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Indice
Parte prima
Come nasce il cristianesimo
I. Gesù di Nazaret 33
di Enrico Norelli
Le fonti 33
Nascita e infanzia 35
Gesù il galileo 36
La cronologia di Gesù 39
Giovanni il Battista 40
Gesù, carismatico itinerante 42
I discepoli di Gesù 45
Il regno di Dio, gli esorcismi e le guarigioni 47
Gesù e la Legge 52
Purità, perdono, pasti 54
Parabole 56
Figlio dell'uomo e messia 58
Conflitto e morte 62
Bibliografia ragionata 67
8 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Cristianesimo e cristianesimi 97
Le vie dell'evangelizzazione 99
L'organizzazione interna delle chiese 103
Le pratiche di vita 109
Alla radice del conflitto teologico 112.
Parte seconda
Cristianesimo, società, istituzioni
9. Il monachesimo antico
di Fabrizio Vecoli
La difficile ricerca
Un fenomeno religioso
L'Egitto
L'Asia Minore
La Palestina e il Sinai 2.93
La Siria 2.97
L'Occidente latino 300
Bibliografia ragionata 306
INDICE II
I I. Il cristianesimo in Occidente
dalla fine dell'Impero ai regni romano-barbarici 32.9
di Teresa Sardella
Parte terza
Culto, ideali di santità, luoghi della devozione
Quali confini?
Insistendo sulla pluralità del cristianesimo nel corso di una vicenda bimil-
lenaria lo storico contemporaneo non fa che riprendere, in modo argo-
mentato e sine ira et studio, la percezione di una conflittualità interna che
fin dai primi sviluppi viene avvertita sia all'interno dei fedeli di Gesù, che
la vivono come dolorosa contraddizione rispetto ai suoi insegnamenti e
all'esigenza costantemente sentita di unità fraterna, sia fra gli osservatori
esterni, dai quali è intesa come debolezza intrinseca dei cristiani ma anche
come loro caratteristica. Questa pluralità si mantiene nel tempo nonostan-
te si accresca anche un patrimonio di dottrine, riti e pratiche condivise,
sfociando, nel secondo millennio, nella divisione delle diverse confessio-
ni cristiane. Vanificato in passato qualche tentativo di ristabilire l'unione
mentre prevaleva la reciproca delegittimazione, solo molto di recente essa
è stata reinterpretata come diversità da vivere in termini costruttivi di ar-
ricchimento reciproco, grazie alla nuova fase del movimento ecumenico,
proteso non più tanto alla ricerca dell'unità quanto al riconoscimento del
valore complementare delle diverse confessioni.
Alcuni caratteri spiegano la complessità del cristianesimo, almeno nella
sua configurazione maggioritaria, e la capacità di attrazione. Innanzitutto,
PRESENTAZIONE 17
Lo studio critico del cristianesimo, basato cioè sull'esame libero della ra-
gione, è stato propiziato dalla riflessione sugli effetti devastanti delle guer-
re di religione fra XVI e XVII secolo. Nello stesso contesto nasce la vera
e propria critica testuale biblica. Peraltro già in età umanistica, lungo il
corso del xv secolo, Lorenzo Valla, Bessarione e poi Erasmo, nel periodo
in cui si stava mettendo a punto lo studio filologico dei testi antichi, ave-
vano più o meno esplicitamente sostenuto che il testo biblico va studiato
ed emendato secondo le medesime regole che presiedono all'edizione di
qualsiasi altro testo. Ora, a distanza di una ventina di anni l'uno dall'al-
tro, escono il Tractatus theologico-politicus di Baruch Spinoza, pubblicato
anonimo ad Amsterdam nel 1670, e l' Histoire critique du texte de Nouveau
Testament di Richard Simon, edita a Rotterdam nel 1689: il primo può
essere posto all'origine della critica biblica, il secondo rappresenta la pri-
ma monografia sulla tradizione di un testo antico. Entrambi gli autori si
giovarono di apporti precedenti, ma la costruzione delle rispettive opere è
originale. Entrambi furono contrastati nell'ambito delle proprie comunità
religiose: Spinoza era ebreo, e aveva subito l'esclusione dalla sua sinagoga;
Simon invece era un prete oratoriano di Francia, poi espulso dalla con-
gregazione. Qui interessa sottolineare come la nascita del pensiero storico
critico sia inestricabilmente connessa allo studio scientifico della Bibbia e
come ciò abbia una inevitabile ricaduta ad ampio raggio sulla storiografia
del cristianesimo.
Dobbiamo dunque fare una duplice constatazione. In primo luogo nel
cristianesimo va riconosciuto il fattore preponderante per la strutturazio-
ne della società e della cultura occidentale, sia nel senso antropologico sia
in quello specifico, attinente cioè a tutte le espressioni della creatività. Il
fatto che lo sia stato in una interazione complessa con altri fenomeni, in
quanto derivato dall'ebraismo e indebitato nei confronti della civiltà gre-
co-romana in cui dapprima si inculturò, e che altre componenti abbiano
dato il loro contributo, nulla toglie a questa evidenza. In secondo luogo la
PRESENTAZIONE 19
nei rimandi interni, aiuto prezioso per la memoria. Le agili tavole crono-
logiche e alcune illustrazioni forniscono ulteriore aiuto.
Un'ultima cosa mi piace dire: lavori di questo tipo non vengono alla
luce se, oltre alla collaborazione scientifica, non si crea una corrente di
simpatia, di comprensione, di reciproco rispetto, fra autori e curatori e fra
i curatori tra loro. Degli autori parleremo alla fine dei singoli volumi. Agli
altri curatori, Marina Benedetti, Vincenzo Lavenia, Giovanni Vian, desi-
dero esprimere pubblicamente il mio grazie e ricordare la nostra amicizia,
la cosa più importante che resta. Di comune accordo, dedichiamo l'opera
alla memoria di una valente studiosa, Marilena Amerise, che troppo presto
ci ha lasciato.
Avvertenza Nei singoli volumi i curatori si sono attenuti redazionalmente agli usi
storiografici dei rispettivi periodi storici.
Introduzione al primo volume
di Emanuela Prinzivalli
Contenuto e struttura
dottrinali o rituali che siano - e a presentare una "verità" stabilita dal prin-
cipio. D'altra parte, lo storico, proprio perché reso attento alle continue
trasformazioni dell'oggetto di studio, non può irrigidire i percorsi storici
opponendo continuità e discontinuità, dovendo bensì considerare che essi
procedono secondo un duplice movimento di continuità/discontinuità.
Nella Presentazione (cfr. supra, p. 15) ho indicato il requisito minimo per
identificare ciò che appartiene al perimetro di una storia del cristianesimo:
che gli accori di questa storia condividano la convinzione che vede Gesù
(Cristo) come personaggio che offre la "salvezza" e facciano riferimento
a lui nella loro attività. Che per il primo periodo di questa storia non si
parlasse di "cristianesimo" e a volte neppure di "cristiani", perché i seguaci
di Gesù venivano altrimenti identificati, poco importa: nel discorso sto-
riografico i termini si usano con un certo grado di convenzionalità. L' im-
portante è che lo storico comprenda e illustri il proprium di ogni diverso
gruppo rispetto alla condivisione della convinzione minimale comune.
Le fonti cui attingere per la storia del cristianesimo, anche per la parte
antica, sono molte. Sono abbondanti (vangeli, lettere degli apostoli) per
quel che riguarda Gesù, segno dell'impatto della sua figura sui contempo-
ranei. La loro esclusiva provenienza per il I secolo da suoi seguaci (a parte
il caso discusso del cosiddetto Testimonium Flavianum, di cui si parlerà
nel volume) è una circostanza ciclicamente riproposta da alcuni per met-
tere in dubbio l'esistenza storica di Gesù. È una posizione suggestiva ma
ingenua, che non tiene conto del facto che gli storici romani non si sono
preoccupati di parlare degli eventi della Giudea sotto Ponzio Pilato, a pro-
posito del quale, se non fosse stata ritrovata una frammentaria iscrizione
romana a Cesarea Marittima che lo ricorda come prefetto della Giudea,
disporremmo esclusivamente di fonti giudaiche (Flavio Giuseppe e Filo-
ne). A maggior ragione le fonti romane contemporanee non ebbero alcun
motivo di occuparsi di un ebreo giustiziato, per giunta di oscura origine:
ma la riprova che le cose presto cambiarono è il fatto che all'inizio del II
secolo Ponzio Pilato è nominato da Tacito solo nel contesto in cui accenna
a Gesù e ai cristiani. Le contraddizioni fra le fonti cristiane che parlano di
Gesù sono normali proprio in ragione del loro numero, e anzi sono segno
INTRODUZIONE AL PRIMO VOLUME
Gli autori
Avvertenza
Il lettore noterà nel volume l'intercambiabilità nell'uso dei termini ebrei/Giudei. Per
il periodo di cui ci stiamo occupando il termine corrente è piuttosto "Giudei", come
spiega lo stesso Flavio Giuseppe (Ant. /ud. 1,46). Tuttavia, in italiano, per quanto
riguarda la trattazione della vita di Gesù, parlare di "Giudei" rischia di creare confu-
sione con gli abitanti della Giudea. Dunque ho preferito rispettare l'utilizzo che dei
due termini fanno gli autori dei vari capitoli, senza uniformare. Nel termine "Giudei"
si può individuare una maggior valenza emica, ma anche questa precisazione ha una
certa dose di arbitrio. I nomi dei popoli sono indicati in maiuscola, quelli dei gruppi
religiosi in minuscola.
Si sono evitate, per quanto possibile, le abbreviazioni. L'opera di Ireneo Contro
le eresie (adversus haereses) è abbreviata in adv.haer. La Storia ecclesiastica di Eusebio
(Historia ecclesiastica) è abbreviata in h.e. Altre abbreviazioni sono di facile sciogli-
mento.
La traduzione italiana delle parti scritte da Andrés Saez e da Philippe Blaudeau è
mia.
Bibliografia essenziale
Segnalo due recenti e ampie introduzioni generali alla scoria del cristianesimo antico:
i primi tre volumi del!' Histoire du christianisme, sous la direction de J.-M. Mayeur,
C. Pietri, L. Pietri, A. Vauchez, M. Venard, Desclée, Paris 1995-2.000 (trad. it. Storia
del cristianesimo. Religione, politica, cultura, Boria-Città Nuova, Roma 2.000-03) e il
primo volume dell' Histoire générale du christianisme des origines au XV' siede, sous
la direction de J.-R. Armogathe, P. Montaubin, M.-Y. Perrin, Paris 2.oIO. Utili anche
i tre volumi de Il cristianesimo. Grande atlante, direzione scientifica di G. Alberigo,
G. Ruggieri, R. Rusconi, Garzanti, Torino 2.006, e i due volumi de Il cristianesimo.
(,'rande dizionario, di P. Coda, G. Filoramo, Garzanti, Torino 2.006. Di carattere sin-
tc.:tico e con ricca disamina delle fonti letterarie M. SIMONETTI, Il Vangelo e la sto-
ri,1. Il cristianesimo antico (secoli I-IV), Carocci, Roma 2.010. Lo studio della lettera-
tura cristiana è strettamente complementare a quello della scoria del cristianesimo:
c. MORESCHINI, E. NORELLI, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina,
, voli., Morcelliana, Brescia 1995 e ristampe; M. SIMONETTI, E. PRINZIVALLI, Storia
della letteratura cristiana antica, EDB, Bologna 2.oIO e ristampe (da consultare anche
per l'elenco degli strumenti bibliografici e dei repertori di fonti). Altri strumenti utili:
A. DI BERARDINO (a cura di), Nuovo dizionario patristico e di antichita cristiane,
, voli., Marietti, Casale Monferrato 2.007, tradotto in più lingue; ID. (a cura di),
30 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Atlante storico del cristianesimo antico, con la collaborazione di G. Pilara, EDB, Bo-
logna 2010; A. GIUDICE, G. RINALDI (a cura di), Fonti documentarie per la storia del
cristianesimo antico, Carocci, Roma 2014.
Sul problema della nascita del cristianesimo cfr. la discussione in M. PESCE, Da
Gesù al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2011; cfr. anche D. MARGUERAT, E.JUNOD,
Qui a fondé le christianisme?, Labor et Fides, Genève 2010; E. PRINZIVALLI, Cristiane-
simo/Cristianesimi nell'antichita, in "Augustinianum~ 52, 2012, pp. 65-83; E. NORELLI,
La nascita del cristianesimo, il Mulino, Bologna 2014. Per un'ampia riflessione sullo
statuto della storia del cristianesimo, G. LETTI ERI, Un dispositivo cristiano nell'idea di
democrazia? Materiali per una metodologia della storia del cristianesimo, in A. Zam-
barbieri, G. Otranto (a cura di), Cristianesimo e democrazia, Atti del I Convegno di
studi organizzato dalla Consulta Universitaria per la Storia del Cristianesimo e delle
Chiese (Pavia, 21-22 settembre 2009 ), Edipuglia, Bari 2011, pp. 19-134.
Per alcune delle fonti menzionate nel)' Introduzione: EUSÈBE DE CÉSARÉE, Hi-
stoire Ecclésiastique. Commentaire, Tome I: Études d'introduction, sous la direction
Le fonti
Conosciamo Gesù di Nazaret perché un certo numero di quelli che lo
frequentarono furono convinti che attraverso di lui il Dio d'Israele fosse
intervenuto in maniera unica e decisiva. Trasmisero perciò ricordi relativi
a lui - incluse interpretazioni diverse della sua persona - che divennero
frammenti di memoria, cioè di un passato che vari gruppi di seguaci co-
struivano come riferimento per la loro comprensione di sé e come norma
di vita. Poiché la morte di un inviato divino scandalizzava, la si raccon-
tò in forma cale da mostrare che corrispondeva a profezie contenute nel-
le Scritture, e dunque alla volontà di Dio; il racconto fu legato a quello
dcli' istituzione del pasto rituale comune e fu conservato là dove i gruppi
che si richiamavano a lui celebravano il loro culto (cfr. CAP. 13, p. 392). Gli
altri ricordi furono trasmessi sotto forma di brevi unità: un miracolo, una
controversia, un detto o una parabola, utili nel contesto sia della missio-
ne con la quale i credenti in lui vollero proseguire la sua opera, sia della
vita dei loro gruppi. Ne troviamo già nei più antichi documenti cristiani
conservati, le lettere dell'apostolo Paolo, nella prima metà degli anni 50.
Si formarono piccoli raggruppamenti di queste unità e progressivamente
furono messi per iscritto. Poteva accadere che le parole di Gesù, servendo
da norma, venissero attualizzate, talvolta inventate.
Chi attribuiva importanza decisiva per la "salvezza" alle parole di Gesù
ne compilava raccolte. Ma si cominciò anche a scrivere narrazioni della sua
attività; la più antica a noi nota è il libro, composto verso il 70, che notizie
esterne, dall'inizio del II secolo, presentano come opera di un Marco, col-
laboratore dell'apostolo Pietro. Il libro comincia con la frase «Inizio del
vangelo di Gesù Cristo», dove "vangelo", come già nelle lettere di Paolo,
significa l'annunzio di Gesù, in senso soggettivo e oggettivo: in seguito
34 STORIA DEL CRISTIANESIMO
greca. Sembra che per un certo numero di detti risalga a fonti diverse dagli
altri vangeli a noi noti e abbia quindi valore autonomo; d'altra parte, la
sua forma attuale risente di un'intensa reinterpretazione del messaggio di
Gesù, legata a sviluppi teologici certamente posteriori a lui. Molto meno
usato per la ricostruzione del "Gesù storico" è il Vangelo secondo gli Ebrei,
di cui restano solo frammenti riportati da autori cristiani; ma essi sembra-
no indipendenti dagli altri vangeli. Infine, del Vangelo di Pietro resta una
parte con un racconto leggendario della passione, morte e resurrezione;
qualche studioso ha cercato di ricavarne il più antico racconto della pas-
sione, ma è una tesi poco verisimile.
Nascita e infanzia
Gesù il galileo
Marco afferma che «da Nazaret di Galilea» Gesù andò a farsi battezzare
da Giovanni (1,9) nel Giordano, e lo designa spesso come Nazarenos (Mc
1,24; 10,47; 14,67). Matteo (2,23; 26,71) lo qualifica di Nazoraios, mentre
Luca usa entrambe le forme (la prima in Le 4,34; 24,19, la seconda in Le
18,37, poi negli Atti). Giovanni (18,5-7; 19,19) usa solo Nazoraios. Q non
contiene né il nome di Nazaret, né l'appellativo in alcuna forma. Alcuni
studiosi vorrebbero collegare questo appellativo al ne~er, 'germoglio', di Is
11,1 (cui allude Mt 2,23), che era interpretato in senso messianico. Comun-
que, Matteo e Luca connettono il termine con Nazaret come luogo dal
GESÙ DI NAZARET 37
quale Gesù ha cominciato (Mt 21,u). Mc 6,1 presuppone che vi sia nato, e
nello stesso senso va Gv 1,45.
Nazaret non è menzionata né nella Bibbia ebraica, né nelle fonti giu-
daiche non cristiane prima del III secolo. Per il tempo di Gesù, gli arche-
ologi calcolano non più di 400 abitanti. Era situata a circa 400 metri di
altitudine e a poco più di 5,5 chilometri a sud-est di Sefforis, che Erode
Antipa aveva ampliata e fortificata tra il 4 a.C. e il 19 d.C., facendone la
prima città della Galilea (8.000/12.000 abitanti). È possibile che il padre
di Gesù abbia partecipato, assistito dal figlio, ai lavori di costruzione. Gesù
può dunque avere avuto contatti con Sefforis, ma durante la sua attività
pubblica ha evitato le città. Dopo il distacco di Gesù dalla famiglia, la tra-
dizione sinottica registra una sola visita a Nazaret (Mc 6,1-6 e paralleli),
in occasione della quale gli abitanti tengono nei suoi riguardi un atteggia-
mento molto critico ed egli «lì non poteva compiere nessun prodigio»;
un insuccesso del genere non sarà stato inventato. È plausibile che Nazaret
abbia conservato diffidenza nei confronti di un paesano che si era allon-
tanato.
L'attività di Gesù si svolse largamente nei villaggi della Galilea. Marco,
seguito da Matteo e Luca, distingue due periodi: un'attività in Galilea,
con puntate nelle regioni circostanti, e pochi giorni a Gerusalemme, verso
la festa di Pasqua, durante i quali Gesù è arrestato e condannato a morte.
Questa opposizione sembra una costruzione di Marco. Giovanni (2,13 e
2.3; 6,4; da 11,55 in poi) fa agire Gesù in Galilea ma include almeno tre Pa-
sque a Gerusalemme, il che significa che l'attività di Gesù sarebbe durata
più di due anni; ma anche questo schema ha le sue ragioni teologiche.
Che Gesù abbia svolto gran parte della sua attività in Galilea è atte-
stato dall'accordo di Marco (1,21; 2,1; 6,45; 8,10.22; 15,40.47; 16,1) e del
materiale Q (Q/Lc 10,13-15), cui si aggiungono Luca (Nain, 7,u-16) e Gio-
vanni (Cana, 2,11). Fra le località intorno al lago di Genesaret frequenta-
tl'. da Gesù spicca Cafarnao (Mc 1,29-34; 2,1-12; Q/Lc 7,10; Mt 17,24-27 ),
al confine tra la Galilea e la Gaulanitide, il territorio di Filippo, con una
popolazione massima di 1.700 abitanti. Vi si conserva un resto di abita-
zione, con un vano ampliato, sembra a metà del I secolo, forse per servire
a riunioni. Vi figurano graffiti in aramaico, ebraico, greco, latino e siriaco,
nonché disegni di una croce e una barca, i quali mostrano che, almeno dal
III secolo, quello spazio rivestiva uno speciale significato per dei credenti
in Gl:sÙ: vari studiosi ammettono la possibilità che già nel I secolo venisse
localizzata lì la casa di Pietro.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
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La Palestina al tempo di Gesù (da G. Filoramo, a cura di, Storia delle religioni, voi. n:
Ebraismo e cristianesimo, Latcrza, Roma-Bari 1995).
GESÙ DI NAZARET 39
La cronologia di Gesù
Secondo Le 2,1-2, Gesù nasce sotto l'imperatore Augusto (37 a.C.-14 d.C.),
e sia Luca sia Mt 2 convergono nel situarne la nascita sotto Erode il Gran-
de. L'altro elemento di datazione in Luca, il censimento indetto dal legato
di Siria Quirinio, è invece incompatibile con il regno di Erode, perché av-
venne dieci anni dopo la morte del re, databile agli inizi del 4 a.C. (Flavio
Giuseppe, Ant. Iud. 17,167.213; Beli. !ud. 2,IO ). Luca usa il censimento per
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Giovanni il Battista
il Battista e che avrebbe svolto un ruolo decisivo nel giudizio. Che questo
personaggio fosse Gesù è un'interpretazione dei seguaci di quest'ultimo e,
forse, già di Gesù stesso; discepoli di Giovanni hanno continuato a esistere
e a battezzare durante l'attività di Gesù e in concorrenza con lui e con i
suoi discepoli, come pure dopo la morte di Gesù. Certamente storico è un
nesso personale tra Giovanni e Gesù.
Infatti, perché i discepoli di Gesù, convinti che il loro maestro non
avesse peccati, avrebbero dovuto inventare che si era sottoposto a un rito
di espiazione? Inoltre, i testi mostrano vari tentativi di spiegare perché
Gesù si fosse fatto battezzare (per esempio Mt 3,14-15): di conseguenza, il
suo battesimo è un dato autentico. Giovanni e Gesù condividono il pun-
to di partenza: l'intervento finale di Dio è imminente, Israele è soggetto
alla collera del giudizio, ma Dio prende l'iniziativa di offrigli un'ultima
possibilità. È sul carattere di questa iniziativa, e sulla conseguente com-
prensione del presente, che le loro strade si dividono; ma Gesù ha sempre
riconosciuto al Battista un ruolo voluto da Dio. Il Vangelo secondo Gio-
vanni (3,22-23) sembra presupporre che Gesù si sia mosso qualche tempo
nella cerchia del Battista e che abbia impartito anche lui il battesimo, con i
propri discepoli, prima dell'imprigionamento del Battista. Sia Marco che
Q hanno connesso l'inizio dell'attività autonoma di Gesù con la fine di
quella di Giovanni.
Il distacco di Gesù da Giovanni sarà stato causato da una propria
specifica vocazione, forse maturata progressivamente, eventualmente
favorita da esperienze vissute in stati modificati di coscienza, delle quali
le fonti hanno conservato indizi. Nell'universo culturale di Gesù si am-
metteva che il mondo fosse popolato, oltre che dagli esseri visibili, da en-
tità spirituali invisibili, dotate di poteri superiori nonché di conoscenze
inaccessibili agli umani, ma importanti per il controllo della condizione
umana; una parte di esse può essere rivelata a determinate persone me-
diante forme di comunicazione diversamente codificate nelle varie cultu-
re. Una delle più comuni è la visione, accompagnata o no da comunica-
zione uditiva. Secondo la forma più antica disponibile del racconto (Mc
1,9-11), in occasione del suo battesimo Gesù ha avuto una rivelazione visi-
va e uditiva, relativa alla sua "vera" condizione; i contenuti della visione e
il messaggio udito sono stati modellati diversamente nelle varie versioni
del racconto. Un'altra esperienza visionaria è in Le 10,18 dove Gesù di-
chiara ai discepoli « Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore»:
prendere una simile dichiarazione come una semplice metafora è una
STORIA DEL CRISTIANESIMO
dunque non può amare alcune sue creature più di altre. Il che non significa
che Dio accetti il male: Gesù conserva la nozione di giudizio, ma questo
sarà la conseguenza del comportamento di chi ha rifiutato l'amore divino.
Mentre il Battista attribuisce a Dio l'iniziativa di dare a Israele un'ulti-
ma possibilità di convertirsi, Gesù gliene attribuisce un'altra: cominciare
a stabilire in questo mondo il suo regno senza aspettare che gli umani si
convertano, e ancora in mezzo ali' azione delle forze del male.
Alla facile obiezione che l'amore indiscriminato di Dio verso tutti è
incompatibile con le ingiustizie e i mali della condizione umana la ri-
sposta di Gesù sta nella scelta di vita. Essa presuppone una fiducia totale
nell'amore di Dio, che può essere sperimentato e testimoniato solo nel-
la rinunzia a tutti gli strumenti di autodifesa diversi dalla certezza che
Dio ama sempre e comunque le sue creature e non le abbandona. Ora,
però, i mezzi ai quali si rinunzia sono quelli che strutturano e tengono
insieme una società. Di qui una tensione intrinseca tra la pratica di vita
di Gesù e quelle che organizzano e perpetuano una società, incluso il
sistema di norme morali. Lo attestano parole che sembrano violare i
principii più sacri delle relazioni umane. Così Q/Lc 14,26, che si può
ricostruire così: «Chi non odia padre e madre non può essere mio di-
scepolo, e chi non odia figlio e figlia non può essere mio discepolo». Un
simile precetto scuoteva i fondamenti della società e dell'etica e seguirlo
significava rinunziare a quella considerazione sociale che era fondamen-
tale in una società in cui la personalità era "diadica", cioè costruiva la sua
identità inseparabilmente da quella del gruppo e sulla base del ricono-
scimento altrui.
Gesù non permette che i legami familiari prevalgano sull'urgenza della
chiamata. È quanto esprime un episodio di Q (Q/Lc 9,59-60): «Un altro
gli disse: "Signore, permettimi prima di andare e seppellire mio padre. Ma
lui gli disse: "Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti"». La
sepoltura di un morto era un dovere primario, a maggior ragione quella
di un defunto della famiglia, che prevaleva anche sulle esigenze di purità
di un sacerdote (Lv 21,2.-3); eppure, per Gesù, neanche la sepoltura dei ge-
nitori, che rientrava nel quarto comandamento, prevale sull'urgenza del
regno di Dio. Così le strutture familiari possono venire disarticolate in
favore di nuove forme di aggregazione, anche se Gesù frequenta le "case",
cioè le famiglie. Anche in questo caso si tratta di autostigmatizzazione.
Tale urgenza era legata al modo in cui Gesù concepiva il presente, sul quale
torneremo.
GESÙ DI NAZARET 45
I discepoli di Gesù
Gesù non opera in solitudine, ma ha sia discepoli che condividono la sua
forma di vita, sia una più larga cerchia di adepti. Riunisce intorno a sé un
gruppo di persone legato da relazioni di uguaglianza: un gruppo il cui stile
di vita vuol essere dimostrativo della possibilità di un'esistenza colletti-
va fondata non su rapporti di dominio, ma sul perdono reciproco come
segno dell'appartenenza a uno spazio simbolico aperto dall'amore e dal
perdono di Dio. Esso costituisce il nucleo della nuova realtà del regno.
Discepoli, apostoli e Dodici non sono equivalenti. In vari modi, cucce le
fonti hanno conservato memoria del facto che Gesù aveva un gruppo di
discepoli i quali condividevano il suo stile di vita. Le modalità con le quali
si diventava suo discepolo sono state stilizzate: Marco (1,16-20; 2,14) narra
l'adesione dei primi discepoli a Gesù in maniera incompatibile con Gio-
vanni (1,31-51). In entrambi i casi, ricordi storici sono stati rimodellaci in
racconto sui primi discepoli, dunque esemplare.
La più antica attestazione dell'esistenza del gruppo dei Dodici è in
un'arcaica formula di fede citata da Paolo: il Risorto « apparve a Cefa e
quindi ai Dodici» (1 Cor 15,5). Ma Paolo non li menziona altrove. Evo-
cando la sua prima visita a Gerusalemme verso il 35, narra di aver incontra-
to solo Pietro e Giacomo, il fratello del Signore (Gal 1,18-19 ); se un collegio
dei Dodici avesse retto quella ekklesia (sul termine cfr. CAP. 3, p. 105), non
avrebbe mancato di incontrarlo. Il materiale Q non menziona i Dodici.
Gesù sembra riferirsi ai Dodici quando promette i dodici troni per giudi-
care le dodici tribù di Israele (Mc 19,28; Le 22.,30) ma secondo molti stu-
diosi è dubbio che il detto provenga da Q Per Marco (3,14-15), i Dodici
sono stati scelti per fare quel che fa Gesù: annunziare il regno ed espellere
i demòni. Non appare fondata l'opinione secondo la quale il gruppo dei
Dodici si sarebbe formato solo dopo la morte di Gesù, forse sulla base di
un'apparizione del Risorto. La loro rapida scomparsa da Gerusalemme,
attestata da Paolo, mostra che non erano intesi come organo di governo.
Con ogni probabilità simboleggiano le dodici tribù d'Israele, dunque il
popolo nel suo insieme. La riunione d'Israele è uno dei motivi centrali
ddl'escatologia giudaica del tempo di Gesù. La costituzione dei Dodici
sembra quindi un atto simbolico simile a quelli degli antichi profeti: si-
gnifica che il regno di Dio, inaugurato nel ministero di Gesù, era destinato
a tutto Israele. La diffusione del messaggio al di fuori d'Israele ha verisi-
111ilmente colto presto importanza a questa funzione e dunque al gruppo.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
che al suo carisma. In particolare, la parola sui troni (Mt 19,2.8; Le 2.2.,30)
implica che i Dodici parteciperanno alla funzione di giudice che il Salmo
di Salomone (17,2.6) attribuisce al messia. Insieme con Gesù, dunque, sono
coinvolti nel processo di realizzazione del regno di Dio che - come ve-
dremo - è in corso ed è indissociabile dallo stile di vita di Gesù e dei suoi
seguaci. Gerd Theissen (in Theissen, Merz, 1999, pp. 2.72., 633) parla per-
tanto di « messianismo di gruppo». Il gruppo di Gesù opera criticamente
rispetto alle istituzioni esistenti e lo fa come gruppo - più che marginale
- interstiziale, in quanto si sviluppa negli interstizi tra le strutture paren-
tali e quelle istituzionali più ampie, e la capacità di aggregazione di Gesù
significa che egli riesce a soddisfare bisogni dei seguaci, percepiti come es-
senziali, attualmente non soddisfatti dalle istituzioni (Destro, Pesce, 2.008,
pp. 153-6). Che, contrariamente ai casi di altri pretendenti messianici in
Israele, l'impresa di Gesù non sia naufragata con la sua morte è dipeso
certamente anche dalla sua capacità di selezionare discepoli intelligenti e
interessati a istanze di cambiamento e di averli istruiti e associati alla sua
pratica di vita, mettendoli in grado di reagire alla sua morte elaborando e
rilanciando il suo messaggio.
Le fonti considerano l'annunzio del regno di Dio (basi/eia tou theou) come
il cuore del messaggio di Gesù. Mc 1,15 lo riassume così: «Il tempo è com-
piuto e il regno di Dio è diventato vicino; convertitevi e credete al vangelo».
In Q/Lc 10,9.11 i discepoli sono inviati ad annunziare: «È diventato vicino
a voi il regno di Dio» (il parallelo Mt 10,7 ha: «È diventato vicino il regno
dei cieli»; l'uso dei «cieli» per sostituire il nome di Dio è una pratica ebrai-
ca cara a Matteo e non implica differenza di significato). Il regno appare
centrale anche in Q, nel materiale proprio a Luca e in quello proprio a Mat-
teo. Nelle lettere autentiche di Paolo l'espressione «regno di Dio» ricorre
sette volte; in Giovanni solo due. Il regno (per lo più senza specificazione)
è anche ben attestato nel Vangelo secondo Tommaso. Dunque, praticamente
tutte le fonti più antiche conoscono la nozione, che i vangeli mettono co-
stantemente in bocca a Gesù e di cui la tradizione sinottica fa il centro del
suo messaggio; già in Paolo, poi in Giovanni, nel Vangelo secondo Tommaso e
in altre fonti del II secolo tale idea diviene rara ed è variamente reinterpreta-
ta, il che mostra che non è stata attribuita retroattivamente a Gesù.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Gesù e la Legge
Le fonti tematizzano a più riprese la questione del rapporto tra Gesù e
la Torah, un termine tradotto abitualmente con Legge, ma meglio sareb-
be 'insegnamento', che corrisponde al Pentateuco. Ciò è dovuto in buona
parte agli sviluppi posteriori alla sua morte, quando l'adesione di molti
GESÙ DI NAZARET 53
non ebrei alla fede in Gesù pose il problema se si dovesse obbligarli a os-
servare la Legge. Peraltro, le modalità di cale osservanza erano discusse:
anche era i farisei, le varie scuole non avevano la stessa interpretazione dei
precetti (halakha, alla lettera 'cammino'); al tempo di Gesù, le due prin-
cipali erano quelle di Hillel e di Shammai. Il gruppo che viveva a Qumran
aveva una propria halakha, assai rigorosa.
Non ci sono pervenute dichiarazioni di principio di Gesù sulla Legge
o sui criteri della sua osservanza, né è probabile che ne abbia facce. Era un
ebreo che riteneva che la Legge fosse un privilegio donato da Dio a Israele,
la cui osservanza andava da sé. Benché alcuni storici lo assimilino al mo-
dello di un rabbi, le fonti più antiche non ci permettono di dire che la sua
principale occupazione fosse l'interpretazione della Legge. In quanto cari-
smatico, era però naturale che potesse essere interpellato al riguardo. Così
lo rappresentano alcuni episodi: in Mc 10,17-2.2., a un giovane che gli chie-
de cosa debba fare per ereditare la vita eterna, Gesù risponde enumerando
i comandamenti; in Mc 12.,2.8-31, a una persona che gli chiede quale sia il
primo comandamento, risponde con lo shema' (Dc 6,4-5), il nucleo della
confessione di fede di un ebreo, cui fa seguire il comandamento dell'amo-
re del prossimo, Lv 19,18.
In cerci casi la probabilità di risalire alla posizione di Gesù è buona, per
esempio sul divorzio. Nel contesto di Gesù, era un ripudio da parte del
marito ed era semplicemente presupposto; se ne regolavano le modalità
(Dc 2.4,1-4) e le scuole discutevano sulle ragioni valide. Un cesto ritrovato
a Qumran (Documento di Damasco 4,2.0-2.1) presenta invece una halakha
restrittiva, condannando un secondo matrimonio dell'uomo dopo il divor-
zio. A Gesù viene attribuito un detto sul divorzio da diverse fonti indipen-
denti l'unadall'altra: (1) Q/Lc 16,18 = Mc 5,32.; (2.) Mc 10,11; (3) Paolo, 1 Cor
7,10-11. La ricostruzione della forma più antica mostra che egli ha proibito
nettamente il divorzio. Come motivazione, in Mc 10,6-8 Gesù cita i passi
di Gen 1,2.7 e 2.,2.4. Gli esegeti ritengono questa prima parte dell'episodio
di Marco di incerta storicità e originariamente indipendente dal detto di
Mc 10,11. Tuttavia, Gesù non è isolato nell'appello all'ordine della creazione
\ancito dalla Genesi come criterio fondamentale contro il divorzio, perché
anche i qumraniti fondavano il divieto di divorzio su Gen 1,2.7. D'altra par-
te, Gesù può ben aver pensato che la presenza del regno comportasse il ri-
torno all'ordine originario della creazione, così che il richiamo a Gen 1,2.7 e
2,24 può risalire a lui. In tal caso, si manifesterebbe una coerenza tra questa
Quanto alle norme di purità, bisogna essere cauti perché la loro osservan-
za fu discussa nei primi gruppi di credenti in Gesù; ciò significa che egli
non le aveva infrante né aveva prescritto di infrangerle, ma che il problema
divenne acuto via via che dei non ebrei aderivano alla fede in lui. Mol-
te parole attribuite a Gesù a proposito della purità devono dunque essere
state elaborate in cale contesto. Tuttavia, è certo che egli ebbe rapporti e
praticò la comunione di tavola con persone che in base alla Legge erano
considerate impure, come i collaborazionisti che riscuotevano le imposte
per l'autorità straniera e le donne che, per qualche motivo, erano etichet-
tate come prostitute.
Gesù ha certamente accolto la nozione della purità, onnipresente nel
suo contesto. Ma per lui non è l'impuro che trasforma il puro quando en-
tra in contatto con esso, contaminandolo, bensì il contrario; il puro, la cui
fonte è la purezza assoluta che è Dio, venendo a contatto con l'impuro lo
GESÙ DI NAZARET 55
rende puro, perché Dio non può essere sconficco dall'impurità. Si è parla-
to al riguardo di concezione offensiva della purità, ed essa è coerente con
quanto abbiamo già osservato: Dio prende l'iniziativa di liberare Israele -
e, in prospettiva, gli esseri umani - dal male, e invia Gesù a portar loro non
solo la notizia, ma la realcà di questo facto. Abbiamo visco questa realtà
manifestarsi con le guarigioni e gli esorcismi; fondamentale è anche la pra-
tica dei pasci. Secondo Q/Lc 7,18-19, Gesù non si astiene dal cibo e dalla
bevanda e mangia con le persone giudicate impure, che un uomo prossimo
a Dio non dovrebbe avvicinare. I pasci di Gesù disarticolavano le regole
sociali ed erano collegaci alla prospettiva del regno come banchetto. Come
guarigioni ed esorcismi, anche i pasci sono luoghi di realizzazione del re-
gno. Non a caso, con guarigioni e pasci si connettono episodi di perdono
dei peccaci (Mc 2.,1-12. per le prime; Le 7,36-50 per i secondi), perché nel
presente si entra nel regno attraverso quel perdono. Il tema del peccato e
della sua eliminazione preoccupava le varie forme di giudaismo del tempo.
Il gruppo di Qumran legava impurità e peccato, diversamente da altri in
Israele; così pure, sembra, Giovanni Battista, che coglieva l'impurità con
il battesimo.
Gesù mantenne la distinzione era puro e impuro, ma modificando-
la proprio a partire dal rapporto era impurità e trasgressione: nulla di
ciò che esiste fuori dell'uomo può renderlo impuro, ma solo il male che
l'.g!i compie (cfr. Mc 7,15). Da questo peccato/impurità non ci si libera
mediante riti, ma accettando il perdono offerto da Dio attraverso Gesù
l'. praticando a propria volca il perdono. Gesù dev'essersi fondaco sull'i-
lka del giubileo, l'anno nel quale si condonavano i debiti (Lv 2.5): nel
giudaismo si era già rappresentato il tempo della fine come un giubileo
nd quale Dio avrebbe condonato cucci i peccaci, idea ripresa da Gesù ma
con il tracco originale della convergenza era la nozione di questo giubileo
l'. quella di regno di Dio. Ciò sembra aver condotto Gesù ad accettare i
vari tipi di sacrificio praticaci nel giudaismo, salvo quello per il perdo-
no dei peccaci che Gesù collegava con alcre pratiche, in particolare con
il nuovo sistema di relazioni sociali fondaco sul condono reciproco dei
debiti a imitazione del condono "giubilare" da parte di Dio. Ma questo
condono aveva già luogo nel!' azione di Gesù. Come vedremo, nei suoi
ultimi giorni Gesù ha probabilmente compreso che la sua morte era im-
tninente, ma è improbabile che l'abbia incesa come mezzo di perdono
lki peccaci; deve avere invece considerato la propria attività come luogo
in cui Dio offriva questo perdono. La conseguenza era l'ingresso in una
56 STORIA DEL CRISTIANESIMO
nuova logica di vita, che entrava in collisione con quella corrente ma che
Gesù proponeva come la logica di Dio.
Parabole
Non era una logica che si potesse provare con argomentazioni. Strumento
privilegiato per comunicarla sono le parabole; sono assenti dal Vangelo
secondo Giovanni ma nessuno studioso mette in dubbio che Gesù se ne
sia servito. Il termine greco parabole, il cui senso originario è 'paragone',
è stato usato nella traduzione greca della Bibbia, detta dei Settanta, per
rendere l'ebraico mafal, un enunciato o un racconto che esige un'inter-
pretazione. Gli studiosi moderni hanno distinto due tipi: la similitudine,
che consiste essenzialmente nello spiegare qualcosa per analogia con una
situazione tipica, come nelle parabole della crescita del regno; e la para-
bola propriamente detta, racconto dove il messaggio è comunicato dalla
situazione che la storia costruisce. Nessuno dei due tipi è invenzione di
Gesù; la tradizione rabbinica contiene numerose parabole, e un esempio
biblico famoso è la parabola narrata dal profeta Nathan al re Davide in 2.
Sam 12.,1-15. La parabola è congegnata in modo da porre un problema e
indurre l'ascoltatore a prendere posizione. Quando si è schierato, essa lo
sorprende mettendo radicalmente in questione la sua opzione, ma gli offre
anche una via d'uscita.
Prendiamo due esempi. Nella parabola detta tradizionalmente del Fi-
glio prodigo (Le 15,11-32.), il figlio minore che abbandona la casa si rende
colpevole nei confronti dell'onore del padre e della famiglia; ma anche
il padre si comporta in maniera sorprendente, a scapito della propria au-
torità. Quando il figlio caduto in miseria ritorna, il padre si squalifica fa-
cendo tutto quel che un paterJàmilias, responsabile dell'onore del gruppo
domestico, non avrebbe dovuto fare. L'ascoltatore di Gesù non avrebbe
apprezzato il comportamento del padre e si sarebbe schierato dalla parte
del figlio maggiore. Ma la parabola lo pone in un dilemma. Il padre ha
messo a repentaglio il proprio onore e quello dell'intera casa, ma in questo
modo ha ridato al figlio minore dignità e, propriamente, vita (vv. 2.4 e 32.).
C'è dunque la possibilità di attenersi alle regole sociali, ma anche quella di
sconvolgerle, sia pure giocandosi la reputazione (autostigmatizzandosi!),
al fine di creare gioia e vita. Così la parabola sorprende l'ascoltatore facen-
GESÙ DI NAZARET 57
Tutti i gruppi a noi noti nel giudaismo di terra d'Israele nel I secolo aveva-
no sviluppato proprie concezioni del rapporto tra Dio e Israele, nelle quali
comparivano figure di intermediari, situate nel passato, nel presente o nel
futuro. Gesù deve avere attribuito a sé stesso un ruolo preciso, e unico, in
quella che riteneva una fase decisiva per la storia d'Israele, cioè l'apertura
della presenza del regno di Dio (si veda anche Q/Lc 11,31-32.: si dichiara
maggiore di Salomone e di Giona, perché ciò che avviene per mezzo di lui
è più grande di quanto avvenne attraverso quei due personaggi). Ciò non
significa che si sia attribuito uno statuto più che umano; meno che mai ha
affermato di essere Dio. Ma si è identificato, o altri lo hanno identificato,
con qualcuna delle figure disponibili? Un detto di Q (Q/Lc 13,34; e cfr. 1
Ts 2.,15) lo situa in linea con i profeti perseguitati e uccisi da Israele, secon-
do una concezione che si era affermata nello strato deuteronomistico della
Bibbia ebraica (Ne 9,2.6).
Una questione com pi essa riguarda l'appellativo di « Figlio del!' uomo».
È frequentissimo nei vangeli divenuti canonici, sempre riferito a Gesù e
sempre in bocca a lui, tranne che in Gv 12.,34, dove però si riferisce a un
detto di Gesù. È rarissimo negli altri scritti protocristiani. È il solo titolo
applicato a Gesù in quanto ci resta di Q In ebraico e aramaico al tempo di
Gesù l'espressione indicava sia l'essere umano in generale, sia un determi-
nato essere umano; si discute se fosse usata per intendere "io". La si trova
poi in alcuni scritti di rivelazione, nei quali assume significati particolari.
Nel Libro di Daniele (7,13-14; verso il 164 prima della nostra era), il prota-
gonista vede il giudizio finale, dopo il quale «ecco venire con le nubi del
cielo uno simile a un figlio d'uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato
GESÙ DI NAZARET 59
a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue
lo servivano». Esso rappresenta «il popolo dei santi dell'Altissimo». Si
rratta dunque di una figura umana, semplice simbolo del popolo dei santi,
oppure essere individuale, sorta di corrispettivo celeste di quel popolo. Da
Daniele ha ripreso tale personaggio il Libro delle parabole, molto proba-
bilmente del I secolo a.C., incluso nella raccolta che chiamiamo I Henoch
(37-71): il Figlio dell'uomo vi appare (46-48; 62.) come un essere di aspetto
umano che Henoch vede accanto a Dio, dove è stato nascosto da prima
della creazione; a lui è affidato il giudizio (diversamente che in Daniele) e
con lui i giusti e gli eletti trascorreranno la vita per sempre.
Tra le parole sul Figlio dell'uomo attribuite a Gesù, alcune riguarda-
no una sua attivita presente e terrena. In Mc 2.,10, egli ha potere di per-
donare i peccati in questo mondo e potere sul sabato (Mc 2.,2.8); Q (Q/
Le 9,58; 7,35; 12.,IO) insiste sulla sua marginalità e sulle critiche che riceve.
Altre riguardano una sua attivita futura. Qui il Figlio dell'uomo appare
giustapposto a Gesù, ma tra i due vi è un rapporto: «Chi si vergognerà di
me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice,
anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria
del Padre suo con gli angeli santi» (Mc 8,38). In Mc 13,2.6, con allusione a
Dn 7,13-14, viene con potenza e riunisce gli eletti dai quattro venti, assu-
mendo quindi, come nel Libro delle parabole, un ruolo in rapporto con il
giudizio e starà con gli eletti. In Mc 14,62., rispondendo alla domanda del
sommo sacerdote se egli sia il messia, Gesù afferma: «lo lo sono, e vedre-
te il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi
dd cielo». Infine, vi è un gruppo di detti relativi alle sofferenze del Figlio
dell'uomo: Mc 8,31; 9,31; Le 2.4,7; cfr. Gv 3,14; 12.,2.3 ecc. Ma si tratta di
profezie della passione e della morte di Gesù, che gli sono state certamen-
te attribuite più tardi.
È praticamente certo che l'uso dell'espressione risalga a Gesù. Essa
compare in Marco, Q, il materiale proprio di Matteo e quello di Luca,
Giovanni, Vangelo secondo Tommaso (86). Ma, come l'ha intesa? Qui i pa-
reri degli studiosi divergono e ci limitiamo a qualche indicazione. In Gv
5,2.7 Gesù dichiara: «E [il Padre] gli [al Figlio] ha dato il potere di giu-
dicare, perché è Figlio dell'uomo». Non è una parola autentica di Gesù,
111a documenta che almeno il gruppo in cui nacque questo vangelo cono-
sceva l'idea del Figlio dell'uomo come giudice escatologico, attestata dal
Ubro delle parabole, e l'aveva applicata a Gesù. Vari studiosi ritengono
che già Gesù la conoscesse. Quando, al momento di guarire il paralitico,
60 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Conflitto e morte
celebrare con i suoi un pasto nella linea della commensalicà da lui già pra-
ticata, ma particolarmente solenne, nel corso del quale, come un padre di
famiglia ebreo, ha pronunziato parole di benedizione sul vino e sul pane,
ma li ha inoltre collegaci al senso della propria azione e del proprio desti-
no. Ha interpretato il sangue che stava per effondere come il sigillo di una
nuova alleanza con Dio, secondo il modello di Es 24,8. Che abbia o meno
invitato a ripetere cali pasti in sua assenza, i discepoli lo hanno compreso
così. Pane e vino condivisi avrebbero reso presente Gesù anche quando
non avrebbe più fisicamente partecipato. Ma si sarebbe presto riunito a
loro nel banchetto finale del regno: i sinottici fanno concludere la bene-
dizione sul calice con le parole già citate: «In verità vi dico che non berrò
mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno
di Dio» (Mc 14,25). Giovanni (13,2-12) non ha questo racconto e collega
con la cena un altro gesto di Gesù, la lavanda dei piedi dei discepoli, pro-
babilmente archetipo di un rito d'ingresso praticato nel suo gruppo, nel
quale si rappresentava l'amore reciproco sotto la forma del farsi schiavo
(lavare i piedi era un compito degli schiavi). Ciò non significa che Gio-
vanni ignori l'eucaristia, di cui fa parlare Gesù in 6,48-58; ma preferisce
legare alla circostanza decisiva dell'ultima cena il rito che per lui meglio
esprimeva l'appartenenza al gruppo di Gesù.
