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L-3
1 ELETTROSTATICA
1.Fenomeni elettrostatici
Dall’osservazione di alcuni fenomeni naturali o da semplici esperimenti (per esempio,
strofinando una bacchetta di vetro o di plastica con un panno di lana, la bacchetta attrae una
pallina di sughero appesa a un filo) è possibile notare una forza che si contrappone alla forza
di gravità, definita forza elettrostatica. La forza che si è originata con lo strofinio del panno
di lana è dovuta all’elettrizzazione dell’oggetto, ossia all’acquisizione, da parte dell’oggetto
stesso, di carica elettrica; la forza può essere di tipo attrattivo oppure repulsivo. La carica
elet- trica acquisita può provocare due comportamenti opposti; quindi può essere considerata
posi- tiva oppure negativa, a seconda del comportamento: corpi elettricamente carichi dello
stesso segno si respingono, mentre corpi carichi di segno opposto si attirano. L’unità di
misura della carica elettrica è il coulomb [C].
2.Legge di Coulomb
Nel 1785 Charles-Augustin de Coulomb formalizzò l’interazione fra due corpi puntiformi
carichi elettricamente, pervenendo alla seguente legge fisica, nota come legge di Coulomb:
Q1
F K
Q2r2
=-----------
------
L’intensità della forza F tra due corpi elettrizzati è direttamente proporzionale al prodotto
delle cariche Q 1 e Q 2 presenti su ciascuno di essi e inversamente proporzionale al quadrato
della distanza r fra i due corpi carichi, purché essi siano estremamente piccoli rispetto alla
loro distanza (cariche puntiformi). La costante di proporzionalità K, detta costante di
Coulomb, dipende, oltre che dalle unità di misura scelte per le grandezze coinvolte, dal
mezzo nel quale avviene l’azione dovuta al fenomeno elettrostatico. Utilizzando il sistema
internazionale di misura (SI), si può scrivere la seguente relazione:
K ---
4
1---- =dielettrica, legata al mezzo interposto fra le
dove indica una nuova costante detta costante
due cariche. Nel vuoto, dove la forza elettrostatica è massima, si ha:
= 0 = 8,859 × 10–12 C2/Nm2
La costante dielettrica assoluta del mezzo può essere espressa dal prodotto della
costante dielettrica del vuoto 0 e della costante dielettrica relativa del mezzo r, che
risulta quindi essere un numero puro maggiore di 1. Pertanto = 0 · r .
Nella tabella L.1 sono riportati i valori della costante dielettrica relativa di alcuni
materiali, a temperatura ambiente.
E Q-F--= e F E
Di un campo elettrico si può Q=fornire una rappresentazione grafica, introducendo il
concetto di linee di forza del campo. Una carica, libera di muoversi e priva di inerzia,
immersa in un campo elettrico segue una traiettoria che può essere rappresentata con le linee
di forza. Le linee di forza risultano tangenti in ogni punto alla forza che viene esercitata dal
campo sulla carica e per ogni punto del campo passa una sola linea di forza. Dove l’intensità
E è maggiore, le linee di forza sono più dense, mentre si diradano per valori minori di E.
Un campo elettrico si dice uniforme quando possiede stessa intensità, direzione e stesso
verso in ogni suo punto; in questo caso, le linee di forza sono rette parallele. Due piastre
metal- liche parallele, aventi cariche di segno opposto e separate da un isolante (detto
dielettrico), producono al loro interno un campo elettrico uniforme. Questo sistema prende il
nome di con- densatore (fig. L.1).
L-5
Il luogo dei punti che hanno lo stesso potenziale viene detto superficie equipotenziale. In
un circuito elettrico sono sempre presenti punti a potenziali diversi; è utile riferire tutti i
poten- ziali a un potenziale scelto come riferimento, indicato come potenziale di massa o,
semplice- mente, massa. Se si indicano con VA e VB i potenziali dei punti A e B riferiti alla
massa, ossia la differenza di potenziale fra A e la massa e tra B e la massa, si stabilisce per
convenzione che:
VAB = VA – VB VBA = VB – VA e dunque: VAB = – VBA
Sovente nelle reti elettriche viene anche utilizzato come potenziale di riferimento il
poten- ziale di terra, a cui sono generalmente collegate le parti metalliche
dell’apparecchiatura e la messa a terra dell’impianto elettrico. La terra è considerata, per
definizione, a potenziale nullo, mentre la massa può essere anche a potenziale diverso da
zero; comunemente i potenziali di massa e di terra sono collegati e quindi coincidono (fig.
L.2).
esterna di un conduttore;
-il campo elettrico all’interno di un conduttore, dove siano presenti cariche in equilibrio, è
nullo;
-tutti i punti di un conduttore che si trova in equilibrio elettrico devono essere allo stesso
vivi e punte).
L-7
1.7 Condensatori
Se si applica una differenza di potenziale a un sistema costituito da due conduttori detti
armature, separati da un isolante (dielettrico), si depositano, sulle due armature, cariche elet-
triche uguali ma di segno opposto + Q e – Q, proporzionali alla tensione applicata V.
Il rapporto fra la carica Q che si accumula in questo sistema, detto condensatore, e la
diffe-
VQ---=tale carica, si chiama capacità C ed è una
renza di potenziale V, necessaria perCmantenere
caratteristica
L’unità di del condensatore
misura stesso:
della capacità [F] (F):
è il farad
1 F = 1 C/1 V
Essendo il farad una capacità molto grande, si utilizzano più comunemente i
sottomultipli, quali millifarad (1 mF = 103 F), microfarad (1 F = 106 F), nanofarad (1
nF = 109 F), pico- farad (1 pF = 1012 F).
La capacità dipende dalle dimensioni geometriche, dalla forma del condensatore e dalla
natura del dielettrico usato.
Per un condensatore piano, costituito da due armature piane (fig. L.4), la capacità è
legata
alla superficie S e alla distanza d delleC= S--dalla seguente formula:
armature
d
dove = 0 · r indica la costante dielettrica assoluta del materiale isolante interposto fra
le armature.
Per condensatori di forma diversa da quella piana, l’espressione della capacità è più com-
plessa, ma si può dimostrare che essa cresce all’aumentare della superficie delle armature e
della costante dielettrica, mentre diminuisce con l’aumento dello spessore del dielettrico
inter- posto fra le armature.
Per esempio, nel caso di un condensatore costituito da due armature cilindriche coassiali,
di lunghezza l e raggi r1 e r2, separate da un dielettrico con costante dielettrica , si ha:
C 2l =
ln r2
r1
--- per i condensatori sono gli stessi relativi
I valori più comuni disponibili in commercio
alla serie E12 delle resistenze (tab. L.4). Il valore nominale è in genere stampato
sull’involucro
L-8 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
1 =
Ceq
--1--- --1---
--1---+
con Ceq che indica capacità equivalente totale + di condensatori. Con due condensa-
della serie
tori si ha:
C1C1C2 C3
C eq
CC12 +
-----------------=
C2 (fig. L.5b), a tutti i condensatori è applicata
Nel collegamento in parallelo di condensatori
la stessa tensione VAB, mentre le cariche accumulate sulle armature di ogni condensatore
(Q1, Q2, Q3) saranno diverse, se diversi sono i valori di C1, C2 e C3.
CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI L-9
ELETTRICI
La carica totale Qt accumulata, in questo caso, è data dalla somma aritmetica:
Qt = Q1 + Q2 +CQ3 = 1 CVAB 2 CVAB 3 +VAB = A+BV C1
+ Cla2capacità
e quindi, +C3 equivalente totale Ceq del parallelo di condensatori
vale:
Ceq = Qt-------- C= 1 + C2 +
C3 VAB
Si definisce rete elettrica l’insieme di più generatori e utilizzatori, collegati fra loro in
modo da costituire un insieme di più circuiti chiusi.
In una rete sono indicati con il nome di:
-nodo, la connessione di almeno tre conduttori percorsi da corrente;
-ramo, la parte di circuito (costituito da uno o più elementi percorsi dalla stessa corrente) che
congiunge due nodi contigui della rete;
-maglia, un insieme di più rami che, percorsi consecutivamente e una sola volta, riportano al
nodo di partenza.
3.Legge di Ohm
Il fisico tedesco Georg Simeon Ohm determinò una relazione che permette di ricavare la
resistenza di un conduttore, note le sue caratteristiche geometriche (lunghezza l e sezione S) e
fisiche (tipo di materiale), detta seconda legge di Ohm:
R
S
----l-
dove la costante è detta resistività o resistenza specifica e dipende dal materiale in esame
(oltre che ---=temperatura).
dalla
L’unità di misura della resistività si può dedurre dalla relazione precedente, in quanto:
2
R S
= ---------
-------------- =
= l
m m
m in ·cm oppure in · mm 2/m.
Sovente è più comodo esprimere la resistività
In base al valore della resistività è possibile suddividere i materiali in tre grandi categorie:
-isolanti: resistività compresa fra 10 8 e 1022 ·
-semiconduttori: cm; resistività compresa fra 1 e 10 8 ·
-conduttori: cm; resistività compresa fra 10 8 e 1 ·
cm.
CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI ELETTRICI
L-11
Nella tabella L.3 sono riportati i valori della resistività, a temperatura ambiente 0, e il
Materiale
relativo coefficiente di temperaturaResistività ( · materiali
per i principali Coefficiente
utilizzati.di temperatura
cm) (°C1)
Tabella L.3 Resistività 0 a temperatura ambiente e coefficiente di temperatra dei
Argento 0,016
materiali 3,8 × 103
tatto mobile e uno dei due capi del resistore una frazione della tensione applicata ai capi del
resistore (fig. L.8b).
I principi di Kirchhoff sono l’estensione alle reti elettriche di leggi fisiche generali, quali
la conservazione della carica elettrica e la conservazione del campo elettrico. I due principi
di Kirchhoff permettono di impostare un sistema di equazioni di primo grado, dalla cui
risolu- zione si possono ottenere tutte le tensioni e le correnti della rete.
Primo principio di Kirchhoff (o delle correnti)
La somma algebrica delle correnti che confluiscono in un nodo è nulla, indipendente-
mente dalla natura degli elementi della rete, ovvero, in un nodo la somma delle correnti
entranti è uguale alla somma delle correnti uscenti.
Per esempio, applicando il principio al nodo A della figura L.9, si ha che I1 I2
I3 = 0.
CORRENTI CONTINUE E CIRCUITI ELETTRICI
L-15
Due o più resistenze sono collegate in parallelo quando sono sottoposte alla stessa diffe-
renza di potenziale (fig. L.10b). Applicando il primo principio di Kirchhoff al nodo A, si può
dire che la corrente totale I è data dalla somma delle correnti che scorrono nelle resistenze
R1, R2 e R3; quindi si avrà:
I = I1 + I2 + I3
Applicando la legge di Ohm alle singole resistenze si ottiene:
VAB
-------- V AB VAB
-------= -------- ++
R1 R2
R--------
VeqAB R3
e dividendo ambo i membri per VAB
si ha: -- --1---= --1---
Req 1- +
---1----si ottiene:
Infine, passando alle conduttanze,
--
Geq = G1 + G2++ G3
R1resistenze
Quindi la conduttanza equivalente di più R2 collegate
R3 in parallelo è uguale alla
somma delle conduttanze delle singole resistenze.
Se le resistenze sono solo due, la resistenza equivalente del parallelo può essere scritta
nella forma seguente:
R1
R eq R 1 // R 2 =
---------------- = RR12 +
Dalle formule esposte in precedenza, è possibile R 2 le seguenti considerazioni:
trarre
-la resistenza equivalente di più resistori in parallelo è sempre minore della resistenza più pic-
sono quelle a stella e a triangolo (fig. L.11a e L.11b); in questo caso è possibile ricorrere a
trasformazioni stella-triangolo e triangolo-stella, per cercare di semplificare la rete in ana-
lisi.
L-23
3 MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO
1. Generalità sui fenomeni magnetici
In natura esistono minerali di ferro, come la magnetite, che sono in grado di attirare altri
corpi ferrosi e sono comunemente denominati magneti naturali o calamite.
Se si colloca attorno a un magnete naturale della limatura di ferro, questa tende a disporsi
intorno alle estremità, dette poli. Ogni magnete presenta due polarità: una viene detta polo
Nord, perché tende a orientarsi in direzione del polo Nord magnetico della Terra; l’altra è
detta
polo Sud, in quanto si rivolge verso il polo Sud terrestre. Disponendo di due magneti si
può osservare che le estremità con la stessa polarità si respingono, mentre le estremità con
polarità opposta si attraggono.
Spezzando un magnete in elementi sempre più piccoli, si ottengono altrettanti magneti
dotati di entrambi i poli Nord e Sud, mentre non è possibile realizzare un dispositivo magne-
tico dotato di una sola delle due polarità. Questa caratteristica è dovuta alla natura stessa del
fenomeno magnetico, generato a livello atomico, dall’orientamento delle orbite
elettroniche dei singoli atomi che compongono il materiale magnetico (e quindi dal
movimento di cariche elettriche elementari).
Vengono detti magneti permanenti i materiali che, una volta magnetizzati (ossia
sottoposti a un campo magnetico esterno, detto magnetizzante), mantengono questa
proprietà, mentre altri materiali, i magneti temporanei, la perdono non appena sono sottratti
all’azione di un altro
corpo magnetico.
Le forze di natura magnetica non sono in relazione né con la gravitazione né con l’intera-
zione elettrostatica. Vengono definiti, in maniera analoga all’elettrostatica, un campo di forze
magnetiche (ovvero la zone dello spazio in cui si risente l’effetto di forze magnetiche) e le
linee di forza del campo magnetico.
L’intensità del campo magnetico H ha la stessa direzione delle linee di forza del campo
magnetico ed è definita come la forza agente su una massa magnetica unitaria, in un punto.
F I · l · u =B
dove u è il vettore unitario tangente all’asse del conduttore.
Il legame fra induzione magneticaBB e campo magnetico H è di proporzionalità diretta:
=
dove la costante di proporzionalità è detta permeabilità magnetica e dipende dal mezzo in
H è l’henry al metro (H/m) e nell’aria, o nel
cui è immerso il conduttore. La sua unità di misura
vuoto, la permeabilità magnetica ha valore costante pari a 0 = 1256 × 106 H/m.
Il campo magnetico H viene misurato in ampere/metro (A/m) anche se è ancora in uso
l’oestered (Oe), unità non appartenente al SI.
L-25
L-27
Facendo un’analogia fra le linee chiuse del campo magnetico nello spazio e le correnti
che scorrono in un circuito, si definisce circuito magnetico la porzione di spazio occupato
dall’insieme di tutte le linee d’induzione generate da un dipolo magnetico (o da un
conduttore percorso da corrente). Il circuito magnetico è in genere costituito da un nucleo di
materiali fer- romagnetici che possono anche essere interrotti da zone in cui vi è presenza di
traferri (fig. L.22).
Se si realizza un avvolgimento (un solenoide) attorno al nucleo ferromagnetico, facendo
passare la corrente in questo avvolgimento, all’interno del materiale ferromagnetico si
produce un campo magnetico molto intenso, tale da poter ritenere trascurabili le linee del
campo esterne al nucleo.
Il flusso magnetico prodotto all’interno di un nucleo, di lunghezza media l e sezione S, da
un avvolgimento di N spire, percorso da una corrente I, vale:
L-28 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA
B= S = -N--------I-
l -----
S =
-N-------I-f--m----m---
l----
Questa formula definisce la legge di Hopkinson, inS cui fmm = N · I viene detta forza
magnetomotrice ed essendo la causa che ha prodotto il flusso magnetico, rappresenta
nell’ana- logia con i circuiti elettrici la tensione (o forza elettromotrice). Invece:
-----
S
l---- =
viene definita come riluttanza magnetica e nell’analogia con i circuiti elettrici rappresenta la
resistenza. Il flusso è invece l’equivalente della corrente.
3.7 Legge di Faraday-Neumann-Lenz
Nel 1831 Faraday scoprì un fenomeno di fondamentale importanza per lo studio dell’elet-
tromagnetismo. Avvicinando un magnete permanente a un circuito composto da una bobina
(solenoide) e da un galvanometro (strumento molto sensibile per misurare la corrente), si
rileva una corrente nel circuito che è causata dal moto relativo fra magnete e spira. Questa
corrente viene chiamata corrente indotta e la tensione che la produce è definita forza
elettromotrice in- dotta. Il fenomeno viene denominato induzione elettromagnetica.
L’esperimento venne elabo- rato in forma matematica dal fisico tedesco Neumann per la
quale: “la f.e.m. indotta è direttamente proporzionale alla variazione del flusso di B
concatenato con il circuito e inver- samente proporzionale all’intervallo di tempo in cui
avviene tale variazione”.
Nel caso di un solenoide formato da N spire, il flusso concatenato risulta pari a N volte il
flusso di una singola spira: =N · B · S (supponendo cos = 1, ossia B
perpendicolare alla superficie delle spire).
Successivamente Lenz migliorò ancora questa formulazione, notando che la f.e.m.
indotta
e tende a opporsi alla variazione di flusso che la genera, cosa di cui si può tener conto
introdu- cendo un segno negativo. Da quie la = –legge detta di Faraday-Neumann-Lenz:
-----t
--
MAGNETISMO ED ELETTROMAGNETISMO
L-29
-N--------
C S N N2
i -N-------
i =
i= variabile pure il flusso concatenato, =sviluppando
-----------=
Essendo variabile la corrente, risulta
così una f.e.m. autoindotta nel solenoide, per la legge di Faraday-Neumann-Lenz. La f.e.m.
autoin- dotta si oppone alle variazioni di lflusso e quindi alle variazioni della corrente i,
costituendo una reazione della bobina su se stessa.
Il flusso concatenato con il solenoide stesso risulta essere:
Il termine N 2/ può essere considerato costante e viene indicato con il nome di coeffi-
ciente di autoinduzione o induttanza (L) del solenoide. L’induttanza dipende dalla forma e
dalle dimensioni dell’avvolgimento e dalla permeabilità del mezzo. L’unità di misura è
l’henry (H) pari a Wb/A.
Si può quindi scrivere che la f.e.m. autoindotta eai vale:
eai = – L ---i-
t = dt
–
d----i
La caduta di tensione ai capi diLuna bobina (detta induttore) è direttamente proporzionale
alla velocità di variazione della corrente nel tempo.
3.9 Induttori in serie e in parallelo
Due o più induttori sono in serie quando sono attraversati dalla stessa corrente. In questo
caso è semplice dimostrare che, essendo tutti sottoposti alle stesse variazioni di corrente, le
f.e.m. generate dai singoli induttori si sommano, quindi l’induttanza equivalente della
serie vale:
Leq = L1 + L2 + …+ Ln
Due o più induttori sono in parallelo quando sono sottoposti dalla stessa tensione. Le
variazioni di corrente generate nei singoli induttori si sommano nei due nodi che le congiun-
gono:
di 1 di2
---- = di------ ------... ------
dt
+ dt
di n +dt +dt
ed essendo tutti sottoposti alle stesse variazioni di tensione si
avrà:
---e----L--
1e-- --
= --
Ln
+ +
L eq
e-- ... L2 e-- +
da cui si ricava, in modo analogo alle
resistenze:
---1----L--
11-- -- Ln
= -- + +
L eq
1-- ... L2 1-- +
L-30 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
W L 0 i di --1--- L =I 2 =
La potenza può essere, invece, positiva o negativa
2 a seconda del segno di e quindi
del segno di i:
P = ----W----e= i =
t t
Se la potenza è positiva,------
l’induttore haiL= ----
assorbito energia dal generatore e l’ha immagazzi-
nata nel campo magnetico associato;t questa energia immagazzinata può essere ceduta al cir-
cuito in un secondo momento i- eirisulta quindiuna potenza negativa. Poiché l’energia totale
immagazzinata dall’induttore deve essere una quantità non negativa, in quanto esso è un
dispo- sitivo passivo, l’energia ceduta sarà sempre inferiore o al limite uguale a quella
assorbita.
3.11 Mutua induzione
In un circuito (una spira o un solenoide) in cui scorre la corrente i 1, si genera un flusso
magnetico, proporzionale a i1. Se una parte 2 di questo flusso attraversa un secondo
circuito, si può scrivere che 2 = M · i1, dove M è un coefficiente di proporzionalità che
rappresenta il flusso del campo magnetico, attraverso il secondo circuito, per unità di
corrente del primo cir- cuito (fig. L.23).
Considerando invece il caso in cui nel secondo circuito scorre una corrente i2, il primo
cir- cuito sarà attraversato da un flusso 1, proporzionale a i2 secondo la legge 1 = M ·
i2. Il coef-
ficiente M, detto mutua induzione, è lo stesso del caso precedente e dipende dalla forma
dei circuiti e dal loro mutuo orientamento. Se la corrente i1 è variabile, anche il flusso 2 è
e2 = – M
varia- bile, e nel secondo circuito viene indotta unadtf.e.m. e2 data dalla formula:
----- di1
1 B2
-- 0
F 2S
L’elettromagnete trova molte----------
applicazioni pratiche: dalle gru per il sollevamento di
--attuatori elettromeccanici alle suonerie.
rottami metallici ai relè, dagli
L-33
La tabella L.6 permette di ricavare il valore di r per diversi materiali in funzione del-
l’induzione magnetica B.
dove:
-V P rappresenta l’ampiezza o valore di picco o valore massimo;
- = 2 f viene detta pulsazione del segnale sinusoidale ed è espressa in rad/s;
-f è la frequenza del segnale, pari all’inverso del periodo (1/T);
-t è la variabile indipendente della funzione, ovvero il tempo;
- è la fase iniziale (o angolo di fase) del segnale.
= atan --y---
x
Le operazioni con grandezze sinusoidali possono, quindi, essere effettuate utilizzando le
regole dell’algebra dei numeri complessi.
