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CHI SCRISSE L’ORAZIONE DI PICO?

BRIAN P. COPENHAVER
UCLA

Giovanni Pico della Mirandola non scrisse mai un’ Orazione sulla dignità
dell'uomo, né mai pensò a redarre quella famosa e tanto celebrata proclamazione sulla
libertà dell’uomo: le parole ‘de dignitate hominis’ sono state abbinate al discorso di Pico
a posteriori, decine d’anni dopo la sua morte. È così occorso anche per il concetto di
libertà e dignità dell’uomo, comunemente attribuitogli, ma che in verità emerse ancora
più tardi, arrivando dalla metafisica e filosofia morale di Emanuele Kant. Fu per la prima
volta verso il 1800 e a causa di quegli studiosi che riscrissero la storia della filosofia in
termini kantiani – e poi hegeliani – che si cominciò ad intravedere questo concetto
nell’Orazione. Per tanto accadde che nei due secoli che seguirono, l’Orazione sulla
dignità dell’uomo si trasformò in quel discorso che Pico non proferì mai: discorso che
non aveva nulla a che fare con le nozioni di libertà, di creatività, di personalità, di
individualità, di auto-formazione e di auto-espressione che gli furono attribuite a partire
dal nucleo fondante del pensiero kantiano e che diedero a Pico la fama di essere stato il
promotore di quel grande ideale liberale eroico rinascimentale, cosa che in realtà non fece
mai.1

Ci troviamo dunque a constatare che l’Orazione di Pico non si riferisce alla


dignità e alla libertà dell’uomo. Di che cosa si occupa allora questo testo? Inteso a
introdurre novecento proposizioni che non furono mai dibattute da Pico, questo testo può
essere considerato il suo manifesto filosofico inedito. Fin dall’inizio chi scrive nel testo

1
B. COPENHAVER, Magic and the Dignity of Man: De-Kanting Pico’s Oration, in The
Italian Renaissance in the Twentieth Century: Acts of an International Conference,
Florence, Villa I Tatti, June 9-11, 1999, ed. A.J. GRIECO et al., Firenze, 2002, pp. 295-
320; COPENHAVER, The Secret of Pico’s Oration: Cabala and Renaissance Philosophy,
«Midwest Studies in Philosophy«, XXVI, 2002, 56-81; alcune parti del presente saggio
sono una rielaborazione di entrambi questi lavori citati; la resa in italiano è il risultato
della collaborazione fra l’autore e il prezioso aiuto offerto da Rossella Pescatori
(ricercatrice e dottoranda in studi del rinascimento presso il dipartimento di italiano a
UCLA).

1
si proclama essere un filosofo ed esorta i suoi ricettori ad usare la filosofia per ottenere
un tipo particolare di salvezza – la salvezza mistica. La filosofia morale, la dialettica, la
filosofia naturale e la teologia sono le quattro fasi di un percorso ascetico volto a
condurre oltre la natura umana, attraverso le nature angeliche verso la destinazione finale,
che è l’unione con la divinità. L’ascesa è nello stesso tempo askesis e paideia, un
rigoroso programma e un’iter educativo. Il filosofo impara a tappe prendendo il giudizio
del discernere dai Troni, apprendendo la contemplazione dai Cherubini e l’amore dai
Serafini; in questo modo il filosofo riesce ad istruire l’anima negando il corpo e riesce a
staccarsi dal mondo inferiore della materia. La sua anima lascia il corpo, in modo
definitivo o momentaneo, mentre percorre la strada che lo conduce all’unione colla
divinità. Se il filosofo raggiunge la sua meta e vi rimane, l’Io ed il suo corpo svaniscono.

Ma chi potrebbe desiderare di mortificare il corpo, fuggire il mondo e cedere l’Io?


È questa dunque la dignità umana, quella moralità fatta per un’individuale personalità
creativa che si dà forma liberamente? Questo è ad ogni modo quello che Pico
raccomanda nella parte principale del suo discorso, dopo la toccante introduzione. Sette
volte, nel linguaggio dei saggi greci e giudaici, colla sapienza dei filosofi, dei teologi e
dei cabalisti, il Nostro ripete ed esplica un programma di studi e un regime che trasforma
l’umano nell’angelico per poi annientarlo in Dio. La vita migliore per le creature umane
è la vita dei Cherubini, quegli angeli la cui la forza contemplativa si interpone fra i Troni,
che stanno nella posizione inferiore colla loro energia di giudizio, e i Serafini, che stanno
nella posizione superiore col potere dell’amore. La vita cherubinica è quella che gli
esseri umani dovrebbero scegliere, se volessero essere salvati, e la filosofia è il primo
passo per adempiere questa scelta.2

Perché Pico pone in primo piano il mito trasmutato della Genesi e vuole aprire
con questo il discorso dello stesso testo? Dio dice ad Adamo di averlo messo nel mezzo
del mondo ma senza una sua propria natura. Da questa posizione centrale vantaggiosa,
l’uomo può osservare in alto o in basso per trovare ciò di cui ha bisogno per realizzarsi.

2
COPENHAVER, Secret, pp. 59-63

2
Può scegliere liberamente, poiché ha possibilità. Ma quando la questione è una questione
di scelta fra equità di valore nelle possibilità, ovvero se una sia buona quanto l’altra,
l’uomo non può più scegliere liberamente. Il cosmo dato ad Adamo è fondato da una
gerarchia che discende dalle menti celesti attraverso le anime eteree fino agli animali
corporei nelle «parti piene di escrementi e di rifiuti del mondo inferiore.»3 Dalla sua
posizione centrale, Adamo può osservare queste differenze e andare dove preferisce; per
spostarsi, tuttavia, deve sprofondare o innalzarsi; e gli unici percorsi a lui aperti sono
quelli datogli da vettori morali. L’unica scelta giusta è quella di scavalcare il gradiente
del livello vegetale, sensuale, razionale, intellettuale e divino. Provvisoriamente disposto
a metà di questi cinque stadi, come essere razionale, Adamo deve salire per non cadere.
Onticamente, poiché la libertà e la necessità sono stati metafisici, può scegliere di non
divenire un angelo. Deonticamente, poiché la libertà e l’obbligo sono stati morali, non ha
alcuna scelta.

Nel discorso che Pico scrisse per Dio, il Creatore dice ad Adamo che può darsi la
sua propria forma, ma nella parte del discorso che segue, propria di Pico, l’autore dice al
filosofo che sarebbe suo proprio obbligo quello di trasformarsi in un angelo. Se è questo
il messaggio di Pico, perché lo introduce colla sua famosa allusione a quel testo ermetico
chiamato Asclepius?

Circa quaranta anni fa, prendendo spunti da Eugenio Garin, Paul Kristeller e D.P.
Walker, Frances Yates avviò quella fase degli studi ermetici su Pico che lo fecero
diventare una celebrità culturale nel mondo anglofono. Nell’ultima parte del suo
magnifico studio su Giordano Bruno, la Yates sostiene che la scienza moderna emerse
dopo il Rinascimento da «una nuova direzione della volontà verso il mondo» e che una
delle forze che stavano alla base di questo processo fu quell’ «importantissima
associazione di Ermetismo con Cabalismo» fatta da Pico. La storia che la Yates racconta
finisce nell’alba luminosa della scienza. Nel suo racconto, l'Uomo-Mago è un eroe

3
G. PICO, Oratio de hominis dignitate, ed. e trad. E. GARIN, Pordenone, 1994, p. 4; ho
usato questa versione del testo del Professore Garin (ma con le mie traduzioni), poiché
non ho avuto accesso al momento della nuova versione del testo redatta dal Professore
Bausi.

3
vittorioso, che evoca dalla magia la scienza moderna. Pico, secondo la Yates, era un
mago ancora più potente di Marsilio Ficino, perché rinforzò la magia di Ficino colla
saggezza giudaica e creò una Cabala cristiana che fu nello stesso tempo ermetica. Egli
insegnò che la magia non demonica poteva essere praticata giustamente, ma che la magia
aveva bisogno della Cabala per essere efficace. Secondo la Yates, l’Orazione di Pico è
da considerarsi estremamente importante soprattutto per questa nuova, efficace e potente
fusione di magia ebraica e ellenica.4

Il saluto iniziale di Pico rivolto al miracolo umano, preso dall’ Asclepius ermetico,
conduce subito, secondo la Yates, al suo «elogio della magia naturale,» che è considerata
dalla studiosa come la magia dell’ Asclepius.5 Su questo punto basilare, tuttavia, la Yates
si sbaglia. La magia cui Pico si riferisce è neoplatonica e cabalistica piuttosto che
ermetica. Se intendiamo con ‘testi ermetici’ i testi greci tradotti da Ficino e l’Asclepius
latino già conosciuto da Agostino, questo fatto non dovrebbe sorprenderci visto che
questi scritti non trattano di magia – e questo è un altro punto a svantaggio della Yates.
La loro tematica infatti è la teologia nel senso più ampio. Per essere più precisi sarebbe
più opportuno parlare di spiritualità piuttosto che di teologia poiché i libri Ermetici non
raggiungono mai la chiarezza filosofica che è il requisito fondamentale dalla teologia nel
senso stretto della parola.6

Pico utilizza brevemente l’Asclepius per introdurre il suo discorso – si attesta solo
uno dei due cenni nell’ Orazione ad Ermete o ai suoi seguaci – ma questo non lo
impegna minimamente in alcuna parte del suo contenuto equivoco, e tanto meno nel suo
incipit carico di retorica. Se la debolezza dell’Orazione consiste nella sua resa oratoria,

4
F. YATES, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London, 1964, p. 448;
COPENHAVER, Dignity of Man, pp. 312-14.
5
YATES, Bruno, pp. 103-6; COPENHAVER, Dignity of Man, pp. 313-14.
6
COPENHAVER, Hermes Theologus: The Sienese Mercury and Ficino’s Hermetic Demons,
nel J.W. O’MALLEY et al., eds., Humanity and Divinity in Renaissance and Reformation:
Essays in Honor of Charles Trinkaus, Leiden, 1993, pp. 149-82; Lorenzo de’ Medici,
Marsilio Ficino and the Domesticated Hermes, nel G.C. GARFAGNINI, ed., Lorenzo il
Magnifico e il suo mondo: Convegno internazionale di studi, Firenze 9-13 giugno 1992,
Firenze, 1994, pp. 225-57.