Quella notte, Gesù si recò, con pochi discepoli, nell'orco del Getse-
mani, sul monte degli Ulivi, in uno stato di estrema angoscia e in inten-
so colloquio con Dio (Mc 14,32-42 e paralleli). Giuda, uno dei Dodici,
avrebbe indicato il luogo dove si trovava; il dato è probabilmente autenti-
co, mentre i racconti non autorizzano ipotesi sulle sue motivazioni. Gli fu
poi attribuita la morte di Achicofel che aveva eradico Davide (suicidio per
impiccagione, 2 Sam 17,23: Mc 27,3-10 ); da altri, quella tipica del nemico
di Dio: Ac 1,15-20 e, in forma diversa e più popolaresca, un frammento di
Papia di Hierapolis (verso il 120). La cattura fu effettuata cl.a un gruppo
inviato dall'aristocrazia sacerdotale; Gv 18,3.12 parla anche di una coorte
di soldati romani con il suo comandante, ma questo è improbabile, perché
in tal caso Gesù sarebbe stato condotto da Pilato. Fu portato invece a casa
del sommo sacerdote, dove secondo Mc 14,53-65 ebbe luogo una riunione
di membri del sinedrio in cui Gesù sarebbe stato accusato di bestemmia
e dunque considerato passibile di una pena di morte che, a quanto risul-
ta, Roma - che governava direttamente la Giudea - non permetteva alle
autorità giudaiche di infliggere (ma Giovanni non ha questo verdetto).
Al mattino presto, Gesù sarebbe stato trasferito al pretorio di Pilato, il
GESÙ DI NAZARET 65
Bibliografia ragionata
La bibliografia sul "Gesù storico" è sterminata. Si indicano qui solo alcune ope-
re recenti, di differenti dimensioni e livelli di approfondimento. Innanzitutto, uno
strumento di riferimento indispensabile, un'opera sistematica che affronta tutti gli
aspetti della problematica relativa alla ricostruzione della figura storica di Gesù, con
grande quantità di informazione e un taglio pedagogico (ci sono anche gli eserci-
zi ... ), è G. THEISSEN, A. MERZ ( = Theissen, Merz, 1999 ), Il Gesù storico. Un manuale,
Queriniana, Brescia 1999 (ed. or. 1996). Tre sintesi, la prima sensibile ai metodi della
sociologia e dell'antropologia culturale, la seconda dedicata alla ricerca storica degli
ultimi decenni e la terza che mette in evidenza contesto storico e novità di Gesù,
sono R. AGUIRRE, c. BARNABÉ, c. GIL, Cosa sappiamo di Gesù di Nazaret? Il punto
.ìulla ricerca attuale, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2.010; P. BERTALOTTO,
Il Gesù storico. Guida alla ricerca contemporanea, Carocci, Roma 2.010; G. JOSSA ( =
Jossa, 2.012.), Tu sei il re dei Giudei? Storia di un projèta ebreo di nome Gesù, Carocci,
Roma2.012..
Ha innovato la metodologia della ricerca su Gesù, assumendo in primo piano le
sue azioni, il lavoro di E. P. SANDERS ( = Sanders, 1995), Gesù. La verità storica, Mon-
dadori, Milano 1995 (ed. or. 1993). Stimolante e controversa la nota opera di J. D.
di guidare alla comprensione del senso profondo delle questioni teologiche, rispetto
alle quali Gesù prese posizione, è l'opera di P. SACCHI, Gesu e la sua gente, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo 2.003.
Un'impressionante summa analitica ancora incompiuta, dottissima nell'apparato
ma leggibile, è offerta daJ. P. MEIER, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesu storico, 4
voli., Queriniana, Brescia 2.001-09 (ed. or. 1991-2.009). Un ampio studio che cerca di
ricostruire un'immagine storicamente valida di Gesù, a partire dalle fonti improntate
alla fede in lui, è quello di J. D. G. DUNN, La memoria di Gesu, 3 voli., Paideia, Brescia
2.006 (ed. or. 2.003). Una grande opera collettiva, dedicata a tutti gli aspetti della pro-
blematica attuale della ricerca storica su Gesù, è offerta da T. HOLMÉN, s. E. PORTER
(eds.), Handbook far the Study ojthe Historicaljesus, 4 voli., Brill, Leiden 2.011.
Segnaliamo, infine, due riviste internazionali specializzate: "Journal for the Study
of the Historical Jesus", Sheffield Academy Press, London; "Annali di storia dell'e-
segesi", EDB, Bologna (oltre a numerosi contributi e fascicoli monografici sul tema,
contiene regolarmente una bibliografia corrente di pubblicazioni sul Gesù storico e
una sezione apposita di recensioni).
2
più sassi in uno stagno. Sfruttando questa metafora, Boyarin sostiene che
il cristianesimo non sarebbe nato in seguito a una separazione avvenuta
in un momento precisamente identificabile a partire da un giudaismo ori-
ginario piuttosto uniforme: al contrario, il cristianesimo avrebbe avuto
origine da specifiche scelte di elementi identitari, operate da gruppi dif-
ferenti, e dalla conseguente loro aggregazione e diffusione, fino a forma-
re un agglomerato "dialettale" nuovo all'interno di quella vasta gamma
di parlate dai contorni sfumati che costituiva il giudaismo del tempo e
comprendeva anche i seguaci di Gesù. Questo processo si sarebbe con-
cluso soltanto nel IV secolo, quando l'intervento degli apparati di potere
ideologico e repressivo dell'Impero rese possibile la nascita di una vera e
propria religione nuova, dai confini chiari e netti, e permise di stabilire in
modo preciso l'appartenenza e rendere operativa l'esclusione.
La proposta di Boyarin ha suscitato un acceso dibattito, senza con-
vincere tutti gli studiosi, ma ha comunque avuto il merito di richiamare
l'attenzione sui problemi lasciati irrisolti dal modello della "separazione
delle vie". Piuttosto che pensare a un preciso momento della storia per la
separazione del cristianesimo dal giudaismo, è più appropriato pensare
a un processo, lungo e complesso, al termine del quale, dalla matrice di
partenza, il variegato e multiforme "giudaismo del Secondo Tempio" (ca-
tegoria con la quale la letteratura scientifica indica il periodo postesilico
fino alla distruzione del 70 d.C., in cui si distinguevano sadducei, farisei,
esseni, i gruppi che confluiranno nel movimento rivoluzionario zelota, i
seguaci di Giovanni Battista e altri ancora) emergeranno due entità non
soltanto religiose, ma anche culturali: il giudaismo rabbinico, da un lato;
il cristianesimo, dall'altro. Trattandosi di un processo lungo e complesso,
le trasformazioni e le riaggregazioni varieranno a seconda dei gruppi coin-
volti, delle circostanze storiche, delle regioni geografiche.
Come ultima osservazione di questa breve premessa metodologica
aggiungiamo che l'atteggiamento prudente sopra delineato del!' attuale
critica storica sconsiglia di continuare a usare il termine astratto "giudeo-
cristianesimo", che ha avuto lunga e grande fortuna storiografica, ma di cui
è sempre stato difficile dare una definizione univoca: infatti, per quanto ri-
guarda le origini, esso è contraddittorio rispetto al dato di fatto che i fedeli
di Gesù sono parte del giudaismo e, per il periodo successivo, si è incerti
se intenderlo in senso etnico, o per indicare quanti credono in Cristo e
praticano l'osservanza, a prescindere dall'etnia, o se, con accezione lata-
mente culturale, chiamare così tutto il cristianesimo fino all'ultima guerra
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 71
12; Mt 10,7-16). Dato che Q non contiene riferimenti espliciti alla resur-
rezione, questi missionari, ponendosi in continuità con la predicazione e
il carisma di Gesù, verosimilmente giustificavano la sua morte ricollegan-
dola alla sorte dei profeti uccisi da Israele ma approvati da Dio (Norelli,
2014, pp. 29-30 ).
Ma la tragedia rappresentata dalla morte di Gesù, infamante, in quan-
to il condannato «appeso ad un albero» viene esplicitamente dichiarato
maledetto dalla Torah (Dt 21,22-23), difficilmente avrebbe consentito al
grosso dei seguaci, anche a quelli di Galilea, di continuare a credere che la
sua causa godesse dell'approvazione divina, se non fosse intervenuto l'ele-
mento nuovo della fede nella resurrezione del capo carismatico, suffragata
dalle esperienze individuali e collettive delle apparizioni del Risorto.
Queste esperienze alimentarono la convinzione che Dio fosse interve-
nuto in un modo straordinario per rendergli giustizia, non abbandonan-
dolo alla morte, ma elevandolo a una nuova condizione, nell'attesa che
Gesù ritornasse per inaugurare finalmente quel regno di Dio, il cui avven-
to aveva annunciato durante il suo ministero pubblico, ma che non si era
ancora manifestato. Ali' inizio dunque il tema della resurrezione di Gesù,
più che segnare un radicale mutamento di prospettiva nella predicazione
dei discepoli, come in seguito avverrà quando l'annuncio prese ad avere
come oggetto soprattutto Gesù stesso, dovette servire a legittimare la cau-
sa per la quale Gesù si era battuto durante il suo ministero pubblico.
Dei primissimi sviluppi del movimento di Gesù abbiamo notizie scar-
ne, che ricaviamo principalmente dagli Atti degli Apostoli. Ma i dati desu-
mibili da questa fonte, attribuita a Luca, vanno usati con una certa cautela,
perché condizionati dal progetto letterario del!' autore, che concentra a
Gerusalemme tutti gli eventi successivi alla tragica morte di Gesù, senza
menzionare in alcun modo la Galilea (contrariamente a Matteo e Giovan-
ni che vi fanno invece esplicito riferimento rispettivamente in 28,10 e 21,1-
23) e inoltre obbedisce a una forte tendenza irenica e armonizzatrice, volta
a smorzare i contrasti interni al gruppo dei seguaci di Gesù.
Gli Atti, dunque, si aprono fornendo alcune informazioni sulla comu-
nità che si sarebbe raccolta a Gerusalemme, e raccontano che i discepoli
più stretti e i familiari di Gesù si riunivano insieme in un'abitazione in
città, dove attendevano costantemente alla preghiera in piena armonia
(homothumadon), frequentavano regolarmente il Tempio, e conducevano
una vita comune (At 1,14; 2,42-47 ). Si trattava, quindi, di un gruppo per-
fettamente inserito nel quadro del giudaismo del tempo.
1
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 73
ché ritenuti innocui. Con la fine del I secolo, dei parenti di Gesù e del loro
ruolo di guida nelle comunità cristiane della Palestina si perdono le tracce.
zione di Israele. Su questo sfondo, la credenza, che nel frattempo si era svi-
luppata, nell'efficacia salvifica della morte di Gesù, operante la remissione
dei peccati (1 Cor 15,3), non poteva, nella prospettiva degli ellenisti, essere
ristretta all'ambito del popolo ebraico; nella morte redentrice di Gesù si
era realizzata la riconciliazione escatologica di tutti gli uomini con Dio.
Ma qual era la posta in gioco? Il giudaismo del tempo, anche se proba-
bilmente non svolgeva in modo attivo una missione volta a "convertire" i
gentili, prevedeva, comunque, procedure e regole di ingresso per quanti
volessero aderirvi senza essere Giudei di origine, in considerazione dell'at-
trattiva esercitata dalle sue pratiche religiose e sociali (Flavio Giuseppe,
Beli. !ud. 2,179-180; 281-283). Le modalità di adesione al giudaismo erano
varie e graduate. I « timorati di Dio» erano semplici simpatizzanti, i quali
apprezzavano del giudaismo gli ideali etici e la fede monoteista e osser-
vavano alcune pratiche (digiuni, regole alimentari, elargizioni liberali); i
proseliti, invece, sceglievano di aderire in modo pieno al giudaismo, accet-
tando la circoncisione, un bagno purificatore, e soprattutto assumevano su
di sé la completa osservanza delle prescrizioni della Legge mosaica.
Il movimento di Gesù, invece, diversamente da altri gruppi giudaici era
programmaticamente missionario, come più tardi sancirà il mandato del
Risorto sopra ricordato (Mt 28,19: «Andate dunque e fate discepoli tutti
i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito san-
to»). Cosa bisognava richiedere ai gentili che volessero credere in Gesù e
aderire al suo movimento? L'osservanza della Legge mosaica, la circonci-
sione, il bagno purificatore, come ai proseliti? In altri termini, per aderire
al movimento di Gesù bisognava prima aderire al giudaismo oppure no?
La posta in gioco era molto alta: si trattava di stabilire se il movimento di
Gesù dovesse rimanere circoscritto entro il perimetro del giudaismo oppu-
re se non dovesse travalicarlo.
Una figura importante della comunità di Antiochia era Barnaba, un
personaggio che Luca aveva già introdotto parlando della primitiva comu-
nità di Gerusalemme in At 4,36-37. Fu lui a portare Paolo ad Antiochia
(At 11,25), dandogli modo di condividere la nuova avventura dell'annun-
cio ai pagani intrapresa da quella comunità. Ora la prassi degli evangeliz-
zatori in Antiochia era quella di accogliere i gemili nel gruppo dei seguaci
di Gesù mediante il battesimo, senza richiedere loro la circoncisione, cioè
senza imporre una previa adesione al giudaismo. Questa prassi non mancò
di creare problemi interni, provocando tensioni soprattutto con il gruppo
della comunità madre di Gerusalemme, che faceva riferimento a Giacomo,
STORIA DEL CRISTIANESIMO
crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo stati salvati, così come
loro»: v. 11), l'autore degli Atti ci illustra anche quella di Giacomo (At
15,13-2.1). Il discorso di quest'ultimo in risposta a Pietro è un capolavoro
di retorica ed esegesi insieme (Chilton, 2.001). Egli concorda con Pietro
sul fatto che, secondo il piano provvidenziale di Dio, ai gentili deve es-
sere consentito l'accesso alla salvezza, ma propone una modalità diversa,
richiamandosi non a una esperienza personale, come aveva fatto Pietro,
bensì alla parola dei profeti (Am 9,11-12., integrato con allusioni a Os 3,4-5;
Ger 12.,15-16, Zc 8,2.2.; Is 45,2.0-2.3). Il contesto è la restaurazione escatolo-
gica di Israele nei tempi messianici, la quale prevede, certo, la salvezza per
le nazioni, ma senza che queste perdano o mutino la loro identità: i gentili
resteranno tali e otterranno la salvezza se si aggregano al popolo di Israele,
ma rimanendo distinti da esso. La sua citazione a senso di Amos parla di
una ricostruzione della casa di David, non di una ridefinizione del popolo
di Israele. Quindi, nell'era messianica inaugurata dalla venuta di Gesù, le
nazioni si convertiranno, cioè abbandoneranno le loro credenze e le pra-
tiche idolatriche e saranno ammesse al culto dell'unico vero Dio, il Dio di
Israele, ma restando tali, cioè senza essere assimilate a Israele.
Anche sul ruolo svolto da Gesù nell'offerta della salvezza ai gentili
Giacomo assume una posizione particolare. Per Pietro negli Atti (cioè per
Paolo), alle nazioni è offerta la salvezza grazie all'ascolto dell 'evangelo pre-
dicato (At 15,7 ), vale a dire grazie all'annuncio di Gesù e della redenzione
da lui compiuta; per Giacomo, alle nazioni è offerta la salvezza attraverso
la conversione al vero Dio (egli non menziona neppure Gesù), nel quadro
della restaurazione escatologica di Israele, che rimane il popolo eletto. In
questo contesto, la funzione di Gesù è semplicemente quella di inaugurare
i tempi messianici, nei quali l'offerta di salvezza per i gentili diventa ope-
rativa: ebrei e gentili, ancorché accomunati dalla stessa adesione al movi-
mento di Gesù, restano due entità distinte e giustapposte, non assimilabili
l'una nell'altra. Il contrasto con la posizione di Paolo non poteva essere
più profondo.
La conseguenza che Giacomo trae dal suo discorso è che i convertiti
alla fede nel vero Dio (non in Gesù) debbano essere senz'altro accolti, ma
non senza condizioni; non si dovranno, però, vessare, imponendo loro la
completa osservanza della Legge mosaica (il pensiero va, in particolare,
alla circoncisione, che era il tema principale in discussione nell'assemblea
di Gerusalemme), ma soltanto un numero molto limitato di norme di pu-
rità, ricalcate su quelle imposte nell'Israele antico agli stranieri residenti, i
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 81
La comunità di Gerusalemme
e i credenti in Gesù di origine giudaica
rata e il suo atteggiamento nei confronti degli altri gruppi giudaici, dopo
quanto è successo, è caratterizzato dalla diffidenza e dalla paura. Certo,
anche i seguaci di Gesù dovettero sentire la pressione di quanti li invi-
tavano a prendere posizione e a schierarsi nei propositi di rivolta contro
l'oppressore romano. Ma una notizia di Eusebio (h.e. 3,5,2.-3) ci informa
che, prima dello scoppio dell'insurrezione aperta, la comunità cristiana di
Gerusalemme abbandonò la città per trasferirsi in Perea, al di là del Gior-
dano, nella città di Pella. Sulla storicità di questa migrazione a Pella della
comunità di Gerusalemme si è molto discusso e gli studiosi sono tuttora
divisi ( Gianotto, 2.012., pp. 73-6).
A favore dell'attendibilità storica dell'abbandono della città da parte
di almeno una parte della comunità cristiana e dei suoi capi (ovviamente
non esattamente nei modi e nei tempi in cui la descrive la notizia di Euse-
bio) depongono alcune circostanze: la cresciuta insicurezza della vita della
comunità cristiana a Gerusalemme dopo la messa a morte di Giacomo; la
sua scarsa propensione a impegnarsi nella lotta armata contro l'oppressore
romano, conformemente a quello che era stato un atteggiamento di fondo
di Gesù durante il suo ministero pubblico; e soprattutto la constatazione
che la comunità cristiana sopravvisse alla guerra e alla distruzione di Ge-
rusalemme, cosa che sarebbe difficilmente pensabile se fosse rimasta nella
città. Eusebio (h.e. 4,5,1-4) ha conservato una lista di quindici vescovi di
origine giudaica che si sarebbero succeduti nella sede di Gerusalemme nel
periodo che va dalle origini fino alla rivolta di Bar Kokhba (132.-135), con-
clusasi con la vittoria di Roma.
Dopo l'editto dell'imperatore Adriano del 135, che vietava a tutti i Giu-
dei di risiedere a Gerusalemme (Schiirer, 1985, pp. 645-72.), inizia nella cit-
tà una successione di vescovi di origine gentile. Il dato importante, in ogni
caso, è che la comunità di Gerusalemme sopravvisse alla tragedia della pri-
ma insurrezione giudaica contro Roma del 66-70. Terminate le ostilità,
è verosimile che una parte della comunità sia ritornata, se non proprio a
Gerusalemme, semidistrutta, almeno nelle regioni al di qua del Giorda-
no. Un'altra parte, invece, dovette restare nella Perea, o comunque nelle
regioni della Transgiordania, come confermano numerose fonti eresiolo-
giche. Che i seguaci di Gesù fossero ancora numerosi e attivi in Giudea al
tempo della seconda insurrezione colà scatenatasi contro Roma (133-135)
è attestato da una notizia di Giustino (I Apol. 31,5), il quale riferisce che il
leader della rivolta, Simone Bar Kokhba, aveva ordinato che i cristiani fos-
sero severamente puniti se non rinnegavano la messianicità di Gesù. Della
STORIA DEL CRISTIANESIMO
severità di Bar Kokhba verso i Giudei che si rifiutavano di unirsi alla lotta
armata testimoniano le stesse sue lettere (Marrone, 2.013).
Il momento della guerra del 133-135 segnò una svolta decisiva nei rap-
porti tra i seguaci di Gesù della Palestina e gli altri Giudei: per ben due
volte i primi si erano rifiutati di schierarsi a fianco dei loro fratelli in quella
che era sentita come una causa comune nazionale contro lo straniero op-
pressore; e questo rifiuto dovette essere sempre più percepito come una
sorca di tradimento, che di fatto li assimilava al nemico. L'atteggiamen-
to dei seguaci di Gesù della Palestina durante le due insurrezioni contro
Roma produsse una lacerazione profonda, che contribuì a isolare i gruppi
dei cristiani di origine giudaica dagli altri settori del giudaismo del tempo.
Le fonti superstiti ci forniscono alcune informazioni anche sulla situa-
zione in Asia Minore. Qui le comunità giudaiche nei primi secoli della
nostra era erano numerose e piuttosto bene integrate nella vita delle po-
leis che abitavano. Tuttavia, l'istituzione del.fiscus Iudaicus sotto Vespa-
siano ( 69-79) in seguito alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e al
conseguente scioglimento del!' apparato amministrativo a esso connesso,
e in particolare il suo inasprimento sotto Domiziano (81-96), mutarono
profondamente la situazione (Heemstra, 2.010 ). Le tensioni tra le comu-
nità giudaiche della diaspora, da un lato, e l'amministrazione romana e le
aristocrazie pagane locali, dall'altro, si riacuirono e in questa situazione di
reciproca diffidenza e sospetto i Giudei si sentirono come vigilaci speciali,
ai quali era richiesto di ribadire costantemente la loro fedeltà a Roma, che
ora non era più data per sconcata come in precedenza. D'altro canto, pro-
prio nello stesso periodo si assiste a una progressiva criminalizzazione, da
parte degli intellettuali e delle autorità romane, dei cristiani, considerati
come adepti di una superstizione irragionevole e funesta (Plinio il Gio-
vane, ep. 10,96: «superstizione malvagia e sfrenata»; Tacito, An. 15,44,3:
«superstizione funesta») e potenzialmente pericolosi dal punto di vista
politico, come illustrano i provvedimenti presi contro di loro a Roma da
Nerone (64) e in Bitinia da Plinio negli anni 112.-113, sotto Traiano (cfr.
CAP. 6, p. 191).
Anche se i Romani avevano dimostrato, in più occasioni, di essere
perfettamente in grado di distinguere i cristiani dai Giudei, nella delicata
situazione che si era venuta a creare verso la fine del I secolo, i Giudei ave-
vano un crescente interesse a sottolineare la loro separazione dai cristiani,
in modo da evitare qualsiasi confusione con questi ultimi. Se nel caso dei
cristiani di origine gentile la distinzione si imponeva da sé, nel caso dei cri-
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 85
dei loro ruolo all'interno della più vasta compagine dei seguaci di Gesù
86 STORIA DEL CRISTIANESIMO
(Pesce, 2.011, pp. 199-2.08; Gianotto, 2.012, pp. 85-9). Nel suo Dialogo con
Trifone l'autore affronta con l'interlocutore giudeo la grande questione
del significato e della portata salvifica della vicenda terrena di Gesù e il
problema, strettamente connesso, dei rapporti tra i seguaci di quest'ulti-
mo e i Giudei che non hanno aderito al suo messaggio. Una sollecitazione
del suo interlocutore spinge Giustino a pronunciarsi sulla compatibilità,
ai fini del conseguimento della salvezza, tra l'essere giudeo e il voler conti-
nuare a osservare le prescrizioni della Legge mosaica, da un lato, e il crede-
re in Gesù e obbedirgli (e quindi, osservare le prescrizioni della sua legge),
dall'altro. In ultima analisi, il problema sotteso è quello della compatibilità
tra l'osservanza della Legge mosaica e l'osservanza della legge di Cristo.
L'articolata risposta di Giustino è caratterizzata da tolleranza e fles-
sibilità. Egli distingue, all'interno della vasta compagine dei credenti in
Gesù, diversi gruppi, caratterizzati da sensibilità e atteggiamenti diver-
si. Tra i cristiani di origine gentile si profilano due posizioni differenti:
una più moderata, condivisa da Giustino stesso, che accetta di vivere in
comunione con i Giudei credenti in Gesù che continuano a osservare le
prescrizioni della Legge mosaica, e ammette la possibilità che si salvino,
purché essi non vogliano imporre anche agli altri cristiani l'osservanza di
tali prescrizioni (Dia!. 47,1); e una più radicale, che nega a questi seguaci
di Gesù la possibilità di salvarsi e rifiuta la comunione con loro, ritenen-
do che l'osservanza della Legge non sia compatibile con la fede in Gesù
Cristo (Dia!. 47,2). Una terza categoria è rappresentata da quei cristiani
provenienti dalle genti che, attratti e affascinati dal giudaismo, decidono
di osservare le prescrizioni della Legge. Pure costoro, secondo Giustino
si possono salvare; sono invece esclusi dalla salvezza quanti, passando a
condurre una vita conforme alla Legge, rinnegano il Cristo (Dia!. 47,4).
Anche tra i Giudei credenti in Gesù si fronteggiano moderati e radica-
li: i primi, pur continuando nell'osservanza delle norme rituali giudaiche,
non pretendono di imporle anche ai cristiani provenienti dalle genti e ac-
cettano la comunione con questi ultimi; i secondi, invece, più intransi-
genti, vorrebbero imporre anche ai cristiani di origine gentile l'osservanza
delle prescrizioni rituali, e quindi rifiutano la comunione con chi non si
sottometta a questa condizione, ricambiati da Giustino (Dia!. 47,3). In-
fine si fa riferimento ai Giudei che non credono nel Cristo e scagliano
anatemi contro i cristiani; per costoro, come anche per tutti quelli che
hanno rinnegato il Cristo, secondo Giustino non c'è salvezza possibile.
Purtroppo la testimonianza dell'apologista non permette di quantificare
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 87
blighi di fedeltà alla religione civile dell'Impero romano, senza però veder-
si riconosciuti i privilegi in ambito religioso di cui godevano i Giudei. Di
qui la storia contrastata dei rapporti fra cristiani e autorità romana, di cui
si parlerà in seguito (cfr. CAP. 6).
Un secondo fattore che contribuì a differenziare i cristiani di origine
gentile dai Giudei è di tipo culcurale. Nello svilupparsi della riflessione
teologica sui contenuti dottrinali della loro fede, i cristiani di origine gen-
tile fecero ampio ricorso agli strumenti concettuali offerti dalla tradizione
filosofica greca, in particolare quella platonica e stoica; in questo modo,
si assistette progressivamente a una sorta di transculturazione del patri-
monio dottrinale del cristianesimo nascente che, origina~iamente espresso
in categorie di pensiero semitiche, veniva ora riformulato in categorie di
pensiero greche per renderlo maggiormente fruibile da parte di persone
appartenenti a quella culcura (cfr. CAP. 6). Non che questa operazione sia
stata un'esclusiva dei cristiani di origine gentile; in effetti era stata pratica-
ta anche dai Giudei (si pensi solo al caso di Filone d'Alessandria); ma fu
decisamente rifiutata e contrastata da parte del rabbinismo nascente che,
nei primi decenni del II secolo, riprese in mano le sorti del giudaismo,
caduto in una profonda crisi in seguito alla distruzione del Tempio di Ge-
rusalemme, riformandolo e riunificandolo sotto la guida dei rabbi: è la
cosiddetta "epoca di Yavneh", una cittadina sulla costa del Mediterraneo
dove era sorta un'accademia giudaica.
In tale riformulazione del messaggio cristiano attraverso la filosofia
greca, i seguaci di Gesù di origine gentile si servirono in particolare del
metodo allegorico. Questo procedimento interpretativo permetteva, se-
condo una prassi inaugurata dagli interpreti di Omero e già sperimentata
anche dal giudeo Filone, di far dire al testo altre cose rispetto al suo senso
immediato (allegoria = dire altre cose), cogliendo significati nuovi e più
profondi sotto la lettera delle Scritture sacre che restarono per i cristiani
quelle giudaiche, anche dopo che a esse si affiancarono quelle propriamen-
te cristiane: in primo luogo il metodo allegorico consentiva di interpretare
alla luce di Cristo, come prefigurazione dei fatti della vita sua e dei suoi
seguaci, rutta la storia ebraica (cfr. CAP. 4, p. 151).
Il successo della diffusione del messaggio cristiano tra i gentili e il con-
testuale rifiuto di tale messaggio da parte della maggioranza degli ebrei,
con il conseguente progressivo allontanamento del cristianesimo nascen-
te dal giudaismo, non mancò di suscitare interrogativi e perplessità, che
trovarono risposte grazie a una approfondita riflessione e discussione sul
DAI SEGUACI DI GESÙ ALL'ANTAGONISMO FRA CRISTIANI ED EBREI 91
La svolta costantiniana
Bibliografia ragionata
Cristianesimo e cristianesimi
Andrés Saez ha scritto i paragrafi Mardone del Ponto e/gruppi gnostici. li resto del capi-
tolo si deve: a Emanuela Prinzivalli.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Le vie dell'evangelizzazione
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~·r;f '-'Mto
p,,,,,_,. ~-
l ~ -
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Ogni gruppo di persone, ogni movimento, fin dagli inizi, per quanto possa
essere entusiasta e spontaneo, si organizza al suo interno. I vangeli fanno
capire che Gesù con i discepoli, per spostarsi da un luogo all'altro, aveva
bisogno di qualche risorsa economica, messa a disposizione da componen-
ti del gruppo stesso, fra cui alcune donne, o da altri discepoli che, restando
nelle loro case e ai lavori abituali, potevano fornire ospitalità: insomma,
una pur spontanea essenziale organizzazione esisteva.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
producevano le stesse modalità del gruppo più vicino a Gesù (cfr. CAP. 2,
p. 71), mentre Paolo e altri adottavano un tipo di missione pianificata. I
missionari generalmente trovavano ospitalità e vivevano grazie al sostegno
di seguaci in loco. Paolo ci teneva a lavorare per mantenersi, ma usufruiva
anch'egli dell'ospitalità occasionale, come ripetutamente si dice negli Atti.
In tutta la prima fase dell'evangelizzazione, nei luoghi dove c'erano co-
munità giudaiche, ci si rivolgeva prima a esse e ai loro simpatizzanti. Ma
anche nel caso che molti membri aderissero al messaggio (Paolo a Corinto
riesce a convincere addirittura Crispo, il capo della locale sinagoga) non si
raggiungeva un consenso unanime e dunque le riunioni del gruppetto di
seguaci di Gesù si organizzavano fuori della sinagoga. Questo alla lunga
provoca distanziamento e separazione.
Sulle riunioni per il culto è Paolo, come al solito, a fornire notizie fon-
damentali. I suoi adepti continuavano la vita abituale nelle loro case o in
quelle dei padroni, se erano schiavi, e avevano occasioni di riunione per
la preghiera e cena con la frazione del pane, in una stanza fornita da chi
era nelle condizioni di farlo. Egli usa l'espressione «chiesa (ekklesia) che
si raduna nella casa di ... » (per esempio in I Cor 16,19), cioè chiesa dome-
stica. L'organizzazione delle riunioni in una casa (oikos) non è un'opera-
zione priva di significato: implica prendere parte e condividere i rapporti
gerarchici ali' interno del!' oikos, che non corrispondeva alla nostra attua-
le famiglia mononucleare, ma comprendeva varie generazioni di parenti,
nonché gli schiavi e i clientes, sicché quando il padrone aderisce alla fede
anche il resto del!' oikos lo segue. Ma il padrone era anche la guida spiritua-
le del gruppo che si riuniva presso di lui e che comprendeva altre persone
ospitate per il culto? In molti casi sì: chi aveva una casa abbastanza gran-
de era meglio collocato socialmente e aveva una qualche o una migliore
istruzione, quindi avrà natura/iter esercitato la leadership. Talvolta però
padroni compiacenti, senza aderire alla fede dei loro schiavi, concedevano
loro di riunirsi nella dimora padronale. Se poi c'era un personaggio dotato
di ispirazione profetica spesso prendeva il sopravvento e la sua influenza
superava certamente l'ambito ristretto di una chiesa domestica per esten-
dersi ad altri gruppi di fedeli nello stesso luogo. Una fondamentale notizia
di At 13,1, parlando in generale della ekklesia di Antiochia, dice che in essa
c'erano « profeti e maestri».
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 105
mine presbyteros (anziano), che avrà invece grande fortuna: a capo della
Chiesa di Gerusalemme, negli Atti degli Apostoli ci sono Giacomo e gli
anziani (presbiteri appunto). Questa sorta di collegio è in continuità con
gli usi giudaici, ma anche con l'ethos mediterraneo che identifica autori-
tà e anzianità. Gli Atti ( 14,2.3; 2.0,17) li considerano presenti anche nelle
chiese paoline: in At 2.0,2.8 si attesta che i termini presbiteri ed episcopi
sono intercambiabili. Gli Atti adottano probabilmente la terminologia
derivante da una situazione posteriore a quella delle chiese fondate da
Paolo e, dunque, non possiamo spingerci troppo a congetturare perché
Paolo (ma anche la Didache, che pure ha forte impronta giudaica) non
usi tale termine. Di certo la Prima lettera di Clemente ai Corinzi atte-
sta per Roma e per Corinto l'identificazione fra episcopi e presbiteri.
Questa fonte ci parla di un conflitto all'interno della Chiesa di Corin-
to, causato dalla rimozione di alcuni presbiteri dal loro ruolo, voluta da
gran parte della comunità. L'impostazione retorica della lettera (scritta a
nome della Chiesa di Roma) lascia nell'anonimato più assoluto i promo-
tori della rimozione, ma si capisce che costoro si consideravano più adat-
ti rispetto ai deposti. Il punto cruciale della questione ruota intorno a un
interrogativo di portata generale: i presbiteri debbono ricoprire il ruolo
vita natural durante oppure possono essere sostituiti? La Prima lettera di
Clemente ai Corinzi (44,3), schierandosi con i presbiteri deposti, sostiene
che furono gli apostoli a stabilire i presbiteri a guida delle chiese e, per
evitare contese, aggiunsero la clausola che, alla loro morte, fossero sosti-
tuiti da altri, designati, sembrerebbe, dai predecessori, con l'approvazio-
ne del!' assemblea. È evidente che l'autore, in assenza di norme stabilite,
sta cercando un modo per affermare la durata a vita del servizio presbite-
rale e sottrarlo alle contingenze del momento. Anche se la designazione
non si affermerà mai nelle chiese (se non per brevi periodi: per esempio a
opera di papa Simmaco nel 499) il tentativo più o meno aperto di appli-
carla è ricorrente.
Alla fine del I secolo era ancora viva e diffusa la convinzione, radicata
nella stessa predicazione di Gesù (cfr. CAP. 1, p. 49) che l'avvento del regno
di Dio fosse imminente e che quindi il mondo, nell'assetto attuale, fosse
destinato a terminare presto, come è detto nella Prima lettera di Clemente,
tna le necessità del quotidiano imponevano di trovare via via soluzioni e
conducevano non solo a una prassi organizzativa più precisa, ma anche a
una embrionale riflessione ecclesiologica.
Nelle prime decadi del II secolo, in alcune chiese di Asia e di Siria !'or-
108 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Le pratiche di vita
dicendo agli Israeliti: «Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio[ ... ] l'a-
vete ucciso. Ora Dio lo ha resuscitato» (At 2,23-24). È la cristologia che
si suole definire "bassa" e che rimane quella di molti Giudei credenti in
Gesù (cfr. CAP. 2, p. 88). Ma già un passo della paolina Lettera ai Filippesi
(2,5-11), che forse trasmette un insegnamento anteriore, dove si dice che
Cristo Gesù «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un pri-
vilegio l'essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione
di servo», può essere interpretato nel senso dell'appartenenza di Gesù a
una dimensione primariamente divina. Il prologo del Vangelo secondo
Giovanni (1,1), identificando Gesù Cristo con il Logos «presso Dio», lo
considera senz'altro un essere preesistente, chiamandolo «dio» (la cosid-
detta "cristologia alta"), anche se il racconto della passione, oltre a tutto
lo svolgimento della narrazione, garantisce in Giovanni la realtà del suo
essere uomo.
L'insorgere della cristologia alta introduce un paradosso rispetto al
monoteismo rigoroso cui erano pervenuti gli ebrei e al quale anche i cri-
stiani aderivano. È vero che alcune figure, come il Figlio dell'uomo, erano
considerate dalle correnti giudaiche apocalittiche promanare dalla sfera
divina, è altrettanto vero che, nel contemporaneo giudaismo ellenistico,
filone (1 secolo d.C.) faceva del Logos e della Sapienza le potenze (dyna-
meis) con cui Dio opera nel mondo, ma la via imboccata progressivamente
dalla riflessione cristiana conduce a parlare di Gesù Cristo come di "dio"
in senso proprio e personale, aprendo la questione di come conciliare tale
convinzione con l'unicità di Dio e acuendo la polemica con gli ebrei. Non
i: un caso che in Giovanni la polemica con il giudaismo e l'affermazione
della divinità di Gesù vadano di pari passo: «Gesù disse loro: "Il Padre
mio agisce anche ora e anch'io agisco". Per questo i Giudei cercavano an-
cor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava
Dio suo Padre facendosi uguale a Dio» (5,17-18). Che il Vangelo secondo
C; iovanni abbia svolto un ruolo decisivo nell'affermarsi della cristologia
alta era già riconosciuto da un autore acuto come Origene, il quale affer-
ma: «nessuno ha rivelato in modo più puro di Giovanni la divinità di
Cesù» ( Comm. in Io. 1,22).
Nell'ambito di chi pensava in termini di cristologia alta si diffonde
presto la convinzione, opposta a quella sostenuta nel Vangelo secondo
Giovanni, che Gesù, in quanto essere divino, fosse uomo soltanto in appa-
rt:nza: questa dottrina viene chiamata "docetismo" (dal verbo greco dokeo:
\t:mbrare', 'apparire'). Per la verità, il docetismo è una convinzione che
114 STORIA DEL CRISTIANESIMO
I gruppi gnostici
Dal punto di vista dottrinale, forse la più grande sfida che i cristiani do-
vettero affrontare fra II e III secolo fu il dibattito interno suscitato dalle
correnti chiamate gnostiche.
Fra i moderni, infinite sono le discussioni circa la legittimità dei ter-
mini "gnostico" e "gnosticismo". Nel xx secolo lo gnosticismo fu con-
siderato per lo più un fenomeno ampio, sincretistico, precristiano, in-
fluenzato da elementi orientali, il che porta a includervi ogni sistema di
pensiero di tipo dualista. A partire dagli anni Ottanta del xx secolo si
sviluppa un'altra tendenza critica (Orbe, Pétrement, Simonetti), che in-
vita a prendere in seria considerazione i dati degli eresiologi e dei pagani
come Plotino, i quali conoscono soltanto gnostici cristiani. Lo gnostici-
smo, in questo caso, ingloberebbe fondamentalmente le correnti raggrup-
pate dagli eresiologi sotto la denominazione di "falsa gnosi". Infine, alcu-
ni studiosi, seguendo l'attuale filosofia della decostruzione, considerano
la categoria "gnosticismo" storicamente inservibile. Come per molte altre
definizioni, si può continuare a usare il termine in modo convenziona-
le, sapendo che lo gnosticismo non fu un movimento unitario, bensì si
articolò in numerose correnti, diverse per organizzazione, riti e dottrina,
le quali tuttavia hanno due caratteristiche comuni chiaramente riconosci-
bili. In primo luogo, la distinzione di due dèi, che assumono nomi diver-
si nelle diverse sette, ma che grosso modo possono essere così descritti:
il Dio superiore, ineffabile, di natura spirituale, Padre di Cristo, e il dio
inferiore, il Demiurgo, di natura psichica, creatore diretto del mondo
psichico e materiale, coincidente con il Dio delle Scritture giudaiche.
Costui serve l'economia del Dio superiore, sebbene la relazione fra i due
può assumere un carattere di maggiore o minore opposizione. In secondo
luogo, è tipica dello gnosticismo la dottrina della degradazione di un ele-
mento spirituale (questo punto distingue Marcione dagli gnostici), pro-
veniente dal mondo divino (Pleroma). Questo verrà riscattato attraverso
una lunga vicenda che dal decadimento nel mondo condurrà alla reinte-
grazione nel Pleroma sua e delle particelle divine prodottesi nel corso di
essa (salus spiritus ). Le particelle divine, configurate come uomini spiri-
tuali, vivono nell'ignoranza fino a che ricevono la gnosi, comunicata per
mezzo del Salvatore Gesù. La costituzione della parte non divina di Gesù
varia da una corrente ali' altra, però, dato che la materia è destinata alla
corruzione, il Salvatore assume solo un corpo spirituale o psichico, a voi-
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 117
te con proprietà sensibili. Gli uomini sono di diverse nature, perché non
tutti contengono in sé una particella divina, e quindi la salvezza è solo per
gli spirituali, non per tutti: una concezione, questa, sostanzialmente de-
terminista e predestinazionista degli esseri umani e della salvezza, anche
se la dottrina delle nature è stata diversamente declinata nelle varie sette
gnostiche e in qualche caso può essere stata sfumata. È comunque sulla
difesa del libero arbitrio, contro il determinismo, che gli "ortodossi" con-
centreranno gran parte delle loro critiche agli gnostici.
Gli gnostici valentiniani (dal nome dell'iniziatore, Valentino, che ope-
rò dapprima ad Alessandria, poi a Roma) sono i primi per i quali è at-
testato un sistema teologico completo, dalla riflessione sulla dimensione
intradivina fino all'escatologia, articolando i dati profetici, evangelici e
apostolici intorno ai loro assiomi. Dopo la scoperta, nel xx secolo a Nag
Hammadi in Egitto, delle fonti gnostiche in traduzione copta, si è cerca-
to di prescindere dagli eresiologi per lo studio dello gnosticismo. Senza
sottovalutare l'apporto di questo materiale, bisogna considerare che gli
eresiologi debbono comunque essere utilizzati dallo storico moderno per-
ché trasmettono citazioni testuali tratte da fonti a loro coeve; che i testi
copti sono spesso problematici perché prodotto di plurime rielaborazioni
testuali, le quali necessitano di un attento vaglio critico.
za delle chiese era retta da un collegio presbiterale. Ma ciò non toglie che si
fossero tramandati alcuni nomi di personaggi in vista per particolari quali-
cà o forse per un'istruzione maggiore che li rendeva abili nei rapporti con
altre chiese: furono i loro nomi a confluire nelle liste, alcuni forse contem-
poranei l'uno all'altro.
Ireneo di Lione (seconda metà del II secolo), dopo Egesippo, appro-
fondisce la concezione del vescovo come successore degli apostoli, secon-
do una linea di trasmissione pubblicamente attestata: questa successione
è depositaria e garante della tradizione autentica, della retta dottrina o
regola della verità. A fronte di siffatta chiarezza di impostazione, la ter-
minologia ministeriale di Ireneo resta incerta, giacché egli usa i termini
«presbitero» ed «episcopo» per indicare la stessa funzione: «occorre
obbedire ai presbiteri che sono nella Chiesa perché essi sono i successori
degli apostoli, come abbiamo mostrato, e con la successione nell' episcopa-
to hanno ricevuto il carisma sicuro della verità secondo il beneplacito del
Padre» (adv. haer. 4,26,2).
Lo strumento della tradizione apostolica serviva a validare la dottri-
na che i rappresentanti della Grande Chiesa elaboravano: Ireneo riba-
disce costantemente l'unicità di Dio onnipotente e la sua creazione del
mondo, bello e degno del creatore, e allo stesso tempo l'unità psicofisica
dell'essere umano, ribaltando il disprezzo della materia e l'anticosmismo
gnostico e marcionita, e rafforzando ulteriormente questa presa di po-
sizione mediante il millenarismo. Si usa chiamare millenarismo o chi-
liasmo la dottrina escatologica dei cristiani (cioè riguardante gli ultimi
cempi, ta eschata in greco) più diffusa fra II e III secolo, secondo la quale
prima del giudizio finale e dell'eternità Cristo avrebbe regnato con i giu-
sti risorti per mille anni (numero presente in Ap 21) su una terra liberata
dal peccato e dal male. Questa dottrina, che sarà progressivamente ab-
bandonata (ma ne abbiamo attestazioni fino al v secolo in Occidente e
anche in Oriente almeno fino al Iv), nell'interpretazione più compiuta
di essa, data da Ireneo, consentiva di riaffermare la bontà della creazione
1nateriale, che il peccato dei progenitori aveva sfigurato per un tempo
Il rapporto fra Gesù Cristo e Dio nella cristologia alta restava la questione
principale sul tappeto. Lo gnosticismo valentiniano precisava nella figura
di Sofia, l'ultima entità del Pleroma - concepito come una serie di trenta
emanazioni androgine di esseri divini (eoni) provenienti dal Dio som-
mo - l'eone che aveva rotto l'unità divina con il suo desiderio passiona-
le di conoscere il Padre, producendo così il mondo inferiore mediante il
Demiurgo. La redenzione di Sofia (anzi delle Sofie, perché Sofia genera
un suo doppio inferiore) e dei semi divini incorporaci negli gnostici viene
operata a vari livelli da una nuova emissione di eoni con funzione salvi-
fica, dai nomi diversi: Limite, Salvatore, Cristo ecc. Questo Redentore,
per così dire plurale, dilatava la suggestione della figura di Gesù Cristo
perché insisteva sul carattere cosmico della salvezza da lui procurata: die-
tro l'impostazione valentiniana, depurata dal mito, si distingue lo schema
medioplatonico di un Dio sommo trascendente e inconoscibile e di un
dio derivato da lui che si volge verso il mondo. Lo stesso schema medio-
platonico è adottato, all'incirca negli stessi anni, da Giustino (t 165 ca.)
che riafferma, secondo il modo di pensare ortodosso, l'unico Dio della
tradizione giudaica, concepito però, platonicamente, come sommo bene:
questi ha da sempre in sé il Logos (il termine usato nel prologo del Vange-
lo secondo Giovanni), che è il suo pensiero, la sua mente. Quando vuole
(prima del tempo che ha inizio con il mondo), Dio lo emette o lo genera in
funzione della creazione del mondo e degli uomini: il Logos, quindi, pri-
ma crea e poi redime il mondo con l'incarnazione. Giustino personalizza
e rende sussistente il Logos come «altro» rispetto al Padre di cui è Figlio
reale. A una mentalità, come la sua, formata alla filosofia ellenistica, non
faceva difficoltà concepire l'unità di Dio non nel senso dell'unico Dio alla
maniera giudaica ma nel senso di una monarchia in cui il Dio sommo e tra-
scendente opera attraverso un dio subordinato che deriva soltanto da lui.
Questa teologia è stata chiamata "teologia del Logos" proprio perché in-
centra la mediazione fra Dio e il mondo nella figura del Logos. In cale fase
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 12.1
Abbiamo già parlato delle origini della Chiesa di Roma (cfr. supra, p. 99)
e del primo scritto sicuramente romano, la Prima Lettera di Clemente ai
Corinzi. Dai nomina gentilizi (Claudio Efebo e Valerio Bitone) di due
dei suoi latori a Corinto, deduciamo che questa Chiesa acquisisce presto
qualche membro collegato con la classe senatoria e la casa imperiale, forse,
nel caso specifico, due liberti. Ignazio di Antiochia, qualche tempo dopo,
teme che la Chiesa di Roma, cui scrive una lettera, riesca a impedirgli l'a-
gognata morte per Cristo, grazie evidentemente alle sue aderenze.
A Roma, capitale dell'Impero, la continua immigrazione portava alla
presenza di gruppi di cristiani di varia provenienza, ognuno con una pro-
pria fisionomia e con proprie sedi di riunione. A complicare la situazione,
nel corso del II secolo, maestri cristiani, ortodossi ed eterodossi, venuti da
ogni parte, vi aprirono scuole, dove si celebrava anche il culto cristiano:
così Giustino, Valentino e altri. Il prolungarsi, come ad Alessandria (cfr.
CAP. 5, p. 170 ), della conduzione collegiale dei presbiteri, attestata sicura-
mente poco prima della metà del II secolo da un fortunato scritto romano,
il Pastore di Erma, si spiega con questa disarticolazione della Chiesa. Tut-
tavia, una decisione attesta che i presbiteri avevano su un punto essenziale
una linea comune: Marcione fu respinto nel 144. Il suo insegnamento, per
quanto efficace, doveva risultare particolarmente ostico a una Chiesa in cui
i presbiteri erano eredi del forte sentimento monoteistico dal giudaismo.
Paolo, Ignazio (ma anche i presbiteri deposti di Corinto) mostrano di
avere alta considerazione di questa Chiesa, ciascuno rivolgendole richie-
ste. Ignazio, nel saluto iniziale della sua lettera ai Romani, ne parla come
di colei «che proprio nel territorio della città di Roma presiede» e dopo
varie lodi aggiunge «che all'amore presiede, nella legge di Cristo». Que-
ste espressioni sono state prese come prova che già esisteva, all'inizio del II
secolo, almeno un primato d'onore della Chiesa di Roma. Tuttavia Igna-
zio vuole dire soprattutto che la Chiesa, che si trova a vivere nella capitale
dell'Impero, agisce secondo un sistema di valori opposto: la pietra di pa-
ragone è dunque l'Impero e ciò che Roma rappresenta in esso, di cui la sua
Chiesa è agli antipodi.
