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Gibran: l’ultimo maestro Sufi?

L’ORIGINE MISTICA DEL “PROFETA” DEL LIBANO

La meta è lassù, sul monte, in un vecchio monastero nella roccia trasformato in museo e
pronto a svelarsi dopo gli ultimi tornanti, lasciata alle spalle la Gola di Kadisha dove tra vigne e
uliveti riposano per sempre i primi patriarchi maroniti. La meta è un villaggio libanese dai tetti
rossi chiamato Bsherri, nel nord del Paese. Adesso però non è traguardo per turisti: poco
lontano, da mesi, continuano i combattimenti tra esercito regolare e miliziani del gruppo ultra-
radicale palestinese Fatah al-Islam, asserragliati nei campi profughi, novanta chilometri a nord
di Beirut. Negli intervalli tra una guerra e l’altra i tour operator più gettonati proponevano in
un solo giorno la visita alla Città vecchia di Tripoli – con le sue moschee e madrase – e
l’escursione a Bsherri, nella regione dei Cedri cantati dal Salmo 104 (oggi un po’ spelacchiata).
Qui infatti si trova la chiesa rupestre del convento di Mar Sarkis, con la tomba semplicissima
del nostro personaggio, e non lontana, la piccola e modesta casa che lo vide nascere. Alfa e
Omega della vita di quest’uomo stanno lì, sullo stesso fazzoletto di terra, dove al convento-
museo e alla casa natale tocca la custodia dei suoi scritti e dei suoi quadri.
Kahlil Gibran, – o meglio di Jubran Khalil Jubran – libanese d’origine e statunitense
d’adozione, uno capace di armonizzare le influenze più disparate: dal Vangelo a Nietzsche, dal
Corano agli artisti rivoluzionari di Parigi e New York, da Dante alle Upanishad, da Avicenna a
Beethoven, dai Preraffaelliti a Blake. E capace d’influenzare con questi densi miscugli larga
parte della cultura degli Anni ’50 e ’60 che l’ha venerato come un veggente straordinario per la
sua visione del mondo. Affidata oltre che ai suoi scritti a tanti dipinti, questi però meno noti (in
Italia ne finirono in mostra alcuni nel 1977 quando ci fu la canonizzazione del monaco libanese
maronita Charbel).
Nato il 6 gennaio 1883, da un padre semialcolizzato e da una madre religiosissima, sarà più
tardi la sua insegnante d’inglese della Quincy Public School di Boston a consigliargli di
contrarre il suo nome in Kahlil Gibran, evitando la ripetizione del patronimico: sarà il suo
primo cambiamento d’identità. La sua famiglia è cristiano-maronita, dunque connotata da
quella religiosità siriaca fortemente ascetica eppure saldamente centrata sulla figura di un Cristo
sofferente e umanizzato che tanta parte avrà nell’immaginario del poeta e che non lo
abbandonerà mai, pur mescolandosi con infiniti altri elementi. All’età di 14 anni il giovane
Gibran farà ritorno in Libano, spinto dalla madre, per frequentare il Collegio dei Padri
Maroniti Hikmè di Beirut, e risale verosimilmente a questo periodo il contatto più profondo e
duraturo con la Sacre Scritture condito dallo studio della vita e delle opere dei più grandi
mistici sufi, da Averroè a Rumi, da Avicenna a Ibn Arabi.
Le sue opere rivelano la sua evoluzione spirituale: nel 1918 pubblica Il Folle, una raccolta di
parabole ove, mescolando buddhismo, induismo e cristianesimo, compie un passo avanti dal
cristianesimo maronita osservante verso il suo caratteristico sincretismo religioso; poi Il
Precursore (1920), opera di pura provocazione “manichea”, divisa fra luce e tenebre, lacerata fra
bene e male; fin a Il Profeta (1923), il testo con il quale arriverà alla consacrazione, in cui
iniziano a delinearsi chiaramente le influenze islamiche e di filosofi come Nietzche. Un bel
sincretismo, insomma. Sosteneva che l’uomo più religioso è quello che non pratica alcuna
religione e si definiva un praticante della Religione della Vita, anche se resta tuttavia Gesù, per
Gibran, il sommo Maestro di Luce, mito ineguagliabile di bellezza spirituale e di indomita
fierezza. Già. Solo un mito. Il mito di uno scrittore-pittore libanese pronto a confidare a un
amico che gli chiedeva perchè avesse scritto Gesù, il Figlio dell’Uomo (1928): «Sono stanco di
sentire la gente parlare di Lui come di una gentile signora con la barba». Un Gesù lontano,
però, da quello autentico del cristianesimo: il suo Gesù è l’incarnazione dell’Uomo Perfetto –
concetto caro ai mistici sufi –, colui cioè che ha conseguito lo stato più elevato di prossimità a
Dio, e insieme prova certa dell’assoluta presenza di Dio all’uomo.
