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ELETTROSTATICA

L-3

1 ELETTROSTATICA
1.Fenomeni elettrostatici
Dall’osservazione di alcuni fenomeni naturali o da semplici esperimenti (per esempio,
strofinando una bacchetta di vetro o di plastica con un panno di lana, la bacchetta attrae una
pallina di sughero appesa a un filo) è possibile notare una forza che si contrappone alla forza
di gravità, definita forza elettrostatica. La forza che si è originata con lo strofinio del panno
di lana è dovuta all’elettrizzazione dell’oggetto, ossia all’acquisizione, da parte dell’oggetto
stesso, di carica elettrica; la forza può essere di tipo attrattivo oppure repulsivo. La carica
elet- trica acquisita può provocare due comportamenti opposti; quindi può essere considerata
posi- tiva oppure negativa, a seconda del comportamento: corpi elettricamente carichi dello
stesso segno si respingono, mentre corpi carichi di segno opposto si attirano. L’unità di
misura della carica elettrica è il coulomb [C].
2.Legge di Coulomb

Nel 1785 Charles-Augustin de Coulomb formalizzò l’interazione fra due corpi puntiformi
carichi elettricamente, pervenendo alla seguente legge fisica, nota come legge di Coulomb:
Q1 
F K
Q2r2
=-----------
------
L’intensità della forza F tra due corpi elettrizzati è direttamente proporzionale al prodotto
delle cariche Q 1 e Q 2 presenti su ciascuno di essi e inversamente proporzionale al quadrato
della distanza r fra i due corpi carichi, purché essi siano estremamente piccoli rispetto alla
loro distanza (cariche puntiformi). La costante di proporzionalità K, detta costante di
Coulomb, dipende, oltre che dalle unità di misura scelte per le grandezze coinvolte, dal
mezzo nel quale avviene l’azione dovuta al fenomeno elettrostatico. Utilizzando il sistema
internazionale di misura (SI), si può scrivere la seguente relazione:

K ---
4
1---- =dielettrica, legata al mezzo interposto fra le
dove  indica una nuova costante detta costante
due cariche. Nel vuoto, dove la forza elettrostatica è massima, si ha:
 = 0 = 8,859 × 10–12 C2/Nm2
La costante dielettrica assoluta del mezzo  può essere espressa dal prodotto della
costante dielettrica del vuoto  0 e della costante dielettrica relativa del mezzo  r, che
risulta quindi essere un numero puro maggiore di 1. Pertanto  = 0 · r .
Nella tabella L.1 sono riportati i valori della costante dielettrica relativa di alcuni
materiali, a temperatura ambiente.

Tabella L.1 Costante dielettrica relativa r di alcuni materiali a temperatura ambiente


Materiale r Materiale r

Aria 1,000590 Policarbonato 3,00

Anidride carbonica 1,000986 Polietilene 2,26

Acqua distillata 81,00 Polipropilene (teflon) 2,25

Carta 25 Polistirene 2,56

Gomma 23 Porcellana 5,50

Mica 6,00 Titanato di bario 1250

Nylon 3,50 Vetro 59


L-4 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

1.3 Campo elettrico


Ogni regione dello spazio, in cui una carica elettrica sia soggetta a una forza, dovuta alla
presenza di altre cariche elettriche, è detta campo elettrico. In altre parole lo spazio attorno a
un corpo carico elettricamente risulta modificato dalla presenza di cariche elettriche, fino a
grandi distanze dal corpo stesso. Quando si immerge un corpo carico all’interno di un campo
elettrico, esso risente dell’azione del campo, ossia è soggetto a una forza che è proporzionale
alla carica posseduta. Si definisce intensità del campo elettrico E in un punto il rapporto tra la
forza F che agisce su una carica puntiforme, posta in quel punto e la carica Q stessa. Quindi
si ha:

E Q-F--= e F E
Di un campo elettrico si può Q=fornire una rappresentazione grafica, introducendo il
concetto di linee di forza del campo. Una carica, libera di muoversi e priva di inerzia,
immersa in un campo elettrico segue una traiettoria che può essere rappresentata con le linee
di forza. Le linee di forza risultano tangenti in ogni punto alla forza che viene esercitata dal
campo sulla carica e per ogni punto del campo passa una sola linea di forza. Dove l’intensità
E è maggiore, le linee di forza sono più dense, mentre si diradano per valori minori di E.
Un campo elettrico si dice uniforme quando possiede stessa intensità, direzione e stesso
verso in ogni suo punto; in questo caso, le linee di forza sono rette parallele. Due piastre
metal- liche parallele, aventi cariche di segno opposto e separate da un isolante (detto
dielettrico), producono al loro interno un campo elettrico uniforme. Questo sistema prende il
nome di con- densatore (fig. L.1).

Figura L.1 Campo elettrico uniforme.


1.4 Potenziale elettrico
Una carica Q posta in un campo elettrico è soggetta a una forza, quindi per spostarla da
un punto a un altro, è necessario effettuare un lavoro L. Si può affermare pertanto che la
carica possiede energia potenziale. Il potenziale elettrico in un punto è definito come
l’energia poten- ziale posseduta da una carica unitaria posta in quel punto. Si definisce
inoltre differenza di potenziale, o tensione elettrica, fra due punti A e B di un campo
elettrico, il lavoro L necessa- rio per portare la carica elettrica unitaria dal punto A al punto B
e la si indica con il simbolo VAB.
Per una carica Q la differenza di potenziale VAB è pari a L/Q; l’unità di misura della
diffe- renza di potenziale è il volt [V] che, per definizione di potenziale, corrisponde a J/C
(joule/ coulomb). Il lavoro svolto (e quindi anche la differenza di potenziale) fra i punti A e
B del campo elettrico è indipendente dal percorso seguito per portare la carica Q da A a B ma
dipende solo dalla loro posizione. Ne consegue che il lavoro svolto da un campo elettrico su
una carica che percorre una linea chiusa, ritornando nel punto di partenza, è nullo. Pertanto il
campo elettrico è un campo conservativo.
ELETTROSTATICA

L-5

Il luogo dei punti che hanno lo stesso potenziale viene detto superficie equipotenziale. In
un circuito elettrico sono sempre presenti punti a potenziali diversi; è utile riferire tutti i
poten- ziali a un potenziale scelto come riferimento, indicato come potenziale di massa o,
semplice- mente, massa. Se si indicano con VA e VB i potenziali dei punti A e B riferiti alla
massa, ossia la differenza di potenziale fra A e la massa e tra B e la massa, si stabilisce per
convenzione che:
VAB = VA – VB VBA = VB – VA e dunque: VAB = – VBA
Sovente nelle reti elettriche viene anche utilizzato come potenziale di riferimento il
poten- ziale di terra, a cui sono generalmente collegate le parti metalliche
dell’apparecchiatura e la messa a terra dell’impianto elettrico. La terra è considerata, per
definizione, a potenziale nullo, mentre la massa può essere anche a potenziale diverso da
zero; comunemente i potenziali di massa e di terra sono collegati e quindi coincidono (fig.
L.2).

Figura L.2 Simboli dei potenziali di riferimento.


1.5 Conduttori in equilibrio elettrico
Michael Faraday mise in evidenza fenomeni particolarmente significativi studiando speri-
mentalmente il comportamento delle cariche elettriche:
-le cariche elettriche in equilibrio, ossia non in movimento, si distribuiscono sulla superficie

esterna di un conduttore;
-il campo elettrico all’interno di un conduttore, dove siano presenti cariche in equilibrio, è

nullo;
-tutti i punti di un conduttore che si trova in equilibrio elettrico devono essere allo stesso

potenziale, ossia devono costituire una superficie equipotenziale;


-le cariche elettriche si addensano sulle superfici aventi maggiore raggio di curvatura (spigoli

vivi e punte).

Questi fenomeni, verificati sperimentalmente, furono poi formalizzati dal matematico


tedesco Karl F. Gauss, in una legge fondamentale dell’elettromagnetismo.
La ripercussione di queste scoperte è importantissima; si possono infatti realizzare
schermi che annullano gli effetti di un campo elettrico che investe un corpo: è sufficiente,
infatti, rico-
prire il corpo con un sottile strato metallico conduttore (gabbia di Faraday). La custodia
metallica di molte apparecchiature realizza tale funzione schermante.
1.6 Azione di un campo elettrico su un materiale isolante
Un materiale isolante (o dielettrico) viene influenzato dalla presenza di un campo
elettrico e interagisce con esso modificando la forza elettrostatica del campo stesso. Infatti,
all’equili- brio, le molecole dell’isolante possono essere rappresentate come dipoli elettrici
orientati in maniera casuale, in modo che il campo elettrico complessivo dovuto a questi
dipoli sia nullo.
Un dipolo è costituito da due cariche uguali e opposte, + q e – q, collocate a una piccolis-
sima distanza una dall’altra e vincolate rigidamente.
Se il dielettrico viene sottoposto a un campo elettrico, i dipoli si orientano in modo
ordi-
nato nella direzione del campo elettrico, facendo nascere una carica netta positiva su un
lato del materiale e una carica netta negativa sul lato opposto (fig. L.3).
Il fenomeno è detto polarizzazione del dielettrico. Ne consegue che, a causa della
polariz-
zazione del materiale, si origina in esso un campo elettrico con la stessa direzione e verso
opposto al campo esterno, con l’effetto complessivo di ridurne l’azione. La costante
dielettrica relativa del mezzo r tiene conto proprio di questa diminuzione della forza
elettrica in un die-
ELETTROSTATICA

L-7

1.7 Condensatori
Se si applica una differenza di potenziale a un sistema costituito da due conduttori detti
armature, separati da un isolante (dielettrico), si depositano, sulle due armature, cariche elet-
triche uguali ma di segno opposto + Q e – Q, proporzionali alla tensione applicata V.
Il rapporto fra la carica Q che si accumula in questo sistema, detto condensatore, e la
diffe-
VQ---=tale carica, si chiama capacità C ed è una
renza di potenziale V, necessaria perCmantenere
caratteristica
L’unità di del condensatore
misura stesso:
della capacità [F] (F):
è il farad
1 F = 1 C/1 V
Essendo il farad una capacità molto grande, si utilizzano più comunemente i
sottomultipli, quali millifarad (1 mF = 103 F), microfarad (1 F = 106 F), nanofarad (1
nF = 109 F), pico- farad (1 pF = 1012 F).
La capacità dipende dalle dimensioni geometriche, dalla forma del condensatore e dalla
natura del dielettrico usato.
Per un condensatore piano, costituito da due armature piane (fig. L.4), la capacità è
legata
alla superficie S e alla distanza d delleC= S--dalla seguente formula:
armature
d
dove  =  0 · r indica la costante dielettrica assoluta del materiale isolante interposto fra
le armature.

Figura L.4 Condensatore piano.

Per condensatori di forma diversa da quella piana, l’espressione della capacità è più com-
plessa, ma si può dimostrare che essa cresce all’aumentare della superficie delle armature e
della costante dielettrica, mentre diminuisce con l’aumento dello spessore del dielettrico
inter- posto fra le armature.
Per esempio, nel caso di un condensatore costituito da due armature cilindriche coassiali,
di lunghezza l e raggi r1 e r2, separate da un dielettrico con costante dielettrica , si ha:
C 2l =
ln r2
r1

---  per i condensatori sono gli stessi relativi
I valori più comuni disponibili in commercio
alla serie E12 delle resistenze (tab. L.4). Il valore nominale è in genere stampato
sull’involucro
L-8 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

assieme all’unità di misura, ma se l’unità di misura manca, si intende il valore in pF o F.


Alcune case produttrici riportano il valore della capacità (espresso in pF) in cifre e l’ultima
cifra indica il numero di zeri da aggiungere: per esempio, 102 equivale a 1000 pF e 333 equi-
vale a 33.000 pF (ossia 33 nF). Se alla cifra segue una lettera (J, K, M), essa indica la tolle-
ranza (rispettivamente 5%, 10% e 20%). Talvolta, invece, l’unità di misura è riportata fra le
cifre al posto del punto decimale: 4n7K equivale a 4,7 nF ±10%.
Un parametro importante dell’isolante interposto fra le armature, detto rigidità
dielettrica, è l’intensità di campo elettrico necessaria a provocare nel dielettrico la sua
perforazione, se si tratta di un solido, o la volatilizzazione delle sue molecole, se si tratta di
liquido o gas. La rigi- dità dielettrica è detta anche scarica disruptiva e viene misurata in
kV/cm.
Nei condensatori la rigidità dielettrica determina, dato lo spessore e il tipo di isolante uti-
lizzato, la tensione massima a cui può essere sottoposto il componente.
Per realizzare capacità con un valore determinato è possibile effettuare collegamenti di
più condensatori secondo due modalità: in serie e in parallelo.

Figura L.5 Condensatori: a) in serie; b) in parallelo.


Nel collegamento in serie di più condensatori (fig. L.5a), la quantità di carica Q presente
sulle armature è la stessa per tutti i condensatori, mentre la caduta di tensione totale VAB si
sud- divide in V1, V2, V3 sui singoli condensatori. Si può quindi scrivere:
V1 -- 2 -- 3 --
Q
C1
---=V
Q
=V
--- Q--
Sommando membro a membro si ottiene: C2 -=
C3
VAB = V1 + V2 + V3 =C1 --Q--- --Q-----CQ
C2 1---+=
C2 C3
da cui si ricava:+Q --1--- + --1---C+ 3 --1---  
1
1 -----
----- 1 -----+
1 ------ =
C1 C2 C3 Q
----+---- -C=eq
e perciò: V AB

1 =
Ceq
--1--- --1---
--1---+
con Ceq che indica capacità equivalente totale + di condensatori. Con due condensa-
della serie
tori si ha:
C1C1C2 C3
C eq
CC12 +
-----------------=
C2 (fig. L.5b), a tutti i condensatori è applicata
Nel collegamento in parallelo di condensatori
la stessa tensione VAB, mentre le cariche accumulate sulle armature di ogni condensatore
(Q1, Q2, Q3) saranno diverse, se diversi sono i valori di C1, C2 e C3.
CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI L-9
ELETTRICI
La carica totale Qt accumulata, in questo caso, è data dalla somma aritmetica:
Qt = Q1 + Q2 +CQ3 = 1 CVAB 2 CVAB 3 +VAB = A+BV C1 
+ Cla2capacità
e quindi, +C3 equivalente totale Ceq del parallelo di condensatori 
vale:
Ceq = Qt-------- C= 1 + C2 +
C3 VAB

2 CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI ELETTRICI


1. Corrente elettrica
Il movimento ordinato di cariche, in una direzione, determina una corrente elettrica. In
un conduttore filiforme viene definita come intensità della corrente elettrica, indicata con I,
la quantità complessiva di carica q che fluisce attraverso una sezione qualsiasi del
conduttore, nell’intervallo di tempo  t:
I = q/ t
Questa espressione fornisce, in realtà, la corrente media nell’intervallo  t; per avere la
cor- rente istantanea, occorre considerare il limite per  t 0(utilizzando l’operatore
derivata):
i(t) = dq/dt
Se il flusso di cariche attraverso la sezione in esame si mantiene costante nel tempo, si è
in presenza di una corrente continua.
L’unità di misura della corrente è l’ampere (A), cioè coulomb/secondo.
Si stabilisce convenzionalmente che la corrente fluisce dal punto a potenziale più alto
verso quello a potenziale più basso, ossia si assume come verso positivo della corrente quello
concorde al movimento di cariche elettriche positive.
L’intensità di corrente che attraversa una sezione unitaria del conduttore viene definita
comedensità di corrente e indicata con J. In pratica si ha:
J = I/S
la cui unità di misura è A/mm2 e in cui S indica la superficie della sezione del conduttore
in esame.
Definizione di circuito elettrico
2.

Il passaggio di corrente in un conduttore richiede la presenza di un dispositivo, il genera-


tore elettrico, capace di mantenere il campo elettrico che mette in movimento le cariche. I
generatori (pile, accumulatori, dinamo, celle solari) trasformano energia di tipo non elettrico
(chimica, meccanica, solare ecc.) in energia elettrica.
I generatori di energia elettrica sono rappresentati come generatori di tensione e
generatori di corrente. Si parla di generatore ideale di tensione quando la tensione di uscita
del disposi- tivo è totalmente indipendente dalla corrente erogata. Un generatore ideale di
corrente, invece, eroga una corrente che è indipendente dal carico cui esso è collegato (e
quindi dalla differenza di potenziale ai suoi capi).
Un circuito elettrico è un sistema costituito almeno da un generatore, da un
utilizzatore o
carico e dai conduttori di collegamento fra i due dispositivi.
L’energia fluisce dal generatore verso l’utilizzatore. Le convenzioni di segno per tensioni
e correnti, valide per generatori e utilizzatori, sono:
-nei generatori la corrente esce dal morsetto a potenziale più alto (indicato con il segno +) ed

entra in quello a potenziale più basso ();


-negli utilizzatori la corrente entra dal morsetto indicato con il segno + ed esce da quello indi-

cato con il segno  (fig. L.6).


L-10 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.6 Convenzioni di segno: a) per un generatore; b) per un utilizzatore.

Si definisce rete elettrica l’insieme di più generatori e utilizzatori, collegati fra loro in
modo da costituire un insieme di più circuiti chiusi.
In una rete sono indicati con il nome di:
-nodo, la connessione di almeno tre conduttori percorsi da corrente;
-ramo, la parte di circuito (costituito da uno o più elementi percorsi dalla stessa corrente) che
congiunge due nodi contigui della rete;
-maglia, un insieme di più rami che, percorsi consecutivamente e una sola volta, riportano al
nodo di partenza.
3.Legge di Ohm

Collegando un generatore di tensione a un materiale conduttore, in quest’ultimo circola


corrente. Il rapporto fra la tensione applicata a un conduttore e la corrente che circola in esso
è costante. Questo coefficiente di proporzionalità viene denominato resistenza (R) ed è un
para- metro caratteristico del conduttore: esso misura la difficoltà che le cariche elettriche
incon- trano ad attraversare il conduttore.
Quanto detto si può riassumere nella seguente relazione:
V/I = R
nota come legge di Ohm. L’unità di misura della resistenza è l’ohm (  ), pari a
volt/ampere.
Il reciproco della resistenza è una grandezza che esprime la capacità di condurre del mate-
riale conduttore; essa è definita conduttanza (G) e si misura in  1 o siemens (S).
Resistività
4.

Il fisico tedesco Georg Simeon Ohm determinò una relazione che permette di ricavare la
resistenza di un conduttore, note le sue caratteristiche geometriche (lunghezza l e sezione S) e
fisiche (tipo di materiale), detta seconda legge di Ohm:
R
S
----l-
dove la costante  è detta resistività o resistenza specifica e dipende dal materiale in esame
(oltre che  ---=temperatura).
dalla
L’unità di misura della resistività si può dedurre dalla relazione precedente, in quanto:
2
R S
 = --------- 
-------------- =
= l
m  m
m  in ·cm oppure in · mm 2/m.
Sovente è più comodo esprimere la resistività
In base al valore della resistività è possibile suddividere i materiali in tre grandi categorie:
-isolanti: resistività compresa fra 10 8 e 1022  ·
-semiconduttori: cm; resistività compresa fra 1 e 10 8  ·
-conduttori: cm; resistività compresa fra 10 8 e 1  ·
cm.
CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI ELETTRICI

L-11

La resistività varia con la temperatura in modo direttamente proporzionale, secondo un


coefficiente di proporzionalità  detto coefficiente di temperatura. Esso risulta positivo per i
conduttori metallici, mentre è in genere negativo per i conduttori non metallici. Si può quindi
scrivere:
 t =  0 [1 +  (t – t0)]

dove:  t indica la resistività alla temperatura considerata e  0 è la resistività alla


temperatura ambiente.
Analogamente alla resistività, è possibile esprimere la variazione della resistenza con la
temperatura; infatti, tenendo conto che la resistenza è proporzionale alla resistività, si ha:
Rt = R0 [1 +  (t – t0)]

Nella tabella L.3 sono riportati i valori della resistività, a temperatura ambiente  0, e il
Materiale
relativo coefficiente di temperaturaResistività (  · materiali
 per i principali Coefficiente
utilizzati.di temperatura
cm) (°C1)
Tabella L.3 Resistività  0 a temperatura ambiente e coefficiente di temperatra  dei
Argento 0,016
materiali 3,8 × 103

Rame elettrolitico 0,0176 3,9 × 103

Oro 0,0244 3,4 × 103

Ferro 0,1 5,0 × 103

Ferro al silicio 0,5 1,0 × 103

Platino 0,099 3,6 × 103

Stagno 0,11 4,3 × 103

Germanio 47,0  4,8 × 102


Silicio 2,3 × 105  7,5 × 102
Arseniuro di gallio 107 
2.5Carta
Resistori
1014 
I resistori sono componenti elettronici con due terminali, che presentano un valore di
resi- stenza determinato.
Vetro 1015 
La loro caratteristica voltamperometrica (corrente in funzione della tensione) è una
retta.
Olio minerale 1017 
Si tratta pertanto di un dipolo passivo lineare.
Mica 1018 sono il valore nominale di resistenza, la
I parametri caratteristici di un resistore
tolleranza, la potenza nominale, la massima tensione di lavoro e il campo di temperature di
Polistirene
esercizio. 1022 
Il valore nominale è il valore di resistenza che il componente dovrebbe avere. In commer-
cio sono disponibili solo alcuni valori standard di resistenza, predeterminati in base alla
tolle- ranza (serie unificate in base alle norme IEC).
Nella tabella L.4 sono riportate le serie E12 (±10%), E24 (±5%), E48 (±2%) ed E96
(±1%). Le serie E12 ed E24 sono composte da valori con due cifre significative, mentre per
le serie E48 ed E96 sono necessarie tre cifre significative.
L-14 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Il valore nominale del resistore sarà:


3900  , con tolleranza ± 10%
Esistono inoltre resistori variabili con tre terminali, costituiti essenzialmente da un ele-
mento resistivo (uno strato di carbone, o di plastica conduttiva, oppure un filo metallico
avvolto su un supporto isolante), su cui può scorrere un contatto mobile detto cursore. I resi-
stori variabili possono essere a sezione circolare (potenziometri e trimmer), ove lo sposta-
mento del cursore può essere ottenuto tramite un albero di regolazione mono- o multigiro,
oppure a sezione lineare (slider).
L’inserzione dei resistori variabili in un circuito può avvenire con due modalità:
-come reostato, ovvero utilizzando solo due dei tre terminali disponibili (fig. L.8a), in cui il
componente è utilizzato come resistenza variabile, in modo da causare una caduta di tensione
per limitare la corrente che scorre nel carico R;
-come potenziometro, in cui esso è utilizzato come partitore di tensione, prelevando fra il con-

tatto mobile e uno dei due capi del resistore una frazione della tensione applicata ai capi del
resistore (fig. L.8b).

Figura L.8 a) Reostato; b) potenziometro.


6.Generatori reali
È necessario, a questo punto, definire i concetti di generatore reale di tensione o di cor-
rente: in natura non esistono dispositivi che siano in grado di erogare una potenza infinita,
quindi non è possibile che la tensione (o la corrente) fornita da un generatore sia indipendente
dal carico a cui essa è applicata. Per tenere conto di questo limite, è possibile schematizzare
un generatore reale di tensione come un generatore ideale con in serie una resistenza
(resistenza interna) che tiene conto del diminuire della tensione fornita dal dispositivo reale,
all’aumen- tare della corrente erogata. Il generatore reale di corrente viene invece
rappresentato come un generatore ideale con in parallelo una resistenza (resistenza interna
che tiene conto della dimi- nuzione della corrente erogata dal dispositivo reale, al diminuire
del carico applicato).
7.Principi di Kirchhoff

I principi di Kirchhoff sono l’estensione alle reti elettriche di leggi fisiche generali, quali
la conservazione della carica elettrica e la conservazione del campo elettrico. I due principi
di Kirchhoff permettono di impostare un sistema di equazioni di primo grado, dalla cui
risolu- zione si possono ottenere tutte le tensioni e le correnti della rete.
Primo principio di Kirchhoff (o delle correnti)
La somma algebrica delle correnti che confluiscono in un nodo è nulla, indipendente-
mente dalla natura degli elementi della rete, ovvero, in un nodo la somma delle correnti
entranti è uguale alla somma delle correnti uscenti.
Per esempio, applicando il principio al nodo A della figura L.9, si ha che I1  I2 
I3 = 0.
CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI ELETTRICI

L-15

Secondo principio di Kirchhoff (o delle tensioni)


La somma algebrica delle differenze di potenziale in una maglia è uguale a zero,
indipen- dentemente dalla natura degli elementi della rete.
Per definire i segni delle tensioni, è necessario scegliere arbitrariamente un verso di per-
correnza della maglia (orario o antiorario) assegnando un segno positivo alle tensioni che
sono
concordi con il verso scelto, negativo se sono invece discordi.
Per esempio, applicando il principio alla maglia M1 della figura L.9, si ha:
– E + V1 + V2 = 0
da cui si ricava la seguente relazione:
E = V 1 + V2

Figura L.9 Applicazione dei principi di Kirchhoff.


La scelta dei versi di correnti e tensioni in una rete è del tutto arbitraria (corrisponde alla
scelta di un sistema di riferimento); tuttavia conviene fissare arbitrariamente il verso delle
cor- renti in ogni maglia, adottando sugli utilizzatori un verso della tensione che rispetti la
conven- zione relativa (in un utilizzatore la corrente entra dal morsetto a potenziale più alto
ed esce da quello a potenziale più basso).
2.8 Collegamenti di resistenze
Più resistenze si dicono collegate in serie quando sono percorse dalla stessa corrente I. In
questo caso si ha che la caduta di tensione VAB ai capi della serie di resistenze (fig. L.10a) è
uguale alla somma delle tensioni sulle singole resistenze R1, R2 e R3. Applicando la legge di
Ohm alle singole resistenze si ottiene:
VAB = Req · I = R1 · I + R2 · I + R3 · I = (R1 + R2 + R3) · I
da cui si ricava:
Req = R1 + R2 + R3
La resistenza equivalente di più resistenze in serie è data dalla somma delle singole resi-
stenze.

Figura L.10 Collegamento di resistenze: a) in serie; b) in


parallelo.
L-16 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Due o più resistenze sono collegate in parallelo quando sono sottoposte alla stessa diffe-
renza di potenziale (fig. L.10b). Applicando il primo principio di Kirchhoff al nodo A, si può
dire che la corrente totale I è data dalla somma delle correnti che scorrono nelle resistenze
R1, R2 e R3; quindi si avrà:
I = I1 + I2 + I3
Applicando la legge di Ohm alle singole resistenze si ottiene:
VAB
-------- V AB VAB
-------= -------- ++
R1 R2
R--------
VeqAB R3
e dividendo ambo i membri per VAB
si ha: -- --1---= --1---
Req 1- +
---1----si ottiene:
Infine, passando alle conduttanze,
--
Geq = G1 + G2++ G3
R1resistenze
Quindi la conduttanza equivalente di più R2 collegate
R3 in parallelo è uguale alla
somma delle conduttanze delle singole resistenze.
Se le resistenze sono solo due, la resistenza equivalente del parallelo può essere scritta
nella forma seguente:
R1 
R eq R 1 // R 2 =
---------------- = RR12 +
Dalle formule esposte in precedenza, è possibile R 2 le seguenti considerazioni:
trarre
-la resistenza equivalente di più resistori in parallelo è sempre minore della resistenza più pic-

cola tra quelle poste in parallelo;


-se si mettono in parallelo due resistenze di valore uguale R; la resistenza equivalente del

parallelo è pari alla metà di R;


-è possibile che due resistori non siano né in parallelo né in serie. Due connessioni tipiche

sono quelle a stella e a triangolo (fig. L.11a e L.11b); in questo caso è possibile ricorrere a
trasformazioni stella-triangolo e triangolo-stella, per cercare di semplificare la rete in ana-
lisi.

Figura L.11 Connessioni di resistenze: a) a stella; b) a triangolo.


Le formule di trasformazione stella-triangolo sono:
R 1 R 2 + R2 R3 + R1 R3 R1 R2 + R2 R3 + R 1 R 2 + R2 R3 +
Ra = Rb = Rc =
R1 R3 R1 R1 R3 R3
R2
MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO

L-23

Nell’istante t1 la corrente i passa bruscamente da 0 al valore E/R (corrente negativa,


dato che cambia verso rispetto al caso precedente). In seguito la corrente i diminuisce
esponenzial- mente fino ad annullarsi quando il condensatore risulta definitivamente scarico.
Si può osservare che, siccome un condensatore non può subire variazioni istantanee,
subito
dopo una commutazione un condensatore scarico può essere considerato come un corto
cir- cuito (ossia la tensione su di esso è nulla). Esaurito il transitorio, il condensatore può
essere invece considerato come un circuito aperto, dato che la corrente che lo attraversa è
nulla.

3 MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO
1. Generalità sui fenomeni magnetici
In natura esistono minerali di ferro, come la magnetite, che sono in grado di attirare altri
corpi ferrosi e sono comunemente denominati magneti naturali o calamite.
Se si colloca attorno a un magnete naturale della limatura di ferro, questa tende a disporsi
intorno alle estremità, dette poli. Ogni magnete presenta due polarità: una viene detta polo
Nord, perché tende a orientarsi in direzione del polo Nord magnetico della Terra; l’altra è
detta
polo Sud, in quanto si rivolge verso il polo Sud terrestre. Disponendo di due magneti si
può osservare che le estremità con la stessa polarità si respingono, mentre le estremità con
polarità opposta si attraggono.
Spezzando un magnete in elementi sempre più piccoli, si ottengono altrettanti magneti
dotati di entrambi i poli Nord e Sud, mentre non è possibile realizzare un dispositivo magne-
tico dotato di una sola delle due polarità. Questa caratteristica è dovuta alla natura stessa del
fenomeno magnetico, generato a livello atomico, dall’orientamento delle orbite
elettroniche dei singoli atomi che compongono il materiale magnetico (e quindi dal
movimento di cariche elettriche elementari).
Vengono detti magneti permanenti i materiali che, una volta magnetizzati (ossia
sottoposti a un campo magnetico esterno, detto magnetizzante), mantengono questa
proprietà, mentre altri materiali, i magneti temporanei, la perdono non appena sono sottratti
all’azione di un altro
corpo magnetico.
Le forze di natura magnetica non sono in relazione né con la gravitazione né con l’intera-
zione elettrostatica. Vengono definiti, in maniera analoga all’elettrostatica, un campo di forze
magnetiche (ovvero la zone dello spazio in cui si risente l’effetto di forze magnetiche) e le
linee di forza del campo magnetico.
L’intensità del campo magnetico H ha la stessa direzione delle linee di forza del campo
magnetico ed è definita come la forza agente su una massa magnetica unitaria, in un punto.

2. Induzione magnetica e permeabilità


Il fenomeno del magnetismo naturale è dovuto al movimento ordinato di particelle
cariche elementari (gli elettroni) a livello subatomico, il cui effetto magnetico dà una
risultante non nulla (fig. L.18).
Si può comunque verificare sperimentalmente (Oersted), che i fenomeni elettrici e
quelli
magnetici sono strettamente correlati, al punto da arrivare per essi alla definizione
dielettro- magnetismo. In particolare, Oersted, scoprì che una carica elettrica in movimento
produce lo stesso effetto di un magnete naturale.
Una corrente I, essendo un flusso ordinato di cariche elettriche in movimento, produce
quindi un campo magnetico. Se in un conduttore di lunghezza l scorre una corrente I, essa
pro- duce un campo magnetico che interagisce con altri campi magnetici. Il modulo della
forza pro-
dotta F è direttamente proporzionale alla lunghezza l del filo e alla corrente I:
F B I lsin  =
L-24 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.18 Dipolo magnetico e linee di campo magnetico.


La costante di proporzionalità B, detta induzione magnetica, dipende dall’intensità del
campo magnetico esterno H presente in quel punto e dal mezzo in cui è immerso il
conduttore, mentre  è l’angolo che il campo magnetico H forma con la corrente I.
L’unità di misura dell’induzione magnetica è il tesla (T) pari a newton/(metri·ampere). La
direzione della forza F è sempre perpendicolare alla direzione del campo magnetico e alla
cor-
rente e, per individuarne il verso, si utilizza la cosiddetta regola della mano sinistra,
illustrata nella figura L.19.
La legge può essere espressa in forma vettoriale:

F I · l · u =B
dove u è il vettore unitario tangente all’asse del conduttore.

Il legame fra induzione magneticaBB e campo magnetico H è di proporzionalità diretta:
=
dove la costante di proporzionalità  è detta permeabilità magnetica e dipende dal mezzo in
H è l’henry al metro (H/m) e nell’aria, o nel
cui è immerso il conduttore. La sua unità di misura
vuoto, la permeabilità magnetica ha valore costante pari a 0 = 1256 × 106 H/m.
Il campo magnetico H viene misurato in ampere/metro (A/m) anche se è ancora in uso
l’oestered (Oe), unità non appartenente al SI.

Figura L.19 Regola della mano sinistra.


MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO

L-25

Il comportamento dei materiali, quando sono sottoposti a un campo magnetico esterno


varia da elemento a elemento. Dal punto di vista magnetico, è possibile classificare i materiali
tre categorie diverse:
-diamagnetici: si magnetizzano debolmente, con polarità opposta a quella del campo
magne-
tizzante, con il conseguente effetto di diminuire, all’interno del materiale, l’intensità del
campo magnetico complessivo; l’effetto di magnetizzazione è temporaneo; a questa
catego- ria appartengono, per esempio, il rame, l’argento, l’oro, il piombo, l’acqua;
-paramagnetici: si magnetizzano con la stessa polarità del campo magnetizzante (con una
intensità maggiore rispetto ai materiali diamagnetici), aumentando l’intensità del campo
magnetico complessivo. L’effetto di magnetizzazione è temporaneo; a questa categoria
appartengono, per esempio, il platino, lo stagno, l’alluminio, l’ossigeno;
-ferromagnetici: si magnetizzano molto intensamente con la stessa polarità del campo magne-
tizzante, producendo un campo complessivo molto elevato; l’effetto di magnetizzazione è
permanente; a questa categoria appartengono sostanze come il ferro, il nichel e il cobalto.

Nei materiali ferromagnetici la permeabilità non è costante, ma varia con l’induzione


magnetica in maniera non lineare, secondo una curva detta di magnetizzazione. In genere la
permeabilità magnetica del mezzo viene riferita a quella del vuoto; pertanto si ha:
 = r · 0
dove  è la permeabilità assoluta del mezzo, 0 è la permeabilità del vuoto e r è la
permeabi- lità relativa del mezzo, che risulta prossima a 1 (inferiore di qualche milionesimo)
nei materiali diamagnetici, leggermente superiore a 1 in quelli paramagnetici, mentre è molto
grande (da 1000 a 1.000.000) per quelli ferromagnetici.
3.3 Isteresi magnetica
Se si riportano su un grafico (fig. L.20) i valori dei moduli dell’induzione magnetica B in
funzione del campo magnetizzante H per un materiale ferromagnetico si ottiene una caratteri-
stica curva detta a ciclo di isteresi, ossia dove i percorsi ascendenti e discendenti non si
sovrappongono, ma formano appunto un ciclo.
Supponendo che il materiale ferromagnetico non presenti inizialmente una
magnetizzazio-
ne, lo si sottopone a un campo esterno H, crescente a partire da zero. Si ottiene allora il
tratto di curva O-A, detto curva di prima magnetizzazione, non lineare dato che la
permeabilità magnetica dei materiali ferromagnetici non è costante.
Oltre il punto A (punto di saturazione) l’induzione aumenta molto lentamente, con pen-
denza 0 dato che B = B1 + 0 H.

Figura L.20 Ciclo di isteresi.


L-26 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Riportando a zero il campo magnetizzante, l’induzione B nel materiale non segue lo


stesso percorso, bensì il tratto A-C, e risulta un’induzione residua B0 nel materiale, quando
H = 0. Quindi il materiale è diventato un magnete permanente. Per annullare l’induzione
residua B0, bisogna applicare un campo magnetizzante negativo HC, detto campo
coercitivo. Diminuendo ancora il campo magnetizzante si arriva al punto di saturazione
negativa E.
Tornando a far crescere il valore del campo magnetizzante si ottiene il percorso
ascendente E-D-A, diverso dal discendente. Il ciclo così ottenuto risulta simmetrico rispetto
all’origine.
Questi cicli di isteresi sono più inclinati e larghi nei materiali utilizzati come magneti per-
manenti (acciai ad alto tenore di carbonio e leghe speciali come Al-Ni-Co, Cu-Ni-Fe e Cu-
Ni-
Co), mentre sono più stretti e alti nei materiali a elevata permeabilità e bassa forza
coercitiva (ferro dolce e acciai al silicio), utilizzati nelle macchine elettriche. Infatti l’energia
(calore) dis- sipata per effetto dell’isteresi, quando il materiale è sottoposto a una ripetizione
continua del
ciclo, è proporzionale all’area racchiusa nel ciclo.
3.4 Campi magnetici e circuiti
La corrente elettrica produce campi magnetici come i magneti permanenti (fig. L.21).

Figura L.21 Regola della vite destrorsa.


Un filo rettilineo, percorso da una corrente continua I, genera un campo magnetico gia-
cente su un piano perpendicolare, le cui linee di forza sono concentriche al filo stesso e hanno
verso individuabile con la regola della vite destrorsa (il verso delle linee di forza è quello in
cui bisogna girare una vite destrorsa per avvitarla nella direzione e verso della corrente, come
indicato nella figura L.21).
Il modulo del campo magnetico in un punto P, posto a una distanza r, vale:

H0 ----I----= da cui si ricava: B0 = 0 ---


2r
I---- la2r
Questa relazione esprime legge di Biot-Savart. Il campo magnetico è quindi proporzio-
nale alla corrente che percorre il filo e inversamente proporzionale alla distanza r da esso.
Se si considera invece una spira (conduttore elettrico di forma anulare) piana di raggio R,
percorsa da una corrente I, l’induzione magnetica nel centro della spira vale:
0
B0
I
2R
----------=
MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO

L-27

Tale relazione è definita legge di Laplace: il campo magnetico è direttamente proporzio-


nale alla corrente che percorre il conduttore e inversamente proporzionale al raggio R della
spira.
Se si realizza un solenoide, ovvero un conduttore elettrico avvolto a spirale su un
cilindro,
costituito con filo smaltato con verniceB0 =  0- l in modo che le spire possano essere
isolante,
accostate
dove N è ilo numero
sovrapposte, l’induzione magnetica al suo interno
e l lavale:
di spire N--------I-
che costituiscono il solenoide sua lunghezza. Il rapporto N /
l è detto numero di spire per unità di lunghezza. Il solenoide può essere avvolto in aria
oppure su un materiale ferromagnetico(nel qual caso bisogna sostituire  0 con  nella
formula prece- dente). All’interno di un solenoide (idealmente di lunghezza infinita) il
campo magnetico è uniforme, mentre all’esterno è nullo, come si può determinare
sperimentalmente.
Si può verificare sperimentalmente (esperienza di Ampère) che due fili rettilinei, paralleli
e
percorsi da correnti continue, sono soggetti a forze attrattive o repulsive (a seconda che le
cor- renti abbiano verso I1 concorde
I2 o discorde), causate dall’interazioneI1  dei due campi
magnetici generati 2------------
F dalle0I2correnti
d
nei due l=;
fili.inL’intensità di tale forza
forma vettoriale si ha: vale:
F= 0
------------
dove l è la lunghezza dei 2d l udr indica la distanza, I1 e I2 sono le correnti che scorrono
due fili,
nei due fili e ur è definito come il versore da I1 a I2.
5. Flusso d’induzione magnetica
Dato un campo magnetico uniforme di induzione B e una superficie piana S, si definisce
flusso  attraverso detta superficie il prodotto dell’area di tale superficie per la proiezione del
vettore induzione magnetica sulla normale n alla superficie stessa. In pratica = B · S ·
cos, dove è l’angolo fra il vettore B e la normale n . Se la normale alla superficie è
parallela alle linee di forza del campo magnetico, si ha l’espressione:
 =B·S oppure:  =B·n
·S
Nel Sistema Internazionale SI il flusso si misura in weber (Wb), pari a T · m2.
Il flusso complessivo di B attraverso una superficie chiusa è sempre nullo (legge di
Gauss): questo perché, non esistendo poli magnetici isolati, le linee di B sono sempre chiuse
e attraver- sano quindi due volte una superficie chiusa (una volta in uscita e una volta in
entrata).
Nel caso di una superficie aperta, il flusso di B non dipende dalla forma della superficie,
ma dalla linea chiusa l che la delimita; in tal caso si parla di flusso concatenato con la linea
chiusa l.
6.Circuiti magnetici

Facendo un’analogia fra le linee chiuse del campo magnetico nello spazio e le correnti
che scorrono in un circuito, si definisce circuito magnetico la porzione di spazio occupato
dall’insieme di tutte le linee d’induzione generate da un dipolo magnetico (o da un
conduttore percorso da corrente). Il circuito magnetico è in genere costituito da un nucleo di
materiali fer- romagnetici che possono anche essere interrotti da zone in cui vi è presenza di
traferri (fig. L.22).
Se si realizza un avvolgimento (un solenoide) attorno al nucleo ferromagnetico, facendo
passare la corrente in questo avvolgimento, all’interno del materiale ferromagnetico si
produce un campo magnetico molto intenso, tale da poter ritenere trascurabili le linee del
campo esterne al nucleo.
Il flusso magnetico prodotto all’interno di un nucleo, di lunghezza media l e sezione S, da
un avvolgimento di N spire, percorso da una corrente I, vale:
L-28 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.22 Nuclei ferromagnetici.

 B= S = -N--------I-
l -----
S =
-N-------I-f--m----m---
l----
Questa formula definisce la legge di Hopkinson, inS cui fmm = N · I viene detta forza
magnetomotrice ed essendo la causa che ha prodotto il flusso magnetico, rappresenta
nell’ana- logia con i circuiti elettrici la tensione (o forza elettromotrice). Invece:

 -----
S
l---- =
viene definita come riluttanza magnetica e nell’analogia con i circuiti elettrici rappresenta la
resistenza. Il flusso è invece l’equivalente della corrente.
3.7 Legge di Faraday-Neumann-Lenz
Nel 1831 Faraday scoprì un fenomeno di fondamentale importanza per lo studio dell’elet-
tromagnetismo. Avvicinando un magnete permanente a un circuito composto da una bobina
(solenoide) e da un galvanometro (strumento molto sensibile per misurare la corrente), si
rileva una corrente nel circuito che è causata dal moto relativo fra magnete e spira. Questa
corrente viene chiamata corrente indotta e la tensione che la produce è definita forza
elettromotrice in- dotta. Il fenomeno viene denominato induzione elettromagnetica.
L’esperimento venne elabo- rato in forma matematica dal fisico tedesco Neumann per la
quale: “la f.e.m. indotta è direttamente proporzionale alla variazione del flusso di B
concatenato con il circuito e inver- samente proporzionale all’intervallo di tempo in cui
avviene tale variazione”.
Nel caso di un solenoide formato da N spire, il flusso concatenato risulta pari a N volte il
flusso di una singola spira: =N · B · S (supponendo cos  = 1, ossia B
perpendicolare alla superficie delle spire).
Successivamente Lenz migliorò ancora questa formulazione, notando che la f.e.m.
indotta
e tende a opporsi alla variazione di flusso che la genera, cosa di cui si può tener conto
introdu- cendo un segno negativo. Da quie la = –legge detta di Faraday-Neumann-Lenz:

-----t
--
MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO

L-29

3.8 Autoinduzione elettromagnetica e induttanza


Un circuito, percorso da una corrente variabile, produce un flusso magnetico variabile
che risulta concatenato con il circuito stesso che lo ha prodotto. Ne consegue che si genera
nel cir- cuito una tensione che si oppone a queste variazioni di flusso. Questo fenomeno
viene denomi- nato autoinduzione elettromagnetica.
Un solenoide composto da N spire, avvolto attorno a un nucleo ferromagnetico di lun-
ghezza l e percorso da una corrente variabile i, genera un flusso  pari a:

 -N--------
 C S N  N2
i -N-------
i =
 
i= variabile pure il flusso concatenato, =sviluppando
-----------=
Essendo variabile la corrente, risulta
così una f.e.m. autoindotta nel solenoide, per la legge di Faraday-Neumann-Lenz. La f.e.m.
autoin- dotta si oppone alle variazioni di lflusso e quindi alle variazioni della corrente i,
costituendo una reazione della bobina su se stessa.
Il flusso concatenato con il solenoide stesso risulta essere:
Il termine N 2/  può essere considerato costante e viene indicato con il nome di coeffi-
ciente di autoinduzione o induttanza (L) del solenoide. L’induttanza dipende dalla forma e
dalle dimensioni dell’avvolgimento e dalla permeabilità  del mezzo. L’unità di misura è
l’henry (H) pari a Wb/A.
Si può quindi scrivere che la f.e.m. autoindotta eai vale:

eai = – L ---i-
t = dt

d----i
La caduta di tensione ai capi diLuna bobina (detta induttore) è direttamente proporzionale
alla velocità di variazione della corrente nel tempo.
3.9 Induttori in serie e in parallelo
Due o più induttori sono in serie quando sono attraversati dalla stessa corrente. In questo
caso è semplice dimostrare che, essendo tutti sottoposti alle stesse variazioni di corrente, le
f.e.m. generate dai singoli induttori si sommano, quindi l’induttanza equivalente della
serie vale:
Leq = L1 + L2 + …+ Ln
Due o più induttori sono in parallelo quando sono sottoposti dalla stessa tensione. Le
variazioni di corrente generate nei singoli induttori si sommano nei due nodi che le congiun-
gono:
di 1 di2
---- = di------ ------... ------
dt
+ dt
di n +dt +dt
ed essendo tutti sottoposti alle stesse variazioni di tensione si
avrà:
---e----L--
1e-- --
= --
Ln
+ +
L eq
e-- ... L2 e-- +
da cui si ricava, in modo analogo alle
resistenze:
---1----L--
11-- -- Ln
= -- + +
L eq
1-- ... L2 1-- +
L-30 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

3.10 Energia immagazzinata in un campo magnetico


Si supponga di sottoporre un induttore L a una variazione di corrente i, in un intervallo
di tempo t, e si definisca im il valore medio della corrente nel suddetto intervallo di tempo.
La variazione di corrente i causa nell’induttore una f.e.m. autoindotta pari, in valore
assoluto, a e =/t.
L’energia W, erogata dal generatore e immagazzinata dall’induttanza L, è una quantità
sempre positiva, data dal prodotto del valore assoluto della potenza P per l’intervallo di
tempo:
W = Pte =it  =  ------ im t = 
Lmla
Facendo variare =ii  i da 0 finoatm
icorrente un valore massimo pari a I, con incrementi
infini- tesimali, si ottiene tramite il calcolo integrale:
I


W L 0 i di --1--- L =I 2 =
La potenza può essere, invece, positiva o negativa
2 a seconda del segno di  e quindi
del segno di i:

P = ----W----e= i =
t t
Se la potenza è positiva,------
l’induttore haiL= ----
assorbito energia dal generatore e l’ha immagazzi-
nata nel campo magnetico associato;t questa energia immagazzinata può essere ceduta al cir-
cuito in un secondo momento i- eirisulta quindiuna potenza negativa. Poiché l’energia totale
immagazzinata dall’induttore deve essere una quantità non negativa, in quanto esso è un
dispo- sitivo passivo, l’energia ceduta sarà sempre inferiore o al limite uguale a quella
assorbita.
3.11 Mutua induzione
In un circuito (una spira o un solenoide) in cui scorre la corrente i 1, si genera un flusso
magnetico, proporzionale a i1. Se una parte 2 di questo flusso attraversa un secondo
circuito, si può scrivere che 2 = M · i1, dove M è un coefficiente di proporzionalità che
rappresenta il flusso del campo magnetico, attraverso il secondo circuito, per unità di
corrente del primo cir- cuito (fig. L.23).
Considerando invece il caso in cui nel secondo circuito scorre una corrente i2, il primo
cir- cuito sarà attraversato da un flusso 1, proporzionale a i2 secondo la legge 1 = M ·
i2. Il coef-
ficiente M, detto mutua induzione, è lo stesso del caso precedente e dipende dalla forma
dei circuiti e dal loro mutuo orientamento. Se la corrente i1 è variabile, anche il flusso 2 è
e2 = – M
varia- bile, e nel secondo circuito viene indotta unadtf.e.m. e2 data dalla formula:
----- di1

Figura L.23 Circuiti mutuamente accoppiati.


MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO L-
31
Analogamente, nel secondo caso, se la corrente I2 varia, nel primo circuito è indotta una
f.e.m. e1 pari a:
e1 = – M di 2
dt
-----
Questo fenomeno è sfruttato in molte applicazioni pratiche comuni, come nei trasforma-
tori e nei generatori a induzione. Nei trasformatori, per avere la massima efficienza del
dispo- sitivo, gli avvolgimenti vengono realizzati su un nucleo di materiale ferromagnetico
che ha lo scopo di convogliare il flusso da un avvolgimento all’altro, limitando i flussi
dispersi.
La mutua induzione può avere segno positivo oppure negativo, a seconda che i flussi
1e
 2 siano concordi o discordi. Nella simbologia utilizzata, per evitare di dover riprodurre
esat- tamente la forma del nucleo, degli avvolgimenti e il senso in cui sono avvolti, si
contrassegna ciascun avvolgimento con un punto. Tali punti indicano che il coefficiente M è
positivo quando le correnti entrano (o escono) entrambe dal terminale contrassegnato (fig.
L.24).

Figura L.24 Simbolo di mutua induzione.


3.12 Elettromagneti
Un elettromagnete è essenzialmente costituito da un nucleo di materiale ferromagnetico
con una bobina di eccitazione e da una parte mobile (ancora), che viene attirata quando
l’elet- tromagnete è eccitato (fig. L.25). Il nucleo magnetico è in genere realizzato con ferro
dolce o acciai al silicio, che presentano cicli di isteresi stretti e una bassa induzione residua,
in modo da evitare che l’ancora rimanga incollata al nucleo quando termina l’effetto della
corrente di eccitazione. Se la corrente produce nel traferro un’induzione B, il modulo della
forza esercitata da ciascun polo del nucleo di sezione S sull’ancora risulta pari a:

1 B2
-- 0
F  2S
L’elettromagnete trova molte----------
applicazioni pratiche: dalle gru per il sollevamento di
--attuatori elettromeccanici alle suonerie.
rottami metallici ai relè, dagli

Figura L.25 Esempio di elettromagnete.


L-32 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

3.13 Correnti di Foucault


Quando un nucleo magnetico massiccio è sottoposto a un flusso magnetico variabile,
viene indotta internamente al nucleo stesso una forza elettromotrice che mette in moto gli
elettroni liberi nel materiale, causando correnti parassite dette correnti di Foucault.
Tali correnti hanno forma di vortici nel piano perpendicolare al flusso magnetico e produ-
cono una dissipazione di energia sotto forma di calore per effetto Joule (fig. L.26a).
Le correnti di Foucault risultano particolarmente nocive nelle macchine elettriche, dato
che producono una perdita di energia elettrica e un surriscaldamento della macchina stessa.
Per
questo motivo si cerca di ridurne la presenza aumentando la resistività del nucleo con
l’uso di leghe particolari e riducendo lo spessore, realizzando i nuclei con pacchetti di
lamierini molto sottili, isolati fra loro con vernici o trattamenti particolari (fig. L.26b).

Figura L.26 Correnti di Foucault: a) in nucleo massiccio; b) in nucleo a pacco di lamierini.


In alcuni casi, invece, gli effetti causati dalle correnti di Foucault sono utilizzati attiva-
mente, come in alcuni tipi di forni (i forni a induzione sfruttano i campi magnetici per
produrre riscaldamenti molto localizzati di materiali metallici), o in particolari dispositivi
frenanti, sfruttando l’interazione con il campo magnetico esterno.
CIRCUITI IN CORRENTE ALTERNATA

L-33

La tabella L.6 permette di ricavare il valore di  r per diversi materiali in funzione del-
l’induzione magnetica B.

Tabella L.6 Valori di r di diversi materiali in funzione dell’induzione magnetica B

4 CIRCUITI IN CORRENTE ALTERNATA


1. Generalità sui segnali sinusoidali
Si definiscono alternate le correnti e le tensioni che variano sinusoidalmente nel tempo
(fig. L.28). Se, per esempio, si considera un segnale in tensione v(t) variabile nel tempo e si
fissa arbitrariamente un istante iniziale (t = 0), la sua espressione analitica è:
v(t) = VP sin ( t + )
L-34 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

dove:
-V P rappresenta l’ampiezza o valore di picco o valore massimo;
- = 2  f viene detta pulsazione del segnale sinusoidale ed è espressa in rad/s;
-f è la frequenza del segnale, pari all’inverso del periodo (1/T);
-t è la variabile indipendente della funzione, ovvero il tempo;
-  è la fase iniziale (o angolo di fase) del segnale.

Figura L.28 Segnale sinusoidale con la fase iniziale nulla.


Il valore di picco, la frequenza e la fase determinano, in modo univoco, un segnale
sinusoi- dale.
Spesso si associa la grandezza che varia sinusoidalmente nel tempo con la proiezione su
un asse verticale di un vettore, inizialmente posto con un angolo  rispetto all’asse
orizzontale, e rotante in senso antiorario con una velocità angolare  come rappresentato
nella figura L.29.

Figura L.29 Equivalenza fra un segnale sinusoidale (con = 0) e un vettore rotante.


Il vettore rotante, tracciato all’istante iniziale, viene assunto come una rappresentazione
convenzionale della grandezza alternata in esame. La rappresentazione vettoriale risulta
molto comoda, perché permette il calcolo di operazioni su grandezze sinusoidali tramite la
composi- zione vettoriale.
Un’ulteriore semplificazione si ottiene con la rappresentazione dei vettori mediante
nume- ri complessi (notazione simbolica): un vettore A viene rappresentato nel piano
complesso (pia-
no di Gauss, come nella figura L.30) attraverso le due componenti x e y, e può, quindi,
essere espresso con il numero complesso (x + j y).
Utilizzando, invece, la rappresentazione esponenziale dei numeri complessi si ha che:
A=ej
dove si ricavano 2 + del vettore A:
 il modulo
x=
y2
CIRCUITI IN CORRENTE L-35
ALTERNATA
e la fase del vettore A:

 = atan --y---

x
Le operazioni con grandezze sinusoidali possono, quindi, essere effettuate utilizzando le
regole dell’algebra dei numeri complessi.
La notazione vettoriale e quella simbolica non forniscono, però, alcuna informazione
sulla pulsazione e, quindi, sulla frequenza del segnale sinusoidale: esse permettono infatti di
espri- mere solo l’ampiezza e la fase iniziale. Risulta inoltre evidente che le operazioni
possono
essere effettuate tramite queste notazioni solo con segnali che abbiano la stessa
pulsazione (o frequenza).

Figura L.30 Rappresentazione di un vettore nel piano complesso.


4.2 Valore medio e valore efficace
Il valore medio di una grandezza variabile nel tempo è definito come l’area sottesa alla
curva che ne rappresenta l’andamento temporale, diviso per l’intervallo di tempo preso in
con- siderazione.
Per segnali periodici, l’intervallo considerato è proprio il periodo T del segnale.
L’area sottesa alla curva deve essere presa con il segno più per valori positivi della fun-
zione e con il segno meno per valori negativi della curva. Utilizzando il calcolo integrale si
ottiene:
T
m 1-
V =- T v t
 0
dt
Nel caso di segnali sinusoidali, essendo il semiperiodo positivo simmetrico rispetto al
semiperiodo negativo, il valore medio risulta nullo.
Più utile è invece definire il concetto di valore efficace, che è relativo alla potenza
dissipata
da una corrente alternata su un resistore: si definisce valore efficace di una corrente
alternata il valore che dovrebbe assumere una corrente continua per produrre, sulla stessa
resistenza, gli stessi effetti termici della corrente alternata in esame. Si può dimostrare che il
valore efficace di un segnale periodico è dato dallaT seguente relazione:
-1-
Ieff = T0
i 
Nella letteratura tecnica il valore efficace è anche 2indicato
d come valore RMS (Root Mean
Square), in quanto si tratta della radice quadratat del valore medio della funzione al quadrato.
Nel caso di segnali alternati sinusoidali, il valore efficace vale:
Ip
Ieff ------ Ip 0
70=7 2
L-36 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

In generale, per indicare una grandezza alternata si fa riferimento al valore efficace più
che al valore di picco: per esempio, la tensione di rete è comunemente indicata con 220 V,
facendo riferimento proprio alla tensione efficace, mentre la tensione di picco vale circa 310
V.
Nella rappresentazione vettoriale delle grandezze alternate, è consuetudine utilizzare il
valore efficace come modulo del vettore rotante anziché il valore di picco.
Sostanzialmente non cambia nulla, in quanto basta moltiplicare per il fattore di scala (pari a
2 ).
Il numero complesso V Veff =e j , che rappresenta il
vettore rotante tracciato nel- l’istante iniziale, viene chiamato vettore di fase o,
più sovente, fasore ed è molto utilizzato in elettrotecnica per la risoluzione di circuiti in
alternata.
4.3 Circuiti in alternata
Quando si applica una sorgente sinusoidale con pulsazione  a un circuito costituito da
componenti lineari passivi resistori, induttori, condensatori, esaurito il transitorio tutte le
cor- renti e le tensioni rilevabili nel circuito sono ancora sinusoidali con la stessa pulsazione
.
Variano invece le ampiezze dei segnali (o meglio il valore efficace) e la relazione di fase
tra un segnale e l’altro.
Il regime stazionario in alternata può quindi essere studiato utilizzando solamente i
fasori,
che esprimono, con una formulazione matematica compatta, proprio il valore efficace e la
fase iniziale dei segnali sinusoidali.
Circuiti puramente resistivi
Se a un circuito, costituito solamente da resistori, si applica una tensione sinusoidale V ,
la corrente che scorre nel circuito è sinusoidale ed è in fase con la tensione V . Considerando
i valori istantanei di corrente e tensione, si ha, per la legge di Ohm, che i = v/R e, dato che i
fasori V e I sono in fase, si può scrivere vettorialmente (fig. L.31a):

I V-- =
R

Figura L.31 Applicazione di sorgente sinusoidale al circuito con componenti lineari passivi:
a) resistore; b) induttore; c) condensatore.
CIRCUITI IN CORRENTE ALTERNATA

L-37

Circuiti puramente induttivi


Se si sottopone un induttore a un segnale di corrente sinusoidale i = IP sin t, il
fenomeno dell’autoinduzione dovuto alla variazione della corrente, e quindi del flusso
magnetico, causa ai capi dell’induttore una tensione autoindotta pari a:
vL = L dt-d---i = L Ip  tcos p =  2
Quindi il rapporto Lt
sinfra -- 
I+ efficaci
i valori di tensione e corrente è Veff =  · L · Ieff e la
tensione è in anticipo di 90° rispetto alla corrente (poiché i vettori ruotano in senso
antiorario e la fase iniziale della corrente è nulla, mentre il vettore rotante della tensione si
trova in una posizione iniziale di 90°). Queste due caratteristiche possono essere espresse, in
modo formale, con i fasori:
j--
V=L I e  jL2 =I j X L I = 

L’espressione XL =  · L, chiamata reattanza induttiva, si misura in  e rappresenta la
resistenza che si oppone alla variazione della corrente nell’induttore, per effetto
dell’autoindu- zione.
Circuiti puramente capacitivi
Applicando a un condensatore una tensione sinusoidale v = VP · sin t, il valore
istantaneo della corrente si può ricavare dalla seguente relazione:

iC = C dtd---v- = Cp V tco=s  p sin  2 t


 +Cè --
Quindi il rapporto fra i valori efficaci di tensione e corrente · CV · Veff e la
 =
Ieff
corrente è in anticipo di 90° rispetto alla tensione. Si esprime la relazione in modo formale
con i fasori: j

I=C V e  jC2--=V  
quindi si ha:
V = --------I-------- j–= -----I----- j–X C I=
jC  C
L’espressione X C =1/C, definita reattanza capacitiva, si misura in  e rappresenta
l’inerzia che si oppone alla variazione della tensione connessa al processo di carica e scarica
del condensatore.
4.4 Legge di Ohm in alternata e impedenza
Si può estendere la legge di Ohm al regime sinusoidale, con le seguenti avvertenze:
-la legge deve essere così modificata:

V Z I=
in cui al posto di tensioni e correnti continue compaiono i fasori di tensione e corrente e la
resistenza viene sostituita dall’impedenza Z (che è un numero complesso);
l’impedenza Z Z
dei
R tre componenti
L passivi principali (resistenza, induttore e condensatore)
jL =Z C = -------1--------- j–=
-

R=Z vale: -----1------


jC

C
L-38 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

- le regole per il calcolo dell’impedenza equivalente di serie e parallelo di più impedenze


sono uguali a quelle delle resistenze, tenendo però conto che si tratta di operazioni
effettuate con numeri complessi invece che reali.

Risultano quindi ancora validi i teoremi dell’elettrotecnica analizzati in corrente continua


(principi di Kirchhoff, partitori di tensione e corrente, teorema di Thevenin, teorema di
Norton, e così via), ricordando però che in alternata si lavora con dei vettori (e quindi con la
loro rap- presentazione tramite i numeri complessi) al posto delle quantità scalari utilizzate in
continua.
L’impedenza Z, che si misura in ohm, è un numero complesso e quindi risulta composto
da una parte reale e una immaginaria:
Z=R+jX
dove la parte reale è detta resistenza (come in continua), mentre la parte immaginaria è
detta reattanza. L’inverso dell’impedenza è detta ammettenza Y = 1/Z ed è ancora composta
da una parte reale (conduttanza) e da una parte immaginaria (suscettanza).

Figura L.32 Circuito RLC serie.


Se si considera, per esempio, il circuito RLC serie rappresentato nella figura L.32, per cui
si può ricavare, applicando il secondo principio di Kirchhoff alla maglia base, la relazione
fasoriale:
V = VR + V L + VC

da cui si ottiene:

V = R Ij  L I -----
j +  ----
 +R j–
I = Z I
dove: 1------- I+ = C 1------ 
C

L
Z = R +RjL = jX+
 –C-----
è l’impedenza totale della rete RLC serie, che tiene conto sia degli effetti ohmici, sia di quelli
reattivi dei componenti che1------  nel caso che  L > 1/ C, la reattanza è positiva
la compongono:
e prevalgono gli effetti induttivi nel circuito (tensione in anticipo sulla corrente); viceversa,
si ha una reattanza negativa (prevalenza dell’effetto capacitivo: tensione in ritardo rispetto
alla cor- rente).
Nel caso particolare  L = 1/ C (detto risonanza), si ha che l’impedenza raggiunge il
suo
valore minimo e il circuito si comporta in modo puramente resistivo, ossia i versori di
tensione e corrente sono in fase.
4.5 Potenza nei circuiti in corrente alternata
La potenza è data dal prodotto fra tensione e corrente, istante per istante:
p (t) = v (t) · i (t)
e risulta quindi una grandezza variabile nel tempo.
CIRCUITI IN CORRENTE ALTERNATA

L-39

Supponendo che la tensione applicata a un dato circuito sia sfasata di un angolo 


rispetto alla corrente circolante in esso, ossia:
v (t) = VP · sin (t + )e i (t) = I P · sin t
e ricordando che:
2 sin  · sin  = cos ( – ) – cos ( + )
si ha che:
p t =V t+ p sinItsin= 2t+ – 
p 2
si  Ip
cos
-------------
Utilizzando di tensioni e correntiVp
cos
i valori efficaci
ha:
Vp  I p Vp 
-------------- =
Ip 2 22
--------------V= eff I
eff
infine si ottiene:
p t V= eff Ieff c–osVeff Ieff 2t+ 
cos
In regime sinusoidale, la potenza è costituita da un termine costante (che corrisponde al
valore medio della potenza istantanea) e da un termine che varia sinusoidalmente con fre-
quenza doppia rispetto alla frequenza dei segnali applicati al circuito.

Il termine costante corrisponde alla potenza effettivamente dissipata dal circuito e viene
detto potenza attiva P. Essa è composta dal prodotto dei valori efficaci di tensione e
corrente e del fattore cos , detto fattore di potenza.
Il fattore di potenza è unitario quando tensione e corrente sono in fase (carico
resistivo),
mentre risulta nullo quando la tensione è in anticipo o in ritardo sulla corrente di 90°
(carico puramente reattivo). Infatti gli elementi reattivi (come induttori e condensatori) non
dissipano potenza, ma immagazzinano temporaneamente l’energia nel campo elettrico o
magnetico, per restituirla in istanti successivi al circuito.
Il termine che varia sinusoidalmente tiene invece conto di questi scambi di energia che
avvengono fra il generatore e i componenti reattivi del circuito: in alcuni momenti c’è un tra-
sferimento di energia dal generatore verso il circuito (e quindi la potenza istantanea è
maggiore di zero), mentre in altri, tale energia, accumulata nei componenti reattivi, viene
restituita al generatore (la potenza istantanea è minore di zero).
Questi scambi di energia fra generatore e circuito sono legati al termine Veff Ieff sin  ,
che viene detto potenza reattiva Q. La sua unità di misura, pur essendo sempre il watt, viene
indi- cata come VAR (volt-ampere reattivi).
Si definisce infine potenza apparente A il prodotto dei valori efficaci di tensione e cor-
rente:

A = Veff Ieff
e si esprime in VA (volt-ampere). Essa tiene conto sia della potenza “palleggiata” fra genera-
tore e circuito, sia di quella
=QAP 2+
dissipata dal circuito e quindi=rappresenta
csoinsAP; la potenza totale
erogata dal generatore al circuito, anche se non tutta questa potenza viene utilizzata.
facilmente dimostrabili
Si possono scrivere considerando il cosiddetto
le seguenti relazioni triangolo
fra potenza delle
attiva
Q2 Q(fig.
potenze
P, reattiva e apparente A:
L.33).
L-40 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.33 Triangolo delle potenze.


4.6 Rifasamento
Quando in un impianto sono presenti carichi induttivi (come motori, forni a induzione,
elettromagneti, lampade a scarica ecc.), la potenza reattiva scambiata non viene misurata dai
contatori, ma deve essere presa in considerazione per il dimensionamento della rete di
distribu- zione. Infatti la corrente assorbita dall’impianto di un utente è proporzionale al
fattore sin  , e le perdite di energia causate, per effetto Joule, sulle linee di collegamento
sono proporzionali al quadrato della corrente.
Per questo motivo risulta utile ridurre l’angolo di sfasamento  fra tensione e corrente, in
modo da portare sin  prossimo a zero, mentre il fattore di potenza cos  raggiunge
valori prossimi a uno, come per i carichi puramente resistivi. Questa operazione viene
denominata rifasamento e viene effettuata ponendo in parallelo al carico un condensatore (o
una batteria di condensatori) di opportuna capacità. In questo modo la potenza attiva non
cambia, ma la potenza reattiva capacitiva del condensatore compensa quella induttiva del
carico.
Ogni utente può variare nel tempo il carico induttivo da alimentare, portando a una varia-
zione del fattore di potenza cos  e quindi della potenza reattiva impegnata per
l’impianto di distribuzione. L’azienda erogatrice di energia impone un limite minimo sotto
cui non deve scendere il fattore di potenza di ogni utente (in genere il valore limite è 0,9).
Riprendendo le relazioni fra potenza attiva P, reattiva Q e apparente A, si può scrivere
che:
Q/P = tan  e quindi: Q = P · tan 
Se si indica con Q1 la potenza reattiva del carico, con angolo di sfasamento  1 e con
Q2 la potenza reattiva dopo il rifasamento, che ha riportato l’angolo di sfasamento al valore
 2, si ha che:
Q1 = P · tan 1 e Q2 = P · tan 2
La differenza è la potenza reattiva assorbita
P tandal condensatore
1 –tan 2 QC = P · [tg  1tg  2] e
C =
tenendo conto che QC = V 2/XC , si può ricavare:
 2
V
Esempio 
Dato un utilizzatore che assorbe 1 kW da una presa di alimentazione a 220 V, 50 Hz e con
fattore di potenza cos  1 = 0,5, calcolare la capacità da porre in parallelo all’utilizzatore per
rifasare il sistema a cos  2 = 0,8.
cos 1 = 0,5  1 = 60° tan 1 = 1,732
cos 2 = 0,8 2= tan 2 = 0,750
36,87°
P tan 1 –tan
C= = 1000 1 7320 = 64 6 
2  2 314 
75– F 
V 2202

SISTEMI TRIFASE

L-41

5 SISTEMI TRIFASE
Generalità sui sistemi trifase
1.

I dispositivi analizzati finora in alternata (generatori e utilizzatori) sono caratterizzati


dall’avere due soli morsetti, indicati in genere con i nomi di fase e neutro. Tali dispositivi
sono detti monofase.
In ambito industriale, invece, sono molto utilizzati i cosiddetti circuiti trifase, che permet-
tono una migliore efficienza degli impianti elettrici e delle macchine elettriche a essi
collegati,
oltre a rendere più facile il trasporto dell’energia elettrica e la conversione della corrente
alter- nata in continua.
I dispositivi trifase presentano tre morsetti che individuano tre fasi distinte ed è
presente,
talvolta, anche un quarto morsetto per il neutro. I conduttori collegati a questi morsetti
sono detti conduttori di linea.
Un generatore trifase è costituito da un’unica macchina elettrica che raggruppa tre
avvolgi-
menti identici fra loro, ma sfasati di 120°. Esso può essere schematizzato come tre
generatori monofase collegati fra loro a stella, così da produrre tre tensioni sinusoidali con la
stessa fre- quenza e sfasamento di 120°. Se le tensioni hanno anche lo stesso valore efficace,
il sistema è detto simmetrico (fig. L.34a). Le tre forze elettromotrici vengono
convenzionalmente indicate con le lettere R, S e T.
È facilmente dimostrabile che, se il sistema è simmetrico, la somma vettoriale delle f.e.m.
dei tre generatori è uguale a zero. Se il generatore trifase alimenta un carico costituito da
tre impedenze di valore uguale e connesse a stella, il sistema viene detto equilibrato.

Figura L.34 a) Generatore trifase; b) tensioni stellate e concatenate.


Per poter effettuare il calcolo di correnti e tensioni nei circuiti trifase, è importante
definire correttamente le correnti e le tensioni in esame. Vengono dette tensioni stellate le
tensioni che si hanno fra il centro della stella e ognuno dei vertici. Le tensioni presenti
invece fra due vertici sono dette tensioni concatenate o di linea.
Se il sistema è simmetrico, i tre vettori che individuano le tensioni stellate possono essere
espressi con le seguenti espressioni:

E1 E 0 E=
= 2
0 5E–j 0
3 cosjE 3–--- 866E–
E2 = E 120– = E
E3 = E240–E = -- si=n
4--cosjE –- 0 5–E j 0
--2---  886E+
4-si=n
3 3
L-42 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Le tensioni concatenate si possono ricavare dalla differenza fra le due tensioni di fase che
ne costituiscono gli estremi, come rappresentato nella figura L.34b:
V12 = E1 – E2 = 1 5j 0 =
886+ 30E3E
V23 = E2 –jE– 3 1=732E3E = 270
tre31
Quindi le V = E3concatenate
tensioni – E1 = –1formano
5j 0 ancora= una terna simmetrica, sfasata di 30° in
886+
anticipo rispetto a quella delle tensioni stellate (fig. L.34b).
150E3E
Normalmente la rete di distribuzione è del tipo a stella con neutro (detta anche a quattro
fili), permettendo così l’utilizzo delle tensioni stellate (220 V in Italia) per utenze domestiche
di piccola potenza e le tensioni concatenate per uso industriale (380 V = 3 × 220 V).
5.2 Collegamenti a stella e a triangolo
Le connessioni che si possono effettuare nei dispositivi trifase sono essenzialmente
due:
connessione a stella e connessione a triangolo.
Connessione a stella
Nella connessione a stella i dispositivi hanno un nodo in comune detto centro stella,
men- tre l’altro estremo di ogni elemento è collegato a una fase (fig. L.35a). Quando i
collegamenti fra generatore e carico prevedono quattro connessioni (le tre fasi più il centro
stella), si parla di connessione a stella con filo neutro e in questo caso, le tre fasi sono
indipendenti, ossia pos- sono essere pensate come tre circuiti monofase indipendenti e la
corrente che scorre nel neutro è la somma delle tre correnti di ritorno delle singole fasi. Se il
sistema è simmetrico ed equili- brato, è facile verificare che la corrente che scorre nel filo
neutro è nulla, quindi questo colle- gamento può essere tolto senza influire sul sistema.

Figura L.35 Collegamenti: a) a stella; b) a triangolo.


Connessione a triangolo
Nella connessione a triangolo ogni elemento ha i suoi estremi collegati a due fasi
adiacen- ti, costituendo così una maglia a triangolo, dai cui vertici si diramano le fasi (fig.
L.35b). Il col- legamento a triangolo dei generatori, per evitare una forte circolazione di
corrente nella maglia che forma il triangolo, viene adottato solo quando il sistema è
simmetrico ed equilibrato.
Il carico è quindi alimentato da un sistema a tre fili (in questo caso non c’è il
collegamento di neutro del centro stella) e ai capi di ogni impedenza è presente la tensione
concatenata. Le correnti che percorrono i conduttori di linea (dette correnti di linea) sono in
questo caso diverse dalle correnti di fase, ovvero le correnti che percorrono le impedenze del
carico (fig. L.36). Queste ultime valgono:

I 12 =I V – 12 23 =I – V 31 = –V
Z1
23 Z3
31
------- Z2la convenzione
con i segni negativi per rispettare
-------degli -------
utilizzatori.
SISTEMI L-43
TRIFASE
Scrivendo le equazioni ai nodi si ottiene:
I 1 =I I 12 – I 31 2
=I I 23 – I12
3 = I 31 –
I 23

Figura L.36 Correnti di linea e di fase.


Nel caso di carico equilibrato (Z1 = Z2 = Z3), le correnti di fase formano una terna
simme- trica e con un procedimento analogo a quello già visto per le tensioni concatenate si
può verifi- care che anche le correnti di linea formano una terna simmetrica e il loro modulo
è pari al modulo delle correnti di fase moltiplicato per 3 .
5.3 Potenza elettrica nei sistemi trifase
In un sistema trifase la potenza istantanea assorbita è pari alla somma algebrica delle
potenze istantanee di ciascuna fase; se il sistema è a quattro fili si ha:
p = v1 vi1 + 2 vi2 + 3 i3v++ n
 in
dove v1, v2, v3 e vn sono le tensioni istantanee dei vari conduttori del sistema rispetto a
un qual- siasi punto assunto come riferimento. Il valore della potenza complessiva p è
indipendente dal punto di riferimento scelto; infatti, spostando quest’ultimo cambiano i
singoli addendi che costituiscono la potenza, ma la somma rimane invariata.
Molto spesso il punto di riferimento scelto coincide con uno dei conduttori di linea o con
il neutro, in modo da eliminare un termine nella somma complessiva.
Si definiscono, come nei sistemi monofase, le potenze attiva, reattiva e apparente. La
potenza attiva è data dalla somma:
P = V1 I1 cos1 +V 2 I2 cos2 +V 3 I3 cos3 +V+
n In
cosn 
dove V rappresenta il valore efficace della tensione per ogni filo, I è il valore efficace della
cor- rente in ogni filo e  indica il relativo sfasamento fra tensione e corrente.
La potenza reattiva è data dalla somma:

Q = V1 I1 sin1 +V 2 I2 sin2 +V 3 I3 sin3 +... + V


n In sinn 
e la potenza apparente è definita come:

S= P2 + Q2
Con il carico equilibrato la potenza istantanea complessiva è costante nel tempo e coinci-
dente con la potenza P attiva. Infatti le tre correnti formano una terna equilibrata, sfasata
dell’angolo  rispetto alla
V1terna
= V2delle
= V3tensioni
= E stellate.
e Essendo
I1 = I2quindi:
= I3 = I
risulta:
P3E Icos= e Q3E
Isin=
L-44 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Si può facilmente dimostrare che, se il carico equilibrato costituito da tre impedenze


uguali viene collegato a triangolo invece che a stella, le potenze attive assorbite sono legate
dalla rela- zione: Pt = 3Ps, dove Pt è la potenza attiva nel caso di carico collegato a
triangolo, mentre Ps è la potenza attiva con lo stesso carico collegato a stella.
Se il carico è squilibrato, la potenza istantanea complessiva varia nel tempo fra un valore
minimo e uno massimo; bisogna quindi utilizzare le formule generali riportate sopra per la
potenza attiva, reattiva e apparente. In questo caso si definisce un fattore di potenza
convenzio- nale fp, che non coincide con nessuno dei cos i delle impedenze di carico:

fp cos =
S
5.4 Rifasamento nei sistemi trifase
P-- =
Come già visto nei sistemi monofase, è conveniente effettuare il rifasamento quando la
potenza reattiva è troppo rilevante.
Il rifasamento può essere effettuato con una batteria di condensatori collegati a triangolo,
che riportano il fattore di potenza dal valore iniziale cos 1 al valore cos 2 dopo il rifasa-
mento. La potenza capacitiva necessaria per il rifasamento è:

Qc = Q1 –PQ2 = tan 1 –tan


2 
Qc
e si ottiene quindi: Ct =
3 c2
Se i condensatori di rifasamento vengonoVinvece
 collegati a stella, a parità di potenza
reat- tiva della batteria, occorre per ogni fase una capacità 3 volte maggiore, ossia:
C s Qc
 c2
-------------=
V
Esempio 
Dato un utilizzatore che assorbe 25 A da un’alimentazione trifase a 220 V, 50 Hz e con
fat- tore di potenza cos 1 = 0,4, calcolare le tre capacità collegate a triangolo per rifasare il
sistema a cos 2 = 0,8.
cos 1 = 1 = 66,42° tan 1 =
0,4 2,29
2 = 36,87°
cos 2 = tan 2 =
La potenza attiva assorbita dall’utilizzatore vale:
0,8 0,75
P = 3 E · I cos 1 = 3 × 220 × 25 × 0,4 = 6600 [W]

La potenza reattiva della batteria di condensatori vale:

Qc = P · (tan1tan )=2 6600 × (2,29  0,75) = 10


164 [VAR]

Qda
c cui si ricava:
3 c2 3 = ---------------1---
Ct = -------------------- 2

0----1---6---4---------------
V  250220 223[F]
STRUMENTI DI MISURA

L-45

6 STRUMENTI DI MISURA
Generalità sugli strumenti di misura
1.

I parametri fondamentali che caratterizzano le proprietà di uno strumento di misura sono:


-portata: è il valore massimo della grandezza che si può misurare con quello strumento; in
genere gli strumenti sono provvisti di diverse scale di lettura relative a più portate, che pos-
sono essere selezionate a seconda del valore da misurare in modo da evitare letture a inizio
scala, che comportano un errore relativo più elevato;
-precisione: indica lo scostamento massimo fra il valore misurato e il valore vero della gran-
dezza in esame; in genere viene riferita al valore di fondo scala in uso (classe di precisione
dello strumento C) con la seguente relazione: C = (Xm – Xv)/Xfs, dove Xm è il valore
misu- rato, Xv è il valore vero e Xfs è il valore il valore di fondo scala adottato per la
misura;
-sensibilità: rappresenta il rapporto fra la variazione dell’indicazione riportata dallo
strumento e la relativa variazione della grandezza in misura;
-risoluzione: è la minima variazione della grandezza in misura che produce una variazione
rilevabile sullo strumento;
-stabilità: è legata alla capacità dello strumento di mantenere costanti le proprie caratteristi-
che al variare delle condizioni ambientali e del tempo;
-gamma di frequenza: è l’intervallo di frequenza in cui può variare la grandezza di ingresso,
entro il quale lo strumento assicura indicazioni attendibili.

Figura L.37 Strumento di tipo magnetoelettrico: 1) magnete permanente; 2) espansioni pola-


ri; 3) nucleo di ferro dolce; 4) bobina mobile; 5) molla antagonista.
Gli strumenti sono classificati secondo la natura dei fenomeni che contraddistinguono il
loro funzionamento.
-Strumenti magnetoelettrici (fig. L.37): sono costituiti da una bobina (equipaggio mobile),
opportunamente sospesa e libera di ruotare fra le espansioni polari di un magnete perma-
nente. Se la bobina è percorsa da corrente tende a ruotare; dato che l'indice devia di un
angolo proporzionale alla corrente, la scala dello strumento è uniforme. Tali strumenti sono
utilizzati solo per correnti continue, in quanto per grandezze variabili forniscono un’indica-
zione proporzionale al valore medio del segnale.
L-46 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

-Strumenti elettromagnetici (fig. L.38a): sono costituiti da una bobina fissa, nel cui interno
vengono poste due lamine ferromagnetiche (in ferro dolce) A e B che subiscono una
magne- tizzazione nel senso del campo. Fissando B alla carcassa dello strumento e
rendendo A mobile, i poli omonimi si respingono, facendo ruotare la lamina mobile A. La
deviazione angolare dell’indice è una funzione quadratica della corrente che percorre la
bobina; quindi la scala di questi strumenti è di tipo quadratico. Gli strumenti realizzati su
questo principio funzionano sia in corrente continua sia in corrente alternata.
-Strumenti elettrodinamici: sono costituiti da due bobine: una fissa e una mobile (fig. L.38b).
Quando le due bobine sono percorse da corrente (If e Im) la deviazione angolare dell’indice
è
proporzionale al prodotto (If · Im), sia per correnti continue che alternate. In genere, su
questo principio, si realizzano strumenti da laboratorio di notevole precisione. La loro
scala, per un artificio costruttivo, è pressoché uniforme sia in corrente continua sia
alternata.
-Strumenti a induzione: si basano sui fenomeni di induzione elettromagnetica; quindi funzio-
nano solo con correnti alternate. Vengono quasi esclusivamente impiegati come contatori di
energia (ossia come integratori, in quanto fanno il prodotto della grandezza in esame per il
tempo).
-Strumenti termici: si basano sull’effetto termico del passaggio di corrente attraverso un ele-
mento resistivo. Possono essere di due tipi: strumenti a filo caldo, nei quali la dilatazione di
un filo metallico riscaldato dal passaggio di corrente causa lo spostamento dell’indice;
stru- menti a termocoppia, nei quali il calore prodotto dall’elemento riscaldatore è
convertito tra- mite una termocoppia in una f.e.m., che viene misurata con un voltmetro.
-Strumenti numerici o digitali: danno direttamente in cifre decimali il valore della grandezza
da misurare e consentono una lettura più rapida e semplice degli strumenti analogici.
-Oscilloscopi e dispositivi con tubi a raggi catodici: consentono non solo di misurare i para-
metri di un segnale periodico, ma di visualizzarne anche la forma d’onda. Altri strumenti uti-
lizzano tubi a raggi catodici, per la possibilità di descrivere caratteristiche della grandezza
in misura in modo particolareggiato, come i tracciatori di curve dei dispositivi discreti e
l’ana- lizzatore di spettro.

Figura L.38 Schema di uno strumento: a) elettromagnetico; b) elettrodinamico.


6.2 Misure di corrente
Gli strumenti misuratori di corrente sono detti amperometri e devono essere inseriti in
serie nel circuito in modo da essere attraversati da tutta la corrente da misurare. È importante
che presentino la minore resistenza possibile, per perturbare in modo trascurabile il circuito
in cui vengono inseriti (fig. L.39).
STRUMENTI DI L-47
MISURA

Figura L.39 Inserzione in serie di un amperometro.


Per le misure di correnti continue si utilizzano in genere strumenti magnetoelettrici. Dato
che questi strumenti hanno portate limitate a qualche decina di mA, per estendere il campo di
misura si utilizzano resistenze di basso valore in parallelo allo strumento, dette derivatori o
shunt. In questo modo la corrente Im che scorre nello strumento è solo la partizione della cor-
rente totale I fra la resistenza interna r della bobina e la resistenza RS di shunt.

RS r+
I = I m RS da cui si ricava: Im = I
RS RS
-----------r+ ------------
Nel caso di correnti molto piccole, da 1010 A a 107 A, gli strumenti di misura sono
detti galvanometri e-impiegano equipaggi mobili dal peso molto ridotto, con sospensioni a
filo e indici ottici; questi strumenti non sono però facilmente trasportabili.
Per le misure in corrente alternata possono essere utilizzati strumenti elettromagnetici, a
raddrizzatore o a termocoppia.
Gli strumenti elettromagnetici danno un’indicazione che è funzione del valore medio
qua- dratico della corrente e la scala può essere tarata in modo da indicare il valore efficace;
sono detti amperometri a vero valore efficace, in quanto forniscono una misura del valore
efficace
indipendentemente dalla forma d’onda del segnale.
Presentano il limite di utilizzo a frequenze inferiori a 100 Hz, sia a causa delle correnti
parassite che si formano nel ferro dolce sia perché il comportamento induttivo
dell’amperome- tro non è più trascurabile a frequenze superiori.
Gli strumenti a raddrizzatore sono strumenti magnetoelettrici che utilizzano un raddrizza-
tore a ponte per produrre una tensione pulsante con valore medio non nullo. In questo modo
si
misura il valore medio della tensione raddrizzata, che nel caso di segnali sinusoidali può
essere ricondotto al valore efficace con opportuna taratura della scala.
La misura risulta però errata se il segnale presenta una forma d’onda diversa. Il limite
di
utilizzo in frequenza dipende dalle caratteristiche dei diodi utilizzati ed è in genere
dell’ordine di 10 kHz.
Gli strumenti a termocoppia misurano il vero valore efficace della corrente e possono
essere utilizzati fino alla frequenza di qualche MHz. La portata minima è in genere di 10
mA, dato che per valori inferiori si ha uno sviluppo di energia termica non apprezzabile.
6.3 Misure di tensione
Gli strumenti misuratori di tensione sono detti voltmetri e devono essere inseriti in paral-
lelo al circuito in modo da essere sottoposti alla tensione da misurare (fig. L.40). Per
perturbare in misura minima il circuito in prova devono presentare una resistenza di ingresso
molto ele- vata.
La misura di tensione viene effettuata tramite un milliamperometro (per esempio, di tipo
magnetoelettrico) in serie a una resistenza di elevato valore. Il valore della resistenza in serie
può essere variata in funzione della portata scelta per la misura.
L-48 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Per rendere possibile la misura di tensioni molto piccole, senza diminuire la resistenza di
ingresso del voltmetro, esistono strumenti elettronici che utilizzano gli amplificatori in conti-
nua, in modo da portare la tensione a un livello ottimale per lo strumento di misura.

Figura L.40 Inserzione in parallelo di un voltmetro.


6.4 Misure di resistenza
Il metodo più semplice per la misura di resistenza è il metodo volt-amperometrico, basato
sulla legge di Ohm: applicando una tensione E nota al resistore in prova e misurando la cor-
rente I che scorre in essa, il valore di resistenza è dato dalla formula R = E/I (fig. L.41).

Figura L.41 Misura di resistenza con il metodo volt-amperometrico.


Per misurare resistenze di valore molto piccolo possono essere inserite in un circuito
parti- tore di tensione realizzato con una resistenza campione, su cui si effettua una misura
con un voltmetro come indicato nella figura L.42a.
Per misure di resistenza di grande precisione, si utilizza un ponte di Wheatstone (fig.
L.42b). La resistenza incognita Rx è inserita in un lato del ponte, mentre R1 e R2 sono
resistori di precisione e R3 è un resistore variabile.
Il procedimento di misura consiste nel variare R3 fino ad annullare la corrente IA
misurata
con l’amperometro.

Figura L.42 Misura di resistenze: a) molto piccole con circuito partitore di tensione;
b) molto precise con il ponte di Wheatstone.
STRUMENTI DI MISURA

L-49

In questo caso il ponte è in una condizione di equilibrio (si dice che è bilanciato) in cui
risulta che VR1 = VR2 e VR3 = VRx; da queste condizioni si ottiene:
R1 · I1 = R2 · I2 e R3 · I3 = Rx · I4
e, inoltre, dato che non scorre corrente nell’amperometro:
I1 = I2 e I3 = Ix
R 3  I3 R 3  I 2 R 3 
Rx = = ha:=
R1I4 quindi si
I1
La buona precisione è dovuta al R 2 che la misura dipende esclusivamente dai valori
fatto
delle resistenze campione inserite nel ponte e non dalla tensione di alimentazione E o dalla
preci- sione e resistenza interna dell’amperometro.
Nelle misure di resistenze piccole (inferiori ai 10  ), non sono più trascurabili le resi-
stenze dei contatti e dei collegamenti, per cui vengono utilizzati altri tipi di ponte apposita-
mente studiati.
Multimetri
5.

Il multimetro, o tester, è un unico strumento che permette la misura di tensioni e correnti,


in continua e alternata, oltre che di resistenze. Lo strumento, che può essere analogico o digi-
tale, presenta caratteristiche di semplicità, robustezza e discreta precisione, oltre alla possibi-
lità di essere realizzato in un contenitore di dimensioni non eccessive (multimetri portatili o
palmari).
Il multimetro di tipo analogico è essenzialmente costituito da un amperometro magnetoe-
lettrico di elevata sensibilità; pertanto, tutte le misure sono ricondotte a misure di corrente,
attraverso l’inserzione di apposite resistenze di precisione che possono essere variate a
seconda del valore di fondo scala desiderato.
Per le misure di resistenza si utilizza un generatore di tensione nota realizzato tramite
l’ali- mentazione (che è a batterie per gli strumenti portatili). L’indice consente la lettura su
un
insieme di scale sovrapposte, di cui bisogna selezionare quella di riferimento, a seconda
del tipo di misura e della portata scelta.
Per quanto riguarda i multimetri digitali, le grandezze da misurare sono convertite in
ten-
sioni continue, che vengono poi rilevate attraverso un convertitore analogico-digitale.
La risoluzione è legata al numero di cifre del visualizzatore: infatti, se il visualizzatore è a
quattro cifre, il massimo numero rappresentabile è 9999 e quindi la risoluzione è dello
0,01% (1/10 000).
Sovente si fa riferimento a strumenti con 3½ cifre o 4½ cifre: in questo caso la cifra più
significativa può assumere al massimo il valore 1 e sono rappresentabili anche i numeri nega-
tivi. La terminologia deriva dal fatto che una cifra decimale (da 0 a 9) viene rappresentata
su 4 bit, mentre per rappresentare ±1 sono necessari due bit, ovvero la metà di quelli
necessari per una cifra intera.

Wattmetri
6.

Le misure di potenza effettuate a bassa frequenza possono essere realizzate in due modi:
con il metodo volt-amperometrico o tramite un wattmetro elettrodinamico.
Metodo volt-amperometrico
Si utilizzano un voltmetro e un amperometro e la potenza è misurata in modo indiretto
tra- mite il prodotto di tensione per corrente (fig. L.43). L’inserzione degli strumenti produce
però errori sistematici di cui bisogna tenere conto.
L-50 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.43 Misure di potenza con il metodo volt-amperometrico con il voltmetro:


a) a valle dell’amperometro; b) a monte dell’amperometro.
Con l’inserzione del voltmetro a valle dell’amperometro (fig. L.43a), l’errore sistematico
è causato dalla corrente Iv assorbita dal voltmetro. Questo errore è trascurabile solo nel caso
che il carico sia molto minore della resistenza interna del voltmetro, cosa di cui ci si può
sincerare scollegando il voltmetro e osservando se ci sono variazioni di corrente rilevate
dall’ampe- rometro.
L’inserzione del voltmetro a monte dell’amperometro (fig. L.43b), è invece consigliabile
quando la resistenza di carico è molto alta: in questo caso l’errore sistematico introdotto dalla
caduta di tensione sulla resistenza interna dell’amperometro è trascurabile rispetto a quella
sul carico.
In casi intermedi, in cui entrambe le modalità riportano errori apprezzabili, è possibile
ricorrere a una lettura in due tempi, collegando prima il voltmetro e poi l’amperometro. Biso-
gna però essere certi che non ci siano variazioni della tensione di alimentazione.
Nel caso in cui sia noto il valore della resistenza di carico, è possibile utilizzare anche un
solo strumento, ricavando la potenza incognita con le formule:
P = V2/R = I2 · R
Misure con wattmetro elettrodinamico
Il wattmetro elettrodinamico è uno strumento utilizzato in continua e in alternata, a fre-
quenze inferiori ai 100 Hz. È costituito da due bobine, una fissa posta in serie al circuito e
attraversata dalla corrente che scorre nel carico; l’altra mobile e in serie a una resistenza Rm;
va collegata in parallelo al carico, in modo che sia percorsa da una corrente Im = V/Rm (fig.
L.44).

Figura L.44 Misura di potenza con strumento elettrodinamico.


In corrente continua l’equipaggio mobile è sottoposto a una coppia motrice costante, pro-
porzionale al prodotto V · I; in corrente alternata la coppia motrice media è proporzionale al
prodotto V · I · cos , dove è lo sfasamento fra tensione e corrente. In entrambi i casi
l’indice subisce una deviazione proporzionale alla potenza attiva assorbita dal circuito.
MACCHINE ELETTRICHE

L-51

7 MACCHINE ELETTRICHE
1. Generalità sulle macchine elettriche
Si definisce macchina un’apparecchiatura in cui avviene la trasformazione di un tipo di
energia in un altro tipo di energia. Quando uno dei due tipi di energia in gioco è quella elet-
trica, si parla di macchine elettriche.
Le macchine elettriche possono essere suddivise in statiche, quando sono senza organi in
movimento, o rotanti, quando hanno organi in movimento.
La principale macchina elettrica statica è il trasformatore, mentre le macchine elettriche
rotanti possono ancora essere suddivise in generatori elettrici, che trasformano un’energia di
tipo meccanica in energia elettrica, e motori elettrici, che attuano invece la trasformazione di
energia elettrica in meccanica.
2. Trasformatori
Il trasformatore è una macchina elettrica statica a induzione, utilizzata per trasformare a
potenza costante valori di tensione e corrente, oppure trasferire energia elettrica fra due o più
circuiti che risultano però elettricamente isolati (non hanno conduttori in comune). Esso è
costituito da un nucleo ferromagnetico formato da un pacco di lamierini di spessore 0,3 mm
circa, isolati fra loro con sottili strati isolanti; le parti verticali del nucleo sono dette colonne e
le parti orizzontali gioghi. Attorno alle colonne sono sistemati avvolgimenti elettricamente
separati, ma accoppiati dal circuito magnetico costituito dal nucleo.
Trasformatore monofase
Nei trasformatori monofase si hanno solo due avvolgimenti che vengono denominati pri-
mario (circuito di ingresso) e secondario (circuito di uscita).
Nel primario entra una potenza elettrica P 1 = v1i1, mentre dal secondario si ottiene una
potenza elettrica P2 = v2 i2.
Nel caso ideale si ha che P1 = P2, ovvero non ci sono perdite di potenza e tutta l’energia
viene trasferita dal primario al secondario. Il trasformatore funziona solamente in corrente
alternata e la frequenza di ingresso è uguale a quella d’uscita.
La struttura di un trasformatore è rappresentata nella figura L.45.

Figura L.45 Trasformatore monofase.


La corrente sinusoidale che scorre nel primario im (detta corrente magnetizzante) genera
un flusso magnetico nel nucleo, proporzionale al numero di spire che compongono l’avvolgi-
mento e alla corrente magnetizzante. Questo flusso si concatena con entrambi gli
avvolgimenti e genera due forze elettromotrici sinusoidali E1 ed E 2, indotte rispettivamente
nel primario e nel secondario:
L-52 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

E1 N 1 ; =E2 N 2


=
N1 e N2 rappresentano il numero di spire del primario e del secondario. La f.e.m. E1
deve equilibrare la tensione v1 applicata al primario, mentre E2 è la tensione v2 che si
misura ai capi del secondario. Dividendo membro a membro le due relazioni precedenti si
1
ottiene: v--1 ----- N-----m= = =
v--2 E2
E21 due avvolgimenti m viene detto rapporto di trasfor-
Il rapporto fra il numero di spireNdei
mazione.
Se al secondario viene applicato un carico, in esso circolerà la corrente i2. Questa
corrente,
agendo sul circuito magnetico, produce una riduzione del flusso magnetico nel nucleo.
Dato che il flusso è però imposto alla tensione applicata al primario v1, anche nel primario
circolerà una corrente i 1r detta corrente primaria di reazione. Tenendo conto dei versi
indicati nella figura L.45 si ha:
N1 Ni1r 2
=i2

La corrente totale del primario i1 è data dalla somma della corrente primaria di reazione e
della corrente magnetizzante. Quest’ultima risulta in genere molto più piccola, e quindi si
può trascurare con buona approssimazione:
i---
1 N2

i2
i1 N1 +iim =1r
i1r
Nel caso reale, bisogna tenere conto di-----
alcuni fattori che introducono delle perdite nel tra-
e si ottiene: sformatore e ne diminuiscono il rendimento:
-il flusso magnetico non è perfettamente concatenato con i due avvolgimenti;

-la resistività del conduttore che costituisce gli avvolgimenti introduce una resistenza in serie

agli stessi;
-le perdite di energia nel nucleo dovute al ciclo di isteresi e alle correnti parassite;

-la corrente magnetizzante che non sempre si può trascurare.