Anche se Pietro e Paolo non sono stati i fondatori della Chiesa, a parti-
re da metà del II secolo, il periodo in cui si diffonde l'idea della successione
apostolica delle chiese, cominciano a essere considerati tali, in forza della
tradizione secondo cui entrambi sono stati martirizzati a Roma. Ireneo
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 12.3
di Lione, che ebbe a più riprese contatti prolungati con Roma e scrive al
cempo di Eleuterio (175-189 ), fa leva su questa doppia fondazione, oltre
che sull'antichità della Chiesa di Roma per esortare all'accordo di tutti
con essa (adv. haer. 3,3,3).
Gli studiosi, con qualche eccezione che vorrebbe spingere la conduzio-
ne collegiale fino a metà del III secolo, concordano che con Vittore (189-
199 ca.) si registra un comportamento da vescovo monarchico. L'episodio
più significativo in tal senso è la sua decisione di uniformare il calendario
pasquale a Roma, dove la comunità asiatica celebrava secondo l'uso quar-
codecimano (cioè il 14 Nisan, lo stesso giorno della Pasqua ebraica), mentre
la maggioranza celebrava la domenica successiva al plenilunio di primave-
ra. Un risvolto interessante della faccenda è che Vittore aveva chiesto alle
chiese d'Asia di riunirsi in concilio, evidentemente confidando nell'ab-
bandono della prassi quartodecimana, che invece esse confermarono, con
una lettera del loro rappresentante, il vescovo Policrate di Efeso (Eusebio,
h.e. 5,2.4,2.). Vittore allora si spinge a volerle «tagliare come se fossero ete-
rodosse», suscitando la riprovazione dello stesso Ireneo che ricorda, in
una sua lettera allo stesso Vittore, come Aniceto di Roma e Policarpo di
Smirne si fossero incontrati senza raggiungere un accordo sulla Pasqua ma
rimanendo in comunione reciproca. Non sappiamo i motivi dell'azione
di Vittore. C'era certo un problema liturgico derivante dallo sfasamento
della data, per cui alcuni festeggiavano la Pasqua mentre gli altri erano an-
cora in digiuno penitenziale, e vi era anche un risvolto teologico in quanto
la Pasqua quartodecimana era incentrata sulla passione di Cristo, mentre
quella domenicale sulla resurrezione, ma l'ostilità a una tradizione così ve-
neranda, quale quella quartodecimana, si può spiegare solo con accentuate
difficoltà interne, forse anche con la diffusione a Roma della propaganda
della Nuova Profezia, altrimenti detta montanista (dal profeta Montano),
che accoglieva la prassi quartodecimana.
Il montanismo, nato in Frigia fra il 1s1 e il 171, si diffuse rapidamente in
Asia Minore e in generale in Oriente, nonché in Africa. Fu una reviviscen-
za dell'entusiasmo profetico delle origini: di più, i montanisti credevano
nel!' effettiva discesa dello Spirito a ricolmare di sé i fedeli negli ultimi tem-
pi, i loro, in un momento storico in cui invece l'organizzazione ecclesiasti-
ca, sempre più centrata sul vescovo, tendeva a emarginare le manifestazioni
carismatiche poco controllabili. Noi siamo condizionati, in questo caso
co111e in altri riguardanti fenomeni marginalizzati dalla Grande Chiesa,
dalla presenza di fonti sfavorevoli e non possiamo misurare l'effettiva ade-
124 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Il tema della penitenza era molto sentito fra i primi cristiani che in
generale ritenevano che dopo il battesimo non fosse possibile riconci-
liazione nella Chiesa per i peccati gravi (apostasia, omicidio, adulterio).
Erma un secolo prima a Roma aveva scritto il già menzionato Pastore,
un fortunato libro di visioni, allo scopo di annunciare una possibilità
eccezionale di remissione dopo il battesimo. Callisto, servendosi dell'al-
legoria dell'arca di Noè in cui convivono animali puri e impuri, riteneva
che la Chiesa non dovesse respingere i peccatori, ma indurli a peniten-
za. Si trattava di una prassi di misericordia che l'autore dell' Elenchos, il
quale aveva contrastato l'elezione di Callisto (come racconta lui stesso),
critica aspramente, al pari dell'altra decisione di permettere alle cristiane
di nobili natali di convivere more uxorio con uomini di rango inferiore
o schiavi, purché cristiani. Il problema matrimoniale era grave per le ric-
che cristiane, che per legge non potevano contrarre matrimonio, pena
la decadenza dai privilegi di rango, con uomini di classe inferiore, e che
difficilmente trovavano nella loro cerchia mariti cristiani. Naturalmente
le dame tendevano, in ragione del contesto sociale, a tenere nascosta tale
unione legittimata solo dalla Chiesa, per cui l'autore dell' Elenchos, che
certo esagera ai suoi fini, denuncia le conseguenti pratiche contraccetti-
ve e abortive. Sul piano dottrinale, come Vittore aveva condannato gli
ad azionisti, Callisto condanna Sabellio. L'autore dell 'Elenchos l'accusa
di aver comminato la condanna per nascondere il fatto che lui stesso era
eretico monarchiano. Callisto in effetti non aveva mancato di proporre
una sua soluzione teologica che voleva essere intermedia fra la teologia
del Logos (sostenuta dall'autore dell'Elenchos) e il sabellianismo, affer-
mando che il Logos e il Padre sono una cosa sola perché lo spirito (pneu-
llltl) è indiviso. In particolare lo spirito che si è fatto carne nella vergine
i: il Padre, mentre l'uomo in cui si incarna è il Figlio: il Padre dunque
com-patisce con il Figlio. Questa teologia fa forza sul termine pneuma
inteso alla maniera stoica come sostanza divina, utilizzando pure il ter-
mine Logos, anche se indubbiamente l'esito è sbilanciato più nel senso
1nonarchiano che in quello della teologia del Logos. La tendenza a sot-
Bibliografia ragionata
Scritture, Carocci, Roma 2005 (ed. or. 2003); D. GARRIBA, s. TANZARELLA (a cura
di), Giudei o cristiani? Quando nasce il cristianesimo?, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani
2005; Come è nato il cristianesimo?, numero monografico della rivista "Annali di sto·
ria dell'esegesi", 21, 2, 2004. Classico, superato per molti versi, ma imprescindibile,
LE MOLTEPLICI STRADE DEL VANGELO 131
BEDUHN, The First New Testament: Marcion's Scriptural Canon, Polebridge Press,
Salem 2013. M. VINZENT, Marcion and the Dating oJ the Synoptic Gospels, Peeters,
Leuven 2014, propone, mediante un nuovo esame delle fonti, di spiegare i sinottici
come reazione a un preesistente vangelo di Marcione. Di carattere storiografico è il
contributo di P. DE NAVASCUÉS, Marcion: de Harnack a Orbe, in "Gregorianum", 94,
2013, pp. 256-68.
Sullo gnosticismo si veda la sintesi storiografica di G. FILO RAMO, Gnosticismo, in
A. Melloni (a cura di), Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, il Mulino,
Bologna 2010, voi. II, pp. 952-64. Per approfondimenti, cfr. M. SIMONETTI (a cura
di), Testi gnostici in lingua greca e latina, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 19 9 3;
A. MAGRIS, La logica del pensiero gnostico, Morcelliana, Brescia 1997; CH. MARK-
SCHIES, Gnosis: An Introduction, Continuum, London 2003; G. LETTIERI, Il nous
mistico. Il superamento origeniano dello gnosticismo nel Commento a Giovanni, in E.
Prinzivalli (a cura di), Il Commento a Giovanni di Origene: il testo e i suoi contesti, Paz-
zini, Villa Verucchio 2005, pp. 177-275; A. H. B. LOGAN, Gnostic Truth and Christian
Heresy, T. & T. Clark, Edimburgh 2004; ID., The Gnostics: Identifying an Early Chri-
stian Cult, T. & T. Clark, London-New York 2006; E. THOMASSEN, The Spù·itual
Seed: The Church ofthe "Valentinians", Brill, Leiden-Boston 2006.
Per le questioni teologiche trattate nel capitolo, si vedano E. PRINZIVALLI, M.
SIMONETTI, La teologia degli antichi cristiani (secoli I-v), Morcelliana, Brescia 2012;
M. SIMONETTI, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli
1994; ID., Studi sulla cristologia del II e III secolo, Istituto Patristico Augustinianum,
Roma 1993; A. ORBE, La teologia dei secoli II e III. Il confronto della Grande Chiesa con
lo gnosticismo, 2 voli., Piemme, Casale Monferrato 1995 (ed. or. 1988). Per una sintesi
sulla filosofia del periodo: G. R. BOYS-STONES ( = Boys-Stones, 2001), Post-Hellenistic
Philosophy: A Study ofIts Development.fom the Stoics to Origen, Oxford University
Press, Oxford 2001.
Sul montanismo, cfr. CH. TREVETT, Montanism, Gender, Authority and the New
Prophecy, Cambridge University Press, Cambridge 1996. Su Gaio, si veda A. CAM-
PLANI, E. PRINZIVALLI ( = Camplani, Prinzivalli, 1998), Sul significato dei nuovi.fram-
menti siriaci dei Capitula adversus Caium attribuiti a Ippolito, in "Augustinianum•: 38,
1998, pp. 62-82. Per una prima informazione su Callisto e sulla questione ippolitea,
si segnala E. PRINZIVALLI, s.v. Callisto e s.v. Ippolito, in Encidopedia dei papi, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma 2000, voi. I, pp. 237-57. Per approfondimenti, cfr. M.
SIMONETTI, Ippolito. Contro Noeto, EDB, Bologna 2000; A. MAGRIS (a cura di), 'Ip-
polito'. Confutazione di tutte le eresie, con un saggio introduttivo di E. Castelli, Mor-
celliana, Brescia 2012; E. CASTELLI, Un falso letterario sotto il nome di Flavio Giuseppe,
AschendorffVelag GmbH & Co., Mi.inster 2011.
4
La Bibbia al centro: la formazione
del canone e lo sviluppo dell'esegesi
di Andrés Sdez ed Emanuela Prinzivall/
Oralità e scrittura
Anche se, come vedremo, non si può definire il cristianesimo una religione
del libro senza fare opportune precisazioni (cfr. infra, p. 150 ), è indubbio che
b religione cristiana, come quella giudaica, ha prodotto libri sacri e lettera-
tura in proporzioni sconosciute alle religioni tradizionali del mondo medi-
terraneo, essenzialmente basate sulla corretta offìciatura dei riti. Per quanto
riguarda il giudaismo la presenza della Scrittura fa sì che in Palestina l' in-
segnamento elementare dell'ebraico si impartisse più diffusamente che nel
mondo greco-romano (ciò spiega perché non è impensabile che Gesù abbia
ricevuto un'istruzione nelle Scritture), così come i Giudei della diaspora ap-
prendevano bene il greco per leggere la Scrittura tradotta in questa lingua.
Con la diffusione del cristianesimo nel bacino del Mediterraneo le cose
andarono diversamente: il tasso di alfabetizzazione dei cristiani non supe-
rava quello medio del mondo greco-romano, calcolato intorno al IO%, e
l'educazione scolastica era limitata in ragione della classe sociale; tuttavia
la consapevolezza dell'importanza delle Scritture è un fattore che incide
rnl modo stesso di vivere la fede cristiana. Come è stato ben detto (Gam-
ble, 2006, p. 26) non c'è contraddizione nel mondo antico fra dire che il
cristianesimo attribuiva molto valore ai testi e affermare che la stragrande
1naggioranza dei cristiani fu analfabeta. In una società orale si accedeva al
sopra riportato degli Scilitani conferma l'importanza degli scritti per i cri-
sci ani, se in un piccolo centro come Scili ci si preoccupava di averne alcuni.
Quando studiamo i testi biblici dobbiamo tenere presence che fra il
periodo in cui furono composti e le prime testimonianze manoscritte a
noi giunte passa un considerevole lasso di tempo. Il termine «Logos» del
prologo di Giovanni, per esempio, non è ripetuto in nessun altro punto
dello stesso vangelo: viene facile l'ipotesi che possa essere stato aggiunto
al testo in un secondo momento (ma quale?). Quello che per noi è l'ulti-
mo capitolo di Giovanni, il 21, è chiaramente un'aggiunta alla preceden-
te chiusa (Gv 20,31), ma essa è presence in tutti i manoscritti conosciuti.
L'episodio dell'adultera perdonata (Gv 8,1-11) non si trova nei migliori e
più antichi manoscritti e altri lo inseriscono dopo Le 21,38: in questo caso
siamo dunque sicuri che non faceva parte della redazione più antica. Del
resto il famoso P. Rylands III.457, databile incorno al 125, il più antico te-
stimone di Giovanni, è solo un frammento di codice papiraceo di elegante
scrittura che contiene pochi versetti (Gv 18,31-33.37-38). L'alea di incertez-
za sull'"originale" dei testi neotestamentari resta, e sono quindi compren-
sibili le discussioni degli studiosi sulla loro datazione. Per questo motivo è
interessante il confronto con le citazioni bibliche fatte dagli antichi autori
cristiani, perché essi possono fare, a volte, riferimento a una versione del
testo scritturistico più antica di quella giunca a noi in tradizione diretta.
In genere la trascrizione dei testi delle Scritture cristiane fu meno pro-
fessionale e più rozza di quella attuata dai Giudei. Allestire un testo costa-
va, era un'impresa che richiedeva uno scriptorium ed è questo il motivo
della minor qualità dei testi cristiani, affidati il più delle volte a trascrizioni
private, con alca probabilità di produrre errori di copiatura. Tuttavia c'e-
rano eccezioni, come il sunnominato papiro contenente un frammento
di Giovanni. Da Erma risulta che c'era nella Chiesa di Roma chi si occu-
pava della trascrizione e diffusione dei testi (Pastore 8,3) e sul montante
destro del trono della cosiddetta "Statua di sane' Ippolito" (cfr. CAP. 15, p.
·Hs), nella prima metà del III secolo, è inciso un elenco di quattordici
titoli che forse corrisponde a una piccola biblioteca raccolta da un gruppo
di fedeli. Origene, nel III secolo, poté, grazie alla munificenza del patrono
Ainbrosio, un valenciniano che egli aveva riconvertito all'ortodossia, avere
a disposizione tachigrafi e calligrafe per la composizione delle sue opere.
l:rede della grande filologia alessandrina, giunco a Cesarea, egli concepì, ai
fìni dello studio testuale della Bibbia ebraica, un'impresa innovativa eone-
rosa: gli Hexapla. Su sei colonne parallele scritte sulle due facciate di un
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Questioni metodologiche
Coerentemente con quanto detto fin qui (cfr. CAP. 3, pp. 97-9 ), bisogne-
rebbe parlare non di canone, bensì di canoni. In effetti, ciascuno dei grup-
pi cristiani finì per riferirsi a un corpus di scritti in qualche modo norma-
tivo, a volte delimitato, esclusivo e vincolante, il quale, in consonanza con
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 1 37
t chiaro che non ha senso parlare del canone delle Scritture al tempo in
cui Paolo scrive le sue lettere. Invece, egli mostra di possedere una coscien-
1.a canonica (normativa, delimitante, vincolante) in relazione a ciò che
chiama il "vangelo", cioè, la vita di Cristo che si trasfonde nei credenti, mi-
sura di tutta la realtà umana e del suo stesso apostolato, norma assoluta che
rnndiziona tutto. Affinché possa crescere tra i credenti senza deformarsi, si
trasmette vincolato agli apostoli, confermati dalle apparizioni del Risorto
e da un mandato missionario (1 Cor 15,1-10; Gal 1,15-19; 1 Cor 9,1). Quin-
di, la verità di Gesù si trasmette "normativamente" mediante la struttura
evangelico-apostolica. Ciò non significa che gli apostoli stanno al di sopra
dd vangelo, ma che il vangelo include per Paolo la sua trasmissione norma-
tiva per mezzo dei testimoni autorizzati affinché sia umanamente comu-
nicabile. In questo sistema sono inserite altre realtà portatrici di autorità:
le Scritture di Israele, le parole di Gesù, la Cena del Signore, le formule di
tÌ:de, le sue stesse lettere, scritte ciascuna in circostanze particolari, non
garantiscono di per sé la verità del vangelo che veicolano, quindi devono
essere comprese nel contesto della struttura evangelo-apostoli.
138 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Alcuni decenni più tardi, probabilmente agli inizi del II secolo, l'autore
delle lettere "pastorali" (Prima e Seconda a Timoteo, Lettera a Tito) insi-
sterà sulla necessità di aderire al vangelo dell'Apostolo, il quale si attualizza
ai suoi tempi mediante il «retto insegnamento», al quale altresì è neces-
sario attenersi, essendo tutto legittimato dagli episkopoi/presbyteroi delle
comunità, in continuità con Paolo.
Questa coscienza canonica vincolata a un sistema di legittimazione, che
poteva variare da una corrente all'altra, non è propria di un unico gruppo
del cristianesimo delle origini. Il fenomeno si osserva bene nelle lettere di
Ignazio e nell'Ascensione di Isaia. Ignazio attesta una concezione dell'ere-
sia come di una realtà che suppone una deviazione dottrinale incompatibi-
le con la fede normativa, un diverso modo di vivere e una separazione dalla
comunità di riferimento. Allo stesso modo l'autore dell'Ascensione di Isaia
mostra una coscienza chiara che la verità di Cristo è stata travisata, il che
ha condotto a numerose divisioni.
Tutto ciò serve a provare che, sebbene siano esistiti sin dal principio di-
versi modi di essere cristiani, le distinte correnti, a quanto consta almeno
nell'area di Siria già ali' inizio del II secolo, non hanno compreso il cristiane-
simo in modo pluralistico, bensì ciascuna ha presentato sé stessa come por-
tatrice del vero vangelo, dal quale altre si erano allontanate. Per essere chiari,
al pluralismo di fatto, di cui abbiamo parlato sopra, non corrisponde, da
parte dei vari gruppi, una concezione "plurale" del vangelo. Inoltre Ignazio e
l'Ascensione di Isaia condividono ali' incirca il vincolo apostolico della fede
cristologica. Donde risulta evidente che ali' inizio del II secolo non basta
il richiamo agli apostoli per rimanere nella verità di una determinata com-
prensione del vangelo. Perciò Ignazio si rimetterà alla triade vescovo-pre-
sbiteri-diaconi della Chiesa e l'Ascensione di Isaia ai profeti del suo gruppo.
La raccolta e la messa per scritto dei fatti e delle parole di Gesù sarà comin-
ciata poco dopo l'annuncio di resurrezione, però poche volte se ne parla
esplicitamente. Fortunatamente, però, abbiamo due eccezioni. Ali' inizio
del Vangelo di Luca (1,1-4) l'autore esplicita il suo intento di comporre in
modo rigoroso un'opera che contenga «gli avvenimenti che si sono com-
piuti in mezzo a noi». Egli specifica che altri avevano « cercato di raccontare
con ordine» e con ciò verosimilmente indica la prima produzione (Q Mc?
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 139
Altri scritti?) che segna il passaggio dall'oralità alla scrittura: sono testimo-
nianze veritiere, ma non le considera sufficienti per mancanza di ordine ed
esaustività.
Alcuni decenni dopo, Papia di Hierapolis (Eusebio, h.e. 3,39) compose
un'opera in cinque libri, l'Esposizione degli oracoli del Signore, nella quale
ordinò, insieme con altri materiali, le parole e i fatti di Gesù da lui raccolti
e selezionati. Papia afferma di preferire le tradizioni trasmesse inalterate
per mezzo della viva voce, grazie alla catena maestro-discepolo che risa-
le allo stesso Gesù, rispetto a quelle contenute nelle opere scritte: la cosa
più logica è che egli si riferisca a Marco e a certi scritti in greco messi in
relazione con Matteo, che, pur avendo ricevuto un giudizio positivo, non
risultavano del tutto soddisfacenti per la loro mancanza di completezza e
di ordine. Per questo (con Norelli, 2005) non siamo d'accordo con quanti
pensano che Papia abbia preso i logia di Gesù solo da testi scritti, e meno
ancora da scritti canonizzati (così già Lightfoot e Zahn; ultimamente
Baum, Hill, Heckel), fino ad arrivare a pensare che Papia sarebbe testi-
mone della collezione dei quattro vangeli canonici. I presbiteri, discepoli
dei discepoli di Gesù, legittimano in modo diretto o indiretto tutte le tra-
dizioni orali e scritte, assicurando la loro affidabilità, questione spinosa
che Papia si trovò ad affrontare, perché i suoi frammenti permettono di
dedurre una diversificazione delle stesse non sempre per lui accettabile.
Se le cose stanno così, Papia pare situarsi in una fase critica. Per un lato
beneficia di un sistema, per lui ideale, di legittimazione maestro-discepolo
per cui la comunicazione dei contenuti della tradizione si realizza in modo
orale, per l'altro, ha deciso di trasmettere la memoria di Gesù componendo
un 'opera scritta, agendo in apparenza contro i suoi stessi criteri. In questo
srnso pare situarsi in un tempo in cui le condizioni ideali per la trasmis-
sione della cosiddetta memoria comunicativa ormai non esistevano più.
Marcione rappresenta una pietra miliare nella storia del canone del Nuovo
Testamento. Già si è detto nel capitolo precedente in che consiste il suo
vangelo. Ora, come e donde è stato trasmesso? Marcione lo trova nelle let-
tere di Paolo (una collezione senza le pastorali ed Ebrei) e in Luca ( inteso
come vangelo di Paolo).
Siccome gli scritti che i cristiani avevano prodotto riflettevano una re-
lazione positiva tra il vangelo e la storia di Israele, Marcione si convinse che
erano stati interpolati: i discepoli, giudei e semplici, non avevano capito
che Gesù annunciava un altro Dio distinto dal creatore e mescolarono il
vangelo con la Legge. Siccome tutta la predicazione apostolica ne risultava
contaminata, Gesù si rivelò a Paolo (esperienza di Damasco) comunican-
dogli di nuovo il suo vangelo. Però i giudaizzanti, che avevano il controllo
delle chiese, interpolarono dopo la morte dell'Apostolo le sue lettere e il
vangelo: da allora, la Chiesa e le sue scritture presentavano un Gesù di-
storto. Marcione si sentì chiamato a ricostruire il testo primitivo delle let-
tere paoline e del vangelo, elaborando una sua propria edizione, alla quale
aggiunse le Antitesi, uno scritto in cui egli forniva le prove, attraverso una
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI
Secondo Ireneo (adv. haer. 4,33,8), la conoscenza del Figlio di Dio com-
porta necessariamente: a) l'accettazione della dottrina degli apostoli e
della Chiesa del tempo apostolico e b) del carattere del corpo di Cristo (la
Chiesa) conforme alla successione dei vescovi; e) la sincera custodia delle
Scritture; d) il dono speciale dell'amore. Quindi risulca vincolante l'ade-
sione alle Scritture, cioè ai libri che sono accolti nelle chiese, al loro testo
autentico e alla loro corretta interpretazione.
Questa coscienza canonica si applica pienamente ai vangeli. L'afferma-
zione da parte di Ireneo (adv. haer. 3,11,8) non potrebbe essere più decisa:
«I vangeli non possono essere in numero né maggiore né minore di que-
sto», cioè quattro. Alle affermazioni de facto (adv. haer. 3,1,1), con le quali
si riferisce a una collezione di quattro vangeli (Mc, Le, Mc e Gv) da lui con-
siderata chiusa e vincolante, il vescovo di Lione aggiunge un'altra de iure
che si fonda sulla sua concezione storico-salvifica del vangelo: concepito
come tetramorfo, esiste come economia del Logos generato ante tempus; è
annunciato profeticamente nella creazione e durante la storia di Israele ed
è portato a compimento nella vita umana di Cristo per mezzo dello Spirito
santo. Ciò significa che il carattere tetramorfo del vangelo è stabilito dall' i-
nizio dell'economia e non nel momento della sua messa per scritto, cosic-
ché lo si deve scorgere nell'azione di Cristo per tutto il corso della storia:
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 1 43
nella crocifissione cosmica del Logos che sostiene la creazione; nella crea-
zione con i suoi quattro punti cardinali e i quattro venti principali; nella
profezia del Sai 79,2 e di Ez 1,6.10 (Ap 4,7 ); nella vita di Gesù, soprattutto
nella sua crocifissione; nell'annuncio apostolico del vangelo. Ci sono quat-
tro correnti nella predicazione apostolica: Pietro, Paolo, Matteo e Giovan-
ni (adv. haer. 3,21,3), che certo poi vengono messe per iscritto e ricevute
da tutte le chiese, ma che sono manifestazione del carattere anteriormente
tetramorfo del vangelo che alla fine si mostra nella sua messa per iscritto.
La posizione di Ireneo presuppone il processo attestato fin da Giusti-
no, ma indica che egli ha compiuto un passo in avanti significativo: valga
come ulteriore prova il fatto che Ireneo non colloca allo stesso livello del-
le tradizioni raccolte nei quattro vangeli una parola di Gesù trasmessa da
Giovanni (però non nel Vangelo secondo Giovanni) e per mezzo dei pre-
sbiteri (adv. haer. 5,33,3). Ad extra Ireneo si fa eco di altri gruppi cristiani
i cui canoni o libri autoritativi sono da lui considerati censurabili. I valen-
tiniani fabbricano i loro propri scritti e si gloriano di avere più vangeli di
quelli stabiliti (menziona un Evangelo di verita) (adv. haer. 3,11,9 ); i marca-
si ani (adv. haer. 1,20,1) introducono una moltitudine di scritti apocrifi per
confondere quanti ignorano gli scritti della verità.
Da qui si può ipotizzare che la moltiplicazione degli scritti nei gruppi
gnostici abbia potuto giocare un ruolo importante nel delimitare la col-
lezione dei vangeli nel canone del Nuovo Testamento a soli quattro, dei
quali Ireneo presenta l'origine (adv. haer. 3,1,1) e afferma che chi non li
riceve si priva della salvezza (adv. haer. 3,1,2), mentre la contrapposta af-
fermazione di Marciane, circa un unico vangelo ha probabilmente giocato
nel senso di accogliere comunque un numero plurale di vangeli. Ireneo si
riferisce anche al modo di procedere degli ebioniti (che usano solo Mat-
teo e respingono Paolo); a quelli che separano il Gesù passibile dal Cristo
(preferiscono Marco); e a coloro che, rigettando i carismi profetici, non
ammettono né Giovanni né Paolo (adv. haer. 3,11,9 ).
La coscienza canonica è pure evidente nel caso degli Atti degli Aposto-
li (adv. haer. 3,12-14), e nel caso del corpus paolino, anche se Ireneo, pur
;lftèrmando che chi non accetta Paolo si separa dall'unione degli aposto-
li (adv. haer. 3,15,1), non dà una lisca delle lettere paoline. Meno ancora
sappiamo del resto degli scritti citati da Ireneo (Giacomo, 1 Pc, 1 Gv, 2
Gv, Ap). Come opera degli apostoli li avrà considerati all'interno della
collezione normativa, ma fino a che punto li ha valutati come un'entità
definita? Al contrario, è evidente la distinzione fra questi scritti e gli altri
144 STORIA DEL CRISTIANESIMO
l'autore è necessario che i libri accettati risalgano ali' epoca apostolica e im-
plica, contro i montanisti, la fine del tempo dell'ispirazione scritturistica.
ne abbia confezionato una lista canonica. Alla luce dei dati presentati, nem-
meno sembra prudente dar credito a un passo delle omelie di Origene su
Giosuè ( 7,1), conservato nella traduzione latina di Rufino, nel quale trovia-
mo una enumerazione di autori e di scritti che coincide con l'attuale canone.
Nel IV secolo troviamo le prime liste complete dei libri del Nuovo Testa-
mento. Quella di Eusebio (h.e. 3,25,1-7) pare una creazione originale a par-
tire dalla sua ricerca negli scrittori ecclesiastici. Contiene i quattro vangeli,
Atti, le lettere di Paolo, probabilmente insieme con Ebrei in forza della
sua unanime ricezione, una lettera di Giovanni e una di Pietro. Per finire,
presenta l'Apocalisse come incerta. Tali libri sono da lui considerati homo-
logoumenoi, cioè accolti. Da questi si distinguono, a seconda della maggio-
re o minore ricezione ecclesiale, i libri discussi (antilegomenoi), i quali a
loro volta sembrano suddividersi in antilegomenoi (Giacomo, Giuda, 2. Pc,
2-3 Gv: la terminologia è fluttuante) e nothoi, cioè spuri (Atti di Paolo, il
Pastore, Apocalisse di Pietro, Lettera di Barnaba, Didache, Apocalisse, per
quest'ultima Eusebio ammettendo che possa anche non essere accolta).
Da ultimo, Eusebio allude ai libri eretici (nothoi pantelos: h.e. 3,31). Così le
frontiere del canone non sono del tutto definite, anche se l'esplicitazione
del tema è sufficientemente avanzata da essere vicina alla canonizzazione.
Alcuni decenni più tardi, Cirillo di Gerusalemme enumera anch'egli i
libri del Nuovo Testamento (rispetto all'attuale canone manca l'Apocalis-
se) nelle Catechesi battesimali (4,33-36). Questi (in generale homologoume-
n,z) sono distinti dagli apocrifi (apokrypha) o controversi (amphiballome-
na). La menzione di altri vangeli nocivi fa pensare che in Palestina a metà
del IV secolo circolavano non soltanto i quattro vangeli accolti da Cirillo.
Dal canto suo, Atanasio nella Lettera Festale 39, include un insegna-
lllenco sulla Scrittura e gli scritti apocrifi (apocrypha) nel quale figura una
lista di libri canonizzati (kanonizomena: per la prima volta il termine appa-
re in questo contesto; anni prima lo stesso Atanasio aveva impiegato kanon
in questo senso: cfr. ep. decr. syn. Nic. 18), la prima con gli attuali ventisette
libri, seguita da una lisca di libri "letti" (anaginoskomena ), il cui impiego era
destinato ai catecumeni. Atanasio afferma che non fa altro che ricordare ai
destinatari quello che già sanno, il che induce a pensare che una cale colle-
zione fosse già diffusa in Egitto dai tempi del predecessore Alessandro.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Questa lista di ventisette libri non dovrebbe far dimenticare che autori
come Gregorio di Nazianzo, Anfilochio, Didimo, Giovanni Crisostomo,
Teodoro e Teodoreto (secoli 1v-v) attestano altre liste, che si differenziano
in generale l'una dall'altra per la ricezione o meno di alcune delle lettere
cattoliche e soprattutto dell'Apocalisse. Dal suo canto, Agostino è testi-
mone di un canone di ventisette libri (doctr. chr. 2.,13), il quale fu sanzio-
nato da tre sinodi nordafricani fra i secoli IV e v. I numerosi manoscritti
biblici delle lettere di Paolo senza Ebrei mostrano i dubbi che questo libro
suscitò nella Chiesa latina a partire dal III secolo.
la diaspora una collezione di libri sacri ancora aperta e in molti casi più
ampia dell'attuale. Le differenze fra i gruppi potevano essere notevoli: i
sadducei consideravano ispirata solo la Torah (il Pentateuco) e rifiutavano i
profeti, al contrario dei farisei. Di sicuro da molti era considerata ispirata la
letteratura che i moderni chiamano "apocalittica", soprattutto quella legata
al nome di Enoch. Questi scritti proponevano una spiegazione alternativa
rispetto a quella contenuta in Genesi sull'origine del male, attendevano da
Dio un cambio "traumatico" dell'assetto attuale del mondo e l'avvento di
un mondo (eone) governato da Dio: anche i vangeli canonici presentano
tracce di pensiero apocalittico. A seguito della tragedia delle rivolte giu-
daiche, che questa letteratura poteva aver ispirato, i libri apocalittici non
furono accolti nel canone ebraico (un'eccezione è Daniele). Se l'Antico
Testamento dei cristiani è più ampio di quello ebraico è perché proviene
da una collezione ampia (i Settanta: cfr. infra) in circolazione fra uno o più
gruppi giudei all'inizio dell'era cristiana. Né si dimentichi che, attualmen-
te, il canone cristiano è più o meno ampio a seconda delle varie confessioni.
2.. Dal principio i discepoli di Gesù, seguendo il loro Maestro, accolsero
le Scritture di Israele come tali. In queste coesistevano diverse collezioni, i
cui confini erano incerti. Fin dagli inizi della letteratura cristiana si consta-
ta che i cristiani ricevettero le Scritture di Israele secondo la versione greca
detta dei Settanta o Septuaginta, una traduzione cominciata in Egitto nel
LA BIBBIA AL CENTRO: CANONE ED ESEGESI 149
III secolo a.C. a beneficio dei Giudei che non comprendevano l'ebraico e
che divenne il testo sacro di riferimento per le chiese dei primi secoli. In 2.
Tm 3,10-17, l'autore attesta che i «i sacri scritti» fanno parte del bagaglio
della comunità cristiana da lungo tempo e sono utili perché il ministro
acquisti sapienza e insegni.
Lungo il II secolo i cristiani della Grande Chiesa, in linea con la pole-
mica nei confronti del giudaismo, prendono progressivamente coscienza
che le Scritture appartengono a loro (Giustino, Dia!. 2.9,2.). Complessiva-
mente, gli autori del II secolo includono nelle Scritture i libri deuteroca-
nonici (cioè quelli che non furono inclusi nel successivo canone ebraico,
ma si ritrovano nella collezione dei Settanta) e un buon numero di scritti
apocrifi. In pratica la grandissima maggioranza delle citazioni scritturisti-
che corrispondono alla Legge, ai profeti e al libro dei Salmi. La lista offerta
da Melitone di Sardi nella prefazione delle sue Egloghe (h.e. 4,2.6,13-14)
lascia intendere che esistevano collezioni con diverse delimitazioni e che
non c'era certezza su quale fosse la migliore.
+ A partire da Clemente di Alessandria i libri sapienziali (Proverbi, Sa-
pienza, Siracide) entrano con forza nell'argomentazione scritturistica. Da
allora in poi sarà ancora più necessario delimitare la collezione dell'Antico
Testamento, per la quale si possono constatare due tendenze opposte: a) il
canone cristiano deve essere identico al canone ebraico, il quale si considera
chiuso intorno all'anno 2.00; b) detto canone può essere diverso, a seconda
della ricezione dei libri nelle chiese (Tertulliano, de cult.jèm. 1,3,1-3).
5. Per Origene è un dato di fatto che la collezione cristiana diverge da
quella ebraica per lingua e contenuto (comprende parti di libri o libri in-
teri che non si trovano nel canone ebraico) e ciò è un'eredità ecclesiale
non modificabile. Attesta che esiste una categoria di libri endiathekoi, cioè
accolti (sembra inglobare i deuterocanonici) e un'altra di apokryphoi (di
interesse, ma non facenti parte della collezione sacra, e che debbono essere
usati con precauzione). Tuttavia Origene sembra accordare al testo ebrai-
co una posizione di riferimento (Lettera ad Africano); e, curiosamente, egli
non ha commentato nessun libro poi chiamato deuterocanonico, il che
1nostra l'influsso della bibbia ebraica nel mondo cristiano.
<,_ Nella LetteraJèstale 39, Atanasio afferma che i libri canonici sono venti-
due, come le lettere dell'alfabeto ebraico. In questa lista (come in quelle di
e; regorio di Nazianzo, Anfilochio, Cirillo di Gerusalemme e del concilio
di Laodicea) non compare nessun deuterocanonico, salvo Ester. Sussiste
una terza categoria, probabilmente aperta: gli "altri libri" (Sap, Sir, Est, Gdt,
150 STORIA DEL CRISTIANESIMO
L'esegesi scritturistica
Questioni introduttive
proprio, in quanto, come vedremo fra breve, influisce sul secondo. In questo
senso, le Scritture si riveleranno un perenne campo di battaglia.
Seguendo un uso giudeo attestato nei manoscritti del mar Morto, i cristia-
ni inizialmente selezionarono, e in parte crearono, passi delle Scritture, che
chiamiamo Testimonia, intorno a un tema (la croce, la morte di Gesù, l'un-
zione messianica), per provare che le profezie si erano compiute in Gesù,
il che già presuppone un atto interpretativo a partire dalla fede in Cristo.
Poco a poco tutta la Scrittura cominciò a essere ripensata. Per Paolo
le Scritture contengono la promessa del vangelo (Rrn 1,1-2) e tutte le pro-
messe di Dio si sono compiute in Cristo (2 Cor 1,20). Le Scritture con-
fermano gli eventi della vita di Gesù (kata tas graphas: 1 Cor 15,3b-5) e
i loro grandi episodi sono letti alla luce di Cristo (Gal 3,6-18; 4,21-31),
chiave di lettura grazie alla quale si dissolve il velo che nasconde il suo
senso vero (2 Cor 3,14).
Paolo non si distingue nella sostanza dagli altri ebrei per le tecniche
interpretative che impiega e, in genere, la terminologia e i procedimenti
esegetici del primo cristianesimo si collocano in continuità con quelli del
mondo sia pagano sia giudeo, sebbene presentino anche qualche caratteri-
stica propria. In Gal 4,24 Paolo usa il participio allegoroumena ('detto in
allegoria') per dire che le due donne di Abramo, Agar e Sara, significano le
due alleanze, quella degli schiavi (i Giudei) e quella dei liberi (i cristiani).
A partire da questo momento l'allegoria acquista diritto di cittadinanza
fra i cristiani. In tal caso il procedimento comporta l'andare da un punto
ddla storia (Agar e Sara) (come nel giudaismo, a differenza dal mondo pa-
gano) a un altro (le due alleanze), laddove è il punto di arrivo che dà senso
pirno al momento iniziale. Siccome Paolo usa allegoria come sinonimo di
typos (per esempio, il passaggio del mar Rosso è inteso come typos del bat-
tesimo in I Cor 10,6 e Adamo come typos di Cristo, nuovo Adamo in Rrn
5,i+) questo tipo di allegoria è a volte chiamato "tipologica''.
Il metodo allegorico consente di ricavare anche altri tipi di significato.
Crazie a esso il giudeo Filone ricavava, alzandosi dalla storia a un piano su-
periore, un insegnamento morale, quindi atemporale: in Abrah. 99, Abra-
1110 t: Sara rappresentano l'unione dell'intelligenza e della virtù; gli ani-
inali proibiti (come già nella Lettera di Aristea) indicano i vizi da evitare e
STORIA DEL CRISTIANESIMO
che si muove comodamente in tutti gli scritti antichi e nuovi. Fra questi,
i valentiniani sembrano aver avuto una predilezione per Giovanni, come
è provato da una raffinata interpretazione del prologo (Ireneo, adv. haer.
1,8,5-6), nella quale si incontrano gli otto eoni principali del Pleroma e
dal commentario cristiano più antico a noi noto (grazie alla confutazio-
ne di Origene nel suo Commento a Giovanni) di un libro della Scrittura,
precisamente quello a Giovanni composto da Eracleone, meno tecnico e
indirizzato a un pubblico più ampio.
I valentiniani erano in grado di piegare i testi ai loro assiomi mediante
metodi di tutti i tipi, con il predominio dell'allegoria di tipo platonico,
precisamente perché essi prendevano come paradigma della realtà il mon-
do divino del Pleroma, di cui la storia è un pallido riflesso, sicché quello
che succede in essa si riferisce principalmente a quello e solo in modo de-
rivato agli uomini spirituali e al loro destino finale.
L'esegesi valentiniana influirà enormemente su autori come Ireneo e
Tertulliano, fra i protagonisti della tradizione che chiamiamo asiatica (cfr.
infra, pp. 155-6). Oltre ad accelerare la coscienza canonica nella Grande
Chiesa, la polemica scatenata contribuirà a fissare la coscienza testuale
neotestamentaria e ad affinare concetti decisivi come quello di paradosis
o traditio (cioè la tradizione, segreta per gli gnostici, pubblica per gli ec-
clesiastici) quale criterio ermeneutico per interpretare la Scrittura. Senza
chiudersi a nessun metodo esegetico, risulta decisivo per questi autori lo
schema promessa-compimento senza allontanarsi dal piano storico: ciò
che si annuncia nelle Scritture di Israele si compie in Gesù; e si compie o
si compirà nei cristiani, tutto questo visto nella prospettiva dell'unico Dio
creatore, Padre di Gesù e dell'unica economia destinata a introdurre lo
Spirito nella carne dell'uomo per la sua salvezza.
L'esegesi allegorico-tipologica fu inoltre protagonista, oltre alla pole-
111ica antigiudaica (Giustino), nelle due omelie pasquali di ambiente asia-
tico quartodecimano, quella di Melitone di Sardi e l'anonima In sanctum
/l,zsl"ha, predicate al popolo per la Pasqua e costruite a partire da una let-
tura cristiana di Es 12.: il sacrificio dell'agnello pasquale e la liberazione
dd popolo di Israele dall'Egitto sono typos del sacrificio di Cristo, della
liberazione dell'uomo dal peccato e morte e della sua nuova creazione.
Da ultimo, è importante un riferimento all'attività esegetica di Ippo-
lito, vescovo orientale, il quale compose commentari a larghi brani della
Scrittura (Sul Cristo e l'A.nticristo, Commmento a Daniele, Commento al
Cmtiw, David e Goliath, Benedizioni di Giawbbe e di Mose), nello stile
154 STORIA DEL CRISTIANESIMO
(cfr. supra, pp. 13 5-6) che ora, grazie alla straordinaria recente scoperta di
Marina Molin Pradel delle ventinove omelie sui Salmi nell'originale greco
contenute nel Codice Monacense greco 314, sappiamo da lui applicata an-
che nella predicazione al popolo, quando discetta degli errori dei copisti
del testo biblico (Perrone, 2.012). Però il vero compito dell'esegeta consiste
nella ricerca del senso o dei diversi sensi spirituali del passo: nell'opera Sui
principi, che contiene anche un'ampia trattazione (4,1-3) sulla Scrittura e
la sua interpretazione, egli definisce, a partire dalla tripartizione corpo/
anima/ spirito, tre livelli letterale/ morale/ spirituale, sebbene questo sche-
ma non sia applicato sistematicamente nella sua esegesi.
In ogni caso lo scopo fondamentale è la ricerca del senso superiore, spi-
rituale, conformemente al modello platonico, secondo il quale bisogna in-
nalzarsi per mezzo dell'allegoria alla verità eterna del vangelo. Paradigma
ermeneutico della sua esegesi è la convivenza perfetta di Dio per mezzo
del Logos con i noes prima del loro peccato (cfr. infra, p. 157). Il dato sto-
rico, corporeo è solo il punto di partenza, non il punto di arrivo. Pertanto
esiste in funzione del livello superiore. Allo stesso modo, dalla conoscenza
di Cristo uomo, propria del cristiano semplice e consentanea al senso let-
terale della Scrittura, si passa alla conoscenza di Cristo Dio da parte del
cristiano perfetto in accordo con il senso spirituale (Hom. Lv. 1,1 ).
Le tradizioni patristiche
Completiamo quanto siamo andati dicendo a proposito degli autori cri-
stiani che si contrapposero a Marciane e alle correnti gnostiche, accennan-
do alla formazione delle grandi tradizioni patristiche, asiatica e alessandri-
na, dove per "tradizione" si intende una categoria dinamica associata a un
ambiente, a un individuo o a un gruppo, che si riferisce a una forma globa-
le di concepire e vivere la fede cristiana a partire dalla dichiarata ricezione
ddla predicazione apostolica, e che comprende il modo di vivere e pregare,
la riflessione dottrinale, l'interpretazione della Scrittura, riconoscendosi
in alcuni principi fondamentali. Infatti, a differenza di Marciane e degli
gnostici, i quali pure si riferivano alle tradizioni di un apostolo privilegiato
(Paolo, nel caso di Marciane) o di alcuni (come nel caso degli gnostici), le
tradizioni che chiamiamo patristiche riaffermano l'unicità di Dio e nega-
no la differenza di natura degli uomini.
La tradizione che fiorì per prima fu quella asiatica. La denominazione
STORIA DEL CRISTIANESIMO
nica natura degli esseri creati da Dio inizialmente come creature raziona-
li (i noes), tutte uguali, dotate di libero arbitrio, variamente decadute (è
incerto se tutte o moltissime), per libera scelta, dalla primordiale condi-
zione celeste di bene e di unione con il Logos di Dio (dottrina impropria-
mente ma comunemente detta della "preesistenza delle anime"). Il male
non esiste sostanzialmente, è solo l'assenza di bene prodotta dagli esiti del
libero arbitrio: Dio, che si identifica con il Bene, predispone un assetto
del cosmo adatto al recupero delle creature, donde il mondo attuale e la
suddivisione delle creature in angeli, esseri umani e demòni. Ali' iniziale
uguaglianza delle creature corrisponderà analoga fine e dunque Origene
ammette la salvezza universale delle creature (dottrina dell'"apocatastasi")
- compreso il diavolo che per primo si era allontanato dalla sua condizio-
ne originaria - recuperate lentamente e liberamente al bene dall'azione
provvidenziale di Dio che si dispiega in più mondi successivi, esercitando
prima la giustizia punitiva e poi la bontà salvatrice. Due sono le conse-
guenze: a) in origine non c'è differenza fra angeli, uomini e demòni; b)
la creazione materiale, la sua salvezza e la vita di Gesù nella carne sono
conseguenti alla caduta della prima creazione. Preesistenza e apocatastasi
furono, praticamente da subito, dottrine contestate, anche se Origene ave-
va buon gioco nel dire che non c'era nessun chiaro pronunciamento della
tradizione apostolica sull'anima. In sostanza, Origene non ammette che il
male, che è per lui non essere, possa sussistere in eterno rispetto ali' Essere
e al Bene che è Dio: così egli salvaguarda la teodicea in una maniera ardita
(cioè con l'apocatastasi) che non mancò di affascinare e che è stata ripro-
posta variamente da alcuni pensatori in tutte le epoche.
Bibliografia ragionata
Sulla questione del libro cristiano, due ottimi testi come avvio alla ricerca sono H. Y.
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<Fonografica, in "Adamantius", 16, 2.010, pp. 34-51.
In generale sulla questione del canone, cfr. E. NORELLI, Le statut des textes chrétiens
rie f'oralité à l'écriture et leur rapport avec l'institution au II' siede, in Id. (éd.), Recueils
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STORIA DEL CRISTIANESIMO
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Peabody (MA) 2.007. Gli atti di congressi recenti sono L. M. MCDONALD, J. A. SAN-
DERS (eds.), Ihe Canon Debate, Hendrickson, Peabody (MA) 2.002.; J. M. AUWERS,
H. J. DE JONGE (eds.), Ihe Biblica/ Canons, Leuven University Press, Leuven 2.003.
Per le opere collettive, cfr. G. ARAGIONE, E. JUNOD, E. NORELLI (éds.), Le Canon
du Nouveau Testament, Labor et Fides, Genève 2.005 (di cui si veda in particolare il
contributo di E. JUNOD, D 'Eusebe à Athanase, pp. 169-95). Su Papia, cfr. E. NORELLI
(= Norelli, 2.005), Papia. Esposizione degli oracoli del Signore. I frammenti, Paoline,
Milano 2.005.
Sul canone dell'Antico Testamento si segnalano J. D. KAESTLI, o. WERMELINGER
(éds.), Le Canon de l'A.ncien Testament, Labor et Fides, Genève 1984 (di cui si veda
in particolare il contributo di E. JUNOD, La farmation et la composition de l'A.ncient
Testament, pp. 105-34); N. FERNANDEZ MARCOS, La Bibbia dei Settanta, Paideia,
Brescia 2.000; G. DORIVAL ( = Dorival, 2.004), La farmation du canon biblique de
l'A.ncient Testament, in Norelli (éd.), Recueils normatifi et canons dans l'A.ntiquité, cit.,
pp. 83-112..
Sulla storia dell'esegesi cristiana, si vedano M. SIMONETTI, Lettera e/o allegoria,
Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1985; ID., Origene esegeta e la sua tradizione,
Morcelliana, Brescia 2.004. Sulla relazione fra ermeneutica ed esegesi, cfr. P. DE NAVA-
SCUÉS, El cuerpo de Cristo, el libro de la Vida, Faculcad de Teologia San Damaso, Ma-
drid 2.008. In particolare, per i latini, si vedano A. POLLASTRI, F. COCCHINI, Bibbia e
storia nel cristianesimo latino, Boria, Roma 1988. Sul concetto di tradizione asiatica e
alessandrina, si segnala M. SIMONETTI ( = Simonetti, 1994), Ortodossia ed eresia tra I
e II secolo, Rubbettino, Saveria Mannelli 1994.
