insieme all’instabilità politica del Continente, gli ha permesso di evitare la strada della
creazione di un nuovo impero-mondo e invece d’instaurare e far perdurare per secoli il
modello dell’economia-mondo. 100

In sintesi, Arrighi aveva già individuato come elementi sistemici la necessità di una
analisi del capitale su scala globale e la gerarchia centro-periferia. In seguito agli scambi
intellettuali statunitensi si è trovato in linea con gli studiosi americani sui diversi punti:

1) Che il capitalismo sia una modalità per accumulare ricchezza e non un modo di
produzione.
2) Che la sua storia risalga alla fine del Medioevo e non alla Rivoluzione industriale.
3) Che sia segnato da diversi cicli egemonici, di nascita, affermazione e crisi di
egemonia, esercitata dal paese dominante sugli stati del sistema e sulla divisione
internazionale del lavoro, nel tentativo di plasmare entrambe a propria immagine.101

97
I tortuosi sentieri del capitale , Op. cit. , p. 38.
98
L. di Fiore, M. Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia, Laterza, Roma-Bari, 2011, Op. cit. , p. 19.
99
I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna, 1978.
100
G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista. Dalla Venezia del 1200 al mondo del 1939. Laterza, Roma-
Bari, 2012, Op. cit. , p. 59.
101
G. Cesarale, La lezione di G. Arrighi, Op. cit. , p. 17.
22
Arrighi ha successivamente proposto la seguente classificazione di vari studiosi
rispetto all’analisi del capitalismo:

102

Alla luce di ciò che ho precedentemente evidenziato, l’analisi del capitalismo di Arrighi si
sovrappone precisamente a quella di Braudel, qui sopra individuata: «Il capitalismo è un
modo di accumulazione e dominio; e i rapporti tra Stato e capitale vanno visti entro
l’economia-mondo storicamente definita, in cui vi sono stati che esercitano funzioni
egemoniche complessive».103

Tutte queste suggestioni e spunti confluiscono durante gli anni Ottanta nella ricerca
che Arrighi sta tracciando sulla crisi degli anni Settanta. Lo studioso la concepisce
inizialmente come un’analisi dell’ascesa, consolidamento e caduta della sola egemonia
capitalista statunitense, periodizzata come un «lungo ventesimo secolo» delimitato dalle crisi
economiche del 1873 e del 1973. Ma l’ascesa della reaganomics e la scoperta del concetto di
finanziarizzazione in Braudel spingono l’autore, su consiglio di Wallerstein, ad un progetto
differente.
Arrighi limita concettualmente la ricerca all’analisi dei processi superiori del capitalismo e
della formazione dello Stato ma la espande cronologicamente a tutto il periodo identificato
come formatore del sistema moderno in una ottica di lunga durata: dalla fine del Medioevo al
1991.
Le tesi del volume sono anticipate nel lungo articolo Le tre egemonie della storia del
capitalismo. In questo denso testo Arrighi descrive la storia moderna come una successione di
egemonie intese in senso gramsciano (categoria applicata da Gramsci a livello nazionale
nell’analisi dei rapporti di classe e ripresa a sua volta dalla concezioni di Machiavelli del
potere come combinazione di consenso e coercizione). Una potenza è egemone in quanto,
concentrando in sé una potenza economica e militare superiore agli altri stati, ha la capacità di

102
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo, Op. cit.
103
Ivi, p. 14.
23
coinvolgerli in una strategia di sviluppo basata su una divisione del lavoro condivisa. Il suo
predominio è percepito come vantaggioso e giustificato praticamente ed ideologicamente
dagli altri stati e da un blocco sociale a loro trasversale.104
Arrighi, al pari di Tilly, traccia la formazione del moderno sistema degli stati come
contemporanea ascesa dello Stato-nazione (Anderson) e del sistema capitalistico
(Wallerstein), in una alternanza di logiche territorialiste (volte al controllo delle risorse per
accrescere il dominio territoriale) e capitalistiche (volte al controllo del flussi per accrescere il
possesso di capitale). 105 Infine identifica le tre egemonie succedutesi a partire dal trattato di
Westfalia: olandese, britannica e statunitense.106
Dei numerosi temi del Lungo ventesimo secolo la tesi che tratto in questa discussione è quella
della periodizzazione del ‘900. Arrighi lo descrive come dominato dall’egemonia statunitense
(succeduto ad un lungo XIX secolo forgiato dall’egemonia britannica) e lo divide in tre
segmenti. Il primo è una lunga epoca di crisi che va dal 1870, anno in cui la Grande
depressione segna l’inizio della fine dell’egemonia britannica, agli anni Trenta in cui questa è
definitivamente sostituita da una compiuta egemonia statunitense. L’epoca successiva dura
fino al 1973, anno in cui l’abbandono del Gold Standard segna l’inizio della fine per
l’egemonia statunitense. Infine il periodo presente: una lunga fase di transizione egemonica
ancora oggi in prosecuzione.

107
l

104
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo, Op. cit. , p. 5.
105
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 55.
106
G. Arrighi, The three Hegemonies of Historical Capitalism, “F. Braudel Center Review”, XIII, 3, Summer
1990, pp. 365-408.
107
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 282.
24
La tesi si basa su un massiccio castello teorico, creato integrando diverse tesi e studi, volto a
spiegare da un lato la meccanica della successione delle transizioni egemoniche e dall’altro le
diverse forme con cui questa egemonia viene esercitata.
Il ragionamento di Arrighi parte da una rilettura del meccanismo dell’accumulo di capitale
D-M-D individuato da Marx. Per Arrighi la formula non descrive solo la logica del singolo
investimento capitalista ma anche il modello ricorrente del capitalismo a livello mondiale.
Questo attraversa due fasi: una prima in cui avviene una espandione materiale D-M, in cui il
capitale mette in movimento merci e persone e una seconda D-D, in cui l’accumulo avviene
attraverso le transazioni finanziarie stesse.108
La storia del capitalismo si compone quindi di un’alternanza di epoche di espansione
materiale e finanziaria. La logica del processo risiede nella concorrenza interstatale e nella
ricerca di profitto. Il successo di una modalità di espansione materiale (dato da nuovi
commerci, innovazioni tecnologiche, modalità di produzione e di organizzazione) aumenta la
concorrenza tra stati che cercano ogni volta di imitare e superare il modello dell’egemone.
La concorrenza aumenta, i profitti scendono a livelli troppo bassi per giustificare nuovi
rischiosi investimenti nell’economia materiale e si accentua la preferenza a mantenere la
liquidità del capitale, investendo in transazioni e creando così un’espansione finanziaria.
Diverse tesi confluiscono nella teoria di Arrighi. Riprende da Polanyi l’idea che l’haute
finance costituisca lo spazio di connessione del capitalismo a livello mondiale.
Utilizza le tesi di Weber per cui la concorrenza interstatale per il capitale mobile, mediante lo
strumento del debito pubblico, crea la possibilità di espansioni finanziarie. Connette la
proposta di Braudel che la fase di finanziarizzazione costituisca l’autunno dell’egemonia di
un certo Stato con il concetto marxiano che la decadenza di una potenza capitalista apra la
strada ad un nuovo Stato guida, presso il quale il capitale accumulato nel ciclo precedente si è
spostato mediante i meccanismi finanziari. L’autunno è completato da una primavera e tutti
gli sviluppi economici, le ascese e le discese nella gerarchia internazionale risultano così
interconnessi.109
La perdita dell’egemonia si accompagna ad un periodo definito di «caos sistemico»: politico,
economico e sociale, a cui la potenza emergente deve mettere fine oltre ad assumersi la guida
del processo di riproduzione del capitale.
Di transizione in transizione la potenza egemone ha aumentato la sua estensione geografica, la
sua efficienza economica e organizzativa, la capacità di governo del mercato globale.110

108
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 23.
109
I tortuosi sentieri del capitale, Op. cit. , p. 39.
110
G. Cesarale, La lezione di G. Arrighi, Op. cit. , p. 19.
25
111

Contrariamente a Wallerstein e più in linea con Braudel, Arrighi rintraccia questi


sviluppi nella formazione dei meccanismi produttivi e finanziari moderni nella Firenze del
Duecento, cui sarebbe succeduto un capitalismo dominato da Venezia e quindi da Genova (in
alleanza con l’Impero-spagnolo: ciclo iberico-genovese), per poi passare il testimone alla
successione delle tre egemonie, di cui sopra.
Wallerstein inoltre ritiene che le le transizioni egemoniche siano determinate da
trasformazioni esogene rispetto al capitalismo stesso, come la vittoria dell’Olanda nella
Guerra dei Trent’Anni e della Gran Bretagna nelle guerre napoleoniche. Anche su questo
punto Arrighi è in disaccordo e rimanda la spiegazione a fattori endogeni al capitalismo, che
creano l’ambiente internazionale in cui avvengono gli scontri armati per stabilire
l’egemonia.112
Nella sua visione, lo Stato-nazione dell’età moderna dispone di due strategie di potenza
alternative: territorialismo e capitalismo. La strategia territorialista vede il controllo su
popolazione e territorio come il fine e il capitale come il mezzo per ottenerlo. La strategia
capitalista ribalta questa relazione assumendo come fine il controllo sul capitale mobile
mediante il dominio delle risorse fisiche.113 Arrighi rintraccia nelle egemonie genovese e
veneziana i modelli di queste due modalità idealtipiche: dove Venezia fu il prototipo dello

111
G. Arrighi e Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Mondadori, Milano, 2003, p.141.
112
G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista, Op. cit. p. 63
113
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 57.
26
Stato capitalista che sfrutta la strategia territorialista, la nazione genovese (i finanzieri
genovesi che dominarono la finanza europea tra ‘500 e ‘600 gestendo il mercato dell’argento
americano e degli juros spagnoli) costituisce il prototipo della strategia capitalista.114
Nel corso della storia le due strategie vengono attuate contemporaneamente con diverse
possibili commistioni. A seconda di come i loro costi (di protezione, produzione, transazione
e riproduzione) sono internalizzati, cioè gestiti direttamente o meno dalla potenza egemone,
viene data vita a due distinte modalità di dominio egemonico: intensiva ed estensiva.
Nelle modalità intensive o «manageriali-nazionali» il sistema capitalistico mondiale non viene
espanso ma rafforzato e il dominio economico è esercitato da strutture ibride tra lo Stato e
l’impresa, come le collaborazioni Stato-privati a Venezia, le compagnie privilegiate olandesi e
le multinazionali statunitensi. Invece nei cicli estensivi o «cosmopoliti-imperiali», abbiamo
avuto le maggiori estensioni geografiche del sistema mondo capitalistico, corrispondenti ai
cicli iberico-genovese e britannico e si è impostata una più netta distinzione tra le funzioni di
Stato (imperiale) e d’impresa (cosmopolita).115

116

114
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 118.
115
G. Arrighi e Beverly J. Silver, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, in G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine
mondiale, a cura di G. Cesarale e M. Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010
116
Ivi. , p 152.
27
A seguito dei cicli iberico-genovese e olandese, quello inglese vide una Gran Bretgna grande
potenza territorialista-imperiale sostenere il liberismo economico e il free-trade, favorita dalla
Rivoluzione industriale (che modificò radicalmente le condizioni dell’attività economica), per
tutto il periodo definito come «il lungo XIX secolo».

Nella visione di Arrighi, il Novecento, corrispondente al quarto ciclo sistemico di


accumulazione, ha inizio nell’ultimo quarto del XIX secolo con la crisi spia dell’egemonia
britannica.117 La Grande depressione è il periodo in cui l’Inghilterra smette progressivamente
di reinvestire i propri capitali nello sviluppo industriale nazionale per utilizzarli in misura
crescente nell’investimento estero (in particolare negli Stati Uniti) e nell’intermediazione
finanziaria.
Si palesano sfide al modello economico britannico: le nuove organizzazioni economiche della
Germania e degli Stati Uniti basate sull’aggregazione delle unità produttive in grandi
organizzazioni verticali e orizzontali volte a controllare l’intero processo e l’intero settore
economico (trust e cartelli). Il modello che poi sarebbe risultato vincitore, quello delle
multinazionali statunitensi, recuperava elementi del modello olandese delle compagnie
privilegiate (anche se senza attribuirgli compiti di formazione dello Stato).118
La transizione egemonica statunitense ha inizio con il recupero delle attività nazionali di
proprietà straniera nel corso della prima guerra mondiale e la trasformazione da debitore
dell’Inghilterra a maggior creditore mondiale nel dopoguerra.
Il rifiuto di assumersi il peso della gestione politica ed economica mondiale causa la crisi del
’29 ma l’intervento vittorioso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale e le decisioni
prese a Bretton Woods (con cui gli USA creano le organizzazioni internazionali, come il
Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale, da loro controllate, che regolano il
sistema monetario internazionale) portano a costituire «un nuovo ordine mondiale, che aveva
il proprio centro negli Stati Uniti e che da questi ultimi era organizzato: differente sotto alcuni
aspetti cruciali dal defunto ordine mondiale britannico».119
Questi riguardavano il libero scambio, sostituito dalle trattative bilaterali e multilaterale, il
modello dell’investimento estero privato (multinazionali) come forma di circolazione del
capitale, la maggior estensione della potenza egemone (di grandezza continentale, superiore
all’estensione insulare britannica), la mancanza di un impero formale americano.120
Un’egemonia, almeno in teoria, compiutamente manageriale-intensiva.

117
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 283.
118
Ivi, p. 328
119
Ivi, p. 359.
120
Ivi, p. 363.
28
«Il capitalismo manageriale americano contribuì in misura determinante alla distruzione del
capitalismo di mercato britannico e alla centralizzazione negli Stati Uniti della liquidità del
potere di acquisto e della capacità produttiva dell’economia mondo. Ma [...] le imprese
manageriali americano furono incapaci di creare le condizioni delle propria autoespansione in
un mondo caotico».121
Secondo Arrighi l’impasse fu superato con la logica della guerra fredda. Una volta instaurata,
attribuendo la situazione di tensione mondiale alla sola presunta volontà di espansione
dell’Urss, permise di ricorrere ad un keynesismo militare di dimensioni gigantesche e di
ricalibrare l’obiettivo rooseveltiano di riforgiare il mondo a immagine degli USA nel più
ridotto sostegno economico agli alleati europei e giapponesi (Piano Marshall, sostegno alla
ricostruzione industriale del Giappone e al Mercato Unico Europeo).
«Gli anni cinquanta e sessanta del XX secolo, così come gli anni cinquanta e sessanta del XIX
secolo, costituiscono un’altra fase di espansione materiale (D-M) dell’economia-mondo
capitalista, cioè un periodo in cui i capitali eccedenti furono rigettati nel commercio e e nella
produzione di merci su scala sufficientemente massiccia da creare le condizioni di una
rinnovata cooperazione e divisione del lavoro tra le diverse organizzazioni governative e
imprenditoriali dell’economia-mondo capitalistica così come al loro interno».122
Anche in questa occasione sono le dinamiche stesse del sistema ad avviarne il disfacimento:
annuciato dalla crisi militare (guerra del Vietnam), finanziaria (limiti del modello di Bretton
Woods) e ideologica (crisi della crociata anticomunista) il suo declino si concretizzò con la
crisi degli anni Settanta, l’abbandono della convertibilità dollaro-oro del ’73, la fine dei bassi
tassi d’interesse sul debito estero del Terzo Mondo, le accresciute spese militari e il passagio
degli USA da massimo prestatore a massimo debitore mondiale, che costituirono i quattro
fondamenti del rilancio economico della reaganomics.123
In prospettiva la crisi spia degli anni Settanta è comparabile alla crisi spia della Grande
Depressione e gli anni Ottanta (epoca estesa in considerazioni successive anche agli anni
Novanta) costituiscono una nuova era di prosperità economica garantita dalla
finanziarizzazione, parallela alla Belle Epoque.124
È in questa fase, caratterizzata da un’economia ultra-liberista, basata sull’interdipendenza
globale dei mercati, l’abbattimento delle barriere commerciali e da un’idea di Stato non
interventista, che la primavera di un nuovo ciclo di accumulazione viene identificata nell’Asia

121
G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 385.
122
Ivi, p. 389.
123
Ivi, p. 392.
124
I tortuosi sentieri del capitale , Op. cit. , p. 58.
29
orientale, in quella che negli anni Novanta era l’area economica giapponese.125
Quando, nel 1994, Arrighi pubblica l’edizione inglese del Lungo ventesimo secolo, avverte
che questa fase dovrebbe sfociare in una crisi terminale, secondo la teoria dei cicli sistemici di
accumulazione. Gli Stati Uniti conservano una posizione di assoluta e storicamente
ineguagliata superiorità militare, dipendente però da un altissimo livello di indebitamento, per
cui la possibilità di conservarla dipende dal consenso di chi controlla la liquidità mondiale,
che in quegli anni è in gran parte nelle mani degli stati dell’Asia orientale.126
Al contempo Arrighi avanza una serie di riserve sul fatto che possa avvenire automaticamente
una transizione simile a quella delle epoche precedenti e sulla base del rapido avvicendarsi
delle vicende mondiali post 1991 ha rivisto più volte le sue tesi, in una trattazione di cui darò
conto nell’ultimo capitolo.

In definitiva, a fronte della periodizzazione chiusa di Hobsbawm, che vede il ‘900


definito da fenomeni che hanno uno sviluppo tutto interno al secolo stesso, la concezione
arrighiana, basata sull’avvicendamento dei cicli sistemici di accumulazioni (CSA), definisce il
Novecento, come le epoche precedenti, con una periodizzazione aperta.
La sua prima fase (1873-1930) può essere letta anche come fase terminale del XIX secolo, la
fase compiutamente egemonica è un breve quarantennio (1930-1973) e l’ultima (iniziata nel
1973), oltre a non essere tuttora conclusa, costituisce l’avvio di una nuova fase del sistema
capitalistico e delle relazioni internazionali, dalle caratteristiche ancora indeterminate.

125
A. Quattrone, L’eredità teorica di G. Arrighi.Un'analisi tra “Il Lungo XX° Secolo” e “Adam Smith a
Pechino”.
126
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo, Op. cit. , p. 9.
30
2. Il dibattito internazionale.

La discussione attorno al Secolo breve, divenuto rapidamente un instant classic,


autentico caposaldo della storiografia del Novecento, è estremamente ricca. Come ha scritto
Mariucccia Salvati: «un vero termometro della situazione storiografica nei vari paesi».127
Alimentati da un testo così ampio e ricco di spunti si sono accesi dibattiti intorno al metodo,
alla lettura economica, politica, delle relazioni internazionali e della cultura del Novecento.
In questo capitolo cercherò di dare voce ad alcuni interventi significativi del dibattito
anglosassone ed italiano su questo soggetto.

2.1 Il dibattito anglosassone su Il Secolo Breve.

Anche una rapida occhiata ai numerosi contributi critici anglo-americani non può non
cogliere il profondo apprezzamento per l’opera: costantemente viene riconosciuta ad
Hobsbawm una rara abilità a creare una grande storia di sintesi attingendo alla propria enorme
cultura, una capacità di padroneggiare in profondità storia politica, economica e culturale e a
presentare un’accurata e provocatoria, anche se ideologicamente orientata, lettura del
secolo.128

La tendenza all’autobiografismo e la sovrapposizione militanza politica-intellettuale


marxista sono un argomento tanto ovvio (affermato da Hobsbawm stesso) da non trovare
molte riflessioni di rilievo: chi lo vede come un limite insuperabile,129 chi riconosce
nell’opera un lavoro onesto che uno storico marxista deve aver trovato difficoltoso scrivere
nel post ’89,130 chi apprezza la distinzione dell’autore tra gl’insegnamenti di Marx come
universalmente validi e le strategie politiche da essi ispirate nel Novecento come
definitivamente sorpassate.131
La riflessione di maggior spessore è quella di Tony Judt. Pur riconoscendo ad Hobsbawm

127
M. Salvati, Il Novecento.Interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari, 2004.
128
«Un autore che volesse cimentarsi con una storia del mondo si troverebbe ad affrontare un labirinto
inestricabile. Il compito risulterebbe quasi impossibile. E. J. Hobsbawm ha scritto dunque un libro impossibile e
l’ha scritto in maniera superba». M. Lewin, L’Unione Sovietica e il mondo: l’influenza internazionale della
Russia tra mito e eraltà. in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S. Pons,
Carocci, Roma, 1998, Op. cit. , p. 59.
129
F. Fukuyama, The Age of Extremes: A History of the World, 1914-1991 by E. J. Hobsbawm, “Foreign
Affairs”, Vol. 74, No. 4 (Jul. - Aug., 1995).
130
N. Rich, The Age of Extremes: A History of the World, 1914-1991 by E. J. Hobsbawm, “The International
History Review”, Vol. 18, No. 1 (Feb., 1996), pp. 175-178.
131
V. Kiernan, Remembering the hard way, Op. cit. , pp. 214.
31
un’immensa onestà intellettuale, vede il punto debole delle sue analisi nella mancata
condanna della deriva autoritaria della Rivoluzione d’Ottobre, che «ha corrotto e saccheggiato
l’eredità radicale». Hobsbawm ha mantenuto una visione deterministica della storia: prima ha
affermato che l’Urss fosse destinata a trionfare, poi ha ribaltato il giudizio in un destino di
fallimentoma senza mai distaccarsi dall’alternativa di Rosa Luxemburg tra «socialismo e
barbarie».132
L’impostazione del libro - ampi capitoli tematici sugli aspetti economici, politici e culturali
del secolo organizzati attorno alla periodizzazione: Età della catastrofe, Età dell’oro, Età della
frana - riceve grande apprezzamento per la sua capacità di visione d’insieme, ma viene fatto
notare come cancelli persone, minoranze e comunità, schiacciate dalle grandi forze
impersonali che caratterizzano il pensiero di Hobsbawm.133 Norman Rich arriva a sostenere
che diversi passaggi del libro vadano presi sulla fiducia, vista la mancanza d’inquadramento
di diversi fatti storici rilevanti (ad esempio il contesto dei Trattati dei Versailles) quando
addirittura non la menzione dei fatti stessi.134
Non mancano le critiche allo scarso spazio dedicato, in un libro sull’Età degli estremi
all’Olocausto,135 ai gulag e ad altri atti di genocidio. Milward, sostiene che sulla base dei
cambiamenti al modello produttivo individuati dallo stesso Hobsbawm, sarebbe stato più
efficace chiudere la narrazione con gli anni Settanta.136 Arno Mayer pur condividendo l’idea
di un XX secolo caratterizzato dalla violenza, evidenzia come l’autore, con il suo approccio
tematico, separi in maniera troppo distinta per i diversi periodi, le questioni inerenti agli affari
esteri da quelle relative agli affari interni. Hobsbawm non riesce a stabilire un’ordine
d’importanza dei fenomeni, il che lo porta a risolvere questioni complesse, come le origini
delle guerre mondiali, con semplificazioni eccessive, senza nemmeno espandere interessanti
intuizioni sui nessi crisi economiche-guerre.137

Al di là delle questioni di metodo, la maggiore e più fondata critica di carattere


generale è quella di eurocentrismo. Con una impostazione fortemente economicista, che vede
il predomino americano ed europeo almeno fino agli anni Settanta, è facile parlare di «visone
neo-eurocentrica».138 La concentrazione sul conflitto capitalismo-socialismo porta a

