Sei sulla pagina 1di 487

Piano dell'opera

Volume I. L'età antica (secoli I-VII)


A cura di Emanuela Prinzivalli
Contributi di: Immacolata Aulisa, Philippe Blaudeau, Alberto Camplani, Claudio Gianotto,
Adele Monaci Castagno, Andrea Nicolotti, Enrico Norelli, Emanuela Prinzivalli, Giancarlo
Rinaldi, Andrés Saez, Teresa Sardella, Fabrizio Vecoli, Ewa Wipszycka

Volume II. L'età medievale (secoli VIII-xv)


A cura di Marina Benedetti
Contributi di: Marina Benedetti, Anna Benvenuti, Nora Berend, Claudio Bernardi, François
Bougard, Luigi Canetti, Giovanni Chiodi, Elio Franzini, Roberto Lambertini, Giuseppe
Ligato, Alfredo Lucioni, Grado Giovanni Merlo, Ettore Napione, Rosa Maria Parrinello,
Maria Clara Rossi, Daniele Torelli

Volume III. L'età moderna (secoli XVI-XVIII)


A cura di Vincenzo Lavenia
Contributi di: Fernanda Alfieri, Lucio Biasiori, Linda Bisello, Marina Caffiero, Antonella Del
Prete, Lucia Felici, Vincenzo Lavenia, Giuseppe Marcocci, Umberto Mazzone, Franco Motta,
Dan loan Murepn, Ottavia Niccoli, Adriano Prosperi, Piero Stefani, Alessandro Vanoli, Paola
Vismara

Volume IV. L'età contemporanea (secoli XIX-XXI)


A cura di Giovanni Vian
Contributi di: Francesco Buscemi, Valentina Ciciliot, Maria Lupi, Raffaella Perin, Giovanni
Vian
Storia
del cristianesimo
Direzione scientifica di Emanuela Prinzivalli

1. L'età antica (secoli I-VII)

A cura di Emanuela Prinzivalli

Carocci editore @, Frecce


L'editore è a disposizione per i compensi dovuti agli aventi diritto

1' edizione, aprile 2.015


© copyright 2.015 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari

Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino

Finito di stampare nel l'aprile 2.015


da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633)

Siamo su:
www.carocci.it
www.facebook.com/ caroccieditore
www.twitter.com/caroccieditore
Indice

Presentazione. Che cos'è la storia del cristianesimo? 15


di Emanuela Prinzivalli

Introduzione al primo volume 23


di Emanuela Prinzivalli

Parte prima
Come nasce il cristianesimo

I. Gesù di Nazaret 33
di Enrico Norelli

Le fonti 33
Nascita e infanzia 35
Gesù il galileo 36
La cronologia di Gesù 39
Giovanni il Battista 40
Gesù, carismatico itinerante 42
I discepoli di Gesù 45
Il regno di Dio, gli esorcismi e le guarigioni 47
Gesù e la Legge 52
Purità, perdono, pasti 54
Parabole 56
Figlio dell'uomo e messia 58
Conflitto e morte 62
Bibliografia ragionata 67
8 STORIA DEL CRISTIANESIMO

2. Dagli ebrei seguaci di Gesù all'antagonismo


fra cristiani ed ebrei
di Claudio Gianotto

Il problema della transizione


I primi sviluppi del movimento di Gesù
dopo la morte violenta del capo carismatico 71
La successione alla guida del movimento 73
L'accoglienza dei gentili
ali' interno del movimento di Gesù 75
La comunità di Gerusalemme
e i credenti in Gesù di origine giudaica
Il successo della missione paolina
e i credenti in Gesù di origine gentile 88
La svolta costantiniana 93
Bibliografia ragionata 95

3. Le molteplici strade del vangelo (1-11 secolo)


e il consolidamento ortodosso del III secolo 97
di Emanuela Prinzivalli e Andrés Sdez

Cristianesimo e cristianesimi 97
Le vie dell'evangelizzazione 99
L'organizzazione interna delle chiese 103
Le pratiche di vita 109
Alla radice del conflitto teologico 112.

Marcione del Ponto 115

I gruppi gnostici 116

La reazione della Grande Chiesa ai dualismi del II secolo 117

Il problema dell'unità di Dio per i cristiani


fra II e II I secolo 12.0

I cristiani di Roma e Cartagine fra II e III secolo 12.2.

Il consolidamento dell'organizzazione episcopale 12.8


Bibliografia ragionata 130
INDICE 9

4· La Bibbia al centro: la formazione


del canone e lo sviluppo dell'esegesi 133
di Andrés Sdez ed Emanuela Prinzivalli

Oralità e scrittura 133


La formazione del canone 136
L'esegesi scritturistica ISO
Le tradizioni patristiche ISS
Bibliografia ragionata 157

S· Alla periferia dell'Impero romano e oltre: i caratteri


comuni dei cristianesimi orientali (secoli II-IV) 1s9
di Alberto Camplani

I tratti comuni 1s9


Siria e Mesopotamia 161
L'Egitto e la nascita del copto 167
Cristianesimi del Caucaso:
Chiesa armena e Chiesa georgiana 176
L'Etiopia 179
Bibliografia ragionata 181

Parte seconda
Cristianesimo, società, istituzioni

6. Il cristianesimo e la società del mondo greco-romano


fra I e III secolo 18s
di Giancarlo Rina/di

I rapporti dei cristiani con la società:


lo sguardo degli altri 18s
Lo sguardo sugli altri: i cristiani e la società antica 20s
Bibliografia ragionata 217
IO STORIA DEL CRISTIANESIMO

7. Da perseguitati a favoriti, da favoriti a persecutori.


Il cristianesimo nell'Impero romano fra IV e v secolo 2.19
di Giancarlo Rinaldi

L'ultimo scontro. La tetrarchia e l'era dei martiri 2.19


Costantino il rivoluzionario 2.2.s
La breve marcia della Chiesa cattolica verso l'egemonia 2.34
Il concilio di Costantinopoli (381) 2.41
Il crepuscolo degli dèi 2.44
Agostino, la Città di Dio e la dottrina della grazia 2.46
Bibliografia ragionata 2.48

8. Il consolidamento degli episcopati


nelle grandi città cristiane
di Ewa Wipszycka

Tra Costantino e Giustiniano


La Chiesa come istituzione e le istituzioni delle chiese
Un viaggio attraverso il mondo ecclesiastico
dell'Impero romano
Bibliografia ragionata

9. Il monachesimo antico
di Fabrizio Vecoli

La difficile ricerca
Un fenomeno religioso
L'Egitto
L'Asia Minore
La Palestina e il Sinai 2.93
La Siria 2.97
L'Occidente latino 300
Bibliografia ragionata 306
INDICE II

IO. I concili di Efeso e Calcedonia: la crisi religiosa


in Oriente e la formazione di chiese nazionali 309
di Alberto Camplani

Caratteristiche del periodo e premesse della crisi 309


Il concilio di Efeso (431) e l'unione del 433 312.
Secondo concilio di Efeso ( 449) e concilio
di Calcedonia (451) 313
La crisi dopo Calcedonia: Palestina, Siria ed Egitto
fino all'Enotico dell'imperatore Zenone (482.) 316
Reazioni all' Enotico e momentanea supremazia
anticalcedonese in Oriente 319
Riflessi orientali della crisi
e l'evoluzione della Chiesa in Persia 32.2.
La politica dell'imperatore Giustino (518-52.7):
declino del fronte anticalcedonese e lacerazioni
al suo interno 32.5
Bibliografia ragionata 32.7

I I. Il cristianesimo in Occidente
dalla fine dell'Impero ai regni romano-barbarici 32.9
di Teresa Sardella

L'Occidente va in frantumi: politica, cultura, religione 32.9


Cristiani, barbari, pagani. Problemi storiografici 333
Vescovi e monaci 340
L'Italia e le isole. Il primato di Roma 341
Franchi e vescovi gallo-romani 348
Visigoti e vescovi iberico-romani 350
I monaci in Inghilterra e Irlanda 35 1
I Balcani 353
L'Africa fuori dal circuito europeo 354
Bibliografia ragionata 355
I 2. STORIA DEL CRISTIANESIMO

12.. L'utopia giustinianea e gli sviluppi fino al VII secolo 359


di Philippe Blaudeau

Un programma ambizioso 359


L'utopia giustinianea (52.7-602.) alla prova dei fatti:
una romanità cristiana rinnovata? 360
Dopo Giustiniano 375
L'utopia giustinianea distrutta?
Un Oriente cristiano sconvolto (602.-692.)
Bibliografia ragionata

Parte terza
Culto, ideali di santità, luoghi della devozione

13. L'evoluzione della liturgia


di Andrea Nicolotti

Studio della liturgia nel suo farsi lungo la storia 387


Da Gesù e i suoi primi seguaci sino alla fine del I secolo 391
Il culto fra II e III secolo 396
L'"epoca d'oro" della liturgia cristiana 401
Bibliografia ragionata 408

14. Ideali di perfezione, modelli di vita


e sviluppo del culto dei santi 411
di Adele Monaci Castagno

L'importanza del culto dei santi 411

Fino alla persecuzione di Decio e Valeriano 411


Fino all'ultimo quarto del IV secolo 417
Dalla fine del IV fino al VI secolo 42.0

Modelli di santità femminile e il culto di Maria,


"madre di Dio" 42.9
Bibliografia ragionata 431
INDICE 13

15. Le forme e i luoghi della pietà religiosa 435


di Immacolata Aulisa

Spazi e riti funerari 435


Le iscrizioni dei cristiani 439
L'arte cristiana antica 441
Spazi sacri e sacralizzazione dello spazio 446
Cristianizzazione di pratiche e riti pagani 449
Il pellegrinaggio cristiano 451
Bibliografia ragionata 458

Tavola cronologica 461

Indice dei nomi 469

Indice dei luoghi 481

Gli autori 487


Presentazione
Che cos'è la storia del cristianesimo?
di Emanuela Prinzivalli

Quali confini?

Negli studi contemporanei, italiani e stranieri, che trattano la storia del


cristianesimo si constata, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso
in poi, la crescente consapevolezza della difficoltà di dare una definizione
soddisfacente del cristianesimo. Di qui il diffuso ricorso a enunciati tutti
incentrati, pur con diversi accenti, su una polarità: da un lato, il richiamo
all'ebreo Gesù di Nazaret, il personaggio storico che i primi seguaci rece-
piscono come destinatario della loro venerazione e/o fede e che di fatto
costituisce l'irriducibile elemento comune a tutte le varianti storiche del
cristianesimo; dall'altro, l'insistenza sulla multiformità, nel tempo e nello
spazio, del fenomeno religioso ispirato da Gesù e sulle sue conseguenze ad
ampio raggio.
Se ne deduce che lo storico del cristianesimo ha di fronte un campo
di ricerca estremamente vasto, potenzialmente illimitato: le Chiese, cioè
le peculiari istituzioni cristiane; le vicende storiche (nel corso delle quali,
per lunghi periodi in vaste aree, il cristianesimo si identifica quasi comple-
tamente con la società stessa) in Occidente e in Oriente, termini peraltro
costantemente ripensati e ridefiniti; i cristiani di volta in volta emarginati
o combattuti come eretici; le pratiche di vita, il culto, le dottrine dei vari
gruppi e delle diverse Chiese; le missioni intraprese, riuscite o fallite e altro
ancora sino ad arrivare, ogni volta che sia possibile seguire la traccia di una
fonte, alle microstorie dei singoli, laddove di queste emergano gli aspetti
propriamente cristiani.
Insomma, se si vuole cercare un confine che abbracci l'arco di duemila
anni, esso si limita al requisito minimo che persone, gruppi, istituzioni
si trovino a condividere la fede in Gesù di Nazaret, quale inviato da Dio
e personaggio salvifico, in senso esclusivo, come fu, alle origini, per i co-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

siddetti "ellenisti" degli Atti degli Apostoli, per Paolo e, successivamen-


te, per la corrente maggioritaria del cristianesimo, o in senso principale,
come è stato per gli ebrei credenti in Gesù, ridotti progressivamente a
minoranza e indicati dagli studi come giudeo-cristiani (dizione soggetta
attualmente a fondate obiezioni). Per gli uni la fede in Gesù, essendo via
esclusiva di salvezza, sostituiva ogni altro eventuale strumento salvifico
( in special modo la Torah), per gli altri si affiancava alla Torah e diventava
guida principale alla sua osservanza e dunque alla salvezza. Tale confine è
necessario per distinguere, quantomeno, il cristianesimo dall'islam, dove
Gesù è considerato inviato da Dio e profeta, ma non certo in senso esclu-
sivo o principale. All'interno del perimetro cristiano l'adesione di fede a
Gesù, presto prevalentemente identificato con l'appellativo di Cristo, e al
suo vangelo, pur nelle diverse declinazioni di tale fede, resta l'autentico
momento sorgivo, il perenne, fondamentale centro unificante dell 'am-
plissima raggiera.

I fattori di una storia plurale

Insistendo sulla pluralità del cristianesimo nel corso di una vicenda bimil-
lenaria lo storico contemporaneo non fa che riprendere, in modo argo-
mentato e sine ira et studio, la percezione di una conflittualità interna che
fin dai primi sviluppi viene avvertita sia all'interno dei fedeli di Gesù, che
la vivono come dolorosa contraddizione rispetto ai suoi insegnamenti e
all'esigenza costantemente sentita di unità fraterna, sia fra gli osservatori
esterni, dai quali è intesa come debolezza intrinseca dei cristiani ma anche
come loro caratteristica. Questa pluralità si mantiene nel tempo nonostan-
te si accresca anche un patrimonio di dottrine, riti e pratiche condivise,
sfociando, nel secondo millennio, nella divisione delle diverse confessio-
ni cristiane. Vanificato in passato qualche tentativo di ristabilire l'unione
mentre prevaleva la reciproca delegittimazione, solo molto di recente essa
è stata reinterpretata come diversità da vivere in termini costruttivi di ar-
ricchimento reciproco, grazie alla nuova fase del movimento ecumenico,
proteso non più tanto alla ricerca dell'unità quanto al riconoscimento del
valore complementare delle diverse confessioni.
Alcuni caratteri spiegano la complessità del cristianesimo, almeno nella
sua configurazione maggioritaria, e la capacità di attrazione. Innanzitutto,
PRESENTAZIONE 17

esso nasce alla confluenza fra mondo giudaico e mondo greco-romano, e


quindi da una mescolanza di culture che lo predispone all'adattamento a
diversi contesti culturali.
Un ulteriore dinamismo (da valutare sul lungo periodo, in quanto fasi
tutt'altro che brevi possono invece apparire stagnanti) trae spunto dal
richiamo alle origini evangeliche e alla Chiesa primitiva, assunte in fun-
zione, oserei dire, di mito storico di fondazione, con la conseguenza di
ispirare movimenti di riforma e ulteriori diversificazioni.
D'altra parte l'annuncio che Gesù fa del regno di Dio, orientando ver-
so il futuro, implica un giudizio negativo sull'attuale assetto mondano e
fornisce, nei confronti del presente, una potenzialità dialettica che non
scompare mai dall'orizzonte cristiano, anche se in alcune fasi può esse-
re estenuata o ridotta a mero controllo della condotta morale dei fedeli
piuttosto che tradursi, come talvolta invece avviene, in critica radicale nei
confronti dei vigenti meccanismi di potere.
L'assunzione e la reinterpretazione della Scrittura ebraica alla luce della
fede in Gesù Cristo producono uno iato fra lettera e spirito che accentua
la consueta dialettica fra testo e lettore, e, percorrendo l'intero arco storico
del cristianesimo, da un lato limita la portata delle letture fondamentali-
ste, che pure non mancano; dall'altro spinge alla continua ricerca del senso
profondo dello scritto ispirato.
Il ripensamento cristiano del monoteismo ebraico è duplice, dal mo-
mento che introduce la pluralità trinitaria all'interno dell'Uno e il farsi
uomo da parte di Dio: al fine di elaborare in termini razionali tale doppio
paradosso e spiegare in rapporto a questo Dio l'essere umano e il mondo,
si mette in moto una straordinaria e inusitata riflessione che, dall'iniziale
utilizzazione di categorie filosofiche coeve e dalla competizione instaurata
con le filosofie dell'età greco-romana e tardoantica arriva, in età medieva-
le, ad assommare ed esaurire in sé la quasi totalità della produzione intel-
lettuale, costruendo così il pensiero occidentale, per poi essere investita, in
età moderna e con l'illuminismo, dalla riflessione critica sulla "religione",
termine che non viene applicato più solo alla cristiana, anche se su di essa
prevalentemente si esercita.
In forza della dottrina dell'incarnazione, anche il rapporto del cri-
stianesimo con la storia assume una valenza particolare, ereditando e
intensificando la posizione del giudaismo, sicché la storia diventa luogo
privilegiato del rapporto fra Dio e l'uomo, costantemente ripensato negli
approfondimenti che le diverse confessioni cristiane portano avanti.
18 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Tutto ciò contribuisce a spiegare la capacità dimostrata dal cristiane-


simo di dialogare e di influenzare in ogni epoca, attraverso vari modi di
penetrazione, diverse civiltà.

Il cristianesimo e la nascita del pensiero critico

Lo studio critico del cristianesimo, basato cioè sull'esame libero della ra-
gione, è stato propiziato dalla riflessione sugli effetti devastanti delle guer-
re di religione fra XVI e XVII secolo. Nello stesso contesto nasce la vera
e propria critica testuale biblica. Peraltro già in età umanistica, lungo il
corso del xv secolo, Lorenzo Valla, Bessarione e poi Erasmo, nel periodo
in cui si stava mettendo a punto lo studio filologico dei testi antichi, ave-
vano più o meno esplicitamente sostenuto che il testo biblico va studiato
ed emendato secondo le medesime regole che presiedono all'edizione di
qualsiasi altro testo. Ora, a distanza di una ventina di anni l'uno dall'al-
tro, escono il Tractatus theologico-politicus di Baruch Spinoza, pubblicato
anonimo ad Amsterdam nel 1670, e l' Histoire critique du texte de Nouveau
Testament di Richard Simon, edita a Rotterdam nel 1689: il primo può
essere posto all'origine della critica biblica, il secondo rappresenta la pri-
ma monografia sulla tradizione di un testo antico. Entrambi gli autori si
giovarono di apporti precedenti, ma la costruzione delle rispettive opere è
originale. Entrambi furono contrastati nell'ambito delle proprie comunità
religiose: Spinoza era ebreo, e aveva subito l'esclusione dalla sua sinagoga;
Simon invece era un prete oratoriano di Francia, poi espulso dalla con-
gregazione. Qui interessa sottolineare come la nascita del pensiero storico
critico sia inestricabilmente connessa allo studio scientifico della Bibbia e
come ciò abbia una inevitabile ricaduta ad ampio raggio sulla storiografia
del cristianesimo.
Dobbiamo dunque fare una duplice constatazione. In primo luogo nel
cristianesimo va riconosciuto il fattore preponderante per la strutturazio-
ne della società e della cultura occidentale, sia nel senso antropologico sia
in quello specifico, attinente cioè a tutte le espressioni della creatività. Il
fatto che lo sia stato in una interazione complessa con altri fenomeni, in
quanto derivato dall'ebraismo e indebitato nei confronti della civiltà gre-
co-romana in cui dapprima si inculturò, e che altre componenti abbiano
dato il loro contributo, nulla toglie a questa evidenza. In secondo luogo la
PRESENTAZIONE 19

riflessione storica sul cristianesimo, ai cui inizi ho sopra accennato, svolge


parimenti un ruolo fondamentale, in quanto va compresa all'interno del
processo, altrettanto decisivo - in questo caso, per la nascita del pensiero
moderno -, che conduce all'autonomia della ricerca nei vari campi del
sapere rispetto a presupposti confessionali e apologetici e che, agli inizi
del Seicento, aveva visto impegnato Galileo a dichiarare l'autonomia del-
le scienze della natura dal dettato letterale della Bibbia. La stessa dizione
di storia "del cristianesimo", non a caso a suo tempo osteggiata in alcuni
ambienti ecclesiastici, ha alle spalle la presa d'atto di quella complessità di
sviluppo storico che altre dizioni, come "scoria della Chiesa" (al singolare
e con la maiuscola!), oscurano, in quanto interpretano la storia secondo
determinate visioni teologiche. C'è da dire che anche in questo campo le
posizioni delle varie confessioni cristiane hanno registrato una profonda
evoluzione e, accanto a residue resistenze, l'autonomia della ricerca storica
è oggi largamente riconosciuta. Naturalmente, il dialogo con gli storici
pone i teologi davanti a nuove sfide.
In conclusione, la storiografia sul cristianesimo assume una funzione
euristica centrale nell'ambito delle conoscenze proprie della modernità:
percepirla come una storia residuale o puramente settoriale equivale a
ignorare che essa è il banco di prova e il terreno su cui si è misurata e si mi-
sura l'emancipazione della conoscenza storica. Il che, naturalmente, non
significa che lo storico del cristianesimo, per capire davvero questa storia,
non prenda in carico il fatto che si tratti di scoria di uomini i quali vivono,
o dicono di vivere, una determinata fede: al contrario, egli ha l'obbligo di
studiare e comprendere le diverse e storicamente determinate declinazioni
della fede tenendo conto della peculiarità del fenomeno religioso, irridu-
cibile a ogni altro fenomeno. Di più: il nostro storico non deve solo aver
presente il carattere peculiare delle religioni, ma anche essere consapevole
che il cristianesimo ha una particolarità tutta sua, come sopra si è cercato
di illustrare, in quanto la fede in un Dio il quale sceglie di manifestarsi in
modo ultimo nel crocifisso contiene in sé la potenzialità di superare le for-
me istituzionali e culturali in cui viene irrigidito e storicamente determi-
nato il vangelo: dunque può servire non solo, in certe condizioni storiche,
a strutturare le società, ma anche a fornire argomenti di contestazione dei
meccanismi di ingiustizia e oppressione, alimentando modi di vita e di
pensiero alternativi alla conservazione del privilegio.
Sottolineare allora il carattere indipendente della conoscenza storica
significa, nel nostro caso, chiarire, una volta per tutte, che lo storico del
2.0 STORIA DEL CRISTIANESIMO

cristianesimo assume con particolare intensità, proprio in ragione del ca-


rattere "sensibile" del suo oggetto di studio, l'imperativo di operare la sua
ricostruzione del passato, remoto o prossimo, o anche del presente, esclu-
sivamente con gli strumenti condivisi del metodo storico, arricchito, nelle
impostazioni più recenti, dall'utilizzazione delle scienze sociali.

Perché una nuova Storia del cristianesimo?

La decisione di pensare e scrivere una nuova Storia del cristianesimo muo-


ve innanzitutto dalla constatazione che da alcuni anni assistiamo a un
fenomeno in apparenza paradossale. A fronte di un crescente "analfa-
betismo religioso", come è stato efficacemente chiamato, si registra una
domanda diffusa di informazione riguardante le religioni, generata, per
un verso, dalla nuova percezione che si ha dell'importanza delle stesse, a
seguito di recenti eventi storici di portata mondiale; per l'altro, dal carat-
tere sempre più multiculturale, multietnico e plurireligioso della società
italiana. Questo interesse riguarda largamente la religione islamica, ma
altrettanto, se non più largamente, il cristianesimo, laddove l'immigra-
zione crescente dai territori dell'Europa orientale ha portato gli italiani
di fine xx-inizio XXI secolo a "scoprire" che il cristianesimo non si iden-
tifica tout court con il cattolicesimo, ma presenta una molteplicità di con-
fessioni; che la presenza di alcune minoranze cristiane in Italia è antica
e operosa; che, a livello mondiale, il cristianesimo è soggetto a crescite
tumultuose o a spostamenti da una confessione ad altre, come nel caso del
proliferare di nuove Chiese evangeliche; che, accanto alla secolarizzazio-
ne, intesa generalmente, in modo superficiale e semplificante, quale causa
del lento declino ( in che termini, però? rispetto a quali parametri?) della
fede cristiana in Occidente, esistono contrazioni rapide e anche tragiche,
come sta avvenendo, mentre queste pagine vengono scritte, in tutta l'area
mediorientale, dove il movimento di Gesù è nato, la cristianizzazione è
antichissima, estremamente variegata dal punto di vista confessionale e
quindi culturale, e dove, per secoli e secoli, ha convissuto e interagito con
la subentrata maggioranza musulmana. Questo rinnovato interesse, in
un'epoca che rischia di ancorarsi al momento presente e non distinguere
l'opinione dalla conoscenza fondata sull'analisi critica, ha estremo biso-
gno dello sguardo lungo della storia, dell'interpretazione degli eventi e
PRESENTAZIONE 21

di una trattazione che con chiarezza espositiva ne restituisca, per quanto


possibile, la complessità.
In un momento di crisi sia dell'editoria sia del sistema universitario
è opportuno reagire con la forza delle proposte e delle idee. La sfida dei
curatori dei singoli volumi, e mia come coordinatrice scientifica del pro-
getto, è stata quella di proporre una trattazione il più possibile organica,
nonostante la polifonia di voci di autori, assolutamente necessaria per co-
prire una materia quanto mai articolata e un arco cronologico così ampio.
Volumi, i nostri, che possano dunque andare nelle mani del vasto pubblico
e nello stesso tempo fornire la base appropriata per un sapere specialistico.
Volumi che, pur accogliendo il contributo prezioso di studiosi stranieri
qualificati, rispecchino l'alta qualità degli studi italiani di cristianisti-
ca, qui rappresentata da alcuni incontrastati maestri ma, soprattutto, da
studiosi delle più giovani generazioni: in tale scelta, parafrasando Paolo
(Rm 4,18) che parlava di Abramo, il padre delle religioni dette appunto
abramiciche, si manifesta la nostra spes contra spem nel futuro della ricerca
italiana, che da tempo si è aperta alle importanti sollecitazioni provenienti
dalle correnti storiografiche affermatesi all'estero, senza smarrire la vigile
attenzione filologica nei confronti della fonte presa in esame, praticata sia
in Italia sia nella migliore storiografia estera.
Ogni volume ha un suo curatore e di conseguenza una propria impo-
stazione, che è stata comunque discussa collegialmente con i curatori degli
altri: ritengo questa caratteristica particolarmente pregevole, perché, di
per sé, delinea il quadro interpretativo dell'epoca trattata dal singolo volu-
me, che ciascuna introduzione chiarisce ulteriormente. Si è inoltre inteso
dare una visione interdisciplinare della storia del cristianesimo, consape-
voli che occorra una pluralità di approcci, la sola modalità adatta a rendere
conto della straordinaria ricchezza di un fenomeno religioso che attraversa
e permea, in molteplici modi, duemila anni di storia. I volumi offrono,
sotto questa prospettiva, una novità nel panorama editoriale, trattando
non solo gli aspetti istituzionali, dottrinali, cultuali, societari del cristiane-
simo, ma anche l'intreccio con le arti, la filosofia, l'economia.
Si è scelto, per favorire una lettura discesa, di non inserire note a piè di
pagina. Tuttavia i documenti presi in esame sono puntualmente indicati
nel testo, e, alla fine di ciascun capitolo, è stata posta una Bibliografia ragio-
1ltlta che presenta fonti e studi critici. Per questi ultimi sono state prese in
considerazione soprattutto monografie e sintesi, dalle quali chi è interes-
sato potrà risalire facilmente a ulteriori studi specialistici. Si è abbondato
22 STORIA DEL CRISTIANESIMO

nei rimandi interni, aiuto prezioso per la memoria. Le agili tavole crono-
logiche e alcune illustrazioni forniscono ulteriore aiuto.
Un'ultima cosa mi piace dire: lavori di questo tipo non vengono alla
luce se, oltre alla collaborazione scientifica, non si crea una corrente di
simpatia, di comprensione, di reciproco rispetto, fra autori e curatori e fra
i curatori tra loro. Degli autori parleremo alla fine dei singoli volumi. Agli
altri curatori, Marina Benedetti, Vincenzo Lavenia, Giovanni Vian, desi-
dero esprimere pubblicamente il mio grazie e ricordare la nostra amicizia,
la cosa più importante che resta. Di comune accordo, dedichiamo l'opera
alla memoria di una valente studiosa, Marilena Amerise, che troppo presto
ci ha lasciato.

Avvertenza Nei singoli volumi i curatori si sono attenuti redazionalmente agli usi
storiografici dei rispettivi periodi storici.
Introduzione al primo volume
di Emanuela Prinzivalli

Contenuto e struttura

Sette secoli di cristianesimo, i primi sette, sono un arco temporale molto


lungo, tale da coprire una serie di trasformazioni epocali. Si aprono con la
formazione ali' interno del giudaismo di un movimento, quello di Gesù, che
diventa in seguito religione autonoma. Colui che i cristiani considerarono il
loro fondatore è un uomo condannato dall'autorità imperiale; per tre secoli
i cristiani vivono in una situazione ambigua, a volte precaria o di pericolo,
a volte di riconoscimento di fatto e, per un periodo abbastanza lungo nel-
la seconda metà del III anche, in qualche modo, di diritto, interrotto dalla
cruenta persecuzione di Diocleziano. Nel corso del IV secolo tutto cambia
e, alla fine del secolo, il cristianesimo, nella sua declinazione catholica e per
editto imperiale, arriva a sostituire, ma non senza forti resistenze che si pro-
lungano nel tempo, i culti tradizionali su cui l'Impero romano fino ad allora
si era fondato; da ultimo, nel VII secolo, si assiste, con l'invasione araba,
ali' ingresso di una nuova religione, l'islam - monoteista, universalista e
proselitista - nei territori dell'Impero bizantino e di quello persiano, messi
poco prima a durissima prova dalla reciproca guerra. Non solo: il cristia-
nesimo si espande sin dalle origini fuori dai confini dell'Impero romano,
nelle vaste regioni orientali arrivando in India e in Cina; l'arianesimo, una
variante dottrinale rispetto a quella che sarà l'ortodossia cristiana, assurge
nd IV secolo a marca identitaria di molti popoli migranti, quei Germani che
daranno una inedita organizzazione istituzionale all'Occidente.
Ciascuno di tali eventi deve essere compreso all'interno dei mutamenti
delle società e delle culture dall'inizio dell'età imperiale al tardoantico, e
ciascuno porta a sperimentare le più diverse forme di convivenza, le inte-
razioni, le contaminazioni proprie della vita vissuta. Se è vero infatti che il
fenomeno religioso è irriducibile a fenomeni di altra natura, è altrettanto
24 STORIA DEL CRISTIANESIMO

vero che è inestricabilmente connesso a tutti i molteplici fattori che com-


pongono l'esperienza umana.
Una storia straordinaria, dunque, quella che i nostri lettori stanno per
percorrere. Una storia la cui caratteristica più incredibile è senza dubbio
la circostanza che, alla sua origine, ci sia stata la personalità affascinante e
controversa di un ebreo di umili natali, che predicava una speranza a gente
senza nome e finì la sua avventura con il supplizio più disonorevole allora
concepibile. A lui e al suo Dio si sono richiamati re, Imperi, Stati, sono
stati dedicati prodotti sublimi dell'ingegno umano, nel suo nome si sono
innescati conflitti, fatte guerre e si sono compiuti i più commoventi atti di
umana dedizione. Sempre, ripercorrendo questa storia, si ripropone I' in-
terrogativo di fondo sul senso del suo messaggio e su come, in quanti modi
e, soprattutto, se davvero è stato compreso e vissuto. Una domanda che
dal piano storico per molti scantona nell'esistenziale, continuando così il
"farsi" della storia del cristianesimo.
Per questo si è scelto di aprire il volume direttamente con un capitolo
su Gesù, piuttosto che, come si usa in lavori consimili, con uno dedicato
ampiamente al contesto giudaico nel quale egli si inserisce. L'ormai paci-
fica acquisizione storica che Gesù era a tutti gli effetti un ebreo inserito
nel giudaismo - termine che intendiamo nel triplice significato etnico,
culturale e religioso - del suo tempo consente ora di porre in piena luce la
sua figura e il suo specifico modo di essere ebreo.
I quindici capitoli del volume sono divisi in tre parti: la prima ( Come
nasce il cristianesimo) comprende, oltre a quello dedicato a Gesù di Na-
zaret, altri quattro consacrati all'analisi dei caratteri del cristianesimo na-
scente e ai suoi principali nodi interpretativi: dal lento costituirsi in un
sistema religioso indipendente, pur nella permanenza di un rapporto tan-
to stretto quanto contrastato fra cristiani ed ebrei, alle multiformi varianti
del cristianesimo fra le quali emerge progressivamente un nucleo di prati-
che e dottrine "ortodosse", alla centralità della questione dell'interpreta-
zione della Scrittura. Non a caso, poi, è collocato in questa prima parte il
capitolo sui cristianesimi orientali, perché è necessario acquisire, a livello
storiografico, piena consapevolezza del fatto che il cristianesimo si svilup-
pa precocemente e felicemente anche fuori dei confini dell'Impero roma-
no. La seconda parte ( Cristianesimo, società, istituzioni), formata da sette
capitoli, descrive il lungo percorso storico fino al VII secolo, l'incultura-
zione del cristianesimo in un arco sempre più vasto di popoli e tradizioni,
il radicamento sociale, le ragioni dell'emergere delle grandi controversie
INTRODUZIONE AL PRIMO VOLUME 25

dottrinali, la vitalità di nuovi fenomeni interni come il monachesimo, il


formarsi delle grandi istituzioni patriarcali, i prodromi e l'evoluzione del
distanziamento fra Oriente e Occidente cristiano. Non si è presa in con-
siderazione soltanto l' autorappresentazione dei cristiani, ma si è guardato
anche alla percezione esterna che, a diversi livelli, si aveva di loro e agli esiti
del dibattito serrato che veniva condotto dagli intellettuali di parte pagana
e cristiana. Desidero sottolineare come, sistematicamente, nella trattazio-
ne si sia tenuto conto delle differenze fra le diverse aree geografiche con
relative specificità regionali. I tre capitoli che compongono la terza parte
del volume ( Culto, ideali di santita, luoghi della devozione) si occupano di
altrettanti aspetti essenziali nello sviluppo del cristianesimo: l'elaborazio-
ne della liturgia, quindi di un culto proprio; l'elaborazione dei modelli di
vita e di un sistema di devozioni che assurge talvolta al livello di ulteriore
mediazione rispetto a Dio e a Cristo; il rapporto fra il sacro e lo spazio.

Il problema storiografico della nascita del cristianesimo

La grande storiografia tedesca dell'Ottocento molto discuteva sul fonda-


tore o sui fondatori del cristianesimo, attribuendo a Paolo un ruolo deci-
sivo nel processo. Oggi, avendo chiarito che l'ebreo Gesù di Nazaret non
concepiva la sua missione nei termini di "fondazione" di una religione (ma
neppure l'ebreo Paolo) ed essendo anche discusso il concetto stesso di re-
ligione, l'interrogativo si pone secondo modalità un po' diverse: si indaga
sui motivi e sui tempi del distacco dei cristiani dalla matrice del giudaismo
dell'epoca di Gesù (che era diverso dal giudaismo quale si va configurando
dopo il II secolo dell'era volgare), si discute sugli elementi che configurano
un sistema religioso autonomo e sulla continuità stessa fra Gesù e il cri-
stianesimo, un termine, si fa anche notare, che compare solo nelle prime
decadi del II secolo, in un'area delimitata, quella antiochena.
Da questi interrogativi lo storico del cristianesimo ricava soprattutto
un insegnamento e un ammmonimento: quello a non cadere nella trap-
pola di proiettare sul passato configurazioni successive; non deve cioè
cadere nell'anacronismo, un rischio sempre presente nella ricostruzione
storica e massimamente quando si studia il fenomeno religioso, perché in
questo caso le fonti stesse tendono (non sempre, ma prevalentemente) a
trasmettere la convinzione della continuità degli assetti - istituzionali,
2.6 STORIA DEL CRISTIANESIMO

dottrinali o rituali che siano - e a presentare una "verità" stabilita dal prin-
cipio. D'altra parte, lo storico, proprio perché reso attento alle continue
trasformazioni dell'oggetto di studio, non può irrigidire i percorsi storici
opponendo continuità e discontinuità, dovendo bensì considerare che essi
procedono secondo un duplice movimento di continuità/discontinuità.
Nella Presentazione (cfr. supra, p. 15) ho indicato il requisito minimo per
identificare ciò che appartiene al perimetro di una storia del cristianesimo:
che gli accori di questa storia condividano la convinzione che vede Gesù
(Cristo) come personaggio che offre la "salvezza" e facciano riferimento
a lui nella loro attività. Che per il primo periodo di questa storia non si
parlasse di "cristianesimo" e a volte neppure di "cristiani", perché i seguaci
di Gesù venivano altrimenti identificati, poco importa: nel discorso sto-
riografico i termini si usano con un certo grado di convenzionalità. L' im-
portante è che lo storico comprenda e illustri il proprium di ogni diverso
gruppo rispetto alla condivisione della convinzione minimale comune.

Le fonti per la storia del cristianesimo antico

Le fonti cui attingere per la storia del cristianesimo, anche per la parte
antica, sono molte. Sono abbondanti (vangeli, lettere degli apostoli) per
quel che riguarda Gesù, segno dell'impatto della sua figura sui contempo-
ranei. La loro esclusiva provenienza per il I secolo da suoi seguaci (a parte
il caso discusso del cosiddetto Testimonium Flavianum, di cui si parlerà
nel volume) è una circostanza ciclicamente riproposta da alcuni per met-
tere in dubbio l'esistenza storica di Gesù. È una posizione suggestiva ma
ingenua, che non tiene conto del facto che gli storici romani non si sono
preoccupati di parlare degli eventi della Giudea sotto Ponzio Pilato, a pro-
posito del quale, se non fosse stata ritrovata una frammentaria iscrizione
romana a Cesarea Marittima che lo ricorda come prefetto della Giudea,
disporremmo esclusivamente di fonti giudaiche (Flavio Giuseppe e Filo-
ne). A maggior ragione le fonti romane contemporanee non ebbero alcun
motivo di occuparsi di un ebreo giustiziato, per giunta di oscura origine:
ma la riprova che le cose presto cambiarono è il fatto che all'inizio del II
secolo Ponzio Pilato è nominato da Tacito solo nel contesto in cui accenna
a Gesù e ai cristiani. Le contraddizioni fra le fonti cristiane che parlano di
Gesù sono normali proprio in ragione del loro numero, e anzi sono segno
INTRODUZIONE AL PRIMO VOLUME

che non sono state precostituite con un piano di falsificazione. A questo


riguardo, il primo capitolo del volume è scritto con cura particolare per
introdurre il lettore a comprendere nella pratica i criteri di vaglio delle
fonti antiche su Gesù.
Piuttosto, almeno per i primi due secoli, si vorrebbe avere una docu-
mentazione non solo letteraria: però epigrafia, papirologia, iconografia,
archeologia ci sostengono solo per i secoli successivi. Anche questo è com-
prensibile: i cristiani elaborano solo lentamente forme proprie di produ-
zione in questi ambiti.
Con il passare del tempo le fonti a disposizione si moltiplicano. Le
fonti scritte si differenziano ulteriormente: si pensi all'avvio precoce della
letteratura di carattere liturgico con la Didache (fine I secolo), alla lette-
ratura agiografica, agli atti conciliari. Ali' incirca dall'inizio del III secolo
appaiono le fonti materiali e iconografiche.
Né si deve dimenticare che i cristiani ebbero un particolare interesse
proprio per la storia: molti vangeli (non solo i canonici) ricostruiscono
alcune tappe della vita di Gesù; nel Credo alcuni dati storici su Gesù sono
espressamente segnalati in quanto il legame con la sua esistenza umana è
considerato funzionale alle esigenze della dottrina. I cristiani si appropria-
rono del genere cronografico, con Giulio Africano (le Cronografie), nelle
prime decadi del III secolo, e cento anni dopo crearono un nuovo genere
storiografico, con Eusebio di Cesarea: la Storia ecclesiastica.
Il particolare interesse dei cristiani per la cronografia si giustifica con
il possesso di una chiave ermeneutica forte: l'idea che la venuta di Cri-
sto rappresenti l'evento decisivo a partire dal quale ripensare le vicende
dell'umanità, con una prospettiva quindi compiutamente universalistica
che conduce a stabilire i rapporti temporali fra gli eventi, di cui si sostan-
zia questo genere letterario, ampliando il novero dei popoli rispetto agli
antecedenti ellenistici. Non a caso la cronografia, sfociata nelle Cronache
universali medievali, diventò l'approccio storiografico più congeniale e
diffuso fino alle soglie dell'età moderna, quando riapparve il genere sto-
riografico della Storia ecclesiastica.
Eusebio, componendo la Storia ecclesiastica, aveva avuto un effetto
così dirompente da interrompere per un certo periodo (fra IV e VI se-
colo) il predominio cronografico. Dove risiede la sua originalità? A ben
guardare non nella concezione provvidenziale della storia, ereditata da
Flavio Giuseppe insieme con l'idea che i cristiani siano un popolo, sebbe-
ne non in senso etnico ma propriamente religioso, e quindi abbiano una
STORIA DEL CRISTIANESIMO

storia - a differenza dei culti tradizionali, che sussistono nell'invarianza


della corretta ripetizione dei riti -; non sta neppure nella connessione
positiva fra cristianesimo e Impero romano, già presente in nuce negli
Atti degli Apostoli e affermata nel II secolo da Melitone di Sardi. L'ori-
ginalità consiste piuttosto nell'organizzazione di questi e altri elementi
( come l'aver programmaticamente individuato ed elencato una serie di
tematiche significative: dalle successioni episcopali alle glorie dei marti-
ri) in una struttura specificamente pensata, che ha il momento iniziale
in Gesù Cristo e una apertura indeterminata per quanto riguarda la fine
dei tempi, in quanto Eusebio rifiuta lo schema millenario. L'innovazio-
ne, rispetto alla storiografia classica, di inserire brani tratti dalle fonti nel
corso della narrazione costituisce di per sé, ai nostri occhi, un pregio ine-
stimabile dell'opera eusebiana.
Il cristianesimo si trova dunque coinvolto sin dalle origini nella pro-
blematica storiografica che si moltiplica ulteriormente per l'affiancarsi
delle storie delle singole sedi, come avviene in Oriente per la sede di
Alessandria, nella cui cancelleria si elaborava la storia dell'episcopato,
ricostruibile oggi solo attraverso frammenti, o in Occidente per la sede
di Roma, con il Liber Pontificalis, la cui prima edizione dovrebbe risalire
al VI secolo.

Gli autori

Anche se il curatore di un volume elabora il piano dell'opera e cerca di


mettersi al servizio della sua buona riuscita, i veri artefici ne sono gli auto-
ri, le cui note biobibliografiche sono indicate alla fine del volume. Credo
di poter dire che abbiamo lavorato in autentica sinergia, con una visione
storica largamente condivisa. I tre studiosi stranieri che hanno onorato
il volume collaborano, a vario livello, da diversi anni con i ricercatori ita-
liani. Degli italiani alcuni sono studiosi affermati, altri sono più giovani,
ma già maturi e specialisti del tema che sono stati chiamati ad affrontare.
Molti fra loro sono miei amici di lunga data e ritrovare nelle loro pagine le
riflessioni fatte nei contesti più diversi, compresi quelli conviviali, è stato
bello. Li ringrazio tutti e uno ad uno. Un grazie particolare lo debbo però
ad Alberto Camplani, il quale ha seguito l'andamento del lavoro e ha dato
utili consigli nelle sue varie fasi.
INTRODUZIONE AL PRIMO VOLUME

Avvertenza

Il lettore noterà nel volume l'intercambiabilità nell'uso dei termini ebrei/Giudei. Per
il periodo di cui ci stiamo occupando il termine corrente è piuttosto "Giudei", come
spiega lo stesso Flavio Giuseppe (Ant. /ud. 1,46). Tuttavia, in italiano, per quanto
riguarda la trattazione della vita di Gesù, parlare di "Giudei" rischia di creare confu-
sione con gli abitanti della Giudea. Dunque ho preferito rispettare l'utilizzo che dei
due termini fanno gli autori dei vari capitoli, senza uniformare. Nel termine "Giudei"
si può individuare una maggior valenza emica, ma anche questa precisazione ha una
certa dose di arbitrio. I nomi dei popoli sono indicati in maiuscola, quelli dei gruppi
religiosi in minuscola.
Si sono evitate, per quanto possibile, le abbreviazioni. L'opera di Ireneo Contro
le eresie (adversus haereses) è abbreviata in adv.haer. La Storia ecclesiastica di Eusebio
(Historia ecclesiastica) è abbreviata in h.e. Altre abbreviazioni sono di facile sciogli-
mento.
La traduzione italiana delle parti scritte da Andrés Saez e da Philippe Blaudeau è
mia.

Bibliografia essenziale

Segnalo due recenti e ampie introduzioni generali alla scoria del cristianesimo antico:
i primi tre volumi del!' Histoire du christianisme, sous la direction de J.-M. Mayeur,
C. Pietri, L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard, Desclée, Paris 1995-2.000 (trad. it. Storia
del cristianesimo. Religione, politica, cultura, Boria-Città Nuova, Roma 2.000-03) e il
primo volume dell' Histoire générale du christianisme des origines au XV' siede, sous
la direction de J.-R. Armogathe, P. Montaubin, M.-Y. Perrin, Paris 2.oIO. Utili anche
i tre volumi de Il cristianesimo. Grande atlante, direzione scientifica di G. Alberigo,
G. Ruggieri, R. Rusconi, Garzanti, Torino 2.006, e i due volumi de Il cristianesimo.
(,'rande dizionario, di P. Coda, G. Filoramo, Garzanti, Torino 2.006. Di carattere sin-
tc.:tico e con ricca disamina delle fonti letterarie M. SIMONETTI, Il Vangelo e la sto-
ri,1. Il cristianesimo antico (secoli I-IV), Carocci, Roma 2.010. Lo studio della lettera-
tura cristiana è strettamente complementare a quello della scoria del cristianesimo:
c. MORESCHINI, E. NORELLI, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina,
, voli., Morcelliana, Brescia 1995 e ristampe; M. SIMONETTI, E. PRINZIVALLI, Storia
della letteratura cristiana antica, EDB, Bologna 2.oIO e ristampe (da consultare anche
per l'elenco degli strumenti bibliografici e dei repertori di fonti). Altri strumenti utili:
A. DI BERARDINO (a cura di), Nuovo dizionario patristico e di antichita cristiane,
, voli., Marietti, Casale Monferrato 2.007, tradotto in più lingue; ID. (a cura di),
30 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Atlante storico del cristianesimo antico, con la collaborazione di G. Pilara, EDB, Bo-
logna 2010; A. GIUDICE, G. RINALDI (a cura di), Fonti documentarie per la storia del
cristianesimo antico, Carocci, Roma 2014.
Sul problema della nascita del cristianesimo cfr. la discussione in M. PESCE, Da
Gesù al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2011; cfr. anche D. MARGUERAT, E.JUNOD,
Qui a fondé le christianisme?, Labor et Fides, Genève 2010; E. PRINZIVALLI, Cristiane-
simo/Cristianesimi nell'antichita, in "Augustinianum~ 52, 2012, pp. 65-83; E. NORELLI,
La nascita del cristianesimo, il Mulino, Bologna 2014. Per un'ampia riflessione sullo
statuto della storia del cristianesimo, G. LETTI ERI, Un dispositivo cristiano nell'idea di
democrazia? Materiali per una metodologia della storia del cristianesimo, in A. Zam-
barbieri, G. Otranto (a cura di), Cristianesimo e democrazia, Atti del I Convegno di
studi organizzato dalla Consulta Universitaria per la Storia del Cristianesimo e delle
Chiese (Pavia, 21-22 settembre 2009 ), Edipuglia, Bari 2011, pp. 19-134.
Per alcune delle fonti menzionate nel)' Introduzione: EUSÈBE DE CÉSARÉE, Hi-
stoire Ecclésiastique. Commentaire, Tome I: Études d'introduction, sous la direction

de S. Morlet, L. Perrone, Les Belles Lemes-Cerf. Paris 2012; A. CAMPLANI, L'auto-


rappresentazione dell'episcopato di Alessandria tra IV e V secolo: questioni di metodo,
in "Annali di storia dell'esegesi", 21, 2004, pp. 147-85; L. CAPO, Il Liber Pontijicalis, i
Longobardi e la nascita del dominio territoriale della chiesa romana, Fondazione Cen-
tro Italiano di Studi sull'Alto medioevo, Spoleto 2009, pp. 23-58.
Parte prima
Come nasce il cristianesimo
I
Gesù di Nazaret
di Enrico Norelli

Le fonti
Conosciamo Gesù di Nazaret perché un certo numero di quelli che lo
frequentarono furono convinti che attraverso di lui il Dio d'Israele fosse
intervenuto in maniera unica e decisiva. Trasmisero perciò ricordi relativi
a lui - incluse interpretazioni diverse della sua persona - che divennero
frammenti di memoria, cioè di un passato che vari gruppi di seguaci co-
struivano come riferimento per la loro comprensione di sé e come norma
di vita. Poiché la morte di un inviato divino scandalizzava, la si raccon-
tò in forma cale da mostrare che corrispondeva a profezie contenute nel-
le Scritture, e dunque alla volontà di Dio; il racconto fu legato a quello
dcli' istituzione del pasto rituale comune e fu conservato là dove i gruppi
che si richiamavano a lui celebravano il loro culto (cfr. CAP. 13, p. 392). Gli
altri ricordi furono trasmessi sotto forma di brevi unità: un miracolo, una
controversia, un detto o una parabola, utili nel contesto sia della missio-
ne con la quale i credenti in lui vollero proseguire la sua opera, sia della
vita dei loro gruppi. Ne troviamo già nei più antichi documenti cristiani
conservati, le lettere dell'apostolo Paolo, nella prima metà degli anni 50.
Si formarono piccoli raggruppamenti di queste unità e progressivamente
furono messi per iscritto. Poteva accadere che le parole di Gesù, servendo
da norma, venissero attualizzate, talvolta inventate.
Chi attribuiva importanza decisiva per la "salvezza" alle parole di Gesù
ne compilava raccolte. Ma si cominciò anche a scrivere narrazioni della sua
attività; la più antica a noi nota è il libro, composto verso il 70, che notizie
esterne, dall'inizio del II secolo, presentano come opera di un Marco, col-
laboratore dell'apostolo Pietro. Il libro comincia con la frase «Inizio del
vangelo di Gesù Cristo», dove "vangelo", come già nelle lettere di Paolo,
significa l'annunzio di Gesù, in senso soggettivo e oggettivo: in seguito
34 STORIA DEL CRISTIANESIMO

si designò come vangelo il libro attribuito a Marco e altri analoghi che


trasmettevano la memoria di Gesù. Di altre due opere di questo tipo, ano-
nime ma trasmesse come composte da Matteo, discepolo di Gesù, e da
Luca, discepolo di Paolo, probabilmente l'una negli anni 80 e la seconda,
con la sua continuazione gli Atti degli Apostoli, negli anni 90, la mag-
gior parte degli studiosi ritiene che abbiano usato come fonte il Vangelo
secondo Marco. Si usa designare questi tre vangeli come "sinottici", cioè
che si possono disporre in modo da "vederli insieme", perché presentano
la stessa struttura e numerosi contatti: a partire dal II secolo furono chia-
mati Vangelo secondo Marco, Vangelo secondo Matteo, Vangelo secondo
Luca. Una volta sottratto il materiale proveniente da Marco, rimane una
cospicua materia comune a Matteo e Luca, costituita quasi esclusivamente
da detti di Gesù e, ali' inizio, di Giovanni Battista, per cui si suppone che
entrambi abbiano usato una seconda fonte scritta - è la cosiddetta teoria
delle "due fonti", cioè Marco e Q come fonti di Matteo e Luca - per noi
perduta, una raccolta di detti di Gesù: la si designa con la sigla Q (iniziale
di Quelle, 'fonte' in lingua tedesca). Si pensa che abbia preso forma negli
anni 50 e abbia circolato in recensioni parzialmente diverse. Poiché Marco
non ha conosciuto Q, la convergenza fra Marco e Qha forte valore per ri-
salire verso Gesù. Matteo e Luca dispongono inoltre ciascuno di materiale
particolare: ad esempio, la parabola conosciuta come del Figlio prodigo è
solo in Luca.
Ci furono numerosi altri vangeli; ne ricordiamo alcuni. Probabilmen-
te intorno al 100 fu composto quello che le notizie successive attribui-
rono a Giovanni di Zebedeo, discepolo di Gesù, ma che si richiama alla
testimonianza del «discepolo che Gesù amava», la cui identificazione
con Giovanni è improbabile. Malgrado numerosi contatti, la sua strut-
tura e l'impostazione sono diverse da quelle dei sinottici; si discute se
questo autore li abbia conosciuti. In questo Vangelo secondo Giovanni
un discreto numero di dettagli storicamente attendibili, ignoti ai sinotti-
ci, si unisce a una reinterpretazione molto elaborata della figura di Gesù,
così che il suo uso per la ricostruzione del Gesù storico esige estrema
prudenza.
Altri due vangeli, contenendo materiale indipendente da quelli già
nominati, possono contribuire alla conoscenza storica di Gesù. Il vangelo
secondo Tommaso, una raccolta di 114 detti di Gesù (somiglia dunque ali' i-
potetico documento Q), ci è giunto in una traduzione copta ritrovata nel
1945 a Nag Hammadi in Egitto e in pochi frammenti nella lingua originale
GESÙ DI NAZARET 35

greca. Sembra che per un certo numero di detti risalga a fonti diverse dagli
altri vangeli a noi noti e abbia quindi valore autonomo; d'altra parte, la
sua forma attuale risente di un'intensa reinterpretazione del messaggio di
Gesù, legata a sviluppi teologici certamente posteriori a lui. Molto meno
usato per la ricostruzione del "Gesù storico" è il Vangelo secondo gli Ebrei,
di cui restano solo frammenti riportati da autori cristiani; ma essi sembra-
no indipendenti dagli altri vangeli. Infine, del Vangelo di Pietro resta una
parte con un racconto leggendario della passione, morte e resurrezione;
qualche studioso ha cercato di ricavarne il più antico racconto della pas-
sione, ma è una tesi poco verisimile.

Nascita e infanzia

Sulla nascita di Gesù non sappiamo praticamente nulla. Paolo afferma


solo che era «nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4), cioè era un
uomo ebreo. Non ne parlano né Marco né Q Invece Matteo e Luca con-
tengono racconti sulla nascita e infanzia (Mc 1-2; Le 1-2) aventi qualche
elemento in comune, ma anche divergenze talmente forti da non poter es-
sere spiegate come discrepanze dei ricordi dei protagonisti. Probabilmente
in origine c'erano solo enunciati tratti da vere o presunte citazioni bibliche
selezionate o create come profezie sulla nascita di Gesù (Testimonia). Da
queste sarebbero stati ricavaci racconti diversi, due dei quali divennero ca-
n(rnici con i vangeli ai quali appartengono. Ma non hanno valore storico.
La nascita a Betlemme, che Matteo e Luca giustificano in modi totalmente
diversi, fu presumibilmente inventata sulla base della convinzione che in
quel villaggio, patria del re Davide, dovesse nascere il messia (Mi 5,1-3, cita-
to da Mc 2,6). Poiché la discendenza di Gesù da Davide, affermata nei rac-
conci di nascita, appare già verso il 56 nella Lettera ai Romani (1,3) di Paolo
e poi in notizie sulla sua famiglia - già molto leggendarie - trasmesse da
Egesippo verso il 170 (citate da Eusebio di Cesarea, h.e. 3,19-20 ), diversi
studiosi la ritengono verisimile.
Nei racconti di nascita, oltre forse a un rapporto con il regno di Erode,
tute' al più possono essere storici i nomi dei genitori, confermati da altre
informazioni (Mc 6,3 per la madre; Gv 1,45 per il padre). In Mc 6,3 appa-
iono i nomi di quattro fratelli di Gesù, Giacomo, Joses, Giuda e Simone,
nonché la menzione delle «sue sorelle», che erano quindi almeno due.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Due fratelli portano nomi di patriarchi (Giacomo è una trascrizione di


Giacobbe, Joses una forma abbreviata di Giuseppe), gli altri due di eroi
nazionali della rivolta dei Maccabei (ma Giuda è anche uno dei dodici figli
di Giacobbe), e Gesù ha il nome del successore di Mosè (è una forma ab-
breviata di Giosuè), il che lascia supporre una famiglia fedele all'identità
nazionale e religiosa d'Israele.
Non ci sono appigli per considerare i fratelli e sorelle altro che tali. Le
spiegazioni date anticamente per sostenere che in realtà erano figli di pri-
mo letto di Giuseppe (Protovangelo di Giacomo, Epifanio) oppure cugini
(Girolamo) non reggono all'analisi filologico-comparativa delle fonti cri-
stiane e furono elaborate per giustificare il teologumeno della perpetua
verginità di Maria, successivo a Matteo e Luca, che si limitano a conside-
rare verginale il concepimento di Gesù. Mc 6,3 designa Gesù come tekton,
che indica chi realizza lavori in pietra e legno, dunque carpentiere, costrut-
tore, muratore. Nel riprendere questo passo, Mt 13,55 ha sostituito tekton
con «il figlio del tekton», forse per non attribuire a Gesù un modesto
mestiere manuale, ed è su questa base che è nata - già in antichi apocrifi
- l'immagine del falegname Giuseppe; naturalmente, è ben possibile che
Gesù avesse ereditato il mestiere dal padre. Con ogni eventualità ha an-
che coltivato la terra. Non sappiamo quanto fosse alfabetizzato; è molto
probabile che abbia appreso i rudimenti della lettura e della scrittura, e
potrebbe essere stato iniziato alla lettura e al commento di passi biblici (in
ogni caso, la lettura del testo di Isaia nella sinagoga di Nazaret in Le 4,16-
21 è forse un racconto costruito dall'evangelista).

Gesù il galileo

Marco afferma che «da Nazaret di Galilea» Gesù andò a farsi battezzare
da Giovanni (1,9) nel Giordano, e lo designa spesso come Nazarenos (Mc
1,24; 10,47; 14,67). Matteo (2,23; 26,71) lo qualifica di Nazoraios, mentre
Luca usa entrambe le forme (la prima in Le 4,34; 24,19, la seconda in Le
18,37, poi negli Atti). Giovanni (18,5-7; 19,19) usa solo Nazoraios. Q non
contiene né il nome di Nazaret, né l'appellativo in alcuna forma. Alcuni
studiosi vorrebbero collegare questo appellativo al ne~er, 'germoglio', di Is
11,1 (cui allude Mt 2,23), che era interpretato in senso messianico. Comun-
que, Matteo e Luca connettono il termine con Nazaret come luogo dal
GESÙ DI NAZARET 37

quale Gesù ha cominciato (Mt 21,u). Mc 6,1 presuppone che vi sia nato, e
nello stesso senso va Gv 1,45.
Nazaret non è menzionata né nella Bibbia ebraica, né nelle fonti giu-
daiche non cristiane prima del III secolo. Per il tempo di Gesù, gli arche-
ologi calcolano non più di 400 abitanti. Era situata a circa 400 metri di
altitudine e a poco più di 5,5 chilometri a sud-est di Sefforis, che Erode
Antipa aveva ampliata e fortificata tra il 4 a.C. e il 19 d.C., facendone la
prima città della Galilea (8.000/12.000 abitanti). È possibile che il padre
di Gesù abbia partecipato, assistito dal figlio, ai lavori di costruzione. Gesù
può dunque avere avuto contatti con Sefforis, ma durante la sua attività
pubblica ha evitato le città. Dopo il distacco di Gesù dalla famiglia, la tra-
dizione sinottica registra una sola visita a Nazaret (Mc 6,1-6 e paralleli),
in occasione della quale gli abitanti tengono nei suoi riguardi un atteggia-
mento molto critico ed egli «lì non poteva compiere nessun prodigio»;
un insuccesso del genere non sarà stato inventato. È plausibile che Nazaret
abbia conservato diffidenza nei confronti di un paesano che si era allon-
tanato.
L'attività di Gesù si svolse largamente nei villaggi della Galilea. Marco,
seguito da Matteo e Luca, distingue due periodi: un'attività in Galilea,
con puntate nelle regioni circostanti, e pochi giorni a Gerusalemme, verso
la festa di Pasqua, durante i quali Gesù è arrestato e condannato a morte.
Questa opposizione sembra una costruzione di Marco. Giovanni (2,13 e
2.3; 6,4; da 11,55 in poi) fa agire Gesù in Galilea ma include almeno tre Pa-
sque a Gerusalemme, il che significa che l'attività di Gesù sarebbe durata
più di due anni; ma anche questo schema ha le sue ragioni teologiche.
Che Gesù abbia svolto gran parte della sua attività in Galilea è atte-
stato dall'accordo di Marco (1,21; 2,1; 6,45; 8,10.22; 15,40.47; 16,1) e del
materiale Q (Q/Lc 10,13-15), cui si aggiungono Luca (Nain, 7,u-16) e Gio-
vanni (Cana, 2,11). Fra le località intorno al lago di Genesaret frequenta-
tl'. da Gesù spicca Cafarnao (Mc 1,29-34; 2,1-12; Q/Lc 7,10; Mt 17,24-27 ),
al confine tra la Galilea e la Gaulanitide, il territorio di Filippo, con una
popolazione massima di 1.700 abitanti. Vi si conserva un resto di abita-
zione, con un vano ampliato, sembra a metà del I secolo, forse per servire
a riunioni. Vi figurano graffiti in aramaico, ebraico, greco, latino e siriaco,
nonché disegni di una croce e una barca, i quali mostrano che, almeno dal
III secolo, quello spazio rivestiva uno speciale significato per dei credenti
in Gl:sÙ: vari studiosi ammettono la possibilità che già nel I secolo venisse
localizzata lì la casa di Pietro.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

do ·1•
. 117 r <J'\e C~ybon

4. .
..... I • o~ sco
$;trepliJ (>
9
-~ o+
<::- ,e $
Cli

T,ro • "- ,/ Cesa,.. dl Filippo

Ecd PPd •
. o • ne

Traconltlde

Tolcmalde • Raton Sozor


• •
....... cana

Oor.1 4 . "'·' MTABOR


! .
Gadare
• Na1
. Es1,oe1a o • Arb la .
. Sc1t ~II
• Pela
(O 8 I

Samar ia
G.ri il

nncn
. Cl

o>

ì
C') Amall • r; ra<f.8
APOllont.:1 •
.
Calars.:1ba
F ,,a1
.
~ r •
o.r
~ I ,

-o
o

IOPr,4:!' • • Ant pa.l!ide At, • lr • "\


.z.
Ann ,, • • Tamna f- •
d • M ,.. El~ m •
• B " Ao;hrndode
Gt ,e, 8 ,o~ .~ pà Qp • Beta ~
• 1a~ n1a • • G I u d e a • • At
Emn, u C lf • L •
• AlC.11 Gerusalemme • ••
Beteni~ •
Hy1
.
,

lH"lta
)(vpros, CD

Mare
.
OtJoll,tm • Herc l

• Eb,
"'• .TPko.1
I

d u m e a
La Giudea& no
Ponno PI !
8Pr rl H
Tetr"arc'hra dt -
F•/,ppo
Te1rarchm dr
E,Ode Aot1pa
• Elusa Provmcia ,omana
d1S11.a
Tem10f'1 di"! 1

-
DecapOI
Ex 1erritor1
d1 Sarome
A c.,'\lona torritono
a stah.110 spcc
• oDOda n,,/la prOVHlClà cl,
s

La Palestina al tempo di Gesù (da G. Filoramo, a cura di, Storia delle religioni, voi. n:
Ebraismo e cristianesimo, Latcrza, Roma-Bari 1995).
GESÙ DI NAZARET 39

Verso la fine del I secolo, Io storico Flavio Giuseppe, galileo, descriveva


la Galilea come un territorio fertile e densamente popolato (Beli. !ud. 3,35-
43.516-520 ). Sino a qualche decennio fa, gli studiosi consideravano spesso
la Galilea come regione a popolazione mista, poco preoccupata dell' iden-
tità ebraica. L'archeologia ha poi mostrato che la sua cultura, comprese le
pratiche religiose, non differiva sostanzialmente da quella della Giudea, e
l'identità che i Galilei si attribuivano era giudaica e rispettosa delle norme
di purità. Gesù non è cresciuto in un clima di opposizione a Gerusalemme
e al Tempio.
Si trattava di una società agraria avanzata, in cui la campagna produ-
ceva i mezzi necessari alla vita della città, che se ne impadroniva median-
te le imposte. La terra apparteneva largamente a latifondisti che viveva-
no per lo più nelle città e tendevano ad allargare i propri possedimenti
rovinando i piccoli proprietari. I braccianti a giornata, gli affittuari re-
stii a versare al padrone la sua quota dei prodotti, i coltivatori in debito
con i proprietari, presenti nelle parabole di Gesù, erano familiari ai suoi
ascoltatori, così come i ricchi vestiti di porpora e bisso (Le 16,19) nonché
i mendicanti, gli infermi che sprofondavano nella miseria, gli affamati, i
poveri cui non veniva resa giustizia, gli "indemoniati" che saranno stati
spesso persone segnate psichicamente da condizioni di vita laceranti.
Come vedremo, il messaggio di Gesù non è immediatamente politico
ma si comprende in questo contesto di degradazione sociale effettiva per
gli uni, incombente per gli altri. Alcuni degli impoveriti si davano al bri-
gantaggio come mezzo di sussistenza e di rivolta contro la tassazione. Il
periodo dell'attività di Gesù non sembra però aver visto particolari agi-
tazioni sociali, nemmeno in Galilea, nella quale pure si è voluto talora ve-
dere un focolaio di rivolte.

La cronologia di Gesù

Secondo Le 2,1-2, Gesù nasce sotto l'imperatore Augusto (37 a.C.-14 d.C.),
e sia Luca sia Mt 2 convergono nel situarne la nascita sotto Erode il Gran-
de. L'altro elemento di datazione in Luca, il censimento indetto dal legato
di Siria Quirinio, è invece incompatibile con il regno di Erode, perché av-
venne dieci anni dopo la morte del re, databile agli inizi del 4 a.C. (Flavio
Giuseppe, Ant. Iud. 17,167.213; Beli. !ud. 2,IO ). Luca usa il censimento per
STORIA DEL CRISTIANESIMO

trasferire i genitori di Gesù da Nazaret a Betlemme senza rendersi conto


dell'incongruenza. Se si tiene per ferma la datazione sotto Erode, la nascita
di Gesù potrebbe collocarsi poco prima del 4 a.C. La stranezza del fatto
dipende dall'errore commesso dal monaco scita (cfr. CAP. 12., p. 372.) Dio-
nigi il Piccolo, morto verso il 540, nei suoi calcoli cronologici che vennero
adottati per fissare l'inizio dell'era cristiana.
Anche l'inizio dell'attività pubblica è incerto, in base ai dati di Le 3,1 e
Gv 2.,2.0, che approdano rispettivamente o agli anni dal 2.6 al 30 o al 2.7-2.8.
Combinando le possibili date d'inizio con la diversa durata dell'attività
nei sinottici e in Giovanni, si ottiene per la morte una forbice che va dal
2.7 al 34 (Pilato fu in carica dal 2.6 al 36). I vangeli canonizzati concordano
nell'affermare che Gesù è morto la vigilia del sabato, ma divergono sulla
data: secondo i sinottici, sarebbe morto il venerdì 15 Nisan, il giorno suc-
cessivo alla cena pasquale, secondo Giovanni il venerdì 14 Nisan, prima
della cena pasquale che aveva luogo la sera di quel giorno. La cronologia
giovannea appare preferibile (cfr. infra, p. 63): il 14 Nisan cadde di venerdì
negli anni 30 e 33. Si potrebbe datare la morte al 14 Nisan dell'anno 30, ma
è solo una probabilità.

Giovanni il Battista

Diverse fonti reciprocamente indipendenti connettono l'inizio dell' atti-


vità di Gesù con Giovanni, detto il Battista: Q (Q/Lc 3,7-9.16-17 ), Marco
(1,4-8), Giovanni (1,6-8.19-34), il Vangelo secondo gli Ebrei. Esiste su Gio-
vanni un'informazione non cristiana, quella di Flavio Giuseppe (Ant. Iud.
18,116-119 ), che non lo collega con Gesù. Le fonti concordano sul rito di
un battesimo, cioè di un'immersione in acqua, cui egli esortava il popolo a
farsi sottomettere da lui, una sola volta, come segno di un cambiamento di
vita e della richiesta di perdono dei peccati. Un tale messaggio dev'essere
stato inquadrato in una concezione complessiva, e in quel contesto stori-
co è plausibile la presentazione di Q: Giovanni ha annunziato la venuta
imminente del giudizio di Dio su Israele, affermando che Israele non di-
sponeva di nessun privilegio rispetto ai gentili, cioè ai non ebrei, e che tut-
tavia Dio gli offriva, con il battesimo di Giovanni, un'ultima possibilità di
sottrarsi alla condanna. La convergenza tra Q e Marco (e Giovanni) con-
ferma anche l'annunzio di uno «più forte» che doveva manifestarsi dopo
GESÙ DI NAZARET 41

il Battista e che avrebbe svolto un ruolo decisivo nel giudizio. Che questo
personaggio fosse Gesù è un'interpretazione dei seguaci di quest'ultimo e,
forse, già di Gesù stesso; discepoli di Giovanni hanno continuato a esistere
e a battezzare durante l'attività di Gesù e in concorrenza con lui e con i
suoi discepoli, come pure dopo la morte di Gesù. Certamente storico è un
nesso personale tra Giovanni e Gesù.
Infatti, perché i discepoli di Gesù, convinti che il loro maestro non
avesse peccati, avrebbero dovuto inventare che si era sottoposto a un rito
di espiazione? Inoltre, i testi mostrano vari tentativi di spiegare perché
Gesù si fosse fatto battezzare (per esempio Mt 3,14-15): di conseguenza, il
suo battesimo è un dato autentico. Giovanni e Gesù condividono il pun-
to di partenza: l'intervento finale di Dio è imminente, Israele è soggetto
alla collera del giudizio, ma Dio prende l'iniziativa di offrigli un'ultima
possibilità. È sul carattere di questa iniziativa, e sulla conseguente com-
prensione del presente, che le loro strade si dividono; ma Gesù ha sempre
riconosciuto al Battista un ruolo voluto da Dio. Il Vangelo secondo Gio-
vanni (3,22-23) sembra presupporre che Gesù si sia mosso qualche tempo
nella cerchia del Battista e che abbia impartito anche lui il battesimo, con i
propri discepoli, prima dell'imprigionamento del Battista. Sia Marco che
Q hanno connesso l'inizio dell'attività autonoma di Gesù con la fine di
quella di Giovanni.
Il distacco di Gesù da Giovanni sarà stato causato da una propria
specifica vocazione, forse maturata progressivamente, eventualmente
favorita da esperienze vissute in stati modificati di coscienza, delle quali
le fonti hanno conservato indizi. Nell'universo culturale di Gesù si am-
metteva che il mondo fosse popolato, oltre che dagli esseri visibili, da en-
tità spirituali invisibili, dotate di poteri superiori nonché di conoscenze
inaccessibili agli umani, ma importanti per il controllo della condizione
umana; una parte di esse può essere rivelata a determinate persone me-
diante forme di comunicazione diversamente codificate nelle varie cultu-
re. Una delle più comuni è la visione, accompagnata o no da comunica-
zione uditiva. Secondo la forma più antica disponibile del racconto (Mc
1,9-11), in occasione del suo battesimo Gesù ha avuto una rivelazione visi-
va e uditiva, relativa alla sua "vera" condizione; i contenuti della visione e
il messaggio udito sono stati modellati diversamente nelle varie versioni
del racconto. Un'altra esperienza visionaria è in Le 10,18 dove Gesù di-
chiara ai discepoli « Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore»:
prendere una simile dichiarazione come una semplice metafora è una
STORIA DEL CRISTIANESIMO

lettura troppo moderna. La trasfigurazione (Mc 9,2-8 e paralleli), in cui


Gesù conduce in disparte tre discepoli e appare loro in aspetto glorioso
con Mosè ed Elia, può conservare il ricordo di un'iniziazione alla tecnica
della visione.

Gesù, carismatico itinerante

Gesù è un carismatico, cioè rivendica un'autorità non fondata su com-


petenze controllate dal gruppo sociale, quali quelle di un esperto della
Legge o di un sacerdote. Il carismatico la considera un dono concesso da
un'istanza superiore, e sue "prove" sono le prestazioni riconosciute come
attestazione di un potere soprannaturale. Naturalmente, essa dipende dal
suo riconoscimento da parte di un gruppo di adepti, che si possono strut-
turare in una cerchia interna, i discepoli o collaboratori vicini al capo, e in
una più ampia cerchia di aderenti o simpatizzanti. Quando questa autorità
appare, si pone il problema del suo rapporto con le altre riconosciute nel
medesimo gruppo, in particolare con quelle non carismatiche. Poiché l'au-
torità del carismatico è percepita da lui e dai suoi seguaci come superiore a
queste, il conflitto con i portatori di autorità non carismatica è frequente.
Tuttavia, un sistema di potere può integrare carismatici il cui compito è
fornirgli una legittimazione, come i profeti di corte nell'antico Israele o i
profeti ecclesiastici nel primo cristianesimo.
Gesù non sembra aver contestato nel principio le istanze di autorità
del giudaismo in terra d'Israele; i conflitti con i farisei, in particolare, gli
sono stati attribuiti in buona parte dalle prime generazioni di ebrei cre-
denti in lui, che si sono trovati sempre più in tensione con i rabbi, i qua-
li si richiamavano alla tradizione dei farisei. È plausibile che Gesù abbia
avuto discussioni con farisei su questioni d'interpretazione della Legge,
del tipo di quella narrata in Mc 2,16-17, relativa a un problema di purità:
perché Gesù mangia con peccatori e pubblicani? La comunione di tavo-
la con pubblicani corrisponde, come vedremo, alla prassi di Gesù, e l'o-
biezione che gli viene mossa trova conferma in regole proposte in scritti
rabbinici (certo posteriori). Ma simili discussioni, correnti tra i dotti, non
conducevano all'odio verso l'interlocutore, meno che mai al desiderio di
eliminarlo fisicamente; implausibile, di conseguenza, è l'affermazione che
i farisei (Mc 3,6) progettassero di uccidere Gesù, tanto più in seguito a
GESÙ DI NAZARET 43

una guarigione operata di sabato. Reale invece, lo vedremo, e gravido di


conseguenze il conflitto di Gesù con i sadducei, l'aristocrazia sacerdotale
di Gerusalemme.
Gesù è un itinerante. Si è separato dalla famiglia, nucleo fondamentale
della società e luogo in cui l'onore veniva capitalizzato e difeso; ha rinun-
ziato alla casa e ai beni e ha adottato uno stile di vita senza dimora fissa,
entrando in contatto con persone considerate impure. Un simile com-
portamento era stigmatizzato dalla società, cioè definito negativamente e
dunque emarginato; si tratta di strategie che i gruppi dominanti in una so-
cietà usano per definirne i confini e mantenere ordine all'interno. Quella
di Gesù è un' autostigmatizzazione volontaria, intesa a rovesciare la conno-
tazione negativa dello stile di vita stigmatizzato, mettendo in discussione il
sistema di valori dominante e proponendone uno alternativo. Nel mondo
ellenistico e romano, i predicatori popolari cinici fornivano un esempio di
un simile comportamento; studiosi moderni (come Crossan, 1991) hanno
proposto di accostare Gesù a questo modello, ma, mentre ha effettivamen-
te in comune con loro un comportamento autostigmatizzante, il suo siste-
ma di valori sembra diverso.
Il distacco dalla famiglia e dai beni significa rinunzia a un sistema
di difese che comporta necessariamente rapporti di dominio (del pater
fàmilias su tutti i membri della casa, ad esempio) e che può implicare
l'esercizio della violenza, perché la difesa dell'onore esige la riparazione
di un torto, anche mediante la vendetta. L'affermazione o anche solo
la difesa di sé stessi produce spesso sopraffazione dell'altro. Ma Gesù
richiede di non esercitare nessun tipo di sopraffazione: non solo di non
uccidere, ma nemmeno di adirarsi o di insultare (il che toglieva l'onore
e innescava una spirale di ritorsioni) (Mt 5,2.1-2.4); di cercare la riconci-
liazione invece di tentar di ottenere giustizia (Q/Lc 12.,58-59, parallelo
Mt 2.5-2.6); di non opporre resistenza al male, e anzi di accettar di subire
violenza (Q/Lc 6,2.9-30, parallelo Mt 5,38-42.); di rinunziare a distingue-
re tra il vicino e il nemico, e di amare invece coloro da cui si è odiati ( Q/
Le 6,2.7-2.8.32.-36).
In Q, l'esortazione ad amare i nemici (Q/Lc 6,2.7-2.8) e a non resistere
al male (Q/Lc 6,2.9-34) era accompagnata dalla motivazione, che si può
ricostruire così, mediante il confronto con Mt 6,45: «affinché diventiate
figli del Padre vostro, che fa levare il suo sole sui cattivi e i buoni» (Q/
Le 6,35), e «siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso»
(Q/Lc 6,36). Per Gesù, Dio non può essere che buono e misericordioso, e
44 STORIA DEL CRISTIANESIMO

dunque non può amare alcune sue creature più di altre. Il che non significa
che Dio accetti il male: Gesù conserva la nozione di giudizio, ma questo
sarà la conseguenza del comportamento di chi ha rifiutato l'amore divino.
Mentre il Battista attribuisce a Dio l'iniziativa di dare a Israele un'ulti-
ma possibilità di convertirsi, Gesù gliene attribuisce un'altra: cominciare
a stabilire in questo mondo il suo regno senza aspettare che gli umani si
convertano, e ancora in mezzo ali' azione delle forze del male.
Alla facile obiezione che l'amore indiscriminato di Dio verso tutti è
incompatibile con le ingiustizie e i mali della condizione umana la ri-
sposta di Gesù sta nella scelta di vita. Essa presuppone una fiducia totale
nell'amore di Dio, che può essere sperimentato e testimoniato solo nel-
la rinunzia a tutti gli strumenti di autodifesa diversi dalla certezza che
Dio ama sempre e comunque le sue creature e non le abbandona. Ora,
però, i mezzi ai quali si rinunzia sono quelli che strutturano e tengono
insieme una società. Di qui una tensione intrinseca tra la pratica di vita
di Gesù e quelle che organizzano e perpetuano una società, incluso il
sistema di norme morali. Lo attestano parole che sembrano violare i
principii più sacri delle relazioni umane. Così Q/Lc 14,26, che si può
ricostruire così: «Chi non odia padre e madre non può essere mio di-
scepolo, e chi non odia figlio e figlia non può essere mio discepolo». Un
simile precetto scuoteva i fondamenti della società e dell'etica e seguirlo
significava rinunziare a quella considerazione sociale che era fondamen-
tale in una società in cui la personalità era "diadica", cioè costruiva la sua
identità inseparabilmente da quella del gruppo e sulla base del ricono-
scimento altrui.
Gesù non permette che i legami familiari prevalgano sull'urgenza della
chiamata. È quanto esprime un episodio di Q (Q/Lc 9,59-60): «Un altro
gli disse: "Signore, permettimi prima di andare e seppellire mio padre. Ma
lui gli disse: "Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti"». La
sepoltura di un morto era un dovere primario, a maggior ragione quella
di un defunto della famiglia, che prevaleva anche sulle esigenze di purità
di un sacerdote (Lv 21,2.-3); eppure, per Gesù, neanche la sepoltura dei ge-
nitori, che rientrava nel quarto comandamento, prevale sull'urgenza del
regno di Dio. Così le strutture familiari possono venire disarticolate in
favore di nuove forme di aggregazione, anche se Gesù frequenta le "case",
cioè le famiglie. Anche in questo caso si tratta di autostigmatizzazione.
Tale urgenza era legata al modo in cui Gesù concepiva il presente, sul quale
torneremo.
GESÙ DI NAZARET 45

I discepoli di Gesù
Gesù non opera in solitudine, ma ha sia discepoli che condividono la sua
forma di vita, sia una più larga cerchia di adepti. Riunisce intorno a sé un
gruppo di persone legato da relazioni di uguaglianza: un gruppo il cui stile
di vita vuol essere dimostrativo della possibilità di un'esistenza colletti-
va fondata non su rapporti di dominio, ma sul perdono reciproco come
segno dell'appartenenza a uno spazio simbolico aperto dall'amore e dal
perdono di Dio. Esso costituisce il nucleo della nuova realtà del regno.
Discepoli, apostoli e Dodici non sono equivalenti. In vari modi, cucce le
fonti hanno conservato memoria del facto che Gesù aveva un gruppo di
discepoli i quali condividevano il suo stile di vita. Le modalità con le quali
si diventava suo discepolo sono state stilizzate: Marco (1,16-20; 2,14) narra
l'adesione dei primi discepoli a Gesù in maniera incompatibile con Gio-
vanni (1,31-51). In entrambi i casi, ricordi storici sono stati rimodellaci in
racconto sui primi discepoli, dunque esemplare.
La più antica attestazione dell'esistenza del gruppo dei Dodici è in
un'arcaica formula di fede citata da Paolo: il Risorto « apparve a Cefa e
quindi ai Dodici» (1 Cor 15,5). Ma Paolo non li menziona altrove. Evo-
cando la sua prima visita a Gerusalemme verso il 35, narra di aver incontra-
to solo Pietro e Giacomo, il fratello del Signore (Gal 1,18-19 ); se un collegio
dei Dodici avesse retto quella ekklesia (sul termine cfr. CAP. 3, p. 105), non
avrebbe mancato di incontrarlo. Il materiale Q non menziona i Dodici.
Gesù sembra riferirsi ai Dodici quando promette i dodici troni per giudi-
care le dodici tribù di Israele (Mc 19,28; Le 22.,30) ma secondo molti stu-
diosi è dubbio che il detto provenga da Q Per Marco (3,14-15), i Dodici
sono stati scelti per fare quel che fa Gesù: annunziare il regno ed espellere
i demòni. Non appare fondata l'opinione secondo la quale il gruppo dei
Dodici si sarebbe formato solo dopo la morte di Gesù, forse sulla base di
un'apparizione del Risorto. La loro rapida scomparsa da Gerusalemme,
attestata da Paolo, mostra che non erano intesi come organo di governo.
Con ogni probabilità simboleggiano le dodici tribù d'Israele, dunque il
popolo nel suo insieme. La riunione d'Israele è uno dei motivi centrali
ddl'escatologia giudaica del tempo di Gesù. La costituzione dei Dodici
sembra quindi un atto simbolico simile a quelli degli antichi profeti: si-
gnifica che il regno di Dio, inaugurato nel ministero di Gesù, era destinato
a tutto Israele. La diffusione del messaggio al di fuori d'Israele ha verisi-
111ilmente colto presto importanza a questa funzione e dunque al gruppo.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Luca sistematizzerà l'identificazione dei «Dodici» con gli «apostoli»


(cfr. Le 6,13; 9,10, da accostare a 9,1): nel suo vangelo il termine «aposto-
lo» è applicato solo a membri del gruppo dei Dodici. In realtà, le lettere
di Paolo mostrano che, nella prima generazione di credenti in Gesù, si de-
signavano come apostoli i missionari. Le diverse liste dei Dodici (Mc 3,16-
19; Mt 10,2.-4; Le 6,14-16; At 1,13) presentano limitate differenze.
Gesù, come il Battista e come altri (il Banno alla cui scuola si mise Fla-
vio Giuseppe, Vita 11,3; i rabbi), ha avuto discepoli, i quali condividevano
il suo stile di vita. Possono essersi aggregati a lui in vari modi: chiamati da
lui (Mc 1,16-2.0; 2.,13-14; Q/Lc 9,59 ), chiamati da chi era già discepolo (Gv
1,40-42..45-46), guariti o esorcizzati da lui (Bartimeo secondo Mc 10,46-
52.; Maria di Magdala secondo Le 8,2.; Mc 16,9), venuti spontaneamente
(Q/Lc 9,57-58). L'abbandono della famiglia è presentato come radicale
sia in Marco che in Q, ma poteva non esserlo: la casa di Simone (Pietro)
accoglie Gesù con Simone stesso e gli altri primi discepoli (Mc 1,2.9 ). Se-
condo Matteo (2.0,2.0; 2.7,56), la madre dei figli di Zebedeo era tra le donne
che lo avevano seguito in Galilea e poi a Gerusalemme. Giovanni (19,2.5)
situa presso la croce di Gesù «sua madre e la sorella di sua madre, Maria
di Clopa e Maria di Magdala>>. Questa informazione, di cui è impossibile
valutare la storicità, includerebbe nel gruppo che aveva seguito Gesù dal-
la Galilea a Gerusalemme donne della sua famiglia, invitando a ripensare
portata e modalità della sua rottura con la famiglia. In ogni caso, la noti-
zia che alcune donne seguivano Gesù (Mc 15,41), comune ai sinottici e a
Giovanni (19,2.5) con formulazioni diverse, è certamente antica. In Marco,
la situazione di queste donne è espressa dalla coppia di verbi «seguire»
(akoloutheo) e «servire» (diakoneo ), spesso intesi dagli interpreti nel sen-
so che esse svolgevano servizi per Gesù e i suoi discepoli. Ma entrambi i
verbi si applicano precisamente al discepolato (per akoloutheo cfr. Mc 1,18;
2.,14; 8,34; 9,38 ecc.; Q/Lc 9,57.59; per diakoneo/diakonos cfr. Mc 10,43-44
e paralleli). Tra di loro vi era certamente Maria di Magdala, la sola a com-
parire in tutte le liste di donne, beneficiaria della prima manifestazione del
Risorto secondo Gv 2.0,11-18, e poi valorizzata da numerosi scritti divenuti
apocrifi. Poiché è identificata dal nome del villaggio di provenienza, non
sembra essere stata soggetta all'autorità di un padre, di un marito o di fi-
gli maschi; secondo Le 8,2. (e la finale secondaria di Mc 16,9) Gesù aveva
espulso da lei sette demòni; la notizia può aver conservato il ricordo di un
profondo cambiamento operato in lei da Gesù, forse con un esorcismo.
I discepoli di Gesù partecipano alla sua autostigmatizzazione, ma an-
GESÙ DI NAZARET 47

che al suo carisma. In particolare, la parola sui troni (Mt 19,2.8; Le 2.2.,30)
implica che i Dodici parteciperanno alla funzione di giudice che il Salmo
di Salomone (17,2.6) attribuisce al messia. Insieme con Gesù, dunque, sono
coinvolti nel processo di realizzazione del regno di Dio che - come ve-
dremo - è in corso ed è indissociabile dallo stile di vita di Gesù e dei suoi
seguaci. Gerd Theissen (in Theissen, Merz, 1999, pp. 2.72., 633) parla per-
tanto di « messianismo di gruppo». Il gruppo di Gesù opera criticamente
rispetto alle istituzioni esistenti e lo fa come gruppo - più che marginale
- interstiziale, in quanto si sviluppa negli interstizi tra le strutture paren-
tali e quelle istituzionali più ampie, e la capacità di aggregazione di Gesù
significa che egli riesce a soddisfare bisogni dei seguaci, percepiti come es-
senziali, attualmente non soddisfatti dalle istituzioni (Destro, Pesce, 2.008,
pp. 153-6). Che, contrariamente ai casi di altri pretendenti messianici in
Israele, l'impresa di Gesù non sia naufragata con la sua morte è dipeso
certamente anche dalla sua capacità di selezionare discepoli intelligenti e
interessati a istanze di cambiamento e di averli istruiti e associati alla sua
pratica di vita, mettendoli in grado di reagire alla sua morte elaborando e
rilanciando il suo messaggio.

Il regno di Dio, gli esorcismi e le guarigioni

Le fonti considerano l'annunzio del regno di Dio (basi/eia tou theou) come
il cuore del messaggio di Gesù. Mc 1,15 lo riassume così: «Il tempo è com-
piuto e il regno di Dio è diventato vicino; convertitevi e credete al vangelo».
In Q/Lc 10,9.11 i discepoli sono inviati ad annunziare: «È diventato vicino
a voi il regno di Dio» (il parallelo Mt 10,7 ha: «È diventato vicino il regno
dei cieli»; l'uso dei «cieli» per sostituire il nome di Dio è una pratica ebrai-
ca cara a Matteo e non implica differenza di significato). Il regno appare
centrale anche in Q, nel materiale proprio a Luca e in quello proprio a Mat-
teo. Nelle lettere autentiche di Paolo l'espressione «regno di Dio» ricorre
sette volte; in Giovanni solo due. Il regno (per lo più senza specificazione)
è anche ben attestato nel Vangelo secondo Tommaso. Dunque, praticamente
tutte le fonti più antiche conoscono la nozione, che i vangeli mettono co-
stantemente in bocca a Gesù e di cui la tradizione sinottica fa il centro del
suo messaggio; già in Paolo, poi in Giovanni, nel Vangelo secondo Tommaso e
in altre fonti del II secolo tale idea diviene rara ed è variamente reinterpreta-
ta, il che mostra che non è stata attribuita retroattivamente a Gesù.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Questi non ne spiega il significato: adottava dunque un simbolo noto,


modificandolo. L'espressione come tale è rara fuori della tradizione su
Gesù, ma l'applicazione al Dio d'Israele del campo semantico del regnare
era corrente. Dopo l'esilio, si affermava che Dio regna su Israele dal Tem-
pio di Gerusalemme, ma si sviluppò anche la convinzione che Dio avrebbe
realizzato il suo regno nel mondo mediante il giudizio sulle nazioni e il re-
gno eterno d'Israele. È la prospettiva che si trova in Is 2.4-2.7 e nelle visioni
della successione degli imperi nei capp. 2. e 7 del Libro di Daniele, nonché
negli scritti di rivelazione che chiamiamo apocalissi, secondo i quali Dio
verrà a sconfiggere le forze spirituali del male che attualmente dominano il
mondo mediante poteri terreni al loro servizio. Tali testi hanno in comune
con Gesù l'opposizione tra il regno di Dio e le forze spirituali del male,
mentre manca in Gesù l'opposizione tra il regno di Dio e i popoli diversi
da Israele.
La chiave dell'annunzio del regno in Gesù è fornita dall'articolazione
tra due prospettive. Da una parte, egli parla di un regno che deve anco-
ra realizzarsi nel mondo. Così avviene nelle prime tre beatitudini (Q/Lc
6,2.0-2.1), la cui forma più vicina a Gesù sembra essere quella di Luca:

Beati i poveri, perché vostro è il regno di Dio.


Beati voi che avete fame ora, perché sarete saziati.
Beati voi che piangete ora, perché riderete.

La seconda e la terza hanno in vista un cambiamento di condizione tra


"ora" e il futuro indicato dal tempo del verbo, per intervento di un Dio
che - secondo l'ideale dell'antico sovrano mediorientale - si prende cura
dei poveri e degli oppressi e rende loro giustizia. La seconda beatitudine
evoca il motivo tradizionale del banchetto che Dio imbandirà, e le altre
due sono coerenti con essa: il regno di Dio come banchetto si trova in boc-
ca a Gesù anche in Q/Lc 13,2.9 = Mt 8,11 e in Mc 14,2.5. Gesù si aspettava
dunque un regno di Dio che si sarebbe presto realizzato e avrebbe preso la
forma di sazietà e gioia offerte gratuitamente e senza limiti da Dio. È dif-
ficile descrivere un simile regno come "celeste". Anche se la prospettiva di
un rovesciamento politico o di una rivoluzione sociale è assente, la portata
politica e sociale di una tale promessa è inequivocabile: Dio sta con deci-
sione dalla parte di quanti non hanno potere né onore e sono schiacciati
da relazioni e istituzioni umane inique, perché hanno diritto ai beni dei
quali sono oggi privati.
GESÙ DI NAZARET 49

Sempre in Q si trova il Padre nostro con la preghiera «venga il tuo


regno» (Q/Lc 11,2, cfr. Didache 8,2). La "venuta" del regno sembra una
formulazione propria di Gesù. Nella versione di Luca, più breve della ver-
sione matteana, la preghiera per la venuta del regno è seguita immedia-
tamente da quella per il pane del giorno: tale nesso corrisponde a quello
delle beatitudini. Fino a che arriverà il tempo della sazietà, si chiede il pane
che permetta di sopravvivere giorno per giorno: già il presente è così un
tempo sostenuto dall'amore di Dio nei confronti di chi vive nella precarie-
tà e nella mancanza. La fonte Q connette l'idea del banchetto con quella
del pellegrinaggio: «e verranno da Oriente e Occidente e si metteranno a
tavola nel regno di Dio con Abramo, Isacco e Giacobbe» (ricostruzione
di Q sulla base di Q/Lc 13,29 = Mt 8,11). Un altro detto, pronunziato du-
rante l'ultima cena, unisce regno e banchetto in prospettiva futura: «In
verità vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in
cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,25).
Non si può dunque rifiutare a Gesù l'idea di un intervento futuro, sen-
za dubbio imminente, di Dio per instaurare il suo regno, come fanno al-
cuni esegeti secondo i quali il regno per Gesù aveva solo una dimensione
presente. È tuttavia chiaro che Gesù ha parlato anche della presenza del
regno, in detti che collegano prassi e parola. In Le 10,18, « Vedevo Satana
cadere dal cielo come una folgore», la caduta di Satana dal cielo significa
la fine del suo potere, tradizionalmente attesa in occasione del!' intervento
finale di Dio. Se Gesù la vede come già avvenuta, Dio è già intervenuto.
Gesù aveva avuto una rivelazione la quale gli faceva conoscere che, nel mo-
mento in cui egli agiva, il potere di Satana era già spezzato. Ma qual era il
nesso tra l'azione di Gesù e la fine del dominio delle potenze malvagie? Il
suo confronto con queste avveniva mediante gli esorcismi.
La connessione è esplicita in Q/Lc 11,20 = Mt 12,28: «Se io scaccio i
demòni con il dito di Dio, allora è giunto su di voi il regno di Dio» (Mat-
teo scrive «con lo spirito di Dio», senza dubbio secondario). Il «dito di
Dio» è un'allusione a Es 8,15, dove i maghi egizi non sono capaci di ri-
petere una delle piaghe d'Egitto. Gesù compie esorcismi: questo tratto,
attestato da più fonti indipendenti e insistente nella tradizione sinottica
(assente invece in Giovanni), è storicamente sicuro. Esso è plausibile: l'e-
sorcismo era praticato correntemente in ambito giudaico ed ellenistico-
romano. Il presupposto era la convinzione che sul comportamento umano
influissero esseri spirituali, sia benevoli sia ostili. Un comportamento giu-
dicato deviante poteva essere attribuito a possessione da parte di questi
50 STORIA DEL CRISTIANESIMO

poteri. L'antropologia della religione mette in evidenza che la possessione


è uno dei meccanismi con i quali persone che, nella società, sono soggette a
una forte pressione, cercano di sfuggirvi. Nell'ambi ente in cui opera Gesù,
l'occupazione romana in Giudea, la precarietà economica particolarmen-
te in Galilea dove la politica di Erode Antipa contribuiva a rovinare i pic-
coli agricoltori, la struttura patriarcale, le esclusioni previste dalla Legge
costituivano elementi di pressione pubblica e privata che possono aiutare
a capire la quantità di fenomeni classificati in quel contesto come posses-
sione. Gesù ha evidentemente scoperto in sé stesso la capacità di trattare
con successo casi del genere. Un caso di possessione indotta dalla pressio-
ne politico-militare è quello dell'indemoniato guarito da Gesù a Gerasa
(Mc 5,2-17 ): lo «spirito impuro» che lo possiede dichiara di chiamarsi
«Legione» e la liberazione implica che la legione venga affogata in mare.
Esorcismi come quelli della figlia della donna sirofenicia (Mc 5,24-30) o
del giovane che oggi definiremmo epilettico (Mc 9,14-27) riguardano in-
vece problemi di ambito familiare, come lascia vedere il ruolo svolto dai
genitori e dalla loro fede. L'espulsione dello spirito cattivo non comporta
semplicemente il ristabilimento di una situazione "normale" anteriore, ma
anche il trasferimento della persona guarita ed eventualmente della sua
famiglia nel nuovo spazio aperto dalla fede nel Dio rappresentato da Gesù.
Così Maria di Magdala, liberata da «sette demòni», diviene sua disce-
pola. Ciò si collega alla pretesa avanzata da Gesù, il quale, diversamente
dagli altri esorcisti, attribuisce ai suoi esorcismi un significato connesso
con l'instaurazione del regno.
Le guarigioni, invece, non implicano un combattimento. La malattia
non era considerata come condizione puramente fisiologica: un' alterazio-
ne o disfunzione del corpo individuale implicava un problema di relazione
con il corpo sociale. Questi nessi sono chiari ad esempio nel caso della
donna che aveva un Russo di sangue irregolare da dodici anni (Mc 5,25-
34): secondo la norma di Lv 15,25, era costantemente in stato di impurità e
non ci si doveva accostare a lei (Lv 15,31). La guarigione fisica si effettua ap-
pena ella tocca la frangia del mantello di Gesù (v. 29), ma il racconto non è
finito: Gesù avverte che un'energia di guarigione è uscita da lui, e s'innesca
un processo relazionale, solo al termine del quale Gesù la dichiara guarita
(v. 34), sulla base della fede. La donna sarà così reintegrata nella comunità
d'Israele e nella rete delle sue relazioni sociali, ma è anche entrata in una
relazione nuova, quella della fede.
Gesù ha operato resurrezioni? L'attribuzione di resurrezioni era tradi-
GESÙ DI NAZARET SI

zionalmente un elemento costitutivo della presentazione di un personag-


gio considerato come portatore della potenza e della benevolenza divina:
così accade per il profeta Elia che resuscita il figlio della vedova di Sarepta
(1 Re 17,17-24) e per il sapiente e taumaturgo Apollonio di Tiana (1 secolo
della nostra era) nella sua Vita scritta da Filostrato agli inizi del III secolo
(4,45: resurrezione di una ragazza morta il giorno delle nozze; anche qui il
simbolismo sociale è evidente). La vecchia spiegazione razionalista che si
trattasse di casi di morte apparente potrebbe effettivamente corrispondere
ai fatti in qualche caso, ma l'essenziale è rendersi conto delle implicazioni
simboliche: le resurrezioni erano raccontate come casi estremi di guari-
gione, dunque particolarmente atti a segnalare la potenza divina che agiva
nel taumaturgo.
Il detto Q/Lc 11,20 non dice che gli esorcismi sono annunzi di un re-
gno imminente. Il verbo è al passato e si riferisce dunque a qualcosa che ha
già avuto luogo. Se Gesù espelle i demòni con il potere di Dio, il regno è
gia presente. Il tempo di Gesù non è allora un tempo di attesa del regno,
ma dell'esperienza di esso. Il regno « è giunto su di voi»: non è una realtà
indipendente dalla sua relazione con gli umani. Poiché voi assistete alla
guarigione o all'esorcismo, per voi il regno arriva qui e vi interpella. È una
realtà che s'incontra e che non viene indipendentemente dall'esperien-
za degli umani. Ammettere che gli esorcismi e le guarigioni cui si assiste
sono, come annunzia Gesù, un'azione di Dio, significa riconoscere che si
è testimoni di un atto di Dio, che trasforma la vita in profondità realiz-
zando una liberazione, fa entrare in uno spazio nuovo e dinamico e situa
chi è coinvolto in una responsabilità ultima perché si tratta dell'irruzione
dell'evento ultimo. L'annunzio di Gesù sulla presenza del regno non qua-
lifica solo il tempo, ma anche quanti lo vivono, i quali devono ridefinire la
loro identità come persone che hanno il regno a disposizione, e dunque la
responsabilità di accoglierlo e la possibilità di goderne. Per questo in Q/
Le 10,23-24 si legge: «Beati gli occhi che vedono ciò che vedete: vi dico
infatti che molti profeti e re vollero vedere ciò che vedete e non videro, e
udire ciò che udite e non udirono». In Q/Lc 16,16 (la seconda parte del
detto si ricostruisce più fedelmente in base a Mt 11,12): «La Legge e i pro-
feti fino a Giovanni; da allora, il regno di Dio subisce violenza e i violenti
se ne impadroniscono». Anche se l'interpretazione della seconda parte è
controversa, è chiara la conferma del confine, rappresentato dal Battista,
tra il tempo precedente e il tempo del regno (cfr. per la medesima idea Q/
Le 7,28).
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Il regno non è un'entità statica: questo è il senso delle parabole della


crescita: in Mc 4,26-29 Gesù paragona il regno di Dio al seme gettato, che
germoglia e diventa spiga e grano senza che il seminatore sappia come fa;
in Q/Lc 13,18-21 a un granello di senape, che diventa l'albero dove gli uc-
celli nidificano, o al lievito nascosto da una donna in tre misure di farina.
Il terna di queste parabole è dunque un processo che si compie in modo
misterioso, ma sicuro. Così è per il regno di Dio: il suo avvio è segnato
dall'inizio dell'attività di Gesù, a partire dal quale il tempo diviene svi-
luppo di un evento che si compirà inevitabilmente. Se ne vedono i segni,
come la crescita della piantina: guarigioni, esorcismi e le altre pratiche del
gruppo di Gesù. Il dinamismo del regno richiede una risposta che produ-
ca un mutamento di rotta, come segnalato dall'espressione «entrare nel
regno», attestata solo in parole attribuite a Gesù, per esempio Mc 10,23:
« Quanto difficilmente coloro che possiedono beni entreranno nel regno di
Dio!» (cfr. Mc 10,15; Mc 9,43.45.47-48; Mt 21,31; Q/Lc u,52; 13,24).
La difficoltà del ricco è legata al fatto che confida in strumenti di prote-
zione diversi dalla fiducia in Dio; Gesù è netto sul principio che il denaro
appartiene a Cesare e non a Dio (Mc 12,17 ). Inoltre, il ricco è integrato in
un sistema di dispositivi che assicurano il suo potere nella società ed è inte-
ressato alla loro permanenza. Se da un lato, dunque, la ripartizione tra ciò
che appartiene a Cesare e ciò che appartiene a Dio sembra non minacciare
direttamente l'ordine sociale, in realtà non è così in una situazione in cui è
adesso che bisogna optare con urgenza per il regno di Dio, il che, annunzia
Gesù, esige distacco da beni e istituzioni che garantiscono protezione al
prezzo d'ineguaglianza, sfruttamento e oppressione; trasgressione di nor-
me che proteggono l'ordine sociale; rinunzia all'onore e autostigrnatizza-
zione; abbandono delle distinzioni sociali e delle pratiche che le simboleg-
giano (come il pasto: Le 14,7-14) e adozione di pratiche contrarie come la
cornrnensalità, che non tiene conto di gerarchie e di regole di purità.

Gesù e la Legge
Le fonti tematizzano a più riprese la questione del rapporto tra Gesù e
la Torah, un termine tradotto abitualmente con Legge, ma meglio sareb-
be 'insegnamento', che corrisponde al Pentateuco. Ciò è dovuto in buona
parte agli sviluppi posteriori alla sua morte, quando l'adesione di molti
GESÙ DI NAZARET 53

non ebrei alla fede in Gesù pose il problema se si dovesse obbligarli a os-
servare la Legge. Peraltro, le modalità di cale osservanza erano discusse:
anche era i farisei, le varie scuole non avevano la stessa interpretazione dei
precetti (halakha, alla lettera 'cammino'); al tempo di Gesù, le due prin-
cipali erano quelle di Hillel e di Shammai. Il gruppo che viveva a Qumran
aveva una propria halakha, assai rigorosa.
Non ci sono pervenute dichiarazioni di principio di Gesù sulla Legge
o sui criteri della sua osservanza, né è probabile che ne abbia facce. Era un
ebreo che riteneva che la Legge fosse un privilegio donato da Dio a Israele,
la cui osservanza andava da sé. Benché alcuni storici lo assimilino al mo-
dello di un rabbi, le fonti più antiche non ci permettono di dire che la sua
principale occupazione fosse l'interpretazione della Legge. In quanto cari-
smatico, era però naturale che potesse essere interpellato al riguardo. Così
lo rappresentano alcuni episodi: in Mc 10,17-2.2., a un giovane che gli chie-
de cosa debba fare per ereditare la vita eterna, Gesù risponde enumerando
i comandamenti; in Mc 12.,2.8-31, a una persona che gli chiede quale sia il
primo comandamento, risponde con lo shema' (Dc 6,4-5), il nucleo della
confessione di fede di un ebreo, cui fa seguire il comandamento dell'amo-
re del prossimo, Lv 19,18.
In cerci casi la probabilità di risalire alla posizione di Gesù è buona, per
esempio sul divorzio. Nel contesto di Gesù, era un ripudio da parte del
marito ed era semplicemente presupposto; se ne regolavano le modalità
(Dc 2.4,1-4) e le scuole discutevano sulle ragioni valide. Un cesto ritrovato
a Qumran (Documento di Damasco 4,2.0-2.1) presenta invece una halakha
restrittiva, condannando un secondo matrimonio dell'uomo dopo il divor-
zio. A Gesù viene attribuito un detto sul divorzio da diverse fonti indipen-
denti l'unadall'altra: (1) Q/Lc 16,18 = Mc 5,32.; (2.) Mc 10,11; (3) Paolo, 1 Cor
7,10-11. La ricostruzione della forma più antica mostra che egli ha proibito
nettamente il divorzio. Come motivazione, in Mc 10,6-8 Gesù cita i passi
di Gen 1,2.7 e 2.,2.4. Gli esegeti ritengono questa prima parte dell'episodio
di Marco di incerta storicità e originariamente indipendente dal detto di
Mc 10,11. Tuttavia, Gesù non è isolato nell'appello all'ordine della creazione
\ancito dalla Genesi come criterio fondamentale contro il divorzio, perché
anche i qumraniti fondavano il divieto di divorzio su Gen 1,2.7. D'altra par-
te, Gesù può ben aver pensato che la presenza del regno comportasse il ri-
torno all'ordine originario della creazione, così che il richiamo a Gen 1,2.7 e
2,24 può risalire a lui. In tal caso, si manifesterebbe una coerenza tra questa

h,zfakha e il suo messaggio fondamentale sul regno di Dio.


54 STORIA DEL CRISTIANESIMO

La posizione di Gesù sul sabato va situata nei dibattiti del tempo su


cosa fosse permesso fare in quel giorno. In questo caso, la posizione di
Qumran è agli antipodi di quella che Gesù accoglie per ragionare a fortio-
ri. Egli infatti chiede (Mc 12.,11-12.): «Chi di voi, se possiede una pecora e
questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l'afferra e la tira fuori?
Ora, un uomo vale ben più di una pecora!». Nel Documento di Dama-
sco (11,13-14) di Qumran si legge invece che se un animale «cade in una
cisterna o in un fosso, non lo si deve tirar fuori di sabato». Mc 2.,2.7 at-
tribuisce a Gesù il detto: «Il sabato è stato fatto a causa dell'uomo e non
l'uomo a causa del sabato». Ciò trova una certa corrispondenza nel detto
di rabbi Simeone figlio di Menasia: «Il sabato è consegnato a voi ma voi
non siete consegnati al sabato» (trattato Shabbata 1; cfr. Talmud di Babi-
lonia, Yoma 95b), che interpreta «il sabato santo per voi» di Es 31,13 nel
senso di "a vostro vantaggio". È però significativo che l'analogo detto di
Gesù contenga il verbo egeneto, «è stato fatto», che ritorna nel cap. 1 del-
la Genesi «e così fu fatto/avvenne» come risposta a ogni ordine di Dio
nel processo di creazione (cfr. Gv 1,3: «tutto egeneto per mezzo di lui»):
anche in questo caso, Gesù assume l'ordine della creazione come criterio
di halakha.

Purità, perdono, pasti

Quanto alle norme di purità, bisogna essere cauti perché la loro osservan-
za fu discussa nei primi gruppi di credenti in Gesù; ciò significa che egli
non le aveva infrante né aveva prescritto di infrangerle, ma che il problema
divenne acuto via via che dei non ebrei aderivano alla fede in lui. Mol-
te parole attribuite a Gesù a proposito della purità devono dunque essere
state elaborate in cale contesto. Tuttavia, è certo che egli ebbe rapporti e
praticò la comunione di tavola con persone che in base alla Legge erano
considerate impure, come i collaborazionisti che riscuotevano le imposte
per l'autorità straniera e le donne che, per qualche motivo, erano etichet-
tate come prostitute.
Gesù ha certamente accolto la nozione della purità, onnipresente nel
suo contesto. Ma per lui non è l'impuro che trasforma il puro quando en-
tra in contatto con esso, contaminandolo, bensì il contrario; il puro, la cui
fonte è la purezza assoluta che è Dio, venendo a contatto con l'impuro lo
GESÙ DI NAZARET 55

rende puro, perché Dio non può essere sconficco dall'impurità. Si è parla-
to al riguardo di concezione offensiva della purità, ed essa è coerente con
quanto abbiamo già osservato: Dio prende l'iniziativa di liberare Israele -
e, in prospettiva, gli esseri umani - dal male, e invia Gesù a portar loro non
solo la notizia, ma la realcà di questo facto. Abbiamo visco questa realtà
manifestarsi con le guarigioni e gli esorcismi; fondamentale è anche la pra-
tica dei pasci. Secondo Q/Lc 7,18-19, Gesù non si astiene dal cibo e dalla
bevanda e mangia con le persone giudicate impure, che un uomo prossimo
a Dio non dovrebbe avvicinare. I pasci di Gesù disarticolavano le regole
sociali ed erano collegaci alla prospettiva del regno come banchetto. Come
guarigioni ed esorcismi, anche i pasci sono luoghi di realizzazione del re-
gno. Non a caso, con guarigioni e pasci si connettono episodi di perdono
dei peccaci (Mc 2.,1-12. per le prime; Le 7,36-50 per i secondi), perché nel
presente si entra nel regno attraverso quel perdono. Il tema del peccato e
della sua eliminazione preoccupava le varie forme di giudaismo del tempo.
Il gruppo di Qumran legava impurità e peccato, diversamente da altri in
Israele; così pure, sembra, Giovanni Battista, che coglieva l'impurità con
il battesimo.
Gesù mantenne la distinzione era puro e impuro, ma modificando-
la proprio a partire dal rapporto era impurità e trasgressione: nulla di
ciò che esiste fuori dell'uomo può renderlo impuro, ma solo il male che
l'.g!i compie (cfr. Mc 7,15). Da questo peccato/impurità non ci si libera
mediante riti, ma accettando il perdono offerto da Dio attraverso Gesù
l'. praticando a propria volca il perdono. Gesù dev'essersi fondaco sull'i-
lka del giubileo, l'anno nel quale si condonavano i debiti (Lv 2.5): nel
giudaismo si era già rappresentato il tempo della fine come un giubileo
nd quale Dio avrebbe condonato cucci i peccaci, idea ripresa da Gesù ma
con il tracco originale della convergenza era la nozione di questo giubileo
l'. quella di regno di Dio. Ciò sembra aver condotto Gesù ad accettare i
vari tipi di sacrificio praticaci nel giudaismo, salvo quello per il perdo-
no dei peccaci che Gesù collegava con alcre pratiche, in particolare con
il nuovo sistema di relazioni sociali fondaco sul condono reciproco dei
debiti a imitazione del condono "giubilare" da parte di Dio. Ma questo
condono aveva già luogo nel!' azione di Gesù. Come vedremo, nei suoi
ultimi giorni Gesù ha probabilmente compreso che la sua morte era im-
tninente, ma è improbabile che l'abbia incesa come mezzo di perdono
lki peccaci; deve avere invece considerato la propria attività come luogo
in cui Dio offriva questo perdono. La conseguenza era l'ingresso in una
56 STORIA DEL CRISTIANESIMO

nuova logica di vita, che entrava in collisione con quella corrente ma che
Gesù proponeva come la logica di Dio.

Parabole
Non era una logica che si potesse provare con argomentazioni. Strumento
privilegiato per comunicarla sono le parabole; sono assenti dal Vangelo
secondo Giovanni ma nessuno studioso mette in dubbio che Gesù se ne
sia servito. Il termine greco parabole, il cui senso originario è 'paragone',
è stato usato nella traduzione greca della Bibbia, detta dei Settanta, per
rendere l'ebraico mafal, un enunciato o un racconto che esige un'inter-
pretazione. Gli studiosi moderni hanno distinto due tipi: la similitudine,
che consiste essenzialmente nello spiegare qualcosa per analogia con una
situazione tipica, come nelle parabole della crescita del regno; e la para-
bola propriamente detta, racconto dove il messaggio è comunicato dalla
situazione che la storia costruisce. Nessuno dei due tipi è invenzione di
Gesù; la tradizione rabbinica contiene numerose parabole, e un esempio
biblico famoso è la parabola narrata dal profeta Nathan al re Davide in 2.
Sam 12.,1-15. La parabola è congegnata in modo da porre un problema e
indurre l'ascoltatore a prendere posizione. Quando si è schierato, essa lo
sorprende mettendo radicalmente in questione la sua opzione, ma gli offre
anche una via d'uscita.
Prendiamo due esempi. Nella parabola detta tradizionalmente del Fi-
glio prodigo (Le 15,11-32.), il figlio minore che abbandona la casa si rende
colpevole nei confronti dell'onore del padre e della famiglia; ma anche
il padre si comporta in maniera sorprendente, a scapito della propria au-
torità. Quando il figlio caduto in miseria ritorna, il padre si squalifica fa-
cendo tutto quel che un paterJàmilias, responsabile dell'onore del gruppo
domestico, non avrebbe dovuto fare. L'ascoltatore di Gesù non avrebbe
apprezzato il comportamento del padre e si sarebbe schierato dalla parte
del figlio maggiore. Ma la parabola lo pone in un dilemma. Il padre ha
messo a repentaglio il proprio onore e quello dell'intera casa, ma in questo
modo ha ridato al figlio minore dignità e, propriamente, vita (vv. 2.4 e 32.).
C'è dunque la possibilità di attenersi alle regole sociali, ma anche quella di
sconvolgerle, sia pure giocandosi la reputazione (autostigmatizzandosi!),
al fine di creare gioia e vita. Così la parabola sorprende l'ascoltatore facen-
GESÙ DI NAZARET 57

dogli scoprire che il sistema di valori e di comportamenti per lui naturale


non solo non è l'unico possibile, ma può creare e perpetuare sofferenza,
oppressione, inimicizia. Al tempo stesso, gli lascia vedere una possibilità
alternativa, in apparenza assurda ma che, a ben vedere, è la sola a creare vita
e gioia: è in essa che s'incontra Dio.
In questo senso va la ridefinizione del concetto di "prossimo" nella pa-
rabola del Samaritano (Le 10,30-37 ). A priori, il prossimo da amare come
sé stessi, in base a Lv 19,18, era l'alcro ebreo. Gesù cita questo precetto come
il secondo comandamento della Legge e non lo rinnega, ma fa capire al
suo interlocutore che il modo corrente di definire il prossimo può non
corrispondere all'idea che ne ha Dio. Non lo fa proponendo una selezio-
ne alcernativa entro l'umanità, ma mostrando l'assurdità dello scegliersi il
prossimo. Infatti, l'ascoltatore è invitato a identificarsi non con il samari-
tano, ma con l'uomo ferito. Richiesto di scegliere tra un samaritano e un
ebreo (come sono il sacerdote e il levita), l'ascoltatore non avrebbe mai
indicato il primo come prossimo; ma se si mette al posto del ferito, deve
riconoscere che non può permettersi di decidere che non doveva esserci un
rapporto di amore tra lui e il samaritano. Quel che importa, dunque, non
è la ripartizione precostituita dell'umanità su cui costruire un'etica, ma la
relazione di "prossimità" che si costituisce nell'esercizio della misericordia
(v. 37) e che non conosce distinzioni.
Anche se queste parabole non si riferiscono esplicitamente al regno,
sono in rapporto con esso, perché la nuova possibilità di esistenza che sve-
lano è resa possibile dal perdono che Dio sta offrendo per mezzo di Gesù.
Questa esistenza è caratterizzata dalla risposta a quel perdono per mezzo
di un riorientamento della vita improntato all'imitazione di Dio. li Dio
che ha creato non può non amare la sua creatura e bisogna dunque aver
fiducia che ogni suo atto sarà un atto d'amore (Q/Lc 11,11-13). Di qui di-
scendono anche la rinunzia radicale alla violenza e l'amore per il nemico:
«Amate i vostri nemici [... ]. Siate misericordiosi, come il padre vostro è
misericordioso» (Q/Lc 6,35-36). Dio può essere solo un Dio di misericor-
dia infinita verso tutti gli umani i quali non possono essere che "malvagi"
e peccatori; se così è, non può far differenze tra di loro. Dio è il perdono
ricevuto, la liberazione della vita, la possibilità di far traboccare sugli altri
la misericordia avuta in dono. Gesù non sogna una comunità politica che
viva sulla base di simili norme: non possono fondare che la vita di un grup-
po il quale rinunzia programmaticamente al sistema di garanzie costituito
da una società organizzata. Gesù muove con ogni evidenza da una pro-
58 STORIA DEL CRISTIANESIMO

fonda e intensa esperienza di Dio, per lui naturalmente il Dio d'Israele, la


quale converge con un' altrettanto viva percezione degli infiniti modi della
sofferenza umana: e si sente inviato a far agire un Dio che non può non
prendersi cura di quella sofferenza, aprendo nel mondo lo spazio del suo
regno che presto lo occuperà tutto. Si può vivere il regno solo seguendo la
logica del comportamento di Dio, dunque perdonando e rinunziando alla
risposta e alla vendetta, essenziali per mantenere l'onore in quel contesto
culturale.

Figlio dell'uomo e messia

Tutti i gruppi a noi noti nel giudaismo di terra d'Israele nel I secolo aveva-
no sviluppato proprie concezioni del rapporto tra Dio e Israele, nelle quali
comparivano figure di intermediari, situate nel passato, nel presente o nel
futuro. Gesù deve avere attribuito a sé stesso un ruolo preciso, e unico, in
quella che riteneva una fase decisiva per la storia d'Israele, cioè l'apertura
della presenza del regno di Dio (si veda anche Q/Lc 11,31-32.: si dichiara
maggiore di Salomone e di Giona, perché ciò che avviene per mezzo di lui
è più grande di quanto avvenne attraverso quei due personaggi). Ciò non
significa che si sia attribuito uno statuto più che umano; meno che mai ha
affermato di essere Dio. Ma si è identificato, o altri lo hanno identificato,
con qualcuna delle figure disponibili? Un detto di Q (Q/Lc 13,34; e cfr. 1
Ts 2.,15) lo situa in linea con i profeti perseguitati e uccisi da Israele, secon-
do una concezione che si era affermata nello strato deuteronomistico della
Bibbia ebraica (Ne 9,2.6).
Una questione com pi essa riguarda l'appellativo di « Figlio del!' uomo».
È frequentissimo nei vangeli divenuti canonici, sempre riferito a Gesù e
sempre in bocca a lui, tranne che in Gv 12.,34, dove però si riferisce a un
detto di Gesù. È rarissimo negli altri scritti protocristiani. È il solo titolo
applicato a Gesù in quanto ci resta di Q In ebraico e aramaico al tempo di
Gesù l'espressione indicava sia l'essere umano in generale, sia un determi-
nato essere umano; si discute se fosse usata per intendere "io". La si trova
poi in alcuni scritti di rivelazione, nei quali assume significati particolari.
Nel Libro di Daniele (7,13-14; verso il 164 prima della nostra era), il prota-
gonista vede il giudizio finale, dopo il quale «ecco venire con le nubi del
cielo uno simile a un figlio d'uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato
GESÙ DI NAZARET 59

a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue
lo servivano». Esso rappresenta «il popolo dei santi dell'Altissimo». Si
rratta dunque di una figura umana, semplice simbolo del popolo dei santi,
oppure essere individuale, sorta di corrispettivo celeste di quel popolo. Da
Daniele ha ripreso tale personaggio il Libro delle parabole, molto proba-
bilmente del I secolo a.C., incluso nella raccolta che chiamiamo I Henoch
(37-71): il Figlio dell'uomo vi appare (46-48; 62.) come un essere di aspetto
umano che Henoch vede accanto a Dio, dove è stato nascosto da prima
della creazione; a lui è affidato il giudizio (diversamente che in Daniele) e
con lui i giusti e gli eletti trascorreranno la vita per sempre.
Tra le parole sul Figlio dell'uomo attribuite a Gesù, alcune riguarda-
no una sua attivita presente e terrena. In Mc 2.,10, egli ha potere di per-
donare i peccati in questo mondo e potere sul sabato (Mc 2.,2.8); Q (Q/
Le 9,58; 7,35; 12.,IO) insiste sulla sua marginalità e sulle critiche che riceve.
Altre riguardano una sua attivita futura. Qui il Figlio dell'uomo appare
giustapposto a Gesù, ma tra i due vi è un rapporto: «Chi si vergognerà di
me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice,
anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria
del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8,38). In Mc 13,2.6, con allusione a
Dn 7,13-14, viene con potenza e riunisce gli eletti dai quattro venti, assu-
mendo quindi, come nel Libro delle parabole, un ruolo in rapporto con il
giudizio e starà con gli eletti. In Mc 14,62., rispondendo alla domanda del
sommo sacerdote se egli sia il messia, Gesù afferma: «lo lo sono, e vedre-
te il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi
dd cielo». Infine, vi è un gruppo di detti relativi alle sofferenze del Figlio
dell'uomo: Mc 8,31; 9,31; Le 2.4,7; cfr. Gv 3,14; 12.,2.3 ecc. Ma si tratta di
profezie della passione e della morte di Gesù, che gli sono state certamen-
te attribuite più tardi.
È praticamente certo che l'uso dell'espressione risalga a Gesù. Essa
compare in Marco, Q, il materiale proprio di Matteo e quello di Luca,
Giovanni, Vangelo secondo Tommaso (86). Ma, come l'ha intesa? Qui i pa-
reri degli studiosi divergono e ci limitiamo a qualche indicazione. In Gv
5,2.7 Gesù dichiara: «E [il Padre] gli [al Figlio] ha dato il potere di giu-
dicare, perché è Figlio dell'uomo». Non è una parola autentica di Gesù,
111a documenta che almeno il gruppo in cui nacque questo vangelo cono-
sceva l'idea del Figlio dell'uomo come giudice escatologico, attestata dal
Ubro delle parabole, e l'aveva applicata a Gesù. Vari studiosi ritengono
che già Gesù la conoscesse. Quando, al momento di guarire il paralitico,
60 STORIA DEL CRISTIANESIMO

dichiara «perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di perdo-


nare i peccati sulla terra» (Mc 2,10 ), starebbe alludendo al Figlio dell'uo-
mo della tradizione di Henoch, che, in quanto giudice, aveva il potere di
condannare ma anche di perdonare i peccati nel giudizio finale; Gesù ag-
giungerebbe che ha questo potere anche sulla terra, prima del giudizio,
identificandosi dunque con lui. C'è poi chi pensa che Gesù abbia usato la
locuzione semplicemente come un'autodesignazione, modesta ma capace
di attirare l'attenzione sulla sua persona; più tardi, i suoi seguaci l'avreb-
bero messa in rapporto con Dn 7,13, assimilando Gesù esaltato al Figlio
dell'uomo che riceve gloria e potere. Altri pensano che Gesù avrebbe
parlato di sé stesso come Figlio dell'uomo, ma in due ruoli diversi: prima
quello di un inviato divino che conduce in questo mondo una vita mar-
ginale, poi quello di un personaggio trasfigurato insieme con la trasfigu-
razione escatologica dell'universo; ci sarebbe un'analogia tra questi due
momenti e i due momenti del regno di Dio. Secondo un'ipotesi che sem-
bra situarsi sulla stessa linea ma cerca di precisare ulteriormente ()ossa,
2012), dal momento in cui Gesù avrebbe integrato la propria morte nel
suo orizzonte avrebbe anche iniziato a vedere la futura manifestazione
del Figlio dell'uomo come una sua venuta nella gloria dopo la sua morte
(non dopo una sua resurrezione).
Nell'insieme, questa designazione, forse la sola usata da Gesù, rimane
controversa. La linea che abbiamo descritto per ultima appare interessan-
te, ma per chiarirne la logica si dovrebbe tener conto di un'opposizione
che non ha invece attirato molta attenzione a questo proposito, quella
tra misericordia/perdono e giudizio. È una polarità tra due attributi di
Dio ben nota alla tradizione giudaica. Nel Libro delle parabole, il Figlio
dell'uomo esercita il giudizio (cfr. in particolare 46), come pure in una
parola di Gesù che connette l'atteggiamento di ognuno verso Gesù nel
presente con il giudizio che ciascuno riceverà da parte del Figlio dell'uo-
mo; essa è attestata, in forme diverse, in Mc 8,38 ( citato sopra) e in Q (Q/
Le 12,8-9; Mt 10,32-33, dove la versione di Luca con menzione del Figlio
dell'uomo è certamente più antica). È dunque il Figlio dell'uomo, a dif-
ferenza di Gesù, che compie il giudizio, in un momento futuro, mentre il
compito presente di Gesù è di portare il perdono e la misericordia di Dio,
un attributo di cui si affermava che esprimesse la natura di Dio in maniera
più diretta che non la giustizia.
Gesù sembra aver considerato che il proprio mandato fosse di far pri-
meggiare la misericordia e il perdono divino, in quanto offerti prima che
GESÙ DI NAZARET 61

agisse la giustizia che annienta il male e quanti lo hanno praticato. L'at-


tività di Gesù colpisce le forze spirituali del male, le quali non a caso si
lamentano: «Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?» (Mt 8,2.9;
la parola ovviamente non è storica, ma segnala il rapporto tra esorcismi e
giudizio finale). Secondo il Libro delle parabole (so), al momento del giu-
dizio, esercitato dal Figlio dell'uomo, Dio lascia ancora ai peccatori un'ul-
tima possibilità di pentirsi e ricevere il perdono. Se Gesù, come alcuni ri-
tengono, ha avuto presente questa idea, comunque ha innovato, perché
anticipa tale possibilità e la connette con la propria azione. Resta aperta la
questione se Gesù concepisse il Figlio dell'uomo come l'identità che Dio
gli avrebbe attribuito dopo la sua morte, in vista del compito che avrebbe
dovuto svolgere nella gloria, oppure concepisse sé stesso come una prima
e nascosta manifestazione del Figlio dell'uomo, destinata a far agire la mi-
sericordia di Dio prima della sua giustizia; in entrambi i casi, il mandato
che egli si attribuisce assumerebbe plausibilmente come punto di partenza
una concezione tradizionale, ma apportando una soluzione nuova a un
problema cruciale.
Consideriamo brevemente il titolo di messia, diventato molto presto
una specie di nome attribuito a Gesù. L'ebraico mafia~, 'unto' - di cui
christos è la traduzione greca - designa una persona che ha ricevuto un'un-
zione rituale, come un re, un profeta o un sacerdote. Verso il tempo di
Gesù, l'appellativo comincia a essere applicato ad alcune delle figure cui
si ascrive un ruolo nella svolta attesa verso una salvezza. Tra queste, un
messia della stirpe regale di Davide, che sconfiggerà i sovrani terreni (per
esempio Salmi di Salomone 17 e 18, metà del I secolo a.C.); a Qumran si
aspettavano due messia, uno sacerdotale e l'altro regale (1QS 9,9-11).
Questo titolo, assente in Q e nel Vangelo secondo Tommaso, non è quasi
mai messo in bocca a Gesù; gli è invece applicato sia da sostenitori (Mc
8,2.9; 10,46) sia da avversari (Mc 14,61; 15,2.6.32.). A Cesarea di Filippo,
Pietro, a nome dei discepoli, identifica Gesù come Cristo (Mc 8,2.9 ), ma
Gesù lo mette a tacere, senza dubbio perché il titolo doveva essere riquali-
ficato dalla passione e morte; ma si tratta di una prospettiva di Marco. La
motivazione della condanna di Gesù come « re dei Giudei» mostra che i
Romani lo hanno giustiziato come ribelle. Dunque, di fronte alle autorità
non ha esplicitamente rinnegato questo ruolo. Si considerava mediatore
della salvezza inviata da Dio a Israele, il che era un tratto fondamentale del
messia; ma probabilmente, a causa delle molteplici accezioni di questo ter-
mine, in parte contraddittorie tra loro, non ha voluto proclamarsi tale. Per
STORIA DEL CRISTIANESIMO

quanto ne sappiamo, un messia sconficco e messo a morte non era previsto


nell'immaginario di nessuno di questi gruppi. Il titolo gli è dunque stato
attribuito prima della sua morte.

Conflitto e morte

L'arresto e la morte di Gesù non vanno valutati separatamente dai con-


flitti esplosi nel suo ultimo soggiorno a Gerusalemme. In esso, la tradi-
zione sinottica (Mc II,15-17) situa l'episodio spesso definito Purificazione
del Tempio, o cacciata dei mercanti, mentre Giovanni (2.,13-17) lo colloca
nell'imminenza della prima delle tre Pasque che questo vangelo include
nell'attività di Gesù. Storicamente lo si comprende meglio come elemento
scatenante della crisi finale. Il suo significato è però controverso. La tesi
che vi scorge il ricordo trasformato di un attacco armato al Tempio per
mettere fine alle attività affaristiche dell'aristocrazia sacerdotale si collega
a un'interpretazione difficilmente sostenibile di Gesù come ribelle politi-
co. Generalmente si pensa a una volontà di "purificare" il culto del Tem-
pio protestando contro il commercio e i guadagni che vi si effettuavano.
Tuttavia, era normale per un ebreo sia la presenza nella zona pubblica del
Tempio di banchi di cambio, i quali permettevano agli ebrei che affluiva-
no da vari paesi di cambiare il loro denaro nel mezzo siclo di Tiro, unica
moneta consentita per l'imposta, sia la possibilità di procurarsi animali
certificati per i sacrifici.
Sembra dunque preferibile la tesi di Ed Peirce Sanders (1995, pp. 2.58-
66), che valorizza la prossimità, in Gv 2.,19, tra il racconto dell'azione nel
Tempio e un detto di Gesù sulla distruzione del Tempio, il quale in Gio-
vanni ha la forma: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo alzerò».
Una profezia di Gesù sulla distruzione del Tempio è attestata anche nella
tradizione sinottica. Durante l'interrogatorio davanti al sinedrio alcuni
forniscono una falsa testimonianza: «Lo abbiamo udito mentre diceva:
io distruggerò questo tempio, fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne co-
struirò un altro, non fatto da mani d'uomo» (Mc 14,58). Anche il Vangelo
secondo Tommaso (71) attesta il detto. Una profezia sulla distruzione del
Tempio è plausibile nel contesto di Gesù: Flavio Giuseppe ne attribuisce
una a Gesù figlio di Anania nel 62. (Beli. !ud. 6,300-309 ). Inoltre, diffi-
cilmente i suoi seguaci gli avrebbero attribuito una profezia del genere a
GESÙ DI NAZARET

un'epoca (prima di Marco) in cui il Tempio era ancora in piedi (Marco,


infatti, la presenta come falsa testimonianza), e anche dopo la distruzione
essa non sarebbe stata formulata in questo modo: non erano stati né Gesù
né (come implica la forma giovannea) gli ebrei a distruggere il Tempio. I
diversi modi in cui lo stesso detto è modificato, la sua presentazione come
falso, l'interpretazione di Giovanni in riferimento alla resurrezione mo-
strano invece l'imbarazzo creato da una parola che non si era avverata nel-
la forma in cui circolava e, pertanto, fanno propendere per l'autenticità.
Gesù, per il rovesciamento di tavoli e qualche suppellettile, gesti che pote-
vano rientrare nel genere dei "profetici", al massimo sarebbe stato flagellato
e poi rimandato libero come pazzo innocuo: egli però aveva aggiunto la
messinscena della sua entrata a Gerusalemme, con i seguaci, un fatto ben
visibile, per di più in un momento delicato come l'imminenza della Pa-
squa, cui si collegavano attese messianiche; si era segnalato per l'annunzio
di un perdono dei peccati che aggirava le istituzioni a ciò deputate, gestite
dall'aristocrazia sacerdotale. Questa non avrà voluto correre il rischio di
una situazione incontrollabile. Fece catturare Gesù di notte, in un luogo
appartato.
Ali' inizio della stessa notte - il nesso è già nella tradizione riprodotta
da Paolo in I Cor 11,23 - i primi tradenti situarono una cena di Gesù con i
suoi discepoli (certamente non solo i Dodici, malgrado Mc 14,17 e paral-
leli: quanti erano venuti con lui dalla Galilea, comprese le donne, saranno
stati presenti) nella quale compì un gesto di decisiva importanza. I quattro
resoconti di questo evento - i tre sinottici e Paolo, 1 Cor 11,23-26 - sono
influenzati dalle rispettive prassi liturgiche. Inoltre, come accennato, in
Marco, Matteo e Luca si tratta della cena pasquale (Mc 14,12): ha quindi
luogo la sera del giorno 14 Nisan, e Gesù muore il 15. In Giovanni (18,28;
19,14.31; cfr. anche 13,1), Gesù muore il pomeriggio del 14 Nisan, prima
della cena pasquale. I tentativi di conciliare le due indicazioni non convin-
cono; entrambe le datazioni hanno motivazioni teologiche e può anche
darsi che nessuna sia esatta. Comunque, quella di Giovanni è preferibile:
è difficile immaginare una riunione urgente del sinedrio la notte solenne
di Pasqua, e ammettere che Simone di Cirene, quando fu requisito per
porcare la croce, tornasse dal (lavoro nel) campo (Mc 15,21) in un giorno
di festa solenne. In ogni caso, appare certo che Gesù morì verso Pasqua, e
questo fatto influenzò in maniera decisiva la comprensione della sua mor-
te. La cena qual è descritta nelle fonti non ha le caratteristiche di una cena
pasquale. Ormai presago del destino che stava per colpirlo, Gesù ha voluto
STORIA DEL CRISTIANESIMO

celebrare con i suoi un pasto nella linea della commensalicà da lui già pra-
ticata, ma particolarmente solenne, nel corso del quale, come un padre di
famiglia ebreo, ha pronunziato parole di benedizione sul vino e sul pane,
ma li ha inoltre collegaci al senso della propria azione e del proprio desti-
no. Ha interpretato il sangue che stava per effondere come il sigillo di una
nuova alleanza con Dio, secondo il modello di Es 24,8. Che abbia o meno
invitato a ripetere cali pasti in sua assenza, i discepoli lo hanno compreso
così. Pane e vino condivisi avrebbero reso presente Gesù anche quando
non avrebbe più fisicamente partecipato. Ma si sarebbe presto riunito a
loro nel banchetto finale del regno: i sinottici fanno concludere la bene-
dizione sul calice con le parole già citate: «In verità vi dico che non berrò
mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno
di Dio» (Mc 14,25). Giovanni (13,2-12) non ha questo racconto e collega
con la cena un altro gesto di Gesù, la lavanda dei piedi dei discepoli, pro-
babilmente archetipo di un rito d'ingresso praticato nel suo gruppo, nel
quale si rappresentava l'amore reciproco sotto la forma del farsi schiavo
(lavare i piedi era un compito degli schiavi). Ciò non significa che Gio-
vanni ignori l'eucaristia, di cui fa parlare Gesù in 6,48-58; ma preferisce
legare alla circostanza decisiva dell'ultima cena il rito che per lui meglio
esprimeva l'appartenenza al gruppo di Gesù.
Quella notte, Gesù si recò, con pochi discepoli, nell'orco del Getse-
mani, sul monte degli Ulivi, in uno stato di estrema angoscia e in inten-
so colloquio con Dio (Mc 14,32-42 e paralleli). Giuda, uno dei Dodici,
avrebbe indicato il luogo dove si trovava; il dato è probabilmente autenti-
co, mentre i racconti non autorizzano ipotesi sulle sue motivazioni. Gli fu
poi attribuita la morte di Achicofel che aveva eradico Davide (suicidio per
impiccagione, 2 Sam 17,23: Mc 27,3-10 ); da altri, quella tipica del nemico
di Dio: Ac 1,15-20 e, in forma diversa e più popolaresca, un frammento di
Papia di Hierapolis (verso il 120). La cattura fu effettuata cl.a un gruppo
inviato dall'aristocrazia sacerdotale; Gv 18,3.12 parla anche di una coorte
di soldati romani con il suo comandante, ma questo è improbabile, perché
in tal caso Gesù sarebbe stato condotto da Pilato. Fu portato invece a casa
del sommo sacerdote, dove secondo Mc 14,53-65 ebbe luogo una riunione
di membri del sinedrio in cui Gesù sarebbe stato accusato di bestemmia
e dunque considerato passibile di una pena di morte che, a quanto risul-
ta, Roma - che governava direttamente la Giudea - non permetteva alle
autorità giudaiche di infliggere (ma Giovanni non ha questo verdetto).
Al mattino presto, Gesù sarebbe stato trasferito al pretorio di Pilato, il
GESÙ DI NAZARET 65

prefetto di Giudea che di solito risiedeva a Cesarea Marittima, ma che in


occasione della Pasqua si trasferiva a Gerusalemme per meglio controllare
la situazione potenzialmente esplosiva (Mc 15,1; Gv 18,28); i suoi colloqui
con Gesù in Giovanni sono certamente un'elaborazione teologica.
La crocifissione mostra che Gesù fu processato e condannato dall'au-
torità romana. Lo storico romano Tacito non ha dubbi al riguardo (An.
15,44). Il cosiddetto Testimonium Flavianum (Flavio Giuseppe, Ant. !ud.
18,64: un passo su Gesù senza dubbio ritoccato da cristiani) afferma che
Pilato condannò Gesù alla crocifissione «in seguito ad azione legale (en-
deixis) intentata dagli uomini più influenti tra di noi», espressione che
pare esente da tendenze cristiane. Probabilmente, l'aristocrazia sacerdota-
le di Gerusalemme (se si tratta del sinedrio, vi saranno stati anche dei capi
farisei) ha speditamente interrogato Gesù, poi lo ha consegnato a Pilato
con un'accusa atta a farlo condannare.
L'azione giudiziaria dev'essere stata una cognitio extra ordinem, proce-
dura usuale nelle province, in cui il magistrato romano celebrava tutto il
processo ed emetteva la sentenza. Poiché Gesù non era cittadino romano,
fu certo sbrigativa: Pilato non si sarà fatto scrupolo di prevenire complica-
zioni al prezzo di una vita umana che per lui non valeva nulla. Quanto alla
motivazione, l'iscrizione affissa alla croce recava « il re dei Giudei» (Mc
15,26; Gv 19,19 ): Gesù fu condannato come ribelle politico. Non saranno
stati i suoi seguaci a inventare il fatto, che li metteva in difficoltà. Fu dun-
que denunziato a Pilato come ribelle da chi sapeva che l'autorità romana
non lo avrebbe condannato per divergenze interne al giudaismo. L' aristo-
crazia sacerdotale non avrà ignorato che Gesù non si era presentato come
liberatore politico. La denunzia era quindi tendenziosa, ma avrà trovato
un pretesto nell'appellativo di messia che, abbiamo visto, molti dovevano
aver applicato a Gesù. Una pretesa messianica non motivava una condan-
na a morte; rabbi Aqiba accettò senz'altro la rivendicazione messianica
di Simone Bar Kokhba nel 132. Oltre al timore che Gesù provocasse una
sommossa e la repressione romana, movente principale dell'aristocrazia
sacerdotale devono essere state la sua critica al Tempio, base dello status
sociale ed economico di quel gruppo, nonché la sua offerta di una ricon-
ciliazione con Dio che aggirava di fatto i meccanismi di espiazione legati
al Tempio.
Gesù subì dunque una pena disonorante, applicata soprattutto agli
schiavi, e largamente usata dai Romani al fine di dissuadere i domina-
ti da qualunque velleità di ribellione. In terra d'Israele, questo supplizio
66 STORIA DEL CRISTIANESIMO

era stato adottato anche da sovrani locali: nell'anno 88 a.C. il re asmo-


neo Alessandro Janneo aveva fatto crocifiggere ottocento suoi oppositori,
probabilmente farisei, e sgozzare davanti a loro le mogli e i figli (Flavio
Giuseppe, Bel!. /ud. 1,97; Ant. /ud. 13,380). I Romani avevano proceduto
anche in Israele a crocifissioni di massa, che sarebbero riprese con l'asse-
dio di Gerusalemme nel 70: Flavio Giuseppe, Bel!. /ud. 5,450-451, parla di
almeno cinquecento crocifissioni al giorno davanti alle mura della città. I
condannati venivano selvaggiamente flagellati, poi inchiodati e sollevati:
nudi e spesso inchiodati in posizioni grottesche e degradanti, erano esposti
allo scherno dei passanti; dopo ore e talora giorni di tormenti, morivano
probabilmente asfissiati quando i muscoli non riuscivano più a espellere
dai polmoni l'anidride carbonica. I cadaveri venivano lasciati a lungo sulla
croce in balia di uccelli da preda che avevano iniziato il loro lavoro prima
della morte, e i resti erano gettati in fosse comuni o abbandonati ai cani.
Qualcuno ritiene che questo sia stato anche il destino di Gesù. Tuttavia
vi sono esempi di crocifissi che le famiglie ebbero il permesso di deporre
e seppellire (tra altri, Flavio Giuseppe, Vita 75; inoltre, un ossuario del I
secolo della nostra era, ritrovato nel 1968 in una necropoli presso Geru-
salemme e recante il nome di un certo Yehohanan, conteneva lo scheletro
di un uomo di 2.4 anni che aveva nel tallone destro un chiodo di circa
11,5 centimetri, senza dubbio un crocifisso). Secondo Mc 15,43 (seguito da
Matteo e Luca) e Gv 19,38, Giuseppe d'Arimatea, un membro del sinedrio,
avrebbe ottenuto da Pilato il permesso di staccare il corpo dalla croce e lo
avrebbe deposto in una tomba sotto gli occhi di alcune donne della cerchia
di Gesù. La sepoltura fa parte anche dell'antica formula di fede citata da
Paolo in I Cor 15,4. Secondo Destro e Pesce (2.014, pp. 157-9 ), furono le
autorità giudaiche di Gerusalemme a far seppellire Gesù, il che permise
alla notizia di diffondersi.
Che pochi giorni dopo la tomba sia stata ritrovata vuota, è notizia
che non compare sino al Vangelo secondo Marco, intorno al 70, benché
i discepoli di Gesù abbiano sostenuto prestissimo che Dio lo aveva resu-
scitato. Se il racconto abbia un fondamento storico o se si tratti di una
narrazione apologetica destinata a sostenere, tardivamente, l 'affermazio-
ne che Gesù era risorto, è questione ancora discussa e forse insolubile. In
ogni caso, quale che sia la risposta dello storico, non se ne può dedurre la
resurrezione di Gesù, che si situa su di un piano diverso da quello della
ricerca storica. Per questa, la vicenda personale di Gesù termina con la sua
sepoltura.
GESÙ DI NAZARET

Bibliografia ragionata

La bibliografia sul "Gesù storico" è sterminata. Si indicano qui solo alcune ope-
re recenti, di differenti dimensioni e livelli di approfondimento. Innanzitutto, uno
strumento di riferimento indispensabile, un'opera sistematica che affronta tutti gli
aspetti della problematica relativa alla ricostruzione della figura storica di Gesù, con
grande quantità di informazione e un taglio pedagogico (ci sono anche gli eserci-
zi ... ), è G. THEISSEN, A. MERZ ( = Theissen, Merz, 1999 ), Il Gesù storico. Un manuale,
Queriniana, Brescia 1999 (ed. or. 1996). Tre sintesi, la prima sensibile ai metodi della
sociologia e dell'antropologia culturale, la seconda dedicata alla ricerca storica degli
ultimi decenni e la terza che mette in evidenza contesto storico e novità di Gesù,
sono R. AGUIRRE, c. BARNABÉ, c. GIL, Cosa sappiamo di Gesù di Nazaret? Il punto
.ìulla ricerca attuale, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2.010; P. BERTALOTTO,
Il Gesù storico. Guida alla ricerca contemporanea, Carocci, Roma 2.010; G. JOSSA ( =
Jossa, 2.012.), Tu sei il re dei Giudei? Storia di un projèta ebreo di nome Gesù, Carocci,
Roma2.012..
Ha innovato la metodologia della ricerca su Gesù, assumendo in primo piano le
sue azioni, il lavoro di E. P. SANDERS ( = Sanders, 1995), Gesù. La verità storica, Mon-
dadori, Milano 1995 (ed. or. 1993). Stimolante e controversa la nota opera di J. D.

CROSSAN (= Crossan, 1991), 1he Historical]esus: 1he Lift ofa Mediterraneanjewish


Peasant, HarperCollins, New York 1991. Una trattazione ampia ma molto leggibile,
somma di una vita di lavoro, è G. BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea. Indagine sto-
rica, EDB, Bologna 2.002.. Riesamina in profondità Gesù nel suo contesto culturale,
discutendo criticamente le categorie che guidano le nostre ricostruzioni, il testo di
w. STEGEMANN, Gesù e il suo tempo, Paideia, Brescia 2.011 (ed. or. 2.010 ). Innovatore
<: affascinante si presenta, secondo le linee dell'antropologia culturale, che privilegia
k pratiche rispetto alle dottrine, il lavoro di A. DESTRO, M. PESCE ( = Destro, Pesce,
wo8), L'uomo Gesù. Giorni, luoghi, incontri di una vita, Mondadori, Milano 2.008.
Degli stessi autori è il recentissimo studio sulla morte di Gesù le cui circostanze, nello
specifico contesto culturale, provocarono le reazioni che condizionarono la forma-
zione e trasmissione della memoria su di lui, A. DESTRO, M. PESCE ( = Destro, Pe-
sce, 2014), La morte di Gesù. Indagine su un mistero, Rizzo li, Milano 2.014. Specifico,
su quattro aspetti della ricerca, l'agile volumetto di c. GIANOTTO, E. NORELLI, M.
PESCE, E. PRINZIVALLI, L'enigma Gesù. Fonti e metodi della ricerca storica, Carocci,
Roma 2.008. Interessante è lo studio di taglio antropologico sui discepoli nel Vangelo
secondo Marco di M. RE SCIO, La famiglia alternativa di Gesù. Discepolato e strategie
di trasformazione sociale nel Vangelo di Marco, Morcelliana, Brescia 2.012.. Divulgativa
1na notevole per la capacità del suo autore, sommo conoscitore del giudaismo antico,
68 STORIA DEL CRISTIANESIMO

di guidare alla comprensione del senso profondo delle questioni teologiche, rispetto
alle quali Gesù prese posizione, è l'opera di P. SACCHI, Gesu e la sua gente, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo 2.003.
Un'impressionante summa analitica ancora incompiuta, dottissima nell'apparato
ma leggibile, è offerta daJ. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico, 4
voli., Queriniana, Brescia 2.001-09 (ed. or. 1991-2.009). Un ampio studio che cerca di
ricostruire un'immagine storicamente valida di Gesù, a partire dalle fonti improntate
alla fede in lui, è quello di J. D. G. DUNN, La memoria di Gesu, 3 voli., Paideia, Brescia
2.006 (ed. or. 2.003). Una grande opera collettiva, dedicata a tutti gli aspetti della pro-
blematica attuale della ricerca storica su Gesù, è offerta da T. HOLMÉN, s. E. PORTER
(eds.), Handbook far the Study ojthe Historicaljesus, 4 voli., Brill, Leiden 2.011.

Segnaliamo, infine, due riviste internazionali specializzate: "Journal for the Study
of the Historical Jesus", Sheffield Academy Press, London; "Annali di storia dell'e-
segesi", EDB, Bologna (oltre a numerosi contributi e fascicoli monografici sul tema,
contiene regolarmente una bibliografia corrente di pubblicazioni sul Gesù storico e
una sezione apposita di recensioni).
2

Dagli ebrei seguaci di Gesù


all'antagonismo fra cristiani ed ebrei
di Claudio Gianotto

Il problema della transizione

La transizione da una religione a un'altra, o la trasformazione di una reli-


gione in un'altra, è una delle dinamiche - e anche una delle questioni sto-
riografiche - più delicate e complesse della storia delle religioni. Si verifica
principalmente nel caso delle religioni fondate, quando, per l'iniziativa di
un personaggio storico, considerato il fondatore, incomincia ad affermar-
si, all'interno di una determinata tradizione religiosa, una nuova proposta,
che progressivamente si differenzia dalla matrice di partenza e, attraverso
un processo più o meno lungo e articolato, sfocia in una religione nuova e
autonoma. Quello che va dal giudaismo al cristianesimo rappresenta, for-
se, il caso più difficile e complicato di questi passaggi, certamente il più
studiato.
Un modello che ha conosciuto una particolare fortuna è quello della
"separazione delle vie" tra giudaismo, da un lato, e cristianesimo, dall' al-
tro, con interminabili discussioni per identificare il momento cronolo-
gico o l'evento determinante che avrebbero causato questa separazione,
anche se la maggioranza degli studiosi si orienta per gli anni successivi
alla guerra giudaica del 132-135, scatenata da Bar Kok.hba, la terza rivolta
contro Roma, dopo quelle del 66-70 e del 115-117, quest'ultima scoppia-
ta in Cirenaica, Egitto e Cipro. Se si segue questo modello diventa dif-
ficile, per ragioni di coerenza, parlare di cristianesimo in riferimento al
periodo, più o meno lungo, che va dalla morte di Gesù agli eventi della
separazione: ma come considerarlo allora? Daniel Boyarin (2004) ritiene
che sia necessario adottare un modello più flessibile, e suggerisce quel-
lo ondulatorio, che permette ai linguisti di spiegare la nascita di dialetti
e lingue in analogia con il fenomeno dell'interferenza delle onde, quelle
che si producono, ad esempio, quando si lanciano contemporaneamente
STORIA DEL CRISTIANESIMO

più sassi in uno stagno. Sfruttando questa metafora, Boyarin sostiene che
il cristianesimo non sarebbe nato in seguito a una separazione avvenuta
in un momento precisamente identificabile a partire da un giudaismo ori-
ginario piuttosto uniforme: al contrario, il cristianesimo avrebbe avuto
origine da specifiche scelte di elementi identitari, operate da gruppi dif-
ferenti, e dalla conseguente loro aggregazione e diffusione, fino a forma-
re un agglomerato "dialettale" nuovo all'interno di quella vasta gamma
di parlate dai contorni sfumati che costituiva il giudaismo del tempo e
comprendeva anche i seguaci di Gesù. Questo processo si sarebbe con-
cluso soltanto nel IV secolo, quando l'intervento degli apparati di potere
ideologico e repressivo dell'Impero rese possibile la nascita di una vera e
propria religione nuova, dai confini chiari e netti, e permise di stabilire in
modo preciso l'appartenenza e rendere operativa l'esclusione.
La proposta di Boyarin ha suscitato un acceso dibattito, senza con-
vincere tutti gli studiosi, ma ha comunque avuto il merito di richiamare
l'attenzione sui problemi lasciati irrisolti dal modello della "separazione
delle vie". Piuttosto che pensare a un preciso momento della storia per la
separazione del cristianesimo dal giudaismo, è più appropriato pensare
a un processo, lungo e complesso, al termine del quale, dalla matrice di
partenza, il variegato e multiforme "giudaismo del Secondo Tempio" (ca-
tegoria con la quale la letteratura scientifica indica il periodo postesilico
fino alla distruzione del 70 d.C., in cui si distinguevano sadducei, farisei,
esseni, i gruppi che confluiranno nel movimento rivoluzionario zelota, i
seguaci di Giovanni Battista e altri ancora) emergeranno due entità non
soltanto religiose, ma anche culturali: il giudaismo rabbinico, da un lato;
il cristianesimo, dall'altro. Trattandosi di un processo lungo e complesso,
le trasformazioni e le riaggregazioni varieranno a seconda dei gruppi coin-
volti, delle circostanze storiche, delle regioni geografiche.
Come ultima osservazione di questa breve premessa metodologica
aggiungiamo che l'atteggiamento prudente sopra delineato del!' attuale
critica storica sconsiglia di continuare a usare il termine astratto "giudeo-
cristianesimo", che ha avuto lunga e grande fortuna storiografica, ma di cui
è sempre stato difficile dare una definizione univoca: infatti, per quanto ri-
guarda le origini, esso è contraddittorio rispetto al dato di fatto che i fedeli
di Gesù sono parte del giudaismo e, per il periodo successivo, si è incerti
se intenderlo in senso etnico, o per indicare quanti credono in Cristo e
praticano l'osservanza, a prescindere dall'etnia, o se, con accezione lata-
mente culturale, chiamare così tutto il cristianesimo fino all'ultima guerra
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 71

giudaica del 135. Di conseguenza preferiamo espressioni concrete, vicine


all'uso antico: parleremo di Giudei/ebrei credenti in Gesù o di cristiani di
origine giudaica, riservando il termine "giudeocristianesimo" a un periodo
cronologicamente posteriore alle origini.

I primi sviluppi del movimento di Gesù


dopo la morte violenta del capo carismatico

Il movimento di Gesù è nato e ha conosciuto i suoi primi sviluppi all'inter-


no del mondo giudaico. Gesù aveva svolto la sua missione pubblica preva-
lentemente nei villaggi rurali della Galilea, rivolgendo il suo messaggio di
speranza esclusivamente alla popolazione locale di origine ebraica. In Mt
10,6; 15,24 si afferma, infatti, che la buona novella va rivolta soltanto «alle
pecore disperse della casa di Israele». Un mutamento di prospettiva che
includa anche i gentili nell'annuncio della salvezza si realizza, secondo Mt
2.8,19, solo dopo la resurrezione di Gesù, attraverso il mandato missionario
che invita i discepoli ad ammaestrare e battezzare tutte le genti; Mc 15,39
anticipa questo mutamento al momento della morte di Gesù, quando il
centurione romano riconosce: «davvero quest'uomo era figlio di Dio»
(dì-. l'analogo atteggiamento nel Gesù di Gv 12,21-22).
Dopo la sua morte, il gruppo dei seguaci si ricompattò e si riorganizzò
e, seppur non senza tensioni e difficoltà, riuscì a continuare a promuovere
la causa per la quale Gesù si era battuto: l'annuncio del regno di Dio (cfr.
CAP. 1, p. 47 ). Ci dovette, quindi, essere una sostanziale continuità nel mo-
vimento di Gesù tra il periodo dell'attività pubblica del capo carismatico e
quello immediatamente successivo alla sua morte.
È verosimile che i discepoli di Gesù della cerchia più stretta, compresi i
Dodici, il cui numero, dopo il suicidio di Giuda, si ricompone, secondo At
1,15-26, con l'elezione di Mattia, siano ritornati in Galilea, dove potevano

comare sul supporto di numerosi simpatizzanti, per riprendere la predica-


zione iniziata dal loro maestro, così brutalmente interrotta. Dell'attività
in Galilea abbiamo scarsissime testimonianze, per lo più indirette; è in
questo contesto che va collocata l'azione dei cosiddetti "predicatori itine-
ranti", che portano avanti il messaggio di Gesù con le stesse sue modalità.
Si ritiene che il loro ethos si possa ricostruire da alcuni passaggi di Q (cfr.
CAP. 1, p. 44), caratterizzati dall'urgenza dell'annuncio del regno (Le 10,3-
72 STORIA DEL CRISTIANESIMO

12; Mt 10,7-16). Dato che Q non contiene riferimenti espliciti alla resur-
rezione, questi missionari, ponendosi in continuità con la predicazione e
il carisma di Gesù, verosimilmente giustificavano la sua morte ricollegan-
dola alla sorte dei profeti uccisi da Israele ma approvati da Dio (Norelli,
2014, pp. 29-30 ).
Ma la tragedia rappresentata dalla morte di Gesù, infamante, in quan-
to il condannato «appeso ad un albero» viene esplicitamente dichiarato
maledetto dalla Torah (Dt 21,22-23), difficilmente avrebbe consentito al
grosso dei seguaci, anche a quelli di Galilea, di continuare a credere che la
sua causa godesse dell'approvazione divina, se non fosse intervenuto l'ele-
mento nuovo della fede nella resurrezione del capo carismatico, suffragata
dalle esperienze individuali e collettive delle apparizioni del Risorto.
Queste esperienze alimentarono la convinzione che Dio fosse interve-
nuto in un modo straordinario per rendergli giustizia, non abbandonan-
dolo alla morte, ma elevandolo a una nuova condizione, nell'attesa che
Gesù ritornasse per inaugurare finalmente quel regno di Dio, il cui avven-
to aveva annunciato durante il suo ministero pubblico, ma che non si era
ancora manifestato. Ali' inizio dunque il tema della resurrezione di Gesù,
più che segnare un radicale mutamento di prospettiva nella predicazione
dei discepoli, come in seguito avverrà quando l'annuncio prese ad avere
come oggetto soprattutto Gesù stesso, dovette servire a legittimare la cau-
sa per la quale Gesù si era battuto durante il suo ministero pubblico.
Dei primissimi sviluppi del movimento di Gesù abbiamo notizie scar-
ne, che ricaviamo principalmente dagli Atti degli Apostoli. Ma i dati desu-
mibili da questa fonte, attribuita a Luca, vanno usati con una certa cautela,
perché condizionati dal progetto letterario del!' autore, che concentra a
Gerusalemme tutti gli eventi successivi alla tragica morte di Gesù, senza
menzionare in alcun modo la Galilea (contrariamente a Matteo e Giovan-
ni che vi fanno invece esplicito riferimento rispettivamente in 28,10 e 21,1-
23) e inoltre obbedisce a una forte tendenza irenica e armonizzatrice, volta
a smorzare i contrasti interni al gruppo dei seguaci di Gesù.
Gli Atti, dunque, si aprono fornendo alcune informazioni sulla comu-
nità che si sarebbe raccolta a Gerusalemme, e raccontano che i discepoli
più stretti e i familiari di Gesù si riunivano insieme in un'abitazione in
città, dove attendevano costantemente alla preghiera in piena armonia
(homothumadon), frequentavano regolarmente il Tempio, e conducevano
una vita comune (At 1,14; 2,42-47 ). Si trattava, quindi, di un gruppo per-
fettamente inserito nel quadro del giudaismo del tempo.
1
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 73

Contrariamente però ali' armonia che Luca intende mostrare, il gruppo


dei seguaci di Gesù nel periodo immediatamente successivo alla sua morte
non conobbe sempre una convivenza pacifica, ma fu anche attraversato al
suo interno da tensioni e conflitti, riguardanti innanzitutto la questione
della successione alla guida del movimento e quella dell'accoglienza dei
gentili nelle file del gruppo. La prima questione si presentava impellente:
bisognava ricompattare, riorganizzare e rilanciare il gruppo dei seguaci di
Gesù e continuare la missione del capo carismatico, ormai scomparso. Ma,
chi era accreditato ad assumersi questo compito, in altre parole a succedere
a Gesù nel ruolo di leader del movimento?