Per una prima qualificata informazione su Origene, cfr. A. MONACI CASTAGNO (a
cura di), Origene. Dizionario. La cultura, la vita, le opere, Città Nuova, Roma 2.000;
F. COCCHINI, Origene. Teologo esegeta per un 'identità cristiana, EDB, Bologna 2.006. È
in corso per la collana "Griechischen Chrisclichen Schrifcsteller" (Gcs) l'allestimento
dell'edizione critica delle ventinove omelie sui Salmi scoperte da M. Molin Pradel:
cfr. L. PERRONE ( = Perrone, 2.012.), Riscoprire Origene oggi: prime impressioni sulla
raccolta di omelie sui Salmi nel Cod. Mon. Graec. JI4, in "Adamantius", 18, 2.012., PP·
41-58. Sulla tradizione alessandrina si vedano i volumi della rivista "Adamantius''. con
amplissima bibiografia, e i convegni del Gruppo italiano di ricerca su Origene e la
Tradizione alessandrina (GIROTA).
5
Alla periferia dell'Impero romano e oltre:
i caratteri comuni dei cristianesimi orientali
(secoli II-IV)
di Alberto Camplani
I tratti comuni
Siria e Mesopotamia
La letteratura cristiana
Maestri e profeti
Questo rapido giro d'orizzonte sulle versioni bibliche fa intuire quale va-
rietà di posizioni teologiche ed etiche abbia ospitato il cristianesimo di area
siriaca, soprattutto in zona edessena. L'encratismo non è solo tratto carat-
teristico di Taziano, ma pervade anche tutta la letteratura legata al nome
dell'apostolo Tommaso ( vangelo e Atti), conservata in copto, greco e siria-
co, collocabile in Osroene pur senza prove decisive, dove una protologia in
cui l'essere umano è presentato come unitario e non sessualmente differen-
ziato costituisce anche il paradigma escatologico; Tommaso costituisce l'e-
sempio del vero credente, gemello di Gesù il vivente, e quest'ultimo assume
in alcuni casi i tratti tipici della cristologia doceta (cfr. CAP. 3, p. 111 ).
Una cristologia anch'essa alca (cfr. CAP. 3, p. 113), centrata su un Cri-
sto rivelatore e salvatore cui l'intimità del credente desidera conformarsi,
espressa in un linguaggio immaginifico ispirato ai Salmi, è illustrata nel-
le Odi di Salomone, uno degli insiemi testuali di più difficile datazione e
collocazione ideologica: lo dimostra il fatto che le Odi sono utilizzare da
intellettuali distanti come Lattanzio e l'autore gnostico della Pistis Sophia,
e che in siriaco sono trasmesse nell'ambito di manoscritti di contenuto
biblico. Non stupisce che, in epoca moderna, siano stare classificate varia-
mente tra i due poli estremi del giudeocristianesimo e dello gnosticismo.
Una sensibilità spiccata verso l'elaborazione filosofica greca caratteriz-
za Bardai~in (Bardesane, 154-2.22.), caposcuola di una corrente intellettuale
cristiana fiorita a Edessa tra II e III secolo, connessa alla corte e destinata nel
IV a essere marginalizzata. A lui o all'autore delle Odi di Salomone è attribui-
bile l'iniziativa di comporre versi poetici in lingua siriaca. La sua personalità
sfugge a una classificazione nei termini delle correnti cristiane dell'epoca.
Certamente il suo sistema e la sua etica non sono vicini a quelli prevalenti
nella Grande Chiesa (Ireneo, Origene), ma nemmeno contigui allo gnosti-
cismo classico, né all'encratismo della letteratura legata a Tommaso, anzi è
tutto percorso da una polemica contro il marcionismo condotta sulla base
di una reologia del Logos (cfr. CAP. 3, p. 12.0) coniugata con speculazioni
sull'eternità della materia, la quale rifiuta l'opposizione marcionita tra il
Dio dell'Antico Testamento e il Dio "straniero" padre di Gesù Cristo.
L'atteggiamento di polemica esplicita o implicita contro Marciane è
stato riconosciuto non solo negli scritti di Bardesane, ma anche in alcu-
ne Odi di Salomone, nella leggenda di Abgar, nonché nei più tardi autori
del IV secolo, Efrem e Liber graduum. Non vi possono essere dubbi sul
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE
fatto che, mentre le sette gnostiche hanno condotto una vita appartata in
ambiente siriaco, il marcionismo abbia costituito una reale sfida agli altri
movimenti cristiani.
Dalla parte opposta del ventaglio delle opzioni teologiche si collocano
i gruppi di Giudei credenti in Cristo rappresentati sia in Osroene, sia nelle
Mesopotamia orientale e meridionale. Qui i gruppi di battisti fin dal II
secolo hanno costituito comunità significative, ispirate al profeta Elchasai
("la potenza del nascosto") (cfr. CAP. 2., p. 87 ), cui reagiranno dialettica-
mente i movimenti più tardi come il mandeismo e il manicheismo.
Il manicheimo è un elemento fondamentale di questo quadro, quello che
probabilmente ha contribuito al rafforzamento dell'identità della Grande
Chiesa in tutta l'area, proprio per la radicalità con cui ha posto il problema
del dualismo, del male, delle nature, dell'etica, della Chiesa. Esso nasce nella
Mesopotamia sasanide, ma Mani ( 2.16-2.76), secondo la capitale testimonian-
za della sua biografia conservata nel Codice Manicheo di Colonia, indirizza
una lettera anche ai credenti di Edessa, dove evidentemente intende acquisi-
re proseliti, per convertirli alla religione dei due principi, la luce e la tenebra.
Le fonti
Ali' inizio del III secolo si osservano i segni di una reazione a questa strut-
tura evanescente della comunità cristiana e al suo orientamento religioso.
L'iniziativa è attribuibile a Demetrio, primo vescovo di Alessandria (189-
2.u.) storicamente verificabile, che decise di sfruttare l'enorme potenziale
intellettuale del maestro Origene e la sua capacità di reagire intellettual-
inence allo gnosticismo. Certamente è con l'assenso di questo vescovo che
Origene operò all'interno di una nuova struttura, la scuola catechetica
(didaskaleion), nella quale egli, in un secondo momento, aprì anche un li-
vello superiore di istruzione, riservando all'amico Eracla il livello "di base".
A differenza degli gnostici o di Clemente, Origene esercitava il suo ruolo
di maestro sotto il controllo del vescovo. La sua opera educatrice permise
a Demetrio di fare della comunità di Alessandria una Chiesa a un tempo
110 11 gnostica e gerarchicamente strutturata, caratterizzata dalla pluralità
STORIA DEL CRISTIANESIMO
dei livelli sociali e culturali, aperta alla cultura e all'élite sociale. Questo
non significa che non vi siano state tensioni tra episcopato e scuola, come
dimostra la sofferta vicenda di Origene, che a un certo punto della sua
carriera, per contrasti con Demetrio, dovette trasferirsi in Palestina, a Ce-
sarea, dove era stato ordinato presbitero dal vescovo Teoctisto e dal collega
Alessandro di Elia Capitolina (Gerusalemme).
Dopo Demetrio fu vescovo Eracla (232-248), che in seguito alla par-
tenza di Origene da Alessandria, era stato promosso alla guida della scuo-
la, e che non fece nulla per riconciliarsi con Origene. A Eracla succedet-
te Dionigi (248-264), uno dei personaggi più in vista di Alessandria, in
precedenza direttore della scuola: questi passaggi tra scuola ed episcopato
dimostrano come la scuola si fosse ormai completamente integrata nella
struttura della Chiesa. Ma questo comportò anche dei dissensi: un gruppo
di fedeli alessandrini protestò presso la sede di Roma contro il vescovo
Dionigi, criticando la sua dottrina trinitaria (cfr. CAP. 7, p. 231); lo scontro
di Dionigi con il millenarismo presente in alcune regioni egiziane ( tra le
quali il Fayyum) è prova delle difficoltà incontrate dalla politica cultura-
le della scuola integrata nell'episcopato. Questi dissensi non provenivano
solo da cristiani di scarsa preparazione o levatura sociale, perché soltanto
persone di una certa preparazione potevano muovere alla scuola l'accusa
di essere troppo sensibile alla filosofia greca.
D'altra parte, è evidente che con Demetrio si sta affermando anche ad
Alessandria, con un certo ritardo, la forma dell'episcopato monarchico.
Possiamo ipotizzare che esso subentri a una struttura presbiterale, forse
attiva ai vertici della Chiesa di Alessandria nel II secolo. Tale struttura, di
forte impronta giudaica, ha lasciato le sue tracce nel sistema di elezione e
ordinazione del vescovo di Alessandria, che in una prima fase prevedeva
che fossero i presbiteri della metropoli a scegliere e consacrare come ve-
scovo un loro membro. Demetrio diffonde il modello dell'episcopato mo-
narchico anche all'esterno della metropoli, nella Valle del Nilo, portando
così alla formazione delle prime diocesi. Con il rescritto dell'imperatore
Gallieno (261-262) inizia un periodo di pace che sarà interrotto soltanto
dalla persecuzione di Diocleziano (303): è il periodo in cui la Chiesa si
diffonde per tutto l'Egitto, anche nelle oasi, dando luogo, al tempo del
vescovo Pietro I (300-311), a quella rete di cento vescovi che con aggiunte
marginali rimarrà stabile fino alla dominazione araba. La scuola cateche·
tica, nonostante le lacune della nostra documentazione, sopravvive, anche
se il suo rapporto con l'episcopato è meno organico che alle origini.
ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO ROMANO E OLTRE 171
La nascita delle diocesi, attestate dai papiri documentari già nella seconda
metà del III secolo ( i più noti sono quelli relativi a Sotas di Ossirinco ), è
significativa per la popolazione della Valle del Nilo, soprattutto per quella
di etnia egiziana: essa vede la Chiesa della metropoli farsi prossima alle
sue esigenze religiose, fatto che si riflette nella presenza sempre più fitta di
cristiani egiziani nelle fonti del III secolo.
Va osservato che lo sviluppo della rete delle diocesi non permette il
prevalere di alcuna città sulle altre, né nella Valle del Nilo, né in Libia, né
in Cirenaica: Alessandria rimane il perno del sistema. Non si dà dunque
alcuna premessa per la formazione di una struttura metropolitana, come
invece accade in altre parti del Mediterraneo (ad esempio, la vicina An-
tiochia di Siria), ragione per cui in Egitto (come in Italia meridionale, in
rapporto a Roma) non esistono metropoliti e tutti i vescovi dipendono
da quello della capitale. Tale fenomeno affonda le sue radici nella storia
sociale e amministrativa dell'Egitto, nella quale solo tardi i capoluoghi
dei nomoi egiziani hanno ottenuto lo status municipale e sono considerati
come poleis con la loro classe amministrativa.
Il periodo che va da Demetrio a Dionigi è significativo anche per la
scoria linguistica delle comunità egiziane. La Chiesa comunica in greco
ma, a partire dalla seconda metà del III secolo, uno spazio è lasciato anche
a una forma specifica di egiziano, sebbene limitatamente ad alcuni ambiti
della produzione scrittoria: proprio in questa fase il copto comincia ad af-
fermarsi. Si deve tener conto del fatto che ancora nei primi secoli dell'Im-
pero la produzione di testi egiziani e la loro copiatura avveniva nelle varie
scritture note in Egitto, la cui difficoltà ne facevano un appannaggio di
un'élite ristretta, legata ai templi. La progressiva decadenza di tali sistemi
di scrittura a livello epistolare, amministrativo, e più tardi anche legisla-
tivo, portò inevitabilmente a una situazione nella quale il greco avrebbe
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Paralo
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La localizzazione geografica
L'evangelizzazione dell'Armenia
La letteratura armena
Tale dialettica ha lasciato le sue tracce anche nella cultura letteraria. Que-
sta deve il suo sviluppo a quello che la storiografia armena ritiene essere un
evento capitale per la sua letteratura, cioè l'invenzione dell'alfabeto arme-
no da parte di Mesrop Mastoz ( t 439 ), avvenuta con il sostegno convinto
del catholicos d'Armenia Sahak (t 438), vicenda su cui ci informa la Vita di
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Mesrop MaJtoc scritta da Koriun poco dopo la morte del suo eroe. Prima di
allora la Bibbia doveva venir tradotta ali' impronta e oralmente da lettori
in grado di comprendere o il siriaco o il greco. L'invenzione dell'alfabeto,
avvenuta a Edessa e perfezionata a Samosata, secondo il racconto di Ko-
riun, stimolò anche l'avvio di una vasta opera di traduzione che Mesrop
non poté certo realizzare da solo, ma con l'aiuto di generazioni di tradut-
tori, che appresero le lingue e le tecniche in tutti i centri più importanti
della cristianità bizantina. Il risultato fu una serie di traduzioni a partire da
testi siriaci e greci, che portò a una mescolanza interessante di tradizioni
teologiche e spirituali. Per quanto riguarda la Bibbia una prima traduzione
parziale condotta sul siriaco operata da Mesrop fu seguita da una seconda,
sulla base del testo greco, per opera di Eznik. Quindi si tradussero opere
storiografiche, nonché gli scritti di impegno teologico ed esegetico, anche
quelli appartenenti alla tradizione antiochena, e la letteratura canonica.
Solo a questo punto cominciò una produzione originale in lingua armena.
L'Etiopia
Il regno di Axum aveva il suo centro nell' alcopiano abissino, nel Tigray, a
notevole distanza dalle zone più meridionali dell'Egitto; nello stesso tem-
po esercitava la sua influenza politica al di là del mar Rosso, nella penisola
arabica sudoccidentale (Yemen), con la quale condivideva alcuni elementi
culcurali e linguistici. Le iscrizioni reali, redatte sia in ge'ez, la lingua etio-
pica classica, in un alfabeto che ricorda quello sabeo, sia in greco, attestano
la penetrazione dell'ellenismo anche in questa zona così remota.
La Storia ecclesiastica di Rufino è importante anche per inquadrare le
notizie e le testimonianze numismatiche ed epigrafiche circa la diffusione
del cristianesimo in Etiopia (che qui chiameremo Axum), una delle avven-
ture più straordinarie del cristianesimo antico ( 1,9-10 ). L'altro documento
capitale è la lettera, citata da Atanasio nell'Apologia a Costanzo 31, nella
quale l'imperatore Costanzo, dopo il 337, esorta i re di Axum 'Ezana e
Sazana a inviare ad Alessandria, presso il vescovo Giorgio che ne è a capo
(dopo la cacciata di Atanasio nel 356), il vescovo Frumenzio, affinché ne
verifichino la fede, dato che la sua ordinazione è stata effettuata da Atana-
sio, uomo riprovevole secondo l'imperatore, e dunque probabilmente in
contrasto con le leggi vigenti della Chiesa. La lettera di Costanzo non ci
dà la data di questa prima ordinazione. Attualmente, c'è un certo consen-
so critico sui primi anni so del IV secolo.
180 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Le traduzioni in etiopico
di traduzione deve essere tenuta ben distinta da quella medievale, che sarà
rivolta soprattutto ai testi cristiani circolanti in lingua araba.
Bibliografia ragionata
in the Lord: Early Christians in the Oxyrhynchus Papyri, Harvard University Press,
Cambridge (MA) 2.008.
Cristianesimi del Caucaso. Sulla Chiesa armena e sulla Chiesa georgiana, cfr. F.
THÉLAMON, Pai'ens et Chrétiens au Ili' siede. L 'apport del' «Histoire ecdésiastique» de
Rufin d:A.quilée, Études augustiniennes, Paris 1981; J.-P. MAHÉ,L:A.nnénie et la Géorgie,
in Histoire générale du christianisme, voi. 1: Des origines au xli' siede, PUF, Paris 2.010,
pp. 652.-74 (con bibliografia). Sull'Armenia, si segnalano L. VACCARO, B. L. ZEKIYAN
{a cura di), Storia religiosa dell:A.nnenia, ITL Centro Ambrosiano, Milano 2.010; N. G.
GARSOIAN, L 'Église Annénienne e le Grand Schisme d'Orient, Peeters, Louvain 1999.
Sulla Georgia, cfr. G. SHURGAIA {a cura di), Santa Nino e la Georgia. Storia e spiritua-
lita cristiana nel Paese del Vello d'oro, Edizioni Antonianum, Roma 2.000.
Sull'Etiopia. Introduttivo sulle problematiche accennate è il volume A. BAUSI
(ed.), Languages and Cultures ofEastern Christianity: Ethiopian, Ashgate, Farnham
2.012.. Come fondamentale strumento di lavoro, si segnala Encydopaedia Aethiopica,
voi. I: A-C; voi. Il: D-Ha; voi. lii: He-N; s. UHLIG, A. BAUSI {eds.), voi. IV: O-X;
A. BAUSI, s. UHLIG {eds.), voi. V: Y-Z, Harrassowitz, Wiesbaden 2.003, 2.005, 2.007,
2.010, 2.013. Sulle origini, cfr. H. BRAKMANN, TO TTAPA TOU: BAPBAPOIL EPrON
0EION. Die Einwurzelung der Kirche im spdtantiken Reich von Aksum, Borengasser,
Bonn 1994.
Parte seconda
Cristianesimo, società, istituzioni
6
Il cristianesimo e la società
del mondo greco-romano fra I e III secolo
di Giancarlo Rina/di
Le autorità e i cristiani
Per molti anni si è parlato, con termini generici e inadeguati, di rapporti tra
Chiesa e Stato romano. Successivamente, si è sviluppata una maggiore at-
tenzione storiografica nei confronti del diverso atteggiamento degli impe-
ratori in riferimento alla realtà cristiana. Sulla scorta di questa nuova sen-
sibilità la storia delle persecuzioni è stata riletta come la storia dei rapporti
tra imperatori e cristiani. Ma anche questo percorso rivela una sostanziale
immaturità di impostazione; esso, infatti, sembra ignorare che l'Impero
romano era un mosaico di province in ciascuna delle quali l'autorità di
Roma era pienamente rappresentata da governatori i quali esercitavano,
con ampi poteri discrezionali, anche la funzione di magistrati giudicanti.
Ben difficilmente, dunque, i cristiani entravano in contatto diretto con il
princeps. Più importanti delle sue eventuali direttive era l'atteggiamento
dei governatori locali sul quale incideva non solo la normativa generale
che costoro erano chiamati ad applicare, ma anche la specificità delle si-
tuazioni locali e del momento, gli umori della popolazione e, in ultima
analisi, le loro stesse personali sensibilità di uomini e di amministratori.
Abbiamo già visto, inoltre (cfr. CAP. 3), che non possiamo parlare sempli-
cisticamente di Chiesa, ma che dobbiamo considerare i cristiani un insie-
me variegato per dottrina, organizzazione, visione del mondo e, pertanto,
,cnsibilità verso i poteri costituiti.
Tutto ciò rende più difficile il lavoro dello storico. Per analizzare le vi-
cende degli antichi cristiani è infatti il caso di ricostruire, per quanto pos-
,ibile, la successione dei governatori che hanno rivestito la carica nelle sin-
gole province (fasti magistratuali), e così "incrociare" una realtà locale con
b politica generale del momento e con il mosaico delle presenze cristiane.
Si tratta cioè di proporre un'attenzione "prosopografica": già Eusebio di
188 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Nel 235, con la fine della dinastia severiana, termina anche l'apertura
filocristiana. Il nuovo princeps, Massimino il Trace (235-238), uomo atten-
to alle esigenze dei suoi eserciti, procedé a una sorta di epurazione dei cri-
stiani che aveva trovato inseriti negli ambienti di corte. L'iniziativa, nella
storiografia ecclesiastica, si trasformò nel ricordo di una persecuzione. In
realtà non vi fu la promulgazione di alcuna legge anticristiana da parte di
Massimino e gli episodi che si registrarono a Roma, nella Cappadocia e nel
Ponto furono variamente motivati da esigenze locali.
Il III secolo vide un'altalena di atteggiamenti diversi tra imperatori che
si successero, la cui politica passò in breve giro di tempo dall'avversione
alla tolleranza, o viceversa. L'abbiamo or ora visto con la successione di
Massimino il Trace ad Alessandro Severo. Il fenomeno è più evidente nel
passaggio da Filippo l'Arabo (244-249) a Decio (249-251) e lo sarà ancora
di più con Valeriano e Gallieno. Filippo l'Arabo era esponente dell'aristo-
crazia di una regione in buona parte cristianizzata, quel territorio intorno
a Bostra che Origene diligentemente visitava per affermarvi la sua teologia
di stampo ellenizzante contro il conservatorismo teologico di un vescovo
quale Berillo. Eusebio riferisce a proposito di Filippo un racconto che lo
vuole cristiano e penitente in chiesa, e ne ricorda la corrispondenza della
moglie Octacilia Severa proprio con Origene (h.e. 6,34.36). Tutto ciò, in
carenza di altri elementi, attesta più che altro una simpatia per la devozio-
ne dei cristiani, quasi un riemergere a mo' di fiume carsico della tolleranza
filocristiana dell'ultimo dei Severi.
Con Decio il discorso cambia. Egli è passato alla storia come l'artefice di
una persecuzione anticristiana di portata generale, ma in realtà l'iniziativa
che effettivamente prese consisté in una sorta di supplicatio agli dèi insoli-
tamente lunga ed estesa territorialmente. La misura era in sintonia con il
conservatorismo d'impronta senatoria che contraddistingueva la sua azione
politica, ma aveva anche una funzione propiziatoria in un momento in cui
guerre e morbi proiettavano sinistre ombre sullajèlicitas saeculi che le sue
monete proclamavano. Furono prescritti sacrifici pubblici agli dèi. Alter-
mine venivano rilasciate certificazioni relative a questi adempimenti. Sono i
libelli di cui oggi conserviamo circa cinquanta attestazioni papiracee le quali
ci rendono certi che anche a sacerdoti pagani fu richiesto di sacrificare. Il
particolare conferma che non si trattò di una deliberata persecuzione anti-
cristiana, anche se i credenti in Gesù furono messi in gravissima difficoltà,
come attesta Cipriano di Cartagine (cfr. CAP. 3, pp. 126-7 ).
Il primo imperatore a indire una persecuzione deliberatamente anticri-
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 197
stiana e di portata generale fu Valeriano che promulgò due editti, nel 2.57
e nel 2.58 ( Cipriano, ep. 80,2.; Eusebio, h.e. 7,10,4-9 ). Fu il perseguimento
di una mirata strategia. L'imperatore inviò anche missive ai governatori di
provincia. Si trattava di misure atte a incamerare i beni di ecclesiastici e a
decapitare l'organizzazione stessa delle comunità giacché si comminava la
morte di vescovi, presbiteri e diaconi. Quanto poi ai cristiani appartenenti
ai due ordines maggiori (senatori e cavalieri) essi avrebbero dovuto perdere
in prima istanza i propri beni e, in caso di mancata apostasia, anche la vita.
Il testo prevedeva pene specifiche per i "cesariani", cioè i liberti apparte-
nenti alla Familia Caesaris: confisca dei beni, relegazione, lavori forzati.
Questo accanimento non ottenne gli scopi desiderati: la cancellazione
delle comunità e il necessario sostegno economico alle armate del Cesare.
Valeriano fallì miseramente e terminò la sua vita prigioniero del grande
Shapur I, re della Persia sasanide, contro il quale s'era recato in armi (Lat-
canzio, mort. pers. 5,1-5).
La politica del figlio Galliena presenta tratti "rivoluzionari" sia per
quanto riguarda il ridimensionamento delle attribuzioni di comando ai
senatori, sia in materia di rapporto tra la res publica e le comunità dei cri-
stiani. Contraddicendo la politica del padre, già intorno al 2.60 egli resti-
cuiva con un rescritto alle chiese i beni sottratti nel corso della precedente
persecuzione. Il desiderio di ristabilire la pace con i cristiani risultò an-
che dalle missive che l'imperatore inviò ai principali vescovi per renderli
edotti della misura a loro favore; è dal contenuto di una di queste lettere
inviata ai vescovi d'Egitto che apprendiamo del suo epocale editto il qua-
le, nella sua originale formulazione, è per noi perduto (Eusebio, h.e. 7,13).
Così facendo, l'imperatore fondava la capacità giuridica di possedere beni
immobili da parte delle comunità cristiane in quanto tali. Si diede così
la stura alla costruzione di edifici chiamati a sostituire le oramai anguste
domus ecclesiae. La politica di Galliena inaugurò un quarantennio di pace
(la cosiddetta "piccola pace della Chiesa") durante il quale le guide dei
cristiani ebbero modo di esercitarsi in quelle discussioni dottrinali che poi
nell'età di Costantino, tra ulteriori misure di pace e di favore, avrebbero
dato corpo alla controversia ariana.
Scarsissime sono le notizie su Aureliano, il più illustre degli imperatori
restitutores del III secolo, e i cristiani. Egli volle stabilire una monarchia in
terra come in cielo. Per perseguire il primo proposito annesse le regioni
\taccatesi dall'Impero della Gallia e dell'Oriente signoreggiato da Zeno-
bia; per quanto attiene al secondo, proclamò il culto del Sol invictus, divi-
STORIA DEL CRISTIANESIMO
nità non estranea alla venerazione dei Romani ma che ora veniva presen-
tata quale immagine dell'unica sostanza divina manifestatasi, nella varietà
dei miti e dei riti, con i volti molteplici degli dèi del pantheon tradizio-
nale. Questa riforma era più matura di quella maldestramente tentata un
cinquantennio prima dal giovane Elagabalo, la quale, pure, era incentrata
sulla valenza sacrale del Sole. Ma in Elagabalo era l'esotico bolide di Emesa
a esigere diritto di cittadinanza e di egemonia a Roma, ora con Aureliano
era l'antica tradizione solare e apollinea che si ergeva ad esempio di mo-
narchia in cielo: come l'Impero era un'articolazione di province svariate,
tutte fedelmente espressioni del potere di Roma, così gli dèi dell'Olimpo,
classico e orientale, erano chiamati a raccolta atteggiandosi a raggi diversi
di quell'unico principio datore di unità e di vita che è il sacro sole.
Fu a seguito della riconquista di Antiochia, sottratta a Zenobia, che ad
Aureliano fu richiesto un arbitrato nella disputa tra due vescovi cristiani:
Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia (compromesso con la corte della
regina ribelle) e il suo avversario Domno. Nel 2.68 un sinodo di vescovi
contrari alla dottrina cristologica di Paolo lo aveva condannato e deposto
scrivendo poi una missiva prioritariamente ai vescovi di Roma e di Ales-
sandria. Ma Paolo non abbandonò la casa episcopale e quindi si ricorse
ali' imperatore. Aureliano pose il suo placet alla delibera sinodale sottoli-
neando il requisito della comunione con i «vescovi d'Italia e di Roma»
(Eusebio, h.e. 7,30,18). Tutto in armonia con la sua politica di aspirazione a
una "monarchia" imperiale, e con la conseguente ribadita centralità dell'I-
talia e di Roma.
Molte accuse che furono formulate dal popolo sul conto dei cristiani era-
no state già messe in circolazione a proposito dei Giudei. All'opinione
pubblica pagana non sfuggivano le affinità tra giudaismo e cristianesimo,
si sapeva inoltre che Gesù era nato tra i Giudei che costituivano un'ernia
già nota e circoscritta, mentre i cristiani avevano dato vita a un movimento
trasversale, esercitavano un'azione missionaria tenace e a tratti aggressiva,
inoltre rappresentavano una novità sospetta.
Si disse che i cristiani erano dediti al cannibalismo, praticavano l'in·
cesto, odiavano il genere umano. Probabilmente queste accuse presero le
mosse da fraintendimenti intorno al «mangiare il corpo del Signore», in
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 199
occasione della cena del Signore, e all'amore fraterno che legava i membri
delle comunità. Quanto poi all'odio verso il prossimo esso era arguibile
non solo dall'esclusivismo di queste stesse comunità, che si davano un'eti-
ca tutta loro, ma anche dall'astensione dalle cerimonie religiose pubbliche
da cui era considerata dipendere la salvezza della res publica. L'astensione,
che aveva una motivazione religiosa, veniva interpretata dagli estranei al
cristianesimo come un atto di pericoloso boicottaggio politico, stante la
compenetrazione nell'antichità fra sfera religiosa e politica.
Di chiara matrice antigiudaica, inoltre, è l'accusa di adorare un dio dal-
la testa asinina. Così, infatti, è raffigurato Cristo nel più antico crocifisso,
che è di mano pagana ed è accompagnato da un graffito che recita: «Ale-
xamenos che adora [ il suo] dio». Questo crocifisso blasfemo, trovato nel
paedagogium del Palatino, si ritiene risalga all'età dei Severi. In questa raffi-
gurazione caricaturale tanto Gesù in croce quanto l'adorante Alexamenos
indossano abiti servili. Ciò si concilia con l'altra denigrazione, secondo la
quale il cristianesimo avrebbe reclutato i suoi seguaci tra servi e ignoranti.
Agli osservatori pagani, probabilmente, non doveva sfuggire neanche il
fatto che le guide e i profeti delle comunità cristiane erano sovente liberti
o persone prive tanto di ascendenze gentilizie quanto di cultura, e tuttavia
costoro, nel chiuso delle loro conventicole, sentenziavano erigendosi a giu-
dici della società circostante. Ma più ancora che per questo aspetto sociale,
il carattere plebeo della predicazione cristiana era palesato dal fatto che a
essa erano estranei i contenuti e il metodo della filosofia classica.
Da connettersi ai comuni timori della società antica sono invece le ac-
cuse secondo le quali i cristiani sarebbero stati causa di calamità naturali e
avrebbero praticato la magia. La prima sembra derivare dalla già ricordata
astensione dei cristiani dai riti collettivi che procacciavano il favore degli
dèi, la prosperità dei campi, la sicura navigazione ecc. Quanto alla seconda
va detto che essa apparteneva all'armamentario antigiudaico. Mago è colui
che usa formule, parole e gesti difficilmente comprensibili, che influenza
le forze della natura. La magia determinava un timore diffuso nella socie-
tà amica. Paradossalmente, quando la Chiesa fu in grado di esercitare un
profondo influsso nell'ambito legislativo, furono i pagani a essere accusati
di praticare la magia e con la repressione di quest'ultima si avviò anche il
processo di distruzione di templi e di abolizione dei rituali tradizionali.
Ciò nei secoli IV e v.
Più pregnante tra tutte fu l'accusa di ateismo. Al mondo antico fu pres-
soché estranea l'idea di negare l'esistenza della divinità. Ateo, dunque, era
2.00 STORIA DEL CRISTIANESIMO
colui che voltava le spalle agli dèi protettori del suo popolo; dunque l'a-
teismo aveva un carattere di pericolosità sociale. Si aggiunga che i cristiani
sembravano non solo congiurare contro gli dèi patrii, quindi attentare alla
pax deorum, ma anche collocare al loro posto, con esclusivismo ingiusti-
ficabile per i pagani, l'astruso dio dei Giudei o, ancor peggio, il Nazareno
spirato miseramente sotto i colpi della giustizia romana.
Non dobbiamo meravigliarci del silenzio degli storici greci e romani sul-
la persona di Gesù. Il loro modo di tramandare la memoria aveva infatti
un carattere aristocratico e selettivo: si interessavano al profilo dei grandi
personaggi e delle loro donne mentre rimanevano loro sostanzialmente
estranei i grandi movimenti di popolo, così come coloro che appartene-
vano a strati sociali subalterni. Gesù era tra questi, un profeta itinerante
della Galilea, piccola regione posta alla periferia di una minuscola pro-
vincia equestre dell'Impero, quale la Giudea. La sua figura non fece no-
tizia fino a quando il movimento che da lui aveva preso le mosse acquisì
una dimensione tale da suscitare apprensione tra chi osservava le cose più
attentamente e temeva per un potenziale scardinamento dell'ordine pub-
blico. Su questo sfondo dobbiamo leggere le scarne notizie che, ali' inizio
del II secolo, sui cristiani reperiamo in Tacito, Svetonio e Plinio il Giova-
ne le quali, in un modo o nel!' altro, sono tutte direttamente collegate a
problemi di tutela dell'ordine pubblico. Nel I secolo abbiamo soltanto il
cosiddetto Testimonium Flavianum, cioè la notizia consacrata a Gesù nel-
le Antichita giudaiche del giudeo Flavio Giuseppe, che ha probabilmente
un fondo autentico con interpolazioni di mano cristiana. Che Flavio Giu-
seppe si sia interessato a Gesù è comprensibile, in forza della sua origine
e della conseguente attenzione ai movimenti religiosi giudaici: del resto a
Giovanni il Battista dedica più spazio che a Gesù.
Dobbiamo attendere l'età di Marco Aurelio per assistere, intorno al
178, alla composizione di una prima trattazione organica da parte paga-
na dedicata alla questione cristiana. È il Discorso veritiero che Celso, un
intellettuale imbevuto di filosofia platonica e stoica, scrisse con il duplice
proposito di confutare la religione dei seguaci di Gesù e di incoraggiare
costoro a integrarsi in quella società dalla quale con la loro conversione si
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 201
erano estraniati, per giunta in tempi calamitosi. Come è avvenuto per le al-
tre opere anticristiane che l'intellettualità pagana ha composto, il trattato
di Celso andò perduto: ma la sua sorte fu più favorevole di quella dei trat-
tati di Porfirio e di Giuliano imperatore, perché Origene, nella sua confu-
tazione di circa settanta anni dopo, lo cita quasi per intero. Nei primi due
libri Celso introduceva un giudeo a polemizzare contro i cristiani; questo
espediente retorico (la cosiddetta "prosopopea") consentiva di denunciarli
come apostati dal loro originario gruppo di appartenenza, proprio come
quest'ultimo si era a suo tempo reso colpevole di stasis (rivolta) nei riguar-
di della tradizione religiosa ("pagana") comune a tutti gli altri popoli. La
principale accusa che Celso muoveva ai cristiani era quella di considerare
la specie umana come qualcosa di superiore all'ordinamento naturale e,
così procedendo, di nutrire la pretesa di costituire un gruppo privilegiato
dal favore divino di cui, per giunta, i credenti in Gesù si consideravano de-
tentori unici. Con Celso assistiamo alla prima chiara esposizione di quelli
che saranno i luoghi comuni della controversia anticristiana di carattere
dotto. Al pagano non sfuggì neanche la frammentazione dei gruppi cri-
stiani e le polemiche che tra questi scoppiavano; sorprende l'elencazio-
ne di varie "sette" prevalentemente di carattere gnostico che egli mostra
di conoscere e che contrappone al gruppo maggioritario da lui definito,
forse ironicamente, la "Grande Chiesa". L'aspetto che più sorprende nella
lettura dei frammenti celsiani è però l'utilizzazione di brani delle Scrittu-
re. Egli, ad esempio, denunciava le contraddizioni dei vangeli a proposito
dd racconto della resurrezione e aggravava la dose rilevando che prima
testimone di questo evento era stata una donna "isterica" (probabilmente
Maria di Magdala). Celso non fu uno scettico, egli espresse quella stessa
religiosità il cui manifesto erano i Pensieri dell'imperatore Marco Aurelio:
culto per la tradizione, avversione per il nuovo, timore di sconvolgimenti
sociali, senso del dovere verso la res publica.
Diverso è quel che in merito ai cristiani Luciano di Samosata aveva
scritto appena pochi anni prima in La morte di Pellegrino. Un suo eroe alla
rovescia è, appunto, il cristiano Pellegrino, che prima viene onorato dalla
sua comunità come profeta, interprete delle Scritture, e, una volta carcera-
to come confessore della fede, sfamato in abbondanza e assistito in tutti i
1
nodi, con generosità pari solo alla creduloneria. Ma poi, soltanto per aver
1
nangiato dei cibi vietati (probabile riferimento al decreto apostolico: cfr.
CAP. 2., p. 81), il venerato corifeo viene rigettato e ridotto in miseria, così
che questa trasgressione fu l'inizio del suo definitivo allontanamento dal
202 STORIA DEL CRISTIANESIMO
ni. Con Porfirio cambiò in primo luogo lo stile della contesa, che non fu
più alto e indiretto, come lo era stato per il suo maestro, ma configurò
una polemica a tratti biliosa. Egli si rese conto che l'edificio della fede dei
cristiani aveva la sua base nelle Scritture e contro queste indirizzò le sue
pagine più taglienti. Nella consapevolezza che un'arma missionaria for-
midabile per i cristiani era l'argomento tratto dalla profezia, s'impegnò a
storicizzare gli oracoli veterotestamentari ai quali facevano ricorso i suoi
avversari e li destituì di ogni significazione cristologica. Il caso più famo-
so è costituito dal libro di Daniele che Porfirio dimostrò essere una com-
posizione di età maccabaica, un'opera spuria, insomma una profezia post
eventum che niente aveva a che fare con Gesù. Sempre in questa direzio-
ne egli criticò Origene e l'esegesi allegorica alla quale costui ricorreva sa-
nando così aporie e ravvisando a ogni piè sospinto il volto di Cristo nelle
Scritture dei Giudei. Quello allegorico, infatti, era per Porfirio un meto-
do esegetico che poteva essere applicato ai grandi testi della tradizione
ellenica, non già ai testi "barbarici" di Giudei e cristiani, modesti nella
forma (come sembrerà poi anche ad Agostino non ancora convertito) e
inaccettabili nei contenuti. Oltre alla filologia, esercitata causticamente
sulle varianti evangeliche, e all'erudizione dimostrata nella conoscenza
della storia del Vicino Oriente antico, Porfirio chiamò in causa anche
considerazioni di carattere generale: contrappose il fideismo cristiano alla
tradizione filosofica classica della ricerca di Dio, evidenziò le contraddi-
zioni della figura di Paolo, denunciò l'assurdità, per lui che ravvisava una
diversa presenza divina nel cosmo, di un Dio che si fa uomo entrando nel
ventre di una ragazza, sottoponendosi a morte indecorosa e consumando
la sua presenza nella vita drammatica di una sola persona in un angolo re-
moto della terra. Amelio, altro discepolo di Plotino, esaminando il prolo-
go del Vangelo di Giovanni, aveva trovato accettabile la dottrina dell' in-
carnazione del Logos, a patto che non la si relegasse esclusivamente nella
persona storica di Gesù ma la si leggesse alla luce dell'insegnamento del
Timeo sull'anima mundi.
L'impegno anticristiano di Porfirio attraversa in modo più o meno
diretto varie sue opere. Nella Filosofia desunta dagli oracoli si dava spazio
all'oracolo teologico: in questo contesto la divinità (Ecate) proclamava
che Gesù era stato uomo pio e giusto, ma che sbagliavano i suoi seguaci
a ritenerlo un dio. Oracoli del genere fiorirono principalmente durante il
principato di Aureliano (270-275) e Agostino ne testimonia persistenza e
pervasività quando parla di persone che lodavano Cristo ma lo facevano
IL CRISTIANESIMO E LA SOCIETÀ DEL MONDO GRECO-ROMANO 2.05
I cristiani e l'Impero
Tra i cristiani dei primi secoli non vi fu un'unica linea di pensiero in rela-
zione alla più cospicua realtà politica di quell'epoca: l'Impero romano. La
varietà di atteggiamenti in merito al binomio cristiani/politica sarà una
costante di tutta la storia della Chiesa. Già i documenti neotestamentari
presentano linee di pensiero diverse.
Quando i farisei interrogarono Gesù sulla liceità di corrispondere le
tasse a Roma, egli diede una risposta volutamente ambigua ( «quello che
è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio», Mc 12,17;
Mc 22,21; Le 20,25); si fece mostrare da un lato il denarius tiberiano con
il volto dell'imperatore e la leggenda con il genitivo di possesso, dall'altro
introdusse un secondo elemento, non previsto dalla domanda: Dio. Se ne
deduce che, se si deve a Cesare, tanto più si deve a Dio. Al di là di quelle
che erano le intenzioni di Gesù, che probabilmente mirava anche a con-
trapporre, alla maniera apocalittica, l'eone attuale, dominato dai potenti
della terra, a quello futuro del regno di Dio, per cui la frase non legittimava
più di tanto l'autorità terrena, tuttavia essa recava in sé una potenziale di-
stinzione fra le due autorità tanto da diventare, in età moderna, il manife-
sto della separazione liberale fra Stato e Chiesa.
208 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Bibliografia ragionata
Su rutti i temi qui trattati, si troverà bibliografia di riferimento e spunti per appro-
fondimenti in G. RINALDI, Cristianesimi nell'antichita. Sviluppi storici e contesti geo-
gm/ìci (Secoli I-VIII), Gruppi Biblici Universitari, Chieti-Roma wo8, a cui rimando
una volta per tutte. Sempre prezioso A. DI BERARDINO (a cura di), Nuovo dizionario
p,uristico e di antichita cristiane, Marietti, Genova-Milano 2.006-10, 4 voli.
Sui rapporti tra Impero romano e cristianesimo è ancora utile per la dovizia di
informazioni M. SORDI, Il cristianesimo e Roma, Cappelli, Bologna 1965 (poi:/ cri-
stiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano 1988), anche se è discutibile la sua tesi
di fondo del rifiuto da parte del senato di un senatoconsulto proposto da Tiberio
mirante a legittimare il culto cristiano. Su questi aspetti si consultino le parti relative
nelle trattazioni generali di storia del cristianesimo antico, in particolare Storia del
cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, Boria-Città Nuova, Roma 2.000-03 (i primi
tre volumi: ed. or. 1995-2.000) e Histoire générale du christianisme, PUF, Paris 2.010;
si veda inoltre G. FILORAMO, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori,
2.18 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Laterza, Roma-Bari 2.011. Sulle leggi imperiali in riferimento al cristianesimo, cfr. l' an-
tologia di A. BARZANÒ, Il cristianesimo nelle leggi di Roma imperiale, Paoline, Milano
1996. Sui governatori di provincia che concretamente gestirono questi rapporti, cfr.
G. RINALDI, Rectores aliqui. Note prosopogra.fiche per lo studio dei rapporti tra impero
romano e comunita cristiane, in "Annali di storia dell'esegesi", 2.6, 1, 2.009, pp. 99-164.
Sulle accuse mosse dai pagani ai cristiani si parta da P. DE LABRIOLLE, La réaction
pai'enne, L'Artisan du livre, Paris 1934, 1948; P. CARRARA, I pagani di fronte al cristia-
nesimo. Testimonianze dei secoli I e II, Nardini Editore, Firenze 1984 (utile antologia
di testi); R. WILKEN, I cristiani visti dai romani, Paideia, Brescia 2.007 (ed. or. 1984);
s. BEN KO, Pagan Rome and Early Christians, Indiana University Press, Bloomington
1986; G. RINALDI, La Bibbia dei pagani, voi. I: Quadro storico, EDB, Bologna 1997.
I frammenti di Celso sono raccolti con traduzione italiana e commento a cura di
G. LANATA (Adelphi, Milano 1987); quelli di Porfirio da A. VON HARNACK (Verlag
der ki:inigl. Akademie der Wissenschafi:en, Berlin 1916); quelli del Contra Galilaeos di
Giuliano sono editi con traduzione italiana da E. MASARACCHIA (Edizioni dell'Ate-
neo, Roma 1990 ). Sulla lettura "pagana" della Bibbia, cfr. G. RINALDI, La Bibbia dei
pagani, 2. voli., EDB, Bologna 1997-98; J. G. COOK, 'flJe Interpretation ofthe New Testa-
ment in Greco-Roman Paganism, Mohr Siebeck, Tùbingen 2.000; ID., 'flJe Interpreta-
tion ojthe Old Testament in Greco-Roman Paganism, Mohr Siebeck, Tùbingen 2.004.
Sugli apologeti, cfr. R. M. GRANT, Greek Apologists oJ the Second Century, John
Knox Press, London 1988; s. P. BERGJAN, How to Speak about Early Christian Apolo-
getic Literature? Comments on the Recent Debate, in M. F. Wiles, E. J. Jarnolds (eds. ),
Studia Patristica, 36, Peeters, Leuven 2.001, pp. 177-83; B. POUDERON, Les apologistes
grecs du II' siede, Cerf, Paris 2.005. Sulla controversa figura di Paolo di Samosata, cfr.
l'esaustivo studio di P. DE NAVASCUÉS, Pablo de Samosata y sus adversarios. Estudio
historico-teologico del cristianismo antioqueno en el s. III, Istituto Patristico Augustinia-
num, Roma 2.004.
7
Da perseguitati a favoriti,
da favoriti a persecutori
Il cristianesimo nell'Impero romano
fra IV e v secolo
di Giancarlo Rina/di
Costantino il rivoluzionario
L'ascesa di Flavio Valerio Costantino dal punto di vista della politica mi-
litare è da considerarsi l'ultimo atto di una lunga serie di lotte armate tra
"signori della guerra" i quali, emergendo dal frastagliato mosaico degli
equilibri di potere della tetrarchia, ambivano a realizzare il sogno di ac-
quisire una signoria unica e assoluta. Diverso è il discorso che va fatto in
merito alla sua politica religiosa poiché in questa l'imperatore si affermò
quale autentico rivoluzionario. Tuttavia, ancora una volta, non possiamo
separare l'uno aspetto dall'altro.
Gli storici non trattano più il tema della conversione di Costantino
poiché si rendono conto di non disporre degli strumenti atti a scandaglia-
re un'esperienza così profonda e individuale. Si preferisce parlare di svolta
costantiniana, indicando con tale espressione quel complesso di atteggia-
menti e di provvedimenti i quali caratterizzarono il passaggio dai culti
tradizionali in auge durante la tetrarchia a un sempre più aperto favore
verso la Chiesa detta "cattolica". Al centro di questo campo d'indagine col-
lochiamo la "questione costantiniana" che mira invece a saggiare il grado
di attendibilità di quelle fonti cristiane le quali riferiscono di una visione
celeste avuta dall'imperatore in armi come del punto di partenza e del si-
t~illo della sua politica filocristiana.
Diciamo subito che il ritratto dell'imperatore emerge principalmente
dalle rievocazioni che a lui hanno dedicato Eusebio di Cesarea e Lattan-
zio. Si tratta di fonti di parte e gli scritti del primo (specialmente la Vita
rii Costantino) presentano i tratti dell'agiografia. Rintracciamo anche una
tradizione storiografica pagana (Giuliano, Eunapio, Zosimo) la quale ha
visto in Costantino un opportunista reo di aver compromesso la prote-
zione degli dèi antichi verso la res publica. Oltre a una messe di iscrizioni,
si pensi specialmente a quella sull'arco presso il Colosseo (cIL VI,1139) e
all'editto di Spello (cfr. infra, p. 235), costituiscono fonti di rilievo le emis-
sioni monetali personalmente curate dal!' imperatore quanto ai simboli e
alle leggende, che attestano il suo graduale ma costante allontanamento
2.2.6 STORIA DEL CRISTIANESIMO
dal paganesimo. Utilissimo lo studio della sua legislazione, oltre che in-
dispensabile per misurare concretamente le mutazioni che la Chiesa co-
nobbe in pochi anni, dalla condizione di perseguitata a quella di soggetto
favorito, già proiettato verso un'egemonia che le sarebbe stata riconosciuta
di fatto e di diritto alla fine del secolo.
