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I.I.S.S.

“Giovanni Caboto” – Trasporti e Logistica – Piazza Trieste n° 7 – 04024 GAETA (LT)

Appunti a cura del prof. Vincenzo Colombi – docente di Scienze e Tecnologie Applicate

MODULO N° 2 – UU.DD. 1 e 2 di SCIENZE E TECNOLOGIE APPLICATE


“ARMAMENTO MARINARESCO E MANOVRA DELLA NAVE”

I CAVI
Cavo è l’unico nome veramente marinaro usato per nominare tutte le corde, funi ecc., esistenti a bordo di
una nave o di un’imbarcazione, indipendentemente dal materiale di cui sono costituiti. Si parlerà comunque
di cordame per indicare tutti i cavi che compongono l’attrezzatura di una nave. Per indicare cavi di dimensioni
minori (diametro max di 15/20 mm), spesso sentiamo parlare di cima, nome che tra l’altro utilizziamo anche
per indicare le estremità di ciascun cavo, quando siamo soliti esercitarci ad eseguire i nodi marinari. In tutti i
casi, a bordo di una nave o imbarcazione, non si parlerà mai di corda. L’unica corda che esiste a bordo è quella
che muove il batacchio della campana.

A seconda della sostanza con cui sono fatti, i cavi si distinguono in:

a. Cavi vegetali, che sono ottenuti con la lavorazione delle fibre di particolari sostanze vegetali, quali la
canapa, il lino, il cotone, la juta, il cocco, la pitta ecc;
b. Cavi sintetici, ottenuti mediante la lavorazione di fibre sintetiche (ottenute quindi chimicamente),
quali il nylon, il terilene, il dracon ecc.;
c. Cavi metallici, costituiti da fili di acciaio;
d. Cavi misti – tutti quei cavi ottenuti dall’unione di fibre sintetiche con fili di acciaio. Questa tipologia
di cavi viene utilizzata soprattutto a bordo dei pescherecci.

I requisiti essenziali che ogni cavo, indipendentemente dalla sostanza di cui è costituito, deve possedere,
sono i seguenti:

1. Resistenza uguale in tutta la lunghezza del cavo: questa caratteristica dipenderà dalla qualità del
materiale utilizzato (vegetale, sintetico o metallico), e dalla bontà della confezione;
2. Buona flessibilità, allo scopo di poter essere maneggiato con praticità: dipenderà dalla fibra
impiegata;
3. Superficie liscia e regolare in tutta la sua lunghezza: dipenderà dalla buona manutenzione che verrà
eseguita a bordo della nave/imbarcazione;
4. Buona durata, dipendente dall’uso che se ne fa e dalla manutenzione cui il cavo è sottoposto
regolarmente.

CONSIGLI PRATICI PER UNA BUONA MANUTENZIONE A BORDO

I cavi vegetali sono soggetti, nel tempo, a marcire a causa dell’umidità e, per ovviare (o meglio, per ridurre)
a tale inconveniente, già in fabbrica vengono sottoposti ad un apposito trattamento con speciali sostanze,
che ne ostacolano la putrefazione. Questa operazione, chiamata concia, non rende però il cavo vegetale
completamente impermeabile, e per ottenere al meglio tale caratteristica, spesso quelli più soggetti a
putrefazione, come ad esempio i cavi di canapa, vengono trattati con sostanze catramose.

Per una buona conservazione dei cavi (sia vegetali che sintetici o metallici), è indispensabile sciacquarli
abbondantemente con acqua dolce, farli asciugare abbisciandoli all’aria libera e al sole, e successivamente,
ancora un po’ umidi, riporli in luoghi asciutti e ben ventilati (in una tuga o in una cala del nostromo). Per
quanto riguarda i cavi metallici, occorre innanzitutto evitare (o rallentarne il processo) la corrosione, e
sebbene questi vengano venduti dopo essere stati preventivamente zincati, occorre proteggerli con sostanze
grasse o oleose, dopo averli ovviamente sciacquati con acqua dolce e lasciati asciugare al sole e poi riporli in
luoghi asciutti e ventilati, così come accade per i cavi vegetali. Si avrà inoltre cura di non sottoporre i cavi a
carichi superiori a quello di sicurezza (circa i 2/3del suo carico di rottura “CR”), fissato, per ciascun cavo, dalla
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ditta costruttrice a seguito di collaudo del R.I.Na. Occorre controllare spesso lo stato di usura dei cavi,
esaminandoli attentamente per tutta la loro lunghezza, facendo particolare attenzione ai tagli, alle abrasioni
di una certa consistenza, al logorio da agenti chimici e, se si tratta di un cavo vegetale, alle muffe.