La successione alla guida del movimento

Nella competizione per la successione dovettero svolgere un ruolo di vi-


tale importanza le apparizioni: il fatto di essere stati testimoni, in modo
individuale o collettivo, di un'apparizione del Risorto, conferiva senz'al-
tro un prestigio e un'autorità che erano preclusi a quanti non potevano
fare riferimento a una tale esperienza; ma un prestigio e un'autorità an-
cora maggiori poteva rivendicare chi avesse potuto dimostrare di essere
stato il primo destinatario di un'apparizione del Risorto. I racconti delle
apparizioni contenuti nei vangeli canonici (Mt 28,8-20; Le 24,13-49; Gv
2.0,11-21,23) e nell'apocrifo Vàngelo secondo gli Ebrei (citato da Girolamo,
de vir. ill. 2), le liste di destinatari di apparizioni riportate da Paolo (1
Cor 15,3-8), ai quali si deve aggiungere l'episodio durante il quale Gesù
sconfessa i propri familiari nella versione di Mc 3,20-35 (cfr. Mt 12,46-50;
Le 8,19-21) fanno intuire l'esistenza di gruppi in competizione, che aspi-
ravano a essere riconosciuti come gli eredi autentici di Gesù e della sua
opera, e facevano riferimento, ai fini della loro legittimazione, gli uni a
Cl:fa/Pietro, ai Dodici e alla cerchia più stretta dei discepoli di Gesù, gli
altri a Giacomo, fratello di Gesù e verosimilmente alla cerchia allargata
dei suoi familiari.
Ovviamente non entravano in questa dinamica le donne, anche se è
verosimile che la prima destinataria di un'apparizione fosse Maria di
Magdala, come riportato nelle tradizioni indipendenti della finale di Mc
1 6,9-2.0 (un'aggiunta posteriore, presente in alcuni manoscritti, al Vange-

lo secondo Marco) e in Gv 20,11-18, nonché da Celso, il primo scrittore


74 STORIA DEL CRISTIANESIMO

anticristiano, per screditare la notizia della resurrezione. Furono gruppi


gnostici marginali che rivendicarono questa priorità, in opposizione alla
tradizione apostolica (sulla quale cfr. CAP. 3, p. 119 ).
Secondo Max Weber, tra le modalità con cui i gruppi sociali risolvono
il problema della successione dei capi carismatici figurano la designazione
compiuta dallo stesso capo carismatico e l'identificazione del successore
all'interno del suo gruppo familiare, nella convinzione che il carisma sia
una qualità del sangue e si trasmetta per via ereditaria. È esattamente la
situazione che troviamo nel caso della successione di Gesù. Si confrontano
due gruppi: il primo si richiama a Pietro, designato da Gesù come suo suc-
cessore nell'episodio della confessione di Cesarea di Filippo (Mt 16,17-19 );
il secondo fa riferimento a Giacomo, fratello di Gesù.
La competizione ha lasciato qualche traccia all'interno degli scritti
protocristiani. Il fatto che i vangeli canonici parlino molto poco dei fami-
liari di Gesù e, quando lo fanno, tendano a metterli in cattiva luce, indica
che essi rappresentano il punto di vista dei gruppi che si richiamavano a
Pietro e ai Dodici. Ciò significa che, sul lungo periodo, furono loro che
riuscirono a imporsi. Ma, almeno nel breve periodo, anche i gruppi che
si richiamavano a Giacomo ottennero risultati significativi; segno che la
competizione per la successione di Gesù si dovette risolvere con un com-
promesso, che tenesse conto delle esigenze di entrambe le parti (Norelli,
2.005, pp. 11-6). Giacomo, finché visse, riuscì a ottenere ampi riconosci-
menti del suo prestigio e della sua autorità. Lo ritroviamo, infatti, alla gui-
da della comunità di Gerusalemme, affiancato da due membri del gruppo
dei Dodici: Pietro e Giovanni ( Gal 2,9 ).
I familiari di Gesù continuarono, anche dopo la morte di Giacomo, a
svolgere ruoli importanti nelle comunità dei seguaci del Nazareno in Terra
di Israele. Secondo la testimonianza dello storico di origine giudaica Ege-
sippo (n secolo), che conosciamo indirettamente attraverso le citazioni
che ne fa Eusebio di Cesarea (h.e. 3,7,11-12; 3,32,1-6; 4,22,1-8), fu Simeone,
figlio di Clopa, cugino di Gesù e Giacomo, a succedere a quest'ultimo
alla guida della comunità di Gerusalemme e a subire il martirio sotto Do-
miziano (81-96). Sappiamo inoltre, sempre da Eusebio (h.e. 3,19-2.0), che
alcuni parenti di Gesù furono a capo di comunità cristiane della Palestina,
verosimilmente in Galilea, sempre al tempo di Domiziano. Si tratta dei ni-
poti di Giuda, fratello di Gesù e Giacomo, tradotti davanti all'imperatore
per il sospetto di avere avanzato pretese messianiche, e quindi di costituire
una minaccia per l'autorità di Roma in Palestina, ma subito rilasciati per-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 75

ché ritenuti innocui. Con la fine del I secolo, dei parenti di Gesù e del loro
ruolo di guida nelle comunità cristiane della Palestina si perdono le tracce.

L'accoglienza dei gentili


all'interno del movimento di Gesù

Il processo di ripensamento della figura di Gesù, nonché di tutta la sua vita


e attività alla luce della fede nella resurrezione costituisce l'avvio in senso
proprio della cristologia (letteralmente: discorso su Cristo), termine con
cui si designa la riflessione di fede su Gesù. A poco a poco il personaggio
si vede assegnata una vera e propria funzione salvifica, non più circoscritta
soltanto nel perimetro del giudaismo, ma potenzialmente aperta all'uma-
nità intera. È su questa trasformazione che si fonda la missione ai gentili,
che costituirà l'occasione di altre e forse più gravi tensioni all'interno del
movimento di Gesù e il cui protagonista principale sarà Paolo.
Non siamo in grado di ricostruire in modo preciso come sia nata, all' in-
terno di un movimento, che almeno alle origini, era totalmente radicato
all'interno dello spazio religioso giudaico, l'idea della missione ai gentili
(Gianotto, 2.013, p. 37 ). È ancora una volta Luca in At 6 a darci qualche
lume, distinguendo nella primitiva comunità di Gerusalemme due gruppi,
che chiama rispettivamente «ebrei» ed «ellenisti». È probabile che la
distinzione alludesse, fra le altre cose, alla prevalente diversità di lingua
(I' aramaico, per gli ebrei, il greco, per gli altri) e di origine ( la terra di Isra-
ele, per gli ebrei, la diaspora ellenistica, per gli altri). A un certo momento,
fra i due gruppi sarebbero sorte tensioni, che avrebbero portato dapprima
a una separazione (istituzione dei Sette, responsabili del gruppo degli el-
lenisti, in contrapposizione ai Dodici, responsabili degli ebrei: At 6,1-7 ).
Le motivazioni addotte da Luca, che parla di lamentele per l'inefficienza
del servizio di assistenza alle vedove (At 6,1) sono palesemente fittizie. Più
verosimilmente, gli ellenisti rappresentavano un gruppo particolare all' in-
terno del movimento di Gesù, che frequentava proprie sinagoghe (At 6,9 ),
aveva una lingua, una cultura e tradizioni proprie, che furono percepite
come estranee e pericolose dal gruppo maggioritario degli ebrei. Successi-
vamente, a seguito di una non meglio definita «persecuzione» (diogmos ),
che Luca sembra connettere all'uccisione di uno dei Sette, Stefano (At
7,60-8,1-4), gli ellenisti furono espulsi da Gerusalemme.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Con il loro allontanamento, l'annuncio del vangelo di Gesù lascia la


Giudea e, attraverso la Samaria (attività missionaria dell'apostolo Filippo:
At 8,5-40 ), raggiunge le genti. Luca fa legittimare questo allargamento del-
la missione ai pagani da Pietro, con l'episodio del battesimo a Cesarea del
centurione Cornelio e della sua famiglia, preceduto da una visione (At 10 ).
La missione degli ellenisti raggiunge rapidamente le città della diaspora
ellenistica. Sappiamo che una base importante di questa missione si era
costituita ad Antiochia (At 11,19-26). Capoluogo della provincia di Siria e
Cilicia, la città era un importante centro economico e commerciale, oltre
che amministrativo e militare, dell'Impero romano. La sua popolazione,
piuttosto numerosa (si trattava della terza città dell'Impero per dimensio-
ni, dopo Roma e Alessandria d'Egitto), comprendeva una folta comunità
giudaica. Luca (At 11,26) ci dice che ad Antiochia per la prima volta i disce-
poli di Gesù furono chiamati «cristiani», mettendo in connessione la no-
tizia con il moltiplicarsi delle conversioni alla fede in Gesù in quella città
grazie alla predicazione di Paolo e Barnaba. Probabilmente tale nome non
è un'autodesignazione, bensì fu attribuito ai seguaci di Gesù dalle autorità
romane - lo vedremo meglio in seguito - perché Paolo non lo menziona
mai nelle sue lettere e del resto il termine compare solo due volte all'in-
terno del Nuovo Testamento: forse è stato coniato qualche tempo dopo il
periodo indicato da Luca. Si tenga presente che anche il termine derivato,
"cristianesimo", compare per la prima volta in un autore antiocheno, Igna-
zio, ali' inizio del II secolo.
Dunque, ad Antiochia il movimento di Gesù veniva a contatto con una
città cosmopolita, dove i Giudei rappresentavano una minoranza. Diver-
samente da Gerusalemme, i rapporti dei Giudei con le altre componenti
etniche della città dovevano essere molto fitti; sappiamo, infatti, che intor-
no alle numerose sinagoghe si muoveva una schiera di simpatizzanti che,
pur senza aderire in modo pieno al giudaismo e alle sue osservanze, tut-
tavia ne era attratta per la sua concezione monoteistica della divinità, per
i suoi ideali etici, per la rinomata efficacia di certe sue pratiche religiose.
Che in un contesto come questo l'annuncio degli ellenisti si potesse rivol-
gere anche ai pagani (At 11,19-20) non stupisce. Il tema della salvezza delle
nazioni aveva un suo spazio, all'interno della tradizione giudaica e riguar-
dava più precisamente gli eventi degli ultimi tempi. Il profeta Isaia (2,1-s;
25,6-10; s6,6-8; 60,11-14) aveva previsto, per la fine dei tempi, una sorta di
pellegrinaggio escatologico delle nazioni verso il monte Sion, dove esse
avrebbero potuto ottenere dall'unico Dio la salvezza attraverso la media-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 77

zione di Israele. Su questo sfondo, la credenza, che nel frattempo si era svi-
luppata, nell'efficacia salvifica della morte di Gesù, operante la remissione
dei peccati (1 Cor 15,3), non poteva, nella prospettiva degli ellenisti, essere
ristretta all'ambito del popolo ebraico; nella morte redentrice di Gesù si
era realizzata la riconciliazione escatologica di tutti gli uomini con Dio.
Ma qual era la posta in gioco? Il giudaismo del tempo, anche se proba-
bilmente non svolgeva in modo attivo una missione volta a "convertire" i
gentili, prevedeva, comunque, procedure e regole di ingresso per quanti
volessero aderirvi senza essere Giudei di origine, in considerazione dell'at-
trattiva esercitata dalle sue pratiche religiose e sociali (Flavio Giuseppe,
Beli. !ud. 2,179-180; 281-283). Le modalità di adesione al giudaismo erano
varie e graduate. I « timorati di Dio» erano semplici simpatizzanti, i quali
apprezzavano del giudaismo gli ideali etici e la fede monoteista e osser-
vavano alcune pratiche (digiuni, regole alimentari, elargizioni liberali); i
proseliti, invece, sceglievano di aderire in modo pieno al giudaismo, accet-
tando la circoncisione, un bagno purificatore, e soprattutto assumevano su
di sé la completa osservanza delle prescrizioni della Legge mosaica.
Il movimento di Gesù, invece, diversamente da altri gruppi giudaici era
programmaticamente missionario, come più tardi sancirà il mandato del
Risorto sopra ricordato (Mt 28,19: «Andate dunque e fate discepoli tutti
i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito san-
to»). Cosa bisognava richiedere ai gentili che volessero credere in Gesù e
aderire al suo movimento? L'osservanza della Legge mosaica, la circonci-
sione, il bagno purificatore, come ai proseliti? In altri termini, per aderire
al movimento di Gesù bisognava prima aderire al giudaismo oppure no?
La posta in gioco era molto alta: si trattava di stabilire se il movimento di
Gesù dovesse rimanere circoscritto entro il perimetro del giudaismo oppu-
re se non dovesse travalicarlo.
Una figura importante della comunità di Antiochia era Barnaba, un
personaggio che Luca aveva già introdotto parlando della primitiva comu-
nità di Gerusalemme in At 4,36-37. Fu lui a portare Paolo ad Antiochia
(At 11,25), dandogli modo di condividere la nuova avventura dell'annun-
cio ai pagani intrapresa da quella comunità. Ora la prassi degli evangeliz-
zatori in Antiochia era quella di accogliere i gemili nel gruppo dei seguaci
di Gesù mediante il battesimo, senza richiedere loro la circoncisione, cioè
senza imporre una previa adesione al giudaismo. Questa prassi non mancò
di creare problemi interni, provocando tensioni soprattutto con il gruppo
della comunità madre di Gerusalemme, che faceva riferimento a Giacomo,
STORIA DEL CRISTIANESIMO

fratello del Signore. In effetti, l'accoglienza di gentili incirconcisi all' inter-


no di un movimento che fino ad allora era composto quasi esclusivamente
da ebrei non poteva non sollevare qualche difficoltà per quanto riguardava
la convivenza, dal momento che l'ebreo osservante, per ragioni di purità
rituale, era tenuto ad adottare particolari accorgimenti che limitavano la
sua vita di relazione con i non ebrei. All'interno della comunità cristiana
di Antiochia questi problemi dovettero essere risolti alla buona, senza che
fosse necessario ricorrere a direttive ufficiali e a formali prese di posizio-
ne. Con il passar del tempo, tuttavia, il conflitto si acuì e, per risolvere
le difficoltà, fu necessaria una formale discussione del problema tra rap-
presentanti della comunità di Antiochia e quelli della comunità madre di
Gerusalemme.
Due racconti di Paolo (Gal 2) e di Luca (At 15) sembrano riferirsi allo
stesso episodio, vale a dire a questa discussione in merito all'opportunità di
fare o non fare circoncidere i gentili che si convertivano alla fede in Gesù;
ma i resoconti, accanto a somiglianze, presentano differenze e gli studiosi
non sono giunti a una posizione unanimemente condivisa. At 15 affron-
ta due problemi diversi, ambedue relativi alla missione ai gentili: quello
dell'opportunità della circoncisione per i convertiti alla fede in Gesù pro-
venienti dalle genti (At 15,1-12) e quello delle regole di purità da osservare
per rendere possibile la convivenza tra seguaci di Gesù di origine giudaica
e di origine gentile nelle comunità miste (At 15,13-35) e li presenta come di-
scussi nel corso di una stessa assemblea tenutasi a Gerusalemme (il cosid-
detto concilio di Gerusalemme del 49 ca.); in Gal 2 Paolo tiene distinti i
due problemi e assegna la discussione del primo, quello della circoncisione
(Gal 2,1-10) a un incontro - che definisce privato - a Gerusalemme con le
«colonne» Giacomo, Cefa (Pietro), Giovanni, mentre parla del secondo,
riguardante l'osservanza delle regole di purità, in riferimento al racconto
della sua controversia con Pietro ad Antiochia (il cosiddetto "incidente di
Antiochia": cfr. Gal 2,11-14).
Nonostante le discrepanze, difficilmente risolvibili, fra queste due
fonti, da entrambe risulta comunque chiaro che c'erano Giudei seguaci
di Gesù i quali sostenevano l'assoluta necessità di circoncidere i converti-
ti dal paganesimo, cioè di farne veri e propri proseliti. Nella comunità di
Gerusalemme, e in particolare presso i suoi capi, interpellati a questo ri-
guardo, le posizioni sul problema non erano, però, così radicali e si giunse
abbastanza facilmente a una soluzione di compromesso. Ora, sia che Gal
2 tratti dello stesso episodio di At 15, sia che si riferisca ad altra circostan-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 79

za, secondo Paolo (Gal 2.,8-9) l'accordo con le «colonne» prevedeva il


riconoscimento, da parte del gruppo dirigente della comunità di Gerusa-
lemme, della legittimità della missione antiochena alle genti senza l' impo-
sizione della circoncisione e, da parte di Paolo e Barnaba, della legittimità
della missione petrina ai Giudei con il mantenimento dell'obbligo delle
osservanze. Si trattava di riconoscere l'esistenza di due tipi di missione,
con caratteristiche e modalità diverse. Ma il prosieguo di Gal 2. dimostra
che Paolo andava ben oltre la questione della circoncisione, e considerava
esonerati dai vincoli della Legge mosaica sia i pagani convertiti sia gli stessi
Giudei credenti in Gesù nelle ekklesiai da lui fondate ( «È evidente, infatti,
che attraverso la Legge nessuno è giustificato davanti a Dio»: Gal 3,u).
Giacomo e i suoi, invece, intendevano diversamente: consideravano
i Giudei vincolati all'obbligo dell'osservanza della Legge mosaica e non
ammettevano una comunione di mensa con chi era in stato di impurità
rituale. L'incidente di Antiochia (Gal 2.,u-2.1) riguarda precisamente que-
sto punto. Pietro, prima dell'arrivo dei rappresentanti di Giacomo, man-
gia con i convertiti dal paganesimo, che evidentemente non osservavano
nessuna norma di purità, ma poi fa marcia indietro e trascina dalla sua
anche Barnaba. Paolo protesta inutilmente, ma sarà lasciato solo. In questa
occasione viene alla luce il problema di fondo, che va ben al di là di una
semplice disputa sulle modalità di conversione dei gentili, se con o senza
circoncisione: qui si confrontano due concezioni radicalmente diverse del
modo di aderire al movimento di Gesù; e le difficoltà della loro coesistenza
si manifestano fin da subito in modo drammatico.
L'incidente di Antiochia chiarisce il punto di vista di Paolo sul proble-
ma della convivenza tra i Giudei credenti in Gesù e quelli di origine gentile
nelle comunità miste. Per l'Apostolo, nella nuova ekklesia dei seguaci di
Gesù, ogni distinzione è superata e la fede nel Cristo morto e risorto assi-
cura la salvezza a tutti nello stesso modo ( «Non c'è giudeo né greco, non
c'è schiavo né libero, non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete
uno in Cristo Gesù»: Gal 3,2.8). Pertanto, i convertiti di origine gentile
dovevano essere accolti senza alcuna restrizione, che si trattasse della cir-
concisione o di qualsiasi altra norma cultuale giudaica.
Nel racconto del concilio di Gerusalemme in At 15, invece, Luca, con-
formemente alle sue tendenze armonizzatrici, ci presenta una accanto
ali' altra le due diverse posizioni che sono in gioco. Dopo avere richiamato
l}uella di Paolo, mettendola in bocca a Pietro con riferimento alla sua pre-
cedente esperienza (cfr. At 10-u) con il centurione Cornelio ( «noi invece
80 STORIA DEL CRISTIANESIMO

crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo stati salvati, così come
loro»: v. 11), l'autore degli Atti ci illustra anche quella di Giacomo (At
15,13-2.1). Il discorso di quest'ultimo in risposta a Pietro è un capolavoro
di retorica ed esegesi insieme (Chilton, 2.001). Egli concorda con Pietro
sul fatto che, secondo il piano provvidenziale di Dio, ai gentili deve es-
sere consentito l'accesso alla salvezza, ma propone una modalità diversa,
richiamandosi non a una esperienza personale, come aveva fatto Pietro,
bensì alla parola dei profeti (Am 9,11-12., integrato con allusioni a Os 3,4-5;
Ger 12.,15-16, Zc 8,2.2.; Is 45,2.0-2.3). Il contesto è la restaurazione escatolo-
gica di Israele nei tempi messianici, la quale prevede, certo, la salvezza per
le nazioni, ma senza che queste perdano o mutino la loro identità: i gentili
resteranno tali e otterranno la salvezza se si aggregano al popolo di Israele,
ma rimanendo distinti da esso. La sua citazione a senso di Amos parla di
una ricostruzione della casa di David, non di una ridefinizione del popolo
di Israele. Quindi, nell'era messianica inaugurata dalla venuta di Gesù, le
nazioni si convertiranno, cioè abbandoneranno le loro credenze e le pra-
tiche idolatriche e saranno ammesse al culto dell'unico vero Dio, il Dio di
Israele, ma restando tali, cioè senza essere assimilate a Israele.
Anche sul ruolo svolto da Gesù nell'offerta della salvezza ai gentili
Giacomo assume una posizione particolare. Per Pietro negli Atti (cioè per
Paolo), alle nazioni è offerta la salvezza grazie all'ascolto dell 'evangelo pre-
dicato (At 15,7 ), vale a dire grazie all'annuncio di Gesù e della redenzione
da lui compiuta; per Giacomo, alle nazioni è offerta la salvezza attraverso
la conversione al vero Dio (egli non menziona neppure Gesù), nel quadro
della restaurazione escatologica di Israele, che rimane il popolo eletto. In
questo contesto, la funzione di Gesù è semplicemente quella di inaugurare
i tempi messianici, nei quali l'offerta di salvezza per i gentili diventa ope-
rativa: ebrei e gentili, ancorché accomunati dalla stessa adesione al movi-
mento di Gesù, restano due entità distinte e giustapposte, non assimilabili
l'una nell'altra. Il contrasto con la posizione di Paolo non poteva essere
più profondo.
La conseguenza che Giacomo trae dal suo discorso è che i convertiti
alla fede nel vero Dio (non in Gesù) debbano essere senz'altro accolti, ma
non senza condizioni; non si dovranno, però, vessare, imponendo loro la
completa osservanza della Legge mosaica (il pensiero va, in particolare,
alla circoncisione, che era il tema principale in discussione nell'assemblea
di Gerusalemme), ma soltanto un numero molto limitato di norme di pu-
rità, ricalcate su quelle imposte nell'Israele antico agli stranieri residenti, i
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 81

e;erim, che consentissero la convivenza dei credenti delle due provenienze


·nelle comunità miste. È questo il cosiddetto "decreto apostolico", inviato
alle chiese di Antiochia, Siria e Cilicia da Giacomo e dalla comunità ma-
dre di Gerusalemme, il quale comprende quattro divieti: di consumare gli
idolotiti (Lv 17,10-12.), ossia la carne offerta agli idoli nei templi pagani; di
cibarsi di sangue (Lv 17,10-12.) e della carne di animali soffocati (Lv 17,13-
16), vale a dire non macellati in modo rituale, in modo da farne fuoriuscire
completamente il sangue, considerato sede della vita; e di adottare alcuni
comportamenti sessuali tra consanguinei elencati da Lv 18,6-2.3, e qui indi-
cati con il termine greco porneia.
Paolo, nelle sue lettere, non mostra di conoscere questo decreto e que-
sta è una obiettiva discrepanza rispetto alla narrazione di At 15, dove egli
fìgura presente al discorso di Giacomo. Inoltre, in At 2.1,2.5 Giacomo parla
a Paolo, arrivato a Gerusalemme, come se quest'ultimo non sapesse nulla
del decreto. È evidente che la narrazione di At 15 pone un problema unen-
do la questione della circoncisione per i gentili con quella delle modalità
di convivenza fra gentili convertiti e Giudei nelle comunità miste. Sembra
che il cosiddetto decreto apostolico, con le sue quattro clausole, non abbia
avuto applicazione nelle comunità paoline. Paolo risolveva il problema de-
gli eventuali scrupoli di un commensale, esortando ad astenersi dal man-
giare carne immolata agli idoli per rispetto della coscienza altrui, non della
propria che era libera (1 Cor 8; 10,2.8-2.9 ).
T uctavia il decreto, che doveva caratterizzare soprattutto la missione
di quanti si richiamavano a Giacomo e alla sua cerchia, ebbe larga diffu-
sione nei primi secoli: si tenga presente che anche un fedele proveniente
dal paganesimo poteve temere i demòni che credeva infestassero le carni
immolate. Abbiamo, fra le altre, la testimonianza di Plinio il Giovane nella
lcccera indirizzata nel 112. a Traiano, il quale dice che in Bitinia (Asia Mino-
rl'.) non si riusciva più a vendere la carne immolata agli idoli prima della sua
azione repressiva contro i cristiani; la testimonianza, nella seconda metà
dd II secolo, della Lettera dei martiri di Lione (Gallia meridionale), in cui
una marcire sostiene che l'accusa rivolta ai cristiani di mangiare i bambini
è falsa, giacché essi si astengono perfino dal sangue degli animali (Eusebio,
h.e. 5,1,2.6); e ancora quella di Minucio Felice (Oct. 30,6), attivo a Roma,
clk ribadisce la stessa cosa.
Ali' inizio degli anni 50 del I secolo, quindi, il movimento di Gesù si
prl'.sema già come una realtà complessa e articolata, ali' interno della quale
\i possono distinguere due gruppi: quello dei credenti in Gesù di origine
STORIA DEL CRISTIANESIMO

giudaica e quello dei credenti in Gesù di origine gentile. Il messaggio di


Paolo produce un'accelerazione nell'emergenza delle problematiche ri-
guardanti i rapporti reciproci. Ma in ogni caso non si tratta di gruppi or-
ganizzati in modo unitario e autonomo, e numerose debbono essere state
le differenze al loro interno; tuttavia, essi si distinguono principalmente
per alcune caratteristiche, che non riguardano tanto le credenze o le dot-
trine professate, quanto piuttosto le pratiche religiose, la condotta di vita,
le autorità cui si richiamano, i rapporti con le istituzioni giudaiche.

La comunità di Gerusalemme
e i credenti in Gesù di origine giudaica

I credenti in Gesù di origine giudaica sono rappresentati, innanzitutto,


dalla comunità di Gerusalemme, guidata, almeno a partire da un certo
momento, da Giacomo, fratello di Gesù. Come si è detto, Giacomo e gli
anziani della comunità riescono a comporre il conflitto sorto ad Antiochia
sul problema dell'accoglienza dei gentili e sviluppano una propria missio-
ne con caratteristiche diverse da quella di Paolo, anche se le notizie in pro-
posito sono molto scarne. Non mancano i conflitti con le autorità giudai-
che: Pietro viene fatto arrestare dai sacerdoti perché annunciava in Gesù la
resurrezione dei morti (At 4,1-4); sempre i sacerdoti fanno incarcerare gli
apostoli (At 5,17-21); Stefano, uno dei Sette (At 6,1-6), viene lapidato (At
7,55-60); Giacomo, fratello di Giovanni, è fatto uccidere da Erode Agrippa
I (At 12,1-2).
Ma l'episodio più grave di questi conflitti con le autorità giudaiche è
rappresentato proprio dall'uccisione di Giacomo, fratello di Gesù. Il fatto
non è raccontato negli Atti degli Apostoli, ma ce ne parla lo storico ebreo
Flavio Giuseppe (Ant. /ud. 20,197-203). Secondo uno schema che ripete
quello che ritroviamo in casi analoghi raccontati negli Atti degli Apostoli,
l'autorità sacerdotale, in questo caso il sommo sacerdote Anano il Giova-
ne, approfittando di un vuoto di potere, convoca il sinedrio e fa condanna-
re alla lapidazione Giacomo, fratello di Gesù, con la generica motivazione
di avere trasgredito la Legge. Siamo nell'anno 62, quando a Gerusalemme
e nella Giudea già fervono i preparativi in vista dell'insurrezione contro
Roma, che scoppierà nel 66.
Il momento è delicato. La comunità di Gerusalemme si trova decapi-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 83

rata e il suo atteggiamento nei confronti degli altri gruppi giudaici, dopo
quanto è successo, è caratterizzato dalla diffidenza e dalla paura. Certo,
anche i seguaci di Gesù dovettero sentire la pressione di quanti li invi-
tavano a prendere posizione e a schierarsi nei propositi di rivolta contro
l'oppressore romano. Ma una notizia di Eusebio (h.e. 3,5,2.-3) ci informa
che, prima dello scoppio dell'insurrezione aperta, la comunità cristiana di
Gerusalemme abbandonò la città per trasferirsi in Perea, al di là del Gior-
dano, nella città di Pella. Sulla storicità di questa migrazione a Pella della
comunità di Gerusalemme si è molto discusso e gli studiosi sono tuttora
divisi ( Gianotto, 2.012., pp. 73-6).
A favore dell'attendibilità storica dell'abbandono della città da parte
di almeno una parte della comunità cristiana e dei suoi capi (ovviamente
non esattamente nei modi e nei tempi in cui la descrive la notizia di Euse-
bio) depongono alcune circostanze: la cresciuta insicurezza della vita della
comunità cristiana a Gerusalemme dopo la messa a morte di Giacomo; la
sua scarsa propensione a impegnarsi nella lotta armata contro l'oppressore
romano, conformemente a quello che era stato un atteggiamento di fondo
di Gesù durante il suo ministero pubblico; e soprattutto la constatazione
che la comunità cristiana sopravvisse alla guerra e alla distruzione di Ge-
rusalemme, cosa che sarebbe difficilmente pensabile se fosse rimasta nella
città. Eusebio (h.e. 4,5,1-4) ha conservato una lista di quindici vescovi di
origine giudaica che si sarebbero succeduti nella sede di Gerusalemme nel
periodo che va dalle origini fino alla rivolta di Bar Kokhba (132.-135), con-
clusasi con la vittoria di Roma.
Dopo l'editto dell'imperatore Adriano del 135, che vietava a tutti i Giu-
dei di risiedere a Gerusalemme (Schiirer, 1985, pp. 645-72.), inizia nella cit-
tà una successione di vescovi di origine gentile. Il dato importante, in ogni
caso, è che la comunità di Gerusalemme sopravvisse alla tragedia della pri-
ma insurrezione giudaica contro Roma del 66-70. Terminate le ostilità,
è verosimile che una parte della comunità sia ritornata, se non proprio a
Gerusalemme, semidistrutta, almeno nelle regioni al di qua del Giorda-
no. Un'altra parte, invece, dovette restare nella Perea, o comunque nelle
regioni della Transgiordania, come confermano numerose fonti eresiolo-
giche. Che i seguaci di Gesù fossero ancora numerosi e attivi in Giudea al
tempo della seconda insurrezione colà scatenatasi contro Roma (133-135)
è attestato da una notizia di Giustino (I Apol. 31,5), il quale riferisce che il
leader della rivolta, Simone Bar Kokhba, aveva ordinato che i cristiani fos-
sero severamente puniti se non rinnegavano la messianicità di Gesù. Della
STORIA DEL CRISTIANESIMO

severità di Bar Kokhba verso i Giudei che si rifiutavano di unirsi alla lotta
armata testimoniano le stesse sue lettere (Marrone, 2.013).
Il momento della guerra del 133-135 segnò una svolta decisiva nei rap-
porti tra i seguaci di Gesù della Palestina e gli altri Giudei: per ben due
volte i primi si erano rifiutati di schierarsi a fianco dei loro fratelli in quella
che era sentita come una causa comune nazionale contro lo straniero op-
pressore; e questo rifiuto dovette essere sempre più percepito come una
sorca di tradimento, che di fatto li assimilava al nemico. L'atteggiamen-
to dei seguaci di Gesù della Palestina durante le due insurrezioni contro
Roma produsse una lacerazione profonda, che contribuì a isolare i gruppi
dei cristiani di origine giudaica dagli altri settori del giudaismo del tempo.
Le fonti superstiti ci forniscono alcune informazioni anche sulla situa-
zione in Asia Minore. Qui le comunità giudaiche nei primi secoli della
nostra era erano numerose e piuttosto bene integrate nella vita delle po-
leis che abitavano. Tuttavia, l'istituzione del.fiscus Iudaicus sotto Vespa-
siano ( 69-79) in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e al
conseguente scioglimento del!' apparato amministrativo a esso connesso,
e in particolare il suo inasprimento sotto Domiziano (81-96), mutarono
profondamente la situazione (Heemstra, 2.010 ). Le tensioni tra le comu-
nità giudaiche della diaspora, da un lato, e l'amministrazione romana e le
aristocrazie pagane locali, dall'altro, si riacuirono e in questa situazione di
reciproca diffidenza e sospetto i Giudei si sentirono come vigilaci speciali,
ai quali era richiesto di ribadire costantemente la loro fedeltà a Roma, che
ora non era più data per sconcata come in precedenza. D'altro canto, pro-
prio nello stesso periodo si assiste a una progressiva criminalizzazione, da
parte degli intellettuali e delle autorità romane, dei cristiani, considerati
come adepti di una superstizione irragionevole e funesta (Plinio il Gio-
vane, ep. 10,96: «superstizione malvagia e sfrenata»; Tacito, An. 15,44,3:
«superstizione funesta») e potenzialmente pericolosi dal punto di vista
politico, come illustrano i provvedimenti presi contro di loro a Roma da
Nerone (64) e in Bitinia da Plinio negli anni 112.-113, sotto Traiano (cfr.
CAP. 6, p. 191).
Anche se i Romani avevano dimostrato, in più occasioni, di essere
perfettamente in grado di distinguere i cristiani dai Giudei, nella delicata
situazione che si era venuta a creare verso la fine del I secolo, i Giudei ave-
vano un crescente interesse a sottolineare la loro separazione dai cristiani,
in modo da evitare qualsiasi confusione con questi ultimi. Se nel caso dei
cristiani di origine gentile la distinzione si imponeva da sé, nel caso dei cri-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 85

stiani di origine giudaica la confusione restava possibile. È quindi del tutto


verosimile che le misure adottate dai Giudei per salvaguardare la propria
identità agli occhi delle autorità romane avessero come obiettivo soprat-
tutto i cristiani di origine giudaica.
È questa la situazione che emerge dalle lettere agli angeli delle comunità
di Smirne e di Filadelfia contenute nell'Apocalisse canonica (Hirschberg,
1999), e trova conferma nei riferimenti all'espulsione dei cristiani dalle si-
nagoghe di Gv 9,22; 12,42; 16,2. Questa situazione non necessariamente
presuppone procedure formali di espulsione dei fedeli in Gesù dalle comu-
nità giudaiche, e quindi la necessità di identificare in modo preciso queste
procedure, ad esempio attribuendo uno specifico intento anticristiano fin
da subito all'introduzione della birkat ha-minim (la benedizione/maledi-
zione contro i minim, cioè i dissidenti, che in alcune versioni contiene il
nome di no-Ferim, termine generico che indica i seguaci del Nazareno), nel-
la preghiera delle Diciotto benedizioni; piuttosto riflette il punto di vista di
quei Giudei credenti in Gesù che, in nome di un non meglio precisato le-
alismo nei confronti dei Romani, si vedono improvvisamente emarginati
dalle comunità di cui facevano parte, con le pesanti conseguenze che tutto
ciò comportava: isolamento, difficoltà nei rapporti familiari e sociali, osta-
coli nel lavoro, perdita di privilegi ecc. In particolare, la mancata iscrizione
negli elenchi dei contribuenti aljiscus Iudaicus, che verosimilmente veniva
raccolto e gestito dalle stesse comunità giudaiche, esponeva alla possibilità
di incorrere nelle misure repressive (il carcere, ad esempio) adottate dai
Romani nei confronti dei cristiani.
Le due lettere dell'Apocalisse alle comunità di Smirne e di Filadelfia
intendono portare conforto ai credenti in Gesù che sono stati allontanati
dalle comunità giudaiche di appartenenza e versano in gravi difficoltà: il
\'eggente rivendica per loro il titolo di Giudei, mentre lo nega ai Giudei
che non credono in Cristo, accusandoli di essere «sinagoga di Satana»
(Ap 2,9 ), preoccupati soltanto di compiacere i Romani, rappresentanti per
eccellenza di un paganesimo ostile e idolatra; perché è il Cristo glorioso a
possedere ora la chiave di David, capace di aprire e chiudere l'accesso alla
grande casa di Israele. Certo, le prove da superare saranno difficili, ma alla
fìne il piccolo gruppo dei credenti in Gesù trionferà, ricevendo l'omaggio
degli altri Giudei e ottenendo la meritata corona.
Verso la metà del II secolo, Giustino affronta per la prima volta, in
1nodo esplicito e diretto, il problema dei cristiani di origine giudaica e

dei loro ruolo all'interno della più vasta compagine dei seguaci di Gesù
86 STORIA DEL CRISTIANESIMO

(Pesce, 2.011, pp. 199-2.08; Gianotto, 2.012, pp. 85-9). Nel suo Dialogo con
Trifone l'autore affronta con l'interlocutore giudeo la grande questione
del significato e della portata salvifica della vicenda terrena di Gesù e il
problema, strettamente connesso, dei rapporti tra i seguaci di quest'ulti-
mo e i Giudei che non hanno aderito al suo messaggio. Una sollecitazione
del suo interlocutore spinge Giustino a pronunciarsi sulla compatibilità,
ai fini del conseguimento della salvezza, tra l'essere giudeo e il voler conti-
nuare a osservare le prescrizioni della Legge mosaica, da un lato, e il crede-
re in Gesù e obbedirgli (e quindi, osservare le prescrizioni della sua legge),
dall'altro. In ultima analisi, il problema sotteso è quello della compatibilità
tra l'osservanza della Legge mosaica e l'osservanza della legge di Cristo.
L'articolata risposta di Giustino è caratterizzata da tolleranza e fles-
sibilità. Egli distingue, all'interno della vasta compagine dei credenti in
Gesù, diversi gruppi, caratterizzati da sensibilità e atteggiamenti diver-
si. Tra i cristiani di origine gentile si profilano due posizioni differenti:
una più moderata, condivisa da Giustino stesso, che accetta di vivere in
comunione con i Giudei credenti in Gesù che continuano a osservare le
prescrizioni della Legge mosaica, e ammette la possibilità che si salvino,
purché essi non vogliano imporre anche agli altri cristiani l'osservanza di
tali prescrizioni (Dia!. 47,1); e una più radicale, che nega a questi seguaci
di Gesù la possibilità di salvarsi e rifiuta la comunione con loro, ritenen-
do che l'osservanza della Legge non sia compatibile con la fede in Gesù
Cristo (Dia!. 47,2). Una terza categoria è rappresentata da quei cristiani
provenienti dalle genti che, attratti e affascinati dal giudaismo, decidono
di osservare le prescrizioni della Legge. Pure costoro, secondo Giustino
si possono salvare; sono invece esclusi dalla salvezza quanti, passando a
condurre una vita conforme alla Legge, rinnegano il Cristo (Dia!. 47,4).
Anche tra i Giudei credenti in Gesù si fronteggiano moderati e radica-
li: i primi, pur continuando nell'osservanza delle norme rituali giudaiche,
non pretendono di imporle anche ai cristiani provenienti dalle genti e ac-
cettano la comunione con questi ultimi; i secondi, invece, più intransi-
genti, vorrebbero imporre anche ai cristiani di origine gentile l'osservanza
delle prescrizioni rituali, e quindi rifiutano la comunione con chi non si
sottometta a questa condizione, ricambiati da Giustino (Dia!. 47,3). In-
fine si fa riferimento ai Giudei che non credono nel Cristo e scagliano
anatemi contro i cristiani; per costoro, come anche per tutti quelli che
hanno rinnegato il Cristo, secondo Giustino non c'è salvezza possibile.
Purtroppo la testimonianza dell'apologista non permette di quantificare
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 87

in modo preciso il fenomeno e di stabilire la rispettiva incidenza delle op-


poste tendenze. In ogni caso, dalla sua testimonianza emerge quanto varie-
gata fosse la composizione delle comunità cristiane della Siria e Palestina
nella prima metà del II secolo e come, accanto ad ambienti attraversati da
forti tensioni, ce ne fossero altri dove i diversi gruppi potevano coesistere
pur in presenza di credenze e pratiche religiose anche molto diversificate e
intrattenere tra loro rapporti in una sorta di equilibrio autoregolato, senza
alcuna regia.
L'emergenza del fenomeno gnostico (cfr. CAP. 3, p. u6) nella seconda
metà del II secolo contribuì in modo decisivo alla messa in crisi di questo
delicato equilibrio e favorì l'aggregazione di una corrente maggioritaria,
la cosiddetta Grande Chiesa (così, con una punta di scherno, la chiamava
il pagano Celso, che nel II secolo scrisse la prima opera contro i cristiani),
che progressivamente si adoperò per marcare in modo sempre più netto
i confini di quella che stava diventando una nuova religione, il cristia-
nesimo. I rapporti tra i vari gruppi dei seguaci di Gesù, ormai diffusi in
gran parte del bacino del Mediterraneo, subiscono pertanto un profondo
mutamento verso la fine del II secolo. In questa nuova situazione, certe
credenze e pratiche, che fino a poco tempo prima erano accettate, anche
se non da tutti condivise, come espressione dell'appartenenza a un movi-
mento religioso multiforme e in continua trasformazione, incominciano
a essere guardate con sospetto e diffidenza perché divergono dalla norma
che si sta lentamente imponendo, e i gruppi che le veicolano sono bollati
come eretici, e di conseguenza vengono marginalizzati ed esclusi dalla co-
munione.
In questo contesto, che vede la Grande Chiesa difendere in modo
sempre più marcato le proprie posizioni, con la conseguente repressione
di ogni forma di dissenso attraverso meccanismi di esclusione dalla co-
munione, anche quei gruppi di seguaci di Gesù di origine giudaica, che
avevano sviluppato la loro riflessione teologica, soprattutto nell'ambito
della cristologia, all'interno di modelli tipicamente giudaici e continuava-
no, in misure diverse, difficili da precisare, a osservare le prescrizioni della
Legge mosaica, finirono per essere bollati come eretici perché divergeva-
no da quella linea di credenze e pratiche che si stava imponendo come
normativa. Nei cataloghi delle eresie essi compaiono sotto nomi differenti
(cerintiani, ebioniti, elchasaiti), che fanno riferimento a personaggi, reali
0
fittizi, presentati come fondatori delle rispettive sette.
Gli eresiologi concordano nel sottolineare come i membri di questi
88 STORIA DEL CRISTIANESIMO

gruppi continuino a osservare i precetti della Legge (circoncisione, nor-


me alimentari, sabato ecc.), conducendo uno stile di vita giudaico; il che
significa che essi dovevano essere bene integrati nelle comunità giudaiche
del tempo, delle quali facevano parte a pieno titolo. Ma, almeno stando a
quanto si può dedurre dalle confutazioni degli eresiologi, non sembra che il
motivo della loro inclusione tra gli eretici fosse il perdurare del loro stretto
legame con il giudaismo, quanto piuttosto la dottrina cristologica da loro
professata, che considerava Gesù un uomo comune, nato da un normale
rapporto tra Maria e Giuseppe, e poi eletto, "adottato" da Dio come suo
figlio per le sue particolari virtù (adozionismo). Questo modo di vedere
la figura di Gesù era considerato gravemente carente rispetto alla dottrina
dell'incarnazione del Figlio di Dio preesistente, che nel frattempo si stava
elaborando nella Grande Chiesa (cfr. CAP. 3, p. 120 ). Nonostante le notizie
eresiologiche siano spesso imprecise e non forniscano indicazioni crono-
logiche attendibili, è ragionevole pensare che questi gruppi fossero diffusi
in Palestina soprattutto nelle regioni al di là del Giordano, e poi in Siria e
nelle regioni più orientali dell'Impero romano, almeno fino al IV secolo,
quando, con la svolta costantiniana, la situazione muterà profondamente.

Il successo della missione paolina


e i credenti in Gesù di origine gentile

La situazione è diversa nei gruppi di credenti in Gesù di origine genti-


le, che progressivamente, a partire soprattutto dal successo della missio-
ne paolina, diventano maggioritari. Come si è visto, secondo gli accordi
presi durante il concilio di Gerusalemme le missioni ai gentili, sia quella
praticata dalla comunità di Antiochia e poi accolta da Paolo, sia quella
dei cristiani di origine giudaica che facevano capo alla comunità di Geru-
salemme, guidata da Giacomo, non imponevano ai convertiti provenienti
dalle genti la circoncisione, segno dell'appartenenza al popolo di Israele:
per aderire al movimento di Gesù non era dunque necessario essere o di-
ventare ebrei.
Restava, però, il problema della convivenza nelle comunità miste; pro-
blema risolto con la richiesta esplicita di osservare un minimo di norme di
purità rituale (le quattro clausole del decreto di At 15,22-29) nel caso della
missione dei cristiani di origine giudaica, e con l'invito, nel caso di Paolo,
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 89

ad adeguare i propri comportamenti alle esigenze dei fratelli più "deboli"


per evitare di scandalizzarli (1 Cor 8). Paolo comunque rimase una figu-
ra controversa, se non addirittura detestata, per molti Giudei credenti in
Gesù: ne fa fede il cosiddetto "scritto di base", risalente all'inizio del III
secolo o forse prima, contenuto nelle Pseudoclementine, romanzo del IV
secolo, conservato in due versioni diverse, greca e latina.
Non contemplando gli obblighi dell'osservanza, la missione paolina,
che è quella che noi meglio conosciamo, ottiene grandi successi e le comu-
nità di credenti in Gesù di origine gentile diventano sempre più numerose.
In questo contesto, è facile capire come i rapporti di queste comunità con
il giudaismo, in particolare con le istituzioni giudaiche, si allentino pro-
gressivamente. Certo, il patrimonio religioso condiviso con il giudaismo
resta grande: sono comuni la credenza in un Dio unico; le Scritture sacre;
i valori etici; alcune pratiche religiose, come il digiuno e l'elemosina; le
teste (le principali feste liturgiche cristiane sono adattamenti di analoghe
feste giudaiche). Ma, al tempo stesso, si assiste a una progressiva differen-
ziazione dei credenti in Gesù provenienti dalle genti rispetto al giudaismo,
e in particolare rispetto al nascente giudaismo rabbinico. Tale processo si
svolge su due piani: innanzitutto, sul piano politico amministrativo; e in
secondo luogo sul piano culturale.
Abbiamo già accennato al fatto che le autorità romane iniziarono ab-
bastanza presto a identificare i seguaci di Gesù come un gruppo a parte e a
distinguerli dai Giudei. Verosimilmente, l'appellativo stesso di "cristiani",
dato ai seguaci di Gesù per la prima volta ad Antiochia secondo At 11,26,
risale all'autorità amministrativa romana, che avrebbe coniato il termine
per indicare i partigiani e i seguaci di Gesù sul modello di termini analo-
ghi, come cesariani o pompeiani, usati per indicare rispettivamente i par-
tigiani di Cesare o Pompeo.
Ma l'elemento che contribuì in modo decisivo alla distinzione dei cri-
stiani dai Giudei fu l'istituzione deljiscus Iudaicus, che sostituiva la tassa
che tutti i Giudei pagavano al Tempio di Gerusalemme dopo la distruzio-
ne di quest'ultimo nel 70. Ovviamente, per riscuotere la tassa, i Romani
dovettero censire i Giudei, verosimilmente con la collaborazione delle si-
nagoghe sparse nelle diverse città dell'Impero. L'iscrizione alle lisce dei
contribuenti aljiscus Iudaicus permetteva, quindi, all'autorità romana, di
identificare i Giudei e di distinguerli da altri gruppi etnici e religiosi, e in
particolare dai credenti in Gesù di origine gentile, i quali rivendicavano
per sé il diritto di professare liberamente la loro fede, svincolaci dagli ob-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

blighi di fedeltà alla religione civile dell'Impero romano, senza però veder-
si riconosciuti i privilegi in ambito religioso di cui godevano i Giudei. Di
qui la storia contrastata dei rapporti fra cristiani e autorità romana, di cui
si parlerà in seguito (cfr. CAP. 6).
Un secondo fattore che contribuì a differenziare i cristiani di origine
gentile dai Giudei è di tipo culcurale. Nello svilupparsi della riflessione
teologica sui contenuti dottrinali della loro fede, i cristiani di origine gen-
tile fecero ampio ricorso agli strumenti concettuali offerti dalla tradizione
filosofica greca, in particolare quella platonica e stoica; in questo modo,
si assistette progressivamente a una sorta di transculturazione del patri-
monio dottrinale del cristianesimo nascente che, origina~iamente espresso
in categorie di pensiero semitiche, veniva ora riformulato in categorie di
pensiero greche per renderlo maggiormente fruibile da parte di persone
appartenenti a quella culcura (cfr. CAP. 6). Non che questa operazione sia
stata un'esclusiva dei cristiani di origine gentile; in effetti era stata pratica-
ta anche dai Giudei (si pensi solo al caso di Filone d'Alessandria); ma fu
decisamente rifiutata e contrastata da parte del rabbinismo nascente che,
nei primi decenni del II secolo, riprese in mano le sorti del giudaismo,
caduto in una profonda crisi in seguito alla distruzione del Tempio di Ge-
rusalemme, riformandolo e riunificandolo sotto la guida dei rabbi: è la
cosiddetta "epoca di Yavneh", una cittadina sulla costa del Mediterraneo
dove era sorta un'accademia giudaica.
In tale riformulazione del messaggio cristiano attraverso la filosofia
greca, i seguaci di Gesù di origine gentile si servirono in particolare del
metodo allegorico. Questo procedimento interpretativo permetteva, se-
condo una prassi inaugurata dagli interpreti di Omero e già sperimentata
anche dal giudeo Filone, di far dire al testo altre cose rispetto al suo senso
immediato (allegoria = dire altre cose), cogliendo significati nuovi e più
profondi sotto la lettera delle Scritture sacre che restarono per i cristiani
quelle giudaiche, anche dopo che a esse si affiancarono quelle propriamen-
te cristiane: in primo luogo il metodo allegorico consentiva di interpretare
alla luce di Cristo, come prefigurazione dei fatti della vita sua e dei suoi
seguaci, rutta la storia ebraica (cfr. CAP. 4, p. 151).
Il successo della diffusione del messaggio cristiano tra i gentili e il con-
testuale rifiuto di tale messaggio da parte della maggioranza degli ebrei,
con il conseguente progressivo allontanamento del cristianesimo nascen-
te dal giudaismo, non mancò di suscitare interrogativi e perplessità, che
trovarono risposte grazie a una approfondita riflessione e discussione sul
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 91

rema. Già Paolo si era posto il problema in modo particolarmente acco-


rato (Rm 9-11), domandandosi come mai i Giudei, il popolo eletto, non
avessero saputo accettare la messianicità di Gesù e la salvezza di cui era
portatore; e con un ragionamento un poco paradossale aveva riconosciuto
nel rifiuto opposto dai Giudei, da lui ritenuto temporaneo, una funzione
provvidenziale, che aveva permesso all'annuncio di salvezza di raggiunge-
re anche i pagani.
Questi temi rimbalzano frequentemente negli autori cristiani a partire
dalla metà del II secolo, quando Giustino scrive il suo Dialogo con Trifone.
Ci si interroga sul valore normativo della Legge mosaica, che i cristiani
non osservano più pur accettando le Scritture che la contengono; e sul
significato delle profezie, nelle quali i cristiani leggono riferimenti più o
meno espliciti alla vicenda di Gesù, ma che i Giudei non riconoscono. La
discussione è volta a dimostrare come il valore normativo della Legge mo-
saica fosse provvisorio e la sua funzione si sia esaurita con l'avvento del
messia Gesù; e come il senso cristologico delle Scritture sfugga alla com-
prensione dei Giudei per l'indurimento del loro cuore e per la loro ostinata
riluttanza a riconoscere gli inviati di Dio in mezzo a loro, come dimostra
la lunga e travagliata storia del popolo ebraico raccontata in quelle stesse
Scritture. La conclusione è che, nel progetto salvifico divino, l'antico Isra-
ele secondo la carne viene ora sostituito dai cristiani, che costituiscono il
nuovo popolo di Dio, il verus lsrael (Giustino, Dia!. 109-141). Questi sono
i remi che saranno ripetutamente ripresi e riformulati nei trattati adversus
ludaeos, una forma letteraria che conoscerà una grande fortuna nell'anti-
chità e nel medioevo. Via via in molti di questi testi e in generale nella pro-
duzione letteraria cristiana prese piede anche l'accusa più pesante, quella
di deicidio, rivolta in generale al popolo ebraico; e sarà questa accusa, in
una situazione ormai radicalmente mutata, a gravare sulla storia successiva
degli ebrei (Gardena!, 2.001).
Il modello della sostituzione è quello che si impone soprattutto negli
scritti polemici rivolti ai Giudei, che possono senz'altro riflettere gli echi
di discussioni e confronti reali, ma che documentano nello specifico un
problema peculiare dei cristiani, quello di definire la propria identità reli-
giosa, da risolvere al loro interno. Invece nei confronti del mondo pagano,
e in particolare delle autorità romane, il problema si configura in un modo
nuovo: i cristiani si presentano come tertium genus, distinti sia dai Giudei
sia dagli adepti dei culti politeistici diffusi nell'Impero romano. Le auto-
rità romane non avevano tardato molto a identificare i cristiani come un
92 STORIA DEL CRISTIANESIMO

gruppo distinto; ma cale identificazione era stata in un primo tempo di


tipo politico-sociale, e indicava una sorta di fazione o partito dei seguaci
di un capo di nome Cristo.
Invece gli autori cristiani non si limitano a riprendere e valorizzare una
distinzione che di fatto era già praticata; essi spostano l'accento sul pia-
no più squisitamente religioso. Già Paolo in 1 Cor 10,32 aveva elencato
uno accanto all'altro Giudei, Greci e la Chiesa di Dio; il Vangelo secon-
do Giovanni, nell'episodio della Samaritana (Gv 4,21-22), aveva riferito
la tripartizione a tre modi distinti di adorare Dio: quello dei Samaritani
(che per un giudeo erano assimilaci ai pagani), quello dei Giudei, e quello
degli adoratori del Padre «in spirito e verità». La prospettiva giovannea
è ripresa in uno scritto degli inizi del II secolo, la Predicazione di Pietro,
di cui Clemente di Alessandria cita alcuni passi (Strom. 6,39-42); l'autore
distingue qui tre modi diversi di adorare l'unico Dio: quello dei sapienti
greci, quello dei Giudei e infine quello dei cristiani, che rappresenta il ter-
zo "genere" di culto reso a Dio. L'apologista Aristide (Apol. 2), sempre nel
II secolo, parla, invece che di tre generi di culto, di tre generi di uomini
(quattro, nella traduzione siriaca). I cristiani, dunque, rivendicano per sé il
diritto di essere riconosciuti come un gruppo religioso autonomo, degno
di essere affiancato, con pari dignità, agli altri gruppi religiosi del mondo
antico. L'affermarsi di questa lucida consapevolezza segnerà, per i cristiani
di origine gentile, una svolta decisiva nel processo di differenziazione ri-
spetto al giudaismo e alle sue istituzioni.
Bisogna, però, ancora una volta ribadire che, pur procedendo la diffe-
renziazione, la contiguità fra cristiani e Giudei continuava a essere stret-
ta. A Roma, alla fine del II secolo, fra i clienti del cristiano Callisto (poi
vescovo di Roma), schiavo e gestore di una banca per conto del padrone,
cristiano anch'egli, c'erano i Giudei: proprio a loro Callisto si rivolge, in
una difficile congiuntura economica, per rientrare dai debiti, irrompendo
all'improvviso nella sinagoga e disturbando una funzione religiosa, per cui
i Giudei lo denunceranno alle autorità romane. Non c'è però solo ostilità,
da entrambe le parti: c'è anche la suggestione esercitata dai riti ebraici sui
cristiani. Ciò spiega come mai, ancora alla fine del IV secolo, Giovanni
Crisostomo ad Antiochia dovesse tuonare dal pulpito contro i numerosi
cristiani che volentieri frequentavano le sinagoghe della città. In generale
si segnala, con il tempo, una sorca di soggezione da parte cristiana nei con-
fronti dei Giudei, a motivo della migliore conoscenza delle Scritture da
parte di questi ultimi: Girolamo nel IV secolo intraprende l'opera di cradu-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 93

zione della Bibbia direttamente dall'ebraico in latino (chiamata in seguito


Vulgata), anche per evitare che, nel persistente contenzioso sull'interpre-
tazione delle Scritture, i Giudei si appellino al testo ebraico, sconosciuto
ai cristiani che, in Occidente, usavano la traduzione latina della Bibbia dei
Settanta, cioè della Bibbia greca (cfr. CAP. 4, p. 150 ).

La svolta costantiniana

Con l'avvento al potere dell'imperatore Costantino (306-337 ), la situa-


zione subì profondi cambiamenti. Dopo i falliti tentativi dei suoi prede-
cessori, da ultimo Diocleziano (284-305), di restaurare l'Impero in crisi
profonda, facendo leva sui valori, i culti e le usanze dell'antico passato,
Costantino, con un'intuizione geniale, cambiò radicalmente politica e of-
frì ai cristiani, la forza nuova fino ad allora considerata un ostacolo e una
minaccia, tolleranza e pace in cambio di un riconoscimento e di un appog-
gio del potere imperiale. Iniziava così quel!' alleanza politica tra Impero e
Chiesa che, pur tra equivoci e contraddizioni, sarebbe durata per tutto il
medioevo.
Con il mutamento della situazione dei cristiani anche quella dei Giu-
dei andò incontro a trasformazioni, sempre più sfavorevoli nei loro con-
fronti. Pur se non è Costantino a sancire la separazione fra le due diverse
religioni, già avvenuta nei fatti, una svolta tuttavia si coglie: è indubbio
che una serie di sue misure occasionali vanno nella direzione di assecon-
dare lo sguardo negativo che i cristiani proiettano sui Giudei (per esem-
pio, nelle disposizioni prese a Nicea sulla Pasqua cristiana si parla del
deicidio dei Giudei) e fanno scivolare il loro culto al disotto di quello
cristiano e del culto tradizionale pagano. Dal 324 in poi è distinguibile,
come attesta il Codice Teodosiano, un interesse di Costantino a legiferare
in materia di giudaismo: viene limitato il privilegio dell'esenzione dagli
incarichi onerosi nelle curie, si proibisce la lapidazione dell'ebreo apo-
stata nonché la circoncisione forzata degli schiavi: va tuttavia precisato,
a onor del vero, che in queste due disposizioni la sensibilità moderna
vede, accanto all'indubbio intento di limitare le prerogative dei Giudei,
anche l'espressione di tutele umanitarie. Le disposizioni comprendono
anche il divieto di unione di ebrei con donne non ebree. Con Costan-
tino, dunque, l'antigiudaismo cristiano è assunto all'interno dello ius
94 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Romanum e si crea una triangolazione fra Impero (Stato), Chiesa, ebrei,


in cui questi ulcimi risultano sfavoriti a seguito dell'accordo politico-
religioso fra Impero e Chiesa.
Per quanto riguarda i cristiani di origine giudaica, fino ad allora in-
clusi nelle lisce degli eretici soprattutto per la loro cristologia considerata
erronea o per lo meno carente, si assiste a un mutamento di prospettiva
negli autori del IV secolo (Gianotto, 2012., pp. 12.2.-47 ). Secondo Girolamo,
i cristiani di origine giudaica, che egli identifica con il gruppo dei nazorei o
nazareni, pur professando una cristologia perfettamente ortodossa, si tro-
vano in una situazione particolarmente scomoda, in quanto sono biasima-
ti dagli altri cristiani per il facto di continuare nelle pratiche giudaiche, e
dagli altri Giudei nella preghiera sinagogale delle Diciotto benedizioni per
il facto di credere in Gesù.
Di conseguenza, non è possibile essere cristiani e al tempo stesso conti-
nuare a condurre una vita al modo dei Giudei: a voler essere al tempo stes-
so l'uno e l'altro, si finisce per non essere né l'uno né l'altro. La costruzio-
ne dell'identità cristiana richiede una definizione precisa del patrimonio
dottrinale e delle pratiche religiose (a questo provvederanno i concili) e
una alcrettanto precisa identificazione dei suoi tratti distintivi, che lo dif-
ferenziano da altre realcà religiose; questo impone di tracciare chiare linee
di confine, che delimitino in modo univoco gli spazi e permettano precise
procedure per l'inclusione e l'esclusione dal gruppo. In questa prospetti-
va, ogni tipo di contaminazione, che mescoli realtà religiose diverse o si
collochi nell'interstizio tra l'una e I' alcra, è considerata potenzialmente
pericolosa, perché vanifica i confini e opacizza in qualche modo l'identità,
compromettendone la purezza. I cristiani di origine giudaica, che vorreb-
bero continuare a essere al tempo stesso sia ebrei sia cristiani, in questa
nuova situazione non hanno futuro: si lasceranno progressivamente assi-
milare alla forma di cristianesimo dominante, oppure saranno condannati
a un'estrema marginalità.
L'alleanza politica tra Impero e Chiesa con il passar del tempo si conso-
lida sempre di più. Nel 380, l'editto Cunctos populos di Tessalonica ( Codice
Teodosiano 16,1,2.) promulgato dall'imperatore Teodosio I fa del cristia-
nesimo, nella forma cattolica, l'unica religione dell'Impero; alcuni anni
dopo, nel 388, quando in seguito all'incendio della sinagoga giudaica di
Callinico, in Mesopotamia, appiccato da cristiani della città, guidaci dal
loro vescovo, le autorità imperiali impongono loro la ricostruzione dell'e-
dificio distrutto, Ambrogio di Milano ottiene dall'imperatore Teodosio la
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 95

revoca dell'imposizione, sancendo in questo modo la superiorità dell'au-


torità della Chiesa su quella dell'imperatore (Ambrogio, ep. 40 ); il Codice
Teodosiano (16,8,29) fissa nel 429 l'estinzione del patriarcato giudaico: il
baricentro del giudaismo si sposta verso Oriente, in Mesopotamia, fuori
dei confini dell'Impero romano. Privo di un rappresentante ufficiale che
interloquisca con l'imperatore, il giudaismo vede progressivamente dissol-
versi i suoi privilegi, di cui aveva goduto per secoli. In questo modo, il cer-
chio si chiude: nell'Impero cristiano, i Giudei saranno a poco a poco as-
similati agli eretici e come tali perseguitati e condannati (Filoramo, 2011).

Bibliografia ragionata

Ancora indispensabile per il giudaismo dell'epoca di Gesù è lo studio di E. SCHURER


( = Schiirer, 1985), Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, voi. I, Paideia,
Brescia 1985. Per il modello della "separazione delle vie", cfr. J. o. G. DUNN, The Parting
1!(the 1,V,iys Between Christianity andJudaism and their Signi.ficance far the Character
1!( Christianity, Fortress Press, London 1991. Boyarin esprime la sua diversa posizione
soprattutto in o. BOYARIN ( = Boyarin, 2.004), Border Lines: The Partition ofjudaeo-
Christianity, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2.004. Sul ruolo delfiscus
ludaicus, si veda M. HEEMSTRA ( = Heemstra, 2.010 ), The Fiscus Judaicus and the Par-
ting ofthe 1,V,iys, Mohr, Tùbingen 2.010.
Sulla rivolta di Bar Kokhba, cfr. c. MARTONE (a cura di) (=Manone 2.013), Le let-
tere di Bar Kokhba, Paideia, Brescia 2.013. Sui conflitti tra seguaci di Gesù e Giudei in
Asia Minore sullo scorcio del I secolo, si veda P. HIRSCHBERG ( = Hirschberg, 1999),
Das eschatologische Israel: Untersuchungen zum Gottesvolkverstdndnis der johannesof
ji:nharung, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1999. Sulla birkat ha-minim, si
segnala lo studio di Y. Y. TEPPLER, Birkat ha-Minim:Jews and Christians in Conjlict
in the Ancient World, Mohr, Tùbingen 2.007.
Sulla prima fase del movimento di Gesù, cfr. c. GIAN OTTO, Il movimento di Gesù
11,1 la Pasqua e la missione di Paolo, in R. Penna (a cura di), Le origini del cristianesi-
mo. Una guida, nuova ed., Carocci, Roma 2.014, pp. 165-2.00; E. NORELLI (= Norelli,
2014), La nascita del cristianesimo, il Mulino, Bologna 2.014. Sui predicatori itine-
ranti, si vedano F. VOUGA, Il cristianesimo delle origini. Scritti, protagonisti, dibattiti,
Claudiana, Torino 2.001, in part. pp. 37-43 (ed. or. 1994); M. PESCE(= Pesce, 2.011),
Da Gesu al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2.011.
Sulle testimonianze riguardanti Giacomo e il suo gruppo e la competizione per la
successione di Gesù, cfr. c. GIANOTTO ( = Gianotto, 2.013), Giacomo,ftatello di Gesu,
STORIA DEL CRISTIANESIMO

il Mulino, Bologna 2.013, pp. 18-30; E. NORELLI ( = Norelli, 2.005), La famiglia di


Gesu: introduzione metodologica sullefonti, in Atti del Seminario invernale «La fami-
glia di Gesu. "Ecco di fuori tua madre e i tuoifratelli"» {Vicenza, 30 gennaio-1°febbraio
2004), Biblia, Settimello 2.005, pp. 7-71, in part. pp. 11-6. Ancora su Giacomo, cfr. B.
CHILTON (= Chilcon, 2.001).james in Relation to Peter, Paul, and the Remembrance
ofjesus, in B. Chilton, J. Neusner (eds.), The Brother ofJesus: james the just and His
Mission, Westminster John Knox Press, London 2.001, pp. 138-60. Sulle fonti antiche
relative ai seguaci di Gesù provenienti dal giudaismo e per la discussione sulla catego-
ria del "giudeocristianesimo", si segnala c. GIAN OTTO (a cura di) ( = Gianotto, 2.012.),
Ebrei credenti in Gesu. Le testimonianze degli autori antichi, Paoline, Milano 2.012..
Sulle Pseudoclementine, cfr. L. CIRILLO, L'antipaolinismo nelle Pseudoclementine. Un
riesame della questione, in G. Filoramo, C. Gianotto (a cura di), Verus Israel. Nuove
prospettive sulgiudeocristianesimo, Paideia, Brescia 2.001, pp. 2.80-303.
Per i rapporti fra Giudei e cristiani si vedano M. SIMON, Verus lsrael. Étude sur
les relations entre chrétiens et juifs dans /'empire romain {135-425), De Boccard, Paris
1964 1 ; P. STEFANI, L'antigiudaismo. Storia di un'idea, Laterza, Roma-Bari 2.004; per
gli sviluppi nell'Impero cristiano: G. FILO RAMO ( = Filoramo, 2.011), La croce e il po-
tere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma-Bari 2.011.
Sulla letteratura antigiudaica nell'antichità e nel medioevo, cfr. G. GARDEN AL ( =
Gardenal, 2.001 ), L 'antigiudaismo nella letteratura antica e medievale, Morcelliana,
Brescia 2.001; I. AULISA, Giudei e cristiani nell'agiografia dell'alto Medioevo, Edipu-
glia, Bari 2.009.
3
Le molteplici strade del vangelo (1-11 secolo)
e il consolidamento ortodosso del 111 secolo
di Emanuela Prinzivalli e Andrés Sdez ..

Cristianesimo e cristianesimi

Da tempo la ricerca storica è consapevole del pluralismo presente nel cri-


stianesimo fin dalle sue origini. In cale prospettiva si parla volentieri di
"cristianesimi" piuttosto che di "cristianesimo". La precisazione ha una sua
ragion d'essere. Come si è visto nei primi due capitoli, quanti hanno tra-
smesso la memoria di Gesù si sono interrogaci, a partire dalla convinzione
dd suo rapporto speciale con Dio, sulle modalità di cale rapporto, nonché
sulla relazione di Gesù con la storia di Israele e sulla sua funzione salvifica
per l'uomo e anche per il mondo. Le risposte a queste domande erano
molto diverse, anche se non necessariamente tutte incompatibili.
La tragedia della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 e l'a-
desione alla fede in Gesù di un numero sempre maggiore di gentili, prima
quelli più vicini al giudaismo (proseliti e timorati di Dio), ma poi soprat-
tutto estranei a esso, furono fattori che contribuirono a diversificare e a
complicare la vita dei gruppi dei seguaci di Gesù. La convivenza tra fedeli
di origine giudaica e fedeli provenienti dal paganesimo, anche nei gruppi
che adottavano un atteggiamento di tolleranza reciproca, non era facile.
La posizione assunta da Paolo, per il quale l'unica salvezza è in Gesù Cri-
sto, essendo la Legge inefficace e superata, fu alla lunga vincente sul piano
dc.:! successo dell'evangelizzazione, perché liberava i pagani da obblighi
costrittivi che costituivano perlopiù un imbarazzo sociale, ma poteva pro-
durre un atteggiamento di sufficienza se non di disprezzo nei confronti di
chi si ostinava a credere che l'osservanza fosse parte integrante del lascito
di Gesù. Di converso, verso Paolo si coagulava l'ostilità di molti cristia-

Andrés Saez ha scritto i paragrafi Mardone del Ponto e/gruppi gnostici. li resto del capi-
tolo si deve: a Emanuela Prinzivalli.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

ni di origine giudaica (cfr. CAP. 2., p. 89 ). Inoltre, la speranza ricorrente


della ricostruzione del Tempio e le rivendicazioni dei Giudei esercitavano
una pressione forte su quanti fra loro credevano in Gesù. Un documen-
to anonimo in forma epistolare, successivamente attribuito a Barnaba, la
cosiddetta Lettera di Barnaba, getta luce su tali difficoltà. L'autore è un
missionario itinerante di Gesù: nel suo scritto non compaiono i termini
"cristiano" e "giudeo", ma tutta la lettera è un atto di accusa contro l'Israele
storico: l'autore si spinge a sostenere che l'interpretazione letterale della
Torah, con il culto nel Tempio, la circoncisione, i digiuni, è stata un tradi-
mento, istigato da un angelo malvagio, della volontà di Dio, il quale chiede
un culto spirituale e la fedeltà del cuore. Questa posizione, che comporta
l'interpretazione soltanto allegorica di tutta la precettistica ebraica, estre-
mizza sia un messaggio di tipo paolino sia il culto giudaico, che certo non
respinge l'adesione intima a Dio. Barnaba ravvisa un pericolo estremo
nell'assunzione delle pratiche giudaiche: non si conosce la provenienza
del testo, ma se, come probabile, è egiziano, la sua reazione contro le pra-
tiche cultuali giudaiche potrebbe spiegarsi con le difficoltà in Egitto a ri-
dosso della sanguinosissima rivolta dei Giudei del u5-u7. Non è un caso
che del cristianesimo egiziano non sappiamo nulla prima dell'emergere
dei maestri gnostici, il che ha portato in passato a pensare che nasca con
loro. In realtà l'evangelizzazione in Egitto dovette essere precoce, grazie a
missionari giudei. Negli Atti è ricordata la figura di Apollo, proveniente
da Alessandria d'Egitto, già seguace di Gesù quando a Efeso incontrò gli
amici di Paolo, i coniugi Priscilla e Aquila: l'evangelizzazione che aveva
ricevuto non contemplava il battesimo (in At 18,2.5 si dice che conosceva
solo il battesimo del Battista), in compenso era esperto nelle Scritture. È
facile ipotizzare che altri come Apollo in Alessandria abbiano diffuso il
messaggio evangelico ali' interno delle categorie giudaiche, che erano di-
versificate e dunque avranno prodotto esiti differenziati. Il cristianesimo
egiziano ha quindi una matrice giudaica (il Vàngelo secondo gli Ebrei, di
origine egiziana, lo prova) e il silenzio sulle prime fasi dell'evangelizzazio-
ne può spiegarsi con la catastrofe della rivolta del u5-u7, che provoca la
decimazione dei Giudei e un difficile riassetto.
Prendendo spunto dalla vicenda egiziana, bisogna rammentare che l'o-
pera dello storico del cristianesimo antico non può fermarsi alle evidenze
delle fonti rimaste, ma deve cercare di ricostruire, a volte di immaginare,
i contesti perduti, sulla base di indizi esili. Facendo ciò, non deve perdere
di vista il fatto che le pratiche cristiane e le impostazioni dottrinali sono
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 99

strettamente connesse. L' autocomprensione dei cristiani e quindi il loro


modo di vivere, di pregare, di riunirsi dipendeva da quello che pensavano
su Gesù, sulle modalità della salvezza da lui portata e sui suoi destinatari.
Non c'era solo la questione se si dovesse osservare la Legge giudaica, ma
altre entravano in gioco, pressanti e fondate su implicite, differenti, visio-
ni dell'essere umano: per esempio, nel mondo greco-romano l'idea della
superiorità ontologica dell'anima era largamente diffusa, per cui ci si chie-
deva se la salvezza e la resurrezione fossero solo per l'anima, oppure quale
fosse il valore della procreazione e dell'assetto sociale per un cristiano.

Le vie dell'evangelizzazione

A seguito della cacciata dei Sette da Gerusalemme (cfr. CAP. 2, p. 75) il


messaggio di Gesù arriva in Samaria, in Siria, e in particolare ad Antiochia
già negli anni 30 del I secolo. Anche a Roma giunse rapidamente. Certo,
l'episodio della Pentecoste a Gerusalemme narrato in At 2, con il lungo
catalogo dei Giudei «osservanti» provenienti da tutte le nazioni che assi-
stono all'evento, e la non casuale collocazione al centro di esso dei Romani
«Giudei e proseliti», ha una funzione paradigmatica nella narrazione di
Luca, che trova il suo senso ultimo nel!' ideale passaggio del vangelo da
Gerusalemme a Roma. Eppure non si va lontani dal vero a pensare che
proprio anonimi Giudei arrivati da Roma a Gerusalemme per il pellegri-
naggio annuale siano ritornati affascinati da qualche predicatore di Gesù
i.: abbiano diffuso il vangelo nell'Urbe. È un fatto che il cristianesimo a

Roma si è impiantato in una forma impregnata di cultura giudaica - come


ricorda, nel IV secolo un autore romano per noi anonimo, il cosiddetto
.·lmbrosiaster - il che vuol dire innanzitutto conoscenza della Scrittura
i.:braica. Lo conferma l'ampio uso di citazioni scritturistiche nella Lettera
ai Romani, che Paolo scrive per presentarsi a fedeli che non era stato lui
a evangelizzare e chiedere sostegno in vista del viaggio in Spagna, e nella
cosiddetta Prima Lettera di Clemente ai Corinzi, il primo documento cri-
,tiano di sicura origine romana (96 ca.).
Dalle sette lettere autentiche di Paolo (Romani, I e 2 Corinzi, Galati,
hlippesi, I Tessalonicesi, Filemone) e dagli Atti degli Apostoli abbiamo
notizie di qualche spostamento di Pietro e soprattutto dell'evangelizza-
1.ione condotta da Paolo, dopo la sua "conversione" e il sodalizio con Bar-
100 STORIA DEL CRISTIANESIMO

naba. Dapprima Paolo si muove in un'area piuttosto limitata, dal porto


di Antiochia, Seleucia, a Cipro, toccando alcune zone dell'Asia Minore
(Panfilia, Cilicia, Licaonia), sia costiere sia dell'interno, vicine al punto di
partenza. Successivamente espande il raggio d'azione, senza trascurare di
tornare a visitare i gruppi di fedeli che aveva costituito in varie città, fino
a passare in Grecia, in Macedonia e in Acaia. L'unica data sicura, il 52.,
certificata da un'iscrizione di Delfi, riguarda il primo soggiorno a Corinto,
dove incontra Priscilla e Aquila, esuli da Roma (cfr. CAP. 6, p. 188). In se-
guito si spingerà fino a Efeso, dove c'erano già alcuni credenti in Gesù (At
19,1). L'azione missionaria di Paolo, che Luca specifica in tre viaggi, sarà

interrotta dalla sua cattura a Gerusalemme, sobillata da Giudei di Asia,


forse qualcuno credente in Gesù, che lo accusano di aver profanato il Tem-
pio (At 2.1,2.8-2.9 ). Dichiaratosi cittadino romano, passa due anni in custo-
dia a Cesarea e quindi, appellatosi a Cesare, viene tradotto a Roma. Paolo
predica a Roma per due anni «con tutta franchezza e senza impedimen-
to» (At 2.8,31 ), in una casa presa in affitto (dunque gli erano vietati gli spo-
stamenti, secondo il regime della custodia militaris): non sappiamo nulla
di cerco sulla sua fine. Una tradizione romana (Prima lettera di Clemente,
frammento di Muratori, Atti di Pietro) parla di un successivo viaggio in
Spagna, il paese dove aveva progettato di andare, ma molti storici non le
danno affidamento. Si ammette invece, in ogni caso, che morì a Roma.
Oltre alle sette lettere autentiche, sono entrate a far parte del Nuovo
Testamento altre cinque che figurano scritte da Paolo: Colossesi ed Efe-
sini, e le cosiddette pastorali (due a Timoteo e una a Tito). Le prime due
sono con ogni probabilità pseudoepigrafe (cioè scritte da qualcuno che
finge di essere il personaggio menzionato come autore) e certamente lo
sono le pastorali. La pseudoepigrafia, che per la nostra mentalità è senz'al-
tro un falso, non deve stupire: gli ignoti autori non pensano di fare un'im-
postura, anzi, considerandosi discepoli di Paolo, si assumono il compito
di prolungarne l'insegnamento, adattandolo alle circostanze presenti. Ciò
avviene anche per le cosiddette lettere "cattoliche", anch'esse entrate a far
parte del Nuovo Testamento (cfr. CAP. 4, p. 146). Stabilire la vera paternità
di un'opera, ça va sans dire, è invece importantissimo per lo storico.
La Seconda lettera a Timoteo ( 1,15) ha un'espressione sconfortata: tutti
in Asia hanno abbandonato Paolo. È la riprova che la tradizione paolina
conserva il ricordo che in Asia la missione di Paolo è stata contestata e
obliterata, almeno in parte, da missioni di diverso tipo. Del resto le sette
lettere che il veggente Giovanni nell'Apocalisse invia, negli anni 90 del
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 101

r secolo, ad altrettante chiese d'Asia (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira,


Sardi, Filadelfia, Laodicea) da un lato confermano che l'evangelizzazione
dell'Asia avanzava a grandi passi (il numero sette è simbolico di totali-
tà e quindi le chiese, che le sette rappresentano, erano di più), dall'altro
contengono una precisa contestazione dei caratteri dell'evangelizzazione
paolina, libera da divieti alimentari (Ap 2.,14.2.0 ). In effetti in Asia Minore
prevarrà un tipo di evangelizzazione più legata alle tradizioni giudaiche,
nonostante che proprio in Asia, probabilmente a Efeso, si sia avuta l'idea
di raccogliere le lettere di Paolo in un corpus.
Ci siamo soffermati su Paolo perché la sua è la storia più nota in base a
frrnti attendibili, ma altri missionari avranno agito in modo simile. Certo,
non tutti hanno avuto la capacità organizzativa di Paolo, che restava in
contatto con le chiese fondate mediante l'invio di lettere e di missionari
a lui collegati, ma molti avranno viaggiato, come lui, insieme ad almeno
un compagno. Gli Atti ci attestano che la convivenza fra missionari non è
sempre facile: Paolo considera inaffidabile il parente di Barnaba Giovan-
ni Marco (At 15,38); questa notizia ha il sapore della verità anche se non
sarà stata l'unica causa per la separazione da Barnaba. Ma di solito era una
sicurezza essere almeno in due. Marito e moglie missionari, come attesta
Paolo, viaggiavano insieme.
La predicazione di Paolo, a differenza di quella di Gesù, si svolge nelle
città. Possiamo immaginare che anche altri missionari si saranno compor-
tati allo stesso modo, privilegiando i centri urbani. Fino al IV secolo il cri-
stianesimo rimase un culto sviluppato soprattutto nelle città e poco nelle
campagne. Il motivo sta nell'imponente rete viaria dell'Impero romano:
fra i percorsi principali c'era la "via del mare", che collegava Egitto e Pale-
stina passando per Antiochia di Siria, i centri dell'Asia Minore e termi-
nando al Bosforo. Da Alessandria partiva anche una via che, passando per
l'Africa romana, raggiungeva le colonne d'Ercole. Queste arterie erano
sfruttate da altri tracciati di collegamento interni. Il tutto permetteva di
muoversi agevolmente verso Oriente fino alla Mesopotamia e lungo tut-
to il Mediterraneo: commercianti e artigiani sono stati in prima fila nel
compito missionario, proprio per la loro facilità di movimento. Risulta
esemplare il caso dei summenzionati coniugi Priscilla e Aquila, fabbricanti
di tende - lo stesso mestiere di Paolo - i quali si spostano in varie città e
sono in grado ogni volta di avere una casa abbastanza grande da ospitarvi
una riunione.
La grandiosa rete di collegamenti era innanzitutto un efficace strumen-
o
t"'
' ,,

Filtppi
C;
4-"1tir.d
o
,•
' •···........ o •••• o o o

N~I
,• .•......
S.""1
···:..-:_ -:-.::-•-::.~ ,
...
{:: )~tt~i~~·· · ·
~o
\.._
.,.:~$-! --
·....·
~·r;f '-'Mto
p,,,,,_,. ~-
l ~ -
,.,

,\:• ..... ··········· ·-..........


................. ··• ...
·;;,;:..... !;Il
',, ..;
t p n , W \ l , I ~ NIii Ne,. I
',, o
oc, ~
' >
wc... la;
......
C.A!.lA
-· t:,
tr!
< l ~ s t ••:>T•Nr,,i,(Ol-117J I"'
(')
""""''
,.,.,c .4 ~
:t"1~ !;Il
-- ~ /)r) ..;
\._, . o
>
z
tr!
!;Il
Viaggi di san Paolo e presenza cristiana nei secoli I e II ( da G. Filoramo, a cura di, Storia delle religioni, voi. II: Ebraismo e cristianesi- ...~
mo, Laterza, Roma-Bari 1995). o
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 103

co bellico per i Romani. Fra gli evangelizzatori presto cominciarono a fi-


gurare i soldati, che porteranno il cristianesimo nei luoghi più remoti, fino
ai confini nordici dell'Impero: Treviri e Colonia, importanti episcopati,
erano centri di guarnigioni. Nonostante che la milizia fosse sconsigliata o
proibita da alcuni capi di Chiesa il cristianesimo si diffonde fra i soldati fra
II e III secolo: Tertulliano nel de corona narra di un soldato cristiano che
rifiuta di mettersi la corona in onore degli dèi durante una cerimonia, e per
questo viene imprigionato: il soldato è isolato nel rifiuto, ma è tutt'altro
che il solo cristiano presente; difatti, da buon rigorista, Tertulliano segnala
con disapprovazione che gli altri soldati cristiani, invece di apprezzare il
gesto del compagno, lo criticano come turbatore della pace.
Se Siria, Asia, Roma, Grecia, Egitto hanno avuto una precoce evange-
lizzazione fra I secolo e inizi del II, altre aree sono state presto raggiunte.
Panteno (metà II secolo), maestro di Clemente alessandrino, recatosi in
India, vi trovò un Vangelo di Matteo in ebraico che l'apostolo Bartolomeo
avrebbe dato ai cristiani di lì (Eusebio, h.e. 1,9 ). Sempre Eusebio, sulla scor-
ta di Origene, dice che Tommaso avrebbe avuto in sorte i Parti, Andrea la
Scizia. Gli Atti di Tommaso però assegnano a Tommaso l'India ed è proba-
bile che si creò presto una confusione fra lui e Bartolomeo. Pietro avrebbe
battuto le stesse regioni di Paolo, arrivando al Ponto e alla Cappadocia e
poi sarebbe morto a Roma (h.e. 3,3,1), una tradizione questa, presente già
dalla fine del I secolo, nella Prima lettera di Clemente. Questi sono solo
alcuni nomi che le tradizioni hanno privilegiato perché si ricollegano ai
vangeli canonici: la diffusione del cristianesimo però è avvenuta per la
maggior parte attraverso canali anonimi. Dell'evangelizzazione nelle zone
orientali si occuperà un capitolo a parte (cfr. CAP. 5).

L'organizzazione interna delle chiese

Ogni gruppo di persone, ogni movimento, fin dagli inizi, per quanto possa
essere entusiasta e spontaneo, si organizza al suo interno. I vangeli fanno
capire che Gesù con i discepoli, per spostarsi da un luogo all'altro, aveva
bisogno di qualche risorsa economica, messa a disposizione da componen-
ti del gruppo stesso, fra cui alcune donne, o da altri discepoli che, restando
nelle loro case e ai lavori abituali, potevano fornire ospitalità: insomma,
una pur spontanea essenziale organizzazione esisteva.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Dopo la morte di Gesù, il movimento proseguì in varie forme. Erano


diverse le modalità di azione dei missionari (chiamati "apostoli", cfr. CAP.
1, p. 46). Abbiamo visto come alcuni predicatori itineranti in Galilea ri-

producevano le stesse modalità del gruppo più vicino a Gesù (cfr. CAP. 2,
p. 71), mentre Paolo e altri adottavano un tipo di missione pianificata. I
missionari generalmente trovavano ospitalità e vivevano grazie al sostegno
di seguaci in loco. Paolo ci teneva a lavorare per mantenersi, ma usufruiva
anch'egli dell'ospitalità occasionale, come ripetutamente si dice negli Atti.
In tutta la prima fase dell'evangelizzazione, nei luoghi dove c'erano co-
munità giudaiche, ci si rivolgeva prima a esse e ai loro simpatizzanti. Ma
anche nel caso che molti membri aderissero al messaggio (Paolo a Corinto
riesce a convincere addirittura Crispo, il capo della locale sinagoga) non si
raggiungeva un consenso unanime e dunque le riunioni del gruppetto di
seguaci di Gesù si organizzavano fuori della sinagoga. Questo alla lunga
provoca distanziamento e separazione.
Sulle riunioni per il culto è Paolo, come al solito, a fornire notizie fon-
damentali. I suoi adepti continuavano la vita abituale nelle loro case o in
quelle dei padroni, se erano schiavi, e avevano occasioni di riunione per
la preghiera e cena con la frazione del pane, in una stanza fornita da chi
era nelle condizioni di farlo. Egli usa l'espressione «chiesa (ekklesia) che
si raduna nella casa di ... » (per esempio in I Cor 16,19), cioè chiesa dome-
stica. L'organizzazione delle riunioni in una casa (oikos) non è un'opera-
zione priva di significato: implica prendere parte e condividere i rapporti
gerarchici ali' interno del!' oikos, che non corrispondeva alla nostra attua-
le famiglia mononucleare, ma comprendeva varie generazioni di parenti,
nonché gli schiavi e i clientes, sicché quando il padrone aderisce alla fede
anche il resto del!' oikos lo segue. Ma il padrone era anche la guida spiritua-
le del gruppo che si riuniva presso di lui e che comprendeva altre persone
ospitate per il culto? In molti casi sì: chi aveva una casa abbastanza gran-
de era meglio collocato socialmente e aveva una qualche o una migliore
istruzione, quindi avrà natura/iter esercitato la leadership. Talvolta però
padroni compiacenti, senza aderire alla fede dei loro schiavi, concedevano
loro di riunirsi nella dimora padronale. Se poi c'era un personaggio dotato
di ispirazione profetica spesso prendeva il sopravvento e la sua influenza
superava certamente l'ambito ristretto di una chiesa domestica per esten-
dersi ad altri gruppi di fedeli nello stesso luogo. Una fondamentale notizia
di At 13,1, parlando in generale della ekklesia di Antiochia, dice che in essa
c'erano « profeti e maestri».
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 105

In Atti ma anche in Paolo il termine usato per indicare la riunione dei


fedeli di Gesù è ekklesia, che nel vocabolario profano significa 'raccolta',
'assemblea'. Il termine è quasi del tutto assente nei vangeli, comparen-
do solo due volte in Matteo, e ciò indica chiaramente che si riferisce ai
gruppi di seguaci che si riuniscono e interagiscono nella fase successiva
alla vita di Gesù: è un'adunanza di persone presso un luogo, non un luo-
go. Paolo parla al singolare e al plurale di «chiesa di Dio» o di chiese,
a volte si riferisce all' ekklesia in una casa (Rm 16,5) a volte all' ekklesia
di una città (1 Cor 1,2.) a volte alle ekklesiai di una regione (Gal 1,2.2.).
Al significato "sociologico" si aggiunge presto un significato dottrinale,
che avrà tutta una serie di sviluppi e si intreccerà con l'altro. Già nella
Lettera agli Efesini con ekklesia si intende un'entità che è spirituale e
addirittura preesistente (Ef 5,2.9-32.), sposa e corpo di cui Cristo è rispet-
tivamente sposo e capo.
Il significato primario di ekklesia come 'assemblea' è equivalente a quel-
lo di synagoghe (sinagoga), usato correntemente per indicare l'adunan-
za di preghiera ebraica. Anche questo secondo termine era usato, pur se
meno di frequente, per indicare il raduno dei fedeli di Gesù: lo troviamo
nella Lettera di Giacomo (2.,2.), in Ignazio di Antiochia, nella Lettera a
Policarpo (4,2.) e ancora in gruppi appartati, al tempo di Epifanio, nel IV
secolo. Entrambi i vocaboli, ekklesia e synagoghe, sono usati, oltre che nel
greco profano, nel greco dei Settanta per indicare la riunione degli Israe-
liti: possiamo ipotizzare che i Giudei fedeli di Gesù scelsero ekklesia, per
distinguersi, in quanto meno usuale, e, man mano che cresceva la distan-
za fra cristiani e Giudei, i vocaboli siano stati messi in contrapposizione,
lino a essere rappresentati iconograficamente, nelle cattedrali medievali,
mediante due figure femminili, la Chiesa sorridente e regale, mentre la
Sinagoga tiene gli occhi chiusi o è bendata, per simboleggiarne la cecità
spirituale.
Come erano organizzate le ekklesiai in una città? C'erano sicuramente
forme di raccordo fra cristiani di diversi gruppi in una stessa città, ma ci
potevano anche essere diversità dovute all'influsso di diversi evangelizza-
tori, come a Corinto, dove, oltre Paolo, operano Apollo e Pietro. L' apo-
\tolo fondatore mantiene nel tempo una certa autorità, anche se talvolta
nuovi predicatori potevano contrastarne l'influsso, come avviene a Paolo
in Galazia a opera di missionari «da parte di Giacomo» (Gal 2.,11).
Paolo scrive per mantenere rapporti e guidare le sue ekklesiai, e risponde
a quesiti che gli si pongono: anche se i quesiti potevano giungergli attra-
106 STORIA DEL CRISTIANESIMO

verso i suoi collaboratori, è evidente che questi interagivano con portavoci


dell' ekklesia, con persone che si erano assunte o erano state investite del
ruolo. Per indicare ruoli particolari all'interno delle ekklesiai Paolo non ha
termini specifici. Però in un caso (Fil 1,1) parla di episcopi (sorveglianti)
e diaconi (servitori, ministri). Lui stesso si menziona più volte, oltre che
come apostolo, come diakonos, un termine, questo, che indica la missione
propria del seguace di Cristo il quale aveva detto di sé di essere venuto a
servire (Mc 10,45). L'astratto diakoniai (servizi, ministeri) ha in Paolo una
pregnanza pari alla multiformità dei possibili ruoli specifici, da lui conce-
piti come "doni" (carismi in greco): quando parla ai fedeli di Corinto, fra
i quali si verificano fenomeni di profetismo e glossolalia, per frenare gli
entusiasmi fa una precisa gradazione dei carismi: al primo posto ci sono
gli apostoli, al secondo i profeti, al terzo i maestri, poi i vari doni spirituali,
ultimo dei quali la glossolalia. Da questo variopinto vocabolario si ricava
che ci sono funzioni diverse nelle chiese paoline, pur in assenza di una pre-
cisa strutturazione, e che, dopo gli apostoli, il massimo onore va a profeti
e maestri, il che conferma quanto gli Atti dicono per Antiochia (cfr. supra,
p. 104). Nel II secolo ci sono comunità rette solo dai profeti, come attesta
l'Ascensione di Isaia.
La Didache (fine I secolo-inizio 11), forse di area siriana, mostra una
situazione in cui ali' autorità di profeti e maestri si sta sostituendo quella
di episcopi e diaconi, che debbono essere eletti. Siamo ormai fuori dalla
prima generazione e pertanto questo scritto tende a identificare apostolo
e profeta (11,5). Si manifestano inoltre i problemi tipici nel caso di un'au-
torità carismatica. La distinzione dei veri profeti dai ciarlatani, che arriva-
no spesso da fuori e tendono a farsi mantenere dai fedeli è un problema
scottante: la Didache, se da un lato raccomanda di guardarsi dal profe-
ta che chiede soldi, d'altra parte comanda di accogliere il vero profeta a
spese del gruppo (13,1), mentre il semplice correligionario che chiedeva di
essere accolto doveva lavorare. Paolo, a suo tempo, sosteneva, con buon
realismo, che la cosa migliore era che pure l'apostolo lavorasse. Il peri-
colo del!' avidità si pone però anche per episcopi e diaconi, visto che la
Didache raccomanda di eleggere persone provate e non desiderose di ar-
ricchirsi (15,1-2). Man mano che l'organizzazione delle chiese si struttura,
nel corso dei primi tre secoli, e si stabilizzano ruoli precisi, le persone che
li ricoprono vengono mantenute dalla comunità e si accrescono i rischi
relativi.
Nelle lettere autentiche di Paolo e nella Didache non compare il ter-
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO

mine presbyteros (anziano), che avrà invece grande fortuna: a capo della
Chiesa di Gerusalemme, negli Atti degli Apostoli ci sono Giacomo e gli
anziani (presbiteri appunto). Questa sorta di collegio è in continuità con
gli usi giudaici, ma anche con l'ethos mediterraneo che identifica autori-
tà e anzianità. Gli Atti ( 14,2.3; 2.0,17) li considerano presenti anche nelle
chiese paoline: in At 2.0,2.8 si attesta che i termini presbiteri ed episcopi
sono intercambiabili. Gli Atti adottano probabilmente la terminologia
derivante da una situazione posteriore a quella delle chiese fondate da
Paolo e, dunque, non possiamo spingerci troppo a congetturare perché
Paolo (ma anche la Didache, che pure ha forte impronta giudaica) non
usi tale termine. Di certo la Prima lettera di Clemente ai Corinzi atte-
sta per Roma e per Corinto l'identificazione fra episcopi e presbiteri.
Questa fonte ci parla di un conflitto all'interno della Chiesa di Corin-
to, causato dalla rimozione di alcuni presbiteri dal loro ruolo, voluta da
gran parte della comunità. L'impostazione retorica della lettera (scritta a
nome della Chiesa di Roma) lascia nell'anonimato più assoluto i promo-
tori della rimozione, ma si capisce che costoro si consideravano più adat-
ti rispetto ai deposti. Il punto cruciale della questione ruota intorno a un
interrogativo di portata generale: i presbiteri debbono ricoprire il ruolo
vita natural durante oppure possono essere sostituiti? La Prima lettera di
Clemente ai Corinzi (44,3), schierandosi con i presbiteri deposti, sostiene
che furono gli apostoli a stabilire i presbiteri a guida delle chiese e, per
evitare contese, aggiunsero la clausola che, alla loro morte, fossero sosti-
tuiti da altri, designati, sembrerebbe, dai predecessori, con l'approvazio-
ne del!' assemblea. È evidente che l'autore, in assenza di norme stabilite,
sta cercando un modo per affermare la durata a vita del servizio presbite-
rale e sottrarlo alle contingenze del momento. Anche se la designazione
non si affermerà mai nelle chiese (se non per brevi periodi: per esempio a
opera di papa Simmaco nel 499) il tentativo più o meno aperto di appli-
carla è ricorrente.
Alla fine del I secolo era ancora viva e diffusa la convinzione, radicata
nella stessa predicazione di Gesù (cfr. CAP. 1, p. 49) che l'avvento del regno
di Dio fosse imminente e che quindi il mondo, nell'assetto attuale, fosse
destinato a terminare presto, come è detto nella Prima lettera di Clemente,
tna le necessità del quotidiano imponevano di trovare via via soluzioni e
conducevano non solo a una prassi organizzativa più precisa, ma anche a
una embrionale riflessione ecclesiologica.
Nelle prime decadi del II secolo, in alcune chiese di Asia e di Siria !'or-
108 STORIA DEL CRISTIANESIMO

ganizzazione basata sul collegio degli episcopi/presbiteri lascia il posto


all'affermazione di un episcopo al di sopra del collegio presbiterale che a
sua volta è sovraordinato ai diaconi. Si tratta di un processo lento e non
privo di contrasti, in cui gli storici tendono a dettagliare ulteriormente
le varie fasi. Così talvolta si parla di "monoepiscopato" o nel senso di un
primus inter pares o nel senso di un episkopos che ha responsabilità per più
di un gruppo di fedeli in una stessa città, e che successivamente ( useremo
da adesso in poi il termine italiano di "vescovo") acquista prerogative di
governo sempre più generali nella città e un potere decisionale più chiaro
e centralizzato, sicché i moderni parlano di "episcopato monarchico", salvo
poi a discutere sui tempi di questa centralizzazione.
La prima attestazione del passaggio allo schema verticale che vede il
vescovo a capo del collegio dei presbiteri e i diaconi in subordine si trova
nelle lettere di Ignazio di Antiochia, che muore non più tardi degli anni
20 del II secolo. Da come Ignazio insiste nel dire che tutto si faccia sotto la
presidenza del vescovo e che non ci siano riunioni separate, capiamo però
che l'autorità del vescovo unico era tutt'altro che consolidata nelle chiese
cui si rivolge. Lo stesso Policarpo, cui Ignazio indirizza una lettera come
vescovo di Smirne, nella lettera scritta ai Filippesi dopo la morte di Ignazio
dimostra che egli si sente, al massimo, un primus inter pares, giacché scrive
anche a nome dei presbiteri di Smirne. Come al tempo di Ignazio il ruolo
del vescovo unico è ancora incerto, così non è chiarita neppure l'ideologia
sottesa a tale ruolo. Infatti Ignazio (Trai/. 3,1; cfr. Magn. 6,1) giustifica il
ruolo sovraordinato del vescovo in quanto "figura" di Dio Padre, collega i
diaconi a Cristo, sulla base dell'idea di servizio, e i presbiteri agli apostoli.
Non rintracciamo ancora in lui la dottrina della successione apostolica,
che si preciserà nella seconda metà del II secolo. Si ricava invece che il ve-
scovo assume, almeno nelle intenzioni di Ignazio, le prerogative che erano
dei maestri e dei profeti.
Ma perché si passò all'episcopato monarchico? Girolamo, nel IV seco-
lo, dà una spiegazione sin troppo ovvia, ma plausibile. In un primo tempo,
secondo lui, le chiese erano dirette da un consiglio di presbiteri (abbiamo
visto che questo non è vero sempre, perché poteva esserci, per esempio,
una direzione profetica) e che successivamente, a causa delle divisioni, si
preferì porre uno solo a capo perché avesse cura di tutta la sua Chiesa (ad
Titum 1,7 ). Di certo il moltiplicarsi delle diversificazioni dottrinali e for-
se anche l'impatto di episodi persecutori ha favorito la centralizzazione
ali' interno delle singole chiese.
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 109

Le pratiche di vita

Nel giudaismo, che aveva sempre tenuto in gran conto la procreazione,


intorno all'era volgare si erano diffuse tendenze e gruppi ascetici, come
gli esseni, e a tratti una visione negativa della sessualità (si veda il Libro
dei Giubilei). Nei vangeli entrati a far parte del Nuovo Testamento non
abbiamo attestazione che Gesù predicasse la continenza o che guardas-
se ai peccati sessuali con particolare severità. Con ogni probabilità egli
però, a causa della sua scelta di vita, non aveva moglie; la lode, riportata
da Matteo (19,12.), nei confronti degli eunuchi per il regno dei cieli, che
ribalta il significato negativo di questa condizione in funzione del regno
che sta per venire, era forse un detto di ironica autodifesa verso chi muo-
veva a lui e a qualche discepolo l'accusa di non avere famiglia. Paolo pre-
dilige lo stato di continenza, contestualizzandolo nella perdita di valore
di tutte le istituzioni del mondo attuale rispetto all'evento decisivo della
salvezza in Cristo e al compimento prossimo della sua seconda venuta
(1 Cor 7,1-38). In lui si insinua però anche l'idea che il peccato sessuale
contamini in modo intimo l'essere umano, al contrario di altri peccati
(, Cor 6,13-2.0). È un fatto che il pensiero di Paolo ha alimentato preco-
cemente, anche se non ne è all'origine (che rimane discussa), il variegato
e ampio fenomeno dell'encratismo (da enkrateia, 'continenza') nel cri-
stianesimo delle origini: negli Atti di Paolo e Tecla (11 secolo), un testo
largamente diffuso, il vangelo proposto da Paolo consiste essenzialmente
nella predicazione della verginità.
L'encratismo presenta tutta una gamma di sfumature. C'era chi rite-
neva che la continenza perpetua dovesse essere la condizione dei battez-
zati: nel II secolo discussero in proposito il vescovo Pinito di Cnosso, che
la sosteneva e obbligava i fedeli coniugati alla castità, e Dionigi, vescovo
di Corinto, che la sconsigliava per indulgenza verso i più (Eusebio, h.e.
+,2.3,6-7 ), non negando dunque la superiorità della continenza. Perlopiù la
motivazione alla base della continenza veniva spostata dal terreno escato-
logico (la continenza è anticipazione dello stato futuro dei beati) a quello
protologico, con due versanti, uno ortodosso, per cui la continenza ripro-
duce lo stato dei progenitori nell'Eden, e un altro, che sarà considerato
eterodosso, per cui la continenza è il recupero di una condizione prevista
inizialmente da Dio e perduta con il peccato (Giulio Cassiano), oppure è
un mezzo per opporsi al mondo inferiore o malvagio, come sostenevano i
gruppi dualisti (cfr. infra, pp. 115-7 ).
110 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Nella Prima lettera a Timoteo (inizio II secolo) l'autore dimostra di


essere preoccupato per coloro che condannano le nozze (4,3) e afferma
che la donna si salva partorendo figli (2.,15). Probabilmente alla paura che
i cristiani mostrino al mondo circostante un comportamento antisociale,
rifiutando la procreazione, si aggiunge l'altra che le donne abbiano troppa
autonomia, se, mantenendosi vergini o essendo giovani vedove, si sottrag-
gono ai vincoli familiari. L'encratismo radicale fu emarginato dalla Gran-
de Chiesa e fu praticato dai movimenti eterodossi, ma l'apprezzamento
per la verginità, considerata superiore al matrimonio, rimase nei secoli un
caposaldo della morale cristiana, perché, sganciando l'individuo da molti
legami sociali, consentiva una vita dedita a Dio. I cosiddetti apologisti (o
apologeti), cioè i cristiani che scrissero in difesa della loro fede, in gene-
rale insistettero sulla superiore morale sessuale dei cristiani, continenza
compresa, per controbattere alle accuse di promiscuità ma anche perché
sapevano che la capacità di autocontrollo sugli istinti era apprezzata dal-
le correnti filosofiche ellenistiche. Tuttavia era sempre possibile, a causa
del rifiuto delle nozze da parte dei cristiani estremisti, esporsi ali' accusa di
asocialità ed è forse per questo timore che nel II secolo la Lettera a Dio-
gneto ( 5,6-10) parla dei cristiani come di coloro che allevano i figli, non li
espongono, obbedendo alle leggi e superandole nella pratica, mentre non
fa parola della continenza.
La superiorità assegnata alla continenza era passibile di provocare pro-
blemi non solo nei confronti del mondo esterno, ma anche all'interno
delle chiese. In un periodo in cui le guide delle chiese erano coniugate e
dovevano dare esempio di una buona conduzione familiare (cfr. 1 Tm 3,1-
13), cosa difficile in tutti i tempi, la presenza di asceti riconosciuti come
tali presentava il potenziale pericolo di una fonte di autorità alternativa:
pertanto Ignazio esorta chi vuole rimanere casto a farlo senza insuperbirsi
(Poi. 5,2.).
I testi più recenti fra quelli entrati a far parte del Nuovo Testamento
insistono sui cosiddetti "codici domestici", cioè sulle prescrizioni per le
categorie sotto tutela, donne, giovani, schiavi, con intento di disciplina-
mento. È indubbio che, rispetto alla prassi di Gesù, che appare liberato-
ria (e ha un'eco nella formulazione battesimale di Paolo in Gal 3,2.7-2.8:
«quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non
c'è giudeo né greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e fem-
mina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»), le fonti successive
mostrano da un lato un forte coinvolgimento femminile alle origini del
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO III

cristianesimo (Paolo dà a Febe il titolo di prostatis, 'protettrice'; men-


ziona Giunia come "apostolo" accanto al marito [Rm 16,1.7 ]; considera
normale la profezia femminile nelle assemblee, anche se, per evitare lo
"scandalo", impone il velo alle donne che profetizzano in I Cor 11,5.13),
dall'altro lato lasciano trapelare la resistenza a rendere visibili le donne,
mediante l'uso del maschile inclusivo, e, quando ne parlano, sottolinea-
no comunque la loro debolezza e il bisogno di protezione. Tale stereo-
tipo, in circostanze eccezionali come il martirio, si prestava peraltro a
esaltare l'eccellenza della fede cristiana che trasformava deboli creature
in eroine virili: alla base dell'esaltazione c'è sempre la scontata superio-
rità assiologica del maschile sul femminile, ribaltata solo grazie all'aiuto
di Dio, ma a volte è proprio per questa convinzione che gli autori delle
Passioni presentano figure femminili indimenticabili, come Blandina o
Perpetua (cfr. CAP. 14, p. 414).
Non possiamo esprimerci con certezza sull'eventuale ruolo di gui-
da nelle chiese svolto da donne, ma ci sono elementi sufficienti per non
negarlo in particolari circostanze, come induce a pensare il caso di Ninfa
in Col 4,15, che esercitava il ruolo di responsabile di una chiesa domesti-
ca, forse perché vedova o non sposata. La Prima lettera di Pietro (3,1-6)
raccomanda alle donne la sottomissione ai mariti in funzione missiona-
ria, per convertire il coniuge con la dolcezza; un chiaro esempio, questo,
della possibilità per la donna di prevalere attraverso l'uso intelligente dei
codici di comportamento patriarcali: Agostino, nelle Confessiones, ha
facto della madre Monica un fulgido esempio in tal senso. La diffusione
del cristianesimo si verificò in un periodo in cui nella società romana la
condizione femminile mostrava segni di emancipazione e questo avrà
consentito qualche spazio autonomo alle cristiane. Non bisogna, d'altro
canto, dimenticare che i cristiani, per farsi accettare dalla società con-
temporanea, dovevano dimostrare di avere standard etici superiori ma
non in contrasto con quelli circostanti (lo si è visto nella Lettera a Dio-
gneto): la donna cristiana, dunque, doveva possedere gli atteggiamenti
di riservatezza, pudicizia, modestia raccomandati dai moralisti pagani,
anzi superarli. Tuttavia i codici normativi non restituiscono mai la real-
c:1 vissuta, perché delineano piuttosto il dover essere e il modello ideale:
d'altro canto le raccomandazioni contenute in testi antichi e fondativi
influenzano il corso successivo della storia. Quando l'autore della Prima
lettera a Timoteo impone alla donna di tacere e di non insegnare perché
<: colpevole della trasgressione di Eva (2.,11-12), ai nostri occhi è chiaro che
II2 STORIA DEL CRISTIANESIMO

la prescrizione viene data proprio perché c'erano donne che interveniva-


no nell'assemblea e insegnavano, ma ciò non toglie che questo comando,
contenuto in un testo che diverrà canonico, ha contribuito, insieme con
altri simili, a produrre l'esclusione o la forte limitazione dai ruoli attivi
femminili nelle chiese.
Nel passo paolino di Gal 3,28, citato sopra, compare l'espressione «non
c'è schiavo né libero» con riferimento alla condizione di battezzati in Cri-
sto. Ma è lontanissimo dal pensiero di Paolo l'ipotesi di rovesciare a ri-
guardo, come nel caso delle donne, l'ordinamento della società, tanto più
che questo ordinamento è per lui del tutto provvisorio e destinato a finire
in breve tempo. Quindi egli rimanda a Filemone lo schiavo Onesimo, rac-
comandando però al padrone un diverso trattamento dello schiavo. Con
la stessa logica l'autore di I Pt 3,18-19 ordina agli schiavi di rimanere sot-
tomessi anche ai padroni prepotenti; Ignazio raccomanda ai liberi di non
disprezzare gli schiavi, e agli schiavi di non aspirare a essere liberati, il che
rivela il desiderio diffuso di essere riscattati dalla comunità (Po!. 4,3). Del
desiderio di tradurre i principi della fede in una dinamica di trasforma-
zione sociale ci sfugge purtroppo quasi tutto. Siamo più informati sulle
dinamiche di conservazione sociale. Oltre quelle già viste, merita di essere
ricordata la questione delle ricchezze. Nonostante che fra i detti di Gesù ce
ne fossero di ben chiari contro l'accumulo delle ricchezze (Mc 10,17-30; Le
6,24) l'adesione al cristianesimo di persone di elevate disponibilità econo-
miche e la necessità delle chiese di far fronte, grazie a costoro, a situazioni
interne di estrema povertà imponevano una pastorale indulgente. Carat-
teristica è l'operetta di Clemente Alessandrino ( inizio III secolo) dall 'e-
loquente titolo Qftale ricco si salva?, impegnata ad allegorizzare le parole
di Gesù sulla condanna dei ricchi, insegnando del contempo il buon uso
della ricchezza a fini caritativi.

Alla radice del conflitto teologico

La logica intrinseca alla predicazione missionaria imponeva di concen-


trarsi sulla figura di Gesù, per il fatto stesso che, annunciando il vangelo,
bisognava spiegare le ragioni dell'autorità di chi lo aveva pronunciato. La
fede nella resurrezione, di per sé, non implicava che Gesù fosse qualcosa
di diverso da un uomo eletto e confermato da Dio: così lo presenta Pietro,
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 113

dicendo agli Israeliti: «Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio[ ... ] l'a-
vete ucciso. Ora Dio lo ha resuscitato» (At 2,23-24). È la cristologia che
si suole definire "bassa" e che rimane quella di molti Giudei credenti in
Gesù (cfr. CAP. 2, p. 88). Ma già un passo della paolina Lettera ai Filippesi
(2,5-11), che forse trasmette un insegnamento anteriore, dove si dice che
Cristo Gesù «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un pri-
vilegio l'essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione
di servo», può essere interpretato nel senso dell'appartenenza di Gesù a
una dimensione primariamente divina. Il prologo del Vangelo secondo
Giovanni (1,1), identificando Gesù Cristo con il Logos «presso Dio», lo
considera senz'altro un essere preesistente, chiamandolo «dio» (la cosid-
detta "cristologia alta"), anche se il racconto della passione, oltre a tutto
lo svolgimento della narrazione, garantisce in Giovanni la realtà del suo
essere uomo.
L'insorgere della cristologia alta introduce un paradosso rispetto al
monoteismo rigoroso cui erano pervenuti gli ebrei e al quale anche i cri-
stiani aderivano. È vero che alcune figure, come il Figlio dell'uomo, erano
considerate dalle correnti giudaiche apocalittiche promanare dalla sfera
divina, è altrettanto vero che, nel contemporaneo giudaismo ellenistico,
filone (1 secolo d.C.) faceva del Logos e della Sapienza le potenze (dyna-
meis) con cui Dio opera nel mondo, ma la via imboccata progressivamente
dalla riflessione cristiana conduce a parlare di Gesù Cristo come di "dio"
in senso proprio e personale, aprendo la questione di come conciliare tale
convinzione con l'unicità di Dio e acuendo la polemica con gli ebrei. Non
i: un caso che in Giovanni la polemica con il giudaismo e l'affermazione
della divinità di Gesù vadano di pari passo: «Gesù disse loro: "Il Padre
mio agisce anche ora e anch'io agisco". Per questo i Giudei cercavano an-
cor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava
Dio suo Padre facendosi uguale a Dio» (5,17-18). Che il Vangelo secondo
C; iovanni abbia svolto un ruolo decisivo nell'affermarsi della cristologia
alta era già riconosciuto da un autore acuto come Origene, il quale affer-
ma: «nessuno ha rivelato in modo più puro di Giovanni la divinità di
Cesù» ( Comm. in Io. 1,22).
Nell'ambito di chi pensava in termini di cristologia alta si diffonde
presto la convinzione, opposta a quella sostenuta nel Vangelo secondo
Giovanni, che Gesù, in quanto essere divino, fosse uomo soltanto in appa-
rt:nza: questa dottrina viene chiamata "docetismo" (dal verbo greco dokeo:
\t:mbrare', 'apparire'). Per la verità, il docetismo è una convinzione che
114 STORIA DEL CRISTIANESIMO

attraversa trasversalmente la riflessione di gruppi legati alla cristologia alta


e quindi più lontani dal giudaismo come pure di gruppi di Giudei cre-
denti in Gesù. Ignazio la combatte con forza nelle sue lettere. Negli stessi
anni e nella stessa regione di Ignazio, la Siria, la comunità ecclesiale retta
dai profeti da cui promana l'Ascensione di Isaia sostiene precisamente una
cristologia doceta. La Prima lettera di Giovanni, che entrerà a far parte
del Nuovo Testamento, e che combatte il docetismo, chiama addirittura
«anticristi» coloro che hanno opinioni erronee su Cristo (4,2.). Questi
sono indizi chiari che, insieme con la moltiplicazione delle riflessioni su
Gesù Cristo, la preoccupazione di avere una "retta" fede in Cristo diventa
un fattore importante nella vita delle chiese, specie se (molte) guide delle
stesse si muovono in questo senso.
Fin dalla fonte per noi più antica, Paolo, che scrive negli anni 50, si ma-
nifesta la volontà di ancorare la "verità" del vangelo a una forma di trasmis-
sione sicura che la garantisca nella sua genuinità. La ricerca di una garan-
zia, potremmo dire, è antecedente alla stessa formazione di un corpus di
dottrine abbastanza consistente e probabilmente nasce proprio perché il
messaggio evangelico attecchisce su terreni culturali differenziati e, quin-
di, si presta a essere diversamente interpretato.
Quando l'evangelizzazione si propaga nel bacino del Mediterraneo, si
moltiplicano, a contatto diretto con le sfaccettature della cultura ellenistico-
romana, le tradizioni e i punti di vista e il problema si fa acuto. Il confronto
e il conflitto fra dottrine diverse, sorto precocemente, si intensifica nel II se-
colo e diventa una dinamica perenne della storia del cristianesimo, caratte-
rizzata precisamente dalla enorme produzione dottrinale: la posizione vin-
cente di volta in volta incrementa il patrimonio dottrinale di quella che più
tardi ( inizio IV secolo) verrà definita "ortodossia" (dal greco orthe doxa: 'retta
opinione'), mentre la posizione scartata è chiamata "eresia", termine che dal
primitivo significato di 'setta', 'scelta' assunse il senso negativo di 'dottrina',
'posizione non retta', secondo un processo che presenta notevoli somiglian-
ze con quanto accade, nello stesso periodo, all'interno delle diverse correnti
medioplatoniche (Boys-Stones, 2.001). Le "eresie" erano considerate dagli
antichi una deviazione diabolica dell'originaria unità di fede, e la loro origi-
ne si faceva risalire a Simon Mago ( il misterioso personaggio di At 8,9 ). Lo
storico valuta molto diversamente, riconoscendo che lo sviluppo della "teo-
logia" (letteralmente: 'discorso su Dio') nasce dall'interazione fra le diverse
posizioni e che spesso la soluzione approvata come "ortodossa" è la risposta a
stimoli e problemi individuati dapprima dagli "eretici".
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 115

Nei prossimi paragrafi presentiamo l'insorgere e il precisarsi di quelle


correnti di pensiero che saranno respinte dalla Grande Chiesa come eresie.

Marciane del Ponto

L'importanza di Marcione per la storia e la teologia del II secolo è mas-


sima. Partito dal Ponto si unisce alla comunità cristiana di Roma. Pochi
anni dopo (144) ne viene espulso (cfr. Tertulliano, adv. Mare. 1,1,6; 1,19,2.;
4,4,3). Marcione, partendo dalla riflessione di Paolo, intende la relazio-
ne fra laLegge e il vangelo in termini di forte opposizione, al punto da
dedurne l'esistenza di due dèi: il dio della Legge, il creatore, il dio giusto
di Israele contrapposto al Dio del vangelo, Padre di Gesù Cristo, il Dio
buono. Quest'ultimo non ha nulla a che vedere con il creatore e la sua
opera, ma si rivela in Gesù come novità assoluta. Il creatore stabilisce con
l'uomo una relazione da padrone a servo, segnata dalla sua giustizia ven-
dicativa, nella quale si manifestano la sua invidia, durezza e instabilità. Il
Dio ineffabile, sconosciuto, prova compassione per gli uomini e decide di
liberarli mosso esclusivamente dall'amore. Così invia suo Figlio, il quale
assume l'apparenza di un giudeo, Gesù. Marcione abbraccia una prospet-
tiva doceta, perché per lui la materia non può accogliere la salvezza: Cristo
dunque non assume una carne umana, bensì un corpo celeste capace di
operare sensibilmente. Apparve in età adulta a Cafarnao e riscattò con il
suo sangue ciò che non gli apparteneva, cioè le anime di Giudei e gentili.
I credenti abbandoneranno il loro corpo carnale e ciò che resusciterà sarà
l'anima animata dallo Spirito di Cristo e dotata di un corpo psichico.
Il punto più controverso, con conseguenze per tutto il sistema, è la rela-
zione fra i due dèi. La posizione classica sostiene, con Harnack, la loro op-
posizione radicale. Non manca chi (Orbe) ha proposto invece una relazio-
ne fra loro di tipo gnostico, in cui il dio creatore è inferiore a quello buono
e proviene da una degradazione del mondo divino, rientrando quindi in
una generale visione provvidenziale.
Marcione seppe organizzare una sua Chiesa che ebbe grande succes-
so: gruppi marcioniti continuarono a essere presenti anche molto dopo
il II secolo e furono fortemente concorrenziali con la cosiddetta Grande
Chiesa, come appare da numerose testimonianze. Ne citiamo solo una: il
Martirio di Pionio attesta che a Smirne nel carcere, in attesa del martirio,
c'era un cristiano marcionita.
116 STORIA DEL CRISTIANESIMO

I gruppi gnostici
Dal punto di vista dottrinale, forse la più grande sfida che i cristiani do-
vettero affrontare fra II e III secolo fu il dibattito interno suscitato dalle
correnti chiamate gnostiche.
Fra i moderni, infinite sono le discussioni circa la legittimità dei ter-
mini "gnostico" e "gnosticismo". Nel xx secolo lo gnosticismo fu con-
siderato per lo più un fenomeno ampio, sincretistico, precristiano, in-
fluenzato da elementi orientali, il che porta a includervi ogni sistema di
pensiero di tipo dualista. A partire dagli anni Ottanta del xx secolo si
sviluppa un'altra tendenza critica (Orbe, Pétrement, Simonetti), che in-
vita a prendere in seria considerazione i dati degli eresiologi e dei pagani
come Plotino, i quali conoscono soltanto gnostici cristiani. Lo gnostici-
smo, in questo caso, ingloberebbe fondamentalmente le correnti raggrup-
pate dagli eresiologi sotto la denominazione di "falsa gnosi". Infine, alcu-
ni studiosi, seguendo l'attuale filosofia della decostruzione, considerano
la categoria "gnosticismo" storicamente inservibile. Come per molte altre
definizioni, si può continuare a usare il termine in modo convenziona-
le, sapendo che lo gnosticismo non fu un movimento unitario, bensì si
articolò in numerose correnti, diverse per organizzazione, riti e dottrina,
le quali tuttavia hanno due caratteristiche comuni chiaramente riconosci-
bili. In primo luogo, la distinzione di due dèi, che assumono nomi diver-
si nelle diverse sette, ma che grosso modo possono essere così descritti:
il Dio superiore, ineffabile, di natura spirituale, Padre di Cristo, e il dio
inferiore, il Demiurgo, di natura psichica, creatore diretto del mondo
psichico e materiale, coincidente con il Dio delle Scritture giudaiche.
Costui serve l'economia del Dio superiore, sebbene la relazione fra i due
può assumere un carattere di maggiore o minore opposizione. In secondo
luogo, è tipica dello gnosticismo la dottrina della degradazione di un ele-
mento spirituale (questo punto distingue Marcione dagli gnostici), pro-
veniente dal mondo divino (Pleroma). Questo verrà riscattato attraverso
una lunga vicenda che dal decadimento nel mondo condurrà alla reinte-
grazione nel Pleroma sua e delle particelle divine prodottesi nel corso di
essa (salus spiritus ). Le particelle divine, configurate come uomini spiri-
tuali, vivono nell'ignoranza fino a che ricevono la gnosi, comunicata per
mezzo del Salvatore Gesù. La costituzione della parte non divina di Gesù
varia da una corrente ali' altra, però, dato che la materia è destinata alla
corruzione, il Salvatore assume solo un corpo spirituale o psichico, a voi-
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 117

te con proprietà sensibili. Gli uomini sono di diverse nature, perché non
tutti contengono in sé una particella divina, e quindi la salvezza è solo per
gli spirituali, non per tutti: una concezione, questa, sostanzialmente de-
terminista e predestinazionista degli esseri umani e della salvezza, anche
se la dottrina delle nature è stata diversamente declinata nelle varie sette
gnostiche e in qualche caso può essere stata sfumata. È comunque sulla
difesa del libero arbitrio, contro il determinismo, che gli "ortodossi" con-
centreranno gran parte delle loro critiche agli gnostici.
Gli gnostici valentiniani (dal nome dell'iniziatore, Valentino, che ope-
rò dapprima ad Alessandria, poi a Roma) sono i primi per i quali è at-
testato un sistema teologico completo, dalla riflessione sulla dimensione
intradivina fino all'escatologia, articolando i dati profetici, evangelici e
apostolici intorno ai loro assiomi. Dopo la scoperta, nel xx secolo a Nag
Hammadi in Egitto, delle fonti gnostiche in traduzione copta, si è cerca-
to di prescindere dagli eresiologi per lo studio dello gnosticismo. Senza
sottovalutare l'apporto di questo materiale, bisogna considerare che gli
eresiologi debbono comunque essere utilizzati dallo storico moderno per-
ché trasmettono citazioni testuali tratte da fonti a loro coeve; che i testi
copti sono spesso problematici perché prodotto di plurime rielaborazioni
testuali, le quali necessitano di un attento vaglio critico.

La reazione della Grande Chiesa


ai dualismi del II secolo

I movimenti di Marciane e degli gnostici lanciarono nel II secolo una sfida


senza precedenti, ali' interno del cristianesimo, perché le loro concezioni ri-
plasmavano il volto di Dio, che i cristiani avevano mutuato dal giudaismo, e
il senso di sé che gli individui avevano: di fatto però risultarono perdenti ri-
spetto alla Grande Chiesa. Il cristianesimo, nella sua corrente maggioritaria,
confermò la fede in un unico Dio di cui Gesù Cristo era figlio, inglobando
al suo interno la Scrittura ebraica reinterpretata alla luce di Cristo: ma fu
grazie alla sfida di gnostici e marcioniti, che si affianca alla polemica con i
e; iudei e spinge in senso opposto a questi, che si precisò un corpo di dottrine
0 nodosse e un canone di Scritture cristiane, in relazione e in contrapposi-

zione alle scelte dottrinali e scritturistiche di questi antagonisti.


A posteriori non riusciamo a cogliere fino in fondo i risvolti dram-
n8 STORIA DEL CRISTIANESIMO

matici del confronto: soprattutto lo gnosticismo valentiniano esercitava


un'attrattiva profonda sugli elementi intellettualmente più esigenti fra i
cristiani. La maggior parte dei presbiteri delle varie chiese non avrebbero
saputo dare risposte soddisfacenti, per esempio, sul problema dell'origine
del male nel mondo, quali quelle che davano i valentiniani, spiegandolo
miticamente come l'esito di un travaglio interno al mondo divino. I va-
lentiniani consideravano i cristiani della Grande Chiesa come "psichici",
figli del dio inferiore, il Demiurgo, che però, agendo rettamente, avreb-
bero goduto di una salvezza, sia pure a un livello inferiore di beatitudine.
Nelle chiese però albergavano anche gli spirituali da "risvegliare" per cui
i valentiniani operavano al loro interno: lo pseudo-Tertulliano dice che
Valentino per un soffio non fu messo a capo della Chiesa di Roma. In certi
frangenti la contrapposizione fra cristiani ortodossi e gnostici poteva inve-
stire le scelte supreme di vita: se i marcioniti accettavano il martirio per la
fede, onde essere liberati dal dominio del dio creatore, la svalutazione del-
la materia corporea aveva un esito opposto in alcune sette gnostiche, che
consideravano le autorità mondane al servizio di potenze divine malvagie
o comunque inferiori al Dio sommo: pertanto rinnegare la fede davanti a
esse non costituiva problema e, dunque, si sottraevano al martirio. È facile
immaginare l'effetto devastante di scelte così radicalmente differenti pres-
so cristiani che, pur appartenendo a gruppi identitari distinti, vivevano in
contesti locali ravvicinati.
Se il cristianesimo, nella parte maggioritaria, respinse il dualismo, vuol
dire che la fede in un Dio unico creatore, identificato con il Dio d'Isra-
ele - e ciò nonostante che i cristiani ormai fossero largamente estranei
al giudaismo - si era radicata in un'organizzazione cultuale ed ecclesiale
sufficientemente solida: la proposta di Marcione era troppo radicale per
convincere la maggioranza, e quella degli gnostici, forse, troppo sofisticata.
Lo strumento di cui la Grande Chiesa si servì per contrastare i movi-
menti dualistici, che facevano risalire le proprie dottrine alla rivelazione
di Gesù, fu duplice: la formazione di un canone "ortodosso" di Scritture
cristiane (su cui cfr. il CAP. 4) e l'affermazione della tradizione pubblica,
validata dalla successione dei vescovi dagli apostoli. Sappiamo che Egesip-
po (11 secolo) andava visitando le principali chiese per stabilire le liste dei
vescovi. Recatosi a Roma, stabilì la lista dei vescovi locali fino al contem-
poraneo Aniceto (157-168) (Eusebio, h.e. 4,22,2-3). Le liste ricostruiscono
la storia in maniera anacronistica. Come abbiamo visto, infatti, alle origini
le forme di organizzazione ecclesiastica si differenziavano e la maggioran-
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 119

za delle chiese era retta da un collegio presbiterale. Ma ciò non toglie che si
fossero tramandati alcuni nomi di personaggi in vista per particolari quali-
cà o forse per un'istruzione maggiore che li rendeva abili nei rapporti con
altre chiese: furono i loro nomi a confluire nelle liste, alcuni forse contem-
poranei l'uno all'altro.
Ireneo di Lione (seconda metà del II secolo), dopo Egesippo, appro-
fondisce la concezione del vescovo come successore degli apostoli, secon-
do una linea di trasmissione pubblicamente attestata: questa successione
è depositaria e garante della tradizione autentica, della retta dottrina o
regola della verità. A fronte di siffatta chiarezza di impostazione, la ter-
minologia ministeriale di Ireneo resta incerta, giacché egli usa i termini
«presbitero» ed «episcopo» per indicare la stessa funzione: «occorre
obbedire ai presbiteri che sono nella Chiesa perché essi sono i successori
degli apostoli, come abbiamo mostrato, e con la successione nell' episcopa-
to hanno ricevuto il carisma sicuro della verità secondo il beneplacito del
Padre» (adv. haer. 4,26,2).
Lo strumento della tradizione apostolica serviva a validare la dottri-
na che i rappresentanti della Grande Chiesa elaboravano: Ireneo riba-
disce costantemente l'unicità di Dio onnipotente e la sua creazione del
mondo, bello e degno del creatore, e allo stesso tempo l'unità psicofisica
dell'essere umano, ribaltando il disprezzo della materia e l'anticosmismo
gnostico e marcionita, e rafforzando ulteriormente questa presa di po-
sizione mediante il millenarismo. Si usa chiamare millenarismo o chi-
liasmo la dottrina escatologica dei cristiani (cioè riguardante gli ultimi
cempi, ta eschata in greco) più diffusa fra II e III secolo, secondo la quale
prima del giudizio finale e dell'eternità Cristo avrebbe regnato con i giu-
sti risorti per mille anni (numero presente in Ap 21) su una terra liberata
dal peccato e dal male. Questa dottrina, che sarà progressivamente ab-
bandonata (ma ne abbiamo attestazioni fino al v secolo in Occidente e
anche in Oriente almeno fino al Iv), nell'interpretazione più compiuta
di essa, data da Ireneo, consentiva di riaffermare la bontà della creazione
1nateriale, che il peccato dei progenitori aveva sfigurato per un tempo

limitato, e di dare compimento a una serie di promesse profetiche dal


sapore "materiale" che finora non erano state realizzate (si veda soprat-
tutto ls 65): in questo modo Ireneo poteva affermare anche l'unicità di
ispirazione fra Antico e Nuovo Testamento, contro i dualisti. Non avreb-
be però potuto farlo se non avesse avuto a disposizione l'altro strumento
t:ssenziale, cui sopra abbiamo accennato: la selezione e delimitazione di
12.0 STORIA DEL CRISTIANESIMO

un canone "ortodosso" di Scritture cristiane, del quale parleremo meglio


nel capitolo successivo.

Il problema dell'unità di Dio


per i cristiani fra II e III secolo

Il rapporto fra Gesù Cristo e Dio nella cristologia alta restava la questione
principale sul tappeto. Lo gnosticismo valentiniano precisava nella figura
di Sofia, l'ultima entità del Pleroma - concepito come una serie di trenta
emanazioni androgine di esseri divini (eoni) provenienti dal Dio som-
mo - l'eone che aveva rotto l'unità divina con il suo desiderio passiona-
le di conoscere il Padre, producendo così il mondo inferiore mediante il
Demiurgo. La redenzione di Sofia (anzi delle Sofie, perché Sofia genera
un suo doppio inferiore) e dei semi divini incorporaci negli gnostici viene
operata a vari livelli da una nuova emissione di eoni con funzione salvi-
fica, dai nomi diversi: Limite, Salvatore, Cristo ecc. Questo Redentore,
per così dire plurale, dilatava la suggestione della figura di Gesù Cristo
perché insisteva sul carattere cosmico della salvezza da lui procurata: die-
tro l'impostazione valentiniana, depurata dal mito, si distingue lo schema
medioplatonico di un Dio sommo trascendente e inconoscibile e di un
dio derivato da lui che si volge verso il mondo. Lo stesso schema medio-
platonico è adottato, all'incirca negli stessi anni, da Giustino (t 165 ca.)
che riafferma, secondo il modo di pensare ortodosso, l'unico Dio della
tradizione giudaica, concepito però, platonicamente, come sommo bene:
questi ha da sempre in sé il Logos (il termine usato nel prologo del Vange-
lo secondo Giovanni), che è il suo pensiero, la sua mente. Quando vuole
(prima del tempo che ha inizio con il mondo), Dio lo emette o lo genera in
funzione della creazione del mondo e degli uomini: il Logos, quindi, pri-
ma crea e poi redime il mondo con l'incarnazione. Giustino personalizza
e rende sussistente il Logos come «altro» rispetto al Padre di cui è Figlio
reale. A una mentalità, come la sua, formata alla filosofia ellenistica, non
faceva difficoltà concepire l'unità di Dio non nel senso dell'unico Dio alla
maniera giudaica ma nel senso di una monarchia in cui il Dio sommo e tra-
scendente opera attraverso un dio subordinato che deriva soltanto da lui.
Questa teologia è stata chiamata "teologia del Logos" proprio perché in-
centra la mediazione fra Dio e il mondo nella figura del Logos. In cale fase
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 12.1

dell'elaborazione teologica, e per lungo tempo, l'altro soggetto di ciò che


si preciserà in seguito come Trinità, cioè lo Spirito santo, rimane in ombra,
anche se autori come Teofilo di Antiochia o Ireneo a volte lo inseriscono
nello schema parlando del Logos e dello Spirito come "mani" di Dio.
Ireneo, rispetto a Giustino, si preoccupò maggiormente di ribadire l'u-
nità di Dio ma, in generale, la teologia del Logos si espose, come era facil-
mente prevedibile, all'accusa di negare il Dio unico, affermando due dèi.
La reazione, che chiamiamo "monarchiana", prese due direzioni: alcuni,
alla maniera adozionista (Teodoto il Cuoiaio, Teodoto il Banchiere, Ar-
cemone ), sostennero che Gesù Cristo era un mero uomo adottato da Dio,
riprendendo in maniera filosoficamente argomentata la cristologia bassa
delle origini. Altri, a partire da Noeto di Smirne e da Cleomene, sostenne-
ro che Cristo e Dio sono la stessa cosa, per cui è Dio Padre, sotto l' aspet-
to di Cristo, che ha patito sulla croce (donde il nome di "patripassiani").
Successivamente si preferì parlare di modi diversi (donde il termine "mo-
dalismo") in cui l'unico Dio svolge la sua azione nel mondo, come Padre
nella creazione, Figlio nella redenzione e Spirito santo nella santificazio-
ne: l'estensione della dottrina a comprendere lo Spirito viene attribuita a
Sabellio, che operò a Roma e fu condannato da Callisto (cfr. in.fra, p. 12.5),
ma la cosa non è affatto sicura.
Origene di Alessandria (fine II-metà III secolo), il più grande pensato-
re cristiano dell'antichità insieme ad Agostino, sembra polemizzare con-
tro quest'ultima formulazione monarchiana. La produzione letteraria di
Origene è vastissima e la sua riflessione è, rispetto ai tempi, sistematica,
spaziando da Dio al mondo all'umanità (cfr. CAP. 4, pp. 156-7 ), ma ora ci
interessa il perfezionamento cui condusse la teologia del Logos su due punti
specifici: egli supera la dottrina del doppio stadio del Logos, prima insito
nel Padre e poi generato in vista della creazione, concependo la generazione
dal Padre come eterna e continua, in quanto non c'è un momento in cui il
Padre sia senza il Figlio. Origene assicura anche l'individualità eterna del
tiglio, la sua sussistenza (la sua ipostasi, come si dice in greco), che è da sem-
pre e per sempre. Inoltre, anche se Origene, come i pensatori precedenti,
n1ene al centro di tutto la mediazione cosmica del Figlio, riesce a inserire
nello schema anche lo Spirito santo, parlando di tre ipostasi divine. L' unio-
ne fra le ipostasi non è da lui concepita in termini di sostanza (ousia), ma
come unione di amore e di volontà, che in Dio è immutabile, e dunque lo è
;in che l'unità fra le tre ipostasi. La dottrina delle tre ipostasi rimase un dato
consolidato dell'impostazione teologica alessandrina (cfr. CAP. 7, p. 2.30 ).
122 STORIA DEL CRISTIANESIMO

I cristiani di Roma e Cartagine fra II e III secolo

Abbiamo già parlato delle origini della Chiesa di Roma (cfr. supra, p. 99)
e del primo scritto sicuramente romano, la Prima Lettera di Clemente ai
Corinzi. Dai nomina gentilizi (Claudio Efebo e Valerio Bitone) di due
dei suoi latori a Corinto, deduciamo che questa Chiesa acquisisce presto
qualche membro collegato con la classe senatoria e la casa imperiale, forse,
nel caso specifico, due liberti. Ignazio di Antiochia, qualche tempo dopo,
teme che la Chiesa di Roma, cui scrive una lettera, riesca a impedirgli l'a-
gognata morte per Cristo, grazie evidentemente alle sue aderenze.
A Roma, capitale dell'Impero, la continua immigrazione portava alla
presenza di gruppi di cristiani di varia provenienza, ognuno con una pro-
pria fisionomia e con proprie sedi di riunione. A complicare la situazione,
nel corso del II secolo, maestri cristiani, ortodossi ed eterodossi, venuti da
ogni parte, vi aprirono scuole, dove si celebrava anche il culto cristiano:
così Giustino, Valentino e altri. Il prolungarsi, come ad Alessandria (cfr.
CAP. 5, p. 170 ), della conduzione collegiale dei presbiteri, attestata sicura-
mente poco prima della metà del II secolo da un fortunato scritto romano,
il Pastore di Erma, si spiega con questa disarticolazione della Chiesa. Tut-
tavia, una decisione attesta che i presbiteri avevano su un punto essenziale
una linea comune: Marcione fu respinto nel 144. Il suo insegnamento, per
quanto efficace, doveva risultare particolarmente ostico a una Chiesa in cui
i presbiteri erano eredi del forte sentimento monoteistico dal giudaismo.
Paolo, Ignazio (ma anche i presbiteri deposti di Corinto) mostrano di
avere alta considerazione di questa Chiesa, ciascuno rivolgendole richie-
ste. Ignazio, nel saluto iniziale della sua lettera ai Romani, ne parla come
di colei «che proprio nel territorio della città di Roma presiede» e dopo
varie lodi aggiunge «che all'amore presiede, nella legge di Cristo». Que-
ste espressioni sono state prese come prova che già esisteva, all'inizio del II
secolo, almeno un primato d'onore della Chiesa di Roma. Tuttavia Igna-
zio vuole dire soprattutto che la Chiesa, che si trova a vivere nella capitale
dell'Impero, agisce secondo un sistema di valori opposto: la pietra di pa-
ragone è dunque l'Impero e ciò che Roma rappresenta in esso, di cui la sua
Chiesa è agli antipodi.
Anche se Pietro e Paolo non sono stati i fondatori della Chiesa, a parti-
re da metà del II secolo, il periodo in cui si diffonde l'idea della successione
apostolica delle chiese, cominciano a essere considerati tali, in forza della
tradizione secondo cui entrambi sono stati martirizzati a Roma. Ireneo
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 12.3

di Lione, che ebbe a più riprese contatti prolungati con Roma e scrive al
cempo di Eleuterio (175-189 ), fa leva su questa doppia fondazione, oltre
che sull'antichità della Chiesa di Roma per esortare all'accordo di tutti
con essa (adv. haer. 3,3,3).
Gli studiosi, con qualche eccezione che vorrebbe spingere la conduzio-
ne collegiale fino a metà del III secolo, concordano che con Vittore (189-
199 ca.) si registra un comportamento da vescovo monarchico. L'episodio
più significativo in tal senso è la sua decisione di uniformare il calendario
pasquale a Roma, dove la comunità asiatica celebrava secondo l'uso quar-
codecimano (cioè il 14 Nisan, lo stesso giorno della Pasqua ebraica), mentre
la maggioranza celebrava la domenica successiva al plenilunio di primave-
ra. Un risvolto interessante della faccenda è che Vittore aveva chiesto alle
chiese d'Asia di riunirsi in concilio, evidentemente confidando nell'ab-
bandono della prassi quartodecimana, che invece esse confermarono, con
una lettera del loro rappresentante, il vescovo Policrate di Efeso (Eusebio,
h.e. 5,2.4,2.). Vittore allora si spinge a volerle «tagliare come se fossero ete-
rodosse», suscitando la riprovazione dello stesso Ireneo che ricorda, in
una sua lettera allo stesso Vittore, come Aniceto di Roma e Policarpo di
Smirne si fossero incontrati senza raggiungere un accordo sulla Pasqua ma
rimanendo in comunione reciproca. Non sappiamo i motivi dell'azione
di Vittore. C'era certo un problema liturgico derivante dallo sfasamento
della data, per cui alcuni festeggiavano la Pasqua mentre gli altri erano an-
cora in digiuno penitenziale, e vi era anche un risvolto teologico in quanto
la Pasqua quartodecimana era incentrata sulla passione di Cristo, mentre
quella domenicale sulla resurrezione, ma l'ostilità a una tradizione così ve-
neranda, quale quella quartodecimana, si può spiegare solo con accentuate
difficoltà interne, forse anche con la diffusione a Roma della propaganda
della Nuova Profezia, altrimenti detta montanista (dal profeta Montano),
che accoglieva la prassi quartodecimana.
Il montanismo, nato in Frigia fra il 1s1 e il 171, si diffuse rapidamente in
Asia Minore e in generale in Oriente, nonché in Africa. Fu una reviviscen-
za dell'entusiasmo profetico delle origini: di più, i montanisti credevano
nel!' effettiva discesa dello Spirito a ricolmare di sé i fedeli negli ultimi tem-
pi, i loro, in un momento storico in cui invece l'organizzazione ecclesiasti-
ca, sempre più centrata sul vescovo, tendeva a emarginare le manifestazioni
carismatiche poco controllabili. Noi siamo condizionati, in questo caso
co111e in altri riguardanti fenomeni marginalizzati dalla Grande Chiesa,
dalla presenza di fonti sfavorevoli e non possiamo misurare l'effettiva ade-
124 STORIA DEL CRISTIANESIMO

sione a un movimento che durò a lungo, ma è indubbio che il montanismo


attirava sospetti in molti (non tutti) fra quanti avevano un ruolo di respon-
sabilità nella Chiesa, per il ruolo di primo piano di due donne profetesse,
Priscilla e Massimilla, per il rigore ascetico, e l'esortazione all'autodenun-
cia come cristiani, rafforzata dalle speranze millenariste: un oracolo come
il seguente «non desiderate di morire nel vostro letto per aborto o per
febbre mortale, ma a causa del martirio, perché sia glorificato colui che ha
patito in voi (cioè Cristo)» (Tertulliano, de fuga 9,4) poteva suonare sug-
gestivo per chi aveva a quel tempo parecchie probabilità di morire di parto.
Inoltre i montanisti, valorizzando l'azione dello Spirito, consideravano
sempre aperto e passibile di essere accresciuto il novero delle Scritture cri-
stiane per le quali, proprio nella seconda metà del II secolo, si stava cercando
di determinare e delimitare un corpus (cfr. CAP. 4). A Roma il pericolo di
un canone "aperto" fu particolarmente sentito e l'avversione al montanismo
mise in crisi l'accettazione del Vangelo secondo Giovanni (già resa proble-
matica dall'uso fattone dagli gnostici) e dell'Apocalisse, contestati dal pre-
sbitero Gaio (Camplani, Prinzivalli, 1998), il quale scrisse anche un dialogo
contro il capo montanista Proclo (Eusebio, h.e. 6,20,3). Come già aveva fat-
to Vittore (lo si evince dalla lettera di Policrate), Gaio si appella all'autorità
di Pietro e Paolo (h.e. 2,25,7 ): i due apostoli "fondatori" diventano strumen-
ti per rivendicare un primato alla Chiesa di Roma. A metà III secolo si ag-
giungerà, come vedremo, un'interpretazione tutta romana di Mt 16,18.
Il vescovo di Roma più importante della prima metà del III secolo fu
Callisto (217-222), un tempo schiavo banchiere (cfr. CAP. 2, p. 92). La ro-
cambolesca vicenda della sua vita è narrata da fonte a lui avversa, l'auto-
re per noi sconosciuto dell'opera antieretica Elenchos (Confutazione), un
tempo identificato con Ippolito, un esegeta di cui abbiamo molte opere
(l'opinione oggi prevalente è che bisogna distinguere Ippolito da questo
autore romano). Callisto, dopo un periodo di prigionia nelle miniere di
Sardegna come confessore della fede, fu liberato con altri cristiani per in-
tercessione della concubina dell'imperatore Commodo, Marcia. Protetto
da Vittore, organizzò poi come diacono per il vescovo Zefirino il primo
cimitero di proprietà della Chiesa di Roma, dove ricchi e poveri sono se-
polti insieme, con formulario epigrafico uguale, che ricorda solo il nome
del defunto e nessun altro dato biografico (catacombe di San Callisto).
Diventato vescovo propone una visione ecclesiale inclusiva di ampio respi-
ro: indulgente in campo penitenziale, accomodante verso le esigenze dei
cristiani di origine altolocata, aliena da elaborazioni raffinate in teologia.
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 12.5

Il tema della penitenza era molto sentito fra i primi cristiani che in
generale ritenevano che dopo il battesimo non fosse possibile riconci-
liazione nella Chiesa per i peccati gravi (apostasia, omicidio, adulterio).
Erma un secolo prima a Roma aveva scritto il già menzionato Pastore,
un fortunato libro di visioni, allo scopo di annunciare una possibilità
eccezionale di remissione dopo il battesimo. Callisto, servendosi dell'al-
legoria dell'arca di Noè in cui convivono animali puri e impuri, riteneva
che la Chiesa non dovesse respingere i peccatori, ma indurli a peniten-
za. Si trattava di una prassi di misericordia che l'autore dell' Elenchos, il
quale aveva contrastato l'elezione di Callisto (come racconta lui stesso),
critica aspramente, al pari dell'altra decisione di permettere alle cristiane
di nobili natali di convivere more uxorio con uomini di rango inferiore
o schiavi, purché cristiani. Il problema matrimoniale era grave per le ric-
che cristiane, che per legge non potevano contrarre matrimonio, pena
la decadenza dai privilegi di rango, con uomini di classe inferiore, e che
difficilmente trovavano nella loro cerchia mariti cristiani. Naturalmente
le dame tendevano, in ragione del contesto sociale, a tenere nascosta tale
unione legittimata solo dalla Chiesa, per cui l'autore dell' Elenchos, che
certo esagera ai suoi fini, denuncia le conseguenti pratiche contraccetti-
ve e abortive. Sul piano dottrinale, come Vittore aveva condannato gli
ad azionisti, Callisto condanna Sabellio. L'autore dell 'Elenchos l'accusa
di aver comminato la condanna per nascondere il fatto che lui stesso era
eretico monarchiano. Callisto in effetti non aveva mancato di proporre
una sua soluzione teologica che voleva essere intermedia fra la teologia
del Logos (sostenuta dall'autore dell'Elenchos) e il sabellianismo, affer-
mando che il Logos e il Padre sono una cosa sola perché lo spirito (pneu-
llltl) è indiviso. In particolare lo spirito che si è fatto carne nella vergine
i: il Padre, mentre l'uomo in cui si incarna è il Figlio: il Padre dunque
com-patisce con il Figlio. Questa teologia fa forza sul termine pneuma
inteso alla maniera stoica come sostanza divina, utilizzando pure il ter-
mine Logos, anche se indubbiamente l'esito è sbilanciato più nel senso
1nonarchiano che in quello della teologia del Logos. La tendenza a sot-

tolineare soprattutto l'unità di Dio rimarrà una costante del magistero


dd!a Chiesa romana (si veda la disputa dei due Dionigi: cfr. CAP. 7, p.
:q 1 ), che tenderà a sottovalutare il monarchianesimo, mentre reagirà in
S<.:nso più severo verso l'arianesimo.
Callisto, lo abbiamo detto, aveva avuto nell'autore dell 'Elenchos un av-
V<.:rsario erudito e impegnato dottrinalmente: costui aveva sviluppato in
12.6 STORIA DEL CRISTIANESIMO

maniera organica e con dispendio di erudizione l'affermazione di Ireneo


che considerava le eresie deviazioni della filosofia greca; in un'altra opera,
Sul mondo, aveva utilizzato e rielaborato passi tratti dalle opere di Flavio
Giuseppe. La sua posizione rigorista lo relegava però in posizione minori-
taria in una Chiesa, quale quella di Roma, che si apriva sempre di più alle
molteplici esigenze di ceti differenziati, che andavano dai poveri sosten-
tati in numero ingente dalla comunità ai ricchi che permettevano con le
loro donazioni questa rete caritativa. Alcuni decenni dopo emerge a Roma
un'altra personalità di intellettuale cristiano, anch'egli in contrasto con la
linea prevalente della sua Chiesa: Novaziano.
Fine teologo, Novaziano produce con il de trinitate (ma il titolo forse
non è suo) l'ultimo testo di elevato impegno dottrinale nella Chiesa di
Roma, che non vedrà più all'opera grandi teologi fino a Leone Magno.
È scritto in latino, mentre l'autore dell'Elenchos, tradizionalista anche in
questo, scriveva ancora in greco, la prima lingua adoperata nella Chiesa
romana. Con lui assistiamo al riemergere di una linea rigorista (ma eviden-
temente questa tendenza non aveva mai cessato di essere una componen-
te della Chiesa romana). Nel 2.50, dopo il martirio del vescovo Fabiano,
che si era rifiutato di fare il sacrificio prescritto da Decio in tutte le città
(cfr. CAP. 6, p. 196), Novaziano, come portavoce dei presbiteri romani,
aveva intessuto una corrispondenza con Cipriano di Cartagine (epp. 30,
31, 36 dell'epistolario ciprianeo). Questi, a differenza di altri colleghi più
sfortunati (Babila ad Antiochia, Alessandro a Gerusalemme), era riuscito
a mettersi al riparo, continuando a guidare la Chiesa attraverso lettere,
ma in posizione resa difficile dalla sua assenza. La Chiesa di Cartagine era
antica, importante nella regione, ed era sempre stata in stretti rapporti
con Roma. Tertulliano ne era stato l'espressione letteraria più significati-
va all'inizio del III secolo: era un rigorista e un brillante polemista, che,
dopo aver aderito al montanismo, finì la sua vita in una setta tutta sua.
Era anche una mente eccelsa e, nonostante avesse finito i suoi giorni da
scismatico, fu, fino all'altro grandissimo africano, Agostino, il maestro
di generazioni dei cristiani latini che volessero avere una preparazione.
Cipriano stesso lo chiamava suo maestro. Quanto a Cipriano, era di fa-
miglia altolocata, avvocato di professione. Aveva aderito in età matura al
cristianesimo con una conversione clamorosa e subito, nel 2.49, era stato
fatto vescovo, suscitando la gelosia dei presbiteri di lunga data. Un tale
"sorpasso" nell'elezione è comprensibile considerando il significato che
il ruolo del vescovo monarchico aveva assunto e che richiedeva una vasta
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 12.7

gamma di doti: è comprensibile che si tendesse a privilegiare persone che


già nella vita civile avevano dimostrato capacità e influenza. L'anno dopo
Cipriano si trovò di fronte al doppio enorme problema costituito da un
lato dai lapsi (cioè i 'caduti'), i cristiani che, a vario livello, avevano cedu-
to per paura davanti al decreto di Decio, e dall'altro dai confessori che, in
prigione, circondati dalla venerazione degli altri cristiani, riammettevano
immediatamente nella comunione della Chiesa quanti avevano aposta-
cato, esercitando di fatto un contropotere carismatico rispetto al vesco-
vo, non senza l'appoggio di qualche presbitero che nutriva ruggine verso
Cipriano. La situazione è per noi interessante soprattutto perché mostra
come le chiese si siano trovate impreparate di fronte a una situazione di
pericolo inaspettata (situazione analoga si riscontra ad Alessandria): da
lungo tempo i cristiani, nonostante il loro culto non fosse ufficialmen-
ce accettato, vivevano tranquilli. Le lettere di Cipriano ci mostrano il
dramma che avviene nelle case dei cristiani, con il capofamiglia che di
solito cerca tutti i mezzi per scampare i suoi, agendo anche con violenza
per obbligare moglie e figli a sacrificare, oppure, quando possibile, garan-
ccndo lui per gli altri, mettendo in pericolo solo la sua anima (ep. 55,13)
mentre solo pochi si rifiutano, accettando il pericolo. A Smirne sacrifica
addirittura il vescovo. Ma il punto è che chi cade lo fa per paura e non
perché voglia abbandonare la Chiesa, donde le suppliche ai confessori di
essere perdonati e la conseguente confusione. Cipriano tiene una via me-
dia che rifiuta l'immediata riammissione, rimanda la decisione sui lapsi
a un concilio da svolgersi quando fosse tornata la calma, a parte i mori-
bondi, da riammettere subito, se pentiti. Novaziano, come testimonia lo
scambio epistolare, concorda. Ma una volta diventato vescovo Cornelio,
factosi eleggere a sua volta in contrapposizione a lui, rifiuta di ammettere
i lilpsi anche in punto di morte, rimettendo a Dio il giudizio. Emerge
una concezione della Chiesa come raccolta di santi, in opposizione alla
posizione maggioritaria, che già era stata di Callisto, di una Chiesa come
comunità inevitabilmente misca. Novaziano, fra 2.53 e 2.60, scrisse tre let-
kre-trattatelli, contro i tre caposaldi dell'osservanza giudaica, sulla vera
circoncisione, sul vero sabato, entrambe perdute, e una sui cibi. In questa,
significativamente, esorta a guardarsi dai Giudei, denunciando il fatto
che solo essi si ritengono puri: evidentemente per dei rigoristi come i no-
Vazianei l'attrazione verso le pratiche giudaiche doveva essere notevole,
111 a l'iniziativa di Novaziano conferma anche l'influsso in senso generale

dei giudaismo sul cristianesimo di Roma.


128 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Nel frattempo Cipriano, appena chiusa la persecuzione, nel 251 e nel


252 tiene due concili sul problema dei lapsi. Quelli pentiti e disposti a una
durissima penitenza potevano essere riconciliati in punto di morte. I libel-
latici, cioè quelli che avevano comprato il libellus senza sacrificare, avevano
una penitenza più mite (la logica sottesa è che non avevano contaminato
il proprio corpo). I chierici caduti dovevano essere ridotti allo stato laicale
e fare penitenza come i laici.
Cipriano fu la grande figura di riferimento del cristianesimo africano.
La sua posizione sui lapsi fu all'insegna di una meditata prudenza, pur in
un'attitudine di rigore. Rigore che si manifestò in modo più caratteristico
nella questione del battesimo degli eretici (cfr. infra, p. 130 ), così che Ci-
priano diventò successivamente la bandiera dell'intransigenza donatista
(cfr. CAP. 8, p. 269 ), pur continuando, allo stesso tempo, a essere figura di
riferimento per cattolici come Agostino.