Per quantificare questi aspetti si utilizza un circuito equivalente, in cui vengono aggiunti
al trasformatore alcuni componenti fittizi: le resistenze, per tener conto delle perdite e le
indut- tanze per tener conto dei flussi dispersi (fig. L.46).

Figura L.46 Circuito equivalente del trasformatore reale.

Questo schema è valido per qualsiasi tipo di trasformatore e può essere utilizzato per cal-
colare il rendimento nel caso reale. Bisogna però sottolineare che i valori da attribuire a ogni
MACCHINE ELETTRICHE

L-53

componente fittizio sono specifici per ciascun trasformatore e possono variare con la fre-
quenza e la forma d’onda del segnale applicato al primario.
Le principali grandezze che caratterizzano un trasformatore sono:
-tensione secondaria nominale V 2n: è definita come la tensione del secondario a vuoto;
quando è connesso un carico al secondario, la tensione è inferiore alla tensione nominale,
dell’ordine di qualche punto percentuale;
-corrente secondaria nominale I n: è la corrente erogata dal secondario a pieno carico;
-potenza nominale: è la potenza apparente A n = |V2n| |In|;
-rendimento  : è definito come rapporto fra la potenza attiva P 2, fornita al carico, e la
potenza attiva P1, assorbita dalla linea.

Il calcolo del rendimento si esegue con la seguente formula:

 = P2/P1
Nel caso ideale il rendimento dovrebbe essere unitario. In realtà bisogna considerare che
la potenza trasferita al secondario è inferiore a quella assorbita dal primario, in quanto
bisogna considerare le perdite di potenza nel ferro del nucleo, dovute alle correnti parassite,
al ciclo di isteresi, ai flussi magnetici dispersi e alle perdite di potenza nel rame per la
resistenza dei fili che costituiscono gli avvolgimenti.
Autotrasformatori
Quando non è necessario avere una separazione fisica del circuito del primario dal secon-
dario, è conveniente utilizzare l’autotrasformatore, ossia un trasformatore avente una parte
del suo avvolgimento comune al circuito primario e secondario (fig. L.47).

Figura L.47 Autotrasformatore.


La tensione del primario v 1 interessa l’intero numero di spire N1, mentre la tensione del
secondario v2 è prelevata da una presa intermedia sull’avvolgimento, che comprende N2
spire, in comune con l’avvolgimento del primario.
L’autotrasformatore presenta un comportamento del tutto analogo a quello del trasforma-
tore, quindi sono ancora valide le relazioni che sono state introdotte per tensioni e correnti fra
primario e secondario.
Il tratto di avvolgimento N2 dell’autotrasformatore è interessato da una corrente i pari
a:
i = i1 – i2
quindi può essere realizzata con un conduttore di sezione inferiore. Con
l’autotrasformatore è possibile, anche per l’assenza di un circuito secondario, un notevole
risparmio di rame, ma si presenta lo svantaggio di non avere una separazione fisica fra i
circuiti del primario e del secondario.
L-54 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Trasformatore trifase
In una rete trifase si potrebbero utilizzare, per la trasformazione di tensione, tre trasforma-
tori monofase, con le bobine dei primari e dei secondari collegate a stella. Gli avvolgimenti
relativi a una stessa fase sono in realtà realizzati su un’unica colonna del circuito magnetico
mentre la seconda colonna serve solo per la chiusura del flusso.
Se si raggruppano i nuclei dei tre trasformatori, in modo che la colonna che non presenta
avvolgimenti sia una sola (al centro del nucleo), quest’ultima sarà percorsa dai tre flussi delle
singole fasi (fig. L.48).
La somma vettoriale di questi flussi è nulla in ogni istante, per cui la colonna centrale può
essere eliminata senza alterare il funzionamento del trasformatore. Ciò comporta un evidente
vantaggio, rispetto ai tre trasformatori monofase: la riduzione di ingombro e di materiale per
i
nuclei.
Inoltre, a parità di potenza, vengono ridotte le perdite nel ferro e la riluttanza del circuito
magnetico risulta minore, rendendo minore anche le correnti magnetizzanti.
I trasformatori trifase sono quindi caratterizzati da un migliore rapporto peso/potenza e da
un migliore rendimento rispetto ai trasformatori monofase.

Figura L.48 Nucleo del trasformatore trifase simmetrico.


7.3 Generatori di corrente continua (dinamo)
Le macchine a corrente continua trasformano energia elettrica, sotto forma di corrente
con- tinua, in energia meccanica o viceversa. Esse sono composte da una parte esterna fissa,
detta statore, e da una parte che ruota all’interno dello statore, detta rotore. Si tratta di
macchine reversibili, ossia che possono funzionare indifferentemente come motore o come
generatore (dinamo).

Figura L.49 Schema di principio di una


dinamo.
MACCHINE ELETTRICHE

L-55

Nel funzionamento come dinamo l’albero, solidale con il rotore, viene mantenuto in rota-
zione con dispendio di potenza meccanica, permettendo una produzione di energia elettrica
ai morsetti della macchina.
Lo statore è costituito, in linea di principio, da due espansioni polari di un magnete
perma-
nente, che creano al loro interno un campo magnetico costante, e per questo motivo è
detto anche induttore.
Il rotore, o indotto (fig. L.49), può essere invece schematizzato come una spira (o una
serie di avvolgimenti) collegata a due semianelli che costituiscono il commutatore, sui quali
stri- sciano due spazzole fisse, ai cui morsetti viene inserito l’utilizzatore.
Il compito delle spazzole è quindi quello di stabilire un collegamento con la coppia di
semianelli in rotazione, con cui formano il cosiddetto collettore, raccogliendo la tensione che
si genera ai capi della spira.
Facendo riferimento alla figura L.50, il flusso magnetico che attraversa la spira, la quale
ruota con velocità costante dalla posizione (a) alla posizione (b), diminuisce gradualmente
causando una f.e.m. indotta che diminuisce fino ad annullarsi quando la spira risulta parallela
alle linee del campo magnetico.
Nella rotazione da (b) a (c), bisogna tenere conto che i contatti fra le spazzole e i due
semianelli si sono scambiate, e quindi la f.e.m. ha sempre la stessa polarità e aumenta. Si
ottiene quindi un andamento pulsante della tensione simile a quella illustrata nella figura
L.50d.

Figura L.50 Principio di funzionamento di una dinamo.


Per ridurre le variazioni sulla tensione di uscita l’indotto è multipolare, ossia è costituito
da una serie di N spire disposte con un angolo pari a 360°/N fra loro; il collettore di forma
cilin- drica, è costituito da 2N lamelle in modo che ogni spira sia collegata alle spazzole solo
per una rotazione di una porzione dell’angolo giro.
Aumentando il numero di bobine dell’indotto, e quindi il numero di coppie di lamelle che
costituiscono il collettore, la tensione presente ai capi della dinamo risulta sempre più
livellata verso il valore di picco della forma d’onda, riducendo l’ondulazione.
La forza elettromotrice generata a vuoto (senza un carico) è proporzionale al numero di
giri al minuto n e al flusso induttore  , secondo la costante di proporzionalità k che tiene
conto anche del numero di spire che costituiscono l’avvolgimento:
E=k·n·
Ricordando che la velocità angolare  = n · 2/60 ( è espressa in rad/s) e raggruppando
tutte le costanti costruttive della dinamo in un unico fattore KE = k ·  · 60/2, detto
costante di tensione, si può scrivere:
E = KE · 
Quando alla dinamo è applicato un carico, bisogna tenere conto che la corrente I erogata
al carico stesso causa una caduta di tensione sugli avvolgimenti dell’indotto, per via della
resi- stenza Ri presentata da questi avvolgimenti. Inoltre l’indotto percorso dalla corrente
erogata al
L-56 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

carico, genera un flusso magnetico che si oppone al flusso dell’induttore, dando origine alla
cosiddetta reazione d’indotto che provoca una diminuzione Vr della tensione generata. In
defi- nitiva la tensione V generata sotto carico è:
V = E – R i · I – Vr = Eg – R i · I
dove Eg = E – Vr è la f.e.m. complessiva generata con un carico collegato alla dinamo. La
dinamo può quindi essere considerata come un generatore reale di tensione, avente f.e.m. Eg
e resistenza interna Ri.
7.4 Motori a corrente continua
Le macchine a corrente continua sono macchine reversibili; se al rotore si applica una
ten- sione continua, esse generano energia meccanica funzionando come motori.
Una spira, immersa in un campo magnetico costante e percorsa da una corrente I, si pone
in rotazione, in quanto ai due lati della spira, disposti lungo l’asse, viene applicata una coppia
di forze. Le componenti di questa coppia di forze hanno direzione perpendicolare al piano
individuato dalla corrente e dalle linee del campo magnetico, e verso individuato dalla
regola della mano sinistra (paragrafo 7.3). La coppia di forze risulta massima quando la
spira è di- sposta perpendicolarmente alle linee di forza del campo magnetico indotto, mentre
si annulla
quando la spira è parallela alle linee.
Anche nei motori, per ottenere una coppia pressoché costante, si utilizza un numero di
avvolgimenti (o fasi) molto elevato, suddividendo il collettore in tante lamelle collegate, a
cop- pie opposte, ai due capi di ogni avvolgimento. In questo modo il collegamento stabilito
con le spazzole permette il passaggio di corrente in una fase solo per pochi gradi della
rotazione.
Nei conduttori attivi che costituiscono gli avvolgimenti del rotore, detti anche armatura,
quando il motore gira, viene indotta una f.e.m. Eg, che si oppone al passaggio della corrente.
Tale f.e.m., è detta forza controelettromotrice poiché ha verso opposto alla tensione applicata
all’armatura ed è proporzionale alla velocità angolare secondo la costante di proporzionalità
KE:
Eg = K E · 
Nella figura L.51 è riportato il circuito equivalente di un motore a corrente continua,
dove V è la tensione applicata al rotore, Ri e La sono la resistenza e l’induttanza degli
avvolgimenti e I indica la corrente che scorre in essi. Nel funzionamento a regime
sull’induttanza La non vi è caduta di tensione, essendo I una corrente continua. Si può
quindi scrivere:
V = E g + Ri · I

Figura L.51 Circuito equivalente di un motore in corrente continua.


Alla partenza, quando il motore è ancora fermo, la corrente assorbita tocca un picco mas-
simo pari a V/Ri, in quanto Eg risulta nulla, essendo nulla . Questa corrente, detta corrente
di spunto IS, può assumere un valore notevole, essendo la resistenza interna Ri degli
avvolgimenti molto piccola.
La coppia motrice Cm sviluppata dal motore dipende dalla corrente I secondo la
relazione:
Cm = KT · I
dove KT è detta costante di coppia e ha le stesse dimensioni di KE. Se KE e KT sono
entrambe espresse coerentemente al Sistema Internazionale di misura, si ha che KE = KT .
MACCHINE L-57
ELETTRICHE
Sostituendo nell’espressione precedente si ottiene:
Cm
V KE R+=i
KT
da cui si ricava la coppia motrice ------
Cm : KT KT 
=
VR i E
K–
Cm
dove il primo addendo KT/Ri = Cs è detto Ri coppia di spunto e indica la coppia massima
fornita dal motore, che si ottiene quando la velocità di rotazione è nulla. Esaminando
l’equazione pre- cedente si può notare come, mantenendo costante la tensione applicata V, la
coppia motrice sviluppata dal motore diminuisce in modo lineare con l’aumentare della
velocità di rotazione.
A parità di coppia, invece, la velocità aumenta con la tensione applicata. È possibile rap-
presentare questa relazione in un grafico detto caratteristica coppia-velocità, o
caratteristica meccanica, formato da una famiglia di curve composta da rette parallele come
indicato nella figura L.52.

Figura L.52 Caratteristica coppia-velocità.


I costruttori forniscono, per ogni modello di motore, i relativi parametri nei fogli tecnici;
la tabella L.7 riporta, in modo indicativo, i principali parametri per un motore a corrente
conti- nua di media potenza.
Tabella L.7 Parametri di un motore a corrente continua di media potenza

Parametro Valore

Tensione nominale di armatura V 30 V

Corrente di spunto IS 4A

Velocità n a vuoto 2500 giri/min

Coppia di spunto CS 0,75 N m

Resistenza di armatura Ri 8

Induttanza di armatura La 12 mH

Costante di tensione KE 0,19 V s /rad

Costante di coppia KT 0,19 V s /rad

Costante di tempo elettrica e 1,5 ms

Costante di tempo meccanica m 10 ms

Momento di inerzia del motore Jm 0,05×103 kg·m2


L-58 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Il motore a corrente continua descritto è anche denominato motore a magneti permanenti,


dato che lo statore è realizzato con magneti permanenti.
Un’altra tipologia di motori in c.c. è rappresentata dai motori a campo avvolto o a eccita-
zione indipendente, in cui lo statore è realizzato con avvolgimenti alimentati in continua, che
producono un flusso magnetico costante.
In questo caso è possibile variare la velocità di rotazione anche agendo sulla corrente di
eccitazione dell’induttore, in modo da variare il flusso magnetico indotto.
I motori a magneti permanenti sono utilizzati per applicazioni di piccola potenza, mentre
i motori a eccitazione indipendente possono erogare potenze di alcuni kilowatt e sono
impiegati
ove sia necessaria un’ampia flessibilità nella regolazione di velocità.
Nella figura L.53 è riportato lo schema elettrico di un motore a eccitazione indipendente,
dove si può notare, in serie all’avvolgimento eccitatore, l’inserimento di un reostato Rc, detto
reostato di campo, che serve a variare la corrente di eccitazione per regolare la velocità del
motore.

Figura L.53 Schema elettrico di un motore a eccitazione indipendente.


In serie agli avvolgimenti di rotore, per limitare la corrente di spunto, sovente è inserito
un reostato di avviamento Ra, che viene disinserito gradualmente all’aumentare della
velocità del motore.
All’avvio del motore è invece necessario avere il flusso magnetico indotto massimo,
disin- serendo il reostato di campo Rc, affinché il motore sviluppi una coppia elevata.
Il circuito di eccitazione del motore può essere collegato principalmente in due modi:
ecci- tazione in derivazione (fig. L.54a) o eccitazione in serie (fig. L.55a).
Nel primo caso è possibile ottenere una regolazione di velocità agendo sulla tensione di
alimentazione (con il reostato di campo costante), oppure agendo sul reostato di campo (con
tensione d'alimentazione costante).

Figura L.54 Eccitazione in derivazione: a) schema elettrico; b) regolazione di velocità con


variazione dell’alimentazione; c) regolazione di velocità con variazione del reo-
stato di campo.
MACCHINE ELETTRICHE

L-59

Se si agisce sulla tensione di alimentazione, la caratteristica meccanica si presenta come


riportato nella figura L.54b: la velocità a vuoto  0 non cambia al variare della tensione,
mentre la coppia di spunto risulta essere direttamente proporzionale al quadrato della
tensione appli- cata. Di conseguenza, a un aumento della tensione applicata corrisponde un
aumento della velocità di rotazione.
Se si agisce sul reostato di campo, la caratteristica meccanica si modifica come riportato
nella figura L.54c: la velocità a vuoto cresce all’aumentare del valore del reostato, la
coppia di spunto invece diminuisce all’aumentare del reostato.
Nella figura L.55 sono riportati lo schema e la caratteristica meccanica di un motore
con
eccitazione in serie. Questi motori presentano una coppia motrice che è, con buona
approssi- mazione, inversamente proporzionale alla velocità di rotazione, mentre la potenza
resa è prati- camente costante al variare del carico.
La coppia di spunto risulta molto elevata, e questa caratteristica li rende preferibili in
applicazioni in cui il motore deve partire a pieno carico (trazione elettrica, apparecchi di
solle- vamento). Se si annulla la coppia resistente, la velocità tende ad aumentare oltre ai
limiti mec-
canicamente sopportabili dalla macchina, quindi si deve evitare che il motore funzioni a
vuoto.
La regolazione di velocità può essere effettuata mediante la variazione del reostato di
campo come si vede nella figura L.55b.

Figura L.55 Eccitazione in serie: a) schema elettrico; b) caratteristica meccanica.


Motori universali
Il motore universale può funzionare con alimentazione sia in corrente continua sia in
alter- nata. La struttura è la stessa di un motore in corrente continua con eccitazione in serie.
In alter- nata, quando la corrente di armatura fornita attraverso le spazzole cambia verso,
provocando l’inversione del campo magnetico di rotore, si inverte contemporaneamente
anche il campo magnetico prodotto dall’eccitazione di statore, dato che è collegato alla
stessa tensione alter- nata.
Il motore quindi continua la rotazione sempre nello stesso verso.
La coppia e la corrente di spunto raggiungono valori molto elevati, anche dieci volte
supe- riori a quelli di normale funzionamento.
Questi motori sono molto utilizzati negli elettrodomestici e nelle piccole macchine uten-
sili; possono lavorare con velocità nominali anche di 15.000 giri/min. Non è possibile cam-
biare il verso di rotazione, invertendo semplicemente la polarità dell’alimentazione, come
nei motori in corrente continua.
Perdite di potenza e rendimento
Le perdite di potenza nelle macchine a corrente continua possono essere così
suddivise:
-
perdite meccaniche Pm dovute agli attriti;
-
perdite nel ferro Pfe dovute alle correnti parassite e all’isteresi;
L-60 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

perdite per effetto Joule Pj negli avvolgimenti dell’indotto;


-

perdite per eccitazione Pecc negli avvolgimenti di statore (solo nei motori a campo avvolto).
-

Tenendo conto di queste perdite è possibile definire il rendimento  del motore a


corrente continua, indicando con Pr la potenza resa:
Pr
=
Pr + Pm + Pfe + Pj +
Pecc
Esempio
Un motore in continua a eccitazione indipendente in derivazione viene alimentato con
una tensione Va = 60 V e assorbe a regime una corrente Ia = 10 A. La resistenza degli
avvolgimenti di indotto è Ri = 0,1  , mentre la resistenza totale del circuito di eccitazione è
Recc = 200  ; le perdite meccaniche Pm sono di 100 W.
-La corrente che scorre nel circuito di eccitazione vale:

Iecc = 60 V/200  = 0,3 A


Dato che il circuito di eccitazione è posto in parallelo agli avvolgimenti di indotto, la cor-
-

rente di indotto è:
Ii = Ia  Iecc = 10 – 0,3 = 9,7 A
-La potenza assorbita dall’alimentazione è:

PCC = Va · Ia = 60 V · 10 A = 600 W
-Le perdite per effetto Joule nell’indotto valgono:

Pj = Ri · iI 2 = 0,1 · 94,09  9,4


W
-Le perdite per eccitazione valgono:

Pecc = Recc · I2 cc = 18 W
e
La potenza resa dal motore risulta essere:
-

Pr = PCC – Pm – Pj – Pfe – Pecc


In questo caso le perdite nel ferro Pfe dovute alle correnti parassite e all’isteresi sono tra-
scurabili. Risulta quindi:
Pr = 600 – 100 – 9,4 – 18 = 472,6 W
 = Pr /PCC = 472,6/600  0,788 (78,8%)
7.5 Motori asincroni
Anche la macchina asincrona (o a induzione) può funzionare come motore o come
genera- tore, ma il suo utilizzo come generatore è piuttosto raro. Come motore ha invece un
vastissimo campo di applicazione, per la semplicità, la robustezza e per il fatto di poter
essere alimentato direttamente dalla rete di distribuzione in corrente alternata.
La macchina deve essere alimentata con un sistema polifase di tensioni (in genere trifase),
ma può essere anche adattata a lavorare con la corrente monofase, con opportuni
accorgimenti.
Lo statore è costituito da un pacco di lamierini magnetici, in cui sono praticate incisioni,
dette cave, dove vengono inseriti gli avvolgimenti di statore (fig. L.56a).
Anche il rotore è realizzato con un pacco cilindrico di lamierini magnetici, in cui
sono pra-
ticate delle cave: nelle cave sono inserite delle barre di alluminio pressofuso, collegate
agli estremi in cortocircuito da due anelli terminali (rotore a gabbia di scoiattolo), come
rappre- sentato nella figura L.56b, oppure delle matasse di avvolgimenti chiusi in
cortocircuito (rotore avvolto).
MACCHINE L-61
ELETTRICHE

Figura L.56 a) Statore di un motore sincrono; b) gabbia di scoiattolo.


Gli avvolgimenti di statore sono disposti in modo da generare, quando alimentati da un
sistema trifase equilibrato di correnti, un campo magnetico rotante, simile a quello prodotto
da un unico magnete permanente posto in rotazione (campo bipolare).
Per ottenere ciò le tre bobine che costituiscono lo statore devono essere disposte con un
angolo di 120° (come le fasi dell’alimentazione) fra ognuna e la successiva.
La risultante dei tre campi magnetici prodotti ha intensità costante e ruota con
velocità
angolare costante, pari alla pulsazione  dell’alimentazione. La velocità di sincronismo n
s (ossia velocità del campo magnetico rotante, espressa in giri al minuto) è ns = 60 · f, dove f
è la frequenza di rete.
Immaginando inizialmente la velocità di rotore n nulla, il campo rotante taglia trasversal-
mente i conduttori sul rotore che costituiscono i lati attivi di una spira chiusa in corto
circuito.
Nella spira si sviluppa, a causa della variazione di flusso magnetico attraverso essa, una
forza elettromotrice indotta che farà circolare una corrente indotta I. Tale corrente interagisce
con il campo magnetico rotante, dando luogo a forze elettromagnetiche F dirette in modo tale
da opporsi alla causa che le ha generate, per la legge di Lenz.
La spira è quindi sottoposta a una coppia motrice che la mette in movimento nello stesso
senso del campo rotante, cercando di annullare le variazioni di flusso magnetico attraverso la
spira stessa (fig. L.57).

Figura L.57 Effetto del campo magnetico rotante sul rotore di un motore
asincrono.
L-62 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Il rotore acquista velocità sotto l'azione della coppia e, quindi, diminuisce la velocità con
la quale il campo rotante taglia i conduttori attivi di rotore e con essa diminuiscono le
correnti rotoriche e la coppia motrice.
La velocità di rotazione del rotore non può però essere uguale alla velocità  del campo
rotante: infatti, in questo caso, si annullerebbero le correnti indotte che producono la
rotazione. Per tale ragione il motore viene detto asincrono. La differenza, espressa in
percentuale, fra la velocità di sincronismo ns e quella effettiva di rotazione del rotore n,
prende il nome di scorri- mento percentuale s% ed è data dal rapporto:
ns n–
s% 100
ns =
----------
A vuoto il motore gira a una velocità molto vicina a quella del campo rotante; introdu-
cendo una coppia resistente, il rotore -rallenta. Quindi il motore asincrono non ruota a velocità
costante e non permette una facile regolazione della velocità di rotazione.
È possibile realizzare avvolgimenti multipli di statore che, percorsi da un sistema equili-
brato trifase di correnti, producano campi magnetici di tipo multipolare; in questo caso, indi-
cando con p il numero di coppie polari fittizie dello statore, si ha che ns = 60 f/p.
Il grafico riportato nella figura L.58 riproduce la caratteristica meccanica del motore
asin- crono, che rappresenta l’andamento della coppia C sviluppata in funzione del numero
di giri al minuto n. Per n = 0 (motore fermo) si ha la coppia di spunto CS. Quindi la coppia
aumenta fino a un valore massimo di coppia CM; infine diminuisce fino a annullarsi per la
velocità di sincro- nismo ns.
Il funzionamento nel tratto di caratteristica A-B è instabile: infatti un aumento della
coppia resistente causa un rallentamento del motore e una conseguente diminuzione della
coppia svi-
luppata, portando a un ulteriore rallentamento, fino all’arresto del motore. Il motore ha invece
un funzionamento stabile nel tratto B-C: se il carico aumenta, il motore rallenta con conse-
guente aumento della coppia motrice.

Figura L.58 Caratteristica meccanica.


Per quanto riguarda le perdite di potenze e il rendimento, la situazione è identica a quella
esaminata per il motore a corrente continua a campo avvolto, a cui si rimanda.
Motore asincrono monofase
Un motore realizzato con un unico avvolgimento statorico, in modo da utilizzare un’ali-
mentazione monofase, produce un campo magnetico che non è rotante ma alternativo. Un
campo alternativo può essere scomposto in due campi rotanti in senso opposto e di uguale
ampiezza: il motore non parte da solo, ma una volta avviato (in un senso qualsiasi) continua a
MACCHINE ELETTRICHE

L-63

ruotare, perché è trascinato da uno dei due campi, mentre il campo inverso produce un’azione
resistente molto minore rispetto a quella diretta.
Per ottenere l’autoavviamento, il motore monofase è provvisto di un avvolgimento
ausilia- rio che occupa circa un terzo delle cave di statore, ed è collocato a 90° rispetto
all’avvolgimen-
to principale. L’avvolgimento ausiliario è alimentato dalla stessa rete, tramite un
condensatore che produce uno sfasamento fra le correnti, prossimo a 90°, anche se di
ampiezza diversa. In
questa situazione si ha un campo rotante ellittico, che permette un buon funzionamento
del motore, anche se con un rendimento circa del 60% rispetto a quello ottenibile da un
motore tri- fase di pari dimensione e peso.
Per migliorare le prestazioni si può disinserire l’avvolgimento secondario quando si è
rag- giunta la velocità di regime, tramite un interruttore centrifugo o un relè amperometrico
(ad avviamento avvenuto, la corrente di alimentazione si riduce). Dato che l’avvolgimento
secon-
dario è attivo solo per brevi periodi, il dimensionamento degli avvolgimenti può essere
fatto con conduttori di sezione minore.
Per applicazioni di piccola potenza, come negli apparecchi elettrodomestici, il
condensa-
tore e l’avvolgimento secondario sono sempre inseriti, e in questo caso il motore è
definito
motore a condensatore.
7.6 Macchine sincrone
Per macchina sincrona si intende una macchina elettrica rotante, nella quale la velocità di
rotazione è in rapporto definito e costante con la frequenza della corrente applicata o
generata. La macchina sincrona può funzionare come generatore e viene chiamata
alternatore, o come motore. Essa è solitamente trifase, ma esiste anche la versione monofase
che viene utilizzata per piccole potenze.
L’energia elettrica prodotta dalle centrali è generata da alternatori di notevole potenza,
sono azionati da turbine idrauliche, a vapore o a gas.
Lo statore delle macchine sincrone è identico a quello delle macchine asincrone: è
costitui- to da un pacco di lamierini magnetici, dotato di scanalature nelle quali vengono
inseriti gli avvolgimenti statorici.
Il rotore può essere di tre tipi:
-a magneti permanenti: realizzati in ferrite, per macchine di piccola potenza;
-a poli salienti avvolti: è costituito da un mozzo da cui sporgono i poli realizzati in ferro
dolce ed eccitati da bobine percorse da correnti continue; usato nelle macchine a piccola e
media velocità;
-a rotore scanalato: il rotore cilindrico ha scanalature simili a quelle di statore, in cui sono
posti gli avvolgimenti di rotore eccitati in corrente continua; utilizzato nei veloci turboalter-
natori (alternatori azionati da turbine a vapore) a due o quattro poli.

Negli ultimi due casi, per fornire l’eccitazione in continua agli avvolgimenti di rotore, gli
estremi di ogni bobina sono collegati a due anelli, su cui strisciano contatti detti spazzole. Il
sistema di spazzole e anelli è detto collettore.
A differenza delle macchine in corrente continua, nelle macchine sincrone il campo
magnetico induttore è collocato sul rotore, mentre l’avvolgimento indotto è posto sullo
statore. Inoltre il collettore non comprende il commutatore (che nelle macchine a corrente
continua
raddrizza la corrente indotta negli avvolgimenti di rotore, scambiando i contatti fra le
spazzole e i morsetti della bobina).
Alternatore
Indipendentemente dalla tecnica costruttiva utilizzata, il rotore produce un campo magne-
tico costante che, per via della rotazione a cui è sottoposto, causa un campo variabile
conca- tenato con l’induttore e induce nel circuito di statore una f.e.m. sinusoidale. Questo è
evidente nel caso di rotore e statore costituiti da una sola coppia di poli: a una rotazione
completa del
L-64 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

rotore, corrisponde un ciclo della f.e.m. sinusoidale generata nell’induttore. Se l’induttore è


costituito da p coppie di poli, la frequenza della tensione prodotta è legata alla velocità di
rota- zione n, espressa in giri al minuto, definita dalla seguente relazione:

f -p-------n- =
60
f
oppure
2
dove  è la velocità angolare del rotore. p---
-------
Indicando con BM l’induzione massima sulla superficie dei poli
= del rotore, con l la lun-
ghezza della porzione di conduttore statorico investita dall’induzione BM e con r il raggio
del rotore, il valore massimo eM della tensione indotta in un singolo conduttore vale:
e M = BM · l · v = BM · l ·  · r
Poiché la tensione indotta del conduttore statorico risulta sinusoidale, la sua
espressione è:
e = eM sin (p · t) = BM · l ·  · r sin (p · t)
con p coppie di poli.
Quindi la tensione generata è direttamente proporzionale alla velocità angolare del
rotore. Se gli avvolgimenti di statore sono composti da più bobine, disposte fra loro con
un angolo
, le tensioni generate in ognuna di esse saranno sfasate dell’angolo .
Per esempio, nella figura L.59 è riportato lo schema di principio di un alternatore trifase:
l’indotto è costituito da tre bobine disposte sul giogo dell’alternatore, con un angolo  di
120° e il rotore è composto da una sola coppia di poli (p = 1).
Se esso ruota con una velocità di 3000 giri al minuto, genera una tensione trifase con fre-
quenza di 50 Hz.

Figura L.59 Alternatore trifase.


I sei morsetti ai capi delle bobine dell’alternatore trifase possono essere collegati con una
connessione a stella oppure a triangolo, a seconda delle necessità.
Collegando un carico resistivo equilibrato ai morsetti dell’alternatore trifase, l’indotto
viene percorso da una corrente in fase con la tensione: questa corrente produce un campo
magnetico rotante (come nella macchina asincrona) che si oppone alla rotazione
dell’induttore.
Per mantenere in moto il rotore è necessario fornire una coppia motrice all’albero: la
potenza meccanica fornita all’albero deve essere uguale, per il principio di conservazione
dell’energia, alla potenza elettrica erogata ai morsetti.
Se si applica ai morsetti un carico puramente induttivo o puramente capacitivo, la
corrente negli avvolgimenti di statore risulta sfasata di 90° in ritardo (o in anticipo) rispetto
alla ten- sione indotta. In questo caso il campo rotante prodotto dallo statore è ritardato (o
anticipato) di
MACCHINE ELETTRICHE

L-65

90° rispetto al caso precedente: le forze fra i poli risultano quindi radiali e non causano
alcuna coppia, ma producono invece un’azione smagnetizzante (o magnetizzante) sul rotore.
Non è quindi necessario applicare alcuna potenza meccanica all’albero, a meno delle per-
dite dovute ad attriti e alla ventilazione: non viene infatti erogata potenza attiva ai morsetti,
dato che il carico è puramente reattivo.
Motore sincrono
La struttura del motore sincrono è la stessa dell’alternatore, ma gli avvolgimenti di statore
vengono alimentati con la tensione di rete (monofase o più comunemente trifase), per
erogare potenza meccanica all’albero del rotore.
Quando lo statore è collegato alla linea di rete, le correnti che scorrono nei suoi avvolgi-
menti generano un campo magnetico rotante che interagisce con il campo magnetico del
rotore, mantenendone la rotazione con velocità
n n-6
p(espressa
-- in giri al minuto) pari a:
dove f è la frequenza di rete e p è il numero0---fdi-coppie
--- di poli presenti sul rotore. Il motore
sin- crono non è però autoavviante: esso=richiede l’utilizzo di un motore ausiliario di lancio
che lo porti alla velocità di rotazione n, altrimenti non si stabiliscono le interazioni fra i
campi magnetici di statore e di rotore che trascinano il rotore.
Brusche variazioni della coppia resistente possono generare nel motore oscillazioni
pendo- lari, causate dalla reazione necessaria per raggiungere un nuovo equilibrio dinamico
nell’inte- razione fra i due campi magnetici, e dall’inerzia del rotore alle variazioni di
velocità. Queste oscillazioni provocano vibrazioni dannose dell’albero e producono correnti
pulsanti sulle linee di alimentazione.
Per smorzare queste oscillazioni pendolari è possibile inserire nella periferia del rotore
una
gabbia di scoiattolo, detta gabbia di smorzamento, in cui si producono correnti indotte
dalle oscillazioni pendolari, che tendono a opporsi alla causa che le ha generate.
La gabbia di smorzamento può essere utilizzata anche per l’autoavviamento del
motore
sincrono: inizialmente il rotore non è eccitato e lo statore viene connesso alla rete
producendo una rotazione per effetto della gabbia di scoiattolo; quando raggiunge una
velocità prossima al sincronismo, viene applicata l’eccitazione e il motore incomincia a
lavorare in modo sincrono, annullando l’effetto della gabbia di scoiattolo, la quale interviene
solo per smorzare eventuali oscillazioni pendolari.
I motori sincroni vengono utilizzati quando è necessario avere velocità rigorosamente
costanti. Essi possono essere inoltre utilizzati come rifasatori: infatti i motori sincroni
possono assorbire dalla rete sia corrente in fase sia in anticipo o in ritardo.
Se si varia l’eccitazione, riducendo per esempio la corrente di rotore
(sottoeccitazione),
diminuisce anche il flusso al traferro e, per mantenere costante la coppia motrice, è
necessario che la corrente di statore assorbita sia in ritardo con la tensione corrispondente.
Al contrario, se si aumenta la corrente di eccitazione (sovraeccitazione) e
conseguente-
mente il flusso al traferro, la macchina assorbirà dalla rete corrente in anticipo rispetto
alla ten- sione, per mantenere costante il flusso.
Potenza e rendimento delle macchine sincrone
Nel funzionamento sia come alternatore, sia come motore, le macchine sincrone presen-
tano le seguenti perdite di potenza:
-perdite meccaniche e per ventilazione P m, dovute ad attriti e alle ventole di raffreddamento
calettate sull’albero;
-perdite nel ferro di statore P fe per isteresi e correnti parassite;
-perdite di eccitazione P ecc, dovute alla dissipazione per effetto Joule negli avvolgimenti
roto- rici;
L-66 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

-perdite variabili con il carico nello statore P j, dovute all’effetto Joule nella resistenza degli
avvolgimenti.

Nel funzionamento come alternatore, la potenza di ingresso coincide con la potenza mec-
canica Pmec, mentre quella di uscita coincide con la potenza elettrica Pel; quindi si ha:

Pr
= Pel =
Pr + Pm + Pfe + Pj +
Pme Pecc
c
dove Pr è la potenza reale resa ai morsetti.
Nel funzionamento come motore, la potenza di ingresso coincide con la potenza elettrica
Pel, mentre quella di uscita coincide con la potenza meccanica Pmec; quindi, indicando con
Pa la potenza elettrica reale assorbita, si ha:
Pa –PPm –P fe –P ecc
 Pme =
= c
j– Pa

7.7 Motori speciali


Pel
Motori brushless
Sono motori in corrente continua a magneti permanenti, di piccola potenza, caratterizzati
dal fatto che al posto del commutatore meccanico del collettore hanno un commutatore
elettro- nico senza spazzole (fig. L.60).
Tale commutatore elettronico aumenta l’affidabilità di questi motori rispetto ai classici
motori in corrente continua, in quanto l’assenza del contatto strisciante fra le spazzole e il
col- lettore elimina una serie di inconvenienti, quali l’usura sia delle spazzole, sia del
collettore, l’emissione di radiodisturbi causati dallo scintillio e la produzione di polvere di
grafite e rame ossidato.

Figura L.60 Motore brushless.


Gli avvolgimenti dell’indotto, come si vede in figura L.60, sono collocati sullo statore
invece che sul rotore, per essere connessi ai circuiti di commutazione posti esternamente al
motore, senza richiedere la presenza di dispositivi in movimento per la loro alimentazione.
MACCHINE ELETTRICHE

L-67

L’induttore, costituito dalle espansioni polari di un magnete permanente, si trova sul


rotore.
Inoltre è presente un sistema di sensori (SA e SB) che rileva la posizione angolare del
rotore e in funzione di questo determina il senso della corrente da inviare in ciascuna bobina.
Le cor-
renti nelle bobine vengono commutate in modo che le interazioni con il campo magnetico
del rotore producano una coppia sempre nello stesso verso.
I motori brushless sono molto utilizzati nel campo della regolazione e dei controlli auto-
matici e si differenziano principalmente per:
-numero di fasi statoriche;

-circuito di pilotaggio;

-tipo di sensori.

Motori passo-passo
I motori passo-passo, detti anche step-motor, sono alimentati da segnali impulsivi (fig.
L.61): a ogni impulso il motore ruota di un angolo fisso, detto passo.
Il fatto che questi motori permettano posizionamenti veloci e precisi ne ha determinato
un’ampia diffusione:
-nella robotica;

-nelle stampanti e macchine per scrivere (posizionamento del carrello o della cartuccia, avan-

zamento della carta);


-nelle memorie di massa magnetiche (posizionamento delle testine di lettura e scrittura);

-nelle autovetture (rotazione della valvola a farfalla e regolazione della climatizzazione);

-in numerose altre applicazioni.

Figura L.61 Motori passo-passo o step-motor.


L’ampiezza di un singolo passo dipende dalle caratteristiche costruttive del motore
(numero di poli del rotore e numero di fasi) e può generalmente variare da 0,9° (400
passi/giro) a 30° (12 passi/giro). Comandando i passi successivi in rapida sequenza il motore
gira con continuità, finché non si interrompono i comandi, mantenendo la posizione angolare
prefis- sata.
Per descriverne il funzionamento si fa riferimento a un caso semplificato di un motore a
due fasi con passo di 90° (fig. L.61).
L-68 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.62 Impulsi di pilotaggio.

Il motore è costituito da due avvolgimenti statorici, che fanno capo ai terminali AB e CD,
e da un rotore a magneti permanenti con due poli.
Applicando ai terminali AB e CD gli impulsi rappresentati nella figura L.62 e
supponendo che inizialmente il motore si trovi nella posizione (a) indicata nella figura L.63,
il primo
impulso fornito ai terminali AB determinerà un campo magnetico con il polo Sud sul
giogo connesso al terminale A, costringendo il rotore a compiere una rotazione in senso
antiorario, fino a fargli assume la posizione (b). Il secondo impulso, relativo ai terminali CD,
farà ruotare
il rotore fino a raggiungere la posizione (c) e così via.
Occorrono quattro impulsi per ottenere una rotazione completa del motore (un giro) e
ogni fase è percorsa da una corrente bipolare (cioè da impulsi alternativamente positivi e
negativi).

Figura L.63 Posizioni assunte dal rotore a causa degli impulsi di pilotaggio della figura
L.62.

I motori passo-passo vengono pilotati per mezzo di opportuni circuiti di commutazione


elettronici, comandati in genere da un microprocessore.
Questo permette un semplice sistema di esecuzione di un movimento, senza la necessità
di una retroazione per un controllo di posizione preciso.
Rispetto ai motori in corrente continua essi presentano l’inconveniente di essere di
dimen-
sioni maggiori a parità di potenza e di richiedere un circuito di comando più complesso.
7.8 Scelta dei motori elettrici
I parametri a cui è necessario fare riferimento per scegliere il tipo di motore sono sostan-
zialmente suddivisibili nei quattro gruppi di seguito riportati.

Tipo di alimentazione
1.

-Tipo di sistema: in c.c. (corrente continua) o in c.a. (corrente alternata); numero di fasi;
frequenza.
-Tensione e frequenza di esercizio.
MACCHINE L-69
ELETTRICHE
-

Il sistema di alimentazione è quello che, spesso, determina il tipo di motore da adottare.


Per certe applicazioni può essere indifferente l’impiego di un motore in corrente continua
o di uno in corrente alternata; però nei casi in cui è necessario disporre di una elevata gamma
di velocità, oppure si deve far fronte a grosse variazioni dei regimi di rotazione, può risultare
conveniente adottare un motore in corrente continua, predisponendo le opportune
apparecchia- ture di conversione di energia elettrica, quali raddrizzatori controllati o non
controllati e chop- per.
Per i motori in corrente alternata, è più conveniente utilizzare un sistema di alimentazione
trifase a 50 Hz quando si devono ottenere potenze dell’ordine delle centinaia di watt.
L’utilizzo di motori monofase è molto ridotto e sempre relativo ad applicazioni di piccola
potenza.
I motori sincroni vengono utilizzati quando è necessario avere velocità rigorosamente co-
stanti, ma presentano il problema dell’avviamento, o di una maggior complessità strutturale
nel caso di motori autoavvianti. Può inoltre essere utile la loro particolare caratteristica di uti-
lizzo come rifasatori.
È da tenere in conto nella scelta l’effetto che il motore può causare sulla rete di alimenta-
zione: la corrente di spunto può raggiungere valori particolarmente elevati e tali picchi
potreb- bero causare problemi sulla rete di distribuzione.
Quando le esigenze di servizio impongono di scegliere azionamenti a velocità regolabile,
è necessario valutare il carico energetico in relazione alla potenza necessaria. Questo
consente di
scegliere il tipo di motore, decidendo se adottare motori a velocità regolabile oppure
motori a velocità costante, equipaggiati con trasmissioni meccaniche in grado di variare il
rapporto fra velocità del motore e quella del resto della macchina.
I limiti di potenza vengono generalmente fissati sulla base del massimo assorbimento
dell’utente; un’adeguata scelta del motore e l’impiego di volani può contribuire a ridurre
l’assorbimento di potenza, mantenendo il massimo valore al di sotto dei limiti contrattuali.
In questa ottica è da valutare il rifasamento dei motori necessario per migliorare il fattore
di potenza e mantenerlo entro i limiti stabiliti dal contratto stipulato con l’ente erogatore,
onde evitare il pagamento di sovrapprezzi dovuti a fattori di potenza troppo bassi.
Nella tabella L.8 vengono riassunte le caratteristiche, i vantaggi e gli svantaggi dei vari
tipi di motori elettrici, con alcune indicazioni sugli attuali impieghi degli stessi e
sull’andamento previsto per il loro impiego nel prossimo futuro.
L-70 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

8 IMPIANTI ELETTRICI
Centrali di produzione
1.

La corrente elettrica viene prodotta da macchine elettriche, dette alternatori, azionate


generalmente da turbine che, a seconda del tipo di centrale, possono essere fatte funzionare
ad acqua, per caduta naturale o per gravità, oppure a vapore ottenuto da sistemi vari, quali la
com- bustione di carbone, nafta, metano e la combustione nucleare; vengono utilizzati anche
vapori provenienti dal sottosuolo (soffioni).
Questi impianti, a seconda della sorgente di energia utilizzata per il ciclo di produzione
possono essere così suddivisi:
-impianti idraulici, ubicati sulle Alpi e sulle vette più alte degli Appennini, dove vengono
sfruttati i salti d’acqua;
-impianti termici, situati in prossimità di grossi corsi d’acqua;
-impianti geotermici, realizzati in prossimità di vapori provenienti dal sottosuolo, quali i sof-
fioni;
-impianti nucleari, anche questi posti in prossimità di grosse disponibilità d’acqua;
-impianti eolici, dislocati in zone dove spirano venti costanti e con la forza necessaria per il
movimento del generatore di corrente (velocità minima di 6 m/s);
-pannelli fotovoltaici, che vanno assumendo un’importanza crescente per la conversione
diretta dell’energia solare in energia elettrica per usi civili e industriali; questo sistema, pur
non essendo ancora economicamente conveniente per l’alto costo e il basso rendimento
delle celle fotovoltaiche al silicio, dà la massima garanzia di un sistema ecologicamente
sicuro e di scarso impatto ambientale.
IMPIANTI ELETTRICI

L-71

Nella tabella L.9 si riporta un raffronto della produzione di energia elettrica in ragione
dei sistemi produttivi.
Tabella L.9Sistemi di produzione
Raffronto Produzione
della produzione dell’energia elettrica dei2]sistemi
[kW/m
in ragione
produttivi
Termoelettrica nucleare 650

Termoelettrica con combustibili tradizionali 550

Idroelettrica 108
LeEolica
macchine sincrone presentano un’importante applicazione
0,13 con vento 6 negli impianti
m/s, 1,04 idroelettrici
con vento 20 m/s
di pompaggio: durante il giorno, quando la richiesta di energia elettrica è maggiore, queste
macchine lavorano come normali alternatori di centrali idroelettriche,
Solare da 0,12nelle
a 0,26quali il flusso di
acqua, travasato da un bacino superiore a uno inferiore, aziona le turbine; di notte, quando il
consumo è minore e la produzione di energia è esuberante (perché le centrali termoelettriche
non possono essere spente), vengono utilizzate come motori per azionare le pompe che prele-
vano l’acqua dal bacino inferiore trasferendola nuovamente a quello superiore.
La necessità di ridurre l’impatto ambientale (dovuto alle centrali di produzione di energia
elettrica) e lo sviluppo di migliori e più avanzate tecnologie, conducono alla realizzazione di
nuovi impianti di tipo policombustibile.
Questi impianti sono progettati per impiegare indifferentemente sia il carbone, sia l’olio
combustibile o il gas, in piena compatibilità ambientale.
L’adozione di tali impianti consente anche di perseguire l’obiettivo strategico di non
vinco- larsi a un solo tipo di combustibile, cosa che potrebbe rivelarsi non conveniente nel
futuro.
L’insieme delle misure da adottare per i nuovi impianti policombustibili sono le
seguenti:
-utilizzare sistemi di combustione di tipo avanzato a bassa emissione di ossidi di azoto, adot-

tando nuovi bruciatori ad alta tecnologia;


-prevedere sistemi di desolforazione dei fumi, provati industrialmente per l’abbattimento

dell’anidride solforosa (SO2) con il nuovo sistema calcare/gesso, che offre più ampie
garan- zie;
-prevedere la possibilità di inserimento di sistemi di denitrificazione dei fiumi, peraltro oggi

non ancora industrialmente maturi; adottare sistemi con precipitatori elettrostatici, che
hanno capacità di abbattimento superiori al 99,7%; i sistemi di abbattimento e
contenimento delle polveri utilizzati negli impianti a combustibili liquidi e solidi
costituiscono una buona solu- zione per le nuove centrali policombustibile;
-utilizzare sistemi di movimentazione del carbone per garantire sicurezza ed elasticità di

approvvigionamento in linea con i più avanzati criteri internazionali di salvaguardia ambien-


tale ed evitare lo spargimento di polvere in ogni fase della movimentazione.
8.2 Distribuzione dell’energia elettrica
Dagli alternatori o dai turboalternatori si ottengono tensioni non superiori a 15 kV e, tra-
mite le stazioni di trasformazione adiacenti alle centrali di produzione, sono elevati a tensioni
standard varianti fra i 220 e i 380 kV (alta tensione), per essere quindi trasportate mediante
linee aeree trifase.
Le linee di trasporto sono sostenute da catene di isolatori e agganciate a tralicci metallici
di altezze notevoli.
Gli elettrodotti in partenza dalle centrali di produzione o, più precisamente, dalle stazioni
di trasformazione, sono controllati da speciali apparecchiature elettroniche (in tutti i loro per-
corsi e per tutta la lunghezza) che intervengono segnalando in tempo reale eventuali
guasti, messe a terra, corto circuiti ecc.
L-72 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.64 Schema di distribuzione dell’energia elettrica.