La notazione vettoriale e quella simbolica non forniscono, però, alcuna informazione
sulla pulsazione e, quindi, sulla frequenza del segnale sinusoidale: esse permettono infatti di
espri- mere solo l’ampiezza e la fase iniziale. Risulta inoltre evidente che le operazioni
possono
essere effettuate tramite queste notazioni solo con segnali che abbiano la stessa
pulsazione (o frequenza).
In generale, per indicare una grandezza alternata si fa riferimento al valore efficace più
che al valore di picco: per esempio, la tensione di rete è comunemente indicata con 220 V,
facendo riferimento proprio alla tensione efficace, mentre la tensione di picco vale circa 310
V.
Nella rappresentazione vettoriale delle grandezze alternate, è consuetudine utilizzare il
valore efficace come modulo del vettore rotante anziché il valore di picco.
Sostanzialmente non cambia nulla, in quanto basta moltiplicare per il fattore di scala (pari a
2 ).
Il numero complesso V Veff =e j , che rappresenta il
vettore rotante tracciato nel- l’istante iniziale, viene chiamato vettore di fase o,
più sovente, fasore ed è molto utilizzato in elettrotecnica per la risoluzione di circuiti in
alternata.
4.3 Circuiti in alternata
Quando si applica una sorgente sinusoidale con pulsazione a un circuito costituito da
componenti lineari passivi resistori, induttori, condensatori, esaurito il transitorio tutte le
cor- renti e le tensioni rilevabili nel circuito sono ancora sinusoidali con la stessa pulsazione
.
Variano invece le ampiezze dei segnali (o meglio il valore efficace) e la relazione di fase
tra un segnale e l’altro.
Il regime stazionario in alternata può quindi essere studiato utilizzando solamente i
fasori,
che esprimono, con una formulazione matematica compatta, proprio il valore efficace e la
fase iniziale dei segnali sinusoidali.
Circuiti puramente resistivi
Se a un circuito, costituito solamente da resistori, si applica una tensione sinusoidale V ,
la corrente che scorre nel circuito è sinusoidale ed è in fase con la tensione V . Considerando
i valori istantanei di corrente e tensione, si ha, per la legge di Ohm, che i = v/R e, dato che i
fasori V e I sono in fase, si può scrivere vettorialmente (fig. L.31a):
I V-- =
R
Figura L.31 Applicazione di sorgente sinusoidale al circuito con componenti lineari passivi:
a) resistore; b) induttore; c) condensatore.
CIRCUITI IN CORRENTE ALTERNATA
L-37
V Z I=
in cui al posto di tensioni e correnti continue compaiono i fasori di tensione e corrente e la
resistenza viene sostituita dall’impedenza Z (che è un numero complesso);
l’impedenza Z Z
dei
R tre componenti
L passivi principali (resistenza, induttore e condensatore)
jL =Z C = -------1--------- j–=
-
C
L-38 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
da cui si ottiene:
V = R Ij L I -----
j + ----
+R j–
I = Z I
dove: 1------- I+ = C 1------
C
L
Z = R +RjL = jX+
–C-----
è l’impedenza totale della rete RLC serie, che tiene conto sia degli effetti ohmici, sia di quelli
reattivi dei componenti che1------ nel caso che L > 1/ C, la reattanza è positiva
la compongono:
e prevalgono gli effetti induttivi nel circuito (tensione in anticipo sulla corrente); viceversa,
si ha una reattanza negativa (prevalenza dell’effetto capacitivo: tensione in ritardo rispetto
alla cor- rente).
Nel caso particolare L = 1/ C (detto risonanza), si ha che l’impedenza raggiunge il
suo
valore minimo e il circuito si comporta in modo puramente resistivo, ossia i versori di
tensione e corrente sono in fase.
4.5 Potenza nei circuiti in corrente alternata
La potenza è data dal prodotto fra tensione e corrente, istante per istante:
p (t) = v (t) · i (t)
e risulta quindi una grandezza variabile nel tempo.
CIRCUITI IN CORRENTE ALTERNATA
L-39
Il termine costante corrisponde alla potenza effettivamente dissipata dal circuito e viene
detto potenza attiva P. Essa è composta dal prodotto dei valori efficaci di tensione e
corrente e del fattore cos , detto fattore di potenza.
Il fattore di potenza è unitario quando tensione e corrente sono in fase (carico
resistivo),
mentre risulta nullo quando la tensione è in anticipo o in ritardo sulla corrente di 90°
(carico puramente reattivo). Infatti gli elementi reattivi (come induttori e condensatori) non
dissipano potenza, ma immagazzinano temporaneamente l’energia nel campo elettrico o
magnetico, per restituirla in istanti successivi al circuito.
Il termine che varia sinusoidalmente tiene invece conto di questi scambi di energia che
avvengono fra il generatore e i componenti reattivi del circuito: in alcuni momenti c’è un tra-
sferimento di energia dal generatore verso il circuito (e quindi la potenza istantanea è
maggiore di zero), mentre in altri, tale energia, accumulata nei componenti reattivi, viene
restituita al generatore (la potenza istantanea è minore di zero).
Questi scambi di energia fra generatore e circuito sono legati al termine Veff Ieff sin ,
che viene detto potenza reattiva Q. La sua unità di misura, pur essendo sempre il watt, viene
indi- cata come VAR (volt-ampere reattivi).
Si definisce infine potenza apparente A il prodotto dei valori efficaci di tensione e cor-
rente:
A = Veff Ieff
e si esprime in VA (volt-ampere). Essa tiene conto sia della potenza “palleggiata” fra genera-
tore e circuito, sia di quella
=QAP 2+
dissipata dal circuito e quindi=rappresenta
csoinsAP; la potenza totale
erogata dal generatore al circuito, anche se non tutta questa potenza viene utilizzata.
facilmente dimostrabili
Si possono scrivere considerando il cosiddetto
le seguenti relazioni triangolo
fra potenza delle
attiva
Q2 Q(fig.
potenze
P, reattiva e apparente A:
L.33).
L-40 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA
L-41
5 SISTEMI TRIFASE
Generalità sui sistemi trifase
1.
E1 E 0 E=
= 2
0 5E–j 0
3 cosjE 3–--- 866E–
E2 = E 120– = E
E3 = E240–E = -- si=n
4--cosjE –- 0 5–E j 0
--2--- 886E+
4-si=n
3 3
L-42 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
Le tensioni concatenate si possono ricavare dalla differenza fra le due tensioni di fase che
ne costituiscono gli estremi, come rappresentato nella figura L.34b:
V12 = E1 – E2 = 1 5j 0 =
886+ 30E3E
V23 = E2 –jE– 3 1=732E3E = 270
tre31
Quindi le V = E3concatenate
tensioni – E1 = –1formano
5j 0 ancora= una terna simmetrica, sfasata di 30° in
886+
anticipo rispetto a quella delle tensioni stellate (fig. L.34b).
150E3E
Normalmente la rete di distribuzione è del tipo a stella con neutro (detta anche a quattro
fili), permettendo così l’utilizzo delle tensioni stellate (220 V in Italia) per utenze domestiche
di piccola potenza e le tensioni concatenate per uso industriale (380 V = 3 × 220 V).
5.2 Collegamenti a stella e a triangolo
Le connessioni che si possono effettuare nei dispositivi trifase sono essenzialmente
due:
connessione a stella e connessione a triangolo.
Connessione a stella
Nella connessione a stella i dispositivi hanno un nodo in comune detto centro stella,
men- tre l’altro estremo di ogni elemento è collegato a una fase (fig. L.35a). Quando i
collegamenti fra generatore e carico prevedono quattro connessioni (le tre fasi più il centro
stella), si parla di connessione a stella con filo neutro e in questo caso, le tre fasi sono
indipendenti, ossia pos- sono essere pensate come tre circuiti monofase indipendenti e la
corrente che scorre nel neutro è la somma delle tre correnti di ritorno delle singole fasi. Se il
sistema è simmetrico ed equili- brato, è facile verificare che la corrente che scorre nel filo
neutro è nulla, quindi questo colle- gamento può essere tolto senza influire sul sistema.
I 12 =I V – 12 23 =I – V 31 = –V
Z1
23 Z3
31
------- Z2la convenzione
con i segni negativi per rispettare
-------degli -------
utilizzatori.
SISTEMI L-43
TRIFASE
Scrivendo le equazioni ai nodi si ottiene:
I 1 =I I 12 – I 31 2
=I I 23 – I12
3 = I 31 –
I 23
S= P2 + Q2
Con il carico equilibrato la potenza istantanea complessiva è costante nel tempo e coinci-
dente con la potenza P attiva. Infatti le tre correnti formano una terna equilibrata, sfasata
dell’angolo rispetto alla
V1terna
= V2delle
= V3tensioni
= E stellate.
e Essendo
I1 = I2quindi:
= I3 = I
risulta:
P3E Icos= e Q3E
Isin=
L-44 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
fp cos =
S
5.4 Rifasamento nei sistemi trifase
P-- =
Come già visto nei sistemi monofase, è conveniente effettuare il rifasamento quando la
potenza reattiva è troppo rilevante.
Il rifasamento può essere effettuato con una batteria di condensatori collegati a triangolo,
che riportano il fattore di potenza dal valore iniziale cos 1 al valore cos 2 dopo il rifasa-
mento. La potenza capacitiva necessaria per il rifasamento è:
Qda
c cui si ricava:
3 c2 3 = ---------------1---
Ct = -------------------- 2
0----1---6---4---------------
V 250220 223[F]
STRUMENTI DI MISURA
L-45
6 STRUMENTI DI MISURA
Generalità sugli strumenti di misura
1.
-Strumenti elettromagnetici (fig. L.38a): sono costituiti da una bobina fissa, nel cui interno
vengono poste due lamine ferromagnetiche (in ferro dolce) A e B che subiscono una
magne- tizzazione nel senso del campo. Fissando B alla carcassa dello strumento e
rendendo A mobile, i poli omonimi si respingono, facendo ruotare la lamina mobile A. La
deviazione angolare dell’indice è una funzione quadratica della corrente che percorre la
bobina; quindi la scala di questi strumenti è di tipo quadratico. Gli strumenti realizzati su
questo principio funzionano sia in corrente continua sia in corrente alternata.
-Strumenti elettrodinamici: sono costituiti da due bobine: una fissa e una mobile (fig. L.38b).
Quando le due bobine sono percorse da corrente (If e Im) la deviazione angolare dell’indice
è
proporzionale al prodotto (If · Im), sia per correnti continue che alternate. In genere, su
questo principio, si realizzano strumenti da laboratorio di notevole precisione. La loro
scala, per un artificio costruttivo, è pressoché uniforme sia in corrente continua sia
alternata.
-Strumenti a induzione: si basano sui fenomeni di induzione elettromagnetica; quindi funzio-
nano solo con correnti alternate. Vengono quasi esclusivamente impiegati come contatori di
energia (ossia come integratori, in quanto fanno il prodotto della grandezza in esame per il
tempo).
-Strumenti termici: si basano sull’effetto termico del passaggio di corrente attraverso un ele-
mento resistivo. Possono essere di due tipi: strumenti a filo caldo, nei quali la dilatazione di
un filo metallico riscaldato dal passaggio di corrente causa lo spostamento dell’indice;
stru- menti a termocoppia, nei quali il calore prodotto dall’elemento riscaldatore è
convertito tra- mite una termocoppia in una f.e.m., che viene misurata con un voltmetro.
-Strumenti numerici o digitali: danno direttamente in cifre decimali il valore della grandezza
da misurare e consentono una lettura più rapida e semplice degli strumenti analogici.
-Oscilloscopi e dispositivi con tubi a raggi catodici: consentono non solo di misurare i para-
metri di un segnale periodico, ma di visualizzarne anche la forma d’onda. Altri strumenti uti-
lizzano tubi a raggi catodici, per la possibilità di descrivere caratteristiche della grandezza
in misura in modo particolareggiato, come i tracciatori di curve dei dispositivi discreti e
l’ana- lizzatore di spettro.
RS r+
I = I m RS da cui si ricava: Im = I
RS RS
-----------r+ ------------
Nel caso di correnti molto piccole, da 1010 A a 107 A, gli strumenti di misura sono
detti galvanometri e-impiegano equipaggi mobili dal peso molto ridotto, con sospensioni a
filo e indici ottici; questi strumenti non sono però facilmente trasportabili.
Per le misure in corrente alternata possono essere utilizzati strumenti elettromagnetici, a
raddrizzatore o a termocoppia.
Gli strumenti elettromagnetici danno un’indicazione che è funzione del valore medio
qua- dratico della corrente e la scala può essere tarata in modo da indicare il valore efficace;
sono detti amperometri a vero valore efficace, in quanto forniscono una misura del valore
efficace
indipendentemente dalla forma d’onda del segnale.
Presentano il limite di utilizzo a frequenze inferiori a 100 Hz, sia a causa delle correnti
parassite che si formano nel ferro dolce sia perché il comportamento induttivo
dell’amperome- tro non è più trascurabile a frequenze superiori.
Gli strumenti a raddrizzatore sono strumenti magnetoelettrici che utilizzano un raddrizza-
tore a ponte per produrre una tensione pulsante con valore medio non nullo. In questo modo
si
misura il valore medio della tensione raddrizzata, che nel caso di segnali sinusoidali può
essere ricondotto al valore efficace con opportuna taratura della scala.
La misura risulta però errata se il segnale presenta una forma d’onda diversa. Il limite
di
utilizzo in frequenza dipende dalle caratteristiche dei diodi utilizzati ed è in genere
dell’ordine di 10 kHz.
Gli strumenti a termocoppia misurano il vero valore efficace della corrente e possono
essere utilizzati fino alla frequenza di qualche MHz. La portata minima è in genere di 10
mA, dato che per valori inferiori si ha uno sviluppo di energia termica non apprezzabile.
6.3 Misure di tensione
Gli strumenti misuratori di tensione sono detti voltmetri e devono essere inseriti in paral-
lelo al circuito in modo da essere sottoposti alla tensione da misurare (fig. L.40). Per
perturbare in misura minima il circuito in prova devono presentare una resistenza di ingresso
molto ele- vata.
La misura di tensione viene effettuata tramite un milliamperometro (per esempio, di tipo
magnetoelettrico) in serie a una resistenza di elevato valore. Il valore della resistenza in serie
può essere variata in funzione della portata scelta per la misura.
L-48 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
Per rendere possibile la misura di tensioni molto piccole, senza diminuire la resistenza di
ingresso del voltmetro, esistono strumenti elettronici che utilizzano gli amplificatori in conti-
nua, in modo da portare la tensione a un livello ottimale per lo strumento di misura.
Figura L.42 Misura di resistenze: a) molto piccole con circuito partitore di tensione;
b) molto precise con il ponte di Wheatstone.
STRUMENTI DI MISURA
L-49
In questo caso il ponte è in una condizione di equilibrio (si dice che è bilanciato) in cui
risulta che VR1 = VR2 e VR3 = VRx; da queste condizioni si ottiene:
R1 · I1 = R2 · I2 e R3 · I3 = Rx · I4
e, inoltre, dato che non scorre corrente nell’amperometro:
I1 = I2 e I3 = Ix
R 3 I3 R 3 I 2 R 3
Rx = = ha:=
R1I4 quindi si
I1
La buona precisione è dovuta al R 2 che la misura dipende esclusivamente dai valori
fatto
delle resistenze campione inserite nel ponte e non dalla tensione di alimentazione E o dalla
preci- sione e resistenza interna dell’amperometro.
Nelle misure di resistenze piccole (inferiori ai 10 ), non sono più trascurabili le resi-
stenze dei contatti e dei collegamenti, per cui vengono utilizzati altri tipi di ponte apposita-
mente studiati.
Multimetri
5.
Wattmetri
6.
Le misure di potenza effettuate a bassa frequenza possono essere realizzate in due modi:
con il metodo volt-amperometrico o tramite un wattmetro elettrodinamico.
Metodo volt-amperometrico
Si utilizzano un voltmetro e un amperometro e la potenza è misurata in modo indiretto
tra- mite il prodotto di tensione per corrente (fig. L.43). L’inserzione degli strumenti produce
però errori sistematici di cui bisogna tenere conto.
L-50 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA
L-51
7 MACCHINE ELETTRICHE
1. Generalità sulle macchine elettriche
Si definisce macchina un’apparecchiatura in cui avviene la trasformazione di un tipo di
energia in un altro tipo di energia. Quando uno dei due tipi di energia in gioco è quella elet-
trica, si parla di macchine elettriche.
Le macchine elettriche possono essere suddivise in statiche, quando sono senza organi in
movimento, o rotanti, quando hanno organi in movimento.
La principale macchina elettrica statica è il trasformatore, mentre le macchine elettriche
rotanti possono ancora essere suddivise in generatori elettrici, che trasformano un’energia di
tipo meccanica in energia elettrica, e motori elettrici, che attuano invece la trasformazione di
energia elettrica in meccanica.
2. Trasformatori
Il trasformatore è una macchina elettrica statica a induzione, utilizzata per trasformare a
potenza costante valori di tensione e corrente, oppure trasferire energia elettrica fra due o più
circuiti che risultano però elettricamente isolati (non hanno conduttori in comune). Esso è
costituito da un nucleo ferromagnetico formato da un pacco di lamierini di spessore 0,3 mm
circa, isolati fra loro con sottili strati isolanti; le parti verticali del nucleo sono dette colonne e
le parti orizzontali gioghi. Attorno alle colonne sono sistemati avvolgimenti elettricamente
separati, ma accoppiati dal circuito magnetico costituito dal nucleo.
Trasformatore monofase
Nei trasformatori monofase si hanno solo due avvolgimenti che vengono denominati pri-
mario (circuito di ingresso) e secondario (circuito di uscita).
Nel primario entra una potenza elettrica P 1 = v1i1, mentre dal secondario si ottiene una
potenza elettrica P2 = v2 i2.
Nel caso ideale si ha che P1 = P2, ovvero non ci sono perdite di potenza e tutta l’energia
viene trasferita dal primario al secondario. Il trasformatore funziona solamente in corrente
alternata e la frequenza di ingresso è uguale a quella d’uscita.
La struttura di un trasformatore è rappresentata nella figura L.45.
La corrente totale del primario i1 è data dalla somma della corrente primaria di reazione e
della corrente magnetizzante. Quest’ultima risulta in genere molto più piccola, e quindi si
può trascurare con buona approssimazione:
i---
1 N2
i2
i1 N1 +iim =1r
i1r
Nel caso reale, bisogna tenere conto di-----
alcuni fattori che introducono delle perdite nel tra-
e si ottiene: sformatore e ne diminuiscono il rendimento:
-il flusso magnetico non è perfettamente concatenato con i due avvolgimenti;
-la resistività del conduttore che costituisce gli avvolgimenti introduce una resistenza in serie
agli stessi;
-le perdite di energia nel nucleo dovute al ciclo di isteresi e alle correnti parassite;
Per quantificare questi aspetti si utilizza un circuito equivalente, in cui vengono aggiunti
al trasformatore alcuni componenti fittizi: le resistenze, per tener conto delle perdite e le
indut- tanze per tener conto dei flussi dispersi (fig. L.46).
Questo schema è valido per qualsiasi tipo di trasformatore e può essere utilizzato per cal-
colare il rendimento nel caso reale. Bisogna però sottolineare che i valori da attribuire a ogni
MACCHINE ELETTRICHE
L-53
componente fittizio sono specifici per ciascun trasformatore e possono variare con la fre-
quenza e la forma d’onda del segnale applicato al primario.
Le principali grandezze che caratterizzano un trasformatore sono:
-tensione secondaria nominale V 2n: è definita come la tensione del secondario a vuoto;
quando è connesso un carico al secondario, la tensione è inferiore alla tensione nominale,
dell’ordine di qualche punto percentuale;
-corrente secondaria nominale I n: è la corrente erogata dal secondario a pieno carico;
-potenza nominale: è la potenza apparente A n = |V2n| |In|;
-rendimento : è definito come rapporto fra la potenza attiva P 2, fornita al carico, e la
potenza attiva P1, assorbita dalla linea.
= P2/P1
Nel caso ideale il rendimento dovrebbe essere unitario. In realtà bisogna considerare che
la potenza trasferita al secondario è inferiore a quella assorbita dal primario, in quanto
bisogna considerare le perdite di potenza nel ferro del nucleo, dovute alle correnti parassite,
al ciclo di isteresi, ai flussi magnetici dispersi e alle perdite di potenza nel rame per la
resistenza dei fili che costituiscono gli avvolgimenti.
Autotrasformatori
Quando non è necessario avere una separazione fisica del circuito del primario dal secon-
dario, è conveniente utilizzare l’autotrasformatore, ossia un trasformatore avente una parte
del suo avvolgimento comune al circuito primario e secondario (fig. L.47).
Trasformatore trifase
In una rete trifase si potrebbero utilizzare, per la trasformazione di tensione, tre trasforma-
tori monofase, con le bobine dei primari e dei secondari collegate a stella. Gli avvolgimenti
relativi a una stessa fase sono in realtà realizzati su un’unica colonna del circuito magnetico
mentre la seconda colonna serve solo per la chiusura del flusso.
Se si raggruppano i nuclei dei tre trasformatori, in modo che la colonna che non presenta
avvolgimenti sia una sola (al centro del nucleo), quest’ultima sarà percorsa dai tre flussi delle
singole fasi (fig. L.48).
La somma vettoriale di questi flussi è nulla in ogni istante, per cui la colonna centrale può
essere eliminata senza alterare il funzionamento del trasformatore. Ciò comporta un evidente
vantaggio, rispetto ai tre trasformatori monofase: la riduzione di ingombro e di materiale per
i
nuclei.
Inoltre, a parità di potenza, vengono ridotte le perdite nel ferro e la riluttanza del circuito
magnetico risulta minore, rendendo minore anche le correnti magnetizzanti.
I trasformatori trifase sono quindi caratterizzati da un migliore rapporto peso/potenza e da
un migliore rendimento rispetto ai trasformatori monofase.
L-55
Nel funzionamento come dinamo l’albero, solidale con il rotore, viene mantenuto in rota-
zione con dispendio di potenza meccanica, permettendo una produzione di energia elettrica
ai morsetti della macchina.