È opportuno non limitarsi, in questa operazione di ispezione, al solo controllo superficiale, ma


eventualmente, srotolare leggermente il cavo controllandone le condizioni interne; se le fibre risultassero
stinte, piuttosto logore e se si sentisse odore di muffa, sarebbe il caso di scartare il cavo. Se invece il cavo
risultasse logorato o deteriorato in un solo punto, lo si potrà tagliare e ricomporre con un apposito intreccio.
Tale operazione prende il nome di impiombatura. I cavi di ormeggio, siano essi vegetali che sintetici, vanno
protetti dall’attrito, nei punti in cui scorrono attraverso le bocche di rancio o le bitte, avvolgendoci intorno
della tela (cosiddetta fasciatura del cavo)

LA COMMETTITURA DEI CAVI

Per commettitura di un cavo, si intende il suo confezionamento, ossia l’operazione di torsione delle parti che
lo compongono. Le parti che compongono un cavo vegetale sono: le strisce, le filacce (o fili), i legnuoli, e
talvolta, l’anima. La striscia è costituita da un insieme di fibre (la cui quantità dipenderà dalla grandezza del
cavo che si vorrà confezionare), disposte parallelamente e con le estremità intercalate. La filaccia (o filo), è
la stessa striscia, dopo aver subito l’operazione di torsione, mediante la quale si rendono le fibre molto più
elastiche. Il legnuolo è costituito da più filacce avvolte in senso contrario alla loro torsione precedente. La
dimensione del legnuolo dipenderà ovviamente, dal numero di filacce che lo compongono. Tre o quattro
legnuoli torti tra loro, sempre in senso contrario alla loro torsione, generano il cavo piano rispettivamente a
3 o a 4 legnuoli. Molto spesso (quasi sempre), nel cavo piano a 4 legnuoli è presente l’anima (tanto è vero
che si parlerà di cavo piano a 4 legnuoli con anima), che consiste in un sottile legnuolo, attorno a cui vengono
torti i 4 legnuoli. La funzione dell’anima è di riempire lo spazio centrale lasciato vuoto dai 4 legnuoli, in modo
tale da conferire al cavo una maggiore resistenza, a parità di diametro, lasciandogli comunque la giusta
morbidezza. Se si torcono tra loro 3 cavi piani, si otterrà il cavo torticcio. A seconda della torsione finale dei
cavi piani, si parlerà di cavo torticcio a S (avvolgimento sinistro ossia in senso antiorario), oppure di cavo
torticcio a Z (avvolgimento destro, cioè orario).

La commettitura di un cavo metallico, invece, consiste in soli due passaggi: si prende un certo numero di fili
metallici, in genere di acciaio, e si avvolgono a spirale attorno ad un’anima vegetale (un legnuolo
opportunamente cosparso di catrame), ottenendo così il cordone (chiamato anche trefolo). La grandezza del
trefolo dipenderà dalla quantità di fili d’acciaio utilizzata per formarlo. Almeno 6 trefoli (e non meno), torti
attorno ad un’altra anima vegetale (anch’essa opportunamente catramata), daranno luogo al cavo metallico,

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la cui denominazione dipenderà dal numero di cordoni utilizzati (ad esempio “cavo metallico a 6 cordoni”
oppure “cavo metallico a 18 cordoni” ecc.)