Nel 305 Costantino e Massenzio si trovarono a essere i grandi esclusi
dal secondo assetto tetrarchico a cui s'è già accennato. Costantino era
stato proclamato dalle milizie del padre in Britannia suo successore e
così aveva stabilito il suo dominio su questa provincia e in Gallia. Mas-
senzio si era proclamato signore dell'Italia e dell'Africa. Uno scontro
tra i due per stabilire chi fosse l'unico dominus d'Occidente era nella
logica dei fatti. Il 2.8 ottobre del 312. le truppe di Costantino marciarono
su Roma e l'assediarono. Massenzio volle affrontare il nemico in campo
aperto, schierò incautamente l'esercito con le spalle al Tevere, presso il
Ponte Milvio fu sconfitto e, sotto la carica del nemico, fu travolto con
i suoi nei flutti. Da parte sua Massenzio aveva emesso provvedimenti
in favore dei cristiani. La propaganda costantiniana minimizzò ciò, tac-
ciandolo di ipocrisia. Per quanto riguarda la posizione religiosa di Co-
stantino, la testimonianza di un panegirico e le emissioni monetali fino
a quell'epoca attestano una sua devozione per quell'Apollo-Helios che
era stato così caro ad Aureliano e a Claudio il Gotico, dal quale Costan-
tino proclamava orgoglioso la sua discendenza. Nel Tempio di Gand, in
Gallia, Costantino aveva avuto la visione di questa divinità, affiancata
alla Vittoria, che gli aveva anche promesso vittorie e trenta anni di regno
(Paneg. Lat. 6). Un altro panegirico (il 12.), nel rievocare la battaglia di
Ponte Milvio, attribuisce l'esito dell'evento a una mens divina venerata
con nomi svariati dai popoli della terra: si tratta di termini non troppo
difformi da quanto leggiamo nell'iscrizione dell'arco (cn VI,1139) che
invece attribuisce la vittoria instinctu divinitatis. Di contro a queste va-
ghe affermazioni due autori cristiani, Eusebio e Lattanzio, raccontano
sempre più particolareggiatamente in merito a un mutamento di atteg-
giamento religioso che Costantino avrebbe avuto alla vigilia della fatidi-
ca battaglia presso Roma. In h.e. 9,9,2. intorno al 315, Eusebio ricorda solo
la preghiera formulata dall'imperatore « al Dio del cielo e al suo Verbo,
Gesù». Successivamente, Lattanzio (mort. pers. 44) racconta del sogno
fatto dall'imperatore alla vigilia dello scontro durante il quale egli fu
avvertito di raffigurare sulle insegne il segno celeste: la lettera greca chi
(X) girata e con la sommità piegata, un simbolo che suggerisce le prime
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 227
due lettere del nome di Cristo (donde è detto chi ro o chrismon o mo-
nogramma di Cristo). Ancora dopo, intorno al 337, leggiamo nella Vita
di Costantino (1,28) che in un fatidico tramonto di vigilia non fu solo
Costantino ad avere la visione ma tutto l'esercito suo, talché la croce fu
raffigurata per ottenere la vittoria. La tradizione veicolata dagli encomia-
sti di Costantino, dunque, per tempo andò rimpolpandosi di particolari
e fu resa sempre più funzionale al ritratto definitivo che c'è stato con-
segnato: l'uomo tenuto in serbo dalla provvidenza divina per conciliare
il percorso dell'Impero con quello della Chiesa. Tuttavia non abbiamo
motivi per dubitare della bontà di un nucleo essenziale, compatibile sia
con le azioni compiute successivamente nel campo della religione sia con
un'epoca in cui l'oracolo, la visione, il presagio era esperienza quotidiana
per un imperatore che mirava ad essere unico, come unico nel cielo era
quel principio divino dalla cui comunione intima egli asseriva di trarre
legittimazione e autorità.
Appena l'anno successivo, nel 313, Costantino si incontrò a Milano con
il collega Licinio. Si doveva trattare dei nuovi equilibri di potere, ma la
riflessione sulla questione dei cristiani non poteva essere assente.L'assunto
del precedente editto di Galerio fu confermato nella sostanza e ampliato
nella portata: non più una semplice tolleranza concessa a denti stretti per i
credenti in Gesù, ma una vera e propria equiparazione del loro culto a tutti
gli altri legittimati (Eus., h.e. 10,5,2-14; Lattanzio, mort. pers. 48,2-12). Co-
stantino rimase pontifex maximus dei pagani e non represse i culti tradi-
zionali se non nel caso di qualche santuario discusso per forme di "immo-
ralità" che vi si connettevano. Represse (319-320 d.C.) l'aruspicina privata
(CTh 9,16,2; 9,16,1), ma tutelò quella pubblica ( CTh 9,8,3). Il suo interven-
to in campo religioso non si concretizzò nella repressione del paganesi-
mo bensì nella concessione di favori, sempre maggiori, nei riguardi della
Chiesa. Già nel 313 Costantino scriveva al proconsole d'Africa Anulinus
disponendo la restituzione del patrimonio ecclesiastico e l'elargizione di
somme a beneficio della Chiesa catholica. In seguito una serie di constitu-
tiones rivelavano l'influenza della dottrina cristiana o un animo benevolo
vi:rso chi la professava, specie se in autorità. Nel 315 il divieto di marchiare
il volto dei condannati poiché esso era comunque «a immagine di Dio»,
la protezione dei Giudei diventati cristiani rispetto alle eventuali angherie
dei loro ex confratelli (cfr. CAP. 2, p. 93); nel 318 l' episcopalis audientia,
t:ioè il diritto di una parte in causa di trasferire all'arbitrato di un vescovo
un processo anche se già iniziato presso le autorità civili, naturalmente con
2.28 STORIA DEL CRISTIANESIMO
i suoi inizi e il ruolo di Costantino. In Africa non pochi cristiani, tra cui
anche vescovi, avevano ceduto alla paura nel corso della recente persecu-
zione dioclezianea e avevano consegnato le Scritture alle autorità, come
prescriveva l'editto. Costoro erano vescovi traditores (cioè che "avevano
consegnato") e contro di loro, come già all'epoca di Decio, andavano le-
vandosi le censure di coloro che si consideravano puri da tale macchia.
Già prima del 312 a Cartagine era stato eletto vescovo Ceciliano. Ma tra
coloro che gli avevano imposto le mani vi era stato Felice di Abthugnos,
un traditor. Contro il neoeletto si formò una fronda che collocò nella
cattedra cartaginese Maiorino, appartenente alla Jamilia della ricca dama
cristiana Lucilla, a cui seguì il ben più noto Donato, che diede poi nome
al movimento. Non si trattava di una contrapposizione tra fasce di popo-
lazione più o meno romanizzata oppure di condizione più o meno agiata,
come spesso in passato s'è pur autorevolmente ritenuto. La materia del
contendere affondava le sue radici in quella tradizione ecclesiale africana
rigorista che appariva già chiara all'indomani della persecuzione di De-
cio (250), all'epoca del grande Cipriano (cfr. CAP. 3, p. 128). Nel corso
del conflitto sempre più la posizione ecclesiologica donatista si sarebbe
radicalizzata, esasperando questa tradizione e concependo le chiese come
assemblee di eletti, puri da ogni contaminazione con la società e, princi-
palmente, con il corrotto potere politico d'oltremare. I "cattolici" giudi-
cavano tutto ciò atto di superbia e preferivano pensare al giudizio finale
da parte di Dio come al momento dell'effettiva separazione tra santi e re-
probi. Nel discorso era implicitamente coinvolta anche la teologia dei sa-
cramenti: la loro efficacia dipendeva dalla condizione di purezza di colui
che li amministrava? La tradizione, tipicamente africana e ciprianea, della
reiterazione del battesimo, per chi proveniva da ambienti eterodossi, mi-
litava a favore del sì.
A Costantino, che già aveva intestato alla Chiesa di Ceciliano la resti-
tuzione dei beni ecclesiastici, furono indirizzate da esponenti della parte
di Maiorino due petizioni, a seguito delle quali egli organizzò un arbi-
trato, presieduto dal vescovo di Roma, Milziade. Questi, oltre ai vesco-
vi convocati da Costantino, ne aggiunse altri: ne venne fuori un conci-
lio (313) che si espresse a favore di Ceciliano. I donatisti protestarono e
l'imperatore convocò un concilio ad Arles (314) di vescovi galli: il nuovo
vescovo di Roma, Silvestro, fu assente. La condanna dei donatisti venne
rinnovata. Si noti come Costantino non abbia esitato a prendere nelle
sue mani l'iniziativa religiosa, in barba a ogni pretesa eventuale del vesco-
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Crediamo in un solo Dio Padre onnipo- Crediamo in un solo Dio Padre onnipo-
tente, tente,
creatore di tutte le cose visibili ed invisi- creatore del cielo e della terra,
bili; di tutti gli esseri visibili ed invisibili.
E in un solo Signore, Gesù Cristo,
e in un solo Signore, Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio,
il Figlio di Dio, generato unigenito dal generato dal Padre prima di tutti i tempi:
Padre, luce da luce,
cioè dalla sostanza del Padre, Dio vero da Dio vero,
Dio da Dio, luce da luce, generato, non creato,
Dio vero da Dio vero, consustanziale al Padre,
generato, non creato, per mezzo del quale sono state create tut-
consustanziale al Padre, te le cose.
per mezzo del quale sono state create tut-
te le cose in cielo e in terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza
Egli per noi uomini e per la nostra sal- È disceso dal cielo, si è incarnato dallo
vezza Spirito santo e da Maria vergine e si è fat-
è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo, to uomo.
È stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pi-
lato,
ha patito ed è risorto il terzo giorno, ha patito, è stato seppellito,
è risorto il terzo giorno secondo le Scrit-
è risalito al cielo, ture,
e verrà a giudicare i vivi e i morti. è risalito al cielo, siede alla destra del Pa-
dre,
E nello Spirito santo. verrà di nuovo con gloria a giudicare i vivi
Quelli che dicono: "C'è stato un tempo in e i morti e del suo regno non ci sani fine.
cui non esisteva'; o "non esisteva prima di E nello Spirito santo, che è Signore e dà
essere stato generato'; o 'e stato creato dal la vita,
nulla'; o affermano che egli deriva da altra procede dal Padre, è adorato e glorificato
ipostasi o sostanza o che il Figlio di Dio è o insieme con il Padre e il Figlio, ha parlato
creato o mutevole o alterabile, tutti costoro per mezzo dei profeti.
condanna la Chiesa cattolica e apostolica. E in una sola Chiesa, santa, cattolica, apo-
stolica.
Confessiamo un solo battesimo in remissio-
ne dei peccati, attendiamo la resurrezione
dei morti
e la vita del tempo futuro. Amen
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 243
razionalisti e critici dei secoli a venire sino ai nostri giorni, era ben chiaro
che la pietra di fondazione sulla quale la fede cristiana stava o crollava era
costituita dalla dottrina dell'incarnazione di Dio in Gesù e della sua na-
tura divina.
Agostino ci interessa, inoltre e soprattutto, per la dottrina della grazia
e per la sua visione antropologica, destinata a segnare il pensiero cristiano
d'Occidente. In estrema sintesi diciamo che mentre, tradizionalmente, il
pensiero cristiano ortodosso attribuiva la salvezza del singolo alla coope-
razione fra la grazia di Dio, necessaria e preponderante, e il libero arbitrio
dell'uomo, Agostino assegna la salvezza in toto alla grazia di Dio, perché
la creatura umana merita di per sé solo la condanna dopo il peccato di
Adamo, trasmesso nella sua attualità a tutta l'umanità (dottrina del pec-
cato originale), in quanto il libero arbitrio è diventato incapace di volgersi
al bene: anche l' initium fidei dipende da Dio. Il punto di forza di questa
dottrina consiste nella proposta di un abbandono pieno e totale alla mise-
ricordia di Dio, riattivando in ciò, anche se a un altro livello, il potenziale
liberatorio di Paolo; il suo lato oscuro (che infatti Agostino tende a tacere
nella sua azione pastorale) è la convinzione che tutti gli sforzi per vivere
secondo la volontà di Dio, che il cristiano è comunque tenuto a fare per
corrispondere al disegno divino, non assicurano la salvezza finale, deter-
minata unicamente dal giudizio imperscrutabile di Dio, il quale, nella sua
libertà assoluta, dona la perseveranza a coloro che ha prescelto (dottrina
della predestinazione) e ha giustificato (domina della giustificazione),
traendoli dalla massa dannata degli esseri umani, così come ha scelto Gia-
cobbe, e non Esaù, fin dal seno materno (Rm 9,11-12.). Agostino precisò
via via questa dottrina in contrapposizione a quella di Pelagio, austero
monaco britannico vissuto a Roma e rifugiatosi dopo il 410 in Africa, del
suo seguace Celestio e soprattutto di Giuliano, vescovo di Eclano, bril-
lante polemista. La dottrina pelagiana, esattamente al contrario di Ago-
stino, valorizza al massimo il libero arbitrio, ribadendo che il peccato ne
è accidentale prodotto e che la natura umana, in quanto creata da Dio,
è sostanzialmente buona. L'intento di Pelagio era soprattutto quello di
incoraggiare a una vita tendente ali' impeccantia, quello di Giuliano, già da
prima impegnato contro il manicheismo, era soprattutto quello di com-
battere i dualismi. I pelagiani precisavano altresì che i bambini nascono
innocenti (come del resto sosteneva la tradizione ortodossa precedente ad
Agostino) e che il battesimo è impartito per loro santificazione, non per
togliere un presunto peccato originale, perché ognuno pecca a imitazione
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Bibliografia ragionata
Sulla tetrarchia, cfr. s. CORCORAN, 1he Empire of the Tetrarchs, Clarendon Press,
Oxford 1996; B. RÉMY, Dioclétien et la tétrarchie, PUF, Paris 1998. Su Costantino la
bibliografia è sterminata, ma da ulcimo è stato edito uno strumento fondamentale,
L'Enciclopedia costantiniana, 3 voli., Istituto dell'Enciclopedia ltaliana-FScire, Roma
2.013. Per le opere di Eusebio, si segnalano L. TARTAGLIA (a cura di), La vita di Co-
stantino, D'Auria, Napoli 1984; M. AMERISE (a cura di), Elogio di Costantino. Discorso
per il trentennale. Discorso regale, Paoline, Milano 2.005. Sulla trasformazione "orto-
dossa" del battesimo di Costantino e gli Actus Silvestri, cfr. T. CANELLA, Gli Actus Sil-
vestri. Genesi di una leggenda su Costantino imperatore, CISAM, Spoleto 2.006. Per il de
mortibus di Lattanzio, cfr. l'edizione di J. L. CREED(Clarendon Press, Oxford 1984)
e la traduzione italiana di F. CORSARO (Edigraf, Catania 1970 ). Per la numismatica,
cfr. J. MAURI CE, Numismatique constantinienne, Leroux, Paris 1908-12., da aggiornarsi
DA PERSEGUITATI A FAVORITI, DA FAVORITI A PERSECUTORI 2.49
con RIC (Roman Imperia! Coinage) VII e BMCRE ( Coins o/the Roman Empire in the
British Museum) VII, curati da P. BRUUN.
In generale, sul IV secolo, si vedano G. BONAMENTE, A. NESTORI (a cura di), I
cristiani e l'impero nel IV secolo, Università degli Scudi di Macerata, Facoltà di Lettere
e Filosofia, Macerata 1988; A. DIHLE, F. VITTINGHOFF (éds.), L'Église et !'Empire au
IV' siede, Fondation Hardt, Vandoeuvres-Genève 1989. Ormai classico sul rapporto
fra pagani e cristiani il lavoro di R. LANE FOX, Pagani e cristiani, Laterza, Roma-Bari
2.013'; sulla figura dell'imperatore Giuliano, cfr. lo stimolante volume di F. FATTI,
Giuliano a Cesarea. La politica ecclesiastica dei Principe apostata, Herder, Roma 2.009.
Sulla repressione del paganesimo, cfr. P. F. BEATRICE (a cura di), L'intolleranza cri-
stiana nei confronti dei pagani, EDB, Bologna 1990; G. RINALDI, Ridurre a minoranza.
Riflessioni su alcuni percorsi dei pagani nell'impero dei cristiani, in A. Zambarbieri,
G. Otranto (a cura di), Cristianesimo e democrazia, Atti del I Convegno di Scudi or-
ganizzato dalla e usce (Pavia, 2.1-2.2. settembre 2.009 ), Edipuglia, Bari 2.011, pp. 135-
87. Sulla trasformazione anche visiva del ritratto dell'imperatore, cfr. l'importante
volume, utile anche sotto un profilo generale, di v. NERI, La bellezza del corpo nella
societa tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica
e cristianesimo, Pàtron, Bologna 2.004. Sulla normazione contenuta nel Codex The-
odosianus, si veda R. DELMAIRE et al. (éds.), Les lois religieuses des empereurs romains
de Constantin a Théodose II (312-438), voi. I: Code Théodosien. Livre XVI, Cerf. Paris
2.005. Per i testi della controversia ariana, cfr. M. SIMONETTI (a cura di) ( = Simonet-
ti, 1986), Il Cristo. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Fon-
dazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1986. Sull'arianesimo, si segnalano due
volumi classici: M. SIMO NETTI ( = Simonetti, 1965), Studi sull'arianesimo, Scudium,
Roma 1965; ID., La crisi ariana nel IV secolo, Istituto Patristico Augustinianum, Roma
1975. Per le dottrine, cfr. E. PRINZIVALLI, M. SIMONETTI, La teologia degli antichi
cristiani (secoli I-v), Morcelliana, Brescia 2.012.. Sul donatismo, si veda il contributo
di E. zoccA, L'identita cristiana nel dibattito fra Cattolici e Donatisti, in "Annali di
scoria dell'esegesi", 2.1, 1, 2.004, pp. 109-30. Sul pensiero di Agostino, cfr. G. LETTIE-
RI, L'altro Agostino, Morcelliana, Brescia 2.013' (con ampia discussione bibliografica).
Sulla relazione fra agostinismo e Chiesa romana, cfr. lo studio di G. LETTI ERI, Centri
in conflitto e parole di potenza. Normalizzazione e subordinazione dell'agostinismo al
primato romano nel v secolo, in "Annali di storia dell'esegesi", 2.7, 1, 2.010, pp. 101-70.
Ancora fondamentale sulla dottrina della giustificazione da Agostino a oggi l'opera
di A. E. MCGRATH, lustitia Dei: A History ojthe Christian Doctrine ofjustification, 2.
voli., Cambridge University Press, Cambridge 1986.
8
Il consolidamento degli episcopati
nelle grandi città cristiane
di Ewa Wipszycka
L'ordinamento interno delle singole chiese era stato formato dalla tradi-
zione e dalle decisioni sinodali. I principi su cui si reggeva si possono rias-
sumere in due frasi: "si rispetti la tradizione" e "si applichino i canoni". La
combinazione di questi due principi aveva come effetto, sul piano istitu-
zionale, il perpetuarsi di una realtà intrinsecamente incoerente, piena di
anomalie. Queste anomalie potevano a volte, nella pratica, causare delle
difficoltà, come provano i numerosi tentativi - attestati dagli atti dei sino-
di - fatti per eliminarle o almeno limitarle.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Dam (Van Dam, 20u) mostra che nella diocesi amministrativa di Asia,
verso l'anno 400, circa il 10% delle città non aveva un vescovo. In certe
regioni un vescovo reggeva due o tre città, o anche più. In questa materia
la tattica dei capi ecclesiastici non era costante. Gli interessi locali e le lotte
era tendenze dogmatiche, o semplicemente tra fazioni, favorivano il mol-
tiplicarsi di vescovati, ma d'altra parte nelle cerchie dirigenti ecclesiasti-
che ci si rendeva conto che ciò era nocivo, potendo diminuire il prestigio
dell'ufficio episcopale (cfr. il concilio di Serdica del 342-343, canone 6).
Lo status ecclesiastico delle comunità cristiane nei villaggi, nei saltus
('grandi poderi') e nei castra militari non era ancora stato stabilito unifor-
memente in tutto l'Impero: alcune avevano i loro vescovi, altre erano rette
da vescovi di grado inferiore, detti chorepiskopoi ('vescovi di campagna')
o periodeutai ('coloro che girano visitando le chiese'), che collaboravano
con i vescovi delle città (Basilio di Cesarea consacrò ben 50 vescovi di que-
sto tipo nel territorio della sua metropoli), altre infine, in particolare in
Egitto, erano parrocchie rette da presbiteri.
Non sempre i confini dei vescovati coincidevano con quelli dei territori
civici. Accadeva a volte che un vescovo trattasse come appartenenti al suo
vescovato località situate fuori del territorio della sua città, e che ciò fosse
riconosciuto dall'opinione comune ecclesiastica come un suo diritto; tale
stato di cose aveva, a seconda dei casi, origini varie (poteva, per esempio,
essere la conseguenza del fatto che in passato, nel III secolo, un dato vil-
laggio era stato cristianizzato dal vescovo di una città vicina a quella al cui
territorio il villaggio apparteneva). Le liti che in tali situazioni nascevano
tra i vescovi dovevano essere piuttosto frequenti, sia in Oriente sia in Oc-
cidente.
Le ricerche degli ultimi decenni sulle strutture ecclesiastiche, spe-
cialmente sulla prosopografia delle chiese tardoantiche, rendono oggi
possibile calcolare il numero dei vescovati nelle varie regioni con una ap-
prossimazione impensabile cinquant'anni fa. Naturalmente possiamo de-
terminare solo l'ordine di grandezza, ma anche questo è importante. Van
Dam ha calcolato un po' meno di 2.000 vescovati per tutto l'Impero in-
torno all'anno 400. Cifre approssimative per alcune delle singole regioni
saranno indicate nella seconda parte del capitolo.
Nell'età di cui stiamo trattando, le ordinazioni - sia quelle dei vescovi,
sia quelle dei presbiteri o dei diaconi - non erano considerate, in teoria,
come valide ovunque in assoluto: un vescovo, un presbitero o un diacono
veniva ordinato per svolgere le sue funzioni in una comunità determinata,
254 STORIA DEL CRISTIANESIMO
I vescovi di ciascuna provincia devono sapere che il vescovo che presiede il capo-
luogo è incaricato della cura di tutta la provincia, poiché nel capoluogo conflui-
scono tutti coloro che hanno delle cause. Per questo è stato stabilito che costui
abbia la precedenza di onore, e secondo l'antica regola decretata dai nostri padri,
gli altri vescovi non possono fare niente senza di lui eccetto che quanto attiene alla
propria diocesi e alle campagne circostanti. Infatti ogni vescovo ha il potere sulla
propria diocesi, deve amministrarla secondo la pietà che gli è propria e vigilare su
tutta la campagna che dipende dalla sua città, così può ordinare sacerdoti e diaco-
ni ed esaminare ogni cosa con giudizio. Ma oltre tutto questo non può fare nulla
senza il consenso del vescovo metropolitano, né questi può decidere nulla senza il
consenso degli altri.
Alessandria e l'Egitto
numero sostanziale proveniva proprio di là. Uno scisma che durò a lungo
nel campo dei seguaci del Credo niceno (press'a poco dal 32.7 al 413) limi-
cava le possibilità, per il vescovo di Antiochia, di allargare la sfera del suo
potere effettivo. L'appoggio che l'Occidente, seguendo i suggerimenti di
Atanasio, dava alla Chiesa dei rigoristi niceni, minoritaria in Antiochia,
diminuiva il prestigio del vescovo scelto dal campo opposto, anche quan-
do egli era fortemente appoggiato dall'Oriente.
Anche le controversie cristologiche posteriori contribuirono a inde-
bolire l'autorità del vescovo di Antiochia; nel VI secolo l'espansione del
monofisismo, che condusse nella seconda metà del secolo alla nascita di
una Chiesa monofisita, avveniva a spese di Antiochia (però non nella città
stessa, dove i difisiti erano in netta maggioranza).
Nonostante tutte queste perdite, la Chiesa antiochena era una struttu-
ra potente. La conosciamo da un interessante documento appartenente al
genere dei taktika (liste di vescovati in ordine gerarchico), chiamato dagli
studiosi Notitia Antiochena. Questo documento fu redatto intorno al 570,
ma una parte delle informazioni che contiene - specialmente per ciò che
riguarda i vescovi di basso rango - proviene da anni anteriori. In cima c'è
naturalmente l'arcivescovo di Antiochia con il titolo di patriarca, poi ven-
gono sette metropoliti synkelloi, vescovi di sette città della provincia Syria
Prima, dove si trovava Antiochia. Questi costituivano il consiglio del pa-
triarca. Due arcivescovi detti "semplici" (litoi) servivano come funzionari
del patriarca, essendo mandati in giro come suoi rappresentanti. Quattro
arcivescovi autocefali occupavano seggi importanti dal punto di vista ec-
clesiastico - Berytos, Laodicea, Emesa, Kyrros (Cirro) - ma, nonostante il
titolo prestigioso, non avevano giurisdizione su vescovi suffraganei. I veri
e propri metropoliti, i dodici "grandi arcivescovi" (il numero ha natural-
mente significato simbolico) esercitavano l'attività pastorale al livello del-
la metropoli. La Notitia Antiochena afferma che i vescovi suffraganei sono
12.8, un numero che va considerato come approssimativo.
La gerarchizzazione a tre livelli è degna di nota. Altrettanto lo è il fatto
che essa veniva applicata in modo tale che il patriarcato era un'istituzio-
ne efficiente senza ricorrere a un interventismo di tipo alessandrino. La
forza del centro antiocheno veniva non solo dall'esercizio del potere nella
vita ecclesiale, ma anche dall'attività intellettuale della cosiddetta scuola
teologica di Antiochia. Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia, Apol-
linare di Laodicea, Giovanni Crisostomo, Nestorio, Teodoreto di Cirro
influenzarono profondamente la cultura cristiana non solo nell'ambito
STORIA DEL CRISTIANESIMO
La Palaestina Prima:
il ruolo di Gerusalemme e di Caesarea Marittima
L'Asia Minore
Per ciò che riguarda le numerose chiese dell'Asia Minore, è necessario te-
ner presente che per questi territori la tarda antichità continua a essere
un periodo di relativo benessere, in cui i processi di urbanizzazione non
si sono ancora fermati e l'espansione della lingua greca, legata alle città,
progredisce nettamente, conquistando regioni che prima erano solo scar-
samente ellenizzate.
Molte delle chiese dell'Asia Minore avevano un passato che risaliva alle
prime generazioni cristiane. Già all'inizio del IV secolo, in alcune regioni,
il processo di cristianizzazione era molto avanzato. Nel v secolo i pagani
occupavano ormai soltanto delle nicchie. Conformemente al canone 2 del
primo concilio di Costantinopoli, i vescovi di Efeso e di Cesarea di Cappa-
docia, che erano le capitali delle due diocesi amministrative Asia e Ponto,
avrebbero avuto il diritto di esercitare la giurisdizione sulle chiese di questi
territori, ma in pratica non cercavano di realizzarlo. Questa situazione ci
avverte che dobbiamo guardarci dal sopravvalutare l'importanza delle de-
cisioni formali dei sinodi. Questi potevano sanzionare con la loro autorità
lo stato di cose esistente di fatto (come il canone 6 del concilio di Nicea
fece nei riguardi di Alessandria e di Antiochia), ma non erano in grado di
cambiarlo.
Prima che Costantino il Grande, nel 330, desse un nuovo inizio alla sto-
ria della città sul Bosforo, Bisanzio, conferendole anche il proprio nome
(donde Costantinopoli), la Chiesa di questa città era una chiesa seconda-
ria, come se ne contavano a centinaia nell'Impero. Sede della metropoli
STORIA DEL CRISTIANESIMO
era la vicina Eraclea Tracia. Il fatto che il vescovo Alessandro non compaia
tra i vescovi convenuti a Nicea fa capire quanto insignificanti siano stati gli
inizi della grandiosa storia del patriarcato costantinopolitano.
Sembra certo che Costantino abbia voluto fin dall'inizio dare alla nuo-
va città il rango di Nuova Roma. La sua trasformazione in città cristia-
na fu un processo lento. Il ruolo principale in questo processo lo svolse
Costanzo 11 (337-361), edificando chiese a Costantinopoli e soprattutto
accumulandovi reliquie (la prima traslazione, quella delle reliquie degli
apostoli Andrea, Timoteo e Filippo, ebbe luogo nel 356-357 ). In questo
modo la città, che non aveva un passato cristiano rilevante, acquistava una
protezione contro catastrofi di ogni specie e poneva le basi per costruire la
sua posizione tra le grandi capitali della Chiesa.
È utile ricordare che in quegli anni Costantinopoli non era la sede sta-
bile dell'imperatore. Fu solo a partire dal regno di Arcadio (dal 395) che gli
imperatori vi risiedettero stabilmente. La presenza o l'assenza del sovrano
aveva un'enorme importanza per il vescovo: non è per caso che la Chiesa
costantinopolitana entrò nel suo periodo d'oro alla fine del IV secolo.
Il primo mezzo secolo dell'esistenza della Chiesa della Nuova Roma fu
segnato da lotte tra aspiranti al soglio vescovile in una città dominata dagli
ariani. Nel 379, chiamato dai fautori del Credo niceno, privi di un pastore
ortodosso, giunse a Costantinopoli Gregorio di Nazianzo, grande oratore
e teologo, che assunse il difficile compito di costruire una comunità catto-
lica. Gli inizi furono difficili. La situazione cambiò in seguito all'interven-
to dell'imperatore Teodosio il Grande. Subito dopo essere entrato in città,
questi mandò in esilio il vescovo ariano. Gregorio prese possesso di Hagia
Sophia e dei Santi Apostoli, le due chiese principali della città. Inviso al
clero, ai monaci e al popolo, dovette ricorrere ai soldati. Gli intrighi orditi
dal vescovo di Alessandria lo spinsero in breve tempo a dimettersi. Per il
posto lasciato da Gregorio, da una lista di tre candidati presentatagli dai
vescovi riuniti in concilio a Costantinopoli, l'imperatore scelse Nettario,
un uomo anziano, senatore ed ex pretore, che con abilità riportò la città
alla calma e, dopo alcune difficoltà, con l'aiuto dell'imperatore, allacciò
rapporti corretti con le altre chiese. Fu lui a inaugurare il processo della
trasformazione della Chiesa costantinopolitana, che con il suo episcopato
allargava sempre più il terreno degli interventi nelle faccende delle chiese
di rango minore.
Nel 381 il concilio convocato dall'imperatore a Costantinopoli per
risolvere problemi dottrinali approvò tra l'altro un canone (il canone 3)
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.65
Giustamente i padri concessero privilegi alla sede del(' antica Roma, perché la città
era città imperiale. Per lo stesso motivo i centocinquanta vescovi diletti da Dio
concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e
il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma,
uguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella.
Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia e della Tracia,
e inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro, saran-
no consacrati dalla sacratissima sede della santissima Chiesa di Costantinopoli.
È chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi
della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri
canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno
essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente,
che siano stati eletti con voti concordi, secondo l'uso, e presentati a lui.
Dopo che questo canone era stato approvato, nella seduta successiva i
legati papali tentarono di far annullare la decisione, sostenendo che i
vescovi erano stati colti di sorpresa e che c'erano state pressioni. Uno
dei legati insinuò che i vescovi erano stati ingannati o costretti a sotto-
scrivere il canone, al che la sala reagì con grida di protesta. In risposta
alle accuse dei legati del papa, i vescovi delle varie città dell'Asia Minore
fecero ampie dichiarazioni e uno spontaneo atto di sottomissione a Co-
stantinopoli.
Sebbene in apparenza il canone 2.8 di Calcedonia non apportasse ele-
menti nuovi rispetto al canone 3 di Costantinopoli, le stesse parole, collo-
cate in un contesto diverso, assumevano tutt'altro significato. Ponendo a
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI
fondamento della posizione del vescovo di Roma il fatto che essa fosse una
città capitale, il concilio lasciava da parte consapevolmente tutta la dottrina
papale sviluppata fin dai tempi di Damaso. Con ciò i vescovi esprimevano
un atteggiamento ostile, o meglio ancora, sprezzante, verso l'ecclesiologia
romana. Essi riconoscevano naturalmente il primato della Chiesa romana
nella forma assunta nei tempi anteriori a Damaso (cfr. CAP. 3, p. 130); ma
ciò non impediva loro di dare al papa una lezione approvando il canone
riguardante Costantinopoli.
A partire dal concilio calcedonese il patriarca costantinopolitano ha
sotto di sé un territorio immenso, in cui si trovano 469 città, la metà del
numero delle città di tutto l'Impero, secondo le liste di Hierok.les, redatte
nella prima metà del VI secolo. Il suo potere si manifesta anche nel fatto
che tutti i membri del clero del patriarcato hanno il diritto di appellarsi
alla sua giurisdizione. La vicinanza dell'imperatore gli giova, ma può an-
che nuocergli, come testimonia il numero dei patriarchi deposti dal sovra-
no ( 6 su 2.0 nel periodo dal 431 al 610 ).
Durante il VI secolo entra in uso l'epiteto "ecumenico", applicato al pa-
triarca di Costantinopoli nonostante le proteste di Roma, ma con l 'appog-
gio dell'imperatore (cfr. CAP. 11, p. 348).
L'Africa settentrionale
all'inizio del V secolo, quando era vescovo Aurelio, che collaborava armo-
niosamente con un altro grande, Agostino.
Tuttavia i vescovi di Cartagine non aspiravano a una formalizzazione
del loro ruolo di guida, a un titolo che lo simboleggiasse (come sarebbe
stato il titolo di patriarca), né tentarono di creare una leggenda che at-
tribuisse al loro seggio un'origine apostolica. Ciò avrebbe probabilmente
incontrato la resistenza degli altri vescovi africani, specialmente di quelli
della vicina Byzacena. A imporre limiti stretti alle ambizioni del clero car-
taginese contribuì certamente il conflitto tra cattolici e donatisti.
Nato dalla condanna del modo in cui la Chiesa gerarchica si era compor-
tata durante la Grande Persecuzione, il donatismo marcò profondamente
il cristianesimo africano. Fu uno scisma duraturo, difficile da combattere
e straordinariamente ampio. Si fondava sulla convinzione - presente nella
Chiesa africana già nel III secolo - che il valore dei sacramenti non fosse
indipendente dalle qualità della persona che li somministrava. I donatisti
- come già aveva fatto Cipriano - ripetevano il battesimo, se esso era stato
compiuto da una persona riconosciuta colpevole di un peccato grave (apo-
stasia, eresia); ritenevano che la macchia dei vescovi indegni si trasmet-
tesse ai vescovi da loro ordinati. Questo atteggiamento favorì la creazione
di una Chiesa separata e rendeva estremamente difficile un accordo con
la parte opposta. I donatisti continuarono sempre, sino alla fine del loro
movimento, a richiamarsi agli avvenimenti del passato che avevano provo-
cato la rottura; tuttavia è chiaro che, per quanto importanti fossero queste
ragioni storiche, altri fattori contribuivano a mantenere l'identità dei do-
natisti: un loro clero, chiese, cimiteri e feste separati, una storia sacra piena
di persecuzioni e di martiri che venivano venerati in un modo esaltato.
Il fatto che i donatisti abbiano potuto estendere la loro azione mol-
to ampiamente nonostante l'atteggiamento sfavorevole delle chiese
dell'Occidente e l'aperta ostilità di Costantino e dei suoi successori, te-
stimonia quanto forte fosse la resistenza che la gerarchia cattolica incon-
trava in una parte dei fedeli. L'appoggio finanziario dato dallo Stato ai
cattolici e l'esenzione dai gravosi munera, a loro concessa, non bastarono
a far pendere la bilancia in loro favore. I donatisti divennero oggetto di
vere e proprie persecuzioni (confische delle chiese e dei beni; poi - per la
prima volta tra il 317 e il 321 - furono usati soldati per confiscare le chie-
se, il che ebbe come conseguenza delle uccisioni). Le persecuzioni bloc-
carono per qualche tempo l'espansione dello scisma, ma non condussero
all'eliminazione del conflitto. I gerarchi cattolici, non riuscendo a vincere
2.70 STORIA DEL CRISTIANESIMO
con i loro mezzi, chiamavano in aiuto gli imperatori. La lista degli inter-
venti delle autorità civili e militari è lunga, ma essi non erano efficaci, per-
ché non trovavano un appoggio sufficiente da parte dei funzionari locali
e delle élite locali.
Ali' inizio degli anni 90 i donatisti erano superiori per numero ai cat-
tolici (come riconoscevano i cattolici stessi); nel 394, al sinodo di Bafai in
Numidia parteciparono 310 vescovi donatisti. Anche la produzione dot-
trinale dei donatisti è impressionante. A lungo la parte cattolica non fu in
grado di contrapporre a loro avversari che fossero ali' altezza del compito;
soltanto più tardi poté farlo, con Agostino (vescovo di lppona dal 396)
e Aurelio (vescovo di Cartagine dal 391-392.). L'appoggio che i donatisti
diedero al ribelle berbero Gildone divenne per la parte cattolica un argo-
mento che le rese più facile convincere le autorità imperiali a intraprendere
energiche azioni contro di loro. I donatisti furono riconosciuti eretici, e
come tali sottomessi a repressioni (divieto di assembramento, confisca dei
luoghi di culto, minaccia di esilio per i membri del clero, pena di morte
per i donatisti che intralciassero il culto cattolico, esilio per i funzionari
imperiali non sufficientemente zelanti, espulsione dei donatisti dalle città,
confisca delle loro terre). L'imperatore Onorio munì i suoi funzionari di
leggi speciali che avevano lo scopo di eliminare completamente la Chiesa
donatista.
Tuttavia nella Chiesa cattolica si faceva sentire sempre più fortemen-
te il desiderio di chiudere lo scisma anche per mezzo di un'intesa tra le
parti. Verso la fine del 410 una delegazione cattolica ottenne l'accordo
dell'imperatore per organizzare una conferenza comune di tutto l'episco-
pato africano. Tale conferenza si riunì a Cartagine nel 4II. I partecipanti
donatisti erano 2.85, quelli cattolici 2.86 (in Africa il numero dei vescovati
era leggermente superiore alla somma dei partecipanti: erano un po' più di
600 ). Ciascuna delle grandi città, tranne Leptis Magna, era rappresentata
da due vescovi; le piccole città dell'Africa Proconsolare erano cattoliche,
quelle della Numidia e della Byzacena erano donatiste. Nonostante la pa-
rità numerica dei rappresentanti delle due parti, l'appoggio palese che le
autorità davano alla parte cattolica e le divisioni interne della parte dona-
tista ebbero un peso decisivo. Secondo le intenzioni dell'imperatore Ono-
rio, la conferenza doveva condurre a una piena sconfitta del donarismo, e
così effettivamente avvenne, al di là delle apparenze del dibattito e della
propaganda dei cattolici, che ostentavano la loro buona volontà. Nel 412
Onorio emise un editto che proscriveva il donatismo. La maggior parre
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.71
la Spagna
legami con la cristianità africana, più chiari che con altre parti del mondo
mediterraneo.
Se guardiamo una cartina delle chiese della Spagna dell'inizio del IV
secolo (possiamo farlo grazie ai documenti del primo sinodo spagnolo a
noi noto, quello di Elvira), constatiamo una netta concentrazione di esse
nella parte meridionale della penisola, nella Baetica. Nel corso del IV se-
colo il processo di cristianizzazione, quale è attestato da buone fonti lette-
rarie e archeologiche, interessava i territori più urbanizzati della penisola:
la parte orientale della Tarraconensis fino all'Ebro, la costa della Cartha-
giniensis, la Baetica e una parte della Lusitania. Le altre regioni furono
evangelizzate più tardi. Il numero delle diocesi ecclesiastiche spagnole era
esiguo: intorno all'anno 400 sono attestati 30 vescovati - pochi, se pen-
siamo alla Gallia dello stesso periodo ( 9 o vescovati), all'Italia ( 8 o), senza
parlare dell'Africa. È impossibile dire quanti cristiani facessero parte di
queste 30 diocesi.
La Chiesa di Spagna non aveva un centro dirigente stabile. A seconda
delle situazioni e delle personalità, vari vescovi di varie sedi svolgevano un
ruolo dirigente. A questa struttura orizzontale corrisponde la frequenza
dei sinodi, di cui si sono conservati numerosi canoni riguardanti questio-
ni di attività pastorale e di disciplina. Verso il 370 nacque un movimento
che scosse la Chiesa di Spagna e, in misura minore, quella della Gallia:
comincia allora la sua attività di predicazione Priscilliano, laico di origine
aristocratica, un uomo colto, che crea una dottrina ascetica molto rigida
e ottiene presto un notevole seguito in diversi gruppi sociali. Il suo mo-
vimento non ha un carattere monastico, ha piuttosto i tratti di una setta.
La Chiesa istituzionale reagì violentemente, vedendo in lui un nemi-
co dell'ordine costituito. Lo era oggettivamente, sebbene non sia affatto
certo che predicasse apertamente contro la gerarchia. Il suo movimento
faceva parte di quelle correnti che nel corso del IV secolo, in Occidente
come in Oriente, si opposero al modo tradizionale di governare la Chiesa
in nome di austeri princìpi morali. Due vescovi spagnoli misero in moto
una campagna di diffamazione contro Priscilliano, accusandolo di mani-
cheismo. In seguito un sinodo riunito a Saragozza nel 380 lo condannò.
Per difendersi, Priscilliano cercò appoggi in Italia, presso Ambrogio e
papa Damaso, ma invano. Condannato ancora una volta al sinodo di Bor-
deaux del 384, ebbe la cattiva idea di appellarsi a Massimo, l'usurpatore
che dopo aver ucciso l'imperatore Graziano regnava sulla Gallia, la Spagna
e la Britannia. Questi era interessato a manifestare la più stretta ortodossia
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.73
per avere i vescovi dalla sua parte. Alcuni nemici di Priscilliano presenti
alla corte di Massimo a Treviri agirono per farlo condannare da un tribu-
nale civile. Costretto con la tortura a confessare di aver praticato la magia,
fu decapitato. Nella storia del cristianesimo questo fu il primo caso di con-
danna a morte per eresia. L'esecuzione di Priscilliano fu accolta con orrore
da gran parte dell'opinione ecclesiastica. In questa reazione c'era alquanta
ipocrisia: l'esito del processo era stato infatti condizionato dall'inimicizia
dominante tra i vescovi. I vescovi che avevano accusato Priscilliano furono
deposti, ma i priscilliani furono perseguitati ferocemente. Il priscilliani-
smo continuò a lungo: ancora nel 572., durante il sinodo di Braga, i vescovi
ritennero necessario ripetere la vecchia condanna.
Nel 409 diversi gruppi di barbari (Svevi, Vandali, Alani, Visigoti) ri-
uscirono ad attraversare i Pirenei. In Spagna finì allora un lungo periodo
di pace - eccezionalmente lungo, se si tiene conto della storia tardoanti-
ca. A partire da quel momento, per quasi due secoli le guerre tra i popoli
barbarici e i saccheggi decimarono il numero degli abitanti e abbassarono
drasticamente il livello di vita rispetto ai vecchi tempi romani. Solo l'unifi-
cazione della penisola sotto il dominio dei re visigotici (585) aprì un'epoca
migliore.
La Gallia
Nord. Intorno alla metà del v secolo funzionavano in Gallia 70-80 ve-
scovati, mentre nello stesso tempo il numero delle civitates attestato dalla
Notitia Galliarum (documento prodotto dall'amministrazione civile) era
di 114. Le città senza vescovo dovevano probabilmente trovarsi nelle zone
fortemente urbanizzate del Sud.
I confini dei vescovati corrispondevano di solito a quelli dell 'ammi-
nistrazione civile. Le eccezioni - che davano origine a liti frequenti tra i
titolari delle sedi - erano il risultato delle circostanze in cui era avvenuta
l'evangelizzazione di determinate zone di campagna. Durante il IV secolo,
infatti, accadeva a volte che un vescovo convertisse al cristianesimo villaggi
che non facevano parte del territorio della sua città.
L'aristocrazia gallica - sia quella municipale, sia quella senatoria - pre-
se rapidamente in mano la direzione delle comunità cristiane. Troviamo
a volte intere famiglie aristocratiche al servizio della Chiesa. La forte pre-
senza di uomini dell'élite nel clero è un fenomeno caratteristico della Gal-
lia (anche in altri paesi della cristianità mediterranea l'élite aristocratica
aveva un ruolo nel clero, ma non un ruolo così grande come in Gallia).
Pure i monasteri, almeno alcuni di essi, erano aristocratici, e le chiese pren-
devano spesso i vescovi dalle comunità monastiche. Il monastero fondato
da Onorato a Lérins e quello fondato da Martino di Tours a Marmoutier
divennero vivai di vescovi.
L'origine aristocratica dei vescovi aumentava la loro forza ed efficacia
sul piano sociale. La loro ricchezza personale poteva unirsi ai mezzi della
Chiesa quando si trattava di costruzioni sacre o di opere filantropiche. L' e-
vergetismo antico, che aveva avuto come destinatari i concittadini, cambiò
carattere e diventò servizio alla Chiesa. Si trasformò anche in uno stru-
mento nella competizione per l'elezione alla dignità vescovile, arrivando
pericolosamente vicino a comportamenti simoniaci.
Le metropoli in Gallia nacquero stranamente tardi, nella seconda metà
del IV secolo, e si moltiplicarono lentamente, sebbene il modello fosse co-
munemente accettato in altre parti del mondo mediterraneo e fosse stato
indicato come regola dal concilio di Nicea del 32.5. È lecito chiedersi se
ciò non fosse dovuto alla forte tradizione dell'autonomia cittadina e nello
stesso tempo al fatto che il comando della Chiesa era nelle mani dell'a-
ristocrazia. Quest'ultima poteva considerare la sottomissione alle istanze
metropolitane come una limitazione pericolosa della libertà di decisione.
Quanto fosse difficile il processo di unificazione delle chiese galliche,
appare non solo dalla lentezza della creazione delle metropoli, ma anche,
IL CONSOLIDAMENTO DEGLI EPISCOPATI 2.75
L'Italia
Bibliografia ragionata
Le fonti principali per lo studio della struttura e del funzionamento della Chiesa
nel periodo qui trattato sono costituite da un lato dagli atti e dai canoni dei concili,
dall'altro dalle opere dei cosiddetti storici della Chiesa. Per quanto concerne gli atti e
i canoni dei concili, cfr. A. DI BERARDINO (a cura di), I canoni dei concili della chiesa
,zntica, 2 voli., Istituto Patristico Augustinianum, Roma 2006-08, in particolare il voi.
I:/ concili greci, a cura di c. NOCE, c. DELL'osso, D. CECCARELLI MO ROLLI (da que-
sto volume provengono le traduzioni di canoni citati nel presente capitolo), e il voi.
latini. 1. Decretali, concili romani, canoni di Serdica, a cura di T. SARDEL-
II:/ concili
LA, c. DELL'osso; R. PRICE, M. GADDIS (eds.), lhe Acts ojthe Council o/Chalcedon,
voi. I, Liverpool University Press, Liverpool 2005 (gli atti del concilio di Calcedonia
conrengono anche quelli del concilio di Efeso u); c. MUNIER (éd.), Concilia Galliae
314-506, Corpus Christianorum Latinorum 148, Brepols, Turnhout 1963; ID. (éd.),
Concilia Galliae 5u-695, Corpus Christianorum Latinorum 148A, Brepols, Turnhout
1963; ID. (éd.), Concilia Aficae 345-525, Corpus Christianorum Latinorum 149, Bre-
pols, Turnhout 1974; Actes de la Conférence de Carthage en 4u, Sources Chrétiennes
194, 195, 224, 373, introduction générale par S. Lance!, Cerf. Paris 1972; J. s. VIVES,
T. MARiN MARTINEZ, G. MARTiNEZ DiEZ (comp.), Concilios visigoticos e hispano-
romanos, Consejo Superiod de lnvestigaciones Ciendficas-Instituto Enrique Fl6rez,
lhrcelona-Madrid 1963.
Per quanto riguarda le opere degli storici della Chiesa Filostorgio, Sozomeno,
2.80 STORIA DEL CRISTIANESIMO
La difficile ricerca
Un fenomeno religioso
Definizione
I modelli
I modelli biblici che sin dai primi tempi sono stati oggetto della riflessione
dei monaci risultano particolarmente eloquenti. Le figure profetiche di
Elia, Eliseo e Giovanni Battista hanno rappresentato il paradigma per ec-
cellenza dei nuovi virtuosi della religione. E costituiscono anche, in qual-
IL MONACHESIMO ANTICO
che modo, una chiarificazione quanto agli aspetti del modello eristico su
cui si è inteso insistere. L'esclamazione di Elia «Per la vita del signore, Dio
di Israele, alla cui presenza io sto» (1 Re 17,1), sovente evocata dalle fonti
per descrivere la condizione spirituale del monaco, evidenzia lo scopo ul-
timo della fatica (.ponos) monastica, ossia la sua dimensione contemplati-
va. L'esigenza d'esser puri, concretizzata nell'osservanza di regimi ascetici
variabili, spiega poi il frequente richiamo alla figura di Giovanni Battista,
un riferimento che mette in risalto il tema del deserto. Bene si comprende
allora come il Gesù che ispira il monaco sia quello delle tentazioni nel de-
serto da un lato (Mt 4,1-11), e quello del monte Tabor dall'altro (Mt 17,1-
8 ). Il primo rivela che la vita monastica è una guerra senza quartiere contro
i demòni, mentre il secondo ribadisce che essa è percorso di ascensione al
cielo, vita angelica e vera conoscenza della pienezza divina.
Gli antecedenti
L'Egitto
leraca e Antonio
Il monachesimo cenobitico
Dopo Calcedonia
vente contenuti nelle biografie dei santi, volti ad attestare attraverso il rac-
conto di miracoli dimostrativi la veridicità di un partito teologico, nella
fattispecie quello anticalcedonese (cfr., per esempio, la Vita di Samuele di
Kalamon, santo monaco del VII secolo, o ancora, in ambiente palestinese,
le Pleroforie di Giovanni di Maiuma, scritte nella prima metà del VI). Da
strumento di esemplificazione di dottrine spirituali o condimento esotico
di una letteratura d'intrattenimento, il soprannaturale diviene ora un'ar-
ma controversistica.