Lo statore è costituito, in linea di principio, da due espansioni polari di un magnete
perma-
nente, che creano al loro interno un campo magnetico costante, e per questo motivo è
detto anche induttore.
Il rotore, o indotto (fig. L.49), può essere invece schematizzato come una spira (o una
serie di avvolgimenti) collegata a due semianelli che costituiscono il commutatore, sui quali
stri- sciano due spazzole fisse, ai cui morsetti viene inserito l’utilizzatore.
Il compito delle spazzole è quindi quello di stabilire un collegamento con la coppia di
semianelli in rotazione, con cui formano il cosiddetto collettore, raccogliendo la tensione che
si genera ai capi della spira.
Facendo riferimento alla figura L.50, il flusso magnetico che attraversa la spira, la quale
ruota con velocità costante dalla posizione (a) alla posizione (b), diminuisce gradualmente
causando una f.e.m. indotta che diminuisce fino ad annullarsi quando la spira risulta parallela
alle linee del campo magnetico.
Nella rotazione da (b) a (c), bisogna tenere conto che i contatti fra le spazzole e i due
semianelli si sono scambiate, e quindi la f.e.m. ha sempre la stessa polarità e aumenta. Si
ottiene quindi un andamento pulsante della tensione simile a quella illustrata nella figura
L.50d.
carico, genera un flusso magnetico che si oppone al flusso dell’induttore, dando origine alla
cosiddetta reazione d’indotto che provoca una diminuzione Vr della tensione generata. In
defi- nitiva la tensione V generata sotto carico è:
V = E – R i · I – Vr = Eg – R i · I
dove Eg = E – Vr è la f.e.m. complessiva generata con un carico collegato alla dinamo. La
dinamo può quindi essere considerata come un generatore reale di tensione, avente f.e.m. Eg
e resistenza interna Ri.
7.4 Motori a corrente continua
Le macchine a corrente continua sono macchine reversibili; se al rotore si applica una
ten- sione continua, esse generano energia meccanica funzionando come motori.
Una spira, immersa in un campo magnetico costante e percorsa da una corrente I, si pone
in rotazione, in quanto ai due lati della spira, disposti lungo l’asse, viene applicata una coppia
di forze. Le componenti di questa coppia di forze hanno direzione perpendicolare al piano
individuato dalla corrente e dalle linee del campo magnetico, e verso individuato dalla
regola della mano sinistra (paragrafo 7.3). La coppia di forze risulta massima quando la
spira è di- sposta perpendicolarmente alle linee di forza del campo magnetico indotto, mentre
si annulla
quando la spira è parallela alle linee.
Anche nei motori, per ottenere una coppia pressoché costante, si utilizza un numero di
avvolgimenti (o fasi) molto elevato, suddividendo il collettore in tante lamelle collegate, a
cop- pie opposte, ai due capi di ogni avvolgimento. In questo modo il collegamento stabilito
con le spazzole permette il passaggio di corrente in una fase solo per pochi gradi della
rotazione.
Nei conduttori attivi che costituiscono gli avvolgimenti del rotore, detti anche armatura,
quando il motore gira, viene indotta una f.e.m. Eg, che si oppone al passaggio della corrente.
Tale f.e.m., è detta forza controelettromotrice poiché ha verso opposto alla tensione applicata
all’armatura ed è proporzionale alla velocità angolare secondo la costante di proporzionalità
KE:
Eg = K E ·
Nella figura L.51 è riportato il circuito equivalente di un motore a corrente continua,
dove V è la tensione applicata al rotore, Ri e La sono la resistenza e l’induttanza degli
avvolgimenti e I indica la corrente che scorre in essi. Nel funzionamento a regime
sull’induttanza La non vi è caduta di tensione, essendo I una corrente continua. Si può
quindi scrivere:
V = E g + Ri · I
Parametro Valore
Corrente di spunto IS 4A
Resistenza di armatura Ri 8
Induttanza di armatura La 12 mH
L-59
perdite per eccitazione Pecc negli avvolgimenti di statore (solo nei motori a campo avvolto).
-
rente di indotto è:
Ii = Ia Iecc = 10 – 0,3 = 9,7 A
-La potenza assorbita dall’alimentazione è:
PCC = Va · Ia = 60 V · 10 A = 600 W
-Le perdite per effetto Joule nell’indotto valgono:
Pecc = Recc · I2 cc = 18 W
e
La potenza resa dal motore risulta essere:
-
Figura L.57 Effetto del campo magnetico rotante sul rotore di un motore
asincrono.
L-62 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
Il rotore acquista velocità sotto l'azione della coppia e, quindi, diminuisce la velocità con
la quale il campo rotante taglia i conduttori attivi di rotore e con essa diminuiscono le
correnti rotoriche e la coppia motrice.
La velocità di rotazione del rotore non può però essere uguale alla velocità del campo
rotante: infatti, in questo caso, si annullerebbero le correnti indotte che producono la
rotazione. Per tale ragione il motore viene detto asincrono. La differenza, espressa in
percentuale, fra la velocità di sincronismo ns e quella effettiva di rotazione del rotore n,
prende il nome di scorri- mento percentuale s% ed è data dal rapporto:
ns n–
s% 100
ns =
----------
A vuoto il motore gira a una velocità molto vicina a quella del campo rotante; introdu-
cendo una coppia resistente, il rotore -rallenta. Quindi il motore asincrono non ruota a velocità
costante e non permette una facile regolazione della velocità di rotazione.
È possibile realizzare avvolgimenti multipli di statore che, percorsi da un sistema equili-
brato trifase di correnti, producano campi magnetici di tipo multipolare; in questo caso, indi-
cando con p il numero di coppie polari fittizie dello statore, si ha che ns = 60 f/p.
Il grafico riportato nella figura L.58 riproduce la caratteristica meccanica del motore
asin- crono, che rappresenta l’andamento della coppia C sviluppata in funzione del numero
di giri al minuto n. Per n = 0 (motore fermo) si ha la coppia di spunto CS. Quindi la coppia
aumenta fino a un valore massimo di coppia CM; infine diminuisce fino a annullarsi per la
velocità di sincro- nismo ns.
Il funzionamento nel tratto di caratteristica A-B è instabile: infatti un aumento della
coppia resistente causa un rallentamento del motore e una conseguente diminuzione della
coppia svi-
luppata, portando a un ulteriore rallentamento, fino all’arresto del motore. Il motore ha invece
un funzionamento stabile nel tratto B-C: se il carico aumenta, il motore rallenta con conse-
guente aumento della coppia motrice.
L-63
ruotare, perché è trascinato da uno dei due campi, mentre il campo inverso produce un’azione
resistente molto minore rispetto a quella diretta.
Per ottenere l’autoavviamento, il motore monofase è provvisto di un avvolgimento
ausilia- rio che occupa circa un terzo delle cave di statore, ed è collocato a 90° rispetto
all’avvolgimen-
to principale. L’avvolgimento ausiliario è alimentato dalla stessa rete, tramite un
condensatore che produce uno sfasamento fra le correnti, prossimo a 90°, anche se di
ampiezza diversa. In
questa situazione si ha un campo rotante ellittico, che permette un buon funzionamento
del motore, anche se con un rendimento circa del 60% rispetto a quello ottenibile da un
motore tri- fase di pari dimensione e peso.
Per migliorare le prestazioni si può disinserire l’avvolgimento secondario quando si è
rag- giunta la velocità di regime, tramite un interruttore centrifugo o un relè amperometrico
(ad avviamento avvenuto, la corrente di alimentazione si riduce). Dato che l’avvolgimento
secon-
dario è attivo solo per brevi periodi, il dimensionamento degli avvolgimenti può essere
fatto con conduttori di sezione minore.
Per applicazioni di piccola potenza, come negli apparecchi elettrodomestici, il
condensa-
tore e l’avvolgimento secondario sono sempre inseriti, e in questo caso il motore è
definito
motore a condensatore.
7.6 Macchine sincrone
Per macchina sincrona si intende una macchina elettrica rotante, nella quale la velocità di
rotazione è in rapporto definito e costante con la frequenza della corrente applicata o
generata. La macchina sincrona può funzionare come generatore e viene chiamata
alternatore, o come motore. Essa è solitamente trifase, ma esiste anche la versione monofase
che viene utilizzata per piccole potenze.
L’energia elettrica prodotta dalle centrali è generata da alternatori di notevole potenza,
sono azionati da turbine idrauliche, a vapore o a gas.
Lo statore delle macchine sincrone è identico a quello delle macchine asincrone: è
costitui- to da un pacco di lamierini magnetici, dotato di scanalature nelle quali vengono
inseriti gli avvolgimenti statorici.
Il rotore può essere di tre tipi:
-a magneti permanenti: realizzati in ferrite, per macchine di piccola potenza;
-a poli salienti avvolti: è costituito da un mozzo da cui sporgono i poli realizzati in ferro
dolce ed eccitati da bobine percorse da correnti continue; usato nelle macchine a piccola e
media velocità;
-a rotore scanalato: il rotore cilindrico ha scanalature simili a quelle di statore, in cui sono
posti gli avvolgimenti di rotore eccitati in corrente continua; utilizzato nei veloci turboalter-
natori (alternatori azionati da turbine a vapore) a due o quattro poli.
Negli ultimi due casi, per fornire l’eccitazione in continua agli avvolgimenti di rotore, gli
estremi di ogni bobina sono collegati a due anelli, su cui strisciano contatti detti spazzole. Il
sistema di spazzole e anelli è detto collettore.
A differenza delle macchine in corrente continua, nelle macchine sincrone il campo
magnetico induttore è collocato sul rotore, mentre l’avvolgimento indotto è posto sullo
statore. Inoltre il collettore non comprende il commutatore (che nelle macchine a corrente
continua
raddrizza la corrente indotta negli avvolgimenti di rotore, scambiando i contatti fra le
spazzole e i morsetti della bobina).
Alternatore
Indipendentemente dalla tecnica costruttiva utilizzata, il rotore produce un campo magne-
tico costante che, per via della rotazione a cui è sottoposto, causa un campo variabile
conca- tenato con l’induttore e induce nel circuito di statore una f.e.m. sinusoidale. Questo è
evidente nel caso di rotore e statore costituiti da una sola coppia di poli: a una rotazione
completa del
L-64 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
f -p-------n- =
60
f
oppure
2
dove è la velocità angolare del rotore. p---
-------
Indicando con BM l’induzione massima sulla superficie dei poli
= del rotore, con l la lun-
ghezza della porzione di conduttore statorico investita dall’induzione BM e con r il raggio
del rotore, il valore massimo eM della tensione indotta in un singolo conduttore vale:
e M = BM · l · v = BM · l · · r
Poiché la tensione indotta del conduttore statorico risulta sinusoidale, la sua
espressione è:
e = eM sin (p · t) = BM · l · · r sin (p · t)
con p coppie di poli.
Quindi la tensione generata è direttamente proporzionale alla velocità angolare del
rotore. Se gli avvolgimenti di statore sono composti da più bobine, disposte fra loro con
un angolo
, le tensioni generate in ognuna di esse saranno sfasate dell’angolo .
Per esempio, nella figura L.59 è riportato lo schema di principio di un alternatore trifase:
l’indotto è costituito da tre bobine disposte sul giogo dell’alternatore, con un angolo di
120° e il rotore è composto da una sola coppia di poli (p = 1).
Se esso ruota con una velocità di 3000 giri al minuto, genera una tensione trifase con fre-
quenza di 50 Hz.
L-65
90° rispetto al caso precedente: le forze fra i poli risultano quindi radiali e non causano
alcuna coppia, ma producono invece un’azione smagnetizzante (o magnetizzante) sul rotore.
Non è quindi necessario applicare alcuna potenza meccanica all’albero, a meno delle per-
dite dovute ad attriti e alla ventilazione: non viene infatti erogata potenza attiva ai morsetti,
dato che il carico è puramente reattivo.
Motore sincrono
La struttura del motore sincrono è la stessa dell’alternatore, ma gli avvolgimenti di statore
vengono alimentati con la tensione di rete (monofase o più comunemente trifase), per
erogare potenza meccanica all’albero del rotore.
Quando lo statore è collegato alla linea di rete, le correnti che scorrono nei suoi avvolgi-
menti generano un campo magnetico rotante che interagisce con il campo magnetico del
rotore, mantenendone la rotazione con velocità
n n-6
p(espressa
-- in giri al minuto) pari a:
dove f è la frequenza di rete e p è il numero0---fdi-coppie
--- di poli presenti sul rotore. Il motore
sin- crono non è però autoavviante: esso=richiede l’utilizzo di un motore ausiliario di lancio
che lo porti alla velocità di rotazione n, altrimenti non si stabiliscono le interazioni fra i
campi magnetici di statore e di rotore che trascinano il rotore.
Brusche variazioni della coppia resistente possono generare nel motore oscillazioni
pendo- lari, causate dalla reazione necessaria per raggiungere un nuovo equilibrio dinamico
nell’inte- razione fra i due campi magnetici, e dall’inerzia del rotore alle variazioni di
velocità. Queste oscillazioni provocano vibrazioni dannose dell’albero e producono correnti
pulsanti sulle linee di alimentazione.
Per smorzare queste oscillazioni pendolari è possibile inserire nella periferia del rotore
una
gabbia di scoiattolo, detta gabbia di smorzamento, in cui si producono correnti indotte
dalle oscillazioni pendolari, che tendono a opporsi alla causa che le ha generate.
La gabbia di smorzamento può essere utilizzata anche per l’autoavviamento del
motore
sincrono: inizialmente il rotore non è eccitato e lo statore viene connesso alla rete
producendo una rotazione per effetto della gabbia di scoiattolo; quando raggiunge una
velocità prossima al sincronismo, viene applicata l’eccitazione e il motore incomincia a
lavorare in modo sincrono, annullando l’effetto della gabbia di scoiattolo, la quale interviene
solo per smorzare eventuali oscillazioni pendolari.
I motori sincroni vengono utilizzati quando è necessario avere velocità rigorosamente
costanti. Essi possono essere inoltre utilizzati come rifasatori: infatti i motori sincroni
possono assorbire dalla rete sia corrente in fase sia in anticipo o in ritardo.
Se si varia l’eccitazione, riducendo per esempio la corrente di rotore
(sottoeccitazione),
diminuisce anche il flusso al traferro e, per mantenere costante la coppia motrice, è
necessario che la corrente di statore assorbita sia in ritardo con la tensione corrispondente.
Al contrario, se si aumenta la corrente di eccitazione (sovraeccitazione) e
conseguente-
mente il flusso al traferro, la macchina assorbirà dalla rete corrente in anticipo rispetto
alla ten- sione, per mantenere costante il flusso.
Potenza e rendimento delle macchine sincrone
Nel funzionamento sia come alternatore, sia come motore, le macchine sincrone presen-
tano le seguenti perdite di potenza:
-perdite meccaniche e per ventilazione P m, dovute ad attriti e alle ventole di raffreddamento
calettate sull’albero;
-perdite nel ferro di statore P fe per isteresi e correnti parassite;
-perdite di eccitazione P ecc, dovute alla dissipazione per effetto Joule negli avvolgimenti
roto- rici;
L-66 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
-perdite variabili con il carico nello statore P j, dovute all’effetto Joule nella resistenza degli
avvolgimenti.
Nel funzionamento come alternatore, la potenza di ingresso coincide con la potenza mec-
canica Pmec, mentre quella di uscita coincide con la potenza elettrica Pel; quindi si ha:
Pr
= Pel =
Pr + Pm + Pfe + Pj +
Pme Pecc
c
dove Pr è la potenza reale resa ai morsetti.
Nel funzionamento come motore, la potenza di ingresso coincide con la potenza elettrica
Pel, mentre quella di uscita coincide con la potenza meccanica Pmec; quindi, indicando con
Pa la potenza elettrica reale assorbita, si ha:
Pa –PPm –P fe –P ecc
Pme =
= c
j– Pa
L-67
-circuito di pilotaggio;
-tipo di sensori.
Motori passo-passo
I motori passo-passo, detti anche step-motor, sono alimentati da segnali impulsivi (fig.
L.61): a ogni impulso il motore ruota di un angolo fisso, detto passo.
Il fatto che questi motori permettano posizionamenti veloci e precisi ne ha determinato
un’ampia diffusione:
-nella robotica;
-nelle stampanti e macchine per scrivere (posizionamento del carrello o della cartuccia, avan-
Il motore è costituito da due avvolgimenti statorici, che fanno capo ai terminali AB e CD,
e da un rotore a magneti permanenti con due poli.
Applicando ai terminali AB e CD gli impulsi rappresentati nella figura L.62 e
supponendo che inizialmente il motore si trovi nella posizione (a) indicata nella figura L.63,
il primo
impulso fornito ai terminali AB determinerà un campo magnetico con il polo Sud sul
giogo connesso al terminale A, costringendo il rotore a compiere una rotazione in senso
antiorario, fino a fargli assume la posizione (b). Il secondo impulso, relativo ai terminali CD,
farà ruotare
il rotore fino a raggiungere la posizione (c) e così via.
Occorrono quattro impulsi per ottenere una rotazione completa del motore (un giro) e
ogni fase è percorsa da una corrente bipolare (cioè da impulsi alternativamente positivi e
negativi).
Figura L.63 Posizioni assunte dal rotore a causa degli impulsi di pilotaggio della figura
L.62.
Tipo di alimentazione
1.
-Tipo di sistema: in c.c. (corrente continua) o in c.a. (corrente alternata); numero di fasi;
frequenza.
-Tensione e frequenza di esercizio.
MACCHINE L-69
ELETTRICHE
-
8 IMPIANTI ELETTRICI
Centrali di produzione
1.
L-71
Nella tabella L.9 si riporta un raffronto della produzione di energia elettrica in ragione
dei sistemi produttivi.
Tabella L.9Sistemi di produzione
Raffronto Produzione
della produzione dell’energia elettrica dei2]sistemi
[kW/m
in ragione
produttivi
Termoelettrica nucleare 650
Idroelettrica 108
LeEolica
macchine sincrone presentano un’importante applicazione
0,13 con vento 6 negli impianti
m/s, 1,04 idroelettrici
con vento 20 m/s
di pompaggio: durante il giorno, quando la richiesta di energia elettrica è maggiore, queste
macchine lavorano come normali alternatori di centrali idroelettriche,
Solare da 0,12nelle
a 0,26quali il flusso di
acqua, travasato da un bacino superiore a uno inferiore, aziona le turbine; di notte, quando il
consumo è minore e la produzione di energia è esuberante (perché le centrali termoelettriche
non possono essere spente), vengono utilizzate come motori per azionare le pompe che prele-
vano l’acqua dal bacino inferiore trasferendola nuovamente a quello superiore.
La necessità di ridurre l’impatto ambientale (dovuto alle centrali di produzione di energia
elettrica) e lo sviluppo di migliori e più avanzate tecnologie, conducono alla realizzazione di
nuovi impianti di tipo policombustibile.
Questi impianti sono progettati per impiegare indifferentemente sia il carbone, sia l’olio
combustibile o il gas, in piena compatibilità ambientale.
L’adozione di tali impianti consente anche di perseguire l’obiettivo strategico di non
vinco- larsi a un solo tipo di combustibile, cosa che potrebbe rivelarsi non conveniente nel
futuro.
L’insieme delle misure da adottare per i nuovi impianti policombustibili sono le
seguenti:
-utilizzare sistemi di combustione di tipo avanzato a bassa emissione di ossidi di azoto, adot-
dell’anidride solforosa (SO2) con il nuovo sistema calcare/gesso, che offre più ampie
garan- zie;
-prevedere la possibilità di inserimento di sistemi di denitrificazione dei fiumi, peraltro oggi
non ancora industrialmente maturi; adottare sistemi con precipitatori elettrostatici, che
hanno capacità di abbattimento superiori al 99,7%; i sistemi di abbattimento e
contenimento delle polveri utilizzati negli impianti a combustibili liquidi e solidi
costituiscono una buona solu- zione per le nuove centrali policombustibile;
-utilizzare sistemi di movimentazione del carbone per garantire sicurezza ed elasticità di
Queste nuove linee vengono poi dirottate alle cabine di trasformazione che servono zone
industriali o artigianali, oppure nei centri abitati mediante cavi sotterranei per motivi di sicu-
rezza, con tensioni di 380/220 V (bassa tensione) per usi civili.
8.3 Sicurezza elettrica
Quadro normativo
La rete di distribuzione dell’energia elettrica ha una diffusione capillare. La presenza di
un impianto di distribuzione dell’energia elettrica implica però problemi di sicurezza, in
quanto la non corretta esecuzione dell’impianto può provocare incidenti anche mortali.
Il quadro tecnico-legislativo, rivolto a disciplinare il settore impiantistico a tutela della
sicurezza degli utenti, in Italia risulta particolarmente funzionale.
Esso è basato sulle tre leggi elencate di seguito.
1. Legge 1.3.1968, n. 186: disposizioni concernenti la produzione di materiali, apparecchia-
ture, installazioni e impianti elettronici ed elettrici. L’art. 1 dispone che: “Tutti i materiali,
le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettronici ed elettrici
devono essere realizzati e costruiti a regola d’arte”. L’art. 2 dispone invece che: “I mate-
riali, le apparecchiature, i macchinari, le installazioni e gli impianti elettronici ed elettrici
realizzati secondo le norme del Comitato Elettrotecnico Italiano si intendono costruiti a
regola d’arte”.
IMPIANTI ELETTRICI
L-73
2.Legge 18.10.1977, n. 791: attuazione della Direttiva del Consiglio della CEE, riguardante le
garanzie di sicurezza che deve possedere il materiale elettrico destinato a essere utilizzato
entro determinati limiti di tensione. Tale legge corrisponde alla direttiva CEE 72/73 del
19.2.1973, detta direttiva sulla bassa tensione.