TIPI DI CAVI

Considerando le dimensioni e l’uso cui sono destinati, i cavi vegetali si distinguono in:

a. Gómene: sono cavi generalmente torticci, aventi un diametro che può raggiungere i 15 cm, e che
spesso erano utilizzati per i rimorchi d’altura delle navi o delle piattaforme petrolifere. Oggigiorno,
questa tipologia di cavi è stata sostituita dai cavi metallici;
b. Gomenetta o mezza gómena: anch’essa generalmente torticcio, viene utilizzata come cavo di
tonneggio. Per tonneggio (detto anche alaggio) si intende lo spostarsi della nave lungo la banchina
facendo forza sui cavi dati volta attorno alla campana di un argano o di un verricello. Ha un diametro
che si aggira attorno ai 10 cm.
c. Gherlino: generalmente un cavo piano (ma può essere anche torticcio) che presenta un diametro di
6/7 cm. Questo cavo viene utilizzato come cavo di ormeggio delle navi e prende il nome a seconda
dell’uso che se ne fa. Avremo pertanto il gherlino da rimorchio, il gherlino da tonneggio, il gherlino
da ormeggio ecc.
d. Sagola: è un piccolo cavo piano (diametro non superiore ai 10/15 mm) utilizzato per issare le
bandiere, o per l’ormeggio di piccole imbarcazioni. In quest’ultimo caso, possiamo sentir parlare
anche di barbetta.
e. Merlino, commando, lezzino, sono sottili cavi piani, di diametro non superiore ai 2 mm, che sono
utilizzati per le fasciature dei cavi. Un tempo venivano usati per cucire le vele e/o le tende. La sagola,
il merlino, il commando ed il lezzino, rientrano nella categoria delle minutenze.

LA RESISTENZA DEI CAVI

La resistenza dei cavi dipende da vari fattori, e precisamente essa dipenderà dallo stato d’uso del cavo, dalla
presenza o meno di impiombature, dal fatto che sia bagnato o asciutto, e soprattutto dalla fibra impiegata.
Il carico di rottura (CR) di un cavo, che è lo sforzo massimo a cui il cavo può essere sottoposto, oltre il quale
si spezzerà, viene determinato dal R.I.Na. a seguito di severi collaudi e test. Dopo averlo torto e ritorto,
bagnato e asciugato velocemente, e contemporaneamente messo in trazione, un macchinario specifico
determinerà il carico che ha permesso la rottura del cavo. Esiste comunque una formuletta pratica
(approssimativa) che ci permetterà di determinare i 2/3 del carico di rottura, ossia quella trazione massima
che è preferibile non superare quando si utilizza il cavo a bordo di una nave. Per i cavi vegetali e sintetici si
avrà dividendo la circonferenza(1) del cavo elevata al quadrato (C2) espressa in centimetri, per 25 che è un
numero fisso. Il risultato sarà espresso in tonnellate. È bene ricordare che un cavo impiombato ha una
resistenza ridotta di 1/8 nel punto in cui è stato aggiuntato.

Lo stesso dicasi per il carico di rottura di un cavo metallico. Anch’esso subisce lo stesso collaudo da parte del
R.I.Na. Ma anche per tale tipologia di cavo, è possibile utilizzare una formula approssimativa in grado di
determinare la resistenza d’uso (ossia i 2/3 del carico di rottura), quella resistenza che a bordo di una nave è
sempre meglio non superare. La formula è la seguente:

2/3 CR = C2 x 350

dove per C2 si intende la circonferenza(1) del cavo espressa in centimetri elevata al quadrato, 350 è un numero
fisso, ed il risultato, è espresso in Kg (e non in tonnellate come per il cavo vegetale/sintetico).

(1) la circonferenza è data da 2πr oppure, sarebbe come dire: d (diametro) x 3.14

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NOMENCLATURA E DISPOSIZIONE DEI CAVI IN BANCHINA

Pr = cavo alla lunga di prua

T1 = traversino di prua

S1 = spring di prua

S2 = spring di poppa

T2 = traversino di poppa

Pp = cavo alla lunga di poppa

Generalmente, durante l’ormeggio di una nave in banchina e/o su un pontile, i primi cavi che vengono
“incappellati” nelle colonnine d’ormeggio, sono i cavi alla lunga. Mentre i cavi che generalmente vengono
mollati per ultimo durante il disormeggio, sono gli spring. Qualora il comandante decidesse di “sfilare”di prua,
farà mollare tutti i cavi fatta eccezione per lo spring di poppa. In questo caso, andando indietro con il motore,
la tensione dello spring farà allargare la prua della nave. Nel momento in cui si sarà allargato del necessario,
lascerà che lo spring vada in bando (allentare la tensione del cavo), e successivamente, dopo averlo mollato,
si discosterà dalla banchina con l’ausilio del motore in avanti adagio.