4
la devozione ha leso di più l’Asclepius, che come tutti gli altri testi ermetici è troppo
carico di toni emotivi quali pietà e consolazione, ma molto scarso di teorizzazioni
filosofiche e logicamente incoerente.7 Non di meno, Pico aveva un buon motivo di citare
l’Asclepius a riguardo dell’argomento del miracolo umano visto che, citando le parole di
quell’antico testo, egli voleva «cambiare la sua natura in quella di un dio, come se fosse
un dio, … disprezzando la parte che è propria della natura umana.» Questo è anche lo
scopo del programma proposto da Pico nell’Orazione: la filosofia morale, la dialettica e
la filosofia naturale rivelano una teologia svelata soltanto all’iniziato che accetta la meta
del vero filosofo: morire nel corpo per vivere nella Mente suprema. Il filosofo deve
vivere la vita cherubinica, l’esistenza sacra, asessuata, disincarnata di quegli angeli che
sono i più vicini agli altissimi.8 Quindi l’Asclepius si ritrova ad essere più congeniale per
gli intenti di Pico quando egli stesso rinunciò al mondo, invece di voltarsi verso di esso.
La magia – ma non quelle tracce di magia demoniaca che ci sono nell’Asclepius ermetico
– era anche mezzo per fuggire la natura, non di domarla.9

Pico intende la parola ‘magia’ in due modi: l’uno si riferisce alla greca goeteia
(che significa stregoneria) e questo deve essere rinnegato perché opera di demoni
malvagi; l’altro, chiamato mageia dai Greci, invece deve essere venerato in quanto
saggezza e pietà. E Zoroastro, Salmose e Plotino sono i testimoni principali fra le venti
persone che Pico elenca per deporre a favore della magia.10

Pico pone Zoroastro con Orfeo in quel numero di «padri fondatori della saggezza
antica,» e sostiene che i suoi versi greci furono «mutilati in quella lingua [quando erano]
più integri in quella caldaica.» Gli incompleti fragmenti in greco, cui si riferisce, furono
quegli Oracoli Caldaici, quel testo che risale al secondo secolo e che impressionò i
Neoplatonici postplotiniani proprio perché i suoi oracoli in esametri collimavano cogli

7
COPENHAVER, Hermetica: The Greek Corpus Hermeticum and the Latin Asclepius in
English Translation, with Notes and Introduction, Cambridge, 1991, pp. xxxii-lxi.
8
PICO, Oratio, p. 12; COPENHAVER, Hermetica, pp. 69 (Asclep. 6), 218-21; Secret, pp. 60-
1.
9
COPENHAVER, Hermetica, pp. 80-1, 89-91 (Asclep. 23-4, 37-8), 236-40, 253-7; Hermes
Theologus, pp. 176-82; Domesticated Hermes, pp. 225-9.
10
PICO, Oratio, pp. 62-4.

5
stessi motivi spirituali di fondo che ispiravano la loro filosofia. Gli Oracoli offrono
giustificazioni teologiche e consigli pratici rivolti a quel mistico che voglia liberare la sua
anima dalla prigione del corpo. Giorgio Gemisto Pletone li raccolse prima del 1452,
offrendo in dono così una preziosa reliquia della saggezza antica a Ficino e ad altri eruditi
del tempo.11 Tuttavia Pico credeva di aver trovato una prova ancora più evidente. In una
lettera ad Ficino, entusiasticamente raccontò i suoi miglioramenti nell’imparare l’ebraico,
l’arabo ed il ‘caldaico,’ come lui stesso soleva definire l’aramaico o il siriaco, e descrisse
i libri in quelle lingue,

libri, se libri siano e non tesori, … in caldaico: in primo luogo gli oracoli di Ezra, di
Zoroastro, e di Melchiorre dei Magi, in cui si legge una versione completa e corretta
di quello che in greco circola mutilato e coperto d’errori. Vi è pure l’interpretazione
data dai saggi caldaici, breve, senza dubbio, e rudimentale ma colma di misteri, e
anche un libro che espone la dottrina teologica caldaica.12

Quali furono questi libri, e come potevano essere usati da Pico nel suo discorso? La sua
lettera al Ficino può documentare dei testi che sono scritti in una certa forma semitica, ed
in effetti vi era del materiale in siriaco che Pico avrebbe potuto conoscere. Una linea di
questa letteratura, pervenuta dalla Siria romana, si oppone a Zoroastro, identificandolo
come un malvagio prete samaritano. Un’altra linea, più favorevole a Zoroastro, comincia
dalla storia evangelica dei Magi e dalle tradizioni avestane che si riferivano a un salvatore
del mondo nato da una vergine. In riferimento a questo, Zoroastro predice l’avvento del
Messia e trasmette la sua intuizione profetica ai Magi, che in seguito danno in dono al
Signore-bambino oro, incenso e mirra preservati nella caverna dei tesori di Adamo.
Numerosi di questi racconti sull’infanzia di Gesù circolarono in siriaco per divulgare il
prestigio dei Magi, uno dei quali si chiamava Melchiorre. Inoltre c’erano molteplici

11
PICO, Oratio, p. 76; E. DES PLACES, ed., Oracles Chaldaïques avec un choix de
commentaires anciens, Paris, 1971, pp. 7-53.
12
PICO a Ficino nel P.O. KRISTELLER, Supplementum Ficinianum, Firenze, 1937, pp. 272-
3.

6
Apocalissi siriache e le visioni d’Ezra.13 Dunque è da pensare che quando Pico disse a
Ficino di aver visto «gli oracoli di Ezra, di Zoroastro, e di Melchiorre dei Magi,» potesse
avere in mente e si riferisse a tali pseudoepigrafi siriache.

Se Pico vide i testi siriaci in lode di Zoroastro, forse aveva anche potuto vedere
quegli altri che lo condannarono. Di certo fu a conoscenza di quegli scrittori cristiani che
vedevano Zoroastro «l’inventore delle arti magiche» non per onorarlo ma condannarlo ad
essere stato uno strumento di Satana. Consapevole di queste posizioni ostili, Pico stipula
che il suo Zoroastro «non è quello di cui si potrebbe pensare, ma il figlio d’Oromaso,»
quando lo pone con Salmose come inventore della buona magia naturale.14 E per
distinguere il saggio caldaico da quello disprezzato che i cristiani associavano alle «arti
false di magia trasmesse dagli angeli malvagi,» cita il passaggio platonico di Alcibiade I
in cui si definisce Zoroastro come «il figlio di Horomazdos,» e così facendo scambia il
dio (Ahura Mazda) del profeta per suo padre, esaltando la sua magia come «il culto degli
dei.»15

Un testo platonico delineava la magia a Zoroastro, e un altro la pregava per le


formule magiche purificatorie di Salmose, ma fu comunque Apuleio che li mise insieme,
in un discorso di autodifesa in seguito ad un’accusa infertagli di praticare la magia nera.
«La magia è un’arte che gli immortali approvano,» così asserisce, «colma di conoscenze
e saperi che meglio ci permettono di adorarli e onorarli, un’arte pia e adeguata alla
divinità,» e questo fu quello che Apuleio disse di aver appreso dall’autorità di Platone.16
Per istruire i loro figli, afferma l’autore dell’Alciabiades I, i re persiani nominavano
quattro precettori che dovevano addestare i giovani nelle virtù cardinali – sapienza,

13
J. BIDEZ e F. CUMONT, Les Mages hellénisés: Zoroastre, Ostanes et Hystaspe d’aprés la
tradition grecque, Paris, 1938, I, 50-5, II, 93-135; H.F.D. SPARKS, ed., The Apocryphal
Old Testament, Oxford, 1985, pp. 835-8, 927-31; A. HAMILTON, The Apocryphal
Apocalypse: The Reception of the Second Book of Esdras (4 Ezra) from the Renaissance
to the Enlightenment, Oxford, 1999, pp. 2-15, 30-6, 296.
14
PICO, Oratio, p. 64; AGOSTINO, DCD 21.14; BIDEZ e CUMONT, Mages, II, 15-49.
15
I Alcibiade 122A; ISIDORO, Etymol. 8.9; BIDEZ e CUMONT, Mages, II, p. 47; cf. PLINIO,
HN 30.3-8.
16
APUL. Apol. 25-6.