132
T. Judt, E. J. Hobsbawm e il fascino del comunismo, Op. cit. , p. 126.
133
E. Said, Remembering the hard way, Op. cit. , p. 221.
134
N. Rich, The Age of Extremes: A History of the World, Op. cit.
135
A. Mayer, Intervento, in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S. Pons,
Carocci, Roma, 1998, Op. cit. , p. 33.
136
A. Milward, Intervento, in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S.
Pons, Carocci, Roma, 1998, Op. cit. , pp. 34-37.
137
A. Mayer, Intervento, in L’età degli estremi, Op. cit. , pp. 27-31.
138
A. Milward, Intervento, in L’età degli estremi, Op. cit. , p. 38.
32
considerare la decolonizzazione, a cui pure sono dedicate numerose pagine, come mero
epifenomeno di questo confronto e a non considerare le esperienze politiche del Terzo Mondo
se non come imitazioni malriuscite della politica Occidentale, di cui è un chiaro esempio la
liquidazione come «lunatica» delle politiche maoiste. Il risultato è d’incapacitare l’autore a
decifrare l’ascesa dell’Asia nell’ultimo quarto di secolo.139
Le grandi perdite umane, in guerre, genocidi, fame e migrazioni del mondo non-occidentale
nel dopoguerra sono state inoltre tali da mettere in crisi la nozione di una Età dell’oro
generalizzata.140 Anche limitando il benessere all’Occidente e al Blocco orientale, la guerra
fredda dominò quasi ogni aspetto della vita delle persone con il rischio della guerra atomica,
la corsa agli armamenti e la competizione esasperata tra le superpotenze.141
Ancora su questo punto è fondamentale la critica di Edward Said. Secondo l’autore di
Orientalismo, i giudizi estremamente misurati di Hobsbawm sulla maggior parte delle
questioni del secolo, risultano per contrasto, «inquietanti» quando questo va a parlare di
questioni relative al mondo non-occidentale. Sostendendo che le sue arti e la sua cultura nel
XX secolo manchino di originalità e siano integralmente derivate dall’Occidente tramite i
percorsi d’imitazione del modello dell’ovest da parte delle élites orientali e africane, l’autore
dimentica completamente la lezione del gruppo dei Subaltern Studies sulle resistenze e le
risposte originali delle masse alla colonizzazione culturale.
Il risultato è una costante sottovalutazione delle politiche nazionaliste di questi paesi, i cui
movimenti politici sono relegati a livelli «pre-politici». Hobsbawm li giudica sempre sulla
base dell’aderenza o meno ai canoni della lotta politica occidentale, con il risultato di non
poter spiegare adeguatamente i fenomeni di «religione politicizzata» nelle religioni
abramitiche e in molte altre fedi, ormai dirompenti alla fine del secolo: curioso «punto cieco»
nota Said, per uno studioso che ha inventato il concetto di invenzione della tradizione.142

Le analisi e le critiche dell’opera come studio dell’economia si concentrano sulle


traiettoria del capitalismo e sul passaggio dall’economia fordista dell’Età dell’oro
all’economia liberista. In generale Benjamin Schwarz critica la scarsa originalità della
tendenza distruttrice-creatrice del capitalismo, ripresa da Shumpeter, che emerge dalle pagine
del testo. Hobsbawm ha un approccio deterministico nello spiegare la nascita e il declino della
produzione di massa in Occidente e il rifiorire dell’economia transnazionale, non

139
R. A. Palat, The Age of Extremes: A History of the World, 1914-1991 by Eric Hobsbaw, “ Journal of World
History”, Vol. 8, No. 1 (Spring, 1997), Op. cit. , pp. 180-181.
140
N. Rich, The Age of Extremes: A History of the World, Op. cit. , p. 176.
141
M. E. Sharpe, The Age of Extremes, “Challenge”, Marzo/aprile 1997, p. 12.
142
E. Said, Remembering the hard way, Op. cit. , pp. 220-221.
33
considerando adeguatamente la circolarità tra forze sociali, politiche ed economia
internazionale che determina l’evoluzione del capitalismo.143 Hobsbawm risulta
eccessivamente nostalgico dell’economia del trentennio dell’Età dell’oro e delle sue istanze
redistributive, arrivando ad inventare una crisi inesistente negli anni Novanta, senza valutare
come l’economia si sia ristrutturata per uscire dalla condizione d’inefficienza del fordismo.
Identificando crescita economica e fordismo non vede come ineguaglianza sociale e crescita
economica possano e riescano a procedere parallelamente.144
Inoltre non considera adeguatamente il ruolo dell’impresa transnazionale, con cui gli USA
hanno costruito il loro «impero informale nel dopoguerra, basato non sul dominio diretto ma
sull’adeguamento delle economie nazionali ai bisogni del capitalismo trans-nazionale».145
Conclusioni simili sono lapidariamente espresse da Fukuyama che accusa Hobsbawm di
«cecità» nel cercare una crisi inesistente e richiedere il ritorno a pratiche sorpassate, vera
origine delle crisi economiche.146 Le stesse considerazioni, viste da sinistra da Mann,
inducono invece Hobsbawm ad un positivo attaccamento al modello dei trenta gloriosi e ad
una critica spietata del modello neo-liberista.147
Interessante la tesi di Genovese, che vede in queste posizioni l’approdo finale di una lunga
riflessione dell’autore, per cui l’economia mista sarebbe un esito moralmente ed
economicamente preferibile alle alternative idealtipiche capitalismo-socialismo.
La sinistra del nuovo millennio dovrebbe lottare per una sua versione di corporativismo
sociale, capace di ridurre la disuguaglianza e far circolare maggiormente le élites.148
Sul crollo del ruolo dello Stato nell’economia rimarcato nel volume, Michael Mann sostiene
una sopravvalutazione da parte di Hobsbawm del grado di transnazionalizzazione
dell’economia non finanziaria e della possibilità di perdita di centralità economica dello Stato
(con particolare riferimento ai paesi dell’Asia orientale).149
Schwarz accetta invece la posizione di Hobsbaw ma porta avanti un ragionamento per cui
questa assenza di regolamentazione condurrà ad una situazione di estrema fragilità del
capitalismo stesso e al ritorno a nuove forme di controllo statale dell’economia.150

143
B. Schwarz, The Long and the Short of It: The Twentieth Century and Capitalism's Triumph: And
Tragedy,The Age of Extremes: A History of the World, 1914-1991 by E. J. Hobsbawm , “World Policy Journal”,
Vol. 12, No. 3, Fall, 1995, pp. 90-91.
144
Ivi, Op. cit. p 91-92
145
R. A. Palat, The Age of Extremes,cit. , p. 181.
146
F. Fukuyama, The Age of Extremes, Op. cit. , p. 130.
147
M. Mann, As the Twentieth Century Ages, “New Left Review”, I/214, November-December 1995, pp. 113-
114.
148
E. D. Genovese, The Squandered century ,”The New Republic”, Aprile 17, 1995, Op. cit. , p. 42.
149
M. Mann, As the Twentieth Century Ages, Op. cit. , pp. 117-118.
150
B. Schwarz, The Long and the Short of It, Op. cit.
34
In merito alla ricostruzione del confronto politico tra capitalismo e comunismo e
quindi internazionale tra l’Urss, le potenze fasciste e il mondo libero, Hobsbawm riceve
numerose prevedibili critiche di eccessiva simpatia e sbilanciamento nei confronti dell’Urss
ma anche diversi apprezzamenti per la sua ricostruzione, tra i quali il più comune è quello di
aver demistificato la guerra fredda. Lungi dal rappresentare una guerra tra il Bene e il Male
questa fu caratterizzata da «sbandamenti irrazionali e compiaciuti, folle spreco di risorse,
retorica impoverente e corruzione ideologica specialmente negli USA».151
Individuando il filo conduttore della quadrilogia sulla storia contemporanea nella diffusione
nel mondo dei «frutti ideali e materiali dell’Illuminismo» originatosi dall’Europa, Chase
rimarca come anche il materialismo storico sia uno di questi e apprezza la difesa di
Hobsbawm del comunismo sovietico contro i tentativi di accomunarlo all’esperienza fascista.
I due rami separati dell’Illuminismo, liberalismo e socialismo, si sarebbero riuniti nella lotta
contro le forze anti-illuministe, ultime portatrici delle istanze reazionarie originatesi in
opposizione alla Rivoluzione francese.152
Una tesi che troverebbe d’accordo anche Arno Mayer se questo non rimarcasse, nel solco dei
suoi studi,153 una scarsa considerazione del ruolo delle èlites dell’Antico Regime nel
diffondere le politiche anti-rivoluzionarie nelle classi medie.154 L’idea dell’irrazionalità e
dell’oscurantismo della politica fascista non convincono alcuni studiosi che rimproverano ad
Hobsbawm di non aver svolto un’adeguata analisi delle più potenti componenti di questa
ideologia: il nazionalismo e il razzismo. Oltre alla già citata scarsa considerazione per
l’Olocausto, si fa poi notare come il nazionalismo stesso sia stato un elemento di grande peso
anche nei paesi comunisti particolarmente durante la Grande Guerra Patriottica e le guerre di
liberazione nazionale in Asia.155

Per completare questa panoramica meritano qualche accenno le osservazioni circa le


capacità o meno di previsione dell’opera. Hobsbawm affida la sua visione alquanto cupa della
situazione presente e futura ad un ultimo capitolo: Verso il Terzo Millennio. Mayer trova
queste pagine utili nel mettere in guardia i lettori dalle prospettive d’instabilità, insicurezza e
fallimento incombenti, ma eccessive nel considerare catastrofiche crisi che il sistema
internazionale affronta continuamente nel suo costante ridefinirsi.

151
E. Said, Remembering the hard way, Op. cit. , pp. 219.
152
B. Chase, Remembering the hard way, Op. cit. , pp. 214-216.
153
A. Mayer, Il potere dell’Ancienne Regime, Op. cit.
154
A. Mayer, Intervento, in L’età degli estremi, Op. cit. , p. 32.
155
N. Rich, The Age of Extremes, Op. cit. p. 177
35
Un sicuro elemento di critica, che si ricollega alla tematica dell’eurocentrismo, è l’incapacità
di Hobsbawm di dire qualcosa di rilevante sull’ascesa della Cina. Estremizzando si afferma
che semplicemente non consideri gli elementi che contraddicono la sua visione catastrofica
dell’economia liberista,156 quindi pur decifrando le cause del declino europeo, non offre
spiegazioni, se non dei cliché, per l’emergere in Asia di un nuovo centro di accumulazione
capitalista.157 Più misuratamente, si fa notare come nella sua analisi la diffusione della
manifattura tramite la globalizzazione avrebbe colmato il divario d’industrializzazione tra le
varie parti del mondo ma non quello di reddito tra Nord e Sud del mondo mentre invece è
esattamente questo l’aspetto su cui le economie asiatiche stanno lavorando con successo.
Un apprezzamento finale viene da tutti quelli studiosi che ritengono valide le ragioni addotte
da Hobsbawm per un futuro crollo del capitalismo predatorio degli ultimi decenni: tale
sarebbe il livello di soprusi e di stupidità da questo dimostrato, da farlo risultare essere il
miglior alleato per un futuro ritorno del socialismo.158
Concludo con l’osservazione di Mayer, ispirata ad un passo del Secolo breve, sull’inquietante
similitudine tra la situazione degli studi economici negli anni precedenti alla crisi del ’29 e
quelli attuali (l’intervento è del 1998): «È forse oltraggioso suggerire che abbiamo una
povertà simile nell’odierna teoria economica, che cerca di dare un senso al capitalismo
contemporaneo, adesso chiamato “economia di libero mercato”: la stessa povertà di teoria e di
analisi che penso abbia contribuito a determinare quel periodo di turbolenze e disastri senza
pari che furono gli anni Trenta e successivi?».159
Una chiara testimonianza dell’acuta premonizione di Hobsbawm sull’insostenibilità delle
politiche economiche del neo-liberismo.160

In sintesi: il dibattito in lingua inglese ha conferito uno status accademico elevato


all’opera di Hobsbawm. Ne ha lodanto l’ampiezza tematica, l’erudizione e la proposta di
periodizzazione mentre l’innegabile rilievo dell’impianto marxista non è stato in generale
visto come un limite invalidante. Giudizi molto contrastanti sono stati rivolti alla lettura
negativa del passaggio dal fordismo all’economia finanziarizzata. Invece forti critiche sono
state riversate sulla mancata analisi di alcuni fenomeni, come quello dei genocidi, sul taglio
eurocentrico del volume, sulla scarsa analisi del ruolo della Cina e sul pessimismo riguardo il
futuro dei capitoli finali.

156
F. Fukuyama, The Age of Extremes, Op. cit.
157
R. A. Palat, The Age of Extremes, Op. cit. , p. 181.
158
E. D. Genovese, The Squandered centur, Op. cit. , p. 42 e M.E.Sharpe ,The Age of Extremes, Op. cit. , p. 127.
159
A. Mayer, Intervento, in L’età degli estremi, Op. cit. , p. 33.
160
A. Mayer, Intervento, in L’età degli estremi, Op. cit. , p. 32.
36
2.2 Il dibattito italiano su Il Secolo breve.

Il dibattito italiano sul Secolo breve, pubblicato nel 1996, procede su linee simili a
quelle anglosassoni ma con un interesse molto minore per l’aspetto economico e la storia del
capitalismo e una focalizzazione maggiore sulle vicende del comunismo e dell’Urss,
riflettendo così le tensioni storiografiche del periodo di ridefinizione post-ideologico degli
anni Novanta.

Un primo elemento da segnalare è come il titolo italiano Il Secolo breve faccia perdere
completamente la parte relativa a l’Età degli estremi: Secolo breve nell’edizione inglese è solo
la specificazione di Age of extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991 e una lettura
attenta rivela come la nozione di estremo nei fenomeni novecenteschi sia quella di maggior
rilievo piuttosto della brevità cronologica.161
La periodizzazione e le tematiche dell’opera ricevono in Italia apprezzamenti e critiche.
Salvatore Lupo riconosce all’impostazione di Hobsbawm una forte personalità e coerenza
interpretativa, capace di portare avanti le tematiche della trilogia sull’Ottocento e analizzare le
specificità del Novecento162 mentre al contrario Sofri segnala come la periodizzazione del
secolo «chiuso e compatto nei suoi confini» porti a privilegiare gli elementi di rottura rispetto
a quelli di continuità, rendendola più che altro una storia del comunismo nel XX secolo.163
Su questo punto Agosti fa notare come l’accettazione della periodizzazione di Hobsbawm
dipenda molto dalla consapevolezza diffusa della cesura storica dell’89 nella mente dei
contemporanei: uno sguardo retrospettivo potrebbe portare a considerare maggiormente
elementi diversi e favorire periodizzazioni alternative.164
Una critica simile, più articolata, è espressa da Ventura che afferma la difficoltà a conciliare
gli obiettivi interpretativi e divulgativi dell’opera. Pur trovando che la periodizzazione 1914-
1991 s’imponga con la forza dell’evidenza, esprime gravi perplessità circa la divisione in tre
periodi adottata da Hobsbawm. In particolare la divisione in due Età del secondo dopoguerra
tralascia diversi fenomeni di lungo periodo avvenuti nel mondo non-occidentale ed è troppo
fissata sulla crisi degli anni Settanta, non paragonabile per gravità a quelle precedenti.165
È invece su linee nettamente critiche dell’impostazione dell’opera Vivarelli, che trova i
capitoli tra loro sconnessi e incapaci di far emergere un discorso unitario. Troppe apodittiche

161
F. de Felice, Intervento in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S. Pons,
Carocci, Roma, 1998, p. 41.
162
S. Lupo, Lupo legge Hobsbawm ,” Storica” , n°3, 1995, Op. cit. , pp. 160-161.
163
G. Sofri, Il secolo breve, “Passato e Presente”, N°37 gennaio/aprile 1996, p. 25.
164
A. Agosti, Il secolo breve, “Passato e Presente”, n°37, gennaio/aprile 1996, p. 15.
165
A. Ventura, Il Breve Secolo XX di Hobsbawm, “Rivista Storica Italiana “, Anno CX, fascicolo III, 1998.
37
affermazioni dell’autore sostituiscono spiegazioni di fatti complessi che dovrebbero essere
necessariamente più articolate.166
Un elemento paradossale della periodizzazione è costituito dall’osservazione che il XX secolo
è definito dal fenomeno del comunismo che si è esaurito al suo interno. Nessuna delle
principali riflessioni di Hobsbawm risulta quindi davvero utile per una interpretazione del
XXI secolo. Sarebbe meglio considerare maggiormente aspetti periodizzanti, prima meno
evidenti ma oggi rilevanti, come la contrapposizione tra i seguaci del liberismo puro e i
sostenitori dello Stato sociale con finalità redistributive.167

Sempre Vivarelli muove diverse dure critiche a Hobsbawm su una serie di aspetti
chiave del libro. La principale è la chiave di lettura materialistica dell’autore, che schiaccia il
ruolo delle persone e dei fattori spirituali nella storia, fondamentali nella visione di
Vivarelli:168 un materialismo che costituisce una delle maggiori perdite della civiltà nell’Età
contemporanea.169 Questa visione è alla base della separazione concettuale tra Rivoluzione
francese e Rivoluzione industriale, che Hobsbawm nei suoi volumi precedenti collega in
maniera assolutamente superficiale, assuemendone poi come naturale sviluppo la Rivoluzione
Russa mediata dal giacobinismo per la politica e il neo-liberismo per l’economia.170
Questo spiega perché nessuno dei suoi libri presenti un’analisi autonoma del liberalismo.
«Non sorprende pertanto, che una democrazia disgiunta dalle istanze liberali e tanto poco
preoccupata di garantire i diritti e e le libertà individuali, riconosca il proprio modo di
attuazione solo nel socialismo marxista. Avviene così che le due rivoluzioni arrivino ne presto
a scindersi e anzi ad entrare tra loro in conflitto, capitalismo contro socialismo, economia
contro politica».171
L’economia in particolare viene vista come «scienza tetra»,172 automaticamente identificata
con il liberismo, dimenticando le istanze morali e democratiche dei fondatori della disciplina.
Enzo Traverso riassume così il dibattito su lungo periodo, continuità e rotture: «Il Secolo
breve osserva la storia al telescopio. In questo testo Hobsbawm adotta un approccio
braudeliano nel quale la lunga durata assorbe l’evento. I momenti cardine di un secolo di
cataclismi sono passati in rassegna come i pezzi di un tutto, raramente colti nella loro
singolarità. Si tratta tuttavia di un’epoca segnata da rotture improvvise e impreviste, da svolte

166
R. Vivarelli, Il secolo che muore,”Rivista Storica Italiana “, Anno CX, fascicolo III, 1998.
167
Alberto De Bernardi, Le rilevanze storiografiche del ‘900, http://www.bibliolab.it.
168
R. Vivarelli, “ Il secolo che muore”, Op. cit. , p. 1050.
169
Ivi, pp. 1069-1070.
170
Ivi, p. 1054.
171
Ivi, p. 1057.
172
Ivi, p. 1055.
38
cruciali irriducibili alle loro cause, da cambiamenti in direzioni che non discendevano
meccanicamente da nessuna delle tendenze di lunga durata».173

Anche la critica italiana dibatte l’argomento dell’eurocentrismo di Hobsbawm su cui


ho già citato la posizione di Traverso. Gianni Sofri chiarisce come l’eurocentrismo non vada
inteso come maggiore o minore attenzione alle vicende delle varie parti del mondo, ma come
punto di vista sulla storia: «È difficile pensare che un cinese, un indiano o un giapponese
possa condividere la usa periodizzazione della storia contemporanea». 174
Nicola Gallerano trova deprecatori i toni con cui Hobsabwm analizza i movimenti politici a
sfondo nazionalista del mondo non-occidentale durante la decolonizzazione (arrivando a
definire irrazionali le pretese di costruire nuove entità statali).

Se l’Età della catastrofe viene comunemente accettata nella sua natura appunto
catastrofica, piovono invece le osservazioni e le critiche sul validità delle nozioni di Età
dell’oro e di Età della catastrofe. Ad Agosti la prima appare tale solo se posta in
contrapposizione alla seconda, troppo appiattita sulle fortune del capitalismo e i
miglioramenti dello stile di vita in una ristretta parte del mondo. Non considera l’oppressione
imperante nel Blocco sovietico e la violenza politica generata dalla guerra fredda, che
imperversa nel Terzo Mondo in quegli anni.175
Questa argomentazione viene ripresa in simili termini economici e politici anche da
Ventura,176 mentre Vivarelli attacca la natura stessa dell’idea di progresso come mera crescita
materiale senza riguardo per le forze morali e Melograni non trova corretto posizionare in
quel periodo la fine della storia millenaria dell’economia e della società agricole, che sarebbe
meglio porre all’avvio della Rivoluzione industriale.177
Il ruolo degli USA in questo periodo è per Franco de Felice fortemente sottovalutato. Il loro
peso è tale (si può parlare giustamente di secolo americano) che sono in larga parte le
dinamiche interne ed esterne degli USA a condizionare la storia della guerra fredda.178
Procacci contesta ad Hobsbawm la tesi dell’abbandono da parte di Truman del grand design
roosveltiano di ricostruzione post-bellica visto che, in un contesto ben più difficoltoso di

173
E. Traverso, Un Secolo Armato, Op. cit.
174
G. Sofri, Il secolo breve, Op. cit. , p. 27.
175
A. Agosti, Il secolo breve, Op. cit. , pp. 16-17.
176
A. Ventura, Il Breve Secolo XX di Hobsbawm, ”Rivista Storica Italiana “, Anno CX, fascicolo III, 1998, Op.
cit. , p. 1078.
177
P. Melograni, Il Secolo breve e i mali del comunismo, “Nuova Storia Contemporanea”, n° 2/2001, Op. cit.
p.11
178
F. de Felice, Intervento, Op. cit. , pp. 44-45.
39
quello prospettato, gli USA favorirono largamente gli alleati, anche a proprio danno.179
L’ultimo periodo, l’Età della frana, viene accusato da più autori di eccessivo catastrofismo: 180
i dati economici non consentono di parlare di una caduta dell’economia dopo il 1970 e anche
se si può parlare di una crisi economica, questa non ha nessuna somiglianza con le crisi
veramente gravi della storia, come il crollo del ’29.181
Anche la crisi irreversibile degli stati nazionali viene contestata, ad esempio da De Felice, che
fa notare come questi abbiano possibilità per opporsi ad una erosione delle loro capacità
d’azione, ad esempio la formazione della CEE.182
Resta probabilmente valida la tesi di Lupo che i giudizi di Hobsbawm sulle tendenze degli
ultimi anni del Novecento debbano ancora trovare conferma negli eventi a venire.183

Sulla considerazione delle vicende del comunismo e dell’Urss, Hobsbawm raccoglie i


giudizi più duri. Melograni lo accusa esplicitamente di non riuscire ad avere un atteggiamento
oggettivo nei loro confornti e di occultarne i crimini, addossando i delitti del secolo ai soli
regimi fascisti,184 senza mai indagare sulle somiglianze tra fascismo, nazismo e comunismo e
sul ruolo della Rivoluzione Russa nella nascita dei primi.185
Ventura lo trova condizionato da preconcetti, sopratutto nello spiegare la politica estera
dell’Urss. Hobsbawm trova per ogni scelta controversa una spiegazione di Realpolitik e
addossa l’intero peso dello scoppio della guerra fredda agli Stati Uniti.186 Sullo stesso punto
Agosti rileva l’inconsistenza della tesi di una situazione di libertà e multipartitismo nei paesi
dell’Est dopo il ’46.187 Vivarelli invece lamenta che non vengano considerati gli effetti
distorsivi che il conflitto ebbe sulla vita pubblica dei paesi occidentali.188
Un’altra tesi molto contestata è quella del rapporto stretto tra la sfida politica ed economica
dell’Unione Sovietica e le riforme economiche del secondo dopoguerra che portarono al
Welfare State e all’economia mista. L’influenza dell’Urss in questo campo poteva essere
esistita ai tempi della crisi del’29 (contemporanea all’industrializzazione forzata stalinista),
ma fu inesistente o comunque più mitica che altro nel dopoguerra.189 La riforma del ruolo

179
G. Procacci, Intervento, in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di S.
Pons, Carocci, Roma, 1998, Op. cit. , p. 43.
180
A. Ventura, Il Breve Secolo XX di Hobsbawm, Op. cit.
181
G. Procacci, Intervento, Op. cit. , p. 21.
182
F. de Felice, Intervento, Op. cit. , p. 45.
183
S. Lupo, Lupo legge Hobsbawm, Op. cit. , p. 164.
184
P. Melograni, Il Secolo brevee i mali del comunismo, Op. cit. , pp. 12-13.
185
R. Vivarelli, Il secolo che muore”, Op. cit. , p. 1048.
186
A. Ventura, Il Breve Secolo XX di Hobsbawm, Op. cit. , pp. 1081-1083.
187
A. Agosti, Il secolo breve, Op. cit. , p. 17.
188
R. Vivarelli, Il secolo che muore, Op. cit. , p. 1048.
189
G. Procacci, Intervento, Op. cit. , p. 17.
40
dello Stato nell’economia era già iniziata negli anni Trenta e attraversava trasversalmente
democrazie, regimi fascisti e comunisti.190 Nel corso del dopoguerra il mondo libero s’ispirò
probabilmente più al modello tecnocratico e corporativista dei fascismi che a quello
collettivista sovietico e i tentativi più audaci di riforma avvennero nei paesi meno
direttamente minacciati dall’Urss, come gli USA e la Scandinavia.191
Per Gallerano si nota come nell’opera il crollo dell’Urss risulti connesso con il progressivo
sgretolarsi della possibilità di un governo dell’economia mondiale, ma sia causato
essenzialmente da motivi interni: l’impossibilità per il sistema sovietico di passare dalla
produzione di massa alla società dei consumi,192 l’aver vinto la sfida della modernizzazione
ma non quella della redistribuzione della ricchezza. Hobsbawm fa una serie d’interpretazioni
corrette, ma non riesce a integrarle, quasi sottintendendo che l’una sia il costo dell’altra.193
Un’ultima riflessione sulla periodizzazione costruita attorno alle vicende dell’Urss è offerta da
Pons e De Felice: il primo rileva come l’Urss non uscì mai ideologicamente dall’Età della
catastrofe, rimanendo ancorata ad un concetto di potenza internazionale legato
eccessivamente al ruolo della guerra. Quando i suoi leader si accorsero che il mondo era
cambiato non poterono fare altro che accompagnare la superpotenza alla dissoluzione. Sempre
per questo motivo il movimento comunista perse progressivamente le sue capacità analitiche e
propositive a partire dal dopoguerra.194
Il secondo nota come la crisi dell’Unione Sovietica costituisca contemporaneamente il
termine della periodizzazione basata sul comunismo e un momento di passaggio nella
periodizzazione, ugualmente ricavabile da Hobsbawm, della globalizzazione.195

Nonostante un certo apprezzamento per l’opera, gli studiosi italiani gli hanno mosso una serie
di critiche e accuse di lacunosità piuttosto pesanti. Gli strascischi della guerra fredda si sono
fatti sentire particolarmente nei puntigliosi attacchi alle considerazioni di Hobsbawm sulle
vicende di Urss e USA. La critica più originale è risultata essere quella di Vivarelli, che ha
analizzato le conclusioni di Hobsbawm come derivanti dalle sue convinzioni ideologiche.