Durante il loro percorso questi elettrodotti ad alta tensione (220 ÷ 380 kV) fanno capo a
stazioni di trasformazione intermedie che hanno il compito di (fig. L.64):
-ripristinare le tensioni di partenza per le inevitabili cadute di tensione che si verificano lungo
le linee stesse (che hanno lunghezze anche di centinaia di kilometri);
indirizzare l’alta tensione verso stazioni di trasformazione periferiche che abbassano poi
-

questi voltaggi a valori di media tensione, che variano da 5 a 15 kV.

Queste nuove linee vengono poi dirottate alle cabine di trasformazione che servono zone
industriali o artigianali, oppure nei centri abitati mediante cavi sotterranei per motivi di sicu-
rezza, con tensioni di 380/220 V (bassa tensione) per usi civili.
8.3 Sicurezza elettrica
Quadro normativo
La rete di distribuzione dell’energia elettrica ha una diffusione capillare. La presenza di
un impianto di distribuzione dell’energia elettrica implica però problemi di sicurezza, in
quanto la non corretta esecuzione dell’impianto può provocare incidenti anche mortali.
Il quadro tecnico-legislativo, rivolto a disciplinare il settore impiantistico a tutela della
sicurezza degli utenti, in Italia risulta particolarmente funzionale.
Esso è basato sulle tre leggi elencate di seguito.
1. Legge 1.3.1968, n. 186: disposizioni concernenti la produzione di materiali, apparecchia-
ture, installazioni e impianti elettronici ed elettrici. L’art. 1 dispone che: “Tutti i materiali,
le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettronici ed elettrici
devono essere realizzati e costruiti a regola d’arte”. L’art. 2 dispone invece che: “I mate-
riali, le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettronici ed elettrici
realizzati secondo le norme del Comitato Elettrotecnico Italiano si intendono costruiti a
regola d’arte”.
IMPIANTI ELETTRICI

L-73

2.Legge 18.10.1977, n. 791: attuazione della Direttiva del Consiglio della CEE, riguardante le
garanzie di sicurezza che deve possedere il materiale elettrico destinato a essere utilizzato
entro determinati limiti di tensione. Tale legge corrisponde alla direttiva CEE 72/73 del
19.2.1973, detta direttiva sulla bassa tensione.
3.Legge 5.3.1990, n. 46: norme per la sicurezza degli impianti, con particolare riferimento alle

modalità di collaudo. Essa si riferisce agli impianti elettrici, ma anche agli impianti
elettronici, termotecnici, idraulici, per gas, per sollevamento e antincendio in edifici per usi
civili.
Elemento qualificante della legge è il fatto che stabilisca che l’installazione degli impianti
debba essere affidata esclusivamente a imprese autorizzate e iscritte alla Camera di Com-
mercio. A impianto ultimato l’impresa installatrice deve rilasciare al committente la di-
chiarazione di conformità dell’impianto alle norme CEI. Fa parte integrante di tale
dichiara- zione la relazione contenente la tipologia dei materiali impiegati. Senza la
dichiarazione di conformità e, ove previsto, del certificato di collaudo, il sindaco non può
rilasciare il certifi- cato di abitabilità.
Il committente, pertanto, è obbligato a rivolgersi esclusivamente a un’impresa abilitata, in
grado di eseguire l’impianto a regola d’arte, dotato di tutte le opere necessarie per la sicu-
rezza degli utenti. Il mancato rispetto delle norme è sanzionato dall’articolo 16 della stessa
legge e non consente il rilasco del certificato di abitabilità.
Il rinvio alle norme è il criterio ispiratore delle leggi citate. Tale procedura permette di
non richiamare nella legge una particolare prescrizione tecnica, ma di rimandare a una norma
ema- nata da un ente tecnico normatore.
Il vantaggio è evidente: non è necessario adeguare la legge a ogni progresso tecnologico,
ma è sufficiente cambiare la norma (con un iter molto più agevole e rapido).
Effetti della corrente elettrica sul corpo umano
L’effetto della corrente elettrica sul corpo umano dipende dal valore dell’intensità di cor-
rente, dal tempo di esposizione, dal percorso seguito all’interno del corpo, oltre che dalla fre-
quenza della corrente applicata. In particolare risulta pericolosa la frequenza di 50 Hz, tipica
della rete di distribuzione, perché può provocare la fibrillazione ventricolare.
Il valore dell’intensità di corrente si può calcolare ricorrendo al generatore equivalente di
tensione (Thevenin) visto dai due punti di contatto della persona con il sistema (fig. L.65):
Iu ETH =
ZTH +
Zu
L’impedenza Zu dipende dal percorso attraverso il corpo e dalle impedenze di contatto,
che possono essere influenzate dal grado di umidità, dalla pressione di contatto e dalla
temperatura della pelle.

Figura L.65 Generatore equivalente di Thevenin.


Le caratteristiche del generatore di Thevenin, ETH e ZTH, dipendono dal tipo di
contatto e dal tipo di sistema elettrico.
L-74 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Il valore di corrente pericolosa si ricava dalla curva di pericolosità della corrente. Per
averne un’idea, si può ricordare che in c.a. una corrente di valore efficace Iu = 50 mA non
può essere sopportata senza pericolo per più di 1 secondo.

Figura L.66 Curva di pericolosità della corrente elettrica.


La figura L.66 mostra la curva di pericolosità per il passaggio di corrente, definita
nell’intervallo di frequenza tra 15 e 100 Hz, considerando un percorso di attraversamento
dalla mano sinistra ai piedi.
Il grafico, che riporta sulle ascisse il valore dell’intensità di corrente e sulle ordinate il
tempo di esposizione alla corrente, può essere suddiviso nelle seguenti zone:
-assenza di reazioni, fino alla soglia di percezione (dita della mano);

-nessun effetto fisiologico pericoloso, fino alla soglia di tetanizzazione;

-effetti patofisiologici reversibili, che aumentano con 1’intensità della corrente e con il tempo,

quali: contrazioni muscolari, difficoltà di respirazione, aumento della pressione sanguigna,


disturbi nella formazione e trasmissione degli impulsi elettrici cardiaci, fibrillazione atriale e
arresti temporanei del cuore ma senza fibrillazione ventricolare;
-fibrillazione ventricolare, arresto del cuore, arresto della respirazione, gravi bruciature.

Facendo ipotesi esemplificative sulla resistenza del corpo umano e sulle impedenze di
con- tatto, si può ricavare la curva di sicurezza (fig. L.67), così sintetizzabile: una tensione
inferiore a VL, denominata tensione di contatto limite, può essere sopportata per un tempo
illimitato, una tensione di valore più alto può essere sopportata per un tempo che è tanto più
breve quanto più elevato è il suo valore. Si può osservare che in alternata una tensione di 50
V (25 V in partico- lari condizioni) indicata con VL (tensione limite) non può essere tollerata
per più di 5 secondi.

Figura L.67 Curva di sicurezza.


IMPIANTI ELETTRICI

L-75

Protezione contro i contatti


I contatti possono essere divisi in due tipi:
1.contatto diretto: contatto con una parte attiva dell’impianto, ossia normalmente sotto ten-
sione (conduttore, morsetto);
2.contatto indiretto: contatto con una massa, ossia con una parte conduttrice facente parte
dell’impianto elettrico, che può essere toccata e che non è in tensione in condizioni ordina-
rie, ma che può andare sotto tensione per difetto di isolamento (in pratica le masse sono i
contenitori metallici delle apparecchiature).
La protezione dal contatto diretto può essere attuata con:
-barriere meccaniche che impediscono il contatto (isolamento e rivestimento delle parti
attive);
-protezione personali per aumentare l’impedenza dell’uomo, che può essere esposto al con-
tatto (guanti, scarpe isolanti);
-impiego dell’interruttore differenziale ad alta sensibilità.

L’isolamento delle parti attive, necessario per assicurare la protezione contro la folgora-
zione, è detto isolamento principale e va realizzato con materiale isolante, scelto in relazione
al valore di tensione di lavoro e deve essere in grado di resistere a sollecitazioni meccaniche,
chimiche, elettriche e termiche, a cui il sistema può essere sottoposto durante l’esercizio.
Talvolta, per garantire la sicurezza elettrica anche in caso di cedimento dell’isolamento
principale, viene aggiunto un secondo isolamento, detto isolamento supplementare, che impe-
disce il contatto delle parti attive con le masse. In questo caso si parla di doppio
isolamento.
In alcuni ambienti di lavoro bisogna assicurare che gli elementi attivi siano protetti e non
vengano raggiunti da corpi estranei solidi, polveri e acqua.
Le norme IEC definiscono il grado di protezione di involucri e barriere, mediante una
sigla costituita dalle lettere IP (Internal Protection) seguite da due cifre indicative del grado
Cifra Descrizione prima cifra Descrizione seconda cifra
di pro- tezione, riassunto nella tabella L.10.
0 Non protetto Non protetto
Tabella L.10 Grado di protezione di involucri e barriere
1 Protetto contro corpi solidi Protetto contro caduta verticale di
estranei di diametro maggiore di gocce d’acqua
50 mm
2 Protetto contro corpi solidi Protetto contro caduta di gocce
estranei di diametro maggiore di d’acqua con inclinazione massima di
12,5 mm 15°

3 Protetto contro corpi solidi Protetto contro la pioggia


estranei di diametro maggiore di
2,5 mm

4 Protetto contro corpi solidi Protetto contro spruzzi d’acqua


estranei di diametro maggiore di
1 mm
Esempio
5 interruttore,
Un Protetto contro la polvereIP43, risulta:
con involucro Protetto contro getti d’acqua
-protetto contro corpi solidi di diametro maggiore di 1 mm (prima cifra 4);
6 Totalmente protetto contro la polvere Protetto contro getti d’acqua potenti
-protetto dalla pioggia (seconda cifra 3).

7 Protetto contro gli effetti


dell’immersione temporanea

8 Protetto contro gli effetti


dell’immersione continua
L-76 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

La protezione dal contatto indiretto può essere di tipo attivo o passivo: la prima prevede
la rapida interruzione del circuito in caso di guasto; la seconda è rivolta a limitare la tensione
che può essere applicata al corpo umano in caso di guasto.
La protezione attiva contro i contatti indiretti consiste nel collegamento a terra di tutte le
masse tramite un conduttore di protezione. Nel caso di guasto si genera una corrente
verso terra che, rilevata da un apposito dispositivo di protezione, causa un’interruzione del
circuito.
Le norme CEI prevedono l’utilizzo di un conduttore di protezione, distinto dal conduttore
di neutro dell’impianto, che connetta le masse dell’impianto all’impianto di terra.
Inoltre l’interruzione del circuito deve essere realizzata in un tempo massimo di 5
secondi,
se la tensione di contatto è pari a 50 V, in modo da rimanere nelle prescrizioni della curva
di sicurezza.
L’impiego dei dispositivi di massima corrente, quali fusibili e interruttori
magnetotermici,
per interrompere il circuito è praticamente impossibile, poiché si dovrebbe realizzare un
impianto di terra di resistenza quasi nulla, in modo da trasformare il guasto verso terra in un
corto circuito.
Nelle applicazioni pratiche è più conveniente ricorrere, come nel caso di contatti diretti,
agli interruttori differenziali, che garantiscono l’intervento anche con valori di resistenza di
terra realizzabili con minori costi.
La protezione passiva contro i contatti indiretti si può realizzare con:
-uso di apparecchi con doppio isolamento o isolamento rinforzato, tale da rendere pratica-

mente impossibile il contatto delle parti attive con la massa per deterioramento dell’isolante;
-uso di una tensione ridotta di sicurezza (per esempio, tensione ridotta E = 24 V);

-separazione elettrica (uso di un trasformatore di isolamento).

La separazione elettrica si ha quando si alimenta l’impianto mediante un trasformatore a


rapporto unitario, con requisiti costruttivi tali da impedire un eventuale corto circuito fra
l’avvolgimento primario e quello secondario (trasformatore di isolamento).
L’impianto deve essere poco esteso in modo da limitare le correnti capacitive al
secondario del trasformatore.
Bisogna osservare che le masse vanno comunque interconnesse, così da evitare che
due
masse di circuiti diversi possano, per cedimenti dell’isolamento, entrare in contatto con
parti attive e presentare fra esse una tensione pericolosa per la persona che le tocca entrambe.
Il collegamento equipotenziale fra le masse trasforma il doppio guasto in un corto
circuito
permettendo l’intervento dei dispositivi di massima corrente quali fusibili e interruttori
magne- totermici.
Le masse non devono essere collegate a terra in quanto guasti su altri apparecchi
alimentati
direttamente dalla rete potrebbero introdurre potenziali pericolosi.
Interruttore differenziale
In caso di contatti diretti o indiretti, per interrompere rapidamente il flusso di corrente che
scorre attraverso il corpo umano, è utilizzato un dispositivo automatico di sgancio, detto
inter- ruttore differenziale, che è sensibile alla corrente differenziale.
Con corrente differenziale si intende la somma vettoriale delle correnti che scorrono nei
conduttori di alimentazione dell’impianto, compreso l’eventuale conduttore di neutro.
Tale somma è nulla in condizione di normale funzionamento dell’impianto, mentre risulta
diversa da zero in caso di dispersione verso terra, determinata da un contatto diretto o da una
massa collegata all’impianto di terra che è andata sotto tensione per un difetto di isolamento
di
un elemento attivo.
Negli interruttori differenziali sono presenti essenzialmente tre gruppi di componenti: il
trasformatore toroidale o toroide, il relè di sgancio e il meccanismo di apertura.
Il toroide ha il compito di rilevare le correnti di guasto verso terra: infatti, se l’impianto
funziona correttamente, il flusso magnetico generato nel toroide dagli avvolgimenti dei con-
SEMICONDUTTORI E GIUNZIONI PN

L-77

duttori di alimentazione è nullo; in presenza di un guasto con dispersione di corrente a terra,


si induce una corrente nel secondario del trasformatore che, applicata al relè di sgancio,
aziona il meccanismo di apertura dell’interruttore differenziale (fig. L.68).

Figura L.68 Schema di principio di un interruttore differenziale.


Gli interruttori sono dotati di un pulsante di prova (su di esso è stampigliata la lettera T),
che serve a verificare il corretto funzionamento del meccanismo di sgancio, in quanto
provoca il passaggio di una corrente differenziale.
Le norme prescrivono l’uso di interruttori differenziali ad alta sensibilità, ovvero con cor-
rente avente differenziale di intervento minore di 30 mA e con un tempo di intervento
inferiore a 0,3 secondi.

9 SEMICONDUTTORI E GIUNZIONI PN
Materiali semiconduttori
1.

I semiconduttori sono materiali che presentano, a temperatura ambiente, caratteristiche


elettriche (e in particolare la conduttività) intermedie fra quelle dei conduttori e quelle degli
isolanti. I più importanti, silicio e germanio, fanno parte del IV gruppo della Tavola periodica
degli elementi (vedi sezione D), ma vi sono alcuni composti, come l’arseniuro di gallio e il
sol- furo di cadmio, che godono delle stesse proprietà.
Il silicio e il germanio presentano quattro elettroni di valenza e una struttura cristallina
nella quale l’interazione reciproca fra un atomo e quelli adiacenti è molto forte:
l’attrazione di un atomo sull’elettrone di valenza di un atomo adiacente crea un legame
covalente. Ciò fa sì che gli elettroni di valenza risultino saldamente vincolati nel reticolo
cristallino.
A temperatura ambiente, nel materiale semiconduttore vi è una percentuale molto piccola
di elettroni di valenza che hanno un’energia sufficiente per liberarsi da questo vincolo.
Quando questo accade, con la rottura di un legame covalente si genera un elettrone libero
(che può
muoversi liberamente nel semiconduttore) e una lacuna (ossia il posto vuoto lasciato
dall’elet- trone che si è liberato). L’importanza della lacuna consiste nel fatto che l’esistenza
di un legame incompleto rende probabile il trasferimento di un elettrone, vincolato a un altro
legame
covalente, nella lacuna lasciando così una lacuna al suo posto.
Quando si applica una differenza di potenziale agli estremi del cristallo, si ha una piccola
conduzione di corrente, dovuta agli elettroni liberi, che si muovono ordinatamente verso la
polarità positiva, e alle lacune, che si spostano verso la polarità negativa (a causa dello
sposta- mento di elettroni dei legami covalenti, che riescono a saltare da un legame a un
altro, occu- pando una lacuna e lasciandone una al loro posto). La lacuna può quindi essere
assimilata a una particella positiva con la stessa carica, in modulo, di un elettrone.
L-78 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Nella figura L.69a sono rappresentati i nuclei di silicio e gli elettroni di valenza; poiché
le coppie lacuna-elettrone libero, che si formano a temperatura ambiente a causa
dell’agitazione termica sono molto poche, la resistività del semiconduttore puro (detto anche
intrinseco) è abbastanza elevata.
Le caratteristiche dei materiali semiconduttori vengono sfruttate e controllate inserendo
nella struttura cristallina di Si e Ge atomi trivalenti o pentavalenti. Questo consente di aumen-
tare sensibilmente la loro conduttività e di avere correnti apprezzabili anche con
l’applicazione di campi elettrici piuttosto deboli.

Figura L.69 Struttura cristallina del silicio: a) intrinseco; b) drogato di tipo n.


Un cristallo di materiale a cui siano stati aggiunti atomi di impurità si dice drogato. Il
pro- cesso di drogaggio, con il quale sostanzialmente si ottiene la sostituzione, nel reticolo
cristal- lino, di un atomo rispettivamente tetravalente (4 elettroni di valenza) con uno
pentavalente o trivalente (5 o 3 elettroni) provoca una sovrabbondanza di elettroni liberi o di
lacune.
Il drogaggio con impurità pentavalenti viene detto di tipo n.
Nella figura L.69b è possibile vedere che, quando un atomo pentavalente (per esempio
fosforo p) sostituisce uno di silicio, 4 dei suoi 5 elettroni di valenza formano legami covalenti
con gli atomi di silicio adiacenti, mentre il quinto, già a temperatura ambiente, può
facilmente svincolarsi dall’atomo ed è libero di vagare nel reticolo cristallino, aumentando
così la percen- tuale di elettroni liberi.
Il materiale, oltre alla conducibilità per il drogaggio, presenta la conducibilità intrinseca
per agitazione termica, per cui nel cristallo drogato di tipo n sono presenti non solo gli
elettroni ma anche le lacune, che sono però in numero assai inferiore e per questo motivo
sono dette portatori di carica minoritari, o più semplicemente, cariche minoritarie. Gli
elettroni sono invece detti cariche maggioritarie. Gli atomi droganti di tipo n vengono detti
donatori, in quanto, già a temperatura ambiente, perdono il loro quinto elettrone di valenza.
Analoghe osservazioni valgono nel caso di un drogaggio a opera di atomi trivalenti, detto
drogaggio di tipo p, che provoca invece una sovrabbondanza di lacune, a causa dei legami
incompleti in presenza degli atomi droganti. In questo caso gli atomi droganti vengono
invece detti accettori.
Occorre precisare che, nonostante il drogaggio, il cristallo rimane elettricamente neutro:
per esempio, nel caso di un semiconduttore di tipo n, la carica negativa degli elettroni in
eccesso è bilanciata dall’equivalente carica positiva degli atomi donatori che hanno
ceduto un elettrone (e che sono quindi diventati ioni positivi).
9.2 La giunzione pn
Se un semiconduttore è drogato in parte di tipo p e in parte di tipo n, la superficie di sepa-
razione fra le due regioni differentemente drogate è detta giunzione pn, e costituisce la
regione attiva dei dispositivi a semiconduttori (fig. L.70).
SEMICONDUTTORI E GIUNZIONI L-79
PN

Figura L.70 Giunzione pn.


Nei pressi della giunzione, a causa della differenza di concentrazione di lacune ed
elettroni dai due lati, si ha un moto spontaneo di diffusione delle cariche elettriche: questo dà
origine a una corrente detta di diffusione Idiff con verso dalla zona p alla n. Gli elettroni
della regione n si diffondono nella regione p e si neutralizzano con le lacune ivi presenti;
analogamente le lacune passano da p a n. Ciò crea una zona che, a causa delle
ricombinazioni lacuna-elettrone è priva di portatori di carica liberi.
Essa viene quindi detta zona di svuotamento e presenta una certa carica negativa dal
lato p
e una carica positiva dal lato n, a causa degli atomi droganti che hanno perso i rispettivi
porta- tori di carica in seguito alla ricombinazione.
Per questo motivo la zona di svuotamento viene indicata anche come zona di carica spa-
ziale e si presenta come una porzione di dielettrico che determina un effetto capacitivo ai capi
della giunzione. La distribuzione di cariche nei pressi della giunzione genera una d.d.p.
detta
barriera di potenziale.
Nella zona di carica spaziale si determina pertanto un campo elettrico che si oppone a
un’ulteriore diffusione di portatori di carica maggioritari (elettroni da n a p e lacune da p a n)
e favorisce invece un flusso di cariche minoritarie in senso opposto, detto corrente di deriva
o di drift Idrift. Esaurito il transitorio, i flussi di portatori di carica maggioritari (corrente di
diffu- sione) e di cariche minoritarie (corrente di deriva) si equilibrano, dando quindi una
corrente complessiva nulla.
9.3 Polarizzazione inversa e diretta della giunzione pn
Collegando una batteria ai capi di un cristallo di semiconduttore pn il moto dei portatori e
il flusso della corrente vengono determinati dalla polarità e dal valore della tensione
applicata e dai suoi effetti sulla zona di carica spaziale. Se si considerano le zone di
semiconduttore dro- gato come dei conduttori (dato che l’aggiunta degli atomi droganti ne
ha aumentato considere- volmente la conducibilità), si può pensare che la tensione della
batteria sia applicata diret- tamente alla zona di svuotamento, andando a sommarsi
algebricamente alla barriera di poten- ziale.
Nella figura L.71a il potenziale della batteria va a sottrarsi a quello della barriera di
poten- ziale, favorendo un aumento della corrente di diffusione rispetto a quella di deriva. Se
il poten- ziale della batteria diventa maggiore della barriera di potenziale, la giunzione si
dice polarizzata direttamente e la corrente, dovuta ai portatori maggioritari, non è più
soggetta ad alcuna limitazione.
In polarizzazione diretta, per evitare un danneggiamento della giunzione dovuto a una
cor- rente troppo elevata, è necessario inserire in serie al dispositivo una resistenza di
limitazione della corrente.
L-80 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.71 Giunzione pn: a) in polarizzazone diretta; b) in polarizzazione inversa.


Nella figura L.71b gli elettroni liberi della zona n sono attratti verso il morsetto positivo
della batteria, lontano dalla giunzione; anche le lacune vengono allontanate dalla giunzione,
determinando un allargamento della regione di carica spaziale e un aumento della barriera di
potenziale. La giunzione è detta polarizzata inversamente e la corrente, detta corrente inversa
di saturazione, risulta debolissima poiché è dovuta solo ai portatori minoritari (corrente di
deriva).
Il cristallo di materiale semiconduttore, drogato in modo da creare una giunzione pn, può
essere visto come un componente unidirezionale, detto diodo a semiconduttore, che
consente lo scorrimento della corrente in un solo verso.

10 DIODI A SEMICONDUTTORE
I diodi
1.

Un diodo a semiconduttore è costituito da un cristallo di silicio o di germanio, drogato in


modo da avere una zona p collegata al terminale anodo (A) e una zona di tipo n al catodo
(K), separate da una giunzione. Il simbolo elettrico è mostrato nella figura L.72a.
Nel panorama dei componenti discreti a semiconduttore, che tendono sempre più a essere
sostituiti da quelli integrati, il diodo costituisce un caso assai particolare per la versatilità
del suo impiego, per la semplicità delle soluzioni che offre a molti problemi e per la grande
varietà di tipi che possono essere utilizzati in campi diversi.
Infatti, come componente discreto, è ancora molto usato e rimane insostituibile in molte
applicazioni, soprattutto di potenza.
La funzionalità di un diodo viene descritta dalla curva caratteristica (fig. L.72b) che
esprime l’andamento della corrente (I) al variare della tensione fra anodo e catodo
(VAK).

Figura L.72 Diodo: a) simbolo elettrico; b) curva caratteristica volt-


amperometrica.
DIODI A SEMICONDUTTORE

L-81

Per tensioni positive il diodo è in conduzione e la corrente I cresce esponenzialmente con


la tensione VAK: la corrente è positiva, di valore considerevole e diretta dall’anodo al catodo.
Per una tensione VAK, compresa fra 0 e V, la corrente assume valori trascurabili: V è
la tensione di soglia oltre la quale la corrente assume valori apprezzabili.
Per tensioni negative la giunzione è polarizzata inversamente. La corrente I 0 viene detta
corrente inversa di saturazione, è negativa e presenta valori molto piccoli (dell’ordine del
nA).
Per le correnti negative, nella figura L.72 si è usata una scala espansa, per evidenziare
l’ordine di grandezza delle correnti in gioco; per le tensioni inverse si è usata una scala com-
pressa, per poter rappresentare sul grafico anche valori elevati della corrente inversa: infatti,
per tensioni negative e molto elevate, si verifica la rottura della giunzione (breakdown).
Il forte campo elettrico, generato dalla differenza di potenziale applicata ai capi del diodo,
libera molti elettroni dai loro legami covalenti; questi elettroni così accelerati urtano atomi
vicini, fornendo energia ad altri elettroni che a ---loro volta
 si liberano, determinando così un
I = I0avalanga
pro- cesso a catena e una moltiplicazione eV----VT –di 1portatori
 liberi.
Il tratto a destra della zona di rottura
 è descritto dalla  seguente relazione:

dove V T è l’equivalente in tensione della temperatura e valeV T = T/11 600. A temperatura


ambiente (T = 300 K) VT = 26 mV;  = 1, per diodi al Ge, e  = 2 per diodi al silicio.
La corrente nel diodo varia con la temperatura a causa della variazione di V T e di I 0;
quest’ultima si può considerare raddoppiata per ogni 10 °C di aumento della temperatura. A
sua volta la tensione V corrispondente a un certo valore I della corrente diretta,
diminuisce al crescere della temperatura, con un coefficiente termico negativo V/T =
2,5 mV/°C.
10.2 Il diodo come elemento circuitale
Se si considera il circuito dellafigura L.73a si può scrivere la seguente relazione:
v = vi – i RL

Essa è l’equazione di una retta nel piano i,v con pendenza –1/RL, retta che prende il
nome di retta di carico (fig. L.73b).
La relazione tra i e v è descritta dalla caratteristica del diodo; l’intersezione fra la retta
di
carico e la caratteristica individua il punto di funzionamento o di lavoro statico Q 1, cioè il
punto che fornisce i valori di i e v per quel particolare diodo, in quel circuito, con quel valore
di RL e con una data tensione vi = V1.

Figura L.73 Diodo: a) circuito; b) individuazione della retta di carico sulla


caratteristica.
L-82 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Se vi varia, la retta di carico si sposta mantenendo la stessa inclinazione e così si sposta il


punto di lavoro (Q2). Pertanto, al variare della tensione di ingresso, il punto di lavoro si
muove sulla caratteristica del diodo.
Limitatamente a piccoli segnali, cioè se la tensione vi compie piccole escursioni e quindi
il punto di lavoro subisce piccoli spostamenti, è talvolta utile considerare la resistenza
dinamica
o resistenza differenziale, definita come:
rd = dv/di
La resistenza R ottenuta dal rapporto fra V e I in un dato punto, detta resistenza statica,
non è invece di grande utilità, poiché dipende in larga misura dal tratto di caratteristica consi-
derato.
Anche rd dipende dalla tensione e dalla corrente di lavoro; tuttavia, limitatamente a pic-
cole variazioni, è ragionevole considerarla costante.
Nella maggior parte delle applicazioni è possibile rappresentare il diodo con un
modello
semplificato (fig. L.74). In questo caso il diodo è rappresentato con un interruttore
comandato dalla tensione presente ai suoi capi: quando tale tensione è minore della tensione
di soglia, ovvero in polarizzazione inversa, il diodo può essere visto come un circuito aperto,
se si tra- scura la corrente inversa di saturazione; invece, in polarizzazione diretta, è
equivalente a una batteria (che tiene conto della tensione di soglia) in serie alla resistenza
dinamica rd del valore
di pochi ohm.

Figura L.74 Modello semplificato del diodo: rappresentazione grafica e circuiti equivalenti
in polarizzazione diretta e inversa.
Data una rete con diodi, per determinare il punto di funzionamento di ciascun diodo, e
conseguentemente correnti e tensioni sugli altri elementi della rete, è consigliabile la seguente
procedura:
-si valuta, avendo come riferimento i valori dei componenti, se la tensione ai capi del diodo è

superiore o inferiore a quella di soglia V;


-si sostituisce il modello equivalente;

-si effettuano i calcoli necessari a determinare tensioni e correnti su ogni elemento della rete.

10.3 Circuiti raddrizzatori


I circuiti raddrizzatori convertono una tensione alternata, con valore medio nullo, in una
tensione unipolare con valore medio non nullo. Essi sono utilizzati per realizzare gli
alimenta- tori in continua assieme a un trasformatore, per abbassare il livello di tensione, e a
un filtro, per livellare la tensione unipolare pulsante fornita dal raddrizzatore.
Può esserci anche uno stabilizzatore di tensione (alimentatori stabilizzati) per livellare
ulteriormente le ondulazioni residue e per rendere la tensione continua generata indipendente
dal carico.
DIODI A L-83
SEMICONDUTTORE

Figura L.75 Circuiti raddrizzatori: a) a un diodo; b) a due diodi; c) a ponte di Graetz.


Raddrizzatori a un diodo
Nella semionda positiva di vs il diodo è polarizzato direttamente, quindi la tensione è tra-
sferita sul carico, mentre in quella negativa il diodo è interdetto e conseguentemente la ten-
sione di uscita risulta nulla (fig. L.75a). Si parla anche di raddrizzatore a singola semionda
(half wave).
Raddrizzatori a due diodi
In questo caso è necessario un trasformatore a presa centrale, in modo che la tensione ai
capi del secondario sia ripartita in due parti uguali, ma di verso opposto.
In questo modo il diodo D 1 conduce solamente nelle semionde positive, e D 2 conduce
nelle semionde negative (fig. L.75b). Le correnti che scorrono nelle due semionde in D1 e
D2 percorrono il carico RL nello stesso verso, causando un ribaltamento della semionda
negativa.
Per questo motivo il circuito è detto raddrizzatore a doppia semionda (full wave).
Raddrizzatore a ponte di Graetz
Si tratta sempre di un raddrizzatore a doppia semionda, che non richiede l’utilizzo del tra-
sformatore a presa centrale, ma necessita di quattro diodi a ponte come rappresentato nella
figura L.75c.
Durante la semionda positiva la corrente scorre, nell’ordine, in D2, RL e D3, mentre
nella
semionda negativa sono polarizzati direttamente gli altri due diodi e quindi il percorso
della corrente risulta D 4, RL e D1. Il verso della corrente nel carico è sempre lo stesso e
produce, come nel circuito precedente, il ribaltamento della semionda negativa.
Raddrizzatore con filtro capacitivo
Generalmente la tensione pulsante fornita dai raddrizzatori viene livellata con un filtro
capacitivo. Analizzando il caso più semplice, ovvero con un raddrizzatore a singola semionda
L-84 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

(fig. L.76), si vede che il condensatore si carica attraverso il diodo, fino al valore di picco
della tensione di uscita, ma può scaricarsi solo sul carico RL, dato che nel diodo la corrente
può cir- colare in un solo senso.
La scarica avviene quindi con un andamento esponenziale e costante di tempo  = RL ·
C. Il
diodo torna in conduzione, interrompendo la scarica del condensatore, solo quando la
tensione sul secondario del trasformatore supera la tensione di uscita del valore di soglia
V .
La tensione applicata al carico risulta, quindi, la somma di una componente continua e di
un’ondulazione residua, detta ripple, tanto più piccola quanto maggiore è la costante di
tempo
 = RL · C.
Si noti che il diodo risulta in conduzione solo in una piccola porzione della semionda,
durante la quale è percorso da un impulso di corrente che ripristina la carica ceduta dal con-
densatore al carico e che può raggiungere un valore di picco notevole.

Figura L.76 Circuito raddrizzatore con filtro capacitivo.

10.4 Diodi speciali


Diodo Zener
Quando si porta un diodo normale a lavorare con tensioni inverse molto elevate, avviene
un fenomeno degenerativo (detto breakdown) che porta alla rottura della giunzione. I diodi
Zener sono invece costruiti con caratteristiche tali da permetterne il funzionamento, senza
dan- neggiare il dispositivo, nella zona di breakdown, che si trova a valori di tensione
inversa molto più bassi rispetto a un diodo normale.
Per poter lavorare nella zona di breakdown, è necessario che la potenza e la temperatura
di lavoro del diodo rimangano basse.
Inoltre la giunzione non deve presentare irregolarità come un drogaggio non uniforme o
concentrazioni di impurità, che possono diventare punti caldi dove si concentra un passaggio
di corrente intenso.
La caratteristica tensione-corrente nella zona di breakdown ha un andamento quasi verti-
cale, causando variazioni di tensione intorno alla cosiddetta tensione di Zener molto limitate,
anche quando il dispositivo è sottoposto a variazioni di corrente notevoli.
Per questo motivo i diodi Zener sono utilizzati, in polarizzazione inversa, nei circuiti in
cui sia necessario stabilizzare una tensione. In polarizzazione diretta, invece, il diodo Zener
si comporta come un diodo normale.
Il fenomeno del breakdown può avvenire con due diverse modalità:
-breakdown di tipo Zener, quando il drogaggio molto intenso comporta una giunzione molto
stretta e quindi un campo elettrico assai intenso, in grado di rompere numerosi legami cova-
lenti e di determinare una corrente considerevole anche con basse tensioni applicate; in
que- sto caso VZ è minore di 5 V; l’aumento della temperatura facilita la rottura dei legami
e di conseguenza la tensione di Zener diminuisce al crescere della temperatura;
DIODI A SEMICONDUTTORE

L-85

-breakdown con effetto valanga, quando, in diodi con drogaggi relativamente bassi, la ten-
sione esterna applicata accelera i portatori provocando collisioni con gli atomi circostanti e
una conseguente moltiplicazione a valanga di portatori liberi; la VZ è maggiore di 6 V e al
crescere della temperatura aumenta il numero delle collisioni con il reticolo cristallino,
facendo diminuire la probabilità che le cariche libere acquistino energia a sufficienza per
innescare il processo a valanga; la tensione di Zener aumenta con la temperatura.

I diodi con tensione di Zener intorno ai 6 V presentano contemporaneamente entrambe le


modalità, quindi le variazioni di VZ con la temperatura tendono ad annullarsi, avendo i due
fenomeni coefficienti di temperatura di segno opposto.
Diodo Schottky
È costituito da una giunzione metallo-semiconduttore, per esempio alluminio con silicio
drogato di tipo n.
Il diodo Schottky presenta caratteristiche analoghe a quella dei diodi al silicio, ma è carat-
terizzato da una tensione di soglia minore, intorno a 0,35 V.
Questo diodo offre ottime prestazioni anche per quanto riguarda la velocità di
commuta-
zione e viene diffusamente impiegato sia in forma discreta, sia nella realizzazione di
circuiti integrati.
Diodo Tunnel
I diodi Tunnel sono diodi che presentano un’area di giunzione di dimensioni molto
ridotte, cosa che permette di avere capacità di giunzione piccole e tempi di commutazione
trascurabili.
La caratteristica corrente-tensione presenta un tratto a pendenza negativa (fig. L.77), cosa
che può essere utilizzata in applicazioni come gli oscillatori.
Diodo Varicap
L’effetto capacitivo che si manifesta in prossimità di una giunzione e la dipendenza di
tale effetto dalla tensione di polarizzazione inversa consentono di utilizzare i diodi come
capacità variabili.
Vengono realizzati diodi particolarmente adatti a questa funzione, che prendono il nome
di varicap (o varactor). I valori capacitivi che si possono ottenere vanno da pochi a qualche
cen- tinaio di picofarad.
I diodi varicap sono utilizzati in applicazioni per le telecomunicazioni, come circuiti
modulatori e moltiplicatori di frequenza, amplificatori in radiofrequenza, miscelatori e
oscilla- tori.

Figura L.77 Caratteristiche volt-amperometriche del diodo


Tunnel.
L-86 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

LED (Light Emitting Diode)


È un dispositivo a giunzione, realizzato con particolari materiali semiconduttori, che
emette radiazioni luminose quando si trova in polarizzazione diretta.
In un diodo polarizzato direttamente scorre una corrente diretta dovuta al movimento
con- temporaneo di elettroni verso la zona p e di lacune verso la zona n; in prossimità della
giunzio-
ne è assai probabile la ricombinazione di coppie elettrone-lacuna, con conseguente
decadi- mento dell’energia propria dell’elettrone; ciò comporta l’emissione di energia, di
tipo termico nei normali diodi, di tipo luminoso nei LED.
La lunghezza d’onda della luce generata, che in sostanza determina il colore del LED,
dipende dal particolare semiconduttore con cui esso è realizzato (fosfuro di gallio, arseniuro
di gallio e altri) oltre che dagli agenti droganti utilizzati.
L’intensità dell’emissione aumenta all’aumentare della corrente diretta e al diminuire
della temperatura. Valori tipici della corrente diretta per una buona luminosità sono compresi
fra 5 e 20 mA con tensioni dirette dell’ordine di 1,6 ÷ 2,2 V. La massima tensione inversa
applicabile
assume valori piuttosto ridotti, in genere minori di 5 V.
I LED vengono largamente impiegati come elementi visualizzatori e segnalatori luminosi
in virtù della loro lunga durata, del basso consumo di energia, della velocità di commutazione
e delle ridotte dimensioni.
La possibilità di assemblare in un unico contenitore numerosi LED, secondo configura-
zioni geometriche opportune, consente di realizzare visualizzatori numerici e alfanumerici
(display a 7 segmenti o a matrice di punti) per strumentazione digitale.
Fotodiodo
È un diodo sensibile alle radiazioni luminose. L’energia luminosa incidente su una giun-
zione polarizzata inversamente causa la generazione di numerosi portatori liberi, che determi-
nano una corrente inversa di valore sensibile.
Tale corrente è proporzionale all’intensità dell’energia luminosa e dipende dalla
lunghezza d’onda della radiazione incidente.
I fotodiodi trovano applicazione nel campo dei controlli di luminosità, dei controlli ottici
di posizione e velocità e nel campo delle fibre ottiche.

11 TRANSISTOR
Il BJT (Bipolar Junction Transistor)
1.

Il termine transistor, contrazione di transfer resistor (resistore di trasferimento) è stato


introdotto dai primi sperimentatori per sottolineare come, in determinate condizioni di
funzio- namento, questo dispositivo sia in grado di trasferire una variazione di corrente da
una resi- stenza bassa a una di valore più elevato, ricavandone un’amplificazione di tensione.
L’aggettivo bipolare evidenzia un processo di conduzione nel semiconduttore che coinvolge
contemporaneamente i portatori maggioritari e minoritari.
Il transistor è costituito da un cristallo di silicio composto da 3 regioni adiacenti drogate
alternativamente di tipo p e n, separate da due giunzioni: sono possibili due strutture
comple- mentari: il transistor npn, in cui la regione centrale, detta base è di tipo p e quelle
esterne, col- lettore ed emettitore, sono drogate di tipo n e il transistor pnp che ha invece
collettore ed emettitore di tipo p e base con drogaggio n.
La superficie di separazione base-emettitore è la giunzione JE, mentre quella base-collet-
tore è indicata con JC.
La simmetria dei modelli rappresentati nella figura L.78 è convenzionale; in realtà le
giun- zioni JE e JC hanno forma e area diverse, come pure risulta diversa l’intensità del
drogaggio delle varie zone. Ne consegue che i terminali di emettitore e collettore non
possono essere
scambiati tra di loro e vengono espressamente indicati dal costruttore.
TRANSISTOR

L-87

Nel simbolo elettrico la freccia individua il terminale di emettitore e il suo verso è con-
corde con il verso della corrente di emettitore, caratterizzando il BJT npn quando è uscente, e
il BJT pnp se entrante.

Figura L.78 Modelli di BJT: a) npn; b) pnp; c) e d) rispettivi simboli elettrici.


Risulta essenziale per il funzionamento del BJT che la regione di base sia molto sottile e
poco drogata rispetto a quella di emettitore.
La struttura costruttiva del transistor è abbastanza differente dal modello sopra riportato,
in quanto il collettore è costituito dal substrato del cristallo di silicio e contiene al suo interno
due
diffusioni circolari concentriche che realizzano la base e l’emettitore; i contatti di base ed
emettitore sono realizzati sulla faccia superiore del cristallo, mentre quello di collettore è rea-
lizzato sulla faccia inferiore (fig. L.79).
Per lo studio del comportamento del transistor, è comunque più semplice lavorare con i
modelli rettangolari e le conclusioni che se ne traggono valgono anche per le varie strutture
dei BJT commerciali.

Figura L.79 Struttura costruttiva di un BJT


npn.
L-88 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Per il transistor sono possibili due diverse applicazioni: come amplificatore di segnale,
quando lavora in linearità, oppure come interruttore elettronico, in funzionamento on/off.
Il funzionamento in linearità si ha quando la giunzione JE è polarizzata direttamente e la
giunzione JC inversamente. In questo caso, se il comportamento del transistor fosse simile a
quello di due diodi affacciati, si dovrebbe avere solamente una corrente che interessa
emetti- tore e base, mentre la giunzione tra base e collettore dovrebbe essere interdetta. In
realtà, la
situazione è molto più complessa, a causa delle particolarità della zona di base e
dell’intera- zione tra le due giunzioni.
Facendo riferimento per la spiegazione al BJT pnp, rappresentato nella figura L.80, si
può
notare che, a causa della polarizzazione diretta della giunzione JE, si ha una corrente di
porta- tori di carica maggioritari che scorre dall’emettitore verso la base, costituita
principalmente dalle lacune che si spostano da E a B e in misura molto minore dagli elettroni
liberi che dalla base vanno verso l’emettitore.
La notevole dissimmetria fra i due contributi è dovuta al fatto che la base è poco drogata
e quindi presenta una bassa concentrazione di elettroni liberi, mentre l’emettitore presenta un
drogaggio elevato. Giunte nella base, le lacune hanno poche probabilità di ricombinarsi
con gli elettroni liberi presenti in numero relativamente scarso e, vista la sottigliezza della
regione, esse giungono nelle vicinanze di JC che attraversano sotto l’effetto del campo
elettrico causato
dalla batteria VCB.
A titolo indicativo si può pensare che solo una lacuna su cento si ricombini nella base,
dando luogo alla componente principale della corrente di base IB, mentre le lacune che
prose- guono il loro cammino attraverso JC, danno origine alla componente principale della
corrente di collettore IC.
La componente principale di IC risulta quindi essere costituita da una frazione  legger-
mente inferiore a 1 (per esempio 0,99) della corrente di emettitore IE. Il coefficiente  tiene
conto del fatto che alla corrente di emettitore contribuiscono anche gli elettroni liberi, che si
spostano dalla base all’emettitore e le lacune che si sono ricombinate alla base.
Questi due contributi risultano però molto più piccoli rispetto a quello delle lacune che
dall’emettitore transitano nella base per andare nella regione di collettore.
L’altra componente di IC, molto minore come intensità, è costituita dalla corrente
inversa
di saturazione ICB0 dovuta ai portatori minoritari presenti nella base e nel collettore, che
ven- gono messi in movimento dalla polarizzazione inversa della giunzione JC.

Figura L.80 Correnti all’interno di un BJT


pnp.
TRANSISTOR

L-89

Questa corrente inversa di saturazione è generalmente trascurabile, ma in alcuni casi


parti- colari fa sentire i suoi effetti, in quanto aumenta con il crescere della temperatura e con
l’espo- sizione della giunzione a radiazioni luminose o nell’infrarosso (fenomeno sfruttato
nei foto- transistor).
Si può quindi scrivere:
IC =  · IE + ICB0
e, considerando il transistor come un nodo, per il primo principio di Kirchhoff si ha:
IE = IC + IB
Sostituendo nella relazione precedente e portando i termini con I C a primo membro si
ottiene:
IC   · IC = · IB + ICB0
da cui si ricava:
----------- IB
IC = 1–
+ -----1----- ICB0
1– Infine, ponendo = /(1  ) si ottiene:
IC = · IB + ( +
1) · ICB0
Se in questa formula si trascura il contributo di ICB0, a causa del suo basso valore, si
ottiene che = I C/IB e può essere sostituito con il parametro h FE fornito dai costruttori
nei data sheet e indicato come guadagno di corrente in continua (DC Current Drain).
L’approssimazione hFE è senz’altro lecita nei casi pratici di BJT al silicio, per
- se  = 0,9= 9; 
i quali
- se  = 0,99 = 99; 
- seIC B sono
 =e I0,999 999. molto maggiori di ICB0 fino a temperature di lavoro elevate.
=entrambe
È da notare che questo parametro aumenta quanto più  si avvicina all’unità, per
transistor in commercio hanno un valore di hFE (o ), compreso tra 10 e 1000.
Iesem-
Le considerazioni fatte sono valide anche per il transistor complementare npn, avendo
peròpio:l’accortezza di scambiare i versi di tutte le tensioni e le correnti in gioco e di sostituire
nel ragionamento le lacune con gli elettroni liberi e viceversa.

Figura L.81 Configurazione a emettitore


comune.
L-90 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Si osserva che a una data IB corrisponde una IC molto maggiore e si può quindi pensare
di assumere IB come corrente di ingresso e IC come corrente di uscita, collegando il BJT
come nella figura L.81, ossia nella configurazione che riveste maggiore interesse applicativo.
La configurazione è detta a emettitore comune (CE, Common Emitter), in quanto l’emetti-
tore risulta collegato sia alla maglia di ingresso, sia a quella di uscita.
11.2 Caratteristiche di ingresso e di uscita del BJT
Risultano importanti le curve che rappresentano le relazioni fra i parametri della maglia
di ingresso I B, VBE e quelli della maglia di uscita I C, VCE che sono chiamate,
rispettivamente caratteristiche di ingresso e caratteristiche di uscita del BJT in
configurazione a emettitore comune. Nella figura L.82a sono riportate le caratteristiche di
ingresso che, rappresentando il legame tra la corrente (IB) e la tensione (VBE) di una
giunzione in polarizzazione diretta, sono influenzate minimamente dal valore della tensione
di uscita VCE, e sono quindi curve simili a quella di un diodo; la tensione VBE di lavoro
può variare fra 0,6 V e 0,8 V, a seconda di IB, e si assume convenzionalmente un valore di
0,7 V per effettuare un’analisi approssimata della maglia di base. Si deve evitare una
polarizzazione inversa troppo elevata di JE, che porterebbe alla rottura irreversibile
(breakdown) della giunzione. La tensione di breakdown non supera normalmente i 7 V.