Juliet Thompson, intima di Gibran, riportò diversi aneddoti relativi all’artista; uno di questi
fu l’incontro con ‘Abdu’l-Bahà, il leader della religione Baha’i durante la sua visita negli Stati
Uniti fra il 1911 e il 1912. B. Young in “This Man from Lebanon: A Study of Khalil Gibran”,
afferma di come Gibran non riuscì a dormire la notte precedente all’incontro con ‘Abdu’l-Bahà
che gli commissionò un paio di ritratti. Thompson sostenne che Gibran durante tutta la stesura
di Gesù, Figlio dell’Uomo non fece altro che pensare al Baha’ullah. Diversi anni dopo la morte del
leader spirituale, durante una proiezione di un film sulla sua vita, Gibran s’alzò per parlare ed in
lacrime declamò ad alta voce un pensiero ispirato alla figura di ‘Abdu’l-Bahà per poi,
piangendo, lasciare l’evento.

La gioventù maronita
Appare chiaro, a questo punto, che la scintilla che ha dato avvio allo sviluppo della
particolare mistica di Gibran sia da ricercarsi nel periodo passato dal poeta nel collegio
maronita, ma è possibile attribuire solamente a questo tipo di fede la causa di tale processo o
c’è dell’altro?
La Chiesa Maronita è una confessione cattolica formatasi dopo lo scisma bizantino del V
sec. d.C. La tradizione vuole la genesi di questa Chiesa opera dei seguaci di S. Marone, monaco
eremita che lasciò Antiochia per stabilirsi sulle rive del fiume Oronto, che alla morte di
quest’ultimo avvenuta intorno al 410 d.C. fondarono un monastero formando così il nucleo di
quest’ordine. Dopo aver aderito al Concilio di Calcedonia, i Maroniti subirono un periodo di
persecuzioni ad opera della setta monofisita siriana che li portò a rifugiarsi sul Monte Libano.
In seguito alla conquista islamica nel 637 d.C. essi rimasero praticamente isolati dal resto della
comunità cristiana per quasi 400 anni fin quando i Crociati, alla guida di Raimondo di Tolosa,
non ristabilirono un primo contatto. Oggi i Maroniti, all’interno della Chiesa Cattolica, sono
considerati alla stregua di un’ordine, al pari di Cappuccini e Gesuiti, anche se in realtà le cose
sono un po’ più complicate.
Innanzitutto i Maroniti non sono un semplice ordine monastico, ma una vera e propria
minoranza etnico-religiosa, hanno un loro Patriarca (il Patriarca Maronita di Antiochia) e, pur
condividendo la stessa dottrina del resto dei Cattolici, conservano una loro liturgia, teologia,
spiritualità, disciplina e gerarchia particolare. Le differenze più sostanziali riguardano la materia
cristologica, considerato anche il fatto che i Maroniti aderirono alla dottrina monotelita
proclamata da Sergio di Tiro durante il X sec. d.C., in opposizione proprio all’imperante
monofisismo di quei tempi abbracciato dalla quasi totalità delle comunità cristiane
mediorientali, che prevede le due nature umana e divina di Gesù riunite in una sola volontà, in
palese contrasto con quanto prevede l’ortodossia cattolica, e ciò traspare in maniera particolare
nell’opera di Gibran Gesù, figlio dell’Uomo.