190
N. Gallerano, Il secolo breve, “Passato e Presente”, N°37, gennaio/aprile 1996, p. 21.
191
A. Agosti, Il secolo breve, Op. cit. , p. 18.
192
S. Lupo, Lupo legge Hobsbawm, Op. cit. , p. 163.
193
N. Gallerano, Il secolo breve, Op. cit. , p. 23.
194
S. Pons, Il Comunismo nell’età degli estremi, in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo
breve, a cura di S. Pons, Carocci, Roma, 1998, Op. cit. , p. 81.
195
F. de Felice, Intervento, Op. cit. , p. 42.
41
2.3 Alcune osservazioni di Hobsbawm.

In un suo intervento reperibile nel già citato volume L’Età degli estremi. Discutendo
con Hobsbawm del Secolo breve, Hobsbawm risponde a diverse delle critiche e osservazioni
mossegli da vari studiosi italiani e anglo-americani che ho precedentemente riassunto.196
Riporto alcune di queste osservazioni chiarificatrici, utili per completare questa trattazione dei
contribuiti critici alla sua opera:
1. Il titolo The Age of extremes era volto unicamente a esprimere la complessità e il
superamento di ogni record, positivo e negativo nel Novecento, senza esprimere
giudizi morali.
2. La nozione di Secolo breve deriva da scelte interpretative non di principio. Hobsbawm
accetta pacificamente periodizzazioni alternative (come quella di Giovanni Arrighi ivi
citata).
3. Hobsbawm difende la sua nozione di Età dell’oro e di predomino occidentale nello
stesso periodo, ma riconosce di aver sottovalutato gli sviluppi dell’Asia orientale,
ancora poco evidenti mentre negli anni Ottanta stava componendo il volume.
4. Sull’Età della frana riconosce che sia il ’73 che l’89 hanno un’importanza
fondamentale nel definire i caratteri della crisi presente: una crisi che non implica
tanto un collasso del capitalismo quanto una situazione di debolezza sociale, culturale
e politica. La sua origine sta nei profondi cambiamenti del processo produttivo che
stanno progressivamente riducendo il lavoro diretto delle persone e di conseguenza
modificando i meccanismi della distribuzione del reddito.
5. Sull’origine della guerra fredda ribadisce le sue tesi e riconferma le sue affermazioni
sul basso livello di proiezione internazionale rivoluzionaria dell’Urss: la scomparsa
della fede nella rivoluzione mondiale come compito dell’Unione Sovietica sarebbe
stata anzi una causa rilevante del suo crollo.
6. Riconosce di non aver trattato adeguatamente e sistematicamente il ruolo degli USA,
ma per un’assunzione di fatto del peso di questa nazione nelle vicende del Novecento,
non per averlo sottovalutato storicamente.
7. Ribadisce le motivazioni del suo pessimismo: il crollo del ruolo dello Stato, l’assenza
di un sistema internazionale, l’insicurezza diffusa nel mondo post ’89.

196
E. J. Hobsbawm, Conclusioni, in L’età degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del Secolo breve, a cura di
S. Pons, Carocci, Roma, 1998, Op. cit. , pp. 117-130.
42
Il Lungo ventesimo secolo di Giovanni Arrighi ha avuto anch’esso un’ampia, anche se
più specialistica, fortuna critica. Riconosciuto nel contesto anglosassone come una delle
massime contribuzioni alla World System Analysis, costituisce un contributo teorico rilevante
per tutti gli studi di World History. Molto più scarsa e tardiva è stata la ricezione in Italia,
dove l’opera di Arrighi, citata frequentemente ma poco analizzata, non gode dello stesso
status di riferimento teorico per la sociologia storica-comparativa.

2.4 Il dibattito anglosassone sul Lungo ventesimo secolo.

«Nella miglior tradizione della macrosociologia storica, Arrighi sintetizza abilmente e riassume i
risultati teorici di un largo numero di scienziati di sociologia storica. La forza dell’opera risiede nella
storicizzazione operata da Arrighi per la crisi presente e nella sua percettiva (e persuasiva) analisi delle
contraddizioni di lunga durata del capitalismo. Anche se si possono trovare altamente problematica la
focalizzazione di Arrighi sull’alta finanza, sfortunata la poca considerazione per il conflitto di classe e la
periferia e decisamente pessimistiche le sue conclusioni, la struttura teorica che ha sviluppato è
un’indispensabile contributo per lo studio del capitalismo storico nella lunga durata e per la comprensione
del presente come storia».197

Questa citazione di Jason W. Moore riassume molti dei punti discussi nel dibattito
intercorso su riviste di sociologia, di World History e di area politica di sinistra sull’opera di
Arrighi. Per comodità analitica procederò a discutere alcune critiche di carattere generale,
seguite dalle osservazioni sugli aspetti economici e politici della teoria arrighiana dei cicli
sistemici di accumulazione (CSA), per concludere con una sintesi del dibattito Pollin-Arrighi
avvenuta sulle pagine della “New Letf Review”.
Le caratteristiche di «sintesi teorica e di apertura mentale»198 dell’opera ricevono un generale
apprezzamento. Il fatto che Arrighi abbia ripreso contributi dagli autori più diversi anche in
maniera molto selettiva, integrandoli nel suo disegno di ricerca in un «ri-confezionamento
sintetico»199 non costituisce un limite delle sue tesi, che risultano al contempo originali e
familiari agli studiosi, ancorate ad una serie di teorie ben note.

Il titolo dell’opera, Il lungo ventesimo secolo. Denaro, potere e le origini del nostro
tempo, chiarisce come il libro analizzi le modalità con cui il capitalismo ha influenzato il
Novecento. Inganna però sui limiti cronologici della ricerca, di cui solo la parte finale tratta

197
J. W. Moore, Capitalism over the Longue Duree: A Review Essay, “Critical Sociology”, n° 23, 1997, p. 115.
198
J. A. Hall, The Long Twentieth Century: Money, Power, and the Origins of Our Times by G. Arrighi, The
British Journal of Sociology, Vol. 47, No. 4 (Dec., 1996), p. 718.
199
W. R. Thompson, The Long Twentieth Century: Money, Power and the Origins of Our Times by G. Arrighi,
“Review of International Political Economy”, Vol. 4, No. 2 (Summer, 1997), p. 1045.
43
espressamente del lungo XX secolo. Porzioni più ampie del testo sono dedicate alla
costruzione del quadro teorico e alla sua applicazione storica dal Medioevo al 1870: «il libro
tratta in realtà dell’interpretazione di Arrighi del sistema mondo moderno durante gli ultimi
650 anni».200
La maggior critica di ordine generale (su cui ritornerò al termine del capitolo) è quella di non
aver inserito le dinamiche della lotta sociale nella ricerca. L’analisi del capitalismo di Arrighi,
centrata sul sistema internazionale, ha dovuto sacrificare la dimensione della lotta di classe e
della teoria critica del sistema capitalistico. Arrighi stesso ammette di aver scelto alcuni temi
per completare l’opera, ma i critici argomentano che data la sua impostazione teorica non
sarebbe stato comunque in grado d’integrare adeguatamente un’analisi sociale nella sua
ricerca.201
Moore sviluppa queste argomentazioni in una critica serrata per cui Arrighi, pur storicizzando
efficacemente la crisi presente, ha dimenticato l’elemento base delle contraddizioni del
capitalismo: il conflitto capitale-lavoro. La sua focalizzazione sugli aspetti economici e
politico militari della competizione interstatale lo rendono in definitiva più weberiano che
marxista. L’impostazione strutturalista eccessivamente rigida e la stretta aderenza ai confini
stabiliti per la sua ricerca, lo portano lontano dagli obbiettivi originali della World System
Analysis (intesa non come una sociologia su scala mondiale ma come una critica delle scienza
sociale come si era costruita nel XIX secolo).
Arrighi non dà il giusto spazio ai movimenti antisitemici creati dalle contraddizione della
finanza globale e non comprende in profondità il conflitto finanza-lavoro. Si arriva a svalutare
completamente il ruolo di quest’ultimo nella creazione del mondo moderno, di cui l’alleanza
Stato-capitale diviene l’unico demiurgo. Un esito curioso per un’opera che ha un evidente
rilievo politico e per un autore che ha scritto in diverse occasioni del movimento mondiale dei
lavoratori.202

La questione della definizione del capitalismo in Arrighi divide anch’essa gli studiosi.
Sinteticamente, per Arrighi: «il capitale mobile - non il salario-lavoro nell’impresa
organizzata burocraticamente che utilizza la produzione meccanizzata - è il tratto essenziale
del capitalismo. La finanziarizzazione del capitalismo non è quindi una fase particolare del

200
W. R. Thompson, The Long Twentieth Century, Op. cit. , p. 1045.
201
M. Postone, V. Murthy, Y. Kobayashi, Theorizing the Contemporary World, Robert Brenner, G. Arrighi,
David Harvey, “History and Heteronomy: Critical Essays”, (UTCP Booklet 12), 2009.
202
J. W. Moore, Capitalism over the Longue Duree: A Review Essay, Op. cit. , pp. 113-114.
44
capitalismo mondiale ma un fenomeno ciclico e ricorrente».203 Moore argomenta come
Arrighi si distingua da Wallerstein per il suo approccio presentista (che lo porta da un lato ad
identificare con chiarezza i cicli di lunga durata del capitalismo ma dall’altro ad analizzarlo in
maniera piuttosto astorica nel presente) e per la sua visione, ripresa da Braudel, del
capitalismo come sistema dell’alta finanza. Questa enfasi è tale da distaccare parzialmente
Arrighi dalla scuola della World System Analisys.204 Thompson riconosce la validità di
questo approccio originale (la finanza costituisce il software del regime economico) ma
stigmatizza la mancanza d’interesse per gli avanzamenti tecnologici (l’hardware del sistema)
che invece meriterebbero di essere integrati nella teoria.205
Una analisi profonda della questione si può trovare nel saggio Theorizing the contemporay
world, dove si sintetizza che «Arrighi considera l’essenza del capitalismo nei termini di un
sistema mondo organizzato dal capitalista egemone». Questo deriva dall’uso delle distinte
categorie di Braudel di economia di mercato e capitalismo, la prima delle quali ha preceduto
la seconda su scala mondiale, per venire poi inglobata dall’alleanza Stato-capitale originatasi
in Occidente. Questa tesi, per quanto affascinante, è troppo centrata sul ruolo degli stati e
diviene una una «camicia di forza concettuale» per l’analisi arrighiana del mondo
contemporaneo.
Mentre Marx riusciva a teorizzare e storicizzare contemporaneamente il rapporto Stato-
capitale (come il secondo fosse irriducibile allo Stato e al mercato e cambiasse la natura di
entrambi), Arrighi si limita ad una storicizzazione basata su cicli di ascesa e caduta delle
grandi potenze. Il capitalismo rimane così sempre uguale a sé stesso senza modificare, tramite
la trasformazione delle forze produttive, le strutture dello Stato. Inoltre Arrighi fa un uso
alquanto strumentale della teoria della caduta del tasso di profitto per spiegare la tendenza
ciclica della finanziarizzazione e delle transizioni egemoniche. Non si può accettare la sua tesi
della sostanziale somiglianza tra le tesi di Adam Smith e Marx su questo soggetto, visto che
l’una attiene all’economia politica e l’altra alla sua critica.206
Fredric Jameson invece si serve della categoria arrighiana di finanziarizzazione per spiegare
in dettaglio l’evoluzione culturale del presente. Le «fastidiose questioni» dell’espansione del
mercato azionario a dispetto della produzione industriale, di come possa sussistere profitto
senza investimento e di come la speculazione divenga l’attività economica dominante nelle
società avanzate, mettono in dubbio il modello marxista di produzione. La lotta di classe
203
G. Ingham, The Long Twentieth Century: Money, Power, and the Origins of Our Times. by G. Arrighi ,
“American Journal of Sociology”, Vol. 101, No. 5, (Mar., 1996), p. 1473.
204
J. W. Moore, Capitalism over the Longue Duree: A Review Essay, Op. cit. , p. 105.
205
W. R. Thompson, The Long Twentieth Century, Op. cit. ,p. 1045.
206
M. Postone, V. Murthy, Y. Kobayashi, Theorizing the Contemporary World, Op. cit. , pp. 96-100.

45
sembra ritornare ad un livello più basilare, in cui non c’è più bisogno di smascherare i
travestimenti ideologici del capitalismo, che invece si è rivelato nelle politiche della Thatcher
e di Reagan, nella sua forma più pura e utopica. È necessario tornare alle forme più antiche di
analisi marxista ma con una rinnovata attenzione per il ruolo della moneta. L’analisi ciclica di
Arrighi è fondamentale nell’individuare le similitudini tra il tempo presente e il periodo della
Belle Époque mentre curiosamente le analisi che ne sottolineano la novità sembrano essere la
versione contemporanea delle teorie d’inizio Novecento sullo stadio finale del capitalismo, ad
opera di Hilferding e Lenin.
Jameson accetta in pieno la teoria della finanziarizzazione, cercando di spiegare perché il
marxismo si sia poco occupato delle questioni monetarie. Nel finale inserisce il pensiero di
Arrighi nella tematica della deterritorializzazione, evidenziando come l’autore distingua con
originalità tra due fasi del processo. Nella prima, il capitale si trasferisce tra le attività
produttive in cerca della massima remunerazione anche con movimenti geografici rilevanti.
Nella seconda, l’intero capitale di un centro egemone e di una regione centrale del capitalismo
si trasferisce dalla produzione (territoriale) allo spazio (non territoriale) della speculazione,
del mercato monetario, del capitalismo finanziario.
La globalizzazione non costituisce un nuovo spazio fisico globale che ha sostituito stati e
imperi ma piuttosto «una sorta di cyberspazio in cui il capitale monetario ha raggiunto la sua
dematerializzazione finale, nella forma di comunicazioni che passano instantaneamente da un
punto nodale all’altro attraverso il vecchio globo, il vecchio mondo materiale».207

Lo studio del rapporto Stato-capitale viene lodato da diversi studiosi che apprezzano la
suddivisione in regimi intensivi ed estensivi di dominio egemonico e la proposta delle forme
ibride,208 come le compagnie privilegiate e le multinazionali (strutture capitaliste con funzioni
di Stato) e le esperienze di città come Genova nel passato e Hong Kong, Singapore nel
presente (strutture territorialiste dedite all’accumulo di capitale).209
Più problematica è la questione del declino egemonico degli Stati Uniti: Arrighi non rispetta
completamente il suo quadro teorico nel descriverlo. Sia nella ascesa che nel declino gli USA
presentano particolarità che li rendono un’anomalia della teoria arrighiana: un’incongruenza

207
F. Jameson, Culture and Finance Capital, “Critical Inquiry”, Vol. 24, No. 1 (Autumn, 1997), Op. cit. , pp.
246-265.
Per una trattazione critica di queste tesi e della loro fonte in Arrighi, che contesta il rapporto causale tra
finanziarizzazione e forme culturali post-moderne, assumendo invece che siano fenomeni correlati della
traformazione sociale che succede ad un periodo di espansione finanziaria si veda anche: Benjamin D. Brewer,
The Long Twentieth Century & The Cultural Turn, “Journal of World-Systems Research”, Volume XVII,
Number 1, 2011.
208
J. A. Hall, The Long Twentieth Century, Op. cit. , p 718.
209
J. W. Moore, Capitalism over the Longue Duree: A Review Essay, Op. cit. ,p. 112.
46
che non viene sufficientemente analizzata, portando agli esiti anomali espressi a fine
volume.210 Anche riconoscendo come validi tutti i segnali di declino individuati da Arrighi,
l’assenza di un vero oppositore degli USA sembra rappresentare un limite insormontabile per
una transizione egemonica.211 Un ultimo punto evidenziato da Thompson è quello della scarsa
analisi della dimensione del conflitto militare che pure poteva essere connesso in maniera
interessante con i cicli economici: la dipendenza di Arrighi dalle teorie dell’imperialismo di
Hobson e Lenin gl’impedisce un ragionamento sulle variazioni d’intensità dell’attività
bellica.212

Il dibattito Pollin-Arrighi inizia con la recensione di Pollin dell’opera pubblicata sulla


New Left Review. Pollin risulta piuttosto critico dei risultati dell’ambiziosa ricerca di Arrighi.
Contesta il modo in cui Arrighi spiega che le transizioni egemoniche derivano da
contraddizioni interne all’organizzazione economica di ciascun ciclo, assumendo che invece
le loro cause vadano ricercate nei mutamenti dei regimi di proprietà e gestione delle attività
economiche. Critica il meccanismo stesso della finanziarizzazione, poco chiaro e incapace di
spiegare la stessa meccanica D-D (la creazione di capitale attraverso la finanza). Dato che il
capitale non può essere inventato, una situazione D-D può essere realizzata solo mediante:
perdite di alcuni capitalisti a vantaggio di altri, redistribuzione del reddito complessivo a
vantaggio della classe capitalista, spostamenti verso attività più remunerative (ma allora si
ricostruirebbe il meccanismo D-M-D).
Altre critiche vanno all’eccesiva attenzione al top-layer, lo spazio decisionale di Stato e
capitalismo, che impedisce di considerare il ruolo costruttivo dei movimenti antisistemici, e
alla mancata considerazione delle path dependance, la cui analisi andrebbe integrata alla più
vasta analisi storica. In definitiva Arrighi riesce ad espandere cronologicamente lo schema
braudeliano ma al costo di teorizzazioni poco convincenti, portando la sua iper-ricerca ad un
risultato ambiguo.213
Arrighi, «sorpreso» da queste critiche replica sulle pagine della stessa rivista con un lungo
articolo. La risposta si struttura attorno alle critiche a) sul passaggio dall’espansione materiale
a quella finanziaria, b) sul meccanismo di accumulazione finanziaria c) sui metodi usati per
creare queste teorie. Sul primo punto Arrighi afferma di aver spiegato ampiamente come le
fasi di espansione materiale e finanziaria dipendano dalle decisioni incrociate delle agenzie di

210
M. Postone, V. Murthy, Y. Kobayashi, Theorizing the Contemporary World, Op. cit. , p. 98.
211
J. A. Hall, The Long Twentieth Century, Op. cit. , p 718.
212
W. R. Thompson, The Long Twentieth Century, Op. cit. , p. 1045.
213
R. Pollin, Contemporary economic stagnation in World Historical Perspective, “New Left review”, I/219,
September-October 1996, pp. 109-118.
47
governo e di business. Queste sono le uniche che possono condurre il sistema verso più vaste
o profonde forme di divisione del lavoro, alla ricerca di sbocchi sempre remunerativi per il
capitale investito. Sul secondo punto Arrighi nota come le forme di accumulazione finanziaria
descritte da Pollin e riprese da Weber, siano presenti tutte e tre nel suo libro anche se non
espresse negli stessi termini.
Inoltre il suo volume assegna a ciascuna un ruolo distinto nella dinamica delle espansioni
finanziarie: la competizione tra capitalisti crea la sovrabbondanza di liquidità, dando inizio al
ciclo finanziario, la redistribuzione a vantaggio dei capitalisti rende profittevoli le transazioni
finanziarie e la riallocazione in nuovi settori produttivi permette il superamento della fase di
finanziarizzazione.
Infine non riconosce una sostanziale differenza tra la ricostruzione storica e l’approccio delle
path dependance: i condizionamenti storici e geografici hanno dato forma e sono stati al
contempo modellati dalle decisioni degli attori politici-economici in competizione. Il punto
cruciale è che la successione delle egemonie non costituisce un processo casuale ma
evoluzionistico, in cui le vecchie egemonie sono sostituite da nuove più potenti, più estese,
più complesse e con scopi più grandiosi.214
La successiva risposta di Pollin non si smuove dalla sua critica di scarsa coerenza teorica ma
apprezza la miglior definizione della problematica del passaggio dall’espansione materiale a
quella finanziaria.215
Concludo questa rassegna con le parole di Moore:

«Il grande contributo di Arrighi è stato quello di dirigere la nostra attenzione verso le dinamiche interne
dell'accumulazione e del potere globale in un modo che ha aperto nuovi orizzonti, in almeno due
direzioni. Il primo ha permesso analisi nuove della storia dei movimenti anti-sistemici, dei conflitii di
civilizzazione, del mutamento culturale, delle catene commerciali e sì, anche del cambiamento climatico
[...]. Arrighi ha suggerito anche un secondo orizzonte di ricerca: “Certo mentre la nostra costruzione
procede, ciò che all'inizio poteva sembrare essere una mera contingenza storica ha iniziato a sembrare
riflettere una logica strutturale. In ogni caso, la tensione tra questi due tipi di apparenza, non può essere
risolta integralmente nei limiti della nostra agenda di ricerca. Una completa risoluzione delle tensioni -
ammesso che sia possibile- richiede che si scenda nuovamente a esplorare i livelli inferiori dell'economia
di mercato e della vita materiale con la conoscenza e le questioni riportate indietro dal viaggio nei livelli
superiori che questo libro ha portato avanti” (1994:26, enfasi aggiunta)».216

214
G. Arrighi, Financial Expansions in World Historical perspective: A reply to R. Pollin, “New Left Review”,
I/224, July-August 1997.
215
R. Pollin, Response to G. Arrighi, “New Left Review”, NLR I/224, July-August 1997.
216
J. W. Moore, Introduction, in AA.VV, The World-Historical Imagination: G. Arrighi’s The long twentieth
century in prospect and retrospect, “Journal of World-Systems Research”, Volume XVII, Number 1, 2011, pp.
1-4.

48
2.5 Il dibattito italiano sul Lungo ventesimo secolo.