7
temperanza, coraggio e giustizia. Il primo precettore, il responsabile per la sapienza,
insegnava ‘la magia di Zoroastro, … ciò che è il culto degli dei, e anche i compiti del
re.’17 La sapienza dei Magi, dunque, è una delle quattro virtù naturali che usavano i
pagani prima che Cristo aprisse il tesoro della grazia e desse accesso alle virtù teologiche
di fede, di speranza e di carità. Quindi, se la magia di Zoroastro è «la conoscenza della
divinità» ovvero la teologia, essa deve essere una teologia naturale fatta su misura per i
principi e i reggenti perché dimostra loro come «amministrare il loro Stato sul modello
dello stato cosmico.»18

«La magia di Salmose,» spiega Pico, «è medicina per lo spirito … che rende
temperato lo spirito proprio come la medicina rende sano il corpo.»19 Come la magia
caldaica di Zoroastro insegna la sapienza, quella tracica di Salmose avvia alla
temperanza, e queste due magie combinate insieme, nel programma di studi pichiano,
inglobano la logica e la filosofia morale dando strada alla filosofia naturale e la teologia
naturale. Secondo quanto dice Platone, il divino Salmose insegnò che quel rimedio
curativo ‘la parte attraverso il tutto’ volesse dire che si deve sanare l’anima se si vuole
che il corpo stia bene. «E l’anima … è guarita per mezzo di certi incantesimi … che sono
parole belle, e da tali incantesimi che la temperanza è fatta arrivare nelle anime.’»20
L’atto fisico di guarire il corpo, che è un tipo di magia, richiede dunque un rimedio
spirituale per l’anima stemperata, e la forza immateriale del linguaggio è l’incantesimo
che attiva questa terapia psichica.

Plotino, l’ultimo dei venti esperti di magia che Pico nomina, «lo menziona quando
mostra che il mago è ministro della natura, non il suo artefice.»21 Qui Pico si riferisce
alla più ampia discussione dedicata alla magia nelle Enneadi, dove Plotino afferma che le
formule magiche sono efficaci perché simpatie e antipatie agiscono in natura «senza che
si intromettano macchinazioni; la vera magia è interna al Tutto…. È qui il primo mago e

17
I Alcibiade 121D-22A.
18
PICO, Oratio, p. 64.
19
PICO, Oratio, p. 64.
20
PLATONE, Charm. 156D-7C.
21
PICO, Oratio, p. 64.

8
stregone – scoperto da quegli uomini che poi ritorcono questi stessi sortilegi ed arti
magiche l’uno contr’altro.» La magia è già lì sempre nella natura. I maghi non possono
provocare effetti magici, sebbene sappiano dove trovarli e come sfruttarli per buoni o
cattivi fini. Anche se Plotino ammette la magia, questa non è il suo principale interesse
poiché è considerata da lui una deviazione dall’ascesa, una distrazione che conduce giù al
mondo materiale. La magia naturale funziona, ma questa aiuta, per il migliore dei casi,
solo quell’anima inferiore, e non è di nessun aiuto per la salvezza. Di fatto, l’anima che
rimane coinvolta nella natura diviene preda della stregoniera.22

Plotino insegnò che l’unica via di uscita dalla natura e dalla magia è l’ascesa
filosofica attraverso la contemplazione verso l’unione. Vediamo infatti come non volle
né usare il rituale come modalità di salita verso l’Uno né mai lo intimorì la magia,
considerata come trappola per il filosofo. La teurgia non trovò posto nella spiritualità
neoplatonica finché Porfirio, allievo di Plotino, cercò di conciliare gli enigmatici Oracoli
caldaici al Platonismo. Porfirio introdusse i riti caldaici come un’alternativa, non solo al
rigore dell’educazione nelle virtù ma anche ai rischi di stregoneria, ed egli restrinse gli
effetti rituali nell’anima inferiore. Solo la filosofia poteva mirare più in alto, perché
aveva effetto nell’anima superiore. Quindi anche Porfirio, come Plotino, confinò la
magia reale al mondo della natura e la considerò inutile per giungere al regno più alto.23

La filosofia per Plotino era l’unica via per ascendere, e per Porfirio fu ancora
considerata di importanza primaria, ma Giamblico perse la fiducia nella filosofia. Egli
infatti arrivò alla conclusione che la contemplazione operata tramite la filosofia di per sé
non poteva condurre all’unione: essa è necessaria per l’ascesa ma non è sufficiente, ed è
meno efficace del rituale teurgico, che riesce a toccare l’anima superiore. La teurgia –
letteralmente, dio-operante – è l’opera degli dei che dall’alto arrivano nel mondo

22
PLOT. Enn. 4.4.40-4; COPENHAVER, Renaissance Magic and Neoplatonic Philosophy:
Ennead 4.3-5 in Ficino’s De vita coelitus comparanda, nel Marsilio Ficino e il ritorno di
Platone: Studi e documenti, ed. G. GARFAGNINI, Firenze, 1986, pp. 351-69; Secret, p. 73.
23
A. SMITH, Porphyry’s Place in the Neoplatonic Tradition, The Hague, 1974, pp. 70, 74,
122, 128, 134-40, 147-8; R.T. WALLIS, Neo-Platonism, London, 1972, pp. 70-2, 108-10;
COPENHAVER, Secret, p. 73.

9
inferiore con azioni e con oggetti che di per sé trasmettono quell’energia divina.
Quest’azioni e oggetti sono sempre collegati agli dei dalla forza dell’amicizia che si
proietta dagli esseri superiori nelle entità inferiori. Dall’alto, l’amicizia provoca pure le
simpatie che operano nella natura. Alcuni rituali sono solo una teurgia inferiore: essi
provocano solo questa simpatia ma non possono portare l’anima all’unione. Il salto
finale può essere compiuto solo dalla teurgia superiore che deve essere disposta dal
potere dall’amicizia divina. Ma l’amicizia provoca pure la simpatia che è percepita dai
mortali come la magia naturale che assomiglia alla teurgia inferiore, ed entrambe queste
pratiche minori possono essere delle tappe che conducono alla teurgia superiore e
all’unione finale. Diversa dalla teurgia di Porfirio, che è vista essere un’alternativa alla
virtù, la teurgia superiore di Giamblico richiede inoltre un’educazione alle virtù – cosa
analoga a quella che avviene nella magia virtuosa che Platone attribuisce a Zoroastro.
Anche se questa teurgia si basa sull’amicizia divina e deve essere in sé buona, Giamblico
ammette che questa può diventare pericolosa se corrotta o se invasa da demoni malvagi.24

Per dimostrare la fondatezza della magia naturale, Pico cita Porfirio ma non
Giamblico, ed è Plotino soprattutto che attira la sua attenzione. Lo sdegno del filosofo
per i demoni minori, come è celebrato nella sua Vita scritta da Porfirio, rinforza
quell’antitesi che Pico colloca fra magia naturale e demonica. L’una è schiavitù, l’altra
dominio. L’una non è né arte né scienza, «mentre l’altra è colma dei misteri più
profondi, … conducendo alla meta del sapere di tutta la natura intera.» Concentrandosi su
un altro argomento di Plotino, Pico enfatizza che questo sapere deve essere rivolto «non
tanto a fare cose meravigliose, ma a cercare di servire accuratamente la natura come essa
opera su di loro.» Le forze usate dal mago sono già in gioco nel mondo.25 Come scrisse
Plotino:

24
G. SHAW, Theurgy and the Soul: The Neoplatonism of Iamblichus, University Park,
1995, pp. 4-5, 85, 110-12, 123, 129, 150-5, 169; WALLIS, Neoplatonism, pp. 99-100, 120-
3; SMITH, Porphyry’s Place, pp. 59-61, 83-98, 105-10, 134-40, 148; COPENHAVER,
Iamblichus, Synesius and the Chaldaean Oracles in Marsilio Ficino’s De vita libri tres:
Hermetic Magic or Neoplatonic Magic? nel Supplementum Festivum: Studies in Honor
of Paul Oskar Kristeller, ed. J. HANKINS et al., Binghamton, 1987, pp. 448-50; Secret, pp.
73-4.
25
PICO, Oratio, pp. 64-6; PORFIRIO, Vita Plot. 10.

10
L’amore è dato nella natura; le qualità che conducono all’amore inducono una
attrazione reciproca: una volta che è sorta un’arte magica che traccia amore, i cui
praticanti applicano attraverso il contatto di certe sostanze … così formate
dall’amore come per effettuare un legame d’unione; innestano l’anima ad un’altra
anima come se fossero uniti due alberi insieme, uno con l’altro.

Dando questa similitudine in un latino virgiliano, Pico spiega che «come l’agricoltore
unisce l’olmo alla vite, così il mago riesce ad unire la terra al cielo, legando le cose che
sono sotto a … quelle (che sono) sopra.» Tali simpatie o «incantesimi innati» sono
seminati nella natura delle cose, e si possono scoprire e raffigurare quando «la magia
rende note … le meraviglie celate nelle parti segrete del mondo.»26

Fino a questo punto Pico si riferisce a una magia naturale di tipo plotiniano, ma fa
di questa un tema cristiano. Nello scoprire le meraviglie del mondo, la magia naturale
«provoca nell’uomo quella stupefazione verso le opere di Dio la cui fede, speranza e
disposizione caritatevole sono sicure e certe conseguenze.» Perciò, mentre la vecchia
magia pagana aveva introdotto le quattro virtù naturali, ora si innestano le tre virtù
teologali che sono a disposizione di una nuova magia cristiana che «contemplando
continuamente le meraviglie di Dio» ci spinge verso un amore così ardente «da non poter
trattenere la canzone, “colmi sono i cieli, colma è tutta la terra della grandezza della Tua
gloria.» Quest’inno, che la magia naturale ci spinge a cantare, è la musica dei Serafini,
una parte della loro triplice gloriosa cantica come è scritto in Isaia. La magia, ovvero la
buona magia naturale che Pico difende, ci spinge ad unirci con questi angeli altissimi nel
loro canto di amore ardente e autoconsumante. La magia naturale viene così a prendere
lo stesso ruolo della filosofia naturale nel programma di studi angelici che Pico consiglia,
e questo ci prepara alla teologia ed infine all’Unione. Questo è quello che Pico vuole dire
quando dice che la magia è «la realizzazione finale della filosofia naturale.»27 È questo il
ruolo elevato dato alla magia che la fa entrare nella teologia che a sua volta consente di

26
PICO, Oratio, p. 66; PLOT. Enn. 4.4.40; VERG. E 2.70; G 1.2, 2.221; COPENHAVER,
Iamblichus, pp. 446-7, 451.
27
PICO, Oratio, pp. 62, 66-8; ISA. 6:3.