Ciò fu fu una delle cause delle varie persecuzioni che subirono da parte della Chiesa
Ortodossa in generale e dai Monofisiti siriani, i Giacobiti, in particolare, i quali arrivarono
durante uno di questi episodi a massacrare più di 350 monaci maroniti in una sola notte, e del
conseguente isolamento dal resto della comunità cristiana sui monti libanesi. Isolamento
interrotto, come già ricordato, dai crociati, ma che nel frattempo ha prodotto lo svilupparsi di
una dottrina del tutto particolare che, sebbene continui a conservare diversi punti di contatto
con la Chiesa di Roma, ha al suo interno una serie di caratteristiche del tutto particolari
derivanti in parte anche dal contatto con la nascente e sempre più imponente nuova realtà
islamica.
Tant’è che il Libano è soprattutto anche la patria dei Drusi, una particolare setta islamica
esoterica che trae origine dall’ambiente ismailita per includere al suo interno dottrine di stampo
gnostico e neoplatonico, e non dobbiamo dimenticare che, perlomeno fin dal XVI sec., Drusi
e Maroniti fecero fronte comune alle angherie dell’Impero Ottomano per diverse centinaia di
anni – tant’è che la loro alleanza sarà alla base della nascente repubblica libanese – e che grazie
a ciò quasi sicuramente s’influenzarono a vicenda.
Non è ovviamente nostro intento, ed esula dai propositi di questo articolo, analizzare e
comparare le dottrine druse e maronite, ma va detto ai fini della comprensione del nostro
discorso che vi si possono trovare molti punti di contatto, quasi una sorta di “sincretismo
reciproco e consapevole”, un rispetto che possiamo ritrovare ancora oggi nell’attuale vita
politica libanese, dove spesso Drusi e Maroniti si trovano a militare negli stessi partiti. Ne è
d’altronde riprova il fatto che durante il soggiorno del giovane Gibran nel collegio maronita di
Beirut egli studiasse tanto le Sacre Scritture quanto il pensiero di mistici sufi quali Rumi e al-
Hallaj, e non sorprende certo il fatto che il poeta propugnò sempre la fratellanza fra croce e
mezzaluna, definendosi «un Cristiano che ha fatto abitare in una metà del suo cuore Gesù e
nell’altra Maometto».

Pensieri conclusivi
L’opera più famosa di Gibran è senz’altro Il Profeta, un testo composto da 26 saggi poetici.
Per le tematiche che affronta e per il tipo di atmosfera in generale che si respira nella lettura, il
libro divenne estremamente popolare negli anni ’60 all’interno della controcultura americana e
del movimento New Age, fino ad ispirare i Beatles con Julia, al punto tale che spesso Gibran
viene associato e confuso con questi movimenti culturali, arrivando addirittura ad esserne
considerato il padre fondatore da alcuni critici forse un po’ troppo entusiasti oltre che alticci.
In realtà, come si è cercato di dimostrare in questo contributo, Kahlil Gibran a poco a che
fare con i vaneggiamenti post-nazisti di una parte della società occidentale che all’indomani
della Grande Guerra cerca di ritrovare la sua identità in una salsa indo-buddista tralaltro mal
compresa e mal digerita, ma anzi il nostro autore è proprio figlio forse ultimo della migliore
Tradizione occidentale – dove per Occidente intendiamo quello geografico e che va fatto
partire perlomeno da Nuova Delhi in poi. Le sue opere sono un viaggio spirituale che parte
dalle radici maronite e attraversa concetti e parabole che sono di volta in volta druse, gnostiche,
ermetiche, islamiche, induiste fino ad arrivare alla summa theologica di tutte queste tradizioni
messe insieme, e da lì sopra, come dall’alto di una montagna, rivolge lo sguardo indietro sul
sentiero appena percorso per riguardare con una diversa prospettiva il luogo d’origine.
In questo senso Gibran ha condiviso lo stesso cammino iniziatico dei grandi maestri sufi
che proprio nel viaggio, nella egira, vedevano una condizione necessaria per la propria
elevazione spirituale. La vita di Gibran, come quella di Jalal’ud-din ar-Rumi, di al-Hallaj, al-
Ghazali, ma anche di Sheykh Ahmadou Bamba, Al-Hajj Omar e Ousman dan Fotio, è stata un
viaggio sia materiale che spirituale i cui frutti vengono condivisi in un gesto d’amore con
l’umanità intera, ed è in questa chiave di lettura che Jubran Khalil Jubran può essere
considerato a tutti gli effetti, e con tutti gli onori, un maestro sufi.
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