L'Asia Minore
Le origini del monachesimo in Anatolia non ci sono note nei dettagli. Al-
cune fonti posteriori alla metà del IV secolo parlano dei cosiddetti apotat-
tici (rinuncianti), un movimento di virtuosi della religione che rifiutavano
il matrimonio e il consumo del vino. Si constata in effetti che, sin dalla pri-
ma diffusione di gruppi di continenti nell'area, la pratica del)' ascesi si con-
cretizza sovente nella creazione di una famiglia alternativa a quella carnale,
formata da persone pure e dedite alle sole esigenze dello spirito. Da questa
prima corrente, che potremmo definire encratita (cfr. CAP. 3, p. 109 ), se
ne distingue una di diverso genere, anch'essa molto diffusa sul territorio
(come risulta anche dai numerosi trattati Sulla verginita circolanti in que-
sto contesto), la quale preconizza la pratica di un ascetismo familiare, cui
dedicarsi entro le mura domestiche.
Eustazio di Sebaste
Basilio di Cesarea
I messaliani
La Palestina e il Sinai
Il deserto di Giuda
Cirillo di Scitopoli, attivo intorno alla metà del VI secolo, nelle sue Vite
di monaci narra le imprese di questo monachesimo e dei suoi più insi-
gni rappresentanti, tra cui: Eutimio (377-473), difensore dell'ortodossia
calcedonese, padre spirituale, promotore dell'ideale es icastico (dal gre-
co hesychia, la quietudine spirituale derivante da una vita di isolamento
e contemplazione: si ricordano le sue quaresime di preghiera, trascorse
in isolamento dalla comunità); e Saba (439-532.), fondatore e federatore
di monasteri (tra cui la Grande Laura, intorno al 483). A lui è attribuito
un vero e proprio carisma di fondazione, che si manifesta in visioni atte a
determinare l'ubicazione precisa dei nuovi centri e in una straordinaria
capacità a governarli efficacemente. La tradizione lo indica anche come
autore di regole (Paradoseis). La tipologia lauritica si ripercuote anche sul
genere di direzione spirituale praticata nella comunità, una sorta di pri-
mazia (,prostasia) al confine tra carismatico e istituzionale. I disordini sor-
ti sull'onda delle controversie dottrinali (le questioni del monofisismo e
dell 'origenismo ), uniti alla volontà di controllo del monachesimo espressa
dal concilio di Calcedonia, hanno condotto all'istituzione di due autorità
coordinatrici del monachesimo della regione: un archimandrita dei ceno-
bi e uno delle laure.
La regione di Gaza
Il Sinai
La Siria
L'esplosione monastica
L'Occidente latino
L'ascetismo premonastico
L'Oriente in Occidente
Un monachesimo episcopale
ca: l'opus dei) e della lectio divina (la lettura e la meditazione delle Scrittu-
re). Il celebre motto «ora et labora» ('prega e lavora'), associato alla vita
benedettina, si diffonderà solo più avanti, secondo qualcuno addirittura
nel XIX secolo. La regola di Benedetto recupera e riutilizza molteplici fon-
ti precedenti, dalla Regula Magistri, che si ritrova quasi integralmente nei
primi sette capitoli, a quella di Cesario di Arles, passando per gli scritti
di Pacomio, di Basilio, di Cassiano, di Agostino e così via. Si tratta di un
processo di composizione della regola monastica che si ritrova anche nel
de ordine monasterii di Eugippio (vI secolo) e che sottolinea un fatto im-
portante per la comprensione del monachesimo occidentale: forse perché
influenzato della giurisprudenza romana o, secondo altri, per reazione a
una prima fase anarchica del suo sviluppo, il monachesimo di area latina è
strettamente legato all'idea della regola.
Sempre nella penisola italiana, merita infine ricordare l'esperienza del
monastero del Vivarium in Calabria, presso Squillace, fondato intorno al
550 da Cassiodoro, già alto funzionario dell'aristocrazia latina: nonostan-
te la breve durata della sua esistenza, lo scriptorium del Vivarium ha svolto
un'attività di grande importanza nella riproduzione e diffusione di testi
dell'antichità classica e patristica. Il modello fornito da Cassiodoro non
sarà estraneo alla trasformazione dei benedettini in copisti e alla diffusio-
ne della tipologia del monastero-scriptorium-biblioteca nel medioevo.
Bibliografia ragionata
CHITTY, Ihe Deserta City: An lntroduction to the Study o/Egyptian and Palestinian
Monasticism under the Christian Empire, Mowbrays, Oxford 1966. Più aggiornata, per
la fase più antica, è l'opera div. DESPREZ, Le monachisme primitif. Des originesjusqu 'au
conci/e d'Ephese, Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1998. Una serie di saggi
che coprono diverse aree geografiche si trova in A. CAMPLANI, G. FILORAMO (eds.),
Foundations ofPower and Conflicts o/Authority in Late-Antique Monasticism, Proceed-
ings of the lnternational Seminar. Turin, December 2-4, 2004, Peeters, Leuven 2007.
Per l'Oriente, si vedano l'introduzione recente e sistematica di G. FILORAMO,
Monachesimo orientale. Un'introduzione, Morcelliana, Brescia 2010, e il contributo
di B. FLUSIN, Lo sviluppo del monachesimo orientale, in Storia del cristianesimo. Reli-
gione-Politica-Cultura, voi. lii: Le Chiese d'Oriente e d'Occidente, Boria-Città Nuova,
Roma 2002, pp. 513-70.
IL MONACHESIMO ANTICO
che nel primo schema prevale l'idea della completa identità di soggetto
era l'ipostasi del Figlio/Logos e il Cristo della storia totalmente pervaso
dal Logos; nel secondo emerge l'insistenza sulla completezza dell'uomo,
necessaria alla salvezza di tutta l'umanità, ma rimane un residuo di dua-
lità a proposito del soggetto. Il primo schema sembra sia stato enunciato
con chiarezza dai vescovi e presbiteri origenisti che denunciano l'eresia di
Paolo di Samosata. Il secondo schema sembra tipico di quest'ultimo e di
coloro che si sono ispirati alla sua impostazione, correggendola negli ele-
menti dogmaticamente più pericolosi, come fecero Eustazio di Antiochia,
e, a cavallo tra IV e v secolo, gli antiariani Diodoro di Tarso e Teodoro di
Mopsuestia.
La crisi ebbe una premessa più recente nella cristologia di Apollina-
re di Laodicea (seconda metà del IV secolo) e nelle reazioni che questa
cominciò a suscitare in ambito antiocheno. Il teologo, di impostazione
antiariana, e dunque portato a esaltare la divinità del Logos, tentò di dare
una soluzione alla dicotomia che pervadeva la riflessione cristologica di
molti antiariani, la quale attribuiva le azioni e i sentimenti straordinari e
sovraumani in Cristo alla sua divinità, le limitazioni di Gesù invece alla
carne. Per Apollinare solo una strettissima connessione tra Logos e car-
ne poteva garantire la salvezza dell'uomo, anche a scapito della funzione
dell'anima e dell'intelletto umano di Cristo: per lui la cristologia pote-
va compendiarsi nella formula «una sola natura del Logos incarnata»,
là dove la "natura" era ovviamente quella divina, poiché alla carne non
poteva essere riservato lo statuto di "natura" autonoma, soprattutto dopo
l'unione con il Logos.
Tale formula, fatta passare dai discepoli di Apollinare come di Atana-
sio, fu effettivamente creduta acanasiana da Cirillo di Alessandria. Questi,
ben conscio della condanna che la cristologia di Apollinare aveva subi-
to al concilio di Costantinopoli del 381, aveva dato maggiore spazio alla
componente umana, sottolineando con più forza l'unità di soggetto tra
il Logos e il Cristo della storia. L'unione del Logos con l'umanità era per
Cirillo così stretta e completa da rendere possibile l'uso vasto della com-
municatio idiomatum, vale a dire della possibilità di dire della divinità di
Cristo ciò che è proprio dell'umanità, e di predicare dell'umanità ciò che
è proprio della divinità. Tale metodo divenne ben presto caratteristico di
tutti coloro che si ispirarono a Cirillo.
A questa impostazione avevano reagito due rappresentanti di una tra-
dizione cristologica, oltre che di un'innovativa impostazione esegetica,
312 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Tale compromesso, mai venuto meno vivo Cirillo, era tuttavia destinato
a sbriciolarsi dopo la sua morte (444). Le spinte per una nuova battaglia
teologica giungevano già da tempo anche dal mondo monastico, portato
a estremizzare le posizioni del dibattito religioso. Negli anni di Cirillo e
del suo successore Dioscoro si era affermato con sempre maggior forza il
movimento, di ispirazione pacomiana, diretto da Shenute di Atripe, ar-
chimandrita del Monastero Bianco, vicino a Panopolis, una forma cenobi-
tica (cfr. CAP. 9, p. 287 ). Fautore dei diritti dell'episcopato di Alessandria
e della Chiesa egiziana nel contesto del cristianesimo del Mediterraneo,
promotore della lotta contro l'eresia e il paganesimo, Shenute offrì ai pa-
triarchi alessandrini Teofilo, Cirillo, Dioscoro il sostegno di un monache-
simo popolare, attento ai ceti sociali più deboli, estremamente rigoroso e
ben organizzato, capace di produrre cultura anche in lingua copta. Certa-
mente esso, assieme alle varie forme monastiche affermatesi lungo il litora-
le di Alessandria, influenzò profondamente gli orientamenti dei dirigenti
ecclesiastici in periferia e nella capitale.
In altre regioni, Cirillo aveva conquistato dopo il concilio di Efeso nuo-
vi alleati: fra questi un vecchio difisita, il vescovo di Edessa Rabbuia (412-
435), aveva aderito a tal punto alle sue posizioni, da entrare in contrasto
con la locale scuola di Edessa, dove l'esegesi e l'insegnamento teologico
seguivano le linee più tipiche della tradizione antiochena e dove si pratica-
va su larga scala la traduzione in siriaco degli scritti di Teodoro di Mopsue-
stia. Il capo della scuola, Ibas, era tuttavia destinato a diventare a sua volta
vescovo di Edessa nel 435, riportando in auge la tradizione antiochena non
solo nella scuola, ma anche a livello episcopale, e per questo ad andare
incontro a una deposizione. Da questo momento Edessa diventò uno dei
luoghi in cui le divisioni si manifestarono in forma più acuta.
Ugualmente complessa era la situazione della Chiesa armena (cfr. CAP.
5, p. 177 ). Negli anni finali della funzione primaziale del catholicos Sahak,
anche a seguito della lettera del filocirilliano Proclo di Costantinopoli agli
Armeni, il vescovo, che prima aveva favorito la traduzione in armeno di au-
tori antiocheni, si allineò alla cristologia alessandrina. Ma con la sua morte
il primato passò a un'altra famiglia, più filopersiana e più aperta alla cul-
tura siriaca: era ovvio anche in questo caso il ritorno a un'impostazione di
STORIA DEL CRISTIANESIMO
tipo antiocheno. Negli anni successivi, la Chiesa armena non poté tuttavia
partecipare al dibattito religioso. La politica di annessione praticata dalla
potenza persiana, che si accompagnava spesso a conversioni forzate, incon-
trò nel 451 una resistenza accanita da parte dei principi armeni. Lo scontro,
una vera strage di nobili e una grandiosa sconfitt:.>., venne interpretato anche
come atto di resistenza cristiana a una Persia zoroastriana e intollerante.
L'occasione per un nuovo conflitto tra le due impostazioni cristologi-
che fu offerta dall'accusa lanciata da alcuni vescovi orientali contro il mo-
naco costantinopolitano Euciche di credere in una sola natura di Cristo,
secondo il dettato letterale del Simbolo di Nicea (cfr. CAP. 7, p. 2.42), in ter-
mini cali da rendere impossibile la sua reale consustanzialità con gli uomi-
ni, premessa indispensabile alla loro salvezza. Il monaco, condannato dal
vescovo di Costantinopoli Flaviano nel 448, fu invece difeso da vescovi di
altra tendenza, era i quali spiccava Dioscoro, successore di Cirillo (444-
454). Questi ottenne la convocazione di un concilio a Efeso nel 449, chia-
mato in seguito latrocinium da papa Leone. In vista di questa riunione,
il 13 giugno 449, Leone aveva indirizzato una dichiarazione cristologica
al vescovo di Costantinopoli, nota come Tomus ad Flavianum, destina-
ta a diventare l'espressione più tipica di una cristologia delle due nature,
sebbene non di matrice antiochena: due nature unite in un solo soggetto
(,persona). Nel corso del concilio, Dioscoro, forte dell'appoggio imperiale
e di Giovenale vescovo di Gerusalemme (cfr. CAP. 8, p. 2.63), non solo fece
in modo che Euciche ottenesse il riconoscimento della sua ortodossia e che
il Tomus di Leone non venisse preso in considerazione, ma procedette alla
deposizione di tutti i capi orientali di tendenza antiochena ( tra questi, Ibas
di Edessa e Teodoreto di Cirro) e persino di Flaviano di Costantinopoli.
Questi fu talmente maltrattato dai soldati imperiali giunti per arrestarlo
che morì poco tempo dopo. Dioscoro riusciva a far mettere sul seggio co-
stantinopolitano un suo uomo, Anatolio. Per un momento si poté assistere
alla realizzazione del sogno di Teofilo e Cirillo: Alessandria era diventata
la prima città cristiana d'Oriente e la sua comunità la vera guida religiosa
dell'Impero romano orientale.
Tale stato di cose fu di breve durata. La situazione si capovolse infatti
con la scomparsa improvvisa di Teodosio II il 2.8 luglio del 450, morto per
un incidente a cavallo, senza lasciare eredi. La sorella Pulcheria (t 453), uni-
ca a poter gestire l'Impero, preferì annettersi come sposo e dunque come
imperatore un anziano senatore, proveniente dai ranghi militari, Marciano
( 450-457 ). Ambedue cambiarono radicalmente la politica religiosa. Il con-
J CONCILI DI EFESO E CALCEDONIA 315
un'attività frenetica sia sul fronte sociale e pastorale, sia su quello dog-
matico. Le Epistole a Succenso di Cirillo furono infatti la base da cui egli
partì per un itinerario di chiarificazione concettuale e terminologica, che
portò all'elaborazione di una teologia destinata a diventare un punto di
riferimento fondamentale in Oriente, capace com'era di mantenere una
via media fra la teologia dell'"in due nature" calcedonese e l'estremismo
monofisita di Eutiche con l'affermazione dell'unica natura, chiamata an-
che ipostasi. Non solo le espressioni "da due nature" e "una sola natura
del Verbo incarnata" acquistarono piena cittadinanza e giustificazione,
ma il dinamismo della teologia di Cirillo fu sviluppato in modo lucido,
mettendone in rilievo la capacità di esprimere nella maniera più propria
l'incarnazione del Logos come un "divenire senza cambiamento" di Dio
Logos, che si compone (synthetos) con l'umanità in un'unità personale
(henosis): Dio diviene uomo senza cambiamento perché esiste eterna-
mente in maniera piena, senza essere mai "divenuto" nel modo in cui "di-
vengono" le creature, le quali passano dal nulla al qualcosa; Dio diviene
senza cambiamento perché diviene per noi, e dunque non per sé stesso,
essendo il suo divenire non una necessità inerente al suo essere e alla sua
natura, dovuta alla mancanza di qualcosa, ma una scelta volontaria in or-
dine all'economia della salvezza.
--
Bel--
I
•
...,. ..-
La Chiesa persiana nel 497 (da H. Jedin, K. S. Latourette, J. Martin, a cura di, Atlante
universale di storia della Chiesa, Piemme-Libreria editrice Vaticana, Casale Monferrato-
Città del Vaticano 1991).
Bibliografia ragionata
ALPI, La Route royale. Sévere d'A.ntioche et !es Églises d'Orient (512-518), voi. I: Texte;
voi. II: Sources et documents, Bibliothèque Archéologique et Historique 188, lnscicut
Français du Proche-Orient, Beyrouch 2.009; PH. BLAUDEAU, Alexandrie et Constan-
STORIA DEL CRISTIANESIMO
tra Oriente e Occidente in cui era coinvolta Roma, di fatto l'unica sede
occidentale a relazionarsi con l'Oriente, sia pure in modo intermittente
(nel corso di questo capitolo esamineremo le temporanee interruzioni:
scisma acaciano, scisma laurenziano, affare teopaschita, controversia dei
Tre capitoli). Roma era anche l'unico referente di aggregazione tra l'O-
riente, da un lato, e l'Occidente, frammentato da vicende e forze centri-
fughe, dall'altro: proprio lungo questi dibattiti dottrinali, si è dipanata la
questione del primato di Roma.
Gli scontri dottrinali in Oriente realizzarono le condizioni in cui si andò
rafforzando l'ideologia del primato romano, con Leone e con Gelasio. Sul
piano politico e concreto, il vescovo di Roma, chiamato pressoché sistema-
ticamente in causa, a turno, dai vari interlocutori, aveva un ruolo solo stru-
mentale, in quanto, appunto, unico referente di aggregazione di una pretesa
unità imperiale. Di fatto: istituzionalmente, il vescovo di Roma era suddito
dell'imperatore, che ne ratificava l'elezione talvolta anche per mezzo del pro-
prio rappresentante, l'esarca; politicamente, la volontà del vescovo di Roma
veniva sistematicamente mortificata. Il papa interveniva, ma non sempre, e
contava poco nelle scelte. Il ruolo decisionale era continuamente rivendicato
dal papa sia nei confronti dell'imperatore - che spesso aveva il sopravvento -
sia nei confronti dei vescovi di Costantinopoli e di Alessandria.
Nel VI secolo due eventi segnarono in modo particolare la penisola
italica. Dapprima l'inutile guerra greco-gotica (535-555), voluta da Giusti-
niano nel tentativo di riconquista dell'Occidente, devastò ulteriormen-
te l'Italia. Dal 568 l'invasione longobarda la frammentò ulteriormente.
I Longobardi, di antica e quasi intatta cultura tribale, con una struttura
anarchico-ducale - di ducati indipendenti - e senza precedenti contatti si-
gnificativi con l'Impero romano, occuparono Veneto e Lombardia, al Sud
arrivarono fino a Benevento. I Bizantini tennero le isole, le terre calabre e
pugliesi, il territorio intorno a Ravenna - l'esarcato - il ducato romano,
spesso a rischio di conquista.
In Occidente, si accelerò la frammentazione in chiese nazionali tanto
più dove i territori erano rimasti fuori dalle mire bizantine. L' avvicinamen-
to con i popoli germanici fece sì che attraverso il cristianesimo le vicende
politiche, economiche, istituzionali si annodassero con quelle culturali e
religiose ancor più che in Oriente, dove solo il filo dei rapporti politico-
dottrinali aveva reso il cristianesimo duplice fattore di continuità/discon-
tinuità. Sul piano istituzionale, al venir meno delle strutture imperiali,
le strutture ecclesiastiche svolsero uno straordinario ruolo di supplenza.
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 333
Invasioni o migrazioni?
-i .
~~.,,,...""'~r'---
Le migrazioni dei popoli germanici (adattamento da M. Montanari, Storia medievale, Latcrza, Roma-Bari 2.002.).
"'
V\
"'
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Per molto tempo, la cultura cristiana non riuscì a distinguere tra romani-
tà e cristianesimo (Salviano, Patrizio, Sidonio Apollinare). I pagani, dal
canto loro, mantennero l'antica avversione verso il cristianesimo ritenuto
responsabile dei mali che affliggevano l'Impero. Così, pagani e cristiani,
nell'Impero, si accusavano reciprocamente di quello che, per tutti, era un
flagello: le invasioni dei barbari. A lungo, la cultura cristiana, rischiando
anche la vocazione ecumenica del cristianesimo, mantenne nei confronti
dei barbari un atteggiamento di ripulsa (Sidonio Apollinare). Nella mi-
gliore delle ipotesi, giustificò l'esistenza dei barbari nella teologia della
storia cristiana e nel piano di salvezza divina, facendone strumento della
provvidenza divina in funzione punitiva contro le colpe dei pagani e degli
stessi cristiani (Salviano; Orosio).
Una prima revisione di queste persistenti posizioni si ebbe nel XIX se-
colo, una volta iniziata la fase dell' autocomprensione dei diversi Stati e
popoli europei. Da allora, anche sulla questione dei barbari e sull' inter-
pretazione delle invasioni, attraverso una storiografia fortemente motivata
verso una riflessione sull'anno zero della storia d'Europa, si è formata la
moderna cultura europea.
Dei barbari e delle invasioni le storiografie nazionali hanno tracciato
interpretazioni anche opposte. Di "migrazioni di popoli", non di invasioni
barbariche, parlavano la storiografia tedesca e quella anglosassone all'alba
di una rivalutazione storiografica dei barbari e del sovrapporsi dei regni
romano-barbarici all'Impero. I barbari diventarono portatori di un nuo-
vo ethos, vettori di una nuova civiltà germanica in un continente non più
romano. Questa storiografia, a parte alcuni trionfalismi nazionalistici che
impongono correttivi, ha gettato il seme di una nuova interpretazione. In-
vece, nella storiografia italiana - così come, sia pur diversamente, anche
in quella francese - si mantenevano le antiche opposizioni e le invasioni
continuavano a rappresentare un evento catastrofico e violento che aveva
sottomesso la civiltà romana.
Tra xx e XXI secolo, il pensiero storico ha registrato le preoccupazio-
ni della società occidentale contemporanea tra i fantasmi dei nazionali-
smi europei e i timori per i conflitti di civiltà e di religioni sotto l'ondata
delle nuove migrazioni. La discussione sulle radici culturali e/o cristiane
dell'Europa, accesasi intorno al preambolo della Costituzione europea, ha
riproposto l'esigenza di fare un bilancio storico del rapporto tra tradizioni
e culture pagane da un lato - greco-romana e barbariche - e cristianità ro-
mana dall'altro. L'immaginario storico, dominato da categorie interpreta-
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 337
tive ancora non del tutto inerti e nel quale torna in vario modo il binomio
oppositivo tra barbari e romanità, è respinto da storiografia e cultura con-
temporanee, che negano il pregiudizio culturale della diversità dei barbari
in quanto esponenti di una civiltà inferiore. Al suo posto vi sono altre cate-
gorie. All'idea dello scontro militare, politico, culturale, religioso tra ger-
manità e romanità si è sostituita quella dell'integrazione delle nuove po-
polazioni nel corpo dell'Impero, con la successiva articolazione nei regni.
Decisiva anche l'attenzione storiografica, maturata nella seconda metà del
Novecento, che guarda oltre la storia evenemenziale e verso i fattori di mu-
tamento di lungo periodo nella interazione di incontri economici, culturali,
religiosi, dove il cristianesimo reagisce come collante di forze centrifughe.
Georgia la fede cristiana (cfr. CAP. 5, pp. 178-9 ). Incursioni gotiche, con
conseguente cattura di prigionieri ed ecclesiastici, avevano comportato un
primo passaggio del cristianesimo tra le popolazioni barbariche (Filostor-
gio, h.e. 2,5; Sozomeno, h.e. 2,5). I Visigoti erano entrati in contatto con
il cristianesimo prima di Wulfila, divenuto vescovo di confessione ariana
nel 341, traduttore della Bibbia in lingua gotica: tutto questo ben prima
dell'ingresso ufficiale dei Goti nel mondo romano, nel 376. Tra i Visigo-
ti, infatti, vi era un gruppo originario della Cappadocia, discendente da
schiavi catturati nel III secolo. Saba, martire nel IV secolo, era uno di que-
sti. E Wulfila stesso ne sarebbe stato un discendente.
Dunque, i contatti avvenivano spesso per osmosi naturale piuttosto che
essere eterodiretti, sulla base di pianificazioni missionarie e di politica re-
ligiosa. Ancora nel v secolo, il cristianesimo veniva introdotto nel mondo
barbarico da prigionieri, mercanti, barbari reduci (Prospero di Aquitania).
Quando le comunità cristiane erano già presenti, la Chiesa ufficiale man-
dava i suoi vescovi. Interazioni culturali e soprattutto religiose, contatti e
scambi commerciali e diplomatici, ma anche la presenza di schiavi cristiani
al servizio dei barbari, connotarono per lungo tempo i rapporti tra i barba-
ri e i cristiani all'interno e fuori dei confini dell'Impero.
Oltre a queste forme "spontanee" di diffusione, una specifica dall'al-
to, di natura politico-religiosa, era rappresentata dalle missioni di monaci
ed ecclesiastici: alcune missioni monastiche erano ispirate dal papato di
Roma (Britannia anglosassone), altre partivano per convertire popolazio-
ni vicine (Irlanda). Questa forma di diffusione "comandata" è quella tradi-
zionalmente più evidenziata dalla storiografia.
Le missioni rappresentavano, inoltre, il primo livello politico della dif-
fusione del cristianesimo. Ma vi era anche una diffusione politicamente più
articolata, come in Gallia, dove il ceto vescovile locale, di origine aristocra-
tica, sulla base di relazioni diplomatiche e politiche, avviò la conversione
dei re franchi e l'evangelizzazione della popolazione. Da questi contatti
anche il cristianesimo veniva trasformato sia sotto il profilo dottrinario che
delle pratiche religiose che di quello politico: la geografia della religiosità
si articolava nei vari regni passando attraverso dinamiche di varia natura.
L'incontro tra cristianesimo e culture barbariche diede luogo a pro-
cessi di adattamento in doppia direzione. Uno era l'acculturazione, come
adattamento tipico, e anche più generalmente rilevabile dal punto di vi-
sta antropologico, da parte di un gruppo culturalmente povero rispetto a
una cultura dominante: quella romana prevedeva la combinazione fra le
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 339
Vescovi e monaci
ceti dirigenti, oltre che a Roma, il clero cattolico mediò l'integrazione fra
Romani e Germani. Peraltro, gli scriptoria dei monasteri diventarono centri
di spiritualità, zattere di salvezza e di trasmissione della cultura. La mobi-
lità tra monasteri e strutture ecclesiastiche caratterizzava molti contesti e
soprattutto la Gallia: la fuga nel monastero divenne, per molti aristocratici,
scelta di vita religiosa, ma anche premessa di una carriera episcopale.D'altro
canto, il diritto della Chiesa aveva la tendenza a limitare i poteri dei monaci
e a integrare il monastero dentro le strutture ecclesiastiche.
Per ragioni politiche, ma anche per una cultura segnata da maggiore
sensibilità giuridica rispetto all'Oriente, Chiesa e monasteri acquisirono
definita struttura istituzionale. Deliberazioni dei concili regionali e lettere
decretali papali davano le norme che organizzavano vita e istituzioni del
clero e dei fedeli. A loro volta, i monasteri venivano organizzati da regole,
che però, in questi secoli, avevano carattere ben poco normativo. Ripren-
dendo gli esempi indiscussi di perfezione ascetica orientale, e, con essi, la
predilezione per la vita cenobitica, i Padri della Chiesa (Girolamo, Cassia-
no), prescrivevano "regole" che erano piuttosto indicazioni morali. Tra la
fine del IV e l'inizio del v secolo, tutte le prime regole latine non ebbero
impronta legislativa: erano brevi, incomplete rispetto alle problematiche
organizzative comunitarie, spesso troppo teoriche e poco pratiche, più pa-
renetiche che vincolanti. Il grande codice di leggi era la Scrittura.
dai quali questo mondo è retto: l'autorità sacra dei pontefici e il potere re-
gale (auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas ). Il primo è più impor-
tante perché i vescovi devono rispondere davanti a Dio anche dell'operato
dei sovrani. L'imperatore deve sottomettersi e non comandare sul potere
spirituale (Tractatus 1v). In ragione anche dell'uso intercambiabile dei ter-
mini auctoritas e potestas, di recente, più che della tradizionale teoria dei
due poteri, si è parlato di una condivisione del potere supremo tra autorità
dottrinale e politica. Ma, per quel che riguarda le questioni dottrinali, ogni
accusa di eresia si deve misurare sulla dottrina fissata dal pontefice: Roma
considera un'empietà ogni posizione che non le corrisponda.
Durante questo pontificato, Teoderico, della dinastia degli Amali e già
re degli Ostrogoti, dopo avere sconfitto il re degli Eruli, Odoacre, era di-
ventato re d'Italia con l'avallo dell'imperatore nel 493 (e lo fu fino al 52.6).
Ammiratore della civilitas Romana, di cui si riteneva erede e prosecutore,
benché di confessione ariana, nell'ambito della quale costruì chiese anche
a Roma, Teoderico attuò una politica di ampia tolleranza religiosa, non
solo con i cattolici di fede nicena, ma anche con le minoranze giudee ( Cas-
siodoro, variae 2.,2.7, tra 507 e 511)._
Per quanto riguarda l'Oriente, Teoderico cavalcò l'onda dello scisma
acaciano che, nell'interruzione dei rapporti tra Oriente e Occidente, gli
consentiva totale libertà d'azione in Italia. Lo si constatò soprattutto alla
morte del successore di Gelasio, Anastasio II (496-498), il cui breve pon-
tificato aveva visto un fugace tentativo di pacificazione.
In rappresentanza degli opposti schieramenti, pro e contro la riconci-
liazione con l'Oriente, vennero eletti papi rispettivamente Lorenzo - pas-
sato alla storia come antipapa e che tenne il seggio dal 502. al 506 - e Sim-
maco (498-514). Questi era il leader dei difensori di Calcedonia, della
primazia assoluta di Roma, di una strenua linea di politica religiosa anti-
monofisita. Con la frattura religiosa si intrecciarono, a Roma, conflitti di
autorità anche con gli aristocratici, che pretendevano il controllo sulle ele-
zioni papali. Gli attacchi arrivarono a fatti fino ad allora inauditi: l'esauto-
ramento del papa Simmaco, il commissariamento della Sede romana - con
la nomina di un visitator -, e l'ultimo dei concili convocati sottopose il
papa a processo (502.). Peraltro, da queste circostanze poco esaltanti, e, in
particolare proprio da quest'ultimo concilio, il papato uscì rafforzato: nel-
la quarta seduta, detta Palmare, si stabilì, infatti, quale principio giuridico,
l'assioma papa a nemine iudicatur ( «il papa non può essere giudicato da
nessuno»). Nel corso della vicenda furono prodotti una serie di falsi sto-
STORIA DEL CRISTIANESIMO
(573) poco dopo l'assedio della città da parte dei Longobardi, era stato in
precedenza apocrisario del papa, Pelagio II, a Costantinopoli, dove aveva
intrecciato importanti relazioni, decisive durante il suo futuro pontificato.
Pur nel continuo rimpianto per la vita monastica, già alternata all'inte-
resse per attività politico-diplomatiche e, comunque, abbandonata per il
papato, svolse un'opera straordinaria per ampiezza e novità in quanto a
supporto istituzionale, testimoniata in gran parte dal suo epistolario (Re-
gistrum epistolarum ): riorganizzò l'amministrazione ecclesiastica, in tutti
i suoi aspetti, e la liturgia; difese i diritti del foro ecclesiastico; coniugò re-
sponsabilità politiche e militari e privilegi, organizzando Roma quale sede
di rifugiati e facendo del papato forza di potere di cui Bisanzio e i regni
occidentali dovettero tenere conto nei secoli successivi.
Autore di scritti di carattere spirituale, esegetico e pastorale (fra cui i
Moralia in lob e la Regula pastoralis) oltre che dei Dialogi, dove si celebrano
i santi, tra cui Benedetto, non fu un teorico. Ma, ovunque, agì secondo
orientamenti - e con una precisa visione politica di questioni più propria-
mente religiose ed ecclesiastiche - che contribuirono al rafforzamento del
cristianesimo. Il suo operato, sbilanciato per alcuni verso Occidente tanto
da contribuire alla formazione del!' Europa delle nazioni, era fortemente
proiettato anche verso Oriente. La sua lotta contro l'intolleranza ariana e il
paganesimo dei Longobardi si coniugò con la realizzazione di difficili equi-
libri politici nelle tappe della loro avanzata. Nella questione tricapitolina,
in cui era stato coinvolto anche prima dell'elezione, divenuto papa, operò
per una mediazione tra le chiese scismatiche e l'imperatore, facendo fronte
a difficoltà aggravate dall'invasione longobarda, che aveva anche diviso mi-
litarmente quelle chiese rispetto ai territori controllati dai Bizantini.
In Oriente, nel duplice registro della relazione con l'imperatore - tra
obbedienza e rivendicazione della propria superiorità spirituale (Regi-
strum 3,61 e 64) - fu rilevante la questione relativa al titolo di ecumenico
autoattribuitosi dal patriarca di Costantinopoli, titolo da Gregorio conte-
stato presso l'imperatore (5,37 e 39).
Nella Gallia romana, alla fine del IV secolo, si contavano circa 70 sedi epi-
scopali. Nel v secolo, oltre alle relazioni tra monaci e vescovi, uno dei tratti
maggiormente distintivi del cristianesimo in Gallia, così come in Spagna,
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 349
fino al 468, rappresentando il disastro del clero e della vita religiosa, non-
ché la scomparsa delle regole di convivenza.
La disfatta subita dai Visigoti da parte dei Franchi di Clodoveo a
Vouillé (507) cambiò la situazione. Tolosa, già capitale del regno visigoti-
co venne conquistata dai Franchi. Toledo diventò sede metropolitica per i
niceni. Re Leovigildo (568/569-586) promosse la città a sua capitale. Con
re Recaredo, che si convertì dall'arianesimo, nel 587, Toledo diventava il
centro del progetto di riunificazione nazionale nel segno di una comune
confessione di fede, e diventava anche sede di concili della Chiesa visigo-
tica. Al seguito del re passarono alla fede nicena, nel 589, nobili e clero
(concilio di Toledo m) e poi Goti e Svevi. In questa fase, anche la Spagna
conobbe l'alleanza tra nuovo potere politico e potere ecclesiastico: un per-
corso ben noto, foriero di sempre nuovi equilibri.
Inoltre, gli attacchi di Martino di Braga (intorno al 570) contro il pa-
ganesimo, lo stesso concilio di Toledo III (589 ), nonché i molti concili
(almeno 17 ), che intervennero su questioni di disciplina ecclesiastica, di-
mostravano le difficoltà in cui si dibatteva la fede nicena, nonché la preoc-
cupazione dei vescovi per la regolamentazione della Chiesa.
Anche all'interno della Chiesa agivano forze di disgregazione: lo di-
mostravano il riaccendersi di focolai priscillianisti e la risposta di vescovi
simpatizzanti che eludevano l'esortazione di Leone a fare un concilio con-
tro i priscillianisti. Nel 561, il primo concilio di Braga li condannò.
Durante il papato di Gregorio Magno, Isidoro vescovo di Siviglia ( t
636) testimonia di un cattolicesimo spagnolo autonomo da Roma e in au-
tonomia anche rispetto al potere regio. Isidoro celebra, nella prefazione
alla sua Historia Gothorum, questa nuova e orgogliosa Spagna «di tutte
le terre, che da Occidente fino all'India si estendono, la più bella», già
amata dall' «aurea Roma» e di cui adesso gode «la fiorentissima stirpe
dei Goti». Ma, nel VII secolo, gli equilibri tra Chiesa spagnola e regno si
spostarono ulteriormente e prevedevano il potere nelle mani del re, che
sceglieva anche i vescovi.
In Britannia, la vera missione si fa partire con papa Gregorio, nel 596: com-
posta da monaci del monastero di Sant'Andrea al Celio, tra cui Agostino
e Lorenzo, fu inviata per convertire gli Anglosassoni dal paganesimo. Ma,
352. STORIA DEL CRISTIANESIMO
I Balcani
Nel v secolo tutte le diocesi e province della penisola balcanica, ammini-
strativamente controllate da Costantinopoli, dal punto di vista ecclesia-
stico, erano legate a Roma, eccetto la diocesi Thracia. Teodosio II dovette
anche ritirare una legge che subordinava i vescovi dell'Illyricum a Costan-
tinopoli (CTh 16,2.,45 del 42.1). A metà del v secolo, non è chiaro a cosa
corrispondesse il termine Illyricum. Qui, il legame con Roma si rafforzò
quando Leone concesse il vicariato ad Anastasio di Tessalonica (epp. 6; 13;
14). Questo vicariato venne ridimensionato da Giustiniano che lo attribuì
anche a lustiniana Prima, imponendo così a Roma due vicariati. Anche le
invasioni andavano limitando il rapporto con Roma alle sole regioni meri-
dionali, fino a quando, con Leone III lsaurico, tutto passò sotto il control-
lo di Costantinopoli (732.-733).
La specificità religiosa di questa regione è in rapporto alla particola-
rità delle condizioni migratorie di popoli fino ad allora rimasti separati
dal mondo romano, con il quale non c'erano stati precedenti contatti né
incontri osmotici di alcun tipo. Così, gli insediamenti dei popoli slavi
produssero esiti deflagranti per i precedenti assetti. La distanza culturale
e la difficoltà di interpretarne, anche per la maggiore distanza linguistica,
l'interazione con l'Occidente - interazione diversa, rispetto a quella con i
"più vicini" popoli germanici - sono state tra le concause di pregiudizi di
tipo razzistico e di incomprensioni, anche storiografiche.
Dopo Unni (dal 42.0 al 455), Gepidi (Goti) - scacciati dai Longobar-
di (567) - e Ostrogoti di Teoderico (nel 473), comparvero Bulgari (493-
502.), Slavi (dal 517 al 52.8 e 52.9), Turcotartari (540) e Scalveni (Slavi del
Sud); infine, gli Avari, di ceppo mongolo, che, arrivati dall'Asia, occupa-
rono la Pannonia lasciata libera dai Longobardi, migrati in Italia (568).
Avari e Slavi, spintisi verso sud, distrussero Sirmium (583) e arrivarono a
Tessalonica (584), con conseguente slavizzazione della penisola balcanica.
A differenza dei popoli germanici, che non avevano cambiato l'aspetto et-
354 STORIA DEL CRISTIANESIMO
scisma donatista (cfr. CAP. 8, p. 2.70 ). L'Africa era ancora lacerata da questo
scisma, quando, provenienti dalla Spagna, nel 42.9, vi giunsero i Vandali,
ariani, che conquistarono, oltre che parte dell'Africa, anche Sicilia, Sarde-
gna, Corsica e Baleari. Il conflitto religioso si estese. Nel 439, con la presa di
Cartagine, iniziava un periodo di persecuzioni da parte dei nuovi padroni
dell'Africa orientale, antiniceni, contro i niceni della "Chiesa imperiale"
e, verosimilmente, anche contro i donatisti. Stanziati nella Proconsolare,
i Vandali, tra 457 e 477, perseguitavano il clero e imposero l'arianesimo
prima ai funzionari; poi, sotto re Hunirico (477-484), un editto del 484
impose la conversione a tutta la popolazione africana. Le chiese cattoliche
vennero recuperate al culto ariano.
Rispetto a questo missionarismo, una svolta è rappresentata dall'editto
di re Hilderico (52.3-530) del 52.3, che restituì la libertà religiosa alle diverse
confessioni.
Nel 535, la riconquista di Giustiniano e la persecuzione dei cristiani ne-
mici della Chiesa imperiale anticiparono di dieci anni il conflitto dei Tre
capitoli e l'inasprimento della repressione imperiale che ebbe il sopravven-
to nel 569. Ma, fermenti religiosi tendenzialmente autonomistici, forte-
mente radicati su questioni emico-sociali, e poco propensi ad allinearsi al
potere centrale romano, ripresero il sopravvento. Ali' inizio del VI secolo,
Gregorio Magno denunciò la comunità africana in quanto scismatica, per
la pratica della reiterazione del battesimo, considerata donatista (epp. 2.,39;
4,32.; 4,35).
Sono gli stessi fermenti che, insieme ad altri elementi culturali e reli-
giosi - quali la precedente diffusione dell'arianesimo, con la sua impronta
di maggiore evidenza monoteistica -, potevano dialogare meglio con il
sopravvenuto messaggio di Maometto (Mul:iammad), favorendo la con-
quista del continente africano, strappato al cristianesimo a partire dall' E-
gitto, nel 646.
Bibliografia ragionata
Manuali, strumenti e storie generali: per la storia del papato, si vedano le singole voci
in Enciclopedia dei papi, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 2.000. Fondamen-
tali, per inquadramento storico e geografico insieme: A. DI BERARDINO (a cura di),
/1tlante storico del cristianesimo antico, EDB, Bologna 2.006; Storia del cristianesimo.
Religione-Politica-Cultura, voi. III: Le Chiese d'Oriente e d'Occidente, Boria-Città
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Nuova, Roma 10 o 1; Histoire générale du christianisme, voi. I: Des origin es au XV' siede,
PUF, Paris 1010.
Sulla fine dell'Impero romano e per i regni romano-barbarici, d'obbligo la lettura
del classico e sempre stimolante s. MAZZARINO, La fine del mondo antico: le cause del-
la caduta dell'impero romano, Bollati Boringhieri, Torino 1008. Cfr., per un episodio
cruciale, l'opera diJ. LIPPS, c. MACHADO, P. VON RUMMEL (eds.), Ihe Sack o/Rome
in 4Io AD: Ihe Event, its Context and its impact, Dr. Ludwig Reichert Verlag, Wiesba-
den 1013. Sui lunghi processi di integrazione dei popoli germanici, slavi e baltici da un
lato e Impero romano dal!' altro, con prospettive diversamente cenerate, su Mediterra-
neo, Europa settentrionale e orientale, si vedano H. WOLFRAM, Storia dei Goti, Saler-
no editore, Roma 1985 (ed. or. 1979 ); F. DVORNIK, Gli Slavi nella storia e nella civilta
europea, Dedalo, Bari 1968 (ed. or. 1961); K. MODZELEWSKI, L'Europa dei Barbari.
Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana, Bollati Boringhieri, Torino
1008 (ed. or. 1004); P. DELOGU, s. GASPARRI (a cura di), Le trasformazioni del v
secolo. L'Italia, i barbari e l'Occidente romano. Atti del seminario di Poggibonsi, IS-20
ottobre 2007, Brepols, Turnhout 1010; P. HEATHER, L'impero e i barbari, Garzanti,
Milano 1010 (ed. or. 1006); s. GASPARRI, c. LA ROCCA, Tempi barbarici. L'Europa
occidentale tra antichita e medioevo (300-900 ), Carocci, Roma 1011.
Fondamentali per i rapporti culturali: B. LUISELLI, Storia culturale dei rapporti
tra mondo romano e mondo germanico, Herder, Roma 1991; ID., La formazione del-
la cultura europea occidentale, Herder, Roma 1003; ID. ( = Luiselli, 1014), Barbaritas
theologica: nuove frontiere teologiche nelle culture 'barbariche' dell'Occidente, in La
teologia dal V all'vm secolo fra sviluppo e crisi, XLI Incontro di Studiosi dell'Antichità
Cristiana (Roma, 9-11 maggio 1013), Istituto Patristico Augustinianum, Roma 1014,
pp. 117-33. Sulla letteratura latina del periodo, cfr. M. SIMO NETTI, Romani e barbari.
Le lettere latine alle origini dell'Europa {secoli v-vm), Carocci, Roma 1006.
Per paganesimi, culti e riti romani e cristianizzazione dei barbari, rappresenta un
momento storiografico importante il volume La conversione al cristianesimo nell'Eu-
ropa dell'A.lto Medioevo, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro
Italiano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 14-19 aprile 1966), voi. XIV, CISAM,
Spoleto 1967.
Sulla lenta scomparsa di culti e riti pagani, coesistenti ancora nel ve VI secolo con
il cristianesimo, si vedano G. BONAMENTE, R. LIZZI TESTA (a cura di), istituzioni,
carismi ed esercizio del potere {IV-VI secolo d.C.), Edipuglia, Bari 1010, pp. 173-303; P.
BROWN, R. LIZZI (eds.), Pagans and Christians in the Roman Empire: Ihe Breaking
o/a Dialogue (1v'1,-vt1, Century AD), Proceedings of che Incernational Conference at
che Monastery ofBose (October 1008), LIT, Miinster 1011; P. CHUVIN, Cronaca de-
gli ultimi pagani. La scomparsa del paganesimo nell'impero romano tra Costantino e
IL CRISTIANESIMO IN OCCIDENTE 357
Giustiniano, trad. it. a cura di F. Cannas, con una nota di G. Agosti, Paideia, Brescia
2.012. (ed. or. 1991). Con riferimenti archeologici, cfr. G. BINAZZI, La sopravvivenza
dei culti tradizionali nell'Italia tardoantica e medievale, Morlacchi, Perugia 2.008; ID.,
Il radicamento dei culti tradizionali in Italia fra tarda antichità e Alto Medioevo. Fonti
letterarie e testimonianze archeologiche, L'Erma di Bretschneider, Roma 2.012..
Sui processi di interazione religiosa e di cristianizzazione, per una visione di insie-
me, si veda c. LA ROCCA, La cristianizzazione dei barbari e la nascita dell'Europa, in
"Reti medievali", 5, 2., 2.004, pp. 1-38. Più specifici: v. PERI, La cristianizzazione delle
etnie slave {secoli VII-XI), in "Anuario de Historia de la lglesia", 9, 2.000, pp. 85-108;
ID., L'ingresso degli Slavi nella cristianità altomedievale europea, in Roma fra Oriente
e Occidente, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi
sull'Alto medioevo (Spoleto, 19-2.4 aprile 2.001), voi. XLIX, CISAM, Spoleto 2.002., pp.
400-53; E. PRINZIVALLI, L'arianesimo: la prima divisione tra i Romani e la prima
assimilazione dei popoli migranti, in Cristianità d'Occidente e cristianità d'Oriente {se-
coli VI-XI), Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi
sull'Alto medioevo (Spoleto, 2.3-2.4 aprile 2.003), voi. LI, CISAM, Spoleto 2.004, pp.
31-60; R. Barcellona, Una società allo specchio. La Gallia tardoantica nei suoi concili,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2.012..
Per le regole monastiche e il monachesimo, cfr. la Bibliografia ragionata del CAP. 9.
Sul primato e relative questioni dottrinali si veda il classico E. CASPAR, Geschichte
des Papsttums, Bd. II: Das Papsttum unter byzantinischer Herrschaft, Mohr, Tùbin-
gen 1930 e 1933. Per una visione problematica generale, cfr. G. DE ROSA, G. CRACCO
(a cura di), Il papato e l'Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2.001; Y.-M. HILAIRE
(éd.), Histoire de la papauté, Editions du Seuil, Paris 2.003'.
Per una lettura storiograficamente rinnovata dei rapporti con l'Oriente, fonda-
mentale è l'opera di PH. BLAUDEAU, Le siege de Rome et l'Orient (448-536). Étude
géo-ecclésiologique, ÉFR, Roma 2.012..
Per alcune importanti questioni istituzionali e dottrinali, si vedano M. MACCAR-
RONE, 'Vicarius Christi'. Storia del titolo papale, Lateranum, Romae 1952.; T. SAR-
DELLA, Societa, Chiesa e Stato nell'eta di Teoderico, Rubbettino, Soveria Mannelli
1996; R. BARCELLONA, La soluzione di Orange (529). Tra teologia e antropologia, in
!,a teologia dal v all'VIII secolo .fra sviluppo e crisi, XLI Incontro di Studiosi dell 'Anti-
chicà Cristiana (Roma, 9-11 maggio 2.013), Istituto Patristico Augustinianum, Roma
2014, pp. 481-507; A. BECKER, Les relations diplomatiques romano-barbares en Occi-
dent au V' siede. Acteurs,fonctions, modalités, De Boccard, Paris 2.013. Sull'importante
figura di Fausto di Riez, cfr. R. BARCELLONA, Fausto di Riez interprete del suo tempo.
Un vescovo tardoantico dentro la crisi dell'Impero, Rubbettino, Soveria Mannelli 2.007.
Su Gregorio Magno, in occasione delle celebrazioni per il XIV centenario della
STORIA DEL CRISTIANESIMO
morte ( 604) si sono svolci molci convegni e gli Atti sono stati regolarmente pubblica-
ti. Ricordiamo qui solo l'ulcimo (dal quale si può ricavare l'indicazione dei preceden-
ti): Gregorio Magno e le origini dell'Europa, Atti del Convegno internazionale (Firen-
ze, 13-17 maggio 2.006), sotto la direzione di Claudio Leonardi, SISMEL-Edizioni del
Galluzzo, Firenze 2.014.
Per gli aspetti socio-culcurali, cfr. J.-M. CARRIÉ, 'Démocratisation de la culture': un
paradigme a géométrie variable, in "Antiquité Tardive", 9, 2.001, pp. 2.7-46; A. CHAU-
VOT, Barbarisation, acculturation et 'démocratisation' de la culture dans t:Antiquité
tardive, in "Amiquité Tardive", 9, 2.001, pp. 81-95 (di riferimento tutto il numero della
rivista). Per questioni specifiche, si veda J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del
mercante, Einaudi, Torino 1977. Un'interessante prospettiva sullo sviluppo topogra-
fico di Roma si trova in R. KRAUTHEIMER, Roma, profilo di una citta (p2-I30S), Edi-
zioni del!' Elefante, Roma 1981 (ed. or. 1980).