Figura L.82 BJT in configurazione ad emettitore comune: a) caratteristiche d’ingresso;


b) caratteristiche di uscita.
Le caratteristiche di uscita rappresentano l’andamento di IC al variare di VCE per valori
costanti di IB. Per valori di VCE superiori a pochi decimi di volt, le caratteristiche appaiono
ben distinte (fig. L.82b) e, in prima approssimazione, possono essere considerate orizzontali,
paral- lele ed equidistanti per uguali variazioni di IB, in modo che hFE = IC/IB risulti
costante. In realtà IC cresce lentamente all’aumentare di VCE e le curve tendono ad
addensarsi sia nella parte alta, sia nella parte bassa del grafico.
Per valori di VCE molto bassi, le diverse curve per IB costante non sono più distinte: il
tran- sistor viene detto in saturazione e si verifica che V CE < VBE ed entrambe le
giunzioni sono
polarizzate direttamente. La zona centrale del grafico, dove h FE può essere considerata
costante è detta zona di funzionamento lineare o zona attiva, mentre la parte inferiore del gra-
fico, dove IB e IC assumono valori trascurabili (e quindi in prossimità del semiasse positivo
delle ascisse) viene chiamata zona di interdizione.
11.3 Funzionamento del BJT in commutazione
Il transistor viene spesso utilizzato come interruttore (switching transistor) nelle porte
logiche TTL, o per attivare e disattivare circuiti, attuatori ecc. In tutte queste applicazioni, il
TRANSISTOR

L-91

funzionamento è legato a due particolari stati del BJT: quello di saturazione (on) e quello di
interdizione (off). Notevole importanza assume, inoltre, il tempo impiegato dal dispositivo
per il passaggio da uno stato all’altro.
Saturazione
Esaminando le caratteristiche di uscita del BJT, è già stato rilevato che, per bassi valori di
VCE, le curve per IB costante tendono a confondersi. In questa regione del piano IC , VBE
(zona di saturazione), la corrente IB perde il controllo di IC , il cui valore dipende
essenzialmente da VCE. Ciò significa che non è più valida la relazione di proporzionalità IC
= hFE IB, ma si può piuttosto scrivere che IC < hFE IB.
Questa situazione si verifica quando entrambe le giunzioni JE e JC si trovano polarizzate
direttamente e si ha quindi: VCE < VBE.
Per un transistor al silicio di piccola potenza (di segnale), il valore tipico della tensione di
saturazione VCEsat può essere 0,1 ÷ 0,2 V e VBEsat = 0,7 ÷ 0,8 V.
Interdizione
IB =  IC = 
IC = se IE = 0. Imponendo
Un transistor si dice interdetto
ICB0
questa condizione, nelle equazioni
Considerato il basso
si ricava immediatamente: ICB0 valore di I CB0 , la zona di interdizione, nel piano delle
caratteristiche di uscita, coincide praticamente con l’asse VCE. L’interdizione si verifica se
entrambe le giun- zioni sono polarizzate inversamente.
Da V;
0 uninfatti
puntoperdiVBE
vista= applicativo,
0 si ha: IB = un transistor
0, quindi: IC =npn al .silicio
ICB0 Bisognapuò
fareconsiderarsi
attenzione
V BEinterdetto se
valore di
cheVBE
il non diventi troppo negativo (non deve scendere sotto 5 V), per evitare che si
abbia il breakdown della giunzione.
Tempi di commutazione
Appare ora chiaro come il BJT possa essere considerato un interruttore controllato dalla
corrente di base. Infatti, visto dai terminali C-E, risulta con buona approssimazione un corto
circuito (VCE circa 0) nello stato on (saturazione) e un circuito aperto (IC circa 0) nello stato
off (interdizione).
In questi due stati la potenza dissipata dal dispositivo è pertanto piccola e di molto infe-
riore a quella che, come interruttore, è in grado di controllare. Le commutazioni fra i due
stati non avvengono istantaneamente, ma impiegano un certo tempo per concludersi: si
distingue fra tempo di commutazione diretta (t on), composto da un tempo di ritardo e da un
tempo di salita, e tempo di commutazione inversa (toff), composto da un tempo di
immagazzinamento e da un tempo di discesa (fig. L.83).
Il tempo di ritardo (delay time, td) è il tempo necessario al transistor per passare dalla
pola-
rizzazione inversa a quella diretta della giunzione VBE, e viene misurato come
l’intervallo tra l’istante di commutazione all’ingresso e il momento in cui IC raggiunge il
VCC/
10% del suo valore finale: ICsat = (VCC –
Il tempo di salita (rise time, tr) è il tempo che impiega
RCIC a passare dal 10% al 90% del
VCEsat)/RCall’attraversamento della zona lineare per arrivare in
suo valore finale ICsat, corrispondente
satura- zione.
Il tempo di immagazzinamento (storage time, ts) è definito come il tempo necessario per
spazzare dalla zona di base l’eccesso di portatori di carica minoritari che si era
immagazzinato in saturazione; questa operazione termina con il rientro in zona lineare
quando; convenzional- mente si ha IC = 0,9 ICsat.
Il tempo di discesa (fall time, tf) è definito come il tempo che impiega la corrente IC a
scen- dere da 0,9 ICsat a 0,1 ICsat.
L-92 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.83 Tempi di commutazione del BJT.

Esempio: controllo di velocità in PWM


Una tecnica che permette un efficace controllo di velocità per un motore in corrente
conti- nua, basata sulla modulazione a larghezza di impulsi PWM (Pulse Width Modulation),
utilizza il transistor in commutazione.
Il motore viene alimentato con una tensione di armatura Va che, invece di essere
continua,
è costituita da un’onda rettangolare di periodo T, di cui si può variare opportunamente il
duty cycle  (ovvero il rapporto fra la durata T1 degli impulsi rettangolari e il periodo T).
La frequenza di questa tensione di alimentazione viene scelta superiore ai 20 kHz, in
modo
da evitare la generazione nella carcassa del motore di vibrazioni con frequenze nella
gamma udibile.
Dato che le costanti di tempo meccaniche del motore risultano notevolmente superiori
al T1 
V --------------V =
periodo T, l’effetto complessivo sul ammotoreV=pèTidentico
P all’applicazione al circuito di indotto di
unaIntensione
questo continua Vam, pariaalparità
modo è possibile, valoredimedio
coppiadell’onda rettangolare:
resistente, variare la velocità del motore,
modificando il duty cycle dell’onda rettangolare applicata al BJT (fig. L.84). Il BJT lavora
commutando rapidamente tra gli stati di interdizione e saturazione (switching), presentando
una dissipazione di potenza molto ridotta, che si verifica quando il transistor è in saturazione
e quindi con una tensione ai capi C-E molto piccola, oppure durante le commutazioni, che
sono comunque molto veloci.
Il diodo posto in parallelo alle bobine del rotore riduce le sovratensioni ai capi del BJT
durante la commutazione on/off, dato che la brusca variazione di corrente determina un
elevato
valore di forza elettromotrice indotta che potrebbe danneggiare il transistor. La polarità di
que- sta f.e.m. manda in conduzione il diodo che, chiudendo il circuito ai capi delle bobine le
sca- rica rapidamente, annullando la sovratensione.
TRANSISTO L-93
R

Figura L.84 Controllo di velocità in PWM di un motore a corrente continua.

11.4 Funzionamento del BJT come amplificatore


L’amplificazione dei segnali, senza eccessiva deformazione della forma d’onda, richiede
il funzionamento del BJT in zona attiva o lineare. Ciò può essere ottenuto applicando alle
giun- zioni opportune tensioni continue mediante reti di batterie e resistori, dette reti di
polarizza- zione.
In questo modo si impone al BJT un ben preciso punto di funzionamento, chiamato punto
di funzionamento a riposo per sottolineare che dipende esclusivamente dalle tensioni
continue. Tale punto, indicato con Q, è definito dalle sue coordinate: IBQ, VBEQ, ICQ,
VCEQ.
Nella figura L.85a è rappresentata la più semplice rete di polarizzazione del BJT. Nel cir-
cuito si fa convenientemente uso, per ovvi motivi, di una sola batteria di alimentazione. La
determinazione di Q può essere fatta ricordando che la caratteristica di ingresso è essenzial-
mente quella di un diodo e che quindi, al di sopra della soglia, VBE presenta limitate
variazioni anche per sensibili escursioni di IB.
È ragionevole assumere VBE costante, uguale a circa 0,7 V, per qualsiasi valore di IB.
Dal
circuito si ricava pertanto: IBQ = (VCC  VBE)/RB (VCC  0,7)/RB (corrente
costante). Per questoICQ = hFE
motivo IBQvienee abitualmente
la ·rete VCEQ detta
= VCC 
a polarizzazione fissa. Nota
IBQSie deve
ipotizzando ICQ · RC
tuttaviadiosservare che
conoscere h qualsiasi
FE , si incertezza
ricava sul valore
immediatamente: di h FE porta a un’analoga
incertezza sul valore di ICQ, con il rischio di errori anche rilevanti.
La rete di polarizzazione fissa è circuitalmente semplice, ma nella pratica viene scarsa-
mente utilizzata, perché un’eventuale variazione dei parametri del BJT porta a uno sposta-
mento di Q nel piano delle caratteristiche, causando inconvenienti quali la distorsione del
segnale amplificato. Le cause di instabilità possono essere dovute alle variazioni di tempera-
tura: infatti il BJT dissipa potenza e innalza la sua temperatura, provocando variazioni di
alcuni parametri fondamentali come hFE, VBE e ICB0.
Inoltre, transistor contraddistinti con la stessa sigla presentano spesso caratteristiche note-
volmente diverse. Permangono, infatti, problemi tecnologici non facilmente superabili per
pro- durre dispositivi discreti che abbiano parametri uguali con margini di tolleranza ristretti.
Il parametro hFE, in particolare, risulta molto disperso e i cataloghi ne indicano il valore
massimo e minimo e a volte il valore tipico. Per esempio, per il BJT 2N3904 per IC = 10
mA, si trova hFE(min) = 100, hFE(max) = 300 con hFE(max)/hFE(min) = 3. Si tratta
di una dispersione abituale per i BJT.
L-94 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.85 Rete: a) di polarizzazione fissa; b) di polarizzazione automatica.


La dispersione riguarda anche altri parametri come VBE, VCEsat, ICB0 ecc., per i quali
il costruttore fornisce spesso soltanto i valori massimi.
Facendo riferimento ancora alla rete di polarizzazione fissa, appare evidente che la
disper-
sione dei parametri porta come conseguenza la variabilità della posizione di Q nel piano
delle caratteristiche di uscita, in caso di sostituzione del BJT con un altro, pur della stessa
sigla. Risulta inoltre praticamente impossibile produrre stadi amplificatori nominalmente
uguali, con lo stesso punto di funzionamento a riposo (problema che si pone nella
produzione di serie).
Stabilizzazione del punto di funzionamento
La variabilità dei parametri del BJT, a causa di fenomeni dissipativi e aspetti tecnologici,
ha come effetto l’instabilità di Q, che deve essere controllata e contenuta entro limiti prestabi-
liti.
Ciò può essere ottenuto con delle reti di polarizzazione automatica: esse differiscono
dalla rete di polarizzazioneVCC fissa–VV
perBE
la –presenza di una resistenza
E RE sull’emettitore.
Analizzando il IB –IC RE VCC –
RB
circuito in figura L.85b risulta: RV=BE
RBun incremento di VRE e la diminuzione di IB che ne
Un eventuale aumento IC provoca
con- segue contrasta l’aumento di I C. Tale grandezza risulta quindi controllata
automaticamente dalla caduta di tensione su RE, che influenza la polarizzazione di JE.
Se si può trascurare la variazione di VBE rispetto a VCC, l’efficacia del controllo è
maggiore al diminuire del rapporto RB/RE, ma nei casi pratici, per un dato punto di
funzionamento, non è possibile abbassare RB/RE più di tanto, per l’impossibilità di ridurre
RB, il cui valore è imposto da quello di IB (che è molto piccolo).
Si ricorre allora alla rete di polarizzazione automatica a partitore (fig. L.86a) che possiede
un grado di libertà in più. Applicando il teorema di Thevenin fra base e massa (figg. L.86b e
c),
si ottiene:
RBB = R1//R2 = R1 · R2/(R1 + R2) e V BB = VCC · R2/(R1 + R2)
La tensione VBB, che genera la corrente IB, è minore di VCC e il suo valore dipende da
RBB; ciò consente di stabilire valori di RBB sufficientemente bassi, in modo da ottenere una
buona stabilizzazione di Q.
TRANSISTOR

L-95

BJT come amplificatore di piccoli segnali a bassa frequenza


Per basse frequenze si devono intendere frequenze per le quali siano da considerarsi
trascurabili gli effetti capacitivi delle giunzioni JE e JC; questo si verifica, in genere, fino ad
almeno qualche decina di kilohertz.

Figura L.86 Rete di autopolarizzazione a partitore e relativa trasformazione con il teorema


di Thevenin.
Nella maglia di ingresso del circuito a emettitore comune (fig. L.87) è stata inserita una
sorgente di segnale vs, per esempio sinusoidale, accoppiata al circuito in continua tramite una
capacità di valore elevato. Il regime di funzionamento è ora dinamico e sul circuito sono stati
indicati i valori istantanei di correnti e tensioni: ib, ic, vbe, vce (variabili in minuscolo e
pedici in minuscolo, per distinguere queste grandezze variabili nel tempo da quelle in
continua, indicate con le lettere maiuscole). I condensatori Ci e Cu, detti condensatori di
accoppiamento, hanno la funzione di evitare che la sorgente di segnale e il carico siano
percorsi dalle correnti conti- nue di polarizzazione del BJT, ma hanno impedenza
trascurabile per la frequenza del segnale da amplificare. Allo stesso modo la capacità CE
risulta essere un corto circuito per il segnale, mettendo a massa l’emettitore, mentre nel
circuito per la polarizzazione la resistenza RE è indi- spensabile ai fini della stabilizzazione
del punto di lavoro a riposo.

Figura L.87 Amplificatore a emettitore comune.


L-96 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Applicando il principio della sovrapposizione degli effetti (cosa possibile perché si sta
considerando il funzionamento del BJT nella zona attiva dove risulta un componente presso-
ché lineare) è possibile sommare gli effetti del segnale sinusoidale a quelli della batteria in
continua VCC. La variazione sinusoidale introdotta nella maglia di base si ripercuote in
un’ana- loga variazione del punto di funzionamento sulla caratteristica di ingresso (fig.
L.88a) fra Q1 e Q2, attorno alla sua posizione di riposo Q.
L’equazione alla maglia di uscita del circuito della figura L.87 è:
VCC = VCE + RC · IC
corrispondente all’equazione di una retta, detta retta di carico statica, di pendenza
–1/RC. In realtà per le variazioni sulle caratteristiche di uscita (fig. L.88b) bisogna tenere
conto anche del carico RL che per il circuito del segnale risulta in parallelo a RC, cambiando
la pendenza della retta al valore:
– 1
RC//RL
che è la pendenza della retta di carico dinamica. Al variare di ib, il punto di lavoro si
sposta su questa retta fra le posizioni estreme Q1 e Q2. Se in questa zona le caratteristiche
sono sufficien- temente parallele ed equidistanti per uguali variazioni di ib, il funzionamento
potrà conside- rarsi lineare e ic e vce avranno andamento sinusoidale.

Figura L.88 Analisi grafica sulle caratteristiche di ingresso e di uscita dell’amplificazione


del BJT.
Dall’analisi grafica illustrata si nota che a un aumento di ic corrisponde una diminuzione di
vce. Per questo motivo la configurazione CE (Common Emitter) viene detta invertente.
Pertanto, nel caso di segnali sinusoidali, vs, ib, vbe e ic sono in fase, mentre vce, risulta
sfa- sata di 180°.
Le variazione della ib, dell’ordine di qualche centinaia di mA, causano una
corrispondente
variazione di ic di qualche decina di mA, mantenendo però (a meno di una distorsione
trascura- bile dovuta alla non linearità delle caratteristiche) la stessa forma d’onda.
L’amplificazione di
TRANSISTOR

L-97

corrente risulta quindi dell’ordine di grandezza del centinaio di milliampere. Analoghe consi-
derazioni possono essere fatte per quanto riguarda l’amplificazione di tensione Av =
vce/vbe, che risulta però negativa (a causa dello sfasamento di 180°).
11.5 Transistor a effetto di campo (FET)
I FET (Field Effect Transistor) sono dispositivi a semiconduttori a tre terminali (drain,
source e gate), detti anche transistor unipolari, in quanto la conduzione avviene in un semi-
conduttore drogato di un solo tipo, senza attraversare giunzioni, ed è quindi dovuta principal-
mente ai portatori di carica maggioritari.
Il principio di funzionamento dei FET si basa sulla possibilità di controllare la
corrente IDS
che scorre tra drain e source mediante un campo elettrico generato dalla tensione VGS,
appli- cata fra gate e source. I FET si dividono in JFET (Junction Field Effect Transistor) e
MOSFET (Metal Oxide Semiconductor FET)
JFET
I JFET possono essere “a canale n” o “a canale p” (fig. L.89). Il funzionamento nei due
tipi è analogo, anche se cambia il tipo di portatori maggioritari che causano la conduzione
nel canale (elettroni liberi e lacune, rispettivamente) e quindi anche il verso delle correnti e
delle tensioni in gioco.
La seguente spiegazione del funzionamento è riferita a un JFET a canale n, ma è applica-
bile anche al caso di canale p, avendo l’accortezza di invertire i versi di tutte le tensioni e cor-
renti e di sostituire il termine lacune a quello di elettroni liberi.
Il JFET è costituito da un substrato di semiconduttore drogato di tipo n, detto canale, ai
cui estremi sono realizzati i terminali di source e drain. Sulla faccia superiore e inferiore del
semi- conduttore sono ricavate due zone fortemente drogate di tipo p, entrambe collegate al
termi-
nale di gate.
Per un funzionamento corretto del dispositivo le giunzioni gate-canale non devono mai
essere polarizzate direttamente.

Figura L.89 JFET a canale n: a) modello ideale; b) simbolo elettrico; c) simbolo elettrico del
JFET a canale p.
Quando vengono polarizzate inversamente, attorno a entrambe le giunzioni si crea una
zona di svuotamento (in cui non sono più disponibili portatori di carica maggioritari), la cui
dimensione dipende dalla tensione VGS che deve essere negativa per fornire la
polarizzazione inversa.
L’allargamento di queste zone di svuotamento provoca un restringimento del canale, con
un conseguente aumento della resistenza complessiva fra drain e source.
In questo caso il dispositivo lavora in zona ohmica, ossia può essere considerato come un
resistore variabile controllato in tensione (VCR, Voltage Controlled Resistor), dato che il
valore resistivo visto fra drain e source cambia al variare della tensione di gate VGS.
L-98 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA

Figura L.90 Zone di svuotamento nel JFET.


Quando la tensione VDS fra drain e source diventa dello stesso ordine di grandezza della
VGS, si ha che l’interazione tra i due campi elettrici non è più trascurabile, con una
conseguente deformazione della forma delle zone di svuotamento, più profonde verso il
terminale di drain (fig. L.90). Si giunge a una situazione limite, chiamata pinch-off
(strozzatura), in cui le due zone di svuotamento arrivano a toccarsi strozzando il canale.
Oltre il pinch-off si verifica che la corrente IDS non dipende più dalla tensione VDS in
modo lineare, ma presenta un fenomeno di saturazione e il suo valore rimane costante,
influenzato
solo dalla polarizzazione inversa fornita da VGS.
Nella cosiddetta zona di saturazione il JFET può essere utilizzato come generatore di cor-
rente costante comandato in tensione.
Aumentando ancora la tensione VDS, si giunge alla zona di breakdown (rottura) in cui si
verifica la distruzione della giunzione gate-canale. Si può notare, dalla figura L.91, come il
breakdown si verifichi per valori di VDS inferiori se VGS diventa più negativa.
I JFET possono anche essere utilizzati come amplificatori, dato che variazioni introdotte
sulla tensione VGS nella maglia di ingresso vengono riportate come variazioni di corrente
nella maglia di uscita e producono sulla resistenza di carico una variazione di tensione con la
stessa
forma d’onda dell’ingresso, ma con una potenza superiore.

Figura L.91 Caratteristiche di uscita di un JFET a canale n.


TRANSISTOR

L-99

Presentando un’elevata resistenza di ingresso (dato che la corrente assorbita dal gate è
pic- colissima) e un basso livello di rumore (perché la conduzione avviene in un canale di un
unico tipo di drogaggio, senza l’attraversamento di giunzioni), i JFET sono particolarmente
adatti a realizzare gli stadi di ingresso di apparati audio e a radiofrequenza, o di circuiti
integrati analo- gici come gli amplificatori operazionali.
MOSFET
L’acronimo MOS deriva dalla particolare struttura costruttiva che presenta il dispositivo
nella zona del gate: la metallizzazione del terminale di gate è realizzata su uno strato di bios-
sido di silicio, che ha la proprietà di essere un ottimo isolante, sotto al quale vi è il
semicondut- tore che costituisce il canale (Metal Oxide Semiconductor). I MOS si
suddividono in due tipi: MOS ad arricchimento (enhancement) e MOS a svuotamento
(depletion); entrambi i tipi pos- sono essere a canale n o a canale p. La figura L.92 riporta la
struttura e i simboli elettrici dei vari tipi. Si noti che il substrato è in genere collegato al
terminale di source.
Per spiegare il funzionamento del MOS enhancement bisogna tener conto del fatto che fra
source e drain, quando al gate non è applicata una tensione, non c’è conduzione (IDS = 0) in
quanto sono interposte tra i terminali due giunzioni p-n. In questo caso il dispositivo è
equiva- lente a due diodi connessi back to back, e quindi applicando una VDS, sia essa
positiva o nega- tiva, una delle due giunzioni risulta polarizzata inversamente (zona di
interdizione).
Applicando una tensione VGS positiva fra gate e source, il dispositivo si comporta come
un
condensatore, le cui due armature sono costituite dalla metallizzazione di gate e dal
substrato, mentre l’ossido di silicio realizza il dielettrico. Sotto l’effetto della differenza di
potenziale applicata alle armature, vengono attratte cariche positive nel metallo collegato al
gate, mentre nella zona di semiconduttore sottostante alla metallizzazione di gate si
accumulano delle cari- che negative (elettroni liberi).

Figura L.92 MOSFET enhancement: a) struttura a canale n; b) simbolo elettrico MOS a


canale n; c) simbolo elettrico MOS a canale p. MOSFET depletion: d) struttura
a canale n; e) simbolo elettrico MOS a canale n; f) simbolo elettrico MOS a
canale p.
L-100 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Per valori di VGS maggiori di una certa soglia Vth (th sta per threeshold, “soglia”), la
con- centrazione di elettroni liberi in quest’ultima zona è tale da realizzare un’inversione di
drogag- gio: nel substrato debolmente drogato di tipo p si forma un canale di tipo n che
collega il pozzo (la diffusione n+) di source con quello di drain, permettendo la conduzione
di una corrente IDS. Per bassi valori di VDS il canale si comporta in modo resistivo e il
relativo valore di resi- stenza dipende dalla concentrazione di elettroni liberi attratti nella
zona sottostante il gate, e
quindi dalla VGS applicata (zona ohmica).
Quando il valore di VDS diventa dello stesso ordine di grandezza della VGS il canale si
deforma, a causa dell’interazione fra i due campi elettrici, allargandosi verso il source e
restringendosi fino a strozzarsi in prossimità del drain.
In questo caso la corrente IDS aumenta con VDS in modo molto meno sensibile (zona di
saturazione).
Nella figura L.93 sono rappresentate le caratteristiche di uscita di un MOS ad arricchi-
mento a canale n, che evidenziano il comportamento del dispositivo nelle tre zone di
funziona- mento.
Nei MOS depletion invece il canale è già precostituito, ossia viene realizzato in fase di
pro- duzione del componente, tramite una sottile diffusione (o un’impiantazione ionica) di
droganti di tipo n nella zona del substrato sottostante il gate.
In questo caso, applicando una tensione positiva V GS tra gate e source, si ottiene un
aumento di elettroni liberi nel canale n, con conseguente diminuzione della resistività del
canale (quindi la corrente IDS aumenta).
Con una tensione VGS negativa si ha invece uno svuotamento di portatori di carica
maggio- ritari nel canale e, quindi, una diminuzione della conducibilità e della corrente che
scorre nel canale, fino ad arrivare all’interdizione del componente.
I MOS a svuotamento presentano il vantaggio di lavorare con tensioni di ingresso sia
posi- tive, sia negative.

Figura L.93 Caratteristiche di uscita di un MOSFET ad arricchimento a canale n.


I dispositivi MOS presentano la caratteristica di avere una resistenza di ingresso pratica-
mente infinita (il gate è infatti isolato dal biossido di silicio) e, inoltre, il processo di fabbrica-
zione risulta più semplice di quello di BJT e JFET.
Queste caratteristiche hanno decretato il grande successo ottenuto, soprattutto nella
realiz- zazione di circuiti integrati digitali e analogici, e come componenti discreti in molte
applica-
zioni a radiofrequenza (mixer, oscillatori, amplificatori per radiofrequenza) e di potenza.
DISPOSITIVI DI POTENZA

L-101

12 DISPOSITIVI DI POTENZA
BJT di potenza
1.

I transistor di potenza (BJT o anche MOS) sono utilizzati in tutti i sistemi analogici di
amplificazione di potenza. Inoltre essi sono usati in commutazione al posto dei tiristori, per
esempio, per il comando di motori, per controllare potenze massime fino a 100 kW.
Nelle applicazioni di potenza, i limiti dei BJT sono determinati dai seguenti
parametri:
-corrente massima di collettore I Cmax: è determinata dall’uniformità di distribuzione della
corrente nel semiconduttore e dalla densità di corrente sopportabile da metallizzazioni di
contatto e dai reofori del componente;
-tensioni massime: possono essere applicate al componente prima che avvenga la rottura delle
giunzioni per effetto valanga (breakdown); i data sheet riportano le tensioni di rottura appli-
cate fra due terminali con il terzo aperto (BVEB0, BVCB0, BVCE0, dove la lettera B
indica appunto breakdown);
-massima potenza dissipabile P Dmax: dipende principalmente dalla capacità del contenitore
di smaltire il calore prodotto nell’area di collettore; per questo motivo i BJT di potenza
sono realizzati con geometrie che estendono al massimo la zona di collettore e la superficie
di
contatto con la parte metallica del contenitore;
-SOA (Safe Operating Area): è l’area nel diagramma I C,VCE delimitata dalla retta
orizzontale definita da I Cmax, dalla retta verticale di BVCE0 e dall’iperbole di PDmax,
all’interno della quale è garantito il corretto funzionamento del transistor (fig. L.94). Si noti
che viene esclusa dalla SOA anche una zona tratteggiata, dove può verificarsi un fenomeno
detto secondary breakdown, dovuto al concentrarsi del passaggio di corrente in punti
localizzati del cristallo (punti caldi), con conseguente surriscaldamento che porta a un
breakdown di tipo termico. Il breakdown secondario si manifesta in modo particolare con
carichi induttivi durante la com- mutazione on/off; per proteggere il BJT possono essere
adottati circuiti smorzatori RC o un diodo di ricircolo in parallelo al carico induttivo;
-tempi di commutazione diretto e inverso: hanno lo stesso significato di quelli già visti per i
BJT di piccolo segnale ed è importante che siano i più brevi possibile nelle applicazioni di
potenza: infatti solo durante le commutazioni il BJT è soggetto contemporaneamente a ten-
sioni e correnti elevate, con potenze dissipate notevoli.

Figura L.94 Safe Operating Area (SOA) nel diagramma I C, VCE: a) con assi lineari;
b) con assi logaritmici.
Dal punto di vista strutturale, i BJT di potenza devono avere la base piuttosto spessa per
sopportare tensioni elevate; le giunzioni devono essere di dimensioni notevoli per ridurre la
densità di corrente distribuendo la corrente su una superficie di giunzione maggiore; il sub-
strato del BJT, su cui è poi realizzata la zona di collettore, deve essere fortemente drogato per
ridurre la resistività di questa zona e quindi la relativa dissipazione di potenza. In
conseguenza della prima caratteristica, il guadagno di corrente hFE risulta piuttosto basso.
L-102 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

12.2 MOSFET di potenza


Per raggiungere valori di corrente di qualche centinaio di ampere e tensioni di rottura
dell’ordine di 1 kV, la struttura base del MOS è stata modificata, ottenendo il VMOS (fig.
L.95a) e il DMOS (fig. L.95b). Entrambe le strutture sono formate da un substrato drogato di
tipo n+ su cui viene fatto crescere epitassialmente uno strato di tipo n, dove con una
doppia diffusione sono create una zona di tipo p (in cui si formerà il canale) e una n +
collegata al source. Nel VMOS viene inciso un solco a V, sulle cui pareti si realizza uno
strato isolante di biossido di silicio e infine la metallizzazione di gate. Nel DMOS non si
realizza l’incisione, ma in entrambi i tipi si formano due canali controllati dallo stesso
terminale di gate. Per consentire un elevato flusso di corrente, in entrambi i tipi, sono
realizzate sullo stesso chip centinaia di celle simili a quelle descritte, collegate fra loro in
parallelo.
La differenza sostanziale tra i MOS di potenza e quelli di piccolo segnale è che nei primi
la corrente scorre verticalmente, da una faccia a quella opposta del chip, mentre nei secondi
il canale è disposto orizzontalmente sotto alla metallizzazione di gate (par. 11.5 e fig. L.92).
Questa struttura presenta, per applicazioni di potenza, i seguenti vantaggi:
-consente una maggiore facilità di smaltimento del calore, perché il passaggio di corrente

interessa tutto il semiconduttore e non solo uno strato superficiale;


-possibilità di metallizzazioni di contatto per i terminali di drain e source con una superficie

estesa (invece di essere dislocate dallo stesso lato del chip, quella di drain è sulla faccia infe-
riore), con conseguente diminuzione della densità di corrente;
-
bassa resistenza di conduzione RDS, perché il rapporto fra lunghezza e spessore del canale
può essere molto elevato.

Figura L.95 MOSFET di potenza: a) struttura VMOS; b) struttura


DMOS. Rispetto ai BJT i MOS di potenza presentano i seguenti vantaggi:
-tempi di commutazione più brevi, dato che non ci sono problemi di immagazzinamento (sto-

rage) delle cariche minoritarie;


-minore potenza di pilotaggio, perché sono comandati in tensione e il gate è completamente

isolato dal canale;


-non hanno il problema del breakdown secondario;

-migliore linearità della caratteristica di trasferimento;

-facilità di interfacciamento con logiche TTL e CMOS.

I MOS di potenza sono commercializzati con diversi nomi, a seconda della casa costrut-
trice: VMOS (Siliconix), SIPMOS (Siemens), TMOS (Motorola), HEXFET (International
Rectifier), POWERMOS (Philips).
DISPOSITIVI DI POTENZA

L-103

3. IGBT
I transistor bipolari a gate isolato o IGBT (Insulated Gate Bipolar Transistor) sono
dispo- sitivi di potenza che abbinano il vantaggio dell’alta impedenza d’ingresso dei MOS
con quello della bassa tensione di saturazione tipica del BJT. Il dispositivo è costituito da un
MOS di ingresso che pilota un BJT di potenza, integrati sullo stesso chip. Il MOS è
interessato solo dalla corrente di base del BJT e quindi da basse potenze, con un risparmio di
area sul chip, per- tanto un minore costo del componente.
Gli IGBT sono utilizzati sia in funzionamento lineare, per esempio negli amplificatori
finali audio, sia in commutazione per i controlli industriali di potenza.
4. Tiristori
I tiristori costituiscono una famiglia di dispositivi che lavorano in commutazione per il
controllo di potenze anche molto elevate; sono caratterizzati da una struttura a
semiconduttore, che presenta più di tre giunzioni. La famiglia è composta da SCR, TRIAC,
GTO e sono, in genere, inclusi anche DIAC e UJT che, pur non essendo dispositivi di
potenza, sono utilizzati per l’innesco dei tiristori di potenza.
DIODI SCR
Gli SCR (Silicon Controlled Rectifiers) sono particolari diodi che presentano tre giunzioni
p-n e un ulteriore terminale di controllo, chiamato gate. In polarizzazione inversa si compor-
tano come normali diodi, ossia risultano equivalenti ai circuiti aperti; in polarizzazione diretta
il comportamento è diverso, in quanto la conduzione è controllata dal terminale di gate. Il
pas- saggio alla conduzione (innesco) può avvenire solo in due circostanze: portando la
tensione oltre il valore di rottura VBO (breakover voltage), che assume valori elevati, oppure
fornendo al gate un impulso di corrente IG. In quest’ultimo caso il dispositivo va in
conduzione per valori di tensione VAK tanto minori, quanto più elevato è il picco della
corrente IG. In conduzione la tensione si riduce bruscamente al valore di 1 ÷ 1,5 V e la
corrente corrispondente prende il nome di corrente di aggancio IL.
Una volta innescata, la conduzione si autosostiene anche se la corrente nel gate viene
annullata e, per interdire il componente bisogna riportarlo in polarizzazione inversa o ridurre
la
corrente anodica IA al di sotto del valore IH, detto corrente di mantenimento.
Il comportamento del dispositivo viene sintetizzato dalla caratteristica tensione-corrente
rappresentato nella figura L.96, dove è anche riportato il simbolo elettrico.

Figura L.96 Caratteristica tensione-corrente del diodo SCR e relativo simbolo


elettrico.
L-104 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Il diodo SCR viene utilizzato soprattutto in alternata, per realizzare un controllo della
potenza trasferita al carico tramite una parzializzazione della forma d’onda. Infatti maggiore
è il ritardo degli impulsi di innesco, rispetto all’inizio della semionda positiva, minore risulta
l’angolo di conduzione  e l’area sottesa alla forma d’onda, come si vede nella figura L.97;
conseguentemente la potenza trasferita al carico diminuisce.
L’utilizzo di SCR in continua è possibile inserendo opportuni circuiti di disinnesco in
grado di interrompere la corrente che circola nel diodo (o almeno portarla a un valore al
di sotto della corrente di mantenimento IH).

Figura L.97 Circuito di controllo di fase e relativa forma d’onda parzializzata con gli
impulsi di comando.
TRIAC
Sono dispositivi analoghi agli SCR, ma operano in modo bidirezionale, presentando mag-
giori giunzioni e struttura più complessa. In pratica il TRIAC (fig. L.98) può essere pensato
come una coppia di SCR collegati in antiparallelo e con il gate collegato assieme. La condu-
zione può essere innescata, tramite impulsi di gate, sia nella semionda positiva, sia nella
semionda negativa e si autosostiene fino a quando la tensione VMT non si annulla per
cambiare verso.
Gli impulsi di innesco possono presentare la stessa polarità rispetto alla tensione VMT fra
i due terminali principali; oppure polarità opposta, nel qual caso però sono necessari impulsi
di
ampiezza maggiore, a parità di VMT.
Sono utilizzati in alternata per circuiti di controllo di potenza di tipo switching.

Figura L.98 Simbolo elettrico del TRIAC e relativa caratteristica tensione-


corrente.
DISPOSITIVI DI POTENZA

L-105

GTO
Un inconveniente degli SCR è la difficoltà di utilizzo in continua perché richiedono
circuiti di disinnesco molto complessi.
Il GTO (Gate Turn-Off) è un tiristore di potenza unidirezionale, che può essere spento tra-
mite un comando di gate negativo. Un impulso di corrente entrante nel gate lo porta in
condu-
zione, mentre uno uscente lo interdice.
Bisogna dimensionare opportunamente il circuito di comando, perché gli impulsi negativi
necessari per lo spegnimento devono essere di valore elevato.
Come per gli SCR, la conduzione è possibile solamente quando l’anodo è a un potenziale
maggiore del catodo.
I GTO sono in genere utilizzati in continua, per il controllo di potenze anche molto
elevate
(correnti fino a 2000 A e tensioni fino a 2 kV).
UJT
L’UJT (UniJunction Transistor) è un dispositivo a semiconduttore a tre terminali, formato
da una barretta di silicio debolmente drogato di tipo n, alle cui estremità sono collegati i
termi- nali, chiamati basi B1 e B2. Sulla barretta, in prossimità di B2, viene effettuata una
giunzione con una zona di tipo p fortemente drogata, collegata al terzo terminale, detto
emettitore (fig. L.99b).

Figura L.99 Transistor UJT: a) simbolo elettrico; b) struttura; c) caratteristica d’ingresso.


Il componente presenta un valore di resistenza fra le due basi (resistenza interbase) che
normalmente è compreso tra 5 e 10 k . Questa resistenza può essere pensata come la somma
della resistenza offerta dal semiconduttore poco drogato fra B2 e l’emettitore (RB2) e la
resi- stenza RB1 fra l’emettitore e B1.
Se la giunzione p-n viene polarizzata direttamente, applicando all’emettitore un
potenziale maggiore rispetto a B1, si ha un’iniezione di portatori di carica nel
semiconduttore drogato di
tipo n, che riduce drasticamente la resistività del materiale semiconduttore e quindi la
resi- stenza RB1.
Questo spiega nella caratteristica di ingresso (fig. L.99c) la zona a resistenza negativa
che
si ha fra la tensione di picco Vp, dove inizia la conduzione della giunzione, e la tensione
di valle Vv , dove la resistenza ha raggiunto il suo valore minimo.
Sfruttando questa particolare zona a resistenza negativa, si realizzano oscillatori
(oscilla-
tore a rilassamento) che generano impulsi utilizzati per il comando dei tiristori, in quanto
sono in grado di fornire la corrente necessaria per innescare SCR anche di elevata potenza.
L-106 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

DIAC
Il DIAC è un tiristore bidirezionale di piccola potenza, privo di gate, ed è utilizzato
princi- palmente per l’innesco del TRIAC.
Il DIAC si comporta come un circuito aperto per entrambi i versi di tensione, finché la
dif- ferenza di potenziale fra i due terminali resta al di sotto della tensione di breakover VBO
(com-
presa tra 28 e 40 V). Superata questa soglia il DIAC passa bruscamente alla conduzione,
consentendo il passaggio di una corrente di qualche decina di milliampere, abbassando imme-
diatamente la tensione ai suoi capi di alcuni volt. Questo comportamento si manifesta sia per
tensioni e correnti entrambe positive, che entrambe negative (I e III quadrante della
caratteri- stica tensione-corrente).
Il DIAC viene utilizzato nel classico circuito di innesco del TRIAC (fig. L.100):
quando il
condensatore C, caricandosi attraverso R, raggiunge la tensione di breakover V BO, il
DIAC passa bruscamente in conduzione, scaricando il condensatore con un impulso di
corrente che provoca l’innesco del TRIAC. Esaurita la scarica del condensatore sul terminale
di gate del TRIAC, il DIAC torna a interdirsi fino alla semionda successiva (positiva o
negativa).

Figura L.100 Circuito di innesco del TRIAC.

13 AMPLIFICATORI OPERAZIONALI
1. Caratteristiche degli amplificatori operazionali ideali e reali
Amplificatori operazionali ideali
Un amplificatore operazionale è fondamentalmente un amplificatore a più stadi, con
accoppiamento in continua (ossia in grado di amplificare anche grandezze continue), che pre-
senta nel caso ideale: amplificazione di tensione (AOL) infinita, resistenza di ingresso (Ri)
infi- nita, resistenza di uscita (R0) nulla, larghezza di banda (BW) infinita.
Nella figura L.101a è illustrato il simbolo circuitale in cui si evidenzia la presenza di due
ingressi, detti ingresso invertente (indicato con ) e ingresso non invertente (indicato con
+), e un terminale di uscita.
L’operazionale è in sostanza un amplificatore differenziale, ossia un dispositivo che
ampli-
fica la differenza dei due ingressi. La relazione fra la tensione di uscita e le tensioni
applicate agli ingressi è quindi espressa dalla seguente formula:
v0 = AOL (v1 – v2 )
dove AOL è il guadagno dell’amplificatore operazionale ad anello aperto (open loop
gain),
ovvero in assenza di qualsiasi collegamento esterno fra uscita e ingressi.
Nella figura L.101b è illustrato un modello circuitale che evidenzia la resistenza di
ingresso Ri, la resistenza di uscita R 0 e il generatore equivalente di uscita dell’amplificatore
operazionale.
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI

L-107

L’amplificatore operazionale deve essere alimentato: nella maggior parte dei casi si
richiede un’alimentazione duale, ossia costituita da due tensioni uguali in valore assoluto, ma
di polarità opposta; nella figura L.101a le due alimentazioni sono indicate con +VCC e –
VCC.
Sovente viene indicata con vd (tensione differenziale di ingresso) la differenza di poten-
ziale fra il morsetto non invertente (+) e il morsetto invertente (), come nella figura
L.101b. Si può quindi scrivere:
v0 = AOL · vd
I valori che si assegnano al modello ideale dell’amplificatore operazionale hanno una
implicazione importante per i circuiti in cui è utilizzato.

Figura L.101 Amplificatore operazionale: a) simbolo elettrico: b) modello equivalente.

La resistenza di ingresso infinita comporta l’annullamento dell’effetto di carico (assorbi-


mento di corrente) sul generatore di tensione che pilota l’amplificatore, evitando quindi una
partizione di tensione sulla resistenza interna del generatore stesso. La corrente che scorre nei
morsetti di ingresso dell’operazionale è perciò nulla.
Se la resistenza di uscita è nulla, il segnale di uscita è indipendente dalla corrente erogata
e quindi dal carico posto dopo l’operazionale (interfacciamento ideale con un carico ad alto
assorbimento di corrente).
Essendo il guadagno ad anello aperto infinito si ha che una minima tensione di squilibrio
applicata tra i due ingressi porta il valore dell’uscita a valori elevatissimi. È importante preci-
sare che, comunque, la dinamica di uscita è limitata e dipende dalle tensioni di alimentazione.
L’operazionale è utilizzato solo per particolari applicazioni ad anello aperto, mentre con una
rete di reazione negativa trae notevoli vantaggi di guadagno da questa caratteristica, in ter-
mini di aumento del rapporto S/N, di riduzione della distorsione di non-linearità, e di stabiliz-
zazione del guadagno dell’amplificatore reazionato.
Una larghezza di banda passante infinita implica che tutte le componenti armoniche del
segnale vengono amplificate nella stessa misura, evitando distorsioni del segnale sia a fre-
quenze molto basse (o con segnali in continua) sia a frequenze molto alte. Questo è il
parame- tro che con maggiore difficoltà può essere idealizzato nei dispositivi reali.
Benché le caratteristiche degli amplificatori operazionali reali si discostino in parte da
quelle ideali sopra citate, sono disponibili in commercio integrati che, se correttamente usati,
offrono prestazioni in grado di approssimare, in buona misura, il comportamento ideale.
Nella tabella L.11 sono riportati i valori ideali e i corrispondenti valori tipici dei
parametri fondamentali, per due amplificatori operazionali integrati assai comuni: l’errore
che si intro- duce assumendo per i vari parametri i valori ideali può essere minimizzato con
opportune pre-
cauzioni e scelte di progetto.
L-108 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Tabella L.11 Parametri caratteristici degli amplificatori operazionali A741 e


LF357
Parametro Ideale (typ.) (typ.)
A741 LF357

Guadagno AOL  2 × 105 2 × 105

Resistenza di uscita Ru 0 75  0,1  10 


Funzionamento ad anello chiuso
Resistenza di ingresso Ri  2 M 1012 
L’amplificatore operazionale utilizzato ad anello aperto non presenta un comportamento
lineare, a causadidell’elevato
Larghezza banda valore del guadagno AOL che,
1 MHzanche per valori piccolissimi
20 MHz
della tensione differenziale di ingresso, porta l’uscita a un valore di saturazione, come si può
osser- vare nella transcaratteristica di figura L.102.
Il comportamento è lineare solo in un ridottissimo intorno dello zero. Pertanto l’utilizzo
dell’operazionale in configurazione ad anello aperto è limitato ad alcune particolari applica-
zioni non-lineari (come i comparatori di soglia). A ciò bisogna aggiungere che i valori di
AOL
presentano considerevoli dispersioni e variazioni.

Figura L.102 Transcaratteristica dell’amplificatore operazionale ad anello aperto.


L’operazionale viene sovente utilizzato in una rete di reazione negativa, che consente di
limitare il guadagno complessivo e di rendere la risposta del circuito lineare per escursioni
relativamente ampie del segnale di ingresso. Questa tecnica permette di realizzare, mediante
gli amplificatori operazionali, circuiti con guadagno stabile e prevedibile, perché in pratica
dipende solo dalla rete di elementi passivi esterni al dispositivo integrato che costituiscono la
reazione.
Attraverso l’analisi delle configurazioni circuitali suddette, si può ricavare la relazione fra
ingressi e uscita, e il guadagno di tensione ad anello chiuso Av; è molto semplice se si
appli- cano due regole fondamentali che derivano dalle caratteristiche tipiche degli
operazionali:
-
poiché la resistenza di ingresso R i è assai elevata, la corrente che entra negli ingressi
dell’operazionale è trascurabile (nulla nel caso ideale);
-
poiché il guadagno ad anello aperto AOL è molto elevato, qualsiasi valore della tensione di
uscita in zona lineare, cioè per –Vsat < v0 < Vsat, presuppone che la tensione vi fra
l’ingresso invertente e l’ingresso non invertente sia molto piccola e quindi trascurabile (nulla
nel caso ideale).
Pertanto, in zona di funzionamento lineare, i due ingressi sono sostanzialmente allo stesso
potenziale, ovvero fra gli ingressi esiste un corto circuito virtuale (in cui però non scorre
cor- rente).
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI

L-109

13.2 Principali circuiti applicativi dell’operazionale


Applicazioni lineari
Sono considerate lineari tutte le applicazioni in cui l’operazionale, presentando una rete
di reazione negativa, ha un comportamento lineare e segue quindi le due regole fondamentali
citate precedentemente. L’applicazione di queste regole permette di risolvere i circuiti con
l’operazionale come semplici esercizi di elettrotecnica, trascurando del tutto la presenza del
dispositivo, se non per le conseguenze derivanti dal fatto che i due morsetti di ingresso sono
allo stesso potenziale, ma non scorre alcuna corrente fra essi (corto circuito virtuale).
L’analisi del circuito nella figura L.103a (amplificatore invertente) è un chiaro esempio.
Applicando la seconda regola, il nodo A può essere considerato alla tensione di massa (massa
virtuale), dato che l’ingresso non invertente è collegato alla massa. La corrente che scorre in
R1 si calcola quindi tramite la legge di Ohm: I1 = Vi/R1. Questa corrente, per la prima
regola, flui- sce interamente nella resistenza R2, causando in questa una caduta di tensione
VR2 = I1 · R2, R2
V0 = –IVR2 = –R1 V 2 = – i
R1 di uscita risulta quindi:
che risulta applicata fra il nodo di uscita e alla massa. La tensione
-----
È evidente che il guadagno di tensione Av =  R 2/R1 non dipende dalle caratteristiche
dell’amplificatore operazionale, ma solamente dalla rete di reazione.
Nel caso del circuito rappresentato nella figura L.103b (amplificatore non invertente),
si ha
che per la seconda regola VR1 = Vi, quindi si ottiene I1 = Vi/R1. La corrente I1 non può
entrare nel morsetto invertente dell’operazionale e quindi scorre tutta in R2, causando la
seguente ten- sione:
VR2 = I1 · R2 = Vi · R2/R1
 V0  R2
V0 = VdiR1
V0 è la somma e R2
+VV
VR1 VR2,=A 1
R2icui
R1si ha:
v =V-----1= R1 +
per
i
-----+ ; ----- 

Figura L.103 Amplificatore operazionale in configurazione: a) invertente; b) non invertente.


L’inseguitore di tensione è un caso particolare dell’amplificatore non invertente, in
quanto presenta un guadagno unitario, ottenuto ponendo R2 = 0 (corto circuito) o R1 = 
(circuito aperto) o più sovente entrambe le cose (fig. L.104a).
L’inseguitore di tensione è utilizzato come separatore d’impedenza, per disaccoppiare
l’uscita di un circuito dal carico; infatti presenta una resistenza d’ingresso elevatissima
(quella dell’amplificatore operazionale) e una resistenza di uscita molto bassa.
L-110 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Altre applicazioni tipiche sono i sommatori invertenti e non invertenti. Nel primo caso
(fig. L.104c) si tratta di un circuito derivato dall’amplificatore non invertente, aggiungendo
tanti ingressi quanti sono i segnali da sommare. Le correnti I1, I2, …, In, provenienti dai
rami degli ingressi, si sommano al nodo A (massa virtuale), dando origine alla corrente che
scorre in Rf. La tensione di uscita risulta quindi:
V2
V0 = –Rf  RV 1
1----- Rn + +
-----
-----... V n 
e nel caso particolare di R1 = R2 = … = RnR=2 R si ha:
+

V0 = –Rf V 1 + V2 + ...V+ n

Nella figura L.104b è invece riportato un sommatore- non invertente a due


V 0 =di1--
ingressi. Applicando il principio
1V 2
sovrapposizione
degli effetti si ottiene:
+V
2  Rf 
1-----
R
Molto utilizzata è la configurazione amplificatore differenziale riportata nella figura
L.104d. Se le resistenze sono perfettamente uguali a coppie,-+ come rappresentato nella figura,
la relazione fra ingressi e uscita risulta essere la seguente:
Rf
V0 ------
R V2 
=
L’amplificatore differenziale è usato 1
–Vquando si ha la necessità di effettuare una misura fra
due punti di un circuito, nessuno dei quali è posto a massa, oppure per eliminare delle
compo- nenti comuni a entrambi i segnali di ingresso (per esempio, i disturbi su una linea
bilanciata).