Il consolidamento dell'organizzazione episcopale

Fra il 180 e il 260 si compie il processo di stabilizzazione organizzativa nel


cristianesimo. La maggioranza delle chiese sparse nel bacino del Mediter-
raneo è retta da un vescovo e ha una propria identità di fede, d'etica e di
culto, anche se ci sono comunità più piccole, in cui un presbitero assolve la
cura dei fedeli e ci sono i gruppi che potremmo definire dissidenti, le sette
emarginate o autoemarginatisi. La Storia ecclesiastica di Eusebio conserva
frammenti delle lettere che molti capi di chiese si scambiavano, come ab-
biamo visto sopra: il mezzo epistolare consentiva di confrontare le opinio-
ni, stabilire linee comuni ai vescovi di una regione o di aree diverse. Altro
strumento per prendere decisioni condivise e/ o risolvere conflitti erano i
concili di cui il prototipo è, come abbiamo visto nel CAP. 2, il concilio di
Gerusalemme: potevano essere assemblee dei cristiani di una città, o di
un'area più vasta. In un primo momento, specie nel caso di concili in città,
i partecipanti saranno stati indiscriminatamente i fedeli più interessanti
e i presbiteri: un'omelia di Ippolito parla dei presbiteri che si riuniscono
a Smirne, all'inizio del III secolo, per condannare Noeto (c. Noet. 1,7 ): è
interessante che non nomini il vescovo, forse per insistere sulla collegialità
della decisione.
All'inizio del III secolo, si constata l'affermarsi di una terminologia
sacerdotale in riferimento ai ruoli ecclesiastici. La prima testimonianza
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 129

in tal senso è in Tertulliano. La Lettera agli Ebrei (3-8), nel I secolo,


affermava che l'unico sacerdote è Gesù Cristo, ora si passa a parlare di
vescovo-sacerdote. Si pongono così le basi per quella che, nel decreto di
Graziano (1140 ), sarà sancita come divisione dei cristiani in duo genera,
il clero (dal greco kleros: 'eredità', 'sorte', 'ufficio') e i laici. Qualche pro-
dromo dell'incipiente mentalità già si coglie: dopo la metà del III secolo
il diacono Ponzio, scrivendo la biografia di Cipriano, si lamenta che gli
antenati «per venerazione del martirio in sé stesso, attribuirono tanto
onore a quello conseguito da laici e catecumeni» (allusione alla celebre
Passio Perpetuae et Felicitatis), mentre Cipriano avrebbe di che istruire
anche a prescindere dal martirio. Il cambio di atmosfera risulta addirit-
tura stridente se confrontiamo queste parole con quelle a suo tempo (se-
conda metà del II secolo) dette dai futuri martiri di Lione per presentare
Ireneo, che portava a Eleuterio di Roma una loro lettera: « se avessimo
pensato che è la posizione (topon) a rendere uno giusto, te lo avremmo
presentato subito come presbitero della chiesa, come di fatto egli è»
(Eusebio, h.e. 5,4,2). Certo, gli ambienti sono diversi, ma è significativo
che, a distanza di ottant'anni circa, mentre i confessori di Lione danno
la netta prevalenza alle qualità spirituali e umane di Ireneo rispetto al
presbiterato, Ponzio non assegna praticamente valore alla testimonianza
del martirio rispetto alla condizione vescovile, e dunque magisteriale, di
Cipriano. Del resto, intorno agli anni 30 del III secolo, il vescovo Deme-
trio di Alessandria se la prende coi colleghi Alessandro di Gerusalemme
e Teoctisto di Cesarea perché hanno fatto predicare Origene, ancora lai-
co. Però i due ribattono che nelle chiese i laici predicano e fanno anche
dei nomi (Eusebio, h.e. 6,19,16-17 ).
Cipriano di Cartagine completa la dottrina episcopale con la sua
competenza giuridica, precisando la natura indivisa del potere episcopa-
le: «episcopatus unus est, cuius a singuli in solidum pars tenetur» (de
unit. ecci. 5) che dovrebbe tradursi: «la dignità episcopale è una sola, cia-
\cun vescovo ne possiede una parte nell'indivisione», giacché in solidum
è gergo giuridico per indicare appunto l' indi visione nell'eredità. Egli ri-
corda casi di vescovi africani che hanno impedito il reintegro nelle loro
chiese agli adulteri pentiti, ma hanno mantenuto l'unità della Chiesa,
accertando che gli altri vescovi si comportassero diversamente (ep. 55,21).
Questa dottrina, fondamento dell'uguale dignità episcopale condivisa,
ha un potenziale di tensione con le crescenti pretese della Sede romana,
che pure Cipriano qualche volta mostra di accettare. Nello stesso torno
STORIA DEL CRISTIANESIMO

di tempo, grazie a una lettera di Firmiliano di Cesarea di Cappadocia


diretta proprio a Cipriano (ep. 75 dell'epistolario ciprianeo), veniamo a
conoscere che la Chiesa di Roma ha elaborato un'interpretazione tutta
sua di Mt 16,18, secondo la quale, essendo il vescovo di Roma successore
di Pietro, si estende a lui la parola di Cristo rivolta a Pietro nel Vangelo
di Matteo: «tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa».
Nessuna interpretazione contemporanea o anche successiva del versetto
da parte di esegeti non romani andava in questa direzione. A poco a
poco, però, i vescovi di Roma ne faranno il fondamento per la dottrina
petrinologica.
Di fatto Cipriano, pur nel rispetto di quello che sembra considerare un
primato di onore, non esitò a schierarsi, alla bisogna, contro i pronuncia-
menti romani: lo fece accogliendo il ricorso di due chiese di Spagna, che
si erano viste reintegrare dal romano Stefano due vescovi, apostati durante
la persecuzione di Decio, a lui appellatisi. Cipriano convoca un sinodo nel
2.54 confermando la deposizione dei due. La vicenda dimostra che nel III
secolo l'appello a Roma veniva sì praticato, ma la sua decisione era tutt'al-
tro che insindacabile (la parte che si considera lesa, cioè le chiese spagnole,
si appellano infatti a un diverso soggetto) e la soluzione scelta da Cipriano
per opporsi a Stefano, un sinodo invece del parere di un solo vescovo, an-
ticipa una dialettica che tornerà lungo tutto il corso della storia del cristia-
nesimo e del papato in particolare.
Più clamorosa fu la disputa che oppose di nuovo Cipriano a Stefano
nella questione del battesimo (Roma non ammetteva di ribattezzare gli
eretici, Cartagine sì): Cipriano ebbe nel sinodo del 2.56 l'appoggio com-
patto dei vescovi d'Africa e si arrivò (epp. 70 e 72.) sin quasi alla rottura con
Stefano di Roma, se non fosse sopraggiunta la morte del romano (2.57) e
l'anno dopo quella di Cipriano, per martirio, sotto Valeriano.

Bibliografia ragionata

Sui diversi cristianesimi, come buona introduzione di taglio divulgativo, si vedano


B. D. EHRMAN, I Cristianesimi perduti. Apocrifi, sette ed eretici nella battaglia per le Sacre

Scritture, Carocci, Roma 2005 (ed. or. 2003); D. GARRIBA, s. TANZARELLA (a cura
di), Giudei o cristiani? Quando nasce il cristianesimo?, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani
2005; Come è nato il cristianesimo?, numero monografico della rivista "Annali di sto·
ria dell'esegesi", 21, 2, 2004. Classico, superato per molti versi, ma imprescindibile,
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 131

ora anche in francese con introduzione di A. Le Boulluec, è il volume di w. BAUER,


Orthodoxie et hérésie aux débuts du Christianisme, Cerf, Paris 2.009 (ed. or. 1934). Sui
cesti protocattolici delle origini, che dimostrano anch'essi notevoli differenze, cfr. E.
PRINZIVALLI, M. SIMONETTI (a cura di), Seguendo Gesu, 2. voli., Fondazione Valla-
Mondadori, Milano 2.010 e 2.015.
Sulle dinamiche organizzative e di espansione al tempo delle origini cristiane, si
vedano R. STARK, Ascesa e affermazione del cristianesimo. Come un movimento oscuro
e marginale e diventato in pochi secoli la religione dominante dell'Occidente, Lindau,
Torino 2.007 (ed. or. 1996); R. M. GRANT, Cristianesimo primitivo e società, ed. it. a
cura di G. Firpo, Paideia, Brescia 1987 (ed. or. 1977 ); A. c. STEWART, The Origina! Bi-
.ihops: Office and Order in the First Christian Communities, Bacher Academic, Grand
Rapids (MI) 2.014.
Sulla condizione delle donne nel cristianesimo antico e sui modelli di comporta-
mento, cfr. c. OSIEK, M. Y. MACDONALD, Il ruolo delle donne nel cristianesimo delle
origini. Indagine sulle chiese domestiche, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2.007
(cd. or. 2.005); M. M. SCHAEFER, l¼men in Pastora! Office: The Story ofSanta Pras-
_,a/e, Oxford University Press, Oxford-New York 2.013; K. E. B0RRESEN, E. PRINZI-
VALLI (a cura di), Le donne nello sguardo degli antichi autori cristiani. L'uso dei testi
hihlici nella costruzione dei modelli femminili e la riflessione teologica dal I al VII secolo,
Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2.013.
Sull'eresia nell'antichità cristiana è ormai un classico A. LE BOULLUEC, La notion
d'héresie dans la littérature grecque. 11'-III' siecles, Tome I: De justin à Irenée. Tome
11: Clement d:Alexandrie et Origene, Écudes Augusciniennes, Paris 1985; cfr. anche la
sezione monografica a cura di E. NORELLI, Costruzioni dell'eresia nel cristianesimo
,rntico, in "Rivista di storia del cristianesimo", 6, 2.009; una stimolante messa in que-
scione del concetto di eresia nell'uso storico è lo studio di M. PESCE, La relazione tra
il wncetto di eresia e la storia del cristianesimo, in "Annali di storia dell'esegesi", 31, 1,

~014., pp. 151-68. Un valido strumento lessicografico è R. PERROTTA, Hairéseis. Grup-


fi, movimenti efazioni del giudaismo antico e del cristianesimo (da Filone Alessandrino
.i f:~~esippo), EDB, Bologna 2.008.
Su Marcione classica e imprescindibile, ora in una buona edizione francese, è l'o-
pera di A. VON HARNACK, L 'évangile du Dieu étranger. Une monographie sur l'histoire
d,, fa jòndation de l'Église catholique. Traduit par B. Lauree et suivi de contributions
dc B. Lauree, G. Monnot et E. Poulat, avec un essai de M. Tardieu, Marcion depuis
1 f,1rnack, Cerf. Paris 2.003 (ed. or. 192.4). Cfr. anche E. NORELLI, La funzione di Paolo
1Jd pensiero di Marcione, in "Rivista biblica~ 34, 1986, pp. 543-97. Sulla questione del
tcsco evangelico adoperato da Marcione (su ciò si veda infra, CAP. 4), per una sfida,
da discutere, alla convinzione che Marcione manipola il cesto evangelico, cfr. J. o.
132 STORIA DEL CRISTIANESIMO

BEDUHN, The First New Testament: Marcion's Scriptural Canon, Polebridge Press,
Salem 2013. M. VINZENT, Marcion and the Dating oJ the Synoptic Gospels, Peeters,
Leuven 2014, propone, mediante un nuovo esame delle fonti, di spiegare i sinottici
come reazione a un preesistente vangelo di Marcione. Di carattere storiografico è il
contributo di P. DE NAVASCUÉS, Marcion: de Harnack a Orbe, in "Gregorianum", 94,
2013, pp. 256-68.
Sullo gnosticismo si veda la sintesi storiografica di G. FILO RAMO, Gnosticismo, in
A. Melloni (a cura di), Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, il Mulino,
Bologna 2010, voi. II, pp. 952-64. Per approfondimenti, cfr. M. SIMONETTI (a cura
di), Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 19 9 3;
A. MAGRIS, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia 1997; CH. MARK-
SCHIES, Gnosis: An Introduction, Continuum, London 2003; G. LETTIERI, Il nous
mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni, in E.
Prinzivalli (a cura di), Il Commento a Giovanni di Origene: il testo e i suoi contesti, Paz-
zini, Villa Verucchio 2005, pp. 177-275; A. H. B. LOGAN, Gnostic Truth and Christian
Heresy, T. & T. Clark, Edimburgh 2004; ID., The Gnostics: Identifying an Early Chri-
stian Cult, T. & T. Clark, London-New York 2006; E. THOMASSEN, The Spù·itual
Seed: The Church ofthe "Valentinians", Brill, Leiden-Boston 2006.
Per le questioni teologiche trattate nel capitolo, si vedano E. PRINZIVALLI, M.
SIMONETTI, La teologia degli antichi cristiani (secoli I-v), Morcelliana, Brescia 2012;
M. SIMONETTI, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli
1994; ID., Studi sulla cristologia del II e III secolo, Istituto Patristico Augustinianum,
Roma 1993; A. ORBE, La teologia dei secoli II e III. Il confronto della Grande Chiesa con
lo gnosticismo, 2 voli., Piemme, Casale Monferrato 1995 (ed. or. 1988). Per una sintesi
sulla filosofia del periodo: G. R. BOYS-STONES ( = Boys-Stones, 2001), Post-Hellenistic
Philosophy: A Study ofIts Development.fom the Stoics to Origen, Oxford University
Press, Oxford 2001.
Sul montanismo, cfr. CH. TREVETT, Montanism, Gender, Authority and the New
Prophecy, Cambridge University Press, Cambridge 1996. Su Gaio, si veda A. CAM-
PLANI, E. PRINZIVALLI ( = Camplani, Prinzivalli, 1998), Sul significato dei nuovi.fram-
menti siriaci dei Capitula adversus Caium attribuiti a Ippolito, in "Augustinianum•: 38,
1998, pp. 62-82. Per una prima informazione su Callisto e sulla questione ippolitea,
si segnala E. PRINZIVALLI, s.v. Callisto e s.v. Ippolito, in Encidopedia dei papi, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma 2000, voi. I, pp. 237-57. Per approfondimenti, cfr. M.
SIMONETTI, Ippolito. Contro Noeto, EDB, Bologna 2000; A. MAGRIS (a cura di), 'Ip-
polito'. Confutazione di tutte le eresie, con un saggio introduttivo di E. Castelli, Mor-
celliana, Brescia 2012; E. CASTELLI, Un falso letterario sotto il nome di Flavio Giuseppe,
AschendorffVelag GmbH & Co., Mi.inster 2011.
4
La Bibbia al centro: la formazione
del canone e lo sviluppo dell'esegesi
di Andrés Sdez ed Emanuela Prinzivall/

Oralità e scrittura

Anche se, come vedremo, non si può definire il cristianesimo una religione
del libro senza fare opportune precisazioni (cfr. infra, p. 150 ), è indubbio che
b religione cristiana, come quella giudaica, ha prodotto libri sacri e lettera-
tura in proporzioni sconosciute alle religioni tradizionali del mondo medi-
terraneo, essenzialmente basate sulla corretta offìciatura dei riti. Per quanto
riguarda il giudaismo la presenza della Scrittura fa sì che in Palestina l' in-
segnamento elementare dell'ebraico si impartisse più diffusamente che nel
mondo greco-romano (ciò spiega perché non è impensabile che Gesù abbia
ricevuto un'istruzione nelle Scritture), così come i Giudei della diaspora ap-
prendevano bene il greco per leggere la Scrittura tradotta in questa lingua.
Con la diffusione del cristianesimo nel bacino del Mediterraneo le cose
andarono diversamente: il tasso di alfabetizzazione dei cristiani non supe-
rava quello medio del mondo greco-romano, calcolato intorno al IO%, e
l'educazione scolastica era limitata in ragione della classe sociale; tuttavia
la consapevolezza dell'importanza delle Scritture è un fattore che incide
rnl modo stesso di vivere la fede cristiana. Come è stato ben detto (Gam-
ble, 2006, p. 26) non c'è contraddizione nel mondo antico fra dire che il
cristianesimo attribuiva molto valore ai testi e affermare che la stragrande
1naggioranza dei cristiani fu analfabeta. In una società orale si accedeva al

testo scritto in modi diversi e i cristiani avevano la catechesi, le omelie, il


,emplice passaparola: anche quando i vangeli furono scritti, le parole di
( ;esù continuavano a essere trasmesse oralmente, e prima che i vangeli fos-
'tro composti probabilmente c'era chi componeva e raccoglieva materiale

hnanuela Prinzivalli ha scritto il paragrafo Grafita e scrittura. Il resto del capitolo si


ad Andrés Saez.
dl'\'t:
134 STORIA DEL CRISTIANESIMO

scritto riguardante Gesù, senza opposizione fra oralità e scrittura. Matteo


e Luca hanno a disposizione una fonte scritta (la fonte Q: cfr. CAP. 1, p. 34)
che raccoglieva, senza cornice narrativa, i detti di Gesù; i vangeli canonici
portano a supporto di episodi della sua vita brani biblici (i Testimonia):
tutto ciò conferma un rapporto costante con lo scritto anche per i seguaci
di Gesù, fin dagli inizi.
Probabilmente qualcosa fu fissata per iscritto già in aramaico, la lingua
corrente in Palestina, ma la scelta obbligata e vincente per la diffusione
del messaggio fu l'uso del greco, sicché conosciamo per le origini cristiane
solo testi in greco, a partire da quello più antico, la Prima lettera ai Tessa-
lonicesi di Paolo. Una certa conoscenza del greco, del resto, si aveva anche
in Palestina. Per scrivere si usava di solito un segretario al quale si dettava,
controllando poi lo scritto. Così fa Paolo, che a volte aggiunge una frase
o la firma: «vedete con che grossi caratteri vi scrivo, di mia mano» (Gal
6,11; ma cfr. anche I Cor 16, 2.1; Rm 16,2.2.).
Nell'antichità greco-romana il materiale più usato per il libro era il pa-
piro; la pergamena comincia ad affermarsi nel IV secolo. La forma del libro
era il rocolo. Il termine plurale biblia (in italiano: Bibbia) altro non signi-
fica in origine che 'rocoli' (biblos o biblion in greco). Quando tre uomini
e tre donne di Scili, villaggio dell'Africa del Nord, si presentano davanti
al proconsole Saturnino, a Cartagine, per essere giudicati come cristiani,
portano con loro una capsa, il classico contenitore cilindrico dei rocoli,
dichiarando che sono libri et epistulae Pauli viri iusti ( «libri e le lettere di
Paolo, un uomo giusto»). Siamo nel 180. Però già dal II secolo i cristiani
mostrano di preferire, ben prima del mondo circostante, la forma del co-
dice, cioè del libro a fogli. Questo non era sconosciuto in precedenza, ma
veniva considerato piuttosto un taccuino ed era in origine l'unione di po-
che tavolette sottili di legno su cui si passava la cera per scrivere con lo stilo.
Ci si interroga sui motivi della scelta cristiana a favore del codice: abban-
donata la teoria che fosse per motivi economici, dubbia la motivazione ba-
sata sulla comodità, che si manifesta successivamente per i vari accorgimenti
introdotti - come una potenziale maggior capienza del codice rispetto al
rotolo o la maggiore facilità dei rinvii - si pensa che all'origine dell'uso pre-
ferenziale dei cristiani ci sia stata l'autorità di un testo che fu trasmesso pro-
prio su codice. Gamble (2.006, p. 96) ritiene che possa essere stata trascrit-
ta in un codice una collezione di lettere di Paolo, per le quali il potenziale
vantaggio del codice diventava effettivo, in quanto difficilmente un numero
elevato di lettere si sarebbe potuto trascrivere in un unico rocolo. L'esempio
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 135

sopra riportato degli Scilitani conferma l'importanza degli scritti per i cri-
sci ani, se in un piccolo centro come Scili ci si preoccupava di averne alcuni.
Quando studiamo i testi biblici dobbiamo tenere presence che fra il
periodo in cui furono composti e le prime testimonianze manoscritte a
noi giunte passa un considerevole lasso di tempo. Il termine «Logos» del
prologo di Giovanni, per esempio, non è ripetuto in nessun altro punto
dello stesso vangelo: viene facile l'ipotesi che possa essere stato aggiunto
al testo in un secondo momento (ma quale?). Quello che per noi è l'ulti-
mo capitolo di Giovanni, il 21, è chiaramente un'aggiunta alla preceden-
te chiusa (Gv 20,31), ma essa è presence in tutti i manoscritti conosciuti.
L'episodio dell'adultera perdonata (Gv 8,1-11) non si trova nei migliori e
più antichi manoscritti e altri lo inseriscono dopo Le 21,38: in questo caso
siamo dunque sicuri che non faceva parte della redazione più antica. Del
resto il famoso P. Rylands III.457, databile incorno al 125, il più antico te-
stimone di Giovanni, è solo un frammento di codice papiraceo di elegante
scrittura che contiene pochi versetti (Gv 18,31-33.37-38). L'alea di incertez-
za sull'"originale" dei testi neotestamentari resta, e sono quindi compren-
sibili le discussioni degli studiosi sulla loro datazione. Per questo motivo è
interessante il confronto con le citazioni bibliche fatte dagli antichi autori
cristiani, perché essi possono fare, a volte, riferimento a una versione del
testo scritturistico più antica di quella giunca a noi in tradizione diretta.
In genere la trascrizione dei testi delle Scritture cristiane fu meno pro-
fessionale e più rozza di quella attuata dai Giudei. Allestire un testo costa-
va, era un'impresa che richiedeva uno scriptorium ed è questo il motivo
della minor qualità dei testi cristiani, affidati il più delle volte a trascrizioni
private, con alca probabilità di produrre errori di copiatura. Tuttavia c'e-
rano eccezioni, come il sunnominato papiro contenente un frammento
di Giovanni. Da Erma risulta che c'era nella Chiesa di Roma chi si occu-
pava della trascrizione e diffusione dei testi (Pastore 8,3) e sul montante
destro del trono della cosiddetta "Statua di sane' Ippolito" (cfr. CAP. 15, p.
·Hs), nella prima metà del III secolo, è inciso un elenco di quattordici
titoli che forse corrisponde a una piccola biblioteca raccolta da un gruppo
di fedeli. Origene, nel III secolo, poté, grazie alla munificenza del patrono
Ainbrosio, un valenciniano che egli aveva riconvertito all'ortodossia, avere
a disposizione tachigrafi e calligrafe per la composizione delle sue opere.
l:rede della grande filologia alessandrina, giunco a Cesarea, egli concepì, ai
fìni dello studio testuale della Bibbia ebraica, un'impresa innovativa eone-
rosa: gli Hexapla. Su sei colonne parallele scritte sulle due facciate di un
STORIA DEL CRISTIANESIMO

codice di notevoli dimensioni, allineava in forma tabulare il testo ebraico


in lettere ebraiche, l'ebraico traslitterato in greco, le traduzioni greche di
Aquila, Simmaco, Settanta (la "quinta colonna'') e Teodozione, in modo
da rilevare immediatamente le differenze con un sistema di segni diacritici.
Una produzione letteraria come quella origeniana, in gran parte dedi-
cata all'esegesi biblica, richiedeva una biblioteca. Così come ad Alessan-
dria, Origene ne allestì una anche a Cesarea. Lo stesso faceva a Gerusa-
lemme (allora chiamata Elia Capitolina) l'amico di Origene, il vescovo
Alessandro. Il presbitero Panfilo, erede della tradizione origeniana, e il suo
protetto Eusebio incrementarono tra fine 111 e inizio IV secolo la biblio-
teca di Cesarea. Una volta diventato vescovo, Eusebio poté rendere così
efficiente lo scriptorium da concepire nuove grandiose imprese, grazie alla
mise en page tabellare, come i Canoni cronologici, cronografia universale su
colonne parallele, che rendeva visivamente evidente il confluire delle sto-
rie dei vari popoli nel regno di Augusto e nella nascita di Cristo (Andrei,
2.010 ). Questa sua attività ebbe il riconoscimento di Costantino che nel
332. gli invia una lettera per chiedere cinquanta copie delle Scritture, da far
« trascrivere da copisti esperti nell'arte della scrittura precisa ed elegante,
su pergamena pregiata» «chiaramente leggibili e facilmente trasportabi-
li» (Eusebio, V. Const. 4,36,13) per darle alle nuove chiese. È improbabile
che queste copie fossero pandette (cioè Bibbie complete, Antico e Nuovo
Testamento), ma ciò che interessa è lo standard elevato di produzione.

La formazione del canone

Esiste un'intima relazione tra il modo di credere in Gesù, la collezione degli


scritti normativi e l'interpretazione delle Scritture. Sistematicamente tro-
viamo che la fede in Cristo guida la formazione del corpus di scritti norma-
tivi e orienta la loro esegesi. Nelle pagine successive lo metteremo in luce.

Questioni metodologiche

Coerentemente con quanto detto fin qui (cfr. CAP. 3, pp. 97-9 ), bisogne-
rebbe parlare non di canone, bensì di canoni. In effetti, ciascuno dei grup-
pi cristiani finì per riferirsi a un corpus di scritti in qualche modo norma-
tivo, a volte delimitato, esclusivo e vincolante, il quale, in consonanza con
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 1 37

il modo in cui ciascuno di essi credeva in Gesù, raccoglieva le tradizioni su


di lui e in qualche caso sugli apostoli.
All'inizio non fu così. I primi discepoli di Gesù non ebbero scritti "cri-
stiani" a cui far riferimento. Questi furono solo progressivamente com-
posti, dotati di autorità, riuniti e da ultimo canonizzati. Per parte loro, i
primi cristiani ereditarono dai giudei un corpus di scritti dotato di auto-
rità divina (la Scrittura di Israele, che poi i cristiani chiameranno Antico
Testamento), però non definito nei suoi contorni. Ciò non significa che i
diversi gruppi cristiani non ebbero sin dal principio una coscienza canoni-
ca, ma questa si applicava precisamente al modo di credere in Gesù e non a
un corpus di scritti. Per ripercorrere la storia del canone, importa iniziare
da questa prima fase, inserendola così nel contesto più ampio delle diverse
istituzioni cristiane e del loro modo di trasmettere l'autorità di Gesù.
Ci concentreremo sulla storia del canone del Nuovo Testamento del-
la Grande Chiesa in ambito greco e latino, accennando agli altri gruppi
cristiani nel corso dell'esposizione e, in conclusione, a quella dell'Antico
Testamento.

Il vangelo e gli apostoli nelle lettere di Paolo

t chiaro che non ha senso parlare del canone delle Scritture al tempo in
cui Paolo scrive le sue lettere. Invece, egli mostra di possedere una coscien-
1.a canonica (normativa, delimitante, vincolante) in relazione a ciò che
chiama il "vangelo", cioè, la vita di Cristo che si trasfonde nei credenti, mi-
sura di tutta la realtà umana e del suo stesso apostolato, norma assoluta che
rnndiziona tutto. Affinché possa crescere tra i credenti senza deformarsi, si
trasmette vincolato agli apostoli, confermati dalle apparizioni del Risorto
e da un mandato missionario (1 Cor 15,1-10; Gal 1,15-19; 1 Cor 9,1). Quin-
di, la verità di Gesù si trasmette "normativamente" mediante la struttura
evangelico-apostolica. Ciò non significa che gli apostoli stanno al di sopra
dd vangelo, ma che il vangelo include per Paolo la sua trasmissione norma-
tiva per mezzo dei testimoni autorizzati affinché sia umanamente comu-
nicabile. In questo sistema sono inserite altre realtà portatrici di autorità:
le Scritture di Israele, le parole di Gesù, la Cena del Signore, le formule di
tÌ:de, le sue stesse lettere, scritte ciascuna in circostanze particolari, non
garantiscono di per sé la verità del vangelo che veicolano, quindi devono
essere comprese nel contesto della struttura evangelo-apostoli.
138 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Alcuni decenni più tardi, probabilmente agli inizi del II secolo, l'autore
delle lettere "pastorali" (Prima e Seconda a Timoteo, Lettera a Tito) insi-
sterà sulla necessità di aderire al vangelo dell'Apostolo, il quale si attualizza
ai suoi tempi mediante il «retto insegnamento», al quale altresì è neces-
sario attenersi, essendo tutto legittimato dagli episkopoi/presbyteroi delle
comunità, in continuità con Paolo.
Questa coscienza canonica vincolata a un sistema di legittimazione, che
poteva variare da una corrente all'altra, non è propria di un unico gruppo
del cristianesimo delle origini. Il fenomeno si osserva bene nelle lettere di
Ignazio e nell'Ascensione di Isaia. Ignazio attesta una concezione dell'ere-
sia come di una realtà che suppone una deviazione dottrinale incompatibi-
le con la fede normativa, un diverso modo di vivere e una separazione dalla
comunità di riferimento. Allo stesso modo l'autore dell'Ascensione di Isaia
mostra una coscienza chiara che la verità di Cristo è stata travisata, il che
ha condotto a numerose divisioni.
Tutto ciò serve a provare che, sebbene siano esistiti sin dal principio di-
versi modi di essere cristiani, le distinte correnti, a quanto consta almeno
nell'area di Siria già ali' inizio del II secolo, non hanno compreso il cristiane-
simo in modo pluralistico, bensì ciascuna ha presentato sé stessa come por-
tatrice del vero vangelo, dal quale altre si erano allontanate. Per essere chiari,
al pluralismo di fatto, di cui abbiamo parlato sopra, non corrisponde, da
parte dei vari gruppi, una concezione "plurale" del vangelo. Inoltre Ignazio e
l'Ascensione di Isaia condividono ali' incirca il vincolo apostolico della fede
cristologica. Donde risulta evidente che ali' inizio del II secolo non basta
il richiamo agli apostoli per rimanere nella verità di una determinata com-
prensione del vangelo. Perciò Ignazio si rimetterà alla triade vescovo-pre-
sbiteri-diaconi della Chiesa e l'Ascensione di Isaia ai profeti del suo gruppo.

Le tradizioni di Gesù: dall'oralità alla scrittura

La raccolta e la messa per scritto dei fatti e delle parole di Gesù sarà comin-
ciata poco dopo l'annuncio di resurrezione, però poche volte se ne parla
esplicitamente. Fortunatamente, però, abbiamo due eccezioni. Ali' inizio
del Vangelo di Luca (1,1-4) l'autore esplicita il suo intento di comporre in
modo rigoroso un'opera che contenga «gli avvenimenti che si sono com-
piuti in mezzo a noi». Egli specifica che altri avevano « cercato di raccontare
con ordine» e con ciò verosimilmente indica la prima produzione (Q Mc?
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 139

Altri scritti?) che segna il passaggio dall'oralità alla scrittura: sono testimo-
nianze veritiere, ma non le considera sufficienti per mancanza di ordine ed
esaustività.
Alcuni decenni dopo, Papia di Hierapolis (Eusebio, h.e. 3,39) compose
un'opera in cinque libri, l'Esposizione degli oracoli del Signore, nella quale
ordinò, insieme con altri materiali, le parole e i fatti di Gesù da lui raccolti
e selezionati. Papia afferma di preferire le tradizioni trasmesse inalterate
per mezzo della viva voce, grazie alla catena maestro-discepolo che risa-
le allo stesso Gesù, rispetto a quelle contenute nelle opere scritte: la cosa
più logica è che egli si riferisca a Marco e a certi scritti in greco messi in
relazione con Matteo, che, pur avendo ricevuto un giudizio positivo, non
risultavano del tutto soddisfacenti per la loro mancanza di completezza e
di ordine. Per questo (con Norelli, 2005) non siamo d'accordo con quanti
pensano che Papia abbia preso i logia di Gesù solo da testi scritti, e meno
ancora da scritti canonizzati (così già Lightfoot e Zahn; ultimamente
Baum, Hill, Heckel), fino ad arrivare a pensare che Papia sarebbe testi-
mone della collezione dei quattro vangeli canonici. I presbiteri, discepoli
dei discepoli di Gesù, legittimano in modo diretto o indiretto tutte le tra-
dizioni orali e scritte, assicurando la loro affidabilità, questione spinosa
che Papia si trovò ad affrontare, perché i suoi frammenti permettono di
dedurre una diversificazione delle stesse non sempre per lui accettabile.
Se le cose stanno così, Papia pare situarsi in una fase critica. Per un lato
beneficia di un sistema, per lui ideale, di legittimazione maestro-discepolo
per cui la comunicazione dei contenuti della tradizione si realizza in modo
orale, per l'altro, ha deciso di trasmettere la memoria di Gesù componendo
un 'opera scritta, agendo in apparenza contro i suoi stessi criteri. In questo
srnso pare situarsi in un tempo in cui le condizioni ideali per la trasmis-
sione della cosiddetta memoria comunicativa ormai non esistevano più.

L'eredità apostolica per scritto e come Scrittura:


la Seconda lettera di Pietro
Paolo non contemplava nel suo orizzonte mentale che la sua eredità messa
per scritto fosse considerata come Scrittura né se ne fa cenno nel discorso
ai presbiteri di Efeso che Luca gli fa pronunciare (At 20,17-38). Le pastora-
li hanno potuto tenere in conto le lettere di Paolo come autoritative, giac-
ché il modus operandi del loro autore si fonda su di esse, però non hanno
STORIA DEL CRISTIANESIMO

messo a tema un loro eventuale carattere di Scrittura ispirata. Non così la


Seconda lettera di Pietro. Il suo autore vuole confermare ai destinatari la
fede da loro professata in relazione alla seconda venuta di Cristo (parou-
sia) come ricevuta dagli apostoli che gli predicarono il vangelo.
Per legittimarla 2 Pt mostra il suo accordo con la fede di Pietro e di altri
testimoni dell'episodio della trasfigurazione. In particolare, cerca di dimo-
strare la sintonia fra Paolo e Pietro, dal momento che segnala che il primo
ha insegnato nelle sue lettere la stessa fede che Pietro professa (2 Pt 3,15-18).
Quindi la legittimazione non sta nella predicazione orale dell'Apostolo,
bensì nelle sue lettere, considerate parte della Scrittura. In questo modo
per l'autore di 2 Pt l'insegnamento paolino esiste nel momento presente e
nel tempo futuro nei testi scritti dall'Apostolo. Varie nel numero, le lettere
di Paolo sembrano formare una collezione, sebbene probabilmente non
chiusa. L'allusione al fatto che in esse si trovano alcuni passi difficili sug-
gerisce che tanto l'autore di 2 Pt che i suoi avversari ne avevano una cono-
scenza non superficiale, e che esse erano oggetto di una battaglia esegetica.

La coscienza canonica applicata


a una collezione di scritti: Marcione

Marcione rappresenta una pietra miliare nella storia del canone del Nuovo
Testamento. Già si è detto nel capitolo precedente in che consiste il suo
vangelo. Ora, come e donde è stato trasmesso? Marcione lo trova nelle let-
tere di Paolo (una collezione senza le pastorali ed Ebrei) e in Luca ( inteso
come vangelo di Paolo).
Siccome gli scritti che i cristiani avevano prodotto riflettevano una re-
lazione positiva tra il vangelo e la storia di Israele, Marcione si convinse che
erano stati interpolati: i discepoli, giudei e semplici, non avevano capito
che Gesù annunciava un altro Dio distinto dal creatore e mescolarono il
vangelo con la Legge. Siccome tutta la predicazione apostolica ne risultava
contaminata, Gesù si rivelò a Paolo (esperienza di Damasco) comunican-
dogli di nuovo il suo vangelo. Però i giudaizzanti, che avevano il controllo
delle chiese, interpolarono dopo la morte dell'Apostolo le sue lettere e il
vangelo: da allora, la Chiesa e le sue scritture presentavano un Gesù di-
storto. Marcione si sentì chiamato a ricostruire il testo primitivo delle let-
tere paoline e del vangelo, elaborando una sua propria edizione, alla quale
aggiunse le Antitesi, uno scritto in cui egli forniva le prove, attraverso una
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI

serie di opposizioni, dell'impossibilità di identificare il Dio di Gesù con il


Dio dell'Antico Testamento.
Con Marciane il testo scritto diventa l'unico luogo nel quale si incon-
tra il vero vangelo (scompare il carisma apostolico e quello vincolato alla
comunità dei credenti), il che lo ha portato a fare una selezione positiva
(Luca e Paolo) e un'altra negativa, rigettando gli altri testi cristiani che cir-
colavano con autorità nelle chiese. In tal modo egli introduce negli scritti
e nelle raccolte di scritti autoritativi del suo tempo la nozione di delimita-
zione vincolante propria della coscienza canonica, per cui è lecito affermare
che Marciane è il primo che ha adottato un canone di testi cristiani, con
due precisazioni: a) se la Lettera ai Laodiceni è marcionita, ciò non sa-
rebbe vero per tutti i marcionici, perché alcuni di essi avrebbero aggiunto
ancora un'altra lettera al corpus del fondatore, quindi per loro ancora non
chiuso; b) la collezione di Marcione non pare avere tutte le caratteristiche
di un canone: in concreto, non pare avere la sacralizzazione del testo, dato
che i suoi seguaci continuarono a intervenire su di esso.

L'eredità evangelica per scritto e come Scrittura: Giustino

La pratica domenicale testimoniata da Giustino martire (I Apol. 67,3) col-


loca in parallelo le Memorie degli Apostoli o Vtzngeli (I Apol. 66,3) con i libri
dei profeti e li considera intercambiabili: tutti questi formano, forse con
l'Apocalisse, quello che Giustino chiama «i nostri scritti» (I Apol. 28,1). È
caratteristica la formulazione Memorie degli Apostoli (apomnemoneumata
ton apostolon) per le seguenti ragioni: (1) è consentanea alla concezione
che vede gli apostoli come trasmettitori autorizzaci della vita di Gesù; (2)
serve a Giustino per presentare la nuova religione ai pagani, poiché il ge-
nere delle Memorie si caratterizzava nel mondo antico per narrare la vita
di un personaggio a partire da testimoni affidabili (cioè testimoni oculari
o che si erano informaci convenientemente); (3) perché gli è utile princi-
palmente per opporsi alla radicale critica marcionica della cescimonian-
La apostolica. Anche in polemica con Marcione, Giustino ha insistito sul
carattere scritto delle suddette Memorie. In questo senso, la controversia
1narcionica ha contribuito ad accrescere la consapevolezza cristiana di pos-

sedere libri affidabili contenenti la tradizione di Gesù.


Tuttavia, Giustino non è stato esplicito nelle sue opere superstiti ri-
guardo al numero, nome e natura dei vangeli. In una occasione si riferisce
STORIA DEL CRISTIANESIMO

in modo generico ai vangeli composti dagli apostoli e dai loro discepoli


(Dial. 103,8); e allude una volta alle Memorie di Pietro (probabilmente
Mc) (Dial. 106,3). Lo studio delle citazioni della tradizione sinottica invita
a pensare che il materiale contenuto nelle sue opere provenga nella quasi
totalità da Matteo, Marco e Luca, però a partire da documenti intermedi
frutto della trasmissione dei vangeli nelle chiese. Così si spiegherebbe la
presenza in essi di tradizioni extrasinottiche. La scarsa presenza del ma-
teriale giovanneo potrebbe essere dovuta al minor grado di ricezione di
Giovanni nella comunità di Roma (cfr. CAP. 3, p. 12.4) e all'uso che gli
gnostici facevano dello stesso.
In sintesi, l'opera del martire testimonia una coscienza canonica, apo-
stolica ed ecclesiale che si applica ai punti essenziali della fede, però che
non pare aver ancora raggiunto un corpus di scritti cristiani.

La coscienza canonica applicata a una collezione di scritti


della Grande Chiesa: Ireneo di Lione

Secondo Ireneo (adv. haer. 4,33,8), la conoscenza del Figlio di Dio com-
porta necessariamente: a) l'accettazione della dottrina degli apostoli e
della Chiesa del tempo apostolico e b) del carattere del corpo di Cristo (la
Chiesa) conforme alla successione dei vescovi; e) la sincera custodia delle
Scritture; d) il dono speciale dell'amore. Quindi risulca vincolante l'ade-
sione alle Scritture, cioè ai libri che sono accolti nelle chiese, al loro testo
autentico e alla loro corretta interpretazione.
Questa coscienza canonica si applica pienamente ai vangeli. L'afferma-
zione da parte di Ireneo (adv. haer. 3,11,8) non potrebbe essere più decisa:
«I vangeli non possono essere in numero né maggiore né minore di que-
sto», cioè quattro. Alle affermazioni de facto (adv. haer. 3,1,1), con le quali
si riferisce a una collezione di quattro vangeli (Mc, Le, Mc e Gv) da lui con-
siderata chiusa e vincolante, il vescovo di Lione aggiunge un'altra de iure
che si fonda sulla sua concezione storico-salvifica del vangelo: concepito
come tetramorfo, esiste come economia del Logos generato ante tempus; è
annunciato profeticamente nella creazione e durante la storia di Israele ed
è portato a compimento nella vita umana di Cristo per mezzo dello Spirito
santo. Ciò significa che il carattere tetramorfo del vangelo è stabilito dall' i-
nizio dell'economia e non nel momento della sua messa per scritto, cosic-
ché lo si deve scorgere nell'azione di Cristo per tutto il corso della storia:
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 1 43

nella crocifissione cosmica del Logos che sostiene la creazione; nella crea-
zione con i suoi quattro punti cardinali e i quattro venti principali; nella
profezia del Sai 79,2 e di Ez 1,6.10 (Ap 4,7 ); nella vita di Gesù, soprattutto
nella sua crocifissione; nell'annuncio apostolico del vangelo. Ci sono quat-
tro correnti nella predicazione apostolica: Pietro, Paolo, Matteo e Giovan-
ni (adv. haer. 3,21,3), che certo poi vengono messe per iscritto e ricevute
da tutte le chiese, ma che sono manifestazione del carattere anteriormente
tetramorfo del vangelo che alla fine si mostra nella sua messa per iscritto.
La posizione di Ireneo presuppone il processo attestato fin da Giusti-
no, ma indica che egli ha compiuto un passo in avanti significativo: valga
come ulteriore prova il fatto che Ireneo non colloca allo stesso livello del-
le tradizioni raccolte nei quattro vangeli una parola di Gesù trasmessa da
Giovanni (però non nel Vangelo secondo Giovanni) e per mezzo dei pre-
sbiteri (adv. haer. 5,33,3). Ad extra Ireneo si fa eco di altri gruppi cristiani
i cui canoni o libri autoritativi sono da lui considerati censurabili. I valen-
tiniani fabbricano i loro propri scritti e si gloriano di avere più vangeli di
quelli stabiliti (menziona un Evangelo di verita) (adv. haer. 3,11,9 ); i marca-
si ani (adv. haer. 1,20,1) introducono una moltitudine di scritti apocrifi per
confondere quanti ignorano gli scritti della verità.
Da qui si può ipotizzare che la moltiplicazione degli scritti nei gruppi
gnostici abbia potuto giocare un ruolo importante nel delimitare la col-
lezione dei vangeli nel canone del Nuovo Testamento a soli quattro, dei
quali Ireneo presenta l'origine (adv. haer. 3,1,1) e afferma che chi non li
riceve si priva della salvezza (adv. haer. 3,1,2), mentre la contrapposta af-
fermazione di Marciane, circa un unico vangelo ha probabilmente giocato
nel senso di accogliere comunque un numero plurale di vangeli. Ireneo si
riferisce anche al modo di procedere degli ebioniti (che usano solo Mat-
teo e respingono Paolo); a quelli che separano il Gesù passibile dal Cristo
(preferiscono Marco); e a coloro che, rigettando i carismi profetici, non
ammettono né Giovanni né Paolo (adv. haer. 3,11,9 ).
La coscienza canonica è pure evidente nel caso degli Atti degli Aposto-
li (adv. haer. 3,12-14), e nel caso del corpus paolino, anche se Ireneo, pur
;lftèrmando che chi non accetta Paolo si separa dall'unione degli aposto-
li (adv. haer. 3,15,1), non dà una lisca delle lettere paoline. Meno ancora
sappiamo del resto degli scritti citati da Ireneo (Giacomo, 1 Pc, 1 Gv, 2
Gv, Ap). Come opera degli apostoli li avrà considerati all'interno della
collezione normativa, ma fino a che punto li ha valutati come un'entità
definita? Al contrario, è evidente la distinzione fra questi scritti e gli altri
144 STORIA DEL CRISTIANESIMO

che Ireneo considera pertinenti al tempo della Chiesa: La Prima lettera di


Clemente, il Pastore, la Lettera ai Filippesi di Policarpo, l'opera di Papia, le
citazioni di Giustino e la sua propria opera.
Un'ultima questione. Se la coscienza canonica si applica in Ireneo a un
corpus di scritti, essa sostituisce la coscienza canonica applicata alla fede
o al vangelo? Assolutamente no. Infatti, come abbiamo visto, è necessario
aderire non solo alla custodia sincera delle Scritture, ma anche alla fede
degli apostoli e al carattere del corpo di Cristo secondo la successione dei
vescovi. In realtà, la massima normatività si applica in Ireneo al vangelo
apostolico custodito come tradizione nelle chiese. Di fatto, la regola della
verità (kanon tes aletheias) si riferisce in primo luogo a detta tradizione, la
quale certamente si riflette nella collezione canonica degli scritti evangeli-
ci, però le è anche anteriore e la trascende.

Il frammento di Muratori (FM)

Si tratta di un breve documento, mutilo dell'inizio e della conclusione,


scritto in latino volgare, che deve la denominazione a Lodovico Antonio
Muratori, che lo scoprì e pubblicò nel 1740. Sebbene a partire dal 1970 sia
stata proposta una sua composizione in Oriente nel secolo IV (Sundberg,
Hahneman), sembra non ci siano motivi per abbandonare la datazione
tradizionale ai secoli II-III (Kaesdi, Verheyden). In quanto al luogo di
composizione, la opinio communis lo colloca in Italia, probabilmente a
Roma. Suo scopo è stabilire quali libri possono essere letti nell'assemblea,
quali in privato e quali debbono essere rigettati. La sua composizione pre-
suppone quella del Nuovo Testamento.
È importante rendersi conto che il frammento non è una lista come
quelle che compariranno nel IV secolo, ma appartiene a una fase del pro-
cesso di canonizzazione nel quale alcune raccolte di scritti dello stesso ge-
nere si sono costituite e sono considerate autoritative, anche canoniche
(i quattro vangeli, Atti, le lettere di Paolo), mentre altri testi hanno una
posizione più incerta. Ora dunque l'autore ritiene necessario giustificare
e commentare la inclusione o l'esclusione di diversi scritti, adducendo ar-
gomentazioni che non saranno poi presenti nelle liste propriamente dette.
Per quel che concerne i quattro vangeli (il FM non menziona altri van-
geli "rivali"), richiama l'attenzione la leggenda circa l'origine di Giovanni,
secondo la quale l'apostolo Andrea ricevette una rivelazione per cui un di-
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 1 45

scepolo di nome Giovanni (non è chiamato apostolo) ha messo per scritto


i ricordi di tutti. Dato il suo tenore e l'ampiezza della leggenda, si può
pensare che l'autore abbia inteso difendere Giovanni a fronte dei circoli
che lo rigettavano, come succedeva a Roma tra il II e il III secolo con certi
avversari del montanismo (per esempio il presbitero Gaio), o almeno so-
stenere il suo valore normativo. D'altro lato, l'autore insiste sulla totalità,
unità e pluralità della raccolta (tutto è stato incluso in tutti i vangeli per
mezzo dell'unico Spirito), sicché non importa che ciascuno inizi in modo
diverso. È possibile che abbia così inteso opporsi a ogni preteso tentativo
di ridurre il numero dei vangeli. Il concetto di totalità appare anche pro-
babilmente nella notizia del FM su Atti: le azioni di tutti gli apostoli sono
stati raccolti in un unico libro.
Per quanto riguarda gli scritti di Paolo, è interessante notare che il FM
ne giustifica e sottolinea l'autorità in due modi diversi. Per un verso, af-
ferma che Paolo ha scritto a sette chiese, mostrando così la destinazione
universale delle suddette lettere fin dall'origine. Inoltre, in questo Paolo
ha seguito Giovanni, suo predecessore, autore dell'Apocalisse, apparente-
mente riferendosi in questo caso ali' apostolo, che si indirizza a sette chiese
(Ap 1-3). In questo senso, si mette in rilievo il valore dell'Apocalisse, che
è presentata come uno scritto antichissimo (anteriore alle lettere paoli-
ne), con una destinazione universale (simbolismo del numero sette), di
carattere esemplare (dato che Paolo lo ha seguito in questo simbolismo)
e legata all'apostolo Giovanni. In secondo luogo, segnala che la ricezione
universale di Filemone e delle lettere pastorali, scritte da Paolo per affetto
personale, si deve a un altro motivo: sono state santificate in onore della
Chiesa cattolica per ordinare la disciplina ecclesiastica. In entrambi i casi
,i nota che per l'autore del FM è importante il legame fra canonicità e rice-
~ione universale dei libri. L'autore esplicita il rifiuto di certi scritti, alcuni
di provenienza marcionita, che circolano sotto l'autorità di Paolo. Il testo
non menziona Ebrei, il che è stato generalmente considerato un indizio
della sua composizione in Occidente, dove la ricezione di questo libro di-
venta più problematica nei secoli III e IV.
Per finire, la notizia circa gli scritti chiamati "apocalisse" attesta una
distinzione interessante fra libri accettati, letti in assemblea, e libri utili per
una lettura privata. L'autore elenca fra i primi l'Apocalisse di Giovanni e
lluella di Pietro, sebbene la ricezione di quest'ultima non sia unanime. Dal
canto suo, il Pastore si annovera fra i libri utili, però non può essere letto
ndl 'assemblea. Il motivo è il suo carattere recente, il che indica che per
STORIA DEL CRISTIANESIMO

l'autore è necessario che i libri accettati risalgano ali' epoca apostolica e im-
plica, contro i montanisti, la fine del tempo dell'ispirazione scritturistica.

L'evoluzione del canone nel III secolo

Come in Ireneo, il termine eanon e il suo equivalente latino regula non si


riferiscono per tutto il III secolo (Tertulliano, Clemente di Alessandria,
Origene) a una lista di libri canonici, bensì alla regola di fede, norma asso-
luta e chiave dell'interpretazione delle Scritture.
Per quel che riguarda queste, i tre autori summenzionati attestano che
nella Grande Chiesa si è stabilita la collezione canonica dei quattro vangeli
(h.e. 6,14,5-7 per Clemente; Tertulliano, adv. Mare. 4,2; Origene, Comm.
Mt. 1; Hom. Le. 1,3-6). Comunque, è significativo, in relazione alla trasmis-
sione della memoria evangelica, il valore che Clemente attribuisce alle tra-
dizioni orali (Strom. 1,11,3; 1,13,1-4), le quali veicolano misteri rivelati dal
Signore solo ad alcuni e agiscono come chiave per accogliere le Scritture. È
pure generalizzata la ricezione di Atti, Apocalisse e lettere paoline, anche
se si percepiscono alcuni dubbi in relazione a Ebrei nel Nord dell'Africa:
Tertulliano non la considera di Paolo, però sembra accoglierla; Cipriano
non pare accoglierla. Va notato anche che, soprattutto ad Alessandria,
sono stati considerati pertinenti alla Scrittura alcuni scritti del cristiane-
simo primitivo come Barnaba, La Prima lettera di Clemente, il Pastore,
Didaehe, il che non succedeva nel caso di Ireneo e neppure nel FM.
Senza alcun dubbio la raccolta più fluttuante era nel III secolo quella
delle lettere "cattoliche". Di fatto, come collezione dovette nascere solo
alla fine di questo secolo. La Prima lettera di Giovanni e la Prima di Pietro
sembrano essere state ampiamente accolte da Ireneo e chiamate cattoliche.
Il termine fu esteso alla collezione, quando essa si costituì, riunendo due
gruppi originariamente indipendenti, cioè le lettere di Giovanni e altre
quattro (1 e 2 Pt, Giacomo e Giuda) e fu posta in stretta connessione con
Atti, il libro che collegava Paolo ai restanti apostoli. La circolazione dei
manoscritti che contenevano questo corpus di lettere dovette risultare
decisiva per la sua rapida diffusione. Eusebio conosce il corpus, anche se
l'accettazione di alcune lettere continuerà a essere problematica.
Non pare che nel corso del III secolo si sia preteso di arrivare a una deli-
mitazione definitiva del Nuovo Testamento. Eusebio (h.e. 6,25,3-14) riporta
una quantità di passi origeniani tale da creare la falsa impressione che Orige-
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 147

ne abbia confezionato una lista canonica. Alla luce dei dati presentati, nem-
meno sembra prudente dar credito a un passo delle omelie di Origene su
Giosuè ( 7,1), conservato nella traduzione latina di Rufino, nel quale trovia-
mo una enumerazione di autori e di scritti che coincide con l'attuale canone.

La delimitazione del canone nel IV secolo

Nel IV secolo troviamo le prime liste complete dei libri del Nuovo Testa-
mento. Quella di Eusebio (h.e. 3,25,1-7) pare una creazione originale a par-
tire dalla sua ricerca negli scrittori ecclesiastici. Contiene i quattro vangeli,
Atti, le lettere di Paolo, probabilmente insieme con Ebrei in forza della
sua unanime ricezione, una lettera di Giovanni e una di Pietro. Per finire,
presenta l'Apocalisse come incerta. Tali libri sono da lui considerati homo-
logoumenoi, cioè accolti. Da questi si distinguono, a seconda della maggio-
re o minore ricezione ecclesiale, i libri discussi (antilegomenoi), i quali a
loro volta sembrano suddividersi in antilegomenoi (Giacomo, Giuda, 2. Pc,
2-3 Gv: la terminologia è fluttuante) e nothoi, cioè spuri (Atti di Paolo, il
Pastore, Apocalisse di Pietro, Lettera di Barnaba, Didache, Apocalisse, per
quest'ultima Eusebio ammettendo che possa anche non essere accolta).
Da ultimo, Eusebio allude ai libri eretici (nothoi pantelos: h.e. 3,31). Così le
frontiere del canone non sono del tutto definite, anche se l'esplicitazione
del tema è sufficientemente avanzata da essere vicina alla canonizzazione.
Alcuni decenni più tardi, Cirillo di Gerusalemme enumera anch'egli i
libri del Nuovo Testamento (rispetto all'attuale canone manca l'Apocalis-
se) nelle Catechesi battesimali (4,33-36). Questi (in generale homologoume-
n,z) sono distinti dagli apocrifi (apokrypha) o controversi (amphiballome-
na). La menzione di altri vangeli nocivi fa pensare che in Palestina a metà
del IV secolo circolavano non soltanto i quattro vangeli accolti da Cirillo.
Dal canto suo, Atanasio nella Lettera Festale 39, include un insegna-
lllenco sulla Scrittura e gli scritti apocrifi (apocrypha) nel quale figura una
lista di libri canonizzati (kanonizomena: per la prima volta il termine appa-
re in questo contesto; anni prima lo stesso Atanasio aveva impiegato kanon
in questo senso: cfr. ep. decr. syn. Nic. 18), la prima con gli attuali ventisette
libri, seguita da una lisca di libri "letti" (anaginoskomena ), il cui impiego era
destinato ai catecumeni. Atanasio afferma che non fa altro che ricordare ai
destinatari quello che già sanno, il che induce a pensare che una cale colle-
zione fosse già diffusa in Egitto dai tempi del predecessore Alessandro.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Questa lista di ventisette libri non dovrebbe far dimenticare che autori
come Gregorio di Nazianzo, Anfilochio, Didimo, Giovanni Crisostomo,
Teodoro e Teodoreto (secoli 1v-v) attestano altre liste, che si differenziano
in generale l'una dall'altra per la ricezione o meno di alcune delle lettere
cattoliche e soprattutto dell'Apocalisse. Dal suo canto, Agostino è testi-
mone di un canone di ventisette libri (doctr. chr. 2.,13), il quale fu sanzio-
nato da tre sinodi nordafricani fra i secoli IV e v. I numerosi manoscritti
biblici delle lettere di Paolo senza Ebrei mostrano i dubbi che questo libro
suscitò nella Chiesa latina a partire dal III secolo.

Il canone dell'Antico Testamento

La complessità del processo di formazione del canone dell'Antico Testa-


mento è riconosciuta dagli studiosi (Dorival, 2.004). Ci limitiamo qui a
segnalare le fasi principali del processo.
1. Nel giudaismo dei tempi di Gesù circolava tanto in Giudea quanto nel-

la diaspora una collezione di libri sacri ancora aperta e in molti casi più
ampia dell'attuale. Le differenze fra i gruppi potevano essere notevoli: i
sadducei consideravano ispirata solo la Torah (il Pentateuco) e rifiutavano i
profeti, al contrario dei farisei. Di sicuro da molti era considerata ispirata la
letteratura che i moderni chiamano "apocalittica", soprattutto quella legata
al nome di Enoch. Questi scritti proponevano una spiegazione alternativa
rispetto a quella contenuta in Genesi sull'origine del male, attendevano da
Dio un cambio "traumatico" dell'assetto attuale del mondo e l'avvento di
un mondo (eone) governato da Dio: anche i vangeli canonici presentano
tracce di pensiero apocalittico. A seguito della tragedia delle rivolte giu-
daiche, che questa letteratura poteva aver ispirato, i libri apocalittici non
furono accolti nel canone ebraico (un'eccezione è Daniele). Se l'Antico
Testamento dei cristiani è più ampio di quello ebraico è perché proviene
da una collezione ampia (i Settanta: cfr. infra) in circolazione fra uno o più
gruppi giudei all'inizio dell'era cristiana. Né si dimentichi che, attualmen-
te, il canone cristiano è più o meno ampio a seconda delle varie confessioni.
2.. Dal principio i discepoli di Gesù, seguendo il loro Maestro, accolsero
le Scritture di Israele come tali. In queste coesistevano diverse collezioni, i
cui confini erano incerti. Fin dagli inizi della letteratura cristiana si consta-
ta che i cristiani ricevettero le Scritture di Israele secondo la versione greca
detta dei Settanta o Septuaginta, una traduzione cominciata in Egitto nel
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 149

III secolo a.C. a beneficio dei Giudei che non comprendevano l'ebraico e
che divenne il testo sacro di riferimento per le chiese dei primi secoli. In 2.
Tm 3,10-17, l'autore attesta che i «i sacri scritti» fanno parte del bagaglio
della comunità cristiana da lungo tempo e sono utili perché il ministro
acquisti sapienza e insegni.
Lungo il II secolo i cristiani della Grande Chiesa, in linea con la pole-
mica nei confronti del giudaismo, prendono progressivamente coscienza
che le Scritture appartengono a loro (Giustino, Dia!. 2.9,2.). Complessiva-
mente, gli autori del II secolo includono nelle Scritture i libri deuteroca-
nonici (cioè quelli che non furono inclusi nel successivo canone ebraico,
ma si ritrovano nella collezione dei Settanta) e un buon numero di scritti
apocrifi. In pratica la grandissima maggioranza delle citazioni scritturisti-
che corrispondono alla Legge, ai profeti e al libro dei Salmi. La lista offerta
da Melitone di Sardi nella prefazione delle sue Egloghe (h.e. 4,2.6,13-14)
lascia intendere che esistevano collezioni con diverse delimitazioni e che
non c'era certezza su quale fosse la migliore.
+ A partire da Clemente di Alessandria i libri sapienziali (Proverbi, Sa-
pienza, Siracide) entrano con forza nell'argomentazione scritturistica. Da
allora in poi sarà ancora più necessario delimitare la collezione dell'Antico
Testamento, per la quale si possono constatare due tendenze opposte: a) il
canone cristiano deve essere identico al canone ebraico, il quale si considera
chiuso intorno all'anno 2.00; b) detto canone può essere diverso, a seconda
della ricezione dei libri nelle chiese (Tertulliano, de cult.jèm. 1,3,1-3).
5. Per Origene è un dato di fatto che la collezione cristiana diverge da
quella ebraica per lingua e contenuto (comprende parti di libri o libri in-
teri che non si trovano nel canone ebraico) e ciò è un'eredità ecclesiale
non modificabile. Attesta che esiste una categoria di libri endiathekoi, cioè
accolti (sembra inglobare i deuterocanonici) e un'altra di apokryphoi (di
interesse, ma non facenti parte della collezione sacra, e che debbono essere
usati con precauzione). Tuttavia Origene sembra accordare al testo ebrai-
co una posizione di riferimento (Lettera ad Africano); e, curiosamente, egli
non ha commentato nessun libro poi chiamato deuterocanonico, il che
1nostra l'influsso della bibbia ebraica nel mondo cristiano.

<,_ Nella LetteraJèstale 39, Atanasio afferma che i libri canonici sono venti-
due, come le lettere dell'alfabeto ebraico. In questa lista (come in quelle di
e; regorio di Nazianzo, Anfilochio, Cirillo di Gerusalemme e del concilio
di Laodicea) non compare nessun deuterocanonico, salvo Ester. Sussiste
una terza categoria, probabilmente aperta: gli "altri libri" (Sap, Sir, Est, Gdt,
150 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Tb ), patrimonio ecclesiale, possono essere letti dai catecumeni per il loro


carattere edificante. Questi "altri libri" appaiono in generale nella Chiesa
greca del IV secolo, sebbene possano variare per numero, uso e statuto.
7. Girolamo attesta un canone uguale all'ebraico mentre Agostino pre-
senta una lista di quarantaquattro libri, con tutti i deuterocanonici e iden-
tificando i singoli profeti minori, la quale eserciterà un grande influsso in
futuro. Se a questi dati sommiamo i libri contenuti nei codici più antichi
(Sinaitico, Vtzticano, Alessandrino), i quali tutti offrono una collezione am-
pia dell'Antico Testamento, constatiamo la complessità e la lentezza con la
quale si è definito il canone cristiano dell'Antico Testamento.
8. Il fatto che Girolamo sceglie il canone ebraico è legato all'idea che
egli ebbe di tradurre per il mondo latino la Bibbia di Israele direttamente
dall'ebraico, invece che dal greco, come avevano fatto le antiche traduzioni
latine (Veteres). Egli parlava di Hebraica veritas, cioè affermò il principio
che il testo ispirato deve essere identificato con l'originale e non con una
sua traduzione, sia pure autorevole, come i Settanta. Le contestazioni furo-
no molte e diverse: per esempio, Agostino gli obiettò che in questo modo
si veniva a creare una distanza perniciosa fra la Chiesa di lingua greca, che
continuava a usare i Settanta, e quella di lingua latina. L'autorità della tra-
duzione latina di Girolamo (poi detta Vulgata) si affermò lentamente.

L'esegesi scritturistica

Questioni introduttive

All'inizio i cristiani ricorrono prima alle Scritture di Israele, che rimasero


per loro l'unica Scrittura fino a metà circa del II secolo, e poi anche agli scrit-
ti apostolici per alimentare, vivere, spiegare e difendere la loro fede. Certa-
mente, questo è un aspetto centrale del cristianesimo. Tuttavia si dovrebbe
sottolineare un'idea fondamentale: la maggioranza delle correnti cristiane
non vollero essere una religione del libro. In effetti, tanto nel loro uso ad
intra quanto nella polemica con i Giudei o fra loro, i distinti gruppi cri-
stiani partivano dal presupposto che la loro comprensione di Cristo e della
storia della salvezza era incarnata nella Scrittura, però era anche anteriore
(logicamente e/o cronologicamente) a questa. Detto altrimenti, il criterio
ermeneutico, pur essendo immanente agli scritti, tuttavia li trascendeva. In
effetti, questa ermeneutica era più importante del metodo esegetico vero e
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 151

proprio, in quanto, come vedremo fra breve, influisce sul secondo. In questo
senso, le Scritture si riveleranno un perenne campo di battaglia.

Le prime interpretazioni cristiane della Scrittura

Seguendo un uso giudeo attestato nei manoscritti del mar Morto, i cristia-
ni inizialmente selezionarono, e in parte crearono, passi delle Scritture, che
chiamiamo Testimonia, intorno a un tema (la croce, la morte di Gesù, l'un-
zione messianica), per provare che le profezie si erano compiute in Gesù,
il che già presuppone un atto interpretativo a partire dalla fede in Cristo.
Poco a poco tutta la Scrittura cominciò a essere ripensata. Per Paolo
le Scritture contengono la promessa del vangelo (Rrn 1,1-2) e tutte le pro-
messe di Dio si sono compiute in Cristo (2 Cor 1,20). Le Scritture con-
fermano gli eventi della vita di Gesù (kata tas graphas: 1 Cor 15,3b-5) e
i loro grandi episodi sono letti alla luce di Cristo (Gal 3,6-18; 4,21-31),
chiave di lettura grazie alla quale si dissolve il velo che nasconde il suo
senso vero (2 Cor 3,14).
Paolo non si distingue nella sostanza dagli altri ebrei per le tecniche
interpretative che impiega e, in genere, la terminologia e i procedimenti
esegetici del primo cristianesimo si collocano in continuità con quelli del
mondo sia pagano sia giudeo, sebbene presentino anche qualche caratteri-
stica propria. In Gal 4,24 Paolo usa il participio allegoroumena ('detto in
allegoria') per dire che le due donne di Abramo, Agar e Sara, significano le
due alleanze, quella degli schiavi (i Giudei) e quella dei liberi (i cristiani).
A partire da questo momento l'allegoria acquista diritto di cittadinanza
fra i cristiani. In tal caso il procedimento comporta l'andare da un punto
ddla storia (Agar e Sara) (come nel giudaismo, a differenza dal mondo pa-
gano) a un altro (le due alleanze), laddove è il punto di arrivo che dà senso
pirno al momento iniziale. Siccome Paolo usa allegoria come sinonimo di
typos (per esempio, il passaggio del mar Rosso è inteso come typos del bat-
tesimo in I Cor 10,6 e Adamo come typos di Cristo, nuovo Adamo in Rrn
5,i+) questo tipo di allegoria è a volte chiamato "tipologica''.
Il metodo allegorico consente di ricavare anche altri tipi di significato.
Crazie a esso il giudeo Filone ricavava, alzandosi dalla storia a un piano su-
periore, un insegnamento morale, quindi atemporale: in Abrah. 99, Abra-
1110 t: Sara rappresentano l'unione dell'intelligenza e della virtù; gli ani-

inali proibiti (come già nella Lettera di Aristea) indicano i vizi da evitare e
STORIA DEL CRISTIANESIMO

quelli permessi le virtù da imitare, come è anche nella Lettera di Barnaba.


Gli esegeti alessandrini Clemente e Origene sfrutteranno molto l'esegesi
di tipo filoniano e Origene in particolare arricchirà l'esegesi allegorica con
il significato mistico incentrato sui misteri del Logos e del mondo celeste.
A partire dalla constatazione della complessità dell'allegoria, è necessa-
rio guardare al presupposto ermeneutico che vi soggiace: la relazione fra la
Scrittura ebraica e Cristo, il quale le dona il senso autentico. Rispondendo
ai dubbi di alcuni fedeli di Filadelfia, che dicevano di credere nel vangelo
solo se avevano la conferma degli "archivi" (cioè della Scrittura), Ignazio
di Antiochia esprime precocemente e con chiarezza cale principio erme-
neutico cristologico: «per me gli archivi sono Cristo». Successivamente,
quando il Nuovo Testamento si affiancherà all'Antico, Origene dirà che
senza Cristo non si avrebbe la prova del carattere ispirato della Scrittura
giudaica.

L'esegesi dei valentiniani e la risposta degli ecclesiastici

I valentiniani furono i primi a tentare un'esegesi globale delle Scritture.


Fino ad allora la Scrittura era servita per approfondire i dati della predi-
cazione apostolica e a illuminare questioni di tipo pratico nella vita delle
chiese. Con i valentiniani l'esegesi cristiana acquisisce un carattere decisa-
mente dogmatico.
A differenza di Marcione, che considerava le Scritture di Israele come
una rivelazione inferiore e le interpretava in blocco alla lettera, i valen-
tiniani sostenevano con finezza che in esse si possono trovare elementi
pneumatici, psichici e materiali, corrispondenti alle tre nature che, nel
loro complesso mito cosmogonico, erano derivate variamente dal peccato
mitico verificatosi nel mondo divino. A partire da qui e senza necessità di
selezionare, eliminare o disprezzare alcuni scritti, si diedero all'interpreta-
zione scritturistica. Questo schema si riflette nella Lettera a Flora di Tolo-
meo, secondo cui la parte pura della Legge non è estranea al Salvatore ed è
da lui portata a compimento. Così, sebbene attribuisca la legge di Dio nel
suo complesso al Demiurgo, sembra pensare a un'azione del Dio superiore
per mezzo del Logos e di Sofia, i quali, a insaputa del Demiurgo, hanno in-
trodotto nella Legge elementi pneumatici. Inoltre, Tolomeo sanziona cucci
i risultati per mezzo delle parole del Salvatore e di Paolo, adeguatamente
interpretati, il che mostra il carattere unitario dell'esegesi valentiniana,
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 153

che si muove comodamente in tutti gli scritti antichi e nuovi. Fra questi,
i valentiniani sembrano aver avuto una predilezione per Giovanni, come
è provato da una raffinata interpretazione del prologo (Ireneo, adv. haer.
1,8,5-6), nella quale si incontrano gli otto eoni principali del Pleroma e
dal commentario cristiano più antico a noi noto (grazie alla confutazio-
ne di Origene nel suo Commento a Giovanni) di un libro della Scrittura,
precisamente quello a Giovanni composto da Eracleone, meno tecnico e
indirizzato a un pubblico più ampio.
I valentiniani erano in grado di piegare i testi ai loro assiomi mediante
metodi di tutti i tipi, con il predominio dell'allegoria di tipo platonico,
precisamente perché essi prendevano come paradigma della realtà il mon-
do divino del Pleroma, di cui la storia è un pallido riflesso, sicché quello
che succede in essa si riferisce principalmente a quello e solo in modo de-
rivato agli uomini spirituali e al loro destino finale.
L'esegesi valentiniana influirà enormemente su autori come Ireneo e
Tertulliano, fra i protagonisti della tradizione che chiamiamo asiatica (cfr.
infra, pp. 155-6). Oltre ad accelerare la coscienza canonica nella Grande
Chiesa, la polemica scatenata contribuirà a fissare la coscienza testuale
neotestamentaria e ad affinare concetti decisivi come quello di paradosis
o traditio (cioè la tradizione, segreta per gli gnostici, pubblica per gli ec-
clesiastici) quale criterio ermeneutico per interpretare la Scrittura. Senza
chiudersi a nessun metodo esegetico, risulta decisivo per questi autori lo
schema promessa-compimento senza allontanarsi dal piano storico: ciò
che si annuncia nelle Scritture di Israele si compie in Gesù; e si compie o
si compirà nei cristiani, tutto questo visto nella prospettiva dell'unico Dio
creatore, Padre di Gesù e dell'unica economia destinata a introdurre lo
Spirito nella carne dell'uomo per la sua salvezza.
L'esegesi allegorico-tipologica fu inoltre protagonista, oltre alla pole-
111ica antigiudaica (Giustino), nelle due omelie pasquali di ambiente asia-
tico quartodecimano, quella di Melitone di Sardi e l'anonima In sanctum
/l,zsl"ha, predicate al popolo per la Pasqua e costruite a partire da una let-
tura cristiana di Es 12.: il sacrificio dell'agnello pasquale e la liberazione
dd popolo di Israele dall'Egitto sono typos del sacrificio di Cristo, della
liberazione dell'uomo dal peccato e morte e della sua nuova creazione.
Da ultimo, è importante un riferimento all'attività esegetica di Ippo-
lito, vescovo orientale, il quale compose commentari a larghi brani della
Scrittura (Sul Cristo e l'A.nticristo, Commmento a Daniele, Commento al
Cmtiw, David e Goliath, Benedizioni di Giawbbe e di Mose), nello stile
154 STORIA DEL CRISTIANESIMO

di Eracleone. Con lui l'esegesi, preferibilmente tipologica, si apre a una


maggiore sistematicità.

L'interpretazione della Scrittura in ambito alessandrino

Se la tradizione asiatica si caratterizza per essersi forgiata in un contesto


polemico, nell'Alessandria cristiana si può parlare di una iniziativa cultu-
rale più sistematica, molto più aperta alla paideia greca e che pretende di
approfondire, in contrasto con i gruppi gnostici, l'interpretazione della
Scrittura e la comunicazione dei misteri divini, soprattutto a beneficio del-
le classi colte.
Clemente, del quale si sono perdute, tranne frammenti, le Ipotiposi (Eu-
sebio, h.e. 6,14,1 ), in cui egli presentava interpretazioni sintetiche di tut-
te le Scritture, considera che queste sono la voce del Logos divino (Protr.
9,82.84). In esse non c'è nulla di banale; tutto è scritto con un fine preciso,
anche se a volte può restare nascosto. Per scoprirlo, bisogna cercarlo con
zelo e capacità, riservate agli eletti, predestinati alla gnosi, non nel senso
delle nature gnostiche, ma grazie all'esercizio del libero arbitrio. Quanto
allo schema interpretativo, Clemente combina l'esegesi allegorico-tipolo-
gica, principalmente delle Scritture di Israele, con l'allegoria di tipo mora-
le, cosmologico (Strom. 1,3,30-31), che viene dispiegata molto più ampia-
mente di quanto avveniva negli autori asiatici.
Con Origene l'esegesi della Grande Chiesa acquisisce una maturità tec-
nica formidabile. Egli amplia l'attività esegetica a tutti i libri della Scrittura
e in modo più esteso dei suoi predecessori. Questo lavoro assume tre forme
diverse. Negli scoli Origene raccoglie spiegazioni di passi scelti da un li-
bro specifico. Le omelie furono predicate soprattutto a Cesarea, dopo che
divenne presbitero (cfr. CAP. 5, p. 170 ), e si adattano in estensione e conte-
nuto alle esigenze di un pubblico vario, pur seguendo un ordine secondo il
quale si spiegano in modo continuo gli episodi principali di un libro intero.
Infine, i commentari, di cui il principale è quello a Giovanni, costituiscono
l'aspetto scolastico dell'esegesi origeniana, dove la ricerca del significato
del singolo passo è tanto profonda da dispiegarsi senza limiti di spazio.
Origene intende l'esegesi come un esercizio spirituale per il quale è ne-
cessario il dono della grazia. Si serve di tutti i metodi dell'esegesi, prefe-
ribilmente dell'allegoria non tipologica. In primo luogo bisogna svelare
il senso letterale del testo: abbiamo già parlato della sua acribia filologica
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 155

(cfr. supra, pp. 13 5-6) che ora, grazie alla straordinaria recente scoperta di
Marina Molin Pradel delle ventinove omelie sui Salmi nell'originale greco
contenute nel Codice Monacense greco 314, sappiamo da lui applicata an-
che nella predicazione al popolo, quando discetta degli errori dei copisti
del testo biblico (Perrone, 2.012). Però il vero compito dell'esegeta consiste
nella ricerca del senso o dei diversi sensi spirituali del passo: nell'opera Sui
principi, che contiene anche un'ampia trattazione (4,1-3) sulla Scrittura e
la sua interpretazione, egli definisce, a partire dalla tripartizione corpo/
anima/ spirito, tre livelli letterale/ morale/ spirituale, sebbene questo sche-
ma non sia applicato sistematicamente nella sua esegesi.
In ogni caso lo scopo fondamentale è la ricerca del senso superiore, spi-
rituale, conformemente al modello platonico, secondo il quale bisogna in-
nalzarsi per mezzo dell'allegoria alla verità eterna del vangelo. Paradigma
ermeneutico della sua esegesi è la convivenza perfetta di Dio per mezzo
del Logos con i noes prima del loro peccato (cfr. infra, p. 157). Il dato sto-
rico, corporeo è solo il punto di partenza, non il punto di arrivo. Pertanto
esiste in funzione del livello superiore. Allo stesso modo, dalla conoscenza
di Cristo uomo, propria del cristiano semplice e consentanea al senso let-
terale della Scrittura, si passa alla conoscenza di Cristo Dio da parte del
cristiano perfetto in accordo con il senso spirituale (Hom. Lv. 1,1 ).

Le tradizioni patristiche
Completiamo quanto siamo andati dicendo a proposito degli autori cri-
stiani che si contrapposero a Marciane e alle correnti gnostiche, accennan-
do alla formazione delle grandi tradizioni patristiche, asiatica e alessandri-
na, dove per "tradizione" si intende una categoria dinamica associata a un
ambiente, a un individuo o a un gruppo, che si riferisce a una forma globa-
le di concepire e vivere la fede cristiana a partire dalla dichiarata ricezione
ddla predicazione apostolica, e che comprende il modo di vivere e pregare,
la riflessione dottrinale, l'interpretazione della Scrittura, riconoscendosi
in alcuni principi fondamentali. Infatti, a differenza di Marciane e degli
gnostici, i quali pure si riferivano alle tradizioni di un apostolo privilegiato
(Paolo, nel caso di Marciane) o di alcuni (come nel caso degli gnostici), le
tradizioni che chiamiamo patristiche riaffermano l'unicità di Dio e nega-
no la differenza di natura degli uomini.
La tradizione che fiorì per prima fu quella asiatica. La denominazione
STORIA DEL CRISTIANESIMO

corrisponde all'iniziale ambito geografico di questa impostazione cultu-


rale cristiana che però si diffuse presto con suoi rappresentanti in lungo
e largo nell'Impero: a Roma con Giustino, ad Antiochia di Siria con Te-
ofilo, a Lione in Gallia con Ireneo, quest'ultimo passato alla storia come
paradigma della tradizione, in Asia con Melitone e Ippolito, in Africa con
Tertulliano (Simonetti, 1994, p. 319). In essa l'asse della storia è la salus
carnis o la salvezza della carne («la carne è il cardine della salvezza», dirà
Tertulliano). L'uomo, composto di spirito, anima e corpo, si definisce so-
prattutto in relazione a quest'ultimo. Lo spirito, elemento divino, viene
progressivamente riversato da Dio nell'uomo per farlo partecipe della sua
gloria. È ovvia in questa prospettiva la centralità della vita e dell'umanità
reale di Gesù fino a giungere alla perfezione del Cristo glorioso, paradig-
ma dell'uomo perfetto, secondo la cui immagine Dio modellò Adamo
per mezzo delle sue mani, il Figlio e lo Spirito. La creazione materiale del
mondo e dell'uomo è unica e amata da Dio che predispone la salvezza
di entrambi. Pur servendosi occasionalmente della filosofia (per esempio
Giustino di quella platonica), questa tradizione fu molto libera rispetto
agli assiomi delle varie scuole.
Sebbene tratti asiatici si incontrino in autori successivi, la tradizione
alessandrina raggiunse presto una posizione egemonica, prima in Oriente
(Clemente; Origene, paradigma di questa tradizione; i Cappàdoci: Basilio
di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo) e poi anche in Oc-
cidente (Ambrogio, Rufino, Girolamo). L'osmosi con la tradizione plato-
nica la rese più accessibile per l'ambiente circostante e alla lunga vincente,
ma comportò non poche tensioni con alcuni punti ereditati come dottri-
nalmente insindacabili dall'età apostolica, quali il dogma della resurrezio-
ne dei morti, precisato nel II secolo, contro i dualisti, come resurrezione
"della carne". Di fatto, in maniera più o meno esplicita, per questa tradizio-
ne l'uomo si identifica, platonicamente, con l'anima. Sulla scia di Filone,
Clemente distingue la creazione dell'uomo a immagine di Dio (Gen 1,2.6-
2.7 ), cioè a immagine del Logos, da quella dal fango della terra, cioè del
corpo (Gen 2.,7 ), sessualmente marcato. In particolare, Origene inserisce
questa convinzione in un'ampia e affascinante riflessione che ha lo scopo
ultimo di opporsi agli gnostici, i quali, partendo dalla constatazione della
diversità di sorte e indole degli esseri umani, professavano la distinzione di
nature diverse - determinate da diversi agenti divini - la cui sorte di bene
o di annichilimento è ontologicamente segnata dall'origine.
L'Alessandrino invece afferma l'unicità di Dio, giusto e buono, e l'u-
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 1 57

nica natura degli esseri creati da Dio inizialmente come creature raziona-
li (i noes), tutte uguali, dotate di libero arbitrio, variamente decadute (è
incerto se tutte o moltissime), per libera scelta, dalla primordiale condi-
zione celeste di bene e di unione con il Logos di Dio (dottrina impropria-
mente ma comunemente detta della "preesistenza delle anime"). Il male
non esiste sostanzialmente, è solo l'assenza di bene prodotta dagli esiti del
libero arbitrio: Dio, che si identifica con il Bene, predispone un assetto
del cosmo adatto al recupero delle creature, donde il mondo attuale e la
suddivisione delle creature in angeli, esseri umani e demòni. Ali' iniziale
uguaglianza delle creature corrisponderà analoga fine e dunque Origene
ammette la salvezza universale delle creature (dottrina dell'"apocatastasi")
- compreso il diavolo che per primo si era allontanato dalla sua condizio-
ne originaria - recuperate lentamente e liberamente al bene dall'azione
provvidenziale di Dio che si dispiega in più mondi successivi, esercitando
prima la giustizia punitiva e poi la bontà salvatrice. Due sono le conse-
guenze: a) in origine non c'è differenza fra angeli, uomini e demòni; b)
la creazione materiale, la sua salvezza e la vita di Gesù nella carne sono
conseguenti alla caduta della prima creazione. Preesistenza e apocatastasi
furono, praticamente da subito, dottrine contestate, anche se Origene ave-
va buon gioco nel dire che non c'era nessun chiaro pronunciamento della
tradizione apostolica sull'anima. In sostanza, Origene non ammette che il
male, che è per lui non essere, possa sussistere in eterno rispetto ali' Essere
e al Bene che è Dio: così egli salvaguarda la teodicea in una maniera ardita
(cioè con l'apocatastasi) che non mancò di affascinare e che è stata ripro-
posta variamente da alcuni pensatori in tutte le epoche.

Bibliografia ragionata

Sulla questione del libro cristiano, due ottimi testi come avvio alla ricerca sono H. Y.
e AM BLE ( = Gamble, 2.006), Libri e lettori nella chiesa antica, Paideia, Brescia 2.006
(<:d. or. 1995); A. GRAFTON, M. WILLIAMS, Come il cristianesimo ha trasj-òrmato il
lihro, Carocci, Roma 2.011 (ed. or. 2.006). Sulla cronografia eusebiana, si veda o. AN-
DREI ( = Andrei, 2.010 ), I Chronici Canones di Eusebio di Cesarea. Una rivoluzione
<Fonografica, in "Adamantius", 16, 2.010, pp. 34-51.
In generale sulla questione del canone, cfr. E. NORELLI, Le statut des textes chrétiens
rie f'oralité à l'écriture et leur rapport avec l'institution au II' siede, in Id. (éd.), Recueils
" 0 nnatifi et canons dans l'Antiquité, Editions du Zèbre, Lausanne 2.004, pp. 147-94;
STORIA DEL CRISTIANESIMO

A. SAEZ, Canon y Autoridad en los dos primeros siglos, Istituto Patristico Augustinia-
num, Roma 2.014. Per i manuali, si vedano B. M. METZGER, Il canone del Nuovo Te-
stamento, Paideia, Brescia 1997; L. M. MCDONALD, Ihe Biblica/ Canon, Hendrickson,
Peabody (MA) 2.007. Gli atti di congressi recenti sono L. M. MCDONALD, J. A. SAN-
DERS (eds.), Ihe Canon Debate, Hendrickson, Peabody (MA) 2.002.; J. M. AUWERS,
H. J. DE JONGE (eds.), Ihe Biblica/ Canons, Leuven University Press, Leuven 2.003.
Per le opere collettive, cfr. G. ARAGIONE, E. JUNOD, E. NORELLI (éds.), Le Canon
du Nouveau Testament, Labor et Fides, Genève 2.005 (di cui si veda in particolare il
contributo di E. JUNOD, D 'Eusebe à Athanase, pp. 169-95). Su Papia, cfr. E. NORELLI
(= Norelli, 2.005), Papia. Esposizione degli oracoli del Signore. I frammenti, Paoline,
Milano 2.005.
Sul canone dell'Antico Testamento si segnalano J. D. KAESTLI, o. WERMELINGER
(éds.), Le Canon de l'A.ncien Testament, Labor et Fides, Genève 1984 (di cui si veda
in particolare il contributo di E. JUNOD, La farmation et la composition de l'A.ncient
Testament, pp. 105-34); N. FERNANDEZ MARCOS, La Bibbia dei Settanta, Paideia,
Brescia 2.000; G. DORIVAL ( = Dorival, 2.004), La farmation du canon biblique de
l'A.ncient Testament, in Norelli (éd.), Recueils normatifi et canons dans l'A.ntiquité, cit.,
pp. 83-112..
Sulla storia dell'esegesi cristiana, si vedano M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria,
Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1985; ID., Origene esegeta e la sua tradizione,
Morcelliana, Brescia 2.004. Sulla relazione fra ermeneutica ed esegesi, cfr. P. DE NAVA-
SCUÉS, El cuerpo de Cristo, el libro de la Vida, Faculcad de Teologia San Damaso, Ma-
drid 2.008. In particolare, per i latini, si vedano A. POLLASTRI, F. COCCHINI, Bibbia e
storia nel cristianesimo latino, Boria, Roma 1988. Sul concetto di tradizione asiatica e
alessandrina, si segnala M. SIMONETTI ( = Simonetti, 1994), Ortodossia ed eresia tra I
e II secolo, Rubbettino, Saveria Mannelli 1994.
Per una prima qualificata informazione su Origene, cfr. A. MONACI CASTAGNO (a
cura di), Origene. Dizionario. La cultura, la vita, le opere, Città Nuova, Roma 2.000;
F. COCCHINI, Origene. Teologo esegeta per un 'identità cristiana, EDB, Bologna 2.006. È
in corso per la collana "Griechischen Chrisclichen Schrifcsteller" (Gcs) l'allestimento
dell'edizione critica delle ventinove omelie sui Salmi scoperte da M. Molin Pradel:
cfr. L. PERRONE ( = Perrone, 2.012.), Riscoprire Origene oggi: prime impressioni sulla
raccolta di omelie sui Salmi nel Cod. Mon. Graec. JI4, in "Adamantius", 18, 2.012., PP·
41-58. Sulla tradizione alessandrina si vedano i volumi della rivista "Adamantius''. con
amplissima bibiografia, e i convegni del Gruppo italiano di ricerca su Origene e la
Tradizione alessandrina (GIROTA).
5
Alla periferia dell'Impero romano e oltre:
i caratteri comuni dei cristianesimi orientali
(secoli II-IV)
di Alberto Camplani

I tratti comuni

Il cristianesimo si è diffuso nelle aree periferiche dell'Impero romano o


al di là dei suoi confini, sia in direzione dell'Oriente asiatico sia verso
l'Africa settentrionale, in regioni che già da tempo avevano elaborato
proprie culture e le avevano espresse nelle lingue dei gruppi etnico-socia-
li locali, e che dall'età ellenistica in poi avevano instaurato una dialettica
più o meno incensa con la civiltà greco-romana, che si esprimeva in gre-
co e in latino. Già la prima fase dell'ellenizzazione, a seguito dell'impre-
sa di Alessandro Magno (332. a.C.), aveva disseminato il Vicino Oriente
e l'Egitto di abiti mentali, stili di vita, modelli di amministrazione, con-
figurazioni urbanistiche di origine greca, accolci in maniera differenziata
secondo i contesti. La successiva dominazione romana aveva poi eser-
citato la propria influenza non solo nel campo dell'amministrazione,
ma anche in quello del vivere civile e del modo di pensare. Anche sotto
di essa, il greco continuava a essere diffuso nel Mediterraneo orientale:
pertanto, la presenza romana in Egitto dal 31-30 a.C. e l'impresa di Lu-
cio Vero in Mesopotamia nel II secolo d.C. debbono essere considerati
momenti di una seconda fase di diffusione della tradizione culturale e
linguistica greca.
Con questa complessa ellenizzazione si trovavano a interagire i sostrati
culturali locali, innescando un altrettanto complesso processo culturale
dagli esiti diversificati nelle varie aree. A tutto ciò fu sensibile l'espansione
dd cristianesimo in periferia e oltre i confini dell'Impero: di conseguenza,
la mulciformità fu un carattere distintivo dei fenomeni di cristianizzazio-
ne delle regioni periferiche vicino- e medio-orientali, ma altrettanto, se
non più rilevante, fu il tratto comune che segnò il rapporto di questi ter-
ritori con il cristianesimo, cioè il fatto che l'evangelizzazione fornì nuovi
160 STORIA DEL CRISTIANESIMO

stimoli al processo già in atto dell'emersione di nuove élite autoctone in


un contesto politico dominato dall'Impero romano e in un ambiente cul-
turale più o meno ellenizzato.
Alcune novità, infatti, si affermano tra II e III secolo con l'attivismo
economico dei gruppi etnici orientali, favorito anche dall'estensione della
cittadinanza romana sotto l'imperatore Caracalla (212 d.C.), e la conse-
guente rinnovata vivacità della vita municipale. Tale possibilità di afferma-
zione sociale apertasi per i ceti etnici emergenti è stata intercettata dalle
comunità cristiane, che hanno garantito a questi una posizione di rilievo e
prestigio ali' interno non solo della vita religiosa, ma anche della dirigenza
comunitaria. In ambiente persiano, quindi fuori dall'Impero romano, o
negli Stati satelliti tra i due grandi Imperi, i fenomeni di diffusione del
cristianesimo si sono incontrati con comunità giudaiche vivaci, trovando
in esse una sede particolarmente adatta, anche se non unica, alla ricezione
del messaggio.
Un altro fenomeno interessante da notare in questi contesti periferici è
costituito dall'elaborazione di lingue letterarie utili ali' attività intellettua-
le, attuata da gruppi di levatura sociale medio-alta, da ceti di notabili locali
che, pur potendo utilizzare il greco, hanno voluto dotarsi anche di una
lingua scritta intimamente legata alla loro etnia, che meglio ne rilevasse
l'identità. Ciò accade o prima o durante la fase della cristianizzazione: se il
siriaco scritto precede la presenza di gruppi cristiani in Osroene e Adiabe-
ne, l'armeno e il georgiano letterario sono certamente da connettersi con
l'attività di forti chiese cristiane nelle regioni caucasiche.
Ciò premesso, in questo capitolo forniremo qualche notizia sulle ori-
gini e la crescita del variegato cristianesimo alla periferia meridionale e
orientale dell'Impero romano, nonché nelle forme statali, piccole e gran-
di, al di là dei suoi confini, per tutta la fase che precede l'esplosione delle
controversie cristologiche (431), ben consci del fatto che, se esso non può
essere isolato dal multiforme cristianesimo greco-latino, nello stesso tem-
po presenta tratti di insopprimibile originalità, che avranno una loro rile-
vanza quando esso entrerà da protagonista nelle lotte religiose tra i grandi
patriarcati (cfr. CAP. 8).
Partiremo da qualche notizia relativa alla Siria, alla Mesopotamia e
all'Egitto: in queste aree, infatti, l'espansione del cristianesimo ha dato
luogo a comunità molto differenziate già a partire dal II secolo. In un
secondo momento prenderemo in considerazione Armenia, Georgia ed
Etiopia, che nei secoli II e III sono state oggetto di una penetrazione
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE

cristiana sporadica, mentre solo a partire dal IV esibiscono un'evidenza


indubbia di cristianizzazione, nella forma di una conversione verificatasi
dall'alto della scala sociale, a partire dalle case regnanti. Il quadro poli-
tico in cui queste prime fasi di sviluppo del cristianesimo hanno avuto
ludgo vede il prevalere di due grandi centri di potere: l'Impero romano,
con il suo assetto territoriale vasto e articolato; la Persia, dominata dalla
dinastia degli Arsacidi, e poi, a partire dal 22.4-226, dai Sasanidi, ideo-
logicamente ispirati all'antico e glorioso Impero achemenide e religio-
samente fedeli al mazdeismo, religione dotata di un culto e di un clero
destinati a crescere nel quadro dell'apparato statale e a scontrarsi con il
cristianesimo.

Siria e Mesopotamia

L'evangelizzazione di Siria e Mesopotamia

L'area geografica di diffusione di gruppi cristiani che si esprimono in ara-


maico (un insieme di lingue del ceppo semitico), e in particolare nella va-
rietà chiamata "siriaco", si estende a oriente di Antiochia: essa comprende
la porzione interna delle province della Syria prima e della Syria secunda,
ma soprattutto la Mesopotamia, a partire dalle sue articolazioni regionali
settentrionali di Osroene e Adiabene, con i rispettivi capoluoghi di Edessa
e di Nisibi (due città fondamentali per gli sviluppi della cultura del cristia-
nesimo siriaco), per passare attraverso l'area della capitale Seleucia-Ctesi-
fonce e giungere fino alle regioni meridionali che si affacciano sul Golfo
Persico. Si tratta di due realtà culturalmente diverse: la Siria è infatti erede
di una ricca e vivace civiltà ellenistica, è sede di fiorenti città, con élite do-
rate di un forte senso dell'autonomia municipale; il vasto territorio meso-
potamico, invece, presenta una civiltà meno urbanizzata, anche in ragione
della sua peculiare struttura politica, e più resistente alla cultura greco-
romana, caratterizzata da unafacies linguistica che vede il greco assumere
un ruolo significativo (anche a livello pubblico), ma soprattutto prevalere
le lingue iraniche e semitiche. La vasta regione della Mesopotamia tra I e
11 I secolo è luogo di continui conflitti e conosce una mobilità estrema dei

confini che dividono l'Impero romano dalle formazioni statali di ambito


Persiano. Tra la fine del II e l'inizio del III secolo essa, nuovamente contesa
dai Parei, diventa romana, destino cui anche l'Osroene deve aderire dopo
STORIA DEL CRISTIANESIMO

un breve periodo di indipendenza. Solo con la sconfitta di Giuliano detto


l'Apostata nel 362 Nisibi ritorna all'interno della Persia. Questa è l'area
dove, nonostante il frazionamento politico e lo stato di guerra continuo,
il cristianesimo, nella multiformità dei suoi movimenti, ha mantenuto
maggiore stabilità. Non dobbiamo tuttavia dimenticare i numerosi sposta-
menti di cristiani, e anche qualche missione più organizzata, dipanatisi nei
secoli sulla via della seta, verso l'India e verso la Cina, che hanno lasciato
tracce più o meno durature del loro passaggio.
Eusebio di Cesarea si interessa del cristianesimo dell' Osroene fin dal
primo libro della Storia ecclesiastica (1,13), quando riporta la leggenda della
conversione al cristianesimo della casa regnante di Edessa, nella persona
del re Abgar, per opera di un discepolo di Gesù (Taddeo o Addai), citan-
dola da un originale siriaco più antico e più breve di quello pervenutoci
indipendentemente (v secolo). Dà inoltre prova di un'attenzione appas-
sionata per i fenomeni cristiani che si manifestano nella regione, svelando
il coinvolgimento dell' Osroene nella controversia pasquale (cfr. CAP. 3,
p. 123) della fine del II secolo (h.e. 5,23), o accennando con ammirazione a
un intellettuale siriaco come Bardesane di Edessa (h.e. 4,30 ). Nonostante
questo, non sembra provvisto di una documentazione adeguata sul cri-
stianesimo dell'area mesopotamica, ragione per cui dobbiamo rivolgerci
ad altre fonti per ricostruire per lo meno alcune situazioni di cristianizza-
zione: epigrafia, archeologia, scritti eresiologici (per esempio l' Elenchos,
Efrem di Nisibi, Epifanio di Salamina, Teodoro Bar Konai), testi letterari,
i quali in taluni casi costituiscono l'unica traccia dell'esistenza di forme di
cristianesimo taciute dalle fonti tradizionali.
La varietà delle ipotesi di ricostruzione delle origini cristiane nella re-
gione può essere ridotta a due tendenze maggiori: quella che vede predo-
minante l'influsso della città greca di Antiochia, che avrebbe raggiunto gli
ambienti ellenizzanti di Edessa e dintorni; quella che invece insiste su una
missione palestinese o gerosolimitana di carattere più semitico, che avreb-
be toccato l'Osroene ma, soprattutto, l'Adiabene, luogo della presenza di
un vigoroso ebraismo, al quale si era convertita anche la casa regnante, do-
tato di un'accademia. Uno sguardo sinottico delle testimonianze non per-
mette di dirimere la questione, e probabilmente un modello che preveda
la poligenesi dei fenomeni cristiani nella vasta regione rende giustizia della
grande varietà di tendenze che si intravvede dietro le fonti.
Per completare il quadro bisogna aggiungere un'osservazione lingui-
stica: il siriaco appare per la prima volta non in prodotti letterari cristiani
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE

o ebraici, ma nei mosaici e nelle epigrafi funerarie dell'élite non cristiana


che ha dominato Edessa dal I secolo d.C. in poi, sia quando era capitale
di un libero Stato, sia quando è stata ridotta a colonia romana. Si ricordi
quanto abbiamo detto appena sopra a proposito della volontà dei ceti no-
biliari di non occultare, accanto all'ellenizzazione, un'immagine di sé che
conservasse propri elementi identitari come la lingua e la sua espressione
scritta di carattere semitico. Di tale prezioso strumento linguistico, che era
a disposizione accanto al greco, si sono impossessati ebrei e cristiani per
dotarsi di una cultura scritta.

La letteratura cristiana

Primo monumento letterario insigne di quest'area, probabilmente rap-


portabile a Edessa, è la traduzione dell'Antico Testamento, chiamata a
partire dal IX secolo pefitta, 'la semplice', databile tra il I e il III secolo d.C.,
la cui caratteristica più qualificante è l'esser stata compiuta a partire da un
modello ebraico e non dalla versione greca dei Settanta, come è invece ac-
caduto nelle altre letterature cristiane orientali. Gli ambienti che ne sono
responsabili sfuggono a una immediata identificazione: si sono proposti
il giudaismo di Edessa o i Giudei credenti in Cristo, di lontana matrice
palestinese; qualche critico ritiene ipotizzabile un'evoluzione e trasfor-
mazione degli ambienti intellettuali responsabili, per cui l'operazione del
giudaismo edesseno, marginale rispetto a quello rabbinico e poco sensibile
alle tematiche cultuali legate al Tempio, sarebbe stata continuata da cristia-
ni di origine giudaica ancora capaci di comprendere l'ebraico.
È attribuibile a Taziano, allievo del martire Giustino, giunto in zona
siriaca nel 17 2, l'iniziativa di scrivere il Diatessaron, un'armonia evangelica
(Matteo, Marco, Luca e Giovanni), non è chiaro se in greco o in siriaco,
ricostruibile oggi attraverso citazioni e versioni in varie lingue antiche.
Questa iniziativa aveva una sua netta caratterizzazione ideologica. Sappia-
1no infatti che venivano eliminate le genealogie di Gesù, per sottolinearne
Li provenienza senza mediazioni da Dio, e che erano particolarmente en-
fatizzati i passi evangelici compatibili con un accentuato encratismo (cfr.
CAP. 3, p. 109 ). Di segno diametralmente opposto era invece la traduzione
dei vangeli separati, contemporanea o di poco posteriore, che insisteva sul-
k genealogie di Gesù, in linea con alcune preoccupazioni tipiche di am-
bienti giudaici cristiani.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Maestri e profeti

Questo rapido giro d'orizzonte sulle versioni bibliche fa intuire quale va-
rietà di posizioni teologiche ed etiche abbia ospitato il cristianesimo di area
siriaca, soprattutto in zona edessena. L'encratismo non è solo tratto carat-
teristico di Taziano, ma pervade anche tutta la letteratura legata al nome
dell'apostolo Tommaso ( vangelo e Atti), conservata in copto, greco e siria-
co, collocabile in Osroene pur senza prove decisive, dove una protologia in
cui l'essere umano è presentato come unitario e non sessualmente differen-
ziato costituisce anche il paradigma escatologico; Tommaso costituisce l'e-
sempio del vero credente, gemello di Gesù il vivente, e quest'ultimo assume
in alcuni casi i tratti tipici della cristologia doceta (cfr. CAP. 3, p. 111 ).
Una cristologia anch'essa alca (cfr. CAP. 3, p. 113), centrata su un Cri-
sto rivelatore e salvatore cui l'intimità del credente desidera conformarsi,
espressa in un linguaggio immaginifico ispirato ai Salmi, è illustrata nel-
le Odi di Salomone, uno degli insiemi testuali di più difficile datazione e
collocazione ideologica: lo dimostra il fatto che le Odi sono utilizzare da
intellettuali distanti come Lattanzio e l'autore gnostico della Pistis Sophia,
e che in siriaco sono trasmesse nell'ambito di manoscritti di contenuto
biblico. Non stupisce che, in epoca moderna, siano stare classificate varia-
mente tra i due poli estremi del giudeocristianesimo e dello gnosticismo.
Una sensibilità spiccata verso l'elaborazione filosofica greca caratteriz-
za Bardai~in (Bardesane, 154-2.22.), caposcuola di una corrente intellettuale
cristiana fiorita a Edessa tra II e III secolo, connessa alla corte e destinata nel
IV a essere marginalizzata. A lui o all'autore delle Odi di Salomone è attribui-
bile l'iniziativa di comporre versi poetici in lingua siriaca. La sua personalità
sfugge a una classificazione nei termini delle correnti cristiane dell'epoca.
Certamente il suo sistema e la sua etica non sono vicini a quelli prevalenti
nella Grande Chiesa (Ireneo, Origene), ma nemmeno contigui allo gnosti-
cismo classico, né all'encratismo della letteratura legata a Tommaso, anzi è
tutto percorso da una polemica contro il marcionismo condotta sulla base
di una reologia del Logos (cfr. CAP. 3, p. 12.0) coniugata con speculazioni
sull'eternità della materia, la quale rifiuta l'opposizione marcionita tra il
Dio dell'Antico Testamento e il Dio "straniero" padre di Gesù Cristo.
L'atteggiamento di polemica esplicita o implicita contro Marciane è
stato riconosciuto non solo negli scritti di Bardesane, ma anche in alcu-
ne Odi di Salomone, nella leggenda di Abgar, nonché nei più tardi autori
del IV secolo, Efrem e Liber graduum. Non vi possono essere dubbi sul
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE

fatto che, mentre le sette gnostiche hanno condotto una vita appartata in
ambiente siriaco, il marcionismo abbia costituito una reale sfida agli altri
movimenti cristiani.
Dalla parte opposta del ventaglio delle opzioni teologiche si collocano
i gruppi di Giudei credenti in Cristo rappresentati sia in Osroene, sia nelle
Mesopotamia orientale e meridionale. Qui i gruppi di battisti fin dal II
secolo hanno costituito comunità significative, ispirate al profeta Elchasai
("la potenza del nascosto") (cfr. CAP. 2., p. 87 ), cui reagiranno dialettica-
mente i movimenti più tardi come il mandeismo e il manicheismo.
Il manicheimo è un elemento fondamentale di questo quadro, quello che
probabilmente ha contribuito al rafforzamento dell'identità della Grande
Chiesa in tutta l'area, proprio per la radicalità con cui ha posto il problema
del dualismo, del male, delle nature, dell'etica, della Chiesa. Esso nasce nella
Mesopotamia sasanide, ma Mani ( 2.16-2.76), secondo la capitale testimonian-
za della sua biografia conservata nel Codice Manicheo di Colonia, indirizza
una lettera anche ai credenti di Edessa, dove evidentemente intende acquisi-
re proseliti, per convertirli alla religione dei due principi, la luce e la tenebra.

Gli sviluppi della Chiesa

In questo pullulare di iniziative, di maestri, di profeti, dove si colloca la


Grande Chiesa, nucleo della futura ortodossia? L'iscrizione di Abercio
costituisce testimonianza principe non solo della sua diffusione in Asia
Minore e in altre zone del Mediterraneo, ma anche della sua presenza a
N isibi, come conferma qualche decennio più tardi il dialogo intitolato Li-
hro delle leggi dei paesi, attribuibile alla scuola di Bardesane. Per Edessa il
C:hronicum Edessenum presenta un documento civico in cui si parla del
« tempio della chiesa dei cristiani» in relazione a un'inondazione del 2.01:
ci si domanda se si tratti di una casa-chiesa del tipo di quella scoperta a
Dura Europos, e se essa sia traccia della presenza di una comunità raccolta
iutorno a un vescovo, piuttosto che di gruppi radunati attorno a profeti
e maestri ai limiti dell'ortodossia. Non esiste una risposta sicura. Certo è
che la leggenda di Abgar, nella sua più tarda versione siriaca, sostiene che
un certo Paluç di Edessa sarebbe stato ordinato da un personaggio storico,
Serapione vescovo di Antiochia, all'inizio del III secolo. La vera e propria
chiesa episcopale di Edessa è stata fatta costruire dal vescovo Qona all' ini-
zio del IV secolo. Dunque, il monoepiscopato (cfr. CAP. 3, p. 108) è venuto
166 STORIA DEL CRISTIANESIMO

crescendo di importanza durante il III secolo in Osroene e probabilmente


ha esercitato la sua influenza su Nisibi e la Mesopotamia. Nel IV secolo
esso è la norma in Osroene e Adiabene, le cui sedi episcopali dipendono
con ogni probabilità da quella di Antiochia.
All'inizio del IV secolo nella Persia sasanide sono presenti non solo
il modello del monoepiscopato, ma anche forme di centralizzazione
del potere religioso, che si imperniano su una delle capitali dell'Impero,
Seleucia-Ctesifonte, e che si fondano su di un vescovo, Papa. Questi, de-
posto in un primo tempo da un gruppo di suoi colleghi, viene ristabilito
attorno al 32.9 dai vescovi "occidentali", cioè responsabili di diocesi collo-
cate nell'Impero romano vicino ai confini con la Persia. Va ricordato che
la forma dell'episcopato monarchico deve essere penetrata in Persia non
solo attraverso la via di Edessa, ma anche per il tramite delle deportazio-
ni operate dai Persiani vittoriosi al tempo di Valeriano (260 ): sappiamo
che l'imperatore fu deportato ali' interno dell'Impero persiano assieme a
una grande massa di antiocheni e dunque anche di cristiani (forse anche il
vescovo Demetriano), ed è del tutto probabile che questi ultimi abbiano
rifondato nella diaspora delle comunità rette secondo un modello molto
evoluto di episcopato monarchico.
Proprio nei confini di questo Impero, mentre in Occidente l'era co-
stantiniana apre un periodo di pace relativa per il cristianesimo, si scatena
una persecuzione anticristiana che dura per alcuni decenni. Di cale perse-
cuzione le Esposizioni di Afraate, scrittore siriaco della metà del IV secolo,
forniscono una sofferta testimonianza. Diventa subito chiaro che il rap-
porto tra cristianesimo e potere non cristiano è uno dei grandi problemi
nella storia della Chiesa di Persia: tale condizione di minorità contraddi-
stinguerà la medesima Chiesa sotto il potere islamico e nel corso delle sue
lunghe e avventurose missioni verso il Medio e l'Estremo Oriente.
La situazione politica ha certamente favorito una progressiva autono-
mia della Chiesa di Persia dalle chiese occidentali. La probabile dipen-
denza da Antiochia non è ricordata esplicitamente dalle fonti. È invece
sottolineata, nella grande raccolta degli atti sinodali siriaci, la presenza di
vescovi "occidentali", cioè appartenenti all'Impero romano, nei primi si-
nodi persiani che, all'inizio del v secolo, vanno a sancire l'identità di que-
sta Chiesa: con il concilio del 410, svoltosi con il permesso dell'imperatore
Yazdgerd, e promosso da Marutha, che è a un tempo vescovo di Maipher-
kac e ambasciatore dell'imperatore Arcadio presso l'Impero persiano, si ha
la formale accettazione del Simbolo e dei canoni di Nicea e la dichiarazio-
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE

ne dell'ordine delle province ecclesiastiche persiane, capeggiate da quella


di Seleucia-Ctesifonte, dove risiede il vescovo più importante, definito
tatholicos; nel 42.0, in presenza di Acacia, vescovo di Amid (Impero roma-
no), il concilio dei vescovi persiani accetta il diritto sinodale antiocheno
e ribadisce la centralità di Seleucia-Ctesifonte; il concilio del 42.4, infine,
sottolinea che il vescovo della capitale non deve avere un riferimento supe-
riore, nemmeno tra i padri occidentali. Con questo la Chiesa persiana di-
chiara la propria autonomia e libertà nella gestione di propri affari interni.
Solo con il passare del tempo, il vescovo di Seleucia-Ctesifonte aggiungerà
al titolo di catholicos quello di "patriarca".
Un'ultima notazione permette di accennare a un tratto di originalità di
questa Chiesa. Il monoepiscopato si diffonde in comunità in cui da tem-
po è presente un'antica istituzione ascetica, i bnay qydmd, espressione che
può essere resa con "Figli del Patto". Si tratta di gruppi di asceti, sposati
o non sposati, che hanno scelto comunque la via della continenza e della
dedizione totale alla Chiesa. Rispetto al monachesimo, che essi precedono
di molto, i Figli del Patto propongono uno stile di vita ascetico in stretto
legame con le chiese delle città e dei villaggi.L'ideale dell'unità antropolo-
gica è alla base di questa forma di ascetismo, i cui membri possono definir-
si come "unici" (i~iddye): unità di vita, non divisa dalle preoccupazioni per
il matrimonio e per i figli; unità psicologica, dovuta alla concentrazione
sull'unico fine religioso della vita; unità mistica con l'Unigenito (i~iddyd),
modello a cui conformarsi in tutto. Questo è quanto viene delineato dai
testi siriaci quali le Esposizioni di Afraate, gli Inni di Efrem e il manuale di
spiritualità che è il Liber graduum. Tali gruppi convivono con l'istituzione
episcopale, spesso in tensione con essa, intendendo costituire una sorta di
avanguardia, una traccia della situazione escatologica nell'attualità della
Chiesa. Con l'affermarsi del monachesimo essi perderanno di importan-
za, pur non scomparendo del tutto.

L'Egitto e la nascita del copto

Le fonti

L'Egitto ellenistico e romano è la regione dove meglio possiamo cogliere la


giustapposizione e poi la fusione culturale tra due etnie diverse, gli Egizia-
ni e i Greci, cui più tardi si aggiungono i Romani. Esso è inoltre il luogo di
168 STORIA DEL CRISTIANESIMO

un'evoluzione tutta particolare del giudaismo, nella forma del giudaismo


ellenistico, la cui eredità viene ricevuta in ambito cristiano anche dopo la
rivolta giudaica del 115-117 e la sua dura repressione. La storia del cristiane-
simo egiziano risente di questa complessa dialettica etnico-culturale. Esso
è iniziato in Alessandria (cfr. CAP. 3, p. 9 8) per diffondersi a ondate in tutto
l'Egitto, superando le divisioni etniche e linguistiche tradizionali e la dico-
tomia tra la grande metropoli e il resto del paese. I primi gruppi cristiani in
Alessandria si sono espressi certamente in greco, ma quando diverse forme
di cristianesimo si sono diffuse nell'entroterra egiziano, hanno assunto an-
che l'elemento linguistico egiziano. Nello stesso tempo le religioni tradi-
zionali, che definiamo impropriamente pagane, fanno uso anch'esse delle
due lingue e rimangono a lungo praticate nelle due etnie. Solo alla fine
del IV secolo possiamo notare che il rapporto di forze tra cristianesimo e
religioni tradizionali si sta capovolgendo a favore del primo.
La quantità di fonti da utilizzarsi è davvero notevole se rapportata a
quelle relative al cristianesimo di altre regioni. Oltre a quelle più tradi-
zionali di tipo storiografico, canonico, agiografico, omiletico, teologico,
conservate in greco e in copto, ma anche in arabo e altre lingue orienta-
li, meritano una specifica menzione le fonti di archivio del patriarcato di
Alessandria; i papiri letterari greci e copti veicolanti testi rimasti poi ai
margini dell'ortodossia (legati al nome di Origene e di coloro che a lui
si sono ispirati, allo gnosticismo, al manicheismo); le architetture delle
chiese e dei monasteri, e le espressioni iconografi.che, manifestanti una
complessa relazione con il passato faraonico e poi ellenistico; i testi do-
cumentari, costituiti da papiri, ostraca e altro materiale, che illustrano il
funzionamento della Chiesa dal III secolo in poi anche nelle sue unità più
piccole, e che costituiscono, per essere stati redatti in date quasi sempre
certe e in situazioni concrete, un sistema di controllo delle notizie trasmes-
se da altri tipi di fonti.

L'organizzazione ecclesiastica ai suoi inizi

Nonostante una tradizione risalente all'inizio del III secolo attribuisca la


prima evangelizzazione a Marco evangelista, le origini del cristianesimo in
Alessandria rimangono avvolte nell'oscurità (cfr. CAP. 3, p. 98). La nuova
religione appare con i suoi rappresentanti storicamente documentati al-
quanto dopo la rivolta giudaica del 115-117. Nonostante le fonti ci rendano
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE

edotti circa l'esistenza di una pluralità di gruppi dall'orientamento reli-


gioso molto diverso, bisogna constatare che i primi nomi registrati sono
quelli di famosi maestri gnostici, come Basilide e Valentino, che avranno
lar?o seguito in Egitto.
Questo non deve portare alla conclusione che nel II secolo non sia esi-
stita una gerarchia ecclesiale di altro orientamento, come in altre parti del
Mediterraneo. Bisogna piuttosto pensare che tale gerarchia è esistita, ma
ha avuto scarso peso culturale, e non ha lasciato traccia di sé nelle fonti.
Personaggi in vista dal punto di vista sociale si erano avvicinati al cristia-
nesimo nella sua forma gnostica o platonica, strutturata in circoli di intel-
lettuali. Persino un pensatore non gnostico come Clemente Alessandrino
non dà peso alla gerarchia ecclesiastica (pur menzionata nei suoi tre gradi
di diacono, presbitero, vescovo), mentre la sua attenzione è attratta dal
rapporto fra maestro e discepolo, che egli avverte come centrale. Ciono-
nostante, Eusebio di Cesarea e una pletora di fonti egiziane e orientali ci
hanno lasciato una lista di vescovi di Alessandria a partire da Marco: in
essa il dato storico, forse non inconsistente, ma difficilmente verificabile,
ha lo scopo ideologico di creare una linea di successione episcopale con-
tinua, che risalga fino all'età apostolica (cfr. CAP. 3, p. 118). È dunque un
prodotto piuttosto tardo, la cui prima elaborazione è collocabile nel III
secolo, con ritocchi nel IV e nel v.

L'affermarsi dell'episcopato monarchico in Egitto

Ali' inizio del III secolo si osservano i segni di una reazione a questa strut-
tura evanescente della comunità cristiana e al suo orientamento religioso.
L'iniziativa è attribuibile a Demetrio, primo vescovo di Alessandria (189-
2.u.) storicamente verificabile, che decise di sfruttare l'enorme potenziale
intellettuale del maestro Origene e la sua capacità di reagire intellettual-
inence allo gnosticismo. Certamente è con l'assenso di questo vescovo che
Origene operò all'interno di una nuova struttura, la scuola catechetica
(didaskaleion), nella quale egli, in un secondo momento, aprì anche un li-
vello superiore di istruzione, riservando all'amico Eracla il livello "di base".
A differenza degli gnostici o di Clemente, Origene esercitava il suo ruolo
di maestro sotto il controllo del vescovo. La sua opera educatrice permise
a Demetrio di fare della comunità di Alessandria una Chiesa a un tempo
110 11 gnostica e gerarchicamente strutturata, caratterizzata dalla pluralità
STORIA DEL CRISTIANESIMO

dei livelli sociali e culturali, aperta alla cultura e all'élite sociale. Questo
non significa che non vi siano state tensioni tra episcopato e scuola, come
dimostra la sofferta vicenda di Origene, che a un certo punto della sua
carriera, per contrasti con Demetrio, dovette trasferirsi in Palestina, a Ce-
sarea, dove era stato ordinato presbitero dal vescovo Teoctisto e dal collega
Alessandro di Elia Capitolina (Gerusalemme).
Dopo Demetrio fu vescovo Eracla (232-248), che in seguito alla par-
tenza di Origene da Alessandria, era stato promosso alla guida della scuo-
la, e che non fece nulla per riconciliarsi con Origene. A Eracla succedet-
te Dionigi (248-264), uno dei personaggi più in vista di Alessandria, in
precedenza direttore della scuola: questi passaggi tra scuola ed episcopato
dimostrano come la scuola si fosse ormai completamente integrata nella
struttura della Chiesa. Ma questo comportò anche dei dissensi: un gruppo
di fedeli alessandrini protestò presso la sede di Roma contro il vescovo
Dionigi, criticando la sua dottrina trinitaria (cfr. CAP. 7, p. 231); lo scontro
di Dionigi con il millenarismo presente in alcune regioni egiziane ( tra le
quali il Fayyum) è prova delle difficoltà incontrate dalla politica cultura-
le della scuola integrata nell'episcopato. Questi dissensi non provenivano
solo da cristiani di scarsa preparazione o levatura sociale, perché soltanto
persone di una certa preparazione potevano muovere alla scuola l'accusa
di essere troppo sensibile alla filosofia greca.
D'altra parte, è evidente che con Demetrio si sta affermando anche ad
Alessandria, con un certo ritardo, la forma dell'episcopato monarchico.
Possiamo ipotizzare che esso subentri a una struttura presbiterale, forse
attiva ai vertici della Chiesa di Alessandria nel II secolo. Tale struttura, di
forte impronta giudaica, ha lasciato le sue tracce nel sistema di elezione e
ordinazione del vescovo di Alessandria, che in una prima fase prevedeva
che fossero i presbiteri della metropoli a scegliere e consacrare come ve-
scovo un loro membro. Demetrio diffonde il modello dell'episcopato mo-
narchico anche all'esterno della metropoli, nella Valle del Nilo, portando
così alla formazione delle prime diocesi. Con il rescritto dell'imperatore
Gallieno (261-262) inizia un periodo di pace che sarà interrotto soltanto
dalla persecuzione di Diocleziano (303): è il periodo in cui la Chiesa si
diffonde per tutto l'Egitto, anche nelle oasi, dando luogo, al tempo del
vescovo Pietro I (300-311), a quella rete di cento vescovi che con aggiunte
marginali rimarrà stabile fino alla dominazione araba. La scuola cateche·
tica, nonostante le lacune della nostra documentazione, sopravvive, anche
se il suo rapporto con l'episcopato è meno organico che alle origini.
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE 171

I nuovi vescovi, tutti dipendenti da quello di Alessandria, dopo il 250


intendono far sentire la loro voce nella scelta del primate, che dunque vie-
ne eletto non più soltanto dai presbiteri. A tale scelta partecipano anche i
vescovi che, con Alessandro (312-328), ottengono la sanzione liturgica di
questo nuovo stato di cose, consistente nella loro partecipazione all'ordi-
nazione del vescovo scelto.

L'invenzione del copto

La nascita delle diocesi, attestate dai papiri documentari già nella seconda
metà del III secolo ( i più noti sono quelli relativi a Sotas di Ossirinco ), è
significativa per la popolazione della Valle del Nilo, soprattutto per quella
di etnia egiziana: essa vede la Chiesa della metropoli farsi prossima alle
sue esigenze religiose, fatto che si riflette nella presenza sempre più fitta di
cristiani egiziani nelle fonti del III secolo.
Va osservato che lo sviluppo della rete delle diocesi non permette il
prevalere di alcuna città sulle altre, né nella Valle del Nilo, né in Libia, né
in Cirenaica: Alessandria rimane il perno del sistema. Non si dà dunque
alcuna premessa per la formazione di una struttura metropolitana, come
invece accade in altre parti del Mediterraneo (ad esempio, la vicina An-
tiochia di Siria), ragione per cui in Egitto (come in Italia meridionale, in
rapporto a Roma) non esistono metropoliti e tutti i vescovi dipendono
da quello della capitale. Tale fenomeno affonda le sue radici nella storia
sociale e amministrativa dell'Egitto, nella quale solo tardi i capoluoghi
dei nomoi egiziani hanno ottenuto lo status municipale e sono considerati
come poleis con la loro classe amministrativa.
Il periodo che va da Demetrio a Dionigi è significativo anche per la
scoria linguistica delle comunità egiziane. La Chiesa comunica in greco
ma, a partire dalla seconda metà del III secolo, uno spazio è lasciato anche
a una forma specifica di egiziano, sebbene limitatamente ad alcuni ambiti
della produzione scrittoria: proprio in questa fase il copto comincia ad af-
fermarsi. Si deve tener conto del fatto che ancora nei primi secoli dell'Im-
pero la produzione di testi egiziani e la loro copiatura avveniva nelle varie
scritture note in Egitto, la cui difficoltà ne facevano un appannaggio di
un'élite ristretta, legata ai templi. La progressiva decadenza di tali sistemi
di scrittura a livello epistolare, amministrativo, e più tardi anche legisla-
tivo, portò inevitabilmente a una situazione nella quale il greco avrebbe
STORIA DEL CRISTIANESIMO

potuto divenire l'unico veicolo della comunicazione scritta anche presso


gli Egiziani.
Tuttavia, ci fu una reazione a questo: proprio all'interno dell'élite
dell'etnia egiziana, durante il 111 secolo, avvenne la creazione di una lin-
gua letteraria, il copto, con un suo alfabeto di semplice utilizzazione e
apprendimento, in gran parte preso a prestito da quello greco. Le prime
attestazioni vedono una prevalenza di testi che possiamo definire lata-
mente cristiani, in particolare traduzioni dal greco di testi biblici, gno-
stici e cristiani ortodossi, ma tradiscono altresì la presenza significativa
di materiale magico legato alle religioni tradizionali, per cui è difficile
prendere una posizione sulle origini confessionali di questa lingua let-
teraria. Solo a partire dal secondo quarto del IV secolo il copto è usato
nella corrispondenza privata, ma limitato ad ambienti monastici o asce-
tici. Il copto è una lingua letteraria che, nel far riferimento alla lingua
egiziana, la modernizza, prendendo atto dei cambiamenti intervenuti in
una società che è divenuta progressivamente bilingue. Un ceto nuovo,
economicamente in crescita, ormai ellenizzato e conscio dell' irreversibi-
lità del processo che nei secoli precedenti aveva portato alla decadenza
della civiltà del passato, sente il bisogno di evidenziare il proprio presti-
gio mediante la formulazione di una lingua letteraria che, se pur deriva
dalla secolare evoluzione linguistica egiziana, è anche totalmente aperta
all'influsso lessicale, sintattico e naturalmente concettuale della cultura
greca dell'epoca.
Ali' interno di questa élite, dotata di una propria lingua letteraria, si
riproducono le tensioni culturali che sono presenti nei testi greci. La dif-
fusione della Chiesa gerarchica, la sua presenza più capillare e più organiz-
zata sul territorio, favorisce il processo di marginalizzazione dello gnosti-
cismo, la cui eredità letteraria continua tuttavia a essere copiata e tradotta.
In questo contesto si svolge la propaganda manichea a partire dal 270,
che va incontro a pagani, cristiani cattolici e gnostici. A una Chiesa che
esprime testi copti "ortodossi" si contrappongono ambienti che traduco-
no, copiano e interpolano più o meno profondamente testi gnostici e testi
manichei. Ma, nell'ambito stesso della produzione ortodossa, si riscon-
trano testi di aperta tendenza antiorigenista e testi maggiormente aperti
ali' influsso della tradizione origeniana.
Nel contesto di questa diffusione sempre più capillare della Chiesa epi-
scopale e nel quadro di questa vita culturale molto ricca dobbiamo collo-
care anche le origini del monachesimo (cfr. CAP. 9 ), destinato a incidere
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE 173

profondamente nella Chiesa egiziana e del Mediterraneo. Il periodo delle


origini è caratterizzato da una pluralità non solo di motivazioni, ma an-
che di forme, nonché da un'identità a volte incerta, anche nei confronti
di altre forme di ascetismo cristiano, spesso legato alla vita di città o di
villaggio, con cui i monaci intrattengono rapporti di cooperazione o di
concorrenza.

L'ascesa dell'episcopato alessandrino

La persecuzione dioclezianea è stata traumatica, ma non ha annientato la


Chiesa egiziana, che da essa emerge ancora ben strutturata, sebbene pro-
fondamente divisa. Gli editti di persecuzione (303) certamente segnano
un momento di crisi, provocando la fuga di molti vescovi e presbiteri, la
deportazione di altri, la loro condanna ai lavori forzati nelle miniere, il
martirio di rappresentanti illustri dell'élite, la distruzione di chiese e di
libri.
La conseguenza più vistosa di tale situazione è l'esplosione di uno sci-
sma che è profondamente radicato da una parte nell'insofferenza nei con-
fronti della gerarchizzazione della vita episcopale, sempre più incentrata
sul vescovo di Alessandria, dall'altro nello stato di disordine creato dalla
persecuzione, che, in assenza di un'autorità centrale anch'essa persegui-
tata e incapace di prendere decisioni, ha fatto sì che intere diocesi fossero
lasciate a sé stesse, o in mano a un clero non sempre adeguato, preparato e
coraggioso. Tale centralizzazione, che non sostiene le comunità persegui-
tate, è stata radicalmente criticata da Melizio, vescovo di Licopoli. Que-
,ri si è sentito in diritto, nonostante il divieto canonico per i vescovi di
celebrare ordinazioni al di fuori delle diocesi di competenza, di ordinare
diaconi e presbiteri nelle situazioni di bisogno, Delta compreso, a partire
dal 304. Con questo atto Melizio apre uno scisma destinato ad avere riper-
cussioni molto pesanti per tutta la prima metà del IV secolo, portando a
una divisione sia nel clero sia nel monachesimo egiziano.
Condannato al concilio di Nicea del 32.5, tale movimento scismati-
co troverà modo, un decennio dopo, di alimentarsi grazie a un'alleanza
tattica con il clero ariano o contiguo all'arianesimo. Quest'ultimo, nato
;irtorno al 318 dal libico Ario, uno dei presbiteri responsabili delle chiese
di Alessandria, viene condannato prima dal vescovo Alessandro di Ales-
,andria e poi dal concilio di Nicea (cfr. CAP. 7, p. 232), ma trova rapido
174 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Paralo
Paretonio

~p..RMAfìtc...q

oasi piccoissmnco

Mons
Porphyrites
p..RAB/,<!1

Siene
File

L'Egitto nel IV-V secolo.


ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE 17S

supporto in Oriente, in ambienti episcopali ostili alla crescita sempre


più pronunciata del potere religioso della sede episcopale alessandrina.
In questo contesto di crisi interviene la figura complessa e problemati-
ca di Atanasio (32.8-373), probabilmente consacrato mediante un colpo
di mano organizzato all'interno del clero egiziano antimeliziano. La sua
personalità è caratterizzata da una fiducia incondizionata nella giustezza
delle sue ragioni, da foga polemica contro gli avversari ecclesiali, da co-
stanza e resistenza nei confronti delle numerose persecuzioni capitategli
anche da parte del potere imperiale: dunque un uomo che può attrarre
per la sua forza carismatica, ma anche portare a divisioni e contese. Alla
difficile situazione ecclesiastica il vescovo cerca di rimediare con una po-
litica complessa, in cui l'elemento propagandistico e polemico estrema-
mente aspro e gli atti di costrizione e di violenza non sono disgiunti da
forme di riconciliazione volce a rinsaldare il proprio partito ecclesiale.
La struttura ecclesiale acanasiana tenta di emergere fra altri partiti ag-
guerriti, ma con grande difficoltà. Una delle intuizioni di Atanasio più
gravide di conseguenze è l'alleanza con il monachesimo in tutte le sue
forme: tale fenomeno della vita cristiana diventerà sempre più decisivo
nella vita della Chiesa.
Se l'episcopato di Atanasio è totalmente coinvolco nella crisi ariana,
che è a un tempo teologica, politica ed ecclesiastica, in quanto riguarda sia
il rapporto tra cristianesimo orientale e quello occidentale, sia le relazioni
tra lm pero e Chiesa, il periodo che segue è invece caratterizzato dall' incre-
mento di potenza delle sedi episcopali orientali più importanti, tra le quali
Alessandria tenta di emergere, soprattutto quando si rende conto che Co-
stantinopoli, in virtù della sua posizione politica di capitale dell'Impero, è
destinata a crescere anche come potere religioso.
Con il vescovo Teofilo (385-412) viene elaborata un'immagine di Ales-
sandria come città da sempre ortodossa, segnata dal martirio, di origine
apostolica attraverso l'evangelista Marco, allievo dell'apostolo Pietro, in-
tenzionalmente opposta alla concorrente Costantinopoli, che cali qualità
non può vantare. A ciò si aggiunga anche la lotta al paganesimo, tema sul
LJuale Alessandria vuole entrare in piena sintonia con l'imperatore Teodo-
sio, con la distruzione (parziale) del Serapeo. Vittima di questa politica
di potenza del seggio alessandrino sarà Giovanni Crisostomo, vescovo di
Costantinopoli, la cui morte nel 407 segnerà la rottura della comunione
di Alessandria con la sede di Roma. Solo dopo la morte di Teofilo i rappor-
ti tra Alessandria e Roma saranno ristabiliti.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Cristianesimi del Caucaso:


Chiesa armena e Chiesa georgiana

La localizzazione geografica

L'area geografica in cui si espandono i cristianesimi caucasici è quella de-


limitata dal massiccio del Caucaso, dalla costa orientale e meridionale del
mar Nero, dalla costa sud-occidentale del mar Caspio e dai rilievi montuo-
si del Kurdistan. Ali' interno di questo territorio tre regioni sono signifi-
cative per la presenza di forme cristiane ben connotate: Armenia, Georgia
(Iberia), Aluania (meno correttamente: Albania). L'Armenia si presenta
come un vasto e articolato territorio a nord della Mesopotamia, che si
estende su un'ampia sezione dell'Anatolia orientale. La Georgia si suddi-
vide in una zona prospicente sulla costa orientale del mar Nero (Colchide/
Lazica) e una zona più orientale (lberia), volta verso la Persia. L'Aluania
è la regione che costeggia il mar Caspio, in un territorio corrispondente
all'attuale Azerbaijan: qui la cristianizzazione non ha avuto effetti stabili
nel tempo.

L'evangelizzazione dell'Armenia

Tralasciando le leggende apostoliche di evangelizzazione dell'Armenia, re-


gione che conosce una divisione politica tra i due grandi Imperi della tarda
antichità, quello romano e quello persiano, e che soltanto per brevi perio-
di sperimenta forme di relativa autonomia, abbiamo motivo di pensare
che essa sia stata toccata in età antica da correnti cristiane di due diverse
provenienze: quella meridionale e siriaca (da Edessa) e quella nord-occi-
dentale greco-cappadoce. In h.e. 6,46,2. Eusebio menziona una lettera di
Dionigi di Alessandria (2.48-2.64) a «quelli che sono in Armenia, presie-
duti da Meruzanes», a proposito dei lapsi: si tratta di una diocesi interna
all'Impero romano.
Ma la conversione al cristianesimo di quello che possiamo definire pro-
priamente il regno armeno avvenne in un momento non precisato tra il
306 e il 314: le opinioni dei critici, anche di recente, divergono, in quanto
le fonti fondamentali, di carattere agiografico e storiografico, quali la vita
di Gregorio, attribuita a un certo Agatangelo, l'epica storica che passa sot-
to il nome di P' awstos Buzand, o l'opera storiografica di Mosè di Co rene
(secoli v-v111) sono affiitte da anacronismi di vario tipo. Tale conversione
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE 177

ufficiale sarebbe avvenuta grazie all'opera di Gregorio l' «Illuminatore»,


il quale, secondo le fonti armene, sarebbe stato un nobile di origine par-
tica, educato a Cesarea di Cappadocia. Rientrato in Armenia al seguito
del re Trdat III, figlio di Chosrov I, a causa della sua fede cristiana sarebbe
stato gettato in un pozzo, dove sarebbe rimasto vivo per quindici anni.
La situazione si sarebbe risolta con la guarigione del re Trdat ad opera di
Gregorio stesso, che avrebbe provocato la conversione ufficiale di tutto
il regno al cristianesimo. Gregorio sarebbe poi stato ordinato capo della
Chiesa a Cesarea di Cappadocia, e avrebbe preso possesso canonico del
paese nella città di Astisat.
Questo insieme di tradizioni è traccia di una conversione dell'élite re-
gnante armena nel primo quarto del IV secolo. Certamente vi sono motivi
politici e identitari in questa scelta da parte della casa regnante, soprattutto
in contrapposizione alla Persia mazdea. Gregorio, come capo della Chie-
sa, assumeva le prerogative che prima appartenevano al capo dei maghi
zoroastriani ( «giudice del regno e amico dei poveri»); i figli dei sacerdoti
pagani furono educati per divenire il nuovo clero armeno. Emerge nelle
fonti il ruolo che Cesarea di Cappadocia ha giocato alle origini di questa
Chiesa. Qui furono ordinati Gregorio e i suoi successori, di padre in figlio
in linea ereditaria, fino all'epoca di Nerses I Parthew (353-373), dopo il
quale la Chiesa armena si configura, almeno parzialmente, come indipen-
dente da Cesarea. D'altra parte, la sede di Gregorio, come capo dell'epi-
scopato armeno, fu la città di Astisat, nella regione meridionale del Taron,
una zona a stretto contatto con gli influssi provenienti dall'area siriaca.
Solo più tardi, nel v secolo, la sede fu trasferita a Valarsapat (Edjmiatsin)
e a Dvin, nella regione settentrionale di Ayrarat, vicino al centro politico
della Persarmenia. Dunque, anche in queste tradizioni possiamo cogliere
una dialettica vivace tra due influssi diversi, uno greco-cappadoce e uno
siriaco-persiano, che segnano il cristianesimo armeno delle origini.

La letteratura armena

Tale dialettica ha lasciato le sue tracce anche nella cultura letteraria. Que-
sta deve il suo sviluppo a quello che la storiografia armena ritiene essere un
evento capitale per la sua letteratura, cioè l'invenzione dell'alfabeto arme-
no da parte di Mesrop Mastoz ( t 439 ), avvenuta con il sostegno convinto
del catholicos d'Armenia Sahak (t 438), vicenda su cui ci informa la Vita di
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Mesrop MaJtoc scritta da Koriun poco dopo la morte del suo eroe. Prima di
allora la Bibbia doveva venir tradotta ali' impronta e oralmente da lettori
in grado di comprendere o il siriaco o il greco. L'invenzione dell'alfabeto,
avvenuta a Edessa e perfezionata a Samosata, secondo il racconto di Ko-
riun, stimolò anche l'avvio di una vasta opera di traduzione che Mesrop
non poté certo realizzare da solo, ma con l'aiuto di generazioni di tradut-
tori, che appresero le lingue e le tecniche in tutti i centri più importanti
della cristianità bizantina. Il risultato fu una serie di traduzioni a partire da
testi siriaci e greci, che portò a una mescolanza interessante di tradizioni
teologiche e spirituali. Per quanto riguarda la Bibbia una prima traduzione
parziale condotta sul siriaco operata da Mesrop fu seguita da una seconda,
sulla base del testo greco, per opera di Eznik. Quindi si tradussero opere
storiografiche, nonché gli scritti di impegno teologico ed esegetico, anche
quelli appartenenti alla tradizione antiochena, e la letteratura canonica.
Solo a questo punto cominciò una produzione originale in lingua armena.

L'evangelizzazione della Georgia

La Georgia ha conosciuto diverse forme statali, alcune di notevole rilie-


vo come quella sorta fin dal IV secolo a.C. L'Iberia divenne protettorato
romano nel 65 a.C.; se la parte orientale ebbe relazioni soprattutto con la
zona persiana, più orientata verso l'Impero romano fu la parte occidenta-
le {Colchide). Il documento più importante circa la cristianizzazione e la
conversione della Georgia al cristianesimo è il racconto riportato da Ru-
fino (h.e. 1,n) sull'apostolato di santa Nino, una "prigioniera", risalente a
qualche decennio prima, tratto dal resoconto orale di un membro della fa-
miglia reale dell' Iberia in rapporto con lo storico. L'avvenimento sarebbe
datato al tempo di Costantino, durante il regno di Mirian ( t 342.).
Ovviamente numerose tradizioni, relativamente ali' apostolato di An-
drea o al ritrovamento della tunica di Cristo, tentano di connettere la
Chiesa del IV secolo con il periodo delle origini apostoliche, ma non il-
luminano in alcun modo i fenomeni di cristianizzazione prenicena che
certamente dovettero verificarsi. Le zone costiere dovevano già avere rap-
porti con la Chiesa a Occidente, se è vera la notizia della partecipazio-
ne del vescovo di Pityonta al concilio di Nicea. D'altra parte, è probabile
che il cristianesimo sia penetrato anche dall'Armenia e dalla Siria, come
la circolazione di testi prodotti in quelle zone farebbe supporre. Il primo
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE 1 79

vescovo georgiano sarebbe Giovanni (Ioane, 335-363 ca.), ordinato, secon-


do Rufino, da Alessandro di Costantinopoli. Nonostante questa notizia,
è attestato ampiamente il facto che i catholikoi dell'Iberia furono ordinaci
per qualche secolo in Antiochia, che dunque rimase la città di riferimento.
Il racconto della Conversione della Kartli accenna anche alla costruzio-
ne di una chiesa nella capitale, con la sovvenzione del re. Quindi, la crona-
ca accenna ai vescovi e, infine, alla fondazione del catholicosato, forma di
autonomia della Chiesa georgiana dalle chiese occidentali. Non è chiaro se
l'alfabeto georgiano sia nato in connessione con quello armeno. Le prime
traduzioni di cesti biblici dall'armeno furono immediatamente riviste su
modelli greci; le alcre traduzioni furono facce in Terrasanta, dove i georgia-
ni furono presenti fin dal v secolo.

L'Etiopia

La conversione della casa regnante

Il regno di Axum aveva il suo centro nell' alcopiano abissino, nel Tigray, a
notevole distanza dalle zone più meridionali dell'Egitto; nello stesso tem-
po esercitava la sua influenza politica al di là del mar Rosso, nella penisola
arabica sudoccidentale (Yemen), con la quale condivideva alcuni elementi
culcurali e linguistici. Le iscrizioni reali, redatte sia in ge'ez, la lingua etio-
pica classica, in un alfabeto che ricorda quello sabeo, sia in greco, attestano
la penetrazione dell'ellenismo anche in questa zona così remota.
La Storia ecclesiastica di Rufino è importante anche per inquadrare le
notizie e le testimonianze numismatiche ed epigrafiche circa la diffusione
del cristianesimo in Etiopia (che qui chiameremo Axum), una delle avven-
ture più straordinarie del cristianesimo antico ( 1,9-10 ). L'altro documento
capitale è la lettera, citata da Atanasio nell'Apologia a Costanzo 31, nella
quale l'imperatore Costanzo, dopo il 337, esorta i re di Axum 'Ezana e
Sazana a inviare ad Alessandria, presso il vescovo Giorgio che ne è a capo
(dopo la cacciata di Atanasio nel 356), il vescovo Frumenzio, affinché ne
verifichino la fede, dato che la sua ordinazione è stata effettuata da Atana-
sio, uomo riprovevole secondo l'imperatore, e dunque probabilmente in
contrasto con le leggi vigenti della Chiesa. La lettera di Costanzo non ci
dà la data di questa prima ordinazione. Attualmente, c'è un certo consen-
so critico sui primi anni so del IV secolo.
180 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Rufino colloca il primo arrivo del cristianesimo (h.e. 1,9-10) « al tempo


di Costantino». Secondo lo storico, due giovani di provenienza siriaca,
Frumenzio ed Edesio, a seguito dell'assassinio del loro maestro con cui
viaggiavano sulle coste dell' « India ulterior » (cioè l'Etiopia, probabil-
mente dalle parti di Adulis, sul mar Rosso), furono ridotti in schiavitù e
consegnati al re di Axum. Essi seppero acquistare la fiducia del re al pun-
to che, alla sua morte, Frumenzio divenne primo ministro della regina
reggente. Si adoperò dunque per reperire dei cristiani tra i commercianti
romani nel regno di Axum e diede loro facoltà di costruire chiese e di ce-
lebrare i riti. Più tardi Edesio ritornò a Tiro. Frumenzio, invece, si recò ad
Alessandria da Atanasio per informarlo degli avvenimenti di cui era stato
testimone; da lui fu ordinato vescovo per il paese. Tale ordinazione, come
abbiamo visto, è confermata dalla lettera di Costanzo, che la considera ille-
gale. Non risulta chiaro il motivo per cui Frumenzio andò a presentarsi ad
Alessandria anziché ad Antiochia. Forse le ragioni vanno ricercate in lega-
mi preesistenti tra alcuni nuclei cristiani etiopici e sedi episcopali egiziane
nel Sud. Con questo atto la nascente Chiesa etiopica si pone sotto la tutela
di quella egiziana, dalla quale dipenderà formalmente fino al xx secolo.
Questo racconto e la lettera di Costanzo sembrerebbero trovare riscon-
tro nella numismatica e nell'epigrafia. Sulle monete attribuibili alla metà
del IV secolo comincia a comparire la croce, al posto della tradizionale
simbologia religiosa, e nelle epigrafi sia greche che ge 'ez l'adesione al cri-
stianesimo è resa esplicita.

Le traduzioni in etiopico

Ben presto, dopo la conversione della casa regnante, dovettero iniziare le


traduzioni dal greco in etiopico. Risulta molto problematico capire qua-
li testi far risalire a questa fase. Attualmente, vi è un certo consenso che
il corpus aksumita possa comprendere la Bibbia, tradotta gradualmente
tra IV e VI secolo, apocrifi come il Libro di Enoch o l'Ascensione di Isaia,
il Pastore di Erma, nonché testi patristici più tradizionali come il Fisiolo-
go, l'Ancorato di Epifanio, la raccolta dogmatica denominata Qerellos (da
"Cirillo", ovviamente quello di Alessandria), la raccolta di testi canonici e
storiografici denominata Collezione Aksumita, e infine testi agiografici e
monastici. Non si esclude per questo periodo la composizione di testi ori-
ginali inge'ez di carattere agiografico o omiletico. Questa fase dell'attività
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE

di traduzione deve essere tenuta ben distinta da quella medievale, che sarà
rivolta soprattutto ai testi cristiani circolanti in lingua araba.

Bibliografia ragionata

Come introduzioni sugli studi riguardanti la Siria e la Mesopotamia, si vedano s. P.


BROCK, An lntroduction to Syriac Studies, Gorgias Press, Piscataway 2006; s. CHI A-
LÀ, Chiese di tradizione siriaca, in Dizionario del sapere storico-religi-oso, il Mulino,
Bologna 2.010, pp. 443-68. Sulla letteratura, cfr. P. BETTIOLO, Letteratura siriaca, in
A. Di Berardino (a cura di), Patrologia v. I Padri orientali (secoli v-vm), Marietti, Ge-
nova 2.000, pp. 415-93. Sulla Bibbia, si segnalano M. P. WEITZMAN, The Syriac Version
ofthe Old Testament: An lntroduction, Cambridge University Press, Cambridge 1999;
R. CONTINI, Il cristianesimo siriaco preislamico: il problema delle traduzioni bibliche,
in L. Cirillo, G. Rinaldi (a cura di), Roma, la Campania e l'Oriente cristiano antico,
Università degli Studi "L'Orientale~ Napoli 2.004, pp. 397-410; G. LENZI, I Vangeli
siriaci, in G. Cavallo et al. (a cura di), I Vangeli dei Popoli, Edizioni Rinnovamento
nello Spirito Santo, Roma 2.000, pp. 37-45. Sui primi sviluppi del cristianesimo si-
riaco e la sua teologia, cfr. R. MURRAY, Symbols oJChurch and Kingdom: A Study in
F,zrly Syriac Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1975; v. BERTI, Il
cristianesimo siriaco. Protagonisti, stagioni e nodi problematici dalla prima evangeliz-
;:,izione all'esordio del v secolo, in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura
,, l'immagine dell'imperatore del cosiddetto Editto di Milano p3-2013, voi. I, Istituto
ddl'Enciclopedia ltaliana-FScire, Roma 2.013, pp. 849-61; s. P. BROCK, A. M. BUTTS,
t;. A. KIRAZ, L. VAN ROMPAY (eds.), Gorgias Encyclopedic Dictionary of the Syriac
Heritage, Gorgias, Piscataway 2.011.
L'Egitto e la nascita del copto. Sulla geografia e documentazione papirologica,
cfr. il sito web www.trismegistos.org; s. TIMM (ed.), Das christlich-koptische A'gypten
in ,zrabischer Zeit: Eine Sammlung christlicher Stdtten in A'gypten in arabischer Zeit
w1ter Ausschluss von Alexandria, Kairo, des Apa-Mena-Klosters (Der Abu Mina), der
Skctis (T¼idi n-Natrun) und der Sinai-Region, 6 voli., Reichert, Wiesbaden 1984-92..
Sulle origini e la forma del cristianesimo fino al v secolo, si vedano E. WIPSZYCKA,
hudes sur le christianisme dans l'Egypte de l'antiquité tardive, Istituto Patristico Au-
gusrinianum, Roma 1996; A. CAMPLANI (ed.), L'Egitto cristiano: aspetti e problemi in
,,,,; tardo-antica, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1997; T. ORLANDI, Testi
/'<1tristici in lingua copta, in Di Berardino (a cura di), Patrologia v. I Padri orientali
(,cmli v-vm), cit., pp. 497-573; R. s. BAGNALL (ed.), Egypt in the Byzantine World,
100 -100, Cambridge University Press, Cambridge 2007; A. LUIJENDIJK, Greetings
STORIA DEL CRISTIANESIMO

in the Lord: Early Christians in the Oxyrhynchus Papyri, Harvard University Press,
Cambridge (MA) 2.008.
Cristianesimi del Caucaso. Sulla Chiesa armena e sulla Chiesa georgiana, cfr. F.
THÉLAMON, Pai'ens et Chrétiens au Ili' siede. L 'apport del' «Histoire ecdésiastique» de
Rufin d:A.quilée, Études augustiniennes, Paris 1981; J.-P. MAHÉ,L:A.nnénie et la Géorgie,
in Histoire générale du christianisme, voi. 1: Des origines au xli' siede, PUF, Paris 2.010,
pp. 652.-74 (con bibliografia). Sull'Armenia, si segnalano L. VACCARO, B. L. ZEKIYAN
{a cura di), Storia religiosa dell:A.nnenia, ITL Centro Ambrosiano, Milano 2.010; N. G.
GARSOIAN, L 'Église Annénienne e le Grand Schisme d'Orient, Peeters, Louvain 1999.
Sulla Georgia, cfr. G. SHURGAIA {a cura di), Santa Nino e la Georgia. Storia e spiritua-
lita cristiana nel Paese del Vello d'oro, Edizioni Antonianum, Roma 2.000.
Sull'Etiopia. Introduttivo sulle problematiche accennate è il volume A. BAUSI
(ed.), Languages and Cultures ofEastern Christianity: Ethiopian, Ashgate, Farnham
2.012.. Come fondamentale strumento di lavoro, si segnala Encydopaedia Aethiopica,
voi. I: A-C; voi. Il: D-Ha; voi. lii: He-N; s. UHLIG, A. BAUSI {eds.), voi. IV: O-X;
A. BAUSI, s. UHLIG {eds.), voi. V: Y-Z, Harrassowitz, Wiesbaden 2.003, 2.005, 2.007,
2.010, 2.013. Sulle origini, cfr. H. BRAKMANN, TO TTAPA TOU: BAPBAPOIL EPrON
0EION. Die Einwurzelung der Kirche im spdtantiken Reich von Aksum, Borengasser,
Bonn 1994.
Parte seconda
Cristianesimo, società, istituzioni
6
Il cristianesimo e la società
del mondo greco-romano fra I e III secolo
di Giancarlo Rina/di

I rapporti dei cristiani con la società:


lo sguardo degli altri

Abbiamo visto nei capitoli precedenti come il movimento di Gesù nacque


nel contesto culturale e religioso del giudaismo, e come fu soprattutto la
riflessione sulla figura di Gesù e sul suo rapporto con Dio a determinare
una serie di incompatibilità con i gruppi maggioritari del giudaismo così
da condurre, con tempi e modalità diverse da luogo a luogo, alla separa-
zione fra il giudaismo e quello che sarà chiamato cristianesimo. Cionono-
stante, i concetti-cardine che i cristiani andavano sviluppando e i relativi
termini (regno di Dio, Figlio di Davide, Figlio dell'uomo, messia, Legge,
peccato, redenzione, grazia, fede, resurrezione ecc.) appartenevano all'u-
niverso di pensiero dei Giudei. E di ciò gli uomini di cultura allevati in
conformità alla paideia classica (noi diremo i "pagani") furono consape-
voli. A loro tutto questo armamentario concettuale era estraneo. È impor-
tante notare che mentre i Giudei costituivano un gruppo religioso antico
e pertanto noto, il quale coincideva con un'etnia circoscritta e facilmen-
te individuabile, i cristiani, man mano che emergevano come un gruppo
distinto, presentavano i lati negativi del giudaismo ma non ne avevano i
tratti rassicuranti: considerati pertanto estranei a esso, furono privi dello
slt1tus di religio licita, riconosciuto al culto giudaico, e della conseguente
normazione di tutela.
Per i seguaci di Gesù il confronto con il mondo greco-romano era una
,fida inevitabile, insita nella dinamica dei fatti, già a partire dall'uso del
greco per l'evangelizzazione nel bacino del Mediterraneo. Il greco era la
lingua più diffusa nella parte orientale dell'Impero, era la lingua parlata
dai giudaismo della diaspora, ma anche la lingua dei commercianti, che
ebbero una parte rilevante nella diffusione del messaggio, oltre che degli
186 STORIA DEL CRISTIANESIMO

uomini di cultura. Non a caso si è salvata della primissima produzione let-


teraria, in cui non dovevano mancare brevi scritti in aramaico, solo quella
in lingua greca. Tra le finalità degli Atti degli Apostoli vi era anche, ben
chiara, quella di accreditare il messaggio come perfettamente compatibile
con i doveri del civis Romanus. Verso la fine del I secolo, la Prima lettera
di Pietro insiste sul rispetto che i credenti devono alle autorità ma, nel-
lo stesso tempo, testimonia una situazione di forte tensione tra queste e
i cristiani. A costoro, leggiamo in I Pt 4,15, erano infatti rivolte accuse di
essere malfattori, ladri, omicidi ecc., per cui si rendeva necessario un at-
teggiamento apologetico: deposta ogni vergogna, a testa alta urgeva essere
pronti a rispondere difendendosi.
Siamo così entrati nel vastissimo problema delle reazioni determinatesi
nella società antica al diffondersi della predicazione cristiana. Soltanto per
comodità didattica distingueremo alcuni livelli sui quali questa interazio-
ne ebbe modo di prendere corpo. Furono rapporti difficili ma, proprio per
tale motivo, contribuirono alla definizione dell'identità cristiana. In età
romana imperiale la precisazione del profilo identitaria di un gruppo era
solita avvenire non in virtù del dialogo bensì a causa delle polemiche tra i
diversi soggetti. Le categorie del dialogo e della tolleranza, che caratteriz-
zano, almeno a livello teorico, l'età contemporanea, erano di fatto estranee
a quell'epoca.
Dunque, i rapporti tra cristiani e "pagani" si svilupparono secondo i
seguenti livelli:
a) rumores circolanti tra il popolino, cioè accuse diffuse sul conto dei cri-
stiani basate prevalentemente su preconcetti e sul sentito dire;
b) attacchi da parte di intellettuali, sempre più sviluppati con una crescen-
te consapevolezza delle dinamiche interne al mondo cristiano e dei suoi
fondamenti dottrinali e scritturistici;
e) provvedimenti di tipo giudiziario posti in essere da parte di imperatori
o magistrati locali con incarichi di governo.
Questi livelli non vanno separati, poiché nella realtà dei fatti diedero
luogo a un sistema di "vasi comunicanti": spesso i magistrati recepivano
le accuse anticristiane del popolo e si vedevano costretti a intervenire in
senso repressivo. Talvolta, e ciò fu evidente nell'età della tetrarchia, con-
stitutiones imperiali anticristiane furono il riflesso delle pressioni di cena-
coli di intellettuali pagani. Parleremo dapprima dei provvedimenti di tipo
giudiziario, perché aiutano a visualizzare le coordinate cronologiche di un
lungo periodo nel quale si sviluppano non solo le opinioni di quanti, da
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 187

estranei, osservavano i cristiani ma si determina anche, da parte cristiana,


la necessità di difendere le proprie posizioni e i propri uomini attraverso
una letteratura di carattere apologetico e di raccogliere la memoria di colo-
ro che erano stati vessati a causa della fede e che, pertanto, si presentavano
quali modelli da imitare. Quest'ultima esigenza diede luogo allo svilup-
po della letteratura agiografica nell'ambito della quale gli Acta martyrum
costituiscono una preziosa fonte non solo sull'evoluzione dei modelli di
pietà, ma anche sul processo penale romano.