Nel caso in cui dovesse decidere di “sfilare” di poppa, dopo aver fatto mollare tutti i cavi, lascerà solamente
lo spring di prua. Andando avanti adagio con il motore, la stessa tensione del cavo permetterà alla poppa
della nave di allargarsi, quel giusto necessario che gli permetterà, nel momento in cui il cavo andrà in bando
e sarà mollato, di indietreggiare lentamente e di discostarsi dalla banchina. Ovviamente, questo tipo di
manovra non sarà necessaria, qualora la nave fosse dotata di eliche di manovra di prua e/o di poppa (bow
thruster and stern thruster), o nel caso in cui fosse assistita da uno o più rimorchiatori.

LE CATENE PER ANCORE


Le catene sono formate da diversi anelli in ferro o in acciaio di forma ellittica, quadrata o tonda, generalmente
a sezione circolare. Questi anelli, che sono chiamati maglie, sono saldamente uniti gli uni agli altri formando
degli spezzoni di catena lunghi 27,5 metri, chiamati lunghezze di catena o tese di catena. Le catene per ancore
hanno le maglie dotate di un rinforzo centrale chiamato traversino il cui compito è quello di conferire una
particolare resistenza alla catena e di impedire l’allungamento e la conseguente deformazione delle maglie.
Lo spessore della maglia viene chiamato calibro e si esprime in millimetri (o in pollici nel sistema
anglosassone).

Le catene, dopo averle collegate alle ancore, vengono collocate in appositi locali sistemati a prua, nel gavone,
uno per lato, chiamati pozzi delle catene. Per poter dar fondo l’ancora, o per poterla salpare, viene usato il
verricello salpancore, che è un macchinario elettrico (sulle imbarcazioni) o idraulico (sulle navi) che muove

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uno o due assi orizzontali (nel verricello oppure verticale nell’argano), intorno ai quali ruota un tamburo alla
cui estremità è sistemata una ruota ad impronte chiamata barbotin; attorno ad essa si avvolge e trovano
alloggio le maglie della catena. In vicinanza dell’occhio di cubìa, si trova un apparecchio chiamato arrestatoio
destinato a trattenere la catena e fare in modo che la tensione esercitata dalla catena di una nave all’ancora,
non venga ad interessare il verricello (o argano), ma l’arrestatoio stesso. Normalmente, questo macchinario
è del tipo a ganasce.

Ciascuna lunghezza di catena verrà poi unita alle altre, grazie alle maglie di unione, tra le quali ricordiamo:

a. maglia capo-testa: questa maglia non è dotata di traversino, e per questo si noterà più facilmente,
ed è dotata di un calibro maggiore rispetto alle maglie della catena che costituiscono la lunghezza;
b. Maniglione ad U: sono quelle speciali maglie di unione dotate di un perno svitabile che permetterà
alle maglie di due lunghezze di catena contigue, di essere unite. Non viene ormai più adoperato;
c. Maglia a molinello: è una maniglia priva di traversino, dotata di un perno terminante con un golfare,
attorno al quale la maniglia può ruotare liberamente ed autonomamente. Viene utilizzata per unire
due lunghezze di catena, ed ha il pregio di evitare che la catena possa prendere delle volte attorno a
sé stessa, quando la nave gira attorno all’ancora per via del vento;
d. Maglia Kenter: è una speciale maglia di unione di due lunghezze di catena, la più utilizzata a bordo
delle navi, formata da vari pezzi che si collegano tra loro ad incastro ed immobilizzati da una spina
conica trasversale. La maglia “Kenter”, chiamata anche falsa maglia, è molto simile ad una maglia
con traversino, solo che ha un calibro maggiore.

