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Capitolo 3.

Cause del collasso

3.1. Descrizione dell’evento calamitoso.

L’anno 1935 stava per essere ricordato come una delle annate più siccitose a memoria
d’uomo. La crisi idrica, oltre che arrecare gravi danni all’agricoltura, costrinse le O.E.G. a
programmare un drastico taglio della produzione elettrica. Ciò aveva come inevitabile
conseguenza la chiusura degli scarichi della diga con effetti negativi sul minimo deflusso del
Torrente Orba, ormai in perenne secca. Tuttavia alle ore 6:30 del 13 agosto un boato di tuono
spezzò la monotonia degli ultimi mesi e alle 7:30 si abbatté su Molare ed Ovada un vero e
proprio nubifragio. Secondo Tropeano (1989) “Nel bacino dell’Orba cadono 364 mm di
pioggia in meno di 8 ore. I dati pluviometrici registrati in tutte le stazioni del circondario
furono a dir poco sconcertanti. La valutazione delle portate che caratterizzarono l'evento del
1935 non fu effettuata sulla base di dati raccolti in località Ortiglieto, perché la società
costruttrice O.E.G. non ritenne necessaria l'installazione in loco di stazioni pluviometriche di
monitoraggio. I dati vennero quindi presi dalle aree limitrofe, in particolare si registrarono
453 mm di pioggia nella durata di 8 ore in località Piampaludo (Comune di Tiglieto, alta
Valle Orba), 377 mm a Masone (alta Valle Stura), 390 mm a Belforte (Valle Stura, poco a
monte di Ovada), 554 mm in Località Lavagnina (Valle Piota). Un evento eccezionale, che
rilasciò in meno di 24 ore un volume d'acqua pari al 30% delle medie annue della zona. Il
corso d’acqua aumentò rapidamente di livello e, in corrispondenza del Lago di Ortiglieto,
raggiunse una portata di deflusso pari a circa 2300 m3/s.
Durante le prime ore della mattina del 13 agosto 1935 gli scarichi della diga principale
rimasero chiusi, ma ben presto il guardiano della diga si accorse che il livello dell’acqua stava
innalzandosi vertiginosamente. Furono allora attivati i sifoni che subito scaricarono a
massimo regime assieme allo sfioratore di superficie. La portata massima scaricabile
dall’impianto era pari a 855 m3/s. Alle ore 10:30 la valvola a campana si bloccò a causa del
troppo fango e detriti che andavano via via accumulandosi sul fondo del lago. Anche lo
scaricatore di fondo ebbe analogo problema. “Da questo momento gli avvenimenti
precipitano: alle 10 il livello del lago aveva già raggiunto quota 318,08 m; alle 10:50 il lago
raggiungeva la quota di massima ritenuta normale pari a metri 322; dalle 10:45 alle 12:30
l’uragano si attenuò alle 12:30 il livello del lago raggiungeva la quota della sommità della
diga di Sella Zerbino (324,50 m) e cominciava a stramazzare al di sopra di essa. La pioggia
subito dopo le 12:30 riprendeva a cadere con violenza spaventosa. Il livello del lago si
sopraelevava ancora e raggiungeva alle ore 13:15 la quota di 326,67 m (dalla deposizione
processuale di Abele De Guz, guardiano della diga). Ormai le due dighe erano sovrastate da
una lama d’acqua di quasi 3 m. Alle ore 13:15 si interruppero le comunicazioni telefoniche tra
la Diga Principale e la centrale elettrica. La diga Secondaria e gran parte della Sella Zerbino
collassarono sotto la spinta di una massa d’acqua e fango stimata tra i 20 e 25 milioni di metri
cubi. L’ondata che si generò percorse tutta la vallata travolgendo tutto ciò che trovava sul suo
percorso: un vicino ostello posizionato frontalmente a Sella Zerbino, la centrale elettrica
(evacuata in tempo), la Diga di Compensazione, numerosi ponti stradali e ferroviari e
naturalmente intere borgate poste nelle vicinanze dell’asta fluviale. L’ondata raggiunse la
cittadina di Ovada in circa 20 minuti. Già dalle prime ore del mattino molte persone del
“Borgo di Ovada” evacuarono le loro abitazioni allarmate dall’improvvisa piena del torrente.
Gli Ovadesi che al riparo sulla sponda opposta e più elevata rispetto al Borgo videro
l’immane ondata travolgere tutto narrano ancor oggi con sgomento i più tragici istanti della
loro storia: “le case si aprivano come libri ...” Le vittime del Borgo di Ovada furono circa 60.
L’ondata terminò la sua corsa molti chilometri più a valle, alla confluenza con il Fiume
Bormida causando ovunque morte e distruzione. Complessivamente le vittime furono stimate
tra le 110 e le 115 unità.
3.2. Cause geologiche-strutturali.