Le autorità e i cristiani

Per molti anni si è parlato, con termini generici e inadeguati, di rapporti tra
Chiesa e Stato romano. Successivamente, si è sviluppata una maggiore at-
tenzione storiografica nei confronti del diverso atteggiamento degli impe-
ratori in riferimento alla realtà cristiana. Sulla scorta di questa nuova sen-
sibilità la storia delle persecuzioni è stata riletta come la storia dei rapporti
tra imperatori e cristiani. Ma anche questo percorso rivela una sostanziale
immaturità di impostazione; esso, infatti, sembra ignorare che l'Impero
romano era un mosaico di province in ciascuna delle quali l'autorità di
Roma era pienamente rappresentata da governatori i quali esercitavano,
con ampi poteri discrezionali, anche la funzione di magistrati giudicanti.
Ben difficilmente, dunque, i cristiani entravano in contatto diretto con il
princeps. Più importanti delle sue eventuali direttive era l'atteggiamento
dei governatori locali sul quale incideva non solo la normativa generale
che costoro erano chiamati ad applicare, ma anche la specificità delle si-
tuazioni locali e del momento, gli umori della popolazione e, in ultima
analisi, le loro stesse personali sensibilità di uomini e di amministratori.
Abbiamo già visto, inoltre (cfr. CAP. 3), che non possiamo parlare sempli-
cisticamente di Chiesa, ma che dobbiamo considerare i cristiani un insie-
me variegato per dottrina, organizzazione, visione del mondo e, pertanto,
,cnsibilità verso i poteri costituiti.
Tutto ciò rende più difficile il lavoro dello storico. Per analizzare le vi-
cende degli antichi cristiani è infatti il caso di ricostruire, per quanto pos-
,ibile, la successione dei governatori che hanno rivestito la carica nelle sin-
gole province (fasti magistratuali), e così "incrociare" una realtà locale con
b politica generale del momento e con il mosaico delle presenze cristiane.
Si tratta cioè di proporre un'attenzione "prosopografica": già Eusebio di
188 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Cesarea parla di persecuzioni che avevano andamento diverso da zona


a zona, poi della nascita di un importante movimento cristiano (quello
della Nuova Profezia: cfr. CAP. 3, p. 12.3) contestualmente all'azione di un
proconsole piuttosto che di un imperatore; Tertulliano, indirizzandosi a
Scapula, attesta che anche gli apologeti trovavano fruttuoso rivolgersi a
governatori locali per far valere le loro ragioni.
Inoltre, si pone il problema di stabilire quando le autorità romane siano
state in grado di distinguere tra le comunità dei credenti in Gesù e il main-
stream giudaico. Ciò non ebbe a verificarsi in un luogo e in un momento
preciso, infatti, le nostre fonti attestano situazioni diverse. Se prendiamo
in considerazione gli Atti degli Apostoli, assistiamo già a un processo di
distinzione tra i seguaci di Gesù e la sinagoga. Su questo sfondo l'autore fa
intervenire i rappresentanti del potere di Roma a tutela della predicazione
dei credenti in Gesù e quasi ad arginare le malversazioni messe in atto dai
Giudei. Certamente, il messianismo di chi credeva in Gesù era diverso da
quello che aveva agitato le correnti giudaiche e la cui azione aveva portato,
già dal 66, al conflitto con Roma: probabilmente alle autorità locali non
sfuggiva il carattere meno pericoloso delle attese cristiane. Ma dobbiamo
anche mettere in conto che Luca, l'autore, aveva tutto l'interesse a presen-
tare il suo gruppo non solo in luce favorevole ma anche, di conseguenza,
degno di benevola attenzione da parte delle autorità costituite.
Un particolare negli Atti ci conduce alla storia del principato di Clau-
dio, intorno al 49. In At 18,2. leggiamo che Paolo incontrò Aquila e Pri-
scilla, una coppia di Giudei che stava a Corinto «in seguito all'ordine di
Claudio, che allontanava da Roma tutti i Giudei». Troviamo un riferi-
mento alla stessa vicenda in Svetonio: «Claudio espulse da Roma i Giudei
i quali erano continuamente in tumulto a causa di Cresco (Iudaeos impul-
sore Chresto assidue tumultuantes) » ( Claud. 2.5 ). Il testo, nella sua stringa-
tezza, pone almeno due problemi: (1) Cresco è da intendersi nome proprio
di un personaggio, probabilmente un liberto, il quale fomentava disordini
nelle comunità di quella diaspora, oppure è grafia errata per "Cristo"? In
tal caso, possiamo ipotizzare di trovarci di fronte a un'attestazione del-
le controversie suscitate dalla predicazione relativa a un Gesù Cristo che
Svetonio riteneva erroneamente presente a Roma? (2.) In cosa esattamente
è consistito il provvedimento di Claudio? Quanti Giudei furono espulsi,
tutti? Sull'evento disponiamo anche di una testimonianza di Cassio Dio-
ne ( 60,6,6) il quale afferma che, poiché il numero dei Giudei a Roma era
diventato oltremodo ingente, era impossibile espellerli dalla città senza
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 189

creare problemi di ordine pubblico e che, pertanto, Claudio, pur conce-


dendo di praticare il loro stile di vita, vietò che si riunissero tutti insieme.
Alla luce di questa informazione, l'inciso svetoniano si deve intendere, in
termini più espliciti, nel senso che Claudio espulse da Roma (soltanto)
quei Giudei che tumultuavano a causa del problema di Cre(i)sto. È vero
che gli Atti parlano di "tutti" i Giudei, ma questa potrebbe essere un'esage-
razione del tipo della carestia che investì "tutta" la terra proprio nell'età di
Claudio (At u,28). Possiamo così ravvisare nel provvedimento di Claudio
un'attestazione del già rilevante numero di Giudei che allora iniziavano a
interessarsi al problema Gesù. Dopo poco Paolo avrebbe incontrato i mag-
giorenti giudei di Roma dai quali avrebbe appreso la loro ignoranza sulla
sua personale predicazione ma anche le ampie opposizioni incontrate dal
messaggio di Gesù nei loro ambienti (At 28,22).
La punizione dei cristiani in quanto colpevoli dell'incendio di Roma
del 64, narrata da Tacito (An. 15,38-44), attesta per quell'anno la capacità
di distinguere tra costoro e i Giudei da parte di Nerone. Va notato che se
il provvedimento fu preso in relazione a quanto era accaduto, il fatto che
un capro espiatorio così calzante sia stato individuato senza troppa fatica
vuol anche dire che agli occhi dell'opinione pubblica i seguaci di Gesù
erano circondati da pessima fama e che probabilmente l' Institutum Ne-
ronianum del quale leggiamo un enigmatico accenno in Tertulliano (ad
nat. 1,7,9) va inteso come un'associazione di fatto tra il nome cristiano e
accuse riprovevoli, che ebbe a determinarsi nell'epoca di Nerone, con il
placet di quest'ultimo, e che rimase anche dopo la damnatio e la rimozione
dei suoi atti. La più ricorrente preghiera cristiana, il Padre nostro, quan-
do invocava l'avvento del regno di Dio, a un orecchio estraneo, implici-
tamente auspicava il collasso delle strutture politiche esistenti all'epoca.
Gli anni del principato neroniano videro progressivamente costituirsi un
clima difficile per la predicazione cristiana: la commistione tra il mos ma-
iorum religioso e un'arte platealmente celebrativa creò nell' ordo senatorius
disappunto e tra i cristiani un'ansia di liberazione da questo insano clima.
Su raie sfondo leggiamo l'inno di esultanza per il crollo di Roma in Ap
18, un resto sicuramente seriore ma che con buona probabilità veicola ele-
1nenci più antichi. Qui troviamo quelle che apparivano ai cristiani le più
vistose note connotative dell'evento: la cessazione sia dei grandi traffici
commerciali che Roma intratteneva con tutte le regioni della terra sia delle
n1usiche e degli spettacoli di cui abbondava la sua festosa vita urbana.
Nell'età dei primi due imperatori Flavi, Vespasiano ( 69-79) e Tito ( 79-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

81), non registriamo contatti tra autorità e cristiani anche se proprio in


quegli anni ebbe luogo l'evento che molto contribuì alla definizione iden-
titaria del gruppo dei credenti in Gesù: la guerra giudaica e la conseguen-
te caduta del Tempio di Gerusalemme. Abbiamo già visto (cfr. CAP. 2, p.
83) la posizione defilata dei fedeli di Gesù in quel frangente. La tragedia
occorsa ai Giudei che non avevano aderito a Gesù fu interpretata come
un castigo loro comminato da Dio e come un segno di favore verso i cri-
stiani. L'età flavia fu per i Giudei (principalmente della diaspora romana)
un'epoca di contraddizioni. La loro immagine risentì negativamente degli
eventi del 66-70 e sicuramente l'ampia diffusione dei tipi monetali recanti
la personificazione della Giudea in lacrime e l'istituzione deljiscus Iudai-
cus avrà contribuito a questa cattiva stampa; ai nobiliores parve opportuno
far cessare la relazione di Tito con la regina giudea Berenice; Domizia-
no compose un poema il quale, più che celebrare il fratello vincitore dei
Giudei, descriveva a tinte fosche il popolo che era stato trascinato nella
polvere. Una così recente dinastia aveva bisogno di un "mito di fondazio-
ne" per consolidare l'acquisita signoria, e come per Ottaviano Augusto era
stato fatto valere il Bellum Actiacum così per i Flavi fu chiamato in causa
il Bellum Iudaicum. Tutto ciò rese opportuna per lo storico giudeo Flavio
Giuseppe la compilazione delle sue opere di carattere storico-apologetico
le quali miravano ad accreditare la tesi di una rivolta voluta soltanto da
gruppi di facinorosi Giudei, a onta della posizione maggioritaria del suo
popolo che era caratterizzata da lealismo verso Roma e le sue istituzioni.
Più volte la storiografia si è interrogata sull'esistenza di un provvedi-
mento anticristiano da parte di Domiziano (81-96) del quale però non
abbiamo notizia certa nelle fonti se non in accenni di Melitone di Sardi
(Eusebio, h.e. 4,26,9) e di Tertulliano (Apol. 5), che sostanzialmente as-
similano, come avveniva di frequente, l'ultimo degli imperatori flavi con
Nerone. Il problema fu poi riformulato enfatizzando genericamente I' i-
diosincrasia dei cristiani per il proclamarsi e farsi proclamare dominus ac
deus da parte di questo imperatore. Con ogni probabilità gli innegabili epi-
sodi di persecuzione a danno dei cristiani che si ebbero sotto Domiziano
furono determinati da situazioni locali, da interventi di singole autorità le
quali recepirono istanze popolari tutelando le sempre cogenti esigenze di
ordine pubblico. La composizione dell'Apocalisse di Giovanni si inquadra
in quell'Asia proconsolare la quale, con epicentri proprio a Efeso e a Perga-
mo, celebrava con il culto dell'imperatore il lealismo dei suoi maggiorenti
e del suo popolo verso Roma e il suo dominus. A Roma pure si ebbero mo-
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 191

menti difficili, come sembra attestare la Prima lettera di Clemente ai Co-


rinzi e tutta una tradizione agiografica cristiana consacrata già nell'età di
Eusebio di Cesarea (h.e. 3,18,4). Rimane ancora problematico istituire un
collegamento era questi episodi di persecuzione anticristiana e le discusse
notizie di Svetonio (Domit. IO) e di Cassio Dione ( 67,14), secondo cui un
cugino dell'imperatore sarebbe stato condannato per inertia e ateismo e
Acilio Glabrione, console nell'anno 91, sarebbe stato pure condannato per
ateismo, adesione ai costumi giudaici e per aver introdotto novità. A favo-
re di un carattere anticristiano di questi provvedimenti potrebbe militare
il fatto che fu accusa ricorrente rivolta ai cristiani quella di essere atei (nel
senso di rinnegare gli dèi della patria) e di costituire una novità in facto di
religione, ma le nostre fonti non ci consentono di andare oltre il semplice
sospetto che le cose siano andate così.
L'età degli Antonini fu per le comunità cristiane un'epoca di forma-
zione e di trasformazione. Si pose allora la sfida culturale per i cristiani di
mediare era la predicazione del vangelo (strutturato secondo le categorie
del giudaismo) e l' humanitas vagheggiata da intellettuali e imperatori di
quell'epoca che vedeva l'egemonia della cultura ellenistica. Ma di ciò par-
leremo a suo tempo. Vi fu poi anche una più consapevole presa d'atto da
parte di governatori provinciali della consistenza delle locali comunità cri-
stiane e dei problemi che queste ponevano nell'ambito dell'amministra-
zione della giustizia e della tutela dell'ordine pubblico loro affidata.
In Bicinia lo scrupoloso legatus pro praetore Plinio il Giovane si trovò
coinvolto nell'esperienza per lui nuova di processi contro i cristiani. Ne
abbiamo ampia e preziosa notizia nella lettera che egli scrisse intorno al
m per ottenere direttive dall'imperatore Traiano (ep. 96). Il governatore
si confessava apertamente ignorante in maceria; non sapeva se calibrare le
punizioni a seconda dell'età o della gravità del crimine commesso, oppure
se perseguitare i cristiani soltanto a causa del loro "nome", si dichiarava
incerto se intervenire anche nel caso di chi era stato in passato cristiano.
Comunicava di aver comunque adottato un criterio che troveremo poi co-
stantemente applicato in tutti i successivi processi a carico dei cristiani:
colpire coloro che si ostinavano nella professione di fede e si rifiutavano
di apostatare. Ne ricaviamo che le persecuzioni anticristiane piuttosto che
creare martiri intendevano indurre apostasie. La testimonianza di Plinio
è preziosa non solo per la sua antichità ma anche perché, riferendo il con-
tenuto degli interrogatori, ci trasmette informazioni sul culto cristiano:
esso consisteva in riunioni celebrate in un giorno stabilito, ai primi baglio-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

ri antelucani, con il canto di inni a Cristo come se fosse un dio ( Christo


quasi deo ), con un sacramentum che impegnava a non commettere furti
e adulteri, a mantenere la parola data. Poi ci si rivedeva per celebrare un
pasto comunitario basato su cibo ordinario. Vi era stato inoltre l'interro-
gatorio sotto tortura di due schiave ministrae, termine, quest'ultimo, che
è improprio tradurre con diaconesse in quanto, nel linguaggio di Plinio,
indica semplicemente un ruolo di guida ecclesiale (cfr. CAP. 3, p. 106): da
ciò era risultato che quella dei cristiani era unasuperstitio perversa e sfrena-
ta, meritevole in quanto tale di essere punita. In conclusione il governatore
segnalava da un lato la rilevante diffusione nelle città e nelle campagne
della superstitio cristiana, dall'altro il suo ridimensionamento in virtù dei
provvedimenti repressivi da lui adottati. Il rescritto di Traiano non tardò
a giungere: l'imperatore approvava quanto fatto da Plinio, dichiarava che
non era il caso di emanare una norma generale e di procedere a una ricerca
d'ufficio; vietava di dar corso ad accuse anonime, anche se in caso di de-
nunce circostanziate si doveva procedere. Era così pienamente confermata
la prassi già adottata da Plinio: non creare martiri ma indurre apostasie e le
misure prescritte avevano una duttilità tale da lasciare spazio di manovra
ai singoli governatori.
In Asia, che fu terra cristiana per eccellenza, contemporaneamente a
Plinio, fu proconsole (112.-113) Cornelio Tacito che, probabilmente, pro-
prio dal soggiorno efesino ricavò quelle notizie sui cristiani che avrebbe
messo a frutto nel racconto dell'incendio di Roma nei suoi Anna/es. Sem-
pre in Asia, dieci anni dopo, le petizioni del popolo anticristiano attras-
sero l'attenzione del proconsole Serenio Graniano (121-122), il quale era
anche flamen Romae et Augusti e che, come abbiamo già visto nel caso di
Plinio, si rivolse al suo imperatore, Adriano (117-138), per ottenerne un
rescritto chiarificatore. Quest'ultimo giunse però al successore di Serenio,
Minucio Fundano (122-123): vi si raccomandava, ancora una volta, di non
dar peso a calunnie generiche ma di procedere solo sulla scorta di accuse
circostanziate. Quanto poi alle pene da infliggere queste avrebbero dovu-
to essere commisurate ai delitti effettivamente commessi. Sembra, quindi,
che in questo caso i cristiani siano stati perseguitati in base a crimini di
vario genere di cui erano riconosciuti volta per volta colpevoli.
Eusebio di Cesarea (h.e. 4,13,2-7) ci trasmette il testo di una lettera di
Antonino Pio (138-161), ampiamente rimaneggiata in senso filocristiano.
Ma un suo nucleo che potremmo ritenere autentico testimonia da un lato
l'accusa di ateismo e di causare sciagure, dall'altro la volontà dell' impe-
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 193

ratore di concentrarsi su problemi di ordine pubblico senza dar seguito


a denunce anonime e generiche animosità. L'imperatore, però, nel 141 si
era rivolto al legato della Gallia Lugdunense vietando «l'introduzione di
nuove sette e di religioni estranee alla ragione», una norma, questa, che
avrebbe consentito a qualsiasi governatore maldisposto verso i cristiani di
agire contro di loro. I cristiani vissero comunque un'epoca di incertezza
del diritto per quanto loro riguardava se è vero, come afferma Giustino, che
a Roma il prefetto Lollio Urbico martirizzò Tolomeo, Lucio e anche un
cerzo, ritenendo che il fatto stesso di essere cristiani costituisse un crimen.
Sembrava urgente la definizione di una norma chiara relativa al fe-
nomeno cristiano. Un'urgenza determinata non da parte dei cristiani,
se possiamo credere alle dichiarazioni di lealismo di cui abbonda la loro
letteratura apologetica, quanto per l'ostilità di gruppi di pagani che non
mancava mai di tradursi in agitazioni. Tutto ciò era ancor più urgente lad-
dove la consistenza numerica dei cristiani era più rilevante. Marco Aurelio
(161-180), del cui attaccamento al mos maiorum abbiamo testimonianza
nei Pensieri, aveva raccomandato, come c'informano Marciano e Ulpiano,
a governatori e milizie la ricerca d'ufficio di sacrilegi e latrones. In Asia un
proconsole, probabilmente in applicazione di questa misura imperiale, si
avvalse del suo potere discrezionale per introdurre la ricerca d'ufficio dei
cristiani. Non conosciamo il nome di questo magistrato, ma sappiamo che
il principato di Marco Aurelio si era inaugurato in Asia con il proconsolato
di Sisenna Rutilianus (161), consuocero di Alessandro di Abonutico, che
fo fanatico promotore del suo divino serpente e ancor più fanatico avver-
sario dei cristiani, noto principalmente per la satira che gli dedicò Luciano
di Samosata. Siamo informati dell'introduzione di questi «nuovi editti»
dal!' Apologia di Melitone di Sardi, il quale fece allora chiara professione di
lealismo verso Marco Aurelio e il figlio Commodo, dichiarando che avreb-
be accettato questo provvedimento se fosse stato sicuro della sua paternità
imperiale; ma, in caso contrario, ne chiedeva l'abolizione e il ritorno alla
precedente prassi che prevedeva la pena solo in presenza di un crimen pa-
tente (Eusebio, h.e. 4,2.6,5-6). Nell'età di Marco Aurelio l'Oriente fu scon-
volto dalla rivolta di Avidio Cassio (175), che ebbe il suo epicentro in Siria
e in Egitto e fu poi repressa. Pestilenze e stragi, ruberie e soprusi potevano
;lgevolmente essere considerati "segni dei tempi" da quelle comunità di
cristiani che nell'Asia (partendo dalla regione della Frigia) si appellavano
alle visioni dei loro profeti apocalittici per auspicare l'avvento della Nuova
Gerusalemme, prodromo del crollo di Babilonia/Roma. Costoro erano i
194 STORIA DEL CRISTIANESIMO

seguaci della Nuova Profezia, poi denominati montanisti, prevalentemen-


te diffusi tra gli strati più bassi della popolazione e i cui atteggiamenti esta-
tici erano ben distanti dal calibrato lealismo di un Melitone. Bisogna però
evitare facili quanto errate generalizzazioni in materia di storia sociale: il
vescovo lealista di Sardi era anche un veggente carismatico, d'altro canto
sovente i sofferenti contadini delle terre dove vigoreggiava il montanismo
non esitavano a invocare l'intervento dell'imperatore contro le angherie
dei possessores locali. Fu anche per prendere le distanze dal movimento
della Nuova Profezia che, grosso modo a ridosso della rivolta di Avidio
Cassio, si ebbe una fioritura di scritti apologetici sui quali ritorneremo.
Quando studiamo i rapporti tra comunità cristiane e società roma-
na dobbiamo tenere in debito conto il ruolo del Senato il quale non fu
soltanto e semplicemente un organo amministrativo ma ebbe anche altri
rilievi: godé di una sua valenza religiosa nel!' ambito delle devozioni paga-
ne; specialmente in Oriente si venerava il suo genius e il culto per questa
sacra assemblea era attestazione di lealismo verso Roma. Il Senato era il
luogo istituzionale della conservazione religiosa, guardava con diffidenza
alle superstitiones ed era proclive a intervenire in termini di repressione.
Vedremo che ancora nella seconda metà del IV secolo il Senato romano
sarà formato prevalentemente da pagani.
Marco Aurelio aveva operato in piena sintonia con l' ordo senatorius.
Non così suo figlio Commodo (180-192) al quale invece le fonti attribui-
scono un atteggiamento di benevolenza nei riguardi dei cristiani, anche
per l'influsso della concubina Marcia che si adoperò a loro favore, come
attestano Cassio Diane e l'autore cristiano dell' Elenchos (cfr. CAP. 3, p.
124). Sta di fatto che la linea politica di Commodo si allontanò da quella
filosenatoria del padre. Lo stesso fenomeno riscontreremo più tardi con la
coppia imperiale Valeriano/Galliena, padre e figlio; il primo filosenatorio
e persecutore; il secondo avverso all' ordo e benefattore dei cristiani. Ma
non è il caso di fare frettolose generalizzazioni: a Roma, durante il prin-
cipato di Commodo, fu processato e condannato Apollonia, clarissimus
membro di una comunità cristiana. La decisione fu presa dal prefetto del
pretorio Tigidio Perenne (180-185) e il Senato determinò il verdetto.
Gli anni di governo della dinastia afro-siriaca dei Severi ( 193-235) vide-
ro una svolta nei rapporti tra la domus imperiale e i cristiani. In considera-
zione dell'afflusso rilevante di orientali a Roma si è parlato di Impero "sin-
cretistico" e, in questo contesto, è stata rilevata la situazione di sostanziale
favore goduta dai cristiani all'epoca di questa dinastia. Le nostre conoscen-
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 195

ze dipendono in gran parte dalle biografie di questi imperatori contenute


11 dlaHistoriaAugusta (cfr. CAP. 7, p. 244). Significativo è già il principato
di Settimio Severo (193-211), in merito al quale la citata fonte parla di un
suo divieto di far proselitismo a carico di Giudei e cristiani (Sett. Sev. 7,1),
c:d Eusebio (h.e. 6,1) attesta una persecuzione ad Alessandria. È dubbio,
però, che ci sia stato un disposto anticristiano da parte dell'imperatore,
mentre episodi persecutori qua e là nell'Impero sono da attribuire ali' ini-
ziativa di magistrati locali, probabilmente stimolati da accuse popolari o
da quell'atteggiamento di rifiuto di prendere parte ai riti della città antica
che i cristiani assumevano in coerenza, ad esempio, con gli appelli che leg-
t;iamo nel de idolatria tertullianeo, scritto proprio in questi anni. Così av-
~'c:nne in Africa al tempo del procuratore Hilarianus (marzo 203: martirio
di Perpetua e Felicita), in Egitto con i prefetti Maecius Laetus (201-203) e
Subatianus Aquila (206-210 ), ad Antiochia e Gerusalemme. Questa situa-
zione di ambiguità legislativa e di pericolo per le comunità dové armare
la mano di un expertus iuris quale Tertulliano che in più maniere ebbe a
lamentarsene denunziandola. Fu nell'età di Caracalla, intorno al 217, che
Domizio Ulpiano compose il suo purtroppo smarrito de ufficio proconsu-
lis il cui libro VII, a detta di Lattanzio (div. inst. 5,11,19 ), comprendeva le
norme prodotte in merito al fatto cristiano (noi pensiamo a rescritti cioè a
1pistulae) e tentava pertanto di contribuire a risolvere l'eterno problema di
un bilanciamento tra le singole situazioni vigenti per ciascuna provincia e
il quadro normativo generale.
Un altro significativo momento di questa dinastia è costituito dal prin-
cipato di Alessandro, l'ultimo dei Severi (222-235), succeduto a Elagabalo
(2.03-222). Abbondano le informazioni della Historia Augusta in merito
,ti la sua apertura verso la religione cristiana, sino a fargli collocare l' im-
inagine di Gesù nel suo larario e ad attribuirgli il proposito di erigere un
tempio in onore di Gesù stesso (Al. Sev. 29,2). Con il suo principato, dun-
l]Uc, siamo in piena età sincretistica, un'età in cui le donne dell'aristocrazia
nutrivano interesse e coltivavano devozioni per tutto quanto di religioso
proveniva dall'Oriente mistico e misterioso. Ne abbiamo attestazione, tra
le altre, nel sacello sincretistico attiguo al mitreo romano di via Giovanni
Lu1Za e, cosa più interessante per noi, dal dialogo della madre dell'impera-
tore, Giulia Mamea, con il dotto Origene. È nel "senato delle donne" della
dinastia severiana che venne composta da Filostrato la Vita di Apollonia
rii lìana, un santone il cui profilo di filosofo sfumava in quello dell'uomo
\;lcro e facitore di miracoli.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Nel 235, con la fine della dinastia severiana, termina anche l'apertura
filocristiana. Il nuovo princeps, Massimino il Trace (235-238), uomo atten-
to alle esigenze dei suoi eserciti, procedé a una sorta di epurazione dei cri-
stiani che aveva trovato inseriti negli ambienti di corte. L'iniziativa, nella
storiografia ecclesiastica, si trasformò nel ricordo di una persecuzione. In
realtà non vi fu la promulgazione di alcuna legge anticristiana da parte di
Massimino e gli episodi che si registrarono a Roma, nella Cappadocia e nel
Ponto furono variamente motivati da esigenze locali.
Il III secolo vide un'altalena di atteggiamenti diversi tra imperatori che
si successero, la cui politica passò in breve giro di tempo dall'avversione
alla tolleranza, o viceversa. L'abbiamo or ora visto con la successione di
Massimino il Trace ad Alessandro Severo. Il fenomeno è più evidente nel
passaggio da Filippo l'Arabo (244-249) a Decio (249-251) e lo sarà ancora
di più con Valeriano e Gallieno. Filippo l'Arabo era esponente dell'aristo-
crazia di una regione in buona parte cristianizzata, quel territorio intorno
a Bostra che Origene diligentemente visitava per affermarvi la sua teologia
di stampo ellenizzante contro il conservatorismo teologico di un vescovo
quale Berillo. Eusebio riferisce a proposito di Filippo un racconto che lo
vuole cristiano e penitente in chiesa, e ne ricorda la corrispondenza della
moglie Octacilia Severa proprio con Origene (h.e. 6,34.36). Tutto ciò, in
carenza di altri elementi, attesta più che altro una simpatia per la devozio-
ne dei cristiani, quasi un riemergere a mo' di fiume carsico della tolleranza
filocristiana dell'ultimo dei Severi.
Con Decio il discorso cambia. Egli è passato alla storia come l'artefice di
una persecuzione anticristiana di portata generale, ma in realtà l'iniziativa
che effettivamente prese consisté in una sorta di supplicatio agli dèi insoli-
tamente lunga ed estesa territorialmente. La misura era in sintonia con il
conservatorismo d'impronta senatoria che contraddistingueva la sua azione
politica, ma aveva anche una funzione propiziatoria in un momento in cui
guerre e morbi proiettavano sinistre ombre sullajèlicitas saeculi che le sue
monete proclamavano. Furono prescritti sacrifici pubblici agli dèi. Alter-
mine venivano rilasciate certificazioni relative a questi adempimenti. Sono i
libelli di cui oggi conserviamo circa cinquanta attestazioni papiracee le quali
ci rendono certi che anche a sacerdoti pagani fu richiesto di sacrificare. Il
particolare conferma che non si trattò di una deliberata persecuzione anti-
cristiana, anche se i credenti in Gesù furono messi in gravissima difficoltà,
come attesta Cipriano di Cartagine (cfr. CAP. 3, pp. 126-7 ).
Il primo imperatore a indire una persecuzione deliberatamente anticri-
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 197

stiana e di portata generale fu Valeriano che promulgò due editti, nel 2.57
e nel 2.58 ( Cipriano, ep. 80,2.; Eusebio, h.e. 7,10,4-9 ). Fu il perseguimento
di una mirata strategia. L'imperatore inviò anche missive ai governatori di
provincia. Si trattava di misure atte a incamerare i beni di ecclesiastici e a
decapitare l'organizzazione stessa delle comunità giacché si comminava la
morte di vescovi, presbiteri e diaconi. Quanto poi ai cristiani appartenenti
ai due ordines maggiori (senatori e cavalieri) essi avrebbero dovuto perdere
in prima istanza i propri beni e, in caso di mancata apostasia, anche la vita.
Il testo prevedeva pene specifiche per i "cesariani", cioè i liberti apparte-
nenti alla Familia Caesaris: confisca dei beni, relegazione, lavori forzati.
Questo accanimento non ottenne gli scopi desiderati: la cancellazione
delle comunità e il necessario sostegno economico alle armate del Cesare.
Valeriano fallì miseramente e terminò la sua vita prigioniero del grande
Shapur I, re della Persia sasanide, contro il quale s'era recato in armi (Lat-
canzio, mort. pers. 5,1-5).
La politica del figlio Galliena presenta tratti "rivoluzionari" sia per
quanto riguarda il ridimensionamento delle attribuzioni di comando ai
senatori, sia in materia di rapporto tra la res publica e le comunità dei cri-
stiani. Contraddicendo la politica del padre, già intorno al 2.60 egli resti-
cuiva con un rescritto alle chiese i beni sottratti nel corso della precedente
persecuzione. Il desiderio di ristabilire la pace con i cristiani risultò an-
che dalle missive che l'imperatore inviò ai principali vescovi per renderli
edotti della misura a loro favore; è dal contenuto di una di queste lettere
inviata ai vescovi d'Egitto che apprendiamo del suo epocale editto il qua-
le, nella sua originale formulazione, è per noi perduto (Eusebio, h.e. 7,13).
Così facendo, l'imperatore fondava la capacità giuridica di possedere beni
immobili da parte delle comunità cristiane in quanto tali. Si diede così
la stura alla costruzione di edifici chiamati a sostituire le oramai anguste
domus ecclesiae. La politica di Galliena inaugurò un quarantennio di pace
(la cosiddetta "piccola pace della Chiesa") durante il quale le guide dei
cristiani ebbero modo di esercitarsi in quelle discussioni dottrinali che poi
nell'età di Costantino, tra ulteriori misure di pace e di favore, avrebbero
dato corpo alla controversia ariana.
Scarsissime sono le notizie su Aureliano, il più illustre degli imperatori
restitutores del III secolo, e i cristiani. Egli volle stabilire una monarchia in
terra come in cielo. Per perseguire il primo proposito annesse le regioni
\taccatesi dall'Impero della Gallia e dell'Oriente signoreggiato da Zeno-
bia; per quanto attiene al secondo, proclamò il culto del Sol invictus, divi-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

nità non estranea alla venerazione dei Romani ma che ora veniva presen-
tata quale immagine dell'unica sostanza divina manifestatasi, nella varietà
dei miti e dei riti, con i volti molteplici degli dèi del pantheon tradizio-
nale. Questa riforma era più matura di quella maldestramente tentata un
cinquantennio prima dal giovane Elagabalo, la quale, pure, era incentrata
sulla valenza sacrale del Sole. Ma in Elagabalo era l'esotico bolide di Emesa
a esigere diritto di cittadinanza e di egemonia a Roma, ora con Aureliano
era l'antica tradizione solare e apollinea che si ergeva ad esempio di mo-
narchia in cielo: come l'Impero era un'articolazione di province svariate,
tutte fedelmente espressioni del potere di Roma, così gli dèi dell'Olimpo,
classico e orientale, erano chiamati a raccolta atteggiandosi a raggi diversi
di quell'unico principio datore di unità e di vita che è il sacro sole.
Fu a seguito della riconquista di Antiochia, sottratta a Zenobia, che ad
Aureliano fu richiesto un arbitrato nella disputa tra due vescovi cristiani:
Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia (compromesso con la corte della
regina ribelle) e il suo avversario Domno. Nel 2.68 un sinodo di vescovi
contrari alla dottrina cristologica di Paolo lo aveva condannato e deposto
scrivendo poi una missiva prioritariamente ai vescovi di Roma e di Ales-
sandria. Ma Paolo non abbandonò la casa episcopale e quindi si ricorse
ali' imperatore. Aureliano pose il suo placet alla delibera sinodale sottoli-
neando il requisito della comunione con i «vescovi d'Italia e di Roma»
(Eusebio, h.e. 7,30,18). Tutto in armonia con la sua politica di aspirazione a
una "monarchia" imperiale, e con la conseguente ribadita centralità dell'I-
talia e di Roma.

I cristiani visti dal popolo: rumores ed equivoci

Molte accuse che furono formulate dal popolo sul conto dei cristiani era-
no state già messe in circolazione a proposito dei Giudei. All'opinione
pubblica pagana non sfuggivano le affinità tra giudaismo e cristianesimo,
si sapeva inoltre che Gesù era nato tra i Giudei che costituivano un'ernia
già nota e circoscritta, mentre i cristiani avevano dato vita a un movimento
trasversale, esercitavano un'azione missionaria tenace e a tratti aggressiva,
inoltre rappresentavano una novità sospetta.
Si disse che i cristiani erano dediti al cannibalismo, praticavano l'in·
cesto, odiavano il genere umano. Probabilmente queste accuse presero le
mosse da fraintendimenti intorno al «mangiare il corpo del Signore», in
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 199

occasione della cena del Signore, e all'amore fraterno che legava i membri
delle comunità. Quanto poi all'odio verso il prossimo esso era arguibile
non solo dall'esclusivismo di queste stesse comunità, che si davano un'eti-
ca tutta loro, ma anche dall'astensione dalle cerimonie religiose pubbliche
da cui era considerata dipendere la salvezza della res publica. L'astensione,
che aveva una motivazione religiosa, veniva interpretata dagli estranei al
cristianesimo come un atto di pericoloso boicottaggio politico, stante la
compenetrazione nell'antichità fra sfera religiosa e politica.
Di chiara matrice antigiudaica, inoltre, è l'accusa di adorare un dio dal-
la testa asinina. Così, infatti, è raffigurato Cristo nel più antico crocifisso,
che è di mano pagana ed è accompagnato da un graffito che recita: «Ale-
xamenos che adora [ il suo] dio». Questo crocifisso blasfemo, trovato nel
paedagogium del Palatino, si ritiene risalga all'età dei Severi. In questa raffi-
gurazione caricaturale tanto Gesù in croce quanto l'adorante Alexamenos
indossano abiti servili. Ciò si concilia con l'altra denigrazione, secondo la
quale il cristianesimo avrebbe reclutato i suoi seguaci tra servi e ignoranti.
Agli osservatori pagani, probabilmente, non doveva sfuggire neanche il
fatto che le guide e i profeti delle comunità cristiane erano sovente liberti
o persone prive tanto di ascendenze gentilizie quanto di cultura, e tuttavia
costoro, nel chiuso delle loro conventicole, sentenziavano erigendosi a giu-
dici della società circostante. Ma più ancora che per questo aspetto sociale,
il carattere plebeo della predicazione cristiana era palesato dal fatto che a
essa erano estranei i contenuti e il metodo della filosofia classica.
Da connettersi ai comuni timori della società antica sono invece le ac-
cuse secondo le quali i cristiani sarebbero stati causa di calamità naturali e
avrebbero praticato la magia. La prima sembra derivare dalla già ricordata
astensione dei cristiani dai riti collettivi che procacciavano il favore degli
dèi, la prosperità dei campi, la sicura navigazione ecc. Quanto alla seconda
va detto che essa apparteneva all'armamentario antigiudaico. Mago è colui
che usa formule, parole e gesti difficilmente comprensibili, che influenza
le forze della natura. La magia determinava un timore diffuso nella socie-
tà amica. Paradossalmente, quando la Chiesa fu in grado di esercitare un
profondo influsso nell'ambito legislativo, furono i pagani a essere accusati
di praticare la magia e con la repressione di quest'ultima si avviò anche il
processo di distruzione di templi e di abolizione dei rituali tradizionali.
Ciò nei secoli IV e v.
Più pregnante tra tutte fu l'accusa di ateismo. Al mondo antico fu pres-
soché estranea l'idea di negare l'esistenza della divinità. Ateo, dunque, era
2.00 STORIA DEL CRISTIANESIMO

colui che voltava le spalle agli dèi protettori del suo popolo; dunque l'a-
teismo aveva un carattere di pericolosità sociale. Si aggiunga che i cristiani
sembravano non solo congiurare contro gli dèi patrii, quindi attentare alla
pax deorum, ma anche collocare al loro posto, con esclusivismo ingiusti-
ficabile per i pagani, l'astruso dio dei Giudei o, ancor peggio, il Nazareno
spirato miseramente sotto i colpi della giustizia romana.

Le analisi degli intellettuali


e la difesa della paideia tradizionale

Non dobbiamo meravigliarci del silenzio degli storici greci e romani sul-
la persona di Gesù. Il loro modo di tramandare la memoria aveva infatti
un carattere aristocratico e selettivo: si interessavano al profilo dei grandi
personaggi e delle loro donne mentre rimanevano loro sostanzialmente
estranei i grandi movimenti di popolo, così come coloro che appartene-
vano a strati sociali subalterni. Gesù era tra questi, un profeta itinerante
della Galilea, piccola regione posta alla periferia di una minuscola pro-
vincia equestre dell'Impero, quale la Giudea. La sua figura non fece no-
tizia fino a quando il movimento che da lui aveva preso le mosse acquisì
una dimensione tale da suscitare apprensione tra chi osservava le cose più
attentamente e temeva per un potenziale scardinamento dell'ordine pub-
blico. Su questo sfondo dobbiamo leggere le scarne notizie che, ali' inizio
del II secolo, sui cristiani reperiamo in Tacito, Svetonio e Plinio il Giova-
ne le quali, in un modo o nel!' altro, sono tutte direttamente collegate a
problemi di tutela dell'ordine pubblico. Nel I secolo abbiamo soltanto il
cosiddetto Testimonium Flavianum, cioè la notizia consacrata a Gesù nel-
le Antichita giudaiche del giudeo Flavio Giuseppe, che ha probabilmente
un fondo autentico con interpolazioni di mano cristiana. Che Flavio Giu-
seppe si sia interessato a Gesù è comprensibile, in forza della sua origine
e della conseguente attenzione ai movimenti religiosi giudaici: del resto a
Giovanni il Battista dedica più spazio che a Gesù.
Dobbiamo attendere l'età di Marco Aurelio per assistere, intorno al
178, alla composizione di una prima trattazione organica da parte paga-
na dedicata alla questione cristiana. È il Discorso veritiero che Celso, un
intellettuale imbevuto di filosofia platonica e stoica, scrisse con il duplice
proposito di confutare la religione dei seguaci di Gesù e di incoraggiare
costoro a integrarsi in quella società dalla quale con la loro conversione si
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 201

erano estraniati, per giunta in tempi calamitosi. Come è avvenuto per le al-
tre opere anticristiane che l'intellettualità pagana ha composto, il trattato
di Celso andò perduto: ma la sua sorte fu più favorevole di quella dei trat-
tati di Porfirio e di Giuliano imperatore, perché Origene, nella sua confu-
tazione di circa settanta anni dopo, lo cita quasi per intero. Nei primi due
libri Celso introduceva un giudeo a polemizzare contro i cristiani; questo
espediente retorico (la cosiddetta "prosopopea") consentiva di denunciarli
come apostati dal loro originario gruppo di appartenenza, proprio come
quest'ultimo si era a suo tempo reso colpevole di stasis (rivolta) nei riguar-
di della tradizione religiosa ("pagana") comune a tutti gli altri popoli. La
principale accusa che Celso muoveva ai cristiani era quella di considerare
la specie umana come qualcosa di superiore all'ordinamento naturale e,
così procedendo, di nutrire la pretesa di costituire un gruppo privilegiato
dal favore divino di cui, per giunta, i credenti in Gesù si consideravano de-
tentori unici. Con Celso assistiamo alla prima chiara esposizione di quelli
che saranno i luoghi comuni della controversia anticristiana di carattere
dotto. Al pagano non sfuggì neanche la frammentazione dei gruppi cri-
stiani e le polemiche che tra questi scoppiavano; sorprende l'elencazio-
ne di varie "sette" prevalentemente di carattere gnostico che egli mostra
di conoscere e che contrappone al gruppo maggioritario da lui definito,
forse ironicamente, la "Grande Chiesa". L'aspetto che più sorprende nella
lettura dei frammenti celsiani è però l'utilizzazione di brani delle Scrittu-
re. Egli, ad esempio, denunciava le contraddizioni dei vangeli a proposito
dd racconto della resurrezione e aggravava la dose rilevando che prima
testimone di questo evento era stata una donna "isterica" (probabilmente
Maria di Magdala). Celso non fu uno scettico, egli espresse quella stessa
religiosità il cui manifesto erano i Pensieri dell'imperatore Marco Aurelio:
culto per la tradizione, avversione per il nuovo, timore di sconvolgimenti
sociali, senso del dovere verso la res publica.
Diverso è quel che in merito ai cristiani Luciano di Samosata aveva
scritto appena pochi anni prima in La morte di Pellegrino. Un suo eroe alla
rovescia è, appunto, il cristiano Pellegrino, che prima viene onorato dalla
sua comunità come profeta, interprete delle Scritture, e, una volta carcera-
to come confessore della fede, sfamato in abbondanza e assistito in tutti i
1
nodi, con generosità pari solo alla creduloneria. Ma poi, soltanto per aver
1
nangiato dei cibi vietati (probabile riferimento al decreto apostolico: cfr.
CAP. 2., p. 81), il venerato corifeo viene rigettato e ridotto in miseria, così
che questa trasgressione fu l'inizio del suo definitivo allontanamento dal
202 STORIA DEL CRISTIANESIMO

cristianesimo. Significativa fu anche la morte di Pellegrino che Luciano


rievocò satireggiando: il personaggio si diede a fuoco smanioso di esibirsi
platealmente e, anche in questa veste, riuscì a turlupinare non pochi am-
miratori.
L'insensata bramosia della morte è un tratto che caratterizza i martiri
cristiani nel giudizio degli osservatori pagani. Già in età traianea a Plinio
i condannati per la loro fede erano sembrati preda di una superstitio prava
et immodica, cioè di una superstizione malvagia e smodata. Ma è nell'età
di Marco Aurelio che fioccano le accuse a tal proposito. Un breve inci-
so dei suoi Pensieri contrappone la serenità del saggio stoico nei riguardi
della morte alla concitata teatrale ostinazione del martire cristiano. An-
che lo stoico Epitteco era stato sulla stessa linea d'onda quando notava
che per i "Galilei" la proclività alla morte costituiva una sorta di habitus.
In Celso tutto ciò diventa un'articolata accusa ai martiri cristiani, folli
che non amano la vita e provocano le autorità. Non molto dopo, durante
il suo proconsolato in Asia (187-188), Flavius Antoninus perse la pazien-
za di fronte a un manipolo di cristiani aspiranti al martirio e consigliò
loro di non intasare il suo ufficio ma di precipitarsi direttamente in un
burrone. Questa ansia di assimilarsi al modello di Gesù sofferente, pro-
babilmente esasperata da un disagio sociale o esistenziale, colorava nella
tarda età degli Antonini la spiritualità di gruppi montanisti a cui oracoli
e visioni annunziavano l'imminente fine dei tempi. Diverso era I' atteg-
giamento dei cristiani che gravitavano nell'universo concettuale della
gnosi per i quali corpo e scoria non avevano valore e, quindi, neppure il
martirio (cfr. CAP. 3). Della teologia del martirio si parlerà in seguito (cfr.
CAP. 14, p. 413): qui ricordiamo che possiamo seguirne l'evoluzione an-
che grazie alle critiche che nel IV secolo i pagani (Giuliano, Sallustio, Li-
banio, Massimo di Madaura ecc.) mossero al culto dei martiri e delle loro
reliquie.
Nel III secolo, con il protrarsi e il consolidarsi dell'etica cristiana
dell'astensione dalle cerimonie pubbliche, si istituzionalizzò sia presso il
popolo che presso gli intellettuali pagani l'immagine del cristiano come
corpo estraneo alla società. In quest'epoca le comunità andavano aumen-
tando di numero e organizzandosi efficacemente sia al loro interno, sia
tramite istituti di reciproco coordinamento quali i sinodi. Persino di un
imperatore come Decio si poteva pensare che avrebbe temuto l'elezione
di un nuovo vescovo di Roma più dell'avvento di un usurpatore in armi
(Cipriano, ep. 55,9 ). A Cartagine, in Africa un personaggio afferente agli
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 203

ambienti dell'amministrazione romana, quale il Demetriano destinata-


rio dell'omonima operetta di Cipriano, era persuaso che la diffusione del
culto cristiano mettesse in crisi la prosperità della società e la sicurezza
dell'Impero.
Possiamo congetturare che le ostilità dei pagani nel corso di questo
secolo non ebbero a cessare e neanche a scemare in corrispondenza di pe-
riodi di pace per la Chiesa. La pace concessa ai cristiani da Galliena non
determinò la cessazione degli attacchi di intellettuali pagani. Questa è l'e-
poca dei sarcofagi "filosofici". Nei rilievi che essi presentano ammiriamo
una ritrattistica che, tipizzando la figura del pensatore, esprime il carattere
aristocratico della religiosità pagana. La beatitudine post mortem, in altri
termini l"'indiamento", non è considerata il prodotto di un atto di fede
bensì l'esito di un processo di ascesi intellettuale. La ricerca di Dio si pre-
sentava piuttosto come l'ultimo, il più alto capitolo della ricerca filosofica,
cioè dello sforzo della mente umana di risalire dalle tracce di Dio impresse
nel cosmo all'esperienza del suo incontro, insieme atto mistico e conquista
intellettuale.
L'età di Gallieno è anche quella nella quale fu attivo a Roma il filoso-
fo Plotino, animatore di un cenacolo dove il verbo platonico era spiegato
nell'ambito di una visione filosofica che aveva il suo vertice, intellettuale
cd esistenziale a un tempo, nella ricerca dell'Uno, nell'incontro tra l' indi-
viduo e il suo Dio filosofico. Fu allora che si determinò una polemica tra il
filosofo e gruppi di cristiani i quali erano entrati a far parte della sua scuola
c vi diffondevano testi apocalittici il cui assunto era l'attesa della disso-
luzione di questo cosmo al quale il filosofo licopolitano guardava invece
come a una ornata eterna dimora degli dèi. Sono gli "gnostici di Plotino"
di cui dà notizia Porfirio nella biografia del maestro (v. Plot. 16). Ma le più
ampie informazioni che abbiamo su tutto ciò sono quelle fruibili grazie a
quattro trattati antignostici delle Enneadi (3,8; 5,8; 5,5; 2,9 ). Gli strali di
Plotino colpivano anche e più in generale alcuni assunti del pensiero cri-
stiano tout court: al cuore della sua critica c'è l'irriducibile distanza fra la
sapienza cristiana rivelata dall'alto (e nel caso degli gnostici anche elettiva
cd esclusiva) e la paideia antignostica di Plotino, che comprendeva la difesa
del carattere aristocratico della conoscenza di Dio, riservata a menti elette
cd esercitate nel bios filosofico.
Contro il pericolo cristiano agì poi il discepolo Porfirio il quale abbi-
nava alla conoscenza dei filosofemi classici una curiositas per le dottrine
di salvezza orientali e, tra queste, in primis quelle di Giudei e di cristia-
204 STORIA DEL CRISTIANESIMO

ni. Con Porfirio cambiò in primo luogo lo stile della contesa, che non fu
più alto e indiretto, come lo era stato per il suo maestro, ma configurò
una polemica a tratti biliosa. Egli si rese conto che l'edificio della fede dei
cristiani aveva la sua base nelle Scritture e contro queste indirizzò le sue
pagine più taglienti. Nella consapevolezza che un'arma missionaria for-
midabile per i cristiani era l'argomento tratto dalla profezia, s'impegnò a
storicizzare gli oracoli veterotestamentari ai quali facevano ricorso i suoi
avversari e li destituì di ogni significazione cristologica. Il caso più famo-
so è costituito dal libro di Daniele che Porfirio dimostrò essere una com-
posizione di età maccabaica, un'opera spuria, insomma una profezia post
eventum che niente aveva a che fare con Gesù. Sempre in questa direzio-
ne egli criticò Origene e l'esegesi allegorica alla quale costui ricorreva sa-
nando così aporie e ravvisando a ogni piè sospinto il volto di Cristo nelle
Scritture dei Giudei. Quello allegorico, infatti, era per Porfirio un meto-
do esegetico che poteva essere applicato ai grandi testi della tradizione
ellenica, non già ai testi "barbarici" di Giudei e cristiani, modesti nella
forma (come sembrerà poi anche ad Agostino non ancora convertito) e
inaccettabili nei contenuti. Oltre alla filologia, esercitata causticamente
sulle varianti evangeliche, e all'erudizione dimostrata nella conoscenza
della storia del Vicino Oriente antico, Porfirio chiamò in causa anche
considerazioni di carattere generale: contrappose il fideismo cristiano alla
tradizione filosofica classica della ricerca di Dio, evidenziò le contraddi-
zioni della figura di Paolo, denunciò l'assurdità, per lui che ravvisava una
diversa presenza divina nel cosmo, di un Dio che si fa uomo entrando nel
ventre di una ragazza, sottoponendosi a morte indecorosa e consumando
la sua presenza nella vita drammatica di una sola persona in un angolo re-
moto della terra. Amelio, altro discepolo di Plotino, esaminando il prolo-
go del Vangelo di Giovanni, aveva trovato accettabile la dottrina dell' in-
carnazione del Logos, a patto che non la si relegasse esclusivamente nella
persona storica di Gesù ma la si leggesse alla luce dell'insegnamento del
Timeo sull'anima mundi.
L'impegno anticristiano di Porfirio attraversa in modo più o meno
diretto varie sue opere. Nella Filosofia desunta dagli oracoli si dava spazio
all'oracolo teologico: in questo contesto la divinità (Ecate) proclamava
che Gesù era stato uomo pio e giusto, ma che sbagliavano i suoi seguaci
a ritenerlo un dio. Oracoli del genere fiorirono principalmente durante il
principato di Aureliano (270-275) e Agostino ne testimonia persistenza e
pervasività quando parla di persone che lodavano Cristo ma lo facevano
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 2.05

soltanto per denunciare le deviazioni dei cristiani, che, allontanandosi dal


monoteismo da lui predicato, lo avevano adorato alla stregua di Dio. Si
trattava probabilmente di una politica promossa da grandi santuari ora-
colari i quali miravano a neutralizzare la missione dei cristiani in modo
pacifico, cioè tentando di iscrivere Cristo nel lungo elenco degli eroi e dei
semidei della tradizione pagana.
Solo di recente l'attenzione degli studiosi si è rivolta a quel capitolo
particolare della reazione pagana al cristianesimo, cui già abbiamo accen-
nato qua e là, costituito dallo studio delle Scritture (giudaiche e cristiane)
da parte degli intellettuali pagani: possiamo parlare di una "Bibbia dei
pagani", cioè di una pletora di obiezioni e critiche, su aspetti dottrinali,
storici, formali, che potevano mettere in crisi i credenti e pertanto hanno
stimolato certa produzione patristica a fornire risposte adeguate, talvolta
coinvolgendo anche l'esegesi biblica. È un fiume carsico che attraversa gli
scritti di Celso, Porfirio, Giuliano, i nomi più noti, e che qua e là emer-
ge, spesso frammentariamente, nella letteratura ecclesiastica impegnata a
neutralizzare questo tipo di attacchi. Per i cristiani la Bibbia trasmetteva
in una unità armoniosa la voce di Dio all'uomo da salvare, per i pagani era
un complesso di scritti diversissimi e contraddittori da studiare caso per
caso, escludendo le scappatoie dell'interpretazione allegorica in virtù della
quale i Padri della Chiesa armonizzavano i testi e vi ravvisavano a ogni piè
sospinto profezie di Cristo.

Lo sguardo sugli altri: i cristiani e la società antica


Quando i pagani accusavano i cristiani di estraniarsi dalla compagine
sociale non avevano tutti i torti. In effetti i credenti in Gesù da un lato
avevano ereditato l'atteggiamento dei Giudei che considerava come tabù
buona parte delle consuetudini della città antica, dall'altro erano persua-
si che demòni malvagi avevano ispirato quel culto pagano che pervadeva
ogni aspetto della vita civile e politica. Anche i cristiani avevano però le
loro ragioni: la religione antica, quella dei pagani, non era un esercizio
di fede astratta disgiunto da un praticato modus vivendi; essa pervadeva
ogni aspetto della vita sociale, dalla politica all'arte, dall'architettura alla
milizia e così via. Prova ne è il fatto che l'antichità non ci ha lasciato un
manuale sistematico di religione "pagana" la cui conoscenza noi acquisia-
mo osservando la vita e leggendo gli scritti di quegli antichi.
2.06 STORIA DEL CRISTIANESIMO

I cristiani e la società, mestieri e costumi

Naturalmente, non è possibile oggi sentenziare in maniera assoluta su


questo estraniamento dei credenti in Gesù verso consuetudini e mestieri.
Ciò avveniva, allora come ora, in vario grado e secondo sensibilità diver-
se da persona a persona, da comunità a comunità. Possiamo considerare
Tertulliano (fine II-inizio III secolo) il più radicale assertore dell'incom-
patibilità tra la fede in Cristo e alcuni mestieri. Questo suo atteggiamen-
to andò radicalizzandosi man mano che egli si avvicinò alle posizioni ca-
rismatiche del movimento della Nuova Profezia. Il suo manifesto è il de
spectaculis dove prende di mira non solo quanto avveniva nei circhi, nelle
arene e nei teatri, ma tutto ciò che appariva ammirabile agli occhi umani,
in altri termini ogni pubblica manifestazione che legava colui che vi par-
tecipava alla società, al sistema di governo: funzioni religiose, processio-
ni pubbliche, pronunciamenti e acclamazioni di tipo politico così come
messe in scena offerte al popolo per averne il consenso. In sintesi estrema:
il cristiano era invitato ad astenersi da ogni mestiere che avrebbe potu-
to metterlo in contatto con le tre principali e imperdonabili trasgressioni
che la sua etica prevedeva, ossia idolatria, omicidio, immoralità sessuale.
Da ciò il divieto di praticare tutto ciò che avesse a che fare con rituali e
miti religiosi, con il sangue diffuso nelle arene, con le oscene pantomime
e così via.
Anche la militanza nell'esercito, che allora era una scelta volontaria di
mestiere, costituì argomento di dibattito nelle comunità. L'esercito ce-
lebrava le sue ricorrenze pagane; ne abbiamo un'idea leggendo il Feriale
Duranum, un calendario trasmesso su papiro, appartenente alla Cohors
vicesima Palmyrenorum, il quale ci informa sulle consuetudini e i con-
tenuti della religio castrensis così come poteva essere celebrata a Dura
Europos, sul limes siriano, intorno al 2.2.5. Certamente un cristiano ligio
avrebbe avuto difficoltà a conciliare la fede con la spada, le sacre insegne
e gli incensi dei suoi accampamenti (cfr. CAP. 3, p. 103). Tuttavia il po-
ligrafo cristiano Giulio Africano, proprio in quella stessa età severiana,
trattava d'arte militare nei suoi Kestoi (Cesti); inoltre, come vedremo
meglio in seguito, la vigilia della grande persecuzione dioclezianea fu
preceduta da una vistosa epurazione di cristiani che tranquillamente
militavano nei ranghi dell'esercito. Ecco, dunque, perché è oggi diffi-
cile sentenziare senza sfumature anche sull'atteggiamento degli antichi
cristiani in merito alla milizia; questa scelta era diversamente compiuta
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 207

a seconda della sensibilità e della radicalità dei principi da parte di che


era chiamato a compierla.
Per quanto riguarda le donne, apprendiamo dalla severa critica nel
de cultu Jeminarum tertullianeo che le cristiane, nonostante gli ammo-
nimenti contenuti nei documenti neotestamentari (r Tm 2,9-10; r Pc
3,3-6), continuavano a truccarsi e a vestirsi con eleganza, almeno quelle
che avevano le condizioni economico-sociali per farlo. Certo, molte si
saranno strettamente attenute alle prescrizioni di modestia e semplicità,
ma altre avranno pensato che migliorare il proprio aspetto non era fare
un torto, come sosteneva Tertulliano, ali' arte del creatore, bensì coope-
rare con essa, e fors'anche aiutare i mariti a mantenersi fedeli, cercando
di piacere loro.
Potremmo moltiplicare gli esempi: in generale, dunque, bisogna essere
molto cauti a dedurre le pratiche quotidiane della vita vissuta dalle esor-
tazioni degli autori cristiani antichi, che guardavano piuttosto al dover
essere.

I cristiani e l'Impero

Tra i cristiani dei primi secoli non vi fu un'unica linea di pensiero in rela-
zione alla più cospicua realtà politica di quell'epoca: l'Impero romano. La
varietà di atteggiamenti in merito al binomio cristiani/politica sarà una
costante di tutta la storia della Chiesa. Già i documenti neotestamentari
presentano linee di pensiero diverse.
Quando i farisei interrogarono Gesù sulla liceità di corrispondere le
tasse a Roma, egli diede una risposta volutamente ambigua ( «quello che
è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio», Mc 12,17;
Mc 22,21; Le 20,25); si fece mostrare da un lato il denarius tiberiano con
il volto dell'imperatore e la leggenda con il genitivo di possesso, dall'altro
introdusse un secondo elemento, non previsto dalla domanda: Dio. Se ne
deduce che, se si deve a Cesare, tanto più si deve a Dio. Al di là di quelle
che erano le intenzioni di Gesù, che probabilmente mirava anche a con-
trapporre, alla maniera apocalittica, l'eone attuale, dominato dai potenti
della terra, a quello futuro del regno di Dio, per cui la frase non legittimava
più di tanto l'autorità terrena, tuttavia essa recava in sé una potenziale di-
stinzione fra le due autorità tanto da diventare, in età moderna, il manife-
sto della separazione liberale fra Stato e Chiesa.
208 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Molto più usato nell'antichità fu il cap. 13 della Lettera ai Romani,


composta nella prima età neroniana, nel quale Paolo invita i credenti a
sottomettersi alle autorità poiché costoro sono ordinate da Dio a castigo
dei malfattori e a ricompensa di chi bene opera. Anche questi versetti sono
stati esegeticamente violentati, per esempio da chi vi ha ravvisato un'ap-
provazione incondizionata del potere in quanto tale, persino assolutistico.
In realtà la riflessione di Paolo va compresa inserendola in quella produ-
zione peri basileias ('sulla regalità') con la quale la letteratura filosofica del
tardo ellenismo s'interrogava sui principi fondanti dell'autorità di chi era
al potere e sulla cogenza della sua normazione. Contro l'opinione diffusa
che salutava nel basileus (noi diremmo princeps) la fonte stessa dell'auto-
rità, facendo coincidere la vis coercitiva di una norma con il fatto stesso di
essere questa espressione della volontà di chi imperava, Paolo fa dipendere
la sottomissione dei buoni cives (etra questi include i credenti in Gesù) dal
particolare non secondario secondo il quale la fonte prima di autorità (di
chi impera come della legge) sta nella positiva volontà di Dio tesa ad assi-
curare la giustizia. Paolo, in ogni caso, fu un buon cittadino romano come
rivela sia il suo epistolario sia il profilo che di lui traccia l'autore degli Atti.
Anche quando rivolgendosi ai Filippesi ribadisce che «la nostra cittadi-
nanza è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo»
(Fil 3,20 ), egli certo non attesta una estraneità ali' Impero che sa di oppo-
sizione ma, con ogni probabilità, richiama l'attesa della venuta di Cristo
per mortificare un sentimento di fierezza che ai Filippesi (anche cristiani!)
poteva derivare dal loro far parte di una colonia romana con tutti i privi-
legi connessi a questa condizione, come pure, specificando che è Cristo il
"salvatore" atteso (è questo il primo testo cristiano in cui Gesù è chiamato
soter!), forse intende creare un controaltare rispetto all'attribuzione di tale
titolo all'imperatore. Sulla scia del prudente lealismo paolino si collocano
le raccomandazioni della Prima lettera di Pietro (2,13-14), che insistono
ancor più sulla funzione di tutela o di repressione esercitata dall'autorità
che, però, si specifica, è pur sempre «creata dagli uomini».
Nella stessa area asiatica e nello stesso torno di tempo (se propendiamo
per una datazione in età domizianea) collochiamo l'Apocalisse di Giovan-
ni, da riferirsi però a comunità ancora immerse nell'universo di pensiero
e di osservanze del giudaismo e che, pertanto, prendevano le distanze da
certe libertà del paolinismo. Qui l'atteggiamento verso l'Impero romano
è completamente diverso. Il testo giovanneo è in realtà una lettura attua·
lizzante del Libro di Daniele, che vuole dar senso a un lungo momento
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 209

di tribolazione e prova per i cristiani dell'area intorno a Efeso. Laddove


Daniele, nel cap. 7, esprimeva la storia dei malvagi regni della terra in quat-
tro bestie spaventose, corrispondenti a quattro imperi, il veggente Giovan-
ni compendiava questa lunga sofferta epopea politica dai tratti belluini
nell'unica figura di una bestia ben più mostruosa che veniva dal mare e
si scatenava a far guerra ai santi, identificata con l'Impero romano, com-
pendio, dunque, ed espressione del secolare diabolico tentativo dell'uomo
di cacciare lddio dalla storia: nella dottrina apocalittica questo tentativo
costitutiva la filigrana e, per così dire, la costante del primo eone, che però
l'eone futuro di Dio avrebbe annientato.
Interrogarsi sulla fortuna di queste due opposte visioni di Roma vuol
dire analizzare il pensiero degli antichi cristiani sull'Impero. La nostra pi-
sta di ricerca, dunque, viene a coincidere con un tema di storia dell'esegesi
biblica, poiché in effetti lo sviluppo della teologia degli antichi cristiani
coincide con quello della loro interpretazione delle Scritture. Se fosse leci-
ta una generalizzazione potremmo dire che la prospettiva paolina fu quella
adottata dalla stragrande maggioranza dei cristiani, laddove gli spiriti an-
tiromani delle visioni giovannee sopravvissero in comunità marginalizzate
o alimentarono la resistenza al potere politico in determinati momenti di
crisi nel corso della storia del cristianesimo.
L'Apocalisse fu anche il principale fondamento per il millenarismo,
che, come si è già detto (cfr. CAP. 3, p. II9) fu la dottrina escatologica più
diffusa nel II e III secolo. Esso però non fu tutto antiromano, come ad
esempio nel caso del lealista Ireneo di Lione.
È un motivo ricorrente dell'antica letteratura cristiana (specialmente
apologetica) la preghiera che il buon credente era solito rivolgere a Dio
per la prosperità dell'Impero e dell'imperatore. Abbiamo già parlato del
lealismo di Melitone di Sardi (cfr. supra, p. 194). Ma non basta: in questo
vescovo, carismatico e lealista nello stesso tempo, troviamo la dottrina se-
condo la quale il principato nasce con la predicazione di Gesù e con questa
è destinato a prosperare. Posta questa premessa, gli innegabili fenomeni di
persecuzione venivano di volta in volta addebitati alla malvagità di qualche
imperatore. Anche nel pensiero di Origene, che scriveva a Cesarea mentre
hlippo l'Arabo celebrava il millenario di Roma, era rilevante la contempo-
raneità tra la predicazione di Gesù e l'Impero dei Romani che assicurava
pace ai popoli tutti. In effetti la grande istituzione politica dell'Impero era
apprezzata dal teologo alessandrino proprio in quanto strumento atto ad
assicurare una diffusione ottimale del messaggio cristiano.
2!0 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Tuttavia apprensioni per il presente e il futuro e tinte apocalittiche


non scomparivano e, in momenti difficili del 111 secolo, alcuni scrittori
cristiani, avvalendosi di un'esegesi biblica attualizzante, tentavano di
dare significato ai drammi dell'età loro. Fu così che in Asia, agli ini-
zi del III, Ippolito identificò la quarta bestia di Daniele con l'Impero
romano, e ne previde il collasso con l'affermarsi di dieci «democra-
zie», cioè dieci regni "nazionali", preludio all'avvento dell'Anticristo,
personaggio mitico già menzionato nelle lettere di Giovanni e al quale
Ireneo aveva dato precisa fisionomia di ultimo oppositore. Successiva-
mente il poeta Commodiano ravvisò nella sconfitta di Valeriano a ope-
ra di Shapur I di Persia la soccombenza del Nero redivivus, un auten-
tico anticristo, da parte dell'apocalittico rex ab Oriente, figura ancora
più anticristica destinata a porre fine ali' Impero ( Carm. apol., vv. 805
ss.). Un grande vescovo della stessa epoca, Dionigi d'Alessandria, ave-
va tratto dall'armamentario dei suoi Testimonia scritturistici profezie
veterotestamentarie che gli sembravano atte a dipingere a tinte fosche
quello che egli riteneva il vero artefice della persecutio valerianea, cioè
il prefetto Macriano e poi i suoi figli, usurpatori precipitati nel fango e
nel sangue in adempimento della profezia di Es 20,5. Opposto era inve-
ce il suo giudizio su Gallieno, il benefattore della Chiesa, al quale ben si
attagliavano le parole di Isaia e che egli pertanto salutava come un sole
che dà luce e salute, «religiosissimo e amatissimo da Dio» (Eusebio,
h.e. 7,w,4-9 ).
Tutto il filone di pensiero che da Paolo approdava a Origene, attraverso
Melitone, andò poi a comporsi nella teologia politica di Eusebio di Cesa-
rea la quale, pur se trasse ispirazione dall'ideologia sacrale del potere dei
tetrarchi, andò acquisendo contenuti e forma grazie al ricorso alla Bibbia
e alla riflessione sugli eventi di cui egli stesso fu testimone: eventi epocali
poiché videro la Chiesa passare dalla persecuzione al favore. Anche per
Eusebio l'Impero e la Chiesa costituivano vicende parallele, però egli era
in condizione non solo di celebrarne l'avvicinamento (come fa nei Canoni
cronologici: cfr. CAP. 4, p. 136) ma anche di magnificare il profilo di Co-
stantino che aveva reso possibile questa integrazione, facendo finalmente
sperare che le due storie si sarebbero addirittura intrecciate, come poi fu.
Costantino: novello Mosè che guida alla libertà il popolo di Dio, media-
tore, a imitazione del Logos, tra l'umanità e la sfera della divinità, identi-
ficata con il Dio dei cristiani, come sostenne Eusebio nel discorso tenuto
per il Trentennale del regno.
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 2.11

Cristianesimi antichi e paideia classica:


tra apologetica e mediazione culturale

Quali furono le sfide che il pensiero cristiano dovette affrontare? Que-


sta domanda giova a rispondere a un altro quesito: cosa fu l'apologetica?
Quest'ultimo termine si riferisce all'organizzazione di un discorso difen-
sivo che un individuo, o un gruppo, formulava al fine di far valere le sue
ragioni e di prevalere sul piano del diritto e/o su quello del pensiero.
Vi fu poi una vera rivoluzione semantica: vocaboli antichi acquisiti dal
lessico cristiano erano impiegati per esprimere concetti nuovi. Espressio-
ni quali "salvatore", "legge", "pentimento", "conversione" ecc. subirono so-
stanziali modifiche di significato. Il lessico filosofico classico venne sempre
più intensamente impiegato a esprimere teologumeni desunti dalle Scrit-
ture giudaico-cristiane. Questa dei cristiani fu, appunto, la "modernità di
linguaggio" che Plotino a più riprese denunziò nel corso della sua serra-
ta polemica antignostica. Anche un rito fondante come il battesimo, già
nell'interpretazione di Paolo, aveva radicalmente cambiato significato e
stava ora a significare, piuttosto che i lavacri attestanti il ravvedimento in
vista dell'imminente giudizio di Dio, come proclamava Giovanni Batti-
sta, l'esperienza "iniziatica" del credente che con Gesù si immergeva nella
morte e con Gesù risaliva a vita nuova. Lo studio delle metamorfosi del
pensiero classico piegato a esprimere la novità cristiana costituisce senz' al-
tro il capitolo ultimo e più significativo della storia della cultura antica.

Carattere e volti dell'apologetica cristiana

L'apologetica più che un semplice genere letterario (quale innegabilmente


fu anche) deve essere considerata un'esigenza che pervase trattazioni ap-
partenenti a generi letterari diversi. Possiamo apprezzarla, quindi, in fili-
grana più o meno vistosa, in epistole, trattati teologici, esegetici, catechesi,
memorie storiografiche, raccolte di quaestiones e anche inni.
Le opere appartenenti stricto sensu al genere dell'apologetica conobbe-
ro una loro fioritura in area asiatica nel II secolo. In età severiana, invece,
fu l'Africa a produrre significativi apologeti di lingua latina: Tertulliano e
Minucio Felice. Non desti meraviglia la stesura di importanti opere apo-
logetiche anche in un'epoca (Iv e v secolo), durante la quale la profes-
~ione di fede cristiana era addirittura causa di favore presso le autorità.
E il caso di Arnobio, Lattanzio, Eusebio di Cesarea, Atanasio, Firmico
212 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Materno, Macario di Magnesia ecc. Schematizzando, possiamo dire che


l'apologetica precostantiniana si pose il duplice scopo di perorare la causa
della libertà di culto per i cristiani e di dimostrarne la bontà; quella post-
costantiniana, invece, si concentrò sulla confutazione del culto pagano e,
con maggiore o minore franchezza, cercò di sollecitare provvedimenti tali
da determinarne la scomparsa totale, al fine di far prevalere la "verità" cri-
stiana sull'errore.
Il debito delle composizioni apologetiche cristiane verso filoni di pen-
siero precedenti è vistoso sin negli scritti più antichi. Questi autori, in
vario modo, fecero tesoro della precedente produzione apologetica dei
Giudei, delle invettive dei filosofi greci contro l'immagine antropomorfica
della divinità, del pensiero evemeristico.
Il giudaismo aveva perseguito la sua polemica contro l'idolatria già in
testi come Sai IIS o in libri non canonici ma ben accreditati come l'Eccle-
siastico, la Sapienza di Salomone e la Lettera di Geremia. Anche le visioni
degli Oracoli sibillini (giudaici) furono messe in campo per proclamare la
nullità degli idoli pagani. Tuttavia il più compiuto apologeta del giudai-
smo fu quel Flavio Giuseppe che nella sua opera Contro Apione ci ha preser-
vato l'assunto di buona parte della produzione antigiudaica alessandrina.
La più rilevante idea che gli apologeti cristiani derivarono e svilupparono
dai loro predecessori giudei fu quella secondo la quale dietro il culto delle
divinità pagane si nascondeva l'attività dei demòni. Tale connessione po-
teva anche essere accettata da pensatori pagani ma rimaneva una profonda
differenza: il daimon di costoro era ritenuto una sorta di servo della divi-
nità, per i cristiani si trattava di demòni la cui natura era intrinsecamente
malvagia. I rituali esorcistici avevano avuto diritto di cittadinanza tra i se-
guaci di Gesù sin dal primo momento della sua predicazione e l'ingresso
stesso nella comunità era attestato dal battesimo connesso all'esorcismo. Il
demonio e i suoi angeli decaduti erano ritenuti all'origine del culto paga-
no, specialmente nei culti misterici le cui affinità con i rituali dei cristiani
venivano denunciate da questi ultimi come scimmiottature sataniche della
vera religione. Certo presso i cristiani non mancavano coloro che più sere-
namente ritenevano gli dèi pagani del tutto inesistenti o personificazioni
degli elementi della natura. Ma costoro erano in minoranza: buona parte
del successo missionario del cristianesimo è da attribuire alla sua capacità
di liberare chi vi si avvicinava dalle sofferenze causate dai demòni.
Bersaglio polemico degli apologisti cristiani furono in primo luogo le
assurdità e immoralità dei miti tradizionali, già soggetti da tempo alle cri-
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 2.13

ci che dei filosofi d'ogni corrente, da Senofane di Colofone a Carneade e


l'Accademia, Lucrezio e gli epicurei, per non parlare dei più recenti Muso-
nio Rufo e Luciano di Samosata. Pertanto gli attacchi ai tratti crudamente
antropomorfici degli dèi omerici sferrati dagli scrittori cristiani quali Ta-
ziano, Aristide, Clemente Alessandrino, Minucio Felice e tanti altri erano
in realtà esercizi di retorica piuttosto che contributi originali e innovati-
vi al pensiero teologico. Ben pochi pagani allora prendevano alla lettera
quelle vicende narrate dai poeti, anzi tra loro i più acuti ricorrevano, come
specialmente facevano gli stoici, all'esegesi allegorica per ravvisarvi signifi-
cazioni diverse. Quelli poi che erano animati da sentimenti anticristiani si
soffermavano a rilevare alcune corrispondenze tra episodi della mitologia
classica e racconti biblici. Nasceva così una controversia incentrata sulla
maggiore o minore eleganza letteraria di quelle narrazioni oppure sull'i-
potesi di plagio.
I cristiani, poi, svolsero una vivace polemica contro la prassi sacrificale
dei pagani, in sintonia con un'antica tradizione filosofica greca, incarnata
in Pitagora e Apollonia di Tiana, la quale ripudiava altari, vittime e fu-
migazioni d'incenso per proclamare una pietà interiore, ciò in sintonia
col profetismo ebraico che aveva prediletto la pietà del cuore rispetto ai
sacrifici nel Tempio.
L'apologetica cristiana, pur professando lealismo verso la res publica,
trovava parole di condanna per l'apoteosi degli imperatori o di uomini ri-
tenuti, post mortem, assurti alla sfera del divino come Antinoo, tanto ama-
ro da Adriano: con ciò introduciamo il tema del debito dell'apologetica
cristiana verso la dottrina di Evemero (IV-III secolo a.C.). Costui nella sua
Sacra iscrizione aveva teorizzato che gli dèi sarebbero stati uomini illustri
del passato i quali per le loro azioni si sarebbero procacciati successiva-
mente la venerazione dei sudditi sino al vero e proprio culto.
L'apologetica cristiana fu condizionata dalla necessità di far fronte a un
atteggiamento di pensiero diffuso in età imperiale romana secondo il quale
tutto ciò che poteva vantare il crisma dell'antichità era perciò stesso vero;
al contrario, specialmente in materia di religione, la novità era, proprio in
quanco tale, da mettere in relazione con l'errore. A monte di questo atteg-
giamento c'era la persuasione secondo la quale la verità andava ricercata
in una tradizione di pensiero unitaria e vetusta, la quale nelle varie epoche
avrebbe gemmato dottrine che, sia pur tra loro diverse, avrebbero attinto
a quell'antica unica linfa. Questa precomprensione determinava ipso fac-
to la condanna del cristianesimo in quanto novità. Si pensi che ancora in
2.14 STORIA DEL CRISTIANESIMO

età tetrarchica nella nota iscrizione di Aricanda in Licia (cIL m,12.132.) la


religione cristiana veniva etichettata come novità perniciosa. Anche Por-
firio aveva ripreso quest'argomento anticristiano fondamentale e lo aveva
sviluppato più ampiamente, orchestrandolo in una critica generale alla
"storia della salvezza" disegnata dai cristiani: se Gesù è via, grazia e verità,
rilevava riecheggiando Gv 14,6, allora perché cotanta luce è comparsa così
tardivamente?
L'esigenza di difendere la credenza in Gesù dall'accusa di essere una
novità indusse i cristiani ad "agganciare" la loro storia alla vicenda d'Isra-
ele. Con questa manovra i cristiani erano messi in condizione di risalire
agli esordi dell'umanità, e inoltre si soddisfaceva anche la controversia
antigiudaica poiché la Chiesa rivendicava il ruolo di un nuovo Israele, so-
stituitosi all'antico, oramai rigettato da Dio a causa della sua incredulità.
Possiamo apprezzare questa esigenza apologetica anche nella produzione
cronachistica, dall'inizio del III secolo in poi, di autori quali Giulio Afri-
cano, l'autore del Chronicon un tempo identificato con Ippolito, e infine
Eusebio di Cesarea; costoro collegarono la storia dei cristiani con quella
veterotestamentaria, mettendola in parallelo con le vicende della Grecia
e di Roma. Le sinossi e gli schemi cronologici miravano a persuadere il
lettore che Mosè era stato più antico di Omero.
Di conseguenza ogni affinità tra quanto di buono poteva desumersi
dalla tradizione classica e la narrazione scritturistica era denunziata quale
plagio, i cosiddetti/urta Graecorum (argomento apologetico già usato dai
Giudei) compiuti dai filosofi rispetto alla più antica tradizione ebraica.
La più articolata argomentazione su questo piano la formulò Eusebio di
Cesarea, in età costantiniana: nella sua Preparazione evangelica l'assunto
tradizionale dell'antichità come criterio di verità veniva sottratto ali' arma-
mentario controversistico dei pagani e impiegato proprio contro costoro,
in quanto la sapienza dei Giudei sarebbe stata più antica di quella dei filo-
sofi pagani e fonte di quest'ultima.

Originalità e limiti dell'apologetica cristiana

Nei primi secoli dell'era volgare, pur se àuguri e aruspici continuavano il


loro lavoro, se collegia sacerdotali vetusti perpetuavano rituali arcaici e for-
mule forse già per allora poco chiare, la religione degli spiriti più riflessivi
aveva da tempo assunto il carattere della ricerca del divino per via filosofica
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 2.15

oppure attraverso le iniziazioni ai culti misterici. Questi ultimi, in origine


semplici rituali di passaggio o celebrazioni dei cicli stagionali, avevano ac-
quisito un articolato corredo di significazioni mistiche e teosofiche evolu-
te, inoltre, in vere e proprie misteriosofie. Basti pensare alle valenze astro-
logiche e platoniche del mitraismo, oppure alle mappe dell'aldilà degli
orfici. L'imperatore Giuliano, ad esempio, fece l'apologia di questi antichi
culti (con i connessi rituali), facendo emergere per via d'allegoria loro si-
gnificazioni di indole filosofica. Sullo scorcio del IV secolo la resistenza al
cristianesimo fu opposta dalle religioni del mistero che venivano professa-
re con l'intento di soddisfare quell'ansia di catarsi, di unione mistica con
il divino, di conoscenza della dimensione ultima alla quale provvedevano
anche i cristiani, per altra via. La rabbia di Girolamo contro la vedova di
Pretestato, morto nel 384, che aveva esaltato la devozione religiosa del ma-
rito in una celebre epigrafe (CIL VI,1779 ), deriva anche da qui, dalla credi-
bilità di questa via alternativa al divino. Non fu solo Girolamo a esultare
per la morte di Pretestato, ma anche altri cristiani se, come sembra, è a
questa che allude il Cannen contra paganos di autore anonimo. È un fatto
però, come notarono Jacob Burckhardt e Franz Cumont, che gli apologeti
cristiani si diedero pensiero non tanto di interpretare le evoluzioni della
ricerca del sacro che caratterizzava l'età loro, quanto di denunciare, con ar-
gomenti facili, le immoralità dei miti, l'incomprensibilità di rituali arcaici,
la superficialità delle celebrazioni collettive.
Il limite vistoso dello studio dell'apologetica cristiana sta nel fatto che
conosciamo soltanto una voce del dibattito poiché l'altra, quella del paga-
nesimo dotto, è scomparsa oppure è pervenuta in frammenti. Sulla scorta
di quel che possediamo potremmo ipotizzare che il tema di fondo non
fu tanto la lotta tra il politeismo e il monoteismo. Pensatori come Ploti-
no, per citare un esempio, concepivano un'unica sostanza del divino e ne
predicavano le ipostasi digradanti. La gran massa del popolo cristiano dal
canto suo credeva in una folta schiera di entità intermedie tra la sfera del
divino e quella degli uomini: demòni e angeli.
Due furono i poli entro i quali si mosse la produzione apologetica dei
cristiani. Da un lato, il rigetto senza appello di tutto quanto aveva pro-
dotto la tradizione precristiana nei campi del pensiero, della religione e
dell'arte; così Taziano, originario della Siria orientale (Osroene e Adiabe-
ne ), così la Satira di Ermia, o la domanda retorica di Tertulliano: «Cosa
c'è in comune tra Atene e Gerusalemme?». A questo rigetto, però, faceva
da contraltare, sia in Taziano sia in Tertulliano, l'ampia ripresa ai propri
2.16 STORIA DEL CRISTIANESIMO

fini di concetti filosofici. L'altro polo, infatti, caratterizzava lo scritto apo-


logetico come tentativo di mediazione culturale. Basti citare Giustino,
attivo nella Roma dell'età di Antonino Pio, oppure Clemente Alessandri-
no che compose nella prima età severiana. Questa apologetica aveva fat-
to propria la ratio del noto discorso di Paolo all'Areopago di Atene, così
come lo presenta At 19, e pertanto, lungi dal demonizzare senza appello la
cultura pagana, cercava di ravvisarvi alcune luci attribuendole, nel caso di
Giustino, all'ispirazione del Logos, attivo ben prima della sua incarnazio-
ne, e che, per dirla con Clemente, si faceva "pedagogo" dell'umanità, ve-
nendo nella carne e portando a coronamento con il dono della vera gnosi
gli sforzi delle età precedenti.
Permaneva in ogni caso una sostanziale incompatibilità tra la paide-
ia classica e la novità cristiana, culturalmente radicata nelle categorie del
giudaismo. Paolo aveva ragione quando dichiarava (1 Cor 1,18) che i Greci
cercavano sapienza e che per loro la parola della croce era follia. È un dato
di fatto che il termine "filosofia" compare una sola volta nel Nuovo Testa-
mento e con accezione negativa (Col 2.,8). I cristiani dovettero comunque
fare i conti con la cultura greco-latina e già la composizione dei loro primi
scritti canonici costituì un passo in questa direzione. Si è parlato a buon
diritto di "ellenizzazione" del cristianesimo. Ma il termine non deve esse-
re recepito nel senso di corruzione di un messaggio originale. Si trattò di
un fenomeno necessario. In ogni regione il messaggio di Gesù fu recepito
e coniugato secondo le culture locali, e da ciò derivarono volti diversi di
"cristianesimi". Non mancarono però crisi e incertezze: se gruppi come gli
gnostici e, ad esempio, i seguaci romani dell' adozionista Teodoro (Euse-
bio, h.e. 5,2.8) non esitavano ad attingere al patrimonio della cultura clas-
sica, ancora nel IV secolo Girolamo (ep. 2.2.), poiché apprezzava la prosa
di Cicerone, sognava di esser condannato dal tribunale di Dio in quanto
"ciceroniano" e non cristiano; Basilio di Cesarea ravvisava nella lettura dei
classici greci (e non tutti!) soltanto un esercizio preparatorio allo studio
della Bibbia.
Non possiamo valutare quanto le aperture degli apologeti al pensiero
antico siano state fruttuose presso i pagani in vista di una loro conver-
sione; più probabilmente contribuirono a costruire un'identità cristiana
intenzionata a presentarsi come compimento di verità di una sapienza an-
tica di origine divina. Nei secoli II e III, i successi dell'azione missionaria
derivarono non tanto dalle opere degli apologisti, quanto dalla capacità
di accoglienza e dal calore della fratellanza delle comunità cristiane. Nella
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 2.17

grande compagine sociale dell'Impero, il senso di appartenenza e di iden-


tità fornito dalla Chiesa era un fattore potente di attrazione, la fede intesa
come fiducia piena in Gesù salvatore era un balsamo che leniva l'ansia e
la paura di chi si sentiva solo, prigioniero di un mondo in preda al capric-
cio della Tyche (Fortuna) o alla ferrea necessità del fato determinato dagli
astri. L'astrologia, in quanto forma devozionale, per il dotto stoico era un
ingrediente del suo rassicurante sistema, ma nella stragrande maggioranza
della popolazione determinava un senso d'impotenza verso un destino se-
gnato dalla nascita. Anche i cristiani credevano nel!' influsso degli astri, ma
Cristo aveva vinto la loro signoria e così i suoi seguaci: per molti la conver-
sione al cristianesimo costituì lo strumento per riappropriarsi del dominio
della propria vita. Il concetto e l'esperienza stessa della conversione, intesa
come cambiamento di pensiero a cui corrisponde un mutamento dei co-
stumi, erano allora appannaggio dei filosofi, che passavano da una scuola
all'altra, oppure degli iniziati ai misteri, ma in ogni caso si rimaneva in una
cerchia elitaria. Il cristianesimo ha reso "democratica" l'esperienza e il con-
cetto stesso di conversione: il suo esito liberatorio, grazie alla mediazione
di Gesù e alla pienezza dello Spirito, era appannaggio di tutti, anche di
liberti e di schiavi ai quali inoltre, una volta in comunità, poteva persino
esser conferito l'onore e l'onere di fare da guida.

Bibliografia ragionata

Su rutti i temi qui trattati, si troverà bibliografia di riferimento e spunti per appro-
fondimenti in G. RINALDI, Cristianesimi nell'antichita. Sviluppi storici e contesti geo-
gm/ìci (Secoli I-VIII), Gruppi Biblici Universitari, Chieti-Roma wo8, a cui rimando
una volta per tutte. Sempre prezioso A. DI BERARDINO (a cura di), Nuovo dizionario
p,uristico e di antichita cristiane, Marietti, Genova-Milano 2.006-10, 4 voli.
Sui rapporti tra Impero romano e cristianesimo è ancora utile per la dovizia di
informazioni M. SORDI, Il cristianesimo e Roma, Cappelli, Bologna 1965 (poi:/ cri-
stiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano 1988), anche se è discutibile la sua tesi
di fondo del rifiuto da parte del senato di un senatoconsulto proposto da Tiberio
mirante a legittimare il culto cristiano. Su questi aspetti si consultino le parti relative
nelle trattazioni generali di storia del cristianesimo antico, in particolare Storia del
cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, Boria-Città Nuova, Roma 2.000-03 (i primi
tre volumi: ed. or. 1995-2.000) e Histoire générale du christianisme, PUF, Paris 2.010;
si veda inoltre G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori,
2.18 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Laterza, Roma-Bari 2.011. Sulle leggi imperiali in riferimento al cristianesimo, cfr. l' an-
tologia di A. BARZANÒ, Il cristianesimo nelle leggi di Roma imperiale, Paoline, Milano
1996. Sui governatori di provincia che concretamente gestirono questi rapporti, cfr.
G. RINALDI, Rectores aliqui. Note prosopogra.fiche per lo studio dei rapporti tra impero
romano e comunita cristiane, in "Annali di storia dell'esegesi", 2.6, 1, 2.009, pp. 99-164.
Sulle accuse mosse dai pagani ai cristiani si parta da P. DE LABRIOLLE, La réaction
pai'enne, L'Artisan du livre, Paris 1934, 1948; P. CARRARA, I pagani di fronte al cristia-
nesimo. Testimonianze dei secoli I e II, Nardini Editore, Firenze 1984 (utile antologia
di testi); R. WILKEN, I cristiani visti dai romani, Paideia, Brescia 2.007 (ed. or. 1984);
s. BEN KO, Pagan Rome and Early Christians, Indiana University Press, Bloomington
1986; G. RINALDI, La Bibbia dei pagani, voi. I: Quadro storico, EDB, Bologna 1997.
I frammenti di Celso sono raccolti con traduzione italiana e commento a cura di
G. LANATA (Adelphi, Milano 1987); quelli di Porfirio da A. VON HARNACK (Verlag
der ki:inigl. Akademie der Wissenschafi:en, Berlin 1916); quelli del Contra Galilaeos di
Giuliano sono editi con traduzione italiana da E. MASARACCHIA (Edizioni dell'Ate-
neo, Roma 1990 ). Sulla lettura "pagana" della Bibbia, cfr. G. RINALDI, La Bibbia dei
pagani, 2. voli., EDB, Bologna 1997-98; J. G. COOK, 'flJe Interpretation ofthe New Testa-
ment in Greco-Roman Paganism, Mohr Siebeck, Tùbingen 2.000; ID., 'flJe Interpreta-
tion ojthe Old Testament in Greco-Roman Paganism, Mohr Siebeck, Tùbingen 2.004.
Sugli apologeti, cfr. R. M. GRANT, Greek Apologists oJ the Second Century, John
Knox Press, London 1988; s. P. BERGJAN, How to Speak about Early Christian Apolo-
getic Literature? Comments on the Recent Debate, in M. F. Wiles, E. J. Jarnolds (eds. ),
Studia Patristica, 36, Peeters, Leuven 2.001, pp. 177-83; B. POUDERON, Les apologistes
grecs du II' siede, Cerf, Paris 2.005. Sulla controversa figura di Paolo di Samosata, cfr.
l'esaustivo studio di P. DE NAVASCUÉS, Pablo de Samosata y sus adversarios. Estudio
historico-teologico del cristianismo antioqueno en el s. III, Istituto Patristico Augustinia-
num, Roma 2.004.
7
Da perseguitati a favoriti,
da favoriti a persecutori
Il cristianesimo nell'Impero romano
fra IV e v secolo
di Giancarlo Rina/di

L'ultimo scontro. La tetrarchia e l'era dei martiri

Abbiamo già preso in esame (cfr. CAP. 6, p. 197) la figura di Aureliano


(270-275), il più rilevante degli imperatori restitutores, i quali, nel perio-
do della crisi economica e sociale del 111 secolo, cercavano di contenere,
tramite riforme dell'esercito, della moneta e dell'amministrazione, le
pressioni dei barbari dall'esterno, e di riorganizzare la compagine inter-
na dell'Impero. Questi provvedimenti anticipano la politica che si ebbe
nell'età della tetrarchia.
Diocleziano fu colui che inaugurò quest'epoca. La frantumazione delle
province, l'accrescimento del loro numero, il loro accorpamento in diocesi
(come egli volle) aveva lo scopo di consentire una più capillare gestione
del potere. Questa mappa così ridisegnata sarebbe servita alla Chiesa per
rimodellare la sua organizzazione e per meglio gestire la sua sempre più
dncace azione di penetrazione missionaria e d'incisività sociale.
L'imperatore poneva a fondamento del suo potere non più il consenso
del Senato o l'azione spesso mutevole degli eserciti, bensì un carisma che
gli proveniva dall'alto: egli si ergeva quale mediatore era la sfera dell'uma-
no e quella del divino, di quest'ultima era non solo espressione ma anche
proiezione terrena. Era un deus praesens che si concedeva alla vista magni-
ficamente paludato in spazi circoscritti e riservaci, sacri, come sacer andava
considerato tutto quanto gli si riferiva. Di ciò abbiamo un'idea leggendo
i Panegyrici latini, dove questa ideologia del potere riecheggia resa ancor
più alata dalla retorica. Anche la ritrattistica ne è testimone. L'imperatore
è raffigurato con grandi occhi sempre fissi verso l'alto, quasi a scrutare il
volere divino per poi tradurlo in azioni e constitutiones salutari a pro dei
sudditi devoti. Il gruppo scultoreo che raffigura i tetrarchi (secondo la più
2.2.0 STORIA DEL CRISTIANESIMO

accreditata interpretazione) presso la Basilica di San Marco a Venezia è


significativo del clima di quell'epoca: i quattro dominatori si abbracciano,
quasi a significare un eroico intento di far sopravvivere sé stessi e le loro
terre in un'epoca in cui abbondarono scontri tra eserciti e stragi cruente
di popolazioni civili.
Diocleziano nel 2.85 si era associato al potere Valerio Massimiano. Que-
sta diarchia fu trasformata in tetrarchia nel 2.93: ai due imperatori (che
erano "augusti" e posti sotto la tutela di Giove) furono associati due reg-
genti di rango subordinato, ossia i "cesari" collegati a Ercole, il semidio
filantropo. Così Diocleziano ebbe residenza in Oriente (Nicomedia), as-
sociandosi Galerio, e Massimiano in Occidente, a Milano, si associò Co-
stanzo Cloro. Ciascuno ebbe un insieme di province da governare e un
limes da difendere. Sono troppo lunghe e complesse le vicende storiche
di questi anni perché se ne fornisca qui un sia pur essenziale compendio.
Basterà ricordare la cosiddetta "seconda tetrarchia" del 305 che vide I' abdi-
cazione dei due Augusti ma anche l'esclusione, per loro frustrante, di due
personaggi di rilievo: Massenzio, figlio di Massimiano, e Costantino, fi-
glio di Costanzo Cloro, già l'anno successivo proclamato imperatore dalle
truppe del padre defunto. Il Convegno di Carnuntum del 308 tentò poi di
ridisegnare una mappa del potere. Così in Occidente si impose l'augusto
Licinio e il suo cesare Costantino; in Oriente l'augusto Galerio e il suo
cesare Massimino Daia.
Per quanto riguarda gli aspetti religiosi, l'ideologia politica emersa dalla
tetrarchia era un misto di conservatorismo e di innovazione: faceva leva sia
sul rinvigorimento dei culti tradizionali sia su una concezione sacrale del
dominus. Essa pertanto entrò in più momenti in conflitto con la spiritua-
lità e la dottrina dei cristiani: persecuzioni e tensioni che ebbero termine
con la svolta costantiniana del 312.-313. Di questa "era di martiri" abbiamo
notizia esclusivamente da fonti cristiane e da alcuni stringati riferimenti
papiracei. Le fonti classiche (pagane) tacciono. Si fa pertanto tesoro pre-
valentemente del de mortibus persecutorum di Lattanzio e degli scritti di
Eusebio di Cesarea: gli ultimi tre libri della Storia ecclesiastica e i Martiri
della Palestina, opera che riguarda ciò che ebbe luogo in questa regione.
A Nicomedia, nel 303, Diocleziano, sollecitato dal responso di al-
cuni oracoli, promulgò il suo primo editto anticristiano. Il provvedi-
mento era stato preceduto da una serie di epurazioni dall'esercito che
aveva interessato soprattutto cristiani militanti nelle legioni di stanza
in Africa. Questi martiri militari, tuttavia, non erano stati processati
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.2.1

e condannati perché cristiani, ma in quanto manchevoli verso quella


religio castrensis che faceva tutt'uno con la disciplina militare. Inoltre,
poco prima, probabilmente nel 302, vi era stato un editto contro i se-
guaci della religione di Mani, sollecitato da una relazione del proconso-
le d'Africa Iulianus, che aveva fornito informazioni dettagliate creando
allarme per la diffusione della setta in quei territori. Licopoli, in Egitto,
era il focolaio donde s'irradiava la martellante azione missionaria dei
manichei e qui, infatti, si armò di penna il neoplatonico pagano Ales-
sandro per comporre una confutazione nella quale presentava i miti ce-
ocosmogonici di Mani e dei suoi seguaci come degenerazioni della più
semplice predicazione dei cristiani. La ratio dell'editto dioclezianeo era
invece incentrata principalmente su due specifici aspetti della religione
di Mani: il suo destabilizzante carattere di novità e la sua provenien-
za da una regione (la Persia dei Sasanidi) tradizionalmente nemica di
Roma (cfr. CAP. S, p. 166).
Tra le cause della persecuzione anticristiana di Diocleziano non solo
ci fu l'incidenza del cesare Galerio (cui Laccanzio addirittura attribuisce
la responsabilità di tutta questa politica), ma anche l'intervento di colo-
ro che erano preposti alla mantica oracolare (Laccanzio, mort. pers. 11,7 ),
cosa che ben si concilierebbe con la datazione carda proposta per la Fi-
losofia desunta dagli oracoli di Porfirio. Fu incisiva però anche l'azione
di raffinaci intellettuali che gravitavano nell'orbita della corte imperia-
le. Si pensi a un personaggio quale Hierocle Sossiano il quale compose
un'opera dal titolo L'amico della verita di cui in Laccanzio (div. inst.
5,2) abbiamo una notizia breve ma cale da farci acquisire un'idea del
suo contenuto. Hierocle era stato vicarius Orientis e poi, con un'ati-
pica e perciò significativa inversione del suo cursus honorum, era stato
richiamato nella città imperiale, Nicomedia, come praeses Bithyniae ma
anche, e non secondariamente, come consigliere intellettuale di corte.
Lo ritroveremo poi quale prefetto d'Egitto sempre in trincea contro
la fede in Gesù, in soccorso dell'ulcimo dei persecutori, Massimino
Daia. Due erano i temi centrali del suo trattato: le contraddizioni e
l'inconsistenza della Bibbia, principalmente, e il paragone tra Gesù e
Apollonia di Tiana, in base al quale la figura del primo veniva drasti-
camente ridimensionata (cfr. CAP. 14, p. 417). A leggere questo testo
così documentato, nota Lattanzio, si traeva l'impressione che l'autore
fosse stato un tempo cristiano. Eusebio di Cesarea ebbe poi a confuta-
re questo blasfemo paragone di Hierocle in un suo testo apologetico
222 STORIA DEL CRISTIANESIMO

giunto fino a noi. Insomma, Hierocle fu per certi aspetti un intellettuale


prestato alla politica e il suo stile è affine a quello che caratterizzò la
gran parte dei governatori chiamati a eseguire le direttive anticristiane:
non tanto mirare a spargimenti di sangue quanto indurre apostasie utili,
specialmente se autorevoli e pertanto contagiose, come quelle di vescovi
e maestri cristiani. Prova di tale stile è l'interrogatorio cui Clodio Cul-
ciano, governatore d'Egitto (301-307), sottopose, nel periodo più crudo
della persecuzione, il ricco vescovo Filea di Thmuis. Culciano mostrò
interesse per gli aspetti dottrinali del cristianesimo, delle Scritture ( in
particolare Paolo, la resurrezione) ma soprattutto dichiarò che se Filea
fosse stato un poveraccio l'avrebbe subito messo a morte, ma siccome
era illustre e poteva influenzare molti voleva convincerlo a sacrificare
agli dèi, inducendolo a un'esemplare apostasia.
L'editto dioclezianeo, promulgato nel giorno dei Terminalia, il 23 feb-
braio del 303, non comminava sic et simpliciter la morte per i cristiani, ben-
sì la consegna delle loro Scritture, la chiusura dei locali di culto e la perdita
delle tutele giuridiche. Nella primavera e nell'autunno dello stesso anno
intervennero altre due direttive che prevedevano il carcere per i ministri
di culto, fatta salva la possibilità di uscirne se avessero effettuato sacrifici
in occasione dei vicennalia dell'imperatore. Più grave fu invece il quarto
provvedimento, nella primavera del 304, il quale prevedeva a carico dei
cristiani l'obbligo dei sacrifici agli dèi pagani e, in caso di inadempienza,
la pena di morte.
Anche in questi anni bui valse la regola per cui l'applicazione di tali di-
rettive passava per lo zelo e i margini di discrezionalità delle autorità locali.
Si ebbero applicazioni più rigorose in Oriente, dove le comunità cristiane
erano più diffuse, nelle terre sottoposte a Galerio (Illirico e Asia Minore)
e a Massimino Daia (Siria ed Egitto). La persecuzione fu epocale per i
cristiani: in Egitto la Chiesa costruì il suo calendario a far data proprio
dall'inizio della persecuzione di Diocleziano. In Occidente le azioni furo-
no più blande e sovente nulle, come nelle regioni scarsamente cristianizza-
te sottoposte a Costanzo Cloro: una situazione questa di cui si avvalse poi
Eusebio di Cesarea per rievocare in chiave filocristiana anche l'operato del
padre del suo Costantino.
Galerio, come s'è accennato, fu particolarmente attento a esigere i
sacrifici, camminando in caso contrario pena di morte e deportazione
nelle miniere. Nel 311, però, colpito da malattia irreversibile, in prossi-
mità della morte, nella sua residenza di Serdica promulgò un editto nel
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.2.3

quale sia protestava la sua diligenza nell'aver tentato di condurre sulla


retta via, cioè all'osservanza delle patrie tradizioni religiose, i seguaci
di una follia recente e malefica, sia riconosceva l'inanità del tentativo
per cui i cristiani non erano tornati ad bonam mentem ma neppure po-
tevano onorare il loro dio. Ancora una volta a essere condannato era
l'esclusivismo del culto cristiano. Galerio riconosceva infine ai cristiani
la libertà di professare la loro religione e di ricomporre le loro comuni-
tà. L'editto era chiuso da un invito, rivolto proprio a costoro, a pregare
per il bene dell'Impero e dell'infermo imperatore. Invano: di lì a pochi
giorni egli sarebbe morto tra dolori atroci fornendo a Lattanzio, che ci
ha restituito il testo dell'editto, eloquente esempio di morte di un per-
secutore (mort. pers. 2.4).
Più interessante e meditata fu invece l'azione anticristiana di Massimi-
no Daia il quale, dopo aver esatto il rispetto delle direttive dioclezianee, lui
stesso, nel 306 e poi nel 308 aveva promulgato due constitutiones le quali
attivavano una capillare macchina burocratica per indurre i cristiani all'a-
postasia o, in caso di ostinazione, per avviarli ai micidiali lavori ad meta/la.
Dopo una breve pausa successiva alla concessione di Galerio, Massimino
già nel novembre del 311 riprendeva le persecuzioni. Queste ebbero a ces-
sare soltanto a seguito di una specifica direttiva in tal senso, presa congiun-
tamente da Costantino e da Licinio: è la legge "perfettissima" ricordata
da Eusebio (h.e. 9,9,13) che alcuni identificano con il cosiddetto "editto di
Milano".
Perché Massimino Daia si è così accanito a danno dei cristiani?
Senz'altro per sostenere con un'armatura ideologica di tipo religioso e
tradizionale il suo potere. Sta di fatto che egli riorganizzò il culto pa-
gano nei suoi territori, creando sacerdozi, impiantando templi e corro-
barando santuari oracolari. Per questo aspetto la sua azione può essere
considerata prodroma di quella che avrebbe tentato tra il 361-363 l' im-
peratore Giuliano nella quale, però, l'intento nostalgico e filosofico di
restituire vita e rispetto agli dèi antichi sarebbe prevalso sul desiderio di
produrre martiri che gli fu invece assente. Massimino si era reso conto
che la philia tra cristiani prendeva corpo di fatto in una "rete" capillar-
mente radicata, atta alla bisogna a veicolare consenso e sostegno magari
a coloro che lui individuava come avversari: Licinio e Costantino. In
altri termini, la Chiesa come corpo sociale organizzato, in quell'Orien-
te dov'era già tanto forte, poteva far paura specialmente a uomini di
potere che, come Massimino, per natura e per esercizio non riuscivano
2.2.4 STORIA DEL CRISTIANESIMO

a intenderne le motivazioni di fondo, ma ne avvertivano soltanto l'e-


straneità alla visione classica tradizionale e l'effetto destabilizzante su un
ordinamento a essa organico.
Massimino tentò di coinvolgere le comunità civiche nella sua politica
religiosa. Le stimolava a rivolgergli petizioni scritte contenenti la richiesta
di espellere i cristiani con le vaghe accuse di costituire un gruppo oscuro,
recente e pernicioso proprio perché alienava la protezione degli dèi. Ne
abbiamo notizia non solo grazie a Eusebio ma anche per via epigrafica,
come nel caso di Aricanda e di Col basa, in Asia. L'imperatore si affrettava
a rispondere, assecondando il desiderio espresso e assicurando benevole
elargizioni di denaro che, probabilmente, non erano estranee all'iniziativa
di avanzare quelle richieste. L'aspetto "ideologico" non era secondario in
questa lotta di religione, e comprendeva la composizione di scritti, come
gli Atti di Pilato, fortemente voluta dall'imperatore. Si trattava di una sor-
ca di apocrifo anticristiano o, per meglio dire, della rievocazione del pro-
cesso e della condanna di Gesù conforme a un genere letterario ben diffuso
era cristiani. Il testo fu addirittura adottato e facto leggere ai ragazzi nelle
scuole!
Per i cristiani l'incubo di Massimino Daia terminò definitivamente
nel 313, quando egli fu sconfitto da Licinio e poi sepolto a Tarso, la città
del più grande interprete di quel verbo cristiano che tanto egli aveva av-
versato: Paolo. La sua persecuzione lasciò traccia nella memoria agiogra-
fica: oltre al racconto eusebiano dei martiri di Palestina, potremmo citare
le iscrizioni che a Laodicea ci parlano di Gennadio e di Eugenio. Il primo
« sostenne [... ] la sacra Scrittura, morendo assai pietosamente», il secon-
do percorse un cursus honorum ben rappresentativo dell'era favorevole
ai cristiani che oramai s'inaugurava. Eugenio, infatti, figlio di notabili di
Laodicea, dopo aver sofferto da militare in quanto cristiano a causa del
praeses Pisidiae Valerius Diogenes (311-312.), si era ritirato per non sacri-
ficare agli dèi, poi era diventato vescovo, e in cale veste aveva restaurato il
suo edificio di culto. L'iscrizione di Eugenio è preziosa non solo per gli
accenni alla struttura di un edificio di culto cristiano in funzione intorno
al 340 ma anche perché attesta il passaggio di un notabile dalla carriera
nelle milizie a quella ecclesiastica. Tra le conseguenze di queste bufere
persecutorie ricorderemo lo sviluppo del culco dei martiri (cfr. CAP. 14) e
lo scisma donatista, che prese l'avvio dalla questione dei ministri di culto
che avevano apostatato.
Mentre entro il limes dell'Impero di Roma infuriava la persecuzione,
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.2.5

fuori di esso si registrano i successi dell'evangelizzazione in Armenia di cui


si è parlato nel CAP. 5.

Costantino il rivoluzionario

Ponte Milvio e la legislazione filocristiana

L'ascesa di Flavio Valerio Costantino dal punto di vista della politica mi-
litare è da considerarsi l'ultimo atto di una lunga serie di lotte armate tra
"signori della guerra" i quali, emergendo dal frastagliato mosaico degli
equilibri di potere della tetrarchia, ambivano a realizzare il sogno di ac-
quisire una signoria unica e assoluta. Diverso è il discorso che va fatto in
merito alla sua politica religiosa poiché in questa l'imperatore si affermò
quale autentico rivoluzionario. Tuttavia, ancora una volta, non possiamo
separare l'uno aspetto dall'altro.
Gli storici non trattano più il tema della conversione di Costantino
poiché si rendono conto di non disporre degli strumenti atti a scandaglia-
re un'esperienza così profonda e individuale. Si preferisce parlare di svolta
costantiniana, indicando con tale espressione quel complesso di atteggia-
menti e di provvedimenti i quali caratterizzarono il passaggio dai culti
tradizionali in auge durante la tetrarchia a un sempre più aperto favore
verso la Chiesa detta "cattolica". Al centro di questo campo d'indagine col-
lochiamo la "questione costantiniana" che mira invece a saggiare il grado
di attendibilità di quelle fonti cristiane le quali riferiscono di una visione
celeste avuta dall'imperatore in armi come del punto di partenza e del si-
t~illo della sua politica filocristiana.
Diciamo subito che il ritratto dell'imperatore emerge principalmente
dalle rievocazioni che a lui hanno dedicato Eusebio di Cesarea e Lattan-
zio. Si tratta di fonti di parte e gli scritti del primo (specialmente la Vita
rii Costantino) presentano i tratti dell'agiografia. Rintracciamo anche una
tradizione storiografica pagana (Giuliano, Eunapio, Zosimo) la quale ha
visto in Costantino un opportunista reo di aver compromesso la prote-
zione degli dèi antichi verso la res publica. Oltre a una messe di iscrizioni,
si pensi specialmente a quella sull'arco presso il Colosseo (cIL VI,1139) e
all'editto di Spello (cfr. infra, p. 235), costituiscono fonti di rilievo le emis-
sioni monetali personalmente curate dal!' imperatore quanto ai simboli e
alle leggende, che attestano il suo graduale ma costante allontanamento
2.2.6 STORIA DEL CRISTIANESIMO

dal paganesimo. Utilissimo lo studio della sua legislazione, oltre che in-
dispensabile per misurare concretamente le mutazioni che la Chiesa co-
nobbe in pochi anni, dalla condizione di perseguitata a quella di soggetto
favorito, già proiettato verso un'egemonia che le sarebbe stata riconosciuta
di fatto e di diritto alla fine del secolo.
Nel 305 Costantino e Massenzio si trovarono a essere i grandi esclusi
dal secondo assetto tetrarchico a cui s'è già accennato. Costantino era
stato proclamato dalle milizie del padre in Britannia suo successore e
così aveva stabilito il suo dominio su questa provincia e in Gallia. Mas-
senzio si era proclamato signore dell'Italia e dell'Africa. Uno scontro
tra i due per stabilire chi fosse l'unico dominus d'Occidente era nella
logica dei fatti. Il 2.8 ottobre del 312. le truppe di Costantino marciarono
su Roma e l'assediarono. Massenzio volle affrontare il nemico in campo
aperto, schierò incautamente l'esercito con le spalle al Tevere, presso il
Ponte Milvio fu sconfitto e, sotto la carica del nemico, fu travolto con
i suoi nei flutti. Da parte sua Massenzio aveva emesso provvedimenti
in favore dei cristiani. La propaganda costantiniana minimizzò ciò, tac-
ciandolo di ipocrisia. Per quanto riguarda la posizione religiosa di Co-
stantino, la testimonianza di un panegirico e le emissioni monetali fino
a quell'epoca attestano una sua devozione per quell'Apollo-Helios che
era stato così caro ad Aureliano e a Claudio il Gotico, dal quale Costan-
tino proclamava orgoglioso la sua discendenza. Nel Tempio di Gand, in
Gallia, Costantino aveva avuto la visione di questa divinità, affiancata
alla Vittoria, che gli aveva anche promesso vittorie e trenta anni di regno
(Paneg. Lat. 6). Un altro panegirico (il 12.), nel rievocare la battaglia di
Ponte Milvio, attribuisce l'esito dell'evento a una mens divina venerata
con nomi svariati dai popoli della terra: si tratta di termini non troppo
difformi da quanto leggiamo nell'iscrizione dell'arco (cn VI,1139) che
invece attribuisce la vittoria instinctu divinitatis. Di contro a queste va-
ghe affermazioni due autori cristiani, Eusebio e Lattanzio, raccontano
sempre più particolareggiatamente in merito a un mutamento di atteg-
giamento religioso che Costantino avrebbe avuto alla vigilia della fatidi-
ca battaglia presso Roma. In h.e. 9,9,2. intorno al 315, Eusebio ricorda solo
la preghiera formulata dall'imperatore « al Dio del cielo e al suo Verbo,
Gesù». Successivamente, Lattanzio (mort. pers. 44) racconta del sogno
fatto dall'imperatore alla vigilia dello scontro durante il quale egli fu
avvertito di raffigurare sulle insegne il segno celeste: la lettera greca chi
(X) girata e con la sommità piegata, un simbolo che suggerisce le prime
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 227

due lettere del nome di Cristo (donde è detto chi ro o chrismon o mo-
nogramma di Cristo). Ancora dopo, intorno al 337, leggiamo nella Vita
di Costantino (1,28) che in un fatidico tramonto di vigilia non fu solo
Costantino ad avere la visione ma tutto l'esercito suo, talché la croce fu
raffigurata per ottenere la vittoria. La tradizione veicolata dagli encomia-
sti di Costantino, dunque, per tempo andò rimpolpandosi di particolari
e fu resa sempre più funzionale al ritratto definitivo che c'è stato con-
segnato: l'uomo tenuto in serbo dalla provvidenza divina per conciliare
il percorso dell'Impero con quello della Chiesa. Tuttavia non abbiamo
motivi per dubitare della bontà di un nucleo essenziale, compatibile sia
con le azioni compiute successivamente nel campo della religione sia con
un'epoca in cui l'oracolo, la visione, il presagio era esperienza quotidiana
per un imperatore che mirava ad essere unico, come unico nel cielo era
quel principio divino dalla cui comunione intima egli asseriva di trarre
legittimazione e autorità.
Appena l'anno successivo, nel 313, Costantino si incontrò a Milano con
il collega Licinio. Si doveva trattare dei nuovi equilibri di potere, ma la
riflessione sulla questione dei cristiani non poteva essere assente.L'assunto
del precedente editto di Galerio fu confermato nella sostanza e ampliato
nella portata: non più una semplice tolleranza concessa a denti stretti per i
credenti in Gesù, ma una vera e propria equiparazione del loro culto a tutti
gli altri legittimati (Eus., h.e. 10,5,2-14; Lattanzio, mort. pers. 48,2-12). Co-
stantino rimase pontifex maximus dei pagani e non represse i culti tradi-
zionali se non nel caso di qualche santuario discusso per forme di "immo-
ralità" che vi si connettevano. Represse (319-320 d.C.) l'aruspicina privata
(CTh 9,16,2; 9,16,1), ma tutelò quella pubblica ( CTh 9,8,3). Il suo interven-
to in campo religioso non si concretizzò nella repressione del paganesi-
mo bensì nella concessione di favori, sempre maggiori, nei riguardi della
Chiesa. Già nel 313 Costantino scriveva al proconsole d'Africa Anulinus
disponendo la restituzione del patrimonio ecclesiastico e l'elargizione di
somme a beneficio della Chiesa catholica. In seguito una serie di constitu-
tiones rivelavano l'influenza della dottrina cristiana o un animo benevolo
vi:rso chi la professava, specie se in autorità. Nel 315 il divieto di marchiare
il volto dei condannati poiché esso era comunque «a immagine di Dio»,
la protezione dei Giudei diventati cristiani rispetto alle eventuali angherie
dei loro ex confratelli (cfr. CAP. 2, p. 93); nel 318 l' episcopalis audientia,
t:ioè il diritto di una parte in causa di trasferire all'arbitrato di un vescovo
un processo anche se già iniziato presso le autorità civili, naturalmente con
2.28 STORIA DEL CRISTIANESIMO

pieno riconoscimento della sentenza; nel 321 la «legge domenicale», cioè


il rispetto per la solennità del giorno precedentemente dedicato al Sole
ma ora da dedicarsi a opere pie cristiane; nel 321 la manumissio in ecclesia,
cioè la possibilità riservata ai cristiani di emancipare i propri schiavi con
un pronunciamento « in seno alla Chiesa», la possibilità di lasciare in ere-
dità beni alla Chiesa catholica; nel 323 il castigo comminato a coloro che
avessero costretto un cristiano ad assistere a cerimonie di culto pagano;
nel 331 i provvedimenti a tutela della famiglia e della sua compattezza, sia
rendendo difficili gli scioglimenti sia impedendo il frazionamento di quel-
la degli schiavi.
La sua politica edilizia (cfr. CAP. 8, p. 264) fu mirabile per la fon-
dazione sul suolo della vecchia Bisanzio di una città che da lui derivò
il nome, Costantinopoli, e poi per l'edificazione di edifici di culto cri-
stiano principalmente a Roma e in una Palestina che perciò si avviava a
essere Terrasanta. All'età costantiniana risalgono infatti iniziative edili-
zie che riguardano la costruzione della Basilica di San Giovanni in La-
terano, di Pietro e Marcellino, l'ampliamento della memoria di Pietro e
Paolo lungo la via Appia e la Basilica di San Pietro al Vaticano, se questa
non è, secondo un'ipotesi recente, iniziativa posteriore. A Gerusalemme
la chiesa del Santo Sepolcro e il complesso sul Monte degli Ulivi, caro
a sua madre Elena. Tutto ciò ha a che fare con il problema dell'origine
della basilica cristiana la quale nelle forme e anche nelle finalità cui era
destinata riproponeva il modello della basilica civile, luogo di aggrega-
zione del popolo convocato in assemblea dall'autorità. Diversa, invece,
era la forma della sepoltura del martire la quale si richiamava ali' heroon
antico.

Costantino episkopos ton ektos,


alle prese con la crisi donatista

Le competenze di Costantino in quanto garante della pace religiosa e la


necessità di definire una Chiesa catholica, quale beneficiaria di un rappor-
to particolare, lo spinsero al coinvolgimento nelle due grandi controversie
che travagliarono l'età sua e ben oltre. In Africa la questione donatista, che
rimase circoscritta a quelle terre, ad Alessandria la controversia ariana, che
ben presto divampò dappertutto nell'Impero.
Del donatismo sul lungo periodo si parlerà nel CAP. 11. Qui trattiamo
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.2,9

i suoi inizi e il ruolo di Costantino. In Africa non pochi cristiani, tra cui
anche vescovi, avevano ceduto alla paura nel corso della recente persecu-
zione dioclezianea e avevano consegnato le Scritture alle autorità, come
prescriveva l'editto. Costoro erano vescovi traditores (cioè che "avevano
consegnato") e contro di loro, come già all'epoca di Decio, andavano le-
vandosi le censure di coloro che si consideravano puri da tale macchia.
Già prima del 312 a Cartagine era stato eletto vescovo Ceciliano. Ma tra
coloro che gli avevano imposto le mani vi era stato Felice di Abthugnos,
un traditor. Contro il neoeletto si formò una fronda che collocò nella
cattedra cartaginese Maiorino, appartenente alla Jamilia della ricca dama
cristiana Lucilla, a cui seguì il ben più noto Donato, che diede poi nome
al movimento. Non si trattava di una contrapposizione tra fasce di popo-
lazione più o meno romanizzata oppure di condizione più o meno agiata,
come spesso in passato s'è pur autorevolmente ritenuto. La materia del
contendere affondava le sue radici in quella tradizione ecclesiale africana
rigorista che appariva già chiara all'indomani della persecuzione di De-
cio (250), all'epoca del grande Cipriano (cfr. CAP. 3, p. 128). Nel corso
del conflitto sempre più la posizione ecclesiologica donatista si sarebbe
radicalizzata, esasperando questa tradizione e concependo le chiese come
assemblee di eletti, puri da ogni contaminazione con la società e, princi-
palmente, con il corrotto potere politico d'oltremare. I "cattolici" giudi-
cavano tutto ciò atto di superbia e preferivano pensare al giudizio finale
da parte di Dio come al momento dell'effettiva separazione tra santi e re-
probi. Nel discorso era implicitamente coinvolta anche la teologia dei sa-
cramenti: la loro efficacia dipendeva dalla condizione di purezza di colui
che li amministrava? La tradizione, tipicamente africana e ciprianea, della
reiterazione del battesimo, per chi proveniva da ambienti eterodossi, mi-
litava a favore del sì.
A Costantino, che già aveva intestato alla Chiesa di Ceciliano la resti-
tuzione dei beni ecclesiastici, furono indirizzate da esponenti della parte
di Maiorino due petizioni, a seguito delle quali egli organizzò un arbi-
trato, presieduto dal vescovo di Roma, Milziade. Questi, oltre ai vesco-
vi convocati da Costantino, ne aggiunse altri: ne venne fuori un conci-
lio (313) che si espresse a favore di Ceciliano. I donatisti protestarono e
l'imperatore convocò un concilio ad Arles (314) di vescovi galli: il nuovo
vescovo di Roma, Silvestro, fu assente. La condanna dei donatisti venne
rinnovata. Si noti come Costantino non abbia esitato a prendere nelle
sue mani l'iniziativa religiosa, in barba a ogni pretesa eventuale del vesco-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

vo di Roma. Successivamente, egli attuò anche una repressione che non


escluse la violenza. Tutto ciò corroborò la fronda donatista, radicando
nei suoi aderenti la convinzione che il potere romano fosse sostanzial-
mente estraneo alla Chiesa, anzi a questo avverso, come nella migliore
tradizione dell'epopea gloriosa dei martiri. Tardivamente (321) Costanti-
no abrogò ogni tipo di intervento repressivo o discriminatorio a carico
dei seguaci di Donato: la Chiesa donatista in Africa si atteggiò a Chie-
sa dei martiri, perseguitata, proprio come Gesù aveva predetto, e pura
da contaminazioni con il potere politico. Essa aveva inoltre buon gioco
nell'alimentare la venerazione dei martiri le cui memorie venivano solen-
nizzate durante il culto con letture edificanti, da affiancare a quelle della
Bibbia. Insomma, il donatismo si era candidato, e con successo, a essere
l'interprete autentico della cristianità d'Africa. Lo fu per lungo tratto, an-
che dopo gli inizi del v secolo, quando sarebbe stato mortificato da una
manovra a tenaglia tra una legislazione repressiva e la martellante azione
controversistica di Agostino d' Ippona.

La crisi ariana, Costantino e il primo concilio ecumenico

Diversa era la situazione in Alessandria d'Egitto, centro di raffinata elabo-


razione teologica. Qui scoppiò la lunga controversia che prese il nome da
Ario, poi considerato l'eretico per eccellenza, ma che in realtà ebbe diversi
protagonisti trascinandosi per quasi tutto il IV secolo, ed ebbe un' altret-
tanto lunga gestazione, insita negli stessi presupposti della teologia ales-
sandrina.
Per comprendere questa crisi, dai termini ostici per il lettore moder-
no, è opportuno rievocare, sia pure in breve, gli antecedenti dottrinali
che portarono ai dibattiti di età costantiniana. Ad Alessandria la teolo-
gia del Logos si era evoluta, soprattutto a opera di Origene, nel senso
di affermare tre "ipostasi", cioè tre sussistenze individuali di Dio Padre,
del Figlio Logos e dello Spirito santo (cfr. CAP. 3, p. 121), anche se la
riflessione su quest'ultimo era meno sviluppata. Nella seconda metà del
III secolo Dionigi di Alessandria lottò per sradicare l'opposta dottrina
sabelliana dalla Libia, territorio sottoposto alla sua Chiesa. Alcune sue
affermazioni suscitarono però sospetti nell'ambito stesso dei fedeli or-
todossi. In particolare, non fu apprezzato che egli chiamasse il Figlio
poiema ('fattura'), quasi considerandolo estraneo al Padre, e che rifiu-
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.31

casse di considerarlo homoousios ('della stessa sostanza'). I suoi avver-


sari si rivolsero al vescovo di Roma, Sisto II, ma la risposta venne dal
successore, anch'egli di nome Dionigi. Questi contestò all'Alessandrino
la dottrina delle ere ipostasi «estranee» e «separate l'una dall'altra»,
anche se non affermò l'unica ipostasi. Si tenne quindi nella tradizionale
posizione romana, più attenta all'unità di Dio che alla distinzione delle
persone (cfr. CAP. 3, p. 12.5). Dionigi di Alessandria, pur confermando
la dottrina delle tre ipostasi, negò di considerarle divise: ammise peral-
tro di essersi espresso incautamente a proposito del Figlio, perché spinto
dalla preoccupazione di salvaguardare la sua identità personale rispetto a
quella del Padre, e si dispose ad accettare I' homoousios nel significato ge-
nerico di unità di natura fra esseri dello stesso genere. Rispuntò dunque
un termine, homoousios, che era stato usato dagli gnostici per indicare la
consustanzialità degli spirituali con il divino, e che molti appartenen-
ti alla tradizione alessandrina ( ma non evidentemente gli accusatori di
Dionigi) consideravano con sospetto per il timore che potesse essere in-
teso nel senso di condivisione da parte del Figlio della stessa sostanza
individuale del Padre, con conseguente identificazione, alla maniera di
Sabellio, del Figlio con il Padre.
La questione dei due Dionigi anticipò le tematiche dibattute nel corso
della controversia ariana: il nocciolo della questione era sempre lo stesso,
ossia cercare di capire l'unità e la distinzione in Dio. Nell'impostazione
origeniana, l'unità era assicurata dalla preminenza di Dio Padre, fonte del-
la divinità, nonché dalla concordia indefettibile di amore e di volere fra il
Padre, il Figlio e lo Spirito.
La predicazione di Ario, un presbitero austero e autorevole della
Chiesa di Alessandria, si sviluppò all'interno di questo schema, radica-
lizzandolo. Ario era mosso dall'esigenza di preservare l'unicità di Dio,
partendo però dal presupposto della distinzione personale (ipostatica)
fra Dio e il Figlio, proprio della tradizione alessandrina cui apparteneva,
opposto agli esiti sabelliani. In nome dunque della salvaguardia dell'uni-
co Dio, il solo senza principio, non generato e non divenuto, si opponeva
ali' innovazione apportata da Origene della generazione eterna del Logos,
perché predicare un Logos generato ab aeterno equivaleva per lui a predi-
care due ingenerati, cioè due dèi. Ario considerava inadeguato il termine
stesso "generato" perché gli sembrava presupporre, in ciò condizionato
dalla fisiologia umana, un passaggio di sostanza (ousia) dal Padre al Fi-
glio, quindi un depauperamento del Padre, e preferiva pensare al Figlio
2:,2 STORIA DEL CRISTIANESIMO

come stabilito, fondato, creato direttamente dal Padre: il Figlio è anch'es-


so Dio, ma Dio in quanto creatura (ktisma) del Padre, prima delle altre
creature, su tutte eccelsa, in quanto le successive dipendono da lui. Lo
soccorreva un'interpretazione di Prov 8,22-25, passo biblico nel quale la
Sapienza (identificata dai cristiani con il Figlio-Logos) parla di sé prima
come «stabilita» dal Padre e poi come «generata». Mentre gli esegeti
precedenti consideravano il verbo stabilire come sinonimo di generare,
Ario, invertendo il rapporto, considerava «generare» sinonimo di «sta-
bilire» (Simonetti, 1965).
La condanna di Ario da parte del vescovo Alessandro, il ricorso all' isti-
tuto dei sinodi locali non erano stati dirimenti, né in Bitinia nel 320, né ad
Antiochia nel :,24, rispettivamente a favore e contro Ario. L'imperatore
Costantino aveva trionfato su Licinio coronando il suo sogno di dominio
sulle due parti dell'Impero e ora si poneva con più urgenza il problema di
tutelare la pace sociale. Pertanto egli fu indotto a convocare un concilio
che ebbe luogo a Nicea nel :,25 e che coinvolse poco meno di trecento ve-
scovi, nella stragrande maggioranza orientali. Fu proprio lui a presiedere i
lavori gratificando i partecipanti con lo sfarzo che la sua ospitale residenza
poteva assicurare loro. Dopo inevitabili scontri fu elaborata una profes-
sione di fede nella quale ci si riferiva a Gesù come a «Dio vero da Dio
vero, generato, non creato, della stessa sostanza (homoousios) del Padre».
Proprio il termine homoousios, sospetto a molti ed estraneo alla Scrittura,
fu considerato da Costantino e dal suo consigliere Ossio di Cordova par-
ticolarmente indicato a contrastare Ario. Questi, infatti, non accettò e fu
condannato insieme con due suoi sostenitori. Molti vescovi sottoscrissero,
sospettando però dentro di sé, specie gli orientali, che la formula prestasse
il fianco ali' accusa di monarchianismo. Non avevano tutti i torti, in quan-
to gli anatematismi finali (cfr. infra, p. 242) identificavano appunto il ter-
mine ousia con quello di ipostasi, che in Oriente indicava la sussistenza
individuale, per cui dire che Padre e Figlio condividono la stessa ipostasi
significa dire che si identificano.
Tale pronunciamento, pur se non risolse definitivamente una questio-
ne così complessa (il mistero della divinità di Cristo), ebbe una grandissi-
ma importanza nella storia del pensiero teologico, anche perché la termi-
nologia adottata non era desunta dalle Scritture: sempre più la tradizione
veniva a consistere non soltanto nella fedeltà alla trasmissione e interpreta-
zione ortodossa del dato scritturistico ma veniva a comprendere un com-
plesso determinato e vincolante (dogmatico) di insegnamenti che questo
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.33

dato andavano a integrare ed esplicitare. Inoltre, ed è il dato più eclatante


da registrare, per la prima volta si aveva, almeno nelle intenzioni, un'unità
dottrinale in tutto l'Impero, in precedenza mai avvenuta a causa del siste-
ma federativo delle chiese. Regnante un imperatore cristiano e per giunta
«vescovo per le cose/per coloro che sono al di fuori» (episkopos ton ektos),
come lui stesso, secondo Eusebio, si era definito, per evitare le dispute reli-
giose e gli antichi sinodi locali, si poteva e si doveva disporre di un concilio
che, in quanto promosso e animato dall'imperatore, a buon diritto poteva
appellarsi "ecumenico".
Il quasi unanimismo niceno della prima ora andò ben presto infran-
gendosi e per più motivi: il tema era arduo, la dottrina era stata for-
mulata con una terminologia estranea alle Scritture, e ciò suscitava le
perplessità di gran parte del popolo cristiano; le diverse tradizioni teo-
logiche, con una diversità marcata fra l'Occidente più attento all'unità
a scapito delle individualità del Padre e del Figlio, e poi dello Spirito
santo, e l'Oriente, che invece sottolineava queste ultime, non si erano
ancora pienamente confrontate e non avevano chiarito le rispettive po-
sizioni; il livello di litigiosità dei vescovi era notevole e, come vedremo,
sempre più lo sarebbe stato anche in occasione di successive dispute.
Inoltre, alcuni partecipanti al concilio avevano ritirato le loro firme.
Tra questi vi era l'influente Eusebio di Nicomedia, uomo dotato di fine
senso della politica, amico di Ario, che proprio a lui si era rivolto per
aiuto all'inizio della disputa con Alessandro. Sta di fatto che già nel 32.8
Eusebio operava quale consigliere dell'imperatore e da questa posizione
maneggiava per una denigrazione degli avversari di Ario, in primis il
turbolento Atanasio di Alessandria, già nel 32.5 diacono al seguito di
Alessandro e che ora, da vescovo, si ergeva a campione della fede nicena
(cfr. CAP. 5, p. 175). Furono esiliati anche il niceno Eustazio di Antio-
chia, per abuso di potere, e Marcello di Ancira, che aveva sviluppato
in modo originale il monarchianesimo e la cui dottrina era avvertita
dai vescovi orientali come il maggiore pericolo. Riabilitato alla fine
e sul punto di tornare nella sua Alessandria, Ario però morì nel 336.
L'anno dopo morì Costantino che, in punto di morte, a Nicomedia si
fece battezzare proprio dall'ariano Eusebio. Tale circostanza creò pro-
blemi quando l'arianesimo fu definitivamente sconfitto in Occidente,
e produsse fra v e VI secolo una falsificazione della memoria storica
con la leggenda circa il battesimo "ortodosso" di Costantino a opera del
Vescovo di Roma Silvestro, contenuta negli Actus Silvestri, il testo che
234 STORIA DEL CRISTIANESIMO

sarà alla base del successivo celeberrimo falso Constitutum Constantini


(Donazione di Costantino).

La breve marcia della Chiesa cattolica


verso l'egemonia

Come e perché in meno di ottant'anni la Chiesa passò dalla condizione


di soggetto perseguitato all'esercizio di una sicura egemonia nell'ambito
dei rapporti di forza dell'Impero? Cercheremo di individuare alcune ri-
sposte tenendo presente che oltre ai dibattiti tra filosofi e teologi valsero
a mutare i tempi le constitutiones degli imperatori in materia di sacrifici,
templi, apostasie ed eresie. Queste leggi non ebbero un'immediata ca-
pacità di adeguare la realtà alla norma desiderata, come attestano sia
le loro numerose reiterazioni, sia le pene comminate ai magistrati ina-
dempienti, sia l'ovvia considerazione che costoro agivano con un ampio
margine di discrezionalità condizionato anche dalle loro convinzioni
religiose. Ciò spiega perché la riduzione a minoranza dei pagani e l' a-
scesa al potere dei cristiani non fu un fenomeno dovunque omogeneo
e simultaneo.
Su alcune linee essenziali di storia politica dobbiamo far scorrere i
principali avvenimenti che riguardano la storia del popolo cristiano, te-
nendo però presente che questo non costituiva un blocco monolitico ma,
al contrario, era diversificato per dottrine o per assetto organizzativo. Si
aggiunga che in un'epoca di più o meno marcato privilegio per la Chiesa i
vescovi, specialmente quelli delle più importanti città dell'Impero, nutri-
vano un'ansia di protagonismo che si trasformava, a causa delle ricorrenti
dispute dottrinali, in smodata conflittualità. Chi studia quest'epoca farà
tesoro delle Storie ecclesiastiche composte dai tre continuatori di Eusebio
di Cesarea: Socrate, Sozomeno e Teodoreto di Cirro. I frammenti di Filo-
storgio ci restituiscono il punto di vista ariano. Particolarmente preziose
sono le constitutiones imperiali prodottesi durante il secolo, raccolte nel
Codex Theodosianus che Teodosio II editò nel 448. Qui, specialmente nei
titoli che compongono il libro XVI, abbiamo la normazione che riguarda
la repressione dei culti pagani e delle eresie, la politica su templi e sacrifici,
le agevolazioni per la Chiesa cattolica ecc. Giova ribadire: le leggi, anche
in questo caso, non costituiscono il fedele specchio dei tempi, bensì sol-
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 235

tanto una dichiarazione di volontà da parte di chi ha l'onere di governare.


Ciò spiega come l'effettiva estinzione del paganesimo (o, più propriamen-
te, la sua trasformazione) abbia costituito un fenomeno ben più lungo e
complesso di quanto non possa apparire da una semplice lettura delle leggi
relative.
In passato si è voluto spesso rievocare la storia del IV secolo in termini
di conflitto tra paganesimo e cristianesimo. Questa prospettiva è da con-
siderarsi superata, anche se non si può negare che, a prescindere dal grado
di consapevolezza di chi in quell'epoca visse, si ebbe allora la sostituzione
di una visione del mondo (quella pagana) con un'altra (quella giudaico-
cristiana) profondamente diversa.
Terminate le persecuzioni, vennero meno i rumores circolanti tra il
popolo a carico dei cristiani, mentre la polemica calca visse la sua stagio-
ne più alca, aggiungendo alle argomentazioni di un Celso e di un Porfi-
rio alcre nuove che derivavano dal senso di sgomento indotto dal lace-
rarsi delle strutture politiche in corrispondenza dell'abbandono degli
dèi antichi, i quali lasciavano posto agli insoliti dogmi e riti dei cristiani.
L'apologetica, dopo Costantino, conobbe una rilevante fioritura, il che
dimostra la persistente vitalità della visione pagana, che smentisce l' an-
tistorico trionfalismo degli autori cristiani circa la vittoria cristiana sulle
devozioni antiche.
La grande svolta di Costantino fu il coronamento dell'età tetrarchica
e, nello stesso tempo, il preludio di un'età nuova. Si è già detto dell'equi-
parazione da lui sancita, di concerto con Licinio, tra la Chiesa e gli altri
culci in un nuovo clima di libertà, e delle successive misure a favore del
cristianesimo. È inolcre noto il suo editto di Spello del 335 (cn XI,5265)
nel quale si concedeva il permesso di celebrare il culto (pagano) alla sua
gens Flavia purché esente da superstitio. Quest'ultimo vocabolo ha una
lunga vicenda semantica che attraversa tutto il IV secolo: dapprima indi-
ca la religione dei cristiani, poi nei testi legislativi ricorre con una ambi-
guità di fondo che lasciava spazio ai magistrati per una sua definizione,
alla fine passa a indicare il complesso delle tradizionali devozioni paga-
ne. In ogni caso con Costantino il trittico magia-aruspicina-superstitio
inizia a consolidarsi nella sua accezione negativa, anzi perniciosa, ma
non è de iure sinonimo di culco pagano. Spingevano ad accreditare l' i-
dea, già avanzata dall'apologista Arnobio, sotto Diocleziano, che il culto
pagano fosse solo una superstiziosa pratica magica personaggi cristiani
influenti sulla coree, quali Ossia di Cordova, Lattanzio, Eusebio di Cesa-
:2.36 STORIA DEL CRISTIANESIMO

rea. L'evoluzione del pensiero giuridico fu pilotata in funzione di questa


idea per poi cogliere il frutto maturo di questa associazione invocando
per il paganesimo tout court la severa repressione già ab antico messa in
atto per la magia.
Nel 337, alla morte di Costantino, tre suoi figli si divisero le regioni
dell'Impero: Costantino II regnò su Gallia, Britannia e Spagna; Costante
su Italia, Africa e Illirico; Costanzo II su Tracia e Oriente. Ma le tensioni
scoppiarono ben presto: Costantino II morì nel 340 combattendo contro
Costante, il quale si suicidò nel 350 incalzato dalle truppe dell'usurpatore
Magnenzio che, a sua volta, fu sconfitto da Costanzo II nel 353. Nel pe-
riodo in cui Costante e Costanzo regnarono rispettivamente sulla parte
occidentale e su quella orientale dell'Impero la controversia ariana riprese
e gli imperatori favorirono il partito religioso maggioritario nei rispettivi
domini, quindi Costante i niceni e Costanzo quel vasto e variegato fronte
ostile alla formula nicena ma che solo semplicisticamente poteva dirsi tut-
to ariano. Quando Costanzo, dopo il 353, rimase unico signore dell'Impe-
ro fino alla morte (361) cercò l'unione religiosa sulla base della formulazio-
ne generica che il Figlio è «simile al Padre secondo le Scritture» (Concili
di Rimini e di Costantinopoli, 359-360 ), che potesse far convergere, fra gli
estremi del nicenismo da un lato e dell'arianesimo radicale dall'altro, una
larga maggioranza al centro.
In generale, la politica religiosa di Costanzo II fu in linea con quella del
padre, ma non ne ebbe la misura poiché fu caratterizzata da una normazio-
ne che già esplicitava un privilegio verso la Chiesa e che nei fatti tendeva a
una mortificazione dei culti tradizionali ("pagani"). A lui risale una legge
del 341 tendente a far cessare la superstitio e «l'insania dei sacrifici» ( CTh
16,10,2); probabilmente era una reiterazione dei provvedimenti del padre
di cui abbiamo or ora detto e ai quali il testo accenna; anche se buona
parte degli storici la ritiene una norma mirata a far del tutto cessare ogni
tipo di sacrificio. In realtà i sacrifici pagani continuarono a essere celebra-
ti, come attesta un'ampia messe di iscrizioni; ma già l'ambiguità con cui
la norma del 341 era stata formulata consentiva ai magistrati cristiani più
zelanti di ravvisarvi un assoluto divieto di culto pagano e di intervenire
di conseguenza. Si giunse, specialmente nelle più cristianizzate regioni
dell'Oriente, ad azioni radicali, con la distruzione di templi, così da evi-
tare le occasioni di trasgressione e da esorcizzare il luogo dai demòni che
l'avevano abitato. In realtà si trattava anche di acquisire a buon mercato
materiale edilizio da impiegare privatamente e di arricchirsi grazie a beni
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.37

artistici da mettere sul mercato. Queste eversiones templari furono spesso


il frutto dell'azione di monaci (quegli stessi satireggiati nella pro templis
di Libanio) o di un popolo eccitato e sovente manovrato da vescovi resi
spavaldi da una legge del 355 ( C7h 16,2.,12.) che li aveva sottratti al giudizio
dei tribunali ordinari.
Nel contesto della normazione repressiva di Costanzo II va posta l'o-
pera apologetica di Firmico Materno de errore prophanarum religionum
(341-346 ca.). Non essendoci più all'ordine del giorno la richiesta di liber-
tà per il culto cristiano, e non bastando a Materno le misure di Costanzo
II, l'apologista spingeva i sacratissimi imperatores verso una cancellazione
dichiarata e senza mezzi termini del paganesimo e una radicale distruzio-
ne dei suoi templi. Oltre alla tradizionale equiparazione tra dèi pagani e
demòni, a quella tra magia e culto pagano, oltre alla consueta promessa di
vittorie militari all'imperatore servo fedele di Dio, egli giungeva ad "attua-
lizzare" le pagine veterotestamentarie che narravano le vittorie degli Israe-
liti sui Cananei, con corredo di stragi e distruzioni di città e templi: erano,
secondo lui, profezie di quanto avrebbe fatto il Novus Israel, la Chiesa. Il
bersaglio autentico era ora a portata di mano: il paganesimo greco-roma-
no e i suoi ancora numerosi seguaci destinati al medesimo bagno di san-
gue. Non sappiamo se i destinatari dell'opera la lessero; ma sicuramente
il suo autore seppe vedere lontano, catalizzando ciò che sarebbe stato poi
legiferato dal cattolicissimo Teodosio I e successori.
Diverso, e più di indole speculativa, fu il quasi coevo impegno antipa-
gano di Atanasio di Alessandria. Egli compose un'opera in due libri dove
si coglie una polemica antiplatonica collegata alla dottrina dell'incarna-
zione del Verbo come unico canale di conoscenza e di salvezza. In buona
sostanza questa impresa apologetica faceva leva sull'inefficacia della men-
te umana ad acquisire con le proprie forze la conoscenza salvifica e, così,
creava spazio alla presentazione della rivelazione di Dio in Cristo quale
"unica via''. Era un tema antico, già trattato da Porfirio in margine a una
critica di Gv 14,6 e che avrebbe conosciuto ancora maggior attualità suc-
cessivamente in occasione, ad esempio, della controversia sull'altare della
dea Vittoria.
Si ebbe tra il 361 e il 363 il regno di Giuliano, breve ma denso di signi-
lìcaco per i suoi tentativi di arginare il corso della storia. L'imperatore,
che i cristiani definirono Apostata, mirò a spogliare la Chiesa dei privile-
gi acquisiti e a rinvigorire la paideia tradizionale e con questa le devozioni
per gli dèi antichi. La sua fu così una politica diametralmente opposta a
STORIA DEL CRISTIANESIMO

quella di Costantino. Il nuovo imperatore soffiò sulle rivalità tra cristiani


come su un fuoco, concedendo totale libertà di culto e ai vescovi esiliati
a seguito delle vicende della crisi ariana il rientro nelle loro sedi. Inoltre,
pur rifuggendo da atti di persecuzione, durante il suo denso soggior-
no antiocheno, ingaggiò una guerra di religione, la quale prese corpo in
un'opera di revival del culto pagano e nella composizione di uno scritto
il cui titolo era già eloquente: Contro i Galilei. Così egli, infatti, ripristi-
nando un'antica denominazione dei cristiani, voleva indicare l' insignifi-
cante origine di un culto sorto alla periferia dell'Impero. Anche Giulia-
no si dedicò alle contraddizioni della Scrittura, insistendo su quelle fra
le varie versioni. Ma il tema centrale dell'opera era la cristologia, su cui
era ben informato. La concessione di totale libertà aveva rinvigorito tutte
le fazioni del conflitto dottrinale. Il bersaglio principale di Giuliano era
la dottrina nicena della piena equiparazione delle persone divine e, con
questa, l'evangelista Giovanni che, al contrario degli altri tre, aveva ardito
identificare il Galileo con il Logos e con Dio stesso. Filigrana costante del
pensiero giulianeo era comunque la contrapposizione tra l'esemplare pai-
deia classica, feconda di pensiero e di arte, e la dottrina dei Galilei, consi-
derata una degenerazione dell'ebraismo. Di conseguenza, egli promosse
un allontanamento dall'insegnamento dei docenti cristiani i quali, non
credendo nei contenuti di quella letteratura che insegnavano, avrebbero
costituito riprovevole esempio d'incoerenza (ep. 61). Quanto all'ebrai-
smo, una sua dignità la derivava comunque vuoi dalla sua stessa antichità
vuoi dalla ritualità di quei sacrifici che con la distruzione del Tempio era-
no stati però sospesi. Giuliano tentò di riedificare tale Tempio, non solo
per dimostrare infondata la nota profezia di Gesù (Mc 13,1-2), ma anche
per dar vita a una sorta di fronte comune "tradizionale" tra paganesimo
e giudaismo (religioni antiche) contro la novità cristiana. Era una strate-
gia non nuova, ma ora diventava opportuna anche in vista della spedizio-
ne contro la Persia e la necessità di acquisire il favore di quella diaspora
giudaica. Fu però proprio nel corso di questa spedizione che una freccia
stroncò con la vita dell'imperatore, poco più che trentenne, anche i suoi
sogni di restaurazione religiosa.
Non è evidente una politica religiosa del successore Gioviano, a causa
dei troppo brevi otto mesi del suo regno, ma possiamo congetturare che
egli fece tesoro degli elogi alla tolleranza in materia di religione che il re-
tore Temistio formulò con la sua quinta orazione tessendogli il panegirico
per il suo consolato del 364.
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 239

Con Valentiniano I e suo fratello Valente l'Impero tornò a dividersi in


due tronchi: il primo si riservò l'Occidente, con le residenze di Milano e
di Treviri, e assegnò al fratello la pars orientale, con capitale Costantino-
poli. In Occidente Valentiniano I (364-375) si distinse per la sua politica di
non intervento nelle faccende della religione (cfr. CTh IX,16,9 ). In realtà
la sua legislazione congiunta con il fratello Valente (364-378) colpì maghi
e astrologi, arginò la venalità del clero, ma non creò discriminazioni, se
non a danno dei manichei nel 372. Lo stesso possiamo dire per quanto
riguarda il figlio Graziano (375-383) che gli successe sedicenne. Almeno
fino a quando, dal 378 in poi, entrò nella sfera d'influenza dell'autorevole
Ambrogio di Milano subendone l'influsso in senso marcatamente filocat-
tolico. Si può dire lo stesso del fratellino Valentiniano II (375-392) che gli
fu associato ad appena quattro anni, tutelato dapprima dalla madre Giu-
stina e poi dal generale spagnolo Teodosio.
In Occidente, dunque, una sterzata in senso antipagano fu data da Gra-
ziano nel biennio 382-383. Fu allora che egli decise di sottrarre i fondi a
sostegno dei sacerdozi pagani e del vetusto collegio delle vestali di Roma e
rese irreversibile la sua deliberazione con il rinunziare al pontificato mas-
simo, cioè al ruolo di vertice dei collegi sacerdotali pagani e di patrono dei
loro culti, ruolo che l'imperatore deteneva sin dall'epoca di Augusto. Un
particolare valore simbolico ebbe la decisione del 382 di rimuovere dalla
curia del senato romano l'ara (e probabilmente anche la statua) della dea
Vittoria sulla quale i senatori erano soliti da tempo immemorabile far ar-
dere granelli d'incenso. Costoro erano allora in larga maggioranza pagani
e incaricarono un autorevole loro esponente, Quinto Aurelio Simmaco, di
recarsi a Milano per perorare la causa del ripristino. Il forbito retore non
fu ricevuto da Graziano, ma soltanto in seguito dall'allora quattordicen-
ne Valentiniano II, che gli era succeduto. Più che con il puer imperatore,
alla corte bisognava fare i conti con il vescovo Ambrogio, già politico di
carriera, pastore d'anime trascinante ed esperto conoscitore dei corridoi
del potere. Se leggiamo la Relatio di Simmaco e le lettere a risposta di Am-
brogio ci rendiamo conto della diversità dei mondi che si scontravano. Il
pagano, giocando oramai sulla difensiva, si appellava alla venerabilità delle
antiche tradizioni di Roma e alla complessità in sé del mistero religioso
- celeberrimo il suo: «non si può giungere per un solo cammino a un
mistero così grande» (uno itinere non potest perveniri ad tam grande secre-
tum: Re!. 111,10) - e su ciò fondava la sua richiesta di ripristino. Il vesco-
vo, senza mezzi termini, esplicitava il suo concetto di imperatore che per
STORIA DEL CRISTIANESIMO

essere cristiano è nella Chiesa e deve pertanto agire da soldato di Cristo,


sapendo che il suo successo politico sarebbe dipeso dalla sua coerenza di
fede. La controversia sull'altare della Vittoria, a prescindere dall'eco che
effettivamente suscitò allora, è passata alla storia come una pagina esem-
plare del conflitto tra "tolleranza e intolleranza".
L'atteggiamento di Graziano aveva celebrato una sorta di divorzio tra
la res publica e quei culti tradizionali ai quali da tempo immemorabile ve-
niva affidata la salute dell'Impero. Tale separazione fu giudicata dalla suc-
cessiva storiografia pagana (per esempio Eunapio e Zosimo) la causa del
declino e del crollo dell'Impero. Privi del tradizionale sostegno pubblico i
culti civici romani andarono gradualmente declinando, lasciando sempre
più spazio alle religioni del mistero che, per loro stessa costituzione, erano
sodalizi di carattere privato: fu allora, possiamo ritenere, che il vir clarissi-
mus e mitraista Olympius ristrutturò il mitreo romano della via Flaminia
vantandosi di non aver ricevuto danaro pubblico, ma di aver messo mano
al suo patrimonio, lieto di averlo così condiviso con i celesti (c1L VI,754). I
culti del mistero, e in primis il mitraismo, furono l'ultimo baluardo paga-
no contro il trionfo del cristianesimo.
Ma il protagonista della cattolicizzazione dell'Impero fu Flavio Teodo-
sio, detto il Grande, un militare spagnolo, dapprima chiamato da Valen-
tiniano I a tutelare il figlioletto Valentiniano II in Occidente, poi inviato
in Oriente a porre riparo alla disfatta di Adrianopoli del 378, nel corso
della quale l'imperatore Valente aveva perso la vita combattendo contro i
Visigoti. Quest'ultimo aveva avuto simpatie per gli ariani e tolleranza per
i pagani. Perciò la storiografia cattolica vide nella sua tragedia un castigo
divino; invece lo stesso episodio fu interpretato dai pagani come la conse-
guenza dell'abbandono ufficiale degli antichi dèi.
Divenuto collega di Graziano per l'Oriente nel 379, Teodosio già nel
febbraio del 380 si decise a risolvere il problema dell'unità religiosa con
un editto (il cosiddetto Cunctos populos) promulgato a Tessalonica ( CTh
XVI,1,2.) con il quale s'imponeva a tutti gli abitanti dell'Impero la religione
cristiana così come professata dalle sedi episcopali di Roma e di Alessan-
dria. Questo provvedimento diede la stura a tutta una serie di norme che
combattevano, oramai senza mezzi termini, non solo il paganesimo ma
anche (e ancora più ferocemente) il dissenso ali' interno delle denomina-
zioni cristiane, in altri termini le eresie. Contro i pagani si fece ricorso ai
divieti di celebrare sacrifici e pratiche divinatorie, alla graduale perdita dei
loro diritti civili, in breve si impedì in più modi la facoltà di esercitare il
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 241

loro culco. Agli eretici fu fatto divieto di riunione, di possedere locali e


avere ministri di culco. Poi costoro furono di fatto equiparati ai demen-
ti, incapaci di far testamento e di ricevere donazioni. Ai Giudei furono
invece assicurati i diritti e alcuni privilegi tradizionali e pertanto la loro
condizione venne a essere migliore di quella riservata a pagani e cristiani
eretici (ma cfr. CAP. 2, pp. 94-5).

Il concilio di Costantinopoli (381)

Altro grande evento dell'epoca di Teodosio fu la convocazione del con-


cilio di Costantinopoli del 381, che, sul piano dottrinale, mise fine alla
controversia ariana. Diciamo sul piano dottrinale perché l'arianesimo co-
munque continuò e, grazie all'azione missionaria del grande Wulfila, fatto
vescovo nel 341 da Eusebio di Nicomedia, che nel frattempo era passato
alla sede di Costantinopoli, e inviato a evangelizzare i Goti, divenne la
religione nazionale di varie popolazioni germaniche. A Costantinopoli
fu approvato il cosiddetto Simbolo niceno-costantinopolitano, che pre-
sentava alcuni ampliamenti rispetto al Simbolo niceno, il più significativo
riguardante lo Spirito santo, entrato a far parte della controversia al par-
tire dal 360. Si poté pervenire a un accordo perché nell'ultimo ventennio
(grosso modo dalla morte di Costanzo II in poi) c'era stato un progressivo
lavoro di chiarificazione, a opera di alcuni pensatori in Occidente (come
Ilario) e in Oriente (Melezio di Antiochia, Basilio e gli alcri due Cappa-
doci: Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo) intorno al termine ho-
moousios, affermato a Nicea ma per un certo periodo eclissato a causa dei
conflitti sulla sua interpretazione. Si chiarì che non lo si poteva intendere
in senso monarchiano, cioè come condivisione della stessa sostanza indivi-
duale (ipostasi). Basilio formulò l'espressione «una ousia, tre ipostasi» in
Dio, che, distinguendo la sostanza comune dalle ipostasi indicanti la sussi-
stenza individuale, evitava ogni confusione e nello stesso tempo allineava
dignità e azione del Padre, del Figlio e dello Spirito a intendere l'unico
Dio. La formula in Occidente suonava: una substantia tres personae, già
presente in Tertulliano, che però intendeva la substantia, al modo stoico,
come il sostrato materiale igneo di Dio.
Mettiamo ora a confronto il Simbolo di Nicea del 325 e quello cosiddet-
to niceno-costantinopolitano (trad. di Simonetti, 1986).
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Simbolo di Nicea Simbolo niceno-costantinopolitano

Crediamo in un solo Dio Padre onnipo- Crediamo in un solo Dio Padre onnipo-
tente, tente,
creatore di tutte le cose visibili ed invisi- creatore del cielo e della terra,
bili; di tutti gli esseri visibili ed invisibili.
E in un solo Signore, Gesù Cristo,
e in un solo Signore, Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio,
il Figlio di Dio, generato unigenito dal generato dal Padre prima di tutti i tempi:
Padre, luce da luce,
cioè dalla sostanza del Padre, Dio vero da Dio vero,
Dio da Dio, luce da luce, generato, non creato,
Dio vero da Dio vero, consustanziale al Padre,
generato, non creato, per mezzo del quale sono state create tut-
consustanziale al Padre, te le cose.
per mezzo del quale sono state create tut-
te le cose in cielo e in terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza
Egli per noi uomini e per la nostra sal- È disceso dal cielo, si è incarnato dallo
vezza Spirito santo e da Maria vergine e si è fat-
è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo, to uomo.
È stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pi-
lato,
ha patito ed è risorto il terzo giorno, ha patito, è stato seppellito,
è risorto il terzo giorno secondo le Scrit-
è risalito al cielo, ture,
e verrà a giudicare i vivi e i morti. è risalito al cielo, siede alla destra del Pa-
dre,
E nello Spirito santo. verrà di nuovo con gloria a giudicare i vivi
Quelli che dicono: "C'è stato un tempo in e i morti e del suo regno non ci sani fine.
cui non esisteva'; o "non esisteva prima di E nello Spirito santo, che è Signore e dà
essere stato generato'; o 'e stato creato dal la vita,
nulla'; o affermano che egli deriva da altra procede dal Padre, è adorato e glorificato
ipostasi o sostanza o che il Figlio di Dio è o insieme con il Padre e il Figlio, ha parlato
creato o mutevole o alterabile, tutti costoro per mezzo dei profeti.
condanna la Chiesa cattolica e apostolica. E in una sola Chiesa, santa, cattolica, apo-
stolica.
Confessiamo un solo battesimo in remissio-
ne dei peccati, attendiamo la resurrezione
dei morti
e la vita del tempo futuro. Amen
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 243

Il confronto su colonne parallele, con le differenze (in corsivo) fra i due


simboli, lascia intuire quanto cammino si era percorso dopo Nicea. La
questione dello Spirito santo, donde l'espansione nel niceno-costantino-
politano, era stata sollevata intorno al 360 dai cosiddetti pneumatomachi
(cioè: combattenti contro lo Spirito) detti poi macedoniani (da Macedo-
nia di Costantinopoli) che negavano la divinità dello Spirito santo. Fu-
rono i Cappadoci, dopo le prime formulazioni di Atanasio, ad approfon-
dire la dottrina dello Spirito santo e a rivendicarne l'appartenenza alla
Trinità, anche se Basilio non lo chiamò mai "Dio", per prudenza verso gli
interlocutori (neppure il Simbolo del 381 lo dice esplicitamente), mentre
Gregorio di Nazianzo precisò tecnicamente nel rapporto di processione
(verbo greco: ekporeuesthai) dal Padre la specificità intradivina dello Spi-
rito, rispetto alla generazione del Figlio dal Padre, dichiarando peraltro
il carattere inesprimibile della processione. Un grande contrasto sorse nei
secoli successivi a causa della formulazione latina del Credo niceno-co-
stantinopolitano che aggiunge, a proposito della processione, accanto al
Padre, il Figlio, per cui lo Spirito santo è considerato procedere da en-
trambi (per la questione del Filioque, cfr. voi. 11). Da notare anche l'ag-
giunta nel Simbolo del 381 riguardante la durata eterna del regno del Fi-
glio, introdotta già a partire dal 341 nelle formule di fede orientali contro
un'affermazione di Marcello di Ancira, poi comunque da lui ritrattata.
Ma la formula indica, più in generale, l'opposizione contro la dottrina
monarchiana di Marcello, uno degli oppositori di Ario della prima ora,
fiero nemico della dottrina delle tre ipostasi, da lui ritenuta politeista, e
sostenitore della piena divinità del Logos, però in quanto potenza (dyna-
mis) di Dio e non in quanto entità sussistente: secondo Marcello la mo-
nade divina si dilata estroflettendo il Logos per poi riassorbirsi al termine
del processo cosmologico e soteriologico. Fu amico di Atanasio e difeso
dalla Sede romana, ma gli orientali lo considerarono eretico sabelliano.
Il Simbolo niceno-costantinopolitano non ha alla fine gli anatematismi
del niceno, che mostravano una sostanziale equivalenza fra ousia e iposta-
si, i due termini a cui i Cappadoci avevano ormai assegnato, per evitare
il rischio sabelliano, significati diversi. Ha invece una serie di quattro ca-
noni, il primo contenente la conferma del Simbolo niceno e la condanna
di tutte le eresie legate alla controversia ariana. Il più importante per i
successivi sviluppi è il terzo canone, che assegna al vescovo di Costanti-
nopoli la preminenza di rango dopo quello di Roma «perché Costanti-
nopoli è la nuova Roma»: il tema sarebbe stato ripreso nel canone 28 del
244 STORIA DEL CRISTIANESIMO

concilio di Calcedonia del 451 e avrebbe provocato le ire del vescovo di


Roma (cfr. CAP. 8, p. 265).

Il crepuscolo degli dèi


Il cristianesimo in Oriente era senz'altro più diffuso che in Occidente.
Nella Roma dell'età del vescovo Damaso (366-384) fu attivo il poco noto
Ambrosiaster il quale, per ammaestrare il clero cittadino, raccolse una
quantità di quaestiones incentrate su temi biblici e di dottrina dando loro
le relative responsiones. L'opera aveva finalità didascalica, tuttavia alcune
critiche, per i loro precisi contenuti, sembrano restituire punti di vista di
avversari della Chiesa, anche pagani.
La Roma della seconda metà del IV secolo andava certamente mutan-
do anche la sua facies edilizia, facendo spazio alla nuova fede, ma templi
ed edifici antichi facevano lì bella mostra, silenziosamente eloquenti. Il
paganesimo sfumava in una religiosità dotta d'ispirazione platonica, nella
venerazione dell'antiquaria religiosa (celebrata nei Saturnalia di Macro-
bio) e nei rituali di culto misterico. Leggiamo le iscrizioni del Phrygianum
vaticano: qui il dies natalis del miste non era quello della sua nascita, bensì
quello della sua iniziazione; così il taurobolio rendeva chi vi si sottoponeva
renatus in aeternum: la soteriologia misterica sembrò allora quasi acquisire
i toni e lo stile di quella cristiana! E forse addirittura conversioni o ritorni
al paganesimo non mancarono, se leggiamo il Carmen ad senatorem in
cui un autore anonimo rimproverava a un senatore già cristiano di essersi
convertito al culto di Iside e della Magna Mater. Un altro poema anonimo
dell'epoca ci restituisce l'eco di antiche controversie: il Poema ultimum.
Probabilmente su questo sfondo è da collocare anche l' Historia Augusta;
il paganesimo degli autori non ignora la realtà cristiana e con l'elogiare il
comportamento tollerante in materia di culto di alcuni imperatori sembra
quasi voler offrire un implicito exemplum di buon governo a chi ora invece
promulgava e applicava intolleranti leggi antipagane.
Ma una sfida militare attendeva Teodosio, questa volta in Occidente.
Nel 392 era morto Valentiniano II e il generale franco Arbogaste, sul quale
si appuntavano i sospetti per quel decesso, aveva promosso l'ascesa al pote-
re di Eugenio, un retore di patina cristiana ma sostanzialmente filopagano.
Contro questo usurpatore in armi Teodosio ingaggiò una cruenta batta-
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 245

glia presso Aquileia, sul fiume Frigido, e vinse. La storiografia successiva


avrebbe celebrato con questa battaglia la vittoria della croce, posta sulle
insegne di Teodosio, sui simulacri di Giove, collocati sulle alture a prote-
zione delle truppe di Eugenio. Il conseguente suicidio del nobile pagano
Viri o N icomaco Flaviano, che aveva sostenuto Eugenio, diede una colloca-
zione religiosa all'evento e contribuì a farlo leggere come sussulto ultimo
di un paganesimo giunto oramai al suo tramonto.
Noi oggi ci meravigliamo di come le fonti antiche non abbiano col-
to il carattere epocale dell'Editto di Tessalonica e la irritualità delle leggi
repressive dell'eresia che, agli occhi dei moderni, rientra nella categoria
dei "reati di opinione". Come mai il diritto romano si dispose a commina-
re pene (e severe) nei riguardi di orientamenti di pensiero? Non ci si era
sempre limitati a punire le azioni, i crimini consumati, e non i fantasmi
della mente? Possiamo rispondere a questa domanda ricordandoci che
per gli eresiologi cristiani la deviazione dottrinale non era causata dalla
debolezza della mente o dalla difficoltà della materia d'indagine, ma era
di per sé stessa una concreta e già consumata perniciosa operazione. Que-
sta eziologia del pensiero ereticale fece da catalizzatore a un'evoluzione
giurisprudenziale che diede corpo a tali norme una volta che il legislatore
aveva fatto propri gli assunti degli eresiologi cristiani. Il processo di mar-
ginalizzazione e poi di scomparsa di pagani e di eretici non fu immediato
né mai del tutto definitivo. Il paganesimo, in particolare, conobbe forme
di sopravvivenza oltre che, vagamente, nelle belle forme dell'arte e della
letteratura antica, nelle pratiche "superstiziose" della plebe delle campa-
gne, e, più ancora, nella riflessione di tipo erudito di physicae rei cultores.
Inoltre, alcune forme antiche del sacro non poterono non sfidare i secoli,
trasponendosi di fede in fede e facendo così da sottile filigrana a devozioni
celebrate pur sotto l'apotropaico signum crucis.
Che il pensiero pagano abbia costituito ancora una minaccia, ben al di
là delle repressioni teodosiane attuate per via di legge, c'è attestato, tra l 'al-
tro, da alcune apologie che furono prodotte in regioni tra loro molto diver-
se nei primi decenni del v secolo. Possiamo solo accennare all'Apocritico
di Macario di Magnesia, probabilmente di ambiente asiatico, consacrato
a temi di esegesi biblica, in linea con il genere letterario delle quaestiones
et responsiones, composto in risposta a uno scritto pagano (forse Porfirio,
o anche Hierocle e Giuliano?) che conteneva critiche alle contraddizioni
della Scrittura e a Paolo di Tarso. Ricordiamo ancora la Terapia dei morbi
pagani (425 ca.), di Teodoreto di Cirro, talvolta definita l'ultima summa
STORIA DEL CRISTIANESIMO

dell'apologetica cristiana, poco originale, a parte la difesa del culto delle


reliquie. Tema di fondo è la rivendicazione della accessibilità "pubblica"
della rivelazione cristiana per ogni etnia e classe sociale, in antitesi al carat-
tere intellettualistico della religiosità filosofica pagana e contro la centrali-
tà, però elitaria, della cultura greco-romana.