c) maglia a molinello d) maglia Kenter b) maniglione ad U

a) maglia capo-testa

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MARCATURA DELLE LUNGHEZZE DI CATENA

Conoscere quante lunghezze sono state filate, o quante ne devono ancora essere salpate, è di grosso aiuto
al comandante durante le operazioni di ancoraggio. Per le imbarcazioni da diporto, si è soliti verniciare la/le
maglie corrispondenti ogni 5 o 10 metri. Sulle navi, invece, le lunghezze di catena vengono marcate (segnate)
con appositi segni, costituiti generalmente da filo di rame dato volta attorno ai traversini delle maglie
interessate. La prima lunghezza, ad esempio, viene marcata avvolgendo il filo di rame sul traversino della
prima maglia situata a proravia (davanti) la maglia di unione, e sul traversino della prima maglia che si trova
a poppavia (dietro) la maglia di unione. Sempre come esempio, se si vuole marcare la 5a lunghezza di catena,
si avvolgerà il filo di rame sul traversino della quinta maglia situata sia a proravia che a poppavia della maglia
di unione… e così via per tutte le lunghezze a disposizione su una nave. Un tempo, ogni lunghezza di catena
filata in mare, veniva segnalata dal marinaio o dal nostromo addetto alla manovra del verricello, con tani
colpi di campana per quante erano le lunghezze di catena filate. Oggigiorno, si è soliti avvisare la plancia di
comando, con comunicazioni dirette via radiolina di bordo.

RESISTENZA DELLE CATENE

Ogni catena, prima di essere messa in commercio, subisce un accurato collaudo, così come accade per i cavi.
Esiste, anche in questo caso, una formuletta pratica, sebbene approssimativa, in grado di fornirci il carico di
rottura (CR) della catena:

CR o RR (resistenza alla rottura) = 40 x d2

dove CR o RR è espresso in chilogrammi e d (calibro della maglia, ossia lo spessore) è espresso in millimetri, e
40 è un numero fisso. È buona norma, comunque, non sottoporre mai la catena a sforzi prossimi alla sua
resistenza alla rottura, ma di non superare mai la sua quarta parte. Pertanto, è consigliabile tener presente
la resistenza d’uso della catena (RU), che è data approssimativamente dalla seguente formula pratica:

RU = ¼ CR = 10 x d2

dove il risultato sarà sempre espresso in chilogrammi ed il calibro in millimetri.

È importante anche conoscere il peso di una catena con traversino lunga 100 metri, che approssimativamente
è dato dalla seguente formula:

P100 mt = 2,20 x d2

in cui il peso è espresso in chilogrammi ed il calibro (d) è sempre in millimetri.

LE ANCORE
L’ancora, accessorio indispensabile che fa parte dell’armamento di una nave, nel momento in cui è unita alla
catena, serve a trattenere la nave all’ormeggio, sia in rada (tratto di mare antistante il porto) e sia in banchina.
L’ancora è costruita generalmente in acciaio ed il suo peso, così come la lunghezza e le dimensioni della
catena cui è collegata, sono proporzionali al dislocamento (peso) della nave. Le ancore che una nave tiene
pronte sui masconi, passando attraverso gli occhi di cubia, ossia quelle utilizzate nelle operazioni di
ancoraggio, vengono chiamate ancore di posta, mentre l’ancora di rispetto, spesso detta di speranza, è quella
che una nave mantiene rizzata (bloccata) in coperta e pronta ad essere utilizzata nel momento in cui si perde
l’ancora di posta.