3.Legge 5.3.1990, n. 46: norme per la sicurezza degli impianti, con particolare riferimento alle
modalità di collaudo. Essa si riferisce agli impianti elettrici, ma anche agli impianti
elettronici, termotecnici, idraulici, per gas, per sollevamento e antincendio in edifici per usi
civili.
Elemento qualificante della legge è il fatto che stabilisca che l’installazione degli impianti
debba essere affidata esclusivamente a imprese autorizzate e iscritte alla Camera di Com-
mercio. A impianto ultimato l’impresa installatrice deve rilasciare al committente la di-
chiarazione di conformità dell’impianto alle norme CEI. Fa parte integrante di tale
dichiara- zione la relazione contenente la tipologia dei materiali impiegati. Senza la
dichiarazione di conformità e, ove previsto, del certificato di collaudo, il sindaco non può
rilasciare il certifi- cato di abitabilità.
Il committente, pertanto, è obbligato a rivolgersi esclusivamente a un’impresa abilitata, in
grado di eseguire l’impianto a regola d’arte, dotato di tutte le opere necessarie per la sicu-
rezza degli utenti. Il mancato rispetto delle norme è sanzionato dall’articolo 16 della stessa
legge e non consente il rilasco del certificato di abitabilità.
Il rinvio alle norme è il criterio ispiratore delle leggi citate. Tale procedura permette di
non richiamare nella legge una particolare prescrizione tecnica, ma di rimandare a una norma
ema- nata da un ente tecnico normatore.
Il vantaggio è evidente: non è necessario adeguare la legge a ogni progresso tecnologico,
ma è sufficiente cambiare la norma (con un iter molto più agevole e rapido).
Effetti della corrente elettrica sul corpo umano
L’effetto della corrente elettrica sul corpo umano dipende dal valore dell’intensità di cor-
rente, dal tempo di esposizione, dal percorso seguito all’interno del corpo, oltre che dalla fre-
quenza della corrente applicata. In particolare risulta pericolosa la frequenza di 50 Hz, tipica
della rete di distribuzione, perché può provocare la fibrillazione ventricolare.
Il valore dell’intensità di corrente si può calcolare ricorrendo al generatore equivalente di
tensione (Thevenin) visto dai due punti di contatto della persona con il sistema (fig. L.65):
Iu ETH =
ZTH +
Zu
L’impedenza Zu dipende dal percorso attraverso il corpo e dalle impedenze di contatto,
che possono essere influenzate dal grado di umidità, dalla pressione di contatto e dalla
temperatura della pelle.
Il valore di corrente pericolosa si ricava dalla curva di pericolosità della corrente. Per
averne un’idea, si può ricordare che in c.a. una corrente di valore efficace Iu = 50 mA non
può essere sopportata senza pericolo per più di 1 secondo.
-effetti patofisiologici reversibili, che aumentano con 1’intensità della corrente e con il tempo,
Facendo ipotesi esemplificative sulla resistenza del corpo umano e sulle impedenze di
con- tatto, si può ricavare la curva di sicurezza (fig. L.67), così sintetizzabile: una tensione
inferiore a VL, denominata tensione di contatto limite, può essere sopportata per un tempo
illimitato, una tensione di valore più alto può essere sopportata per un tempo che è tanto più
breve quanto più elevato è il suo valore. Si può osservare che in alternata una tensione di 50
V (25 V in partico- lari condizioni) indicata con VL (tensione limite) non può essere tollerata
per più di 5 secondi.
L-75
L’isolamento delle parti attive, necessario per assicurare la protezione contro la folgora-
zione, è detto isolamento principale e va realizzato con materiale isolante, scelto in relazione
al valore di tensione di lavoro e deve essere in grado di resistere a sollecitazioni meccaniche,
chimiche, elettriche e termiche, a cui il sistema può essere sottoposto durante l’esercizio.
Talvolta, per garantire la sicurezza elettrica anche in caso di cedimento dell’isolamento
principale, viene aggiunto un secondo isolamento, detto isolamento supplementare, che impe-
disce il contatto delle parti attive con le masse. In questo caso si parla di doppio
isolamento.
In alcuni ambienti di lavoro bisogna assicurare che gli elementi attivi siano protetti e non
vengano raggiunti da corpi estranei solidi, polveri e acqua.
Le norme IEC definiscono il grado di protezione di involucri e barriere, mediante una
sigla costituita dalle lettere IP (Internal Protection) seguite da due cifre indicative del grado
Cifra Descrizione prima cifra Descrizione seconda cifra
di pro- tezione, riassunto nella tabella L.10.
0 Non protetto Non protetto
Tabella L.10 Grado di protezione di involucri e barriere
1 Protetto contro corpi solidi Protetto contro caduta verticale di
estranei di diametro maggiore di gocce d’acqua
50 mm
2 Protetto contro corpi solidi Protetto contro caduta di gocce
estranei di diametro maggiore di d’acqua con inclinazione massima di
12,5 mm 15°
La protezione dal contatto indiretto può essere di tipo attivo o passivo: la prima prevede
la rapida interruzione del circuito in caso di guasto; la seconda è rivolta a limitare la tensione
che può essere applicata al corpo umano in caso di guasto.
La protezione attiva contro i contatti indiretti consiste nel collegamento a terra di tutte le
masse tramite un conduttore di protezione. Nel caso di guasto si genera una corrente
verso terra che, rilevata da un apposito dispositivo di protezione, causa un’interruzione del
circuito.
Le norme CEI prevedono l’utilizzo di un conduttore di protezione, distinto dal conduttore
di neutro dell’impianto, che connetta le masse dell’impianto all’impianto di terra.
Inoltre l’interruzione del circuito deve essere realizzata in un tempo massimo di 5
secondi,
se la tensione di contatto è pari a 50 V, in modo da rimanere nelle prescrizioni della curva
di sicurezza.
L’impiego dei dispositivi di massima corrente, quali fusibili e interruttori
magnetotermici,
per interrompere il circuito è praticamente impossibile, poiché si dovrebbe realizzare un
impianto di terra di resistenza quasi nulla, in modo da trasformare il guasto verso terra in un
corto circuito.
Nelle applicazioni pratiche è più conveniente ricorrere, come nel caso di contatti diretti,
agli interruttori differenziali, che garantiscono l’intervento anche con valori di resistenza di
terra realizzabili con minori costi.
La protezione passiva contro i contatti indiretti si può realizzare con:
-uso di apparecchi con doppio isolamento o isolamento rinforzato, tale da rendere pratica-
mente impossibile il contatto delle parti attive con la massa per deterioramento dell’isolante;
-uso di una tensione ridotta di sicurezza (per esempio, tensione ridotta E = 24 V);
L-77
9 SEMICONDUTTORI E GIUNZIONI PN
Materiali semiconduttori
1.
Nella figura L.69a sono rappresentati i nuclei di silicio e gli elettroni di valenza; poiché
le coppie lacuna-elettrone libero, che si formano a temperatura ambiente a causa
dell’agitazione termica sono molto poche, la resistività del semiconduttore puro (detto anche
intrinseco) è abbastanza elevata.
Le caratteristiche dei materiali semiconduttori vengono sfruttate e controllate inserendo
nella struttura cristallina di Si e Ge atomi trivalenti o pentavalenti. Questo consente di aumen-
tare sensibilmente la loro conduttività e di avere correnti apprezzabili anche con
l’applicazione di campi elettrici piuttosto deboli.
10 DIODI A SEMICONDUTTORE
I diodi
1.
L-81
Essa è l’equazione di una retta nel piano i,v con pendenza –1/RL, retta che prende il
nome di retta di carico (fig. L.73b).
La relazione tra i e v è descritta dalla caratteristica del diodo; l’intersezione fra la retta
di
carico e la caratteristica individua il punto di funzionamento o di lavoro statico Q 1, cioè il
punto che fornisce i valori di i e v per quel particolare diodo, in quel circuito, con quel valore
di RL e con una data tensione vi = V1.
Figura L.74 Modello semplificato del diodo: rappresentazione grafica e circuiti equivalenti
in polarizzazione diretta e inversa.
Data una rete con diodi, per determinare il punto di funzionamento di ciascun diodo, e
conseguentemente correnti e tensioni sugli altri elementi della rete, è consigliabile la seguente
procedura:
-si valuta, avendo come riferimento i valori dei componenti, se la tensione ai capi del diodo è
-si effettuano i calcoli necessari a determinare tensioni e correnti su ogni elemento della rete.
(fig. L.76), si vede che il condensatore si carica attraverso il diodo, fino al valore di picco
della tensione di uscita, ma può scaricarsi solo sul carico RL, dato che nel diodo la corrente
può cir- colare in un solo senso.
La scarica avviene quindi con un andamento esponenziale e costante di tempo = RL ·
C. Il
diodo torna in conduzione, interrompendo la scarica del condensatore, solo quando la
tensione sul secondario del trasformatore supera la tensione di uscita del valore di soglia
V .
La tensione applicata al carico risulta, quindi, la somma di una componente continua e di
un’ondulazione residua, detta ripple, tanto più piccola quanto maggiore è la costante di
tempo
= RL · C.
Si noti che il diodo risulta in conduzione solo in una piccola porzione della semionda,
durante la quale è percorso da un impulso di corrente che ripristina la carica ceduta dal con-
densatore al carico e che può raggiungere un valore di picco notevole.
L-85
-breakdown con effetto valanga, quando, in diodi con drogaggi relativamente bassi, la ten-
sione esterna applicata accelera i portatori provocando collisioni con gli atomi circostanti e
una conseguente moltiplicazione a valanga di portatori liberi; la VZ è maggiore di 6 V e al
crescere della temperatura aumenta il numero delle collisioni con il reticolo cristallino,
facendo diminuire la probabilità che le cariche libere acquistino energia a sufficienza per
innescare il processo a valanga; la tensione di Zener aumenta con la temperatura.
11 TRANSISTOR
Il BJT (Bipolar Junction Transistor)
1.
L-87
Nel simbolo elettrico la freccia individua il terminale di emettitore e il suo verso è con-
corde con il verso della corrente di emettitore, caratterizzando il BJT npn quando è uscente, e
il BJT pnp se entrante.
Per il transistor sono possibili due diverse applicazioni: come amplificatore di segnale,
quando lavora in linearità, oppure come interruttore elettronico, in funzionamento on/off.
Il funzionamento in linearità si ha quando la giunzione JE è polarizzata direttamente e la
giunzione JC inversamente. In questo caso, se il comportamento del transistor fosse simile a
quello di due diodi affacciati, si dovrebbe avere solamente una corrente che interessa
emetti- tore e base, mentre la giunzione tra base e collettore dovrebbe essere interdetta. In
realtà, la
situazione è molto più complessa, a causa delle particolarità della zona di base e
dell’intera- zione tra le due giunzioni.
Facendo riferimento per la spiegazione al BJT pnp, rappresentato nella figura L.80, si
può
notare che, a causa della polarizzazione diretta della giunzione JE, si ha una corrente di
porta- tori di carica maggioritari che scorre dall’emettitore verso la base, costituita
principalmente dalle lacune che si spostano da E a B e in misura molto minore dagli elettroni
liberi che dalla base vanno verso l’emettitore.
La notevole dissimmetria fra i due contributi è dovuta al fatto che la base è poco drogata
e quindi presenta una bassa concentrazione di elettroni liberi, mentre l’emettitore presenta un
drogaggio elevato. Giunte nella base, le lacune hanno poche probabilità di ricombinarsi
con gli elettroni liberi presenti in numero relativamente scarso e, vista la sottigliezza della
regione, esse giungono nelle vicinanze di JC che attraversano sotto l’effetto del campo
elettrico causato
dalla batteria VCB.
A titolo indicativo si può pensare che solo una lacuna su cento si ricombini nella base,
dando luogo alla componente principale della corrente di base IB, mentre le lacune che
prose- guono il loro cammino attraverso JC, danno origine alla componente principale della
corrente di collettore IC.
La componente principale di IC risulta quindi essere costituita da una frazione legger-
mente inferiore a 1 (per esempio 0,99) della corrente di emettitore IE. Il coefficiente tiene
conto del fatto che alla corrente di emettitore contribuiscono anche gli elettroni liberi, che si
spostano dalla base all’emettitore e le lacune che si sono ricombinate alla base.
Questi due contributi risultano però molto più piccoli rispetto a quello delle lacune che
dall’emettitore transitano nella base per andare nella regione di collettore.
L’altra componente di IC, molto minore come intensità, è costituita dalla corrente
inversa
di saturazione ICB0 dovuta ai portatori minoritari presenti nella base e nel collettore, che
ven- gono messi in movimento dalla polarizzazione inversa della giunzione JC.
L-89
Si osserva che a una data IB corrisponde una IC molto maggiore e si può quindi pensare
di assumere IB come corrente di ingresso e IC come corrente di uscita, collegando il BJT
come nella figura L.81, ossia nella configurazione che riveste maggiore interesse applicativo.
La configurazione è detta a emettitore comune (CE, Common Emitter), in quanto l’emetti-
tore risulta collegato sia alla maglia di ingresso, sia a quella di uscita.
11.2 Caratteristiche di ingresso e di uscita del BJT
Risultano importanti le curve che rappresentano le relazioni fra i parametri della maglia
di ingresso I B, VBE e quelli della maglia di uscita I C, VCE che sono chiamate,
rispettivamente caratteristiche di ingresso e caratteristiche di uscita del BJT in
configurazione a emettitore comune. Nella figura L.82a sono riportate le caratteristiche di
ingresso che, rappresentando il legame tra la corrente (IB) e la tensione (VBE) di una
giunzione in polarizzazione diretta, sono influenzate minimamente dal valore della tensione
di uscita VCE, e sono quindi curve simili a quella di un diodo; la tensione VBE di lavoro
può variare fra 0,6 V e 0,8 V, a seconda di IB, e si assume convenzionalmente un valore di
0,7 V per effettuare un’analisi approssimata della maglia di base. Si deve evitare una
polarizzazione inversa troppo elevata di JE, che porterebbe alla rottura irreversibile
(breakdown) della giunzione. La tensione di breakdown non supera normalmente i 7 V.
L-91
funzionamento è legato a due particolari stati del BJT: quello di saturazione (on) e quello di
interdizione (off). Notevole importanza assume, inoltre, il tempo impiegato dal dispositivo
per il passaggio da uno stato all’altro.
Saturazione
Esaminando le caratteristiche di uscita del BJT, è già stato rilevato che, per bassi valori di
VCE, le curve per IB costante tendono a confondersi. In questa regione del piano IC , VBE
(zona di saturazione), la corrente IB perde il controllo di IC , il cui valore dipende
essenzialmente da VCE. Ciò significa che non è più valida la relazione di proporzionalità IC
= hFE IB, ma si può piuttosto scrivere che IC < hFE IB.
Questa situazione si verifica quando entrambe le giunzioni JE e JC si trovano polarizzate
direttamente e si ha quindi: VCE < VBE.
Per un transistor al silicio di piccola potenza (di segnale), il valore tipico della tensione di
saturazione VCEsat può essere 0,1 ÷ 0,2 V e VBEsat = 0,7 ÷ 0,8 V.
Interdizione
IB = IC =
IC = se IE = 0. Imponendo
Un transistor si dice interdetto
ICB0
questa condizione, nelle equazioni
Considerato il basso
si ricava immediatamente: ICB0 valore di I CB0 , la zona di interdizione, nel piano delle
caratteristiche di uscita, coincide praticamente con l’asse VCE. L’interdizione si verifica se
entrambe le giun- zioni sono polarizzate inversamente.
Da V;
0 uninfatti
puntoperdiVBE
vista= applicativo,
0 si ha: IB = un transistor
0, quindi: IC =npn al .silicio
ICB0 Bisognapuò
fareconsiderarsi
attenzione
V BEinterdetto se
valore di
cheVBE
il non diventi troppo negativo (non deve scendere sotto 5 V), per evitare che si
abbia il breakdown della giunzione.
Tempi di commutazione
Appare ora chiaro come il BJT possa essere considerato un interruttore controllato dalla
corrente di base. Infatti, visto dai terminali C-E, risulta con buona approssimazione un corto
circuito (VCE circa 0) nello stato on (saturazione) e un circuito aperto (IC circa 0) nello stato
off (interdizione).
In questi due stati la potenza dissipata dal dispositivo è pertanto piccola e di molto infe-
riore a quella che, come interruttore, è in grado di controllare. Le commutazioni fra i due
stati non avvengono istantaneamente, ma impiegano un certo tempo per concludersi: si
distingue fra tempo di commutazione diretta (t on), composto da un tempo di ritardo e da un
tempo di salita, e tempo di commutazione inversa (toff), composto da un tempo di
immagazzinamento e da un tempo di discesa (fig. L.83).
Il tempo di ritardo (delay time, td) è il tempo necessario al transistor per passare dalla
pola-
rizzazione inversa a quella diretta della giunzione VBE, e viene misurato come
l’intervallo tra l’istante di commutazione all’ingresso e il momento in cui IC raggiunge il
VCC/
10% del suo valore finale: ICsat = (VCC –
Il tempo di salita (rise time, tr) è il tempo che impiega
RCIC a passare dal 10% al 90% del
VCEsat)/RCall’attraversamento della zona lineare per arrivare in
suo valore finale ICsat, corrispondente
satura- zione.
Il tempo di immagazzinamento (storage time, ts) è definito come il tempo necessario per
spazzare dalla zona di base l’eccesso di portatori di carica minoritari che si era
immagazzinato in saturazione; questa operazione termina con il rientro in zona lineare
quando; convenzional- mente si ha IC = 0,9 ICsat.
Il tempo di discesa (fall time, tf) è definito come il tempo che impiega la corrente IC a
scen- dere da 0,9 ICsat a 0,1 ICsat.
L-92 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA
L-95
Applicando il principio della sovrapposizione degli effetti (cosa possibile perché si sta
considerando il funzionamento del BJT nella zona attiva dove risulta un componente presso-
ché lineare) è possibile sommare gli effetti del segnale sinusoidale a quelli della batteria in
continua VCC. La variazione sinusoidale introdotta nella maglia di base si ripercuote in
un’ana- loga variazione del punto di funzionamento sulla caratteristica di ingresso (fig.
L.88a) fra Q1 e Q2, attorno alla sua posizione di riposo Q.
L’equazione alla maglia di uscita del circuito della figura L.87 è:
VCC = VCE + RC · IC
corrispondente all’equazione di una retta, detta retta di carico statica, di pendenza
–1/RC. In realtà per le variazioni sulle caratteristiche di uscita (fig. L.88b) bisogna tenere
conto anche del carico RL che per il circuito del segnale risulta in parallelo a RC, cambiando
la pendenza della retta al valore:
– 1
RC//RL
che è la pendenza della retta di carico dinamica. Al variare di ib, il punto di lavoro si
sposta su questa retta fra le posizioni estreme Q1 e Q2. Se in questa zona le caratteristiche
sono sufficien- temente parallele ed equidistanti per uguali variazioni di ib, il funzionamento
potrà conside- rarsi lineare e ic e vce avranno andamento sinusoidale.
L-97
corrente risulta quindi dell’ordine di grandezza del centinaio di milliampere. Analoghe consi-
derazioni possono essere fatte per quanto riguarda l’amplificazione di tensione Av =
vce/vbe, che risulta però negativa (a causa dello sfasamento di 180°).
11.5 Transistor a effetto di campo (FET)
I FET (Field Effect Transistor) sono dispositivi a semiconduttori a tre terminali (drain,
source e gate), detti anche transistor unipolari, in quanto la conduzione avviene in un semi-
conduttore drogato di un solo tipo, senza attraversare giunzioni, ed è quindi dovuta principal-
mente ai portatori di carica maggioritari.
Il principio di funzionamento dei FET si basa sulla possibilità di controllare la
corrente IDS
che scorre tra drain e source mediante un campo elettrico generato dalla tensione VGS,
appli- cata fra gate e source. I FET si dividono in JFET (Junction Field Effect Transistor) e
MOSFET (Metal Oxide Semiconductor FET)
JFET
I JFET possono essere “a canale n” o “a canale p” (fig. L.89). Il funzionamento nei due
tipi è analogo, anche se cambia il tipo di portatori maggioritari che causano la conduzione
nel canale (elettroni liberi e lacune, rispettivamente) e quindi anche il verso delle correnti e
delle tensioni in gioco.
La seguente spiegazione del funzionamento è riferita a un JFET a canale n, ma è applica-
bile anche al caso di canale p, avendo l’accortezza di invertire i versi di tutte le tensioni e cor-
renti e di sostituire il termine lacune a quello di elettroni liberi.
Il JFET è costituito da un substrato di semiconduttore drogato di tipo n, detto canale, ai
cui estremi sono realizzati i terminali di source e drain. Sulla faccia superiore e inferiore del
semi- conduttore sono ricavate due zone fortemente drogate di tipo p, entrambe collegate al
termi-
nale di gate.
Per un funzionamento corretto del dispositivo le giunzioni gate-canale non devono mai
essere polarizzate direttamente.
Figura L.89 JFET a canale n: a) modello ideale; b) simbolo elettrico; c) simbolo elettrico del
JFET a canale p.
Quando vengono polarizzate inversamente, attorno a entrambe le giunzioni si crea una
zona di svuotamento (in cui non sono più disponibili portatori di carica maggioritari), la cui
dimensione dipende dalla tensione VGS che deve essere negativa per fornire la
polarizzazione inversa.
L’allargamento di queste zone di svuotamento provoca un restringimento del canale, con
un conseguente aumento della resistenza complessiva fra drain e source.
In questo caso il dispositivo lavora in zona ohmica, ossia può essere considerato come un
resistore variabile controllato in tensione (VCR, Voltage Controlled Resistor), dato che il
valore resistivo visto fra drain e source cambia al variare della tensione di gate VGS.
L-98 ELETTROTECNICA ED
ELETTRONICA
L-99
Presentando un’elevata resistenza di ingresso (dato che la corrente assorbita dal gate è
pic- colissima) e un basso livello di rumore (perché la conduzione avviene in un canale di un
unico tipo di drogaggio, senza l’attraversamento di giunzioni), i JFET sono particolarmente
adatti a realizzare gli stadi di ingresso di apparati audio e a radiofrequenza, o di circuiti
integrati analo- gici come gli amplificatori operazionali.