La pubblicazione del Lungo ventesimo secolo in italiano nel 1996 non attirò molta
attenzione da parte degli studiosi.
Per spiegare questa fredda accoglienza Tommaso Detti propone due spiegazioni. La prima è
la concomitanza della pubblicazione dell’opera di Hobsbawm, che invece di attirare curiosità
sull’opera di Arrighi (non fosse altro per l’assonanza tra i rispettivi titoli), ne oscurò
completamente le tesi e la proposta di periodizzazione fondando, con la sua proposta di
Secolo breve, «una sorta di pervasivo senso comune storiografico imperniato sul confronto tra
fascismo, comunismo e liberaldemocrazia».217
La seconda è determinata dalla cultura accademica italiana, caratterizzata da una netta
separazione tra storia politica e storia economica che si traduce in scarsi rapporti tra la ricerca
storica contemporaneistica e la ricerca sociale.
Persiste anche un forte pregiudizo verso la World History e le macronarrazioni storiche che
spesso, come in questo caso, non sono comprese nei loro scopi di ricerca e specifici tagli
interpretativi ma viste alla stregua di opere manualistiche.218
Di conseguenza il dibattito italiano sull’opera di Arrighi è alquanto circoscritto: i contributi
maggiori sono il dibattito del 2003 sulla rivista “Contemporanea”, con relativo intervento di
risposta di Arrighi ed una serie di contributi interpretativi apparsi alla fine del passato
decennio, sull’onda del dibattito intorno all’ultima opera dello studioso Adam Smith a
Pechino, che dopo Caos e Governo del Mondo riprendeva e completava le tesi del Lungo
ventesimo secolo, andando a costituire una coerente trilogia di cui parlerò nel capitolo
conclusivo.

Il dibattito italiano è meno interessato di quello anglosassone a dibattere in profondità


la tesi arrighiana dei cicli sistemici di accumulazione, in particolare l’aspetto del meccanismo
economico. Vengono mosse diverse critiche di carattere generale al taglio interpretativo
dell’opera e c’è una tendenza comune a pensarla come un nuovo studio storico-teorico delle
relazioni internazionali (una tendenza interpretativa che ha toccato anche le opere di
Wallerstein) probabilmente sull’onda delle opere di Fukuyama, Huntington e Paul
Kennedydegli stessi anni. 219

217
T. Detti, L’avventura di ripensare il passato, “Contemporanea” / a VI, n.3, luglio 2003, p. 549.
218
Ivi, p. 550.
219
G. Formigoni, Un’analisi globale dell’egemonia delle potenze, in Ennio Di Nolfo, Diogo Ramada Curto, G.
Formigoni, Michael Hochgeschwender, John P. D. Dunbabin discutono “Ascesa e declino delle grandi potenze”
di Paul Kennedy, “Contemporanea” / a. V, n. 2, aprile 2002, p. 374.
49
Evidentemente non si considera il dichiarato obiettivo di Arrighi di scrivere una storia del
capitalismo mondiale, che subordina tutte le altre possibili chiavi di lettura del testo, come ho
spiegato nel primo capitolo.

L’intervento di Tommaso Detti è uno dei pochi a cogliere il carattere specifico


dell’opera di Arrighi, lodando il suo tentativo di ricostruzione complessiva dell’età
contemporanea entro uno schema interpretativo di lungo periodo. La critica principale che gli
viene mossa è alla ripetitività del meccanismo di finanziarizzazione. Detti non è convinto che
si possa contemporaneamente affermare la ciclicità del fenomeno e asserire una serie di
discontinuità nella fase odierna di espansione dell’Asia, come viene affermato nell’ultimo
capitolo e in interventi successivi. Il valore ma anche il limite dell’opera risiede nel suo forte
schematismo, che impedisce di analizzare nella loro specificità una serie di fenomeni
interconnessi che non rientrano esplicitamente nel modello: la globalizzazione e la rivoluzione
dell’informazione.220
Francesco Benigno basa la sua analisi sulla discussione dell’uso dell’opera di Braudel in
Arrighi. L’opera di Arrighi nasce da un confronto tra l’influenza di Braudel mediata dagli
studiosi americani e la riflessione degli anni Ottanta sul paventato declino USA (torna anche
qui il paragone con Paul Kennedy).
L’uso da parte dell’autore della omincomprensiva categoria di capitalismo come espressa in
Civiltà materiale, economia e capitalismo, gli permette d’inquadrare fenomeni complessi
come lo shock petroliferi, la deregulation finanziaria, il nuovo assetto produttivo del Primo
Mondo sempre meno basato sull’industria, in un disegno complessivo che interconnette storia
contemporanea e moderna. Il risultato, la tesi del declino USA a vantaggio del Giappone, è
stato secondo Benigno contraddetto dai fatti con la crisi asiatica del ’97 e la prolungata
deflazione giapponese. Il concetto dei cicli sistemici di accumulazione ha dimostrato la sua
«farraginosità», derivante da premesse teoriche vaghe e da una analisi selettiva e incompleta
delle vicende storiche.221
Filippo Andreatta conduce un’analisi dal punto di vista delle Relazioni Internazionali
contestando decisamente le teorie apparentemente aggiornate (ma in realtà legate a tradizioni
ormai accantonate) e il taglio materialista e determinista dell’opera di Arrighi. Interessante
come storia del capitalismo, il volume è carente per l’aspetto politico, sempre visto come
sovrastruttura dell’economia, e non spiega adeguatamente né la seconda guerra mondiale né la

T. Detti, L’avventura di ripensare il passato, Op. cit. , pp. 549-553.


220

F. Benigno, Braudel in America ovvero le radici lunghe del presente,”Contemporanea” / a VI, n.3, luglio
221

2003, pp. 554-558.


50
guerra fredda, veri punti di svolta del Secolo. Ma l’aspetto più negativo è che la visione
egemonica-gerarchica di Arrighi non considera minimamente la natura anarchica dei rapporti
internazionali, sostituendo per ogni scelta storica le ragioni della sicurezza con le ragioni
dell’economia. Arrighi non dà spazio nemmeno alle questioni della diffusione della
democrazia e della cooperazione internazionale nel determinare le relazioni tra gli stati e
persino la sua analisi economica è in definitiva carente: nella sua visione globalista non tiene
di conto che tutte le economie,anche le più avanzate, hanno in varia misura settori
sottosviluppati e locali, non globalizzati.
L’intervento di Giuseppe Maione è in assoluto il più critico (forse nell’intero dibattito
internazionale). L’analisi storica-economica che mira ad individuare leggi nell’andamento
storico è un futile esercizio intellettuale. Arrighi usa le fonti secondarie in maniera
incompetente e poco aggiornata arrivando a formulare una serie di affermazioni acritiche e
superficiali.
Per Maione è sufficiente guardare alle tesi di una rapida fine della Belle Époque reaganiana,
smentita dalla crescita degli anni Novanta e anche alla sua finanziarizzazione, non trovano un
riscontro oggettivo nei dati economici. Alla base di queste tesi errate sta una fondamentale
incomprensione dei rapporti tra produzione e finanza, che porta Arrighi a dividere in maniera
approssimativa accumulazione materiale e accumulazione finanziaria, esprimendo un poco
velato giudizio moraleggiante sull’economia finanziaria: «Qui siamo ai margini dell’analisi
scientifica e molto vicini alla ricerca di uno sorta di sostituto a quelle che erano un tempo le
filosofie della storia».222

Arrighi risponde puntualmente a queste critiche con un articolo sempre su


“Contemporanea”, argomentando la difesa delle sue tesi in quattro punti. 223
Il primo è una forte incomprensione dei critici italiani per la metodologia della sociologia
storica-comparativa: questo approccio alla ricerca non mira a cercare fatti nuovi, ma ad
individuare generalizzazioni e modelli, quindi teorie storicamente fondate. Le lacune storiche
sono implicite nell’approccio, denunciarle ha senso solo dimostrando che l’omissione di
specifici fatti invalida la teoria.
Il secondo è l’osservazione di Maione e Benigno circa la crisi di egemonia degli USA: Arrighi
ammette di essere stato frettoloso nel porla alla fine degli anni Ottanta ma sostiene che gli
eventi successivi hanno indicato che la direzione era giusta. La crisi asiatica del ’97 non ha

222
G. Maione, Fragilità dei modelli e profezie smentite, “Contemporanea” / a VI, n.3, luglio 2003, pp. 562-567.
223
G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Una replica, “Contemporanea” / a. VI, n. 4, ottobre 2003, pp. 731-735.
51
toccato la Cina e può essere paragonata alla crisi di Wall Street del ’29, anch’essa originatasi
presso la potenza in ascesa.
Il terzo è relativo alla contraddizione individuata da Detti tra continuità storiche e discrepanze
odierne del modello dei cicli sistemici. Per Arrighi: «Gran parte dell’analisi de Il lungo XX
secolo è dedicata a mostrare come periodi comparabili di espansione finanziaria furono in
realtà epoche di trasformazioni fondamentali nella scala, nello scopo e nelle modalità di
funzionamento del capitalismo mondiale. Per effetto di queste trasformazioni successive, il
sistema è evoluto in una forma tale da non potersi sviluppare ulteriormente con le stesse
modalità con cui lo ha fatto nei cinque secoli precedenti. Di qui, i tre scenari futuribili
delineati nelle pagine conclusive del libro».224
Nel quarto e ultimo punto, Arrighi evidenzia come Andreatta esprima nella sua critica, pur da
un angolo visivo differente dal suo, un aspetto delle relazioni internazionale su cui lui stesso
si è ampiamente soffermato nel libro, vale a dire la divaricazione tra potere militare
incontestato degli Stati Uniti e potere economico crescente dell’Asia, all’origine delle incerte
prospettive future del sistema-mondo.

Gl’interventi del dibattito più recenti analizzano con comprensione maggiore i pregi e
difetti del modello di Arrighi. Sia Simone Selva che Giordano Sivini esprimono
apprezzamento per la costruzione teorica di Arrighi. Il primo argomenta però la
problematicità di applicare la concezione braudeliana del rapporto tra potere e capitale al
Novecento, che porta Arrighi a sottostimare eccessivamente la dimensione della territorialità
nella storia del secolo, ridotta in queste pagine a semplice strumento nella lotta decisiva per
l'accaparramento del capitale.225
Il secondo invece sostiene una sottovalutazione della dimensione della dispossession.
Riprendendo questo concetto da David Harvey,226 Arrighi ha mantenuto l’analisi al livello
dello Stato e del capitale, si è allontanato dalle problematiche sociali e non ha colto la novità
della situazione economica. A partire dagli anni Settanta, la finanziarizzazione della vita
quotidiana delle persone, delle imprese, degli stati è stata segnata da pratiche di dispossession,
che spiegano la polarizzazione della ricchezza e l’impoverimento generale nell’Occidente.227

224
G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Una replica, Op. cit. , p. 734.
225
S. Selva, Il Lungo ventesimo secolo, http://www.juragentium.org/books/it/arrighi.htm.
226
L’accumulation by dispossession è per Harvey un processo che risulta dalla creazione di condizioni per la
mobilitazione produttiva della liquidità, e che si affianca alla riproduzione allargata caratterizzata dal
reinvestimento dei profitti. “Il capitale finanziario e il sistema creditizio sono il cordone ombelicale che lega in
maniera irrevocabile e organico le due modalità di accumulazione. Il potere dello stato, inoltre, e lo si vede
chiaramente, è cruciale nel regolare e pianificare le relazioni tra queste due modalità” , D. Harvey, Retrospect on
The Limits to Capital, “Antipode”, 36, 3, (2004).
227
G. Sivini, La finanziarizzazione dell’economia mondo, Op. cit.
52
La finanziarizzazione resta un aspetto centrale per la comprensione del presente anche per
Cesarale che fa comunque notare come Arrighi non abbia mai risolto del tutto il nodo della
produzione di ricchezza mediante la finanza e abbia progressivamente svuotato sempre più di
valore la svolta della Rivoluzione industriale.228
Pe terminare, Quattrone argomenta che anche se in Adam Smith a Pechino emergono delle
discontinuità rispetto a Il lungo XX° secolo (il fatto che la Cina sia protagonista piuttosto che
il Giappone e la possibilità che non sia in formazione un nuovo centro egemonico ma un
bilanciamento multipolare), in fondo resta valida la tesi conclusiva del testo del ’96, cioè che
il sistema economico mondiale capitalista sta attraversando un fase di trasformazione che
potrebbe anche sancirne la fine.229

Il dibattito italiano risulta complessivamente meno ampio e originale di quello anglosassone.


Arrighi viene criticato dal punto di vista dell’interpretazione corretta di Braudel, della validità
della sua opera come analisi delle relazioni internazionali e del modello generale della sua
analisi, spesso con grossi fraintendimenti metodologici.
Vari studiosi si concentrano nel cercare incongruenze tra le sue tesi e l’attuale assetto politico-
economico senza considerarne la mutevolezza e il quadro generale della teoria arrighiana.
Nel complesso, al di là di successivi apprezzamenti, è mancata una critica o anche un’analisi
particolareggiata della sua tesi dei cicli sistemici di accumulazione.

228
G. Cesarale, La lezione di G. Arrighi, Op. cit. , pp. 24-25.
229
A. Quattrone, L'eredità teorica di G. Arrighi, Op. cit.
53
2.6 Raffronti tra le periodizzazioni di Hobsbawm e Arrighi.

Le panoramiche delle due opere e dei dibattiti intercorsi alla loro pubblicazione ci
hanno dato una prima idea delle somiglianze e delle differenze dei modelli di periodizzazione
di Hobsbawm e Arrighi. Nonostante molti critici abbiano comparato e rilevato elementi di
contatto tra i due volumi, ad oggi non è stata effettuata un’ampia e compiuta comparazione
critica dei due modelli. Anche al momento della pubblicazione e nei dibattiti successivi gli
stessi autori pur lodando e paragonando le dimensioni temporali dei rispettivi lavori hanno in
qualche modo eluso un confronto esplicito.230

Un primo e generale elemento di confronto è l’ovvia differenza di approccio dei due


studiosi: storia e scienza sociale. «Lo scienziato sociale tende a racchiudere in una definizione
finale i complessi fenomeni presi in esame; lo storico recalcitra davanti agli esiti rigidi anche
se ne è tentato, e spesso non tiene conto del fatto che anche egli stesso, quando ricorre alle
ineliminabili generalizzazioni, crea approssimativi e non dichiarati modelli. La storia
contemporanea è in ciò più di altre esposta sia alle tentazioni che alle smentite».231
Storia e scienza sociale sono sostanzialmente differenti: la prima mira a spiegare ogni evento
nel suo contesto mentre la seconda ricerca la generalità. Tuttavia il loro rapporto è più
complesso e intrecciato: entrambe valutano le rispettive tesi, cercando d’incorporare i risultati
l’una dell’altra. Periodicamente escono dal proprio ambito specifico intervenendo sui piani
della metodologia e dei contenuti delle rispettive ricerche.
La trattazione dei due autori ha evidenziato quanto Hobsbawm sia ricorso a generalizzazioni e
Arrighi si sia servito di materiale tratto dalla ricerca storica per le sue analisi.

Abbiamo due periodizzazioni e interpretazioni del Novecento apparentemente


opposte: Secolo breve e Lungo ventesimo secolo. Tuttavia anche ad una analisi preliminare
non si possono non notare somiglianza nelle concezioni delle opere: la vicenda del
capitalismo nel secolo è centrale in entrambe le interpretazioni.
Arrighi la declina nella direzione delle transizioni egemoniche, riducendo il peso delle lotte
sociali rispetto al contesto internazionale. Hobsbawm la interpreta nel senso della lotta
ideologica, sottomettendo la dimensione del conflitto interstatale a quella dello scontro
interno (seppur su scala mondiale). Entrambe le opere terminano poi con una profonda nota di
pessimismo, in profondo contrasto con la vulgata trionfalistica del capitalismo anni Novanta,

230
T. Detti, L’avventura di ripensare il passato, Op. cit. , p. 553.
231
C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, Op. cit. , p. 126.
54
prospettando un punto di svolta storico per il capitalismo stesso, un cambiamento le cui
caratteristiche sono ancora tutte da determinare per la difficoltà ad una nuova transizione
egemonica (Arrighi) e l’incerta condizione del lavoro nell’attuale economia (Hobsbawm).232
Per un confronto critico è necessario paragonare puntualmente le due periodizzazioni dal
punto di vista cronologico ed analizzare in profondità i temi che queste hanno impostato nelle
rispettive analisi.

Per la comparazione cronologica risulta utile un passo indietro alla ricerca di influenze
reciproche. Se Arrighi non è presente né citato nei quattro volumi di Hobsbawm sull’età
contemporanea, le concezioni dell’autore inglese sul lungo Ottocento (anche se non è
propriamente comprese tra le le maggiori ispirazioni intellettuali per la costruzione del
modello teorico) hanno costituito un contributo importante per la costruzione dei capitoli
sull’egemonia britannica nel lungo XIX secolo.
Arrighi riprende diversi temi di Hobsbawm: l’espansione mondiale dell’Inghilterra come fase
fondamentale della globalizzazione (ciclo estensivo), la natura della Grande depressione
dell’Ottocento non come crisi devastante ma riduzione dei profitti del capitalismo e il
liberoscambismo come carattere specifico dell’egemonia britannica. Nell’ultimo capitolo
inserisce un paragone interessante che accomuna l’opera di Hobsbawm alla sua: il periodo del
secondo dopoguerra, Età dell’oro del capitalismo ha forti somiglianze con l’Età del capitale
1848-1973, come pure l’età reaganiana appare come una nuova Belle Époque, paragonabile al
periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Nell’ambito del dibattito sull’economia mondiale del Novecento promosso da Pierluigi
Ciocca nel ’97/‘98 i due autori hanno ulteriormente affinato i paragoni reciproci. Per
Hobsbawm, data la sostanziale continuità del processo di sviluppo di una economia mondiale
a partire dalla Rivoluzione industriale, le possibili periodizzazioni compresa la sua e quella di
Arrighi riflettono peculiari punti di vista senza spezzare l’unità dei secoli considerati: ecco
come diverse concezioni della lunghezza del secolo non risultino necessariamente
incompatibili.233
Arrighi si spinge più avanti nella comparazione riprendendo l’esempio già citato nel Lungo
ventesimo secolo ed espandendolo con una serie di paragoni tra Età della rivoluzione ed Età
della catastrofe, periodi d’intense lotte lotte interstatali e sociali, Età del capitale ed Età
dell’oro, periodi della massima crescita della produzione e della commercializzazione, e Età

232
S. Bromley, Where is capitalism going?, http://www.radicalphilosophy.com.
E. J. Hobsbawm, Politiche nazionali e mercati transnazionali, in P. Ciocca, L’economia mondiale del
233

Novecento. Una sintesi e un dibattito, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 89.


55
degli imperi e Età della frana, periodi in cui si manifesta la crisi dell’accumulazione e il
passaggio alla finanziarizzazione. In questi ultimi periodi si creano le illusorie Belles Èpoques
(d’inizio novecento e reaganiana), in cui la forte crescita economica è basata su massicce
redistribuzioni di reddito a vantaggio del centro capitalista. Mentre questa sua nuova natura
predatoria mette in crisi la stabilità egemonica stessa, nuovi potenziali centri egemonici si
fanno avanti (Stati Uniti e Germania, paesi dell’Estremo Oriente).
È evidente in questa serie di comparazioni il tentativo di connettere le tesi di Hobsbawm alle
proprie. Si può osservare come l’Età degli imperi (1873-1914) e l’Età della frana (1973-1991)
coprono gran parte delle fasi di espansione finanziaria dei cicli britannico (1873-1930) e
statunitense (1973- in prosecuzione), eccetto che per i momenti finali.
L’Età del capitale (1848-1873) e l’Età dell’oro (1945-1973) coincidono con le parti terminali
delle fasi di espansione materiale britannica (1780-1873) e statunitense (1930-1973).
Restano apparente fuori dal confronto con la periodizzazione arrighiana le Età della
rivoluzione (1789-1848) e Età della catastrofe (1914-1945): la prima costituisce il periodo
iniziale della fase di espansione materiale britannica, la seconda è posta a cavallo tra la fine
del ciclo britannico e l’inizio di quello statunitense.

234

234
Rappresentazione grafica originale.
56
Qui ci viene in aiuto una precisazione di Arrighi:

«Nel corso di ciascuno di questi periodi di transizione la capacità del precedente centro dell’alta
finanza di regolare e guidare in una particolare direzione il sistema mondiale di accumulazione esistente
fu indebolito dall’ascesa di un centro rivale che a sua volta non aveva ancora acquisito le capacità o le
attitudini necessarie ad assumere il nuovo ruolo di regolatore del sistema capitalistico. In tutti questi casi
il dualismo di potere ai vertici dell’alta finanza fu infine risolto con l’escalation verso un punto di
massima tensione (nell’ordine la guerra dei trent’anni, le guerre napoleoniche, la seconda guerra
mondiale) delle lotte concorrenziali generalmente segnano le fasi conclusive M-D dei cicli sistemici di
accumulazione. Nel corso di questi confronti decisivi il vecchio regime di accumulazione smetteva di
funzionare. Storicamente tuttavia solo dopo la conclusione di questi confronti un nuovo regime si
consolidava e i capitali eccedenti ritornavano la strada verso una nuova fase di espansione D-M».235

Quindi, le crisi (Età della rivoluzione e Età della catastrofe) sono epoche a sé stanti in
Hobsabwm mentre nella periodizzazione arrighiana i periodi di caos sistemico stanno a
cavallo tra la fine del ciclo finanziario e l’avvio del nuovo ciclo materiale.
Infatti per la periodizzazione del ‘900, il ciclo britannico si chiude definitivamente nel Trenta.
La fine del liberoscambismo e l’avvio della politica delle preferenze imperiali chiudono la
fase di l’espansione finanziaria nello stesso momento in cui il New Deal segna l’inizio della
fase di espansione materiale statunitense: esattamente a metà della Seconda guerra dei
trent’anni europea, il periodo di caos sistemico del ‘900.
Anche se imperfettamente, le periodizzazioni dei due autori risultano quindi in larga parte
sovrapponibili.236
Questa sintonia nelle rispettive visioni è basata ancora una volta sul comune approccio
braudeliano di lunga durata: «sia Arrighi che Hobsbawm mettono in campo una struttura
comparativa che ha una profondità temporale e un‘ampiezza spaziale più grande di quella
normalemente usata dai sociologi [...]. Questa struttura di ampiezza-profondità risponde con
forza all’angusto punto di vista sui fenomeni correnti [...] utilizzato dalla maggior parte degli
studiosi contemporanei di cambiamento sociale. Sia Arrighi che Hobsbawm rompono la
compressione spazio-temporale per darci una lunga e ampia visione».237
Per Goran Therborn la periodizzazione di Hobsbawm non è incomparabile con quella di

235
G. Arrighi, Il Lungo ventesimo secolo, Op. cit. , p. 214.
236
È più complicate applicare il ragionameno all’Ottocento. Qui il caos sistemico è un periodo più sfumato, che
andrebbe dagli anni Sessanta del XVIII secolo al 1815, dalle guerre anglo-francesi al Congresso di Vienna.
Hobsbawm invece individua in maniera chiara L’Età della rivoluzione dal 1789 al 1848, estendendola
notevolmente nel periodo della pax britannica.
237
C. Chase-Dunn, History and System: The Whole World. The Age of Extremes: A History of the World 1914-
1991. by Eric Hobsbawn; The Long Twentieth Century: Money, Power, and the Origins of Our Times. by G.
Arrighi, “Contemporary Sociology”, Vol. 25, No. 2 (Mar., 1996), pp. 161-162.
57
Arrighi, ma la tendenza ad un «tempo calendarizzato» di Hobsbawm e la sua focalizzazione
sul conflitto sociale come specificità del Secolo non si conciliano fino in fondo con la visione
ciclica dell’autore italiano.238 Questa critica introduce la seconda parte della mia
comparazione: l’aspetto tematico.

Mentre le periodizzazioni intese come linee temporali sono in gran parte


sovrapponibili, risultano invece piuttosto differenti le visioni profonde, la riflessione sui
fenomeni del Novecento, che le hanno ispirate. Non tutti gli elementi periodizzati nelle due
opere sono comparabili. Come avevo già precedentemente spiegato, ho lasciato in gran parte
in ombra la più ampia dimensione temporale di Arrighi (i primi due cicli egemonici) e la più
ricca prospettiva tematica di Hobsbawm (tutti i capitoli relativi allo sviluppo culturale e
scientifico). Così ridotto il materiale considerato, si può sintetizzare il confronto nel seguente
schema:

Concezione del Motore della


capitalismo. trasformazione
storica.