I requisiti di un’ancora sono i seguenti:

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a. Facile presa con il fondo del mare;


b. Ottima e duratura tenuta sul fondo;
c. Facile e pratica sistemazione a bordo

L’ancora, da come si evince nella fig. 194, si compone delle seguenti parti:

1. Cicala
2. Ceppo
3. Fuso
4. Marra
5. Orecchia
6. Unghia
7. Bracci
8. Diamante

Dal fuso, che ha una forma tronco-conica piuttosto allungata, si diramano, inferiormente, due bracci
generalmente ricurvi verso l’alto. Nella parte finale del fuso (in alto) è presente la cicala a cui viene collegata
il maniglione che serve per l’attacco della catena, mentre la parte inferiore del fuso da cui si diramano i bracci,
è chiamata diamante, se si tratta di ancora a bracci fissi, o maglio nelle ancore a bracci articolati. All’estremità
dei bracci ci sono le marre, che hanno generalmente una forma appuntita ed appiattita. Le parti laterali di
ciascuna marra si chiamano orecchie, l’estremità superiore è detta unghia ed infine la parte centrale prende
il nome di patta. Nella parte superiore del fuso, su alcuni tipi di ancore (di tipo Ammiragliato), è presente un
foro entro cui trova alloggio il ceppo, che è una trave di ferro disposta perpendicolarmente ai bracci. La
funzione del ceppo è quella di garantire ad un braccio, che in questo caso è fisso, di disporsi verticalmente
(quando la catena viene in forza), in modo che possa penetrare nel fondale (mordere il fondo).

ANCORE A MARRE ARTICOLATE CON CEPPO

Appartengono a questa categoria, le ancore di tipo “Romano” e quelle di tipo “Ammiragliato”:

a. Ancora di tipo “Romano” (fig.196): è un’ancora nata prima di


quella “Ammiragliato”, con la differenza che presenta un ceppo
in legno e non sfilabile, quindi fisso, disposto
perpendicolarmente ai bracci;

b. Ancora di tipo “Ammiragliato” (fig. 197): è un’ancora simile alla


precedente, che presenta un ceppo in ferro anziché in legno,
disposto anch’esso in modo perpendicolare rispetto ai bracci. In
questo tipo di ancora, è possibile sfilare il ceppo da un lato,
soprattutto quando l’ancora viene disposta sulla nave dopo che è
stata salpata. È un’ancora che oramai la si trova solamente su
qualche antico bastimento a vela; ma la si può notare ancora sulla
nave scuola “Vespucci” in dotazione all’Accademia Navale di
Livorno. Era un’ancora che offriva una buona tenuta sul fondo, soprattutto se di natura fangosa e
sabbiosa. Ma aveva l’inconveniente che quando la nave era all’ancora, la catena (o il cavo) poteva
prendere delle volte attorno al braccio che rimaneva al di fuori del fondale.

ANCORE A MARRE ARTICOLATE SENZA CEPPO

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Appartengono a questa categoria, le ancore moderne:

a. Tipo “Hall”: un’ancora di ideazione inglese, è quella che


maggiormente la si trova a bordo delle moderne navi
mercantili, proprio perché offre un’eccezionale tenuta
su quasi tutti i tipi di fondali. Dal maglio partono i due
bracci, e attraverso un foro praticato in esso, passa il
fuso dell’ancora che è libero di ruotare di 40°/45°
(cosiddetto angolo di presa), caratterizzando
l’articolazione delle due marre. Il maglio è dotato di due
sporgenze, chiamate orecchioni, i quali sostengono
quasi tutto lo sforzo quando l’ancora è sottoposta a
trazione.
b. Ancora di tipo “Inglefield”: in questo tipo di ancora le
marre sono costituite da due pezzi separati e tenuti
assieme attraverso ad un perno, che rappresentava, tra
l’altro, il suo punto debole.

ANCORE A MARRE ARTICOLATE CON CEPPO


a. Ancora di tipo “Trotman”: probabilmente è una delle
prime ancore appartenenti a questa categoria. È dotata
di ceppo, posizionato perpendicolarmente ai bracci, e di
due bracci che ruotano attorno ad un perno fisso nel
fuso, come un bilanciere. In questo modo solo un braccio
mordeva il fondale, mentre l’altro si appoggiava sul fuso,
eliminando pertanto il fastidioso problema
dell’ammarramento che si riscontrava nelle ancore
Ammiragliato o Romano;
b. Ancora di tipo “Martin”: ancora a marre articolate, dotata di
un ceppo, sempre in acciaio, ma disposto parallelamente ai
bracci. In questo caso il ceppo contribuiva a migliorare la
tenuta dell’ancora sul fondo marino. Era in dotazione delle
antiche navi da guerra.