È opinione comune che la causa unica del disastro di Molare sia imputabile al non corretto
dimensionamento degli scarichi della diga principale di Bric Zerbino, rispetto ad un evento
meteorico anomalo. In realtà il nubifragio che flagellò l’Alta Valle Orba fu solo il fattore
scatenante della catastrofe che portò non solo al crollo della diga secondaria ma anche al
collasso di Sella Zerbino sulla quale era fondata ed il conseguente taglio di meandro lungo il
quale era posizionata la Diga Principale. È opportuno ricordare che a seguito di un successivo
violento temporale (25 agosto 1935), l’erosione del Torrente Orba determinò un ulteriore
approfondimento dell’incisione ove prima sorgeva Sella Zerbino, pari ad altri 20 m. Dal 13
agosto 1935, nei successivi settant’anni, l’erosione fluviale ha determinato un abbassamento
complessivo dell’alveo pari a circa 40-45 m. La storia progettuale dell’invaso di Ortiglieto
durò circa trent’anni. In questo lungo periodo l’unico elaborato di carattere geologico a
supporto della progettazione fu rappresentato dalla relazione del prof. Salmoiraghi (1899) del
Politecnico di Milano. La relazione consisteva in non più di cinque pagine, che descrivevano
in maniera generale le peculiarità della Valle Orba, e non era supportata da alcuna indagine di
dettaglio in sito. In altre parole non furono eseguiti sondaggi e neanche campionamenti di
superficie né tanto meno analisi strutturali sugli ammassi rocciosi. I contenuti della relazione
furono probabilmente dedotti da sopralluoghi e da esperienze precedentemente acquisite in
altri progetti ed in aree assolutamente non assimilabili alla località di Ortiglieto. Il geologo
evidenziò tuttavia che l’esistenza delle selle poteva essere riconducibile alla presenza di rocce
maggiormente erodibili sostenendo che “Tutte le rocce attraversate in questa regione delle
anse sono compatte; nessuna di facile erodibilità appare in contatto del torrente, bensì se ne
trovano degli affioramenti in alcuni affluenti laterali e nelle selle”. La conclusione di
Salmoiraghi fu comunque lapidaria: “Oso dire, che in qualsiasi punto di questa regione può
con sicurezza impiantarsi uno sbarramento… Anche rispetto alla impermeabilità intrinseca
della roccia non possono nascere dubbi”. Questo elaborato fu ripetutamente trascritto e mai
modificato durante le importanti varianti effettuate al progetto iniziale. Quando nel 1924 la
cosiddetta “Commissione di controllo del Gleno” (istituita con decreto ministeriale e costituita
dagli ing. L. Cozza, G. Fantoli, C. Guidi e L. Dompé) visitò il cantiere di Località Ortiglieto,
vennero messe in evidenza alcune perdite di acqua al di sotto della diga secondaria di Sella
Zerbino. Il terreno su cui era stato posto lo sbarramento presentava infatti zone di permeabilità
elevata, che ben presto, con il riempirsi del lago, determinarono infiltrazioni alle quali i
tecnici delle O.E.G., sollecitati dalla commissione di controllo, fecero fronte (senza risultati
soddisfacenti) con iniezioni di calcestruzzo. Era tuttavia noto che i terreni di fondazione non
fossero ottimali. Prova ne fu, come già detto, la realizzazione della galleria di carico, la quale
incontrò appunto materiali poco compatti ed assai fratturati. Un’ulteriore evidenza è
rappresentata dalla tipologia d’opera realizzata sulla Sella Zerbino. In uno dei primi progetti
dell’ing. Zunini, fu prevista in tal loco una diga a sfioro. Durante l’esecuzione delle opere fu
chiaro però che tale progetto era irrealizzabile sia per l’incremento dell’altezza d’invaso
apportata dall’ing. Gianfranceschi, sia per l’elevata erodibilità delle rocce che avrebbe
costituito un grave problema durante il deflusso delle acque lungo la sella. La presenza di
livelli milonitici, determinò in fase di realizzazione numerosi problemi che aumentarono ad
invaso avvenuto e divennero pregiudizievoli durante un evento pluviometrico critico. I livelli
milonitici, intensamente foliati, rappresentarono infatti la zona di debolezza dell’ammasso
roccioso costituente Sella Zerbino. Nonostante le sue modeste dimensioni, fu quindi la Diga
Secondaria a collassare, essendo stata costruita su rocce poco compatte e intensamente
fratturate. La Diga Principale invece era stata fondata su rocce serpentinitiche relativamente
più compatte, che tuttavia necessitarono in fase di realizzazione di iniezioni cementizie in
corrispondenza della spalla sinistra. Le caratteristiche meccaniche del substrato roccioso sono
state recuperate dai risultati della campagna investigativa sperimentale finanziata nel 1980
dall'amministrazione regionale piemontese, per valutare i costi di un impianto polifunzionale
volto a rivitalizzare lo sfruttamento dell'Orba. La finalità di una simile indagine, condotta
attraverso metodi di rifrazione geofisica, fu quella di ricostruire la stratigrafia del suolo, e
distinguere la formazione rocciosa attraverso un opportuno indice ovvero l’RQD (Rock
Quality Designation). I risultati ottenuti sono di seguito riportati in figura.
Risulta evidente la scarsa compattezza del substrato sul quale era fondata la diga. Inoltre tali
sondaggi consentirono la valutazione della conducibilità idraulica delle rocce, attraverso
prove in situ, mostrandone l’eccessiva permeabilità.