Braudeliana: Cicli sistemici di


Arrighi Investimento del accumulazione-
capitale mobile. transizoni
egemoniche.

Marxista-critica: Confronto politico-


Hobsbawm rilevanza del economico tra
modello produttivo. capitalismo e
socialismo.

Se il capitalismo è il tema centrale per entrambi, differenti sono le visioni del


fenomeno e quindi le periodizzazioni proposte.
A mio parere si può, analizzando il percorso intellettuale dei due autori, farlo risalire al
dibattito Dobb- Sweezy, con una propensione di Hobsbawm per la soluzione di Dobb e di
Arrighi per quella di Sweezy (vedi capitolo 1). Un chiaro esempio di queste loro diverse
disposizioni è il rilievo della Rivoluzione industriale in Hobsbawm, contrapposta alla sua
subordinazione ai cicli sistemici in Arrighi. Pe il primo la Rivoluzione industriale fonda

G. Therborn, The Autobiography of the Twentieth Century, “New Left Review”, I/214, November-December
238

1995.
58
l’egemonia britannica, per l’altro l’industrializzazione britannica è una dimensione cresciuta
progressivamente nel lungo periodo, con una lenta applicazione della meccanizzazione alla
produzione. In sé, astratta dalle dimensioni del commercio e della finanza,
l’industrializzazione non è determinante per l’egemonia né politica né economica.
Questo è dimostrato chiaramente dai numerosi primati industriali inglesi nei secoli
precendenti al XVIII che pure non la affrancavano dalla dipendenza dal capitalismo genovese
e olandese. Anche l’enorme superiorità tecnologica e produttiva dell’industria tedesca
nell’anteguerra rendeva comunque il Secondo Reich un elemento subordinato nella
ripartizione dei profitti dell’economia mondiale. Aggiungerei che per Arrighi prima e seconda
Rivoluzione industriale sono definibili rivoluzioni perché parte di una transizione egemonica,
altrimenti non costituirebbero un elemento di rottura determinante.
La visione braudeliana del capitalismo da parte di Arrighi non ha bisogno di ulteriori
precisazioni: da sociologo Arrighi si è ampiamente preoccupato di spiegare le origini teoriche
del sua visione e del suo modello. Secondo diversi critici è più complessa la questione della
concezione del capitalismo da parte di Hobsbawm.
Luiz Eduardo Simoes de Souza imposta un confronto interessante basato sulle differenti
concezioni di lungo periodo. Gli “Annales” hanno impostato l’idea dei «tempi diversi»:
sociale, economico, politico, culturale, la cui interrelazione costituisce l’analisi storica stessa.
Gli economisti invece seguono una concezione rigida derivata della scuola neoclassica, nella
quale i tempi servono alla fissazione o al movimento delle variabili economiche.
La teoria delle onde lunghe del capitalismo di Nikolai Kondratiev è un denominatore comune
importante tra storia e scienza sociale in questa visione dei cicli economici. Paradossalmente
la visione di Hobsbawm (anche se storico marxista dichiarato) risulta più vicina all’ipotesi di
economia a breve e lungo termine neoclassica (soprattutto nella critica del neoliberismo
tendente al keynesismo). Invece Arrighi, economista di formazione in origine neoclassica, ha
integrato nella sua concezione del sistema-mondo, una visione più storica dell’integrazione
dei tempi diversi.239
In effetti la visione dei cicli tecnologici venticinquennali di Kondratieff ha un notevole peso
nel Secolo breve, per quanto Hobsbawm non sia molto convinto della loro applicabilità al
XXI, mentre Arrighi, pur presentandone la teoria nell’introduzione del Lungo ventesimo
secolo, se ne distacca fortemente.240
Un’altra critica interessante è quella di Simon Bromley che considera la fortissima influenza
dell’opera di Polanyi sull’intera quadrilogia contemporaneistica di Hobsbawm. Nell’opera

239
L. E. S. de Souza, Breve o Lungo? , http://mpra.ub.uni-muenchen.de/29923/.
240
C. Chase-Dunn, History and System: The Whole World. Op. cit. , pp. 163-164.
59
quello che viene studiato realmente è la società capitalista e il modo in cui il capitalismo
ristruttura al contempo la cultura, la politica, la società e l’economia. La visione del
capitalismo risulta allora più improntata alla lezione di Polanyi che di Marx, teorizzata in
termini di mercato, con le crisi causate dall’assenza di regole e istituzioni non di mercato.241
Questa visione viene integralmente ripresa da Elliott che parla di un Hobsbawm «marxista
schumpeteriano» e vede la causa della crisi attuale nella distruzione da parte del capitalismo
neo-liberale di ogni limite e istituzione ad esso esterno. Stato, famiglia e ambiente vengono
abbattuti mentre procede la corsa suicida dell’economia di libero mercato, già vista da Polanyi
come innaturale e insostenibile.242
Abbiamo quindi una serie d’interpretazioni che inducono a posizionare Hobsbawm al di là di
un‘interpretazione economica esplicitamente marxista. Personalmente ritengo che la centralità
di quest’ultima, l’idea del capitalismo come modello di produzione, permanga sia pure in una
concezione critica. Mi affido alle parole di Hobsbawm stesso: «Penso che ci sia un altro
elemento che conferisce unità ai quattro volumi. Si tratta della concezione marxista di un
capitalismo che si sviluppa attraverso una serie di stadi, generando contraddizioni interne e
venedo di volta in volta ristrutturato, assunta a modello fondamentale dello sviluppo
storico».243

Riguardo al secondo elemento della comparazione, quale sia il motore del movimento
storico del ‘900, ho ampiamente discusso le posizioni dei due autori nel primo capitolo.
L’impostazione sistemica di Arrighi individua i cicli sistemici di accumulazione e le
transizioni egemoniche come elemento di trasformazione nel lungo ventesimo secolo. Quella
ideologica di Hobsbawm definisce i confini del Secolo breve con il metro della lotta tra
capitalismo e socialismo.
Piuttosto, è interessante verificare le opinioni di Arrighi nell’ambito della lotta sociale e di
Hobsbawm riguardo alle egemonie britannica e statunitense. Arrighi spiega nell’introduzione
al Lungo ventesimo secolo la sua contestatissima scelta di limitare l’analisi al problema del
ciclo del capitalismo, a costo di tagliare argomenti come la lotta sociale o la polarizzazione
centro-periferia nel sistema mondo.
La posizione che probabilmente avrebbe ampliato se avesse deciso d’inserirla nel volume è
quella espressa nel saggio Secolo Marxista, Secolo Americano.244 Alla luce della teoria

241
S. Bromley, Where is capitalism going?, Op. cit.
242
G. Elliott, Hobsbawm. History and Politics, Op. cit. , pp. 121-123.
243
A. Agosti, Una storia per cambiare o almeno criticare il mondo. Intervista a E. J. Hobsbawm , “Passato e
presente”, A. XVI (1998), n. 43, p. 96.
244
G. Arrighi, Secolo Marxista, Secolo Americano, in G. Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, Op. cit.
60
sistemica il movimento operaio nel Novecento si è trovato diviso tra diversi impostazioni
politiche nei paesi del centro e della periferia capitalista.
La differente condizione della classe operaia e il rapporto con le élite nazionali hanno
determinato la scelta tra riformismo socialdemocratico bernsteiniano (il modello vincente di
movimento operaio nei paesi del centro capitalista) e leninismo (il modello vincente di
movimento operaio nei paesi della periferia). Due modelli che hanno avuto entrambi grande
successo finché si sono mantenute le condizioni sistemiche per la loro permanenza: la
capacità della socialdemocrazia di imporre ai capitalisti una divisione dei profitti nell’ambito
dell’espansione materiale e la capacità d’attrazione del modello sovietico basata su un
modello fordista sui generis, andate in crisi entrambe e a partire dagli anni Settanta.
Una tesi molto simile è stata espressa da Hobsbawm nell’ultimo capitolo di Come cambiare il
mondo, in cui analizza l’abbandono del modello bernsteiniano da parte delle socialdemocrazia
come conseguenza della globalizzazione e del profondo indebolimento dello Stato-nazione.245
Il problema sociale viene poi ripreso in Caos e governo del mondo dove Arrighi afferma che
la perdita di potere dei movimenti sociali negli anni Ottanta e Novanta è strettamente legata
alla congiuntura economica e al processo di finanziarizzazione. Una nuova ondata di conflitti
è inevitabile e rifletterà i fenomeni di proletarizzazione, femminilizzazione e divisione
spaziale ed etnica della forza lavoro.246
L’ultimo argomento della comparazione è l’analisi delle egemonie in Hobsbawm. L’autore ha
ampiamente trattato l’egemonia britannica ma non ha svolto un’analisi comparabile per quella
statunitense nel Secolo breve, che tratta più che altro vicende europee, in continuità con i
volumi precendenti.247 La posizione egemone degli USA è quasi data per scontata, senza
analizzare in dettaglio le sue caratteristiche.
Una trattazione che invece troviamo nell’Intervista sul Nuovo Secolo, in cui l’egemonia
mondiale statunitense è vista come un processo tuttora in corso. Hobsbawm nega che sia mai
esistita un’incontrastata egemonia globale o, in misura ridotta, europea. La stessa Gran
Bretagna al culmine della sua egemonia cercò di regolare il mondo a suo vantaggio, non di
dominarlo o di uniformarlo culturalmente. In questo senso si può ben parlare di
eccezionalismo. Gli USA sono l’unico paese nella storia che abbia perseguito efficacemente
un potere senza limiti, prima sul proprio continente e quindi sull’intero globo, ottenendo con

245
E. J. Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, Milano, 2011.
246
G. Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e Governo del Mondo.Come cambiano le egemonie e gli equilibri
planetari, Mondadori, Milano, 2003, p. 328.
247
L. E. S. de Souza, Breve o Lungo? , Op. cit.
61
la sconfitta dell’Urss uno status di unica superpotenza mai appartenuto a nessuno Stato in
precedenza.248

In questo paragrafo, dopo aver trattato i temi principali delle opere, le periodizzazioni
proposte e i contributi critici ho effettuato un’analisi critica comparata delle due opere.
Ho analizzato l’aspetto cronologico delle due periodizzazioni del Novecento, che sono
risultate, al di là dell’apparente differenza, largamente sovrapponibili. Ho poi comparato i
temi portanti delle due periodizzazioni, differenti nei due studiosi. L’analisi del capitalismo è
comune e centrale in entrambi ma con concezioni molto diverse per i due autori. Arrighi
definisce il secolo attraverso l’alternarsi dei cicli egemonici mentre Hobsbawm mette in
rilievo la vicenda del comunismo. Sono comunque rintracciabili in altre opere dei due autori
le concezioni sui movimenti sociali di Arrighi e quelle sull’egemonia britannica e statunitense
di Hobsbawm.
Analizzerò nel prossimo capitolo le due tesi nell’ambito del dibattito sulla periodizzazione del
Novecento avvenuto negli anni Novanta e terminerò questa ricerca cercando di verificare se, a
vent’anni dalla formulazione, le conclusioni proposte dalla periodizzazione chiusa e definita
di Hobsbawm e da quella aperta e problematica di Arrighi avevano individuato tendenze che
si sono poi effettivamente sviluppate negli anni successivi.

248
E. J. Hobsbawm, Intervista sul Nuovo secolo, Op. cit. , pp. 45-51.

62
3. Proposte di periodizzazione del ‘900.

3.1 Il dibattito degli anni Novanta.

I lavori di Arrighi e Hobsbawm, con le rispettive tesi di periodizzazione del


Novecento, non sono certo opere isolate: gli anni Novanta hanno visto un’autentica esplosione
dei dibattiti sul senso, la definizione, quale fosse l’elemento più caratterizzante della storia del
Novecento, con conseguente proliferazione di proposte di periodizzazione.
Come ha suggerito Mariuccia Salvati: «l’incontro con la periodizzazione in chiave secolare è
statisticamente più probabile, quanto più si è vicini ai suoi estremi e, soprattutto quanto è
maggiore la confusione che regna nella interpretazione del passato».249
Indubbiamente la ridefinizione del panorama internazionale seguita alla caduta del Muro di
Berlino e l’avvicinarsi della fine del millennio hanno anticipato di una decina d’anni (e
notevolmente movimentato) questa discussione, con il risultato che nei primi anni del
Duemila si potevano già tirare le somme e cercare di classificare le variegate periodizzazioni
con cui si era tentato di suddividere e d’incasellare il XX secolo.
Questo capitolo, che ovviamente può coprire solo una parte ridotta dello sterminato dibattito,
mira a inserire le periodizzazioni di Hobsbawm e Arrighi e i temi da queste evidenziate in
prospettiva con i numerosi lavori dello stesso periodo. Si coprono in massima parte testi e
articoli degli anni Novanta e precedenti, per cui la discussione non è in gran parte aggiornata
agli ultimi sviluppi della storiografia.
«Il XX secolo ha costituito, per più versi uno spartiacque radicale nella storia del mondo. Si è
dissolto il tempo storico della distesa successione di eventi, sostituito dal disordine intenso
della simultaneità contemporanea, dove un enorme appiattito presente tende a divorare il
passato e il futuro».250
Per la vicinanza temporale e i profondi rivolgimenti avvenuti, il XX secolo è risultato
estremamente difficile da definire nella sua interezza. Le tendenze di lungo periodo quali lo
sviluppo demografico, i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e lo sviluppo tecnologico
e scientifico251 si sono intrecciate alle vicende della politica interna e internazionale e alle
battaglie culturali, moltiplicando i punti di vista e di analisi e di conseguenza le possibili
periodizzazioni.

249
M. Salvati, Il Novecento, “ParoleChiave”, 12/1996, p. 16.
250
F. Barbagallo, Interpretazioni del Novecento, “Studi Storici”, 43/2002, p. 443.
251
J. Habermas, Imparare dal ‘900, “Internazionale” 264, 1 Gennaio 1999, p. 39.
63
Il dibattito degli anni Novanta è stato estremamente condizionato dall’atmosfera culturale e
politica post ’89. Per Traverso: «il cambiamento di secolo, simbolicamente contraddistinto
dalla caduta del Muro di Berlino, costituisce il momentum di un’epoca di transizione in cui
vecchio e nuovo si mescolano. Durante questi due decenni termini come rivoluzione o
comunismo hanno assunto un significato diverso[...]: invece di indicare un atto o
un’aspirazione emancipatrice, ora evocano un universo totalitario. Al contrario parole come
mercato, impresa, capitalismo e individualismo [...] costituiscono i fondamenti naturali delle
società liberali post-totalitarie».252
Al contempo sono riapparse in forma nuova vecchie inquietudini. Se all’inizio del Novecento
si discuteva di come raggiungere e preservare la modernità, al termine del secolo, dopo
rivolgimenti politici, sociali ed economici, sembrano riattualizzarsi molti temi già assillanti
per gli studiosi della Belle Époque: il ruolo del liberalismo, dell’Europa, del nazionalismo, le
conseguenze della globalizzazione, il confronto tra Nord e Sud del Mondo. Tuttavia, se alla
fine dell’Ottocento si poteva cogliere un profondo ottimismo e la certezza che l’uomo potesse
influire sul corso della Storia, la fine del Novecento sembra caratterizzata da uno speculare
pessimismo e dalla sensazione diffusa di subire gli eventi.253
Una presentazione ordinata e originale del materiale dei dibattiti non è semplice. Un metodo
può essere quello di dividerli tra periodizzazioni chiuse, che si esauriscono all’interno del XX
Secolo, e aperte, per le quali caratteri portanti del sono ancora determinanti nel presente
millennio. Un’altra strada è quella tematica, partendo dalle definizioni del XX Secolo: secolo
breve, secolo lungo, secolo americano, secolo della violenza, secolo dei genocidi, secolo dei
totalitarismi, secolo della globalizzazione, secolo dell’informatizzazione, e altre ancora, in cui
ogni tema impone la propria scansione temporale.
Entrambi questi metodi hanno la loro validità ma creano confusione e sovrapposizioni nella
presentazione delle teorie. Quindi procederò ad esporre una serie di tesi e di temi di studio
utilizzando come riferimento una sequenza di anni/periodi chiave che ho individuato come
rilevanti nelle periodizzazioni di Hobsbawm e Arrighi. Autori e temi saranno quindi
classificati in base agli anni di avvio della loro periodizzazione.
Posto l’inizio dell’Età contemporanea abbastanza unanimamente negli anni della Duplice
Rivoluzione, nessun studioso retrodata i caratteri specifici del Novecento più in là della
seconda metà dell’Ottocento mentre molti li pongono in prosecuzione fino ai giorni nostri.
Il 1873, 1914-1917, 1939-1945, 1973, 1989-1991 saranno i nastri di partenza cronologici per
le varie periodizzazioni del XX secolo trattate dal dibattito degli anni Novanta.

252
E. Traverso, Il Secolo Armato, Op. cit. , p. 10.
253
M. Salvati, Il Novecento, Op. cit. , pp. 23-24.
64
3.2 “1873”.

Il 1873 è l’anno d’inizio della Grande depressione del XIX secolo e segna il passaggio
dal liberalismo classico, liberoscambismo ed egemonia britannica a nuove forme politiche ed
economiche. Arrighi lo considera l’inizio del lungo ventesimo secolo e l’avvio della fine del
XIX, con il passaggio di testimone tra l’egemonia britannica e l’egemonia statunitense.
La sua è un’interpretazione economicista basata sulla sua tesi dei cicli sistemici di
accumulazione (CSA) ma altre ricerche partendo da presupposti diversi hanno posto l’inizio
del Novecento in quest’anno: gli studi sull’avvio della globalizzazione, la tesi della
territorializzazione di Maier (entrambi con premesse e conclusioni molto simili ad Arrighi),
l’analisi della crisi delle medie potenze e dell’affermarsi del bipolarismo di Paul Kennedy,
l’idea di una crisi morale del liberalismo come caratteristica del ’900 in Vivarelli.

L’ultimo quarto dell’Ottocento è un momento fondamentale per le teorie di World History e


le tesi sulla globalizzazione. La World History ha largamente contribuito a rivedere la storia
antica, medievale e moderna con la sua triplice ottica attenta alla comparazione tra le civiltà,
agli effetti dei contatti culturalie e materiali e ai fenomeni trans-regionali. Il suo fondamentale
contributo ha permesso di ricollocare l’Europa nelle corrette posizioni nella graduatoria
globale delle civiltà nelle varie epoche e avviato una nuova riflessione sulle caratteristiche
costitutive dell’Occidente stesso e le particolarità del suo periodo di ascesa.254
Gli stessi caratteri fondamentali della “duplice rivoluzione” (Rivoluzione industriale e
politica) non sono usciti illesi da questa riconsiderazione. L’opera di Pomeranz disconosce
l’unicità della situazione europea pre-industriale (individuando condizioni simili anche in
Cina e in India) come condizione necessaria all’avvio dell’industrializzazione. Questa fu
determinata essenzialmente da variabili ecologiche e necessità commerciali, senza alcun ruolo
determinante della tecnologia e della cultura occidentale.255
Il lavoro di Bayly ha individuato la diffusione globale delle idee occidentali, in particolare il
nazionalismo, e la loro rielaborazione originale da parte delle altre civiltà già
nell’Ottocento.256 La sua analisi suggerisce quindi che fenomeni di adattamento e reazione
alla globalizzazione normalmente ritenuti tipici della seconda metà del Novecento hanno i
loro antecedenti diretti nel secolo precedente.257

254
P. N. Stearns, La «world history» come riorientamento in Traiettorie della «World History,
“Contemporanea”, 1/ 2005, pp. 108-109.
255
K. Pomeranz, La Grande Divergenza, Il Mulino, Bologna, 2000.
256
C. A. Baily, La nascita del mondo moderno. 1780-1914, Einaudi, Torino, 2009.
257
A. M. Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 307.
65
Lo studio in termini di World History del XX secolo sembra essere più sfuggente per effetto
dell’enorme aumento dei contatti internazionali (che riduce la specificità del loro ambito di
studio) e l’oggettiva occidentalizzazione del mondo (che appare omogeneizzare le differenze
tra le civiltà). L’importanza dell’Occidente nel plasmare il XX secolo è un fatto
incontrovertibile ma dà vita a periodizzazioni diverse: una che si identifica con Hobsbawm e
che vede il XX secolo come breve e caratterizzato unicamente dal processo di decadenza
dell’Occidente nonostante l’apparente ripresa dell’Età dell’oro e la secondo che s’identifica
con la prospettiva della globalizzazione. Secondo questo approccio:

«la fine del diciannovesimo secolo si riconfigura come l’inizio dell’odierna globalizzazione, per la sua
enfasi sulla rapida accelerazione del commercio, sull’apertura dei due grandi canali e sulle nuove
tecnologie del trasporto globale e delle comunicazioni. Ma queste tendenze subirono una successiva
battuta d’arresto, intorno alla metà del ventesimo secolo, a causa di reazioni regionali contro la
globalizzazione, almeno nella sua forma imperialistica e dominata dall’Occidente: il ritiro sovietico fu
essenziale, ma un contributo venne anche dagli sviluppi in Giappone, nella Cina di Mao e in alcuni dei
movimenti per l’indipendenza nazionale. Poi, negli anni Settanta e Ottanta (la riapertura internazionale
della Cina nel 1978, le nuove politiche di Gorbacev nel 1985), la globalizzazione riprese il proprio corso
ancora una volta. Ciò fu il frutto di revisioni nelle politiche ma anche di una nuova generazione di
tecnologie globali, segni del fatto che il nuovo periodo si estenderà ben all’interno del ventunesimo
secolo sia pure, naturalmente, tra nuove resistenze e dibattiti. La ridefinizione dei fattori chiave del
ventesimo e del ventunesimo secolo in termini globali ha rinnovato temi quali il paradigma della
modernizzazione che gli storici della world history hanno a lungo disdegnato perché preoccupati, a
ragione, delle sue inclinazioni etnocentriche. È vero, ovviamente, che una definizione di modernizzazione
in termini strettamente occidentali non coglie nel segno, così come è vero che non siamo ancora in grado
di conoscere i risultati finali di un processo di cambiamento, ridefinizione e resistenza che non si è ancora
concluso. Ma a forgiare la world history contemporanea sono stati in parte alcuni processi grosso modo
comuni che ebbero avvio in Occidente, ma che sono stati poi trasferiti al di là dei confini occidentali».258

Su linee molto simili procede il ragionamento di Osterhammel e Petersson.


La globalizzazione interessa un gran numero di ambiti: economia, tecnica, organizzazione
dello Stato, cultura, intrecciando periodizzazioni diverse. La loro proposta è quindi relativa al
grado di consapevolezza con cui le civiltà hanno gestito i contatti transnazionali nei millenni.
Si articola in una “preistoria della globalizzazione” che comprende i tentativi interrotti di
globalizzazione nell’Antichità e nel Medioevo, l’epoca di avvio della globalizzazione dal ‘500
alla metà del ‘700 in cui gli stati europei perseguirono progetti razionali di creazione di reti
globali, la fase dal 1750 al 1880 caratterizzata dal libero commercio e dall’esportazione della

258
P. N. Stearns, La «world history» come ri-orientamento, Op. cit. , pp. 111-112.
66
cultura e delle istituzioni occidentali nel resto del mondo. Il periodo contemporaneo della
globalizzazione inizia nel 1880, epoca in cui si afferma una politicizzazione della
globalizzazione. Le società iniziano ad esprimersi in termini nazionali e a voler gestire
politicamente, ossia in funzione della potenza nazionale, gli effetti prodotti dalle reti
dell’economia mondiale.
Dal 1880 al 1945 i contatti a livello globale (scambi commerciali, integrazione economica,
migrazioni) aumentano fino all’inizio dei conflitti globali tra potenze mondiali che aprono una
fase di massiccia deglobalizzazione. La fase che va dal 1945 agli anni Settanta vede un
tentativo di ricostruire l’ordine mondiale, mediante strutture di governo sovra-nazionali e il
confronto con due modelli di sviluppo rappresentati dalle due superpotenze. Dagli anni
Settanta in poi si susseguono mutamenti confliggenti: crollo dell’Urss, crisi Stato sociale,
liberalizzazione degli scambi, progressi della comunicazione, diffusione di un opinione
pubblica globale.
Nell’insieme, da un lato destrutturano le istituzioni regolatrici della realtà internazionali e
dall’altro aumentano la rilevanza dei fenomeni trans-nazionali: dando la diffusa sensazione di
vivere una globalizzazione compiuta ma problematica.259

Sempre partendo dal 1870, incrociamo a metà strada tra la prospettiva breve di
Hobsbawm e quella lunga di Arrighi l’interessante proposta di periodizzazione alternativa di
Charles Maier, basata sul processo di territorializzazione. Un lavoro, quello di Maier con
importanti debiti intellettuali nei confronti della ricerca di Ruggie, che ha studiato l’emergere
del controllo territoriale da parte dello Stato centrale a partire dal ‘500 come elemento
centrale dell’Età moderna e distintivo rispetto all’attuale età post-moderna, in cui le stesse
realazioni internazionali sono scisse in una serie di piani concettualmente distinti e
difficilmente riportabili all’unità.260
Nel suo saggio I fondamenti politici del dopoguerra, Maier elabora una doppia
periodizzazione dell’Europa dal ‘45 agli anni Ottanta, basata sulla lettura del conflitto politico
da una parte e dell’evoluzione economica dall’altra. Mentre il primo risulta piuttosto
complesso da descrivere, suddiviso in diverse fasi di collaborazione, conflitto e
trasformazione delle formazioni politiche e sindacali e dei movimenti sociali, la seconda
individua in maniera molto più netta un un primo periodo dal ‘45 al ‘68 che è «caratterizzato
da uno sviluppo a intensità di capitale e dall’industrializzazione in base al cosìdetto modello

259
J.Osterhammel, N. Petersson, Storia della globalizzazione, Il Mulino, Bologna, 2005.
J. G. Ruggie, Territoriality and beyond: problematizing modernity in international relations, “International
260

Organization”, n. 47, pp. 139-174.