MOSFET
L’acronimo MOS deriva dalla particolare struttura costruttiva che presenta il dispositivo
nella zona del gate: la metallizzazione del terminale di gate è realizzata su uno strato di bios-
sido di silicio, che ha la proprietà di essere un ottimo isolante, sotto al quale vi è il
semicondut- tore che costituisce il canale (Metal Oxide Semiconductor). I MOS si
suddividono in due tipi: MOS ad arricchimento (enhancement) e MOS a svuotamento
(depletion); entrambi i tipi pos- sono essere a canale n o a canale p. La figura L.92 riporta la
struttura e i simboli elettrici dei vari tipi. Si noti che il substrato è in genere collegato al
terminale di source.
Per spiegare il funzionamento del MOS enhancement bisogna tener conto del fatto che fra
source e drain, quando al gate non è applicata una tensione, non c’è conduzione (IDS = 0) in
quanto sono interposte tra i terminali due giunzioni p-n. In questo caso il dispositivo è
equiva- lente a due diodi connessi back to back, e quindi applicando una VDS, sia essa
positiva o nega- tiva, una delle due giunzioni risulta polarizzata inversamente (zona di
interdizione).
Applicando una tensione VGS positiva fra gate e source, il dispositivo si comporta come
un
condensatore, le cui due armature sono costituite dalla metallizzazione di gate e dal
substrato, mentre l’ossido di silicio realizza il dielettrico. Sotto l’effetto della differenza di
potenziale applicata alle armature, vengono attratte cariche positive nel metallo collegato al
gate, mentre nella zona di semiconduttore sottostante alla metallizzazione di gate si
accumulano delle cari- che negative (elettroni liberi).
Per valori di VGS maggiori di una certa soglia Vth (th sta per threeshold, “soglia”), la
con- centrazione di elettroni liberi in quest’ultima zona è tale da realizzare un’inversione di
drogag- gio: nel substrato debolmente drogato di tipo p si forma un canale di tipo n che
collega il pozzo (la diffusione n+) di source con quello di drain, permettendo la conduzione
di una corrente IDS. Per bassi valori di VDS il canale si comporta in modo resistivo e il
relativo valore di resi- stenza dipende dalla concentrazione di elettroni liberi attratti nella
zona sottostante il gate, e
quindi dalla VGS applicata (zona ohmica).
Quando il valore di VDS diventa dello stesso ordine di grandezza della VGS il canale si
deforma, a causa dell’interazione fra i due campi elettrici, allargandosi verso il source e
restringendosi fino a strozzarsi in prossimità del drain.
In questo caso la corrente IDS aumenta con VDS in modo molto meno sensibile (zona di
saturazione).
Nella figura L.93 sono rappresentate le caratteristiche di uscita di un MOS ad arricchi-
mento a canale n, che evidenziano il comportamento del dispositivo nelle tre zone di
funziona- mento.
Nei MOS depletion invece il canale è già precostituito, ossia viene realizzato in fase di
pro- duzione del componente, tramite una sottile diffusione (o un’impiantazione ionica) di
droganti di tipo n nella zona del substrato sottostante il gate.
In questo caso, applicando una tensione positiva V GS tra gate e source, si ottiene un
aumento di elettroni liberi nel canale n, con conseguente diminuzione della resistività del
canale (quindi la corrente IDS aumenta).
Con una tensione VGS negativa si ha invece uno svuotamento di portatori di carica
maggio- ritari nel canale e, quindi, una diminuzione della conducibilità e della corrente che
scorre nel canale, fino ad arrivare all’interdizione del componente.
I MOS a svuotamento presentano il vantaggio di lavorare con tensioni di ingresso sia
posi- tive, sia negative.
L-101
12 DISPOSITIVI DI POTENZA
BJT di potenza
1.
I transistor di potenza (BJT o anche MOS) sono utilizzati in tutti i sistemi analogici di
amplificazione di potenza. Inoltre essi sono usati in commutazione al posto dei tiristori, per
esempio, per il comando di motori, per controllare potenze massime fino a 100 kW.
Nelle applicazioni di potenza, i limiti dei BJT sono determinati dai seguenti
parametri:
-corrente massima di collettore I Cmax: è determinata dall’uniformità di distribuzione della
corrente nel semiconduttore e dalla densità di corrente sopportabile da metallizzazioni di
contatto e dai reofori del componente;
-tensioni massime: possono essere applicate al componente prima che avvenga la rottura delle
giunzioni per effetto valanga (breakdown); i data sheet riportano le tensioni di rottura appli-
cate fra due terminali con il terzo aperto (BVEB0, BVCB0, BVCE0, dove la lettera B
indica appunto breakdown);
-massima potenza dissipabile P Dmax: dipende principalmente dalla capacità del contenitore
di smaltire il calore prodotto nell’area di collettore; per questo motivo i BJT di potenza
sono realizzati con geometrie che estendono al massimo la zona di collettore e la superficie
di
contatto con la parte metallica del contenitore;
-SOA (Safe Operating Area): è l’area nel diagramma I C,VCE delimitata dalla retta
orizzontale definita da I Cmax, dalla retta verticale di BVCE0 e dall’iperbole di PDmax,
all’interno della quale è garantito il corretto funzionamento del transistor (fig. L.94). Si noti
che viene esclusa dalla SOA anche una zona tratteggiata, dove può verificarsi un fenomeno
detto secondary breakdown, dovuto al concentrarsi del passaggio di corrente in punti
localizzati del cristallo (punti caldi), con conseguente surriscaldamento che porta a un
breakdown di tipo termico. Il breakdown secondario si manifesta in modo particolare con
carichi induttivi durante la com- mutazione on/off; per proteggere il BJT possono essere
adottati circuiti smorzatori RC o un diodo di ricircolo in parallelo al carico induttivo;
-tempi di commutazione diretto e inverso: hanno lo stesso significato di quelli già visti per i
BJT di piccolo segnale ed è importante che siano i più brevi possibile nelle applicazioni di
potenza: infatti solo durante le commutazioni il BJT è soggetto contemporaneamente a ten-
sioni e correnti elevate, con potenze dissipate notevoli.
Figura L.94 Safe Operating Area (SOA) nel diagramma I C, VCE: a) con assi lineari;
b) con assi logaritmici.
Dal punto di vista strutturale, i BJT di potenza devono avere la base piuttosto spessa per
sopportare tensioni elevate; le giunzioni devono essere di dimensioni notevoli per ridurre la
densità di corrente distribuendo la corrente su una superficie di giunzione maggiore; il sub-
strato del BJT, su cui è poi realizzata la zona di collettore, deve essere fortemente drogato per
ridurre la resistività di questa zona e quindi la relativa dissipazione di potenza. In
conseguenza della prima caratteristica, il guadagno di corrente hFE risulta piuttosto basso.
L-102 ELETTROTECNICA ED ELETTRONICA
estesa (invece di essere dislocate dallo stesso lato del chip, quella di drain è sulla faccia infe-
riore), con conseguente diminuzione della densità di corrente;
-
bassa resistenza di conduzione RDS, perché il rapporto fra lunghezza e spessore del canale
può essere molto elevato.
I MOS di potenza sono commercializzati con diversi nomi, a seconda della casa costrut-
trice: VMOS (Siliconix), SIPMOS (Siemens), TMOS (Motorola), HEXFET (International
Rectifier), POWERMOS (Philips).
DISPOSITIVI DI POTENZA
L-103
3. IGBT
I transistor bipolari a gate isolato o IGBT (Insulated Gate Bipolar Transistor) sono
dispo- sitivi di potenza che abbinano il vantaggio dell’alta impedenza d’ingresso dei MOS
con quello della bassa tensione di saturazione tipica del BJT. Il dispositivo è costituito da un
MOS di ingresso che pilota un BJT di potenza, integrati sullo stesso chip. Il MOS è
interessato solo dalla corrente di base del BJT e quindi da basse potenze, con un risparmio di
area sul chip, per- tanto un minore costo del componente.
Gli IGBT sono utilizzati sia in funzionamento lineare, per esempio negli amplificatori
finali audio, sia in commutazione per i controlli industriali di potenza.
4. Tiristori
I tiristori costituiscono una famiglia di dispositivi che lavorano in commutazione per il
controllo di potenze anche molto elevate; sono caratterizzati da una struttura a
semiconduttore, che presenta più di tre giunzioni. La famiglia è composta da SCR, TRIAC,
GTO e sono, in genere, inclusi anche DIAC e UJT che, pur non essendo dispositivi di
potenza, sono utilizzati per l’innesco dei tiristori di potenza.
DIODI SCR
Gli SCR (Silicon Controlled Rectifiers) sono particolari diodi che presentano tre giunzioni
p-n e un ulteriore terminale di controllo, chiamato gate. In polarizzazione inversa si compor-
tano come normali diodi, ossia risultano equivalenti ai circuiti aperti; in polarizzazione diretta
il comportamento è diverso, in quanto la conduzione è controllata dal terminale di gate. Il
pas- saggio alla conduzione (innesco) può avvenire solo in due circostanze: portando la
tensione oltre il valore di rottura VBO (breakover voltage), che assume valori elevati, oppure
fornendo al gate un impulso di corrente IG. In quest’ultimo caso il dispositivo va in
conduzione per valori di tensione VAK tanto minori, quanto più elevato è il picco della
corrente IG. In conduzione la tensione si riduce bruscamente al valore di 1 ÷ 1,5 V e la
corrente corrispondente prende il nome di corrente di aggancio IL.
Una volta innescata, la conduzione si autosostiene anche se la corrente nel gate viene
annullata e, per interdire il componente bisogna riportarlo in polarizzazione inversa o ridurre
la
corrente anodica IA al di sotto del valore IH, detto corrente di mantenimento.
Il comportamento del dispositivo viene sintetizzato dalla caratteristica tensione-corrente
rappresentato nella figura L.96, dove è anche riportato il simbolo elettrico.
Il diodo SCR viene utilizzato soprattutto in alternata, per realizzare un controllo della
potenza trasferita al carico tramite una parzializzazione della forma d’onda. Infatti maggiore
è il ritardo degli impulsi di innesco, rispetto all’inizio della semionda positiva, minore risulta
l’angolo di conduzione e l’area sottesa alla forma d’onda, come si vede nella figura L.97;
conseguentemente la potenza trasferita al carico diminuisce.
L’utilizzo di SCR in continua è possibile inserendo opportuni circuiti di disinnesco in
grado di interrompere la corrente che circola nel diodo (o almeno portarla a un valore al
di sotto della corrente di mantenimento IH).
Figura L.97 Circuito di controllo di fase e relativa forma d’onda parzializzata con gli
impulsi di comando.
TRIAC
Sono dispositivi analoghi agli SCR, ma operano in modo bidirezionale, presentando mag-
giori giunzioni e struttura più complessa. In pratica il TRIAC (fig. L.98) può essere pensato
come una coppia di SCR collegati in antiparallelo e con il gate collegato assieme. La condu-
zione può essere innescata, tramite impulsi di gate, sia nella semionda positiva, sia nella
semionda negativa e si autosostiene fino a quando la tensione VMT non si annulla per
cambiare verso.
Gli impulsi di innesco possono presentare la stessa polarità rispetto alla tensione VMT fra
i due terminali principali; oppure polarità opposta, nel qual caso però sono necessari impulsi
di
ampiezza maggiore, a parità di VMT.
Sono utilizzati in alternata per circuiti di controllo di potenza di tipo switching.
L-105
GTO
Un inconveniente degli SCR è la difficoltà di utilizzo in continua perché richiedono
circuiti di disinnesco molto complessi.
Il GTO (Gate Turn-Off) è un tiristore di potenza unidirezionale, che può essere spento tra-
mite un comando di gate negativo. Un impulso di corrente entrante nel gate lo porta in
condu-
zione, mentre uno uscente lo interdice.
Bisogna dimensionare opportunamente il circuito di comando, perché gli impulsi negativi
necessari per lo spegnimento devono essere di valore elevato.
Come per gli SCR, la conduzione è possibile solamente quando l’anodo è a un potenziale
maggiore del catodo.
I GTO sono in genere utilizzati in continua, per il controllo di potenze anche molto
elevate
(correnti fino a 2000 A e tensioni fino a 2 kV).
UJT
L’UJT (UniJunction Transistor) è un dispositivo a semiconduttore a tre terminali, formato
da una barretta di silicio debolmente drogato di tipo n, alle cui estremità sono collegati i
termi- nali, chiamati basi B1 e B2. Sulla barretta, in prossimità di B2, viene effettuata una
giunzione con una zona di tipo p fortemente drogata, collegata al terzo terminale, detto
emettitore (fig. L.99b).
DIAC
Il DIAC è un tiristore bidirezionale di piccola potenza, privo di gate, ed è utilizzato
princi- palmente per l’innesco del TRIAC.
Il DIAC si comporta come un circuito aperto per entrambi i versi di tensione, finché la
dif- ferenza di potenziale fra i due terminali resta al di sotto della tensione di breakover VBO
(com-
presa tra 28 e 40 V). Superata questa soglia il DIAC passa bruscamente alla conduzione,
consentendo il passaggio di una corrente di qualche decina di milliampere, abbassando imme-
diatamente la tensione ai suoi capi di alcuni volt. Questo comportamento si manifesta sia per
tensioni e correnti entrambe positive, che entrambe negative (I e III quadrante della
caratteri- stica tensione-corrente).
Il DIAC viene utilizzato nel classico circuito di innesco del TRIAC (fig. L.100):
quando il
condensatore C, caricandosi attraverso R, raggiunge la tensione di breakover V BO, il
DIAC passa bruscamente in conduzione, scaricando il condensatore con un impulso di
corrente che provoca l’innesco del TRIAC. Esaurita la scarica del condensatore sul terminale
di gate del TRIAC, il DIAC torna a interdirsi fino alla semionda successiva (positiva o
negativa).
13 AMPLIFICATORI OPERAZIONALI
1. Caratteristiche degli amplificatori operazionali ideali e reali
Amplificatori operazionali ideali
Un amplificatore operazionale è fondamentalmente un amplificatore a più stadi, con
accoppiamento in continua (ossia in grado di amplificare anche grandezze continue), che pre-
senta nel caso ideale: amplificazione di tensione (AOL) infinita, resistenza di ingresso (Ri)
infi- nita, resistenza di uscita (R0) nulla, larghezza di banda (BW) infinita.
Nella figura L.101a è illustrato il simbolo circuitale in cui si evidenzia la presenza di due
ingressi, detti ingresso invertente (indicato con ) e ingresso non invertente (indicato con
+), e un terminale di uscita.
L’operazionale è in sostanza un amplificatore differenziale, ossia un dispositivo che
ampli-
fica la differenza dei due ingressi. La relazione fra la tensione di uscita e le tensioni
applicate agli ingressi è quindi espressa dalla seguente formula:
v0 = AOL (v1 – v2 )
dove AOL è il guadagno dell’amplificatore operazionale ad anello aperto (open loop
gain),
ovvero in assenza di qualsiasi collegamento esterno fra uscita e ingressi.
Nella figura L.101b è illustrato un modello circuitale che evidenzia la resistenza di
ingresso Ri, la resistenza di uscita R 0 e il generatore equivalente di uscita dell’amplificatore
operazionale.
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI
L-107
L’amplificatore operazionale deve essere alimentato: nella maggior parte dei casi si
richiede un’alimentazione duale, ossia costituita da due tensioni uguali in valore assoluto, ma
di polarità opposta; nella figura L.101a le due alimentazioni sono indicate con +VCC e –
VCC.
Sovente viene indicata con vd (tensione differenziale di ingresso) la differenza di poten-
ziale fra il morsetto non invertente (+) e il morsetto invertente (), come nella figura
L.101b. Si può quindi scrivere:
v0 = AOL · vd
I valori che si assegnano al modello ideale dell’amplificatore operazionale hanno una
implicazione importante per i circuiti in cui è utilizzato.
L-109
Altre applicazioni tipiche sono i sommatori invertenti e non invertenti. Nel primo caso
(fig. L.104c) si tratta di un circuito derivato dall’amplificatore non invertente, aggiungendo
tanti ingressi quanti sono i segnali da sommare. Le correnti I1, I2, …, In, provenienti dai
rami degli ingressi, si sommano al nodo A (massa virtuale), dando origine alla corrente che
scorre in Rf. La tensione di uscita risulta quindi:
V2
V0 = –Rf RV 1
1----- Rn + +
-----
-----... V n
e nel caso particolare di R1 = R2 = … = RnR=2 R si ha:
+
V0 = –Rf V 1 + V2 + ...V+ n
Nella figura L.105 sono riportati due circuiti derivati dall’amplificatore invertente, sosti-
tuendo una delle due resistenze di reazione con un condensatore. Il primo è un circuito
deriva- tore, infatti essendo il punto A virtualmente a massa, la corrente che scorre nel
condensatore (par. L2.16) è data da:
dvi
i=C
dt
e quindi la tensione di uscita risulta: ------
dvi
v0 = R–C dt
------
Il circuito della figura L.105b risulta invece un integratore, dato che la tensione ai capi di
un condensatore è proporzionale alla quantità di carica immagazzinata, pertanto si ha:
Q
1C = ---
v c = --- i dt
c
Poiché la tensione di uscita v0 = vc eCla corrente ic = vi/R, si
ottiene:
1 RC
v0 = -------–
dtv i
modificata dallo stato di uscita, e dato che l’uscita può assumere solo due valori, anche la
soglia può assumere due valori, in corrispondenza dei quali avviene la commutazione.
La tensione al morsetto non invertente può essere calcolata con il principio di sovrapposi-
zione degli effetti:
R1
v+ = v0 + Vr
R1R+2 R2 R1 +
R2
e in corrispondenza dei due valori dell’uscita, +Vsat e V sat, si ottengono le due possibili
soglie:
Vr VR2 Vr
V S1 sat –R= 1 sat =
VR2 R1 + ; V S2 R1 +
R2 +R 1
R2
Come si vede nella transcaratteristica rappresentata nella figura L.107b, quando l’uscita è
bassa può commutare al valore alto solo se la tensione di ingresso scende al di sotto di VS1,
quando l’uscita è alta può commutare al valore basso solo se la tensione di ingresso sale al di
sopra di VS2.
13.3 Parametri caratteristici degli amplificatori operazionali reali
Corrente di polarizzazione di ingresso
Lo stadio di ingresso di un amplificatore operazionale è un amplificatore differenziale a
BJT o a FET. In entrambi i casi si ha un assorbimento di corrente dovuto alle correnti di base
dei BJT polarizzati nella zona attiva o, nei casi dei JFET, alle correnti di perdita che scorrono
attraverso le giunzioni gate-canale polarizzate inversamente.
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI
L-113
Valori massimi comuni per IOS sono 200 nA e 10 pA, rispettivamente per dispositivi con
ingresso bipolare e a FET.
Si dimostra che l’errore nella tensione di uscita (talvolta indicato come tensione di offset
di uscita Voff), dovuto alla corrente IOS, è pari a Rf IOS. Per minimizzare gli effetti della
corrente di
offset, conviene assumere valori di Rf non troppo elevati (minori di 1 M ).
Tensione di offset di ingresso
Applicando all’ingresso di un amplificatore un segnale nullo, nonostante gli accorgimenti
adottati in considerazione delle correnti di polarizzazione, la tensione di uscita risulta diversa
da zero. Ciò è dovuto alle lievi, ma inevitabili, asimmetrie interne dell’amplificatore
operazio- nale. Si definisce tensione di offset VOS la tensione differenziale da fornire agli
ingressi tramite un generatore ideale, necessaria per portare l’uscita a zero. Molti
amplificatori operazionali in commercio presentano terminali per la regolazione dell’offset;
inoltre, i fogli tecnici consi- gliano i circuiti più adatti per minimizzare gli errori di offset.
Deriva termica
Le tecniche di compensazione utilizzate e la regolazione effettuata per il recupero degli
offset dipendono dalla temperatura. Ciò è dovuto alla sensibilità delle caratteristiche degli
ope- razionali alle variazioni termiche.
La deriva termica è normalmente specificata sui fogli tecnici mediante grafici. In pratica
non esistono tecniche di compensazione per la deriva termica: occorre scegliere componenti
che presentino deriva termica trascurabile o, eventualmente, mantenere costante la
temperatura
intorno all’integrato, disponendo opportunamente i componenti sul circuito stampato o
usando sistemi di raffreddamento.
Resistenza di ingresso
Il modello equivalente rappresentato nella figura L.101b evidenzia la presenza di una
resi- stenza Ri fra i due terminali di ingresso, per ciò chiamata resistenza di ingresso
differenziale e indicata talvolta con Rid. Un modello più completo richiederebbe anche la
resistenza di in- gresso di modo comune Ricm, definita come la resistenza fra i due ingressi
cortocircuitati e la massa.
In generate Ricm è trascurabile rispetto alle altre resistenze in gioco. Tuttavia, nella
confi- gurazione non invertente, Ricm fissa il limite superiore della resistenza di ingresso
dell’amplifi-
catore.
I valori tipici di Rid vanno da qualche centinaio di k a qualche M, fino a oltre 1012
per operazionali con ingresso a FET. I valori tipici di Ricm sono dell’ordine di diverse
centinaia di M, se l’ingresso è a BJT, superiori a 1012 se l’ingresso è a FET.
Nella maggior parte dei casi, i manuali specificano solo il valore di Rid; talvolta
riportano i valori delle impedenze di ingresso, rappresentate da condensatori dell’ordine dei
pF, posti in
parallelo alle rispettive resistenze.
CMRR
La relazione fra tensione di uscita e tensione applicata agli ingressi può essere riscritta
come:
v0 = Ad (v1 v2)
dove Ad rappresenta il guadagno differenziale ad anello aperto, ovvero il guadagno
rispetto alla differenza fra le tensioni di ingresso, vd = v1 v2 (fig. L.101b).