3.3. Cause idrologiche e idrauliche.

Il crollo della diga secondaria di Sella Zerbino è un chiaro esempio delle gravi conseguenze
che comporta il trascurare in fase progettuale i fattori geologici e, più in generale, ambientali e
climatici di un determinato sito. Le più accreditate stime valutarono la portata della piena del
Torrente Orba all’altezza della Diga Principale tra 2000-2300 m 3/s. Gli apparati di scarico
della Diga come già enunciato, consistevano in: uno scarico di fondo, uno di alleggerimento,
scarichi automatici di superficie a sifone, e infine lo sfioratore superficiale che nel complesso,
erano in grado di far defluire a pieno regime una portata massima di 855 m 3/s che
corrispondeva a circa 6 m3/s per km2 di bacino imbrifero essendo quest’ultimo pari a 141
Km2. È comunque presumibile che a causa della disfunzione di alcuni apparati (valvola a
campana e scarico di fondo), le portate effettivamente defluite dalla diga non fossero superiori
a 600-650 m3/s, pari cioè a meno di un terzo di quella dell’Orba. Non stupisce quindi il rapido
innalzamento del livello idrico del lago sino all’inevitabile superamento del coronamento
delle due dighe. L’insufficienza della portata scaricabile fu una questione ampiamente
dibattuta in sede processuale. I consulenti delle O.E.G., si premunirono di evidenziare
l’importanza dell’evento pluviometrico e la correttezza ai sensi di legge del dimensionamento
degli scarichi. È opportuno sottolineare che ai tempi della realizzazione dell’invaso la
legislazione in materia di dighe era assai lacunosa. Solo nel 1921 con il D.M. n. 1309 “Norme
generali per i progetti di dighe di sbarramento per serbatoi e laghi artificiali” ma soprattutto
con il R.D. n. 2540/1925 “Regolamento Dighe” veniva normata compiutamente la
progettazione degli invasi idrici. Per quanto riguarda il presunto malfunzionamento di alcuni
apparati di scarico occorre evidenziare che la famigerata “valvola a campana dello scarico
semi-profondo brevettata dalle “Officine Verrina di Voltri” fu adottata in diverse dighe di
proprietà delle O.E.G. ed in molti casi l’insorgere di problemi tecnici la resero inutilizzabile.
Inoltre lo scarico di fondo, secondo alcune testimonianze, produceva inquietanti vibrazioni
sulla struttura della diga principale. Alcuni attribuirono il fatto all’aumento di 14 m del
paramento della diga rispetto al progetto iniziale, pur mantenendo invariati tutti i restanti
parametri geometrici. L’ing. Cannonero ipotizzò inoltre un parziale funzionamento dei sifoni
tipo Heyn sostenendo che: “quanto ai sifoni autolivellatori è molto dubbio che essi abbiano
ubbidito prontamente alla manovra automatica per l’innesco”. Il malfunzionamento degli
sfioratori di superficie è stato oggetto di numerosi studi volti a dimostrarne la presunta
inadeguatezza. Con il proposito di ricostruire l’evento storico, il funzionamento degli
scaricatori a sifone, costituenti la principale opera di evacuazione delle piene, è stato simulato
su un modello in scala nel laboratorio del Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura
dell’Università di Pavia. Il sifone autolivellante Heyn fu brevettato nel 1927 dall’ingegnere
tedesco W. Heyn. In Italia, ai tempi della realizzazione dell’impianto di Ortiglieto, era più
diffuso il sifone tipo Gregotti, che però non venne utilizzato in quanto colpisce il paramento
della diga con un getto d’acqua, cosa non ammessa dalle disposizioni normative allora
vigenti. Il sifone della diga di Bric Zerbino, è caratterizzato da due gomiti diritti, uno alto e
uno basso, collegati tra di loro da un gomito rovescio. Sono state eseguite nello specifico, 54
prove in moto permanente per determinare la scala di deflusso del sifone. Il funzionamento
del sifone può essere suddiviso in 5 fasi differenti.