67
fordista; dalla migrazione di forza lavoro dalle aree rurali alle città» e un secondo dal 1968 al
1989 «caratterizzato dall’emergere delle industrie elettroniche e di elaborazione dei dati, dal
declino delle tradizionali industrie pesanti e dai bassi prezzi del petrolio».261
Questi caratteri hanno creato una spazialità basata su linee e confini, contrapposta a quella
attuale basata sulle reti, passando per periodi di crisi e di assestamento (gli anni Novanta
dell’Ottocento, gli anni Trenta del Novecento) fino agli anni Settanta, quando lo spazio delle
decisione politica si è trovato scisso da quello economico, riducendo la capacità degli Stati-
nazione di garantire la stabilità.262
Nel saggio Imperi o Nazioni? Maier affina il concetto descrivendo l’emergere dello Stato-
nazione europeo nella seconda metà dell’800, caratterizzato dalla centralizzazione
amministrativa, dalla razionalizzazione dello spazio fisico e dall’alleanza politica tra nobiltà
terriera e borghesia in ascesa. Gli stessi elementi che contribuiscono a realizzare il controllo
interno dello Stato da parte del governo portano al contempo ad una politica espansionista di
tipo imperiale, esacerbando tensioni che sarebbero poi scoppiate nel primo conflitto mondiale.
C’è un parallelo tra la situazione del primo dopoguerra e quella attuale post ’89: in entrambe
un sistema di scambi imperiali si è frantumato senza che emergesse un’alternativa per la
gestione dell’economia e della finanza globali.263
Un’elaborazione più completa della teoria viene successivamente elaborata nei saggi Secolo
corto o epoca lunga? e Consigning the twentieth century to history: «La territorialità significa
significa semplicemente le propiretà incluso il potere, fornite dal controllo dello spazio
politico definito da confini che fino a tempi recenti ha creato la struttura per l’unità nazionale
e spesso etnica. Nonostante il fatto che l’abbiamo data per scontata così a lungo, la
territorrialità non è stata un’attributo senza tempo delle società umane. Si tratta di una
formazione storica e la sua forma politica è anch’essa storica, ha un inizio e una fine».264
Per l’autore statunitense il Novecento si identifica in un periodo che procede dal 1860-70 fino
al 1970-80, quando i suoi presupposti vacillano. «La territorialità è stato un principio
organizzativo delle società così pervasivo che solo da quando ha iniziato a dissolversi gli
storici e gli scienziati socili hanno compreso il peso del suo ruolo».265
Individuando i limiti delle contrapposte proposte di Secolo breve e lungo ventesimo secolo,
propone d’individuare un’epoca dai tratti coerenti in cui gli stati hanno rafforzato i governi

261
C. S. Maier, I fondamenti politici del dopoguerra, in AA. VV., Storia d'Europa, Vol. I, L'Europa oggi,
Einaudi, Torino, 1993.
262
M. Salvati, Il Novecento, Op. cit. , p. 39.
263
C. S. Maier, Imperi o nazioni? 1918, 1945, 1989..., “Il Mulino”, n. 5, 1995.
264
C. S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History: Alternative Narratives for the Modern Era ,
“American Historical Review”, 105(3), p. 808.
265
Ivi, p. 809.
68
centrali a discapito delle autorità regionali e delle forme politiche confederali, mobilitato
continuamente la forza militare per gli scopi interni ed esterni del governo, cooptato i leader
della finanza, dell’industria e della cultura a fianco dell’élite terriera non più superiore ma
ancora potente, sviluppato una struttura industriale basata su acciaio e carbone e applicato la
sccienza ai trasporti sulle lunghe distanze di beni e persone e alla produzione di massa.266
Il modello economico e l’organizzazzione sociale generato da questo sistema si sono
mantenuti per la durata di un secolo circa, che Maier definisce l’Età industriale. Dall’inizio
degli anni Sessanta fino alla caduta dell’Urss, una serie di elementi sono andati a disgregare il
modello territorialista così com’era costituito.267
In questo periodo sono avvenuti fatti come il ricomparire del conflitto redistributivo e il crollo
delle relazioni industriali collaborative, l’impegno americano in Vietnam e la protesta sociale
da questo generato, la perdita di volontà degli USA di continuare ad accollarsi i costi del
sistema di Bretton Woods, l’emergere di nuovi contendenti economici presso cui si iniziarono
spostare le attività economiche secondarie, segnatamente in Asia orientale. Infine, il crollo
dell’Unione Sovietica, che fu conseguenza della sua strenua resistenza ad abbandonare il
fordismo e gli elementi del potere territorialista, che la sottopose ad una pressione
internazionale insostenibile. 268
«Popolazioni ed élite hanno perso la garanzia di uno spazio teritoriale che garantisse il
controllo della vita pubblica. Lo spazio dell’identità è stato separato dallo spazio delle
decisioni» prevalentemente a causa dell’internazionalizzazione del processo di decisione
economico. «La base economica della vita pubblica ha subito un nuovo orientamento [...] il
fordismo appare superato nella misura in cui le imprese organizzano la produzione di squadra
e producono una gamam più ampia di prodotti personalizzati». È il passaggio dalla
produzione fordista al cosìdetto modello toyota.
Infine «le fondamentali configurazioni di classe che crearono il vecchio ordine sociale sono
cambiate»: il confronto a base nazionale tra aristocrazia-borghesia e gli emergenti ceti
lavoratori occupati nella produzione industriale si è ristrutturato. Il mondo presente è
caratterizzato da una incolmabile distanza tra l’élite transnazionale addetta al controllo dei
flussi economici e l’umile classe addetta ai servizi, con un modello sociale dalla struttura a
cerchi concetrici piuttosto che la tradizionale piramide.269
Gli anni Sessanta costituiscono quindi una paradossale fine del secolo in cui la rinuncia al
principio territorialista espone le popolazioni sviluppate ad un confronto diretto, non

266
Ivi, p. 814.
267
C. S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History, Op. cit. , pp. 823-824.
268
C. S. Maier, I fondamenti politici del dopoguerra, Op. cit. , p. 367.
269
C. S. Maier, Secolo corto o epoca lunga?, “Parolechiave”, 12/1996, pp. 64-65.
69
mediabile o interponibile dallo Stato con le migrazioni e i flussi economici internazionali,
rischiando sul lungo periodo un drammatico aumento dei conflitti.270
Il lavoro di Maier riporta interessanti somiglianze con il saggio di Raymond Aron L’alba
della storia universale, in cui lo studioso francese ipotizzava una progressiva convergenza
delle diverse storie umane in una unica storia universale. Nel 1960 descriveva il secolo
trascorso come caratterizzato da una ascesa sostanzialmente ininterrotta della crescita
economica e dello sviluppo tecnologico, a fronte di una convulsa storia delle relazioni
internazionali culminata con il tracollo europeo. Nella sua visone, le dimensioni della prima
trasformazione sopravanzavano largamente la seconda e avevano diffuso in tutti i paesi del
mondo simili forme di produzione e di organizzazione sociale. Anche la divisione in blocchi
non era stata un ostacolo rilevante all’universalizzazione dell’esperienza umana.271
È piuttosto evidente un parallelo tra la territorializzazione di Maier e i cicli estensivi/intensivi
di Arrighi, con il secolo industriale che corrisponde per gran parte all’epoca dell’egemonia
americana (appunto un ciclo intensivo). Entrambi sono fenomeni globali in cui lo Stato lavora
ad accrescere il controllo sul territorio e sulle organizzazioni. Maier, pur parlando di una
diffusione globale della territorializzazione, la intende dal punto di vista della politica interna
mentre Arrighi ne parla in relazione alle politiche internazionali delle potenze capitaliste,
egemoni in ciascun ciclo sistemico di accumulazione.

Il lavoro di Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, del 1987, periodizza
la seconda parte del ‘900 dal 1942 al 1980 come epoca bipolare e la fase precedente dal 1885
al 1942 come era della crisi delle medie potenze. Kennedy basa la sua estesa analisi della
potenza nazionale su una serie di assiomi.
La forza relativa delle nazioni dominanti non è mai costante a causa del disuguale tasso di
crescita e dell’imprevedibilità dei progressi tecnologici e organizzativi. Il potenziamento
dell’economia e della tecnologia rende possibili espansioni della propria potenza tramite la
guerra. Il binomio crescita economica-potenza militare può andare in crisi se una percentuale
troppo elevata di ricchezza vine spesa in armamenti e la potenza dominante assume impegni
strategici eccessivi (iper-estensione imperiale) dal punto di vista costi-benefici.
Mentre la prima Rivoluzione industriale aveva relativamente stabilizzato la situazione
internazionale grazie alla supremazia navale britannica e all’equilibrio europeo, la seconda lo
rese progressivamente sempre più complesso e instabile. La crescita favoriva in particolare le

270
C. S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History, Op. cit. , pp. 829-830.
R. Aron, L’alba della storia universale, in Il ventesimo Secolo. Guerre e società industriale, di R. Aron, Il
271

Mulino, Bologna, 2003, pp. 141-170.


70
due potenze continentali: Russia e USA, mettendo in discussione il mondo eurocentrico le cui
nazioni, eccetto la Germania, perdevano posizioni tra le potenze.
La metamorfosi dolorosa del sistema venne dalle due guerre mondiali e dalla Grande
depressione, con l’intermezzo degli anni venti in cui l’isolamento di USA e Urss, lasciarono a
Inghilterra e Francia un ruolo internazionale sproporzionato al peso economico. Lo scoppio
della seconda guerra mondiale causato dalle potenze revisioniste trascinò tutte le nazioni
europee nel declino e il sistema internazionale divenne bipolare, almeno dal punto di vista
degli armamenti e dell’influenza politica. Tuttavia già dagli anni Settanta erano visibili
elementi che segnalavano una nuova distribuzione globale del reddito che stava erodendo la
posizione delle superpotenza.
La tesi di Kennedy di un declino americano negli anni della reaganomics suscitò un aspro
dibattito che andò addirittura ad influenzare le elezioni presidenziali dell’88, ma l’autore
inglese aveva visto correttamente, in particolare sulle dimensioni enormi del processo di
deindustrializzazioni e sugli effetti deleterei che avrebbe avuto per l’economia e la difesa
degli USA.272 Il suo paradigma declinista venne duramente attaccato dai critici che
sostenevano la continuità della potenza statunitense, resa possibile pochi anni dopo dal crollo
dell’Urss che rendeva gli USA l’unica superpotenza.273
In effetti l’autore moderò la sua visione del declino americano nell’opera successiva Verso il
XXI Secolo. «Ma questa situazione scalfisce solo apparentemente il discorso analitico di
Kennedy, in quanto una serie di elementi come la caduta del saggio di incremento della
produttività e soprattutto l’enorme indebitamento internazionale dell’economia americana
sono dati strutturali difficilmente sottovalutabili in un’analisi di lungo periodo. [...]La
domanda quindi sulla persistenza e la durata del ruolo centrale americano nelle relazioni
internazionali [...] è tutt’altro che facilmente esorcizzabile».274
Paradossalmente quando negli anni Ottanta scriveva con la consapevolezza della grave crisi
degli anni Settanta, aveva avuto alcune intuizioni di lungo periodo più lungimiranti di quelle
poi formulate negli anni Novanta.

272
«Paul Kennedy, in Ascesa e declino delle grandi potenze,pubblicato nel 1987, prevedeva alcuni dei fatti
sopra richiamati. In particolare, secondo il docente di storia presso la Yale University, la grande potenza
denominata Stati Uniti d’America era in declino. Perché? Proprio a causa dello squilibrio tra una grande
ambizione imperiale che imponeva di destinare ingenti risorse al settore militare e lo sviluppo economico
nazionale. L’unico modo per impedire questo declino sarebbe stato ridurre gli obiettivi imperiali e i pesanti costi
degli apparati militari governativi, compresi i servizi di sicurezza. Questo, per l’autore, era una priorità dedotta
dalla sconfitta subita dagli americani in Vietnam e non necessariamente un’anticipazione dello scenario creato
nel 1991 dalla caduta del Muro di Berlino. In ogni caso, il libro contribuì all’emergere nell’opinione pubblica di
una corrente favorevole alla riduzione degli investimenti nei settori della difesa e dell’apparato militare».
D.R. Curto, Storia globale: interpretazioni e previsioni, in Ascesa e declino delle grandi potenze di Paul
Kennedy, “Contemporanea” / a. V, n. 2, aprile 2002, pp. 369-170.
273
G. Formigoni, Un’analisi globale dell’egemonia delle potenze, Op. cit. , p. 373.
274
Ivi, p. 376.
71
Di Nolfo fa notare come l’aspetto rivoluzionario dell’approccio di Kennedy stia
nell’individuare una serie di elementi e seguirli nel tempo, attraverso soggetti internazionali
mutevoli, riuscendo a ricomporre eventi e dinamiche di lungo periodo.275 Insieme
all’importanza data alla dimensione economica della potenza statale, questo è un aspetto che
lo accomuna decisamente ad Arrighi, nonostante le molte differenze.276

Un’ultima periodizzazione alternativa centrata sul 1870 è quella di Vivarelli. Nel suo
volume I caratteri dell’Età contemporanea, i progressi liberali in Europa e negli Stati Uniti
conseguiti a partire dal ’48 vengono messi in discussione dalla nascita dell’Impero Tedesco e
dalla Comune di Parigi.
Il primo segna la possibilità di un modello di Stato nuovo in cui è possibile coniugare
sviluppo industriale e tecnologico con autoritarismo e conservatorismo. La seconda riporta
all’ordine del giorno la possibilità il tema della rivoluzione, che sembrava essersi chiuso nel
’48: il socialismo rivoluzionario subentra definitivamente al giacobinismo. L’emergere del
nazionalismo, la corsa all’accaparramento di colonie, sgretolano ulteriormente il consesso
liberale: progressivamente la rivalutazione della volontà di potenza come una disposizione
legittima dei grandi stati e la considerazione della forza militare come uno strumento
ordianario per affermare i propri interessi generano quel clima di incertezza e di tensione che
sarà causa dello scoppio della prima guerra mondiale.
L’intera storia del ‘900 viene quindi reinterpretata alla luce della crisi morale del liberalismo
iniziata verso il 1870.277

275
E. Di Nolfo, Un’opera innovativa, in Ascesa e declino delle grandi potenze di Paul Kennedy,
“Contemporanea” / a. V, n. 2, aprile 2002, p. 366.
276
G. Formigoni, Un’analisi globale dell’egemonia delle potenze, Op. cit. , p. 374.
277
R. Vivarelli, I caratteri dell’età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2005.
Un aspetto interessante del volume che lo collega ad Arrighi è la simile lettura dell’opera di Adam Smith.
Entrambi gli autori rifiutano la vulgata di uno Smith alfiere del neo-liberismo e dell’individualismo. Arrighi ne
valorizza gli elementi statalisti, Vivarelli la visione della società commerciale.
72
3.3 “1914-1917”.

Il secondo periodo rilevante è il 1914-1917, l’inizio della periodizzzazione


novecentesca di Hobsbawm, improntata alla rilevanza del fenomeno del comunismo. Ho già
discusso come la visione in definitiva positiva di Hobsbawm del fenomeno del comunismo
nel Novecento andasse contro le molte tesi che Maier ha definito narrative morali del
Novecento che leggevano retrospettivamente il secolo per giustificare l’apparente trionfo
della democrazia e del neo liberismo degli anni Novanta.278
Diversi autori hanno lavorato su questa tematica, ma per mantenere il riferimento a
Hobsbawm mi concentrò su quello che personalmente definirei il dibattito Hobsbawm-Furet-
Nolte sul ‘900 come secolo delle ideologie e dei totalitarismi.
Un precedente importante per questa impostazione è Il Secolo delle ideologie di Karl Bracher
del 1982. L’autore descrive il ‘900 come l’era ideologica. «Il nostro secolo nasce sotto il
segno di una trasformazione che sarà gravida di conseguenze: la trasformazione di idee
politiche in ideologie». La politica si distingue dalle epoche precedenti per il bisogno di una
giustificazione ideale del suo sistema, l’ampiezza dei mezzi di comunicazione con cui entrare
in contatto con l’opinione pubblica, la facilità con cui questa può cadere preda della
manipolazione.279 La nozione di ideologia da lui impostata non rimanda tanto all’originale
sinonimo di utopia ma al concetto di totalitarismo come si era sviluppato nel clima della
guerra fredda e nlla elaborazione di Hannah Arendt e quindi alla sostanziale comparabilità tra
comunismo, nazismo e fascismo.280
In varie opere, ma sopratutto ne Il passato di una illusione, la presa dell’ideologia del
Novecento viene spiegata da Furet come una crisi del liberalismo, stretto per tutto il secolo
dagli opposti estremismi ideologici del comunismo e del fascismo. Questa fu generata
dall’esperienza della prima guerra mondiale che favorì la la formazione di una mentalità
collettiva ricettiva alle ideologie totalitarie. Attraverso l’acriticità degli intellettuali europei in
particolare l’ideologia comunista ha poi continuato a restare popolare anche dopo la sconfitta
del nazismo. Per lo studioso francese, l’intera vicenda del comunismo in Europa mette in luce
la debolezza dell’idea liberale, troppo spesso incapace di far nascere la legittimità dell’azione
pubblica dalla sfera civile e degli interessi privati.281

278
C. S. Maier, Consigning the Twentieth Century to History, Op. cit. , pp. 826-827.
279
Karl Bracher, Il Novecento. Il secolo delle ideologie, Laterza, Roma-Bari, 1999.
280
M. Salvati, Il Novecento. Interpretazioni e bilanci, Op. cit. , p. 60.
281
F. Furet, Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano, 1995.
73
Davanti a questo contraddizione, i rivoluzionari di destra e sinistra hanno dato delle risposte
che offrono l'illusione di ricreare una comunità reale, rifiutando il gretto egoismo della
borghesia, l'ideologia dei diritti e la democrazia liberale.
Rispetto ad Hobsbawm, pur considerando la vicenda del comunismo centrale nel ‘900, c’è
una visione del suo percorso come di una parentesi della storia, con le ideologie totalitarie che
interrompono il cammino pluri-secolare del liberalismo,282 che può finalmente riprendere
sulla sua strada dopo l’89. Hobsbawm invece evidenzia con forza il ruolo propulsore della
sfida del comunismo nel favorire le trasformazioni degli stati occidentali: per il definitivo
affermarsi della democrazia, la riforma dell’economia e dello Stato sociale.283
Ideologia e comunismo sono centrali anche negli studi di Nolte: «si può dire che oltre settanta
degli anni che formano il XX secolo sono stati in realtà l’Età del comunismo, giacché esso ha
rappresentato la sfida più potente e determinante di tutta la tradizione storica in seno al
sistema liberale».284
L’autore tedesco, allievo di Heidegger, considera l’ideologia in senso nettamente più
filosofico rispetto agli altri. Nella sua visione il comunismo, portando all’estremizzazione la
cultura progressista di matrice liberale ottocentesca, ha scatenato per reazione il sorgere del
fascismo come risposta alla cultura della trascendenza e all’angoscia del singolo dinnanzi alla
modernità. Inaugura così l'interpretazione storico-genetica del totalitarismo, che si
differenziava dalla classica interpretazione politologica-strutturale di Hannah Arendt e dagli
studi di Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinski. Questi non avevano individuato il nesso tra
l'affermazione del bolscevismo nel 1917 e la successiva nascita del fascismo.
Nolte con il suo volume del 1987, La Guerra civile europea, propone un nesso causale tra le
due ideologie totalitarie del Novecento: il comunismo e il nazionalsocialismo.285
Il comunismo sovietico precede il fascismo non solo cronologicamente, ma ne è anche la
premessa, la causa scatenante. Il fascismo può affermarsi perché si oppone come
controrivoluzione militante alla Rivoluzione bolscevica, che dall'ex impero russo minaccia di
diffondersi,imponendo il suo spietato sterminio di classe. Il nazionalsocialismo è per Nolte
una forma di fascismo particolarmente radicale, perché adotta i metodi violenti del
bolscevismo e la sua pratica di sterminio fisico degli avversari.

282
F. Furet, Le foglie morte dell’utopia, “Le Nouvel Observateur”, 26 aprile 1990.
283
E. Traverso, Il Secolo Armato, Op. cit. , pp. 38-39.
284
E. Nolte, Dopo il comunismo, in E. Nolte, Dopo il comunismo. Contributi all’interpretazione della storia del
XX secolo, Sansoni Editore.
285
E. Nolte, La Guerra civile europea, Bur, Milano, 2008.
74
Queste premesse lo portano successivamente alla controversa visione del gulag come
precedente del lager e dell’Olocausto come risposta nazista agli stermini comunisti.286
Furet e Nolte si distinguono per la diversa periodizzazione del ‘900, che inizia nel 1914 con la
prima guerra mondiale per Furet e nel 1917 con la Rivoluzione bolscevica per Nolte.
Per Nolte all'origine del totalitarismo non sta tanto la Grande Guerra, e nemmeno
l'incubazione ideologica del nazionalismo e del pensiero antidemocratico nei decenni
precedenti, ma la Rivoluzione bolscevica. Certo, il 1917 è anche per lui la conseguenza del
1914, ma senza la paura suscitata dal bolscevismo non vi sarebbero state la reazione fanatica e
totalitaria del fascismo e lo scoppio della guerra civile europea.
Furet rimprovera a Nolte di non aver compreso che la Grande Guerra, l'interventismo e la
nascita del fascismo italiano hanno significato una rottura epocale all'interno della destra
europea, che uscì così dalle tradizionali ideologie controrivoluzione in cui si trovava immersa
dalla Rivoluzione francese. Furet più di Nolte afferma l'autonomia del fascismo come
ideologia e movimento politico rispetto al bolscevismo o, più in generale, al marxismo.
Quindi valorizza maggiormente il ruolo della prima guerra mondiale e il retroterra ideologico
già formatosi nella cultura politica europea rispetto alla Rivoluzione d' Ottobre.
L’interpretazione di Hobsbawm, che non assegna una particolare originalità al fenomeno del
fascismo, sembra propendere paradossalmente nella direzione di Nolte. Anche se
ideologicamente all’opposto entrambi partono dalla centralità dello scontro tra comunismo e
nazismo nel XX secolo per ricavare letture simmetriche e apologetiche dell’uno e dell’altro.
Entrambi riconoscono crimini ed orrori dei due regimi ma trovano elementi per giustificarli
(la derivazione dello sterminio nazista da quello comunista, l’inevitabilità delle scelte di Stalin
nel contesto russo) o perlomeno per spiegarli.287
In conclusione, Marcello Flores fa notare come al di là delle differenti considerazioni sugli
esiti del fenomeno del comunismo, i tre autori siano in sintonia su quello delle definizioni,
interpretando il Novecento come secolo dell’ideologia, del totalitarismo e della guerra civile
internazionale.288 Ma in questo tipo di periodizzazione rileva una sopravvalutazione del
fenomeno stesso, accompagnata da un’analisi dell’ideologia che è in realtò ideologica
anch’essa, legata alla volontà di affermare il trionfo del liberalismo o di cercare di negarlo,
negli anni Novanta.289

286
L’opera di Nolte è all'origine della “controversia degli storici”, il cui principale protagonista, oltre all’autore,
è stato il filosofo tedesco J. Habermas, che ha accusato Nolte di praticare una sorta di giustificazionismo, di
chiara impronta conservatrice, della recente e tragica storia tedesca.
287
E. Traverso, Il Secolo Armato, Op. cit. , p. 42.
288
M. Flores, Il Secolo del comunismo, “Il Mulino”, n. 4, 1995, pp. 583-592.
289
Traverso parla di ideocrazia per le varie interpretazioni pro e anti comuniste che hanno letto il fenomeno, e la
storia del ‘900 in generale, unicamente dal punto di vista della storia delle idee.
75
3.4 “1939-1945”.