In un amplificatore reale però, la tensione di uscita dipende, in misura molto ridotta,
anche dal valore medio delle tensioni applicate agli ingressi, cioè dalla tensione di modo
comune:
vm = (v1 + v2)/2
Pertanto la tensione di uscita effettiva risulta espressa
come:
AMPLIFICATORI OPERAZIONALI
L-115
v0 = Ad vd + Acmvm
dove Acm è il guadagno di modo comune.
Il rapporto di reiezione del modo comune CMRR è definito come:
CMRR = 20 log10 | Ad /Acm | [dB]
e rappresenta una figura di merito dell’operazionale, esprimendo il rapporto fra la sensibilità
ai segnali differenziali e la sensibilità ai segnali di modo comune. Naturalmente un
operazionale ideale avrebbe CMRR = . Il CMRR ha valori tipici compresi fra 80 e 120 dB.
Risposta in frequenza
L’amplificatore operazionale ideale è contraddistinto da guadagno ad anello aperto
infinito e larghezza di banda infinita.
Un amplificatore operazionale reale presenta invece larghezza di banda e guadagno limi-
tati; inoltre, caratteristica fondamentale, il guadagno ad anello aperto diminuisce al crescere
della frequenza.
Nella figura L.109, che riporta la risposta in frequenza di un A741, si può osservare che
tale diminuzione avviene nella misura di 20 dB/decade e che la frequenza di taglio minore è
di 10 Hz.
Questo comportamento in frequenza è determinato da una rete R-C appositamente intro-
dotta nel dispositivo, in modo da evitare che disturbi in alta frequenza possano rendere insta-
bile l’amplificatore.
È utile introdurre un ulteriore parametro che funge da figura di merito del dispositivo: il
GBW (Gain-Band-Width), che rappresenta il prodotto fra il guadagno e la larghezza di banda,
il cui valore è costante per tutte le frequenze oltre quella di taglio, per le quali la pendenza è
di
–20 dB/decade.
Infatti, per un aumento di frequenza di una decade, il guadagno diminuisce di 20 dB,
ossia in unità lineari di 10 volte, quindi il prodotto fra i due valori è costante.
La frequenza in corrispondenza della quale il guadagno diventa unitario viene
denominata
frequenza di transizione fT.
L-117
1 SISTEMI DI NUMERAZIONE
Generalità
1.
+
Cifre2 5
7 3
La trasformazione di un numero dal sistema di
Posizion 2 numerazione
1 0 decimale a un altro sistema
di numerazione avviene per divisioni e n3 successive, cioè si divide prima il numero e poi i
quozienti per la base del sistema in cui si effettua la conversione; di volta in volta i resti
rappresentano la cifra più significativa. La divisione si ferma quando il quoziente è zero, il
cui resto corrisponde alla cifra più significativa del numero trasformato.
Il numero trasformato è rappresentato dalla successione dei resti scritti a partire dal più
significativo sino al meno significativo.
Sistema di numerazione ottale
È un sistema di numerazione a base 8, perciò i simboli che lo rappresentano sono dei
numeri decimali da 0 a 7, le stesse cifre dei primi otto numeri decimali. Per non incorrere in
errore, i numeri ottali vengono contrassegnati con pedice 8; per esempio, il numero ottale 751
si indica (751)8.
Si osserva che i numeri ottali espressi in forma polinomiale esprimono il valore del corri-
spondente numero decimale:
987 16 Divisore
La conversione dalDividendo
sistema decimale al sistema esadecimale si effettua con il metodo
B61 16
delle divisioni successive.
Resto D3
La trasformazione del numero decimale 16 987 in esadecimale si effettua nel modo
30
seguente:
Il numero esadecimale corrispondente al decimale 987 è: (3DB)16 = (987)10. Per la
verifica basta esprimere il numero (3DB)16 in forma polinomiale:
1
3DB16 =3 162 D16 B16+ 0 += 10
987
Sistema di numerazione binario
Il sistema di numerazione 2 è a base due: i simboli che lo rappresentano comprendono i
numeri decimali 0 e 1. I numeri binari vengono contrassegnati con pedice 2; per esempio, il
numero binario 1010 si indica (1010)2.
Anche i numeri binari espressi in forma polinomiale esprimono il valore del corrispon-
dente numero decimale:
2 0
10102 = 1
023 +2
21 1 0 10
2+=+10
La conversione dal sistema decimale ad altri sistemi di numerazione, per esempio,
binario, ottale, esadecimale ecc., si effettua con il metododelle divisioni successive. Come si
vedrà di seguito la trasformazione da binario a esadecimale e ottale si effettua direttamente.
SISTEMI DI NUMERAZIONE M-7
segnale;
-la presenza o l’assenza di un segnale in un conduttore risponde a una logica binaria (sì, no;
2 ALGEBRA DI BOOLE
1.Definizioni
L’algebra di Boole è un sistema logico deduttivo costruito dal matematico inglese George
Boole (1815-1864), che parte da alcuni concetti fondamentali e da un insieme di postulati.
Per strutturare un’algebra di Boole sono quindi necessari sia i concetti fondamentali sia i
postulati.
I concetti fondamentali sono costituiti da:
1.un insieme I di elementi generici;
La relazione di equivalenza fra gli elementi dell’insieme di I gode delle proprietà: rifles-
siva, simmetrica e transitiva.
Le operazioni binarie interne sono: somma e prodotto logico; esse sono definite
binarie in
quanto sono applicate a qualsiasi coppia di elementi dell’insieme e interne perché il
risultato delle operazioni logiche è ancora un elemento dell’insieme I. La somma logica si
può indicare con due simboli grafici “+” o “”, o OR, mentre il prodotto logico con “ “ o
”, o AND.
I postulati sono le condizioni imposte ai concetti fondamentali; essi devono essere tra
loro compatibili (cioè non devono essere in contraddizione tra di loro) e indipendenti (cioè
nessun postulato deve poter essere dedotto dagli altri). Si riportano di seguito i postulati
relativi a un
insieme di elementi I, di cui X, Y, Z sono tre elementi generici.
a)Proprietà commutativa. Per ogni coppia di elementi X e Y dell’insieme I si ha:
X+Y=Y+XXY=YX
b)Proprietà distributiva. Per ogni terna di elementi X, Y, Z dell’insieme I risulta:
quale si ha:
X X+ =1 X
=X0
ALGEBRA DI BOOLE
M-11
Nel caso in cui gli elementi dell’insieme I possono assumere solo due stati (0 e 1), l’alge-
bra booleana strutturata è binaria.
Si precisa che nei sistemi binari una variabile può assumere due stati distinti: uno vero e
uno falso; il vero è indicato convenzionalmente con 1 (uno), quello falso con 0 (zero). Se, per
esempio, la variabile x assume lo stato 1 (è perciò vera) si indica semplicemente con x, se
invece assume lo stato 0 (quindi è falsa) si indica con x.
2.2 Algebra dei circuiti
Un circuito elettrico elementare può essere considerato costituito da un generatore, uno o
più contatti elettrici (interruttori come P1) e un utilizzatore (per esempio, una lampada come
L, fig. M.1).
Generatore
0 0 Spenta
1 1 Accesa
Somma logica (OR)
La somma logica (OR) di due o più contatti (o segnali) elettrici si ottiene mediante il loro
collegamento in parallelo.
Nella figura M.2 sono stati riportati quattro circuiti con la diversa combinazione dei due
contatti in parallelo. Attribuendo valore 1 o 0 ai contatti, secondo la convenzione adottata, si
ottiene la tabella di verità della somma logica, realizzata con un circuito avente due
interruttori (contatti) in parallelo (tab. M.3).
M-12 SISTEMI AUTOMATICI
0 1 1 Accesa
Dalla figura M.2 si osserva
1 che se1 si preme l’interruttore
1 P1 , Accesa
oppure P2 , oppure tutti e
due la lampada si accende (cioè vi è un segnale S in uscita).
Generalizzando, si può concludere quindi che la somma logica S di due (o più) segnali
elettrici ( P1 e )Pè2 diversa da zero quando uno dei due segnali è diverso da zero e algebrica-
mente si esprime con la (M.1).
S = P1 + P2
(M.1)
L’operatore con cui si effettua la somma logica, o OR, si rappresenta graficamente con il
simbolo riportato nella figura M.3.
Dall’analisi della figura M.4 emerge che, affinché la lampada sia accesa, è necessario che
tutti e due i pulsanti siano premuti (contatti chiusi).
Attribuendo ai contatti i valori 1 o 0, con la convenzione adottata, si costruisce la tabella
di verità riportata nella tabella M.4.
Dall’esame della tabella di verità si può concludere che il prodotto logico di due o più
segnali, o AND, è diverso da zero solo quando tutti i segnali sono diversi da zero (M.2).
S P1 =P2
(M.2)
Il prodotto logico si rappresenta graficamente con il simbolo riportato nella figura M.5.
ALGEBRA DI BOOLE M-13
0 1 0 Spenta
1 1 1 Accesa
Figura M.6 Rappresentazione della negazione logica NOT con circuito elettrico.
Il circuito elettrico che si presenta in figura M.6 è costituito da una lampadina alla quale
arriva un segnale di corrente (lam pada accesa) sino a quando non si preme l’interruttore P;
appena P viene premuto diventa P ( P si legge “P negato”), negando il passaggio di corrente
(tab. M.5).
Tabella M.5 Tabella di verità della negazione logica (NOT)
P P Lampada L
0 1 Accesa
1 0 Spenta
La rappresentazione grafica della negazione logica o NOT si effettua con il simbolo ripor-
tato nella figura M.7.
S P1 =P2
0 0 0 Spenta
1 0 1 Accesa
0 1 1 Accesa
1 1 0 Spenta
La somma logica esclusiva è esprimibile anche come somma dei prodotti degli stati che la
esprimono (fig. M.8).
S P1 P2 P1 +P=2
Assorbimento X X X Y+
Y X=
+X=X
Elemento neutro +X1 = 1 X=00
Le possibili configurazioni di x sono 2n, mentre il numero di funzioni diverse che si pos-
sono costruire con n variabili binarie (x1, x2, …, xn) è pari a 22n.
Le funzioni logiche si possono rappresentare con le tabelle di verità, riportando il
valore
assunto dalla y in corrispondenza di ciascuna delle 2n possibili configurazioni di x1, x2,
…, xn. Due funzioni y e g, dipendenti in modo diverso dalle stesse n variabili indipendenti,
sono equivalenti, se per ogni combinazione delle 2n variabili indipendenti assumono lo
stesso
valore:
y fx1 x2 ..., xn = g fx1 x2 ..., xn =
Esempio
Nella tabella di verità della tabella M.8 le tre variabili indipendenti (a, b, c), con le loro
otto combinazioni (2n con n numero delle variabili) danno luogo agli otto maxterm (Mm) e
agli otto minterm (mm) di seguito riportati.
Tabella M.8 Tabella di verità di una funzione a tre variabili
m a b c F
0 0 0 0 0
1 1 0 0 1
2 0 1 0 0
3 1 1 0 1
4 0 0 1 0
5 1 0 1 0
6 0 1 1 0
Maxterm: M0 a 7 b=Mc+;1 1 a 1 b= c+; 1 a b= c+;
1 a b= c+; +
+ +M2 +M3
M4 a b= c+; +M5 a b= c+. +
a b c ; = m1 a b= c+; a b= c+;
Minterm: m0 a b c ; = m5 a b c; =
+M6 a b c; +M7 a b c;
m4 a b c. =
= m2 a b c; = m3 a b c;
Metodo associativo
= m6 = m7
Il metodo associativo consente di ottenere la funzione logica come prodotto dei maxterm
per i quali la funzione F è uguale a zero.
F M0 0 M1 0=...M
n0 (M.3)
Esempio
Si consideri la tavola di verità riportata in tabella M.8 nella quale la funzione logica F è
espressa in funzione delle variabili a, b, c.
Secondo il metodo associativo, si individuano i maxterm uguali a zero:
M0MM2 4 M5 M6
e si calcola
F la funzione
M0 M logica
2 Mcon
4 ilM
loro prodotto:
5 =M 6
F= a b c+ a b c+ + a b a b c+ a
+ c+ + + b
Metodo dissociativo
Con il metodo dissociativo la funzione logica si ottiene sommando tra di loro i minterm
per i quali la funzione F è uguale a 1.
F = m0 1+ m1 1+ ...m+ n1
(M.4)
ALGEBRA DI BOOLE
M-17
Mappe di Karnaugh
Come si è visto nel paragrafo precedente, le funzioni logiche si possono calcolare come
prodotti di maxterm o come somme di minterm. Le funzioni logiche riportate nei due esempi
sono solo apparentemente diverse; se opportunamente semplificate con i teoremi e le leggi
del- l’algebra di Boole danno lo stesso risultato:
F a b
c+ =
L’utilità delle funzioni logiche sta nel fatto che è possibile costruirle praticamente, utiliz-
zando gli operatori logici (AND, OR, NOT, XOR) presenti in commercio e realizzati con
diverse tecnologie. In pratica con esse si realizza l’automazione industriale, sia con logica
cablata (assemblando componentistica hardware), sia con logica programmata (realizzata
mediante software). Il costo della realizzazione delle funzioni logiche dipende dalla quantità
di componenti da utilizzare e cresce con essi, perciò l’esigenza della loro semplificazione è
con- creta.
Un sistema che facilita la semplificazione delle funzioni logiche è rappresentato dalle
mappe di Karnaugh.
Le mappe sono costituite da tabelle a doppia entrata sulle cui righe e colonne si
rappresen- tano le variabili.
Procedura di costruzione delle mappe di Karnaugh
Le variabili da rappresentare si suddividono tra le righe e le colonne. Il numero di caselle
lungo una riga o una colonna è pari a 2n con n numero di combinazioni delle variabili
rappre- sentate sulle righe o sulle colonne. In ogni casella si può rappresentare una riga della
corri- spondente tavola di verità.
In corrispondenza del vertice in alto a sinistra della mappa si riportano le variabili. Al di-
sopra della prima riga e a sinistra della prima colonna si riportano dei numeri (0 e 1) che indi-
cano lo stato delle variabili (negato o non negato); la successione è quella del codice
Gray.
Le caselle sono numerate con numeri decimali, ogni numero corrisponde al numero bina-
rio composto dalle cifre presenti sulla colonna corrispondente alla casella, seguite da quelle
poste a sinistra della riga corrispondente.
Mappa di una funzione a due variabili
La funzione f(A, B) a due variabili riportata nella tabella di verità della figura M.10b si
può calcolare come somma dei minterm m1 e m3 e si può rappresentare con la mappa di
Karnaugh come nella figura M.10a.
F = m1 +Am3B=A B+
La mappa di una funzione a due variabili, riportata nella figura M.10, si
disegna distri-
M-22 SISTEMI AUTOMATICI
3 ELEMENTI DI PNEUMATICA
1. Generalità
Le tecnologie pneumatiche hanno lo scopo di studiare i metodi e i mezzi necessari a fare
eseguire a macchine particolari operazioni ripetitive, realizzabili manualmente.
In effetti, questa tecnologia si basa sulle azioni che possono compiere alcuni attuatori
(cilindri o motori pneumatici) movimentati (azionati) da aria compressa.
L’aria risulta essere quindi il mezzo di trasporto dell’energia utilizzata nei processi pneu-
matici e perciò su di essa si basa questa tecnologia.
2. L’aria e principi fisici dei gas
L’aria è composta da una miscela di gas, vapor d’acqua e di particelle solide in sospen-
sione; essa è trasparente, incolore, inodore, cattiva conduttrice di calore ed elettricità. Alla
temperatura di 273,16 K (gradi kelvin) e alla pressione di 0,1 MPa presenta una massa volu-
mica di 1,29 kg/m3.
I gas principali che costituiscono l’aria sono l’azoto (N2) l’ossigeno (O2), l’argon (Ar) e
l’anidride carbonica (CO2), secondo le percentuali di tabella M.9.
Tabella M.9 Composizione di massima dell’aria
Gas % in volume % in massa
Le tre trasformazioni danno luogo a tre leggi corrispondenti. Si ha, ancora, una quarta
legge che considera, insieme, le variazioni di pressione, volume e temperatura e che viene
indi- cata come equazione di stato dei gas.
Queste leggi, poiché derivano da osservazioni sperimentali e contengono alcune semplifi-
cazioni, sono chiamate leggi dei gas ideali o perfetti.
Pressione
I gas sono costituiti da molecole che si muovono in continuazione. Se il gas è contenuto
in un recipiente le molecole, nel loro cammino, vanno a urtare le pareti. Ogni urto comporta
una forza esercitata sulla parete. La somma di tutte queste forze elementari esercitate su una
super- ficie rappresenta la pressione.
Gli strumenti con i quali si misura la pressione sono i manometri (fig. M.16a) e l’unità di
misura usata nel Sistema Internazionale è il pascal [1 Pa = 1 N/m2].
Un manometro particolare è quello riportato nella figura M.16b, denominato
barometro a
mercurio (h indica l’altezza della colonnina di mercurio), utilizzato per la misura della
pres- sione atmosferica. Questo strumento è costituito da un tubo di vetro (aperto solo da un
lato) pieno di mercurio (Hg) e immerso in una vaschetta contenente mercurio. Al livello del
mare e alla temperatura di 15 °C il livello di mercurio nel tubo è di 760 mm. La pressione
atmosferica corrisponde quindi a 760 mmHg, che sono pari a ~ 105 Pa.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-23
Temperatura
La temperatura dei gas esprime l’energia cinetica posseduta dalle particelle che costitui-
scono il gas; maggiore è la temperatura del gas maggiore è l’energia posseduta dalle
particelle. La temperatura si misura in gradi centigradi (o Celsius, °C); lo zero della scala di
misura corrisponde alla temperatura del ghiaccio fondente e il valore 100 corrisponde alla
temperatura
di ebollizione dell’acqua; le rilevazioni sono da effettuare alla pressione di 760 mmHg.
Nel Sistema Internazionale la temperatura è misurata in gradi kelvin e si indica con T.
Questo sistema di misura viene definito scala di rappresentazione assoluta e il suo zero è indi-
cato come zero assoluto.
La trasformazione della temperatura da gradi centigradi in gradi kelvin (K) si ottiene
som- mando 273,16 alla temperatura t espressa in gradi centigradi [°C]:
T = 273,16 + t
(M.6)
La trasformazione da gradi Kelvin a centigradi si ottiene sottraendo 273,16 dalla tempera-
tura espressa in gradi Kelvin:
t = T 273,16
(M.7)
Dalla (M.6), ponendo T = 0, si deduce che lo zero assoluto corrisponde a 273,16 °C.
M-24 SISTEMI AUTOMATICI
Figura M.19 Cilindro a tenuta contenente aria, chiuso con un pistone scorrevole.
Equazione di stato dei gas
L’equazione di stato dei gas contiene tutti e tre i parametri che regolano lo stato dei gas e
per questo viene definita equazione di stato.
Essa è espressa dalla seguente formula:
P·V=mR·T
con:
-P: pressione misurata in Pa;
-V: volume misurato in m 3;
-m: massa del gas misurata in kg;
-R: costante dei gas (o costante universale dei gas); il valore di R è 8,31 J/(K mole); per un kg
di aria, assumendo il peso molecolare medio pari a 28,9 g si ha che m = 34,6, per cui il pro-
dotto m R è pari a 287 J/K;
-T: temperatura misurata in gradi Kelvin.
M-26 SISTEMI AUTOMATICI
2.gruppo di condizionamento;
3.gruppo di distribuzione;
4.gruppo di attuazione.
Un impianto per la produzione di aria compressa (fig. M.20) è generalmente costituito da:
-un sistema necessario alla filtrazione dell’aria o semplicemente filtro (1);
-uno o più compressori (2) per portare l’aria alla pressione prefissata, con relativo motore
(11);
-scambiatori di calore che raffreddano l’aria in uscita dal compressore (3);
-separatori di condensa che consentono di eliminare l’acqua che si è separata dall’aria (4) e
(10);
-valvole di non ritorno che non consentano all’aria compressa di tornare indietro (5);
-valvole d’intercettazione per bloccare i circuiti (8);
-un serbatoio per accumulare l’aria compressa prodotta (6);
-un pressostato che determina la pressione minima e massima che l’aria deve raggiungere
Filtri
I filtri vengono utilizzati per eliminare la polvere e le particelle solide che sono sospese
nell’aria (fig. M.21). La presenza della polvere è dannosa ai componenti dell’impianto poiché
fa crescere l’usura negli elementi che hanno parti in movimento e potrebbe intasare gli altri
riducendo la funzionalità dell’impianto.
I filtri sono fondamentalmente di quattro tipi:
-di carta;
-di feltro;
-a bagno d’olio;
-a labirinto.
-la portata;
-la pressione.
osservare nella figura M.24, l’ingresso e l’uscita dell’aria, dalle valvole, è provocato dagli
spo- stamenti alternati che il pistone provoca alla membrana elastica.
Gli scambiatori di calore (fig. M.28) possono essere di diverso tipo, dai semplici tubi alet-
tati, ai radiatori (simili a quelli delle macchine con o senza ventola).
Nei casi più complessi si potranno utilizzare scambiatori di calore in cui il fluido refrige-
rante non è l’aria ma l’acqua.
Acqua
Acqua
Ari Ari
a a
Separatori di condensa
I separatori di condensa (fig. M.29) hanno lo scopo di eliminare l’acqua che si produce
raf- freddando l’aria.
Nell’aria, infatti, è sempre presente del vapor d’acqua che, a causa del
raffreddamento,
condensa trasformandosi in liquido. Se l’acqua di condensa non si elimina, l’aria
compressa (nel suo movimento) la porta in giro per l’impianto, corrodendolo e
danneggiandone i compo- nenti.
I separatori di condensa possono essere manuali o automatici, in funzione del modo con
cui eseguono lo scarico.
Serbatoi
I serbatoi (fig. M.32) hanno il ruolo di fornire l’aria compressa necessaria al funziona-
mento dell’impianto pneumatico, evitando le pulsazioni che potrebbero derivare da un
collega- mento diretto con il compressore.