Figura L.104 a) Inseguitore di tensione; b) sommatore non invertente; c) sommatore


invertente; d) amplificatore differenziale.
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI L-111

Nella figura L.105 sono riportati due circuiti derivati dall’amplificatore invertente, sosti-
tuendo una delle due resistenze di reazione con un condensatore. Il primo è un circuito
deriva- tore, infatti essendo il punto A virtualmente a massa, la corrente che scorre nel
condensatore (par. L2.16) è data da:
dvi
i=C
dt
e quindi la tensione di uscita risulta: ------
dvi
v0 = R–C dt
------
Il circuito della figura L.105b risulta invece un integratore, dato che la tensione ai capi di
un condensatore è proporzionale alla quantità di carica immagazzinata, pertanto si ha:
Q
1C = ---
v c = --- i dt
c
Poiché la tensione di uscita v0 =  vc eCla corrente ic = vi/R, si
ottiene:
1 RC 
v0 = -------–
dtv i

Figura L.105 a) Circuito derivatore; b) circuito integratore.


Applicazioni non lineari
Quando l’amplificatore non presenta un anello di reazione, oppure ha una reazione sul
morsetto positivo, l’operazionale non lavora nella zona di linearità, ma va in saturazione,
posi- tiva o negativa.
Le applicazioni di questo tipo sono principalmente i comparatori di soglia, dove il
passag- gio dell’uscita da una tensione di saturazione a quella di segno opposto indica il
superamento
della soglia di riferimento da parte dell’ingresso.
Nella figura L.106 sono riportati il comparatore di soglia invertente e quello non inver-
tente. Per entrambi il principio di funzionamento è lo stesso: come la tensione differenziale
vd agli ingressi dell’operazione supera lo zero, a causa del guadagno elevatissimo
dell’amplifica- tore operazionale, l’uscita commuta in saturazione positiva, mentre va in
saturazione negativa quando vd diventa negativa.
Le figure L.106c e L.106d riportano, rispettivamente, le transcaratteristiche del compara-
tore invertente e non invertente.
Nel caso di reazione positiva (fig. L.107a), si ha un comparatore di soglia con
isteresi
(detto anche trigger di Schmitt). La reazione positiva fa sì che la soglia di riferimento
venga
L-112 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

modificata dallo stato di uscita, e dato che l’uscita può assumere solo due valori, anche la
soglia può assumere due valori, in corrispondenza dei quali avviene la commutazione.
La tensione al morsetto non invertente può essere calcolata con il principio di sovrapposi-
zione degli effetti:
R1
v+ = v0 + Vr
R1R+2 R2 R1 +
R2
e in corrispondenza dei due valori dell’uscita, +Vsat e V sat, si ottengono le due possibili
soglie:
Vr VR2 Vr
V S1 sat –R= 1 sat =
VR2 R1 + ; V S2 R1 +
R2 +R 1
R2

Figura L.106 a) comparatore di soglia invertente; b) comparatore di soglia non invertente;


c) transcaratteristica del comparatore invertente; d) transcaratteristica del com-
paratore non invertente.

Come si vede nella transcaratteristica rappresentata nella figura L.107b, quando l’uscita è
bassa può commutare al valore alto solo se la tensione di ingresso scende al di sotto di VS1,
quando l’uscita è alta può commutare al valore basso solo se la tensione di ingresso sale al di
sopra di VS2.
13.3 Parametri caratteristici degli amplificatori operazionali reali
Corrente di polarizzazione di ingresso
Lo stadio di ingresso di un amplificatore operazionale è un amplificatore differenziale a
BJT o a FET. In entrambi i casi si ha un assorbimento di corrente dovuto alle correnti di base
dei BJT polarizzati nella zona attiva o, nei casi dei JFET, alle correnti di perdita che scorrono
attraverso le giunzioni gate-canale polarizzate inversamente.
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI

L-113

La corrente di polarizzazione di ingresso (input bias current) è definita come il valore


medio delle correnti I B- e I B+, relative ai due ingressi dell’operazionale quando l’uscita è
nulla: IB IB- +2 IB+ =

Figura L.107 a) Comparatore di soglia invertente con isteresi; b) transcaratteristica.


I costruttori specificano i valori massimi di IB; per dispositivi con ingressi bipolari si ha
in genere un valore intorno ai 500 nA, mentre per dispositivi con ingressi a FET, si ha un
valore di 50 pA.
La presenza di questa corrente non prevista nel modello ideale, che scorre nella resistenza
di reazione Rf, causa un errore sulla tensione di uscita proporzionale a Rf IB-. Tale errore
viene in genere compensato introducendo una tensione uguale sul morsetto non invertente,
che viene
quindi sottratta alla tensione sulla reazione, così che le resistenze viste dai due terminali
di ingresso verso massa coincidano (fig. L.108).

Figura L.108 Compensazione della corrente di polarizzazione IB.


Corrente di offset
Il metodo di compensazione citato è efficace se le correnti IB+ e IB sono uguali. In
realtà, la non perfetta simmetria dello stadio differenziale di ingresso determina una
differenza fra le correnti di polarizzazione: si definisce allora la corrente di offset come:
IOS = | IB+ – IB |
L-114 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Valori massimi comuni per IOS sono 200 nA e 10 pA, rispettivamente per dispositivi con
ingresso bipolare e a FET.
Si dimostra che l’errore nella tensione di uscita (talvolta indicato come tensione di offset
di uscita Voff), dovuto alla corrente IOS, è pari a Rf IOS. Per minimizzare gli effetti della
corrente di
offset, conviene assumere valori di Rf non troppo elevati (minori di 1 M ).
Tensione di offset di ingresso
Applicando all’ingresso di un amplificatore un segnale nullo, nonostante gli accorgimenti
adottati in considerazione delle correnti di polarizzazione, la tensione di uscita risulta diversa
da zero. Ciò è dovuto alle lievi, ma inevitabili, asimmetrie interne dell’amplificatore
operazio- nale. Si definisce tensione di offset VOS la tensione differenziale da fornire agli
ingressi tramite un generatore ideale, necessaria per portare l’uscita a zero. Molti
amplificatori operazionali in commercio presentano terminali per la regolazione dell’offset;
inoltre, i fogli tecnici consi- gliano i circuiti più adatti per minimizzare gli errori di offset.
Deriva termica
Le tecniche di compensazione utilizzate e la regolazione effettuata per il recupero degli
offset dipendono dalla temperatura. Ciò è dovuto alla sensibilità delle caratteristiche degli
ope- razionali alle variazioni termiche.
La deriva termica è normalmente specificata sui fogli tecnici mediante grafici. In pratica
non esistono tecniche di compensazione per la deriva termica: occorre scegliere componenti
che presentino deriva termica trascurabile o, eventualmente, mantenere costante la
temperatura
intorno all’integrato, disponendo opportunamente i componenti sul circuito stampato o
usando sistemi di raffreddamento.
Resistenza di ingresso
Il modello equivalente rappresentato nella figura L.101b evidenzia la presenza di una
resi- stenza Ri fra i due terminali di ingresso, per ciò chiamata resistenza di ingresso
differenziale e indicata talvolta con Rid. Un modello più completo richiederebbe anche la
resistenza di in- gresso di modo comune Ricm, definita come la resistenza fra i due ingressi
cortocircuitati e la massa.
In generate Ricm è trascurabile rispetto alle altre resistenze in gioco. Tuttavia, nella
confi- gurazione non invertente, Ricm fissa il limite superiore della resistenza di ingresso
dell’amplifi-
catore.
I valori tipici di Rid vanno da qualche centinaio di k a qualche M, fino a oltre 1012
 per operazionali con ingresso a FET. I valori tipici di Ricm sono dell’ordine di diverse
centinaia di M, se l’ingresso è a BJT, superiori a 1012  se l’ingresso è a FET.
Nella maggior parte dei casi, i manuali specificano solo il valore di Rid; talvolta
riportano i valori delle impedenze di ingresso, rappresentate da condensatori dell’ordine dei
pF, posti in
parallelo alle rispettive resistenze.
CMRR
La relazione fra tensione di uscita e tensione applicata agli ingressi può essere riscritta
come:
v0 = Ad (v1  v2)
dove Ad rappresenta il guadagno differenziale ad anello aperto, ovvero il guadagno
rispetto alla differenza fra le tensioni di ingresso, vd = v1  v2 (fig. L.101b).
In un amplificatore reale però, la tensione di uscita dipende, in misura molto ridotta,
anche dal valore medio delle tensioni applicate agli ingressi, cioè dalla tensione di modo
comune:
vm = (v1 + v2)/2
Pertanto la tensione di uscita effettiva risulta espressa
come:
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI

L-115

v0 = Ad vd + Acmvm
dove Acm è il guadagno di modo comune.
Il rapporto di reiezione del modo comune CMRR è definito come:
CMRR = 20 log10 | Ad /Acm | [dB]
e rappresenta una figura di merito dell’operazionale, esprimendo il rapporto fra la sensibilità
ai segnali differenziali e la sensibilità ai segnali di modo comune. Naturalmente un
operazionale ideale avrebbe CMRR =  . Il CMRR ha valori tipici compresi fra 80 e 120 dB.
Risposta in frequenza
L’amplificatore operazionale ideale è contraddistinto da guadagno ad anello aperto
infinito e larghezza di banda infinita.
Un amplificatore operazionale reale presenta invece larghezza di banda e guadagno limi-
tati; inoltre, caratteristica fondamentale, il guadagno ad anello aperto diminuisce al crescere
della frequenza.
Nella figura L.109, che riporta la risposta in frequenza di un A741, si può osservare che
tale diminuzione avviene nella misura di 20 dB/decade e che la frequenza di taglio minore è
di 10 Hz.
Questo comportamento in frequenza è determinato da una rete R-C appositamente intro-
dotta nel dispositivo, in modo da evitare che disturbi in alta frequenza possano rendere insta-
bile l’amplificatore.
È utile introdurre un ulteriore parametro che funge da figura di merito del dispositivo: il
GBW (Gain-Band-Width), che rappresenta il prodotto fra il guadagno e la larghezza di banda,
il cui valore è costante per tutte le frequenze oltre quella di taglio, per le quali la pendenza è
di
–20 dB/decade.
Infatti, per un aumento di frequenza di una decade, il guadagno diminuisce di 20 dB,
ossia in unità lineari di 10 volte, quindi il prodotto fra i due valori è costante.
La frequenza in corrispondenza della quale il guadagno diventa unitario viene
denominata
frequenza di transizione fT.

Figura L.109 Risposta in frequenza dell’amplificatore operazionale.


Tempo di salita
Per piccoli segnali sinusoidali (< 1 V), il parametro GBW è sufficiente per definire la
risposta in frequenza dell’amplificatore operazionale.
Quando invece si lavora con segnali rettangolari, anche se di piccola ampiezza, è più utile
valutare il tempo di salita (rise time t r), ovvero il tempo richiesto affinché il segnale di
uscita
passi dal 10 al 90% della sua ampiezza totale.
L-116 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA

Per piccoli segnali il tempo di salita è direttamente legato al prodotto guadagno-larghezza


di banda. Talvolta i costruttori non specificano il valore di GBW, ma quello di tr misurato in
condizioni di guadagno unitario; è possibile calcolare GBW dalla seguente relazione:
GBW = 0,35/tr
Slew rate
Per ampi segnali di uscita (> 1 V), la rapidità di risposta dell’amplificatore operazionale
può essere limitata dalla velocità di variazione della tensione di uscita. Tale caratteristica è
spe- cificata dallo slew rate, definito appunto come la massima velocità di variazione della
tensione di uscita dell’operazionale quando all’ingresso è applicato un segnale a gradino
ossia:
SR = (v0/t)max
La velocità con cui la tensione di uscita varia è principalmente limitata dalla capacità
inse- rita internamente o esternamente per la compensazione in frequenza; tale capacità deve
essere caricata da una corrente che, essendo necessariamente limitata, comporta un tempo di
carica non nullo.
I manuali specificano generalmente il valore tipico dello slew rate, espresso in V/s, in
condizioni di guadagno unitario. Valori tipici sono, per esempio, i seguenti: 0,5 V/s, per il
A741C, e 70 V/s per l’LM318.
Trattando segnali sinusoidali è più preciso fare riferimento a un parametro indicato come
full-power response (f p). Esso rappresenta la massima frequenza consentita per un segnale
sinusoidale, con ampiezza picco-picco pari alla dinamica di uscita dell’operazionale, affinché
possa presentarsi all’uscita senza distorsioni. Il parametro fp è legato allo slew rate dalla rela-
zione seguente:
fp = SR/(2 ·  · vp)
dove vp è la tensione di picco del segnale sinusoidale in uscita.
Rumore
Segnali indesiderati, sovrapposti al segnale di uscita prendono il nome generico di
rumore (noise). Oltre al rumore di origine esterna, generato per esempio da commutazioni in
circuiti vicini, e a quello termico che si genera nei conduttori e nei resistori collegati per
effetto dell’agitazione termica degli elettroni, occorre considerare il rumore generato
internamente all’amplificatore operazionale.
I manuali riportano i valori efficaci della tensione equivalente di rumore all’ingresso e
della corrente equivalente di rumore all’ingresso per una o due frequenze significative. Tal-
volta forniscono anche i diagrammi in funzione della frequenza.
Si noti comunque che, al di sopra di qualche centinaio di hertz, assumono entrambi valori
praticamente costanti.
13.4 Classificazione degli amplificatori operazionali
Come si è potuto notare, sono molti i parametri di un IC amplificatore operazionale. La
situazione ideale sarebbe quella di riuscire a ottenere un dispositivo con tutti i parametri otti-
mizzati. Ciò è però impossibile, poiché la tecnologia costruttiva che, per esempio, ci permette
di ottenere una bassissima corrente di bias, è tale da non potere ottimizzare il valore della
ten- sione di offset.
È possibile, quindi, migliorare anche notevolmente una famiglia di parametri, ma non gli
altri. Per tale motivo, ciascuna casa costruttrice fornisce dispositivi, che si potrebbero definire
specializzati, per i quali alcune prestazioni sono state ottimizzate e che quindi possono
essere utilizzati per applicazioni specifiche e dispositivi con caratteristiche intermedie, per
applica- zioni non specifiche o generali.
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI

L-117

Si passano in rasseegna le caratteristiche specifiche delle principali famiglie di amplifica-


tori operazionali.
Dispositivi di uso generale (General purpose ICs)
Questo gruppo include dispositivi a basso costo (low-cost). Sono utilizzati in applicazioni
nelle quali non si abbia bisogno di caratteristiche particolari dell’IC amplificatore operazio-
nale.
Il 741 appartiene a questo gruppo; è lo standard industriale ed è compensato
internamente.
Il 301 è un dispositivo non compensato di questa famiglia, necessita di capacità esterne di
compensazione, il cui valore dipende dall’applicazione circuitale; il vantaggio di questi
ultimi è di fornire una banda passante più estesa.
Applicazioni tipiche di dispositivi di tale gruppo sono i sommatori, gli amplificatori
inver- tenti, gli isolatori di impedenza (followers), i filtri attivi, i formatori di funzioni di
trasferi- mento non lineari.
La tecnologia utilizzata è quella bipolare monolitica.

Dispositivi a bassa corrente di polarizzazione, a elevata impedenza


d’ingresso (con stadio d’ingresso a FET)
L’elevata impedenza d’ingresso e la bassa corrente d’ingresso si devono allo stadio
d’ingresso a FET (esistono dispositivi super beta in tecnologia bipolare, ma sono poco utiliz-
zati). La loro utilizzazione è necessaria laddove occorre misurare piccole correnti o utilizzare
resistenze esterne di valore elevato.
Applicazioni tipiche sono costituite da tutti quei circuiti che presentano alta impedenza
d'ingresso: integratori, convertitori corrente-tensione, generatori di funzione logaritmica,
misure con trasduttori con alta impedenza quali fotomoltiplicatori, flame detector, pH
cells e
radiation detector.
La tecnologia tipicamente utilizzata è monolitica BiFET (include cioè componenti
bipolari e FET).
Esistono dispositivi monolitici di questo gruppo doppi e quadrupli; per applicazioni parti-
colari quali gli elettrometri; alcuni dispositivi hanno valori di IB pari a millesimi di pA
(AD515
della Analog Devices).
Dispositivi di precisione (high accuracy, low drift)
I parametri ottimizzati in questo gruppo sono la tensione di offset, la deriva, il guadagno
in continua open-loop, il CMRR; sono utilizzati nella realizzazione di strumentazione di
preci- sione, trasduttori analogici con bassi livelli di tensione, comparatori di tensione di
precisione. L’OP-07 è quello che possiede le caratteristiche migliori della famiglia.
La tecnologia di produzione è monolitica bipolare.
Dispositivi veloci (high speed, fast settling, wide bandwidth)
I parametri che caratterizzano questo gruppo sono l’elevato slew rate, piccoli valori di
set- ting time ed elevati valori di frequenza di transizione fT. Tali dispositivi sono necessari
laddove i segnali variano velocemente, come nel caso dei buffer, dei convertitoriD/A, della
circuiteria dei multiplexer. La corrente di uscita elevata è importante nel caso di pilotaggio di
carichi capacitivi.
La tecnologia è monolitica BiFET, ma esistono anche dispositivi in tecnologia ibrida.
Dispositivi a basso consumo (low power, wide supply range)
Il parametro ottimizzato in questo caso è il consumo del dispositivo e vi è la possibilità di
operare con alimentazioni di valore anche molto basso. I dispositivi low supply hanno
corrente di riposo minore di 1 mA (0P41, PM108), per i micro-power adatti a lavorare
alimentati da batterie è minore di 100 A (0P20, 0P32).
M-2 SISTEMI AUTOMATICI

1 SISTEMI DI NUMERAZIONE
Generalità
1.

Un sistema di numerazione è un criterio che consente di rappresentare un insieme infinito


di numeri mediante un insieme limitato di simboli (cifre) e regole; i simboli ne definiscono
l’alfabeto, mentre le regole rappresentano la sintassi da rispettare nella loro lettura e scrittura.
I sistemi di numerazione possono essere posizionali o non posizionali. Sono posizionali
(per esempio, il sistema decimale) quando l’importanza della cifra nel numero dipende dalla
sua posizione. Nei sistemi non posizionali (per esempio, la numerazione romana)
l’importanza della cifra nel numero non dipende dalla sua posizione.
Un sistema di numerazione posizionale è caratterizzato da una base b, maggiore di 1,
e da
un insieme ordinato a di cifre. ... a 0
Nb = ana–n1 a–
n2

che, nella forma polinomiale, è equivalente a:


Nb = anbn b–n1
a–+n2n1 a– b– + a+ 0b0
+n2 è posizionale, perciò l’importanza di ogni cifra al-
Il sistema di numerazione decimale
l’interno del numero dipende dalla sua posizione. La posizione si conta da destra verso sini-
stra.
Esempio
Il numero decimale N = 2753 (b = 10) espresso in forma polinomiale diventa:

2753 = 2 103 +710 2 5 310110 + 0

+
Cifre2 5

7 3
La trasformazione di un numero dal sistema di
Posizion 2 numerazione
1 0 decimale a un altro sistema
di numerazione avviene per divisioni e n3 successive, cioè si divide prima il numero e poi i
quozienti per la base del sistema in cui si effettua la conversione; di volta in volta i resti
rappresentano la cifra più significativa. La divisione si ferma quando il quoziente è zero, il
cui resto corrisponde alla cifra più significativa del numero trasformato.
Il numero trasformato è rappresentato dalla successione dei resti scritti a partire dal più
significativo sino al meno significativo.
Sistema di numerazione ottale
È un sistema di numerazione a base 8, perciò i simboli che lo rappresentano sono dei
numeri decimali da 0 a 7, le stesse cifre dei primi otto numeri decimali. Per non incorrere in
errore, i numeri ottali vengono contrassegnati con pedice 8; per esempio, il numero ottale 751
si indica (751)8.
Si osserva che i numeri ottali espressi in forma polinomiale esprimono il valore del corri-
spondente numero decimale:

7518 82 5 +811 8+ 0 = 489


=7 
La conversione dal sistema decimale al sistema ottale si effettua con il metodo delle divi-
sioni successive.  10
SISTEMI DI NUMERAZIONE M-3

La trasformazione del numero decimale 987 in ottale si effettua nel modo


seguente:
987 8 Divisore
Dividendo 3123
8
315
Resto 8
71
8
10

Si ha quindi che: (1733)8 = (987)10.


Sistema di numerazione esadecimale
È un sistema di numerazione a base 16; i simboli che lo rappresentano comprendono i
numeri decimali da 0 a 9 e i restanti sei numeri sono le prime sei lettere dell’alfabeto (0, 1, 2,
3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, A, B, C, D, E, F). I numeri esadecimali vengono contrassegnati con pedice
16; per esempio, il numero esadecimale AB8 si indica (AB8)16.
Anche i numeri esadecimali espressi in forma polinomiale esprimono il valore del corri-
spondente numero decimale, dato che è A 16 = 1010, B 16 = 1110, C 16 = 1210, D 16 =
1310,
E16 = 1410, F16 = 1510:

AB8 16 A16 2 + B16 1 +8 160 = 2744 10

987 16 Divisore
La conversione dalDividendo
sistema decimale al sistema esadecimale si effettua con il metodo
B61 16
delle divisioni successive.
Resto D3
La trasformazione del numero decimale 16 987 in esadecimale si effettua nel modo
30
seguente:
Il numero esadecimale corrispondente al decimale 987 è: (3DB)16 = (987)10. Per la
verifica basta esprimere il numero (3DB)16 in forma polinomiale:
1
3DB16 =3 162 D16 B16+ 0 += 10
987 
Sistema di numerazione binario
Il sistema di numerazione 2 è a base due: i simboli che lo rappresentano comprendono i
numeri decimali 0 e 1. I numeri binari vengono contrassegnati con pedice 2; per esempio, il
numero binario 1010 si indica (1010)2.
Anche i numeri binari espressi in forma polinomiale esprimono il valore del corrispon-
dente numero decimale:
2 0
10102 = 1
023 +2
21 1 0 10
2+=+10
La conversione dal sistema decimale ad altri sistemi di numerazione, per esempio,
binario, ottale, esadecimale ecc., si effettua con il metododelle divisioni successive. Come si
vedrà di seguito la trasformazione da binario a esadecimale e ottale si effettua direttamente.
SISTEMI DI NUMERAZIONE M-7

I sistemi di codificazione sono criteri che consentono di associare informazioni di


caratteri numerici e alfanumerici, simboli grafici compresi, a una combinazione di numeri
binari.
Nell’ambito di questa trattazione, i sistemi di codificazione sono affrontati come supporto
alla comprensione del funzionamento dei computer, la cui attività consiste nell’elaborazione
di
informazioni. Le informazioni numeriche o alfanumeriche vengono trasformate di volta in
volta in segnali elettrici, elaborati dal computer e ripresentati nei sistemi di output come
segnali alfanumerici facilmente riconoscibili.
La necessità di trasformare un segnale alfanumerico in elettrico trova spiegazione nel
fatto che:
-i segnali elettrici sono gli unici riconoscibili dal computer;

-la presenza di corrente elettrica in un filo (conduttore) indica la presenza o l’assenza di un

segnale;
-la presenza o l’assenza di un segnale in un conduttore risponde a una logica binaria (sì, no;

c’è, non c’è).

Il bit (binary digit), rappresentato dalle cifre 0 e 1, è l’unità elementare d’informazione; i


multipli del bit sono il kilobit (1 kb = 210 bit), il Megabit (1 Mb = 220 bit), il Gigabit (1 Gb
= 230 bit) e il Terabit (1 Tb = 240 bit). Disporre quindi di n conduttori nei quali può esserci
o no un segnale elettrico equivale ad avere la possibilità di gestire di 2n informazioni
diverse, cioè 2n bit. Alla presenza o all’assenza di segnali elettrici, infatti, si associano,
convenzionalmente i numeri uno (1) e zero (0); perciò la combinazione di segnali elettrici
diventa un’informazione. Nella breve ma intensa storia dei computer si sono susseguiti il
sistema di codificazione binario puro, il codice BCD (Binary Coded Decimal), il codice BCD
esteso, il codice EBCDIC (Extended Binary Coded Decimal Interchange Code), il codice
ASCII (American Standard
Code for Interchange Information), il codice Gray e altri ancora.
L’utilità del codice Gray, in questo contesto, si riferisce principalmente alla sua applica-
zione nelle mappe di Karnaugh.
Codice binario puro
Con il codice binario puro si possono trasformare tutte le informazioni numeriche in
numeri binari; esso segue le regole del sistema di numerazione binario ed è eseguito veloce-
mente dai calcolatori, tuttavia ha trovato scarsa applicazione per la complessità di costruzione
dei sistemi di codifica da decimale-binario a binario-decimale.
Codice Gray
Il codice Gray, detto anche codice binario riflesso, è un sistema di codifica utilizzato
spesso per i sistemi digitali. Il criterio con il quale si succede la codifica dei numeri, con il
codice Gray, è il seguente:
-si scrivono in colonna 0 e 1:
M-10 SISTEMI AUTOMATICI

2 ALGEBRA DI BOOLE
1.Definizioni
L’algebra di Boole è un sistema logico deduttivo costruito dal matematico inglese George
Boole (1815-1864), che parte da alcuni concetti fondamentali e da un insieme di postulati.
Per strutturare un’algebra di Boole sono quindi necessari sia i concetti fondamentali sia i
postulati.
I concetti fondamentali sono costituiti da:
1.un insieme I di elementi generici;

2.una relazione di equivalenza;

3.due operazioni binarie interne.

La relazione di equivalenza fra gli elementi dell’insieme di I gode delle proprietà: rifles-
siva, simmetrica e transitiva.
Le operazioni binarie interne sono: somma e prodotto logico; esse sono definite
binarie in
quanto sono applicate a qualsiasi coppia di elementi dell’insieme e interne perché il
risultato delle operazioni logiche è ancora un elemento dell’insieme I. La somma logica si
può indicare con due simboli grafici “+” o “”, o OR, mentre il prodotto logico con “ “ o
”, o AND.
I postulati sono le condizioni imposte ai concetti fondamentali; essi devono essere tra
loro compatibili (cioè non devono essere in contraddizione tra di loro) e indipendenti (cioè
nessun postulato deve poter essere dedotto dagli altri). Si riportano di seguito i postulati
relativi a un
insieme di elementi I, di cui X, Y, Z sono tre elementi generici.
a)Proprietà commutativa. Per ogni coppia di elementi X e Y dell’insieme I si ha:
X+Y=Y+XXY=YX
b)Proprietà distributiva. Per ogni terna di elementi X, Y, Z dell’insieme I risulta:

X  (Y + Z) = (X  Y) + (X prodotto rispetto alla somma


 Z) somma rispetto al prodotto
X + (Y  Z) = (X + Y)  (X +
Z)
c)Nell’insiemeI, per la somma e il prodotto logico, esistono due elementi neutri (0 e 1) tali

che per ogni elemento X appartenente a I si ha:


+XX0=X1X=
per ogni elemento X appartenente a I esiste un elemento X , detto complemento di X, per il
d)

quale si ha:
X X+ =1 X
=X0
ALGEBRA DI BOOLE
M-11

Nel caso in cui gli elementi dell’insieme I possono assumere solo due stati (0 e 1), l’alge-
bra booleana strutturata è binaria.
Si precisa che nei sistemi binari una variabile può assumere due stati distinti: uno vero e
uno falso; il vero è indicato convenzionalmente con 1 (uno), quello falso con 0 (zero). Se, per
esempio, la variabile x assume lo stato 1 (è perciò vera) si indica semplicemente con x, se
invece assume lo stato 0 (quindi è falsa) si indica con x.
2.2 Algebra dei circuiti
Un circuito elettrico elementare può essere considerato costituito da un generatore, uno o
più contatti elettrici (interruttori come P1) e un utilizzatore (per esempio, una lampada come
L, fig. M.1).

Generatore

Figura M.1 Circuito elettrico elementare.


Il contatto può essere chiuso o aperto: se è chiuso, all’utilizzatore arriva corrente, se è
aperto all’utilizzatore non arriva corrente. Convenzionalmente si stabilisce che:
-con “uno” (1) si indica la posizione di contatto chiuso e con “zero” (0) la posizione di con-
tatto aperto;
con “uno” (1) si indica la presenza di segnale S nell’utilizzatore (per es., lampada accesa) e
-

con “zero” (0) l’assenza di segnale S (per es., lampada spenta).


Il circuito può essere rappresentato con la tabella di verità (tab. M.2).
Tabella M.2
P1 Tabella di verità
S di un circuito Lampada
elettrico L

0 0 Spenta

1 1 Accesa
Somma logica (OR)
La somma logica (OR) di due o più contatti (o segnali) elettrici si ottiene mediante il loro
collegamento in parallelo.

Figura M.2 Realizzazione della somma logica con contatti elettrici.

Nella figura M.2 sono stati riportati quattro circuiti con la diversa combinazione dei due
contatti in parallelo. Attribuendo valore 1 o 0 ai contatti, secondo la convenzione adottata, si
ottiene la tabella di verità della somma logica, realizzata con un circuito avente due
interruttori (contatti) in parallelo (tab. M.3).
M-12 SISTEMI AUTOMATICI

Tabella M.3 Tabella di verità della somma logica


(OR)
P1 P2 S = P1 + Lampada L
P2
0 0 0 Spenta
1 0 1 Accesa

0 1 1 Accesa
Dalla figura M.2 si osserva
1 che se1 si preme l’interruttore
1 P1 , Accesa
oppure P2 , oppure tutti e
due la lampada si accende (cioè vi è un segnale S in uscita).
Generalizzando, si può concludere quindi che la somma logica S di due (o più) segnali
elettrici ( P1 e )Pè2 diversa da zero quando uno dei due segnali è diverso da zero e algebrica-
mente si esprime con la (M.1).

S = P1 + P2

(M.1)

L’operatore con cui si effettua la somma logica, o OR, si rappresenta graficamente con il
simbolo riportato nella figura M.3.

Figura M.3 Simbolo rappresentativo dell’operatore logico di somma (OR).

Prodotto logico (AND)


Il prodotto logico (AND) si ottiene ponendo in serie due o più contatti in un circuito elet-
trico.

Figura M.4 Realizzazione del prodotto logico con contatti elettrici.

Dall’analisi della figura M.4 emerge che, affinché la lampada sia accesa, è necessario che
tutti e due i pulsanti siano premuti (contatti chiusi).
Attribuendo ai contatti i valori 1 o 0, con la convenzione adottata, si costruisce la tabella
di verità riportata nella tabella M.4.
Dall’esame della tabella di verità si può concludere che il prodotto logico di due o più
segnali, o AND, è diverso da zero solo quando tutti i segnali sono diversi da zero (M.2).

S P1 =P2
(M.2)

Il prodotto logico si rappresenta graficamente con il simbolo riportato nella figura M.5.
ALGEBRA DI BOOLE M-13

Tabella M.4 Tabella di verità del prodotto logico


(AND)
P1 P2 S P1 Lampada L
=P2
0 0 0 Spenta
1 0 0 Spenta

0 1 0 Spenta
1 1 1 Accesa

Figura M.5 Simbolo rappresentativo del prodotto logico (AND).

Negazione logica (NOT)


La negazione logica si rappresenta con un contatto normalmente chiuso che fa passare la
corrente. Quando il contatto si apre nega il passaggio della corrente.

Figura M.6 Rappresentazione della negazione logica NOT con circuito elettrico.

Il circuito elettrico che si presenta in figura M.6 è costituito da una lampadina alla quale
arriva un segnale di corrente (lam pada accesa) sino a quando non si preme l’interruttore P;
appena P viene premuto diventa P ( P si legge “P negato”), negando il passaggio di corrente
(tab. M.5).
Tabella M.5 Tabella di verità della negazione logica (NOT)

P P Lampada L

0 1 Accesa

1 0 Spenta
La rappresentazione grafica della negazione logica o NOT si effettua con il simbolo ripor-
tato nella figura M.7.

Figura M.7 Simbolo rappresentativo della negazione logica


(NOT).
M-14 SISTEMI AUTOMATICI

Somma logica esclusiva (XOR)


Dati due contatti P1 e P2 , si definisce somma logica esclusiva la variabile S che ha
valore 1 solo quando P1 oppure P2 hanno valore 1, ma non entrambi.
La somma logica esclusiva si esprime con:

S P1  =P2

La tabella di verità della somma logica esclusiva è riportata in tabella M.6.


Tabella M.6 Tabella di verità della somma logica esclusiva (XOR)
P1 P2 S P1  Lampada L
=P2

0 0 0 Spenta

1 0 1 Accesa

0 1 1 Accesa

1 1 0 Spenta
La somma logica esclusiva è esprimibile anche come somma dei prodotti degli stati che la
esprimono (fig. M.8).
S P1 P2 P1 +P=2

Figura M.8 Circuito elettrico dell’OR esclusivo.

Lo XOR o OR esclusivo si rappresenta graficamente con il simbolo riportato nella figura


M.9.

Figura M.9 Simbolo rappresentativo dell’operatore logico di somma esclusiva (XOR).

2.3 Leggi e teoremi fondamentali dell’algebra di Boole


Nella tabella M.7 si riportano in sintesi le regole fondamentali (leggi e teoremi) dell’alge-
bra di Boole. I postulati, non meno importanti di tali regole, sono stati introdotti nel
paragrafo
1.1. Si sottolinea che ciascuna espressione delle regole riportate è dimostrabile mediante
le tavole di verità.
ALGEBRA DI BOOLE M-15

Tabella M.7 Leggi fondamentali dell’algebra di


Boole
Regole Espressione e2
1Espression

Idempotenza X X+X= X XX=

Assorbimento X X X Y+
Y X=
+X=X
Elemento neutro +X1 = 1 X=00

Complemento Il complemento X di un Il complemento di X è X


qualsiasi elemento X di I è
X
unico
=
Leggi di De Morgan X Y+X Y= X YX= Y+

Teorema dell’adiacenza XY XY+X= X Y+


Con le regole riportate è possibile semplificare, con procedimenti algebrici,
X Y+le espressioni
delle funzioni logiche: si parla pertanto di algebra di Boole.
Teorema della semplificazione X XY+X= Y+ X X Y+
2.4 Funzioni logiche
XY=
Nel definire le funzioni logiche si cercano le relazioni di dipendenza tra una variabile y ed
n variabili indipendenti x1, x2, …, xn. Se esiste una relazione univoca di corrispondenza tra
le configurazioni di x e un determinato valore y (0 o 1) allora si può scrivere che:

y = f (x1, x2, …, xn)

Le possibili configurazioni di x sono 2n, mentre il numero di funzioni diverse che si pos-
sono costruire con n variabili binarie (x1, x2, …, xn) è pari a 22n.
Le funzioni logiche si possono rappresentare con le tabelle di verità, riportando il
valore
assunto dalla y in corrispondenza di ciascuna delle 2n possibili configurazioni di x1, x2,
…, xn. Due funzioni y e g, dipendenti in modo diverso dalle stesse n variabili indipendenti,
sono equivalenti, se per ogni combinazione delle 2n variabili indipendenti assumono lo
stesso
valore:
y fx1 x2 ..., xn = g fx1 x2 ..., xn =

Costruzione delle funzioni logiche


Le funzioni logiche si possono costruire con i metodi associativo o dissociativo, note le
tabelle di verità. Le tabelle di verità consentono di definire la relazione tra la variabile dipen-
dente e le n variabili indipendenti.
Forme canoniche
Nell’algebra di Boole si definiscono forme canoniche di una funzione binaria dipendente
da n variabili le espressioni della funzione, sia come somma dei prodotti delle variabili, sia
come prodotto della somma delle variabili.
Si precisa che con minterm (mm) si indica un’espressione prodotto, contenente in modo
affermato le variabili della funzione il cui valore è uno (1) e negato le variabili il cui valore è
zero (0). Con maxterm (Mm), invece, si indica un’espressione somma, contenente in
modo affermato le variabili della funzione il cui valore è zero (0) e negato le variabili il cui
valore è uno (1).
M-16 SISTEMI AUTOMATICI

Esempio
Nella tabella di verità della tabella M.8 le tre variabili indipendenti (a, b, c), con le loro
otto combinazioni (2n con n numero delle variabili) danno luogo agli otto maxterm (Mm) e
agli otto minterm (mm) di seguito riportati.
Tabella M.8 Tabella di verità di una funzione a tre variabili
m a b c F
0 0 0 0 0

1 1 0 0 1
2 0 1 0 0

3 1 1 0 1

4 0 0 1 0
5 1 0 1 0
6 0 1 1 0
Maxterm: M0 a 7 b=Mc+;1 1 a 1 b= c+; 1 a b= c+;
1 a b= c+; +
+ +M2 +M3
M4 a b= c+; +M5 a b= c+. +
a b c ; = m1 a b= c+; a b= c+;
Minterm: m0 a b c ; = m5 a b c; =
+M6 a b c; +M7 a b c;
m4 a b c. =
= m2 a b c; = m3 a b c;
Metodo associativo
= m6 = m7
Il metodo associativo consente di ottenere la funzione logica come prodotto dei maxterm
per i quali la funzione F è uguale a zero.
F M0 0 M1 0=...M
n0 (M.3)

Esempio
Si consideri la tavola di verità riportata in tabella M.8 nella quale la funzione logica F è
espressa in funzione delle variabili a, b, c.
Secondo il metodo associativo, si individuano i maxterm uguali a zero:
M0MM2 4 M5 M6
e si calcola
F la funzione
M0  M logica
2  Mcon
4 ilM
loro prodotto:
5 =M 6
F= a b c+  a b c+  + a b a b c+ a
+ c+ + + b
Metodo dissociativo
Con il metodo dissociativo la funzione logica si ottiene sommando tra di loro i minterm
per i quali la funzione F è uguale a 1.
F = m0 1+ m1 1+ ...m+ n1

(M.4)
ALGEBRA DI BOOLE
M-17

Mappe di Karnaugh
Come si è visto nel paragrafo precedente, le funzioni logiche si possono calcolare come
prodotti di maxterm o come somme di minterm. Le funzioni logiche riportate nei due esempi
sono solo apparentemente diverse; se opportunamente semplificate con i teoremi e le leggi
del- l’algebra di Boole danno lo stesso risultato:
F a b
c+ =
L’utilità delle funzioni logiche sta nel fatto che è possibile costruirle praticamente, utiliz-
zando gli operatori logici (AND, OR, NOT, XOR) presenti in commercio e realizzati con
diverse tecnologie. In pratica con esse si realizza l’automazione industriale, sia con logica
cablata (assemblando componentistica hardware), sia con logica programmata (realizzata
mediante software). Il costo della realizzazione delle funzioni logiche dipende dalla quantità
di componenti da utilizzare e cresce con essi, perciò l’esigenza della loro semplificazione è
con- creta.
Un sistema che facilita la semplificazione delle funzioni logiche è rappresentato dalle
mappe di Karnaugh.
Le mappe sono costituite da tabelle a doppia entrata sulle cui righe e colonne si
rappresen- tano le variabili.
Procedura di costruzione delle mappe di Karnaugh
Le variabili da rappresentare si suddividono tra le righe e le colonne. Il numero di caselle
lungo una riga o una colonna è pari a 2n con n numero di combinazioni delle variabili
rappre- sentate sulle righe o sulle colonne. In ogni casella si può rappresentare una riga della
corri- spondente tavola di verità.
In corrispondenza del vertice in alto a sinistra della mappa si riportano le variabili. Al di-
sopra della prima riga e a sinistra della prima colonna si riportano dei numeri (0 e 1) che indi-
cano lo stato delle variabili (negato o non negato); la successione è quella del codice
Gray.
Le caselle sono numerate con numeri decimali, ogni numero corrisponde al numero bina-
rio composto dalle cifre presenti sulla colonna corrispondente alla casella, seguite da quelle
poste a sinistra della riga corrispondente.
Mappa di una funzione a due variabili
La funzione f(A, B) a due variabili riportata nella tabella di verità della figura M.10b si
può calcolare come somma dei minterm m1 e m3 e si può rappresentare con la mappa di
Karnaugh come nella figura M.10a.
F = m1 +Am3B=A B+
La mappa di una funzione a due variabili, riportata nella figura M.10, si
disegna distri-
M-22 SISTEMI AUTOMATICI

3 ELEMENTI DI PNEUMATICA
1. Generalità
Le tecnologie pneumatiche hanno lo scopo di studiare i metodi e i mezzi necessari a fare
eseguire a macchine particolari operazioni ripetitive, realizzabili manualmente.
In effetti, questa tecnologia si basa sulle azioni che possono compiere alcuni attuatori
(cilindri o motori pneumatici) movimentati (azionati) da aria compressa.
L’aria risulta essere quindi il mezzo di trasporto dell’energia utilizzata nei processi pneu-
matici e perciò su di essa si basa questa tecnologia.
2. L’aria e principi fisici dei gas
L’aria è composta da una miscela di gas, vapor d’acqua e di particelle solide in sospen-
sione; essa è trasparente, incolore, inodore, cattiva conduttrice di calore ed elettricità. Alla
temperatura di 273,16 K (gradi kelvin) e alla pressione di 0,1 MPa presenta una massa volu-
mica di 1,29 kg/m3.
I gas principali che costituiscono l’aria sono l’azoto (N2) l’ossigeno (O2), l’argon (Ar) e
l’anidride carbonica (CO2), secondo le percentuali di tabella M.9.
Tabella M.9 Composizione di massima dell’aria
Gas % in volume % in massa

Azoto 78,09 75,51


Ossigeno 20,95 23,16
Argon 0,93 1,28

Anidride 0,03 0,05


carbonica
I parametri fisici che individuano lo stato fisico dei gas sono tre: pressione, volume e
tem- peratura. Perciò le trasformazioni che possono essere operate sono tre:
-a pressione costante, variando temperatura e volume;

-a volume costante, variando temperatura e pressione;

-a temperatura costante, variando pressione e volume.

Le tre trasformazioni danno luogo a tre leggi corrispondenti. Si ha, ancora, una quarta
legge che considera, insieme, le variazioni di pressione, volume e temperatura e che viene
indi- cata come equazione di stato dei gas.
Queste leggi, poiché derivano da osservazioni sperimentali e contengono alcune semplifi-
cazioni, sono chiamate leggi dei gas ideali o perfetti.
Pressione
I gas sono costituiti da molecole che si muovono in continuazione. Se il gas è contenuto
in un recipiente le molecole, nel loro cammino, vanno a urtare le pareti. Ogni urto comporta
una forza esercitata sulla parete. La somma di tutte queste forze elementari esercitate su una
super- ficie rappresenta la pressione.
Gli strumenti con i quali si misura la pressione sono i manometri (fig. M.16a) e l’unità di
misura usata nel Sistema Internazionale è il pascal [1 Pa = 1 N/m2].
Un manometro particolare è quello riportato nella figura M.16b, denominato
barometro a
mercurio (h indica l’altezza della colonnina di mercurio), utilizzato per la misura della
pres- sione atmosferica. Questo strumento è costituito da un tubo di vetro (aperto solo da un
lato) pieno di mercurio (Hg) e immerso in una vaschetta contenente mercurio. Al livello del
mare e alla temperatura di 15 °C il livello di mercurio nel tubo è di 760 mm. La pressione
atmosferica corrisponde quindi a 760 mmHg, che sono pari a ~ 105 Pa.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-23

Le unità di misura utilizzate in pneumatica sono sostanzialmente tre: il pascal, il bar e il


psi [pound/(square × inch)] nei sistemi anglosassoni. Nella tabella M.10 si riportano le
relazioni esistenti tra le diverse unità di misura.
Tabella M.10 Relazioni
pascal tra le unità di misura
bar della pressione
psi kg/cm2

1 pascal 1 105 1,433 · 104 1,02 ·105

1 bar 105 1 14,33 1,02


1 psi 6,98 · 103 6,980 ·102 1 7,122 ·102

1 kg/cm2 9,8 ·104 9,8 ·101 14,04 1

Figura M.16 Manometro (a) e barometro a mercurio di Torricelli (b).

Temperatura
La temperatura dei gas esprime l’energia cinetica posseduta dalle particelle che costitui-
scono il gas; maggiore è la temperatura del gas maggiore è l’energia posseduta dalle
particelle. La temperatura si misura in gradi centigradi (o Celsius, °C); lo zero della scala di
misura corrisponde alla temperatura del ghiaccio fondente e il valore 100 corrisponde alla
temperatura
di ebollizione dell’acqua; le rilevazioni sono da effettuare alla pressione di 760 mmHg.
Nel Sistema Internazionale la temperatura è misurata in gradi kelvin e si indica con T.
Questo sistema di misura viene definito scala di rappresentazione assoluta e il suo zero è indi-
cato come zero assoluto.
La trasformazione della temperatura da gradi centigradi in gradi kelvin (K) si ottiene
som- mando 273,16 alla temperatura t espressa in gradi centigradi [°C]:
T = 273,16 + t

(M.6)
La trasformazione da gradi Kelvin a centigradi si ottiene sottraendo 273,16 dalla tempera-
tura espressa in gradi Kelvin:

t = T  273,16

(M.7)
Dalla (M.6), ponendo T = 0, si deduce che lo zero assoluto corrisponde a 273,16 °C.
M-24 SISTEMI AUTOMATICI

Prima legge di Gay Lussac: trasformazione a pressione costante


A pressione costante il rapporto tra volume e temperatura è costante. Si consideri un cilin-
dro contenente aria, in cui è inserito un termometro. Il cilindro è chiuso con un pistone (fig.
M.17) che può scorrere senza attrito all’interno del cilindro.
Se si fornisce calore al cilindro, la temperatura dell’aria aumenta e il pistone si sposta
verso l’esterno; se si raffredda il cilindro, la temperatura del gas diminuisce e il pistone si
spo- sta all’interno del cilindro. In ambedue i casi lo stelo del pistone cambia posizione.
Il volume del gas contenuto nel cilindro è dato dalla superficie di base del cilindro
molti-
plicata per la distanza che intercorre tra la base del cilindro e quella del pistone: V = S · L,
per cui al variare della posizione del pistone varia il volume del gas contenuto nel cilindro.
Dall’analisi dei due casi si può concludere che, a pressione costante, il volume del gas
varia con il variare della temperatura in modo direttamente proporzionale (cioè il volume
cre- sce se la temperatura cresce e diminuisce se la temperatura diminuisce). Ciò si può
esprimere matematicamente con la seguente
V1 formula:
=----- =-----
V 2
T1 costante
T2
la temperatura è espressa in gradi Kelvin.

Figura M.17 Cilindro con pistone a tenuta, scorrevole senza attrito.

Seconda legge di Gay Lussac: trasformazione a volume costante


A volume costante il rapporto tra pressione e temperatura è costante. Questa trasforma-
zione può essere esaminata considerando un cilindro a cui è collegato un manometro. Il cilin-
dro contiene aria ed è chiuso con un pistone (fig. M.18).