11
varcare quel confine – il limite dell’anima inferiore – teorizzato da Plotino. Questo rende
la definizione della magia che ritroviamo nell’Orazione più vicina a Giamblico o a
Proclo. Recuperando le posizioni di questi due ultimi neoplatonici, Pico non vuole
dominare il mondo della natura ma fuggirlo e superarlo. E la Cabala, cioè la saggezza
giudaica volta a rinforzare la magia greca e caldaica di Pico, mira allo stesso scopo, che è
quello di fuggire il mondo.

I riferimenti alla Cabala nell’Orazione sono prevalentemente di carattere storico o


apologetico. La storia racconta e giustifica la distinzione fra rivelazioni essoteriche ed
esoteriche trasmesse dalla tradizione giudaica e rinforzate dai Gentili. Il motivo
apologetico di Pico è quella di «dar battaglia in nome della fede e contro le calunnie
spietate degli Ebrei.»28 Per convincere i Cristiani a combattere gli Ebrei con la forza
aliena della Cabala, ne asserice la verità e importanza, ponendola al livello della filosofia
platonica. Più persuasiva ancora è la sua autorità teologica, come è dimostrato da Pico
colla promessa fatta dal profeta Ezra di «un flusso intellettuale, una fonte di sapienza e un
fiume di sapere» che scorre da settanta libri segreti. Presupponendo che avesse
conosciuto questi libri di Cabala, quel che Pico trovò in quelli fu «una teologia indicibile,
… una metafisica esatta e … la più ferma e sicura filosofia della natura.» Questa
progressione dalla natura fisica attraverso le forme metafisiche diretta a congiungersi alla
Divinità inesprimibile rispecchia l’ascesa mistica come proposto dal suo discorso.
Inoltre, poiché la Cabala che Pico conosceva era tanto una teurgia quanto una teosofia, il
rapporto tra essa e quella magia naturale preliminare conferma le sue posizioni in accordo
con quelle degli ultimi neoplatonici.29

Tutto questo è detto esplicitamente nell’Orazione, anche se in un modo succinto


ed arcano. Sottintesi ed addirittura impenetrabili al pubblico cristiano di Pico erano gli
altri usi taciti della Cabala nell’Orazione rivolti per interpretare i testi biblici che si

28
PICO, Oratio, p. 68.
29
PICO, Oratio, p. 74; 2 ESDRAS 14:3-6, 42-8; C. WIRSZUBSKI, Pico della Mirandola’s
Encounter with Jewish Mysticism, Cambridge, 1989, pp. 122, 126-7, 132, 140-2;
COPENHAVER, Secret, p. 75; sopra, nota 13.

12
riferivano a Giacobbe, Giobbe, Mosè, Abramo e altri.30 Questi lunghi passaggi che
rimangono tuttavia oscuri rinforzano il suo messaggio sulla via che conduce all’unione
mistica per quegli uomini che imparano a vivere come Cherubini: essa comincia dalla
filosofia e sale attraverso la magia e teurgia. Pico presenta le sue argomentazione sette
volte, citando non solo i patriarchi biblici ma anche i saggi greci ed altri antichi teologi.
La settima ed ultima esposizione della vita cherubinica si apre con i «memoriali dei
Caldei,» e finisce, come si può prevedere, cogli angeli.31 Diviene chiaro il fatto che
questa parte dell’Orazione dipende dalla conoscenza della Cabala, che Pico scelse di
tenere segreta, solo se la si mette a confronto con le sue Conclusioni, dove la Cabala è
molto più esplicita e ampiamente discussa.32

Anche se quella tradizione mistica giudaica chiamata ‘Cabala’ era cominciata nel
dodicesimo secolo, prima di Pico pochissimi cristiani ne avevano una discreta
conoscenza. La Cabala è costituita sia da teoria che da pratica, e generalmente la si può
considerare un tipo di ermeneutica biblica.33 Una teoria della scrittura sta alla base di una
pratica spirituale la cui meta è l’ascesa mistica, ovvero la provocazione di stati profetici o
messianici con diverse tecniche che includono la magia e la teurgia. I Cabalisti ritengono
che il Dio nascosto, che porta il nome d’Infinito, si riveli non solo nella Bibbia ma anche
nelle sue dieci emanazioni o attributi, le Sefirot. Ipostatizzate nei miti, concretizzate nelle
immagini e simbolizzate nelle lettere e nei numeri, le Sefirot sono al centro della

30
PICO, Oratio, pp. 18-20, 26, 34-8.
31
PICO, Oratio, pp. 34-8.
32
Per le Conclusioni, citerò (dalla pagina, sezione e tesi) l’edizione di A. BIONDI,
Conclusiones nongentae; Le novecento tesi dell’anno 1486, Firenze, 1995; si veda anche
S.A. FARMER, Syncretism in the West: Pico’s 900 Theses (1486): The Evolution of
Traditional Religious and Philosophical Systems, Tempe, 1998; COPENHAVER, Number,
Shape and Meaning in Pico’s Christian Cabala: The Upright Tsade, the Closed Mem
and the Gaping Jaws of Azazel, nel Renaissance Natural Philosophy and the Disciplines,
ed. A. GRAFTON e N. SIRAISI (MIT Press, 2000), pp. 25-76; Secret, pp. 74-80.
33
Per introduzioni alla Cabala, si veda: G. SCHOLEM, Major Trends in Jewish Mysticism,
New York, 1946; Kabbalah, Jerusalem, 1974; M. IDEL, Abraham Abulafia: An Ecstatic
Kabbalist (Two Studies), ed. M. LAZAR, Lancaster, 2002; Kabbalah: New Perspectives,
New Haven, 1988; Messianic Mystics, New Haven, 1998; Absorbing Perfections:
Kabbalah and Interpretation, New Haven, 2002; A. GREEN, A Guide to the Zohar,
Stanford, 2004.

13
speculazione cabalistica, il cui altro punto focale è rivolto ai nomi d’Iddio e la loro
risonanza nelle parole della sacra Scrittura.

I Cabalisti prendono in considerazione il significato della sacra parola di Dio nel


testo sacro per eccellenza: la Bibbia in ebraico. La Bibbia è per loro un’ infinita fonte di
conoscenza e la studiano soffermandosi su ogni sua minima parte linguistica e strutturale
– non solo le parole dette da Dio, ma anche il modo in cui sono state proferite, ovvero le
lettere che le formano e di conseguenza la loro quantità (le lettere sono anche numeri) e la
loro forma. Le parole più potenti sono i nomi di Dio, il cui santissimo, cioè il
Tetragramma, non può essere detto; scritto come Y-H-V-H, esso è pronunciato come
Adonai, un nome enunciato come Elohim, Ehieh, El Sciaddai ed altri nomi che si
riferiscono a Dio nella Bibbia ebraica. Altre parole di grande potenza sono i nomi delle
Sefirot, che come tali sono sconosciuti alla Bibbia; sono nomi non di Dio ma di aspetti o
manifestazioni della divinità. Poiché Dio nella sua essenza altissima rimane nascosto, gli
esseri finiti possono conoscere l’Infinito solo in quanto discende dall’alto segreto. Gli
ultimi momenti di quella discesa constituiscono il mondo dell’ordinaria consapevolezza
umana. I primi momenti, lontanissimi e ben al di là della normale percezione, sono le
dieci Sefirot.

Uno degli scopi principali della Cabala è quello di descrivere le Sefirot, spesso
come mostrato nella Figura 1, dove tutte e dieci (indicate da S1 a S10) sono organizzate
in uno schema ovvero in un ‘albero.’ I principali nomi ebraici di S4, per esempio, sono

14
S1 Keter
Corona
Fatum Supremum
Ehyeh

S3 Binah S2 Hokmah
Intelligenza Sapienza
Intelligentia Sapientia
IHWH (Elohim) Yah

S5 Gevurah/Din S4 Gedullah/Chesed
Potere/Giudizio Grandezza/Amore o Pietà
Potentia/Judicium Amor or Pietas
Elohim El

S6 Tiferet/Rahamim
Bellezza/Compassione
Tipheret/Clementia
IHWH (Adonai)

S8 Hod S7 Nezah
Maestà Permanenza
Decor Eternitas
Elohim Zevaot IHWH Zevaot

S9 Zaddiq/Yesod
Giustizia/Fondamento
Justus/Fundamentum
El Hay/Sadday

S10 Malchut/Atarah
Regno/Diadema
Regnum
Adonay

Figura 1: Le dieci Sefirot

Ghedulla e Chesed, che significano ‘Grandezza’ e ‘Amore’ o ‘Pietà,’ e sono resi da Pico
come Amor o Pietas. Il nome divino associato a S4 è El, ma Pico sapeva che i Cabalisti
usavano molte altre parole e nomi (Abramo, Michele, il Sud, l’Acqua) per descrivere S4.
La Figura 2 illustra con maggiori dettagli la terminologia sefirotica usata da Pico.