ANCORE SPECIALI
Appartengono a questa categoria, tutte quelle ancore che non troveremo mai sulle navi ma
solamente sulle imbarcazioni e sui natanti.

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a. Ancora CQR: è un’ancora priva di ceppo, e al posto dei


bracci presenta una sola marra articolata al fuso a forma di
vomere. Offre ottimi risultati su tutti i tipi di fondali.
Quando è a bordo, viene di solito poggiata su un accessorio
chiamato musone all’estremità del quale trova alloggio una
carrucola in grado di permettere e facilitare il passaggio
della catena e o della cima collegata all’ancora;
b. Ancora Bruce: è un tipo particolare di ancora costituita da
un monoblocco di acciaio fuso in cui non è presente alcuna
parte articolata, ma solo un braccio munito di una patta a
tre alette. Nasce per uso industriale per essere utilizzata, e
lo è tuttora, per l’ancoraggio delle piattaforme nel mar del
Nord;
c. Ancora Danforth: ancora con patte piuttosto larghe ed
appuntite, articolate, ma piuttosto deboli. Ed è proprio
questo il motivo per cui viene utilizzate sui natanti di piccole
dimensioni, ed ha una buona tenuta su fondali fangosi e
sabbiosi, ma di certo non su quelli algosi, dove le patte,
troppo larghe, tendono spesso a scivolarci sopra.

CENNI SULL’ANCORAGGIO

ANCORAGGIO ALLA RUOTA IN RADA (e con una sola ancora)

Innanzitutto la scelta del luogo dove dar fondo è fondamentale: il fondale deve essere un «buon tenitore» e
generalmente il fondale sabbioso o fangoso è quello più idoneo. Un po’ meno buono è il fondo pietroso o
con alghe, dove l'ancora può non prendere bene e arare o addirittura scivolare, nel caso appunto di un fondo
algoso.
Assolutamente sconsigliabile il fondale roccioso, perché sullo scoglio l'ancora o saltella senza far presa
oppure si incastra in un anfratto, rendendo così difficile il suo recupero.
L'imbarcazione deve avere un velocità minima, con la prua al vento (o, se esiste ed è prevalente, alla corrente)
e al momento giusto, si dà l'ordine fatidico: «fondo l’ancora!».
Il marinaio, o il nostromo, lascia cadere l'ancora che con un bel tonfo si infila sott'acqua e scende veloce...
È il momento di dare indietro per fermare l'abbrivo e avere così il cavo o la catena che scende verticale.
Si sa quant'è il fondale e si fila quindi una lunghezza di calumo (lunghezza totale della catena filata) pari a tale
valore, in modo che questo rimanga praticamente verticale.
Si va allora un poco indietro, tanto per abbrivare lo scafo facendo bene attenzione a non trascinare il cavo (o
la catena) ma di lasciarlo svolgere via via che si va indietro. È l'operazione più delicata, perché può non essere
facile rendersi conto del corretto filaggio del calumo: se filate poco e lo scafo è abbrivato indietro si rischia
di trascinare l'ancora che ancora non ha fatto buona presa: ci si accorge di questo perché il cavo viene in
forza e si tende eccessivamente; se si fila troppo c'è il rischio che il cavo si abbisci sull'ancora stessa creando
un groviglio, addirittura impedendole di far presa. Filando tanto quanto lo scafo arretra è la maniera corretta.
Se tutto procede bene bisogna filare una lunghezza di calumo appropriata al tipo di ancoraggio, in funzione
soprattutto di due fattori: lo stato del tempo (vento e corrente) e la durata della prevedibile permanenza.
Se si tratta di una breve sosta, la lunghezza di calumo può essere non eccessiva, comunque mai meno di tre
volte la profondità. In questo caso a bordo deve rimanere sempre qualcuno in grado di prendere gli opportuni