Figura M.18 Cilindro a tenuta, contenente aria, chiuso con un


pistone.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-25

Se si fornisce calore al cilindro, aumentano la frequenza e l’intensità degli urti delle


mole- cole del gas contro le pareti del cilindro, facendo crescere la pressione.
Se al cilindro si sottrae calore, piuttosto che fornirlo, la temperatura del gas diminuisce e
con essa gli urti sulla superficie e quindi la pressione.
Dall’analisi dei due casi si può quindi concludere che a volume costante la variazione
della pressione è direttamente proporzionale a quella della temperatura e si esprime
matematica- P1
mente con la seguente formula: =- P
T1
=-----
2 costante
---
-T2
Legge di Boyle: trasformazione a temperatura costante
A temperatura costante il prodotto tra pressione e volume è costante. Questa trasforma-
zione può essere esaminata considerando un cilindro a cui è collegato un manometro. Il cilin-
dro contiene aria e il pistone può scorrere al suo interno senza attrito (fig. M.19). Se, a partire
dalla condizione di riposo, si spinge lo stelo verso l’interno del cilindro, si osserva che a
ogni diminuzione di volume corrisponde un aumento di pressione e, viceversa, ogni aumento
di volume comporta una diminuzione di pressione.
Dall’analisi dei due risultati si può quindi affermare che a temperatura costante, al
crescere
della pressione diminuisce il volume e alla diminuzione della pressione corrisponde un
au- mento del volume. Questo comportamento è esprimibile matematicamente con la
seguente equazione:
P1 V1 = P2 V2 = costante

Figura M.19 Cilindro a tenuta contenente aria, chiuso con un pistone scorrevole.
Equazione di stato dei gas
L’equazione di stato dei gas contiene tutti e tre i parametri che regolano lo stato dei gas e
per questo viene definita equazione di stato.
Essa è espressa dalla seguente formula:
P·V=mR·T
con:
-P: pressione misurata in Pa;
-V: volume misurato in m 3;
-m: massa del gas misurata in kg;
-R: costante dei gas (o costante universale dei gas); il valore di R è 8,31 J/(K mole); per un kg
di aria, assumendo il peso molecolare medio pari a 28,9 g si ha che m = 34,6, per cui il pro-
dotto m R è pari a 287 J/K;
-T: temperatura misurata in gradi Kelvin.
M-26 SISTEMI AUTOMATICI

3.3 Generazione e distribuzione dell’aria compressa


L’aria e i sistemi automatici
L’attivazione di un sistema ad automazione pneumatica consiste nel predisporre una serie
di dispositivi la cui funzione è quella di produrre aria compressa e di trattarla in modo che
essa possa essere utilizzata per realizzare le funzioni desiderate.
Questi dispositivi sono classificabili essenzialmente in quattro gruppi, come di seguito
riportato:
1.gruppo di generazione e distribuzione dell’aria compressa;

2.gruppo di condizionamento;

3.gruppo di distribuzione;

4.gruppo di attuazione.

Un impianto per la produzione di aria compressa (fig. M.20) è generalmente costituito da:
-un sistema necessario alla filtrazione dell’aria o semplicemente filtro (1);
-uno o più compressori (2) per portare l’aria alla pressione prefissata, con relativo motore
(11);
-scambiatori di calore che raffreddano l’aria in uscita dal compressore (3);
-separatori di condensa che consentono di eliminare l’acqua che si è separata dall’aria (4) e
(10);
-valvole di non ritorno che non consentano all’aria compressa di tornare indietro (5);
-valvole d’intercettazione per bloccare i circuiti (8);
-un serbatoio per accumulare l’aria compressa prodotta (6);

-un pressostato che determina la pressione minima e massima che l’aria deve raggiungere

all’interno del serbatoio (9);


-essiccatori per ridurre l’umidità presente nell’aria (7);
-manometri e termometri (pp. M-22 e M-23) per misurare la pressione e la temperatura
dell’aria (12).
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-27

Filtri
I filtri vengono utilizzati per eliminare la polvere e le particelle solide che sono sospese
nell’aria (fig. M.21). La presenza della polvere è dannosa ai componenti dell’impianto poiché
fa crescere l’usura negli elementi che hanno parti in movimento e potrebbe intasare gli altri
riducendo la funzionalità dell’impianto.
I filtri sono fondamentalmente di quattro tipi:
-di carta;

-di feltro;

-a bagno d’olio;

-a labirinto.

Figura M.21 Simbolo unificato di filtro.


La prima filtrazione, grossolana, dell’aria avviene all’ingresso dell’aspirazione, proteg-
gendo così il compressore.
Compressori
I compressori sono macchine che hanno lo scopo di comprimere i gas; nel caso della
pneu- matica il gas da comprimere è l’aria. Gli elementi caratteristici dei compressori sono:
-il rapporto di compressione;

-la portata;

-la pressione.

Il rapporto di compressione si indica con  = P 1/P0 esprime il rapporto tra le pressioni


di mandata P1 e di aspirazione P0.
La portata Q si misura in m 3/s e rappresenta il volume d’aria che il compressore aspira
dall’atmosfera e porta alla pressione prestabilita, nell’unità di tempo.
La portata, per i compressori cilindrici, si calcola moltiplicando la cilindrata per il
numero d2 n
Qc  =4---60
di giri al minuto dell’albero motore.
-----
-è un coefficiente, minore di 1, chetiene conto del riempimento del cilindro ed è chiamato
coefficiente volumetrico;
-c [m] rappresenta la corsa del pistone;
-d [m] il diametro del cilindro;
-n [giri/min] il numero di giri dell’albero motore.
La pressione di esercizio (4  10 bar) corrisponde alla pressione presente all’interno del
serbatoio.
La potenza N necessaria alla compressione si può calcolare con la seguente formula
1225 5Q 1 T 0 286– 
approssimata: N= [W]
1  1
M-28 SISTEMI AUTOMATICI

in cui la portata Q1 [m3/s] e la temperatura T1 [K] sono quelle di aspirazione;  è il rapporto


di compressione ed  il rendimento. I compressori si possono classificare come riportato
nella figura M.22.

Figura M.22 Classificazione dei compressori.

I compressori che generalmente si utilizzano in automazione pneumatica sono quelli


volu- metrici. In generale si può asserire, però, che i compressori dinamici si caratterizzano
per pro- duzione di elevate portate d’aria, i rotativi per silenziosità e compattezza, gli
alternativi per il rendimento.
Compressori alternativi a stantuffo
Questi compressori sono essenzialmente costituiti da uno stantuffo che scorre dentro un
cilindro. Lo stantuffo è mosso da un sistema biella-manovella, comandato da un albero
motore che riceve il moto da un motore elettrico.
Come si può osservare nella figura M.23, quando il pistone si muove verso il basso si
apre la valvola di aspirazione e l’aria entra nel cilindro. Nella fase di salita il pistone
comprime
l’aria facendola fuoriuscire dalla valvola di scarico.

Figura M.23 Compressore alternativo.

Compressori alternativi a membrana


Queste macchine sono compressori alternativi dotati di piccola corsa nei quali la testa del
pistone è solidale con una membrana elastica, fissata tra il cilindro e la testata. Come si può
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-29

osservare nella figura M.24, l’ingresso e l’uscita dell’aria, dalle valvole, è provocato dagli
spo- stamenti alternati che il pistone provoca alla membrana elastica.

Figura M.24 Compressore alternativo a membrana.


Le due principali differenze tra i compressori a stantuffo e a membrana sono:
-nei compressori a membrana non esiste contatto tra aria e pistone, per cui si possono avere

trafilamenti solo nelle valvole;


-la biella dei compressori a membrana è piccola, per cui può crescere la velocità dell’albero

facendo risultare la mandata più continua.


Compressori a palette
I compressori a palette (fig. M.25) sono compressori rotativi costituiti da una parte mobile
detta rotore montata eccentricamente all’interno di una fissa, detta statore.
Il rotore è munito di scanalature longitudinali dentro le quali sono inserite sottili palette
prismatiche a sezione rettangolare. Le palette sono mantenute a contatto con la superficie
cilin- drica interna del rotore da molle, poste dentro le scanalature, sotto le palette.

Figura M.25 Compressore a palette.


Anche lo statore è di forma cilindrica e sulla superficie laterale sono presenti due
collettori per l’aspirazione e la mandata dell’aria.
Durante la rotazione, l’aria presente nella zona del collettore di aspirazione è catturata
dalle palette del rotore, le quali la trascinano. La compressione avviene per riduzione di
volume, provocata dal rientro delle palette dentro le scanalature.
Non vi è possibilità di riflusso durante la rotazione perché subito dopo la mandata,
per
M-30 SISTEMI AUTOMATICI

l’eccentricità, le palette rientrano completamente nel rotore. In queste condizioni il rotore


risulta tangente al cilindro di statore e non imprigiona aria.
Questi compressori possono variare la portata al variare dell’eccentricità, sino ad
annullare l’effetto di compressione (eccentricità zero) o invertire la mandata con
l’aspirazione (eccentri-
cità opposta).
Compressore a lobi
Questi compressori sono costituiti da due lobi che ruotano mantenendosi sempre in con-
tatto tra loro e con la carcassa esterna.

Figura M.26 Compressore a lobi.


Come si può osservare nella figura M.26, durante la rotazione l’aria viene imprigionata in
corrispondenza del collettore di aspirazione, tra i lobi e la carcassa esterna, e trascinata sino
al collettore di mandata. Non è possibile un riflusso nella zona centrale poiché i lobi sono
sempre in contatto.
Compressori a vite elicoidale
Questi sistemi sono costituiti da due viti elicoidali che ingranano tra loro e ruotano
mante- nendo il contatto con la carcassa che li contiene (fig. M.27).
Il principio di funzionamento è analogo a quello del compressore a lobi e consiste nel tra-
scinare l’aria dalla zona di aspirazione a quella di mandata. Anche qui non è possibile un
riflusso nella zona centrale poiché i denti sono sempre in contatto.

Figura M.27 Compressore a vite elicoidale (fonte: Festo).


Scambiatori di calore
Gli scambiatori di calore sono utilizzati per raffreddare l’aria che, a causa della compres-
sione, in uscita dal compressore è calda.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-31

Gli scambiatori di calore (fig. M.28) possono essere di diverso tipo, dai semplici tubi alet-
tati, ai radiatori (simili a quelli delle macchine con o senza ventola).
Nei casi più complessi si potranno utilizzare scambiatori di calore in cui il fluido refrige-
rante non è l’aria ma l’acqua.

Acqua

Acqua

Ari Ari
a a

Figura M.28 Scambiatori di calore (fonte: Camozzi).

Separatori di condensa
I separatori di condensa (fig. M.29) hanno lo scopo di eliminare l’acqua che si produce
raf- freddando l’aria.
Nell’aria, infatti, è sempre presente del vapor d’acqua che, a causa del
raffreddamento,
condensa trasformandosi in liquido. Se l’acqua di condensa non si elimina, l’aria
compressa (nel suo movimento) la porta in giro per l’impianto, corrodendolo e
danneggiandone i compo- nenti.
I separatori di condensa possono essere manuali o automatici, in funzione del modo con
cui eseguono lo scarico.

Figura M.29 Separatore di condensa.


M-32 SISTEMI AUTOMATICI

Valvole unidirezionali e di non ritorno


Le valvole di non ritorno e quelle unidirezionali sono dei componenti che si fanno
attraver- sare dall’aria soltanto in una direzione (fig. M.30). La differenza tra le due valvole
consiste nel fatto che nelle valvole di non ritorno per avere il passaggio dell’aria bisogna
vincere la resi- stenza opposta da una molla.

Figura M.30 Valvole unidirezionali (a) e di non ritorno (b).


Esistono, anche delle valvole di non ritorno “pilotate” in cui la presenza di un segnale di
pressione (che può essere inviato a distanza) consente alla valvola di essere attraversata nelle
due direzioni.
Valvole d’intercettazione
Sono generalmente valvole a sfera e sono utilizzate nella rete dell’aria compressa, per iso-
lare un ramo senza dover scaricare l’intera rete (fig. M.31).

Figura M.31 Valvole d’intercettazione.

Serbatoi
I serbatoi (fig. M.32) hanno il ruolo di fornire l’aria compressa necessaria al funziona-
mento dell’impianto pneumatico, evitando le pulsazioni che potrebbero derivare da un
collega- mento diretto con il compressore.
La presenza di un serbatoio, inoltre, consente al compressore di funzionare a
intermittenza e solo quando la pressione dell’aria all’interno del serbatoio scende al disotto
dei valori presta-
biliti. I serbatoi, per motivi di sicurezza e di funzionalità, devono essere muniti di:
termometro, manometro, valvola di sicurezza (limitatrice di pressione), separatore di
condensa con tappo di scarico dell’acqua, valvole d’intercettazione, pressostato.
ELEMENTI DI PNEUMATICA M-33

Figura M.32 Schema di serbatoio completo di accessori.


Termometro e manometro sono necessari per tenere sotto controllo rispettivamente
tempe- ratura e pressione. La valvola di sicurezza ha lo scopo di abbassare la pressione
all’interno del serbatoio nel caso in cui si raggiunga il valore limite (superiore a quello
prefissato dal presso- stato), oltre il quale si mette a rischio la sicurezza. Il separatore di
condensa è necessario per eliminare l’acqua residua che si separa dall’aria, che all’interno
del serbatoio tende ad assu- mere la temperatura dell’ambiente.
Il volume V del serbatoio si può calcolare con la formula seguente:

15Q c –Qu 
V P P =
Z
-Q c [Nm3/min] è la portata del compressore;
-Q u [Nm3/min] è il consumo medio dell’utenza (Qc e Qu sono considerate alle condizioni
di temperatura e pressione dell’aspirazione);
-P [bar] è la pressione all’aspirazione;
-P [bar] è la differenza di pressione prevista nel serbatoio;
-Z è il numero di volte in cui il compressore si attacca in un’ora.
Pressostato
Il pressostato (fig. M.33) è un trasduttore che ha il compito di attaccare e staccare il
motore del compressore. Esso è collegato con il serbatoio e interviene quando l’aria
raggiunge il valore minimo o massimo di pressione prestabilito.

Figura M.33 Pressostato.


M-34 SISTEMI AUTOMATICI

Essiccatori
Gli essiccatori sono utilizzati per eliminare il vapor d’acqua direttamente dall’aria e sono
essenzialmente chimici o termici. Gli essiccatori chimici (fig. M.34) sono costituiti da sali
igroscopici che possono essere rigenerati, mediante riscaldamento, quando sono saturi di
vapore. Gli essiccatori termici trattano l’aria con riscaldamenti e raffreddamenti ripetuti.

Figura M.34 Essiccatori chimici.

3.4 Reti di distribuzione e regolazione dell’aria


Le reti di distribuzione dell’aria compressa (fig. M.35) sono costituite da tubi collegati in
modi diversi (maglia o pettine) aventi inclinazione orizzontale di circa il 2  3% nella dire-
zione di movimento dell’aria compressa, per consentire alla condensa di raccogliersi nei sepa-
ratori di condensa (figg. M.35a e M.35b).

Figura M.35 Reti di distribuzione dell’aria compressa: a) rete di distribuzione a maglia; b)


rete di distribuzione a pettine; c) eliminazione della condensa in un ramo.
Dalla rete di distribuzione l’aria deve essere prelevata con tubi di discesa che
generalmente terminano con separatori di condensa e il prelievo dell’aria avviene da
derivazioni orizzontali ad attacco rapido (fig. M.35c). L’aria compressa prelevata dalla rete,
prima dell’utilizzazione, deve essere sottoposta a condizionamento. Il condizionamento si
ottiene facendole attraversare il gruppo FRLM (così chiamato dalle iniziali dei suoi
componenti) (fig. M.36), che è costituito da:

- un filtro, dotato generalmente di separatore di condensa;


ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-35

-un riduttore di pressione, per far assumere alla pressione i valori richiesti;
-un lubrificatore, nel caso in cui le valvole distributrici e gli attuatori non siano forniti di
guarnizioni autolubrificanti;
-un manometro, per controllare la pressione.

Il gruppo FRLM si può indicare con i due simboli presentati in figura M.36.

Figura M.36 Gruppo di condizionamento FRLM.

Riduttori di pressione
I riduttori di pressione sono generalmente a pistone e hanno il compito di far assumere
all’aria proveniente dal serbatoio la pressione necessaria alle esigenze degli attuatori.
Il principio di funzionamento del riduttore a membrana è identico a quello del riduttore a
cassetto.
Come si può osservare nella figura M.37 la vite A, mediante la molla B, agisce sul
disco C
della membrana D.
Sulla superficie inferiore del disco C agisce un cilindretto H (solidale con il piattello G)
spinto dalla molla F.

Figura M.37 Regolatore di pressione a membrana (fonte:


Camozzi).
M-36 SISTEMI AUTOMATICI

Se la pressione dell’utenza tende a diminuire, la membrana D sente la diminuzione, si


spo- sta verso il basso spostando anche il piattello G e facendo affluire altra aria per
ristabilire la pressione.
Nel caso in cui la pressione dell’utenza tende ad aumentare, la membrana si sposta verso
l’alto seguita dal piattello e il passaggio dell’aria viene ridotto sino a chiudersi
completamente. Se la pressione cresce ulteriormente, il cilindretto H si stacca dal disco C,
solidale con la mem- brana, aprendo il passaggio E e facendo uscire l’aria sino ad abbassare
la pressione ai valori impostati con la vite A di regolazione.
3.5 Classificazione delle valvole e relative simbologie
Le valvole si compongono di un corpo interno mobile (cassetto) e di uno esterno fisso. Il
corpo esterno ha dei fori nei quali si collegano l’alimentazione, proveniente dal compressore,
gli scarichi e l’utenza.
Come si può osservare nella figura M.38, i fori per gli attacchi, riportati sul corpo della
valvola, sono numerati e il numero indica la funzione che l’attacco svolge.
Facendo ancora riferimento alla figura M.38, si osserva che:
-all’attacco numero 1 si collega il tubo che porta pressione alla valvola, gli attacchi 3 e 5 sono

gli scarichi ai quali, in genere, sono connessi dei silenziatori, mentre 2 e 4 si collegano con
l’attuatore;
-la posizione del cassetto determina il collegamento tra gli attacchi. Spostato a sinistra, col-

lega 1 con 2 e 4 con 5, mentre 3 resta chiuso (fig. M.38a); spostato a destra, collega 1 con 4 e
2 con 3, mentre 5 resta chiuso (fig. M.38b).

Figura M.38 Valvola distributrice dotata di 5 attacchi e 2 posizioni di lavoro del cassetto
(5/2):
a) cassetto posizionato a sinistra; b) cassetto posizionato a destra.
I simboli grafici con i quali si indicano le valvole distributrici rappresentano le funzioni
che esse svolgono. I simboli si compongono di:
due o più quadrati affiancati;
-

frecce e/o segmenti chiusi a forma di T.


-

Ciascun quadrato indica una posizione di lavoro del corpo interno della valvola
(cassetto), per cui, se il simbolo si compone di due quadrati, la valvola ha due posizioni di
lavoro.
M-38 SISTEMI AUTOMATICI

Una valvola si definisce monostabile se, spostata in una qualsiasi delle due posizioni di
lavoro, vi rimane solo per il tempo in cui agisce il segnale che ha provocato il cambiamento
di posizione. Analizzando la figura M.40a si osserva che, se arriva un segnale S, il cassetto si
sposta a sinistra; se il segnale viene a mancare, la molla lo fa ritornare nella posizione
iniziale. La molla attribuisce, quindi, alla valvola una sola posizione di stabilità.
Le valvole 2/2 (fig. M.39) servono a bloccare il flusso d’aria nelle due direzioni
(rubinetti).
Le valvole 3/2 (fig. M.40b) vengono generalmente utilizzate come pulsanti o come fine
corsa. In pneumatica, ogni qualvolta viene premuto un pulsante, si ottiene il passaggio o
l’interru- zione di un flusso di aria compressa. Se il pulsante, quando è premuto, permette il
passaggio dell’aria compressa, si definisce normalmente aperto (NA). Se, invece,
premendolo, si inter- rompe il flusso di aria compressa, il pulsante viene detto normalmente
chiuso (NC).
In ogni caso quando si preme un pulsante (normalmente chiuso o aperto) si genera o si
interrompe un segnale di pressione che è destinato, generalmente, a far cambiare la
posizione del corpo interno di altre valvole, commutandole.
Scelta delle valvole
I parametri utilizzati nella scelta delle valvole regolatrici della direzione del flusso dipen-
dono generalmente dalla caduta di pressione che si realizza tra l’ingresso e l’uscita della val-
vola stessa e della portata che deve attraversare la valvola. In funzione di questi parametri si
determina il coefficiente valvolare che consente di scegliere la valvola da utilizzare.
Il calcolo del coefficiente valvolare Kv si esegue con la formula (valida sino a
P<P1/2): 28 5P P P–  
1

dove: Kv= Q
-Q [dm 3/min] indica la portata che attraversa la valvola, considerata a pressione atmosferica;
-P = P 1  P 2, dove P 1 e P 2 [daN/cm2] rappresentano le pressioni assolute all’ingresso
e all’uscita della valvola.
Il calcolo del coefficiente valvolare e la scelta della valvola si effettuano seguendo i
metodi e consultando le tabelle proposti dalle case costruttrici attraverso i cataloghi e le
schede tecni-
che.
Regolatori di flusso
I regolatori di flusso vengono impiegati per regolare la velocità dei cilindri pneumatici a
semplice e a doppio effetto.
Questi componenti, se utilizzati da soli, regolano il flusso nelle due direzioni; nel caso
siano accoppiati a una valvola unidirezionale (fig. M.41) consentono la regolazione del flusso
solo in una direzione.

a b

Figura M.41 Regolatore di flusso unidirezionale: a) passaggio dell’aria da destra a sinistra;


b) passaggio libero dell’aria da sinistra a destra (fonte: Festo).
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-39

3.6 Attuatori del moto e loro simbologie


Gli attuatori pneumatici possono essere rettilinei (cilindrici) o rotativi (motori). I cilindri
pneumatici sono normalmente costituiti da:
1.una camicia metallica;

2.un pistone (che scorre all’interno della camicia metallica) fornito di stelo e di guarnizioni

sulla sua superficie laterale, per garantire la tenuta con la camicia;


3.due testate che chiudono la camicia metallica e portano gli attacchi per introdurre l’aria nelle

due camere del cilindro; una delle due testate è forata per consentire il passaggio
dello stelo del pistone;
4.quattro tiranti che assemblano camicia e testate.

I cilindri pneumatici hanno il compito di trasformare l’energia fornita dall’aria compressa


in lavoro (forza per spostamento). La forza che provoca lo spostamento è direttamente
propor- zionale alla superficie del pistone e alla pressione esercitata su di esso.
I cilindri si dividono, principalmente, in sei categorie:
-a semplice effetto;

-a doppio effetto;

-a stelo passante;

-in tandem;

-a più posizioni;

-per rotazioni.

Cilindri a semplice effetto


In questi cilindri (fig. M.42) l’aria provoca il movimento del pistone in una direzione e il
ritorno è garantito da una molla.

Figura M.42 Cilindri a semplice e a doppio effetto con relativi simboli.


Si utilizzano nei casi in cui vi è solo una corsa di lavoro (per la velocità di ritorno basta
quindi l’azione esercitata dalla molla) e quando la frequenza di lavoro del pistone non è
molto elevata. Per far funzionare il cilindro è necessario introdurre aria, attraverso i fori di
attacco presenti sulle testate. L’aria introdotta esercita una pressione sulla superficie del
pistone produ-
M-40 SISTEMI AUTOMATICI

cendo una forza che, quando è maggiore degli attriti e delle forze esercitate dalla molla e dal
carico, fa uscire lo stelo. Il ritorno è prodotto dalla forza esercitata dalla molla.
Cilindri a doppio effetto
In questo caso (fig. M.43) l’aria determina sia l’entrata sia l’uscita dello stelo. Questi
cilin- dri si utilizzano per far lavorare lo stelo sia in uscita sia in entrata. Vengono utilizzati
anche per frequenze di lavoro molto elevate, per le quali l’eventuale azione esercitata da una
molla non fornirebbe la velocità necessaria. In questo caso la corsa di uscita dello stelo si
ottiene introdu- cendo aria nella camera sinistra, attraverso l’attacco 1, e collegando l’attacco
2 allo scarico; la corsa di rientro si ottiene, invece, introducendo aria nella camera destra,
attraverso l’attacco 2 e collegando l’attacco 1 allo scarico.

Figura M.43 Cilindro a doppio effetto con pistone ottagonale che ne


impedisce la rotazione.
Cilindri a stelo passante
Questi cilindri (fig. M.44) funzionano come quelli a doppio effetto, ma se ne
differenziano perché sono muniti di doppio stelo. Questa caratteristica consente ai cilindri di
poter lavorare anche in presenza di modesti carichi radiali. Essi possono essere utilizzati
anche quando non è possibile posizionare i finecorsa lungo la corsa di lavoro.
In questi cilindri la presenza di due steli permette di avere sui due lati del pistone la stessa
superficie su cui agisce la pressione e quindi la stessa forza.

Figura M.44 Cilindro a doppio effetto con stelo passante e relativo simbolo.
Cilindri in tandem
Come si può osservare nello schema riportato nella figura M.45, questi cilindri hanno la
particolarità di essere costituiti da uno stelo solidale con due pistoni; ogni pistone può essere
azionato da due camere.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-41

Con i collegamenti riportati nella figura M.45, si fornisce aria contemporaneamente agli
attacchi 1 e 1' provocando l’uscita dello stelo; alimentando le camere 2 e 2' si provoca il
rientro dello stelo.
Questi cilindri, a parità di pressione, sono in grado di spostare un carico doppio rispetto ai
normali cilindri, dal momento che la superficie su cui agisce la pressione è quella dei due
pistoni. 2

1 1' 2'
Figura M.45 Rappresentazione schematica di un cilindro in tandem e relativo simbolo.
Cilindri a più posizioni
Questi sistemi sono costituiti da due cilindri montati in modo contrapposto e si utilizzano
quando è necessario che lo stelo si fermi in posizioni intermedie tra quelle iniziale e finale.

Figura M.46 Rappresentazione schematica di cilindri a più posizioni.

Dall’analisi della figura M.46, considerato fisso lo stelo di sinistra A, si osserva che le
posizioni raggiungibili dallo stelo B, se i cilindri hanno lunghezza diversa, sono quattro:
1.la prima posizione è quella di riposo, cioè quando gli steli sono dentro i cilindri; si ottiene

alimentando 1 e 2';
2.alimentando l’attacco 2 e 2' esce lo stelo A che, non potendo avanzare, sposta i due cilindri

verso destra, facendo raggiungere allo stelo B la seconda posizione;


M-42 SISTEMI AUTOMATICI

3.alimentando gli attacchi 1 e 1' lo stelo A rientra, mentre lo stelo B si sposta verso destra
raggiungendo la terza posizione;
4.se si alimentano gli attacchi 2 e 1' tutti e due gli steli escono e si raggiunge la quarta posi-

zione.
Cilindri per rotazioni
Questi cilindri sono usati per ottenere un moto rotatorio alternato. Le rotazioni che si
ottengono possono essere di pochi gradi o anche maggiori di 360° a seconda del sistema
utiliz- zato. I cilindri per rotazione più diffusi sono il sistema rocchetto-dentiera e il sistema
a pa- letta. Il primo (fig. M.47) utilizza un cilindro dotato di un gruppo rocchetto-dentiera.
La den- tiera è ricavata direttamente sullo stelo del pistone, per cui a ogni sua traslazione
corrisponde una rotazione del rocchetto. Naturalmente, le rotazioni dipendono dalla corsa del
pistone.

Figura M.47 Rappresentazione schematica di un cilindro per rotazione


con sistema rocchetto-dentiera.
Il secondo sistema è costituito da una paletta che può ruotare all’interno di un
cilindro (fig.
M.48). Immettendo aria dall’attacco 1 o dal 2 si ottiene una rotazione oraria o
antioraria.

Figura M.48 Rappresentazione schematica di un cilindro per rotazione con sistema a paletta.

Dimensionamento dei cilindri


Il calcolo del diametro dei cilindri si effettua conoscendo le forze che lo stelo deve
vincere in uscita Fs (forza di spinta) e al rientro Ft (forza di tiro). Le forze di attrito si
considerano mol- tiplicando le forze di spinta e di tiro per un coefficiente   0,9.

Ft = p · Ap ·  [N]
Fs = p · Aa ·  [N]
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-43

I simboli presenti nelle due formule indicano:


-p [Pa] pressione;
-A a = Ap  As [m2] area anulare;
-A p [m2] area del pistone;
-A s [m2] area dello stelo;
- rendimento della trasmissione del moto.
Le velocità dello stelo, all’uscita Vu e al rientro Vr , si possono calcolare conoscendo la
sezione utile del pistone e la portata Q [m3/s] d’aria necessaria.
Vu = Q/Ap [m/s]
Vr = Q/Aa [m/s]

3.7 Tecnica dei circuiti pneumatici e realizzazione di semplici circuiti


Segnali di comando e di potenza
Le valvole distributrici hanno lo scopo di guidare, in funzione della loro posizione, il
flusso dell’aria compressa che arriva all’attacco 1. Il flusso dell’aria indirizzato non è altro
che un segnale di pressione. Questo segnale di pressione, se usato per la commutazione di
altre val- vole, viene definito segnale di comando; nel caso in cui vada ad alimentare la
camera di un cilindro, facendo uscire lo stelo, viene definito segnale di potenza.
Un circuito di automazione pneumatica per svolgere in modo completo la sua funzione
dovrà, quindi, utilizzare sia segnali di comando, sia segnali di potenza, con i relativi circuiti
di collegamento. I segnali di comando sono, in genere, a bassa pressione ( 2 bar), mentre
quelli di potenza hanno pressione più elevata (6  8 bar).
Schemi
Uno schema pneumatico rappresenta l’insieme dei componenti, opportunamente collegati
tra loro, necessari al funzionamento di un sistema di movimentazione.
I circuiti possono essere a comando manuale, semiautomatico e automatico. Nella
figura
M.49 si riporta un circuito a comando manuale. La posizione dello stelo del cilindro è
determi- nata dalla valvola 5/2, la cui commutazione dipende dal pulsante azionato. Se si
aziona il pul- sante P2, lo stelo del cilindro esce, se si aziona il pulsante P1 rientra.

Figura M.49 Schema pneumatico a comando manuale di un cilindro azionato con valvola
5/2 bistabile comandata da due pulsanti.
M-44 SISTEMI AUTOMATICI

3.8 Principali funzioni logiche


L’algebra di Boole, con i suoi operatori logici OR, AND, NOT, XOR, mantiene in pneu-
matica tutta la sua validità; le uniche cose che cambiano sono gli operatori, poiché si adattano
all’aria, nuovo fluido di trasporto dei segnali.
Somma logica OR
Considerando la figura M.50, si osserva che, se è premuto il pulsante P2, l’aria
attraversa
la valvola V  , arriva alla valvola superiore, spinge la sfera a destra, passa e arriva in y. Nel
1
si prema il pulsante P1, l’aria attraversa la valvola V1, arriva alla valvola superiore, spinge la
caso
sfera a sinistra, passa e arriva in y. La situazione non cambia se si premono contemporanea-
mente entrambi i pulsanti. Queste condizioni rispondono alle caratteristiche della somma
logica e sono esprimibili con la seguente equazione:
y = P 1 + P2

Figura M.50 Modalità di realizzazione della somma logica.


Assegnando i valori 1 e 0 agli stati premuto e non premuto dei pulsanti, si ottiene la se-
guente seguente tabella di verità:

P1 P2 y = P 1 + P2

0 0 0
1 0 1

0 1 1
1
Nella figura M.51 si rappresentano 1 con i quali si 1indica la somma logica
i simboli
OR.

Figura M.51 Simboli per la rappresentazione della somma logica.


Prodotto logico AND
Considerando la figura M.52, si osserva che se si preme P1 e non si preme P2 in y non
c’è segnale di pressione. Analogamente se si preme P2 e non si preme P1 in y non c’è ancora
segnale di pressione. Se però si premono sia P1 sia P2 , in y arriva aria e si osserva un
segnale di pressione.
Riassumendo tutte le combinazioni dello stato dei due pulsanti, assegnando i valori 1 e 0
agli stati premuto e non premuto dei pulsanti, si ottiene la seguente tabella di verità:
ELEMENTI DI PNEUMATICA M-45

P1 P2 y P1
=P2

0 0 0
1 0 0

0 1 0
Le condizioni realizzate definiscono
1 il prodotto
1 logico AND
1 e per questo sono esprimibili
con la seguente equazione:

y P1 =P2

Figura M.52 Modalità di realizzazione del prodotto logico.

Nella figura M.52 si indicano due modi con i quali si possono effettuare i collegamenti
necessari per realizzare il prodotto logico.
I simboli con i quali si indica il prodotto logico AND sono presentati nella figura
M.53.

Figura M.53 Simboli per la rappresentazione del prodotto logico.

Negazione logica NOT


Se si osserva la figura M.54 nell’istante in cui si preme il pulsante N, indipendentemente
dalla posizione di V3, nel cilindro non arriva aria. La valvola comandata dal sensore N, in
con- dizioni normali, deve fare passare l’aria diretta alle camere del cilindro e interrompere il
flusso quando sul sensore viene esercitata un’azione.
Il segnale in arrivo dal sensore nega, quindi, il passaggio dell’aria per cui questo tipo di
valvola viene definito NOT o negazione logica.
Assegnando 1 e 0 relativamente alla presenza e all’assenza di segnale e dell’aria, e
riassu-
mendo le considerazioni espresse, si ottiene la tabella di verità della funzione logica
NOT:
M-46 SISTEMI AUTOMATICI

N P

0 1
1 0

Figura M.54 Azione della negazione logica su un circuito.


Come si può osservare in figura M.54, nell’istante in cui N viene premuto, indipendente-
mente dalla posizione di V3, nel cilindro non arriva aria.

Figura M.55 Simboli per la rappresentazione della negazione logica.

In figura M.55 si propongono i simboli con i quali si indica la negazione logica.


Funzione logica YES
La funzione YES (sì) consente il passaggio di un segnale solo in sua presenza. Questa
fun- zione può essere realizzata, come nella figura M.56, utilizzando una valvola 3/2
monostabile normalmente chiusa. Questa funzione si utilizza per la rigenerazione dei
segnali; infatti, ne basta uno a bassa pressione per ottenerne uno a pressione più elevata.
Con riferimento alla figura M.56, se c’è un segnale x, si avrà un segnale P, altrimenti non
ci saranno segnali in uscita. Assegnando 1 e 0 relativamente alla presenza e all’assenza di
segnale e dell’aria e riassumendo le considerazioni espresse in una tabella, si ottiene:

x P

0 0

1 1
ELEMENTI DI PNEUMATICA M-47

Figura M.56 Simboli per la rappresentazione della funzione logica YES e valvola.

3.9 Cicli e loro rappresentazione grafica


Un processo può essere definito automatico quando i segnali che lo realizzano sono
gene- rati dallo stesso processo. Ricordando che il termine “ciclo” deriva da “ciclico”, cioè
“ripeti- tivo” si precisa che i cicli possono essere automatici, singoli o continui.
Un ciclo è automatico singolo quando, attivato lo Start, il processo si realizza in tutte le
sue fasi e si ferma a fine ciclo.
Un ciclo è automatico continuo quando, una volta avviato, si ripete indefinitamente
sino a
quando non viene bloccato da un intervento esterno, manuale o programmato.
La via più semplice per realizzare un ciclo consiste nel fare in modo che ogni singola fase
scaturisca da segnali di processo. Si tratta quindi di trovare le relazioni logiche tra segnali e
fasi, cioè le equazioni logiche che esprimono le fasi del processo.
Dividendo lo studio di un ciclo in stadi, nel primo stadio bisogna definire le equazioni
logi- che, nel secondo si esegue la rappresentazione grafica della relazione tra segnali e fasi
mediante i cosiddetti ciclogrammi e nel terzo stadio si traccia lo schema funzionale. Un
quarto stadio dovrebbe prevedere la distinta dei materiali.
Funzioni logiche - Criterio generale
Per definire le funzioni logiche è necessario realizzare il prospetto delle fasi, individuare i
segnali che ciascuna fase genera e utilizzare un metodo che consenta di porre i segnali di
pro- cesso in relazione con le fasi da attivare.
Nei casi di sequenze semplici si può utilizzare il criterio che il segnale generato da cia-
scuna fase attiva la fase successiva. Per i casi più complessi saranno presentate altre
tecniche di programmazione che consentiranno la scrittura delle funzioni logiche.
Il prospetto si costruisce scrivendo sulla stessa riga la sequenza delle fasi e sulla riga
infe-
riore, sotto ciascuna fase, i segnali attivati dalla fase precedente. Secondo quanto detto,
nelle sequenze semplici il segnale attiva la fase corrispondente riportata nella riga superiore.
Ciclogrammi
I ciclogrammi sono diagrammi che evidenziano la connessione dei segnali e la durata
dell’intero ciclo; essi consentono inoltre di evidenziare la corrispondenza tra segnale e
azione. Sull’asse delle ascisse si riporta il tempo e sulle ordinate gli stati degli attuatori.
Gli stati di uno stesso attuatore sono collegati con segmenti che rappresentano la transi-
zione (passaggio da uno stato all’altro).
La pendenza dei segmenti indica le rispettive velocità (con il diminuire della pendenza si
abbassa la velocità). Sul ciclogramma si riportano anche i segnali che attivano una
transizione.
Con il prospetto fasi/segnali, con le funzioni logiche e il ciclogramma si può costruire
facilmente lo schema grafico che realizza un ciclo.
Criteri di stesura degli schemi
Per la costruzione degli schemi è necessario prima posizionare e contrassegnare i compo-
nenti del circuito e poi realizzare i collegamenti.
Le indicazioni dei componenti si effettuano con una lettera e un numero progressivo.
Il
posizionamento avviene dall’alto verso il basso secondo l’ordine di seguito riportato.
M-48 SISTEMI AUTOMATICI

1.Attuatori.
2.Indicazione della posizione dei finecorsa, con dei quadratini, in prossimità della zona in cui
incontrano lo stelo del cilindro; anche questi sono contrassegnati.
3.Distributori con indicazioni dei segnali.

4.Finecorsa.

5.Pulsanti.

Considerazioni preliminari
Se si considera un cilindro (attuatore), per esempio A, si indica con A+ la fase di uscita
dello stelo e con A la fase di rientro; la sequenza A+, A indicherà un ciclo completo. Se il
cilindro A ha due finecorsa (a0, a1) che indicano la posizione dello stelo, questi emetteranno
segnali tutte le volte che sono azionati dal pistone; a0 indicherà la posizione “stelo dentro” e
a1 “stelo fuori”. Si può concludere, quindi, che i finecorsa esplicitano lo stato dell’attuatore.
Esempio
Progettare il ciclo automatico continuo che realizzi il sistema di movimentazione di mate-
riali rappresentato nella figura M.57. Tale sistema deve movimentare dei contenitori che
devono passare da un nastro trasportatore a un altro, secondo le fasi seguenti:
6.quando il contenitore raggiunge la posizione 1, il trasportatore T1 si ferma;

7.se è stato premuto il pulsante S, lo stelo del cilindro A esce e solleva il contenitore sino alla

posizione 2;
8.quando il contenitore raggiunge la posizione 2, esce lo stelo del cilindro B e lo spinge sul

trasportatore T2;
4.dopo che lo stelo di B ha spostato la scatola, rientra lo stelo di A;

5.quando A è rientrato si riattiva il trasportatore e B rientra.

Figura M.57 Schema di un impianto per movimentazione di materiali.


Analisi problema
Analizzando le fasi del problema si osserva che:
-premendo lo start S il cilindro A esce;

-lo stelo del cilindro A, quando raggiunge la fine della sua corsa, comanda l’uscita dello stelo

del cilindro B;
-quando lo stelo di B completa la sua corsa comanda il rientro dello stelo di A;

-il rientro A dà il via al rientro dello stelo di B e il ciclo è pronto a ripartire.

La successione elencata consente di affermare che la fine di una fase attiva la successiva.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-49

Affinché ciò si realizzi è necessario però che alla fine d’ogni fase ci sia l’emissione di un
segnale che, oltre a indicare che la fase è finita, attivi la successiva; per ogni fase, quindi,
sono necessari dei finecorsa.
Prospetto fasi segnali
Se a ogni cilindro si associano due finecorsa, per il cilindro A si avranno a 0 e a1 e per il
cilindro B, b0 e b1. Contrassegnando con i segni + (più) le uscite e  (meno) i rientri degli
steli, le fasi viste corrisponderanno a: A+, B+, A, B.
Nel prospetto M.1 si riassumono le fasi e i relativi segnali attivati riportando nella prima
riga la sequenza delle fasi e nella seconda, sotto ciascuna fase, il segnale generato dalla fase
precedente.
Prospetto
Fasi M.1A B A 
+ + 
B
A+agenera 1S che attiva
Secondo i criteri impostati,Segnali a B+B,
b +ba genera 1 che attiva A e
così via. Il ciclo inizia quando si preme il pulsante
· di1start ed
1 è contemporaneamente
0 attivo il
segnale b0 che indica che lo stelo del cilindrob C è dentro.
Dal prospetto M.1 si ricavano le equazioni0 logiche:
A+S b =B0+a =A1b =B1a 0
=
Esprimendo le equazioni logiche in funzione dei segnali di comando che commutano i
distributori e attivano le fasi si ottiene la tabella M.11.
Tabella M.11 Relazione tra segnali comandi e fasi
Segnali Comandi Fasi
S · b0 X1 A+

a1 X2 B+

b1 Y1 A
Da questa si ricavano le afunzioni
0 logiche:
Y2 B
X1 1 2 = a0
=Yb1
S =bX0
Si riporta il ciclo da realizzare su un diagramma corsa-tempo che evidenzia la
connessione dei segnali
2 =Yae1la durata dell’intero ciclo.
Disegno del ciclogramma

Figura M.58 Ciclogramma della sequenza A+, B+, A,


B.
M-50 SISTEMI AUTOMATICI

Nella figura M.58 si evidenzia la corrispondenza tra segnali e azioni. Da tale schema è
possibile determinare la durata del ciclo. Infatti, se il tempo è misurato in secondi, il ciclo di
figura M.58a dura 4 secondi e quello di figura M.58b 6 secondi.
Disegno schema funzionale
Con il prospetto, le funzioni logiche e il ciclogramma si procede alla costruzione dello
schema risolutivo riportato nella figura M.59.

Figura M.59 Schema pneumatico che risolve il problema di automazione assegnato


(sequenza
A+, B+, A, B); il tratteggio evidenzia il comando del ciclo continuo.
Note
Per trasformare un ciclo da automatico singolo a continuo è necessario che, premuto il
pul- sante di Start, il ciclo continui sino a quando non arriva il segnale di interruzione
(pulsante di fine o Finish). A tal fine è necessario disporre di una memoria (basta una valvola
3/2) che si attivi con il segnale di Start (mantenendo il segnale di avvio ciclo) e si disattivi
con un segnale di Finish (interrompendo il segnale).
Il circuito che lo realizza è rappresentato tratteggiato nella figura M.59. Il sistema, imple-
mentato con una OR e un altro pulsante di Start, può funzionare come ciclo sia
automatico sin- golo sia continuo.
Comando di emergenza
Il comando di emergenza è necessario per fermare l’impianto nel caso in cui si dovessero
verificare malfunzionamenti che potrebbero danneggiare gli operatori, l’impianto stesso e le
macchine o i prodotti.
Le caratteristiche dell’emergenza devono essere le seguenti:
-il pulsante con il quale si aziona deve essere di colore rosso, ben visibile, facilmente accessi-

bile e facilmente azionabile;


-l’intervento dell’emergenza deve interrompere il ciclo, possibilmente facendo restare gli

attuatori nella posizione in cui si trovano o facendoli rientrare in posizione di riposo.


ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-51

Dopo l’intervento dell’emergenza il processo non deve ripartire con lo Start ma può rico-
minciare solo se è stato dato il consenso con il Reset, pulsante di ripristino delle condizioni
ini- ziali. In particolare, se l’emergenza ha lasciato le macchine nella posizione in cui si
trovavano, il Reset deve solo farle ritornare in posizione di riposo.
Nella figura M.60 si riporta il circuito della sequenza A+, B+, C+, A, B, C munito
di circuito di emergenza.

Figura M.60 Schema pneumatico che realizza la sequenza A+, B+, C+, A, B, C, munito
di dispositivo di emergenza.

Lo schema, realizzato secondo il procedimento descritto, va modificato per consentire


all’emergenza di bloccarlo e al Reset di predisporlo per l’avviamento.
Premendo lo start continuo (Sc) la 3/2 (memoria meccanica) commuta e il ciclo parte.
Azionando l’emergenza (E), la valvola di memoria si ricommuta e le valvole di non
ritorno pilotate si bloccano (perché il pilotaggio viene messo a scarico) e i cilindri si
bloccano.
Premendo il Reset, attraverso le OR si ha la duplice funzione di attivazione delle valvole
di non ritorno pilotate e della commutazione dei distributori, facendo così ritornare gli steli
in posizione di riposo. Il ciclo è fornito anche di pulsante di Start singolo (Ss), che
generalmente
si utilizza per la prova o per la messa in fase dell’impianto.

3.10 Segnali bloccanti


I segnali bloccanti sono segnali che impediscono la commutazione delle valvole (distribu-
tori). Il fenomeno si verifica quando sulle superfici opposte di un distributore si ha l’azione
M-52 SISTEMI AUTOMATICI

contemporanea di più segnali che determinano azioni uguali e opposte che si neutralizzano a
vicenda, per cui il distributore non commuta e resta bloccato; da qui deriva la definizione
segnali bloccanti.
Studio delle tecniche per l’eliminazione dei segnali bloccanti
Nella sequenza A+, B+, B, A si osserva la presenza di segnali bloccanti. Utilizzando il
metodo introdotto per le sequenze semplici si costruisce prima il prospetto M.2 (con segnali,
fasi e comandi) e poi si ricava il ciclogramma presentato nella figura M.61.

Prospetto M.2

Fasi A B B 
+ + 
A

Segnali S a b b
· 1 1 0
a
0

Figura M.61 Ciclogramma della sequenza A+, B+, B, A.

Dall’esame del ciclogramma si osserva che:


-
il segnale b0, che provoca la fase A, continua a restare attivo anche quando nella fase 4 agi-
sce S · a0;
-
il segnale a1 permane anche quando agisce b1;
-la presenza di due segnali su uno stesso distributore impedisce la commutazione del distribu-

tore stesso, perciò il ciclo si interrompe, anzi in questo caso non parte.
Il problema generato dalla presenza dei segnali bloccanti può essere risolto in diversi
modi; le tecniche che qui saranno trattate sono quelle dell’annullamento meccanico, dei colle-
gamenti in cascata e del sequenziatore.
Annullamento meccanico
Questa tecnica consiste nell’utilizzare valvole di fine corsa (3/2 monostabili a rullo)
dotate di dispositivo unidirezionale. Le valvole si posizionano un po’ prima della fine della
corsa dello stelo in modo che durante il passaggio dello stelo si generi un segnale istantaneo.
Questi finecorsa sono unidirezionali perché danno segnali soltanto se sono azionati nella
direzione di lavoro. Azionamenti nella direzione opposta a quella di lavoro non generano
segnali.
Nel caso in esame, come si è visto, i segnali bloccanti sono prodotti da b0 e a1.
Dall’analisi
sia del prospetto sia del ciclogramma si può dedurre che, sostituendo questi due finecorsa
con finecorsa unidirezionali, si risolve il problema e la successione di segnali e fasi è quella
di seguito riportata:
-S e a 0 collegati in serie (AND) commutano D1 e attivano la fase A+; b0, essendo
unidirezio- nale, non dà segnale;
-
l’uscita dello stelo di A aziona a 1 (valvola unidirezionale) solo per un istante che commuta
D2, determinando la fase B+;
-
l’uscita dello stelo di B aziona b1 che, non essendo attivo a1, commuta D2 e attiva la fase
B;
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-53

- il rientro dello stelo di B aziona, per un istante, b0 (valvola unidirezionale) che commuta
D1 attivando la fase A realizzando la successione descritta si ottiene il circuito riportato
in figura M.62.

Figura M.62 Schema che realizza la sequenza A+, B+, B, A.
3.11 Collegamenti in cascata
Alla tecnica precedente, per la sua complessità, si preferiscono metodi più semplici quali
la cascata o il sequenziatore.
La tecnica della cascata prevede di:
-costruire un prospetto nel quale si riportano le fasi e i segnali, come per la sequenza sem-

plice;
-suddividere la sequenza assegnata in gruppi;

-assegnare un numero di linee di alimentazione pari a quello dei gruppi;

-assegnare un numero di memorie (per mettere in pressione le linee) pari a quello delle linee

meno uno;
-il primo segnale di ogni gruppo commuta la memoria corrispondente.

Prima di definire il numero dei gruppi è bene precisare che per ogni cilindro si hanno due
fasi, una di andata e una di ritorno.
Il numero dei gruppi si determina suddividendo la sequenza assegnata in modo che in cia-
scun gruppo compaia solo una fase per cilindro. Il punto d’incontro della seconda fase di un
cilindro qualsiasi è punto di separazione dei gruppi.
M-54 SISTEMI AUTOMATICI

Il ciclogramma riportato nella figura M.63 evidenzia la presenza di due segnali bloccanti,
a1 per il rientro di B e b0 per il rientro di C.