15
S1 Fatum Supremum
Padre, Unità
Signore del Naso
alef, hu

S3 Intelligentia S2 Sapientia
Spirito Santo, Ragione Figlio, Cristo, Gesù, Messia, Intelletto
Linea Verde, Giubileo, Pentimento, Amore Principio, Eden, Timore, Cervello
beth, he, scin beth, iod

S5 Judicium, Potentia S4 Amor, Pietas


Isacco, Gabriele Abramo, Michele
Rettitudine, Nord, Timore, Fuoco Pietà, Amore, Sud, Acqua

S6 Tipheret, Clementia
Figlio, Cristo, Gesù, Messia
Giaccobe, Uriele
Luce, Est, Sole, Giorno, Specchio Che Brilla, Cielo, Cuore
vav

S8 Decor S7 Eternitas

S9 Fundamentum, Justus
Redentore, Acqua
nun, ze

S10 Regnum
Spirito Santo
Davide, Raffaele, Israele, Sabato
Ovest, Sposa, Figlia, Dimora, Luna, Notte, Specchio Che Non Brilla, Timore
Espiazione, Giovenca Rossa, Cerva Unicorna, Vino Puro, Mare, Fegato
tav, he

Figura 2: le Sefirot di Pico ( Numerazioni)

Pico fu il primo cristiano che prese sul serio la Cabala e che trattò il suo sapere
come materiale prezioso. Naturalmente le sue informazioni dipendevano da Giudei
eruditi, con cui egli aveva stabilito i primi contatti negli anni universitari. L’informatore
più importante fu un converso (convertito) che per Pico tradusse (non bene, talvolta
tradendole) migliaia di pagine della Cabala in latino. Molte parti dell’Orazione sono
sotto l’influsso di questi testi e viene modellata secondo l’ermeneutica cabalistica in un
modo che nessun cristiano contemporaneo avrebbe potuto rilevare, tanto meno un
cristiano che non era a conoscenza della chiave di lettura fornita dalle Conclusioni.
L’intenzione esoterica del pensiero pichiano, dichiarata con enfasi nell’Orazione, è la
caratteristica che più lo distanzia dall’intero progetto della filosofia occidentale post

16
cartesiana e pure dalle filosofie più antiche di non tradizione platonica. Desiderando non
solo mistificare ma anche provocare, Pico riuscì nel suo intento, pagando il prezzo della
censura da parte della Chiesa.34

La teologia, la spiritualità e la filosofia – tutte nel loro senso più ampio – sono i
soggetti principali della Cabala pichiana, che mostra (ovvero accenna) come Dio si riveli
nelle Sefirot, nei nomi divini e nelle parole della Sacra Scrittura. Nelle 72 tesi
cabalistiche che formano l’apice delle 900 Conclusioni, questa rivelazione diviene
Cristologia e teologia Trinitaria.35 Da un punto di vista cabalistico, le Sefirot ed i nomi
divini sono gli attori nel teatro del mondo teologico, cosmologico, antropologico e
angelogico i cui temi principali sono l’esilio, la morte, l’espiazione e la redenzione: sono
queste le storie che Pico fa trasparire sulla Trinità cristiana e dove l’eroe-salvatore è Gesù
Cristo, il Messia.

Di conseguenza, i punti principali della pratica spirituale come sono detti nelle
Conclusioni sono la preghiera, la profezia e l’ascesa verso l’unione mistica con Dio, che è
inoltre il soggetto principale dell’Orazione. Qui Pico si dimostra favorevole tanto alla
magia quanto alla teurgia come tappe necessarie verso l’ascesa. Le Conclusioni, che
confermano l’assenso alla magia, fanno vedere inoltre con più accurata precisione dell’
Orazione perché Pico collega la magia colla Cabala. Egli intende la Cabala come una
tecnica spirituale che, come la teurgia superiore dei filosofi neoplatonici, trova ed apre le
strade verso Dio. Queste sono di solito sconosciute agli esseri umani e dunque chiuse a
loro. La pratica della Cabala comincia colla teoria perché questi segreti canali della
divinità devono essere scoperti ed interpretati prima di essere usati: la spiritualità segue
l’ermeneutica.

34
WIRSZUBSKI, Pico, pp. 1-18, 67-74, 106-18; D. RUDERMAN, The Italian Renaissance
and Jewish Thought, nel A. RABIL, ed., Renaissance Humanism: Foundations, Forms
and Legacy, Philadelphia, 1988, I, 382-43; COPENHAVER, Secret, pp. 80-1.
35
La mia interpretazione delle conclusioni Cabalistiche comincia a partire dall’analisi
meticolosa effettuata da Wirszubski; con M. Allen e C. Normore, sto preparando una
nuova edizione inglese delle Conclusiones per I Tatti Renaissance Library di Harvard.

17
I dettagli tecnici sull’ermeneutica, soprattutto le speculazioni sui segreti delle
parole e lettere ebraiche, sono il materiale più recondito delle Conclusioni. Il linguaggio
è la via d’entrata per la sapienza; gli elementi del linguaggio sono lettere e numeri; e
questi segni proliferano nei codici segreti. Il genio di Pico e la sua ambizione, che la
Chiesa reputò impudenza, lo condussero a questa provocante teologia della parola
nascosta, i cui enigmi ed ambiguità lo incitarono verso il fascino dell’esoterico.

Il più ampio progetto cabalistico presente nelle Conclusioni – e dunque la Cabala


nell’Orazione – è cristologico e trinitario. Le manifestazione più modeste di Cabala, che
sono usate da Pico per sostenere la sua teoria di fondo, mettono a fuoco particolari testi
biblici, illuminati inoltre dalla sapienza degli antichi teologi dei Gentili. Fra queste
minori esposizioni di Cabala, l’ultima nell’Orazione comincia con quello che Pico
chiama «memoriali dei Caldei,» che sono i frammanti degli Oracoli attribuiti a
Zoroastro.36

36
PICO, Oratio, pp. 34-8: «Recenseamus et Chaldaeorum monumenta, videbimus (si illis
creditur) per easdem artes patere viam mortalibus ad felicitatem. Scribunt interpretes
Chaldaei verbum fuisse Zoroastris alatam esse animam, cumque alae exciderent, ferri
illam praeceps in corpus, tum illis subcrescentibus ad superos revolare. Percunctantibus
eum discipulis alis quo pacto bene plumantibus volucres animos sortirentur: “irrigetis,”
dixit, “alas aquis vitae.” Iterum sciscitantibus unde has aquas peterent, sic per parabolam
(qui erat hominis mos) illis respondit: “quattuor amnibus paradisus Dei abluitur et
irrigatur, indidem vobis salutares aquas hauriatis. Nomen ei qui ab aquilone ,ae, quod
rectum denotat; ei qui ab occasu Irpf, quod expiationem significat; ei qui ab ortu trrvb,
quod lumen sonat; ei qui a meridie ,bnjr, quod pietatem interpretari possumus.”
Advertite animum et diligenter considerate, Patres, quid haec sibi velint Zoroastris
dogmata. Profecto nihil aliud nisi ut morali scientia, quasi undis hibericis, oculorum
sordes expiemus; dialectica, quasi boreali amussi, illorum aciem liniemus ad rectum.
Tum, in naturali contemplatione, debile adhuc veritatis lumen, quasi nascentis solis
incunabula, pati assuescamus, ut tandem per theologicam pietatem et sacratissimum Dei
cultum, quasi caelestes aquilae, meridiantis solis fulgidissimum iubar fortiter perferamus.
Hae illae forsan et a Davide decantatae primum, et ab Augustino explicatae latius,
matutinae, meridianae et vespertinae cognitiones. Haec est illa lux meridialis quae
Seraphinos ad lineam inflammat et Cherubinos pariter illuminat. Haec illa regio quam
versus semper antiquus pater Abraham proficiscebatur; hic ille locus ubi immundis
spiritibus locum non esse, ut Cabalistarum et Maurorum dogmata tradiderunt. Et si
secretiorum aliquid mysteriorum fas est, vel sub aenigmate, in publicum proferre,
postquam et repens e caelo casus nostri hominis caput vertigine damnavit et, iuxta
Hieremiam, ingressa per fenestras mors iecur pectusque male affecit, Raphaelem

18
Riguardiamo anche i memoriali dei Caldei, dove vedremo (se si crede in loro) che una
via alla felicità sia data ai mortali attraverso la loro stessa arte. Gli interpreti caldaici
scrivono di una storia di Zoroastro dove si dice che l’anima è dotata di ali, e quando
queste ali cadono, l’anima cade a dirotto nel corpo, ma quando queste crescono, essa vola
di nuovo verso gli dei. I suoi discepoli gli chiesero come prendere questi agili spiriti
colle ali così ben piumate, e lui disse, “Bagnate le vostre ali colle acque della vita.”
Allora vollero sapere dove cercare queste acque, ed egli rispose loro con una parabola
(secondo la sua abitudine): “Il paradiso di Dio è lavato ed irrorato da quattro fiumi, ed
io vi ho concesso di bere le acque salvifiche. Il nome di quello che viene dal nord è
Qesciot, che significa ‘diritto’; quello che viene dall’ovest è Chaphron, che indica
‘espiazione’; dall’est viene Nehora, che significa ‘luce’; e dal sud viene Rahamanut, che
possiamo rendere con ‘pietà.’”