Il funzionamento del sifone è condizionato inoltre dalla pressione nei gomiti. Il valore della
pressione dipende dal bilancio di portata tra aria rilasciata e aria assorbita dalla corrente. Gli
studiosi hanno analizzato il funzionamento in successivi stati di moto permanente del sifone
tipo della diga di Bric Zerbino, ricavandone la scala di deflusso, ottenuta riportando i valori di
portata in funzione del livello di invaso. Il progetto originale prevedeva che ciascun sifone
scaricasse la portata di 43 m3/s con livello nel serbatoio di 323 m s.l.m. I risultati sperimentali
hanno restituito invece in corrispondenza di quel livello, una portata di soli 33 m 3/s. Inoltre il
livello del serbatoio necessario al completo innesco dei sifoni, risulta essere 3 metri al di
sopra del valore previsto dal progetto. Gli esperimenti hanno mostrato che i sifoni si sono
completamente innescati a sormonto già iniziato, con un livello nel serbatoio superiore di 25
cm del coronamento della diga di Bric Zerbino. Le perizie di difesa presentate al processo
penale a carico dei progettisti e dei dirigenti delle Officine Elettriche Genovesi, stimarono che
al momento della rottura della diga di Sella Zerbino avvenuta alle ore 13.15 del 13 agosto
1935, quando il livello nel serbatoio raggiunse 326.7 m s.l.m., la batteria di sifoni scaricò
circa 588 m3/s. Le indagini sperimentali hanno invece determinato, per quel livello nel
serbatoio, una portata scaricata di 450 m 3/s, del 23 % inferiore rispetto a quella ricostruita dai
periti.