Agostino, la Città di Dio e la dottrina della grazia

In Africa la controversia sulla cristianizzazione dell'Impero, che marciava


con l'inasprimento della prima normazione teodosiana, aveva avuto un
ritorno di fiamma a seguito del sacco di Roma del 410 che aveva spinto su
quei lidi, profughi e sgomenti, senatori e popolo dell'Urbe, persone che
collegavano la sciagura avvenuta con l'abbandono degli dèi antichi. Fu
un pensiero trasversale a seguaci dell'una come dell'altra fede e sul quale
angosciati poterono interrogarsi tanto un pagano quale il proconsole Vo-
lusiano quanto uno zelante cristiano quale il comes Marcellino, giunto in
Africa per comporre le lacerazioni tra cattolici e donatisti. I precetti del
mite Nazareno potevano costituire un codice etico adeguato a far fronte
alle esigenze di quell'epoca di ferro e di sangue?
Agostino, che pure operò in Africa, è specchio magnifico di quest'e-
poca e di questi problemi. Nel suo monumentale de civitate Dei prendeva
le mosse proprio dall'accusa secondo la quale il declino dell'Impero sa-
rebbe stato causato dall'abbandono dei suoi dèi antichi. Ma egli andava
ben oltre l'avvenimento del 410 nel tracciare un ampio affresco della storia
umana, che accomunava la vicenda d'Israele e di Roma e che, tra l'altro,
dimostrava come il predominio di quest'ultima non costituiva in sé e per
sé un valore della storia, anzi testimoniava la trama di lutti e di misfatti
che l'uomo da sempre aveva ordito nel suo tentativo di erigere la città ter-
rena, intrisa di odio e di violenza, di contro alla città di Dio, del!' amore,
silenziosa pellegrina destinata alla gloria futura. L'opera di Agostino è una
miniera non ancora adeguatamente esplorata per conoscere le reazioni dei
pagani al trionfante cristianesimo. Non possiamo dire, inoltre, quanto di
autenticamente porfiriano vi sia nelle critiche alle discordanze degli evan-
gelisti alle quali rispose con opera specifica l' Ipponense; è chiaro però, sin
dalla premessa di tale opera, che questi pagani elogiavano Gesù in quanto
uomo saggio ma ne negavano il carattere divino. A costoro, come a tanti
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.47

razionalisti e critici dei secoli a venire sino ai nostri giorni, era ben chiaro
che la pietra di fondazione sulla quale la fede cristiana stava o crollava era
costituita dalla dottrina dell'incarnazione di Dio in Gesù e della sua na-
tura divina.
Agostino ci interessa, inoltre e soprattutto, per la dottrina della grazia
e per la sua visione antropologica, destinata a segnare il pensiero cristiano
d'Occidente. In estrema sintesi diciamo che mentre, tradizionalmente, il
pensiero cristiano ortodosso attribuiva la salvezza del singolo alla coope-
razione fra la grazia di Dio, necessaria e preponderante, e il libero arbitrio
dell'uomo, Agostino assegna la salvezza in toto alla grazia di Dio, perché
la creatura umana merita di per sé solo la condanna dopo il peccato di
Adamo, trasmesso nella sua attualità a tutta l'umanità (dottrina del pec-
cato originale), in quanto il libero arbitrio è diventato incapace di volgersi
al bene: anche l' initium fidei dipende da Dio. Il punto di forza di questa
dottrina consiste nella proposta di un abbandono pieno e totale alla mise-
ricordia di Dio, riattivando in ciò, anche se a un altro livello, il potenziale
liberatorio di Paolo; il suo lato oscuro (che infatti Agostino tende a tacere
nella sua azione pastorale) è la convinzione che tutti gli sforzi per vivere
secondo la volontà di Dio, che il cristiano è comunque tenuto a fare per
corrispondere al disegno divino, non assicurano la salvezza finale, deter-
minata unicamente dal giudizio imperscrutabile di Dio, il quale, nella sua
libertà assoluta, dona la perseveranza a coloro che ha prescelto (dottrina
della predestinazione) e ha giustificato (domina della giustificazione),
traendoli dalla massa dannata degli esseri umani, così come ha scelto Gia-
cobbe, e non Esaù, fin dal seno materno (Rm 9,11-12.). Agostino precisò
via via questa dottrina in contrapposizione a quella di Pelagio, austero
monaco britannico vissuto a Roma e rifugiatosi dopo il 410 in Africa, del
suo seguace Celestio e soprattutto di Giuliano, vescovo di Eclano, bril-
lante polemista. La dottrina pelagiana, esattamente al contrario di Ago-
stino, valorizza al massimo il libero arbitrio, ribadendo che il peccato ne
è accidentale prodotto e che la natura umana, in quanto creata da Dio,
è sostanzialmente buona. L'intento di Pelagio era soprattutto quello di
incoraggiare a una vita tendente ali' impeccantia, quello di Giuliano, già da
prima impegnato contro il manicheismo, era soprattutto quello di com-
battere i dualismi. I pelagiani precisavano altresì che i bambini nascono
innocenti (come del resto sosteneva la tradizione ortodossa precedente ad
Agostino) e che il battesimo è impartito per loro santificazione, non per
togliere un presunto peccato originale, perché ognuno pecca a imitazione
STORIA DEL CRISTIANESIMO

di Adamo. Non è questa la sede per ripercorrere i termini dottrinali di una


polemica devastante, prodotta da due partiti che sbilanciavano entram-
bi, negli opposti sensi, l'equilibrio difficile che il pensiero ortodosso, pur
mantenendo un certo grado di aporeticità, aveva cercato di salvaguardare
fino ad allora fra la grazia onnipotente di Dio, da cui dipende in ultima
analisi la salvezza, e il libero volere della creatura. Pelagio e Celestio fu-
rono condannati a Cartagine nel 411, riabilitati in Palestina nel sinodo di
Diospoli del 415. Dopo averli di nuovo condannati, i vescovi africani si
rivolsero a Innocenzo I di Roma, che, confermando la condanna, in tre
lettere (2.9, 30, 31) rivendicò alla Sede romana l'ultima parola in materia
di dottrina, in quanto possiede l'autorità di Pietro. Agostino, soddisfatto,
rispolverò in omaggio al papa l'antica sentenza latina: Roma locuta, causa
.finita ( «Roma ha parlato, la causa è decisa»). Ma, di fronte al timore che il
successore di Innocenzo, Zosimo, un greco che dimostrava maggiore pru-
denza verso Pelagio, annullasse la condanna, gli africani si mossero contro
il papa, ricordandogli il pronunciamento del predecessore e finirono con
il prevalere, dopo aver chiesto aiuto all'imperatore Onorio: Zosimo con-
dannò Pelagio e Celestio (Tractoria) nel 418. Giuliano e diciotto vescovi
italiani rifiutarono di sottoscrivere e furono esiliati.
La dottrina di Agostino prevalse in Occidente (anche se di fatto mi-
tigata negli esiti romani), mentre l'Oriente, in cui vigeva il pensiero dei
Cappadoci, rimase estraneo a essa.

Bibliografia ragionata

Sulla tetrarchia, cfr. s. CORCORAN, 1he Empire of the Tetrarchs, Clarendon Press,
Oxford 1996; B. RÉMY, Dioclétien et la tétrarchie, PUF, Paris 1998. Su Costantino la
bibliografia è sterminata, ma da ulcimo è stato edito uno strumento fondamentale,
L'Enciclopedia costantiniana, 3 voli., Istituto dell'Enciclopedia ltaliana-FScire, Roma
2.013. Per le opere di Eusebio, si segnalano L. TARTAGLIA (a cura di), La vita di Co-
stantino, D'Auria, Napoli 1984; M. AMERISE (a cura di), Elogio di Costantino. Discorso
per il trentennale. Discorso regale, Paoline, Milano 2.005. Sulla trasformazione "orto-
dossa" del battesimo di Costantino e gli Actus Silvestri, cfr. T. CANELLA, Gli Actus Sil-
vestri. Genesi di una leggenda su Costantino imperatore, CISAM, Spoleto 2.006. Per il de
mortibus di Lattanzio, cfr. l'edizione di J. L. CREED(Clarendon Press, Oxford 1984)
e la traduzione italiana di F. CORSARO (Edigraf, Catania 1970 ). Per la numismatica,
cfr. J. MAURI CE, Numismatique constantinienne, Leroux, Paris 1908-12., da aggiornarsi
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.49

con RIC (Roman Imperia! Coinage) VII e BMCRE ( Coins o/the Roman Empire in the
British Museum) VII, curati da P. BRUUN.
In generale, sul IV secolo, si vedano G. BONAMENTE, A. NESTORI (a cura di), I
cristiani e l'impero nel IV secolo, Università degli Scudi di Macerata, Facoltà di Lettere
e Filosofia, Macerata 1988; A. DIHLE, F. VITTINGHOFF (éds.), L'Église et !'Empire au
IV' siede, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1989. Ormai classico sul rapporto
fra pagani e cristiani il lavoro di R. LANE FOX, Pagani e cristiani, Laterza, Roma-Bari
2.013'; sulla figura dell'imperatore Giuliano, cfr. lo stimolante volume di F. FATTI,
Giuliano a Cesarea. La politica ecclesiastica dei Principe apostata, Herder, Roma 2.009.
Sulla repressione del paganesimo, cfr. P. F. BEATRICE (a cura di), L'intolleranza cri-
stiana nei confronti dei pagani, EDB, Bologna 1990; G. RINALDI, Ridurre a minoranza.
Riflessioni su alcuni percorsi dei pagani nell'impero dei cristiani, in A. Zambarbieri,
G. Otranto (a cura di), Cristianesimo e democrazia, Atti del I Convegno di Scudi or-
ganizzato dalla e usce (Pavia, 2.1-2.2. settembre 2.009 ), Edipuglia, Bari 2.011, pp. 135-
87. Sulla trasformazione anche visiva del ritratto dell'imperatore, cfr. l'importante
volume, utile anche sotto un profilo generale, di v. NERI, La bellezza del corpo nella
societa tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica
e cristianesimo, Pàtron, Bologna 2.004. Sulla normazione contenuta nel Codex The-
odosianus, si veda R. DELMAIRE et al. (éds.), Les lois religieuses des empereurs romains
de Constantin a Théodose II (312-438), voi. I: Code Théodosien. Livre XVI, Cerf. Paris
2.005. Per i testi della controversia ariana, cfr. M. SIMONETTI (a cura di) ( = Simonet-
ti, 1986), Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Fon-
dazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1986. Sull'arianesimo, si segnalano due
volumi classici: M. SIMO NETTI ( = Simonetti, 1965), Studi sull'arianesimo, Scudium,
Roma 1965; ID., La crisi ariana nel IV secolo, Istituto Patristico Augustinianum, Roma
1975. Per le dottrine, cfr. E. PRINZIVALLI, M. SIMONETTI, La teologia degli antichi
cristiani (secoli I-v), Morcelliana, Brescia 2.012.. Sul donatismo, si veda il contributo
di E. zoccA, L'identita cristiana nel dibattito fra Cattolici e Donatisti, in "Annali di
scoria dell'esegesi", 2.1, 1, 2.004, pp. 109-30. Sul pensiero di Agostino, cfr. G. LETTIE-
RI, L'altro Agostino, Morcelliana, Brescia 2.013' (con ampia discussione bibliografica).
Sulla relazione fra agostinismo e Chiesa romana, cfr. lo studio di G. LETTI ERI, Centri
in conflitto e parole di potenza. Normalizzazione e subordinazione dell'agostinismo al
primato romano nel v secolo, in "Annali di storia dell'esegesi", 2.7, 1, 2.010, pp. 101-70.
Ancora fondamentale sulla dottrina della giustificazione da Agostino a oggi l'opera
di A. E. MCGRATH, lustitia Dei: A History ojthe Christian Doctrine ofjustification, 2.
voli., Cambridge University Press, Cambridge 1986.
8
Il consolidamento degli episcopati
nelle grandi città cristiane
di Ewa Wipszycka

Tra Costantino e Giustiniano

Compito del presente capitolo è descrivere l'organizzazione ecclesiastica nel


periodo tra la svolta costantiniana e, grosso modo, l'età di Giustiniano così
da mostrare non solo la struttura gerarchica della Chiesa, ma anche, e so-
prattutto, il suo funzionamento. Si parlerà quindi: (1) della Chiesa come in-
sieme di istituzioni che comprende l'intera cristianità; ( 2.) delle chiese come
insiemi di istituzioni comprendenti questa o quella grande regione del mon-
do tardoantico; (3) delle chiese come singoli episcopati. Sebbene il processo
di uniformazione delle istituzioni, delle norme e dei costumi ecclesiastici
abbia fatto progressi nel corso del periodo trattato, le diversità tra le comuni-
tà cristiane delle grandi regioni rimanevano ancora considerevoli. Il discorso
perciò si svolgerà su due piani: saranno presentati dapprima i fenomeni che
si possono osservare nell'insieme del mondo mediterraneo; in seguito, ver-
ranno caratterizzate le singole chiese regionali nella loro specificità.

La Chiesa come istituzione


e le istituzioni delle chiese

L'ordinamento interno delle singole chiese era stato formato dalla tradi-
zione e dalle decisioni sinodali. I principi su cui si reggeva si possono rias-
sumere in due frasi: "si rispetti la tradizione" e "si applichino i canoni". La
combinazione di questi due principi aveva come effetto, sul piano istitu-
zionale, il perpetuarsi di una realtà intrinsecamente incoerente, piena di
anomalie. Queste anomalie potevano a volte, nella pratica, causare delle
difficoltà, come provano i numerosi tentativi - attestati dagli atti dei sino-
di - fatti per eliminarle o almeno limitarle.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Assistiamo dunque a una discrasia fra la realtà dei fatti e la mentalità


manifestata dai capi delle chiese: mentre avvenivano cambiamenti fonda-
mentali, con un ritmo che solo raramente osserviamo in periodi successivi,
i dirigenti si mostravano sospettosi verso qualsiasi innovazione. Nelle po-
lemiche all'interno della Chiesa l'accusa di innovazione aveva un grande
peso, sia che si trattasse di condannare idee teologiche, sia che si trattasse
di opporsi a cambiamenti nel campo organizzativo. Per difendersi da tali
accuse, si cercavano argomenti nella Bibbia e anche, sempre più spesso,
nelle opere di quegli scrittori ecclesiastici che già in questi tempi erano
chiamati Padri della Chiesa.
L'indiscusso valore della tradizione suscitava interesse per il passato
delle singole chiese. Questo passato però veniva non di rado manipolato
per fabbricare miti che avevano lo scopo di fornire ai singoli seggi vesco-
vili il diritto di occupare una posizione privilegiata nell'universo ecclesia-
stico: quanto più lontano nel passato si potevano far risalire le origini di
una Chiesa e delle sue istituzioni, tanto meglio era. Ali' avanguardia nel
costruire una visione del passato come giustificazione della posizione nel
presente e di un programma per il futuro, troviamo naturalmente Roma,
che si richiamava alla fondazione per opera di Pietro e anche, in ugual mi-
sura, alla presenza delle reliquie di Pietro e di Paolo (cfr. CAP. 3, p. 122). I
vescovi che occuparono il seggio di Alessandria nel IV e nel v secolo riusci-
rono a fare di Marco evangelista il fondatore della loro Chiesa, per giunta
martire (ma lo storico Eusebio non sapeva niente di questo martirio). Al
vescovo Pietro I - che fu l'ultima vittima delle persecuzioni ordinate da
Massimino Daia - l'ideologia alessandrina assegnò il ruolo di difensore
dell'ortodossia a causa della sua lotta contro Melizio (cfr. CAP. 5, p. 173) e
perché avrebbe visto profeticamente in Ario il futuro eresiarca. La Chie-
sa di Cipro, sebbene potesse vantarsi dell'attività ivi svolta dall'apostolo
Paolo, dal suo amico Barnaba (un cipriota) e da Marco, non trovò un ar-
gomento decisivo per ottenere, nonostante l'opposizione del patriarca di
Antiochia, il privilegio dell'autocefalia, se non quando dichiarò che in una
tomba scoperta a Salamina di Cipro c'erano le ossa di Barnaba e, sul petto
di questo, un codice del Vangelo di Matteo.
Alla fine del IV secolo il processo della creazione di vescovati in tutte le
città dell'Impero era quasi terminato: quasi, perché le eccezioni a questa
regola sono numerose e non scomparvero del tutto nemmeno dopo che
l'imperatore Zenone (474-491) stabilì che ogni città doveva avere un ve-
scovo (CJ I,III,35). In uno studio pubblicato recentemente, Raymond Van
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 253

Dam (Van Dam, 20u) mostra che nella diocesi amministrativa di Asia,
verso l'anno 400, circa il 10% delle città non aveva un vescovo. In certe
regioni un vescovo reggeva due o tre città, o anche più. In questa materia
la tattica dei capi ecclesiastici non era costante. Gli interessi locali e le lotte
era tendenze dogmatiche, o semplicemente tra fazioni, favorivano il mol-
tiplicarsi di vescovati, ma d'altra parte nelle cerchie dirigenti ecclesiasti-
che ci si rendeva conto che ciò era nocivo, potendo diminuire il prestigio
dell'ufficio episcopale (cfr. il concilio di Serdica del 342-343, canone 6).
Lo status ecclesiastico delle comunità cristiane nei villaggi, nei saltus
('grandi poderi') e nei castra militari non era ancora stato stabilito unifor-
memente in tutto l'Impero: alcune avevano i loro vescovi, altre erano rette
da vescovi di grado inferiore, detti chorepiskopoi ('vescovi di campagna')
o periodeutai ('coloro che girano visitando le chiese'), che collaboravano
con i vescovi delle città (Basilio di Cesarea consacrò ben 50 vescovi di que-
sto tipo nel territorio della sua metropoli), altre infine, in particolare in
Egitto, erano parrocchie rette da presbiteri.
Non sempre i confini dei vescovati coincidevano con quelli dei territori
civici. Accadeva a volte che un vescovo trattasse come appartenenti al suo
vescovato località situate fuori del territorio della sua città, e che ciò fosse
riconosciuto dall'opinione comune ecclesiastica come un suo diritto; tale
stato di cose aveva, a seconda dei casi, origini varie (poteva, per esempio,
essere la conseguenza del fatto che in passato, nel III secolo, un dato vil-
laggio era stato cristianizzato dal vescovo di una città vicina a quella al cui
territorio il villaggio apparteneva). Le liti che in tali situazioni nascevano
tra i vescovi dovevano essere piuttosto frequenti, sia in Oriente sia in Oc-
cidente.
Le ricerche degli ultimi decenni sulle strutture ecclesiastiche, spe-
cialmente sulla prosopografia delle chiese tardoantiche, rendono oggi
possibile calcolare il numero dei vescovati nelle varie regioni con una ap-
prossimazione impensabile cinquant'anni fa. Naturalmente possiamo de-
terminare solo l'ordine di grandezza, ma anche questo è importante. Van
Dam ha calcolato un po' meno di 2.000 vescovati per tutto l'Impero in-
torno all'anno 400. Cifre approssimative per alcune delle singole regioni
saranno indicate nella seconda parte del capitolo.
Nell'età di cui stiamo trattando, le ordinazioni - sia quelle dei vescovi,
sia quelle dei presbiteri o dei diaconi - non erano considerate, in teoria,
come valide ovunque in assoluto: un vescovo, un presbitero o un diacono
veniva ordinato per svolgere le sue funzioni in una comunità determinata,
254 STORIA DEL CRISTIANESIMO

e non poteva trasferirsi da questa a un'altra. In pratica però questo princi-


pio, sebbene fosse spesso ribadito e certamente corrispondesse alla convin-
zione del clero, non sempre poteva essere rispettato, e ciò per varie ragioni.
Parecchi vescovi non erano in grado di prendere possesso del seggio per
il quale erano stati ordinati, ma potevano servire (e servivano) senza dif-
ficoltà in altra città. Accadeva a volte che un uomo energico, eloquente
ed efficace come pastore fosse ordinato per una località poco importante:
in questi casi il suo trasferimento poteva giovare alla Chiesa in situazioni
difficili.
I moralisti ecclesiastici vedevano nei trasferimenti una manifestazio-
ne di philarchia (amore per il potere), di un'ambizione estremamente
riprovevole. Si trattava soprattutto di trasferimenti di vescovi, sebbene
non mancassero casi di presbiteri e di diaconi che lasciavano la loro sede
per un'altra, che assicurasse loro maggiore prestigio e migliori condizioni
materiali. Nella storia delle chiese del IV secolo, specialmente in Oriente,
conosciamo parecchi vescovi che si trasferirono da vescovati secondari a
vescovati più importanti. Un caso estremo è quello di Eusebio (da non
confondere con lo storico!), uno dei principali seguaci di Aria (cfr. CAP. 7,
p. 241), che fu dapprima vescovo di Berytos, poi, poco prima del 318, di-
venne vescovo di Nicomedia, dove allora risiedeva Licinio, e nel 339 vesco-
vo di Costantinopoli. Tali trasferimenti suscitavano critiche, ma sarebbe
errato pensare che esse fossero condivise da tutti. Socrate Scolastico (h.e.
7,36), citando casi concreti di tali operazioni, giudicava la procedura am-
missibile, se fatta per il bene della Chiesa. Di solito le critiche erano avan-
zate da avversari del vescovo che si era trasferito, nel qual caso avevano un
carattere strumentale. Nel valutare i casi di cambiamento di sede, dobbia-
mo tener presente, anzitutto, il fatto che l'ambizione, per quanto condan-
nata, era generalmente diffusa tra gli ecclesiastici, e in secondo luogo che
un vescovo che lasciasse la sua diocesi per trasferirsi in un'altra non era in
grado di mantenersi nella nuova sede se non con l'appoggio del clero e
del popolo di questa. Il canone 21 del sinodo antiocheno (341) contiene
parole significative da questo punto di vista: « Un vescovo non deve essere
trasferito da una diocesi a un'altra, né occupandola arbitrariamente, né
forzato dal popolo, né costretto dai vescovi; ma deve restare nella Chiesa a
cui è stato destinato da Dio fin dall'inizio e non si deve allontanare da essa,
secondo l'antico decreto già stabilito riguardo a questo». Come si vede,
l'iniziativa del trasferimento poteva venire dal popolo e dai vescovi, non
solo dall'interessato.
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2 55

Nel IV secolo, in tutto l'Impero si procedette a creare strutture unifor-


mi sovraordinate ai vescovati: le metropoli. In alcuni territori esse esiste-
vano già nel III secolo; più tardi si moltiplicarono rapidamente. I vesco-
vi partecipanti al concilio di Nicea (325) consideravano già la metropoli
come una istituzione esistente dappertutto (o almeno che avrebbe dovuto
esistere dappertutto). In linea di massima le metropoli coincidevano con i
capoluoghi delle province.
La formazione delle metropoli non fu un processo indolore: toccava,
infatti, questioni che erano già state oggetto di liti tra le città nei secoli
precedenti. Erano in gioco le ambizioni dei vescovi e insieme quelle delle
città. In linea di massima la Chiesa rispettava l'ordine di precedenza tra le
città, stabilito nei primi secoli dell'Impero. Le chiese che non acquistava-
no il rango di metropoli perdevano una parte considerevole della loro au-
tonomia. Perdevano soprattutto il diritto di scegliere liberamente il vesco-
vo. Inoltre, le contese tra ecclesiastici o tra laici e il loro vescovo venivano
giudicate a livello della metropoli. Con l'andar del tempo il metropolita
acquistava poteri sempre più ampi di sorveglianza e di intervento nelle
questioni interne dei vescovati, come riporta il canone 9 del concilio di
Antiochia (341):

I vescovi di ciascuna provincia devono sapere che il vescovo che presiede il capo-
luogo è incaricato della cura di tutta la provincia, poiché nel capoluogo conflui-
scono tutti coloro che hanno delle cause. Per questo è stato stabilito che costui
abbia la precedenza di onore, e secondo l'antica regola decretata dai nostri padri,
gli altri vescovi non possono fare niente senza di lui eccetto che quanto attiene alla
propria diocesi e alle campagne circostanti. Infatti ogni vescovo ha il potere sulla
propria diocesi, deve amministrarla secondo la pietà che gli è propria e vigilare su
tutta la campagna che dipende dalla sua città, così può ordinare sacerdoti e diaco-
ni ed esaminare ogni cosa con giudizio. Ma oltre tutto questo non può fare nulla
senza il consenso del vescovo metropolitano, né questi può decidere nulla senza il
consenso degli altri.

Le prime strutture di livello superiore a quello delle metropoli nacquero


prima del concilio di Nicea: Roma nell'Italia Suburbicaria, Alessandria
in Egitto, in Libia e nella Pentapoli, Antiochia in Oriente. La sfera ge-
ografica della loro egemonia subì in seguito delle modifiche, ma la loro
posizione egemonica rimase per tutti indiscussa. Le sedi che più tardi
aspirarono a un ruolo di protagoniste nel mondo ecclesiastico - Costan-
tinopoli, Efeso, Gerusalemme, Tessalonica in Oriente; Cartagine, Arles,
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Ravenna in Occidente - non raggiunsero la stessa posizione, per varie


ragioni; tutte incontrarono forti resistenze (su questo punto, cfr. infra,
pp. 275 e 277 ).
I vescovi di quattro delle chiese che detenevano una posizione sovra-
metropolitana - Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopo-
li - vengono chiamati tradizionalmente "patriarchi", e le loro chiese "pa-
triarcati", ma è bene tener presente che tali termini non compaiono nelle
fonti dell'epoca di cui stiamo trattando. Il titolo di patriarca compare, è
vero, nei documenti del concilio di Costantinopoli del 381, ma a quel tempo
aveva un valore onorifico, non tecnico, e non era riservato ai soli capi delle
principali metropoli, bensì poteva essere attribuito anche ad altri vescovi:
è solo nel VI secolo che esso entra nell'uso comune come termine tecnico.
I luoghi dove si prendevano decisioni erano principalmente i sinodi.
Erano le loro decisioni a far legge. Il ruolo delle autorità ecclesiastiche su-
preme - del papa e, in Oriente, di coloro che chiamiamo patriarchi - era
minore, sebbene in questo campo osserviamo delle eccezioni. La più note-
vole di queste sono le decretali, che cominciarono nel 383-384 e andarono
acquistando un'importanza sempre più grande nella pratica ecclesiastica
dell'Occidente (cfr. CAP. 11, p. 342). L'istituzione del sinodo, l'idea stessa di
affidare a un'assemblea dei vescovi il potere di prendere decisioni vincolan-
ti, le procedure dei dibattiti e il modo di documentarli, costituiscono una
parte di ciò che la Chiesa nel corso del III secolo aveva ereditato dalle poleis.
Questa constatazione non deve però farci dimenticare che i cristiani stessi
credevano di vedere nelle decisioni sinodali, specialmente quando esse era-
no raggiunte all'unanimità, un effetto dell'azione dello Spirito santo.
Già nel concilio di Nicea (325) si riconobbe opportuno che le assem-
blee dei vescovi a livello provinciale si tenessero due volte all'anno e che
l'iniziativa della convocazione e la presidenza appartenessero al metropo-
lita. Oltre ad avere potere deliberativo, tali assemblee costituivano un'i-
stanza a cui membri del clero e laici potevano appellarsi contro le sentenze
dei tribunali vescovili. Infatti, anche dopo che il mondo mediterraneo era
diventato quasi interamente cristiano, la Chiesa continuava a mantenere
un principio che era stato adottato nell'età precedente, quando i tribunali
erano pagani, e cioè il principio, risalente a una frase di Paolo, secondo cui
le liti giudiziarie che nascessero all'interno di essa non dovevano essere
portate davanti a tribunali laici. Fu ritenuto opportuno creare una gerar-
chia di istanze di appello contro le sentenze dei vescovi. Le nostre fonti
provano che queste istanze erano frequentemente utilizzate ed erano ne-
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI

cessarie come valvola di sicurezza contro decisioni arbitrarie di vescovi di


vario rango.
Le assemblee dei vescovi di un territorio più ampio che quello di una
metropoli rispondevano soprattutto al bisogno di discutere e risolvere
questioni dottrinali, e le loro dichiarazioni in questo campo ne erano i
frutti più importanti; tuttavia di solito esse discutevano anche problemi
risultanti dall'impetuoso sviluppo dell'insieme ecclesiastico, al quale si
cercava di imporre regole di comportamento relativamente uniformi.
Alcuni dei sinodi (li chiamiamo anche concili) furono riconosciuti
come ecumenici. In quasi tutti i casi tale riconoscimento avvenne in se-
guito a un lento processo. Rango ecumenico ebbe fin dall'inizio il sinodo
di Nicea del 32.5, e lo conserva ancora oggi in tutta la tradizione cristia-
na. È vero che le sue decisioni dottrinali suscitarono nel IV secolo lunghi
conflitti; ma nessuno negò la validità delle sue decisioni nel campo del-
la disciplina ecclesiastica. Tra i sinodi del IV secolo posteriori a questo, il
primo sinodo di Costantinopoli (381) fu innalzato al rango ecumenico a
causa della sconfitta dell'arianesimo, ma non subito, bensì soltanto dopo
il concilio calcedonese. I sinodi del v secolo non furono accettati così uni-
versalmente: il primo sinodo di Efeso (431) non poté essere accettato dai
cristiani viventi nell'Impero persiano che si richiamavano alla tradizione
antiochena rappresentata da Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia e
Nestorio; il secondo (449) rimase valido soltanto nelle chiese monofisite,
e quello di Calcedonia (451) soltanto nelle chiese d'Occidente e in quelle
chiese d'Oriente che siamo soliti chiamare ortodosse. Per le chiese d'Oc-
cidente il sinodo di Serdica del 343 aveva una posizione simile al rango
ecumenico perché era importante per il primato papale (nel canone 3 si
sanciva il diritto di appello al vescovo di Roma), ma i canoni approvati da
esso venivano ignorati dall'Oriente.
La dizione "sinodo ecumenico" non deve farci dimenticare che in tutti
i sinodi riconosciuti come ecumenici la stragrande maggioranza dei par-
tecipanti era costituita da vescovi delle chiese orientali: l'Occidente era
rappresentato soltanto da pochi vescovi. Non ci fu mai un sinodo comune
di tutto l'Impero. Tra i sinodi ecumenici tardoantichi, fu quello di Calce-
donia a riunire il maggior numero di vescovi: contò circa 370 partecipanti
presenti durante le sedute (le firme sono più numerose, circa 500, perché
tnolte furono fatte in nome di vescovi assenti).
Le decisioni dei sinodi più importanti venivano confermate, mediante
una costituzione, dall'imperatore, che poi prendeva misure per assicurare
STORIA DEL CRISTIANESIMO

che esse venissero osservate. Le opinioni e i desideri dell'imperatore in-


fluenzavano i dibattiti, ma egli non dettava mai formalmente le decisioni
finali.
I grandi del mondo ecclesiastico, per quanto forte fosse l'autorità di
cui godevano, avevano bisogno di appoggiarsi, nelle loro decisioni più im-
portanti, su un gruppo di altri vescovi. Il vescovo di Roma convocava dei
sinodi locali, il vescovo di Costantinopoli creò un po' alla volta un'isti-
tuzione detta synodos endemousa (sinodo presente in città), composta da
vescovi delle diocesi vicine a Costantinopoli e da vescovi di altre città che
si trovassero in un dato momento sul luogo per ragioni varie. La prima at-
testazione della synodos endemousa costantinopolitana è dell'anno 450. La
stessa istituzione, ma senza questo nome, è attestata anche ad Antiochia;
molto probabilmente esisteva anche in altre grandi chiese (è dubbio però
che esistesse in Egitto).

Un viaggio attraverso il mondo ecclesiastico


dell'Impero romano

Alessandria e l'Egitto

Passeremo in rassegna le singole regioni seguendo per lo più un ordine


geografico, ma in qualche caso sarà opportuno discostarsi da esso.
Quando, dopo la vittoria di Costantino su Licinio verso la fine del 324,
l'Oriente si trovò sotto un imperatore cristiano, la Chiesa più importante
di questa parte dell'Impero era quella alessandrina. Il vescovo di Alessan-
dria aveva sotto di sé l'Egitto e le due province della Libia, dirigeva circa
cento vescovati, i cui titolari erano ordinati da lui personalmente. Già ali' i-
nizio del IV secolo i vescovi egiziani, o almeno una parte di essi, erano con-
vinti che l'obbedienza a colui che occupava il seggio di Alessandria avesse
un fondamento teologico. I vescovi di Alessandria non lasciarono che si
formassero metropoli in Egitto, e il loro potere autoritario ebbe come con-
seguenza un abbassamento del livello intellettuale dei vescovi egiziani. Di
questi, grazie ai documenti conservati da papiri e agli elenchi dei parte-
cipanti ai concili, conosciamo molti nomi, ma pochi di loro sono perso-
nalità che abbiano avuto un ruolo indipendente nella vita della Chiesa o
che abbiano scritto opere letterarie. Personalità di questo genere troviamo
invece tra i monaci egiziani.
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.59

Un movimento di resistenza contro questa monarchia ecclesiastica fu


lo scisma meliziano, ma dopo una generazione esso fu marginalizzato (cfr.
CAP. s, p. 173). L'arianesimo, nato ad Alessandria, già all'inizio del v seco-
lo non esisteva praticamente più in Egitto.
All'Egitto (ma non ad Alessandria, cosa degna di nota) la cristianità
deve un'innovazione geniale: il monachesimo. In Egitto si recarono molti
uomini eminenti per imparare a conoscere le forme della vita monastica,
che essi poi imitarono nelle loro chiese. In Egitto furono scritte le prin-
cipali opere di dottrina ascetica del IV secolo, fortemente influenzate dal
pensiero di Origene. Tuttavia proprio negli ambienti monastici si svilup-
pò verso la fine del IV secolo un movimento di opposizione al modo di
pensare di quel grande teologo. La polemica antiorigeniana cominciò in
Palestina con gli aspri attacchi di Epifanio di Salamina e di Girolamo con-
tro il vescovo di Gerusalemme, Giovanni (393-394), che era un origeniano
(cfr. CAP. 9, p. 301). In Egitto il patriarca Teofilo, anch'egli origeniano, si
trovò a dover far fronte a una folla tumultuosa di monaci, sostenitori di
un'interpretazione letterale del passo della Genesi ( 1,2.6-2.7) in cui è scritto
che Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza. A tale interpretazione
erano contrari gli origeniani, che, appellandosi a Gv 4,2.4, in cui Gesù dice
che «Dio è spirito», rimproveravano ai loro avversari una concezione
troppo umana, quasi corporale, di Dio, e li chiamavano "antropomorfiti".
Teofilo rinnegò istantaneamente le sue convinzioni, si mise alla testa dei
monaci e cominciò ad agire contro gli origeniani. Un sinodo condannò
la dottrina di Origene e i monaci origeniani furono cacciati da certi mo-
nasteri situati sull'orlo occidentale del Delta. La fuga di alcuni monaci a
Costantinopoli, dove cercarono la protezione del vescovo di quella città,
Giovanni Crisostomo, divenne il punto di partenza di un conflitto tra la
Chiesa di Costantinopoli e Teofilo. Le conseguenze delle persecuzioni
contro gli origeniani furono disastrose per gli intellettuali cristiani; negli
ambienti monastici si cominciò a guardare con sospetto ai monaci colti.
L'idea di usare i monaci come massa d'urto nei conflitti trovò in seguito
degli imitatori: il primo di questi fu Cirillo.
I vescovi di Alessandria, consapevoli della loro potenza e convinti
della propria ortodossia, cercavano di imporre la loro influenza alle altre
chiese orientali. Suscitavano con ciò avversione. La suscitò perfino Ata-
nasio, sebbene rappresentasse il Credo niceno vittorioso. Teofilo, Cirillo
<.: Dioscoro, tre vescovi di Alessandria che lottarono contro i vescovi di
Costantinopoli, incontrarono resistenza - nonostante l'efficacia del loro
2.60 STORIA DEL CRISTIANESIMO

agire e nonostante che la dottrina da loro sostenuta fosse generalmente


accettata in Oriente - a causa dell'atmosfera di terrore che li circonda-
va. A titolo di esempio, si ricorda il tristemente famoso, feroce assassinio
della filosofa lpazia (415), a opera di una turba di fanatici cristiani, con
la probabile tacita connivenza di Cirillo. La posizione della Chiesa ales-
sandrina decadde notevolmente in seguito alle controversie cristologiche
che, verso la metà del VI secolo, portarono alla nascita di una Chiesa mo-
nofisita separata, retta da patriarchi che risiedevano in monasteri nelle vi-
cinanze di Alessandria.

La diocesi amministrativa d'Oriente


e la sua capitale Antiochia

È difficile trovare un contrasto maggiore di quello che osserviamo con-


frontando la Chiesa di Alessandria con quella di Antiochia. La parte,
estremamente ampia, del mondo ecclesiastico su cui si estendeva l'egemo-
nia del vescovo di Antiochia - città che era la capitale della diocesi ammi-
nistrativa di Oriente - era composta da territori in cui le città avevano una
tradizione di autonomia politica e culturale che risaliva all'età ellenistica.
Nella tarda antichità queste città erano vivaci e innovativi centri di pen-
siero teologico e di attività pastorale e base per la formazione dell'élite
ecclesiastica. Conosciamo molti vescovi eminenti di queste chiese: essi
non sono per noi soltanto dei nomi, come nel caso dell'Egitto. Dal punto
di vista dell'attività pastorale delle chiese, i metropoliti e i sinodi provin-
ciali contavano di più delle decisioni del vescovo di Antiochia. Il concilio
di Nicea, è vero, attribuisce alla Chiesa di Antiochia la presbeia, ma non
precisa entro quali limiti territoriali essa debba valere (è detto soltanto
« come nel caso delle chiese delle altre province»), né in che cosa consista.
Nel 32.5 la presbeia non era certamente altro che una superiorità di onore;
più tardi la possibilità, per il patriarca, di intervenire nelle faccende delle
chiese situate più in basso dipendeva dal rapporto di forze del momento,
dal prestigio personale del dato vescovo di Antiochia, dalla sua capacità
di negoziare nelle contese e di dirigere i sinodi (la lista dei sinodi che si
tennero ad Antiochia è lunga).
Per la controversia riguardante l'arianesimo la Chiesa di Antiochia e
i territori su cui si esercitava la sua influenza ebbero un'importanza ecce-
zionale. Tra i principali attori di questa lotta, da una parte e dall'altra, un
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.61

numero sostanziale proveniva proprio di là. Uno scisma che durò a lungo
nel campo dei seguaci del Credo niceno (press'a poco dal 32.7 al 413) limi-
cava le possibilità, per il vescovo di Antiochia, di allargare la sfera del suo
potere effettivo. L'appoggio che l'Occidente, seguendo i suggerimenti di
Atanasio, dava alla Chiesa dei rigoristi niceni, minoritaria in Antiochia,
diminuiva il prestigio del vescovo scelto dal campo opposto, anche quan-
do egli era fortemente appoggiato dall'Oriente.
Anche le controversie cristologiche posteriori contribuirono a inde-
bolire l'autorità del vescovo di Antiochia; nel VI secolo l'espansione del
monofisismo, che condusse nella seconda metà del secolo alla nascita di
una Chiesa monofisita, avveniva a spese di Antiochia (però non nella città
stessa, dove i difisiti erano in netta maggioranza).
Nonostante tutte queste perdite, la Chiesa antiochena era una struttu-
ra potente. La conosciamo da un interessante documento appartenente al
genere dei taktika (liste di vescovati in ordine gerarchico), chiamato dagli
studiosi Notitia Antiochena. Questo documento fu redatto intorno al 570,
ma una parte delle informazioni che contiene - specialmente per ciò che
riguarda i vescovi di basso rango - proviene da anni anteriori. In cima c'è
naturalmente l'arcivescovo di Antiochia con il titolo di patriarca, poi ven-
gono sette metropoliti synkelloi, vescovi di sette città della provincia Syria
Prima, dove si trovava Antiochia. Questi costituivano il consiglio del pa-
triarca. Due arcivescovi detti "semplici" (litoi) servivano come funzionari
del patriarca, essendo mandati in giro come suoi rappresentanti. Quattro
arcivescovi autocefali occupavano seggi importanti dal punto di vista ec-
clesiastico - Berytos, Laodicea, Emesa, Kyrros (Cirro) - ma, nonostante il
titolo prestigioso, non avevano giurisdizione su vescovi suffraganei. I veri
e propri metropoliti, i dodici "grandi arcivescovi" (il numero ha natural-
mente significato simbolico) esercitavano l'attività pastorale al livello del-
la metropoli. La Notitia Antiochena afferma che i vescovi suffraganei sono
12.8, un numero che va considerato come approssimativo.
La gerarchizzazione a tre livelli è degna di nota. Altrettanto lo è il fatto
che essa veniva applicata in modo tale che il patriarcato era un'istituzio-
ne efficiente senza ricorrere a un interventismo di tipo alessandrino. La
forza del centro antiocheno veniva non solo dall'esercizio del potere nella
vita ecclesiale, ma anche dall'attività intellettuale della cosiddetta scuola
teologica di Antiochia. Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia, Apol-
linare di Laodicea, Giovanni Crisostomo, Nestorio, Teodoreto di Cirro
influenzarono profondamente la cultura cristiana non solo nell'ambito
STORIA DEL CRISTIANESIMO

antiocheno, ma anche al di là dei confini dell'Impero romano: in Persia,


in Armenia, in Georgia.

La Palaestina Prima:
il ruolo di Gerusalemme e di Caesarea Marittima

La Chiesa di Gerusalemme dovette percorrere un lungo cammino prima


di diventare indipendente e quasi pari a quella di Antiochia. Alla fine del
III secolo il seggio vescovile di questa città (che si chiamava allora Ailia,
Aelia - dal no men gentile dell'imperatore Adriano, che aveva fondato qui
una colonia dopo la sconfitta dell'insurrezione di Bar Kokhba del 135) ave-
va una posizione secondaria e dipendeva dal metropolita residente nella
capitale della provincia Palaestina Prima, Cesarea di Palestina, centro im-
portante sia dal punto di vista politico, sia da quello ecclesiastico. Questo
rapporto di dipendenza rimase immutato molto a lungo, fino all'inizio
del v secolo. Tuttavia, nell'Impero cristiano la Chiesa di Gerusalemme
non poteva essere trattata come le altre chiese: a causa del ruolo di Ge-
rusalemme nella storia della salvezza, la sua Chiesa aveva una posizione
particolare, sebbene la scarsa importanza della città nel presente non le
desse il diritto di avere un ruolo di primo piano. Tale ambigua situazione
spiega la decisione del concilio di Nicea contenuta nel canone 7. I padri del
concilio decretarono che Gerusalemme doveva « venire onorata» (tima-
sthai), senza precisare in che cosa gli onori dovessero consistere, aggiun-
gendo invece che gli onori non cambiavano per niente la dipendenza di
Gerusalemme rispetto alla metropoli (cioè Cesarea di Palestina). Estrema-
mente importante per la Chiesa di questa città fu il fatto che Costantino
e i suoi successori vi edificarono imponenti basiliche. In favore di essa era
anche l'atteggiamento filoniceno che i suoi vescovi avevano assunto agli
inizi della controversia ariana. Il movimento di pellegrini che si sviluppò a
partire già dal secondo quarto del IV secolo, e che attirava in Palestina rap-
presentanti dell'élite cristiana sulla scia del gesto dell'imperatrice madre
Elena, creò intorno a Gerusalemme un'atmosfera di sacralità, che andrà
crescendo nel tempo.
Alla fine del IV secolo il vescovo di Gerusalemme, Giovanni, intraprese
un energico tentativo mirante a innalzare la sua Chiesa e a renderla indi-
pendente da Cesarea. Girolamo, che gli era ostile, scrisse che egli voleva
avere una apostolica cathedra; con ciò intendeva dire che Giovanni aspirava
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI

a un potere su un territorio comprendente alcune province e avente il ran-


go di patriarcato. Il progetto di Giovanni fu continuato da Giovenale. Tut-
tavia a tale cambiamento dei rapporti ecclesiastici nel Vicino Oriente si
opponevano fortemente, oltre al patriarca di Antiochia, anche i capi delle
chiese di Roma e di Alessandria. Soltanto grazie a un'abile politica duran-
te il concilio di Calcedonia (451), passando al momento opportuno da un
campo a un altro - sempre nel campo del vincitore di turno - Giovenale
ottenne il patriarcato. Questo fu composto dalle tre province palestinesi.

L'Asia Minore

Per ciò che riguarda le numerose chiese dell'Asia Minore, è necessario te-
ner presente che per questi territori la tarda antichità continua a essere
un periodo di relativo benessere, in cui i processi di urbanizzazione non
si sono ancora fermati e l'espansione della lingua greca, legata alle città,
progredisce nettamente, conquistando regioni che prima erano solo scar-
samente ellenizzate.
Molte delle chiese dell'Asia Minore avevano un passato che risaliva alle
prime generazioni cristiane. Già all'inizio del IV secolo, in alcune regioni,
il processo di cristianizzazione era molto avanzato. Nel v secolo i pagani
occupavano ormai soltanto delle nicchie. Conformemente al canone 2 del
primo concilio di Costantinopoli, i vescovi di Efeso e di Cesarea di Cappa-
docia, che erano le capitali delle due diocesi amministrative Asia e Ponto,
avrebbero avuto il diritto di esercitare la giurisdizione sulle chiese di questi
territori, ma in pratica non cercavano di realizzarlo. Questa situazione ci
avverte che dobbiamo guardarci dal sopravvalutare l'importanza delle de-
cisioni formali dei sinodi. Questi potevano sanzionare con la loro autorità
lo stato di cose esistente di fatto (come il canone 6 del concilio di Nicea
fece nei riguardi di Alessandria e di Antiochia), ma non erano in grado di
cambiarlo.

Costantinopoli, la Seconda Roma

Prima che Costantino il Grande, nel 330, desse un nuovo inizio alla sto-
ria della città sul Bosforo, Bisanzio, conferendole anche il proprio nome
(donde Costantinopoli), la Chiesa di questa città era una chiesa seconda-
ria, come se ne contavano a centinaia nell'Impero. Sede della metropoli
STORIA DEL CRISTIANESIMO

era la vicina Eraclea Tracia. Il fatto che il vescovo Alessandro non compaia
tra i vescovi convenuti a Nicea fa capire quanto insignificanti siano stati gli
inizi della grandiosa storia del patriarcato costantinopolitano.
Sembra certo che Costantino abbia voluto fin dall'inizio dare alla nuo-
va città il rango di Nuova Roma. La sua trasformazione in città cristia-
na fu un processo lento. Il ruolo principale in questo processo lo svolse
Costanzo 11 (337-361), edificando chiese a Costantinopoli e soprattutto
accumulandovi reliquie (la prima traslazione, quella delle reliquie degli
apostoli Andrea, Timoteo e Filippo, ebbe luogo nel 356-357 ). In questo
modo la città, che non aveva un passato cristiano rilevante, acquistava una
protezione contro catastrofi di ogni specie e poneva le basi per costruire la
sua posizione tra le grandi capitali della Chiesa.
È utile ricordare che in quegli anni Costantinopoli non era la sede sta-
bile dell'imperatore. Fu solo a partire dal regno di Arcadio (dal 395) che gli
imperatori vi risiedettero stabilmente. La presenza o l'assenza del sovrano
aveva un'enorme importanza per il vescovo: non è per caso che la Chiesa
costantinopolitana entrò nel suo periodo d'oro alla fine del IV secolo.
Il primo mezzo secolo dell'esistenza della Chiesa della Nuova Roma fu
segnato da lotte tra aspiranti al soglio vescovile in una città dominata dagli
ariani. Nel 379, chiamato dai fautori del Credo niceno, privi di un pastore
ortodosso, giunse a Costantinopoli Gregorio di Nazianzo, grande oratore
e teologo, che assunse il difficile compito di costruire una comunità catto-
lica. Gli inizi furono difficili. La situazione cambiò in seguito all'interven-
to dell'imperatore Teodosio il Grande. Subito dopo essere entrato in città,
questi mandò in esilio il vescovo ariano. Gregorio prese possesso di Hagia
Sophia e dei Santi Apostoli, le due chiese principali della città. Inviso al
clero, ai monaci e al popolo, dovette ricorrere ai soldati. Gli intrighi orditi
dal vescovo di Alessandria lo spinsero in breve tempo a dimettersi. Per il
posto lasciato da Gregorio, da una lista di tre candidati presentatagli dai
vescovi riuniti in concilio a Costantinopoli, l'imperatore scelse Nettario,
un uomo anziano, senatore ed ex pretore, che con abilità riportò la città
alla calma e, dopo alcune difficoltà, con l'aiuto dell'imperatore, allacciò
rapporti corretti con le altre chiese. Fu lui a inaugurare il processo della
trasformazione della Chiesa costantinopolitana, che con il suo episcopato
allargava sempre più il terreno degli interventi nelle faccende delle chiese
di rango minore.
Nel 381 il concilio convocato dall'imperatore a Costantinopoli per
risolvere problemi dottrinali approvò tra l'altro un canone (il canone 3)
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.65

riguardante lo status della Chiesa costantinopolitana. Esso stabilisce che


« Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d'onore dopo il vescovo di
Roma, perché tale città è la nuova Roma». Si trattava esclusivamente di
una questione di rango, non di giurisdizione. In nessun testo canonico
dell'epoca, infatti, è precisato il confine territoriale della giurisdizione del
vescovo di Costantinopoli, ma in pratica già allora egli svolgeva un ruolo
di istanza di appello, soprattutto nei confronti della vicina Tracia.
La Chiesa romana, nella persona di Damaso, indisse un sinodo specia-
le (382.) per protestare energicamente contro quel canone. Ricordò che il
rango di alcune chiese al vertice della cristianità era determinato dai fon-
datori apostolici, e non da una decisione politica. Per Damaso, dopo Roma
veniva Alessandria, fondata da Marco evangelista, mandato da Pietro; al
terzo posto veniva Antiochia, fondata da Pietro. Secondo lui la Chiesa
costantinopolitana doveva tornare sotto la direzione del metropolita di
Eraclea Tracia. Ma nessuno poteva immaginare che tale desiderio fosse re-
alizzabile, dato che Teodosio, imperatore pio e cattolico, teneva ad alzare
il prestigio del vescovo di una città che egli trattava come la sua capitale.
Cambiamenti decisivi nella posizione di Costantinopoli avvennero
con l'episcopato di Giovanni Crisostomo (398-407 ). Il suo predecessore,
Nettario, interveniva nelle faccende di altre chiese solo dietro richiesta da
parte degli interessati; Giovanni invece interveniva per sua iniziativa, forte
dell'appoggio della corte imperiale e del suo personale prestigio. Quando
si trovava davanti a irregolarità o azioni riprovevoli commesse da vescovi
(o anche da persone della corte), non si lasciava trattenere da alcuna consi-
derazione di opportunità o di convenienza, bensì agiva energicamente per
punire i colpevoli. I suoi interventi riguardanti la Chiesa metropolitana di
Efeso macchiata dalla simonia avevano una seria giustificazione morale,
ma erano contrari ai canoni.
L'aumento del potere e del prestigio del vescovo di Costantinopoli e il
suo ruolo nel campo della diplomazia ecclesiastica infransero l'equilibrio
delle forze in Oriente, provocando la reazione del patriarca di Alessandria,
Teofilo (385-412.), che vedeva in Giovanni un rivale pericoloso. I numerosi
conflitti suscitati da Giovanni a corte e ali' interno del clero della capitale
facilitarono gli sforzi di Teofilo. Giovanni fu dapprima deposto dal sinodo
detto "della Quercia" (403), dominato dai vescovi egiziani (2.9 vescovi su
36), poi fu due volte esiliato; morì debilitato dalle faticose condizioni in
cui fu costretto a viaggiare verso il luogo assegnatogli in fondo all'Asia
Minore.
2.66 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Sebbene non avessero un fondamento giuridico nei canoni e non go-


dessero di popolarità, le azioni di Giovanni Crisostomo corrispondevano
ai bisogni delle chiese dell'Asia Minore e di gran parte della penisola bal-
canica. L'esperienza mostrava la necessità di una forte istanza sovrametro-
politana, capace di imporre ai potenti metropoliti il rispetto delle regole,
che spesso venivano infrante.
La formalizzazione della posizione del vescovo di Costantinopoli era
solo una questione di tempo. Il passo fu fatto dai vescovi riuniti al concilio
calcedonese ( 4 s1) con l'approvazione del canone 2.8. Questo poté venire
accettato grazie all'eliminazione del principale rivale di Costantinopoli in
Oriente: il patriarca di Alessandria, che, nel corso del dibattito sulla dot-
trina e sul comportamento negli affari ecclesiastici, fu deposto. Nel canone
2.8 è dichiarato quanto segue:

Giustamente i padri concessero privilegi alla sede del(' antica Roma, perché la città
era città imperiale. Per lo stesso motivo i centocinquanta vescovi diletti da Dio
concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e
il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma,
uguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.
Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia e della Tracia,
e inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro, saran-
no consacrati dalla sacratissima sede della santissima Chiesa di Costantinopoli.
È chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi
della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri
canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno
essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente,
che siano stati eletti con voti concordi, secondo l'uso, e presentati a lui.

Dopo che questo canone era stato approvato, nella seduta successiva i
legati papali tentarono di far annullare la decisione, sostenendo che i
vescovi erano stati colti di sorpresa e che c'erano state pressioni. Uno
dei legati insinuò che i vescovi erano stati ingannati o costretti a sotto-
scrivere il canone, al che la sala reagì con grida di protesta. In risposta
alle accuse dei legati del papa, i vescovi delle varie città dell'Asia Minore
fecero ampie dichiarazioni e uno spontaneo atto di sottomissione a Co-
stantinopoli.
Sebbene in apparenza il canone 2.8 di Calcedonia non apportasse ele-
menti nuovi rispetto al canone 3 di Costantinopoli, le stesse parole, collo-
cate in un contesto diverso, assumevano tutt'altro significato. Ponendo a
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI

fondamento della posizione del vescovo di Roma il fatto che essa fosse una
città capitale, il concilio lasciava da parte consapevolmente tutta la dottrina
papale sviluppata fin dai tempi di Damaso. Con ciò i vescovi esprimevano
un atteggiamento ostile, o meglio ancora, sprezzante, verso l'ecclesiologia
romana. Essi riconoscevano naturalmente il primato della Chiesa romana
nella forma assunta nei tempi anteriori a Damaso (cfr. CAP. 3, p. 130); ma
ciò non impediva loro di dare al papa una lezione approvando il canone
riguardante Costantinopoli.
A partire dal concilio calcedonese il patriarca costantinopolitano ha
sotto di sé un territorio immenso, in cui si trovano 469 città, la metà del
numero delle città di tutto l'Impero, secondo le liste di Hierok.les, redatte
nella prima metà del VI secolo. Il suo potere si manifesta anche nel fatto
che tutti i membri del clero del patriarcato hanno il diritto di appellarsi
alla sua giurisdizione. La vicinanza dell'imperatore gli giova, ma può an-
che nuocergli, come testimonia il numero dei patriarchi deposti dal sovra-
no ( 6 su 2.0 nel periodo dal 431 al 610 ).
Durante il VI secolo entra in uso l'epiteto "ecumenico", applicato al pa-
triarca di Costantinopoli nonostante le proteste di Roma, ma con l 'appog-
gio dell'imperatore (cfr. CAP. 11, p. 348).

L'Africa settentrionale

Le chiese dei territori dell'Africa settentrionale compresi tra l'Aclantico e


la Grande Sirte costituivano un mondo relativamente isolato, chiuso nella
cerchia dei suoi problemi e dei suoi drammi e che raramente cercava dei
rapporti stretti con il resto della cristianità. La conquista dell'Africa set-
tentrionale da parte dei Vandali a partire dall'anno 42.9 prolungò questo
stato di cose, e la riconquista giustinianea (533) non ruppe l'isolamento
che si era prodotto nei secoli precedenti.
Il cristianesimo si diffuse qui rapidamente, specialmente nelle regioni
fortemente urbanizzate. Nella parte nord-orientale dell'Africa Proconso-
lare, intorno a Cartagine, i vescovati distavano gli uni dagli altri pochi chi-
lometri. Meno facile fu la diffusione del cristianesimo nella parte meridio-
nale, in terreni stepposi o desertici. Dalla lista dei partecipanti al sinodo
del 2.56 (cfr. CAP. 3, p. 130) e dalla corrispondenza di Cipriano apprendia-
mo che i vescovati erano più di 150. All'inizio del IV secolo compaiono
vescovati nei territori meno cristianizzati: nella Mauretania Caesariensis
2.68 STORIA DEL CRISTIANESIMO

e in Numidia (i vescovi numidici che protestarono contro l'ordinazione


di Ceciliano furono 70 ). Naturalmente il numero dei vescovati non ci dà
la possibilità di calcolare il numero dei cristiani, né di stabilire quando i
pagani in Africa abbiano cessato di essere la maggioranza. Nei territori
montani, abitati dai Berberi, alcune tribù non furono mai cristianizzate;
abbandonarono il paganesimo solo molto più tardi, per accogliere l'islam;
lo fecero del resto tra molte resistenze.
Un tratto caratteristico della geografia ecclesiastica dell'Africa è il fatto
che qui c'erano vescovati molto piccoli, creati in villaggi. In questi casi,
accanto al vescovo c'era soltanto un presbitero, o tutt'al più pochissimi
presbiteri e diaconi. L'esistenza di tali vescovati era una conseguenza della
convinzione che anche in un piccolo gruppo di fedeli solo il vescovo avesse
la facoltà di esercitare il culto. In Egitto, in situazioni analoghe, si comin-
ciarono a creare chiese parrocchiali; in Cappadocia si ricorreva a vescovi
ausiliari. Ali' aumento del numero di vescovati contribuì fortemente lo sci-
sma donatista (cfr. CAP. 7, p. 2.2.9): entrambe le parti di questo conflitto,
infatti, erano interessate a sviluppare la rete delle loro chiese.
Le riforme di Diocleziano alla fine del III secolo avevano diviso il ter-
ritorio dell'Africa in sei province. Questa divisione, con pochi cambia-
menti, si mantenne fino alla conquista vandala. La geografia ecclesiastica
riproduceva questa divisione, con una sola, ma importante, eccezione:
i vescovati delle città di lppona, Tagaste, Calama, Madaura e Teveste, le
quali erano sottoposte alle autorità residenti a Cartagine, appartenevano
alla Numidia.
L'Africa aveva, al di sopra del livello dei vescovati, un suo particolare
sistema di organizzazione. Non c'era una rete di metropoli che control-
lassero strettamente l'andamento delle cose nei singoli vescovati; invece,
in ciascuna delle sei province uno dei vescovi aveva il primato (primatus ).
Più precisamente: nell'Africa Proconsolare il primato spettava sempre al
vescovo di Cartagine, in ciascuna delle altre province spettava al vescovo
più anziano dal punto di vista della data dell'ordinazione. Questo tipo di
primato non dava un potere paragonabile a quello che, altrove, avevano
i metropoliti. Il sistema però privilegiava il vescovo di Cartagine, la città
africana più importante, che aveva la tradizione cristiana più antica e l' am-
biente culturale più forte. Era il vescovo di Cartagine a ricevere l'informa-
zione sulla data della Pasqua e a trasmetterla agli altri vescovi dell'Africa.
Il ruolo del seggio cartaginese cresceva quando questo era occupato da un
uomo dotato di grande prestigio personale: lo si vede alla fine del IV e
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI

all'inizio del V secolo, quando era vescovo Aurelio, che collaborava armo-
niosamente con un altro grande, Agostino.
Tuttavia i vescovi di Cartagine non aspiravano a una formalizzazione
del loro ruolo di guida, a un titolo che lo simboleggiasse (come sarebbe
stato il titolo di patriarca), né tentarono di creare una leggenda che at-
tribuisse al loro seggio un'origine apostolica. Ciò avrebbe probabilmente
incontrato la resistenza degli altri vescovi africani, specialmente di quelli
della vicina Byzacena. A imporre limiti stretti alle ambizioni del clero car-
taginese contribuì certamente il conflitto tra cattolici e donatisti.
Nato dalla condanna del modo in cui la Chiesa gerarchica si era compor-
tata durante la Grande Persecuzione, il donatismo marcò profondamente
il cristianesimo africano. Fu uno scisma duraturo, difficile da combattere
e straordinariamente ampio. Si fondava sulla convinzione - presente nella
Chiesa africana già nel III secolo - che il valore dei sacramenti non fosse
indipendente dalle qualità della persona che li somministrava. I donatisti
- come già aveva fatto Cipriano - ripetevano il battesimo, se esso era stato
compiuto da una persona riconosciuta colpevole di un peccato grave (apo-
stasia, eresia); ritenevano che la macchia dei vescovi indegni si trasmet-
tesse ai vescovi da loro ordinati. Questo atteggiamento favorì la creazione
di una Chiesa separata e rendeva estremamente difficile un accordo con
la parte opposta. I donatisti continuarono sempre, sino alla fine del loro
movimento, a richiamarsi agli avvenimenti del passato che avevano provo-
cato la rottura; tuttavia è chiaro che, per quanto importanti fossero queste
ragioni storiche, altri fattori contribuivano a mantenere l'identità dei do-
natisti: un loro clero, chiese, cimiteri e feste separati, una storia sacra piena
di persecuzioni e di martiri che venivano venerati in un modo esaltato.
Il fatto che i donatisti abbiano potuto estendere la loro azione mol-
to ampiamente nonostante l'atteggiamento sfavorevole delle chiese
dell'Occidente e l'aperta ostilità di Costantino e dei suoi successori, te-
stimonia quanto forte fosse la resistenza che la gerarchia cattolica incon-
trava in una parte dei fedeli. L'appoggio finanziario dato dallo Stato ai
cattolici e l'esenzione dai gravosi munera, a loro concessa, non bastarono
a far pendere la bilancia in loro favore. I donatisti divennero oggetto di
vere e proprie persecuzioni (confische delle chiese e dei beni; poi - per la
prima volta tra il 317 e il 321 - furono usati soldati per confiscare le chie-
se, il che ebbe come conseguenza delle uccisioni). Le persecuzioni bloc-
carono per qualche tempo l'espansione dello scisma, ma non condussero
all'eliminazione del conflitto. I gerarchi cattolici, non riuscendo a vincere
2.70 STORIA DEL CRISTIANESIMO

con i loro mezzi, chiamavano in aiuto gli imperatori. La lista degli inter-
venti delle autorità civili e militari è lunga, ma essi non erano efficaci, per-
ché non trovavano un appoggio sufficiente da parte dei funzionari locali
e delle élite locali.
Ali' inizio degli anni 90 i donatisti erano superiori per numero ai cat-
tolici (come riconoscevano i cattolici stessi); nel 394, al sinodo di Bafai in
Numidia parteciparono 310 vescovi donatisti. Anche la produzione dot-
trinale dei donatisti è impressionante. A lungo la parte cattolica non fu in
grado di contrapporre a loro avversari che fossero ali' altezza del compito;
soltanto più tardi poté farlo, con Agostino (vescovo di lppona dal 396)
e Aurelio (vescovo di Cartagine dal 391-392.). L'appoggio che i donatisti
diedero al ribelle berbero Gildone divenne per la parte cattolica un argo-
mento che le rese più facile convincere le autorità imperiali a intraprendere
energiche azioni contro di loro. I donatisti furono riconosciuti eretici, e
come tali sottomessi a repressioni (divieto di assembramento, confisca dei
luoghi di culto, minaccia di esilio per i membri del clero, pena di morte
per i donatisti che intralciassero il culto cattolico, esilio per i funzionari
imperiali non sufficientemente zelanti, espulsione dei donatisti dalle città,
confisca delle loro terre). L'imperatore Onorio munì i suoi funzionari di
leggi speciali che avevano lo scopo di eliminare completamente la Chiesa
donatista.
Tuttavia nella Chiesa cattolica si faceva sentire sempre più fortemen-
te il desiderio di chiudere lo scisma anche per mezzo di un'intesa tra le
parti. Verso la fine del 410 una delegazione cattolica ottenne l'accordo
dell'imperatore per organizzare una conferenza comune di tutto l'episco-
pato africano. Tale conferenza si riunì a Cartagine nel 4II. I partecipanti
donatisti erano 2.85, quelli cattolici 2.86 (in Africa il numero dei vescovati
era leggermente superiore alla somma dei partecipanti: erano un po' più di
600 ). Ciascuna delle grandi città, tranne Leptis Magna, era rappresentata
da due vescovi; le piccole città dell'Africa Proconsolare erano cattoliche,
quelle della Numidia e della Byzacena erano donatiste. Nonostante la pa-
rità numerica dei rappresentanti delle due parti, l'appoggio palese che le
autorità davano alla parte cattolica e le divisioni interne della parte dona-
tista ebbero un peso decisivo. Secondo le intenzioni dell'imperatore Ono-
rio, la conferenza doveva condurre a una piena sconfitta del donarismo, e
così effettivamente avvenne, al di là delle apparenze del dibattito e della
propaganda dei cattolici, che ostentavano la loro buona volontà. Nel 412
Onorio emise un editto che proscriveva il donatismo. La maggior parre
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.71

dei donatisti si convertì, o perché direttamente costretta, o perché convin-


ca dell'inutilità della resistenza. Il donatismo non scomparve interamente
dall'Africa, ma perse la sua importanza.
Come scrisse Charles Pietri (in Storia del cristianesimo, p. 42.8), questa
fu una triste vittoria per la Chiesa cattolica, che poco dopo si trovò di fron-
te alla catastrofe dell'invasione, o più precisamente dell'immigrazione di
massa dei Vandali ariani. Nel 42.9 tutto questo popolo, circa 80.000 per-
sone, sotto la guida di Genserico, passò lo stretto di Gibilterra. Cartagine
cadde subito nelle mani dei Vandali, e negli anni seguenti tutta l'Africa
romana si trovò sotto il loro potere (cfr. CAP. 11, p. 330 ).
Un episodio particolare, importante per noi, in quanto getta luce sugli
atteggiamenti dell'episcopato africano, è la contesa che oppose questo a
Roma negli anni 419-42.5 per una questione che riguardava un presbitero
di nome Apiario. Questi era stato privato delle sue funzioni e scomunicato
dal suo vescovo a causa di uno scandalo grave, aveva fatto appello al papa
Zosimo e aveva ottenuto da lui una decisione favorevole. La sentenza e il
modo in cui era stata comunicata erano stati estremamente autoritari e la
Chiesa africana li aveva presi molto male. Per difendere le sue ragioni e
giustificare il suo rifiuto di accettare la decisione papale, la Chiesa africana
mise insieme un ampio dossier di testi patristici e di canoni. Nel riferire
la questione di Apiario, gli studiosi moderni affermano di solito che essa
fo una manifestazione dell'"autonomismo africano"; tuttavia bisogne-
rebbe piuttosto notare quanto i vescovi africani fossero imbarazzati per
la situazione, e quanto insistentemente sottolineassero il loro rispetto e
la loro obbedienza verso il papa. Amareggiati per una decisione del papa
che trovavano sbagliata, essi cercarono una soluzione di compromesso che
permettesse loro di non offendere l'autorità di Roma. Il primato di Roma
nella sfera della giurisdizione era ormai stato accettato, ma si desiderava
che fosse esercitato ragionevolmente.

la Spagna

Diocleziano aveva creato un nuovo assetto amministrativo, avendo riuni-


to le province della penisola iberica, insieme con la Mauretania Tingita-
na (cioè con l'estrema parte occidentale dell'Africa), in una diocesi civile,
detta Hispaniae ("le Spagne"; noi moderni però usiamo comunemente il
singolare, "la Spagna"). La Chiesa della penisola iberica mostrava chiari
STORIA DEL CRISTIANESIMO

legami con la cristianità africana, più chiari che con altre parti del mondo
mediterraneo.
Se guardiamo una cartina delle chiese della Spagna dell'inizio del IV
secolo (possiamo farlo grazie ai documenti del primo sinodo spagnolo a
noi noto, quello di Elvira), constatiamo una netta concentrazione di esse
nella parte meridionale della penisola, nella Baetica. Nel corso del IV se-
colo il processo di cristianizzazione, quale è attestato da buone fonti lette-
rarie e archeologiche, interessava i territori più urbanizzati della penisola:
la parte orientale della Tarraconensis fino all'Ebro, la costa della Cartha-
giniensis, la Baetica e una parte della Lusitania. Le altre regioni furono
evangelizzate più tardi. Il numero delle diocesi ecclesiastiche spagnole era
esiguo: intorno all'anno 400 sono attestati 30 vescovati - pochi, se pen-
siamo alla Gallia dello stesso periodo ( 9 o vescovati), all'Italia ( 8 o), senza
parlare dell'Africa. È impossibile dire quanti cristiani facessero parte di
queste 30 diocesi.
La Chiesa di Spagna non aveva un centro dirigente stabile. A seconda
delle situazioni e delle personalità, vari vescovi di varie sedi svolgevano un
ruolo dirigente. A questa struttura orizzontale corrisponde la frequenza
dei sinodi, di cui si sono conservati numerosi canoni riguardanti questio-
ni di attività pastorale e di disciplina. Verso il 370 nacque un movimento
che scosse la Chiesa di Spagna e, in misura minore, quella della Gallia:
comincia allora la sua attività di predicazione Priscilliano, laico di origine
aristocratica, un uomo colto, che crea una dottrina ascetica molto rigida
e ottiene presto un notevole seguito in diversi gruppi sociali. Il suo mo-
vimento non ha un carattere monastico, ha piuttosto i tratti di una setta.
La Chiesa istituzionale reagì violentemente, vedendo in lui un nemi-
co dell'ordine costituito. Lo era oggettivamente, sebbene non sia affatto
certo che predicasse apertamente contro la gerarchia. Il suo movimento
faceva parte di quelle correnti che nel corso del IV secolo, in Occidente
come in Oriente, si opposero al modo tradizionale di governare la Chiesa
in nome di austeri princìpi morali. Due vescovi spagnoli misero in moto
una campagna di diffamazione contro Priscilliano, accusandolo di mani-
cheismo. In seguito un sinodo riunito a Saragozza nel 380 lo condannò.
Per difendersi, Priscilliano cercò appoggi in Italia, presso Ambrogio e
papa Damaso, ma invano. Condannato ancora una volta al sinodo di Bor-
deaux del 384, ebbe la cattiva idea di appellarsi a Massimo, l'usurpatore
che dopo aver ucciso l'imperatore Graziano regnava sulla Gallia, la Spagna
e la Britannia. Questi era interessato a manifestare la più stretta ortodossia
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.73

per avere i vescovi dalla sua parte. Alcuni nemici di Priscilliano presenti
alla corte di Massimo a Treviri agirono per farlo condannare da un tribu-
nale civile. Costretto con la tortura a confessare di aver praticato la magia,
fu decapitato. Nella storia del cristianesimo questo fu il primo caso di con-
danna a morte per eresia. L'esecuzione di Priscilliano fu accolta con orrore
da gran parte dell'opinione ecclesiastica. In questa reazione c'era alquanta
ipocrisia: l'esito del processo era stato infatti condizionato dall'inimicizia
dominante tra i vescovi. I vescovi che avevano accusato Priscilliano furono
deposti, ma i priscilliani furono perseguitati ferocemente. Il priscilliani-
smo continuò a lungo: ancora nel 572., durante il sinodo di Braga, i vescovi
ritennero necessario ripetere la vecchia condanna.
Nel 409 diversi gruppi di barbari (Svevi, Vandali, Alani, Visigoti) ri-
uscirono ad attraversare i Pirenei. In Spagna finì allora un lungo periodo
di pace - eccezionalmente lungo, se si tiene conto della storia tardoanti-
ca. A partire da quel momento, per quasi due secoli le guerre tra i popoli
barbarici e i saccheggi decimarono il numero degli abitanti e abbassarono
drasticamente il livello di vita rispetto ai vecchi tempi romani. Solo l'unifi-
cazione della penisola sotto il dominio dei re visigotici (585) aprì un'epoca
migliore.

La Gallia

Ricostruire il processo di formazione e di sviluppo delle chiese della Gallia


non è un compito facile. Le fonti sono numerose e ricche di informazioni,
ma molte di queste non sono degne di fede. Già nel V e VI secolo vescovi
ambiziosi fabbricarono notizie riguardanti la fondazione delle loro chiese.
In particolare i racconti secondo cui certe chiese sarebbero nate in Gallia
nel II o nel III secolo per iniziativa papale, appartengono alla leggenda,
non alla storia. Gli eruditi del XVII e XVIII secolo elaborarono una visione
storica fondata su testimonianze agiografiche di dubbio valore, e questa ri-
costruzione si mantenne a lungo. Solo il grande storico della Chiesa Louis
Duchesne, autore dei fasti della Gallia (pubblicati tra il 1894 e il 1915),
intraprese il duro lavoro di selezione delle fonti.
Prima dell'età costantiniana il numero dei vescovati in Gallia deve es-
sere stato compreso tra 2.5 e 40 (per i secoli VI-VII ne conosciamo circa
12.0 ). Essi erano concentrati nella Gallia sud-orientale. Durante la prima
tnetà del IV secolo il loro numero raddoppiò, crescendo soprattutto nel
2.74 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Nord. Intorno alla metà del v secolo funzionavano in Gallia 70-80 ve-
scovati, mentre nello stesso tempo il numero delle civitates attestato dalla
Notitia Galliarum (documento prodotto dall'amministrazione civile) era
di 114. Le città senza vescovo dovevano probabilmente trovarsi nelle zone
fortemente urbanizzate del Sud.
I confini dei vescovati corrispondevano di solito a quelli dell 'ammi-
nistrazione civile. Le eccezioni - che davano origine a liti frequenti tra i
titolari delle sedi - erano il risultato delle circostanze in cui era avvenuta
l'evangelizzazione di determinate zone di campagna. Durante il IV secolo,
infatti, accadeva a volte che un vescovo convertisse al cristianesimo villaggi
che non facevano parte del territorio della sua città.
L'aristocrazia gallica - sia quella municipale, sia quella senatoria - pre-
se rapidamente in mano la direzione delle comunità cristiane. Troviamo
a volte intere famiglie aristocratiche al servizio della Chiesa. La forte pre-
senza di uomini dell'élite nel clero è un fenomeno caratteristico della Gal-
lia (anche in altri paesi della cristianità mediterranea l'élite aristocratica
aveva un ruolo nel clero, ma non un ruolo così grande come in Gallia).
Pure i monasteri, almeno alcuni di essi, erano aristocratici, e le chiese pren-
devano spesso i vescovi dalle comunità monastiche. Il monastero fondato
da Onorato a Lérins e quello fondato da Martino di Tours a Marmoutier
divennero vivai di vescovi.
L'origine aristocratica dei vescovi aumentava la loro forza ed efficacia
sul piano sociale. La loro ricchezza personale poteva unirsi ai mezzi della
Chiesa quando si trattava di costruzioni sacre o di opere filantropiche. L' e-
vergetismo antico, che aveva avuto come destinatari i concittadini, cambiò
carattere e diventò servizio alla Chiesa. Si trasformò anche in uno stru-
mento nella competizione per l'elezione alla dignità vescovile, arrivando
pericolosamente vicino a comportamenti simoniaci.
Le metropoli in Gallia nacquero stranamente tardi, nella seconda metà
del IV secolo, e si moltiplicarono lentamente, sebbene il modello fosse co-
munemente accettato in altre parti del mondo mediterraneo e fosse stato
indicato come regola dal concilio di Nicea del 32.5. È lecito chiedersi se
ciò non fosse dovuto alla forte tradizione dell'autonomia cittadina e nello
stesso tempo al fatto che il comando della Chiesa era nelle mani dell'a-
ristocrazia. Quest'ultima poteva considerare la sottomissione alle istanze
metropolitane come una limitazione pericolosa della libertà di decisione.
Quanto fosse difficile il processo di unificazione delle chiese galliche,
appare non solo dalla lentezza della creazione delle metropoli, ma anche,
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.75

e ancor più, dalle resistenze che incontrò l'iniziativa di organizzare un


centro a un livello superiore a quello delle metropoli. L'iniziativa par-
tì dal vescovo di Arles, Patroclo (che occupò questa sede dal 411-412. al
42.6). La sua città aveva un posto eminente nella vita economica e ammi-
nistrativa della Gallia. Nel v secolo vi risiedevano a volte gli imperatori, e
qui era stabilmente la prefettura delle Gallie. Patroclo era energicamente
appoggiato dal papa Zosimo, che creò un vicariato papale in Gallia. Ma
i colleghi di Patroclo non vollero sottomettersi, preferivano trattare con
il papa direttamente. I successori del papa Zosimo non continuarono la
sua politica nei confronti del vescovo di Arles. Per sostenere le ambizioni
della sede di Arles, il suo clero fabbricò una leggenda, secondo cui questa
sede sarebbe stata fondata da Trofimo, mandato da Roma dall'apostolo
Pietro; come tale Trofimo appare in séguito anche nelle leggende di altre
chiese galliche.
L'idea di Patroclo fu ripresa da Ilario, che era diventato vescovo di Ar-
les verso il 430. Questo ex monaco di Lérins, personaggio carismatico e
austero, era convinto della necessità urgente di riformare la Chiesa. Pen-
sava che si dovesse fare un'epurazione dei vescovati delle province vicine,
deponendo le persone indegne, introdurre l'obbligo della rinuncia alla
vita coniugale per tutti i membri del clero dal diaconato in su, assicura-
re un'amministrazione onesta dei beni ecclesiastici, intensificare l'attività
pastorale. Per eliminare le resistenze, avrebbe avuto bisogno di appoggiarsi
sull'autorità papale, cioè di avere la funzione di vicario del papa - fun-
zione che gli desse il diritto di agire fuori della sua metropoli. In pratica
egli si comportava come se fosse titolare del vicariato: organizzava i sinodi,
interveniva nelle elezioni dei vescovi, deponeva i vescovi che trovava inde-
gni. Molti suoi tratti ricordavano Giovanni Crisostomo: autorità ascetica,
ferrea volontà di epurare la Chiesa, poco rispetto per i canoni. Le vitti-
me delle sue energiche azioni andarono a cercare giustizia a Roma, presso
Leone il Grande. Il papa, contrario all'idea del vicariato, condannò Ilario
come superbo e colpevole di «inaudite pretese» e lo privò dei diritti che
spettavano ai metropoliti.
La storia del vicariato di Arles non finisce qui. Mezzo secolo dopo Ila-
rio, un tentativo simile al suo sarà fatto da Cesario, vescovo di Arles dal
502. al 543, anche lui ex monaco di Lérins. Questa volta Simmaco, il papa,
è dalla sua parte, gli accorda il privilegio di portare il pallio (primo caso in
Occidente), nel 514 gli conferisce il vicariato. In pratica, però, Cesario ave-
va difficoltà a mantenere il controllo anche all'interno della sua metropoli.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

L'Italia

Passiamo ora alle chiese dell'Italia, lasciando da parte per il momento


Roma: è opportuno prendere in considerazione le chiese italiane come
un tema autonomo, se non altro per capire meglio il funzionamento del
primato del papa, per il quale l'Italia era il primo e più naturale territorio
su cui espandere il suo potere.
Diocleziano creò in Italia due diocesi civili: Italia Suburbicaria e Italia
Annonaria; il confine passava da una parte all'alcra della penisola, grosso
modo all'altezza di Ancona e vicino a Pisa. Per lungo tempo l'organiz-
zazione ecclesiastica seguì questa divisione. L'Italia Suburbicaria (cioè
dal Centro fino al Sud) era sottoposta all'influenza diretta del vescovo di
Roma; l'Italia Annonaria era un territorio in cui i vescovi di varie sedi eser-
citavano la loro influenza a seconda della grandezza e della ricchezza delle
loro città, delle tradizioni locali e delle singole personalità.
All'inizio del IV secolo l'Italia aveva circa 2.5 vescovati. Dieci di essi
erano chiese di piccole e medie città del Lazio. La loro esistenza rispecchia
l'influenza e l'interesse del vescovo di Roma: esse gli servivano per fornire
la cura pastorale nella regione attorno alla capitale. Verso sud, in Campa-
nia, troviamo ere vescovati nelle grandi città: Benevento, Capua e Napoli;
forse ne esistevano anche alcri in piccole località. In Apulia-Calabria c'era-
no due vescovati, in Sicilia uno (Siracusa), in Sardegna uno (Cagliari). An-
dando verso nord il numero dei vescovati diminuiva con il crescere della
distanza da Roma: in Tuscia e in Umbria quattro, nella Aemilia e Picenum
due, al di là del Po due: Milano e Aquileia.
I vescovati dell'Italia Suburbicaria erano da sempre sottoposti al vesco-
vo di Roma. Egli ordinava i vescovi, li convocava per i sinodi, ne controlla-
va il comportamento morale e il modo di amministrare i beni della Chiesa.
Nell'Italia Annonaria la Chiesa principale, per prestigio e ricchezza, era
quella di Milano. La città aveva un ruolo centrale per l'amministrazione
civile e militare, e in cerci periodi fu sede della corte e della famiglia impe-
riale, il che naturalmente accresceva l'importanza dei suoi vescovi. L'apice
della storia ecclesiastica di Milano fu il periodo del vescovato di Ambrogio
(374-397 ), personaggio carismatico, che faceva sentire la sua voce in molte
questioni della Chiesa universale. I suoi successori, persone di non gran-
de rilievo, non furono in grado di mantenere l'altissima posizione che il
vescovato aveva precedentemente acquistato. L'abbandono di Milano da
parte della coree imperiale nel 402. contribuì alla sua lenta decadenza.
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI

L'influenza di Roma al di là del confine dell'Italia Suburbicaria andò


crescendo col tempo, perfino negli anni dell'episcopato di Ambrogio.
Espressione di questa politica furono le decisioni del sinodo convocato a
Roma da Siricio nel 386; esso decretò «che nessuno osi ordinare membri
del clero senza che la Sede apostolica, cioè il primate, sia informata» (ep.
5). È vero che in quel momento ciò era ancora soltanto un programma (a
Milano c'era allora Ambrogio), ma il tempo in cui tutti i vescovati d'Italia
sarebbero stati sottoposti all'autorità di Roma non era molto lontano.
A metà del v secolo la Chiesa di Aquileia, antica e prestigiosa, si liberò
dalla dipendenza da Milano, ottenendo il rango di metropoli. Il territorio
di questa metropoli era immenso, ma poco stabile; comprendeva la Vene-
zia, l'Istria, la Rezia, il Norico, la Pannonia, ed ebbe un'importanza fon-
damentale per la cristianizzazione del mondo dei barbari. Questa Chiesa
influenzava inoltre tutta la parte dell'Italia del Nord che era economica-
mente legata ad Aquileia, da cui partivano i rifornimenti per gli eserciti
del Basso Danubio. Il vescovo di Aquileia godeva del titolo (puramente
onorifico) di patriarca.
Il trasferimento (402.) della corte imperiale da Milano a Ravenna, città
più sicura, perché circondata da paludi, fu seguito da un cambiamento di
fatto - sebbene non di diritto - della posizione della Chiesa ravennate. La
conquista dapprima da parte di Odoacre, e poi da parte di Teoderico, non
nocque a Ravenna, che continuava a essere centro del potere. Insieme con
la fortuna della città crebbe la forza della Chiesa ravennate. Nell'ambiente
intorno al vescovo fu creata una leggenda che faceva dell'unico martire
che la città potesse vantare, cioè di Apollinare, un allievo dell'apostolo
Pietro. Il suo culto acquistò una cornice architettonica degna di un perso-
naggio così illustre. I papi respingevano le aspirazioni dei vescovi ravennati
a un riconoscimento formale della loro autonomia, e disapprovavano le
loro manifestazioni simboliche di indipendenza. Ciononostante nel 546
la Chiesa di Ravenna diventò arcidiocesi.
La Chiesa di Roma è stata frequentemente menzionata in questo capi-
tolo, sempre dal punto di vista dei suoi rapporti con le altre chiese. Abbia-
mo visto come il suo vescovo intervenisse o almeno cercasse di intervenire
nella vita di altre chiese, e come l'efficacia dei suoi interventi variasse di
caso in caso, sebbene il suo primato d'onore fosse riconosciuto universal-
mente nella cristianità post-costantiniana. Fissiamo ora l'attenzione su
questa Chiesa indipendentemente dai suoi rapporti con le altre.
Abbiamo a che fare con la Chiesa di una città strana: di una città che
STORIA DEL CRISTIANESIMO

non svolgeva più le funzioni di capitale dell'Impero (gli imperatori vi si


facevano vedere di rado e per poco tempo), ma aveva un'élite potente e
un popolo in parte mantenuto dalle largizioni degli imperatori e dell'a-
ristocrazia locale - di una città in cui la consapevolezza della sua passata
grandezza, dei suoi meriti passati e dei diritti che ne derivavano era pre-
sente in tutti gli strati sociali. All'inizio del IV secolo, nonostante il suo
declino politico, Roma era ancora fiorente e contava probabilmente quasi
800.000 abitanti.
Per questa Chiesa il regno di Costantino fu una grande svolta. L' impe-
ratore e, seguendo il suo esempio, i suoi successori si impegnarono in un'a-
zione di enorme scala per la costruzione e l'abbellimento di edifici di culto
di vario tipo, dando alla religione che essi appoggiavano visibilità e splen-
dore. L'iniziativa degli imperatori costituì un modello che l'aristocrazia
della città - un gruppo sociale che disponeva di ricchezze inimmaginabili,
accumulate nel corso dei secoli in cui aveva governato l'Impero - comin-
ciò a imitare nei decenni in cui andava cristianizzandosi. Numerosi mem-
bri dell'aristocrazia crearono chiese che, pur riconoscendo l'autorità del
vescovo di Roma, erano autonome: i cosiddetti tituli. Queste chiese erano
per lo più fondazioni private. I loro proprietari fornivano a esse i mezzi fi-
nanziari indispensabili e avevano ampi poteri per ciò che riguardava le no-
mine dei membri del clero. Tale stato di cose durò fino al momento in cui
il papa Damaso (366-384) riuscì a sottomettere al suo potere quelle chiese
e a far sì che i mezzi finanziari che esse gestivano fossero versati nella cassa
comune del vescovato. Costruendo chiese, cappelle, xenodochia, orfano-
trofi, ospedali, le famiglie ricche intendevano lasciare un ricordo della loro
devozione. Analogamente si comportavano quanti tra i papi erano ricchi.
All'inizio del IV secolo, secondo le stime degli studiosi (fondate però
soltanto sulla verosimiglianza), i cristiani a Roma non erano probabilmen-
te più del 10% della popolazione. Nel corso dello stesso secolo la cristia-
nizzazione della popolazione di Roma procedette rapidamente, e al vol-
gere del secolo era molto avanzata. Alla fine del v secolo non c'erano più
gruppi apertamente pagani. Il clero era molto numeroso. Già negli anni
2.51-2.53, come scriveva il vescovo Cornelio a Cipriano, era composto da 46
presbiteri, 7 diaconi, 7 subdiaconi e 98 chierici di grado inferiore. Duecen-
to anni più tardi il servizio religioso nei tituli era svolto da 100 presbiteri,
ai quali bisogna aggiungere i diaconi e i chierici di grado inferiore; il clero
che svolgeva le sue funzioni accanto al vescovo era numeroso e influente.
Le donazioni fatte dagli imperatori e dall'aristocrazia non si limitava-
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 279

no alla costruzione di edifici di culto. La Chiesa di Roma riceveva vaste


distese di terra in Italia (dove, nel VI secolo, il papa era il più grande pro-
prietario terriero) e anche fuori dell'Italia: in Sicilia, Sardegna, Corsica,
Africa del Nord, Dalmazia, Gallia. Nella città stessa le furono donati nu-
merosi immobili. L'enorme corrispondenza di Gregorio Magno (540-604
ca.) ci mostra il funzionamento di un ampio apparato di controllo e di
contabilità, diretto dalla centrale romana e che agisce indipendentemente
dai vescovi e dal loro clero, spesso al di sopra delle loro teste, guida la vita
economica di intere città e sorveglia il clero locale.
Nei durissimi tempi della seconda metà del VI secolo e del VII (guerre
contro i Goti, invasione dei Longobardi, peste del 542 che portò via circa
un terzo della popolazione delle terre colpite), il patrimonio riunito nelle
mani del papa serviva a un'attività caritativa di grandi proporzioni, che
andava ben al di là del compito di dar da mangiare ai poveri di Roma.

Bibliografia ragionata

Le fonti principali per lo studio della struttura e del funzionamento della Chiesa
nel periodo qui trattato sono costituite da un lato dagli atti e dai canoni dei concili,
dall'altro dalle opere dei cosiddetti storici della Chiesa. Per quanto concerne gli atti e
i canoni dei concili, cfr. A. DI BERARDINO (a cura di), I canoni dei concili della chiesa
,zntica, 2 voli., Istituto Patristico Augustinianum, Roma 2006-08, in particolare il voi.
I:/ concili greci, a cura di c. NOCE, c. DELL'osso, D. CECCARELLI MO ROLLI (da que-
sto volume provengono le traduzioni di canoni citati nel presente capitolo), e il voi.
latini. 1. Decretali, concili romani, canoni di Serdica, a cura di T. SARDEL-
II:/ concili

LA, c. DELL'osso; R. PRICE, M. GADDIS (eds.), lhe Acts ojthe Council o/Chalcedon,
voi. I, Liverpool University Press, Liverpool 2005 (gli atti del concilio di Calcedonia
conrengono anche quelli del concilio di Efeso u); c. MUNIER (éd.), Concilia Galliae
314-506, Corpus Christianorum Latinorum 148, Brepols, Turnhout 1963; ID. (éd.),
Concilia Galliae 5u-695, Corpus Christianorum Latinorum 148A, Brepols, Turnhout
1963; ID. (éd.), Concilia Aficae 345-525, Corpus Christianorum Latinorum 149, Bre-
pols, Turnhout 1974; Actes de la Conférence de Carthage en 4u, Sources Chrétiennes
194, 195, 224, 373, introduction générale par S. Lance!, Cerf. Paris 1972; J. s. VIVES,
T. MARiN MARTINEZ, G. MARTiNEZ DiEZ (comp.), Concilios visigoticos e hispano-
romanos, Consejo Superiod de lnvestigaciones Ciendficas-Instituto Enrique Fl6rez,
lhrcelona-Madrid 1963.
Per quanto riguarda le opere degli storici della Chiesa Filostorgio, Sozomeno,
2.80 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Socrate Scolastico, Teodoreto, Zaccaria di Mitilene, Teodoro Anagnostes, Giovanni


di Efeso, Evagrio Scolastico, cfr. le edizioni indicate in M. GEERARD, Clavis Patrum
Graecorum, Brepols, Turnhout 1974-87, svoli., e M. GEERARD, J. NOIRET, Supplemen-
tum, Brepols, Turnhout 1998.
Il migliore e più ampio manuale (comprendente capitoli dettagliati sulle singole
regioni del mondo tardoantico) è oggi la Storia del cristianesimo. Religione-Politica-
Cultura, Boria-Città Nuova, Roma 2.000-03 (primi tre voli.), da consultare insieme
ad A. DI BERARDINO (a cura di), Atlante storico del cristianesimo antico, con la colla-
borazione di G. Pilara, EDB, Bologna 2.010. Sul diritto canonico, specialmente sugli
aspetti giuridico-istituzionali della storia della Chiesa, cfr. J. GAUDEMET, L'Église
dans /'Empire romain (1v-v siècles}, Sirey, Paris 1989'; ID., L'Église et la Cité. Histoire
du droit canonique, Cerf-Montchrestien, Paris 1994 (parte 1). Per le monografie e le
opere collettive scelte, cfr. G. DAGRON, Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-
451), Einaudi, Torino 1991 (ed. or. 1974); J. LEEMANS, P. VAN NUFFELEN et al. (eds.),
Episcopal Elections in Late Antiquity, de Gruyter, Berlin 2.011 (in questa raccolta cfr. in
particolare R. VAN DAM, Bishops and Clerics during the Fourth Century: Numbers and
Iheir Implications [=Van Dam, 2.011], pp. 2.17-42.); R. LIZZI TESTA, Senatori, popolo,
papi. Il governo di Roma al tempo dei Vàlentiniani, Edipuglia, Bari 2.004; A. MARTIN,
Athanase d:Alexandrie et l'Église d'Egypte au IV siede, iFR, Roma 1996; c. PIETRI,
Roma Christiana. Recherches sur l'Église de Rome, son organisation, sa politique, son
idéologie de Mi/tiade a Sixte III (pr-447 ), tFR, Roma 1976; c. RAPP, Holy Bishops:
Ihe Nature oJ Christian Leadership in an Age of Transition, University of California
Press, Berkeley-Los Angeles 2.005; Vescovi e pastori in epoca teodosiana, xxv Incontro
di studiosi dell'antichità cristiana (Roma, 8-11 maggio 1996), voli. 1-11, Istituto Patri-
stico Augustinianum, Roma 1997.
9
Il monachesimo antico
di Fabrizio Vecoli

La difficile ricerca

Qual è la rilevanza del monachesimo nella storia cristiana e culturale del


mondo occidentale cui apparteniamo? Si potrebbe rispondere in molti
modi ma bisogna insistere in particolare sul fatto che, per la prima volta
nel mondo mediterraneo antico, l'uomo religioso si china sulla propria
interiorità sapendola torbida, impura, mossa da pulsioni oscure che ri-
chiedono un'opera di disciplinamento. Si legga la consapevolezza dello
smarrimento prodotto da tale oscura situazione esistenziale di partenza
nel seguente icastico scambio di battute: «Domandarono ad un anziano:
"Perché quando cammino nel deserto ho paura?" "Perché vivi ancora", ri-
spose» (A. Alph. Mosè 11).
La prima analisi psicologica della storia occidentale è compiuta da ere-
miti intenti a mappare il territorio da bonificare, e a comprendere leve e
meccanismi sui quali agire per trasformarsi in creature angeliche. Lo scan-
daglio dell'io rivela un molteplice che disorienta e che s'avverte come di-
spersione, dissipazione e, da ultimo, dannazione. Nel fondo della propria
anima divisa, il monaco si sforza allora di tracciare un nuovo ductus - uni-
co e unificato - teso ad abolire ogni complessità, ogni contraddizione,
ogni spinta centrifuga.
L'opera del monaco - siamo chiari - è un'opera di morte. Ma per chi
crede, è l'unico accesso alla resurrezione, ché questa s'identifica con la per-
fetta semplificazione, la più compiuta riduzione all'uno della coscienza.
Le tecniche di ricostruzione del sé elaborate dal monachesimo sono una
declinazione inedita - eppure destinata a un grande successo - della ten-
sione ricapitolativa tipica della nostra civiltà occidentale.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Un fenomeno religioso

Definizione

Indipendentemente dalla molteplicità delle sue sfaccettature, il monache-


simo cristiano è un fenomeno eminentemente religioso, la cui piena mani-
festazione e diffusione sono da collocarsi all'inizio del IV secolo. La defini-
zione di questa realtà non è agevole, come anche la determinazione delle sue
origini. Se si esclude la sua ricorrenza - considerata non tecnica - nel vange-
lo di Tommaso, il termine monachos appare per la prima volta nel 324 nei pa-
piri egiziani e fa riferimento a una scelta di vita solitaria, non solo nel senso
della rinuncia al matrimonio, ma anche di un vero e proprio allontanamen-
to dal consesso umano. Monachos può essere allora messo in relazione con
il qualificativo monotropos, che bene esprime l'essenza dell'asceta, facendo
riferimento al suo essere uno e unificato: eliminata ogni volontà estranea a
quella divina, umana o diabolica che sia, egli cancella ogni tentazione ( i co-
siddetti "pensieri": i logismoi), ogni dubbio, ogni doppiezza (dipsychia) sì da
conseguire una semplicità interiore (la haplotes) che ricorda quella predicata
nel corpus paolino (cfr. in particolare Ef 6,5; Col 3,22). Si opera perciò una
sistematica purificazione interiore ed esteriore della propria persona, e pro-
prio la rilevanza del concetto di puro evidenzia un legame con l'insistenza·
sulla verginità tipica del cristianesimo antico (in particolare nel de virgini-
tate pseudoclementino). D'altra parte, l'elemento che secondo alcuni più
distingue questa forma di vita da altre tendenze ascetiche già esistenti nelle
chiese primitive sarebbe da ricercarsi nella scelta di distacco o meglio di ri-
tiro (anachoresis) dal mondo e dalle sue dinamiche, e quindi nel continuo
rinnovamento di una condizione di estraniamento (xeniteia) rispetto agli
agi e alle relazioni del consesso sociale. Nell'isolamento il monaco ricerca
una liberazione dalle preoccupazioni terrene (amerimnia), e dunque una
quietudine (hesychia) tale da permettergli una preghiera priva di distrazioni
(aperispastos) e una visione tersa del mondo celeste (dioratikon).

I modelli

I modelli biblici che sin dai primi tempi sono stati oggetto della riflessione
dei monaci risultano particolarmente eloquenti. Le figure profetiche di
Elia, Eliseo e Giovanni Battista hanno rappresentato il paradigma per ec-
cellenza dei nuovi virtuosi della religione. E costituiscono anche, in qual-
IL MONACHESIMO ANTICO

che modo, una chiarificazione quanto agli aspetti del modello eristico su
cui si è inteso insistere. L'esclamazione di Elia «Per la vita del signore, Dio
di Israele, alla cui presenza io sto» (1 Re 17,1), sovente evocata dalle fonti
per descrivere la condizione spirituale del monaco, evidenzia lo scopo ul-
timo della fatica (.ponos) monastica, ossia la sua dimensione contemplati-
va. L'esigenza d'esser puri, concretizzata nell'osservanza di regimi ascetici
variabili, spiega poi il frequente richiamo alla figura di Giovanni Battista,
un riferimento che mette in risalto il tema del deserto. Bene si comprende
allora come il Gesù che ispira il monaco sia quello delle tentazioni nel de-
serto da un lato (Mt 4,1-11), e quello del monte Tabor dall'altro (Mt 17,1-
8 ). Il primo rivela che la vita monastica è una guerra senza quartiere contro
i demòni, mentre il secondo ribadisce che essa è percorso di ascensione al
cielo, vita angelica e vera conoscenza della pienezza divina.

Gli antecedenti

Si è sovente tentato di collegare il monachesimo tardoantico a fenomeni


simili più antichi. Uno di questi, di cui narra Filone d'Alessandria (1 a.C-
I d.C.), è quello dei Terapeuti, una comunità di asceti che rinunciavano
ai propri beni e si riunivano fuori dai centri urbani per praticare un cul-
to "puro" rivolto a Dio. Un altro è quello dei «reclusi» consacrati al dio
Serapide (katochoi), di cui si parla nei papiri menfiti di epoca ellenistica.
Alcuni hanno invece proposto di far risalire l'origine del monachesimo al
ritiro nel deserto di cristiani in fuga dalla persecuzione di Decio (2.49-2.50)
o dal peso di un'imposizione fiscale divenuta intollerabile (questa "diser-
zione fiscale" era per l'appunto indicata con il termine anacoresi). Altri
hanno preferito indicare nei monaci gli eredi dei martiri: il nuovo marti-
rio "bianco" dei continenti avrebbe sostituito l'antico martirio "rosso" dei
perseguitati.
Vi è qualcosa di vero in ciò, per lo meno nell'autocomprensione dei
monaci che assistono alla nuova decisiva fase di rafforzamento e istituzio-
nalizzazione della Chiesa, a partire dal cosiddetto editto di Milano del 313
(cfr. CAP. 7, p. 2.42. ), e intendono conservare la radicalità della scelta di vita
cristiana. Da ultimo, la comprensione del monachesimo come fenomeno
inizialmente urbano, legato alla formazione di gruppi di discepoli riuniti
intorno a maestri di vita esperti e istruiti, ha permesso di rilevare diversi
nessi con il mondo delle scuole filosofiche.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

L'Egitto

leraca e Antonio

La tradizione ha sempre considerato l'Egitto come la culla degli inizi (cfr.


CAP. 8, p. 2.59 ). Ma proprio la molteplicità degli antecedenti e dei modelli
cui è possibile connettere l'avvio del movimento monastico ha indotto gli
studiosi a riconoscerne il carattere plurale quanto a fonti d'ispirazione,
influenze o contesti d'insorgenza. Pare ragionevole presupporre, per tale
complessa realtà, una lunga gestazione connessa alle diverse forme di asce-
si diffusesi nella cristianità; a queste sarebbero stati poi sovrimposti, da
un certo punto in avanti, un nome e un modello agiografico, provenienti
- questi sì - dall'Egitto.
D'altra parte, il problema della definizione degli inizi del monachesi-
mo rimane. Lo dimostra, per l'Egitto, il caso della misteriosa figura di le-
raca di Leontopoli (2.50 ca.-340 ). Questo asceta di severo rigore, che indi-
cava nella continenza l'innovazione fondamentale della nuova economia
di salvezza inaugurata da Gesù, secondo un'idea antica (cfr. CAP. 3, p. w9 ),
s'era posto a capo di una comunità urbana di uomini e donne ossessionati
dall'esigenza della purificazione. Refrattario al controllo istituzionale, il
movimento fu condannato dall'autorità ecclesiastica e ridotto a fenomeno
marginale (è difatti incluso tra le eresie schedate nel Panarion di Epifanio
di Salamina). Eppure, tale esperimento comunitario può esser letto come
una sorta di protomonachesimo urbano che, respinto dall'istituzione, ha
preso la via dell'anacoretismo tradizionale, meno destabilizzante ( in quan-
to non urbano).
Se si esclude il tentativo di Girolamo ( Vita sancti Pauli) di farle risalire
all'evanescente figura di Paolo di Tebe, la cui storicità è dubbia, le origini
del monachesimo in Egitto, anzi, del monachesimo tout court, sono state
sovente individuate nello straordinario successo dell'esperienza di Anto-
nio (2.51-357), considerato dalla tradizione come il padre dell'eremitismo.
Il termine eremitismo (da eremos, 'deserto' in greco) fa riferimento a una
specifica forma di vita monastica praticata nella solitudine di un completo
isolamento nel deserto (nei fatti raramente da intendersi alla lettera, in
quanto difficilmente praticabile).
Nato a metà del III secolo nella campagna egiziana, Antonio è di fa-
miglia cristiana. L'ascolto in chiesa della pericope evangelica del giovane
ricco (Mt 19,16-2.6) lo spinge a una scelta di vita più radicale: lasciare tutto
IL MONACHESIMO ANTICO 2.85

per consacrarsi completamente a Dio. Imparate le tecniche della purifica-


zione fisica e spirituale dagli asceti del tempo, sceglie di operare un distac-
co più netto dal consesso umano (nell'ordine: un fortino abbandonato,
il monte Pispir, il monte Kolzim). Combatte solo le sue battaglie contro
i demòni, finché la sua fama non attira a lui folle di visitatori bramosi di
beneficiare della sua saggezza e della sua potenza taumaturgica.
La Vita scritta poco dopo la sua morte da Atanasio di Alessandria in-
siste particolarmente sulla figura del santo protomonaco come ricapito-
latore delle diverse esperienze ascetiche del tempo, interpretando quindi
il monachesimo come sintesi - che si attua nell'ambito di un'esperienza
rigorosamente individuale - dei frutti migliori del cristianesimo d'allora.
Le Lettere dello stesso Antonio (335-345) offrono invece una testimonian-
za preziosa sulla dimensione comunitaria del primo monachesimo da lui
avviato (gli scritti sono rivolti ai gruppi che lo riconoscono come maestro
autorevole), certo più problematica per l'istituzione ecclesiastica e non a
caso sostanzialmente taciuta nella biografia del vescovo alessandrino. lvi
sono sviluppati i due temi forti della battaglia spirituale contro i demòni
dimoranti nel corpo umano e della gnosi che segue la purificazione, intesa
come una nuova consapevolezza della connaturalità dell'uomo con Dio.
La teologia di Antonio, sia pur volta a preoccupazioni pratiche, perché il
problema è l'ascesi, appare decisamente influenzata dal pensiero di Ori-
gene.

Nitria, Celle, Scete

In quello stesso torno di anni, a sud di Alessandria si formano tre insedia-


menti monastici di crescente notorietà: Nitria, Celle e Scete. Ai primi due
è connesso il personaggio di Ammonio Nitriota, mentre il terzo sarebbe
stato avviato da Macario Egizio (300-390 ca.). Di lui resta oggi una Lettera
aifigli, tutta incentrata sui due obiettivi connessi della purificazione e della
contemplazione («aprire l'occhio del cuore»). Inoltre, si profila già qui la
questione del rapporto tra grazia e libera iniziativa del solitario nello sfor-
zo ascetico che ne determina l'ascensione spirituale: la soluzione consiste
nell'affermare un'alternanza tra le due, in una sorta di avvicendamento
regolato da Dio, ora presente (per sostenere) ora assente (per mettere alla
prova). Il monachesimo che si afferma a Nitria, Celle e Scete ci è noto
attraverso una fonte più tarda (fine V-inizio vr) ma composta sulla base di
2.86 STORIA DEL CRISTIANESIMO

tradizioni orali precedenti: gli Apoftegmi dei Padri, un insieme di raccolte


di detti e facci che descrivono la vita e conservano gli insegnamenti dei
cosiddetti Padri del deserto. Abbiamo qui un monachesimo composto di
gruppuscoli legaci a maestri esperti nelle vie dello spirito: il regime di vita
è fondato sull'avvicendamento tra la solitudine del lavoro settimanale e le
celebrazioni liturgiche del fine settimana comunitario.

Il monachesimo cenobitico

Intanto nell'Alto Egitto si sviluppa una forma di monachesimo differente,


più normato e gerarchico. Si forma qui un secondo paradigma: la koinonia
('comunità'), iniziata da Pacomio (2.92.-346). Il termine indica una fami-
glia monastica che riunisce diversi monasteri ( il termine koinobion, ceno-
bio, significa per l'appunto 'vita comune') all'interno di un unico sistema,
ossia una forma avanzata di organizzazione comunitaria, nata dall'intui-
zione di un fondatore desideroso di allargare il più possibile l'accesso alla
salvezza attraverso la disciplina monastica.
Le principali fonti di riferimento sono le Vite di Pacomio ( in greco, cop-
to, latino, arabo), la Lettera di Ammone, il corpus delle regole, e quello
delle Lettere, Catechesi e altri Insegnamenti di Pacomio stesso e dei suoi
primi successori. Tranne che per le Lettere del fondatore, evidentemente
più antiche (di difficile comprensione però, in quanto redatte facendo uso
di un linguaggio simbolico), le fonti a disposizione risalgono alla seconda
metà del IV secolo.
Pacomio è nato in una famiglia di Sne (Latopoli) devota agli dèi tradi-
zionali. Ha conosciuto il cristianesimo in una caserma di Tebe, durante la
leva obbligatoria avvenuta in occasione del conflitto di Massimino Daia
con Licinio (313). lvi, benefattori cristiani vengono a portare conforto ai
soldati, arruolaci a forza e rinchiusi in attesa della baccaglia. Tornato in
libertà, prima ancora d'aver combattuto, Pacomio si stabilisce nei pressi
di Chenoboscia, riceve il battesimo e si mette alla scuola di un vecchio
asceta, Palamone. Su indicazione di una visione, il giovane monaco si spo-
sta a Tabennisi per fondare una comunità di più ampie proporzioni: la
gratitudine per il sostegno ricevuto durante la prigionia e un voto facto
in quel frangente lo inducono a dedicarsi alla salvezza del prossimo come
contraccambio per la scampata morte in guerra. L'iniziativa è percepita
come una novità cale da suscitare qualche resistenza, ma il successo è incre-
IL MONACHESIMO ANTICO

dibile: nell'arco di pochi anni i monasteri si moltiplicano, unendo quelli


fondati da Pacomio stesso con quelli già esistenti desiderosi di unirsi alla
congregazione. Alla morte del santo, la confederazione è un'entità econo-
mica prospera, composta di nove monasteri maschili (di cui Pbow diviene
il centro) e due femminili ( in uno dei quali entrerà la sorella del fondatore,
Maria). La rapida evoluzione della koinonia provoca un conflitto tra Pa-
comio e alcuni vescovi, in passato monaci sotto la sua direzione: al sinodo
di Latopoli, avvenuto pochi mesi prima della sua morte, il fondatore è ac-
cusato a motivo del dono delle visioni (da lui utilizzato per imporre la sua
autorità sugli altri monaci), in qualche modo equiparato a una forma di
stregoneria. L'evento esemplifica le tensioni createsi nella transizione da
una direzione spirituale carismatica, esercitata su scala ridotta, al governo
di una realtà vasta, articolata e istituzionalizzata come quella cenobitica.
Qui, per la prima volta, i confini della comunità sono delimitati da un
muro esterno, i monaci indossano un abito riconoscibile e le attività sono
organizzate secondo una regola comune.
La redazione delle regole, avvenuta nella seconda metà del IV secolo
e restituitaci in una traduzione latina preparata da Girolamo (a cui si ag-
giungono i Regolamenti in copto), pare proprio rispondere al problema
della gestione dell'autorità nei dettagli della vita quotidiana. Dopo un ten-
tativo di secessione abortito (da parte del monastero di Monchosis) e una
difficile successione (si avvicendano Petronio, Teodoro e Orsiesi) a capo
della koinonia, che evidenzia il problema della trasmissione del carisma del
fondatore, si opta infine per un'organizzazione accuratamente normata
della vita e della gerarchia comunitarie.
Un monachesimo per diversi aspetti prossimo a quello avviato da Pa-
comio è quello ruotante intorno alla figura di Shenute (348-466). Una
Vita attribuita al successore Besa (nella seconda metà del v secolo) ci in-
forma sul personaggio, di cui abbiamo peraltro un ampio corpus di scritti
in copto. I Canoni, recentemente editi, di Shenute costituiscono l'altro
grande corpus normativo del monachesimo egiziano antico. Archiman-
drita del monastero di Atripe (detto monastero Bianco), principale au-
tore della letteratura copta, religioso radicale, santo carismatico, Shenute
fu considerato e chiamato "profeta" in larga parte dell'agiografia copta
successiva. Restaurazione di una severa disciplina monastica e lotta al pa-
ganesimo sono da lui perseguite con ogni mezzo, sino all'utilizzo della
violenza, taumaturgica o fisica che sia. Quello shenutiano è, come quello
pacomiano, un monachesimo rigorosamente cenobitico: il contatto tra i
2.88 STORIA DEL CRISTIANESIMO

due potrebbe essersi verificato nel recupero e adattamento delle regole di


Paco mio da parte di Pk.iol, fondatore del monastero Bianco (di cui She-
nute sarà successore).

Diari di viaggio ed Evagrio

Nell'arco del IV secolo, il monachesimo egiziano, nelle sue varie forme,


conosce un successo crescente, tale da attirare l'attenzione di molti da al-
tre regioni. Lo testimoniano alcuni scritti che si diffondono rapidamente
nell'ecumene cristiana: emblematica la Vita di Antonio, scritta da Atana-
sio di Alessandria, considerata il primo esempio compiuto di agiografia
cristiana. Ma dobbiamo ricordare anche i diversi diari di viaggio, redatti
da pellegrini in cerca di edificazione spirituale presso i padri del deserto
egiziano: l'anonima Storia dei monaci d'Egitto (dopo il 394) e la più tar-
da Storia Lausiaca ( 419-42.0) di Palladio di Elenopoli. La particolarità di
queste opere risiede nella volontà di rappresentare il monachesimo come
fenomeno plurale, non eversivo e anzi perfettamente integrato nella co-
munione ecclesiastica.
Altro insigne viaggiatore che lasciò Costantinopoli alla volta dell' E-
gitto fu Evagrio Pontico (345-399 ). Dapprima collaboratore di Basilio di
Cesarea e di Gregorio di Nazianzo, questo pensatore di rara profondità
speculativa è stato il primo a organizzare in maniera coerente la dottrina
ascetica monastica. Nelle sue opere, fortemente ispirate al pensiero di Ori-
gene, possiamo individuare due grandi temi ricorrenti. Il primo è quello
dell'ascesa del monaco verso la perfezione (si vedano, a tal proposito, il
Pratico, lo Gnostico e i Capitoli Gnostici) lungo un percorso strutturato in
tappe successive: l'acquisizione di una condizione di impassibilità (apa-
theia) dell'anima, sì da poter trionfare sui pensieri maligni in essa insedia-
ti; il conseguimento di una mistica conoscenza della natura (la "fisica") e
del mondo divino (la "teologia"); una capacità di scrutamento e compren-
sione profonda delle Scritture; sino a raggiungere infine una maturazione
spirituale tale da permettere l'esercizio su altri di una forma di direzione
spirituale. Articolazioni della crescita spirituale di questo genere saranno
particolarmente care ai pensatori del monachesimo antico. Il secondo
tema forte dell'opera evagriana è quello della lotta alle tentazioni ispirate
dai demòni (si veda, per esempio, lo scritto Gli otto spiriti della malvagita),
un conflitto che richiede metodo per essere affrontato con successo. Una
IL MONACHESIMO ANTICO

delle strategie indicate, destinata a duraturo successo, consisterà nell'op-


porre a ogni tentazione la meditazione di un passo biblico specificamente
selezionato (su questo, cfr. l 'Antirrhetikos).

Dopo Calcedonia

Il periodo che segue il concilio di Calcedonia (451) vede un'istituziona-


lizzazione progressiva del monachesimo nilotico. Si misura infatti il ten-
tativo, operato dal concilio, di assumere il controllo di tale forma di vita
cristiana, e dunque di imporgli dei limiti, reinserirlo nella gerarchia della
Chiesa. Nei fatti, il monastero diviene anche più di prima un centro vitale
del cristianesimo della regione: integrato nella vita ecclesiastica al punto
da ospitare un vero e proprio clero monastico, esso diviene il cuore pul-
sante della liturgia. È in questi secoli (v-vn) che si diffonde il modello
del vescovo-monaco, figura accentratrice che dirige dal monastero la vita
religiosa degli insediamenti circostanti.
Un'altra questione apertasi all'indomani del concilio è quella della
posizione adottata dal monachesimo rispetto alla dottrina cristologica ivi
affermata come ortodossa. Si crea una spaccatura tra calcedonesi e mono-
fisiti. Dei primi una roccaforte importante fu il monastero della Metanoia
a Canopo (insieme alla regione di Scete), mentre focolare di resistenza
anricalcedonese divenne il monastero dell' Ennaton, ove si distinse la fi-
gura di Longino (si veda la Vita di Longino, seconda metà del VI secolo).
Il monachesimo, con la sua capacità di mobilitazione delle masse, diviene
uno dei grandi protagonisti nei conflitti dottrinali. Questo si rispecchia
peraltro nella letteratura prodotta in questo periodo, dominata dall'esi-
genza di affermare un partito contro l'altro. La questione della verità teo-
logica, che lasciava sostanzialmente indifferenti i primi monaci, più inte-
ressati alle esigenze pratiche dell'ascesi, diviene ora il tema all'ordine del
giorno. Si prenda il caso del Prato Spirituale di Giovanni Mosco (vissuto
a cavallo dei secoli VI-VII). L'autore, proveniente dalla Cilicia e divenuto
inonaco in Palestina, compie due viaggi in Egitto per immergersi nel cro-
giuolo delle sue prestigiose tradizioni monastiche, che intende raccogliere
nella sua opera. Tuttavia, segno dei tempi, il perno su cui si trova a ruotare
gran parte del suo testo è proprio la sistematica apologia del partito calce-
donese. Lo stesso avviene, del resto, nel campo avversario, ove si sviluppa
il genere letterario delle pleroforie, brani agiografici di varia lunghezza, so-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

vente contenuti nelle biografie dei santi, volti ad attestare attraverso il rac-
conto di miracoli dimostrativi la veridicità di un partito teologico, nella
fattispecie quello anticalcedonese (cfr., per esempio, la Vita di Samuele di
Kalamon, santo monaco del VII secolo, o ancora, in ambiente palestinese,
le Pleroforie di Giovanni di Maiuma, scritte nella prima metà del VI). Da
strumento di esemplificazione di dottrine spirituali o condimento esotico
di una letteratura d'intrattenimento, il soprannaturale diviene ora un'ar-
ma controversistica.

L'Asia Minore

Apotattici e ascetismo familiare

Le origini del monachesimo in Anatolia non ci sono note nei dettagli. Al-
cune fonti posteriori alla metà del IV secolo parlano dei cosiddetti apotat-
tici (rinuncianti), un movimento di virtuosi della religione che rifiutavano
il matrimonio e il consumo del vino. Si constata in effetti che, sin dalla pri-
ma diffusione di gruppi di continenti nell'area, la pratica del)' ascesi si con-
cretizza sovente nella creazione di una famiglia alternativa a quella carnale,
formata da persone pure e dedite alle sole esigenze dello spirito. Da questa
prima corrente, che potremmo definire encratita (cfr. CAP. 3, p. 109 ), se
ne distingue una di diverso genere, anch'essa molto diffusa sul territorio
(come risulta anche dai numerosi trattati Sulla verginita circolanti in que-
sto contesto), la quale preconizza la pratica di un ascetismo familiare, cui
dedicarsi entro le mura domestiche.

Eustazio di Sebaste

In realtà le prime notizie attestanti l'esistenza di un movimento ascetico


di ampie proporzioni in Anatolia si rinvengono nei canoni e nella lettera
sinodale del concilio di Gangre (343, ma la datazione è controversa), ove
è pronunciata la condanna di Eustazio, vescovo di Sebaste, e dei suoi di-
scepoli. Secondo alcune ipotesi, il gruppo affonderebbe le sue radici nella
filosofia neoplatonica da un lato, e nell'ambiente dei Figli del Patto siria-
ci (cfr. CAP. 5, p. 167) dall'altro. Lo storico Sozomeno presenta Eustazio
come un abile organizzatore delle diverse esperienze preesistenti in un mo-
vimento dai contorni più nitidi.
IL MONACHESIMO ANTICO

Organizzati in "fraternità" costituenti una Chiesa separata, gli eusta-


ziani si caratterizzano per il particolare "zelo" (in greco spoude) con cui
rinunciano alla ricchezza, alla carne, ai legami familiari e istituzionali. Si
distinguono dalla Chiesa istituzionale quanto ai riti, alle consuetudini,
all'abito. Si mantengono grazie ai doni degli aderenti, e - fatto ricorrente
nei movimenti carismatici - attribuiscono un ruolo rilevante alle donne. Il
comportamento settario e la contestazione delle istituzioni ecclesiastiche
ne fanno un movimento dissidente che ritiene d'essere l'unico a possedere
una « intelligenza perfetta» delle Scritture, e di conseguenza a pratica-
re una retta osservanza dei suoi precetti. D'altra parte, la convinzione del
carattere universale delle esigenze ascetiche imposte dal movimento, rite-
nute valide per tutti i cristiani, ne fa anche un movimento missionario e,
almeno in certa misura, itinerante.

Basilio di Cesarea

Basilio (32.9-378), che fu vescovo di Cesarea di Cappadocia e teologo di-


fensore della dottrina trinitaria (cfr. CAP. 7, p. 2.41 ), rappresentò anche una
figura di primo piano del monachesimo antico. Dopo un viaggio in Siria
ed Egitto, si ritirò a vita ascetica presso una proprietà familiare, nei dintor-
ni di Neocesarea (forse Annisa), ove già da qualche tempo (a partire dal
HI) si erano stabilite con il medesimo proposito la sorella Macrina e la
madre. La casa venne trasformata in un monastero e altri si unirono a que-
sta comunità. Da tradizionale fondatore del monachesimo anatolico, la
critica storica riduce oggi Basilio a suo efficace riorganizzatore, certamente
influenzato dall'asceta di Sebaste (malgrado il fratello Gregorio Nisseno
e l'amico Gregorio Nazianzeno ne abbiano restituito un ritratto rivisitato
in senso ortodosso). Il suo intervento avrebbe mitigato gli eccessi degli
eustaziani, incanalandone lo zelo ascetico in un movimento più conforme
ali' istituzione ecclesiale. Si potrebbe indicare a dimostrazione di ciò la cit-
tà-ospizio (chiamata "basiliade") da lui istituita per servire i più poveri, e
gestita da membri delle sue comunità monastiche con i fondi della Chiesa
di Cesarea. Un evidente discrimine tra Eustazio e Basilio va poi ravvisato
nella diversa posizione assunta da ciascuno dei due nell'ambito delle con-
troversie trinitarie: se il primo aderì al partito degli pneumatomachi (cfr.
CAP. 7, p. 2.43), il secondo contribuì in modo decisivo a formare la teologia
destinata a trionfare. Questo fatto, certo innegabile, ha indubbiamente
STORIA DEL CRISTIANESIMO

influenzato l'interpretazione generale che di queste due figure è stata pro-


posta dalla tradizione.
In tutto ciò, di Basilio resta sicura la capacità organizzativa, come te-
stimoniato dal corpus ascetico che di lui ci è stato trasmesso. Quest'ul-
timo include un insieme di testi riuniti in tre raccolte: il Piccolo Ascetico,
il Grande Ascetico (noto anche con il nome di Regole) e le Regole Morali.
Strutturate in forma di domande e risposte, queste regole sono l'espres-
sione di una comunità monastica articolata in sezioni presumibilmente
autonome, rispettivamente di uomini o di donne, ciascuna diretta da un
preposto, o da una preposta, cui si deve obbedienza assoluta e cui si ma-
nifestano periodicamente i propri pensieri: una pratica invero non nuova
ma qui incardinata in una forma più istituzionale che unisce direzione spi-
rituale e governo comunitario. L'ingresso nella comunità era preceduto
da un noviziato e sancito da voti di castità e di povertà. Si recuperano i
temi del distacco dai legami di sangue e della costituzione di una nuova
famiglia spirituale: l'aspetto comunitario è centrale, come testimoniato
dall'insistenza sul tema dei carismi, la cui varietà- come in Paolo - invita
all'umiltà i singoli membri e rafforza l'unità del gruppo.

I messaliani

Chiamati anche euchiti ('oranti', dal greco), i messaliani (etimologia ana-


loga in siriaco) costituiscono un movimento ascetico rimarchevole ma dai
contorni poco chiari. Sorto in Mesopotamia, forse su iniziativa di un certo
Adelfia, poi diffusosi in Siria e in Asia Minore, questo monachesimo si
sviluppò nella seconda metà del IV secolo ed entrò ben presto in conflitto
con l'istituzione ecclesiastica. La dottrina ruotava intorno alla necessità
della preghiera continua, unico strumento capace di fermare il demone
ereditato da ogni uomo alla nascita, a causa del peccato di Adamo, e che il
battesimo non ha potere di eliminare. L'attività orante permette di conse-
guire un'imperturbabilità del!' anima, requisito indispensabile alla ricezio-
ne dello Spirito. Rifiuto del lavoro (si vive dei doni), itineranza, tensione
ami-istituzionale, e - secondo certe accuse - comportamenti antinomici
(dacché, dopo la purificazione dello Spirito, il monaco non può più esse-
re contaminato dal peccato) sono alcune delle caratteristiche salienti di
questo movimento. La condanna ufficiale fu sancita dal concilio di Efeso
(431), che anatemizzò una serie di sentenze tratte dall'opera - evidente·
IL MONACHESIMO ANTICO 2.93

mente rappresentativa dei messaliani - dello Pseudo-Macario, ossia un


ricco Ascetico in realtà di tendenza piuttosto moderata, forse composto da
un certo Simeone di Mesopotamia tra fine IV-inizio v secolo.

Altri monachesimi dell'area

La tensione antigerarchica, il prestigio carismatico, la necessità di vaca-


re alla preghiera perenne e dunque la rinuncia al lavoro sono alcuni dei
motivi ricorrenti del monachesimo di questa regione. Li ritroviamo nei
primi movimenti ascetici a Costantinopoli, come quello avviato nella pri-
ma metà del IV secolo da Macedonia, considerato l'iniziatore degli pneu-
matomachi, e dal suo successore Maratonio, proveniente dal movimento
eustaziano. Tali caratteristiche riappaiono ancora, almeno in parte, nel
monachesimo degli acemeti, connesso alla figura del fondatore Alessan-
dro ( Vita di Alessandro Acemeta ). La cattiva accoglienza da costui ricevuta
nella capitale lo aveva indotto a ripiegare a Gomon, ove sorse il monastero
detto - per l'appunto - degli acemeti (in greco 'coloro che non dormono',
perché praticano la preghiera perenne, sia pure alternata).
Altro monastero di grande importanza, in quest'area, fu quello di Ru-
finiane (presso Calcedonia), fondato intorno al 400 da lpazio (Callinico,
I'ita d'Jpazio ), i cui insegnamenti evidenziano l'insanabile conflitto tra
vita divina e vita mondana nonché il richiamo all'eredità dei martiri, nel
caso di eventuali persecuzioni. Sempre in questo contesto, si deve anche
menzionare la figura di Nilo di Ancira ( t 430 ca.), le cui opere ascetiche
dimostrano la raffinatezza cui si è giunti in materia di pedagogia spirituale,
ove il discernimento si trasforma in una vera e propria tecnica (da cui si
cerca di evacuare la dimensione soprannaturale) di scrutamento psicolo-
gico.

La Palestina e il Sinai

Il monachesimo dei luoghi santi

La presenza dei luoghi santi in Palestina ha favorito lo sviluppo di un mo-


nachesimo cosmopolita, in larga parte formato da asceti giunti come viag-
giatori attratti dalla speciale rilevanza di Gerusalemme nella geografia sa-
cra cristiana. L' ltinerarium Egeriae, il diario di Egeria, matrona latina che
2.94 STORIA DEL CRISTIANESIMO

intraprese un viaggio in Terrasanta intorno al 381, attesta un legame forte,


in questa regione, tra la pratica dei pellegrinaggi e la formazione di gruppi
di devoti che attendevano alle liturgie dei santuari, gestivano fondazioni
volte al soccorso dei pellegrini e dei poveri, ed erano mantenuti dall'istitu-
zione ecclesiastica. Passarione ( t 42.8) fu un fondatore e un rappresentante
di spicco di questo tipo di monachesimo.
La rilevanza della devozione dei pellegrini nelle fondazioni monastiche
dei luoghi santi emerge particolarmente nelle due colonie ascetiche ivi av-
viate da membri dell'aristocrazia latina: la prima sorta sul monte degli Uli-
vi (Gerusalemme) su iniziativa di Melania Seniore dopo il 373, con l'aiuto
di Rufino di Aquileia; la seconda fondata a Betlemme su iniziativa di Pa-
ola (386), nobile romana accompagnata dal maestro spirituale Girolamo.
Un'ulteriore fondazione, sul monte degli Ulivi, si ebbe nel V secolo con
l'arrivo di Melania Iuniore (di cui abbiamo la Vita, scritta dal discepolo
Geronzio), nipote della Seniore.
Con il tempo, i monasteri sorgono numerosi: Giustiniano ne fa restau-
rare ben otto, tra cui merita menzionare quello chiamato quello "degli
Iberi" a Betlemme, fondato intorno a metà del v secolo dal principe ge-
orgiano Nabarnugi, noto come Pietro Iberico, poi vescovo monofisita di
Maiuma.

Il deserto di Giuda

La tradizione (nella fattispecie l'anonima Vita di Caritone, seconda metà


del VI secolo) attribuisce a Caritone (111-Iv secolo) l'avvio di un nuovo
genere di monachesimo: la laura. Il termine indica in greco una via stret-
ta, una gola di monti, e si riferisce probabilmente alle peculiarità topogra-
fiche dei luoghi ove sono sorte le prime fondazioni: Faran, Duka, Suka.
Siamo nel cosiddetto deserto di Giuda, una regione di colli rocciosi com-
presa tra Gerusalemme e il mar Morto. L'insediamento lauritico, diretto
da un igumeno ('guida' in greco), è costituito da un insieme sparso di
celle isolate ma non troppo distanti da un nucleo centrale, dove si trovano
gli edifici comuni (chiesa, infermeria, refettorio ... ) e ci si riunisce nel fine
settimana per le celebrazioni liturgiche. Si tratta di una comunità d'élite,
che sovente intrattiene una relazione di simbiosi con altri conventi orga-
nizzati in forma cenobitica e costituenti una prima tappa nella formazio-
ne del monaco.
IL MONACHESIMO ANTICO 2.95

Cirillo di Scitopoli, attivo intorno alla metà del VI secolo, nelle sue Vite
di monaci narra le imprese di questo monachesimo e dei suoi più insi-
gni rappresentanti, tra cui: Eutimio (377-473), difensore dell'ortodossia
calcedonese, padre spirituale, promotore dell'ideale es icastico (dal gre-
co hesychia, la quietudine spirituale derivante da una vita di isolamento
e contemplazione: si ricordano le sue quaresime di preghiera, trascorse
in isolamento dalla comunità); e Saba (439-532.), fondatore e federatore
di monasteri (tra cui la Grande Laura, intorno al 483). A lui è attribuito
un vero e proprio carisma di fondazione, che si manifesta in visioni atte a
determinare l'ubicazione precisa dei nuovi centri e in una straordinaria
capacità a governarli efficacemente. La tradizione lo indica anche come
autore di regole (Paradoseis). La tipologia lauritica si ripercuote anche sul
genere di direzione spirituale praticata nella comunità, una sorta di pri-
mazia (,prostasia) al confine tra carismatico e istituzionale. I disordini sor-
ti sull'onda delle controversie dottrinali (le questioni del monofisismo e
dell 'origenismo ), uniti alla volontà di controllo del monachesimo espressa
dal concilio di Calcedonia, hanno condotto all'istituzione di due autorità
coordinatrici del monachesimo della regione: un archimandrita dei ceno-
bi e uno delle laure.

La regione di Gaza

Secondo la tradizione, l'inizio del monachesimo nella regione di Gaza sa-


rebbe da attribuire alla figura di Ilarione, protagonista di una Vita scritta
da Girolamo. Sulla storicità di questo personaggio sono stati espressi dub-
bi, ma recenti scavi archeologici confermano l'esistenza di un monastero
nei pressi del villaggio di Thavatha prima del 330. Da segnalare nell'area
- tra gli altri - è anche la comunità di Isaia (v secolo), monaco di tendenze
monofisite formatosi a Scete e autore di un Ascetico. La via monastica vi è
presentata come il recupero della vera natura dell'uomo e - in prospettiva
più eristica - come una «salita sulla croce». L'importanza del concetto
di apsephiston (la rinuncia a misurarsi rispetto agli altri) e della rinuncia a
ogni confronto potenzialmente conflittuale con gli altri monaci mostra la
centralità della dimensione fraterna.
Faro spirituale del monachesimo di area palestinese fu il monastero di
Seridos, dal nome del suo fondatore e primo igumeno nel VI secolo. Sorta
nella stessa Thavatha ove era stato attivo Ilarione, questa comunità ospita-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

va due reclusi di grande fama: Barsanufio (t 540 ca.) e Giovanni (t 543).


Il primo, monaco copto, comunicava con l'esterno tramite il superiore
Seridos, che si era posto sotto la sua direzione spirituale insieme a tutta
la fraternità monastica ivi insediata. Giovanni, il secondo anziano, era il
discepolo prediletto di Barsanufio. Dei due è rimasto un epistolario in gre-
co di circa 850 lettere, composto dalle domande dei monaci su questioni
di ascesi o di spiritualità e dalle risposte dei due anziani. I temi sviluppa-
ti nelle Lettere sono molteplici, ma dobbiamo in primo luogo ricordare
l'insistenza sul fondamento delle sacre Scritture: queste, se correttamente
interpretate e adattate, possono - in ogni situazione - offrire una via a chi
si è perso. Alla regola fissa si contrappone qui il modello idioritmico, per
cui ognuno deve perseguire la perfezione spirituale secondo un proprio
specifico cammino, certo sempre sotto la guida del maestro. Un'esigenza
costantemente riaffermata è quella dell'equanimità nei confronti di ciò
che si ha da subire lungo il percorso ascetico, sì da poter considerare con il
medesimo equilibrio - ormai morti al mondo - gloria e umiliazione. Ciò
richiede una particolare virtù di sopportazione (hypomone): la stabilità
interiore è quindi oggetto di una vigilanza continua (nepsis), impossibile
senza uno speciale dono di discernimento (diakrisis), che scevera le buo-
ne ispirazioni dalle suggestioni dei demòni. L'insegnamento contenuto
in questi testi costituisce forse la più ricca testimonianza della pratica di
direzione spirituale nell'antichità monastica.

Il Sinai

Poco sappiamo del monachesimo di quest'area prima dell'epoca di Giu-


stiniano (482.-565). Vi si svilupparono alcuni grandi centri monastici, tra
cui Faran, i monasteri del monte Sinai e del Roveto ardente (poi Santa
Caterina), e Raithou. Quest'ultimo è legato alla figura - peraltro miste-
riosa - di Giovanni Climaco ( t 670 ca.), autore di un classico della spiri-
tualità orientale: la Scala del Paradiso, ampio trattato ascetico articolato
in trenta gradini, per altrettante tappe nell'ascensione verso la perfezione
spirituale. I gradini riprendono certo l'immagine biblica della scala di Gia-
cobbe e quella degli anni del Cristo, ma richiamano anche le ripide scale
scavate nella roccia che collegavano i diversi romitori. Salire è fatica fisica
come spirituale. Spiccano la nozione di pentimento/penitenza (penthos),
definita come la «tristezza che dona gioia», e il tema delle lacrime che
IL MONACHESIMO ANTICO 2.97

irrorano l'ascesa spirituale. Il monachesimo assume qui tinte fortemente


penitenziali: celebre è la descrizione del monastero separato dei penitenti,
chiamato la "Prigione", luogo di inarrestabile pianto.

La Siria

I Figli del Patto

Una prima considerazione che deve essere fatta, quanto al monachesimo


siriaco, riguarda l'evidente estraneità delle sue origini rispetto all' influen-
za egiziana. Quest'ultima si paleserà certo più avanti, intorno al v secolo,
ma è assente dal processo di formazione, in questa regione, di fenomeni
ascetici sufficientemente elaborati da poter essere inquadrati nella catego-
ria di monachesimo. Che vi sia una peculiare tendenza ascetica, per non
dire encratita, del cristianesimo siriaco sin dalle sue origini è cosa nota (si
pensi solo all'opera di Taziano o agli Atti di Tommaso), ma l'istituzione
che presenta maggiori analogie con il movimento monastico - e in cui
questo affonda le sue radici - è la comunità dei cosiddetti Figli e delle
Figlie del Patto, raggruppamenti di continenti diffusi in Siria, Mesopo-
tamia e Persia. Il patto in questione, qydmd in siriaco, fa riferimento alla
vigilanza richiesta nel!' attesa della parousia del Cristo. Vi è quindi una
sensibile tensione escatologica a monte di una prassi ascetica che si ispira
al concetto di cittadinanza angelica (Le 2.0,35-36). Con il termine i/Jiddyd
('solitario') viene designato il fedele che accetta il patto: la parola assom-
ma in sé l'idea di distacco del monachos greco, ma anche quella dell'unità,
dell'essere "uno in sé", riconducibile al concetto di monotropia.
L'istituzione del Patto sottolinea la tendenza del cristianesimo siriaco
a dividere i credenti in due categorie, ossia i fedeli comuni e i perfetti. Tale
dicotomia ecclesiale riappare nel Liber graduum, testo di grande rilevanza
per l'Oriente cristiano: di difficile datazione (forse fine IV secolo) e proba-
bilmente redatta in ambiente mesopotamico, l'opera è suddivisa in trenta
trattati che esaminano varie questioni legate alla vita spirituale del cristia-
no. La dottrina sviluppata dal testo si fonda sulla presentazione di due
possibili osservanze per il battezzato: quella del giusto, che corrisponde
all'Adamo posdapsario, legato al peccato e alla procreazione, e quella del
perfetto, che corrisponde all'Adamo prelapsario, restaurato dal Cristo. In
breve, si auspica un ritorno alla purezza/purità delle origini. Non fosse che
STORIA DEL CRISTIANESIMO

l'autore insiste sull'importanza della Chiesa "visibile" (cioè istituzionale),


l'affermazione di una presenza demoniaca ali' interno del giusto, non com-
pletamente cancellata dall'intervento dello Spirito, potrebbe far pensare a
un contatto con il mondo messaliano.

L'esplosione monastica

Il passaggio dall'ascetismo dei Figli del Patto al monachesimo vero e pro-


prio appare segnato da alcuni mutamenti significativi: il trasferimento
dall'area urbana alle regioni desertiche, l'accezione più propriamente mo-
nastica del termine il?iddyd, la tensione con l'istituzione ecclesiastica. Si
assiste inoltre a una teorizzazione dell'ascensione spirituale intesa come
percorso a tappe: sarà Giovanni il Solitario (v secolo), nel suo Dialogo
sull'anima e le passioni degli uomini, a far corrispondere tali gradini - con
annessi i diversi ordini di rinunce e di pratiche ascetiche - alle tre com-
ponenti della persona umana: somatica, psichica, spirituale (tripartizione
che si ritrova in Paolo, r Ts s,2.3, e in sistemi sia gnostici sia ortodossi, con
diverse accezioni).
Una specificità, destinata a divenire celebre, del monachesimo siriaco
è il suo carattere estremo. A tal proposito, non si può non menzionare la
ricca testimonianza fornita dalla Storia Filotea (444 ca.) di Teodoreto di
Cirro. In essa, lo storiografo presenta la biografia e il ritratto dei grandi
protagonisti del monachesimo di Siria, che egli significativamente chia-
ma « atleti della virtù». Nel farlo, insiste particolarmente sul carattere
eccezionale delle loro prodezze ascetiche, nonché sulla varietà dei regi-
mi di vita adottati: ipetrismo (vivere all'aria aperta), dendritismo (vivere
dentro le cavità degli alberi), stilitismo (vivere sopra una colonna, stile di
ascesi iniziato dal celeberrimo Simeone lo Stilita, 390 ca.-459 ), clausura e
così via. Alcuni si spingono sino a procurarsi delle ferite cui impediscono
di rimarginarsi, sì da ricordare simbolicamente la ferita di un cuore pun-
to dall'amore di Dio. Una simile rappresentazione evidenzia il carattere
penitenziale del movimento, che si caratterizza inoltre per una concezio-
ne sovente negativa del lavoro, interpretato come effetto della punizione
di Adamo. Tale posizione è parsa a diversi studiosi un segno di vicinanza
alle correnti messaliane, peraltro diffusissime in Siria e nel territorio sa-
sanide. Si definisce un paradigma: nella scelta di un'ascesi eccezionale, il
solitario si distingue per la sua pietà al punto da esser riconosciuto deten-
IL MONACHESIMO ANTICO 299

core di doni soprannaturali; allora raccoglie discepoli e diviene una figura


carismatica di primo piano: un riferimento per il popolo (nei casi di giu-
stizia sociale), per i vescovi (nell'affermazione dell'ortodossia) e per i de-
voti (come meta di pellegrinaggi). In certi casi, come quello di Giuliano
Saba ( t 377 ), il santo è anche fondatore di monasteri. Se l'anacoretismo
rimane la forma più rappresentata alle origini, il cenobio e la !aura si dif-
fondono ben presto anche in questa regione, come testimoniato da una
fonte più tarda, la Vita dei santi orientali di Giovanni di Efeso ( t 589 ).
L'autore, un monofisita, insiste meno sulle prodezze ascetiche dei monaci
che sul ruolo sociale e politico del santo, divenuto ora anche un campio-
ne dell'ortodossia.
Merita ancora ricordare la leggendaria figura di Mar Eugenio (Iv se-
colo?), maestro di numerosissimi discepoli e fondatore di monasteri in
Persia (sicuramente uno sul monte Izla). È presentato dalle fonti come
discepolo di Pacomio, dato certamente da ridimensionare ma che indica
forse la volontà degli agiografi del VI secolo di riformare, a partire da un
modello antico quanto prestigioso, il monachesimo mesopotamico. Que-
sti, rappresentato in origine come insieme di gruppi itineranti non colle-
gati a fondazioni stabili ma a figure carismatiche, avrebbe provocato nella
Chiesa istituzionale una volontà di disciplinamento destinata a perdurare
nei secoli. Le difficoltà nei rapporti tra monachesimo e istituzione eccle-
siastica sono superate dall'opera riformatrice di Abramo di Kashkar, che
dopo un viaggio a Scete e degli studi a Nisibi si stabilisce sul monte Izla,
fondandovi un monastero, intorno al s70. La natura del movimento avvia-
to da Abramo traspare in particolare nelle regole a lui attribuite: tornando
alle radici egiziane s'intende rivalorizzare il ruolo del lavoro, un fatto nuo-
vo destinato ad allentare le tensioni con l'autorità episcopale, sotto la cui
guida è peraltro posta la comunità.

Regole e riflessione monastica

L'area siriaca ha prodotto testi canonici di grande importanza, partico-


larmente utili a comprenderne l'assetto istituzionale. Vi sono i cosiddet-
ti Canoni di Efrem, in realtà posteriori al tempo del noto innografo, una
raccolta che presenta alcuni aspetti tipici della letteratura sapienziale e
sviluppa temi classici della riflessione monastica (obbedienza, persistenza
nella preghiera, retta pratica ascetica). Probabilmente autentici sono poi
300 STORIA DEL CRISTIANESIMO

i Canoni di Rabbuia (t 436), che presentano un monachesimo conforme


all'impostazione desiderata dall'episcopato. Ricordiamo ancora le rego-
le attribuite a Filosseno e altre che vanno sotto il nome di Giovanni Bar
Qursos (t 538).
Ulteriore caratteristica del monachesimo di questa regione è l'effer-
vescenza della sua attività intellettuale e della sua riflessione ascetica. Per
la prima si pensi al monastero di Qenndre, centro culturale di grande
importanza, in particolare per le traduzioni dal greco al siriaco. Quanto
alla teoria monastica, l'influenza dell'opera evagriana si rinviene nelle
speculazioni di due grandi pensatori della Siria-Mesopotamia: Filosseno
di Mabbug (t 526, ca.) e Isacco di Ninive (v11 secolo). Il già menzionato
gusto per la precisa e ordinata ripartizione del percorso spirituale ritor-
na nell'opera di Filosseno (si vedano i Sermoni e la Lettera a Patrizio),
insieme alla divisione dei credenti in "giusti" e "perfetti" vista nel Liber
graduum.

L'Occidente latino

L'ascetismo premonastico

Nell'Occidente latino il monachesimo in senso stretto si manifesta come


fenomeno importato dall'Oriente, nel senso che di lì provengono i model-
li fondanti della nuova autocoscienza monastica. Certo, già in precedenza
esisteva in questa parte dell'ecumene cristiana una vita ascetica Rorida, im-
perniata sulla continenza, la povertà e il servizio ai bisognosi; ma questa
si svolgeva perlopiù all'interno del contesto sociale di appartenenza. In
molti casi, le testimonianze che ci sono state trasmesse - si veda la lettera
22 a Eustochio di Girolamo - parlano di un ascetismo al femminile, cui
sono connesse le origini del monachesimo latino in Terrasanta, peraltro
di antica tradizione e sovente rappresentato da personaggi legati ali' aristo-
crazia di Roma. Questa forma di ascetismo era riconosciuta e inquadrata
ali' interno dell'istituzione ecclesiastica, come confermato dalla decretale
ad Gallos attribuita al vescovo di Roma Damaso (366-384). Indipendente-
mente da ciò, qui come in Oriente si era anche diffusa, nonostante ripetu-
te condanne, una particolare forma di convivenza che vedeva una vergine
associata a un uomo continente: si tratta delle agapete ('predilette') tanto
criticate da Girolamo (ad Eustoch., 14).
IL MONACHESIMO ANTICO 301

L'Oriente in Occidente

Il ruolo dell'Oriente nella formazione del monachesimo occidentale


emerge in particolare nella diffusione di traduzioni di testi provenienti dal
milieu egiziano (e cappadoce) e nel continuo riferimento a quella tradi-
zione quale prototipo insuperabile di perfezione ascetica. Basti menzio-
nare qualche esempio tra i più celebri: la Vita di Antonio, di cui si hanno
due traduzioni latine nell'arco di un ventennio (nel 357-358 e nel 374); le
regole basiliane e la Historia monachorum, libera traduzione della Storia
dei monaci d'Egitto, di Rufino di Aquileia ( t 411 ); il corpus delle regole di
Pacomio, tradotto da Girolamo nel 404.
Anche la traduzione delle opere di Origene si colloca ali' interno di que-
sto progetto di trasferimento della spiritualità e sapienza dell'Oriente in
Occidente: l'Alessandrino, infatti, in maniera diretta o indiretta, era stato il
nutrimento del monachesimo egiziano. Protagonisti di questa impresa sono
ancora una volta Girolamo e Rufino. Grazie alla loro iniziativa molti scritti
dell'Alessandrino, perduti nell'originale, anche a causa delle condanne postu-
me, si sono conservati in latino. Le opere di Origene non erano sconosciute
in Occidente, ma chi sapeva il greco (Ilario di Poitiers, Ambrogio di Milano e
forse, nel III secolo, Novaziano a Roma) se ne serviva direttamente nella com-
posizione dei propri scritti. Il vero e proprio lavoro di traduzione era iniziato
con Ilario e soprattutto con Girolamo, che aveva tradotto gruppi di omelie di
Origene, già prima di stabilirsi a Betlemme. Nel 393, però, si riaccende in Pa-
lestina l 'antiorigenismo, che dall'inizio del IV secolo, a varie riprese, circolava
sotto forma di critica ad alcune dottrine di Origene (sulla resurrezione, sulla
preesistenza delle anime). Dapprima W1 monaco, Atarbio, arriva nei monaste-
ri palestinesi e poi il "cacciatore di eretici" Epifanio vescovo di Salamina, con-
vinto, fra l'altro, che Origene avesse ispirato Ario, si reca da Giovanni vescovo
di Gerusalemme, entrambi volendo imporre la condanna degli errori orige-
niani. Girolamo, forse per paura che venisse messa in dubbio la sua ortodossia,
accetta, Rufino no. I rapporti fra i due latini, un tempo amici, si avvelenano.
Dopo un'illusoria conciliazione, propiziata dal vescovo Teofilo di Alessan-
dria, che in seguito abbraccerà, per convenienza, l 'antiorigenismo (cfr. CAP. 8,
p. 259 ), Rufino torna in Occidente e a Roma inizia anche lui a tradurre Orige-
ne, a partire dalla fondamentale e controversa opera Sui principi. Questo fatto
segnerà la ripresa delle ostilità con Girolamo, il quale ritradurrà a sua volta la
stessa opera per mostrare gli errori di Origene e le manipolazioni di Rufino
per nasconderli (la traduzione geronimiana è perduta, tranne frammenti) ma
302 STORIA DEL CRISTIANESIMO

consentirà anche l'incremento della conoscenza dell'Alessandrino nel mondo


occidentale, in quanto Rufino continuerà a tradurre Origene fino alla morte.
Tornando alle regole, il successo del paradigma egiziano ha inoltre in-
fluenzato il concepimento di testi normativi come laRegula quattuor Patrum
(inizi v secolo: si tratta di quattro padri egiziani, naturalmente) o di opere
come quella di Giovanni Cassiano (360 ca.-430 ca.). Non si sa molto della
vita di questo monaco di origine orientale, che lascia ai posteri il de institutis
coenobiorum (425) e i tre libri delle Collationes (426-428). L'opera, nel suo
insieme, costituisce il risultato di un enorme sforzo di reinterpretazione e
adattamento al contesto gallico, marsigliese per la precisione, dell'insegna-
mento dei maestri egiziani, personalmente incontrati dall'autore. Questi
due scritti rappresentano la trattazione più estesa delle questioni monastiche
nell'ambito dell'Occidente latino tardoantico. Il de institutis si concentra
sull'abito monastico, sulla liturgia e sulla lotta agli otto vizi: si avverte qui,
come in altre questioni, l'influenza di Evagrio Pontico. Quest'ultimo tema è
poi ripreso nelle Collationes, che si distinguono per la finezza e la profondità
dell'analisi psicologica e spirituale: ben lo si vede nella disamina delle diver-
se distrazioni che ostacolano la preghiera del monaco e nell'incitamento a
mantenere quest'ultima pura da ogni forma di antropomorfismo. Spicca poi,
essenziale nella teoria monastica occidentale, la riflessione sul rapporto tra
la grazia divina e l'arbitrio umano, quest'ultimo inevitabilmente connesso
allo sforzo ascetico. La questione riaffiora in diversi altri ambiti, quali la di-
scussione sui carismi o l'approfondimento di questioni ascetiche di detta-
glio come quella delle polluzioni notturne. In questa materia, le posizioni
mediane di Cassiano lo etichettarono come semipelagiano nell'ambito del-
le controversie sulla grazia che videro scontrarsi la teologia di Agostino e la
dottrina ascetica del monaco bretone Pelagio (350-420 ). In verità, il pensiero
di quest'ultimo era stato respinto dall'abate marsigliese. Infatti, laddove Pe-
lagio negava l'ereditarietà del peccato di Adamo e sosteneva la possibilità di
una santificazione operata con le proprie forze morali, in vista del consegui-
mento di uno stato di impeccantia, Cassiano riconosceva invece la necessità
della grazia nella santificazione del monaco e indicava nella presunzione di
poter esser senza peccato una grave deficienza nel discernimento. Giovan-
ni Cassiano è stato spesso indicato come il teorico dell'equilibrio nella vita
monastica, in particolare a ragione della sua disamina sul dono del discerni-
mento, inteso come via mediana tra gli eccessi, ma occorre anche rilevare che
le sue posizioni in materia di vita coniugale non hanno nulla da invidiare,
quanto a radicalità, a quelle dei dualismi orientali.
IL MONACHESIMO ANTICO

Un monachesimo episcopale

Nonostante l'incidenza del modello orientale, appare evidente che il


monachesimo latino presenta sin dall'inizio una propria fisionomia. Un
aspetto che è stato più volte rilevato dagli studiosi è quello del suo legame
con l'istituzione ecclesiastica, anzi, per essere più precisi, con l'episcopa-
to. Diverse comunità monastiche occidentali erano difatti riunite sotto
l'autorità di un vescovo o erano destinate a divenire fucina di vescovi. Le
tracce più antiche di questo fenomeno risalgono all'esperienza di Eusebio
vescovo di Vercelli ( t 370 ca.), che si era adoperato per conformare alla
«vita degli angeli» la comunità dei chierici del suo presbyterium: castità,
ascesi, lavoro, preghiera caratterizzavano la vita di questo gruppo di mona-
ci urbani, che dimoravano probabilmente nei pressi della domus ecclesiae.
In quegli stessi anni, Martino decideva di ritirarsi a vita monastica dopo
una lunga carriera militare: trascorse un primo periodo di eremitaggio a
Milano; prese poi dimora sull'isola di Gallinara, avviando una lunga tradi-
zione di monachesimo insulare; raggiunse infine il maestro Ilario, vescovo
di Poitiers, e fondò un monastero a Ligugé nel 360. Martino divenne a sua
volta vescovo di Tours nel 371 e, desideroso di tener vivo l'ideale monasti-
co pur tra gli impegni del nuovo ministero, fondò lì vicino il monastero di
Marmoutier. Dalle descrizioni di Sulpicio Severo, suo biografo ( Vita sancti
Martini), si profila una comunità di tipo semi-anacoretico strettamente
legata al carisma del fondatore e destinata difatti a disgregarsi poco dopo
la sua morte nel 397: né regola né lavoro manuale, si tratta qui di un rag-
gruppamento di aristocratici (honorati) convertiti ali' ascesi.
Sempre nell'ambito di questo monachesimo episcopale e aristocratico
sono da segnalare il monastero fondato da Germano (380-448), vescovo di
Auxerre (Costanzo di Lione, Vita sancti Germani) e il monastero di Aqui-
leia, ove dimorano i chierici del vescovo Valeriano. Si deve aggiungere la
comunità semi-anacoretica fondata da Paolino, più cardi vescovo di Nola,
in Campania. Discendente da famiglia di rango senatoriale di Aquitania e
avviato a una promettente carriera politica, Paolino sposa una ricca cristia-
na e, dopo aver perso il figlio a otto giorni dalla nascita, decide (nel 394) di
ritirarsi a vita monastica con la moglie, nei pressi della tomba del martire
Felice a Nola. Qui fonda due cenobi, uno maschile e uno femminile.
La tipologia della comunità monastica riunita intorno a un membro
del clero, in molti casi destinato all'episcopato, si diffonde anche all'Africa
Latina, come testimoniato dalla comunità d'Ippona, diretta da Agostino.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Di ritorno da Milano, egli aveva riunito un gruppo di asceti a Tagaste per


poi fondare un monastero a lppona (ivi trasferitosi dopo esser stato ordi-
nato presbitero). Infine, nominato vescovo nel 395, radunò nell'episcopio
quelli che desideravano praticare il suo genere di vita. Di lui conserviamo
una regola (Regula ad servos Dei, oggi considerata autentica), probabil-
mente la più antica regola monastica d'Occidente, scritta intorno al 400:
è costituita da un breve cesto (Praeceptum) ove s'insiste sulla necessità del-
la severità nella direzione dei monaci (non v'è da chiedere perdono per gli
eccessi in tal senso, è detto) e - facto alquanto significativo - viene posto
a più riprese il problema della convivenza di fratelli di diversa provenienza
sociale. Più cardi al Praeceptum viene aggiunto l'Orda monasterii, che for-
nisce dettagli quanto alle attività quotidiane della comunità.
Sul versante delle fondazioni monastiche destinate a intrattenere un
legame forte e stabile con l'istituzione episcopale si deve ricordare Leri-
no (Lérins). All'inizio del v secolo, su questa piccola isola della costa pro-
venzale prende dimora Onorato, indicato dalla tradizione (Ilario di Arles,
Vita sancti Honorati) come il fondatore del monastero. In pochi anni di vita
semi-anacoretica si forma un gruppo numeroso di discepoli, cale da rendere
necessaria la costruzione di un convento con annessa una chiesa. Onora-
to è prima ordinato presbitero e, due anni prima della morte, consacrato
vescovo, nel 428. La comunità - di tipo cenobitico, ma che include anche
delle celle isolate - è incentrata sul lavoro ed è strettamente dipendente
dall'autorità dell'abate. Lerino cresce rapidamente, moltiplicando le filiali e
il numero dei monaci. A questo luogo sono legate numerose figure di primo
piano del cristianesimo latino, capaci di coniugare armoniosamente la vita
monastica, la redazione di opere ascetiche e teologiche e l'esercizio dell 'epi-
scopato: Massimo di Riez ( t 455 ca.), Fausto di Riez ( t 495 ca.), Eucherio di
Lione ( t 449 ca.), Ilario di Arles ( t 449 ), Cesario di Arles ( t 542).

La diffusione del monachesimo in Occidente

Una volta impiantato in Italia e in Gallia, il monachesimo si diffonde ra-


pidamente in tutta l'area nordeuropea. Nel Giura francese sono attivi dei
monasteri connessi alla figura di Romano, che s'insedia nella regione in-
torno al 430, secondo le Vitae patrum lurensium. Sempre nel v secolo,
il monachesimo si diffonde in Bretagna, Scozia e Irlanda, aree in cui si
percepisce l'influenza di Martino e del cenobio leriniano, nonché - più
IL MONACHESIMO ANTICO

avanti - quella romana, con l'invio, da parte di Gregorio Magno, di qua-


ranta monaci missionari nel 596.
D'altra parte, si avrà anche un'influenza di ritorno del monachesimo
irlandese sull'Europa continentale, in particolare con la figura di Colom-
bano (540-615). Un'ascesi particolarmente severa (donde l'evocazione di
un martirio verde o glasmartre) e una peregrinatio (Io spaesamento asceti-
co praticato attraverso l 'itineranza) vissuta in maniera radicale sono le ca-
ratteristiche di un monachesimo destinato a diffondersi con successo nelle
regioni corrispondenti alle odierne Francia, Germania, Svizzera, Austria e
Italia settentrionale (l'Abbazia di Bobbio). A Colombano sono attribuiti
due testi normativi, volti a organizzare e normare i monasteri impiantati
nel corso delle sue peregrinazioni: una severa Regula monachorum e una
Regula cenobialis, contenente le pene previste per le mancanze dei monaci.
L'idea di un elenco di penitenze corrispondenti ai peccati commessi si ri-
trova, questa volta a beneficio dei laici, nel suo Paenitentiale.
Il monachesimo fatica a impiantarsi in Spagna, nonostante il tradizio-
nale rigorismo della regione. La causa di questo stato di cose va ricercata
negli effetti nefasti della questione di Priscilliano, asceta iberico condan-
nato a morte per eresia nel 385, la quale in un primo tempo ispira alla gerar-
chia ecclesiastica locale un certo sospetto nei confronti del monachesimo
(cfr. CAP. 8, p. 272). Questo conoscerà invece uno sviluppo importante a
partire dal VI secolo, come testimoniato dalla diffusione di diverse regole:
ricordiamo il de institutione virginis di Leandro di Siviglia ( t 600 ), la Re-
gula monachorum di Isidoro ( 636), una regola di Fruttuoso di Braga ( 665),
la Regula communis dei monasteri galiziani.
Tornando all'Italia, un nuovo impulso alla vita monastica latina è
dato all'inizio del VI secolo dalla figura di Benedetto da Norcia (480 ca.-
550 ca.), considerato il padre del monachesimo medievale. Non paia qui
inopportuno precisare che, come era accaduto con Antonio, la notorietà
e l'influenza di Benedetto sono in gran parte dovute all'opera del suo bio-
grafo (nel II libro dei Dialogi) e ammiratore Gregorio Magno (540-604),
peraltro egli stesso fondatore di monasteri. Di nobile famiglia umbra, il
giovane di Norcia decise di volgersi all'austerità monastica prima come
eremita a Subiaco, poi a Montecassino. Qui fondò il cenobio per il quale
compose, certamente dopo il 530, la nota Regula. In essa emergono: da un
lato, l'insistenza, contro le forme monastiche itineranti, sull'esigenza della
stabilitas foci; e dall'altro, un'organizzazione delle attività del monastero
incenerata sui tre pilastri del lavoro, della preghiera ( in particolare liturgi-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

ca: l'opus dei) e della lectio divina (la lettura e la meditazione delle Scrittu-
re). Il celebre motto «ora et labora» ('prega e lavora'), associato alla vita
benedettina, si diffonderà solo più avanti, secondo qualcuno addirittura
nel XIX secolo. La regola di Benedetto recupera e riutilizza molteplici fon-
ti precedenti, dalla Regula Magistri, che si ritrova quasi integralmente nei
primi sette capitoli, a quella di Cesario di Arles, passando per gli scritti
di Pacomio, di Basilio, di Cassiano, di Agostino e così via. Si tratta di un
processo di composizione della regola monastica che si ritrova anche nel
de ordine monasterii di Eugippio (vI secolo) e che sottolinea un fatto im-
portante per la comprensione del monachesimo occidentale: forse perché
influenzato della giurisprudenza romana o, secondo altri, per reazione a
una prima fase anarchica del suo sviluppo, il monachesimo di area latina è
strettamente legato all'idea della regola.
Sempre nella penisola italiana, merita infine ricordare l'esperienza del
monastero del Vivarium in Calabria, presso Squillace, fondato intorno al
550 da Cassiodoro, già alto funzionario dell'aristocrazia latina: nonostan-
te la breve durata della sua esistenza, lo scriptorium del Vivarium ha svolto
un'attività di grande importanza nella riproduzione e diffusione di testi
dell'antichità classica e patristica. Il modello fornito da Cassiodoro non
sarà estraneo alla trasformazione dei benedettini in copisti e alla diffusio-
ne della tipologia del monastero-scriptorium-biblioteca nel medioevo.