La presenza di un serbatoio, inoltre, consente al compressore di funzionare a
intermittenza e solo quando la pressione dell’aria all’interno del serbatoio scende al disotto
dei valori presta-
biliti. I serbatoi, per motivi di sicurezza e di funzionalità, devono essere muniti di:
termometro, manometro, valvola di sicurezza (limitatrice di pressione), separatore di
condensa con tappo di scarico dell’acqua, valvole d’intercettazione, pressostato.
ELEMENTI DI PNEUMATICA M-33
15Q c –Qu
V P P =
Z
-Q c [Nm3/min] è la portata del compressore;
-Q u [Nm3/min] è il consumo medio dell’utenza (Qc e Qu sono considerate alle condizioni
di temperatura e pressione dell’aspirazione);
-P [bar] è la pressione all’aspirazione;
-P [bar] è la differenza di pressione prevista nel serbatoio;
-Z è il numero di volte in cui il compressore si attacca in un’ora.
Pressostato
Il pressostato (fig. M.33) è un trasduttore che ha il compito di attaccare e staccare il
motore del compressore. Esso è collegato con il serbatoio e interviene quando l’aria
raggiunge il valore minimo o massimo di pressione prestabilito.
Essiccatori
Gli essiccatori sono utilizzati per eliminare il vapor d’acqua direttamente dall’aria e sono
essenzialmente chimici o termici. Gli essiccatori chimici (fig. M.34) sono costituiti da sali
igroscopici che possono essere rigenerati, mediante riscaldamento, quando sono saturi di
vapore. Gli essiccatori termici trattano l’aria con riscaldamenti e raffreddamenti ripetuti.
-un riduttore di pressione, per far assumere alla pressione i valori richiesti;
-un lubrificatore, nel caso in cui le valvole distributrici e gli attuatori non siano forniti di
guarnizioni autolubrificanti;
-un manometro, per controllare la pressione.
Il gruppo FRLM si può indicare con i due simboli presentati in figura M.36.
Riduttori di pressione
I riduttori di pressione sono generalmente a pistone e hanno il compito di far assumere
all’aria proveniente dal serbatoio la pressione necessaria alle esigenze degli attuatori.
Il principio di funzionamento del riduttore a membrana è identico a quello del riduttore a
cassetto.
Come si può osservare nella figura M.37 la vite A, mediante la molla B, agisce sul
disco C
della membrana D.
Sulla superficie inferiore del disco C agisce un cilindretto H (solidale con il piattello G)
spinto dalla molla F.
gli scarichi ai quali, in genere, sono connessi dei silenziatori, mentre 2 e 4 si collegano con
l’attuatore;
-la posizione del cassetto determina il collegamento tra gli attacchi. Spostato a sinistra, col-
lega 1 con 2 e 4 con 5, mentre 3 resta chiuso (fig. M.38a); spostato a destra, collega 1 con 4 e
2 con 3, mentre 5 resta chiuso (fig. M.38b).
Figura M.38 Valvola distributrice dotata di 5 attacchi e 2 posizioni di lavoro del cassetto
(5/2):
a) cassetto posizionato a sinistra; b) cassetto posizionato a destra.
I simboli grafici con i quali si indicano le valvole distributrici rappresentano le funzioni
che esse svolgono. I simboli si compongono di:
due o più quadrati affiancati;
-
Ciascun quadrato indica una posizione di lavoro del corpo interno della valvola
(cassetto), per cui, se il simbolo si compone di due quadrati, la valvola ha due posizioni di
lavoro.
M-38 SISTEMI AUTOMATICI
Una valvola si definisce monostabile se, spostata in una qualsiasi delle due posizioni di
lavoro, vi rimane solo per il tempo in cui agisce il segnale che ha provocato il cambiamento
di posizione. Analizzando la figura M.40a si osserva che, se arriva un segnale S, il cassetto si
sposta a sinistra; se il segnale viene a mancare, la molla lo fa ritornare nella posizione
iniziale. La molla attribuisce, quindi, alla valvola una sola posizione di stabilità.
Le valvole 2/2 (fig. M.39) servono a bloccare il flusso d’aria nelle due direzioni
(rubinetti).
Le valvole 3/2 (fig. M.40b) vengono generalmente utilizzate come pulsanti o come fine
corsa. In pneumatica, ogni qualvolta viene premuto un pulsante, si ottiene il passaggio o
l’interru- zione di un flusso di aria compressa. Se il pulsante, quando è premuto, permette il
passaggio dell’aria compressa, si definisce normalmente aperto (NA). Se, invece,
premendolo, si inter- rompe il flusso di aria compressa, il pulsante viene detto normalmente
chiuso (NC).
In ogni caso quando si preme un pulsante (normalmente chiuso o aperto) si genera o si
interrompe un segnale di pressione che è destinato, generalmente, a far cambiare la
posizione del corpo interno di altre valvole, commutandole.
Scelta delle valvole
I parametri utilizzati nella scelta delle valvole regolatrici della direzione del flusso dipen-
dono generalmente dalla caduta di pressione che si realizza tra l’ingresso e l’uscita della val-
vola stessa e della portata che deve attraversare la valvola. In funzione di questi parametri si
determina il coefficiente valvolare che consente di scegliere la valvola da utilizzare.
Il calcolo del coefficiente valvolare Kv si esegue con la formula (valida sino a
P<P1/2): 28 5P P P–
1
dove: Kv= Q
-Q [dm 3/min] indica la portata che attraversa la valvola, considerata a pressione atmosferica;
-P = P 1 P 2, dove P 1 e P 2 [daN/cm2] rappresentano le pressioni assolute all’ingresso
e all’uscita della valvola.
Il calcolo del coefficiente valvolare e la scelta della valvola si effettuano seguendo i
metodi e consultando le tabelle proposti dalle case costruttrici attraverso i cataloghi e le
schede tecni-
che.
Regolatori di flusso
I regolatori di flusso vengono impiegati per regolare la velocità dei cilindri pneumatici a
semplice e a doppio effetto.
Questi componenti, se utilizzati da soli, regolano il flusso nelle due direzioni; nel caso
siano accoppiati a una valvola unidirezionale (fig. M.41) consentono la regolazione del flusso
solo in una direzione.
a b
2.un pistone (che scorre all’interno della camicia metallica) fornito di stelo e di guarnizioni
due camere del cilindro; una delle due testate è forata per consentire il passaggio
dello stelo del pistone;
4.quattro tiranti che assemblano camicia e testate.
-a doppio effetto;
-a stelo passante;
-in tandem;
-a più posizioni;
-per rotazioni.
cendo una forza che, quando è maggiore degli attriti e delle forze esercitate dalla molla e dal
carico, fa uscire lo stelo. Il ritorno è prodotto dalla forza esercitata dalla molla.
Cilindri a doppio effetto
In questo caso (fig. M.43) l’aria determina sia l’entrata sia l’uscita dello stelo. Questi
cilin- dri si utilizzano per far lavorare lo stelo sia in uscita sia in entrata. Vengono utilizzati
anche per frequenze di lavoro molto elevate, per le quali l’eventuale azione esercitata da una
molla non fornirebbe la velocità necessaria. In questo caso la corsa di uscita dello stelo si
ottiene introdu- cendo aria nella camera sinistra, attraverso l’attacco 1, e collegando l’attacco
2 allo scarico; la corsa di rientro si ottiene, invece, introducendo aria nella camera destra,
attraverso l’attacco 2 e collegando l’attacco 1 allo scarico.
Figura M.44 Cilindro a doppio effetto con stelo passante e relativo simbolo.
Cilindri in tandem
Come si può osservare nello schema riportato nella figura M.45, questi cilindri hanno la
particolarità di essere costituiti da uno stelo solidale con due pistoni; ogni pistone può essere
azionato da due camere.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-41
Con i collegamenti riportati nella figura M.45, si fornisce aria contemporaneamente agli
attacchi 1 e 1' provocando l’uscita dello stelo; alimentando le camere 2 e 2' si provoca il
rientro dello stelo.
Questi cilindri, a parità di pressione, sono in grado di spostare un carico doppio rispetto ai
normali cilindri, dal momento che la superficie su cui agisce la pressione è quella dei due
pistoni. 2
1 1' 2'
Figura M.45 Rappresentazione schematica di un cilindro in tandem e relativo simbolo.
Cilindri a più posizioni
Questi sistemi sono costituiti da due cilindri montati in modo contrapposto e si utilizzano
quando è necessario che lo stelo si fermi in posizioni intermedie tra quelle iniziale e finale.
Dall’analisi della figura M.46, considerato fisso lo stelo di sinistra A, si osserva che le
posizioni raggiungibili dallo stelo B, se i cilindri hanno lunghezza diversa, sono quattro:
1.la prima posizione è quella di riposo, cioè quando gli steli sono dentro i cilindri; si ottiene
alimentando 1 e 2';
2.alimentando l’attacco 2 e 2' esce lo stelo A che, non potendo avanzare, sposta i due cilindri
3.alimentando gli attacchi 1 e 1' lo stelo A rientra, mentre lo stelo B si sposta verso destra
raggiungendo la terza posizione;
4.se si alimentano gli attacchi 2 e 1' tutti e due gli steli escono e si raggiunge la quarta posi-
zione.
Cilindri per rotazioni
Questi cilindri sono usati per ottenere un moto rotatorio alternato. Le rotazioni che si
ottengono possono essere di pochi gradi o anche maggiori di 360° a seconda del sistema
utiliz- zato. I cilindri per rotazione più diffusi sono il sistema rocchetto-dentiera e il sistema
a pa- letta. Il primo (fig. M.47) utilizza un cilindro dotato di un gruppo rocchetto-dentiera.
La den- tiera è ricavata direttamente sullo stelo del pistone, per cui a ogni sua traslazione
corrisponde una rotazione del rocchetto. Naturalmente, le rotazioni dipendono dalla corsa del
pistone.
Figura M.48 Rappresentazione schematica di un cilindro per rotazione con sistema a paletta.
Ft = p · Ap · [N]
Fs = p · Aa · [N]
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-43
Figura M.49 Schema pneumatico a comando manuale di un cilindro azionato con valvola
5/2 bistabile comandata da due pulsanti.
M-44 SISTEMI AUTOMATICI
P1 P2 y = P 1 + P2
0 0 0
1 0 1
0 1 1
1
Nella figura M.51 si rappresentano 1 con i quali si 1indica la somma logica
i simboli
OR.
P1 P2 y P1
=P2
0 0 0
1 0 0
0 1 0
Le condizioni realizzate definiscono
1 il prodotto
1 logico AND
1 e per questo sono esprimibili
con la seguente equazione:
y P1 =P2
Nella figura M.52 si indicano due modi con i quali si possono effettuare i collegamenti
necessari per realizzare il prodotto logico.
I simboli con i quali si indica il prodotto logico AND sono presentati nella figura
M.53.
N P
0 1
1 0
x P
0 0
1 1
ELEMENTI DI PNEUMATICA M-47
Figura M.56 Simboli per la rappresentazione della funzione logica YES e valvola.
1.Attuatori.
2.Indicazione della posizione dei finecorsa, con dei quadratini, in prossimità della zona in cui
incontrano lo stelo del cilindro; anche questi sono contrassegnati.
3.Distributori con indicazioni dei segnali.
4.Finecorsa.
5.Pulsanti.
Considerazioni preliminari
Se si considera un cilindro (attuatore), per esempio A, si indica con A+ la fase di uscita
dello stelo e con A la fase di rientro; la sequenza A+, A indicherà un ciclo completo. Se il
cilindro A ha due finecorsa (a0, a1) che indicano la posizione dello stelo, questi emetteranno
segnali tutte le volte che sono azionati dal pistone; a0 indicherà la posizione “stelo dentro” e
a1 “stelo fuori”. Si può concludere, quindi, che i finecorsa esplicitano lo stato dell’attuatore.
Esempio
Progettare il ciclo automatico continuo che realizzi il sistema di movimentazione di mate-
riali rappresentato nella figura M.57. Tale sistema deve movimentare dei contenitori che
devono passare da un nastro trasportatore a un altro, secondo le fasi seguenti:
6.quando il contenitore raggiunge la posizione 1, il trasportatore T1 si ferma;
7.se è stato premuto il pulsante S, lo stelo del cilindro A esce e solleva il contenitore sino alla
posizione 2;
8.quando il contenitore raggiunge la posizione 2, esce lo stelo del cilindro B e lo spinge sul
trasportatore T2;
4.dopo che lo stelo di B ha spostato la scatola, rientra lo stelo di A;
-lo stelo del cilindro A, quando raggiunge la fine della sua corsa, comanda l’uscita dello stelo
del cilindro B;
-quando lo stelo di B completa la sua corsa comanda il rientro dello stelo di A;
La successione elencata consente di affermare che la fine di una fase attiva la successiva.
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-49
Affinché ciò si realizzi è necessario però che alla fine d’ogni fase ci sia l’emissione di un
segnale che, oltre a indicare che la fase è finita, attivi la successiva; per ogni fase, quindi,
sono necessari dei finecorsa.
Prospetto fasi segnali
Se a ogni cilindro si associano due finecorsa, per il cilindro A si avranno a 0 e a1 e per il
cilindro B, b0 e b1. Contrassegnando con i segni + (più) le uscite e (meno) i rientri degli
steli, le fasi viste corrisponderanno a: A+, B+, A, B.
Nel prospetto M.1 si riassumono le fasi e i relativi segnali attivati riportando nella prima
riga la sequenza delle fasi e nella seconda, sotto ciascuna fase, il segnale generato dalla fase
precedente.
Prospetto
Fasi M.1A B A
+ +
B
A+agenera 1S che attiva
Secondo i criteri impostati,Segnali a B+B,
b +ba genera 1 che attiva A e
così via. Il ciclo inizia quando si preme il pulsante
· di1start ed
1 è contemporaneamente
0 attivo il
segnale b0 che indica che lo stelo del cilindrob C è dentro.
Dal prospetto M.1 si ricavano le equazioni0 logiche:
A+S b =B0+a =A1b =B1a 0
=
Esprimendo le equazioni logiche in funzione dei segnali di comando che commutano i
distributori e attivano le fasi si ottiene la tabella M.11.
Tabella M.11 Relazione tra segnali comandi e fasi
Segnali Comandi Fasi
S · b0 X1 A+
a1 X2 B+
b1 Y1 A
Da questa si ricavano le afunzioni
0 logiche:
Y2 B
X1 1 2 = a0
=Yb1
S =bX0
Si riporta il ciclo da realizzare su un diagramma corsa-tempo che evidenzia la
connessione dei segnali
2 =Yae1la durata dell’intero ciclo.
Disegno del ciclogramma
Nella figura M.58 si evidenzia la corrispondenza tra segnali e azioni. Da tale schema è
possibile determinare la durata del ciclo. Infatti, se il tempo è misurato in secondi, il ciclo di
figura M.58a dura 4 secondi e quello di figura M.58b 6 secondi.
Disegno schema funzionale
Con il prospetto, le funzioni logiche e il ciclogramma si procede alla costruzione dello
schema risolutivo riportato nella figura M.59.
Dopo l’intervento dell’emergenza il processo non deve ripartire con lo Start ma può rico-
minciare solo se è stato dato il consenso con il Reset, pulsante di ripristino delle condizioni
ini- ziali. In particolare, se l’emergenza ha lasciato le macchine nella posizione in cui si
trovavano, il Reset deve solo farle ritornare in posizione di riposo.
Nella figura M.60 si riporta il circuito della sequenza A+, B+, C+, A, B, C munito
di circuito di emergenza.
Figura M.60 Schema pneumatico che realizza la sequenza A+, B+, C+, A, B, C, munito
di dispositivo di emergenza.
contemporanea di più segnali che determinano azioni uguali e opposte che si neutralizzano a
vicenda, per cui il distributore non commuta e resta bloccato; da qui deriva la definizione
segnali bloccanti.
Studio delle tecniche per l’eliminazione dei segnali bloccanti
Nella sequenza A+, B+, B, A si osserva la presenza di segnali bloccanti. Utilizzando il
metodo introdotto per le sequenze semplici si costruisce prima il prospetto M.2 (con segnali,
fasi e comandi) e poi si ricava il ciclogramma presentato nella figura M.61.
Prospetto M.2
Fasi A B B
+ +
A
Segnali S a b b
· 1 1 0
a
0
tore stesso, perciò il ciclo si interrompe, anzi in questo caso non parte.
Il problema generato dalla presenza dei segnali bloccanti può essere risolto in diversi
modi; le tecniche che qui saranno trattate sono quelle dell’annullamento meccanico, dei colle-
gamenti in cascata e del sequenziatore.
Annullamento meccanico
Questa tecnica consiste nell’utilizzare valvole di fine corsa (3/2 monostabili a rullo)
dotate di dispositivo unidirezionale. Le valvole si posizionano un po’ prima della fine della
corsa dello stelo in modo che durante il passaggio dello stelo si generi un segnale istantaneo.
Questi finecorsa sono unidirezionali perché danno segnali soltanto se sono azionati nella
direzione di lavoro. Azionamenti nella direzione opposta a quella di lavoro non generano
segnali.
Nel caso in esame, come si è visto, i segnali bloccanti sono prodotti da b0 e a1.
Dall’analisi
sia del prospetto sia del ciclogramma si può dedurre che, sostituendo questi due finecorsa
con finecorsa unidirezionali, si risolve il problema e la successione di segnali e fasi è quella
di seguito riportata:
-S e a 0 collegati in serie (AND) commutano D1 e attivano la fase A+; b0, essendo
unidirezio- nale, non dà segnale;
-
l’uscita dello stelo di A aziona a 1 (valvola unidirezionale) solo per un istante che commuta
D2, determinando la fase B+;
-
l’uscita dello stelo di B aziona b1 che, non essendo attivo a1, commuta D2 e attiva la fase
B;
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-53
- il rientro dello stelo di B aziona, per un istante, b0 (valvola unidirezionale) che commuta
D1 attivando la fase A realizzando la successione descritta si ottiene il circuito riportato
in figura M.62.
Figura M.62 Schema che realizza la sequenza A+, B+, B, A.
3.11 Collegamenti in cascata
Alla tecnica precedente, per la sua complessità, si preferiscono metodi più semplici quali
la cascata o il sequenziatore.
La tecnica della cascata prevede di:
-costruire un prospetto nel quale si riportano le fasi e i segnali, come per la sequenza sem-
plice;
-suddividere la sequenza assegnata in gruppi;
-assegnare un numero di memorie (per mettere in pressione le linee) pari a quello delle linee
meno uno;
-il primo segnale di ogni gruppo commuta la memoria corrispondente.
Prima di definire il numero dei gruppi è bene precisare che per ogni cilindro si hanno due
fasi, una di andata e una di ritorno.
Il numero dei gruppi si determina suddividendo la sequenza assegnata in modo che in cia-
scun gruppo compaia solo una fase per cilindro. Il punto d’incontro della seconda fase di un
cilindro qualsiasi è punto di separazione dei gruppi.
M-54 SISTEMI AUTOMATICI
Il ciclogramma riportato nella figura M.63 evidenzia la presenza di due segnali bloccanti,
a1 per il rientro di B e b0 per il rientro di C.
In questo caso si hanno tre gruppi, perciò le linee sono tre e le memorie due. Dalla figura
M.64 si osserva che i segnali di commutazione delle memorie sono pari al numero delle linee
da commutare, per cui in questo caso sono necessari tre segnali: S1, S2, S3, come ricavato
con la successione delle operazioni necessarie a individuare le funzioni logiche qui riportate
e rias- sunte nella tabella M.12.
I segnali di commutazione delle memorie pervengono dal primo segnale di ogni gruppo:
S 1 = S · c0 S 2 = L1 · b1 S 3 = L2 · a0
-
il segnale S1 commuta la memoria mettendo in pressione L1;
-L 1 fornisce direttamente il comando X1;
-
il finecorsa a1 alimentato da L1 fornisce il comando X2;
-
il finecorsa b1 alimentato da L1 dà il segnale S2 che, commutando la memoria, mette in pres-
sione L2;
-L 2 fornisce direttamente il comando Y2;
-
il finecorsa b0 alimentato da L2 fornisce il comando X3;
-
il finecorsa c1 alimentato da L2 fornisce il comando Y1;
-
il finecorsa a0 alimentato da L2 dà il segnale S3 che, commutando la memoria, mette in pres-
sione L3;
-L 3 fornisce direttamente il comando Y3.
M-56 SISTEMI AUTOMATICI
3.12 Sequenziatore
Il sequenziatore può essere considerato come una tecnica (e una tecnologia) finalizzata
alla soluzione dei problemi di automazione pneumatica caratterizzati anche dalla presenza di
segnali bloccanti.
Struttura
Il sequenziatore è costituito da tante memorie quante sono le fasi da realizzare; a ogni
memoria sono associati un operatore logico AND e uno OR.
Una memoria si può immaginare costituita da una valvola 3/2 bistabile, le cui posizioni di
lavoro dipendono dai segnali provenienti dai due operatori logici.
Nella figura M.66 si ha una rappresentazione funzionale (fig. M.66a) e una compatta
degli elementi di base del sequenziatore (fig. M.66b); si osserva, inoltre, che un segnale
proveniente
dalla AND attiva la memoria, mentre un segnale proveniente dalla OR la disattiva.
Funzionamento
Il principio di funzionamento prevede che ogni segnale in uscita da una memoria:
- attivi la fase da realizzare;
ELEMENTI DI PNEUMATICA
M-59
1
4 = M
Nell’ultima equazioneMlogica si 3è introdotto
b0 + M4un+R s di reset
segnale RsEche
M serve a fare in
parte per la prima volta, sia presente il segnale M4.
modo che, quando il ciclo(M.13)
In questo caso i segnali di commutazione saranno:
X1 = M1 X2 = M2 Y1 = M4 Y2 = M3
Figura M.68 Schema grafico convenzionale della sequenza A+, B+, B, A
Le lettere presenti nei terminali del sequenziatore della figura M.68 hanno il seguente
significato:
-B: segnale di disattivazione dell’ultima memoria attiva a ogni ciclo;
-R: emergenza;
-P: linea di pressione per l’alimentazione del sequenziatore;
-A: segnale proveniente dall’ultima memoria o dal reset, per l’avvio del ciclo o del
processo;
-R s1: reset hardware dell’ultima memoria per l’avvio del processo.