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provvedimenti in caso di cattiva tenuta: non fate cioè lo sbaglio di abbandonare la barca fidando nella buona
tenuta per poi vederla scarrocciare pericolosamente verso altre barche o, peggio, verso qualche secca.
La lunghezza di calumo consigliabile è da tre alle sei volte la profondità, per il semplice motivo che, qualora
il cavo (o catena) venga in forza, la catenaria sia minima a tal punto da rischiare di spedare l'ancora.
Se il tempo non è molto buono, o perlomeno le condizioni di mare e vento tendono a mettere in forza il cavo
è bene allungare il calumo, sempre per lo stesso motivo.
E se il tempo dovesse peggiorare ancora, bisogna salpare e andare in mare aperto. Meglio affrontare il mare
con lo scafo che governa che lottare con un ancoraggio precario. In tal caso si potrebbe optare di ricercare
un altro ridosso. Mentre si è alla fonda ricordarsi che bisogna esporre il segnale relativo a tale condizione,
ossia un pallone nero in una posizione ben visibile e issato verso prora se la lunghezza dello scafo è inferiore
a 50 metri (Regola 30 del Regolamento per prevenire gli abbordi in mare).
Un controllo con la bussola da rilevamento su alcuni oggetti facili a riconoscersi sulla costa è sempre
consigliabile, giusto per vedere se l'ancora fa il suo dovere.
LINEA D’ORMEGGIO
Esaminiamo quali sono le forze in gioco in un ormeggio alla ruota. Lo scafo, ormeggiato alla ruota con una
sola ancora, è soggetto alle forze perturbatrici esterne (vento, corrente, onde) che tendono a spingerlo
facendolo indietreggiare. A questa forza si oppone la catena con una forza S (fig. 210), che si trasmette
all’ancora e che immaginiamo applicata ad essa.
Scomponendo questa forza S nelle due componenti secondo le direzioni orizzontali e verticali, si ottengono
le due forze O e V. Di queste due forze, la prima (O) è quella che si oppone allo spostamento dello scafo ed è
anche quella che agisce sull’ancora imprimendole la forza necessaria affinché possa mordere il fondale; la
seconda forza (V) è quella è quella che tende a spedare l’ancora (farla fuoriuscire dal fondo). Dalla figura 210
si nota come le due forze componenti O e V dipendano dall’ampiezza dell’angolo α; ciò significa che la
componente di tenuta (O) aumenta con il diminuire dell’angolo α, mentre la componente verticale e V, che
tende a spedare l’ancora, aumenta con l’aumentare dell’angolo α. Tutto questo significa che maggiore sarà
il numero di lunghezze di catena filate in mare, tanto migliore e più sicuro sarà l’ancoraggio in mare aperto.

ANCORAGGIO IN ANDANA NEL PORTO

Nei porti l’ormeggio può essere fatto ad un molo perpendicolarmente ad esso, con ormeggio a tre o a quattro.
Nel caso che vi sia una fila di altre navi o imbarcazioni ormeggiate tutte fianco a fianco, tale ormeggio viene
detto in andana (con la poppa diretta verso la banchina) e la distanza tra le varie navi deve essere sufficiente
ad evitare reciproci danni causati dalla risacca. L’ormeggio più sicuro è quello che si fa normalmente a

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I.I.S.S. “Giovanni Caboto” – Trasporti e Logistica – Piazza Trieste n° 7 – 04024 GAETA (LT)

Appunti a cura del prof. Vincenzo Colombi – docente di Scienze e Tecnologie Applicate

quattro, ossia disponendo due ancore a prua ben “afforcate” (si chiama angolo di afforco l’angolo che le
catene delle due ancore formano tra di loro, e preferibilmente dovrà essere di 90°-120°), e due ormeggi a
poppa incappellati alle colonnine d’ormeggio che sono sistemate in banchina. Generalmente tale ancoraggio
è preferito nei casi in cui si teme un rinforzo del vento e/o della risacca.

Ovviamente quanto sopra detto a proposito degli ancoraggi (sia in rada che in porto), ha un valore puramente
indicativo, ed è soggetto a subire variazioni a seconda delle differenti ed innumerevoli circostanze che si
presentano di volta in volta. È perciò compito del comandante decidere e comportarsi secondo le situazioni
del momento, nel rispetto delle buone norme dell’arte marinara.

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