Ascoltate, padri, e contemplate attentamente quel che questi precetti di Zoroastro


potrebbero essere dati a significare. Di certo non vogliono dire molto più che il pulire la
sporcizia dai nostri occhi colla conoscenza morale, colle acque dall’estremo ovest, e poi
raddrizzare la nostra vista e correggerla colla dialettica, come con una riga retta dal
nord. Allora, nel contemplare la natura, possiamo imparare ad abituarci alla luce della
verità mentre è ancora debole, non appena il nuovo sole sorge, in modo che più tardi,
colla pietà teologica ed il più sacro culto divino, possiamo, come aquile del cielo,
resistere con valore allo splendore del sole fiammaggiante meridiano. Queste sono,
forse, le conoscenze mattutine, di mezzogiorno e serale cantate prima da Davide, e
spiegate in modo più completo da Agostino. Questa è la luce meridiana che brilla diretta
sui Serafini per incendiarli e sui Cherubini per illuminarli. Questa è la regione verso cui
il vecchio padre Abramo sempre si dirigeva, cioè il posto dove gli spiriti maligni non
hanno posto, come ci dicono le dottrine dei Mori e Cabalisti.

E se è giusto rivelare qualche parte dei misteri più segreti, persino in un indovinello,
considerate questo: Dopo che una caduta rapida dal cielo ha stordito il nostro uomo in
testa, e (secondo Geremia) dopo che la morte è entrata dalla finestra per affliggere il
cuore e fegato nostri, dovremmo invitare Raffaele, il medico celeste, che usa la morale
e la dialettica come farmaci salutari per liberarci. Una volta che siamo ritornati in buona
salute, Gabriele – la forza di Dio – vorrà rimanere con noi, e guidarci attraverso le
meraviglie della natura, mostrarci la virtù e la potenza di Dio che risiede tutt’intorno a
noi, ed infine consegnarci al sommo sacerdote Michele, che ci conferirà, dopo che
avremo adempiuto il nostro tempo colla filosofia, il sacerdozio della teologia, come una
corona di gemme preziose.

Pico su Zoroastro, i Caldei e Abramo

caelestem medicum advocemus, qui nos morali et dialectica uti pharmacis salutaribus
liberet. Tum ad valitudinem bonam restitutos, jam Dei robur Gabriel inhabitabit, qui nos
per naturae ducens miracula, ubique Dei virtutem potestatemque indicans, tandem
sacerdoti summo Michaeli nos tradet qui, sub stipendiis philosophiae emeritos, theologiae
sacerdotio quasi corona preciosi lapidis insignet.» Per la trascrizione delle quattro parole
‘caldaiche’ (i.e., aramaiche o ebraiche) in questo brano, si veda WIRSZUBSKI, Pico, p.
242, che ha emendato il testo di Garin.

19
Come molti commentatori prima di lui, Pico trovò in questo testo caldaico
venerabile l’immagine platonica dell’anima le cui ali («cux∞w koÊfaiw pterÊgessin»,
con le parole degli Oracoli) hanno bisogno di acqua per crescere. 37 Per rafforzare queste
ali psichiche e per evitare la perdita delle loro piume, Zoroastro raccomandava ai suoi
discepoli di bagnarle bene con l’acqua attinta dai quattro fiumi del paradiso, i cui nomi
‘caldaici’ rappresentano l’espiazione, la rettitudine, la luce e la pietà nelle direzioni di
ovest, nord, est e sud. I Cabalisti conosciuti da Pico avevano trasformato questa
topografia biblica in teosofia. Immaginavano le emanazioni di Dio scendere giù (Fig.1)
dall’Infinito abissale attraverso le triadi di Sefirot fino all’ultima di loro, la Scekinah

FIUMI ANGELI DIREZIONI PROGRAMMA DI STUDI SEFIROT


espiazione Raffaele ovest filosofia morale S10
rettitudine Gabriele nord dialettica S5
luce Uriele est filosofia naturale S6
pietà Michele sud teologia S4

Figura 3 Fiumi, Angeli e Direzioni

(S10) o Dimora di Dio. «Essi dicono,» con le parole di Pico,«da fuori dall’Eden arriva un
fiume che si divide in quattro affluenti, e questo vuole dire che al di là della seconda
numerazione [S2] arriva la terza [S3] che si divide nella quarta [S4], quinta [S5], sesta
[S6] e decima [S10].» La fonte di Pico per questa conclusione è un cabalistico
commentario sul Pentateuco fatto da Menahem Recanati, che attinse anche dallo Zohar, il
testo principale della Cabala. Una volta che la Scekinah va al di là delle Sefirot, come
spiega Recanati, «allora comincia il mondo degli esseri separati, mentre prima di questo
punto tutto era unito…. i quattro appostamenti della Scekinah … sono indicati dai nomi
dei fiumi.»38 Similmente, secondo lo Zohar, il ‘giardino-noce’ che è menzionato nel
Cantico dei cantici è il giardino che «emerge dall’ Eden, ovvero la Scekinah [S10].

37
PLAT. Phaedr. 255B-D; Orac. chal. 217; PROC. Comm. in Remp. 2.126.8-30; Comm. in
I Alc. 29.7-13; M.J.B. ALLEN, Marsilio Ficino and the Phaedran Charioteer, Berkeley,
1981, pp. 77, 99, 103, 109, 129, 149, 161-3, 173, 191, 219, 223-5, 229, dove Ficino dice
molto delle ali dell’anima ma non del bere l’acqua.
38
Gen. 2:10; M. RECANATI, Commentary on the Pentateuch, Venice, 1545, fol. 18v, citato
in WIRSZUBSKI, Pico, pp. 30-1; PICO, Conclusiones, pp. 56-8 (4.9.11, 27).

20
“Noce” – ecco qui dunque il santo carro celeste dei quattro fiumi-ceppi che uscirono dal
giardino.» I quattro fiumi sono pure angeli – Michele, Gabriele, Uriele e Raffaele.39

Anche se Pico rivela un po’ quest’esegesi cabalistica nelle sue Conclusioni,


nell’Orazione egli decodifica la parabola zoroastriana in un modo più semplice, la cui
applicazione, nonostante l’oscurità della Cabala, al suo programma di studi mistico è
evidente: scorrendo da ovest, le acque della filosofia morale «puliranno i nostri occhi
dalla sporcizia» mentre da nord la dialettica disporrà in linea retta gli occhi perché
scorgiamo la luce della verità naturale che sorge nell’alba orientale prima di essere
preparati per l’intera visione di mezzogiorno, l’ardente sud della teologia. Questa figura
della luce diurna dispone Pico alla preghiera mattutina, meridiana e serale dettata dal
Salmista, come era stato interpretato da Agostino nella cognizione angelica che riesce a
vedere al di là delle barriere temporali.40 È una luce come lo splendore divino che
illumina gli acquosi cherubini e che fa bruciare i serafini.41

Il raggiante territorio meridiano di S4, come si vede nell’Orazione di Pico, è «la


regione verso cui il vecchio padre Abramo sempre si dirigeva, cioè il posto dove gli
spiriti maligni non hanno posto, come ci dicono le dottrine dei Mori e Cabalisti.» Dopo
le genealogie dei discendenti di Noè, Abramo entra nella storia biblica dapprima come
Abram (senza la lettera ‘h’ di Abrahamo), un membro della famiglia di Terah che partì da
Ur dei Caldei (la terra di Zoroastro) verso Cannaan attraverso Harran: è lì che Abram
ricevette da Dio la promessa di un patto e udì quell’ordine di proseguire. «Il vecchio
padre Abramo,» come lo descrive Pico, in queste parole della Bibbia

aveva settantacinque anni quando partì dal Harran … ed entrò nella regione di
Cannaan…. e attraversando una montagna ad est di Bethel, vi piantò le tende, poiché

39
SS 1:11; Zohar II, 15b; F. LACHOWER e I. TISHBY, The Wisdom of the Zohar: An
Anthology of Texts, London, 1989, II, 620-1. Non c’è prova che Pico avesse avuto un
accesso diretto allo Zohar, un testo molto grande che non è stato trovato fra i libri tradotti
per lui, ma dal Recanati e da altre autorità avrebbe potuto conoscere non soltanto le idee
ma anche le parole di questo libro; WIRSZUBSKI, Pico, p. 20.
40
Ps. 55:18; AUG. De Gen. ad lit. 4.29-30.
41
PICO, Oratio, p. 14; cf. Conclusiones, pp. 58 (4.9.24), 140 (5.11.67).

21
Bethel era ad ovest e Hai ad est. Lì pure adibì un altare al Signore e si rivolse al Suo
nome. Allora Abram andò avanti, dirigendosi più lontano verso sud. 42

Lo Zohar commentando il viaggio di Abramo presenta il suo itinerario a Cannaan come


una ascesa spirituale da S10, dove la Scekinah prende contatto con il mondo inferiore, a
S4, la più rialzata regione di Chesed, Pietà o Amore. Per andare su verso Cannaan,
Abramo tiene Bethel (S10, la casa di Dio, la Scekinah) a ovest e Hai (S6) ad est, perciò
spostandosi verso sud in questo spazio teosofico da S10 attraverso S6 verso S4 evitando
S5, la regione del nord di Gevurah o Din, Potere o Giudizio (Figure 1, 4).43

S5 S4
nord sud
sinistra destra
Cannaan

S6
est
Hai

S10
ovest
Bethel

Fig. 4 Il viaggio sefirotico di Abramo

Giuseppe Gikatilla, il Cabalista che Pico segue su questo punto nelle Conclusioni, spiega
lo stesso materiale. Tutti i fiumi e flussi del mondo, sia naturali che teosofici, si
bloccarono e si corruppero col diluvio. Pure gli stessi sbocchi della Scekinah si
ostruirono fin tanto che Abram

si diresse verso Beth-El passando una montagna ad est – Kedem in ebraico – e questo
significa che egli prese canali da Kedem a Beth-El in quanto prese da un canale di
destra che si chiama Pietà. Dunque tutti gli itinerari di Abramo furono a destra, e

42
Gen. 12:4-9 (Vulg.)
43
Zohar I, 79b-81a, 83a, 85a.

22
questo è il segreto del testo, ‘Ed Abramo andò avanti, viaggiando e spostandosi verso
sud.’44

Abram (S4) si sempre dirige a destra, che nel reticolo teosofico è il lato benefico delle
Sefirot. Questo è «il posto dove gli spiriti maligni non hanno posto» perché è l’opposto
della mano sinistra Sefirot, da cui si origina il demoniaco ‘altro lato’ (sitra achra).
Conseguentemente, uno dei nomi principali della quarta Sefirah è Pietà, ‘Caldaico’
termine di Pico per il fiume che scorre a sud nell’Eden.