M-60 SISTEMI AUTOMATICI
4 ELEMENTI DI ELETTROPNEUMATICA
Generalità
1.
Pulsanti
Sono normali interruttori elettrici del tipo normalmente aperto Na o normalmente chiuso
Nc. I normalmente aperti consentono il passaggio della corrente quando sono premuti, mentre
i normalmente chiusi lo interrompono quando sono premuti. Nella figura M.71 si riportano i
simboli grafici con i quali si rappresentano gli interruttori.
Esempio 1
Nella logica di funzionamento non cambia niente rispetto ai circuiti costruiti in tecnologia
pneumatica; si sostituisce perciò a ogni componente il suo corrispettivo elettrico.
Nella rappresentazione convenzionale lo schema si rappresenta con due parti: la prima
(fig. M.72a) contiene l’attuatore e l’elettrovalvola che lo comanda, nella seconda parte (fig.
M.72b)
invece si riporta lo schema del circuito elettrico di comando.
Nel caso in cui le condizioni a riposo del circuito siano quelle presentate nella figura
M.72b si può osservare che se viene eccitata la bobina y, l’elettrovalvola commuta e lo stelo
rientra; se si eccita la bobina x, la valvola ricommuta e lo stelo esce.
L’eccitazione delle bobine (y e x) viene provocata dal circuito di figura M.72b secondo le
fasi seguenti:
-
premendo il pulsante P1, si chiude il circuito della linea 1 e si attiva il relè S;
-
il relè S comanda la chiusura del suo contatto s1 della linea 3, che provoca l’eccitazione della
bobina y;
-
premendo P2 il circuito della linea 2 si chiude attivando il relè T;
-
il relè T comanda il suo contatto t 1 che, chiudendo la linea 4, provoca l’eccitazione della
bobina x.
Esempio 2
Sequenza A+, B+, C+, A, B, C, ciclo continuo.
La logica di funzionamento è realizzata con tecnologia elettrica; il circuito
realizzato nella
figura M.74 è automatico singolo.
Il funzionamento è il
seguente:
-lo start attiva il relè O che chiude il
contatto o;
-
l’attivazione del contatto o1, in
parallelo con S, mantiene il relè
eccitato (automantenimento);
-
essendo o1 chiuso, il ciclo di avvia
ogni qual volta il finecorsa c0 dà
segnale;
-la continuità del ciclo si interrompe se si preme il pulsante di fine ciclo F, in quanto si aprono
i contatti o.
Prospetto fasi segnali
Prospetto M.5
ELEMENTI DI ELETTROPNEUMATICA M-63
5 ELEMENTI DI OLEODINAMICA
Elementi di base
1.
L’oleodinamica, o oleoidraulica, è una tecnologia che utilizza un fluido idraulico per tra-
sferire energia dal generatore all’attuatore.
L’oleodinamica è impiegata in operazioni nelle quali sono richieste potenze medie o
alte;
le pressioni di lavoro, abbastanza elevate (80 300 bar) soddisfano senza problemi le
condi- zioni di sicurezza.
Ciò è dovuto all’incomprimibilità dei liquidi: infatti, lo scoppio di una tubazione ad alta
pressione ha come unica conseguenza la fuoriuscita di liquido. Naturalmente, se a scoppiare
fosse un contenitore di gas sotto pressione, durante l’espansione si potrebbero avere danni
notevoli.
L’incomprimibilità del fluido consente, inoltre, di controllare con relativa precisione la
posizione degli attuatori, durante il movimento.
A causa dell’elevata densità rispetto all’aria si hanno problemi nell’utilizzo dei liquidi
come trasportatori di energia, quali ad esempio quelli accennati di seguito.
-Le perdite di carico nei condotti. È per questo motivo che bisogna limitare la lunghezza delle
F1 = p
A1
F1 = FF22 =
· A 1
p · A2 2
A
-----
Facendo
Si puòilconcludere
rapporto trache
le forze e ricavando
se la superficie A1 è minore della superficie A2, la forza F1 è
F1 si ottiene: minore di F2.
Legge di Stevino
La pressione P che un liquido esercita in un punto, all’interno della massa liquida (fig.
M.76), posizionato alla distanza h [m] dalla superficie libera è data dal prodotto della massa
volumica [kg/m3] del liquido, per l’accelerazione di gravità g [m/s2] e per la distanza h
[m].
P = · g · h [Pa]
· A1 · V1 = · A2 · V2
da cui si ricava che: V2 = V 1
A2
----- A1
Si può concludere che la velocità di un fluido in un condotto, supponendo costante la
velo- cità di ingresso, cresce con il diminuire delle dimensioni della sezione.
P1 v 2 P v
z 1 ---- ----
2 2+z ----2-= ----2-
1-+ +
2g + 2g
P
-----
1 = ----
Y+
P2
La legge di Stevino diventa un caso particolare dell’equazione di Bernoulli quando la
velo- cità è uguale a zero.
Un’altra conseguenza del teorema di Bernoulli è il teorema di Torricelli.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-67
v2g h=
-elevato potere lubrificante (per ridurre gli attriti degli organi in moto);
l’acqua).
Le caratteristiche dei fluidi quali, per esempio, viscosità, densità e potere lubrificante,
non sono costanti ma variano con la temperatura. Tali variazioni possono provocare
inconvenienti e malfunzionamenti sia alla pompa sia ai componenti dell’impianto e agli
attuatori. È necessa- rio, quindi, tenere la temperatura sotto controllo ed eventualmente
predisporre sistemi di scam- bio termico per farla rientrare nei limiti desiderati.
5.3 Sistemi oleodinamici
Come già per la pneumatica, anche i sistemi oleodinamici possono essere considerati
costituiti essenzialmente da un sistema di produzione d’energia, da un blocco di regolazione e
dagli attuatori.
La logica dei circuiti di comando è identica a quella vista nella parte di pneumatica, per
cui ci si riferirà a essa.
M-68 SISTEMI AUTOMATICI
Produzione di energia
La produzione d’energia consiste nel preparare il fluido in modo che possa alimentare gli
attuatori con la pressione e la portata richieste.
Il gruppo di produzione (fig. M.80) è costituito da una centralina oleodinamica i cui com-
ponenti sono essenzialmente:
a)due filtri (aspirazione e scarico, 1);
Il motore aziona la pompa che, attraverso il filtro, aspira olio dal serbatoio e lo manda
all’utenza alla pressione P richiesta e indicata dal manometro. Quando la pressione di
mandata supera il valore di taratura della valvola limitatrice di pressione, la pompa si mette a
scarico. L’olio, dopo aver alimentato gli attuatori, viene filtrato, raffreddato e inviato al
serbatoio.
Come si può osservare, l’impianto lavora in circuito chiuso; ciò è dovuto al fatto che si
uti- lizza un liquido per il trasporto di energia.
Filtri
Lo scopo dei filtri è quello di evitare che particelle in sospensione nel liquido,
provenienti dall’usura di guarnizioni o dall’esterno, possano danneggiare i componenti
dell’impianto.
I filtri possono essere di carta, feltro, tessuto o materiali porosi.
ELEMENTI DI OLEODINAMICA
M-69
Serbatoio
Il serbatoio è essenzialmente costruito in lamiera. Esso è dotato di due tubi, per l’aspira-
zione e il ritorno, separati da un setto forato che ha lo scopo di evitare che le turbolenze,
provo- cate dal tubo di ritorno, possano danneggiare l’aspirazione.
L’imbocco del tubo d’aspirazione e la parte terminale di quello di scarico presentano una
sezione obliqua, in modo che l’olio in aspirazione e in scarico non incontri resistenze elevate.
Il fondo del serbatoio è inclinato per raccogliere e facilitare lo spurgo di eventuali residui
depositati. Nel serbatoio sono presenti anche fori di ispezione e un filtro, utilizzato nella fase
di caricamento.
Le pareti in lamiera consentono al serbatoio di comportarsi come scambiatore di calore
per facilitare il raffreddamento del fluido e, allo scopo, possono avere delle alettature.
Pompe
Le pompe più comunemente utilizzate in oleodinamica sono quelle volumetriche (fig.
M.81). I parametri caratteristici delle pompe sono la prevalenza e la portata.
La portata Q [m3/s] di una pompa, assegnato il numero di giri, resta costante,
indipenden- temente dal valore assunto dalla pressione.
Q = v · V · n / 60
- v è il rendimento volumetrico della pompa;
-V [m 3] è la cilindrata;
-n [giri/min] è il numero di giri della pompa.
Le pompe volumetriche si possono classificare in rotative e alternative, come riportato
nello schema di figura M.81.
nella loro rotazione imprigionano liquido tra i vani dei filetti, piuttosto che aria, e lo
trascinano dall’aspirazione alla mandata.
Pompe a ingranaggi
Sono costituite da due ruote dentate ingranate all’interno di un involucro. Durante la rota-
zione il liquido, imprigionato tra il vano dei denti e l’involucro, viene portato
dall’aspirazione allo scarico. Come si può osservare, il funzionamento di queste pompe (fig.
M.82) è identico a quello delle pompe a viti e a lobi.
agisce la spinta esercitata da una molla. Quando la pressione del circuito produce una forza
maggiore di quella esercitata dalla molla l’otturatore si sposta, il liquido attraversa la valvola
e va a scarico.
Scambiatore di calore
Lo scopo degli scambiatori di calore è quello di fare raggiungere all’olio valori di
tempera- tura tali da non provocare danni.
Come si è già detto, temperature elevate comportano:
-diminuzioni del potere lubrificante;
-rapido degrado dell’olio con forte riduzione della sua vita e con la creazione di depositi che
-portata;
Regolatori di pressione
I regolatori di pressione (fig. M.85) sono costituiti da un cassetto scorrevole all’interno di
un cilindro. La regolazione, come si può osservare in figura, si ottiene con il movimento del
cassetto che tende a chiudere il passaggio del liquido quando la pressione aumenta e ad
aprirlo quando diminuisce.
I distributori oleodinamici possono essere a più di due posizioni e possono svolgere fun-
zioni diverse. Nella figura M.87 sono riportati i simboli dei principali distributori 4/3.
In questo caso, come si può osservare nella figura M.87, la posizione centrale della
valvola è quella di riposo. Le ipotesi più comuni che si possono avere nella posizione di
riposo pos-
sono essere:
1.alimentazione e utenza sono collegate allo scarico (gli attuatori si possono spostare facil-
mente);
2.alimentazione e utenza sono bloccate (valvole a centro chiuso), gli attuatori sono bloccati;
Figura M.88 Accumulatore a membrana (a, fonte: Hydraulik, Beuth) e circuito con
accumula- tore (b).
M-74 SISTEMI AUTOMATICI
5.5 Attuatori
L’energia idraulica generata dalla pompa viene convertita in energia meccanica dagli
attua- tori del moto. I movimenti che si possono ottenere sono lineari o angolari, con forze e
coppie abbastanza elevate. Gli ingombri degli attuatori sono relativamente ridotti.
I principali attuatori sono rappresentati dai cilindri e dai motori oleodinamici.
Cilindri
I cilindri oleodinamici sono utilizzati per ottenere movimenti lineari alternativi a velocità
relativamente basse e forniscono, a parità di alesaggio, spinte più elevate dei cilindri pneuma-
tici.
Pur essendo simili ai cilindri pneumatici, sono dimensionati in modo da resistere a pres-
sioni molto elevate e perciò hanno dimensioni maggiori.
La scelta dei cilindri si effettua in funzione delle prestazioni che sono richieste (spinta
e
velocità) durante il loro impiego.
I materiali utilizzati nella costruzione dei cilindri devono resistere a forti pressioni, perciò
il corpo del cilindro è realizzato in acciaio da costruzione, le testate possono essere in ghisa
legata (o acciaio) e lo stelo in acciaio bonificato.
Le guarnizioni devono avere la resistenza necessaria a impedire le fughe
d’olio. Si possono avere cilindri a semplice e doppio effetto e a stelo passante.
Cilindri telescopici
Questi cilindri sono costituiti da una serie di camicie (2 6) concentriche, a diametro
decrescente, inserite l’una dentro l’altra (fig. M.89a).
Possono essere a semplice e a doppio effetto e sono molto diffusi perché consentono
corse
molto elevate (comando ribaltabili camion, ascensori).
Motori
Questi motori oleodinamici (fig. M.90) sono utilizzati per trasformare l’energia idraulica
dei pistoni in moto rotatorio continuo. Essi sono costituiti essenzialmente da:
-una serie di pistoni a testa semisferica;
-un tamburo cilindrico al cui interno sono stati ricavati dei cilindri, nei quali possono muo-
versi i pistoni;
-un piano circolare inclinato, dotato di pista anulare, sulla quale poggiano dei pattini, collegati
-
quando lo stelo tocca il finecorsa Fc1, si eccita la bobina B e il distributore D 2 commuta,
costringendo l’olio a fluire attraverso la strozzatura, rallentando la velocità dello stelo;
-
quando lo stelo raggiunge il finecorsa Fc2, si diseccita la bobina B e si eccita la C, facendo
commutare il distributore D1;
-l’olio si dirige nella camera destra del cilindro e lo stelo rientra rapidamente.
CONTROLLORI PROGRAMMABILI
M-77
6 CONTROLLORI PROGRAMMABILI
Generalità
1.
CPU
La CPU (fig. M.94), che è il cuore del controllore, è costituita dal microprocessore e da
una serie di registri tra i quali si ricordano l’accumulatore, il registro delle istruzioni, il regi-
stro di lettura e scrittura, il registro contatore di programma e l’unità logico-aritmetica.
Dal tipo di microprocessore e dalla frequenza di clock dipende la velocità di esecuzione
delle istruzioni; tale velocità viene misurata in ms/kword. Sullo stesso modulo della CPU
sono installati anche le memorie RAM, ROM ed EPROM.
La dimensione massima del programma inseribile dipende dalla quantità di RAM ed
EPROM installate.
Le principali funzioni esercitate dalla CPU consistono:
-nell’acquisire i segnali in ingresso, creando un’immagine degli ingressi negli appositi registri
(nella memoria programma), decodificate ed eseguite secondo lo stato logico degli ingressi;
-nell’interrompere la sequenza normale del programma in presenza di salti e di richiami di
sottoprogrammi;
-nel generare i segnali di uscita, in relazione all’elaborazione delle varie istruzioni del pro-
Bus
È il canale fisico, costituito da conduttori elettrici, che consente il movimento del flusso
di dati dalle unità di Input e Output (I/O) alla CPU e viceversa.
Unità di memoria
Come si è detto, la memoria di un PLC è costituita da dispositivi a semiconduttore di
tipo
ROM, RAM, PROM, EPROM ed EEPROM.
La ROM (Read Only Memory) è una memoria a sola lettura. In essa è presente il pro-
gramma per la decodifica delle istruzioni (firmware).
La RAM (Random Access Memory), memoria ad accesso casuale, è utilizzata per i
dati di
transito. È definita memoria volatile, in quanto si perdono i dati in essa presenti quando il
PLC viene spento.
Le EPROM sono memorie riscrivibili con dispositivi particolari e, in genere, sono
utiliz-
zate per memorizzare il programma. Per cancellare programmi e dati presenti è necessaria
una lampada a raggi ultravioletti.
Moduli di Input
Sono i dispositivi che consentono di fornire al controllore tutte le informazioni relative al
processo da controllare. Come già detto, la CPU comunica con i moduli di input mediante
BUS.
Moduli di Output
Sono i dispositivi che consentono alla CPU di inviare al processo i segnali necessari al
suo controllo. Anche questi moduli comunicano con la CPU mediante BUS.
Figura M.95 Sistemi d’interfacciamento tra CPU e moduli di I/O: a) con relè; b) con fotoac-
coppiatori; c) con transistor.
I moduli di ingresso e di uscita sono collegati alla CPU tramite interfacce costituite da
fotoaccoppiatori, relè o transistor (fig. M.95). Non si effettua il collegamento diretto poiché
CPU e unità di I/O operano con tensioni differenti (24, 220 V per i moduli di input/output e
5 V per la CPU).
M-80 SISTEMI AUTOMATICI
-la ricerca guasti avviene in tempi molto ristretti poiché i PLC consentono la diagnosi e il
feriche di gestione;
2.eroga i segnali di uscita per il comando degli attuatori e per il dialogo con le periferiche;
4.svolge la sequenza di comando del processo secondo un programma prestabilito e non con
logica cablata.
Figura M.96 PLC con moduli di ingresso e uscita (fonte: GE - FANUC, serie 90).
Le due prime caratteristiche consentono di programmare e installare direttamente sul
campo i controllori a logica programmabile, senza alcuna precauzione riguardo eventuali pro-
tezioni che si rendono necessarie per altri strumenti di tipo informatico.
La terza caratteristica del PLC permette a qualsiasi operatore di avvicinarsi a esso senza
rinunciare alle proprie competenze.
L’ultima caratteristica menzionata riguarda la flessibilità del PLC; essa consente, infatti,
di cambiare un ciclo di produzione intervenendo solo sul software anziché sull’hardware del
pro- cesso automatico.
6.4 Elementi di programmazione dei PLC
La programmazione di un sistema automatico si compone di una serie di fasi, alcune con-
nesse con la configurazione del PLC, altre con lo sviluppo del programma di automazione.
La configurazione del PLC può riguardare la definizione del tipo di CPU,
l’indicazione
della posizione dei moduli di I/O e la numerazione degli ingressi e delle uscite.
La realizzazione dei programmi di automazione si ottiene mediante:
-la scrittura delle funzioni logiche;
-byte (B);
-parola (W);
-rilevazione di fronti;
-contatori;
-temporizzatori.
I programmi dei PLC sono insiemi logici composti dagli elementi del linguaggio di pro-
grammazione che permettono di gestire ed elaborare i segnali per il comando o il controllo di
macchine o di processi.
Diagramma a contatti
Il ladder diagram (diagramma a contatti), di provenienza elettrica, è stato il primo
linguag- gio grafico a essere utilizzato per la programmazione dei PLC, poiché sostituiva i
quadri a logica cablata realizzati con relè.
I segni grafici di un ladder diagram sono strutturati in modo da formare una rete elettrica,
a forma di scala, nella quale le linee di estremità rappresentano l’alimentazione.
Nella figura M.97 si rappresenta una semplice rete ladder, con due contatti C 1 e C2,
che
realizza la funzione logica Q1 = C1 · C2. Si ricorda che con l’algebra dei circuiti la AND
si rea- lizza con due contatti in serie.
M-84 SISTEMI AUTOMATICI
Il Grafcet
Il Grafcet, nato in Francia nel 1977, è un metodo grafico che consente l’analisi, la proget-
tazione e il controllo di sistemi automatici e la programmazione dei PLC.
Esso viene utilizzato, in genere, per costruire la struttura globale del controllo ed è abbi-
nato ad altri linguaggi quali il ladder o l’AWL.
Il Grafcet ipotizza che i sistemi automatici siano costituiti da un insieme di stati (fasi o
passi), collegati tra loro da transizioni.
Le transizioni sono le condizioni logiche che permettono il passaggio del sistema da
uno
stato al successivo.
La struttura per fasi/transizione del Grafcet si presta molto bene al controllo delle
sequenze realizzate con cilindri pneumatici.
Se si considera il sistema di sollevamento automatico della figura M.101, si osserva che
quando il contenitore arriva dal trasportatore inferiore 1 sul cilindro verticale A, lo stelo di A
esce sollevandolo e si ferma quando tocca il finecorsa a1.
Posizione di riposo
Dà il via all’inizio del ciclo
Esce quindi lo stelo del cilindro orizzontale B che lo sposta sul trasportatore superiore 2 e
finisce la corsa quando tocca il finecorsa b1. A questo punto rientra lo stelo del cilindro A
(toc- cando il finecorsa a0) e subito dopo quello di B, toccando il finecorsa b0.
Il sistema è descritto con il Grafcet nella figura M.102.
Sequenze semplici, alternative e contemporanee
Le sequenze possono essere semplici, alternative (fig. M.103) e contemporanee (fig.
M.104).
Con riferimento alle figure M.103 e M.104, si osserva che il PLC esegue il programma da
sinistra verso destra e dall’alto verso il basso.
Nel caso di sequenze semplici, il passaggio da uno stato al successivo si ha quando la
tran- sizione è completa.
Nel caso di sequenze alternative con più rami, viene eseguito solo il primo dei rami
con
transizione vera, gli altri non vengono neanche valutati (fig. M.103).
Nei programmi con sequenze simultanee, tutti i rami vengono valutati ed eseguiti,
indipen- dentemente gli uni dagli altri (fig. M.104).
Esempio di un processo in parallelo
La figura M.104 mostra un programma in linguaggio Grafcet di un ciclo automatico
con
M-86 SISTEMI AUTOMATICI
due processi, foratura e taglio, che funzionano contemporaneamente. Come si può osservare,
la rappresentazione grafica con il Grafcet risulta abbastanza comprensibile e rende immediata
ed espressiva la descrizione dei controlli.
Linguaggi strutturati
Sono linguaggi molto potenti, analoghi al Turbo Pascal, che vengono utilizzati anche
nell’elaborazione di programmi per la gestione di processi con PLC. Essi mantengono:
-la stessa sintassi (regole da rispettare nella scrittura dei programmi);
-le stesse strutture di programmazione: tipi di dati, selezione (If …. Then), iterazione (For …
Nella tabella M.14 sono riassunti i principali operatori, nella tabella M.15 si riportano le
principali istruzioni.
I principali vantaggi di questi linguaggi sono:
-elevata possibilità di applicazioni, impensabili con gli altri sistemi di programmazione; per