Il periodo 1939-1945, posto cronologicamente a metà del ‘900, è il punto di partenza


per una serie di periodizzazioni che enfatizzano la netta rottura tra le due parti del secolo,
evidenziando diverse importanti discontinuità (nel caso di Hobsbawn il passaggio dall’Età
della catastrofe all’Età dell’oro) oppure che centrano la loro analisi sul dato drammatico di
quegli anni, la violenza delle guerra e del genocidio, come aspetto maggiormente rilevante del
‘900.

Tra le interpretazioni che evidenziano il forte cambiamento a livello di relazioni


internazionali, Romero nota come la seconda guerra mondiale sia stata un fondamentale
spartiacque (non solo europeo). Quattro i motivi: la completa ristrutturazione del sistema
internazionale intorno agli USA, con la reale possibilità di distruzione della civiltà umana
mediante le armi atomiche; l’enorme aumento del numero dei soggetti sovrani a seguito della
decolonizzazione e del riconoscimento di una comunità internazionale; la progressiva
riconoscimento dell’uguaglianza tra i popoli, con la fine della pretesa di superiorità razziale
dell’occidente; l’inizio di una riflessione sulla tematica dell’ecologia planetaria e dei limiti
dello sviluppo.290
Prospettiva molto simile anche in Formigoni, che individuata l’importanza del ’45 anche per
le tesi di Hobsbawm e i teorici del sistema mondo, legge il secondo conflitto mondiale come
grande scontro globale, «l’ultimo e più clamoroso episodio di una lunga crisi in cui si erano
sfasate tra di loro dinamiche economiche sempre più globali e dinamiche politiche
territorialmente definiti».291
Il 1945 è uno spartiacque fondamentale nella storia del sistema internazionale: «La fine della
guerra ha archiviato i tempi in cui era possibile intendere la territorialità in senso chiuso e
antagonistico, [...]. Il passaggio della guerra costrinse però gli Stati nazionali a ricollocarsi in
un ordine determinante di crescenti interrelazioni globali, economiche e politiche. [...] Il
bipolarismo della guerra fredda si inserì in questo processo come un acceleratore nel mondo
economicamente avanzato, mentre rappresentò un ostacolo al movimento nel mondo
periferico extraeuropeo».292

290
F. Romero, Il ‘45 come spartiacque, in Periodizzazioni del secondo dopoguerra, a cura di Paolo Capuzzo,
“Contemporanea” / a. IX, n. 2, aprile 2006, pp. 320-321.
291
G. Formigoni, Il «nuovo mondo»: dagli imperi territoriali ai sistemi mondiali aperti, “Ricerche di Storia
Politica”, 1/2005, p. 21.
292
Ivi, p. 35.
76
Montroni invece è solo parzialmente in linea con questa tesi dell’anno spartiacque: valida
sicuramente per l’Europa che esce da un trentennio di tensioni e conflitti, ma non certo per il
mondo non-occidentale che aveva visto le ostilità iniziare già negli anni Trenta e le vedrà
proseguire per tutta la fase della decolonizzazione.293

Due autori importanti per le loro tesi sulla contemporaneità, Mazower e Barraclough
hanno particolarmente insistito sulla diminuzione del peso internazionale dell’Europa.
Nella sua opera Guida alla storia contemporanea (che ferma le sue analisi agli anni Sessanta),
dedica un capitolo a ciò che è da lui definito il «dwarfing of Europe». Il decennio del
Quraranta viene individuato come termine di un periodo iniziato alla fine dell’800 che ha
visto la progressiva perdita del vantaggio demografico relativo dell’Europa sul resto del
mondo, che aveva invece caratterizzato tutto il periodo seguente alla Rivoluzione industriale,
a seguito della transizione demografica.
A metà del Novecento l’Europa ha invece perso sia il vantaggio tecnico, ormai acquisito dalle
società extra-europee (che gli europei hanno costretto ad aprirsi ai contatti con loro), sia
quello demografico, colmato dai cambiamenti sociali generati appunto dalla diffusione della
tenica. A seguito delle guerre mondiali il risultato fu la perdita della sua posizione centrale
nelle relazioni internazionali.294
Il volume Le Ombre dell’Europa. Democrazia e totalitarismi nel XX Secolo. Mark Mazower
punta sulla continua ridefinizione del concetto di Europa nel ‘900. Evidenzia (con particolare
rilievo per il ruolo della Germania sia in ambito bellico, che nella ricostruzione economica) la
discontinuità di metà secolo, che ha visto nella prima l’avanzata del fascismo e i milioni di
morti delle guerre mondiali e nella seconda l’affermazione progressiva della democrazia e una
sostanziale assenza di guerre sul continente.295

Un altro punto di vista è quello del «secolo americano». Ottaviano Barié individua
l’affermarsi di questa locuzione nel linguaggio comune delle relazioni internazionali nel
secondo dopoguerra in contemporanea con il momento di massimo impegno politico,
diplomatico ed economico degli USA per creare un mondo ispirato e improntato alla propria
guida. Nella sua lettura il secolo americano si può considerare diviso in due parti. La prima è
quella in cui gli USA come impero fanno proprie molte delle caratteristiche e delle linee di

293
G.Montroni, Eventi e processi, in Periodizzazioni del secondo dopoguerra, a cura di P. Capuzzo,
“Contemporanea” / a. IX, n. 2, aprile 2006, pp. 327-330.
294
G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 65-94.
295
M. Mazower, Le Ombre dell’Europa. Democrazia e totalitarismi nel XX Secolo, Garzanti, Milano, 2000.
77
azione dell’Impero britannico, la seconda è invece il prolungato confronto con l’Urss, che
influenzerà pesantemente e negativamente la fisionomia degli USA.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, le somiglianze tra USA e GB sono notevoli: gli Stati
Uniti sono la culla della seconda Rivoluzione industriale, seguono la politica economica della
porta aperta paragonabile negli obiettivi e nei metodi al liberoscambismo britannico, hanno
una politica militare improntata al navalismo. Questa lunga fase ha avuto un bilancio
decisamente positivo sia a livello interno che internazionale.
Invece il successivo conflitto con l’Urss, a causa del prolungato stato di guerra e di paranoia,
della mancata crescita della democrazia a livello internazionale, ha eroso molti degli elementi
positivi rappresentati dagli USA. Si sono rivelati i limiti del suo modello di democrazia
interventista a livello internazionale, si è ridotto il vantaggio economico e tecnologico che gli
permetteva di farsi carico di problemi mondiali, è aumentato abnormemente il rilievo dei
tecnici civili e militari nelle decisioni politiche.296

La proposta più radicale è quella di Leonardo Paggi che nel Secolo Spezzato pone
l’inizio della contemporaneità stessa nel ’45. Abbandonando il ’14 come punti di partenza del
secolo e riconoscendo unità all’epoca 1870-1945, individua nel passaggio dall’Età della
catastrofe all’Età dell’oro la svolta del secolo. «I problemi di cui siamo contemporanei
insomma non nascono nel 1914, ma all’indomani della seconda guerra mondiale, allorché lo
Stato borghese europeo, quale ha cominciato a definirsi negli ultimi tre decenni del XIX
secolo,muore in un bagno di sangue trascinandosi nella tomba l’ordine internazionale che esso
è riuscito a imporre al resto del mondo».297 La discontinuità è articolata in quattro punti.
Il primo è il mutamento della natura della guerra rispetto al sistema internazionale: lo
strumento bellico smette di essere un legittimo mezzo per la risoluzione delle controversie e si
afferma il trading state, il cui successo economico non si traduce più in riaccumulazione di
potere militare. Il secondo vede l’affermazione di una interdipendenza economica
internazionale che rompe il legame tra sviluppo e territorialità. Il terzo comprende il
mutamento del ruolo della vita nello spazio pubblico, con la nascita della biopolitica e
l’importanza delle politiche demografiche. Il quarto individua la trasformazione delle identità
pubbliche, con la erosione del partito di massa e della lotta ideologica e il passaggio della
politica a rivendicazioni particolaristiche.

296
O. Bariè, Il Secolo Americano, “Nuova Storia Contemporanea”, 2/2013, pp. 5-18.
297
L. Paggi, Un secolo spezzato, Op. cit.

78
Riguardo a queste trasformazioni, la caduta dell’Urss nel ’91 non segna l’inizio di una nuova
era, ma segnala il fatto che i sovietici fossero stati incapaci di adattare il proprio sistema alla
realtà in evoluzione, mantenendo uno stretto legame tra potenza bellica e proiezionie
internazionale, un’economia poco integrata a livello internazionale che generava una
macroscopica dissociazione tra benessere e industrialismo e forme politiche via via sempre
più incapaci di soddisfare i bisogni e offrire rappresentanza alla propria popolazione.
«Ragionando in questa prospettiva, la dissoluzione incruenta dell’Unione Sovietica, più che
come fine del secolo, si configura piuttosto come tappa obbligata di passaggio in un processo
che è ancora in pieno svolgimento.
In altri termini, il “secolo spezzato” è anche un secolo aperto, un secolo su cui è illusorio
voler mettere la parola fine».298
Su una linea simile troviamo anche il giudizio di Jurgen Habermas. Per l’autore tedesco la
maggior parte delle interpretazioni del Secolo non danno «sufficiente importanza proprio
all’evento che fa da spartiacque del secolo, non soltanto dal punto di vista cronologico, ma
anche da quello economico, politico e sopprautto normativo: la sconfitta del fascismo. La
guerra fredda ha fatto dimenticare il significato ideologico dell’alleanza ben presto apparsa
innaturale fra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica contro il Reich tedesco».299
Questa particolare vittoria ha tolto ogni legittimità alle forze politiche anti-democratiche e alle
visioni culturali anti-illuministiche generando un’imponente cambiamento culturale che è
all’origine delle maggiori svolte del Secolo: il crollo pacifico dell’Urss (che può essere visto
retrospettivamente come il riconoscimento dell’inefficienza del suo sistema sociale ed
economico), il processo di decolonizzazione e la costruzione e successivo smantellamento
dello Stato sociale in Europa.
Passati gli anni Ottanta il problema maggiore per le nazioni resta quello di conciliare una
crescita economica che dipende fortemente dalle congiunture globali e una distribuzione della
ricchezza su scala nazionale, bilanciando l’aumento della disuguaglianza che la prima appare
imporre alla seconda.

Il 1939-1945 è centrale anche per la periodizzzazione del Novecento come secolo


della violenza. Il XX secolo è stato il peggiore che l’umanità ha vissuto nel corso della sua
storia?

298
Ivi, p. 106
J. Habermas, Imparare dal ‘900, Op. cit. , p. 42.
299

79
«Il pensiero corre ai brutali esperimenti del partito unico, al totalitarismo e al terrore di massa
basati su uno spietato convincimento ideologico, al pesante pedaggio delle nostre grandi guerre e al
ricorso ai nuovi metodi di distruzione di massa del mondo civile, gli aerei e le bombe nucleari, e infine al
genocidio, termine coniato per i progetti nazisti contro gli ebrei ma applicabile anche in altre situazioni.
Auschwitz, Hiroshima, le grandi purghe sovietiche e la Rivoluzione Culturale: queste sono le ben note
pietre miliari, morali ma anche politiche, di questo secolo. In realtà l’elenco può essere enormemente
allungato fino a comprendervi, a ben vedere, le catastrofi provocate da scelte politiche: le carestie in
Russia, in Asia orientale e in Africa, il catastrofico pedaggio dell’Aids in Africa o la diminuzione della
speranza di vita nell’ex Unione Sovietica, fenomeni senza precedenti che possono essere imputati a
politiche e leader politici che avevano altre priorità. È facile dunque allinearsi a Isaiah Berlin, per il quale
il XX secolo è stato il peggiore di tutti»300

Dunque un secolo di violenza e in particolare di genocidi, con la Shoah come evento centrale.
La riflessione sulla Shoah ha coinvolto numerosi pensatori creando un dibattito che ha
generato la categoria storiografica stessa dei genocidi. Dall‘interpretazione di Hannah Arendt
sul totalitarismo (per cui il Novecento ha visto la nascita di regimi politici caratterizzati da
una fusione inedita di ideologia e terrore che hanno cercato di rimodellare complessivamente
la società attraverso la violenza) segue la sua analisi della Shoah di cui fu la prima ad
evidenziare la natura industriale, burocratica e anti-umanistica.301
Zygmunt Bauman continuando sulla strada dell’interpretazione della razionalità strumentale
dell’Olocausto ha proposto di considerarla come un esito della modernità e come un test delle
possibilità occulte insite nella società moderna.302
«Il dibattito sull’unicità e la comparabilità dei crimini nazisti è sorto negli ultimi trent’anni,
trasofrmando la Shoah in un paradigma delle violenze del Novecento. Dapprima percepito
come un aspetto marginale della seconda guerra mondiale, l’Olocausto ha progressivamente
acquisito lo statuto di un evento storico cruciale e irriducibilmente singolare. [...] Durante gli
anni ottanta, l’Olocausto si è insediato al centro della memoria occidentale come un momento
di svolta della storia del Novecento, incoraggiando e accompagnando un impressionante
aumento della ricerca».303
La discussione sulla natura unica o comparabile dell’Olocausto esula da questa discussione,
visto che Arrighi non si occupa mai del fenomeno e Hobsbawm non gli assegna una posizione

300
C. S. Maier, Il Ventesimo secolo è stato peggiore degli altri? Un bilancio storico alla fine del Novecento, “Il
Mulino”, n. 6, 1999, p. 996.
301
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009.
302
Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 2010.
303
E. Traverso, Op. cit., p 106.
80
privilegiata: Il Secolo breve è anche il secolo della violenza ma nel suo contesto generale di
Età degli estremi, non in relazione ad un evento particolare.
Un’intepretazione alternativa, che vale la pena di citare per la sua rilevanza sistemica, è quella
di Maier. Nel saggio Il Novecento è stato peggiore degli altri? Maier rigetta le comparazioni
basate sulla contabilità dei morti dei diversi genocidi, e parte dalla constatazione che
l’immagine violenta del Novecento non risiede tanto nella sua ampiezza o diffusione ma da
due sue terribili caratteristiche: «La prima è il ritorno di quell’elemento che gli intellettuali del
XIX secolo giudicarono particolarmente spaventoso nel terrore rivoluzionario francese: la
propensione a uccidere per ragioni ideologiche perseguendo una grande utopia sociale. La
seconda è il carattere concretamente regressivo della violenza e del terrore: la rinuncia
deliberata alle conquiste umanitarie del passato, la riscoperta di impulsi omicidi che volevamo
credere di aver lasciato alle nostre spalle».304
Riguardo a questa tematica il XX secolo viene diviso dall’autore in due periodi: prima e dopo
il ‘45. Per il primo la violenza è stata concentrata in Europa mentre per il secondo, dopo la
pacificazione del vecchio continente, le violenze genocide sono proseguite in più occasioni
nel Terzo mondo. Questa bipartizione cronologica è connessa con una doppia interpretazione
del fenomeno: gli studiosi della violenza in Europa tendono a ricercare la causa ultima dei
genocidi nel fenomeno del totalitarismo, mentre i ricercatori dei paesi in via di sviluppo ne
hanno individuato l’origine nella categoria dell’imperialismo, vero colpevole di aver creato la
mentalità genocida. Maier riconosce che nella seconda lettura s’inseriscono anche discorsi
rivendicativi indirizzati più a denunciare la disparità di ricchezza globale che ad analizzare la
natura del fenomeno del genocidio, ma nota come:

«La globalizzazione conferisce una nuova urgenza alla seconda lettura del XX secolo che a molti
di noi appariva marginale rispetto alla storia autentica del secolo. Essa ci ricorda che la prima storia è
terminata ma che la seconda si è soltanto trasformata. Possiamo continuare a leggere “Se questo è un
uomo” di Primo Levi ma dobbiamo anche rileggere “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad. In definitiva,
però, la prospettiva della storia mondiale rivela che le due letture rimangono interconnesse.[...] L’epoca
delle massime violenze politiche in Europa, il periodo tra il 1914 e il 1947–48, fu esattamente il periodo
in cui le potenze coloniali europee avevano raggiunto un certo equilibrio tra loro nel mondo Coloniale –
dopo la sua spartizione conclusasi nel 1911 ma prima del travaglio della decolonizzazione e dei tentativi
di mettere in piedi solide relazioni neocoloniali dopo la seconda guerra mondiale. La sfida che attende gli
storici nella comprensione del XX secolo passa per l’investigazione e l’interpretazione di tutta la
complessità di tale interazione». 305

304
C. S. Maier, Il Ventesimo secolo è stato peggiore degli altri?, Op. cit. , p. 1002.
305
Ivi, p. 1008.
81
3.5 “1973”.

Il ’73 è un anno chiave sia per Il Secolo breve che per Il lungo ventesimo secolo.
L’abbandono del Gold Standard segna l’inizio dell’Età della frana e della fase discendente
dell’egemonia statunitense. Si pone come possibile periodizzazione rispetto a diversi temi: il
ciclo di ascesa e declino della socialdemocrazia, l’inizio di un’epoca postmoderna e
l’affermazione del neoliberismo, tutti argomenti presenti in varia misura anche in Arrighi e
Hobsbawm.

David Harvey nel 1989 ha scritto La crisi della modernità, uno dei testi fondamentali
delle scienze sociali sul postmodernismo. L'autore ha analizzato come dagli anni
settanta l'Occidente sia passato dal modello di produzione fordista al modello postfordista, in
cui la produzione è dominata da forme di accumulazione flessibili, capaci di integrare
modalità, tempi e luoghi di produzione fra loro molto diversi.
Nonostante l’indubbio valore periodizzante di tale evoluzione, per Harvey questo non implica
un reale cambiamento di epoca e di paradigma economico, ma una mutazione del capitalismo,
che è divenuto flessibile per sfuggire alla crisi, riducendo il costo del lavoro e diminuendo il
tempo che intercorre tra investimento e realizzazione del profitto.306 Un’interpretazione che,
pur priva di elementi ciclici, lo avvicina molto al lavoro di Arrighi.

La vicenda dell’ascesa e del declino della socialdemocrazia interessa invece le ultime


importanti riflessioni di Tony Judt. Per l’autore inglese il Novecento è sopratutto il secolo del
welfare state.307 La parte centrale del ‘900 dagli anni Trenta agli anni Settanta è segnata, sulla
scia della Depressione e della riflessione di Keynes, dal forte intervento dello Stato
nell’economia. I paesi Occidentali regolano le attività produttive e finanziarie e ne gestiscono
direttamente importanti settori mentre si diffondono diversi modelli di garanzia sociale dei
cittadini, a matrice universalistica come nel caso anglosassone o legati alla preservazione dei
posti di lavoro come nell’Europa continentale.
Un sistema che, nonostante i suoi indubbi limiti, è all’origine della grande crescita economica
dei trenta gloriosi. Judt ne descrive la fine come vittima dei suoi stessi successi: il grande
benessere materiale da esso generato ha fatto deragliare la società verso pretese
individualistiche ed edonistiche. Nel giro di appena una generazione è stata dimenticata la

306
D. Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993.
307
T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Roma-Bari, 2011.
82
spinta idealistica a superare le privazioni inflitte dalla prima metà del XX secolo che era stata
alla base della creazione del welfare state.
Nel capitolo terzo del volume, Judt descrive vividamente l’affermazione nel dibattito pubblico
delle tesi neoliberiste nate negli Stati Uniti. Queste soppiantarono il conservatorismo classico
di intellettuali come Aron e Hook (che accettavano la regolazione statale dell’economia) e
ripresero una serie di teorici europei (Hayek, Shumpetere, Strauss e Popper) che, esuli negli
anni Venti e Trenta, avevano scritto importanti opere contro il collettivismo e il totalitarismo
del modello sovietico. Tali tesi vennero utilizzate a partire dagli anni Sessanta in maniera
acritica dai neoliberisti (andando anche molto oltre le intenzioni degli originali autori) per
attaccare i presupposti ideologici della regolazione statale dell’economia.308
Una visione estremamente positiva, al limite dell’apologetico, dell’Età dell’oro che, almeno
su questo punto, lo accomuna ad Hobsbawm.
Tesi quelle di Judt molto simili alla visione di Dahrendhorf che vede il Nocecento come
«secolo socialdemocratico» contrapposto all’ottocentesco «secolo liberale» e volto
all’inclusione politica e sociale delle masse lavoratrici nello Stato: «la combinazione di Stato
sociale e politica economica keynesiana in un contesto liberale definisce in modo efficace il
progetto socialdemocratico».309
Una tesi molto simile ma dal giudizio opposto è quella di Skidelsky sul collettivismo. A
parere del biografo di Keynes, il ‘900 può essere interpretato in maniera unitaria seguendo
l’ascesa e il declino della sovranità economica dello Stato: proposta alla fine dell’Ottocento,
realizzata tra le due guerre mondiali con una sorprendente convergenza di tutti i sistemi
politici e definitivamente affermata nel dopoguerra. La svolta è anche qui individuata negli
anni Settanta: l’aumento del prezzo del petrolio rese insostenibili le politiche economiche fino
ad allora attuate, portando ad una progressiva diminuzione della regolazione statale.
Nonostante l’autore critichi le sacche d’intervento pubblico ancora presenti in Occidente
invita ugualmente a ripensare un ruolo forte per lo Stato, capace di difendere la società dagli
effetti dei mercati imperfetti.310
Risulta in questo senso molto simile a Judt che, evidenziando le similitudini negative tra l’età
attuale e la Belle Époque, propone di rivedere criticamente pregi e difetti del modello
socialdemocratico e individuare una nuova efficiente forma di commistione tra pubblico e
privato.311

308
Ivi, La rivincita degli austriaci, pp. 68-78.
309
R. Dahrendhorf, Bilancio e speranza, “Internazionale”, n. 264, 1 gennaio 1999.
310
R. Skidelsky , The World After Communism: A Polemic for our Times, Macmillan, London, 1995.
311
T. Judt, Guasto è il mondo, Op. cit. , p. 145.
83
3.6 “1989-1991”.