Nelle Conclusioni, dove la Cabala è più espiclita che nell’Orazione, Pico spiega
che «chi conosce gli attibuti del sud nel gruppo sulla destra, conoscerà perché Abramo
intraprende i suoi viaggi sempre verso sud.»45 In più, avendo guadagnato questo
vantaggioso punto della quarta Sefirah, Abramo «vide il giorno di Cristo attraverso una
linea retta e se ne rallegrò.» Il senso di ‘giorno’ qui è tanto teosofico quanto cronologico:
‘giorno’ vuole significare la Sefirah, in modo che Abramo prevede l’avvento di Cristo
come un’intuizione cabalistica.46 Il patriarca dell’Amore e della Pietà guarda diritto (da
S4 a S2) al Messia della Sapienza, la seconda Sefirah, messa in trono nella triade
superiore, col Padre come Corona – ossia la prima Sefirah (S1) – e lo Spirito Santo come
Intelligenza, la terza Sefirah (S3). Se il punto cruciale per cui Pico spaziò nella geografia
sacra era quello di spiegare, ancora una volta, il disincarnamento del corpo e l’ascesa
mistica, egli ebbe come un buon modello nell’Abramo sefirotico per salire diritto
all’Infinito. L’anima incarnata, al contrario, è come il patriarca che va giù nelle regioni
straniere, e ascende dopo essersi purificato, come lo Zohar racconta la storia: «Abraham
discese in Egitto. Fu liberato da lì, non sedotto dai quei demoni abbaglianti …. Essendo
disceso e essendosi purificato, immediatamente Abram è risalito dall’Egitto, … ritornado
al suo territorio … e diventando la mano destra del mondo.»47

44
PICO, Conclusiones, p. 56 (4.9.14); J. GIKATILLA, Portae iustitiae nel Cod. Vat. Chigi,
fols. 121-2, citato nel WIRSZUBSKI, Pico, pp. 32-3.
45
PICO, Conclusiones, p. 56 (4.9.14).
46
PICO, Conclusiones, pp. 56 (4.9.6, 8, 9), 134 (5.11.37).
47
Gen. 12:10, 13:1; Zohar I, 83b; The Zohar: Pritzker Edition, ed. e trad., D. MATT,
Stanford, 2004, p. 33.

23
Sono difficili da seguire questi itinerari di Abramo attraverso le Sefirot, e
l'Orazione dà solo una piccola guida per i ricettori cristiani. Invece Pico si sposta su un
altro indovinello, che non comincia dall’alto con l’Abramo purificato, ma da «una caduta
rapida dal cielo» nella malattia terrena e nella morte. Lo stordimento causato da questa
caduta sulla terra ci fa considare il lamento di Geremia, come interpretato da Pico:

La morte è venuta dentro attraverso le finestre


Ed è entrata nelle nostre case
Per annientare i piccoli nei mercati
Ed i giovanetti nelle strade.
Parla! Questa è la parola del Signore:
La morte umana cade
Come sterco sulla faccia della terra,
Come la paglia dietro al mietitore,
E nessuno la raccoglie.48

La morte di cui Geremia si lamenta colpisce i giovani ma è altrimenti non specificata.


Secondo Pico, tuttavia, questa affligge il cuore e il fegato, organi che lo Zohar sistema in
una gerarchia sefirotica: rispecchiando S2, S6 e S10, il cervello (Sapientia nella Fig. 2)
deve governare il cuore (Clementia) come il cuore regola il fegato. Altrimenti, un corpo
in disordine condurrà l’anima al peccato: l’omicida succhia il sangue dal cuore, e
«chiunque pecchi di omicidio, idolatria, e incesto bandisce la sua anima attraverso il
fegato, la bile, e la milza, ed è punito nella Gaienna in queste tre membra, per mezzo dei
tre capi demoni, Mashith (distruttore), Af (ira), and Hemah (furore).»49 La bile, il fegato e
il cuore sono anche gli organi che Tobia estrae da un pesce quando l’angelo Raffaele gli
ordina di usarli come rimedi magici. Raffaele spiega che il cuore e il fegato hanno poteri

48
JER. 9:21-3 (Vulg.).
49
Zohar I, 27b, II, 153a, III, 224-5; The Zohar, trad. H. SPERLING e M. SIMON, London,
1984, I, 104-5.

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speciali contro i demoni maligni, ed è con questo potente spirito che Pico apre la sua
supplica diretta ai grandi arcangeli Raffaele, Gabriele e Michele.50

La posizione di Raffaele è con la Scekinah (S10) nell’estremità inferiore delle


Sefirot, dove l’ascesa comincia. Egli è il medico celeste e flagello dei demoni e userà «la
morale e la dialettica come farmaci salutari per liberarci» dai tormenti cui si riferisce
Geremia. Gli sta vicino Gabriele, guerriero e messaggero, la cui posizione teosofica è
colla quinta Sefirah del Giudizio e Potere (S5), parole che si abbinano all’angelo che Pico
chiama «la forza di Dio». Egli è il dispensatore di visioni e annuncia le novelle celesti;
«lui ci guiderà attraverso le meraviglie della natura … [e] ci consegnerà al sommo
sacerdote Michele.» Michele (S4), il prete eccelso e comandante dell’esercito angelico,
arriva per ultimo nell’elaborata sequenza pichiana dei programmi di studi angelici ed è
posizionato col padre Abramo a destra delle Sefirot, come ricettacolo d’Amore. Da quel
porto fuori pericolo, Michele ci conduce ad un sacerdozio teologico che Pico descrive
come «una corona delle gemme preziose,» il tesoro occulto della Corona (S1) che
misteriosamente domina sulle Sefirot.51

Secondo quanto si dice nello Zohar, all’inizio del suo viaggio l’anima quando
rimane «nel mezzo, fra l’ascesa al mondo superiore e la discesa al mondo inferiore,»
rimane «fra Bethel e Hai» nel racconto dell’itinerare di Abramo, cioé fra il mondo
superiore della salvezza ed il mondo inferiore della corruzione. Quando l’anima si salva,
ritorna prima al posto dove Abramo aveva eretto il suo altare, cioé «il posto dove il
grande principe Michele offre in sacrificio le anime dei giusti.»52 Nello spazio teosofico,
questo posto è la quarta Sefirah (S4), vicino alla triade suprema dove l’anima ascendente
può gioire della sua estinzione nella Divinità. Il viaggio è pericoloso a quest’altezza, ma
il regno di Michele e di Abramo è il sud, «un posto dove gli spiriti maligni non hanno
posto,» come ci dicono le parole pichiane, dove il nemico di Lucifero protegge il mistico

50
TOBIT 6:1-8.
51
K. VAN DER TOORN et al., Dictionary of Deities and Demons in the Bible, Leiden, 1999,
pp. 338-9, 569-72, 688.
52
Zohar II, 67b, 159a, II, 231a, III, 30a-b; Zohar Hadash, Lekh Lekha, 24a-c; LACHOWER
e TISHBY, Zohar, II, 799-800.

25
dalla minaccia demonica. Michele, quell’angelo che sgominò gli angeli caduti all’inizio
del tempo e che presiederà il giudizio finale, colui che separerà i salvati dai dannati così
come già lottò contro Satana per l’anima di Mosè e sfidò Samael, l’angelo della morte –
questo Michele, quest’angelo terribile e sommo sacerdote celeste – «che ci conferirà,
dopo che avremmo adempiuto il nostro tempo colla filosofia, il sacerdozio della teologia»
– è egli stesso un angelo della morte, ma di quella morte benedetta e benigna, in quanto
finisce nell’unione con la Corona (S1).

Questa morte santa è una cabalistica alternativa al felice esito di un martirio


cristiano, la cui ricompensa è una corona di altro tipo. Negli Atti degli Apostoli si
racconta la storia del primo martire, Stephanos, il cui nome significa ‘corona,’ quella
ghirlanda data dai Greci ai vincitori nei loro giochi e poi ripresa dai Cristiani per gli eroi
di un nuovo tipo. Stefano fece innumerevoli cose meravigliose a Gerusalemme, ma le
sue imprese fecero in modo che gli Ebrei lo attaccassero e lo portassero davanti al
Sanhedrin. La sua difesa fu un lungo e amaro discorso che riesaminava la storia del patto
e delle sue ripetute rotture, finendo con una denuncia degli Ebrei come ostinati
miscredenti.53 «Quali furono i profeti che i vostri padri non accusarono?» domandò.
«Essi uccisero coloro che annunciarono la venuta del Giusto, i cui esecutori della morte e
traditori ora siete diventati. Avete ricevuto la legge dalle mani degli angeli, e non l’avete
conservata.»54 Poi, mentre si aprivano gli occhi di Stefano alla visione della gloria di
Gesù, gli Ebrei lo lapidarono, e Saul era lì ad approvare quell’esecuzione. Come inizio di
questo discorso incendiario, prima di riassumere i racconti dell’esilio, dell’esodo e del
vagabondare, Stefano aveva iniziato con Abraham, che «lasciò la terra dei Caldei» per
ricevere il patto.55 Insomma quale altro poteva essere un così magnifico modello per
l’oratoria di Pico se non questo sedizioso discorso fatto da un Cristiano desideroso di
morire e pronto a reinterpretare la storia santa degli Ebrei, partendo dai Caldei per finire
con gli angeli?