Bibliografia ragionata

Per un panorama generale, un classico in moire parti ancora utile è lo studio di J. D.

CHITTY, Ihe Deserta City: An lntroduction to the Study o/Egyptian and Palestinian
Monasticism under the Christian Empire, Mowbrays, Oxford 1966. Più aggiornata, per
la fase più antica, è l'opera div. DESPREZ, Le monachisme primitif. Des originesjusqu 'au
conci/e d'Ephese, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1998. Una serie di saggi
che coprono diverse aree geografiche si trova in A. CAMPLANI, G. FILORAMO (eds.),
Foundations ofPower and Conflicts o/Authority in Late-Antique Monasticism, Proceed-
ings of the lnternational Seminar. Turin, December 2-4, 2004, Peeters, Leuven 2007.
Per l'Oriente, si vedano l'introduzione recente e sistematica di G. FILORAMO,
Monachesimo orientale. Un'introduzione, Morcelliana, Brescia 2010, e il contributo
di B. FLUSIN, Lo sviluppo del monachesimo orientale, in Storia del cristianesimo. Reli-
gione-Politica-Cultura, voi. lii: Le Chiese d'Oriente e d'Occidente, Boria-Città Nuova,
Roma 2002, pp. 513-70.
IL MONACHESIMO ANTICO

Più specificamente concentrati sull'Egitto, si vedano, per gli aspetti concettuali,


F. VECOLI, Lo Spirito soffia nel deserto. Carismi, discernimento e autorita nel monache-
simo egiziano antico, Morcelliana, Brescia loo6; per quelli materiali e istituzionali,
E. WIPSZYCKA, Moines et communautés monastiques en Egypte (IV-VIII' siècles), JJP
Supplement 11, Warszawa loo9. Su Shenute, cfr. T. ORLANDI, Shenute. Contra orige-
nistas, CIM, Roma 1985; voce fondamentale, con bibliografia, è quella di T. ORLANDI,
s.v. Scenute, in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Genova-
Milano l0I0, voi. III, cc. 4774-5. L'edizione critica delle regole monastiche di She-
nute è di B. LAYTON, lhe Canons o/Our Fathers: Monastic Rules ofShenute, Oxford
University Press, New York lo14.
Per l'area siriaca, ancora indispensabile l'ampia opera di A. VÒÒBUS, History of
Asceticism in the Syrian Orient: A Contribution to the History oJ Culture in the Near
East, Peeters, Louvain 1958-88; si veda anche il saggio più recente di PH. ESCOLAN,
Monachisme et église. Le monachisme syrien du Iv' au VII' siècle: un monachisme chari-
smatique, Beauchesne, Paris 1999.
La Palestina è oggetto delle monografie di J. BINNS, Ascetics and Ambassadors oJ
Christ: lhe Monasteries oJ Palestine, JI4-6JI, Clarendon Press, Oxford 1994; R. M.
PARRINELLO, Comunità monastiche a Gaza. Da Isaia a Doroteo (secoli IV-VI), Edizio-
ni di Storia e Letteratura, Roma lo 10.
L'area occidentale è coperta dall'introduzione di A. DE VOGÙÉ, Il monachesimo
prima di san Benedetto, Abbazia di San Benedetto, Seregno 1998, e dal contributo di
J. BIARNE, Lo sviluppo del monachesimo occidentale (430-610 ), in Storia del cristianesi-
mo.Religione-Politica-Cultura, voi. III: Le Chiese d'Oriente e d'Occidente, Boria-Città
Nuova, Roma l00l, pp. 843-80. Più specifico, ma non trascurabile è il saggio di o.
CHADWICK.john Cassian: A Study in Primitive Monasticism, Cambridge University
Press, Cambridge 19681 • Per i rapporti tra regole monastiche, si segnalano per l'Italia
i fondamentali s. PRICOCO (a cura di), Introduzione a La Regola di san Benedetto e
le regole dei Padri, Mondadori-Valla, Milano 1995, pp. IX-LIV; ID., Monaci,filosofi e
santi. Saggi di storia della cultura tardoantica, Rubbettino, Soveria Mannelli 199l.
IO
I concili di Efeso e Calcedonia: la crisi religiosa
in Oriente e la formazione di chiese nazionali
di Alberto Camplani

Caratteristiche del periodo e premesse della crisi

Le violentissime crisi religiose tra v e VI secolo furono generate non


solo dalla varietà delle tradizioni teologiche e liturgiche, evolutesi nel
mondo cristiano orientale in direzioni diverse e spesso opposte, ma an-
che dal fatto che ciascuna delle regioni cristiane facenti capo alle grandi
metropoli, come Roma, Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Ge-
rusalemme, Efeso, Cartagine, Seleucia-Ctesifonte, aspirava a definire
per sé una sempre più vasta sfera di competenza religiosa e influenza
politica. Le prime cinque metropoli erano destinate a dare origine ai
patriarcati (cfr. CAP. 8, p. 256), e vissero le loro complesse relazioni nel
quadro di un Impero romano ormai pienamente cristianizzato, i cui
dirigenti manifestavano un'accentuata tendenza ali' interventismo in
materia di religione, finalizzato all'unità politico-religiosa e all'ordine
pubblico, pur nel quadro di scelte politiche spesso molto diverse. Al-
trimenti andavano le cose nell'Impero persiano, che, nell'alternarsi di
momenti di scontro e di fasi di coesistenza con l'Impero romano, aveva
reimpostato la propria politica religiosa rispetto a quella dell'epoca di
Shapur II, riducendo da una parte gli atti di persecuzione anticristiana
generalizzata, mantenendo dall'altra un controllo capillare sui massimi
rappresentanti delle gerarchie episcopali, spesso costretti a sottostare a
decisioni non gradite, che, se rifiutate, potevano portare alla condanna
a morte per tradimento o apostasia. Tale processo non poteva che favo-
rire nella Chiesa persiana un atteggiamento di progressiva autonomiz-
zazione da quella occidentale e di definizione identitaria della propria
l'.cclesiologia e teologia.
Gli effetti delle crisi religiose nell'Impero romano d'Oriente erano
destinati a produrre drammatiche novità nel mondo cristiano: al termine
310 STORIA DEL CRISTIANESIMO

del periodo qui preso in considerazione constateremo non solo l 'esisten-


za di chiese orientali (chiese d'Egitto, d'Etiopia, di Siria, d'Armenia, di
Georgia, di Persia) consapevolmente separate dall'asse ecclesiale rappre-
sentato dagli episcopati di Roma e di Costantinopoli, soprattutto a parti-
re dalla seconda metà del VI secolo, ma anche la crisi di questo stesso asse
per alcune decine di anni, il cosiddetto scisma acaciano, che anticipò di
mezzo millennio il grande scisma del 1054. È dunque in questa fase sto-
rica che affondano le loro radici alcune delle divisioni ecclesiali tutt'oggi
perduranti.
La controversia cristologica, che si manifestò in maniera chiara a par-
tire dal 42.8, aveva premesse molto lontane nel passato, addirittura nella
seconda metà del III secolo. Infatti, già nel concilio di Antiochia del 2.68,
che portò alla condanna di Paolo di Samosata e alla sua deposizione da
vescovo di Antiochia (cfr. CAP. 6, p. 198) per opera di un gruppo di vesco-
vi vicini alle posizioni teologiche della scuola e dell'episcopato di Ales-
sandria, intravvediamo il nucleo della questione cristologica destinata a
esplodere nel v secolo e intuiamo il divaricarsi di due grandi tradizioni di
pensiero. Tale divaricazione venne oscurata dalla violenza e dal clamore
della questione ariana nel IV secolo, tanto che i disaccordi in tema di cri-
stologia risultarono spesso trasversali rispetto ai partiti in lotta in campo
trinitario, al punto che vescovi tra loro avversari potevano condividere la
medesima cristologia. Nel concilio antiocheno del 2.68 si fronteggiarono
due modelli destinati a lunga durata, nonostante le profonde rielaborazio-
ni, che possiamo schematizzare in questo modo: (1) il modello di origine
alessandrina, definito logos/sarx ('carne'), secondo il quale l'ipostasi di-
vina del Logos, Figlio eterno del Padre, si unisce direttamente alla carne
umana divenendo con essa una cosa sola, lasciando poco o nessuno spazio
all'anima e all'intelletto umano di Gesù Cristo; il soggetto in Cristo è il
Logos, unico centro di riflessione, volizione, decisione; (2) il modello di
matrice antiochena, chiamato logos/anthropos ('uomo'), che insiste sulla
completezza dell'uomo Gesù e sull'incontaminazione della divinità del
Logos, che a lui si unisce nell'incarnazione senza sostituirsi a nessuna delle
facoltà umane. Il soggetto "Cristo" è dato dall'unione dell'uomo comple-
to di corpo, anima, intelletto con la divinità, il Logos: egli è il sacerdote
universale, che con il suo stesso sacrificio trasferisce l'intera umanità da
un'epoca all'altra, verso l'immortalità e l'incorruttibilità. I soggetti sono
due, uno umano e l'altro divino: solo il loro accordo permette l'identità
di decisione e operazione. Semplificando al massimo possiamo affermare
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 311

che nel primo schema prevale l'idea della completa identità di soggetto
era l'ipostasi del Figlio/Logos e il Cristo della storia totalmente pervaso
dal Logos; nel secondo emerge l'insistenza sulla completezza dell'uomo,
necessaria alla salvezza di tutta l'umanità, ma rimane un residuo di dua-
lità a proposito del soggetto. Il primo schema sembra sia stato enunciato
con chiarezza dai vescovi e presbiteri origenisti che denunciano l'eresia di
Paolo di Samosata. Il secondo schema sembra tipico di quest'ultimo e di
coloro che si sono ispirati alla sua impostazione, correggendola negli ele-
menti dogmaticamente più pericolosi, come fecero Eustazio di Antiochia,
e, a cavallo tra IV e v secolo, gli antiariani Diodoro di Tarso e Teodoro di
Mopsuestia.
La crisi ebbe una premessa più recente nella cristologia di Apollina-
re di Laodicea (seconda metà del IV secolo) e nelle reazioni che questa
cominciò a suscitare in ambito antiocheno. Il teologo, di impostazione
antiariana, e dunque portato a esaltare la divinità del Logos, tentò di dare
una soluzione alla dicotomia che pervadeva la riflessione cristologica di
molti antiariani, la quale attribuiva le azioni e i sentimenti straordinari e
sovraumani in Cristo alla sua divinità, le limitazioni di Gesù invece alla
carne. Per Apollinare solo una strettissima connessione tra Logos e car-
ne poteva garantire la salvezza dell'uomo, anche a scapito della funzione
dell'anima e dell'intelletto umano di Cristo: per lui la cristologia pote-
va compendiarsi nella formula «una sola natura del Logos incarnata»,
là dove la "natura" era ovviamente quella divina, poiché alla carne non
poteva essere riservato lo statuto di "natura" autonoma, soprattutto dopo
l'unione con il Logos.
Tale formula, fatta passare dai discepoli di Apollinare come di Atana-
sio, fu effettivamente creduta acanasiana da Cirillo di Alessandria. Questi,
ben conscio della condanna che la cristologia di Apollinare aveva subi-
to al concilio di Costantinopoli del 381, aveva dato maggiore spazio alla
componente umana, sottolineando con più forza l'unità di soggetto tra
il Logos e il Cristo della storia. L'unione del Logos con l'umanità era per
Cirillo così stretta e completa da rendere possibile l'uso vasto della com-
municatio idiomatum, vale a dire della possibilità di dire della divinità di
Cristo ciò che è proprio dell'umanità, e di predicare dell'umanità ciò che
è proprio della divinità. Tale metodo divenne ben presto caratteristico di
tutti coloro che si ispirarono a Cirillo.
A questa impostazione avevano reagito due rappresentanti di una tra-
dizione cristologica, oltre che di un'innovativa impostazione esegetica,
312 STORIA DEL CRISTIANESIMO

che in Antiochia aveva il suo fulcro: i nomi di Diodoro di Tarso e Teodoro


di Mopsuestia sono i più rappresentativi di questa linea di pensiero.

Il concilio di Efeso (431) e l'unione del 433

La tensione latente tra Alessandria, da una parte, e Antiochia e Costanti-


nopoli, dall'altra, sfociò in una vera e propria crisi quando, attorno al 428,
il monaco antiocheno Nestorio fu ordinato vescovo di Costantinopoli, la
vera rivale di Alessandria a livello di politica ecclesiastica (cfr. CAP. 8, p. 26 5).
L'occasione per sferrare l'attacco non solo alla cristologia antiochena, ma
anche alla sede costantinopolitana, fu offerta dall'imprudenza commessa da
Nestorio e dai suoi di manifestare pubblicamente alcune perplessità circa
l'opportunità di chiamare Maria "Madre di Dio" (Theotokos), titolo ormai
acclimatato da lungo tempo nelle comunità cristiane del Mediterraneo, nel
quale l'Antiocheno scorgeva un'indebita confusione tra la divinità, cui nes-
suna donna può dare la nascita, con l'umanità: per questo motivo preferiva
l'appellativo di "madre di Cristo" ( Christotokos). Cirillo, ottenuto l' appog-
gio del papato romano, e sfruttando qualche espressione dell'impostazione
cristologica antiochena, accusò allora Nestorio di credere a due Cristi dif-
ferenti, da una parte il Figlio di Dio, e dall'altra l'uomo nato da Maria. Il
papa Celestino, informato da Cirillo circa la questione, fece condannare in
absentia Nestorio per il suo divisismo cristologico. Cirillo inviò quindi una
missiva a Nestorio contenente sia il documento di condanna del concilio
romano sia una sua personale lettera contenente dodici anatematismi, che
il Costantinopolitano avrebbe dovuto sottoscrivere senza discutere: in essi
l'impostazione alessandrina era espressa nella forma più estrema. Nel frat-
tempo l'Alessandrino, con adeguate pressioni sull'imperatore, riuscì a far
organizzare un concilio di notevoli dimensioni a Efeso nel 431, nel quale, in
maniera del tutto irregolare (per esempio, non si attese l'arrivo della delega-
zione episcopale antiochena, certamente favorevole al vescovo costantino-
politano), ottenne la condanna di Nestorio, che venne esiliato fino alla sua
morte. Cirillo, eliminato l'avversario, poté dedicarsi negli anni a seguire ari-
cucire lo strappo con gran parte dei vescovi orientali vicini a Nestorio, giun-
gendo con essi alla formula di compromesso tra cristologia alessandrina e
quella antiochena del 433. Tuttavia, non a tutti piacque questa versione della
definizione di fede troppo aperta alla tradizione sentita come avversaria.
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 313

Secondo concilio di Efeso ( 449)


e concilio di Calcedonia (451)

Tale compromesso, mai venuto meno vivo Cirillo, era tuttavia destinato
a sbriciolarsi dopo la sua morte (444). Le spinte per una nuova battaglia
teologica giungevano già da tempo anche dal mondo monastico, portato
a estremizzare le posizioni del dibattito religioso. Negli anni di Cirillo e
del suo successore Dioscoro si era affermato con sempre maggior forza il
movimento, di ispirazione pacomiana, diretto da Shenute di Atripe, ar-
chimandrita del Monastero Bianco, vicino a Panopolis, una forma cenobi-
tica (cfr. CAP. 9, p. 287 ). Fautore dei diritti dell'episcopato di Alessandria
e della Chiesa egiziana nel contesto del cristianesimo del Mediterraneo,
promotore della lotta contro l'eresia e il paganesimo, Shenute offrì ai pa-
triarchi alessandrini Teofilo, Cirillo, Dioscoro il sostegno di un monache-
simo popolare, attento ai ceti sociali più deboli, estremamente rigoroso e
ben organizzato, capace di produrre cultura anche in lingua copta. Certa-
mente esso, assieme alle varie forme monastiche affermatesi lungo il litora-
le di Alessandria, influenzò profondamente gli orientamenti dei dirigenti
ecclesiastici in periferia e nella capitale.
In altre regioni, Cirillo aveva conquistato dopo il concilio di Efeso nuo-
vi alleati: fra questi un vecchio difisita, il vescovo di Edessa Rabbuia (412-
435), aveva aderito a tal punto alle sue posizioni, da entrare in contrasto
con la locale scuola di Edessa, dove l'esegesi e l'insegnamento teologico
seguivano le linee più tipiche della tradizione antiochena e dove si pratica-
va su larga scala la traduzione in siriaco degli scritti di Teodoro di Mopsue-
stia. Il capo della scuola, Ibas, era tuttavia destinato a diventare a sua volta
vescovo di Edessa nel 435, riportando in auge la tradizione antiochena non
solo nella scuola, ma anche a livello episcopale, e per questo ad andare
incontro a una deposizione. Da questo momento Edessa diventò uno dei
luoghi in cui le divisioni si manifestarono in forma più acuta.
Ugualmente complessa era la situazione della Chiesa armena (cfr. CAP.
5, p. 177 ). Negli anni finali della funzione primaziale del catholicos Sahak,
anche a seguito della lettera del filocirilliano Proclo di Costantinopoli agli
Armeni, il vescovo, che prima aveva favorito la traduzione in armeno di au-
tori antiocheni, si allineò alla cristologia alessandrina. Ma con la sua morte
il primato passò a un'altra famiglia, più filopersiana e più aperta alla cul-
tura siriaca: era ovvio anche in questo caso il ritorno a un'impostazione di
STORIA DEL CRISTIANESIMO

tipo antiocheno. Negli anni successivi, la Chiesa armena non poté tuttavia
partecipare al dibattito religioso. La politica di annessione praticata dalla
potenza persiana, che si accompagnava spesso a conversioni forzate, incon-
trò nel 451 una resistenza accanita da parte dei principi armeni. Lo scontro,
una vera strage di nobili e una grandiosa sconfitt:.>., venne interpretato anche
come atto di resistenza cristiana a una Persia zoroastriana e intollerante.
L'occasione per un nuovo conflitto tra le due impostazioni cristologi-
che fu offerta dall'accusa lanciata da alcuni vescovi orientali contro il mo-
naco costantinopolitano Euciche di credere in una sola natura di Cristo,
secondo il dettato letterale del Simbolo di Nicea (cfr. CAP. 7, p. 2.42), in ter-
mini cali da rendere impossibile la sua reale consustanzialità con gli uomi-
ni, premessa indispensabile alla loro salvezza. Il monaco, condannato dal
vescovo di Costantinopoli Flaviano nel 448, fu invece difeso da vescovi di
altra tendenza, era i quali spiccava Dioscoro, successore di Cirillo (444-
454). Questi ottenne la convocazione di un concilio a Efeso nel 449, chia-
mato in seguito latrocinium da papa Leone. In vista di questa riunione,
il 13 giugno 449, Leone aveva indirizzato una dichiarazione cristologica
al vescovo di Costantinopoli, nota come Tomus ad Flavianum, destina-
ta a diventare l'espressione più tipica di una cristologia delle due nature,
sebbene non di matrice antiochena: due nature unite in un solo soggetto
(,persona). Nel corso del concilio, Dioscoro, forte dell'appoggio imperiale
e di Giovenale vescovo di Gerusalemme (cfr. CAP. 8, p. 2.63), non solo fece
in modo che Euciche ottenesse il riconoscimento della sua ortodossia e che
il Tomus di Leone non venisse preso in considerazione, ma procedette alla
deposizione di tutti i capi orientali di tendenza antiochena ( tra questi, Ibas
di Edessa e Teodoreto di Cirro) e persino di Flaviano di Costantinopoli.
Questi fu talmente maltrattato dai soldati imperiali giunti per arrestarlo
che morì poco tempo dopo. Dioscoro riusciva a far mettere sul seggio co-
stantinopolitano un suo uomo, Anatolio. Per un momento si poté assistere
alla realizzazione del sogno di Teofilo e Cirillo: Alessandria era diventata
la prima città cristiana d'Oriente e la sua comunità la vera guida religiosa
dell'Impero romano orientale.
Tale stato di cose fu di breve durata. La situazione si capovolse infatti
con la scomparsa improvvisa di Teodosio II il 2.8 luglio del 450, morto per
un incidente a cavallo, senza lasciare eredi. La sorella Pulcheria (t 453), uni-
ca a poter gestire l'Impero, preferì annettersi come sposo e dunque come
imperatore un anziano senatore, proveniente dai ranghi militari, Marciano
( 450-457 ). Ambedue cambiarono radicalmente la politica religiosa. Il con-
J CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 315

cilio di Calcedonia del 451, da lui voluto, e organizzato in maniera cale da


radunare centinaia di vescovi, non solo condannò Euciche per motivi teo-
logici, sconfessò gli atti del concilio di Efeso del 449, depose ed esiliò Dio-
scoro per motivi disciplinari (anche grazie al clamoroso voltafaccia di Gio-
venale di Gerusalemme), ma prese pure alcune decisioni concrete a livello
ecclesiale: reinstallò i vescovi deposti nel 449 (Ibas di Edessa, Teodoreto di
Cirro e altri) e sanzionò la supremazia del seggio di Costantinopoli su quel-
li di Antiochia e Alessandria, attribuendo a esso competenze territoriali in
Asia Minore e un posto d'onore in Oriente con espressioni cali da mettere
in difficoltà anche uno dei fondamentali fautori del concilio, il papato ro-
mano. Quest'ultimo, infatti, mai approvò quel canone 28, che, appunto,
conferiva un nuovo statuto alla capitale orientale (cfr. CAP. 8, p. 266).
Si apriva a partire da questo momento una crisi gravissima in tutta la
cristianità, che provocò in tempi diversi la nascita di chiese separate da
quella imperiale: gli scismi erano suscitati sia dal facto che il concilio aveva
approvato, pur mettendone in rilievo la consonanza con la teologia di Ci-
rillo di Alessandria, il Tomus ad Flavianum di papa Leone, da molti perce-
pito come documento prossimo alle posizioni di Nestorio, sia dal facto che
l'imperatore, nonostante le divisioni e le incertezze dell'episcopato conve-
nuto, aveva imposto la formulazione di una definizione di fede in materia
di cristologia che specificasse ciò che rimaneva implicito nel Simbolo di
Nicea. Eccone il testo:

Seguendo perciò i santi padri insegniamo a professare tutti concordemente un


solo e stesso Figlio, il signore nostro Gesù Cristo, lo stesso perfetto nella divinità
e perfetto nella umanità, lo stesso veramente Dio e veramente uomo, di anima
razionale e corpo, consustanziale (homoousion) al Padre secondo la divinità e lo
stesso consustanziale (homoousion) a noi secondo l'umanità, in tutto simile a noi
ad eccezione del peccato. Generato dal Padre prima dei tempi secondo la divinità,
negli ultimi giorni egli stesso per noi e per la nostra salvezza è nato da Maria Vergi-
ne, la Madre di Dio, secondo l'umanità, un solo e lo stesso Cristo, Figlio, Signore,
Unigenito, che si fa conoscere in due nature (en duo physesin) senza confusione,
senza mutamento, senza divisione, senza separazione. Poiché assolutamente non è
stata eliminata la differenza delle nature a causa dell'unione, ma invece sono state
preservate le proprietà dell'una e dell'altra natura e sono confluite in un solo pro-
sopon e in una sola ipostasi (hypostasin ), non viene ripartito o diviso in due proso-
pa, ma uno solo e lo stesso è il Figlio e Unigenito, Dio Logos, signore Gesù Cristo.
Così ci hanno insegnato anticamente i profeti incorno a lui e poi lo stesso signore
Gesù Cristo, e il Simbolo dei padri ci ha trasmesso (Simonetti, 1986, p. 445).
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Il perfetto equilibrio qui espresso tra umanità e divinità in Cristo, che « si


fa conoscere in due nature», doveva certamente andare incontro all'im-
postazione del Tomus di papa Leone, ma non mancano riferimenti pre-
cisi al linguaggio cristologico di Cirillo di Alessandria, come l'insistenza
sull'identità tra il soggetto del Logos e quello dell'incarnazione: si trat-
ta insomma di un compromesso non lontano da quello della formula di
unione del 433, ma con un'attenzione maggiore sull'unità, ora designata
anche con il termine cirilliano di hypostasis.

La crisi dopo Calcedonia: Palestina, Siria ed Egitto


fino all'Enotico dell'imperatore Zenone (482)

L'impatto delle decisioni dogmatiche del concilio suscitò reazioni par-


ticolarmente violente in Palestina e in Egitto, da parte del popolo e dei
monaci, che indussero nella stessa politica imperiale un atteggiamento
piuttosto oscillante nei decenni a seguire, fino al tempo dell'imperatore
Giustino (518-52.7): per l'Impero si trattava pur sempre di difendere l'or-
dine pubblico, di rendere comprensibile a tutti l'iniziativa imperiale del
concilio, di favorire l'unità religiosa del popolo nei limiti del possibile,
sulla base di una qualche piattaforma. Ciò venne perseguito in modi di-
versi a seconda dei contesti e degli imperatori, in alcuni casi accentuando
l'imposizione di un'ortodossia legata alla lettera della definizione dogma-
tica, in altri casi ammettendo l'adesione a formulazioni generiche, che ta-
cevano i termini del conflitto e lasciavano in ombra gli atti del concilio di
Calcedonia. Seguiamo qualche momento esemplare di questi complessi
sviluppi.
Giovenale non poté tornare immediatamente nella sua sede di Geru-
salemme perché alcuni vescovi e monaci, che avevano visto da vicino il
suo voltafaccia nei confronti di Dioscoro, lo avevano preceduto in Pa-
lestina suscitandogli contro il mondo dei monaci ed eleggendo vescovo
uno di loro, Teodosio. Solo nel 453 egli riuscì a rientrare, ma con l'ap-
poggio delle truppe imperiali. La situazione in Palestina rimase incerta
per diversi decenni. Questo fu dovuto sia ali' attività molto vivace di un
monachesimo anticalcedonese, come quello di Pietro Ibero, sia alla mo-
derazione con cui si mossero alcuni dirigenti ecclesiastici procalcedonesi,
che seppero fare in modo da non inimicarsi il mondo monastico: le due
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 317

correnti si contesero a lungo il territorio, che alla fine fu conquistato in


maggioranza alla causa calcedonese, soprattutto grazie al monaco Saba e
alla sua laura (cfr. CAP. 9, p. 295).
Persino nella patria della cristologia delle due nature, Antiochia, ebbe-
ro luogo sconvolgimenti tali da trasformare la città in uno degli epicentri
dell'impostazione cristologica avversa e dell' anticalcedonismo. Qui agì,
quando poté esercitare il suo episcopato, Pietro il Fullone: a partire dal
biennio 469-470, nonostante fosse vescovo solo a intermittenza, sostenne
la causa degli anticalcedonesi in varie regioni e fu fautore di una nuova for-
mulazione del trisaghion, «Dio santo, santo forte, santo immortale, abbi
pietà di noi», aggiungendovi l'espressione «egli che è stato crocifisso per
noi». Tale formulazione poteva essere ben accetta in ambienti monofisiti,
dove la communicatio idiomatum veniva praticata in maniera generosa, ma
risultava sospetta in ambienti difisiti o calcedonesi, che nella formulazione
potevano intravvedere il rischio di attribuire a tutta la Trinità, o anche alla
sola divinità del Logos, la passione umana di Cristo sulla croce. Pietro il
Fullone favorì inoltre l'affermazione di un monofisismo tipicamente si-
riaco eleggendo Axenaia, altrimenti noto come Filosseno, corepiscopo e
poi vescovo dell'importante sede di Mabbug nel 484: tale scelta dovette
rivelarsi molto felice quando il neoeletto poté agire in connessione ad altri
personaggi significativi come Severo di Antiochia.
In altra zona di cultura siriaca, Edessa e la sua regione, il contrasto si
manifestava in forma sempre più acuta: la restaurazione di Ibas di Edessa
(che morì nel 457) non aveva significato la sconfitta definitiva delle cor-
renti anticalcedonesi, che riemersero con i vescovi dei decenni successivi.
Questi accentuarono sempre di più il conflitto con la locale scuola teolo-
gica ed esegetica, che nel 489 dovette chiudere per ordine dell'imperatore
Zenone. Ma, già prima di questo evento, molti dei maestri e degli allievi
erano emigrati nell'Impero persiano, dove furono benevolmente accolti
dal vescovo di Nisibi, Bar~auma, anch'egli ex allievo della scuola. Nella
città essi dettero vita a una grande Accademia cristiana, basata sullo studio
dell'esegesi e della teologia antiochena (Teodoro di Mopsuestia), di cui ci
sono conservati i diversi statuti: si tratta certamente di uno degli esperi-
menti di università cristiana più riusciti della tarda antichità.
In Egitto lo scontro ebbe risvolti assolutamente drammatici. Al ritorno
da Calcedonia, quattro vescovi egiziani che avevano abbandonato Dio-
scoro, consacrarono vescovo Proterio, a suo tempo presbitero di Diosco-
ro, passato poi dalla parte dei suoi avversari. La notizia della deposizione
STORIA DEL CRISTIANESIMO

di Dioscoro e della sua sostituzione con Proterio provocò gravi disordini.


Come al tempo dei vescovi ariani, si assistette al fenomeno di un vesco-
vo imposto con il potere delle armi, a discapito della volontà della mag-
gioranza dei fedeli: in effetti, Proterio poteva contare sull'appoggio di
qualche settore della popolazione di Alessandria, di qualche vescovo e dei
monaci pacomiani del convento della Metanoia, cioè su una minoranza.
Tale situazione di tensione riesplose alla notizia della morte di Marciano,
occorsa il 2.6 gennaio del 457, che spinse il clero e i cristiani fedeli a Dio-
scoro, morto nel frattempo (454), a ordinarsi un proprio vescovo nella
figura di Timoteo Eluro, presbitero di Cirillo e collaboratore di Dioscoro.
L'intervento delle truppe per arrestare Timoteo provocò un'altra solle-
vazione popolare, che terminò tragicamente con l'assassinio di Pro terio
nella chiesa di Quirino, seguito dal macabro rito del trascinamento del
cadavere nelle vie della città e della sua combustione. Timoteo Eluro ap-
profittò della situazione di disordine per eleggere vescovi a lui fedeli e far
condannare da un sinodo sia papa Leone, sia i vescovi calcedonesi di An-
tiochia e Costantinopoli.
La reazione non si fece attendere. Il nuovo imperatore Leone lanciò
nel 457 una consultazione presso tutto l'episcopato dell'Impero in cui
chiedeva un giudizio sul concilio di Calcedonia e un pronunciamento
sulla legittimità dell'elezione di Timoteo Eluro a vescovo di Alessandria.
Dalle risposte in parte conservate nel Codex encyclius deduciamo che la
maggioranza dei vescovi dichiarò la validità del concilio e l'illegittimità
dell'ordinazione di Timoteo: egli veniva quindi esiliato a Gangra, dove era
stato relegato a suo tempo anche Dioscoro, e, da qui, in altre località più
distanti. Ad Alessandria fu eletto vescovo Timoteo Solofaciolo, un mona-
co pacomiano di fede calcedonese, il quale praticò una politica moderata
nei confronti di amici e avversari.
Timoteo Eluro poté ritornare ad Alessandria solo nel 475, richiamato
dall'usurpatore imperiale Basilisco. Timoteo, dopo essere passato per Efe-
so, fu accolto trionfalmente dalla popolazione, cui aveva portato in dono
le spoglie di Dioscoro, ormai assimilato a un martire della fede; il Solofa-
ciolo preferì ritirarsi senza creare disordini. Il nuovo effimero imperatore
aveva emanato un'enciclica in cui si condannavano esplicitamente il conci-
lio di Calcedonia e il Tomus di Leone. Questo documento, pur approvato
da numerosi vescovi anticalcedonesi e da molti incerti, suscitò reazioni cali
di opposizione in altri settori, soprattutto da parte di Acacio patriarca di
Costantinopoli, con l'appoggio del papato romano, che l'usurpatore do-
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA

vette ritirarlo: l'unica politica di sostegno imperiale all'anticalcedonismo


era dunque fallita nel giro di due anni.
Nel 477 Zenone riconquistò dunque il potere. Sembrava ormai giunto
il momento di imporre senza incertezze il concilio di Calcedonia in ogni
zona dell'Impero, ma l'imperatore era ben conscio del fatto che le resi-
stenze popolari avrebbero osteggiato qualsiasi politica imperiale troppo
rigida. Poco dopo moriva Timoteo Eluro, proprio quando stava per essere
nuovamente mandato in esilio. Il suo clero procedette in segreto ali' elezio-
ne di Pietro Mongo, anch'egli collaboratore di Dioscoro e Timoteo, ma
Zenone impose come vescovo di nuovo il vecchio Timoteo Solofaciolo.
Alla morte di questi, un altro pacomiano di simpatie calcedonesi, Gio-
vanni Talaia, non poté succedergli a causa della sua amicizia con Illo, un
altissimo ufficiale sospettato di tramare contro Zenone. Rimaneva dunque
solo il vescovo clandestino, Pietro Mongo.
Nel 482 Zenone emanava, proprio per suggerimento di Acacio, quell'e-
ditto imperiale che ha nome di Enotico, cioè "documento di unione", indi-
rizzato esplicitamente alla Chiesa egiziana, avvertita come la più proble-
matica in Oriente. Esso, nelle intenzioni dell'autorità imperiale, aveva lo
scopo di creare il consenso più largo possibile attorno a una dichiarazione
che evitava di entrare nel merito dei punti più discussi, cioè le due nature
di Cristo e la validità del concilio di Calcedonia, mentre, condannando
gli estremi teologici di Nestorio e Eutiche, asseriva in positivo il valore
dei concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso, nonché degli anatematismi di
Cirillo di Alessandria.

Reazioni all'Enotico e momentanea supremazia


anticalcedonese in Oriente

Come qualsiasi documento di compromesso fondato sui silenzi, l'Enotico


scontentò sia i calcedonesi più convinti (i monaci acemeti di Costanti-
nopoli, i monaci della laura di Saba in Palestina, il papato romano, che
sconfessò il documento nel 484), sia i difisiti orientali, sia, soprattutto,
l'ala radicale degli anticalcedonesi.
Ad Alessandria Pietro Mongo cercò di muoversi in consonanza con
le intenzioni politiche del documento, ciò che gli permise di venire in-
contro ai fedeli di orientamento calcedonese. Con quest'abile mossa
320 STORIA DEL CRISTIANESIMO

politica, fece in modo da farsi riconoscere vescovo legittimo di Alessan-


dria anche da Acacio di Costantinopoli, che in lui vedeva non solo un
anticalcedonese ma anche un mediatore ben più esperto e più capace
di creare un'unità religiosa popolare che non le scialbe figure calcedo-
nesi allora attive in Egitto. Tuttavia una parte del mondo monastico ed
episcopale egiziano non fu convinto, e diede luogo a una fiera opposi-
zione. Anche l'anatematismo pubblico contro il concilio di Calcedonia
e il Tomus di Leone cui Pietro Mongo fu costretto, e che fu ripetuto in
seguito dai suoi successori, seppure gli garantì l'appoggio della maggio-
ranza degli Alessandrini, non impedì la formazione di uno scisma di
estremisti monofisiti, che non riconobbero più alcun vescovo alessan-
drino (acefali).
L'Enotico era destinato anche a far raffreddare e interrompere i rapporti
tra papato romano e sede di Costantinopoli, accusata di un atteggiamento
compromissorio verso strenui anticalcedonesi come Pietro Mongo: si apriva
così lo scisma acaciano (cfr. CAP. 11, p. 344), che proseguì ben oltre la morte
del vescovo (489), fino al 518, e che fu complicato dall'elezione, nella capita-
le, di un vescovo apertamente anticalcedonese come Timoteo.
In Antiochia e nella Siria l'Enotico fu accolto grazie all'azione accorta
di Pietro il Fullone, che per questo fu reinstallato sul seggio di Antiochia.
Dopo la sua morte (490) i successori si mostrarono più vicini al concilio
di Calcedonia che alla cristologia dell'unica natura, ma non per questo
meno fedeli all'Enotico. Contro costoro, tuttavia, l'attività degli antical-
cedonesi divenne sempre più aggressiva. Possiamo in effetti osservare che,
dopo questa prima lunga fase di alterne fortune dei diversi fronti teologi-
ci, si verifica, a partire dall'ultimo decennio del v secolo, un'affermazione
sempre più diffusa dell'orientamento anticalcedonese cirilliano, dovuta
sia a situazioni locali, sia alla pressione popolare, sia ali' acquiescenza de-
gli imperatori che in alcuni rappresentanti del movimento individuava-
no persone capaci di garantire una situazione di pace sociale e religiosa.
Dopo la morte di Zenone (491), ad Alessandria l'imperatore Anastasio
permise l'elezione di vescovi apertamente anticalcedonesi. Uno degli
eventi più importanti di questa evoluzione, grazie alla capillare azione di
propaganda di Filosseno di Mabbug, fu l'elezione a vescovo di Antiochia
di Severo (512). Di quest'uomo di notevolissima cultura, formatosi ad
Alessandria e a Beirut, profondamente convinto della validità della fase
più radicale della teologia di Cirillo, nonché dell'errore irrecuperabile
della definizione calcedonese, la corrispondenza e le omelie registrano
ARMENIA I
Thermae Bas,licae ; Eùlf9" ar,G· (ftf9\)
n
• Sebaste o
z
(')
CAPPADOCIA I ...
w,P t"'
~
...
ysso ~ Cesarea • Arsamosata .
'"'<7 Oiocaesarea? + lng!la Martyropol,s
~
• . • Meliler,e •, • t'1
ti,/
ç
Coo a•
CAPPADOCIA Il
. Sas,ma ARMENIAII
Pemie
MESO~TAMIA
t T7grl ""t'1
Cll
• Ha~ochia e::::> v' t ,.. • Amlda
; Aphrod1s1as
~ ~ Tyana Flavias ~ Germjlnlcia J<9'6 o
Olba Anatarbus e__u • Samoss!a e I:) Constanbna + t'1
AJrnc,~abanda PAMPHYLIA Augusta . ; ~ Urlma. • Dara•
CARIA • + o Diocaesarea ILICIA e; lrenopolls (')
J Ed essa
t
Hadnane? d . • Perge Philadelph,'l. Mopsuesl~ . _Dolictle eBatnae . ~ i o p o lls >
Magy us t"'
Meloé arso; ~p,phaua
• Eur0f"5 • Canhae (')
' •,::,~ Al)g~e eCyrrhus . .
f}' ompeloi:lis Alessandria H,erapohs OSRHOENE
t t'1
th
çestri ,Seleuèla.; \ cus A osu .J:>Cablòsa Beroea«'~ 'l ( o
• Ars,~oé · Seleucla i Antioch1a• • "S< • 'l!, o
--.... -..,,-~Celendeos • Gabbula ~ · CaHin1cus z
Anemurium Mandane Chalc,s ~ •sura
SIFjlA I Anas':irtha '\ >
; Apamea Il' ,I
Circeslur:~
SIRIA~ • Salamlas ,~~
Antaradus ~
Arca ..., Emesa '-..,
• Palmyra
Mare/nremo
(57 Orthoslas
Tripoll
•ff
Q.'<'
PHOENICE
• Euaria
Botrys 1" LIBANENSIS
Berytus ~ ~ • 1abruda
éf
,fAbll: ; Damasco
• Chonochora
~ AFIABIA

; Sedi metropolitane monofisite 1Bostra


• VescovaU monofisiti j°
L'espansione del monofisismo in Oriente ( 512.-518) (da H . Jedin, K. S. Latourette, J. Martin, a cura di, Atlante universale di .,,.
storia della Chiesa, Piemme-Libreria editrice Vaticana, Casale Monferrato-Città del Vaticano 1991). !:::
322 STORIA DEL CRISTIANESIMO

un'attività frenetica sia sul fronte sociale e pastorale, sia su quello dog-
matico. Le Epistole a Succenso di Cirillo furono infatti la base da cui egli
partì per un itinerario di chiarificazione concettuale e terminologica, che
portò all'elaborazione di una teologia destinata a diventare un punto di
riferimento fondamentale in Oriente, capace com'era di mantenere una
via media fra la teologia dell'"in due nature" calcedonese e l'estremismo
monofisita di Eutiche con l'affermazione dell'unica natura, chiamata an-
che ipostasi. Non solo le espressioni "da due nature" e "una sola natura
del Verbo incarnata" acquistarono piena cittadinanza e giustificazione,
ma il dinamismo della teologia di Cirillo fu sviluppato in modo lucido,
mettendone in rilievo la capacità di esprimere nella maniera più propria
l'incarnazione del Logos come un "divenire senza cambiamento" di Dio
Logos, che si compone (synthetos) con l'umanità in un'unità personale
(henosis): Dio diviene uomo senza cambiamento perché esiste eterna-
mente in maniera piena, senza essere mai "divenuto" nel modo in cui "di-
vengono" le creature, le quali passano dal nulla al qualcosa; Dio diviene
senza cambiamento perché diviene per noi, e dunque non per sé stesso,
essendo il suo divenire non una necessità inerente al suo essere e alla sua
natura, dovuta alla mancanza di qualcosa, ma una scelta volontaria in or-
dine all'economia della salvezza.

Riflessi orientali della crisi


e l'evoluzione della Chiesa in Persia

Anche le zone ai confini o al di là dei confini orientali e meridionali


dell'Impero romano subirono in maniera diversificata l'impatto della crisi
calcedonese nelle sue due fasi, prima e dopo la pubblicazione dell'Enoti-
co. Nell'Impero persiano stava ormai affermandosi una cristologia basa-
ta sull'affermazione rigorosa delle due nature, secondo la prospettiva di
Teodoro di Mopsuestia, e questo in maniera tanto più ferma, quanto più
attiva diventava la propaganda della cristologia dell'unica natura ai confini
occidentali del medesimo. Nel Caucaso, nella Siria romana, e soprattutto
in Egitto, l'anticalcedonismo, impostato sulla cristologia dell'unica natu-
ra, anche se diversificato al suo interno, appariva come il movimento più
dinamico e vivace, sebbene spesso represso dal potere centrale. Avendo già
riservato uno spazio agli accadimenti in Egitto e Siria, presenteremo una
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 32.3

rapida sintesi circa la situazione specifica ai confini orientali dell'Impero


e oltre questi.
Dopo i drammatici avvenimenti del 451 (cfr. supra, p. 314), l'Armenia,
questa volta alleata con l'Iberia, ebbe a subire una nuova sconfitta dai Per-
siani nel 482, le cui conseguenze furono mitigate dall'improvvisa morte
del re di Persia. Data la gravissima situazione politica e militare, non si
registra una presa di posizione ufficiale della Chiesa armena almeno fino
al 506, quando nel concilio di Dvin le tre chiese caucasiche degli Arme-
ni, degli Iberi (georgiani) e degli Aluaniesi si pronunciarono a favore
dell'Enotico promulgato dall'imperatore Zenone nel 482; due anni dopo
il catholicos Babgen confermava le decisioni del concilio, condannando
anche la dichiarazione cristologica di Calcedonia, senza tuttavia rompere
apertamente con il seggio di Costantinopoli. Solo a metà del VI secolo
cominciarono a comparire i primi dissensi tra le cristianità caucasiche a
proposito del concilio di Calcedonia, che provocarono una divisione tra
la Chiesa armena, anticalcedonese, e la Chiesa georgiana, destinata a rien-
trare nell'orbita bizantina.
Nella questione armena era intervenuto anche Filosseno di Mabbug,
che abbiamo visto attivissimo in Antiochia e in tutta la zona a Oriente.
Egli si caratterizza nella storia della cristologia dell'unica natura per la
contaminazione che ha praticato su larga scala tra il pensiero di Cirillo e
quello della tradizione letteraria e teologica siriaca. Una categoria desunta
da questa teologia dà forma al suo pensiero teologico: il concetto di mira-
colo visto in relazione agli effetti paradossali dell'incarnazione. Il binomio
proposto da Filosseno in relazione alle modalità di esistenza di Cristo e
dei credenti è il seguente: Cristo è Dio Logos (un'unica natura) che esi-
ste in due forme, a) come Dio per natura, b) come uomo per miracolo;
noi, credenti battezzati, esistiamo in due modalità, a) come uomini per
natura, b) come figli di Dio per miracolo. Cristo, la cui naturale divinità
noi cogliamo non attraverso la nostra naturale percezione ma attraverso il
miracolo della fede, si pone in quanto uomo sullo stesso piano di esistenza
della fede: il piano del miracolo, del dono, della grazia. Ovviamente molti
altri intellettuali e vescovi provenienti dal mondo siriaco furono coinvolti
nel dibattito, prendendo posizioni più radicali o più sfumate. Giacomo di
Sarug, il grande poeta prosecutore di Efrem, si presentò come un mode-
rato, sebbene il mondo monastico lo spingesse a prendere posizioni più
estreme.
Proprio nel corso del v secolo si gettarono le basi di una Chiesa indi-
32.4 STORIA DEL CRISTIANESIMO

--
Bel--
I

...,. ..-

La Chiesa persiana nel 497 (da H. Jedin, K. S. Latourette, J. Martin, a cura di, Atlante
universale di storia della Chiesa, Piemme-Libreria editrice Vaticana, Casale Monferrato-
Città del Vaticano 1991).

pendente, "persiana" in senso proprio, anche dal punto di vista teologico,


oltre che ecclesiale. Abbiamo già visto (cfr. CAP. 5, p. 166) che alcuni conci-
li (anni 410, 420, 424) avevano sancito la struttura di una Chiesa autono-
ma, articolata alla maniera antiochena su tre livelli, cioè il capo, il catholicos
(in seguito, nel VI, chiamato anche "patriarca"), residente nella capitale
imperiale di Seleucia-Ctesifonte (più tardi, sotto la dominazione araba,
a Baghdad); il gruppo dei vescovi delle città più significative, erette a sedi
metropolitane (alcune ormai al di fuori dei confini persiani), con le quali il
catholicos condivideva le sue decisioni; i vescovi delle singole diocesi sotto-
poste ai metropoliti. La decisione di ammettere la liceità del matrimonio
per tutto il clero, vescovi compresi, nel sinodo del 486, verrà poi limitata
ai soli presbiteri a metà del VI secolo. Nello stesso tempo il monachesimo
veniva allontanato dalle città, decisione che ne provocò il drammatico de-
cadimento fino all'epoca della sua nuova fioritura, alla metà del VI secolo,
per opera di Abraham di Kashkar.
L'indipendenza e l'identità di questa Chiesa non erano date soltanto
dall'organizzazione e dalla liturgia, ma anche dalla sua cultura teologica,
dalla sua esegesi scritturistica di tipo letteralista e dalla sua impostazio-
ne cristologica. La Chiesa siro-orientale definì la propria cristologia con
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 32.5

i termini tecnici ereditati da Teodoro di Mopsuestia, e in seguito anche


da Nestorio: divinità e umanità di Cristo furono chiamate in un primo
momento "nature" (sinodo del 486: il termine può avere un senso estre-
mamente generico e astratto), in seguito, all'inizio del VII secolo, furono
qualificate come "ipostasi" (qnome in siriaco), secondo quanto aveva af-
fermato Nestorio stesso: si trattava di un termine che a orecchie occiden-
tali (greche e latine) poteva apparire come l'affermazione di due persone
e dunque di "due Cristi", ma che in realtà indicava l'individualità delle
due nature unite nel Cristo, la cui unità personale veniva designata con il
termine prosopon.
A rafforzare, ma spesso anche ad approfondire e a mettere in discus-
sione questa impostazione cristologica fu la scuola di Nisibi, erede di
quella di Edessa e rifondata grazie al poeta-teologo Narsai, vera università
cristiana, che preparava, assieme ad altre scuole esemplare sul suo model-
lo, i ceti dirigenti della Chiesa siro-orientale, ma che fu anche istituzio-
ne di ricerca esegetica e teologica, destinata in qualche momento a vivere
uno stato di tensione con la gerarchia. Qui si conduceva lo studio dell'e-
segesi biblica e delle discipline che la rendono possibile, qui si operava la
traduzione dei Padri di questa Chiesa, in particolare di Diodoro di Tarso,
Teodoro di Mopsuestia e, a partire dal VI secolo, di Nestorio (in partico-
lare sotto il catholicos Aba 1). Dei tre, il vero riferimento della storia teolo-
gica ed esegetica siro-orientale rimarrà sempre Teodoro, il mallpdnd, cioè
!"'interprete" per eccellenza, anche se Babai il grande, uno dei massimi
teologi del VI-VII secolo, rielaborerà le concezioni cristologiche anche di
Nesto rio.

La politica dell'imperatore Giustino (518-527 ):


declino del fronte anticalcedonese e lacerazioni al suo interno

Nel 518 la proclamazione a imperatore di Giustino significò la fine di que-


sto periodo favorevole agli anticalcedonesi. Non solo: la comunione tra
Roma e Costantinopoli fu presto ristabilita, ponendo termine allo scisma
acaciano. Qualche diversità tra le due capitali sussisteva ancora, come di-
mostrò la vicenda dei monaci sciti, nella quale emerse con chiarezza che
anche nel fronte calcedonese cominciavano ad aver luogo le prime diffe-
renziazioni. Essi, del tutto ortodossi, proclamarono in ambedue le capitali
STORIA DEL CRISTIANESIMO

che la dichiarazione di Calcedonia doveva essere integrata, per non appa-


rire difisita e nestoriana, con la frase «uno della trinità è stato crocifisso»
(unus de trinitate passus ), atta a sottolineare l'identità di soggetto tra il Lo-
gos e il Cristo. Tale formula non poteva non ricordare l'aggiunta di Pietro
il Fullone al Trisaghion ed essere sospettata di monofisismo, come apparve
al papa Ormisda, che non la accettò (cfr. CAP. 11, p. 346). A Costantinopo-
li invece essa aveva trovato maggiore accoglienza.
Le politiche imperiali riuscirono tuttavia a superare queste diversità.
In ogni caso, ripresero con lena le persecuzioni nei confronti del clero
anticalcedonese, che divennero sistematiche in tutto l'Oriente, con l'ec-
cezione di Alessandria: qui l'imperatore non ritenne opportuno, per
motivi di ordine pubblico, insediare un patriarca pro-calcedonese. Ales-
sandria e i monasteri dei suoi dintorni divennero allora luogo di rifugio
di eminenti personalità di orientamento anticalcedonese, cacciate dalle
loro sedi episcopali per non aver aderito alla definizione di Calcedonia e
al Tomus di Leone, quali Severo di Antiochia e Giuliano di Alicarnasso,
che non solo si costituirono quale punto di riferimento dell'elaborazione
teologica in Egitto, ma anche come attori di nuovi dibattiti e di nuove
lacerazioni.
Infatti la dottrina di Giuliano, combattuta energicamente da Severo,
riuscì a raccogliere l'adesione di una parte del mondo monastico, quella
più estremista e rigorista. Che cosa opponeva i due vescovi-teologi anti-
calcedonesi? Giuliano riteneva l'atto stesso dell'incarnazione del Logos
talmente significativo da rendere il corpo di Cristo differente rispetto
a quello degli altri uomini, che invece vivono nel regime del peccato
e della corruzione: l'incorruttibilità, la medesima che Adamo aveva
posseduto prima del peccato, ha caratterizzato il corpo di Cristo fin dal
concepimento, ben prima della resurrezione, ragione per cui chi con-
cepisce una diversità nel corpo di Cristo prima e dopo la resurrezione,
prima passibile e corruttibile, poi impassibile e incorruttibile, immette
nella sua rappresentazione una dualità pericolosa. Severo riteneva che
la concezione di Giuliano togliesse valore alla realtà terrestre di Cristo,
alla consustanzialità tra la condizione umana di Cristo e quella degli
altri uomini, a tal punto da metterne a rischio le potenzialità salvifiche
e da rendere inutili la nascita nella carne, la sofferenza e la croce. La
controversia tra le due correnti ebbe lunghi strascichi nei secoli a venire,
aggiungendosi alle tante drammatiche divisioni formatesi nella cristiani-
tà nel giro di un secolo.
I CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA

Bibliografia ragionata

Una selezione di fonti e testi relativi alle controversie cristologiche è reperibile in R.


PRICE, M. GADDIS (eds.), The Acts ofthe Council ofChalcedon, Liverpool Universi-
cy Press, Liverpool 2.005; A.-J. FESTUGltRE, Ephese et Chalcédoine: actes des conci/es,
Beauchesne, Paris 1982. (ambedue traduzioni della grandiosa impresa editoriale di E.
SCHWARTZ, Acta conciliorum oecumenicorum); M. SIMONETTI (a cura di)(= Simo-
necci, 1986), Il Cristo, voi. II: Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII
secolo, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1986.
Sulla controversia in generale ancora è valido w. H. c. FREND, The Rise oJ the
Monophysite Movement: Chapters in the History ofthe Church in the Fi_fth and Sixth
Centuries, Cambridge Universicy Press, Cambridge 1972., nonché la sua trattazione
nelle opere collettive: Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, voi. lii: Le
Chiese d'Oriente e d'Occidente, Boria-Città Nuova, Roma 2.002. e Histoire générale du
christianisme, voi. 1: Des origines au xv' siede, PVF, Paris 2.010, della quale si vedano i
contributi di B. MEUNIER, Qui est le Christ?, pp. 195-2.37 (in particolare, pp. 2.15-37 ), F.
ALPI, Antioche et le monde syrien, pp. 561-77; B. FLVSIN,jérusalem et la Palestine, pp.
578-93; E. WIPSZYCKA, Alexandrie et l'Egypte, pp. 593-610; M. DEBIÉ, L 'Empire perse
et ses marges, pp. 611-46; J.·P. MAHÉ, L'A.rménie et la Géorgie, pp. 652.-74.
L'aspetto teologico della crisi efesina, calcedonese e posccalcedonese è approfon-
dito dall'opera grandiosa di A. GRILLMEIER et al.,jesus der Christus im Glauben der
Kirche, Bd. 1: Von der Apostolischen Zeit bis zum Konzil von Chalcedon (451); Bd. 2./i:
Das Konzil von Chalcedon (451). Rezeption und Widerspruch (451-5IS); Bd. 2.h: Die
Kirche von Konstantinopel in 6.jahrhundert, unter Mitarbeic von T. Hainthaler; Bd.
2./3: Die Kirchen vonjerusalem undAntiochien nach 451 bis 600, mie Beicragen von A.
Grillmeier, T. Hainthaler, Tanios Bou Mansour, L. Abramowski; Bd. 2./ 4: Die Kirche
vonAlexandrien mit Nibien undAthiopien nach 451, unter Mitarbeic von T. Haintha-
ler, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1979-2.002. (cfr. la traduzione italiana parziale di E.
NORELLI, s. OLIVIERI, A. ZANI, a cura di, Gesu il Cristo nella fede della Chiesa, 1,1-2.,
2./i-2..4, Paideia, Brescia 1983-2.001). Su singoli personaggi e la loro teologia, si veda-
no le due trattazioni classiche: J. LEBON, Le monophysisme Sévérien: étude historique,
littéraire et théologique sur la résistance monophysite au Conci/e de Chalcédoine jusqu a
la constitution de l'églisejacobite,J. Van Linthout, Lovanii 1909; A. DE HALLEUX, Phi-
loxene de Mabbog: sa vie, ses écrits, sa théologie, lmprimerie Orientaliste, Louvain 1963.
L'aspetto storico e geoecclesiologico della crisi calcedonese è ben descritto da F.

ALPI, La Route royale. Sévere d'A.ntioche et !es Églises d'Orient (512-518), voi. I: Texte;
voi. II: Sources et documents, Bibliothèque Archéologique et Historique 188, lnscicut
Français du Proche-Orient, Beyrouch 2.009; PH. BLAUDEAU, Alexandrie et Constan-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

tinople (451-491). De l'histoire à la géo-ecclésiologie, ÉFR, Roma l0o6; L. PERRONE, La


chiesa di Palestina e le controversie cristologiche. Dal concilio di Efeso (431) al secondo
concilio di Costantinopoli (553), Paideia, Brescia 1980. Circa le origini della Chiesa per-
siana e la sua evoluzione sotto i Sasanidi, si vedano CH. JULLIEN, F. JULLIEN, Apotres
des conjins. Processus missionnaires chrétiens dans /'empire iranien, Groupe Pour
L' Étude de la Civilisation du Moyen-Orient, Bures-sur-Yvette 2002; A. PANAINO, La
Chiesa di Persia e l'Impero sasanide. Conflitto e integrazione, in Cristianita d'Occidente
e cristianità d'Oriente (secoli VI-XI), Atti delle Settimane di studio della Fondazio-
ne Centro Italiano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 23-24 aprile 2003), vol. LI,
CISAM, Spoleto 2004, pp. 765-869; w. BAUM, D. w. WINKLER, Ihe Church oJ the
East: A Concise History, Roudedge Curzon, London-New York 2003.
II
Il cristianesimo in Occidente
dalla fine dell'Impero ai regni romano-barbarici
di Teresa Sardella

L'Occidente va in frantumi: politica, cultura, religione

Quanto accadde nel 476, la deposizione di Romolo Augusto, fu per nul-


la o solo vagamente registrato nella coscienza di chi, tra i contemporanei
- hospites e foederati germanici, o romani, sia pagani che cristiani - si rese
conto dell'evento: il medesimo evento ha però sconvolto l'immaginario
collettivo di tutte le generazioni successive. La storiografia tradizionale ha
dato a quell'anno un valore epocale e ne ha fatto il punto di partenza del-
la storia europea, con l'Impero annientato e la separazione dell'Oriente
dall'Occidente, frammentato, quest'ultimo, nei vari regni romano-barba-
rici. Ma la storiografia tradizionale è storiografia istituzionale: in essa il
dato politico, cioè la fine formale dell'Impero d'Occidente, è dominante e
colora di sé la complessa realtà della storia.
La più moderna storiografia, maggiormente attenta ai dati culturali, e
tra questi importanti sono soprattutto le problematiche religiose, proprio
a partire dalla storia religiosa, ha seguito il filo di una continuità di rappor-
ti tra Occidente e Oriente, che si sono prolungati ben oltre il 476: conti-
nuità evidente se si riannodano i legami tra politica cultura e religione. Il
dialogo, sia pur conflittuale, fra Oriente e Occidente si intrecciò ancora
per secoli, proiettandosi fino agli inizi del vn secolo, con Eraclio, divenu-
to imperatore nel 610, e anche oltre.
Non ci fu frattura netta con l'Oriente e non ci fu frattura netta in Oc-
cidente. Il sopravvenire dei regni non comportò un'assoluta e traumatica
discontinuità, né culturale né religiosa, rispetto all'unità culturale elleni-
stico-romana che rappresentava l'unità dell'Impero divenuto cristiano.
La questione della fine del mondo antico non si pone più, da tempo, nei
termini della "caduta dell'Impero romano", ma in quelli della "trasforma-
zione del mondo romano", fino al punto che, più di recente, i "tempi bar-
barici" sono stati definiti come quelli di un mondo "post-romano".
STORIA DEL CRISTIANESIMO

D'altra parte, come indichiamo in questo capitolo, ci furono senza dub-


bio anche vicende che distinsero la storia d'Oriente e d'Occidente e legit-
timano una lettura storiografica in chiave di "fine dell'Impero d'Occiden-
te". Ma, anche in merito alla discontinuità storica e alla separazione delle
due parti dell'Impero, non è il 476 la data significativa: in questo senso, la
dilatazione cronologica si proietta all'indietro. Inoltre, ha più livelli di let-
tura. Con maggiore evidenza sul piano politico-militare, il distanziamento
fra Oriente e Occidente inizia almeno un secolo prima del 476, con la bat-
taglia di Adrianopoli e l'imperatore Valente caduto sul campo (378): un
evento drammatico che sconvolse, questo sì, i contemporanei (cfr. CAP. 7,
p. 240 ). Da allora si crearono nuovi assetti geo-politici che, infine, tra-
volsero l'Occidente geograficamente collocato sulla millenaria traiettoria
delle grandi "migrazioni di popoli", i barbari, e ne determinarono la storia.
Alla morte di Teodosio (395) l'Impero fu amministrativamente diviso
tra i due figli: ad Arcadio, il maggiore, toccò l'Oriente, e a Onorio l'Occi-
dente. La divisione di fatto fu definitiva e anche la politica nei confronti
dei barbari si diversificò, ciascuna parte mirando in vario modo ad allonta-
narne la minaccia. Infatti, queste popolazioni, partite dall'Estremo Orien-
te, variamente ondeggianti, avevano finito per riversarsi prima sui confini
orientali dell'Impero e poi, deviando da lì, scaricarono tutta la loro forza
d'urto sui confini dell'Impero occidentale.
Nel 406 fu rotto il confine sul Reno, lasciato sguarnito da Stilicone, ge-
nerale di origine vandala, magister militum di Onorio, che era concentrato
sulla difesa dell'Italia dall'ostrogoto Radagaiso: l'invasione della Gallia fu
inarrestabile, di lì, le popolazioni barbariche passarono alla conquista delle
varie regioni occidentali. Alcune furono perdute per sempre, altre ne furono
devastate. Vandali, Svevi, Alani nel 409 oltrepassarono i Pirenei e raggiun-
sero la Spagna. Nel 410 Roma fu saccheggiata per tre giorni dai Visigoti di
Alarico. I Vandali, guidati da Genserico e rinforzati da Alani e Goti, nel 429
passarono dalla Spagna ali 'Africa e, nel 439, conquistarono Cartagine. Nel
452 fu minacciata Roma e papa Leone I andò incontro ad Attila, re degli
Unni, che aveva già conquistato Aquileia e saccheggiato Milano e Pavia, e lo
convinse a non attaccare Roma, evitandone il saccheggio. Nel 455, il nuovo
intervento di Leone I scongiurò la distruzione di Roma e il massacro dei suoi
abitanti, ma non il saccheggio della città, da parte del vandalo Genserico.
Una storia "territoriale", quella dell'Impero d'Occidente, giunta dun,
que a conclusione nel v secolo, sotto l'urto della pressione militare; ma già
avviata da concause economiche e istituzionali che, a partire dalla crisi del
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE

III secolo, avevano messo a rischio la stabilità dell'Impero, aggiungendosi


alle invasioni barbariche. Anche il cristianesimo, dopo avere iniziato il suo
cammino in parallelo con l'Impero, entrò in questa storia, in Occidente,
in parte come elemento di destrutturazione dell'Impero, ma pure come
elemento di riaggregazione culturale e religiosa; in Oriente, come elemen-
to di lenta e progressiva separazione dall'Occidente, anche in ragione della
ormai radicata diversità di orientamento dottrinale tra le due partes Impe-
rii, già avviata dalla crisi ariana del IV secolo (cfr. cap. 7, p. 230). Inoltre,
in questa storia di separazione, proprio in Oriente il cristianesimo entra
anche come l'elemento sul quale si costruiva il sogno di una riunificazione
dell'Impero, elemento lungo il quale si riannodava il filo di una continuità
di rapporti politico-istituzionali.
Il concilio di Cakedonia (451) non aveva risolto nulla: né la questione
dottrinale né quella politico-ecclesiastica; anzi, aveva acuito le distanze
culturali rispetto a paesi come Egitto e Siria. La formula di compromesso
lì fissata, ispirata anche dal Tomus ad Flavianum di papa Leone - "in due
nature", umana e divina di Cristo, unite senza confusione, nella sola per-
sona e ipostasi di Cristo, Dio Logos incarnato - lasciava aperti i termini
del conflitto cristologico.D'altro canto, sul fronte politico, il canone 28 di
Cakedonia acutizzava i termini del conflitto primaziale tra Roma e Co-
stantinopoli: la definizione di "nuova Roma" per Costantinopoli, già non
gradita nel 381 alla Sede romana (cfr. CAP. 8, p. 266), settant'anni dopo,
con il canone 28 di Cakedonia, conduceva a un ulteriore allontanamento,
perché configurava nella nuova città imperiale una entità giurisdizionale
autonoma con competenza sui vescovi dell'Oriente.
Parzialmente sostenute dalle sedi di Roma e Costantinopoli, le riso-
luzioni del concilio di Calcedonia - o piuttosto la questione dottrinale
e quella politica lì lasciate aperte - offrivano motivi perché nessuno fosse
soddisfatto. Su diversi registri, il concilio di Calcedonia divenne lo scac-
chiere della partita sul primato giocata tra Roma e l'Oriente, né solo con
Costantinopoli: infatti, vi erano coinvolte anche Alessandria e Antiochia.
Così Calcedonia segnò una nuova frattura, non più ricomposta nono-
stante gli interventi imperiali volti a ricondurre a unità religiosa l'Impero.
Questo fu il nuovo punto di partenza per la continuazione del confronto/
scontro tra Oriente e Occidente. Lungo il solco lì approfondito, e che ha
il suo versante principale nella dialettica tra chiese orientali, si è sviluppa-
ta parte della storia dottrinale e politica d'Occidente di quasi due secoli
successivi. Più precisamente si è sviluppata la linea dottrinale dei rapporti
STORIA DEL CRISTIANESIMO

tra Oriente e Occidente in cui era coinvolta Roma, di fatto l'unica sede
occidentale a relazionarsi con l'Oriente, sia pure in modo intermittente
(nel corso di questo capitolo esamineremo le temporanee interruzioni:
scisma acaciano, scisma laurenziano, affare teopaschita, controversia dei
Tre capitoli). Roma era anche l'unico referente di aggregazione tra l'O-
riente, da un lato, e l'Occidente, frammentato da vicende e forze centri-
fughe, dall'altro: proprio lungo questi dibattiti dottrinali, si è dipanata la
questione del primato di Roma.
Gli scontri dottrinali in Oriente realizzarono le condizioni in cui si andò
rafforzando l'ideologia del primato romano, con Leone e con Gelasio. Sul
piano politico e concreto, il vescovo di Roma, chiamato pressoché sistema-
ticamente in causa, a turno, dai vari interlocutori, aveva un ruolo solo stru-
mentale, in quanto, appunto, unico referente di aggregazione di una pretesa
unità imperiale. Di fatto: istituzionalmente, il vescovo di Roma era suddito
dell'imperatore, che ne ratificava l'elezione talvolta anche per mezzo del pro-
prio rappresentante, l'esarca; politicamente, la volontà del vescovo di Roma
veniva sistematicamente mortificata. Il papa interveniva, ma non sempre, e
contava poco nelle scelte. Il ruolo decisionale era continuamente rivendicato
dal papa sia nei confronti dell'imperatore - che spesso aveva il sopravvento -
sia nei confronti dei vescovi di Costantinopoli e di Alessandria.
Nel VI secolo due eventi segnarono in modo particolare la penisola
italica. Dapprima l'inutile guerra greco-gotica (535-555), voluta da Giusti-
niano nel tentativo di riconquista dell'Occidente, devastò ulteriormen-
te l'Italia. Dal 568 l'invasione longobarda la frammentò ulteriormente.
I Longobardi, di antica e quasi intatta cultura tribale, con una struttura
anarchico-ducale - di ducati indipendenti - e senza precedenti contatti si-
gnificativi con l'Impero romano, occuparono Veneto e Lombardia, al Sud
arrivarono fino a Benevento. I Bizantini tennero le isole, le terre calabre e
pugliesi, il territorio intorno a Ravenna - l'esarcato - il ducato romano,
spesso a rischio di conquista.
In Occidente, si accelerò la frammentazione in chiese nazionali tanto
più dove i territori erano rimasti fuori dalle mire bizantine. L' avvicinamen-
to con i popoli germanici fece sì che attraverso il cristianesimo le vicende
politiche, economiche, istituzionali si annodassero con quelle culturali e
religiose ancor più che in Oriente, dove solo il filo dei rapporti politico-
dottrinali aveva reso il cristianesimo duplice fattore di continuità/discon-
tinuità. Sul piano istituzionale, al venir meno delle strutture imperiali,
le strutture ecclesiastiche svolsero uno straordinario ruolo di supplenza.
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 333

Vescovi e monaci ebbero un ruolo di mediazione decisivo. In più modi si


dimostra che l'Occidente viveva il cristianesimo non come scontro di idee,
ma come sostituto istituzionale. Un solo esempio: mentre l'imperatore, in
Oriente, nel 452, cercava di fare accettare le deliberazioni di Calcedonia
da Leone, che era riluttante per via del canone 28, lo stesso papa trattava
con Attila per evitare la distruzione di Roma.
L'intensificarsi dei rapporti - militari, politici, culturali, religiosi - tra
barbari e Impero, e poi ex Impero, romano d'Occidente fu elemento cata-
lizzatore del processo di trasformazione del mondo tardoantico. Ma pri-
ma dei Longobardi, rimasti lontani dal mondo romano fino alla conquista
dell'Italia, gli altri popoli barbari erano entrati da tempo in relazione con i
Romani: così essi avevano già acquisito nuove identità culturali e religiose,
quando, con gli eventi politico-militari appena delineati, all'Impero si so-
vrapposero i regni barbarici. Nella fase di passaggio, durante il processo di
trasformazione delle strutture del mondo romano, proseguiva il lento ma
fluido processo di cristianizzazione dei barbari, e parallelamente, anche
il cristianesimo si trasformava: sotto il profilo dottrinario, delle pratiche
religiose e soprattutto politico-sociale. Esso si ristrutturò in una nuova
dimensione geo-politica e religiosa, secondo realtà articolate sul piano re-
gionale che distinguevano le varie zone nelle modalità di reclutamento e
disciplina del clero, nel rapporto tra laici ed ecclesiastici, nell'interazione
con il sacro. L'omologazione di questo sistema avvenne accentuando i par-
ticolarismi locali. Il cristianesimo diventò un elemento catalizzatore delle
diversità, determinando nuovi equilibri tra culture germaniche e romanità
e facendosi elemento unificatore sul piano religioso. Insieme a esso la ro-
manità veniva traghettata nell'attuale civiltà occidentale.

Cristiani, barbari, pagani. Problemi storiografici

Invasioni o migrazioni?

Cristiani, barbari, pagani: nell'intreccio politico culturale e religioso oc-


cidentale, appena descritto, si confondevano le identità. Non era facile
distinguerle né identificarle. Tuttavia, pur nella difficoltà di tracciare li-
nee nette di confine tra cristiani, barbari, pagani, alcune tessere di questo
mosaico variegato di popoli, culture e religioni presentavano elementi di
distinzione e rispecchiavano diversità: cristiani che si riconoscevano nella
334 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Romanitas, la cultura e la civiltà dell'Impero diventato cristiano; barba-


ri estranei alla Romanitas, che praticavano culti pagani; barbari diventati
cristiani di fede ariana; vi erano anche "persistenze" di paganesimo tradi-
zionale, quello di derivazione ellenistico-romana, i cui riti venivano man-
tenuti, talvolta, anche tra cristiani.
Inoltre, il termine paganus, derivante da pagus, negli autori cristiani non
ebbe più connotazione solo geografica (Isidoro di Siviglia): esso definiva
ogni credenza, rito o pratica delle religioni politeistiche, di matrice greco-
romana, celtica o germanica, in quanto divenuta tipica delle popolazioni ru-
rali. Ma il paganesimo, in senso estensivo cioè quale religione di elementi ge-
nericamente non-cristiani, mal si applicava anche a identificare identità che
fossero insieme culturali e religiose: esso era anche parte della realtà urbana
di Roma. Tra metà del IV e fine del v secolo c'erano, anche a Roma, evidenti
"sopravvivenze" pagane: i calendari (di Filocalo, del 354, e di Polemio Silvio,
del 448 ), il culto dei Di oscuri, quello dei Lupercali (Gelasio, PL 54, ep. IIO ).
A Roma lo spazio civico continuò a essere condiviso da pagani e cristiani.
Peraltro, in questo periodo, il problema principale era rappresentato
soprattutto da cultura e religione dei barbari. E nei loro confronti, il mon-
do romano - pagano e cristiano - ha assunto diverse posizioni. Innanzi
tutto, esso aveva ereditato una inveterata tradizione culturale di origine
greca, per cui il dualismo oppositivo Greci/barbari era stato trasposto
in quello di Romani/barbari. Nei primi tre secoli, l'opposizione era fra
cristianesimo e Impero, quando c'era (abbiamo infatti esaminato, anche
prima della svolta costantiniana, l'ampiezza della corrente "lealista" dei
cristiani, fatta salva l'impossibilità di aderire ai culti civici: cfr. CAP. 6,
p. 193). L'attentato dei barbari all'integrità politica e territoriale dell'Im-
pero e la parallela progressiva integrazione tra cristianesimo, cultura e isti-
tuzioni romane, portarono a compimento il processo di identificazione
dei cristiani con una romanità ormai diventata cristiana. L'identità cultu-
rale romana venne sempre più consapevolmente assunta dai cristiani come
forma di patriottismo culturale. Il sincronismo tra la nascita di Cristo e
l'Impero di Augusto pose le basi per una vera e propria teologia della sco-
ria e dell'Impero divenuto cristiano.
A questo punto, i barbari entrarono nella polemica tra pagani
- dell'Impero - e cristiani. I cristiani, fatta salva la distinzione religiosa
con coloro che erano rimasti pagani, ora, si riconoscevano nella cultura e
nell'Impero romani, e stabilirono nuovi parallelismi: romanità= cultura
= cristianesimo, da un lato; barbarie= incultura= paganesimo dall'altro.
,. ...
t"'
c=J impero romano d Occ1den1e -► F raneh1 ·" ► Gol! -► Burgundi
n
)1:1
....
e,,
'"i
-V >
z
trl
e,,
-..< \ \_ i:
\ o
z
AL4N
~ o
n
n
6
trl
z
'"i
trl

-i .
~~.,,,...""'~r'---

Le migrazioni dei popoli germanici (adattamento da M. Montanari, Storia medievale, Latcrza, Roma-Bari 2.002.).
"'
V\
"'
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Per molto tempo, la cultura cristiana non riuscì a distinguere tra romani-
tà e cristianesimo (Salviano, Patrizio, Sidonio Apollinare). I pagani, dal
canto loro, mantennero l'antica avversione verso il cristianesimo ritenuto
responsabile dei mali che affliggevano l'Impero. Così, pagani e cristiani,
nell'Impero, si accusavano reciprocamente di quello che, per tutti, era un
flagello: le invasioni dei barbari. A lungo, la cultura cristiana, rischiando
anche la vocazione ecumenica del cristianesimo, mantenne nei confronti
dei barbari un atteggiamento di ripulsa (Sidonio Apollinare). Nella mi-
gliore delle ipotesi, giustificò l'esistenza dei barbari nella teologia della
storia cristiana e nel piano di salvezza divina, facendone strumento della
provvidenza divina in funzione punitiva contro le colpe dei pagani e degli
stessi cristiani (Salviano; Orosio).
Una prima revisione di queste persistenti posizioni si ebbe nel XIX se-
colo, una volta iniziata la fase dell' autocomprensione dei diversi Stati e
popoli europei. Da allora, anche sulla questione dei barbari e sull' inter-
pretazione delle invasioni, attraverso una storiografia fortemente motivata
verso una riflessione sull'anno zero della storia d'Europa, si è formata la
moderna cultura europea.
Dei barbari e delle invasioni le storiografie nazionali hanno tracciato
interpretazioni anche opposte. Di "migrazioni di popoli", non di invasioni
barbariche, parlavano la storiografia tedesca e quella anglosassone all'alba
di una rivalutazione storiografica dei barbari e del sovrapporsi dei regni
romano-barbarici all'Impero. I barbari diventarono portatori di un nuo-
vo ethos, vettori di una nuova civiltà germanica in un continente non più
romano. Questa storiografia, a parte alcuni trionfalismi nazionalistici che
impongono correttivi, ha gettato il seme di una nuova interpretazione. In-
vece, nella storiografia italiana - così come, sia pur diversamente, anche
in quella francese - si mantenevano le antiche opposizioni e le invasioni
continuavano a rappresentare un evento catastrofico e violento che aveva
sottomesso la civiltà romana.
Tra xx e XXI secolo, il pensiero storico ha registrato le preoccupazio-
ni della società occidentale contemporanea tra i fantasmi dei nazionali-
smi europei e i timori per i conflitti di civiltà e di religioni sotto l'ondata
delle nuove migrazioni. La discussione sulle radici culturali e/o cristiane
dell'Europa, accesasi intorno al preambolo della Costituzione europea, ha
riproposto l'esigenza di fare un bilancio storico del rapporto tra tradizioni
e culture pagane da un lato - greco-romana e barbariche - e cristianità ro-
mana dall'altro. L'immaginario storico, dominato da categorie interpreta-
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 337

tive ancora non del tutto inerti e nel quale torna in vario modo il binomio
oppositivo tra barbari e romanità, è respinto da storiografia e cultura con-
temporanee, che negano il pregiudizio culturale della diversità dei barbari
in quanto esponenti di una civiltà inferiore. Al suo posto vi sono altre cate-
gorie. All'idea dello scontro militare, politico, culturale, religioso tra ger-
manità e romanità si è sostituita quella dell'integrazione delle nuove po-
polazioni nel corpo dell'Impero, con la successiva articolazione nei regni.
Decisiva anche l'attenzione storiografica, maturata nella seconda metà del
Novecento, che guarda oltre la storia evenemenziale e verso i fattori di mu-
tamento di lungo periodo nella interazione di incontri economici, culturali,
religiosi, dove il cristianesimo reagisce come collante di forze centrifughe.

Una lenta interazione: acculturazione e inculturazione

Questa revisione storiografica supera l'apologetica di una marcia trionfale


del cristianesimo alla conquista di selvaggi che non avevano mai conosciu-
to né la cultura né la rivelazione cristiana. E supera anche letture che legge-
vano il diffondersi del cristianesimo in chiave di fallimentari operazioni di
verniciatura cristiana rispetto a popolazioni rimaste sostanzialmente pa-
gane. Le opposizioni lasciano il posto a realtà sfumate. Non esiste né una
cristianità originaria né un paganesimo incontaminato. Perché l'incontro
tra popoli - romani e germanici - non derivò da un evento folgorante, ma
da una lenta interazione.
Già nel 1-11 secolo scambi linguistici reciproci attestavano rapporti non
violenti e di natura mercantile. Successive turbolenze e distruzioni furono
contrassegnate da scambi di prigionieri, ma anche da soluzioni non militari.
Una di queste, ifaedera - i patti di alleanza, stipulati dal governo imperiale
con gli invasori, stabilendo l'insediamento nelle province come contropar-
tita di servizio militare a vantaggio dell'Impero - rappresentava un modo
pacifico in cui le popolazioni venivano in contatto tra loro. Rapporti econo-
mici, oltre che militari, contrassegnavano il modo in cui il mondo romano
passava sotto il controllo dei barbari (legge di Arcadio del 398, CTh 7,8,s:
fissa le quote di suddivisione delle proprietà nei territori di convivenza).
Così, l'incontro politico, economico, culturale, ma anche religioso, fra
mondo romano e cristianesimo avvenne ben prima delle invasioni. In età
precostantiniana vi erano cristiani tra i Goti invasori (Commodiano, Apol.
817 ). In età costantiniana, prigionieri cristiani introdussero in Etiopia e in
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Georgia la fede cristiana (cfr. CAP. 5, pp. 178-9 ). Incursioni gotiche, con
conseguente cattura di prigionieri ed ecclesiastici, avevano comportato un
primo passaggio del cristianesimo tra le popolazioni barbariche (Filostor-
gio, h.e. 2,5; Sozomeno, h.e. 2,5). I Visigoti erano entrati in contatto con
il cristianesimo prima di Wulfila, divenuto vescovo di confessione ariana
nel 341, traduttore della Bibbia in lingua gotica: tutto questo ben prima
dell'ingresso ufficiale dei Goti nel mondo romano, nel 376. Tra i Visigo-
ti, infatti, vi era un gruppo originario della Cappadocia, discendente da
schiavi catturati nel III secolo. Saba, martire nel IV secolo, era uno di que-
sti. E Wulfila stesso ne sarebbe stato un discendente.
Dunque, i contatti avvenivano spesso per osmosi naturale piuttosto che
essere eterodiretti, sulla base di pianificazioni missionarie e di politica re-
ligiosa. Ancora nel v secolo, il cristianesimo veniva introdotto nel mondo
barbarico da prigionieri, mercanti, barbari reduci (Prospero di Aquitania).
Quando le comunità cristiane erano già presenti, la Chiesa ufficiale man-
dava i suoi vescovi. Interazioni culturali e soprattutto religiose, contatti e
scambi commerciali e diplomatici, ma anche la presenza di schiavi cristiani
al servizio dei barbari, connotarono per lungo tempo i rapporti tra i barba-
ri e i cristiani all'interno e fuori dei confini dell'Impero.
Oltre a queste forme "spontanee" di diffusione, una specifica dall'al-
to, di natura politico-religiosa, era rappresentata dalle missioni di monaci
ed ecclesiastici: alcune missioni monastiche erano ispirate dal papato di
Roma (Britannia anglosassone), altre partivano per convertire popolazio-
ni vicine (Irlanda). Questa forma di diffusione "comandata" è quella tradi-
zionalmente più evidenziata dalla storiografia.
Le missioni rappresentavano, inoltre, il primo livello politico della dif-
fusione del cristianesimo. Ma vi era anche una diffusione politicamente più
articolata, come in Gallia, dove il ceto vescovile locale, di origine aristocra-
tica, sulla base di relazioni diplomatiche e politiche, avviò la conversione
dei re franchi e l'evangelizzazione della popolazione. Da questi contatti
anche il cristianesimo veniva trasformato sia sotto il profilo dottrinario che
delle pratiche religiose che di quello politico: la geografia della religiosità
si articolava nei vari regni passando attraverso dinamiche di varia natura.
L'incontro tra cristianesimo e culture barbariche diede luogo a pro-
cessi di adattamento in doppia direzione. Uno era l'acculturazione, come
adattamento tipico, e anche più generalmente rilevabile dal punto di vi-
sta antropologico, da parte di un gruppo culturalmente povero rispetto a
una cultura dominante: quella romana prevedeva la combinazione fra le
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 339

tradizionali discipline scolastiche romane e le Scritture cristiane, della cui


esegesi si serviva l'intellettualità di formazione culturale romano-cristia-
na. Nel percorso inverso, quello decisamente più frequente nello specifico
storico dell'incontro tra cristianesimo e barbari, l'inculturazione cristiana
era l'adattamento del messaggio evangelico alle culture e lingue locali (per
esempio il giudizio di Dio). Questo processo di cristianizzazione ebbe
conseguenze su istituti ecclesiastici, liturgia, culti. Sul piano linguistico
dimostra creatività analoga a quella che aveva portato alle modificazioni
di significato nel greco e nel latino ecclesiastico rispetto a quello classico.
Prendiamo un solo esempio: quando Wulfila si trovò a tradurre in lingua
gota lo "Spirito santo", che sia nel termine greco (pneuma) sia in quello
latino (spiritus) implica la nozione di soffi.o o vento, non volle usare vo-
caboli che dessero questa connotazione, sentita come troppo materiale, e
optò per il termine maschile ahma, che ha la stessa radice del verbo gotico
ahjan ('pensare', 'credere'): lo Spirito è quindi Essere Pensante, Mente che
illumina e santifica. In questo modo Wulfila tradusse con una spiritualiz-
zazione semantica la spiritualizzazione concettuale che i due termini di
pneuma e spiritus avevano avuto in greco e in latino (Luiselli, 2.014).
In tale rilettura storiografica, che valuta forme diverse di diffusione del
cristianesimo, anche la religiosità pagana dei barbari acquista connotazio-
ni incerte ed essa stessa, al proprio interno, appare mutata rispetto a quella
dei tempi di Tacito. Nel v secolo e fino alle missioni romane, nelle regioni
decentrate dell'Impero, essa non era più quella originaria legata a culti di
matrice protostorica: modificazioni interne e contatti con i Romani, di cui
il cristianesimo era parte integrante, ne andavano modificando profonda-
mente lafacies. I vari popoli non furono cultori di un paganesimo inteso
come insieme coerente di culti e rituali tradizionali germanici. Solo alcuni
gruppi avevano preferenze religiose. Si nota piuttosto un diffuso sincreti-
smo: divinità romane e culti degli antenati, culti della natura, Marte e Gio-
ve, culti sciamanici, diffusa religiosità cultuale familiare. È una varietà ana-
loga a quella del mondo romano: divinità olimpiche, locali, culti ellenistici,
culto dell'imperatore, cristianesimo. Non c'era un'identità religiosa che si
riflettesse in quella politica né il culto pubblico era dominante. Il paganesi-
mo dei barbari non era dunque un sistema coerente e il cristianesimo non
fu impiantato ex novo dalle missioni monastiche, tranne qualche eccezione.
Come nel progressivo avvicinamento/identificazione tra cristianesimo
e mondo ellenistico-romano, è stato dimostrato che non è possibile in-
nalzare barriere culturali all'interno di una stessa società: al pari di tutte
STORIA DEL CRISTIANESIMO

le trasformazioni della tarda antichità che mettono in relazione cultura,


religioni ellenistico-romane e cristianesimo, anche la cristianizzazione
dei barbari sta all'interno dei processi di trasformazione politica e sociale
dell'Occidente trave x secolo. In quanto il cristianesimo fu elemento es-
senziale di un processo di osmosi culturale, dalla sua interazione con tutti
gli altri elementi di natura sociale derivarono struttura politica, cultura
delle élite, diverse identità nazionali.
La diffusione del cristianesimo, articolata diversamente nei vari regni
e senza una lineare progressione diacronica, per grandi linee, è così sud-
divisibile:
a) tra IV e v secolo si ebbero conversioni individuali e di compresenza
pacifica, all'interno di una stessa popolazione, di religioni e confessioni
diverse (paganesimo e cristianesimo - ariano e cattolico);
b) dal v secolo, e fino all'vm, oltre alle missioni di vescovi e monaci, vi
fu un progressivo rapporto con le istituzioni; si accentuò uno sviluppo
del cristianesimo in senso unitario e caratterizzante identità nazionale e
politica di una popolazione.
Nel complesso, il cristianesimo da un lato omogenizzava, dall'altro ac-
centuava i particolarismi locali. Pratiche e rituali cristiani si modellavano
sulle peculiarità tradizionali locali. Peraltro il cristianesimo ebbe un ruolo
unificante nel collegare le élite dei regni barbarici in cui si andava artico-
lando l'Europa dei secoli V-VI.
La cristianizzazione segnò anche !'inglobamento nell'Impero: per i
Franchi questo avvenne in una società già cristianizzata, per i Goti faceva
parte dei patti con l'Impero; vaste aree geografiche rimaste periferiche ri-
spetto all'Impero vennero collegate tra loro.

Vescovi e monaci

Alla nascita e sviluppo del monachesimo in Oriente e in Occidente è stato


dedicato un capitolo a parte ( CAP. 9 ). Qui dunque ci limitiamo a precisare
che in Occidente, venute meno le strutture civili, Chiesa e monasteri le so-
stituirono. Ai vescovi, difensori del cristianesimo di fede nicena, era affidata
la sopravvivenza morale e materiale delle popolazioni e delle città assediate o
distrutte dai barbari-ariani, con la sola eccezione dei cattolici Franchi. Nelle
regioni più profondamente romanizzate (Gallia e Spagna), soprattutto nei
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 341

ceti dirigenti, oltre che a Roma, il clero cattolico mediò l'integrazione fra
Romani e Germani. Peraltro, gli scriptoria dei monasteri diventarono centri
di spiritualità, zattere di salvezza e di trasmissione della cultura. La mobi-
lità tra monasteri e strutture ecclesiastiche caratterizzava molti contesti e
soprattutto la Gallia: la fuga nel monastero divenne, per molti aristocratici,
scelta di vita religiosa, ma anche premessa di una carriera episcopale.D'altro
canto, il diritto della Chiesa aveva la tendenza a limitare i poteri dei monaci
e a integrare il monastero dentro le strutture ecclesiastiche.
Per ragioni politiche, ma anche per una cultura segnata da maggiore
sensibilità giuridica rispetto all'Oriente, Chiesa e monasteri acquisirono
definita struttura istituzionale. Deliberazioni dei concili regionali e lettere
decretali papali davano le norme che organizzavano vita e istituzioni del
clero e dei fedeli. A loro volta, i monasteri venivano organizzati da regole,
che però, in questi secoli, avevano carattere ben poco normativo. Ripren-
dendo gli esempi indiscussi di perfezione ascetica orientale, e, con essi, la
predilezione per la vita cenobitica, i Padri della Chiesa (Girolamo, Cassia-
no), prescrivevano "regole" che erano piuttosto indicazioni morali. Tra la
fine del IV e l'inizio del v secolo, tutte le prime regole latine non ebbero
impronta legislativa: erano brevi, incomplete rispetto alle problematiche
organizzative comunitarie, spesso troppo teoriche e poco pratiche, più pa-
renetiche che vincolanti. Il grande codice di leggi era la Scrittura.

L'Italia e le isole. Il primato di Roma

Come in tutto l'Occidente, anche in Italia e nelle isole, nel v secolo, in


cui vennero conquistate le zone rurali, e nel VI secolo, la cristianizzazione
avanzava, dal punto di vista culturale, etnico, sociale, geografico e topogra-
fico. Ali' inizio del VII secolo, erano 258 le diocesi italiane.
Il primato del vescovo di Roma sulle altre sedi, in Italia, ma anche in
tutto l'Occidente, era pressoché incontrastato. Dalla fine del III secolo,
con la riforma di Diocleziano, e poi fino alla conquista longobarda, Roma
aveva perduto centralità politica, amministrativa e civile, passata prima a
Milano e poi a Ravenna (dal 402). Ma, dal punto di vista religioso, Roma
restava il faro della cristianità. Unico e ineliminabile interlocutore con
l'Oriente, il papa era al centro di dibattiti dottrinali e di conflitti politici
che non hanno storia nelle altre regioni e negli altri regni d'Occidente.
342. STORIA DEL CRISTIANESIMO

Da Leone Magno a Simmaco

Questa centralità religiosa era interpretata in modo diverso in Oriente e


in Occidente. In Occidente, il crollo delle rappresentanze politiche e civili
e la funzione sostitutiva assunta dalle strutture ecclesiastiche rafforzaro-
no sul piano istituzionale la centralità religiosa di Roma. In Oriente, ma
solo in via di principio, vi era un riconoscimento generale del supremo
ruolo ecclesiologico di Roma. In Oriente, infatti, gli equilibri erano più
complessi: erano conflittuali i rapporti tra sedi ecclesiastiche e tra queste e
Roma, e la conflittualità era acuita dal fatto che il seggio di Roma era pur
sempre situato in un unico Impero, con un'unica capitale politica, Costan-
tinopoli, dove l'imperatore aveva potere anche sulle questioni religiose.
In questo contesto, Roma entrava in gioco a fasi e con peso differente,
fino a conoscere momenti di grande umiliazione. Sullo sfondo permaneva
il mito dell'antica città da cui era nato l'Impero e soprattutto l'archetipo
da cui si era originata la cristianità: solo la Roma cristiana incarnava quindi
il simbolo dell'unità politica imperiale. La forza di questa centralità reli-
giosa si radicava sul paradigma ideologico e dottrinale, di supposto fonda-
mento scritturistico (Mt 16,18), in base al quale il vescovo di Roma avrebbe
ereditato la sede dall'apostolo Pietro (cfr. CAP. 3, p. 130). Tale tesi si ap-
poggia su un impianto organizzativo-istituzionale sempre più strutturato.
Pochi anni dopo l'editto Cunctos populos di Teodosio (380 ), dal 383-384 la
Sede romana si era dotata di strumenti atti a regolamentare giuridicamen-
te la vita ecclesiastica, le decretali, lettere normative modellate sui decreti
imperiali, che con papa Innocenzo I assunsero l'ampiezza di formule co-
stituzionali. Dato il loro carattere impositivo, disciplinare e sanzionatorio,
esse riguardavano solo i rapporti con l'Occidente. Peraltro Roma, nello
stesso periodo, aveva iniziato a repertoriare anche la corrispondenza con
l'Oriente in un archivio di tutti i documenti inviati e ricevuti.
A metà del v secolo, oltre a far fronte a uno dei momenti più dramma-
tici della storia d'Italia, salvando Roma e i suoi abitanti, Leone (440-461)
ridisegnò la teologia politica del primato di Roma. La sua teoria, definita
petrinologia, ripropone il richiamo a Pietro, presente già nel III secolo e
in Damaso, Siricio, Innocenzo I, Anastasio I esplicitamente in termini di
successione (Mt 16,19). Egli rafforza la tesi dell'ereditarietà affermando
l'identificazione tra Pietro e i successori della Sede romana (ep. 12.: Papa
Petrus ipse), anche se non manca, allargando la base scritturistica, di rin-
viare anche a Paolo per l'origine dell'alto ruolo di Roma (1 Pt 2.,9; At 9,5 in
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 343

serm. 82,2-7 del 441). Sviluppando le tesi di Siricio e di Innocenzo, afferma


che solo dal pontefice i vescovi ricevono il potere giurisdizionale e che i
vescovi di Italia, Gallia, Spagna, Africa, della Sicilia e delle isole, sono stati
stabiliti solo da Pietro e dai suoi successori. Il vescovo di Roma è omnium
episcoporum primus, totius Ecclesiae princeps.
In Occidente, il modello geoecclesiologico romano funzionava. La
Sede romana diventò solida quanto bastava per contrastare eresie e - dopo
aver fatto fronte alle autorevoli istanze autonomistiche, nella prima metà
del v secolo, nell'Africa di Agostino-, anche per riequilibrare gli urti di
altre istanze autonomistiche sia locali, delle chiese di Aquileia e di Raven-
na, sia regionali, della Gallia.
Leone non trovò significative resistenze contro pelagianesimo, mani-
cheismo e priscillianismo spagnolo. Dovette, invece, contrastare l'opposi-
zione delle chiese provenzali. Il vescovo di Arles, Ilario (430-449 ), tentò
la via dell'indipendenza. Costretto a rinunziare alle sue pretese, Ilario si
piegò a Leone che, in una lettera ai vescovi gallici (ep. 10 del 445), riaf-
fermava il primato romano (cfr. CAP. 8, p. 275). Contestualmente, Leone
ottenne un rescritto del!' imperatore Valentiniano III, che sosteneva la tesi
che il vescovo romano è a capo di tutta la romanità e che nessuno può op-
porglisi: veniva così ribadita l'alleanza tra trono e altare.
In Oriente, non andò così. Leone rivendicò un magistero dottrinale
fino ad allora poco sostenuto da Roma. In piena controversia cristologica,
soprattutto a ridosso del secondo concilio di Efeso (449 ), espose in più
lettere e in particolare nel Tomus ad Flavianum la dottrina romana con-
tro le tesi monofisite di Eutiche. Ai vescovi e in due lettere all'imperatore
Teodosio II ribadì la suprema autorità della cattedra romana. Inutilmente.
Al concilio subì un umiliante disconoscimento: il Tomus non venne letto,
Eutiche fu assolto e riabilitato, vennero condannati e deposti Flaviano e gli
altri vescovi difisiti (cfr. CAP. IO, p. 314).
Con il nuovo imperatore, Marciano, nel concilio di Calcedonia fu ten-
tato un riavvicinamento dottrinale a Roma passando soprattutto attraverso
l'accettazione del Tomus di Leone. Ma il canone 28 riapriva il solco sul con-
trasto primaziale. Nonostante questo, dimostrando ancora una volta che
non si poteva fare a meno dell'approvazione di Roma, Marciano sollecitò
Leone perché il papa approvasse il concilio. Leone lo fece, ma solo dopo due
anni, nel 453. Per di più, sottolineando espressamente che l'approvazione
riguardava solo le questioni di fede: il conflitto primaziale restava aperto.
Con i papi Ilario (461-468) e Simplicio (468-483), le questioni mag-
344 STORIA DEL CRISTIANESIMO

giori riguardarono il rapporto con i Germani-ariani e i conflitti di compe-


tenza tra chiese di Gallia e di Spagna. Con Simplicio, sotto il cui papato si
verificarono, quasi inavvertiti, gli eventi del 476, si riproposero duramente
le controversie cristologiche.
Ed è ancora sull'onda lunga della controversia primaziale che si rian-
nodavano i conflitti dottrinali e politici. Nel 482. Acacio, arcivescovo di
Costantinopoli, suggerì all'imperatore Zenone di promulgare l'"editto
di unione" (Enotico ), testo che, pur molto ambiguo, sembrava rinnegare
Calcedonia e il suo difficile tentativo di conciliare le opposte posizioni
dottrinali, andando piuttosto nel senso di cercare una soluzione di ricon-
ciliazione con l' anticalcedonese di Alessandria, Pietro Mongo. Nel 484, il
testo diventò regola di fede ufficiale della Chiesa bizantina: quasi una pro-
vocazione. A questo nuovo equilibrio politico ecclesiastico, con il quale
Costantinopoli ammiccava al monofisismo, si oppose il nuovo papa Feli-
ce III (483-492.), che inviò lettere e un'ambasceria guidata da Andromaca.
Il pontefice dichiarò decaduto e scomunicato il patriarca Acacio. In una
lettera, di cui si è considerato estensore il futuro papa Gelasio, Felice affer-
ma che l'imperatore è «figlio della Chiesa e non un vescovo» e che «gli
imperatori cristiani devono sottomettere i loro ordinamenti alle autori-
tà ecclesiastiche» (Gelasio, ep. 1). Iniziava così lo scisma detto acaciano,
espressione di un dissenso religioso che si fa risalire ancora una volta a Cal-
cedonia: tra le cause vi è anche l'incapacità imperiale di gestire le questioni
in materia teologica. Si concluderà nel 519, con papa Ormisda.
Morto Acacio (fine novembre 489), i pontefici, da Felice a Ormisda,
chiesero la cancellazione del suo nome dai dittici, a dimostrazione dell 'in-
flessibilità del punto di vista romano. A queste richieste romane opposero
incrollabile resistenza le chiese d'Oriente, a dimostrazione dell'influenza
della Chiesa di Costantinopoli. Il successore di Felice III, Gelasio ( 492.-496),
già consigliere pontificio, mentre accolse senza contrasti lo stabilimento del
governo ostrogoto e rafforzò il potere ecclesiastico in Italia e in Gallia, rifiu-
tò i tentativi di conciliazione di patriarca e imperatore di Costantinopoli e
ribadì il primato di Roma su tutte le altre sedi. Gelasio portò alle estreme
conseguenze la tesi petrina; definì il papa beati Petri vicarius e alla Chiesa
di Roma attribuì un incontestabile principatus (sedes beati Petri apostoli), un
ruolo già anticipato da Felice. Anche Felice aveva parlato in modo netto di
ripartizione di competenze in una lettera ad Andrea di Tessalonica, nel 490,
ma Gelasio sviluppò la tesi della distinzione/ subordinazione dei due poteri
in una lettera allo stesso imperatore (ep. 12. del 494). Ci sono due principi
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 345

dai quali questo mondo è retto: l'autorità sacra dei pontefici e il potere re-
gale (auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas ). Il primo è più impor-
tante perché i vescovi devono rispondere davanti a Dio anche dell'operato
dei sovrani. L'imperatore deve sottomettersi e non comandare sul potere
spirituale (Tractatus 1v). In ragione anche dell'uso intercambiabile dei ter-
mini auctoritas e potestas, di recente, più che della tradizionale teoria dei
due poteri, si è parlato di una condivisione del potere supremo tra autorità
dottrinale e politica. Ma, per quel che riguarda le questioni dottrinali, ogni
accusa di eresia si deve misurare sulla dottrina fissata dal pontefice: Roma
considera un'empietà ogni posizione che non le corrisponda.
Durante questo pontificato, Teoderico, della dinastia degli Amali e già
re degli Ostrogoti, dopo avere sconfitto il re degli Eruli, Odoacre, era di-
ventato re d'Italia con l'avallo dell'imperatore nel 493 (e lo fu fino al 52.6).
Ammiratore della civilitas Romana, di cui si riteneva erede e prosecutore,
benché di confessione ariana, nell'ambito della quale costruì chiese anche
a Roma, Teoderico attuò una politica di ampia tolleranza religiosa, non
solo con i cattolici di fede nicena, ma anche con le minoranze giudee ( Cas-
siodoro, variae 2.,2.7, tra 507 e 511)._
Per quanto riguarda l'Oriente, Teoderico cavalcò l'onda dello scisma
acaciano che, nell'interruzione dei rapporti tra Oriente e Occidente, gli
consentiva totale libertà d'azione in Italia. Lo si constatò soprattutto alla
morte del successore di Gelasio, Anastasio II (496-498), il cui breve pon-
tificato aveva visto un fugace tentativo di pacificazione.
In rappresentanza degli opposti schieramenti, pro e contro la riconci-
liazione con l'Oriente, vennero eletti papi rispettivamente Lorenzo - pas-
sato alla storia come antipapa e che tenne il seggio dal 502. al 506 - e Sim-
maco (498-514). Questi era il leader dei difensori di Calcedonia, della
primazia assoluta di Roma, di una strenua linea di politica religiosa anti-
monofisita. Con la frattura religiosa si intrecciarono, a Roma, conflitti di
autorità anche con gli aristocratici, che pretendevano il controllo sulle ele-
zioni papali. Gli attacchi arrivarono a fatti fino ad allora inauditi: l'esauto-
ramento del papa Simmaco, il commissariamento della Sede romana - con
la nomina di un visitator -, e l'ultimo dei concili convocati sottopose il
papa a processo (502.). Peraltro, da queste circostanze poco esaltanti, e, in
particolare proprio da quest'ultimo concilio, il papato uscì rafforzato: nel-
la quarta seduta, detta Palmare, si stabilì, infatti, quale principio giuridico,
l'assioma papa a nemine iudicatur ( «il papa non può essere giudicato da
nessuno»). Nel corso della vicenda furono prodotti una serie di falsi sto-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

rici, i cosiddetti Apocrifi simmachiani (fra cui il Constitutum Constantini:


cfr. CAP. 7, p. 234), per avvalorare la posizione di Simmaco.
Durante questa crisi interna alla Chiesa di Roma, detta "scisma lauren-
ziano", l'appoggio intermittente di Teoderico a Simmaco, continuato an-
che oltre la fine dello scisma, fu nel segno di un tatticismo politico volto
a tenere distante l'imperatore mediante il sostegno al partito ecclesiastico
contrario alla pacificazione con l'Oriente.

Il VI secolo: il dialogo impossibile,


la frattura con l'Oriente, l'operato di Gregorio Magno

La situazione mutò con la successione imperiale, passata nel 518 al filo-


niceno Giustino I, disponibile ad aprire alle richieste di Roma. Quasi
contemporaneamente, la successione papale era passata al più conciliante
Ormisda (514-523), disposto anche a cedere sulla contestata primazia nei
territori "cuscinetto" dell'Illirico, dove l'imperatore consentì le mire auto-
nomistiche del vescovo di Tessalonica a danno di Roma. Così, nel 519, si
pose fine allo scisma acaciano.
In quello stesso anno, Ormisda gestì la controversia dottrinale relativa
all'"affare teopaschita". La controversia era partita dalla tesi di un gruppo di
monaci sci ti (cfr. CAP. 10, p. 326), espressa nel Libellusfidei di Massenzio, loro
leader: con un ampliamento della definizione dogmatica di Calcedonia, que-
sta dottrina affermava che Cristo aveva sofferto sulla croce come Dio (unus de
trinitate passus ). Non avendo ottenuto, a Costantinopoli, l'accettazione della
formula, giudicata anticalcedonese dall'imperatore, i monaci sciti andarono
a Roma, pretendendo l'avallo del papa. Con gli ambasciatori che si incrocia-
vano tra Roma e Costantinopoli, i monaci sciti misero a soqquadro Roma per
più di un anno e mezzo. Il papa si dimostrò oscillante e indeciso. E solo nel 521,
una lettera dell'erede al trono Giustiniano ali' imperatore Giustino I chiuse la
questione, giudicando inutile la tesi teopaschita. Tale questione si collegava
a una ripresa del dibattito sulla dottrina della grazia e sul libero arbitrio (cfr.
CAP. 7, p. 247). Vi furono coinvolte anche Africa e Gallia. Già al tempo di
Agostino i monaci di Adrumeto, in Africa, e i monaci provenzali avevano ma-
nifestato dubbi sulla dottrina della predestinazione. Chiamato in causa sulla
questione, Ormisda chiuse la discussione ribadendo l'autorità di Agostino.
La situazione mutò ancora con l'imperatore Giustiniano, la cui politi-
ca filonicena si oppose all'arianesimo in Oriente. Da qui la reazione anti-
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 347

cattolica, in Italia, dell'ariano re Teoderico. Ne subì tragiche conseguenze


il successore di Ormisda, Giovanni I (52.3-52.6), mandato dal re a Costan-
tinopoli a mediare in favore degli ariani perseguitati in Oriente. Tornato
con un nulla di fatto, Giovanni, per rappresaglia, fu facto imprigionare
dal re e morì di stenti. Poco prima era stato giustiziato Boezio, dapprima
collaboratore di Teoderico, il cui programma mirava, anche con l'ausilio
del pensiero greco, a conciliare la politica di Teoderico con la romanità.
Con i successori di Teoderico, in Italia, e con Giustiniano, in Orien-
te, l'ingerenza dei regnanti ostrogoti e del potere imperiale assunse forme
pervasive e umilianti per i vescovi di Roma. La dignità pontificia venne del
tutto mortificata con papa Vigilio (537-555), negli anni della guerra gotico-
bizantina. Obbligato a soggiornare per anni a Costantinopoli, al papa fu
imposta la condanna dei Tre capitoli - corrispondenti a tre anatemi con-
tro Teodoro, Teodoreto e Iba, invisi ai monofisiti - tra violenze fisiche, sua
resistenza e umiliante capitolazione finale (cfr. CAP. 12., p. 367 ).
Tra le reazioni a questo comportamento del papa, giudicato indegno, vi
furono la scomunica da parte di un sinodo africano e lo scisma tricapito-
lino, che vide il distacco da Roma delle chiese di Milano (fino al 560) e di
Aquileia (fino alla fine del VII secolo), mentre la sede di Ravenna, dove, in
seguito alla conquista dell'Italia da parte di Giustiniano, risiedeva l'esarca,
rappresentante civile e militare dell'imperatore d'Oriente, assunse sempre
più importanza. I Bizantini vi avevano riaffermato l'ortodossia, riportan-
do al culto cattolico i templi ariani. A questa fase appartengono le basili-
che di San Vitale e di Sant'Apollinare in classe. Massimiano di Pola, capo
della lotta contro i Tre capitoli e primo arcivescovo della città, fu l'inizia-
tore della politica di potenza della Chiesa di Ravenna nelle rivendicazioni
contro Roma, preludio alla proclamazione dell'autocefalia. Nel 666, l' ar-
civescovo Mauro ottenne dall'imperatore l'indipendenza gerarchica della
Chiesa ravennate da Roma, sulla base di una presunta apostolicità, fondata
su una Passio leggendaria, che faceva di Apollinare un discepolo di Pietro.
Il comportamento di papa Vigilio, che aveva capitolato nei confron-
ti dell'Oriente, fu anche denunciato dal successore, Pelagio I, per quanto
questi fosse stato designato dall'imperatore.
Nel 590 ascese al soglio pontificio, per volontà del popolo, Gregorio
Magno. L'Italia era priva di strutture, Roma era devastata e la popolazio-
ne decimata da guerre e peste. La città, capitale di un ducato dell'Impe-
ro bizantino, il cui rappresentante risiedeva però a Ravenna, era possesso
pontificio. Di famiglia ricca e prestigiosa, Gregorio, già prefetto di Roma
STORIA DEL CRISTIANESIMO

(573) poco dopo l'assedio della città da parte dei Longobardi, era stato in
precedenza apocrisario del papa, Pelagio II, a Costantinopoli, dove aveva
intrecciato importanti relazioni, decisive durante il suo futuro pontificato.
Pur nel continuo rimpianto per la vita monastica, già alternata all'inte-
resse per attività politico-diplomatiche e, comunque, abbandonata per il
papato, svolse un'opera straordinaria per ampiezza e novità in quanto a
supporto istituzionale, testimoniata in gran parte dal suo epistolario (Re-
gistrum epistolarum ): riorganizzò l'amministrazione ecclesiastica, in tutti
i suoi aspetti, e la liturgia; difese i diritti del foro ecclesiastico; coniugò re-
sponsabilità politiche e militari e privilegi, organizzando Roma quale sede
di rifugiati e facendo del papato forza di potere di cui Bisanzio e i regni
occidentali dovettero tenere conto nei secoli successivi.
Autore di scritti di carattere spirituale, esegetico e pastorale (fra cui i
Moralia in lob e la Regula pastoralis) oltre che dei Dialogi, dove si celebrano
i santi, tra cui Benedetto, non fu un teorico. Ma, ovunque, agì secondo
orientamenti - e con una precisa visione politica di questioni più propria-
mente religiose ed ecclesiastiche - che contribuirono al rafforzamento del
cristianesimo. Il suo operato, sbilanciato per alcuni verso Occidente tanto
da contribuire alla formazione del!' Europa delle nazioni, era fortemente
proiettato anche verso Oriente. La sua lotta contro l'intolleranza ariana e il
paganesimo dei Longobardi si coniugò con la realizzazione di difficili equi-
libri politici nelle tappe della loro avanzata. Nella questione tricapitolina,
in cui era stato coinvolto anche prima dell'elezione, divenuto papa, operò
per una mediazione tra le chiese scismatiche e l'imperatore, facendo fronte
a difficoltà aggravate dall'invasione longobarda, che aveva anche diviso mi-
litarmente quelle chiese rispetto ai territori controllati dai Bizantini.
In Oriente, nel duplice registro della relazione con l'imperatore - tra
obbedienza e rivendicazione della propria superiorità spirituale (Regi-
strum 3,61 e 64) - fu rilevante la questione relativa al titolo di ecumenico
autoattribuitosi dal patriarca di Costantinopoli, titolo da Gregorio conte-
stato presso l'imperatore (5,37 e 39).

Franchi e vescovi gallo-romani

Nella Gallia romana, alla fine del IV secolo, si contavano circa 70 sedi epi-
scopali. Nel v secolo, oltre alle relazioni tra monaci e vescovi, uno dei tratti
maggiormente distintivi del cristianesimo in Gallia, così come in Spagna,
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 349

fu il compattarsi di vecchie e nuove forme di potere. Qui, l'alleanza era tra


vescovi gallo-romani, già alla guida politica delle città, e capi dei Franchi.
Negli ultimi decenni dell'Impero, i vescovi, per lo più membri dell'ari-
stocrazia gallo-romana, si distinsero per le trattative politico-militari con i
re germani. Spesso erano passati prima attraverso l'esperienza monastica:
ma vi furono anche casi di conflitto tra monaci e vescovi. Alcune caratteri-
stiche di questo episcopato gallico erano già presenti in Martino, vescovo di
Tours (cfr. CAP. 9, p. 303): militare e poi carismatico asceta ed eremita, eletto
vescovo a furor di popolo, nel 371, contro la volontà degli altri vescovi.
Quando i Franchi, confederazione di tribù, emersa già nel III secolo
a Oriente del basso Reno, occuparono il territorio gallico, dai loro culti
approdarono al cristianesimo di confessione nicena al seguito della con-
versione del franco Clodoveo (tra 482 e 498), della dinastia dei merovingi.
L'allineamento niceno non solo aiutò l'alleanza tra Franchi ed episcopato
gallo-romano, ma comportò anche rapporti privilegiati con la Chiesa ro-
mana che determinarono, dal VI secolo, il consolidamento del potere dei
Franchi in Occidente.
L'alleanza tra potere regio e Chiesa ripropose il modello costantinia-
no: Clodoveo, "nuovo Costantino" (Historia Francorum di Gregorio di
Tours), convocò molti concili, tra cui il più importante a Orléans (511).
L'episcopato gallo-romano, irrobustito nella sua forza politico-sociale, finì
per tentare di scardinare queste alleanze, entrando in conflitto con il po-
tere regio - in tal senso si lamentava re Chilperico in Gregorio di Tours -
e avviando tentativi di distacco da Roma: nel v secolo questi tentativi si
concretizzarono nelle rivendicazioni autonomistiche della Chiesa di Arles
sotto papa Leone, come abbiamo visto; nel VI, tra alterne vicende, alla
fine si stabilizzò l'allentamento dei rapporti con Roma, le cui decretali,
già ostacolate nell'applicazione, non avevano diffusione in territorio me-
rovingio: tanto che abbiamo un solo caso di ricorso al tribunale romano,
con Giovanni III (t 574).
Menzioniamo alcuni dei rappresentanti più importanti di questo epi-
scopato nei secoli V e VI: Sidonio Apollinare, di importante famiglia se-
natoriale gallica, già prefetto di Roma, divenne vescovo di Arverna (470-
471) (Clermont-Ferrand). Avito, vescovo di Vienne (494-518), coinvolse
Clodoveo in un progetto di conquista religiosa e militare dei popoli anti-
niceni. Il principale fu però Fausto di Riez ( t 495), già monaco di Lerino,
grande teologo, che cercò una posizione mediana fra agostinismo e pe-
lagianesimo, preoccupato soprattutto che il predestinazionismo estremo
350 STORIA DEL CRISTIANESIMO

vanificasse l'importanza della vita ascetica. La sua dottrina è impropria-


mente definita "semipelagianesimo".
Un ruolo politico significativo ebbe Cesario, vescovo di Arles ( 501/502-
543), che, nel 513, diventò vicario di Roma per la Gallia e la Spagna. Il vi-
cariato di Arles terminò con la morte di Sapaudo (586). Cesario, oltre che
mettere in atto un piano di eliminazione di sopravvivenze pagane, avviò
a temporanea chiusura (concilio di O range II, del 529) la riaffiorata con-
troversia dottrinale sul tema della grazia che agitava parte delle gerarchie
ecclesiastiche e gli ambienti monastici. Il concilio ribadì il ruolo impre-
scindibile della grazia nell'atto stesso del credere, ma affermò anche che
tutti i battezzati, con l'aiuto della grazia, possono compiere quanto è ne-
cessario alla salvezza. Il concilio condannò la dottrina di Fausto di Riez,
nonostante questi avesse contribuito a far assumere nel tempo posizioni
più moderate.
Esemplare anche la figura di Gregorio di Tours, di importante famiglia
senatoriale (538/540-594/595), imparentato con vescovi di molte città.
Nel 573, il re franco Sigeberto favorì la sua elezione. Con la sua opera si
affermava il sentimento di una Chiesa nazionale gallica.

Visigoti e vescovi iberico-romani

In Spagna, tra IV e VI secolo, c'erano tra 30 e 40 sedi episcopali e una si-


tuazione complessa. Il cristianesimo niceno era minacciato sin dalla prima
metà del v secolo dal priscillianismo - nonostante la condanna del conci-
lio di Toledo I, nel 401 -, dai pagani e dai barbari; possedimenti romano-
bizantini vi furono fino al VII secolo e costituivano modello di riferimento
e causa di scontro; la cattolicizzazione si confrontava con radicate presen-
ze giudaiche. La regione fu travolta dai Vandali, ivi passati dai Pirenei, nel
409 e, da qui, approdati, nel 429, in Africa. Le difficoltà erano tali che, se-
condo la testimonianza di Turibio, vescovo di Astorga, a metà del v secolo
(ep. a !dazio del 445) i sinodi non si potevano nemmeno riunire.
Complessivamente, l'invasione visigotica avvenuta sotto Teoderico
II (453-466) non fu tragica. Solo il successore Eurico (466-484), di fede
ariana e con mire espansionistiche anche sulla Provenza, attuò misure an-
ticattoliche, ma limitate al divieto di eleggere vescovi: così afferma Sidonio
Apollinare, che pure descrive Eurico come un ariano fanatico (ep. 7,6,4-8).
Più drammatica la testimonianza di !dazio ( t 469 ), che scrisse una cronaca
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 351

fino al 468, rappresentando il disastro del clero e della vita religiosa, non-
ché la scomparsa delle regole di convivenza.
La disfatta subita dai Visigoti da parte dei Franchi di Clodoveo a
Vouillé (507) cambiò la situazione. Tolosa, già capitale del regno visigoti-
co venne conquistata dai Franchi. Toledo diventò sede metropolitica per i
niceni. Re Leovigildo (568/569-586) promosse la città a sua capitale. Con
re Recaredo, che si convertì dall'arianesimo, nel 587, Toledo diventava il
centro del progetto di riunificazione nazionale nel segno di una comune
confessione di fede, e diventava anche sede di concili della Chiesa visigo-
tica. Al seguito del re passarono alla fede nicena, nel 589, nobili e clero
(concilio di Toledo m) e poi Goti e Svevi. In questa fase, anche la Spagna
conobbe l'alleanza tra nuovo potere politico e potere ecclesiastico: un per-
corso ben noto, foriero di sempre nuovi equilibri.
Inoltre, gli attacchi di Martino di Braga (intorno al 570) contro il pa-
ganesimo, lo stesso concilio di Toledo III (589 ), nonché i molti concili
(almeno 17 ), che intervennero su questioni di disciplina ecclesiastica, di-
mostravano le difficoltà in cui si dibatteva la fede nicena, nonché la preoc-
cupazione dei vescovi per la regolamentazione della Chiesa.
Anche all'interno della Chiesa agivano forze di disgregazione: lo di-
mostravano il riaccendersi di focolai priscillianisti e la risposta di vescovi
simpatizzanti che eludevano l'esortazione di Leone a fare un concilio con-
tro i priscillianisti. Nel 561, il primo concilio di Braga li condannò.
Durante il papato di Gregorio Magno, Isidoro vescovo di Siviglia ( t
636) testimonia di un cattolicesimo spagnolo autonomo da Roma e in au-
tonomia anche rispetto al potere regio. Isidoro celebra, nella prefazione
alla sua Historia Gothorum, questa nuova e orgogliosa Spagna «di tutte
le terre, che da Occidente fino all'India si estendono, la più bella», già
amata dall' «aurea Roma» e di cui adesso gode «la fiorentissima stirpe
dei Goti». Ma, nel VII secolo, gli equilibri tra Chiesa spagnola e regno si
spostarono ulteriormente e prevedevano il potere nelle mani del re, che
sceglieva anche i vescovi.

I monaci in Inghilterra e Irlanda

In Britannia, la vera missione si fa partire con papa Gregorio, nel 596: com-
posta da monaci del monastero di Sant'Andrea al Celio, tra cui Agostino
e Lorenzo, fu inviata per convertire gli Anglosassoni dal paganesimo. Ma,
352. STORIA DEL CRISTIANESIMO

a quell'epoca, la Britannia non era del tutto pagana: l'arretramento roma-


no, agli inizi del V secolo, aveva lasciato segni di romanizzazione e cristia-
nizzazione. Peraltro, le invasioni di Angli, Sassoni e Juci dalla Germania
avevano comportato la scomparsa del cristianesimo nella parte orientale
e meridionale.
Inoltre la missione, cui Gregorio pensava da tempo, era partita alla vol-
ta della corte di re Echelbert del Kent, forse, su richiesta dello stesso re. La
moglie, la regina Berta, era una principessa cristiana della dinastia franca e,
dopo il matrimonio, aveva già portato con sé un vescovo franco e praticava
la sua religione. Nel Natale del 598, il battesimo di 10.000 Inglesi per in-
tervento di re Echelbert riproponeva nel Kent il modello tardoantico della
conversione dei popoli. Sull'esempio di Ethelbert operarono anche altri re
anglosassoni, il più importante dei quali fu Edwin di Norchumbria, mari-
to della cattolica Aethelburg, sorella del re del Kent, convertitosi nel gior-
no di Pasqua del 62.7. Era stato papa Bonifacio v ( 619-62.5) a scrivere al re e
alla regina per sollecitare questa conversione. Fra i battezzati della Pasqua
del 62.7 c'era la giovane Hilda, nipote di Edwin, che poi si fece monaca, fu
badessa del monastero doppio di Harclepool e in seguito del monastero
benedettino di Whitby, dove dimorò il poeta Caedmon. Nei monasteri
doppi, in strutture separate, vivevano monaci e monache sotto la guida di
un abate, ma spesso di una badessa. L'istituzione era già presente in Orien-
te, e si diffonde in Occidente a partire dalla Gallia. Sotto Hilda nel 664 nel
sinodo riunito a Whitby si stabilì che la Chiesa di Norchumbria avrebbe
accolto la liturgia romana.
I sovrani che abbiamo menzionato sopra furono decisivi nella diffu-
sione del cristianesimo e alla loro propaganda si appoggiarono i missio-
nari. Inoltre, il contesto culturale era nel segno di un'autorità spirituale
fissata da Gregorio (Regula pastoralis) e seguita ancora dai suoi successori.
Gregorio e altri papi rinnovarono altre missioni, seguendone da vicino
problemi e progressi. Del 601 è una lettera di Gregorio che sconsigliava
la distruzione dei templi pagani o la cancellazione delle feste e suggeriva
piuttosto il loro riutilizzo in chiave cristiana per una graduale conversione
delle popolazioni.
Per quanto riguarda l'Irlanda, notizie più precise e più antiche rinviano
alla prima metà del v secolo la prima missione, a opera di Palladio, inviato
da papa Celestino, e di Patrizio, un britannico-romano. Unico paese non
romanizzato, ma cristianizzato, l'Irlanda conobbe un cristianesimo radica-
to su riti celtici e lingua gaelica. Anche qui, come in Britannia, la cristianiz-
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 353

zazione viaggiava attraverso percorsi monastici. Erano già molti i monasteri


quando vi giunse il monaco Agostino. Da qui partì Colombano per fondare
monasteri in Gallia e Italia (Luxeuil e Bobbio), che ebbero molta influenza
sulla diffusione del cristianesimo nel continente (cfr. CAP. 9, p. 305).

I Balcani
Nel v secolo tutte le diocesi e province della penisola balcanica, ammini-
strativamente controllate da Costantinopoli, dal punto di vista ecclesia-
stico, erano legate a Roma, eccetto la diocesi Thracia. Teodosio II dovette
anche ritirare una legge che subordinava i vescovi dell'Illyricum a Costan-
tinopoli (CTh 16,2.,45 del 42.1). A metà del v secolo, non è chiaro a cosa
corrispondesse il termine Illyricum. Qui, il legame con Roma si rafforzò
quando Leone concesse il vicariato ad Anastasio di Tessalonica (epp. 6; 13;
14). Questo vicariato venne ridimensionato da Giustiniano che lo attribuì
anche a lustiniana Prima, imponendo così a Roma due vicariati. Anche le
invasioni andavano limitando il rapporto con Roma alle sole regioni meri-
dionali, fino a quando, con Leone III lsaurico, tutto passò sotto il control-
lo di Costantinopoli (732.-733).
La specificità religiosa di questa regione è in rapporto alla particola-
rità delle condizioni migratorie di popoli fino ad allora rimasti separati
dal mondo romano, con il quale non c'erano stati precedenti contatti né
incontri osmotici di alcun tipo. Così, gli insediamenti dei popoli slavi
produssero esiti deflagranti per i precedenti assetti. La distanza culturale
e la difficoltà di interpretarne, anche per la maggiore distanza linguistica,
l'interazione con l'Occidente - interazione diversa, rispetto a quella con i
"più vicini" popoli germanici - sono state tra le concause di pregiudizi di
tipo razzistico e di incomprensioni, anche storiografiche.
Dopo Unni (dal 42.0 al 455), Gepidi (Goti) - scacciati dai Longobar-
di (567) - e Ostrogoti di Teoderico (nel 473), comparvero Bulgari (493-
502.), Slavi (dal 517 al 52.8 e 52.9), Turcotartari (540) e Scalveni (Slavi del
Sud); infine, gli Avari, di ceppo mongolo, che, arrivati dall'Asia, occupa-
rono la Pannonia lasciata libera dai Longobardi, migrati in Italia (568).
Avari e Slavi, spintisi verso sud, distrussero Sirmium (583) e arrivarono a
Tessalonica (584), con conseguente slavizzazione della penisola balcanica.
A differenza dei popoli germanici, che non avevano cambiato l'aspetto et-
354 STORIA DEL CRISTIANESIMO

nico e culturale della regione, le invasioni degli Slavi, suddivisi in gruppi


indipendenti e senza unità, dal v e VI secolo, hanno trasformato profon-
damente queste zone. Il mondo romano d'Oriente, a est delle Alpi, venne
spezzato in mille frammenti senza storia, ma da qui ebbe luogo una nuova
storia di interazioni con la cultura occidentale.
L'iter di osmosi culturale non fu lento e fluido, ma a "scatti", con fasi di
impatto violento, assestamenti, nuovi impatti. È possibile parlare di con-
versione, evangelizzazione, cristianizzazione. Ma tutti questi processi si re-
alizzavano in modi concretamente diversi rispetto a quelli con i Germani.
Nella prefettura dell'Illirico, dove il latino era ancora la lingua principale,
e il cristianesimo era articolato in varie tendenze ereticali, gli Slavi deter-
minarono la scomparsa della civiltà romana e di molte sedi episcopali. Co-
munità e chiese cristiane sopravvissero con difficoltà e in modo isolato.
Per i singoli gruppi di Slavi e per questi territori, presenza cristiana e cri-
stianizzazione avvenivano per due vie: come tentativo dell'Occidente di
introdurre il cristianesimo tra gli Slavi e come difesa dei cristiani nell'area
di insediamento degli Slavi. Chiesa franca e Chiesa di Aquileia, con sede a
Cividale, nel periodo carolingio, furono protagoniste di un tentativo più
sistematico, partito dall'Occidente, di cristianizzazione degli Slavi, prima
della più nota missione biz;tntina guidata dagli apostoli degli Slavi, Cirillo
e Metodio, nel IX secolo.

L'Africa fuori dal circuito europeo

Le diverse province del territorio d'Africa presentavano una situazione


estremamente diversificata rispetto al livello di cristianizzazione. Nel pe-
riodo di massimo splendore c'erano centinaia di sedi episcopali, concen-
trate nella parte orientale, cioè nell'Africa proconsolare.
La diffusione del cristianesimo seguiva i percorsi della romanizzazio-
ne, attuatasi in modo estremamente articolato. Il conservatorismo lingui-
stico rifletteva quello religioso. Nel v secolo molte popolazioni africane
parlavano lingue che si rifacevano al berbero, mentre la lingua comune
era il punico: «innumerevoli tribù di barbari, ai quali il vangelo non è
stato ancora predicato» sono radicate oltre le frontiere romane (Agosti-
no, ep. 199,46).
Inoltre, il cristianesimo non era tutto allineato sul fronte niceno. Nei
411 a Cartagine un concilio, seguito da un editto, sembrò mettere fine allo
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 355

scisma donatista (cfr. CAP. 8, p. 2.70 ). L'Africa era ancora lacerata da questo
scisma, quando, provenienti dalla Spagna, nel 42.9, vi giunsero i Vandali,
ariani, che conquistarono, oltre che parte dell'Africa, anche Sicilia, Sarde-
gna, Corsica e Baleari. Il conflitto religioso si estese. Nel 439, con la presa di
Cartagine, iniziava un periodo di persecuzioni da parte dei nuovi padroni
dell'Africa orientale, antiniceni, contro i niceni della "Chiesa imperiale"
e, verosimilmente, anche contro i donatisti. Stanziati nella Proconsolare,
i Vandali, tra 457 e 477, perseguitavano il clero e imposero l'arianesimo
prima ai funzionari; poi, sotto re Hunirico (477-484), un editto del 484
impose la conversione a tutta la popolazione africana. Le chiese cattoliche
vennero recuperate al culto ariano.
Rispetto a questo missionarismo, una svolta è rappresentata dall'editto
di re Hilderico (52.3-530) del 52.3, che restituì la libertà religiosa alle diverse
confessioni.
Nel 535, la riconquista di Giustiniano e la persecuzione dei cristiani ne-
mici della Chiesa imperiale anticiparono di dieci anni il conflitto dei Tre
capitoli e l'inasprimento della repressione imperiale che ebbe il sopravven-
to nel 569. Ma, fermenti religiosi tendenzialmente autonomistici, forte-
mente radicati su questioni emico-sociali, e poco propensi ad allinearsi al
potere centrale romano, ripresero il sopravvento. Ali' inizio del VI secolo,
Gregorio Magno denunciò la comunità africana in quanto scismatica, per
la pratica della reiterazione del battesimo, considerata donatista (epp. 2.,39;
4,32.; 4,35).
Sono gli stessi fermenti che, insieme ad altri elementi culturali e reli-
giosi - quali la precedente diffusione dell'arianesimo, con la sua impronta
di maggiore evidenza monoteistica -, potevano dialogare meglio con il
sopravvenuto messaggio di Maometto (Mul:iammad), favorendo la con-
quista del continente africano, strappato al cristianesimo a partire dall' E-
gitto, nel 646.

Bibliografia ragionata

Manuali, strumenti e storie generali: per la storia del papato, si vedano le singole voci
in Enciclopedia dei papi, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 2.000. Fondamen-
tali, per inquadramento storico e geografico insieme: A. DI BERARDINO (a cura di),
/1tlante storico del cristianesimo antico, EDB, Bologna 2.006; Storia del cristianesimo.
Religione-Politica-Cultura, voi. III: Le Chiese d'Oriente e d'Occidente, Boria-Città
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Nuova, Roma 10 o 1; Histoire générale du christianisme, voi. I: Des origin es au XV' siede,
PUF, Paris 1010.
Sulla fine dell'Impero romano e per i regni romano-barbarici, d'obbligo la lettura
del classico e sempre stimolante s. MAZZARINO, La fine del mondo antico: le cause del-
la caduta dell'impero romano, Bollati Boringhieri, Torino 1008. Cfr., per un episodio
cruciale, l'opera diJ. LIPPS, c. MACHADO, P. VON RUMMEL (eds.), Ihe Sack o/Rome
in 4Io AD: Ihe Event, its Context and its impact, Dr. Ludwig Reichert Verlag, Wiesba-
den 1013. Sui lunghi processi di integrazione dei popoli germanici, slavi e baltici da un
lato e Impero romano dal!' altro, con prospettive diversamente cenerate, su Mediterra-
neo, Europa settentrionale e orientale, si vedano H. WOLFRAM, Storia dei Goti, Saler-
no editore, Roma 1985 (ed. or. 1979 ); F. DVORNIK, Gli Slavi nella storia e nella civilta
europea, Dedalo, Bari 1968 (ed. or. 1961); K. MODZELEWSKI, L'Europa dei Barbari.
Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Bollati Boringhieri, Torino
1008 (ed. or. 1004); P. DELOGU, s. GASPARRI (a cura di), Le trasformazioni del v
secolo. L'Italia, i barbari e l'Occidente romano. Atti del seminario di Poggibonsi, IS-20
ottobre 2007, Brepols, Turnhout 1010; P. HEATHER, L'impero e i barbari, Garzanti,
Milano 1010 (ed. or. 1006); s. GASPARRI, c. LA ROCCA, Tempi barbarici. L'Europa
occidentale tra antichita e medioevo (300-900 ), Carocci, Roma 1011.
Fondamentali per i rapporti culturali: B. LUISELLI, Storia culturale dei rapporti
tra mondo romano e mondo germanico, Herder, Roma 1991; ID., La formazione del-
la cultura europea occidentale, Herder, Roma 1003; ID. ( = Luiselli, 1014), Barbaritas
theologica: nuove frontiere teologiche nelle culture 'barbariche' dell'Occidente, in La
teologia dal V all'vm secolo fra sviluppo e crisi, XLI Incontro di Studiosi dell'Antichità
Cristiana (Roma, 9-11 maggio 1013), Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1014,
pp. 117-33. Sulla letteratura latina del periodo, cfr. M. SIMO NETTI, Romani e barbari.
Le lettere latine alle origini dell'Europa {secoli v-vm), Carocci, Roma 1006.
Per paganesimi, culti e riti romani e cristianizzazione dei barbari, rappresenta un
momento storiografico importante il volume La conversione al cristianesimo nell'Eu-
ropa dell'A.lto Medioevo, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro
Italiano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 14-19 aprile 1966), voi. XIV, CISAM,
Spoleto 1967.
Sulla lenta scomparsa di culti e riti pagani, coesistenti ancora nel ve VI secolo con
il cristianesimo, si vedano G. BONAMENTE, R. LIZZI TESTA (a cura di), istituzioni,
carismi ed esercizio del potere {IV-VI secolo d.C.), Edipuglia, Bari 1010, pp. 173-303; P.
BROWN, R. LIZZI (eds.), Pagans and Christians in the Roman Empire: Ihe Breaking
o/a Dialogue (1v'1,-vt1, Century AD), Proceedings of che Incernational Conference at
che Monastery ofBose (October 1008), LIT, Miinster 1011; P. CHUVIN, Cronaca de-
gli ultimi pagani. La scomparsa del paganesimo nell'impero romano tra Costantino e
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 357

Giustiniano, trad. it. a cura di F. Cannas, con una nota di G. Agosti, Paideia, Brescia
2.012. (ed. or. 1991). Con riferimenti archeologici, cfr. G. BINAZZI, La sopravvivenza
dei culti tradizionali nell'Italia tardoantica e medievale, Morlacchi, Perugia 2.008; ID.,
Il radicamento dei culti tradizionali in Italia fra tarda antichità e Alto Medioevo. Fonti
letterarie e testimonianze archeologiche, L'Erma di Bretschneider, Roma 2.012..
Sui processi di interazione religiosa e di cristianizzazione, per una visione di insie-
me, si veda c. LA ROCCA, La cristianizzazione dei barbari e la nascita dell'Europa, in
"Reti medievali", 5, 2., 2.004, pp. 1-38. Più specifici: v. PERI, La cristianizzazione delle
etnie slave {secoli VII-XI), in "Anuario de Historia de la lglesia", 9, 2.000, pp. 85-108;
ID., L'ingresso degli Slavi nella cristianità altomedievale europea, in Roma fra Oriente
e Occidente, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi
sull'Alto medioevo (Spoleto, 19-2.4 aprile 2.001), voi. XLIX, CISAM, Spoleto 2.002., pp.
400-53; E. PRINZIVALLI, L'arianesimo: la prima divisione tra i Romani e la prima
assimilazione dei popoli migranti, in Cristianità d'Occidente e cristianità d'Oriente {se-
coli VI-XI), Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi
sull'Alto medioevo (Spoleto, 2.3-2.4 aprile 2.003), voi. LI, CISAM, Spoleto 2.004, pp.
31-60; R. Barcellona, Una società allo specchio. La Gallia tardoantica nei suoi concili,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2.012..
Per le regole monastiche e il monachesimo, cfr. la Bibliografia ragionata del CAP. 9.
Sul primato e relative questioni dottrinali si veda il classico E. CASPAR, Geschichte
des Papsttums, Bd. II: Das Papsttum unter byzantinischer Herrschaft, Mohr, Tùbin-
gen 1930 e 1933. Per una visione problematica generale, cfr. G. DE ROSA, G. CRACCO
(a cura di), Il papato e l'Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2.001; Y.-M. HILAIRE
(éd.), Histoire de la papauté, Editions du Seuil, Paris 2.003'.
Per una lettura storiograficamente rinnovata dei rapporti con l'Oriente, fonda-
mentale è l'opera di PH. BLAUDEAU, Le siege de Rome et l'Orient (448-536). Étude
géo-ecclésiologique, ÉFR, Roma 2.012..
Per alcune importanti questioni istituzionali e dottrinali, si vedano M. MACCAR-
RONE, 'Vicarius Christi'. Storia del titolo papale, Lateranum, Romae 1952.; T. SAR-
DELLA, Societa, Chiesa e Stato nell'eta di Teoderico, Rubbettino, Soveria Mannelli
1996; R. BARCELLONA, La soluzione di Orange (529). Tra teologia e antropologia, in
!,a teologia dal v all'VIII secolo .fra sviluppo e crisi, XLI Incontro di Studiosi dell 'Anti-
chicà Cristiana (Roma, 9-11 maggio 2.013), Istituto Patristico Augustinianum, Roma
2014, pp. 481-507; A. BECKER, Les relations diplomatiques romano-barbares en Occi-
dent au V' siede. Acteurs,fonctions, modalités, De Boccard, Paris 2.013. Sull'importante
figura di Fausto di Riez, cfr. R. BARCELLONA, Fausto di Riez interprete del suo tempo.
Un vescovo tardoantico dentro la crisi dell'Impero, Rubbettino, Soveria Mannelli 2.007.
Su Gregorio Magno, in occasione delle celebrazioni per il XIV centenario della
STORIA DEL CRISTIANESIMO

morte ( 604) si sono svolci molci convegni e gli Atti sono stati regolarmente pubblica-
ti. Ricordiamo qui solo l'ulcimo (dal quale si può ricavare l'indicazione dei preceden-
ti): Gregorio Magno e le origini dell'Europa, Atti del Convegno internazionale (Firen-
ze, 13-17 maggio 2.006), sotto la direzione di Claudio Leonardi, SISMEL-Edizioni del
Galluzzo, Firenze 2.014.
Per gli aspetti socio-culcurali, cfr. J.-M. CARRIÉ, 'Démocratisation de la culture': un
paradigme a géométrie variable, in "Antiquité Tardive", 9, 2.001, pp. 2.7-46; A. CHAU-
VOT, Barbarisation, acculturation et 'démocratisation' de la culture dans t:Antiquité
tardive, in "Amiquité Tardive", 9, 2.001, pp. 81-95 (di riferimento tutto il numero della
rivista). Per questioni specifiche, si veda J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del
mercante, Einaudi, Torino 1977. Un'interessante prospettiva sullo sviluppo topogra-
fico di Roma si trova in R. KRAUTHEIMER, Roma, profilo di una citta (p2-I30S), Edi-
zioni del!' Elefante, Roma 1981 (ed. or. 1980).
12

L'utopia giustinianea e gli sviluppi


fino al VII secolo
di Philippe Blaudeau

Un programma ambizioso

Con l'avvento di Giustiniano nel 527, preparato, se non deciso e anticipato,


durante il regno di suo zio Giustino I (cfr. CAP. 11, p. 346), gli stessi principi
di governo in forza dei quali l'imperatore concepisce e svolge la sua azione
assumono un significato nuovo. Si tratta infatti di certificare l'avvenuta fine
di un'epoca di incertezza, identificata con i regni che precedono il ritorno
alla proclamazione ufficiale della fede calcedonese, l'epoca cioè di Zenone
e Anastasio I (474-518). Più ancora: Giustiniano intende inaugurare una
nuova era. Egli si sente destinato a distinguersi nettamente fra tutti i sovrani
che, prima di lui, hanno manifestato il loro favore per il cristianesimo.
L'ambizioso progetto si traduce in un ampio programma che si caratte-
rizza specialmente per l'iniziativa di riconquista militare e per la potenza
organizzatrice dell'opera legislativa. Tuttavia, la coerenza stessa del dise-
gno presuppone che l'impegno religioso del sovrano instancabilmente
ispiri e garantisca, in breve, strutturi, l'insieme della sua politica. Egli di-
spiega anche un'attività che abbraccia, non senza frizione, gli ambiti dei
costumi religiosi, della disciplina e dell'ordine ecclesiastico, soprattutto
della teologia.
Un'opera così concepita, che mira a condurre - in caso di necessità, a
costringere - all'unità di un'ortodossia che abbracci tutti i soggetti dell'e-
cumene, fino ai suoi lontani confini, può sembrare eccessivamente ambi-
ziosa per non dire utopica. Soprattutto, essa non può sfuggire del tutto
all'alternarsi delle fortune e delle disgrazie del regno: dopo l'impressio-
nante inizio (527-538), questo attraversa prove formidabili che si aggrava-
no di orribili disastri fra il 539 e il 543. Successivamente sembra affetto da
una cerca tendenza ali' inazione e al pessimismo, salvo, appunto, in materia
d' iniziative dottrinali.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

In molti settori, le decisioni religiose di Giustiniano determinano una


forte conformazione dell'Impero all'ideale del sovrano e ne forgiano du-
revolmente l'identità. Contribuiscono dunque a imporlo come un mo-
dello di riferimento con il quale i suoi successori dovranno confrontarsi,
anche quando si troveranno a sostenere, a ritmo incalzante, nuove sfide.

L'utopia giustinianea (527-602) alla prova dei fatti:


una romanità cristiana rinnovata?