12
Un programma ambizioso
Presa sotto la sola angolazione della sua coerenza e della sua ampiezza,
l'azione religiosa di Giustiniano mira a stupire costantemente. La ricerca
della meraviglia, del timore e dello stupore risponde anche a una crisi di
identità più discreta, più recente anche, della controversia dottrinale ed
ecclesiologica. L'eco di questo malessere è percepibile nelle fonti contem-
poranee. Infatti, il senso vissuto del tempo cristiano è stato messo a dura
prova all'inizio del VI secolo. Dopo i lavori cronachistici di Giulio Africa-
no ( t 240 ), era divenuta credenza comune che la fine del mondo dovesse
avvenire verso il soo. Questa convinzione era fondata sulla duplice idea,
largamente diffusa, che la creazione dovesse durare 6.000 anni (secondo
l'espressione biblica di Sai 90,4 per cui agli occhi di Dio 1.000 anni sono
come un solo giorno) e che la nascita di Cristo fosse avvenuta nell'an-
no ssoo. Essa permetteva di considerare le catastrofi naturali (terremoti,
epidemie, sconvolgimenti climatici) e le distruzioni prodotte dall'uomo
come altrettanti preannunci della fine.
Ma, una volta acquisito che la fine non si è verificata, la mancanza di
senso da dare alle prove del presente si manifesta più duramente. Per ri-
spondere a questa sfida, alcuni cronachisti (già Eustazio di Epifania, forse
Maiala), anticipano l'anno 6000 e lo assegnano alla nascita di Cristo, ri-
mandando ipso facto il compimento dei secoli alla fine del VII millennio.
Mentre precisa il computo pasquale, Dionigi il Piccolo preconizza il ri-
corso all 'annus Domini. Senza dubbio Giustiniano trae da questi tenta-
tivi l'impellente imperativo di sdrammatizzare, o meglio di riqualificare
positivamente, il corso del tempo. L'ottimismo che caratterizza gli anni
532-538 facilita in un primo tempo i suoi sforzi: con la novella 47 (31 ago-
sto 537 ), egli prescrive che la data di ogni documento ufficiale debba in pri-
mo luogo far figurare l'anno di regno e poi soltanto la data consolare, poi
l'indizione, il mese e il giorno. Fino a quel momento l'Impero non si era
L'UTOPIA GIUSTINIANEA E GLI SVILUPPI FINO AL VII SECOLO 373
cesimale, il re erulo (Getta, nel 528) o quello unno del Chersoneso (Grod,
lo stesso anno). Soprattutto, più di ogni altro imperatore, egli ha concepi-
to in modo unitario la sua opera di teologo: in questo senso la tradizione
ortodossa non sbaglia allorché gli attribuisce un celebre inno cristologico
(Ho Monogenes ), anche se, più verosimilmente, esso fu per la parte essen-
ziale scritto da Severo di Antiochia. Corippo, se pure non identifica esatta-
mente il bersaglio, testimonia delle preoccupazioni più vive di Giustinia-
no, quando descrive i suoi ultimi anni: « non si preoccupava più di niente,
ormai, nel gelo dell'età avanzata, non bruciava più che del solo amore per la
vita eterna, tutto il suo spirito si trovava già dei cieli» (/ust. 11, vv. 265-267 ).
Dopo Giustiniano
Minacce e riconquista:
Eraclio e la ricerca di un'ispirazione costantiniana
militari: nei Balcani, la ritirata degli effettivi inviati contro i Persiani ( 604)
provoca questa volta una penetrazione in massa degli Slavi, che tuttavia non
riescono a prendere Tessalonica. Questa invasione non rivela soltanto l'inca-
pacità di rispondere al confronto avviato da Cosroe II: essa dà alla catastrofe
un'ampiezza spaventosa che la ferocia di Foca accentua ancora. Divenuti
insopportabili, lui e i suoi seguaci sono eliminati dalla ribellione venuta da
Cartagine, rinforzata in Egitto e vittoriosamente comandata da Eraclio.
Il nuovo imperatore deve senza por tempo in mezzo far fronte alla guer-
ra in condizioni particolarmente difficili: dal 610 al 620, le truppe romane
non riescono a fare altro che a riprendersi con grande fatica dalle pesanti
sconfitte loro inflitte dai Persiani. I Sasanidi, infatti, conquistano Edessa
(610), poi Antiochia, Damasco ed Emesa (613), Gerusalemme (614) e, in-
fine, l'Egitto ( 619 ). Senza indugiare, stabiliscono la loro amministrazione
sui territori conquistati. Eraclio è in condizione di lanciare grandi ope-
razioni soltanto alcuni anni più tardi, a partire dal 624: dopo le prime
vittorie in Armenia, egli prevale al lago di Van. Poi, mentre l'assedio di
Costantinopoli da parte di Avari e Persiani, in un'operazione sicuramente
concertata ( 626), fallisce di fronte alla mobilitazione energica della città,
galvanizzata dal suo patriarca Sergio con grande dispiegamento di icone
(della Vergine e quella, acheropita, di Cristo), l'imperatore si impegna in
Mesopotamia e ottiene la decisiva vittoria di Ninive ( 627 ). Cosroe II è
presto rovesciato ed eliminato ( 628).
Poco dopo, Eraclio ottiene il ritorno alle frontiere del 591 e, in una
intensa atmosfera di esaltazione religiosa, riporta la Croce a Gerusalem-
me ( 630 ). Egli non ha atteso questo risultato per esortare a intraprendere
discussioni con i rappresentanti delle comunità eterodosse, specialmente
con gli anticalcedonesi. Eraclio intende ottenere un accordo sfruttando la
sua aura di vincitore, rivendicando manifestamente il patrocinio costan-
tiniano, annunciato dal nome scelto per il primo dei suoi eredi. Questa
ambizione, apparentemente coronata da successo, è ugualmente indicata
dal titolo ufficiale di basileus che egli adotta sulla scia dei re di Israele, ma
soprattutto a imitazione della designazione conferita a Cristo: l'intento
è quello di unire più strettamente ancora il suo Impero al regno dei cieli.
La pretesa si manifesta anche nel decreto di conversione forzata dei Giu-
dei (632), dopo le violenze da questi innescate sotto l'egida persiana e le
ritorsioni duramente abbattutesi su di loro. Questa decisione, criticata in
modo particolare dal monaco Massimo (il Confessore), fu d'altra parte
applicata in modo ineguale e per poco tempo.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
stica, in una lingua greca scintillante (la Scala di san Giovanni Climaco,
t 649 ), la risposta ortodossa si elabora selezionando le varie risorse tratte
dalla sua eredità culturale. Attingendo ancora alla tradizione sinaita con le
Questioni e risposte di Anastasio (opera completata alla soglia dell'vm se-
colo), essa appare da questo momento in grado, in un dialogo eccezionale
con i vitali interrogativi del tempo, di esprimere una promettente fiducia
nell'armonizzazione fra insegnamenti di fede e saperi di origine profana.
Bibliografia ragionata
Come manuali, cfr. M. MAAS (ed.), The Cambridge Companion to the Age ofjustinian,
Cambridge University Press, Cambridge 2.005; J. MEYENDORFF, Imperia/ Unity and
Christian Divisions, svs Press, Crestwood 1992.'.
Per le opere generali sulla scoria del cristianesimo, si rimanda alle opere Storia del
cristianesimo. Religione-Politica-Cultura, voli. Ili-IV, Boria-Città Nuova, Roma 1999,
e Histoire générale du christianisme, PUF, Paris 2.010. Si vedano anche P. BROWN, The
Rise ofthe Western Christendom: Triumph and Diversity, A.D. 200-Iooo, Tenth An-
niversary Revised Edition, Wiley-Blackwell, Oxford 2.012.; H. CHADWICK, East and
West: The Making ofa Rift in the Church. From Apostolic Times unti! the Council oJ
Florence, Oxford University Press, Oxford 2.003; E. WIPSZYCKA, Storia della chiesa
nella tarda antichita, Bruno Mondadori, Milano 2.000.
Per i lavori consacraci a Giustiniano e alla sua epoca, cfr. H. LEPPIN, justinian.
Das christliche Experiment, K.lecc-Cocta, Scuttgarc 2.011; v. L. MENZE,justinian and
the Making ofthe Syriac Orthodox Church, Oxford University Press, Oxford 2.008; E.
SCHWARTZ, Zur Kirchenpolitikjustinians, in Id., Gesammelte Schriften, Bd. IV: Zur
Geschichte der alten Kirche und ihres Rechts, de Gruyter, Berlin 1960, pp. 2.76-32.8; E.
STEIN, Histoire du Bas-Empire, voi. 11: De la disparition de !'Empire d'Occident a la
mort dejustinien (470-505), éd. par J. R. Palanque, Desclée de Brouwer, Amsterdam
1968 ( = Stein, 1968). Per uno studio ampio e di notevole qualità che propone una
nuova comprensione del regno, si veda M. MEIER, Das andere Zeitalter justinians.
Kontingenzerfahrung und Kontingenzbewiiltigung im tf.jahrhundert n. Chr., Vanden-
hoeck & Ruprecht, Gi:ittingen 2.003.
Per i lavori dedicati alla comprensione romana dei problemi, cfr. PH. BLAUDEAU,
Le siege de Rome et l'Orient (44S-530). Étude géo-ecclésiologique, ÉFR, Roma 2.012.; E.
CASPAR, Geschichte des Papsttums, Bd. Il: Das Papsttum unter byzantinischer Herr-
schaft, Mohr, Tubingen e 1933; B. NEIL, Seventh-Century Popes and Martyrs: The
1930
Politica! Hagiography ofAnastasius Bibliothecarius, Brepols, Turnhouc 2.007.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Per le ricerche consacrate alla storia dei conflitti dottrinali e alle conseguenze ec-
clesiologiche o identitarie si continuerà a far riferimento all'opera monumentale di A.
GRILLMEIER et al. .]esus der Christus im Glauben der Kirche, Bd. 2/l: Die Kirche von
Konstantinopel in o. jahrhundert, unter Mitarbeit von T. Hainthaler; Bd. 2/ 4: Die
Kirche von Alexandrien mit Nibien und Àthiopien nach 451, unter Mitarbeit von T.
Hainthaler, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1979-2002. Si potrà inoltre consultare i vo-
lumi c. CHAZELLE, c. CUBITT ( eds. ), 1he Crisis ojthe Oikoumene: 1he 1hree Chapters
and the Fai/ed Questfar Unity in the Sixth Century Mediterranean, Brepols, T urnhout
2007; F. GAHBAUER, Die Pentarchie-1heorie. Ein Modell der Kirchenleitung von den
Anfangen bis zur Gegenwart, Josef Knecht, Frankfurt-am-Main 1993; P. T. R. Gray,
1he Dejènse ofChalcedon in the East {451-553), Brill, Leiden 1979. Si segnalano due ri-
cerche recenti e particolarmente ricche: c. DELL' osso, Cristo e Logos: il calcedonismo
del VI secolo in Oriente, Istituto Patristico Augustinianum, Roma 2010; c. HOVORUN,
Will Action and Freedom: Christological Controversies in the Seventh Century, Brill,
Leiden-Boston 2008.
Sull'anticalcedonismo, lo studio di riferimento resta quello di w. H. c. FREND,
1he Rise of the Monophysite Movement: Chapters in the History ofthe Church in the
Fifih and Sixth Centuries, Cambridge University Press, Cambridge 1972. Un esame
attento del suo impatto regionale è proposto nell'eccellente lavoro di L. PERRONE,
La chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, dal concilio di Efeso (431) al secondo
concilio di Costantinopoli fo3), Paideia, Brescia 1980.
Sulle risorse documentali e la loro analisi critica che permette di seguire le contro-
versie del VII secolo si veda s. BROCK, Early Syriac Lifè ofMaximus the Confessar, in
"Analecta Bollandiana", 91, 1973, pp. 299-346.
Sul ruolo dell'imperatore rimane di indispensabile lettura la ricerca di insieme
condotta da G. DAGRON, Empereur et pretre. Étude sur le «césaropapisme» byzantin,
Gallimard, Paris 1996. Importante anche il riferimento a P. MAGDALINO (ed.), New
Constantines: 1he Rhythm ofImperia! Renewal in Byzantium, 4 1h -13'h Centuries, Al-
dershot, Variorum 1993.
Sulle forme di pietà caratteristiche del periodo e la loro evoluzione si farà riferi-
mento in primo luogo a G. DAGRON, Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique,
Gallimard, Paris 2007; J. F. HALDON, Byzantium in the Seventh Century: 1he tran-
sfarmation ofa Culture, Cambridge Universiy Press, Cambridge 1997'; P. MARAVAL,
Lieux Saints et pelerinages d'Orient: histoire et géographie des origines a la conquete
arabe, Cerf. Paris Circa l'impatto dell'islam sulle religioni contemporanee, si
1985.
veda R. HOYLAND, Seeing Islam as Others Saw It: A Survey and Evaluation of Chri-
stian,jewish and Zoroastrian Writings on Early Islam, Darwin Press, Princeton 1997.
Parte terza
Culto, ideali di santità, luoghi della devozione
13
L'evoluzione della liturgia
di Andrea Nicolotti
matrice della tradizione israelitica. Per queste ultime, più distanti dall'os-
servanza della Legge, fu naturale giungere più velocemente alla negazione
della centralità del Tempio e alla spiritualizzazione del concetto di culto,
allontanandosi dalla concezione veterotestamentaria. Anche l'uso delle
Scritture in traduzione greca, e non nell'originale, ebbe una profonda in-
fluenza non soltanto sulla teologia e sulla predicazione, ma anche sulla
liturgia. Del legame con la tradizione semitica la liturgia cristiana ha co-
munque conservato non solo certe strutture, ma anche certe espressioni
che sono sopravvissute fino a oggi nella lingua originale, come le acclama-
zioni "amen", "alleluia", "osanna".
Nel periodo delle origini è impossibile immaginare l'esistenza di un
unico e codificato formulario di preghiera, anche se l'improvvisazione ri-
tuale poteva fondarsi su modelli preesistenti o strutture più o meno codi-
ficate. Ciò che caratterizza in modo particolare i seguaci di Gesù è la loro
attitudine a riunirsi, seguendo l'esempio del loro maestro, per pregare, per
ascoltare letture edificanti nel mezzo dell'assemblea, per condividere pasti
comunitari e celebrare l'eucaristia spezzando il pane. La consapevolezza
nella presenza del Risorto ( «perché dove sono due o tre riuniti nel mio
nome, lì sono io in mezzo a loro»: Mt 18,20) e del suo Spirito si sostituisce
alla presenza cultuale di Dio nel Tempio di Gerusalemme. Durante queste
riunioni avevano certamente luogo la lettura delle Scritture e la recitazio-
ne di salmi e inni, come già nella liturgia giudaica; ma a ciò si aggiunsero
la trasmissione delle narrazioni su Gesù e, in certi casi, la lettura delle epi-
stole inviate dagli apostoli. L'ambito liturgico, a questo proposito, fu un
luogo essenziale per la formazione di quello che sarà il canone del Nuovo
Testamento. Le letture, inoltre, erano accompagnate da un commento,
cioè dall'omelia. Dalle lettere di Paolo ricaviamo anche brevi cenni sulla
pratica delle benedizioni e del "bacio santo" fra credenti.
Nelle assemblee la distribuzione degli aiuti per i bisognosi aveva un ruolo
fondamentale. La liturgia cristiana rompe infatti la distinzione fra servizio
cultuale e servizio dei fratelli, fra sacro e profano: tutto avviene al contem-
po, perché la liturgia svolge un ruolo missionario, è aperta allo spontaneo
esercizio dei carismi, è uno spazio che travalica la stessa assemblea che si è
riunita per celebrarla. Il pasto quotidiano, che già nella tradizione giudaica
prevedeva la recita di benedizioni e preghiere, divenne il luogo deputato per
la celebrazione della "cena del Signore", chiamata anche "frazione del pane".
L'apostolo Paolo ci descrive l'abitudine, in voga a Corinto, di associare la
commemorazione dell'ultima cena di Gesù al pasto comunitario; egli te-
394 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Il II secolo si apre con una situazione differente rispetto al passato: gli apo-
stoli e i testimoni oculari di Gesù sono ormai scomparsi; le diverse comu-
nità cristiane vivono in relativa autonomia; non esiste più il legame con
Gerusalemme e il suo Tempio, che sono stati distrutti; il numero dei se-
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA 397
del peccato, inteso come vera e propria inabitazione di Satana nel corpo
dell'uomo. Su questo, però, per un certo periodo vi furono delle resisten-
ze: ad Alessandria Clemente rifiutò questa pratica e la teologia che la so-
steneva, ritenendola lesiva del libero arbitrio, mentre qualche anno dopo
Origene la accolse, interpretando il rituale battesimale nel suo complesso
come un grande esorcismo. Anche in Africa, a metà del III secolo, la qua-
lificazione esorcistica del battesimo era ormai evidente.
Non vanno passate sotto silenzio anche certe pratiche liturgiche margi-
nali, come quella della comunità dei giudei cristiani elchasaiti (sorta dopo
il n6) che praticavano un battesimo di natura esorcistica che aveva come
scopo la remissione di tutti i peccati, e che poteva essere ripetuto più volte.
La Tradizione apostolica conserva la descrizione di un rituale battesi-
male ormai ben organizzato (il testo, pur non essendo conservato in una
forma testuale anteriore al IV secolo, contiene certamente usanze più an-
tiche). Il catecumenato durava tre anni ed era suddiviso in due tappe al
termine delle quali si procedeva all'esame dei candidati da parte dei mae-
stri incaricati della catechesi. Man mano che ci si avvicinava al battesimo,
si moltiplicavano i riti di imposizione delle mani e di esorcismo. Il saba-
to che precedeva il battesimo il vescovo imponeva le mani e compiva gli
scongiuri sui candidati, poi soffiava sul loro volto, segnava le loro fronti, le
orecchie e le narici, lasciando infine che essi trascorressero la notte fra let-
ture, istruzioni e preghiere. Ali' alba della domenica si pregava sull'acqua
e poi, pronunciate le rinunce, si facevano entrare i candidati nell'acqua.
La triplice immersione battesimale era accompagnata da una professione
di fede nelle tre persone della Trinità. Seguivano un'unzione con l'olio,
un'imposizione delle mani da parte del vescovo, una seconda unzione, la
segnazione sulla fronte e il bacio di pace. Ammessi alla celebrazione euca-
ristica, i neofiti venivano comunicati con pane, vino e miele.
Sempre la Tradizione apostolica ci informa sui ministeri ecclesiastici:
vescovi, presbiteri, diaconi, confessori, vedove, lettori, vergini, suddiaco-
ni e taumaturghi. Per le prime tre categorie era previsto un rituale di or-
dinazione compiuto dal vescovo mediante l'imposizione delle mani e la
recita di certe preghiere; gli altri venivano nominati con una cerimonia di
designazione che talvolta prevedeva la consegna rituale di un oggetto sim-
bolico (per esempio, il libro per il lettore). Le diverse chiese, comunque,
erano sostanzialmente tutte concordi nel presumere l'esistenza di vescovi,
presbiteri e diaconi, ma si differenziavano quanto alle altre categorie; la
lettera di Cornelio a Fabio di Antiochia, ad esempio ci informa che nel
400 STORIA DEL CRISTIANESIMO
zione); a Dura Europos è stata rinvenuta una casa dotata di una grande
stanza che funzionava come chiesa, con un battistero decorato da affreschi
di soggetto religioso. La Didascalia degli apostoli prescrive, per i locali più
grandi e strutturati, una suddivisione tra la zona del clero, rivolta a oriente,
e quella dei laici. Nelle grandi città dobbiamo immaginarci che i fedeli si
riunissero in piccoli raggruppamenti e che le persone provenienti da diver-
se regioni dell'Impero tendenzialmente conservassero le proprie abitudini
anche nei luoghi di emigrazione.
Quanto al tempo dedicato alla preghiera, le informazioni sono incer-
te, ma in questo periodo prende forma l'abitudine di celebrare l'eucaristia
anche in giorni diversi dalla domenica, e di dedicare alla preghiera alcune
specifiche ore del giorno. Emerge dalle fonti l'importanza della celebra-
zione pasquale, che la maggior parte delle chiese collocava nella domenica
che seguiva il primo plenilunio di primavera; tuttavia verso il 195 vi furono
forti conflitti, specialmente con Vittore di Roma, perché alcune comunità
dell'Asia Minore, più legate all'uso giudaico, preferivano celebrarla il 14
del mese di Nisan, qualunque fosse il giorno della settimana (cfr. CAP. 3,
p. 12.3). Il luogo in cui invece si desiderava differenziare quanto più possibi-
le le celebrazioni giudaiche da quelle cristiane era la Siria; la Didascalia pi
descrive anche la settimana di digiuno che precedeva la Pasqua, celebrata
dopo una lunga veglia seguita dall'eucaristia e da un lauto banchetto. Fin
dalla fine del II secolo comincia ad affermarsi l'abitudine di celebrare la
cinquantina dopo Pasqua e la festa della Pentecoste.
famiglie sono state classificate dai liturgisti non secondo i criteri più im-
mediatamente evidenti (la lingua liturgica o l'indirizzo teologico), bensì
secondo criteri anzitutto geografici (romana, gallicana, ispanica, africana,
antiochena, alessandrina, gerosolimitana). All'interno di ciascuna zona
le diverse tradizioni liturgiche che coesistevano subirono due processi
uniformanti: uno polarizzante, teso a dismettere le particolarità locali in
favore dell'accoglimento della pratica in uso nelle metropoli, e uno di al-
lineamento, che iniziava con un avvicinamento reciproco fra usi liturgici
somiglianti e produceva la loro fusione in un nuovo e unico modello. Il
risultato fu il rafforzamento di una tipologia sempre meno variegata all' in-
terno dei confini delle distinte regioni di influenza ecclesiastica, spesso a
loro volta coincidenti con le province e le diocesi civili. Certe particolarità
sopravvissero, ma inglobate all'interno di più grandi tradizioni ben rico-
noscibili. Ciò che ne risultò, al termine di un lungo periodo di gestazione,
non fu né una sintesi del periodo precedente, né una scelta delle usanze
"migliori"; i riti che ebbero la meglio furono quelli adottati dalle chiese
più "forti" a discapito di quelle più "deboli", secondo un quadro geografico
che spesso ricalcava quello politico-ecclesiastico (con qualche eccezione
conservatrice per le chiese locali più periferiche, meno sensibili all'influsso
del potere centrale). Il processo di contaminazione fra tradizioni diverse
non si è comunque concluso in fretta: si pensi al rito bizantino attuale, che
ha accolto in sé in momenti diversi elementi appartenenti a due famiglie
distinte: quella costantinopolitana e quella palestinese.
Descrivere le tipologie liturgiche di ciascuna regione sarebbe molto lun-
go, per cui saranno sufficienti alcuni cenni. Per il Nord Italia le principali
fonti descrittive sono Ambrogio, poi Cromazio di Aquileia, Gaudenzio di
Brescia, Massimo di Torino e Pietro Crisologo. Essi ci tramandano qual-
che esempio di costume locale: per l'iniziazione cristiana, per esempio, i
candidati al battesimo che si amministrava a Pasqua venivano iscritti non
all'inizio della Quaresima, ma all'Epifania; il giorno prima del battesimo
era previsto il rito della "apertura" delle orecchie e del naso del catecumeno
mediante il tocco da parte del vescovo; prima della rinuncia a Satana aveva
luogo un'unzione battesimale dal significato antidemonico; esisteva poi
una sola unzione postbattesimale, mentre la Tradizione apostolica e l'uso
romano successivo ne prevedono due; al termine del battesimo avveniva la
lavanda dei piedi dei neofiti; concludeva la cerimonia l'imposizione delle
mani e un'invocazione allo Spirito santo chiamata "sigillo spirituale". Ad
Ambrogio è attribuito il trattato de sacramentis, che conserva un'antica
L'EVOLUZIONE DELLA LITURGIA
Bibliografia ragionata
zioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2.001. Per l'architettura e l'archeologia, si vedano
G. LICCARDO, Architettura e liturgia nella Chiesa antica, Skira, Milano 2.005; F. w.
DEICHMANN, Archeologia cristiana, L'Erma di Bretschneider, Roma 1993.
Per l'iniziazione cristiana, cfr. v. SAXER, Les rites de l'initiation chrétienne du Il'
au VI' siècle, CISAM, Spoleto 1988; E. FERGUSON, Baptism in the Early Church, Eer-
dmans, Grand Rapids (MI) 2.009.
Sull'eucaristia si vedano gli utili c. GIRAUDO, Eucaristia per la Chiesa, Gregorian
University Press, Roma 1989; E. MAZZA, L'anafora eucaristica. Studi sulle origini, Edi-
zioni liturgiche, Roma 1992.; ID., La celebrazione eucaristica. Genesi del rito e sviluppo
dell'interpretazione, EDB, Bologna 2.003'; v. RAFFA, Liturgia eucaristica: mistagogia
della messa, Edizioni liturgiche, Roma 2.003'; P. F. BRADSHAW, M. E. JOHNSON, The
Eucharistic Liturgies: Their Evolution and lnterpretation, Liturgica) Press, College-
ville 2.012..
Sulla liturgia delle ore, cfr. R. E. TAFT, La liturgia delle ore in Oriente e in Occi-
dente, Lipa, Roma 2.001; P. F. BRADSHAW, Daily Prayer in the Early Church, Wipf &
Stock, Eugene (oR) 2.008.
Sul tempo liturgico, si vedano T. J. TALLEY, The Origins ojthe Liturgica! Year, Li-
turgica) Press, Collegeville 1991'; P. F. BRADSHAW, M. E. JOHNSON, Origins ofFeasts,
Fasts and Seasons in Early Christianity, Liturgica) Press, Collegeville 2.011.
Sui riti di ordinazione, si segnala l'opera di P. F. BRADSHAW, Ordination Rites oJ
the Ancient Churches ofEast and West, Pueblo Publishing, New York 1990.
Sulla penitenza, si vedano c. VOGEL, Le pécheur et la pénitence dans l'Église an-
cienne, Cerf, Paris 1966; ID., Le pécheur et la pénitence au Moyen Age, Cerf. Paris 1969.
14
Ideali di perfezione, modelli di vita
e sviluppo del culto dei santi
di Adele Monaci Castagn,o
Negli scritti testimoni del periodo in cui il cristianesimo non era ancora
una realtà religiosa separata dal giudaismo e che solo più tardi sarebbe-
ro stati inseriti nel canone, non compariva alcun interesse riguardo alle
devozioni indirizzate ai morti distintisi per particolari qualità: essi, anzi,
registrano le parole dure di Gesù verso gli scribi e i farisei «che costruite le
tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti» (Mc 23,29) e l'appello:
«Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mc 8,22). Parole
che comunque lasciavano trapelare che queste devozioni esistevano.
Gli stessi scritti sottolineavano l'importanza della morte di Cristo in
412. STORIA DEL CRISTIANESIMO
quanto salvezza «per molti» (Mc 10,45; 14,2.4) e della morte per Cristo;
due aspetti connessi, di grande importanza nella formazione del concetto
di martire. La gloria e la salvezza che scaturivano dalla morte di Gesù, solo
apparentemente umiliante, si riverberavano sulle morti volontariamente
abbracciate dai credenti in lui: l'autore degli Atti degli Apostoli descriveva
la morte di Stefano a causa della fede in Cristo in modi che chiaramente
alludevano a quella di Gesù, suggerendo un rapporto di imitazione fra il
maestro e il discepolo. Il redattore dell'Apocalisse, che scriveva sotto i col-
pi di una persecuzione, riservava un posto di assoluto rilievo a coloro che
erano stati «immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza
(martyria) che gli avevano reso» (Ap 6,9 ). Le loro anime erano viste sotto
l'altare del tempio celeste; «davanti al trono di Dio e gli prestano servi-
zio giorno e notte nel suo tempio» (Ap 7,15) godendo una condizione di
beatitudine; più avanti si sosteneva che « i decapitati a causa della testi-
monianza di Gesù e della parola di Dio» risorgeranno per partecipare al
regno millenario (Ap 2.0,4). Poco più tardi, Ignazio, vescovo di Antiochia,
in viaggio verso Roma dove sarebbe stato processato per la sua fede, aspi-
rava a «morire per Dio» e si considera per questo «imitatore» di Cristo.
Nei primi scritti dei seguaci di Gesù "santo", oltre naturalmente allo Spi-
rito, era Gesù (Mc 1,2.4) definito «il santo di Dio», colui che appartiene
esclusivamente a Dio, il cui attributo primario è la santità (Lv 19,2.), un
termine che nella Bibbia ebraica indicava innanzitutto separazione da ciò
che è profano e impuro; nell'Apocalisse è "santo" il Cristo risorto, ma an-
che colui che ha dato la vita per la sua fede e che risorgerà prima degli altri
per prendere parte al regno millenario (Ap 2.0,6). Nelle lettere di Paolo
"santi" sono tutti coloro che sono stati battezzati, purificati dal peccato e
giustificati dalla fede in Gesù. In questa fase il termine non aveva ancora
l'uso specialistico che si sarebbe sviluppato più tardi, riferito a persone che
per l'eccezionalità della loro vita e/ o la loro morte erano ritenute partecipi
più di altre della santità divina. Nei primi secoli era piuttosto il lessico del
martirio a rivelare l'attenzione e l'altissima considerazione delle chiese per
queste figure.
Le persecuzioni, per quanto sporadiche almeno fino a quella di De-
cio e di Valeriano rispettivamente nel 2.51 e nel 2.57, erano considerate dai
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI
non solo all'appartenenza del martire alla sua vera patria celeste, ma anche
alla sua risocializzazione all'interno di una comunità altra da quella rap-
presentata dal magistrato: «Il mio primo e importante nome è "cristiano",
ma se chiedi il mio nome nel mondo è Carpo» (Martirio di Carpo, recen-
sione greca). Un altro tema comune era il legame personale e fortissimo
con Cristo nelle diverse fasi del martirio. Cristo soffriva con il martire e
nel martire, come si affermava a proposito di Blandina, una martire di Lio-
ne del II secolo, che, lanciata in aria più volte da un toro, non avvertiva
quanto le succedeva «per la speranza e la fermezza in ciò che credeva e
perché in colloquio con Cristo» (in Eusebio, h.e. s,1,s6). Il martirio era
considerato come la porta più sicura verso la vita eterna: ciò che agli occhi
dei pagani appariva come disprezzo per la vita ed esposizione irrazionale
alle sofferenze, per i martiri era espressione dell'amore della "vera" vita. Un
magistrato chiese al martire Pionio: «Perché hai fretta di morire?», e si
sentì dire: «Non di morire ma di vivere» (Martirio di Pionio 20,s). Non
possediamo immagini di martiri prima di Costantino, tuttavia la lettera-
tura martirologica descrive spesso l'aspetto del martire: ritenuto in intima
unione con Cristo, ha sempre un'espressione lieta, gioiosa con gli occhi
rivolti al cielo, a significare la sua speranza nella beatitudine eterna.
Va rilevato, inoltre, come in questa letteratura vi sia una significativa
presenza femminile: le martiri sono numerose e una, Perpetua, - con la
rifusione del suo diario di prigionia nella Passione che la riguarda - è an-
che fra le rare autrici cristiane antiche. Il coraggio - registrato anche da
fonti pagane - con cui le donne cristiane affrontavano le sofferenze e la
morte metteva in crisi il paradigma che lo riteneva esclusivo appannaggio
della natura maschile: alle donne martiri - pur senza scardinare questo
stereotipo di genere - venne attribuita la qualità di "virile": la donna viri-
le è un topos con cui gli autori cristiani - di Passioni, di Vite, di trattati e
omelie - erano soliti descrivere il coraggio femminile (cfr. CAP. 3, p. 111).
L'importanza acquisita dal martirio all'interno delle chiese dei primi
secoli è anche segnalata dal fatto che, per ottenere il riconoscimento con-
diviso di altre forme di perfezione cristiana, si sentì il bisogno di definirle
a partire appunto dal concetto di martirio risemantizzato: già dal II se-
colo, parallelamente all'affermarsi del valore intrinseco dell'ascetismo per
connotare la perfezione cristiana, venne elaborato il concetto che poteva
essere considerato martire anche colui che sacrificava l'intera sua vita a
Dio, mediante l'ascesi e l'incessante ricerca di Dio attraverso lo studio e
la meditazione sulla Scrittura, un'idea, come vedremo fra breve, feconda,
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 415
raccolta da Eusebio che, per primo, ne fece il filo conduttore dei suoi profi-
li biografici per lanciare altre forme di perfezione cristiana. In seguito servì
a descrivere anche la santità monastica ed episcopale.
Nella Passio Perpetuae et Felicitatis (inizio III secolo) si legge una prima
esplicita testimonianza sul potere intercessorio del martire, un aspetto
fondamentale del culto dei santi nella sua espressione più matura. Perpe-
tua, che aveva già confessato davanti al giudice la sua fede, riuscì a interce-
dere per la salvezza del fratello già morto da tempo. Era però ancora viva
quando ottenne questa grazia. È di circa un trentennio successiva la rifles-
sione di Origene, nell'Esortazione al martirio, ove trovavano una prima
coerente sistemazione molti spunti presenti nella riflessione precedente:
al carattere pubblico della testimonianza del martire era legato il concetto
di parresia, un termine del lessico politico classico con cui si indicava, nella
democrazia ateniese, la libertà di parola nell'assemblea. Con il confessare
davanti al giudice la sua fede il martire dava prova della sua parresia e, con
il sacrificio della vita, acquistava la stessaparresia nell'aldilà, nell'interce-
dere a favore dei propri fratelli all'interno di un rapporto di intima ami-
cizia con Dio. Il potere intercessorio del martire si fondava inoltre sulla
comprensione del martirio alla luce della morte di Cristo; come questi,
insieme sacerdote e vittima sacrificale, aveva ottenuto la riconciliazione
dell'umanità con Dio, così il martire con il suo sacrificio otteneva per sé la
remissione dei peccati e poteva intercedere per la remissione dei peccati di
coloro che lo pregavano.
Nello stesso periodo - ma non dobbiamo pensare a un processo che
avveniva nello stesso momento in tutti i gruppi cristiani - veniva forman-
dosi una posizione generalmente condivisa sul problema della condizione
nell'intervallo di tempo che separava la morte individuale dalla resurre-
zione e il giudizio universali alla fine dei tempi, un problema che veniva
avvertito più acutamente tanto più si prendeva coscienza che la fine del
mondo non era imminente. Dal contatto sempre più stretto con la cultura
greco-romana, soprattutto di stampo platonico, si creò un certo consenso
sull'idea che l'anima, subito dopo la separazione dal corpo, venisse sotto-
posta a un primo giudizio che la indirizzava verso un luogo di pena o di
beatitudine e di vicinanza con Dio; fra le escatologie presenti nei primi
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Altri "santi"
Via via che i credenti in Gesù provenivano sempre più spesso dal pagane-
simo e non erano più di origine ebraica, la cultura greco-romana divenne
l'ambito dal quale partire per comprendere la propria fede e argomentarla
al fine di difenderla e diffonderla. I cristiani colti che, fra II e III secolo, si
assunsero tale compito dovevano confrontarsi, da una parte, con le criti-
che dei pagani che giudicavano la figura di Gesù a partire dagli uomini
divini della loro tradizione, dall'altra, con il successo dei nuovi uomini
divini, i filosofi, che, negli scritti di coloro che ne volevano diffondere la
filosofia, assumevano caratteri religiosi. La divinizzazione di alcuni mor-
tali - all'inizio eroi o re, poi anche filosofi - era il premio dei benefici
da loro recati all'intera umanità. L'uomo divino (theios aner) si distin-
gueva per alcune caratteristiche costanti: la sua nascita era accompagna-
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 417
Non si deve pensare al successo del culto dei santi come a un fenomeno
prevalentemente popolare, collegato alla trasformazione del cristianesimo
da religione elitaria a religione di massa che dalla massa scarsamente ac-
culturata avrebbe assimilato culti e tradizioni politeistiche, quali appunto
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 421
Pratiche e teologie
Lo sviluppo del culto dei martiri pose alle menti più preparate e riflessive
problemi teologici spinosi; per esempio, aveva fondamento la speranza in
un qualche vantaggio da parte di coloro che si facevano seppellire vicino
ai corpi santi? Era la domanda che Paolino di Nola rivolgeva ad Agostino.
Questi, nel trattato de cura pro mortuis gerenda (Sulla cura dovuta ai mor-
ti) gli rispose che i defunti traevano beneficio soprattutto dalle preghiere
che i fedeli pronunciavano durante la messa nella ricorrenza della morte,
se naturalmente la vita terrena del defunto era stata conforme a tale bene-
ficio. Aggiungeva che la vicinanza con i corpi santi poteva aumentare la
frequenza e la devozione delle preghiere di coloro che si recavano a pregare
sulla tomba dei propri cari per chiedere ai santi di intercedere per loro.
Secondo Agostino il destino dei corpi dei morti era nelle mani di Dio, ma
ci si doveva.comunque prendere cura di loro, oltre che per la pietas, anche
come segno della fede nella resurrezione.
Inoltre: per quale motivo, in ultima analisi, ci si recava presso le tombe,
STORIA DEL CRISTIANESIMO
se le preghiere erano rivolte alle anime pure dei santi in cielo? Paolino di
Nola, pur non negando che le preghiere potevano essere rivolte in ogni
luogo, sosteneva che non erano i corpi ad agire, ma la grazia divina infu-
sa nelle membra sante che, in un certo senso, conservavano un'impronta
misteriosa delle anime eccezionali che vi avevano abitato. È interessante
notare che Agostino, invece, nel trattato citato sopra, insisteva molto sul
fatto che non vi era, né vi poteva essere alcun legame fra il cadavere e I' a-
nima che l'aveva abitato: soltanto ciò che è vivo è in grado di sentire. La
vicinanza ai corpi santi non recava di per sé nessun vantaggio.
E ancora: i frammenti dei corpi santi, di cui spesso ci si doveva accon-
tentare, avevano la stessa potentia del corpo intero? Victricio di Rouen,
nel de laude sanctorum sosteneva - con un ragionamento non del tutto
limpido - che nella parte c'era il tutto e che, se le reliquie avevano il potere
di curare, ciò significava appunto che anch'esse partecipavano della stessa
virtus dell'anima del santo assunta in cielo.
Questi interrogativi non furono affrontati che sporadicamente. Nei
documenti agiografici più tardi sembrano essere del tutto accantonati:
non è raro leggere nei racconti di Gregorio di Tours di corpi di defunti che
prendevano parte attiva a quanto succedeva nella chiesa ove erano seppel-
liti. Nella raccolta di miracoli di santi guaritori nei santuari orientali, le
anime dei santi erano considerate presenti accanto alle loro tombe, visto
che numerosi racconti mostravano i santi "guaritori" assenti dai loro san-
tuari per operare guarigioni altrove e, talora, tornarvi di gran carriera per
guarire in extremis qualcuno.
Con più insistenza i capi delle chiese sottolineavano la differenza fra
il culto cristiano dei santi e quello degli eroi e ripetevano che non erano
i santi vivi e i corpi santi a compiere miracoli, ma Dio attraverso di loro.
C'è da chiedersi se tali sottigliezze teologiche fossero avvertite con la stes-
sa chiarezza da coloro che affollavano i santuari e facevano di tutto per
ottenere reliquie di contatto nella speranza della potentia risanatrice del
santo. In generale si può osservare che la riflessione teologica, come spesso
avviene, arrivava in ritardo e appariva in difficoltà rispetto al diffondersi
di pratiche - il caso di Paolino insegna che non si trattava soltanto di ceti
non acculturati -, tentando quindi di reinterpretarli alla luce di schemi
dottrinali più generali. In certi casi, l'essere stato testimone degli effetti
dell'arrivo di nuove reliquie in una chiesa poteva indurre ad abbandona-
re convinzioni precedenti: è quanto accadde ad Agostino dopo l'arrivo
in Africa delle reliquie di santo Stefano: come molti altri teologi prima e
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI
dopo di lui, fino a quel momento aveva sostenuto che i miracoli si erano
conclusi con l'età apostolica, proprio perché funzionali alla prima diffu-
sione della fede in Cristo. Tuttavia l'entusiasmo che circondò le reliquie e
i miracoli che ne seguirono, lo portarono a valorizzare i miracoli contem-
poranei, raccogliendone le testimonianze e a considerarli come un ottimo
tramite per diffondere e rafforzare la fede.
Vi furono anche resistenze allo sviluppo del culto dei martiri: paga-
ni - come l'imperatore Giuliano - provavano orrore verso un culto che
aveva a che fare con i cadaveri ritenuti impuri e, quindi, di ostacolo alla
presenza divina; egli fece rimuovere da Dafni, nei pressi di Antiochia, le
spoglie del martire Babila, ritenute responsabili del silenzio dell'oracolo
del Tempio di Apollo che si trovava nello stesso luogo. Anche fra i cristiani
vi fu chi criticò il culto dei martiri: agli inizi del v secolo Vigilanzio, in
un'opera perduta, nota soltanto attraverso la confutazione di Girolamo,
lo considerava un culto idolatrico, specificato dall'uso dei ceri accesi, delle
veglie nei santuari, e vi aggiungeva la critica dell'ascesi monastica e l'uso
di elemosine.
Tra l'ultimo quarto del IV e i primi decenni del v secolo talenti letterari
raffinati si misero all'opera per diffondere, sostenere, illustrare il culto dei
martiri e nuovi modelli di santità. Si pensi in Occidente a Girolamo, Pao-
lino di Nola, Sulpicio Severo, Prudenzio, in Oriente a Gregorio di Nis-
sa, Gregorio di Nazianzo, Teodoreto di Cirro. Affascinati o impegnati in
prima persona nella vita ascetica essi furono monaci o vescovi o semplici
laici. Il tratto comune che qui si intende sottolineare è, da una parte, il
loro intento di collocare senza timidezze le narrazioni della santità cristia-
na ali' interno dello spazio letterario greco-romano e, dall'altra, di rein-
ventare e di risemantizzare forme letterarie classiche, proprio per riuscire
nell'impresa. Sulpicio Severo collocava la sua Vita sancti Martini sullo
sfondo del racconto omerico delle imprese di Ettore e di quello platonico
su Socrate: Martino è un eroe che conquista la vita eterna e ben più degno
della perennis memoria che l'arte può procurare. L'attacco della Vita sancti
Hilarionis scritta da Girolamo è dello stesso tenore: con un'apertura clas-
sica, invoca lo Spirito santo di concedergli parole che si adeguino al suo
oggetto, un uomo che « persino Omero, se fosse vivo qui, o proverebbe
STORIA DEL CRISTIANESIMO
furono scritte in modi diversi, per servire meglio agli intenti pastorali di
un tempo senza martirio. La Vita di Antonio, tradotta in latino per ben due
volte nel ventennio successivo, ebbe un successo straordinario fra le cer-
chie ascetiche colte; servì da modello per innumerevoli altre Vite di mona-
ci e costituì lo stampo nel quale Sulpicio Severo colò la materia narrativa
relativa a Martino, monaco e vescovo insieme.
Il modello di santità vescovile si arricchì di nuovi significati, approfon-
dendo le funzioni già attribuite ai martiri. La vicinanza fisica ai corpi dei
martiri era percepita come protezione non solo per il singolo, ma anche
per la Chiesa e la città: Paolino di Nola, quando i Goti minacciarono Ci-
mitile, invitò i fedeli a confidare nel martire Felice, le cui spoglie erano
venerate in quel luogo, come in un patrono in grado di ottenere da Cristo
una protezione speciale «per le nostre contrade» (carm. 26). Prudenzio
sottolineava con insistenza il legame speciale che intercorreva fra il martire
e la città che ne accoglieva le spoglie: alla fine dei tempi i martiri intercede-
ranno presso Cristo a favore della loro città per risparmiarle le sofferenze
più penose (Peristephanon 1,4-6; 3,1-10 ). Le reliquie dei martiri costitui-
vano un titolo di gloria per la città che li ospitava ed egli vedeva nella loro
praesentia un modo per declinare, cristianizzandolo, l'orgoglio civico tra-
dizionale.
Nella misura in cui il modello di santità vescovile assorbì caratteri mo-
nastici e martiriali assunse anche le funzioni di protezione che questi rive-
stivano nei confronti della Chiesa e della città. Lo sviluppo del concetto
del santo vescovo patrono cittadino ebbe poi particolare fortuna in Oc-
cidente anche per altri motivi: nello sfaldarsi dell'autorità imperiale cen-
trale e nella formazione dei regni barbarici, furono i vescovi - da vivi - ad
assumere funzioni di protezione e governo delle città: fu naturale esten-
dere tale funzione nell'aldilà, soprattutto quando il corpo del vescovo
continuava a risiedere nella città: il corpo di Germano di Auxerre, che era
morto a Bologna, venne riportato in patria e ricevuto come patronum pro-
prium in quella città ove - ci racconta l'agiografo Costanzo di Lione ( Vita
sancti Germani 46) - continuava a vivere con i suoi miracoli. Inoltre, nella
fase più antica, gli autori che utilizzarono questo concetto per esprimere
sotto varie angolature il rapporto con i santi appartenevano a una società
in cui il patronato - come reciproco scambio di beni e servizi ali' interno
di una relazione asimmetrica, funzionante come forma di controllo e/ o di
integrazione sociale e come elemento centrale dell 'autorappresentazione
delle classi dirigenti - era una struttura obiettiva della società e della per-
42.8 STORIA DEL CRISTIANESIMO
nel IV sebbene le sue Vitae siano del secolo successivo, Radegonda e Mo-
negonda, un'eremita narrata da Gregorio di Tours, erano donne di diversa
estrazione sociale ma di comune origine barbarica: è un segno del fatto
che nella Gallia, regione che prima e in modo più esteso di altre dovette
affrontare il confronto con popoli per nulla o diversamente cristiani, il
discorso agiografico rappresentò un vettore di confronto e assimilazione.
È interessante, inoltre, notare che - a parte rarissime eccezioni: la romana
Asella, la cappadoce Macrina e le ascete del deserto - le donne più celebra-
te furono mogli e madri, prima di abbracciare una forma di vita ascetica,
ma nelle narrazioni che le riguardano sono la castità e l'ascesi a venire in
primo piano, all'interno, del resto, di un movimento complessivo che, pur
con rare eccezioni, ritenne soltanto queste qualità degne della santità, cosa
che portò inevitabilmente, in seguito, a restringere il campo della santità
ai chierici e ai monaci/ che.
L'esaltazione della verginità è anche l'elemento più ricorrente nel di-
scorso agiografico e nel culto di Maria, tuttavia, nella fase più antica, lo fu
per motivi molto diversi. Lo sviluppo del culto e della dottrina cristiana
e poi soltanto cattolica su Maria è bimillenario in quanto ancora nel XIX
secolo è stato proclamato da Pio IX il dogma dell'Immacolata Concezione
(bolla Inejfabilis Deus del 1854: Maria è stata concepita senza peccato ori-
ginale) e nel 1950 da Pio XII il dogma dell'Assunzione (Maria non morì,
ma si addormentò - somnium Mariae - e venne assunta anima e corpo
in cielo). Tuttavia, queste dottrine cominciarono a diffondersi e a essere
largamente condivise nella Chiesa antica, cui dobbiamo inoltre la procla-
mazione degli altri due dogmi mariani: il titolo di theotokos ( = 'madre di
Dio', concilio di Efeso del 431) e la verginità perpetua (cioè prima, duran-
te, dopo il parto= concilio di Costantinopoli del 553).
Il tema della verginità di Maria emerge già nel I secolo in stretta con-
nessione con la difesa della divinità di Gesù, contro altri tipi di cristologie:
le circostanze straordinarie del concepimento di Gesù erano considerate
essenziali per questo scopo e il tema, fra II e III secolo, trova largo spazio
anche negli scritti apologetici rivolti ai pagani. In seguito, fra IV e v, la
figura di Maria fu al centro delle controversie cristologiche riguardanti il
rapporto in Cristo della natura umana e divina. La tesi di Nestorio, che
voleva per Maria soltanto il titolo di Christotokos, fu rifiutata come eretica
in quanto sembrò esprimere una non perfetta unione delle due nature in
Cristo (cfr. CAP. 10, p. 312.).