53
Atti 6:8-8-2 (Vulg.).
54
Atti 7:52-3 (Vulg.).
55
Atti 7:4 (Vulg.)

26
La «corona di gemme preziose» di Pico, che finisce la settima e ultima
dichiarazione degli stadi dell’ascesa nell’ Orazione, è «il sacerdozio della teologia» che
Michele conferisce al filosofo. La prima delle tesi cabalistiche che è contenuta nelle sue
Conclusioni tratta pure del compito sacerdotale di Michele, cioé quello di «sacrificare le
anime degli animali razionali.» Un’altra tesi spiega che «le anime razionali sono
sacrificate a Dio da un arcangelo … quando l’anima esce dal corpo, non il corpo
dall’anima – salvo il caso che può accadere nella morte da bacio.» In più si aggiunge una
terza tesi che «quando l’anima … si unisce ad un’anima superiore, quella si sbarazzerà
della sua superficie terrestre, ne estrarrà da quella le sue radici e si riattaccherà colla
divinità.» Tutto questo sta scritto nella Genesi e nei Salmi. Quando morirono Giacobbe
ed altri patriarchi, le loro anime persero i corpi per unirsi con un’anima superiore, la
Scekinah (S10), che sempre rende «la morte dei suoi santi … preziosa alla vista del
Signore» – secondo quanto dice il Salmista. 56 Dunque, quando l’anima esce dal corpo
per adempiere l’unione estatica, la morte che ne risulta, chiamandosi ‘la morte da bacio,’
non assomiglia alla morte ordinaria, quando il corpo lascia l’anima. Se l’arcangelo
Michele sacrifica così un’anima, la vittima potrebbe non essere soggetta alla morte
ordinaria. In ogni caso, la morte da bacio è preziosa, davvero un passo verso l’unione
beata, ed è diversa dalla morte nelle mascelle di Azazel, il demonio che sta in agguato di
chi abusa della Cabala. I Cabalisti identificano Azazel, il demoniaco capro espiatorio del
Levitico, col Samael satanico e coll’attributo sefirotico del Giudizio (S5), che sta alla
sinistra, in contrapposizione all’attributo di Amore (S4) proprio di Michele.57

Per scoprire i ruoli di Michele e dei suoi compagni celesti nell’Orazione, bisogna
leggere – passaggio per passaggio e riga per riga – questo testo ben noto ma frainteso,
mettendolo a confronto con le meno conosciute Conclusioni di Pico, soprattutto le 119
enigmatiche tesi cabalistiche. Avendo in mente che Pico scrisse l’Orazione per
introdurre le Conclusioni, bisognerà dunque affrontare un ovvio, sebbene difficile,
compito di interpretazione, un lavoro che ora è reso più facile dopo l’analisi originale di

56
PICO, Conclusiones, pp. 56-60 (4.9.1, 44), 128 (5.11.11); Gen. 49:33; Ps. 89:7, 116:15;
SS 1:2; Zohar II, 124, 146.
57
WIRSZUBSKI, Pico, pp. 21-2, 50, 153-60, 252-3; COPENHAVER, Closed Mem, pp. 46-51.

27
Chaim Wirszubski e le più generali spiegazioni date sulla Cabala da parte di Gershom
Scholem e Moshe Idel.58 Per la mancanza dello spazio necessario per compiere una
analisi minuziosa di questo tipo, non mi rimane che ricapitolare il nucleo del messaggio
pichiano dell’Orazione: la dignità dell’uomo è una posizione celeste che è conferita
all’umanità solamente dalla volontà divina, ma che non può mai essere trovata nel mondo
corporeo; per raggiungerla, quindi, gli esseri umani devono abbandonare i loro corpi e
trasformarsi in angeli.

Questo obbligo di vivere la vita dei Cherubini, che si riconnette alla famosa
apertura dell’Orazione e il suo encomio del miracolo umano, è stata spesso lasciata
nell’ombra del dimenticatoio per gli ultimi due secoli, quando invece questo discorso è
stato letto da un punto di vista simile a quello di Kant piuttosto che a quello di Pico. Il
suo argomento può essere diviso come segue:

1. L’uomo è la meraviglia più grande perché può scegliere di trasformarsi.


2. Per scegliere bene, deve emulare gli angeli.
3. Per emulare gli angeli, deve imparare come vivere la vita angelica –
soprattutto la vita cherubinica.
4. Questa lezione, che è un programma di studi, può essere appresa dai antichi
padri, che sono

a. Paolo e Dionigi;
b. Giacobbe;
c. Giobbe;
d. Mosè;
e. Gli antichi teologi (Orfeo, Socrate, Platone, Plotino);
f. Pitagora;
g. I Caldei: Zoroastro e Abramo.

5. Poiché la filosofia conduce alla vita cherubinica, Pico si proclama essere un


filosofo.
6. Lo studio della filosofia ha portato Pico a interessarsi a nuove dottrine,
ragguardevolmente la magia e la Cabala.
7. Dunque, nonostante le proteste dei suoi critici, Pico si accingerà alla sua
disputa filosofica e dibatterà le nuove dottrine.

58
Sopra, nota 33.

28
La lezione impartita sette volte nella parte centrale dell’Orazione (4) è un programma di
studi il cui scopo è l’unione mistica con Dio. L’allievo comincia colla filosofia morale e
poi si muove attraverso la dialettica e la filosofia naturale verso la teologia, dopo di che il
pensiero discorsivo dà spazio alla pura contemplazione ed infine volge all’unificazione.
Le tappe sono

1. filosofia morale;
2. dialettica;
3. filosofia naturale;
4. teologia;
5. unione.

La magia e la Cabala svolgono dei ruoli preliminari, ma nondimeno importanti, in questo


processo diretto all’unione con Dio. La magia aiuta il passaggio dalla filosofia naturale
alla teologia naturale, mentre la Cabala, ad un livello più elevato, trasforma gli esseri
umani in angeli. Perciò, come la più alta teurgia dei dei Neoplatonici, la Cabala indica la
direzione da intraprendere per arrivare all’unione, anche se l’Orazione, così
intenzionalmente esoterica com’è, riesce solo un po’ a mostrare la via della Cabala.
Eppure se paragoniamo l’Orazione colle Conclusioni si vede chiaramente che il grande
discorso di Pico è tanto cabalistico, distintamente e pienamente, quanto anche
neoplatonico e con spunti da Dionigi l’Areopagita – e per questo non è ermetico, dopo il
suo iniziale squillo oratorio.

Nemmeno è eroico il destino umano, secondo il parere di Pico, se intendiamo


questo eroismo a partire dal tipo romantico legato alla concezione moderna e liberale
della dignità umana e libertà – concezione imposta all’Orazione due secoli fa. Anche
prima che Pico fosse stato trasformato in un liberale, Lessing – seguito da Goethe – aveva
cominciato a fare di Faust un romantico. Questo è il Faust cercato ma non trovato da
Frances Yates nella composizione teatrale di Marlowe, cioé «l’eroica anima individuale,
che si affanna per risolvere i problemi di magia, ovvero di scienza contro la religione.»
La studiosa invece trovò «una specie di propaganda» concentrata al Rinascimento i cui i
grandi eroi del ‘400, secondo la sua opinione, furono Pico e Marsilio Ficino. Fu a causa
della loro magia, e non a suo malgrado, che Pico e Fico furono, per la Yates, araldi della

29
scienza moderna e profeti del progresso culturale. Avendo in mente l’opera di Marlowe
come «rifiuto della magia e della scienza rinascimentale,» la nostra studiosa confronta il
Faust marlowiano con questi maghi eruditi.59 Nel caso di Pico, il confronto è molto
azzeccato, anche se fino ad un certo punto. Prima di farsi rapire dalla magia, Faust trova
la filosofia «odiosa ed oscura,» e questo è completamente in contrasto con i ruoli di
magia e filosofia che si ritrovano nel programma di studi pichiano. Ma Faust, «lo
studioso artigiano,» ritiene pure che «un mago sano sia un semidio,» e questo non è
lontano dalla concezione pichiana della magia angelica. Infatti, come osserva la Yates,
l’opera inizia con Faust che evoca gli angeli. Poiché desidererebbe «un mondo fatto di
utili e piaceri, di potere, di onore e di onnipotenza,» lui convoca i diavoli usando la
Cabala – «il nome del Ieova anagrammatizzato per davanti ed indietro.»60

Alla fine, ciò che ottiene Faust è morte e dannazione. Ciò che desidera, tuttavia, è
il potere di questo mondo, non la morte e né il suo rinnegamento, quale invece era la
meta di Pico. Questa differenza centrata sul desiderio è quello che rende Pico non-
faustiano, non eroico nel modo romantico ed infine non moderno o liberale, e così non lo
rende neppure l’autore di quella nostra Orazione sulla dignità dell’uomo tanto celebrata,
che alla fine risulta essere un discorso che abbiamo scritto per noi stessi.

59
YATES, The Occult Philosophy in the Elizabethan Age, London, 1979, p. 119.
60
C. MARLOWE, Doctor Faustus, I.i.51-3, 59, 100, ii.8-9; YATES, Occult Philosophy, pp.
116-18.

30

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