Le linee di coerenza di un progetto ampio

A dar credito a un racconto redatto probabilmente nel IX secolo, Giusti-


niano, ammirando lo splendore di Santa Sofia, davanti all'ambone avrebbe
esclamato: «lo ho vinto Salomone!». Celebrando in tal modo la magni-
fica ricostruzione della basilica, Giustiniano si guarda bene dal suggerire
anche il più piccolo confronto con Costantino. Da nessuna parte, nella
sua imponente opera giuridica, introduce riferimenti al suo illustre pre-
decessore. Inoltre nessuna assemblea sinodale, ansiosa di celebrare la sua
ortodossia, lo loda mai come un nuovo Costantino. Giustiniano ritiene
dunque che rivendicare il confronto con l'autore della celebre "svolta" non
rientri nei suoi interessi, nonostante la sua propria legittimità resti segnata
da un'origine oscura. Egli deve comunque fare i conti con la reputazione
per molti versi sulfurea di sua moglie, Teodora, che la sua carità, più che la
sua devozione, celebrate entrambe in una iscrizione ai santi Sergio e Bacco,
non bastano a correggere. Ecco perché l'imperatore ottiene il suo trionfo
ideologico sgominando la rivolta di Nika (532), scoppiata per motivi poli-
tici, soprattutto fiscali, e alimentata negli ambienti dell'Ippodromo dalle
fazioni sportive degli Azzurri e dei Verdi, e sfruttando il vantaggio che
paradossalmente gli offrono le devastazioni commesse. In qualche modo,
ormai il terreno per la sua ambizione era sgombrato, al punto che le dicerie
avevano potuto lasciar intendere che egli stesso avesse innescato la rivolta.
Mediante la rifondazione della basilica, egli pubblica un vero manifesto,
destinato a caratterizzare tutto il suo regno: dimostrare compiutamente
che a lui solo è stata affidata la missione divina di portare a perfezione
quanto Salomone aveva immaginato. Allo stesso tempo, facendo ciò, se-
gnala che egli porta a completa significazione quanto Costantino aveva
solamente intravisto e avviato. Giustiniano intende incarnare meglio di lui
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 361

un periodo nuovo e decisivo, che avrebbe dato compimento alla grandezza


di una Roma concepita senza rotture, dal tempo di Enea fino al suo regno,
passando per Romolo, Augusto, Tito o Marco Aurelio. Di fatto, egli vuole
conformarla alla sua vera vocazione, quella di fornire le condizioni più fa-
vorevoli per il ritorno glorioso di Cristo, la parousia.
Il ruolo incomparabile che Giustiniano assegna alla sua azione non può
banalmente spiegarsi con la megalomania. Al di là di una politica dal corso
in apparenza aleatorio e, a prima vista, sconcertante, è piuttosto l'unità di
pensiero che ne costituisce il fondamento. Il suo ideale riposa sull'assoluta
necessità di fare in modo che regnino il buon comportamento e il buon
ordine (kosmia e taxis), quelle virtù, cioè, che sarebbero esistite nell'antica
Roma. All'interno dell'Impero, questa pace è l'oggetto permanente della
legge, perfezionata, dopo la formazione del Corpus iuris civilis (termina-
to nel 534), grazie alle novellae composte, in greco soprattutto, mentre le
armi dovevano difenderne l'integrità di fronte alle minacce esterne. Ma la
ricerca di un simile sereno governo non costituisce il momento conclusivo
dello sforzo imperiale. Se Giustiniano presenta sé stesso come fonte unica
del diritto secolare e legge incarnata, è in quanto intende completare l'edi-
ficazione di uno Stato completamente, intrinsecamente cristiano.
Così l'opera imperiale è chiamata a rispecchiare le realtà superiori. Ere-
de dell'ideologia costantiniana precisata da Eusebio di Cesarea, Giustinia-
no è il primo imperatore a dichiararsi ufficialmente philochristos (amico di
Cristo). Egli vuol essere il rappresentante di Dio in terra, un motivo che
Procopio si limita a rovesciare negli Anekdota, facendo di Giustiniano il
principe dei demòni. Agli occhi di Giustiniano, il sovrano è dunque pe-
culiare immagine di Dio perché governa senza essere lui stesso governato
da nessun'altra creatura. Seguendo l'esempio dell'immutabile modello
celeste, Giustiniano intende, dunque, incarnare la stabilità del potere nel
suo palazzo, al punto da non spostarsi quasi dalla capitale. Soprattutto,
consacra un'incessante riflessione al problema di come riuscire a confor-
mare il diritto degli individui ereditato dall'antica tradizione romana alla
legge e al piano divini. Per fare ciò, mette al primo posto fra le sue cure
l'integrità della dottrina cristiana, che tende a divenire sotto il suo regno
l'elemento centrale che permette di definire la comunità romana. Il libro
I del suo Codice si apre con il titolo «dell'altissima Trinità e della fede
cristiana». Così Giustiniano enuncia il desiderio di pervenire all'unità del
suo popolo, l'unico modo ai suoi occhi di garantire la coerenza della sua
azione. Pertanto, il complemento rappresentato dal titolo introdotto im-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

mediatamente dopo: «e che nessuno osi attaccarla pubblicamente» desi-


gna il primo nemico da combattere, la diversità delle credenze, che egli si
propone di annullare.
Nei confronti dei politeisti l'arsenale legislativo messo in opera da Giu-
stiniano è immediatamente e deliberatamente repressivo. Perché non gli
basta una semplice erosione del paganesimo, troppo lenta per i suoi gusti:
egli intende sradicare tutte le forme di adesione alle divinità tradizionali. Il
dispositivo che priva i loro adoratori del diritto a ogni forma di trasmissio-
ne di proprietà, sia come donatori sia come beneficiari di successione, vie-
ne precisato; la loro capacità di far causa è eliminata. Soprattutto la pena
di morte, che fino ad allora era prevista, in simili materie, soltanto per i
manichei, è brandita come minaccia nei confronti di coloro che, dopo il
battesimo, osassero tornare alle loro antiche pratiche. L'imperatore attac-
ca ugualmente alcune figure particolarmente in vista nell'apparato dello
Stato. Si è tentati di fare della chiusura definitiva della Scuola filosofica
di Atene (529) la manifestazione emblematica della sua intolleranza. Tut-
tavia è più sicuro che questa decisione sia il risultato di rapporti di forza
locali, il che permette di comprendere meglio perché l'insegnamento della
filosofia viene, al contrario, mantenuto ad Alessandria. Interrotto al tem-
po della rivolta di Nika, lo sradicamento voluto da Giustiniano riprende
in seguito con fasi di ineguale intensità: nel 542 il monaco Giovanni, fu-
turo vescovo anticalcedonese di Efeso (useremo costantemente la dizio-
ne "anticalcedonese" per indicare quanti si oppongono alla dottrina delle
due nature senza sposare l'estremismo di Eutiche, mentre riserveremo la
dizione "monofisiti" agli eutichiani: il lettore tenga presente che in altre
trattazioni troverà, per indicare gli anticalcedonesi, la dizione "miafisiti" o
"monofisiti"), si vede affidare una missione ufficiale, e, secondo la sua stes-
sa testimonianza, conduce alla fede cristiana 70.000 anime in Asia, Caria,
Lidia e Frigia. Poco dopo, nel 545-546, si apre una nuova serie di proce-
dure, accompagnate da torture. Una terza e ultima ondata di violenza è
evidenziata dalle fonti: si abbatte sui superstiti pagani certamente nel 562
e non riguarda solo Costantinopoli. Giustiniano non lascia nessun dura-
turo sollievo ai recalcitranti: ai suoi occhi per loro, come per gli eretici, già
vivere è troppo. Egli fa anche chiudere gli ultimi templi ai confini, quello
di Iside a Philae (537?) e quello di Giove Ammone nel deserto libico. Se
ogni forma di paganesimo non è evidentemente sparita alla morte di Giu-
stiniano, come rivela l'affare di Anatolio sotto il regno di Tiberio II (580),
la direzione impressa dall'imperatore, e la sua continuazione, cambiano
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 363

la natura stessa dei legami sociali e culturali. Molti intellettuali cercano di


raccogliere e conservare le conoscenze ora minacciate in ragione del loro
rapporto con la religione greca: di qui le iniziative antiquarie o enciclope-
diche sorprendenti, come quella di Stefano di Bisanzio, e soprattutto i la-
vori audaci di Giovanni Lido, che non ha ancora rinunciato, verso la metà
del secolo, all'idea che Giustiniano possa affrontare questa emergenza.
Per nulla limitato al paganesimo, il principio direttivo della politica re-
ligiosa di Giustiniano, radunare cioè nell'unità della fede ortodossa tutti
gli abitanti di un Impero adesso esteso a certe province una volta perdute,
si scontra ancora con due comunità tradizionali costituite al di fuori dei
punti di riferimento cristiani: i Samaritani e i Giudei. Riguardo al giudai-
smo, Giustiniano non rimette in causa il suo statuto di culto riconosciu-
to dallo Stato (ma non nell'Africa riconquistata). Tuttavia, egli arriva a
propugnare l'impiego nelle sinagoghe della traduzione greca dei Settanta
invece che del testo ebraico o di traduzioni greche a esso vicine, persuaso
che essa predisporrà i suoi uditori alla conversione. Allo stesso tempo re-
spinge l'uso del Talmud (Deuterosis) che giudica estraneo alla rivelazione
delle Sacre Scritture. Riducendo un po' di più rispetto ai suoi predecessori
lo spazio di espressione concesso al giudaismo, egli paradossalmente con-
tribuisce a una ri-ebraizzazione contraria alle sue intenzioni.
Nei confronti dei Samaritani, Giustiniano si fa più duro, come se la
loro antichità biblica non bastasse a preservarli dall'obbligo di cambiare
religione. Una legge li priva di ogni luogo di culto nel 52.8. Scoppiata nella
primavera del 52.9, la rivolta samaritana conduce a una repressione fra le
più sanguinose in Palestina, al punto che una parte importante della co-
munità fugge verso la Persia. Per quanti rimangono sul posto, non resta
che condurre un'esistenza di seconda categoria, privata, al pari dei pagani,
dei diritti di successione, oppure prodursi in una nuova insurrezione (555),
anch'essa severamente punita.
Con i manichei, la logica giustinianea di riduzione dell'alterità religiosa
giunge sicuramente al parossismo. Giustiniano considera il loro movimen-
to come una intollerabile devianza settaria, tanto denunciata dalla Chiesa
quanto proscritta dalla legge romana. Dal suo avvento (52.7 ), egli si giudica
legittimato ad applicare la pena capitale, già comminata per editto da Ana-
stasio, nei riguardi dei dualisti. Questa politica del terrore sembra raggiun-
gere immediatamente lo scopo: il manicheismo scompare dall'Impero.
Riguardo agli ariani e alle diverse convinzioni che questo termine rico-
pre, Giustiniano differisce poco dai suoi predecessori: mostra solamente
STORIA DEL CRISTIANESIMO

una più grande severità nell'applicazione delle misure che li escludevano


dagli impieghi civili e militari, facendo una temporanea eccezione per i
Goti federati. La spedizione contro i Vandali fornisce all'imperatore l'oc-
casione di assimilare giogo barbaro ed eretico.
Nel suo sforzo di non concedere nulla ai supposti nemici dell'ortodos-
sia, di cui fanno parte anche i sostenitori delle due nature (eredi di Nesto-
rio ), Giustiniano in un unico caso sembra mostrare esitazioni circa la po-
litica da seguire: nei confronti dei sostenitori dell'unica natura (miafisiti
o monofisiti), molto numerosi, in verità. Nessun dubbio che Giustiniano
resti quello che era fin dall'infanzia, un calcedonese, che però la sua for-
mazione o, anche, la frequentazione di vescovi e monaci, gli Sciti ad esem-
pio (cfr. CAP. IO, p. 32.6), spinge a privilegiare una cristologia discendente,
dalla divinità all'umanità. Fin dall'inizio l'imperatore conferma, con un
editto in forma di confessione di fede accompagnata da anatemi, il suo
attaccamento a una concezione teopaschita dell'incarnazione ( il Logos di
Dio come soggetto della sofferenza, della morte, della crocifissione, come
nella cristologia severiana dell'unica natura). Allo stesso tempo, Giusti-
niano mantiene in vigore le misure prese dallo zio nei riguardi degli euti-
chiani, in modo particolare nella diocesi d'Oriente e lascia ancora l'Egitto
indenne da ogni repressione. Tale scelta è, in questo caso, senza dubbio, il
risultato della radicata presenza del movimento anticalcedonese. Nondi-
meno un peso possono averlo avuto i danni provocati delle rivalità interne,
perché colà si sviluppa una nuova controversia riguardante la corruzione
alla quale il corpo di Cristo sarebbe stato soggetto dopo la morte. Questa
oppose i "corrutticoli" - o "ftarcolatri", termine peggiorativo a indicare gli
adoratori del corruttibile - nonché i severiani, cioè i sostenitori dell'in-
segnamento di Severo di Antiochia (il maggiore teologo anticalcedonese
della sua epoca: cfr. CAP. IO, p. 32.0 ), agli "incorrutticoli", altrimenti de-
nominati "aftartodoceti" o giulianisti, in nome del loro attaccamento alla
dottrina di Giuliano di Alicarnasso. I primi ritenevano che, in quanto pas-
sibile, la carne di Cristo partecipasse delle alterazioni naturali, i secondi
invece, ritenevano che, in virtù dell'unione con il Logos, la carne di Cristo
non fosse soggetta alle limitazioni della natura umana. Immediatamente,
la controversia si diffonde nella valle del Nilo.
La ripresa del conflitto con la Persia (531) probabilmente induce Giusti-
niano a correggere la sua politica. Sicuramente vi è indotto dalla moglie Te-
odora, la cui influenza cresce visibilmente dopo aver dimostrato un corag-
gio virile nel vivo della rivolta di Nika. Durante l'anno 532., nel palazzo di
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 365

Ormisda della capitale, con una conferenza documentata da ambo le parti,


egli riunisce a dibattito le delegazioni episcopali dei due partiti, calcedone-
se e anticalcedonese (o severiano ). Le questioni trattate sono teologiche ma
anche istituzionali, dal momento che dal risultato del lavoro dipende il ri-
conoscimento ufficiale dei vescovi sulle sedi contestate. Se nulla di concreto
sembra emergere dal contraddittorio, tranne la conversione ufficiale di un
vescovo anticalcedonese, l'imperatore porta avanti la sua intenzione di por-
re rimedio alla controversia in virtù della sua competenza teologica, tanto
più che l'attaccamento dei calcedonesi al teopaschismo non gli è parso dei
più convinti. Attaccando il neonestorianesimo imputato specialmente ai
monaci acemeti (cfr. CAP. 9, p. 293), Giustiniano emana una confessione di
fede (formula Iustiniani ad populos) che, rivendicando il precedente costi-
tuito dall'editto Cunctos populos di Teodosio I, figura al primo posto nelle
leggi raccolte nel Codice giustinianeo. La misura mira a mettere sotto pres-
sione la Chiesa di Roma per ottenere il suo assenso alkformule teopaschite
imperiali. Questa manifesta intenzione, controbilanciata semplicemente
dalla riaffermazione della validità incontestabile dei quattro concili, appro-
da finalmente all'attesa accettazione di papa Giovanni II.
Di solito si attribuisce alle manovre di Teodora la nomina di due vesco-
vi severiani, Teodosio ad Alessandria, nel febbraio del 535 - d'altro canto
vivamente contestata dai giulianisti che gli oppongono un concorrente,
Gaiano, nel maggio del 535 - e Antimo a Costantinopoli, nel giugno dello
stesso anno. Quest'ultimo altri non è che l'antico vescovo di Trebisonda,
uno dei rappresentanti calcedonesi della conferenza nel palazzo di Or-
misda del 532, che in seguito è stato discretamente guadagnato alla causa
severiana. La cosa maggiormente degna di nota è che Giustiniano lascia
fare. Senza dubbio immagina di poter convincere Severo di Antiochia,
che egli ha pressantemente invitato nella capitale (535). In questo caso, le
condizioni previste nel 532 diventerebbero la carta imperiale di una comu-
nione finalmente ripristinata. Ma, non ottenendo le concessioni sperare,
Giustiniano allora supporta le esigenze del vescovo di Roma, Agapito, per
cambiare alleanze. Se il papa, venuto in ambasciata per ingiunzione del re
ostrogoto Teodato, ottiene sia dall'imperatore sia dal nuovo arcivescovo
la sottoscrizione del libello di fede romana, deve, da parte sua, confermare
l'approvazione alla linea reopaschira promossa da Giustiniano.
Un sinodo, che segue di poco la morte improvvisa a Costantinopoli
di Agapito (22. aprile 536), aggiunge alla condanna di Antimo l'anatemiz-
zazione di Severo, i cui scritti avrebbero dovuto essere bruciati (maggio-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

giugno del 536). Giustiniano può dunque considerarsi soddisfatto delle


decisioni conciliari. Egli ha infatti dimostrato ciò che la formula del pa-
triarca Mena, che era stato consacrato da Agapito stesso dopo che questi
aveva deposto Antimo, prevedeva senza mezzi termini: «nessuna questio-
ne agitata nella santa Chiesa dovrà essere risolta senza la sua opinione e il
suo assenso». La piena conformità delle decisioni ecclesiali alle intenzioni
imperiali è ancora enunciata nella novella 42 con la quale Giustiniano at-
tua le sanzioni previste dal sinodo.
Giustiniano compie un passo ulteriore imponendo in Egitto, con tutta
la sua autorità, il ristabilimento di una gerarchia fedele a Calcedonia, a
cominciare da Alessandria, da cui tutti i vescovi della valle del Nilo diret-
tamente dipendono. Paolo di Tabennisi, il nuovo patriarca (fine 537?) è
dotato di attribuzioni civili eccezionali e istallato sulla sede di san Marco,
mentre in ambito siro-mesopotamico Efrem, assecondato dal vescovo di
Amida, Abraham bar Ka1li, reintroduce una brutale repressione. Tuttavia,
l'imperatore non rinuncia alle operazioni di persuasione cristologica.
È allora che numerosi oppositori del sinodo si rifugiano a Costanti-
nopoli sotto la protezione di Teodora, a causa dei maltrattamenti subìti.
Giustiniano si riserva così la possibilità di tenerli lontani dalla loro base
di consenso, di esercitare su di loro un controllo e di intrattenersi con i
loro rappresentanti più eminenti. Egli affida, lo si è visto, anche importanti
funzioni missionarie al monaco Giovanni. Poco dopo la morte di Teodora
(548), egli riceve Antimo e Teodosio di Alessandria; riunisce inoltre 400
monaci di Siria verso il 549, senza tuttavia che gli abboccamenti abbiano
successo. Verso il 557, fa venire Giacomo Baradeo, precisamente colui che,
dopo Giovanni di Tella, si era sforzato di assicurare, con la benedizione
di Teodosio di Alessandria, la perpetuazione, più che contrastata da parte
dell'imperatore, di un clero anticalcedonese e severiano in Oriente. Altre
iniziative ancora, all'indirizzo degli Egiziani, sono discusse. Tutte lasciano
intendere l'interesse di Giustiniano per questi incontri, al pari della sua in-
cessante volontà di porre fine alla divisione fra le chiese impiegando forme
d'azione diverse dalla sola forza.
Questo costante obiettivo spiega la seduzione esercitata su di lui dalle
suggestioni di Teodoro Askidas, un monaco origenista venuto dalla Palesti-
na nel 536 e subito elevato al seggio di Cesarea di Cappadocia. Askidas ha in
effetti l'intelligenza di indurre l'imperatore a rilanciare la sua proposta del
532 e quindi di chiarire la continuità della sua azione. Giustiniano indirizza
dunque il suo attacco all'opera dei vescovi teologi della linea antiochena,
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 367

sostenitori delle due nature, in particolare agli scritti di Teodoro di Mopsue-


stia (morto nel 428), ai lavori anticirilliani composti da Teodoreto di Cirro
nel contesto della controversia nestoriana (428-433) e alla lettera di Iba a
Mari il Persiano (scritta poco dopo l'unione del 433). La procedura utiliz-
zata contro quelli che convenzionalmente sono chiamati "i Tre capitoli"
(espressione che rinvia ai tre capitula contenenti le tre condanne) assomiglia
molto a quella che fu impiegata contro gli origenisti. I monaci origenisti di
Palestina furono condannati nel 543 con un editto dogmatico di cui abbia-
mo conoscenza solo grazie a una serie di frammenti citati dai loro avversari
(Facondo di Ermiana e Pelagio). L'anno successivo (544-545), sempre con
un editto dogmatico, ci fu la condanna dei Tre capitoli.
L'editto contro i Tre capitoli viene inviato a tutta la Chiesa imperiale.
Ma i patriarchi fanno fatica a concordare con l'imperatore, mentre papa
Vigilia ( 537-555) comincia con il rifiutarlo: perché di null'altro si tratta che
di condannare direttamente (Teodoro) o implicitamente personaggi tutti
morti nella pace della Chiesa e, nel caso di due di~oro, ufficialmente rista-
biliti nella loro dignità episcopale dal concilio ecumenico di Calcedonia
(451). Giustiniano prende dunque tempo. Dopo aver costretto il papa a
lasciare Roma, non ha fretta di portarlo a Costantinopoli. È solo dopo che
il rapporto di forza si è nettamente stabilito, allorché i patriarchi hanno
compiuto l'atto di sottomissione, che Vigilio è ammesso nella capitale (25
gennaio 547 ). Viene intrapreso allora ai danni del papa un lungo gioco di
logoramento orchestrato dal palazzo. Dopo numerose vicissitudini, rag-
giunge lo scopo col concilio di Costantinopoli del 553 (più tardi conside-
rato come il quinto concilio ecumenico) e le sue conseguenze.
Aperto in assenza del papa il 5 maggio 553, questo concilio è controlla-
to in modo molto diretto dall'imperatore, anche se egli non vi si reca di
persona: 153 vescovi vi si trovano riuniti, di cui soltanto sette occidentali,
tutti africani (c'è anche uno della Dacia). La persona di Teodoro, gli scritti
di Teodoreto, la lettera di Iba, di cui non è stata dimostrata l' inautenti-
ci tà, sono trovati eretici. Poi, il 26 maggio, nella settima sessione, i padri
conciliari, conformemente all'intenzione dell'imperatore, stabiliscono di
cancellare il nome di Vigilio dai dittici non senza al contempo pretendere
che «l'unione con la Sede apostolica» venga conservata. Logicamente,
il concilio si chiude con la proclamazione di 14 anatemi all'indirizzo dei
Tre capitoli. Alla fine, Vigilio si sottomette (lettera a Eutichio e al concilio
dell'8 dicembre 553 e secondo Constitutum del febbraio del 554). Da ulti-
mo, munito della prammatica sanzione imperiale (agosto del 554) che ri-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

organizzava il governo dell'Italia definitivamente riconquistata, egli viene


autorizzato a riguadagnare la via di Roma, ma muore prima di averla potu-
ta raggiungere (555). Giustiniano impone allora il suo successore, l'inatte-
so Pelagio: colui che era stato in precedenza uno dei campioni della difesa
dei Tre capitoli viene ritenuto il più adatto a facilitare l'accettazione della
loro condanna in Occidente, specialmente in Italia. A dispetto di queste
precauzioni, un nuovo scisma si sviluppa nei territori intorno a Milano,
specialmente in quello di Aquileia: non sarà definitivamente circoscritto
che ali' inizio del VII secolo. La resistenza in Africa e in Illiria è liquidata
più rapidamente (cfr. CAP. 11, p. 347 ).
Il disegno di Giustiniano, promuovere un'interpretazione specifica del-
la dottrina calcedonese articolata intorno a due principi complementari,
l'enunciato teopaschita e la condanna dei Tre capitoli, non ha fatto altro,
alla fine, che aggiungere divisione a divisione? Sicuramente queste decisio-
ni, confortate dall'autorità di un concilio ecumenico senza il quale il suo
regno sarebbe stato simbolicamente imperfetto, hanno suscitato molti
tormenti presso gli eredi della cristologia delle due nature, senza aver otte-
nuto altro che l'attenzione dei severiani. Ma Giustiniano non confondeva
passione e piacere in materia d'approfondimento teologico: egli cercava
senza sosta di migliorare il dispositivo dogmatico che definiva l'ortodossia,
allo stesso modo in cui si dedicava a perfezionare il corpo di leggi che reg-
gevano l'Impero. Questa ambizione non lo lasciò mai, neppure nella fase
tarda. Infatti il vecchio imperatore aveva concepito un editto di contenuto
afi:artodoceta. Solo la morte gli impedì di imporre la sua firma esiliando i
recalcitranti, come Atanasio di Antiochia. La procedura a quanto pare pre-
vista dall'imperatore è del tutto conforme alle precedenti e non può di per
sé apparire sospetta. Si trattava di un gesto nella direzione dei giulianisti?
Probabilmente, ma senza tuttavia che la dottrina delle due nature fosse ab-
bandonata. Di sicuro Giustiniano enfatizzava la divinità operante in Cristo,
concependola in modo tale che il Logos potesse trasfigurare le conseguenze
che alla sua natura umana derivavano dall'esperienza delle passioni senza
colpa, della sofferenza e della morte. Piuttosto che divagazioni di un pen-
siero senile, bisogna dunque vedere nell'iniziativa imperiale l'ultimo atto di
una riflessione instancabilmente ripresa, a rischio di squilibri. Considerata
nel suo insieme, l'ampia opera teologica di Giustiniano non sembra affatto
incoerente. Essa ha propriamente contribuito a una declinazione della fede
ortodossa, garantendo l'adozione ufficiale della formula teopaschita e un ri-
equilibrio dell'enunciato sulle due nature in un senso cirilliano. Giustiniano
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 369

può dunque essere riconosciuto come un neocalcedonese, un rinnovatore,


esponendosi ovviamente a essere vilipeso come innovatore.
Sul versante ecclesiologico, a dire il vero inseparabile dal precedente,
l'iniziativa imperiale ha prodotto un altro effetto duraturo: integra Roma,
usando le armi della persuasione al pari di quelle della costrizione, nella
Chiesa imperiale. D'allora in poi, sia pure a prezzo di una situazione per
lei assai poco conveniente, la Sede apostolica non potrà più essere percepi-
ta come assolutamente singolare. Si tratta di un cambiamento importante,
perché durante i due secoli precedenti, fino al 536, i papi avevano messo a
frutto la specificità della loro posizione. Essi si trovavano contemporanea-
mente senza vera concorrenza in Occidente, e protetti, salvo che in rari
periodi, dalla copertura politica di regimi di natura differente ma tutti in-
tenti a ribadire la loro particolarità nei confronti di Costantinopoli. Que-
sta convergenza obiettiva di interessi procurava alla Sede apostolica una
libertà incredibile e facilitava considerevolmente l'espressione dell' ideolo-
gia petrina, fondamento della sua pretesa al primato.
D'ora in avanti Giustiniano intende incrementare le potenzialità della
competenza circa la cura dell'unità ecclesiale, riconosciuta all'imperatore
dopo Costantino. Ora, questa attribuzione prende un rilievo nuovo man
mano che si moltiplicano le vittorie militari. L'obiettivo dichiarato consi-
ste nell'armonizzazione (symphonia) tra l'Impero (basileia) e il Sacerdozio
(hierosyne), i due doni principali di Dio agli esseri umani. Come risultato
di questa preoccupazione, l'idea pentarchica, enunciata a partire dal S3S
in più novelle, ma anche altrove, dove necessario, articola assai abilmente
più intenzioni: in primo luogo colloca il potere politico in posizione di
preminenza, dal momento che nessuna sede, nemmeno quella di Roma,
può pretendere di costituirsi essa sola come suo interlocutore ecclesiale
autorizzato. A tal riguardo, la posizione unanime dei cinque patriarchi è
la sola ricevibile, perché si suppone che conferisca alla Chiesa la sua auto-
rità e ne rappresenti l'unità apostolica. In secondo luogo, il mantenimen-
to dell'ordine gerarchico dovrebbe poter annullare i conflitti e i rapporti
di forza geoecclesiologici fra le sedi principali. Da questo punto di vista
l'imperatore e i suoi consiglieri parrebbero aver meditato precisamente
sui fattori ecclesiologici all'opera nella controversia cristologica che aveva
così severamente scosso l'Impero a partire dal 448. Anche Giustiniano
l:salca al primo posto « il trono santissimo e apostolico dell'antica Roma».
Egli accorda poi il secondo posto alla sede della nuova Roma, prima di
riservare i tre restanti rispettivamente ad Alessandria, Antiochia e Geru-
370 STORIA DEL CRISTIANESIMO

salemme. Se non è menzionata nella documentazione tra 451 e 535, questa


classifica non è arbitraria: non si basa soltanto sull'ordine iniziale presente
nella lista dei vescovi partecipanti alla prima sessione di Calcedonia. Sono
piuttosto le disposizioni decise dal concilio (il decreto disciplinare impro-
priamente chiamato canone 28, che concerne Costantinopoli; la defini-
zione della competenza sovrametropolitana di Gerusalemme sul territorio
palestinese) che ne costituiscono il più solido fondamento. Alla sistema-
zione derivante essenzialmente dall'ordine politico (il posto preminente
dell'antica e della nuova capitale) viene ad aggiungersi implicitamente una
seconda logica, nella forma di una concessione alla storia antica del cri-
stianesimo e ali' ideologia veicolata da Roma. È così che Alessandria e poi
Antiochia, e non già Antiochia e poi Alessandria, sono stabilite al terzo
e al quarto posto. Questa distribuzione illustra senza dubbio il maggior
prestigio conservato in Oriente dalla sede di Atanasio e di Cirillo, però, su
questo punto, riproduce ugualmente la classifica fissata da Roma dopo il
pontificato di papa Damaso, in nome del legame che univa ciascuna delle
tre sedi (Roma, Alessandria, Antiochia) all'eredità e alla figura di Pietro.
Ma, del riferimento al principe degli apostoli, che priverebbe Costantino-
poli di ogni legittimità a occupare il secondo posto, non si fa ufficialmente
nessuna menzione nei discorsi imperiali relativi alla pentarchia.
Più in generale Giustiniano non si prende la pena di elaborare una teo-
ria generale della sua costruzione ecclesiologica. Ciò che gli interessa, oltre
ad affermare la coesione nella fede delle cinque sedi, è che, ciascuno nella
sua competenza, i patriarchi assicurino l'informazione, il controllo e la
trasmissione previste, in materia di affari religiosi, fra il potere centrale,
da un lato, e province e fino alle chiese locali dall'altro. Questa riforma
è inoltre destinata a essere applicata senza che i diritti dei metropoliti sui
suffraganei siano ridotti.
Soddisfatta l'istanza metropolitana, al patriarca compete evitare I' as-
senteismo episcopale. Egli ha come missione specifica quella di regolare
la circolazione dei vescovi desiderosi di perorare la loro causa a Costanti-
nopoli, dato che, salvo mandato imperiale, può rifiutare loro la sua racco-
mandazione. Inoltre, il patriarcato è considerato per legge come il livello
idoneo a disporre di una rappresentanza permanente nella capitale. È an-
cora al patriarca che compete di vigilare a che le offerte versate al momen-
to delle ordinazioni corrispondano alle tariffe fissate. È a lui, infine, che
spetta giudicare in appello le cause ecclesiastiche già sentite dall'autorità
provinciale o istruire i casi che coinvolgono i metropoliti.
1
L UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 371

Se la Chiesa è ancora lontana dall'avere un insieme armonico di dispo-


sizioni paragonabili a un corpus di diritto canonico, la progressiva coinci-
denza tra società e comunità cristiana impegna a una maggiore permeabi-
lità delle disposizioni normative proprie della vita ecclesiastica. Altamente
cosciente di questo processo, Giustiniano ha per obiettivo di conferire a
esso maggiore coerenza di insieme, facendo del potere legislativo dello
Stato, in quanto ispirato da Dio, la fonte di una regolamentazione cer-
ta. Con il consiglio dei chierici, egli opera dunque una pronunciata giu-
ridicizzazione della vita cristiana nel quadro primario del suo sviluppo, la
città. Nello stesso tempo, egli ha cura di sottolineare che le sue decisioni
hanno come origine i santi canoni e le leggi. Questo radicamento gli per-
mette una volta di più di presentarsi come colui che non ha altra preoc-
cupazione che la chiarezza delle regole - il che non impedisce il rinvio di
una novella ali' altra - e il controllo dei costumi. Discendono di là le sue
dettagliate decisioni sui candidati eleggibili alle funzioni episcopali ( un
uomo, preferibilmente celibe, in ogni caso ormai senza compagna o bam-
bini, sufficientemente aggiornato circa la scienza sacra, più che trentacin-
quenne, come minimo di trent'anni, eventualmente un laico: in tal caso,
non doveva bruciare le tappe del cursus clericale); di là discendono anche
le sue prescrizioni sulle modalità della designazione e dell'ordinazione del-
le persone prese in esame.
A proposito delle funzioni giudiziarie del vescovo, specialmente eredi-
tate dall' audientia episcopalis cara a Costantino, Giustiniano ha per sco-
po quello di lasciare aperto al tribunale imperiale la possibilità di essere
adito, quando è ugualmente competente e la causa riguardi un laico. In
compenso, egli assegna al vescovo una funzione civile crescente: al fianco
delle autorità pubbliche, deve prendersi cura dell'approvvigionamento o
del buono stato degli edifici. Deve anche sorvegliare i rappresentanti del-
lo Stato. A lui, inoltre, compete promuovere un'opera di beneficenza or-
ganizzata per sua iniziativa presso istituzioni specializzate. Nel caso delle
frequenti fondazioni private, è suo compito avere la supervisione del loro
funzionamento. Ancora: deve visitare le prigioni.
La legislazione giustinianea si preoccupa anche della selezione e del
comportamento del clero e si estende alle diaconesse, concentrando le esi-
genze più elevate sui preti e i diaconi. Essa riflette ugualmente la tecnicità
delle funzioni diversificate, esercitate nel quadro di un sofisticato disposi-
tivo episcopale, che, per le sedi più importanti, conta ormai diverse centi-
naia di persone. Una delle priorità dell'imperatore sembra essere quella di
372 STORIA DEL CRISTIANESIMO

sorvegliare strettamente la vita monastica. Egli la identifica con il cenobi-


tismo, insiste soprattutto sull'assoluta segregazione dei sessi e pone le co-
munità costituite sotto la necessaria conduzione dei capi delle comunità,
gli igumeni, loro stessi sottoposti ai vescovi. Tende a fare dei monasteri, in
quanto luoghi di penitenza, istituzioni in cui potrà essere realizzata una
condanna penale.

Alla prova dei fatti: le prime manifestazioni di una crisi

Presa sotto la sola angolazione della sua coerenza e della sua ampiezza,
l'azione religiosa di Giustiniano mira a stupire costantemente. La ricerca
della meraviglia, del timore e dello stupore risponde anche a una crisi di
identità più discreta, più recente anche, della controversia dottrinale ed
ecclesiologica. L'eco di questo malessere è percepibile nelle fonti contem-
poranee. Infatti, il senso vissuto del tempo cristiano è stato messo a dura
prova all'inizio del VI secolo. Dopo i lavori cronachistici di Giulio Africa-
no ( t 240 ), era divenuta credenza comune che la fine del mondo dovesse
avvenire verso il soo. Questa convinzione era fondata sulla duplice idea,
largamente diffusa, che la creazione dovesse durare 6.000 anni (secondo
l'espressione biblica di Sai 90,4 per cui agli occhi di Dio 1.000 anni sono
come un solo giorno) e che la nascita di Cristo fosse avvenuta nell'an-
no ssoo. Essa permetteva di considerare le catastrofi naturali (terremoti,
epidemie, sconvolgimenti climatici) e le distruzioni prodotte dall'uomo
come altrettanti preannunci della fine.
Ma, una volta acquisito che la fine non si è verificata, la mancanza di
senso da dare alle prove del presente si manifesta più duramente. Per ri-
spondere a questa sfida, alcuni cronachisti (già Eustazio di Epifania, forse
Maiala), anticipano l'anno 6000 e lo assegnano alla nascita di Cristo, ri-
mandando ipso facto il compimento dei secoli alla fine del VII millennio.
Mentre precisa il computo pasquale, Dionigi il Piccolo preconizza il ri-
corso all 'annus Domini. Senza dubbio Giustiniano trae da questi tenta-
tivi l'impellente imperativo di sdrammatizzare, o meglio di riqualificare
positivamente, il corso del tempo. L'ottimismo che caratterizza gli anni
532-538 facilita in un primo tempo i suoi sforzi: con la novella 47 (31 ago-
sto 537 ), egli prescrive che la data di ogni documento ufficiale debba in pri-
mo luogo far figurare l'anno di regno e poi soltanto la data consolare, poi
l'indizione, il mese e il giorno. Fino a quel momento l'Impero non si era
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 373

preoccupato di imporre un suo sistema cronologico all'insieme delle di-


sposizioni pubbliche. Al contrario, adesso, ogni attività si considera riferita
alla sovranità assoluta del!' imperatore. La soppressione, a partire dal 541,
del consolato ordinario, decretando il superamento definitivo di quest'ul-
tima eredità antica, sottolinea ancor di più l'esclusività del riferimento alla
figura imperiale. Ma l'accumularsi delle disgrazie oscura rapidamente que-
sto significato: rafforzato anche dopo il 541, il posto dell'indizione, fon-
dato sul contratto fiscale e il suo aggiornamento periodico (ogni quindici
anni), introduce al contrario l'idea del ciclo, del ritorno indifferenziato e
dell'assenza di prospettiva.
L'aiuto è ricercato anche in altre garanzie giudicate più efficaci rispetto
all'esaltazione di una nuova età imperiale. Così, un culto mariano specifi-
catamente rivolto alla salvaguardia della capitale si sviluppa nel contesto
delle devastazioni della peste scoppiata a partire da Pelusio (541) e diffusasi
a velocità spaventosa. La malattia, è vero, provoca immediatamente una ter-
ribile decimazione, pari al 20% della popolazione, a Costantinopoli, e non
manca di colpire Giustiniano stesso prima di conoscere numerose recidive.
Nelle regioni orientali, una seconda esperienza traumatica si accoppia
all'epidemia: la ricorrente incapacità dell'Impeto a difendere le sue città.
Infatti, le campagne persiane, lanciate per supplire alle carenze finanziarie
del regime sasanide, depredano, spesso con considerevole successo, i ter-
ritori urbani delle province romane più prossime. Fin dall'inizio (540) i
saccheggi e le deportazioni sasanidi si rivelano particolarmente crudeli e
si ripetono fino al 545, prima di essere interrotte dalla pace del 562. È in
questo clima di grande sconforto che appaiono molte immagini di Cristo
dette "acheropite" (non fatte da mano umana). Così, la celebre immagine
di Edessa (più tardi chiamata mandylion), in quanto di produzione ce-
leste e avente una funzione protettrice per la collettività, è per la prima
volta attestata nel contesto della minaccia esercitata sulla città dal re dei re
Cosroe I (539-571). Un'altra rappresentazione conosce una singolare rino-
manza nello stesso quadro generale della coscienza del pericolo sasanide e
può essere datata con più precisione, quella della Camuliana (Cappadocia
Prima, ante 554). Più in generale si manifesta la comune sensazione che,
meglio dell'uomo santo, anch'egli reso precario dalla malattia e dalla guer-
ra, e più sicuramente dell'imperatore, la cui forza militare, monopolizza-
ta dall'Italia, fa difetto in Asia Anteriore e Minore, è ormai l'immagine
che salva e libera, compie i miracoli, in breve dimostra la capacità del suo
modello, Cristo o il santo, ad attivare la potenza divina a beneficio della
374 STORIA DEL CRISTIANESIMO

vecchia polis. Indubbiamente l'imperatore non tarda a voler acquisire un


beneficio di ritorno da questa potenza divina, servendosi subito di queste
manifestazioni memorabili per accrescere la carica di sacralità che circonda
la propria immagine, in seguito facendosi portare le icone miracolose (così
quella di Camuliana sotto Giustino II, nel 574). Ma non riesce a soffocare
il fenomeno progressivo della regionalizzazione e della relativa disintegra-
zione che accompagna questa nuova forma di pietà. Perché il mutamento
della pratica religiosa, manifestato dallo sviluppo del culto dell'immagine
nella dimensione locale, contribuisce ad allontanare le città di provincia
dalla capitale, nel corso di un processo che trasforma in profondità l' Im-
pero romano d'Oriente, prima ancora che questo sia messo a confronto
con le grandi prove del VII secolo. I primi segni di questo profondo cam-
biamento, che contesta il principio di una universalità coesiva così caro a
Giustiniano, iniziano dunque vivente l'imperatore.
Alla sua morte di sicuro si piange con profonda afflizione l'uomo
ortodosso, almeno a credere al Liber pontificalis Ecdesiae Ravennatis di
Agnello (secondo terzo del IX secolo). Tuttavia l'accesso alla comunione
dei santi non gli è stato concesso dalla Chiesa. Senza dubbio il suo ricor-
do è troppo segnato dalla costrizione che ebbe a esercitare su di essa. Un
moderno apprezzamento delle critiche che allora gli furono rivolte è stato
avanzato in modo incisivo da uno dei migliori esperti del suo regno, Ernst
Stein: a suo parere, Giustiniano ebbe la tremenda specificità di essere «il
solo principe che abbia perseguitato tutte le comunità religiose dell'Impe-
ro, senza far eccezione per quella a cui lui stesso rivendicò di appartenere»
(Stein, 1968, p. 279).
Certamente Giustiniano appartiene anche al novero di coloro che sono
stati più duramente esposti ali' accusa di cesaropapismo. Impreciso e deli-
beratamente polemico, questo termine confonde impropriamente missio-
ne imperiale e sacerdozio ecclesiale, quale che sia l'intima prossimità che
attribuisce loro Giustiniano. Di sicuro, in materia di fede e di culto, I' im-
peratore si è avvicinato al limite massimo della competenza stabilita per
la basi/eia. Egli è stato nondimeno attento a garantire che si mantenesse
l'immagine di un accordo effettivo - se non sempre immediato e cordiale
- con il sacerdozio. Completava così il ruolo di «vescovo di quelli/delle
cose di fuori», di costantiniana memoria (cfr. CAP. 7, p. 228), di cui seppe
dare una luminosa rappresentazione senza interferire con la funzione mi-
nisteriale del clero.Sull'esempio di Giustino, padrino di Ztasio, re dei Lazi,
egli ha saputo accogliere alleati diventati neofiti all'uscita dal lavacro bat-
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 375

cesimale, il re erulo (Getta, nel 528) o quello unno del Chersoneso (Grod,
lo stesso anno). Soprattutto, più di ogni altro imperatore, egli ha concepi-
to in modo unitario la sua opera di teologo: in questo senso la tradizione
ortodossa non sbaglia allorché gli attribuisce un celebre inno cristologico
(Ho Monogenes ), anche se, più verosimilmente, esso fu per la parte essen-
ziale scritto da Severo di Antiochia. Corippo, se pure non identifica esatta-
mente il bersaglio, testimonia delle preoccupazioni più vive di Giustinia-
no, quando descrive i suoi ultimi anni: « non si preoccupava più di niente,
ormai, nel gelo dell'età avanzata, non bruciava più che del solo amore per la
vita eterna, tutto il suo spirito si trovava già dei cieli» (/ust. 11, vv. 265-267 ).

Dopo Giustiniano

Succedere a un simile imperatore non si preannunciava cosa facile. Tut-


tavia, le promesse di un nuovo regno impegnavano a intraprendere vie
inedite per raggiungere lo scopo sempre agognato dell'unità religiosa. Be-
neficiando dell'indebolimento del fronte anticalcedonese, drasticamen-
te privato della sua leadership in Oriente e in Egitto e debilitato da uno
scisma interno (chiamato triteista, in parte suscitato dalle considerazioni
dell'alessandrino Giovanni Filopono che sosteneva che la natura, physis,
esiste solo negli individui e dunque alle tre ipostasi divine corrispondono
tre nature), il nipote di Giustiniano, Giustino Il, mostrava subito una cer-
ta propensione alla conciliazione nei riguardi dei non calcedonesi. I loro
vescovi e responsabili non continuavano forse a moltiplicare le attestazioni
di lealtà nei confronti dell'Impero, mentre la loro confessione conosceva
una reale espansione al di là dei suoi confini (conversione dei Nobadi in
Nubia)? Questa politica della mano tesa si accordava con il suo desiderio
di promuovere con sua moglie Sofia la riunione per mezzo di una spettaco-
lare devozione alla Vera Croce (con l'invio di un frammento a Radegonda,
celebrata da Venanzio Fortunato), alla Vergine e alle immagini.
Tuttavia dopo il rigetto, soprattutto monastico, delle proposizioni
particolarmente aperte di Dara-Callinico (567-568), constatata in seguito
l'impossibilità a Costantinopoli nel 570 di riconciliare triteisti e partigiani
dell'impostazione unitaria, Giustino Il promulgò un editto (571) di ispira-
zione neocalcedonese che, senza menzionare il concilio del 451, segnala di-
sposizioni ormai meno accomodanti verso i sostenitori dell'unica natura.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Sotto l'influenza del patriarca di Costantinopoli, Giovanni Scolastico, ma


anche di Sofia, Giustino II ricorre in seguito alla costrizione, mentre riapre
le ostilità con la Persia (572). Tuttavia, a causa della fragilità della sua salute
mentale (i suoi accessi di demenza erano attribuiti dagli anticalcedonesi
alla sua brutalità nei loro confronti), è ben presto costretto a rinunciare
all'esercizio del potere. Con un umile atto di rinuncia, impensabile sot-
to Giustiniano, adotta Tiberio e lo designa come Cesare (574). Costui,
divenuto augusto poco prima della morte di Giustino II (578), introduce
un notevole cambiamento rispetto agli orientamenti giustinianei in ma-
teria di politica religiosa. Volendo imitare Costantino, di cui egli prende
il nome, Tiberio compie infatti la scelta di mettere fine a ogni forma di
persecuzione verso gli anticalcedonesi e lo esprime con una formulazione
notevole al patriarca Giovanni Scolastico, giunto per tentare di persuader-
lo del contrario: «se tu testimoni che costoro (gli anticalcedonesi) sono
cristiani e fedeli, perché mai mi spingi ad essere, come Diocleziano, per-
secutore di cristiani? Va', datti pace, e taci. Le guerre contro i barbari ci
bastano, non indurci a far guerra ai nostri».
Sfruttando l'occasione di questo nuovo accordo che si estende a tut-
to l'Impero, il patriarca severiano Pietro di Alessandria (575-577) rimette
allora in vigore una supervisione episcopale sul mondo anticalcedonese,
senza tuttavia poter risiedere ad Alessandria. Questo sforzo è proseguito
da Damiano (578-605): l'azione dei patriarchi anticalcedonesi spiega in
gran parte la difficoltà a farsi comprendere del teologo Eulogio, amico di
Gregorio Magno, e patriarca ufficiale della metropoli d'Egitto (580-608
ca.). Quando Giovanni l'Elemosiniere ( 610-619 ca.) è a sua volta innalzato
alla sede calcedonese di Alessandria, dopo il breve episcopato di Teodoro
Scribano, partigiano di Foca, non trova, sembra, che sette chiese che ob-
bediscono alla sua giurisdizione.
Nel resto del mondo anticalcedonese, da lungo tempo collocato sotto
la tutela del patriarca alessandrino Teodosio (t 566), Giacomo Baradeo
(t 578), vescovo di Edessa, risponde alla domanda pastorale ordinando,
malgrado la sorveglianza poliziesca, numerosi presbiteri, in Oriente so-
prattutto, e, si dice, un totale di 15 vescovi fra 553 e 566. Tra di loro figu-
rano gli arcivescovi d'Antiochia in successione: Sergio (557) poi Paolo di
Beth-Ukkame (563). A partire da Pietro di Callinico (581-591) i titolari
della grande sede di Siria risiedono ordinariamente in Oriente, anche se la
città di Antiochia resta loro durevolmente interdetta. In breve, è in questo
periodo che si determina una vera strutturazione della Chiesa anticalce-
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 377

danese {detta giacobita, da Giacomo Baradeo, o più esattamente siro-or-


todossa), anche se è un poco perturbata dalle conseguenze della cacciata
di Paolo, poi dalla controversia fra Pietro di Callinico e Damiano di Ales-
sandria {che si accusano reciprocamente, quanto a concezione trinitaria,
di triteismo e di tetradismo). Fondandosi su una rete assai densa di mona-
steri e di villaggi, essa non è troppo influenzata dalle mene del confidente
e nipote dell'imperatore, il vescovo di Mitilene, Domiziano (580-602).
Scatenate diversi anni dopo il trattato di pace con la Persia (591), le sue
persecuzioni sono altresì piuttosto un'eccezione durante il regno di Mau-
rizio (582-602), per lungo tempo indotto alla moderazione dal patriarca
Giovanni il Digiunatore (582-595), mentre si sviluppano le tendenze cul-
tuali osservate a partire dalla fine del regno di Giustiniano.
Nello stesso periodo, il pensiero cristologico si approfondisce sul ver-
sante neocalcedonese, come attesta l'opera di Leonzio di Gerusalemme
{fine VI-inizio VII) che perfeziona la definizione di ipostasi. La ricerca che
viene condotta nel mondo calcedonese non è d'altro canto impermeabile
alle problematiche sviluppate in seno al mondo anticalcedonese. Così il
patriarca Eutichio di Costantinopoli (t 582) è influenzato dalle concezio-
ni di Filopono ( t 570 ca.) e ritiene che corpi migliori, incorruttibili ed
eterni si sostituiranno ai corpi terreni nella resurrezione, prima di ricreder-
si ad opera dall'apocrisario e futuro papa Gregorio.
In materia ecclesiologica, anche se l'organizzazione patriarcale è tolle-
rata da tutti nella sua accezione funzionale, Gregorio Magno (590-604)
non può accettare che il vescovo di Costantinopoli si fregi del titolo di
patriarca "ecumenico". Denunciato una prima volta da Pelagio II nel 587,
il ricorso all' intitolatura incriminata divenne l'oggetto di un'intensa atti-
vità polemica a partire dal momento in cui, come suo successore, Grego-
rio riceve gli atti di un sinodo costantinopolitano che recava la medesima
formula (595). Ora, questa non è insolita in Oriente. Ma ciò che Roma
considera preoccupante in questo uso, alla fine del VI secolo, è la tendenza
a riservarlo esclusivamente al vescovo di Costantinopoli e di solito a pre-
ferenza in occasioni sinodali. Il timore di papa Gregorio è, dunque, che il
titolo miri a giustificare uno sconfinamento, specie quello di porsi come
garante dell'ortodossia, compresa la convalida delle decisioni sinodali in
un giudizio su un caso proposto da una sede maggiore {così nell'affare di
Gregorio di Antiochia nel 587 ). Gregorio teme che il suo collega di Co-
stantinopoli tragga da questa distinzione spunto per pretendere un inde-
bito primato, assimilato a una vera impostura.
378 STORIA DEL CRISTIANESIMO

L'incomprensione che suscita la campagna di lettere che egli indirizza


all'interessato, all'imperatore e a sua moglie, ma anche ai titolari delle sedi
petrine di Antiochia e di Alessandria, di cui coltiva l'amicizia, è particolar-
mente significativa. Il fatto è che i suoi corrispondenti non ritengono che il
titolo di ecumenico metta in questione la dottrina, meno ancora che ci sia
uno slittamento di senso suscettibile di essere tradotto in termini giurisdi-
zionali. Inoltre, non capiscono il motivo per cui il papa si accanisca contro
la scelta fatta dal nuovo patriarca di Costantinopoli, Ciriaco ( 596), di con-
servare il medesimo titolo. Eulogio di Alessandria crede anche utile, nel
suo sforzo di pacificazione, di concedere a Gregorio il titolo di papa univer-
sale, il che provoca una viva riprovazione da parte di colui che si considera
come il servus servorum Dei. Lungi dallo smorzarsi, il conflitto dunque si
perpetua: è così che nel 602, le relazioni fra Roma e Costantinopoli sono
de facto rotte; per il mancato accordo più nessun apocrisario risiede allora
nella capitale. Gregorio si spiega con Foca, che a riguardo gli ha fatto sapere
il suo dispiacere appena dopo l'avvento al trono ( 6 o 2). A credere al Liber
pontificalis, quest'ultimo, in cerca di appoggio, decide nel 607 di ritirare la
qualifica di ecumenico al patriarca di Costantinopoli e stabilisce altresì che
la Sede apostolica di san Pietro sarà il capo di tutte le chiese.

L'utopia giustinianea distrutta?


Un Oriente cristiano sconvolto ( 602-692)

Minacce e riconquista:
Eraclio e la ricerca di un'ispirazione costantiniana

La controversia suscitata dall'impiego del titolo di patriarca ecumenico si


iscrive in un particolare frangente temporale. Ha senso solo nella prospet-
tiva di una romanità ininterrotta e si dispiega proprio mentre trasforma-
zioni maggiori vengono a cambiare decisamente la configurazione stessa
dell'Impero, che Giustiniano, avendo eliminato Vandali e Ostrogoti, ha
reso vulnerabile alla minaccia di nuovi barbari, e più feroci: Longobardi,
Avari o Slavi. Ansioso di non cedere nulla in materia di sovranità romana,
Maurizio si getta nel!' impresa di imporre la sua sovranità fino alla frontie-
ra danubiana.
Questa priorità assegnata fa precipitare la sua caduta ( 602) sotto i col-
pi brutali dei ribelli comandati da Foca. Da allora si susseguono i disastri
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 379

militari: nei Balcani, la ritirata degli effettivi inviati contro i Persiani ( 604)
provoca questa volta una penetrazione in massa degli Slavi, che tuttavia non
riescono a prendere Tessalonica. Questa invasione non rivela soltanto l'inca-
pacità di rispondere al confronto avviato da Cosroe II: essa dà alla catastrofe
un'ampiezza spaventosa che la ferocia di Foca accentua ancora. Divenuti
insopportabili, lui e i suoi seguaci sono eliminati dalla ribellione venuta da
Cartagine, rinforzata in Egitto e vittoriosamente comandata da Eraclio.
Il nuovo imperatore deve senza por tempo in mezzo far fronte alla guer-
ra in condizioni particolarmente difficili: dal 610 al 620, le truppe romane
non riescono a fare altro che a riprendersi con grande fatica dalle pesanti
sconfitte loro inflitte dai Persiani. I Sasanidi, infatti, conquistano Edessa
(610), poi Antiochia, Damasco ed Emesa (613), Gerusalemme (614) e, in-
fine, l'Egitto ( 619 ). Senza indugiare, stabiliscono la loro amministrazione
sui territori conquistati. Eraclio è in condizione di lanciare grandi ope-
razioni soltanto alcuni anni più tardi, a partire dal 624: dopo le prime
vittorie in Armenia, egli prevale al lago di Van. Poi, mentre l'assedio di
Costantinopoli da parte di Avari e Persiani, in un'operazione sicuramente
concertata ( 626), fallisce di fronte alla mobilitazione energica della città,
galvanizzata dal suo patriarca Sergio con grande dispiegamento di icone
(della Vergine e quella, acheropita, di Cristo), l'imperatore si impegna in
Mesopotamia e ottiene la decisiva vittoria di Ninive ( 627 ). Cosroe II è
presto rovesciato ed eliminato ( 628).
Poco dopo, Eraclio ottiene il ritorno alle frontiere del 591 e, in una
intensa atmosfera di esaltazione religiosa, riporta la Croce a Gerusalem-
me ( 630 ). Egli non ha atteso questo risultato per esortare a intraprendere
discussioni con i rappresentanti delle comunità eterodosse, specialmente
con gli anticalcedonesi. Eraclio intende ottenere un accordo sfruttando la
sua aura di vincitore, rivendicando manifestamente il patrocinio costan-
tiniano, annunciato dal nome scelto per il primo dei suoi eredi. Questa
ambizione, apparentemente coronata da successo, è ugualmente indicata
dal titolo ufficiale di basileus che egli adotta sulla scia dei re di Israele, ma
soprattutto a imitazione della designazione conferita a Cristo: l'intento
è quello di unire più strettamente ancora il suo Impero al regno dei cieli.
La pretesa si manifesta anche nel decreto di conversione forzata dei Giu-
dei (632), dopo le violenze da questi innescate sotto l'egida persiana e le
ritorsioni duramente abbattutesi su di loro. Questa decisione, criticata in
modo particolare dal monaco Massimo (il Confessore), fu d'altra parte
applicata in modo ineguale e per poco tempo.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Di fronte a un'intensa sfida,


una risposta singolare e rischiosa: il monotelismo

L'unione confessionale ricercata procede da un'originale iniziativa sug-


gerita nel 626 dal patriarca costantinopolitano Sergio. Si basa sull'affer-
mazione dell'unicità in Cristo dell' energeia ('attività'), che fu accettata da
Ciro, vescovo di Fasi (Colchide), consultato da Eraclio durante la cam-
pagna di Persia. Divenuto patriarca d'Alessandria con l'appoggio del re-
gime, Ciro promuove la formula grazie a un Patto di unione stretto con
i severiani ( 633), mentre il monaco Sofronio, futuro patriarca di Gerusa-
lemme, la contesta, perché l'affermazione di una sola energeia, come di
una sola volontà, in Cristo, porterebbe a considerare solo passiva la sua
natura umana. Allora Sergio accantona la terminologia dell' energeia con
uno Psephos (subito confortato da una Keleusis imperiale). Questa proce-
dura mira a ricondurre i diversi partiti nell'ambito di un processo di pa-
cificazione che, nell'insieme, eviti il ricorso a misure coercitive (attestate
soltanto in Egitto). Consapevole dell'importanza rivestita dal pronuncia-
mento dei patriarchi, Sergio ricerca specialmente il parere di papa Onorio,
presentandogli come assurda la presenza di due attività e di conseguenza
di due volontà opposte. Il Romano concorda con lui e nel contesto della ri-
sposta afferma un'unica volontà (hen thelema) in Cristo. Sergio compren-
de l'interesse della formula dell'unica volontà proprio quando Sofronio,
consacrato patriarca di Gerusalemme, non vuole riconoscere altro che due
volontà naturali in Cristo. Sergio convince presto Eraclio a ufficializzare
l'enunciato dell'unica volontà con una Ekthesis (638). Così dal monoerge-
tismo si passa a una fede dell'Impero fondata sulla confessione del mono-
telismo. La controversia generatasi è ormai circoscritta alla sola Chiesa cal-
cedonese, mentre le regioni a maggioranza anticalcedonese passano sotto
l'autorità musulmana (la Siria nel 636, la Mesopotamia romana verso il
639, l'Egitto tra 639 e 642), scampando in larga misura alla polemica.
La querelle tuttavia non si ferma. Fermamente rigettata a Roma dopo la
morte di Onorio, la dottrina monotelita diventa fonte di disagio a Costan-
tinopoli. Il Typos (648) dell'imperatore Costante II (641-668) mira a farle
perdere totalmente di attualità interdicendo ogni dibattito sui termini cri-
stologici contestati. Di fronte a questa ingiunzione, una rafforzata alleanza
si stringe fra il teologo Massimo il Confessore, i suoi discepoli e il nuovo
papa Martino, eletto nel settembre del 649. Una procedura insolita nota
sotto il nome di concilio del Laterano (ottobre del 649 ), ma assai differen-
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 381

ce dallo svolgimento abituale dei sinodi romani, approva senza discussione


i dossier in precedenza messi insieme da Massimo e aiuti, e tradotti in lati-
no in favore della posizione ditelita, scomunicando Sergio e i successori e
respingendo Ekthesis e Typos. Questo insieme di delibere suona come una
provocazione per l'imperatore: egli fa arrestare Martino I e lo esilia nel
Chersoneso, dove muore nel settembre del 655. Senza fretta, Costante si
rivolge anche contro Massimo, la cui eccellenza intellettuale e l'ingegno-
sità di pubblicista non gli sono sconosciute. Non riuscendo a trovare una
soluzione e accusandolo di crimine di lesa maestà, l'imperatore finisce per
fargli tagliare lingua e mano destra prima di relegarlo nella Lazica. È là che
si spegne il più grande teologo del secolo, il 31 agosto del 662..
Passato in secondo piano, dopo l'accettazione implicita da parte di
papa Vitaliano della linea imperiale espressa dal Typos, l'affare monotelita
risorge solo dopo che viene respinto l'assalto arabo a Costantinopoli ( 677-
678): la città resta così la capitale di un Impero, cristiano sì ma ormai am-
putato. Costantino IV, che non ha dimenticato l'appoggio decisivo datogli
dal papa quando si era trattato di succedere al padre Costante II, morto
assassinato, intende quindi approdare a un'autentica ripresa di rapporti a
Roma. Al termine di scambi epistolari con papa Agatone, poi di un lungo
concilio, il terzo di Costantinopoli, che conoscerà diciotto sessioni tra il
novembre del 680 e il settembre del 681, il ditelismo trionfa: «proclamia-
mo che in lui (Cristo) vi sono due volontà naturali e due attività naturali,
indivisibilmente, immutabilmente, inseparabilmente e senza confusione,
secondo l'insegnamento dei santi padri». Numerose le condanne che vi
sono formulate: papa Onorio I viene anatemizzato (questa condanna di-
venne morivo di controversia in età moderna e fu discussa nel Concilio
Vaticano I, dove si risolse la questione con l'escamotage di sostenere che
Onorio non aveva parlato ex cathedra) mentre la battaglia di Martino I è
praticamente passata sotto silenzio e Massimo vi riceve una ben modesta
menzione. Considerato in seguito ecumenico (il sesto), questo concilio
celebra una cooperazione finalmente raggiunta fra Greci e Latini e segna la
partecipazione effettiva o delegata dei titolari dei cinque patriarcati calce-
donesi. Ma illustra allo stesso tempo un processo di contrazione ecclesio-
logica che tende a sostituire al modello giustinianeo una diarchia di fatto,
concentrando l'iniziativa su Roma e Costantinopoli.
Per noi moderni, la focalizzazione dell'attenzione religiosa sulla con-
troversia monoergetita e monotelita è difficile da comprendere, tanto
sembra anacronistica rispetto a quello che ci appare immediatamente evi-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

dente: l'insorgere e l'affermarsi dell'islam, una religione monoteista, uni-


versalista e proselitista. È d'altronde l'emergere del fenomeno musulmano
a conferire una singolarità radicale al VII secolo nella storia universale. Ma,
precisamente, le sue dimensioni di specificità e di stabilità, così evidenti per
noi, non apparivano ancora tali alla maggior parte dei contemporanei, che
avevano visto la dominazione persiana su una parte importante dell' Impe-
ro farsi e disfarsi. Inoltre, davanti alle truppe arabe, l'atteggiamento delle
popolazioni locali (a maggioranza anticalcedonese, certamente, ma con
forti varianti regionali) non si discosta molto da quello tenuto nell'episo-
dio precedente né suscita una collaborazione generalizzata o decisiva con
il conquistatore. Si deve notare, d'altro canto, che non conosciamo che
casi molto rari di martiri provocati da invasori musulmani. Ed è solo un se-
colo dopo la sua irruzione che l'islam viene decisamente identificato come
una realtà religiosa irriducibile agli schemi eresiologici classici.
Negoziatore del trattato di pace con i Persiani nel 562. in nome di
Giustiniano, il diplomatico Pietro Patrizio aveva intravisto il rischio che,
con lo sprecare le loro risorse, Persiani e Romani potessero essere conqui-
stati da coloro che non avrebbero dovuto vincerli. Poco meno di un se-
colo e mezzo più tardi, i vescovi riuniti in concilio in una sala a cupola
del palazzo reale (donde il suo nome di "in Trullo", 691-692.) trassero le
conseguenze religiose del disastro. Con una serie di 102. canoni provvi-
dero a rimettere in ordine la condotta di clerici, monaci e laici sconvolta
dalle invasioni. Riunito senza che Roma ne fosse informata, questo sino-
do, chiamato anche Quinisesto, dà alla disciplina ecclesiastica un vero e
proprio progetto di corpus canonico e contribuisce alla definizione della
Chiesa ortodossa, respingendo gli usi divergenti di Armeni e Latini. Non
ci si meraviglia dunque che il papa Sergio I ( 687-701) ne rigetti le deci-
sioni. Inoltre il concilio segna una tappa decisiva nella formazione della
cristianità bizantina, al contempo dipendente dal disegno e dalle decisio-
ni universalistiche di Giustiniano, profondamente impregnata della spi-
ritualità che ha cominciato a svilupparsi sotto il suo regno, e tuttavia già
originale in modo irriducibile.
Nello stesso periodo, al centro del monte del Tempio, è edificata la Cu-
pola della Roccia ( 691-692.), simbolo eloquente dell'impresa e delle pretese
islamiche. Di fronte alla dinamica della conquista musulmana, il cristiane-
simo greco deve dunque affrontare una sfida imponente: ridefinire il con-
tributo allo sviluppo dell'economia divina nella storia dato da un Impero
ora duramente colpito. Arricchita dall'esaltazione della tradizione mona-
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 383

stica, in una lingua greca scintillante (la Scala di san Giovanni Climaco,
t 649 ), la risposta ortodossa si elabora selezionando le varie risorse tratte
dalla sua eredità culturale. Attingendo ancora alla tradizione sinaita con le
Questioni e risposte di Anastasio (opera completata alla soglia dell'vm se-
colo), essa appare da questo momento in grado, in un dialogo eccezionale
con i vitali interrogativi del tempo, di esprimere una promettente fiducia
nell'armonizzazione fra insegnamenti di fede e saperi di origine profana.

Bibliografia ragionata

Come manuali, cfr. M. MAAS (ed.), The Cambridge Companion to the Age ofjustinian,
Cambridge University Press, Cambridge 2.005; J. MEYENDORFF, Imperia/ Unity and
Christian Divisions, svs Press, Crestwood 1992.'.
Per le opere generali sulla scoria del cristianesimo, si rimanda alle opere Storia del
cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, voli. Ili-IV, Boria-Città Nuova, Roma 1999,
e Histoire générale du christianisme, PUF, Paris 2.010. Si vedano anche P. BROWN, The
Rise ofthe Western Christendom: Triumph and Diversity, A.D. 200-Iooo, Tenth An-
niversary Revised Edition, Wiley-Blackwell, Oxford 2.012.; H. CHADWICK, East and
West: The Making ofa Rift in the Church. From Apostolic Times unti! the Council oJ
Florence, Oxford University Press, Oxford 2.003; E. WIPSZYCKA, Storia della chiesa
nella tarda antichita, Bruno Mondadori, Milano 2.000.
Per i lavori consacraci a Giustiniano e alla sua epoca, cfr. H. LEPPIN, justinian.
Das christliche Experiment, K.lecc-Cocta, Scuttgarc 2.011; v. L. MENZE,justinian and
the Making ofthe Syriac Orthodox Church, Oxford University Press, Oxford 2.008; E.
SCHWARTZ, Zur Kirchenpolitikjustinians, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV: Zur
Geschichte der alten Kirche und ihres Rechts, de Gruyter, Berlin 1960, pp. 2.76-32.8; E.
STEIN, Histoire du Bas-Empire, voi. 11: De la disparition de !'Empire d'Occident a la
mort dejustinien (470-505), éd. par J. R. Palanque, Desclée de Brouwer, Amsterdam
1968 ( = Stein, 1968). Per uno studio ampio e di notevole qualità che propone una
nuova comprensione del regno, si veda M. MEIER, Das andere Zeitalter justinians.
Kontingenzerfahrung und Kontingenzbewiiltigung im tf.jahrhundert n. Chr., Vanden-
hoeck & Ruprecht, Gi:ittingen 2.003.
Per i lavori dedicati alla comprensione romana dei problemi, cfr. PH. BLAUDEAU,
Le siege de Rome et l'Orient (44S-530). Étude géo-ecclésiologique, ÉFR, Roma 2.012.; E.
CASPAR, Geschichte des Papsttums, Bd. Il: Das Papsttum unter byzantinischer Herr-
schaft, Mohr, Tubingen e 1933; B. NEIL, Seventh-Century Popes and Martyrs: The
1930
Politica! Hagiography ofAnastasius Bibliothecarius, Brepols, Turnhouc 2.007.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Per le ricerche consacrate alla storia dei conflitti dottrinali e alle conseguenze ec-
clesiologiche o identitarie si continuerà a far riferimento all'opera monumentale di A.
GRILLMEIER et al. .]esus der Christus im Glauben der Kirche, Bd. 2/l: Die Kirche von
Konstantinopel in o. jahrhundert, unter Mitarbeit von T. Hainthaler; Bd. 2/ 4: Die
Kirche von Alexandrien mit Nibien und Àthiopien nach 451, unter Mitarbeit von T.
Hainthaler, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1979-2002. Si potrà inoltre consultare i vo-
lumi c. CHAZELLE, c. CUBITT ( eds. ), 1he Crisis ojthe Oikoumene: 1he 1hree Chapters
and the Fai/ed Questfar Unity in the Sixth Century Mediterranean, Brepols, T urnhout
2007; F. GAHBAUER, Die Pentarchie-1heorie. Ein Modell der Kirchenleitung von den
Anfangen bis zur Gegenwart, Josef Knecht, Frankfurt-am-Main 1993; P. T. R. Gray,
1he Dejènse ofChalcedon in the East {451-553), Brill, Leiden 1979. Si segnalano due ri-
cerche recenti e particolarmente ricche: c. DELL' osso, Cristo e Logos: il calcedonismo
del VI secolo in Oriente, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 2010; c. HOVORUN,
Will Action and Freedom: Christological Controversies in the Seventh Century, Brill,
Leiden-Boston 2008.
Sull'anticalcedonismo, lo studio di riferimento resta quello di w. H. c. FREND,
1he Rise of the Monophysite Movement: Chapters in the History ofthe Church in the
Fifih and Sixth Centuries, Cambridge University Press, Cambridge 1972. Un esame
attento del suo impatto regionale è proposto nell'eccellente lavoro di L. PERRONE,
La chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, dal concilio di Efeso (431) al secondo
concilio di Costantinopoli fo3), Paideia, Brescia 1980.
Sulle risorse documentali e la loro analisi critica che permette di seguire le contro-
versie del VII secolo si veda s. BROCK, Early Syriac Lifè ofMaximus the Confessar, in
"Analecta Bollandiana", 91, 1973, pp. 299-346.
Sul ruolo dell'imperatore rimane di indispensabile lettura la ricerca di insieme
condotta da G. DAGRON, Empereur et pretre. Étude sur le «césaropapisme» byzantin,
Gallimard, Paris 1996. Importante anche il riferimento a P. MAGDALINO (ed.), New
Constantines: 1he Rhythm ofImperia! Renewal in Byzantium, 4 1h -13'h Centuries, Al-
dershot, Variorum 1993.
Sulle forme di pietà caratteristiche del periodo e la loro evoluzione si farà riferi-
mento in primo luogo a G. DAGRON, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique,
Gallimard, Paris 2007; J. F. HALDON, Byzantium in the Seventh Century: 1he tran-
sfarmation ofa Culture, Cambridge Universiy Press, Cambridge 1997'; P. MARAVAL,
Lieux Saints et pelerinages d'Orient: histoire et géographie des origines a la conquete
arabe, Cerf. Paris Circa l'impatto dell'islam sulle religioni contemporanee, si
1985.
veda R. HOYLAND, Seeing Islam as Others Saw It: A Survey and Evaluation of Chri-
stian,jewish and Zoroastrian Writings on Early Islam, Darwin Press, Princeton 1997.
Parte terza
Culto, ideali di santità, luoghi della devozione
13
L'evoluzione della liturgia
di Andrea Nicolotti

Studio della liturgia nel suo farsi lungo la storia

La liturgia è il complesso delle azioni sacre che caratterizzano un culto


religioso pubblico, governate da norme e tradizioni proprie di ciascuna
Chiesa. Il termine è un calco del greco leitourghia, che nell'antica Grecia
indicava certi servizi di pubblica utilità imposti ai cittadini più facoltosi
(allestimento di cori, organizzazione di giochi e banchetti pubblici, finan-
ziamento di spese militari, spese per il culto ecc.). La Bibbia greca dei Set-
tanta recuperò il vocabolo leitourghia e lo riservò per indicare il culto di
carattere pubblico prestato dai sacerdoti israeliti; fra i cristiani di lingua
greca il termine, con l'aggiunta di un idoneo complemento, passò poi a
significare le singole parti del culto (liturgia del battesimo, liturgia fune-
bre ecc.) ma soprattutto, in uso assoluto, la celebrazione dell'eucaristia. In
Occidente invece, con il cessare della lingua greca, liturgia decadde dall 'u-
so comune e fu tradotto (ojficium, munus e ministerium). Soltanto con
l'opera degli eruditi del XVI secolo la parola riapparve nel mondo latino
nel suo significato più antico e generico; in Oriente invece continua l'uso
ristretto, e liturgia resta un sinonimo di eucaristia.
Se confrontato con altri aspetti della storia del cristianesimo, lo studio
della storia liturgica condotto con gli strumenti della metodologia stori-
co-critica ha maggiormente faticato ad affermarsi. A lungo le antiche pra-
tiche rituali sono state considerate non tanto come un oggetto di studio a
sé stante, quanto piuttosto come un patrimonio di cui servirsi per esigenze
teologiche o apologetiche, o come un serbatoio al quale le chiese potevano
ispirarsi per la scrittura di nuovi rituali di gusto arcaicizzante. Una certa
disinvoltura nell'uso delle fonti, unita a una visione eccessivamente uni-
taria del mondo cristiano dei primi secoli, ha per molto tempo falsato la
nostra percezione del quadro liturgico antico.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Oggi, tuttavia, si possono dare per acquisiti i presupposti di uno stu-


dio metodologicamente corretto delle forme di culto cristiano. Il punto di
partenza è difficile, perché le testimonianze sulla liturgia dei primi secoli
della cristianità sono scarse. Occorre guardarsi dal rischio di colmare que-
sto vuoto con un procedimento induttivo, ricostruendo, come è avvenuto
spesso in passato e continua ancora ad avvenire, un ipotetico quadro litur-
gico delle "origini" che in realtà è frutto di una proiezione retrospettiva di
pratiche posteriori. Altrettanto infruttuosa sarebbe la ricerca di un unico
modello "originario": diversamente da quanto si riteneva un tempo, non è
mai esistito un solo modello liturgico risalente a Cristo e agli apostoli che
soltanto in un secondo momento si sarebbe differenziato e adattato alle
usanze delle diverse terre di predicazione. Pur richiamandosi all'esperien-
za inizialmente unitaria dei primi seguaci di Gesù, fin da subito le usanze
rituali delle diverse comunità cristiane si diversificarono (effetto centri-
fugo) e soltanto molto più tardi si avviarono sulla strada di quell'unifi-
cazione che porterà alla nascita delle grandi "famiglie" liturgiche (effetto
centri peto).
L'acquisita consapevolezza di quanto il fenomeno cristiano antico fos-
se variegato deve dunque mettere in guardia dalla tentazione di usare le
poche fonti sopravvissute per trarre conclusioni di carattere generale; ne
è conferma il fatto che il materiale pervenuto, ancorché scarso, dimostra
maggiori caratteri di varietà piuttosto che di uniformità. È pertanto ne-
cessario che uno studio storico-liturgico correttamente impostato tenga
conto non soltanto del momento in cui una data pratica liturgica è attesta-
ta, ma anche del luogo in cui è attestata. Senza trascurare la possibilità che
coesistessero nello stesso tempo e nello stesso luogo pratiche divergenti,
ciascuna espressione di gruppi religiosi distinti e talora concorrenziali che
in essa si riconoscevano e si esprimevano.
La localizzazione, la datazione e la contestualizzazione di un testo li-
turgico o di una testimonianza indiretta di una pratica liturgica sono per-
tanto il primo passaggio ineludibile. Particolare attenzione va rivolta, in
una seconda fase, all'analisi del materiale raccolto. Diversamente da quan-
to generalmente avviene con le opere letterarie, i formulari liturgici e le
azioni che li accompagnano sono stati periodicamente esposti a un proces-
so di rielaborazione, ampliamento e adeguamento a situazioni ecclesiali o
teologiche continuamente mutevoli; pertanto il fatto che un testo liturgi-
co sia materialmente pervenuto in una determinata forma non autorizza
a dedurre che tale forma fosse quella originaria e che sia rimasta immutata
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA

in seguito. L'analisi filologica dei testi è imprescindibile, ma va condotta


secondo criteri che non abbiano come unico scopo la ricerca di una sup-
posta forma "archetipa" di una pratica rituale, ma piuttosto che tengano
in considerazione il carattere variabile dei formulari liturgici, veri e propri
"testi viventi". In questo è essenziale lo studio comparativo dei testimoni
dello stesso rito attestati in diversi momenti del suo sviluppo, la qual cosa
permette di identificare ciascuna tappa del suo processo di crescita. Un te-
sto liturgico può essere considerato come una superficie costituita di molti
strati accumulatisi nel tempo; ma se il geologo può agevolmente studiare
ogni strato come espressione di un determinato periodo, ove il nuovo si
sostituisce e si sovrappone al vecchio, il liturgista non può mai escludere
che strati più arcaici e più recenti risultino rimescolati fra loro in una for-
ma non sempre immediatamente identificabile.
I libri liturgici antichi che contenevano formulari rituali sono perve-
nuti solo in forma estremamente occasionale e frammentaria. Lo storico
deve perciò ricorrere a descrizioni cerimoniali, a brevi citazioni o allusioni
contenute in opere di carattere letterario, catechetico, agiografico o cano-
nistico. Non va trascurato l'apporto fondamentale dell'archeologia: l 'or-
ganizzazione degli edifici ecclesiastici, infatti, è specchio della liturgia che
in essi veniva celebrata. Molto spesso taluni autori antichi che descrivono
o alludono a qualche pratica rituale sono l'unica fonte a nostra disposizio-
ne, che però va utilizzata con criterio: chi scrive non sempre ha la pretesa
di fornire una minuziosa ricostruzione del rito, ma si limita a menzionare
gli aspetti che sono funzionali al suo discorso; ragion per cui l'assenza di
qualche particolare che ci si aspetterebbe di trovare non può automati-
camente significare l'assenza di quel particolare anche nella realtà. Ecco
perché può accadere che la prima menzione di un determinato uso litur-
gico non coincida con l'apparire di quell'uso, ma sia a essa posteriore. La
stessa cautela nell'utilizzare l'argomentazione e silentio è applicabile per le
istruzioni cerimoniali concepite per il clero, le quali - esattamente come
avviene ancor oggi nelle rubriche dei libri liturgici a stampa - sono selet-
tive perché danno per scontata una conoscenza di certe azioni che non
necessitano di una descrizione, in quanto abituali per chi leggeva; esse
piuttosto si concentrano sui particolari innovativi, controversi, insoliti o
relativi a un determinato rituale che viene celebrato raramente e quindi era
meno conosciuto e familiare.
Lo studio delle testimonianze antiche ha permesso di elaborare alcuni
principi di valore generale, enunciati sotto forma di "leggi di evoluzione
390 STORIA DEL CRISTIANESIMO

liturgica". Generalmente, ad esempio, le pratiche liturgiche primitive sono


caratterizzate da una forma sobria e semplice, la quale con il passare del
tempo si modifica nella direzione di un progressivo arricchimento verso
forme sempre più retoricamente elaborate e simmetricamente ordinate,
all'interno di cerimonie più prolisse. Di norma i testi più antichi sono
meno carichi di citazioni scritturistiche letterali, presenti per lo più in for-
ma di allusione; quelli più recenti, piuttosto che di formule kerigmatiche
sono ricchi di espressioni teologicamente connotate, diretta conseguen-
za delle controversie dottrinali alle quali sono o sono stati chiamati a ri-
spondere. La presenza di espressioni teologiche o usanze proprie di una
determinata controversia è un ottimo strumento per fissare il terminus post
quem di una pratica: si pensi, ad esempio, alle qualificazioni cristologiche
introdotte dopo il concilio di Calcedonia (451) o all'abitudine dei cattoli-
ci di Spagna di battezzare con una sola immersione in virtù di una delibe-
razione del quarto concilio di Toledo del 633, già patrocinata da Gregorio
Magno in funzione antiariana. In Spagna, infatti, gli ariani preferivano
battezzare mediante triplice immersione, a significare la disuguaglianza
delle persone divine. In Oriente invece avveniva l'esatto opposto: l'aria-
no Eunomio battezzava con una sola immersione, allontanandosi dall'uso
cattolico che ne prevedeva tre.
Dal punto di vista evolutivo, quando con il passare degli anni a un ele-
mento, testo o azione antica se ne sovrappongono altri più recenti, c'è una
prima fase in cui gli elementi nuovi si affiancano e coesistono con quelli
antichi; poi in genere accade che questi ultimi gradualmente scompaio-
no e lasciano il posto ai nuovi. Gli elementi più antichi, però, tendono a
sopravvivere più tenacemente all'interno dei tempi più solenni dell'anno
liturgico (come la Pasqua e il Natale), perché celebrati più raramente e
meno sottoposti all'usura e alle esigenze dell'utilizzo quotidiano; esistono
poi anche parti del rito più "deboli", perché più propense ad accogliere mo-
difiche e amplificazioni (per esempio, i momenti di azione privi di parole).
La presenza di spiegazioni simboliche e allegoriche, infine, è generalmente
indizio dell'esistenza di una pratica la cui utilità può essersi perduta con il
passare del tempo (per esempio, la lavanda delle mani durante la liturgia
eucaristica, un tempo necessaria per questioni di igiene, oggi sopravvissu-
ta sotto forma di atto simbolico di purificazione). Davanti a spiegazioni
allegoriche o a interpretazioni sull'origine di una determinata pratica che
siano in contraddizione tra loro, spesso è difficile risalire a quella autentica
e non è escluso che in certi casi essa sia stata del tutto dimenticata.
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 391

Di queste "leggi" - che più correttamente vanno intese come "orienta-


menti" - occorre fare un uso molto oculato e non meccanico, lasciando
sempre spazio all'analisi del caso specifico. Se le leggi di evoluzione dipin-
gono il quadro di un progresso endogeno del rito, tipico di un naturale
sviluppo che si svolge secondo una propria logica, esistono infatti anche
elementi evolutivi di tipo esogeno, dovuti a influssi esterni di vario tipo. Vi
sono molte situazioni contingenti che possono intervenire a modificare il
processo naturale: si pensi al ruolo delle riforme, cioè di quegli interventi
sui testi liturgici che vengono decisi e imposti dall'autorità ecclesiastica.
Una visione meno "genetica" della liturgia permette di apprezzare mag-
giormente le costanti interrelazioni fra le diverse tradizioni ecclesiali, e di
rivalutare l'influsso della teologia e dei teologi sui testi liturgici, senza tra-
scurare tutti gli elementi di discontinuità (controversie teologiche, rivol-
gimenti politici, necessità pratiche). Talvolta la stessa evidenza può essere
interpretata in modo divergente in casi diversi: ad esempio, la presenza di
certi usi liturgici (con il medesimo senso, funzione e collocazione) all'in-
terno di tutti i riti cristiani o perlomeno della maggioranza di essi può esse-
re segno di veneranda antichità; ma ci sono casi in cui proprio l'uniformità
di un segmento liturgico in tutte le tradizioni è segno della sua recente
introduzione, frutto di una tendenza al raggiungimento di un'uniformi-
tà rituale. In quest'ultimo caso l'eccezione isolata rimane l'unico ricordo
sopravvissuto di un antico costume locale. Ogni pratica, in definitiva, ne-
cessita di un approfondito studio a sé.

Da Gesù e i suoi primi seguaci sino alla fine del I secolo

Gesù nacque ebreo, fu circonciso e cresciuto nella pratica liturgica israelita


del suo tempo e, come ogni giudeo, riservava alla preghiera un posto emi-
nente al centro della propria vita religiosa. Negli anni della predicazione il
suo atteggiamento nei confronti del servizio liturgico giudaico fu un misto
di dipendenza e libertà: frequentava la sinagoga, prese parte ai pellegrinag-
gi pasquali a Gerusalemme e frequentò il Tempio, anche se il suo compor-
tamento verso queste istituzioni fu caratterizzato da momenti di tensione
e anche di rottura: si pensi a quando, a motivo delle sue parole, venne scac-
ciato dalla sinagoga di Nazaret o al rovesciamento dei banchi dei venditori
nel cortile del Tempio. Quanto al rispetto del sabato, alle prescrizioni di
purità e alla pratica del digiuno, egli, all'interno del dibattito fra le varie
392. STORIA DEL CRISTIANESIMO

correnti giudaiche dell'epoca, assunse posizioni talvolta in contrasto con


gli usi predominanti, e spesso accompagnò i suoi discorsi con critiche nei
riguardi dei rappresentanti ufficiali del culto (cfr. CAP. 1, p. 62.).
Un costante momento di aggregazione fra Gesù e i suoi discepoli furono
le cene comunitarie. Uno di questi momenti conviviali in particolare, l' ul-
timo, fu diverso da tutti gli altri e rimase nella memoria dei discepoli. Era
tradizione che colui che presiedeva a tavola pronunciasse una benedizione
(eulogia) e rendesse grazie (eucaristia) per il cibo. Ma in quella cena - non è
chiaro quale fosse il giorno in cui venne consumata, e quindi se si trattasse
o meno di una cena pasquale - si narra che Gesù prima del pasto spezzò
il pane, dopo la cena versò il vino, rese grazie e benedisse aggiungendo le
parole «questo è il mio corpo» e «questo è il mio sangue». Le diverse re-
censioni del racconto, riportate nei vangeli sinottici e in Paolo, aggiungono
altri suoi detti, come quello che qualifica il vino come « sangue della nuova
alleanza» che è «versato» o «sparso» in remissione dei peccati, insieme
all'invito a ripetere il gesto in sua memoria. Poiché esistono significative
discrepanze nella trasmissione delle parole di Gesù, è difficile distinguere
quanto Gesù effettivamente disse e quanto invece risente dell'esperienza
liturgica delle comunità cristiane che celebravano l'eucaristia.
Gli scritti protocristiani, in effetti, costituiscono la principale fonte per
lo studio della liturgia cristiana delle origini. Secondo diversi studiosi tali
scritti talvolta contengono tracce di formulari liturgici (inni, preghiere) o
rimandano a un contesto liturgico (si pensi, per esempio, ali' ipotesi secon-
do cui la Prima lettera di Pietro contenesse un'omelia battesimale). Pur-
troppo la maggior parte dei chiari riferimenti a un'ambientazione liturgi-
ca sono contenuti in un numero ristretto di fonti, sopra tutte il libro degli
Atti degli Apostoli: in mancanza di altre fonti, il rischio è quello di pensa-
re che tutte le comunità cristiane delle origini si adeguassero a quell'unica
tradizione di culto. È invece probabile che altre seguissero costumi diversi,
e che le stesse descrizioni sopravvissute non sempre siano sufficientemente
fondate (essendo più allusive che descrittive) o siano la fotografia non tan-
to di un costume stabilito, quanto di un uso variabile e legato alla necessità
del momento. D'altra parte in questi scritti non è riconoscibile alcun tipo
di codificazione rituale vincolante, ma si scorge un certo pluralismo.
Certamente le differenze maggiori in campo liturgico furono percepi-
bili fra le diverse comunità dei seguaci di Gesù: quelle palestinesi di lin-
gua aramaica, i cui membri provenivano dal giudaismo, quelle giudaico-
ellenistiche e quelle originatesi in ambito pagano, totalmente avulse dalla
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 393

matrice della tradizione israelitica. Per queste ultime, più distanti dall'os-
servanza della Legge, fu naturale giungere più velocemente alla negazione
della centralità del Tempio e alla spiritualizzazione del concetto di culto,
allontanandosi dalla concezione veterotestamentaria. Anche l'uso delle
Scritture in traduzione greca, e non nell'originale, ebbe una profonda in-
fluenza non soltanto sulla teologia e sulla predicazione, ma anche sulla
liturgia. Del legame con la tradizione semitica la liturgia cristiana ha co-
munque conservato non solo certe strutture, ma anche certe espressioni
che sono sopravvissute fino a oggi nella lingua originale, come le acclama-
zioni "amen", "alleluia", "osanna".
Nel periodo delle origini è impossibile immaginare l'esistenza di un
unico e codificato formulario di preghiera, anche se l'improvvisazione ri-
tuale poteva fondarsi su modelli preesistenti o strutture più o meno codi-
ficate. Ciò che caratterizza in modo particolare i seguaci di Gesù è la loro
attitudine a riunirsi, seguendo l'esempio del loro maestro, per pregare, per
ascoltare letture edificanti nel mezzo dell'assemblea, per condividere pasti
comunitari e celebrare l'eucaristia spezzando il pane. La consapevolezza
nella presenza del Risorto ( «perché dove sono due o tre riuniti nel mio
nome, lì sono io in mezzo a loro»: Mt 18,20) e del suo Spirito si sostituisce
alla presenza cultuale di Dio nel Tempio di Gerusalemme. Durante queste
riunioni avevano certamente luogo la lettura delle Scritture e la recitazio-
ne di salmi e inni, come già nella liturgia giudaica; ma a ciò si aggiunsero
la trasmissione delle narrazioni su Gesù e, in certi casi, la lettura delle epi-
stole inviate dagli apostoli. L'ambito liturgico, a questo proposito, fu un
luogo essenziale per la formazione di quello che sarà il canone del Nuovo
Testamento. Le letture, inoltre, erano accompagnate da un commento,
cioè dall'omelia. Dalle lettere di Paolo ricaviamo anche brevi cenni sulla
pratica delle benedizioni e del "bacio santo" fra credenti.
Nelle assemblee la distribuzione degli aiuti per i bisognosi aveva un ruolo
fondamentale. La liturgia cristiana rompe infatti la distinzione fra servizio
cultuale e servizio dei fratelli, fra sacro e profano: tutto avviene al contem-
po, perché la liturgia svolge un ruolo missionario, è aperta allo spontaneo
esercizio dei carismi, è uno spazio che travalica la stessa assemblea che si è
riunita per celebrarla. Il pasto quotidiano, che già nella tradizione giudaica
prevedeva la recita di benedizioni e preghiere, divenne il luogo deputato per
la celebrazione della "cena del Signore", chiamata anche "frazione del pane".
L'apostolo Paolo ci descrive l'abitudine, in voga a Corinto, di associare la
commemorazione dell'ultima cena di Gesù al pasto comunitario; egli te-
394 STORIA DEL CRISTIANESIMO

stimonia anche le difficoltà che nascevano dalla compresenza di questi due


aspetti, quello conviviale e quello "sacramentale~ che in seguito saranno per-
cepiti come distinti. La necessità di fornire quotidianamente pasti comunita-
ri agli indigenti può essere stata una delle cause del processo di dissociazione
tra il pasto comune e quello eucaristico, il quale fu sottoposto a un progressi-
vo processo di sacralizzazione che lo rese autonomo.
Il luogo di ritrovo per la celebrazione non era un ambiente sacro de-
limitato, bensì generalmente la stanza di una casa privata, il che può an-
che indirettamente informarci sul ridotto numero dei partecipanti. Sullo
svolgimento del rituale abbiamo però scarse informazioni e disomogenee.
L'eucaristia certamente mostra evidenti punti di contatto con i riti della
liturgia giudaica, in particolare il Kiddush (preghiera prima del pasto) e la
Birkat ha-mazon (la preghiera dopo il pasto), ma da essi prenderà progres-
sivamente distanza. Neppure il modello gesuano è vincolante: in certi casi,
ad esempio, il rito del calice non seguiva bensì precedeva quello sul pane;
in altri casi al vino si sostituiva l'acqua, oppure al pane venivano associati
altri alimenti. Ciò significa che il comando di commemorare l'azione di
Gesù non necessariamente era percepito nel senso di un'aderenza totale
in senso stretto, cioè come un invito a ripetere i suoi stessi gesti nella stessa
esatta sequenza e con la medesima tipologia di cibo e bevanda.
Fondamentale rituale di iniziazione cristiana era il battesimo. Le sue ori-
gini vanno ricercate nei bagni di purificazione diffusi nel Medio Oriente
antico - ai quali certi movimenti religiosi giudaici erano particolarmente
affezionati, e che praticavano anche quotidianamente - e nel rito del batte-
simo dei proseliti, riservato ai pagani che si convertivano all'ebraismo. Ma
il modello prossimo si ritrova in Giovanni Battista, il quale amministrava
un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, unico e irripetibile;
modello al quale anche Gesù, nel periodo di discepolato presso il Battista,
stando a Gv 3,22-24, potrebbe essersi attenuto. Non abbiamo invece alcuna
informazione sull'esistenza di una prassi battesimale praticata dai seguaci
di Gesù mentre il maestro era ancora in vita; per gli anni immediatamente
successivi, sappiamo che esso avveniva generalmente per immersione, me-
diante una discesa in acqua e una successiva risalita. Paolo paragona questi
gesti ai momenti del seppellimento e della resurrezione di Gesù; la morte
simbolica del battesimo, per lui, rappresenta anche la morte in rapporto al
peccato, e quindi un passaggio del battezzato a una nuova vita. Altre tradi-
zioni pongono invece l'accento sul battesimo come momento di remissione
dei peccati, di conferimento dello Spirito santo o di "illuminazione".
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 395

Diversamente dai bagni purificatori giudaici, che avvenivano su auto-


noma iniziativa del singolo, il battesimo cristiano è come quello di Giovan-
ni Battista, cioè non è reiterabile e può soltanto essere ricevuto per mano
di un ministro (necessita dunque di un battezzatore e di un battezzando).
Esso era preceduto da una formazione catecumenale che certamente favorì
la creazione di codificate professioni di fede da utilizzare per l'istruzione
dei catecumeni. Si realizzava mediante l'immersione nell'acqua non solo
del battezzando, ma anche del battezzatore: è questo ciò che avviene, in
sintesi, nel racconto del battesimo dell'eunuco da parte di Filippo conte-
nuto negli Atti degli Apostoli. Manca la menzione del formulario utiliz-
zato, che si ritrova invece sia nel finale del Vangelo secondo Matteo (sotto
forma di parole dello stesso Gesù) sia nella Didache: l'immersione avveni-
va nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, anche se, secondo
altre fonti, esisteva un uso alternativo che prevedeva la menzione del solo
nome di Gesù. La stessa Didache fornisce ulteriori notizie sul periodo di
digiuno e di formazione catecumenale che precedeva la cerimonia, e sulla
modalità di immersione: in acqua corrente, possibilmente fredda, e con
tutto il corpo (o, in caso di necessità, per infusione d'acqua sul capo). Non
si sa se i bambini venissero battezzati come gli adulti.
Gli scritti protocristiani menzionano anche altri riti praticati fin dalle
origini: tra questi c'è l'imposizione delle mani, un gesto che lo stesso Gesù
aveva usato per guarire e benedire. Sappiamo che essa, in certi casi, venne
associata con il battesimo in vista della comunicazione dello Spirito santo,
anche se non è chiaro se si trattasse di un'abitudine diffusa; sappiamo però
che nei decenni successivi essa sarà parte inscindibile della liturgia batte-
simale. In seguito, e solo in Occidente, verrà sganciata dal battesimo allo
scopo di farne un rito proprio, una "confermazione" del dono dello Spiri-
to. L'imposizione delle mani era anche utilizzata come gesto per richiede-
re la guarigione dalle infermità, o per conferire un incarico ali' interno del-
la comunità - ciò che in seguito diverrà una vera e propria "ordinazione",
differentemente da quanto avveniva nel giudaismo dove per tale scopo si
prevedeva un'unzione. La Lettera di Giacomo menziona invece l'unzione
conferita dagli anziani (i presbiteri) sugli infermi, in connessione con la
preghiera e la confessione dei peccati.
La pratica di una regolare liturgia settimanale è un tratto distintivo del-
le comunità protocristiane, riconoscibile anche dall'esterno. Plinio il Gio-
vane al principio del II secolo descriverà le assemblee cristiane che si radu-
navano prima dell'alba in un giorno fisso della settimana, per cantare inni
STORIA DEL CRISTIANESIMO

a Cristo «quasi come a un dio» (ep. 10,96,7,3). Segno di distacco dall'uso


israelita è il progressivo abbandono della riunione in sinagoga del sabato
- durante la quale avevano luogo la lettura della Legge, la professione di
fede nell'unico Dio e la preghiera in comune - che fu soppiantata dalla
sacralizzazione della domenica, primo giorno della settimana che comme-
mora la resurrezione di Gesù e giorno del pasto eucaristico per eccellenza.
Il mercoledì e il venerdì diverranno invece giorni di digiuno.
Dagli scritti cristiani del I secolo possiamo ricavare una duplice divi-
sione ministeriale all'interno delle comunità: da una parte i ministeri le-
gati alla funzione missionaria, cioè la triade di apostoli, profeti e maestri,
collegata alla dottrina paolina dei carismi (cfr. CAP. 3, p. 106); dall'altra
la triade degli uffizi istituzionali e non necessariamente carismatici degli
ordini sacri che almeno dalla fine del II secolo divennero prevalenti e sono
sopravvissuti fino a oggi: i diaconi, i presbiteri (preti) e gli episcopi (vesco-
vi). Purtroppo le fonti non chiariscono quale fosse inizialmente il ruolo di
ciascun ministero all'interno delle assemblee liturgiche, né si soffermano
a descrivere se e come fosse gestita la funzione presidenziale nelle celebra-
zioni; sicuramente esistevano diversi modelli di direzione, non necessaria-
mente in contrapposizione, talvolta in sovrapposizione.
Con il passare del tempo le comunità si orientarono verso un sistema
di conduzione istituzionalizzata dove le funzioni dei carismatici furono
assorbite da quelle dei ministri del culto; anche il progressivo affermarsi
di usanze liturgiche prefissate, che lasciavano meno spazio all'improvvisa-
zione, insieme alla crescente importanza della Scrittura e dell'esposizione
dottrinale, andarono di pari passo con la messa in secondo piano dell 'ordi-
namento carismatico. Ignazio di Antiochia, all'inizio del II secolo, riserve-
rà soltanto al vescovo la celebrazione dell'eucaristia. È molto difficile sape-
re se le testimonianze che attribuiscono alle donne funzioni di presidenza
liturgica siano un'intenzionale deviazione dalla tradizione maggioritaria o
la sopravvivenza di una prassi arcaica successivamente rimossa.

Il culto fra II e III secolo

Il II secolo si apre con una situazione differente rispetto al passato: gli apo-
stoli e i testimoni oculari di Gesù sono ormai scomparsi; le diverse comu-
nità cristiane vivono in relativa autonomia; non esiste più il legame con
Gerusalemme e il suo Tempio, che sono stati distrutti; il numero dei se-
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 397

guaci di Gesù provenienti dal giudaismo, infine, si è notevolmente ridotto


(cfr. CAP. 2., p. 94).
La conoscenza degli usi liturgici di quest'epoca è ancora frammentaria,
talora nulla. Per l'Egitto, ad esempio, gli scritti di Clemente e Origene
sono ricchi di spunti, ma il linguaggio allegorico di entrambi rende davve-
ro arduo individuare ciò che allude a una pratica liturgica reale. Una par-
ticolarità egiziana, secondo buona parte degli studiosi, risiede nella data
di amministrazione del battesimo, che avviene quaranta giorni dopo il 6
gennaio, e non a Pasqua. In Siria la situazione non è troppo diversa: alcu-
ni antichi testi apocrifi, come gli Atti di Giovanni e gli Atti di Tommaso,
potrebbero informarci sui rituali del battesimo e dell'eucaristia praticati al
tempo della loro redazione; ma la tipologia letteraria di questi scritti e le
diverse riscritture a cui sono stati sottoposti rendono assai difficile il loro
utilizzo.
Importantissimi contenitori di indicazioni liturgiche sono gli "ordi-
namenti ecclesiastici", i quali contengono prescrizioni morali, liturgiche e
disciplinari e che in gran parte si presentano come opere scritte dagli apo-
stoli. Il più antico è la Didache, redatta probabilmente nella seconda metà
del I secolo in ambiente antiocheno, seguita dalla Didascalia degli apostoli
(Siria, 2.30 ca.) e dalla Costituzione ecclesiastica apostolica (Egitto o Siria,
fine III secolo). Particolarmente nota è la cosiddetta Tradizione apostolica,
in passato attribuita a Ippolito, datata al principio del III secolo e conside-
rata espressione di ambiente romano; in realtà è un testo che, rimaneggia-
to più volte e in luoghi diversi, è pervenuto in alcune forme cristallizzate
soltanto verso il IV secolo. Tutti questi ordinamenti contengono istruzioni
sulle principali azioni liturgiche, per esempio il battesimo e l'eucaristia,
e sembrerebbero utili fonti di informazione sulla pratica di coloro che li
hanno elaborati (la Tradizione apostolica riporta il testo di un'antica "ana-
fora", cioè di una preghiera eucaristica); ma è altrettanto vero che, al di là
degli elementi caratteristici di ciascuno, essi mostrano una dipendenza let-
teraria reciproca, e continueranno a riprodursi per imitazione anche negli
anni a venire, fra IV e v secolo: Canoni di Ippolito, Costituzioni apostoliche,
1èstamento di nostro Signore. Ciò significa che almeno in parte essi sono
specchio non tanto di un uso in vigore, quanto di una tradizione ricevuta o
addirittura di un'aspirazione non necessariamente realizzata. In generale,
poi, una regola liturgica - specie quando tenta di riformare un uso cor-
rente e si scontra con la forte tendenza al conservatorismo rituale - spesso
prova l'esistenza di ciò che vuole vietare, piuttosto che di ciò che vuole
STORIA DEL CRISTIANESIMO

promuovere. Gli ordinamenti ecclesiastici, pertanto, sono un'importante


raccolta di informazioni che tuttavia vanno sempre confermate da altre
fonti indipendenti.
Molto più scarsi, ma storicamente più affidabili, sono altri scritti che,
pur non occupandosi direttamente di liturgia, forniscono prova di usanze
sicuramente attendibili. Da Giustino, ad esempio, ricaviamo una forma
di rituale di iniziazione cristiana in vigore a Roma a metà del II secolo
che può essere così riassunto: i catecumeni, dopo un periodo di digiuno
e preghiera per la remissione dei loro peccati, si sottoponevano a un ba-
gno battesimale di "illuminazione" amministrato nel nome del Padre, di
Gesù Cristo e dello Spirito santo. Diverse fonti concordano sul fatto che il
battesimo avveniva il giorno di Pasqua, o perlomeno di domenica. Quan-
to avveniva in Africa è invece descritto da Tertulliano: la preparazione al
battesimo era fatta di orazioni, digiuni, genuflessioni, veglie e confessio-
ne dei peccati; dopo la preghiera di santificazione sull'acqua, il candidato
esprimeva la sua fede e proclamava la sua rinuncia a Satana e a tutte le sue
seduzioni; seguivano interrogazioni sulla fede cristiana, e la triplice im-
mersione seguita dall'unzione, dall'imposizione delle mani, dalla preghie-
ra collettiva e dalla prima partecipazione alla liturgia eucaristica, che si
concludeva con la condivisione di latte e miele. Alcuni anni dopo, sempre
in Africa, Cipriano testimonia l'esistenza di un catecumenato scandito da
precise pratiche penitenziali e da sessioni didattiche gestite dai doctores
(da cui, ovviamente, erano esclusi coloro che venivano battezzati da bam-
bini). Rispetto a Tertulliano, Cipriano conosce chiaramente una signatio
sulla fronte in forma di croce dopo l'imposizione delle mani. In ambiente
siriaco, invece, nelle fonti più antiche l'unzione non segue bensì precede il
battesimo amministrato nel nome del Signore; ciò impedisce di conside-
rare tale unzione come una "confermazione" del battesimo.
Il battesimo aveva una forte connotazione antidemoniaca. In Africa e
ad Alessandria fin dalla prima metà del III secolo è conosciuto il rito di
una rinuncia a Satana pronunciata dal catecumeno, e la medesima conce-
zione sta alla base dell'istituzione di un vero e proprio esorcismo quale rito
parabattesimale a sé stante. Nella seconda metà del II secolo il rituale va-
lentiniano descritto negli Estratti da Teodoto è la più antica testimonianza
sopravvissuta di rituali antidemoniaci prebattesimali: digiuni, suppliche,
preghiere, gesti delle mani e genuflessioni che allontanano la presenza ne-
fasta dei diavoli. Ciò era ritenuto necessario sulla base di una concezio-
ne demoniaca del pagano e dell'eretico e di un'interpretazione realistica
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 399

del peccato, inteso come vera e propria inabitazione di Satana nel corpo
dell'uomo. Su questo, però, per un certo periodo vi furono delle resisten-
ze: ad Alessandria Clemente rifiutò questa pratica e la teologia che la so-
steneva, ritenendola lesiva del libero arbitrio, mentre qualche anno dopo
Origene la accolse, interpretando il rituale battesimale nel suo complesso
come un grande esorcismo. Anche in Africa, a metà del III secolo, la qua-
lificazione esorcistica del battesimo era ormai evidente.
Non vanno passate sotto silenzio anche certe pratiche liturgiche margi-
nali, come quella della comunità dei giudei cristiani elchasaiti (sorta dopo
il n6) che praticavano un battesimo di natura esorcistica che aveva come
scopo la remissione di tutti i peccati, e che poteva essere ripetuto più volte.
La Tradizione apostolica conserva la descrizione di un rituale battesi-
male ormai ben organizzato (il testo, pur non essendo conservato in una
forma testuale anteriore al IV secolo, contiene certamente usanze più an-
tiche). Il catecumenato durava tre anni ed era suddiviso in due tappe al
termine delle quali si procedeva all'esame dei candidati da parte dei mae-
stri incaricati della catechesi. Man mano che ci si avvicinava al battesimo,
si moltiplicavano i riti di imposizione delle mani e di esorcismo. Il saba-
to che precedeva il battesimo il vescovo imponeva le mani e compiva gli
scongiuri sui candidati, poi soffiava sul loro volto, segnava le loro fronti, le
orecchie e le narici, lasciando infine che essi trascorressero la notte fra let-
ture, istruzioni e preghiere. Ali' alba della domenica si pregava sull'acqua
e poi, pronunciate le rinunce, si facevano entrare i candidati nell'acqua.
La triplice immersione battesimale era accompagnata da una professione
di fede nelle tre persone della Trinità. Seguivano un'unzione con l'olio,
un'imposizione delle mani da parte del vescovo, una seconda unzione, la
segnazione sulla fronte e il bacio di pace. Ammessi alla celebrazione euca-
ristica, i neofiti venivano comunicati con pane, vino e miele.
Sempre la Tradizione apostolica ci informa sui ministeri ecclesiastici:
vescovi, presbiteri, diaconi, confessori, vedove, lettori, vergini, suddiaco-
ni e taumaturghi. Per le prime tre categorie era previsto un rituale di or-
dinazione compiuto dal vescovo mediante l'imposizione delle mani e la
recita di certe preghiere; gli altri venivano nominati con una cerimonia di
designazione che talvolta prevedeva la consegna rituale di un oggetto sim-
bolico (per esempio, il libro per il lettore). Le diverse chiese, comunque,
erano sostanzialmente tutte concordi nel presumere l'esistenza di vescovi,
presbiteri e diaconi, ma si differenziavano quanto alle altre categorie; la
lettera di Cornelio a Fabio di Antiochia, ad esempio ci informa che nel
400 STORIA DEL CRISTIANESIMO

2.51 a Roma c'erano «sette suddiaconi, quarantadue accoliti [assistenti dei


diaconi al servizio dell'altare), cinquantadue esorcisti, lettori e ostiarii [cu-
stodi della porta della chiesa]», mentre a Cartagine Cipriano non conosce
gli ostiarii.
La struttura di liturgia eucaristica meglio conosciuta è quella narrata da
Giustino e celebrata a Roma a metà del II secolo. Essa si svolgeva secondo
questa sequenza: liturgia della parola, omelia, preghiera universale dei fe-
deli, bacio di pace, preghiera presidenziale sul pane e sul vino mescolato ad
acqua, conclusione con un amen pronunciato dall'assemblea, distribuzio-
ne dell'eucaristia da parte dei diaconi ai presenti e invio agli assenti.
Per quanto concerne la remissione dei peccati, il momento liturgico
precipuo era il battesimo; per i peccati gravi compiuti in seguito, si di-
scusse a lungo sull'opportunità di concedere una seconda e ultima ricon-
ciliazione, che prevedeva un durissimo processo penitenziale fatto di un
lungo periodo di preghiera e mortificazione. Furono le persecuzioni, spe-
cialmente quella di Decio, a portare in primo piano la discussione su que-
sto tema. Cipriano di Cartagine, favorevole a riaccogliere i penitenti, ci dà
una descrizione del periodo di penitenza che essi dovevano trascorrere al
pari dei catecumeni fra letture e insegnamenti, esclusa la loro partecipa-
zione al banchetto eucaristico, fino alla conclusiva riconciliazione che av-
veniva tramite l'imposizione delle mani da parte del vescovo. Anche altre
chiese avevano messo in opera un simile sistema di riconciliazione sempre
costruito sul modello del catecumenato (si veda, per la Siria, la Didascalia
degli apostoli). Per i peccati meno gravi, si riteneva che la preghiera indivi-
duale fosse sufficiente per ottenere il perdono.
In diverse province dell'Impero è attestata la pratica di accompagnare
l'inumazione dei defunti con la tradizionale consumazione del pasto pres-
so la tomba (refrigerium), e di ritrovarsi in occasione degli anniversari del
giorno di morte. Nel Martirio di Policarpo, avvenuto a Smirne fra il 156 e
il 177, è menzionato il desiderio di raccogliere le spoglie del martire allo
scopo di poter celebrare, anche al cimitero, l'eucaristia nell'anniversario
del suo martirio.
Soltanto la Tradizione apostolica ci informa sull'unzione degli infermi,
perché contiene una preghiera di santificazione sull'olio; pare che l'unzio-
ne potesse avvenire per mano dell'infermo stesso, senza la mediazione di
un ministro.
I luoghi di raduno delle assemblee sono ancora le case private, ma an-
che locali appositamente costruiti (e talora distrutti in epoca di persecu-
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 401

zione); a Dura Europos è stata rinvenuta una casa dotata di una grande
stanza che funzionava come chiesa, con un battistero decorato da affreschi
di soggetto religioso. La Didascalia degli apostoli prescrive, per i locali più
grandi e strutturati, una suddivisione tra la zona del clero, rivolta a oriente,
e quella dei laici. Nelle grandi città dobbiamo immaginarci che i fedeli si
riunissero in piccoli raggruppamenti e che le persone provenienti da diver-
se regioni dell'Impero tendenzialmente conservassero le proprie abitudini
anche nei luoghi di emigrazione.
Quanto al tempo dedicato alla preghiera, le informazioni sono incer-
te, ma in questo periodo prende forma l'abitudine di celebrare l'eucaristia
anche in giorni diversi dalla domenica, e di dedicare alla preghiera alcune
specifiche ore del giorno. Emerge dalle fonti l'importanza della celebra-
zione pasquale, che la maggior parte delle chiese collocava nella domenica
che seguiva il primo plenilunio di primavera; tuttavia verso il 195 vi furono
forti conflitti, specialmente con Vittore di Roma, perché alcune comunità
dell'Asia Minore, più legate all'uso giudaico, preferivano celebrarla il 14
del mese di Nisan, qualunque fosse il giorno della settimana (cfr. CAP. 3,
p. 12.3). Il luogo in cui invece si desiderava differenziare quanto più possibi-
le le celebrazioni giudaiche da quelle cristiane era la Siria; la Didascalia pi
descrive anche la settimana di digiuno che precedeva la Pasqua, celebrata
dopo una lunga veglia seguita dall'eucaristia e da un lauto banchetto. Fin
dalla fine del II secolo comincia ad affermarsi l'abitudine di celebrare la
cinquantina dopo Pasqua e la festa della Pentecoste.

L"'epoca d'oro" della liturgia cristiana

Per lo storico della liturgia antica il periodo postniceno, a lungo conside-


rato come un'"epoca aurea", è un campo di indagine maggiormente defi-
nito, sia a motivo della maggior quantità di materiale pervenuto, sia per
una certa tendenza a uniformare gli usi fino ad allora coesistenti, dando
forma a quelli che possiamo chiamare "tipi" liturgici. È questo il periodo
che ha visto nascere quella che è stata considerata come la forma classica
della liturgia cristiana, quando i differenziati usi locali furono assimilati
all'interno di grandi "famiglie" liturgiche; nessuna di esse, tuttavia, può
essere considerata come la diretta prosecuzione di un uso primitivo, né
come la pura e semplice estensione di un modello preesistente. Queste
402 STORIA DEL CRISTIANESIMO

famiglie sono state classificate dai liturgisti non secondo i criteri più im-
mediatamente evidenti (la lingua liturgica o l'indirizzo teologico), bensì
secondo criteri anzitutto geografici (romana, gallicana, ispanica, africana,
antiochena, alessandrina, gerosolimitana). All'interno di ciascuna zona
le diverse tradizioni liturgiche che coesistevano subirono due processi
uniformanti: uno polarizzante, teso a dismettere le particolarità locali in
favore dell'accoglimento della pratica in uso nelle metropoli, e uno di al-
lineamento, che iniziava con un avvicinamento reciproco fra usi liturgici
somiglianti e produceva la loro fusione in un nuovo e unico modello. Il
risultato fu il rafforzamento di una tipologia sempre meno variegata all' in-
terno dei confini delle distinte regioni di influenza ecclesiastica, spesso a
loro volta coincidenti con le province e le diocesi civili. Certe particolarità
sopravvissero, ma inglobate all'interno di più grandi tradizioni ben rico-
noscibili. Ciò che ne risultò, al termine di un lungo periodo di gestazione,
non fu né una sintesi del periodo precedente, né una scelta delle usanze
"migliori"; i riti che ebbero la meglio furono quelli adottati dalle chiese
più "forti" a discapito di quelle più "deboli", secondo un quadro geografico
che spesso ricalcava quello politico-ecclesiastico (con qualche eccezione
conservatrice per le chiese locali più periferiche, meno sensibili all'influsso
del potere centrale). Il processo di contaminazione fra tradizioni diverse
non si è comunque concluso in fretta: si pensi al rito bizantino attuale, che
ha accolto in sé in momenti diversi elementi appartenenti a due famiglie
distinte: quella costantinopolitana e quella palestinese.
Descrivere le tipologie liturgiche di ciascuna regione sarebbe molto lun-
go, per cui saranno sufficienti alcuni cenni. Per il Nord Italia le principali
fonti descrittive sono Ambrogio, poi Cromazio di Aquileia, Gaudenzio di
Brescia, Massimo di Torino e Pietro Crisologo. Essi ci tramandano qual-
che esempio di costume locale: per l'iniziazione cristiana, per esempio, i
candidati al battesimo che si amministrava a Pasqua venivano iscritti non
all'inizio della Quaresima, ma all'Epifania; il giorno prima del battesimo
era previsto il rito della "apertura" delle orecchie e del naso del catecumeno
mediante il tocco da parte del vescovo; prima della rinuncia a Satana aveva
luogo un'unzione battesimale dal significato antidemonico; esisteva poi
una sola unzione postbattesimale, mentre la Tradizione apostolica e l'uso
romano successivo ne prevedono due; al termine del battesimo avveniva la
lavanda dei piedi dei neofiti; concludeva la cerimonia l'imposizione delle
mani e un'invocazione allo Spirito santo chiamata "sigillo spirituale". Ad
Ambrogio è attribuito il trattato de sacramentis, che conserva un'antica
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA

recensione di quella che diverrà la preghiera eucaristica romana per eccel-


lenza (il canone romano, che si differenzia dalle anafore orientali per la
presenza di alcune parti variabili, tra cui il prefazio). Altre notizie sull'uso
romano (penitenza, unzione degli infermi, bacio di pace) sono invece con-
tenute in alcune epistole di papa Innocenzo I: per esempio, la tradizione
pontificia di celebrare le solennità in diverse chiese di Roma (le stationes)
oppure l'uso di inviare particelle del pane eucaristico consacrato dal papa
alle chiese romane (ilftrmentum). L'invio dell'eucaristia agli assenti e agli
infermi secondo alcuni studiosi spiegherebbe il perché, a partire dal me-
dioevo, la denominazione latina della liturgia eucaristica diverrà "messa"
(ite, missa est è l'invito che il diacono rivolge all'assemblea); ma la spiega-
zione è incerta, e ancora il vero senso della parola "messa" ci risulta oscuro.
Per la Gallia e la Spagna, purtroppo, sostanzialmente non vi sono fonti
anteriori al v secolo, e quelle sopravvissute sono davvero scarne. Maggiori
informazioni abbiamo invece per l'Egitto, terra di numerose contamina-
zioni: ad esempio intorno al IV secolo il rito alessandrino si adegua alle
altre tradizioni quanto al giorno del battesimo, e lo sposta a Pasqua. Con
l'uso siriaco condivide un'importante unzione prebattesimale, con quello
occidentale la presenza di "scrutini" dei catecumeni (Africa e Roma) con
interrogazioni che successivamente furono sostituite da formule dichia-
ratorie pronunciate dagli stessi candidati. Come in Siria, anche in Egitto
non vi era una liturgia postbattesimale sviluppata. Una fonte scritta im-
portante - risalente al IV secolo ma sottoposta ad adattamenti successivi
- è il Sacramentario di Serapione di Thmuis, che raccoglie 30 preghiere
per diverse necessità (battesimo, ordinazioni, eucaristia, rito delle esequie,
formulari da pronunciarsi su olio, acqua e pane benedetto o esorcizzato).
La sua liturgia eucaristica presenta alcune particolarità: un'orazione pri-
ma delle letture, molte intercessioni prima del rinvio dei catecumeni, il
Sanctus, riti di comunione molto sviluppati. Un'altra preghiera eucaristica
egiziana è contenuta nel papiro di Strasburgo 2.54, mentre le anafore attri-
buite a Basilio di Cesarea e a Gregorio Nazianzeno, ancor oggi in uso nel-
la Chiesa copta, sono sicuramente un prestito dall'ambiente antiocheno.
L'anafora autenticamente alessandrina, quella di san Marco evangelista
(oggi detta di san Cirillo), è attualmente quasi caduta in disuso.
Per la Siria è molto ricca di particolari la produzione di Giovanni Cri-
sostomo, soprattutto le sue omelie battesimali. Al Crisostomo è anche
attribuito il testo di un'anafora, che in verità mostra molti paralleli con
l'anafora siriaca dei Dodici apostoli e con quella di san Giacomo. Di poco
STORIA DEL CRISTIANESIMO

successive, le omelie battesimali di Teodoro di Mopsuestia sono un'altra


fonte di informazioni sulla liturgia del!' iniziazione cristiana e sull 'euca-
ristia. Notizie sulle celebrazioni liturgiche antiochene si possono anche
ricavare da un particolare trattato attribuito a Dionigi l'Areopagita, la
Gerarchia ecclesiastica; in esso è prevalente l'interpretazione della liturgia
terrestre come contemplazione della realtà celeste. Ed è questa una delle
concezioni che favorirono un generale indirizzo della liturgia verso forme
maestose e ieratiche; anche i cerimoniali imperiali, in certi casi, servirono
da modello per la costruzione di cerimonie cariche di sacralità e di solenne
decoro. Per avere un'idea di come fosse celebrata l'eucaristia in tutte le sue
fasi, si può ricorrere alle Costituzioni apostoliche: letture dall'Antico e dal
Nuovo Testamento, omelia, rinvio dei catecumeni e dei penitenti, bacio di
pace, preghiera universale, offertorio, anafora, comunione. Le Costituzioni
contengono anche il testo di alcune orazioni e il testo di un'intera anafora
(la cosiddetta "liturgia clementina").
Per la Siria orientale abbiamo gli scritti di Afraate, Efrem e Cirillona.
Fra le anafore siriache si possono ricordare quella di Nestorio e quella di
Teodoro, composte sulla base di testi preesistenti anche greci. Ancor oggi
presso la Chiesa assira d'Oriente è molto usata l'anafora di Addai e Mari,
probabilmente scritta originariamente in siriaco e pervenutaci senza il rac-
conto dell'istituzione eucaristica (cioè senza la parte in cui si commemo-
rano i gesti compiuti da Gesù sul pane e sul vino). L'apparente lacuna,
secondo molti studiosi, sarebbe originaria - e riscontrabile, tra l'altro, an-
che nell'eucaristia della Didache; ma a dispetto della sua antichità il for-
mulario di Addai e Mari per molto tempo fu considerato invalido dalle
altre chiese, perché mancante di questo elemento ritenuto essenziale. Un
giudizio che a partire dal 2001 la Chiesa cattolica ha mutato: sulla base di
considerazioni di natura storica e teologica, essa ha infatti riconosciuto
che possano esistere preghiere eucaristiche "efficaci" anche grazie alla sola
invocazione dello Spirito, senza che sia indispensabile la letterale ripetizio-
ne delle parole dell'ultima cena.
Assai complicato è ricostruire la liturgia di Gerusalemme. Trattandosi
di una città nella quale convivevano e confluivano cristiani di provenienza
e rito differenti, fin da subito essa divenne un luogo di pratiche liturgi-
che eterogenee. Della seconda metà del IV secolo abbiamo una serie di
catechesi del vescovo Cirillo, alcune delle quali sono dedicate al battesimo
(e che molti attribuiscono al suo successore Giovanni): da esse ricaviamo
anche informazioni sulla liturgia eucaristica gerosolimitana, che mostra
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA

analogie con la tradizione egiziana. Molto importante è il diario della pel-


legrina Egeria, che nel tardo IV secolo visitò la città e descrisse, anche se in
modo non esaustivo, le pratiche liturgiche che osservava. Egeria ci restitui-
sce, fra l'altro, un quadro del catecumenato che prevede sessioni di studio
della Scrittura, esposizioni dottrinali, spiegazioni della professione di fede
(a Roma è chiamata traditio symboli) e, la domenica delle Palme, la recita
del Simbolo (redditio symboli). I lezionari armeni e georgiani, a partire dal
v secolo, ci informano sulle varie fasi annuali della liturgia. La preghiera
eucaristica tipica di Gerusalemme è la cosiddetta liturgia di san Giacomo.
Il IV secolo è il momento in cui si regolarizzò la pratica della preghiera
quotidiana. Gli studiosi hanno distinto tra un ufficio "cattedrale", prati-
cato dal clero secolare solitamente due volte al giorno (al mattino e alla
sera), e un ufficio "monastico", che invece prevedeva preghiere più prolisse
disposte lungo tutta la giornata; la distinzione è comunque convenzionale,
perché molte furono le contaminazioni fra l'uno e l'altro costume. Sem-
pre in quest'epoca prese forma un periodo di penitenza quaresimale, che
nacque dalla fusione di un preesistente digiuno di quaranta giorni dopo
l'Epifania, di origine alessandrina, con un altro digiuno prepasquale più
breve. A questo periodo va ascritto anche lo sviluppo della liturgia della
Settimana santa, che nella città di Gerusalemme raggiunse un tale grado
di elaborazione da diventare un modello per tutta la cristianità. Alla metà
del IV secolo a Roma e in Africa settentrionale apparve e lentamente si
impose ovunque la festa del 25 dicembre, che in altri luoghi veniva invece
celebrata il 6 gennaio. Sui motivi della scelta del 25 - secondo alcuni la
trasformazione di una festa pagana, secondo altri il risultato di un com-
puto che partiva dal giorno presunto del concepimento di Gesù - non c'è
ancora accordo fra gli studiosi. Dopo la liberalizzazione del cristianesimo,
inoltre, si sviluppò liturgicamente anche il culto dei santi. Inizialmente
legato alle commemorazioni degli anniversari dei martiri che venivano
celebrate con semplicità nelle diverse chiese locali, è ora caratterizzato da
elaborate cerimonie che si svolgevano sui luoghi del martirio oppure, in
chiesa, nel giorno anniversario della morte dei santi confessori. È questo
anche il periodo della redazione dei primi calendari liturgici, nei quali ac-
canto alle grandi feste (Natale, Epifania, Quaresima, Settimana santa, Ot-
tava di Pasqua, Ascensione, Pentecoste) vennero indicati i giorni dedicati
alla memoria dei santi.
Sempre nel IV secolo assumono una forma stabile i rituali di ordinazio-
ne, sulla cui evoluzione durante il II e il III secolo siamo ancora poco in-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

formati. Le Costituzioni apostoliche prescrivono l'imposizione delle mani


non solo per diaconi, presbiteri e vescovi (per questi ultimi è richiesta la
presenza di tre altri vescovi ordinanti), ma anche per le diaconesse, i sud-
diaconi e i lettori. Il matrimonio rimarrà invece almeno fino al V-VI secolo
una cerimonia celebrata in famiglia, seguendo gli usi locali tradizionali e
in assenza di ministri della Chiesa.
L'allontanamento temporaneo dei peccatori e la loro riconciliazione
pubblica vennero organizzati in tre tappe: un giorno era dedicato all'in-
gresso nel periodo di penitenza, al cospetto del vescovo e della comunità;
una seconda fase, che poteva anche durare anni, era dedicata all'espiazio-
ne, durante la quale il penitente era chiamato alla continenza, all 'abban-
dono delle cariche pubbliche, all'assunzione di atteggiamenti penitenziali
esternamente visibili; infine aveva luogo la riconciliazione per mano del
vescovo (a Roma rispettivamente il Mercoledì delle Ceneri e la sera del
Giovedì santo). Questo rigore e le dure conseguenze dell'ingresso nello
stato penitenziale favorirono sempre più il differimento della riconcilia-
zione alla fine della vita e, soprattutto a partire dal v secolo, moltiplica-
rono i problemi pastorali legati alla gestione dei penitenti che ricadevano
nel peccato e conseguentemente accumulavano lunghi periodi di peniten-
za. La soluzione fu duplice: da un lato la diminuzione della severità delle
pene, dall'altra il diffondersi in tutto l'Occidente (nel VII secolo) di un
nuovo sistema penitenziale elaborato dai monaci anglosassoni e celti. Il
principio era che a ogni peccato corrispondeva una determinata peniten-
za, fatta soprattutto di digiuni e di mortificazioni applicati secondo una
casistica accuratamente stabilita nei Libri penitenziali (è la cosiddetta "pe-
nitenza tariffata"). La riconciliazione, che avveniva tramite l'assoluzione
sacramentale del sacerdote (non più necessariamente il vescovo), divenne
così reiterabile all'infinito. Allo stesso tempo fu prevista la possibilità di
commutare le penitenze, il cui cumulo spesso poteva travalicare la durata
di una vita intera, con penitenze più brevi ma più severe, oppure di riscat-
tarle con la celebrazione di messe o facendole scontare ad altri al proprio
posto, anche dietro pagamento di somme in denaro.
La nuova attitudine dell'Impero verso le comunità cristiane permise
loro di utilizzare liberamente grandi spazi per celebrare le funzioni litur-
giche. Spesso le chiese furono costruite secondo il modello imperiale del-
la basilica, una grande sala coperta e suddivisa in navate che fu adattata
all'uso liturgico mediante l'aggiunta dell'abside e del transetto; a questo
costume in Oriente nel VI secolo si affiancò l'uso di costruire edifici con
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA

grandi cupole centrali. Una particolare attenzione fu prestata all'orienta-


mento simbolico verso levante. L'interno dovette essere attrezzato con
aree e mobilio adatto per le varie necessità rituali: amboni per la procla-
mazione delle letture, seggi per i ministri, altare (magari costruito sul luo-
go di un martirio), separazioni per delimitare gli spazi riservati a ciascun
membro della comunità (zona del clero, dei fedeli, dei catecumeni e dei
penitenti). Uno spazio era riservato alla celebrazione del battesimo, e pre-
vedeva una sala dotata di vasca battesimale associata ad altri locali da im-
piegarsi per le riunioni di preghiera e le unzioni o imposizioni delle mani
pre- e postbattesimali.
Le assemblee, sempre più imponenti, erano minuziosamente organiz-
zate sia per quanto concerneva i ruoli svolti dai ministranti, sia per l'ordi-
ne di precedenza dei fedeli. È illuminante in proposito un passaggio delle
Costituzioni apostoliche, che regolamenta con precisione il flusso di accesso
alla comunione: per primo il vescovo, seguito da presbiteri, diaconi, sud-
diaconi, lettori, cantori, asceti, donne, diaconesse, vergini, vedove, bambi-
ni e comuni fedeli. Dopo il IV secolo, in effetti, la Chiesa si trovò in una
condizione di forte espansione numerica. Tale espansione coincise con
la mitigazione di certe rigidità, e con una certa tolleranza nell'accogliere
ali' interno delle proprie manifestazioni liturgiche elementi tratti dall'uso
cultuale dei pagani, nel desiderio di poter cristianizzare ogni residuo del-
le vecchie religioni. Anche l'iniziazione cristiana, pur se ritualmente più
codificata e complessa di un tempo, risultò nei fatti maggiormente acces-
sibile e divenne un rituale di massa (nelle grandi città nei primi anni del
v secolo si stimano un migliaio di battesimi nella sola notte di Pasqua).
La diffusione del pedobattesimo (battesimo degli infanti) in Occidente
costrinse a elaborare un nuovo rituale nel quale il ruolo attivo riservato al
catecumeno potesse essere svolto da altri. Si dovette concedere l'accesso
alla liturgia eucaristica a fedeli sempre più numerosi, e nel timore che si ac-
costassero alla comunione anche dei peccatori - una volta decaduta la pra-
tica della penitenza pubblica che regolamentava l'accesso ai sacramenti -
venne favorita l'abitudine di partecipare liberamente all'eucaristia senza
però comunicarsi. Di qui in avanti l'arricchimento dei rituali liturgici,
una volta stabiliti i punti essenziali delle varie celebrazioni, si concentrò
principalmente sugli aspetti secondari (espansione dei riti di ingresso e di
congedo, maggior decoro dell'edificio ecclesiastico, proliferazione di can-
ti e preghiere aggiuntive). Lo stabilizzarsi di una rigida ortodossia ebbe
come conseguenza la creazione di formulari liturgici altrettanto rigidi e
408 STORIA DEL CRISTIANESIMO

codificati, e il timore dell'eresia rese sospetta l'antica pratica dell'improv-


visazione liturgica. Divenne invece diffusa, specie in Oriente, l'abitudine
di comporre nuovi testi liturgici dottrinalmente connotati, contenenti
professioni di fede legate alle controversie teologiche del momento: si
pensi ali' inno cristologico bizantino O Unigenito Figlio e Verbo di Dio (Ho
Monogenes), ascritto alla volontà dell'imperatore Giustiniano e inserito
all'interno della celebrazione eucaristica (cfr. CAP. 12, p. 375). L'espressio-
ne pubblica del culto, in generale, si avviò verso un processo di progressiva
fissità e clericalizzazione.

Bibliografia ragionata

Per la metodologia, si vedano il classico A. BAUMSTARK, Liturgie comparée. Principes


et méthodes pour l'étude historique des liturgies chrétiennes, Editions de Chevetogne,
Chevetogne 1953 1; R. TAFT, G. WINKLER (eds.), Comparative Liturgy Fifty Years after
Anton Baumstark, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1001; A. NICO LOTTI, Sul me-
todo per lo studio dei testi liturgici, in "Medioevo Greco~ o, 1000, pp. 143-79.
Il miglior manuale sulla liturgia antica è quello di P. F. BRADSHAW, Alle origini
del culto cristiano. Fonti e metodi per lo studio della liturgia dei primi secoli, Libre-
ria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1007, che in parte sostituisce il volume di
J. A. JUNGMANN, The Early Liturgy to the Time of Gregory the Great, University of
Notre Dame Press, Notre Dame 1959. Molto utili anche A. FURST, Die Liturgie der
alten Kirche. Geschichte und Theologie, Aschendorff. Stuttgart 1008; P. F. BRADSHAW,
Early Christian Worship: A Basic lntroduction, Liturgica! Press, Collegeville lOIO'.

Un'efficace presentazione sintetica della storia liturgica è M. METZGER, Storia


della liturgia: le grandi tappe, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1996. Limitata-
mente al periodo più antico, cfr. F. HAHN, Il servizio liturgico nel cristianesimo primi-
tivo, Paideia, Brescia 1971; P. GRELOT, La liturgia nel Nuovo Testamento, Boria, Roma
s. HEID, La preghiera dei primi cristiani, Qiqajon, Magnano 1013.
1991;
Manuali generici sono M. RIGHETTI, Manuale di storia liturgica, Ancora, Milano
1998'; A. G. MARTIMORT, R. CABIÉ (a cura di), La Chiesa in preghiera, Queriniana,
Brescia 1010•; s. MARSILI et al. (a cura di), Anamnesis: introduzione storico-teologica
alla liturgia, Marietti, Genova 1974; A. J. CHUPUNGCO (a cura di), Scientia liturgica:
manuale di liturgia, Piemme, Casale 1998. Ancora essenziale, seppur molto invec-
chiato, F. CABROL, H. LECLERCQ (éds.), Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de
liturgie, Letouzey et Ané, Paris 1907-53; un piccolo lessico tematico, con prospettiva
meno storica, è D. SARTORE, A. M. TRIACCA, c. CIBIEN (a cura di), Liturgia, Edi-
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA

zioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2.001. Per l'architettura e l'archeologia, si vedano
G. LICCARDO, Architettura e liturgia nella Chiesa antica, Skira, Milano 2.005; F. w.
DEICHMANN, Archeologia cristiana, L'Erma di Bretschneider, Roma 1993.
Per l'iniziazione cristiana, cfr. v. SAXER, Les rites de l'initiation chrétienne du Il'
au VI' siècle, CISAM, Spoleto 1988; E. FERGUSON, Baptism in the Early Church, Eer-
dmans, Grand Rapids (MI) 2.009.
Sull'eucaristia si vedano gli utili c. GIRAUDO, Eucaristia per la Chiesa, Gregorian
University Press, Roma 1989; E. MAZZA, L'anafora eucaristica. Studi sulle origini, Edi-
zioni liturgiche, Roma 1992.; ID., La celebrazione eucaristica. Genesi del rito e sviluppo
dell'interpretazione, EDB, Bologna 2.003'; v. RAFFA, Liturgia eucaristica: mistagogia
della messa, Edizioni liturgiche, Roma 2.003'; P. F. BRADSHAW, M. E. JOHNSON, The
Eucharistic Liturgies: Their Evolution and lnterpretation, Liturgica) Press, College-
ville 2.012..
Sulla liturgia delle ore, cfr. R. E. TAFT, La liturgia delle ore in Oriente e in Occi-
dente, Lipa, Roma 2.001; P. F. BRADSHAW, Daily Prayer in the Early Church, Wipf &
Stock, Eugene (oR) 2.008.
Sul tempo liturgico, si vedano T. J. TALLEY, The Origins ojthe Liturgica! Year, Li-
turgica) Press, Collegeville 1991'; P. F. BRADSHAW, M. E. JOHNSON, Origins ofFeasts,
Fasts and Seasons in Early Christianity, Liturgica) Press, Collegeville 2.011.
Sui riti di ordinazione, si segnala l'opera di P. F. BRADSHAW, Ordination Rites oJ
the Ancient Churches ofEast and West, Pueblo Publishing, New York 1990.
Sulla penitenza, si vedano c. VOGEL, Le pécheur et la pénitence dans l'Église an-
cienne, Cerf, Paris 1966; ID., Le pécheur et la pénitence au Moyen Age, Cerf. Paris 1969.
14
Ideali di perfezione, modelli di vita
e sviluppo del culto dei santi
di Adele Monaci Castagn,o

L'importanza del culto dei santi

Difficilmente si potrebbe sopravvalutare l'importanza del culto dei santi


nel plasmare il tempo, lo spazio, la spiritualità del cristianesimo dal pe-
riodo cardoantico fino all'età contemporanea. Si tratta di un fenomeno
molto complesso e i tentativi di ricondurlo a una causa prevalente sono
risultaci spesso insoddisfacenti; nelle diverse fasi della storia della ricerca
si è voluto vedere in esso la conseguenza della contaminazione con i culti
pagani o il risultato di uno sviluppo tutto interno al cristianesimo o di
dinamiche socio-antropologiche. Nel tracciare le linee principali di svi-
luppo del culto dei santi si preferisce qui individuare una periodizzazione
e segnalare nei diversi momenti quegli elementi che, nell'intreccio con i
cambiamenti storici che segnarono la storia del cristianesimo dei primi sei
secoli, ne favorirono il successo.

Fino alla persecuzione di Decio e Valeriano

Il I secolo: la morte di Cristo e per Cristo

Negli scritti testimoni del periodo in cui il cristianesimo non era ancora
una realtà religiosa separata dal giudaismo e che solo più tardi sarebbe-
ro stati inseriti nel canone, non compariva alcun interesse riguardo alle
devozioni indirizzate ai morti distintisi per particolari qualità: essi, anzi,
registrano le parole dure di Gesù verso gli scribi e i farisei «che costruite le
tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti» (Mc 23,29) e l'appello:
«Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mc 8,22). Parole
che comunque lasciavano trapelare che queste devozioni esistevano.
Gli stessi scritti sottolineavano l'importanza della morte di Cristo in
412. STORIA DEL CRISTIANESIMO

quanto salvezza «per molti» (Mc 10,45; 14,2.4) e della morte per Cristo;
due aspetti connessi, di grande importanza nella formazione del concetto
di martire. La gloria e la salvezza che scaturivano dalla morte di Gesù, solo
apparentemente umiliante, si riverberavano sulle morti volontariamente
abbracciate dai credenti in lui: l'autore degli Atti degli Apostoli descriveva
la morte di Stefano a causa della fede in Cristo in modi che chiaramente
alludevano a quella di Gesù, suggerendo un rapporto di imitazione fra il
maestro e il discepolo. Il redattore dell'Apocalisse, che scriveva sotto i col-
pi di una persecuzione, riservava un posto di assoluto rilievo a coloro che
erano stati «immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza
(martyria) che gli avevano reso» (Ap 6,9 ). Le loro anime erano viste sotto
l'altare del tempio celeste; «davanti al trono di Dio e gli prestano servi-
zio giorno e notte nel suo tempio» (Ap 7,15) godendo una condizione di
beatitudine; più avanti si sosteneva che « i decapitati a causa della testi-
monianza di Gesù e della parola di Dio» risorgeranno per partecipare al
regno millenario (Ap 2.0,4). Poco più tardi, Ignazio, vescovo di Antiochia,
in viaggio verso Roma dove sarebbe stato processato per la sua fede, aspi-
rava a «morire per Dio» e si considera per questo «imitatore» di Cristo.

Sviluppo di un lessico e di una letteratura specializzata

Nei primi scritti dei seguaci di Gesù "santo", oltre naturalmente allo Spi-
rito, era Gesù (Mc 1,2.4) definito «il santo di Dio», colui che appartiene
esclusivamente a Dio, il cui attributo primario è la santità (Lv 19,2.), un
termine che nella Bibbia ebraica indicava innanzitutto separazione da ciò
che è profano e impuro; nell'Apocalisse è "santo" il Cristo risorto, ma an-
che colui che ha dato la vita per la sua fede e che risorgerà prima degli altri
per prendere parte al regno millenario (Ap 2.0,6). Nelle lettere di Paolo
"santi" sono tutti coloro che sono stati battezzati, purificati dal peccato e
giustificati dalla fede in Gesù. In questa fase il termine non aveva ancora
l'uso specialistico che si sarebbe sviluppato più tardi, riferito a persone che
per l'eccezionalità della loro vita e/ o la loro morte erano ritenute partecipi
più di altre della santità divina. Nei primi secoli era piuttosto il lessico del
martirio a rivelare l'attenzione e l'altissima considerazione delle chiese per
queste figure.
Le persecuzioni, per quanto sporadiche almeno fino a quella di De-
cio e di Valeriano rispettivamente nel 2.51 e nel 2.57, erano considerate dai
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI

credenti in Gesù la realizzazione delle sue parole (Mt 10,17-18). Le perse-


cuzioni costituivano uno shock a vari livelli: per il singolo si trattava di
scegliere fra la vita e la morte; per la famiglia del martire rappresentavano
spesso la rovina economica e il disonore sociale. Le chiese stesse, sotto la
pressione della persecuzione, soffrivano a causa degli abbandoni e delle
divisioni che si creavano a seguito degli scismi che ne erano la conseguen-
za (cfr. CAP. 3, p. 12.7). Presto si sentì il bisogno di fìssare la memoria di
questi eventi traumatici con asciutte descrizioni del processo e della con-
danna a morte (Atti dei martiri) o con resoconti più lunghi (Passioni) che
descrivevano l'arresto, l'interrogatorio, la confessione e il martirio, spes-
so inseriti in lettere fatte circolare fra le chiese con l'intento di rafforzare
il prestigio della Chiesa fecondata dal sangue dei martiri e di sostenere
e difendere particolari posizioni: c'erano gli "entusiasti" che arrivavano
al punto di consegnarsi alle autorità per morire per Cristo, ma anche i
negatori - come gli gnostici - per cui il martirio, come manifestazione
pubblica della fede di fronte all'autorità imperiale ritenuta demoniaca,
non rivestiva alcun signifìcato, rispetto ali' adesione interiore. Gli Atti e le
Passioni presentavano il martirio come il punto più alto cui poteva aspi-
rare il cristiano, come apice del coraggio, della pazienza, dell'amore per
Dio e come grazia ottenuta, preliminare alla beatitudine eterna. Lenta-
mente si formò un lessico specializzato: se nei testi del I secolo i termini
come martys/martyria signifìcavano la testimonianza di fede nell'unico
Dio, in seguito il termine martys venne riferito a colui che testimoniava
la sua fede con la morte. Questo sviluppo è documentato nelle Passioni
redatte a partire dalla metà del II secolo; più tardi si aggiunse il termine
conjèssor/omologetes, 'confessore', con cui le chiese indicarono coloro che,
pur avendo confessato la propria fede e aver sofferto, tuttavia, per motivi
indipendenti dalla loro volontà, non avevano potuto completare la loro
testimonianza con la morte.
I testi più antichi, la cui redazione è precedente alla pace costantiniana,
hanno linguaggio e temi comuni. Attingono al repertorio del linguaggio
militare e atletico: il martire è un atleta di Dio che lotta, nelle arene cittadi-
ne, con un avversario invisibile, il demonio, il vero antagonista del martire;
questi, morendo, come l'atleta vittorioso, ottiene la corona. Le parole at-
tribuite ai martiri sono molto simili: dichiarazione di fede nell'unico Dio
e nella divinità del Cristo, dichiarazione della loro vera identità. «Sono
cristiano/a», affermavano i martiri di fronte al magistrato che secondo la
procedura chiedeva di declinare le generalità civiche. La risposta alludeva
414 STORIA DEL CRISTIANESIMO

non solo all'appartenenza del martire alla sua vera patria celeste, ma anche
alla sua risocializzazione all'interno di una comunità altra da quella rap-
presentata dal magistrato: «Il mio primo e importante nome è "cristiano",
ma se chiedi il mio nome nel mondo è Carpo» (Martirio di Carpo, recen-
sione greca). Un altro tema comune era il legame personale e fortissimo
con Cristo nelle diverse fasi del martirio. Cristo soffriva con il martire e
nel martire, come si affermava a proposito di Blandina, una martire di Lio-
ne del II secolo, che, lanciata in aria più volte da un toro, non avvertiva
quanto le succedeva «per la speranza e la fermezza in ciò che credeva e
perché in colloquio con Cristo» (in Eusebio, h.e. s,1,s6). Il martirio era
considerato come la porta più sicura verso la vita eterna: ciò che agli occhi
dei pagani appariva come disprezzo per la vita ed esposizione irrazionale
alle sofferenze, per i martiri era espressione dell'amore della "vera" vita. Un
magistrato chiese al martire Pionio: «Perché hai fretta di morire?», e si
sentì dire: «Non di morire ma di vivere» (Martirio di Pionio 20,s). Non
possediamo immagini di martiri prima di Costantino, tuttavia la lettera-
tura martirologica descrive spesso l'aspetto del martire: ritenuto in intima
unione con Cristo, ha sempre un'espressione lieta, gioiosa con gli occhi
rivolti al cielo, a significare la sua speranza nella beatitudine eterna.
Va rilevato, inoltre, come in questa letteratura vi sia una significativa
presenza femminile: le martiri sono numerose e una, Perpetua, - con la
rifusione del suo diario di prigionia nella Passione che la riguarda - è an-
che fra le rare autrici cristiane antiche. Il coraggio - registrato anche da
fonti pagane - con cui le donne cristiane affrontavano le sofferenze e la
morte metteva in crisi il paradigma che lo riteneva esclusivo appannaggio
della natura maschile: alle donne martiri - pur senza scardinare questo
stereotipo di genere - venne attribuita la qualità di "virile": la donna viri-
le è un topos con cui gli autori cristiani - di Passioni, di Vite, di trattati e
omelie - erano soliti descrivere il coraggio femminile (cfr. CAP. 3, p. 111).
L'importanza acquisita dal martirio all'interno delle chiese dei primi
secoli è anche segnalata dal fatto che, per ottenere il riconoscimento con-
diviso di altre forme di perfezione cristiana, si sentì il bisogno di definirle
a partire appunto dal concetto di martirio risemantizzato: già dal II se-
colo, parallelamente all'affermarsi del valore intrinseco dell'ascetismo per
connotare la perfezione cristiana, venne elaborato il concetto che poteva
essere considerato martire anche colui che sacrificava l'intera sua vita a
Dio, mediante l'ascesi e l'incessante ricerca di Dio attraverso lo studio e
la meditazione sulla Scrittura, un'idea, come vedremo fra breve, feconda,
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 415

raccolta da Eusebio che, per primo, ne fece il filo conduttore dei suoi profi-
li biografici per lanciare altre forme di perfezione cristiana. In seguito servì
a descrivere anche la santità monastica ed episcopale.

L'intercessione dei martiri

Nella Passio Perpetuae et Felicitatis (inizio III secolo) si legge una prima
esplicita testimonianza sul potere intercessorio del martire, un aspetto
fondamentale del culto dei santi nella sua espressione più matura. Perpe-
tua, che aveva già confessato davanti al giudice la sua fede, riuscì a interce-
dere per la salvezza del fratello già morto da tempo. Era però ancora viva
quando ottenne questa grazia. È di circa un trentennio successiva la rifles-
sione di Origene, nell'Esortazione al martirio, ove trovavano una prima
coerente sistemazione molti spunti presenti nella riflessione precedente:
al carattere pubblico della testimonianza del martire era legato il concetto
di parresia, un termine del lessico politico classico con cui si indicava, nella
democrazia ateniese, la libertà di parola nell'assemblea. Con il confessare
davanti al giudice la sua fede il martire dava prova della sua parresia e, con
il sacrificio della vita, acquistava la stessaparresia nell'aldilà, nell'interce-
dere a favore dei propri fratelli all'interno di un rapporto di intima ami-
cizia con Dio. Il potere intercessorio del martire si fondava inoltre sulla
comprensione del martirio alla luce della morte di Cristo; come questi,
insieme sacerdote e vittima sacrificale, aveva ottenuto la riconciliazione
dell'umanità con Dio, così il martire con il suo sacrificio otteneva per sé la
remissione dei peccati e poteva intercedere per la remissione dei peccati di
coloro che lo pregavano.
Nello stesso periodo - ma non dobbiamo pensare a un processo che
avveniva nello stesso momento in tutti i gruppi cristiani - veniva forman-
dosi una posizione generalmente condivisa sul problema della condizione
nell'intervallo di tempo che separava la morte individuale dalla resurre-
zione e il giudizio universali alla fine dei tempi, un problema che veniva
avvertito più acutamente tanto più si prendeva coscienza che la fine del
mondo non era imminente. Dal contatto sempre più stretto con la cultura
greco-romana, soprattutto di stampo platonico, si creò un certo consenso
sull'idea che l'anima, subito dopo la separazione dal corpo, venisse sotto-
posta a un primo giudizio che la indirizzava verso un luogo di pena o di
beatitudine e di vicinanza con Dio; fra le escatologie presenti nei primi
STORIA DEL CRISTIANESIMO

secoli questa era la più adatta a sorreggere il concetto di intercessione da


parte delle anime dei martiri che per i loro meriti godevano della vicinan-
za al Cristo risorto. In questa fase, tuttavia, tale intercessione non appare
legata a luoghi e momenti liturgici precisi (vicino alla tomba, in un giorno
particolare, con una liturgia particolare). Del resto, le chiese soggette alle
persecuzioni - per quanto avessero già luoghi di culto distinti dalle case
private - vivevano immerse nello spazio cittadino greco-romano occupato
visibilmente dagli dèi e, per contrasto, continuavano a pensare al proprio
culto alla luce del culto «in spirito e verità» (Gv 4,23).
Cominciò, tuttavia, a formarsi un sistema della memoria: almeno in un
caso - ma non è sicurissimo che non sia un'interpolazione più tarda - la
redazione della Passione (metà del II secolo) è collegata esplicitamente alla
volontà di festeggiare la ricorrenza del martirio di Policarpo, vescovo di
Smirne, vicino alla tomba che ne ospita i resti, in linea di continuità con gli
usi funerari greco-romani che riunivano intorno alla tomba della persona
cara nel giorno della sua nascita la famiglia che la ricordava con libagioni
e un banchetto. I cristiani festeggiavano invece il dies natalis che corri-
sponde al giorno della morte, che è il giorno della nascita alla vera vita.
Cipriano, vescovo di Cartagine, in una lettera (ep. 12) rivolta ai suoi fedeli,
durante fa persecuzione di Decio, si raccomandava di segnare il giorno in
cui morivano i confessori per poter celebrare la loro memoria con quella
dei martiri.

Altri "santi"

Via via che i credenti in Gesù provenivano sempre più spesso dal pagane-
simo e non erano più di origine ebraica, la cultura greco-romana divenne
l'ambito dal quale partire per comprendere la propria fede e argomentarla
al fine di difenderla e diffonderla. I cristiani colti che, fra II e III secolo, si
assunsero tale compito dovevano confrontarsi, da una parte, con le criti-
che dei pagani che giudicavano la figura di Gesù a partire dagli uomini
divini della loro tradizione, dall'altra, con il successo dei nuovi uomini
divini, i filosofi, che, negli scritti di coloro che ne volevano diffondere la
filosofia, assumevano caratteri religiosi. La divinizzazione di alcuni mor-
tali - all'inizio eroi o re, poi anche filosofi - era il premio dei benefici
da loro recati all'intera umanità. L'uomo divino (theios aner) si distin-
gueva per alcune caratteristiche costanti: la sua nascita era accompagna-
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 417

ca da sogni e segni, dimostrava qualità fisiche e intellettuali eccezionali,


non era soggetto al decadimento fisico della vecchiaia, non moriva, ma
semplicemente spariva. Nella versione filosofica tardoantica, l'uomo di-
vino portava un abito e si sottoponeva a un regime di vita caratteristici:
vestiva di lino bianco e si asteneva dalla carne e dal sesso, era taumaturgo
ed esorcista. I primi pagani ad avere una qualche conoscenza diretta delle
dottrine cristiane sottolineavano l'assurdità insita nel considerare Gesù
un dio, mentre i cristiani negavano lo stesso privilegio a figure veramente
divine, quali Pitagora, Eracle, Orfeo, Asclepio. Questi personaggi erano
anche oggetto di un culto diffuso prevalentemente cittadino, e la città che
ne custodiva la tomba o che erigeva loro un santuario coltivandone la me-
moria riceveva protezione e favori dall'eroe. Sono numerose le biografie di
uomini divini redatte nei primi secoli: la Vita di Apollonio di Tiana scritta
da Filostrato intorno al 2.70 è da considerarsi un esempio tipico dell'uomo
divino filosofico. In questa letteratura di grande successo, l'esaltazione del
filosofo era un vettore importante del consenso e del successo della scuola
che egli rappresentava. Nell'Amico della verita di Hierocle Sossiano, com-
posto nei primissimi anni del IV secolo, Apollonio era messo a confronto
con Gesù (cfr. CAP. 7, p. 2.2.1). Nella seconda metà dello stesso secolo, in
Oriente Eunapio la considerò un modello per le sue Vite di filosofi e sofisti,
in Occidente venne tradotta in latino da Virio Nicomaco Flaviano, uno
dei protagonisti della reazione pagana della fine del secolo, che si concluse
con la sconfitta di Eugenio al Frigido (cfr. CAP. 7, p. 2.45). Mentre prima
della svolta costantiniana i modelli di perfezione cristiana - il martire e
l'asceta - erano indipendenti o in aperta e consapevole contrapposizione
con gli uomini divini della tradizione greco-romana, dopo, come vedremo
fra breve, questi ultimi costituirono un punto di riferimento e di ispirazio-
ne per le Vite dei santi.

Fino all'ultimo quarto del IV secolo

La persecuzione dioclezianea interruppe bruscamente un periodo di


pace per le chiese: durò - sia pure con incidenza diversa nelle varie parti
dell'Impero - più di un decennio e fu interrotta dall'editto di tolleranza
di Galerio, ripreso da Costantino e Licinio. Grazie ai provvedimenti di
Costantino a favore dei beni ecclesiastici, le chiese poterono accumula-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

re grandi ricchezze, impiegate nella costruzione su ampia scala di edifici


religiosi e nell'organizzazione di fastose cerimonie in onore dei martiri.
Lo stesso Costantino fece erigere numerose chiese presso i cimiteri ipogei
romani che ospitavano le tombe dei martiri e a Gerusalemme e in Pale-
stina nei luoghi che si ritenevano collegati alla vita di Cristo: gli uni e gli
altri sono spesso indicati nelle fonti antiche come martyria, 'testimoni'
di un'epifania divina, del Figlio di Dio nei luoghi santi e di Dio nei corpi
santi, segni di quella potenza divina, di quella virtus che egli riteneva all'o-
rigine dei suoi successi militari. Già con i successori di Costantino, in par-
ticolare Costanzo II, la protezione dei martiri veniva associata alle fortune
dell'Impero e le traslazioni di corpi di martiri e apostoli a Costantinopoli
divennero sempre più numerose. Accanto a questi segnali di sviluppo ac-
celerato del culto dei martiri, in cui l'iniziativa imperiale era comunque
assecondata dalle gerarchie ecclesiastiche, almeno nella prima metà del IV
secolo erano presenti anche atteggiamenti più riservati. Eusebio, vescovo
di Cesarea, è una figura paradigmatica di tale atteggiamento: nella sua Sto-
ria ecclesiastica i martiri erano protagonisti di rilievo della narrazione sulla
diffusione universale della Chiesa; in essa riportava alcune delle Passioni
redatte nei due secoli precedenti e approfondiva il tema della vita ascetica,
dedita allo studio della Scrittura e all'aspirazione al martirio, presentando
come modello di santità la vita di Origene, grande teologo ed esegeta, con-
fessore, ma non martire. Immediatamente dopo la fine della persecuzione
dioclezianea, compose un'opera storica dedicata ai martiri della Palestina,
delle cui sofferenze era stato testimone oculare. L'intento principale era
quello di esaltare le virtù delle loro anime e di additarle ad esempio per i
fedeli contemporanei che ne dovevano imitare il coraggio, la fermezza del-
la fede, l'amore per Dio, senza fare alcun riferimento al culto della tomba.
Ad Atanasio, vescovo di Alessandria, di una generazione più giovane di
Eusebio, dobbiamo la Vita di Antonio, uno dei testi più influenti sull'agio-
grafia successiva non solo di origine monastica. Atanasio approfondisce la
tematica della vita dell'asceta come martirio, un modello impersonato non
più, come nel caso dell' Origene eusebiano, dal maestro filosofo legato alla
cultura della città, ma dal monaco che abbandona i luoghi abitati per cer-
care la sua perfezione nel deserto. Antonio inoltre - ed è una svolta rispetto
a Eusebio, che accettava come veri i miracoli di Cristo narrati dalle Scrit-
ture, ma rifiutava, proprio per contrastare gli uomini divini pagani, che gli
uomini normali potessero compierne - era un taumaturgo: compiva esor-
cismi, guarigioni, aveva il dono della profezia e del discernimento degli
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI

spiriti. Atanasio insisteva che i miracoli non erano compiuti da Antonio,


ma da Cristo che abitava in lui, il quale se ne era reso degno proprio grazie
all'ascesi e alla lotta contro le tentazioni del demonio. In tal senso i mira-
coli di Antonio diventavano - sullo sfondo della polemica antiariana -
una testimonianza a favore della divinità del Figlio risorto che operava
in lui.
Tuttavia Atanasio dimostrava una forte avversione per forme di cul-
to delle spoglie mortali dei martiri e di altri santi che si sottraevano al
controllo episcopale. Queste pratiche che si svolgevano in case private o
presso cappelle appartenenti ai suoi nemici meliziani (cfr. CAP. 5, p. 173)
implicavano l'esorcismo e l'esercizio della divinazione ed erano ricondotte
dal vescovo Atanasio all'opera dei demòni che il cristiano doveva a tutti i
costi rifuggire. Antonio era proposto come modello a tutti i fedeli anche
sotto tale profilo: sentendo imminente la morte, raccomandava ai monaci
a lui più vicini di seppellire il suo corpo e di tenerne nascosto il luogo per
evitare che venisse imbalsamato e tenuto esposto presso case private. Nelle
intenzioni di Atanasio, la Vita di Antonio non era soltanto l'illustrazione
di una forma di vita, indirizzata ai monaci e proposta dal vescovo quale
modello monastico normativo e normalizzante dei monachesimi presenti
nella sua sfera di influenza: Atanasio si indirizzava anche ai fedeli e ne rac-
comandava la lettura pure ai pagani; questo può aver avuto un ruolo nel
superare le riserve di Eusebio sui miracoli e nella scelta di presentare An-
tonio ispirandosi alle vite dei filosofi, ricorrendo a un genere di successo
fra le élite culturali - le Vite dei filosofi-, reinterpretandolo però alla luce
dei valori cristiani.
Atanasio è testimone indiretto della diffusione del culto dei martiri
in Egitto; fra le chiese, su cui siamo più documentati, quelle cappadoci
mostrano un analogo sviluppo: anche in esse i vescovi Basilio di Cesarea,
suo fratello Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo sono in prima fila
nel sostenerlo con scritti e costruzione di chiese. Nella Vita di Gregorio
Taumaturgo, Gregorio di Nissa attribuiva al santo (non martire) il merito
di aver istituito i festeggiamenti in onore dei martiri negli anni immedia-
tamente successivi alla persecuzione di Decio, concedendo al popolo, da
poco allontanatosi dall'idolatria e ancora attaccato ai piaceri della carne,
di darsi alla gioia e al divertimento, con lo scopo di convertirlo pian piano
a forme più spirituali di letizia. Al di là dell'intento elogiativo con cui il
predicatore notava che tale progresso era accaduto «alla maggior parte»
(53,9; ed. Heil), si coglie la preoccupazione comune a tanti teologi e agio-
42.0 STORIA DEL CRISTIANESIMO

grafi anche successivi riguardo alla persistenza di pratiche funerarie non


cristiane - libagioni, banchetti - durante le celebrazioni dei martiri.
A Roma papa Damaso (366-384) intraprese opere di consolidamento e
di restauro delle catacombe, curando in particolare di ornare e incanalare
i percorsi dei pellegrini con imponenti ed eleganti epigrafi in marmo, che
riportavano testi da lui composti in lode ai martiri ivi custoditi. Il culto dei
martiri romani diventò un puntello essenziale sia del primato vantato da
quella Chiesa sulle altre attraverso la presenza delle reliquie degli apostoli
Pietro e Paolo, sia un tassello importante della rifondazione cristiana di
Roma dopo la svolta costantiniana.
I martiri erano le avanguardie della cristianizzazione non solo dello
spazio - per ora esterno alla cerchia delle mura cittadine, successivamente
interno - ma anche del tempo: di Furio Dionisio Filocalo, l'incisore delle
epigrafi damasiane, è l'elenco delle ricorrenze delle depositiones martyrum
con la menzione del luogo della sepoltura. Sono registrate, snocciolate
sull'intero anno, circa venti date collegate ai martiri, principalmente ro-
mani, ma non solo. A distanza di un secolo possiamo vedere nel calendario
romano l'esito naturale delle indicazioni che i vescovi, come Cipriano di
Cartagine, rivolgevano ai fedeli a proposito di conservare memoria delle
date di morte dei confessori.

Dalla fine del IV fino al VI secolo


Tutti questi elementi - gli sviluppi dominali, il sostegno degli imperatori, il
divieto del culto pagano e l'abbandono dei templi, la fissazione di un calen-
dario commemorativo degli anniversari dei martiri - diventarono, a partire
dall'ultimo quarto del secolo, massa critica quando a essi si aggiunsero: (1)
l'iniziativa dei vescovi; ( 2.) pratiche e teologie; ( 3) l'impegno di grandi talenti
letterari nel promuovere modelli di santità; (4) lo sviluppo dei monachesimi.

L'iniziativa dei vescovi

Non si deve pensare al successo del culto dei santi come a un fenomeno
prevalentemente popolare, collegato alla trasformazione del cristianesimo
da religione elitaria a religione di massa che dalla massa scarsamente ac-
culturata avrebbe assimilato culti e tradizioni politeistiche, quali appunto
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 421

il culto degli uomini divini. Né si deve guardare all'iniziativa dei vescovi


e degli aristocratici (che sempre più frequentemente coincidevano con i
primi, mano a mano che si procede verso i secoli ve VI) come indotta dalle
necessità della propaganda religiosa, dell'autopromozione e del controllo
religioso e politico. Anche se tutti questi aspetti rivestirono un certo ruo-
lo, la devozione ai santi - creduta e praticata - è in questi secoli, ma anche
successivamente fino ai giorni nostri, largamente trasversale ai ceti sociali
e ai diversi livelli culturali, rispondente a bisogni complessi di mediazione
con il mondo divino, di protezione, di orientamento spirituale ed etico
sinceramente avvertiti. I vescovi non solo costruirono edifici di culto de-
dicati ai santi, ma fecero in modo che essi ospitassero le loro reliquie, corpi
o frammenti di corpi santi; praticarono personalmente e incoraggiarono
la sepolturaadsanctos, vicino ai corpi santi; si impegnarono - nelle liturgie
dedicate ai santi - a tener viva la memoria dei martiri con discorsi elogia-
tivi delle loro virtù e delle loro azioni; omelie cui spesso dobbiamo il poco
o pochissimo che sappiamo dell'identità di molti martiri dell'antichità.
L'operato di Ambrogio, vescovo di Milano fra il 373-374 e il 397, è lar-
gamente rappresentativo di un'intera generazione di vescovi: edificò, su
precedenti cimiteri, quattro chiese sulle principali vie di accesso alla città
tutte dedicate ai martiri, le munì di reliquie per favorirne la venerazione e
la sepoltura dei fedeli ad sanctos. La Basilica Martyrum accolse sotto l'alta-
re i corpi dei martiri Gervasio e Protasio, il cui rinvenimento (inventio) e
riconoscimento in quanto martiri era stato suggerito - secondo il raccon-
to dello stesso Ambrogio - da un'ispirazione divina, svolgendo anche una
"provvidenziale" funzione antiariana. Non era estranea a tutta l'operazio-
ne la traslazione dei corpi dal cimitero alla chiesa, che fu accompagnata
da miracoli di guarigione. Sempre a Milano avvenne l' inventio dei corpi
dei martiri Nazario e Celso. A Bologna, insieme al vescovo di quella città,
rinvenne le reliquie di altri martiri, Agricola e Vitale. Frammenti di queste
reliquie furono donate a vescovi e laici aristocratici come lui impegnati a
diffonderne il culto: Cromazio di Aquileia, Martino di Tours, Victricio di
Rouen, Gaudenzio di Brescia, Paolino di Nola, Sulpicio Severo. L'ingresso
delle reliquie di un martire nella città era considerato un evento solenne,
percepito, celebrato e narrato secondo le modalità dell' adventus principis
risemantizzato in chiave cristiana, come è possibile leggere nel de laude
sanctorum di Victricio di Rouen. Senza essere vincolante, la costruzione di
edifici ecclesiastici si accompagnava molto frequentemente alla dedicatio
al martire di cui ospitavano le reliquie.
422 STORIA DEL CRISTIANESIMO

I vescovi furono in prima fila nel sostenere la creazione di una rete di


piccoli e grandi santuari che si svilupparono fra v e VI secolo in molte
parti dell'area mediterranea: in Oriente, l'attività di quello di Santa Te-
cla a Seleucia, di Ciro e Giovanni a Menouthis vicino ad Alessandria, di
Demetrio a Tessalonica sono documentati dalle raccolte di miracoli che
li riguardano. In questi santuari le guarigioni miracolose avvenivano per
il tramite dell' incubatio: i pellegrini trascorrevano presso il santuario una
o più notti, talvolta anche periodi molto lunghi e, se ritenuti degni, erano
visitati durante il sonno dai santi che o intervenivano direttamente sulla
parte malata o suggerivano i rimedi adatti. Era una pratica già in uso nei
santuari pagani che troviamo attestata dalle stele provenienti dal santua-
rio di Asclepio ad Epidauro e, in età imperiale, nei Discorsi sacri di Elio
Aristide, una sorta di diario spirituale della permanenza del)' autore presso
un santuario. In Occidente, fra i siti più documentati, c'era l'insieme di
memoriae (luoghi di culto indipendenti e/o altari in edifici più grandi)
dedicate a santo Stefano, costruite da Agostino di Ippona e dai colleghi e
discepoli Evodio di Uzalis e Possidio di Calama, accompagnate dalla rac-
colta sistematica sotto il controllo del vescovo dei racconti dei miracoli
che vi avvenivano.
Fra ve VI secolo, il caso più documentato di trasformazione di un culto
locale a luogo di pellegrinaggio di rilievo almeno regionale per tenace vo-
lontà episcopale è quello di san Martino di Tours. Sul finire del IV secolo
Sulpicio Severo aveva composto una biografia, tre lettere e un dialogo in
onore di Martino, presentandolo come martire senza versamento di san-
gue, vescovo esemplare nella lotta contro il paganesimo e, per i costumi
ascetici, sempre fedele alla sua prima scelta monastica, inoltre profeta e
taumaturgo. Dai suoi scritti emerge l'opposizione che in vita e dopo la
morte Martino conobbe nell'ambiente gallico e ciò potrebbe spiegare il
motivo per cui, soltanto a partire dalla seconda metà del v secolo, il culto
di Martino decollò grazie all'iniziativa di vescovi di Tours come Perpetuo,
che riuscì a trasformare Tours - come gli riconobbe Paolino di Périgueux -
nella "città di Martino", con una vera e propria offensiva mediatica a tutto
campo. Costruì una seconda chiesa dedicata a Martino, fece eseguire un
ciclo di nuovi affreschi in suo onore, compose una raccolta di miracoli del
santo e affidò a Paolino il compito di trasporla in versi, normò il calenda-
rio liturgico destinando a Martino ben due date: il 4 novembre dedicato
all'elezione all'episcopato e 1'11 novembre come dies natalis. Nel secolo
successivo è un altro vescovo della stessa città, Gregorio, a erigere un vero
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI

e proprio monumento letterario in onore di Martino, con i suoi quattro


libri miraculorum contenenti le virtutes post obitum actae compiute dal
santo principalmente a Tours presso la sua tomba.
I vescovi furono in prima fila nell'arricchire i calendari liturgici delle
loro chiese di ricorrenze dei santi: il cosiddetto Martirologio geronimia-
no, composto verso la metà del v secolo, raccoglie e unifica calendari pre-
cedenti ( tra cui quello siriaco, traduzione del più antico calendario della
Chiesa di Nicomedia del 360-362., quello di Cartagine, quello romano di
Furio Dionisio Filocalo). Più tardi, nel VI secolo, vi fu aggiunto un calen-
dario della Gallia. Segnalava per ogni giorno numerosi nomi di martiri ed
era il primo calendario di carattere universale che aggiungeva ai nomi e al
luogo di sepoltura anche brevi rubriche contenenti notizie sulla passione e
vita dei martiri. Nell'Oriente di lingua greca si formarono grandi raccolte
a scopo liturgico di notizie più o meno abbreviate sui santi che si cele-
bravano nelle diverse chiese. Pur tramandati in manoscritti medievali, i
sinassari (tra cui quello molto importante di Costantinopoli), i menologi,
i typica (che contenevano l'indicazione della chiesa in cui si doveva tenere
la sinassi, cioè la riunione dei fedeli), raccoglievano tradizioni molto più
antiche.

Pratiche e teologie

Lo sviluppo del culto dei martiri pose alle menti più preparate e riflessive
problemi teologici spinosi; per esempio, aveva fondamento la speranza in
un qualche vantaggio da parte di coloro che si facevano seppellire vicino
ai corpi santi? Era la domanda che Paolino di Nola rivolgeva ad Agostino.
Questi, nel trattato de cura pro mortuis gerenda (Sulla cura dovuta ai mor-
ti) gli rispose che i defunti traevano beneficio soprattutto dalle preghiere
che i fedeli pronunciavano durante la messa nella ricorrenza della morte,
se naturalmente la vita terrena del defunto era stata conforme a tale bene-
ficio. Aggiungeva che la vicinanza con i corpi santi poteva aumentare la
frequenza e la devozione delle preghiere di coloro che si recavano a pregare
sulla tomba dei propri cari per chiedere ai santi di intercedere per loro.
Secondo Agostino il destino dei corpi dei morti era nelle mani di Dio, ma
ci si doveva.comunque prendere cura di loro, oltre che per la pietas, anche
come segno della fede nella resurrezione.
Inoltre: per quale motivo, in ultima analisi, ci si recava presso le tombe,
STORIA DEL CRISTIANESIMO

se le preghiere erano rivolte alle anime pure dei santi in cielo? Paolino di
Nola, pur non negando che le preghiere potevano essere rivolte in ogni
luogo, sosteneva che non erano i corpi ad agire, ma la grazia divina infu-
sa nelle membra sante che, in un certo senso, conservavano un'impronta
misteriosa delle anime eccezionali che vi avevano abitato. È interessante
notare che Agostino, invece, nel trattato citato sopra, insisteva molto sul
fatto che non vi era, né vi poteva essere alcun legame fra il cadavere e I' a-
nima che l'aveva abitato: soltanto ciò che è vivo è in grado di sentire. La
vicinanza ai corpi santi non recava di per sé nessun vantaggio.
E ancora: i frammenti dei corpi santi, di cui spesso ci si doveva accon-
tentare, avevano la stessa potentia del corpo intero? Victricio di Rouen,
nel de laude sanctorum sosteneva - con un ragionamento non del tutto
limpido - che nella parte c'era il tutto e che, se le reliquie avevano il potere
di curare, ciò significava appunto che anch'esse partecipavano della stessa
virtus dell'anima del santo assunta in cielo.
Questi interrogativi non furono affrontati che sporadicamente. Nei
documenti agiografici più tardi sembrano essere del tutto accantonati:
non è raro leggere nei racconti di Gregorio di Tours di corpi di defunti che
prendevano parte attiva a quanto succedeva nella chiesa ove erano seppel-
liti. Nella raccolta di miracoli di santi guaritori nei santuari orientali, le
anime dei santi erano considerate presenti accanto alle loro tombe, visto
che numerosi racconti mostravano i santi "guaritori" assenti dai loro san-
tuari per operare guarigioni altrove e, talora, tornarvi di gran carriera per
guarire in extremis qualcuno.
Con più insistenza i capi delle chiese sottolineavano la differenza fra
il culto cristiano dei santi e quello degli eroi e ripetevano che non erano
i santi vivi e i corpi santi a compiere miracoli, ma Dio attraverso di loro.
C'è da chiedersi se tali sottigliezze teologiche fossero avvertite con la stes-
sa chiarezza da coloro che affollavano i santuari e facevano di tutto per
ottenere reliquie di contatto nella speranza della potentia risanatrice del
santo. In generale si può osservare che la riflessione teologica, come spesso
avviene, arrivava in ritardo e appariva in difficoltà rispetto al diffondersi
di pratiche - il caso di Paolino insegna che non si trattava soltanto di ceti
non acculturati -, tentando quindi di reinterpretarli alla luce di schemi
dottrinali più generali. In certi casi, l'essere stato testimone degli effetti
dell'arrivo di nuove reliquie in una chiesa poteva indurre ad abbandona-
re convinzioni precedenti: è quanto accadde ad Agostino dopo l'arrivo
in Africa delle reliquie di santo Stefano: come molti altri teologi prima e
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI

dopo di lui, fino a quel momento aveva sostenuto che i miracoli si erano
conclusi con l'età apostolica, proprio perché funzionali alla prima diffu-
sione della fede in Cristo. Tuttavia l'entusiasmo che circondò le reliquie e
i miracoli che ne seguirono, lo portarono a valorizzare i miracoli contem-
poranei, raccogliendone le testimonianze e a considerarli come un ottimo
tramite per diffondere e rafforzare la fede.
Vi furono anche resistenze allo sviluppo del culto dei martiri: paga-
ni - come l'imperatore Giuliano - provavano orrore verso un culto che
aveva a che fare con i cadaveri ritenuti impuri e, quindi, di ostacolo alla
presenza divina; egli fece rimuovere da Dafni, nei pressi di Antiochia, le
spoglie del martire Babila, ritenute responsabili del silenzio dell'oracolo
del Tempio di Apollo che si trovava nello stesso luogo. Anche fra i cristiani
vi fu chi criticò il culto dei martiri: agli inizi del v secolo Vigilanzio, in
un'opera perduta, nota soltanto attraverso la confutazione di Girolamo,
lo considerava un culto idolatrico, specificato dall'uso dei ceri accesi, delle
veglie nei santuari, e vi aggiungeva la critica dell'ascesi monastica e l'uso
di elemosine.