La figura di Maria, nei primi secoli, non fu soltanto al centro degli scon-
IDEALI DI PERFEZIONE NEL CULTO DEI SANTI 431
cri e delle discussioni dei teologi. Accanto a essi si sviluppò una fervente
devozione che, a livello letterario, già a partire dalla seconda metà del IV
secolo, trova espressione nella convinzione che l'intercessione di Maria
fosse particolarmente efficace: secondo Gregorio di Nazianzo, la marti-
re Giustina si rivolse alla vergine Maria per sfuggire alle mire di un suo
corteggiatore ( Orat. 2.4,9-11 ). Nel secolo successivo Severiano di Gabala
raccomandava di rivolgersi a Maria e ai martiri per invocare la protezione
della città (Sul legislatore, PG 56,409-410 ). Epifanio di Salamina denuncia-
va l'esistenza di gruppi di donne eretiche le cui pratiche cultuali in onore
di Maria andavano oltre il lecito sconfinando nel!' adorazione dovuta sol-
tanto Dio. Molto presto accanto ai racconti che furono a un certo punto
riconosciuti canonici, si sviluppò una letteratura amplissima riguardante
l'infanzia di Gesù, la dormitio virginis, la sua vita, i miracoli compiuti da
sue reliquie o da sue immagini o apparizioni. I predicatori ne esaltarono
le virtù facendone un modello di santità femminile e monastica. La pietà
mariana si trasmette al medioevo latino e fiorisce nell'Oriente cristiano,
conoscendo un arricchimento continuo in età moderna nella Chiesa cat-
tolica, mentre si interrompe nella Riforma.
Bibliografia ragionata
Per le edizioni dei documenti relativi ai santi greci, latini, orientali è indispensabile la
consultazione di Bibliotheca hagiographica Latina antiquae et mediae aetatis, edide-
runt Socii Bollandiani, voli. I-II, Bruxellis 1898-99, 1901 (consultabile in rete); Biblio-
theca hagiographica Graeca, III' édition mise à jour et considérablement augmentée
par François Halkin, voli. I-III, Bruxelles 1957 (la prima edizione è consultabile in
rete); Bibliotheca hagiographica Orientalis, ediderunt Socii Bollandiani, Bruxellis
1910 (consultabile in rete); Acta Sanctorum [... ], collegit, digessit, notis illustravit Jo-
annes Bollandus, Parisiis (l'edizione del 1863 è consultabile in rete). Le notizie sui
santi con la raccolta dei documenti più affidabili che li riguardano sono organizzate
secondo il calendario liturgico. L'opera, il cui primo volume dedicato al mese di gen-
naio uscì nel 1643, è arrivata al Propylaeum di dicembre nel 1940: http:/ /archive.org/
stream/ actasanctorumo1 unse#page/ n7 / mode/ lUp.
Si segnalano, inoltre, le enciclopedie Bibliotheca Sanctorum, Istituto Giovanni
XXIII della Pontificia Università Lateranense, Roma 1961-lOoo; F. CHIOVARO et al.
(dir.), Histoire des Saints et de la Sainteté chrétienne, Hachette, Paris 1988. Si veda an-
che c. LEO NARDI, A. RICCARDI, G. ZARRI ( dir.), Il grande libro dei santi. Dizionario
432 STORIA DEL CRISTIANESIMO
linguistica all'evoluzione del "santo" e della "santità" è E. ZOCCA, Dai santi al santo:
un percorso storico-linguistico intorno all'idea di santita, Africa romana, secc. 2. -5, Stu-
dium, Roma 2.003. Un profilo storico del discorso agiografico greco e latino anche
non cristiano è offerto da A. MONACI CASTAGNO, L'agiografia cristiana antica. Testi,
contesti, pubblico, Morcelliana, Brescia 2.010. Ormai un classico è P. BROWN, Il culto
dei santi. L'origine e la diffusione di una nuova religiosita, Einaudi, Torino 1983 (ed.
or. 1981). Studi su aspetti particolari sono A. M. ORSELLI, Il santo patrono cittadino:
genesi e sviluppo del santo patrono cittadino nella letteratura latina cristiana, Università
degli Studi di Bologna, Bologna 1965; Y. DUVAL, Loca sanctorum Africae. Le culte des
martyrs en Afrique du Iv' au VII' siecle, 2. voli., ÉFR, Roma 1982.; EAD.,Aupres dessaints:
corps et ame: I' inhumation «ad sanctos» dans la chrétienté d'Orient et d'Occident du
III' au VII' siécle, Études Augustiniennes, Paris 1988; L. PIETRI, La ville de Tours du Iv'
au VI' siecle: naissance d'une cité chrétienne, ÉFR, Roma 1983; v. SAXER, Bible et hagio-
graphie. Textes et themes bibliques dans !es Actes des marcyrs authentiques des premiers
siecles, Peter Lang, Berne 1986; J.-c. PI CARD, Le souvenir des évéques. Sépultures, listes
épiscopales et culte des évéques en Italie du Nord des origines au X' siecle, ÉFR, Roma
1988; A. PAPACONSTANTINOU, Le culte des saints en Egypte des Byzantins aux Abbas-
sides: l'apport des inscriptions et des papyrus grecs et coptes, CNRS, Paris 2.001.
Sulla mariologia, si vedano Testi mariani del primo millennio, Città Nuova, Roma,
1988-91; Storia della mariologia, voi. I: Dal modello biblico al modello letterario, a cura
di E. dal Covolo, A. Serra, introduzione generale e introduzione al primo volume di
S. M. Maggiani, Città Nuova, Roma 2.009; E. NORELLI, Marie des apocryphes: enquéte
sur la mere de jésus dans le christianisme antique, Labor et Fides, Genève 2.009. Per lo
studio delle tradizioni popolari mariane: G. Otranto, Le denominazioni di Maria tra
culto e tradizioni popolari, in "Marianum", 74, 2.012., pp. 385-410.
15
Le forme e i luoghi della pietà religiosa
di Immacolata Aulisa
anche verso il centro cittadino. Tra la fine del ve l'inizio del VI secolo,
infatti, iniziò il definitivo abb:rndono delle catacombe come luogo di
sepoltura: le rombe si addensarono attorno alle grandi basiliche cimi-
teriali sopratterra (San Pietro in Vaticano, San Paolo sull'Ostiense, San
Lorenzo al Verano) e, dunque, entrarono nei confini della città, con-
centrandosi soprattutto ali' interno o nelle immediate vicinanze delle
basiliche urbane.
Con la diffusione sempre pit'1 massiccia e capillare del cristianesimo
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 437
Gli scavi che hanno riportato in luce i cimiteri e i primi edifici di culto
cristiano hanno fatto emergere anche numerose epigrafi, in latino e in gre-
co. Esse si presentano con caratteri diversi e riflettono l'appartenenza dei
committenti a livelli sociali ed economici differenti: dalle iscrizioni incise
in caratteri piuttosto grossolani ad altre più rifinite sia nella fattura sia nel
testo stesso, a volte anche metrico.
Le iscrizioni paleocristiane, conservatesi nell'ambito della documen-
tazione archeologica tardoromana, permettono di conoscere numerosi
aspetti di vita quotidiana. Esse gettano luce anche su quella che viene defi-
nita "cultura materiale", ovvero la consistente produzione anonima, priva
dei caratteri dell'ufficialità, spesso di non elevata qualità, prodotta e fruita
soprattutto dagli strati medi e a volte bassi della società. Negli ultimi de-
cenni nuove risultanze sono derivate proprio da un'attenta rivalutazione
della consistente produzione epigrafica e dai nuovi metodi di approccio
che sempre più hanno contestualizzato le iscrizioni rispetto al monumen-
to di appartenenza e al contesto storico, sociale e culturale di riferimento.
Accanto alle testimonianze monumentali che si sono configurate come
espressione dell'ideologia del potere dominante - ovvero i monumenti
di grosse dimensioni e i prodotti artistici di pregevole fattura - e accan-
to alle iscrizioni monumentali di apparato (onorarie, dedicatorie, sacre,
giuridiche) anche le iscrizioni funerarie hanno ricevuto una più attenta
considerazione. Esse ormai a buon diritto sono considerate testimonianze
di particolare rilievo per una conoscenza più approfondita delle primiti-
ve comunità cristiane che, anche attraverso la memoria funeraria, hanno
trasmesso le proprie idee, frammenti della propria cultura e della propria
mentalità, così come delle proprie concezioni relative alla vita quotidiana:
i rapporti familiari e sociali, il lavoro, le nuove credenze religiose, il modo
di intendere l'aldilà.
A partire dall'epoca del vescovo Zefirino (199-217) si può riscontrare
a Roma una produzione epigrafica funeraria voluta da membri della co-
munità cristiana; ivi infatti, in quegli anni, per iniziativa della Chiesa o di
gruppi familiari, si ebbero i più antichi insediamenti funerari ipogei, in cui
compaiono le prime attestazioni di un'epigrafia funeraria cristiana.
Se in una prima fase la maggior parte delle iscrizioni non si distingueva
per uno specifico cristiano e, per lo più, si limitava a registrare solo il nome
del defunto o il nome del defunto e del dedicante, attorno alla metà del III
440 STORIA DEL CRISTIANESIMO
resti fisici e corporali dei martiri divennero tramiti della loro praesentia
spirituale (cfr. CAP. 14, p. 42.4).
E se il prodotto epigrafico, dal III secolo fino all'età costantiniana, ali' in-
terno delle comunità cristiane ebbe una discreta diffusione e una coerenza
normativa sul piano formale, a partire dalla seconda metà del IV secolo si
registrarono cambiamenti rilevanti anche nel suo uso e nella sua diffusione.
Gli impianti funerari entrati in funzione a quell'epoca e rimasti attivi fino
ai primi decenni del v testimoniano una diversa presenza e distribuzione di
epigrafi. Sono attestati, infatti, da un lato i poveri cimiteri ipogei dove tro-
vavano sepoltura i meno abbienti; dall'altro, gli estesi complessi martiriali
dove si concentravano, con evidente visibilità monumentale ed epigrafica,
coloro che appartenevano alle classi più agiate. Solo i più abbienti, dopo la
morte, ebbero una sepoltura visibile, individuale o gentilizia, in cui trovò
spazio anche la memoria scritta. Si consumò così un percorso che dall'ega-
litarismo del cimitero di Callisto a Roma giunse alla riproduzione funebre
delle diversità sociali, economiche, culturali che già nella vita terrena aveva-
no separato gli individui anche ali' interno delle comunità cristiane.
A partire dal v secolo la Chiesa, soprattutto a Roma, sempre più si pro-
pose come il committente principale di una parte consistente della pro-
duzione epigrafica e, soprattutto, di quella monumentale di apparato. La
Chiesa, infatti, per far fronte alle diverse esigenze determinate dalla cate-
chesi e dalla pastorale, in particolare a seguito della pressione delle conver-
sioni di massa, oltre a ricorrere agli strumenti della comunicazione orale,
utilizzò anche quelli della comunicazione scritta.
Nelle catacombe sono state realizzate anche le prime forme d'arte cristia-
na. Trascurando il rigoroso divieto della legge mosaica furono rappresen-
tate, oltre a generiche ornamentazioni, figure umane ispirate alle Scrittu-
re. La graduale affermazione della decorazione pittorica all'interno delle
catacombe rivela uno sviluppo caratterizzato da compresenze classiche,
bibliche e specificamente cristiane, da elementi dapprima in prevalenza
simbolici, poi iconografici. Inizialmente 1' iconografia cristiana, infatti,
pur ispirandosi per modelli e tecniche alla coeva arte pagana, trasse i suoi
soggetti dall'Antico e dal Nuovo Testamento e, in qualche caso, anche da-
gli apocrifi che avevano trovato diffusione nelle primitive comunità.
44 2 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Susanna tra gli anziani giudici. Roma, catacomba dei santi Marcellino e Pietro.
(On 3,16-50 ), Susanna tra gli anziani giudici (On 13, 1-44) (FIG. qui sopra),
e altri personaggi, identificati nei profeti, come Balaam che indica la stella
(Nm 24, 17).
Dal Nuovo Testamento furono riprese scene che si prestavano ad al-
ludere al sacramento del battesimo e dell'eucaristia, la Natività, l'Adora-
zione dei Magi, la Guarigione del paralitico, la Samaritana al pozzo, la
Resurrezione di Lazzaro (FIG. p. 444). Da subito sono attestate anche le
raffigurazioni del Pastore e dell'Orante (FIG. p. 445), che comparivano già
in ambienti ebraici e pagani con un proprio significato (Pastore = pietas
erga homines; Orante= pietas erga deos): per i cristiani i due soggetti ven-
nero ritenuti allusivi del Salvatore e del salvato.
Si trattava di un repertorio biblico che, sebbene limitato e ripetitivo,
tuttavia rifletteva e veicolava le concezioni fondamentali del messaggio
cristiano, dalla morte dovuta al peccato dei protoplasti (Adamo ed Eva),
alla salvezza apportata dall'acqua battesimale (Mosè), alla resurrezione e
salvezza finale (Noè, Abramo-Isacco, Giona, i Tre giovani ebrei di Babilo-
nia, Daniele, Susanna, il Paralitico, la Samaritana, Lazzaro).
Tali soggetti, tuttavia, devono essere considerati in relazione al conte-
sto archeologico di appartenenza, all'interpretazione data dagli scritto-
ri cristiani, ma anche e soprattutto alla cultura biblica della comunità e
dell'ambiente all'interno del quale furono realizzati. La raffigurazione di
444 STORIA DEL CRISTIANESIMO
scene tratte dalle Scritture non poteva prescindere, infatti, dalla certezza
che sarebbero state comprese e fruite dai fedeli, soprattutto in ambienti
comunitari. Naturalmente le immagini potevano trasmettere significati
diversi a seconda degli ambienti in cui venivano rappresentate e, anche
all'interno di uno stesso ambiente comunitario, potevano essere fruite a
livelli diversi, dal semplice riconoscimento del personaggio o dell'episodio
delle Scritture, alla comprensione di significati più profondi, resi possibili
da una maggiore cultura biblica e patristica.
Nei secoli il repertorio figurativo cristiano assunse forme diverse, sia
nei soggetti rappresentati che nel significato simbolico a essi sotteso, so-
prattutto in relazione al contesto storico che andava mutando e alla stes-
sa elaborazione dottrinale dei cristiani. A seguito della pace della Chiesa,
l'arte cristiana intraprese vie nuove, sostituendo al simbolismo semplice
del III secolo una tendenza più storica e narrativa che enfatizzava in vario
modo le diverse tappe dell'affermazione del cristianesimo. Si diffusero, in-
fatti, altre scene tratte dal Nuovo Testamento, come l'Annunciazione, la
Guarigione del cieco nato, la Guarigione dell'emorroissa, il Discorso della
montagna, la Negazione di Pietro, che si aggiunsero a quelle più diffuse,
mentre altri soggetti venivano messi da parte, come il Buon Pastore che,
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 445
per lo più, fu sostituito dal Cristo in cattedra, isolato, tra gli apostoli o tra
santi; si moltiplicarono, inoltre, le rappresentazioni di martiri e santi. In
non pochi casi in uno stesso contesto figurativo furono affiancate scene
dell'Antico e del Nuovo Testamento a sottolinearne la continuità.
Un caso a parte è rappresentato dalla cosiddetta "Statua di sant'lppo-
lito", scoperta in Ager Veranus nel Cinquecento e ora posta all'ingresso
della Biblioteca Vaticana a Roma. Si tratta di un caso eccezionale di riuso
cristiano, nella prima metà del III secolo, di una statua femminile in trono
(preludio di altri più consistenti riusi di produzioni pagane nelle età suc-
cessive), mutata in maschile nel restauro rinascimentale: qualunque fosse
il significato originario della statua, i cristiani di una delle comunità della
Chiesa romana ne fecero un simbolo proprio, vedendovi probabilmente
la Chiesa che insegna ex cathedra e iscrivendovi una serie di titoli di opere
cristiane, alcune riconducibili a Ippolito.
Dal IV secolo, quando le catacombe vennero frequentate soltanto lun-
go gli itineraria ad sanctos che portavano in corrispondenza, appunto, dei
sepolcri dei martiri, i visitatori e i pellegrini potevano osservare le imma-
gini dei martiri venerati, ovvero identificare coloro che erano oggetto di
culto. Le immagini si affiancarono alle reliquie in una funzione compie-
STORIA DEL CRISTIANESIMO
trice dovuta a elementi naturali, quali montagne, grotte, fonti, laghi, cui
veniva attribuita una valenza sacra o terapeutica già in ambito pagano:
cali elementi hanno influenzato il processo di risemantizzazione cristiano
di uno spazio sacro, determinando l'insediamento di culti cristiani a essi
strettamente connessi. I sostrati precristiani presenti nei siti santuariali
hanno spesso condizionato il processo di esaugurazione e i culti pagani,
attraverso persistenze e mutamenti, hanno modificato e in parte determi-
nato la facies dei culti cristiani.
Nei suoi sermoni (91,2; 107,1-2; 108) polemizza con i rustici, fra l'altro, per
la loro abitudine di sacrificare animali ai demòni. Cesario di Arles (serm.
16,3) rivolge esplicito divieto ai cristiani di bere quantità smodate di vino e
di danzare e ballare uscendo dalla chiesa. Egli disapprova, inoltre, l 'abitu-
dine dei fedeli di consumare il vino invocando angeli e santi, riprendendo
in ciò le consuetudini antiche delle libagioni (serm. 47,5); i rustici, in non
poche festività, sono soliti attardarsi a bere fino a quattro o cinque giorni.
Martino di Braga (de corr. rust.) ritiene "demoniaci" tutti i riti agrari. Gre-
gorio di Tours (Lib. de pass. et virt. san. lui. mart. 36) racconta di un vino
miracoloso offerto da un monaco ai presenti e consumato causa devotionis
durante la veglia in onore di un martire. Gregorio fa riferimento altresì al
chiasso dei rustici presso i luoghi sacri; essi non solo non osservano il si-
lenzio durante le cerimonie, ma, in qualche caso, si allontanano prima del
termine del rito. Lo stesso autore (Lib. in glor. confess. 2) presenta la scena
di una « folla di contadini nel territorio di Gévaudan » che, per invocare
la pioggia, offre sacrifici alla divinità di un lago e festeggia con animali
immolati. Le autorità ecclesiastiche solo a fatica riescono a interrompere il
culto rurale alla divinità lacustre, ottenendo che i contadini portino le loro
offerte a sant'Ilario, in una chiesa edificata appositamente in suo onore
proprio nei pressi del lago. Gregorio (Lib. de pass. et virt. san. lui. mart.
31), inoltre, ricordando la pratica di condurre animali nelle chiese perché
siano benedetti e/ o consegnati al sacerdote e sottolineando la confusione
della gente convenuta, descrive come evento miracoloso la «mansuetudi-
ne delle bestie offerte in questa basilica votivorum», tanto più incredibile
perché tra il bestiame si annoverano anche cothurnosi tauri. Nel territorio
ove Gregorio di Tours esercitava il proprio ministero, non a caso, si regi-
strava una forte persistenza di antiche credenze e riti pagani, soprattutto
nelle campagne. I principali mali che il vescovo riteneva di dover contra-
stare erano, infatti, «le usanze dei contadini» (mos rusticorum) e «l' infe-
lice errore dei pagani» (miser gentilitatis error). Non stupisca l'insistenza
particolare sulla situazione delle campagne: il cristianesimo fu a lungo una
religione urbana, anche nelle strutture ecclesiali, e quindi la penetrazione
rurale fu lenta, contrastata dal conservatorismo e, a volte, dalla violenza.
È il caso dei martiri di Anaunia (Val di Non). lvi, molto prima di Grego-
rio, in pieno IV secolo, tre missionari inviati da Ambrogio di Milano, su
richiesta di Vigilio, vescovo di Trento, furono trucidati durante una festa
agreste pagana.
Anche Gregorio Magno affronta spesso il problema posto dalla cristia-
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 45 1
Il pellegrinaggio cristiano
di pregare sul monte degli Ulivi dove aveva pregato il Cristo. Lo stesso
storico di Cesarea (V. Const. 3,42.-43) tra i primi pellegrini ad loca sancta
ricorda Elena, la madre dell'imperatore Costantino, giunta in Palestina,
nonostante l'età avanzata, per conoscere i luoghi e per pregare. Dopo che
ebbe reso la dovuta venerazione ai luoghi sui quali il Cristo aveva impresso
le sue orme, Elena volle lasciare anche un segno della propria religiosità ai
posteri e consacrò in onore del Dio che era venuta ad adorare due templi,
uno nei pressi della grotta nella quale il Signore era nato, l'altro sul monte
dal quale ascese al cielo. La venerazione stessa di Costantino per i luo-
ghi santi portò alla costruzione di diverse chiese e fece di Gerusalemme
una città visibilmente cristiana, al pari di altri luoghi della Palestina, da
Betlemme a Nazaret, che divennero meta di un pellegrinaggio sempre più
diffuso.
A partire dal IV secolo, fonti di diversa tipologia tramandano il ricordo
di viaggi devozionali in Terrasanta: nel 333 l' ltinerarium Burdigalense con-
tiene una relazione relativa a un pellegrinaggio ad loca sancta, scritta da un
anonimo pellegrino di Burdigala (Bordeaux, in Francia), che dalla Gallia
era giunto in Palestina attraverso l'Italia e poi era tornato nella propria
terra. Il racconto dedica molto spazio ai luoghi della vita e della morte
del Cristo, ma anche di altri personaggi ed episodi collegati con la Sacra
Scrittura (Jtin. Burdig. 585-600 ).
Altre testimonianze, come quella di Ambrogio, che riferisce del rin-
venimento da parte di Elena del legno della croce e dei chiodi con cui il
Cristo era stato crocifisso (de obit. Theod. 41-48), lasciano pensare come
già nella seconda metà del IV secolo si fosse diffuso un interesse particolare
per le reliquie della passione e della croce come elemento che caratterizza-
va anche il pellegrinaggio cristiano.
Il desiderio, dunque, di conoscere personalmente i luoghi santi lascia
trasparire la tendenza a materializzare alcuni elementi del racconto evan-
gelico relativi alla passione, ma, soprattutto, la ricerca delle reliquie del
Salvatore o di qualsiasi oggetto che anche indirettamente fosse venuto a
contatto con il Cristo. Questa tendenza non fu apprezzata da tutti: Grego-
rio di Nissa, uno dei Cappadoci, faceva presente i pericoli derivanti dalla
promiscuità sessuale ma soprattutto sosteneva che ci si avvicina a Dio con
il cambiamento interiore e non con gli spostamenti di luogo (ep. 2.).
Si volle raggiungere la Terrasanta anche dall'Occidente, da Roma, dalla
Spagna, dalla Gallia. L' Itinerarium Egeriae (cfr. CAP. 14, p. 42.8) si presen-
ta come il diario scritto, alla fine del IV secolo, da una donna che riporta il
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 453
come Becania, Nazaret, Cana, il monte Tabor, Naim, Cafarnao (ep. 46,11-
13). Il pellegrinaggio in Terrasanta si era arricchito di elementi spirituali
e rifletteva una realtà complessa, fondata sulle Scritture, ma anche sulla
preghiera, su pratiche cultuali ritenute in grado di rendere perfetta la fede
dei pellegrini, ciò che il Nisseno pensava (e probabilmente avrebbe conti-
nuato a pensare) si potesse raggiungere medicando nella propria stanza.
Le tappe del pellegrinaggio cristiano tra IV e V secolo, tuttavia, non fu-
rono solo quelle della Palestina, ma interessarono altri luoghi della cristia-
454 STORIA DEL CRISTIANESIMO
nità antica, sia in Oriente sia in Occidente: si venne a delineare una vera
e propria "geografia sacra", che comprendeva una serie di siti strettamente
legati alle diverse forme di monachesimo (eremi e cenobi) e al culto di
martiri e santi (sepolcri e simili).
Tra le pratiche cultuali nel v secolo i pellegrini praticarono anche il rito
dell 'incubatio, già tipico di alcuni santuari pagani. In Bitinia, ad esempio,
secondo la testimonianza di Procopio (de aedif 5,3,16-20 ), era attivo un
santuario dedicato a san Michele, presso cui si recavano i pellegrini, pro-
venienti soprattutto da Costantinopoli, per ottenere la guarigione grazie
ali' intervento dell'Arcangelo che si serviva di acque termali per dispensar-
la. Nella stessa Costantinopoli, a nord della città, secondo Sozomeno (h.e.
2.,3,7-13), presso un michaelion, un santuario già dedicato alla dea Vesta,
riconsacrato da Costantino all'Arcangelo e noto per le apparizioni e i mi-
racoli operati da Michele, nel v secolo si praticava il rito dell' incubatio e
ottenevano la guarigione anche fedeli in preda ad attacchi febbrili.
In Occidente un centro che assurse presto a polo di attrazione per i
pellegrini fu Roma, sia perché capitale dell'Impero, sia perché custodiva
i corpi di Pietro e Paolo, che già dal III secolo, come testimonia Gaio (cfr.
supra, p. 435), erano destinatari di una particolare devozione e di un cul-
to funerario. Nella città, d'altra parte, erano motivo di attrazione per i
pellegrini anche le diverse basiliche fatte erigere da Costantino e alcuni
martyria.
Girolamo, in uno squarcio autobiografico ( Comm. in Ez. 12.,40 ), ricor-
da la consuetudine di visitare, di domenica, le catacombe romane:
Quando ero ragazzo, a Roma, e venivo educato agli scudi liberali, di domenica,
con alcuni miei coetanei, animati dallo stesso interesse, ero solito andare in giro
per (visitare) le tombe degli apostoli e dei martiri. Spesso entrai anche nelle cripte,
scavate in profondità nel terreno, dove i corpi dei defunti erano allineati lungo i
muri da entrambe le parti e dove tutto è così scuro che sembra quasi che si realizzi
la profezia «Scendano i vivi nell'inferno» (Sai 55,16).
di san Felice, quando folle di fedeli, per la maggior parte rustici provenienti
dalle regioni limitrofe e da altre regioni dell'Italia meridionale, si raduna-
vano presso la tomba del santo. Egli ricorda una moltitudine di uomini di
campagna, rozzi e incolti, che, spinti dalla fede e incuranti dei rigori inver-
nali, lasciano le loro abitazioni per recarsi presso la tomba feliciana (carm.
27 ). Paolino dichiara esplicitamente che questi pellegrini sono abituati a
mescolare il sacro e il profano, a ubbidire a Dio saziando il ventre, e descrive
con disappunto l'euforica atmosfera di attesa notturna della festa, durante
la quale i convenuti, per tenersi desti, si intrattengono presso le sante soglie
cantando e bevendo. Comunque sia, Paolino cercò di concepire un rimedio
che, attraendo i contadini, li distogliesse dal desiderio di cibo e, nel con-
tempo, li edificasse: fece dipingere sulle strutture della basilica nova e della
basilica vetus scene a colori dell'Antico e del Nuovo Testamento. I pellegrini
analfabeti, in tal modo, avrebbero potuto apprendere i misteri della fede at-
traverso le immagini della pittura. Si tratta di una procedura alla quale fece
ricorso circa due secoli dopo anche Gregorio Magno.
Il pellegrinaggio alla tomba di san Felice permette di sottolineare alcu-
ni elementi e motivi che caratterizzano il rapporto città/campagna. Già
nella seconda metà del IV secolo il santuario di Cimitile aveva determinato
lo sviluppo di un'area interessata da notevole fervore edilizio. Lo scrittore
fa riferimento anche a un hospitium posto a qualche distanza dalla tomba
del santo, finalizzato all'accoglienza di fedeli provenienti da lontano: si
tratta di una prova ulteriore del fatto che, ali' inizio del v secolo, il pelle-
grinaggio presso il sepolcro feliciano era ormai divenuto un fenomeno di
vasta portata. Dal punto di vista sociale il santuario di san Felice, come
accadeva in altri casi di culto martiriale cristiano, venne configurandosi
come un "luogo di ritrovo" per fedeli provenienti tanto dalla città quanto
dalla campagna, un luogo, dunque, ove si infrangevano alcune delle bar-
riere tipiche della società urbana tardoantica. Non solo, infatti, secondo
una prassi tipica del pellegrinaggio cristiano, uomini e donne si trovavano
a stretto contatto, ma si riducevano anche le distanze tra età, gerarchie,
classi sociali, nonché tra cittadini e rustici.
Abbiamo già menzionato altri santuari meta di pellegrinaggi durante
la tarda antichità nel paragrafo precedente. Possiamo aggiungere la città
di Tours in Gallia, di cui, alla fine del IV secolo, fu vescovo Martino (371-
397 ), personaggio circondato già in vita da un'aura di santità. I pellegrini
che giungevano presso il suo sepolcro provenivano, oltre che dalla stessa
Gallia, da altri paesi, in particolare Spagna e Italia.
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Bibliografia ragionata
Spazi e riti funerari.Sull'importanza degli spazi resi sacri dalla presenza dei santi e delle
loro reliquie, cfr. H. DELEHAYE,Problemi di metodo agiografico: le coordinate agiografi-
che e le narrazioni, in S. Boesch Gajano (a cura di), Agiografia altomedievale, il Mulino,
Bologna 1976, pp. 49-56; il saggio di v. FIOCCHI NICOLAI, I santuari martiriali, in
Santuari d'Italia, Lazio, De Luca Editori d'Arte, Roma lOIO, pp. 59-75, e il recente
volume di A. COSCARELLA, P. DE SANTIS (a cura di), Martiri, santi, patroni: per una
archeologia della devozione, Atti X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (15-
18 settembre lOIO), Università della Calabria, Arcavacata di Rende lOil, che contiene
preziose indicazioni metodologiche sull'interazione era storia, agiografia e archeolo-
gia. Per una documentata informazione sulle catacombe cristiane, cfr. v. FIOCCHI NI·
COLAI, J. G UYON ( a cura di), Origine delle catacombe romane, Atti della Giornata tema-
tica dei Seminari di Archeologia Cristiana (Roma, li marzo l005), Pontificio Istituto
di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano lOo6. Sui riti funerari e sull'insieme di
pratiche e gesti legati alla morte e alla visione cristiana della relazione tra il mondo dei
vivi e quello dei morti, cfr. il contributo di P. DE SANTIS, s.v. Ritifunerari, in Nuovo di-
zionario patristico e di antichita cristiane, Marietti, Genova l0o8, vol. III, cc. 77-101, che
sintetizza il processo di elaborazione dei diversi rituali nei secoli della tarda antichità.
LE FORME E I LUOGHI DELLA PIETÀ RELIGIOSA 459
Le iscrizioni dei cristiani. Sulla consistenza e sulla rilevanza delle iscrizioni dei cri-
stiani per la ricostruzione di numerosi aspetti del vissuto quotidiano, cfr. i saggi di c.
CARLETTI, che gettano luce sui più recenti metodi di approccio alla documentazione
epigrafica, considerata in relazione al monumento di appartenenza e al relativo con-
testo storico e sociale, in particolare il suo lavoro di carattere complessivo: Epigrafia
dei cristiani in Occidente dal III al VII secolo. Ideologi-a e prassi, Edipuglia, Bari 2.008;
cfr., inoltre, ID., Dalla «pratica aperta» alla «pratica chiusa»: produzione epigrafica
a Roma tra ve VIII secolo, in Roma nell:Alto Medioevo, Atti delle Settimane di studio
della Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 2.7 aprile-1°
maggio 2.000), voi. XLVII, CISAM, Spoleto 2.001, pp. 32.5-89; ID., "Scrivere i santi":
epigrafia del pellegrinaggio a Roma nei secoli VII-IX, in Roma fra Oriente e Occidente,
Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Italiano di Studi sull'Alto
medioevo (Spoleto, 19-2.4 aprile 2.001), CISAM, Spoleto 2.002., pp. 32.3-61.
L'arte cristiana antica. Sull'arte paleocristiana la bibliografia è molto vasta; effi-
cace è la sintesi contenuta nel volume di F. BISCONTI (a cura di), Temi di iconografia
paleocristiana, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 2.000;
cfr., inoltre, ID., Le pitture nelle catacombe romane. Restauri e interpretazioni, Tau
Editore, Todi 2.011 4 • Per alcune indicazioni relative al rapporto tra esegesi e icono-
grafia e all'interazione tra i fattori relativi al repertorio figurativo (tipo, datazione,
provenienza) e il contesto archeologico di riferimento, il dato scritturistico, la cultura
biblica delle comunità, cfr. G. OTRANTO, Per una storia dell'Italia tardoantica cri-
stiana, Edipuglia, Bari 2.009, pp. 487-537. Per una riflessione multidisciplinare sulle
origini e l'essenza dell'immagine cristiana cfr. o. GUASTINI (a cura di), Genealogia
dell'immagine cristiana. Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigurazioni, La Casa
Usher, Firenze 2.014.
Spazi sacri e sacralizzazione dello spazio. Sul tema specifico degli spazi sacri e sugli
approcci multidisciplinari con cui vengono analizzati in rapporto alle trasformazioni
delle istituzioni e della società, cfr. A. VAUCHEZ (éd.), Lieux sacrés, lieux de culte, san-
ctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques,
fFR, Roma 2.000; A. BENVENUTI et al, Storia della santità nel cristianesimo occiden-
tale, Viella, Roma 2.005; M. SIMONETTI, Il Vangelo e la storia. Il cristianesimo antico
(secoli I-Iv), Carocci, Roma 2.010. Sul processo di costruzione di una "geografia sacra",
sui luoghi e gli strumenti del culto cristiano in rapporto a gestori e fruitori, cfr. s.
BOESCH GAJANO, L'agiografia, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda
antichità e alto medioevo, Atti delle Settimane di studio della Fondazione Centro Ita-
liano di Studi sull'Alto medioevo (Spoleto, 3-9 aprile 1997 ), voi. XLV, CISAM, Spoleto
1998, pp. 797-843; A. VAUCHEZ (a cura di), I santuari cristiani d'Italia. Bilancio del
censimento e proposte interpretative, fFR, Roma 2.007; s. BOESCH GAJANO, F. SCOR-
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Cicerone Marco Tullio, 2.16, 42.6 2.48, 2.51, 2.58, 2.62.-4, 2.69, 2.78, 349, 356,
Cipriano di Cartagine, 12.6-30, 146, 196-7, 360, 369, 371, 376, 414, 417-8, 438,
2.02.-3, 2.2.9, 2.67, 2.69, 2.78, 398, 400, 447, 452., 454
Costanzo II, 179-80, 2.36-7, 2.41, 2.64, 418
416, 42.0
Costanzo Cloro, 2.2.0, 2.2.2.
Ciriaco di Costantinopoli, 378
Costanzo di Lione, 303, 42.7
Cirillo, apostolo degli Slavi, 354
Cresto, 188
Cirillo di Alessandria, 180, 2.59-60, 311-6,
Crispo, 104
318-2.0, 32.2.-3, 370
Cromazio di Aquileia, 402., 42.1
Cirillo di Gerusalemme, 147,149,404
Culciano Clodio, 2.2.2.
Cirillo di Scitopoli, 2.95
Cirillona, 404
Ciro, martire, 42.2. Damaso, papa, 2.44, 2.65, 2.67, 2.72., 2.78,
Ciro di Alessandria, 380 300, 342., 370, 42.0, 455
Claudio, imperatore, 188-9 Damiano di Alessandria, 376-7
Claudio Efebo, 12.2. Daniele, 48, 58-9, 148, 153, 2.04, 2.08-10,
Claudio il Gotico, 2.2.6 442.-3
Clemente Alessandrino, 92., 103, 112., 146, Davide, 35, 56, 61, 64, 185
149-50, 152., 154, 156, 169, 2.13, 2.16, 397, Decio, 12.6-7, 130,196, 2.02., 2.2.9, 2.83, 400,
399 411-2., 416, 419
472 STORIA DEL CRISTIANESIMO
Giovanni, evangelista, 34, 40-1, 45-7, 49, Giuliano di Alicarnasso, 316, 364
56, 59, 61-5, 71, 74, 78, 81, 91, 100, 113-4, Giuliano di Eclano, 147-8
110, 114, 135, 141-7, 153-4, 163, 190, Giuliano l'Apostata, 161, 101-1, 105, 115,
104, 108-10, 138, 397 118, 113, 115, 137-8, 145, 149, 415, 455
Giovanni, martire, 411 Giuliano Saba, 199
Giovanni (loane), vescovo, 179 Giulio Africano, 17, 106, 114, 371
Giovanni I, papa, 347 Giunia, 111
Giovanni II, papa, 365 Giuseppe, padre di Gesù, 36, 88
Giovanni III, papa, 349 Giuseppe d'Arimatea, 66
Giovanni Battista, 34, 36-7, 40-1, 44, Giustina, 139
46, 51, 55, 70, 98,100, lii, 181-3, 394-5, Giustina, santa, 431
418 Giustiniano, 151, 194, 196, 331, 346-7,
Giovanni Climaco, 196, 383 353, 355, 357, 359-78, 381-3, 408
Giovanni Crisostomo, 91, 148, 175, 159, Giustino, 83, 85-6, 91, 110-1, 141, 143-4,
161, 165-6, 175, 403 149, 153, 156, 163, 193, 116, 398, 400
Giovanni di Efeso, 199, 361, 366 Giustino I, 316, 315, 346, 359
Giovanni di Gerusalemme, 159, 161-3, Giustino II, 374-6
301,404 Graziano, u9, 139-40, 171
Giovanni di Maiuma, 190 Gregorio di Antiochia, 377
Giovanni di Tella, 366 Gregorio di Nazianzo, 148-9, 156, 141,
Giovanni Filopono, 375, 377 143, 164, 188, 191, 403, 419, 415-6, 431
Giovanni il Digiunatore, 377 Gregorio di Nissa, 156, 141, 419, 415,
Giovanni il Solitario, 198 419,451
Giovanni l'Elemosiniere, 376 Gregorio di Tours, 349-50, 411, 414,
Marcellino, 2.2.8, 436, 438, 443-4 Melania Seniore, 2.94, 42.9, 453
Marcellino, comes, 2.46 Melezio di Antiochia, 2.41
Marcello di Ancira, 2.33, 2.43 Melitone di Sardi, 2.8, 149, 153, 156, 190,
Marcia, 12.4, 194 193-4, 2.09-10
Marciano, giurista, 193 Melizio, 173, 2.52.
Marciano, imperatore, 314, 318, 343 Mellito di Gallia, 451
Marcione del Ponto, 115-8, 12.2., 131-2., Menasia, 54
140-1, 143, 152., 155, 164 Mesrop Mastoz, 177-8
Marco, evangelista, 33-7, 40-1, 45-6, 53, Metodio, apostolo degli Slavi, 354
59, 61, 63, 66-7, 73, l01, 139, 142.-3, 163, Michele, santo, 448, 454
168-9, 175, 2.52., 2.65, 403 Milziade di Roma, 2.2.9
Marco Aurelio, 193-4, 2.00-2., 361 Minucio Felice, 81, 2.11, 2.13
Mari il Persiano, 367, 404 Minucio Fundano, 192.
Maria, madre di Gesù, 36, 88, 2.42., 312., 315 Mirian, 178
Maria di Clopa, 46 Monegonda, 430
Maria di Magdala, 46, 50, 73, 2.01 Monica, 111,437
Marte, 339 Montano, 12.3
Martino I, papa, 380-1 Mosè, 36, 42., 153, 2.10, 2.14, 2.81, 442.-3
Martino di Braga, 351, 450 Mosè di Corene, 176
Martino di Tours, 2.74, 303-4, 349, 42.1-3, Muratori Lodovico Antonio, 100, 144
42.5, 42.7, 449, 457
Musonio Rufo, 2.13
Marucha, 166
Massenzio, 2.2.0, 2.2.6, 346 Nabarnugi cfi: Pietro Iberico
Massimiano di Pola, 347 Narsai, 32.5
Massimilla, 12.4 Nathan, 56
Massimino Daia, 2.2.0-4, 2.52., 2.86 Nazario, martire, 42.1
Massimino il Trace, 196 Nerone, 84, 189-90
Massimo di Madaura, 2.02. Nerses I Parthew, 177
Massimo di Riez, 304 Nestorio, 2.57, 2.61, 312., 315, 319, 32.5, 364,
Massimo di Torino, 402., 449 404,430
Massimo il Confessore, 379-81 Nettario di Costantinopoli, 2.64-5
Matteo, evangelista, 34-7, 46-7, 49, 59, Nicomaco Flaviano Virio, 2.45, 417
63, 66, 72., 103, 105, 109, 130, 134, 139, Nilo di Ancira, 2.93
142.-3, 163, 2.52., 395, 442. Ninfa, 111
Mattia, 71 Nino, santa, 178, 182.
Maurizio, 377-8 Noè, 12.5, 442.-3
Mauro di Ravenna, 347 Noeto di Smirne, 12.1, 12.8, 132.
Melania luniore, 2.94, 453 Novaziano, 12.6-7, 301
INDICE DEI NOMI 477
Siricio, papa, 2.77, 342.-3 Teodosio I, 94, 175, 2.37, 2.39-41, 2.44-5,
Sisenna Rutilianus, 193 2.64-5, 330, 342.
Sisto II di Roma, 2.31 Teodosio II, 2.34, 314, 343, 353, 453
Socrate, 42.5 Teodosio di Alessandria, 365-6, 376
Socrate Scolastico, 2.34, 2.54, 2.80, 453 Teodosio il Grande cfi: Teodosio I
Sofia, imperatrice, 375-6 Teodoto il Banchiere, 12.1
Sofia, santa, 360 Teodoto il Cuoiaio, 12.1, 2.16
Sofronio di Gerusalemme, 380 Teodozione, 136
Sozomeno,2.34,2.79,2.90,338,454 Teofilo di Alessandria, 175, 2.59, 2.65, 301,
Spinoza Baruch, 18 313-4
Stefano, santo, 75, 82., 412., 42.2., 42.4 Teofilo di Antiochia, 12.1, 156
Stefano di Bisanzio, 363 Tertulliano, 103, 115, 118, 12.4, 12.6, 12.9,
Stefano di Roma, 130, 435 146, 149, 153, 156, 188-90, 195, 2.06-7,
Stilicone, 330 2.11, 2.15, 2.41, 398
Subatianus Aquila, 195 Tiberio, 2.17
Sulpicio Severo, 303, 42.1-2., 42.5, 42.7-8, 449 Tiberio II, 362., 376
Susanna, 443 Tigidio Perenne, 194
Svetonio Gaio Tranquillo, 188, 191, 2.00 Timoteo, apostolo, 100, 110-1, 138, 2.64
Timoteo Eluro, 318-9
Tacito Publio Cornelio, 2.6, 65, 84, 189, Timoteo Solofaciolo, 318-2.0
149, 153, 159-60, 167-71, 179, 181, 193, Gaza, 295, 307, 428
195, 197, 221-2, 253, 255, 258-60, 268, Genesaret, lago, 37
284, 286, 288-9, 291, 301, 307, 310, Georgia, 160, 176, 178, 182, 262,310,338
Gerasa, 50
316-7, 320, 322, 326, 331, 355, 364, 366,
Germania,305,352
375-6, 379-80, 397, 403, 419, 428-9,
Gerusalemme, 37, 39, 43, 45-6, 48, 62-3,
453
Elia Capitolina cfi: Gerusalemme 65-6, 72, 74-84, 88-90, 97, 99-100, 107,
126, 128, 136, 170, 190, 193,195,215,228,
Elvira, 272
255-6, 259, 262, 293-4, 301, 309, 314-6,
Emesa, 198, 261, 379
370, 377, 379-80, 391, 393, 396, 404-5,
Ennaton, 289
418, 428-9, 451-3
Epidauro, 422
Getsemani, 64
Eraclea tracia, 264-5
Gévaudan, 450
Etiopia, 160, 179-80, 182, 310, 337
Gibilterra, 271
Eufrate, fiume, 446
Giordano, fiume, 36, 83, 88
Europa orientale, 20
Giuda, deserto, 294
. Giudea, 26, 29, 39, 50, 64-5, 76, 82-3, 148,
Faran, 294, 296 190,200
Fayyum, 170 Giura, 304
Filadelfia, 85, IOI, 152 Gomon, 293
STORIA DEL CRISTIANESIMO
Raithou, 296
Orléans, 349 Ravenna, 256, 277, 332, 341, 343, 347
Osroene, 160-1, 164-6, 215
Reno, fiume, 330, 349
Rezia, 277
Palestina, 38, 74-5, 84, 87-8, 101, 133-4, Rimini, 236
147, 170, 220, 224, 2.2.8, 248, 259, 262, Roma, 28, 64, 69, 74, 76, 81-4, 92, 99-
289, 293, 301, 307, 316, 319, 328, 363, 100, 103, 107, 115, 117-8, 121-7, 129-30,
366-7, 384, 418, 428, 452-3 135, 142, 144-5, 156, 170-1, 175, 181, 187-
Panfilia, 100 90, 192-4, 196, 198, 202-3, 207, 209,
Pannonia, 277, 353 214, 216, 218, 221, 224, 226, 228-31, 233,
ALBERTO CAMPLANI insegna Storia del cristianesimo e delle chiese presso la Sapienza
Università di Roma e presso l'Istituto Patristico Augustinianum. I suoi campi di ricerca
comprendono i cristianesimi orientali in età tardoantica, e si estendono allo gnosticismo
e all'ermetismo di area egiziana e siriaca. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Scritti er-
metici in copto (Brescia lOoo); Atanasio di Alessandria. Letterefesta/i ( Milano loo3). Con
Giovanni Filoramo ha curato il volume Foundations ofPower and Conjlicts oJAuthority
in Late-Antique Monasticism (Leiden loo7) e con Paola Buzi Christianity in Egypt: Lite-
rary Production and Intellectual Trends (Roma lOI 1). È stato direttore della rivista "Studi
e Materiali di Storia delle Religioni" e attualmente dirige la rivista "Adamantius".
CLAUDIO GIANOTTO insegna Storia del cristianesimo e Storia delle origini cristiane
presso l'Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: L'enigma Gesù
(a cura di E. Prinzivalli, con E. Norelli e M. Pesce, Roma loo8); I Vàngeli apocrifi
(Bologna l009 ); Ebrei credenti in Gesù. Le testimonianze degli autori antichi (Milano
lOll); Giacomo,Jratello di Gesù (Bologna l013).
STORIA DEL CRISTIANESIMO
ENRICO NORELLI insegna Storia del cristianesimo delle origini presso l'Università
di Ginevra. Tra i suoi libri: A Diogneto (Milano 1991); Ascensio Isaiae. Commenta-
rius (Turnhout 1995); (con Claudio Moreschini) Storia della letteratura cristiana
antica greca e latina (l voli. in 3 tomi, Brescia 1995-96); Papia di Hierapolis. Espo-
sizione degli oracoli del Signore. I.frammenti (Milano loo5); Marie des apocryphes.
Enquéte sur la mère dejésus dans le christianisme antique (Genève loo9); La nascita
del cristianesimo (Bologna lo14). Sta ultimando un commento alle lettere d'Ignazio
di Antiochia.
EMANUELA PRINZIVALLI insegna Storia del cristianesimo e delle chiese presso la Sa-
pienza Università di Roma e presso l'Istituto Patristico Augustinianum. Si interessa
di storia dell'esegesi, storia delle dottrine teologiche, agiografia, storia sociale del cri-
stianesimo, filologia patristica. I suoi ultimi volumi, entrambi in collaborazione con
Manlio Simonetti, sono: Seguendo Gesu. Testi cristiani delle origini (voi. I, Milano
l010) e La teologia degli antichi cristiani (Brescia lOll).
ANDRÉS sAEZ insegna Teologia del canone e Teologia patristica presso l' Universidad
Eclesiastica San Damaso, Madrid. Suoi ambiti di ricerca sono i padri preniceni, la
cosiddetta tradizione asiatica in particolare, il rapporto tra Tradizione e Scrittura e
la teologia della filiazione nel primo cristianesimo. Ha appena pubblicato Canon y
autoridad en los dos primeros siglos. Estudio histdrico-teoltigico sobre la relacion entre la
Tradicitin y los escritos aposttilicos (Roma 2.015).
FABRIZIO YECOLI insegna Storia del cristianesimo antico e Teoria delle scienze reli-
giose presso l' Université de Montréal. Tra le sue pubblicazioni, oltre a diversi articoli
sul monachesimo antico, si segnalano: Lo Spirito soffia nel deserto. Carismi, discerni-
mento e autorita dell'uomo di Dio nel monachesimo egiziano antico (Brescia 2.007 ); Il
sole e ilfango. Puro e impuro tra i Padri del deserto (Roma 2.007 ); La religione ai tempi
del web (Roma-Bari 2.013).