In questo caso si hanno tre gruppi, perciò le linee sono tre e le memorie due. Dalla figura
M.64 si osserva che i segnali di commutazione delle memorie sono pari al numero delle linee
da commutare, per cui in questo caso sono necessari tre segnali: S1, S2, S3, come ricavato
con la successione delle operazioni necessarie a individuare le funzioni logiche qui riportate
e rias- sunte nella tabella M.12.
I segnali di commutazione delle memorie pervengono dal primo segnale di ogni gruppo:
S 1 = S · c0 S 2 = L1 · b1 S 3 = L2 · a0
-
il segnale S1 commuta la memoria mettendo in pressione L1;
-L 1 fornisce direttamente il comando X1;
-
il finecorsa a1 alimentato da L1 fornisce il comando X2;
-
il finecorsa b1 alimentato da L1 dà il segnale S2 che, commutando la memoria, mette in pres-
sione L2;
-L 2 fornisce direttamente il comando Y2;
-
il finecorsa b0 alimentato da L2 fornisce il comando X3;
-
il finecorsa c1 alimentato da L2 fornisce il comando Y1;
-
il finecorsa a0 alimentato da L2 dà il segnale S3 che, commutando la memoria, mette in pres-
sione L3;
-L 3 fornisce direttamente il comando Y3.
M-56 SISTEMI AUTOMATICI

3.12 Sequenziatore
Il sequenziatore può essere considerato come una tecnica (e una tecnologia) finalizzata
alla soluzione dei problemi di automazione pneumatica caratterizzati anche dalla presenza di
segnali bloccanti.
Struttura
Il sequenziatore è costituito da tante memorie quante sono le fasi da realizzare; a ogni
memoria sono associati un operatore logico AND e uno OR.
Una memoria si può immaginare costituita da una valvola 3/2 bistabile, le cui posizioni di
lavoro dipendono dai segnali provenienti dai due operatori logici.
Nella figura M.66 si ha una rappresentazione funzionale (fig. M.66a) e una compatta
degli elementi di base del sequenziatore (fig. M.66b); si osserva, inoltre, che un segnale
proveniente
dalla AND attiva la memoria, mentre un segnale proveniente dalla OR la disattiva.
Funzionamento
Il principio di funzionamento prevede che ogni segnale in uscita da una memoria:
- attivi la fase da realizzare;
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-59
1

4 = M
Nell’ultima equazioneMlogica si 3è introdotto
b0 + M4un+R s  di reset 
segnale RsEche
M serve a fare in
parte per la prima volta, sia presente il segnale M4.
modo che, quando il ciclo(M.13)
In questo caso i segnali di commutazione saranno:
X1 = M1 X2 = M2 Y1 = M4 Y2 = M3

Nella figura M.67 si riporta lo schema che realizza la sequenza.


I sequenzatori che si trovano in commercio hanno forma compatta e tale forma viene
richiamata nelle rappresentazioni convenzionali degli schemi in cui i sequenziatori sono rap-
presentati. Lo schema della figura M.67, con rappresentazione convenzionale, ha l’aspetto
illu- strato nella figura M.68.

Figura M.68 Schema grafico convenzionale della sequenza A+, B+, B, A
Le lettere presenti nei terminali del sequenziatore della figura M.68 hanno il seguente
significato:
-B: segnale di disattivazione dell’ultima memoria attiva a ogni ciclo;
-R: emergenza;
-P: linea di pressione per l’alimentazione del sequenziatore;
-A: segnale proveniente dall’ultima memoria o dal reset, per l’avvio del ciclo o del
processo;
-R s1: reset hardware dell’ultima memoria per l’avvio del processo.
M-60 SISTEMI AUTOMATICI

4 ELEMENTI DI ELETTROPNEUMATICA
Generalità
1.

Con elettropneumatica si intende la tecnologia di comando dei circuiti pneumatici che si


avvale della tecnologia elettrica per il comando delle valvole.
Un generico sistema a tecnologia elettropneumatica avrà, ancora, come attuatori
cilindri o
motori pneumatici e come distributori valvole elettropneumatiche; tutti gli altri elementi
(pul- santi e componenti logici) potranno essere realizzati con tecnologia elettrica o
pneumatica.
I circuiti potranno essere alimentati in corrente continua o alternata; in corrente continua
le tensioni potranno essere di 12 V o 24 V mentre in alternata si potranno avere tensioni di
24, 110 e 220 V.
Elettrovalvole
Questi componenti sono valvole pneumatiche ad azionamento elettrico. In effetti esse
sono normali valvole dotate di avvolgimenti elettrici (bobine) collegate con il corpo interno
(fig. M.69). Quando gli avvolgimenti sono percorsi da corrente elettrica (cioè sono eccitati)
creano un campo elettromagnetico che, attirando il corpo interno, lo spostano, commutando
la val- vola.
Le valvole bistabili hanno due avvolgimenti, uno per estremità. Naturalmente, per
commu- tare la valvola è necessario che le due bobine non siano eccitate
contemporaneamente.

Figura M.69 Simbolo grafico delle elettrovalvole più comuni.


Relè
I relè sono dei componenti molto importanti nella tecnologia elettrica poiché la loro
attiva- zione può provocare azioni (ad esempio, chiusura o apertura di contatti elettrici)
anche a note- vole distanza dal luogo in cui viene dato il comando (ad esempio, mediante un
pulsante - fig. M.70). I relè si compongono essenzialmente di:
-un nucleo ferromagnetico, di forma cilindrica, mobile lungo l’asse e solidale con una molla;

-un avvolgimento elettrico (bobina) avvolto attorno al nucleo ferromagnetico.

La bobina, quando è eccitata (percorsa da corrente), crea un campo magnetico (calamita)


che attrae il nucleo ferromagnetico: questo, vincendo la resistenza della molla, si sposta.
Quando nella bobina non circola più corrente (è diseccitata) il nucleo ritorna nella sua posi-
zione iniziale.
ELEMENTI DI ELETTROPNEUMATICA M-61

Figura M.70 Rappresentazione funzionale del relè.

Pulsanti
Sono normali interruttori elettrici del tipo normalmente aperto Na o normalmente chiuso
Nc. I normalmente aperti consentono il passaggio della corrente quando sono premuti, mentre
i normalmente chiusi lo interrompono quando sono premuti. Nella figura M.71 si riportano i
simboli grafici con i quali si rappresentano gli interruttori.

Figura M.71 Simboli grafici dei componenti dei circuiti elettrici.


Esempi
Si riportano due esempi: il primo è lo schema completo di comando manuale, mediante
due pulsanti, di un cilindro, realizzato con tecnologia elettropneumatica; il secondo si
riferisce al circuito automatico continuo di una sequenza semplice di tre cilindri a doppio
effetto comandati da valvole bistabili 5/2.
M-62 SISTEMI AUTOMATICI

Esempio 1
Nella logica di funzionamento non cambia niente rispetto ai circuiti costruiti in tecnologia
pneumatica; si sostituisce perciò a ogni componente il suo corrispettivo elettrico.
Nella rappresentazione convenzionale lo schema si rappresenta con due parti: la prima
(fig. M.72a) contiene l’attuatore e l’elettrovalvola che lo comanda, nella seconda parte (fig.
M.72b)
invece si riporta lo schema del circuito elettrico di comando.
Nel caso in cui le condizioni a riposo del circuito siano quelle presentate nella figura
M.72b si può osservare che se viene eccitata la bobina y, l’elettrovalvola commuta e lo stelo
rientra; se si eccita la bobina x, la valvola ricommuta e lo stelo esce.
L’eccitazione delle bobine (y e x) viene provocata dal circuito di figura M.72b secondo le
fasi seguenti:
-
premendo il pulsante P1, si chiude il circuito della linea 1 e si attiva il relè S;
-
il relè S comanda la chiusura del suo contatto s1 della linea 3, che provoca l’eccitazione della
bobina y;
-
premendo P2 il circuito della linea 2 si chiude attivando il relè T;
-
il relè T comanda il suo contatto t 1 che, chiudendo la linea 4, provoca l’eccitazione della
bobina x.

Figura M.72 Comando del cilindro e circuito elettrico di


pilotaggio dell’elettrovalvola.

Esempio 2
Sequenza A+, B+, C+, A, B, C, ciclo continuo.
La logica di funzionamento è realizzata con tecnologia elettrica; il circuito
realizzato nella
figura M.74 è automatico singolo.
Il funzionamento è il
seguente:
-lo start attiva il relè O che chiude il

contatto o;
-
l’attivazione del contatto o1, in
parallelo con S, mantiene il relè
eccitato (automantenimento);
-
essendo o1 chiuso, il ciclo di avvia
ogni qual volta il finecorsa c0 dà
segnale;
-la continuità del ciclo si interrompe se si preme il pulsante di fine ciclo F, in quanto si aprono

i contatti o.
Prospetto fasi segnali

Prospetto M.5
ELEMENTI DI ELETTROPNEUMATICA M-63

4.2 Operatori logici nella tecnologia elettrica


In elettropneumatica le equazioni logiche si realizzano con gli operatori presentati
nell’algebra dei circuiti (paragrafo 2.3). Si tratterà quindi di collegare tra di loro i contatti in
modo da potere realizzare le funzioni desiderate (OR, AND, NOT ecc.).
M-64 SISTEMI AUTOMATICI

5 ELEMENTI DI OLEODINAMICA
Elementi di base
1.

L’oleodinamica, o oleoidraulica, è una tecnologia che utilizza un fluido idraulico per tra-
sferire energia dal generatore all’attuatore.
L’oleodinamica è impiegata in operazioni nelle quali sono richieste potenze medie o
alte;
le pressioni di lavoro, abbastanza elevate (80  300 bar) soddisfano senza problemi le
condi- zioni di sicurezza.
Ciò è dovuto all’incomprimibilità dei liquidi: infatti, lo scoppio di una tubazione ad alta
pressione ha come unica conseguenza la fuoriuscita di liquido. Naturalmente, se a scoppiare
fosse un contenitore di gas sotto pressione, durante l’espansione si potrebbero avere danni
notevoli.
L’incomprimibilità del fluido consente, inoltre, di controllare con relativa precisione la
posizione degli attuatori, durante il movimento.
A causa dell’elevata densità rispetto all’aria si hanno problemi nell’utilizzo dei liquidi
come trasportatori di energia, quali ad esempio quelli accennati di seguito.
-Le perdite di carico nei condotti. È per questo motivo che bisogna limitare la lunghezza delle

tubazioni; infatti ogni attrezzatura ha generalmente il suo sistema di produzione d’energia.


-Gli spessori e il peso delle tubazioni che, a causa delle alte pressioni, devono essere elevati.

Nella progettazione dei sistemi oleodinamici rivestono notevole importanza il fluido, le


sue proprietà e le leggi che ne regolano il moto.
I parametri fisici più importanti che vengono presi in considerazione sono: la massa, il
volume, la pressione e la velocità del fluido nel condotto.
Principio di Pascal
Il principio di Pascal dice che la pressione esercitata su un liquido si ripartisce in tutte le
direzioni con la stessa intensità.
Su questo principio si basa il torchio idraulico. Con riferimento alla figura M.75,
secondo
il principio di Pascal la pressione esercitata dal liquido sulle due superfici è uguale, per
cui le forze che agiscono sulle due superfici sono date da:

F1 = p
A1
F1 = FF22 =
· A 1
p · A2 2
A
-----
Facendo
Si puòilconcludere
rapporto trache
le forze e ricavando
se la superficie A1 è minore della superficie A2, la forza F1 è
F1 si ottiene: minore di F2.

Figura M.75 Sollevamento di un carico con torchio


idraulico.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-65

Legge di Stevino
La pressione P che un liquido esercita in un punto, all’interno della massa liquida (fig.
M.76), posizionato alla distanza h [m] dalla superficie libera è data dal prodotto della massa
volumica  [kg/m3] del liquido, per l’accelerazione di gravità g [m/s2] e per la distanza h
[m].
P =  · g · h [Pa]

Figura M.76 Variazione della pressione idrostatica di un fluido


all’interno di una massa liquida.
Conservazione della massa
La quantità di liquido che entra in un condotto, nell’unità di tempo, è uguale a quella che
esce.
Si consideri, per esempio, un liquido che attraversa un condotto passando da una sezione
avente superficie A1 a una avente superficie A2 (fig. M.77); la quantità di massa che
attraversa le sezioni A1 e A2 è data da:
G =  · A1 · V1 [kg/s]
G =  · A2 · V2 [kg/s]
-G è la quantità di massa nell’unità di tempo;
-V è la velocità del liquido nella sezione considerata;
-A è la sezione attraversata dal liquido nell’istante considerato.
Se la quantità di massa che entra è uguale a quella che esce, si avrà:

 · A1 · V1 =  · A2 · V2
da cui si ricava che: V2 = V 1
A2
----- A1
Si può concludere che la velocità di un fluido in un condotto, supponendo costante la
velo- cità di ingresso, cresce con il diminuire delle dimensioni della sezione.

Figura M.77 Conservazione della massa.


M-66 SISTEMI AUTOMATICI

Teoremi di Bernoulli e Torricelli


Il teorema di Bernoulli per il moto dei fluidi nei condotti afferma che, a meno di perdite
di carico Y, la somma delle altezze geodetica (z), piezometrica (P/ ) e cinetica (v2/2g) è
costante. Se si considera la figura M.78, il teorema si esprime con la seguente equazione:

P1 v 2 P v
z 1 ---- ----
2 2+z ----2-= ----2-
1-+  + 
2g + 2g

Figura M.78 Teorema di Bernoulli o di conservazione di energia.


Questa equazione esprime il comportamento dei fluidi nel caso in cui vengano trascurate
le perdite di carico nei condotti; se si considerano anche le perdite Y, l’equazione diventa:
P 1 v2 P v
z 1 ---- ----
2 2+z ----2- =----2-Y+
1-+  2g +  +
2g
Le perdite di carico, rappresentate da Y, possono essere distribuite, lungo tutto il condotto,
o concentrate. Le perdite concentrate si hanno in punti particolari quali, per esempio, le
varia- zioni di sezione, i raccordi, i gomiti e le valvole. I valori delle perdite di carico
possono essere ricavati dalle schede tecniche fornite dai costruttori di apparecchiature.
Nel caso dell’oleodinamica, date le velocità non molto elevate, non si considerano i ter-
mini cinetico e geodetico; perciò l’equazione diventa:

P
-----
1 = ----
Y+
P2 
La legge di Stevino diventa un caso particolare dell’equazione di Bernoulli quando la
velo- cità è uguale a zero.
Un’altra conseguenza del teorema di Bernoulli è il teorema di Torricelli.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-67

Il teorema di Torricelli (fig. M.79) afferma che la velocità di efflusso di un liquido da un


foro dipende solo dalla quota geodetica h (altezza del pelo libero).

v2g h=

Figura M.79 Efflusso da un foro - Teorema di Torricelli.

5.2 Fluidi idraulici


I fluidi che possono essere impiegati in oleodinamica sono costituiti, essenzialmente, da
acqua, oli minerali, emulsioni acqua-olio, soluzioni acqua-glicol e da fluidi sintetici.
L’uso dell’acqua negli impianti è limitato ai casi in cui sono richieste grosse quantità
di
fluido o quando sono presenti rischi di infiammabilità o di inquinamento. Questa
limitazione deriva dalle scarse capacità lubrificanti dell’acqua e dal fatto che essa favorisce
la corrosione.
Le caratteristiche della componentistica commerciale richiedono, generalmente,
l’impiego
di oli minerali, che perciò risultano i fluidi più usati.
I fluidi sintetici hanno buona resistenza al fuoco e all’ossidazione. È necessario, però, uti-
lizzarli con cautela poiché attaccano le vernici, le guarnizioni e, inoltre, se a contatto con la
pelle, provocano irritazioni.
Le caratteristiche principali che i fluidi oleodinamici devono possedere sono:
-bassa infiammabilità;

-buone proprietà antiruggine, per la protezione delle superfici metalliche;

-elevato potere lubrificante (per ridurre gli attriti degli organi in moto);

-stabilità chimica (capacità di degradarsi molto lentamente), in modo da mantenere costanti

(nel tempo) le proprietà fisiche;


-viscosità bassa e costante al variare della temperatura;

-bassa capacità di formare schiuma;

-potere antiemulsionante all’acqua (elevata capacità di rompere facilmente le emulsioni con

l’acqua).
Le caratteristiche dei fluidi quali, per esempio, viscosità, densità e potere lubrificante,
non sono costanti ma variano con la temperatura. Tali variazioni possono provocare
inconvenienti e malfunzionamenti sia alla pompa sia ai componenti dell’impianto e agli
attuatori. È necessa- rio, quindi, tenere la temperatura sotto controllo ed eventualmente
predisporre sistemi di scam- bio termico per farla rientrare nei limiti desiderati.
5.3 Sistemi oleodinamici
Come già per la pneumatica, anche i sistemi oleodinamici possono essere considerati
costituiti essenzialmente da un sistema di produzione d’energia, da un blocco di regolazione e
dagli attuatori.
La logica dei circuiti di comando è identica a quella vista nella parte di pneumatica, per
cui ci si riferirà a essa.
M-68 SISTEMI AUTOMATICI

Produzione di energia
La produzione d’energia consiste nel preparare il fluido in modo che possa alimentare gli
attuatori con la pressione e la portata richieste.

Figura M.80 Schema di una centralina oleodinamica.

Il gruppo di produzione (fig. M.80) è costituito da una centralina oleodinamica i cui com-
ponenti sono essenzialmente:
a)due filtri (aspirazione e scarico, 1);

b)un serbatoio (2);

c)una pompa (3);

d)un motore elettrico (4);

e)un manometro (5);

f)una valvola di massima (6);

g)uno scambiatore di calore (7).

Il motore aziona la pompa che, attraverso il filtro, aspira olio dal serbatoio e lo manda
all’utenza alla pressione P richiesta e indicata dal manometro. Quando la pressione di
mandata supera il valore di taratura della valvola limitatrice di pressione, la pompa si mette a
scarico. L’olio, dopo aver alimentato gli attuatori, viene filtrato, raffreddato e inviato al
serbatoio.
Come si può osservare, l’impianto lavora in circuito chiuso; ciò è dovuto al fatto che si
uti- lizza un liquido per il trasporto di energia.
Filtri
Lo scopo dei filtri è quello di evitare che particelle in sospensione nel liquido,
provenienti dall’usura di guarnizioni o dall’esterno, possano danneggiare i componenti
dell’impianto.
I filtri possono essere di carta, feltro, tessuto o materiali porosi.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-69

Serbatoio
Il serbatoio è essenzialmente costruito in lamiera. Esso è dotato di due tubi, per l’aspira-
zione e il ritorno, separati da un setto forato che ha lo scopo di evitare che le turbolenze,
provo- cate dal tubo di ritorno, possano danneggiare l’aspirazione.
L’imbocco del tubo d’aspirazione e la parte terminale di quello di scarico presentano una
sezione obliqua, in modo che l’olio in aspirazione e in scarico non incontri resistenze elevate.
Il fondo del serbatoio è inclinato per raccogliere e facilitare lo spurgo di eventuali residui
depositati. Nel serbatoio sono presenti anche fori di ispezione e un filtro, utilizzato nella fase
di caricamento.
Le pareti in lamiera consentono al serbatoio di comportarsi come scambiatore di calore
per facilitare il raffreddamento del fluido e, allo scopo, possono avere delle alettature.
Pompe
Le pompe più comunemente utilizzate in oleodinamica sono quelle volumetriche (fig.
M.81). I parametri caratteristici delle pompe sono la prevalenza e la portata.
La portata Q [m3/s] di una pompa, assegnato il numero di giri, resta costante,
indipenden- temente dal valore assunto dalla pressione.
Q = v · V · n / 60
- v è il rendimento volumetrico della pompa;
-V [m 3] è la cilindrata;
-n [giri/min] è il numero di giri della pompa.
Le pompe volumetriche si possono classificare in rotative e alternative, come riportato
nello schema di figura M.81.

Figura M.81 Tipi di pompe volumetriche.


Pompe alternative
Le pompe alternative a un cilindro sono poco utilizzate in oleodinamica perché danno
luogo a una portata pulsante. Per evitare questo problema, si utilizzano pompe a più cilindri a
pistoni assiali.
I cilindri sono ricavati in un tamburo cilindrico e ruotano solidali ai loro steli ancorati su
una piattaforma inclinata. La variazione dell’angolo d’inclinazione della piattaforma consente
di variare la cilindrata della pompa.
Pompe rotative: a palette, a vite e a lobi
Queste pompe si presentano diverse dai rispettivi compressori solo perché hanno dimen-
sioni maggiori, motivate dalle elevate pressioni alle quali lavorano.
Il modo di lavorare delle tre pompe è analogo a quello dei rispettivi compressori; le
pompe
a palette consentono di variare la portata variando l’eccentricità.
Nei compressori a lobi e a vite ci sono sempre degli organi che ingranano (lobi o
filetti) e
M-70 SISTEMI AUTOMATICI

nella loro rotazione imprigionano liquido tra i vani dei filetti, piuttosto che aria, e lo
trascinano dall’aspirazione alla mandata.
Pompe a ingranaggi
Sono costituite da due ruote dentate ingranate all’interno di un involucro. Durante la rota-
zione il liquido, imprigionato tra il vano dei denti e l’involucro, viene portato
dall’aspirazione allo scarico. Come si può osservare, il funzionamento di queste pompe (fig.
M.82) è identico a quello delle pompe a viti e a lobi.

Figura M.82 Pompa a ingranaggi.


Manometro
Il manometro, com’è noto, serve per misurare la pressione dell’olio. Nella figura M.83 è
schematizzato il manometro di Bourdon.
Nella figura si può osservare che l’indice è collegato, mediante un sistema di leve, a un
tubo semirigido che comunica con il circuito. Quando la pressione del fluido aumenta, il tubo
si dilata, le leve si spostano e l’indice, ruotando, indica la variazione di pressione.

Figura M.83 Manometro di Bourdon.


Valvola di massima
La valvola di massima è, in effetti, una limitatrice di pressione che interviene quando nel
circuito la pressione supera i valori di sicurezza prefissati.
Dall’esame della figura M.84 si osserva che la valvola è costituita da un otturatore su
cui
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-71

agisce la spinta esercitata da una molla. Quando la pressione del circuito produce una forza
maggiore di quella esercitata dalla molla l’otturatore si sposta, il liquido attraversa la valvola
e va a scarico.

Figura M.84 Valvola di massima.

Scambiatore di calore
Lo scopo degli scambiatori di calore è quello di fare raggiungere all’olio valori di
tempera- tura tali da non provocare danni.
Come si è già detto, temperature elevate comportano:
-diminuzioni del potere lubrificante;

-imprecisioni delle posizioni degli steli dei cilindri;

-diminuzione della viscosità;

-rapido degrado dell’olio con forte riduzione della sua vita e con la creazione di depositi che

possono intasare i circuiti.


Gli scambiatori di calore si utilizzano quando la capacità di dispersione di energia da
parte del serbatoio non è più sufficiente.
5.4 Organi di regolazione e comando del moto
I parametri fisici da considerare nel moto di un attuatore, per esempio lo stelo di un cilin-
dro, sono la pressione e la portata. La pressione è determinata dal carico da spostare, mentre
la portata dalla velocità che deve possedere lo stelo.
In questi termini “regolare” equivale a operare in modo che al cilindro arrivi il fluido con
la portata e la pressione prestabilite.
Naturalmente l’esecuzione di un ciclo, in cui vi sono dei cilindri, richiede
l’alimentazione
alternativa delle camere; per questo sono necessarie delle valvole distributrici.
Si può concludere allora dicendo che in un circuito oleodinamico, come già in quelli
pneu- matici, gli organi di regolazione e comando del moto sono costituiti da valvole che
devono regolare:
-pressione;

-portata;

-direzione del flusso dell’olio.


M-72 SISTEMI AUTOMATICI

Regolatori di pressione
I regolatori di pressione (fig. M.85) sono costituiti da un cassetto scorrevole all’interno di
un cilindro. La regolazione, come si può osservare in figura, si ottiene con il movimento del
cassetto che tende a chiudere il passaggio del liquido quando la pressione aumenta e ad
aprirlo quando diminuisce.

Figura M.85 Regolatore di pressione.


Un aumento della pressione viene sentito dal lato destro del cassetto. Questo, vincendo la
resistenza opposta dalla molla (che agisce sull’altro lato), si sposta verso sinistra chiudendo il
passaggio dell’olio e diminuendo così la pressione. Viceversa, se la pressione tende a
diminu- ire, la forza della molla sposta il cassetto a destra aprendo il passaggio dell’olio.
Regolatori di portata
I regolatori di portata (fig. M.86) agiscono mantenendo costante la portata indipendente-
mente dai valori assunti dalla pressione. Nella figura M.86 si può osservare che, se la
pressione dell’utenza diminuisce, il cassetto tende a impedire il maggior passaggio di fluido
richiamato da una minore pressione, chiudendo il passaggio di fluido.
Se la pressione tende ad aumentare, impedendo nuovo afflusso di fluido, il cassetto, spo-
standosi a sinistra, apre il passaggio al fluido.

Figura M.86 Regolatore di portata (fonte: Hydraulik, Beuth).


Valvole distributrici
Il ruolo svolto dalle valvole distributrici è fondamentale per la direzione dei flussi di
fluido destinato a compiere lavoro.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-73

I distributori oleodinamici possono essere a più di due posizioni e possono svolgere fun-
zioni diverse. Nella figura M.87 sono riportati i simboli dei principali distributori 4/3.
In questo caso, come si può osservare nella figura M.87, la posizione centrale della
valvola è quella di riposo. Le ipotesi più comuni che si possono avere nella posizione di
riposo pos-
sono essere:
1.alimentazione e utenza sono collegate allo scarico (gli attuatori si possono spostare facil-

mente);
2.alimentazione e utenza sono bloccate (valvole a centro chiuso), gli attuatori sono bloccati;

3.alimentazione bloccata e utenza a scarico;

4.alimentazione a scarico e utenza bloccata.

Figura M.87 Simboli dei distributori.


Le principali valvole utilizzate, oltre le 4/3 già viste, sono le 2/2, 3/2. Le valvole
regolatrici di flusso, unidirezionali, di non ritorno e d’intercettazione sono presenti come in
pneumatica.
Accumulatori
Gli accumulatori (fig. M.88) sono serbatoi che accumulano liquido sotto pressione
quando c’è scarsa richiesta da parte dell’utenza, per poi fornirlo al circuito nei momenti di
maggior richiesta. Un’altra importante funzione dell’accumulatore è quella di smorzare le
oscillazioni derivanti dalla mandata, che può essere pulsante (pompe alternative).
Gli accumulatori sono generalmente a sacca e a pistone. Gli accumulatori a sacca, gene-
ralmente più diffusi, sono costituiti da un contenitore metallico dentro il quale vi è una sacca
elastica contenente azoto.
Quando la pressione del circuito tende a crescere, il liquido entra nell’accumulatore, com-
primendo la sacca e facendo diminuire il volume del gas. Il liquido viene spinto a uscire
dall’accumulatore quando la pressione della sacca è maggiore di quella del circuito (il
circuito
richiede liquido).

Figura M.88 Accumulatore a membrana (a, fonte: Hydraulik, Beuth) e circuito con
accumula- tore (b).
M-74 SISTEMI AUTOMATICI

5.5 Attuatori
L’energia idraulica generata dalla pompa viene convertita in energia meccanica dagli
attua- tori del moto. I movimenti che si possono ottenere sono lineari o angolari, con forze e
coppie abbastanza elevate. Gli ingombri degli attuatori sono relativamente ridotti.
I principali attuatori sono rappresentati dai cilindri e dai motori oleodinamici.
Cilindri
I cilindri oleodinamici sono utilizzati per ottenere movimenti lineari alternativi a velocità
relativamente basse e forniscono, a parità di alesaggio, spinte più elevate dei cilindri pneuma-
tici.
Pur essendo simili ai cilindri pneumatici, sono dimensionati in modo da resistere a pres-
sioni molto elevate e perciò hanno dimensioni maggiori.
La scelta dei cilindri si effettua in funzione delle prestazioni che sono richieste (spinta
e
velocità) durante il loro impiego.
I materiali utilizzati nella costruzione dei cilindri devono resistere a forti pressioni, perciò
il corpo del cilindro è realizzato in acciaio da costruzione, le testate possono essere in ghisa
legata (o acciaio) e lo stelo in acciaio bonificato.
Le guarnizioni devono avere la resistenza necessaria a impedire le fughe
d’olio. Si possono avere cilindri a semplice e doppio effetto e a stelo passante.
Cilindri telescopici
Questi cilindri sono costituiti da una serie di camicie (2  6) concentriche, a diametro
decrescente, inserite l’una dentro l’altra (fig. M.89a).
Possono essere a semplice e a doppio effetto e sono molto diffusi perché consentono
corse
molto elevate (comando ribaltabili camion, ascensori).

Figura M.89 Cilindro telescopico (a) e cilindro a pistone tuffante (b).


Cilindri a pistone tuffante
Sono cilindri a semplice effetto per i quali la corsa di ritorno è ottenuta con forze esterne
applicate sullo stelo (fig. M.89b). Generalmente sono impiegati per piccole corse come nel
caso dei martinetti.
Attuatori rotanti
Gli attuatori rotanti sono analoghi a quelli visti in pneumatica. Si hanno, quindi, cilindri
dotati di sistema rocchetto-dentiera e attuatori rotanti a palette.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-75

Motori
Questi motori oleodinamici (fig. M.90) sono utilizzati per trasformare l’energia idraulica
dei pistoni in moto rotatorio continuo. Essi sono costituiti essenzialmente da:
-una serie di pistoni a testa semisferica;

-un tamburo cilindrico al cui interno sono stati ricavati dei cilindri, nei quali possono muo-

versi i pistoni;
-un piano circolare inclinato, dotato di pista anulare, sulla quale poggiano dei pattini, collegati

con giunto sferico alla testa dei pistoni.


Dall’esame della figura si può osservare che dalla parte superiore del rotore arriva, attra-
verso una valvola (a forma di cava semicircolare), il fluido in pressione che spinge i pistoni
verso il basso.
La spinta esercitata dal pistone sul piano inclinato lo fa scivolare verso la parte bassa del
piano inclinato, trascinandosi il rotore. Superato il tratto più basso del piano inclinato, il
pistone risale facendo uscire il fluido dalla valvola, a bassa pressione.
La successione dei movimenti dei singoli pistoni produce il moto rotatorio.

Figura M.90 Motore oleodinamico pluricilindrico (fonte: Hydraulik, Beuth).


5.6 Applicazioni dell’oleodinamica
In questo paragrafo viene presentata una serie di applicazioni elementari della tecnologia
oleodinamica.
Azionamento di un motore a due sensi di rotazione (fig. M.91a)
In questo caso si ha un motore che è comandato da una valvola 4/3. Quando la valvola è
in posizione centrale, la pompa è messa a scarico e il motore è bloccato. Posizionando
manual- mente il distributore in una delle due posizioni laterali si ottiene la rotazione, oraria
o antiora- ria, del motore.
Azionamento di un martinetto (fig. M.91b)
Come nel caso precedente, se la valvola si trova in posizione centrale, la pompa è a
scarico e il cilindro è bloccato. Se si aziona il distributore spostandolo verso destra, il fluido
passa nella camera sinistra del cilindro e lo stelo esce lentamente. Spostando il distributore a
sinistra, il fluido passa nella camera destra del cilindro e lo stelo rientra rapidamente.
Azionamento di un mandrino (fig. M.92)
Il circuito qui presentato può essere utilizzato in operazioni di foratura, per
l’avanzamento della punta. Il sistema è costituito da un’elettrovalvola 4/3, da un cilindro che
comanda il moto d’avanzamento della punta, da un’elettrovalvola monostabile 2/2 e da tre
finecorsa.
Il sistema funziona nel modo seguente:
-
premendo lo Start, si eccita la bobina A, che commuta il distributore D 1, che si sposta a
destra;
-l’olio perviene nella camera destra del cilindro e lo stelo esce;
M-76 SISTEMI AUTOMATICI

-
quando lo stelo tocca il finecorsa Fc1, si eccita la bobina B e il distributore D 2 commuta,
costringendo l’olio a fluire attraverso la strozzatura, rallentando la velocità dello stelo;
-
quando lo stelo raggiunge il finecorsa Fc2, si diseccita la bobina B e si eccita la C, facendo
commutare il distributore D1;
-l’olio si dirige nella camera destra del cilindro e lo stelo rientra rapidamente.
CONTROLLORI PROGRAMMABILI
M-77

6 CONTROLLORI PROGRAMMABILI
Generalità
1.

I PLC (Programmable Logic Controller), comunemente chiamati controllori programma-


bili, sono computer di processo basati sull’architettura di von Neumann (fig. M.93), nella
quale tutte le attività sono coordinate da un microprocessore.
L’introduzione dei PLC risale alla fine degli anni ’60 quando la General Motors presentò
un sistema di controllo programmabile. Tale sistema, al posto dei circuiti a relè con collega-
menti fissi, presentava una centrale che controllava i segnali provenienti dal processo
(Input), stabilendo le uscite (Output) in accordo con il programma memorizzato.
La struttura di questo prototipo era rappresentata da porte logiche, registri e contatori
che
insieme costituivano la CPU. L’applicazione dei microprocessori ha comportato un
notevole sviluppo dei PLC raggiungendo potenze di calcolo e capacità di memorizzazione
sempre più grandi.

Figura M.93 Struttura di un PLC secondo von Neumann.


6.2 Struttura
Ogni PLC è essenzialmente costituito da moduli nei quali sono presenti:
-un gruppo di alimentazione;

-l’unità centrale (CPU, Central Processing Unit);

-le unità di memoria dati e programmi;

-le unità di ingresso e di uscita.

I moduli, alloggiati in un contenitore (chiamato rack), sono collegati mediante un BUS


interno. La configurazione modulare rende i PLC flessibili, consentendone l’adeguamento
delle unità di ingresso e di uscita (Input e Output) alle diverse esigenze produttive che si pos-
sono manifestare.
Alimentazione
Il gruppo di alimentazione è utilizzato per fornire energia alla CPU che lavora normal-
mente a 5 V, è perciò necessario che nel gruppo di alimentazione ci siano: un trasformatore,
un raddrizzatore e un filtro che livelli la tensione raddrizzata. È necessario anche un sistema
di stabilizzazione, affinché la tensione in uscita si mantenga costante al variare di quella in
ingresso o al variare della resistenza del carico.
Il PLC dispone, in genere, anche di una batteria tampone che serve a fornire energia alla
memoria, in modo che gli eventuali programmi restino memorizzati anche quando il
computer è spento.
M-78 SISTEMI AUTOMATICI

CPU
La CPU (fig. M.94), che è il cuore del controllore, è costituita dal microprocessore e da
una serie di registri tra i quali si ricordano l’accumulatore, il registro delle istruzioni, il regi-
stro di lettura e scrittura, il registro contatore di programma e l’unità logico-aritmetica.
Dal tipo di microprocessore e dalla frequenza di clock dipende la velocità di esecuzione
delle istruzioni; tale velocità viene misurata in ms/kword. Sullo stesso modulo della CPU
sono installati anche le memorie RAM, ROM ed EPROM.
La dimensione massima del programma inseribile dipende dalla quantità di RAM ed
EPROM installate.
Le principali funzioni esercitate dalla CPU consistono:
-nell’acquisire i segnali in ingresso, creando un’immagine degli ingressi negli appositi registri

della memoria dati;


-nel controllare la sequenza con cui le istruzioni del programma prestabilito vengono lette

(nella memoria programma), decodificate ed eseguite secondo lo stato logico degli ingressi;
-nell’interrompere la sequenza normale del programma in presenza di salti e di richiami di

sottoprogrammi;
-nel generare i segnali di uscita, in relazione all’elaborazione delle varie istruzioni del pro-

gramma, aggiornandoli di volta in volta a ogni ciclo di scansione.

Figura M.94 Schema della CPU.

L’ALU (Arithmetic Logic Unit, unità logico-aritmetica) è il dispositivo atto all’elabora-


zione dei dati ed è costituita da una rete combinatoria, in grado di compiere operazioni
logico- aritmetiche su un certo numero di bit. L’ALU si avvale degli accumulatori nei quali
vengono memorizzati dati e risultati finali delle operazioni.
Nel registro delle istruzioni vengono poste le istruzioni da decodificare, prelevate dalla
posizione di memoria in cui erano alloggiate.
Il registro contatore di programma ha la funzione di memorizzare la posizione in cui
è
arrivata l’esecuzione del programma. In esso è registrato l’indirizzo dell’istruzione che di
volta in volta dovrà essere eseguita.
L’unità di controllo (UC) è il dispositivo in grado di interpretare i codici operativi
delle
istruzioni di tutti i segnali necessari a dirigere le informazioni ai vari componenti del
micropro- cessore. L’UC gestisce, infatti, l’insieme delle istruzioni e invia all’ALU i codici
delle opera- zioni da svolgere; invia, inoltre, tutti i segnali necessari alla gestione dei vari
dispositivi interni ed esterni.
CONTROLLORI PROGRAMMABILI
M-79

Bus
È il canale fisico, costituito da conduttori elettrici, che consente il movimento del flusso
di dati dalle unità di Input e Output (I/O) alla CPU e viceversa.
Unità di memoria
Come si è detto, la memoria di un PLC è costituita da dispositivi a semiconduttore di
tipo
ROM, RAM, PROM, EPROM ed EEPROM.
La ROM (Read Only Memory) è una memoria a sola lettura. In essa è presente il pro-
gramma per la decodifica delle istruzioni (firmware).
La RAM (Random Access Memory), memoria ad accesso casuale, è utilizzata per i
dati di
transito. È definita memoria volatile, in quanto si perdono i dati in essa presenti quando il
PLC viene spento.
Le EPROM sono memorie riscrivibili con dispositivi particolari e, in genere, sono
utiliz-
zate per memorizzare il programma. Per cancellare programmi e dati presenti è necessaria
una lampada a raggi ultravioletti.
Moduli di Input
Sono i dispositivi che consentono di fornire al controllore tutte le informazioni relative al
processo da controllare. Come già detto, la CPU comunica con i moduli di input mediante
BUS.
Moduli di Output
Sono i dispositivi che consentono alla CPU di inviare al processo i segnali necessari al
suo controllo. Anche questi moduli comunicano con la CPU mediante BUS.

Figura M.95 Sistemi d’interfacciamento tra CPU e moduli di I/O: a) con relè; b) con fotoac-
coppiatori; c) con transistor.
I moduli di ingresso e di uscita sono collegati alla CPU tramite interfacce costituite da
fotoaccoppiatori, relè o transistor (fig. M.95). Non si effettua il collegamento diretto poiché
CPU e unità di I/O operano con tensioni differenti (24, 220 V per i moduli di input/output e
5 V per la CPU).
M-80 SISTEMI AUTOMATICI

6.3 Principio di funzionamento


I PLC non svolgono solo funzioni di tipo logico ma anche matematico, di temporizza-
zione, conteggio e altro ancora.
Con questi sistemi si passa dalla logica cablata, dove le funzioni logiche sono realizzate
mediante relè, alla logica programmata, analoga a quella utilizzata nei personal computer.
I vantaggi del passaggio dalla logica cablata alla programmata sono molti:
-per cambiare la logica di un processo basta cambiare il programma;

-il tempo necessario alla trasformazione di un processo risulta molto ridotto;

-la ricerca guasti avviene in tempi molto ristretti poiché i PLC consentono la diagnosi e il

monitoraggio del processo;


-si possono collegare in rete tra loro e con i personal computer offrendo la possibilità di rea-

lizzare e controllare processi abbastanza complessi.


Il PLC (fig. M.96) è un’apparecchiatura a base informatica dotata delle seguenti caratteri-
stiche di funzionamento:
1.acquisisce nella memoria interna i segnali provenienti dai sensori di processo e dalle peri-

feriche di gestione;
2.eroga i segnali di uscita per il comando degli attuatori e per il dialogo con le periferiche;

3.consente a qualsiasi operatore la programmazione e la gestione dei processi;

4.svolge la sequenza di comando del processo secondo un programma prestabilito e non con

logica cablata.

Figura M.96 PLC con moduli di ingresso e uscita (fonte: GE - FANUC, serie 90).
Le due prime caratteristiche consentono di programmare e installare direttamente sul
campo i controllori a logica programmabile, senza alcuna precauzione riguardo eventuali pro-
tezioni che si rendono necessarie per altri strumenti di tipo informatico.
La terza caratteristica del PLC permette a qualsiasi operatore di avvicinarsi a esso senza
rinunciare alle proprie competenze.
L’ultima caratteristica menzionata riguarda la flessibilità del PLC; essa consente, infatti,
di cambiare un ciclo di produzione intervenendo solo sul software anziché sull’hardware del
pro- cesso automatico.
6.4 Elementi di programmazione dei PLC
La programmazione di un sistema automatico si compone di una serie di fasi, alcune con-
nesse con la configurazione del PLC, altre con lo sviluppo del programma di automazione.
La configurazione del PLC può riguardare la definizione del tipo di CPU,
l’indicazione
della posizione dei moduli di I/O e la numerazione degli ingressi e delle uscite.
La realizzazione dei programmi di automazione si ottiene mediante:
-la scrittura delle funzioni logiche;

-la trasformazione delle funzioni logiche in programma;

-il trasferimento del programma al PLC;

-la prova del programma;


CONTROLLORI PROGRAMMABILI
M-81

-la ricerca e il rimedio a eventuali errori;


-l’avvio del processo.
I linguaggi di programmazione dei PLC sono disciplinati dalla Parte 3 della norma
interna- zionale IEC 1131, recepita dalla Norma Italiana 65-40 (CEI EN 61131-3) che ha il
compito di regolamentare i linguaggi di programmazione dei controllori a logica
programmabile.
I principali linguaggi normalizzati sono:
-ladder diagram;
-la lista di istruzioni;

-il testuale strutturato;

-il diagramma funzionale in sequenza.

Per ciascun linguaggio si definiscono la sintassi e la simbologia, la struttura dei pro-


grammi e le variabili di programmazione.
Le zone in cui sono allocati gli oggetti della programmazione sono la memoria
(%M), gli
ingressi (%I) e le uscite (%Q).
I diversi tipi di oggetti sono:
-bits (X);

-byte (B);

-parola (W);

-doppia parola (DW);

-parola lunga 64 bits (L).

Introduzione alle variabili e alle unità di organizzazione di programma


Due elementi importanti della programmazione dei PLC sono rappresentati dalle variabili
e dalle unità di organizzazione di programma.
Le variabili
Le variabili si possono definire come i mezzi per identificare, per esempio, i dati associati
agli ingressi, alle uscite e alla memoria del controllore.
Unità di organizzazione
Le unità di organizzazione di programma sono costituite dalle funzioni, dai blocchi
funzio- nali e dai programmi.
Le funzioni forniscono un dato e possono essere richiamate come operando di
un'espres-
sione; esse possono essere rappresentate sia testualmente, sia graficamente.
I principali blocchi funzionali standard comuni a tutti i linguaggi di programmazione
sono:
-elementi bistabili;

-rilevazione di fronti;

-contatori;

-temporizzatori.

I programmi dei PLC sono insiemi logici composti dagli elementi del linguaggio di pro-
grammazione che permettono di gestire ed elaborare i segnali per il comando o il controllo di
macchine o di processi.
Diagramma a contatti
Il ladder diagram (diagramma a contatti), di provenienza elettrica, è stato il primo
linguag- gio grafico a essere utilizzato per la programmazione dei PLC, poiché sostituiva i
quadri a logica cablata realizzati con relè.
I segni grafici di un ladder diagram sono strutturati in modo da formare una rete elettrica,
a forma di scala, nella quale le linee di estremità rappresentano l’alimentazione.
Nella figura M.97 si rappresenta una semplice rete ladder, con due contatti C 1 e C2,
che
realizza la funzione logica Q1 = C1 · C2. Si ricorda che con l’algebra dei circuiti la AND
si rea- lizza con due contatti in serie.
M-84 SISTEMI AUTOMATICI

Il Grafcet
Il Grafcet, nato in Francia nel 1977, è un metodo grafico che consente l’analisi, la proget-
tazione e il controllo di sistemi automatici e la programmazione dei PLC.
Esso viene utilizzato, in genere, per costruire la struttura globale del controllo ed è abbi-
nato ad altri linguaggi quali il ladder o l’AWL.
Il Grafcet ipotizza che i sistemi automatici siano costituiti da un insieme di stati (fasi o
passi), collegati tra loro da transizioni.
Le transizioni sono le condizioni logiche che permettono il passaggio del sistema da
uno
stato al successivo.
La struttura per fasi/transizione del Grafcet si presta molto bene al controllo delle
sequenze realizzate con cilindri pneumatici.
Se si considera il sistema di sollevamento automatico della figura M.101, si osserva che
quando il contenitore arriva dal trasportatore inferiore 1 sul cilindro verticale A, lo stelo di A
esce sollevandolo e si ferma quando tocca il finecorsa a1.

Figura M.101 Schema di un sistema di sollevamento


automatico.
.

Posizione di riposo
Dà il via all’inizio del ciclo

Prima transizione (passaggio dalla fase 1 alla 2) - Inizia quando lo stelo di


A incomincia a uscire e finisce quando lo stelo di A tocca a1. Il segnale
prove- niente da a1 dà il via alla transizione successiva
Seconda transizione (passaggio dalla fase 2 alla 3) - Inizia quando lo stelo
di B incomincia a uscire e finisce quando lo stelo di B tocca b1. Il segnale
prove- niente da b1 dà il via alla transizione successiva

Come per le fasi di transizione 1 e 2

Figura M.102 Grafcet del sistema di sollevamento


automatico.
CONTROLLORI PROGRAMMABILI
M-85

Esce quindi lo stelo del cilindro orizzontale B che lo sposta sul trasportatore superiore 2 e
finisce la corsa quando tocca il finecorsa b1. A questo punto rientra lo stelo del cilindro A
(toc- cando il finecorsa a0) e subito dopo quello di B, toccando il finecorsa b0.
Il sistema è descritto con il Grafcet nella figura M.102.
Sequenze semplici, alternative e contemporanee
Le sequenze possono essere semplici, alternative (fig. M.103) e contemporanee (fig.
M.104).

Figura M.103 Sequenze alternative.

Con riferimento alle figure M.103 e M.104, si osserva che il PLC esegue il programma da
sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Nel caso di sequenze semplici, il passaggio da uno stato al successivo si ha quando la
tran- sizione è completa.
Nel caso di sequenze alternative con più rami, viene eseguito solo il primo dei rami
con
transizione vera, gli altri non vengono neanche valutati (fig. M.103).
Nei programmi con sequenze simultanee, tutti i rami vengono valutati ed eseguiti,
indipen- dentemente gli uni dagli altri (fig. M.104).
Esempio di un processo in parallelo
La figura M.104 mostra un programma in linguaggio Grafcet di un ciclo automatico
con
M-86 SISTEMI AUTOMATICI

due processi, foratura e taglio, che funzionano contemporaneamente. Come si può osservare,
la rappresentazione grafica con il Grafcet risulta abbastanza comprensibile e rende immediata
ed espressiva la descrizione dei controlli.

Figura M.104 Sequenze contemporanee.

Linguaggi strutturati
Sono linguaggi molto potenti, analoghi al Turbo Pascal, che vengono utilizzati anche
nell’elaborazione di programmi per la gestione di processi con PLC. Essi mantengono:
-la stessa sintassi (regole da rispettare nella scrittura dei programmi);

-le stesse strutture di programmazione: tipi di dati, selezione (If …. Then), iterazione (For …

Do, Repeat … Until, While …. End While);


-quasi tutti gli operatori matematici e logici.

Nella tabella M.14 sono riassunti i principali operatori, nella tabella M.15 si riportano le
principali istruzioni.
I principali vantaggi di questi linguaggi sono:
-elevata possibilità di applicazioni, impensabili con gli altri sistemi di programmazione; per

esempio, si può avere una gestione della scansione personalizzata;


-ingombro di memoria molto ridotto rispetto agli altri linguaggi, essendo le istruzioni codifi-

cate in modo testuale più sintetiche e potenti.


La struttura di programmazione e la precisione richiesta dalla sintassi costituiscono un li-
mite naturale alla loro diffusione.

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