3.4. Rischio idrologico legato agli invasi

Il rischio idrologico comprende sia il rischio alluvionale, legato alle esondazioni, sia il rischio
di dissesto, tanto di natura localizzata quanto di tipo diffuso. Essi sono dovuti talvolta, ma non
sempre, agli effetti delle sollecitazioni idrometrologiche sulla superficie terrestre. Gli aspetti
fondamentali del rischio alluvionale sono quattro: la percezione, la previsione, la prevenzione
ed il preannuncio. La prevenzione o mitigazione del rischio alluvionale, attraverso adeguati
interventi, vede coesistere due filosofie apparentemente contrapposte. La prima verte
sull’intervento prettamente strutturale, che si concretizza nella realizzazione di opere
idrauliche per la sistemazione dei versanti e la regimazione degli alvei; la seconda verte
sull’intervento non strutturale realizzabile attraverso l’adozione di misure attive, come
interventi di manutenzione ordinaria e organizzazione di interventi di protezione civile,
oppure misure passive come il ricorso a normative urbanistiche volte a regolamentare
l’utilizzo del territorio per evitarne uno sfruttamento eccessivo. Per perseguire l’obiettivo di
prevenzione tuttavia i due aspetti devono coesistere. Gli interventi strutturali infatti, lasciano
un certo rischio residuo derivante dalla possibilità, se pur molto modesta, del verificarsi di
eventi di intensità superiore al dato di progetto. Le conseguenze del rischio residuo si possono
dunque attenuare solamente attraverso un complesso di interventi di tipo non strutturale,
basati sulla predisposizione di efficaci sistemi di protezione. In passato la difesa dalle
alluvioni era un problema percepito a scala prevalentemente locale e sovente risolto tramite
realizzazione di opere localizzate nel sito pericoloso. L’azione di prevenzione era quindi
limitata nello spazio. Una più moderna percezione del rischio idrologico associa alla
coscienza del verificarsi di eventi calamitosi, la consapevolezza del danno economico e
sociale connesso al manifestarsi degli stessi eventi. La previsione del rischio alluvionale tende
a valutare la vulnerabilità idrologica del territorio; il tempo di ritorno delle esondazioni, la
loro estensione, il danno atteso e l’affidabilità delle procedure di mitigazione. Si ha dunque
una concezione di carattere dinamico del problema. In particolare il rischio idrologico-
idraulico viene misurato in base alla teoria dell’affidabilità e, in generale, è il risultato della
combinazione di tre variabili aleatorie: la pericolosità naturale, la tipologia degli elementi
assoggettati a tale pericolosità o meglio esposizione, e infine la vulnerabilità di tali elementi.
La sua valutazione analitica richiederebbe a rigor di logica, la conoscenza della distribuzione
di probabilità congiunta delle tre variabili; cosa che ovviamente appare estremamente
complessa nelle applicazioni di carattere pratico, in cui si fa ricorso ad una semplificazione
del problema attraverso l’adozione di formule di carattere empirico di tipo moltiplicativo, in
cui compaiono tre fattori indipendenti tra loro. L’impostazione del problema attualmente
accettata in Italia in materia della definizione del rischio, si rifà alle specifiche contenute nel
DPCM del 29 Settembre 1998. Secondo tale impostazione il rischio può essere valutato come
prodotto di tre fattori ovvero:

R=H E V.

Dove R è il rischio idraulico totale e viene quantificato attraverso quattro livelli (R1, R2, R3,
R4). Il fattore H misura la pericolosità ossia la probabilità di inondazione, che in accordo con
il suddetto DPCM, viene ripartita in tre diversi livelli legati al periodo di ritorno
dell’inondazione stessa: le aree ad alta probabilità di inondazione sono quelle soggette ad
eventi con periodo di ritorno di 20-50 anni, le aree invece soggette a moderata probabilità di
inondazione sono quelle soggette ad eventi con periodo di ritorno pari a 100-200 anni, infine
le aree di bassa probabilità di inondazione sono quelle soggette ad eventi con tempo di ritorno
di 300-500 anni. Il fattore E misura invece gli elementi a rischio che sono costituiti da persone
e cose suscettibili di essere colpiti da eventi calamitosi. In generale si classificano in base ad
una scala da 0 ad 1 estremi inclusi. Il fattore V infine misura la vulnerabilità, intesa come
capacità a resistere alle sollecitazioni indotte dall’evento, e quindi dal grado di perdita degli
elementi a rischio in caso di manifestarsi del fenomeno. In fase previsionale del rischio per la
valutazione della pericolosità idrologica, risulta dunque di fondamentale importanza la stima
della portata al colmo di piena temibile lungo la rete idrografica. La realizzazione di un
invaso, così come per qualunque altra opera civile, non garantisce un’affidabilità totale ossia
la sicurezza che sia escluso qualunque tipo di crisi del sistema. L’esperienza mostra in effetti
la persistenza di un rischio residuale per le opere di sbarramento, vista la profonda
modificazione del regime idrologico da essi indotta. La piena di progetto in base alla quale
dimensionare gli scarichi, dovrebbe assicurare che il corpo della diga non venga tracimato
nell’arco temporale di vita attesa per l’opera, se non con probabilità bassissima e comunque
prefissata. La sicurezza delle dighe è quindi un problema di equità che richiede all’opera di
essere al tempo stesso di essere sicura e garantire la funzionalità il più a lungo possibile. La
diga di Molare quindi, risulta sotto questo punto di vista, un chiaro esempio di progetto
insostenibile.

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