La fase storica dalla caduta del Muro di Berlino alla dissoluzione dell’Unione
Sovietica segna l’ultima periodo rilevante per il ‘900, la conclusione della periodizzazione
chiusa di Hobsbawm. Ovviamente, vista la prossimità alla fine del secolo, non può più essere
considerata una data d’inizio per una peridodizzazione del ‘900, ma si presta per le visioni
retrospettive e le previsioni sul futuro. Negli anni Novanta sono stati particolarmente accesi i
dibattiti intorno alla fine della storia, allo scontro delle civiltà e al nuovo ordine della
globalizzazione, scaturiti dalla fine del socialismo reale.
La prima tesi, di Francis Fukuyama, proponeva una visione del XX secolo e della storia in
generale come inarrestabilmente tendente verso la democrazia e il libero mercato sulla scorta
di una rilettura di Hegel nell’interpretazione di Kojève. Per l’autore questi due aspetti della
libertà, dell’auto-affermazione umana, erano finalmente riuniti nell’esperienza occidentale
dopo la definitiva sconfitta del comunismo.312
Fukuyama esponeva la sua tesi in maniera problematica, avanzando preoccupazioni e dubbi
circa il ripetersi della stessa combinazione nell’emergente Asia orientale e non negava la
possibilità di sviluppi diversi per il futuro. Il dibattito internazionale al tempo della sua
pubblicazione sembrava però ampiamente avallare una lettura superficiale della sua opera.
Neo-liberismo e supremazia statunitense venivano viste con certezza come assetto mondiale
definitivo e fine della storia. Fukuyama ha finito per rappresentare la più nota lettura ottimista
della situazione internazionale, a fronte di quella pessimista di Hobsbawm.
Nello stesso decennio, veniva pubblicato il volume di Huntington Lo scontro delle civiltà. Se
nell'opera di Fukuyama veniva tratteggiata la fine della storia con l'avvento della
globalizzazione guidata dalle liberal-democrazie occidentali, secondo Huntington la fine della
guerra fredda non affermava un modello unico, ma anzi liberava le diverse civiltà dal giogo
del bipolarismo politico e ideologico USA e Urss, lasciandole libere di svilupparsi
autonomamente.
Huntington osservava come dalla fine della guerra fredda, i conflitti fossero divenuti
progressivamente sempre meno ideologici e sempre più culturali. Nel suo testo, cultura,
lingua, religione individuano otto grandi aree di civilizzazione nel mondo e viene ipotizzato
che il XXI secolo sarà improntato, nell’ambito di una situazione internazionale multipolare,
allo scontro di civiltà, per l’affermazione dei propri valori, in particolare religiosi e del
proprio stile di vita.313

312
F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.
313
S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000.
84
Surclassato nel gradimento accademico e popolare per tutti gli anni Novanta dalla tesi di
Fukuyama, Huntington ha poi visto un ritorno d’interesse per il suo libro dopo l’11 settembre
2001 (ma questo ci porta troppo in avanti cronologicamente).
Infine nel 2000 Michael Hardt e Toni Negri hanno proposto, da posizione neo-marxiste, la
loro tesi dell’Impero. Nella loro lettura le trasformazioni degli ultimi decenni hanno portato al
declino dei singoli stati-nazione sostituiti da una rete di organismi nazionali e sovranazionali
che i due autori definiscono «Impero». Un impero diverso da quelli susseguitisi nella storia:
un sistema senza confini e un centro definiti. La sua struttura è una sorta di federazione di enti
non necessariamente statali, in cui il potere militare è esercitato dagli USA e dai suoi alleati,
quello economico dalle istituzioni economiche internazionali e dalle multinazionali e la
democrazia non si esercita più su base strettamente nazionale ma trans-nazionale tramite le
Ong e altre organizzazioni umanitarie.314
Nonostante molte visibili somiglianze con il lavoro di Arrighi, i due autori sostenevano che la
sua analisi ciclica non riuscisse né a cogliere la specificità della situazione contemporanea né
ad individuare realmente il motore dei processi di trasformazione.
È interessante individuare in tutte queste opere così apparentemente differenti una comune
matrice hegeliana e la natura essenzialmente ideologica di questo dibattito. Daherendhorf
critica Fukuyama aspramente per la sua lettura selettiva di Hegel, accusandolo di fare una
ideologia del concetto di fine delle ideologie, cercando al pari delle altre idee illiberali del
‘900 una filosofia della storia.315
Hayward R. Halker ha individuato impostazioni hegeliane in Huntington. Le civiltà da lui
individuate in termini psico-culturali costituirebbero l’agente della storia hegeliano della sua
opera, come la volontà di affermazione umana lo è in Fukuyama. Analizzando come anche
altre grandi analisi globali, da Toynbee a Braudel e Wallerstein, condividano molte idee base
di natura hegeliana, l’autore svela la natura essenzialmente politica della proposta di
Huntington, volta a favorire il mantenimento del peso militare degli USA in politica estera e
ad evitare esiti multiculturali in Occidente come politica interna.316
Anche Banti nota in tutti questi lavori «la propensione per la filosofia della storia, più che per
l’analisi e la verifica puntigliosa delle intuizioni e delle visioni intorno al potere ai tempi della
globalizzazione»,317 una tendenza delle grandi opere di sintesi da cui, a mio parere, Arrighi e
Hobsbawm sono stati più abili e rigorosi nel distaccarsi.

314
M. Hardt, T. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001.
315
R. Dahrendorf, Fukuyama, il tuo Hegel non è il mio, “La Repubblica”, 14 luglio 1992.
316
H. R. Alker, If not Huntington’s “Civilizations,” then Whose?, “F. Braudel Center Review”, XVIII, 4, Fall
1995, pp. 533-62.
317
A. M. Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Op. cit. , p. 317.
85
Conclusioni. Due opere di fronte alla contemporaneità.

Questa discussione è iniziata cercando di definire il concetto storiografico di


periodizzazione e di analizzare le sue differenti applicazioni nelle opere di Arrighi e
Hobsbawm.
Ho evidenziato come i due autori abbiano studiato il Novecento con approcci metodologici,
storico e sociologico storico-comparativo, differenti. Queste diverse impostazioni hanno
prodotto due proposte di periodizzazione, riassunte dalle formule «Secolo breve» e «Lungo
ventesimo secolo». Le due tesi, pur differenziandosi per ampiezza e profondità di analisi,
divisione cronologica e temi trattati, risultano ampiamente e profittevolemente confrontabili
se non sovrapponibili, grazie alla comune matrice di analisi di lungo periodo e il condiviso
interesse per lo studio storico del fenomeno del capitalismo.
Sia la periodizzazione chiusa di Hobsbawm, in cui le linee di sviluppo del secolo si
esauriscono all’interno del ‘900, che quella aperta di Arrighi, inserita in un contesto ciclico e
caratterizzata da epoche dai limiti temporali mobili, hanno costituito materia di discussione
nell’ambito del dibattito di fine secolo sul senso del Novecento e ne sono state universalmente
riconosciute come rilevanti interpretazioni.
Tuttavia, entrambe le opere non si limitavano ad una decifrazione dei fenomeni del passato
ma avanzavano una serie di proposte su quelli che sarebbero stati e ormai sono, visti i
vent’anni passati dalla pubblicazione, i tratti e le sfide del XXI secolo.
Per concludere il mio studio ho lasciato di proposito spazio per un breve confronto tra i
capitoli conclusivi delle opere di Arrighi e Hobsbawm. Al termine, dopo aver discusso la loro
visione del XX secolo e le loro proposte per il XXI, cercherò di spiegare quale delle due opere
risulti nella mia visione maggiormente contemporanea nel senso indicato da Barraclough: in
grado d’individuare nel Novecento i fenomeni che sono caratteristici di questo inizio di terzo
millennio. 318

Il grande lavoro di Eric Hobsbawm sull’Età contemporanea si conclude con il Secolo


breve. Dopo quest’opera lo storico britannico scrive diversi interessanti volumi, compresa la
propria autobiografia, ma in nessuno, nonostante aggiustamenti e revisioni, modifica
sostanzialmente la propria visione del XX secolo e delle tendenze del XXI già espressa nel
capitolo finale intitolato Verso il terzo millennio.

318
«La storia contemporanea ha inizio quando i problemi che sono attuali nel mondo odierno assumono per la
prima volta una chiara fisionomia», G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Op. cit. , p. 18.
86
Nella sua visione, Il Secolo breve ha lasciato aperti una serie di problemi apparentemente
senza soluzione nella società contemporanea.
A livello internazionale nessuna potenza, nessuna struttura emerge capace di gestire il sistema
ai livelli del mondo bipolare o del concerto delle potenze. La democratizzazione della
violenza, con la diffusione di armi moderne e l’indisponibilità delle popolazioni delle aree
periferiche a farsi governare rendono costosi e improponibili gl’interventi all’estero.
Nessun modello ideale, visione del mondo, né socialista, né liberale, né mista, nemmeno
quelle religiose ha una presa paragonabile a quello dei grandi movimenti ideologici. La
transizione demografica del Terzo Mondo fa crescere la popolazione globale in maniera
esponenziale, aumentando la disuguaglianza e la pressione sulle risorse naturali, senza la
possibilità di essere alleggerita da flussi migratori paragonabili a quelli della transizione
europea.
In ambito economico, l’applicazione del neo-liberismo ha aumentato le disuguaglianze tra gli
stati e all’interno delle società, mentre lo Stato sociale veniva smantellato e i posti di lavoro
nell’industria sostituiti da un terziario squalificato. L’economia internazionale risulta così
incontrollabile e un estensione del libero mercato non può risolvere questi problemi ma solo
aggravarli. Tuttavia l’assenza di un modello alternativo e la globalizzazione dell’economia
impediscono agli stati di correggere queste politiche.
Lo Stato-nazione non sta perdendo solo la sovranità economica in ambito internazionale, è
minacciato anche internamente di perdere il monopolio della violenza e della giustizia: così
indebolito non ha la capacità di opporsi all’aumento delle crescenti disuguaglianze sociali. La
politica interna è particolarmente imprevedibile visto che, a fronte della politica di massa del
‘900, si è imposta una politica di comunicazione di massa e istanze particolariste che spinge
alla de-politicizzazione dei cittadini, in cui lo stesso suffragio universale sembra ridotto a
mera forma.
Il rapporto che si stabilizzerà tra istituzioni internazionali e stati nazionali e tra autorità e
popolo determinerà molti degli assetti del XXI secolo. Anche senza poter fare profezie,
Hobsbawm ritiene questa fase della storia umana assolutamente insostenibile e destinato a
cambiare in un prossimo futuro.319

Il lavoro di Arrighi sulla storia del sistema mondo è invece proceduto molto al di là del
Lungo ventesimo secolo. La composizione di Caos e Governo del Mondo e di Adam Smith a
Pechino gli ha permesso di ampliare e affinare le sue tesi, revisionandole alla luce del

319
E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve, Op. cit. , pp. 645-677.
87
susseguirsi degli eventi internazionali. Una trattazione completa di questi sviluppi intellettuali
sarebbe troppo ampia ma cercherò d’illustrare come e perché si evolva la sua visione del XXI
secolo e degli esiti della fine dell’egemonia americana.
Nel 1994 Arrighi può affermare che il sistema mondiale si trovi in una nuova fase di
oscillazione tra tendenze regolative, tipiche del ciclo statunitense, e deregolative, tipiche di
quello britannico e del nuovo in preparazione. La situazione internazionale, che descrive in
termini molto simili ad Hobsbawm, mostra tutti i segni di un incombente caos sistemico.
Il nuovo centro di accumulazione capitalistica viene individuato nel Giappone e nell’area
economica dell’Asia orientale che questo ha costruito attorno a sé. I caratteri della sua
economia, decentralizzata e basata sulla riproduzione flessibile e il suo ruolo di creditore degli
USA sembrano offrire ulteriore conferma alle tesi di Arrighi. Tuttavia la particolare
condizione politica del Giappone, che dalla fine della seconda guerra mondiale si è dedicato
unicamente allo sviluppo dell’economia senza tornare ad essere una potenza militare e
politica, sembrano renderlo un candidato improbabile per la transizione egemonica.
Il confronto tra vecchi e nuovi centri di accumulazione capitalista potrebbe avere tre esiti
capaci di cambiare radicalmente il sistema mondo. La vittoria dei vecchi centri capitalistici
(Occidente) porterebbe alla formazione di un impero globale. La vittoria dei nuovi centri
(Asia) creerebbe un’economia mondo nuova in cui verrebbe meno il legame Stato-capitalismo
e s’imporrebe un’autentica economia di mercato (in senso braudeliano). Infine il capitalismo
potrebbe estinguersi con un nuovo distruttivo conflitto mondiale riportando l’orologio della
storia indietro di 600 anni.320
In Caos e Governo del Mondo, del 1999, Arrighi e Beverly J. Silver dettagliano
maggiormente i possibili esiti alla luce del più definito ruolo assunto dall’Asia nel dopo
guerra fredda. I due studiosi analizzano la distruzione da parte degli europei della super
economia-mondo asiatica basata sul libero mercato tra ‘500 e ‘800. Questa venne sostituita
dall’economia-mondo capitalista europea basata sullo stretto legame Stato-capitalisti.
Nelle conclusioni s’interrogano se la crescita economica dell’area dell’Asia orientale (il solo
Giappone subisce la deflazione degli anni Novanta) possa ricostruire un’economia mondo più
integrata. La crisi delle borse asiatiche del ’97 non è un segno di debolezza ma delle
contraddizioni del sistema (come la crisi del ’29). Il mondo si trova di fronte ad una
biforcazione storicamente senza precedenti tra potere militare e risorse economiche, per cui le
potenze in declino hanno i migliori armamenti ma non la capacità finanziaria per risolvere le
crisi a livello di sistema. La diffusione di imprese e comunità d’affari transnazionali,

320
G. Arrighi, Il Lungo Ventesimo Secolo, Op. cit. , pp. 425-466.
88
promossa dagli USA è divenuta un elemento disintegrazione del loro dominio e del potere
degli stati.
Davanti a questi sviluppi i paesi dell’Asia orientale sono culturalmente più preparati
dell’Occidente a trarre vantaggio dalla nuova condizione sistemica, realizzando
un’integrazione economica prima regionale e poi globale più aperta.
Infine i due autori affermano che lo scontro tra civiltà occidentale e asiatica, nonostante le
apparenze del presente, appartiene più ai secoli passati, quando le seconde furono
violentemente conquistate dalle prime.
Il riemergere dell’Asia, in particolare della Cina, sottopone il sistema internazionale ad uno
stress notevole. Se queste tensioni non porteranno ad un conflitto aperto dipenderà
dall’intelligenza dell’Occidente ad adattarsi ad una diminuzione del suo peso internazionale e
dall’abilità delle potenze asiatiche a risolvere le numerose crisi sistemiche lasciate aperte
dall’egemonia statunitense.321
L’ultimo lavoro di Arrighi, Adam Smith a Pechino, è un testo estremamente complesso che
affronta diverse questioni sia teoriche sia di attualità. In sintesi l’autore rilegge Adam Smith e
Karl Marx individuando due opposti modelli di crescita economica nelle loro opere.
Smith (ritenuto erroneamente il precursore del neoliberismo) propone un’economia in cui la
maggior parte del capitale e degli sforzi produttivi è prima diretto verso l'agricoltura, poi alla
manifattura e infine al commercio estero, con lo Stato come regolatore sovraordinato agli
agenti economici. Queste caratteristiche definiscono la via naturale alla ricchezza.
Invece l’industrializzazione di Marx, invertendo l’ordine degli investimenti, costituisce una
via innaturale, in cui Stato e capitalisti sono indissolubilmente legati.
Nel ‘700 il primo modello ha determinato la Rivoluzione industriosa ad alta intensità di lavoro
in Asia ed è stata tipica dell’economia della regione fino all’800.
Il secondo modello si è imposto con il ciclo egemonico olandese in Occidente a partire dal
‘600, ed è proseguito dando vita alla Rivoluzione industriale, ad alta densità di capitale, in
Europa.
La borghesia europea, in alleanza con gli stati territoriali, ha legato ricchezza economica e
supremazia militare impadronendosi dei profitti dell’economia globale globale a danno dei
popoli extraeuropei, in un circolo virtuoso di arricchimento e potenziamento militare che ha
rappresentato all’opposto un circolo vizioso di impoverimento e indebolimento per il resto del
mondo.

321
G. Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e Governo del Mondo, Op. cit.
89
Superata l’idea di una transizione giapponese o dell’area del Pacifico, Arrighi si concentra
sulla Cina, storicamente la potenza dominante dell’Asia orientale e una delle maggiori
economie mondiali pre-industriali.322
L’eclissi dello Stato e dell'economia cinese tra ‘800 e ‘900 è stata breve. Dopo un secolo di
invasioni e lotte civili (dalla Guerra dell’Oppio alla proclamazione della Repubblica
Popolare), ristabilita la sovranità politica nel secondo dopoguerra, la Cina si è riappropriata
degli elementi della crescita naturale e della Rivoluzione industriosa, riuscendo a integrarsi
nell’economia globale e ad attrarre capitali, ma realizzando un’accumulazione senza
spoliazione (qui Arrighi contesta gli analisti che descrivono l’ascesa economica cinese come
unicamente basata sulle esportazioni mentre in realtà è fortemente centrata sul mercato
interno) e sta emergendo come nuovo centro egemone a scapito degli USA.
All’inizio del millennio, dei tre possibili esiti individuati ne Il lungo ventesimo secolo, il
primo, l’impero occidentale, sembra definitivamente sconfessato dal disastro americano in
Iraq che ha fatto fallire il sogno neo-conservatore del Nuovo Secolo Americano.
Il secondo, un’egemonia asiatica, potrà realizzarsi se i paesi dell’Asia riusciranno a realizzare
un sistema internazionale maggiormente egualitario, e un’economia più equilibrata e
sostenibile a livello ambientale, nell’ambito di una Nuova Bandung a carattere non più
ideologico ma economico.
Il terzo esito, la distruzione globale, resta possibile se questa seconda strada fallirà e
l’Occidente seguirà un percorso di opposizione all’ascesa della Cina.323

Le tesi conclusive di Arrighi e Hobsbawm convergono su diversi punti. Appaiono


entrambe piuttosto affrettate, nell’individuare la crisi del modello economico e politico neo-
liberista già all’inizio degli anni Novanta. In realtà questo periodo ha visto dopo il
superamento della transizione post sovietica un apparente trionfo degli Stati Uniti, della
globalizzazione, delle forze di mercato. Le contraddizioni del modello hanno cominciato a
322
«Adam Smith a Pechino sembra essere un tentativo teorico formulato da Arrighi per dare conto innanzitutto
dell'incontestabile ascesa economica della Cina e delle difficoltà incontrate dalla crescita economica giapponese,
e in secondo luogo per dimostrare che questo scenario è più che mai attuale proprio ad opera della Cina. Sono
due gli elementi che permettono alla Cina di calzare il ruolo precedentemente affidato al Giappone. La Cina a
differenza del Giappone ha certamente le caratteristiche in nuce di Stato in grado di
ospitare e garantire una riproduzione allargata del sistema-mondo capitalista ma Arrighi ci dimostra che la sua
storia politica ed economica è la negazione del capitalismo e della competizione interstatale così come questi
fenomeni si sono storicamente affermati in Europa. La storia politica della Cina non può condurla ad esercitare
un ruolo a livello globale che lo Stato cinese non ha mai svolto neanche a livello locale/nazionale. La storia
economica della Cina non è capitalistica, nel senso marxiano e braudeliano del termine, bensì è un'economia di
mercato. Ecco che dunque la Cina casca a pennello nel ruolo di nuovo centro egemone emergente che sancirà la
fine del sistema capitalista così come si è affermato a livello globale a partire dal suo centro europeo prima e
occidentale poi».
A. Quattrone, L'eredità teorica di G. Arrighi, Op. cit.
323
G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del Ventunesimo Secolo, Feltrinelli, Milano, 2008.
90
farsi vistose con l’11 settembre 2001 e la scelta interventista statunitense per poi deflagrare
con la crisi dei mutui subprime del 2006 che ha innescato la crisi economica globale del 2008,
di cui si stenta a vedere la conclusione. Quindi pur sbagliando i tempi i due studiosi avevano
comunque avuto ragione nell’opporsi ai cantori della fine della storia.
L’analisi del mutamento del ruolo dello Stato è un’altra similitudine, anche se i due studiosi
l’hanno concepito in maniera differente. Hobsbawm lo intende nel senso di un drammatico
indebolimento interno ed internazionale che interrompe un processo di rafforzamento
pluri-secolare e a cui è necessario porre rimedio. Arrighi riconosce la diminuzione della
capacità regolativa dello Stato ma la vede come un elemento delle oscillazioni cicliche tra
sistemi di potere estensivi ed intensivi, che nelle sue analisi ammettono diversi modelli
intermedi tra gli idealtipi dello Stato territorialista e dell’organizzazione cosmopolita.
Infine, tutti e due nelle conclusioni delle opere in esame virano verso analisi meno
eurocentriche della situazione internazionale. Hobsbawm lo fa analizzando problemi generali
e trans-nazionali: democratizzazione della violenza, immigrazione, limiti ecologici allo
sviluppo, ma non riesce ad individuare una risposta specifica dei paesi non-occidentali a
queste problematiche.
Arrighi (più attento nel corso della sua carriera alle ragioni del Terzo Mondo) ha invece una
svolta asiatica più consapevole. Negli ultimi lavori estende l’analisi e applica i suoi modelli
sociologici alla storia dell’Asia. Adattando alle sue teorie nuove tesi socio-economiche da
studiosi di quell’area (come la industrious revolution di Kaoru Sugihara o gli studi di Wang
Hui sul nuovo ordine cinese, per citarne alcuni più noti in Italia) riesce ad individuare modelli
socio-economici comparabili ma differenti da quelli occidentali.324

In conclusione: ho mostrato come l’opera di Arrighi ha impostato un modello di


analisi dei sistemi-mondo valido e flessibile, capace di adattarsi nel tempo ai rapidi mutamenti
dell’oggetto di ricerca e inglobare nuovi elementi senza rinnegare la matrice originaria.
Grazie alla validità del suo modello teorico, Arrighi, pur restringendo il suo campo di analisi
al capitalismo e alle transizioni egemoniche, è stato in grado di spiegare efficacemente la loro

324
Sulla sua lettura della politica cinese Arrighi ha ricevuto diverse critiche sul fatto che la Cina sia realmente
caratterizzata da una crescita economica centrata sul mercato interno, uno sviluppo senza accumulazione per
spoliazione, un modello industriale a intensità di lavoro, un sistema politico in cui il popolo affianca il partito
unico nella definizione delle politiche pubbliche. Quattrone ad esempio lo accusa di farsi ingananare dalla
retorica governativa dello sviluppo armonioso.
Un autore molto vicino alle posizioni di Arrighi come David Harvey, nel suo Breve Storia del Neoliberismo, Il
Saggiatore, Milano, 2007, ribalta tutte queste affermazioni, individuando anche nel modello cinese forti elementi
di capitalismo neo-liberista che stanno progressivamente imponendo la loro logica alla struttura statale partitico-
burocratica.
91
evoluzione nella storia moderna e d’indirizzare la ricerca sulle loro tendenze
contemporanee.325
Per converso Hobsbawm ha analizzato in profondità il XX secolo nei suoi diversi aspetti
politici, sociali, economici e culturali. Tuttavia le sue conclusioni, anche se individuano
alcune generiche tendenze del presente, non riescono ad integrarsi pienamente nella sua
visione storica, con il risultato che la sua periodizzazione del ‘900 c’illumina ben poco sulla
situazione attuale. Direi che l’enfasi del suo lavoro sulla vicenda di ascesa e declino del
comunismo non gli ha permesso di cogliere pienamente i fattori di trasformazione dell’ultima
parte del secolo. Esaurite le passioni politiche del Novecento la situazione presente lo lascia
per sua ammissione «disorientato» rispetto al futuro.
In questo senso affermo che l’opera e la periodizzazione di Arrighi hanno retrospettivamente
retto meglio alla prova del tempo e risultano oggi maggiormente contemporanee.

325
AA.VV,The World-Historical Imagination: G. Arrighi’s The long twentieth century in prospect and
retrospect, “Journal of World-Systems Research”, Volume XVII, Number 1, 2011.

92
Ringraziamenti.

Un sentito ringraziamento va al professor Fulvio Conti, che mi ha aiutato con


consigli preziosi a distillare un ampio ma confuso progetto di ricerca in questa
tesi di laurea. La sua disponibilità a ricevermi e dedicarmi il suo tempo, la
rapidità e precisione nell’analizzare e correggere i progetti e le bozze che gli ho
consegnato via via sono state fondamentali per giungere al termine di questo
lavoro.
L’altro grande ringraziamento va ai miei genitori, che mi hanno costantemente
supportato in questi anni per me difficili. Grazie per aver continuato a credere in
me e avermi incoraggiato a raggiungere questo traguardo, non solo accademico
ma di vita.
Ancora vorrei ringraziare Rossella per l’aiuto prestatomi a focalizzare i miei
obiettivi e per avermi spinto, con analisi impietose, ad assumermi la
responsabilità di realizzarli.
E infine grazie a Massimo per gli ottimi consigli di scrittura e l’aiuto nella
revisione generale dell’opera.

93
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