Penne illustri al servizio del discorso agiografico

Tra l'ultimo quarto del IV e i primi decenni del v secolo talenti letterari
raffinati si misero all'opera per diffondere, sostenere, illustrare il culto dei
martiri e nuovi modelli di santità. Si pensi in Occidente a Girolamo, Pao-
lino di Nola, Sulpicio Severo, Prudenzio, in Oriente a Gregorio di Nis-
sa, Gregorio di Nazianzo, Teodoreto di Cirro. Affascinati o impegnati in
prima persona nella vita ascetica essi furono monaci o vescovi o semplici
laici. Il tratto comune che qui si intende sottolineare è, da una parte, il
loro intento di collocare senza timidezze le narrazioni della santità cristia-
na ali' interno dello spazio letterario greco-romano e, dall'altra, di rein-
ventare e di risemantizzare forme letterarie classiche, proprio per riuscire
nell'impresa. Sulpicio Severo collocava la sua Vita sancti Martini sullo
sfondo del racconto omerico delle imprese di Ettore e di quello platonico
su Socrate: Martino è un eroe che conquista la vita eterna e ben più degno
della perennis memoria che l'arte può procurare. L'attacco della Vita sancti
Hilarionis scritta da Girolamo è dello stesso tenore: con un'apertura clas-
sica, invoca lo Spirito santo di concedergli parole che si adeguino al suo
oggetto, un uomo che « persino Omero, se fosse vivo qui, o proverebbe
STORIA DEL CRISTIANESIMO

invidia per il mio argomento o soccomberebbe ad esso». Teodoreto di


Cirro, accingendosi a narrare degli asceti siriaci, offre la sua opera (Sto-
ria Filotea), riprendendo un'espressione di Platone, come «farmaco per
la memoria», con la volontà di collocarla a fianco e in concorrenza con i
grandi generi classici: la poesia, la storia, la tragedia, la commedia. Ovvia-
mente c'è molta retorica in queste affermazioni e gli stessi cristiani, finché
resse il sistema educativo imperiale, continuarono a formarsi su Omero,
Tucidide, Virgilio, Sallustio e Cicerone. Tuttavia la raffinatezza letteraria
delle loro Vite dei santi costituì un vettore importante di propaganda degli
ideali ascetici e delle forme di devozione ai santi fra le classi più alte che,
nello stesso periodo, si stavano convertendo al cristianesimo. Paolino di
Nola, a un certo punto, decise di abbracciare la vita ascetica e si ritirò in
Campania a Cimitile presso la tomba del martire Felice; ma rimase poeta
componendo in suo onore sedici Carmina natalicia, con cui reinterpreta-
va in senso cristiano il carmen natalicium, il discorso tradizionale elogiati-
vo pronunciato nella ricorrenza del giorno di nascita. Paolino li dedicava
al martire ogni 14 gennaio, il giorno della sua morte, cioè il giorno della
sua nascita alla vera vita, quella celeste. I Carmina riunivano a Cimitile
gruppi selezionati di uditori aristocratici che condividevano con l'ospite
Paolino gli ideali ascetici, la cultura letteraria, la nascita aristocratica.
In Cappadocia, Gregorio di Nazianzo, retore coltissimo e vescovo, pro-
veniente da una famiglia illustre, anche qui seguendo la tradizione classica
della panegiristica funebre, compose in onore dei suoi familiari discorsi
che ne celebrarono le virtù cristiane, ricorrendo a temi e stilizzazione del
linguaggio martiriale e attribuendo significati cristiani alle convenzioni
del genere; le sue Orazioni non solo dimostrano come il linguaggio della
santità fosse ormai ritenuto indispensabile per I' autorappresencazione del-
le classi dirigenti, ma l'eloquenza con cui illustrò le virtù dei suoi familiari
fece sì che fossero in seguito ricordati nei sinassari come santi.
Pur senza negare la creatività degli agiografi dei secoli successivi, non
vi è dubbio che la stagione agiografica fra IV e v secolo abbia "inventato"
linguaggi e modelli che costituirono un repertorio di riferimento anche
successivamente: non dobbiamo pensare a un'evoluzione in cui un mo-
dello di santità si sostituì al precedente, quanto piuttosto a una conserva-
zione di modelli più amichi continuamente reinterpretati. Dopo la svolta
costantiniana non si smise affatto di scrivere Passioni dei martiri, anzi, con
lo sviluppo del culto, diventava sempre più avvertito il bisogno di sapere
qualche cosa di più del dies natalis e del giorno della sepoltura; esse però
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI

furono scritte in modi diversi, per servire meglio agli intenti pastorali di
un tempo senza martirio. La Vita di Antonio, tradotta in latino per ben due
volte nel ventennio successivo, ebbe un successo straordinario fra le cer-
chie ascetiche colte; servì da modello per innumerevoli altre Vite di mona-
ci e costituì lo stampo nel quale Sulpicio Severo colò la materia narrativa
relativa a Martino, monaco e vescovo insieme.
Il modello di santità vescovile si arricchì di nuovi significati, approfon-
dendo le funzioni già attribuite ai martiri. La vicinanza fisica ai corpi dei
martiri era percepita come protezione non solo per il singolo, ma anche
per la Chiesa e la città: Paolino di Nola, quando i Goti minacciarono Ci-
mitile, invitò i fedeli a confidare nel martire Felice, le cui spoglie erano
venerate in quel luogo, come in un patrono in grado di ottenere da Cristo
una protezione speciale «per le nostre contrade» (carm. 26). Prudenzio
sottolineava con insistenza il legame speciale che intercorreva fra il martire
e la città che ne accoglieva le spoglie: alla fine dei tempi i martiri intercede-
ranno presso Cristo a favore della loro città per risparmiarle le sofferenze
più penose (Peristephanon 1,4-6; 3,1-10 ). Le reliquie dei martiri costitui-
vano un titolo di gloria per la città che li ospitava ed egli vedeva nella loro
praesentia un modo per declinare, cristianizzandolo, l'orgoglio civico tra-
dizionale.
Nella misura in cui il modello di santità vescovile assorbì caratteri mo-
nastici e martiriali assunse anche le funzioni di protezione che questi rive-
stivano nei confronti della Chiesa e della città. Lo sviluppo del concetto
del santo vescovo patrono cittadino ebbe poi particolare fortuna in Oc-
cidente anche per altri motivi: nello sfaldarsi dell'autorità imperiale cen-
trale e nella formazione dei regni barbarici, furono i vescovi - da vivi - ad
assumere funzioni di protezione e governo delle città: fu naturale esten-
dere tale funzione nell'aldilà, soprattutto quando il corpo del vescovo
continuava a risiedere nella città: il corpo di Germano di Auxerre, che era
morto a Bologna, venne riportato in patria e ricevuto come patronum pro-
prium in quella città ove - ci racconta l'agiografo Costanzo di Lione ( Vita
sancti Germani 46) - continuava a vivere con i suoi miracoli. Inoltre, nella
fase più antica, gli autori che utilizzarono questo concetto per esprimere
sotto varie angolature il rapporto con i santi appartenevano a una società
in cui il patronato - come reciproco scambio di beni e servizi ali' interno
di una relazione asimmetrica, funzionante come forma di controllo e/ o di
integrazione sociale e come elemento centrale dell 'autorappresentazione
delle classi dirigenti - era una struttura obiettiva della società e della per-
42.8 STORIA DEL CRISTIANESIMO

cezione che aristocratici quali Paolino, Sulpicio Severo, Prudenzio aveva-


no di sé stessi e dei loro rapporti sociali. Questo strutturava anche la loro
esperienza dei rapporti con le anime sante nell'aldilà.

L'apporto dei monachesimi

I monachesimi che si svilupparono quasi contemporaneamente in va-


rie zone del Mediterraneo - Egitto, Siria, Palestina, Cappadocia, Italia,
Gallia - costituirono una humus favorevole nello sviluppo della santità e
del culto dei santi. Nel pellegrinaggio compiuto dalla latina Egeria verso
Gerusalemme (381-384) passando per l'Egitto, con puntate nel Sinai e in
Siria, i loca sancta e i monasteria (Itin. 3,11) erano realtà che coincidevano
quasi ovunque: accanto alle memorie bibliche - per esempio, la tomba
di Giobbe, il pozzo di Giacobbe, il giardino di Giovanni Battista - come
accanto ai martyria che accolgono i corpi dei martiri, Egeria trovava i mo-
nasteria, cioè gli eremi, le celle e i monaci che spesso le facevano da guida e
compagni nelle sue visite. A Charris il collegamento fra memoria biblica,
culto dei martiri e monachesimo si addensava nella stessa costruzione: con
le pietre della casa di Abramo era stata costruita una chiesa che ospitava
le spoglie del monaco e martire Elpidio e là si radunavano i monaci degli
eremi vicini in occasione della festa che ne celebrava la memoria. Meno
di due decenni dopo Girolamo, nella Vita dedicata a Ilarione, fondatore
a suo dire del monachesimo in Palestina, raccontava che il suo corpo, in
un primo momento seppellito a Cipro, venne trafugato da un discepolo e
portato nel monastero fondato a Gaza, e che presso la sua tomba avveni-
vano molti miracoli.
Si intuisce facilmente come, nella contiguità precoce fra loca sancta e
monasteria e nel costituirsi dei monasteri stessi come loca sanctorum con
la praesentia delle spoglie mortali dei fondatori, fossero presenti motivi
anche di natura economica: l' affiusso di pellegrini era una fonte di sosten-
tamento per realtà isolate dalle zone più abitate. D'altro canto, molti mo-
naci raggiungevano in vita una tale fama di santità da costituire motivo di
attrazione per i pellegrini che a loro si rivolgevano per ottenere direzione
spirituale, conforto e guarigioni: il monaco che rifiuta o si mostra indiffe-
rente all'oro offertogli da un/a pellegrino/a compare in molte storie mo-
nastiche. Dai documenti letterari relativi ai monaci o da loro scritti i mo-
naci venivano saldamente inseriti in una successione salvifica e santificante
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI

che riguardava l'intera umanità e che comprendeva Cristo, gli apostoli, i


martiri e da ultimo i monaci che ne continuavano l'opera con il sacrificio
di sé stessi. I monaci, insomma si percepivano come martiri e si descrive-
vano di conseguenza: non solo da vivi e da morti compivano miracoli, ma
ritenevano di svolgere riguardo alla Chiesa e alla città la stessa funzione.
Nella Storia dei monaci d'Egitto si affermava che i monaci diffusi in ogni
città dell'Egitto e della Tebaide e le loro preghiere costituivano un muro
di difesa e un sostegno in ogni pericolo (prol. 10 ).
Tuttavia, al di là dell'autorappresentazione monastica, va anche notato
che nel culto ufficiale e nella devozione praticata - come sono testimo-
niate da fonti di diverso tipo: liturgico, epigrafico e papiraceo - le chiese
furono lente a sviluppare il culto ufficiale di santi monaci (e di vescovi) che
comunque per il periodo antico, ma anche medievale, rimase nettamente
minoritario riguardo al culto di martiri: ad esempio, nei sinassari medie-
vali della Chiesa copta, pur fortemente improntata dalla spiritualità e dalla
presenza monastiche, ci sono 184 commemorazioni di martiri contro 63
asceti.

Modelli di santità femminile


e il culto di Maria, "madre di Dio"

Nei cinquant'anni a cavallo fra IV e v secolo, una novità è rappresentata


dal modello di santità femminile: le donne, almeno quelle che per con-
tiguità familiare e censo ebbero la chance di suscitare l'interesse di colti
estimatori, si ritagliarono un ruolo di rilievo. Il ritratto che Gregorio di
Nissa fece della sorella Macrina, con un'accentuata stilizzazione monasti-
ca e martiriale, precedeva di pochi anni le biografie di ascete colte dedite
allo studio delle Bibbia presenti nell'epistolario di Girolamo. La vita di
Melania Seniore che, prima delle altre, abbandonò Roma e la vita prece-
dentemente condotta per Gerusalemme, dove divenne patrona e fonda-
trice di monasteri, trovò in Paolino e nel più giovane Palladio narratori
eccellenti. Successivamente, la presenza femminile diventò più rara, pur
con la notevolissima eccezione di Radegonda, regina merovingia, di cui,
fra la fine del VI e l'inizio del VII secolo il retore e poeta Venanzio Fortu-
nato e la monaca Baudonivia composero due Vitae, complementari negli
avvenimenti, ma diverse nell'interpretazione. Genoveffa di Parigi, vissuta
430 STORIA DEL CRISTIANESIMO

nel IV sebbene le sue Vitae siano del secolo successivo, Radegonda e Mo-
negonda, un'eremita narrata da Gregorio di Tours, erano donne di diversa
estrazione sociale ma di comune origine barbarica: è un segno del fatto
che nella Gallia, regione che prima e in modo più esteso di altre dovette
affrontare il confronto con popoli per nulla o diversamente cristiani, il
discorso agiografico rappresentò un vettore di confronto e assimilazione.
È interessante, inoltre, notare che - a parte rarissime eccezioni: la romana
Asella, la cappadoce Macrina e le ascete del deserto - le donne più celebra-
te furono mogli e madri, prima di abbracciare una forma di vita ascetica,
ma nelle narrazioni che le riguardano sono la castità e l'ascesi a venire in
primo piano, all'interno, del resto, di un movimento complessivo che, pur
con rare eccezioni, ritenne soltanto queste qualità degne della santità, cosa
che portò inevitabilmente, in seguito, a restringere il campo della santità
ai chierici e ai monaci/ che.
L'esaltazione della verginità è anche l'elemento più ricorrente nel di-
scorso agiografico e nel culto di Maria, tuttavia, nella fase più antica, lo fu
per motivi molto diversi. Lo sviluppo del culto e della dottrina cristiana
e poi soltanto cattolica su Maria è bimillenario in quanto ancora nel XIX
secolo è stato proclamato da Pio IX il dogma dell'Immacolata Concezione
(bolla Inejfabilis Deus del 1854: Maria è stata concepita senza peccato ori-
ginale) e nel 1950 da Pio XII il dogma dell'Assunzione (Maria non morì,
ma si addormentò - somnium Mariae - e venne assunta anima e corpo
in cielo). Tuttavia, queste dottrine cominciarono a diffondersi e a essere
largamente condivise nella Chiesa antica, cui dobbiamo inoltre la procla-
mazione degli altri due dogmi mariani: il titolo di theotokos ( = 'madre di
Dio', concilio di Efeso del 431) e la verginità perpetua (cioè prima, duran-
te, dopo il parto= concilio di Costantinopoli del 553).
Il tema della verginità di Maria emerge già nel I secolo in stretta con-
nessione con la difesa della divinità di Gesù, contro altri tipi di cristologie:
le circostanze straordinarie del concepimento di Gesù erano considerate
essenziali per questo scopo e il tema, fra II e III secolo, trova largo spazio
anche negli scritti apologetici rivolti ai pagani. In seguito, fra IV e v, la
figura di Maria fu al centro delle controversie cristologiche riguardanti il
rapporto in Cristo della natura umana e divina. La tesi di Nestorio, che
voleva per Maria soltanto il titolo di Christotokos, fu rifiutata come eretica
in quanto sembrò esprimere una non perfetta unione delle due nature in
Cristo (cfr. CAP. 10, p. 312.).
La figura di Maria, nei primi secoli, non fu soltanto al centro degli scon-
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 431

cri e delle discussioni dei teologi. Accanto a essi si sviluppò una fervente
devozione che, a livello letterario, già a partire dalla seconda metà del IV
secolo, trova espressione nella convinzione che l'intercessione di Maria
fosse particolarmente efficace: secondo Gregorio di Nazianzo, la marti-
re Giustina si rivolse alla vergine Maria per sfuggire alle mire di un suo
corteggiatore ( Orat. 2.4,9-11 ). Nel secolo successivo Severiano di Gabala
raccomandava di rivolgersi a Maria e ai martiri per invocare la protezione
della città (Sul legislatore, PG 56,409-410 ). Epifanio di Salamina denuncia-
va l'esistenza di gruppi di donne eretiche le cui pratiche cultuali in onore
di Maria andavano oltre il lecito sconfinando nel!' adorazione dovuta sol-
tanto Dio. Molto presto accanto ai racconti che furono a un certo punto
riconosciuti canonici, si sviluppò una letteratura amplissima riguardante
l'infanzia di Gesù, la dormitio virginis, la sua vita, i miracoli compiuti da
sue reliquie o da sue immagini o apparizioni. I predicatori ne esaltarono
le virtù facendone un modello di santità femminile e monastica. La pietà
mariana si trasmette al medioevo latino e fiorisce nell'Oriente cristiano,
conoscendo un arricchimento continuo in età moderna nella Chiesa cat-
tolica, mentre si interrompe nella Riforma.

Bibliografia ragionata

Per le edizioni dei documenti relativi ai santi greci, latini, orientali è indispensabile la
consultazione di Bibliotheca hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, edide-
runt Socii Bollandiani, voli. I-II, Bruxellis 1898-99, 1901 (consultabile in rete); Biblio-
theca hagiographica Graeca, III' édition mise à jour et considérablement augmentée
par François Halkin, voli. I-III, Bruxelles 1957 (la prima edizione è consultabile in
rete); Bibliotheca hagiographica Orientalis, ediderunt Socii Bollandiani, Bruxellis
1910 (consultabile in rete); Acta Sanctorum [... ], collegit, digessit, notis illustravit Jo-
annes Bollandus, Parisiis (l'edizione del 1863 è consultabile in rete). Le notizie sui
santi con la raccolta dei documenti più affidabili che li riguardano sono organizzate
secondo il calendario liturgico. L'opera, il cui primo volume dedicato al mese di gen-
naio uscì nel 1643, è arrivata al Propylaeum di dicembre nel 1940: http:/ /archive.org/
stream/ actasanctorumo1 unse#page/ n7 / mode/ lUp.
Si segnalano, inoltre, le enciclopedie Bibliotheca Sanctorum, Istituto Giovanni
XXIII della Pontificia Università Lateranense, Roma 1961-lOoo; F. CHIOVARO et al.
(dir.), Histoire des Saints et de la Sainteté chrétienne, Hachette, Paris 1988. Si veda an-
che c. LEO NARDI, A. RICCARDI, G. ZARRI ( dir.), Il grande libro dei santi. Dizionario
432 STORIA DEL CRISTIANESIMO

enciclopedico, a cura di E. Guerriero, D. Tuniz, 3 voli., Edizioni San Paolo, Cinisello


Balsamo 1998.
Per quanto riguarda le riviste, si segnalano "Analecta Bollandiana", Revue criti-
que d' hagiographie, A Journal of Criticai Hagiography, Société des Bollandistes,
Bruxelles 1882- (parzialmente consultabile in rete sui siti http://onlinebooks.li-
brary.upenn.edu/webbin/ serial ?id=analectabolland; http://archive.org/ stream/
analectabollandoounkngoog#page/n99/modehup); "Hagiographica", Rivista di
agiografia e biografia della Società internazionale per lo studio del Medio Evo latino,
SISMEL, 1, 1994-; "Sanctorum", Rivista dell'Associazione per lo studio della santità, dei
culti e del!' agiografia, 1, 2003-.
Per gli studi, si segnalano innanzitutto i classici R. AIGRAIN, L'hagiographie: ses
sources, ses méthodes, son histoire, avec un complément bibliographique par R. Godd-
ing, reproduction inchangée de l'édition originale de 1953, Société des Bollandistes,
Bruxelles 2000; H. DELEHAYE, Le leggende agiografiche, Arnaldo Forni Editore,
Bologna 1910 (ed. or. 1908); Les origines du culte des martyrs, Société des Bol-
ID.,
landistes, Bruxelles 1933. Di impostazione generale Hagiographie, cultures et sociétés.
IV'-XJJ' siècles, Actes du Colloque (Nanterre-Paris, 2-5 mai 1979 ), Études Augustinien-
nes, Paris 1981; Les fonctions des saints dans le monde occidental (m'-XIII' siècle), ÉFR,
Roma 1991; M. LAMBERIGTS, P. VAN DEUN (éds.), Martyrium in Multidisciplinary
Perspective, Mémorial L. Reekmans, Leuven University Press, Leuven 1995; M. VAN
UYTFANGHE, Le culte des saints et l'hagiographie: les avatars d'une relation ambigue,
in Santi e demoni nell'alto medioevo occidentale, Atti delle Settimane di studio della
Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 7-13 aprile 1988),
voi. XXXVI, CISAM, Spoleto 1989, pp. 155-204; ID., L 'hagiographie: un "genre" chrétien
ou antique tardif?, in "Analecta Bollandiana", 111, 1993, pp. 135-88; ID., L'origine, l'essor
et les Jonctions du culte des saints. Quelques repères pour un débat réouvert, in "Cassio-
dorus", 2, 1996, pp. 143-96.
Per il rinnovamento degli studi agiografici in Italia è stato fondamentale il volume
curato da s. BOESCH GAJANO, Agiografia altomedievale, il Mulino, Bologna 1976;
cfr. EAD., L'agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa .fra tarda antichita
e alto medioevo, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di
Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 3-9 aprile 1997 ), voi. XLV, CISAM, Spoleto 1998,
pp. 797-843 (all'autrice si devono numerosissimi studi e la fondazione dell'AISSCA,
Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell'agiografia). Per una
buona visione complessiva del periodo, si veda F. SCORZA BARCELLONA, Agli inizi
dell'agiografia occidentale, in G. Philippart (dir.), Hagiographies. Histoire internatio-
nale de la littérature hagiographique latine et vernaculaire en Occident des origines a
rsso, Brepols, Turnhout 2001, voi. lii, pp. 17-97. Un volume che presta attenzione
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 433

linguistica all'evoluzione del "santo" e della "santità" è E. ZOCCA, Dai santi al santo:
un percorso storico-linguistico intorno all'idea di santita, Africa romana, secc. 2. -5, Stu-
dium, Roma 2.003. Un profilo storico del discorso agiografico greco e latino anche
non cristiano è offerto da A. MONACI CASTAGNO, L'agiografia cristiana antica. Testi,
contesti, pubblico, Morcelliana, Brescia 2.010. Ormai un classico è P. BROWN, Il culto
dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosita, Einaudi, Torino 1983 (ed.
or. 1981). Studi su aspetti particolari sono A. M. ORSELLI, Il santo patrono cittadino:
genesi e sviluppo del santo patrono cittadino nella letteratura latina cristiana, Università
degli Studi di Bologna, Bologna 1965; Y. DUVAL, Loca sanctorum Africae. Le culte des
martyrs en Afrique du Iv' au VII' siecle, 2. voli., ÉFR, Roma 1982.; EAD.,Aupres dessaints:
corps et ame: I' inhumation «ad sanctos» dans la chrétienté d'Orient et d'Occident du
III' au VII' siécle, Études Augustiniennes, Paris 1988; L. PIETRI, La ville de Tours du Iv'
au VI' siecle: naissance d'une cité chrétienne, ÉFR, Roma 1983; v. SAXER, Bible et hagio-
graphie. Textes et themes bibliques dans !es Actes des marcyrs authentiques des premiers
siecles, Peter Lang, Berne 1986; J.-c. PI CARD, Le souvenir des évéques. Sépultures, listes
épiscopales et culte des évéques en Italie du Nord des origines au X' siecle, ÉFR, Roma
1988; A. PAPACONSTANTINOU, Le culte des saints en Egypte des Byzantins aux Abbas-
sides: l'apport des inscriptions et des papyrus grecs et coptes, CNRS, Paris 2.001.
Sulla mariologia, si vedano Testi mariani del primo millennio, Città Nuova, Roma,
1988-91; Storia della mariologia, voi. I: Dal modello biblico al modello letterario, a cura
di E. dal Covolo, A. Serra, introduzione generale e introduzione al primo volume di
S. M. Maggiani, Città Nuova, Roma 2.009; E. NORELLI, Marie des apocryphes: enquéte
sur la mere de jésus dans le christianisme antique, Labor et Fides, Genève 2.009. Per lo
studio delle tradizioni popolari mariane: G. Otranto, Le denominazioni di Maria tra
culto e tradizioni popolari, in "Marianum", 74, 2.012., pp. 385-410.
15
Le forme e i luoghi della pietà religiosa
di Immacolata Aulisa

Spazi e riti funerari

Precocemente i cristiani vollero conservare il ricordo dei propri defunti,


separandolo da quello dei pagani. Risalgono all'inizio del III secolo, infat-
ti, le parti più antiche dei cimiteri cristiani di Roma (le catacombe), come
quelli di Domitilla, Priscilla, Callisto e Pretestato. Il cimitero di Callisto
(cfr. CAP. 3, p. 124 ), il primo che fu amministrato direttamente dalla comu-
nità, conteneva nella parte più antica la cosiddetta "cripta dei papi", in cui
furono sepolti i vescovi Ponziano, Antero, Fabiano, Lucio, Stefano e altri.
I cimiteri cristiani, che si caratterizzarono per una tipologia simile a quella
dei cimiteri pagani, si snodavano attraverso un reticolo di corridoi stretti,
nelle cui pareti erano collocati i loculi destinati ad accogliere le salme dei
defunti (FIG. p. 436).
Nelle forme originarie la devozione dei cristiani si manifestò diretta-
mente sulle tombe dei martiri e, pertanto, venne rivolta a individui origi-
nari di un determinato luogo o legati a esso per avervi subito il martirio.
Il presbitero romano Gaio, alla fine del II secolo, in uno scritto contro
Proclo, capo dei montanisti, fa riferimento ai luoghi dove erano state de-
poste le sacre spoglie degli apostoli Pietro e Paolo e afferma di conoscere
«i trofei degli apostoli», al Vaticano e sull'Ostiense (Eusebio, h.e. 2,25,7).
Alla fine del III secolo Roma disponeva di uno spazio funerario già ben
organizzato in funzione delle sepolture venerate, sia in rapporto a marti-
ri di grande rilevanza, quali Pietro e Paolo, sia a vescovi o altri individui
meno noti.
Fu però nel IV secolo che ebbe grande impulso la costruzione di ci-
miteri, sia conferendo maggiori dimensioni a quelli già in uso, sia ap-
prontandone di nuovi. Questi, secondo il tradizionale costume romano,
erano ubicati fuori dell'abitato e solo a partire dal V secolo si estesero
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Cubiculo, parete di ingresso. Roma, catacomba dei santi Marcellino e Pietro.

anche verso il centro cittadino. Tra la fine del ve l'inizio del VI secolo,
infatti, iniziò il definitivo abb:rndono delle catacombe come luogo di
sepoltura: le rombe si addensarono attorno alle grandi basiliche cimi-
teriali sopratterra (San Pietro in Vaticano, San Paolo sull'Ostiense, San
Lorenzo al Verano) e, dunque, entrarono nei confini della città, con-
centrandosi soprattutto ali' interno o nelle immediate vicinanze delle
basiliche urbane.
Con la diffusione sempre pit'1 massiccia e capillare del cristianesimo
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 437

si presentarono problematiche legate ai diversi tentativi di conciliare le


antiche pratiche con le esigenze della nuova religione anche nell'elabo-
razione dei rituali. Soprattutto con la diffusione del culto dei martiri e
delle reliquie si ebbe una graduale cristianizzazione delle pratiche cul-
tuali, che si realizzò quanto ai fini piuttosto che nelle modalità, come
vedremo.
Il giorno della morte del martire fu assunto quale data per ricordarne la
memoria. L'anniversario della morte, infatti, divenne il giorno più impor-
tante in cui si commemoravano i defunti (cfr. CAP. 14, p. 426), in quanto
la morte nella concezione cristiana costituiva la nascita alla vera vita (dies
natalis), anche se, come i pagani, i cristiani celebravano altre ricorrenze
legate alla morte di un defunto ( il terzo, il nono e il trentesimo giorno, o il
settimo e il quarantesimo).
Alle celebrazioni anniversarie dei martiri prendevano parte numerosi
fedeli, che, in alcuni casi, si raccoglievano già la sera precedente. Nell 'anni-
versario dei martiri si svolgeva la celebrazione liturgica che comprendeva
un'omelia o, in ambito greco, un solenne panegirico. In alcune comunità,
come in Africa (ma non a Roma!), durante la liturgia veniva data lettura
anche delle Passioni dei martiri festeggiati.
Dal III secolo mutarono in maniera sempre più rilevante e significa-
tiva le modalità di organizzazione e gestione delle aree funerarie, come
la concezione stessa del rapporto tra spazio dei morti e spazio dei vivi e
il rapporto con le concezioni funerarie dell'epoca precedente, secondo
un'ambigua dinamica di continuità e discontinuità. La Chiesa dovette
confrontarsi soprattutto con il rituale pagano del refrigerium, che pre-
vedeva la consumazione di un pasto presso le tombe dei propri defunti
e l'offerta di cibi e bevande. Si trattava di consuetudini radicate, di cui i
vescovi dovettero, in più di un caso, segnalare e combattere gli abusi. Tra
il IV e il v secolo, quando la celebrazione di banchetti si diffuse anche
in occasione degli anniversari dei martiri, la gerarchia ecclesiastica mirò
soprattutto a evitare o limitare pratiche cultuali di iniziativa privata e di
indirizzare le forme devozionali a liturgie e gesti comunitari. Monica, la
madre di Agostino, mentre era in un cimitero di Milano per celebrare il
rito del refrigerium presso le tombe dei santi, venne informata che Am-
brogio lo aveva vietato (Agostino, Con/ 6,2). Ambrogio (de Helia et ie-
iun. 17,62), infatti, non tollerava che alcuni si attardassero a bere fino a
sera nella convinzione che, diversamente, le loro preghiere non sarebbero
state accolte.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Tra le voci autorevoli a riguardo, Agostino provò a trasformare le anti-


che pratiche dei banchetti in agapes (contr. Faust. 20,20 ). E probabilmente
in cale direzione si innescò una serie di processi di cristianizzazione che
trasformarono, ad esempio, i Caristia (2.2. febbraio), con cui terminavano i
Parentalia, nella festività della cathedra Petri, già ricordata nella Depositio
Martyrum e ancora in uso nel VI secolo, quando i fedeli la celebravano
recando offerte alimentari ai defunti, come ricordano fonti conciliari e let-
terarie. La doppia dimensione, spirituale e materiale, di cali rituali traspare
anche nella ricca documentazione epigrafica di carattere funerario, in cui
i termini refrigerium e refrigerare, già utilizzati nelle iscrizioni pagane, al-
ludono sia allo svolgimento del rituale, sia a una dimensione escatologica
che al ristoro fisico unisce l'augurio del refrigerio spirituale. La condivisio-
ne del pasto funebre per i cristiani assicurava, dunque, la sopravvivenza del
defunto nella perpetuazione della sua memoria e si caricava di una forte
valenza di coesione familiare e sociale.
Nelle catacombe romane si conservano numerose rappresentazioni
figurative di scene di banchetto; particolarmente significativa è la cosid-
detta "regione delle Agapi" nel cimitero dei santi Marcellino e Pietro sulla
via Labicana (1v secolo), nella quale le rappresentazioni figurative e il mes-
saggio didascalico delle iscrizioni riflettono le tradizioni di convivialità e
la concezione secondo la quale anche quelle costituivano uno strumento
per esaltare e ricordare la vittoria sulla morte in un intreccio di relazioni
sociali e di aspetti di vita quotidiana.
La documentazione archeologica relativa alla pratica del refrigerium è
ricca e diversificata e attesta, da un lato, manufatti e dispositivi funzio-
nali allo svolgimento del banchetto o alle offerte alimentari connessi alla
tomba del singolo defunto o di gruppi ristretti, dall'altro, testimonianze
monumentali di spazi più ampi adatti alla consumazione comunitaria e
collettiva dei pasti rituali.
Nel complesso processo sopra esaminato è da segnalare, tuttavia, come
l'organizzazione e la stessa partecipazione ai rituali della commemora-
zione dei defunti mutarono a seguito della politica di Costantino e della
costruzione di basiliche cimiteriali nell'ambito delle aree funerarie; con
lo sviluppo del culto dei martiri, i luoghi in precedenza destinati a una
frequentazione di tipo familiare divennero spazi adibiti alla sepoltura col-
lettiva e alle celebrazioni comunitarie; i riti funerari per il singolo defunto
trovarono eco in quelli celebrati per i martiri con forme di aggregazione
sociale e religiosa.
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 439

Le iscrizioni dei cristiani

Gli scavi che hanno riportato in luce i cimiteri e i primi edifici di culto
cristiano hanno fatto emergere anche numerose epigrafi, in latino e in gre-
co. Esse si presentano con caratteri diversi e riflettono l'appartenenza dei
committenti a livelli sociali ed economici differenti: dalle iscrizioni incise
in caratteri piuttosto grossolani ad altre più rifinite sia nella fattura sia nel
testo stesso, a volte anche metrico.
Le iscrizioni paleocristiane, conservatesi nell'ambito della documen-
tazione archeologica tardoromana, permettono di conoscere numerosi
aspetti di vita quotidiana. Esse gettano luce anche su quella che viene defi-
nita "cultura materiale", ovvero la consistente produzione anonima, priva
dei caratteri dell'ufficialità, spesso di non elevata qualità, prodotta e fruita
soprattutto dagli strati medi e a volte bassi della società. Negli ultimi de-
cenni nuove risultanze sono derivate proprio da un'attenta rivalutazione
della consistente produzione epigrafica e dai nuovi metodi di approccio
che sempre più hanno contestualizzato le iscrizioni rispetto al monumen-
to di appartenenza e al contesto storico, sociale e culturale di riferimento.
Accanto alle testimonianze monumentali che si sono configurate come
espressione dell'ideologia del potere dominante - ovvero i monumenti
di grosse dimensioni e i prodotti artistici di pregevole fattura - e accan-
to alle iscrizioni monumentali di apparato (onorarie, dedicatorie, sacre,
giuridiche) anche le iscrizioni funerarie hanno ricevuto una più attenta
considerazione. Esse ormai a buon diritto sono considerate testimonianze
di particolare rilievo per una conoscenza più approfondita delle primiti-
ve comunità cristiane che, anche attraverso la memoria funeraria, hanno
trasmesso le proprie idee, frammenti della propria cultura e della propria
mentalità, così come delle proprie concezioni relative alla vita quotidiana:
i rapporti familiari e sociali, il lavoro, le nuove credenze religiose, il modo
di intendere l'aldilà.
A partire dall'epoca del vescovo Zefirino (199-217) si può riscontrare
a Roma una produzione epigrafica funeraria voluta da membri della co-
munità cristiana; ivi infatti, in quegli anni, per iniziativa della Chiesa o di
gruppi familiari, si ebbero i più antichi insediamenti funerari ipogei, in cui
compaiono le prime attestazioni di un'epigrafia funeraria cristiana.
Se in una prima fase la maggior parte delle iscrizioni non si distingueva
per uno specifico cristiano e, per lo più, si limitava a registrare solo il nome
del defunto o il nome del defunto e del dedicante, attorno alla metà del III
440 STORIA DEL CRISTIANESIMO

secolo si passò a un formulario più specifico, con espressioni caratterizzate


da precise connotazioni escatologiche, come provano le iscrizioni pale-
ocristiane conservate a Roma nelle catacombe di Priscilla o di Callisto:
accanto o in sostituzione dell'originale saluto, comparvero forme quali
in pace. E così si registrò una cristianizzazione delle forme acclamatorie
augurali con il verbo vivere, vivas in deo. Alcune iscrizioni presentano le
immagini del pesce e dell'àncora, ideogrammi che fanno riferimento al
Salvatore e alla salvezza.
Un repertorio formulare proprio dell'epigrafia dei cristiani a Roma vie-
ne distinguendosi tra la metà del III secolo e la fine dell'età tetrarchica con
la comparsa, sempre più frequente, della data della sepoltura (depositio ).
Come già avveniva nella prassi epigrafica pagana del III secolo comparvero
anche dati biometrici, l'indicazione del ruolo del defunto all'interno della
famiglia, la dedica del sepolcro (fecit, posuit), l 'elogium, epiteti quali dulcis,
dulcissimus, carus, carissimus e, come tratto distintivo rispetto alla tradi-
zione pagana, le acclamazioni in pace-en eirene, molto frequenti.
A partire dall'età costantiniana le iscrizioni cristiane compresero con
sempre maggiore frequenza termini, espressioni o segni che identificavano il
defunto come cristiano e riservarono sempre maggiore spazio a un elogium
che, pur rifacendosi alla prassi propria della tradizione pagana, si caricò
di valenze e significati nuovi; si costituì un repertorio formulare adatto a
esprimere i nuovi concetti della fede cristiana. Sempre più frequentemente
comparvero termini che segnalavano l'appartenenza del defunto alla Chie-
sa, come, in particolare, l'aggettivo fidelis che si configurava quale termine
tecnico per fare riferimento a coloro che avessero ricevuto il battesimo.
Alla metà del IV secolo le conversioni di massa, l'ampliarsi delle comu-
nità cristiane e lo sviluppo del culto dei martiri lasciarono il segno anche
nell'epigrafia funeraria romana. Gli stessi fedeli sempre più spesso, d'altra
parte, assicurarono a sé stessi e ai propri familiari una degna sepoltura;
nelle iscrizioni, a volte, sono presenti espressioni e termini che indicano
la tomba e anche il suo legittimo acquisto. Il fossore divenne la figura di
riferimento che assunse le funzioni di scavatore, guardiano e di incaricato
delle vendite delle sepolture.
La concezione del martire quale intercessore privilegiato presso Dio
portò all'affermarsi della convinzione secondo la quale la vicinanza alla
sua tomba poteva assicurare l'accesso alla vita eterna. Si moltiplicarono,
pertanto, le tombe poste nelle immediate vicinanze delle sepolture dei
martiri e proprio quelle tombe furono le più richieste e le più costose. I
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 441

resti fisici e corporali dei martiri divennero tramiti della loro praesentia
spirituale (cfr. CAP. 14, p. 42.4).
E se il prodotto epigrafico, dal III secolo fino all'età costantiniana, ali' in-
terno delle comunità cristiane ebbe una discreta diffusione e una coerenza
normativa sul piano formale, a partire dalla seconda metà del IV secolo si
registrarono cambiamenti rilevanti anche nel suo uso e nella sua diffusione.
Gli impianti funerari entrati in funzione a quell'epoca e rimasti attivi fino
ai primi decenni del v testimoniano una diversa presenza e distribuzione di
epigrafi. Sono attestati, infatti, da un lato i poveri cimiteri ipogei dove tro-
vavano sepoltura i meno abbienti; dall'altro, gli estesi complessi martiriali
dove si concentravano, con evidente visibilità monumentale ed epigrafica,
coloro che appartenevano alle classi più agiate. Solo i più abbienti, dopo la
morte, ebbero una sepoltura visibile, individuale o gentilizia, in cui trovò
spazio anche la memoria scritta. Si consumò così un percorso che dall'ega-
litarismo del cimitero di Callisto a Roma giunse alla riproduzione funebre
delle diversità sociali, economiche, culturali che già nella vita terrena aveva-
no separato gli individui anche ali' interno delle comunità cristiane.
A partire dal v secolo la Chiesa, soprattutto a Roma, sempre più si pro-
pose come il committente principale di una parte consistente della pro-
duzione epigrafica e, soprattutto, di quella monumentale di apparato. La
Chiesa, infatti, per far fronte alle diverse esigenze determinate dalla cate-
chesi e dalla pastorale, in particolare a seguito della pressione delle conver-
sioni di massa, oltre a ricorrere agli strumenti della comunicazione orale,
utilizzò anche quelli della comunicazione scritta.

L'arte cristiana antica

Nelle catacombe sono state realizzate anche le prime forme d'arte cristia-
na. Trascurando il rigoroso divieto della legge mosaica furono rappresen-
tate, oltre a generiche ornamentazioni, figure umane ispirate alle Scrittu-
re. La graduale affermazione della decorazione pittorica all'interno delle
catacombe rivela uno sviluppo caratterizzato da compresenze classiche,
bibliche e specificamente cristiane, da elementi dapprima in prevalenza
simbolici, poi iconografici. Inizialmente 1' iconografia cristiana, infatti,
pur ispirandosi per modelli e tecniche alla coeva arte pagana, trasse i suoi
soggetti dall'Antico e dal Nuovo Testamento e, in qualche caso, anche da-
gli apocrifi che avevano trovato diffusione nelle primitive comunità.
44 2 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Daniele era i leoni. Roma, catacomba di via Anapo.

Le scene della Natività e dell'Epifania, ad esempio, tra le più rappresenta-


te, furono ispirate ai racconti di Matteo (2,1-12) e Luca (2,1-16), ma anche
al Protovangelo di Giacomo per la grotta (18,1), o al Vàngelo dello Pseudo
Matteo per il bue e l'asino (14,1). I personaggi e gli episodi veterotestamen-
tari più diffusi nell'iconografia cristiana delle catacombe romane a partire
dagli inizi del III secolo sono Adamo ed Eva (Gen 3,1-13), Noè nell'arca
(Gen 6,5-22), il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19), Mosè che percuote la
rupe (Es 17,5-6), il ciclo di Giona (Gn 1,8-2,u), Daniele tra i leoni (Dn
14,31-42) (FIG. qui sopra), i Tre giovani ebrei di Babilonia nella fornace
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 443

Susanna tra gli anziani giudici. Roma, catacomba dei santi Marcellino e Pietro.

(On 3,16-50 ), Susanna tra gli anziani giudici (On 13, 1-44) (FIG. qui sopra),
e altri personaggi, identificati nei profeti, come Balaam che indica la stella
(Nm 24, 17).
Dal Nuovo Testamento furono riprese scene che si prestavano ad al-
ludere al sacramento del battesimo e dell'eucaristia, la Natività, l'Adora-
zione dei Magi, la Guarigione del paralitico, la Samaritana al pozzo, la
Resurrezione di Lazzaro (FIG. p. 444). Da subito sono attestate anche le
raffigurazioni del Pastore e dell'Orante (FIG. p. 445), che comparivano già
in ambienti ebraici e pagani con un proprio significato (Pastore = pietas
erga homines; Orante= pietas erga deos): per i cristiani i due soggetti ven-
nero ritenuti allusivi del Salvatore e del salvato.
Si trattava di un repertorio biblico che, sebbene limitato e ripetitivo,
tuttavia rifletteva e veicolava le concezioni fondamentali del messaggio
cristiano, dalla morte dovuta al peccato dei protoplasti (Adamo ed Eva),
alla salvezza apportata dall'acqua battesimale (Mosè), alla resurrezione e
salvezza finale (Noè, Abramo-Isacco, Giona, i Tre giovani ebrei di Babilo-
nia, Daniele, Susanna, il Paralitico, la Samaritana, Lazzaro).
Tali soggetti, tuttavia, devono essere considerati in relazione al conte-
sto archeologico di appartenenza, all'interpretazione data dagli scritto-
ri cristiani, ma anche e soprattutto alla cultura biblica della comunità e
dell'ambiente all'interno del quale furono realizzati. La raffigurazione di
444 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Resurrezione di Lazzaro. Roma, catacomba dei santi Marcellino e Pietro.

scene tratte dalle Scritture non poteva prescindere, infatti, dalla certezza
che sarebbero state comprese e fruite dai fedeli, soprattutto in ambienti
comunitari. Naturalmente le immagini potevano trasmettere significati
diversi a seconda degli ambienti in cui venivano rappresentate e, anche
all'interno di uno stesso ambiente comunitario, potevano essere fruite a
livelli diversi, dal semplice riconoscimento del personaggio o dell'episodio
delle Scritture, alla comprensione di significati più profondi, resi possibili
da una maggiore cultura biblica e patristica.
Nei secoli il repertorio figurativo cristiano assunse forme diverse, sia
nei soggetti rappresentati che nel significato simbolico a essi sotteso, so-
prattutto in relazione al contesto storico che andava mutando e alla stes-
sa elaborazione dottrinale dei cristiani. A seguito della pace della Chiesa,
l'arte cristiana intraprese vie nuove, sostituendo al simbolismo semplice
del III secolo una tendenza più storica e narrativa che enfatizzava in vario
modo le diverse tappe dell'affermazione del cristianesimo. Si diffusero, in-
fatti, altre scene tratte dal Nuovo Testamento, come l'Annunciazione, la
Guarigione del cieco nato, la Guarigione dell'emorroissa, il Discorso della
montagna, la Negazione di Pietro, che si aggiunsero a quelle più diffuse,
mentre altri soggetti venivano messi da parte, come il Buon Pastore che,
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 445

Lunetta dd cubicolo della "Velario". Roma, catacomba di Priscilla.

per lo più, fu sostituito dal Cristo in cattedra, isolato, tra gli apostoli o tra
santi; si moltiplicarono, inoltre, le rappresentazioni di martiri e santi. In
non pochi casi in uno stesso contesto figurativo furono affiancate scene
dell'Antico e del Nuovo Testamento a sottolinearne la continuità.
Un caso a parte è rappresentato dalla cosiddetta "Statua di sant'lppo-
lito", scoperta in Ager Veranus nel Cinquecento e ora posta all'ingresso
della Biblioteca Vaticana a Roma. Si tratta di un caso eccezionale di riuso
cristiano, nella prima metà del III secolo, di una statua femminile in trono
(preludio di altri più consistenti riusi di produzioni pagane nelle età suc-
cessive), mutata in maschile nel restauro rinascimentale: qualunque fosse
il significato originario della statua, i cristiani di una delle comunità della
Chiesa romana ne fecero un simbolo proprio, vedendovi probabilmente
la Chiesa che insegna ex cathedra e iscrivendovi una serie di titoli di opere
cristiane, alcune riconducibili a Ippolito.
Dal IV secolo, quando le catacombe vennero frequentate soltanto lun-
go gli itineraria ad sanctos che portavano in corrispondenza, appunto, dei
sepolcri dei martiri, i visitatori e i pellegrini potevano osservare le imma-
gini dei martiri venerati, ovvero identificare coloro che erano oggetto di
culto. Le immagini si affiancarono alle reliquie in una funzione compie-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

mentare a soddisfare le esigenze di conoscenza dei devoti. A partire dal IV


secolo, dunque, con la diffusione del culto dei martiri e delle loro reliquie,
si sviluppò una specifica iconografia che costituì anche un supporto alla
venerazione dei santi.
Nel corso dei secoli aumentò la varietà dei personaggi che vennero rap-
presentati - Cristo, la Vergine, i santi - ma anche dei supporti materiali.
Alla varietà delle immagini rappresentate fece riscontro la varietà della
committenza, dei luoghi di conservazione, degli usi e delle funzioni: luo-
ghi sacri, gestione ecclesiastica e pubblica, ma anche committenza priva-
ta. Le immagini divennero sia strumento di edificazione, sia oggetto da
guardare, toccare, baciare. L'ornamentazione si fece sempre più ricca, in
quanto si diffuse la convinzione secondo la quale le raffigurazioni pittori-
che, ispirate alla Scrittura, potessero avere anche una finalità didascalica e
presentare ai fedeli, in gran parte analfabeti, i contenuti biblici che veniva-
no illustrati in chiesa dal lettore e dal predicatore.

Spazi sacri e sacralizzazione dello spazio

Molto rare sono le testimonianze riferibili ai più antichi edifici di culto


cristiani, le domus ecclesiae, andati distrutti per la maggior parte durante
la persecuzione di Diocleziano o successivamente sostituiti da edifici di
maggiori proporzioni e rilevanza architettonica. Il caso più rappresenta-
tivo è la domus ecclesiae di Dura Europos, centro ubicato lungo il corso
dell'Eufrate. L'edificio non aveva caratteri distintivi rispetto alle case di
abitazione e si strutturava in diversi locali, uno dei quali accoglieva una va-
sca poco profonda che fungeva da battistero, un altro era adibito alla cele-
brazione del culto, un altro ancora, probabilmente, alle riunioni informali
della comunità. Le pareti del battistero, come avveniva nelle catacombe
romane, erano raffigurate con scene dell'Antico e del Nuovo Testamento.
Le caratteristiche di tale edificio possono far pensare che nel corso del III
secolo le domus ecclesiae si configurassero come edifici idonei a svolgere riti
e funzioni religiose, privi, tuttavia, di una specifica fisionomia.
Solo dopo la svolta costantiniana le mutate condizioni storiche, l' im-
portanza e il rango ufficiale della Chiesa portarono alla costruzione di edi-
fici di ampiezza di gran lunga superiore, con una propria specifica dignità
architettonica e all'edificazione delle imponenti basiliche. In non pochi
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 447

casi antichi complessi pagani vennero trasformati in luoghi di culto cri-


stiani. Le prime chiese cristiane, commissionate da Costantino, erano ubi-
cate in zone non centrali della città, ma subito, aumentando di numero,
trasformarono in maniera decisiva lo spazio urbano in tutto l'Impero. Tra
le più importanti chiese postcostantiniane, risalenti al IV secolo, si può
ricordare a Roma la basilica di San Paolo sulla via Ostiense o quella di
Santa Prudenziana, ad Antiochia quella di San Babila, a Milano quella di
San Lorenzo, a Treviri la basilica nord. Con la costruzione delle basili-
che cristiane volute da Costantino prese avvio, dunque, anche la graduale
cristianizzazione dello spazio, che nei secoli a venire assunse le forme e
dimensioni più diverse.
La storia di ogni luogo sacro cristiano, infatti, da un lato propone la
questione della sua specifica identità, dall'altra si inserisce nella problema-
tica più generale della sacralizzazione dello spazio nelle sue diverse mani-
festazioni: forme di sacralizzazione dovute alla presenza umana, ovvero
luoghi resi sacri da presenze sante e santificanti, e forme di riconoscimento
di sacralità a luoghi ritenuti - da singoli individui, gruppi o intere comu-
nità - particolarmente adatti a predisporre a un incontro con il divino e,
dunque, al contatto tra l'uomo e Dio. Già Hyppolite Delehaye, agli inizi
degli anni Trenta del secolo scorso, aveva indicato il ruolo e l'importanza
dei luoghi consacrati dalla presenza dei santi e delle loro reliquie e aveva
indicato nel dies natalis e nel luogo della sepoltura le «coordinate agiogra-
fiche» che permettevano di riconoscere la storicità di un santo.
A disegnare una nuova geografia sacra contribuirono anche le nuove
esperienze religiose che trovarono quale scenario altri luoghi, in preceden-
za rimasti esclusi da una civiltà urbanocentrica, in particolare il "deserto",
elemento proprio di un percorso geografico, ma anche spirituale, nuovo
"spazio della santità": così il percorso di Antonio o i numerosi viaggi di Gi-
rolamo. È ormai riconosciuta l'importanza della dimensione spaziale nella
storia della santità e del culto dei santi: lo spazio sacro non è più considera-
to soltanto come il paesaggio che fa da sfondo a figure ed eventi, ma come
elemento fisico che interagisce con le scelte spirituali dei santi. I luoghi
diventano, dunque, "strumento di santità", perché scelti da chi segue la via
della perfezione e nello stesso tempo "oggetto della santità", perché segnati
e trasformati dalla presenza del santo.
Se per i primi secoli del cristianesimo è più facile seguire lo stretto le-
game tra nascita e sviluppo dei luoghi sacri ed espansione della cristianità,
nei secoli successivi la storia lunga, articolata e complessa dei luoghi sacri
STORIA DEL CRISTIANESIMO

rende più difficile definire, a livello terminologico e concettuale, un "san-


tuario". Diverse motivazioni, spesso legate alla devozione e al pellegrinag-
gio, infatti, hanno fatto sì che alcuni luoghi di culto cristiani acquistassero
un surplus di sacralità e si configurassero come santuari. L'identità di un
santuario cristiano, tuttavia, non è più condizionata, come in passato, da
una sorta di indeterminatezza, ma si caratterizza per elementi e connotati
particolari legati alla sua origine, alla sua funzione religiosa e sociale, alla
presenza di un oggetto di culto, a forme di devozione spontanea, a festività
diverse dalla normale liturgia, a processioni, a pellegrinaggi, a una dimen-
sione meno legata alla religione ufficiale.
I santuari si sono configurati secondo diverse tipologie che compren-
dono quelli martiriali, quelli epifanici, quelli sorti sul luogo in cui è vissuto
un santo o in cui si è realizzato un particolare evento storico, quelli legati
alle reliquie di un santo e/o al ritrovamento avvenuto in circostanze pro-
digiose di reperti e oggetti.
I santuari martiriali, maggiormente legati alle origini del cristianesimo,
sono molto più numerosi a Roma e nel Lazio, mentre per l'Italia meridio-
nale si possono segnalare tra i più antichi e tra quelli che hanno goduto
di una tradizione cultuale ininterrotta fino ai nostri giorni quello di San
Vittorino ad Amiternum (Abruzzo), San Felice a Nola, Santa Lucia a Si-
racusa.
Tra i santuari epifanici attestati nella tarda antichità assume un ruolo
di primo piano quello di San Michele (il cui culto proviene dall'Oriente)
sul monte Gargano, che rappresenta uno dei primi santuari occidentali
non martiriali, meta di pellegrinaggi fin dal VI secolo, la cui fondazione è
basata su tre apparizioni dell'Angelo, avvenute, secondo la tradizione, nel
490, 492 e 493. Il modello santuariale del Gargano ebbe vasta diffusione
in epoca medievale sia in Italia meridionale, sia in altre regioni europee.
L'apparizione dell'Angelo si univa ad altri elementi: l'acqua, con cui il san-
to guariva; la grotta, che nell'immaginario collettivo costituiva un punto
di incontro tra cielo e terra; il paesaggio naturale altamente suggestivo che,
come specificato in diverse operette agiografiche, predisponeva al contat-
to con il divino; la montagna che incarnava uno specifico simbolismo
mitico-rituale, già proprio di diverse religioni.
In non pochi casi, proprio il rapporto dialettico dei santuari con il terri-
torio circostante ha giocato un ruolo di grande rilevanza nella costruzione
di un'identità religiosa specificamente cristiana, ma anche di un'identità
sociale e comunitaria. Non è da ritenersi trascurabile l'azione catalizza-
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 449

trice dovuta a elementi naturali, quali montagne, grotte, fonti, laghi, cui
veniva attribuita una valenza sacra o terapeutica già in ambito pagano:
cali elementi hanno influenzato il processo di risemantizzazione cristiano
di uno spazio sacro, determinando l'insediamento di culti cristiani a essi
strettamente connessi. I sostrati precristiani presenti nei siti santuariali
hanno spesso condizionato il processo di esaugurazione e i culti pagani,
attraverso persistenze e mutamenti, hanno modificato e in parte determi-
nato la facies dei culti cristiani.

Cristianizzazione di pratiche e riti pagani

Molteplici fonti lasciano trasparire, dunque, come a diversi livelli il cri-


stianesimo abbia interagito, attraverso processi di sostituzione o di distru-
zione, con il paganesimo ufficiale e con forme di religiosità o di sostrati
di cultura folklorica diffusi negli ambienti rurali o, nei secoli più avanza-
ci, con le pratiche e i riti delle popolazioni germaniche ormai all'interno
dell'Impero.
Alcune pratiche descritte dagli autori cristiani tradiscono chiaramente
persistenze pagane, diffuse in diverse località. Una testimonianza di Pao-
lino di Nola (carm. 2.7,558-579) sembra rimandare a pellegrini che compi-
vano, appunto, il rito del refrigerium sulla tomba di san Felice versandovi
del vino, secondo gli antichi usi precristiani. Sulpicio Severo ( Vita Mart.
11) narra che Martino di Tours avrebbe individuato il culto di un falso
martire, dalla natura demoniaca; probabilmente si trattava di uno dei pro-
tagonisti della rivolta bagauda. Una falsa diceria popolare, infatti, aveva
attribuito carattere sacro a un luogo, ritenendo che vi fossero sepolti dei
martiri. Martino, però, che non prestava credito a semplici dicerie, cercò
notizie sul nome del martire e sull'epoca della passione. Recatosi sul luo-
go, a seguito di una rivelazione divina, venne a sapere che si trattava di
un brigante, giustiziato per i crimini e venerato in seguito a un errore del
volgo. Per il vescovo il nemico da sconfiggere era la superstitio, sia quella
legata al paganesimo, sia quella di matrice cristiana, come il culto per i
falsi martiri. Massimo di Torino si interessa al mondo rurale della propria
diocesi considerandola terra di missione, dalla quale occorre rimuovere
pratiche pagane ancora radicate e diffuse, quali le offerte agli idoli, la pre-
senza di statue e immagini di divinità, la persistenza di culti non cristiani.
450 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Nei suoi sermoni (91,2; 107,1-2; 108) polemizza con i rustici, fra l'altro, per
la loro abitudine di sacrificare animali ai demòni. Cesario di Arles (serm.
16,3) rivolge esplicito divieto ai cristiani di bere quantità smodate di vino e
di danzare e ballare uscendo dalla chiesa. Egli disapprova, inoltre, l 'abitu-
dine dei fedeli di consumare il vino invocando angeli e santi, riprendendo
in ciò le consuetudini antiche delle libagioni (serm. 47,5); i rustici, in non
poche festività, sono soliti attardarsi a bere fino a quattro o cinque giorni.
Martino di Braga (de corr. rust.) ritiene "demoniaci" tutti i riti agrari. Gre-
gorio di Tours (Lib. de pass. et virt. san. lui. mart. 36) racconta di un vino
miracoloso offerto da un monaco ai presenti e consumato causa devotionis
durante la veglia in onore di un martire. Gregorio fa riferimento altresì al
chiasso dei rustici presso i luoghi sacri; essi non solo non osservano il si-
lenzio durante le cerimonie, ma, in qualche caso, si allontanano prima del
termine del rito. Lo stesso autore (Lib. in glor. confess. 2) presenta la scena
di una « folla di contadini nel territorio di Gévaudan » che, per invocare
la pioggia, offre sacrifici alla divinità di un lago e festeggia con animali
immolati. Le autorità ecclesiastiche solo a fatica riescono a interrompere il
culto rurale alla divinità lacustre, ottenendo che i contadini portino le loro
offerte a sant'Ilario, in una chiesa edificata appositamente in suo onore
proprio nei pressi del lago. Gregorio (Lib. de pass. et virt. san. lui. mart.
31), inoltre, ricordando la pratica di condurre animali nelle chiese perché
siano benedetti e/ o consegnati al sacerdote e sottolineando la confusione
della gente convenuta, descrive come evento miracoloso la «mansuetudi-
ne delle bestie offerte in questa basilica votivorum», tanto più incredibile
perché tra il bestiame si annoverano anche cothurnosi tauri. Nel territorio
ove Gregorio di Tours esercitava il proprio ministero, non a caso, si regi-
strava una forte persistenza di antiche credenze e riti pagani, soprattutto
nelle campagne. I principali mali che il vescovo riteneva di dover contra-
stare erano, infatti, «le usanze dei contadini» (mos rusticorum) e «l' infe-
lice errore dei pagani» (miser gentilitatis error). Non stupisca l'insistenza
particolare sulla situazione delle campagne: il cristianesimo fu a lungo una
religione urbana, anche nelle strutture ecclesiali, e quindi la penetrazione
rurale fu lenta, contrastata dal conservatorismo e, a volte, dalla violenza.
È il caso dei martiri di Anaunia (Val di Non). lvi, molto prima di Grego-
rio, in pieno IV secolo, tre missionari inviati da Ambrogio di Milano, su
richiesta di Vigilio, vescovo di Trento, furono trucidati durante una festa
agreste pagana.
Anche Gregorio Magno affronta spesso il problema posto dalla cristia-
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 45 1

nizzazione di usanze pagane. Significativi in tal senso sono gli ammoni-


menti rivolti ai vescovi di Cagliari, Corsica e Terracina per sollecitare i
doveri e la responsabilità dei pastori nei confronti dei fedeli che si allon-
tanavano dalla fede, dei rustici idolatriae dediti (ep. 4,23) e, più generica-
mente, dei pagani (ep. 4,26; 4,27 ). In un'epistola all'abate Mellito di Gal-
lia (ep. 11,56), riferita alla missione presso gli Angli, il pontefice suggerisce
esplicitamente di non distruggere i templi degli idoli, ma di trasformarli in
luoghi di culto cristiani; di istituire feste cristiane quali natalicia di martiri
e di celebrarle religiosis conviviis: in tal modo gli Angli, abituati a uccidere
molti buoi in sacrificio daemonum, avrebbero potuto, invece, immolare gli
animali all'unico vero Dio e servirsene per il proprio consumo. La con-
dizione dei «contadini pagani» (rustici in infidelitate), nella prospettiva
gregoriana, costituisce non solo uno scandalo, ma anche una debolezza
del sistema e del progetto cristiano, che doveva essere eliminata con riso-
lutezza.
Tali testimonianze rivelano come la cultura popolare si appropriasse
di riti pagani, ma nello stesso tempo mostrano le forme di reazione della
cultura cristiana, che li assimilava a culti demoniaci e li distruggeva. Alla
diffusa persistenza delle tradizioni pagane in ambienti rurali corrisposero
da parte del clero strategie di cristianizzazione più o meno aggressive ed
efficaci.

Il pellegrinaggio cristiano

A partire dall'epoca costantiniana, a seguito delle mutate condizioni sto-


riche, si diffuse anche la pratica del pellegrinaggio, che, inizialmente, si
caricò di significati propri della tradizione ebraica e biblica, poi si arricchì
di altre motivazioni e andò sviluppandosi secondo modalità e forme nuo-
ve, più profondamente legate al proprium cristiano e al suo radicarsi nelle
diverse realtà socio-ambientali.
La prima geografia del pellegrinaggio cristiano fu gerosolimitana: i cri-
stiani si dirigevano in Terrasanta, per conoscere e toccare i luoghi in cui era
nato e vissuto il Cristo. Già Eusebio di Cesarea (Dem. evang. 6,23) riferisce
che i credenti in Cristo giungevano da ogni dove nella Città santa, non,
come in passato, spinti dal desiderio di visitare né di adorare nel Tempio
che prima si ergeva in Gerusalemme, ma dalla devozione e dal desiderio
452. STORIA DEL CRISTIANESIMO

di pregare sul monte degli Ulivi dove aveva pregato il Cristo. Lo stesso
storico di Cesarea (V. Const. 3,42.-43) tra i primi pellegrini ad loca sancta
ricorda Elena, la madre dell'imperatore Costantino, giunta in Palestina,
nonostante l'età avanzata, per conoscere i luoghi e per pregare. Dopo che
ebbe reso la dovuta venerazione ai luoghi sui quali il Cristo aveva impresso
le sue orme, Elena volle lasciare anche un segno della propria religiosità ai
posteri e consacrò in onore del Dio che era venuta ad adorare due templi,
uno nei pressi della grotta nella quale il Signore era nato, l'altro sul monte
dal quale ascese al cielo. La venerazione stessa di Costantino per i luo-
ghi santi portò alla costruzione di diverse chiese e fece di Gerusalemme
una città visibilmente cristiana, al pari di altri luoghi della Palestina, da
Betlemme a Nazaret, che divennero meta di un pellegrinaggio sempre più
diffuso.
A partire dal IV secolo, fonti di diversa tipologia tramandano il ricordo
di viaggi devozionali in Terrasanta: nel 333 l' ltinerarium Burdigalense con-
tiene una relazione relativa a un pellegrinaggio ad loca sancta, scritta da un
anonimo pellegrino di Burdigala (Bordeaux, in Francia), che dalla Gallia
era giunto in Palestina attraverso l'Italia e poi era tornato nella propria
terra. Il racconto dedica molto spazio ai luoghi della vita e della morte
del Cristo, ma anche di altri personaggi ed episodi collegati con la Sacra
Scrittura (Jtin. Burdig. 585-600 ).
Altre testimonianze, come quella di Ambrogio, che riferisce del rin-
venimento da parte di Elena del legno della croce e dei chiodi con cui il
Cristo era stato crocifisso (de obit. Theod. 41-48), lasciano pensare come
già nella seconda metà del IV secolo si fosse diffuso un interesse particolare
per le reliquie della passione e della croce come elemento che caratterizza-
va anche il pellegrinaggio cristiano.
Il desiderio, dunque, di conoscere personalmente i luoghi santi lascia
trasparire la tendenza a materializzare alcuni elementi del racconto evan-
gelico relativi alla passione, ma, soprattutto, la ricerca delle reliquie del
Salvatore o di qualsiasi oggetto che anche indirettamente fosse venuto a
contatto con il Cristo. Questa tendenza non fu apprezzata da tutti: Grego-
rio di Nissa, uno dei Cappadoci, faceva presente i pericoli derivanti dalla
promiscuità sessuale ma soprattutto sosteneva che ci si avvicina a Dio con
il cambiamento interiore e non con gli spostamenti di luogo (ep. 2.).
Si volle raggiungere la Terrasanta anche dall'Occidente, da Roma, dalla
Spagna, dalla Gallia. L' Itinerarium Egeriae (cfr. CAP. 14, p. 42.8) si presen-
ta come il diario scritto, alla fine del IV secolo, da una donna che riporta il
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 453

racconto del pellegrinaggio dalla Gallia a Gerusalemme svolto attraverso


alcune delle tappe principali della scoria biblica della salvezza. Dalla nar-
ratio si desume come ai motivi originari e ormai tradizionali della visita ai
luoghi dell'Antico e Nuovo Testamento consacrati dal Salvatore se ne fos-
sero aggiunti altri che conferivano una prospettiva più ampia al fenomeno
del pellegrinaggio: la presenza di guide che accompagnavano la pellegrina
Egeria, la visita ai monaci e ai loro insediamenti, la sosta presso i sepol-
cri dei martiri, pratica che caratterizzò profondamente il pellegrinaggio
cristiano non solo in Oriente, ma anche in Occidente. Come testimonia
Egeria, durante la visita dei luoghi della Terrasanta si svolgeva una celebra-
zione liturgica e veniva data lettura di testi cristiani: il legame tra pellegri-
naggio, lettura biblica e culto assunse un significato particolare, in quanto
permetteva al pellegrino di riflettere sulla vita del Signore secondo la lectio
biblica. Proprio cale processo di riattualizzazione della passione del Cristo
finì con il fondere il pellegrinaggio interiore con quello esteriore e attirare
molti fedeli in Terrasanta.
Alla fine del IV secolo Girolamo e alcune nobildonne romane, era cui
Melania Seniore, Paola, Euscochio, Pemenia, Fabiola, Silvina si recarono
in Palestina; in seguito toccarono la Terrasanta Melania luniore, Albina,
Bassa, Flavia, l'imperatrice Eudossia, moglie di Teodosio II, che nel 438
giunse a Gerusalemme per adempiere un voto fatto per il matrimonio del-
la figlia (Socrate, h.e. 7,47 ).
Inizialmente, dunque, a effettuare pellegrinaggi in Terrasanta dall'Oc-
cidente furono soprattutto donne di alto rango, esponenti di spicco della
gerarchia ecclesiastica e personaggi di un certo rilievo della cultura reli-
giosa. Girolamo assicura che da ogni dove, dalla Gallia, dalla Bricannia,
dall'Armenia, dalla Persia, dall'India, dalle terre d'Oriente, oltre che dal
vicino Egitto «ricco di monaci», le persone più rappresentative e soprat-
tutto progredite nella vita spirituale giungevano a Gerusalemme (ep. 46,9-
10 ), ma anche in altri luoghi legaci alla vita e alla predicazione del Cristo,

come Becania, Nazaret, Cana, il monte Tabor, Naim, Cafarnao (ep. 46,11-
13). Il pellegrinaggio in Terrasanta si era arricchito di elementi spirituali
e rifletteva una realtà complessa, fondata sulle Scritture, ma anche sulla
preghiera, su pratiche cultuali ritenute in grado di rendere perfetta la fede
dei pellegrini, ciò che il Nisseno pensava (e probabilmente avrebbe conti-
nuato a pensare) si potesse raggiungere medicando nella propria stanza.
Le tappe del pellegrinaggio cristiano tra IV e V secolo, tuttavia, non fu-
rono solo quelle della Palestina, ma interessarono altri luoghi della cristia-
454 STORIA DEL CRISTIANESIMO

nità antica, sia in Oriente sia in Occidente: si venne a delineare una vera
e propria "geografia sacra", che comprendeva una serie di siti strettamente
legati alle diverse forme di monachesimo (eremi e cenobi) e al culto di
martiri e santi (sepolcri e simili).
Tra le pratiche cultuali nel v secolo i pellegrini praticarono anche il rito
dell 'incubatio, già tipico di alcuni santuari pagani. In Bitinia, ad esempio,
secondo la testimonianza di Procopio (de aedif 5,3,16-20 ), era attivo un
santuario dedicato a san Michele, presso cui si recavano i pellegrini, pro-
venienti soprattutto da Costantinopoli, per ottenere la guarigione grazie
ali' intervento dell'Arcangelo che si serviva di acque termali per dispensar-
la. Nella stessa Costantinopoli, a nord della città, secondo Sozomeno (h.e.
2.,3,7-13), presso un michaelion, un santuario già dedicato alla dea Vesta,
riconsacrato da Costantino all'Arcangelo e noto per le apparizioni e i mi-
racoli operati da Michele, nel v secolo si praticava il rito dell' incubatio e
ottenevano la guarigione anche fedeli in preda ad attacchi febbrili.
In Occidente un centro che assurse presto a polo di attrazione per i
pellegrini fu Roma, sia perché capitale dell'Impero, sia perché custodiva
i corpi di Pietro e Paolo, che già dal III secolo, come testimonia Gaio (cfr.
supra, p. 435), erano destinatari di una particolare devozione e di un cul-
to funerario. Nella città, d'altra parte, erano motivo di attrazione per i
pellegrini anche le diverse basiliche fatte erigere da Costantino e alcuni
martyria.
Girolamo, in uno squarcio autobiografico ( Comm. in Ez. 12.,40 ), ricor-
da la consuetudine di visitare, di domenica, le catacombe romane:

Quando ero ragazzo, a Roma, e venivo educato agli scudi liberali, di domenica,
con alcuni miei coetanei, animati dallo stesso interesse, ero solito andare in giro
per (visitare) le tombe degli apostoli e dei martiri. Spesso entrai anche nelle cripte,
scavate in profondità nel terreno, dove i corpi dei defunti erano allineati lungo i
muri da entrambe le parti e dove tutto è così scuro che sembra quasi che si realizzi
la profezia «Scendano i vivi nell'inferno» (Sai 55,16).

La testimonianza di Girolamo getta luce su alcuni aspetti della vita cultu-


rale tra IV e v secolo a Roma, dove lo studio delle arti liberali veniva ormai
integrato dagli interessi scaturiti dalla nuova religione; Girolamo, poco
oltre nel suo scritto fa riferimento anche a Virgilio; l'accostamento della
menzione di Virgilio alla citazione del Sai 55 fa pensare che i due mondi,
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 455

quello classico pagano e quello cristiano convivevano ormai nella società,


nella cultura e nell'arte del tardo Impero.
Per rendere fruibili i sepolcri dei martiri furono intraprese diverse ini-
ziative. Alla seconda metà del IV secolo risale la grandiosa operazione vo-
luta da papa Damaso (366-384), che portò alla realizzazione, all'interno
delle catacombe, di "santuari martiriali", ovvero alla monumentalizzazione
di quelle aree dei cimiteri che, durante le persecuzioni, avevano custodito
le spoglie dei martiri cristiani. A Damaso si debbono un imponente pro-
getto di ricerca e monumentalizzazione dei sepolcri dei martiri romani e
una minuziosa attività di indagine volta a individuare le tombe autentiche
e a ricostruire la storicità della loro testimonianza. A livello monumentale
Damaso fece effettuare diverse modifiche e lavori di ristrutturazione dei
sepolcri venerati e degli ambienti che li contenevano: furono sistemati i
percorsi sotterranei che conducevano ai santuari e furono realizzate nuove
scale in aggiunta a quelle esistenti per formare itinerari di visita e facilitare
il percorso dei devoti alle tombe. Alle pareti delle gallerie furono addossa-
te strutture murarie e furono posti lucernari per rischiarare gli ambulacri e
suggerire il percorso ai visitatori.
Damaso stesso compose oltre 70 elogia martyrum che fece apporre sui
sepolcri, in veste epigrafica curata dal calligrafo Furio Dionisio Filocalo,
su monumentali lastre di marmo (cfr. CAP. 14, p. 42.0 ). Damaso riprese
l'uso dell'iscrizione funebre, già nota in ambito pagano nella forma dell'e-
pitaffio e dell'epigramma, ma i suoi versi, pur caratterizzandosi secondo
i canoni della poesia funebre e lapidaria delle iscrizioni, risentirono de-
gli influssi della poesia classica: l'esametro eroico virgiliano, in passato
utilizzato per celebrare l'Impero, diveniva funzionale a celebrare i nuovi
eroi della cristianità. Damaso comprese che la promozione del culto dei
martiri nel tempo avrebbe potuto anche svolgere un ruolo particolare per
l'affermazione della politica religiosa romana. Del resto egli, capace di in-
trecciare potenti amicizie e di spregiudicata brutalità, come dimostrano le
violenze, al momento della doppia elezione al soglio, ai danni del partito
avverso degli ursiniani, perpetrate con l'aiuto di milizie armate, era uomo
di grandi ambizioni messe al servizio della causa della Chiesa romana. La
sua operazione era una risposta all'operazione di rilancio del paganesimo
da parte di Giuliano l'Apostata e alla diffusione dell'arianesimo, e mirava
a rendere la Chiesa unica responsabile della gestione della pietà popolare e
delle forme di aggregazione attorno alle venerate tombe dei martiri.
Il suburbio di Roma alla morte di Damaso contava circa 40 centri cui-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

mali, ubicati lungo le vie Cornelia, Portuense, Ostiense, Appia, Ardeatina,


Labicana, Tiburtina, Nomentana, Salaria, Flaminia. Roma divenne deten-
trice e tutrice di un cospicuo deposito di reliquie presso cui giungevano
fedeli di diversa nazionalità, provenienti soprattutto dall'area occidentale,
suscitando l'ammirazione dei semplici e di quelli di elevato livello cultu-
rale. Il prestigio acquisito dalla Roma cristiana è certificato dalle testimo-
nianze concordi di Girolamo (Comm. in ep. Gal. 2.), di Ambrogio (Hymn.
12.,6-8), di Prudenzio (Peristeph. 11,191-194): il primo, con l'esagerazione
consueta, parla di templi vuoti, il secondo chiama Roma celsus vertix de-
votionis, il terzo, enfatizzando lo zelo religioso di Romani e stranieri, men-
ziona, come già diffuse, manifestazioni devozionali quale quella di baciare
la tomba venerata e di cospargerla di unguenti e di lacrime: ma basterebbe-
ro a testimoniare l'afflusso ingente a Roma di viatores ad martyres gli oltre
600 graffiti della memoria apostolorum, il complesso archeologico dell'a-
rea funeraria di San Sebastiano sulla via Appia antica. Tra le pratiche devo-
zionali più diffuse, infatti, vi era quella di lasciare una memoria epigrafica,
diversamente articolata e in genere autografa, presso le tombe venerate; la
menzione esplicita del nomen sacrum nelle formule invocazionali, ovvero
del martire al quale i visitatori rivolgevano le proprie invocazioni e pre-
ghiere, rappresenta una caratteristica peculiare dell'epigrafia devozionale
della tarda antichità. I graffiti della memoria apostolorum provano, inoltre,
come le invocazioni dei visitatori riflettessero anche aspetti del vivere quo-
tidiano, contemplando per esempio richieste di protezione in occasione di
viaggi, via terra o via mare.
Si trattò di un flusso di pellegrinaggio ininterrotto che, agli inizi del
VII secolo, portò nell'Urbe pellegrini provenienti anche dal Nord Europa,
come Celti, Sassoni, Frisoni e Angli. Beda riferisce che gli Angli vi giun-
gevano in massa, nobili, plebei, laici, chierici, uomini e donne (h.e. 5,7 ).
Il pellegrinaggio ad limina apostolorum durante l'alto medioevo non si
configurò come un fenomeno alimentato soltanto da una spontanea de-
vozione popolare, ma fu anche l'esito di strategie e iniziative condotte per
circa tre secoli dalla Sede apostolica e da rappresentanti di altre chiese, che
crearono nell'immaginario collettivo il mito della Città santa.
Nella penisola italica anche altri luoghi di culto o sepolture di martiri
diedero origine a forme di pellegrinaggio, come la tomba di san Felice a
Nola-Cimitile, cui abbiamo già accennato nel paragrafo precedente. Alla
fine del IV secolo, il vescovo Paolino (carm. 14) descrive con minuzia di par-
ticolari l'atmosfera di festa che si respirava a Nola il 14 gennaio, il diesjèstus
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 457

di san Felice, quando folle di fedeli, per la maggior parte rustici provenienti
dalle regioni limitrofe e da altre regioni dell'Italia meridionale, si raduna-
vano presso la tomba del santo. Egli ricorda una moltitudine di uomini di
campagna, rozzi e incolti, che, spinti dalla fede e incuranti dei rigori inver-
nali, lasciano le loro abitazioni per recarsi presso la tomba feliciana (carm.
27 ). Paolino dichiara esplicitamente che questi pellegrini sono abituati a
mescolare il sacro e il profano, a ubbidire a Dio saziando il ventre, e descrive
con disappunto l'euforica atmosfera di attesa notturna della festa, durante
la quale i convenuti, per tenersi desti, si intrattengono presso le sante soglie
cantando e bevendo. Comunque sia, Paolino cercò di concepire un rimedio
che, attraendo i contadini, li distogliesse dal desiderio di cibo e, nel con-
tempo, li edificasse: fece dipingere sulle strutture della basilica nova e della
basilica vetus scene a colori dell'Antico e del Nuovo Testamento. I pellegrini
analfabeti, in tal modo, avrebbero potuto apprendere i misteri della fede at-
traverso le immagini della pittura. Si tratta di una procedura alla quale fece
ricorso circa due secoli dopo anche Gregorio Magno.
Il pellegrinaggio alla tomba di san Felice permette di sottolineare alcu-
ni elementi e motivi che caratterizzano il rapporto città/campagna. Già
nella seconda metà del IV secolo il santuario di Cimitile aveva determinato
lo sviluppo di un'area interessata da notevole fervore edilizio. Lo scrittore
fa riferimento anche a un hospitium posto a qualche distanza dalla tomba
del santo, finalizzato all'accoglienza di fedeli provenienti da lontano: si
tratta di una prova ulteriore del fatto che, ali' inizio del v secolo, il pelle-
grinaggio presso il sepolcro feliciano era ormai divenuto un fenomeno di
vasta portata. Dal punto di vista sociale il santuario di san Felice, come
accadeva in altri casi di culto martiriale cristiano, venne configurandosi
come un "luogo di ritrovo" per fedeli provenienti tanto dalla città quanto
dalla campagna, un luogo, dunque, ove si infrangevano alcune delle bar-
riere tipiche della società urbana tardoantica. Non solo, infatti, secondo
una prassi tipica del pellegrinaggio cristiano, uomini e donne si trovavano
a stretto contatto, ma si riducevano anche le distanze tra età, gerarchie,
classi sociali, nonché tra cittadini e rustici.
Abbiamo già menzionato altri santuari meta di pellegrinaggi durante
la tarda antichità nel paragrafo precedente. Possiamo aggiungere la città
di Tours in Gallia, di cui, alla fine del IV secolo, fu vescovo Martino (371-
397 ), personaggio circondato già in vita da un'aura di santità. I pellegrini
che giungevano presso il suo sepolcro provenivano, oltre che dalla stessa
Gallia, da altri paesi, in particolare Spagna e Italia.
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Gli itinerari dei pellegrini e le esigenze del pellegrinaggio contribuiro-


no a determinare forme organizzative da parte della Chiesa che portarono
alla costruzione di strutture di accoglienza, come mansiones, stationes, ho-
spitia, ma anche di nuovi itinerari scritti e di guide topografiche: si pensi
al de situ Hierosolymae, attribuito al vescovo Eucherio di Lione, o al de situ
terrae sanctae, di un non ben identificato Teodosio, ali' anonimo Breviari-
us de Hierosolyma, databili al VI secolo. Per la città di Roma furono, invece,
composti, a partire dal VII secolo, il de locis sanctis martyrum e la Noti-
tia ecclesiarum urbis Romae, vere e proprie guide che fornivano numerosi
dettagli e indicazioni necessarie per orientarsi nella complessa topografia
martiriale del suburbio.
Le motivazioni originarie del pellegrinaggio cristiano, nel corso dei
secoli, si erano arricchite, dunque, di diversi elementi, quali la ricerca di
reliquie, i miracoli, le guarigioni, la realizzazione di un voto, cui si aggiun-
sero anche il desiderio di penitenza per la salvezza dell'anima, l'espiazione
di un peccato o di una colpa, la penitenza imposta giuridicamente da una
autorità laica o ecclesiastica nei secoli del medioevo.

Bibliografia ragionata

Spazi e riti funerari.Sull'importanza degli spazi resi sacri dalla presenza dei santi e delle
loro reliquie, cfr. H. DELEHAYE,Problemi di metodo agiografico: le coordinate agiografi-
che e le narrazioni, in S. Boesch Gajano (a cura di), Agiografia altomedievale, il Mulino,
Bologna 1976, pp. 49-56; il saggio di v. FIOCCHI NICOLAI, I santuari martiriali, in
Santuari d'Italia, Lazio, De Luca Editori d'Arte, Roma lOIO, pp. 59-75, e il recente
volume di A. COSCARELLA, P. DE SANTIS (a cura di), Martiri, santi, patroni: per una
archeologia della devozione, Atti X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (15-
18 settembre lOIO), Università della Calabria, Arcavacata di Rende lOil, che contiene
preziose indicazioni metodologiche sull'interazione era storia, agiografia e archeolo-
gia. Per una documentata informazione sulle catacombe cristiane, cfr. v. FIOCCHI NI·
COLAI, J. G UYON ( a cura di), Origine delle catacombe romane, Atti della Giornata tema-
tica dei Seminari di Archeologia Cristiana (Roma, li marzo l005), Pontificio Istituto
di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano lOo6. Sui riti funerari e sull'insieme di
pratiche e gesti legati alla morte e alla visione cristiana della relazione tra il mondo dei
vivi e quello dei morti, cfr. il contributo di P. DE SANTIS, s.v. Ritifunerari, in Nuovo di-
zionario patristico e di antichita cristiane, Marietti, Genova l0o8, vol. III, cc. 77-101, che
sintetizza il processo di elaborazione dei diversi rituali nei secoli della tarda antichità.
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 459

Le iscrizioni dei cristiani. Sulla consistenza e sulla rilevanza delle iscrizioni dei cri-
stiani per la ricostruzione di numerosi aspetti del vissuto quotidiano, cfr. i saggi di c.
CARLETTI, che gettano luce sui più recenti metodi di approccio alla documentazione
epigrafica, considerata in relazione al monumento di appartenenza e al relativo con-
testo storico e sociale, in particolare il suo lavoro di carattere complessivo: Epigrafia
dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologi-a e prassi, Edipuglia, Bari 2.008;
cfr., inoltre, ID., Dalla «pratica aperta» alla «pratica chiusa»: produzione epigrafica
a Roma tra ve VIII secolo, in Roma nell:Alto Medioevo, Atti delle Settimane di studio
della Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 2.7 aprile-1°
maggio 2.000), voi. XLVII, CISAM, Spoleto 2.001, pp. 32.5-89; ID., "Scrivere i santi":
epigrafia del pellegrinaggio a Roma nei secoli VII-IX, in Roma fra Oriente e Occidente,
Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto
medioevo (Spoleto, 19-2.4 aprile 2.001), CISAM, Spoleto 2.002., pp. 32.3-61.
L'arte cristiana antica. Sull'arte paleocristiana la bibliografia è molto vasta; effi-
cace è la sintesi contenuta nel volume di F. BISCONTI (a cura di), Temi di iconografia
paleocristiana, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 2.000;
cfr., inoltre, ID., Le pitture nelle catacombe romane. Restauri e interpretazioni, Tau
Editore, Todi 2.011 4 • Per alcune indicazioni relative al rapporto tra esegesi e icono-
grafia e all'interazione tra i fattori relativi al repertorio figurativo (tipo, datazione,
provenienza) e il contesto archeologico di riferimento, il dato scritturistico, la cultura
biblica delle comunità, cfr. G. OTRANTO, Per una storia dell'Italia tardoantica cri-
stiana, Edipuglia, Bari 2.009, pp. 487-537. Per una riflessione multidisciplinare sulle
origini e l'essenza dell'immagine cristiana cfr. o. GUASTINI (a cura di), Genealogia
dell'immagine cristiana. Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigurazioni, La Casa
Usher, Firenze 2.014.
Spazi sacri e sacralizzazione dello spazio. Sul tema specifico degli spazi sacri e sugli
approcci multidisciplinari con cui vengono analizzati in rapporto alle trasformazioni
delle istituzioni e della società, cfr. A. VAUCHEZ (éd.), Lieux sacrés, lieux de culte, san-
ctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques,
fFR, Roma 2.000; A. BENVENUTI et al, Storia della santità nel cristianesimo occiden-
tale, Viella, Roma 2.005; M. SIMONETTI, Il Vangelo e la storia. Il cristianesimo antico
(secoli I-Iv), Carocci, Roma 2.010. Sul processo di costruzione di una "geografia sacra",
sui luoghi e gli strumenti del culto cristiano in rapporto a gestori e fruitori, cfr. s.
BOESCH GAJANO, L'agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda
antichità e alto medioevo, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Ita-
liano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 3-9 aprile 1997 ), voi. XLV, CISAM, Spoleto
1998, pp. 797-843; A. VAUCHEZ (a cura di), I santuari cristiani d'Italia. Bilancio del
censimento e proposte interpretative, fFR, Roma 2.007; s. BOESCH GAJANO, F. SCOR-
STORIA DEL CRISTIANESIMO

ZA BARCELLONA (a cura di), Lo spazio del santuario. Un osservatorio per la storia di


Roma e del Lazio, Viella, Roma 2.008, pp. 133-45.
Cristianizzazione di pratiche e riti pagani. Sul rapporto tra le forme devozionali
dei cristiani e le sopravvivenze pagane e sul complesso processo della "fine del paga-
nesimo", non omogeneo, ma differenziato da zona a zona e da epoca ad epoca, cfr. H.
DELEHAYE, Les origines du culte des martyrs, Société des Bollandistes, Bruxelles 1933;
Hagiographie, cultures et sociétés. Iv'-XII' siecles, Actes du Colloque (Nanterre-Paris,
2.-5 mai 1979), Études Augustiniennes, Paris 1981; I. AULISA, L. CARNEVALE, Il pel-
legrinaggio rurale alla tomba di S. Felice a Nola, in "Annali di storia dell'esegesi", 2.2.,
2.005, pp. 119-44. Una svolta nelle ricerche sull'identità dei santi cristiani e dei "santi
patroni" è costituita dalle ricerche di Peter Brown e dall'apporto delle scienze sociali
agli scudi storico-agiografici: P. BROWN, Il culto dei santi. L'origine e la diffusione di
una nuova religiosità, Einaudi, Torino 1983 (ed. or. 1981).
Il pellegrinaggio cristiano. Sulle forme, le modalità e le fonti relative al pellegri-
naggio dei cristiani nella tarda antichità, cfr. P. MARAVAL, Lieux Saints et pelerinages
d'Orient, histoire et géographie des origines à la conquete arabe, Cerf, Paris 1985; G.
OTRANTO, Il pellegrinaggio nel cristianesimo antico, in "Il Veltro. Rivista della civiltà
italiana", 43, 1999, pp. 2.39-56; ID., Caratteri identitari del pellegrinaggio dei cristiani
nel rapporto con i ''santuari", in "Annali di storia dell'esegesi", 2.2., 2.005, pp. 99-117;
Viaggi reali e viaggi immaginari nel cristianesimo antico, in "Rivista di Storia del Cri-
stianesimo", 1, 2.014, pp. 3-94 (sez. monografica).
Tavola cronologica

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

4 a.C. (?) Nascita di Gesù 4 a.C. Morte di Erode il Grande


30 (?) Morte di Gesù 14-37 Tiberio imperatore
37-41 Caligola imperatore
41-54 Claudio imperatore
43 Inizia la conquista della Britannia

49 Cacciata di gruppi di Giudei da Roma


49 (?) "Concilio" di Gerusalemme
52 Paolo soggiorna a Corinto per la pri-
ma volta
62 Il sommo sacerdote Anano mette a 54-6SNerone imperatore
morte Giacomo "fratello del Signore"
64 I cristiani accusati dell'incendio di 64 Incendio di Roma per nove giorni
Roma 69 Tre imperatori in un anno: Galba,
Otone, Vitellio
69-96 Dinastia Flavia: Vespasiano, Tito,
Domiziano
70 Tito mette fine alla prima guerra giu-
daica ( 66-70) conquistando Gerusalem-
me. Distruzione del Tempio
96 (?) Prima lettera di Clemente ai Co-
rinzi 9S-u7 Traiano imperatore
uo ca. Ignazio di Antiochia prigioniero
a Roma
1II/II2 Plinio il Giovane scrive a Traia-
no a proposito dei cristiani e rescritto di
Traiano
u4-II7 Guerra contro i Parti
u5-u7 Rivolta dei Giudei in Egitto, Me-
sopotamia, Cipro e Cirenaica
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

r32-r35 Seconda guerra in Giudea. Di-


struzione di Gerusalemme. L'imperato-
re Adriano bandisce i Giudei da Geru-
salemme, ricostruita con il nome di Elia
Capitolina
r3S-r6r Antonino Pio imperatore
r44 Marcione lascia Roma
r54/r67 Essendo vescovo di Roma Anice-
to, Policarpo ed Egesippo sono a Roma
r56 Inizia il movimento montanista in
Frigia. A Roma vari maestri gnostici r6r-rSo Marco Aurelio imperatore
r65 ca. Martirio di Giustino e compagni
a Roma 167-175 Invasioni dei Germani fino ad
Aquileia. Campagne in Germania e Pan-
nonia
r77 Martiri di Lione e Vienne
rSo Atti dei martiri Scillitani
rS9/r97 Il vescovo di Roma Vittore en-
tra in conflitto con molte chiese d'Asia
per la questione della Pasqua quartode-
cimana r93-2u Settimio Severo imperatore
203 Martirio di Perpetua e compagni a
Cartagine u2 Constitutio Antoniniana di Caracal-
la: tutti gli abitanti liberi dell'Impero
220 ca. Il vescovo di Roma Callisto con- sono di diritto cittadini romani
danna Sabellio
222 Muore Bardesane 222-235 Alessandro Severo imperatore
226 ln Persia inizia la dinastia dei Sasani-
di (2.2.6-652.) con Ardashir I
232 ca. Origene lascia Alessandria per
Cesarea di Palestina 248 Sotto Filippo l'Arabo si celebra il
millenario di Roma. Intorno a questi
anni Plotino a Roma impianta la sua
scuola
249/250 Persecuzione dei cristiani 249 Editto di Decio per una supplicatio
2sr Cornelio vescovo di Roma. Scisma generale dei cittadini romani
del rigorista Novaziano a Roma sul pro-
blema dei lapsi
254 Muore Origene
TAVOLA CRONOLOGICA

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

256/257 Disputa sul battesimo degli ere-


tici fra Stefano di Roma e Cipriano di
Cartagine
257/258 Editti di persecuzione di Vale-
riano
260 Rescritto di restituzione di Gallieno. 260 Valeriano è fatto prigioniero e ucciso
Inizia la "piccola pacen dei cristiani. Que- dai Sasanidi. Il figlio Gallieno imperato-
stione dei due Dionigi re unico
267 Regno indipendente di Palmira in
268 Concilio di Antiochia e condanna di Oriente con Zenobia
Paolo di Samosata 269 Claudio II (il Gotico) vince i Goti a
270 ca. Antonio si ritira nel deserto Naisso (attuale Serbia)
273/274 Aureliano vince Zenobia e riuni-
fica l'Oriente
277 Morte in carcere di Mani sotto
Sasanidi
284 Diocleziano imperatore
293 Sistema tetrarchico di governo: Dio-
cleziano e Massimiano imperatori per
l'Oriente e l'Occidente; Galerio e Co-
stanzo Cloro cesari per l'Oriente e l'Oc-
cidente. Milano accanto a Roma come
capitale della prefettura di Italia
297 Persecuzione antimanichea di Dio-
cleziano
301 Editto dei prezzi
303!304 Persecuzione anncnsnana di
Diocleziano con 4 editti 305 Abdicazione di Diocleziano e Mas-
simiano
306/314 Conversione al cnsnanesimo 306 Costantino proclamato imperatore
dell'Armenia, a opera di Gregorio l'illu-
minatore
311 Editto di tolleranza religiosa promul-
gato da Galerio a Serdica 312 Costantino vince Massenzio a Ponte
313 Incontro a Milano fra Licinio e Co- Milvio
stantino: "editto di Milanon
314 Concilio di Arles. Condanna dello
scisma donatista 324 A Crisopoli, nei pressi di Calcedo-
nia, Costantino vince Licinio e resta uni-
co imperatore
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

325 Primo concilio di Nicea: il Figlio con-


sustanziale al Padre. Condanna di Ario
328-373 Atanasio vescovo di Alessandria

330 Rifondazione di Bisanzio come Co-


stantinopoli
337 Morte di Costantino. L'impero divi-
340 ca. Apostolato di santa Nino e con- so fra i tre figli
versione della Georgia
341 Wulfila, apostolo dei Goti, è consa-
crato vescovo
343 Concilio di Serdica (Sofia)
343 (?) Concilio di Grange e condanna
di Eustazio di Sebaste 353-361 Costanzo II imperatore unico
354 Agostino nasce a Tagaste
356 Esilio in Oriente di Ilario di Poitiers
356/357 Lettera di Costanzo II ai re di
Axum su Frumenzio
359 Concilio di Rimini: il Figlio simile al
Padre 361-363 Giuliano imperatore
302 Nisibi torna persiana
366-384 Damaso vescovo di Roma
370-378/]79 Basilio vescovo di Cesarea di
Cappadocia
371 Marcino vescovo di Tours
374-397 Ambrogio vescovo di Milano
378 Disfatta dell'imperatore Valente ad
Adrianopoli a opera dei Goti
379 Teodosio I imperatore
380 Editto Cunctos populos di Teodosio I
381 Primo concilio di Costantinopoli.
Simbolo niceno-costantinopolitano 382/383 Rimozione dal Senato dell'altare
385 ca. Priscilliano viene giustiziato in della Vittoria
quanto eretico da Massimo usurpatore di 392 Editto di chiusura dei templi pagani
Gallia, Spagna e Britannia 394 Vittoria di Teodosio al Frigido su
Eugenio
395 Agostino vescovo di Ippona 395 Morte di Teodosio. Divisione defini-
tiva fra Oriente (imperatore Arcadio) e
Occidente (imperatore Onorio). Fino al
408 Stilicone comanda in Occidente
TAVOLA CRONOLOGICA

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

398 Rufino traduce il de principiis di Ori-


gene. Rottura definitiva con Girolamo
399 Morte di Evagrio Pontico
400 Si celebra il primo di 18 concili di
Toledo (ultimo del 702.) 402 Dopo Milano Ravenna diviene ca-
pitale dell'Impero romano d'Occidente
406 Vandali, Alani e Svevi rompono il
confine del Reno
407 Giovanni Crisostomo muore in
esilio
4ro La Chiesa di Persia accetta il Simbolo 4ro I Romani lasciano la Britannia
niceno
4II Conferenza di Cartagine fra donati-
sti e cattolici
415 Nel sinodo di Oiospoli Pelagio
viene discolpato. Ipazia è trucidata ad
Alessandria
418 Papa Zosimo (Tractoria) condanna i
pelagiani 423-437 Galla Placidia, figlia di Teodo-
sio I, è reggente per il giovane Valentinia-
424 La Chiesa di Persia dichiara la sua no III in Occidente
autonomia interna 429 Il re vandalo Genserico inizia la con-
430 Agostino muore durante l'assedio a quista dell'Africa
Ippona dei Vandali
431 Primo concilio di Efeso. Nestorio di
Costantinopoli è condannato ed esiliato 438 Codice Teodosiano
439 I Vandali conquistano Cartagine
441 Concilio di Orange 441 Successi dell'invasione in Britannia
di Angli, Sassoni e Juti
449 Tomus ad Flavianum di Leone I.
Secondo concilio di Efeso: Emiche di-
chiarato ortodosso 450 Morte di Teodosio II. Sua sorella
451 Concilio di Calcedonia: Cristo pro- Pulcheria sposa il generale Marciano, che
clamato una persona in due nature diventa imperatore

452 Papa Leone I va incontro ad Attila


457 Timoteo Eluro, collaboratore del per scongiurare il saccheggio di Roma
defunto Dioscoro, diventa vescovo di
Alessandria. 476 Odoacre depone l'imperatore d' Oc-
cidente Romolo Augusto
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

482 L'imperatore Zenone promulga I 'E-


notico su consiglio di Acacio di Costan-
tinopoli
484 Felice III scomunica Acacio. Inizia
lo scisma acaciano. L'editto di Hunirico
impone I' arianizzazione in Africa
486 Clodoveo re dei Franchi vince gli
Alamanni e si converte al cattolicesimo 493 Teoderico, re degli Ostrogoti, scon-
494 Papa Gelasio esprime all'imperatore figge Odoacre e diventa re d'Italia con
Anastasio I la teoria dei due poteri l'avallo dell'imperatore

502 Quarta seduta (Palmare) del proces-


so a papa Simmaco. Principio giuridico:
papa a nemine iudicatur
512 Severo vescovo di Antiochia
514 Simmaco accorda il vicariato a Cesa-
rio di Arles 518 Giustino diventa imperatore. Svolta
519 Papa Ormisda e l'imperatore Giusti- filocalcedonese
no mettono fine allo scisma acaciano
523 In Africa l'editto del re Hilderico
restituisce la libertà religiosa alle diverse
confessioni 527 Giustiniano imperatore
528 Benedetto fonda il monastero di
Montecassino 529 Chiusura della Scuola filosofica di
Atene
534 Termina la stesura del Corpus luris
Civilis
553 Secondo concilio di Costantinopoli. 535-555 Guerra greco gotica
Papa Vigilio cede e condanna i Tre ca-
pitoli. Inizia lo scisma tricapitolino, che
coinvolge Africa e Italia settentrionale 562 Pace di Giustiniano con i Sasanidi
565 Muore Giustiniano. Gli succede
Giustino II
568 Invasione dei Longobardi in Italia
584 Avari e Slavi arrivano a Tessalonica.
Inizia la slavizzazione della penisola bal-
canica
587 Recaredo re dei Visigoti in Spagna
passa dal!' arianesimo al cattolicesimo
590-604 Pontificato di Gregorio Magno
TAVOLA CRONOLOGICA

Avvenimenti di storia del cristianesimo Principali avvenimenti di storia generale

590 ca. L'irlandese Colombano fonda il


monastero di Lexeuil in Gallia
596/597 Missione del monaco Agostino
in Inghilterra
598 Re Echelberc del Kent si converte al
cristianesimo 610 Rivelazione di Mul:iammad. Eraclio
imperatore
622 Anno dell'Egira (emigrazione) di
Mul:iammad in quella che sarà chiamata
Medina. Da questo anno inizia il calen-
dario islamico
627 Re Edwin di Norchumbria si conver- 627 Eraclio ottiene la vittoria decisiva a
te al cristianesimo Ninive contro il sasanide Cosroe II
636 Gli Arabi musulmani conquistano la
638 Eraclio emana l'Ekthesis: in Cristo Siria
un'unica volontà (monotelismo) 646 Gli Arabi musulmani conquistano
648Con il Typos l'imperatore Costante II l'Egitto
vieta il dibattito ulceriore su monotelismo
editelismo
649 Un mese dopo l'elezione di Martino I
il concilio del Lacerano condanna il mono-
telismo e respinge Ekthesis e Typos
650 ca. Comunità cristiana in Cina
655 Esiliato da Costante II, Marcino
muore
662 Muore in esilio Massimo il Confes-
sore
680-681 Terzo concilio di Costantinopoli
691 Concilio in Trullo (o Quinisesto): 691 Completata la Cupola della Roccia a
102 canoni. Respinti gli usi di Armeni e Gerusalemme
Latini
Indice dei nomi

Aba I, 3l5 Alessandro Acemeta, l93


Abgar di Edessa, 16l-5 Alessandro di Abonutico, 193
Abraham bar Kai"li, 366 Alessandro di Alessandria, 147, 171, 173,
Abraham di Kashkar (Abramo di l3l-3
Kashkar), 3l4 Alessandro di Costantinopoli, 179, l64
Abramo, li, 49, 151, l99, 4l8, 443 Alessandro di Elia Capitolina cfr. Ales-
Acacio di Amid, 167 sandro di Gerusalemme
Acacio di Costantinopoli, 318-lo, 344 Alessandro di Gerusalemme, Il6, Il9,
Achicofel, 64 136,170
Acilio Glabrione, 191 Alessandro di Licopoli, u1
Adamo, 151, 156, l47-8, l9l, l98, 3ol, Alessandro Janneo, 66
3l6, 44l-3 Alessandro Magno, 159
Addai, 16l, 404 Alessandro Severo, 195-6
Adelfio, l9l Alexamenos, 199
Adriano, 83, 19l, lI3, l6l Ambrogio di Milano, 94-5, 156, l39, l7l,
Aechelburg, 35l l76-7, 301, 40l, 4ll, 437, 450, 45l, 456
Afraace, 166-7, 404 Ambrosio, 135
Agapito, papa, 365-6 Amelio, l04
Agar, 151 Ammone, l86
Agatangelo, 176 Ammonio Nicrioca, l85
Agatone, papa, 381 Amos, Bo
Agnello, 374 Anania, 6l
Agostino, monaco, 351, 353 Anano il Giovane, Bl
Agostino d'Ippona, III, Ili, 1l6, ll8, 148, Anastasio I, imperatore, 3lo, 359, 363
150, l04, l30, l46-9, l69-70, 30l-3, Anastasio I, papa, 34l
306, 343, 346, 354, 4n-4, 437-8 Anastasio II, papa, 345
Agricola, marcire, 4l1 Anastasio di Tessalonica, 353
Alarico, 330 Anastasio Sinaica, 383
Albina, 453 Anatolio, pagano, 36l
47o STORIA DEL CRISTIANESIMO

Anatolio di Alessandria, 314 Avidio Cassio, 193-4


Andrea, apostolo, 103, 144, 178, 2.64 Axenaia cfr Filosseno di Mabbug
Andrea di Tessalonica, 344
Andromaco, 344 Babai il Grande, 32.5
Anfilochio di lconio, 148-9 Babgen, 32.3
Aniceto di Roma, 118, 12.3
Babila, santo, 12.6, 42.5, 447
Antero di Roma, 435
Bacco, santo, 360
Antimo, 365-6
Balaam, 443
Antinoo, 2.13
Banno,46
Antonino Pio, 192., 2.16
Bar Kokhba Simone, 65, 69, 83-4, 95, 2.62.
Antonio, 2.84-5, 2.88, 301, 305, 418-9, 42.7,
Bar Qursos Giovanni, 300
447 Bardai~an cfr Bardesane di Edessa
Anulinus, 2.2.7
Bardesane di Edessa, 162., 164-5
Apiario, 2.71
Barnaba, 76-7, 79, 98, 101, 146-7, 152., 2.52.
Apollinare, santo, 2.77
Barsanufio, 2.96
Apollinare di Laodicea, 2.61, 311
Bar~auma, 317
Apollo, predicatore, 98, 105
Bartimeo, 46
Apollo-Helios, 2.2.6, 42.5
Bartolomeo, 103
Apollonio di Tiana, 51, 194-5, 2.13, 2.2.1, 417
Basilide, 169
Aqiba, 65
Basilio di Cesarea di Cappadocia, 156, 2.16,
Aquila, 98, 100-1, 136, 188
2.41, 2.43, 2.53, 2.88, 2.91-2., 306, 403, 419
Arbogaste, 2.44
Basilisco, 318
Arcadio, 166, 2.64, 330,337
Bassa, 453
Ario, 173, 2.30-3, 2.43, 2.52., 2.54, 301
Baudonivia, 42.9
Aristide, 92., 2.13
Beda,456
Arnobio, 2.11, 2.35
Benedetto da Norcia, 305-7, 348
Artemone, 12.1
Berenice, 190
Asclepio, 417, 42.2.
Berillo di Boma, 196
Asella, 430
Berta, 352.
Askidas Teodoro, 366
Besa, 2.87
Atanasio di Alessandria, 147, 149, 175,
Bessarione, 18
179-80, 2.11, 2.33, 2.37, 2.43, 2.59, 2.61, 2.85,
Blandina, martire, 111, 414
2.88, 311, 370, 418-9
Atanasio di Antiochia, 368 Boezio, 347

Atarbio, 301 Bonifacio v, 352.

Attila, 330, 333


Augusto cfr Ottaviano Caedmon, 352.
Aureliano, 197-8, 2.04, 2.19, 2.2.6 Callisto di Roma, 92., 12.1, 12.4-5, 12.7, 132.,
Aurelio di Cartagine, 2.69-70 435, 44o- 1
INDICE DEI NOMI 47 1

Caracalla, 160, 195 Clemente di Roma, 99-100, 107, 12.2.,


Caritone, 2.94 144, 146, 191
Carneade, 2.13 Cleomene, 12.1
Carpo, martire, 414 Clodoveo, 349,351
Cassiano Giovanni, 302., 306, 341 Clopa, 46, 74
Cassiano Giulio, 109 Colombano, 305, 353
Cassio Dione, 188, 191, 194 Commodiano, 2.10, 337
Cassiodoro, 306, 345 Commodo, 12.4, 193-4
Ceciliano, 2.2.9, 2.68 Corippo, 375
Cefa cfr. Pietro Cornelio, centurione, 76, 79
Celestino I, papa, 312., 352. Cornelio di Roma, 12.7, 2.78, 399
Celestio, 2.47-8 Cosroe I, 177, 373
Celso, filosofo, 73, 87, 2.00-2., 2.05, 2.18, Cosroe II, 379
2.35 Costante I, 2.36
Celso, martire, 42.1 Costante II, 380-1
Cesare Gaio Giulio, 89 Costantino II, 2.36
Cesario di Arles, 2.75, 304, 306, 350, 450 Costantino IV, 381
Chilperico, 349 Costantino il Grande, 93, 136, 178, 180-1,
Chosrov I cfr. Cosroe I 197, 2.10, 2.2.0, 2.2.2.-3, 2.2.5-30, 2.32.-6, 2.38,

Cicerone Marco Tullio, 2.16, 42.6 2.48, 2.51, 2.58, 2.62.-4, 2.69, 2.78, 349, 356,

Cipriano di Cartagine, 12.6-30, 146, 196-7, 360, 369, 371, 376, 414, 417-8, 438,

2.02.-3, 2.2.9, 2.67, 2.69, 2.78, 398, 400, 447, 452., 454
Costanzo II, 179-80, 2.36-7, 2.41, 2.64, 418
416, 42.0
Costanzo Cloro, 2.2.0, 2.2.2.
Ciriaco di Costantinopoli, 378
Costanzo di Lione, 303, 42.7
Cirillo, apostolo degli Slavi, 354
Cresto, 188
Cirillo di Alessandria, 180, 2.59-60, 311-6,
Crispo, 104
318-2.0, 32.2.-3, 370
Cromazio di Aquileia, 402., 42.1
Cirillo di Gerusalemme, 147,149,404
Culciano Clodio, 2.2.2.
Cirillo di Scitopoli, 2.95
Cirillona, 404
Ciro, martire, 42.2. Damaso, papa, 2.44, 2.65, 2.67, 2.72., 2.78,
Ciro di Alessandria, 380 300, 342., 370, 42.0, 455
Claudio, imperatore, 188-9 Damiano di Alessandria, 376-7
Claudio Efebo, 12.2. Daniele, 48, 58-9, 148, 153, 2.04, 2.08-10,
Claudio il Gotico, 2.2.6 442.-3
Clemente Alessandrino, 92., 103, 112., 146, Davide, 35, 56, 61, 64, 185
149-50, 152., 154, 156, 169, 2.13, 2.16, 397, Decio, 12.6-7, 130,196, 2.02., 2.2.9, 2.83, 400,
399 411-2., 416, 419
472 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Demetriano, 166, 203 Epitteto, 202


Demetrio, martire, 422 Eracla di Alessandria, 169-70
Demetrio di Alessandria, 129, 169-71 Eracle, 417
Didimo il Cieco, 148 Eracleone, 153-4
Diocleziano, 23, 93, 170, 219-22, 235, 268, Eraclio, 329, 378-80
271, 276, 341, 376, 446 Erasmo da Rotterdam, 18
Diodoro di Tarso, 257, 261, 311-2, 325 Erma, 122, 125, 135, 180
Diogneto, 110-1 Ermia, 215
Dionigi di Alessandria, 125, 170-1, 176, Erode Agrippa, 82
210, 230-1 Erode Antipa, 37, so
Dionigi di Corinto, 109 Erode il Grande, 35, 39-40
Dionigi di Roma, 125, 231 Esaù, 247
Dionigi il Piccolo, 40, 372 Ethelbert del Kent, 352
Dionigi l'Aeropagita, 404 Eucherio di Lione, 304, 458
Dioscoro di Alessandria, 259, 313-9 Eudossia, 453
Domiziano, 74, 84, 190, 377 Eugenio, usurpatore, 244-5, 417
Domizio Ulpiano, 195 Eugenio, vescovo, 224
Domno di Antiochia, 198 Eugippio, 306
Donato, 229-30 Eulogio di Alessandria, 376, 378
Eunapio, 225, 240, 417
Edesio, 180 Eunomio, 390
Edwin di Northumbria, 352 Eurico, 350
Efrem di Nisibi, 162, 164, 167, 299, 323, Eusebio di Cesarea, 27-9, 35, 74, 81, 83, I03,
366,404 109, 118, 123-4, 128-9, 136, 139, 146-7,
Egeria, 293, 405, 428, 453 154, 157, 162, 169, 176, 187, 190-3, 195-8,
Egesippo, 35, 74, 118-9, 131 210-1, 214, 216, 220-6, 233-5, 248, 252,
Elagabalo, 195, 198 361, 414-5, 418-9, 435, 451
Elchasai, 165 Eusebio di Nicomedia, 233, 241, 254
Elena, imperatrice, 228, 262, 452 Eusebio di Vercelli, 303
Eleuterio di Roma, 123, 129 Eustazio di Antiochia, 233, 311
Elia, 42, 51, 282-3 Eustazio di Epifania, 372
Elio Aristide, 422 Eustazio di Sebaste, 290-1
Eliseo, 282 Eustochio, 300, 453
Elpidio, 428 Emiche, 314-5, 319, 322, 343, 362
Enea, 361 Eucichio di Costantinopoli, 367-7
Enoch cft: Henoch Eutimio, 295
Epifanio di Salamina, 36, IOS, 162, 180, Eva, 111, 442-3
259, 284, 301, 431 Evagrio Pontico, 288, 302
INDICE DEI NOMI 473

Evemero, 2.13 Frumenzio, 179-80


Evodio di Uzalis, 42.2. Fruttuoso di Braga, 305
'Ezana, 179
Eznik, 178
Gaiano, 365
Gaio, 12.4, 132., 145, 435, 454
Fabiano di Roma, 12.6, 435 Galerio, 2.2.0-3, 2.2.7, 417
Fabio di Antiochia, 399 Galilei Galileo, 19
Fabiola, 453 Gallieno, 170, 194, 196-7, 2.03, 2.10
Facondo di Ermiana, 367 Gaudenzio di Brescia, 402., 42.1
Fausto di Riez, 304, 349-50, 357 Gelasio, papa, 332., 334, 344-5
Febe, 111 Gennadio, 2.2.4
Felice, santo, 303, 42.6-7, 448-9, 456-7 Genoveffa di Parigi, 42.9
Felice Ili, papa, 344 Genserico, 2.71, 330
Felice di Abchugnos, 2.2.9 Geremia, 2.12.
Felicita, 195 Germano di Auxerre, 303, 42.7
Filea di Thmuis, 2.2.2. Geronzio, 2.94
Filemone, 99, 112., 145 Gervasio, marcire, 42.1
Filippo, apostolo, 37, 61, 74, 76, 2.64, 395 Gesù di Nazarec, 15-7, 2.0, 2.3-30, 33-91,
Filippo l'Arabo, 196, 2.09 94-101, 103-5, 107, 109-10, 112.-8, 12.0-1,
Filocalo Furio Dionisio, 334, 42.0, 42.3, 12.9, 131, 133-4, 136-41, 143, 148, 151, 153,
455 156-7, 162.-4, 185, 188-90, 195-6, 198-
Filone d'Alessandria, 2.6, 90, 113, 131, 151, 2.02., 2.04-9, 2.11-2., 2.14, 2.16-7, 2.2.1, 2.2.4,
156, 2.83 2.2.6-7, 2.30, 2.32., 2.38, 2.42., 2.46-7, 2.59,
Filosseno di Mabbug, 300, 317, 32.0, 32.3 2.83-4, 310-1, 315, 32.7, 388, 391-8, 404-5,
Filostorgio, 2.34, 2.79, 338 411-3, 416-7, 430-1
Filoscrato, 51, 195, 417 Getta, 375
Firmico Materno, 2.11, 2.37 Giacobbe, 36, 49, 153, 2.47, 2.96, 42.8
Firmiliano di Cesarea di Cappadocia, 130 Giacomo, apostolo, 105, 107, 146-7, 395,
Flavia, 453 403,405
Flaviano di Costantinopoli, 314,343 Giacomo, fratello di Gesù, 35-6, 45, 73-4,
Flavio Giuseppe, 2.6-7, 2.9, 39-40, 46, 62., 77-83, 88
65-6, 77, 82., 12.6, 190, 2.00, 2.12. Giacomo Baradeo, 366, 376-7
Flavio Teodosio cJr. Teodosio I Giacomo di Sarug, 32.3
Flavio Valerio Costantino cJr. Costanti- Gildone, 2.70
no il Grande Giobbe, 42.8
Flavius Antoninus, 2.02. Giona, 58, 442.-3
Flora, 152. Giorgio, santo, 179
Foca, 376, 378-9 Giovanni, discepolo di Barsanufio, 2.96
474 STORIA DEL CRISTIANESIMO

Giovanni, evangelista, 34, 40-1, 45-7, 49, Giuliano di Alicarnasso, 316, 364
56, 59, 61-5, 71, 74, 78, 81, 91, 100, 113-4, Giuliano di Eclano, 147-8
110, 114, 135, 141-7, 153-4, 163, 190, Giuliano l'Apostata, 161, 101-1, 105, 115,
104, 108-10, 138, 397 118, 113, 115, 137-8, 145, 149, 415, 455
Giovanni, martire, 411 Giuliano Saba, 199
Giovanni (loane), vescovo, 179 Giulio Africano, 17, 106, 114, 371
Giovanni I, papa, 347 Giunia, 111
Giovanni II, papa, 365 Giuseppe, padre di Gesù, 36, 88
Giovanni III, papa, 349 Giuseppe d'Arimatea, 66
Giovanni Battista, 34, 36-7, 40-1, 44, Giustina, 139
46, 51, 55, 70, 98,100, lii, 181-3, 394-5, Giustina, santa, 431
418 Giustiniano, 151, 194, 196, 331, 346-7,
Giovanni Climaco, 196, 383 353, 355, 357, 359-78, 381-3, 408
Giovanni Crisostomo, 91, 148, 175, 159, Giustino, 83, 85-6, 91, 110-1, 141, 143-4,
161, 165-6, 175, 403 149, 153, 156, 163, 193, 116, 398, 400
Giovanni di Efeso, 199, 361, 366 Giustino I, 316, 315, 346, 359
Giovanni di Gerusalemme, 159, 161-3, Giustino II, 374-6
301,404 Graziano, u9, 139-40, 171
Giovanni di Maiuma, 190 Gregorio di Antiochia, 377
Giovanni di Tella, 366 Gregorio di Nazianzo, 148-9, 156, 141,
Giovanni Filopono, 375, 377 143, 164, 188, 191, 403, 419, 415-6, 431
Giovanni il Digiunatore, 377 Gregorio di Nissa, 156, 141, 419, 415,
Giovanni il Solitario, 198 419,451
Giovanni l'Elemosiniere, 376 Gregorio di Tours, 349-50, 411, 414,

Giovanni Lido, 363 430,450


Giovanni Marco, 101 Gregorio l'Illuminatore, 176-7

GiovanniMosco,189 Gregorio Magno, 179, 305, 346-8, 351-1,

Giovanni Scolastico, 376 355, 357-8, 376-8, 390, 450, 457


Gregorio Nazianzeno cfi: Gregorio di
Giovanni Talaia, 319
Nazianzo
Giove, 110,145,339, 361
Gregorio Nisseno, 191
Giovenale di Gerusalemme, 163, 314-6
Grod, 375
Gioviano, 138
Girolamo, 36, 73, 91, 94, w8, 150, 156,
115-6, 159, 161, 184, 187, 194-5, 300-1, Henoch, 148, 180
341, 415, 418-9, 447, 453-4, 456 Hierocle Sossiano, 111, 417
Giuda, fratello di Gesù, 35, 74 Hilarianus, 195
Giuda Iscariota, 64, 71, 146-7 Hilda, 351
Giulia Mamea, 195 Hilderico, 355
INDICE DEI NOMI 47S

Hillel, 53 Leone il Grande ifr. Leone Magno


Hunirico, 355 Leone Magno, 12.6, 2.75, 314-6, 318, 32.0,
32.6, 330-3, 342.-3, 349,351, 353
Leonzio di Gerusalemme, 377
Ibas (o Iba) di Edessa, 313-5, 317,347,367
Leovigildo, 351
!dazio, 350
Libanio, 2.02., 2.37
leraca di Leontopoli, 2.84
Licinio, 2.2.0, 2.2.3-4, 2.2.7, 2.32., 2.35, 2.54,
Ignazio di Antiochia, 76, 105, rn8, 110,
2.58, 2.86, 417
112., 114, 12.2., 138, 152., 396, 412.
Lollio Urbico, 193
Ilario, papa, 343
Longino, 2.89
Ilario di Arles, 2.75, 304, 343
Lorenzo, antipapa, 345
Ilario di Poitiers, 2.41, 301, 303
Lorenzo, martire, 351, 436, 447
Ilarione, 2.95, 42.8
Luca, evangelista, 34-7, 39, 46-9, 59-60,
Illo, 319
63, 66, 72.-3, 75-9, 99-100, 134, 138-42.,
Innocenzo I, papa, 2.48, 342.-3, 403
163, 188, 442.
Ipazia, 2.60
Lucia, martire, 448
Ipazio, 2.93
Luciano di Samosata, 193, 2.01-2., 2.13
Ippolito, 12.4, 12.8, 132., 153, 156, 2.10, 2.14,
Lucilla, 2.2.9
397,445
Lucio, martire, 193
Ireneo di Lione, 2.9, 119, 12.1-3, 12.6, 12.9,
Lucio I, papa, 435
142.-4, 146, 153, 156, 164, 2.09-10
Lucio Vero, 159
Isacco, 49, 442.-3
Lucrezio, 2.13
Isacco di Ninive, 300
Isaia, 36, 76, rn6, 114, 138, 180, 2.10
Isaia, monaco, 2.95 Macario di Magnesia, 2.12., 2.45
Iside, 2.44, 362. Macario Egizio, 2.85
Isidoro di Siviglia, 305, 334, 351 Macedonio di Costantinopoli, 2.43, 2.93
Iulianus, 2.2.1 Macriano, 2.IO
Macrina, 2.91, 42.9-30
Joses, fratello di Gesù, 35-6 Macrobio, 2.44
Maecius Laetus, 195
Magnenzio, 2.36
Koriun, 178
Magno Massimo, 2.72.-3
Maiorino, 2.2.9
Lattanzio, 164, 195, 197, 2.11, 2.2.0-1, 2.2.3, Maiala, 372.
2.2.5-7, 2.35, 2.48 Mani, 165, 2.2.1
Lazzaro, 443-4 Maometto (Mul:iammad), 355
Leone I ifr. Leone Magno Mar Eugenio, 2.99
Leone III lsaurico, 353 Maratonio, 2.93
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Marcellino, 2.2.8, 436, 438, 443-4 Melania Seniore, 2.94, 42.9, 453
Marcellino, comes, 2.46 Melezio di Antiochia, 2.41
Marcello di Ancira, 2.33, 2.43 Melitone di Sardi, 2.8, 149, 153, 156, 190,
Marcia, 12.4, 194 193-4, 2.09-10
Marciano, giurista, 193 Melizio, 173, 2.52.
Marciano, imperatore, 314, 318, 343 Mellito di Gallia, 451
Marcione del Ponto, 115-8, 12.2., 131-2., Menasia, 54
140-1, 143, 152., 155, 164 Mesrop Mastoz, 177-8
Marco, evangelista, 33-7, 40-1, 45-6, 53, Metodio, apostolo degli Slavi, 354
59, 61, 63, 66-7, 73, l01, 139, 142.-3, 163, Michele, santo, 448, 454
168-9, 175, 2.52., 2.65, 403 Milziade di Roma, 2.2.9
Marco Aurelio, 193-4, 2.00-2., 361 Minucio Felice, 81, 2.11, 2.13
Mari il Persiano, 367, 404 Minucio Fundano, 192.
Maria, madre di Gesù, 36, 88, 2.42., 312., 315 Mirian, 178
Maria di Clopa, 46 Monegonda, 430
Maria di Magdala, 46, 50, 73, 2.01 Monica, 111,437
Marte, 339 Montano, 12.3
Martino I, papa, 380-1 Mosè, 36, 42., 153, 2.10, 2.14, 2.81, 442.-3
Martino di Braga, 351, 450 Mosè di Corene, 176
Martino di Tours, 2.74, 303-4, 349, 42.1-3, Muratori Lodovico Antonio, 100, 144
42.5, 42.7, 449, 457
Musonio Rufo, 2.13
Marucha, 166
Massenzio, 2.2.0, 2.2.6, 346 Nabarnugi cfi: Pietro Iberico
Massimiano di Pola, 347 Narsai, 32.5
Massimilla, 12.4 Nathan, 56
Massimino Daia, 2.2.0-4, 2.52., 2.86 Nazario, martire, 42.1
Massimino il Trace, 196 Nerone, 84, 189-90
Massimo di Madaura, 2.02. Nerses I Parthew, 177
Massimo di Riez, 304 Nestorio, 2.57, 2.61, 312., 315, 319, 32.5, 364,
Massimo di Torino, 402., 449 404,430
Massimo il Confessore, 379-81 Nettario di Costantinopoli, 2.64-5
Matteo, evangelista, 34-7, 46-7, 49, 59, Nicomaco Flaviano Virio, 2.45, 417
63, 66, 72., 103, 105, 109, 130, 134, 139, Nilo di Ancira, 2.93
142.-3, 163, 2.52., 395, 442. Ninfa, 111
Mattia, 71 Nino, santa, 178, 182.
Maurizio, 377-8 Noè, 12.5, 442.-3
Mauro di Ravenna, 347 Noeto di Smirne, 12.1, 12.8, 132.
Melania luniore, 2.94, 453 Novaziano, 12.6-7, 301
INDICE DEI NOMI 477

Octacilia Severa, 196 Paolo di Tebe, 2.84


Odoacre, 2.77, 345 Papia di Hierapolis, 64, 139, 144, 158
Olympius, 2.40 Passarione, 2.94
Omero, 90, 2.14, 42.5-6 Patroclo di Arles, 2.75
Onesimo, 112. Pelagio, 2.47-8, 302., 367-8
Onorato, 2.74, 304 Pelagio I, papa, 347
Onorio, imperatore, 2.48, 2.70, 330 Pelagio II, papa, 348, 377
Onorio I, papa, 380-1 Pellegrino, 2.01-2.
Orfeo, 417 Pemenia, 453
Origene di Alessandria, 103, 113, 12.1, 12.9, Perpetua, martire, lii, 195, 414-5
131-2., 135-6, 146-7, 149, 152.-4, 156-8, 164, Perpetuo di Tours, 42.2.
168-70, 195-6, 2.01, 2.04, 2.09-10, 2.30-1, Petronio, 2.87
2.59, 2.85, 2.88, 301-2., 397,399,415,418 Pietro (Cefa), 33, 35, 37, 45-6, 61, 73-4, 76,
Ormisda, papa, 32.6, 344, 346-7, 365 78-80, 82., 92., 99-100, 103, 105, 111-2.,
Orosio, 336 12.2., 12.4, 130, 139-40, 142.-3, 145-7, 175,
Orsiesi, 2.87 186, 2.08, 2.48, 2.52., 2.65, 2.75, 2.77, 342.-3,
Ossio di Cordova, 2.32., 2.35 347, 370, 378, 392., 42.0, 435, 444, 454
Ottaviano Augusto, 39, 136, 190, 2.39, Pietro, martire, 2.2.8, 438
334,361 Pietro, patriarca severiano, 376
Pietro I di Alessandria, 170, 2.52.
Pacomio, 2.86-8, 2.99, 301, 306 Pietro Crisologo, 402.
Palamone, 2.86 Pietro di Callinico, 376-7
Palladio di Elenopoli, 2.88, 352., 42.9 Pietro Iberico (o Ibero), 2.94, 316
Palu~ di Edessa, 165 Pietro il Fullone, 317, 32.0, 32.6
Panfilo, 13 6 Pietro Mongo, 319-2.0, 344
Panteno, 103 Pietro Patrizio, 382.
Paola, 2.94, 453 Pilato Ponzio, 2.6, 40, 64-6, 2.2.4, 2.42.
Paolino di Nola, 303, 42.1, 42.3-9, 449, Pinito di Cnosso, 109
456-7 Pionio, martire, 115, 414
Paolino di Périgueux, 42.2. Pitagora, 2.13, 417
Paolo di Beth-Ukkame, 376-7 Pkiol, 2.88
Paolo di Samosata, 198, 2.18, 310-1 Platone, 42.6
Paolo di Tabennisi, 366 Plinio il Giovane, 81, 84, 191-2., 2.00, 2.02., 395
Paolo di Tarso, 16, 2.1, 2.5, 33-5, 45-7, 53, Plotino, 116, 2.03-4, 2.11, 2.15
63, 66, 73, 75-82., 88-9, 91-2., 95, 97-107, Polemio Silvio, 334
109-12., 114-5, 12.2., 12.4, 131, 134, 137-41, Policarpo di Smirne, 105, 108, 12.3, 144,
143-8, 151-2., 155, 188-9, 2.04, 2.08, 2.10-1, 400,416
2.16, 2.2.2., 2.2.4, 2.2.8, 2.45, 2.47, 2.52., 2.56, Policrate di Efeso, 12.3-4
2.92., 2.98, 342., 392.-4, 412., 42.0, 435,454 Pompeo Magno Gneo, 89
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Ponziano di Roma, 435 Samuele di Kalamon, 2.90


Ponzio, 12.9 Sapaudo, 350
Porfirio, 2.01, 2.03-5, 2.14, 2.18, 2.2.1, 2.35, 2.37, Sara, 151
2.45 Saturnino, 134
Possidio di Calama, 42.2. Sazana, 179
Priscilla, 98, 100-1, 12.4, 188, 435, 440, 445 Sebastiano, santo, 456
Priscilliano, 2.72.-3, 305 Senofane di Colofone, 2.13
Proclo, 12.4, 435 Serapide, 2.83
Proclo di Costantinopoli, 313 Serapione di Antiochia, 165
Procopio, 361, 454 Serapione di Thmuis, 403
Prospero di Aquitania, 338 Serenio Graniano, 192.
Protasio, martire, 42.1 Sergio, santo, 360
Proterio di Alessandria, 317-8 Sergio I, papa, 382.
Prudenzio, 42.5, 42.7-8, 456 Sergio di Antiochia, 376
Pseudo-Macario, 2.93 Sergio di Costantinopoli, 379-81
Pulcheria, 314 Seridos, 2.95-6
Severiano di Gabala, 431
Qona, 165 Severo di Antiochia, 317, 32.0, 32.6, 364-5,
Quirinio, 39 375
Shammai, 53
Shapur I, 197, 2.10
Rabbuia, 300, 313 Shapur II, 309
Radagaiso, 330
Shenuce di Atripe, 2.87-8, 307, 313
Radegonda, 375, 42.9-30 Sidonio Apollinare, 336, 349-50
Recaredo, 351
Sigeberto, 350
Romano, 304
Silvestro di Roma, 2.2.9, 2.33
Romolo, 361
Silvina, 453
Romolo Augusto, 32.9
Simeone, cugino di Gesù, 74
Rufino di Aquileia, 147, 156, 178-80, 2.94,
Simeone, rabbi, 54
301-2.
Simeone di Mesopotamia, 2.93
Simeone lo Stilita, 2.98
Saba, martire, 338 Simmaco, papa, 107, 2.75, 342., 345-6
Saba, monaco, 2.95, 317, 319 Simmaco Quinto Aurelio, 136, 2.39
Sabellio, 12.1, 12.5, 2.31 Simon Mago, 114
Sahak, 177, 313 Simone cfi: Pietro (Cefa)
Sallustio Crispo Gaio, 2.02., 42.6 Simone, fratello di Gesù, 35
Salomone, 47, 58, 61, 164, 2.12., 360 Simone di Cirene, 63
Salviano, 336 Simplicio, papa, 343-4
INDICE DEI NOMI 479

Siricio, papa, 2.77, 342.-3 Teodosio I, 94, 175, 2.37, 2.39-41, 2.44-5,
Sisenna Rutilianus, 193 2.64-5, 330, 342.
Sisto II di Roma, 2.31 Teodosio II, 2.34, 314, 343, 353, 453
Socrate, 42.5 Teodosio di Alessandria, 365-6, 376
Socrate Scolastico, 2.34, 2.54, 2.80, 453 Teodosio il Grande cfi: Teodosio I
Sofia, imperatrice, 375-6 Teodoto il Banchiere, 12.1
Sofia, santa, 360 Teodoto il Cuoiaio, 12.1, 2.16
Sofronio di Gerusalemme, 380 Teodozione, 136
Sozomeno,2.34,2.79,2.90,338,454 Teofilo di Alessandria, 175, 2.59, 2.65, 301,
Spinoza Baruch, 18 313-4
Stefano, santo, 75, 82., 412., 42.2., 42.4 Teofilo di Antiochia, 12.1, 156
Stefano di Bisanzio, 363 Tertulliano, 103, 115, 118, 12.4, 12.6, 12.9,
Stefano di Roma, 130, 435 146, 149, 153, 156, 188-90, 195, 2.06-7,
Stilicone, 330 2.11, 2.15, 2.41, 398
Subatianus Aquila, 195 Tiberio, 2.17
Sulpicio Severo, 303, 42.1-2., 42.5, 42.7-8, 449 Tiberio II, 362., 376
Susanna, 443 Tigidio Perenne, 194
Svetonio Gaio Tranquillo, 188, 191, 2.00 Timoteo, apostolo, 100, 110-1, 138, 2.64
Timoteo Eluro, 318-9
Tacito Publio Cornelio, 2.6, 65, 84, 189, Timoteo Solofaciolo, 318-2.0

192., 2.00, 339 Tito, apostolo, 100, 138, 361


Taddeo, 162. Tito, imperatore, 189-90
Taziano, 163-4, 2.13, 2.15, 2.97 Tolomeo, 152., 193
Tecla, santa, 109, 42.2. Tommaso, apostolo, 34, 47, 59, 61-2., 103,
Temistio, 2.38 164, 2.82., 2.97, 397
Teoctisto di Cesarea, 12.9, 170 Traiano, 81, 84, 191-2.
Teodato, 365 Trdat III, 177
Teoderico, 2.77, 345-7, 353 Trifone, 86, 91
Teoderico Il, 350 Trofimo, 2.75
Teodora, 360, 364-6 Tucidide, 42.6
Teodoreto di Cirro, 148, 2.34, 2.45, 2.61, Turibio di Astorga, 350
2.80, 2.98, 314-5, 347, 367, 42.5-6
Teodoro Bar Konai, 162.
Ulpiano, 193, 195
Teodoro di Mopsuestia, 148, 2.57, 2.61, 2.80,
2.87, 311-3, 317, 32.2., 32.5, 347,367,404
Teodoro Scribano, 376 Valente, 2.39-40, 330
Teodosio, scrittore, 458 Valentiniano I, 2.39-40
Teodosio, vescovo, 316 Valentiniano II, 2.39-40, 2.44
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Valentiniano III, 343 Vitaliano, papa, 381


Valentino, 117-8, 12.2., 169 Vittore di Roma, 12.3-5, 401
Valeriano, imperatore, 130, 166, 194,
196-7, 2.10, 411-2.
Wulfila, 2.41, 338-9
Valeriano, vescovo, 303
Valerio Bitone, 12.2.
Valerio Massimiano, 2.2.0 Yazdgerd, 166
Valerius Diogenes, 2.2.4 Yehohanan, 66
Valla Lorenzo, 18
Venanzio Fortunato, 375, 42.9
Vespasiano, 84,189 Zebedeo, 34, 46
Vesta, 454 Zefirino di Roma, 12.4, 439
Victricio di Rouen, 42.1, 42.4 Zenobia, 197-8
Vigilanzio, 42.5 Zenone, 2.52., 316-7, 319-2.0, 32.3, 344,
Vigilio, papa, 347,367 359
Vigilie di Trento, 450 Zosimo, papa, 2.48, 2.71, 2.75
Virgilio Marone Publio, 42.6, 454 Zosimo, storico, 2.2.5, 2.40
Vitale, martire, 42.1 Ztasio, 374
Indice dei luoghi

Abruzzo, 448 Anaunia cfr. Val di Non


Acaia, 100 Ancona, 2.76
Adiabene, 160-2., 166, 2.15 Annisa, 2.91
Adrianopoli, 2.40, 330 Antiochia, 76-9, 81-2., 88-9, 92., 99-101,
Adrumeto, 346 104, 106, 12.6, 156, 161-2., 165-6, 171,
Adulis, 180 179-80, 195, 198, 2.32., 2.52., 2.55-6, 2.58,
Aemilia, 2.76 2.60, 2.61-3, 2.65, 309-10, 312., 315, 317-8,
Africa, 12.3, 130, 156, 195, 2.02., 2.11, 2.2.0-1, 32.0, 32.3, 331, 369-70, 376, 378-9, 412.,
2.2.6-30, 2.36, 2.46-7, 2.72., 330, 343, 346, 42.5, 447
350, 363, 368, 398-9, 403, 42.4, 437 Apulia-Calabria, 2.76
del Nord, 134, 146, 2.79 Aquileia, 2.45, 2.76-7, 303, 330, 343, 347,
Latina, 303 354,368
orientale, 355 Aquitania, 303
Proconsolare, 2.67-8, 2.70, 354 Aricanda, 2.14, 2.2.4
romana, 101, 2.71, 433 Arles, 2.2.9, 2.55, 2.75, 343, 349-50,
settentrionale, 159, 2.67, 405 Armenia, 160, 176-8, 182., 2.2.5, 2.62., 310,
Ailia (Aelia), 2.62., cfr. anche Gerusalemme 32.3, 379, 453
Alessandria d'Egitto, 2.8, 30, 76, 98, 101, Arverna (Clermont-Ferrand), 349
117, 12.2., 12.7, 136, 146, 154, 168-71, 173, Asia, 100-1, 103, 107, 12.3, 156, 190, 192.-3,
175, 179-80, 195, 198, 2.2.8, 2.30-1, 2.33, 2.02., 2.10, 2.2.4, 2.53, 2.63, 2.66, 353, 362.
2.40, 2.52., 2.55-6, 2.58-60, 2.63-6, 2.85, anteriore, 373
309-10, 312.-5, 318-2.0, 32.6, 331-2., 344, minore, 81, 84, 95, 100-1, 12.3, 165, 2.2.2.,
362., 365-6, 369-70, 376, 378, 380, 398-9, 2.63, 2.65-6, 2.90, 2.92., 315, 401
418, 42.2. Astifat, 177
Alpi, 354 Astorga, 350
Aluania (Albania), 176 Atene, 2.15-6, 362.
Amida, 366 Atlantico, 2.67
Amsterdam, 18 Atripe, 2.87
Anatolia, 176, 2.90 Austria, 305
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Auxerre, 303 Camuliana, 373-4


Axum, 179-80 Cana, 37, 453
Ayrarat, 177 Canopo, 2.89
Azerbaijan, 176 Cappadocia, 103, 196, 2.68, 338, 42.6, 42.8
Prima, 373
Capua, 2.76
Babilonia, 193, 442.-3
Caria, 362.
Baetica, 2.72.
Carnuntum, 2.2.0
Bafai, 2.70
Cartagine, 12.2., 130, 134, 2.02., 2.2.9, 2.48,
Baghdad, 32.4
2.55, 2.67-71, 309, 330, 354-5, 379, 400,
Balcani, 2.66, 353, 379
416, 42.3
Baleari, 355
Caspio, mare, 176
Basso Danubio, 2.77
Caucaso, 176, 182., 32.2.
Beirut (Berytos), 2.54, 2.61, 32.0
Celle, 2.85
Benevento,2.76,332.
Cesarea Marittima, 2.6, 65, 76, 100, 135-6,
Betania, 453
154, 170, 2.09, 2.49, 2.62., 418, 452.
Betlemme, 35, 40, 2.94, 301, 452.
di Cappadocia, 130, 177, 2.63, 2.91, 366
Bisanzio, 2.2.8, 2.63, 348
di Filippo, 61, 74
Bitinia, 81, 84, 191, 2.32., 454
Charris, 42.8
Bobbio, 305,353
Chenoboscia, 2.86
Bologna, 42.1, 42.7
Chersoneso, 375, 381
Bordeaux, 2.72., 452.
Cilicia, 76, 81, 100, 2.89
Bosforo, 101, 2.63
Cimitile, 42.6-7, 456-7
Bostra, 196
Cina, 2.3, 162.
Braga, 2.73, 351
Cipro, 69, 100, 2.52., 42.8
Britannia, 2.2.6, 2.36, 2.72., 338, 351-3
Cirenaica, 69, 171
Burdigala (Bordeaux), 452.
Cividale, 354
Byzacena, 2.69-70
Colbasa, 2.2.4
Colchide, 176, 178, 380
Cafarnao, 37, u5, 453 Colonia, 103, 165
Cagliari, 2.76, 451 Colonne d'Ercole, 101
Calabria, 2.76, 306 Corinto, 100, 104-7, 109, 12.2., 188, 393
Calama, 2.68 Corsica, 2.79, 355, 451
Calcedonia, 2.44, 2.57, 2.63, 2.66, 2.79, 2.89, Costantinopoli, 175, 2.2.8, 2.36, 2.39, 2.41,
2.93, 2.95, 309, 313, 315-2.0, 32.3, 32.6, 331, 2.43, 2.54-9, 2.63-7, 2.80, 2.88, 2.93, 309-15,
333, 343-6, 366-7, 370, 390 318-2.0, 32.3, 32.5-6, 32.8, 331-2., 342., 344,
Callinico, 94, 375 346-8, 353, 362., 365-7, 369-70, 373, 375-
Campania, 181, 2.76, 303, 42.6 81, 384, 418, 42.3, 430, 454
INDICE DEI LUOGHI

Dacia, 367 Francia, 18, 305, 452


Dafni, 425 Frigia, 123, 193, 362
Dalmazia, 279 Frigido, fiume, 245, 417
Damasco, 53-4, 140, 37 9
Dara, 375
Galazia, 105
Delfi, 100
Galilea, 36-7, 39, 46, 50, 63, 67, 71-2, 74,
Diospoli, 248
104,200
Duka, 294
Gallia, 156, 197, 226, 236, 272-5, 279,
Dura Europos, 165, 206, 401, 446
304, 330, 338, 340-1, 343-4, 346, 350,
Dvin, 177,323
352-3, 357, 403, 423, 428, 430, 451-3,
457
Ebro, fiume, 272 lugdunense, 193
Edessa, 161-6, 176, 178, 313, 317, 325, 373, meridionale, 81
376,379 romana, 348
Efeso, 98, 100-1, 139, 190, 209, 255, 257, Gallinara, isola, 303
263, 265, 279, 292, 309, 312-5, 318-9, Gangra, 318
328,343,362,384,430 Gargano, 448
Egitto, 34, 49, 69, 98, 101, 103, 117, 147, Gaulanitide, 37

149, 153, 159-60, 167-71, 179, 181, 193, Gaza, 295, 307, 428
195, 197, 221-2, 253, 255, 258-60, 268, Genesaret, lago, 37

284, 286, 288-9, 291, 301, 307, 310, Georgia, 160, 176, 178, 182, 262,310,338
Gerasa, 50
316-7, 320, 322, 326, 331, 355, 364, 366,
Germania,305,352
375-6, 379-80, 397, 403, 419, 428-9,
Gerusalemme, 37, 39, 43, 45-6, 48, 62-3,
453
Elia Capitolina cfi: Gerusalemme 65-6, 72, 74-84, 88-90, 97, 99-100, 107,
126, 128, 136, 170, 190, 193,195,215,228,
Elvira, 272
255-6, 259, 262, 293-4, 301, 309, 314-6,
Emesa, 198, 261, 379
370, 377, 379-80, 391, 393, 396, 404-5,
Ennaton, 289
418, 428-9, 451-3
Epidauro, 422
Getsemani, 64
Eraclea tracia, 264-5
Gévaudan, 450
Etiopia, 160, 179-80, 182, 310, 337
Gibilterra, 271
Eufrate, fiume, 446
Giordano, fiume, 36, 83, 88
Europa orientale, 20
Giuda, deserto, 294
. Giudea, 26, 29, 39, 50, 64-5, 76, 82-3, 148,
Faran, 294, 296 190,200
Fayyum, 170 Giura, 304
Filadelfia, 85, IOI, 152 Gomon, 293
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Grande Sirte, 267 Lidia, 362


Grecia, 100, w3, 214, 387 Ligugé, 303
Lione, 81, 129, 142, 156, 414
Lombardia, 332
Harclepool, 352
Lusitania, 272
Luxeuil, 353
Iberia, 176
Illirico, 222, 236
India, 23, w3 Mabbug, 317
ulcerior (Etiopia), 180 Macedonia, 100
Ippona, 268, 270, 304 Madaura,202, 268
Irlanda, 304, 338, 351 Maipherkat, 166
Israele, 40-2, 44-5, 47-8, 53, 55, 58, 61, 66, Maiuma, 290,294
71-2, 74-5, 77, Bo, 85, 88, 91, 97, u5, 137, Marmoutier, 274, 303
140, 142, 148, 150, 152-4, 214, 283, 379 Mauretania Caesariensis, 267
Istria, 277 Tingitana, 271
Italia, 20-1, 144, 236, 272, 279, 304, 341, Mediterraneo, 87, 90, 101, u4, 128, 133,
343-5, 347, 353, 357, 368, 428, 432, 457 159,165,169,171,173,185, 312-3, 356,428
annonaria, 276 Menouthis, 422
meridionale, 171, 448 Mesopotamia, 94-5, 101, 159-61, 166, 176,
settentrionale, 305, 402 181, 292-3, 297, 300, 379-80
suburbicaria, 276 meridionale, 165
Izla, monte, 299 orientale, 165
sasanide, 165
Milano, 181,220,223,227,239, 276-7, 283,
Kent, 352
Kolzim, monte, 285 303-4, 330, 341, 347, 368, 421, 437, 447
Kurdistan, 176 Monchosis, 287
Kyrros (Cirro), 261 Montecassino, 305
Morto, mare, 151, 294

Laodicea, 101, 149, 224, 261, 311


Lazica, 176, 381 Nag Hammadi, 34, II7
Lazio, 276, 448, 458, 460 Naim, 453
Leptis Magna, 270 Napoli, 276
Lérins (Lerino), 274-5, 304 Nazaret, 36-7, 40, 391, 452-3
Libia, 171,230,255,258 Neocesarea, 291
Licaonia, 100 Nero, mare, 176
Licia, 214 Nicea, 93, 166, 173, 178, 232, 241-3, 255-7,
Licopoli, 173, 221 260, 262-4, 274, 314-5, 319
INDICE DEI LUOGHI

Nicomedia, 2.2.0-1, 233, 254, 423 Picenum, 276


Nilo, fiume, 170-1, 364, 366 Pirenei, 273, 330, 350
Ninive, 379 Pisa, 276
Nisibi, 161-2, 165-6, 299, 317, 325 Pispir, 285
Nitria, 285 Po,276
Nola, 303, 448, 460 Ponto, w3, 115, 196, 263, 266
Nola-Cimitile, 456 Provenza, 350
Norico, 277
Northumbria, 352
Qennesre, 300
Nubia, 375
Qumran, 53-5, 61
Numidia, 268, 270

Raithou, 296
Orléans, 349 Ravenna, 256, 277, 332, 341, 343, 347
Osroene, 160-1, 164-6, 215
Reno, fiume, 330, 349
Rezia, 277
Palestina, 38, 74-5, 84, 87-8, 101, 133-4, Rimini, 236
147, 170, 220, 224, 2.2.8, 248, 259, 262, Roma, 28, 64, 69, 74, 76, 81-4, 92, 99-
289, 293, 301, 307, 316, 319, 328, 363, 100, 103, 107, 115, 117-8, 121-7, 129-30,
366-7, 384, 418, 428, 452-3 135, 142, 144-5, 156, 170-1, 175, 181, 187-
Panfilia, 100 90, 192-4, 196, 198, 202-3, 207, 209,

Pannonia, 277, 353 214, 216, 218, 221, 224, 226, 228-31, 233,

Panopolis, 313 239-40, 243-4, 246-8, 252, 255, 257-8,

Pavia, 330 263-7, 271, 275-80, 300-1, 309-10, 325,

Pbow, 287 330-4, 338, 341-51, 353, 357-8, 361, 365,


367-70, 377-8, 380-2, 398, 400-1, 403,
Pella, 83
405-6, 412, 420, 429, 435-7, 439-45,
Pelusio, 373
447-8, 452, 454-6, 458-60
Pentapoli, 255
Rosso, mare, 151, 179-80
Perea, 83
Rotterdam, 18
Pergamo, 101, 190
Rufiniane, 293
Persarmenia, 177
Persia, 161-2, 166, 176, 2IO, 238, 262, 297,
299, 310, 314, 322-3, 328, 363-4, 376-7, Salamina di Cipro, 252
380, 453 Samaria, 76, 99
mazdea, 177 Samosata, 178
sasanide, 166, 197, 221 Saragozza, 272
Persico, golfo, 161 Sardegna, 124, 276, 279, 355
Philae, 362 Sardi, IOI
STORIA DEL CRISTIANESIMO

Scete,285,289,295, 299 Tarso, 224


Scili, 134-5 Tebaide, 429
Scizia, 103 Tebe, 284, 286
Scozia, 304 Terracina, 451
Sefforis, 37 Tessalonica, 94, 240, 245, 255, 344, 346,
Seleucia, 100, 422 353, 379, 422
Seleucia-Ctesifonte, 161, 166-7, 309, 324 Tevere, fiume, 226
Serdica,222,253, 257,279 Teveste, 268
Sicilia, 276, 279, 343, 355 Thavatha, 295
Sinai, monte, 181, 293, 296, 428 Thracia, 353
Sion, monte, 76 Tiatira, 101
Siracusa, 276, 448 Tigray, 179
Siria, 39, 76, 81, 87-8, 99, 101, 103, 107, Tiro, 62, 180
114, 138, 156, 160-1, 171, 178, 181, 193, Toledo, 350-1, 390
222, 291-2, 297-8, 310,316,320,331,366, Tolosa, 351
376, 380, 397, 400-1, 403, 428 Tours, 303, 349, 422-3, 433, 457
orientale, 215, 404 Tracia, 236, 264-6
romana, 322 Transgiordania, 83
Siria-Mesopotamia, 300 Trento, 450
Sirmium, 353 Treviri, 103, 239, 273, 447
Smirne, 85, 101, rn8, 115, 121, 123, 127-8, Tuscia, 276
400,416
Sne (Latopoli), 286-7
Ulivi, monte degli, 64, 228, 294, 452
Spagna (Hispaniae), 99-rno, 130, 236,
Umbria, 276
271-3, 305, 330, 340, 343-4, 348, 350-1,
355,390,403, 452, 457
Spello, 225, 235 Valadapat (Edjmiatsin), 177
Squillace, 306 Val di Non, 450
Subiaco, 305 Veneto, 332
Suka, 294 Venezia, 220,277
Svizzera, 305 Vienne, 349
Syria Prima, 161, 261 Vouillé, 351

Tabennisi, 286, 366


Whitby, 352
Tabor, monte, 283, 453
Tagaste, 268, 304
Taron, 177 Yemen, 179
Gli autori

IMMACOLATA AULISA insegna Storia del cristianesimo antico presso l'Università di


Bari. Si interessa alla polemica tra Giudei e cristiani nell'antichità, alla cristianizza-
zione dell'Italia meridionale, alla diffusione del culto micaelico tra tarda antichità e
medioevo. Tra i suoi libri: (con Claudio Schiano) Dialogo di Papisco e Filone giudei
con un monaco (Bari loo5); Giudei e cristiani nell'agiografia dell'alto medioevo (Bari
loo9). Con Giorgio Otranto ha curato Santuari d'Italia. Puglia (Roma lOil) e/
santuari e il mare (Bari lo14).

PHILIPPE BLAUDEAU, dopo essere stato membro dell'École Française de Rome, è


professore ordinario di Storia romana presso l'Università d 'Angers e membro del)' In-
stitut Universitaire de France. È autore dei volumi: Alexandrie et Constantinople (45r-
49r). De l'histoire à la géo-ecclésiologie (Roma l0o6); Le Siege de Rome et l'Orient
(448-536). Étude géo-ecclésiologique (Roma lOil). Ha curato Exil et relégation: !es
tribulations du sage et du saint durant l'Antiquité romaine et chrétienne (I"-VI' s. ap.
J-C.), Actes du colloque organisé par le Cenere Jean-Charles Picard, Université de
Paris XII, Val-de-Marne, 17-18 juin loo5 (Paris loo8).

ALBERTO CAMPLANI insegna Storia del cristianesimo e delle chiese presso la Sapienza
Università di Roma e presso l'Istituto Patristico Augustinianum. I suoi campi di ricerca
comprendono i cristianesimi orientali in età tardoantica, e si estendono allo gnosticismo
e all'ermetismo di area egiziana e siriaca. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Scritti er-
metici in copto (Brescia lOoo); Atanasio di Alessandria. Letterefesta/i ( Milano loo3). Con
Giovanni Filoramo ha curato il volume Foundations ofPower and Conjlicts oJAuthority
in Late-Antique Monasticism (Leiden loo7) e con Paola Buzi Christianity in Egypt: Lite-
rary Production and Intellectual Trends (Roma lOI 1). È stato direttore della rivista "Studi
e Materiali di Storia delle Religioni" e attualmente dirige la rivista "Adamantius".

CLAUDIO GIANOTTO insegna Storia del cristianesimo e Storia delle origini cristiane
presso l'Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: L'enigma Gesù
(a cura di E. Prinzivalli, con E. Norelli e M. Pesce, Roma loo8); I Vàngeli apocrifi
(Bologna l009 ); Ebrei credenti in Gesù. Le testimonianze degli autori antichi (Milano
lOll); Giacomo,Jratello di Gesù (Bologna l013).
STORIA DEL CRISTIANESIMO

ADELE MONACI CASTAGNO insegna Storia del cristianesimo presso l'Università


di Torino. Si occupa in particolare del cristianesimo alessandrino e di storia del
discorso agiografico antico. Tra le sue pubblicazioni: Origene predicatore e il suo
pubblico (Milano 1987 ); Il diavolo e i suoi angeli. Testi e tradizioni {secoli 1-m)
(Fiesole 1996); L'agiografia cristiana antica. Testi, contesti, pubblico (Brescia lo10 ).
Ha curato: Origene. Dizionario: la cultura, il pensiero, le opere (Roma lOoo);
La biografia di Origene fa storia e agiografia, Atti del VI Convegno di Studi del
Gruppo Italiano di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina (Villa Ve-
rucchio/Rimini l004); Sacre impronte e oggetti "non fatti da mano d'uomo" nelle
religioni, Atti del Convegno Internazionale-Torino, 18-lo maggio lOIO (Alessan-
dria lou).

ANDREA NICOLOTTI è assegnista di ricerca presso il dipartimento di Studi storici


dell'Università di Torino. Si occupa di storia della liturgia antica e orientale e del
culto delle reliquie. È autore delle monografie: Esorcismo cristiano e possessione dia-
bolica fa 11 e m secolo (Turnhout lOII); I Templari e la Sindone (Roma lOII); From
the Mandylion ofEdessa to the Shroud ojTurin (Leiden lo14); Storia e leggende della
Sindone (Torino l015).

ENRICO NORELLI insegna Storia del cristianesimo delle origini presso l'Università
di Ginevra. Tra i suoi libri: A Diogneto (Milano 1991); Ascensio Isaiae. Commenta-
rius (Turnhout 1995); (con Claudio Moreschini) Storia della letteratura cristiana
antica greca e latina (l voli. in 3 tomi, Brescia 1995-96); Papia di Hierapolis. Espo-
sizione degli oracoli del Signore. I.frammenti (Milano loo5); Marie des apocryphes.
Enquéte sur la mère dejésus dans le christianisme antique (Genève loo9); La nascita
del cristianesimo (Bologna lo14). Sta ultimando un commento alle lettere d'Ignazio
di Antiochia.

EMANUELA PRINZIVALLI insegna Storia del cristianesimo e delle chiese presso la Sa-
pienza Università di Roma e presso l'Istituto Patristico Augustinianum. Si interessa
di storia dell'esegesi, storia delle dottrine teologiche, agiografia, storia sociale del cri-
stianesimo, filologia patristica. I suoi ultimi volumi, entrambi in collaborazione con
Manlio Simonetti, sono: Seguendo Gesu. Testi cristiani delle origini (voi. I, Milano
l010) e La teologia degli antichi cristiani (Brescia lOll).

GIANCARLO RINALDI ha insegnato Storia del cristianesimo presso l'Università di


Napoli L'Orientale. Si interessa della vicenda degli antichi cristiani nel quadro delle
culture e delle religioni dell'Impero romano, con particolare attenzione alla polemica
tra pagani e cristiani e alle controversie intorno alla Bibbia. Tra le sue pubblicazioni:
La Bibbia dei pagani (l voli., Bologna 1997-98); Cristianesimi nell'antichità. Sviluppi
storici e contesti geografici (Chieti loo8). Con Alberto Giudice ha curato Fonti docu-
mentarie per la storia del cristianesimo antico (Roma l014).
GLI AUTORI

ANDRÉS sAEZ insegna Teologia del canone e Teologia patristica presso l' Universidad
Eclesiastica San Damaso, Madrid. Suoi ambiti di ricerca sono i padri preniceni, la
cosiddetta tradizione asiatica in particolare, il rapporto tra Tradizione e Scrittura e
la teologia della filiazione nel primo cristianesimo. Ha appena pubblicato Canon y
autoridad en los dos primeros siglos. Estudio histdrico-teoltigico sobre la relacion entre la
Tradicitin y los escritos aposttilicos (Roma 2.015).

TERESA SARDELLA insegna Storia del cristianesimo antico e discipline storico-reli-


giose presso l'Università di Catania. I suoi studi riguardano temi di carattere stori-
co-istituzionale (il papato, i concili, la normativa ecclesiastica) e temi di argomento
storico-antropologico (la demonologia, la santità e il culto dei santi, la storia della
sessualità). Tra le sue pubblicazioni: Societa Chiesa e Stato nell'eta di Teoderico. Papa
Simmaco e lo scisma laurenziano (Soveria Mannelli 1998); (con Carlo Dell'Osso) I ca-
noni dei concili della chiesa antica. Decretali e concili romani. I canoni di Serdica (Roma
2.008). Tra gli ultimi saggi: Il corpo come linguaggio: tra teorie, pratiche e retorica {eta
martiriale e postmartiriale) (in "Officia Oratoris", 2.013); Teologia politica e norme ca-
noniche (in "Studia Ephemeridis Augustinianum", 140, 2.014).

FABRIZIO YECOLI insegna Storia del cristianesimo antico e Teoria delle scienze reli-
giose presso l' Université de Montréal. Tra le sue pubblicazioni, oltre a diversi articoli
sul monachesimo antico, si segnalano: Lo Spirito soffia nel deserto. Carismi, discerni-
mento e autorita dell'uomo di Dio nel monachesimo egiziano antico (Brescia 2.007 ); Il
sole e ilfango. Puro e impuro tra i Padri del deserto (Roma 2.007 ); La religione ai tempi
del web (Roma-Bari 2.013).

EWA WIPSZYCKA è professore emerito di Storia antica presso l'Università di Varsavia.


Storica, papirologa e archeologa, si interessa soprattutto di storia del cristianesimo in
Egitto. Tra le sue pubblicazioni: Les ressources et les activités économiques des églises en
Égypte du IV' au VIII' siècle (Bruxelles 1972.); Études sur le christianisme dans l'Égypte
de l'Antiquité tardive (Roma 1996); Moines et communautés monastiques en Égypte
(111'-VIII' siècles) (Warszawa 2.009 ).

Potrebbero piacerti anche